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Centro Studi Toscolano

Collana diretta da Giovanna Visintini

8
La Collana
Il Centro studi Toscolano «cui è intestata la collana è una fondazione nata per volontà
della famiglia Visintini e ha sede nei locali di una ex chiesa di un Convento di domenicani
insediatosi in località «La Religione» a Toscolano sul Lago di Garda nel 1261. Il complesso
era chiamato nella planimetria originaria «I prati della Religione» e ancora oggi la via che
conduce all’insediamento abitativo, che ha preso il posto del convento dopo la sua soppres-
sione nel 1772, reca lo stesso nome.
Fra le finalità culturali perseguite dal Centro Studi vi è lo svolgimento di ricerche su
tematiche di rilevante interesse e attualità con approccio interdisciplinare e la presente col-
lana è destinata a raccogliere pubblicazioni caratterizzate da questa metodologia.
La collana quindi si rivolge a un vasto pubblico di lettori versati in varie discipline e inoltre
si propone di far conoscere in modo accessibile ai profani cosa sia il diritto. Il tema del
diritto, della giustizia e delle istituzioni sta diventando di grande interesse per l’opinione
pubblica. Ma, a differenza della cronaca giornalistica che si muove prevalentemente sul
versante del diritto penale, in questa collana saranno soprattutto ospitati contributi volti a
far conoscere il diritto civile e i suoi principali istituti con uno stile molto semplificato e
con ampie spiegazioni del significato dei termini tecnico-giuridici. Esemplificando si trat-
teranno argomenti come la privacy e il trattamento dei dati personali, i fondamenti della
responsabilità civile, le tecniche per fare i contratti, matrimonio e divorzio, il mondo del
non profit (organizzazioni di volontariato) proprietà e condominio e altro ancora.

Libri pubblicati:
Cos’è la responsabilità civile.
Fondamenti della disciplina dei fatti illeciti e dell’inadempimento contrattuale
di Giovanna Visintini
Giurista di impresa
a cura di Alessandra Pinori
L’utopia dell’eguaglianza
Autori vari
Diritto, economia e forse giustizia
di Enrico Zanelli
La tutela della persona nella società dell’informazione
di Alessandra Pinori
La scuola civilistica di Bologna. Un modello
per l’accesso alle professioni legali
a cura di Giovanna Visintini
Libri in preparazione:
Guida al codice del consumo
a cura di Luciana Cabella Pisu
Quale tecnica per fare i contratti?
di Franco Vigotti
Guida al codice dell’ambiente
di Marianna Garrone
L’ abuso del diritto
a cura di
Giovanna Visintini
I promotori del convegno (di cui il presente volume raccoglie gli Atti) Giovanna
Visintini e Victor Uckmar (rispettivamente presidenti del Centro Studi Tosco­
lano e della Fondazione A. Uckmar) ringraziano sentitamente il Direttore
del Dipartimento di Giurisprudenza, prof. Saverio Regasto per l’ospitalità dei
lavori nell’Aula magna dell’Università (era gremita), il Presidente dell’Ordine
degli Avvocati allora in carica, avv. Pierluigi Tirale, il Presidente dell’Ordine
dei Notai, dr. Enrico Lera e il Presidente dell’Ordine dei Commercialisti, dr.
Antonio Passantino, per avere affrontato le spese organizzative del Convegno.
Un ulteriore ringraziamento va alla Fondazione Cattolica Assicurazioni per il
contributo elargito e all’avv. Alessandro Redaelli De Zinis per la cena di gala
offerta ai relatori del Convegno presso il Ristorante «Borgo alla Quercia», una
villa incantevole in mezzo ai vigneti a Calvagese Riviera (BS).

Nisintini, Giovanna (a cura di)


L’abuso del diritto
«Centro Studi Toscolano»
Collana diretta da Giovanna Visintini, 8
Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2016
pp. 176; 24 cm
ISBN 978-88-495-3150-3

© 2016 by Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a.


80121 Napoli, via Chiatamone 7
00185 Roma, via dei Taurini 27
Internet: www.edizioniesi.it
E-mail: info@edizioniesi.it
I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo (compresi i
microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/
fascicolo di periodico dietro pagamento alla siae del compenso previsto dall’art. 68, comma 4 della
legge 22 aprile 1941, n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra siae, aie, sns e cna, confartigianato,
casa, claai, confcommercio, confesercenti il 18 dicembre 2000.
Indice

Prefazione
Giovanna Visintini e Victor Uckmar 00
Introduzione (PER ORA MANCA)
Aurelio Gentili 00

Parte prima
L’abuso del diritto nella prassi civilistica
L’abuso del diritto nel quadro dei principi generali
Pietro Rescigno 00

Qui suo iure abutitur neminem laedit?


Francesco Galgano 00

L’abuso come illecito aquiliano


Giovanna Visintini 00

I rapporti con la regola della buona fede


Andrea D’Angelo 00

Abusi nel settore dei diritti reali


Mario Mistretta 00

L’abuso nei (e dei) rimedi contrattuali


Alberto M. Benedetti 00

Abusi nel diritto di famiglia


Maria Vita de Giorgi 00

L’oggettivazione dell’abuso tra diritto civile e diritto commerciale


Giovanni Meruzzi 00

L’oggettivazione dell’abuso tra diritto civile e diritto commerciale


Giovanni Meruzzi 00
Parte Seconda
Storia della formula e prospettive analitiche
L’abuso del diritto nel processo
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto
Tommaso Dalla Massara 00

L’abuso del diritto dal punto di vista della filosofia giuridica


Vito Velluzzi 00

L’abuso tra tecnica e politica del diritto


Mauro Grondona 00

L’abuso del processo


Michele Taruffo 00

Abuso del processo ed etica del difensore


Sergio Chiarloni 00

Abusi della P. A. nei confronti del cittadino


Angelo De Zotti 00

L’abuso del diritto nel processo amministrativo


Piera Vipiana 00

Abuso del diritto e danni punitivi


Francesca Benatti 00

Parte terza
L’abuso del diritto nel settore tributario
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale
Franco Gallo 00

Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario


Giuseppe Corasaniti 00

Abuso e inversione dell’onere della prova


Caterina Corrado Oliva 00

Parte Quarta
La teoria dell’abuso del diritto in altri ordinamenti
L’abuso nel diritto comunitario
Guido Alpa 00

L’abuso del diritto in Germania


Alessandro Somma 00

L’abuso del diritto in Francia


Jean-Sébastien Borghetti 00

Strade e sensibilità diverse: l’equity inglese


Maurizio Lupoi 00

Strade e sensibilità diverse: l’equity inglese


Maurizio Lupoi 00

Riepilogo Guido Calabresi 00


Prefazione

Il presente volume raccoglie gli Atti di un Convegno sull’abuso del


diritto che si è svolto nel giugno 2015 nell’Aula Magna dell’Università di
Brescia, in collaborazione con gli Ordini Professionali degli Avvocati, dei
Commercialisti e dei Notai.
I relatori hanno tradotto ciascuno la propria relazione in uno scritto
corredato da note, sicchè tutti i contributi appaiono in questo libro come
capitoli autonomi in un contesto interdisciplinare come richiedeva l’argo-
mento affrontato.
D’altronde, come si legge nella presentazione della collana editoriale che
ospita il libro, tra le finalità culturali perseguite dal Centro Studi Tosco-
lano, cui è intestata la collana, rientra la scelta di richiamare l’attenzione
dei lettori su argomenti di rilevante interesse e attualità con un approccio
interdisciplinare. Non vi è dubbio che l’argomento dell’abuso del diritto
costituisce un tema all’avanguardia all’attenzione di molti studiosi e tale da
attraversare diverse discipline.
L’interrogativo di fondo a cui si è cercato di dare una risposta è quello
se si possa attribuire alla formula «abuso del diritto» un ruolo autonomo
rispetto alle regole sulla correttezza e buona fede oggettiva, contrastando la
frequente sovrapposizione tra queste clausole generali, la prima non scritta
nel codice civile e le altre recepite nello stesso codice.
L’analisi casistica della giurisprudenza nei vari settori in cui è emerso il
ricorso al divieto dell’abuso del diritto sta ad indicarne la linea di espan-
sione dapprima come strumento per contestare l’assolutezza del diritto di
proprietà poi gradualmente per censurare l’eccesso di poteri del datore di
lavoro, gli abusi nei rapporti familiari, per limitare l’esercizio delle facoltà
di recedere da un contratto o di ricorrere alla risoluzione di un contratto
o alla dichiarazione di fallimento, e per sindacare l’abuso di posizione do-
minante da parte delle imprese o l’esercizio del diritto di voto del socio e i
comportamenti finalizzati all’elusione fiscale, le liti temerarie e le lungaggi-
ni processuali. Il compito che alcuni coautori di questo libro hanno cercato
di affrontare è quello di offrire le direttive per far emergere in tutta eviden-
za anche in Italia il divieto dell’abuso del diritto come categoria civilistica,
pur mancando nel nostro ordinamento una previsione legislativa in termini
10 Prefazione

generali e per porre ordine ad una problematica molto confusa fissando le


linee sistematiche del divieto in discorso. Emergono in alcuni contributi
dubbi sull’ambito di applicazione della formula e sui suoi rapporti con la
clausola generale di buona fede – in quanto è corretto registrare tutte le
tendenze presenti nella dottrina – ma la strada intrapresa ha segnato sicu-
ramente qualche punto di approdo.
In particolare, in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si è
tradotto in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contri-
buente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto,
pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti
giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in
difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’opera-
zione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.
Negli ultimi anni si è consolidata la giurisprudenza della Corte di Cas-
sazione che individua nell’art. 53 Cost. il fondamento positivo dell’abuso
del diritto, al fine di contrastare le operazioni societarie il cui scopo de-
terminante sia il conseguimento di un risparmio fiscale indebito. Tuttavia,
in virtù del fatto che le società devono poter scegliere la forma di condu-
zione degli affari che permetta loro di ridurre lecitamente l’obbligazione
tributaria, la Suprema Corte ha più volte chiarito che l’applicazione del
principio dell’abuso del diritto deve essere guidata da particolare cautela,
essendo necessario trovare un’adeguata linea di confine tra pianificazione
fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche.
Finalmente – e gli scritti specifici che si leggono qui di seguito ne offrono
un primo commento – è intervenuta la codificazione del divieto dell’abuso
del diritto in materia tributaria, con l’indicazione dei criteri definitori del-
la condotta abusiva e delle garanzie procedimentali, nell’art. 5 della legge
delega n. 23 del 2014, e degli elementi costitutivi dell’abuso del diritto alla
luce dell’art. 10 bis dello Statuto del diritti del contribuente, introdotto
dall’art. 1 del decreto legislativo n. 128 del 2015, attuativo della predetta
legge delega. La codificata clausola antiabuso nasce dall’esigenza di garan-
tire certezza nei rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria
nel rispetto dei canoni di correttezza e buona fede, tenendo conto della
giurisprudenza della Corte di Cassazione, creatrice della clausola generale
antiabuso di derivazione costituzionale, e degli orientamenti eurounitari
della giurisprudenza della Corte di Giustizia e della raccomandazione del-
la Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/
UE del 6 dicembre 2012. Degna di nota è l’irrilevanza penale della con-
dotta abusiva, mentre talune critiche sono state sollevate in dottrina sulla
sanzionabilità amministrativa della condotta abusiva.
Il discorso a livello legislativo non si è comunque fermato al settore
Prefazione 11

tributario in quanto, come si può leggere in diversi contributi, la codifica-


zione della formula è apparsa anche nel settore del diritto commerciale e
comunitario e può dirsi anche sottintesa nella disciplina della lite temeraria
nell’art. 96 del c.p.c. con l’aggiunta del comma 3 introdotto nel 2009.
Affidiamo al lettore la valutazione dell’impegno che abbiamo profuso
nell’affrontare un dibattito sulla rilevanza di una formula che si inserisce
nel quadro della tematica più generale e quanto mai attuale del ruolo del
giudice nell’interpretazione delle clausole e dei principi generali.
Giovanna Visintini Genova, 8.3.2016 Victor Uckmar
12 Prefazione
Introduzione
14 Introduzione
Parte prima
L’abuso del diritto nella prassi civilistica
16 Pietro Rescigno
L’abuso del diritto nel quadro dei principi generali 17

Pietro Rescigno
L’abuso del diritto nel quadro dei principi generali *

Sommario:  1. Uno sguardo al passato. – 2. Superfluità di una previsione positiva. – 3.


Abuso e nuovi interventi della Cassazione. – 4. Angosce dottrinali. – 5. Quasi una
conclusione.

1.  Uno sguardo al passato


Ho più volte ricordato che il tema dell’abuso di diritto era stato da me
scelto per inaugurare l’anno accademico dell’Università di Bologna nel feb-
braio 1963; pur essendo molto giovane, oggi mi si definirebbe un ragazzo,
conoscevo quanto male può fare agli esseri umani l’esercizio, proclamato
legittimo, del diritto.
La figura, nell’esperienza continentale, aveva meno di un secolo di vita
e la formula, osservavo, «fin dal suo apparire ha conosciuto le reazioni più
disparate: l’esaltazione ha raggiunto toni mistici, la critica è stata severa,
densa di preoccupazioni e di terrore»1. Si tratta tuttavia di una formula non
estranea alla nostra tradizione e che anzi, da fine ottocento e dall’inizio del
secolo passato ha conosciuto voci assai importanti della nostra dottrina che
si sono divise, come ancor oggi accade, tra atteggiamento di rifiuto e di
esaltazione, in multiformi e contrastanti ideologie.
Il rifiuto era motivato adducendo che si trattava di diritti riconosciuti
dal sistema e quindi dotati di legittimità; e pur tuttavia, spesso, si aggiun-
geva legittimità formale, già evocando il problema di un possibile dissidio
tra forma delle condotte previste dal diritto e valutazione degli interessi
sostanziali che portano al loro esercizio.
Altri, invece, si ponevano in una prospettiva più riguardosa dell’esigenza
di andare oltre il giudizio di conformità o meno di una condotta a una pre-
visione legale, cioè della rispondenza a ciò che il diritto alla lettera consente.
Il primo studio della materia si deve, soprattutto, all’esperienza fran-
cese2, che si mostrò la più reattiva e sensibile nei confronti dell’esigenza
di un’indagine che tocca i multiformi aspetti delle azioni e delle condotte

*  Testo parlato trasferito su pagina da Maria Vita De Giorgi


1
  L’abuso del diritto, ora nel volume dal titolo omonimo, Bologna, 1998, p. 11.
2
  L’abuso del diritto, cit., p. 68 ss.
18 Pietro Rescigno

umane, riconoscendo il potere del giudice di andare al di là della forma


per considerare, scoprire, portare alla luce le ragioni sostanziali dell’eser-
cizio della pretesa. Il che comporta un’indagine sulle ragioni sociali delle
previsioni legislative che si traducono nell’attribuzione a soggetti di pre-
rogative e pretese, che incidono sulla sfera e sulla stessa libertà, di altri
soggetti.
Un’indagine che doveva arrivare, o per lo meno si è sforzata di farlo,
fino alla radice dei singoli diritti dell’ordinamento. Fuori luogo, perciò,
impostare la questione in termini semplificanti o moralistici anche se gli
scrittori di lingua francese sono attenti a quello che, ancora una volta con
una semplificazione del linguaggio, chiamiamo il diritto naturale, nascente
nella coscienza degli uomini, ed altri assumono una posizione che, ancora
una volta usando un vocabolo molto comprensivo e largo, possiamo chia-
mare laica e solidarista.
La prospettiva, degli istituti giuridici pone in luce le motivazioni che
ne hanno determinato l’accettazione da parte della collettività, chiedendo
che si ricerchi, di volta in volta, la conformità delle azioni consentite dal
diritto agli ideali, valori, finalità che sorreggono l’istituto giuridico e vanno
portati alla luce.
2.  Superfluità di una previsione positiva
Codici moderni che disciplinano, più o meno specificamente, l’abuso,
come è noto, sono il codice tedesco, svizzero, spagnolo e, poi, nella for-
mulazione del nuovo testo, il codice portoghese, il codice olandese, che
è, forse, il più raffinato; nell’America latina il codice brasiliano e il codice
argentino entrato da breve tempo in vigore.
Il nostro ordinamento non contempla una disposizione di carattere ge-
nerale che sancisca il divieto di abuso, anche se oggi il principio può essere
direttamente desunto dal diritto europeo; ancor più di recente è stato il
legislatore tributario a dare formale ingresso all’espressione3.
La previsione positiva dell’abuso non è tuttavia da considerarsi esigenza
indeclinabile del lavoro del codificatore; forse anche perché, nella nostra
esperienza, la formulazione del divieto dell’abuso era stata proposta nella
preparazione, e poi nella relazione del codice, nell’ambito di quei principi
generali del diritto che dovevano essere un documento politico, più che
tecnico.
All’enunciazione dei principi generali, per ripercorrere la vicenda sto-
rica, si rinunziò, lasciando il codice nella formulazione che conosciamo,

  Art. 1, d. lgs. 5 agosto 2015, n. 128.


3
L’abuso del diritto nel quadro dei principi generali 19

con la sola aggiunta di quelle disposizioni preliminari, non prive di signi-


ficato, ma che nella concreta esperienza italiana si sono poi impoverite per
la distrazione ad altra sede del diritto internazionale privato; altre norme,
anche per discutibile scelta del legislatore, hanno perso senso e valore e il
discorso vale in particolare per l’ultima norma delle preleggi.
Le norme che enunciano il divieto di abuso fatte proprie da taluni ordi-
namenti più vicini a noi dal punta di vista culturale – pensiamo all’ordina-
mento tedesco e a quello svizzero – non sono però di frequente applicazio-
ne, probabilmente perché quando i giudici vogliono fondare l’accoglimento
di una pretesa su ragioni che vanno al di là delle consuete nozioni di buona
fede e di correttezza le ricavano dal sistema costruito attorno ad altri prin-
cipi e semmai cercano di rafforzare, di irrobustire la loro opinione con
nozioni estranee alla disposizione che enuncia il divieto.
Nell’ordinamento tedesco, ad esempio, la norma sull’esecuzione del
rapporto obbligatorio seconda buona fede (§ 242 BGB) conosce, come
noto, un impiego quasi smisurato, mentre del § 226 BGB, che contiene il
divieto di abuso non si riscontra una testuale applicazione.
3.  Abuso e nuovi interventi della S.C.
Oltre alla giurisprudenza ripercorsa nel mio scritto di allora, molte altre
pronunce, in seguito, sono ricorse alla formula: il tema, dunque – come
dimostrano anche le relazioni di questo Convegno – va arricchendosi di
una ricca bibliografia e di una giurisprudenza talvolta isolata, talora invece
riconducibile a idee più complesse e vitali.
Pensiamo, ad esempio, alla vicenda, che ha molto interessato l’opinione
pubblica, al di là della corporazione dei giuristi, relativa al conflitto sinda-
cale nell’ambito del «caso Fiat», al cui proposito una pronuncia di merito
formula una lunga disquisizione sull’abuso del diritto, nutrita anche di
citazioni dottrinali4.
La Cassazione, come è noto, è tornata a sancire il principio generale
dell’abuso del diritto in quelle pronunce concernenti temi meno impegnati-
vi dal punto di vista della incidenza su situazioni di interesse diffuso, come
le vicende della parcellizzazione del credito attraverso molteplici azioni,
con conseguente frammentazione sia del credito, sia del processo5.
In altro settore, una recente pronuncia della S.C.6, che forse è sembrata

4
  Trib. Torino, sez. lav., 14 settembre 2011, in Giur. it., 2012, p. 218, con nota di M. Persiani.
5
  Cfr., criticamente, Taruffo, Abuso del processo, in Contratto e impresa, 2015, p. 845 s. e
ivi rif.
6
  Il riferimento è alla notissima decisione relativa al caso Alibrandi c. Renault Italia, Cass. 18
settembre 2009, n. 20106, su cui v. il mio commento «Forme» singolari di esercizio dell’autonomia
20 Pietro Rescigno

andare al di là del caso specifico che l’ha determinata, ha suscitato vivaci,


talora scomposte, reazioni nella dottrina.
Si trattava del caso relativo ai concessionari di una casa automobilisti-
ca, cui era stata comunicata una dichiarazione di recesso dal rapporto di
concessione, e quindi di risoluzione nel rispetto dei termini di preavviso. I
concessionari, data la comunione di interessi che giustificava una presenza
nel processo di indole collettiva anziché di sommatoria di pretesa indivi-
duali, avevano contestato la validità o le modalità di esercizio di questo
potere, di cui peraltro, data la previsione contrattuale, non potevano di-
sconoscere l’esistenza.
Come noto, la questione – affidata, per quello che riguardava la difesa
dei concessionari, all’impegno d Francesco Galgano – ha ottenuto dal-
la Cassazione, un giudizio positivo in termini di abusività della condotta
del concedente. Ciò ha significato salvezza, dal punto di vista formale,
del diritto potestativo di recesso da un contratto di durata indeterminata,
sindacabile, tuttavia, dal punto di vista delle modalità; la Corte ha quindi
enunciato il principio generale, estraneo alla previsione legislativa, della
possibile qualificazione della condotta in termini abusivi, riproponendo
una nozione nota alla nostra dottrina e alla pratica.
Si trattava di una fattispecie particolarmente significativa, riguardando
interessi non individuali, facenti capo a soggetti che tuttavia si trovavano
in comunione di ragioni che li inducevano ad agire e che invita a riflettere
anche su questo aspetto del tema dell’abuso del diritto.
Come ho avuto occasione di osservare7 il fervore suscitato dalla citata
sentenza della Cassazione ha fatto passare sotto silenzio una pronuncia
resa dalla III Sezione civile a breve distanza di tempo (31 maggio 2010,
n.13208). Un comune siciliano, locatore di un immobile con annessa zona
termale, intimava lo sfratto per morosità alla società alberghiera condut-
trice del complesso; la società eccepiva l’estinzione della pretesa per com-
pensazione con il maggior credito ad essa spettante per lavori eseguiti sul
bene, credito già accertato con sentenza della Corte d’appello (pronuncia
impugnata dal Comune con ricorso a quel tempo pendente dinanzi alla
Corte di cassazione); faceva altresì valere la circostanza che intanto, in una
lettera ad essa indirizzata, il Comune aveva in modo esplicito manifestato

collettiva (i concessionari italiani della Renault), in Contratto e impresa, 2011, p. 589 ss. e quello
di Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, ivi, 2011, p. 524 ss.; ss; sulla pronuncia
è piovuto un inaspettato diluvio di critiche, di cui molte ignare della concreta fattispecie (v., in
questo senso, Galgano, op. loc. ultt. citt.).
7
  Un nuovo caso di abuso del diritto, in Giur. it,, 2011, p. 794
L’abuso del diritto nel quadro dei principi generali 21

l’intento di dar corso a due mandati di pagamento per un importo supe-


riore all’ammontare dei canoni locativi non versati.
A distanza di pochi giorni dalla missiva, ritenendo illiquido e inesigibile
il credito della società alberghiera, la Giunta comunale aveva autorizzato
il sindaco a promuovere l’azione di sfratto. Le sentenze di merito avevano
dichiarato la risoluzione del rapporto per inadempimento grave del con-
duttore, e il Tribunale l’aveva condannato altresì ad una pesante penale
poi cancellata in grado di appello. L’interesse della decisione di legittimità
risiede nella nuova applicazione che dalla suprema Corte si fa del divieto
di abuso, attraverso un rapido ma esauriente richiamo dei precedenti più
significativi costruiti da «una giurisprudenza attenta alle posizioni sogget-
tive in sofferenza» nonostante «l’assenza nel nostro codice di una norma
che sanzioni in via generale l’abuso del diritto, che costituisce il vero punto
critico delle risposte giudiziarie di volta in volta sollecitate».
La pronuncia, respingendo il primo motivo di ricorso, esclude l’ope-
ratività nel caso di specie dell’istituto della compensazione, sia giudiziale
che legale (figura, quest’ultima, su cui insisteva la società ricorrente, censu-
rando la diversa qualificazione adottata dai giudici di appello), poiché del
credito per i lavori realizzati era mancata la definitività dell’accertamento,
almeno nel senso che il conduttore non aveva assolto l’onere di rendere
inequivocabilmente noto l’esito favorevole della pronuncia di legittimità
resa già prima della sentenza d’appello nel giudizio di sfratto.
Inoperante sul terreno della compensazione, l’esistenza del credito è
considerata rilevante sul piano dei doveri di correttezza e di buona fede:
in breve, abusa della pretesa il locatore che si avvale dell’inadempimento
del conduttore circa l’obbligazione di pagare i canoni e chiede la risolu-
zione del contratto facendo leva sulla gravità dell’inadempienza, mentre
dispone di altri strumenti per realizzare agevolmente l’aspettativa credi-
toria. Nell’ipotesi considerata ben poteva il creditore imputare al credito
insoddisfatto il debito che su lui gravava e che traeva origine da una diversa
fonte (nella specie, il credito nato dal compimento di lavori eseguiti sulla
base di un accordo autonomo e distinto dal rapporto locativo).
4.  Angosce dottrinali
Nonostante i numerosi riconoscimenti giurisprudenziali permane, spes-
so, in dottrina un atteggiamento critico e, come già scrissi allora, «denso
di preoccupazioni», soprattutto con riguardo alla possibilità di enunciare
il divieto dell’abuso del diritto in termini generali.
Di questo generale divieto alcuni autori adducono la superfluità rispetto
ai principi – anch’essi, a suo tempo, faticosamente affermati – della buo-
na fede, correttezza, lealtà e dei molteplici concetti ricorrenti nelle norme
22 Pietro Rescigno

positive. Principi che chiedono poi di essere inverati ad opera del giudice
con un’attività che, senza tradire la certezza del diritto, appare sufficiente a
rappresentarci la realtà del sistema sociale e giuridico in cui viviamo, anche
reagendo a forme di abuso.
L’atteggiamento critico non può però trascurare che il tema è dotato di
una sua storicità e ripetutamente emerge, tanto è vero che gli stessi giudici,
pur forniti di altri più tradizionali strumenti di valutazione e decisione,
sentono la necessità di ricorrere alla figura.
Vi sono, evidentemente, tipi di rapporti, relazioni sociali, conflitti di
interessi per i quali i tradizionali principi, che pure hanno svolto un ruolo
così importante nello sviluppo del sistema, non sono sufficienti.
Non si deve, dunque, semplificare il problema o addirittura banaliz-
zarlo nella contrapposizione tra formalismo e sostanza dei rapporti umani
che cadono sotto la loro previsione, addebitando alla nozione di abuso di
essere «a geometria variabile», al limite priva di consistenza e sostanza, e
negandone perciò l’utilità.
Ancor più preoccupante per ciò che riguarda il rapporto tra forma a e
sostanza, in una prospettiva che, ripeto, riduce il problema in modo trop-
po semplicistico, è leggere gli spunti rinvenibili nei giornali che formano
la nostra opinione con riguardo ad un importante intervento della Corte
Costituzionale8 relativo al blocco della contrattazione collettiva e agli in-
terventi normativi riguardo agli statali. Leggere, dicevo, che in nome della
civiltà del diritto (che prende a prestito l’intitolazione di una collana tra le
più nobili della nostra editoria giuridica) si voglia giustificare una novità
preoccupante della nostra giurisprudenza costituzionale, cioè quella del-
la incostituzionalità intermittente o sopravvenuta, fa temere un modo di
rappresentare il rapporto tra forma e sostanza che può essere pericoloso.
5.  Quasi una conclusione
Il mio impegno di studio e la mia presenza qui non vogliono, peraltro,
significare una difesa dell’abuso. I meno giovani ricorderanno che negli
anni Sessanta si diffuse il tema, che pure aveva connessioni col nostro, del
così detto «imprenditore occulto», tema che suscitò una prolungata pole-
mica tra gli studiosi. Nell’ambito di quel dibattito Walter Bigiavi pubblicò
la «Difesa dell’imprenditore occulto», un libro divenuto famoso, ma che
al contempo suscitò molte critiche per il discusso tentativo di inseguire
esigenze di equità, contaminando ragione giuridica e ragione economica.
Pur se non spetta a me, dunque, la difesa – per riprendere l’espressione

  Corte cost., 23 luglio 2015, n. 178.


8
L’abuso del diritto nel quadro dei principi generali 23

bigiaviana – dell’abuso di diritto, ricordo che voler legittimare compor-


tamenti abusivi si è sovente tradotto in un ritardo, se non addirittura in
un’incapacità della giurisprudenza di reagire adeguatamente e ha costretto,
in maniera non sempre felice, il legislatore a dettare norme che volevano
costituire almeno una prima reazione a tali condotte.
Pensiamo all’intervento legislativo del 1975, nella riforma del diritto di
famiglia, a quell’art. 123 c.c. introdotto per sanzionare i matrimoni contratti
con finalità che esulano dalla sostanza del vincolo matrimoniale: nozze vol-
te ad acquisire la cittadinanza o una residenza, per sfuggire a persecuzioni,
episodi di cui era stata ricca la tragica esperienza del conflitto mondiale.
Far rientrare tutte queste ipotesi nella figura della simulazione del ma-
trimonio (ed aver ritenuto, anche in questo caso, la convivenza sufficiente a
sanarla: art. 123, 2° co.) cioè ricondurre a una figura tipica, qual è la simula-
zione, una così ricca varietà di casi è la risposta che il legislatore ha voluto
dare ai fenomeni dell’abuso, risposta peraltro inadeguata alla multiforme
varietà delle vicende che la dolorosa realtà continua a conoscere e proporre.
Perché il tema dell’abuso è anche questo: la scoperta di casi, figure,
eventi, comportamenti rispetto ai quali la reazione non può essere unitaria.
Affermare, perciò, che la nozione si colloca in zone di esercizio dei
diritti che sono già fuori del diritto e perciò proprie dell’illecito, territori
in cui impera ed appare sufficiente il rimedio del risarcimento del danno,
significa costringere la realtà in schemi prefissati, in rimedi storicamente
collaudati, economicamente apprezzati e validi per ciò che riguarda l’il-
lecito, ma che non si prestano a vicende che richiedono reazioni diverse,
a cominciare da quella che si risolve nell’inopponibilità del risultato abu-
sivo. Il rimedio conferma, del resto, il principio dominante dell’universo
giuridico che è la relatività delle valutazioni, ben potendo l’ordinamento
circoscrivere la sfera di efficacia di determinati fatti negandola a una cerchia
particolare di soggetti.
L’abuso del diritto è dunque meritevole di attenzione perché non pro-
pone una gabbia di rimedi esclusiva, specifica, come avviene per l’illecito
e il risarcimento del danno, che si articola come è noto in una varietà di
formule, ma è pur sempre ispirato al principio della riparazione pecuniaria;
sia i casi che citai nel mio scritto, sia quelli più recenti sottoposti all’esame
dei giudici sono, infatti, dotati di una singolare specificità e non si presta-
no a essere incasellati nelle categorie tradizionali di esame, osservazione e
giudizio, inadeguati a fornire soddisfacente risposta.
24 Pietro Rescigno
Francesco Galgano *
Qui suo iure abutitur neminem laedit?

Sommario:  1. L’abuso del diritto di nuovo in Cassazione: una ulteriore lesione inferta
alla libertà contrattuale? – 2. Il recesso ad nutum dal contratto: ammissibilità di un
controllo causale? – 3. La sorte dell’atto abusivo: solo fatto illecito, fonte dell’obbli-
gazione di risarcire il danno? – 4. Il fondamento del divieto di abuso del diritto: dalla
clausola generale della buona fede alla norma comunitaria che formula l’espresso «di-
vieto dell’abuso di diritto».

1.  L’abuso del diritto di nuovo in Cassazione: una ulteriore lesione


inferta alla libertà contrattuale?
Un motivo di grande stupore (ma non l’unico) è lo spropositato nume-
ro di commenti, spesso critici, non di rado fortemente ostili, con i quali
alcune riviste giuridiche italiane hanno accolto la sentenza della Cassazio-
ne sull’abuso del diritto di recesso del concedente nel contratto di con-
cessione di vendita di autovetture1. Le precedenti sentenze del Supremo
Collegio sull’abuso del diritto erano passate pressoché inosservate, sia che
riguardassero, come le più remote tra le sentenze pronunciate nel vigore
dell’attuale codice civile, la formulazione della relativa nozione2 sia che
concernessero le sue molteplici applicazioni, come l’abuso del diritto di
proprietà3, oppure, quanto al più recente periodo, l’abuso da parte della
banca del diritto di recesso ad nutum dall’apertura di credito a tempo

*  Viene ripubblicato qui per la sua eccellenza e in ricordo del giurista scomparso uno scritto
già apparso in Contratto e impresa, 2011.
1
  Mi riferisco a Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Foro it., 2010, I, c. 85, in Giur. comm.,
2010, II, p. 830; in Contratti, 2010, p. 5; in Giur. it., 2010, p. 552; in Nuova giur. civ. comm.,
2010, II, p. 132.
2
  Cass., 27 aprile 1951, n. 1028, in Mass. Foro it., 1951; Cass., 7 marzo 1952, n. 607, ivi,
1952; e Cass., 27 febbraio 1953, n. 476, in Giur. it., 1954, I, 1, c. 106; « quando un soggetto,
con la sua azione, oltrepassa i limiti entro i quali va contenuto il suo diritto, egli viene ad abu-
sare del diritto stesso, onde la sua attività assume carattere illecito e il danno che ne deriva è
antigiuridico ».
3
  Sul quale Cass., 15 novembre 1960, n. 3040, in Foro it., 1961, I, c. 256, con nota critica
di A. Scialoja, per la quale l’abuso del diritto può consistere anche in comportamenti omissivi,
come l’omessa difesa in giudizio della proprietà, che risulti dannosa per altri oltre che per il
proprietario.
26 Francesco Galgano

indeterminato4, o dal contratto di fornitura5, oppure l’abuso del diritto di


voto del socio di società di capitali6, o l’abuso della pretesa esecutiva del
creditore, consistente nel frazionamento del credito7, o l’abuso del dirit-
to di chiedere il fallimento del proprio debitore8. Senza dire delle tante
sentenze della Cassazione sull’abuso della personalità giuridica, che altro
non è se non l’abuso dei diritti riassunti nel concetto di persona giuridica,
nonché di quelle sulla exceptio doli generalis, che dell’abuso del diritto è
una applicazione, diventata nella giurisprudenza dell’ultimo ventennio, un
rimedio di portata generale.
Non che la dottrina italiana abbia manifestato disinteresse per il tema
generale dell’abuso del diritto, cui ha anzi dedicato molteplici trattazioni,
dovute talune ad illustri firme, e l’interesse si è intensificato nell’ultimo
periodo9. Ma perché, in sede casistica, tanta attenzione per la libertà del

4
  Così, per il recesso della banca che assuma «connotati del tutto imprevisti ed arbitrari»,
analogamente a quanto decide la giurisprudenza francese per il recesso brusque et inopiné, Cass.,
21 maggio 1997, n. 4538, in Foro it., 1997, I, c. 4679; e in Giust. civ., 1998, I, p. 509, con nota
di Costanza; Cass., 22 novembre 2000, n. 15066, in Contratti, 2001, p. 791; e in Corriere giur.,
2000, p. 1479, con nota di Di Maio. A parte questa nota a sentenza, e quella di Di Ciommo, in
Contratti, 2000, p. 1115, la giurisprudenza in questione non attirò che l’attenzione del sotto-
scritto, Abuso del diritto, arbitrario recesso ad nutum dalla banca, in questa rivista, 1998, p. 18; e
del suo allievo Baraldi, Le «mobili frontiere» dell’abuso del diritto: l’arbitrario recesso ad nutum
della banca dall’apertura del credito a tempo indeterminato, ivi, 2001, p. 927.
E anche quando l’apertura di credito è a tempo determinato, ed il recesso della banca è am-
messo solo per giusta causa, il recesso della banca è abusivo «per le modalità del tutto impreviste
ed arbitrarie» anche in presenza di una giusta causa, se in precedenza la banca si era astenuta dal
farla valere, per Cass., 14 luglio 2000, n. 9321, in Foro it., 2000, I, c. 3495.
5
  Analoga ratio decidendi per il recesso contrario a buona fede dal contratto di fornitura in
Cass., 16 ottobre 2003, n. 15482, in Impresa, 2004, p. 317.
6
  Così Cass., 26 ottobre 1995, n. 11151, in Giur. comm., 1996, II, p. 329, sulle quali mi sof-
fermai in Contratto e persona giuridica nelle società di capitali, in questa rivista, 1998, p. 1; non
ché Cass., 17 luglio 2007, n. 15942, in Mass. Foro it., 2007.
7
  Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Corriere giur., 2008, p. 745, con nota di
P. Rescigno.
8
  Cass., 19 settembre 2000, n. 12405, in Foro it., 2001, I, c. 2326: deve essere revocato il
fallimento dichiarato su ricorso della banca creditrice, proposto al solo scopo di esercitare una
indebita pressione sul debitore e, perciò, con abuso del diritto di fare istanza di fallimento.
9
  Ricordo U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento
giuridico italiano, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1958, p. 18, poi in Diritti fondamentali e cate-
gorie giuridiche, Milano, 1993, p. 511; Salvatore Romano, voce Abuso del diritto, in Enc. del
dir., Milano, 1958, p. 166; P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, p. 284, poi in
L’abuso del diritto, Bologna, 1998, p. 11; Cattaneo, Buona fede obiettiva e abuso del diritto, in
Riv. trim. dir. e proc. civ., 1971, p. 634; Gambaro, voce Abuso del diritto (diritto comparato e
straniero), in Enc. giur., Treccani, Roma, 1988; Breccia, L’abuso del diritto, in Diritto privato,
1997, III, Padova, 1998, p. 5; Sacco, L’abuso della libertà contrattuale, in Dir. priv., 1997, p.
217; Messinetti, voce Abuso del diritto, in Enc. del diritto, Aggiornamento, II, Milano, 1998, p.
1; Ferroni, Spunti per lo studio del divieto di abuso delle situazioni soggettive patrimoniali, in
Qui suo iure abutitur neminem laedit? 27

fabbricante di autovetture, e assai poca, invece, per la libertà del banchiere?


Perché, nel corso del 2010, una pioggia di censure sulla sentenza di Cassa-
zione che ha osato porre limiti alla discrezionalità del fabbricante di auto-
vetture? Perché mai, a suo favore, questa grande mobilitazione di forze10?
Dal coro si levano voci che si ergono a difensori del vincolo contrattuale.
La Cassazione avrebbe «rispolverato» e «lucidato a nuovo» l’abuso del di-
ritto, estendendolo alla «materia contrattuale», con il risultato di «arrivare a
privare di effetti un’inequivoca pattuizione, o quanto meno a depotenziarla
in maniera significativa», e con «il pericolo che adepti del nuovo credo
facciano cattivo uso dell’abuso del diritto, infierendo su quel che resta del
vincolo contrattuale»11. Ma sono voci che hanno memoria corta: l’esten-
sione dell’abuso del diritto alla materia contrattuale è operazione più volte
posta in essere dalla Cassazione, e mai contraddetta dalla stessa, come nelle
sopra citate sentenze che reprimono il recesso «improvviso ed arbitrario»
della banca dall’apertura di credito; e la vera rivoluzione in materia fu la
sentenza, anch’essa sopra citata, che dall’eccesso di potere (figura presa a
prestito dal diritto amministrativo) passò alla civilistica figura dell’abuso

Temi e problemi della civilistica contemporanea, Napoli, 2005 p. 313; Tullio, Eccezione di abuso
e funzione negoziale, Napoli, 2005; Martines, Teoria e prassi sull’abuso del diritto, Padova, 2006;
Gitti e Villa, Il terzo contratto: l’abuso di potere contrattuale nei rapporti fra imprese, Bologna,
2008; Fiordalisi, Abuso di facoltà legittima e impedibilità degli atti antigiuridici, Torino, 2008;
Falco, La buona fede e l’abuso del diritto, Milano, 2010; Pagliantini e Calvo, Abuso del diritto
e buona fede nei contratti, Torino, 2010.
10
  Cito, senza pretese di completezza e includendo anche le poche voci favorevoli, D’Amico,
Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, in Contratti, 2010, p. 11; R. Natoli, Abuso
del diritto e abuso di dipendenza economica, ivi, 2010, p. 524; Palmieri e Pardolesi, Della serie
«a volte ritornano»: l’abuso del diritto alla riscossa, in Foro it., 2010, I, c. 95; Monte- Leone,
Clausola di recesso ad nutum dal contratto e abuso del diritto, in Giur. it., 2010, p. 557; Scaglio-
ne, Abuso di potere contrattuale e dipendenza economica, ivi, 2010, p. 560; Salerno, Abuso del
diritto, buona fede, proporzionalità: i limiti del diritto di recesso in un esempio di ius dicere «per
principi», ivi, 2010, p. 809; Vettori, L’abuso del diritto. Distingue frequenter, in Obbligazioni e
contratti, 2010, p. 166; Maugeri, Concessione di vendita, recesso e abuso del diritto, in Nuova
giur. civ. comm., 2010, II, p. 319; Mastrorilli, L’abuso del diritto e il terzo contratto, in Danno
e resp. civ., 2010, p. 352; C. Scognamiglio, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso
una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?), in Nuova
giur. civ. comm., 2010, II, p. 139; Viglione, Il giudice riscrive il contratto fra le parti: l’autonomia
negoziale stretta fra giustizia, buona fede e abuso del diritto, ivi, 2010, II, p. 148; Orlandi,
Contro l’abuso del diritto, ivi, 2010, II, p. 139, nonché in Riv. dir. civ., 2010, II, p. 147; Baraldi,
La Cassazione di nuovo sull’abuso del diritto, in questa rivista, 2010, p. 41; Delli Priscoli,
Abuso del diritto e mercato, in Giur. comm., 2010, II, p. 834; C.A. Nigro, Brevi note in te- ma
di abuso del diritto, in Giust. civ., 2010, p. 2547. Altri commenti sono raccolti nel volume a cura
di Pagliantini, Abuso del diritto e buona fede, Torino, 2010, e precisamente Macario, Abuso
del diritto di recedere ad nutum nei contratti fra imprese, p. 45; Restivo, Abuso del diritto e
autonomia privata, considerazioni critiche su una sentenza eterodossa, p. 115.
11
  Palmieri e Pardolesi, Della serie «a volte ritornano», cit.
28 Francesco Galgano

del diritto per annullare le deliberazioni assembleari ispirate da un interesse


extrasociale della maggioranza. Si considerò il voto in assemblea come atto
unilaterale esecutivo del contratto di società, sottoposto all’art. 1375 c.c.,
invalido se posto in essere in violazione della buona fede nell’esecuzione
del contratto.
Si lamenta il «depotenziamento» del vincolo contrattuale. Ma questo
vincolo sta, a ben guardare, nel pacta sunt servanda, non nella facoltà di
sciogliersi dal contratto, che per l’art. 1372 c.c. è l’eccezione alla regola. E
spetta al giudice, proprio a tutela del vincolo contrattuale, e non per «de-
potenziarlo», di vigilare sul corretto esercizio di questa eccezionale facoltà.
Questo è il senso di ciò che la Cassazione definisce, a partire dagli anni
novanta, come «il governo giudiziario della discrezionalità contrattuale»12.
E non si riduca tutto, ripetendo una formula diventata di stile, alla tute- la
del contraente debole. Il fenomeno è di più vasta portata e tende, anche
per i contratti con parti a pari forza contrattuale, alla verifica dell’equilibrio
contrattuale e della sua permanenza nel tempo; si manifesta nell’uso dispie-
gato delle clausole generali: dalla meritevolezza di tutela dell’interesse per-
seguito (art. 1322, comma 2°), valutata anche in rapporto a singole clausole
contrattuali, all’equità del contratto (art. 1374), intesa anche come equità
correttiva, alla buona fede nell’interpretazione del contratto (art. 1366), ora
considerata dalla Cassazione come criterio principale, e non più come crite-
rio sussidiario, di interpretazione, in contrasto con l’antico in claris non fit
interpretatio13. Si valuti questa giurisprudenza in termini di analisi economi-
ca del diritto: essa muove da una visione qualitativa, e non solo quantitativa,
della circolazione della ricchezza; valuta la congruità causale del contratto e
delle sue singole clausole, la giustificazione dello scambio. E questa giustizia
del contratto si rivela, essa stessa, un potente fattore di sviluppo economi-

12
  La formula fu proposta da Di Maio, Obbligazioni in generale, Bologna, 1985, p. 295, poi
in Commentario del cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1988, p. 302; e riproposta con
forza da Rodotà, Il tempo delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 730.
13
  Degna di nota al riguardo è Cass. 12 aprile 2006 n. 8619, in Mass. Foro it., 2006: «nel
sistema giuridico attuale, l’attività interpretativa dei contratti è legalmente guidata, nel senso
che essa risulta conforme a diritto non già quando ricostruisce con precisione la volontà delle
parti, ma quando si adegui alle regole legali, le quali, in generale, non sono norme integrative,
dispositive o suppletive del contenuto del contratto, ma, piuttosto, costituiscono lo strumento
di ricostruzione della comune volontà delle parti al momento della stipulazione del contratto e,
perciò, della sostanza dell’accordo. Pertanto, la volontà emergente dal consenso delle parti nel
suddetto momento non può essere integrata con elementi ad essa estranei, e ciò anche quando
sia invocata la buona fede come fattore di interpretazione del contratto, la quale deve intendersi
come fattore di integrazione del contratto non già sul piano dell’interpretazione di questo, ma
su quello – diverso – della determinazione delle rispettive obbligazioni, come stabilito dall’art.
1375 cod. civ.».
Qui suo iure abutitur neminem laedit? 29

co, giacché accresce la propensione a contrattare, incrementa la fiducia del


mercato. Forse che l’esasperata tutela comunitaria del consumatore non ha
il fine di permettere al produttore di massimizzare le vendite?
2.  Il recesso ad nutum dal contratto: ammissibilità di un controllo
causale?
Altro motivo di stupore sta nel fatto che quasi la totalità di questi critici,
tutti meno due, ignora la fattispecie che ha dato origine alla sentenza. La
Cassazione, che la conosce attraverso il ricorso, oltre che attraverso le sen-
tenze di merito, non ne fa cenno nella motivazione, arrestandosi a monte
e limitandosi a censurare il diniego dei giudici di merito di riesaminare,
alla luce della domanda dei concessionari, i motivi dell’intimato recesso.
Provvederà il giudice del rinvio, essendo stato dalla Cassazione ammesso il
sindacato sui motivi, ad accertare se nella fattispecie sia presente un abuso
del diritto di recesso.
Solo due fra i tanti annotatori della sentenza della Cassazione hanno
sentito il bisogno di rivolgersi al sottoscritto, quale difensore dei ricor-
renti, per avere copia del ricorso e delle sentenze di merito, memori del
canone di metodo secondo il quale i principi di diritto enunciati da una
sentenza sono la ratio decidendi di una controversia, e non possono essere
presi in esame se non a partire dal caso che ha provocato la decisione. Solo
due: tutti gli altri hanno discettato in astratto, senza sapere di che cosa
discettavano14.
In realtà discettavano, senza saperlo, su questo caso: la Renault Italia
aveva comunicato il recesso dal contratto di concessione di vendita a cir-
ca 200 concessionari, dichiarando il proposito, in sé legittimo, di volere
ristrutturare la rete di distribuzione dei propri prodotti in Italia. Contem-
poraneamente, tuttavia, era accaduto un altro fatto: essa aveva consensual-
mente risolto il contratto di lavoro con una serie di propri dirigenti, con
il patto di tramutare il rapporto di lavoro in concessione di vendita, collo-

14
  È anche accaduto che un commentatore, forse per la cattiva informazione ricevuta, abbia
fatto riferimento ad una fattispecie errata. Delli Priscoli, Abuso del diritto e mercato, cit., p.
835, così descrive la fattispecie: «la nota casa produttrice di automobili Renault, in un contesto
di grave crisi economica mondiale, aveva chiesto ai suoi concessionari italiani di rinegoziare a
proprio favore la misura del prezzo per la vendita delle auto tra le parti. Al rifiuto da parte dei
concessionari di procedere ad un tale mutamento (deve considerarsi che la contingente situazione
di difficoltà economica, soprattutto in relazione alla generale contrazione degli acquisti delle
automobili, incideva naturalmente non solo sulla Renault ma anche sui suoi concessionari), la
Renault decideva di avvalersi del diritto di recesso contrattualmente stabilito».
Il che assolve la concedente, ma non ha nulla a che vedere con la fattispecie esaminata dalla
sentenza in questione.
30 Francesco Galgano

candoli al posto dei concessionari revocati. Appariva allora palese – questo


era il principale motivo di ricorso – che l’intento della Renault Italia non
era, come aveva dichiarato, di ristrutturare la rete di vendita, che restava
numericamente pressoché immutata, bensì di ridurre il proprio personale
dipendente, e di attuare questa riduzione del personale senza l’onere fi-
nanziario del trattamento di fine rapporto, attesa la pattuita conversione
del rapporto di lavoro in concessione di vendita. In tal modo – questa era
la doglianza dei concessionari revocati – la cedente aveva attuato, sotto
le false apparenze della ristrutturazione della rete di distribuzione, una
riduzione del proprio interno personale, e senza onere finanziario, giacché
nulla era dovuto ai concessionari revocati. I quali, oltre al danno derivante
dalla risoluzione anticipata del contratto, lamentavano l’ulteriore danno
di vedere frustrati gli ingenti investimenti che il concedente li aveva re-
centemente indotti ad effettuare, suscitando il legittimo affidamento sulla
prosecuzione del rapporto contrattuale.
Si dice da sempre, e lo ripete questa sentenza di Cassazione, che c’è
abuso del diritto quando un diritto viene esercitato per conseguire obiet-
tivi diversi da quelli per il cui conseguimento il diritto è riconosciuto. Nel
nostro caso ci si era avvalsi del diritto di recesso dal contratto di conces-
sione di vendita per conseguire un obiettivo del tutto estraneo alla causa di
questo contratto, qual era non la ristrutturazione della rete di distribuzione
(obiettivo rientrante nella causa di questo contratto), ma la riduzione a
costo zero del personale dirigente interno (obiettivo non rientrante nella
sua causa). In materia di abuso del diritto di voto in assemblea si suole
parlare di perseguimento di un «interesse extrasociale», ossia estraneo alla
causa del contratto di società. Per tutti gli altri casi, nei quali si abusa di
un diritto derivante da contratto, ben si può parlare di perseguimento di
un interesse extracontrattuale, non rientrante nel novero degli interessi al
cui perseguimento il contratto è preordinato.
E la causa cui fare riferimento è la causa del contratto dal quale si recede,
nella specie la causa della concessione di vendita, non la causa del recesso
preso a sé, come opina un commentatore15, il quale esclude l’ammissibilità
di un controllo causale sul recesso ad nutum, che si contrapporrebbe come
atto astratto, privo di causa, al recesso per giusta causa, come atto causale.
Anche il recesso ad nutum è suscettibile di controllo causale, diretto ad ac-
certare se le ragioni che lo hanno determinato sono riconducibili alla causa
del contratto di distribuzione commerciale, come nel caso della ristruttu-
razione della rete di distribuzione. La differenza fra recesso ad nutum e

  D’Amico, Recesso ad nutum, cit.


15
Qui suo iure abutitur neminem laedit? 31

recesso per giusta causa non sta nel fatto che il primo può essere arbitra-
rio, capriccioso, inopinato, mentre il secondo deve essere ragionevolmente
motivato. La differenza è di ordine processuale: sul recedente per giusta
causa incombe l’onere di provare le ragioni del recesso; quando invece il
recesso è ad nutum incombe sull’altro contraente, che impugna l’atto di
recesso, l’onere di provare che esso è «arbitrario», determinato da ragioni
estranee alla causa della concessione di vendita e riconducibili a tutt’altri
interessi del concedente.
3.  La sorte dell’atto abusivo: solo fatto illecito, fonte dell’obbligazio-
ne di risarcire il danno?
Un altro autore, che scrive «contro l’abuso del diritto», invoca l’antica
esimente qui suo iure utitur neminem laedit16, così equiparando l’utitur
all’abutitur; sicché l’antica massima dovrebbe essere così corretta: qui suo
iure abutitur neminem laedit. È ben vero che, per i Romani, la proprietà era
ius utendi abutendi; ma perpetuare questa equiparazione ed estenderla ad
ogni diritto soggettivo, sia reale, sia di credito, non è una grande proposta
di civiltà giuridica. La stessa Cassazione replica: «il principio qui suo iure
utitur neminem laedit trova il giusto limite nell’altro neque malitiis est
indulgendum»17.
Per questo commentatore l’abuso del diritto è un non senso logico
(come se un problema di diritto possa tradursi in una questione di con-
gruenza logica di un concetto), e finisce con il dissolversi nello «spazio
dell’illecito, che tutto attira nella propria sconfinata atipicità». Debbo con-
traddirlo: l’atto abusivo non è trattato come fatto illecito, fonte di danno
risarcibile ex art. 2043 c.c.; in materia contrattuale è, invece, atto invalido,
destinato ad essere privato di effetti. Così la Cassazione ebbe a decidere per
il recesso abusivo dall’apertura di credito: il cliente non aveva chiesto, né
era interessato a chiedere, il risarcimento del danno da fatto illecito; aveva,
invece, chiesto ed ottenuto che l’atto di recesso venisse invalidato, con la
conseguenza che l’apertura di credito doveva considerarsi ancora in corso
e che la banca aveva indebitamente preteso la restituzione delle anticipa-
zioni erogate. Del pari, nel caso di abuso del diritto di voto la Cassazione
si pronunciò per l’annullamento della deliberazione assembleare, non per il
risarcimento del danno. Nella specie, era stato deliberato dalla maggioranza
lo scioglimento anticipato della società al solo scopo di liberarsi di un socio
molesto, come era reso evidente dalla subito successiva ricostituzione della

  Orlandi, Contro l’abuso del diritto, cit.


16

  Così Cass., 7 marzo 1952, n. 607, cit.


17
32 Francesco Galgano

società, senza la partecipazione di quel socio. Nel caso infine dell’exceptio


doli generalis, la sua sanzione è la reiezione della domanda affetta da dolus
praesens.
Quando poi l’azione di invalidazione dell’atto di recesso risulti in
concreto non idonea alla reintegrazione dell’interesse leso, sarà esercitata
l’azione di danni, ma non si tratterà di danni da fatto illecito, bensì di
danni da inadempimento contrattuale, essendo rimasta inadempiuta l’ob-
bligazione di eseguire il contratto secondo buona fede di cui all’art. 1375
c.c.18. Un inadempimento che può assumere, come nel celebre caso Fiuggi,
importanza tale da giustificare, di per sé solo, la risoluzione del contratto
per inadempimento19. Il comune di Fiuggi aveva dato in concessione ad
una società lo sfruttamento delle sue acque minerali, per un corrispettivo
annuo ragguagliato al prezzo di vendita delle bottiglie di acqua minerale
praticato dalla società concessionaria. Ma questa aveva costituito una pro-
pria controllata, alla quale vendeva l’acqua minerale ad un prezzo sempre
immutato, mentre la controllata ne aumentava, di anno in anno, il prezzo
di vendita sul mercato. L’espediente della intromissione di una controllata
fu giudicata come violazione della buona fede nell’esecuzione del contrat-
to, e come violazione a tal punto grave da giustificare la risoluzione del
contratto per inadempimento.
4.  Il fondamento del divieto di abuso del diritto: dalla clausola ge-
nerale della buona fede alla norma comunitaria che formula l’espresso
«divieto dell’abuso di diritto»
Il canone della buona fede è costantemente posto dalla giurisprudenza
a fondamento della repressione dell’abuso del diritto, e tanto nella materia
contrattuale, per la quale è legislativamente formulato, quanto fuori da
questa, come fu nella sentenza sull’abuso del diritto di proprietà20. Lo si
considera un principio generale del diritto, in quanto tale suscettibile di
universale applicazione. Un commentatore ha però voluto mettere in di-
scussione anche il nesso fra canone della buona fede e abuso del diritto21,
ed ha, restrittivamente, riferito la buona fede alle modalità di esercizio del

18
  E questa è obbligazione da contratto, inerente al contenuto legale di ogni figura contrat-
tuale (art. 1374): così Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, in Corriere giur., 1994, p. 566, con nota di
Carbone, commentata anche da Nanni, in questa rivista, 1994, p. 745; come Cass., 16 novembre
2000, n. 14865, ivi, 2001, p. 762; Cass., 1 agosto 2002, n. 11437, in Contratti, 2003, p. 342.
19
  Il riferimento è a Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, cit. alla nota prec.
20
  Cass., 15 novembre 1960, n. 3040, cit.; come già, in dottrina, U. Natoli, Note preliminari
ad una teoria dell’abuso del diritto, cit.
21
  Ancora D’Amico, Recesso ad nutum, cit.
Qui suo iure abutitur neminem laedit? 33

diritto, mentre l’abuso del diritto attiene allo scopo per il quale il diritto
è esercitato. La prima, dunque, non potrebbe essere posta a fondamento
della repressione del secondo, che questo autore circoscrive ai casi espres-
samente previsti dalla legge (come nel caso della minaccia di far valere un
diritto). Ma domando se possa dirsi censurabile, alla stregua della buona
e della mala fede, l’anomala modalità di esercizio del diritto, e tuttavia
concedere immunità da censura, se non repressa dalla legge, ad una ben
più grave ipotesi, qual è l’esercizio del diritto che risulti preordinato ad
uno scopo anomalo. Ma c’è davvero una differenza? Forse che l’esercizio
«arbitrario» del diritto, censurato come modalità anomala, non tocca lo
scopo per il quale il diritto è utilizzato?
Aggiungo che alla clausola generale della buona fede va ora sostituita,
quale fondamento della repressione dell’abuso del diritto, un’altra e più
specifica clausola generale, formulata in sede comunitaria dalla Carta di
Nizza del 7 dicembre 2000, poi recepita nel Trattato di Lisbona del 1°
dicembre 2009. La formula usata dalla Carta di Nizza, sotto la rubrica
«divieto dell’abuso di diritto» è così concepita (art. 54): «nessuna dispo-
sizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di com-
portare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla
distruzione dei diritti o delle libertà riconosciute nella presente Carta o
di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste
dalla presente Carta»22. Non si può più ripetere allora l’antica massima
qui suo iure utitur neminem laedit. Non si può legittimamente ledere il
diritto altrui – questo è il senso della disposizione generale, che chiude la
Carta di Nizza – neppure se lo si lede nell’esercizio di un proprio diritto.
Incorre nel divieto di abuso del diritto chi si avvale di un proprio diritto,
riconosciutogli dalla Carta, per svolgere attività o compiere atti miranti a
ledere diritti altrui. E si noti che i diritti e le libertà protette dalla Carta
non sono solo i diritti e le libertà tradizionalmente concepite come diritti
o libertà fondamentali: comprendono anche il diritto di proprietà (art. 17),
la libertà di impresa (art. 16), la libertà professionale e il diritto di lavorare
(art. 15), ossia tutti i diritti e le libertà in gioco quando si discute di abuso
del diritto.
«Non facciamoci riconoscere», si diceva nella commedia all’italiana. A
dieci anni dall’entrata in vigore, in tutta Europa, della Carta di Nizza, la

22
  Al principio della Carta di Nizza fa riferimento Cass., Sez. un., 11 novembre 2008, n.
26972, in Giur. it., 2009, p. 380, che lo qualifica come diritto vigente in Italia (il che, prima del
Trattato di Lisbona, era controverso); nonché Cass., 2 febbraio 2010, n. 2352, in Foro it., 2010,
I, c. 1145.
34 Francesco Galgano

provincia italiana non sembra essersi ancora accorta del «divieto dell’abuso
di diritto», e continua a prodursi in inutili virtuosismi concettuali ed in
sterili bizantinismi.
Giovanna Visintini
L’abuso del diritto come illecito aquiliano

Sommario:  1. L’abuso del diritto nel quadro degli illeciti dolosi. – 2. Il rapporto con la
regola sulla buona fede. – 3. Uno sguardo al sistema francese e ad altri ordinamenti. – 4.
La casistica. – 5. Conclusioni sul piano della politica del diritto e della storia delle idee.

1.  L’abuso del diritto nel quadro degli illeciti dolosi


Il mio discorso è circoscritto alla fattispecie di abuso del diritto che può
integrare un illecito rilevante nel quadro dell’art. 2043 c.c. caratterizzato
dalla sanzione del risarcimento del danno e dunque non si estende a quel-
le fattispecie di cui altri coautori qui di seguito si occuperanno in cui la
sanzione conseguente è diversa, esemplificando: la invalidità della delibera
dell’assemblea di una società in cui si è abusato del voto di maggioranza o
dell’atto arbitrario di recesso da un contratto.
Enuncio subito la mia tesi: l’abuso del diritto se provoca un danno in-
giusto può essere configurato come illecito aquiliano sempre che il titolare
sia consapevole dell’esercizio anormale del diritto finalizzato a nuocere ad
altri, anche se non ricorre nell’ordinamento italiano una previsione legisla-
tiva del divieto di abusare dei propri diritti.
In altri termini, a mio avviso, l’abuso del diritto integra un illecito ca-
ratterizzato da dolo e sta lì a dimostrare l’esistenza di illeciti rilevanti sola-
mente in quanto dolosi. Penso alla truffa civile adombrata nel codice civile
dall’art. 1439, comma 2° cod. civ., collocato nella disciplina del dolo, vizio
del consenso, laddove nel prevedere la rilevanza del dolo del terzo come
causa di annullamento del contratto, quando vi sia la complicità della parte,
presuppone implicitamente una fattispecie di responsabilità aquiliana del
terzo che affianca quella precontrattuale del contraente complice.
Penso alle false dichiarazioni e alla reticenza nella formazione dei con-
tratti che inducono un soggetto ad un atto di disposizione patrimoniale che
non avrebbe compiuto se fosse stato informato su determinate circostanze1.
Penso ancora agli atti di concorrenza sleale, come lo storno dei dipenden-

1
  Rinvio a questo proposito al mio libro La reticenza nella formazione dei contratti Padova,
1972; e ai contributi che figurano nel Trattato della responsabilità contrattuale, che ho diretto
nel 2009, edito Cedam.
36 Giovanna Visintini

ti, alle denunce infondate e alla doppia alienazione immobiliare, tutti com-
portamenti che vengono perseguiti solo se caratterizzati da dolo. Fra questi
deve essere collocato anche l’abuso del diritto. Come dirò più avanti infatti
un abuso del diritto caratterizzato soltanto da negligenza non è da consi-
derare illecito alla pari degli altri illeciti che ho testé menzionato. E infatti
nella casistica giurisprudenziale che cercherò di riassumere i giudici richie-
dono solitamente la prova rigorosa della consapevolezza della deviazione
dall’esercizio normale del diritto.
In breve ciò che voglio sottolineare in esordio è che nonostante l’apparen-
te equiparazione tra dolo e colpa che potrebbe attribuirsi all’art. 2043 c.c. ove
si legge «Qualunque fatto colposo o doloso che cagiona ad altri un danno in-
giusto obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno» esistono illeciti
civili che sono perseguiti solo se dolosi. Ma bisogna aggiungere che il dolo si
atteggia diversamente a seconda delle varie fattispecie. Si va dal dolo specifico
a quello generico, dall’inganno a stati soggettivi di malafede e a false informa-
zioni, reticenze intenzionali e abuso di potere. In certi casi – diffamazione – si
è passati dal dolo come requisito essenziale dell’illecito alla colpa grave dif-
ferenziando in questo modo la fattispecie civilistica dall’illecito penale che si
caratterizza a tutt’oggi come reato doloso.
E dunque occorre venendo specificamente al tema dell’abuso del diritto
chiarire quali sono gli elementi fondanti la nozione sulla scorta dei dati
comparatistici e delle linee di emersione dell’istituto nei grandi orienta-
menti giurisprudenziali.
Tuttavia, bisogna anche riconoscere che il divieto in esame  in quanto
non recepito legislativamente in termini generali nell’ordinamento italiano
non è frequentemente operativo negli orientamenti giurisprudenziali anche
se nell’ultimo decennio i giudici si richiamano spesso alla formula dell’abu-
so al fine di sanzionare più rigorosamente comportamenti contrari alla
clausola generale di correttezza e buona fede oggettiva e quindi a sostegno
e rafforzamento di quest’ultima regola.
In sintesi a livello legislativo nel codice civile vi è soltanto sul terreno del
diritto di proprietà il divieto degli atti emulativi previsto dall’art. 833 c.c.
divieto che può essere interpretato come una ipotesi particolare di abuso
del diritto. Infatti la norma vieta al proprietario di compiere atti i quali non
abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestie ad altri e la giu-
risprudenza, che applica molto raramente questa norma, la legge come se il
presupposto irrinunciabile dell’atto emulativo sia integrato dal cosiddetto
«animus nocendi» e dalla totale mancanza di utilità per il titolare del diritto2.

  Cfr. per tutte Cass. 3.4.1999 n.3275 ma v. anche infra le citazioni alle note 18 ss.
2
L’abuso del diritto come illecito aquiliano 37

Poi vi sono altre disposizioni di portata più specifica come la regola che
sanziona l’abuso del diritto di usufrutto (art. 1015 c.c.), l’art.. 1438 c.c. che
sanziona la minaccia di far valere un diritto, l’art.1059 comma 2 c.c. che
impone al comproprietario che ha concesso una servitù di non impedire
l’esercizio di tale servitù e ancora sul terreno dei diritti di credito l’art.
1993, comma 2 c.c. con gli artt. 21 e 65 l camb. Conclamati poi sono gli
abusi in diritto di famiglia della potestà genitoriale e quello di posizione
dominante sul terreno della concorrenza tra imprese.
Ma il problema che si pone agli interpreti è se al di là di queste ipotesi
tipizzate dal legislatore si possa ritenere implicito nel nostro ordinamento
un principio generale che vieta in presenza di certe condizioni l’abuso di
un diritto o se al contrario deve ritenersi ancora vigente la regola genera-
le (di cui le disposizioni sopra riportate sarebbero le eccezioni) secondo
cui l’esercizio di un diritto va sempre tutelato e non può dar luogo a un
illecito, regola tramandata dal noto brocardo qui iure suo utitur neminem
laedit.
Nel ’42, quando si è posto il problema al nostro legislatore di dare
espressione legislativa al divieto all’abuso del diritto che già era conosciuto
in altri ordinamenti (soprattutto in Germania dove a partire dal divieto de-
gli atti emulativi nell’esercizio del diritto di proprietà i pandettisti tedeschi
elaborarono il divieto generale poi recepito dal par. 226 B.G.B. secondo il
quale «L’esercizio di un diritto non è ammesso se può avere solo per scopo
di recar danno ad altri») è stata fatta una scelta di rinunciare a tale recezione
giustificandola con la difficoltà di pervenire a una definizione legislativa
non controversa di questo divieto. Così la disposizione che figurava nel
progetto preliminare del codice civile del 42 che stabiliva testualmente:
«nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per
il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto» non venne accolta. E
tale scelta legislativa venne spiegata anche in ragione dell’accoglimento nel
Codice Civile del ’42 di clausole generali come la buona fede contrattuale
e il principio di correttezza che, nell’auspicio del legislatore, avrebbero
potuto essere utilizzate dai giudici anche per correggere situazioni di abuso
nei rapporti patrimoniali3.
2.  Il rapporto con la regola sulla buona fede
In un libro recente l’autore ha portato un chiarimento, a mio avvi-
so importante, in ordine a questa supposta sovrapposizione tra il divieto
dell’abuso del diritto, correttamente e storicamente ricostruito, e la clausola

3
  Gambaro voce «Abuso del diritto in Enciclopedia Treccani, vol. I, Roma, 1988, p. 7 ss.
38 Giovanna Visintini

generale di buona fede contrattuale o correttezza introdotta nel codice


civile del ’424.
La irriducibilità del divieto di abuso del diritto alla clausola generale
della buona fede risulta molto chiaramente, secondo l’autore citato, dal
fatto che mentre la clausola della buona fede si colloca in una dimensione
relazionale e costituisce un criterio di bilanciamento di interessi contrap-
posti, la fattispecie abuso del diritto invece è caratterizzata dalla carenza di
interesse nell’esercizio del diritto.
Tuttavia occorre fermarsi su questo punto su cui altri faranno riflessioni
(v. in particolare Andrea D’Angelo) perché la tendenza a ridurre il divieto
dell’abuso nell’ambito del principio di buona fede è abbastanza diffusa sia
a livello legislativo in altri ordinamenti, sia a livello della dottrina italiana
che si è occupata di questo tema. Mi riferisco, esemplificando, al codice
civile svizzero il cui art. 2 contiene la duplice previsione della buona fede
e dell’abuso del diritto nei termini seguenti:
«Ognuno è tenuto ad agire secondo buona fede nell’esercizio dei propri
diritti. Il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge».
Altri esempi di previsioni del divieto di abuso assommato alla contra-
rietà alla buona fede si trovano agli artt. 7 del codice spagnolo, art. 281 del
codice greco e all’art. 13 del codice olandese che si contrappongono sotto
questo profilo al modello tedesco che come ho detto è invece ispirato – e
a mio giudizio correttamente in ragione della diversa origine storica – al
divieto degli atti emulativi5.
Anche per quanto riguarda la dottrina italiana si nota la stessa assimi-
lazione presso gran parte degli scrittori. È d’obbligo ricordare il pensiero
di Ugo Natoli e della scuola pisana che ha raccolto il suo insegnamento6.
L’obiettivo perseguito è di sottrarre la teoria dell’abuso alla interpretazione
in chiave soggettiva dell’art. 833 c.c. norma che tale dottrina ritiene insuf-
ficiente ad indicare all’interprete un modello razionale per la costruzione
della disciplina dell’abuso del diritto in termini generali.
Tuttavia nel pensiero di Natoli possiamo rilevare che il divieto dell’abu-
so del diritto, in quanto costruito sull’art. 1175, finisce di sconfinare nella
teoria cosiddetta della inesigibilità della prestazione alla stregua della buona
fede. Ovvero nel senso di qualificare come abuso del diritto la pretesa del
creditore ad una prestazione inesigibile alla stregua della buona fede. Ma,

  Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007


4

  Coglie le differenze Restivo, op. cit. 70


5

6
  Busnelli e Navarretta Abuso del diritto e responsabilità civile in Studi in onore di Pietro
Rescigno, vol. V 1998, p. 77 ss.; Breccia, Le obbligazioni in Trattato di diritto privato a cura di
Iudica e Zatti, Milano, 1991
L’abuso del diritto come illecito aquiliano 39

a mio giudizio, tale impostazione finisce con lo sfumare nella ricerca dello
sforzo di diligenza che può esigersi dal debitore, perché la qualifica di abu-
so, a proposito del comportamento del creditore, finisce con l’identificare
la pretesa del creditore che va al di là dello sforzo di diligenza che il credi-
tore poteva attendersi in concreto dal debitore. Pertanto, in questo modo,
si sovrappongono i concetti di correttezza e di diligenza che nel sistema
del codice sono invece distinti e tale sovrapposizione è confermata dal fatto
che i sostenitori della teoria dell’abuso del diritto costruita sull’art. 1175
c.c., si esprimono nel senso che il principio di correttezza offre soltanto
al giudice un criterio per la valutazione del comportamento delle parti in
analogia con l’art. 1176 c.c.7 in senso difforme dalla dottrina ormai preva-
lente che vede nella regola degli artt. 1175 e 1375 c.c. la fonte di obblighi
accessori alla prestazione contrattuale principale e non soltanto un crite-
rio di valutazione del comportamento del debitore. Anche altri esponenti
della scuola pisana che pure criticano il paradosso di una resistenza della
dottrina italiana ad accreditare un ‘principio generale di divieto dell’abuso
del diritto a fronte di una evidente penetrazione del principio nel sistema
della normativa comunitaria ne affermano l’operatività attraverso l’inter-
pretazione della regola di buona fede in quanto estensibile a loro giudizio
al campo extracontrattuale8.
Ma vi è anche chi molto autorevolmente ha viceversa riscontrato l’esi-
genza di rendere operante la teoria dell’abuso del diritto piuttosto nel
campo dei diritti potestativi, ovvero delle potestà e delle libertà e non nel
campo dei diritti di credito patrimoniali, dove esistono norme espresse a
cui ancorare la soluzione dei problemi9.
Di fronte a queste posizioni ci si si può chiedere se serve la costruzio-
ne di una categoria «Divieto dell’abuso del diritto» che per essere utile
deve svolgere un ruolo che non è già svolto da altre regole nell’ambito
del sistema. Questo per ovvie ragioni di coerenza logica e perché spesso
si nota che nella giurisprudenza il ricorso all’abuso del diritto è un ricor-
so ad una argomentazione superflua perché nell’itinerario argomentativo
dei giudici la ratio decidendi è riconducibile direttamente alla clausola di
buona fede e ricorrere all’abuso significa semplicemente denunciarne la
inutilità10.

7
  Natoli, op.cit., 126 ss. e Breccia, cit.
8
  Cfr. Busnelli e Navarretta, Abuso del diritto e responsabilità civile cit., vol. V, 1998
9
  Rescigno P. L’abuso del diritto in Riv. dir. civ. 1965, p. 205 ss.; L’abuso del diritto, Bo-
logna, 1998
10
  Sacco, L’esercizio e l’abuso del diritto in Trattato di diritto civile a cura di Sacco, vol. Il
diritto soggettivo, Torino, 2001, p. 335.
40 Giovanna Visintini

3.  Uno sguardo al sistema francese e ad altri ordinamenti


Un approccio verso una moderna teoria dell’abuso del diritto, come
avente un ruolo autonomo, ci proviene invece dalla dottrina francese
che nel silenzio del codice francese ha peraltro elaborato una dottrina
dell’abuso che ha trovato eco anche a livello di prassi giurisprudenziale.
E la partenza dell’elaborazione di questa teoria ha radici nella disciplina
della proprietà e in particolare nella disciplina dei troubles de vosinage
al fine appunto di dare una risposta agli eccessi nell’esercizio di que-
sto diritto di proprietà, a causa soprattutto delle prerogative che vengo-
no riconosciute alla proprietà nell’ambito della codificazione francese11.
Come è noto da qualche anno a questa parte vi è un dibattito in Fran-
cia sull’opportunità di riformare il code civil in materia di responsabilità
civile e non solo. Mi riferisco ai progetti Catala e Terré. Nel primo che
è stato corredato anche da un commento di Geneviève Viney da tut-
ti conosciuta come studiosa esperta del settore, e tradotto in Italia nel
2008 a cura del Consiglio nazionale forense (ed. Giuffrè con presenta-
zione di Guido Alpa) non si parla di un divieto dell’abuso del diritto in
sede di disciplina dei fatti illeciti e, in materia contrattuale, si continua
a richiamare le clausole di buona fede, equità e ragionevolezza nell’ese-
cuzione e interpretazione dei contratti. Ma il projet Catala introduce in
modo prudente l’istituto dei danni punitivi all’art. 1372 in caso di pro-
va di una faute délibèré o di una faute lucrative ovvero di un illecito
le cui conseguenze lucrative per l’autore non sarebbero neutralizzate da
una semplice riparazione al danneggiato del danno da lui subito. E que-
sta innovazione può essere messa in relazione con un comportamento
di abuso del diritto. Anche nel progetto diretto da Francois Terré non
sono incluse norme sull’abuso anche se a proposito del risarcimento si
ammette che il giudice possa in caso di una faute intentionnelle et lu­
crative accordare un risarcimento a titolo di restituzione dei vantaggi
acquisiti con l’ìllecito ma non si parla di dommages punitives, solo di
dommages restitutoires. Questo progetto sembra dunque contrario a
una clausola generale sull’abuso e sui danni punitivi.
Tuttavia possiamo dire che anche in Francia come in Italia a livello
giurisprudenziale si continua ad accreditare la figura dell’abuso del diritto
soprattutto per censurare l’esercizio del diritto di recesso, abusi processuali
e comportamenti volti ad eludere le tasse in ipotesi di forum shopping da
parte delle imprese. E dunque compete alla dottrina rilevarne le caratteristi-

11
  Cfr. Viney et Jourdain Les conditions de la responsabilité in Traité de droit civil sous la
direction de Ghestin, 2 ed. 1998, n. 425 ivi pag. 366.
L’abuso del diritto come illecito aquiliano 41

che che emergono in modo frammentario nell’ambito delle varie discipline


e non solo nell’area del diritto civile.
Se si dà uno sguardo ad altri sistemi si trova che il divieto dell’abuso del
diritto è sancito nel codice civile spagnolo all’art. 7, nel codice civile olan-
dese entrato in vigore nel 1982 all’art. 13 ma soprattutto è degno di nota
che il principio è previsto espressamente nella Carta di Nizza ove l’art. 54
recita «nessuna disposizione della presente carta deve essere interpretata
nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un
atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciute nella
presente carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di
quelle previste dalla presente carta». Disposizione che ha consentito alla
Corte di giustizia europea in diverse sentenze di censurare l’invocazione
del diritto comunitario per evitare abusivamente l’applicazione del diritto
nazionale o per ottenere aiuti dalla Comunità europea. Sono note le pro-
nunce sui casi Diamantis, Eñgland-Starke e Koefed in occasione dei quali
la Corte ha espressamente qualificato il divieto in esame alla stregua di un
principio generale della UE, casistica su cui non mi soffermo rinviando
alla relazione di Guido Alpa qui pubblicata. Casistica in cui spicca il caso
dell’imprenditore agricolo che al fine di usufruire di incentivi fiscali previsti
dalla UE per il caso di esportazioni all’estero, organizza il trasporto dei
propri prodotti in Francia per farli rientrare subito in Italia e distribuirli
nel proprio paese. La Corte disse che utilizzare le norme comunitarie per
sottrarsi alle leggi nazionali è abuso e obbliga alle restituzioni degli importi
abusivamente percepiti.
Pertanto, nonostante la mancanza di un divieto legislativo dell’abuso
del diritto nel nostro sistema, sulla scorta di questi dati comparatistici che
rivelano come in altri ordinamenti, in primis quello francese e quello co-
munitario, l’abuso del diritto costituisce un illecito aquiliano fonte di re-
sponsabilità civile, si può avanzare la tesi che anche nel nostro ordinamento
questo principio generale del divieto di abuso del diritto si sta affacciando.
E d’altronde si potrebbe rilevare che in certi settori soprattutto in quello la-
voristico, in cui, per sindacare l’esercizio del potere discrezionale del datore
di lavoro si valorizza la regola della buona fede/correttezza e gli obblighi
di sicurezza previsti dalla legge a carico del datore di lavoro, in realtà si
rende operativo un divieto di abuso nell’esercizio dei poteri privati. Ciò
avviene sotto mentite spoglie ma è certo che il ricorso alla buona fede con-
trattuale, nel senso tradizionale di fonte di obblighi reciproci a carico delle
parti e quindi nel senso della buona fede oggettiva, esula da questo campo
laddove sussistono poteri dei privati caratterizzati da un certo margine di
discrezionalità e le parti non sono poste sullo stesso piano. Tuttavia quan-
do la giurisprudenza sanziona questi comportamenti abusivi del datore di
42 Giovanna Visintini

lavoro, in riferimento ad esempio alla problematica del «mobbing», corret-


tamente inquadra il fenomeno nell’ambito dell’art. 2087 cod. civ. laddove
la norma prevede un obbligo del datore di lavoro di tutelare la personalità
morale del lavoratore alla sue dipendenze e quindi alla stregua di un ob-
bligo di correttezza e specificamente di protezione . Tuttavia anche se qui
ci si muove nell’ottica di un obbligo accessorio al rapporto contrattuale di
lavoro non vi sono preclusioni ad ammettere in questo caso un concorso
di azioni contrattuale ed extracontrattuale quando il comportamento ves-
satorio del datore di lavoro sia caratterizzato dall’intenzione persecutoria
e da un eccesso di poteri nell’organizzazione aziendale. A conferma di
ciò la più recente giurisprudenza tende a non riconoscere un risarcimento
al lavoratore che si è allontanato dal posto di lavoro denunciando com-
portamenti persecutori del suo datore di lavoro se non rinviene la prova
dell’intento persecutorio e del nesso causale tra la condotta del datore di
lavoro e il pregiudizio psicofisico lamentato12
In altri termini si tratta non di semplice inadempimento ad un obbligo
contrattuale, ma di un illecito doloso.
Rimane tuttavia confermato il dato secondo cui la categoria dell’abuso
del diritto quale ci perviene dalla giurisprudenza francese, verte soprattut-
to in ordine all’applicazione del divieto di atti emulativi e delle possibili
interpretazioni estensive di questa norma in materia di abuso del diritto di
proprietà, oltre che nel settore del diritto del lavoro. In Francia nel code
de travail nel 2002 è stato introdotto l’illecito di comportamenti reiterati
di molestie/mobbing e non è necessario ai fini di fondare la responsabilità
dell’autore un pregiudizio attuale. È sufficiente dimostrare che vi è stato
deterioramento delle condizioni di lavoro tali da poter provocare un pre-
giudizio, né è necessario provare l’intenzionalità dei comportamenti vessa-
tori. È un chiaro esempio di danno punitivo su cui ci intratterrà Francesca
Benatti.
4.  La casistica
Venendo all’esame della casistica italiana e iniziando dall’esame del di-
vieto di atti emulativi, possiamo rilevare che anche in Italia si è espresso un
orientamento giurisprudenziale nell’interpretazione del divieto codificato
degli atti emulativi nel senso che l’atto di emulazione per essere illecito
e quindi vietato, deve essere stato posto in essere al solo fine di arrecare
nocumento o molestie ad altri senza alcun vantaggio per il suo autore13. Il

  Cfr. fra le altre Cass. 17.1.2014 n. 898; Cass. 2.4.2013 n. 7985.


12

  Cfr., per tutte, Cass. 8 maggio 1982, n. 688


13
L’abuso del diritto come illecito aquiliano 43

modello è stato per lungo tempo un leading case francese: il caso Clément-
Bayard  ove la Cour de Cassation definì, a fini risarcitori e inibitori, abuso
del diritto l’elevazione sul proprio terreno di pertiche al solo scopo di
impedire l’attività commerciale del vicino consistente nella fabbricazione
di palloni aerostatici che nel planare a terra si impigliavano nelle punte
delle pertiche14.  Un caso di scuola che ha trovato corrispondenza nella
casistica italiana e da qui lo scarso utilizzo della norma. Esemplificando
la Corte di cassazione italiana non ha confermato la sentenza di primo
grado che aveva condannato il proprietario a rimuovere un muro di ce-
mento che aveva eretto sul suo terreno in sostituzione di una preesistente
siepe ritenendo che ricorresse nella specie un nocumento alle condizioni
estetiche della proprietà del vicino, e ha invece ritenuto sussistente l’utilità
del proprietario consistente in un rafforzamento della privacy della sua
proprietà15. E nel 1997 sempre la Supr. Corte ritenne incompatibile con il
requisito dell’animus nocendi richiesto all’art. 833 il comportamento omis-
sivo del proprietario di un fondo che aveva trascurato la potatura di una
piantagione di ligusti che pregiudicava al vicino l’esercizio di una servitù
di panorama16.
Il precedente giudiziale cui fanno riferimento queste sentenze è quello
commentato da Scialoja nel 1960.17
Ma da qualche tempo, anche su influenza di quella parte della dottri-
na che attualmente sembra schierata, sia pure con impostazioni diverse,
a favore dell’esistenza di un principio generale che va oltre le previsioni
specifiche del legislatore, la giurisprudenza anche nel settore della proprietà
v fa riferimento. Così, esemplificando, nel campo dell’attività edificatoria
che sia stata svolta in violazione di norme pubblicistiche si è inquadrata
la fattispecie nella teoria dell’abuso di diritto anziché nel quadro degli atti
emulativi anche se spesso le decisioni sono negative in quanto i giudici con-
tinuano a rilevare una utilità anche minima per il proprietario che eccede
nell’esercizio del suo diritto18. Ma è importante il riconoscimento da parte
della Supr. Corte dell’esistenza di un limite alle facoltà di godimento del
proprietario riconducibile ad una norma più ampia dell’art. 833, desumibile
dal sistema, volta a reprimere ogni forma di abuso del diritto (sono parole
testuali che si leggono nella sent. 19 marzo 2013 n. 6893 che peraltro ha

14
  Cass. 3.8.1915, in Dalloz, 1917, I, 705
15
  Cass. 7. 3. 2012 n. 3598
16
  Cfr. Cass. 20.10.1997 n. 10250.
17
  Cass. 15.11.1960 n. 3040 in Foro it. 1961, I, 256 con nota di Scialoja Il non uso è abuso
del diritto soggettivo?
18
  Cfr. Cass. 18.8. 1986, n. 5066; Cass. 19.3.2013, n. 6823 
44 Giovanna Visintini

escluso nel caso di specie la ricorrenza dell’abuso nella creazione di un


terrapieno in un terreno agricolo che aveva compromesso la visuale della
proprietà confinante).
Fuori dall’abuso nell’esercizio del diritto di proprietà che rimane a
tutt’oggi prevalentemente condizionato dall’ interpretazione restritti-
va del requisito previsto dall’art. 833 cod. civ. della mancanza di utilità
dell’autore dell’atto emulativo la formula dell’abuso ha trovato notevole
applicazione nel settore del diritto del lavoro ove si è riconosciuto so-
stanzialmente un ruolo operativo alla formula del divieto di abuso del
diritto sia pure con il ricorso formale al principio di correttezza ex art.
1175, laddove si è sanzionato come eccesso e sviamento di potere la de-
libera del datore di lavoro in materia di promozioni a scelta, di distri-
buzione delle funzioni e nell’ambito dell’istituto della cassa integrazio-
ne, anche al di là della dimostrazione di un intento persecutorio (il c.d.
mobbing già ricordato).
In tema di condotta in campo sindacale, vale la pena di richiamare una
massima ufficiale della Cassazione che esprime una posizione favorevo-
le alla costruzione dell’abuso di diritto nei termini seguenti: «In tema di
condotta antisindacale, l’intenzionalità del comportamento del datore di
lavoro (….) può assumere rilevanza quando la condotta del medesimo,
pur se lecita nella sua obiettività, presenti carattere dell’abuso del diritto,
giacché in questo caso l’esercizio del diritto da parte del titolare si espli-
cita attraverso l’uso abnorme delle relative facoltà ed è indirizzato a fine
diverso da quello tutelato dalla norma, assumendo quindi (….) nel campo
delle obbligazioni del rapporto di lavoro un particolare carattere di illiceità
per contrasto dei principi di correttezza e di  buona fede19. Da ultimo si
sta consolidando una giurisprudenza che inquadra nell’abuso da parte del
datore di lavoro la reiterazione eccessiva di successivi contratti di lavoro a
tempo determinato20.
E in un quadro legislativo che tende in Italia alla sanatoria delle imprese
in crisi è stato inquadrato nell’abuso nell’esercizio di un diritto di credito
il ricorso alla dichiarazione di fallimento quando era possibile ricorrere ad
altra via per la realizzazione dei propri interessi21.
Anche nel settore familiare e dei soggetti bisognosi di assistenza si se-
gnalano molti casi di abuso nella giurisprudenza su cui rinvio alla relazione
di Maria Vita De Giorgi non senza richiamare all’attenzione dei notai pre-

19
  Cass. Sez. Lav. 8 settembre 1995, n. 9501
20
  Cass. Sez. lav. 8 gennaio 2015, n. 62).
21
  Cfr. Cass. 19 settembre 2000, n. 12405; Cass. 10 febbraio 2011 n. 3274
L’abuso del diritto come illecito aquiliano 45

senti gli abusi del potere di rappresentanza da parte dei gestori delle case
di riposo o da parte di parenti non del tutto disinteressati, abusi che a mio
avviso sono resi possibili anche dal rilascio di procure generali.
E  presumibilmente in un futuro imminente sarà il settore degli abusi
informatici e dell’abuso di informazioni economiche riservate o privilegia-
te a far emergere in tutta evidenza anche in Italia il divieto dell’abuso del
diritto come categoria civilistica in termini generali22.
Un libro recente disegna degli scenari apocalittici in cui la rete distrug-
ge ogni possibile tutela della privacy. È il libro di Dave Eggers, Il cerchio
tradotto in italiano da Mondadori nel corso di quest’anno.
Lascio ai relatori che seguiranno l’analisi delle applicazioni del divieto
dell’abuso in campo processuale, contrattuale, familiare e tributario non
senza rilevare che la fattispecie della lite temeraria regolata dall’art. 96 cod.
proc. civ. che sempre più spesso i giudici, spec. quelli di merito, inquadrano
nell’abuso del processo, integra sicuramente un illecito aquiliano. Oltre a
questo il fatto che comunemente ai fini dell’art. 96 comma 3 si esclude la
necessità della prova di un danno effettivamente subito dalla controparte
induce a ritenere che la norma introduca una forma di danno punitivo.
E ciò a mio giudizio conferma che l’abuso dello strumento processuale
integra un illecito aquiliano a carattere doloso23.

5.  Conclusioni sul piano della politica del diritto e della storia delle
idee
In conclusione vorrei spendere qualche parola ancora sul piano della
politica del diritto per esprimere il mio pensiero sui rapporti tra il principio
in esame e le regole di correttezza e buona fede anche se sull’argomento è
acquisita agli Atti del convegno la relazione del collega Andrea D’Angelo
che ha scritto pagine importanti sul tema della buona fede.
Infatti per contrastare la continua sovrapposizione delle due tematiche
occorre far chiarezza e tener conto della diversa origine delle due clausole
generali, quella della buona fede oggettiva e quella dell’abuso del diritto.
Si tratta in entrambi i casi di clausole generali e non soltanto di principi
generali e quindi si tratta di strumenti nelle mani dei giudici che consen-
tono loro di integrare e non solo di interpretare i dati legislativi e quindi
si prestano anche a un uso arbitrario se non viene fatta chiarezza sugli

22
  Cfr. Zeno Zencovich, Per uno statuto dell’informazione economica e finanziaria in Gal-
gano e Visintini (a cura di) Mercato finanziario e tutela del risparmio, Cedam , 2006 
23
  Nel senso di cui al testo Trib. Piacenza 15 novembre 2011 in Foro pad. 2012, p. 336; Trib.
Milano 20 marzo 2014, in Guida al diritto 2014, 38, 43
46 Giovanna Visintini

elementi fondanti e sui limiti di queste categorie giuridiche. In sintesi non


è consentita ai magistrati una discrezionalità pura, vi sono dei limiti che si
possono cogliere nel contesto in cui le clausole sono destinate ad operare
(ad esempio nel sistema della responsabilità civile devono ricorrere tutti i
presupposti dell’istituto, criterio di imputazione, la lesione di un interesse
rilevante e il nesso causale tra il danno e il fatto illecito) e soprattutto nelle
loro radici e nella storia delle idee che hanno dato loro vita.
Come nasce il divieto dell’abuso del diritto?
Sicuramente nasce sul terreno del diritto di proprietà. Già nel 700 il
codice prussiano del 1794 accoglie accanto al principio qui suo iure utitur
neminem laedit la deroga secondo cui era vietato al titolare del diritto
scegliere fra le modalità di esercizio quella che è più dannosa per gli altri
con l’intenzione di danneggiarli.
Da qui vengono il divieto degli atti emulativi nel codice civile italiano
e nel BGB.
Nel pensiero poi dei giuristi francesi il divieto appare come lo strumen-
to per contrastare la concezione del diritto di proprietà come assoluto e per
stabilire che tale diritto deve essere esercitato tenendo conto degli interessi
della collettività e per esprimere una solidarietà sociale.
Mi riferisco agli scritti di Saleilles e di Josserand dei primi del 900.
E le stesse idee che puntavano su questa funzione di limite al diritto di
proprietà e di strumento per assicurarne una funzione sociale sono condi-
vise dalla dottrina italiana della stessa epoca. Ovvero si era nell’ottica di un
socialismo giuridico e cioè di una politica di socializzazione che ha portato
anche a inserire nella nostra costituzione gli articoli che affermano che la
proprietà deve svolgere una funzione sociale.
Storia della buona fede
La clausola generale di buona fede/correttezza nasce in un contesto
molto diverso e più recente. Nel codice civile italiano vigente viene in-
trodotta per la prima volta per assicurare una situazione di eguaglianza
tra le parti contraenti in sede di esecuzione dei contratti. In precedenza
se ne parlava solo in sede di interpretazione. Quindi la clausola si pone
come ho già detto all’inizio nel quadro di un rapporto e costituisce la
fonte di obblighi accessori e strumentali alla più razionale realizzazione
di tale rapporto. Da tale clausola deriva la teorizzazione dottrinale dei
doveri di protezione, di informazione e di sicurezza, anche non previsti
dalla legge o dal contratto, per salvaguardare le legittime aspettative dei
contraenti. Pertanto tale clausola non ha dunque nulla a che fare con
l’esercizio anormale di un diritto caratterizzato dalla consapevolezza di
L’abuso del diritto come illecito aquiliano 47

arrecare danno ad altri non legati da vincolo contrattuale con il titolare


del diritto.

Quindi storicamente l’assimilazione tra le due clausole non regge.


Ma naturalmente il discorso non può fermarsi qui, alla storia delle due
clausole, e occorre indagare quali impieghi hanno avuto nelle applicazioni
giurisprudenziali. Ciò anche per capire se vi e stata emersione del divieto
dell’abuso anche negli ordinamenti ove non è previsto legislativamente,
ma le sentenze vanno lette estraendone la effettiva ratio decidendi come
insegna la scuola di diritto italiana che fa capo a Gino Gorla e a Francesco
Galgano.
Esemplificando con la sentenza 18.9.2009 n. 20106 la Cassazione ita-
liana ha considerato abusivo il comportamento della casa automobilistica
Renault che dopo aver indotto i suoi concessionari a compiere una serie
di investimenti nelle loro strutture recede inaspettatamente dal contratto
di concessione di vendita. Le argomentazione dei giudici parlano di vio-
lazione della buona fede ma si tratta di un caso emblematico di abuso del
diritto di recesso.
In un altro caso la Cassazione (sent. 31.5.2010 n. 13208) censura come
abusiva la condotta di un Comune che dapprima rifiuta di detrarre dai
canoni di locazione gli importi spettanti alla società conduttore per lavori
eseguiti sull’immobile locato e poi intima lo sfratto per morosità. Ovvero
si è attribuito all’ente l’intento di rendere irreversibile l’inadempimento
del conduttore sottraendosi alla compensazione richiesta dal conduttore.
Anche qui si parla di abuso come indice rivelatore di una violazione
della buona fede ma impropriamente. Questi sono solo due esempi, ma
una ricerca accurata può dimostrare l’itinerario diverso delle due clausole.
Insomma occorre sottolineare, a mio avviso, i differenti itinerari del
pensiero giuridico in ordine alle due clausole.
Quanto ai limiti nel ricorso giudiziale ad esse e ai contorni attuali bi-
sogna aggiungere che il divieto dell’abuso del diritto incontra oggi una
maggiore attenzione da parte dei giudici e si è espanso al di là dell’elemento
tradizionale dell’animus nocendi e della intenzionalità della condotta volta
a danneggiare. Ovvero possiamo dire che è prevalente oggi la dimostrazio-
ne dell’esercizio anormale del diritto e che dal punto di vista soggettivo si
considera sufficiente la consapevolezza di poter nuocere ad altri.
Emergono inoltre gli elementi indiziari dell’eccesso nell’esercizio del
diritto rispetto allo scopo per cui è stato riconosciuto e la sproporzione
tra l’interesse soddisfatto e quello sacrificato.
Ma naturalmente ultimata questa indagine sul denominatore comune
delle varie fattispecie riportate dai giudici nell’ambito dell’abuso del dirit-
48 Giovanna Visintini

to residua l’interrogativo di fondo: è legittimo che sia la giurisprudenza a


creare l’istituto del divieto dell’abuso del diritto o deve essere il legislatore?
A mio avviso i dubbi riguardano il settore tributario dove nella Costi-
tuzione vi è la riserva di legge e finalmente, grazie al ruolo svolto dal prof.
Franco Gallo, presente in questo libro, la legge è intervenuta in questo
settore. Viceversa in materia civile non hanno ragione di porsi perché qui
è pacificamente ammesso il ricorso a principi generali anche impliciti nel
sistema e non espressamente previsti legislativamente.
Ma occorre individuare i limiti e i fondamenti dell’istituto onde evitare
eccessi interventisti dei giudici volti a limitare l’autonomia privata. La mia
tesi è dunque nel senso che con le caratteristiche qui descritte l’abuso del
diritto integra un illecito caratterizzato da dolo consistente nella consape-
volezza di poter nuocere ad altri con un uso anormale del diritto. Non si
tratta più dell’atto emulativo consegnatoci dalla tradizione ma di un illecito
doloso di creazione giurisprudenziale.
Andrea D’Angelo
Rapporti tra buona fede e abuso del diritto

Sommario:  1. Premessa. – 2. Atteggiamento di sfavore ideologico. – 3. Incompatibilità


logica tra abuso e diritto. – 4. Il ricorso all’abuso del diritto come formula descrittiva
dell’esito del giudizio di buona fede. – 5. Buona fede e discrezionalità. – 6. Buona fede
e divieto d’abuso come principi generali. – 7. L’ambito di applicazione dei due principi.
– 8. Il ricorso ai principi deve tener conto del contesto e della fattispecie concreta. – 9.
I rischi della generalizzazione di ragionamenti alla base dei principi generali. – 10. Il
sindacato giudiziario e le critiche dottrinali.

1.  Premessa
Il mio intervento non potrà affrontare il tema assegnatomi in modo,
non dico esauriente, ma neanche adeguatamente rappresentativo di tutte le
prospettive e le implicazioni che lo concernono, a ragione della sua vastità,
dell’ampiezza e complessità delle sue interferenze sistematiche, della varietà
delle materie che ne sono interessate e dei concreti conflitti di interesse
sulla soluzione dei quali esso si riflette1.
Per ragionare su «buona fede» e «abuso del diritto» con riguardo ai rap-
porti tra i due termini ci si deve innanzitutto domandare se il problema con-
cerna un rapporto tra formule, e sia dunque, essenzialmente, un problema
di linguaggio tecnico o di convenienza espressiva, ovvero se riguardi un rap-
porto tra regole, e quindi si tratti di riconoscerne l’identità, al di là della
varietà terminologica, oppure di stabilire relazioni di distinzione, contiguità,
interferenza tra regole differenti. Ma occorre comprendere, in un caso come
nell’altro, quali modelli di ragionamento, quali criteri di giudizio, siano da
quei termini implicati, e se essi, a loro volta, possano rivelarsi distinti, conti-
gui, interferenti. E problemi analoghi possono porsi anche riguardo ai rap-
porti della buona fede e dell’abuso del diritto con la «exceptio doli».
Altro tema di fondo del mio intervento sarà quello dell’articolazione tra
buona fede come clausola generale, operante, unitamente alla correttezza,
nell’àmbito dei rapporti contrattuali e dei rapporti obbligatori anche di
fonte non contrattuale, e buona fede-correttezza come principio generale,

1
  E le indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali saranno assai contenute e necessaria-
mente circoscritte negli stretti limiti in cui lo svolgimento del discorso ne costituisce occasione.
50 Andrea D’Angelo

secondo il valore riconosciutole dalla giurisprudenza della Cassazione2; e,


conseguentemente, quello dei rapporti tra princìpi generali: di buona fede
e di divieto di abuso del diritto.
Come è noto, la buona fede vanta una risalente tradizione storica di
diritto romano e comune3; così come la exceptio doli, con una caratterizza-
zione, quest’ultima, rimediale-processuale legata alla stipulatio e alla causa.
L’abuso del diritto è, invece, formula moderna, adottata per soddisfare esi-
genze di protezione di interessi rispetto a comportamenti, non sanzionati
legalmente, che costituiscono esplicazione di prerogative private concepite
come piene e assolute4; formula legata alla dogmatica della categoria del
diritto soggettivo, informata al modello della proprietà, e volta a porre
limiti all’esercizio di discrezionalità implicate da tale categoria5.
In questo senso, può dirsi che la buona fede ha una remota tradizio-
ne di regola, l’exceptio di rimedio, mentre l’abuso del diritto è formula
moderna che, pur volta anch’essa alla soluzione di conflitti di interesse, si
discosta dalle regole della tradizione proprio perché sorge in problematica
relazione, e controversa compatibilità, con il concetto di diritto soggettivo.
2.  Atteggiamento di sfavore ideologico
Buona fede e abuso sono stati peraltro accomunati per lungo tempo da
un atteggiamento di sfavore, pur essendo la prima, a differenza del secon-
do, normativamente enunciata.
Lo sfavore verso l’abuso trovò ragioni eminentemente ideologiche, da
un lato, e, dall’altro, concettuali, di supposta incompatibilità logica: laddo-
ve vi è diritto soggettivo, il cui contenuto consiste in una sfera di libertà di
azione assicurata dal diritto (riguardo a un bene, alla condotta di un altro
soggetto, alla determinazione di effetti sulla sfera giuridica altrui), non può
esservi abuso, nel senso di comportamento attinente a un’area di illiceità;
quest’ultima, per il principio logico di non contraddizione, potrebbe sussi-
stere solo al di fuori dell’àmbito del diritto soggettivo6. È stato autorevol-

2
  Cass., 24 marzo 1999, n. 2788, in Corr. Giur., 2000, p. 334; Cass., 4 marzo 2003, n. 3185;
Cass., 27 agosto 2014, n. 18304; Cass., 10 aprile 2015, n. 7181.
3
  And. D’Angelo, La buona fede, in Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, IV**, Torino,
2004, pp. 14-23.
4
  P. Rescigno, L’abuso del diritto, Riv. dir. civ., 1965, I, p. 214, nota 17.
5
  V. le classiche pagine di P. Rescigno, L’abuso del diritto, cit.; per altre indicazioni biblio-
grafiche mi limito qui a rinviare a quelle offerte da And. D’Angelo, op. cit., pp. 60 ss. e, più
recentemente, da F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Torino, pp. 354 ss.
6
  Anche a questo proposito non è possibile dar conto della copiosa letteratura: v. ancora
gli scritti citati nella precedente nota e ivi ampi riferimenti, tra i quali mi limito a segnalare U.
Breccia, L’abuso del diritto, in Diritto privato, III, L’abuso del diritto, Padova, 1998, pp. 5 ss.;
Rapporti tra buona fede e abuso del diritto 51

mente osservato che l’asserzione «il diritto cessa dove comincia l’abuso»
è stata utilizzata sia per negare il problema che per giustificare il divieto7.
Lo sfavore per la buona fede, invece, si è a lungo manifestato, in par-
ticolare nella giurisprudenza, per ragioni eminentemente pratiche, di dife-
sa dell’impianto normativo circostante alla clausola generale, e di supposte
esigenze di certezza dei rapporti. Ma le motivazioni addotte – che trova-
rono poi definitivo superamento, grazie all’influenza della dottrina, nella
successiva giurisprudenza – echeggiavano anch’esse la categoria del diritto
soggettivo, negandosi che un comportamento contrario a lealtà, correttezza,
solidarietà possa essere illegittimo e fonte di responsabilità se non concreti
la violazione di un diritto soggettivo già riconosciuto da norme diverse dagli
artt. 1175 e 13758. In tal senso, dunque, il diritto soggettivo veniva in que-
stione quale referente non già della posizione dell’agente (come rispetto al
divieto di abuso), ma quale referente della posizione della sua controparte.
3.  Incompatibilità logica tra abuso e diritto
L’argomento fondato sull’incompatibilità logica tra abuso e diritto,
muove dall’assunzione del modello proprietario di diritto soggettivo e dal
riconoscimento ad esso dell’attributo di pienezza delle inerenti prerogative.
E presuppone come precostituito ex lege il contenuto dei diritti, talché
l’esercizio delle corrispondenti prerogative non possa essere sottoposto a
un sindacato giudiziale.
Ma se si ammette che, nell’àmbito dei rapporti contrattuali e obbli-
gatori, le clausole generali di buona fede e correttezza concorrono, nella
soluzione giudiziale dei conflitti di interesse, alla formazione di giudizi di
illiceità o liceità di condotte, fondatezza o infondatezza di pretese, allora si
deve affermare che il riconoscimento o disconoscimento di diritti (di tenere
una condotta o corrispondenti a pretese) e di doveri (di astenersi da una
condotta) non si riferiscono a precostituiti e astratti modelli di situazioni
giuridiche soggettive, ma al contenuto di concrete e singolari posizioni
giuridiche riferite al rapporto, al caso e alle sue circostanze9.

F.D. Busnelli e E. Navarretta, Abuso del diritto e responsabilità civile, in in Diritto privato,
III, L’abuso, cit., pp. 181 ss.; A. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, pp. 297 ss. Per la
giurisprudenza risalente v. Cass. 27 febbraio 1953, n. 576, nel senso che la formula del divieto di
abuso del diritto finisce col risolversi nella constatazione dell’illiceità di un esercizio del diritto
che «oltrepassi i limiti entro i quali il diritto stesso è contenuto».
7
  P. Rescigno, op. cit., p. 214, nota 17.
8
  Cass. 16 febbraio 1963, n. 357, in Foro pad., 1964, I, 1284.
9
  Nel senso che le considerazioni circa l’abuso del diritto si risolvono nella definizione di
àmbito e confini del «diritto soggettivo concreto» v. già P. Rescigno, op. loc. ult. cit.; e And.
D’Angelo, op. cit., pp. 62 ss.; ma v. F. Piraino, op. cit., pp. 361 ss.
52 Andrea D’Angelo

Anche in questa prospettiva, peraltro, può pervenirsi ad affermare o


negare l’esistenza in concreto di un diritto o di un obbligo al compimen-
to di una determinata condotta, piuttosto che a riconoscere un diritto e
l’abuso dello stesso.
4.  Il ricorso all’abuso del diritto come formula descrittiva dell’esito
del giudizio di buona fede
Pur nella consapevolezza della complessità dei problemi, anche di teoria
generale del diritto, che investono il tema dei rapporti tra buona fede e
divieto di abuso del diritto, e nonostante la voga, dottrinale e giurispru-
denziale, del secondo, che tende ad affrancarlo dal fondamento normativo
costituito dalla prima, continuo a ritenere che, in realtà e molto sempli-
cemente, si tratti soltanto di una mera diversificazione di formule. Infatti,
abbandonando gli apici teorici e ragionando in termini assai concreti, nella
prospettiva del giudizio individuale pratico di soluzione delle controversie,
e della sua argomentazione, ritengo si possa esprimere lo stesso, identico
giudizio: i) dicendo, ad esempio, che il credito di A non comporta il suo
concreto diritto di tenere quel dato comportamento, ovvero ii) dicendo
che quel determinato comportamento di A costituisce abuso, vietato, del
suo diritto di credito. Secondo entrambe le formulazioni, si perverrà alla
conclusione che A è responsabile delle conseguenze dannose di quel com-
portamento nei confronti del debitore o che devono essere negati a quella
condotta effetti favorevoli al suo autore, secondo il rimedio specifico del
«diniego di effetti» al comportamento contrario a buona fede.
In questo senso credo che, nell’àmbito dei rapporti contrattuali e dei
rapporti obbligatori anche di fonte non contrattuale, nel quale opera la
clausola generale di buona fede e correttezza, l’abuso del diritto altro
non sia che una formula descrittiva dell’esito del giudizio di buona fede;
e dunque niente aggiunga alla regola che governa i rapporti e che consi-
ste, appunto, nella clausola di buona fede-correttezza, munita di un solido
fondamento normativo10.
5.  Buona fede e discrezionalità
Tuttavia, con specifico riguardo al tema dell’esercizio di prerogative di-
screzionali, può apparire appropriata, o, comunque, più efficace sul piano
espressivo, la formula dell’abuso.
È stato detto che la buona fede in executivis è regola di governo della

10
  Per una diversa prospettiva di affermazione del divieto di abuso come concretizzazione
della buona fede in funzione valutativa v. F. Piraino, op. cit., pp. 410 ss.
Rapporti tra buona fede e abuso del diritto 53

discrezionalità11. In realtà, se è vero che la buona fede opera negli spazi di


indefinizione regolamentare lasciati dalla convenzione contrattuale (senza
che ciò significhi che questo sia l’àmbito esclusivo di operatività della re-
gola), peraltro tali spazi non corrispondono a discrezionalità dei contra-
enti: il giudizio di buona fede che sanzioni come contraria a buona fede
la condotta tenuta da uno dei contraenti in quell’àmbito di indefinizione
muove proprio dalla negazione di una corrispondente discrezionalità, rico-
noscendo, al contrario, la doverosità di una diversa condotta12.
Se è vero che il giudizio viene a essere espresso dal giudice a posterio-
ri, tuttavia esso presuppone una regola desumibile dalla buona fede che
vincola il comportamento, escludendo quindi la discrezionalità. E la pre-
supposizione di tale regola è coerente con la funzione della buona fede
di integrazione del contratto che è riconosciuta dalla dottrina largamente
prevalente e dalla costante giurisprudenza13.
Il problema del rapporto tra discrezionalità e buona fede si pone, in-
vece, rispetto a clausole che positivamente attribuiscono a una parte un
àmbito di discrezionalità circa: la determinazione di elementi non definiti
nella convenzione, il compimento di azioni pregiudizievoli per l’altra par-
te, la produzione o la cessazione di effetti sui rapporti tra le parti; e così
stabiliscono ius variandi, diritti di recesso, diritti di opzione, clausole ri-
solutive espresse che consentono al contraente di determinare, mediante la
dichiarazione di volersene avvalere, la risoluzione di diritto del contratto.
Ed è proprio in questo senso che può apparire efficacemente espressiva
la formula dell’abuso del diritto per affermare la sindacabilità dell’esercizio
di queste posizioni giuridiche. Anche se, pure in queste ipotesi, il giudizio
si giustifica sulla base della clausola di buona fede e sul suo fondamento
normativo.
Non pare però che la formula dell’abuso del diritto porti valore ag-
giunto alla formazione del giudizio individuale pratico alla stregua della
clausola generale di buona fede e correttezza.
Non, in genere, rispetto alla valutazione della legittimità di condotte
esecutive, e ai connessi giudizi di inadempimento e responsabilità, non

11
  A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Commentario del codice civile Scialoja-
Branca- Art. 1173-1176, Bologna-Roma, 1988, pp. 301 ss.
12
  And. D’Angelo, op. cit., pp. 39 s., 68 s., 108 ss.
13
  Anche a questo proposito rinvio alle indicazioni di dottrina e giurisprudenza che si rinven-
gono in And. D’Angelo, op. cit., pp. 33 ss. e in F. Piraino, op. cit., cap. II passim e segnatamente
pp. 270 ss.; tra la giurisprudenza più recente v. Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Foro it.,
2010, I, c. 85; Cass., 10 novembre 2010, n. 22819, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p. 355;
Cass., 15 ottobre 2012, n. 17642; Cass., 8 aprile 2014, n. 8153, in Danno e resp., 2014, p. 1125.
54 Andrea D’Angelo

rispetto alla valutazione di fondatezza di pretese, ma neanche rispetto


al sindacato su atti di esercizio di diritti, poteri, facoltà, rispetto ai quali
la formula dell’abuso, come si è detto, potrebbe invero apparire più ap-
propriata o almeno più efficacemente espressiva; infatti, anche rispetto a
quest’ultimo profilo, i problemi di disciplina dei rapporti ben possono
essere, e sono stati, risolti mediante criteri, tecniche e ragionamenti propri
della buona fede-correttezza.
6.  Buona fede e divieto d’abuso come principi generali
Come ho anticipato, un’ulteriore specifica problematica riguarda i rap-
porti tra buona fede-correttezza e divieto di abuso del diritto quali rico-
nosciuti princìpi generali.
Come è noto, con massima ricorrente nelle sentenze di Cassazione in
materia di buona fede e correttezza, si afferma che esse sono, oltre che
clausole generali, princìpi generali14. Il significato di questa asserzione è
che la loro operatività non è limitata al settore del diritto patrimoniale
corrispondente ai contratti e alle obbligazioni.
Allo stesso modo, si riconosce come principio generale il divieto di
abuso del diritto15, il quale dunque, oltre che concorrere – problematica-
mente, nel senso già illustrato – con la clausola generale di buona fede e
correttezza nell’àmbito dei rapporti contrattuali e obbligatori, opererebbe
anche in altri settori dell’ordinamento.
Si pongono allora alcune ulteriori questioni:
i) mentre nel settore dei contratti e delle obbligazioni l’enunciazione
normativa delle regole di buona fede e correttezza sembra assumere le stes-
se a regole dei rapporti, senza lasciare all’abuso del diritto, come si è detto,
altro ruolo che quello di formula rappresentativa di quelle stesse regole, al
di fuori di quel settore potrebbe legittimarsi un effettivo ruolo normativo
autonomo del divieto di abuso, e si ripropone, allora, la questione dei suoi
rapporti di concorrenza, sovrapposizione o articolazione con il principio
di buona fede-correttezza;
ii) mentre la clausola generale trova, nel settore nel quale è destinata
a operare, una trama di norme che ne orientano il senso e l’applicazio-
ne rispetto al suo contenuto indeterminato16, la trasposizione in princi-
pio comporta un disancoramento da quella trama di norme, con conse-

  V. la giurisprudenza citata alla nota 2.


14

  Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056 e 30057; Cass, 13 maggio 2009, n.
15

10981; Cass., 27 febbraio 2013, n. 4901


16
  And. D’Angelo, op. cit., pp. 11 s., e ivi altri richiami.
Rapporti tra buona fede e abuso del diritto 55

guente rischio di smarrimento di senso e di incontrollata espansione della


discrezionalità giudiziaria; ciò soprattutto se, secondo l’orientamento che
va affermandosi, si assegna ai princìpi un ruolo normativo non confinato
nella analogia iuris, quale criterio residuale di integrazione delle lacune
normative, ai sensi dell’art. 12 c. 2 delle disposizioni sulla legge in generale,
ma quello di guida all’interpretazione e all’applicazione di disposizioni di
legge, nonché, in un senso ancora più ampio, di autonomo criterio di de-
cisione di controversie anche laddove non si riscontrino lacune normative;
iii) sia per l’abuso che per la buona fede-correttezza l’assunzione a prin-
cìpi generali può comportare, ha di fatto comportato, in corrispondenza
con il disancoramento della loro applicazione rispetto a disposizioni di
legge a fattispecie analitica e a trattamento giuridico puntuale, il disancora-
mento anche rispetto a definite situazioni giuridiche soggettive di obbligo
o diritto, lasciando così erratici la direzione e i contenuti normativi di tali
princìpi, tanto da comportare la transizione terminologica da abuso del
diritto ad abuso tout court, come risulta dalla terminologia corrente e dai
temi e dai titoli delle relazioni di questo convegno.
7.  L’ambito di applicazione dei due principi
Quanto ai rapporti tra i due princìpi, sembra doversi riconoscere la
mancanza di una puntuale e consolidata distinzione di due rispettivi àmbiti
e contenuti. Si riscontra, anzi, una ricorrente promiscuità terminologica17.
Apparentemente a ragione dell’assenza nel nostro ordinamento di un
enunciato normativo che vieti l’abuso del diritto, si invoca la buona fede a
fondamento del divieto18. In particolare, anche laddove si va consolidando
un uso prevalente della formula del divieto di abuso (come in materia fisca-
le), non manca il riferimento alla buona fede, apparentemente in funzione
dell’accreditamento di un fondamento normativo specifico (che, in materia
fiscale, si rinviene nel richiamo alla buona fede contenuto nell’art. 10 l. 27
luglio 2000, n. 212).
Nella sentenza che ha deciso il caso Renault19, si afferma, da un lato, che
«criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva
è quello dell’abuso del diritto» e, dall’altro, si dice che «i due principi si
integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui an-
corare la condotta delle parti », mentre l’abuso implica «la necessità di una
correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti».

17
  C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, p. 108, parla di «congestione».
18
  V. Cass. 31 maggio 2008, n. 13208.
19
  Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, cit.
56 Andrea D’Angelo

Dunque, un principio (quello del divieto di abuso) come criterio dell’al-


tro (quello di buona fede), nel contesto di una proposta di integrazione tra
gli stessi espressa con una formulazione invero un po’ oscura.
In senso opposto, altra decisione20 si riferisce alla buona fede per valuta-
re se vi sia abuso del diritto: dunque la buona fede come criterio dell’abuso,
oltre che suo fondamento normativo.
E la concorde affermazione dell’integrazione tra i due princìpi, nella
sua genericità, suscita il sospetto che essa celi una sostanziale sovrapposi-
zione e identificazione; e, allora, sembra doversi ribadire che la distinzione
riguardi soltanto una preferenza terminologica, che induca ad adottare la
formula della buona fede quando si ricostruiscono regole di condotta e si
esprimono conseguenti criteri del giudizio di inadempimento e di respon-
sabilità, e ad adottare, invece, la formula dell’abuso quando si esercita un
sindacato sull’esercizio di diritti e si esprime un criterio di giudizio sulla
stessa efficacia dell’atto di esercizio.
Si parla anche di abuso del diritto come «interfaccia» della buona fede.
Espressione invero impropria se con essa si vuole designare un rapporto
di simmetria, intercorrente tra «due facce» del medesimo fenomeno, come
sembra precisarsi in una decisione21, nella quale, si utilizza la buona fede
come regola di condotta alla stregua della quale esprimere il giudizio di
inadempimento, e poi si parla di abuso laddove si esprime un giudizio, in
effetti correlato al primo, di legittimità dell’esercizio del diritto dell’altra
parte di risolvere il contratto. In tal senso, appare confermato che si tratti
solo dell’uso di diverse formule, secondo il criterio di preferenza sopra
indicato.
Tuttavia, in settori diversi dal diritto privato, il principio del divieto
di abuso ha trovato applicazione rispetto a situazioni nelle quali non vi è
propriamente alcun diritto di cui occorra valutare l’esercizio; così in mate-
ria fiscale, dove si tratta di applicare o non una imposizione fiscale e dove
appare sia piuttosto in questione l’abuso dell’autonomia privata nella con-
figurazione di operazioni economiche rispetto all’applicazione della nor-
mativa fiscale. E in tale giurisprudenza22 il principio di buona fede non ha
mancato di essere invocato come fondamento normativo – nel richiamo a
essa espresso dall’art. 10 l. 27 luglio 2000, n. 212 – del principio del divieto
di abuso, in un senso peraltro assai vago, come implicazione nella buona
fede di un dovere di lealtà del contribuente.

20
  Cass., 29 maggio 2012, n. 8567.
21
  Cass., 31 maggio 2010, n. 13208, cit.
22
  V. Cass. 10 dicembre 2002, n. 17576.
Rapporti tra buona fede e abuso del diritto 57

8.  Il ricorso ai principi deve tener conto del contesto e della fatti-
specie concreta
Il rilevato disancoramento dei due princìpi da norme a fattispecie ana-
litica e trattamento giuridico puntuale, così come da situazioni giuridiche
soggettive da tali norme conformate, nonché dalla relazione con la trama
di disposizioni regolatrici delle obbligazioni e dei contratti – che orienta
l’utilizzo delle clausole generali – sembrerebbe, secondo il modo corrente
di argomentazione basata su princìpi, comportare una penetrante incidenza
su sfere di azione e di responsabilità prive di ogni altro criterio regolatore
che non siano gli stessi princìpi; e ciò, sembrerebbe, anche rispetto alla
stessa operatività della clausola generale della responsabilità civile, secondo
la formula del «danno ingiusto». In questo senso, pare essere attribuita a
tali princìpi una potenzialità di profonda alterazione del sistema.
Si manifesta, a questo proposito, la più generale problematica, tanto
dibattuta in dottrina, sui princìpi generali, la cui ampiezza e complessità
non consente di affrontarla in questa sede23, e della quale tuttavia occorre
quantomeno cogliere i profili critici rispetto all’uso dei princìpi in funzione
della formazione del giudizio individuale pratico di soluzione giudiziaria
di controversie.
Muoviamo al riguardo dal diffuso riconoscimento, di cui ho già fat-
to cenno, che il ruolo dei princìpi, quali espressioni di «valori», non sia
confinato nella funzione residuale di integrazione delle lacune, ai sensi del
secondo comma dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, ma
consista altresì nella funzione di guida all’interpretazione di disposizioni di
legge e, anche, di autonomo fondamento di decisioni, così da porre fuori
giuoco il riferimento a disposizioni di legge puntuali e alle norme che ri-
sultano dalla loro interpretazione.
Nella prospettiva di un’argomentazione giuridica che tende ad affran-
carsi da un rapporto con la legge improntato al modello positivistico del
sillogismo giudiziario, prende campo, a scapito del riferimento a dispo-
sizioni a fattispecie analitica e a trattamento giuridico puntuale, la con-
siderazione dei valori come contenuti di princìpi generali; e si predica
la «crisi della fattispecie»24. E, nell’àmbito di uno studio specificamente

23
  Né può darsi conto della copiosa letteratura in argomento, per la quale mi limito a richia-
mare l’organica trattazione e l’apparato di G. Alpa, I principi generali2, in Trattato di diritto
privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2006; e v., recentemente, A. Gentili, Il diritto
come discorso, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2013, pp. 335
ss.; F. Piraino, op. cit., pp. 47 ss.
24
  Mi limito a richiamare N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, pp. 41 ss.;
Id., Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 2014, pp. 36 ss.; N. Lipari,
58 Andrea D’Angelo

dedicato all’argomentazione giuridica, si osserva che, consistendo il con-


tenuto dei princìpi in «obiettivi o valori», e non in «regole», essi sono
«punti di partenza ma non esiti del ragionamento giuridico, fattori ma
non criteri della soluzione giuridica»25; talché ne risulta una «scarsamen-
te controllabile libertà supplementare dell’interprete»26, giacché, «data
l’indeterminatezza della fattispecie e soprattutto degli effetti, chi usa un
principio finisce per essere libero di decidere anzitutto in astratto, e poi
conseguentemente anche nel caso concreto, quale debba essere il punto
di contemperamento» degli interessi27. Pertanto, se «non ogni invocazio-
ne di principio è manipolazione», «alla manipolazione apre spazio la na-
tura stessa del principio»28.
Peraltro29, non sembra che il riferimento a princìpi possa condurre a una
configurazione del diritto derivante dalla loro applicazione giudiziale, che
possa, anche solo tendenzialmente, esaurirsi nella loro operatività. Essi non
trovano, come invece le clausole generali, criteri di orientamento in una
circostante trama di norme di un settore di loro appartenenza; e tuttavia
essi si collocano in un contesto ordinamentale popolato di disposizioni di
legge, che continuano quotidianamente, incessantemente, a venire alla luce,
con la loro tradizionale, positivistica, articolazione in fattispecie generali
e astratte e trattamento giuridico puntuale. La vastità della proiezione dei
princìpi, proporzionale all’elevatezza della loro generalità, investe necessa-
riamente campi occupati da disposizioni di legge puntuali. Ecco allora che
l’individuazione dello spazio dei princìpi nell’àmbito dell’ordinamento e la
definizione della loro relazione con altri precetti enunciati nelle leggi non
può non misurarsi con questi ultimi. E ciò vale anche per quei princìpi che
sono fortificati dalla loro appartenenza alla Carta costituzionale; quest’ul-
tima, infatti, non fu certo concepita come se fosse destinata a operare in
un deserto normativo.
Anche le disposizioni a fattispecie analitica e trattamento giuridico
puntuale, secondo i significati a esse attribuiti dall’interprete, sottendono
valori, quali sono implicati dalle rationes sulle quali i precetti si fonda-

I civilisti e la certezza del diritto, Riv. trim. dir. proc. civ., pp. 1123 ss.; ma v. A. Cataudella,
Nota breve sulla «fattispecie», in Riv. dir. civ., 2015, pp. 245 ss.; C. Castronovo, op. cit., p. 11.
25
  A. Gentili, op. ult. cit., p. 339.
26
  A. Gentili, op. ult. cit., p. 340.
27
  A. Gentili, op. ult. cit., p. 342.
28
  A. Gentili, op. ult. cit., p. 342 ss.
29
  Per le riflessioni che seguono v. And. D’Angelo, Discorso giuridico, termini tecnici e
concetti, § 7, in corso di pubblicazione in Riv. dir. civ., 2016.
Rapporti tra buona fede e abuso del diritto 59

no30. Considerazioni funzionalistiche, teleologiche, contemplazione degli


interessi in giuoco sono necessariamente intrinseche alla formazione delle
disposizioni di legge e alla loro interpretazione, così come alla costruzione
e uso dei concetti denotati da termini tecnici. Solo il più ottuso formalismo
di concezioni positivistiche, secondo un’immagine caricaturale del medesi-
mo, può assumere l’estraneità a questi processi di quei fattori.
I princìpi (ad es.: causalistico, apparenza, libertà di forma) che si rica-
vano induttivamente da una serie di norme, come più vaste direttive di cui
si assume che queste siano espressione, necessariamente contengono quegli
stessi valori a quelle norme sottesi. Ma neanche i princìpi (ad es.: corret-
tezza, buona fede, eguaglianza, ragionevolezza, proporzionalità, divieto di
abuso del diritto) che sono il frutto di più elevate generalizzazioni o sono
enunciati in disposizioni di legge – e persino quelli di cui si supponga e
si legittimi un fondamento extra positivo – possono assumersi come del
tutto avulsi da una trama valoriale diffusa nell’ordinamento; e, in tal senso,
essi si pongono in relazione (di coerenza o di antagonismo o di gerarchia
o di combinazione) con i valori sottesi a norme di diversa conformazione.
Pertanto, il modello di decisione fondata su princìpi generali non
sembra potersi esaurire in un procedimento di posizione del principio,
con attribuzione allo stesso di contenuto da parte dell’interprete, e di
deduzione da esso della regola del caso. In un procedimento siffatto,
del tutto avulso dalla considerazione del contesto ordinamentale e della
stessa sottesa trama valoriale, la distanza che separa i princìpi dai casi
concreti, priva della mediazione costituita dal riferimento a fattispecie
generali e astratte, agevolerebbe la più libera esplicazione della discre-
zionalità dell’interprete, ma renderebbe più ardua e meno controllabile
la costruzione di una rigorosa e razionale giustificazione argomentati-
va.
La stessa interpretazione degli enunciati da cui possano desumersi i
princìpi, la costruzione di questi e dei loro contenuti, la definizione dei
rapporti tra gli stessi e le norme risultanti dall’attribuzione di senso ad altre
disposizioni, la giustificazione di regole del caso, alla stregua di essi e della
considerazione di altre indicazioni normative, sono, dunque, tutte opera-
zioni destinate a confluire, e a interagire, nell’argomentazione di soluzioni
giudiziarie di casi concreti. E, in questo senso, possono essere mitigati i ri-
schi di manipolazione argomentativa di un riferimento esclusivo a princìpi,

30
  Non condivido l’opinione di F. Piraino, op. cit., pp. 53 s., secondo cui il «mero obiettivo
di politica del diritto» non potrebbe essere qualificato come «valore», nel senso proprio di «ideale
di natura etica» che costituirebbe il contenuto dei princìpi generali.
60 Andrea D’Angelo

secondo contenuti degli stessi definiti dall’interprete, nella giustificazione


di una soluzione giudiziaria.
9.  I rischi della generalizzazione di ragionamenti alla base dei prin-
cipi generali
Significativo riscontro delle svolte considerazioni è offerto da alcune
esemplificazioni di una potenziale incidenza dei princìpi generali di buona
fede e divieto di abuso, invero assai problematica, se non tendenzialmente
eversiva.
È ben nota l’affermazione giurisprudenziale della nozione, elabora-
ta dalla dottrina31, di «contatto sociale», al quale ineriscono obblighi di
protezione e quindi obbligazioni senza prestazione, il cui inadempimento
comporta una responsabilità ascritta all’are di quella contrattuale32. Tale
orientamento non utilizza la buona fede-correttezza quale regola di disci-
plina di un preesistente rapporto contrattuale o obbligatorio, ma la pone
a fondamento del riconoscimento della stessa costituzione di rapporti ob-
bligatori, impiegandola quindi in un àmbito più ampio di quelli ai quali
attengono la buona fede dell’art. 1375 cod. civ. e la correttezza dell’art.
1175 cod. civ., e in tal senso sembra predicarne l’operatività quale princi-
pio generale.
La dottrina dell’obbligazione senza prestazione è stata opportunamente
circoscritta a rapporti derivanti da un «contatto sociale qualificato». Ma è
lecito temere che tale delimitazione possa essere rimossa mediante ragiona-
menti che, muovendo dalla buon fede-correttezza come principio generale,
corroborato dall’usuale riferimento costituzionale al principio di solidarie-
tà, vengano spregiudicatamente sviluppati, secondo le modalità indicate nel
precedente § 8, e senza l’adozione delle cautele sistematiche e argomen-

31
  C. Castronovo, L’obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Scrit­
ti in onore di Luigi Mengoni, I, Milano, 1995, pp. 147 ss. e in La nuova Responsabilità civile2,
Milano, 1997, pp. 177 ss.; Id. Ritorno all’obbligazione senza prestazione, in Eur. dir. priv., 2009,
pp. 679 ss.; Id., Eclissi, cit., pp. 128 ss., ai cui scritti si rinvia anche per i richiami di dottrina
tedesca e italiana e per la confutazione delle opinioni dissenzienti.
32
  Per alcune applicazioni dell’accoglimento della dottrina della responsabilità da contatto
sociale, con conseguente qualificazione contrattuale della stessa, e implicazioni pratiche relative ai
criteri di valutazione della condotta e di imputazione di oneri di prova, v., in materia di rapporto
tra medico dipendente da struttura sanitaria e paziente, Cass. 22 gennaio, 1999, n. 589; Cass. 19
aprile 2006, n. 9085; Cass. Sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 577; in materia di obblighi di informa-
zione dell’ex datore di lavoro nei confronti dell’ex dipendente, v. Cass. 21 luglio 2011, n. 15992;
in materia di responsabilità della banca negoziatrice di assegno v. Cass. Sez. Un. 26 giugno 2007,
n. 14717; in materia di responsabilità procedimentale della P.A. v. Cass. 21 novembre 2011, n.
24438; in materia di responsabilità dell’insegnante per il danno cagionato dall’alunno a se stesso,
v. l’obiter dictum contenuto in Cass. Sez. Un. 27 giugno 2002, n. 9346.
Rapporti tra buona fede e abuso del diritto 61

tative ivi indicate (analoghe a quelle che hanno fondato la costruzione,


convenientemente delimitata, del «contatto sociale qualificato»).
Deve quindi avvertirsi il rischio che una libera attribuzione di con-
tenuto al principio generale di buona fede-correttezza-solidarietà come
fondamento di obbligazioni e altrettanto libere operazioni deduttive di
risoluzione di casi concreti possano moltiplicare in modo indiscriminato
«fatti o atti idonei a produrre obbligazioni» di cui all’innominata cate-
goria di fonti dell’art. 1173; e che si fondi in tal modo un generale po-
tere giudiziario di imposizione di vincoli obbligatori, in un senso molto
ampio e problematico rispetto al principio di legalità sancito dall’art. 23
Cost. (la cui estensione ai rapporti tra privati non sembra potersi disco-
noscere, in analogia a quanto, ad esempio, si è riconosciuto con riguardo
all’art. 32).
La generalizzazione di ragionamenti che si appoggiano sull’affermazio-
ne della buona fede-correttezza come principio generale potrebbe dunque
consentire la costruzione di obbligazioni e inadempimenti, e dunque di
responsabilità contrattuale con tutta una serie di pratiche conseguenze di
disciplina, laddove solitamente si ravvisano condotte che cagionano danni
ingiusti, ascrivendosi quindi all’area della responsabilità contrattuale vasti
settori della responsabilità civile, col rischio che la prima finisca col fago-
citare la seconda.
E può al riguardo già segnalarsi qualche specifico segnale di pericolo.
Pur nel contesto della decisione di un caso riconducibile all’àmbito di rap-
porti derivanti da «contatto sociale qualificato», e pur con affermazione
esorbitante la ratio decidendi, nell’enunciazione peraltro del principio al
quale il giudice di rinvio avrebbe dovuto conformarsi, la Cassazione33 ha,
in senso ampio e generale, affermato: «L’obbligo di buona fede oggettiva
o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale, trova applica-
zione anche in tema di responsabilità extracontrattuale, essendo pertanto
ciascun soggetto tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un
comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso
nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui – nei limiti dell’apprezza-
bile sacrificio –, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità
in ordine a falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi».
Non è difficile immaginare, che, alla stregua di tale massima, possa veri-
ficarsi un’espansione casistica dell’affermazione di responsabilità per con-
dotte omissive, oltre gli àmbiti riconducibili a «contatti sociali qualificati»;
mentre risulta oscuro il componimento sistematico che verrebbe a stabilirsi

  Sentenza 27 agosto 2014, n. 18304.


33
62 Andrea D’Angelo

tra responsabilità extracontrattuale e contrattuale (forse un nuovo spazio


per il cosiddetto cumulo?).
10.  Il sindacato giudiziario e le critiche dottrinali
Un ulteriore fronte, assai critico, che si apre su prospettive di più pene-
tranti applicazioni dei princìpi di buona fede e del divieto di abuso concer-
ne l’eventualità di un sindacato giudiziario sulla conformità a buona fede
dello stesso equilibrio economico e normativo stabilito dai contraenti, che
possa risolversi anche in un giudizio circa la stessa validità del contratto o
di suoi contenuti (anche al di fuori di rimedi legali tipici, quali quelli stabi-
liti dalla normativa sui contratti dei consumatori o quello della nullità per
abuso di dipendenza economica nei contratti tra imprese, prevista dall’art.
9 c. 3 della l. 18 giugno 1998, n. 192).
Tale eventualità sembra poter essere propiziata dai seguenti diversi in-
dici: il riconoscimento dell’inderogabilità della regola di buona fede34; la
massima tralatizia della Cassazione secondo la quale la buona fede opera
anche al di là «e contro» le pattuizioni contrattuali; le ricorrenti afferma-
zioni della Corte circa la funzione della clausola generale, non solo integra-
tiva, ma anche «modificativa» del contratto35; la giurisprudenza sull’abuso
in materia fiscale che sanzione l’abuso (non propriamente del diritto ma)
dell’autonomia privata, secondo una visione che, trasposta sul terreno ci-
vilistico, nei rapporti tra contraenti, potrebbe implicare un controllo in
termini di validità (mentre in àmbito tributario comporta soltanto la sogge-
zione dell’operazione a conseguenze fiscali che la configurazione negoziale
abusiva non vale a evitare).
La Corte di Cassazione, nonostante le ricordate enunciazioni e inter-
venti, pur penetranti, sul rapporto contrattuale in attuazione della buona

34
  Ma nel senso che solo sia «inammissibile una deroga generalizzata e in bianco», mentre
sarebbe «ammissibile derogare, in modo individualizzato, alle singole applicazioni concrete (che
hanno per ciò valore suppletivo)» v. V. Roppo, Il contratto2, in Trattato di diritto privato, a cura
di G. Iudica e P. Zatti, Milano 2011, p. 467; cfr. And. D’Angelo, La buona fede, cit., pp. 231 s.,
nel senso che «sarebbe nulla la pattuizione che disponesse la non applicabilità al rapporto della
clausola generale», mentre deve negarsi «l’appartenenza all’ordine pubblico degli stessi contenuti
attribuibili, di volta in volta ed in concreto, alla buona fede», e ivi ulteriori richiami.
35
  V., tra le più recenti, con frequente riferimento all’esigenza di assicurare il «giusto equi-
librio degli opposti interessi»: Cass. 5 marzo 2009, n. 5348; Cass. 18 settembre 2009, n. 20106;
Cass. 10 novembre 2010, n. 22819 – che, in un obiter, giunge ad affermare che il controllo del
giudice alla stregua del «criterio» di buona fede opererebbe «in senso modificativo o integrativo
(e dunque manipolativo)» –; Cass. 21 giugno 2011, n. 13583; Cass. 31 maggio 2012, n. 8779; Cass.
7 agosto 2012, n. 14180; Cass. 15 ottobre 2012, n. 17642 (che anch’essa qualifica come «manipo-
lativo» l’intervento che il giudice potrebbe, alla stregua della buona fede, esercitare sullo statuto
negoziale); Cass. 14 maggio 2014, n. 10428; Cass. 30 settembre 2014, n. 20639.
Rapporti tra buona fede e abuso del diritto 63

fede36, continua a essere aliena dall’ammettere un controllo giudiziale, alla


stregua della stessa, della validità del contratto37, e larga parte della dottrina
fa ancora argine rispetto all’eventualità di una tale deriva38.
È evidente la gravità delle conseguenze che deriverebbero dall’even-
tuale affermarsi di un diverso orientamento. La difficoltà di formulare
attendibili previsioni circa l’esito di un giudizio sulla conformità a buona
fede del convenuto equilibrio contrattuale, e sulla conseguente eventua-
lità di una dichiarazione di nullità del contratto o di sue clausole, non
potrebbe non avere effetti sconcertanti sugli operatori economici. E non
sembra azzardato prevedere che, per i contratti di maggiore rilevanza
economica, potrebbe verificarsi una fuga dal diritto e dalla giurisdizione

36
  La stessa Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, che è stata considerata, e criticata, come il
punto più avanzato di un intervento giudiziale sul contratto in applicazione della buona fede, ha
mostrato attenzione nel circoscrivere il sindacato alle modalità e tempi dell’esercizio del diritto
di recesso, senza porre in questione la validità della clausola che stabiliva il diritto; così come le
decisioni citate nella precedente nota 35 non giungono a dichiarare la nullità di patti contrattuali.
37
  Cass. Sez. Un. 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725, pur riconoscendo una «tendenza»
di leggi speciali a «sbiadire» la distinzione tra norme di comportamento e norme di validità,
mostra di escludere che si sia verificato lo «sradicamento» di tale distinzione dal codice civile,
raccomandando «cautela nel dedurre da singole norme settoriali l’esistenza di nuovi principi»;
e Cass. 29 settembre 2005, n. 19024 esclude che la violazione di norme imperative nella fase di
trattativa e di formazione del contratto, che pur abbia determinato la pattuizione di condizioni
contrattuali svantaggiose per un contraente, possa comportare, in mancanza di espressa previ-
sione legislativa, l’invalidità del contratto, essendo invece esperibile il rimedio risarcitorio. Sulla
«comunicazione», in questo stesso senso, «tra buona fede precontrattuale e contrattuale», v. And.
D’Angelo, op. ult. cit., pp. 313 ss. L’originario squilibrio contrattuale economico-normativo non
è casuale, ma è solitamente il frutto di comportamenti precontrattuali e formativi di una parte
in pregiudizio dell’altra, e, in tal senso, rileva come lesione della cosiddetta procedural justice (v.
al riguardo And. D’Angelo, op. ult. cit., pp. 160-186 e F. Piraino, op. cit., p. 504 ss., ai quali
si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche), talché, nella prospettiva della decisione testé
citata, non ne risulta la contrarietà a norme imperative di elementi intrinseci al contratto che ne
possano inficiare la nullità, ma la contrarietà a esse di condotte precontrattuali e formative, con
rimedi differenti da quello dell’invalidità.
38
  V., tra i tanti, L. Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa e tit.
cred.1997, p. 9 («In nessun caso, comunque, secondo la dogmatica del nostro codice, la viola-
zione del dovere di buona fede è causa di invalidità del contratto»); A. Gentili, op. cit., pp. 407
ss.; V. Roppo, op. cit., p. 466 s., che pur vede la tesi contraria «farsi spazio nella legislazione e
nella giurisprudenza più recenti»; F. Benatti, La buona fede nelle obbligazioni e nei contratti,
in AA.VV. Atti del seminario sulla problematica contrattuale in Diritto romano, Milano, 1988,
p. 297 («la buona fede non è mai norma che dispone dell’invalidità del negozio»); G. D’Amico,
La responsabilità precontrattuale, in Trattato del contratto diretto da V. Roppo, vol. V, t. 2,
Milano, 2006, p. 1003; And. D’Angelo, op. ult. cit., pp. 230-263; e, pur nell’àmbito di visioni
molto aperte alla valorizzazione del ruolo del giudice nella risoluzione di controversie in attua-
zione della buona fede, v. M. Grondona, Diritto dispositivo contrattuale, Torino, 2011, p. 413
e F. Piraino, op. cit., spec. p. 538, e v. ivi, pp. 504 ss. e 525 ss., ampi richiami della dottrina che
esclude un controllo di validità per violazione della regola di buona fede.
64 Andrea D’Angelo

italiani: i contraenti potrebbero, infatti, essere indotti ad avvalersi del-


le facoltà di scelta del diritto applicabile, consentita in termini assai lati
dal Regolamento CE n. 593/2008 (Roma I), e della giurisdizione, scelta
anch’essa ammessa, pur limitatamente a fori di stati dell’Unione, dal Re-
golamento UE n. 1215/2012.
Mario Mistretta
L’abuso nel settore dei diritti reali

Sommario:  1. Le ragioni storiche alla base dell’esclusione di una prescrizione generale


sull’abuso del diritto. – 2. L’art. 833 cod. civ.: il tentativo di trarre da questa norma
l’esistenza di un principio generale e le contraddizioni della interpretazione dominan-
te. – 3. Inestensibilità del divieto agli atti del proprietario suscettibili di apprezzamento
economico.

1.  Le ragioni storiche alla base dell’esclusione di una prescrizione


generale sull’abuso del diritto
L’introduzione nel sistema giuridico di una norma, che rendesse gene-
rale la prescrittività del principio dell’abuso del diritto, era contenuta sia
progetto del Codice italo-francese che nel progetto definitivo del codice
civile del 1942. (Art. 7: Nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto
con lo scopone cui il diritto medesimo gli è stato riconosciuto).
Il legislatore non ha accolto le indicazioni dei progetti sopra citati, ma
da tale mancata menzione non è tuttavia desumibile l’assenza nel nostro
sistema del generale principio dell’abuso del diritto1.
Nell’ordinamento giuridico le previsioni di situazioni di conflitto, nelle
quali emergono profili di abuso di diritto, avvengono con due modalità:
in riferimento a casi specifici, e allora si configurano veri e propri limiti
all’esercizio del diritto; o attraverso l’utilizzo di clausole generali che si
riferiscono fanno a intere categorie di diritti soggettivi.
Appartengono alla seconda modalità le norme che impongono un certo
tipo di comportamento, in termini positivi o negativi, per es. il debitore e il
creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza, così l’art.
1175 c.c.; il proprietario non può compiere atti i quali non abbiano altro
scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri, art. 833 c.c. È ne-
cessario a tal punto prendere in considerazione la circostanza che accanto a
norme relative a settori specifici si debba configurare un principio generale
così da rendere sindacabile l’atto di esercizio di ogni diritto soggettivo in
base a determinati parametri.
La possibilità di ricostruire siffatto principio è stata offerta richiaman-

  Cfr. S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, p. 97.


1
66 Mario Mistretta

do gli artt. 833 e 1175 c.c., la cui portata coprirebbe l’area delle situazioni
giuridiche patrimoniali2.
Sicuramente la presenza di tali norme e altre simili nel diritto priva-
to potrebbe ritenersi sufficiente per sostenere che il nostro sistema abbia
preferito norme specifiche, con criteri di valutazione però differenti, a un
principio generale che avrebbe reso le prime in parte superflue. Sicuramen-
te ragioni storiche e soprattutto i diversi criteri offerti dalle varie norme
rendono complicata la ricostruzione teorica di una figura generale dell’abu-
so del diritto nel nostro ordinamento3.
Nell’ambito dei diritti reali il diritto di proprietà è quello che maggior-
mente si presta a verificare l’effettività del principio dell’abuso.
La relazione tra tale principio e il diritto di proprietà ha trovato un parti-
colare spazio di approfondimento nell’esperienza francese, costituendo uno
dei cardini degli ordinamenti che derivano dal Code Napoléon. Il principio
dell’abuso si pose a allo scopo di mitigare le conseguenze derivanti, da un
lato, quelle caratteristiche di assolutezza attribuite al diritto di proprietà, e
dall’altro per condiscendere «l’adeguamento di quanto definito come entità
astratta immutabile al volgere dei tempi e al mutare delle esigenze»4.
Con l’espressione «abuso del diritto» si fa comunemente riferimento
a quelle situazioni nella quali colui che ha potere di disporre di diritti o
interessi li utilizza in un modo non conforme a quanto disposto dalla legge.
Il richiamo classico è volto a quella fattispecie in cui il potere attribuito
a un soggetto, per interessi che non gli appartengono, è usato con lo scopo
di realizzare un proprio interesse o di altri, e in contrasto con l’interesse
di cui può di disporre5.

2
  Cfr. U. Natoli, «Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento
giuridico italiano», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, pp. 26 ss.).
3
  Così S. Patti, Il principio dell’abuso del diritto nell’ordinamento italiano, in Il Diritto,
Enc. Giur. del Sole 24 ore, vol. I, 2007, p. 5, «Della sua «effettività» si potrebbe comunque
dubitare anche per la prudenza, forse eccessiva, mostrata dalla giurisprudenza nell’utilizzare le
clausole generali previste nel Codice. Peraltro occorre segnalare che al tradizionale rifiuto della
giurisprudenza, (generalmente certificata dalla dottrina, cfr. S. Rodotà, op. cit., p. 129), hanno
fatto seguito alcune interessanti applicazioni in diversi settori del diritto civile e del diritto com-
merciale, accompagnate a volte dall’affermazione della configurabilità del principio in termini
generali». Si cfr., Trib. di Bologna, 5 novembre 1970, in Foro it., 1971, I, c. 1030; Cass. 30 giugno
1972, n. 1965, in Giur. it. , 1973, I, 1, c. 413; Trib. Milano 4 luglio 1975, ivi, 1975, I, 2, c. 833;
e soprattutto, Trib. Torino 13 giugno 1983, in Resp. civ. prev., 1983, pp. 815ss., con nota di A.
Gambaro; Cass. 23 luglio 1997, n. 6900; Cass. 14 novembre 1997, n. 11271.
4
  Si veda M. Conforti, «Ideologia e norma del diritto di proprietà, in Riv. dir. civ., 1984,
I, p. 309.
5
  Vedi E. Bassoli, in Proprietà e diritti reali, il sistema delle tutele, a cura di G. Cassano,
Cedam, Padova 2007, p. 280.
L’abuso nel settore dei diritti reali 67

Ma la prospettiva che offre maggiori spunti di riflessione è quella che


riguarda l’abuso di un diritto soggettivo vero e proprio, fattispecie formal-
mente assente nel nostro ordinamento e che consiste nell’atteggiamento di
colui che esercita un diritto riconosciutogli dalla legge, senza però ricavar-
ne un vantaggio con l’unico scopo di nuocere ad altri6.
Il termine scopo è stato tradizionalmente inteso in senso soggettivo,
cioè come animus nocendi, del proprietario, con onus probandi a carico del
terzo danneggiato e in generale se si considera che in genere è stata suf-
ficiente per il proprietario la dimostrazione di avere conseguito un’utilità
minima per salvare la legittimità dell’atto, si comprende agevolmente che
il valore pratico della norma è stato molto limitato7.
2.  L’art. 833 cod. civ.: il tentativo di trarre da questa norma l’esi-
stenza di un principio generale e le contraddizioni della interpretazione
dominante
Ritornando all’abuso del diritto di proprietà lo spunto di riflessione è dato
dalla possibile relazione con l’art. 833 c.c. sull’ aemulatio, attraverso la ricerca
di una base nella Costituzione con l’art. 42, secondo cui «la legge determina
i modi di godimento della proprietà allo scopo di assicurarne la funzione so-
ciale», e ciò al fine di consentirne un’estensione analogica dello stesso8.
Ma una considerazione attenta, se non vuole rischiare di essere sempli-
cistica e marginata alle situazioni di dispetti tra vicini, pone come prima
necessità di ben comprendere quanto possa considerarsi interno alla sfera
di un proprietario e quanto invece ne risulti esterno, distinzione resa pos-
sibile solo se i diritti proprietari sono chiaramente definiti in quanto solo
in tal caso si può parlare di esternalità9.

6
  Ibidem.
7
  Cfr. F. De Martino, «Della proprietà», in Commentario Scialoja e Branca, Bologna, 1976,
pp. 152 ss.
8
  Si cfr. la riflessione di S. Patti, cit., p. 6 e 7, «La normativa costituzionale che ha stabilito il
principio della funzione sociale della proprietà non ha ovviato del tutto alla situazione descritta. Se
infatti è certo che con essa contrastano i comportamenti del proprietario lesivi degli interessi della
collettività, sembra dubbio che la norma, per la sua stessa struttura e formulazione, possa essere
utilmente invocata quando risultano lesi gli interessi di un singolo. Ciò perché la determinazione
dell’utilità sociale comporta una complessa e delicata valutazione di ordine generale, che addirittu-
ra tenga conto dell’assetto del paese, pur quando si tratta di dettare una disciplina giuridica. Essa,
quindi, anche per i nessi che la legano a condizioni continuamente mutevoli, può essere compiuta
soltanto da chi, come il Legislatore, gode della più ampia possibilità di valutazione e di giudizio». E
sulla formula (scarsamente precisa) della funzione sociale anche per i suoi nessi con l’abuso del di-
ritto, v. S. Rodotà, «Note critiche in tema di proprietà», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, pp. 1268s.
9
  Cfr. Ugo Mattei, in Trattato di Diritto Civile, diretto da Rodolfo Sacco, Utet Torino
2004, pp. 261-262. Cfr. fra gli altri, C. Salvi, Abuso del diritto (diritto civile), in Enc. giur., I, 1988).
68 Mario Mistretta

È indubbio che la citata regola dovrebbe essere indispensabile per defini-


re «il contenuto del diritto di godere e, quindi, avrebbe dovuto rappresenta-
re un’occasione per gli operatori giuridici di mostrare l’efficacia innovativa
della disposizione costituzionale. In realtà è rimasta confinata al mondo dei
principi e delle idee: a differenza di quanto è avvenuto in altri Paesi, si può
dire che in Italia per molti anni la norma non sia stata applicata»10.
Ritornando alla necessaria distinzione di cui sopra, ossia distinguere
tra azioni che rientrano nella sfera proprietaria e azioni che non vi rien-
trano, vi sono diverse regole formali e informali prodotte dalla legge, dalla
consuetudine e dal mercato, che permettono di «verificare l’allocazione ex
ante di quelle poste che, nella dialettica tra proprietà e situazioni giuridiche
contrapposte, facciano presumere che certi comportamenti siano interni
alla sfera individuale. L’idiosincrasia proprietaria non è infatti garantita
come un bene in sé, ma, a sua volta, soltanto in funzione incentivante di
iniziative che si facciano carico dei propri costi sociali, in comparazione
con comportamenti ed iniziative contrapposte»11.
La riflessione sull’abuso di diritto può portare a buoni risultati solo
se si entra in un’ottica di considerazione della posizione del proprietario
non isolata ma all’interno di un mercato, in quanto protagonista di una
trattativa con altri soggetti potenziali valorizzatori delle medesime risorse.
Torna sicuramente utile richiamare l’esempio richiamato in dottrina12
del proprietario che devii a monte, senza apparente giustificazione a monte
e devia, senza un’apparente giustificazione, un flusso d’acqua che viene
imbottigliato dal proprietario a valle per immetterlo poi sul mercato. Ri-
flettendo su questa situazione nel caso in cui il comportamento del primo
proprietario fosse considerato abusivo, il proprietario a valle ne risultereb-
be arricchito a spese del primo in quanto otterremmo una situazione nella
quale egli immetterebbe nel processo produttivo una risorsa di cui non ha
sopportato il costo. Solo inquadrando tale comportamento in un’ottica
di strategia volta a vedersi riconosciuto come titolare di una delle risorse
utilizzate a valle possiamo considerare il comportamento «non abusivo»13.
Ci si chiede, quindi, quali possano essere quelle attività che non possono
mai essere considerate emulative e la dottrina migliore si limita a richiamare

10
  Così M. Martino, in, R. Sacco, Trattato di diritto privato, diretto da Pietro Rescigno,
Utet, Torino 2005, p. 265.
11
  Così U. Mattei, op. cit., p. 262.
12
  U. Mattei, op. cit., p. 261; P.G. Monateri, Abuso del diritto e simmetria della proprietà
(un saggio di Comparative Law and Economics ), in Diritto Privato III- L’abuso del diritto,
1997, 89.
13
  U. Mattei, op. cit., p. 262.
L’abuso nel settore dei diritti reali 69

le ipotesi espressamente previste dalla legge dove emerge in particolare l’in-


teresse del proprietario al mantenimento o alla realizzazione di una certa
situazione (il potere di costringere il vicino a rispettare le distanze legali,
di recingere il fondo ect.) lasciando così per le ipotesi non previste la que-
stione aperta. In tal modo il criterio per stabilire il contenuto «normale»
della proprietà viene preso a prestito dalla disciplina della concorrenza (art.
2595ss. c.c.). Rimane però il dubbio se il giudice possa decidere se l’atto
del proprietario sia o meno adeguato per soddisfare esigenze così generali
e se il limite della tutela antidelittuale valga solo per il proprietario vicino
o anche per qualunque terzo. È chiaro che se la disciplina degli artt.2043ss
c.c. è ritenuta applicabile solo nell’ipotesi di interferenze tra proprietari
vicini si può dire che la materia è affidata a criteri molto differenti da quelli
volti alla tutela dell’interesse all’integrità patrimoniale (la diversità di criteri
è giustificata dal fatto che si contempera degli interessi opposti che sono
tutti protetti da diritti soggettivi di proprietà)14.
Diversamente se la disciplina vale verso chiunque il ricorso agli art.
2043 e ss. non è necessario a individuare il contenuto «normale» della
proprietà: si può contestare la legittimità sia accogliendo la tesi secondo la
quale l’esercizio del diritto non comporta responsabilità per l’agente sia in
quanto l’art. 2043 c.c. non costituisce un limite in senso proprio all’eser-
cizio del diritto soggettivo perché l’effetto che produce è quello di agire
senza arrecare danno.
Se l’art. 833 si considera espressione di un principio generale dell’ordi-
namento allora vi è la difficoltà di chiarire come lo stesso atto che è tute-
lato in quanto esercizio del diritto, sia contemporaneamente antigiuridico
e vietato proprio perché non conforme alla funzione del diritto15.
È indubbio che sia l’esigenza di giustizia sociale a far ritenere che og-
getto del divieto dell’art. 833 c.c. siano quei comportamenti contrari a una
regola di condotta ( rimane indubbio che qualche perplessità viene solle-
vata quando si configura il dovere di comportarsi secondo buona fede nel
contenuto del diritto «di godere e di disporre in modo pieno ed esclusivo,
mentre sembra dubbio che l’art. 833 c.c. contenga una valutazione di me-
rito simile a quella della disciplina sulle immissioni delle acque private, del
condominio negli edifici, etc. situazione dove si può chiaramente vedere
una regolamentazione di interessi visti nella situazione di concorrenza in
cui si trovano)16.

14
  Così Scognamiglio, voce «Illecito», in Noviss. Dig. it., VIII, Torino, 1962, p. 164.
15
  Vedi M. Costantino, op. cit., p. 267.
16
  Vedi Pardolesi, Azione reale e azione di danni nell’art. 844 c.c. – Logica economica e
70 Mario Mistretta

Osservando che il problema dell’abuso del diritto si riferisce principal-


mente alla «comparazione di interessi che siano in conflitto nello svolgi-
mento di un particolare rapporto o che siano in conflitto nella posizione
di regolamento di interessi»17, ciò porterebbe ad escludere la legittimità
di ricorrere al principio generale di comportarsi secondo buona fede per
spiegare il divieto degli atti emulativi: non è possibile configurare un rap-
porto fra il proprietario e tutti i terzi, almeno nel senso in cui tale espres-
sione si usa e contratto e nell’obbligazione. Il risultato è che il significato
così generale che assume la formula «abuso del diritto» fa sì che la regola
di condotta a cui deve attenersi il proprietario coincida con la regola di
comportamento a cui è tenuto qualunque altro soggetto che si trovi nel
godimento del bene18.
3.  Inestensibilità del divieto agli atti del proprietario suscettibili di
apprezzamento economico
Alla luce dei vari indirizzi richiamati rimane la comune convinzione che
lo scopo dell’atto emulativo deve essere di «nuocere o recare molestia ad
altri» e quindi il divieto non colpirebbe atti suscettibili di apprezzamento
economico.
In tale situazione il significato della norma viene ridotto a ipotesi re-
siduali in quanto si suppone che per ogni attività economicamente van-
taggiosa per il proprietario (intesa come realizzazione di un determinato
interesse sfruttare una cosa) non si deve applicare l’art. 833 c.c19, ricono-
scendo che all’occasione varranno nome che regolano i conflitti causati da
interferenze di attività giustificati da scopi legittimi20.
Per evidenziare i difetti di tale impostazione basta soffermarci sul fatto
che contrario all’ordinamento è l’atto emulativo di esercizio del diritto di
proprietà, non l’atto vietato: il divieto è l’effetto che la legge commina per
gli atti di esercizio che siano emulativi. Si rende necessario così verificare

logica giuridica nella composizione del conflitto tra usi incompatibili delle proprietà vicine, nota
a Cass., 18-2.1977, n. 740, in Foro it. 1977, I, 1144.
17
  Così Rescigno, l’abuso del diritto, op. cit., p. 232.
18
  Così Cass., 21-10-1974, n. 2983, in Giust. civ. , 1975, I, p. 450.
19
  Fra le tante Cass., 8-11.1977, n. 4777, in Rep. Foro it., 1977, voce «Emulazione», n. 3, «La
configurabilità di un atto emulativo da parte del proprietario della cosa, ai sensi e ali effettivi
cui all’art. 833 c.c., postula che l’atto medesimo sia stato posto in essere al solo fine di arrecare
nocumento o molestia altri, e, quindi, senza nessun vantaggio per il suo autore; ne consegue che
l’azione proposta dal proprietario di un immobile, allo scopo di opporsi a che una posizione del
bene venga da altri abusivamente utilizzata, non può costituire atto emulativo, quali che siano
le sue finalità, in quanto si ricollega comunque anche ad un vantaggio di quel proprietario».
20
  Così M. Costantino, op. cit., p. 269.
L’abuso nel settore dei diritti reali 71

quali siano gli atti di esercizio della proprietà contrari all’ordinamento o


che ne possano essere tali. È qui che la dottrina dell’abuso manifesta le sue
incertezze: ora ponendo l’accento sull’elemento soggettivo, poi proponen-
do l’art. 833 c.c. con ipotesi propriamente scolastiche, e come tali spesso
non realizzabili concretamente, oppure ammettendo operanti i principi
generali. È evidente che alla luce di quanto esposto lo scenario ci indirizza
verso l’affermazione che la norma resta assai equivoca e i dubbi nella sua
applicazione pratica risultano molteplici. La matassa di perplessità verrebbe
dipanata configurando l’interesse del proprietario come interesse di na-
tura patrimoniale con riferimento, però, al bene e non all’autonomia del
soggetto titolare del diritto sullo stesso e da ciò si potrebbe sostenere che
non è vero che ogni atto del proprietario costituisce esercizio del diritto,
(dottrina dell’abuso), ma lo sono soltanto quegli atti suscettibili di valuta-
zione economica che siano altrettanto leciti in relazione alla qualificazione
giuridica del bene21.
Rimane, comunque, la difficoltà di una concreta applicazione di quanto
detto dovuta principalmente alla preferenza accordata all’interesse di chi ha
il potere rispetto all’interesse di chi agisce per far accertare giudizialmente
che quel comportamento (modalità di esercizio del potere) è stata utilizzata
con l’unico scopo di nuocere o recare molestia ad altri22.

21
  Ibidem, «La norma risulterebbe così giustificata dall’esigenza molto concreta di stabilire
più equi rapporti sociali e il vero problema risulterebbe quello di individuare i soggetti legittimati
ad avvalersene».
22
  Così M. Costantino, «Rapporti privati e tutela civile in tema di esercizio dello «ius ae­
dificandi», in Studi in onore di L. Coviello, Napoli, 1978, p. 161ss.
72 Mario Mistretta
Alberto Maria Benedetti
L’abuso dei (e nei) rimedi contrattuali

Sommario:  1. L’abuso del recesso. – 2. Dopo il 2009: l’abuso dei rimedi. – 3. Spunti
conclusivi.

1.  L’abuso del recesso


L’esplosione dell’abuso del diritto sul versante del contratto – e, in par-
ticolare, proprio su quello dei rimedi – può essere datata con precisione:
l’anno cruciale, l’inizio di tutto, è stato il 2009.
Con la notissima Cassazione, 18.9.2009, n. 20106, l’abuso del diritto ha
fatto il suo ingresso ufficiale nel diritto vivente dei contratti (anche se, negli
anni immediatamente precedenti, non erano mancate decisioni, per quanto
più settoriali, che avevano già iniziato a farne applicazione) scatenando al
contempo un dibattito dottrinale – e di voci autorevoli1 – cui non si assiste-
va da tempo: il risultato, è bene anticiparlo fin da ora, è che oggi, non senza
resistenze, l’abuso del diritto è entrato a far parte dell’armamentario con-
cettuale dei civilisti ed è divenuto, a tutti gli effetti, un principio generale
del diritto dei contratti, con rilevanti ricadute di carattere pratico. I giudici
lo usano per decidere le controversie; i giuristi ne discutono animatamente.
È, insomma, diritto vivente a pieno titolo.
Il caso che ha dato spunto alla decisione della Cassazione del 2009 va
brevemente ripercorso: un noto produttore di automobili si avvale del
diritto di recedere ad nutum dai contratti di concessione di vendita in
corso con un certo numero di concessionari. I concessionari contestano

1
  Con molta approssimazione, indico qui alcune letture che non possono essere omesse se si
vuole comprendere il dibattito scaturito attorno all’abuso del diritto, con particolare riferimento
al diritto dei contratti: S. Pagliantini, Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino, 2012;
M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teolologicamente
orientata del traffico giuridico, in Riv. dir. civ., 2014, II, p. 467 ss.; A. Gentili, Abuso del diritto
e uso dell’argomentazione, in Resp. civ. e previd., 2010, p. 354 ss.; F. Galgano, Qui suo iure
abititur neminem laedit?, in Contr. impr., 2011, p. 311 ss.; G. D’Amico, Recesso ad nutum, buo­
na fede e abuso del diritto, in Contratti, 2010, p. 11; C. Scognamiglio, L’abuso del diritto, in
Contratti, 2012, p. 5 ss.; A. Cataudella, L’uso abusivo dei principi, in Riv. dir. civ., 2014, I, p.
747 ss.; C. Salvi, Note critiche in tema di abuso del diritto e di poteri del giudice, in Riv. crit. dir.
priv., 2014, p. 27 ss.; F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, in Europa dir. priv., 2013, p. 75 ss.
74 Alberto Maria Benedetti

la legittimità dell’esercizio di questo diritto, ma perdono, sia in primo che


in secondo grado, essenzialmente perché, a quanto è dato sapere, i giudici
– Tribunale prima e Corte di Appello poi – negano che sia possibile con-
trollare causalmente l’esercizio di un recesso, appunto, ad nutum, come
tale insindacabile da parte di chi ne subisce l’effetto.
Il recesso o è ad nutum, dunque incontrollabile, o non è.
Il giudizio di legittimità – e qui non si può non ricordare il Maestro
Francesco Galgano che assunse la difesa dei concessionari e discusse da-
vanti alla Cassazione – sovverte i giudizi di merito, sulla base di un ragio-
namento che, in estrema sintesi, può essere così ripercorso:
a.  l’obbligo di buona fede pervade ogni momento della contrattazione,
dalla sua nascita alla sua esecuzione;
b.  esso trova fondamento nell’obbligo generale di solidarietà di cui
all’art. 2 Cost. e, scrivono i giudici, impone a ciascuna delle parti del rap-
porto obbligatorio «il dovere di agire in modo da preservare gli interessi
dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di
quanto espressamente stabilito da norme di legge»; o, ancora, la buona fede
«serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della
proporzione»;
c.  l’abuso del diritto è un criterio rivelatore della violazione dell’ob-
bligo di buona fede; esso implica che esista un diritto soggettivo in capo
a un soggetto, che questo diritto possa essere esercitato secondo plurime
modalità, che in concreto esso sia stato esercitato con modalità censurabili
e che dette modalità di esercizio cagionino una sproporzione ingiustificata
tra il beneficio del titolare e il sacrificio di controparte.

Con queste tre premesse, la conclusione è inevitabile: l’atto di recesso


può e deve essere sindacato alla luce del principio di buona fede, al fine
di evitare lo sconfinamento in arbitrio di un legittimo potere contrattuale;
se il controllo – che è causale perché deve passare anche attraverso l’inter-
pretazione delle clausole contrattuali che disciplinano il recesso – ha esito
negativo – riscontrandosi un abuso del diritto di recesso – inevitabile la
conseguenza: il risarcimento del danno subito dalla parte vittima dell’abuso.
Chiarì bene Franco Galgano che il principio di diritto così posto, per
essere rettamente compreso, andava calato in un caso le cui caratteristiche
erano tali da porre nei giudici (almeno in quelli di legittimità) il sospetto
che la casa produttrice di automobili avesse esercitato quel recesso per sco-
pi ben diversi da quelli dichiarati; e, cioè, non per ristrutturare la propria
catena distributiva, bensì per ridurre le spese del personale senza patirne
i relativi oneri, usando il recesso come leva scardinare una rete probabil-
mente non più adatta al volume delle vendite.
L’abuso dei (e nei) rimedi contrattuali 75

È probabile che questi elementi della fattispecie abbiano rafforzato nei


giudici l’idea che l’approccio al caso dei giudici di merito fosse stato trop-
po sbrigativo o, comunque, avesse determinato una soluzione iniqua; per
correggere questa soluzione, però, i giudici di legittimità hanno ritenuto di
dover procedere a una risistemazione, o forse sarebbe meglio dire puntua-
lizzazione, dei principi generali, per porre una solida premessa di un giu-
dizio di rinvio che potesse pervenire a una diversa soluzione (favorevole,
ovviamente, a chi il recesso abusivo aveva subito).
Probabile anche che la diversa posizione delle parti (fortissima quella
del produttore, debolissima quella dei concessionari) abbia indotto i giudici
di legittimità a ritenere iniqua una soluzione, quale quella cui giunsero i
giudici di merito, così ferocemente contraria alle ragioni delle parti deboli
(ma qui, naturalmente, doveva entrare in gioco il diritto asimmetrico, e,
perché no, l’art. 9 della legge sulla subfornitura).
La reazione della dottrina a questa decisione della Cassazione – che,
in estrema sintesi, ha sostanzialmente «codificato» il principio dell’abuso
del diritto in ambito contrattuale – è stata per certi aspetti ferocemente
contraria; volendo riassumere, senz’altro peccando per troppa approssima-
zione, gli argomenti contrari sono stati sostanzialmente due: i) la teorica
dell’abuso del diritto, se applicata al contratto, sembra una sorta di doppio-
ne della buona fede, nel senso che non è chiaro come possa realisticamente
distinguersi – e nella stessa decisione della Cassazione questa commistione
viene fuori, senza però essere sciolta – tra violazione dell’obbligo di buona
fede (in particolare, nell’esecuzione del contratto) e abuso del diritto; ii)
che rimane dell’autonomia privata, della libertà contrattuale, se si ammette
un controllo causale sull’esercizio di poteri contrattuali – qual è, appun-
to, il recesso – che appaiono e effettivamente sono concepiti come slegati
dal programma contrattuale (e dalla sua causa), rispondendo piuttosto alla
necessità di una delle parti di uscire discrezionalmente – o al limite in pre-
senza di determinati presupposti – dal rapporto negoziale?
Questi due argomenti sollevano poi un timore di carattere più generale:
a seguire l’approccio dei giudici di legittimità, sembra che le parti siano
gravate di una sorta di dovere di costruire un contratto equilibrato, dunque
conforme a buona fede; se non lo fanno, ci penserà il giudice a riscriverlo
(questa preoccupazione emerge in particolare negli scritti di Aurelio Gen-
tili, vedi nota 1). Sì perché, si osserva, il punto vero non è come è stato
esercitato il recesso (ad nutum), ma è il fatto stesso che nel contratto fosse
previsto un recesso di tal fatta, come tale necessariamente squilibrato a
favore della parte che lo può esercitare.
Si tratta di obiezioni non prive di fascino, soprattutto nella parte in cui
fanno appello alla salvezza del contratto così come è stato storicamente
76 Alberto Maria Benedetti

concepito, qui davvero a rischio «morte»; affidare ai giudici la sostanziale


riscrittura dei contratti – con la penna della buona fede- rischia di tradire
lo scopo per il quale questo strumento, prima economico che giuridico, ha
avuto e ha così grande successo, proprio perché espressione di una libertà,
quella economica, di cui non si possono dimenticare le basi costituzionali
(art. 41, 1° comma, Cost.).
Galgano liquidò queste obiezioni, apostrofandole come «sterili bizan-
tinismi» di una categoria di giuristi che stenta a comprendere il nuovo; è
vero, d’altra parte e come notava il Maestro, che la Carta di Nizza del 2000
reca una disposizione, l’art. 54, proprio dedicata al «divieto di abuso del
diritto» e che, dunque, questo principio difficilmente può essere messo in
discussione. È anche vero, però, che la formulazione di quella disposizio-
ne2 lascia ancora qualche dubbio sul suo effettivo ambito di applicazione e
anche sulle caratteristiche, perfino teleologiche, che l’abuso del diritto deve
avere per essere effettivamente tale.
Se vogliamo salvare l’idea classica di contratto, quella della parte gene-
rale, bisognerebbe combattere con ogni arma contro la teorica dell’abuso
del diritto: ma ha senso farlo ora? Questa battaglia, forse per certi aspetti
anche giusta, andava condotta prima, tre o quattro decenni fa, quando si
tolse la buona fede dall’armadio impolverato in cui era stata rinchiusa per
decenni; è la (grande e viva) stagione delle clausole generali, di cui Giovan-
na Visintini è stata animatrice, ad aver dato avvio a quel processo culturale
che, oggi, trova compimento «perfetto» nell’abuso del diritto così come
configurato dalla Cassazione nel 2009.
Una battaglia pervicacemente contraria a esso avrebbe un buon sapore
rétro ma fallirà, come sempre accade a chiunque voglia riportare indietro
l’orologio della storia.
Possiamo, dunque, ritenere acquisito il principio, connesso e in un certo
senso derivato da quello della buona fede e fondato nell’obbligo di soli-
darietà costituzionalmente previsto, che l’esercizio dei diritti o dei poteri
contrattuali non può sconfinare nell’abuso, pena o l’irrilevanza-ineffica-
cia dell’esercizio del diritto stesso o il risarcimento del danno cagionato
alla parte vittima dell’abuso (o, soluzione che troverei tecnicamente più
pregevole, l’inefficacia dell’atto di esercizio del potere contrattuale frutto
dell’abuso stesso).

2
  Art. 54 Carta di Nizza: «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpre-
tata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla
distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e
libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta».
L’abuso dei (e nei) rimedi contrattuali 77

Se questo principio esiste – e io penso di sì – bisogna tuttavia capirne


le implicazioni nel settore di cui io devo occuparmi, quello dei rimedi
contrattuali. Un settore che, oggi, è caratterizzato da un alto tasso di com-
plessità, soprattutto se si riflette sulla varietà dei rimedi che contraddistin-
guono il diritto dei contratti asimmetrici o squilibrati, rispetto ai quali, mi
pare, la declinazione del principio che la Cassazione ha fatto nel 2009 non
sembra adattarsi, o almeno non senza incontrare problemi che non mi pare
possano essere elusi.
2.  Dopo il 2009: l’abuso dei rimedi
Se guardiamo al dopo 2009 – limitandoci a osservare il settore dei rimedi
contrattuali di diritto comune – troviamo una casistica di sicuro interesse.
Nel 2010 la Cassazione si pronuncia (31.5.2010, n. 132083) su un abuso
del rimedio risolutorio: nel caso, un locatore aveva chiesto la risoluzione
del contratto di locazione per morosità del conduttore; il conduttore resi-
steva invocando in compensazione un proprio credito nei confronti del lo-
catore. I giudici di merito risolvevano il contratto, respingendo l’eccezione
di compensazione (in secondo grado evidenziando che il credito opposto
in compensazione era oggetto di separato giudizio, ancora pendente).
Il conduttore invoca l’abuso del diritto: il locatore – il cui debito
verso il conduttore era di molto superiore al credito per canoni – avreb-
be indotto l’inadempimento del conduttore, per poi poter così chiedere
la risoluzione del contratto (o, comunque, avrebbe potuto evitare l’ina-
dempimento portando in compensazione credito/debito verso il con-
duttore).
La Cassazione, richiamando proprio la decisione del 2009, evidenzia
che l’obbligo di buona fede comporta «il dovere di agire, anche nella fase
della patologia del rapporto, in modo da preservare, per quanto possibile, gli
interessi della controparte, e, quindi, primo da tutti, l’interesse alla conser­
vazione del vincolo». E qui viene in gioco l’abuso del diritto, sotto specie
di abuso del diritto di chiedere la risoluzione del contratto: «l’apprezza­
mento della slealtà del comportamento della parte che invochi la risoluzione
del contratto per inadempimento pur avendo altre vie per tutelare i propri
interessi, non può non ripercuotersi sulla valutazione della gravità dell’ina­
dempimento stesso, che dell’abuso del creditore della prestazione costituisce
l’interfaccia».
In breve, se il locatore avesse imputato al credito insoddisfatto il debito

3
  Cass., 31 maggio 2010, n. 13208, in Giur. it., 2011, I, 794, con nota di P. Rescigno, Un
nuovo caso di abuso del diritto.
78 Alberto Maria Benedetti

verso il conduttore, la risoluzione si sarebbe potuta evitare; e questa circo-


stanza deve indurre, secondo la Cassazione, a valutare come non sufficien-
temente grave l’inadempimento del conduttore, dovendosi così respingere
la domanda (abusiva) di risoluzione del contratto.
I rimedi distruttivi, in quest’ottica, sono da considerarsi una extrema
ratio; chi li usa, pur avendo avuto altre possibilità per porre riparo all’ina-
dempimento di controparte, rischia di porre in essere un comportamento
abusivo/lesivo della buona fede da cui può discendere la reiezione della
domanda di risoluzione.
Questo può valere, naturalmente, anche per la risoluzione di diritto
e i relativi strumenti; per esempio, se un creditore comunica al debitore
di avvalersi della clausola risolutiva prima che sia scaduto il termine per
adempiere o quando lo stesso debitore ha dichiarato di voler adempiere
sicuramente abusa del suo diritto, perché mira a distruggere un vincolo
che può essere comodamente salvato4; stesso discorso per chi diffidi ad
adempiere prima della scadenza del termine per adempiere o chi rinunzi
al termine essenziale molto tempo dopo la sua scadenza, quando il desti-
natario non poteva più ragionevolmente ritenere sussistente l’interesse del
creditore alla prestazione5.
O, ancora, l’eccezione di inadempimento – rimedio non distruttivo
espressamente soggetto al limite della buona fede in forza dell’art. 1460,
2° comma, c.c. – può essere lo strumento di un abuso del diritto (quello
di opporre l’eccezione stessa) ogniqualvolta esistano elementi di fatto tali
da dimostrare che l’eccipiente ha utilizzato il rimedio per scopi diversi da
quelli per cui è predisposto, e con il precipuo effetto di ledere l’altrui inte-
resse (e qui è davvero arduo distinguere tra quel giudizio comparativo tra
inadempimento richiesta dall’art. 1460, 2° comma, c.c. e i parametri propri
dell’abuso del diritto).
Ancora in tema di recesso, invece, va segnalata una pronunzia che non
ritiene sussistente l’abuso (Cass. Civ., 7.5.2013, n. 10568): se chi recede lo
fa senza fini diversi o ulteriori (o, comunque, questi non sono dedotti in
giudizio) e senza modalità non necessarie o irrispettose del dovere di buona
fede, il fatto che il recesso sia immotivato, cioè che non siano ravvisabili
oggettive giustificazioni di esso, non costituisce abuso del diritto.
Le vie dell’abuso, insomma, sono potenzialmente infinite.

4
  Da rileggere in questo senso un caso che precede di poco la decisione del 2009: Trib. Ber-
gamo, 7 luglio 2009, in Obbl. contr., 2009, p. 708.
5
  Spunti in tal senso in una nota a firma G.A. a Cass., 5 luglio 2013, n. 16880 (Giust. civ.,
2013, I, p. 2368).
L’abuso dei (e nei) rimedi contrattuali 79

Per esempio, l’abuso può avere come scopo proprio quello di sottrare
a controparte rimedi o utilità che potrebbe conseguire attraverso un tipo
contrattuale diverso da quello utilizzato: è il caso, ad esempio, dell’abusiva
successione di contratti di lavoro a tempo determinato che dà luogo al di-
ritto del lavoratore al risarcimento del danno (ma non alla conversione del
contratto in uno a tempo indeterminato: Cass. Civ., 30.12.2014, n. 27481);
qui si configura una sorta di abuso di tipo contrattuale (con una vicinanza
alla frode alla legge difficilmente negabile) finalizzata proprio alla pena-
lizzazione della parte debole, che si vuole privata di vantaggi che avrebbe
potuto ottenere attraverso un più corretto tipo contrattuale.
O, ancora, l’abuso può concretizzarsi perfino in una cessione di azien-
da, quando essa avvenga nel corso di un processo in cui la cedente è già
stata condannato al pagamento di una somma a favore di un creditore: in
questo caso, l’identità della cessionaria (nuova società di compagine quasi
identica alla cedente), la prosecuzione da parte di quest’ultima dell’attività
della cedente, «appare operazione oggettivamente e sostanzialmente volta a
rendere concretamente inesigibile il credito di xx e ad eludere quindi le sue
ragioni creditorie»6. Insomma, abuso dell’autonomia privata nel senso più
ampio del termine, qui declinato nel senso di abuso a danno del creditore.
L’abuso del diritto, così come codificato di fatto dalla giurisprudenza
di legittimità e di merito sopra sintetizzate, fatica a trovare spazio nel di-
ritto dei consumatori, o, più in generale, nel diritto dei nuovi paradigmi
contrattuali asimmetrici.
In quest’ambito, intanto, esistono giù figure tipizzate di abusi che trova-
no un loro certo spazio applicativo (abuso di dipendenza economica, abuso
di posizione), che condividono con la figura generale di abuso del diritto
la derivazione dalla buona fede/correttezza costituzionalmente fondata, ma
che si differenziano per il contesto nel quale operano (che presuppone due
parti collocate su piani diversi, una forte l’altra debole) e per gli effetti che
determinano (in genere, il risarcimento del danno o la nullità della clausola
con la quale l’abuso viene conseguito e realizzato).
Qualche interrogativo.
Il consumatore che è titolare di un recesso di pentimento (nei casi in
cui la legge lo prevede) può abusare del suo diritto nonostante se ne voglia
garantire la totale arbitrarietà sganciandolo da oneri economici e obblighi
motivazionali?
La risposta, probabilmente, è sì, l’abuso del diritto può essere realiz-

6
  Così scrive, facendo applicazione della teorica dell’abuso del diritto, il Trib. Reggio Emilia,
16 giugno 2015, in Contratti, 2015, 969, con nota di Passarella.
80 Alberto Maria Benedetti

zato anche quando è la parte debole a cercare di lucrare utilità diverse


e ulteriori rispetto a quelle che il rimedio speciale voleva garantirle; ed
allora il consumatore che, durante la pendenza del termine per recedere,
usi il bene traendone utilità salvo poi restituirlo per l’avvenuto recesso
può essere chiamato a restituire l’arricchimento ottenuto dall’uso del bene
proprio perché, in definitiva, si è verificato un abuso del recesso di pen-
timento7.
Qui l’abuso può lambire anche il territorio della nullità di protezione.
Si è così deciso8 che se un contratto quadro è sottoscritto dal solo in-
vestitore (e non dall’intermediario) si determina una nullità relativa ex art.
23 t.u.f. che solo l’investitore può fare valere; se però quest’ultimo, azio-
nandola, chiede solo la restituzione degli investimenti risultati svantaggiosi
– e non di quelli risultati invece vantaggiosi per lui – incorre in un «abuso
del diritto alla domanda, che urta contro i principi del giusto processo e
delle correttezza e rende inammissibili tanto la domanda di nullità che la
conseguenziale domanda di restituzione diretta a selezionare solo alcuni
degli effetti suoi propri».
Dunque anche la nullità relativa – per quanto orientata a proteggere le
parti deboli – non può essere piegata per perseguire un vantaggio ingiusto
o, comunque, diverso da quello per il quale il legislatore l’ha concepita
e regolata; se così fosse, l’abuso che viene a determinarsi ne impedisce
senz’altro l’accoglimento.
3.  Spunti conclusivi
L’abuso del diritto è, nel contesto dei rimedi contrattuali e del contratto
in generale, un principio oramai giurisprudenzialmente codificato; le resi-
stenze della dottrina – come detto tardive – non sembrano tali da arrestare
questo fenomeno.
Rimangono punti non ancora chiari, che la stessa giurisprudenza non è
stata in grado di risolvere:
a.  quali sono davvero i rapporto tra abuso del diritto e buona fede?
b.  quali sono gli effetti dell’abuso, in termini di rimedi concessi alla
parte che lo ha subito (l’inefficacia del potere esercitato abusivamente, il
risarcimento del danno?)
c.  quali sono gli indici rivelatori dell’abuso e come possono essere giu-
dizialmente accertati?

7
  In questa prospettiva vedasi S. Pagliantini (a cura di), Abuso del diritto e buona fede nei
contratti, Torino, 2013, pp. 173-174.
8
  Trib. Torino, 7 marzo 2011, in www.ilcaso.it
L’abuso dei (e nei) rimedi contrattuali 81

La risposta a questi interrogativi potrà, anzi dovrà, contribuire a ridi-


segnare il contratto, che, mi pare non si possa più negare, diventerà una
sorta di contratto «amministrato», perché affidato, in buona sostanza, a
un pervasivo controllo giudiziale che ne rende e renderà certamente più
precaria l’esistenza. Si guadagnerà in termini di solidarietà; ma si perde-
rà in termini di certezza: il tempo dirà se questa metamorfosi sarà stata
buona o cattiva.
82 Alberto Maria Benedetti
Maria Vita De Giorgi
L’abuso del diritto nelle relazioni familiari

Sommario:  1. Sentimenti e fatti istituzionali. – 2. Abuso e illecito. – 3. Uso improprio


del matrimonio e abusi nella fase di separazione. – 4. «Familles, je vous hais!», com-
portamenti opportunistici di genitori (e figli). – 5. I riconoscimenti «di compiacenza»:
un recente florilegio giurisprudenziale. – 6. Abuso della responsabilità familiare. – 7.
«L’ambiguo statuto della corporeità».

1.  Sentimenti e fatti istituzionali


Non può esservi abuso là dove non c’è regola: come ho già avuto occa-
sione di ricordare: to live outside the law, you must be honest – per vivere
al di fuori della legge bisogna essere onesti1 – mentre la possibilità di abusi
è caratteristica dei comportamenti approvati dalle istituzioni giuridiche2.
Abuso del diritto lungi dall’essere ossimoro è dunque fenomeno, per così
dire, normale nel mondo dei precetti giuridici.
Né desta meraviglia che la formula, nel settore della famiglia, coinvolga
convinzioni, principi morali, consuetudini, sentimenti, anche inconsapevo-
li, sensibilità multiformi e non sempre condivise. La complessa, inestricabi-
le realtà, così ben evocata da Giovanna Visintini a proposito de «Il valore
della molteplicità nella lezione di Italo Calvino»3.
Esistono famiglie felici: queste – si somiglino o meno come declama il
troppo citato incipit di Tolstoj – vivono (felicemente appunto) negli spazi
sereni del non-diritto, praticando la regola giuridica solo di tanto in tanto,
quando non se ne può fare a meno4, ma tra le «mura domestiche, focola-
ri chiusi, porte serrate, geloso possesso»5, i sentimenti possono assumere

1
  Bob Dylan, Absolutely sweet Marie, nell’album discografico Blonde on Blonde, 1966, sul
cui testo, ampiamente, A. Carrera, in Giustizia e letteratura, I, a cura di G. Forti, C. Mazzu-
cato, A. Visconti, Milano, 2012, 436 s.
2
  J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale (The Construction of Social Reality, 1955),
cito dall’ed. it. Einaudi, 2006, p. 58 ss.
3
  G. Visintini, Il valore della molteplicità nelle lezioni di Calvino, in Studi in onore di
Giovanni Iudica, Milano, 2014, p. 1455 ss.
4
  J. Carbonnier, Flessibile diritto. Per una sociologia del diritto senza rigore, trad. it. di
Flexible droit. Pour une sociologie dudroit sans rigueur (Paris, 1969), a cura di A. De Vita,
Milano, 1997, p. 33.
5
  A. Gide, I nutrimenti terrestri, Torino, 1994, p. 59 (trad. it. de Les nourritures terrestres,
1897). Mi sono soffermata sull’ambigua etimologia della parola communitas – in cui alcuni in-
84 Maria Vita De Giorgi

sconcertante rilievo giuridico ed essere squadernati al vaglio del giudice.


È il caso della riconciliazione (art. 154 c.c.) che comporta «l’abbandono
della domanda di separazione personale già proposta» per cui è necessario,
addirittura, il perdono, o allo scrutinio del comportamento del coniuge pur
non banalmente fedifrago, ma distratto e assente, che sacrifica le esigenze
affettive dell’altro/a, legittimando l’addebito.
In questo settore più che in altri, perciò, «abuso del diritto» è formula
(sia pure nella sua vaghezza) di immediata e comune comprensione per
sottolineare come un determinato atto o comportamento opportunistico
«di chi … agisce pensando esclusivamente al proprio tornaconto» (Tullio De
Mauro) acquisti un rilievo inaspettato, che il legislatore non aveva previsto
ovvero aveva sottovalutato.
Si tratta, certo di una «formula magica» nel nostro universo di parole, cui
ognuno attribuisce un proprio valore semantico, in un groviglio di teorie
vetuste o «postmoderne»6, di cui la scrivente non intende, né saprebbe, for-
mulare una ricostruzione critica7, nella convinzione che di formule magiche
sia intessuta questa misteriosa e imprevedibile scienza. Così come apparen-
tato alla magia è che un giorno qualcuno abbia deciso che la frase «vi uni-
sco in matrimonio» o «lascio tutti i beni a mio nipote» diventino, appunto,
«enunciati performativi» creando lo stato di cose che rappresentano8.
Neppure ci stupisce che siano emigrati nel diritto, dall’anticamera in
cui si trovavano, (in un primo tempo a mezzo della fortunata formula del
danno esistenziale) interessi che attengono al mondo affettivo un tempo
giudicati irrilevanti.
2.  Abuso e illecito
Sempre più spesso, quando il giudice viene chiamato a scrutinare la
difformità dell’esercizio del diritto dalla ragione della tutela legislativa ri-
corre, direi quasi per abitudine, allo strumento della responsabilità civile9.

travvedono i moenia (le fortificazioni che difendono, ma anche isolano ed escludono), altri il
cum-munus (l’obbligo reciproco che diventa faticoso dovere) – in Vivere per raccontarla: i gruppi
intermedi, in Riv. dir. civ., 2012, I, p. 797 ss.
6
  V., per una completa panoramica ed ogni rif. alla vasta dottrina, Di Nella, L’abuso delle
situazioni giuridiche negli ordinamenti europeo, italiano e tedesco: profili civilistici e tributari,
negli Studi in onore di Cataudella a cura di del Prato, I, Napoli, 2013, p. 695 ss.; Piraino, La
buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, p. 343 ss.
7
  A tal fine, v. le nitide ricostruzioni di Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015,
p. 106 ss.
8
  J. R. Searle, op. cit., p. 43 ss.
9
  In arg., e per rif., Thiene, La tutela della personalità dal neminem laedere al suum cuique
tribuere, in Riv. dir. civ., 2014, p. 351 ss. Particolare il caso deciso dal Trib. Firenze, 2 febbraio
L’abuso del diritto nelle relazioni familiari 85

L’istituto è così dilagato, anche nel diritto di famiglia e la richiesta di ri-


sarcimento in denaro si è trasformata in escamotage per sanare l’insanabile
lacerazione degli affetti, trasmutandosi a volte in vendetta, surrogato della
sanzione sociale, oramai venuta meno10.
La formula dell’abuso si presta, forse più docilmente, a rivestire funzio-
ne affine a quella della responsabilità civile: esser strumento giudiziale di
vaglio sulla natura non più – o non sempre – discrezionale di diritti, poteri,
rapporti di forza nell’ambito dei rapporti familiari. Strumento prezioso,
duttile perché, consente rimedi più variegati rispetto alla responsabilità ci-
vile11; e certo non più «rischioso» sotto il profilo della certezza del diritto.
Andranno ovviamente comparati («bilanciati» con lo strumento raffigu-
rato nelle mani della giustizia) gli interessi in conflitto, così che l’esercizio
del potere sia commisurato ai bisogni concreti e attuali della famiglia e della
persona sulle cui libertà e attività incide.
3.  Uso improprio del matrimonio e comportamenti opportunistici
nella fase della separazione
Normalmente sono i giudici a individuare, di volta in volta quali ipotesi
di uso «anomalo» del diritto acquistano rilevanza, ma ove i comportamenti
opportunistici si fanno più frequenti, può intervenire il legislatore, come
è avvenuto per la simulazione nel matrimonio, che è l’esempio classico di
uso strumentale del diritto.
La giurisprudenza del tempo di guerra offriva molteplici casi di Han­
dschuhehe (matrimonio guanto), nozze contratte per poter conseguire una
determinata cittadinanza o sfuggire a misure persecutorie inflitte a deter-
minate razze e nazionalità12.
L’introduzione – non è qui il caso di valutare se opportuna o meno –
dell’art. 123 c.c., così esplicitamente rubricato, era volta a frustrare i tenta-
tivi di servirsi delle norme in maniera arbitraria e pretestuosa13. L’uso im-
proprio del matrimonio da parte dello straniero per ottenere la cittadinan-

2015, in Nuova giur. civ. comm., I, p. 698, con nota di Amram, ove altri rif. alla dottrina in tema
di illeciti nei rapporti familiari. La decisione ha attribuito il risarcimento del danno «da falsa
rappresentazione della paternità».
10
  Anche per rif., De Giorgi, La casa nella geografia familiare, in Eur. dir. priv., 2013, p.
768 ss.
11
  «…quello che potremmo chiamare, alla stregua dell’arte povera, diritto povero, nel quale
tutto si riduce a responsabilità civile o responsabilità», Castronovo, op. cit., p. 113.
12
  Rescigno, L’abuso del diritto, ora nel volume dal titolo omonimo, Bologna, 1998, p. 98 ss.
13
  Cfr. A. Renda, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Milano, 2013, p. 141 s.
e 348 ss. per la c.d. simulazione del matrimonio ex art. 123 c.c. e p. 635 s. per il matrimonio «di
comodo» dello straniero, di cui agli artt. 29, comma 9, e 30, comma 1 bis, T.U. immigrazione.
86 Maria Vita De Giorgi

za ovvero il matrimonio stipulato per fruire della pensione di reversibilità


sono esempi che corrono, ancor oggi, immediati alla mente.
Si può abusare anche della separazione. In un caso arrivato in Cas-
sazione, i coniugi, per motivi di carattere fiscale, avevano simulato una
separazione consensuale e ottenuto l’omologazione da parte del tribunale.
Decorso il termine previsto dalla legge, il marito ha proposto domanda di
divorzio, cui la moglie ha opposto la simulazione dell’accordo di separa-
zione, ma l’impugnazione è stata respinta14.
Adottando un significato di abuso al limite con quello della lingua co-
mune, comportamenti distorti e opportunistici (a volte crudeli) sono, ov-
viamente, più frequenti nella fase della rottura del rapporto coniugale, ma
anche della convivenza.
La S.C. ha avuto occasione di affermare che il convivente, in caso di
rottura non può essere esiliato dalla casa di proprietà del compagno senza
un preavviso che gli consenta di trovare una sistemazione alternativa15. E
un’ulteriore sentenza della S.C.16 è tornata ad occuparsi della tutela pos-
sessoria del convivente, in un’ipotesi in cui lo spoglio era commesso da un
soggetto terzo.
Si trattava di una signora che aveva chiesto la reintegrazione del posses-
so dell’appartamento abitato in regime di convivenza con il compagno e da
questi ricevuto a titolo di comodato gratuito dal proprio fratello; durante
una lunga degenza dell’uomo in ospedale, a cagione di un grave incidente
stradale, il proprietario dell’appartamento aveva sostituito la serratura.
In entrambi i casi la S. C. si è richiamata ai principi di correttezza e
buona fede, motivando che la convivenza caratterizzata da stabilità e con-
tribuzione reciproca determina sulla casa in cui si svolge la vita comune
non una mera situazione di ospitalità, ma un potere di fatto fondato su di
un interesse proprio, diverso da quello derivante da ragioni di ospitalità.
E, venendo invece alla rottura del matrimonio, un tempo (come nei casi
tedeschi riportati da Pietro R.) si poteva parlare di abuso se ci si opponeva
alla domanda di divorzio, mentre (anche questo è una vicenda decisa allora
dal Bundesgerichthof) fu respinta come abusiva la richiesta di annullamento
del matrimonio per bigamia, inoltrata solo per la volontà di volersi legare
con altra donna17.

14
  Cass., 20 novembre 2003, n. 17607, in Corr. giur., 2004, p. 307 con nota di Oberto; in
Fam. dir., 2004, p. 473 con nota di Conte.
15
  Cass. 21 marzo 2013, n, 7214, che si può reperire agevolmente in molti siti di carattere
giuridico.
16
  Cass. 2 gennaio 2014, n. 7, in Giur. it., 2014, I, p. 31, con commento di Aureli.
17
  Rescigno, L’abuso del diritto, cit. p. 88. s.
L’abuso del diritto nelle relazioni familiari 87

Ai tempi nostri, prendendo atto che il rapporto coniugale, sgravato


delle restrizioni e controlli sociali, è divenuto faccenda interna dei pro-
tagonisti, il legislatore ha affidato alla loro buona volontà la durata del
rapporto.
La decisione unilaterale di non tollerare più la convivenza, causa giu-
stificatrice della separazione, è ineluttabile e di fatto sottratta al sindacato
da parte del giudice, all’altro (o altra) non è dato opporsi: l’intollerabilità
non può essere esclusa perché uno dei coniugi assume un atteggiamento di
accettazione e disponibilità. Così ratifica, involontariamente spietata, anche
la Suprema Corte che ha espressamente proclamato il diritto ad ottenere
la separazione18.
La violazione dei doveri coniugali (nella più scontata delle sue manife-
stazioni: l’infedeltà) giustifica però, sempre a giudizio della S.C., oltre alla
pronuncia di addebito, il risarcimento del danno quando vi sia violazione
di «un bene essenziale della vita»19. Nessun richiamo a doveri di correttez-
za e abuso del diritto, allora, da parte della S. C., eppure sovente questo
strumento potrebbe rivelarsi più duttile della responsabilità civile.
Il florilegio delle vicende è, ovviamente, in questo settore, variegato ed
eterogeneo.
Ho notato che il Tribunale civile di Varese ricorre frequentemente, per
sanzionare i dispetti processuali nella fase della separazione e divorzio, alla
figura dell’abuso del processo20.E così il giudice, ha condannato (in appli-
cazione dell’art. 96, 3° comma, cod. proc. civ. (introdotto dall’art. 45 della
L. n. 69/2009) l’ex moglie al pagamento di una pena pecuniaria per avere
instaurato procedimenti infondati al solo fine di «fare un dispetto» all’ex
marito. Le parti, che da anni si combattono in Tribunale per via di una
separazione giudiziale, hanno dato il via ad altri tre procedimenti, tra loro
e le rispettive società: un’opposizione a un’esecuzione forzata, un recupero
crediti e infine un’opposizione a decreto ingiuntivo.
In questa procedura la moglie, quale legale rappresentante della propria
società, si era opposta formalmente all’ingiunzione ottenuta dalla società

18
  Cass. 23 maggio, 2003 n. 6970, in Fam. e dir., 2003, p. 319, con nota di Figone; Cass.,
9 ottobre 2007 n. 21099, in Nuova giur. civ. comm, p. 2008, I, 519 (ivi, p. 523, il commento di
Lenti, Il criterio per valutare l`intollerabilità della convivenza: la Cassazione abbandona le de­
clamazioni ideologiche e disvela le regole operative).
19
  Cass. 15 settembre 2011, n. 18853, in Danno e resp., 2012, 382 con commenti di Amram,
e di . Oliari; Cass. 1° giugno 2012, n. 8862, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 1081, con nota
di Favilli. Altri precedenti in Thiene, Commento all’art. 2043 cod. civ., in Comm. breve al dir.
di fam. (a cura di A. Zaccaria), 3° ed., Padova, 2016.
20
  Figura di dubbio significato, su cui v., con gradevole ironia, Taruffo, Abuso del processo,
in Contr. e impr. 2015, p. 832 ss.
88 Maria Vita De Giorgi

di restituire un macchinario, sebbene ben sapesse che lo stesso le era stato


concesso in comodato. Motivando che la donna, alla luce dei fatti, avrebbe
agito in mala fede solo per fare un dispetto all’ex coniuge il Tribunale ha
condanna la società della ex moglie a pagare la somma di diecimila euro,
per abuso di processo21.
In un altro caso, sempre il medesimo Tribunale, ha condannato per
abuso del processo l’ex moglie, che ha instaurato un giudizio per contestare
l’efficienza del mediatore nominato dal marito, al fine di vendere la casa
coniugale, come da accordo in fase di separazione22.
4.  «Familles, je vous hais!», comportamenti opportunistici di geni-
tori (e figli)
Ma è in presenza di figli che si scatenano i comportamenti più opportu-
nistici, dispettosi e maligni, fosse o meno la coppia coniugata, o convivente
o anche non convivente
Le celebrate modifiche del sistema normativo, unificando la condizione
dei figli, hanno determinato il loro inserimento nelle relazioni di parentela
dei genitori anche non uniti in matrimonio (art. 74 c.c. e art. 258 c.c.) e
sancito la portata generale dell’esercizio condiviso dalla responsabilità ge-
nitoriale indipendentemente dal tipo di unione che lega i genitori e dalla
sua sorte (artt. 316, comma 4°, e 337 ter, comma 3°, c.c.). 
Proprio al fine di evitare comportamenti opportunistici del genitore (di
regola la madre, con cui abitualmente i figli convivono, il legislatore ha
altresì previsto una norma processuale (l’art.709-ter c.p.c., introdotto con
l. n. 54/2006, più volte cit.) divenuta famosa anche perché si inserisce nel
prolungato dibattito sulle pene private.
Un tempo accadeva che le madri ritenessero di poter trasferire libera-
mente i figli pensando ai propri bambini come se fossero mobili o vali-
gie (tendenza sovente assecondata dai giudici), ma ora in parecchi casi di
spostamento di residenza i giudici hanno applicato la pena più grave della
sanzione pecuniaria23.
Sempre con riguardo alla separazione della coppia il sistema consente
sicuramente comportamenti opportunistici riguardo all’assegno di mante-
nimento del coniuge «debole».
Ma di un diritto si può abusare anche non facendone uso, come af-
ferma la dottrina classica. Si pensi ai tanti casi in cui il matrimonio non

21
  Trib. Varese, 21 gennaio 2011, n. 98, in Giur. merito, 2011, p. 2704.
22
  Trib. Varese, 23 gennaio 2010, inwww.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/2205.pdf
23
  Cfr., anche per rif., De Giorgi, op. ult. cit., p. 789 ss.
L’abuso del diritto nelle relazioni familiari 89

si contrae per non perdere l’assegno divorzile o la quota di pensione di


reversibilità.
Sempre più numerose sono anche le decisioni aventi per oggetto
l’assegnazione della casa familiare e il mantenimento del figlio ben oltre
la maggior età. Il diritto dei figli maggiorenni, accolto anche dal com-
prensivo legislatore (art. 337 septies), si presta, ovviamente, a comporta-
menti opportunistici, di cui il giudice sta progressivamente prendendo
atto24.
5.  I riconoscimenti «di compiacenza»: un recente florilegio giuri-
sprudenziale
Cambiando argomento. L’esperienza ci dice che dottrina e giurispru-
denza hanno talora considerato come possibile tema di abuso anche l’eser-
cizio negativo, l’astensione dall’uso di una libertà. Nel settore di cui mi
occupo, tra gli abusi «in negativo» rientrava il mancato disconoscimento di
paternità, come già nei casi di cronaca evocati da Pietro R., in cui il padre
conosceva l’adulterinità del figlio e ciò nonostante voleva conservare lo
stato di legittimità esclusivamente (come affermò la Corte milanese) «per
far male e provocare danno»25.
Ma anche i «riconoscimenti di compiacenza» sono destinati a creare
uno status legale difforme dalla realtà di fatto: molte decisioni ricorrono
all’abuso per sanzionare tardivi e opportunistici disconoscimenti di pater-
nità o impugnazione di riconoscimenti.
Prima che intervenisse la legge in tema di fecondazione assistita, secon-
do una nota decisione della S.C., il marito che avesse validamente concor-
dato o comunque manifestato il proprio preventivo consenso alla feconda-
zione eterologa non aveva azione per il disconoscimento della paternità del
bambino nato in seguito a tale fecondazione. «Buona fede, correttezza e
lealtà nei rapporti giuridici – motivava la Cassazione – rispondono a doveri
generali, non circoscritti agli atti o contratti per i quali sono richiamate da
specifiche disposizioni di legge; questi doveri, nella particolare materia dei
rapporti di famiglia, assumono il significato della solidarietà e del reciproco
affidamento»26.
Il legislatore – in questo caso previdente e conoscitore dell’animo
umano – ha poi introdotto l’art. 9, l n. 40/2004, in virtù del quale qua-

24
  Per rif., ancora De Giorgi, op. cit., p. 787.
25
  App. Milano, Sez. minori, 7 gennaio 1961, Rescigno, op. cit., p. 63.
26
  Cass. 16 marzo 1999 n. 2315, in Fam. e dir., 1999, 233 ss. con nota di Sesta; in Nuova
giur. civ. comm., 1999, I, 517 ss. con commento di Palmerini, in Giur. it., 2000, 275 ss. con
riflessioni Caggia e Sciso.
90 Maria Vita De Giorgi

lora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo


eterologo il coniuge o il convivente, il cui consenso è ricavabile da atti
concludenti, non può esercitare l’azione di disconoscimento della pater-
nità nei casi previsti dall’articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del
codice civile, né l’impugnazione di cui all’articolo 263 dello stesso codice
e la madre non può dichiarare la volontà di non essere nominata27. In
base all’art. 6 della stessa legge, la volontà può essere revocata da cia-
scuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della
fecondazione dell’ovulo.
Anche in un caso più recente è stata respinta l’azione di disconoscimen-
to del marito, che aveva dapprima accettato il percorso all’estero per la pro-
creazione assistita con inseminazione eterologa, ma poi alla vigilia dell’im-
pianto dell’embrione aveva revocato il consenso. La coppia aveva siglato
il contratto con un istituto spagnolo, circa un mese dopo l’uomo aveva
annunciato di aver cambiato idea e depositato il ricorso per la separazione
giudiziale; la moglie si sottoponeva comunque al trasferimento dell’em-
brione nell’utero. Secondo la sentenza del tribunale di Roma la circostanza
che gli embrioni fossero congelati e preesistenti nulla toglie all’applicabilità
della norma che consente la revoca del consenso soltanto fino al momento
della fecondazione dell’ovulo, onde dopo tale momento non trova ingresso
la domanda di disconoscimento della paternità naturale28.
Ma le ipotesi di pentimento tardivo per avere effettuato riconoscimenti
di compiacenza, stanno diventando frequenti, incentivate e favorite, come
è ovvio, dalle certezze scientifiche introdotte dal test del DNA. Una delle
vere rivoluzioni a mezzo delle quali la biologia è entrata nel diritto di fa-
miglia e che obbliga giudici e legislatore ad intervenire.
In un caso deciso da Trib. Civitavecchia29, nella piena consapevolezza
del mendacio e per declamato spirito umanitario, un uomo ha riconosciuto
come propri i tre figli di una donna incontrata tempo prima a una festa.
Pentitosi ha poi impugnato il riconoscimento per difetto di veridicità ma
il giudice ha respinto l’azione, in quanto, essendo stato il riconoscimento

27
  La previsione è destinata a diventare sempre più rilevante, ora che Corte cost. 10 giugno
2014, n. 162 ha travolto – in nome di un diritto generale di autodeterminazione costituzionalmen-
te fondato – il divieto di fecondazione eterologa, confermando così la progressiva e inesorabile
astrazione dal dato genetico, cfr., Bilotti, Procreazione assistita eterologa, in Il libro dell’anno
del diritto 2015, Roma, 2015, p. 13 ss. e ivi rif.
28
  Trib. Roma, 19 settembre 2013, in http://www.sportellodeidiritti.org/notizie/dettagli.
29
  Trib. Civitavecchia 23 febbraio 2009, in Giur. it., 2009, 2205 ss. commentata da E. Car-
bone; in Giur. merito, 2010, 1250 ss., con annotazioni di Di Nardo. Un caso analogo è stato
deciso da Trib. Napoli 11 aprile 2013, in Foro it., 2013, I, 2040 con nota di Casaburi.
L’abuso del diritto nelle relazioni familiari 91

effettuato in mala fede, il favor veritatis cedeva in favore dell’interesse del


minore30.
Secondo qualche autore, invece, la richiesta doveva essere accolta, fat-
to salvo poi il risarcimento dei danni. Lasciando intendere, a mio parere,
come abuso e responsabilità civile possano essere strumenti alternativi31.
In un’altra vicenda che ha occupato la cronaca, un famoso neurochi-
rurgo romano ha effettuato l’azione di disconoscimento della figlia rico-
nosciuta quarant’anni prima come sua, avendone poi sposato la madre da
cui ora intendeva divorziare. Seguendo un orientamento che si sta conso-
lidando anche il Tribunale di Roma, ha respinto la richiesta32.
La possibilità di impugnare il riconoscimento dopo un lungo lasso di
tempo era consequenziale alla esplicita imprescrittibilità dell’azione, ai sensi
dell’ultimo comma dell’art. 263 cod. civ. Intanto, anche qui, è intervenuto il
lungimirante legislatore abbreviando drasticamente – nella recente riforma
– i tempi della impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità,
introducendo un termine di decadenza di cinque anni decorrenti dalla co-
noscenza della non veridicità dello status, termine rilevabile d’ufficio dal
giudice (art. 2969 cod. civ.) irrinunciabile e comunque indisponibile (art.
2968 cod. civ.). Ma il legislatore delegato è andato oltre introducendo un
principio generale, valevole quindi per tutte le azioni di stato, che attribui-
sce al possesso di stato protratto per cinque anni l’effetto di consolidare lo
status filiationis: per tale via il legislatore italiano si avvicina alle previsioni
introdotte dal legislatore francese con la riforma del 2005. 
Sempre in tema della rivoluzione introdotta col Fingerprinting in rap-
porto con l’uso opportunistico e abusivo degli istituti giuridici, la Cassa-
zione, ha stabilito che  il rifiuto alla sottoposizione al test del DNA può
diventare elemento determinante al fine di accertare il «difetto di veridici-
tà» del riconoscimento. In quel caso, nel 2008, un tale aveva riconosciuto
come proprio il figlio della sua convivente, subito dopo è intervenuto un
altro uomo, adducendo di aver intrattenuto con la stessa donna una rela-
zione sentimentale dalla quale era stato concepito il bambino. Il Giudice

30
  Questa scelta è stata confermata dal Trib. di Firenze, con ord. 30 luglio 2015, in Foro it.,
2015, I, c. 3113, che è giunto ad escludere la legittimazione anche in capo ai terzi interessati, se
mossi da interessi meramente ereditari.
31
  Percorre, su richiesta delle parti, la strada della responsabilità civile in un caso di impugna-
zione paterna di un riconoscimento effettuato nel lontano 1943, Cass., 31 luglio 2015, n. 16622,
in Foro it., 2015, I, c. 3113, decisione in cui viene evidenziata l’irreparabile devastazione affettiva
causata da un ripudio effettuato dopo decenni di vita familiare.
32
  Trib. Roma 17 ottobre 2012, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 349 ss. con commento di
M.G. Stanzione; in Dir. fam. e pers., 2014, 706 ss. con nota di Restivo; in Rass. dir. civ., 2013,
927 ss. con commento di Virgadamo.
92 Maria Vita De Giorgi

del Tribunale di Crotone aveva disposto il test del DNA, test che non si è
mai effettuato poiché gli appuntamenti stabiliti erano andati a vuoto. Alla
luce di tale comportamento il Tribunale emetteva la sentenza dichiaran-
do il difetto di veridicità del riconoscimento, sentenza confermata anche
in Appello. Secondo la Cassazione, la mancata sottoposizione delle parti 
al test è un comportamento da cui potersi trarre elementi presuntivi, in
quanto «nell’attuale contesto socio-culturale caratterizzato da ampie pos-
sibilità di accertamento del patrimonio bio-genetico dell’individuo, pensare
di segregare l’atto negoziale di accertamento della paternità, escludendo il
controinteressato dal fornire la prova del suo difetto di veridicità significa,
ignorando il livello attuale delle cognizioni scientifiche e delle potenzialità
di indagine, consentire ogni forma di abuso del diritto e, quindi, di ado-
zione mascherata e fraudolenta del minore, non tollerabile in una società
civile e trasparente»33.
Concedendomi, come spesso in queste pagine, un uso elastico del lem-
ma, affine a quello del linguaggio comune, a mio parere un’ipotesi di abuso
che sta facendosi strada e di cui si sta occupando il legislatore, potrebbe
ravvisarsi nel rifiuto della madre di incontrare il figlio a suo tempo abban-
donato, quando, nel bilanciamento degli interessi, l’equilibrio esistenziale
connesso alla conoscenza delle proprie origini sia prevalente rispetto al
desiderio materno di seppellire il passato.
Come nel caso, raccontato dalla cronaca, di una signora di 55 anni che,
poco più che adolescente, aveva partorito e abbandonato una bambina,
chiedendo di restare anonima.
Su mandato del presidente del Tribunale per i minori di Roma, un’as-
sistente sociale l’ha cercata, aderendo alla richiesta della figlia, cresciuta
in una famiglia adottiva. La risposta è stata negativa, pur se la signora ha
accettato che il tribunale rendesse noti i suoi dati sanitari34.
La Corte costituzionale35, sul tema del diritto del figlio adottato a co-
noscere le proprie origini e del bilanciamento con quello della madre a
rimanere anonima, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28,
comma 7, della legge n. 184 del 1983 nella parte in cui non prevede la
possibilità per il giudice di interpellare, su richiesta del figlio, la madre
che abbia dichiarato di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale
revoca della dichiarazione.

  Cass., 26 marzo 2015, n. 6136, in Foro it., 2015, I, c. 3113 con commento di Casaburi.
33

  Normalmente, invece, racconta la Presidente del Tribunale per i minori di Roma (Melita
34

Cavallo) su quindici istanze di figli che hanno chiesto alle madri di rimuovere l’anonimato, tredici
donne hanno accettato e due hanno detto di no, www.repubblica.it/cronaca/2015/06/13/news/
35
  Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278, in Dir. fam. e pers., 2014, p. 1 ss.
L’abuso del diritto nelle relazioni familiari 93

Nel giugno 2015 è stato poi approvato dalla Camera un Disegno di


legge che rivede le regole della nascita anonima, sia pure attribuendo pre-
valenza all’interesse materno alla segretezza36.
6.  Abuso della responsabilità familiare
Per quanto concerne i rapporti con i figli e alla potestà, ora responsabi-
lità, il termine abuso è presente nello stesso linguaggio legislativo: si decade
dalla responsabilità genitoriale «quando un genitore abusi dei relativi poteri
con grave pregiudizio del figlio»: art. 330 c.c. (v. anche gli artt. 571 e 572 c.
p., relativi agli abusi degli strumenti di correzione e disciplina).
I casi di abuso della responsabilità familiare danno la misura della pro-
gressiva sindacabilità di prerogative che il costume sociale e il rispetto
dell’unità familiare riservavano in passato al marito e padre. È inutile ri-
cordare che il margine di discrezionalità, un tempo larghissimo per rispetto
della tradizione storica, si è andato progressivamente restringendo fin quasi
ad annullarsi.
Fenomeno crescente, con l’aumentare delle separazioni della coppia che
sia o meno coniugata, cui ho già accennato, è quello per cui è la madre
a trovarsi spesso in situazioni che favoriscono l’abuso di responsabilità a
danno del padre, che corre il rischio di vedersi espropriato della propria
genitorialità.
Ho fatto qualche esempio in precedenza, ma poiché bisogna anche sorri-
dere di questo ordinari inferni post coniugali o post-convivenza, ricordo un
caso singolare. A Bergamo, o dintorni, la madre, vegetariana. Ha adottato
un’alimentazione macrobiotica, che ha imposto anche al figlio. Quando il
padre lo ha saputo l’ha accusata di non essere stato coinvolto in questa scelta
che, a suo avviso, metterebbe a rischio la salute del ragazzino e ha tentato di
risolvere la cosa rimpinzando il figlio nel weekend, con carne e formaggi. La
moglie lamentava il fatto che il dodicenne, dopo ogni weekend passato con
il padre, tornava a casa con il mal di pancia anche per effetto dei pranzi dalla
nonna a base di polenta, salsiccia, carne grigliata e hamburger. L’ex marito
alla fine si è rivolto al tribunale per chiedere al giudice di assumere, «in man-
canza di accordo fra i genitori, gli opportuni provvedimenti con riguardo al
regime alimentare del minore». E il giudice ha stabilito che la madre deve
mettere in tavola la carne almeno una volta durante la settimana, mentre il
padre non deve proporla al figlio per più di due volte.37

36
  www.deputatipd.it/files/documenti/90bis%20Diritto%20conoscenza%20madre%20biolo­
gica_
37
  www.ecodibergamo.it/stories/Cronaca/per-la-dieta-del-figlio-vanno-in-tribunale-caso-
unico.
94 Maria Vita De Giorgi

7.  «L’ambiguo statuto della corporeità»


Si vive, anche se non sempre, sotto lo stesso tetto. E già il verbo con-
vivere porta in primo piano oltre al carattere, l’attitudine alla sofferenza,
l’empatia, la sensibilità, il corpo38.
Un’importanza della fisicità, nel diritto dei rapporti affettivi, che ap-
pare solo con evidenza peraltro non comparabile, nei rapporti di lavoro.
Spingendoci oltre i confini del libro primo, troviamo che la S.C. configu-
ra come abuso il comportamento del lavoratore che fruisce del permesso
concessogli onde assistere la madre gravemente disabile per partecipare a
una «serata danzante»39.
Nel rapporto della coppia, la fisicità non rileva, ovviamente, solo per
il cibo.
Del corpo altrui – esercitando un diritto e/o superandone i limiti – si
può abusare, nell’incontro saltuario e nell’ambito di rapporti prolungati.
È inutile ricordare che contro «gli abusi familiari» la legge ha cercato di
porre rimedio con sanzioni previste nel codice penale e anche con il diritto
penale della famiglia introdotto nel codice civile: «allontanati, non avvicinar-
ti, esci da casa, stai lontano»40. E qui posso solo fare un cenno alla Conven-
zione di Istanbul, sulla prevenzione contro la violenza nei confronti delle
donne e la violenza domestica, entrata in vigore in Italia il 1° agosto 201441.
Per quanto riguarda la coppia, a partire dal periodo tra medioevo ed
età moderna era stato posto il problema dei limiti all’uso del corpo, la fi-
sica disponibilità (o indisponibilità), la natura del diritto che ciascuno dei
coniugi acquista sul corpo dell’altro. Credito, diritto reale, obbligazione,
servitù, come abbiamo appreso dal famoso libro di Vassalli, con raffinata
malizia trasmessoci da Pietro R.42

38
  De Giorgi, La casa nella geografia familiare, cit. p. 761 ss.
39
  Cass. Sez. lav., 30 aprile 2015, n. 8784, in Giur. it. 2015, p. 2159, con nota di V. Miraglia,
con riferimenti di dottrina e giurisprudenza sull’ampio utilizzo della figura dell’abuso nel diritto
del lavoro.
40
  Il Titolo IX bis, ordini di protezione contro gli abusi familiari – inserito con l. 4 aprile
2001, n. 154 – non pare aver preservato le donne da un eccidio quotidiano. L’allontanamento
dalla residenza familiare del figlio vittima di comportamenti pregiudizievoli ovvero del genitore
(o convivente) che maltratti il minore o ne abusi è previsto dall’art. 330, 2° co. c.c. (Decadenza
dalla potestà sui figli, il riferimento al genitore o convivente è stato inserito con l. 28 marzo 2001,
n. 149); disposizione analoga nell’art. 333 c.c., (Condotta del genitore pregiudizievole ai figli), cfr.
in arg. E. Canavese, L’esecuzione dei provvedimenti concernente la persona del minore, Tratt. di
dir. di fam2. diretto da P. Zatti, VI, Tutela civile del minore e diritto sociale della famigliaa cura
di L. Lenti, 201 s. e ivi rif.
41
  Ampiamente Senigaglia, La Convenzione di Istanbul contro la violenza tra ordini di
protezione e responsabilità civile endofamiliare, in Riv. dir. priv., 2015, p.111 ss.
42
  Rescigno, «Jus in corpus e debito coniugale»: la ristampa del libro di Vassalli, ora in Ma­
L’abuso del diritto nelle relazioni familiari 95

Nel nostro tempo, se l’omissione dei rapporti sessuali è uno dei motivi
di addebito che frequentemente vengono richiesti nell’ambito della sepa-
razione, quasi sempre le pretese sono respinte dai giudici.
E in passato? Per l’Allgemeines Landrecht für die Königlisch-Preussi­
schenStaaten, (ALR), che entrò in vigore nel 1794 « I coniugi non possono
rifiutarsi durevolmente al compimento dei doveri coniugali ».
Nell’ambito familiare ciò si traduceva in un’espansione della disciplina
legislativa della vita di coppia e in una responsabilizzazione degli individui
rispetto all’esercizio della propria sessualità e all’uso del proprio corpo a
mezzo di un’incredibile trama di disposizioni, varie e specifiche, che non
sempre si risolvevano nel rigore di una proibizione43.
Con linguaggio assai concreto si prescriveva alle donne che avevano
rapporti fuori dal matrimonio di osservare con cura i mutamenti del pro-
prio corpo per scorgere i segni di una gravidanza e si ordinava alle madri
di informare, con prudenza, le figlie quattordicenni delle regole precauzio-
nali per la gestazione e il parto. Ancora: le madri erano tenute se in buona
salute ad allattare, in costanza di allattamento o per ragioni di salute esse
potevano però – è sempre l’espressa previsione di legge ad autorizzarlo –
rifiutarsi al debito coniugale.
Per l’ALR il rifiuto ostinato di adempiere al dovere coniugale, la deser­
tio malitiosa, che aveva impegnato generazioni di giuristi, è specificamente
considerato dalla legge una bösliche Verlassung, e come tale una condotta
fortemente lesiva degli impegni presi con il matrimonio.
Per alcuni interpreti la colpevole mancata prestazione del debito, «con-
sistente nel ragionevole soddisfacimento dell’istinto generativo», sebbene
non potesse dar luogo ad una coazione diretta, poteva essere causa di se-
parazione di letto e di mensa, se non addirittura motivo per l’impiego di
mezzi coattivi indiretti: quale la privazione della libertà o l’irrogazione di
una sanzione pecuniaria.
Sugli abusi educativi nei rapporti con i figli il discorso richiederebbe un
altro convegno e invece, con gli sculaccioni, concludo.
Gli sculaccioni ai bambini come esercizio di ius corrigendi erano ai miei
tempi erano usati e accettati44, adesso opportunamente respinti in qualsiasi

trimonio e famiglia. Cinquant’anni del diritto italiano, Torino, 2000, p. 90 ss.


43
  Queste notizie, e molte altre, si possono leggere nell’avvincente scritto di Testuzza, Ma-
trimonio e codici. L’ambiguo statuto della corporeità, in Quaderni fiorentini per la storia del
pensiero giuridico moderno, 42/2013, p. 281 ss.
44
  Affascinanti, in proposito, nella vastissima letteratura, i libri di Alice Miller, tra i quali
La persecuzione del bambino (Am Anfang war Erziehung, 1980), rist. trad. it., Bollati Borin-
ghieri, Torino, 2015.
96 Maria Vita De Giorgi

forma, il che dimostra ancora una volta come il costume e le convinzioni


sociali influiscano sul contenuto e l’estensione dei diritti e come il diritto
si mescoli e sia l’involucro più o meno bene confezionato che riveste il
guazzabuglio serpigno dei rapporti umani.
Giovanni Meruzzi
L’oggettivazione del divieto di abuso tra diritto civile
e diritto commerciale

Sommario:  1. Un breve cenno su nozione e funzione dell’abuso del diritto, e sul ruolo
del giurista. – 2. Il rapporto tra buona fede oggettiva e divieto di abuso. – 3. La natura
oggettiva del divieto di abuso: gli apporti della dottrina e il contributo della giurispru-
denza d’impresa e societaria. Suoi corollari operativi. – 4. Il divieto di abuso in ambito
societario e la metamorfosi delle sue condizioni d’uso. – 5. Abusi assembleari e abusi
nella gestione sociale: alcuni casi tipizzati. – 6. Per una concezione non dogmatica del
divieto di abuso in ambito societario.

1.  Un breve cenno su nozione e funzione dell’abuso del diritto, e sul


ruolo del giurista
L’attenzione della dottrina al tema del divieto di abuso del diritto ha
vissuto una nuova stagione con la sentenza Renault, oggetto anche in tempi
recenti di non poche critiche1. Trattasi di pronuncia senza dubbio impor-
tante per il caso affrontato e i potenziali esiti della controversia, ad oggi
non definita2. Quanto però alla portata innovativa del dictum, essa mette
semplicemente a sistema un acquis giurisprudenziale ormai molto ampio in
materia3, la cui elaborazione ha impegnato le Corti negli ultimi lustri e alla
cui definizione hanno concorso molti e spesso autorevoli giuristi, alcuni dei
quali divenuti inaspettatamente critici di fronte alla concreta applicazione,
da parte della Suprema Corte, di paradigmi operativi e modelli di decisione
a lungo affinati.

1
  Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Contratti, 2010, p. 5 ss., con nota D’amico, Recesso
ad nutum, buona fede e abuso del diritto; Nuova giur. civ. comm., 2010, I, p. 231 ss., con nota
C. Scognamiglio, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della
pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?); Riv. dir. civ., 2010; II, p. 653 ss,
con nota Panetti, Buona fede, recesso ad nutum e investimenti non recuperabili dell’affiliato
nella disciplina dei contratti di distribuzione: in margine a Cass., 18 settembre 2009, N. 20106;
Foro it., 2010, I, c. 85 ss., con nota Palmieri e Pardolesi, Della serie «a volte ritornano»: l’abuso
del diritto alla riscossa.
2
  La pronuncia della S.C. ha infatti cassato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di
Bologna, demandando al giudice del merito (ovvero ad altra sezione della stessa Corte) la valu-
tazione circa la sussistenza o meno, nel caso di specie, dell’abuso del diritto. Ad oggi non risulta
che la Corte d’Appello abbia deciso la controversia.
3
  E di cui la stessa sentenza dà ampio risalto nella propria motivazione, che introduce la ratio
decidendi del caso in esame premettendo un puntuale excursus dei precedenti di Cassazione in
tema di applicazione del divieto di abuso.
98 Giovanni Meruzzi

L’ampio e per alcuni versi inaspettato dibattito ha probabilmente cau-


sa in una ancor oggi imperfetta teorizzazione del divieto di abuso, talora
acriticamente assimilato alla buona fede oggettiva ma altrettanto spesso
evocato in via autonoma e senza riferimento a norme di diritto positivo, cui
ancorarne l’operatività. Un’analisi della materia che non voglia sconfinare
in prese di posizione di sapore teologico, e che sia condotta alla luce di
una visione dell’ordinamento che opti per una concezione giuspositivistica
moderata e attenta alla realtà effettuale dei meccanismi di produzione delle
regole giuridiche, non può prescindere dalla risposta a due interrogativi del
tutto centrali, ovvero cosa sia il divieto di abuso del diritto e a cosa esso
serva.
Trattasi di due temi lontani dell’oggetto del presente contributo e ai
quali si è cercato di dare risposta in altra sede4, ove si è giunti alla conclu-
sione che il divieto di abuso del diritto:
–  costituisce una clausola generale di creazione giurisprudenziale, ovve-
ro una norma che, a differenza del criterio di buona fede oggettiva, non ha
un diretto fondamento normativo ma che condivide col generale dovere di
correttezza la natura di regola di condotta, connotata da doverosità;
–  analogamente alla buona fede oggettiva e all’exceptio doli, ulteriore
clausola generale e regola di condotta presente nei paradigmi operativi del
diritto giurisprudenziale, costituisce una tecnica di selezione e di sindaca-
to degli interessi perseguiti nell’esercizio dei diritti potestativi riconosciuti
dall’ordinamento e nell’attuazione dei rapporti obbligatori, consentendo
di reprimere le forme di utilizzo delle facoltà concesse dal diritto che non
appaiano in concreto meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giu-
ridico5.
Il pieno riconoscimento della c.d. funzione selettiva del divieto di abu-
so del diritto, da ultimo evocata, costituisce forse il vero quid novi della
pronuncia relativa al caso Renault6. Tuttavia con esso la S.C. ha solo ri-
conosciuto in modo esplicito e consapevole alcuni paradigmi decisionali
già invalsi nella giurisprudenza degli ultimi decenni. Trattasi quindi più di

4
  Il riferimento è a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, Cedam,
Padova, 2005, in part. p. 338 ss.
5
  Si consenta ancora il rinvio, per un più ampio sviluppo della materia, a Meruzzi, L’exceptio
doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 348 ss., in part. p. 353 s.
6
  Che all’esito dell’excursus giurisprudenziale svolto giunge alla conclusione che risulta «or-
mai acclarato che anche il principio dell’abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con
riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia pri-
vata, e valutare le condotte che, nell’ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti
contrattuali adottano».
L’oggettivazione del divieto di abuso tra diritto civile e diritto commerciale 99

una consapevole ricognizione e razionalizzazione dell’esistente che di una


individuazione di percorsi argomentativi e tecniche inediti. L’elemento di
vera novità è dato, in realtà, dall’aver messo a nudo che spetta al giurista
sistematico, che non voglia essere passivo spettatore dell’evoluzione giuri-
sprudenziale, definire i limiti e le condizioni d’uso della clausola generale
del divieto di abuso. Spetta in altri termini alla dottrina, tramite l’analisi
sistematica e la critica ragionata dei precedenti, guidare la giurisprudenza
nell’enucleazione delle specifiche regole di condotta in cui si sostanzia il
generale divieto di abuso del diritto.
2.  Il rapporto tra buona fede oggettiva e divieto di abuso
Quanto appena detto induce a un’ulteriore, breve analisi sui rapporti
che intercorrono tra buona fede oggettiva e divieto di abuso. Trattasi infatti
di clausole generali tra loro diverse, come la storia degli istituti dimostra.
É ben noto che lo sviluppo giuridico della regola di buona fede é radica-
to nella tradizione del diritto romano, che alla fides bona e ai iudicia bonae
fidei affidó un ruolo costruttivo dell’ordinamento e di giustificazione alla
creazione pretoria del diritto7. Tale visione della buona fede, che teneva
insieme i profili soggettivi e oggettivi della nozione, ha ricevuto una piú
compiuta elaborazione a opera della dottrina civilistica di fine ottocen-
to, che ha saputo distinguere le nozioni di buona fede soggettiva, intesa
come ignoranza di ledere l’altrui diritto, e buona fede oggettiva, concepita
come clausola generale e dovere a contenuto generico, da cui scaturiscono
i doveri a contenuto specifico enucleati dal giudice coi giudizi di valore,
resi in sede di applicazione del generale criterio di condotta8. Altrettanto

7
  Tanto che, come osserva M. Talamanca, La bona fides nei giuristi romani: «leerformeln» e
valori tutelati dall’ordinamento, in L. Garofalo (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva
nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, IV, Cedam, Padova, 2003, p. 4, dal punto di
vista della bona fides si può «scrivere la storia dell’intera esperienza giuridica romana, o tentare
di farlo». Ritengono la buona fede «one of the most fertile agents in the development of Roman
contract law» S. Whittaker e R. Zimmermann, Good faith in European contract law: surveying
the legal landscape, in S. Whittaker e R. Zimmermann (eds.), Good Faith in European Contract
Law, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, p. 7 ss., in part. p. 17. Sulla
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distinzione con-
cettuale tra fides e bona fides si sofferma P. D. Senn, Buona fede nel diritto romano, in Digesto,
disc. priv., sez. civ., II, UTET, Torino, 1988, p. 129 ss., in part. p. 130 s.
8
  Un ruolo a tal fine centrale fu svolto dalla polemica tra Bruns e Wachter, il primo so-
stenitore della concezione etica della buona fede e il secondo di quella psicologica, destinata a
rimanere il caposaldo concettuale di ogni moderna dottrina in materia. In argomento v. l’accurata
ricostruzione bibliografica di Corradini, Il criterio della buona fede e la scienza del diritto
privato, Giuffrè, Milano, 1970, p. 109 ss., in part. p. 118 e 125, ove il rilievo che per la prima
volta si revoca in dubbio l’unitarietà dalla nozione. Si soffermano sulla disputa, tra gli altri, anche
Montel, Il possesso di buona fede, Cedam, Padova, 1935, p. 107 ss., e, nel vigore dell’attuale
100 Giovanni Meruzzi

noto é che il divieto di abuso del diritto nasce e si sviluppa prima nelle
riflessioni dei giuristi del diritto intermedio e poi in seno al droit coutumier
francese e nel diverso contesto della teoria dei diritti reali, come strumento
per mitigare l’assolutezza del diritto di proprietá e per reprimere gli abusi
proprietari e gli atti emulativi9.
La storia ha tuttavia portato le due nozioni a confluire e in qualche
modo gravitare l’una nell’orbita dell’altra, sino al punto da essere invalsa
la pratica, anche tra gli studiosi del diritto, di immedesimare le nozioni di
violazione del criterio di buona fede oggettiva e di abuso del diritto: chi
abusa del proprio diritto pone in essere un atto contrario alla buona fede
oggettiva, e la violazione del criterio di correttezza é intesa come una forma
di abuso del diritto.
La relazione in tal modo instaurata tra le due clausole generali é stata
cristallizzata dalla giurisprudenza di legittimitá in tempi non lontani, ri-
prendendo un autorevole insegnamento: il divieto di abuso del diritto é si
concettualmente distinto dal dovere di correttezza, ma in un rapporto di
species a genus10. Il divieto di abuso del diritto costituisce infatti una delle
subnorme di diritto oggettivo, o meglio uno dei criteri di condotta, in cui
si estrinseca il generale dovere di buona fede oggettiva11.

Codice, Bigliazzi Geri, Buona fede nel diritto civile, in Digesto, disc. priv., sez. civ., II, UTET,
Torino, 1988, p. 157 s.
9
  In argomento v., senza alcuna pretesa di completezza, Rotondi, L’abuso di diritto, in Riv.
dir. civ., 1923, p. 105 ss., 209 ss., 417 ss., in part. p. 210 e 220 ss. in relazione agli ascendenti
romanistici dell’aemulatio, e p. 273 ss., ove riferimenti alle opere di Bartolo, Cino da Pistoia,
Alessandro Tartagna, Alciato; Gualazzini, Abuso del diritto (dir. intermedio), in Enc. dir., I,
Giuffrè, Milano, 1958, p.163 ss.; Gambaro, Il diritto di proprietà, in Tratt. Cicu-Messineo-Men­
goni, Giuffrè, Milano, 1995, p. 474 ss.
10
  Così Galgano, Trattato di diritto civile, Cedam, Padova, 2015, II, p. 657 ss., in part. p.
659 ss., cui si rinvia per ulteriori riferimenti.
11
  La concezione è fatta propria da Cass., 18 ottobre 2003, n. 15482, in Nuova giur. civ.
comm., 2004, I, p. 305 ss., con nota Grondona, Disdetta del contratto, abuso del diritto e clau­
sola di buona fede: in margine alla questione del precedente giudiziale; Foro it., 2004, I, c. 1845
ss., con nota redazionale Colangelo; Giust. civ., 2004, I, p. 3011 ss.; Giur. it., 2004, p. 2064
ss., con nota Bergamo, L’abuso del diritto ed il diritto di recesso, che in linea con la ricostru-
zione sistematica proposta da Galgano afferma che «nel nostro sistema legislativo è implicita
una norma che reprime ogni forma di abuso del diritto, sia questo il diritto di proprietà o altro
diritto soggettivo, reale o di credito. L’abuso del diritto consiste, secondo questa autorevole
dottrina, nell’esercitare il diritto per realizzare interessi diversi da quelli per i quali esso è ri-
conosciuto dall’ordinamento giuridico. … Specifica ipotesi di violazione dell’obbligo di buona
fede nell’esecuzione del contratto viene considerata proprio l’abuso del diritto, individuato nel
comportamento del contraente che esercita verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o
dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati» (p.
308). L’orientamento è ribadito proprio dalla pronuncia di Cass., 18 settembre 2009, n. 20106,
secondo la quale «criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva è quello
L’oggettivazione del divieto di abuso tra diritto civile e diritto commerciale 101

Tale visione dottrinale e giurisprudenziale coglie nel segno quando fa


convergere le due clausole generali nello specifico ambito del diritto delle
obbligazioni e dei contratti. Qui infatti, come altrove dimostrato, il divieto
di abuso e il criterio di buona fede oggettiva svolgono, in sinergia tra loro,
l’unitaria funzione di selezione degli interessi meritevoli nella fase attuati-
va del rapporto obbligatorio e concorrono nel delineare i rimedi offerti a
chi subisce le conseguenze delle condotte contrarie alla generale direttiva
che impone alle parti del rapporto obbligatorio di tenere comportamenti
coerenti o, in alternativa, di astenersi dal tenere comportamenti che, pur
formalmente rispettosi degli impegni assunti, siano contrari allo scopo per
il quale é sorto il vincolo obbligatorio12.
Essa tuttavia, se intesa in senso rigido, finisce per indebitamente limitare
l’ambito operativo del divieto di abuso al solo diritto delle obbligazioni
e dei contratti. Circostanza, questa, contraddetta non solo dal dato nor-
mativo (v. per tutti l’art. 840 c.c. in tema di atti emulativi e l’art. 330 c.c.
sull’abuso della potestá genitoriale), ma da quella stessa giurisprudenza che
applica senza difficoltá il divieto di abuso in ambiti ben diversi dal diritto
delle obbligazioni e dei contratti13.

3.  La natura oggettiva del divieto di abuso: gli apporti della dottrina
e il contributo della giurisprudenza d’impresa e societaria. Suoi corollari
operativi
Le conclusioni cui si è giunti nei precedenti paragrafi danno ragione
della tendenza, ormai del tutto univoca in dottrina, a considerare il divieto
di abuso come una fattispecie oggettivata, la cui operativitá prescinde dalla

dell’abuso del diritto», con il risultato che in conseguenza «di tale, eventuale abuso, l’ordinamen-
to pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati
in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla
buona fede oggettiva».
12
  Per un più ampio sviluppo della tesi si rinvia a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile
al diritto commerciale, p. 355 ss. e 525 s. Esplicità nel recepire tale impostazione è la pronuncia
di Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, ove si legge che nella prospettiva di una lettura costitu-
zionalmente orientata del criterio di buona fede oggettiva e del divieto di abuso «i due principii
si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta
delle parti, anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia
privata e, prospettando l’abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo
per i quali essi sono conferiti».
13
  Cfr. ancora Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, p. 358 s., cui
adde ��Busnelli – Navarretta, Abuso del diritto e responsabilità civile, in Diritto privato, 1997
(III), p. 359. Per ulteriori e più ampi sviluppi v. inoltre gli altri contributi pubblicati in questo
volume, dedicati agli specifici settori, del diritto privato e non, in cui emerge ormai con chiarezza
l’uso giurisprudenziale del divieto di abuso.
102 Giovanni Meruzzi

presenza e dalla prova dell’intento riprovevole o comunque illecito in capo


a chi l’abuso pone in essere14
A favore di tale conclusione militano vari aspetti.
In primo luogo la tendenza, ormai ben consolidata, a tradurre le ipotesi
di abuso in fattispecie di responsabilità oggettiva15.
Oltre a ció, la giá vista riconduzione del divieto di abuso, in rapporto
di species a genus, alla buona fede oggettiva e alle altre clausole generali
presenti nell’ordinamento, della cui natura di rimedio oggettivo non è più
dato dubitare16.
Infine e soprattutto, la circostanza che il divieto di abuso sanziona ipo-
tesi di obiettiva difformità tra interesse tutelato in astratto dalla norma e
interesse perseguito in concreto tramite l’esercizio del diritto, riconducen-
do così la sua concreta applicazione, in contiguità con il principio causali-
stico che connota l’ordinamento giuridico italiano, all’alveo della già vista
funzione selettiva, come da ultimo riconosciuto proprio nel caso Renault17.
La giurisprudenza in materia societaria e di diritto d’impresa ha fornito
un fondamentale contributo nel chiarire tale aspetto. Nella sent. 15592/2000,
e quindi ben prima del caso Renault, la S.C., in una fattispecie di abuso del
diritto avente a oggetto l’impugnativa del bilancio d’esercizio, ha ritenuto
che rileva sul punto «l’esigenza di disancorarne gli elementi costitutivi da
aspetti e valutazioni essenzialmente soggettive e di ricercare – per quanto
possibile – più chiari e sicuri contorni di natura oggettiva»18. Merita rilevare
che la statuizione della Corte è riferita a un caso di applicazione negativa

14
  Così, ex multis, Rotondi, L’abuso del diritto, cit., p. 119; Gambaro, Abuso del diritto. II)
Diritto comparato e straniero, in Enc. giur. Treccani, I, Ist. enc. it., Roma, 1988, p. 1 ss., in part.
p. 7; Patti, Abuso del diritto, in Digesto, disc. priv., sez. civ., I, UTET, Torino, 1989, p. 1 ss., in
part. p. 8; Pignataro, Buona fede oggettiva e rapporto giuridico precontrattuale: gli ordinamenti
italiano e francese, ESI, Napoli, 1999, p. 39 e 43; Messinetti, Abuso del diritto, in Enc. dir.,
Aggiorn. II, Giuffrè, Milano, 1998, p. 1 ss., in part. p. 4 e 9.
15
  Di tale avviso il già cit. Gambaro, Abuso del diritto. II) Diritto comparato e straniero, p. 7.
16
  Per un’organica trattazione sul profilo, legato al progressivo emergere della regola di cor-
rettezza come norma giuridica primaria, si rinvia ancora a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto
civile al diritto commerciale, cit., p. 175 ss., ove ulteriori riferimenti.
17
  V. in part. il passaggio della pronuncia già cit. ante, in nota 6.
18
  Cass., 11 dicembre 2000, n. 15592, in Giust. civ., 2000, I, p. 2439 ss., con nota Costanza,
Brevi note per non abusare dell’abuso del diritto; Giur. it., 2001, p. 1887 ss., con note Giusti, Im­
pugnative di bilancio ed exceptio doli, e Bergamo, Abuso del diritto e impugnativa del bilancio;
Foro it., 2001, I, c. 3274 ss.; Riv. dir. comm., 2001, II, p. 197 ss., con nota ASTONE, Impugnativa
di bilancio e divieto di venire contra factum proprium, la cui motivazione prosegue affermando
che «non si può negare, infatti, che un’impostazione esclusivamente o prevalentemente sogget-
tivistica rischia di far sovrapporre la personale valutazione dell’interprete – e, in particolare, del
giudice – alle regole di corretto svolgimento della vita dei singoli istituti giuridici e, per quanto
qui interessa, alla disciplina delle società».
L’oggettivazione del divieto di abuso tra diritto civile e diritto commerciale 103

del divieto di abuso: non costituisce in sè abuso, nella forma dell’exceptio


doli conseguente al divieto di venire contra factum proprium, la circostanza
che la medesima persona che ha concorso, in qualità di amministratore
di una società, all’approvazione del bilancio di esercizio proceda, in un
momento successivo, all’impugnazione dello stesso bilancio in qualità di
socio, qualora non sia data ulteriore prova della violazione in concreto, da
parte sua, del criterio di correttezza19.
D’altro canto nell’ambito del diritto d’impresa, e in particolare dei
rapporti tra imprenditore «debole» e non, è la stessa sentenza Renault a
riconoscere la natura oggettiva dell’abuso, affermando la necessità che la
valutazione in ordine alla sussistenza dell’abuso prescinda da ogni indagine
sulla presenza di un animus nocendi, a maggior ragione in situazioni di
disparità di potere contrattuale20.
La repressione della condotta abusiva non passa quindi, al di fuori dei
casi normativamente tipizzati, per la prova di un animus nocendi o, in
ogni caso, di un intento emulativo in capo a colui che abusa del proprio
diritto. È l’obiettiva divergenza tra l’interesse tutelato dalla norma e la
finalità sottesa alla sua attribuzione e connotare in termini di abusività la
condotta. In altri termini, ai fini del giudizio di abusività non conta l’aver
voluto danneggiare colui che subisce la condotta abusiva, bensì l’aver fatto
uso del diritto riconosciuto per il perseguimento di scopi che, in ragione
della complessiva attività posta in essere, appaiono diversi da quelli per
la cui realizzazione il diritto è riconosciuto dall’ordinamento, e in sé non
meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico21.

19
  Ciò in quanto, «in presenza della norma di cui all’art. 2377, 2° comma, c.c., ed in difetto
di qualsiasi restrizione all’esercizio del diritto d’impugnazione delle delibere difformi dalla legge
e/o dall’atto costitutivo … è ben difficile ipotizzare un abuso dello stesso diritto di impugnativa.
Infatti, per superare il principio secondo cui non può arrecar danno ad alcuno chi usa di un pro-
prio diritto nei termini e modalità previsti dalla legge e con finalità riconosciute come meritevoli
di tutela (l’azione essendo volta a ripristinare il rispetto della legge e/o dell’atto costitutivo),
occorre dimostrare l’esistenza di un quid pluris, per integrare l’abuso del diritto d’impugnativa.
Tale elemento aggiuntivo, che potrebbe astrattamente esser costituito dalla violazione dei principi
di correttezza e buona fede, intesa come regola di comportamento, non può essere individuato
semplicemente nell’identità soggettiva di chi abbia prima approvato il (progetto di) bilancio nella
qualità di amministratore e, poi, impugnato la delibera assembleare di approvazione».
20
  Infatti per Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, nel caso «di eventuale, provata disparità di
forze fra i contraenti, la verifica giudiziale del carattere abusivo o meno del recesso deve essere
più ampia e rigorosa, e può prescindere dal dolo e dalla specifica intenzione di nuocere: elementi
questi tipici degli atti emulativi, ma non delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di
dipendenza economica».
21
  Tale in sostanza è la conclusione cui perviene la più volte citata pronuncia Renault, quando
in sede di critica della pronuncia oggetto di ricorso e di introduzione dei criteri cui sarà tenuto a
conformarsi il Giudice del rinvio afferma che la Corte d’Appello «in concreto, avrebbe dovuto
104 Giovanni Meruzzi

4.  Il divieto di abuso in ambito societario e la metamorfosi delle sue


condizioni d’uso
Proprio la descritta valutazione di abusività, intesa come divergenza tra
scopo in concreto perseguito e ragioni poste a fondamento delle specifiche
facoltà o diritti attribuiti dall’ordinamento, dà conto delle metamorfosi
che il divieto d’abuso subisce nel diritto societario e dell’ambivalenza che
connota storicamente la dottrina giuscommercialistica nel rapporto con
tale clausola generale e, più in generale, col criterio di correttezza.
Da un lato, infatti, la dottrina e la giurisprudenza in materia societaria
sono da sempre state più inclini al ricorso a tali rimedi, sia in forma occulta
che tramite la teoria amministrativistica dell’eccesso di potere, in coerenza
con la tradizionale maggior sensibilità degli studiosi del diritto commer-
ciale al momento giurisprudenziale del diritto22.
Dall’altro, e al contempo, parte della dottrina ha evidenziato, pur in
tempi recenti, il rischio che con il ricorso all’abuso del diritto e alle altre
clausole generali si finisca per attribuire al giudice un autentico potere di
governo della società, non coerente con la logica del diritto societario23.
Sotto tale profilo la tendenza a limitare l’operatività dei giudizi di valore
in materia societaria, e la riluttanza a un loro utilizzo estensivo, possono
essere visti come un’opzione dell’interprete a vantaggio del criterio della
insindacablità delle scelte gestorie da parte del giudice.
In realtà una più appropriata visione della materia, che esamini la questio-
ne interpretando l’andamento della giurisprudenza senza aprioristiche prese
di posizione in un senso o nell’altro, non può prescindere dalla presa d’atto
che l’applicazione del divieto di abuso e, più in generale, della regola di cor-
rettezza nel diritto societario passa attraverso la nozione di interesse sociale,
inteso come criterio alla cui stregua valutare la concreta attuazione del rap-
porto societario da parte sia dei soci che dei componenti degli organi sociali.
Senza addentrarsi in questa sede in un esame puntuale di un profilo tra
i più complessi della teoria del diritto societario, va condivisa, per i fini che

valutare – e tale esame spetta ora al giudice del rinvio – se il recesso ad nutum previsto dalle
condizioni contrattuali, era stato attuato con modalità e per perseguire fini diversi ed ulteriori
rispetto a quelli consentiti», prescindendo quindi da ogni volontà di danneggiare la parte che
ha subito il recesso.
22
  In materia è ancor oggi fondamentale, quanto alla ricostruzione storico-sistematica, il
contributo di Gambino, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni,
Giuffrè, Milano, 1987, in part. p. 77 ss. quanto all’istituto dell’eccesso di potere, cui si rinvia per
ulteriori riferimenti.
23
  Il riferimento è al saggio di C. Fois, Le clausole generali e l’autonomia statutaria nella
riforma del sistema societario, in Giur. comm., 2001, I, p. 421 ss., in part. p. 436 e 452.
L’oggettivazione del divieto di abuso tra diritto civile e diritto commerciale 105

qui interessano, la visione funzionalistica dell’interesse sociale proposta da


chi in esso ravvisa una tecnica per «impedire ad un soggetto di perseguire
strategicamente il proprio interesse esclusivo … e di obbligarlo, invece, a
tener conto degli interessi di altri soggetti»24. Così inteso l’interesse sociale
costituirebbe il punto di convergenza tra i molteplici e talora confliggenti
interessi perseguiti dai soci e dai componenti degli organi sociali in sede
di attuazione del rapporto societario, e il criterio alla cui stregua valutare
la legittimità delle condotte da essi tenute. Ciò in quanto, come peraltro
ormai pacificamente acquisito in dottrina, l’interesse sociale:
–  è il punto di incontro tra i molteplici interessi, dei soci e dei soggetti
«altri», che convergono nell’attuazione dell’oggetto sociale25;
–  è strettamente legato alla profilo causale del contratto di società, nel
cui ambito la causa assume una struttura complessa, ovvero l’esercizio in
comune di un’attività economica volta alla realizzazione del lucro, ogget-
tivo e soggettivo26;
–  implica la necessità, per quanto concerne il ricorso al divieto di abuso
in ambito societario, di considerare, in relazione al giudizio di abusivi-
tà della condotta lamentata, il coordinarsi dei molteplici interessi presenti
nel rapporto societario ed il loro bilanciato perseguimento nel rispetto, in
particolare per quanto attiene alla disciplina delle società per azioni, del
principio di maggioranza.
Ne deriva che, in ambito societario:
a)  il divieto di abuso consente il sindacato giudiziale sui diritti potesta-
tivi (di voto, ma non solo) che derivano dal contratto di società e che sono
connaturati alla natura plurilaterale e di durata del rapporto societario, per
il cui tramite si attua un governo della discrezionalità, gestoria e partecipa-
tiva, in sede di attuazione del rapporto societario;
b)  il discrimine tra condotte legittime e condotte abusive è costituito
dal tipo di interesse, sociale o extrasociale, in concreto perseguito da chi si
assume aver agito con abuso;
c)  non sussiste pertanto abuso sin quando si persegue uno degli interes-
si che in astratto rientrano nella causa del contratto di società;

24
  In tal senso, testualmente, Denozza, L’interesse sociale tra «coordinamento» e «coope­
razione», in L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders,
Giuffrè, Milano, 2009, p. 9 ss., in part. p. 9.
25
  Oltre all’appena cit. contributo di Denozza v. ex multis le riflessioni svolte da Angelici,
La società per azioni e gli «altri», in L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione
degli stakeholders, cit., p. 45 ss.
26
  Restano in materia centrali le riflessioni svolte da Galgano, Diritto commerciale. II. Le
società, Zanichelli, Bologna, 2013, p. 19 ss.
106 Giovanni Meruzzi

d)  nell’ambito operativo del divieto di abuso rientrano soltanto le


condotte potenzialmente idonee a pregiudicare l’interesse della compagi-
ne sociale, in quanto volte al perseguimento di interessi individuali, dei
soci o degli amministratori, non coerenti con le finalità insite nel rapporto
sociale.
I criteri sistematici enucleati giustificano in termini operativi, e dal punto
di vista dell’osservatore confortano, la maggior cautela della giurisprudenza
nell’applicazione del divieto di abuso in tale settore del diritto privato, ove
minore è l’incidenza dei precedenti che lo applicano e più restrittivi sono i
parametri di operatività delle già menzionate clausole generali. Conferma
se ne trae dalla stessa analisi della casistica, sostanzialmente concentrata
sulle tradizionali fattispecie dell’abuso della maggioranza sociale a danno
della minoranza e, più di recente, degli abusi delle minoranze di blocco.
5.  Abusi assembleari e abusi nella gestione sociale: alcuni casi tipiz-
zati
L’abuso di maggioranza sociale a danno della minoranza costituisce in-
fatti la fattispecie più di frequente posta all’attenzione delle Corti e su cui
più ampia è la tipizzazione giurisprudenziale.
La riflessione in materia vanta peraltro un’elaborazione dottrinale ben
più datata di quella relativa all’applicazione del criterio di buona fede
oggettiva al rapporto societario e ai diritti e doveri che derivano dalla
partecipazione sociale, come dimostra la circostanza, su cui qui non ci si
sofferma, che la giurisprudenza, seguendo l’insegnamento di Carnelutti,
mutuava al diritto societario la teoria amministrativistica dell’eccesso di
potere, invalidando la delibera assunta dalla maggioranza sociale a danno
della minoranza proprio in quanto assunta in eccesso di potere27. Voce
non meno autorevole come quella di Pietro Rescigno ravvisava, nel suo
noto saggio in tema di abuso del diritto, nella condotta abusiva dei soci
di maggioranza l’emergere di un motivo illecito, rilevante ex art. 1345
c.c. in termini di invalidità della delibera, proponendo un modello ar-
gomentativo ancora una volta sganciato dal ricorso al criterio di corret-
tezza, di cui vi è perdurante traccia nella più recente giurisprudenza di
merito28.

27
  Il riferimento è allo scritto di Carnelutti, Eccesso di potere nelle deliberazioni dell’as­
semblea delle anonime, in Riv. dir. comm., 1926, I, p. 180 ss. Per un excursus giurisprudenziale
in tema di applicazione della teoria dell’eccesso di potere si rinvia ancora a Gambino, Il principio
di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni, cit, p. 77 ss.
28
  Il profilo è trattato nel noto saggio di Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965,
I, p. 205 ss., ora riedito in Id., L’abuso del diritto, Il Mulino, Bologna, 1998, in part. p. 79. Ne
L’oggettivazione del divieto di abuso tra diritto civile e diritto commerciale 107

È solo con gli studi di Piergiusto Jaeger prima e di Disiano Preite nei
primi anni ’90 dello scorso secolo che prende corpo, in parallelo con la
riscoperta e lo sviluppo teorico della clausola generale della buona fede
oggettiva, la riconduzione del divieto di abuso in ambito societario alla
correttezza in executivis, aprendo la strada al filone giurisprudenziale oggi
di gran lunga dominante e al conseguente abbandono della teoria dell’ec-
cesso di potere29.
Nella giurisprudenza di legittimità il punto di svolta è costituito dal
noto leading case deciso con la pronuncia 11151/1995, con la quale la Su-
prema Corte ha ricondotto l’abuso della maggioranza alla violazione della
buona fede oggettiva30.
Trattasi di pronuncia rilevante sotto vari aspetti. Oltre ad aver consentito
il rapido abbandono della teoria amministrativistica dell’eccesso di potere e
la sua sostituzione con la privatistica regola di correttezza, la sentenza ha
costituito il punto di partenza proprio del processo di oggettivazione della
nozione di abuso del diritto, sostituendo la prova dell’intento fraudolento
come elemento costitutivo della fattispecie con una valutazione in termini
del tutto obiettivi della condotta dell’abusante31. Quanto all’impatto del
precedente nello specifico ambito del diritto societario, con esso la prova
della voluntas nocendi è stata sostituita dalla (diversa) prova dell’esistenza
dell’interesse extrasociale perseguito dall’abusante a danno dei soci e della
società32.
Trattasi quindi non di un venir meno dell’onere della prova, quanto di
una diversa sua focalizzazione: non più sulla natura fraudolenta o dolosa
della condotta, quanto sul tipo di interesse perseguito tramite la condotta

fa applicazione Trib. Milano, 15 maggio 2008, in Società, 2009, con nota Margiotta, La legit­
timazione attiva del socio all’impugnazione delle delibere assembleari.
29
  Il riferimento è ai contributi monografici di JAEGER, L’interesse sociale, Giuffrè, Milano,
1972 e di Preite, L’»abuso» della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle
società per azioni, Giuffrè, Milano, 1992.
30
  Cass., 26 ottobre 1995, n. 11151, in Giur. comm., 1996, II, p. 329 ss., con nota di Jaeger,
Angelici, Gambino, Costi, Corsi; Giust. civ., 1996, I, p. 381 ss., con nota Schermi; Giur. it.,
1996, I, 1, c. 574 ss.; Società, 1996, p. 295 ss., con nota Batti.
31
  [nota da integrare]
Il principio è stato successivamente ripreso, in diverso contesto, nella più volte cit. pronuncia
Renault, ove si afferma che nell’ipotesi dell’abuso del diritto risulta «alterata la funzione obiettiva
dell’atto rispetto rispetto al potere che lo prevede».
32
  In tal senso, da ultimo, Cass., 17 luglio 2007, n. 15942 [da citare]
Sul punto v. anche Trib. Napoli, 24 maggio 2006, in … per la quale la delibera è valida se
ha una propria ed autonoma giustificazione, e Trib. Bologna, 9 luglio 2009, che in tema di ri-
partizione dell’onere della prova fa incombere sul socio impugnante la prova dell’abusività della
condotta lamentata.
108 Giovanni Meruzzi

tenuta, ovvero sulla sua riconducibilità e coerenza rispetto a uno dei vari
interessi sussumibili nella nozione di interesse sociale.
È peraltro evidente che la riconduzione della fattispecie alla violazione
del dovere di correttezza induce a una rigorosa valutazione della condotta,
che consideri, nel perseguire da parte del supposto abusante uno tra gli
astratti interessi sussumibile nell’ambito della nozione di interesse sociale,
anche la necessità di salvaguardare gli interessi degli altri soci e gli ulteriori
riconducibili all’interesse sociale, ove ciò non costituisca un apprezzabile
sacrificio del proprio33.
Sarebbe peraltro un errore di analisi valutare la materia del divieto
di abuso in ambito societario limitandosi alla sola fattispecie tipizzata
dell’abuso di maggioranza. Nella più recente giurisprudenza emergono in
parallello altre fattispecie tipizzate, oltre a vari casi di applicazione pun-
tuale del divieto di abuso, sia in via autonoma che sub specie di violazione
della regola di correttezza.
Tra le fattispecie tipizzate va ricordato l’abuso della minoranza sociale,
noto in vari ordinamenti europei e divenuto anche in Italia attuale prima
per le sole società quotate, con l’introduzione nel Tuf del previgente art.
126, e poi per le società azionarie in generale, atteso il regime deliberativo
delle assemblee straordinarie introdotto con la novellazione del 2003 (cfr.
art. 2368 c.c.), che ha creato i presupposti del fenomeno delle c.d. mino-
ranze di blocco.
Non è certo questa la sede per soffermarsi sulla nozione di abuso di
minoranza, intesa come esercizio, da parte delle minoranze, di prerogative
di gruppo o di diritti individuali per conseguire diretti o indiretti vantaggi
individuali a danno dei soci di maggioranza o della stessa società34, né per
per affrontare la complessa questione del tipo di tutela che in questa ipotesi
l’ordinamento appronta, sia essa (solo) risarcitoria o anche reale35. Merita

33
  Ciò in coerenza con la concezione della buona fede oggettiva come dovere di lealtà e
salvaguardia, … [bianca], ad oggi fatta propria dalla Cassazione e dalla giurisprudenza di merito.
34
  [In part.: opposizione a realizzare un’operazione essenziale per la società, finalizzata
solo a favorire i propri interessi a danno degli altri soci.
Portale, Galgano: anche il comportamento delle minoranze, che azionino diritti loro
riconosciuti per perseguire fini non coerenti con la causa del contratto di società pongono
in essere una condotta di per sé illecita].
35
  [Problema della sanzione ammissibile:
a)  tutela risarcitoria: ammessa pacificamente;
b)  esclusione della minoranza ostruzionistica: ammessa in altri ordinamenti, ma non
consentita nel diritto italiano (Portale);
c)  invalidazione della delibera (negativa) assunta a seguito della condotta ostruzioni-
stica: si pone il problema dell’ammissibilità dell’impugnazione della c.d. delibera negativa
(contra: Portale e Trib. Milano, 29/11/2003; incerto Cian; a favore Trib. Catania, 10/8/2007,
L’oggettivazione del divieto di abuso tra diritto civile e diritto commerciale 109

solo rilevare, per quanto qui di interessa, che anche nella valutazione della
condotta tenuta dalle minoranze sociali viene in gioco una valutazione in
termini oggettivi della condotta tenuta, ovvero se questa sia coerente col
perseguimento di un interesse dei soci di minoranza sussumibile nell’alveo
dell’interesse sociale.
Quanto alle fattispecie non tipizzate, occorre prendere atto del sem-
pre più frequente ricorso al divieto di abuso per approntare tutela in
situazioni che investono sia i rapporti tra soci e fra questi e la società, sia
le condotte dei componenti degli organi di amministrazione e controllo,
e in particolare gli amministratori, poste in essere a detrimento dell’inte-
resse sociale.
Tra le numerose ipotesi meritano di essere qui ricordate quelle relati-
ve a:
–  l’esclusione del socio di società di persone per grave inadempimento,
determinata dalla sua condotta abusiva e dalla conseguente violazione dei
doveri scaturenti dal criterio di correttezza36;
–  la possibilità, per il socio di cooperativa, di esercitare il diritto di
recesso avvalendosi della finzione di avveramento ex art. 1359 c.c. nel caso
di inerzia dell’assemblea nell’accertare il venir meno del vincolo sociale,
secondo quanto previsto dallo statuto37;
–  il divieto, per il creditore pignoratizio, di abusare del diritto di voto
di cui è titolare38;
–  la sottoposizione del socio al criterio di correttezza nell’acquisire co-
pia della documentazione sociale39;
–  l’obbligo per gli amministratori di rispettare le regole di correttezza
nella definizione del rapporto di concambio in sede di fusione40;
–  il riconoscimento della natura abusiva della delibera assembleare di
accantonamento degli utili quando, in assenza di motivazione in ordine alle
ragioni sociali che la giustificano, sia caratterizzata da un intento vessatorio
nei confronti della minoranza41;

in relazione a delibera negativa di approvazione del bilancio, da cui derivi lo scioglimento


dello società);
d)  Galgano: in tal caso il giudice può escludere dal quorum deliberativo le azioni dei soci
portatori di un interesse di minoranza in conflitto con quello sociale. Ergo: si dà per appro-
vata la proposta di delibera respinta con il voto determinante della minoranza]
36
  Cass., 15/7/1996, n. 6410 (in termini di abuso); adde Cass., 19/12/2008, n. 29776
37
  Cass., 6/4/2001, n. 5126
38
  Trib. Gorizia, 30/10/2001
39
  App. Milano, 31/1/2003; anche Trib. Nocera Inf., 24/3/2009
40
  App. Milano, 23/3/2003
41
  Trib. Milano, 28/5/2007; Cass., 29/1/2008, n. 2020
110 Giovanni Meruzzi

–  l’applicazione del divieto d’abuso alle delibere (nel caso, assembleari)


di fissazione di compensi sproporzionati degli amministratori42;
–  la generale limitazione, costituita proprio dal divieto d’abuso, del di-
ritto del socio non amministratore di Srl ad esercitare i diritti di ispezione
e controllo previsti dall’art. 2476, c. 2, c.c.43
A queste vanno poi aggiunte le numerose pronunce che applicano in
modo sia occulto che palese il divieto di abuso nell’ambito concordatario e
degli accordi di ristrutturazione, su cui in questa sede non ci si sofferma44.
Dall’esame di queste fattispecie può senza dubbio desumersi una gene-
rale operatività del divieto di abuso in ambito societario come rimedio ge-
nerale, cui il giudice fa ricorso come fattispecie oggettivata e a prescindere
da ogni esame in ordine alla sussistenza o meno di un animus nocendi o
di intenti emulativi, sulla base di un giudizio di coerenza della condotta
tenuta o della decisione assunta rispetto all’interesse sociale.
6.  Per una concezione non dogmatica del divieto di abuso in ambito
societario
A prescindere quindi dalle posizioni sistematicamente precostituite
a favore o contro l’operatività del divieto di abuso del diritto in ambito
societario, la rapida carrellata della casistica giurisprudenziale in materia
conferma che:
a)  anche in questo settore del diritto privato il divieto di abuso costitu-
isce una tecnica di selezione in concreto degli interessi meritevoli di tutela
e di sindacato giudiziale degli atti di esercizio dei diritti e delle facoltà
derivati dalla stipulazione del contratto di società e dalla costituzione, per
suo tramite, della struttura corporativa45;
b)  la sua concreta operatività è quindi collegata, come riconosce la stes-
sa giurisprudenza, al tema dell’interesse sociale, ovvero al profilo causale
del contratto di società, qui visto nel suo momento attuativo46;
c)  anche in ambito societario il divieto di abuso, inteso come tecnica di
selezione in concreto degli interessi meritevoli di tutela nell’attuazione del

42
  Cass., 17/7/2007, n. 15492, cit.
43
  Trib. Catania, 3/3/2006; Trib. Bologna, 6/12/2006; Trib. Taranto, 13/7/2007; App. Mila-
no, 13/2/2008. V. però anche Trib. Napoli, 13/8/2009, in ordine al (limitato) diritto di accesso
del socio ex amministratore
44
  [Cass., 12/2/2010, n. 3327: ipotesi di abuso della facoltà di approvazione delle proposte
concordatarie da parte dell’assemblea dei creditori sociali [da citare]];
45
  [Meruzzi]
46
  Conclusione, questa, valida per il diritto societario ma mutuabile all’intera teoria generale
del contratto. Sul punto v. ancora [Meruzzi, …]
L’oggettivazione del divieto di abuso tra diritto civile e diritto commerciale 111

rapporto e di valutazione del corretto utilizzo dei diritti e dei poteri che dal
contratto sociale scaturiscono, concorre in generale a definire il contenuto
della funzione selettiva assunta, nell’ordinamento giuridico, dal criterio di
buona fede oggettiva e correttezza.
Se ne deve concludere che anche nel settore del diritto societario il di-
vieto di abuso costituisce regola generale di condotta e uno strumento di
tutela e di repressione dei comportamenti scorretti realizzati sia dai soci nei
loro reciproci rapporti o da questi nei confronti della società, sia dai com-
ponenti dei suoi organi di amministrazione e controllo, in violazione del
generale dovere di perseguire l’interesse sociale o comunque perseguendo
interessi del tutto egoistici ed estranei al rapporto societario.
Operando in sinergia tra loro, buona fede oggettiva e divieto di abuso
costituiscono pertanto lo strumento di riequilibrio operativo degli interessi
perseguiti e di riconduzione dei diritti individuali riconosciuti ai soci e
ai componenti degli organi sociali alla fisiologica esecuzione del rapporto
societario, nonché di bilanciamento dei vari interessi che vengono in gioco
nella sua concreta esecuzione.
112 Giovanni Meruzzi
Parte seconda

Storia della formula e prospettive analitiche


Abuso del diritto nel processo
114 Tommaso dalla Massara
Tommaso dalla Massara
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso
del diritto

Sommario:  1. Uno sforzo di comparazione diacronica applicato all’idea di abuso del


diritto. – 2. Dolo generale: una nozione che si colloca sul terreno processuale. – 3.
Abuso e nuovi interventi della S.C. – 4. Le polarità semantiche emergenti dal diritto
romano classico. – 5. L’eccezione di dolo come mezzo dell’ordinamento pretorio. – 6.
Il dolo generale come figura di illecito. – 7. Il dolo generale nell’elaborazione giuri-
sprudenziale tedesca dell’Ottocento. – 8. Dolo generale e abuso del diritto oggi. – 9. Il
caso della c.d. domanda frazionata quale laboratorio per l’identificazione dei caratteri
dell’eccezione di dolo generale. – 10. Altri possibili percorsi argomentativi con l’obiet-
tivo di sanzionare l’abusività della condotta. – 11. Qualche considerazione di carattere
generale e conclusivo.

1.  Uno sforzo di comparazione diacronica applicato all’idea di abuso


del diritto
Nel ragionamento che vorrei sviluppare in questa preziosa occasione
di dialogo – resasi possibile per impulso di Giovanna Visintini, cui va la
mia gratitudine –, nella quale sono coinvolti molti studiosi impegnati su
un fecondo terreno di analisi di una tra le più discusse categorie del diritto
privato, muovendo però da differenti prospettive, mi prendo anzitutto la
libertà di invertire la direzionalità cronologica del titolo della relazione.
In effetti, se la traccia affidatami richiederebbe di procedere dal dolo
generale verso le moderne teorie sull’abuso, preferisco invece muovere a
ritroso, partendo dalle moderne teorie sull’abuso per risalire dunque al
dolo generale.
In altri termini, l’interrogativo che idealmente pongo in esordio di que-
sto discorso è così compendiabile: quali continuità – accanto alle indubbie,
assai rilevanti, discontinuità – presentano le teorie sull’abuso che oggi tanto
cospicuamente pervadono il nostro dibattito rispetto all’antica figura del
dolo generale, frutto dell’elaborazione dei giuristi romani?
Non si tratta, all’evidenza, di cercare genealogie improprie.
Nella serie delle continuità, l’antecedente immediato dell’odierna figura
abuso di diritto è da vedersi nella teorica sostanzialista e fondamentalmente
dominicale dell’abus de droit di matrice prettamente francese1, ossia in un

1
  Basti il richiamo a L. Josserand, De l’abus des droits, Paris, 1905, nonché a G. Ripert, La
règle morale dans les obligations civiles, Paris, 1925; quell’intuizione dottrinale trovò poi recepi-
116 Tommaso dalla Massara

modello concettuale piuttosto lontano dal perimetro di elaborazione ro-


mana del tema della buona fede; poi, non v’è dubbio che su quella matrice
francese, che nella nostra codificazione del 1942 trovò un’espressione forte
nelle parole dell’art. 833 c.c. in materia di atti emulativi, si sia sviluppato in
Italia un autonomo e significativo ripensamento, in forza del quale sono
state recuperate istanze provenienti dalla cultura giuridica tedesca2, nonché
– specie per il tramite di questa – dalla tradizione romanistica, fino all’assai
cospicua riprofilazione del tema realizzatasi con maggior intensità negli ul-
timi cinquant’anni3.
Si tratta di cimentarsi in uno sforzo di comparazione diacronica assai
complesso, dunque: tuttavia, quella di proporre nell’arco breve di que-
sta relazione una comparazione tra l’abuso del diritto e il dolo generale
rappresenta una sfida – che gli organizzatori di questo convegno fiducio-
samente mi pongono dinnanzi – la quale merita senza dubbio di essere
raccolta.
Orbene, per quanto si sia appena detto che il rapporto tra abuso del
diritto e dolo generale non può essere inteso come di natura immediata-
mente genealogica, nondimeno si tratta qui di istituire un confronto tra
presente e passato.
Come di fronte a ogni sforzo di archeologia del sapere, si pongono

mento giurisprudenziale, per esempio, in Chambre Reg. 3 agosto 1915, citata in Les grands arrêts
de la jurisprudence civile, Paris, 1984, 254. Sulla tradizione francese dell’abuso di diritto, si veda
G. Durry, La conception jurisprudentielle de l’abus de droit, in Rev. trim. droit civ., 1972, 395.
2
  Su cui si veda infra § 7.
3
  La letteratura italiana sull’abuso del diritto appare ormai difficile da compendiare: senza
pretesa di esaustività, si veda dapprima U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abu­
so del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 18 ss.; S.
Romano, voce Abuso del diritto, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 168 ss.; nonché poi il decisivo
punto di svolta rappresentato da P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205
ss. (ora pubblicato in forma autonoma, Bologna, 1998, 13 ss.); quindi S. Patti, Profili della
tolleranza nel diritto privato, Napoli, 1978, 111 ss.; Id., voce Abuso del diritto, in Dig. disc.
priv. – sez. civ., I, Torino, 1987, 1 ss.; Id., Vicende del diritto soggettivo, Torino, 1999, 17 ss.;
D. Messinetti, voce Abuso del diritto, in Enc. dir., Aggiornamento, II, Milano, 1998, 1 ss.; C.
Salvi, voce Abuso del diritto. I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1988, 1 ss.; A.
Gambaro, voce Abuso del diritto. II) Diritto comparato e straniero, in Enc. giur. Treccani, I,
Roma, 1988, 1 ss.; G. Levi, L’abuso del diritto, Milano, 1993; R. Sacco, Il diritto soggettivo.
L’esercizio e l’abuso del diritto, in Tratt. dir. civ. diretto da R. Sacco, Torino, 2001, 281 ss., in
specie 309 ss.; S. Viaro, Abuso del diritto ed eccezione di dolo generale, in L’eccezione di dolo
generale. Applicazioni giurisprudenziali e teoriche dottrinali, a cura di L. Garofalo, Padova,
2006, 1 ss.; C. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007; M.
Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolamentazione teleologicamen­
te orientata del traffico giuridico, in Riv. dir. civ., 2014, 467 ss.; di recente, cfr. anche la pano-
ramica comparatistica proposta da R.T. Bonanzinga, Abuso del diritto e rimedi esperibili, in
www.comparazionedirittocivile.it.
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 117

numerose difficoltà metodologiche4. E si tratta di difficoltà che appaiono


ancor più gravi perché l’esplorazione condotta sull’esperienza del diritto
privato romano ci mette a cospetto di una delle sue categorie più ampie
e al contempo sofisticate: il dolo generale rappresenta in effetti una delle
grandi ‘invenzioni’ del diritto romano5.
In particolare con riguardo al dolo generale, occorre dunque che sia
sperimentata un’analisi critica attenta di nomi e di cose, in forza della
quale siano evitati processi di facile identificazione. Come pure biso-
gna non commettere errori di segno opposto, ossia di vedere cose dif-
ferenti ove a divergere siano soltanto i nomi con cui quelle cose sono
indicate.
Di sicuro si può dire fin d’ora che il confronto con il diritto romano
autorizza a una considerazione che si presta a rappresentare, al contempo,
la premessa e la conclusione di questo mio intervento.
Appare necessario evitare ogni richiamo puramente retorico alla fi-
gura dell’abuso del diritto: così facendo, l’abuso del diritto rischia altri-
menti di ridursi a un contenitore insignificante, in grado di portare con
sé tutto e il suo contrario, quasi che il nomen iuris basti a veicolare effi-
cacemente ogni tipo di considerazione equitativa, sostanzialista, aforma-
le, ma anche spesso – in ultima analisi – piuttosto semplificante se messa
a paragone con il necessario sforzo di attenta e faticosa analisi giuridica
dei problemi. Oppure, per bene che vada, si tratterebbe di un impie-
go della figura dell’abuso del diritto in chiave meramente argomentativa,
ossia da intendersi come strumentale rispetto all’obiettivo di giustificare
una decisione di prevalenza tra principi regolativi virtualmente rivali sul-
la base delle rispettive rationes6.
Un’attenta comparazione diacronica sul terreno del dolo generale indu-
ce proprio a evitare qualsivoglia semplificazione.
Prima ancora di entrare in medias res, occorre infatti dire che il diritto
romano ricava dal principio di bona fides un’infinita varietà di soluzio-

4
  Sulla genealogia del sapere il rinvio è, inevitabilmente, a Michel Foucault, il quale avverte
che ogni discorso sulle continuità/discontinuità nasconde il rischio di un irrigidimento: «nozione
paradossale, quella di discontinuità: infatti è contemporaneamente oggetto e strumento di ricer-
ca», giacché quel discorso presuppone lo stesso «movimento regolatore» all’interno del quale
esso si colloca; si veda M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia
della cultura, trad. it. di G. Bugliolo, Milano, 2009, in specie 13 ss.
5
  Sul diritto come ‘invenzione’ romana, cfr. A. Schiavone, ‘Ius’. L’invenzione del diritto in
Occidente, Torino, 2005, in specie 5.
6
  In questa prospettiva, A. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, in Riv. dir. civ.,
2012, I, in specie 321.
118 Tommaso dalla Massara

ni7, molte delle quali proprio in collegamento con l’idea di dolo generale8;
inoltre, che la relazione tra bona fides e dolo generale è di esatta antitesi9:
proprio nella misura in cui una condotta appaia connotata da dolo, e così
pure dal dolo generale, essa genera nei giuristi romani l’esigenza di uno
sforzo teso a far prevalere il principio di buona fede attraverso una sottile
analisi del caso di specie10.
Fondamentale è però sempre tenere presente che – lo vorrei ribadire
– nella giurisprudenza romana ogni soluzione collegata ad argomenti di
buona fede e di dolo presuppone analisi sottili e passa attraverso strumenti
tecnicamente elaborati.
2.  Dolo generale: una nozione che si colloca sul terreno processuale
Se è vero quanto appena premesso, ossia che nel diritto romano il
dolo costituisce la figura antitetica rispetto alla buona fede e che proprio
nell’ambito di quest’ultima sono rinvenute dai giuristi romani soluzioni
tecnicamente elaborate sulla base del caso di specie, è ora da dire che larga
parte di quelle soluzioni sono affidate all’operatività del peculiare strumen-
to, connesso al funzionamento del processo formulare11, che è rappresen-
tato dall’eccezione di dolo generale.

7
  Per una prima ricognizione sulla buona fede romana, F. Ranieri, voce Good Faith, in
The Max Planck Encyclopedia of European Private Law, I, Oxford, 2012, 790 ss.; cfr. inoltre
R. Cardilli, ‘Bona fides’ tra storia e sistema, Torino, 2004; Id., La buona fede come principio
di diritto dei contratti: diritto romano e America latina, in Roma e America, XIII, 2002, 123 ss.;
M.J. Schermaier, ‘Bona fides’ in Roman Contract Law, in Good Faith in European Contract
Law, a cura di R. Zimmermann – S. Whittaker, Cambridge, 2000, 87 ss.; G. Grosso, voce Buona
fede (dir. romano), in Enc. dir., V, Milano, 1959, 661 ss. Per una rappresentazione più sfaccettata
del grande tema della buona fede, muovendo dal diritto romano attraverso le sue diramazioni
diacroniche, si vedano i contributi raccolti nei quattro volumi dedicati a Il ruolo della buona fede
oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di
studi in onore di A. Burdese (Padova – Venezia – Treviso, 14-15-16 giugno 2001), a cura di L.
Garofalo, Padova, 2003.
8
  In argomento, si rinvia anzitutto ai contributi contenuti in L’eccezione di dolo generale.
Diritto romano e tradizione romanistica, a cura di L. Garofalo, Padova, 2006.
9
  Cfr. D. 17.2.3.3 (Paul. 32 ad ed.): […] bona fides contraria est fraudi et dolo.
10
  In questo senso soprattutto il fondamentale lavoro di M. Brutti, La problematica del
dolo processuale nell’esperienza romana, I-II, Milano, 1973; in precedenza, Id., ‘Formulae de
dolo’ e dolo processuale tra la fine della Repubblica e gli inizi del Principato, in Studi Senesi,
LXXX, 1968, 261 ss.
11
  In particolare sulla connessione tra l’eccezione di dolo e le strutture del processo formula-
re, cfr. C.A. Cannata, ‘Bona fides’ e strutture processuali, in Il ruolo della buona fede oggettiva,
I, cit., in specie 269 ss., oltre a M. Brutti, La problematica del dolo processuale, cit., in generale
ma specialmente I, 625 ss.; la stretta connessione con il sistema per formulas non deve peraltro
indurre a ritenere che le istanze di buona fede non trovassero rilevanza a mezzo di strumenti
antecedenti all’eccezione di dolo, già nell’antico processo per legis actiones, come dimostra A.
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 119

Certo, anche altri sono i mezzi – tanto processuali quanto extraproces-


suali – i quali possono dare concretizzazione alla buona fede: per esemplifi-
care, si pensi alla denegatio actionis12, ma anche alla rilevantissima azione di
dolo13, come pure alla missio in possessionem propter dolum, alla restitutio
in integrum propter dolum e così via14.
Assai noto è che il pretore romano, la cui intera attività è da ritenersi
rivolta alla realizzazione dell’aequitas, dispone di una vasta gamma di stru-
menti cooperanti al medesimo scopo15.
Però non v’è dubbio che l’eccezione di dolo generale appaia addirittura
campeggiare al centro del terreno della buona fede.
Siamo così giunti a un punto di snodo del nostro discorso: all’eccezione
di dolo generale deve essere dedicata precipua attenzione da parte di chi
intenda risalire a monte delle moderne teorie sull’abuso del diritto. Ancor
meglio: l’eccezione di dolo generale rappresenta, in chiave di comparazione
diacronica, il più utile termine di confronto rispetto alla figura dell’abuso
del diritto16.
Ciò mi pare non possa mettersi in discussione, sebbene – lo si ripete
– l’antecedente immediato dell’abuso del diritto debba rinvenirsi nella tra-
dizione giurisprudenziale francese in tema di limiti della proprietà, di cui
è specchio l’art. 833 del nostro codice civile.
Orbene, ciò chiarito, quel che primariamente preme sottolineare è che
l’eccezione di dolo costituisce uno strumento per intero appartenente al

Corbino, Eccezione di dolo generale: suoi precedenti, in L’eccezione di dolo generale. Diritto
romano e tradizione romanistica, cit., 19 ss.
12
  Cfr. V. Colacino, voce Denegatio actionis (dir. romano), in Noviss. dig. it., V, 1960, 453 s.;
di recente, con revisione di taluni profili del tem, S. Sciortino, ‘Denegare actionem’, ‘decretum’
e ‘intercessio’, in AUPA, LV, 2012, 659 ss.
13
  Per riferimenti, si veda infra, nt. 61.
14
  Per un primo sguardo, M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 350 s.;
si veda inoltre M. Brutti, La problematica del dolo processuale, II, cit., 327 ss.
15
  Sul significato dell’aequitas che sostanzia e dà senso all’intervento pretorio, M. Talaman-
ca, La ‘bona fides’ nei giuristi romani: ‘Leerformeln’ e valori dell’ordinamento, in Il ruolo della
buona fede oggettiva, IV, cit., 1 ss.; inoltre, Id., Per la storia della giurisprudenza romana, in
BIDR, LXXX, 1977, 257 ss.; M.J. Schermaier, ‘Bona fides’ im römischen Vertragsrecht, in Il
ruolo della buona fede oggettiva, III, cit., 459 ss.
16
  In questa chiave di lettura, L. Labruna, Note su eccezione di dolo generale e abuso del
diritto nelle vedute dei giuristi classici, in L’eccezione di dolo generale. Diritto romano e tradizione
romanistica, cit., 127 ss.; U. Elsener, Les racines romanistes de l’interdiction de l’abus de droit,
Bâle, 2004; C. Buzzacchi, L’abuso del processo in diritto romano, Milano, 2002. Soprattutto, i
differenti possibili campi applicativi dell’eccezione di dolo generale sono esplorati in L’eccezione
di dolo generale. Applicazioni giurisprudenziali e teoriche dottrinali, cit., ove in specie S. Viaro,
Abuso del diritto ed eccezione di dolo generale, 1 ss.; di recente in argomento, F. Piraino, La
buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, 343 ss.
120 Tommaso dalla Massara

processo civile romano e, più esattamente, essa rispecchia le complesse


forme di funzionamento del processo per formulas, nel quale alla prete-
sa dell’attore condensata nell’intentio può contrapporsi lo strumento di
difesa del convenuto che prende il nome di exceptio, del quale peraltro
si dà necessità solo quando sia opposto un fatto giuridicamente rilevante
in grado di impedire, modificare o escludere la fondatezza della pretesa
attorea17.
L’eccezione di dolo presenta una doppia articolazione, che – com’è noto
– si sviluppa tra eccezione di dolo speciale o passato, per un verso, e l’ec-
cezione di dolo generale o presente, per altro verso18.
Oggetto di ampio e lungo dibattito entro la romanistica (che ne ha
messo in dubbio finanche la stessa correttezza dogmatica19), la distinzio-
ne si evidenzia efficacemente nella scelta dei tempi verbali utilizzati nella
formulazione giulianea dell’exceptio doli riportataci da Gaio (4.119: si in
ea re nihil dolo malo A. Agerii factum sit neque fiat), rispetto alla quale
il dolo presente o generale si contraddistingue per il fatto di riferirsi al
momento della litis contestatio, ossia alla fase di precisazione della pretesa
e di preclusione processuale20.

17
  Cfr. A. Burdese, voce Exceptio doli (diritto romano), in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960,
1073 ss.; mi permetto di rinviare anche a T. dalla Massara, Die Arglisteinrede, in Handbuch
des Römischen Privatrechts, herausgegeben von U. Babusiaux et alii, in corso di pubblicazione.
Sulle origini dello strumento, Id., L’eccezione di dolo generale da Aquilio a Labeone, in L’ecce­
zione di dolo generale. Diritto romano e tradizione romanistica, cit., 104 s.; R. Fiori, Eccezione
di dolo generale ed editto asiatico di Quinto Mucio: il problema delle origini, in L’eccezione di
dolo generale. Diritto romano e tradizione romanistica, cit., 49 ss.
18
  La formulazione edittale dell’exceptio doli è ricavabile da Gai. 4.119: si in ea re nihil
dolo malo A. Agerii factum sit neque fiat. Si veda O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’. Ein
Versuch zu seiner Wiederherstellung. Dritte, verbesserte Auflage, Leipzig, 1927 (rist. Aalen,
1985) 512; D. Mantovani, Le formule del processo privato romano, Padova, 1999, 99. La con-
trapposizione tra dolo passato o speciale e dolo presente o generale fu elaborata nel corso di
un’evoluzione concettuale sviluppatasi dall’età medievale fino all’Ottocento; nelle fonti roma-
ne l’espressione dolo generale, in contrasto a dolo speciale, compare in effetti una sola volta:
D. 44.4.4.33 (Ulp. 76 ad ed.). Cfr. M. Brutti, La problematica del dolo processuale, II, cit.,
625 ss.
19
  Sul punto, M. Brutti, La problematica del dolo processuale, I, cit., 166 ss. e in specie alle
ntt. 85 e 87.
20
  «L’impego della exceptio rivolta al presente non comporta una maggiore ampiezza del
concetto di dolo, ma soltanto la sua applicazione ad un’attività processuale che si identifica con
l’esercizio stesso dell’actio. […]. I chiarimenti più espliciti che troviamo nelle fonti […] non
fondano un concetto nuovo di dolo, ma si limitano a sottolineare che a base dell’exceptio è, nei
casi considerati, la proposizione stessa dell’actio da parte dell’attore, e non un comportamento
doloso precedente al costituirsi del rapporto processuale»: così M. Brutti, La problematica del
dolo processuale, I, cit., 171 s.
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 121

Il dolo generale o presente dunque, per come emerge dalle fonti21, rap-
presenta una figura squisitamente processuale22.
Tanto per il caso del dolo passato o speciale quanto per quello presen-
te o generale, si dà la necessità per il convenuto di esprimere le proprie
difese attraverso un’eccezione, con cui sia accertato quel particolare fat-
to giuridico che è rappresentato dal realizzarsi del dolo. La presenza di
quest’ultimo – che si atteggia come fatto antigiuridico rilevante23 – apre la
via all’applicabilità di una controregola la quale giustifica una decisione di
reiezione della domanda attorea.
Se non fosse opposta l’eccezione, non sarebbe viceversa sufficiente per
il convenuto affidarsi all’istruzione probatoria che si sviluppa nella fase
apud iudicem allo scopo di contrastare la pretesa attorea; senza la richiesta
di uno specifico accertamento del dolo a mezzo di eccezione, la pretesa
attorea risulterebbe infatti iure civili fondata.
Com’è noto, assai lunga e controversa è la storia delle idee di cui si è
via via arricchita la vicenda dell’eccezione di dolo – concepita nel presente

21
  Di dolus praesens, in contrapposizione al dolus praeteritus, si parla in D. 44.4.4.18 (Ulp. 76
ad ed.): quaesitum est, an de procuratoris dolo, qui ad agendum tantum datus est, excipi possit.
Et puto recte defendi, si quidem in rem suam procurator datus sit, etiam de praeterito eius dolo.
Hoc est si ante acceptum iudicium dolo quid fecerit, esse excipiendum, si vero non in rem suam,
dolum praesentem in exceptionem conferendum. Si autem is procurator sit, cui omnium rerum
administratio concessa est, tunc de omni dolo eius excipi posse Neratius scribit. In generale, sul
tema del dolo presente e passato, ancorché senza ricorso alle denominazioni che sarebbero poi
entrate nell’uso, si veda D. 44.4.2.3-5 (Ulp. 76 ad ed.). Nel senso della genuinità classica della
clausola neque fiat, la più antica testimonianza è rappresentata da D. 2.14.10.2 (Ulp. 4 ad ed.),
ove è riportato un parere di Trebazio. Cfr. M. Brutti, La problematica del dolo processuale, I,
cit., in specie 173 ss.
22
  Cfr. L. Mitteis, Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, I, Leipzig, 1908, 318
ss.; A. Carcaterra, ‘Dolus bonus’, ‘dolus malus’. Esegesi di D. 4.3.1.2-3, Napoli, 1970; M.
Kaser, Das römische Privatrecht, I  2, Das altrömische, das vorklassische und klassische Recht,
München 1971, 488 e nt. 38; M. Kaser – K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht2, München,
1966 (1996), 54; M. Brutti, La problematica del dolo processuale, cit., in specie I, 166 ss. e 191
ss., e II, 624 ss.; G. Mac Cormack, ‘Dolus’ in Republican Law, in BIDR, XXVII, 1985, 1 ss.,
in specie 20 ss.; Id., ‘Dolus’ in Decisions of the Mid-classic Jurists, in BIDR, XXXV-XXXVI,
1993, 83 ss., in specie 127 ss.; tra i vari contributi in Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., in
particolare C.A. Cannata, ‘Bona fides’ e strutture processuali, cit., 257 ss., e M. Talamanca,
La ‘bona fides’ nei giuristi romani, cit., 1 ss., in specie 33 ss. e 289 ss.; M. Schermaier, ‘Bona
fides’ in Roman Contract Law, cit., 63 ss., in specie 86 s. Cfr. poi nell’insieme L’eccezione di dolo
generale. Diritto romano e tradizione romanistica, cit., entro cui si segnala in questa prospettiva
specialmente A. Burdese, L’eccezione di dolo generale da Aquilio a Labeone, 93 ss., e L. Labru-
na, Note su eccezione di dolo generale e abuso del diritto nelle vedute dei giuristi classici, 123 ss.
23
  In una prospettiva di comparazione, si veda S. Martens, voce Fraud, in The Max Planck
Encyclopedia of European Private Law, I, Oxford, 2012, 730 ss., ove si prospetta «a delictual
(punitive) action in almost any case of a wrongfully caused loss» (così in specie, 430).
122 Tommaso dalla Massara

e nel passato – entro l’arco della tradizione romanistica: si tratta di una


storia che è stata raccontata a più voci, per vero non sempre assonanti24.
Più utile qui – nella prospettiva di comparazione sopra descritta – ten-
tare un diretto confronto con l’ordinamento italiano vigente.
Al riguardo, appare sufficiente ricordare che l’eccezione di dolo spe-
ciale o passato può ritenersi figura tuttora vigente e addirittura tipizzata
entro il nostro codice civile, allorché si abbia riguardo all’art. 1442, ove
all’ultimo comma si legge: «l’annullabilità può essere opposta dalla parte
convenuta per l’esecuzione del contratto, anche se è prescritta l’azione per
farla valere».
Dunque per la via indiretta della statuizione di imprescrittibilità dell’ec-
cezione – a fronte della prescrittibilità in cinque anni dell’azione di an-
nullamento – è riconosciuta la vigenza anche dell’eccezione con cui sia
fatto valere il vizio consistente nei raggiri di cui all’art. 1439 c.c.; il dolo
inteso come vizio della volontà, che conduce all’annullamento del negozio
giuridico25, fonda pertanto un’eccezione – di dolo passato o speciale – che
rimane sempre opponibile.
Ma non è evidentemente questa la figura di dolo da porre a confronto
con quella dell’abuso del diritto.
Per identificare l’elemento di comparazione con l’abuso del diritto, oc-
corre invece guardare all’articolazione dell’eccezione di dolo orientata al
presente. È necessario dunque tenere conto di una difesa da intendersi
fondata sull’«esistenza di una qualsiasi circostanza, anche sopravvenuta,
che faccia apparire contrario alla bona fides l’insistere dell’attore nel rico-
noscimento della pretesa da lui fatta valere in giudizio»26.
Qui, però, le cose sono ben differenti sotto vari punti di vista giacché,
mancando nel nostro sistema una base testuale come quella dell’art. 1442
c.c., si pone il tema del riconoscimento dell’eccezione di dolo generale
nonché dell’identificazione dei suoi presupposti di operatività27.

24
  Per uno sguardo d’insieme, nella prospettiva europea, cfr. F. Ranieri, voce Eccezione di
dolo generale, in Dig. disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, 311 ss.; Id., Bonne foi et exercice du
droit dans la tradition du ‘civil law’, in Rev. int. dr. comp., 1998, 1055 ss.
25
  «Il dolo può essere anche oggi definito con Labeone omnis calliditas, fallacia, machinatio
ad circumveniendum, fallendum, decipiendum alterum adibita. Consiste in quei raggiri e artifizi
che vengono adoperati per ingannare una persona e per approfittare dell’errore nel quale, in con-
seguenza di questi, essa è caduta, allo scopo di farle compiere un negozio»: così A. Trabucchi,
Istituzioni di diritto civile47, a cura di G. Trabucchi, Padova, 2015, 130.
26
  Così A. Burdese, voce Exceptio doli, cit., 1074, quasi riecheggiando D. 44.4.2.3 (Ulp. 76
ad ed.): […] licet enim eo tempore, quo stipulabatur, nihil dolo malo admiserit, tamen dicendum
est eum, cum litem contestatur, dolo facere, qui perseveret ex ea stipulatione petere […].
27
  In una bibliografia vastissima, per limitarsi a segnalare i riferimenti essenziali: L. Carraro,
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 123

Né potrebbe trarsi argomento sufficiente a fondare la vigenza dell’ec-


cezione di dolo dal tenore testuale del comma 2 dell’art. 1460 c.c., ove è
delineata nella sostanza una replicatio doli28.
Com’è noto, dopo una lunga stagione di diffidenza nei confronti di
un’eccezione di dolo generale percepita come «cavallo di Troia entro la
sicurezza del sistema»29, il dibattito dapprima dottrinale e – con qualche
ritardo – giurisprudenziale ha concentrato un’assai forte attenzione sul
tema dell’eccezione di dolo, fino a raggiungere alcuni punti fermi in tema
di riconoscibilità, contorni ed efficacia di tale eccezione: sicché, rispetto
a quei punti, con difficoltà si potrebbe oggi immaginare di retrocedere30.
Per sintetizzare il quadro (a rischio di qualche semplificazione), si può
ritenere che due essenzialmente possano rivelarsi i principali canali di pe-
netrazione dell’eccezione di dolo generale all’interno di un ordinamento il
quale – come detto – a essa de lege lata non riconosce espressa cittadinanza.

Valore attuale della massima ‘fraus omnia corrumpit’, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, 782 ss.,
ove si riscontra una sostanziale apertura, con argomenti che tenevano a riferimento soprattutto
la letteratura tedesca; invece, su posizioni di sostanziale scetticismo G.L. Pellizzi, voce Exceptio
doli (diritto civile), in Noviss. dig., it, VI, Torino, 1960, 1074 ss.; si veda poi A. Torrente, voce
Eccezione di dolo, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 218, le cui conclusioni appaiono interlocutorie;
passando per G.B. Portale, Impugnative di bilancio ed ‘exceptio doli’, in Giur. comm., 1982, I,
407 ss., e L. Nanni, La buona fede contrattale, in I grandi orientamenti di giurisprudenza civile
e commerciale diretto da F. Galgano, Padova, 1988, si giunge quindi alle decise aperture di F. Ra-
nieri, voce Eccezione di dolo generale, cit., 311 ss., anche in Id., Bonne foi, cit., 1055 ss., il quale
valorizza le potenzialità dello strumento in un raffronto storico-comparatistico; come pure fa L.
Garofalo, Per un’applicazione dell’‘exceptio doli generalis’ romana in tema di contratto autono­
mo di garanzia, in Riv. dir. civ., 1996, I, 629 ss. (anche in Nozione formazione e interpretazione
del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor F. Gallo, III,
Napoli, 1997, 474 ss.). Si tenga presente, poi, la ricostruzione, sganciata dalle norme di cui agli
artt. 1175 e 1375 c.c., proposta da A.A. Dolmetta, Exceptio doli generalis, in Banca, borsa tit.
cred., 1998, I, 147 ss., anche in Enc. giur. Treccani, voce Exceptio doli generalis, Aggiornamento,
Roma, 1997, 1 ss. I problemi legati al fondamento dell’eccezione di dolo entro il diritto vigente
sono stati poi ripercorsi da G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Torino,
2004, 399 ss., nonché da G. Meruzzi, L’‘exceptio doli’ dal diritto civile al diritto commerciale’,
Padova, 2005, in specie 452 ss.; cfr., da ultimo, F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo,
cit., particolarmente 431 ss.
28
  Si leggano in proposito, per esempio, le considerazioni di G. Cattaneo, Buona fede
obbiettiva e abuso del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, 638.
29
  G.L. Pellizzi, voce Exceptio doli (diritto civile), cit., 1075. Peraltro già R. von Jhering,
Serio e faceto nella giurisprudenza, trad. it. di G. Lavaggi, Firenze, s.d. [ma 1954], 323, rilevava
che con l’eccezione di dolo «non c’è nulla che non si riesca a combinare. Per parte mia mi im-
pegnerei a scardinare per mezzo suo tutto un ordinamento giuridico: avrei con il suo ausilio di
che respingere ogni norma che appena non mi garbi».
30
  Si veda, per avere un punto di riferimento in tema di eccezione di dolo, Cass. 7 marzo
2007, n. 5273, su cui mi permetto di rinviare a T. dalla Massara, L’eccezione di dolo generale
nel pensiero attuale della Corte Suprema, in Riv. dir. civ., 2008, II, 228.
124 Tommaso dalla Massara

Per un verso, lo strumento dell’eccezione di dolo generale fu intro-


iettato per la via del recepimento nel contesto di discipline contrattuali
progressivamente tipizzate a livello giurisprudenziale.
Paradigmatico, in questo senso, è il caso del contratto autonomo di
garanzia, il quale venne recepito a livello giurisprudenziale per derivazione
diretta dalla prassi internazionale31. Il contratto autonomo di garanzia fu
riconosciuto quale figura contrattuale atipica meritevole ai sensi dell’art.
1322 c.c., proprio e fin da subito con inclusione dell’eccezione di dolo
generale in quanto segmento costitutivo e imprescindibile del regime com-
plessivo di quello specifico contratto32.
In altri termini l’eccezione di dolo generale appare, in relazione al con-
tratto autonomo di garanzia, quasi decontestualizzata rispetto alla cornice
(processuale) d’origine, per essere invece riplasmata all’interno di una di-
sciplina (sostanziale) specifica. L’eccezione di dolo diviene in questo modo
parte di un preciso regime contrattuale.
Per altro verso, e senza dubbio con maggiori difficoltà, l’eccezione di
dolo generale cominciò a essere riconosciuta in quanto tale.
In questo senso, l’onda del dibattito dottrinale cui si faceva cenno dianzi
sospinse dapprima le corti di merito, ma poi anche la Cassazione, a dare
accoglimento in via generalizzata a uno strumento le cui potenzialità sono
pressoché infinite, al di là di ogni specifico collegamento con un regime
contrattuale.
Nella misura in cui l’eccezione di dolo generale sia accolta in sé, essa
rappresenta uno strumento strategicamente collocato al centro del terreno
delle obbligazioni e dei contratti, ove esso può trovare una leva potente
nelle clausole di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.33; ma la sua capacità espansiva

31
  Su tale figura contrattuale, cfr. G.B. Barillà, Contratto autonomo di garanzia e ‘������
Garan­
tievertrag’. Categorie civilistiche e prassi del commercio, Frankfurt am Main, 2005; P. Corrias,
Garanzia pura e contratti di rischio, Milano, 2006, 424 ss.; M. Lobuono, I contratti di garanzia,
Napoli, 2007, 107 ss.; A. Bertolini, Il contratto autonomo di garanzia nell’evoluzione giurispru­
denziale, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 435 ss.; R. Natoli, Riflessioni sulla struttura del
contratto autonomo di garanzia e della polizza fideiussoria, in Giureta, 2012, 1 ss.; E. Navar-
retta, Il contratto autonomo di garanzia, in I contratti per l’impresa, I, a cura di G. Gitti – M.
Maugeri – M. Notari, Bologna, 2012, 553 ss.; C. Frigeni, Riflessioni sul contratto autonomo di
garanzia, in Vita not., 2013, 565 ss.; P. Tartaglia, Il contratto autonomo di garanzia e la giuri­
sprudenza di legittimità, in ‘Liber Amicorum’ per A. Luminoso, Contratto e mercato, II, a cura
di P. Corrias, Milano, 2013, 967 ss.
32
  Specificamente su questo percorso, L. Garofalo, Per un’applicazione dell’‘exceptio doli
generalis’ romana, cit., 629 ss. Si veda inoltre P. Lambrini, in nota a Trib. Treviso 24 dicembre
1997, in Riv. dir. civ., 1998, II, 443 ss.
33
  Questa la prospettiva specifica dischiusa soprattutto da U. Natoli L’attuazione del rap­
porto obbligatorio e la valutazione del comportamento delle parti secondo le regole della corret­
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 125

investe in potenza tutti i settori dell’ordinamento, inclusi quindi i diritti


reali e le successioni.
Semmai, a tal riguardo, la difficoltà di un censimento dei casi di impie-
go concreto dell’eccezione di dolo generale, quale strumento disancorato
rispetto a qualsivoglia regime contrattuale, è rappresentata da un certo qual
disallineamento tra nomi e cose cui si è fatto cenno in apertura. Talora è
riconosciuto lo strumento, ma non lo si chiama con quel nome per una
sorta di ritrosia da parte della giurisprudenza a qualificare l’eccezione di
dolo come tale; in altri casi, invece, lo strumento c’è e lo si chiama con
quel nome34.
Spesso si pongono dunque problemi a livello di banale denominazione.
Tuttavia non v’è dubbio che numerose sono ormai le decisioni che han-
no aperto le porte all’eccezione di dolo generale quale strumento di san-
zionamento sul piano processuale, realizzando così una larga saldatura del
dibattito intorno alla sua reviviscenza rispetto all’altro fronte di discussio-
ne, impegnato nella ricerca dei mezzi di repressione dell’abuso del diritto35.
3.  Il dolo generale nella giurisprudenza italiana degli ultimi anni
Nel vigore del codice civile del 1942, una delle prime decisioni nelle
quali fu riconosciuta la reviviscenza dell’eccezione di dolo generale è quella
della Pretura di Parma del 30 marzo 195036. Ivi era data tutela al conduttore
il quale, dopo essersi accordato con il locatore per ottenere una sentenza
di sfratto soltanto per dare al primo la condizione formale di sfrattato, tale
per cui fosse consentito allo stesso di ottenere un alloggio in assegnazione,
aveva visto in realtà attivare contro di sé (e contro gli accordi) l’esecuzione
di quella sentenza: di qui l’opponibilità dell’eccezione di dolo.

tezza, in Banca, borsa tit. cred., 1961, I, 169 ss.; Id., L’attuazione del rapporto obbligatorio, in
Trattato Cicu – Messineo, Milano, 1974, 27 ss., Id., La regola della correttezza e l’attuazione del
rapporto obbligatorio, in Studi sulla buona fede, Milano, 1975, 170 ss.; si veda anche L. Bigliazzi
Geri, voce Buona fede nel diritto civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., II, Torino, 1988, 154 ss., in
specie 183 ss. In prospettiva simile anche A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Com­
mentario del codice civile Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1988, 284 ss.; A. D’Angelo, voce
Buona fede, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 1988, 1 ss.; Id., La tipizzazione giurisprudenziale
della buona fede contrattuale, in Contr. e impr., 1990, 702 ss. Si veda ora F. Piraino, La buona
fede in senso oggettivo, cit., in specie 12 ss.
34
  Si rinvia nuovamente a Cass. 7 marzo 2007, n. 5273, cit., sulla quale infra, § 3.
35
  Indicative di questa tendenza ‘sincretistica’ sono le pagine, scritte più di quarant’anni
fa, da G. Cattaneo, Buona fede obbiettiva e abuso del diritto, cit., 613 ss.: pur cogliendosi la
distinzione tra buona fede e abuso del diritto, se ne vede ivi il congiunto operare; cfr. sul punto,
F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, cit., 343 ss., in specie 379, nt. 152.
36
  La si veda in Foro civ., 1950, 337, con nota di S. Arnone, Esecuzione di sentenza emessa
in lite simulata ed ‘exceptio doli’.
126 Tommaso dalla Massara

Negli anni successivi, piuttosto numerose sono le decisioni delle corti


di merito e – in misura minore – della Suprema Corte che hanno dato
corpo a una consolidata giurisprudenza in senso favorevole all’operatività
dell’eccezione di dolo generale37.
Certamente nodale, nella maturazione di una sensibilità particolare sui
temi della buona fede e correttezza, nonché sulla messa a punto degli stru-
menti correttivi del contratto, è la celebre Cass. 20 aprile 1994, n. 3775, sul
c.d. caso Fiuggi.
In quell’occasione si giunse a espungere una clausola contrattuale solo
perché ritenuta contraria a buona fede, valutando la Corte che il principio
di buona fede, «per il suo valore cogente», avrebbe concorso a «formare
la regula iuris del caso concreto, determinando, integrativamente, il conte-
nuto e gli effetti del contratto, ad un tempo orientandone l’interpretazione
e l’esecuzione»38.
Quella decisione, nella quale per vero si parla molto di buona fede ma
non di dolo generale, attivò senza dubbio una nuova sensibilità in seno
alla giurisprudenza. Sicché si può ritenere che la pronuncia sul caso Fiuggi
rappresenti la cornice di riferimento imprescindibile per alcune sentenze
rilevanti del 1997 nelle quali si faceva agire in concreto uno strumento cor-
rispondente all’eccezione di dolo generale, anche in questo caso, tuttavia,
senza che se ne spendesse il nome39.
Si tratta di decisioni assunte in tema di abuso realizzato nella forma del
c.d. frazionamento della domanda, del quale si dirà tra breve; sono pronun-
ce ancora di ‘sperimentazione’ le quali condurranno, dieci anni dopo, alla
notissima decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 23727
del 15 novembre 2007, n. 2372640: anche in quest’ultimo caso, la sanzione
dell’abuso era congegnata senza che comparisse alcun espresso richiamo
all’eccezione di dolo generale41.

37
  Si veda la rassegna proposta da L. Nanni, L’uso giurisprudenziale dell’‘exceptio doli gene­
ralis’, in Contr. e impr., 1986, 197 ss.
38
  Si legga la sentenza (in molti luoghi commentata) per esempio in Corr. giur., 1994, 566, con
nota – significativamente – di V. Carbone, La buona fede come regola di governo della discrezio­
nalità contrattuale; su quel caso ritorna F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, cit., 37 s.
39
  Cass. 23 luglio 1997, n. 6900, come pure la sentenza ‘sorella’ Cass. 8 agosto 1997, n. 7400,
entrambe in Giur. it., 1998, 889 ss., con nota di A. Ronco, Azione e frazione: scindibilità in
più processi del ‘petitum’ di condanna fondato su un’unica ‘causa petendi’ o su ‘causae petendi’
dal nucleo comune, ammissibilità delle domande successive alla prima e riflessi oggettivi della
cosa giudicata, giungevano all’esito della reiezione della domanda frazionata in quanto proposta
contro buona fede.
40
  Su cui si veda infra, § 9.
41
  Si tenga conto che alla pronuncia a Sezioni Unite hanno fatto seguito altre sentenze, tra
cui particolarmente significative appaiono Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286, e Cass. 9 aprile
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 127

Diverso invece il tenore della sentenza, di poco precedente, della I Sezio-


ne della Cassazione del 7 marzo 2007, n. 5273: qui non solo si menzionava
l’eccezione di dolo generale, ma la decisione offriva l’occasione, sia pure
in obiter, per un’ampia ridefinizione giurisprudenziale dello strumento42.
Vale la pena di riportare per intero la massima: «l’exceptio doli gene­
ralis seu praesentis sanziona il dolo commesso nel momento stesso in cui
l’azione viene proposta in giudizio; tale eccezione si offre come rimedio di
carattere generale volto alla reiezione della domanda proposta in contrasto
con i principi di correttezza e buona fede, e così ogniqualvolta sia accer-
tato l’esercizio fraudolento o sleale dei diritti di volta in volta attribuiti
dall’ordinamento. Occorre distinguere l’exceptio doli generalis seu praesen­
tis dall’exceptio doli specialis seu praeteriti: con quest’ultima è sanzionato
il dolo commesso al tempo della conclusione del negozio, allorché siano
posti in essere raggiri diretti a indurre un soggetto a concludere un negozio
che non avrebbe concluso o che avrebbe concluso a condizioni diverse. Pe-
raltro, quando dal dolo dipenda la conclusione di un negozio a condizioni
più svantaggiose, il deceptus è ammesso a proporre una domanda diretta
al risarcimento dei danni a titolo di dolo incidente (art. 1440 c.c.), con cui
è fatta valere una responsabilità precontrattuale».
Assai perspicua, dunque, la definizione – fedelmente romanistica – del-
lo strumento in grado di veicolare in concreto i principi di buona fede e
correttezza.
Più chiaramente che in altre decisioni, la Cassazione in questa sede
sceglieva di collocarsi un passo a valle rispetto alla discussione dottrinale
sulla relazione concettuale tra abuso del diritto, principi di buona fede e
correttezza ed eccezione di dolo generale, concentrandosi sui confini e sui
meccanismi concreti di operatività di quest’ultima.
Successivamente, centrale in tema di abuso del diritto era la rappresenta-
zione del recesso ad nutum quale veniva offerta dalla notissima pronuncia
della Corte di Cassazione del 18 settembre 2009, n. 20106: con riguardo
a questo, noto come ‘caso Renault’, l’ampia discussione dottrinale si era
soffermata in particolare sull’idea che l’abuso funga o meno da schema
attraverso il quale l’ordinamento si mostri in grado di rilevare l’esistenza
di un conflitto di regole, rispetto a cui, dunque, buona fede e correttezza
sarebbero da valutarsi come parametri di soluzione di tale conflitto43.

2013, n. 8576, nelle quali pure è omessa la diretta menzione dell’eccezione di dolo generale (su
queste si veda infra, alla nt. 76).
42
  Su cui sia consentito rinviare a T. dalla Massara, L’eccezione di dolo generale nel pensiero
attuale della Corte Suprema, cit., 224 ss.
43
  La sentenza si può leggere, per esempio, in Foro it., 2010, I, 85 ss., in Giur. it., 2010, 552 ss.,
128 Tommaso dalla Massara

Su questa decisione, ancora una volta silente sul dolo generale, non mi
soffermo: peraltro, sono certo che a essa altri Relatori di questo convegno
dedicheranno ampia attenzione.
Vorrei invece tenere al centro dell’attenzione la pronuncia del 2007,
opera della I Sezione, sull’eccezione di dolo generale, perché in essa la
Cassazione si era concentrata con apprezzabile esattezza nella definizione
del mezzo di difesa di tradizione romanistica.
Orbene, ciò che più mi preme qui sottolineare è che l’eccezione di
dolo generale appare strumento recepito e tecnicamente definito entro
l’ordinamento vigente in forza di un intervento giurisprudenziale ormai
maturo.
Si afferma che il dolo generale è quello commesso nel momento stesso
in cui l’azione viene proposta in giudizio; e l’eccezione corrispondente
si offre come rimedio processuale volto alla reiezione della domanda che
fosse stata proposta in contrasto con i principi di correttezza e buona fede.
Da qui occorre partire.
Mancano di essere compiuti non pochi svolgimenti concettuali, in ordi-
ne alle caratteristiche dello strumento di cui si discute. Prima, però, appare
utile ancora dedicarsi ad alcuni chiarimenti per i quali la comparazione
diacronica risulta indispensabile.
4.  Le polarità semantiche emergenti dal diritto romano classico
Ribadita la natura squisitamente processuale dell’antica exceptio doli
generalis, ben fotografata nei suoi tratti anche nella recente giurispru-
denza poc’anzi richiamata, è opportuno ora tentare una sintesi sulle po-
larità di significato della nozione di dolo quali emergono dall’esperienza
giuridica romana.
Le prime due polarità semantiche – di cui si è detto – sono legate
all’esperibilità di un’eccezione con cui si faccia valere l’esistenza di artifizi
o raggiri collocabili al momento della conclusione del negozio che costi-
tuisce anche il titolo della pretesa attorea (in questo caso, si tratta di dolo

nonché in Giur. comm., 2010, II, 830 ss.; in margine alla sentenza si veda, tra molti, F. Galgano,
Qui suo iure utitur neminem laedit?, in Contr. e impr., 2011, 311 ss., e G. D’Amico, Recesso ‘ad
nutum’, buona fede e abuso del diritto, in Contratti, 2010, 11 ss.; Id., Ancora su buona fede e
abuso del diritto. Una replica a Galgano, in Contratti, 2011, 653 ss.; si veda inoltre M. Orlandi,
Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass. 18 settembre 2009, n. 20106), in Riv. dir. civ., 2010,
II, 157; la sentenza è inoltre edita in Resp. civ. prev., 2010, 354 ss., con nota di A. Gentili, Abuso
del diritto e uso dell’argomentazione; in Foro it., 2010, I, 85 ss., con nota di Al. Palmieri – R.
Pardolesi, Della serie ‘a volte ritornano’: l’abuso del diritto alla riscossa; M. Cenini – A. Gam-
baro, Abuso del diritto, risarcimento del danno e contratto: quando la chiarezza va in vacanza,
in Corriere giur., 2011, 109 ss.
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 129

passato o speciale), oppure con cui si opponga la violazione di una regola


di correttezza e buona fede manifestatasi nel momento del processo, preci-
samente al tempo della litis contestatio (allora si è di fronte a dolo presente
o generale)44.
Accanto a queste due, è da rinvenirsi già nella terminologia delle fonti
romane una nozione di dolo riferibile allo stato soggettivo che connota al
suo più alto grado la responsabilità civile: dolo, dunque, da intendersi come
volontarietà dell’evento lesivo45.
In questo caso, il dolo evidenzia la differenza dell’atteggiamento psi-
cologico del soggetto cui è addossata la responsabilità rispetto alla colpa,
definibile – da tradizione pandettistica – come negligenza imperizia o im-
prudenza; accanto a ciò, è noto che le fonti romane parlano della custo-
dia, la quale interviene a sanzionare casi in cui la responsabilità prescinde
addirittura da qualsiasi grado di rimproverabilità: ma questo sarebbe una
tema assai vasto da affrontare46.
In estrema sintesi, quella appena rappresentata è la mappatura delle di-
verse polarità di significato della nozione di dolo: due sono collegate all’op-
ponibilità dell’eccezione, nella sua declinazione presente (ovvero generale)
o passata (ovvero speciale).
Ciascuna polarità presenta evidenti nessi e correlazioni con le altre, tut-
tavia è anche chiara la caratterizzazione di ognuna di esse.
Nell’insieme, si compone un quadro complesso e tuttavia piuttosto
perspicuo. Si coglie l’attenzione della giurisprudenza romana per assicu-
rare un presidio forte alla correttezza e alla buona fede, sotto vari aspet-
ti; e però, sempre, si registra la necessità che ciascuna situazione nella
quale sia potenzialmente rilevante una violazione della regola di bona
fede e correttezza sia resa oggetto di un processo di precisa tecnicizza-
zione47.

44
  M. Brutti, La problematica del dolo processuale, II, cit., 625 ss.
45
  Cfr. F. Casavola, voce Dolo (dir. romano), in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960, 148; G.I.
Luzzatto, voce Dolo (dir. romano), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 712 s.
46
  Cfr. M. Talamanca, voce Custodia (dir. romano), in Enc. dir., XI, Milano, 1962, Milano,
562 ss.; G. Luzzatto, voce Custodia (dir. romano), in Noviss. dig. it., V, 1960, Torino, 93 ss.;
G. Crifò, voce Illecito (dir. romano), in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1962, 153 ss.; cfr. inoltre
C.A. Cannata, Per lo studio della responsabilità per colpa nel diritto romano classico, Milano,
1969; F.M. de Robertis, ‘Culpa et diligentia’ nella compilazione giustinianea, in Studi in onore
di E. Betti, II, Milano, 1962, 347 ss.; Id., La responsabilità contrattuale nel diritto romano, Bari,
1994. Di recente, C. Pelloso, L’obbligo di custodia, in Trattato delle obbligazioni, diretto da
M. Talamanca e L. Garofalo, I.2, Padova, 2014, 645 ss., ove più ampie indicazioni di letteratura.
47
  Cfr. C.A. Cannata, ‘Bona fides’ e strutture processuali, cit., 257 ss; M.J. Schermaier,
‘Bona fides’ in Roman Contract law, cit., 87.
130 Tommaso dalla Massara

Naturalmente non potrebbe sfuggire che la nozione più ampia e ten-


denzialmente assorbente rispetto alle altre è quella di dolo generale, in
relazione alla quale si condensa una violazione della correttezza e della
buona fede che per definizione stessa è atipica.
Rispetto all’idea del dolo generale non è affatto necessario che siano
posti in essere raggiri o macchinazioni; né occorre che sussista una ca-
ratterizzazione soggettiva nel senso dell’intenzionalità dell’evento lesivo:
«dolus, in classical Roman law, always retained an element of moral disap-
proval. A person charged with dolus had not necessarily employed deceit
and trickery, but had infringed one of the standard principles by which to
conduct an honest life: fidelity»48.
Il dolo generale contraddistingue una deviazione rispetto alla regola
segnata in relazione a come ci si sarebbe attesi che fosse un comportamento
di buona fede all’interno di una società – quella romana – che, da un punto
di vista assiologico, doveva risultare piuttosto coesa49.
Non v’è dubbio allora che per la sua latitudine, non meno che per la
sua atipicità, la nozione di dolo generale, in qualche modo ricomprenden-
te le altre nozioni di dolo, evidenzia tratti di continuità piuttosto marcati
rispetto alla moderna idea di abuso del diritto.
5.  L’eccezione di dolo come mezzo dell’ordinamento pretorio
Non si potrebbe cogliere il senso più profondo e autentico delle funzio-
ne correttiva svolta dal dolo generale nel sistema processuale romano se si
mancasse di precisare che l’eccezione chiamata a sanzionarlo rappresenta
uno strumento appartenente all’ordinamento pretorio.
Risulta dunque presupposta la contrapposizione, sulla quale si costrui-
sce l’intero sviluppo del sistema giuridico romano, tra diritto civile e diritto
pretorio. Si tratta di una contrapposizione che, per radicalità e – al contem-
po – capacità di duttile ricomposizione, appare per molti versi paragonabile
soltanto a quella tra common law ed equity, tipica della tradizione giuridica
anglosassone50.
In altri termini l’eccezione di dolo generale, nella sua ampia portata,
rappresenta forse il più efficace degli strumenti pretori, il quale evidenzia

48
  Così R. Zimmermann, The Law of Obligations. Roman Foundations of the Civilian Tra­
dition, Oxford, 1996, 667 ss.
49
  M. Talamanca, La ‘bona fides’ nei giuristi romani, cit., 34 ss.
50
  Si veda A. De Vita, Buona fede e ‘common law’. Attrazione non fatale nella storia del
contratto, in Il ruolo della buona fede oggettiva, I, cit., 459 ss., in specie 472 ss.; A. Gambaro,
Common law ed equity in Inghilterra, in A. Gambaro – R. Sacco, Sistemi giuridici comparati,
Torino, 2002, 69 ss.; A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, Milano, 1979, 530 ss.
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 131

la sua funzione proprio nella misura in cui risulta correttivo dell’ordina-


mento civile51.
In tanto l’ordinamento pretorio nel suo complesso interviene a porre
una serie di regole concorrenti rispetto all’ordinamento di ius civile, in
quanto l’eccezione di dolo rappresenta uno strumento in grado di veicolare
una regola alternativa e prevalente rispetto a quella di diritto civile.
In questa misura si coglie l’analogia funzionale rispetto alle modalità
con cui opera l’ordinamento di equity nei riguardi di quello di civil law.
La regola posta dal ius praetorium si rivela prevalente e quindi, in esito,
escludente rispetto a quella del ius civile: le fonti ci dicono che exceptio
dicta est quasi quaedam exclusio52.
La straordinaria profondità di pensiero dei giuristi romani coglie appie-
no l’omogeneità ontologica intercorrente tra azione ed eccezione, giacché
ciascuna delle due porta con sé una propria regola, sia pure si segno op-
posto: agere etiam is videtur, qui exceptione utitur53.
In questo senso la contrapposizione tra ordinamenti concorrenti si tra-
duce in un vero e proprio concorso di norme; e, in tale conflitto, lo ius
preatorium esprime – com’è fin troppo noto – la già evocata sua funzione
correttiva54.
Mi pare molto efficace l’espressione che preferiva impiegare il mio
Maestro, Alberto Burdese, quando parlava del principio di buona fede
come di un ‘criterio normativo’55. Proprio l’idea del ‘criterio normativo’
consente di cogliere al meglio come la regola di buona fede debba sem-
pre trovare concretizzazione, in relazione al caso di specie, in un ‘dover
essere’ differente rispetto a quello che emergerebbe tout court dalla rego-
la di ius civile.
In questa cornice mi pare possa valutarsi la piena portata del dolo
generale, quale nozione in grado di sanzionare qualsivoglia comporta-
mento che si manifesti in contrasto con il criterio normativo della buona
fede, giustificando in tal modo il subingresso di una regola di ‘dover es-
sere’ alternativa.

51
  Cfr. D.1.1.7.1 (Pap. 2 def.): ius praetorium est, quod praetores introduxerunt adiuvandi vel
supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. quod et honorarium di­
citur ad honorem praetorum sic nominatum. Per un inquadramento, M. Talamanca, Istituzioni
di diritto romano, cit., 236 ss.
52
  Così D. 44.1.2 (Ulp. 74 ad ed.).
53
  Cfr. D. 44.1.1. (Ulp. 4 ad ed.), nella lettura di S. Pugliatti, voce Eccezione (teoria gene­
rale), in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 160.
54
  Quale si evince dal già citato D.1.1.7.1 (Pap. 2 def.), riportato supra, alla nt. 50.
55
  Tra i tanti luoghi, si vedano per esempio le pagine conclusive dei volumi intitolati a Il
ruolo della buona fede oggettiva, IV, cit., 581.
132 Tommaso dalla Massara

6.  Il dolo generale come figura di illecito


Occorre ora mettere meglio a fuoco i profili propriamente delittuali
della figura del dolo generale.
Come detto poc’anzi, è il diritto pretorio a creare la figura del dolo
generale: e ciò avviene proprio come fatto antigiuridico rilevante all’interno
del processo civile56.
Se il dolo generale rappresenta dunque un delitto, esso più precisamente
è rappresentato da quell’illecito pretorio che si consuma non già nel mo-
mento in cui sia posto in essere un raggiro che sia in grado di determinare il
consenso oppure di incidere sulle condizioni negoziali – il che rileverebbe
come dolo speciale o passato –, bensì nel momento in cui il soggetto agisca
in giudizio contro buona fede e correttezza.
Va detto che già nella riflessione della giurisprudenza romana il dolo
negoziale, corrispondente alla nozione di dolo passato o speciale, contie-
ne in sé soltanto in nuce gli elementi che nello sviluppo della tradizione
romanistica diedero luogo – però in esito a una faticosa e contrastata ela-
borazione – alle figure oggi distinte del dolo determinante, che produce
effetti caducatori, e del dolo incidente, il quale invece comporta effetti
soltanto risarcitori57.
Il percorso che conduce all’articolazione del dolo negoziale tra deter-
minante e incidente prende avvio per vero dall’accidentale impossibilità,
per alcuni specifici casi, di procedere alla restitutio in integrum e così –
guardando all’esito dell’operazione – di realizzare la caducazione del con-
tratto. Per esempio, ciò accade quando, come nel caso intorno al quale si
costruisce l’elaborazione medievale e poi pandettistica del dolo incidente,
il principio del favor libertatis osti alla restituzione del bene oggetto del
contratto, sicché l’esercizio dell’azione non potrebbe dar luogo a effetti
diversi da quelli meramente risarcitori58. In altri termini, proprio in quanto

56
  Cfr. M. Brutti, La problematica del dolo processuale, I, cit., 11 ss.
57
  Cfr. R. Zimmermann, The Law of Obligations, cit., 670 ss.
58
  Cfr. D. 4.3.7 pr. (Ulp. 11 ad ed.): et eleganter Pomponius haec verba ‘si alia actio non sit’
sic excipit, quasi res alio modo ei ad quem ea res pertinet salva esse non poterit. Nec videtur huic
sententiae adversari, quod Iulianus libro quarto scribit, si minor annis viginti quinque consilio
servi circumscriptus eum vendidit cum peculio emptorque eum manumisit, dandam in manu­
missum de dolo actionem (hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut ex empto teneri non
possit) aut nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet circumscriptus est. Et quod minor
proponitur, non inducit in integrum restitutionem: nam adversus manumissum nulla in integrum
restitutio potest locum habere, su cui si veda T. dalla Massara, Tra regole di validità e regole
di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, in ‘Actio in rem’ e ‘actio in personam’.
In ricordo di M. Talamanca, a cura di L. Garofalo, II, Padova, 2011, 611 ss. Si coglie dunque la
collocazione della figura del dolo incidente sul crinale della tradizionale distinzione (e dunque
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 133

l’unico possibile esito dell’azione risulti quello di una condanna pecuniaria,


allora prese a differenziarsi e ad assumere autonomia di contorni la figura
del dolo incidente, caratterizzata per il fatto di conservare la stabilità del
contratto, rispetto all’ipotesi in cui l’arbitratus de restituendo ovvero la
restitutio in integrum extraprocessuale avrebbero portato alla remissione
in pristino dello stato di cose ante contractum59.
Dal dolo muove quindi una ramificazione di concetti di straordinaria
ricchezza e vitalità, ma la nostra attenzione deve rimanere concentrata spe-
cificamente sul dolo generale, ossia sull’ipotesi in cui a ricevere sanzione
sia un qualunque comportamento contro buona fede e correttezza il quale
possa dirsi verificato al momento della litis contestatio.
Merita allora qui precisare che il progressivo riconoscimento da parte
della giurisprudenza romana della nozione di dolo quale autonoma figura
delittuale, rilevante sul piano del diritto pretorio, condusse all’introduzione
nell’editto del pretore, in un tempo plausibilmente non lontano da quel-
lo in cui fu riconosciuta l’eccezione di dolo, anche della corrispondente
azione di dolo60.
Ecco quindi che, riconosciuta l’azione, il dolo davvero venne ad assu-
mere tutti i profili di un’autonoma figura delittuale: si costituisce infatti la
concatenazione tra delitto, obbligazione che ne nasce e azione corrispon-
dente. Appare edificata la corrispondenza biunivoca tra obligatio e actio.
Quella collegata all’actio doli è una vicenda assai nota e studiata in seno
alla romanistica, sulla quale non intendo certo soffermarmi in questa sede61.

non interferenza) tra giudizio di validità e giudizio di correttezza: su ciò si veda A. Trabucchi,
Il dolo nella teoria dei vizi del volere, Padova 1937, 105 ss.; V. Pietrobon, Errore, volontà e
affidamento nel negozio giuridico, Padova 1990, 104 ss.; diversa e più coraggiosa impostazione in
G. Visintini, La reticenza nella formazione dei contratti, Padova, 1972, in specie 112 ss.
59
  Sui meccanismi di funzionamento dell’arbitratus de restituendo cfr., di recente, S. Viaro,
L’‘arbitratus de restituendo’ nelle formule del processo privato romano, Napoli, 2012, in specie
49 ss.
60
  Per il tenore della clausola edittale dell’actio doli, il riferimento va a D. 4.3.1.1 (Ulp. 11
ad ed.): quae dolo malo facta esse dicentur, si de his rebus alia actio non erit et iusta causa esse
iudicium dabo.
61
  Cfr. V. Colacino, voce Actio de dolo, in Noviss. dig. it., I, Torino, 1960, 259 s.; G.I.
Luzzatto, voce Dolo (dir. romano), cit., 712 s.; F. Casavola, voce Dolo (dir. romano), cit., 148;
B. Albanese, La sussidiarietà dell’‘actio de dolo’, in AUPA, XXVIII, 1961, 253 ss.; M. Brutti,
La problematica del dolo processuale, I, cit., 135 s.; A. Wacke, Sul concetto di ‘dolus’ nell’‘actio
de dolo’, in Iura, XXVIII, 1977, 10 ss.; R. Fercia, Appunti su funzione e struttura formulare
dell’‘actio de dolo’, in Studi economico-giuridici in memoria di F. Ledda, I, Torino, 2004, 421 ss.;
M.F. Cursi, L’eredità dell’‘actio de dolo’ e il problema del danno meramente patrimoniale, Napo-
li, 2008; P. Lambrini, Dolo generale e regole di correttezza, Padova, 2010; Ead., Studi sull’azione
di dolo, Napoli, 2013. Cfr. inoltre T. dalla Massara, Die Klage wegen Arglist, in Handbuch
des Römischen Privatrechts, herausgegeben von U. Babusiaux et alii, in corso di pubblicazione.
134 Tommaso dalla Massara

Invece mi pare qui sufficiente evidenziare l’ampiezza e la varietà delle


situazioni che appaiono idonee a trovare sanzione per effetto dell’introdu-
zione dell’azione di dolo.
Anche sul fronte dell’azione, dunque, rimane confermata la valenza de-
littuale, larga e atipica della nozione di dolo generale.
Proprio in questa intrinseca ed essenziale atipicità delle situazioni sussu-
mibili entro la nozione di dolo generale si rinviene un tratto di significativa
continuità, nella prospettiva di un raffronto diacronico a livello di modelli
giuridici, tra quell’antica figura e le moderne teorie sull’abuso del diritto:
tema sul quale mi è stato chiesto di impostare l’odierno ragionamento.
Per comprendere appieno il rilievo che assume, a livello sistematico, il
riconoscimento del delitto di dolo, occorre peraltro tenere presente che la
nozione di dolo si prospetta come macro-categoria sanzionatoria, la quale
si affianca a un sistema di tipicità dei delitti ritenuti rilevanti sul piano del
diritto civile (nella tradizione manualistica improntata sul modello di Gaio:
furto, rapina, iniuria, damnum iniuria datum62).
Ancora nella prospettiva di una lata comparazione diacronica, ciò po-
trebbe indurre a sostenere con buone ragioni che un corrispondente idea-
le dell’odierna clausola della responsabilità extracontrattuale di cui all’art.
2043 c.c. sia da rinvenirsi, molto più che nell’antica lex Aquilia, nella no-
zione romana di dolo generale63.
Sicché la continuità concettuale tra la lex Aquilia e la responsabilità
aquiliana, al di là del profilo nominalistico, finisce per apparire molto più
tenue di quanto non siano strutturalmente vicine due figure a un primo
sguardo più distati, quali l’antico modello romano del dolo generale e la
moderna clausola della responsabilità extracontrattuale, l’uno e l’altra però
caratterizzate per una spiccata atipicità, non disgiunta dal profilo impre-
scindibile della lesione di un interesse giuridicamente protetto.
Ciò peraltro presuppone, sotto il profilo romanistico, che il tratto
dell’atipicità connota la nozione di dolo generale in modo molto più netto
rispetto a qualunque altro dei delitti civili contemplati nel sistema gaiano.
Sempre su un piano di ampie corrispondenze macro-comparatistiche,
mi pare interessante aggiungere che, partendo da questa modellistica del
diritto romano, si avverte ancor più netto il movimento della storia che
ha condotto alla divaricazione realizzatasi nel corso dei secoli tra i sistema
di responsabilità civile i quali, per un verso, hanno mantenuto l’impronta
della tipicità delle figure di illecito e quelli che, per altro verso, appaiono

62
  Gai. 3.182.
63
  Spunti in questo senso in M.F. Cursi, L’eredità dell’‘actio de dolo’, cit., 21 s.
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 135

invece ispirati all’atipicità. Così nell’ambito dei primi – com’è noto – è


sicuramente da ascriversi il sistema della responsabilità civile quale emer-
ge dal BGB (fondato sull’Enumeration-prinzip)64, mentre nel novero dei
secondi rientrano i sistemi di matrice napoleonica, e così dunque anche
quello italiano, tanto con riguardo al codice del 1865, quanto pure a quello
del 1942.
7.  Il dolo generale nell’elaborazione giurisprudenziale tedesca
dell’Ottocento
Come si è detto fin già in apertura, l’antecedente diretto della figura
dell’abuso del diritto è da ravvisarsi nella teorica dell’abus de droit, la quale
– non senza radici nel diritto medievale – trova il suo luogo di elaborazione
nell’esperienza giurisprudenziale francese.
Nondimeno, è innegabile che questo filone concettuale di matrice fran-
cese, sostanzialista e dominicale, si sia in larga parte intrecciato con l’ela-
borazione dottrinale tedesca che fin già nella metà dell’Ottocento aveva
raccolto l’eredità più autentica del pensiero dei prudentes anche con atten-
zione al tema della buona fede.
Così, proprio in forza di un innesto del contributo concettuale romano,
per il medio della sua rigenerazione pandettistica, fu segnato il percorso
che conduce fino alle moderne teorie sull’abuso.
Nella direttrice à rebour che ho adottato in questo intervento, è così
possibile riannodare i fili che collegano la moderna elaborazione dell’abuso
del diritto alla concettualizzazione romana del dolo generale.
Rappresentazione quasi plastica del ricongiungersi delle due linee cultu-
rali – a questo punto si può dire, l’una di matrice francese e l’altra di origine
tedesca – si rinviene nell’art. 74 del «Progetto di codice delle obbligazioni
e dei contratti comune all’Italia e alla Francia», ove, al comma 2, dopo un
primo comma nel quale era contenuta la formula aquiliana del vecchio
1151, si precisava che «è ugualmente tenuto al risarcimento colui che ha ca-
gionato danno ad altri eccedendo, nell’esercizio del proprio diritto, i limiti
posti dalla buona fede e dallo scopo per il quale il diritto fu riconosciuto».

64
  Per un quadro aggiornato sulla responsabilità civile in Germania, cfr. A. Diurni, Le novità
in tema di risarcimento del danno nello ‘Zweite Gesetz zur Änderung Schadenersatzrechtlicher
Vorschriften’, in Annuario di diritto tedesco 2004, a cura di S. Patti, Milano, 2006, 341 ss.; per uno
sguardo di comparazione a livello europeo, tra tipicità e atipicità dell’illecito, cfr .G. Visintini,
La tecnica della responsabilità civile nel quadro dei modelli di ‘civil law’, in Nuova giur. civ.
comm., II, 1995, 51 ss.; sullo sfondo rimane l’ampio affresco rappresentato da R. Zimmermann,
The Law of Obligations, cit., 953 ss., in specie 1031 ss., ove è descritto il percorso «towards the
modern, generalized law of delict».
136 Tommaso dalla Massara

Ecco dunque idealmente saldata in una stessa disposizione l’idea sostan-


zialista del détournement, della chicane non consentita (di chicane poi si
parlerà anche in Germania), per un verso, e la tradizione antica della buona
fede e correttezza di impronta processuale, recante in sé ancora un chiaro
conio romano, per altro verso.
La codificazione della figura dell’abuso di diritto non mancò peraltro
di trovare spazio in altri codici europei65.
Nel dibattito dottrinale italiano è lo specchio più nitido di un’ampia so-
vrapposizione concettuale tra l’abuso del diritto e il dolo generale: rilevava
Pellizzi che «l’exceptio doli copre gran parte dei casi di abuso del diritto,
rimanendo ad essa estranei solo quelli (nel campo dei diritti assoluti, che
non è, tuttavia, completamente assorbito), in cui l’abuso non si manife-
sta nell’esercizio di una pretesa verso altri, bensì nell’esercizio diretto di
facoltà di godimento di un bene»66; eppure, se questo è in larga misura
l’esito della riflessione di molti, ciò non può far velo rispetto all’evidente
disomogeneità che si riscontra non appena si confronti il dolo generale,
di matrice processuale e allocato in maniera più forte proprio nei rapporti
di credito, con l’abuso del diritto, concepito in chiave sostanziale come
un trasmodare rispetto all’esercizio di un diritto, paradigmaticamente, un
diritto da intendersi come in rem ed erga omnes.
A preparare i presupposti per una siffatta, larga fascia di sovrapposizio-
ne fu il processo giurisprudenziale di concretizzazione – nel senso origina-
rio di Präzisierung67 – del principio di buona fede e correttezza nei termini
più esatti dell’operatività dell’eccezione di dolo generale, quale si realizzò
in modo particolarmente intenso nel torno di tempo che va dall’entrata in
vigore del BGB ai primi decenni del Novecento.
Nell’elaborazione del Reichsgericht fu, a ben vedere, superato lo stesso
tenore letterale del § 226 BGB, contenente un espresso Schikaneverbot e
quindi disposizione in sé deputata a raccogliere il dibattito intorno all’abu-
so del diritto, giacché venne affidato in via nettamente prevalente al § 242
BGB, il königlische Paragraph, il compito di veicolare decisioni nelle quali
le forme di abuso trovassero sanzione a mezzo dell’eccezione di dolo ge-
nerale68.

65
  In particolare nell’art. 2, comma 2, del codice svizzero e nell’art. 281 di quello greco.
66
  Così, L. Pellizzi, voce Exceptio doli (dir. civile), cit., 1074 ss.; non dissimile, da questo
punto di vista, l’impostazione di G.B. Portale, Impugnative di bilancio ed ‘exceptio doli’, cit.,
415 ss.
67
  Ricavo l’espressione da F. Wieaker, Zur rechtstheoretischen Präzisierung des § 242 BGB,
in Franz Wieacker. Kleine juristische Schriften, a cura di M. Dießelhorst, Göttingen, 1988, 43 ss.
68
  Si veda, a ridosso dell’entrata in vigore del BGB, O. Wendt, Die ‘exceptio doli generalis’
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 137

Vennero in questa maniera a cristallizzarsi nelle Corti tedesche Fal­


lgruppen assai ampi e al contempo dettagliati, in grado di costituire un’in-
telaiatura stringente di precedenti collegati al § 242 BGB.
Per tornare all’Italia, la riscoperta del dolo generale – in quanto idea
fondativa di un ampio recupero sul piano processuale delle esigenze di
buona fede e correttezza proclamate con riguardo a obbligazioni e contrat-
ti – dipende in primo luogo da un intenso lavoro dottrinale.
I tanti fautori di quella che si rivelò un’autentica rivoluzione culturale –
cito qui soltanto il nome di Pietro Rescigno69 – riuscirono quindi a trovare
terreno recettivo in una giurisprudenza che via via nel tempo cominciava
a lasciarsi persuadere della necessità di superare un precedente e assai ra-
dicato approccio formalista.
Certo, in questo senso, come più ampiamente in direzione di una risco-
perta delle clausole generali, un rilievo ebbe sicuramente l’accentuarsi della
sensibilità del diritto privato nei confronti del dettato costituzionale, non
solo con attenzione rivolta all’imperativo solidaristico di cui all’art. 2, ma
anche negli ultimi anni dedicata all’art. 111 sul giusto processo70.
Il punto d’approdo sul dolo generale, che può oggi dirsi ben rappresen-
tato dalla sentenza della Suprema Corte del 2007, n. 5273, dianzi citata71,
appare quindi indicativo di una nuova apertura nei confronti dell’antica
eccezione quale veicolo di sanzionamento delle forme di abuso, non tanto
del diritto, quanto piuttosto specificamente del processo.
Oggi l’eccezione di dolo generale è da ritenersi uno strumento presso-
ché irrinunciabile, dotato di piena cittadinanza nel patrimonio concettuale
della nostra giurisprudenza.

im heutigen Recht oder Treu und Glauben im Recht der Schuldverhältnisse, in AcP, 100, 1906,
1. In argomento, K. Luig, Il ruolo della buona fede nella giurisprudenza della Corte dell’Impero
prima e dopo l’entrata in vigore del BGB dell’anno 1900, in Il ruolo della buona fede oggettiva,
II, cit., 417 ss.; F. Ranieri, ‘Dolo petit qui contra pactum petat’. ‘Bona fides’ und stillschweigende
Willenserklärung in der Judikatur des 19. Jahrhunderts, in Jus commune. Veröffentlichungen
des Max Planck-Instituts für Europäische Rechtsgeschichte Frankfurt am Main, IV, herausge-
geben von H. Coing, Frankfurt am Main, 1972, 158 ss.; Id., Norma scritta e prassi giudiziale
nell’evoluzione della dottrina tedesca del ‘Rechtsmissbrauch’, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972,
1216 ss.; H.P. Haferkamp, Die ‘exceptio doli generalis’ in der Rechtsprechung des Reichsgerichts
vor 1914, in Das Bürgerliche Gesetzbuch und seine Richter, Frankfurt am Main 2000, 1 ss.; F.
Procchi, L’‘exceptio doli generalis’ e il divieto di ‘venire contra factum proprium’, in L’eccezione
di dolo generale. Applicazioni giurisprudenziali e teoriche dottrinali, cit., 77 ss., con ampia bi-
bliografia alla nt. 4.
69
  Decisiva la svolta segnata con P. Rescigno, L’abuso del diritto, cit., 205 ss.
70
  Cfr. M. De Cristofaro, Infrazionabilità del credito tra buona fede processuale e limiti
oggettivi del giudicato, in Riv. dir. civ., 2008, II, 336.
71
  Si veda supra, § 3.
138 Tommaso dalla Massara

8.  Dolo generale e abuso del diritto oggi


Se – come si è detto – il dolo generale ha trovato negli ultimi anni
una significativa reviviscenza proprio in stretta connessione con la teoria
dell’abuso del diritto, non v’è dubbio che in questo processo di conta-
minazione tra differenti linee concettuali alcuni dei suoi profili originari
appaiano smarriti.
D’altra parte, che l’eccezione di dolo risulti modificata nel corso di due-
mila anni di storia rappresenta un dato non significativo o sorprendente:
né v’è motivo di intendere questa constatazione in chiave – per così dire
– nostalgica, nel senso che possa sembrare auspicabile un ritorno ai tratti
originari dell’exceptio doli generalis.
Non reputo che la purezza della costruzione romana garantisca ipso
iure una migliore efficienza del sistema: a tacere d’altro, è da considera-
re che i presupposti rappresentati dalla generalizzazione della regola di
buona fede all’intera area delle obbligazioni e dei contratti (artt. 1175 e
1375 c.c.), dal superamento della strutturazione dualistica tra apparati di
norme (diritto civile vs. diritto onorario), nonché in generale dall’abban-
dono della prospettiva processuale del diritto (c.d. Aktionenrechtliche­
sdenken), abbiano imposto una riconfigurazione dell’eccezione in termi-
ni nuovi.
Ben più che un auspicio di ritorno al passato, appare quindi urgente che
sia ancora percorso un tratto di strada nel senso di un’indagine schietta e
neutra in termini di comparazione tra l’antico dolo generale e le moderne
teorie sull’abuso; e tale indagine va ora concentrata proprio sul percorso
decisionale seguito da alcune delle sentenze degli ultimi anni, per arrivare
a comprendere come possa costruirsi in concreto il funzionamento dell’ec-
cezione di dolo generale nel nostro processo.
In effetti, pare a me che la vera frontiera di un ragionamento sul dolo
generale si sia oramai spostata dal focus sul fondamento normativo dell’ec-
cezione di dolo (con le note difficoltà nel ricavare una risposta sicura da-
gli artt. 1175 e 1375 c.c.72), verso quello sulla sua ricostruzione di regime
e sistematica; in altri termini, occorre oggi porre l’attenzione sul profilo
rimediale-operativo73, per chiedersi quando e per iniziativa di chi sia op-

72
  Del tema della riconducibilità dell’eccezione di dolo al fondamento degli artt. 1175 e 1375
c.c. mi ero occupato in T. dalla Massara, Frazionabilità della domanda e principio di buona
fede, in Il ruolo della buona fede oggettiva, I, cit., 429 ss., in specie 432 ss. Peraltro, oggi appare
finanche anacronistico il problema di rinvenire un fondamento normativo soltanto nazionale: sul
punto, G. Alpa, Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario e i suoi riflessi
negli ordinamenti degli Stati Membri, in Contr. e impr., 2015, 245 ss.
73
  Il profilo preso in esame da V. Mannino, Considerazioni sulla ‘strategia rimediale’: buona
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 139

ponibile una difesa basata sulla violazione dei principi di buona fede e
correttezza, nonché quali effetti processuali scaturiscano dall’accoglimento
in sentenza di una simile obiezione.
Si badi che proprio in questa prospettiva operativa credo possa espri-
mere la sua massima utilità la comparazione diacronica: ricordo che nel
corso di un’altra preziosa occasione convegnistica resa possibile da Gio-
vanna Visintini avevo avuto il privilegio di condividere con Paolo Grossi
alcune considerazioni sull’utilità degli studi storici in chiave di analisi dei
problemi; e Grossi anche in quel caso ci aveva ricordato che studiare la
storia del diritto significa mettere a raffronto regole giuridiche, immergersi
in una vicenda di idee che rappresenta una concatenazione ininterrotta74.
Al centro deve essere sempre un lavoro sulle regole, dunque.
Ciò mi è parso utile qui sottolineare per dire che anche nel caso dell’ec-
cezione di dolo generale il raffronto storico appare utile nella misura in
cui arriva a farci comprendere temi e problemi che altrimenti potrebbero
sfuggire entro i confini di un’analisi puramente sincronica.
Nella specie, un esame dei profili concreti che emergono a fronte
dell’eccezione sollevata da colui che subisca un comportamento contrario
a buona fede e correttezza (o, se si preferisce dire, abusivo) evidenzia tut-
ta la difficoltà di offrire risposte univoche; per concretizzare: l’obiezione
fondata sulla violazione di buona fede e correttezza integra davvero un’ec-
cezione o costituisce una mera difesa? Si tratta di un’eccezione in senso
proprio o improprio? E ancora: si tratterebbe di un’eccezione di quale
natura? Eccezione di merito oppure di rito?
L’esemplificazione che segue renderà tutto più chiaro.
9.  Il caso della c.d. domanda frazionata quale laboratorio per l’iden-
tificazione dei caratteri dell’eccezione di dolo generale
Il già evocato caso della c.d. domanda frazionata è fin troppo noto per
essere qui riproposto in tutta la sua ampiezza: come si sa, i numerosi pro-
blemi interpretativi sottesi nascono dalla deliberata scelta del creditore di

fede ed ‘exceptio doli generalis’, in Europa dir. priv., 2006, 1283 ss.; inoltre Id., Eccezione di dolo
generale e contratti di stretto diritto, in L’eccezione di dolo generale, II, cit., 171 ss., il quale si
colloca nella prospettiva di A. Di Majo, Il linguaggio dei rimedi, in Europa dir. priv., 2005, 341
ss.; da ultimo si veda nell’insieme la raccolta di saggi pubblicata a cura di L. Garofalo, Tutele
rimediali in tema di rapporti obbligatori. Archetipi romani e modelli attuali, Torino, 2015.
74
  Cfr. T. dalla Massara, Lo storico, in La scuola civilistica di Bologna. Un modello per
l’accesso alle professioni legali, a cura di G. Visintini, Napoli, 2013, 173 ss., derivante dalla me-
desima occasione convegnistica cui risale il testo di P. Grossi, Ruolo degli insegnamenti storici e
importanza del dialogo tra docenti afferenti a diverse discipline, in Contr. e impr., 2012, 321 ss.
140 Tommaso dalla Massara

agire per la tutela del proprio diritto non già con una sola azione e per
l’intero, bensì segmentando il credito in una molteplicità di procedimenti
– monitori oppure ordinari, senza che la sostanza muti –, normalmente
allo scopo di adire la competenza del giudice di pace in luogo di quella
del tribunale.
Proprio su questo caso intendo sperimentare il mio ragionamento in
tema di eccezione di dolo generale.
Orbene, il problema che giurisprudenza e dottrina si sono poste si tra-
duce nel dubbio se un siffatto aggravamento della posizione difensiva del
convenuto – aggravamento che peraltro si riverbera anche nei termini più
ampi di una diseconomia processuale – trovi ostacolo in uno strumento di
difesa da parte del convenuto-debitore75.
Molti e interconnessi sono i profili toccati: appaiono implicati aspetti
di diritto sostanziale come pure di diritto processuale, tutti in grado di
imporre una riflessione assai larga sui valori dell’ordinamento, tra diritto
d’agire ed esigenze di contenimento dei processi.
Orbene, assai celebre è la decisione a Sezioni Unite della Corte di Cas-
sazione del 15 novembre 2007, n. 2372676, la quale davvero occupa un
posto centrale nello sviluppo di una stagione nuova della nostra giurispru-
denza in tema di buona fede nel processo77.
Con quella decisione la Suprema Corte non solo optò – a sette anni di

75
  Alle molte questioni collegate al frazionamento della domanda sono dedicati i lavori mo-
nografici, pur differentemente impostati, di A. Fondrieschi, La prestazione parziale, Milano,
2005, e di A. Finessi, Frazionamento volontario del credito e obbligazione plurisoggettiva, Mi-
lano, 2007.
76
  Quella sentenza si può leggere in Riv. dir. civ., 2008, II, 335 ss., con commento di M. De
Cristofaro, Infrazionabilità del credito, cit., e di T. dalla Massara, La domanda frazionata
e il suo contrasto con i principi di buona fede e correttezza: il ‘ripensamento’ delle Sezioni Unite;
la si veda inoltre in Giur. it., 2008, 929 ss., con nota di A. Ronco, (Fr)azione: rilievi sulla di­
visibilità della domanda in processi distinti; in Nuova giur. comm., 2008, I, 458 ss., con nota di
A. Finessi, La frazionabilità (in giudizio) del credito: il nuovo intervento delle Sezioni Unite, e
di F. Cossignani, Credito unitario, unica azione; in Foro it., 2008, I, 1514 ss., con nota di Al.
Palmieri – R. Pardolesi, Frazionamento del credito e buona fede inflessibile, e di R. Cappo-
ni, Divieto di frazionamento giudiziale del credito: applicazione del principio di proporzionalità
nella giustizia civile?; in Corr. giur., 2008, 745 ss., con commento di P. Rescigno, L’abuso del
diritto (una significativa rimeditazione delle Sezioni Unite); in Obbl. e contr., 2008, 10, 784 ss.,
con nota di A. Meloni Cabras, Domanda di adempimento frazionata e violazione dei canoni
di correttezza e buona fede, e di B. Veronese, Domanda frazionata: rigetto per contrarietà ai
principi di buona fede e correttezza.
77
  Quella sentenza aprì poi la strada a ramificazioni giurisprudenziali secondarie, come quella
che estende il divieto di frazionamento della domanda nell’ambito dei crediti risarcitori (Cass.
22 dicembre 2011, n. 28286) e quella che ribadisce il medesimo principio in tema di esecuzione
(Cass. 9 aprile 2013, n. 8576).
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 141

distanza da una pronuncia a Sezioni Unite di segno opposto78 – nel senso


del rigetto della domanda frazionata, ma con la propria argomentazione
aprì anche, e senza lasciare spazio a dubbi, all’idea che dovesse respingersi
una domanda la quale, sebbene in thesi incontestabile quanto al suo titolo,
manifestasse un abuso nella scelta dell’agire ovvero della modalità dell’agire
stesso.
Più esattamente, quella decisione del 2007 argomentava in maniera mol-
to ampia sulla base del valore costituzionale di cui all’art. 2, come pure
dei principi di buona fede e correttezza, nonché ancora richiamandosi
all’economia processuale, per giungere all’esito che il frazionamento della
domanda per la tutela di un credito in sé unitario avrebbe integrato una
non ammissibile forma di abuso79.
Si tratta di una decisione assai coraggiosa, dunque.
Essa ci consente di approfondire talune questioni qualificatorie e rico-
struttive, sottese al riconoscimento dell’abusività della domanda e quindi
alla fondatezza di una difesa – id est eccezione, al di là degli aspetti nomi-
nalistici – basata sulla scorrettezza del comportamento attoreo.
In specie ritengo che, dal punto di vista adottato nell’odierno convegno,
la questione da cui partire riguardi il ruolo svolto dalla nozione di dolo
generale rispetto all’esito della decisione.
La risposta appare qui obbligata: colui che muova un’obiezione di scor-
rettezza avverso il creditore il quale abbia frazionato artatamente la do-
manda sta sollevando precisamente ed esattamente un’eccezione di dolo
generale.

78
  Cfr. Cass., sez. un., 10 aprile 2000, n. 108, con cui si annullava Conc. Napoli, 15 mag-
gio 1995. Intorno a tale pronuncia era venuto alimentandosi un vivace dibattito: essa compare
pubblicata in Giust. civ., 2000, I, 2268 ss., con nota di R. Marengo, Parcellizzazione della do­
manda e nullità dell’atto; in Corr. giur., 2000, 1618 ss., con nota di T. dalla Massara, Tra ‘res
iudicata’ e ‘bona fides’: le Sezioni Unite accolgono la frazionabilità nel ‘quantum’ della domanda
di condanna pecuniaria; in Studium iuris, 2000, 1273 ss., con nota di A. Finessi; in Nuova giur.
comm., 2001, I, 502 ss., con nota di V. Ansanelli, Rilievi minimi in tema di abuso del processo;
in Giur. it., 2001, 1143 ss., con nota di A. Carratta, Ammissibilità della domanda giudiziale
‘frazionata’ in più processi?, oltre a osservazioni di S. Minetola, nonché di A. Ronco. A una
ricostruzione dei problemi del frazionamento della domanda, prima della pronuncia a Sezioni
Unite del 2007, dedicavo anche T. dalla Massara, Eccezione di dolo generale, ‘exceptio litis
dividuae’ e domanda frazionata, in L’eccezione di dolo generale. Applicazioni giurisprudenziali
e teoriche dottrinali, cit., 251 ss.
79
  Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726: «il frazionamento della domanda, consistente
nella proposizione di più domande giudiziali aventi fondamento nel medesimo credito unitario, è
contrario alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di
solidarietà di cui all’art. 2 Costituzione, risolvendosi in un abuso del processo (ostativo all’esame
della domanda)».
142 Tommaso dalla Massara

Al di là delle possibili equivoci sui nomi, il debitore sta infatti oppo-


nendo che un comportamento genericamente contra bonam fidem si è con-
sumato sul piano processuale; come detto, non sarebbe in thesi eccepibile
alcunché sul piano della validità del negozio giuridico (nella forma di ar-
tifizi o raggiri che possano aver indotto a concludere un negozio che non
si sarebbe concluso o si sarebbe concluso a condizioni differenti), mentre
l’unica obiezione sollevabile da parte del debitore-convenuto è proprio ed
esattamente sul piano del dolo generale.
Se così è, allora le ulteriori questioni in ordine alla ricostruzione con-
cettuale e sistematica del rimedio sono quelle già anticipate.
A cascata, occorre chiedersi: in primo luogo, se la difesa che contiene
un’obiezione di tal genere – nella sostanza, eccezione di dolo generale –
corrisponda a un’eccezione propria o impropria.
Si tratterebbe pertanto di un’eccezione in senso stretto, paragonabile
quanto al suo regime a un’eccezione con la quale si faccia valere l’annulla-
bilità del contratto80, oppure saremmo a cospetto di un’eccezione rilevabile
d’ufficio?
Intrecciata con queste domande è un’altra questione di ricostruzione
generale della fattispecie: la difesa con cui il debitore opponga al creditore
la scorrettezza consistente nel non agire per l’intero bensì soltanto per
tranches è sollevabile già in relazione alla domanda avanzata per la prima
porzione di credito oppure soltanto a fronte dalla domanda per la seconda
frazione?
La domanda appare nient’affatto banale perché, in effetti, la malizio-
sa disarticolazione dell’agire di cui il debitore convenuto può lamentare
l’abusività si manifesta con assoluta certezza soltanto in seguito alla pro-
posizione della seconda domanda.
La mera proposizione di una domanda per il minus evidenzia infatti
soltanto in termini di possibilità una violazione delle regole di correttezza
e buona fede. Anzi, una domanda per il minus potrebbe corrispondere
addirittura all’interesse del convenuto-debitore per una dilazione di pa-

80
  Interrogativo rispetto al quale S. Viaro, Abuso del diritto ed eccezione di dolo generale,
cit., 74, osserva: «basti pensare che essa [l’eccezione di dolo generale, n.d.r.] non è più configu-
rata come un’eccezione in senso proprio, rispetto alla quale il dolo costituisce un fatto ostativo
all’accoglimento della domanda formulata dall’attore, bensì come una mera difesa, rispetto alla
quale il dolo rileva quale violazione di un precetto giuridico, che il giudice può considerare da sé
sulla scorta degli elementi introdotti nella causa dalle parti (senza perciò che ne esca contraddetto
il principio secondo cui la decisione va emessa iuxta alligata et probata)». In argomento, però
senza presa di posizione sul punto, cfr. G. Impallomeni, La ‘denegatio actionis’ e l’‘exceptio’ in
diritto romano in relazione con l’eccezione rilevabile e non rilevabile d’ufficio in diritto moderno,
in Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996, 656 ss.
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 143

gamento; o addirittura, in un’ipotesi ancora preferibile per il debitore, la


domanda per una frazione potrebbe lasciar immaginare una remissione
parziale del debito.
Proprio tenendo conto delle incertezze che si collegano alla situazione
descritta, un’autorevole opinione dottrinale inclina a suggerire al convenu-
to, per uscire dall’impasse derivante dalla proposizione della prima doman-
da per la frazione, di proporre a sua volta una domanda di accertamento
negativo per la porzione di credito che l’attore abbia mancato di rendere
oggetto della sua pretesa (per uno scopo abusivo o comunque in conside-
razione di un proprio immeritevole tornaconto)81.
Certo, facile replica rispetto a questa proposta è che appare quantomai
singolare che il convenuto, il quale si veda contestata una somma inferiore
a quella dovuta, decida di ampliare a proprio rischio il fronte della contro-
versia lungo una linea più estesa.
Al di là di ciò, e così per tornare al punto focale delle questioni testé
evocate, in ordine all’eccezione che sia sollevata dal debitore-convenuto
contro la domanda per una porzione del debito, il problema che mi pare
da affrontare per primo – al fine di sciogliere anche gli altri – è il seguente:
se l’eccezione debba ritenersi di merito oppure di rito.
Stando al ragionamento svolto dalla Suprema Corte nella sentenza del
2007, nonché pure (e forse in modo più chiaro) in altre decisioni succes-
sive82, si ricava che dovrebbe essere rigettata già la prima domanda per il
minus, poiché essa manifesterebbe in maniera sufficientemente chiara la
maliziosità della condotta attorea.
Ciò orienta verso una ricostruzione della vicenda che – se si vuol che
assuma profili di coerenza – dovrebbe presentarsi nei termini seguenti:
l’abusività della condotta tenuta da parte dell’attore il quale disarticoli il
proprio credito decidendo di agire in più tranches, anziché in una sola
volta, integrerebbe gli estremi del dolo; e resta confermato che sarebbe da
intendersi proprio ed esattamente come un dolo romanisticamente inteso,
ossia come una condotta di dolo generale o presente.
Quindi, se di vero e proprio fatto illecito si tratta, esso consisterebbe

81
  Sulla base del § 280 ZPO: in tal senso M. Pagenstecher, Efficacia del giudicato contro
il vincitore nel diritto processuale civile germanico, in Studi in onore di G. Chiovenda, Padova,
1927, 645, nt. 9; E. Allorio, Giudicato su domande parziali, in Giur. it., 1958, I, 1, c. 404, C.
Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 244; si
tratta di possibilità indicata anche da Cass., sez. un., 10 aprile 2000, n. 108, cit.
82
  Cfr. Cass. 11 giugno 2008, n. 15476, in Obbl. e contr., 2009, 813 ss., con nota di B. Vero-
nese, L’improponibilità della domanda frazionata, cit.
144 Tommaso dalla Massara

precisamente nel fatto stesso di agire in modo scorretto, ossia contro il


canone di buona fede.
Ecco allora recuperata la circolarità del ragionamento: se l’abuso è da
intendersi come dolo presente, in quanto condotta di natura delittuale,
occorre quindi pensare che la difesa del convenuto-debitore si traduca in
un’eccezione in senso proprio, dunque sollevabile su istanza di parte.
Con tale eccezione si fa valere in effetti un vero e proprio ‘controdiritto’
che rimane nella disponibilità del soggetto il quale ne sia titolare: si tratta
tecnicamente di Einrede, diritto potestativo esercitato dentro alle strutture
del processo, per lo meno se si accolga l’impostazione chiovendiana del
tema dell’eccezione83.
In altri termini, il frazionamento della domanda integrerebbe una for-
ma di illecito che si consuma nel processo, meritevole di trovare sanzione
a mezzo di un’eccezione di dolo generale, da intendersi quale eccezione
propria.
La conseguenza non chiaramente espressa – per lo meno in sede di
pronuncia della Cassazione del 2007 – di una siffatta impostazione è gio-
coforza ravvisabile nel fatto che la sentenza di rigetto scaturente dall’acco-
glimento di quell’eccezione deve ritenersi di merito, non di rito.
Si tratta di una conseguenza che, in modo un po’ più chiaro, sembra di
poter cogliere da una pronuncia in tema di frazionamento della domanda di
un anno successiva rispetto a quella delle Sezioni Unite. In quella sentenza
del 2007, nella quale si parla per vero di «improponibilità» della domanda,
si lascia intendere nel corso del ragionamento espresso in motivazione che
– al di là dell’espressione in sé non illuminante84 – si debba giungere a una
decisione di rigetto nel merito della domanda frazionata85.
L’esito di ciò – senza dubbio di rilevantissimo momento – è rappresen-
tato dal fatto che una decisione con cui la domanda sia rigettata in ragione
della fondatezza dell’eccezione di dolo generale sarebbe destinata a realiz-
zare cosa giudicata materiale.
È questa l’acquisizione più rilevante sul piano della ricostruzione del
dolo generale che sembra di poter ricavare dall’impostazione delle Sezioni
Unte del 2007.
Quanto al profilo specifico della qualificazione della vicenda della do-

83
  Per un inquadramento, S. Pugliatti, voce Eccezione, cit., in specie 173 ss.
84
  D’altra parte, anche la pronuncia delle Sezioni Unite del 2007, parlando di «inammissibi-
lità», ricorreva a un’espressione «in sé anodina» (così M. De Cristofaro, Infrazionabilità del
credito, cit., 335), non in grado di per sé di chiarire tutti i dubbi in ordine alla natura e agli effetti
della declaratoria di rigetto.
85
  Cfr. Cass. 11 giugno 2008, n. 15476, cit., 813 ss.
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 145

manda frazionata, i suoi profili possono riassumersi al modo seguente:


qualora un creditore agisca per una frazione anziché per l’intero, la sua
domanda risulta abusiva fin già per la prima tranche, subendo quindi una
decisione di rigetto idonea a costituire decisione di merito e così a rimanere
d’ostacolo per ogni successiva domanda (sia pure emendata, nonché ripri-
stinata nel suo ‘naturale’ ammontare), che sia basata sul medesimo titolo.
Può sorgere il dubbio – o, per lo meno, a chi scrive è sempre parso – che
la ricostruzione della vicenda dalla domanda frazionata fornita dalla Cas-
sazione ormai quasi dieci anni fa risulti eccessivamente sanzionatoria per
l’attore-creditore, se paragonata al fatto che in thesi si tratta di domanda
quanto al titolo fondata.
10.  Altri possibili percorsi argomentativi con l’obiettivo di sanziona-
re l’abusività della condotta
Esiste una strada che potrebbe condurre all’applicazione di una diffe-
rente sanzione avverso la scorrettezza dell’attore frazionante, senza giunge-
re all’esito di una sentenza di rigetto nella quale si consolidi una decisione
di merito, idonea dunque al giudicato materiale.
In effetti, potrebbe accreditarsi l’idea secondo cui l’abusività del-
la domanda si rivelerebbe idonea a incidere sul giudizio di sussistenza
dell’interesse ad agire: e così, più esattamente, quando la domanda risulti
abusiva, sarebbe da giudicarsi non meritevole l’interesse ad agire del cre-
ditore86.
A voler invertire i termini della questione, si potrebbe affermare che la
‘non abusività’ venga a costituire un attributo coessenziale dell’interesse
ad agire87.
La ricaduta operativa di un’impostazione siffatta sarebbe non di poco
momento, in specie da ravvisarsi nel fatto che, trovando fondamento il
rigetto della domanda frazionata nella mancanza dell’interesse ad agire,
ossia – se così si vuol dire – in una delle c.d. condizioni di trattabilità e

86
  Questa la prospettiva di M.F. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta. Contributo
allo studio sull’abuso dell’azione giudiziale, Milano, 2004, specie 205 ss.; in critica, M. Marinelli,
La clausola generale dell’art. 100 c.p.c. Origini, metamorfosi e nuovi ruoli, Trento, 2005, 85 ss.
87
  Cfr. Trib. Torino, 13 giugno 1983, in Resp. civ. e prev., 1983, 815, con nota di A. Gamba-
ro. In quella decisione, dal riconoscimento dell’abuso di diritto realizzato da chi rivendichi un
diritto in astratto spettante (ma in concreto non comportante «alcun vantaggio apprezzabile e
degno di tutela giuridica», bensì volto «al solo, esclusivo fine di cagionare un tale danno all’altro
soggetto»), si traeva argomento per l’accoglimento di un’exceptio doli generalis; osserva peraltro
A. Gambaro che «il ricorso alla teoria dell’abuso appare appropriato perché solo invocandola
si può trascorrere dal giudizio sulla mancanza di interesse al giudizio sulla non meritevolezza
dell’interesse».
146 Tommaso dalla Massara

decisione della causa nel merito, allora la sentenza che a ciò desse rilievo
risulterebbe essere di rito, non già di merito.
Pertanto, pronunciata sull’abusività una sentenza in rito, non scattereb-
bero le preclusioni collegate al formarsi del giudicato materiale.
Se questa fosse la prospettiva, andrebbe allora ridefinito l’intero scena-
rio di riferimento dogmatico: l’abuso corrisponderebbe infatti a una man-
canza di meritevolezza dell’interesse ex art. 100 c.p.c., che a questo punto
dovrebbe ritenersi rilevabile ope iudicis.
Le conseguenze, assai più temperate per effetto del formarsi del giudica-
to formale, andrebbero a bilanciarsi con una maggiore incisività dei poteri
del giudice: sarebbe infatti da rimettere a quest’ultimo la valutazione in or-
dine alla meritevolezza o meno della domanda, assumendo così l’eccezione
di dolo la foggia di un’eccezione in senso lato.
Con riguardo al caso qui preso a paradigma dell’abusività della do-
manda, risulterebbe rimessa all’autonoma valutazione del giudice la scelta
attorea nel senso del frazionamento, come pure – più ampiamente – ogni
ponderazione sulla bontà dei modi e dei tempi dell’agire, onde scrutinarne
l’eventuale abusività.
Ricostruita la vicenda in termini di meritevolezza dell’interesse ad agire,
l’intervento del giudice presenterebbe dunque forti potenzialità correttive;
esso muoverebbe da un giudizio chiamato a investire i limiti di disponibi-
lità della domanda, nonché in particolare le ragioni che sono alla base di
un modo o di un altro di proporre quella domanda.
Molti degli aspetti essenziali di ricostruzione concettuale e sistematica
del rimedio rappresentato dall’eccezione di dolo sono stati fin qui – seppur
rapidamente – richiamati.
Eppure lo scenario dei percorsi argomentativi collegati al dolo generale
non appare ancora esaurito.
Come già ho avuto occasione di dire in altre sedi88, esiste a mio giudizio
una strada ancora differente e preferibile per attribuire rilievo all’abusività
della domanda.
Per restare al caso preso in esame quale laboratorio per l’identificazione
dei caratteri dell’eccezione di dolo generale, si pensi ancora alla scorrettez-
za commessa dall’attore-creditore, il quale decida di segmentare la propria
domanda in danno del convenuto-debitore: ebbene, esiste una via che evita
di incorrere negli eccessi di una sentenza di merito, idonea al giudicato
materiale, ma anche di cadere nelle difficoltà di dover immaginare un si-

88
  Si veda per esempio T. dalla Massara, La domanda frazionata e il suo contrasto con i
principi di buona fede e correttezza, cit., 345 ss.
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 147

stema di controllo automatico della meritevolezza della domanda da parte


del giudice, con il rischio di un’espansione eccessiva delle prerogative di
quest’ultimo in ordine alla valutazione del ‘buon’ uso della giustizia.
Il terreno entro il quale mettere a punto questa ulteriore possibile so-
luzione è quello – assai fertile, nonché reso oggetto di ampia attenzione in
questi ultimi anni89 – delle spese di giudizio, più esattamente delle spese
nella loro connessione con il tema della correttezza e dell’economia pro-
cessuale90.
Ritengo infatti che una ragionevole dissuasione rispetto a ogni forma
di abuso degli strumenti processuali – dunque sub specie di abuso del pro-
cesso – possa derivare da una decisione in ordine al carico delle spese di
lite che, a prescindere dalla soccombenza, il giudice può prendere ai sensi
dell’art. 92 c.p.c., in modo tale che quelle spese siano poste a carico dell’at-
tore che, sebbene vittorioso in processo, abbia violato i doveri di lealtà e
probità di cui all’art. 88 c.p.c. 91.
In altre parole, se per lealtà e probità in giudizio di cui all’art. 88 c.p.c.
s’intenda quella correttezza che connota anche il primo atto introduttivo
del giudizio, e sempre che di quei valori si fornisca una lettura incisiva e
non puramente formale, allora in combinato disposto con l’art. 88 c.p.c.
verrebbe a operare l’art. 92 c.p.c., proprio ove quest’ultimo consente al
giudice di valutare distintamente la decisione sull’an, per un verso, e quella
sulle spese di lite, per altro verso. E così, con riguardo all’ipotesi del ma-
lizioso frazionamento della domanda processuale, il giudice sarebbe auto-
rizzato a valutare da un lato se il credito esista (e, il tal caso, non potrebbe
rigettare la domanda), nonché dall’altro lato se la domanda sia proposta

89
  Cfr. F. Cordopatri, L’abuso del processo, I, Presupposti storici, e II, Diritto positivo, Pa-
dova, 2000; Id., L’abuso del processo e la condanna alle spese, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005,
249 ss.; G. Nicotina, L’abuso del processo civile, Roma, 2005; M.F. Ghirga, La meritevolezza
della tutela richiesta, cit., in specie 196 ss.; V. Ansanelli, voce Abuso del processo, in Digesto
disc. priv. – sez. civ., Aggiornamento, I, Torino, 2007, 1 ss.; L.P. Comoglio, Abuso del processo e
garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, 320 ss.; M. De Cristofaro, Doveri di buona fede
ed abuso degli strumenti processuali, in Il giusto processo, 2009, 993 ss.; G. Tropea, L’abuso del
processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015, sull’abuso del processo civile, in particolare,
221 ss.; utili i chiarimenti provenienti da G. Verde, L’abuso del diritto e l’abuso del processo (dopo
la lettura del recente libro di Tropea), in Riv. dir. proc., 2015, 1085 ss.
90
  T. dalla Massara, Terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ.: quando, quanto e perché?, in
Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 55 ss.
91
  Sul rapporto tra gli artt. 88 e 92 c.p.c., da un lato, e l’art. 96 c.p.c., dall’altro, G. Guarnieri,
Regolamento di giurisdizione: lite temeraria e dovere di lealtà e probità del difensore, in Riv.
dir. proc., 1988, 201 ss. Sul dovere di lealtà e probità processuale, G. Scarselli, Lealtà e probità
nel compimento degli atti processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 139 ss.; M.A. Mazzola,
Responsabilità processuale e danno da lite temeraria, Milano, 2010.
148 Tommaso dalla Massara

con violazione della regola di correttezza (di qui la decisione di porre le


spese di lite a carico dell’attore vittorioso)92.
Specialmente quando – come nel caso del frazionamento della domanda
– l’abusività assume i contorni di una tanto palese violazione delle ragioni
di economia processuale, ancor più adeguata mi sembra una soluzione che
operi sulla leva delle spese di giudizio.

11.  Qualche considerazione di carattere generale e conclusivo


A fronte dello scenario rappresentato, credo si possa constatare che i
modi attraverso cui assume rilevanza l’abusività della condotta processua-
le vadano vieppiù estendendosi, secondo percorsi via via differenti, talora
anche imprevedibili.
La mappatura delle questioni che possono farsi rientrare nel vasto re-
cinto concettuale dell’abuso del diritto mostra un profilo che nel corso del
tempo si è fatto sempre più articolato e complesso.
In questa occasione convegnistica, resa ancor più preziosa dalla pre-
senza di molti Maestri, ho provato a delineare alcune tappe che segnano il
percorso a ritroso che dalla moderna figura dell’abuso del diritto riconduce
al modello del dolo generale.
Va tenuto in conto che il progressivo allargamento dei confini dell’abu-
so del diritto ha indotto a ricondurre entro i suoi confini anche figure
e problemi piuttosto lontani dalla tradizionale area di rilievo dell’antica
exceptio doli generalis seu praesentis.
Merita di essere segnalata, per esempio, la tendenza giurisprudenziale
e dottrinale a riconnettere alla figura dell’abuso le due forme di temera-
rietà della lite – tra loro senza dubbio eterogenee – disciplinate dall’art.
96 c.p.c.: mi riferisco a quella peculiare forma di responsabilità che è ti-
pizzata entro il primo comma dell’art. 96 c.p.c., ove trova disciplina il
danno processuale da lite temeraria (la cui natura, come noto, è omoge-
nea a quella del danno aquiliano); ma al tema generale dell’abuso è at-
tratta anche quella variante italiana di punitive damages di cui all’odier-

92
  È questa una via già percorsa con lungimiranza da una – orami lontana nel tempo – pro-
nuncia della Pretura di Sondrio (18 giugno 1988, in Banca, borsa tit. cred., 1989, II, 525, con nota
di F. Venosta, Note sull’‘exceptio doli generalis’) nella quale era sanzionata la contrarietà a buona
fede del comportamento del creditore che, pur vantando un credito da ritenersi immediatamente
esigibile, non aveva tenuto conto della «considerazione – ragionevole – che al debitore deve,
comunque, concedersi, se non altro, il tempo materiale per adempiere»: senza soffermarsi sulle
particolarità del caso di specie, si segnala la decisione di dar corso al decreto ingiuntivo per la
somma dovuta, ma con la condanna alle spese del creditore «tenuto conto dell’azionamento del
diritto fuori dai canoni della correttezza».
Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto 149

no terzo comma dell’art. 96 c.p.c., con cui è attribuito al giudice il potere


di condannare ex officio il soccombente a una somma equitativamente
determinata in ragione del comportamento di dolo o colpa grave tenuto
in sede processuale93.
A fronte di uno scenario così disaggregato, resta da domandarsi con
quale significato tutte queste differenti figure avrebbero titolo di rientrare
all’interno di una nozione di abuso del diritto, a tal punto sicuramente
esteso a ricomprendere anche l’abuso del processo, che – a ben vedere –
diverrebbe un mero contenitore di valore meramente descrittivo.
Si potrebbe parlare di abuso del diritto per riferirsi in realtà non più che
a un labile denominatore, da identificarsi nel fatto che sia realizzata una ge-
nerale violazione dei principi di correttezza e buona fede, chiamato ad ac-
comunare situazioni con caratterizzazioni e livelli di gravità della condotta
assai variegate, nonché soprattutto da sottoporsi a discipline differenti 94.
Sicché, se pure non si voglia negare legittimità a chi intenda fare uso
della categoria dell’abuso come di una struttura nominalistica polisemica,
che contenga al suo interno forme giuridiche e discipline normative in
larga misura disomogenee, però allora ancora più prezioso ritengo che si
riveli il lavoro di comparazione diacronica con cui si metta a paragone il
modello moderno dell’abuso del diritto e quello antico del dolo generale:
ciò infatti consentirà di scavare al di sotto delle parole, per mettere a nudo
con più esatta ricostruzione quali siano gli strumenti tecnico-giuridici che
siano poi davvero in grado di attribuire concreto rilievo a quei differenti
profili di abusività, nonché quale sia il loro regime.
Per quanto è emerso sin qui, si vede come la sfida di una comparazio-
ne diacronica tra la figura dell’abuso del diritto e quella del dolo generale
romano evidenzi tratti di significativa continuità, nella misura in cui la
qualificazione di una condotta in termini di abusività si traduca in una
reiezione della domanda nel merito, secondo il modello di funzionamento
dell’exceptio doli generalis; accanto a questi vi sono poi – e prevalenti,
direi – profili di discontinuità, allorché l’abuso si traduca nelle altre forme
cui si è dianzi fatto cenno, dalla reiezione in rito per carenza dell’interesse
ad agire, al sanzionamento sul piano delle spese di lite, fino alle forme di
condanna punitiva di recente conio, di cui all’art. 96, comma terzo, c.p.c.

93
  Cfr. Economia processuale e comportamento delle parti nel processo civile. Prime applica­
zioni del Protocollo Valore Prassi sugli artt. 91, 96 e 614-bis c.p.c., a cura di T. dalla Massara e
M. Vaccari, Napoli, 2012.
94
  T. dalla Massara, Per un inquadramento sistematico della condanna prevista dal terzo
comma dell’art. 96 c.p.c., in Economia processuale e comportamento delle parti nel processo civile,
cit., 115 ss.
150 Tommaso dalla Massara

Non v’è dubbio tuttavia che l’idea di dolo generale pulsi ancora dentro
le forme del dibattito moderno sull’abuso del diritto.
Nella polarizzazione tra antico e moderno del diritto privato europeo,
al di sotto del retaggio più immediato dell’abus de droit, persiste il modello
di riferimento dei prudentes, ampio e pregnante. Soprattutto, la sua analisi
ci consente di mettere in rilievo molte linee altrimenti illeggibili, le quali
compongono una geografia di idee assai preziose per riempire di significato
e di precisa valenza le singole figure nelle quali si estrinseca oggi l’abuso
del diritto.
Giunti alla conclusione, credo si possa ribadire l’idea espressa in aper-
tura: sarebbe senza dubbio semplificante, se non addirittura falsante, una
ricostruzione del rapporto tra l’abuso del diritto e il dolo generale in ter-
mini di genealogia diretta. Tuttavia, potrebbe per questa ragione parlarsi
– per parafrasare il titolo di un’opera piuttosto provocatoria – dell’abus de
droit come di una notion sans histoire95? La risposta mi pare debba essere
di segno negativo.
L’abuso del diritto non difetta della sua storia, rispetto alla quale certa-
mente non è estraneo il diritto romano. Però il significato più autentico di
una comparazione tra modelli giuridici si rinviene a livello di acquisizione
di conoscenza, non invece in termini di dirette derivazioni.
Senza una comprensione esatta dei contorni di operatività del dolo ge-
nerale, v’è il rischio che quello di divieto dell’abuso del diritto finisca per
apparire un principio bon à tout faire, con l’aggravante che, in tal caso, si
creerebbe addirittura il rischio di un intralcio concettuale rispetto all’ope-
ratività tecnica di tante e assai utili soluzioni; e così – come si diceva all’ini-
zio – il richiamo all’abuso del diritto finirebbe per apparire soltanto come
un vuoto esercizio di retorica.

95
  P. Ancel – C. Didry, L’abus de droit: une notion sans histoire? L’apparition de la notion
d’abus de droit en droit français au début du XXe siècle, in L’abus de droit. Comparaisons
franco-suisses. Études réunies par P. Ancel, G. Aubert, C. Chappuis, Saint-Étienne, 2001, 51 ss.
Vito Velluzzi
L’abuso del diritto dalla prospettiva
della filosofia giuridica

Sommario:  1. Introduzione. – 2. I caratteri dell’abuso del diritto. – 3. Abuso del diritto


e ragionamento giuridico.

1.  Introduzione
La prospettiva filosofico giuridica adottata in questo scritto è quella
della teoria analitica del diritto1. Si tratta di una prospettiva che non dif-
ferisce da quella dei «giuristi positivi»: il filosofo del diritto è, infatti, un
giurista tra i giuristi2. Egli propone agli altri giuristi, attraverso l’analisi dei
problemi che la prassi e la dottrina pongono, riflessioni sugli strumenti di
lavoro utilizzati o differenti (e più opportune) chiavi di lettura rispetto a
quelle impiegate. Il filosofo del diritto analitico (o analista che dir si vo-
glia) rileva, per esempio, l’assenza di chiarezza concettuale nella discussio-
ne dottrinale e giurisprudenziale, dovuta, sovente, all’assunzione di diverse
definizioni implicite riguardo a ciò di cui si discute; studia in senso critico
le definizioni (esplicite o implicite) impiegate, formulando eventuali defini-
zioni esplicative; indaga (e svela) i valori presupposti nelle argomentazioni
sviluppate dagli studiosi e dai giudici. Si può dire, pur per mezzo di una
sintesi eccessiva, che il compito principale della filosofia del diritto è, per
la prospettiva che qui si assume, quello di fornire mezzi adeguati per met-

1
  Per il vero si tratta di una delle prospettive analitiche, o per essere precisi di una prospettiva
parziale dei mezzi e dei fini della filosofia analitica del diritto, sul tema v. M. Jori e A. Pinto-
re, Introduzione alla filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 2014, pp. 1-17. Sottolineo, inci-
dentalmente, che l’approccio analitico alle questioni giuridiche è stato considerato un elemento
necessario, per quanto non sufficiente, «dell’educazione del giurista (un esercizio indispensabile
di igiene mentale)» anche da L. Mengoni, La filosofia del diritto nell’ottica del giurista positivo,
in B. Montanari (a cura di), La filosofia del diritto: identità scientifica e didattica, oggi, Milano,
Giuffrè, 1994, p. 75.
2
  Quanto detto nel testo evoca la filosofia del diritto dei giuristi, ossia quella filosofia del
diritto che «muove piuttosto dai problemi concettuali che nascono all’interno dell’esperienza
giuridica (…) essa è un esercizio filosofico utile ai giuristi stessi (…) il suo scopo fondamentale
è la critica (e forse il progresso) della scienza giuridica» (la citazione è tratta da R. Guastini,
Teoria del diritto. Approccio metodologico, Modena, Mucchi, 2012, pp. 16-17). Sul filosofo del
diritto come giurista tra i giuristi v. L. Gianformaggio, Il filosofo del diritto e il diritto positivo,
in Ead, Filosofia del diritto e ragionamento giuridico, E. Diciotti-V. Velluzzi (a cura di), Torino,
Giappichelli, 2008, pp. 25-40.
152 Vito Velluzzi

tersi in cerca delle soluzioni, piuttosto che prescrivere soluzioni. Per dirla
con le autorevoli parole di Uberto Scarpelli: «Analitico è in generale colui
che preferisce ad un lampo nella notte (una meraviglia ma dopo non si sa
bene cosa si sia visto) una modesta lanterna (con cui si illumina la strada
da percorrere)»3.
2.  I caratteri dell’abuso del diritto
Fatta questa rapida premessa metodologica si può ora trattare dell’abuso
del diritto. Al riguardo è ben noto che dopo anni di letargo e sparute ap-
parizioni giurisprudenziali, l’abuso del diritto è tornato, soprattutto negli
ultimi due lustri, al centro del dibattito di molteplici ambiti disciplinari.
L’attenzione per l’abuso del diritto si è ridestata pure nella filosofia del
diritto, nazionale e straniera, almeno a partire dall’inizio del nuovo millen-
nio4. Innanzi a questa «rinascita», o a questo momento di grande vitalità
giurisprudenziale dell’abuso del diritto, chi fa il mio mestiere deve, innanzi
tutto, chiedersi: quali sono i nodi filosofici (con evidenti ricadute pratiche)
che legano l’abuso del diritto?
Per abbozzare una risposta a questo interrogativo, prenderò le mosse
dai caratteri ripetutamente attribuiti all’abuso del diritto dalla giurispru-
denza, seppure, in alcuni casi, essi presentino differenze apparentemen-
te piccole, per il vero importanti5. Attraverso l’analisi critica dei caratteri

3
  U. Scarpelli, L’etica senza verità, Bologna, il Mulino, 1982, p. 75.
4
  V. almeno M. Atienza-J. Manero, Illeciti atipici. L’abuso del diritto, la frode alla legge, lo
sviamento di potere, trad. it Bologna, il Mulino, 2004 e su questo volume si vedano le penetranti
critiche sviluppate da B. Celano, Principi, regole, autorità. Considerazioni su M. Atienza, J. Ruiz
Manero, Illeciti atipici, in Europa e diritto privato, 3, 2006, pp. 1061-1086; G. Pino, L’esercizio
del diritto e i suoi limiti. Note a margine della dottrina dell’abuso del diritto, in Ragion pratica,
24, 2005, pp. 161-180; P. Comanducci, Abuso del diritto e interpretazione giuridica, in V. Vel-
luzzi (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, Pisa, Ets, 2012, pp. 19-30;
copiosi riferimenti anche alla letteratura filosofica giuridica si trovano in G. Tropea, L’abuso
del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, Esi, 2015, cap. II; in F. Piraino, Il divieto di
abuso del diritto, in Europa e diritto privato, 1, 2013, p. 75 ss.; in C. Restivo, Contributo ad una
teoria dell’abuso del diritto, Milano, Giuffrè, 2007; per approfondite riflessioni teoriche, storiche
e comparatistiche v. R. Sacco, L’esercizio e l’abuso del diritto, in G. Alpa, M. Graziadei, A.
Guarnieri, U. Mattei, P.G. Monateri, R. Sacco, Il diritto soggettivo, Torino, Utet, 2001 p. 281 ss.
5
  Ci si riferisce, ovviamente, a Cass. civ., n. 20106 del 18.9.2009, per la quale «Si ha abuso
del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti
con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno
sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire
risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti»; nella
sentenza si trova scritto, inoltre, che l’abuso del diritto «è ravvisabile, in sostanza, quando, nel col-
legamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata
la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede». La sentenza è stata commentata
da parecchi e importanti studiosi, spesso in senso fortemente critico (v. tra i molti A. Gambaro-
L’abuso del diritto dalla prospettiva della filosofia giuridica 153

ricorrenti dell’abuso del diritto, proverò a delineare alcune, non tutte, le


questioni filosofico giuridiche pregnanti connesse all’abuso del diritto.
Premetto che tali questioni sono, a mio parere, in gran parte attinenti al
ragionamento giuridico. Esse riguardano, cioè, le difficoltà che il divieto
di abusare del diritto, nei modi in cui è solitamente configurato, comporta
per la costruzione di decisioni giudiziali ben argomentate6. Per chiarire ul-
teriormente in che senso la gran parte delle questioni filosofico giuridiche
connesse all’abuso del diritto riguardi il ragionamento giuridico, proporrò,
preliminarmente, la distinzione (scolastica, forse banale, ma utile) tra abuso
nel diritto e abuso del diritto, e concentrerò poi l’attenzione sul secondo.
Non ogni volta che in ambito giuridico si evoca o si invoca l’abuso, in-
fatti, si tratta l’abuso del diritto dibattuto negli ultimi anni. Talvolta l’abuso
non riguarda posizioni giuridiche soggettive di vantaggio, non è abuso del
diritto, bensì è abuso nel diritto (oggettivo): si tratta, cioè, di un conte-
gno non consentito, tenuto in violazione di una o più norme giuridiche7.

M. Cenini, Abuso di diritto, risarcimento del danno e contratto: quando la chiarezza va in vacan­
za, in Corriere giuridico, 2011, p. 109 ss.; per considerazioni più allineate con la Cassazione v. F.
Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contratto e impresa, 2, 2011, pp. 311-319).
Decisioni più recenti in campo civilistico sono Cass. civ., n. 17642 del 2012 (per cui l’abuso del
diritto è correlato alla sola responsabilità contrattuale e riconducibile, al pari di quanto affermato
dalla Suprema corte nel 2009, alla violazione della buona fede oggettiva); Cass. civ., Sez. lav., n.
10568 del 7.5.2013, per la quale «non è ravvisabile abuso del diritto nel solo fatto che, perseguendo
un risultato in sé consentito attraverso strumenti giuridici adeguati e legittimi, una parte non tuteli
gli interessi dell’altra in sede di esecuzione del contratto, essendo necessario, invece, che il diritto
soggettivo sia esercitato con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e
buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrifico della controparte contrat-
tuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri
o facoltà furono attribuiti». Al di fuori dell’ambito civilistico segnalo Cons. Stato, n. 2857 del
17.5.2012, che richiama espressamente la sentenza 20106 del 2009; Cons. Stato n. 693 del 2.2.2014,
per la quale gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto sono «la titolarità di un diritto soggettivo
in capo ad un soggetto; la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato
secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; la circostanza che tale eserci-
zio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto
secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione giuridico o extragiuridico; la
circostanza che, a causa di tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra
il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte; di conseguenza l’abu-
so del diritto, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, comporta l’utilizzazione
alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al perseguimento di obiettivi ulteriori e diversi
rispetto a quelli indicati dal legislatore». È ricchissima la giurisprudenza tributaria (in proposito
rinvio a molteplici e autorevoli interventi di questo convegno e infra nota 9).
6
  Col riferimento ai buoni argomenti non intendo richiamare una specifica teoria dell’argo-
mentazione giuridica, bensì intendo, più modestamente, segnalare che non basta menzionare un
argomento per farne un’adeguata giustificazione.
7
  Mario Libertini ha messo ottimamente a fuoco nel suo intervento questa distinzione, pur
non denominandola abuso nel e abuso del diritto.
154 Vito Velluzzi

L’abuso del diritto (soggettivo) o, più genericamente, abuso delle posizioni


giuridiche di vantaggio in genere, invece, viene di solito caratterizzato in
questi termini: si tratta di un contegno prima facie o «formalmente» con-
sentito, ma a un più attento esame, tutto considerato, o «sostanzialmente»
non consentito8. Come ho detto considererò soltanto l’abuso del diritto e
non anche l’abuso nel diritto.
Proseguendo sulla scorta di quanto si è appena osservato, va ricordato,
in estrema sintesi, che per la giurisprudenza l’abuso del diritto, di regola,
matura: a) se c’è un uso distorto, non lineare, di una posizione giuridica
di vantaggio, nonostante la «formale» conformità all’enunciato normativo
(leggasi: ai significati a esso attribuibili) dell’azione compiuta; b) se l’eser-
cizio in concreto del diritto non è giustificato. L’assenza di giustificazione
può dipendere dal fatto che quanto realizzato è diverso, ulteriore o con-
trario alla ragione per cui il diritto è stato attribuito; oppure l’esercizio re-
alizza in via esclusiva, essenziale assorbente o prevalente, il fine di ottenere
il beneficio9. I due punti, è evidente, si integrano a vicenda.
L’impostazione riferita, infatti, pare assecondare la visione, criptica per
molti aspetti, dell’abuso delle posizioni soggettive di vantaggio come una
sorta di «terza via». L’abuso del diritto sarebbe, dunque, «una figura ibrida,
per così dire «del formalmente lecito ma sostanzialmente non consentito»
o di ciò che «è corretto prima facie ma scorretto, abusivo appunto, a un

8
  Si vedano le decisioni riportate alla nota 5 e anche V. Giorgianni, L’abuso del diritto
nella teoria della norma giuridica, Milano, Giuffrè, 1963, p. 128: «Che un comportamento sia
giuridicamente valutato al tempo stesso come permesso e come difforme da uno specifico obbligo
normativo è contraddittorio. Tuttavia, se v’è incompatibilità logica a pensare che si abbia diritto
a comportarsi in un dato modo, e che si sia, al tempo stesso, normativamente obbligati a non
comportarsi in quel modo, non v’è certo incompatibilità logica a pensare che un comportamento
sia qualificato come «possibile» o «autorizzato» e che abbia al tempo stesso un «limite inerente
alla qualificazione normativa in termini di possibilità o autorizzazione»»; noto che il tentativo
di Giorgianni non è riuscito: l’autore prova a salvare la figura dell’abuso del diritto, ma conduce
(inconsapevolmente) a considerare l’abuso superfluo, poiché conclude con l’alternativa tra com-
portamento qualificato come permesso entro certi limiti e comportamento che permesso non è.
Scrive correttamente A. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, in V. Velluzzi (a cura di),
L’abuso del diritto, cit., p. 149 «L’abuso infatti non è altro che un uso. E nessuno potrebbe dire
a priori che uso: qualsiasi uso nelle circostanze appropriate può esser detto abuso. È chiamato
abuso, e non uso, in quanto ritenuto illegittimo. Illegittimo però tutto considerato. Perché a pri­
ma vista non è che un uso formalmente legittimo, ché se non lo fosse non lo chiameremmo abuso
ma illecito. E invece diciamo «abuso» perché implichiamo che formalmente, secondo lo stretto
diritto, sarebbe legittimo, ma sostanzialmente, secondo il vero diritto, sia invece illegittimo».
9
  Quest’ultimo aspetto è particolarmente presente nelle decisioni in campo tributario v. tra
le tante Corte di Giustizia CE, 21.2.2006, C-255/02; Cass. civ., Sez. Un., n. 30055, 30056 e 30057
del 23.12.2008. Sull’abuso del diritto nell’ambito dell’unione europea si vedano le considerazioni
di G. Alpa, Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario e sui suoi riflessi negli
ordinamenti degli Stati Membri, in Contratto e impresa, 2, 2015, pp. 245-261.
L’abuso del diritto dalla prospettiva della filosofia giuridica 155

più attento esame»»10. Inoltre, l’opposizione tra dato giuridico «formale»


e dato giuridico «sostanziale» è vaga, raramente, se non mai, esplicitata o
chiarita.
Ciò detto, i punti a) e b) sopra menzionati vanno esaminati più in det-
taglio, per farlo partirò dal caso in cui il divieto di abuso del diritto non
è sancito da una disposizione normativa espressa del sistema giuridico, ri-
servando all’ipotesi dell’abuso del diritto espressamente previsto (e sanzio-
nato) alcune considerazioni alla fine di questo contributo. Vediamo allora
quali sono le questioni principali che il divieto dell’abuso del diritto non
espressamente previsto da alcuna disposizione normativa pone.
3.  Abuso del diritto e ragionamento giuridico
Nel caso in cui il divieto di abuso del diritto non è espressamente previ-
sto, esso è sovente caratterizzato come principio inespresso. Questa carat-
terizzazione pone una prima questione: dove risiede il principio? Si tratta,
cioè, di individuare una base normativa a partire dalla quale elaborare il
principio inespresso11. Com’è noto per lungo tempo si è visto nell’art. 833
c.c. in materia di atti emulativi la disposizione normativa per mezzo della
quale esprimere il principio inespresso. Tuttavia, la disposizione normativa
in questione ha via via perso di rilevanza: non è stata considerata l’unica
disposizione e nemmeno la più importante in grado di «testimoniare» l’esi-
stenza nel sistema giuridico del divieto di abuso del diritto. Pur senza voler
tediare il lettore con questioni ampiamente note, bisogna rammentare che
all’art. 833 c.c. si sono aggiunte le varie disposizioni in tema di correttezza
e di buona fede (1175, 1366, 1375) e molte altre. Si pensi a quanto scritto in
una recente sentenza di merito, secondo la quale la base utile a esplicitare
il principio sarebbe costituita, oltre che dalle disposizioni normative già
menzionate, dagli artt. 81, 330, 840, comma 3, 844 comma 1, 1015, 1328,
1341, 1438, 1447, 1448, 2598, 2793 c.c12. Si tratta, è evidente, di una base
normativa piuttosto eterogenea, riguardante svariati settori disciplinari: dai

10
  Cito dal mio L’abuso del diritto in poche parole, in V. Velluzzi, Tra teoria e dogmatica.
Sei studi introno all’interpretazione, Ets, Pisa, 2012, p. 98.
11
  I modi di individuazione dei principi inespressi sono molteplici, si va dalle congetture
sulla ratio, alle astrazioni generalizzatrici, alle induzioni, alle quasi induzioni, alle abduzioni e
ad altro ancora v. G. Tuzet, L’abduzione dei principi, in Ragion pratica, 33, 2009, pp. 517-539.
12
  Trib. Reggio Emilia, n. 964 del 16. 6. 2015. Non va trascurato il fatto che tale base norma-
tiva potrebbe addirittura essere ampliata, visto che di abuso del diritto taluni trattano anche in
relazione alla responsabilità extracontrattuale e che se ne parla in molti ambiti del diritto com-
merciale: anche per questi aspetti rinvio alle dotte relazioni del convegno. Mi preme segnalare
che per l’ambito tributario la giurisprudenza degli ultimi anni ha fondato il divieto di abuso del
diritto sull’art. 53 Cost.
156 Vito Velluzzi

diritti reali, alle obbligazioni, ai contratti, alla concorrenza sleale, alla fa-
miglia. Da una base normativa tanto eterogenea sul piano delle fattispecie
regolate e delle conseguenze previste, si può soltanto estrarre, ragione-
volmente, un principio ad alta rarefazione: «è vietato abusare del diritto».
Tuttavia, quanto detto sin qui fa emergere i problemi, non costituisce la
soluzione ai problemi, non fosse altro perché di un principio siffatto biso-
gna specificare i contenuti13.
Va detto, poi, che se volessimo considerare l’abuso non una norma e
tanto meno una norma che assume la caratterizzazione di principio genera-
le, bensì un criterio grazie al quale determinare il significato di disposizioni
o di principi espressi che contengono termini valutativi, l’abuso finirebbe
con l’innescare una sorta di spirale tautologica14. V’è chi sostiene, infatti,
che il divieto di abuso del diritto non sarebbe autonomo rispetto alla buona
fede oggettiva, bensì espressione del principio di buona fede oggettiva: il
divieto di abuso è un’attuazione della buona fede oggettiva. Tuttavia, in
tal guisa si rischia di innescare la spirale tautologica appena paventata, nel
senso che la determinazione del significato di un sintagma indeterminato
(buona fede) viene affidata a una formula che sconta il medesimo grado di
indeterminatezza (abuso del diritto)15.

13
  Senza contare, poi, che non necessariamente indicare parecchie disposizioni basta per giun-
gere ad esprimere un principio inespresso, bisogna che il materiale normativo riguardi fattispecie
e conseguenze giuridiche omogenee. Sui principi del diritto e sull’ampio dibattito filosofico in-
torno a essi v. G. Pino, Teoria analitica del diritto I. La norma giuridica, Pisa, Ets, 2016, cap. IV.
Torna utile qui quanto scritto da L. Mengoni, I principi generali del diritto e la scienza giuridica,
in Id., Scritti I. Metodo e teoria giuridica, C. Castronovo, A. Albanese, A. Nicolussi (a cura di),
Milano, Giuffrè, 2011, p. 239 ss., specie pp. 244-245, dove l’autore definisce i principi del diritto
dialettici o problematici, come i principi che «forniscono premesse verosimili, punti di partenza
accettabili di argomentazioni di tipo dialettico, che concludono con un giudizio di preferenza
tra più ipotesi possibili di soluzione di un caso concreto (…) Allo stato rimangono al livello di
rationes legis, criteri informatori comuni a una serie più o meno numerosa di norme (…) Al di
là di tale limite hanno una funzione euristica, possono servire come linee guida dell’argomenta-
zione»; il modo in cui normalmente si ragiona per individuare il principio inespresso del divieto
di abusare del diritto, avvicina molto questo principio ai principi dialettici o problematici trac-
ciati da Mengoni. Tanto è vero, come vedremo tra poco, che il principio, una volta esplicitato,
viene usato per orientare l’interpretazione delle disposizioni normative che attribuiscono diritti
soggettivi (o, più in generale, posizioni giuridiche soggettive attive).
14
  Preferisco qui parlare di termini valutativi, non chiamando in causa le clausole generali,
proprio al fine di non impegnarmi nella discussione riguardante i rapporti tra termini valutativi,
clausole generali e principi del diritto. Ho affrontato le questioni ora segnalate in V. Velluzzi,
Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, Giuffrè, 2010. Sui caratteri propri dei
termini valutativi, in sintesi U. Scarpelli, Filosofia analitica, norme e valori, Milano, Comunità,
1962, p. 41: «nei termini di valore c’è qualcosa di diverso o di più dei riferimenti a caratteri em-
pirici delle cose, c’è l’espressione di un apprezzamento, di una scelta, di una presa di posizione».
15
  Sottolinea giustamente questo aspetto esprimendosi in termini di circolo vizioso C. Ca-
L’abuso del diritto dalla prospettiva della filosofia giuridica 157

Gli aspetti problematici emergono pure in relazione alla conseguenza


giuridica dell’abuso. La conseguenza giuridica, infatti, di solito viene in-
dividuata solo in termini generici: essa è in senso lato sanzionatoria, os-
sia sfavorevole per il titolare della posizione giuridica di vantaggio e non
potrebbe essere altrimenti, visto che ci si esprime in termini di divieto
dell’abuso. Va aggiunto, però, che l’individuazione di una conseguenza
giuridica sempre applicabile non pare percorribile, vista la molteplicità di
ambiti e sotto-settori disciplinari nei quali il principio è chiamato a ope-
rare. Parimenti problematica risulta la scelta della conseguenza giuridica
à la carte: essa comporta, senza dubbio, un ampliamento (ulteriore) della
discrezionalità interpretativa16.
Le ultime considerazioni ci conducono a soffermare l’attenzione su
quali siano le modalità operative del divieto di abuso del diritto. Si trat-
ta di capire, cioè, come operi il principio inespresso una volta che lo si
è individuato, come per mezzo del principio si passi dal «formalmente
consentito» al «sostanzialmente vietato». Su questo punto è indispensabile
compiere due osservazioni.
La prima osservazione è la seguente: per mezzo dell’abuso viene re-
alizzata una riduzione teleologica del campo di applicazione della situa-
zione giuridica di vantaggio17. La riduzione teleologica operata per mezzo

stronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, Giuffrè, 2015, specie p. 110, nota 45. Rilevo che in
quella sede mi viene attribuita da Castronovo la tesi da lui criticata, indicando quale fonte V. Vel-
luzzi, Le clausole generali, cit.; ritengo che l’illustre autore non abbia ben compreso quanto da
me scritto: in quella sede (specie alle pp. 66-67) dopo aver ribadito una tesi (criticabile e criticata)
del saggio, ossia che talune clausole generali, come la buona fede oggettiva, sul piano semantico,
in astratto, rinviano indifferentemente a criteri interni ed esterni al sistema giuridico, mi limitavo
a ricordare alla nota 26 che ciò accade anche per l’abuso del diritto e che taluni sovrappongono
le due figure. Non ho sostenuto che la buona fede oggettiva fonda l’abuso o che quest’ultimo è
espressione della buona fede. Sul punto l’opinione di Castronovo e la mia, dunque, non conflig-
gono. Ovviamente, la responsabilità della cattiva comprensione da parte dell’autorevole studioso
dipende da chi ha scritto (cioè da me), non certo da chi ha letto.
16
  Rileva non solo che vi sia un divieto, rileva pure capire che cosa sia vietato, come e perché.
17
  La riduzione teleologica «si articola in questo modo: all’interno della classe di casi regolata
da una disposizione normativa si distinguono due o più sottoclassi, associando soltanto a una o
ad alcune la conseguenza giuridica prevista […] e tale riduzione avviene sulla base della ratio»
(V. Velluzzi, Le preleggi e l’interpretazione. Un’introduzione critica, Pisa, Ets, 2013, p. 45); la
fattispecie viene condotta, quindi, nel campo di una diversa norma; che la riduzione teleologica
crei lacune «effimere» destinate a essere subito colmate dall’interprete è stato sostenuto da E. Di-
ciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino, Giappichelli, 1999, p. 454; scrive
A. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, cit., p. 175 ss., specie p. 177: «Quando afferma
l’abuso […] l’interprete […] Non solo sottrae il caso alla lettera della disposizione permissiva che
lo prevede […] ma lo fa rientrare sotto la ratio di un’altra norma, repressiva […] scelta da lui»;
appellarsi all’abuso del diritto vuol dire far ricorso a un argomento basato, sovente, su un prin-
cipio: grazie a questo argomento viene sostenuta la riduzione teleologica. Critica questa tesi C.
158 Vito Velluzzi

dell’abuso del diritto presuppone alcune assunzioni sulla giustificazione


delle posizioni giuridiche soggettive di vantaggio e si sviluppa in più pas-
saggi. Procediamo col dovuto ordine. Il diritto soggettivo è attribuito da
disposizioni normative per uno o più scopi determinati, ossia per soddi-
sfare uno o più interessi18. Ne segue che se il diritto soggettivo non viene
esercitato per conseguire lo scopo o gli scopi dell’attribuzione, bensì un
altro scopo o altri scopi, l’esercizio del diritto soggettivo va censurato19.
Siffatto approccio richiama una visione «ancillare» del diritto soggettivo:
le ragioni dell’attribuzione del diritto costituiscono il metro di valutazione

Castronovo, Eclissi del diritto civile, cit., ritenendo che l’abuso è la conclusione del ragionamen-
to e non ciò che lo sostiene, ma replica correttamente C. Amato, Considerazioni sulla dottrina
dell’abuso del diritto, inedito gentilmente concesso dall’autore, p. 16, nota 87, che: «Nella tesi
di Gentili, infatti, l’abuso del diritto, lungi dall’essere conclusione dell’itinerario argomentativo
dell’interprete, ne è uno dei passaggi (sebbene quello maggiormente rilevante). Conclusione è la
disapplicazione della disposizione permissiva e la sua sostituzione con quella repressiva».
18
  Sul dibattito teorico giuridico intorno al diritto soggettivo e alle situazioni giuridiche di
vantaggio v. F. Poggi, Concetti teorici fondamentali. Lezioni di teoria generale del diritto, Pisa,
Ets, 2013, cap. I. Il modo in cui i fautori del divieto dell’abuso del diritto abitualmente argo-
mentano sembra presupporre la teoria dell’interesse (interest theory) a fondamento del diritto
soggettivo. Per tale teoria l’attribuzione del diritto soggettivo è giustificata dal soddisfacimento di
un interesse, ne segue che l’abuso del diritto, come abitualmente configurato, si mostra in veste di
importante strumento capace di far emergere un conflitto tra ragioni dell’attribuzione (interesse
da soddisfare) e modalità di esercizio del diritto. Così concepita, la teoria dell’interesse pare, in
effetti, una base adeguata per l’elaborazione dell’abuso del diritto soggettivo (e del relativo di-
vieto). È opportuno ribadire che quando si parla di abuso del diritto non ci si riferisce, di solito,
soltanto ai diritti soggettivi, bensì a qualsiasi posizione giuridica di vantaggio.
19
  Trattare di finalità diverse o di finalità ulteriori, esclusive, essenziali, assorbenti, predo-
minanti o concorrenti, lo si è detto, non è secondario e può variare sensibilmente le condizioni
di accertamento dell’abuso; ho già messo in luce questo aspetto con riguardo a una decisione
giudiziale in tema di abuso del processo penale (Cass. pen., Sez. Un., n. 155 del 10.1.2012) che ha
individuato l’abuso laddove la condotta sia contraria, anzi manifestamente contraria, alle ragioni
dell’attribuzione nel mio Due (brevi) note sul giudice penale e l’interpretazione, in Criminalia
2012. Annuario di scienze penalistiche, 2013, pp. 312-313, in quella sede ho posto in rilievo «un
primo problema: come può l’esercizio di un diritto soggettivo conforme ai significati attribuibili
alla disposizione normativa che lo conferisce essere manifestamente contrario alla finalità per
la quale il diritto è riconosciuto? L’interrogativo non è di poco conto, poiché se è più o meno
agevole sostenere che talune modalità di esercizio del diritto soggettivo, pur essendo in linea con
lo spettro semantico della disposizione normativa, non raggiungono, non realizzano al meglio la
finalità per la quale è stato attribuito o ne realizzano pure altre assieme a quella, pare più arduo
comprendere in quale guisa, stante una certa disposizione normativa, uno o più dei significati
per essa determinabili e alcune delle azioni a questi significati riconducibili, siano manifestamente
contrari al risultato cui mira il diritto soggettivo che la stessa disposizione normativa attribuisce.
Inoltre le categorie della legittimità in astratto e dell’abuso in concreto sono fuorvianti: se l’azione
realizzata è legittima in astratto vuol dire che essa è una istanza della classe regolata dalla norma
attributiva del diritto soggettivo, per cui in quanto tale o è legittima pure in concreto, oppure
ad essere illegittima è l’intera classe di comportamenti prevista e non solo la singola azione o la
serie di azioni di esercizio del diritto soggettivo».
L’abuso del diritto dalla prospettiva della filosofia giuridica 159

dell’esercizio del diritto medesimo. Seguendo questa linea interpretativa


non v’è alcuna difficoltà a sostenere che l’esercizio del diritto soggettivo
in maniera conforme alla formulazione linguistica (cioè: conforme ai si-
gnificati attribuibili alla disposizione normativa che conferisce il diritto
soggettivo sulla base delle regole semantiche e sintattiche della lingua in
cui la disposizione è formulata), possa essere giudicato difforme dal diritto
(oggettivo), in quanto non riconducibile alle ragioni dell’attribuzione della
posizione giuridica soggettiva attiva.
È piuttosto evidente che questa visione del diritto soggettivo influisce
sull’interpretazione delle disposizioni normative: essa impone all’interprete
di colmare il divario tra lettera e scopo a favore di questo. Si tratta di una
riduzione dell’ambito di rilevanza della posizione giuridica di vantaggio,
operata su basi teleologiche. L’abuso del diritto, quindi, entra in gioco ogni
volta che la «lettera» è considerata più ampia, sovra-inclusiva rispetto allo
scopo20. Alla formulazione linguistica, quindi, sono ascrivibili modalità ed
esiti dell’esercizio del diritto soggettivo in grado di frustrare la finalità
dell’attribuzione del diritto soggettivo medesimo: esse vanno, di conse-
guenza, ritenute abusive.
Questi usi del divieto di abuso del diritto istintivamente persuadono
(chi non censurerebbe un abuso?), tuttavia, ad una più attenta considera-
zione essi prestano il fianco alla critica21. Tali usi si associano, o rischiano di
accompagnarsi, infatti, a un deficit argomentativo. Mi spiego. A parer mio,
l’uso dei principi accresce l’onere argomentativo per l’interprete, visto che,
tra l’altro, comporta l’affievolimento di vincoli semantici. Tuttavia, per ciò
che concerne l’abuso del diritto, l’onere appena menzionato non è sempre
ben assolto. Come ha efficacemente scritto Aurelio Gentili l’abuso è un
caso di connotazione denotativa; le nozioni circolanti di abuso del diritto
censurano un contegno, ma le ragioni e le condizioni della riprovazione
restano fortemente indeterminate22. Insomma, dal punto di vista della fi-

20
  Il lessico è di F. Schauer, Le regole del gioco, trad. it Bologna, il Mulino, 2000. Ricordo,
inoltre, che l’interpretazione teleologica è anch’essa un esercizio di elevata discrezionalità v. per
tutti D. Canale-G. Tuzet, What is the Reason for this Rule? An Inferential Account of the
Ratio Legis, in Argumentation, 2, 2010, p. 97-110. Sottolineo pure che, di solito, in dottrina
e in giurisprudenza quando si parla di formulazione letterale, o di interpretazione letterale in
connessione con l’abuso del diritto, si fa riferimento a un perimetro semantico della disposizione
normativa tracciabile prima facie.
21
  Rileva M. Orlandi, Abuso e teoria della fonte, in V. Velluzzi (a cura di), L’abuso del
diritto, cit., p. 106: «Questa logica appare prima facie semplice e chiara, e suscita una spontanea
adesione nello spirito equitativo e di buon senso che essa suggerisce. Il giurista non tarderà
tuttavia ad avvertirne l’insufficienza».
22
  A. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, cit., p. 176.
160 Vito Velluzzi

losofia del diritto i nemici del divieto di abuso del diritto sono, alla fine,
proprio molti di coloro che ne fanno uso per il modo in cui ne fanno uso:
a costoro andrebbe ricordato che argomentare non è solo menzionare, che
gli ampliamenti dei divieti sono, al medesimo tempo, riduzioni di sfere di
libertà.
La seconda osservazione, strettamente connessa alla prima, concerne
la natura valutativa del termine «abuso»23. Se, come si è detto, «abuso»
è un termine valutativo, l’oscillazione definitoria comporta una sensibile
variazione delle condizioni di applicazione dell’abuso tra i vari settori e
talvolta all’interno del medesimo settore. Infatti, se è abusivo l’esercizio del
diritto che non «soddisfa» le ragioni dell’attribuzione del diritto soggettivo
stesso, bisogna rammentare, allora, che si può controvertere, e di solito si
controverte, su quali siano le condizioni in grado di soddisfare le ragioni
dell’attribuzione stessa24. Da questo segue un conflitto con la certezza del
diritto intesa come prevedibilità dell’intervento degli organi decisionali25.
Ciò può accadere sincronicamente, mancando le condizioni per prevedere
le decisioni, e diacronicamente, poiché non può maturare la certezza a
causa della mancata stabilizzazione dei precedenti in ordine alle condizioni
di applicazione dell’abuso.
Il principio generale del divieto di abuso del diritto risulta, in tal guisa,
modellato e rimodellato continuamente dai giudici attraverso aggiustamenti
delle condizioni di applicazione del principio medesimo26. Il (presunto)
principio generale si inserisce e opera, inoltre, in ambiti disciplinari speci-
fici e ciò determina la necessità di adattare il modus operandi del divieto
di abusare del diritto soggettivo. Detto con maggiore chiarezza: il divieto
di abusare del diritto soggettivo comporta una riduzione teleologica della
disposizione normativa attributiva del diritto stesso; le modalità attraverso
le quali opera la riduzione teleologica variano, o possono variare, da con-
testo a contesto, e talvolta pure all’interno del medesimo contesto in tempi
diversi. Si potrebbe sostenere che questo è ciò che fisiologicamente avviene
quando ci si misura con principi e termini valutativi (ancor più con prin-

23
  Si veda retro nota 14.
24
  Si veda ancora G. Pino, L’esercizio del diritto e i suoi limiti. Note a margine della dottrina
dell’abuso del diritto, cit.
25
  Su questa nozione di certezza del diritto v. L. Gianformaggio, Certezza del diritto, in
Ead., Filosofia del diritto e ragionamento giuridico, cit., p. 82 ss.; sulle vicende della certezza del
diritto nella cultura civilistica italiana v. N. Lipari, I civilisti e la certezza del diritto, in Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile, 4, 2015, p. 1115 ss.
26
  In proposito si rammenti la diffidenza che G. Tarello, L’interpretazione della legge,
Milano, Giuffrè, 1980, p. 385, nutriva verso il ricorso all’argomento dei principi generali.
L’abuso del diritto dalla prospettiva della filosofia giuridica 161

cipi che contengono termini valutativi)27. Tuttavia, con specifico riguardo


al divieto di abuso del diritto, non va dimenticato che per mezzo di usi
siffatti del divieto si rischia una grande dilatazione del divieto stesso, con
l’individuazione delle condizioni di applicazione del divieto di volta in volta
determinate dagli interpreti e con conseguenti riduzioni teleologiche tanto
ampie da svuotare in gran parte, se non addirittura interamente, i contenuti
del diritto soggettivo. Ciò conduce, o può condurre, a impedire l’esercizio
del diritto in situazioni la cui riconduzione del contegno tenuto all’area di
significanza della disposizione attributiva non pare per nulla difficoltosa28.
Il divieto di abuso del diritto soggettivo (o delle posizioni giuridiche di
vantaggio in genere) può rivelarsi, in tal guisa, un veicolo di instabilità nelle
relazioni giuridiche: esso rende incerto (o più incerto) quel che è certo (o
meno incerto) in base a quanto regolato dall’ordinamento giuridico, rimet-
tendo alla discrezionalità dell’interprete la riduzione (o l’annichilimento)
delle disposizioni attributive di posizioni giuridiche di vantaggio.
Fino a qui si è considerata l’ipotesi che il divieto di abuso del diritto sia
inespresso. Bisogna spendere alcune considerazioni riguardo al caso in cui
una disposizione espressa sancisca il divieto in questione. È bene capire,
in particolar modo, se, in tale ipotesi, le questioni filosofico giuridiche se-
gnalate permangono ed eventualmente in quale misura. Un ottimo terreno
esemplificativo per compiere la verifica è costituito dall’ambito tributario29.

27
  D’altronde, che i principi abbiano una fattispecie aperta o siano senza fattispecie o che
siano privi di conseguenza giuridica è opinione diffusa in letteratura, per gli opportuni riferimenti
v. ancora G. Pino, Teoria analitica del diritto I. La norma giuridica, cit., cap. IV.
28
  Sui rischi di tale impostazione per la certezza del diritto v. P. Comanducci, Abuso del
diritto e interpretazione giuridica, cit., p. 29, che con riferimento alla citata sentenza della Cassa-
zione n. 20106 del 2009 scrive «La regola contrattuale prevede come permesso il recesso. E questa
regola è espressione dell’autonomia negoziale, che a sua volta trova appoggio in un principio del
codice civile che protegge l’autonomia dei privati.
Tutti i contratti sono però governati dal principio della buona fede oggettiva, ossia dalla reci-
proca lealtà di condotta tra le parti, che a sua volta deriva dal dovere di solidarietà. Il principio di
buona fede impone alle parti di agire in modo tale che si realizzi un bilanciamento degli interessi
reciproci, al di là dell’esistenza di specifici obblighi contrattuali. La violazione del principio di
buona fede comporta l’inadempimento del contratto e l’obbligo di risarcire il danno.
Il principio di buona fede costituisce il criterio che il giudice deve usare per controllare il
contratto ed equilibrare gli interessi delle parti. Le parti possono esercitare i poteri negoziali solo
in conformità con i canoni di buona fede, lealtà e correttezza, in modo che i loro diritti soggettivi
non si trasformino in arbitrari, determinando appunto un abuso del diritto.
I passaggi discrezionali nell’interpretazione e nell’argomentazione della Suprema Corte (da
me evidenziati sopra in corsivo) mi paiono del tutto evidenti: usando in questo modo i principi
risulterà sempre possibile svuotare di contenuto precettivo qualunque clausola contrattuale».
29
  Per approfondimenti rinvio ancora ai contributi degli autorevoli studiosi di diritto tribu-
tario intervenuti al convegno.
162 Vito Velluzzi

Il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva nei mesi di lu-


glio e agosto del 2015, il Decreto legislativo (n. 128 del 5 agosto 2015)
riguardante la certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente. Il
Decreto in questione unifica abuso ed elusione, modifica lo Statuto dei
diritti del contribuente inserendo una disposizione di portata generale. In
via preliminare va notato che, se si considera, come taluni fanno, il divie-
to di abuso un principio generale dell’ordinamento e non semplicemente
generale per un dato settore, allora la disposizione normativa in esame
va reputata espressione di quel principio generale dell’ordinamento in un
particolare ambito e non una disposizione normativa espressa sostitutiva
di un principio inespresso.
Vediamo i tratti essenziali della disciplina. Secondo l’art. 1 del Decreto
ricorre l’abuso del diritto in ambito tributario se sussiste: 1) l’assenza di
sostanza economica delle operazioni effettuate (e sono prive di sostanza
economica quelle operazioni non idonee «a produrre effetti significativi
diversi dai vantaggi fiscali»); 2) la realizzazione di un vantaggio fiscale in-
debito pur «nel rispetto formale delle norme fiscali»; 3) la circostanza che
il vantaggio fiscale indebito costituisca l’effetto essenziale dell’operazione.
Constatato l’abuso, i vantaggi fiscali «non sono opponibili all’amministra-
zione». Si precisa, inoltre, che non sono abusive le operazioni sostenute da
«valide ragioni extrafiscali non marginali», anche di natura organizzativa
o gestionale. Per ciò che concerne l’onere della prova spetta all’ammini-
strazione finanziaria provare la condotta abusiva (non rilevabile d’ufficio),
mentre la prova delle valide ragioni extrafiscali è a carico del contribuente
(comma 9 dell’art. 1).
L’introduzione di un’apposita disposizione normativa parrebbe risol-
vere alcuni dei problemi sollevati dall’impiego massiccio dell’abuso del
diritto da parte della giurisprudenza tributaria negli ultimi anni. Non v’è
più il problema del fondamento normativo del divieto di abuso del dirit-
to, di giustificarne l’estensione, per l’ambito tributario, oltre le previsioni
specifiche antielusive già presenti e oltre i confini dei tributi armonizzati,
facendo appello, appunto, a un principio inespresso. Non si presenta più
nemmeno la difficoltà di seguire le oscillazioni e le sfumature definitorie
che, seppur attestandosi su taluni punti fermi, hanno caratterizzato la pro-
duzione giurisprudenziale.
Ciò detto vanno sottolineate alcune questioni rilevanti. La formulazione
della disposizione normativa riproduce buona parte dei contenuti attribuiti
all’abuso del diritto dalla giurisprudenza. Ne segue che le perplessità ri-
guardanti quei caratteri possono presentarsi pure in presenza di una defi-
nizione legislativa: essa va, infatti, interpretata. Si è visto, per esempio, che
v’è il riferimento a un vantaggio fiscale indebito, ed è tale quel vantaggio
L’abuso del diritto dalla prospettiva della filosofia giuridica 163

che comporta «benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le


finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario»30.
È piuttosto evidente che questa formulazione ripropone la gran parte dei
problemi afferenti al divieto di abuso del diritto discussi sino a qui. Il van-
taggio fiscale, inoltre, deve costituire il fine essenziale dell’operazione, ma
quando il fine può dirsi essenziale? Lo è per ragioni oggettive o soggettive?
E per quali ragioni (oggettive o soggettive)?31
Gli interrogativi sollevati e le riflessioni compiute, mostrano che una
disposizione normativa espressa in materia di abuso del diritto può lasciare
impregiudicate parecchie delle questioni prospettate per il principio ine-
spresso del divieto di abuso del diritto.
Senza voler invadere, più di quanto ho già fatto, il terreno proprio degli
studiosi di diritto tributario, mi pare che l’introduzione di questa disposi-
zione tenga aperta, in ragione di quel che si è detto, la questione di fondo,
ossia che il settore tributario «si fonda sulla limitazione della libertà indi-
viduale e della proprietà in favore del bene della collettività, con il rischio
sempre attuale di una compressione eccessiva dell’una e dell’altra», per cui
«si impongono le garanzie offerte […] dalla necessità di una chiara indi-
cazione dei presupposti che fanno sorgere e che determinano […] l’obbli-
gazione tributaria»32. Si torna, quindi, a uno dei profili più volte segnalati
in questo scritto: pure laddove v’è una disposizione normativa che espres-
samente vieta l’abuso del diritto, gli interpreti (i giudici su tutti) devono
cimentarsi con un serio, plausibile e coerente impegno argomentativo per
determinare il contenuto della disposizione normativa in questione.
In termini riassuntivi si può dire che: a) talvolta l’abuso del diritto,
anzi il divieto riguardante l’abuso del diritto, è stabilito da disposizio-

30
  Si tratta del comma 2, lettera b) dell’art. 1. A quanto pare il nodo da sciogliere resta
sempre il medesimo, quello di stabilire, lo sottolinea bene C. Sarra, L’imposizione nell’era della
positività pluritipica: la giustizia tributaria e la Filosofia del diritto contemporanea, in F. Zanuso
(a cura di), Custodire il fuoco. Saggi di Filosofia del Diritto, Milano, Franco Angeli, 2013, p.
247, «come sia possibile giudicare da una parte «indebito» il risparmio fiscale che il contribuen-
te tenta di ottenere e dall’altra «distorto» l’uso che sia fatto degli strumenti giuridici, peraltro
realmente voluti e adempiuti, quando contemporaneamente si affermi la mancata violazione di
alcuna norma giuridica». Questa osservazione è fondata e attuale rispetto alla nuova normativa:
il comma 12 dell’art. 1 del Decreto legislativo dispone, infatti, che «l’abuso del diritto può essere
configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione
di specifiche norme tributarie».
31
  Si è posta questo problema con riferimento alla giurisprudenza successiva al 2008 la
Comm. Trib. I grado di Trento, n. 8 del 2.2.2009; si raccomanda la lettura di questa sentenza per
la lucida ricostruzione proposta del cammino dogmatico, teorico e giurisprudenziale compiuto
dal divieto di abuso del diritto.
32
  C. Sarra , L’imposizione nell’era della positività pluritipica, cit., p. 249.
164 Vito Velluzzi

ni espresse del sistema giuridico: dal modo in cui la disposizione viene


interpretata dipende, quindi, l’estensione del divieto; b) l’interpretazione
della disposizione normativa che espressamente prevede l’abuso del dirit-
to condiziona l’interpretazione della disposizione che attribuisce il diritto
soggettivo, orientandola verso il soddisfacimento delle ragioni dell’attri-
buzione del diritto soggettivo; c) in assenza di una disposizione normativa
che vieti espressamente l’abuso del diritto, si pongono, come si è visto,
varie questioni. Le più rilevanti riguardano la base normativa fondante il
principio, e a partire da questo aspetto il contenuto del principio: a che
cosa si riferisce? Con quali conseguenze? Il principio inespresso opera, lo
si è visto, comportando una riduzione teleologica dell’area di rilevanza del
diritto soggettivo.
Fedele al proposito metodologico iniziale ho messo sul tappeto alcune
questioni filosofico giuridiche riguardanti l’abuso del diritto e ho fornito,
spero, dei percorsi di analisi critica dei problemi che dalle questioni emer-
gono, soprattutto dei problemi afferenti al ragionamento giuridico. Non
ho preteso di indicare delle soluzioni. Concludo ribadendo una preoccu-
pazione che ho già manifestato in passato: misurandosi con l’abuso del
diritto «bisogna tenere in seria considerazione il pericolo che per riscattare
il diritto (oggettivo) dalla propria miseria (…) si paghi un prezzo assai (…)
alto»33.

33
  La citazione è tratta dal mio Due (brevi) note sul giudice penale e l’interpretazione, cit.,
p. 314.
Mauro Grondona
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica
e politica del diritto

Sommario: 1. Premessa: il discorso giuridico quale discorso politico. – 2. Un recente


caso in tema di abuso del diritto. – 3. Politica del diritto e tecnica giuridica. – 4. Gio-
vanni Tarello critico della creatività giudiziaria. – 5. L’abuso del diritto quale strumento
conoscitivo. – 6. Il mutamento quale elemento costitutivo della giuridicità. – 7. L’abuso
del diritto come problema argomentativo. – 8. Il diritto come pratica sociale. – 9. La
lezione di Tullio Ascarelli. – 10. Conclusioni.

1.  Premessa: il discorso giuridico quale discorso politico


Faccio subito in apertura una considerazione che, a mio avviso, do-
vrebbe essere oggi del tutto pacifica, se non addirittura scontata, ma che
invece continua a trovare resistenze (e spesso si tratta di resistenze occulte
o quantomeno poco trasparenti); una considerazione che spiega anche il
riferimento nel titolo alla notissima espressione ‘politica del diritto’.
La considerazione è questa: il diritto è intrinsecamente politica perché
il diritto è misura e rimedio autoritativo e socialmente razionale (cioè, in
particolare, rimedio socialmente accettabile, e come tale non produttivo
di ulteriori conflitti, disgregatori della convivenza sociale)1 dei conflitti,
che sono all’un tempo indispensabili (e stanno anzi alla base del Giuridi-
co), ma che vanno necessariamente risolti, pro tempore, in funzione della
sopravvivenza stessa di una comunità socialmente organizzata2; ne deriva
dunque che ogni impiego, ogni applicazione, ogni uso del diritto dà luogo
a impieghi, applicazioni, usi politici, perché pensabili unicamente all’inter-
no di una prospettiva ‘conflittuale’, tanto onnipresente quanto in costante
necessità di superamento; di talché, essere giuristi e fare i giuristi significa
occuparsi di politica del diritto3.

1
  Cfr. i molti spunti, in varie direzioni (e che chi scrive non condivide interamente), che si
possono trarre da A. Micocci, Moderatismo e rivoluzione, Napoli, ESI, 2011.
2
  Importanti sono le considerazioni di I. Ruggiu, Il giudice antropologo. Costituzione e tec­
niche di composizione multiculturali, Milano, Franco Angeli, 2012, spec. p. 211: «Se l’esperienza
antropologica è essenzialmente descrittiva, l’esperienza giuridica è, invece, nella sua essenza,
un’esperienza etica, di giustizia, di ricerca della regola del caso concreto o di ricerca di valori
costitutivi della convivenza».
3
  Cfr. ora la netta presa di posizione di L. Nivarra, Germania «caput mundi»: liberismo,
ordoliberalismo e liberalismo in un libro recente, in Riv. crit. dir. priv., 2015, p. 641 ss., il qua-
166 Mauro Grondona

Ne consente allora che la dimensione del diritto e del giurista, se non


più autentica certo più appariscente e forse socialmente utile, è quella con-
flittuale e casistica, cioè a partire dal conflitto concreto, rispetto a circo-
stanze concrete, al di là delle prescrizioni generali e astratte del legisla-
tore (ma discorso non troppo dissimile va fatto per i principi di diritto
contenuti nelle massime giurisprudenziali) che, come tali, non sono mai
regulae iuris, cioè regole di decisione di un caso, ma sono invece direttive
tecnico-assiologiche, che impongono una riflessione dell’interprete in fun-
zione applicativa4.
Si è dunque giuristi di fronte a una controversia5, di fronte a un conflitto
tra pretese che i litiganti portano alla cognizione di un decisore terzo, non
riuscendo spontaneamente a superare l’orizzonte antagonistico tra sfere di
libertà individuale in reciproca interferenza6.

2.  Un recente caso in tema di abuso del diritto


Dopo questa premessa, una recente sentenza di merito che ha applicato
il principio dell’abuso7.
Direi che qui ci troviamo tutto sommato di fronte a un caso facile, nel
senso la soluzione individuata dal giudice va condivisa e che la strada per
raggiungerla, se non univoca, poteva comunque passare anche per l’abuso

le, recensendo con pieno favore un recente scritto di Alessandro Somma («La dittatura dello
spread. Germania, Europa e crisi del debito», Roma, DeriveApprodi, 2014), stigmatizza molto
giustamente «quella ideologia della neutralità che, incredibilmente, dopo la grande stagione degli
anni ’70 del secolo scorso, è tornata ad essere dominante nella nostra Università […]» (p. 645).
4
  Su tutto ciò, molte considerazioni giovevoli in C. Ginzburg, Leggere. Da vicino da lonta­
no, https://www.youtube.com/watch?v=RUb8tV04HX8 (ultimo accesso 6 marzo 2016).
5
  G.W von Leibniz, Il nuovo metodo di apprendere ed insegnare la giurisprudenza (saggio
introduttivo, trad. e note di C.M. de Iuliis), Milano, Giuffrè, 2012 (il volume contiene anche il
testo latino integrale), p. 47, § 1: «La giurisprudenza è la scienza propria del diritto relativo a
un qualche caso o fatto prospettato» («Jurisprudentia est Scientia, Juris, proposito aliquo casu
seu facto», ivi, p. LXXXV); cfr. allora T. Ascarelli, Hobbes e Leibniz e la dogmatica giuridica,
che è lo studio introduttivo a: Th. Hobbes, A dialogue between a philosopher and a student of
the Common Laws of England, G.W. Leibniz, Specimen quaestionum philosophicarum ex iure
collectarum – De casibus perplexis – Doctrina conditionum – De legum interpretatione. Premessa
di M. Giannotta, Milano, Giuffrè, 1960, pp. 1-69, spec. p. 35; su Leibniz, cfr. ora la splendida
biografia, uscita originariamente in inglese, di M.R. Antognazza, Leibniz. Una biografia intel­
lettuale (trad. it.), Milano, Hoepli, 2015.
6
  Cfr. in generale E. Picavet, La Revendication des droits. Une étude de l’équilibre des
raisons dans le libéralisme, Paris, Classiques Garnier, 2011, spec. p. 145 ss. (Droit individuels,
liberté et interdipéndance: la légitimation des droits et la question de la liberté); e v. anche V.
Caporrino, Pluralismo e tecniche di regolamentazione, Napoli, ESI, 2012.
7
  Trib. Reggio Emilia, 16 giugno 2015, in Foro it., 2015, I, c. 3725 ss., con annotazioni di D.
Dalfino e R. Pardolesi (c. 3730 ss.: ivi bibliografia aggiornata cui si rinvia).
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 167

del diritto; doctrine il cui impiego, almeno in questa circostanza, verosimil-


mente non scontenterà i commentatori.
Il caso è questo: un professionista ottiene sentenza di condanna nei
confronti di una s.r.l. a pagargli alcuni compensi professionali; nelle more
del giudizio la s.r.l. cede la propria azienda, comprensiva di ogni cespite e
attività, a una s.n.c. costituita appositamente.
Appena operata, la s.r.l. è messa in liquidazione e la s.n.c. prosegue nella
medesima attività commerciale esercitata in precedenza dalla s.r.l.
Le due società hanno compagine sociale quasi identica e comunque so-
vrapponibile.
Il presente giudizio vede l’opposizione della s.n.c. contro il precetto
intimatole dal professionista.
Il Tribunale, rilevato che non si è in presenza di una successione a ti-
tolo particolare nel diritto controverso, bensì di una cessione di azienda,
afferma che la sentenza di condanna pronunciata nei confronti della s.r.l.
non può esplicare in via diretta i suoi effetti nei confronti della s.n.c. ai
sensi dell’art. 111, c. 4, c.p.c., norma dettata in tema di successione nel
diritto e non già in tema di cessione d’azienda. Di più, la s.n.c. non può
essere chiamata a rispondere in via diretta del debito del cedente ex art.
2560, c. 2, c.c., «norma astrattamente applicabile alla cessione d’azienda,
ma in concreto inapplicabile poiché non risulta integrato il necessario
presupposto fattuale, e cioè che il debito per cui è causa risulta dai libri
contabili obbligatori».
Ma a questo punto rileva il Tribunale: «Tuttavia, [la s.n.c.] deve co-
munque essere chiamata a rispondere del debito contratto dalla cedente
[s.r.l.] nei confronti [del professionista], sulla base della teorica dell’abuso
del diritto, essendo stata posta in essere un’operazione societaria esclusi-
vamente finalizzata all’elusione della pretesa creditoria [del professioni-
sta] stesso»8.
La motivazione, richiamando numerose pronunce della Cassazione, sot-
tolinea9 che l’abuso è correlato o a una alterazione della funzione causale
posta dall’ordinamento a presidio della fattispecie, o alla violazione del
dovere di buona fede, pervenendo così a individuare gli elementi costitutivi
dell’abuso, che sono tre10:
i) la titolarità di un diritto soggettivo, con possibilità di utilizzo secondo
plurime modalità non rigidamente predeterminate;

8
  Trib. Reggio Emilia, cit., c. 3726.
9
  Ibidem, c. 3727.
10
  Ibidem, c. 3728.
168 Mauro Grondona

ii) l’esercizio concreto del diritto: esercizio formalmente rispettoso della


cornice attributiva, ma in realtà censurabile rispetto a un criterio di valu-
tazione giuridico o extragiuridico;
ii) la sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare e il sacrificio
della controparte.
La conclusione, nelle parole del Tribunale, è che il conflitto va risolto at-
traverso la teorica dell’abuso del diritto: «L’operazione eseguita di cessione
dell’intero patrimonio ad una società neocostituita con compagine sociale
sostanzialmente identica si spiega quindi non già con una volontà di una
trasformazione societaria, quanto piuttosto con la volontà di rendere la
nuova società, in prosecuzione della precedente, impermeabile rispetto alla
situazione debitoria pregressa. Trattasi quindi, in conclusione, di un caso
di abuso del diritto, tenuto conto del fatto che, in violazione del principio
di buona fede, la cessione di azienda è stata effettuata per un fine diverso
da quello tutelato dalla norma e quindi con violazione della causa concreta
del negozio»11.
Posto allora che il riferimento all’abuso fa emergere, in parallelo, l’idea
di uno strumento duttile, fluido, dinamico e come tale aperto alle esigenze
di protezione rilevanti nella fattispecie concreta, forse anche uno strumento
promozionale della libertà individuale, mi pare necessario ampliare, pur
solo con sintetiche e quasi cursorie notazioni a margine, il campo della
riflessione.
3.  Politica del diritto e tecnica giuridica
Se il diritto è politica, gli strumenti del diritto sono quelli che la tradi-
zione ci ha consegnato (tradizione che è bensì storicamente ricostruibile,
ma che, una volta ricostruita, non dovrebbe essere tramutata in feticcio;
ogni tradizione non è statica e soprattutto non è insuperabile; anzi è esatta-
mente il contrario)12. E del resto la politica del diritto la si fa con strumenti
tecnici, cioè con quello che abitualmente si usa chiamare lo ‘strumentario
tecnico’ del giurista.
Un problema aperto, sempre aperto (almeno in quelle società sufficien-
temente dinamiche da legittimare anche una trasformazione del diritto che
proviene dall’interno, cioè per forza propria, endogena, diciamo pure dal
basso, attraverso la competizione sul diritto e per i diritti: dunque, le socie-
tà liberal-democratiche), riguarda l’allocazione della responsabilità politica
delle scelte; su chi grava questa responsabilità? Se tale responsabilità non

11
  Ibidem, c. 3729.
12
  Cfr. T. Ascarelli, Scienza e professione, in Foro it., 1956, IV, c. 86 ss.
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 169

è esclusiva del legislatore (perché il legislatore trasforma il diritto in via


esogena), cosa legittima il corrispondente potere del giudiziario, e dunque
la trasformazione endogena del diritto? e come possono configurarsi i per-
corsi e i limiti della indispensabile politicità della giurisdizione?13
Perché è questo il problema centrale anche in tema di abuso del dirit-
to: chi è l’attore istituzionale democraticamente legittimato all’esercizio di
una politica del diritto che abbia a oggetto il principio/la clausola generale
dell’abuso? Il che ancora una volta porta il discorso su un aspetto (che
molto a che fare, in prospettiva assai generale, alla dinamica del diritto):
quello delle c.d. norme a fattispecie aperta o senza fattispecie, aspetto come
tale inscindibilmente connesso a quello della lettura interpretativa in sen-
so forte (e dunque propriamente costruttivista)14 di una regola giuridica
contenuta in un testo normativo (qualunque esso sia, e perciò non pos-
sono certamente essere escluse le pronunce giurisprudenziali in tanto in
quanto produttive di norme, a loro volta oggetto di successivi percorsi
costruttivisti); orbene: può – e se sì, fino a che punto – questa lavorio co-
struttivistico dar vita a un moto perpetuo ordinamentale affidato alle cure
dell’interprete?
Se i movimenti ordinamentali costituiscono una questione costante-
mente aperta alla riflessione del giurista, è evidente che essa si fa più in-
tensa in presenza di strumenti tecnici quali i principi generali e le clauso-
le generali che, proprio in ragione della loro struttura, fanno constatare
ancora meglio (e a volte questa constatazione assume anche toni dram-
matici) l’intrinseca politicità del giurista: una politicità che è così cifra
della giuridicità.
4.  Giovanni Tarello critico della creatività giudiziaria
Dicevo in apertura: diritto come strumento di risoluzione e di ammi-
nistrazione dei conflitti tra interessi almeno in parte non spontaneamente
componibili.
Risoluzione e amministrazione sono due momenti e due fasi distinti;
perché l’amministrazione del conflitto è prodromica alla sua risoluzione,
nel senso che chi amministra il conflitto dovrà indicare la via tecnica (e

13
  Per una serie di questioni centralissime che qui non possono essere approfondite, v.: G.
Alpa (a cura di), P. Grossi, Roma-Bari, Laterza, 2011, spec. p. 253 ss.; P. Perlingieri, Inter­
pretazione e legalità costituzionale. Antologia per una didattica progredita, Napoli, ESI, 2012,
P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma-Bari, Laterza, 2015, N. Lipari, I civilisti e la certezza del
diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, p. 1115 ss., ma v. anche, in diversa prospettiva, C. Ca-
stronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, Giuffrè, 2015, spec. il «Prologo», p. 1 ss.
14
  V. in particolare V. Villa, Costruttivismo e teorie del diritto, Torino, Giappichelli, 1999.
170 Mauro Grondona

quindi la regola giuridica) applicabile al conflitto concreto per poi risol-


verlo.
Da tempo, diciamo dall’epoca della modernità, questa ripartizione
dei compiti tra, dovrebbe essere chiaro, un legislatore che amministra
ex ante il conflitto e un giudice che lo risolve ex post applicando al caso
di specie quella regola di soluzione, che traduce in comando di secondo
grado (concreto) una valutazione già fatta precedentemente e quindi di
primo grado (generale e astratto), non dirò che sia entrata in crisi, ma
è mutata, dovendosi pertanto ripensare i rapporti istituzionali tra legge
e giudice, e quindi tra amministrazione dei conflitti di interesse e loro
risoluzione.
In questa prospettiva mi pare allora opportuno richiamare un autore
certamente ben noto, ma che sul punto, almeno oggi, non è un protagonista
del dibattito.
Mi riferisco a Giovanni Tarello, e in particolare a una conversazione, a
largo spettro e molto franca, che egli ebbe con Mario Bessone a fine anni
Settanta15. Le critiche di Tarello – in senso lato, alla creatività giudiziale e
soprattutto a una politica del diritto a trazione giudiziale – potranno forse
stupire più d’uno, ma in realtà la sua posizione è molto trasparente: se
dal punto di vista descrittivo Tarello insiste sulla fisiologica creatività del
giudice, dal punto di vista della valutazione, cioè del giudizio di valore, è
profondamente contrario alla crescita di potere del giudice, ed è quindi
favorevole a un indirizzo legislativo (anche in chiave di tecnica legislativa)
che circoscriva il più possibile tale potere.
Tarello rifiuta espressamente la ‘magistratofilia’ di «molti colleghi
giuristi»16: la sua tesi17 è che tra le principali cause dell’aumento del potere
del giudice, potere qui soprattutto inteso come la possibilità e la capacità
di incidere direttamente sulle modificazioni del diritto, vi è la struttura del
sistema giuridico oggettivo, cioè il modo in cui l’ordinamento è fatto. E
Tarello soggiunge: più le leggi da applicare sono elastiche, generiche, aperte
a possibilità di interpretazioni plurime, maggiore è il potere del giudice. E

15
  M. Bessone (a cura di), Sullo stato dell’organizzazione giuridica. Intervista a Giovanni
Tarello, Bologna, Zanichelli, 1979 (il volumetto, da molti anni fuori catalogo, meriterebbe senza
dubbio una ristampa per la sua innegabile attualità – e ciò, peraltro, non è certamente un buon
segno, sotto il profilo dei rapporti, in Italia, tra magistratura e politica).
16
  Ibidem, p. 10: «A differenza di molti colleghi giuristi affetti da magistratofilia, io non
ritengo che la crescita dei poteri dei giudici di determinare il mutamento giuridico sia (o sia
sempre) un bene, e credo invece che sia opportuno agire tanto sulle condizioni socioculturali
interne ed esterne alla magistratura quanto sulla struttura del sistema giuridico al fine di limitare
simili poteri ai giudici».
17
  Ivi: «Tutto ciò è oggetto di teoria, e queste mie asserzioni hanno la pretesa di essere vere».
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 171

subito dopo, ancora più nettamente: il potere dei giudici è la risultante di


deleghe da parte del legislatore18.
Il giudice, dice ancora Tarello, non arbitra interessi, non bilancia inte-
ressi in conflitto: attua, o dovrebbe attuare, il diritto; e perciò è bene che
le leggi siano formulate in modo da dare poco potere al giudice, abbiano
poche clausole generali, abbiano molti termini definiti, abbiano poche pa-
role equivoche, e soprattutto è bene che il conflitto tra interessi sociali
conflittuali sia risolto a monte, cioè dal legislatore19.
In ogni caso, dice sempre Tarello, al giudice resterà comunque un certo
potere, «e potrà esercitare qualche briciola di quegli arbitraggi per cui non
è adatto e combinerà qualche pasticcio, non per sua colpa»20.
Terrei allora quantomeno sullo sfondo questa critica fatta in prospettiva
teorica e con innegabile pathos.
5.  L’abuso del diritto quale strumento conoscitivo
L’abuso del diritto21 è una formula il cui impiego è controverso in pri-
mo luogo perché è un ottimo strumento conoscitivo in quanto strumento
rivelatore; uno strumento che cioè ci consente di vedere bene o comunque
almeno di intuire (e spesso l’intuire è ancora più pericoloso che il vedere)
molto di tutto quello che sta dietro al diritto inteso come regola imperativa
applicata autoritativamente da un potere a ciò legittimato.
Attraverso l’abuso del diritto, così come avviene del resto quando ab-
biamo a che fare appunto o con principi generali22 o con clausole gene-
rali23, il giurista è messo di fronte all’idea che l’incertezza della decisione
e la fragilità delle basi della decisione non sono aspetti né marginali né
patologici del lavoro del giurista, perché, al contrario, sono di esso con-
notato radicalmente fisiologico, nel senso che l’incertezza del diritto (e
qui in particolare penso all’incertezza argomentativa come impossibilità di
pervenire alla dimensione dell’‘argomentativamente certo’; un’incertezza
che in quanto tale è prodromica allo sviluppo endogeno del diritto)24 è

18
  Ivi.
19
  Ibidem, pp. 10-11.
20
  Ibidem, p. 11.
21
  Cfr. il quadro concettuale tracciato da R. Sacco, voce «Abuso del diritto», in Dig. disc.
priv., Agg.********, Torino, Utet, 2012, p. 1 ss.
22
  G. Alpa, Il contratto in generale, I. Fonti, teorie, metodi, nel Tratt. dir. civ. comm., Milano,
Giuffrè, 2014, Cap. VII («Princìpi e clausole generali»), p. 419 ss.
23
  V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, Giuffrè, 2010.
24
  Cfr. le illuminanti considerazioni di V. Villa, Il diritto come modello per le scienze sociali,
in Diritto & questioni pubbliche, n. 5/2005, p. 31 ss., http://www.dirittoequestionipubbliche.org/
page/2005_n5/mono_V_Villa.pdf.
172 Mauro Grondona

il proprium del diritto stesso in quanto fenomeno istituzionale e ordine


istituzionale che non si trova ma si costruisce in ragione delle aspettative
sociali25, cioè della storicità del diritto, fenomeno in divenire e dunque in
costante trasformazione26.
L’incertezza argomentativa (che non è esclude affatto, anzi implica, la
possibilità di pervenire a un grado di razionalità argomentativa controlla-
bile e dunque socialmente accettabile), allora, non è come tale un elemento
intriso di negatività, né l’impiegarlo significa accedere a una visione autodi-
struttiva del diritto; al contrario, a mio avviso, significa proprio enfatizzare
al meglio le potenzialità dell’argomentazione giuridica, la cui mobilità va
intesa come disponibilità al dialogo con il reale (un dialogo, beninteso, in
funzione ordinante), al di là delle prescrizioni legislative considerate in
senso strettamente normativistico quale gabbie semantiche all’interno delle
quali circoscrivere, già ex ante27, i prodotti interpretativi28.

25
  Non posso qui approfondire un aspetto che mi sta particolarmente a cuore: la critica
hayekiana al costruttivismo (v. ancora V. Villa, Costruttivismo, cit., spec. pp. 37-39), quale, in
sostanza, ordine imposto dall’alto in virtù di una pianificazione che intacca anche la sfera delle
idee, non può, a mio avviso, travolgere una prospettiva costruttivista che si pone, di fronte al
fenomeno giuridico, e, in senso più lato, antropologico e sociale, come permeabile all’incontro/
scontro tra pretese individuali in opposizione. Ciò, in sostanza, per dire che una certa visione
costruttivista non è incompatibile con un certo individualismo giuridico.
26
  Sul punto v. P. Grossi, Ritorno al diritto, cit., passim, nonché Id., Per ripensare le fonti
del diritto (su un libro recentissimo e sulle sue sollecitazioni), in Quad. fior., 44 (2015), t. II, p.
1047 ss., ove tra l’altro si legge: «All’immagine, cara ai nostri vecchi, di un diritto connotato da
astrattezza e purezza, certo e stabile nella pietrosità dei testi normativi, si è andato sostituendo, in
questo nostro tempo pos-moderno, un diritto incerto ed estremamente mobile, che è giocoforza
qualificare – a causa del suo mescolarsi con la bassa corte dei fatti – anche impuro, da taluno
spregiativamente, da un giurista/storicista con qualche sollievo» (p. 1048). Ma allora v. anche le
seguenti parole di Erich Auerbach, cit. da C. Rivoletti, Auerbach inedito. Sull’influsso del meto­
do storico ed ermeneutico di Vico, in R. Castellana (a cura di), La rappresentazione della realtà.
Studi su Auerbach, Roma, Artemide, 2009, p. 101 ss., a p. 113 s.: «Senza dubbio la vera realtà non
può venire pensata e compresa se non come ordinata. Ma l’ordine è potuto difficilmente sorgere
dalla mera volontà programmatica di un ordine: risulterebbe infatti necessariamente un ordine
angusto, da qualsiasi parte attingesse le proprie regole, e tenterebbe di costringere la realtà, cosa
che sarebbe comunque inutile. L’ordine della realtà deve sorgere da se stesso, o perlomeno da
una dedizione della vita all’ordine. Solo allora esso può risultare abbastanza grande, stabile ed
elastico, da comprendere ed abbracciare il proprio oggetto». Amplius cfr. ora R. Castellana,
La teoria letteraria di Erich Auerbach. Una introduzione a «Mimesis», Roma, Artemide, 2013.
In qualche modo ancora oggi utile V. Ganeff, La realtà giuridica secondo gli autori russi, in Riv.
int. fil. dir., 1921, p. 37 ss.
27
  La dimensione ex ante e quella ex post sono in questo senso centrali: perché il vincolo
semantico ex ante impedisce proprio, almeno in thesi, quella varietà argomentativa, e soprattutto
di giudizio, indispensabile a una trasformazione del diritto che sia indotta dalla modificazione
del contesto e che sia attuata in via giurisprudenziale.
28
  Per due ottimi esempi v. P. Chiassoni, La grande elusione. Tecnica e cultura nella giuri­
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 173

È chiaro che una visione dinamica e comprendente dell’argomentazione


non può essere insensibile a un massiccio impiego dell’approccio assiologi-
co quale diretta fonte di regole di giudizio29. E al proposito va a mio avviso
fatta una precisazione. Le critiche rivolte contro l’argomentazione fondata
sui valori (o che si presenta come fondata sui valori), e quindi in prima
istanza sui principi generali e/o sulle clausole generali, pervengono, pur-
troppo non di rado e anche in virtù di semplici allusioni, alla conclusione
(che in realtà non è affatto tale) per cui il ricorso ai valori e a quelle tecniche
argomentative funzionali all’impiego (appunto in chiave argomentativa) dei
valori connota un approccio, storicamente ben noto, di schietta matrice
totalitaria. È, questa, una critica inaccettabile che non andrebbe neppure
presa sul serio; e ciò, proprio per ragioni storiche.
Il messaggio che si vuole trasmettere, mancando però l’obiettivo, è del
seguente tenore: il giurista di oggi, che non voglia abbandonare la strada
dei principi, delle clausole generali, dell’ermeneutica, dell’assiologia, rimet-
tendosi invece sulla retta via della fattispecie, potrà dar vita a un diritto
arbitrario, che come tale consente all’interprete di fare tutto, e quindi di
fare anche le cose peggiori.
Questa critica va appunto respinta prima di tutto sul piano storico, dan-
do quindi risalto ai caratteri antropologici del diritto e ai modi in cui il di-
ritto vive e dunque si esprime all’interno della dimensione della storicità30.

sprudenza sul matrimonio omosessuale, in Studi in onore di Franco Modugno, I, Napoli, Edito-
riale Scientifica, 2011, p. 863 ss. (anche in Id., Diritti umani, sentenze elusive, clausole ineffabili.
Scritti di realismo militante, Roma, Aracne, 2011, p. 87 ss.), e A. Pugiotto, Una lettura non reti­
cente della sentenza n. 138/2010: il monopolio del matrimonio eterosessuale, p. 1 ss., http://www.
forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0226_pugiotto.pdf.
29
  Cfr. le appassionate pagine di P. Femia, Segni di valore, in civilistica.com (Revista eletrô-
nica de direito civil), a. 3, n. 1, 2014, p. 1 ss., http://civilistica.com/wp-content/uploads/2015/02/
Femia-civilistica.com-a.3.n.1.2014.pdf.
30
  V. ad esempio le come sempre incisive pagine di T. Ascarelli, Scienza e professione, cit.,
c. 88: «È l’interprete che riduce a sistema norme frutto di orientamenti diversi; è l’interprete
che elabora e rielabora (ed anche nella più letterale delle interpretazioni) le categorie alle quali
ha fatto capo la norma (e poi inquadra in questa ricostruzione il caso), ed in ambedue questi
momenti concorrono orientamenti e valutazioni diversi. Ciò equivale poi a dire che il diritto è
frutto della storia e si svolge nella storia e perciò anche nella sua applicazione. Perciò ho finito per
scrivere che l’attività dei giuristi, piuttosto che a uno studio della norma in funzione della realtà,
attiene a uno studio della realtà in funzione della norma, in funzione alla fine di una disciplina
normativa della realtà .… formule queste che – è necessario soggiungerlo? – non si differenziano
per l’esigenza, in ambedue costante, di studio di ambedue i termini del binomio – realtà e norma
– ma per l’accentuazione che la seconda pone sulla destinazione del diritto – opera degli uomini
e destinata agli uomini – alla sua applicazione nella vita consociata». Su Ascarelli e sul problema
dell’interpretazione v. ora l’accurata analisi condotta da C. Crea, What Is to Be Done? Tullio
Ascarelli on the Theory of Legal Interpretation, in The Italian Law Journal, vol. 1, n. 2/2015, p.
181 ss., spec. p. 185 ss., http://www.theitalianlawjournal.it/crea/.
174 Mauro Grondona

Se il diritto è fattore costitutivo della storia dell’umanità, appunto in


quanto prodotto umano e storico, è evidente che è il contesto storico, e
cioè politico-sociale, la sola strada per comprendere le ragioni che hanno
condotto a certi usi del diritto; ragioni che certo non possono essere cir-
coscritte alla dimensione strettamente tecnico-giuridica31.
Evocherò al proposito Julius Hermann von Kirchmann, autore di un fa-
moso pamphlet sulla giurisprudenza come scienza, anzi come non-scienza,
la cui prima edizione è del 184832. Ma lo farò richiamando alcune pagine
che su questo lavoro scrisse il nostro Bruno Leoni33: cito appositamente lo
scritto di Leoni non solo perché è anteriore alla prima traduzione italiana
di Kirchmann, che è del 1942, ma soprattutto perché in Leoni troviamo
messo in luce molto bene un certo (ab)uso politico di cui Kirchmann fu
vittima, e che si spiega unicamente in ragione del contesto storico-politico:
ne emerge quindi come la questione del contesto non sia semplicemente
rilevante, ma sia essenziale; se si trascura il contesto si fa opera (cosciente
o inconsapevole) di falsificazione, prima di tutto storica.
Si può aggiungere che l’analisi condotta da Leoni porta a sottolineare
elementi e aspetti che dal punto di vista metodologico sono molto utili
anche in tema di abuso del diritto, perché appunto si collocano tra la po-
litica del diritto (e quindi l’ideologia giuridica) e la tecnica giuridica. Due
momenti in sé diversi ma unificati dall’incidenza su di essi del contesto.
Leoni ricorda che l’opuscolo di Kirchmann ha avuto in Germania una
nuova ristampa nel 1938: «[L]a frequenza dei riferimenti al K., constata-
ta nella letteratura tedesca dell’ultimo decennio (e in particolare ispirata
all’esigenza politica di rinnovare i metodi della giurisdizione, per affermare
senza contrasti il cosiddetto “Volksrecht” nazionale tedesco), induce un
autore contemporaneo, il Neesse [,] a pubblicare, nel 1938, la più recente
edizione del saggio, a quasi un secolo di distanza dalla sua prima pubbli-
cazione !»34. Eccoci di fronte a un uso politico finalizzato a incidere tanto
sul piano della politica del diritto (applicazione teleologicamente orientata)

31
  Emerge qui una evidente tensione tra morfologia e storia, sulla quali, in ben altra prospet-
tiva, ha magistralmente richiamato l’attenzione C. Ginzburg, Paura reverenza terrore. Cinque
saggi di iconografia politica, Milano, Adelphi, 2015, spec. la «Prefazione», p. 11 ss., in riferimento
alla nozione di Pathosformeln impiegata da Aby Warburg.
32
  J.H. von Kirchmann, Della mancanza di valore della giurisprudenza come scienza (trad.
it. e pref. di Paolo Frezza), Pisa, Arti grafiche Pacini Mariotti, 1942; questa stessa trad. it. è più
tardi confluita in J.H. von Kirchmann, E. Wolf, Il valore scientifico della giurisprudenza.
Introduzione di G. Perticone, Milano, Giuffrè, 1964.
33
  B. Leoni, Il valore della giurisprudenza e il pensiero di Julius Hermann von Kirchmann,
in Riv. int. fil. dir., 1940, p. 343 ss., e 1941, p. 64 ss.
34
  B. Leoni, Il valore della giurisprudenza (1940), cit., p. 347.
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 175

quanto sul piano della tecnica giuridica, rispetto ai quali l’uso politico rile-
va in quanto fondamento di un impiego del diritto funzionalizzato a con-
seguire solo quei risultati interpretativi compatibili con una determinata
cornice assiologica; con il che si concretizza, in questo caso, l’uso politico
in senso attualizzante e anti-storico (dunque un uso abusivo) di un autore
la cui visione del diritto screditava senza dubbio (ma in differente contesto)
il diritto legislativo a favore del diritto del popolo, quale prodotto spon-
taneo della comunità politica. Non occorre dunque spendere molte parole
per rilevare come l’uso in chiave di politica del diritto di un autore o di
una intera corrente dottrinale è il prodotto prima di tutto culturale di un
certo contesto, e non viceversa35.
Ma c’è poi un secondo aspetto da mettere in luce: un aspetto profonda-
mente collegato al primo, che, anzi, spiega molto bene il senso profondo
dell’uso politico in senso nazional-socialista e che mostra come, veramente,
l’orizzonte assiologico all’interno del quale la vita sociale si muove è il
criterio orientativo della tecnica giuridica, che è sempre servente rispetto
all’ambiente e al contesto.
In particolare, il riferimento è qui a un passaggio centrale della tesi di
Kirchmann: la legge positiva è rigida; il diritto si evolve, perciò anche la
verità della legge si trasforma col tempo in errore36.
Non basta: perché la legge positiva è astratta e la sua necessaria sem-
plicità distrugge la ricchezza delle formazioni individuali; di qui la forma
intermedia dell’equità, della discrezionale decisione del giudice37.
La legge positiva – prosegue Kirchmann – è un’arma impersonale, pron-
ta in ogni tempo, non meno che per la saggezza del legislatore che per la
passione del despota38.
Affermazione, quest’ultima, che ha un che di tragicamente beffardo, ap-
punto tenuto conto dell’uso che, da parte di giuristi nazisti, di Kirchmann
è stato fatto39.
Egli aggiunge che è del tutto illusoria l’aspirazione a una legislazione

35
  Sulla centralità e sulla forza dell’ideologia e del pensiero v. ora il volume (peraltro molto
discusso) di J. Israel, La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a
Robespierre (trad. it.), Torino, Einaudi, 2015.
36
  B. Leoni, Il valore della giurisprudenza (1941), cit., p. 74.
37
  Ivi.
38
  Ivi.
39
  Peraltro, ogni fenomeno consistente nell’uso delle idee, diciamo pure ogni appropria-
zione fuori contesto di idee, se potrà qualificarsi come storicamente impropria se non indebita
(in chiave per dir così filologica), certo non è priva di ragioni (anche ripugnanti) che possano
spiegarla; ragioni, ancora una volta, da ricondursi al contesto all’interno del quale quell’uso e
quell’appropriazione si sono determinati. Un contesto che però è storico in re ipsa: il che apre
176 Mauro Grondona

costituita sulla base di una scienza perfettamente aggiornata perché il di-


ritto (nel senso di diritto vivente nella dimensione della socialità, cioè nella
dimensione storica) precorre perennemente la scienza, e nessuna legisla-
zione positiva, anche se la si preparasse nel corso di un intero millennio,
potrebbe scongiurare questo difetto di inevitabile, fatale e tragica arretra-
tezza, perché la scienza giuridica non può mai cogliere nella sua totalità il
proprio oggetto, che poi è la vita delle persone, l’esistenza di tutti noi in
quanto componenti di un processo storico40.
6.  Il mutamento quale elemento costitutivo della giuridicità
Questi riferimenti a Kirchmann fanno emergere molto bene una costan-
te del diritto appunto in quanto fenomeno sociale e istituzionale: la sua
costitutiva esigenza di cambiare sia dall’interno, per forza propria (grazie
all’elaborazione teorica e pratica, che seguono traiettorie inevitabilmente
influenzate da un presente storico in costante divenire)41, sia dall’esterno,
per impulso indotto da ciò che nel mondo accade, e accadendo è destinato
a interpellare il legislatore. Il compasso dell’ascolto e della risposta sarà
necessariamente il portato dell’attuale contesto storico, che rappresenta
il sostrato sul quale fondare ogni analisi, appunto perché la dimensione
storico-sociale rappresenta la chiave di lettura scientifica dei fatti e delle
idee, solo immaginabili, e gli uni e le altre, quali proiezioni conflittuali
e non-conflittuali del contesto sociale, la cui comprensione consentirà di
evitare, o quantomeno di ridurre, e comunque di contenere e contrastare
quelle letture antiscientifiche della giuridicità, nel senso di irrispettose del-
la dimensione storica del fenomeno oggetto di studio. E del resto si può

una serie di ulteriori questioni facilmente intuibili alle quali neppure accenno. Molto istruttivo
ancora C. Rivoletti, Auerbach inedito, cit.
40
  B. Leoni, Il valore della giurisprudenza (1941), p. 75.
41
  In chiave di ricostruzione storica, molto interessanti le pagine di C.M. Radding, Le origini
della giurisprudenza medievale. Una storia culturale (trad. e cura di A. Ciaralli), Roma, Viella, 2013,
spec. la «Conclusione. L’invenzione di una disciplina», p. 223 ss., e in particolare il seguente rilievo
(che vuole rispondere alla domanda su quali furono gli impulsi che indussero la scienza giuridica a
trasformarsi in una disciplina di studio, p. 224): «[F]urono le controversie sorte tra gli specialisti, in
una situazione nella quale non era possibile attendere una soluzione da autorità esterne, a indurre la
consapevolezza che una esegesi non può essere assunta per vera in assenza di una verifica condotta
con argomenti sempre più complessi e strumenti di analisi ancora più raffinati. La conflittualità può
non essere una condizione necessaria per trasformare un ramo del sapere dalla semplice ripetizione
di nozioni a più ambiziosi meccanismi per la risoluzione dei problemi; per l’architettura dell’XI
secolo o per la matematica del XVI il progresso delle tecniche può essere stato motivo sufficiente a
spingere gli esperti di quei settori della conoscenza verso la proposizione di nuove questioni. Ma la
conflittualità tra gli esperti può bene essere fattore essenziale per aree del sapere con implicazioni
sociali così ampie come avviene nel campo del diritto» (p. 225).
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 177

aggiungere che siffatte letture compiono un indebito riduzionismo del di-


ritto alla disposizione normativa, che come tale è una mera enunciazione,
se non priva di qualunque significato, certo potenzialmente destinataria
di una pluralità di significati, e che può quindi prestarsi tanto agli usi in-
terpretativi più diversi quanto anche agli abusi interpretativi più smaccati,
se l’operazione di attribuzione di significato non è guidata da un criterio
funzionalistico storicamente fondato, un criterio, dunque, non solo tecni-
camente circoscrivibile e accertabile, e perciò controllabile, ma destinato a
incontrare il consenso della comunità scientifica42.
Il riferimento a Kirchmann, in conclusione, fa anche capire bene che la
tecnica giuridica non risponde mai a se stessa perché invece risponde allo
scopo per cui essa è usata.
Non sottolineare questo aspetto – veramente decisivo –, mettendo in-
vece l’accento sui rischi propri di certi strumenti tecnici (come appunto
i principi o le clausole generali), è a mio avviso inaccettabile, soprattutto
perché deresponsabilizza il giurista e responsabilizza la tecnica, mentre la
questione dovrebbe essere esattamente capovolta.
7.  L’abuso del diritto come problema argomentativo
Un punto direi tutto sommato pacifico è che l’abuso del diritto (qualun-
que natura abbia: principio o clausola generale – questione sulla quale non
mi soffermo) pone essenzialmente un problema argomentativo43, nel senso

42
  V. una bellissima pagina di Sebastiano Timpanaro [S. Timpanaro, F. Orlando, Carteggio
su Freud (1971-1977), Pisa, Scuola Normale Superiore 2001, p. 63 s.], sull’idea che l’assoluta-
mente individuale e irripetibile, e quindi storicamente inafferrabile, apre la pericolosa strada del
totalmente ininterpretabile, o dell’interpretabile a piacere, perché il contesto sparisce e il testo
diviene il contesto di se stesso – un multiforme contesto per un testo multiforme, e così il testo
basta epistemologicamente a se stesso. Ma l’evento unico e irripetibile neppure è spiegabile (ibi­
dem, p. 68); e v. anche quanto molto nettamente osservato da T. Ascarelli, Scienza e professione,
cit., c. 86: «Sono tra quanti indentificano l’opera del giurista nell’interpretazione e applicazione
del diritto, considerandola a sua volta come lo strumento per la continua adeguazione e appli-
cazione di un qualsiasi corpus iuris, opera nella quale rientra quella della dottrina, costituendo le
categorie da questa elaborate, strumento appunto per l’applicazione e l’adeguazione del diritto
costituito. E sono tra quanti non esitano a riconoscere perciò che storia del diritto e storia delle
dottrine giuridiche in realtà confluiscono in quella che sola può dirsi storia del diritto, chè lo
sviluppo interpretativo non si contrappone al dato legale come l’immagine nello specchio alla
realtà rispecchiata, ma piuttosto si pone nei confronti di questa come la pianta nei confronti del
seme. E perciò sono tra quanti ritengono vano pretendere ridurre l’opera della dottrina a mera
ricostruzione storiografica della legge ovvero a razionalizzazione di questa, ravvisandovi allora
solo il dispiegamento di una attività logica, ma invece ritengono costante e inevitabile l’influenza
delle valutazioni dell’interprete, riflettendosi nella interpretazione e nello sviluppo dottrinario le
convinzioni dell’ambiente, le sue tradizioni, le sue tradizioni, le sue speranze».
43
  Nella civilistica, v. per tutti G. Perlingieri, Profili civilistici dell’abuso tributario. L’inop­
ponibilità delle condotte elusive, Napoli, ESI, 2012.
178 Mauro Grondona

che la ‘fattispecie’ abuso del diritto sarà la risultante di una certa strategia
argomentativa che abbia ottenuto un certo livello di consenso. Dunque,
per poter dire cosa è e cosa non è ‘abuso del diritto’ dobbiamo analizzare
come questa nozione è stata impiegata, quali risultati sono stati conseguiti
in virtù del suo impiego, qual è stato il percorso argomentativo che ha con-
sentito di conseguirli (e si può incidentalmente notare che questo approc-
cio incentrato sull’argomentazione si è ormai oggi esteso ben al di là delle
norme a fattispecie aperta). L’approccio argomentativo concretizza quindi
la portata dell’abuso in relazione al caso di specie, e l’argomentazione in-
dividua, costruendolo, l’ambito di operatività dell’abuso; donde una fisio-
logica mobilità del contenuto operativo dell’abuso, dovendo essere pensato
e ripensato in ragione non soltanto del caso da decidere, ma degli effetti
prevedibili, auspicabili o no, positivi o no, rispetto alla medesima cornice
argomentativa, dei rischi, delle reazioni suscitate all’interno della comunità
scientifica, delle tendenze giurisprudenziali già in atto o probabili: ne deri-
va pertanto che la peculiarità dell’approccio argomentativo sta in ciò, che
la possibilità, perché una determinata soluzione si affermi, è interamente
rimessa alla individuazione di quelle che abitualmente si chiamano ‘buone
ragioni’, e che sono tali appunto se sono sufficientemente solide (una soli-
dità, non dovrebbe essere neppure il caso di precisarlo, storicamente giusti-
ficabile in termini teorici e non soltanto descrittivi; una solidità – questo è
aspetto centrale – che come tale non può meccanicamente derivare dal testo
della disposizione44 che evochi, o anche disciplini, l’abuso medesimo)45, in

44
  Ma v. Francesco Benatti, Una riflessione sul rapporto tra dottrina e giurisprudenza
(saggio in corso di pubblicazione e che grazie alla cortesia dell’autore ho potuto leggere in an-
teprima), il quale (almeno tendenzialmente) accosta l’impiego dell’abuso del diritto «a un’opera
di manipolazione del vero senso della norma» (p. 9).
45
  N. Lipari, I civilisti e la certezza del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, p. 1115
ss., riprendendo un rilievo di Luigi Caiani, ha giustamente ribadito la critica all’«ipostasi po-
sitivistica che non consente il superamento del dualismo soggetto-oggetto e che si articola su
tre dogmi fondamentali: l’unicità della fonte di qualificazione giuridica, la prevalenza della
norma generale ed astratta rispetto alla molteplicità delle situazioni empiriche, che l’esperienza
prospetta e la necessaria subordinazione all’attività del legislatore della funzione di coloro che
applicano il diritto» (p. 1120). Qui naturalmente il punto è soprattutto quello della certezza
del diritto sotto il profilo della legittimità di un determinato uso del diritto. Fino a che punto,
dunque, il testo tollera un uso orientato al contesto? La questione, come subito emerge, certo
non riguarda soltanto il ristretto ambito giuridico, e anzi il giurista con notevole profitto ben
potrebbe ripercorrere ciò che sul punto la contemporanea teoria letteraria ha elaborato – e
dicendo questo penso soprattutto a Francesco Orlando, feroce critico del postmodernismo e
del decostruzionismo; il quale sottolineò la profonda eticità insita nella ricerca del significa-
to oggettivo (storicamente oggettivo) dei testi: perché il mancato rispetto del testo, che non
dicendo oggettivamente nulla può dire soggettivamente tutto (per virtù, o piuttosto nequizia,
d’interpretazione), si può trasferire sul mancato rispetto delle stesse persone. Ora, mi sembra
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 179

vista dell’accettazione da parte della comunità dei giuristi, cui è rimesso il


giudizio ultimo sugli usi professionali del diritto.
In questa chiave è stato molto suggestivamente affermato46 che la de-
cisione, non solo in ambito giuridico ma oggi anche in ambito scientifico
(ambito, inteso proprio con specifico riferimento alle scienze dure), non è
(più) vincolata alla logica formale, perché si tratta al contrario di fondare la
decisione su criteri di ragionevolezza che vertono sulla maggiore o minore
desiderabilità o preferibilità dei vari scopi e dei vari esiti che verrebbero a
prodursi all’interno della disciplina, appunto sulla base delle scelte argo-
mentative adottate.

pertinente il rilievo che, se è ben possibile (e anche utile e opportuno, se non altro in chiave di
ricostruzione di storia del pensiero giuridico e della cultura giuridica – termini, come è noto,
nient’affatto sovrapponibili e che anzi risalgono a una esplicita polemica tra Grossi e Tarel-
lo, che ancora oggi prosegue, pur, mi pare, tendenzialmente sottotraccia, e sulla quale, allora,
sarebbe interessante ritornare) conoscere ciò che il legislatore (ma discorso analogo va allora
fatto anche per la giurisprudenza) ha inteso ‘dire’ e ‘fare’, emanando una determinata discipli-
na [in tema di originalismo cfr. ora lo scritto di G. Romeo, To be or not to be: le prospettive
dell’interpretazione costituzionale della Corte Suprema degli Stati Uniti dopo la morte di Justi-
ce Antonin Scalia, pp. 1-6, in AIC – Osservatorio costituzionale, n. 1/2016 (20 febbraio 2016),
http://www.osservatorioaic.it/to-be-or-not-to-be-le-prospettive-dell-interpretazione-costitu­
zionale-della-corte-suprema-degli-stati-uniti-dopo-la-morte-di-justice-antonin-scalia.html, la
quale peraltro ben chiarisce come, «[s]ul piano dei canoni dell’interpretazione costituzionale,
Scalia difende[sse] una sua versione dell’originalism, non riuscendo ad essere del tutto identi-
ficabile con il pensiero originalista. Egli non predicava tanto il recupero puntuale dell’original
intent, quanto piuttosto la necessità di riferirsi al significato originale dei termini della Co-
stituzione. Le sue tesi poggiavano dunque su un testualismo di matrice storica, radicato cioè
in una ricostruzione di significati illuminata dai padri fondatori», p. 5), l’interprete troverà di
fronte a sé, sempre e comunque, il mobile spazio del contesto, cioè della società, cioè della
realtà, cioè della vita in carne e ossa, rispetto al quale mobile spazio, né il testo come tale, né il
testo interpretato fedelmente e restrittivamente in senso conforme all’intenzione originaria po-
trà svolgere un significativo ruolo applicativo; perché se è vero che l’opera letteraria non parla
solo di sé stessa ma parla comunque del mondo, pur letto con gli occhi dell’autore (e dunque
è fondatissima – e basti qui richiamare ancora una volta il glorioso nome di Erich Auerbach –
il disvelamento del canone, del o dei codici attraverso attraverso cui l’opera letteraria esprime,
filtrandola, la realtà), l’opera giuridica, intesa soprattutto come regola casistica (tema avvin-
cente è quello del recente passaggio dalla centralità della legge generale e astratta alla regola
del caso concreto, in sostanza connotante la fase del postmodernismo giuridico à la Grossi),
vive nel caso concreto; la legge dunque come seme (per usare un’immagine azzeccatissima di
T. Ascarelli, Scienza e professione, cit., c. 86) da cui, per virtù d’interpretazione, si diparte
la pianta del diritto, che del resto è ciò che serve alla società quale ordine vivente dei rapporti
sociali. Detto ancora altrimenti, la prescrizione generale e astratta è un alfabeto giuridico, che
per diventare linguaggio giuridico e perché l’utilizzo di questo linguaggio giuridico conduca
a un collegamento tra diritto e mondo abbisogna dell’opera dell’interprete, che, diversamente
da quanto accade in riferimento a un testo letterario, diventa co-autore del testo medesimo,
così legittimando quelle che, con linguaggio filologico, potremmo chiamare varianti d’autore.
46
  Cfr. ancora V. Villa, Il diritto come modello per le scienze naturali, cit., passim, ma spec.
p. 39.
180 Mauro Grondona

L’aspetto decisivo è il seguente: il fatto che una decisione non abbia un


esito unicamente determinabile su basi logiche non inficia affatto la natura
fondamentalmente razionale47 (una razionalità da leggersi in funzione della
sua ragionevolezza48) della decisione. E dunque, in questa prospettiva, il
compito del giurista non consiste nel risolvere il problema che gli sta di
fronte andando a cercare una casella (la fattispecie astratta) da riempire con
il fatto, ma consiste nella ricerca del criterio o dei criteri, tecnici certamente
ma soprattutto storicamente più opportuni, cioè più solidi, per giustificare
la decisione, cioè la scelta di una soluzione.
8.  Il diritto come pratica sociale
Il che apre il campo all’idea del diritto come una pratica sociale guidata
da regole, una pratica sociale normativa49, e cioè all’idea che la soluzio-
ne specifica va costruita in funzione di un risultato; non si tratta però di
una soluzione, se si può dir così, né di carattere autoritario, né imposta
dall’auctoritas, pur legittima, di chi enuncia quella soluzione e dunque di
chi decide, perché si tratta invece di una soluzione che è prescelta proprio
perché è favorita dal contesto storico (la prospettiva è certamente quella di
uno storicismo ermeneutico à la Auerbach) all’interno del quale è pensata.
Un contesto che è duplice: c’è bensì un contesto ristretto, come è quello
dei giuristi, ma tale contesto è saldamente connesso (e non potrebbe non
esserlo) con il contesto più ampio, che è appunto il contesto sociale.
In questo modo la soluzione non è mai (e nemmeno potrebbe esserlo)
un a priori, e quindi non è autoreferenziale e non è autoritaria, ma è un a po­
steriori storicamente ricostruibile dall’interprete, che, anzi, ha il dovere direi
professionale se non etico di ricostruirlo, a partire dal passato (che, pensando
ancora a Auerbach, diventa «archeologia del presente»), per appunto giunge-
re così al presente, e cioè inevitabilmente interrogando il presente in termini
rinnovati di fronte a ogni nuova esigenza di giudizio, cioè di decisione.
Questo a posteriori è il prodotto della decisione, che viene pertanto ine-
vitabilmente pensata a partire da un contesto assiologico di riferimento, che
non può essere configurato come qualcosa di esterno alla norma, perché,
invece, proprio tale contesto assiologico è il terreno sul quale, diciamo così,
la norma retroagisce e diventa operativa.
Aggiungerei una notazione: poiché il diritto di oggi, italiano, europeo,

47
  Ibidem, pp. 39-40.
48
  In tema v. ora ampiamente G. Perlingieri, Profili della ragionevolezza nel diritto civile,
Napoli, ESI, 2015.
49
  Cfr. V. Villa, Il diritto come modello per le scienze naturali, cit., p. 41.
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 181

transnazionale fa un massiccio impiego di quelle nozioni che sono state


qualificate ‘essenzialmente contestabili’50, in quanto, come tali, rifiutano il
criterio del vero/falso, e che dunque, quanto al contenuto, possono essere
difese o contestate appunto solo sulla base delle buone ragioni già richia-
mate più sopra, all’interno di questo panorama è veramente stupefacente
che ci sia ancora freddezza, quando non dissenso, circa la necessità di una
innovazione metodologica ma soprattutto di un arricchimento metodolo-
gico, volto ad acquisire familiarità con strumenti, concetti e tecniche diver-
se da quelle del civilista tradizionale.
Se si rifiuta una seria apertura metodologica, non solo la nostra capacità
di comprensione ma soprattutto la nostra disponibilità all’ascolto e quin-
di al dialogo è messa in scacco, travolta da un unilateralismo prospettico
sempre falsante51.
Esattamente in questa prospettiva, se andiamo al cuore della critica
rivolta contro l’impiego del principio dell’abuso del diritto (più volte si
è fatto sarcastico riferimento agli usi abusivi dell’abuso del diritto)52, ve-
diamo che alla fin fine il punto dirimente è: se diamo ingresso a questo
principio il rischio, e agli occhi dei critici questo rischio è assai prossimo
a una certezza, sarà che consegneremo al giudice, cioè alla sua incontrol-
labile discrezionalità, il compito di riassestare il regolamento contrattuale
e quindi l’economia della pattuizione contro il programma condiviso dalle
parti, contro la volontà consacrata nel regolamento contrattuale53.
Ma allora il problema centrale che l’abuso pone, non attiene per nulla
alla legittimità o alla illegittimità di ricorrervi, perché l’abuso del diritto è
già (e non da oggi) una realtà, e certamente non soltanto italiana54; quindi,

50
  Cfr. V. Villa, Una teoria pragmaticamente orientata dell’interpretazione giuridica, Torino,
Giappichelli, 2012, spec. p. 22.
51
  Cfr. G. Alpa, Appunti sul divieto di abuso del diritto in ambito comunitario e sui suoi
riflessi negli ordinamenti degli Stati Membri, in Contr. impr., 2015, p. 245 ss., il quale conclu-
sivamente auspica «una revisione degli schemi tradizionali, senza preclusioni dogmatiche e con
spirito di cooperazione al dialogo […]» (p. 261). Cfr. anche G. Cazzetta, Pagina introduttiva,
in Quad. fior., 44 (2015), t. I, p. 1 ss.
52
  Cfr. ad esempio C. Salvi, Note critiche in tema di abuso del diritto e di poteri del giudice,
in Riv. crit. dir. priv., 2014, p. 27 ss.
53
  Cfr. per tutti A. Gentili, Il diritto come discorso, Milano, Giuffrè, 2013, Capitoli 4 e 5,
p. 401 ss.
54
  Penso qui soprattutto al dibattito francese, sul quale v. J.-S. Borghetti, L’abuso del diritto
in Francia, in Contr. impr., 2015, p. 847 ss. Ma anche in Francia, esattamente come da noi, c’è una
dottrina più scettica e una giurisprudenza più aperta all’impiego dell’abuso del diritto. Ci si lamenta
spesso della vaghezza dell’abuso del diritto, ci si lamenta del fatto che non si riesca, o forse non sia
nemmeno possibile, a darne una definizione esaustiva (che è un’altra cosa dal darne una razionaliz-
zazione, che invece è certamente possibile), e allora si cerca di restringere la portata del principio an-
182 Mauro Grondona

una critica realistica non può essere impostata come se l’abuso fosse uno
strumento indebito, forse addirittura capriccioso, che andrebbe margina-
lizzato: il problema centrale riguarda invece e unicamente il controllo del
ragionamento del giudice, quindi il problema applicativo, e dunque il pro-
blema interpretativo – e d’altronde oggi più che mai il diritto è interpre-
tazione, argomentazione, costruzione ermeneutica. E ciò si dice tenendo
sullo sfondo l’idea, che mi sembra persuasiva, per cui il prodotto inter-
pretativo, e quindi l’interpretazione non come attività ma come prodotto,
è un misto di descrizione di un diritto esistente e di creazione di nuovo
diritto; se non altro perché i problemi interpretativi autentici sono tali solo
quando ci sia una controversia da risolvere, un conflitto non meramente
immaginato ma effettivamente esistente.
Ecco che allora, da questo punto di vista, l’impostazione per cui si trat-
terebbe di capire se nel nostro ordinamento esista o no un principio ge-
nerale dell’abuso del diritto, oppure se, invece, esistano soltanto specifici
rimedi che hanno bensì, come ratio, quella di evitare condotte abusive, ma
che sono appunto rimedi specifici e quindi fattispecie circoscritte (un’im-
postazione che in particolare suggestivamente distingue tra prospettiva
estroversa e prospettiva introversa)55, non sembra inattaccabile, proprio
perché si sforza di tenere distinti due ambiti, quello strettamente normativo

corandolo a parametri soggettivi o oggettivi, mancando i quali l’operatività del principio è impedita.
E la conseguenza è che, al più, l’abuso del diritto potrà servire per colmare le lacune dell’ordina-
mento, svolgendo così una funzione sussidiaria, suppletiva, appunto circoscritta, residuale, come se
si trattasse, in sé, di un qualcosa di incontrollabile e pericoloso, anche se a ben vedere indispensabile,
e ciò per ragione di generale funzionalità del sistema giuridico e di quello sociale.
Quello che quindi spiace, in Francia come da noi, è in sostanza il fatto che l’abuso del di-
ritto non possa essere ricondotto, se si preferisce: ingabbiato, in una fattispecie a strette maglie
normative.
Ma il giurista contemporaneo dovrebbe essere persuaso del fatto che le valutazioni diciamo
pure etico-politiche non solo gli sono irrinunciabili, ma soprattutto gli spettano, e quindi il
giurista non può sottrarsi a questa responsabilità, che inevitabilmente è anche una responsabilità
sociale, collettiva, diciamo una responsabilità istituzionale in senso proprio, perché da questo
punto di vista il giudice è certamente e nel senso più forte e pieno un fattore istituzionale.
E allora anche in Francia, se guardiamo al rapporto tra dottrina e giurisprudenza in tema di
abuso di diritto e anche in tema di buona fede (posto che la buona fede e abuso del diritto stanno
in rapporto di prossimità non tanto perché l’uno è un principio e l’altra una clausola generale,
ma perché entrambi sono strumenti tecnici che pongono al centro dell’ordinamento giuridico e
dell’ordine giuridico l’interprete e quindi la sua responsabilità politica intesa nel senso migliore
del termine), la giurisprudenza mostra segnali significativi che può essere opportuno riprendere
ed esaminare, come bene mostra l’altrettanto attuale dibattito in tema di prerogative contrattuali
e deontologia contrattuale: cfr. in particolare L. Aynès, Vers une déontologie du contrat?, https://
www.courdecassation.fr/IMG/File/deontologie_contrat_11_05_06_aynes.pdf, pp. 1-9.
55
  Cfr. M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teleologi­
camente orientata del traffico giuridico, in Riv. dir. civ., 2014, p. 467 ss.
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 183

e quello extranormativo, cioè sociale, economico, etico, politico in senso


ampio, che sono fortemente interconnessi, perché la soluzione accettabi-
le, o, se si vuole, corretta, di una controversia è la soluzione conforme a
quella che Ronald Dworkin ha chiamato la background political morality,
traducibile in termini di principi della morale politica di fondo sottesa alle
pratiche del diritto positivo, di ogni diritto positivo56.
Se si condivide questa prospettiva, la radicale separazione del diritto
inteso come sistema di fattispecie dal contesto sociale rispetto al quale il
diritto andrà applicato per rispondere a domande di giustizia parrebbe ar-
tificiale; e si tratterebbe di una separazione che in particolare non aiuta la
pratica del diritto, intesa qui soprattutto come lavoro ermeneutico dell’in-
terprete, e in particolare del giudice, di fronte al caso concreto.
Naturalmente, e proprio in chiave teorica, c’è un problema che biso-
gna tenere in conto e che del resto fa capire immediatamente le ragioni
per cui una significativa parte della civilistica è, se non altro, cauta nei
confronti dell’abuso del diritto. Il problema è il seguente: attraverso un
massiccio uso dei principi generali e delle clausole generale c’è il rischio
(ma può trattarsi al contrario di elemento fecondo) di una trasformazione
dall’interno del diritto stesso, un diritto inteso in particolare come ordi-
ne giuridico, e dunque il rischio maggiormente paventato è quello di una
trasformazione per via giudiziale del codice civile, una riforma del diritto
a trazione giurisprudenziale e non a trazione legislativa57 (e la discussione
può in qualche modo richiamare quella, filologica, vertente sull’emendatio
ope ingenii ovvero ope codicum).
9.  La lezione di Tullio Ascarelli
Prestare attenzione alla dimensione teorica è dunque indispensabile,
perché sullo sfondo sta una questione non soltanto decisiva, ma direi so-

56
  Cfr. P. Chiassoni, Positivismo giuridico, in G. Pino, A. Schiavello, V. Villa (a cura di),
Filosofia del diritto. Introduzione critica al pensiero giuridico e al diritto positivo, Torino, Giap-
pichelli, 2013, p. 32 ss., alle pp. 64-65; il quale prosegue: «Tale soluzione, si badi, non può essere
‘scoperta’, così come si scoprono giacimenti petroliferi o cave di marmo; non può essere letta
nelle pagine del ‘libro segreto’ del diritto, che esiste soltanto nell’immaginazione degli ingenui;
può soltanto essere argomentata: sostenuta dalla ‘migliore’ combinazione di argomenti accettabili
da giuristi ragionevoli e informati, secondo le modalità tipiche delle argomentazioni in diritto e in
morale, non dimostrative o stringenti, ma persuasive. […] Quando si ricorre ad argomentazioni
siffatte, quando s’invocano i princìpi della morale politica di fondo, al fine di stabilire ciò che
il diritto è, ciò che esso prescrive, viene fatalmente meno ogni distinzione tra il diritto qual è e
il diritto quale deve essere: la soluzione corretta per un caso difficile è infatti, al tempo stesso,
quella che rispecchia ciò che il diritto è e deve essere» (corsivo orig.).
57
  Cfr. F. Galgano, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, in Contr. impr., 2011, p. 311 ss.
184 Mauro Grondona

prattutto non risolvibile di per sé, e che proprio per questa ragione dovrà
essere soggetta a un costante ripensamento teorico: mi riferisco alla conci-
liazione di due elementi, sempre presenti nel momento interpretativo ma
soprattutto presenti quando si ha a che fare con principi o con clausole
generali: come si può conciliare la creazione di nuovo diritto (creazione
che va di pari passo con l’interpretazione) con l’esigenza della continuità
interpretativa? come si fa a evitare che il discontinuo tendenzialmente pre-
valga sul continuo? Questione, appunto, in linea teorica irrisolvibile, ma al
contempo questione che non solo potrà, ma dovrà, essere risolta in linea
pratica, situandosi l’interprete all’interno del flusso storico e adottando-
si un approccio storicista58; in questa prospettiva l’attenzione andrà così
portata anche su alcuni fattori decisivi al fine di indirizzare in un senso o
nell’altro il percorso di soluzione, cioè verso la linea del continuo oppure
verso quella del discontinuo: ad esempio, se la comunità dei giuristi è mol-
to compatta, se il metodo di lavoro è fortemente condiviso, è ovvio che le
voci dissonanti, voci dottrinali e a maggior ragione voci giurisprudenziali,
saranno, o espunte, o ricondotte all’ortodossia.
Ponendo questo interrogativo evoco nuovamente un giurista il cui pen-
siero andrebbe oggi analiticamente ripreso e rimeditato: Tullio Ascarelli59.
Non è dubbio che al centro dell’intera riflessione ascarelliana stia l’in-
terpretazione, come attività e come risultato; non è dubbio che la cultura e
la sensibilità di cui egli era straordinariamente provvisto lo portassero ben
lontano da posizioni formaliste; e tuttavia Ascarelli (e questa sua preoccu-
pazione è un elemento molto istruttivo e da non mettere in ombra, quando
si rifletta su un principio come quello dell’abuso del diritto) non ha mai
condiviso approcci sostanzialisti ed equitativi60, che mirano ad assicurare,
di fronte al caso concreto, appunto la giustizia sostanziale; concetto troppo
sfuggente e soprattutto difficilmente controllabile.

58
  V. il rilievo di P. Grossi, Per ripensare le fonti del diritto, cit., p. 1048: «All’immagine, cara
ai nostri vecchi, di un diritto connotato da astrattezza e purezza, certo e stabile nella pietrosità
dei testi normativi, si è andato sostituendo, in questo nostro tempo pos-moderno, un diritto
incerto ed estremamente mobile, che è giocoforza qualificare – a causa del suo mescolarsi con
la bassa corte dei fatti – anche impuro, da taluno spregiativamente, da un giurista/storicista con
qualche sollievo».
59
  È qui sufficiente rinviare a M. Stella Richter jr., voce «Ascarelli, Tullio», in Diz. biogr.
giuristi italiani, vol. 1, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 108-111, con amplia bibliografia.
60
  Cfr. spec. M. Stella Richter jr., La dottrina commercialistica italiana e Mario Libertini
(dattiloscritto inedito che ho potuto conoscere grazie alla cortesia dell’autore). Molto critico di
un potere del giudice che è tale in vista della ricerca dell’equità del caso singolo, proprio «per-
ché è questa la sostanza dell’abuso del diritto come principio generale […]» è C. Salvi, Note
critiche, cit., p. 37.
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 185

Si può aggiungere come il suo interesse per la fenomenologia, per i


fenomeni che accadono, per la realtà, non lo abbia mai fatto abbracciare
prospettive nelle quali la soluzione giuridica si appiattisca sulla descrizione
sociologica a danno della comprensione storica61.
Al centro dell’attenzione di Ascarelli c’è quindi il diritto come regola
applicata e cioè interpretata in funzione applicativa; e la preoccupazione di
Ascarelli è quella di elaborare una teoria dell’interpretazione (che in realtà
rimase incompiuta: soprattutto per questa ragione tornare a occuparsi di
Ascarelli mi pare oggi indispensabile e urgente) che guardi all’interprete,
ovvero al giurista, come al soggetto maggiormente idoneo ad accompagna-
re uno sviluppo del diritto bensì non traumatico, ma, in quanto sviluppo,
intrinsecamente innovativo; si può peraltro rilevare come anche lo sviluppo
traumatico ben possa essere storicamente necessitato, e ciò accade quando
la soluzione giuridica nuova segni sì una rottura con il passato, con l’orien-
tamento finora prevalente, innovando i paradigmi del giurista, ma allora, a
ben vedere, anche questa apertura al discontinuo è poi più apparente che
reale, nel senso che la soluzione di rottura, nel momento in cui è adottata
(ed è adottata esattamente per questa ragione), è comunque in grado di rac-
cogliere un consenso significativo e duplice: generale, da parte della società;
particolare, da parte della comunità dei giuristi. Se è così, significa però che
si tratta di soluzione storicamente fondata, e certamente più prossima alla
continuità che non alla discontinuità.
10.  Conclusioni
Naturalmente questo approccio impone al giurista uno sforzo e un
lavoro diretti all’analisi minuziosa (che non consiste in una asettica de-
scrizione) non solo dei fatti sociali, ma dei fatti che sono lo sfondo, anzi
l’origine, della controversia, e un’analisi altrettanto minuziosa del ragio-
namento giuridico nella consapevolezza però (che Ascarelli ha espresso in
modo trasparente) che al fondo della decisione (e si tratta di un elemento
di ulteriore complicazione teorica, se non altro perché può sembrare un
punto di frizione proprio rispetto alla visione continuista) c’è in sostanza
l’ideologia degli interpreti e in un senso ancora più ampio il loro modo di

61
  Cfr. T. Ascarelli, Nota (*), in Id., Problemi giuridici, t. 1, Milano, Giuffrè, 1959, p. VIII:
«Se in questi saggi si vuole trovare un avvertimento metodologico, questo è proprio un avverti-
mento contro il decisionismo equitativo; è un richiamo all’argomentazione e all’analisi, richiamo
che, sotto questo aspetto [,] può dirsi agli antipodi delle tendenze irrazionalistiche; è un richiamo
all’autonomia dell’argomentazione giuridica e all’insuperabile eterogeneità tra concetti economici
e giuridici, all’impossibilità di dedurre la valutazione giuridica dalla realtà o natura dei fatti e così
agli antipodi del sociologismo in quanto questo non sia più storicismo».
186 Mauro Grondona

vedere le cose, quindi le concezioni del mondo, le quali però non potranno
non essere influenzate da ciò che storicamente accade62 (e questo elemento
va certamente letto nel senso continuista).
Il lavoro teorico mette spesso di fronte all’esigenza, pur magari in-
consapevole, di abbandonare certi schemi di ragionamento; e non per-
ché, come tali, non siano nobilitati da una tradizione culturale illustre
(basti pensare al negozio giuridico, alla visione non contrattuale del ma-
trimonio, o, peggio ancora, al matrimonio come vincolo giuridico esclu-
sivamente tra una donna e un uomo), ma per la ragione spiccatamente
pratica che non hanno più una sufficiente capacità esplicativa; sono stru-
menti di lavoro che non servono al giurista del nostro tempo perché,
impiegandoli, non riesce a fornire una spiegazione soddisfacente della
contemporaneità63.
La ragione del successo giurisprudenziale dell’abuso del diritto e le mo-
dalità operative, diciamo le tecniche di gestione, dell’abuso del diritto, allo-
ra, andranno prima di tutto trovate riflettendo sul contesto storico-politico
della contemporaneità (una contemporaneità necessariamente transfronta-
liera e transnazionale).
Da questo punto di vista, mi sembra che un elemento centrale su cui
riflettere possa essere la relazionalità, o, meglio, la dimensione relazio-
nale64 non solo tra persone ma tra spazi fisici e culturali dell’esistenza
umana, oggi così accentuata da non poter non trovare sbocchi anche
nell’ambito giuridico, che spesso si autorappresenta come ricettore cauto
dell’alterità.
La dimensione relazione ha molto a che fare con la libertà personale,
con la libertà della persona, diciamo in senso molto ampio, di autodeter-
minarsi.
E qui si configurano almeno due approcci, non collimanti.
Prima facie si può dire: il mettere l’accento sulla libertà della persona e
il guardare con favore all’espansione della libertà della persona va verosi-
milmente tradotto nel senso di restringere gli spazi relazionali delle e tra

62
  Cfr. Id., Nota (*), cit., p. IX: «[C]redo possibile intendere la storia del pensiero giuridico
non già come disputa sull’eccellenza di questo o quel criterio, ma come sforzo nella sempre più
precisa consapevolezza dell’esperienza giuridica e come formulazione di criteri per lo sviluppo
del diritto, intellegibili solo nel quadro di uno sviluppo storico, nel contesto di strutture econo-
miche, abitudini, tradizioni, credenze, speranze».
63
  Cfr. D. Canale (a cura di), Interpretare il diritto in un mondo in trasformazione. Rifles­
sioni su La comprensione del diritto di Giuseppe Zaccaria, in Riv. fil. dir., 2015, p. 53 ss.
64
  In generale cfr. G. Jervis, Contro il sentito dire. Psicoanalisi, psichiatria e politica, a cura
di M. Marraffa, Torino, Bollati Boringhieri, 2014.
Il problema dell’abuso del diritto tra tecnica e politica del diritto 187

le persone, ampliando al contrario la dimensione atomistica, forse anche


egoistica, dell’individuo65.
Ma c’è anche un altro modo di guardare alla cosa, e lo si può fare pen-
sando in sostanza che l’ampliamento della libertà individuale, delle libertà
individuali, diciamo pure degli spazi di sovranità individuale, comportino,
in parallelo, un ampliamento e non una restrizione degli spazi di interrela-
zione; una interrelazione che, beninteso, potrà anche assumere la forma del
conflitto; ma il conflitto può essere, e spesso è, strumento di promozione
della libertà.
Il che necessariamente significa che le relazioni, e quindi anche le rela-
zioni giuridicamente connotate, si intensificano, e, intensificandosi, richie-
dono nuovi strumenti di lettura, di analisi e di comprensione. Strumenti
che siano tra l’altro sufficientemente duttili, cioè suscettibili di adattarsi a
una interrelazione molto veloce nei movimenti e anche molto veloce nei
mutamenti66.
Si tratta di una relazionalità che non riguarda naturalmente solo le per-
sone, ma anche le cose, i concetti, le prospettive, gli approcci, e quindi
incide profondamente anche sul nostro modo di pensare e quindi di agire
e di interagire.
Ecco perché la flessibilità dei principi, e in particolare di un princi-
pio quale l’abuso del diritto (ma lo stesso discorso va senz’altro fatto, ad
esempio, per la ragionevolezza), dal punto di vista tecnico ha il vantaggio
di consentire all’interprete quegli spazi di manovra che invece potrebbero
essere considerate delle ‘forzature dogmatiche’ – produttive di discontinui-
tà applicative – se si vuole rimanere fedeli, al di là delle esigenze storiche, al
paradigma classico della fattispecie67; ma, appunto, se cambiamo paradigma
e ragioniamo a partire dai principi e ci interroghiamo sulla loro operativi-
tà68, allora la conclusione può invece essere nel senso che questi margini di
manovra dell’interprete non hanno nulla di eversivo, esprimendo sempli-
cemente le modalità attuative del principio stesso: sono le sue condizioni
d’uso, sono, se vogliamo, le sue precauzioni per l’uso69. Cambiando la base

65
  Cfr. in tema P. Barcellona, Diritto senza società. Dal disincanto all’indifferenza, Bari,
Dedalo, 2003.
66
  Cfr. le suggestive chiavi di lettura che si rinvengono in C. Rovelli, Sette brevi lezioni di
fisica, Milano, Adelphi, 2014, spec. p. 29 (la realtà è solo interazione) e p. 62 (la natura dei concetti
che usiamo per mettere in ordine il mondo è profondamente relazionale)
67
  Cfr. Francesco Benatti, Una riflessione, cit., a favore, e N. Lipari, I civilisti, cit., contro.
68
  Cfr. in senso più critico che non adesivo G. D’Amico, in Giust. civ.,
69
  In generale cfr. G. Pino, L’abuso del diritto tra teoria e dogmatica (precauzione per l’uso),
http://www1.unipa.it/gpino/Pino,%20Abuso%20del%20diritto.pdf, pp. 1-44.
188 Mauro Grondona

materiale delle cose e dei rapporti, cambiando i paradigmi, cambiano le


domande da formulare, e cambiano gli strumenti per rispondere: anche il
lavoro del giurista deve cambiare: resistere, in questo caso, è socialmente
dannoso.
Naturalmente non sto dicendo che ogni problema possa essere risolto
in questo modo, né sto dicendo che non sia opportuna una discussione,
anche accesa, su questi temi; ma altrettanto naturalmente direi che anche
la posizione di sospetto, se non di pregiudiziale rifiuto, di cui sono non
raramente destinatari i principi generali, è debole perché antistorica.
Michele Taruffo
L’abuso del processo

Sommario:  1. Un dubbio introduttivo. – 2. Atto illecito e atto abusivo. – 3. Libertà


o abuso? – 4. Buona fede, lealtà e probità. – 5. I «valori del sistema». – 6. Un dubbio
conclusivo.

1.  Un dubbio introduttivo


Tutte le volte che mi viene proposto di dire qualcosa sull’abuso del
processo mi trovo in difficoltà: una difficoltà crescente col tempo perché
col tempo – e soprattutto negli ultimi anni – questo argomento ha co-
nosciuto e continua a conoscere una sorta di esplosione che si è manife-
stata nella pubblicazione di monografie anche importanti1, di un numero
elevato di articoli di dottrina2, e in convegni come quello di Urbino del
20113. All’esplosione partecipa anche la giurisprudenza, non essendo pochi
i giudici, inclusa la Corte di cassazione, che si dedicano alla caccia delle
fattispecie anche più rare di abuso del processo4. Non si può poi escludere
che all’esplosione partecipi pure il legislatore, almeno se si assume l’ipotesi
(in realtà ottimistica, nonchè dubbia) che il mitico personaggio disponga
di una volontà minimamente coerente di migliorare, colpendo gli abusi,
l’efficienza del processo civile5. Pare dunque che si stia diffondendo a tutti
i livelli una sorta di ondata di moralismo – non so quanto autentico e
quanto consapevole – che mira, sembrerebbe, ad interpretare il processo

1
  Cfr. in particolare Cordopatri, L’abuso del processo, I e II, Padova, 2000; Ghirga, La
meritevolezza della tutela richiesta. Contributo allo studio dell’abuso dell’azione giudiziale, Mi-
lano 2004; Id., Abuso del processo e sanzioni, Milano 2012, e da ultimo Tropea, L’abuso del
processo amministrativo. Studio critico, Napoli 2015 e Asprella, Il frazionamento del credito
nel processo, Bari 2015.
2
  Cfr. tra i molti Comoglio, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv.dir.proc.
2008, p. 319 ss.; Dondi, Abuso del processo (diritto processuale civile), in Enc.Dir., Annali III,
Milano 2010, p. 1 ss.; Ansanelli, Abuso del processo, in Dig. disc. priv., Sez.civ. , agg.III, 1, Tori-
no 2007, p. 1 ss.; Taruffo, Elementi per una definizione di abuso del processo, in Diritto privato,
III, Padova 1997, p. 435 ss.; Id., L’abuso del processo: profili comparatistici, ivi, IV, 1998, p. 496 ss.
3
  Gli atti del convegno sono pubblicati con il titolo L’abuso del processo, Bologna 2012.
4
  V. da ultimo l’ampia analisi di Ghirga, Recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in
tema di abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2015, p. 445 ss.
5
  Per questa ipotesi v. infatti Ghirga, op.ult.cit., p.457 ss.
190 Michele Taruffo

come una specie di elegante balletto tra gentiluomini piuttosto che come
una contesa dialettica, eventualmente anche dura, finalizzata alla vittoria
nella soluzione di una controversia. Risulta impossibile dar conto di tutto
ciò in poche parole o in poche righe; debbo quindi limitarmi a qualche
considerazione di ordine generale.
Una prima considerazione nasce dalla perplessità che non riesco a supe-
rare di fronte a questo fenomeno. Questa perplessità nasce da un dubbio
circa la stessa esistenza o autonoma configurabilità di ciò che chiamiamo
«abuso del processo». Se si parte, ad esempio, dall’idea di Calamandrei del
«processo come gioco»6, o dalla concezione di Roscoe Pound della sporting
theory of justice7, oppure –venendo ai nostri giorni – dall’interpretazione
che Vincenzo Ferrari offre del processo come un war game in cui «la
strategia processuale induce … gli attori a interpretare il loro ruolo col
massimo possibile di libertà e sfruttando ogni opportunità per compiere
le loro mosse»8, possiamo essere indotti ad interpretare il processo come
una competizione tra due soggetti, il cui svolgimento è disciplinato –non
di rado in maniera assai analitica – dalle «regole del gioco». Sono queste
le regole che stabiliscono quali mosse (pensiamo ad esempio agli scacchi)
sono consentite in quanto «costituiscono» il gioco, e stabiliscono anche
le sanzioni (pensiamo al baseball di cui parla Pound) che si applicano a
coloro che violano queste regole. Nel processo, come sappiamo, vi sono
regole specifiche che disciplinano il modo, il tempo e il contenuto di singoli
atti, nonché le attività che spettano ai vari soggetti (giudice, parti, e così
via), ed inoltre configurano le sanzioni (nullità, annullabilità, preclusioni,
risarcimento dei danni) che debbono essere applicate quando queste regole
vengono violate o non sono applicate validamente9. Senza eccedere con le
metafore ludiche, rimane evidente che questa interpretazione del processo
e delle sue regole ha un senso profondo, ma produce due conseguenze
rilevanti.
La prima conseguenza è che –per citare Goldschmidt10 – il processo non

6
  Cfr. Calamandrei, Il processo come gioco, in Id., Opere giuridiche, I, Napoli 1965, p.
537 ss.
7
  Cfr. Pound, The Spirit of the Common Law, Francestown, NH, rep. 1947, p. 125. Su
questa concezione v. Taruffo, Il processo civile «adversary» nell’esperienza americana, Padova
1979, p.12, 18, 123 ss.
8
  Cfr. Ferrari, Etica del processo: profili generali, in Etica del processo e doveri delle parti,
Bologna 2015, p. 23.
9
  In argomento v. da ultimo Menchini, Principio di preclusione e autoresponsabilità proces­
suale, in Etica del processo, cit., p. 116 ss.
10
  Cfr.Goldschmidt, Der Prozess als Rechtslage: eine Kritik der prozessualen Denkens,
Berlin 1925, p.292. Può essere, come sottolinea Carratta, che la tesi di Goldschmidt sia rimasta
L’abuso del processo 191

è un luogo in cui valgono regole morali, sicchè nessun comportamento


processuale può essere oggetto di valutazione etica, essendo più che suffi-
cienti le regole giuridiche che lo disciplinano. In proposito si può osservare
che in vari ordinamenti è la legge processuale che stabilisce in modo soli-
tamente analitico quali sono i comportamenti che si considerano negativa-
mente in quanto implicano violazioni delle regole del gioco processuale11.
Il nostro ordinamento processuale è molto chiaro al riguardo: basta con-
siderare l’elenco di condotte «scorrette» che sotto il titolo Responsabilità
aggravata è contenuto nei primi due commi dell’art.96 cod.proc.civ., ove
si disciplinano con precisione le varie fattispecie e si indicano le relative
sanzioni (in termini di risarcimento dei danni)12. Di fronte a situazioni
normative di questo genere sorge un dubbio rilevante, ossia l’idea che le
norme in questione probabilmente già contengono una disciplina precisa
delle condotte processuali che si considerano non ammesse, e che quindi
non vi sia alcun bisogno, o alcuna possibilità, di creare altre situazioni che
a queste dovrebbero aggiungersi, per giungere ad una disciplina che si vor-
rebbe «completa», perché assai più ampia, delle condotte processuali che
per qualche ragione si considerano abusive. In altri termini, l’elencazione
contenuta in queste norme potrebbe considerarsi come tassativa, e non
come meramente esemplificativa di qualche principio generale che esiste-
rebbe in qualche luogo dell’ordinamento ma senza essere espressamente
enunciato in alcuna altra norma. Se così fosse, nulla impedirebbe di dire
che tali norme disciplinano fattispecie di abuso del processo, ma si tratte-
rebbe solo di una questione di parole, e non sarebbe possibile individuare
altre ed ulteriori ipotesi di abuso.
Non pare dunque insensato il dubbio che ci si trovi di fronte ad un
fenomeno non infrequente nel discorso dei giuristi, fenomeno che definirei
di «entificazione delle parole». Esso si realizza quando si prende un’espres-
sione linguistica, la si ripete un numero sufficiente di volte, sino a formare
il convincimento che oltre alla parola esista in realtà anche la «cosa» che
tale parola indicherebbe. Per dirla con Gottlob Frege, si tratterebbe di

minoritaria nella dottrina tedesca (cfr. Carratta, Dovere di verità e completezza nel processo
civile, in Etica del processo, cit., p.154 s.) ma non si può negare che essa indichi una prospettiva
spiccatamente realistica e come tale degna di essere presa in considerazione.
11
  Per alcuni esempi v. Taruffo, L’abuso del processo: profili generali, in L’abuso del processo,
cit., p.25 ss.
12
  In argomento cfr. in particolare Cordopatri, L’abuso del processo nel diritto positivo ita­
liano, in L’abuso del processo, cit., p.59 ss.. Per ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza
v. da ultimo Carpi-Taruffo, Commentario breve al codice di procedura civile, VIII ed., Padova
2015, p.309 ss.. Rinvio a più oltre qualche commento sull’attuale terzo comma dell’art. 96, che
pare ispirarsi ad una logica completamente diversa.
192 Michele Taruffo

un’espressione linguistica di cui si cerca di definire il Sinn ma che tutta-


via rimane senza Bedeutung, poiché la sua mera ripetizione non crea dal
nulla la realtà empirica di ciò che l’espressione dice. Nel nostro caso ciò
condurrebbe a dire che la sola circostanza che si parli moltissimo di abuso
del processo non implica affatto che l’abuso del processo esista davvero
(al di là delle ipotesi normativamente previste). Dire che esso esiste «nel
diritto vivente»13 significa quindi che esso esiste nei ripetuti discorsi dei
giuristi, ed in particolare nei discorsi spesso generici e inconcludenti della
giurisprudenza14, ma non si può escludere che esso esista solo in questi
discorsi, che cercano di giustificare decisioni in larga misura extra legem ed
arbitrarie15. Allora il dubbio porta a chiedersi se non sia il caso di applicare
il salutare rasoio di Ockham, ossia la lex parsimoniae per cui entia non sunt
multiplicanda praeter necessitatem. Ci si può dunque chiedere – ma lo farò
più avanti – se vi sia e quale sia, se esiste, la necessitas che giustificherebbe
i discorsi sull’abuso del processo.
2.  Atto illecito e atto abusivo
Per non sentirmi dire che in questo modo tento di eludere un problema
che non sono capace di risolvere, proverò ad immaginare come potrebbe
individuarsi un effettivo abuso «atipico» del processo16 (sempre al di là
delle fattispecie normative specifiche espressamente previste). Un possibile
punto di partenza è nell’accenno che ho appena fatto al processo come
procedimento dialettico le cui «mosse» sono specificamente disciplinate
dalla legge processuale, la quale definisce in modo analitico quali sono le
conseguenze di atti e comportamenti non conformi a questa disciplina, os-
sia quali sono e come vengono sanzionati gli atti e i comportamenti che in
questo modo si configurano come illeciti o invalidi. Va considerato, infatti,
che un atto che non corrisponde al suo tipo normativo è invalido, e quindi
non produce alcun effetto17. A questo punto – però – si incontra qualcosa
di quasi-paradossale, ossia: poiché un atto processuale illecito o invalido è
sanzionato in quanto tale, proprio per questa ragione esso non può essere
considerato – se non a costo di una mera sovrapposizione verbale – anche
come abusivo. Allora l’alternativa è la seguente: o si esclude – ut supra
– che vi sia una sorta di abuso atipico non previsto espressamente dalla

13
  Così Ghirga, op.ult.cit., p.446, 457.
14
  Bastino al riguardo gli esempi più recenti analizzati in Ghirga, op.ult.cit., p.447 ss.
15
  V. in proposito infra, par.6.
16
  Sulla categoria degli illeciti atipici v. Atienza-Ruiz Manero, Illeciti atipici: l’abuso del
diritto, la frode alla legge, lo sviamento di potere, tr.it., Bologna 2004.
17
  In proposito v. in particolare Menchini, op.cit., p.120 ss.
L’abuso del processo 193

legge, e allora quando si parla di atti che non corrispondono al rispettivo


modello normativo si parla solo di atti illeciti o invalidi, oppure si ritiene
che sia possibile configurare l’abuso come qualcosa di diverso dalla illiceità
dell’atto. Ma la conseguenza di questa seconda opzione è che potrebbero
essere propriamente qualificati come abusivi solo atti e comportamenti che
sono leciti dal punto di vista della disciplina del processo, e che quindi
dovrebbero essere qualificati come abusivi soltanto sulla base di qualche
principio o regola che si suppone esistente al di fuori (al di sopra? al di
sotto?, in qualche «altrove»?) di tale disciplina18.
Il problema consiste allora nel chiedersi quando è possibile che un atto
o un comportamento in sé leciti siano anche abusivi. Intuitivamente pare
che ciò possa accadere in un solo tipo di situazione, ossia quando la legge
processuale attribuisce ad un soggetto –ed in particolare ad una parte – un
potere discrezionale, ossia la possibilità di scegliere tra diverse alternative
che la stessa legge prevede come tutte valide e lecite. Se si fosse di fronte
ad un solo comportamento configurato come possibile, e quindi come ob-
bligatorio, il soggetto non avrebbe alcuna scelta e l’omissione di quell’atto,
o il compimento di un atto diverso, sarebbe – ancora una volta – un ille-
cito, con conseguenze rilevanti in termini di responsabilità del soggetto19,
ma senza che in proposito si possa parlare di un abuso. Peraltro, l’intero
processo potrebbe essere interpretato come una complessa sequenza di
situazioni in cui un soggetto (una parte, l’altra parte, il giudice) dispone
della discrezionalità in base alla quale opta per una o per un’altra alter-
nativa, tra quelle che di volta in volta la legge configura come possibili e
legittime, determinando con la sua scelta la situazione successiva, sicchè
l’intero svolgersi del procedimento risulterebbe dalla concatenazione delle
scelte compiute dai vari soggetti.
Non sempre, però, una scelta discrezionale implica un abuso. Ciò non
accade neppure quando il soggetto dispone di una discrezionalità assoluta,
ossia della completa libertà di scegliere l’una o l’altra alternativa. Ad esem-
pio: io sono assolutamente libero di decidere se proporre o non proporre
una domanda in giudizio, ma sia che la proponga, sia che non la proponga,
non compio nulla di abusivo. Inoltre: l’attore, in base al principio dispo-
sitivo, è libero di determinare i fatti che allega a fondamento della sua do-
manda, e quindi non compie un atto abusivo indicando il fatto X piuttosto
che il fatto Y. Potrà accadere che la domanda venga rigettata perché il fatto
allegato non risulta provato o non fonda il diritto di cui l’attore chiede l’ac-

  Al riguardo v. infatti infra, par.5.


18

  In argomento v. più ampiamente Menchini, op. cit., p.72 ss., 76 ss.


19
194 Michele Taruffo

certamento, ma –a parte il caso limite della lite temeraria – ciò determina


solo la soccombenza dell’attore, ed in ciò non si configura alcun abuso.
Conseguenze analoghe si possono configurare anche nel caso di discre-
zionalità regolata, ossia quando le alternative tra cui il soggetto può sce-
gliere sono limitate, ed ognuna di esse è specificamente disciplinata quanto
a modalità e conseguenze. Se il soggetto opta per una di queste alternative,
ed applica correttamente le norme relative, si comporta in maniera lecita
e non abusiva. Se, ad es., l’art.326 cod.proc.civ. mi consente di impugnare
la sentenza non notificata entro sei mesi, e io notifico l’appello nell’ultimo
giorno utile prima della scadenza del termine, faccio semplicemente ciò che
la legge mi consente di fare, e non commetto alcun abuso del processo.
Ancora, se vi sono varie modalità processuali con cui posso far valere un
mio diritto (ad es.: processo sommario, processo per ingiunzione, processo
ordinario) la semplice coesistenza di queste diverse possibilità, in mancanza
di norme che prescrivano specificamente di ricorrere all’uno o all’altro tipo
di procedimento, implica che io possa liberamente scegliere di servirmi
dell’uno o dell’altro tipo di procedimento, senza in ciò commettere alcun
abuso. In particolare: non commetto alcun abuso se decido di far valere in
via ordinaria un credito per il quale potrei chiedere un decreto ingiuntivo.
Si noti che quando il legislatore non intende lasciare all’attore questa pos-
sibilità, non fa altro che prescrivere che per determinate materie si impieghi
solo uno specifico procedimento (come fa ad es. l’art.409 cod.proc.civ. per
le controversie di lavoro e quelle assimilate).
Ecco che allora, non essendo sufficiente il riferimento alla discrezionali-
tà, il discorso si complica , poiché da molte parti viene detto che si verifica
un abuso quando un atto viene compiuto per conseguire uno scopo diverso
da quello al quale l’atto dovrebbe essere propriamente finalizzato20. Questo
discorso sembra intuitivamente sensato, ma non mancano le difficoltà. Da
un lato, non di rado è difficile o impossibile stabilire qual è lo scopo pro­
prio di un atto, ma allora non sembra neppure possibile stabilire quando
lo scopo per cui quell’atto viene compiuto è improprio. Dall’altro lato,
quand’anche questa distinzione fosse possibile non per questo si configu-
rerebbe un abuso nella seconda ipotesi. Ad esempio: non è dubbio che lo
scopo proprio della proposizione di una domanda sia di dar luogo ad un
procedimento destinato a concludersi con una sentenza. Peraltro, l’attore
potrebbe notificare una citazione (anche o soltanto) con uno scopo diverso,
ossia per indurre l’altra parte ad una trattativa o ad una transazione. Non

20
  Cfr. Cordopatri, L’abuso del processo nel diritto positivo italiano, cit., p. 50 ss.. In argo-
mento v. da ultimo Tropea, op. cit., p.351 ss.; Asprella, op. cit., p. 104 ss.
L’abuso del processo 195

pare, tuttavia, che in ciò vi sia nulla di abusivo: se lo scopo «improprio»


non viene conseguito, rimarrebbe comunque lo scopo «proprio», ma se lo
scopo improprio viene conseguito la conseguenza sarebbe positiva, poiché
si eviterebbe il processo. Ancora: se – come spesso accade – bisogna fare un
tentativo preliminare di mediazione, il tentativo dovrebbe essere finalizzato
al raggiungimento di un accordo (almeno secondo le speranze dell’ingenuo
legislatore), ma è chiaro che le cose non stanno così. Una parte prende
l’iniziativa del tentativo perché non può evitarlo, ma non perché il fine
che persegue sia l’accordo: il suo fine è semplicemente quello di poter poi
proporre –una volta fallito il tentativo – una domanda procedibile. Pare
evidente, tuttavia, che in ciò non vi sia nulla di abusivo. Si potrebbe allora
individuare qualche fattispecie di abuso non in tutti i casi nei quali un atto
viene compiuto per uno scopo che non gli è proprio, ma solo nei casi nei
quali questo scopo è illecito o è comunque vietato dall’ordinamento21.
3.  Libertà o abuso?
Il discorso sul comportamento eventualmente abusivo delle parti richie-
de qualche ulteriore considerazione.
Per un verso, il riferimento allo scopo – proprio o improprio – per il
quale una parte compie un determinato atto implica che si prenda in consi-
derazione e si ritenga decisiva la volontà della parte che compie quell’atto.
Tuttavia, a parte pochissime ipotesi tipiche (come la lite temeraria, la revo-
cabilità della confessione o il dolo revocatorio), è noto che la volontà della
parte è del tutto irrilevante dal punto di vista del contenuto, della finalità
o della validità dell’atto processuale. È la legge, una volta di più, a stabilire
quali sono gli effetti degli atti del processo, e quindi la volontà della parte
non li determina in alcun modo22. Quando –come spesso accade e come si
è visto più sopra – è la legge che attribuisce al soggetto un certo ambito di
discrezionalità, essa automaticamente legittima il perseguimento di tutti gli
scopi ai quali possono essere finalizzate le diverse alternative.
Per altro verso, occorre considerare che le parti godono della libertà di
comportarsi nei modi che ritengono più opportuni nelle diverse situazioni
processuali (ovviamente a condizione che si attengano a ciò che la legge
processuale di volta in volta stabilisce quanto alla forma e alle modalità
dei vari atti che esse possono compiere). Come ha giustamente sottoline-

21
  In proposito v. più ampiamente Taruffo, L’abuso del processo: profili generali, cit., p.
39, 45.
22
  Cfr. Menchini, op. cit., p.117, ed in senso analogo Asprella, op. cit., p.121; Comoglio,
op. cit., p.328.
196 Michele Taruffo

ato Vincenzo Ferrari con la metafora del war game, nel processo le parti
assumono atteggiamenti diversi con la massima libertà possibile, approfit-
tando di ogni spazio per compiere le rispettive mosse in vista di finalità
fra loro incompatibili23. Limitare questa libertà di scelta delle tecniche e
delle strategie di difesa significherebbe porre restrizioni non giustificabili
all’attuazione concreta delle garanzie dell’azione e della difesa nell’ambito
del processo. Riprendendo per un attimo le metafore del gioco e della com-
petizione sportiva, sarebbe chiaramente assurdo chiedere allo scacchista di
rivelare all’inizio della partita quale sarà la sua strategia e quali saranno le
sue mosse in risposta alle mosse dell’avversario. Tutto ciò che gli si può
chiedere è di applicare puntualmente le regole del gioco. Analogamente,
non si può pretendere che l’allenatore di una squadra di calcio riveli in anti-
cipo la sua strategia. Ciò che si può pretendere è solo che la partita si svolga
in modo regolare. Questo significa che il giocatore è libero di scegliere la
sua «mossa» in ogni momento dello svolgimento della competizione, con
il solo limite consistente nel divieto di violare le regola del gioco.
D’altronde, e facendo ancora una volta riferimento alle norme che re-
golano la competizione processuale, è opportuno ricordare che esse già
contengono – come si è visto più sopra – un catalogo dettagliato delle
situazioni in cui la legge considera che la competizione si è svolta in modo
«scorretto». Volendo esprimersi in questo modo, si potrebbe dire che que-
sto è il catalogo delle situazioni in cui si configura un abuso del processo24,
nel senso ampio di un comportamento contrario alle «regole del gioco».
Peraltro, avendo il legislatore previsto queste fattispecie, con le relative
sanzioni, ci si può chiedere – come si è già accennato – se esso sia mera-
mente indicativo di alcuni casi specifici di una sorta di principio più gene-
rale, estensibile a piacere in via di interpretazione. In proposito vale come
minimo l’invito alla cautela di cui parla Vincenzo Ferrari25, se non altro
per evitare il rischio di una eccessiva ed ingiustificata compressione della
libertà tattica e strategica delle parti. Non è infondata, invero, la sensazione
che sia in atto una «deriva autoritaria» nell’interpretazione che spesso al
giurisprudenza dà dell’abuso del processo inteso come categoria atipica
applicabile in modo arbitrario per sanzionare comportamenti delle parti
che, per qualche ragione estranea alla applicazione delle norme processuali
specifiche, vengono considerati come «scorretti»26.

23
  Cfr. Ferrari, op. cit., p.14, 23, 26.
24
  In argomento cfr. Cordopatri, L’abuso del processo nel diritto positivo italiano, cit., p.
49 ss.
25
  Cfr. Ferrari, op. cit., p. 30 ss.
26
  In proposito v. Tropea, op. cit., p.395, anche con ampi riferimenti.
L’abuso del processo 197

4.  Buona fede, lealtà e probità


Un ulteriore argomento in favore della configurabilità dell’abuso del
processo è quello che si incentra sull’affermata necessità che le parti si com-
portino secondo buona fede, ovvero – secondo la formula un po’ démodé
dell’art.88 cod.proc.civ. – con lealtà e probità.
Il richiamo alla buona fede è intuitivamente comprensibile sul piano di
una generica considerazione di carattere etico. Non pare tuttavia sosteni-
bile la pur argomentata tesi secondo la quale la buona fede nel processo
andrebbe addirittura ricondotta alle garanzie fondamentali dell’ammini-
strazione della giustizia27. D’altronde si può immaginare che un processo
si concluda con una decisione giusta in fatto e in diritto benchè la parte
vittoriosa si sia comportata in mala fede. Vale la pena di ricordare, infatti,
che l’art.96 cod.proc.civ. configura come ipotesi di responsabilità aggravata
la mala fede del solo soccombente (forse presupponendo che sempre vi sia
soccombenza per la parte a cui si riferisce tale responsabilità). Tuttavia è
possibile derivare, da questa limitata formulazione della norma, la con-
clusione che non vi sia un principio generale di buona fede processuale,
se non altro perché né l’art.96 nè nessuna norma ne parla28. Vale inoltre il
rilievo che il discorso sulla buona fede implica che si indaghi sulla volontà
con cui le parti compiono determinati atti, il che – come già si è visto –
non rileva quando si tratta di atti processuali, salvo che la legge lo preveda
espressamente, come appunto nel caso dell’art.96.
È comunque difficile – malgrado numerosi tentativi compiuti dal-
la dottrina – attribuire un significato normativamente efficace a formule
così generiche come quella della buona fede processuale29, che certamente
esprimono un auspicio moralmente condivisibile, ma che difficilmente si
prestano a definizioni precise.
Quanto al dovere di comportarsi con lealtà e probità, bisogna anzitutto
osservare che si tratta di un dovere la cui violazione non è sanzionata in
alcun modo (salvo la comunicazione al consiglio dell’ordine professionale
nel caso in cui sia il difensore a non osservare tale dovere, e fatta salva la
non frequente eventualità prevista dall’art.92, nella quale il giudice condan-
ni una parte a rimborsare all’altra le spese che ha causato violando l’art.88).

27
  In questo senso v. invece la monografia di Picò y Junoy, El principio de buena fe procesal,
Saragozza 2003.
28
  Diversa è la situazione in alcuni paesi come Spagna, Portogallo e Brasile, dove esistono
norme che si riferiscono espressamente alla buona fede nel processo. V. da ultimo Tropea, op.cit.,
p.237; Taruffo, op. ult. cit., p.26.
29
  In argomento cfr. l’ampia ed aggiornata analisi di Tropea, op.cit., p.235 ss., nonché Cor-
dopatri, op.ult.cit., p.63 ss.
198 Michele Taruffo

Quanto all’identificazione del possibile contenuto di tale dovere, appare


molto apprezzabile il recente ed ampio tentativo compiuto da Antonio
Carratta, di individuarlo in un dovere di verità e completezza delle affer-
mazioni delle parti, ravvisando nell’art.88 una rilevante manifestazione del
dovere di buona fede processuale30. Tuttavia, anche seguendo le complesse
argomentazioni che la giustificano, l’analisi di Carratta giunge a formulare
non tanto un effettivo dovere di verità quanto un divieto di menzogna
consapevole (peraltro già presente nei vari codici di etica professionale)31,
non potendosi peraltro escludere che tale menzogna già configuri un’ipo-
tesi di mala fede ai sensi dell’art.96 comma 1. Inoltre, il dovere di comple-
tezza nelle enunciazioni fattuali non può evidentemente configurarsi come
il dovere di allegare anche fatti sfavorevoli alla tesi difensiva della parte32.
Ne discende, in sostanza, che qualunque comportamento che non implichi
l’affermazione di cose che si sa essere false (o di servirsi di prove di cui si
conosce la falsità) e consenta alla parte di narrare in maniera ragionevole i
fatti che ritiene a sé favorevoli, non si può considerare come una violazione
dell’art.88, e tanto meno si può considerare come un abuso del processo33.
Va infatti ricordato che ognuna delle parti propone legittimamente, entro
l’infinita varietà delle narrazioni possibili, la narrazione dei fatti che ritiene
più favorevole alla sua posizione difensiva34. Non si può pretendere, evi-
dentemente, che questa narrazione sia vera, poiché essa è accompagnata
solo da una pretesa di verità, e neppure che essa sia effettivamente comple­
ta, dato che anche nel processo civile nemo tenetur edere contra se. Quindi
si può solo richiedere che la parte non proponga narrazioni che sa essere
false, e – al più – che proponga narrazioni prima facie verosimili.
5.  I «valori del sistema»
A coloro che – come chi scrive – manifestano scetticismo sulla diffusa
tendenza a scoprire pretesi comportamenti abusivi posti in essere dalle
parti, e quindi a limitarne la libertà di azione, si obietta che comunque

30
  Cfr. Carratta, Dovere di verità e completezza nel processo civile, in Etica del processo,
cit., p. 145 ss., 224 ss. In argomento v. anche Taruffo, op.ult.cit., p.37 s.
31
  Carratta, op. cit., p. 237, giustamente esclude che vi sia per le parti un dovere di «verità
materiale».
32
  Nello stesso senso v.Carratta, op. cit., loc. ult. cit.
33
  Si può osservare che se una parte pone a fondamento della sua domanda una narrazione
fattuale lacunosa, frammentaria, contraddittoria o manifestamente assurda perché contraria alla
normale esperienza, la conseguenza non è un abuso del processo ma la nullità della citazione per
violazione dell’art.163 n.4 cod.proc.civ. (cfr.l’art.164 comma 4 dello stesso codice).
34
  In argomento v. più ampiamente Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione
dei fatti, Bari 2009, p. 43 ss.
L’abuso del processo 199

l’amministrazione della giustizia deve attuare i «valori del sistema», os-


sia valori e principi che attengono al buon funzionamento della giustizia
civile35. Questo riferimento sembra collocarsi in una più generale evolu-
zione della concezione del processo civile, che abbandonerebbe l’idea del
processo come «cosa privata» delle parti configurandolo invece come ser-
vizio pubblico36. D’altra parte, l’idea che l’amministrazione della giustizia
debba attuare i principi che regolano il suo buon funzionamento sembra
assolutamente ovvia, e non meritevole di particolare discussione. Starebbe
dunque nella realizzazione di questi valori la necessitas occamiana idonea a
giustificare tutti i discorsi relativi all’abuso del processo. Tuttavia anche di
fronte ad argomenti di questo genere lo scettico non può che manifestare
perplessità.
Da un lato, infatti, bisognerebbe stabilire in modo abbastanza chiaro
quali sono questi «valori» e come essi possano essere garantiti sanzionando
eventuali abusi. Un’ipotesi non assurda porterebbe a dire che tra questi
valori spiccano le garanzie che nel processo vanno assicurate alle parti, ed
in particolare la loro libertà di determinare tattiche e strategie, ma in questo
modo si direbbe una cosa ovvia, che ognuno può condividere, a parte le
tendenze autoritarie di cui si farà cenno più oltre.
Dall’altro lato, i fautori dei «valori del sistema» si riferiscono in real-
tà ad uno solo di questi valori: a fronte della crisi endemica della nostra
giustizia civile si invoca infatti il valore fondamentale costituito dalla «ra-
gionevole durata» del processo, con l’ormai abusato riferimento all’attuale
art.111 della Costituzione e all’art.6 della Convenzione europea sui diritti
dell’uomo, oppure –in termini più generici ma sostanzialmente equivalenti,
l’efficienza del processo37. In realtà la ragionevole durata del processo è
un valore di cui nessuno dubita (oltre ad essere un oggetto del desiderio
finora non realizzato) e quindi non si può negare che esso debba essere
perseguito per quanto possibile nella pratica realtà della giustizia civile.
Il problema sorge tuttavia quando il valore si trasforma, in particolare ad
opera della giurisprudenza, in un incubo38. Si può dunque dubitare della
validità dell’auspicio secondo il quale l’abuso del processo dovrebbe assu-

35
  Tra i molti riferimenti in proposito v. ad es. Carratta, op.cit., p.207 s.; Biavati, Interven­
to, in L’abuso del processo, cit., p.250; Taruffo, L’abuso del processo: profili generali, cit., p.29 ss.
36
  Sul tema v. ampiamente, e per numerosi riferimenti, Tropea, op.cit., p. 247, 264 ss.
37
  Cfr. ad es.Tropea, op.cit., p.253 ss., 263; Taruffo, op.ult.cit., p.30 ss.;
38
  V. infatti Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc. 2011,
p.513 ss.. L’incubo deriva dalla tendenza della Cassazione «ad interpretare gli istituti processuali
in funzione del valore considerato superiore della ragionevole durata»: cfr. Asprella, op.cit.,
p.123 ss.
200 Michele Taruffo

mere lo stesso ruolo della ragionevole durata del processo come canone
di interpretazione delle norme processuali39: un altro incubo, o lo stesso
incubo definito in altro modo, ma non meno pericoloso?
Soprattutto però – per quanto qui maggiormente interessa – ci si può
domandare a chi spetti la responsabilità dell’attuazione del preteso valore
costituito dalla durata ragionevole del processo. È almeno dubbio, infatti,
che tale responsabilità spetti alle parti. Come si è già detto, esse debbono
attenersi alle norme che regolano i loro atti e comportamenti, ma pare
difficile sostenere che inoltre esse debbono attivarsi per fare in modo che
il processo si svolga in modo «ragionevolmente rapido» (qualunque sia il
significato che si vuole attribuire a questa espressione irrimediabilmen-
te vaga). È constatazione ovvia, infatti, quella che dice che non tutte le
parti hanno il medesimo interesse alla rapidità del processo, tale interes-
se dipendendo ad esempio dalla natura e dall’oggetto della controversia e
dall’eventualità che parallelamente al processo si svolgano trattative o siano
in corso altri procedimenti in qualche modo connessi. Inoltre, entrambe le
parti possono non avere una particolare fretta di giungere alla decisione,
altrimenti non si spiegherebbe la sospensione concordata tra le parti am-
messa dall’art.296 del codice. Tornando di nuovo ad un esempio banale:
se il soccombente al quale non è stata notificata la sentenza ha sei mesi di
tempo per impugnarla, avrebbe senso imporgli (da parte di chi?) di impu-
gnarla molto tempo prima (quanto tempo prima: settimane, mesi?) poiché
in questo modo il processo durerebbe di meno? Sarebbe davvero abusiva
l’impugnazione proposta nell’ultimo giorno utile? In qual modo questo
preteso «ritardo» potrebbe o dovrebbe essere sanzionato?
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma la perplessità che in questo
modo emerge è se abbia davvero senso attribuire alle parti il dovere di fare
in modo che il processo abbia una durata ragionevole, poiché in caso con-
trario esse commetterebbero abusi anche qualora applicassero puntualmen-
te ciò che le norme processuali prevedono. È forse il caso di sottolineare
che l’art.111 della Costituzione dice testualmente che la legge – non le parti
– assicura la durata ragionevole del processo. È dunque il legislatore che ha
il dovere di assicurare tale durata ragionevole; di questo dovere non si può
far carico alle parti neppure quando – come accade – il legislatore dimostra
di essere strutturalmente incapace di far sì che i tempi della giustizia civile
si riducano in modo significativo.
Rimane tuttavia un altro soggetto al quale si potrebbe in ipotesi at-
tribuire il dovere di assicurare la durata ragionevole del processo, ossia

39
  È l’auspicio formulato da Ghirga, Recenti sviluppi giurisprudenziali, cit., p.445.
L’abuso del processo 201

il giudice. Anche a questo proposito si deve però svolgere qualche con-


siderazione.
Da un lato, è evidente che il giudice dovrebbe – nei limiti del possi-
bile – evitare inutili perdite di tempo esercitando adeguatamente i suoi
poteri di direzione formale del processo, «intesi al sollecito e leale svolgi-
mento del procedimento» secondo l’art.175 comma 1, che si articolano ad
esempio nella fissazione dei termini e programmazione delle udienze ex
art.175 comma 2 e art.183 comma 6, e nella elaborazione del calendario
del processo. Analogamente, Il giudice potrebbe fare opportunamente uso
dei suoi poteri che potremmo chiamare «di semplificazione istruttoria»,
come quello di riduzione delle liste testimoniali sovrabbondanti e di eli-
minazione dei testimoni che non possono essere sentiti (art.245), quello
dell’esclusione delle prove irrilevanti e inammissibili (art.183 comma 7)
e quello dell’esclusione delle prove divenute superflue (art.209). Si tratta,
come si vede, di poteri numerosi e non trascurabili: esercitandoli in manie-
ra accurata e tenendo conto delle necessità che ogni singolo caso presenta,
il giudice potrebbe assicurare una durata ragionevole e una efficienza ade-
guata del processo.
Dall’altro lato, problemi non trascurabili sorgono a proposito dell’art.96
comma 3, introdotto nel 2009, con il quale il legislatore ha evidentemen-
te inteso partecipare all’ondata moralizzatrice di cui si è detto all’inizio,
prevedendo una specifica sanzione per le parti che commettono abusi40.
La norma attribuisce al giudice il potere di condannare anche d’ufficio,
«in ogni caso», il soccombente che abbia tenuto uno dei comportamenti
indicati nei commi 1 e 2 della norma, al pagamento di una somma «equi-
tativamente determinata». Al di là delle più o meno evidenti intenzioni
del legislatore, si tratta di una norma tecnicamente mal formulata, che in
sostanza attribuisce al giudice un potere sanzionatorio discrezionale e non
vincolato ad alcun criterio controllabile. L’interpretazione largamente pre-
valente limita fortunatamente41 l’applicabilità della norma alle ipotesi nor-
mativamente previste di responsabilità aggravata42, e quindi prevede che per
applicare la sanzione si debbano accertare i presupposti indicati nei primi
due commi dell’art.9643. Rimane il fatto che la formula «in ogni caso» è

40
  In argomento cfr. ad es. Cordopatri, L’abuso del processo nel diritto positivo italiano,
cit., p. 59 ss.
41
  L’avverbio si spiega in quanto questa interpretazione esclude ciò che forse era nell’inten-
zione del legislatore, ossia la creazione di una fattispecie ulteriore, atipica, indeterminata e rimessa
alla assoluta discrezionalità del giudice, di abuso del processo.
42
  V. ampie indicazioni in Carpi-Taruffo, op. cit., p. 404 ss.
43
  Nel senso che il comma 3 dell’art. 96 configuri invece una fattispecie diversa ed ulteriore
202 Michele Taruffo

vaga e praticamente priva di senso, lasciando il giudice libero di decidere


se condannare o no il soccombente alla «pena privata» che la norma pre-
vede. Anche il criterio che riguarda la quantificazione della pena pecunia-
ria, ossia la «valutazione equitativa» che il giudice dovrebbe formulare, è
praticamente privo di senso, rimanendo misteriosi i criteri che dovrebbero
guidare il giudice in questa valutazione. Discrezionalità pur sempre ecces-
siva, dunque, con non trascurabili pericoli di arbitrarietà.
In questo modo un legislatore insipiente ed incapace tenta di far carico
alle parti, sotto l’occhiuto e arbitrario controllo del giudice, dell’attuazio-
ne di quei «valori di sistema» – come la ragionevole durata del processo
– che non è stato in grado finora di realizzare come avrebbe dovuto e
come dovrebbe, ossia con riforme processuali davvero orientate alla con-
figurazione di un processo ragionevolmente rapido ed efficiente, nel quale
vengano tuttavia assicurate le garanzie fondamentali delle parti. Osserva
giustamente Tropea44 che in questo modo il legislatore abdica a quello che
sarebbe il suo compito fondamentale di bilanciamento tra i diversi valori
del sistema, tra cui la durata ragionevole del processo, lasciando ai singoli
giudici il potere di sostituirsi arbitrariamente allo stesso legislatore in nome
di principi spesso vaghi e generici, come quello dell’economia processuale
o dell’efficienza del processo, che ogni singolo giudice sarebbe libero di
scegliere e di interpretare in base alle sue individuali preferenze.

6.  Un dubbio conclusivo


Pare dunque evidente, in conclusione, che sia davvero in atto –sotto le
apparenze di un’ondata moralizzatrice – la «deriva autoritaria» di cui si è
accennato in precedenza. Favoriscono questa ondata sia la dottrina, che a
più riprese parla entusiasticamente dell’abuso del processo come se non
fosse un mero flatus vocis, sia la giurisprudenza, che approfitta dell’in-
terpretazione incerta di norme mal congegnate per appropriarsi di un pe-
netrante quanto arbitrario potere di controllo su ciò che le parti fanno,
anche quando esse rimangono nell’ambito di ciò che la legge processuale
consente loro. Al vertice della deriva autoritaria si colloca – per sua propria
iniziativa – la Corte di cassazione, che si autoinveste del ruolo di supremo
custode della morale processuale. Non è chiaro in base a quali principi ciò

rispetto a quelle disciplinate nei primi due commi della norma v. invece Cordopatri, op. ult.
cit., p. 73 ss.
44
  Op. cit., p. 263 s.
L’abuso del processo 203

avvenga45, ma pare che questo sia il vero aspetto del «diritto vivente» che
darebbe luogo all’abuso del processo.
Si può comunque osservare che anche per l’abuso del processo vale ciò
che scrive Aurelio Gentili a proposito dell’abuso del diritto in generale,
quando sottolinea da un lato che l’abuso non è un istituto ma è un argo-
mento, e dall’altro lato che questo argomento serve a giustificare un’ope-
razione con cui l’interprete (nel nostro caso: il giudice) disapplica la legge
per decidere il caso concreto sulla base di una norma diversa da quella
che regola il caso (nella nostra materia: le norme che regolano le attività
delle parti), norma che l’interprete sceglie per conto suo46, e quindi – si
può aggiungere – in maniera sostanzialmente arbitraria. È ciò che accade
nella frequente applicazione dell’art.96 comma 3, nella quale il riferimento
all’abuso serve a decidere in maniera incontrollata invocando il principio
della ragionevole durata del processo, di fatto sanzionando ogni compor-
tamento che il giudice – in una sua valutazione completamente personale
– ritenga in contrasto con questo principio. Si può però osservare che in
molti casi si tratta di decisioni che nella migliore delle ipotesi si possono
considerare extra legem (e nella peggiore contra legem) dato che si fondano
sulla disapplicazione della norma che regola direttamente la fattispecie, per
far prevalere su di essa criteri giustificativi individuati «altrove» secondo
valutazioni arbitrarie formulate caso per caso.

45
  Il caso più evidente di incertezza dei principi che la stessa Cassazione dice di adottare
come «valori superiori» nell’interpretazione e nella valutazione dei comportamenti processuali
delle parti, è quello che costituisce anche l’esempio più importante, sempre a parere della Cassa-
zione, di abuso del processo, ossia il frazionamento della domanda. Potrebbe apparire ridicola, se
non fosse il segno di una tragica confusione di idee, la variabilità dei criteri a cui la stessa Corte
ha fatto riferimento nel volgere di pochi anni. In argomento v. l’esauriente analisi di Asprella,
op. cit., p. 26 ss., 54 ss., 71 ss., 99 ss., anche per numerosi riferimenti.
46
  Cfr. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, in Id., Il diritto come discorso, Milano
2013, p. 456 ss., e in L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, a cura di V. Velluzzi,
Pisa 2012, p. 149 ss.
204 Michele Taruffo
Sergio Chiarloni
L’abuso del processo: un semplice Odnungsbegriff
privo di utilità per il diritto vivente

Se pensate che sull’abuso del processo e in particolare del processo civile


sono state pubblicare negli anni numerose monografie1 e organizzati con-
vegni2 anche internazionali3, senza contare l’immensa letteratura minore,
il punto di vista sul quale mi voglio intrattenere potrà sembrare a prima
impressione alquanto iconoclastico.
Sostengo che la dottrina dell’abuso del processo è non solo, com’è pa-
lese, tributaria nei confronti dei privatisti e del loro imperialismo culturale
più che giustificato (potremmo riconoscerlo parlando a seconda dei casi di
abuso del diritto di azione o del diritto di difesa invece che di abuso del
processo), ma sostengo altresì che, almeno in parte e nel senso che subito
spiegherò, la relativa elaborazione non è stata in linea di principio essenziale
per il processo civile allo scopo di ricavarne conclusioni di diritto altrimenti
non predicabili. Il che è accaduto, invece, almeno così mi sembra, per il dirit-
to sostanziale, grazie ad un’evoluzione che ha visto ridursi l’assolutezza dei
diritti, a cominciare da quello di proprietà com’era inteso nella concezione
ottocentesca, con il riconoscimento ad opera del diritto vivente di limiti al
suo esercizio ben oltre il divieto di atti emulativi, e dunque con l’individua-
zione del superamento abusivo di tali limiti, in Italia anche grazie al secondo
comma dell’art. 42 della costituzione. Anche se poi occorre riconoscere l’esi-
stenza di notevoli oscillazioni e incertezze nella determinazione del concet-
to, in particolare nei suoi rapporti con la responsabilità civile4.
Dondi5 e non solo lui6 parlano di ritardo nella cultura giuridica italiana

1
  Catalano, L’abuso del processo, Milano, 2005; Nicotina, L’abuso nel processo civile,
Roma, 2005; Cordopatri, L’abuso del processo, Padova, 2000;
2
  L’abuso del processo: Atti del 28 Convegno nazionale, Urbino, 23-24 settembre 2011 Bolo-
gna, 2012. (Quaderni dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile. Nuovissima serie, 61)
3
  Abuse of Procedural Rights: Comparative Standards of Procedural Fairness a cura di Ta-
ruffo, New Orleans, 1998.
4
  Cfr, ad esempio, da un lato VISINTINI, L’abuso del diritto come illecito aquiliano, e,
dall’altro, Borghetti, L’abuso del diritto in Francia, in questo volume.
5
  Spunti di raffronto comparatistico in tema di abuso del processo (a margine della l. 24
marzo 2001, n. 89), in Nuova giur. civ. comm., 2003, 62.
6
  Cfr., Ansanelli, Abuso del processo, in Di. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, III, t. 1,
2007, 1.
206 Sergio Chiarloni

nell’accoglimento del concetto di abuso del processo. Sono d’accordo, ma


solo dal punto di vista del tempo della sua introduzione nel linguaggio7.
Il linguaggio, questo servo segreto e infedele del pensiero, che spesso
costruisce astrazioni giuridiche che innalzano ostacoli a vedere la realtà
delle cose, in particolare delle scelte operate dal legislatore.
Guaio che accade sovente in un contesto di ricostruzione dogmatica di
concetti, specialmente quando si scrivono centinaia di pagine evitando gli
esempi, che a mio giudizio hanno la stessa funzione degli esperimenti cru-
ciali in fisica, indirizzati a controllare l’attendibilità delle teorie escogitate.
In verità di abuso del processo, senza usare il relativo termine, il legi-
slatore italiano si è occupato, per quanto riguarda la fattispecie di sicuro
quantitativamente più rilevante, nel momento stesso in cui ha disciplinato
la responsabilità aggravata per le spese. Dunque, a far tempo dal codice
di procedura civile del 1865, il cui art. 370, primo comma stabilisce che
«la parte soccombente è condannata nelle spese del giudizio, e trattandosi
di lite temeraria, può inoltre essere condannata al risarcimento dei danni»
(corsivo mio).
Ma l’idea che del processo non si deve abusare, perseguitando senza ra-
gione l’avversario o resistendo senza argomenti fondati avendo torto, risale
almeno al diritto romano fin dall’età repubblicana. Gaio se ne è occupato
in parecchi luoghi delle Istituzioni, dando luogo ad una ricca bibliografia
di commento ad opera dei romanisti contemporanei, dove troviamo anche
il rilievo delle preoccupazioni di Giustiniano per il disservizio dell’ammi-
nistrazione della giustizia provocato dalla litigiosità abusiva8
Parlo di litigiosità abusiva perché al giurista ingenuo, tra i quali amo
collocarmi, appare di solare evidenza che agire o resistere temerariamente
e cioè «vexandi adversarii gratia» secondo la formula gaiana significa abu-
sare del processo, con la conseguenza che l’elaborazione di un’autonoma
nozione di abuso processuale non appare così feconda come lo è stata nel
campo del diritto privato. Ad evitare equivoci, meglio fermarsi al risalente

7
  Come ci ricorda Carratta, Dovere di verità e completezza nel processo civile, in Etica
del processo e doveri elle parti, Atti del 29 Convegno nazionale, Genova 20-21 settembre 2013
Bologna, 2012. (Quaderni dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile. Nuovissima serie,
64), p. 161, di Missbrauch desProzesses si parlava già alla fine del secolo scorso.
8
  Cfr., per tutti, Buzzacchi, Sanzioni processuali nelle Istituzioni di Gaio: una mappa nar­
rativa per Gai. Inst. 4.171-172, in Collana della riv.dir.rom., Atti del convegno: Processo civile
e processo penale nell’esperienza del mondo antico, in www.ledonline.it/rivistadirittoromano/
attipontignano/html. Val la pena di ricordare che del problema si era occupato anche il giovane
Chiovenda: cfr. Le spese del processo civile romano, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano,
pubblicato per cura del segretario perpetuo Vittorio Scialoja, Vol. VII, Roma, 1894 p. 287 ss.
L’abuso del processo: un semplice Odnungsbegriff 207

concetto del legislatore piuttosto che sostituirlo con il nuovo escogitato


dal giurista.
Semmai la connotazione privatistica si vedeva allora e si constata oggi
nella sanzione per l’abuso da lite temeraria, ancora oggi prevista nell’art.
96 a titolo di risarcimento del danno a favore dell’avversario. Sanzione che
fino al 2009 appariva di difficile applicazione per la necessaria prova sia
dell’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) sia dell’esistenza di un danno.
Anche se almeno sotto quest’ultimo profilo le cose si sono semplificate, da
quando nel diritto vivente è stata introdotta la risarcibilità del c.d. danno
esistenziale anche per la lite temeraria.9
Ma con la riforma del 2009 simili difficolta, sia pure attenuate, risulta-
no superate a livello normativo con l’attribuzione al giudice di un potere
discrezionale (troppo discrezionale a mio giudizio, con il pericolo di vio-
lazioni applicative del principio di uguaglianza), grazie al nuovo ultimo
comma dell’art’ 96 c.p.c., secondo cui «in ogni caso, quando pronuncia
sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì con-
dannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di
una somma equitativamente determinata».
Qui vediamo peraltro la necessità di ulteriori passi in avanti nella disci-
plina della lite temeraria, a cominciare dalla responsabilizzazione in alcuni
casi anche dell’avvocato, vero arbitro delle condotte processuali, come av-
viene in altri ordinamenti, e dall’attribuzione della sanzione a favore dello
Stato, che vede ingolfata da liti di quel tipo l’amministrazione della giusti-
zia. Parendomi chiaro che abusare di una pubblica istituzione danneggia lo
Stato e l’universo degli utenti che esso rappresenta più che la singola parte.
Va in proposito sottolineato che l’attribuzione a favore dello Stato già oggi
avviene nel processo amministrativo, direi pour cause, vista la presenza
della parte pubblica, con l’art, 26 comma 2 del nuovo codice, ai cui sensi
«Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una
sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al
quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del
giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente
in giudizio».
Ho parlato di disciplina dell’abuso perché, da giuspositivista sia pure
moderato, sono fermamente convinto che di abuso processuale si può par-
lare solo a patto che ci si trovi di fronte a comportamenti giuridicamente

9
  Riferimenti in Masoni, Il nuovo terzo comma dell’art. 96 c.p.c. e la condanna d’ufficio,
in www.aiga.it, Atti del convegno della Sezione Monza – 27 settembre 2010, su Le spese di lite:
riflessioni in tema di responsabilità aggravata per lite temeraria. Le novità della riforma.
208 Sergio Chiarloni

rilevanti, vale a dire a comportamenti che una volta accertati danno luogo
all’applicazione di una sanzione, secondo il noto paradigma kelseniano. A
meno che non si sia interessati ad una prospettiva de jure condendo, lamen-
tando che certi comportamenti che non lo sono, dovrebbero essere presi
in considerazione dal legislatore, in quanto si trovano fuori dalla portata
innovativa di un diritto vivente correttamente inteso.
Quel che importa è che le due prospettive siano tenute accuratamente
distinte, il che non succede sempre. Non mi pare infatti che, diversamente
da quanto accade nel diritto sostanziale, di fronte ad una disciplina come
quella del processo che da un secolo e mezzo prevede sanzioni per la lite
temeraria, ci sia molto spazio per un’elaborazione concettuale capace di
offrire nuovi strumenti di intervento al diritto vivente.
Lasciando da parte per il momento il dovere di lealtà e probità sancito
dall’art. 88 c.p.c., credo che bastino le dita di una mano per ricordare le
fattispecie rimanenti che qualcuno potrebbe, senza che sia peraltro neces-
sario, classificare come abuso.
Ne ricordo due
La prima era stata sanzionata dal legislatore con una legge speciale,
improvvidamente dichiarata illegittima dalla corte costituzionale con una
sentenza10 che a mio giudizio costituisce un classico esempio di «formali-
smo delle garanzie», secondo una vecchia formula che ho escogitato molti
anni fa.
Alludo alla legge 10 maggio 1976, n 358 che all’art. 2 aveva modificato
gli artt. 641 e 653 escludendo che il giudice nel pronunciare il decreto in-
giuntivo potesse liquidare le spese alla parte ricorrente quando la domanda
fosse fondata su un documento costituente titolo esecutivo.

10
  Corte Cost. 31 dicembre 1986, n. 303, in Giur.it., 1987, I, 1, 963; in Foro it, 1987, I, 671,
con nota di Proto Pisani; in Foro padano, 1987, I, 3 con nota di Danovi, Decreto ingiuntivo
fondato su titoli esecutivi e liquidazione delle spese ; in Nuove leggi civ. comm., 1987, 137, con
nota di Consolo, Procedimento monitorio e rilevanza costituzionale della regola della condanna
del soccombente alla rifusione delle spese di lite; in Riv. dir. proc., 1987, 173, con nota di Tarzia,
Ricorso per ingiunzione fondato su titolo esecutivo e diritto alle spese. L’insufficiente ratio deci­
dendi è basata sul rilievo che il decreto serve comunque per iscrivere l’ipoteca e che il creditore
munito di titolo, se agisse in via ordinaria, avrebbe comunque, in caso di vittoria, diritto al rim-
borso delle spese. Implicitamente, la decisione costituzionalizza il principio della soccombenza.
A me sembra invece evidente che la scelta di come allocare le spese di giudizio è una scelta di
opportunità da lasciare al legislatore ordinario, come d’altronde ci insegna l’esperienza compa-
rativa, dove il giusto processo (la due process of law clause della costituzione nordamericana, per
esempio), può benissimo accompagnarsi al diverso principio per cui le spese del giudizio sono
sopportate dalle parti che le hanno anticipate. Quanto all’ipoteca, la Corte avrebbe ben potuto
salvare la norma con una piccola manipolazione, stabilendo che il diritto al rimborso delle spese
andava condizionato all’allegazione dell’esistenza di immobili nel patrimonio del debitore.
L’abuso del processo: un semplice Odnungsbegriff 209

Ma un’altra attività dello stesso tipo, che ha, ugualmente, a che fare con
l’etica o se si preferisce con la deontologia del difensore ha dato luogo a
interventi della giurisprudenza allo scopo di contrastare l’apertura di una
forbice sempre più ampia tra interessi di tutela del cliente e interessi di
guadagno del professionista11, all’interno di un ceto professionale in fase di
«esplosione demografica», nonché di scadimento qualitativo in suoi ampi
settori e senza una visione sicura circa la direzione del proprio futuro.
Basti a quest’ultimo proposito pensare a quanto frequentemente si inizi
una causa di cognizione ordinaria quando basterebbe la tutela monitoria12
o addirittura l’esercizio dell’azione esecutiva. A quanto frequentemente
una causa di cognizione ordinaria venga radicata malgrado sia ictu oculi
inesistente il diritto vantato o malgrado, al contrario, il diritto sia incon-
testabile al punto che basterebbe una diffida e una trattativa per ottenere
l’adempimento ad opera del soggetto passivo. A quanto frequentemente,
in alcune zone del Paese si siano instaurate migliaia di cause previdenziali
per il valore di pochi euro13.
E vi è di più ed è qui che la giurisprudenza è intervenuta. Capita con
frequenza che, in materia di crediti pecuniari, la pretesa venga artificio-
samente frazionata, al fine di instaurare una pluralità di procedimenti al
posto di uno solo (ad esempio, si agisce separatamente per tante frazioni
del capitale, nonché per gli interessi). La cassazione a sezioni unite ha in-

11
  Problema questo non solo italiano. Ad esempio esso è oggi particolarmente sentito nel
Regno Unito, dove l’aumento irrefrenabile delle somme stanziate a bilancio per il legal aid, or-
mai arrivate ad oltre un miliardo e mezzo di sterline, avvantaggia essenzialmente il ceto forense,
incoraggiato a complicare oltre misura le vicende processuali in virtù della consuetudine di farsi
pagare su base oraria. Cfr., in proposito, i rilievi di Zuckerman, No Win, no Fee, no Solution,
in The Time del 28 ottobre 1997.
12
  Pellegrini, La litigiosità in Italia. Una ricerca sociologico-giuridica, Milano, 1997, p. 168
mostra che il ricorso al procedimento per decreto ingiuntivo è assai poco diffuso al Sud. Si
scende, da una media di 830 al Nord, ad una di 500 ingiunzioni ogni centomila abitanti. È cer-
tamente vero, come viene rilevato, che il fenomeno dipende soprattutto dalle diverse condizioni
economico-sociali nelle due zone del Paese. Molto probabilmente, peraltro, esso è anche correla-
bile in parte al fatto che gli avvocati preferiscono la via più fruttuosa della cognizione ordinaria,
affidandosi al brocardo dum pendet rendet, in un contesto dove il lavoro giudiziario è scarso,
paragonato al numero degli esercenti la professione.
13
  L’enorme percentuale di cause previdenziali di valore infimo (a volte pochi euro) radicate
presso alcuni tribunali del Sud Italia, sintomi di accordi sotto banco tra avvocati e funzionari
dell’INPS (speriamo non anche di giudici). A questo proposito c’è da stupire per la non fre-
quente applicazione dell’art. 152 disp, att. c.p.c., nella parte aggiunta nel 2009 con l’intenzione
di contrastare un vero e proprio scandalo, ove si prevede che «le spese, competenze ed onorari
liquidati dal giudice nei giudizi per prestazioni previdenziali non possono superare il valore
della prestazione dedotta in giudizio». Cosa che dovrebbe sollecitare il ministero della giustizia
ad inviare gli ispettori.
210 Sergio Chiarloni

fatti dichiarato l’inammissibilità della domanda frazionata, enunciando il


principio per cui «è contraria alla regola generale di correttezza e buona
fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.
e si risolve in un abuso del processo (ostativo all’esame della domanda) il
frazionamento (contestuale o sequenziale) di un credito unitario»14. Non
mi impegno nella complicata (e secondo me inutile) discussione che è nata
a seguito dell’enunciazione di questo principio tra chi sostiene che in realtà
si il frazionamento concreta un abuso di diritto sostanziale, anche visto il
richiamo ad una clausola civilistica e chi sostiene che siamo in presenza
comunque di un abuso del processo. Pare a me che per arrivare alla solu-
zione dell’inammissibilità si può fare a meno di ricorrere alla nozione di
abuso del processo, in base ad un’interpretazione inspirata al criterio di ra-
gionevolezza dell’art. 24 comma 1° Cost., secondo cui, a parte le eccezioni
espressamente sancite dal legislatore –ad esempio in materia di rate o di
canoni-, i diritti devono essere fatti valere in giudizio nella loro interezza..
Rimane da dire qualche parola sull’art. 88 del c.p.c., dove viene so-
lennemente enunciato un dovere morale per le parti e per i difensori (con
lontana e inapplicata conseguenza giuridica in tema di ripartizione delle
spese processuali ai sensi dell’art. 92, comma 1, ultima parte c.p.c. per
quanto riguarda le parti, nonché di segnalazione ai consigli dell’ordine
per l’eventuale esercizio dell’azione disciplinare per quanto riguarda i di-
fensori).
Si potrebbe pensare che dalla genericità di questa norma si possa rica-
vare una sorta di principio generale di reazione all’abuso del processo, tale
da consentire al diritto vivente di ricostruire una serie di fattispecie alle
quali poter applicare le sanzioni ivi previste.
Riflettiamo peraltro sul fatto che nell’art. 88 il legislatore ha di mira
quei comportamenti delle parti (e dei difensori) che, privi di immediato
rilievo giuridico processuale in quanto non rientrano nella previsione di
alcuna norma regolatrice del processo, integrano comportamenti ritenuti
riprovevoli anche negli ambienti del foro in quanto implicano la violazione
di standards morali generalmente accettati. Lascio gli scarsi esempi alla fan-
tasia dei lettori e, sperando che ve ne siano, alle raccolte di provvedimenti
disciplinari nei confronti degli avvocati.

14
  Val la pena al riguardo di sottolineare che alcune di queste manifestazioni sono prese in
considerazione dal codice deontologico per gli avvocati, approvato dal Consiglio nazionale fo-
rense nella seduta del 17 aprile 1997. All’art. 49 sotto la rubrica «Pluralità di azioni nei confronti
della controparte» troviamo scritto: «L’avvocato non deve aggravare con onerose o plurime ini-
ziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponde ad effettive
ragioni di tutela della parte assistita».
L’abuso del processo: un semplice Odnungsbegriff 211

Orbene, la sanzione per l’abuso del processo non può che riguardare
il suo esito finale, sia in merito, che in rito. In tutti i casi che abbiamo
visto l’abuso castiga il soccombente, con l’inammissibilità in alcuni casi,
con l’aggravamento del costo del processo, in altri. L’abusatore del pro-
cesso non può essere la parte premiata con il riconoscimento della tutela
giurisdizionale a suo favore così così come all’abusatore del diritto non
può essere riconosciuta la protezione dell’interesse che quel diritto è indi-
rizzato a salvaguardare. L’applicazione dell’art. 88, invece, prescinde dalla
soccombenza, poiché qui, non si abusa del processo nell’applicazione dei
relativi istituti, ma, per dirla pianamente, ci si comporta male violando
regole dell’etica universale. Regole nelle quali si può, forse, far rientrare il
dovere di verità e correttezza ricostruito con grande cura, da Carratta15 in
sede di dichiarazioni delle parti nell’opera di individuazione dell’oggetto
del processo. Anche se al riguardo nutro alcuni dubbi, che non possono
qui venire analizzati, perché richiederebbero un troppo lungo discorso, da
riservare ad altra sede.
In conclusione possiamo anche apprezzare l’impegno dei molti che han-
no scritto di abuso del processo. A patto di renderci conto che il concetto
così costruito è un semplice Ordungsbegriff, utile esclusivamente a scopi
didattici o classificatori, per l’assolvimento di un compito di «sistematica
estrinseca», vale a dire in funzione di un’attività ordinatrice del pensiero
diretta non alla deduzione di conseguenze giuridiche, bensì alla padronan-
za della materia ed alla sua semplificazione

  Op.cit., passim.
15
212 Sergio Chiarloni
Angelo De Zotti
Abusi della P. A. nei confronti del cittadino

Sommario:  1. La posizione del cittadino di fronte alla P.A. nella sua evoluzione che
corrisponde alla trasformazione dell’interesse legittimo da posizione passiva a posizione
attiva, protetta come e per certi aspetti più del diritto. – 2. La tutela dei nuovi diritti
del cittadino di fronte all’azione della P.A. nel rapporto oppositivo e pretensivo. – 3.
Alcuni esempi di cosa oggi si considera abuso o caratterizza l’abuso della P.A. e come
risponde l’apparato di protezione dei diritti e degli interessi legittimi del cittadino nei
confronti della P.A.

1.  La posizione del cittadino di fronte alla P.A. nella sua evoluzione
che corrisponde alla trasformazione dell’interesse legittimo da posizio-
ne passiva a posizione attiva, protetta come e per certi aspetti più del
diritto
Fino a pochi decenni fa il cittadino italiano – benché riconosciuto «so-
vrano» dalla Costituzione – era, di fatto, di fronte alla burocrazia, un sud-
dito e tale comunque, a torto o a ragione, si sentiva:
–  ogni procedimento amministrativo era atto di volontà unilaterale da
parte dell’Amministrazione e il cittadino non poteva intervenire a far sen-
tire le sue ragioni; non era codificato il principio della partecipazione;
–  la Pubblica Amministrazione non aveva l’obbligo di concludere il
procedimento amministrativo con un provvedimento esplicito;
–  il segreto d’Ufficio era un imperativo che nascondeva la P.A. al citta-
dino, e non lo garantiva dal rischio di imparzialità, o di abusi;
–  nessun funzionario era responsabile personalmente della ‘pratica’; il
cittadino non veniva mai a conoscenza di dove e presso chi giaceva la
stessa.
–  non c’era l’obbligo di concludere la pratica entro tempi prestabiliti,
e il cittadino poteva aspettare anni per veder riconosciuto un suo diritto.
Questo lo scenario più nero da cui siamo partiti e che ha cominciato la
sua mutazione con l’istituzione dei TAR e con la prima virata giurispru-
denziale degli anni 80
Oggi con la nuova legislazione, dalla 241/90 fino al recente T.U. sull’or-
dinamento degli enti locali, la Pubblica Amministrazione ha l’obbligo di
rinnovarsi nell’ottica dei diritti del cittadino.
I principi ispiratori sono:
214 Angelo De Zotti

trasparenza: al segreto d’ufficio si sostituisce l’obbligo, da parte dell’Am-


ministrazione, di rendere pubblici i tempi del procedimento, il nome del
funzionario responsabile, le motivazioni; il diritto del cittadino ad accedere
ai documenti amministrativi in possesso della P.A.
Efficienza e efficacia:
la P.A. deve perseguire costantemente e sollecitamente i propri fini isti-
tuzionali, nell’ottica della tutela degli interessi pubblici.
Economicità, chiarezza e semplicità:
la P.A. deve raggiungere i suoi obiettivi con il minor dispendio di mezzi
e strumenti economici procedurali, e di risorse umane. La P.A. ha l’obbligo,
secondo il principio di buona amministrazione, di snellire quanto possibile
l’azione amministrativa, utilizzando tutti gli strumenti previsti dalla legge:
–  autocertificazione
–  silenzio-assenso
–  denuncia di inizio attività in luogo di autorizzazione
–  conferenze di servizio e acquisizione d’ufficio di certificazioni e do-
cumenti in possesso di Pubbliche Amministrazioni.
Partecipazione:
il cittadino partecipa allo svolgimento dell’azione amministrativa, eser-
citando un controllo democratico sulla correttezza e sull’imparzialità
dell’Amministrazione.
Trasparenza:
L’Amministrazione non può concedere sovvenzioni, contributi, sussidi
o attribuzione di vantaggi economici diretti (corresponsione di somme di
denaro) o indiretti (esenzione da oneri fiscali o contributivi), se prima non
vengono fissati i criteri e le modalità per la concessione di questi aiuti:
questi criteri vanno resi pubblici, mediante affissione all’albo o in altre
forme idonee alla pubblica conoscenza. L’amministrazione, nella motiva-
zione del provvedimento, deve inoltre dimostrare l’adozione dei criteri di
scelta predeterminati.
Con questa norma viene fatta salva comunque la discrezionalità della
P.A., e, nel contempo, si consente agli interessati di controllare, secondo
il principio della trasparenza, la coerenza e l’imparzialità dell’azione am-
ministrativa.
Accesso ai documenti amministrativi:
La legge 241 prevede il diritto di prendere visione e ottenere copie di
documenti in possesso dell’amministrazione pubblica.
Questo diritto si esercita non solo nei confronti dell’amministrazione
pubblica, ma anche nei confronti di tutti gli Enti gestori di servizi pubblici
(telefoni, acqua, gas, trasporti, ecc.).
Questo diritto è concesso a coloro che se ne servono per proteggere un
Abusi della P. A. nei confronti del cittadino 215

interesse che abbia un rilievo, anche minimo, sul piano giuridico. In altri
termini, la visione deve essere motivata e non essere una semplice curiosità.
L’Amministrazione deve motivare validamente il rifiuto alla visione.
Va sottolineato che la regola è la trasparenza e il segreto è l’eccezione.
Il diritto di accesso ai documenti amministrativi, è finalizzato a un con-
trollo democratico, esercitato dai cittadini, sull’operato dei pubblici poteri,
al fine di verificarne la conformità ai dettati costituzionali, e individuare
eventuali favoritismi e collusioni.
2.  La tutela dei nuovi diritti del cittadino di fronte all’azione della
P.A. nel rapporto oppositivo e pretensivo
Cosa succede se questo quadro di principi e di regole non viene rispetta-
to e la P.A. abusa della propria posizione di titolare del potere autoritativo
basato sul principio di legalità.
Finita l’epoca dei controlli e finiti in cantina anche i rimedi ammini-
strativi (diversamente da quanto accade in Germania) oggi l’unico rimedio
(trascurando i vari difensori civici e le autorità di controllo) del cittadino
è rappresentato dal G.A..
Naturalmente devo essere breve e quindi dirò solo che la tutela del G.A.
è cresciuta nella stessa misura in cui è cresciuta (in contenuti, efficacia e
protezione) la situazione giuridica principe del cittadino verso la P.A. e cioè
l’interesse legittimo sia pretensivo che oppositivo.
Oggi anche dove la giurisdizione non è esclusiva (ossia riferita a diritti
e interessi legittimi) la tutela del cittadino è estremamente più piena e com-
pleta che in passato e basta pensare all’azione risarcitoria per equivalente
e alle sanzioni che possono colpire la P.A. inadempiente per capire che i
margini di tolleranza e le zone grigie in cui il potere autoritativo trovava
rifugio nella forma del potere discrezionale insindacabile sono praticamen-
te scomparse.
Penso anche ai poteri del giudice di assoggettare a consulenza tecnica
accertamenti e valutazioni che un tempo si ritenevano assolutamente in-
sindacabili sino a raggiungere la c.d. arbitrarietà.
3.  Alcuni esempi di cosa oggi si considera abuso o caratterizza l’abu-
so della P.A. e come risponde l’apparato di protezione dei diritti e degli
interessi legittimi del cittadino nei confronti della P.A.
In cosa consiste oggi l’abuso della P.A. nei confronti del cittadino?
L’abuso consiste in una condotta scorretta, che anche quando non possa
essere classificata in sé come illecita merita di essere repressa perché con-
traria ai principi costituzionali o anche semplicemente generali che devono
ispirare il rapporto tra l’autorità e il cittadino.
216 Angelo De Zotti

Un primo abuso, assai frequente, è rappresentato dal malgoverno del


procedimento e quindi dalla violazione delle regole anche formali che la
P.A. deve seguire per il corretto uso dei suoi poteri.
Per semplificare ci metto dentro tutte le comunicazioni necessarie a
consentire al cittadino per esercitare i propri diritti (avvio del procedimen-
to, presentazione di osservazioni, partecipazione, semplicità e comprensio-
ne (c.d. clare loqui e non aggravamento), difesa e quant’altro.
In tutti questi casi l’abuso commesso dalla P.A. può tradursi in un vizio
di legittimità o in una esimente che rende scusabile l’errore o la tardività in
cui è incorso il cittadino e che trova l’appropriato rimedio nelle previsioni
di legge.
Un secondo abuso, altrettanto frequente, è rappresentato dal malgo-
verno del tempo e dei termini previsti per la conclusione delle procedure.
La P.A. non rispetta i tempi, ricorre a manovre ostruzionistiche, arresta
o aggrava il procedimento, usa strumentalmente il tempo dell’agire per
ostacolare o impedire il conseguimento di interessi pretensivi etc.
Anche in questi casi si tratta di abusi che trovano rimedi e sanzioni
più o meno efficaci (si pensi all’introduzione quasi sempre velleitaria delle
astreintes (sanzioni pecuniarie per il ritardo).
Una terza tipologia di abusi, ce ne sono altri ma qui occorre stare alla
sintesi, riguarda la trasparenza e l’accesso ossia il ricorso a procedure non
assistite dalla visibilità e quindi non controllabili, ovvero svolte senza al-
cuna garanzia di conoscenza generale dove occorre ovvero non imparziali
e quindi dirette a favorire interessi privati anziché l’interesse pubblico.
Rientrano in questa tipologia di abusi anche varie forme di eccesso di
potere per sviamento ossia per un uso del potere che non corrisponde al
fine proprio dell’azione della P.A: e che conduce all’illegittimità dell’atto
inficiato da quel vizio.
Un ulteriore abuso, assai praticato riguarda infine la negazione dell’ac-
cesso dove ne sussistono invece tutti i presupposti di legge, al fine di osta-
colare l’esercizio di un sottostante diritto tra cui quello della tutela giuri-
sdizionale.
Concludo con un esempio di abuso sanzionato di recente dal TAR Mi-
lano proprio contro un rifiuto di accesso a documentazione, domanda che
invece sia pure parzialmente il giudice amministrativo ha ritenuto fondata.
Si trattava di un diritto di accesso proposto da una associazione dei
pendolari di Piacenza che aveva impugnato l’annullamento della decisione
della Commissione per l’accesso ai documenti che aveva dichiarato inam-
missibile il ricorso proposto contro il diniego formale formatosi per effetto
del silenzio opposto dalla Società Grandi Stazioni spa sull’istanza proposta
dall’associazione. Tale richiesta di accesso era finalizzata ad accedere ed
Abusi della P. A. nei confronti del cittadino 217

estrarre copia degli atti processuali e tecnici relativi all’attuale distribuzione


degli spazi della stazione centrale di Milano e dei contratti d’uso pubblico
delle singole aree e di ogni atto o documento utile per identificare quale
uso fosse attuabile negli spazi della stazione centrale e destinati alla pub-
blicità. In particolare, si sosteneva che nella stazione centrale di Milano
sarebbero stati progressivamente limitati gli spazi destinati al pubblico fer-
roviario, nel senso che sarebbero stati sempre riservati meno locali e meno
strutture alla libera fruizione dei viaggiatori perché gli spazi avrebbero
avuto una destinazione prevalentemente commerciale. Si diceva che nella
stazione ferroviaria di Milano sarebbe stato difficile trovare un posto a
sedere appena arrivati. ..
È stata respinta la richiesta dell’accesso perché escluso per i conces-
sionari di servizi pubblici. Il Tribunale ha ritenuto che ci fossero tutti i
presupposti per consentire l’accesso, ma il ricorso è stato accolto parzial-
mente nel senso che si è autorizzato l’accesso, la produzione di tutti quei
documenti che riguardano la destinazione degli spazi anche per i centri
commerciali; il Tribunale, invece, ha negato l’accesso a tutti quegli atti che
non riguardavano gli spazi commerciali, ritenendo che tutto ciò non fosse
funzionale alla domanda di accesso e all’interesse dell’associazione. E co-
munque su questo ci poteva essere un diritto alla riservatezza da tutelare
in egual modo, ma in sostanza tutto quello che era un abuso di diritto in
questo caso il tribunale amministrativo ha protetto il diritto di accesso e
lo ha eliminato.
218 Angelo De Zotti
Piera Maria Vipiana
L’abuso del processo amministrativo

Sommario:  1. Inquadramento del tema. – 2. «Corsi e ricorsi» della giurisprudenza


amministrativa in tema di abuso del processo amministrativo. – 3. Abuso del processo
amministrativo come «topos» in giurisprudenza: le principali ipotesi rientranti nella
nozione di abuso del processo amministrativo. – 4. La ratio del divieto di abuso del
processo amministrativo. – 5. La recente posizione giurisprudenziale negatrice dell’abu-
so del processo amministrativo per contraddittorietà di scelte processuali inerenti alla
giurisdizione. – 6. Abuso del processo amministrativo tra riferimenti normativi e prese
di posizione della dottrina. – 7. Un bilancio sull’abuso del processo amministrativo: i
rischi di «abusare» della nozione di abuso del processo. – 8. In particolare, riflessioni
sull’abuso del processo amministrativo per contraddittorietà di scelte processuali ine-
renti alla giurisdizione.

1.  Inquadramento del tema


Il tema dell’abuso del processo amministrativo normalmente viene col-
locato nell’ambito di quello dell’abuso del diritto o, più in generale, della
posizione giuridica soggettiva di vantaggio che rileva nel diritto ammini-
strativo: in realtà, tale collocazione non pare del tutto scontata, così come
non lo è la trattazione congiunta di abuso del diritto ed abuso del pro-
cesso1. A prescindere da tale profilo, sul piano del diritto processuale am-
ministrativo due appaiono le osservazioni utili ai fini dell’inquadramento
dell’oggetto delle pagine che seguono.
Innanzi tutto, su entrambi i temi l’esperienza amministrativistica ed
anche l’elaborazione dottrinale che ne consegue sono successive, in linea
di massima, a quelle di altri settori giuridici: segnatamente, a quelle civi-
listiche. Pertanto le argomentazioni di tali settori sono utili in uno studio
relativo al processo amministrativo.

1
  Illuminanti sembrano le parole di G. Verde, L’abuso del diritto e l’abuso del processo (dopo
la lettura del recente libro di Tropea), in Riv. Dir. Proc., 2015, 4-5, 1085, il quale, dopo aver
osservato che il tema dell’abuso del processo è stato sempre trattato «in correlazione con quello
dell’abuso del diritto e quasi come se ne fosse una naturale e appendicolare continuazione»,
ravvisa «qualche difficoltà ad omologare le due situazioni»: «nel processo è difficile individuare
una fattispecie sussunta o sussumibile dalla norma giuridica e, quindi, è difficile immaginare un
quid che ne impedisca il dispiegarsi degli effetti. Il processo è materiato di istanze e di atti che
hanno per destinatario il giudice, prima ancora che la controparte».
220 Piera Maria Vipiana

Inoltre la tematica dell’abuso risulta incentrata, nel diritto amministra-


tivo, soprattutto sulla realtà processuale2: è proprio relativamente all’abuso
del processo che si è formata un’interessante giurisprudenza3, in ordine alla
quale si è sviluppata una produzione dottrinale ormai ampia.
A fronte dell’analisi che è stata svolta con riferimento al processo civile
e che si è conclusa con una svalutazione del concetto di abuso del processo,
il modus operandi dell’amministrativista sembra debba seguire i seguenti
punti: analisi della giurisprudenza che ammette l’abuso del processo am-
ministrativo, nonché delle pronunce che negano tale figura; sistematica dei
casi in cui ciò avviene; inquadramento normativo, anche con riferimento
alle disposizioni del codice di procedura civile, ed individuazione della
possibile ratio del concetto di abuso del processo amministrativo; analisi
critica di tali casi, alla luce della produzione dottrinale, al fine di verificare
se esista una spazio dogmatico per la configurabilità dell’abuso del pro-
cesso amministrativo e se, comunque, esso abbia un’utilità concreta che
ne giustifichi la sussistenza.
2.  «Corsi e ricorsi» della giurisprudenza amministrativa in tema di
abuso del processo amministrativo
L’espressione «abuso del processo amministrativo» si trova frequente-
mente nella giurisprudenza amministrativa, sia di primo grado sia di ap-
pello: anche l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha avuto modo di
ricorrere ad essa. Ciò non può essere senza rilievo, visto che il processo
amministrativo, se innegabilmente è stato forgiato dalla giurisprudenza,
è tuttora un ambito processuale in cui la giurisprudenza gioca un ruolo
di rilievo, anche in seguito alla codificazione del 2010. La giurisprudenza
amministrativa in tema di abuso del processo amministrativo, quantunque
recente, appare discontinua.
L’utilizzazione di tale argomento giuridico è nato a livello di mero obi­
ter dictum nell’ambito di una nota sentenza dell’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato.

2
  M. Taruffo, Abuso del processo, in quest’opera, § 1, osserva che non sono pochi i giudici
che «si dedicano alla caccia delle fattispecie anche più rare di abuso del processo». V. altresì
Id., Abuso del processo, in Contratto e Impresa, 2015, n. 4-5, 832 ss. Con riguardo al processo
amministrativo, secondo G. Tropea, Spigolature in tema di abuso del processo, in Dir. Proc.
Amm., 2015, fasc. 4, pag. 1262 e segg., e spec. § 11, «… è proprio nel giudizio amministrativo
che il concetto di abuso trova la sua sublimazione, sia per il carattere tipicamente pretorio della
sua giurisprudenza, sia perché consente al giudice una sorta di valutazione pregiudiziale su un
super-interesse pubblico sempre immanente: quello all’efficiente processo».
3
  Di «sempre più pervasivo richiamo all’abuso del processo» parla, significativamente, R.
Villata, Sui «motivi inerenti alla giurisdizione», in Riv. Dir. Proc., 2015, 3, 632, nota 1.
L’abuso del processo amministrativo 221

In seguito ha avuto un’espansione via via più consistente, con appli-


cazione in un’ampia gamma di ipotesi, anche eterogenee tra loro, come
emerge dalla disamina che si tenterà di delineare fra breve. Fra l’altro, il
Consiglio di Stato ha scritto che l’esclusione dell’uso del processo ammi-
nistrativo come un abuso del mezzo giurisdizionale costituisce una com-
ponente dell’operazione logico-giuridica volta ad accertare la presenza
dell’interesse a ricorrere4.
Di recente però si registra una nuova posizione del Consiglio di Stato, e
precisamente della V Sezione5, che smentisce la precedente giurisprudenza
amministrativa, anche dello stesso Consiglio di Stato, riguardo ad una delle
principali fattispecie nelle quali si era configurato l’abuso processuale. Si è
osservato che in tal modo è stata inaugurata una terza fase6 nell’elaborazio-
ne processuale in materia di abuso del processo amministrativo, nella quale
si metterebbe in discussione il concetto, probabilmente anche a seguito
delle critiche dottrinali all’uso del medesimo.
3.  Abuso del processo amministrativo come «topos» in giurispru-
denza: le principali ipotesi rientranti nella nozione di abuso del processo
amministrativo
Le ipotesi di abuso del processo amministrativo che, in astratto, pos-
sono configurarsi, sono varie, salvo poi a sottoporle ad un vaglio vertente
sulla loro legittima ammissibilità. In questa sede se ne possono delineare
alcune, senza pretese di esaustività rispetto un fenomeno di recente e con-
tinuativa emersione e quindi non ancora del tutto consolidato nei suoi
contorni e nei sui confini.

4
  A tal fine «l’operazione logico-giuridica che il giudice è chiamato a compiere, vigendo
anche nella disciplina del processo amministrativo il principio fissato dall’art. 100 c.p.c. in virtù
del rinvio esterno operato dall’art. 39 c.p.a., si snoda in diversi momenti non tutti necessari,
occorrendo: a) delimitare il quadro fattuale emergente dagli atti del giudizio e sulla scorta di ciò
verificare in ragione del complesso della disciplina applicabile nella fattispecie se la posizione
azionata presenti un elemento che rispetto all’azione amministrativa contestata la ponga in una
situazione differente dall’aspirazione alla mera legittimità che anima tutti i consociati e se a li-
vello ordinamentale appaia giuridicamente apprezzata; b) accertare la presenza di una potenziale
lesione della posizione giuridica la cui tutela viene prospettata; c) individuare l’utilità, sia pure
potenziale o strumentale, di cui in concreto il ricorrente fruirebbe in caso di rimozione del
provvedimento; d) escludere che l’utilizzo del processo amministrativo si traduca in un abuso
del mezzo giurisdizionale (Cons. St., Sez. V, 15 luglio 2013, n. 3829). Le pronunce dei giudici
amministrativi citate nel presente lavoro si possono trovare, laddove non diversamente specifi-
cato, sul sito www.giustizia-amministrativa.it.
5
  Cons. St., Sez. V, 9 marzo 2015, n. 1192.
6
  S. Baccarini, Giudizio amministrativo e abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2015,
fasc. 4, § 5.
222 Piera Maria Vipiana

A) Da un primo punto di vista si possono distinguere gli abusi proces-


suali a seconda del possibile autore dell’abuso.
Dalla lettura della giurisprudenza emerge che l’abuso del processo am-
ministrativo può ricondursi all’azione (o all’omissione) sia dell’autorità
amministrativa, sia della parte privata. Gli scopi, più o meno larvatamente
perseguiti, possono essere vari: ad esempio, dilazionare l’adempimento di
un obbligo oppure dilatare i tempi di una vicenda processuale. In proposito
si è criticata7 – correttamente a parere di chi scrive – la prospettazione della
difficile configurabilità dell’abuso ad opera dell’amministrazione resistente.
Sovente, peraltro, ad un’analisi più approfondita, il vero autore dell’abu-
so processuale è il difensore dell’una o dell’altra parte8: si pensi al caso di
una parte privata carente di preparazione giuridica che si avvalga di un di-
fensore il quale, in modo spregiudicato, anche al fine di gonfiare l’importo
della sua parcella, moltiplichi senza necessità i ricorsi.
Anche al giudice amministrativo potrebbero essere imputati abusi pro-
cessuali9: a titolo esemplificativo, si può fare riferimento alla pratica dell’as-
sorbimento dei motivi al di là dei casi consentiti di assorbimento per legge,
per pregiudizialità necessaria e per ragioni di economia processuale10.
B) Avendo riguardo ai possibili soggetti lesi dall’abuso, si potrebbe di-
stinguere a seconda che l’abuso sia suscettibile di arrecare danno alle altre
parti oppure sia finalizzato a ledere interessi pubblici quali l’amministra-
zione della giustizia, oppure interessi fiscali, ossia ad eludere le disposizioni
fiscali.
Ad esempio, quest’ultima evenienza si verificherebbe, ad avviso di una
recente pronuncia del Consiglio di Stato, in caso di proposizione di un
unico ricorso contro una pluralità di atti non legati da un vincolo di con-
nessione oggettiva tale da giustificare la riunione degli ipotetici autonomi
ricorsi che il ricorrente avrebbe dovuto proporre: in tal modo, infatti, il

7
  G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015, 499.
8
  Cfr., con riferimento al processo civile, A. Dondi – A. Giussani, Appunti sul problema
dell’abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ.,
2007, 1, 193 ss., e F. Cordopatri, Ancora in tema di condanna del difensore alla rifusione delle
spese di lite, Nota a Cassazione civile, sez. Unite, 10 maggio 2006, n. 10706, in Giust. civ. 2007,
5, 1193 ss.
9
  G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, cit., 487 e 501 ss.
10
  Cons. Stato, Ad. Plen., 27 aprile 2015, n. 5. Nella pronuncia si fa esplicito riferimento
all’abuso del processo, laddove osserva che la prassi dell’assorbimento è stata criticata, fra l’altro,
perché «il mancato esame di alcune censure, inoltre, non può mai essere giustificato da esigenze
di carattere istruttorio, in quanto in alcun modo difficoltà istruttorie o esigenze di sollecita
definizione della causa possono condurre ad una limitazione della tutela, salvi i casi di abuso
del processo».
L’abuso del processo amministrativo 223

ricorrente pagherebbe un unico contributo unificato, in luogo di una plu-


ralità di contributi unificati, tanti quanti tali ricorsi autonomi11.
Oppure potrebbero aversi evenienze di abuso processuale di carattere,
per così dire, plurioffensivo12.
C) Da un altro punto di vista occorre verificare se l’abuso si esaurisca
in sede processuale, in modo che si presenti una contraddittorietà fra due
atti processuali, oppure se investa la sfera di diritto sostanziale.
In quest’ultimo caso la contraddittorietà si manifesta fra comporta-
menti in sede sostanziale e comportamenti in sede processuale. L’evenien-
za è accaduta nel caso preso in esame da una pronuncia che, perlomeno
a livello di obiter dictum, ha affermato: «il principio di non contradditto-
rietà dell’azione e quello di strumentalità e non abuso del processo am-
ministrativo inducono a negare ingresso, nel processo, all’azione di un
ente che neghi la validità e correttezza al proprio orientamento consul-
tivo espresso nell’ambito del pregresso procedimento amministrativo»;
pertanto il parere favorevole espresso dal Consiglio nazionale degli in-
gegneri nell’ambito di un procedimento istruito a mezzo di conferenza

11
  Nella specie, una società aveva inoltrato ad una provincia undici autonome istanze per
il rinnovo di precedenti autorizzazioni all’installazione di cartellonistica pubblicitaria lungo
la rete viaria provinciale e quattro autonome istanze di rilascio di nuove autorizzazioni: la
provincia, dopo aver aperto e istruito quindici autonomi procedimenti, ha emanato, in date
variabili ricomprese nell’arco di poco più di un mese, quindici differenti provvedimenti di di-
niego fondati sulla valutazione di specifiche ragioni ostative collegate alla peculiare situazione
di fatto della sicurezza stradale relativa a zone diverse della rete viaria provinciale. Contro tali
dinieghi la società aveva proposto un unico ricorso dinanzi al T.a.r. per la Toscana, il quale
(Sez. III, 21 dicembre 2010, n. 6786) ha dichiarato inammissibile il ricorso, non ravvisando un
vincolo di connessione oggettiva tale da giustificare la riunione degli ipotetici autonomi ricorsi
che avrebbe dovuto proporre la società. La sentenza viene confermata dal Consiglio di Stato
(Sez. V, 14 dicembre 2011, n. 6537), il quale, nel respingere l’appello contro di essa, osserva: in
primo luogo, che tutti i dinieghi impugnati hanno concluso autonomi procedimenti relativi a
diverse situazioni di viabilità e sono sostenuti da ragioni fattuali specifiche; in secondo luogo
che è irrilevante la deduzione in tutti i ricorsi siano dedotte delle medesime censure di difet-
to di motivazione e istruttoria atteso che le situazioni della viabilità, costitutive del sostrato
fattuale dei provvedimenti impugnati, sono diverse; in terzo luogo che è indubbio il notevole
vantaggio fiscale conseguito dal ricorrente che ha versato, in luogo di quindici, un solo contri-
buto unificato. Viceversa, se i soggetti che sono stati parti di uno stesso procedimento avanti
al giudice amministrativo, propongono domanda di riconoscimento dell’equo indennizzo per
l’eccessiva durata di tale procedimento basata sullo stesso presupposto giuridico di fatto, depo-
sitando nello stesso giorno distinti ricorsi alla Corte d’appello, con il patrocinio del medesimo
difensore, tale condotta deve ritenersi configurare un abuso del processo (Cassazione civile,
sez. I, 12 maggio 2011, n. 10488).
12
  In effetti, A. Dondi – A. Giussani, Appunti sul problema dell’abuso del processo civile
nella prospettiva de iure condendo, cit., 193 ss. parlano di abuso processuale come di un illecito
plurioffensivo.
224 Piera Maria Vipiana

di servizi precluderebbe al Consiglio locale l’impugnativa della determi-


nazione13.
D) Da un ulteriore punto di vista si potrebbero contrapporre gli abusi
processuali da azione, per così dire, a quelli da omissione. I primi casi sono
i più frequenti ed attengono, ad esempio, alla proposizione di azioni e alla
formulazione di motivi di ricorso. L’ultima evenienza sembra verificarsi
nel caso preso in esame dalla nota pronuncia dell’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato14: il creditore deve evitare di esercitare un’azione con
modalità tali da impedire un aggravio della sfera del debitore; la manca-
ta impugnazione di un provvedimento amministrativo può ritenersi un
comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che
una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno, con la conse-
guenza che in questo caso deve escludersi la risarcibilità del danno; la grave
inerzia nella coltivazione di rimedi giudiziali e di iniziative stragiudiziali
può integrare la violazione degli obblighi cooperativi che gravano sul cre-
ditore danneggiato15.
E) Inoltre occorrerebbe distinguere gli abusi processuali a seconda della
fase in cui essi hanno luogo. Ad esempio, l’abuso del processo, inteso come
abuso dell’azione, dovrebbe essere contrapposto all’abuso nel processo.
A quest’ultimo riguardo, ossia sul piano dell’abuso nel processo, si può
far riferimento alla proposizione di motivi aggiunti senza giustificazione.
In giurisprudenza, infatti, si è ritenuto che, in un caso in cui non sussiste-
vano, alla data dell’udienza pubblica, «nuove ragioni» che giustificassero
la proposizione di motivi aggiunti per integrare la causa petendi, ai sen-
si dell’art. 43 c.p.a., lo strumento dei motivi aggiunti era stato utilizzato
impropriamente per superare il termine di articolazione della domanda,
stabilito in conseguenza della fissazione della udienza pubblica: pertanto
si verteva, secondo la giurisprudenza, in un caso di abuso del processo16.
Quanto all’abuso del processo e quindi dell’azione, molte sono le fat-
tispecie emerse in sede giurisprudenziale. Innanzi tutto si riscontrano rap-
porti fra l’abuso del processo e la legittimazione a ricorrere17: la funzione

13
  Consiglio di Stato sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1478.
14
  Cons. Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011 n. 3.
15
  T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. II, 6 maggio 2011, n. 653, n. 654, e n. 655.
16
  V. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 14 settembre 2015, n. 1974. Nella specie, le ragioni
della domanda risarcitoria erano tutte presenti e nella disponibilità della parte ricorrente ben pri-
ma della data in cui il ricorrente aveva depositato una memoria con cui si riservava di articolare
la domanda: tali ragioni avrebbero potute essere articolate nel rispetto dei termini processuali di
cui all’art. 73 c.p.a. in vista dell’udienza pubblica.
17
  E. Boscolo, Le condizioni dell’azione e l’abuso del processo amministrativo, in Giurispru­
denza Italiana, 2014, n. 8-9, 2006 ss., Nota a Cons. St., Sez. V, 2 aprile 2014, n. 1572.
L’abuso del processo amministrativo 225

selettiva della giurisprudenza nei confronti delle condizioni dell’azione è


volta ad arginare forme di abuso del processo. Come si è rilevato in dot-
trina18, la giurisprudenza ha afferma che titolo e interesse ad agire costitu-
iscono strumenti di controllo sulla meritevolezza dell’interesse sostanziale
azionato, in relazione ai principi di cui agli artt. 24 e 111 Cost.: tale con-
trollo è stato visto come «espressione del divieto di abuso del processo,
inteso come esercizio dell’azione in forme eccedenti o devianti, rispetto
alla tutela attribuita dall’ordinamento»: in tal senso si sono espresse sia
l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato19, sia la giurisprudenza succes-
siva20. Correlativamente sono state inquadrate nell’abuso del processo pure
la proposizione di un ricorso «esplorativo»21 e la mancata dichiarazione
della sopravvenuta carenza di interesse e la contestuale adozione di rimedi
dilatori22.
Inoltre peculiari ipotesi di abuso del processo possono essere consi-
derati i casi di abuso della domanda cautelare23: così, nel ritenere che la

18
  R. Damonte, Numero minimo, termine di efficacia e revoca delle offerte, Nota a Cons.
Giust. Amm. Sic., 29 gennaio 2015, n. 84, in Urbanistica e appalti, 2015, n. 5, 543 ss. e spec. 549.
19
  Nel citare quest’ultima espressione, di Cons. Stato, Sez. V, 23 ottobre 2014, n. 5255, Cons.
Stato, Ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9, dopo aver premesso che «l’azione di annullamento da-
vanti al giudice amministrativo è soggetta – sulla falsariga del processo civile – a tre condizioni
fondamentali (titolo, interesse ad agire, legittimazione attiva/passiva), che devono sussistere al
momento della proposizione della domanda e permanere fino al momento della decisione fi-
nale», afferma: «tali condizioni (ed in particolare il c.d. titolo e l’interesse ad agire) assolvono
una funzione di filtro in chiave deflattiva delle domande proposte al giudice, fino ad assumere
l’aspetto di un controllo di meritevolezza dell’interesse sostanziale in gioco, alla luce dei valori
costituzionali ed internazionali rilevanti, veicolati dalle clausole generali fondamentali sancite
dagli artt. 24 e 111 Cost.; tale scrutinio di meritevolezza, costituisce, in quest’ottica, espressione
del più ampio divieto di abuso del processo».
20
  T.R.G.A., Trento, 4 novembre 2015, n. 433; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. III, 26 giugno
2105, n. 1780.
21
  Ad esempio, il Cons. Giust. Amm. Sic., 23 gennaio 2015, n. 57, ha confermato la sentenza
di primo grado (T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 14 marzo 2014, n. 836) nella quale si leggono i
seguenti passaggi: la natura «esplorativa» di un ricorso dev’essere verificata non sul piano della
specificità, o meno, dei motivi (aspetto attinente, invece, al profilo dell’ammissibilità delle do-
glianze dedotte), ma sul differente piano teleologico, ossia «della obiettiva finalità perseguita dal
ricorrente», sicché tale verifica riguarda il piano dell’interesse a ricorrere; in materia elettorale, il
fine precipuo del ricorso «esplorativo» non è quello, tutelato dall’ordinamento, di accertare even-
tuali illegittimità delle operazioni elettorali, ma è piuttosto «quello di addivenire a un secondo
scrutinio, in sede giurisdizionale, dei voti espressi, nella speranza di far affiorare ex post eventuali
vizi del voto ipotizzati ex ante in sede di ricorso»; quindi il ricorso «esplorativo» è inammissibile
perché tale impugnativa concreta «un vero e proprio abuso del processo, strumentalizzando le
potenzialità del giudizio al fine del conseguimento di un interesse non meritevole di tutela».
22
  Cfr. T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 10 marzo 2016, n. 137.
23
  Tale espressione si legge, ad esempio, in T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. III, 19 maggio 2008, n.
1404, in www.giustamm.it, 2008, n. 5.
226 Piera Maria Vipiana

domanda cautelare non solo non risultava supportata da alcuna deduzione


in ordine al pregiudizio grave ed irreparabile, ma appariva pure utilizzata
in modo non appropriato alla sua funzione e non rispettoso delle regole
processuali – mirando ad ottenere di fatto una sorta di anticipazione della
fase di merito –, il giudice amministrativo24 ha ravvisato, nel caso, un’ipo-
tesi di abuso del processo riscontrabile in caso di esercizio improprio, sul
piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere
le più convenienti strategie di difesa25.
Altre ipotesi di abuso del processo si potrebbero ravvisare in caso di
abuso del ricorso in ottemperanza. A titolo esemplificativo, il Consiglio di
Stato è partito dalla premessa che non è consentito dall’ordinamento pro-
cessuale il ricorso all’ottemperanza per dare esecuzione a una sentenza am-
ministrativa in tema di silenzio, ai sensi dell’art. 117 c.p.a., che consente di
richiedere senz’altro al giudice che ha adottato la sentenza di accoglimento
(statuendo la sussistenza dell’obbligo di provvedere dell’Amministrazio-
ne) di nominare (nella stessa sentenza o a seguito di successiva istanza
dell’interessato) un commissario ad acta che dia compiuta attuazione, in
sostituzione della Amministrazione inadempiente, al decisum contenuto
in sentenza. Correlativamente ha escluso che il giudizio di ottemperanza
possa essere applicato anche per l’esecuzione delle sentenze rese a seguito
dello speciale procedimento previsto avverso il silenzio, osservando che si
verrebbe a determinare «un inutile quanto defatigante aggravamento dei ri-
medi processuali (con un possibile profilo, per il ricorrente in ottemperan-
za, di abuso del processo)»26. Ancora in tema di giudizio di ottemperanza,
è stato ritenuto che si risolva in un abuso del processo la proposizione di
separati ricorsi per l’ottemperanza in relazione ad un medesimo titolo ese-
cutivo: in tal modo si realizzerebbe un artificioso frazionamento giudiziale
di un credito unitario27.

24
  T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, ordinanza 4 dicembre 2015, n. 1608.
25
  Nel quadro dell’abuso del processo potevano essere viste pure le cosiddette migrazioni
cautelari: cfr. G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, cit., 489.
26
  Infatti la legge prevede il menzionato strumento diretto per dare esecuzione piena e sa-
tisfativa alle sentenze che hanno accertato un’inerzia amministrativa, consentendo l’immediata
nomina del commissario ad acta che si sostituisca all’Amministrazione inadempiente per l’ado-
zione dell’atto mancato (Cons. Stato, Sez. VI, 22 ottobre 2015, n. 4844). In tema di giudizio di
ottemperanza e abuso processuale v. pure l’interessante caso preso in esame da T.A.R. Campania,
Napoli, Sez. VII, 6 maggio 2015, n. 2493.
27
  T.A.R. Umbria, Sez. I, 27 gennaio 2016, n. 69 ( e già T.A.R. Umbria, Sez. I, 19 gennaio
2015, n. 39), con riferimento alla nota posizione di Cass., Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726.
Invece l’abuso processuale non sarebbe configurabile in presenza non di frazionamento di un
credito originariamente unitario, ma di due crediti soggettivamente diversi, sebbene sorti per
effetto del medesimo decreto (T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 14 gennaio 2015, n. 151). Analoga-
L’abuso del processo amministrativo 227

Sempre nell’ambito dell’abuso del processo è stato inquadrato pure


l’esperimento del ricorso per revocazione identico ad altro rivolto all’im-
pugnazione della medesima sentenza: infatti mancherebbe ogni seria meri-
tevolezza dell’interesse sostanziale in gioco28.
F) Inoltre talora l’abuso processuale si concreta in una sola azione (o
omissione), talaltra si configura soltanto in presenza di una pluralità di
azioni od omissioni, ciascuna delle quali, isolatamente considerata, non
costituisce abuso del processo, ma esercizio del diritto di azione o di difesa.
G) I tipi di abuso processuale configurati dalla giurisprudenza si pos-
sono altresì differenziare a seconda delle conseguenze cui danno luogo. Si
potrebbe trattare, quanto alle parti, dell’applicazione del regime delle spese
processuali in deroga alla regola della soccombenza29, oppure della mera
comminatoria della sanzione pecuniaria30 o, ancora, della declaratoria di
inammissibilità del ricorso o del motivo31 o, addirittura, della declaratoria
di infondatezza degli stessi32. Quanto ai difensori delle parti, conseguenze
potrebbero emergere sul piano disciplinare.
H) Non mancano neppure casi in cui ci si trova di fronte ad ipotesi,
per così dire, innominate di abuso del processo: infatti si è osservato che
«A volte la «logica» dell’abuso, pur senza essere direttamente richiamata,
finisce per essere centrale nella ricostruzione pretoria di un istituto, specie
nel caso in cui esso sia privo di un’espressa disciplina»33.
I) L’abuso del processo viene, infine, invocato con riguardo a con-
testazioni in materia di giurisdizione34: si accenna a tale evenienza per

mente un problema di configurabilità, o meno, di abuso processuale dipendente da artificioso


frazionamento del credito potrebbe porsi in sede di azione risarcitoria: cfr. T.A.R. Campania,
Napoli, Sez. VIII, 26 agosto 2015, n. 4268.
28
  Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 13 maggio 2015, n. 2398. Nella specie, quanto alla «valutazione
delle tre condizioni fondamentali dell’azione di annullamento nel processo amministrativo (ti-
tolo, interesse ad agire, legittimazione attitva/passiva)», la Sezione III ha riscontrato «l’assenza
di ogni seria meritevolezza dell’interesse sostanziale in gioco». Ad avviso della Sezione, tale
scrutinio di meritevolezza, alla luce degli artt. 24 e 111 Cost., costituisce la «manifestazione del
più ampio divieto di abuso del processo, inteso come esercizio dell’azione in forme eccedenti o
devianti, rispetto alla tutela che le accorda l’ordinamento».
29
  Ad esempio, talvolta il giudice amministrativo dichiara che, proprio in considerazione
dell’abuso proccessuale, le spese del giudizio devono essere compensate tra le parti, in deroga al
criterio della soccombenza, anche solo virtuale (T.A.R. Umbria, Sez. I, n. 69/2016, cit.).
30
  Cons. Stato, Sez. IV, 10 marzo 2014, n. 1131.
31
  Ex multis, v. Cons. Stato, Sez. III, 13 aprile 2015, n. 1855.
32
  Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 8 aprile 2015, n. 1778.
33
  G. Tropea, Spigolature in tema di abuso del processo, cit., § 10.
34
  Non mancano nemmeno fattispecie in cui si configura un abuso inerente al regolamento
preventivo di giurisdizione: cfr. G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico,
cit., 490.
228 Piera Maria Vipiana

ultima non perché sia la meno rilevante, ma perché in ordine ad essa


sussistono interessanti sviluppi, quantunque si tratti di una fattispecie
giurisprudenziale di non recente emersione. Precisamente, in ipotesi in
cui il difetto di giurisdizione era stato dedotto in grado d’appello dalla
parte che aveva proposto il ricorso in primo grado, il Consiglio di Stato
ha ritenuto che la contestazione della giurisdizio­ne fosse inammissibile,
invocando la nozione di abuso del processo35. In senso analogo, la mede-
sima impostazione – elaborata in relazione alla posizione del ricorrente
principale – è stata assunta anche in relazione al caso in cui il ricorrente
incidentale, in primo grado, ha affermato la sussistenza di quella giuri-
sdizione amministrativa che poi, in appello nega, dopo essere risultato
vincitore nel merito36.

4.  La ratio del divieto di abuso del processo amministrativo

Come si può notare dalla casistica appena riportata e che non è agevole
incasellare in categorie sistematiche chiare, siamo di fronte ad una cospicua
eterogeneità di fattispecie nelle quali si ravvisa l’abuso del processo ammi-
nistrativo. Invero, per un verso le parti non di rado inseriscono la menzio-
ne dell’abuso del processo nei loro ricorsi in primo grado o in appello37.

35
  Cfr. Cons. St., Sez. III, 7 aprile 2014, n. 1630; Cons. St., sez. VI, 8 febbraio 2013, n. 703;
Cons. St., Sez. III, 17 maggio 2012, n. 2859; Cons. St., Sez. V, 7 febbraio 2012, n. 656. In dottrina
v.: P. Patrito – M. Protto, Eccezione di difetto di giurisdizione proposta in appello dal ricorren­
te, in Urbanistica e appalti, 2012, 467 ss.; V. Carbo­ne, Il giudicato implicito sulla giurisdizione
evita l’abuso del processo, in Corriere Giur., 2012, 3, 405 ss.; P. M. Vipiana, Il Consiglio di Stato
e l’abuso del processo amministrativo per contraddittorietà dei comportamenti processuali, in Giur.
it., 2012, 1429 ss.; R. Barbieri, Le­gittimazione ad eccepire il difetto di giurisdizione e abuso del
processo nella giustizia amministrativa, in Riv. dir. proc., 2013, n. 3, 754; F. Dinelli, La questione
di giurisdizione fra il divieto di abuso del diritto e il princi­pio della parità delle parti nel processo,
in Foro amm.-Cons. Stato, 2012, 1998; Lo Presti, La contestazione in appello della giurisdizione
incardinata in primo grado integra abuso del processo?, ibid., 2011; G. D’Angelo, Eccezione di
difetto di giurisdizione e abuso del processo, Nota a Cons. Stato, Sez. V, 29 ottobre 2014, n. 5346
, in Urbanistica e appalti, 2015, 2, 181 ss.
36
  Cfr. Cons. giust. Amm. Sic., 22 ottobre 2015, n. 634, che osserva come, in base a tale
orientamento, anche il ricorrente incidentale, qualora scelga di articolare domande (art. 42 cod.
proc. amm.) di accertamento pregiudiziale volte comunque ad ottenere una pronuncia che pre-
cluda l’esame del merito del ricorso principale, incorre in un abuso «se non versa lealmente e
da subito l’intero arco delle eccezioni in grado di paralizzare l’iniziativa avversaria». Sul punto
il Consiglio di giustizia ha disposto il deferimento della questione all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato.
37
  Ad esempio, il T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 22 aprile 2015, n. 400, prende in esame
«l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, sollevata dalla resistente amministrazione per violazio-
ne del principio d’intangibilità del giudicato e, più in generale, per abuso del processo».
L’abuso del processo amministrativo 229

Per un altro verso, la giurisprudenza, non senza qualche ripensamento38,


ha applicato tale nozione a macchia di leopardo, a volte traendone con-
seguenze rilevanti processualmente, altre volte utilizzandola come mero
argomento nell’iter della motivazione39. Sovente la giurisprudenza ammini-
strativa cerca anche di giustificare il ricorso all’argomentazione dell’abuso
del processo, eventualmente richiamando assunti presenti nella giurispru-
denza della Corte di cassazione.
In particolare, in giurisprudenza si legge che l’esercizio dell’azione in
forme eccedenti o devianti, rispetto alla tutela attribuita dall’ordinamento,
configura abuso del processo e lede il principio del giusto processo, inteso
come risposta alla domanda della parte; assodata la ratio del divieto di
abuso del processo, ne discende che l’esegesi del dato normativo proces-
suale, seppur doverosamente rispettosa della lettera delle singole norme
scrutinate, deve privilegiare opzioni avversanti ogni inutile e perdurante
appesantimento del giudizio al fine di approdare, attraverso la riduzione
dei tempi della giustizia, ad un processo che risulti anche giusto40. Pertanto
il divieto dell’abuso del processo ha come ratio, innanzi tutto, il principio
del giusto processo.
Altra ratio del divieto va ravvisata nel principio di non contradditto-
rietà, che risulta da vari passaggi di sentenze: talora si è osserva che l’Am-
ministrazione, avendo proposto e coltivato l’appello, invece di provvedere
alla rinnovazione del procedimento amministrativo, «ha posto in essere un
comportamento contraddittorio che finisce per violare il divieto generale
di venire contra factum proprium»41; talaltra, con un’affermazione avente
portata generale, si qualifica il  venire contra factum proprium  dettato da
ragioni meramente opportunistiche come figura paradigmatica delle con-
dotte integranti abuso del diritto42.
Non mancano pronunce che correlano la configurazione dell’abuso del

38
  V. infra ai §§ 5 e 8.
39
  Ad esempio, nell’affermare l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale
demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, un T.A.R. ha di recente osservato: «ed
eccessiva la preoccupazione del giudice amministrativo di evitare che la dichiarata improcedibi-
lità del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria inneschi una nuova sequenza di ricorsi avverso i
provvedimenti demolitori successivi al diniego di sanatoria edilizia, con un paventato pericolo di
abuso del processo; infatti, un ordine di demolizione fondato su un diniego di sanatoria edilizia
divenuto incontestabile, sarebbe a sua volta un provvedimento incontestabile, almeno per i pro-
fili riferibili all’assenza del titolo edilizio, definitivamente accertata e non più ovviabile» (T.A.R.
Molise, Sez. I, 26 febbraio 2016, n. 86).
40
  Cons. St., Sez. V, 14 dicembre 2011, n. 6537.
41
  Cons. Stato, Sez. IV, 2 marzo 2012, n. 1209.
42
  Cons. Stato Sez. V, n. 656/2012, cit.
230 Piera Maria Vipiana

processo alla produzione di un irragionevole pregiudizio alla controparte


del giudizio43: quindi si tratterebbe, sul piano processuale, di un’ennesima
applicazione del principio di ragionevolezza.
5.  La recente posizione giurisprudenziale negatrice dell’abuso del
processo amministrativo per contraddittorietà di scelte processuali ine-
renti alla giurisdizione
In una pronuncia recente la V Sezione del Consiglio di Stato44 smenti-
sce la posizione del Consiglio sulla configurazione dell’abuso del processo
nel caso di venire contra factum proprium a proposito della giurisdizione.
Nella fattispecie che è stata l’occasione di tale revirement un soggetto aveva
adito un T.A.R. con un ricorso ricco di censure, ma ancora in primo grado,
in sede di memoria conclusionale, aveva sollevato l’eccezione di difetto di
giurisdizione. Il T.A.R.45 respingeva sia tale eccezione – ravvisando la giuri-
sdizione esclusiva del giudice amministrativo –, sia tutte le censure attinenti
al merito. La sentenza veniva quindi appellata dal medesimo ricorrente in
primo grado, il quale, oltre a proporre motivi di appello attinenti al merito,
contestava di nuovo la giurisdizione da lui adita.
La V Sezione in via preliminare si occupava del motivo di appello con
il quale si contestava la giurisdizione amministrativa. Dopo aver richiamato
il «prevalente orientamento» del Consiglio di Stato che configura tale com-
portamento come abuso del processo e lo sanziona con l’inammissibilità
della censura di difetto di giurisdizione, la pronuncia in esame si sofferma
sull’orientamento difforme che è stato di recente espresso dalle Sezioni
Unite della Corte di cassazione, in ossequio al quale46 la V Sezione am-
mette che, nella specie, sussista il ragionevole dubbio, da parte del soggetto
ricorrente in primo grado ed appellante in appello, circa la sussistenza della
giurisdizione amministrativa e, di conseguenza, nega la configurabilità di
un abuso processuale.
Il ragionamento della V Sezione merita alcune riflessioni – che si ef-

43
  Cons. Stato, Sez. III, n. 1855/2015, cit., secondo cui la contestazione della giurisdizione
da parte del soggetto che abbia optato per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel
merito, sia risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione impli-
cita, proprio sulla questione della giurisdizione arreca, fra l’altro, «un irragionevole sacrificio
alla controparte, costretta a difendersi nell’ambito del giudizio da incardinare innanzi al nuovo
giudice, in ipotesi provvisto di giurisdizione, adito secondo le regole in tema di translatio iudicii
dettate dall’art. 11 c.p.a.».
44
  Cons. St., Sez. V, n. 1192/2015, cit. Per ampie critiche alla figura dell’abuso del processo
amministrativo v. pure l’ordinanza di Cons. giust. Amm. Sic., n. 634/2015.
45
  T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III ter, 13 novembre 2014, n. 11405.
46
  In effetti la Sezione cita Cass. civ., Sez. Unite, 19 giugno 2014, n. 13940.
L’abuso del processo amministrativo 231

fettueranno nella parte finale del presente contributo47 – e, in effetti, ha


indotto la dottrina a puntualizzare che, in base ad esso ed all’analoga presa
di posizione delle Sezioni unite, l’iter logico che il giudice dovrebbe seguire
sarebbe il seguente: «Vi sono ragioni soggettive ovvero oggettive di dubbio
sulla giurisdizione? L’eccezione è ammissibile. Non vi sono? È abuso del
processo». Quindi il punto focale dell’iter logico si sposta sull’incertezza
sulla spettanza della giurisdizione.
6.  Abuso del processo amministrativo fra riferimenti normativi e
prese di posizione della dottrina
Di fronte alle prese di posizione della giurisprudenza che si sono viste
ed alla configurazione giurisprudenziale dell’abuso inerente al processo48,
ci si può chiedere se il legislatore prenda in considerazione i casi di abuso
del processo amministrativo49 e quale sia il trattamento normativo di essi.
A prescindere dai richiami alle generiche disposizioni dell’art. 2 Cost.
o dell’art. 1175 c.c., su cui si fonda la giurisprudenza fautrice della co-
struzione dell’abuso del processo, occorre far riferimento a due ordini di
disposizioni: talune attengono a canoni di condotta delle parti e del giudice
nel processo; altre disposizioni sono incentrate sulle conseguenze rispetto
alla violazione di tali canoni.
Nell’ambito delle disposizioni del primo ordine, occorre richiamare i
principi di effettività e del giusto processo, enucleati, rispettivamente negli
artt. 1 e 2 del codice del processo amministrativo (di cui al d. lgs. 2 luglio
2010, n. 104)50, oltre che nelle fonti superiori ivi richiamati. Correlati sono
i doveri di motivazione e di sinteticità degli atti, descritti all’art. 351. Anche
il vigente codice deontologico forense, approvato dal Consiglio nazionale
forense il 31 gennaio 2014, conferisce concretezza al dovere dei difensori

47
  V. infra al § 8.
48
  Significativo è di recente lo scritto e già il titolo di A. Panzarola, Presupposti e conseguen­
ze della creazione giurisprudenziale del c.d. abuso del processo, Relazione al convegno di studio
organizzato in Roma il 28 maggio 2015 dalla Associazione italiana fra gli studiosi del processo
amministrativo dal titolo «Abuso del processo amministrativo?», in Dir. proc. amm., 2016, n. 1.
49
  Quanto al processo civile, l’abuso del processo trova esili basi testuali, come afferma D.
Borghesi, Abuso del processo, in www.associazionecivilisti.it, 30 novembre 2009.
50
  Ai sensi dell’art. 1, «La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva
secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo». A norma dell’art. 2, «Il processo
amministrativo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo
previsto dall’articolo 111, primo comma, della Costituzione» (c. 1) e «Il giudice amministrativo
e le parti cooperano per la realizzazione della ragionevole durata del processo» (c. 2).
51
  Ai sensi dell’art. 3 c.p.a. «Ogni provvedimento decisorio del giudice è motivato» (comma
1) e «Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica» (comma 2).
232 Piera Maria Vipiana

delle parti di comportarsi in giudizio con lealtà e probità come prescrive


l’art. 88 c.p.c.
In particolare, la violazione del precetto di cui all’art. 3, comma 2, c.p.a.
è stata anche configurata in termini di abuso del processo, determinando
uno svolgimento assolutamente distorto del rapporto e un’indebita dila-
tazione dei tempi del giudizio, ponendosi per questo altresì in contrasto
con il principio di ragionevole durata del processo, inteso quale corollario
del giusto processo52.
Fra le disposizioni dell’altro ordine, innanzi tutto occorre richiamare
l’art. 35, par. 3, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che
dichiara inammissibili i ricorsi che la Corte ritiene abusino del diritto di
ricorrere al giudice europeo53.
Quanto al diritto interno, in primo luogo, l’art. 26 c.p.a., rubricato
«Spese di giudizio», e precisamente il suo comma 1, nello statuire che,
«quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del
giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedu-
ra civile», richiama anche l’art. 96, co. 3, c.p.c., quale introdotto ad opera
dell’articolo 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009, n. 69, secondo
cui «in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91,
il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente
al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente
determinata»54. Correttamente il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’art.
26, c. 2, delinea un’ «ipotesi speciale rispetto all’archetipo divisato dall’art.

52
  M. Nunziata, La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo:
fra valore retorico e regola processuale, in Diritto Processuale Amministrativo, 2015, fasc. 4, pag.
1327 ss. V. pure: A. Giusti, Principio di sinteticità e abuso del processo amministrativo, in Giu­
risprudenza Italiana, 2014, n. 1; C. Commandatore, Forma degli atti processuali. Sinteticità e
chiarezza degli atti processuali nel giusto processo, in Giurisprudenza Italiana, 2015, n. 4, 851 ss.;
53
  In effetti, secondo la giurisprudenza della Corte EDU costituisce abuso del processo ogni
comportamento che possa ostacolare il buon andamento del procedimento, inclusa ogni condotta
consistente nel sottacere informazioni essenziali riguardanti i fatti di causa, l’uso eccessivo dei
procedimenti giudiziari o la mancata indicazione di collegamenti tra cause. In proposito v. T.A.R.
Piemonte, Sez. II, 18/12/2015, n. 1798.
54
  Sull’art. 96, c. 3, c.p.c. cfr., ex multis: G. De Marzo, Le spese giudiziali e le riparazioni
nella riforma del processo civile, in Foro it., 2009, V, 397 ss.; G. Scarselli, Le novità per il
processo civile (L. 18 giugno 2009 n. 69). Le modifiche in tema di spese, ivi, 2009, V, 310 ss.; A.
Carratta – C. Mandrioli, Come cambia il processo civile. L. 69/2009, Giappichelli, Torino,
2009, p. 31; D. Potetti, Novità della L. n. 69 del 2009 in tema di spese di causa e responsabilità
aggravata, in Giur. merito, 2010, n. 4 , I, 936 ss.; R. Giordano, Brevi note sulla nuova respon­
sabilità processuale cd. Aggravata, in Giur. merito, 2010, n. 2, II, 43 ss.; P. Porreca, La riforma
dell’art. 96 c.p.o. e la disciplina delle spese processuali nella L. n. 69 del 2009, in Giur. merito,
2010, n. 7-8, I, 1834 ss.; G. Buffone, L’art. 96, comma 3, c.p.c.: un ulteriore strumento di tutela
dei diritti dei minori, in Dir. Famiglia, 2011, 2, 1307 ss.; G. C. Salvatori, Tra abuso del diritto
L’abuso del processo amministrativo 233

96, co. 3, c.p.c.»; quest’ultima norma, infatti, «non tipizza i presupposti


applicativi della condanna officiosa della parte soccombente al pagamento
della somma equitativamente determinata»: la norma sancita dall’art. 96, c.
3, risulta indeterminata nei suoi presupposti, mentre l’art. 26, c. 2, consente
la condanna solo in presenza di due ben individuate circostanze. Peraltro il
Consiglio di Stato ha escluso la tesi che configura tale sanzione «come una
pena privata inflitta officiosamente dal giudice per reprimere l’abuso dello
strumento del processo»: infatti «il carattere officioso della inflizione della
pena privata non appare conforme alle caratteristiche generali dell’istituto
che postula normalmente la richiesta della parte interessata al giudice»55.
In secondo luogo, il comma 2 (come sostituito dall’articolo 1, com-
ma 1, d.lgs. n. 195 del 2011) del medesimo art. 26 c.p.a. conterrebbe una
regolamentazione specifica della «responsabilità aggravata» nel processo
amministrativo56, prevedendo che «il giudice condanna d’ufficio la parte
soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non in-
feriore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato do-
vuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente
ha agito o resistito temerariamente in giudizio». In tal modo il legislatore
ha voluto reprimere in modo specifico l’abuso processuale57: già sussistono
applicazioni concrete della norma, con riferimento proprio a casi di abuso
del processo58.

e funzione punitiva: una lettura ricognitiva dell’art. 96, comma 3°, cod. proc. civ. e prospettive de
iure condendo, ne La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata 2015, n. 10, 10998.
55
  Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 31 maggio 2011, n. 3252, e Consiglio di Stato, sez. V, 23
maggio 2011, n. 3083, secondo cui la somma di cui all’art. 96, co. 3, c.p.c. sarebbe un inden-
nizzo per il «danno lecito da processo», cioè il nocumento che la parte vittoriosa ha subito per
l’esistenza e durata del processo, anche se la controparte non ha agito o resistito in mala fede o
senza prudenza.
56
  M. Lipari, La nuova sanzione per «lite temeraria» nel decreto sviluppo e nel correttivo al
codice del processo amministrativo: un istituto di dubbia utilità, in www.giustizia-amministrativa.
it, 3 novembre 2011, § 3.
57
  Come osserva D. Nazzaro, Azione, «abuso processuale» ed «equa» condanna pecuniaria
(art. 26 del c.p.a. approvato con d. lgs. n. 104 del 2010), in www.giustizia-amministrativa.it,
14 marzo 2011, secondo cui in tal modo il legislatore ha voluto far fronte alle «liti meramente
avversative».
58
  Ad esempio, Cons. giust. amm. Sic., sez. giurisd., 5 gennaio 2011, n. 13, ha preso in esame
il caso di una persona fisica al quale il Consiglio stesso, in più occasioni, aveva negato la legittima-
zione a ricorrere (come erede, quale socio delle società in amministrazione straordinaria o quale
liquidatore delle medesime società) contro provvedimenti riguardanti un complesso alberghiero.
Pertanto il Consiglio condanna tale persona, stante la sua totale soccombenza in giudizio e la
temerarietà della lite dalla stessa introdotta, al pagamento di un’ulteriore somma, in favore del
Ministero dello sviluppo economico e delle costituite società in amministrazione straordinaria: la
condanna viene basata sul contrasto delle difese svolte da tale persona con gli specifici precedenti
del Consiglio medesimo ed il risarcimento è riconosciuto a fronte del pregiudizio, causalmente
234 Piera Maria Vipiana

Relativamente alle ipotesi di lite temeraria sembra si possa ritenere che


si tratti di specie peculiari di abuso del processo. Se tra lite temeraria ed
abuso del processo è configurabile un rapporto, rispettivamente, di species
a genus, il concetto di abuso processuale ricomprende sicuramente molte
altre fattispecie.
Della nozione di abuso processuale la giurisprudenza fa uso anche nei
giudizi nei quali si discute della violazione del termine di durata ragionevo-
le del processo: infatti il diritto a chiedere il ristoro dei danni patrimoniali e
non subiti prescindono dall’esito satisfattivo o meno della lite, «con l’unico
limite dell’abuso del processo ravvisabile nei casi di lite temeraria promossa
cioé nella piena consapevolezza dell’infondatezza o inammissibilità della
propria pretesa ed al solo fine di perseguire con tattiche processuali di varia
natura il perfezionamento della fattispecie di cui alla citata legge Pinto»59.
Dalla breve analisi delle disposizioni sopra riportate emerge non sem-
brano esistere, relativamente al processo amministrativo, strumenti norma-
tivi che servano a prevenire casi di abuso processuale: il legislatore non ha
evidentemente ritenuto di spingersi in tale direzione, come invece ha fatto
in altri casi60. Inoltre emerge che il legislatore non menziona espressamente
le figure di abuso del processo amministrativo, quantunque non poche
fattispecie legislativamente previste possano essere ricondotte ad esse.
Quanto alla dottrina amministrativistica che si è occupata di abuso del
processo amministrativo, essa è ormai ampia: quantunque ci siano state
alcune voci anteriori alle prese di posizione della Cassazione61 all’adozione
del codice del processo amministrativo62, è a partire dell’approvazione di

riconducibile all’iniziativa giudiziaria intrapresa dal soggetto, «in termini di maggiori costi, pub-
blici e privati, da sopportare nella definizione delle procedure di liquidazione dei beni delle so-
cietà in amministrazione straordinaria». Inoltre «deve essere riparato anche il danno morale delle
predette controparti per esser state costrette contrastare l’abuso del processo amministrativo» da
parte del soggetto medesimo, «in violazione dei valori costituzionali tutelati dagli artt. 24 e 111
Cost.». Viene quindi applicato l’istituto di cui all’art. 96, u.c., c.p.c., «poi riprodotto ... anche nel
citato art. 26, comma 2» c.p.a. Cfr. pure Cons. Stato, Sez. IV, n. 1131/2014, cit.
59
  G. Comporti, La tutela risarcitoria « oltre « il codice, in Foro amministrativo TAR, 2010,
10, 67 ss., § 6, con citazioni di giurisprudenza. Cfr., ex multis, Cassazione civile, sez. VI, 13 set-
tembre 2011, n. 18745. V. anche Cassazione civile  sez. VI, 23 dicembre 2011, n. 28592.
60
  Come osserva G. Alpa, L’art. 140-bis del codice del consumo nella prospettiva del diritto
privato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 2, 379 ss., § 10, l’art. 140 bis, «per evitare l’abuso del
processo», «ha allestito un percorso piuttosto complesso, che può apparire una sorta di campo
minato»: si tratta di un «filtro collegato con requisiti processuali, oltre che con le limitazioni
derivanti dal diritto sostanziale»
61
  G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, cit., 484.
62
  N. Paolantonio, Abuso del processo (diritto processuale amministrativo), voce Enc. Dir.,
Annali, vol. II, tomo 1, Milano, 2008, 1 ss., e C. E. Gallo, L’abuso del processo nel giudizio
amministrativo, in Diritto e processo amministrativo, 2008, 1005 ss.
L’abuso del processo amministrativo 235

quest’ultimo che le prese di posizione dottrinali si sono moltiplicate, in


parte attraverso note ad altrettante pronunce giurisprudenziali, in parte
attraverso saggi e monografie autonome.
Si tratta, in generale, di una dottrina critica a volte nei confronti di
singole figure di abusi processuali, emergenti da sentenze, altre volte nei
confronti della figura dell’abuso del processo amministrativo in generale.
Nel primo senso, si è manifestata l’impressione «che una parte dei giudici
amministrativi si sia orientata verso un eccessivo ampliamento di tali conte-
nuti, ritenendo abusivi comportamenti che tali non sembrano essere»63. Da
tale punto di vista, la dottrina è ricca di argomenti, più o meno condivisi e
condivisibili, contrari a prese di posizione giurisprudenziali.
7.  Un bilancio sull’abuso del processo amministrativo: i rischi di
«abusare» della nozione di abuso del processo
Occorre premettere che, anche in sede di studio del processo civile e
della teoria generale del processo, esiste un’incertezza di fondo nel modo
di configurare l’abuso del processo. In particolare, di recente è stato scritto:
«l’abuso del processo assumerà lo stesso ruolo della ragionevole durata del
giudizio, ovvero diventerà anch’esso canone di interpretazione delle norme
processuali, oltre che formula utilizzata per giustificare quella continua
opera di riforma delle norme codicistiche, i cui dubbi risultati sono sotto
gli occhi di tutti?»; si è quindi manifestata l’impressione che di tale «cate-
goria concettuale» non si potrà fare a meno64.
A prescindere dalle aporie presenti in tali settori giuridici e circoscri-
vendo le seguenti, brevissime, considerazioni al diritto processuale ammi-
nistrativo, sembra a chi scrive che quello di abuso del processo è un tipo
di argomentazione giuridica che può avere una duplice valenza: una certa,
l’altra perlomeno discutibile.
La valenza certa è quella di schema argomentativo in cui collocare una
serie di istituti che già trovano la loro disciplina in sede normativa. A tale
livello l’abuso del processo assurge a mero minimo comun denominatore
di tali istituti: una sorta di fil rouge fra essi oppure, in altri termini, una
scatola in cui collocarli tutti. In tale ruolo l’abuso del processo è una figura
inidonea a ledere: sicuramente non indispensabile, ma forse non inutile
a creare, a fini sistematici e didattici, una base unitaria ad un numero di
istituti eterogenei.

63
  F. G. Scoca, Il «costo» del processo tra misura di efficienza e ostacolo all’accesso, in Dir.
Proc. Amm., 2014, fasc. 4, 1414 ss., spec. § 10.
64
  M. F. Ghirga, Recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema di abuso del processo,
in Riv. Dir. Proc., 2015, 2, 445.
236 Piera Maria Vipiana

L’altra valenza cui si accennava prima è molto più impegnativa e quindi


di incerta configurazione: sarebbe una valenza di tipo precettivo. La que-
stione è: sono legittimamente ammissibili casi di abuso del processo ammi-
nistrativo al di là delle ipotesi previste in sede normativa? Quindi l’abuso
di tale processo ha una sua valenza autonoma? Soprattutto: tale valenza
sarebbe utile e, prima ancora, consentita dall’ordinamento giuridico?
Certamente la giurisprudenza amministrativa ha, in più occasioni, mo-
strato di accogliere pure questa seconda valenza dell’abuso del processo,
la quale troverebbe la sua ratio in una serie di principi, che si sono presi
in esame in precedenza, i quali costituirebbero una giustificazione della
configurabilità dell’abuso nel senso preso in considerazione.
Quale potrebbe essere la valutazione, in sede dottrinale, di tale orienta-
mento della giurisprudenza? A avviso di chi scrive, occorrerebbe assumere
una posizione mediana fra quella dei (pochi) assertori della nozione di abu-
so del processo amministrativo e quella dei (molti) detrattori della stessa.
Il punto da cui partire è che il diritto al processo è tutelato sia costitu-
zionalmente, sia in sede di CEDU, nella sua effettività e nella sua pienezza.
Da tale premessa discende, come conseguenza necessaria, che i casi in cui
si configura un abuso del processo devono essere giustificati da ragioni
valide e non possono interpretarsi estensivamente. Pertanto sembrano del
tutto condivisibili le parole di chi ha scritto: «Le teorie che danno fiato
all’abuso del processo in forma generalizzata, a ben vedere, celebrano la
morte dell’autonomo diritto di azione e di difesa»65.
In particolare, quanto all’abuso dell’azione (ossia del ricorso), è chiaro
che, a monte di un processo, esiste sempre un’alea, nel senso che l’attore o
il ricorrente non è tenuto ad essere sicuro della fondatezza delle sue prete-
se: né, di regola, potrebbe esserlo, soprattutto relativamente a controversie
in materia di diritto amministrativo.
Un abuso del processo può essere solo apparente e quindi il ricorso al
processo può giustificarsi in maniera obiettiva se è stato causato da un’og-
gettiva incertezza nell’interpretare le norme oppure da palesi contrasti
giurisprudenziali che magari si sono manifestati in clamorosi revirements,
come non di rado accade in materia di diritto amministrativo. Di conse-
guenza, può accadere che la configurazione di un abuso del processo si
concreti, a sua volta, in un abuso66.

65
  G. Verde, L’abuso del diritto e l’abuso del processo (dopo la lettura del recente libro di
Tropea), cit., § 3.
66
  D’altronde, non mancano, in dottrina lavori il titolo dei quali fa riferimento proprio
all’abuso dell’abuso del processo: cfr. R. De Caria, La nuova fortuna dell’abuso del diritto nel­
la giurisprudenza di legittimità: la Cassazione sta abusando dell’abuso? Una riflessione sul piano
L’abuso del processo amministrativo 237

Ad esempio, qualora, successivamente al primo ricorso si fosse verifica-


to un mutamento negli indirizzi giurisprudenziali circa l’individuazione del
giudice dotato di giurisdizione, sarebbe fuori luogo – ad avviso di chi scrive
– configurare un abuso del processo nel comportamento di chi dapprima
adisce un giudice (mostrando in tal modo di riconoscerne la giurisdizio-
ne) e poi, a distanza di tempo, contesta la competenza giurisdizionale del
medesimo giudice.
In epoca anteriore all’approvazione del codice del processo amministra-
tivo, il Consiglio di Stato ha avuto modo di rilevare, quanto all’abuso dello
strumento processuale, che nel nostro ordinamento non esistono sanzioni
atipiche per il distorto uso dello strumento processuale67. Attualmente al-
cune disposizioni del codice del processo amministrativo e, in particolare,
l’art. 26 c.p.a. sembrano utili a colpire, in parte, siffatto uso distorto. Quin-
di l’abuso del processo amministrativo resta una nozione giurisprudenziale
che, in assenza di definizioni normative, l’abuso del processo amministrati-
vo è una nozione non circoscrivibile con facilità. Evidente è la necessità di
delineare un equilibrio fra diritto al processo e abuso del processo: anche
perché il comportamento che costituisce abuso per una parte si traduce in
violazione del diritto per l’altra parte. Tale via è anche molto difficile da
percorrere.

8.  In particolare, riflessioni sull’abuso del processo amministrativo


per contraddittorietà di scelte processuali inerenti alla giurisdizione
L’abuso processuale consistente nella contraddittorietà del comporta-
mento di chi adisce il giudice amministrativo in primo grado e poi appella
per difetto di giurisdizione la sentenza amministrativa che lo vede soccom-
bente costituisce la figura di abuso del processo amministrativo che ha de-
stato maggiori dubbi e che, sostenuta da numerose pronunce del Consiglio
di Stato68, sembra oggetto del revirement, cui si è accennato, da parte della
V Sezione nel 201569.
A questo riguardo sembrano opportune alcune considerazioni speci-
fiche. A monte ci si può domandare, innanzi tutto, se siamo di fronte ad

costituzionale e della politica del diritto, in Giur. Cost., 2010, 4, 3627 ss., e M. Costanza, Brevi
note per non abusare dell’abuso del diritto, Nota a Cass., Sez. I, 11 dicembre 2000, n. 15592, in
Giust. Civ., 2001, 10, 2443.
67
  Cons. St., Sez. IV, 30 novembre 2009, n. 7486.
68
  Cons. St., Sez. III, 13 aprile 2015, n. 1855, annotata da K. Peci, Difetto di giurisdizione
e abuso del processo amministrativo, in Giornale di diritto amministrativo, 2015, n. 5, 691 ss.
69
  V. supra, al § 5.
238 Piera Maria Vipiana

un vero e proprio mutamento di rotta nella giurisprudenza del Consiglio


di Stato.
A quanto sembra, la fattispecie oggetto della pronuncia adottata nel
2015 dalla V Sezione presenta peculiarità che non comparivano in quelle
prese in esame da altre pronunce precedenti che, invece, configuravano
l’abuso processuale. Innanzi tutto, il dubbio sulla giurisdizione del giudice
amministrativo era già stato espresso dallo stessa ricorrente nel processo di
primo grado in sede di memoria conclusionale: quindi tale dubbio non è
stato fatto rilevare soltanto in sede di ricorso in appello. In secondo luogo,
quest’ultimo, nel caso oggetto della pronuncia della Sezione V nel 2015,
presentava una pluralità di motivi, ossia motivi inerenti al merito oltre a
quello vertente sulla giurisdizione, mentre in casi precedenti l’unico motivo
di appello consisteva proprio nel difetto di giurisdizione del giudice adito
in primo grado. In terzo luogo, nel caso de quo la V Sezione riconosce
espressamente che la spettanza della giurisdizione al giudice amministra-
tivo oppure all’autorità giudiziaria ordinaria era oggettivamente dubbia,
mentre in altri ciò non emerge dalle sentenze che avevano riconosciuto la
sussistenza dell’abuso processuale.
Pertanto la fattispecie presa in esame dalla V Sezione nel 2015 presen-
ta tre peculiarità tali da giustificare un diverso orientamento rispetto al
passato: bisogna verificare se il nuovo indirizzo sarà manifestato anche in
presenza di fattispecie nelle quali la giurisdizione del giudice amministra-
tivo venga contestata, come unico motivo formulato per la prima volta in
sede di appello, da parte del medesimo soggetto che avevo adito il giudice
amministrativo in primo grado. Un vero e proprio mutamento di indirizzo,
da parte della giurisprudenza, può essere riconosciuto soltanto di fronte a
casi identici.
D’altronde pure la sentenza delle Sezioni Unite70 che viene menzionata
nella stessa pronuncia del Consiglio di Stato si fonda su un caso concreto
peculiare. Il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile l’eccezione di
difetto di giurisdizione proposta dall’appellante e già ricorrente in primo
grado, affermando che la condotta processuale di chi in primo grado sostie-
ne la giurisdizione del giudice amministrativo e in secondo grado la conte-
sta darebbe luogo ad abuso del processo. La Corte di cassazione, a Sezioni
Unite, rigetta il ricorso in cassazione proposto dal medesimo appellante e
dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo, escludendo che si versi
in ipotesi di abuso del processo, a causa di due considerazioni: la prima
è costituita dall’eccezione sollevata da una delle parti resistenti, «condotta

70
  Cass. civ., Sez. Unite, Sent., 19 giugno 2014, n. 13940.
L’abuso del processo amministrativo 239

che vale a giustificare il ripensamento e la necessità di chiarimento sulla


questione di giurisdizione»; l’altra giustificazione «risiede nella complessità
della materia del contendere che dava corpo al ricorso iniziale»71. Pertanto
nemmeno nella pronuncia delle Sezioni Unite si riscontra una negazione,
in via generale, della figura di abuso del processo amministrativo inerente
al difetto di giurisdizione.
A prescindere dalla sussistenza di un autentico revirement, in capo alla
summenzionata pronuncia della V Sezione, appare utile formulare alcune
considerazioni sulla configurabilità dell’abuso del processo amministrativo
per contraddittorietà di scelte processuali inerenti alla giurisdizione.
In proposito è innegabile che, per come è configurato l’attuale siste-
ma binario di giustizia amministrativa, i dubbi in tema di riparto fra le
giurisdizioni sono all’ordine del giorno, anche in relazione a casi in cui
potrebbero delinearsi materie rientranti nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo.
A tale considerazione occorre affiancare il rilievo che la previsione di
brevissimi termini di decadenza per la proposizione del ricorso davanti
ai Tribunali amministrativi regionali inducano chi prospetta, anche in via
dubitativa, la giurisdizione del giudice amministrativo a proporre comun-
que ricorso al fine di non incorrere in decadenze. D’altronde tale strada è
suggerita pure dalla disciplina della cosiddetta «translatio iudicii» delineata
all’art. 11 del codice del processo amministrativo, che prevede la conser-
vazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda, ma «ferme
restando le preclusioni e le decadenze intervenute»: tale disciplina, di con-
seguenza, è finalizzata alla tutela del ricorrente, ma non può diventare stru-
mento per eludere i termini decadenziali previsti dalla legge72.
Sembra eccessivo imporre al ricorrente dinanzi al T.A.R. che abbia
dubbi sulla giurisdizione dello stesso di proporre ricorso preventivo di
giurisdizione (di cui agli artt. 10 c.p.a. e 41 ss. c.p.c.). D’altronde, nella
stessa configurazione del codice del processo amministrativo, giudice sulla
giurisdizione in primis è e dovrebbe essere il giudice adito: infatti l’art. 9
c.p.a. prevede che il difetto di giurisdizione sia rilevato in primo grado
anche d’ufficio.
Certamente in un periodo di crisi generale, in cui occorre applicare il
più possibile il principio di economia processuale anche in sede di azione,

71
  Pertanto, come si è rilevato in dottrina, l’assunto cui pervengono le Sezioni unite si fonda
su queste due condizioni (M. F. Ghirga, Recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema
di abuso del processo, in Riv. Dir. Proc., 2015, 2, 445 ss., spec. § 4).
72
  T.A.R. Lazio, Roma, sez. I quater, 24 maggio 2011, n. 4612.
240 Piera Maria Vipiana

i difensori devono fare la loro parte, esprimendo già in sede di ricorso


eventuali dubbi sulla giurisdizione adita, in modo da evitare rimedi estremi
e penalizzanti per i loro assistiti, come la declaratoria di inammissibilità
del ricorso, da parte dei giudici amministrativi73, i quali hanno indubbia-
mente ampie possibilità di manovra nelle maglie del codice del processo
amministrativo74.

  Cfr. la posizione di S. Baccarini, Giudizio amministrativo e abuso del processo, cit., § 7.


73

  L. Torchia, I principi generali, in Giorn. Dir. amm., 2010, 1120 s., la codificazione dei
74

principi non sottrae al giudice amministrativo ampi margini di manovra.


Francesca Benatti
Danni punitivi e abuso del diritto

Sommario:  1. I punitive damages a confronto con la teoria dell’abuso del diritto. – 2.


I danni sovracompensativi e l’abuso del diritto. – 3. Riflessioni conclusive.

1.  I punitive damages a confronto con la teoria dell’abuso del diritto


L’accostamento1 dei danni punitivi all’abuso del diritto potrebbe sem-
brare una contraddizione: gli ordinamenti che ammettono i primi, non
riconoscono il secondo e viceversa. I punitive damages nascono in Inghil-
terra, si affermano negli Stati Uniti secondo una traiettoria ben nota, ma
la loro funzione deterrente-sanzionatoria viene considerata estranea ai si-
stemi di responsabilità di civil law. La teoria dell’abuso del diritto nasce in
Francia e l’istituto viene successivamente recepito, seppur con sfumature
diverse, dalla legislazione o dalla giurisprudenza dei paesi di civil law2. In
common law, invece, la possibilità per le corti di staccarsi dal precedente
tramite l’uso accorto del distinguishing e soprattutto l’assenza del principio
assolutistico «qui iure suo utitur neminem laedit» hanno reso non neces-
saria l’adozione di questa figura3. Il termine «abuse of right» è utilizzato
solo come mera traduzione di un concetto straniero o quando la lingua
inglese è lingua franca4.
Fermarsi a queste prime impressioni sarebbe, però, sbagliato. Innan-
zitutto, la rapida circolazione dei modelli ha portato all’introduzione dei
danni punitivi in ordinamenti di civil law, come la Cina. Si discute della
loro adozione in Francia; in Italia, dove la giurisprudenza ribadisce la loro
inammissibilità, si leggono sentenze che concedono danni sovracompensa-
tivi e spesso il risarcimento del danno morale nasconde finalità sanzionato-
rie. Ugualmente si osserva che negli ordinamenti di common law figure da

1
  La dottrina in tema di danni punitivi e di abuso del diritto è vasta. In questa relazione sono
citati solo quei saggi con cui si è più intensamente colloquiato.
2
  M. Atienza & J.R. Manero, Illeciti atipici, Bologna, 2004.
3
  A. Gambaro, Abuso del diritto, II)Diritto comparato e straniero, in Enc. giur., I, Roma,
1988, p. 10 ss.
4
  Sulle problematiche terminologiche e di traduzione legate alla nozione di abuso v. A. Gam-
baro, Note in tema di abuso del diritto ed ordine di mercato nel diritto italiano e comunitario,
in Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano, 2011, p. 94 ss.
242 Francesca Benatti

noi ricondotte sotto la nozione di abuso del diritto, sono fattispecie tipiche
di torts. È il caso, ad esempio, della nuisance5.
Deve, dunque, essere esaminato se in concreto sia opportuna la liquida-
zione dei punitive damages nei casi di abuso del diritto per ottenere non
soltanto una effettiva deterrenza e sanzione, ma anche per supplire alle
difficoltà di quantificazione e concessione dei danni compensativi mediante
uno strumento che per sua stessa natura sfugge a esigenze di precisione,
rigore e alle limitazioni poste al risarcimento del danno6. È noto, infatti,
che oggi la determinazione del quantum costituisce una problematica si-
gnificativa per la complessità della realtà tecnica, economica e sociale: le
categorie tradizionali paiono non sufficientemente precise per inquadrare
la molteplicità delle fattispecie concrete. Si pensi alle distinzioni fra expec-
tation e reliance interest, fra lucro cessante e danno emergente, oggi poste
in discussione. La perdita di un bene produttivo7, ad esempio, comporta
entrambi i danni, tanto è vero che i modelli economici li costruiscono
insieme. In questo contesto è agevole osservare come i punitive damages
potrebbero essere una soluzione per superare tali difficoltà.
Il tema è tuttavia complicato per due ragioni diverse. La prima con-
siste nella maggiore attenzione di dottrina e giurisprudenza nel valutare
l’ammissibilità nel nostro ordinamento dell’abuso8 e successivamente nel
delineare le fattispecie in cui si concretizza rispetto alle sue conseguenze,
tra le quali si annovera il danno risarcibile. Peraltro questo elemento è stato
utilizzato quasi esclusivamente per determinare l’esistenza di un abuso. La
seconda riguarda la necessità, qualora si volessero adottare i danni punitivi
nell’abuso, di introdurli per via legislativa. Ciò dovrebbe comportare anche
la contestuale previsione di questa figura. Non si può, infatti, lasciare la
loro adozione all’opera della giurisprudenza che si troverebbe ad essere
creatrice sia della fattispecie che del danno.
Va osservato come il nostro legislatore è ricorso a una figura simile ai
danni punitivi solo nel caso di abuso del processo9. L’ art 96, comma terzo,
c.p.c., infatti, prevede che il giudice possa condannare la parte soccombente

5
  Cfr. A. De Robilant, Abuse of Rights: The Continental Drug and the Common Law, 61
Hastings Law Journal , 2010,p. 687.
6
  G. Calabresi, The complexity of torts-The case of punitive damages, in M.S. Madden (a
cura di) Exploring tort law, Cambridge University Press, 2005, p. 333 ss.
7
  P. Trimarchi, Il Contratto: Inadempimento e rimedi, Milano, 2010, p. 129 ss.
8
  Cfr. U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’ abuso del diritto nell’ ordinamento
giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, p. 18 ss. In tal senso F. Busnelli e E. Na-
varretta, Abuso del diritto e responsabilità civile, in Studi in onore di Pietro Rescigno, vol. V,
Responsabilità civile e tutela dei diritti, Milano, 1998, 77 ss.
9
  M. Taruffo, Elementi per una definizione di «abuso del processo», in Aa.Vv., L’abuso del
Danni punitivi e abuso del diritto 243

al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente


determinata. Le ragioni di questa scelta si rinvengono nell’esigenza di tu-
telare il bene giuridico della corretta amministrazione della giustizia e di
ottenere una reale deterrenza. La sola regola della soccombenza risulta,
infatti, insufficiente.
I danni punitivi e l’abuso del diritto presentano alcuni elementi comuni.
Essi operano come reazioni a ipotesi di dolo, di volontarietà della condotta.
È stata efficacemente constatata l’illusorietà dell’idea che il divieto di abuso
del diritto basti a moralizzare le condotte giuridiche10; la stessa considera-
zione vale in relazione ai danni puntivi. Entrambi questi istituti sembrano
trovare un fondamento nella necessità di correggere anormalità, arbitri,
offese rilevanti alla società e ai suoi valori. In essi è presente un elemento
«sociale». Infatti, secondo alcune tesi recenti i punitive damages rispon-
dono, oltre a logiche di deterrenza e retribuzione, anche alla esigenza di
compensazione della società come obiettivo autonomo, basato su logiche
della giustizia correttiva11. Pare, quindi, suggestiva l’idea di unirli al fine di
sanzionare comportamenti gravi, impedire il ripetersi di queste condotte
e in parte risarcire chi ha subito un pregiudizio. Secondo questa visione
di fronte a dolo e a condotte gravi, l’ordinamento non potrebbe rimanere
indifferente e pertanto si imporrebbe la necessità di concedere tali danni
come espressione di una condanna sociale. La condotta di chi commette
l’abuso, infatti, non sarebbe adeguatamente colpita tramite il risarcimento
tradizionale, spesso di difficile misurazione.
Nella giurisprudenza statunitense i punitive damages sono liquidati nei
casi di abuso che costituiscono anche torts come la nuisance. Questo non
deve stupire: i danni punitivi sono un rimedio generale che si applica alle
varie fattispecie, non servono a gerarchizzare gli illeciti quanto a sanzio-
nare la condotta. La loro concessione si ritrova, seppur più difficilmente,
anche in alcune ipotesi di recesso ingiustificato nei contratti di franchising,
distribuzione e agenzia. In tali casi, la liquidazione dei punitive damages si
fonda su argomenti diversificati, che muovono dalla violazione del dovere
fiduciario e dalla grave lesione della buona fede ad un unequal bargaining
power. Sono ipotesi al confine fra contratto e illecito e in cui la fattispecie
viene spesso manipolata per farla rientrare in un tort e consentire proprio il
risarcimento punitivo. Questo avviene principalmente quando la condotta

diritto, Padova, 1998, p. 435; Id., L’abuso del processo: profili generali, in Riv. trim. dir. e proc.
civ.,2012, p. 117 ss.
10
  Cosi P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., I, 1965, p. 289.
11
  C.M. Sharkey, Punitive damages as societal damages, in 113 Yale L. Jour., p. 2003, p.
347 ss.
244 Francesca Benatti

è simile al nostro abuso del diritto, essendo opportunistica, caratterizzata


da dolo o dal consapevole disinteresse per i diritti altrui12. Non tutte le
giurisdizioni li riconoscono, in alcune di esse sono richiesti elementi ulte-
riori. In quella di New York, ad esempio, per ottenerli nei casi di egregious
bad faith breach of contract è generalmente reputato necessario il «public
harm»13.
È interessante osservare come l’elemento del dovere fiduciario, unita-
mente alla good faith and fair dealing e alla reasonable expectations of the
parties, sia alla base di alcune decisioni in tema di minority shareholders
oppression in cui sono stati concessi i danni punitivi14. Essi sono liquidati,
soprattutto quando si tratta di una close company, giacchè la minoranza
può difficilmente rimediare agli abusi della maggioranza e si trova in una
posizione vulnerabile. Va constatato, però, che anche in tali fattispecie la
condotta deve essere particolarmente grave e opportunistica, altrimenti
emerge la preferenza per una liquidazione compensativa, quando è richie-
sto un rimedio risarcitorio. I danni punitivi si configurano qui come una
rara eccezione.
Tuttavia l’applicazione di punitive damages per abuso del diritto, an-
che alla luce della frammentata e non uniforme esperienza statunitense,
non sembra convincente. Un ostacolo alla loro liquidazione si incontra
innanzitutto in un argomento di ordine storico-sistematico. Essi nascono
come punto d’incontro fra diritto civile e penale, introducendo nel primo
l’elemento retributivo/deterrente tipico del secondo. La loro natura quasi-
criminal, seppur non è mai stata considerata in common law un impedi-
mento alla loro liquidazione all’interno di una azione in torts, ha portato
dottrina e giurisprudenza ad interrogarsi sulla applicabilità delle garanzie
costituzionali tipiche del diritto penale nelle ipotesi di loro concessione.
Ciò però determina una loro inammissibilità nei casi in cui non vi sia una
certezza della fattispecie come nell’abuso del diritto: si verificherebbe, in-
fatti, una lesione del principio di legalità.
Questa obiezione potrebbe essere superata da considerazioni pragma-

12
  Sull’applicazione dei danni punitive nei casi di opportunistic o fraudolent breach of con-
tract mi permetto di rinviare a F. Benatti, Correggere e punire dalla law of torts all’inadempi­
mento del contratto, Milano, 2008,p. 286 ss.
13
  N.Y. Univ. v. Contl Ins. Co., 87 N.Y. 2d 308, 662 N.E.2d 763, 639 N.Y.S.2d 283 (1995).
Tuttavia gli standards utilizzati dalle corti sono vari. V. sul punto J. Leventhal & T. Dickerson,
Punitive Damages: Public Wrong or Egregious Conduct – A Survey of New York Law, in 76
Albany L. Rev., 2013, p. 961.
14
  V. D. K. Moll, Shareholder Oppression And «Fair Value»: Of Discounts, Dates, and
Dastardly Deeds In The Close Corporation, in 54 Duke L. Jour., 2004, p. 293 ss., in particolare
nota 252.
Danni punitivi e abuso del diritto 245

tiche che individuerebbero nei punitive damages lo strumento più efficace


nei casi di abuso. È interessante in proposito l’esperienza brasiliana, in
cui convivono entrambi gli istituti. L’art. 187 del codice civile prevede che
«Também comete ato ilícito o titular de um direito que, ao exercê-lo, exce-
de manifestamente os limites impostos pelo seu fim econômico ou social,
pela boa-fé e pelos bons costumes». Per quanto riguarda i danni punitivi,
seppur formalmente siano reputati inammissibili, le corti, nel quantificare
i danni morali, si basano sulle medesime ragioni e criteri tipici dei danni
punitivi, sicchè si determina una coincidenza tra le due voci di danno. La
stessa dottrina ne riconosce la quasi totale uguaglianza.
Un’analisi attenta della giurisprudenza permette di individuare le so-
miglianze fra le fattispecie di abuso riconosciute più frequentemente nel
nostro ordinamento e quelle brasiliane e in queste ultime si riscontra la
costante concessione dei danni morali. Ma il differente contesto giuridico,
sociale ed economico tra i due sistemi non consente una equiparazione o
anche solo di trarre indicazioni utili. I giuristi brasiliani hanno imparato
la lezione di Pietro Rescigno e sono consapevoli delle tensioni ideologiche
sottese alla nozione di abuso. Tuttavia, proprio l’enfatizzazione del ruolo
sociale15 dell’abuso unito a una visione fortemente solidaristica della buona
fede e dei danni morali comporta una loro funzione diversa da quella che
potrebbero svolgere nel nostro ordinamento.
Il maggior impedimento risiede proprio nell’ applicazione in una ipotesi
vaga e dai contorni indefiniti16, che rappresenta la crisi della fattispecie17,
di una figura di danno altrettanto soggetta alla discrezionalità del decisore.
Benchè non si voglia ripetere il dibattitto sulla certezza del diritto che ha
accompagnato le origini di questo istituto18, è chiaro che un loro abbina-
mento comporterebbe una totale incertezza sia sull’ an sia sul quantum. Di
fronte a un principio difficilmente inquadrabile e concretizzabile in regole
precise e chiare anche per le diverse19 interpretazioni dottrinali e giuri-

15
  Sull’ utilizzo dell’abuso del diritto in un ordinamento socialista cfr. G. Crespi Reghizzi
& R. Sacco, L’abuso del diritto nel sistema civilistico jugoslavo, Est-Ovest, (2), 1977, pp. 55
16
  V. G. Alpa, Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario e sui suoi
riflessi negli ordinamenti degli Stati Membri, in Contr. impr., 2015, p.247.
17
  N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, p. 36 ss.
18
  V., ad esempio, M. Rotondi, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, p. 116 secondo cui
l’abuso del diritto «è un fenomeno sociale, non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni
che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno
stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di transizione, è quel che si vuole, ma non
una categoria giuridica, e ciò per la contraddizione che non lo consente».
19
  Cfr., ad esempio, la ricostruzione di A. Gentili, Il diritto come discorso, Milano, 2013,
p. 401 ss.
246 Francesca Benatti

sprudenziali20 sarebbe arduo prevedere non solo quale condotta è abusiva,


ma come potrebbe essere sanzionata sia riguardo all’adozione nei punitive
damages sia al loro quantum. Ciò risulterebbe non solo inefficiente, ma
soprattutto comporterebbe un’ingiustizia che il richiamo alla morale, alla
solidarietà o all’ equità non servirebbero a giustificare. È vero, infatti, che
la solidarietà è immanente alla giustizia, ma il rischio è che il giudice privo
di vincoli e di parametri obiettivi la utilizzi come modo per perseguire la
propria visione ideologica e sociale. La totale discrezionalità sarebbe dif-
ficile da controllare.
2.  I danni sovracompensativi e l’abuso del diritto
Pur non essendo, dunque, auspicabile l’uso dei punitive damages nei
casi di abuso del diritto, le ragioni di deterrenza e talvolta di effettiva
compensazione che li giustificherebbero, potrebbero portare a prospettare
in alcune fattispecie il risarcimento di un’altra tipologia di danni definiti
sovracompensativi21, cioè di quelli da restituzione dell’ingiusto profitto22.
Essi potrebbero sembrare preferibili proprio, perché la loro quantifica-
zione non è lasciata alla totale discrezionalità del giudice, ma è fondata su
un parametro oggettivo e determinabile attraverso criteri sufficientemente
puntuali. Ciò potrebbe permettere un bilanciamento fra l’esigenza di de-
terrenza e quella di prevedibilità e certezza delle decisioni.
Una loro eventuale introduzione sarebbe agevolata dal fatto che il nostro
ordinamento già conosce questa figura. L’art. 125 del codice di proprietà
industriale prevede che, oltre al risarcimento ex artt.1223, 1226 1227 c.c.,
«debbano essere considerate le conseguenze economiche negative, com-
preso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realiz-
zati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da
quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla
violazione». La loro estensione ai casi di abuso sembrerebbe coerente con
l’istituto: infatti uno degli elementi sintomatici di questa figura è appunto
l’ingiustificato guadagno di una parte a scapito dell’altra o, «il sacrificio di
un bene altrui sproporzionato all’ utilità di chi se ne avvantaggia»23.

20
  Per una critica puntuale alle varie ricostruzioni della figura dell’abuso C. Castronovo,
Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, p. 103 ss.
21
  Si osserva come in Inghilterra vi sia una certa coincidenza tra danni punitivi e da ingiusto
profitto, essendo i casi di arricchimento tra quelli in cui sono consentiti i punitive damages.
Cfr. D. Rendleman, Measurement of Restitution: Coordinating Restitution with Compensatory
Damages and Punitive Damages, 68 Wash. & Lee L. Rev., 2011, p. 973 ss.
22
  V. P. Pardolesi, Profitto illecito e risarcimento del danno, Trento, 2005.
23
  P. Rescigno, L’abuso del diritto, cit., p. 289.
Danni punitivi e abuso del diritto 247

La soluzione potrebbe essere valida in alcune ipotesi, ma non in tutte:


chi ha commesso l’abuso deve aver avuto un vantaggio economico dal
comportamento tenuto, che ha causato un danno non nominale per l’altra
parte. Se ci fosse solo l’elemento del profitto in assenza di una perdita ef-
fettiva, la sua restituzione potrebbe configurare un ingiusto arricchimento
e risultare di fatto inefficiente. Va anche messo in luce come il confronto fra
utilità24 sia spesso difficile da effettuare in concreto25, sia perché intervengo-
no fattori non esclusivamente economici sia in quanto la stessa valutazione
dei vantaggi patrimoniali non è facilmente quantificabile.
Anche la scelta di utilizzare quale misura di risarcimento i cosiddetti
restitution damages non sembra, però, la più opportuna come emerge fa-
cendo riferimento ai casi di recesso ad nutum. In tali fattispecie il rischio
può venire allocato contrattualmente dalle parti e quindi risulterebbe inu-
tile, se non inefficiente, la loro concessione. Questo avviene, per esempio,
nei casi in cui sia pagato un prezzo più elevato in cambio della possibilità
di recedere in qualsiasi momento oppure il piano economico configurato
dalle parti è tale da far ritenere che il recesso non solo fosse contemplato
attraverso una clausola, ma fosse anche considerato un’ipotesi plausibile
alla luce dell’intero programma stabilito.
Inoltre, giacchè l’abuso del diritto è una figura vaga e soggetta alla
visione ideologica dell’interprete, questi potrebbe rinvenire un compor-
tamento sanzionabile anche in legittime strategie d’impresa. Il rischio è
di far coincidere sempre una posizione di maggior forza con un abuso.
Si tratta di visioni contrapposte del mercato e dell’economia. Criteri giu-
seconomici fanno ritenere ammissibili i danni da profitto solo sulla base
di un’analisi costi/benefici, approcci liberali negano la loro risarcibilità,
lasciando al mercato il compito di autoregolarsi, mentre una visione pro-
tezionistica potrebbe farli ritenere uno strumento utile di correzione di
eventuali asimmetrie economiche e contrattuali. I danni sovracompensa-
tivi, però, non possono e non devono essere interpretati come danni atti
a riempire gap economici e sociali. Non sono e non dovrebbero essere
uno strumento di redistribuzione del reddito. Già l’esperienza statuni-
tense ha mostrato i pericoli di una loro quantificazione sulla base del
patrimonio del convenuto e di una loro incontrollabilità ed eccessività

24
  V. il caso Oldsmbile commentato da L. Feller, The Case for Federal Preemption of State
Dealer Franchise Laws: Lessons Learned from General Motors’ Oldsmobile Litigation and Other
Market Withdrawals, in 11 Penn. J. Bus. L., 2009, p. 909.
25
  R. Pardolesi e A. Palmieri, Della serie «a volte ritornano»: l’abuso del diritto alla riscos­
sa, in Foro It., 2010, c. 9598 ss.; R. Pardolesi, Nuovi abusi del diritto: percorsi di una clausola
generale, in Danno e Responsabilità, Part 12, 2012, p. 1165 ss.
248 Francesca Benatti

nelle situazioni in cui fossero coinvolte grandi multinazionali, banche o


assicurazioni.
In realtà, anche nelle fattispecie di recesso ad nutum26 pare preferibi-
le la concessione di danni di natura compensativa. Si constata peraltro al
tempo stesso sia la difficoltà di individuare con precisione le voci che ne
permettono la liquidazione sia la possibilità di utilizzarle in modo da assi-
curare un risarcimento completo e di fatto deterrente. Agire con prudenza
e razionalità attraverso il danno, anche solo compensativo, potrebbe essere
concretamente utile a reprimere eventuali comportamenti opportunistici.
La necessità di protezione nei confronti di abusi determinati da posizio-
ne dominante o di maggior forza di potere contrattuale è particolarmente
avvertita in tutte le giurisdizioni, ad esempio in Sudafrica il franchisee è
considerato un consumatore per potergli estendere la tutela specifica.
Innanzitutto, devono essere concesse le spese effettuate e gli investi-
menti posti in essere nell’ affidamento della continuazione del contratto
fino al loro completo ammortamento, purchè ragionevoli. Si devono così
considerare il piano economico stabilito dalle parti e le richieste fatte dalla
parte concedente. Nei contratti27 di distribuzione, concessione e franchi-
sing vengono generalmente imposti standards di condotta e di immagine
che comportano dei costi, a volte elevati. Un ulteriore elemento da valuta-
re è la dimensione temporale: in un contratto della durata di cinque anni
diverso è recedere dopo uno o dopo quattro anni. È evidente che questi
fattori possono portare a livellare il risarcimento verso l’alto, come sempre
peraltro avviene nei casi di dolo, ma si dovrebbe comunque rimanere nella
sfera del danno compensativo.
Va poi esaminata l’incidenza che il recesso comporta sul valore patri-
moniale dell’impresa relativamente agli aspetti patrimoniali e non. Infat-
ti, la perdita di una concessione può determinare una lesione significativa
dell’immagine e della sua capacità di porsi sul mercato, che devono essere
compensate. L’analisi va effettuata in concreto, ponendo attenzione al mer-
cato di riferimento e alla situazione oggettiva, tra cui la durata del contratto
e le motivazioni addotte. Si sottolinea, però, come in alcuni settori un
recesso da parte di una grande impresa potrebbe far ritenere inadeguato
il franchisee, il concessionario o il distributore e quindi impedire di fatto
la sua ricollocazione. Il danno all’immagine diventa quindi un mezzo at-

26
  Su abuso e recesso ad nutum cfr. F. Gambino, Il Rapporto Obbligatorio,1, in Tratt.
Dir. Civ. diretto da R. Sacco, Torino, 2015, p. 222 ss.
27
  Sui contratti di durata in generale v. M. Granieri, Il Tempo E Il Contratto. Itinera-
rio Storico-Comparativo Sui Contratti Di Durata, Milano, 2007.
Danni punitivi e abuso del diritto 249

traverso cui si può modellare il risarcimento del danno: l’assenza di para-


metri su cui misurarlo permette, infatti, di conformarlo al caso e potrebbe
essere una possibile via per introdurre elementi sanzionatori. Tuttavia, se
da una parte la sua maggiore flessibilità può essere utile nel consentire una
liquidazione più completa, dovrebbe essere evitata l’introduzione di danni
sovracompensativi mascherati. Pare quindi necessario che venga provata la
sua sussistenza e non sia considerato in re ipsa.
Potrebbe essere concessa o la prospettiva reddituale che si sarebbe
avuta oppure i costi di una eventuale riorganizzazione dell’impresa sul
mercato sulla base delle valutazioni della corte alla luce del caso concre-
to. Queste due voci, che in linea teorica sono chiaramente distinguibili,
potrebbero in pratica coincidere. Si evidenzia anche in relazione ad esse
che vi è la possibilità di mascherare danni sovracompensativi Si consideri
il caso di un contratto di distribuzione di sei anni interrotto «abusiva-
mente» dopo tre. La scelta delle corti potrebbe essere quella di concede-
re un danno basato sulla prospettiva reddituale dei tre anni mancanti o
solo di uno: in una ipotesi ci avvicineremmo ad una sanzione, nell’altra
la liquidazione sarebbe solo compensativa. Un esempio si trae da una
sentenza recente della Corte d’Appello di New York28 relativa ad un re-
cesso ad nutum di un contratto di distribuzione di un medicinale che
avrebbe potuto essere qualificato come abusivo nel nostro ordinamen-
to. Nell’accordo stipulato era stabilito che non potessero essere chiesti
i danni consequenziali, ma solo quelli diretti. Il distributore agiva, in-
vece, in giudizio chiedendo i profitti che avrebbe ottenuto dalla vendita
di quel prodotto o di un altro simile nel periodo rimanente pari a $100
milioni, che secondo la giurisprudenza costante erano qualificati come
consequential damages. In primo grado, pertanto, venivano concessi solo
i danni nominali sulla base del contratto.
La Corte d’appello si pronunciava a favore del distributore, muovendo
dall’argomento che in un accordo di distribuzione i profitti derivanti dalla
vendita del prodotto sono lo scopo del contratto e quindi costituiscono in
caso di termination i danni prevedibili e diretti. Diversamente la dissenting
opinion criticava la interpretazione creativa e sottolineava che «is no boon
in the commercial world, where reliance, definiteness and predictability
are such important goals of the law itself, designed so that parties may
intelligently negotiate and order their rights and duties». Si evidenzia come
di fronte ad un accordo che avrebbe determinato solo la liquidazione di
danni nominali e pertanto la non compensazione di una parte, si è scelto

  Biotronik v. Conor Medsystems Ireland Ltd, March 27, 2014 – NY Court of Appeals.
28
250 Francesca Benatti

di modificare orientamento, cambiando la tradizionale qualificazione dei


profitti persi come consequential damages.
Rilevante è, inoltre, in tali casi l’aspetto temporale e cioè se si debba
considerare la prospettiva reddituale nel momento di conclusione dell’ac-
cordo o successiva. Tali valutazioni, che potrebbero condurre a risultati
molto diversi, dipendono da una analisi del caso concreto e principalmente
dalle caratteristiche del mercato di riferimento, dei soggetti coinvolti e dal
contratto stipulato. Nel calcolo potrebbero poi essere conteggiate le chan-
ces effettivamente perse: la voce è delicata, soprattutto a livello probatorio,
nella identificazione e nella quantificazione ed è complicata dalle possibili
variazioni di mercato ed economiche. Anche qui, l’elemento sanzionatorio
può essere inserito in modo mascherato.
Riflessioni analoghe possono essere svolte con riferimento all’adozione
dei danni sovracompensativi per abuso nel diritto societario29. Il proble-
ma è avvertito come meno rilevante, essendo spesso l’interesse unicamente
quello di annullamento della delibera. Tuttavia, se ricorressero i presuppo-
sti per l’azione risarcitoria, ciò che va protetto è il valore della partecipa-
zione azionaria, la quale deve servire come limite ai danni eventualmente
risarciti30. Ad esempio nel caso di abuso di direzione e controllo nei gruppi,
il danno dovrebbe coincidere con la diminuzione del valore delle azioni
dovuta al comportamento abusivo. L’introduzione di elementi deterrenti/
sanzionatori, infatti, incontra le stesse obiezioni di certezza, di efficienza
sottolineate per l’abuso nei casi di recesso ad nutum nei contratti di durata
nonché le medesime difficoltà di misurazione delle utilità effettivamente
percepite. Va constata la possibilità, però, anche in questa ipotesi di modu-
lare la liquidazione considerando elementi quali la prospettiva reddituale o
i possibili danni non patrimoniali, per poter avvicinare il danno al pregiu-
dizio sofferto e per rendere meno vantaggioso il comportamento abusivo.
È evidente, infatti, la necessità di determinare il risarcimento tenendo
conto della gravità della condotta31; tuttavia la discrezionalità lasciata al
giudice non può essere eccessiva. Anche quando le particolari circostan-
ze della fattispecie concreta comportino l’esigenza di concedere un danno
elevato, esso deve rimanere compensativo ed essere ancorato a parametri

29
  V., ad esempio G.B. Portale, Minoranze Di Blocco» E Abuso Del Voto Nell’espe-
rienza Europea: Dalla Tutela Risarcitoria Al Gouvernement Des Juges?, in Europa
E Dir. Priv., 1999, p. 153 ss.
30
  Cfr. C. Angelici, La Società Per Azioni. Principi E Problemi, in Tratt. Dir. Civ.
Comm. diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schelsinger, Milano 2012, p. 66 ss
e p.340 ss.
31
  V. G. Visintini, Cos’è la responsabilità civile, Napoli, 2014, p. 309 ss.
Danni punitivi e abuso del diritto 251

obiettivi e controllabili. Ciò vale anche nelle ipotesi in cui si ricorra all’art.
1226 c.c. Esso, infatti, può servire ad avvicinare la perdita subito a quella
liquidata quando non può essere provata o è difficile la quantificazione,
ma non per concedere più di quanto sofferto o per inventare un danno. I
criteri adottati dal decisore devono, pertanto, essere esposti con chiarezza
nella motivazione, risultando inadeguate forme vaghe e generiche, che non
permettono un controllo sul percorso logico-giuridico seguito.
Infine, il tema va considerato alla luce della globalizzazione e della con-
correnza fra sistemi32: la risarcibilità di danni da profitto o di quelli punitivi
in una fattispecie non chiaramente definita e soggetta alla visione dell’in-
terprete potrebbe di fatto comportare la preferibilità per altri ordinamenti
e dunque minori investimenti in Italia. Si pensi ad una multinazionale che
decida di sondare il mercato europeo provando ad una aprire una rete
commerciale in uno Stato: la presenza di risarcimenti sovracompensativi e
abuso del diritto, così viene delineato nelle sentenze della Cassazione nel
caso Renault33 o in quelle più recenti sull’ abuso di posizione dominante,
scoraggerebbe la scelta del nostro paese. Infatti, qualora l’impresa rece-
desse, magari a causa di margini di profitto inferiori alle aspettative o per
ragioni di ristrutturazione e di riorganizzazione, potrebbe rischiare di in-
correre in una sanzione. Uguale risultato si otterrebbe con la loro adozione
nel diritto societario, dove l’ammissibilità di punitive damages per abusi
della maggioranza o nelle ipotesi di gruppi per abuso di direzione e con-
trollo potrebbe far diminuire gli investimenti. Come è stato ricordato, «il
capitalismo ha bisogno di un diritto che si possa calcolare in modo simile
a una macchina34». «La calcolabilità esige un diritto formale che si appoggi
a fattispecie ed a giudizi sussuntivi35». Danni sovracompensativi e abuso
del diritto «precludono all’ imprenditore di contare sul futuro giuridico»36.
Non si può dimenticare, poi, come in tali fattispecie vi è il rischio la-

32
  A. Zoppini (a cura), La concorrenza tra ordinamenti giuridici, Roma-Bari, 2004; A. Ni-
colussi, Europa e cosiddetta competizione tra ordinamenti giuridici, in Europa e dir. priv., 2006,
p. 84, A. Gambaro, Civil law e common law: evoluzione e metodi di confronto, in Aa.Vv., Due
iceberg a confronto: le derive di common law e civil law, in Quaderni Riv. trim dir. proc. civ.,
Milano, 2009, p. 7 ss.
33
  V. F. Galgano, Qui iure suo abutitur neminem laedit?, in Contr. impr., 2011, p. 311 ss.
Cfr. inoltre sull’ abuso del diritto in ambito contrattuale i contributi di R. CaLVO, G. D’Amico,
G. De Cristofaro, F. Di Marzio, R. Favale, F. Macario, M.R. Maugeri, R. Natoli, M. Or-
landi, S. Pagliantini, C. RESTIVO, C. SCOGNAMIGLIO, G. VETTORI, in S. Pagliantini
(a cura di), Abuso del diritto e buona fede dei contraenti, Torino, 2010.
34
  M. Weber, Storia economica ecc., 1919-1922, trad. it., Roma, 1993, p. 298, come riportato
in N. Irti, Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., I, p. 20.
35
  N. Irti, Un diritto incalcolabile, cit., p. 20.
36
  N. Irti, Un diritto incalcolabile, cit., p. 21.
252 Francesca Benatti

tente, spesso sottolineato dagli studi di analisi economica, che il costo sia
sopportato da altri soggetti quali i consumatori o i dipendenti.
3.  Queste brevi osservazioni consentono alcune riflessioni
I danni sovracompensativi e l’abuso del diritto sono istituti che hanno
funzioni simili e che rispondono alla esigenza di colpire comportamenti
gravi, quando non vi sono o sono insufficienti i rimedi tradizionali. La
delicatezza di entrambi e il loro utilizzo nella pratica fanno però sorgere
delle perplessità sulla possibilità di combinarli, nonostante le suggestioni.
Non solo sono di ostacolo i contorni indefiniti dei due istituti a cui si
aggiunge l’uso sempre più frequente e spesso non condivisibile di clausole
generali come la buona fede, ma soprattutto il fatto che introdurre i danni
sovracompensativi in questa ipotesi comporta delle criticità derivanti dalla
scarsa esperienza del nostro ordinamento con tale figura. Alcuni problemi
andrebbero risolti precedentemente come la eventuale loro destinazione a
fondi particolari, la fissazione di un rapporto fra danni compensativi e pu-
nitivi o di un limite al loro ammontare. Anche se si optasse per l’adozione
di una forma di disgorgement, si imporrebbero comunque maggiori cautele
rispetto al 125 c.p.i. per le caratteristiche della fattispecie e i diversi ambiti
giuridici in cui può essere applicato. I danni sovracompensativi nell’ abuso
del diritto non devono diventare una forma di abuso. Nella ricostruzione
dell’istituto come certezza contro giustizia non bisogna dimenticare che la
certezza è essa stessa giustizia. È necessario un controllo per evitare che
«nei processi di concretizzazione del diritto si formi un residuo irraziona-
le prodotto da elementi non cognitivi provenienti dalla precomprensione
soggettiva del giudice»37.

37
  L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 89.
Parte terza
L’abuso del diritto nel settore tributario
254 Franco Gallo
Franco Gallo
La nuova frontiera dell’abuso del diritto
in materia fiscale *

Sommario:  1. Una breve premessa filologica. – 2. Le diverse fasi della più recente «sto-
ria» dell’elusione fiscale illegittima e del divieto di abuso del diritto; 2.1. – Prima fase:
ante art. n. 10 della legge n. 408 del 1990; 2.2. – Seconda fase: l’art. 10 della legge n. 408
del 1990 e il vigente art. 37-bis del d.P.R. n. 600; 2.3. – Terza fase: le sentenze nn. 30055
e 30057 del 2008 della Cassazione. – 3. Il non sempre coerente percorso interpretativo
seguito dalla Corte di Cassazione. – 4. L’art. 5 della legge delega n. 23 del 2014. – 5.
Il decreto legislativo n. 128 del 5 agosto 2015. – 5.1. L’assenza di sostanza economica
e la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito. – 5.2. L’astrattezza della nozione
di abuso ed i conseguenti problemi interpretativi. – 5.3. L’interpello antiabuso e quello
disapplicativo, il contraddittorio preventivo e la nullità dell’accertamento per carenza di
motivazioni. – 6. Alcune brevi considerazioni sull’irrilevanza penale dell’abuso e sulla
sua sanzionabilità solo in via amministrativa.

1.  Una breve premessa filologica


L’abuso del diritto in materia fiscale non è un istituto nuovo né per il
nostro ordinamento, né, tanto meno, per quello dell’UE e degli altri paesi
occidentali. Esso ha una lunga storia che si interseca e coincide con quella

*  Questo scritto rappresenta una prima riflessione «a caldo» sulla nuova normativa riguar-
dante l’abuso del diritto-elusione in vigore dal 1° ottobre 2015. L’intenzione dell’autore è quella
di dare conto, per ora, del processo legislativo e giurisprudenziale – a livello sia comunitario che
nazionale – attraverso il quale si è giunti alla disciplina recata dall’art. 5 della legge delega n. 23
dell’11 marzo 2014 e dal d.lgs. n. 128 del 5 agosto 2015, attuativo di tale articolo.
In un prossimo saggio ci si ripromette di affrontare funditus i delicati problemi, d’ordine
più generale, conseguenti alla vigenza di un nuovo corpo normativo che, pur fornendo una più
precisa definizione dell’istituto, continua ad avere la sua fonte di diritto interno in un principio
sovraordinato desunto dall’art. 53 Cost., risolventesi nel divieto per gli operatori di usare lo
strumento dell’autonomia negoziale per alterare l’equo riparto dei carichi pubblici. Ciò, con
riferimento anche all’ordinamento dell’UE che, almeno per la prevalente dottrina (P. Farmer,
Prohibition of Abuse of (European) Law: The creation of New General Principle of EU Law
Through Tax: A Response, in R. De La Feira – S. Vogenhauer, Prohibition of Abuse of (Com­
munity) Law: The Creation of a New General Principle of E.C. Law through Tax, in CMLRev.,
2008, pp. 45 e 521 ss.), parrebbe collocare il principio del divieto dell’abuso del diritto tra le sue
fonti primarie. Si tratterà, in particolare, di verificare sia la sufficienza della definizione data a cir-
coscrivere l’ambito dell’istituto sia, soprattutto, la compatibilità della nuova dettagliata disciplina,
fissata dal legislatore ordinario, con i suddetti sovraordinati principi costituzionali e comunitari
«a fattispecie indefinita», che è come dire verificare la «resistenza» e l’«imperforabilità» del nuo-
vo apparato normativo rispetto all’applicazione di questi stessi principi generali. In via teorica,
il problema è quello della delimitazione dei confini della copertura costituzionale delle nuove
256 Franco Gallo

di altri istituti contigui di diritto civile, come la frode alla legge, l’elusio-
ne, l’interposizione fittizia e il negozio indiretto. In Italia, fin dal periodo
antecedente la seconda guerra mondiale, è stato identificato con l’elusione
fiscale illegittima dai cultori di finanza pubblica come Griziotti e i rappre-
sentanti della sua scuola pavese.
Dal dopoguerra in poi la bibliografia è stata particolarmente ricca. Basti
pensare ai numerosi scritti dei cultori di diritto tributario, me compreso,
pubblicati prima e dopo il varo della legge n. 408 del 1990 che ha disci-
plinato per la prima volta l’elusione fiscale1. Detta legge conteneva, nel
suo art. 10, una prima clausola antielusione, diciamo così, di tenore gene-
rale seppur di applicazione parziale, che è poi confluita, con modifiche,
nell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 ad opera del d.lgs n. 358 del 1997.
Quest’ultima disposizione è stata sostituita, con decorrenza dal 1° ottobre
2015, dal d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, recante «Disposizioni sulla certezza
del diritto nei rapporti fra fisco e contribuente», in attuazione degli artt.
5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23, il cui titolo I consacra
definitivamente in via legislativa l’identità dei due concetti o, se si preferi-
sce, la uguale disciplina dei due istituti.
Indipendentemente da questo punto di arrivo, si può comunque dire che
l’istituto dell’abuso del diritto in campo fiscale è stato sempre di difficile
individuazione. A suo tempo feci una rapida indagine sui diversi significati
in cui esso è stato inteso nelle legislazioni dei maggiori paesi occidentali2 e
nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. Ebbi la sorpresa di appren-
dere che l’abuso del diritto è stato identificato, oltrechè con l’elusione in
senso stretto – e cioè, come vedremo meglio più avanti, con l’uso distorto
di negozi e atti per ottenere un risparmio di imposta, che è come dire
con l’abuso dell’autonomia privata – a volte, con il semplice aggiramento
(circonvention) e la frode alla legge fiscale; a volte, con la sola malafede
contrattuale; a volte, con il comportamento contra bonos mores; a volte,
con la simulazione e le costruzioni di puro artificio; a volte infine, con la

norme garantita dall’art. 53 Cost. e, attraverso l’art. 117, primo comma, Cost., dalle norme di
diritto internazionale convenzionale. Su questo tema alcune prime considerazioni sono state
svolte da A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, in Riv. dir. trib., 2013,
10, p. 877 e G. Fransoni, Abuso ed elusione del diritto, in Libro dell’anno del diritto, 2015,
Treccani, pp. 6-7.
1
  Per una esauriente ampia bibliografia al riguardo rinvio al saggio ricostruttivo di G. Melis,
Abuso del diritto (rectius, elusione) ed interpretazione nel diritto tributario, destinato agli scritti
in onore di A. Fantozzi e A. Fedele di prossima pubblicazione.
2
  Per un’attenta, recente indagine sull’abuso del diritto nella prospettiva comparata si veda,
comunque, il saggio di P. Mastellone, Fenomenologia dell’abuso del diritto tributario nella
prospettiva comparata, in Riv. Dir. Trib. Int., n. 1/2014, pp. 295-346.
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 257

condotta contraria ai principi della substance over form o del regulatory


arbitrage. La Corte di Giustizia, in particolare, ha parlato recentemente ed
alternativamente di aggiramento, frode, elusione, per indicare le modalità
attraverso le quali si produce quello che per essa è in termini astratti abuso,
e cioè un vantaggio fiscale che si rivela indebito perché perseguito callida-
mente in contrasto con l’obiettivo fissato dalle disposizioni comunitarie.
Nelle pagine che seguono vedremo come e attraverso quale via si sia
arrivati in Italia, in questi ultimi cinquant’anni, alla suddetta definizione
unitaria contenuta nel richiamato titolo I del d.lgs. n. 128 del 2015.
2.  Le diverse fasi della più recente «storia» dell’abuso del diritto alias
elusione fiscale illegittima
Il dibattito sull’abuso del diritto-elusione nel campo fiscale si è acceso
in Italia soprattutto a partire dagli anni ottanta, quando il fenomeno ha
assunto proporzioni rilevanti e il governo dell’epoca ha optato per una
definizione legislativa dell’elusione fiscale, beninteso, dopo aver preso atto
dell’impossibilità – certificata dalla Cassazione con numerose sentenze – di
applicare, agli effetti fiscali, l’art. 1344 cod. civ., che reputa illecita la causa
dei contratti che costituiscono «il mezzo per eludere l’applicazione di una
norma imperativa». È ben nota, infatti, la giurisprudenza della Suprema
Corte secondo cui la norma fiscale elusa non ha le caratteristiche dell’im-
peratività e, quindi, il suo aggiramento non può produrre l’illiceità e, in
particolare, la nullità della relativa attività negoziale3.
Per capire come questo dibattito si sia sviluppato è opportuno dare
sinteticamente conto dei problemi che, via via, si sono posti negli anni,
distinguendo sul piano temporale le diverse fasi dell’evoluzione legislativa,
giurisprudenziale e dottrinaria degli istituti dell’elusione fiscale e dell’abuso
del diritto. Vedremo, infatti, che per ciascuna di dette fasi è possibile dare
– e in concreto si sono date – risposte diverse a seconda della normativa
vigente all’epoca, delle lacune legislative esistenti e del susseguirsi degli
orientamenti giurisprudenziali comunitari e nazionali.
2.1. – Prima fase: ante art. 10 della legge n. 408 del 1990. La prima fase
riguarda le operazioni poste in essere ante 1990, e cioè prima dell’entrata
in vigore della richiamata legge n. 408. Nella ricordata impossibilità di
applicare l’art. 1344 cod. civ., il problema della rilevanza fiscale dell’abuso
del diritto era quello di accertare se, in alternativa, esistesse o meno un

3
  Sul punto mi permetto di rinviare al mio Elusione, risparmio d’imposta e frode alla legge,
in Studi in onore di E. ALLORIO, vol. II, 1989, pp. 2041-2070.
258 Franco Gallo

principio generale antifrode non scritto o estrapolabile da altri principi


dell’ordinamento, la cui applicazione consentisse l’inopponibilità al fisco
o, addirittura, la nullità del negozio fraudolento od elusivo.
Questo problema è stato affrontato dalla giurisprudenza e dalla dottrina
in modo non sempre lineare. Si può, comunque, dire che, prima del 1990,
esso ha avuto risposta negativa. Si sono considerate, infatti, fiscalmente
illecite solo quelle operazioni elusive–abusive previste come tali e, perciò,
vietate da una specifica norma. Fuori da questi casi, l’elusione è stata in-
tesa non come occultamento di materia imponibile (evasione), ma come
sostituzione di un presupposto con un altro assoggettato a un trattamento
fiscale meno oneroso, ed è stata ritenuta generalmente non illecita e, perciò,
fiscalmente efficace ed opponibile al fisco.
Il ragionamento teorico che allora si faceva sul piano fiscale era il se-
guente.
Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), approvato con d.P.R.
n. 917 del 22 dicembre 1986, con la sua impostazione casistica, precludeva
– e tuttora preclude – ogni possibilità di accertare in via generale un red-
dito nei confronti di chi non ne era titolare giuridico in base ad una delle
situazioni individuate dal Testo Unico stesso. Precludeva, comunque, di
far emergere la sostanza economica di un rapporto a dispetto della diversa
qualificazione (formale) data dalle parti al rapporto stesso (sempre che non
si facesse valere la simulazione o non si facesse ricorso ad altri strumenti
di accertamento offerti dalle norme fiscali).
In assenza di una clausola generale antiabuso e di una norma residua-
le di chiusura del sistema che definisse in termini economici la nozione
di reddito4, l’impostazione casistica aveva perciò trasferito nel campo del
diritto tributario e, in particolare, dell’imposizione sui redditi, i principi,
di diritto oggettivo, dell’intangibilità dell’autonomia negoziale e della libe-
ra creatività delle forme: laddove il reddito derivava dallo svolgimento di
un’attività negoziale, la salvaguardia dell’autonomia privata era assicurata
dall’accoglimento di una definizione del presupposto–possesso del reddito
nel senso di disponibilità giuridica del reddito stesso e non di disponibilità
economica e materiale. Il negozio fonte del reddito, lungi dal regredire a
fatto, era così assunto come essenziale elemento qualificativo del presup-
posto, che così veniva interpretato e costruito esclusivamente attraverso il
parametro negoziale senza alcuna possibilità di far emergere una differente
realtà economica.

4
  Tale non può considerarsi, per unanime opinione, l’art. 6, comma 2, dello stesso TUIR che
sancisce «la tassazione dei proventi conseguiti in sostituzione dei redditi».
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 259

Ma anche laddove esistevano specifiche norme antielusive la loro ap-


plicazione era facilmente aggirata dagli operatori attraverso lo strumento
dei contratti atipici previsto dall’art. 1322 c.c., il quale consente che ogni
negozio, tipico o nominato, possa produrre contratti innominati, succe-
danei e surrogati di esso. Venivano, quindi, stipulati ai soli fini fiscali dei
contratti che, pur rifacendosi allo schema negoziale del contratto tipico,
se ne discostavano, quanto alla causa, di quel tanto da avere una propria
distinta individualità. Con la conseguenza che la eventuale norma antielusi-
va, dettata con riferimento al contratto tipico, non si applicava al contratto
innominato parto della fantasia contrattuale.
In questo contesto e guardando solo all’orto chiuso del diritto tributa-
rio, la dottrina prevalente, la giurisprudenza della Suprema Corte e la prassi
amministrativa hanno, dunque, sempre evitato di seguire l’unica possibile
alternativa5, e cioè rimuovere lo strumento negoziale elusivo sulla base dei
principi generali dell’ordinamento (anche non scritti) o della stessa norma
civilistica relativa alla nullità del negozio in frode alla legge (art. 1344 c.c.).
L’Italia si poneva così tra i pochi Paesi attestati sulla linea anelastica dei
soli provvedimenti antielusivi analitici. Lo ripeto: in un Paese come il no-
stro, caratterizzato da un ordinamento fiscale non flessibile, una fattispecie,
quando non era di evasione e quando non rientrava in una specifica norma
antielusiva, era da ritenere per ciò stesso legittima anche se posta in essere
in frode alla legge imperativa fiscale.
Ed è probabilmente per l’esistenza di questo favorevole humus in-
terpretativo che, fino agli anni ottanta, sono fiorite in Italia le numerose
operazioni conosciute come leveraged buy out o ancora quelle, di alto
profilo elusivo, come i conferimenti a società cronicamente in perdita di
titoli societari produttivi di utili, le cessioni di azioni ad un prezzo gonfia-
to dell’avviamento in vista di una fusione e altre ancora rimesse solo alla
fervida fantasia degli operatori.
Per ovviare a questi inconvenienti e dovendo escludere soluzioni in via
interpretativa, il legislatore fiscale poteva disporre di due strumenti.
Il primo era quello di «rincorrere» faticosamente il fenomeno elusivo
attraverso la predisposizione, volta per volta, di norme specifiche. Il mec-
canismo era quello di rispettare, in via generale, il principio della libera
creatività delle forme correndo anche il rischio che i più furbi ponessero
in essere – senza pericolo di accertamenti fiscali – operazioni elusive stipu-

5
  Da me a suo tempo inutilmente indicata e teorizzata (Elusione, risparmio d’imposta e fro­
de alla legge, cit., passim; Limiti e caratteristiche degli acquisti con prevalente finalità fiscale, in
Acquisizione di società e di pacchetti azionari di riferimento, Aa.Vv., Milano, 1990).
260 Franco Gallo

lando i suddetti negozi innominati e perseguendo guadagni di imposta non


supportati da finalità economiche. Solo quando, in un secondo momento,
il fenomeno assumeva proporzioni preoccupanti e si faceva ripetitivo, il
legislatore, resone edotto a posteriori, interveniva e costruiva specifiche
norme a fattispecie antielusiva. È ciò che è avvenuto, ad esempio, nel caso
delle passate frequenti incorporazioni delle c.d. società «bare», poste in
essere al solo fine di fruire del riporto delle perdite. In tali casi, l’intervento
antielusivo del legislatore avveniva, però, solo dopo che le operazioni più
eclatanti erano state effettuate e, quindi, il danno all’Erario si era prodotto.
L’altro strumento era quello, più tuzioristico, di lasciare in vita le speci-
fiche norme antielusive già vigenti e di aggiungerne, se del caso, altre con
riguardo a specifici settori; ma nel contempo di creare una generale norma
antielusione che avesse la funzione, diciamo così residuale, di coprire gli in-
terstizi del sistema privi di una specifica protezione normativa antielusione
e, così, di evitare che la stalla si chiudesse solo dopo che i buoi erano usciti.
2.2. – Seconda fase: l’art. 10 della legge n. 408 del 1990 e il vigente art.
37-bis del d.P.R. n. 600. È solo nel 1990 che si è tentato di percorrere questa
seconda strada, ma – va detto subito – in modo ambiguo e incompleto e,
perciò, insoddisfacente. Infatti, il legislatore del citato art. 10 della legge n.
408 ha sì qualificato come fiscalmente illeciti quei comportamenti delle par-
ti che, pur non andando oltre la lettera della legge, la contraddicevano so-
stanzialmente nel senso, nello scopo e nell’effettività degli interessi. Nello
stesso tempo però, preoccupato di attribuire all’amministrazione finanzia-
ria un eccessivo generale potere di accertamento in materia, ha fortemen-
te depotenziato l’operatività di tale definizione, limitando espressamente
l’illiceità ad alcune tassative operazioni societarie. Ha, infatti, disposto che
«è consentito all’Amministrazione finanziaria disconoscere ai fini fiscali
[solo] la parte di costo delle partecipazioni sociali sostenuto e, comunque,
i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di fusione, concentrazione, tra-
sformazione, scorporo e riduzione di capitale posta in essere senza valide
ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente
un risparmio d’imposta».
Appare evidente che con questa definizione si è voluto, nella sostan-
za, attuare un apprezzabile recupero sul terreno fiscale della logica alla
base dell’art. 1344 cod. civ.; con la comprensibile differenza che, in questo
caso, la sanzione del comportamento fraudolento non era la nullità, ma la
semplice irrilevanza dell’atto elusivo. In particolare, attraverso tale costru-
zione si è dato rilievo «al fine di eludere» e si sono, perciò, nella sostanza
accettate anche ai fini fiscali quelle interpretazioni dell’art. 1344 c.c. che
pongono l’accento non tanto sul fatto oggettivo della causa illecita e della
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 261

sua devianza, quanto sull’aspetto soggettivo-teleologico della fraudolenza.


Il punto debole della normativa fiscale era però – lo ripeto – il fatto che
tale dimostrazione non era di applicazione generalizzata, ma valeva solo
con riferimento alle particolari operazioni societarie indicate dallo stesso
legislatore.
Questa disposizione sette anni dopo è stata sostituita dal richiama-
to art. 37-bis del d.P.R. n. 600, il quale, muovendosi nella sostanza nella
stessa direzione, ha avuto il merito di comprendere, nei suoi primi due
commi, tra gli atti inopponibili al fisco non solo quelli privi di valide
ragioni economiche ed aventi il fine di ottenere un risparmio d’imposta,
ma anche quelli diretti più specificatamente ad aggirare obblighi o divieti
previsti dall’ordinamento tributario, altrimenti indebiti. Peraltro, questa
disposizione, pur contenendo una definizione più completa di elusione
fiscale illegittima, ha avuto lo stesso difetto dell’art. 10 della legge n. 408.
Anch’essa, infatti, ha limitato il potere di accertamento dell’amministra-
zione finanziaria ad alcune attività espressamente indicate nel successivo
terzo comma, consentendo così alla fantasia degli operatori di continuare
a sbizzarrirsi nella ricerca di sofisticate operazioni che, pur essendo diverse
da quelle elencate in detto terzo comma, sono anch’esse produttive di un
risparmio d’imposta.
È appunto questa anomalia che ha prodotto quella reazione della Cor-
te di Cassazione rappresentata dalle sue numerose, ben note sentenze, le
quali, nella ricerca di un principio generale antiabuso espresso dall’ordi-
namento, hanno sganciato in via interpretativa le disposizioni del primo e
secondo comma dell’art. 37-bis dalla tassativa elencazione delle operazioni
di cui al terzo comma dello stesso articolo.
La giurisprudenza della Suprema Corte si è formata con riferimento
alle seguenti due ipotesi: quella delle operazioni assoggettabili a imposte
armonizzate, ipotesi che non dovrebbe comportare particolari problemi,
considerato che a tali operazioni, secondo la comune opinione, si debbono
applicare in prima battuta i principi comunitari6 e, in particolare, il princi-
pio generale antiabuso enucleato dalla Corte di Giustizia nella nota senten-
za Halifax (C-255/02 del 21 febbraio 2006) e nelle sue pronunce successive;
quella delle operazioni assoggettabili alle imposte sul reddito, e cioè
alle imposte non armonizzate, le quali, a loro volta, si possono distinguere
tra: b1) le operazioni di cui al terzo comma dell’art. 37-bis, per le quali è
dettata la specifica normativa interna antielusione dei primi due commi

6
  Principi, beninteso, da applicare pur sempre nei limiti delle regole che disciplinano il rap-
porto tra ordinamento comunitario e ordinamento interno
262 Franco Gallo

dello stesso articolo7; b2) le operazioni per le quali non esiste una specifica
norma antielusione che le preveda (che si riducono poi alle operazioni non
comprese nell’elencazione tassativa di cui allo stesso comma 3 dell’art. 37-
bis e non oggetto di specifiche norme antielusive).
È, in particolare, con riguardo a queste ultime operazioni che si sono
posti i maggiori problemi interpretativi affrontati dalla Suprema Corte.
Questa si è chiesta se debbano considerarsi illegittime solo le operazioni
elusive sub b1), indicate nel comma 3, e legittime quelle sub b2), ivi non
indicate, o se, invece, debba applicarsi in ambedue i casi un regime antie-
lusivo; regime che, per le operazioni elencate nel terzo comma, sarebbe

7
  E cioè la normativa dell’art. 37-bis, con riferimento alle imposte sui redditi, e quella dell’art.
20 del d.P.R. n. 131 del 1986 relativamente all’imposta di registro, la quale dispone che «l’imposta
è applicata secondo la intrinseca natura degli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione,
anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente». Riguardo a quest’ultima disposizione
rilevo che essa è stata considerata dalla Cassazione non una norma antielusiva, bensì una norma
«speciale» relativa all’interpretazione degli atti sottoposti a registro. Mi domando però che senso
abbia, in via teorica, fare questa distinzione quando la Suprema Corte ha utilizzato comunque
l’art. 20 per raggiungere l’effetto proprio delle norme antielusive, e cioè la inopponibilità di un
atto negoziale assoggettabile ad imposta di registro stipulato per ottenere un risparmio d’imposta
fiscale senza che sussistano valide ragioni economiche (ragionando, quindi, esclusivamente in
termini di effetti economici). In particolare, la Corte ha considerato legittima, ai sensi dell’art.
20, la riqualificazione di determinati «negozi collegati» operata dal Fisco sulla base di ragioni
puramente economiche, ancorché, come si è visto, detto articolo preveda solo la prevalenza
degli effetti giuridici sul titolo e sull’apparenza negoziale e non anche degli effetti economici. Il
risultato di tale posizione interpretativa si riduce, pertanto, nella non applicazione alle operazioni
considerate nell’art. 20 del contraddittorio preventivo e delle altre garanzie previste dall’art. 37-
bis per le sole operazioni antielusive assoggettate alle imposte sul reddito.
Delle tante sentenze che hanno ragionato in questi termini ricordo solo due che mi sem-
brano più rilevanti. Con la sentenza n. 10660 del 2003 la Cassazione aveva di fronte un’ipotesi
di vendita di un’azienda che era stata autonomamente assoggettata a imposta di registro e della
separata vendita dell’immobile strumentale assoggettata ad iva. Essa, ragionando fuori dallo sche-
ma giuridico dei negozi usati dai contraenti, ha riqualificato tali negozi come un’unica vendita di
azienda (comprensiva, dunque, dell’immobile strumentale), che doveva pertanto essere assogget-
tata ad imposta di registro e non ad iva. Con la sentenza n. 2713 del 2002, ha affrontato il tema
del regime fiscale del conferimento in società di un bene immobile gravato da mutuo ipotecario
e della cessione separata di quote sociali da parte dei conferenti ai soci della società conferitaria
(effettuato dopo un mese dalla prima operazione di conferimento). La Suprema Corte anche qui
ha riqualificato questi negozi come trasferimento dell’immobile alla società, avendo riguardo allo
scopo di risparmio fiscale perseguito, con conseguente assoggettamento al più gravoso regime
fiscale delle cessioni immobiliari. Mi pare abbastanza evidente che questo orientamento giuri-
sprudenziale forza non poco la lettera dell’art. 20, la quale non consente di avere riguardo agli
effetti economici. Coerenza, quindi, vorrebbe che la Cassazione, volendo mantenere questa sua
giurisprudenza, desse una giustificazione dell’art. 20 in termini antielusivi (e cioè con riferimento
al principio non scritto antiabuso), anziché creare in via solo interpretativa un sorta di tertium
genus tra interpretazione strettamente civilistica e norma fiscale antielusiva. Su questa specifica
problematica rinvio, comunque, al recente studio di G. Girelli, Abuso del diritto e imposta di
registro, Torino, 2013, pp. 61-93 e 97-132.
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 263

fondato direttamente sulla specifica disciplina antielusione recata dai primi


due commi dell’art. 37-bis, mentre, per le operazioni non armonizzate non
comprese nell’elencazione del terzo comma, sarebbe fondato, in ogni caso,
su un generale principio antiabuso direttamente applicabile in materia fi-
scale, di cui i commi 1 e 2 dello stesso art. 37-bis sarebbero solo attuativi.
La Corte ha optato per questa seconda soluzione. Salvo un isolato re-
cente ripensamento di cui dirò più avanti8, essa ha infatti negato che le
operazioni elusive potessero considerarsi legittime per il solo fatto di non
rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 37-bis ed ha, perciò, accomu-
nato, nella sostanza, le ipotesi sub b1) e sub b2).
È arrivata a queste conclusioni, in un primo momento, applicando,
con la sentenza n. 21212 del 2006, a tutte le operazioni assoggettabili ad
imposte non armonizzate (siano esse comprese o meno nell’elencazione
fatta nel terzo comma dell’art. 37-bis e non oggetto di specifiche norme
antielusive) il principio comunitario antiabuso elaborato dalla Corte di
Giustizia in termini di dovere di lealtà reciproca tra contribuente e fisco.
Ha giustificato, in particolare, implicitamente l’applicazione di tale prin-
cipio anche alle operazioni non ricomprese nell’art. 37-bis, terzo comma
con la considerazione che detta norma avrebbe carattere esemplificativo e
non esaustivo e i commi 1 e 2 sarebbero meramente attuativi del principio
comunitario medesimo. Nella sua generalità, questo principio si appliche-
rebbe, perciò, direttamente alle operazioni assoggettabili tanto ad imposte
armonizzate quanto ad imposte non armonizzate e, nell’ambito di queste
ultime, tanto alle operazioni cui si applica l’art. 37-bis quanto a quelle cui
non si applica.
2.3. – Terza fase: le sentenze nn. 30055 e 30057 del 2008 della Cassa­
zione. In un secondo momento, la Suprema Corte – resasi probabilmente
conto della insostenibilità della tesi dell’applicabilità del principio antiabu-
so comunitario anche alle operazioni assoggettate ad imposte non armo-
nizzate e, quindi, estranee all’ordinamento comunitario – ha raggiunto lo
stesso obiettivo di accomunare tutte le operazioni, motivando, però, l’illi-
ceità fiscale (e, perciò, l’inopponibilità al fisco) del negozio elusivo con rife-
rimento non più al detto principio generale comunitario9, bensì al superiore
principio (di diritto interno) di capacità contributiva previsto dall’art. 53
Cost.. In particolare, essa, riconducendo sostanzialmente il tema dell’abuso
del diritto nell’alveo dei negozi realizzati in frode ad una legge imperativa

  Vedi infra par. 3.2.


8

  O alla disciplina interna della nullità negoziale per mancanza della «causa concreta» richia-
9

mata da una precedente sentenza (n. 20398 del 2005) rimasta isolata.
264 Franco Gallo

fiscale10, ha affermato nelle sentenze nn. 30055 e 30057 del 2008 che «non
può non ritenersi insito nell’ordinamento, quale diretta derivazione delle
norme costituzionali [nella specie, quella dell’art. 53 Cost.], il principio
secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’uso
distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di stru-
menti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale».
3.  Il non sempre coerente percorso interpretativo seguito dalla Cor-
te di Cassazione
Con le sentenze sopra richiamate e con numerose successive dello stesso
tenore, la Corte di Cassazione è giunta, dunque, alla conclusione di appli-
care alle operazioni assoggettabili ad imposte non armonizzate il principio
generale antiabuso di diritto interno, ragionando sull’implicito presuppo-
sto interpretativo che l’art. 37-bis non sarebbe l’unica fonte normativa del
divieto dell’abuso del diritto contenente i criteri di decisione, ma rappre-
senterebbe la mera espressione dell’immanente principio di capacità con-
tributiva avente generale ed indiscriminata applicazione; di quel principio,
cioè, che vieta ogni atto di autonomia privata che abbia l’effetto di ledere
l’equo riparto dei carichi pubblici operato dal legislatore tributario. Non
essendo l’art. 37-bis la diretta autonoma fonte normativa della disciplina
antiabuso, la conseguenza inevitabile è che tutte le operazioni che produ-
cono tale effetto – si badi bene, sia quelle previste dal suo terzo comma,
sia quelle non previste – sono inopponibili al fisco in quanto violano (non
detto articolo, ma) direttamente la norma sovraordinata dell’art. 53 Cost.
e del quale l’art. 37-bis medesimo costituirebbe una mera attuazione-de-
rivazione.
Devo dire però, in via incidentale, che da questo consolidato non sem-
pre coerente orientamento interpretativo – fondato, lo ripeto, sulla non
autonomia precettiva dell’art. 37-bis – si è discostata la recente pronuncia
della stessa Cassazione n. 27087 del 19 dicembre 2014. Essa, prendendo ra-
dicalmente le distanze dalle precedenti sentenze (senza peraltro richiamarle
ed esplicitamente criticarle), è tornata ad attribuire ai primi due commi
dell’art. 37-bis un’autonoma portata precettiva e, contemporaneamente, al
compimento delle operazioni elencate al terzo comma la funzione di con-
dizione di applicabilità dei primi due.

10
  La cui imperatività, contrariamente a quanto sostenuto in passato dalla stessa Suprema
Corte, deriverebbe ora dal combinato disposto del precetto costituzionale dell’art. 53, che pre-
vede il dovere di concorrere alle pubbliche spese in ragione della capacità contributiva, e della
norma tributaria sostanziale che tale dovere rende effettivo individuando il presupposto di im-
posizione.
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 265

Così letto e coordinato quest’ultimo comma, si capisce, in particolare,


che la soluzione interpretativa accolta con le pronunce del 2008, che nega
la natura sostanziale dei primi due commi (riducendoli a mera attuazione
procedimentale del principio generale antiabuso fissato dall’art. 53 Cost.),
viene clamorosamente contraddetta. Infatti, se per detta sentenza i commi 1
e 2, seppur attuativi dell’art. 53 Cost., hanno natura sostanziale, è evidente
che il successivo comma 3, nel dire che «le disposizioni dei commi 1 e 2
si applicano [solo] alla condizione che, nell’ambito del comportamento di
cui al comma 2, siano utilizzate una o più delle seguenti operazioni…….»,
diviene un tutt’uno con detti commi e non può da essi disgiungersi. Ne
delimita, anzi, l’area di applicazione attraverso l’elencazione delle opera-
zioni da considerare. Aggiungendo ai primi due il terzo comma il legisla-
tore fiscale avrebbe quindi optato, secondo la richiamata sentenza, per un
intervento diretto non a creare una disciplina di carattere generale senza
ulteriori specificazioni, ma solo a tipizzare la figura dell’abuso del diritto
«convogliandola su specifici elementi individuanti le fattispecie e su deter-
minate operazioni negoziali in assenza delle quali non sono configurabili
altre ipotesi di pratiche abusive».
Questa sentenza, se dovesse essere confermata da altre successive, ri-
metterebbe in discussione la giurisprudenza (diritto vivente) della Suprema
Corte in materia di abuso del diritto che ha preso avvio con le richiamate
due sentenze gemelle del 2008. Annullerebbe, in particolare, gran parte de-
gli sforzi da essa finora fatti, tesi a dimostrare l’esistenza di un immanente
principio antiabuso non scritto. Comunque, ha reso ancora più urgente e
necessario l’intervento – portato poi avanti dalla richiamata legge delega n.
23 del 2014 e realizzato con il d.lgs. n. 128 del 2015 – diretto a definire una
nozione generale di abuso di applicazione piena e non limitata a specifiche
operazioni.
Non avendo detta pronuncia avuto per ora un seguito, non ci resta
che continuare a ragionare facendo ancora riferimento alla giurisprudenza
sopra illustrata, che fonda la clausola generale antiabuso esclusivamente
sull’art. 53 Cost..
È evidente che, ponendosi in questa ottica, il principale problema che
nell’immediato si prospetta al riguardo non è tanto quello – pur teorica-
mente interessante e meritevole di particolare approfondimento – di ve-
rificare se detta clausola sia effettivamente costituzionalizzata o, meglio,
quali siano i confini della copertura costituzionale della legge ordinaria
disciplinante l’abuso11. È, piuttosto, quello del reale significato da attribuire

  Sul punto rinvio alle belle pagine di teoria generale di N. Lipari, I civilisti e la certezza
11
266 Franco Gallo

al richiamo fatto dalla Corte a detto art. 53 per rimuovere i negozi posti
in essere dal contribuente. Bisogna domandarci cioè:
–  se il fatto che alcune operazioni siano dirette ad alterare, a fini di
risparmio fiscale, la distribuzione dei carichi pubblici voluta dal legislatore
ai sensi dell’art. 53 Cost. sia sufficiente, da solo, a renderle inopponibili al
fisco, senza che sia necessario dimostrare anche la fraudolenza dell’attività
negoziale e, comunque, il carattere indebito del vantaggio fiscale;
–  o se, invece, il riferimento al principio di capacità contributiva non
debba in ogni caso essere accompagnato, per integrare l’ipotesi di com-
portamento elusivo illegittimo, dalla contestuale applicazione del principio
sottordinato della buona fede e dell’affidamento, oltreché da quello della
correttezza e della prevalenza della sostanza sulla forma, indicati rispet-
tivamente nell’art. 10 dello statuto dei diritti del contribuente, di cui alla
legge n. 212 del 27 luglio 2000, e nelle disposizioni sui principi contabili
internazionali (IAS – IFRS).
Una risposta a tale domanda nel senso dell’abbinamento di questi prin-
cipi è desumibile chiaramente dalle stesse richiamate pronunce della Supre-
ma Corte. In tali sentenze e in altre successive essa ha superato di slancio
questo dilemma interpretativo affermando espressamente, come si è visto,
che la clausola generale antiabuso, pur avendo la sua unica base normativa
nel solo principio sovraordinato di capacità contributiva (e cioè in un prin-
cipio «a fattispecie indefinita»), deve trovare comunque applicazione solo
in presenza di «indebiti vantaggi fiscali» derivanti «dall’utilizzo distorto di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale» e solo quando
non esistono valide ragioni economiche che giustificano l’operazione.
Questa affermazione è frutto di puro buon senso, anche se non è la
stretta conseguenza del generale ed astratto principio antiabuso. Essa ha

del diritto, destinato agli Studi in onore di N. PICARDI, di prossima pubblicazione, pp. 2-29.
Questo Autore sottolinea che le clausole generali, come quella antiabuso, riposano «non già
sull’oggettività di norme calcolabili», ma «sull’incontrollabile soggettivismo della decisione», con
la conseguenza che tanto più una clausola ha valore generale, tanto più è creativa la funzione
svolta dal giudice. Con riferimento specifico all’istituto dell’abuso del diritto, Lipari rileva, sul
filo di questa considerazione, che la costituzionalizzazione della clausola generale che ne sancisce
il divieto è la conseguenza del fatto che il giudice fonda il principio giuridico, quale che sia la
motivazione prescelta, solo su indici che egli «ricava dalla coscienza sociale, peraltro alla luce di
parametri non definiti». Sempre secondo tale Autore, la norma costituzionale fonte di tale clau-
sola, essendo «norma senza fattispecie», determina uno spostamento del criterio di valutazione
della prescrittività legale al valore degli interessi. Su questa stessa linea si pone N. Irti (La crisi
della fattispecie in Riv. Dir. Proc., 2014, pp. 41 ss.), il quale afferma che attraverso tali forme di
costituzionalizzazione i criteri di decisione si spostano al di sopra della legge (ordinaria), dando
così luogo ad un «innalzarsi dalla legge al diritto» e «dal diritto ai valori», il tutto come conse-
guenza dell’innalzarsi delle «leggi ordinarie alle norme costituzionali».
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 267

l’effetto di riagganciare la nozione non scritta di abuso a quella (scritta) de-


sumibile dai primi due commi dell’art. 37-bis. Questi due commi vengono
così recuperati e, nello stesso tempo, riferiti ad ogni operazione in sospetto
di elusione, pur essendo essi, per la stessa Corte, privi di un’autonoma effi-
cacia precettiva. Insomma, ciò che nella sostanza il giudice di legittimità ha
voluto dire nella maggior parte delle sue sentenze è che l’alterazione della
regola costituzionale di riparto deve pur sempre essere la conseguenza di
un comportamento negoziale diretto ad ottenere un risparmio d’imposta
non giustificato da apprezzabili ragioni economiche e, in ogni caso, ano-
malo e fraudolento; un comportamento, cioè, che è l’opposto simmetrico
della buona fede, dell’affidamento e della lealtà.
Se si entra in questo ordine di idee e si ritiene, quindi, che il principio
generale antiabuso sia applicabile – in linea con l’art. 37-bis, primo e se-
condo comma – solo quando è possibile dimostrare, oltre all’assenza di
sostanza economica, anche la slealtà e la fraudolenza in senso non natura-
listico delle operazioni assoggettabili ad imposte non armonizzate, si ca-
pisce allora quanto fosse necessario un intervento del legislatore che desse
una più sicura base normativa a tale opzione interpretativa e, perciò, un
contenuto definito alla fattispecie dell’abuso. Si trattava di generalizzare la
formula – (solo) formalmente espunta dalla Suprema Corte – usata dall’art.
37-bis, primo e secondo comma e, nel contempo, integrarla chiarendo de-
finitivamente in che cosa debbano consistere, da una parte, l’uso distorto,
fraudolento e sleale di strumenti giuridici e, dall’altra, le valide ragioni
economiche che giustificano l’operazione. Si è tornati, in altri termini, al
solito problema che ci trasciniamo da anni – che il passato legislatore non
ha saputo risolvere e che la giurisprudenza della Cassazione ha solo rinver-
dito e, in verità, un po’ complicato – della precisa individuazione di quelle
regole e di quei criteri che consentono di tracciare una sicura linea di con-
fine tra il comportamento rispettoso della regola costituzionale dell’equo
riparto (risolventesi in un legittimo risparmio d’imposta) e quello che da
tale parametro esorbita a causa, appunto, della sua fraudolenza, tortuosità
e assenza di ragioni economiche.
4.  L’art. 5 della legge delega n. 23 dell’11 marzo 2014
La richiamata legge delega n. 23 del 2014 e il d.lgs. n. 128 del 2015,
attuativo di essa, hanno avuto il compito di raggiungere tale obiettivo,
creando disposizioni che sostituiscano, senza però contraddirlo, l’art. 37-
bis, primo e secondo comma, del d.P.R. n. 600/1973 e tengano nel contem-
po ferma la trama di fondo delineata dalla giurisprudenza della Suprema
Corte. Si è data così maggiore certezza agli operatori, evitando che gli
uffici – invocando, a volte, il solo art. 53 Cost., a volte, i primi due commi
268 Franco Gallo

dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600, a volte anche il terzo comma dello stes-
so articolo – esercitino i loro poteri di accertamento senza precise guide
lines. Non v’è dubbio, infatti, che finora essi, confortati qualche volta dai
giudici di merito e da alcune sentenze della stessa Cassazione, sono passati
da una nozione di abuso in termini di fraudolenza o aggiramento, ad una
in termini di mera antieconomicità o di solo utilizzo di una diversa forma
giuridica (ad esempio, la forma della srl in luogo di quella della spa), fino ad
arrivare al punto di dare rilievo anche al solo dato, meramente soggettivo,
della coincidenza dell’uso distorto degli strumenti negoziali con la semplice
intenzione di ottenere un vantaggio fiscale.
L’art. 5 di detta legge delega si è dato, perciò, carico:
–  di fissare finalmente una clausola antiabuso generale valida anche per
ogni tributo non armonizzato e quindi sganciata, come vuole la richiamata
giurisprudenza della Corte di Cassazione, dall’elencazione delle operazioni
contenuta nell’art. 37-bis (fatte salve, in ogni caso, le fattispecie antielusive
previste da altre specifiche norme);
–  di definire espressamente, in via generale, l’abuso del diritto nel sen-
so appunto, indicato dalle ricordate sentenze e ricavabile dall’art. 37-bis,
primo e secondo comma, di «uso distorto di strumenti giuridici idonei
ad ottenere un risparmio d’imposta», escludendo, però, la configurabilità
di tale condotta se «l’operazione è giustificata da ragioni extrafiscali non
marginali», (lett. a) e b));
–  di confermare così che il comportamento abusivo deve essere pur
sempre contrario al principio della buona fede e al dovere di reciproca
lealtà tra fisco e contribuente. La prova della carenza della buona fede e
dell’alterazione indebita del riparto contributivo deve risolversi nella dimo-
strazione che l’operazione è stata pur sempre posta in essere in assenza di
valide ragioni economiche e con eccesso di abilità fiscale, evidenziato dalla
artificiosità e tortuosità della ricostruzione giuridica, dalla preordinazione
delle operazioni, da una voluta anormalità delle procedure usate e dalla
manipolazione e alterazione di schemi negoziali classici (lett. a), b) e c));
–  di sottolineare che, in ogni caso, la presenza di ragioni extrafiscali non
marginali esclude l’abusività dell’operazione;
–  di indicare, sul piano procedimentale, al legislatore delegato criteri e
principi direttivi atti a creare, nel rispetto della regola generale del contrad-
dittorio preventivo, più precise e stringenti norme procedurali cui devono
attenersi gli uffici in sede di accertamento dell’abuso del diritto (lett. d),
e) e f)).
Questi principi e criteri costituiscono l’essenza anche dell’abuso comu-
nitario, come lo intende la stessa Corte di Giustizia dell’UE quando parla
di aggiramento, fraus legis ed elusione e quando rileva che, nonostante
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 269

l’osservanza formale delle pertinenti disposizioni, l’abuso deve risultare


dal fatto che l’attribuzione del vantaggio (indebito) sia frutto di un’attività
fraudolenta, e cioè porsi oggettivamente in conflitto con l’obiettivo perse-
guito dalle disposizioni stesse12.
5.  Il decreto legislativo n. 128 del 5 agosto 2015
5.1. – L’assenza di sostanza economica e la realizzazione di un vantaggio
fiscale indebito. La guide line su cui si è mosso il decreto legislativo n. 128
del 2015, in attuazione degli indicati criteri fissati da detto art. 5 della legge
delega, è stata, dunque, quella di applicare i sopraindicati criteri di delega
adeguandosi il più possibile alla disciplina e alla giurisprudenza comunitarie
in materia. La disciplina comunitaria, in particolare, è quella contenuta nella
raccomandazione della Commissione UE sulla pianificazione fiscale aggres-
siva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012, richiamata dallo stesso art. 5.
Definendo la condotta abusiva come l’uso distorto di strumenti giu-
ridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, il legislatore delegante
richiedeva a quello delegato di fare un’ulteriore passo avanti rispetto alla
disciplina da esso dettata, nel senso di chiarire in che cosa dovessero con-
sistere le due prove principali che l’amministrazione finanziaria deve dare
per dimostrare l’abusività dell’operazione e, quindi, per annullare la pur
esistente e legislativamente ribadita libertà di scelta del contribuente tra
regimi opzionali diversi e tra operazioni comportanti un diverso carico
fiscale. Gli si chiedeva, in particolare, di stabilire cosa si dovesse intendere
per «assenza di sostanza economica» e per «realizzazione di un vantaggio
fiscale indebito».
L’impresa non era facile, anche perché, come si è visto, la giurisprudenza
della Suprema Corte, negando autonomia precettiva all’art. 37-bis, primo
e secondo comma e fondando il divieto dell’abuso solo sull’art. 53 Cost.,

12
  In questo senso si esprime, con molta chiarezza, la recente sentenza della Corte di giustizia
UE 15 marzo 2014 causa C-155/13, SICES e A.C. Agenzia delle Dogane di Venezia. Essa afferma
che l’accertamento dell’esistenza di una pratica abusiva richiede che ricorrano cumulativamente
un elemento oggettivo e uno soggettivo. Quanto al primo, deve risultare che, nonostante il
rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’UE, l’obiettivo perseguito da tale
normativa non è stato raggiunto (sono così confermate le precedenti sentenze 14 dicembre 2000,
Emsland-Stärke, C-110, 99 Racc. I-11569, punto 52 e 21 luglio 2005, Eichsfelder Schlachtbetrieb,
C-515/03, Racc. I-7355, punto 39). Quanto al secondo elemento, deve risultare che lo scopo
essenziale delle operazioni controverse è il conseguimento di un vantaggio indebito. Non si ha,
quindi, abuso tutte le volte che le operazioni possono spiegarsi in modo diverso dal mero conse-
guimento di vantaggi e, cioè, quando non si ha la prova del carattere artificioso delle operazioni
(così pure le precedenti sentenze 21 febbraio 2006, Halifax, C-255/02, Racc. I-1609, punto 68; 22
dicembre 2010, Weald Leasing Ltd, C-103/09, nonché la appena richiamata sentenza Emsland-
Stärke, punto 53 e la sentenza 21 febbraio 2008, Part Service, C-425/06, Racc. I-897, punto 62).
270 Franco Gallo

poteva in qualche modo indurre l’interprete – e spesso ha indotto – ad


abbandonare il solco tracciato da tale articolo e, quindi, a ritenere l’assenza
di valide ragioni economiche extrafiscali dell’operazione sufficiente da sola
a giustificare la ripresa a tassazione dei vantaggi fiscali invocati dal contri-
buente. Con la conseguenza di attribuire rilevanza marginale a quello che
deve essere, invece, uno dei principali elementi costitutivi dell’elusione-
abuso, e cioè il perseguimento di un indebito vantaggio attraverso l’ag-
giramento e la manipolazione di norme fiscali che prevedono un regime
più oneroso. Questo elemento interpretativo è, infatti, essenziale ai fini di
una corretta definizione dell’abuso del diritto ed è sottolineato dalla giuri-
sprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, secondo la quale, lo si è pure
visto, va colpito non qualsiasi vantaggio fiscale, ma solo quelli indebiti,
contrari cioè alla ratio dell’istituto di cui si invoca l’applicazione. Sono
chiare in questo senso le sentenze richiamate retro sub nota 12, cui sembra
aver letteralmente attinto l’art. 5, comma 1, lett. b) n. 2 della legge delega.
Allineandosi integralmente a tali criteri, il decreto legislativo n. 128 ha
superato le incertezze interpretative, per un verso, fornendo una nozione
generale e sintetica di abuso del diritto «come una o più operazioni prive
di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali,
realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti» (art. 10-bis, comma 1,
dello Statuto dei diritti del contribuente, come modificato dall’art. 1 dello
stesso decreto legislativo n. 128) e, per l’altro verso, circoscrivendo ab ori­
gine l’area dell’abuso a quelle sole operazioni «non giustificate da valide
ragioni economiche extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizza-
tivo e gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale e
funzionale dell’impresa, ovvero, dell’attività professionale del contribuen-
te» (art. 10-bis, comma 3).
In particolare, ha individuato con maggiore circospezione la nozione di
«operazione priva di sostanza economica» seguendo la via indicata dalla ci-
tata giurisprudenza comunitaria, che collega strettamente tale nozione alla
non idoneità dell’operazione stessa a produrre «effetti significativi diversi
dai vantaggi fiscali». La richiamata Raccomandazione della Commissione
Europea sulla pianificazione fiscale aggressiva porta diversi esempi-indici
di tale non idoneità. Il decreto legislativo li ha riassunti nei seguenti due: la
non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamen-
to giuridico del loro insieme e la non conformità degli strumenti giuridici
usati a normali logiche di mercato (art. 10-bis, comma 2, lett. a))13.

13
  Per un esaustivo esame di tale Raccomandazione si rinvia a G. Zizzo, L’abuso del diritto
tra incertezze della delega e raccomandazioni europee, in Corriere Tributario, n. 39/2014, p. 2997.
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 271

Gli altri esempi-indici di mancanza di sostanza economica indicati nella


Raccomandazione sono i seguenti: a) la costruzione o la serie di costruzio-
ni in cui si risolve l’operazione comprende elementi che hanno l’effetto di
compensarsi o annullarsi reciprocamente; b) le operazioni concluse sono di
natura circolare; c) il vantaggio fiscale che dette costruzioni comportano è
significativo e di esso non si tiene conto nei rischi commerciali assunti dal
contribuente e nei suoi flussi di cassa; d) le previsioni di utili al lordo delle
imposte sono insignificanti rispetto all’importo dei previsti vantaggi fiscali.
La non trasposizione nell’art. 10-bis di tali ulteriori esempi non vuol
dire, certo, che questi – come altri che sono offerti dalla prassi del mer-
cato – non possano essere riconosciuti dall’ordinamento interno come
ulteriori tipologie di operazioni prive di sostanza economica. Vuol dire
che il legislatore delegato ha ritenuto di normativizzare solo i due indici
indicati nel citato comma 2, lett. a), II parte, perché essi, grazie al loro
carattere più generale, meglio si prestano ad individuare le situazioni di
assenza di sostanza economica. Non si è inteso, in altri termini, precludere
all’amministrazione finanziaria il potere di verificare, caso per caso, se una
singola concreta operazione, pur non rientrando puntualmente nell’ambito
di quelle indicate nel comma 2, lett. a), II parte, sia tuttavia riconducibile
a quei «fatti, atti e contratti, anche fra loro collegati», che la prima parte
dello stesso comma 2, lett. a), considera, in via generale, «privi di sostanza
economica perchè inidonei a produrre effetti significativi diversi dai van-
taggi fiscali».
Quanto poi alla nozione di vantaggi fiscali indebiti, essa viene fornita
desumendola dalla stessa Raccomandazione e, anche qui, dalla giurispru-
denza della Corte di Giustizia UE. Attingendo a tali fonti viene richiesto
espressamente che i vantaggi, per essere indebiti, debbono essere «essenzia-
li», e cioè fondamentali rispetto agli altri fini perseguiti dal contribuente e,
comunque, devono essere frutto di un comportamento negoziale in frode
alla legge fiscale o, meglio, in contrasto con le finalità delle norme tributarie
o con i principi dell’ordinamento (art. 10-bis, comma 2, lett. b)).
Sull’esistenza in concreto delle suddette due condizioni e, soprattutto,
sulle cause di esclusione dell’abuso costituite dalle valide ragioni extrafiscali
non marginali e di quelle di tipo organizzativo, si eserciteranno non senza
difficoltà gli operatori e i giudici, avendo come referenti le numerose deci-
sioni della Corte di Giustizia europea in materia. Ad esempio, ci si dovrà
interrogare sul significato dell’aggettivo «essenziale» usato per qualificare
il vantaggio fiscale indebito. Al riguardo, si porrà sicuramente il problema,
già sorto in passato, se esso equivalga a «principale» o a «prevalente». Sul
piano meramente lessicale si potrebbe dire che il legislatore della legge
delega e del decreto legislativo si sia voluto mantenere in una posizione di
272 Franco Gallo

compromesso dicendo col termine «essenziale» qualcosa di più di «preva-


lente», ma sicuramente meno di «esclusivo»14.
5.2. – L’astrattezza della nozione di abuso ed i conseguenti problemi
interpretativi. Con la più puntuale specificazione delle nozioni di «assenza
di sostanza economica» e di «indebito vantaggio» non si sono risolti tutti i
problemi definitori dell’abuso del diritto. Si sono solo indicati alcuni criteri
per risolverli.
È, infatti, evidente che, indipendentemente dagli sforzi fatti al riguardo
dal legislatore delegato, sarà difficile per il futuro eliminare del tutto il con-
flitto fra l’esigenza di certezza e la astratta nozione di abuso. Del resto, è
stato proprio lo scopo di individuare un principio generale che ha portato
la legge delega e il legislatore delegato a costruire fattispecie più precise, ma
pur sempre astratte, come quelle sopra commentate e a rimettere, quindi,
all’interprete la valutazione in concreto sia dell’indebito risparmio di impo-
sta, sia delle valide ragioni economiche, sia dell’uso distorto degli strumenti
giuridici, sia, ancora, dell’artificiosità.
Giustamente, già in sede di prima lettura è stata fatta rilevare dalla dot-
trina la inevitabile circolarità delle formule normative usate. Con ciò vo-
lendo intendere che l’amministrazione finanziaria e il giudice, benché in
presenza di una normativa innegabilmente più precisa, avranno pur sempre
il difficile problema sia di verificare la compatibilità di essa con la clausola
sovraordinata antiabuso di derivazione costituzionale, sia di determinare
concetti necessariamente astratti sia, comunque, di disapplicare il regime
giuridico formalmente applicabile sostituendolo con quello eluso indivi-
duato dal giudice. Se certezza del diritto vuol dire regole lineari e perento-
rie, capaci di imprimere sicurezza alle umane relazioni e inattaccabilità degli
effetti e, in ultima analisi, il rispetto del principio fondamentale di legalità
(in materia fiscale, di stretta legalità), è difficile dire che questo obiettivo
sia agevolmente raggiungibile con la normativa in esame. Dato l’oggetto
della materia regolata, essa non sempre potrà garantire con puntualità la
prevedibilità degli interventi degli organi decisionali in sede applicativa,
l’esito delle loro decisioni e l’univocità delle qualificazioni giuridiche, che

14
  Sul punto va ricordato che il Conseil constitutionnel français con la sentenza 685 del 29
dicembre 2013 – commentata adesivamente da M. Procopio, La poco convincente riforma
dell’abuso del diritto ed i dubbi di legittimità costituzionale, in Dir. prat. trib., 2014, p. 746 ss. –
ha dichiarato incostituzionale la sostituzione operata dal legislatore francese, all’inizio del 2013,
dell’avverbio «esclusivamente» con quella «prevalentemente». Ha motivato laconicamente la sua
decisione con l’argomento che con tale modifica si era attribuito un eccessivo potere discrezio-
nale all’amministrazione finanziaria costituzionalmente inaccettabile.
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 273

sono l’essenza della certezza del diritto, almeno quella definita dal pensiero
illuministico e giuspositivistico. In un clima in continuo mutamento come
l’attuale, in cui pure in via teorica il diritto tende ad essere «incerto», plu-
rale nelle fonti, flessibile nelle strutture e, per definizione, opinabile negli
esiti, sarebbe già sufficiente che una disciplina di per sé necessariamente
astratta, come quella dell’abuso del diritto, assicurasse una certa stabilità
nella sua regolamentazione giuridica nel tempo, una soddisfacente omo-
geneità dei criteri di interpretazione e una maggiore controllabilità delle
argomentazioni addotte dalle parti e dai giudici nelle motivazioni e nelle
decisioni. Non si dimentichi che, dagli anni Ottanta in poi, l’abuso ha
subito quelle diverse regolamentazioni e quei continui capovolgimenti di
indirizzi giurisprudenziali di cui ho dato conto nei precedenti paragrafi 2,
3 e 4.
Sotto questo profilo si capisce, dunque, che assumeranno particolare
rilievo in futuro gli strumenti di compliance, come l’instaurazione di un
contraddittorio preventivo tra fisco e contribuente e le regole dell’interpel-
lo di cui dirò in seguito, ancor più della ripartizione dell’onere della prova.
Il tratto saliente delle nuove norme è, comunque, da rinvenire soprat-
tutto nel carattere residuale della assunta nozione di abuso. Ai sensi del
comma 12 del nuovo art. 10-bis, l’abuso è, infatti, configurabile solo se «i
vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione
di specifiche disposizioni tributarie», e cioè solo se il contribuente conse-
gue tali vantaggi attraverso fattispecie non riconducibili all’evasione.
Il che significa che devono essere esclusi dalla nozione di condotta abu-
siva e devono confluire in quella di evasione tutti quei comportamenti e
quelle situazioni che conducono alla rappresentazione di risultati diversi
da (o in contrasto con) quelli previsti dalla legge e, perciò, non solo, ov-
viamente, gli occultamenti di ricavi e proventi, le deduzioni di spese non
inerenti o fittizie, ma anche quelle alterazioni dei fatti economici che fi-
nora la Cassazione ha spesso assimilato all’abuso del diritto (il riferimento
è, soprattutto, alla dissimulazione, all’antieconomicità, all’interposizione e
residenza fittizie e all’esterovestizione). L’abuso del diritto in campo fiscale
va, quindi, definito per esclusione nel senso che esso inizia dove, integran-
dosi le ipotesi di cui all’art. 10-bis, finisce il legittimo risparmio d’imposta
e termina dove sono prospettabili specifiche fattispecie di evasione15.

15
  In questo senso si sta muovendo la Corte di Cassazione. È eloquente, al riguardo, il passo
della recente sentenza n. 40272 del 2015 nel quale si afferma che è compito dell’interprete veri-
ficare se «operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive
integrino ipotesi di vera e propria evasione».
274 Franco Gallo

5.3. L’interpello antiabuso e quello disapplicativo, il contraddittorio pre­


ventivo e la nullità dell’accertamento per carenza di motivazioni. Come
richiesto dalle lett. d), e) ed f) dell’art. 5, comma 1, della legge delega, il
decreto legislativo n. 128 prevede un più stretto contraddittorio tra ammi-
nistrazione finanziaria e contribuente, che passa attraverso le seguenti fasi
e ha il seguente contenuto.
5.3.1. In primo luogo, è previsto che il contribuente possa proporre, pri-
ma della scadenza del termine stabilito per la presentazione della dichiara-
zione e per l’assolvimento di altri obblighi tributari, un’istanza di interpello
preventivo all’Agenzia delle entrate, diretto a conoscere se le operazioni
costituiscano fattispecie di abuso del diritto (citato art. 10-bis, comma 5,
come modificato dall’art. 1 del pure citato d.lgs. n. 128, e successivo art.
11, comma 1, lett. c) come modificato dall’art. 1 del d.lgs. 24 settembre
2015, n. 156, recante «Misure per la revisione della disciplina degli interpelli
e del contenzioso tributario»). L’istanza deve essere proposta secondo le
specifiche procedure e con gli effetti previsti dai medesimi artt. 10-bis e 11.
A questa forma di interpello – da considerare interpello antiabuso in
senso stretto – deve aggiungersi quella disciplinata dal comma 3 del citato
art. 1 del d.lgs. n. 128 e dal comma 2 del pure citato art. 11 dello Statuto per
i diritti del contribuente di cui alla legge n. 212/2000, e cioè l’interpello c.d.
disapplicativo, corrispondente esattamente a quello regolato dall’abrogato
art. 37-bis, comma 8, del d.P.R. n. 600 del 1973. La formula legislativa usa-
ta è rimasta immutata: «le norme tributarie che, allo scopo di contrastare
comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti di imposta
più altre posizioni soggettive altrimenti ammesse nell’ordinamento tributa-
rio, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella
particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi.».
Questa norma va integrata, sul piano procedimentale, con quella del
comma 2, secondo periodo, del medesimo art. 11, nel testo modificato
dal d.lgs. n. 156/2015, il quale dispone espressamente che «nei casi in cui
non sia stata resa risposta favorevole [all’interpello], resta comunque ferma
la possibilità per il contribuente di fornire detta dimostrazione [e cioè la
dimostrazione della inesistenza di effetti elusivi] anche ai fini dell’accerta-
mento in sede amministrativa e contenziosa». Contemporaneamente l’art.
6, comma 2, del d.lgs. n. 156, stabilisce «che le risposte alle istanze di in-
terpello disapplicativo sono impugnabili unitamente all’atto impositivo».
Così disciplinato, l’interpello disapplicativo presenta delle evidenti in-
congruenze.
Esso non è obbligatorio perché è consentito, in ogni caso, al contri-
buente, convinto delle sue ragioni, di non applicare la norma che vieta le
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 275

deduzioni e le detrazioni, senza dover essere a ciò «autorizzato» da un


atto dell’Amministrazione finanziaria che risponda positivamente al suo
interpello. Anzi, egli può disapplicare detta norma anche nel caso «in cui
l’istanza sia stata presentata e non sia stata resa risposta favorevole». Nello
stesso tempo, la mancata presentazione dell’istanza è punita indirettamente
dal nuovo art. 8 del d.lgs. 471/1997, come modificato dall’art. 15, comma
8, 7-ter, del d. lgs. 24 settembre 2015, n. 158 recante revisione del sistema
sanzionatorio, il quale contiene un nuovo comma 3-quinquies che sanzio-
na con una pena pecuniaria da duemila a ventunomila euro i contribuenti
che non segnalano in dichiarazione la mancata presentazione dell’interpello
oppure la risposta negativa ricevuta dal fisco. Tale sanzione può essere
applicata in misura doppia, fino quindi a quarantaduemila euro, se il fisco
disconosce la disapplicazione delle norme di cui il contribuente si è avvalso
senza interpello.
L’incongruenza sta nel fatto che, nel caso in cui l’istanza sia stata pre-
sentata, la risposta negativa è considerata espressamente impugnabile sia
pure in via differita, alla stregua di ogni altro atto autoritativo dell’am-
ministrazione finanziaria. E ciò, ancorché il carattere non obbligatorio
dell’interpello e la conseguente possibilità di disapplicare la norma senza la
necessaria mediazione dell’amministrazione finanziaria dovrebbero portare
ad assimilare detta risposta ad un vero e proprio atto-parere di indirizzo e
orientamento privo di effetti impositivi.
Sarebbe stato, invece, più corretto e coerente alla prevista ricorribilità e
al carattere disapplicativo dell’interpello costruire l’interpello stesso come
obbligatorio, e cioè considerare la disapplicazione l’esito di un procedi-
mento complesso caratterizzato dalla richiesta (appunto, obbligatoria) del
contribuente, da un lato, e dalla verifica dei presupposti per la disapplica-
zione da parte dell’amministrazione, dall’altro. In particolare, si sarebbe
dovuto far discendere la possibilità di disapplicare una specifica norma
antielusiva non – come accade ora con la nuova normativa – da una mera
scelta valutativa del contribuente circa la sussistenza delle condizioni di
legge, bensì dalla sola pronuncia dell’amministrazione che ha preliminar-
mente accertato la sussistenza di tali condizioni.
Non ha, quindi, molto senso nel nuovo contesto normativo la previ-
sione della impugnabilità di un atto amministrativo che non ha natura au-
toritativa. Delle due l’una: se l’interpello è – come dovrebbe essere per il
carattere vincolante della norma che si intende disapplicare – obbligatorio,
dall’obbligatorietà deve conseguire che la risposta negativa non solo è un
atto suscettibile di impugnazione, ma è anche l’unico atto in forza del
quale è consentito al contribuente di disapplicare la norma antielusiva. Ma
se l’interpello è facoltativo, dalla facoltà non può che conseguire la non
276 Franco Gallo

impugnabilità della risposta negativa, l’applicazione delle sole sanzioni


per omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi e la concentrazione
nell’eventuale atto di accertamento di tutte le questioni relative alla legit-
timità dell’autonoma disapplicazione.
5.3.2. In secondo luogo, è previsto che l’abuso del diritto sia accertato
con apposito, distinto atto, che deve essere preceduto, a pena di nullità,
dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire en-
tro il termine di 60 giorni, nella quale sono indicati i motivi per i quali si
ritiene configurabile un abuso del diritto (nuovo art. 10-bis, commi 6 e 7).
Questa previsione ratifica in via legislativa quanto già affermato in via
generale dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale e dalla stessa Corte
costituzionale (sentenza n. 132 del 2015) – quest’ultima con riferimento
proprio all’abuso del diritto – circa l’esistenza nell’ordinamento di un im-
manente obbligo generale di contraddittorio preventivo fra amministrazio-
ne finanziaria e contribuente.
Nell’atto impositivo dovranno, inoltre, essere specificamente indicati,
anche qui a pena di nullità, i motivi per i quali si ritiene configurabile
l’elusione «in relazione alla condotta abusiva, alle norme e ai principi elu-
si, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal
contribuente nei termini di legge (art. 10-bis, comma 8)».
È sul riparto in sede giurisdizionale dell’onere della prova tra ammini-
strazione e contribuente che vale la pena di soffermarsi. Esso è così rego-
lato dal citato art. 10-bis, comma 9: l’amministrazione deve dimostrare la
sussistenza della condotta abusiva allegando16 la struttura dell’operazione,
il carattere indebito del vantaggio fiscale e qualunque altro elemento che
l’ha indotta a effettuare l’accertamento; il contribuente deve allegare l’esi-
stenza delle ragioni extrafiscali non marginali sottostanti alle operazioni e
il fatto che si tratta di un vantaggio lecito, quindi, non indebito. Secondo
lo stesso comma 9, ultima parte, la sussistenza della condotta abusiva non
è rilevabile d’ufficio dal giudice adducendo una nuova, diversa motivazione
in qualunque grado del giudizio.
Sono evidenti l’importanza e la novità di queste disposizioni, che di-
sciplinano l’onere della prova non tanto della verità di un fatto quan-
to della idoneità o meno di determinate operazioni prive di sostanza
economica a conseguire un vantaggio fiscale indebito. Con esse si su-
pera finalmente quella non condivisibile giurisprudenza della Corte di
Cassazione, la quale ha finora consentito che il giudice tributario pos-

16
  Il verbo «allegare» è usato dall’art. 5, comma 1, lett. d) della legge delega n. 23/2014.
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 277

sa riqualificare come abusive le operazioni oggetto della causa, anche se


l’amministrazione non le ha configurate in tal modo nell’avviso di accer-
tamento. Questa giurisprudenza, facendo un’ardimentosa applicazione
della regola iura novit curia, riteneva che il principio del divieto di abu-
so «comporta la sua applicazione d’ufficio da parte del giudice tributa-
rio, a prescindere da qualsiasi allegazione al riguardo ad opera delle par-
ti in causa», perché «il giudice ha – in quanto connaturale all’esercizio
stesso della giurisdizione, quandanche abbia ad oggetto il mero riesame
di atti – il potere di qualificare autonomamente la fattispecie demandata
alla sua cognizione».
Il decreto legislativo n. 128 ha accolto la tesi opposta, sostenuta dalla
maggioranza della dottrina17, secondo cui l’amministrazione ha consumato
il suo potere con l’emissione del provvedimento nel quale ha indicato le ra-
gioni dell’accertamento. Di conseguenza, nessuna integrazione è possibile
in corso di giudizio né da parte sua né da parte del giudice, vietandolo l’art.
112 c.p.c., per il quale il giudice può pronunciare d’ufficio solo su eccezioni
proposte dalle parti. Se, quindi, nell’avviso di accertamento l’amministra-
zione non ha indicato i motivi per i quali ritiene configurabile l’elusione, il
giudice deve dichiarare tale avviso nullo. Se, invece, ha qualificato il fatto
in un certo altro modo, lo stesso giudice non può modificare la effettuata
qualificazione applicando autonomamente il principio del divieto d’abuso.
Ad esempio, se un fatto per l’ufficio è solo di evasione e se, comunque, la
condotta abusiva non è da esso puntualmente individuata, questo stesso
fatto dev’essere giudicato per come è entrato nel processo e non può essere
oggetto in via successiva, da parte del giudice, di una diversa qualificazione
in termini di abuso del diritto.
6.  Alcune brevi considerazioni sull’irrilevanza penale dell’abuso del
diritto e sulla sua sanzionabilità solo in via amministrativa.
Altro delicato problema che il legislatore delegato ha risolto in modo
soddisfacente è quello relativo ai profili sanzionatori dell’abuso del diritto.
L’ha risolto sancendo l’irrilevanza penale di esso e la sua sanzionabilità solo
in via amministrativa.
Al riguardo l’art. 8, comma 1, della legge delega non era molto chiaro.
Esso si limitava a demandare un po’ ambiguamente al Governo di proce-
dere alla «individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle
di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie».

17
  Rinvio sul punto agli scritti recenti di A. Giovannini, raccolti in Il diritto tributario per
principi, Milano, 2014, pp. 126-140
278 Franco Gallo

La situazione che, in via interpretativa, aveva davanti il legislatore dele-


gato poteva così sintetizzarsi.
Secondo l’indirizzo affermatosi nella più recente giurisprudenza di le-
gittimità, le operazioni elusive potevano assumere rilevanza penale nel qua-
dro del paradigma punitivo della dichiarazione infedele tracciato dall’art. 4
della legge n. 74/2000, ma solo se contrastanti con specifiche disposizioni.18
Si è sempre negata, in particolare, la punibilità della c.d. «elusione non co-
dificata» sul rilievo che – anche alla luce di quanto affermato dalla Corte
di Giustizia dell’Unione europea (in particolare, nella richiamata sentenza
Halifax) e in applicazione del principio di legalità – in assenza di un preciso
fondamento normativo, non potrebbe ritenersi sanzionabile la violazione
del principio generale del divieto di abuso del diritto. Se, quindi, l’abuso
del diritto-elusione era penalmente rilevante solo se la condotta elusiva
contrastava con una norma che la individuava precisamente sul piano am-
ministrativo e tributario (senza perciò che alcun spazio ricostruttivo fosse
rimesso all’interprete), ne conseguiva che, prima dell’entrata in vigore del
nuovo art. 10-bis, per la Suprema Corte potevano integrare il reato tribu-
tario di dichiarazione infedele solo le fattispecie elusive previste espressa-
mente dall’art. 37-bis, 3° comma, del d.P.R. n. 600/197319.
L’introduzione di una specifica disciplina positiva in materia sanzio-
natoria, attraverso l’attuazione dell’art. 5 della legge delega, ha mutato i
termini del dibattito ed ha reso, perciò, necessaria una puntuale presa di
posizione al riguardo da parte del legislatore delegato.
Questi non ha avuto dubbi nel ritenere che il tenore letterale del cri-
terio di delega fissato dal citato comma 1 dell’art. 8 – e cioè individuare i
confini tra fattispecie di elusione e fattispecie di evasione e delle relative
conseguenze sanzionatorie – dovesse interpretarsi nel senso che il legisla-
tore delegante non aveva inteso adottare la soluzione radicale di escludere
ogni possibile conseguenza sanzionatoria, penale e amministrativa, delle
fattispecie elusive20.

18
  Per tutte, tra le ultime, Cass., sez. III, 6 marzo 2013-3 maggio 2013, n. 19100; Cass., sez.
III, 12 giugno 2013-31 luglio 2013, n. 33187; Cass., sez.III, 20 marzo 2014–3 aprile 2014, n.
15186.
19
  Così ragiona, in particolare, la sentenza della Cassazione, sez. V penale, n. 8797 del 2014.
20
  Ricordo comunque che, secondo la Corte di Giustizia (citate cause C-255/02 Halifax
contro Commissioners of Customs & Excise; causa C-110/99 Emsland-Stärke GmbH contro
Hauptzollamt Hamburg-Jonas), l’effetto proprio della constatazione dell’abuso consiste nel
mero ripristino della situazione senza abuso (in particolare, nel caso Emsland-Stärke, nel rim-
borso delle restituzioni all’esportazione indebitamente percepite; nel caso Halifax, nel rimborso
dell’IVA a monte indebitamente detratta). Per l’irrogazione di sanzioni, inoltre, non sarebbe
sufficiente l’esistenza del comportamento abusivo, occorrendo invece un «fondamento chiaro ed
La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale 279

Ciò, del resto, era confermato dagli stessi lavori parlamentari relativi
alla legge di delegazione, nel corso dei quali sono stati, tra l’altro, respin-
ti emendamenti intesi a stabilire in termini espressi l’irrilevanza totale
del fenomeno sul versante sanzionatorio. Una simile soluzione sarebbe
risultata, comunque, non adeguata in rapporto all’esigenza di prevede-
re, in certi casi, un deterrente rispetto ad operazioni che, come quelle
elusive, realizzano risultati in ogni caso «indesiderati» dal punto di vista
dell’ordinamento fiscale. Nello stesso tempo, tuttavia, proprio il riferi-
mento della legge delega alla «individuazione dei confini» tra evasione
ed elusione dimostrava come il legislatore delegante avesse chiaramente
avvertito la necessità di una gradazione di gravità tra le condotte che in-
tegrano una violazione diretta di disposizioni normative e quelle che ne
«aggirano» la ratio.
In questa situazione, la scelta che ha fatto il decreto legislativo è stata
quella di realizzare tale gradazione escludendo la rilevanza penale delle
operazioni costituenti abuso del diritto così come da esso individuate («le
operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi
penali» dice l’art. 10-bis, comma 13, I parte) e, contemporaneamente, fa-
cendo salva l’applicabilità delle sanzioni amministrative, ove ne ricorrano
in concreto i presupposti («resta ferma l’applicazione delle sanzioni ammi-
nistrative e tributarie» aggiunge lo stesso comma 13, II parte).
È sembrato, in particolare, al legislatore delegato che l’esclusione
della punibilità dell’abuso del diritto con sanzioni penali dovesse esse-
re data per scontata, essendo essa la conseguenza – come è detto nella
relazione governativa – della generale definizione che l’art. 5 della legge
delega dà dell’abuso. Tale definizione infatti, per un verso, postula di
per sé l’assenza nel comportamento elusivo del contribuente di tratti ri-
conducibili ai paradigmi, penalmente rilevanti, della simulazione, della
falsità o, più in generale, della fraudolenza in senso naturalistico di cui
all’art. 3 della legge n. 74 del 2000 e, per l’altro verso, imprime – come
si è visto – alla disciplina dell’abuso un indubbio carattere di residualità
rispetto agli altri strumenti di reazione previsti dall’ordinamento tribu-
tario. Per queste stesse ragioni resta, però, nel contempo impregiudicata
la possibilità di ritenere che le operazioni qualificate in precedenza dalla
giurisprudenza come semplicemente elusive integrino, ricorrendone le

univoco» (v. punto 56 della sentenza Emsland-Stärke e punti 93 e 94 della sentenza Halifax). Da
una recente indagine, compiuta da uno speciale gruppo di lavoro della Luiss costituito all’interno
del Wintercourse, risulta che dei 10 Stati oggetto di analisi solo Francia, Ungheria e Stati Uniti
applicano le sanzioni amministrative, mentre nessun paese applica quelle penali.
280 Franco Gallo

condizioni e i presupposti di legge, ipotesi di vera e propria evasione e,


in particolare, di dichiarazione fraudolenta di cui allo stesso art. 3 del
d.lgs. 74/200021.

21
  Ciò è sottolineato dalla richiamata sentenza della Corte di Cassazione n. 40272 del 2015, la
quale espressamente afferma che «rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali
nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguono finalità antielusive». La
Suprema Corte si riferisce evidentemente a quelle operazioni (relative, ad esempio, al «commer-
cio di bare fiscali», alla disciplina Cfc o sul transfer pricing) che violano un preciso divieto posto
da una specifica norma a fini antielusivi, divieto che, se non rispettato, potrebbe integrare l’ipotesi
di illecito e quindi, sussistendone le condizioni, di evasione penalmente rilevante.
Giuseppe Corasaniti
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione
nell’ordinamento tributario

Sommario:  1. Premessa. – 2. Brevi considerazioni preliminari sul divieto di abuso del


diritto tra clausole generali di diritto civile e principi costituzionali. – 3. Il contrasto
all’elusione nella legislazione e nella giurisprudenza tributaria italiana. – 4. La neces­
saria distinzione tra rilevazione dell’elusione o dell’abuso del diritto ed accertamento
dell’invalidità e della simulazione in ambito civilistico. – 5. L’abuso del diritto come
clausola antielusiva generale nell’elaborazione giurisprudenziale. – 5.1. (segue) Le prin­
cipali sentenze della Corte di Cassazione in tema di abuso del diritto pronunciate negli
ultimi anni. – 6. I presupposti costitutivi dell’abuso di diritto. – 6.1 Le valide ragioni
economiche. – 6.2 Il lecito risparmio d’imposta. – 7. Le operazioni di riorganizzazione
aziendale e profili di elusività. – 7.1. Il conferimento di azienda e cessione delle par­
tecipazioni. – 7.2 La cessione «spezzatino» e cessione di beni mediante trasferimento
d’azienda. – 7.3. «Merger leveraged buy out» e abuso del diritto. – 8. La disapplicazione
delle disposizioni antielusive specifiche. – 9. Abuso del diritto e fattispecie sanzionabile.
– 10. Il divieto dell’abuso di diritto nella legge delega n. 23 del 2014: i criteri definitori
della condotta abusiva e il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito come causa
prevalente dell’operazione abusiva. – 10.1. I profili procedimentali tra contraddittorio
preventivo e nullità dell’accertamento per carenza di motivazione. – 10.2. La sanzio­
nabilità della condotta abusiva nella legge delega. – 11. Il decreto delegato n. 128 del
2015: gli elementi costitutivi della fattispecie abusiva. – 11.1. Le garanzie procedurali
previste dalla nuova disciplina in tema di abuso del diritto. – 11.2. La sanzionabilità
amministrativa e l’irrilevanza penale della condotta abusiva.

1.  Premessa
È noto che nel nostro ordinamento, a differenza di quanto è avvenuto
nella gran parte degli ordinamenti dei Paesi dell’Europa continentale, man-
ca, ad oggi, una previsione che vieti l’abuso del diritto. Ciò ha determi-
nato un profondo contrasto di opinioni circa la possibilità di considerare
comunque vigente, quale principio inespresso, un tale divieto, dividendosi
la dottrina tra quanti rifiutano la praticabilità di siffatta interpretazione in
nome della certezza del diritto e quanti, di contro, la sostengono, ritenendo
che l’abuso del diritto rappresenti lo strumento più adeguato per evitare
che il rispetto formale della legge porti a risultati iniqui1.

1
  Sul punto, F. Prosperi, L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un civilista, in Dir. prat.
trib., 2012, I, 717 ss. L’A. rileva che sarebbe l’assenza del principi che rischia di compromettere
la certezza del diritto, giacché la pretesa dell’esercizio indiscriminato del diritto soggettivo si
tradurrebbe nei fatti in una resa all’arbitrio individuale e nella negazione di ogni autorità della
282 Giuseppe Corasaniti

È opportuno, in premessa, anche chiarire che l’ordinamento giuridi-


co debba concepirsi come unitario e coerente, in quanto caratterizzato da
principi comuni, con la conseguenza che l’interpretazione di ogni singola
disposizione non può che essere sistematica, derivando la giustificazione di
ognuna dalla posizione che occupa nella gerarchia delle fonti e dei valori
che caratterizza l’intero sistema.
L’ingresso in ambito tributario dell’abuso del diritto, che è nozione nata
e modernamente sviluppatasi in ambiente civilistico, costituisce, in questo
senso, un chiaro esempio dell’impossibilità di tracciare rigidi confini fra
i settori dell’ordinamento giuridico, per quanto si debbano rispettare le
peculiarità delle singole discipline2.
In ambito tributario, negli ultimi anni si è consolidata la giurispruden-
za della Corte di Cassazione che fissa il limite del divieto dell’abuso del
diritto, la cui fonte trae origine dall’art. 53 della Costituzione recante il
principio di capacità contributiva, al fine di contrastare le operazioni so-
cietarie il cui scopo determinante sia il conseguimento di un risparmio
fiscale indebito3.
Tuttavia, la Suprema Corte, ha rivisitato nel corso degli anni la propria
posizione (rigida inizialmente) sulla qualificazione della fattispecie «abu-
so del diritto», chiarendo che l’applicazione del principio dell’abuso del
diritto deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario
trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente
aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando
si tratta di attività d’impresa4. In altri termini, si è reso necessario inqua-

legge. A conferma di ciò, l’A. sottolinea che i numerosi ordinamenti di Civil Law nei quali
l’abuso del diritto è espressamente previsto non sono affatto afflitti da un’incertezza del diritto
sconosciuta al nostro ordinamento, in cui l’abuso del diritto, oltre a non essere codificato, è
stato impiegato dalla giurisprudenza, prima dell’inversione di tendenza registratasi negli ultimi
anni, in casi limitati.
2
  A favore della possibilità che venga applicato allo studio della normativa fiscale un metodo
interpretativo proprio, si veda B. Griziotti, Lo studio funzionale dei fatti finanziari, in Riv.
dir. fin. sc. fin., 1940, I, 306; Id., Saggi sul rinnovamento dello studio della scienza delle finanze
e del diritto finanziario, Milano, 1953, 417 ss.; Id., Pragmatismo e giurisprudenza fiscale, in Il
pensiero americano contemporaneo, Milano, 1958, 171. Cfr., altresì, D. Jarach, Le considerazioni
del contenuto economico nell’interpretazione delle leggi di imposta, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1937,
II, 54 ss.; Id., Metodo e risultati nello studio delle imposte di registro, in Dir. prat. trib., 1938, 93
ss. In senso critico, ritenendo che in tal modo si finisca per consentire l’applicazione del tributo
a casi non previsti dalla legge, v. A. Uckmar, Interpretazione funzionale delle norme tributarie,
in Dir. prat. trib., 1949, 185.
3
  Cfr., G. Falsitta, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed
elusione nell’onnivoro contenitore detto «abuso del diritto», in Riv. dir. trib., 2010, 349 ss.
4
  Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova, 2012, 228. L’Autore sottolinea
come « l’abuso del diritto, per come configurato dalla Cassazione, è, ormai, strumento di diritto
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 283

drare i limiti all’interno dei quali le società potessero scegliere la forma


di conduzione degli affari più congeniale, al fine di ridurre lecitamente
l’obbligazione tributaria.
Per tali ragioni, al fine di dare attuazione a istanze di certezza giuridica
provenienti dal mondo produttivo e a raccomandazioni di fonte comunita-
ria, il legislatore della delega fiscale (l. 11 marzo 2014, n. 23) , da ultimo, ha
introdotto una disciplina positiva del divieto, di origine giurisprudenziale,
dell’abuso del diritto. In altri termini, si sta cercando definitivamente di
cristallizzare, all’interno di una norma, principi – guida che siano ricogni-
tivi della giurisprudenza di legittimità fin qui consolidatasi5.
Tuttavia, occorre sottolineare in premessa che la materia è scivolosa, la
delega contiene delle indicazioni non del tutto chiare, il formulario utiliz-
zato è ripreso per molti aspetti da sentenze della Suprema Corte che, molte
volte, non hanno affatto posto fine ai dubbi e alle contese anche aspre fra
contribuenti e Amministrazione finanziaria .
È, dunque, necessario fornire un quadro ricostruttivo del contrasto
all’elusione fiscale, nel rispetto della libertà economica dell’imprenditore,
pur nella consapevolezza della necessità di codificare il divieto dell’abuso
del diritto tributario con l’osservanza delle garanzie procedimentali per il
contribuente, oggi previste dalla clausola antielusiva di cui all’art. 37-bis,
d.p.r. n. 600/19736.
2.  Brevi considerazioni preliminari sul divieto di abuso del diritto tra
clausole generali di diritto civile e principi costituzionali
Il diritto delle obbligazioni annovera tra i propri principi generali quello
secondo cui le parti di un rapporto obbligatorio devono comportarsi se-
condo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che tanto la formazione
quanto l’interpretazione e l’esecuzione dei contratti, devono avvenire se-
condo buona fede.
Nelle intenzioni del legislatore, i principi della buona fede e della cor-

libero e di nomofilachia creativa. In sostanza, va respinta ogni configurazione dell’abuso del


diritto tributario come strumento che, consistendo e risolvendosi nell’inopponibilità all’Ammini-
strazione finanziaria di ogni scelta del contribuente dettata essenzialmente da scopo di riduzione
del carico tributario in assenza di valide ragioni economiche, fonderebbe un potere normativo
dei giudici e, a monte, dell’Agenzia delle Entrate di rimodellare il sistema tributario o parti di
questo».
5
  Cfr., fra gli altri, G. Zizzo, Ma lo strumento non può creare un nuovo ordinamento, in Il
Sole-24 Ore del 5 marzo 2010, 30; E. De Mita, L’abuso del diritto «corto circuito» del sistema
fiscale, in Il Sole-24 Ore del 21 giugno 2009.
6
  Si permetta il rinvio a G. Corasaniti, Contrasto all’elusione e all’abuso del diritto nell’or­
dinamento tributario, in Obbligazioni e Contratti, 2012, 325 ss.
284 Giuseppe Corasaniti

rettezza erano intesi come requisiti etici della condotta delle parti in ogni
rapporto obbligatorio, finalizzati a mantenere il rapporto giuridico nei bi-
nari dell’equilibrio e della proporzione7.
In altri termini, considerando il dovere di buona fede alla stregua di
«clausola generale» dell’ordinamento, si garantirebbe una certa flessibilità
dell’ordinamento giuridico in una duplice direzione: da un lato, consenti-
re una maggiore adattabilità di esso alle circostanze concrete del caso da
decidere di volta in volta; dall’altro, consentire allo stesso di mantenersi
«attuale» nonostante il passare del tempo8.
Nell’applicazione pratica, di conseguenza, le clausole generali di corret-
tezza e di buona fede forniscono i criteri di orientamento teleologico della
condotta nelle relazioni di diritto privato, consegnando all’interprete l’idea
di autonomi obblighi e realizzando, in tale prospettiva, la cd. «chiusura del
sistema legislativo»9.
La progressiva valorizzazione degli inderogabili doveri di correttezza e
buona fede, anche alla luce del dettato costituzionale, segnatamente come
specificazione dei doveri di solidarietà sociale imposti dall’art. 2 Cost.,
ha comportato la simmetrica valorizzazione di una dimensione «etica»
nell’esercizio del potere di autonomia privata10, e di conseguenza la possi-
bilità di configurare quale illecito l’uso «anormale» del diritto, tutte quelle

7
  F. Benatti, La clausola generale di buona fede, in Banca borsa tit. cred., 2009, 3, 241. L’A.
sottolinea come nel codice civile del 1942 sono state introdotte numerose clausole di buona
fede le quali rientrano nella categoria delle «clausole generali», ossia di quelle clausole che non
sono redatte con la tecnica della fattispecie, ma questa viene ricostruita dal giudice attraverso il
riferimento a modelli di comportamento consolidato, a valutazioni vigenti nell’ambiente sociale.
8
  Cfr., F. Roselli, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli,
1983, 143 ss.; E. Fabiani, Sindacato della Corte di Cassazione sulle norme elastiche e giusta causa
di licenziamento, in Foro it., 1991, I, 1891; C. Fois, Le clausole generali e l’autonomia statutaria
nella riforma del sistema societario, in Giur. comm., 2001, IV, 421.
9
  F. Galgano, Diritto commerciale, volume II, Le obbligazioni e i contratti, II edizione,
1993, 488. L’A. rileva che il dovere generale di buona fede contrattuale ha, come quello ancor
più generale di correttezza fra debitore e creditore la funzione di colmare le inevitabili lacune
legislative: la legge, per analitica che sia, non può prevedere tutte le situazioni; non può sempre
prevenire, con apposite norme, gli abusi che le parti possono commettere l’una a danno dell’al-
tra. La legge prevede solo le situazioni più frequenti, sventa gli abusi più ricorrenti. Il principio
generale della correttezza e della buona fede consente di identificare altri divieti e altri obblighi
oltre a quelli previsti dalla legge; realizza la «chiusura» del sistema legislativo, ossia offre criteri
per colmare lacune che questo può rivelare nella varietà e molteplicità delle situazioni della vita
economica sociale.
10
  Sul punto, M. Barcellona, La buona fede e il controllo giudiziale del contratto, in Maz-
zamuto (a cura di), Il contratto e le tutele, Torino, 2002, 305 ss., ha contestato ogni forma di
eticizzazione del diritto privato, sottolineando la necessità di spostare l’asse del conflitto dal
contratto al tema dell’ambito e dei limiti dell’appropriabilità privata.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 285

volte in cui il comportamento del singolo fuoriesca dalla sfera del diritto
soggettivo11.
Tale consapevolezza ha portato alla teorizzazione del principio dell’abu-
so del diritto, da intendersi come esercizio di un diritto per realizzare in-
teressi diversi da quelli per i quali esso è riconosciuto dall’ordinamento
giuridico12.
L’abuso del diritto, pertanto, viene individuato nel comportamento di
un soggetto che esercita i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto
per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordi-
nati: la figura concerne, cioè, le ipotesi nelle quali un comportamento, che
formalmente integra gli estremi dell’esercizio del diritto soggettivo, deve
ritenersi illecito sulla base di alcuni criteri di valutazione. In altre paro-
le, l’abuso si ravvisa quando il titolare del diritto può esercitarlo secondo
una pluralità di modalità attuative non rigidamente preordinate, ma sceglie
quella che da luogo ad una sproporzione non inevitabile tra il proprio
beneficio e il sacrificio cui è soggetta l’altra parte.
Da tale prospettiva, è stato precisato che il principio di buona fede,
nella figura sintomatica dell’abuso del diritto, è necessario al fine di fissare
dei limiti al legittimo esercizio della facoltà di pretendere o di rifiutare
l’adempimento: assolve, in altre parole, ad una funzione di chiusura del
sistema, poiché evita di dover considerare permesso ogni comportamento
che nessuna norma vieta e facoltativo ogni comportamento che nessuna
norma rende obbligatorio13.
Il divieto di abuso del diritto, in ambito civilistico, diviene, nell’appli-
cazione pratica, uno dei criteri di selezione con cui esaminare e valutare
tanto i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata (quivi

11
  Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2011, 57, il quale precisa che « Il prin-
cipio del divieto di abusare del proprio diritto è storicamente condizionato e non è espressamente
codificato, ma può desumersi dall’art. 2 Cost. sul dovere di solidarietà, come limite interno di
ogni situazione giuridica soggettiva, che si manifesta positivamente nel divieto degli atti emula-
tivi di cui all’art. 833 c.c. per i diritti reali, e, ma a prescindere dall’emulatività. nel principio di
correttezza e buona fede per i diritti di credito (artt. 1175 e 1375), in punto di inesigibilità della
prestazione, di esecuzione del contratto e di exceptio doli».
12
  Cfr. Cass. 18.09.2009, n. 20106, con nota di C. Scognamiglio, Abuso del diritto, buona
fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione
del contratto?), in La nuova giuris. civ. comm., III, 2010, 139 ss. Sul punto, la Corte ha rilevato
che «si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti
formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona
fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed
al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà
furono attribuiti».
13
  In questi termini, F. Galgano, Diritto commerciale, cit., 548.
286 Giuseppe Corasaniti

operando come criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona


fede oggettiva nella fase di esecuzione del contratto) quanto e, più in ge-
nerale, le condotte che i soggetti adottano nelle loro più svariate relazioni
di diritto privato.
È necessario, però, sottolineare come nel codice civile del 1942 non esi-
ste una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto, ingenerando
in dottrina, da un lato, il dubbio sull’utilità ed il valore di una simile figura,
dall’altro il fondamento positivo della stessa.
In tale contesto, è stata rivendicata – in periodo ormai risalente – l’im-
possibilità logica di concepire l’abuso del diritto, sostenendosi che si trat-
tasse di un mero fenomeno sociale, uno stato d’animo, una valutazione
etica di un periodo di transizione, ma non di certo una categoria giuridica14.
Le perplessità sono derivate, d’altro canto, proprio dal legame funzio-
nale stabilito tra la nozione di abuso del diritto e gli standards valutativi
tratti dall’etica sociale, che portano ad accostarlo a concetti come quello
di buona fede e ad intravedervi niente di più che un mezzo sicuro ed ori-
ginale per ottenere un criterio di giudizio più appagante di quanto non sia
il criterio della legittimità formale degli atti umani15.
Non è mancato, tuttavia, chi ha evidenziato la rilevanza dell’istituto
quale strumento idoneo ad «entrare nel cuore del programma negoziale»16,
andando oltre la mera formalizzazione dell’accordo, uno strumento, in-
somma, capace di mettere in risalto le anomalie nei rapporti di distribuzio-
ne ed, al contempo, efficace per garantire la tutela dei contraenti «deboli»17.
È opportuno, a tal punto, indagare in che modo la giurisprudenza di
legittimità abbia affrontato un problema di così pregnante rilevanza.
Innanzitutto, ai fini di un corretto inquadramento del discorso in esa-
me, è necessario definire il contesto storico in cui questa vicenda trova
ora svolgimento perché le categorie giuridiche, ormai, vivono un’esistenza
fortemente condizionata dalle influenze di carattere comunitario.
Il diritto di matrice europea ha, nel corso degli anni, profondamente
modificato il diritto civile e non sembra peraltro che tale forza propulsiva
vada esaurendosi.

14
  M. Rotondi, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, 116.
15
  Cfr., P. Rescigno, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, 11.
16
  R. Messinetti, Abuso del diritto, voce dell’Enc. dir., Milano, 1998, 13. L’A. sottolinea
che l’esercizio del potere negoziale deve essere ricondotto dalla prospettiva di un’analisi del
contenuto del programma e degli aspetti interni della contrattazione alla spiegazione di relazioni
oggettive che si formano come conseguenza degli sviluppi dell’iniziativa economica.
17
  G. Vettori, Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione fra imprese. Diritto dei con­
tratti e regole di concorrenza, Milano, 1983, 147.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 287

Dal versante della tutela delle condizioni che possano garantire un cor-
retto funzionamento del mercato concorrenziale, come anche dal suo ro-
vescio, vale a dire la tutela del consumatore, sono pervenute, all’interno
dei confini nazionali, innovazioni che vanno gradualmente assestandosi nel
sistema ordinamentale e nella coscienza degli interpreti.
Uno dei profili più rilevanti di ingerenza del diritto di matrice europea
è rappresentato dalla persuasività della tesi secondo la quale la formalizza-
zione degli interessi giuridicamente rilevanti attraverso la categoria basilare,
di pandettistica ascendenza, del diritto soggettivo non risponda più ad un
modello assoluto e indefettibile, che anzi lascia sempre di più il posto alla
costruzione di regole operative a posteriori, proprio perché la fattispecie
attributiva del diritto nelle norme è solo accennata o manca affatto.
Al contrario, il bisogno di tutela che emerge di fronte a siffatti interessi
si raccorda a strumenti variabili e graduabili, orientati a prospettive di valu-
tazione che tengono conto di criteri come l’adeguatezza, la proporzionalità
e la ragionevolezza, ove la risposta in termini di rimedio si coglie nella
logica del massimo avvicinamento dell’interesse alla sua concreta possibilità
di soddisfazione intermini di semplicità, rapidità ed economicità.
In tal senso, un sistema organizzato nella prospettiva rimediale non
condivide quasi nulla con la categoria del divieto di abuso del diritto sem-
plicemente perché il diritto di cui si possa abusare sbiadisce, perdendo con-
sistenza e smarrendo una reale capacità connotativa di singole situazioni
giuridiche soggettive18.
Anche se la prospettiva citata non dovesse convincere, rimarrebbe in-
negabile che il diritto di matrice europea non ha offerto al diritto civile
una significativa spinta per una rinnovata o rinvigorita teorica del divieto
dell’abuso del diritto. Le fortune di questa categoria sono pertanto da ri-
cercare nelle pronunce della giurisprudenza domestica, segnatamente, la
fondamentale decisione del 18 settembre 200919, vera pietra miliare della
teorica dell’abuso nel nostro ordinamento.
Il Supremo Collegio, attraverso la pronuncia testé citata, ha stabilito
che si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur
in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed
irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno spro-
porzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed
al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i

  F. Addis, L’abuso del diritto tra diritto civile e tributario, in Dir. prat. trib., 2012, V, 871 ss.
18

  Cass. 18.09.2009, n. 20106, con nota di G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e
19

abuso del diritto, in I Contratti, I, 2010, 11 ss.


288 Giuseppe Corasaniti

quali i poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è


consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti
compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condanna-
re colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno
in favore della controparte contrattuale, a prescindere dell’esistenza di
una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca un’ingerenza
nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò
che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abu-
so di esso.
Invero, la Suprema Corte ha dovuto prendere posizione su una questio-
ne che, nella sua valenza più generale, acquista rilievo preminente per ogni
ramo dell’ordinamento nel quale vengano in considerazione valutazioni in
ordine alle scelte compiute dai privati nell’esercizio della loro autonomia
negoziale.
Sul punto, i giudici di merito avevano ritenuto che la valida pattuizione
di un recesso ad nutum non consentisse di sottoporre il relativo atto di
esercizio ad un sindacato giurisdizionale volto ad indagare le ragioni poste
a fondamento dell’esercizio di un diritto.
La replica della Suprema Corte è che tale potere di controllo non ri-
sponde ad un’indebita ingerenza politica nella sfera di competenza riservata
al privato bensì in una doverosa esigenza di verifica della rispondenza di
ogni diritto, potere, facoltà alle ragioni che ne giustificano il riconoscimen-
to giuridico.
È evidente che, nel caso di specie, l’esercizio del diritto (recesso ad
nutum) non era sindacabile alla stregua del criterio dell’abuso del dirit-
to in quanto esso sfuggiva ad un controllo di tipo «causale» in quanto
lo stesso legislatore ha previsto l’esercizio di tale diritto «ad nutum»,
senza che sia necessaria una «motivazione» o una causa specifica che lo
sorregga. Semmai, deve riconoscersi che anche l’esercizio di un diritto
di recesso ad nutum, se pur sfugga ad un controllo di tipo teleologico,
non si sottrae invece ad un controllo in ordine alle modalità con le qua-
li il recesso risulti esercitato. Non si sottrae, insomma, ad un controllo
in base al canone della buona fede, che costituisce fondamentale criterio
di valutazione del comportamento delle parti nell’esecuzione del con-
tratto.
Appare chiaro, in definitiva, che i giudici di legittimità non sono ri-
usciti ad approdare con assoluto rigore ad acquisire e tenere fermi saldi
criteri distintivi tra buona fede e abuso del diritto; se è vero, infatti, che
la sottoposizione dell’atto di esercizio del diritto di recesso (che veniva in
considerazione nel caso di specie) al criterio valutativo della buona fede è
ragionevole, d’altra parte tale affermazione diviene erroneo nel momento
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 289

in cui i giudici mostrano di ritenere che tale controllo si identifichi con il


controllo alla stregua del criterio dell’abuso del diritto20.
In conclusione, è possibile sottolineare, come in ambito civilistico, il
controllo condotto in base al paradigma dell’abuso spezzi il nesso fonte –
atto – effetto mettendone in discussione l’automatismo fondato sulla sola
ricorrenza degli elementi ricavabili dalla fattispecie originaria – costruita a
priori – e dà così luogo alla costruzione di una seconda fattispecie arricchita
di tutti gli elementi resi rilevanti da un processo di selezione che non può
procedere – retrospettivamente – se non attraverso il confronto dell’atto
con altri atti del medesimo tipo21.
3.  Il contrasto all’elusione nella legislazione e nella giurisprudenza
tributaria italiana
Come noto, è communis opinio che l’elusione fiscale occupi uno spazio
intermedio tra risparmio legittimo (o lecito) d’imposta ed evasione. L’elu-
sione fiscale non è «violazione», ma «aggiramento» di precetti fiscali. È un
comportamento formalmente conforme alle norme (norme impositive o
norme di favore), ma non alla loro ratio; l’elusione realizza un «risparmio
fiscale» e non è giustificata da valide ragioni extrafiscali. In altri termini,
mentre con l’evasione si sottrae all’Amministrazione finanziaria un reddito
tassabile già maturato, con l’elusione si evita, attraverso architetture con-
trattuali ad hoc, vere ed effettive, che un elemento economico si manifesti
come imponibile, ovvero si modifica il regime fiscale, per così dire, naturale
di quello stesso elemento, prima che venga a sussistere22. L’elusione, in-
somma, è posta in essere con strumenti leciti, mentre l’evasione appartiene
all’area dell’illecito23.

20
  Cfr., R. Sacco, Il diritto soggettivo. L’esercizio e l’abuso del diritto, in Trattato di diritto
civile, Torino, 2001, 373, il quale sostiene che «(…) la dottrina dell’abuso non contiene contrad-
dizioni, né errori. Ma la dottrina dell’abuso è superflua. Essa è in qualche caso un medio logico
inutile; negli altri casi un inutile doppione. L’inclusione di una categoria parassita non vale ad
arricchire il sistema del giurista; lo rende più confuso»; A. Gentili, A proposito de «Il diritto
soggettivo», in Riv. dir. civ., 2004, II, 367.
21
  In questi termini, F. Addis, L’abuso del diritto tra diritto civile e tributario, cit., 876.
22
  In dottrina, ex multis, A. Lovisolo, Evasione ed elusione tributaria, in Enc. Giur., XII,
Roma, 1989, 1 ss.; S. Cipollina, Elusione fiscale, in Digesto comm., Torino, 2007, 371; F. Gal-
lo, Elusione, risparmio d’imposta e frode alla legge, in Giur. Comm., 1989, I, 377; Elusione ed
abuso del diritto tributario, Orientamenti attuali in materia di elusione e abuso del diritto ai fini
dell’imposizione tributaria, a cura di G. Maisto, in Quaderni della Rivista di diritto tributario,
Milano, 2009.
23
  M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio dell’abuso del diritto, Padova, 2013, 27 ss. L’A.
rileva come l’elusione non possa paragonarsi all’evasione, della quale non condivide la strut-
tura. Inoltre, puntualmente, chiarisce come l’elusione non possa confondersi nemmeno con la
290 Giuseppe Corasaniti

Non vi è elusione se il contribuente consegue un risparmio d’imposta


legittimo. La stessa relazione governativa allo schema di decreto legislativo
che ha introdotto l’art. 37-bis, d.p.r. n. 600/197324 ha affermato che la nor-
ma antielusiva «non può quindi vietare la scelta, tra una serie di possibili
comportamenti cui il sistema fiscale attribuisce pari dignità, di quello fi-
scalmente meno oneroso». Anche la Corte di Cassazione25 ha riconosciuto
che, in linea di principio, i contribuenti sono liberi, nell’esercizio della
loro autonomia negoziale, di seguire, tra più alternative, quella fiscalmente
meno onerosa. La Corte di Giustizia Europea ha affermato che quando un
soggetto passivo ha la scelta tra due operazioni, non è obbligato a scegliere
quella che implica un maggior carico fiscale, ma ha il diritto di scegliere la
conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione
fiscale26.
Prima del famoso trittico di sentenze della Corte di Cassazione, a
Sezioni Unite, del 23.12.2008, n. 30055, n. 30056, n. 30057, si riteneva
pacifico che nell’ordinamento italiano non ci fosse un principio generale
anti – elusivo. In specie, non lo era quella contenuta nella versione origi-
naria dell’art. 10, comma 1, l. 29.12.1990, n. 40827 e parimenti non lo era

simulazione, pur potendo quest’ultima sovrapporsi alle fattispecie evasive. Considerato che la
simulazione consiste nella rappresentazione di una volontà «formale» diversa da quella effettiva,
si può convenire sul fatto che essa (simulazione) può spesso tradursi in un mancato versamento
di imposta dovuta sulla base dei presupposti concretamente realizzati. Dunque l’elusione non è
evasione, ma l’evasione può perpetrarsi attraverso la simulazione.
24
  Cfr. S. La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv.
dir. trib., I, 2010, 797. L’A. sottolinea come l’art. 37-bis, d.p.r. n. 600/1973, realizzi un ragione-
vole compromesso tra contrapposte esigenze garantiste e di giustizia tributaria sostanziale, sia a
«danno» del contribuente che a suo «favore». Un compromesso ragionevole, sia perché la pra-
ticabilità della disapplicazione antielusiva delle norme da parte dell’amministrazione finanziaria
viene limitata alle discipline fiscali di talune operazioni, sia perché al contribuente si riconosce
la parallela possibilità di ottenere la disapplicazione delle disposizioni antielusive specifiche. Ma
un compromesso nello stesso tempo ambiguo perché aperto ad entrambe le concezioni della
disapplicazione antielusiva che si sono profilate.
25
  Cfr. Cass. 29.09.2006, n. 21221, in Dir. prat. trib., 2007, II, 273, con nota di A. Loviso-
lo, Il principio di matrice comunitaria dell’«abuso» del diritto entra nell’ordinamento giuridico
italiano: norma antielusiva di chiusura o clausola generale antielusiva? L’evoluzione della giuri­
sprudenza della Suprema Corte.
26
  Cfr. C. Giust. CE 21 febbraio 2008, causa C-425/06, Part service srl, punto 47, in Giur.
It., 2008, 1817, con nota di S. Gianoncelli, In tema di abuso del diritto comunitario, in Dir. prat.
trib., 2008, II, 627, con nota di C. Attardi, Abuso del diritto e giurisprudenza comunitaria: il
perseguimento di un vantaggio fiscale come scopo essenziale dell’operazione elusiva; e ivi, 1185.
27
  Sul punto, cfr. Cass. 20.07.2007, n. 16097, con nota di M. Beghin, Elusione tributaria ed
esame «globale» della sequenza negoziale, in Corr. trib., 2007, 3165 ss. L’A. evidenzia come la
Suprema Corte, nella sentenza in commento, offra dell’art. 10 una struttura a «tridente», nella
misura in cui la disposizione de qua poggia sul necessario concorso delle condizioni consistenti:
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 291

quella derivante dalla sua riformulazione, operata per effetto dell’art. 28


l. 23.12.1994, n. 724. Allo stesso modo non era considerata tale neppure
quella dettata nell’art. 37-bis, d.p.r. 600/1973, dato il catalogo tassativo
contenuto nel suo terzo comma, delle operazioni cui può essere applica-
ta e considerata la sua operatività, ristretta al solo settore delle imposte
sui redditi.
In termini sistematici e schematici, prima delle sentenze sull’abuso del
diritto, si poteva sostenere che: l’ordinamento giuridico italiano fosse ba-
sato sul principio della libertà negoziale e quello fiscale, che del primo è
una delle componenti, fosse basato sul principio di legalità; conseguente-
mente, i privati erano liberi di regolare negozialmente i loro interessi; per
differenza, non erano imponibili e/o non erano fiscalmente sindacabili gli
atti e le forme negoziali non specificamente considerati dalla legge fiscale
agli effetti dell’imposizione; la dialettica tra libertà e legalità poteva tuttavia
essere «bloccata», a tutela dell’interesse erariale, con norme anti-elusione.
Le norme di questo tipo, essendo norme fiscali, non possono essere inter-
pretate in senso analogico, dato che, quando non presentano espressamente
carattere generale, sono norme eccezionali.
L’art. 1344 c.c., infatti, prevede che è nullo, per illiceità della causa, il
contratto che «costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma
imperativa».
La disposizione normativa predetta fa riferimento a tutte quelle opera-
zioni poste in essere al fine di «frodare» la legge, cioè di eludere l’appli-
cazione di una norma imperativa che vieta il conseguimento di quel dato
risultato. Il contratto, dunque, non è tanto contra legem quanto in fraudem
legis, perché la legge non viene violata direttamente ma indirettamente,
mediante una manovra di aggiramento.
La frode alla legge di cui all’art. 1344 cc sembrerebbe presentare molti
punti di contatto con l’abuso del diritto28 in quanto, essendo la norma
diretta a non consentire alle parti di perseguire un fine illecito mediante la

(a) nell’assenza di valide ragioni economiche; (b) nella presenza dello scopo esclusivo di realizzare
un vantaggio fiscale; (c) da ultimo, nella connotazione fraudolenta quanto ai mezzi impiegati per
il raggiungimento del predetto fine esclusivo. I profili di criticità di tale impostazione sarebbero
almeno due: da una parte, la Corte dà per scontata la suddetta tripartizione dei presupposti ap-
plicativi dell’art. 10 della legge 408/1990, senza considerare che, in molti casi, l’assenza di valide
ragioni economiche e lo scopo esclusivo di ottenere un risparmio fiscale presentano significative
aree di sovrapposizione; dall’altra, non sembrano attentamente soppesate le conseguenti ricadute
sul versante procedimentale e processuale.
28
  Cfr. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, II ed., ristampa corretta, in Trattato
di diritto civile italiano, diretto da F.Vassalli, XV, Torino, 174 ss., che identifica la frode alla legge
«nell’abuso del tipo contrattuale».
292 Giuseppe Corasaniti

conclusione di un contratto di per sé lecito, si potrebbe anche affermare


che vieti l’abuso (del diritto di determinare il contenuto) del contratto
La possibilità di estendere la fattispecie della frode alla legge alla frode
alla legge fiscale incontra un limite, tuttavia, nel consolidato orientamento
giurisprudenziale di legittimità secondo il quale le norme tributarie sono
inderogabili ma non imperative perché non hanno carattere proibitivo29. In
altri termini, l’art. 1344 c.c. non si applica ai contratti che eludono norme
fiscali, perché le norme imperative alle quali si riferisce. sono le norme
civilistiche proibitive, le norme, cioè, che vietano il compimento di deter-
minati negozi. Peraltro, quanto detto è suffragato anche dall’ ultimo inciso
del terzo comma dell’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, ove
si prevede che «Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tri­
butario non possono essere causa di nullità del contratto». Pertanto, non è
necessaria né comunque sufficiente l’evocazione della patologia negoziale
ai fini del contrasto dell’elusione fiscale, in quanto gli effettivi termini delle
operazioni fiscalmente rilevanti possono e debbono essere sempre accertati
dagli Uffici finanziari e dal giudice tributario, indipendentemente dal modo
in cui le parti le hanno formalizzate e attuate.
Peraltro l’art. 37, terzo comma, d.p.r. n. 600/1973, così come novellato
dal d.l. n. 69/1989, dispone che «in caso di accertamento d’ufficio sono im­
putati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando
sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti,
che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona». È questa una
norma di natura procedimentale, mirata a consentire al Amministrazione
finanziaria il superamento di situazioni di mera apparenza, così da impu-
tare il reddito all’effettivo possessore. In tali casi, quindi alla «titolarità
apparente» del reddito (o della sua fonte produttiva) non corrisponde una
«titolarità effettiva» a causa della simulazione del trasferimento delle atti-
vità produttive del reddito. In altri termini, le fattispecie di interposizione
fittizia non hanno nulla a che vedere con l’elusione fiscale, per la semplice
ragione che, loro tramite, il soggetto il quale appare titolare della ricchezza
non corrisponde al soggetto che ne è l’effettivo possessore. L’interposi-
zione fittizia rappresenta perciò una declinazione dell’evasione tributaria,
giacché, suo tramite, si ottiene il risultato di nascondere all’Amministrazio-
ne finanziaria parte della ricchezza tassabile. Se l’interposizione è accertata,
l’imposizione si determina non già sulla situazione formale (vale a dire

29
  Cfr. Cass., 3. 9. 2001, n. 11351, in Giur. It., 2002, 1102; e in Corr. giur., 2002, 349, con
nota di G. Esposito, Qualificazione del contratto a fini fiscali e nullità per violazione di norme
tributarie; Cass., 28 febbraio 2007, n. 4785, in Giust. civ., 2007, 1512.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 293

quella che appare attraverso la lettura degli atti o dei contratti), bensì sulla
situazione sostanziale, i cui effetti si producono ex lege nonostante, ap-
punto, l’assetto formale dell’operazione. Ne deriva, dunque, un corollario
automatico: nell’elusione fiscale non c’è alterazione del fatto economico, il
quale, al contrario, è in toto rappresentato all’Amministrazione finanziaria
(ergo, dichiarato) sulla base, però, del percorso negoziale che ha condotto
alla sua realizzazione.
Nell’interposizione, dunque, il rapporto è trilatero atteso che il terzo
contraente conosce la situazione ed è al corrente del fatto che, nel mo-
mento in cui conclude l’accordo, sta intrattenendo rapporti economici con
l’interponente, non già con l’interposto30.
Nell’elusione, invece, l’ambito d’indagine è completamente differente.
Attraverso l’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973, l’Amministrazione finanziaria
è stata dotata del potere di mandare a tassazione un’operazione (l’opera-
zione elusa) che non è mai stata realizzata ma che, tuttavia, il contribuente
avrebbe dovuto realizzare31.
La Corte di Cassazione, in numerose sentenze, rileva come l’art. 37, ter-
zo comma, d.p.r. n. 600/1973 non possa assolutamente assurgere a ruolo di
clausola generale antielusiva o antiabuso e che il suo ambito di applicazione
è strettamente limitato alle sole ipotesi di interposizione fittizia o ad altre
differenti ipotesi di simulazione32.
Tale principio di diritto è stato successivamente confermato nella sen-
tenza del 15.11.2011., n. 8671, secondo cui l’art. 37, terzo comma, d.p.r.
n. 600/1973 si occupa di interposizione fittizia in senso proprio – caratte-

30
  Nell’interposizione fittizia il terzo deve essere consapevole che gli effetti del negozio,
nonostante le risultanze formali si producono nei riguardi del soggetto interponente, non già nei
riguardi del soggetto interposto. Sul punto, per tutti, F. Gazzoni, Manuale di diritto privato,
cit., 976, per il quale «L’adesione del terzo è necessaria, perché costui deve essere consapevole
della funzione meramente figurativa del contraente interposto e manifestare pertanto la volontà
di contrarre con l’interponente. In difetto di adesione, pur nella conoscenza dell’accordo tra
interponente e interposto, non vi è contrasto tra volontà e dichiarazione e quindi gli effetti si
producono tra le parti contraenti, sicchè si tratterà solo di stabilire se l’accordo stesso valga
come mandato senza rappresentanza o come negozio fiduciario oppure come di accertamento».
31
  Sul punto si veda M. Beghin, L’interposizione fittizia di persona e «l’evasione elusiva»:
spunti per la sistematizzazione della materia, in Corr. trib., 2014, 3613 ss. L’A. chiarisce che l’ope-
razione elusa non appartiene alla realtà. non fa parte di «ciò che è», ma di «ciò che avrebbe potuto
essere, ma non è stato» : «non è stato» in quanto il contribuente ha scelto un differente percorso.
32
  Cfr. Cass. 21. 10. 2005, n. 20398, in Dir. e giustizia, 2005, 43, con nota di D. Placido, Con­
trordine: illecito il dividend washing. Se gli ermellini anticipano la Finanziaria; in Obbl. e Contr.,
2006, 302, G. Corasaniti, La nullità dei contratti come strumento di contrasto delle operazioni
di dividend washing nella recente giurisprudenza della Suprema Corte, in Rass. trib., 2006, 309
ss., con nota di D. Stevanato, Le «ragioni economiche» nel dividend washing e l’indagine sulla
«causa concreta» del negozio: spunti per un approfondimento.
294 Giuseppe Corasaniti

rizzata dalla divaricazione fra situazione esteriore e situazione sostanziale,


rispettivamente riferibili all’interposto e all’interponente – e non anche al
caso dell’ «interposizione reale», ove la forma e la sostanza coincidono, in
guisa che si può porre solo un problema di validità ed efficacia dell’atto ne-
goziale determinativo della variazione soggettiva nella titolarità del bene33.
Secondo questa impostazione, l’art. 37, comma 3, d.p.r. n. 600/1973
sarebbe riferibile soltanto alle ipotesi di interposizione fittizia e non an-
che alle ipotesi di interposizione reale poiché la finalità della norma è
quella di costituire il fondamento di un procedimento amministrativo at-
traverso il quale l’Amministrazione finanziaria, in qualità di terzo, può
far valere l’esistenza di una vera e propria simulazione soggettiva, in-
dipendentemente dall’accertamento giudiziale, evidenziando, in sede di
motivazione dell’atto impositivo, le argomentazioni giuridiche e di fatto
utilizzate.
Tuttavia, in senso favorevole all’interpretazione estensiva dell’ambito
oggettivo di applicazione della norma, tesa alla regolamentazione anche
della cosiddetta «interposizione reale», si è espressa autorevole dottrina34, la
quale ha argomentato tale posizione sulla scorta dell’osservazione, secondo
cui «la lettura riduttiva del comma 3 dell’art. 37, volta a circoscriverne la
portata nell’ambito della sola interposizione fittizia, è logicamente non so­
stenibile. È vero, infatti, che lessicalmente la disposizione fa riferimento alla
«scissione, alla «non corrispondenza» tra possessore effettivo del reddito e
possessore apparente e in ipotesi di accertamento di tale discrepanza impone
all’ufficio accertatore di imputare al titolare effettivo ciò che appare del
titolare fittizio. Ma così disponendo il legislatore ha posto e codificato un
principio di maggiore estensione, che travalica i ristretti ambiti della scis­
sione nella titolarità e del binomio titolarità effettiva e titolarità apparente
perché se è vero che l’apparente possesso deve cedere il passo all’effettivo
possesso se sono coinvolti soggetti diversi, tale preminenza dell’effettività
sull’apparenza, deve prevalere, a fortiori, se la discrepanza si manifesta in
capo ad un soggetto solo».
Secondo il descritto orientamento, pertanto, la «ratio legis» che sorreg-
ge il trattamento disposto dal comma 3, dell’art. 37, per l’interposizione
fittizia dovrebbe, a maggior ragione, valere in tutti i casi in cui, la posizio-
ne dell’interponente è prevalente rispetto a quella del soggetto interposto,

33
  Sul punto, M. Basilavecchia, L’interposizione soggettiva riguarda anche comportamenti
elusivi?, in Corr. trib., 2011, 2968.
34
  Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, cit., 221; A. Lovisolo, Il contrasto all’in­
terposizione «gestoria» nelle operazioni effettive e reali, ma prive di valide ragioni economiche,
in Riv. giur. trib., 2011, 869 ss.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 295

essendo l’esistenza e l’operatività di quest’ultimo non sorretta da un’auto-


noma e significativa «business purpose»35.
Di recente, anche il Supremo Collegio, in vari arresti36 sembra condi-
videre il citato orientamento dottrinale e, pertanto, ricondurre al dettato
normativo dell’art. 37, comma 3, d.p.r. n. 600/1973, le ipotesi di interpo-
sizione reale.
In sostanza, è stato affermato che la disciplina antielusiva dell’interpo-
sizione, prevista dall’art. 37, comma 3, d.p.r. n. 600/1973, non presuppone
necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente,
essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legitti-
mo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime
fiscale che costituisce il presupposto d’imposta: ne deriva che il fenomeno
della simulazione relativa, nell’ambito del quale si riconduce solitamente
l’interposizione fittizia di persona, non esaurirebbe il capo di applicazione
della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante ope-
razioni effettive e reali. In altri termini, secondo la recente giurisprudenza
di legittimità, la non fittizietà delle operazioni perfezionate non basta a
rimuovere la patina dell’elusività, la quale sembrerebbe trovare fondamento
nell’impropria utilizzazione dello strumento giuridico.
Sul punto, è evidente come i giudici di legittimità, qualificando quali
fenomeni elusivi tutti quei casi di interposizione reale, ampliando, pertanto,
l’ambito di applicazione dell’art. 37, comma 3, d.p.r. n. 600/1973, finiscono
con il confondere le fattispecie di elusione ed evasione che, per le ragioni
già evidenziate, non sono in grado di convergere su di una singola, unica
fattispecie.
Anche nelle ipotesi di interposizione reale, e a maggior ragione che nelle
ipotesi di interposizione fittizia, si deve concludere per l’esistenza di un
fatto di evasione, non di elusione.
4.  La necessaria distinzione tra rilevazione dell’elusione o dell’abuso
del diritto ed accertamento dell’invalidità e della simulazione in ambito
civilistico
Alla luce di quanto già evidenziato poco sopra, è opportuno svolgere al-
cune brevi considerazioni in merito alla possibilità ed alle modalità con cui
il contratto, espressione dell’autonomia negoziale dei privati, viene assunto

35
  Così A. Lovisolo, Il contrasto all’interposizione «gestoria» nelle operazioni effettive e
reali, ma prive di valide ragioni economiche, cit., 871.
36
  Cfr. Cass. 15.11.2013, n. 25671, con nota di M. Beghin, La strumentazione contrattuale
inadeguata e l’accusa di interposizione fittizia sotto la deformante lente dell’abuso del diritto, in
Riv. giur. trib., 2014, 301; Cass. 21.10.2014, n. 22255.
296 Giuseppe Corasaniti

in seno alla fattispecie tributaria quale fatto rilevante37; ciò, indipendente-


mente dalla realizzazione di effetti ma solo in quanto fattore in grado di
condizionare la conformazione di detta fattispecie nonché il funzionamen-
to ed applicazione della medesima.
Tuttavia, per trattare intorno alla rilevanza del contratto in seno alla
fattispecie impositiva occorre risolvere, preliminarmente, la questione at-
tinente al senso e alle ragioni dell’impiego, da parte del diritto tributario,
di figure e nozioni ad esso esogene, come nel caso del contratto di matrice
civilistica38.
A tale riguardo, il Legislatore fiscale, laddove utilizza una figura civili-
stica, può assumerla con il medesimo significato e valore del settore di pro-
venienza, come pure, per soddisfare esigenze peculiari al settore d’impiego,
integrarla, se non addirittura, riqualificarla. In altri termini, andrebbe scar-
tata ogni soluzione ispirata ad una sorta di specialità del diritto tributario
e quindi ad una presunzione pro o contro la «costanza terminologica»39. Si
deve, invece, condurre un’esegesi del dato normativo attraverso gli ordinari
canoni ermeneutici valevoli per ogni branca del diritto40, verificando di vol-
ta in volta, alla stregua dei criteri previsti dall’art. 12 delle preleggi, come le
espressioni di origine esogena per il diritto tributario sono utilizzate dalla
specifica disposizione tributaria.
Il dubbio che occorre risolvere, in altre parole, è se la norma tributaria,
rinviando al contratto, intenda utilizzare la figura del diritto civile quale
mera «rappresentazione ellittica della realtà»41 da disciplinare, ovvero per
assumere quale realtà di riferimento proprio quella che risulta dal processo
di concettualizzazione42 condotto dalla norma civilistica.
Ebbene, secondo l’insegnamento tradizionale, il rapporto giuridico di
diritto civile è assunto dalla disposizione tributaria, nella configurazione
della fattispecie impositiva, quale mero dato di fatto43. La norma tributaria,
nel cogliere il contratto quale espressione dei presupposti di tassazione,

37
  Cfr. L. Ferlazzo Natoli, La rilevanza del fatto in diritto tributario, in Studi in onore
di V. Uckmar, Padova, 1997, I, 445; A. Giovannini, Soggettività e fattispecie impositiva, Padova,
1996, 232.
38
  Sul tema v. A. Carinci, La rilevanza fiscale del contratto tra modelli impositivi, timori
antielusivi e fraintendimenti interpretativi, in Rass. trib., 2014, V, 961 ss.
39
  S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova,
Cedam, 1992, 117.
40
  A. D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 39.
41
  S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, cit., 92.
42
  A. Giovannini, Soggettività e fattispecie impositiva, cit., 65.
43
  A. D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, cit., 163; R. Lupi, Elusione
fiscale: modifiche normative e prime sviste interpretative, in Rass. trib., 1995, 412.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 297

non ne recepirebbe quindi la disciplina predisposta dal diritto civile, ma si


limiterebbe ad adottarlo quale fatto compiuto.
Tale orientamento, tuttavia, è stato oggetto di serrata critica da parte
di attenta dottrina che ha osservato non esistere «un fatto reale contrap­
posto alla rappresentazione che di esso ne faccia la legge civile» né «con­
cetti economici di vendita e di impresa, concetti pregiuridici che costitui­
scano parametro e della civile e della legge tributaria»44. Questo perché,
così argomentando, la predetta dottrina è giunta a concludere, in termi-
ni assolutamente condivisibili, che la norma tributaria, ogni qual vol-
ta fa ricorso a categorie e figure proprie del diritto civile, non intende
riqualificare il fatto empirico ad esse sotteso, quanto assumere la realtà
fattuale «proprio in quella forma già mediata giuridicamente»45. Ragio-
nando in tal senso, pertanto, si può ammettere un rapporto di presup-
posizione tra diritto civile e diritto tributario, al fine anche di evocare la
configurabilità di un legame più intenso del mero collegamento termi-
nologico tra diritto civile e diritto tributario. Si tratterebbe, quindi, di
riconoscere che la realtà colta dalla norma tributaria è già e solo quel-
la già qualificata dalla norma civile, attraverso le figure giuridiche dalla
prima richiamate46.
L’esito di tale percorso identifica la realtà di riferimento della norma
tributaria nella concettualizzazione della realtà extragiuridica operata dal
diritto civile. Da ciò si evince come le intenzioni del Legislatore fiscale sia-
no quelle di demandare alla norma civilistica l’individuazione dei fatti della
realtà storica cui dare rilevanza ai fini fiscali. Con l’ulteriore conseguenza
di dover poi interpretare detta realtà con gli strumenti, nei limiti e nei modi
che sono propri della disciplina civilistica, che ha condotto l’originaria qua-
lificazione normativa della realtà fenomenica materiale47.
Chiarito, in premessa, il rapporto che intercorre tra categorie di diritto

44
  E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, in Riv. dir. trib., 1995,
154; G. Gaffuri, I redditi diversi, in Dir. prat. trib., 1979, I, 769, il quale osserva che «qualsiasi
fenomeno, interessante l’economia, è anche un fatto giuridico»; F. Gallo, Tassazione delle atti­
vità finanziarie e problematiche dell’elusione, in Rass. trib., 1994, 190.
45
  S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale, Il problema dell’elusione fiscale, cit., 81.
46
  In questi termini si esprime E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile: profili costi­
tuzionali, cit., 153, secondo il quale «una volta scelta la norma civilistica, non vi è una realtà
economica diversa da quella espressa, che riemerga nell’interpretazione della legge tributaria, fino
alla vanificazione dell’espressione civilistica».
47
  Cfr. E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, cit., il quale chia-
risce che «… la priorità del diritto civile non è assoluta ma solo logica e programmatica, sicché
vi possono essere norme espresse che interrompono il collegamento sovrapponendo un’entità
fiscale alla realtà cristallizzata dal codice civile».
298 Giuseppe Corasaniti

civile e normativa tributaria, è necessario superare un profilo di criticità,


segnatamente quello che attiene la differenziazione tra le ipotesi di nullità
e simulazione di matrice civilistica e le figure dell’elusione o dell’abuso del
diritto. In altri termini, si cercherà di indagare circa l’effettiva possibilità
di impiegare in ambito fiscale istituti propri del diritto civile al fine di
contrastare le pratiche elusive.
In merito alla nullità degli atti che esprimono l’autonomia dei privati,
autorevole dottrina ha negato ogni rilevanza agli atti nulli ai fini dell’indi-
viduazione in concreto e dell’accertamento dei presupposti dei tributi nella
cui fattispecie imponibile assumono rilievo situazioni giuridiche soggettive.
Si tratta, in realtà, della maggior parte dei tributi, quali quelli sul patrimo-
nio e sul reddito, ma anche nell’Iva (in quanto le operazioni imponibili si
risolvono in vicende di situazioni giuridiche soggettive, di natura reale od
obbligatoria), ovvero tributi, come il registro, che assumono a presupposto
gli stessi atti in considerazione della loro potenzialità effettuale48. Dunque,
la questione della nullità degli atti e contratti, ai fini dell’applicazione della
maggior parte dei tributi, si configura come presupposto per l’accertamen-
to della fattispecie imponibile, laddove integrata da situazioni giuridiche
soggettive la cui sussistenza ed il suo contenuto dipendono dagli atti e
contratti stessi49. A mero titolo esemplificativo, si possono ricordare i casi
in tema di lease back e di patto commissorio o, in termini più generali, la
questione dell’effettiva natura delle norme che assoggettano all’imposta sul
reddito i cd. «proventi da reato», di regola derivanti da atti nulli per illiceità
della causa e/o motivi.
Discorso diverso deve, invece, condursi per quanto riguarda la nullità
ex art. 1344 c.c. per frode alla legge fiscale. Come evidenziato sopra, giuri-
sprudenza di legittimità e dottrina hanno elaborato criteri definitori e limiti
di questa causa di nullità, ritenuta applicabile in tutti i casi di frode a leggi
non tributarie, essendo quest’ultime inquadrabili nella categoria di norme
imperative/proibitive, e, di converso, non applicabile nel caso di contratti
«in frode» alla disciplina di uno o più tributi.
Sul punto, però, i dubbi che si possono avanzare, ammettendo la natura

48
  Tuttavia, per i tributi di natura cartolare, come l’imposta di bollo, ovvero connessi con le
vicende materiali della produzione, come le accise, il contratto assumerebbe rilevanza in seno alla
fattispecie impositiva. In questi termini, A. Berliri, La legge di bollo, Milano, 1953, 74, il quale
sostiene che «non è il rapporto giuridico (la compravendita, il mutuo, ecc.) o il fatto economico
(scambio di ricchezza, trasferimento di merci, ecc.) che viene preso in considerazione, ma solo
il documento che contiene quel determinato negozio giuridico».
49
  Cfr. A. Fedele, Assetti negoziali e «forme d’impresa» tra opponibilità simulazione e riqua­
lificazione, in Riv. dir. trib., 2010, I, 1100.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 299

«imperativa»50 delle norme fiscali, attengono, per quanto riguarda l’operati-


vità dell’art. 1344 c.c. anche con riferimento alla frode alla legge tributaria,
alla immediata percezione che la nullità de qua sia in realtà una sanzione
eccessiva, incongrua, rispetto al vizio del contratto, che perderebbe ogni
effetto anche tra le parti, pregiudicando, quindi, rapporti ed equilibri pa-
trimoniali effettivi e diffusi nella società, mentre il contrasto alla frode che
pregiudica essenzialmente l’equo riparto delle pubbliche spese potrebbe
efficacemente realizzarsi con la prescrizione della semplice inefficacia par-
ziale (o inopponibilità) nei confronti del fisco stesso51.
A tal riguardo, appare evidente che la frode alla legge fiscale può essere
equiparata all’elusione tributaria e che il «rimedio» fornito dall’art. 1344
c.c. può essere considerato come alternativo a quelli approntati, specifica-
mente, come reazione all’abuso od elusione in materia tributaria, di modo
che appare logico equipararne gli effetti.
Sul punto, attenta dottrina52 inoltre ha rilevato che non può essere uti-
lizzata la «soluzione» della nullità per carenza di causa quale strumento
di contrasto alle costruzioni negoziali elusive. Ciò per la ragione che, di-
stinguendo nettamente il codice civile la causa dai motivi anche quando
questi siano comuni alle parti e determinanti del consenso (art. 1345 c.c.),
per causa deve necessariamente intendersi quale funzione stessa cui assol-
ve il contratto a prescindere dalle ragioni che hanno spinto i contraenti a
concluderlo53.
Ne deriva che, se il contratto tipico è stato concluso dalle parti al solo
scopo di realizzare un risparmio fiscale (che rappresenta, in tal caso, il

50
  Sul punto v. P. M. Tabellini, L’elusione della norma tributaria, Milano, 2007, 214 ss.,
secondo il quale l’affermazione secondo cui la norma tributaria non imporrebbe obblighi o
divieti non riflette il dato letterale delle disposizioni; infatti, «la prestazione tributaria è per sua
natura imposta». Anche l’affermazione secondo cui la norma, per essere imperativa, dovrebbe
necessariamente essere proibitiva, escludendo quindi l’imperatività delle norme precettive, viene
contestato, rilevando che «il carattere imperativo di una norma deve essere desunto soprattutto
dall’identità dei valori che essa presidia e dalla prescrizione coercibile che essa contiene, mentre
non è decisiva la forma positiva o negativa con la quale detta prescrizione è formulata»
51
  Cfr. P. M. Tabellini, L’elusione della norma tributaria, cit., 304.
52
  A. Fedele, Assetti negoziali e «forme d’impresa» tra opponibilità simulazione e riqualifi­
cazione, cit., 1102
53
  Cfr., fra gli altri, F. Galgano, Il contratto, Padova, 2007, 143 ss; F. Gazzoni, Manuale di
diritto privato, cit., 807 ss.; R. Sacco, Il contratto, Torino, 2004, 792 ss.; V. Roppo, Il contratto,
in Tratt. dir. priv. a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2011, 369 ss. In giurisprudenza si è avuta
una progressiva adesione alla concezione della causa come funzione economico – individuale,
ovvero della concezione della causa «in concreto» quale sintesi degli interessi reali delle parti. Si
v., in particolare, Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, in I Contratti, 2007, 621 ss.; Cass., 24 luglio
2007, n. 16315, in Nuova giur. civ. comm. 2008, 542 ss., con commento di S. Nardi, Contratto
di viaggio, «tutto compreso» e irrealizzabilità della sua funzione concreta.
300 Giuseppe Corasaniti

concreto interesse che i contraenti intendono perseguire con la concreta


operazione economica) risulta idoneo a realizzare la funzione sociale o
giuridica che gli è propria, non potendosi considerare, invece, privo di
causa, né in astratto, né in concreto.
Per quanto concerne la simulazione, essa presuppone un contrasto tra
l’atto apparentemente posto in essere dalle parti e gli effetti sostanziali dalle
stesse realmente voluti, discrepanza che non sussiste nel caso di contratto
elusivo, che è diretto a realizzare gli effetti realmente voluti dai contraenti,
ancorché al solo fine di ottenere un risparmio d’imposta.
Circa la natura del fenomeno simulatorio, la dottrina ha elaborato di-
verse ricostruzioni. Quella più risalente individua l’elemento essenziale
della simulazione nella «dissociazione consapevole tra volontà e dichia-
razione54», in quanto le parti non vogliono produrre alcun effetto ovvero
vogliono produrre effetti diversi rispetto a quelli che discendono da ciò
che è stato dichiarato.
Altra dottrina55, invece, spiega il fenomeno in termini causali,considerando
il negozio simulato quale un negozio privo di causa in quanto le parti han-
no escluso la produzione di ogni effetto mentre il contratto effettivamente
voluto (in caso di simulazione relativa) è valido ed efficace in quanto dotato
di propria causa.
Analizzando il dato letterale dell’articolo 1414 c.c. vi è simulazione
quando le parti stipulano un contratto prevedendo, però, internamente,
che tale contratto non produca i suoi effetti; la preesistente realtà giuridica
può rimanere immutata, e si parla in tal caso di simulazione assoluta. In
alternativa, la realtà giuridica può essere modificata attraverso un negozio
(cosiddetto negozio dissimulato) diverso da quello dichiarato: si parla in
questo caso di simulazione relativa.
Inoltre, ex art. 1415 cc., i terzi possono far valere la simulazione tra le
parti, quando ne sia derivato un pregiudizio nei loro confronti, di modo
che la realtà effettiva prevalga su quella apparente. Ai predetti fini, inten-
dendosi per terzo qualsiasi soggetto che non è stato parte del contratto,
nemmeno tramite rappresentante, potrà far valere la simulazione anche
l’Amministrazione finanziaria alla stregua di terzo danneggiato o, più pre-
cisamente, di soggetto il cui diritto «dipende» dall’accertamento della si-
mulazione.

54
  U. Majello, Il contratto simulato: aspetti funzionali e strutturali, in Riv. dir. civ., I, 1995,
641.
55
  S. Pugliatti, La simulazione nei negozi giuridici unilaterali, in Diritto civile. Metodo.
Teoria. Pratica, Milano, 572.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 301

Ciò che però giova sottolineare è che, se da un lato il rinvio all’istituto


civilistico della simulazione è conferente nel caso di simulazione in ambito
fiscale, tuttavia tale riferimento diviene errato allorquando si parli di elu-
sione tributaria.
Sotto il profilo giuridico le due fattispecie predette sono profondamente
diverse.
La simulazione è caratterizzata dalla divergenza tra la fattispecie rea-
lizzata e quella dichiarata e, pertanto, si colloca nell’ambito dell’evasione.
Il contribuente, adeguando il proprio comportamento (dichiarazioni, liqui-
dazioni, pagamenti) all’apparenza risultante dal contratto, e non a quanto
effettivamente avvenuto, viola le norme tributarie, generando quindi una
fattispecie di evasione e non di elusione fiscale56.
In caso di elusione, invece, manca la volontà contraria a quella manife-
stata, essendoci, generalmente, il perseguimento di una finalità diversa da
quella tipicamente ricondotta all’atto posto in essere, che è dichiarato e
voluto. Attraverso il comportamento elusivo si vuole modificare la realtà
al fine di aggirare la norma fiscalmente più onerosa; con la simulazione,
invece, la realtà non è modificata, ma viene fatta ingannevolmente percepire
come differente.
Le differenze tra le due figure giuridiche rendono, per le ragioni citate,
improprio l’utilizzo della simulazione quale strumento antielusivo. Tanto
più che l’impiego dell’azione simulatoria permetterebbe di rendere nullo
il negozio elusivo, ma sarebbe inefficace ai fini di una sua riqualificazione
fiscale, e quindi lascerebbe insoddisfatto l’interesse erariale.
Dalle considerazioni fin qui svolte, è possibile giungere alla conclusione
che il ricorso alla figura dell’abuso del diritto sembrerebbe rivelarsi utile a
superare i limiti e le incongruenze evidenziati dai tentativi di contrastare
le pratiche elusive attraverso gli istituti civilistici della nullità e della simu-
lazione.
5.  L’abuso del diritto come clausola antielusiva generale nell’elabo-
razione giurisprudenziale
È solo a partire dal 2005 che la Corte di Cassazione effettua un vero e
proprio revirement rispetto alle posizioni che sino ad allora aveva espresso
in tema di elusione fiscale. Tutto ebbe inizio nel trittico di sentenze del 21
ottobre 2005, n. 20398, 26 ottobre 2005, n. 20816 e 14 novembre 2005, n.
22392. Tali sentenze, pur riguardando differenti operazioni finanziarie, il
c.d. «dividend washing» e il c.d. «dividend stripping», sono profondamente

  In questi termini A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 137.
56
302 Giuseppe Corasaniti

legate fra loro per due ordini di motivi. In primo luogo perché tali ope-
razioni rappresentavano, all’epoca dei fatti, pratiche largamente utilizzate
allo scopo di minimizzare il carico fiscale. In secondo luogo perché con
tali sentenze la sezione tributaria della Suprema Corte ha affermato, anche
se implicitamente ed indirettamente, la illiceità di tali operazioni. La Cor-
te di Cassazione, infatti, posta di fronte all’assenza, all’epoca dei fatti in
contestazione, di adeguati strumenti normativi di contrasto di tali forme
di elusione, ha pensato di adottare soluzioni a «sorpresa»: mentre nelle
sentenze n. 2039857 e n. 22932 la Corte ha concluso riconoscendo la nullità
radicale per difetto di causa dei negozi collegati attraverso cui è realizzato
il c.d. «dividend washing» e il c.d. «dividend stripping»58, nella sentenza n.
20816, relativamente ad un’operazione di usufrutto azionario, la Corte ha
invece ipotizzato un’ipotesi di simulazione relativa59 o frode alla legge ex
art. 1344 c.c60. Solo successivamente, con la sentenza Halifax della Corte di
Giustizia, si è andato affermando anche nel nostro ordinamento il principio
dell’abuso del diritto.

57
  Osserva D. Stevanato, Le «ragioni economiche» nel dividend washing e l’indagine sulla
«causa concreta» del negozio: spunti per un approfondimento cit., 312, che i giudici risolvono
casi e che spesso la motivazione delle sentenze costituisce la «razionalizzazione a posteriori
di un convincimento pre-giuridico». Insomma, «una reazione istintiva di ripulsa nei confronti
di comportamenti che, piuttosto sfacciatamente, sfruttavano una vistosa smagliatura del sistema
fiscale, per ottenere degli sgravi d’imposta obiettivamente non contemplati nell’ordinamento».
58
  Per alcune osservazioni sull’argomento, M. Basilavecchia, Norma antielusione e «re­
latività» delle operazioni imponibili Iva, in Corr. Trib., 2006, 1466 ss.; M. Beghin, L’elusione
tributaria, la nullità del contratto e l’azione di simulazione, in Aa.Vv., Elusione fiscale. La nullità
civilistica come strumento generale antielusivo. Riflessioni a margine di recenti orientamenti della
Cassazione civile. Atti del convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di
Padova il 15 settembre 2006, allegato n. 11 a il Fisco, 2006, 41 ss. In questo contributo l’A. sot-
tolinea come lo strumento della nullità del contratto per mancanza di causa è esorbitante rispetto
all’obiettivo di realizzare il concorso alle spese pubbliche a fronte di fatti che denotano capacità
contributiva. Invero, individuata una certa ricchezza, l’Amministrazione finanziaria dovrebbe
limitarsi a tassarla, senza preoccuparsi dei «materiali di costruzione» impiegati dai contribuenti.
In altri termini, per combattere l’elusione non vi è alcuna necessità di «strangolare» le operazioni
economiche o di affossare il mercato: non è questa la funzione del diritto tributario.
59
  L’inopponibilità della simulazione è trattata nel più generale quadro della nozione d’inop-
ponibilità, fra gli altri, da A. Uricchio, La simulazione nel negozio giuridico, Napoli, 1957, 89 ss.
60
  Sul punto v. M. Beghin, L’elusione tributaria e la quantificazione del vantaggio fiscale, in
Corr. Trib., 2006, 3105 ss. L’A. sottolinea come la dichiarazione di nullità dei contratti determini
la frantumazione del tessuto economico sottostante, secondo schemi molto diversi rispetto a
quelli previsti per l’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973. Infatti, se da una parte può rilevarsi che,
attraverso la clausola generale antielusiva, l’amministrazione è tenuta a rideterminare l’imposta
attraverso il modello della comparazione tra operazione «adeguata» e operazione elusiva, dall’al-
tra si nota come l’accertamento della nullità del contratto sembri non imporre oneri aggiuntivi
al Fisco. Gli Uffici, dunque, dovrebbero limitarsi a redigere, in questo caso, l’avviso di accerta-
mento come se l’operazione non fosse stata effettuata.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 303

Nella sentenza Halifax del 21 febbraio 2006 la Corte di Giustizia ha sta-


tuito che il soggetto passivo Iva non ha diritto di detrarre l’imposta assolta
a monte, quando sono poste in essere operazioni che, nonostante l’appli-
cazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della
sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurano un
vantaggio fiscale la cui concessione è contraria all’obiettivo perseguito da
quelle disposizioni ed hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un van-
taggio fiscale61. Lo schema adottato dalla Corte di Giustizia è, pertanto,
chiarissimo: nei comparti fiscali armonizzati sono sgradite reazioni giuri-
sprudenziali invasive e disattente all’esigenza di conservazione delle strut-
ture civilistiche. L’elusione va certamente osteggiata, ma non con clausole
«elastiche» o attraverso modelli che rimettano al giudice l’individuazione,
sulla base della propria sensibilità, dei presupposti per l’inopponibilità o,
come è accaduto nella sentenza sullo stripping, dei presupposti per la de-
vastazione civilistica dell’operazione.
La nostra Corte di Cassazione, successivamente a tale sentenza, ab-
bandonò i concetti civilistici di nullità e frode alla legge e con la sentenza
29 settembre 2006, n. 21221, chiarì che «il principio secondo cui non sono
opponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti che costituiscano abuso
del diritto trova applicazione in tutti i settori dell’ordinamento tributario
e dunque anche nell’ambito delle imposte dirette». Il Supremo Collegio
delinea, dunque, una nuova applicabilità del concetto di abuso, riferendola
a tutte le «operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un
vantaggio fiscale», attribuendo l’onere della prova dell’esistenza di ragioni
economiche alternative o concorrenti, di carattere non meramente margi-
nale o teorico, al contribuente. In altri termini, con il principio dell’abuso
del diritto, la Corte di Cassazione supera il problema del riferimento alla
natura fittizia o fraudolenta dell’operazione, nel senso di una prefigurazio-
ne di comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile all’ufficio
di cogliere la vera natura dell’operazione.
In proposito, successivamente, la Suprema Corte, nella sentenza 4 aprile
2008, n. 8772, afferma il principio secondo cui, in forza del diritto comuni-
tario, e precisamente con la sentenza Halifax, «non sono opponibili all’Am­
ministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che

61
  Cfr. C. Giust. CE 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax, in Rass. trib., 2006, 1040,
con nota di C. Piccolo, Abuso del diritto ed Iva: tra interpretazione comunitaria ed applicazione
nazionale; in Riv. di giur. trib., 2006, 385, con nota di A. Santi, Il divieto di comportamenti
abusivi si applica anche al settore dell’Iva; e in Riv. dir. trib., 2007, 3, con nota di P. Pistone,
L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche
della Corte di giustizia europea in tema Iva.
304 Giuseppe Corasaniti

costituiscano abuso del diritto, cioè che si traducano in operazioni compiute


essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale, deve estendersi
a tutti i settori dell’ordinamento tributario, e dunque anche all’ambito delle
imposte dirette62».
La dottrina63 aveva criticato questo approccio della Suprema Corte ri-
tenendolo un abuso dell’«abuso»64, in quanto il principio di abuso non
potrebbe avere fondamento, quantomeno per le imposte dirette, nei prin-
cipi stabiliti dal Trattato Ce giacché in materia di imposte dirette gli Stati
membri hanno una competenza esclusiva65. In questi termini la questione
appariva evidente: i giudici nazionali saranno vincolati all’interpretazione ed
applicazione delle norme in materia di Iva, ma non per quanto attiene alle
materie che non rientrano nell’ambito comunitario, quali le imposte dirette.
Successivamente la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha superato
questa obiezione desumendo l’esistenza, nel nostro ordinamento, di una
clausola generale antielusiva, non scritta, dai principi di capacità contribu-
tiva e di progressività dell’imposizione66.

62
  Cfr. Cass. 4 aprile 2008, n. 8772, in Giur. It. 2008, 2084; in Riv. di giur. trib., 2008, 695, con
nota di S. Orsini, L’abuso del diritto rende l’atto inefficace: sul contribuente l’onere della prova
contraria; in Riv. dir. trib., 2008, II, 448, con nota di M. Beghin, Note critiche a proposito di un
recente orientamento giurisprudenziale incentrato sulla diretta applicazione in campo domestico,
nel comparto delle imposte sul reddito, del principio comunitario del divieto di abuso del diritto,
in Dir. prat. trib., 2008, II, 913, con nota di M. Procopio, Elusione (od abuso del diritto): la
Corte di cassazione si allinea all’orientamento comunitario, in Corr. trib., 2008, 1777, con nota di
M. Beghin, L’inesistente confine tra pianificazione, elusione ed «abuso del diritto».
63
  Le ragioni per le quali il principio del divieto di abuso del diritto comunitario non po-
trebbe automaticamente innestarsi nella disciplina domestica sono indicate da M. Poggioli, La
Corte di Giustizia elabora il concetto di «comportamento abusivo» in materia di Iva e ne tratteg­
gia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice
comunitaria?, in Riv. dir. trib., 2006, III, 122 ss. L’A. sostiene la propria tesi facendo leva sul fatto
che la Corte di Giustizia CE ha interpretato una disposizione contenuta nella direttiva IVA e che,
a sua volta, quest’ultima è racchiusa in un testo non direttamente applicabile all’interno degli Stati
membri. La linea argomentativa segnalata è condivisa da autorevole dottrina, la quale, precisato
che il concetto di abuso siccome delineato dalla Corte di Giustizia CE si avvicina a quello di
elusione tributaria, segnala altresì i problemi che la diretta applicazione del principio porrebbe
sul piano delle garanzie relative al contraddittorio. In questo senso, cfr. L. Salvini, L’elusione
IVA nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. trib., 2006, 3097 ss.
64
  Ex multis si veda G. Zizzo, L’abuso dell’abuso del diritto, in Riv. di giur. trib., 2008,
465 ss.
65
  Cfr. M. Beghin, Abuso del diritto: la confusione persiste, in Riv. di giur. trib., 2008, 649
ss. L’A. enfatizza l’abuso dell’abuso (ma si potrebbe dire anche la violenza dell’abuso) attraverso
una serie di argomentazioni criticabili per due ordini di ragioni. La prima, attiene la pretesa dei
giudici domestici di innestare il suddetto principio senza valorizzare la distinzione tra settori
armonizzati e non armonizzati; la seconda al profilo contenutistico del principio suddetto.
66
  Cfr. Cass. S.U., 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056, 30057, in Obbl. e contr., 2009, 212,
con nota di G. Corasaniti, Sul generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario,
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 305

Le Sezioni Unite della Suprema Corte dichiararono apertamente «di


dover aderire all’indirizzo affermatosi nella giurisprudenza della sezione
tributaria (si veda Cass. nn. 10257/2008 e 25374/2008), fondato sul rico­
noscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo; con la preci­
sazione che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati,
quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria
quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordina­
mento tributario italiano... I principi di capacità contributiva... e di progres­
sività dell’imposizione» di cui all’art. 53 Cost. costituiscono il fondamento
sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono
al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali
ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei
principi per cui «non può non» (quindi deve) «ritenersi insito nell’ordi­
namento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio
secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’uti­
lizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ra­
gioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse
dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale»67. Il riconoscimento di
tale principio si traduce nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi
posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.

in Giust. Civ., 2009, I, 1873; in Riv. di giur. trib., 2009, 216, con nota di A. Lovisolo, L’art. 53
Cost. come fonte della clausola generale antielusiva ed il ruolo delle «valide ragioni economiche»
tra abuso del diritto, elusione fiscale ed antieconomicità delle scelte imprenditoriali; in Corr.giur.,
2009, 293, con nota di G. Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come
clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali.
67
  Cfr., G. Fransoni, Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Corr.
trib., 2011, 13, il quale sottolinea come appare evidente la quasi perfetta coincidenza della norma
di cui all’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973 e del principio antiabuso di matrice giurisprudenziale: là
dove il principio sull’abuso impiega l’espressione «indebiti vantaggi fiscali», la norma «semigene-
rale» sull’elusione fa riferimento a «riduzioni d’imposta o rimborsi, altrimenti indebiti»; là dove
il primo riguarda «l’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione,
di strumenti giuridici», la seconda prende a riferimento «gli atti anche tra loro collegati (…)
diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario»; infine, mentre l’abuso
di diritto ha ad oggetto operazioni realizzate «in difetto di ragioni economicamente apprezzabili
che giustifichino l’operazione», l’elusione riguarda gli atti «privi di valide ragioni economiche».
Inoltre, sono del tutto identiche, nell’uno e nell’altro caso, le conseguenze giuridiche: l’inoppo-
nibilità al Fisco dei comportamenti elusivi e/o abusivi. L’A. evidenzia come nel caso descritto è
possibile individuare un «concorso di norme», ossia la situazione che si verifica ogni qual volta
una fattispecie è astrattamente riconducibile ad una o più norme. In altri termini, se esiste un
evidente concorso di norme, dovrebbe essere altrettanto pacifico che esso debba essere risolto
facendo ricorso al principio di specialità, ossia alla regola per cui trova applicazione la norma la
cui fattispecie presenta maggiori elementi caratterizzanti e risulti, pertanto, «speciale» rispetto
all’altra.
306 Giuseppe Corasaniti

Le critiche al principio dell’abuso del diritto non hanno tardato a ma-


nifestarsi giacché desumere un principio generale di abuso del diritto dalle
norme costituzionali è un procedimento interpretativo quantomeno impro-
prio. Le norme costituzionali sono norme-parametro, esprimono principi
ai quali il legislatore deve conformarsi, costituiscono i parametri in base
ai quali giudicare la costituzionalità delle stesse norme. Esse non possono
essere perciò considerate il fondamento diretto di concreti rapporti fiscali,
ma possono soltanto far ritenere che la mancanza di una clausola generale
antielusiva costituisca, nel nostro ordinamento una lacuna cui il legislatore
dovrebbe porre rimedio68.
Le Sezioni Unite sostenendo che il divieto di abuso del diritto metta
radici proprio nell’art. 53 Cost., sembrano dimenticare che questa dispo-
sizione costituzionale pone limiti al legislatore, non già obblighi in capo
al contribuente69. Insomma, l’art. 53 cit. non ha portata sostanziale e non
consente al Fisco o al giudice di tassare chicchessia, se prima il legislatore
non abbia scremato in ossequio all’ art. 23 Cost. le fattispecie che espri-
mono, per l’appunto, attitudine alla contribuzione.
Tuttavia, in dottrina70, vi è chi ha ritenuto congruo e perfettamente

68
  Sull’argomento v., fra gli altri, G. Marongiu, L’abuso del diritto nella legge di registro
tra principi veri e principi asseriti, in Dir. prat. trib., 2013, II, 361. L’A. sottolinea come nessuno,
fino alle sezioni unite della Cassazione del 2008, aveva posto a fondamento dell’asserito principio
generale il canone della capacità contributiva. Invero, il problema sembra porsi per le fattispecie
verificatesi anteriormente al 2008. A postulare la possibile applicazione del principio antielusivo
a fattispecie anteriori alla sua formale esplicitazione ci si troverebbe di fronte al contrasto tra un
principio generale contrario alla retroattività delle disposizioni tributarie e un principio generale
(la clausola antielusione) che la giurisprudenza vorrebbe applicare anche a situazioni anteriori
alla sua proclamazione. La stessa Corte Costituzionale insegna che, proprio perché la capacità
contributiva deve essere effettiva, attuale e concreta, una norma retroattiva può violare l’art. 53
Cost. Inoltre, l’eventuale applicazione in via retroattiva dell’art. 53 Cost. si scontrerebbe non
solo con lo stesso art. 53 ma anche con un altro principio generale ovverosia l’art. 3 della l. 212
/2000 per il quale le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. La conclusione è che
l’applicazione retroattiva di un principio generale, formulato dalla giurisprudenza nel 2008, viola
l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica.
69
  Quanto all’art. 53 Cost. quale disposizione che vincola il legislatore nella scelta delle fat-
tispecie da tassare cfr., per tutti, F. Moschetti, Capacità contributiva, in Enc. Giur. Treccani,
Torino, 1988, 2.; V. Ficari, Clausola generale antielusiva, art. 53 della Costituzione e regole
giurisprudenziali, in Rass. trib., 2009, 390 ss.; M. Beghin, Evoluzione e stato della giurispruden­
za tributaria: dalla nullità negoziale all’abuso del diritto nel sistema impositivo nazionale, in G.
Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario. Orientamenti attuali in materia di
elusione e abuso del diritto ai fini dell’imposizione tributaria, in Quaderni della Rivista di diritto
tributario, 2009, 15.
70
  G. Zizzo, Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. trib., 2009, 486. L’A., oltre
a ritenere comprensibile e condivisibile il richiamo al principio di capacità contributiva quale
fonte della clausola generale antielusiva, trova conferente la negazione che la Suprema Corte fa
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 307

condivisibile il richiamo, da parte del Supremo Collegio, al principio di


capacità contributiva quale fonte della clausola generale antielusiva. Ciò
perché, quando l’operazione considerata ha struttura circolare, ed è per-
ciò inidonea a produrre delle modifiche nella sfera economico-giuridica
dell’agente diverse da quelle legate al risparmio d’imposta, ovvero quando
ha struttura lineare, ed è perciò idonea a produrre delle modifiche nella
sfera economico-giuridica dell’agente diverse da quelle legate dal rispar-
mio d’imposta, ma mediante un modulo giuridico contrassegnato da uno
o più passaggi incongrui rispetto alle modifiche prodotte, il particolare
schema giuridico adottato, se privo di valide ragioni economiche, non è in
grado di differenziare l’attitudine alla contribuzione dell’agente da quella
che questo soggetto avrebbe in concreto manifestato, nel primo caso, se
non avesse realizzato l’operazione, nel secondo, se si fosse servito di uno
strumento più diretto e lineare. Sarebbe questa equipollenza in termini di
attitudine a contribuire ad innescare la clausola, ad innescare, cioè, una
direttiva interpretativa che impone di ignorare quei passaggi che possono
essere considerati incongrui rispetto alle eventuali modifiche nella sfera
economico-giuridica del soggetto prodotte dall’operazione.
La predetta soluzione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, ov-
verosia quella secondo cui la base normativa del principio di divieto di
abuso del diritto deve individuarsi nell’art. 53 della Costituzione, induce
a svolgere talune brevi osservazioni in merito alla possibilità di contesta-
re l’asserita inserzione nella fattispecie dell’abuso del diritto dell’elemento
intenzionale71 (i.e., la volontà del contribuente di conseguire un indebito
risparmio d’imposta).
Il riferimento all’art. 53 Cost., operato dalla giurisprudenza di legittimi-
tà, deve intendersi nel senso che la qualificazione dell’operazione come elu-
siva e l’applicazione del regime fiscale eluso discendono, non tanto dall’ap-
prezzamento diretto della capacità contributiva manifestata dall’operazione
denotata dall’operazione di specie72, bensì da un giudizio comparativo fra

in merito all’asserito contrasto fra elaborazione giurisprudenziale della clausola (quale divieto di
abuso del diritto tributario) e principio di legalità di cui all’art. 23 Cost. Ciò perché, in questo
quadro, la clausola configura una tecnica interpretativa delle disposizioni tributarie che serve ad
un più compiuto sviluppo dello spirito della legge. Non integrerebbe, perciò, una fonte di obbli-
ghi o divieti estranei alla legge, idonea a ledere il suddetto principio di legalità, ma una direttiva
sulla definizione dei contenuti normativi della legge medesima, sulla concreta identificazione
degli obblighi e dei divieti stabiliti da quest’ultima.
71
  Cfr. G. Fransoni, Spunti in tema di abuso del diritto e «intenzionalità» dell’azione, in
Rass. trib., 2014, 403 ss.
72
  Per tale ragione, il giudice non può elaborare un autonomo regime impositivo e l’art.
308 Giuseppe Corasaniti

la capacità contributiva manifestata dall’operazione e quella propria delle


operazioni cui si applicano le norme «eluse».
Più precisamente, ove tale giudizio conduca alla verifica dell’equivalen-
za della capacità contributiva nei due casi, si esclude l’applicazione della
norma «formalmente» applicabile e si riconduce l’operazione all’ambito di
applicazione della norma «elusa».
Si tratta, pertanto, di un’operazione che, sotto il profilo logico, è molto
simile a quella propria dell’analogia e che, come l’analogia73, ha quale pro-
prio fondamento il principio di uguaglianza in quella particolare e specifica
declinazione che è l ‘art. 53 Cost.
Per le ragioni suindicate, proprio perché fondata sul principio di ugua-
glianza, l’applicazione della disciplina «elusa» in luogo di quella «formal-
mente» applicabile non può che avvenire, comunque e in ogni caso, indi-
pendentemente dall’intenzione abusiva riferibile al contribuente.
Detto altrimenti, allorquando si proceda alla comparazione fra opera-
zione elusiva ed operazione elusa non dovrebbe residuare alcun margine
di valutazione circa l’intenzionalità del comportamento del contribuendo
dovendo, a contrario, ai fini di un corretto giudizio di uguaglianza, valutare
l’indistinguibilità delle operazioni predette sotto il profilo della capacità
contributiva74.
Più di recente la Corte di Cassazione nella sentenza n. 1372/2011 ha
chiarito che l’applicazione del principio dell’abuso del diritto deve essere
guidata da una particolare cautela «essendo necessario trovare una giusta
linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà
di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività di
impresa»75. La Corte individua, in negativo, il carattere abusivo di un’ope-
razione, che va escluso quando «sia individuabile una compresenza, non
marginale, di ragioni extrafiscali, che non si identificano necessariamente in
una redditività immediata dell’operazione medesima ma possono rispon-

53 cost. non opera un’autonoma individuazione delle fattispecie rilevanti in termini di capacità
contributiva. Cfr. G. Zizzo, Clausola antielusione e capacità contributiva, cit., 491.
73
  G. Fransoni, Appunti su abuso del diritto e «valide ragioni economiche», in Rass. trib.,
2010, 933, sostiene che resta l’ovvia differenza che l’analogia presuppone una «lacuna», mentre
nei casi di abuso esiste una disciplina almeno «formalmente»applicabile.
74
  Per una interessante ricostruzione del ruolo attribuito all’elemento soggettivo nella giu-
risprudenza comunitaria si veda P. Piantavigna, Abuso del diritto fiscale nel diritto comunitario,
Torino, 2011, 156 ss. L’A. ritiene maggiormente giustificata (e, quindi, diversamente fondata)
l’inserzione di tale elemento nella fattispecie dell’abuso nel caso in cui vengano in rilievo le libertà
fondamentali piuttosto che nei casi in cui l’abuso riguarda le norme secondarie.
75
  Cfr. Cass. 21 gennaio 2011, n. 1372.; G. Zizzo, La giurisprudenza in materia di abuso ed
elusione nelle imposte sul reddito, in Corr. trib., 2012, 1019 ss.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 309

dere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento


strutturale e funzionale dell’azienda». Inoltre, si specifica che tale principio
del divieto di abuso del diritto si rivela inapplicabile nelle ipotesi in cui gli
Uffici, nelle proprie contestazioni, non abbiano allegato il «risparmio fisca-
le» tratto dal contribuente dalle contestate «operazioni commerciali» poste
in essere e non abbiano dimostrato che l’operazione realizzata dall’impresa
appare economicamente irrazionale.
A tale sentenza, quanto ad importanza, fa seguito la sentenza della Cas-
sazione del 30 novembre 2012, n. 21390, secondo cui il carattere elusivo di
un’operazione, nel fondarsi sul difetto di valide ragioni economiche e sul
conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, presuppone l’esistenza di
un valido strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dal
contribuente, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo
economico perseguito dal contribuente. Nel caso di specie non si possono
ritenere equiparabili, sotto il profilo degli effetti giuridici ed economici, le
operazioni di acquisizione delle partecipazioni sociali e di fusione per in-
corporazione e per tale ragione la Suprema Corte ha ritenuto che sussistes-
sero valide ragioni economiche per optare, come soluzione più vantaggiosa
per la società acquirente e indipendentemente dai benefici fiscali conseguiti,
in favore dell’acquisto delle quote della società alienante anziché alla fusio-
ne per incorporazione76.
In termini evolutivi è opportuno rilevare che la Corte di Cassazione, at-
traverso due recenti pronunce (Cass. 26 febbraio 2014, n. 4603 e n. 4604), ha
avuto modo di confermare la propria visione restrittiva dei concetti di elu-
sione e di abuso del diritto, venendo incontro all’esigenza dell’imprenditore
di avere una maggiore certezza del diritto. In entrambe le pronunce, difatti,
il Supremo collegio ha statuito come «a fronte di comportamenti ritenuti
elusivi dall’Amministrazione finanziaria, deve essere quest’ultima a provare
il disegno elusivo, nonché le modalità di manipolazione e di alterazione degli
schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale lo-
gica di mercato ed utilizzati solo per pervenire a quel risultato fiscale».
5.1. segue) Le principali sentenze della Corte di Cassazione in tema
di abuso del diritto pronunciate negli ultimi anni
Con riferimento alle pronunce rese, nel corso dell’ultimo anno, dal Su-
premo Collegio in tema di abuso del diritto, si segnala che quest’ultimo, con
la sentenza del 5 dicembre 2014, n. 25758, ha affermato, a fronte della costru-

76
  Cfr. F. Loffredo, M.C. Agostino, Operazioni di riorganizzazione societaria: aperture
dalla corte dei conti, in Bilancio e reddito d’impresa, 2013, 40.
310 Giuseppe Corasaniti

zione accusatoria incentrata sul fatto che, attraverso il lease back, una società
avrebbe potuto dedurre un costo superiore rispetto a quanto avrebbe potuto
fare se avesse stanziato in bilancio le quote di ammortamento, che, in tal caso,
l’imprenditore legittimamente deduce di più perché sopporta maggiori costi
effettivi e perché, per conseguenza, subisce un più consistente depaupera-
mento patrimoniale. In altri termini, in tale occasione, è stato affermato che
non basta il distorcimento contrattuale per dire che il vantaggio tributario
è elusivo. Il concetto di elusione va calato sul piano dei risultati fiscali che
siano stati raggiunti, non sul mero piano della normalità o della anormalità
della strumentazione giuridica impiegata. E l’elusività del risparmio dipende,
appunto, dalla morfologia del vantaggio conseguito dal contribuente.
In definitiva, con riferimento a tale ultimo caso citato, il soggetto il quale
deduca i canoni, dopo aver stipulato un contratto di «lease back», non aggira
le norme sugli ammortamenti. Parimenti, il soggetto il quale deduca quote
di ammortamento, dopo aver acquistato un bene strumentale e dopo averlo
impiegato nel circuito produttivo, non aggira le disposizioni sul leasing. In
ambedue le fattispecie, infatti, si applicano le disposizioni previste per il regi-
me strutturale sul quale è caduta la scelta del contribuente. Qui non c’è aggi-
ramento della legge, ma esatta applicazione della legge al fatto. L’aggiramento
ci sarebbe nel caso in cui un soggetto, avvalendosi di un particolare percorso
negoziale, riuscisse ad ammortizzare senza aver acquistato il bene o riuscisse
a dedurre canoni di leasing senza avere stipulato il relativo contratto77.
Di notevole rilevanza appare, inoltre, la sentenza del 19 dicembre 2014,
n. 27087, con cui la Corte di Cassazione ha chiarito che vi sarebbe un rap-
porto di species ad genus tra la previsione normativa, di cui all’art. 37-bis,
ed il principio generale del divieto di «abuso del diritto». Per l’effetto, non
può condividersi l’applicazione del principio dell’abuso anche ad operazio-
ni non rientranti nel comma 3 dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. La
Cassazione afferma che la scelta del Legislatore, tra le varie possibili, è stata
quella di «riconoscere determinati elementi di tipicità alla figura dell’abuso
di diritto, mediante la previsione espressa di presupposti di fatto, ovvero di
condotte negoziali o qualità soggettive, considerati come elementi costitutivi
della pratica abusiva, senza i quali, quindi, non è dato ravvisare abuso del
diritto». La volontà espressa è stata, in sintesi, quella di escludere qualsiasi
margine di atipicità alla figura dell’abuso di diritto tributario, almeno con
riguardo al settore impositivo delle imposte dirette78.

77
  Cfr. M. Beghin, Una strana idea di libertà economica e di vantaggio fiscale asistematico
(su elusione fiscale e abuso del diritto), in Corr. trib., 2015, 731 ss.
78
  Sul punto si v. M. Fanni, La Cassazione rivaluta i propri precedenti su presunzione di
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 311

Ebbene, dall’analisi della giurisprudenza di legittimità in tema di abuso


del diritto, ciò che viene in rilievo, attiene, principalmente, ad un muta-
mento significativo attinente i presupposti e gli elementi qualificanti tale
figura di matrice giurisprudenziale.
Analizzando soprattutto le pronunce della Corte di Cassazione dell’ul-
timo anno (i.e., quelle che sono state rese da luglio 2014 a giugno 2015), si
evince come il Supremo Collegio ha, sostanzialmente, circoscritto la pos-
sibilità che venga contestato dall’Amministrazione Finanziaria, l’abuso del
diritto79.
Tale mutamento risulta maggiormente apprezzabile nella pronuncia resa
il 5 dicembre 2014, in tema di sale and lease back.
Tale sentenza, difatti, ha senza dubbio il pregio oltre che di riepiloga-
re il quadro giurisprudenziale in modo esaustivo, di porre, in una certa
misura, un limite alla possibilità per il Fisco di utilizzare il nuovo stru-
mento giurisprudenziale dell’abuso di diritto per ogni fattispecie ritenuta
elusiva, quandanche evidentemente sia lo stesso ordinamento a prevedere
la possibilità di avvalersi di quella condotta che l’Amministrazione finan-
ziaria ritiene invece abusiva. In tale prospettiva, lo sforzo ermeneutico del
Supremo Consesso appare certamente lodevole e conforme all’esigenza di
ristabilire un giusto equilibrio tra contrasto all’evasione fiscale e diritto del
contribuente di compiere le scelte imprenditoriali ritenute più opportune,
anche per ottenere un legittimo risparmio fiscale.
Orbene, dalle recenti pronunce della Corte di Cassazione, viene in ri-
lievo come il Supremo Collegio, progressivamente, si è distaccato dal ri-
ferimento alla capacità contributiva come principio da cui deriva il divieto
generale di abuso del diritto, concentrandosi, piuttosto, sull’individuazione
degli elementi costitutivi del medesimo, ossia uso distorto della strumenta-
zione giuridica, aggiramento della legge e indebito vantaggio fiscale.
Evidentemente, si torna, in altri termini, al solito problema – che, in-
vero, la giurisprudenza della Corte di Cassazione nel corso degli anni ha
maggiormente problematizzato – della precisa individuazione di quelle re-
gole e di quei criteri che consentano di tracciare una sicura linea di confine
tra il comportamento rispettoso della regola costituzionale dell’equo ripar-

onerosità e «transfer pricing» in una pronuncia sui finanziamenti infragruppo, in GT – Riv. giur.
trib., 2015, 322 ss.
79
  Ex multis, Cass., 10 settembre 2014, n. 19044; Id, 5 dicembre 2014, 25758; Id, 8 ottobre
2014, n. 21190; Id, 10 dicembre 2014, n. 25972; Id, 18 dicembre 2014, n. 26805; Id, 19 dicembre
2014, n. 27087; Id, 14 gennaio 2015, n. 405; Id, 14 gennaio 2015, n. 439; Id, 14 gennaio 2015, n.
450; Id, 6 marzo 2015, n. 4561; Id, 18 marzo 2015, n. 5378; Id, 27 marzo 2015, n. 6226, tutte in
banca dati IPSOA BIG Suite.
312 Giuseppe Corasaniti

to e quello che da tale parametra a causa della sua fraudolenza, tortuosità


e assenza di ragioni economiche.
A fronte di tale intricato quadro giurisprudenziale, la legge delega n.
23 del 2014 non poteva che porsi quale strumento volto ad evitare che
l’Amministrazione finanziaria invocando, a volte, il solo art. 53 Cost., a
volte, i primi tre commi dell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973, eserciti
il proprio potere di accertamento senza precise linee guida.
6.  I presupposti costitutivi dell’abuso di diritto
La Corte di Giustizia ha definito già da tempo, dalla sentenza «Ha­
lifax» e da quelle immediatamente successive, come abusivi i compor-
tamenti privi di valide giustificazioni economiche che, pur non violan-
do formalmente alcuna disposizione tributaria, perseguono vantaggi
fiscali in contrasto con tali disposizioni. Quindi, gli elementi costitu-
tivi dell’abuso80 secondo questa definizione sono almeno due: il perse-
guimento di vantaggi non voluti dal legislatore fiscale ed il fatto che il
comportamento del contribuente sia principalmente volto ad ottenere
proprio tali vantaggi, non trovando giustificazione in altre ragioni eco-
nomiche extrafiscali.
Come già visto sopra, la Corte di Cassazione, in numerose pronun-
ce, ha fatto leva per l’individuazione della condotta abusiva principal-
mente sull’esistenza o meno di valide ragioni economiche extrafiscali,
più precisamente sulla riconducibilità del regime di vantaggio fiscale
invocato dal contribuente ad una o più operazioni prive di valide giu-
stificazioni economiche di natura extratributaria. Il Supremo Collegio,
tuttavia, ha avuto modo di chiarire che sono valide ragioni economi-
che non solo quelle che mirano ad una redditività immediata, ma anche
quelle che rispondono ad esigenze di natura organizzativa e che con-
sistono in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del
contribuente81.

80
  In dottrina, senza pretesa di esaustività: F. Gallo, Brevi spunti in tema di elusione
e frode alla legge (nel reddito d’impresa), in Rass. trib., 1989, I, 11; P. Russo, Brevi note in
tema di disposizioni anti elusive, in Corr. trib., 1999, 68, e Id., L’onere probatorio in ipotesi di
«abuso del diritto alla luce dei princìpi elaborati in sede giurisprudenziale, in Il fisco finanzia­
ria, 2012, 1301; S. La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto,
cit., 785; G. Falsitta, Abuso del diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Riv.
dir. trib., 2010, 349; F. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario, Dir. prat. trib., 2012,
I, 683; M. Basilavecchia, Presupposti ed effetti della sanzionabilità dell’elusione, in Corr.
trib., 2012, I, 797.
81
  Cass. 21.01.2011, n. 1372, con nota di D. Stevanato, Ancora un’accusa di elusione senza
«aggiramento» dello spirito della legge, in Corr. trib., 2011, 673.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 313

6.1.  Le valide ragioni economiche


Con riferimento alla condizione per cui i comportamenti, per poter esse-
re considerati elusivi, devono essere «privi di valide ragioni economiche»82,
la Corte di Giustizia Europea con sentenza n. C-28/95 del 17/7/1997 ha
dato la seguente definizione:
«…. La nozione di valida ragione economica ai sensi dell’art.11 della
direttiva n.90/434 deve essere interpretata nel senso che trascende la ricer­
ca di un’agevolazione puramente fiscale»83. Sulla stessa linea interpretati-
va si segnalano due sentenze della Corte di Cassazione (sez.5, sentenza
n.20029/2010 e sentenza n.1465/2009): «In materia tributaria, integra gli
estremi del comportamento abusivo quell’operazione economica che, tenuto
conto sia della volontà delle parti implicate, che del contesto fattuale e giu­
ridico, ponga quale elemento predominante ed assorbente della transazione
lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di
comportamenti abusivi non vale ove quelle operazioni possano spiegarsi
altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi d’imposta»84.
Nella Relazione ministeriale di accompagnamento al d.lgs. n. 358/9785
l’amministrazione precisa il concetto chiarendo che l’espressione valide ra-
gioni economiche deve essere inteso in termini di apprezzabilità economico
gestionale delle operazioni poste in essere, ricollegandosi implicitamente
ai concetti di derivazione statunitense dell’economic substance e business
purpose, peraltro ripresi dalla direttiva comunitaria del 23 luglio 1990 in
tema di operazioni straordinarie. Secondo la teoria dell’economic substance
la legge fiscale viene interpretata nel senso che essa richiede che le opera-

82
  Si veda, fra gli altri, G. Escalar, Indebita trasformazione del divieto di abuso del diritto
in divieto di scelta del regime fiscale meno oneroso, in Corr. trib., 2012, 2707.
83
  Cfr. Corte di Giustizia CE, 22 maggio 2008, causa C-162/07, in banca dati IPSOA BIG
Suite. La Corte ha sostenuto che « il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove le opera­
zioni di cui trattasi possono spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di vantaggi fiscali»,
posto che «tale divieto è finalizzato a vietare le costruzioni di puro artificio effettuate unicamente
al fine di ottenere un vantaggio fiscale».
84
  Quanto alla giurisprudenza di merito, Cfr. Comm. Trib di Milano del 4 maggio 1996, n.
239, dove è stato specificato che «le valide ragioni economiche costituiscono parametro di valu­
tazione dell’animus dell’agente, cioè servono a determinare se queste abbiano ispirato il soggetto
nella sua condotta».
85
  Cfr. F. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, cit., 683. L’A. rileva che
all’interno della Relazione ministeriale allo schema di decreto legislativo che ha introdotto l’art.
37-bis nel d.p.r. n. 600 del 1973 si parla di manipolazioni, scappatoie e stratagemmi. L’elusione
è presentata come utilizzo di scappatoie formalmente legittime. La «scappatoia» non sarebbe
la sola metafora: vi si parla anche di approvazione o disapprovazione, da parte del legislatore,
dei comportamenti dei contribuenti; e si esclude l’elusione, quando il contribuente sceglie tra
comportamenti di pari dignità.
314 Giuseppe Corasaniti

zioni progettate abbiano sostanza economica distinta dai benefici econo-


mici conseguiti con la riduzione fiscale, e che tale sostanza deve tradursi
in profitti concreti e attuali cioè apprezzabili dal punto di vista economico
gestionale.
La teoria del business purpose, complementare alla prima, tende ad in-
dagare l’aspetto soggettivo delle motivazioni che hanno spinto il contri-
buente ad assumere un determinata condotta. In estrema sintesi occorre
indagare se le scelte sono state dettate dalla volontà di sottrarsi all’imposta
o se al contrario sussistano finalità di carattere economico prevalenti ri-
spetto a quelle fiscale. Dunque, dalla Relazione ministeriale alla bozza del
D.lgs. n. 358/1997 è possibile desumere che «l’espressione «valide ragioni
economiche» non sottintende... una validità giuridica» ma un’apprezzabi-
lità economico-gestionale, potendo anche avere rilevanza «valutare se un
comportamento è economicamente «normale» o imprenditorialmente van-
taggioso». Il controllo sull’elusività di un comportamento comunque con-
siste, sempre secondo la Relazione, «in un confronto oggettivo tra regimi
fiscali, e non certo nella necessità di sindacare i comportamenti soggettivi
dell’»imprenditore medio»» o dell’»uomo d’affari medio»».
Le ragioni economiche, per le quali viene prevista, testualmente, la vali-
dità, si contrappongono alle ragioni futili, pretestuose o generiche. Il carat-
tere della validità esprime l’idea di concretezza, fattibilità, riferibilità delle
citate ragioni al programma imprenditoriale, e le proietta in una valutazio-
ne di tipo pratico, ben accessibile anche all’Amministrazione Finanziaria86.
La ragione economica è valida se è connessa al contesto imprenditoriale e
se è capace di provocare una modificazione rispetto alla situazione preesi-
stente all’operazione.
Con riferimento, inoltre, al soggetto in favore del quale devono sussi-
stere le valide ragioni economiche, si ritiene che lo stesso vada ricercato in
uno qualsiasi dei soggetti interessati dall’operazione. Si pensi, ad esempio,
al caso di una scissione parziale con beneficiaria di nuova costituzione.
Quasi mai sarà ravvisabile una valida motivazione economica per la scissa,
la quale viene «mutilata» di una parte del suo patrimonio senza ricevere
nulla in cambio; analogamente quasi mai sarà ravvisabile una valida ra-
gione economica per la beneficiaria di nuova costituzione (essendo che il
mero venire ad esistenza per effetto della scissione non può essere di per
sé considerato una valida ragione economica). In tale caso le motivazioni
economiche andranno ricercate negli interessi del «gruppo», per tale inten-

86
  Sul punto, cfr. R. Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2011,
326.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 315

dendosi il più grande insieme che racchiude, oltre alle società direttamente
interessate, anche e soprattutto i soci.
Si pensi – per rimarcare fin dove l’Amministrazione finanziaria si è
spinta nella contestazione sull’esistenza di valide ragioni economiche ex-
trafiscali – al caso esaminato dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n.
177/E del 200887 ai fini dell’applicazione dell’allora vigente regime dell’art.
1, comma 1093, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 che consentiva non
solo agli imprenditori individuali e alle società di persone ma anche alle
s.r.l. di poter determinare il reddito agrario su base catastale88. La riso-
luzione stigmatizzava come elusiva la trasformazione di una società per
azioni in società a responsabilità limitata al precipuo fine di godere di tale
regime fiscale.
Ebbene, in questo caso non c è dubbio che la motivazione che ha in-
dotto la società a trasformarsi possa essere stata proprio quella di fruire
di tale regime tributario e ciò non di meno non si può non riconoscere
la legittimità di quest’ obiettivo. Se il legislatore, infatti, ha accordato un
determinato regime fiscale alle società aventi veste di s.r.l., non richiedendo
alcun altra condizione, sarebbe del tutto illogico ed iniquo sostenere che
una società che si sia costituita ab origine in s.r.l. possa fruire di questo
regime e, viceversa, lo stesso regime non possa essere accordato ad una
società che da s.p.a. si trasformi in s.r.l. per poter fruire dello stesso trat-
tamento. Sarebbe come voler ammettere che il regime in parola è fruibile
solo in modo elettivo e cioè solo dalle società che fin dall’origine si sono
costituite in forma di s.r.l89.

87
  L’Ufficio ha precisato che «sussiste, in particolare, un utilizzo improprio degli strumenti
giuridici civilistici poiché la tassazione su base catastale deriverebbe da un uso improprio dell’ope­
razione di trasformazione, in modo tale da realizzare risultati economico-sostanziali difformi da
quelli che il legislatore ha assunto, sul piano politico legislativo, a presupposto e giustificazione
dell’agevolazione in commento».
88
  Cfr. Ris. Agenzia delle Entrate, n. 177/E del 2008 : «Sussiste, in particolare, un utilizzo
improprio degli strumenti giuridici civilistici poiché la tassazione su base catastale deriverebbe da
un uso improprio dell’operazione di trasformazione, in modo tale da realizzare risultati econo­
mico – sostanziali difformi da quelli che il legislatore ha assunto, sul piano politico legislativo, a
presupposto e giustificazione dell’agevolazione in commento. Con l’operazione di trasformazione,
in pratica, la società istante non realizza gli effetti voluti dal legislatore fiscale con la disposizione
contenuta nel comma 1093 in commento, ma, abusando della autonomia negoziale riconosciuta
dall’ordinamento civilistico, intende conseguire un risparmio di imposta da considerarsi indebito.
L’unica ragione, di natura fiscale, addotta dalla società non può considerarsi una ragione eco­
nomica caratterizzata dal requisito di «validità» previsto dalla norma, in quanto l’operazione
prospettata realizza lo scopo non in modo fisiologico e strutturale, ma attraverso aggiramenti che
generano risultati indebiti, realizzando in tal modo le condizioni richieste dall’art 37-bis citato».
89
  Sul punto, M. Beghin, L’elusione tributaria e le agevolazioni fiscali, in Riv. dir. trib., 2006,
II, 621 ss. L’A. sottolinea come nessuna asistematicità può ravvisarsi laddove il contribuente si
316 Giuseppe Corasaniti

Ancora, per esemplificare, si pensi ad una società che abbia installato la


propria sede in una località fruente di agevolazione territoriale – che era,
ad esempio, il Mezzogiorno – per godere di tale agevolazione e rivendere
in esenzione d’imposta (o con tassazione agevolata) le merci ivi prodot-
te ad altra società del gruppo dislocata altrove, che provveda poi a com-
mercializzarle. Non c’è dubbio, anche in questo caso, che la motivazione
principale che ha indotto l’impresa a localizzarsi in un territorio agevolato
sia stata proprio quella di usufruire dell’agevolazione fiscale e che del tutto
secondarie (o addirittura inesistenti) siano state altre ragioni extrafiscali.
Ma è evidente come siamo di fronte ad un’agevolazione legittima, poiché è
proprio tale localizzazione nel territorio che il legislatore fiscale, attraverso
la misura in parola, intendeva favorire.
Non vi sarebbe ragione alcuna per la quale, una volta realizzato il fatto
economico che una legge pone a fondamento di un’agevolazione fiscale,
dovrebbe reputarsi indebito il vantaggio ottenuto dal contribuente. A tal
riguardo, si rammenta che l’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973 fa espresso
riferimento al risparmio «indebito», ossia quel risparmio d’imposta che il
sistema tributario disapprova e, per l’effetto, osteggia.
Più nello specifico, in tema di agevolazioni fiscali, la disapprovazione
testé citata non può che far riferimento ai presupposti delineati dalla legge
per il riconoscimento dei benefici: se il contribuente ponga in essere tali
presupposti, la disuguaglianza è consentita ed il contribuente ha diritto alla
riduzione del carico tributario. In altre parole, in questi casi il risparmio
d’imposta è perfettamente in armonia con il sistema, anzi è nel Dna del
sistema stesso90.
È ictu oculi rilevabile, dunque, come non vi sia nessun comportamento
elusivo/abusivo da perseguire: eppure non sono mancate contestazioni da
parte degli uffici91.

infili nel canale di un’agevolazione fiscale, ponendo in essere i presupposti cronologici, oggettivi
o soggettivi che il legislatore ha stabilito per l’applicazione della disciplina di favor. Nel momento
in cui sono fissati i requisiti di accesso ad una normativa tributaria più favorevole, il problema
dell’elusione è già scontato a monte, nel senso che il legislatore è consapevole del fatto che il
contribuente, nel procedere alla scelta tra una pluralità di schemi negoziali, potrà decidere di
conformarsi ai requisiti richiesti ex lege per l’applicazione del regime tributario più mite.
90
  Cfr. M. Beghin, Elusione, evasione, confusione e abuso del diritto nell’applicazione delle
norme di favore, in Corr. trib., 2014, 3689 ss.
91
  Cfr. Cass. 12 maggio 2011, n. 10383; Id, 11 novembre 2014, n. 24027, ove, a fronte di
un’operazione posta in essere dal contribuente al solo fine di fruire di un’agevolazione fiscale,
è stato chiarito che l’esenzione prevista nel caso di specie, sebbene formalmente spettante al
contribuente, era frutto di un’operazione che era stata concepita « allo scopo di fruire delle age­
volazioni, altrimenti non spettanti».
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 317

Oltre quanto già visto, vi è un ulteriore e non marginale aspetto da con-


siderare: le ragioni economiche extrafiscali che, secondo l’orientamento pre-
valente di prassi, dovrebbero essere il principale (se non l’unico ed esclu-
sivo) elemento in base al quale valutare l’esistenza della condotta abusiva
non sono codificate e la loro individuazione può condurre il più delle volte
a ricostruzioni alquanto soggettive in cui il verificatore o lo stesso organo
giudicante, sostituendosi alle valutazioni economiche che dovrebbero com-
petere solo all’imprenditore, è facile, anche inconsapevolmente, che collochi
i propri «desiderata» o, comunque, i propri personali convincimenti92.
In conclusione, le citate ragioni devono essere considerate, nella strut-
tura dell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973 e nella definizione dell’abuso del
diritto di cui alle sentenze della Corte di Cassazione, alla stregua di cir-
costanze esimenti, senza trasformarsi in un tassello del presupposto per la
configurazione della fattispecie elusiva o abusiva. L’elusione e l’abuso non
dipendono, dunque, dall’inesistenza di ragioni economiche, ma dall’asiste-
maticità del vantaggio che il contribuente si è garantito attraverso una certa
sequenza negoziale. Le ragioni economiche entrano in gioco soltanto dopo
che il vantaggio fiscale riferibile ad una determinata operazione abbia rive-
lato la propria contrarietà al sistema e lo fanno in vista della eliminazione
della connotazione abusiva o elusiva dell’operazione93.
Chi ragiona sull’abuso muovendo dalla mancanza di ragioni economi-
che extrafiscali affronta il problema dall’epilogo, con evidente pericolo di
giungere ad inaccettabili schemi di semplificazione94.
6.2.  Il lecito risparmio d’imposta
Al fine di individuare quando un comportamento sia da ritenere elusivo
e quando, invece, semplicemente volto ad ottenere un lecito risparmio d’im-

92
  Cfr. I. Vacca, L’abuso e la certezza del diritto, in Corr. trib., 2014, 1127.
93
  Cfr. M. Procopio, La poco convincente riforma dell’abuso del diritto ed i dubbi di legit­
timità costituzionale, in Dir. prat. trib., 2014, 746 ss. L’A. sostiene come l’art. 37-bis del d.p.r. n.
600/1973 presenti profili di illegittimità costituzionale, laddove prevede che l’Amministrazione
eserciti un insindacabile giudizio sulle operazioni posti in essere dagli operatori economici. In
altre parole, attribuire al contribuente l’onus probandi in punto di utilità economica dell’opera-
zione posta in essere significa andar contro a quanto statuito nell’art. 2697 c.c.
94
  Cfr., M. Beghin, Consulenza fiscale e abuso del diritto tributario, in Corr. trib., 2010,
1092 ss. L’A. precisa, in via esemplificativa, come sono molti i casi nei quali un’operazione
può presentarsi totalmente priva di ragioni economiche (ed effettuata, pertanto, nell’esclusiva
prospettiva di ottenere un beneficio fiscale), senza per questo degenerare in abuso o elusione.
Basti pensare alle operazioni di affrancamento di terreni o di partecipazioni da parte di persone
fisiche; al riallineamento di differenziali tra valori civilistici e valori fiscali provocati sul complesso
produttivo attraverso il conferimento ex art. 176 Tuir; al riallineamento previsto per i disavanzi
generati mediante operazioni di fusione o di scissione.
318 Giuseppe Corasaniti

posta, è di fondamentale aiuto la Relazione ministeriale alla bozza del d.lgs.


n.358/1997 dove è stato precisato che il mero risparmio d’imposta«si verifica
quando, tra vari comportamenti posti dal sistema su un piano di pari dignità,
il contribuente adotta quello meno oneroso», per cui« non c’è aggiramento
fintanto che il contribuente si limita a scegliere fra due alternative che in
modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a disposizione»95.
Nello stesso senso è anche il parere della Commissione dei Trenta96,
con il quale è stato precisato che«non dovrebbero esserci dubbi nella for­
mulazione della norma che l’indebito vantaggio fiscale … non riguarda la
libertà di scelta del contribuente tra diverse soluzioni possibili, ma quelle
condizioni in cui alchimie finanziarie sorprendano la buona fede del legi­
slatore portando a risultati da esso non previsti».
In altre parole, come si legge nella Relazione ministeriale, la libertà «di
regolare i propri affari nel modo fiscalmente meno oneroso è un principio
diffuso in tutti gli ordinamenti tributari dei Paesi sviluppati».
Dunque, per stabilire se vi sia un abuso è necessario accertare, ex ante,
se il contribuente si sia assicurato un vantaggio tributario indebito. Ma per
acclarare l’esistenza di codesto «vantaggio» il giudice tributario non può
che effettuare il confronto tra l’operazione elusiva/abusiva e l’operazione
adeguata. La prima è un’operazione «concreta», mentre la seconda è ipo-
tetica, meramente possibile.
L’idea di ragionare sulla comparazione tra operazioni non rappresenta
un formalismo o una pretesa avulsa dal tessuto normativo; si tratta, invece,
di un passaggio strutturale nell’applicazione dell’art. 37-bis del d.p.r. n.
600/1973, dato che l’Amministrazione finanziaria deve imporre al soggetto
«elusore» il tributo sull’operazione elusa, ridotto dell’imposta riferita alla
scansione negoziale elusiva. In breve, il soggetto passivo rimane lo stesso,
ma risulta modificato il carico impositivo, giacché alla fattispecie concre-
tamente realizzata viene sostituita un’altra fattispecie (quella evitata o, più
correttamente, «aggirata»).
Si evince, di conseguenza, che il concetto di «vantaggio» è struttural-
mente collegato all’attività di comparazione tra due sequenze negoziali ca-
paci di condurre l’imprenditore ad un risultato omogeneo sul piano giu-
ridico – economico97.

95
  Nello stesso senso è la R.M. 15 luglio 1999, n. 117/E. In modo analogo, nella R.M. 2
novembre 2001, n. 175/E, è espresso il concetto che, quando il risparmio d’imposta conseguito
appare fisiologico, l’operazione non presenta profili di elusività.
96
  Cfr. Commissione Parlamentare Consultiva in materia di riforma fiscale ai sensi della l.
23 dicembre 1996, n.662.
97
  Si veda, fra gli altri, M. Beghin, L’abuso del diritto tra concetti astratti e rilevanza del
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 319

Nel concetto di «vantaggio» è insita l’idea del confronto tra i risultati


concretamente ottenuti e quelli che, invece, si sarebbero generati attraverso
l’impiego di altri schemi comportamentali, magari più diretti rispetto a
quello prescelto dal contribuente98.
Un primo criterio per l’effettuazione di codesto confronto potrebbe es-
sere quello che fa leva sulla semplice connotazione economica dei risultati
raggiunti e sul corrispondente, totale disinteresse per la strumentazione
giuridica utilizzata.
Muovendo in questa direzione, sarebbe allora possibile affermare, a ti-
tolo esemplificativo, che il commerciante il quale abbia lasciato spirare i
termini prescrizionali a vantaggio del proprio cliente ha effettuato un atto
liberale; che il soggetto il quale possieda le partecipazioni di controllo di
una società immobiliare non è diverso dal proprietario degli immobili, po-
tendo egli disporre di tali beni in virtù del rapporto partecipativo. Si evince,
dunque, che ragionando solo in termini economici, si rischia di minare la
certezza dei rapporti giuridici. È necessario affiancare alla chiave di lettura
economica quella giuridica, al fine di avere un giudizio di comparazione
oggettivo.
Difatti, non è sufficiente sostenere che, sul piano strettamente econo-
mico, l’incasso di una certa somma costituisce una fattispecie insensibile
alla causa negoziale e, pertanto, del tutto indipendentemente dal fatto che
tale incasso fronteggi, ad esempio, la vendita di un’azienda o la cessione
di partecipazioni ottenute in occasione del conferimento del complesso
produttivo.
A titolo esemplificativo, al fine di comprendere quest’ultimo profilo,
si rinvia al sistema dell’imposizione indiretta e, segnatamente, a quello
dell’imposta di registro, dove l’attitudine alla contribuzione non è rappre-
sentata da quanto si è incassato, bensì dall’atto posto in essere, qualificato
sulla base dei propri effetti giuridici e tenuto conto del possibile collega-
mento negoziale99.
È sulla tipologia dell’atto – e, dunque, sui risultati economico – giuri-

fatto economico, in Corr. trib., 2010, 1759.


98
  Cfr. Ctp di Treviso, sent. 22 aprile 2009, n. 41, con nota di M. Beghin, L’abuso del diritto
nella indefettibile prospettiva del «vantaggio fiscale», in Corr. trib., 2009, 2325. L’Autore afferma
che : «Lo si capisce con facilità se solo si riflette sul secondo comma dell’art. 37-bis  del D.P.R.
n. 600/1973, dove è previsto che l’Amministrazione finanziaria, la quale disconosca i «vantaggi
tributari», debba procedere alla determinazione dell’imposta sull’operazione elusa, scomputando,
però, l’imposta gravante sull’operazione elusiva».
99
  Cfr. G. Zizzo, Sull’elusività del conferimento di azienda seguito dalla cessione della par­
tecipazione, in Giust. trib., 2008, 277 ss.
320 Giuseppe Corasaniti

dici che esso garantisce – che si misura l’omogeneità di fattispecie, nella


prospettiva di intercettare l’eventuale vantaggio fiscale100.
In altri termini, l’elusione tributaria non va ricondotta ad un qualsiasi
risparmio d’imposta o ad un qualsivoglia rimborso del tributo, bensì a
risparmi e rimborsi caratterizzati da un quid pluris, consistente nella disap-
provazione del vantaggio medesimo sul piano sistematico101.
Per concludere, si evince come l’Ufficio deve valutare in primo luogo
se il comportamento del contribuente violi specifiche disposizioni e cioè
concretizzi direttamente un’evasione, e in quest’ottica, deve soprattutto
accertare se la condotta realizzi un occultamento dell’imponibile attraver-
so una vera e propria frode o simulazione, aspetto questo che forse non
è sempre facile cogliere e distinguere dall’elusione. Ma una volta superato
questo vaglio, occorre procedere con cautela poiché siamo pur sempre in
presenza di comportamenti formalmente conformi alle disposizioni fiscali.
Va a questo riguardo chiarito che, per operare ad un tale livello, è richie-
sta all’interprete grande sensibilità oltre che notevole dimestichezza con le
regole fiscali; l’interprete deve assumersi la responsabilità di estrarre dalla
legge i principi sistematici e di stabilire quali aggiramenti di obblighi o
divieti debbono reputarsi contrari ai suddetti principi e quali, invece, non
lo sono affatto.
7.  Le operazioni di riorganizzazione aziendale e profili di elusività
Le più recenti tendenze tracciate dall’Amministrazione finanziaria in
sede di verifica fiscale delle operazioni di riorganizzazione aziendale –

100
  Cfr. M. Beghin, L’abuso del diritto nella indefettibile prospettiva del «vantaggio fiscale»,
cit., 2009. L’Autore sottolinea che:«la vendita delle partecipazioni e la vendita dell’azienda non
sono uguali e nemmeno si assomigliano. Da una parte (e mi riferisco, adesso, alla vendita delle
quote o delle azioni), siamo al cospetto di un contratto di scambio che consente al cedente di
trasferire all’acquirente la posizione soggettiva cui fa capo un rapporto partecipativo; ciò ha un
impatto rilevantissimo sul versante delle relazioni tra socio ed ente partecipato, oltre che, come è
lapalissiano, sulle declinazioni amministrative, gestionali e patrimoniali delle relazioni medesime.
Dall’altra (guardo, ora, alla vendita dell’azienda), il contratto di scambio consente di assumere
la diretta titolarità del complesso produttivo, con evidenti ricadute – di nuovo – sul fronte gestio­
nale e, in particolare, su quello della immediata acquisizione della ricchezza prodotta attraverso
l’esercizio dell’impresa, senza che vi sia la necessità – in ipotesi – di deliberare la distribuzione
di dividendi».
101
  M. Beghin, L’elusione tributaria e l’asistematicità dei vantaggi tributari, in Riv. dir. trib.,
2007, II, 237 ss. L’A. precisa che la questione «qualitativa» consistente nella valutazione della asi-
stematicità del vantaggio, non può trasformarsi in questione «quantitativa», poiché si rischierebbe
di travolgere la linea di demarcazione tra pianificazione fiscale ed elusione tributaria. Posta in
questi termini, infatti, la questione elusiva si ridurrebbe ad una mera operazione ragionieristica
consistente nella «pesatura» di due operazioni.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 321

troppo spesso oggetto di scrutinio anche a prescindere dalla loro potenziale


elusività – sollevano notevoli incertezze tra gli operatori economici.
Negli ultimi anni l’attenzione da parte dei verificatori si è concentra-
ta soprattutto sulla riqualificazione delle operazioni di conferimento (di
ramo) d’azienda seguite dalla cessione delle partecipazioni della conferitaria
in operazioni di diretta cessione (di ramo) d’azienda; tale tendenza si è
affiancata all’approccio di contestare, alternativamente, la cessione di beni
aziendali, anch’essa sovente riqualificata, giusta l’unitarietà del compen-
dio trasferito, in cessione d’azienda ovvero la cessione d’azienda, talvolta
riqualificata in autonomi atti di trasferimento di singoli beni non facenti
parte di alcun compendio aziendale.
Tali contestazioni si fondano, in sostanza, sulla riqualificazione – ai soli
fini fiscali ed a certe condizioni – delle operazioni poste in essere dai con-
tribuenti e riguardano generalmente il comparto delle imposte indirette.
Tuttavia, si è assistito ad una preoccupante e progressiva «deriva» di queste
contestazioni anche sul fronte delle imposte dirette.
Infatti, seppur in sporadici casi, questo comparto impositivo viene in-
spiegabilmente interessato nel caso di riqualificazione in cessione di azienda
dell’operazione di conferimento e successiva cessione delle partecipazioni;
riqualificazione che determinerebbe l’inapplicabilità del regime fiscale san-
cito, per i conferimenti e non per le cessioni di azienda, dall’art. 176 Tuir.
Da ultimo, si segnala anche che gli organi periferici dell’Amministrazio-
ne finanziaria hanno più volte verificato le operazioni di merger leveraged
buy out, disconoscendo spesso la deduzione di interessi passivi da parte
della società che acquista la società target, sul presupposto che si tratti di
un’operazione elusiva.
Fatta questa doverosa premessa, di seguito si tratteranno nel dettaglio le
operazioni che, nel corso degli anni, sono state oggetto di verifica e con-
testazione (in quanto considerate elusive) da parte dell’Amministrazione
finanziaria.
7.1.  Il conferimento di azienda e cessione delle partecipazioni
Con riguardo alle operazioni di conferimento d’azienda (o anche di
immobili) seguite dalla cessione delle partecipazioni, anche a distanza di
tempo e addirittura a soggetti differenti102, l’attenzione dell’Amministrazio-

102
  Si veda, ad esempio, la sent. 5 giugno 2013, n. 14150, con nota di G. Zizzo, Imposta di
registro e atti collegati, in Rass. trib., 2013, 874. L’A. rileva come la Corte di Cassazione ha ade-
rito, in questa pronuncia, all’indirizzo dell’Amministrazione finanziaria che aveva riqualificato in
un’operazione di trasferimento di terreni il conferimento di un’azienda composta essenzialmente
322 Giuseppe Corasaniti

ne finanziaria si è usualmente concentrata sull’applicazione dell’imposta di


registro, nel presupposto – non privo di criticità di vario genere – che la
combinazione delle due operazioni avrebbe l’effetto di eludere l’applica-
zione dell’imposta in misura proporzionale dovuta per la «cessione» diretta
dell’azienda (ovvero per la «cessione» o il «conferimento» degli immobili),
in favore di una più conveniente tassazione in misura fissa dell’atto di
«conferimento d’azienda» seguito dalla cessione delle partecipazioni.
Le questioni interpretative che hanno maggiormente impegnato dottri-
na, giurisprudenza e prassi sono relative alla possibilità d’interpretare uni-
tariamente più atti separatamente portati alla registrazione e alla corretta
delimitazione degli «effetti» (economici o giuridici) dalla cui valutazione
discende, in ipotesi, il potere di riqualificazione ai fini del registro103.
Il riferimento è agli «effetti» degli atti presentati alla registrazione, la
cui analisi determina, ai sensi dell’art. 20 del d.p.r. n.131/1986, l’imposta
applicabile alla registrazione. La «storia» della disposizione sarebbe di per
sé risolutiva, se si guarda al fatto che il legislatore, già nel passaggio dal
Regio decreto del 30 dicembre 1923, n. 3269104 al d.p.r. 26 ottobre 1972,
n. 634 (art. 19), aveva chiarito e poi confermato – con l’art. 20 del d.p.r. n.
131/1986 – che gli effetti rilevanti ai fini della qualificazione sono quelli
giuridici, così da fugare ogni dubbio circa la rilevanza degli effetti «econo-
mici» derivanti dalla combinazione degli atti di volta in volta considerati105.

dai medesimi terreni cui aveva fatto seguito (nel periodo di un anno) la cessione delle quote a
due società cooperative differenti.
103
  Cfr. M. Beghin, L’imposta di registro e l’interpretazione degli atti incentrata sulla sostan­
za economica nell’ «abracadabra» dell’abuso del diritto, in Riv. giur. trib., 2010, 158 ss. L’Autore
ritiene che non si possa far leva, in queste situazioni, sul collegamento fra contratti poiché questi
mirano pur sempre alla composizione di un interesse economico unitario, difficilmente ricon-
ducibile – proprio in quanto «economico» – agli effetti giuridici che i singoli atti, isolatamente
considerati, sono capaci di produrre.
104
  L’art. 8 del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269 disponeva che: « le tasse sono applicate secondo
l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, se anche non vi corrisponde il titolo
o la forma apparente». Cfr., sul punto, A. Uckmar, La legge del registro, 3 voll., Padova, 1928,
vol. primo, 215 ss. L’Autore ha osservato che certamente il fisco può tassare il contratto che
le parti hanno realmente posto in essere indipendentemente dal nomen e dall’intenzione delle
parti ma «ciò non deve portare all’estrema conseguenza di applicare un’aliquota più elevata di
quella dovuta su un determinato atto per il solo motivo che le parti hanno raggiunto lo scopo
che avrebbero potuto ottenere stipulando un altro contratto soggetto ad aliquota maggiore».
105
  Per alcuni approfondimenti circa l’evoluzione dell’art. 20 del d.p.r. n. 131/1986 e circa la
struttura delle disposizioni che lo hanno preceduto, si veda G. Falsitta, L’influenza dell’opera di
Albert Hensel sulla dottrina tributaristica italiana e le origini dell’interpretazione antielusiva della
norma tributaria, in Riv. dir. trib., 2007, I, 569; G. Melis, Sull’ «interpretazione antielusiva» in
Benvenuto Griziotti e sul rapporto con la Scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni,
in Riv. dir. trib., 2008, I, 413 ss.; D. Jarach, I contratti a gradini e l’imposta, in Riv. dir. fin.,
1982, II, 79; M. Cerrato, Elusione fiscale ed imposizione indiretta nelle operazioni societarie, in
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 323

È utile sottolineare, preliminarmente, come l’art. 20, nel momento in cui


sancisce che il tributo di registro colpisce l’atto in relazione al suo conte-
nuto giuridico, ossia in relazione agli effetti giuridici che esso è idoneo a
produrre, disciplina il principio generale cui deve uniformarsi l’interpreta-
zione dell’atto sottoposto a registrazione allo scopo di individuare i criteri
impositivi e la voce della tariffa applicabile.
Orbene, il regime fiscale applicabile ai fini del tributo di registro al sin-
golo atto va ricercato avendo riguardo, precipuamente, al contenuto delle
clausole negoziali e agli effetti giuridici prodotti dall’atto, indipendente-
mente dal nomen iuris attribuito dalle parti all’atto medesimo106.
In altre parole, l’interprete deve tassare l’atto secondo la sua effettiva
sostanza e non secondo il mero nomen; altro non può fare come emerge
dalla significativa formulazione dell’art. 20.
A questo punto, la questione può essere sintetizzata agevolmente in una
sola domanda: l’art. 20 del d.p.r. n. 131/1986 è una norma che ha funzione
antielusiva?
Sul punto si sono sviluppate due linee interpretative. La prima, più ri-
salente, attribuisce all’art. 20 natura di norma antielusiva107, da cui discende
un naturale potere dell’Amministrazione finanziaria di sindacare operazio-
ni che, sia pure in modo frazionato, consentano di raggiungere una identità
di effetti economici.
La seconda tesi valorizza, invece, la lettera della disposizione e ritiene
il potere di riqualificazione di più atti subordinato all’identità di effetti

G. Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, in Quaderno n. 4 della Riv. dir.
trib., Milano, 2009, 379. Si permetta infine il rinvio a G. Corasaniti, Conferimenti in natura e
apporti in società, Padova, 2008, 468 ss.; L’interpretazione degli atti e l’elusione fiscale nel sistema
dell’imposta di registro, in Dir. prat. trib., 2012, 963.
106
  Cfr. G. Marongiu, L’abuso del diritto nella legge di registro tra principi veri e principi
asseriti, cit., 361.
107
  In proposito assume rilevanza anche l’opinabile ordinanza della Corte di Cassazione
del 5 novembre 2013, n. 24739, che nel rimettere alla Corte costituzionale una questione di
(il)legittimità delle disposizioni di garanzia previste nell’art. 37-bis  del D.P.R. n. 600/1973
per violazione degli  artt. 3  e  53  della Costituzione in ragione della disparità di trattamento
rispetto ad altre disposizioni antielusive, osserva che «irrazionalmente, soltanto per la ripre-
sa antielusiva ai sensi dell’art. 37-bis  cit. è legge che le forme del preventivo contraddittorio
debbano esser seguite  sub poena nullitatis. Del resto, ad aumentare l’irragionevolezza della
misura in parola, deve essere rilevata l’esistenza di altre norme che, nella comune interpre-
tazione, consentono l’inopponibilità di negozi elusivi, ma senza che però vi sia un’analoga
previsione di nullità per difetto di forme del contraddittorio. Tra tutte, per la sua frequenza,
si rammenta il D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131,  art. 20». Sul punto, F. Tundo, Illegittimo il
diritto al contraddittorio nell’accertamento antielusivo per disparità con l’abuso del diritto?,
in Corr. trib., 2014, 29.
324 Giuseppe Corasaniti

giuridici tra il negozio frazionatamente realizzato e quello di riferimento,


caratterizzato da una maggiore imposizione nell’ambito del registro108.
Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità è ancora altalenante, e non ha
assunto un orientamento univoco riguardo le due tesi sopra illustrate.
Infatti, in alcune pronunce la Corte ha continuato a privilegiare la fun-
zione antielusiva dell’art. 20, considerando legittima l’operazione di riqua-
lificazione del conferimento d’azienda in cessione d’azienda ogni qual volta
il contribuente non sia in grado di opporre valide ragioni extrafiscali, non
marginali, a sostegno della propria scelta109.
In altre sentenze110, invece, la Corte di Cassazione esclude la natura
antielusiva della disposizione e considera rilevante l’analisi degli effetti
giuridici degli atti presentati alla registrazione111. Dall’applicazione di tale
principio, ne discende che l’Amministrazione finanziaria non può procede-
re a riqualificare gli atti di conferimento di azienda e successione cessione
delle partecipazioni perché caratterizzati da effetti giuridici diversi da quelli
determinati dall’acquisizione, in via diretta, dell’azienda.
L’andamento oscillante della giurisprudenza di legittimità rischia, dun-
que, di generare sensibili sperequazioni fra i contribuenti poiché: in pre-

108
  Cfr. Cass. 10 giugno 2013, n. 15319. Il Supremo Collegio ha statuito: «l’art. 20 «esprime
la precisa scelta normativa di assumere, quale oggetto del rapporto giuridico tributario inerente
a dette imposte, gli atti registrati, in considerazione non della loro consistenza documentale, ma
degli effetti giuridici prodotti». V., fra gli altri, G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro
tra abuso del «diritto» e abuso del potere, in Dir. prat. trib., 2008, 1067 ss.
109
  Così, in via esemplificativa, la sentenza n. 5877 del 2014, ove si osserva: «il principio
secondo cui, in forza del diritto comunitario, non sono opponibili all’Amministrazione finan-
ziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscano abuso del diritto, cioè che si
traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale,
deve estendersi a tutti i settori dell’ordinamento tributario e, dunque, anche all’ambito delle im-
poste indirette, prescindendosi dalla natura fittizia o fraudolenta della operazione stessa, essendo
all’uopo sufficiente anche la mera prova presuntiva, come nella specie. Pertanto incombe sul con-
tribuente la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti con carattere
non meramente marginale o teorico, come nel caso in esame» (così, anche, Cass. n. 15963/2013).
110
  Cfr. Cass. 15.10.2014, n. 21770, con nota di F. Bardini, D. Stevanato, R. Lupi, Partita
ancora da giocare su conferimento/cessione d’azienda nell’imposta di registro, in Dial. trib., 2014,
398 ss., la quale ha statuito che «la regola interpretativa di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art.
20, prescinde da intenti elusivi, eventualmente ma non necessariamente posti a base della scelta
negoziale complessa.
111
  Cfr. M. Beghin, L’imposta di registro e l’interpretazione degli atti incentrata sulla sostan­
za economica nell’ «abracadabra» dell’abuso del diritto, cit., 158 ss. L’A. sottolinea come l’art.
20 del d.p.r. n. 131/1986 attribuisce rilevanza non tanto al nomen iuris che le parti possono aver
attribuito all’atto, quanto alla intrinseca natura e agli effetti giuridici che dall’atto stesso proma-
nano, quale che sia la sostanza economica delle operazioni perfezionate. L’aggettivo «intrinseca»
richiama l’idea della «sostanza», di ciò che sta dentro, indipendentemente dall’intestazione che
si è voluta riservare all’atto. L’intrinseca natura riguarda perciò il contenuto e non il contenitore.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 325

senza di un conferimento d’azienda seguito dalla cessione delle parteci-


pazioni, al ricorrere di una contestazione operata ai sensi dell’art. 20  del
D.P.R. n. 131/1986, il contribuente il cui caso venisse assegnato ad un de-
terminato Collegio vedrebbe le sue chances di successo indissolubilmente
legate all’aver addotto, valorizzato e documentato – nei precedenti gradi
di giudizio – le eventuali ragioni economiche extrafiscali,  non marginali,
dell’operazione. Il contribuente il cui caso venisse assegnato ad altro Col-
legio potrebbe limitarsi invece a rilevare la differenza di effetti «giuridici»
che conseguono all’una e all’altra operazione112.
Ciò che però non risulta chiaro attiene gli argomenti sui quali si fonda la
conclamata «certezza» sulla funzione antielusiva dell’art. 20; i dubbi sono
forti e non sono mai venuti meno perché non è facile convincersi che una
norma sostanzialmente dettata nella seconda metà dell’ottocento (quando
neppure si sapeva cosa fosse l’elusione) possa, oggi, assolvere, nella sua
formulazione stringatissima ed essenziale, tante diverse funzioni.
L’art. 20 è, infatti, contenuto nel titolo terzo del d.p.r. n. 131/1986 che
detta una disciplina articolata degli atti che contengono più disposizioni,
dell’enunciazione di atti non registrati, degli atti sottoposti a condizione
sospensiva, approvazione od omologazione, della risoluzione del contratto,
dell’irrilevanza della nullità e dell’annullabilità dell’atto.
L’art. 20 rappresenta una norma di chiusura di questa analitica normati-
va, statuendo che l’imposta sugli atti presentati alla registrazione si applica
secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti stessi anche se
non vi corrisponde il titolo o la forma apparente. Ne deriva che se si può
prescindere dall’inesatta qualificazione dell’atto operata dalle parti, non si
può, invece, andare al di là della qualificazione civilistica e degli effetti
giuridici desumibili da un’interpretazione complessiva dell’atto.
In altri termini, il divieto d’interpretazione extratestuale dell’atto ai fini
della registrazione è fondato, quindi, sulla natura stessa dell’imposta di

112
  In dottrina v., fra gli altri, M. Fanni, L’art. 20 del T.U.R. tra natura antielusiva e valu­
tazione degli effetti giuridici degli atti nella circolazione indiretta delle aziende, in Riv. di giur.
trib., 2014, 494. L’Autore sottolinea che : «il quadro non è così semplice e, si teme, la soluzione
del contrasto non è così vicina. Ed infatti, il Collegio della «identità» degli effetti «giuridici» ha
assunto – dopo la richiamata pronuncia n. 15319 del 2013 – una serie di decisioni in apparente
ed immotivato contrasto con la ricostruzione  ivi  lucidamente effettuata, giustificando la riqua-
lificazione in cessione d’azienda del conferimento seguito dalla cessione di partecipazioni sulla
base di «ricette» composte da ingredienti incompatibili (l’identità degli effetti giuridici con gli
interessi perseguiti dal contribuente o la antielusività dell’art. 20) il cui risultato, unica costante di
questa nouvelle cuisine, è stato un boccone amaro – la soccombenza – per il contribuente». Per
un approfondimento della giurisprudenza di legittimità contrastante si vedano : Cass. 28.06.2013,
n. 16345; Cass. del 18.12.2013, n. 28259.
326 Giuseppe Corasaniti

registro, quale si desume dal sistema del testo unico che la disciplina, oltre
che sulla disposizione dell’art. 20 del d.p.r. n. 131/1986.
È possibile, alla luce di quanto detto precedentemente, notare la diffe-
renza strutturale fra l’art. 20 e l’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973, in quanto
quest’ultimo, rubricato «Disposizioni antielusive», identifica una norma ec-
cezionale rispetto alle regole generali d’imposizione, volta a conciliare l’auto-
nomia contrattuale delle parti, la libertà d’iniziativa economica con la neces-
sità di contrastare l’elusione. Inoltre, la qualificazione dell’imposta di registro
come «imposta d’atto» preclude all’ufficio l’utilizzo di elementi extratestuali
nell’attività d’interpretazione dell’atto assoggettato a registrazione.
Dalle considerazioni svolte ne consegue che, nel tentativo di superare
«l’inequivocabile» significato dell’art. 20, si è invocata del tutto generica-
mente, con frasi sibilline e non ancorate al dato normativo, una supposta
«funzione antielusiva» dell’interpretazione qui oppugnata113.
Nessun problema, invece, sembrava potersi porre con riferimento alle
imposte sui redditi. In tale comparto, infatti, lo stesso legislatore fiscale ha
escluso a priori, con l’art. 176 comma 3 del TUIR, la natura elusiva del
comportamento consistente nel conferimento d’azienda e nella successi-
va cessione delle quote. Come rilevato nella stessa relazione illustrativa al
d.lgs. n. 344/2003, tale operazione non costituisce una fattispecie elusiva,
bensì rappresenta una casistica del tutto integrata con il nostro attuale si-
stema fiscale, considerato che alla sostanziale detassazione delle eventuali
plusvalenze realizzate dal cedente si contrappone il sub-ingresso da parte
del compratore in valori fiscalmente riconosciuti più bassi del prezzo da
quest’ultimo pagato114.

113
  Cfr. G. Marongiu, L’abuso del diritto nella legge di registro tra principi veri e principi
asseriti, cit., 361. L’A. rileva la fumosità del linguaggio dell’amministrazione là dove scrive che
«pur tenendo conto della peculiare natura dell’imposta di registro, sembra possa fondatamente
configurarsi una ratio antielusiva dell’art. 20». Il legislatore dell’imposta di registro ha introdotto
alcune norme volte a prevenire ed arginare fenomeni elusivi e a queste e solo a queste occorre
attenersi. Proprio perché l’imposta di registro colpisce l’atto avendo precipuo riguardo al suo
contenuto giuridico, nel presupposto che vi sia una corrispondenza tra il tipo contrattuale e
il substrato economico dell’operazione, il legislatore ha avvertito l’esigenza di intervenire con
apposite disposizioni per reprimere fenomeni di elusione, caratterizzati da una divergenza tra lo
schema negoziale adottato dalle parti contraenti e gli scopi pratici da esse perseguiti, diversi ed
ulteriori rispetto a quelli connaturati al tipo negoziale. Se ne trova conferma nelle disposizioni
quali l’art. 24 in tema di trasferimenti di pertinenze e accessioni, l’art. 26 in tema di trasferimenti
immobiliari posti in essere tra coniugi ovvero parenti in linea retta, l’art. 32 in tema di dichiara-
zione di nomina effettuata oltre tre giorni dalla data di stipulazione del contratto per persona da
nominare. Ne deriva che non esiste una generale disciplina antielusiva nella disciplina dell’impo-
sta di registro, ma solo ipotesi che il legislatore ha codificato in specifiche norme.
114
  Sul punto, la relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 344/2003 è chiara: «Semplificando,
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 327

Va tuttavia rilevato che – nonostante la chiara intenzione del legislatore


(ricavabile direttamente dalla norma, oltre che dalla citata relazione di ac-
compagnamento al d.lgs. n.. 344/2003) – in talune occasioni l’Amministra-
zione finanziaria contesta in tale fattispecie l’esistenza, ai fini dell’imposta
sul reddito, di un’ipotesi di «abuso del diritto» e riqualifica la stessa come
cessione (indiretta) d’azienda con tutte le conseguenze in punto di emer-
sione e tassazione delle relative plusvalenze, per via del fatto che il regime
di neutralità fiscale di cui all’art. 176 del TUIR trova applicazione solo per
i conferimenti e non per le cessioni d’azienda.
7.2.  La cessione «spezzatino» e cessione di beni mediante trasferi-
mento d’azienda
Altra consolidata prassi seguita dall’Amministrazione finanziaria, in
sede di verifica, è quella di ricondurre ad un’unitaria cessione d’azienda
(o ramo d’azienda) il trasferimento di singoli beni effettuato – addirittura
a distanza di anni115 – mediante plurimi atti (cessione c.d. «spezzatino»116)
ovvero quella, alternativa, di riqualificare operazioni di cessione d’azienda
come cessioni individuali di beni per l’assenza, nel compendio trasferito,
dei caratteri propri dell’azienda richiesti dalle norme civilistiche117.
Nel primo caso, il vantaggio fiscale risiederebbe nell’assoggettare le sin-
gole cessioni di beni «aziendali» all’imposta sul valore aggiunto secondo le
regole ordinarie, con la possibilità per il cessionario di operare la detrazio-
ne (ovviamente ove spettante), così eludendo l’imposta di registro propor-
zionale che sarebbe stata applicata qualora il contribuente avesse posto in
essere una cessione d’azienda (esclusa dall’imposta sul valore aggiunto ai
sensi dell’art. 2 comma 3 lett. b) del DPR 633/1972 ed assoggettata ad im-
posta di registro secondo le aliquote proprie dei beni che la compongono

infatti, il contribuente società di capitali potrà decidere se: – operare nell’ambito dell’esenzio-
ne, conferendo l’azienda in neutralità e successivamente cedendo la partecipazione usufruendo
della participation exemption, senza dare in questo caso al proprio acquirente valori fiscalmente
recuperabili (art. 176, c. 3); – operare in regime di imponibilità, vendendo l’azienda e facendo
concorrere la plusvalenza alla formazione del reddito imponibile, dando al proprio acquirente
valori fiscalmente riconosciuti. In entrambi i casi, si può concludere che il sistema è strutturato
in modo tale da evitare i salti d’imposta che si genererebbero per effetto della discontinuità nei
valori fiscalmente riconosciuti».
115
  Per tutte, si segnala la Cass. 24 luglio 2013, n. 17965, con la quale la Corte, in considera-
zione delle peculiari caratteristiche della vicenda, ha ritenuto legittima la riqualificazione in un
unitario trasferimento di azienda delle cessioni di singoli beni attuate con distinti negozi giuridici
che si sono succeduti nell’arco temporale di ben tre anni.
116
  Così definita da Cass. 11.06. 2007, n. 13580, in banca dati Fisconline.
117
  Cfr. M. Della Vecchia, P. Stellacci, Elusione dell’imposta di registro: la  cessio­
ne d’azienda c.d. «spezzatino», in Il fisco, 2012, 3095.
328 Giuseppe Corasaniti

ovvero a quella del bene che sconta l’aliquota più elevata). I rilievi, dunque,
consistono generalmente nell’assoggettamento ad imposta di registro delle
operazioni, con conseguente ripresa a tassazione dell’imposta sul valore
aggiunto detratta dal cessionario (cui peraltro non fa seguito l’automatico
riconoscimento del rimborso dell’imposta sul valore aggiunto versata dal
cedente).
Nel secondo caso, invece, il beneficio risiederebbe proprio nell’evitare
l’assoggettamento ad imposta sul valore aggiunto (poiché, ad esempio, il
cessionario non riesce a detrarre detta imposta in tutto o in parte), qua-
lificando l’operazione come conferimento o cessione (di ramo) d’azienda.
L’accertamento determina la conseguente ripresa a tassazione dell’imposta
sul valore aggiunto omessa dal cedente e l’applicazione delle relative san-
zioni (cfr. Cass. 13 maggio 2009 n. 10966), ivi incluse quelle a carico del
cessionario per il mancato assolvimento dell’obbligo di denuncia di cui
all’art. 6 comma 8 del DLgs. 471/1997 (cui peraltro, anche in tal caso, non
fa seguito l’automatico rimborso dell’imposta proporzionale di registro
eventualmente già corrisposta).
Si nota come, procedendo secondo le modalità sopra descritte, l’Ammi-
nistrazione finanziaria non si limiti ad una mera riqualificazione degli atti,
bensì si arroga la facoltà di «invadere» la fattispecie contrattuale, andando
a ridefinire – a prescindere dalla libera volontà delle parti – il perimetro
dell’oggetto del conferimento d’azienda118.
7.3.  «Merger leveraged buy out» e abuso del diritto
Con il termine leveraged buyout (breviter, LBO) viene indicata la tec-
nica di acquisizione di società che fa leva sulle capacità di indebitamento
di queste ultime.
Nella prassi commerciale si registra un progressivo ricorso a questa par-
ticolare forma di fusione, in quanto l’acquisizione del controllo di società
operative attraverso lo schema di LBO può consentire un utilizzo minimo
del capitale di rischio della società acquirente e un massimo impiego di
mezzi finanziari ottenuti a credito da terzi (come investitori privati, inve-
stitori istituzionali, istituzioni finanziarie)119, i quali sono indotti a fornire

118
  In tal senso, una pronuncia, isolata a dire il vero, del Supremo Collegio (Cass. 22 gennaio
2013, n. 1405) con la quale è stato rigettato il ricorso del contribuente attribuendo rilievo diri-
mente ai fini della configurabilità di un’azienda (e del conseguente trattamento applicabile ai fini
dell’imposta di registro) alla mera attitudine potenziale dei beni (terreni edificabili) costituenti
il compendio trasferito ad essere utilizzati per l’esercizio di un’attività d’impresa, prescindendo
radicalmente, quindi, dall’attualità di tale utilizzo.
119
  La cd. tecnica del cash merger è affiancata nella prassi da altre ipotesi quali appunto la
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 329

tali mezzi finanziari in virtù della solidità patrimoniale della società ope-
rativa.
Il LBO, nella forma più diffusa si articola nelle seguenti fasi:
a)  Costituzione di una nuova società (newco o «società veicolo»);
b)  Assunzione di finanziamenti a titolo oneroso presso istituti di cre-
dito o altri soggetti terzi;
c)  Acquisto della partecipazione totalitaria o di controllo nella società
operativa (target);
d)  Costituzione a favore dei finanziatori del diritto di pegno sulla par-
tecipazione acquistata, a garanzia del prestito erogato a tal fine.
Nel rispetto delle disposizioni previste dall’art. 2501-bis c.c., lo schema
di acquisizione prevede in conclusione la fusione tra la società target e la
società acquirente/debitrice (di regola, con l’incorporazione della prima
nella seconda)120.
Ai fini delle imposte sui redditi, il LBO è connotato da riflessi fiscali che
comunemente possono caratterizzare la fusione societaria, quali tra gli altri:
–  L’emersione di differenze di fusione affrancabili mediante il paga-
mento dell’imposta sostitutiva prevista dall’art. 176, comma 2-ter, Tuir121;
–  Il riporto delle perdite pregresse in capo alla società incorporante o
risultante dalla fusione, nel rispetto delle condizioni previste dal comma 7
dell’art. 172 Tuir122.
A tali aspetti se ne aggiunge uno ulteriore, peculiare di questa tipologia
di operazione, rappresentato dalla confluenza in capo alla società acquiren-

tecnica dell’assets for cash, nella quale la società target vede acquisito parte del suo patrimonio.
Tale ultima operazione è tuttavia poco praticata nella prassi, visto anche il disposto dell’art.
2560 c.c., il quale dispone che l’alienante non è liberato dai debiti (anteriori) inerenti all’esercizio
dell’azienda ceduta se non risulta che i creditori vi hanno consentito.
120
  L’operazione può tuttavia concludersi anche mediante la fusione inversa della società
acquirente/debitrice nella società  target, il che in genere accade quando quest’ultima è titolare
di licenze, autorizzazioni, concessioni amministrative  et similia, la cui voltura e reintestazione
a favore della società  newco  o della società risultante dalla fusione potrebbe appalesarsi quale
procedimento lungo e difficoltoso. Cfr. G. Andreani, A. Tubelli, Sono elusive le operazioni di
«merger and leveraged buyout»?, in Corr. trib., 2011, 524.
121
  Come definitivamente chiarito dall’Agenzia delle entrate con la risoluzione 27 aprile
2009, n. 111/E, in banca dati IPSOA BIG Suite (la quale ha superato le indicazioni in preceden-
za fornite con la risoluzione 24 febbraio 2009,  n. 46/E,  ivi), il suddetto regime di imposizione
sostitutiva trova applicazione anche in caso di fusione inversa.
122
  Secondo l’Agenzia delle entrate (cfr. risoluzioni 10 aprile 2008,  n. 143/E; 24 ottobre
2006, n. 116/E, entrambe in banca dati IPSOA BIG Suite) e lo stesso Comitato consultivo per
l’applicazione delle norme antielusive (cfr. parere 19 gennaio 2005, n. 2, ivi), il diritto al riporto
delle perdite pregresse, oltre a passare il vaglio del disposto dell’art. 172, comma 7, Tuir dovreb-
be essere valutato anche alla luce della norma antielusiva generale contenuta nell’art. 37-bis del
D.P.R. 29 settembre 1973. n. 600.
330 Giuseppe Corasaniti

te/incorporante, da un lato, degli oneri finanziari derivanti dall’indebita-


mento acceso dalla società acquirente per l’acquisizione delle partecipazio-
ni e, dall’altro, dei redditi imponibili conseguenti all’esercizio dell’attività
d’impresa della società target.
Alla luce di quanto detto, si evince come attraverso questa particolare
tecnica di fusione, le varie fasi che scandiscono il processo di acquisizione,
compresa la fusione finale, sono collegate da una causa unitaria, rappresen-
tata dall’acquisizione di una società mediante indebitamento utilizzandone
risorse finanziarie per rimborsare il finanziamento acceso.
Le motivazioni economiche, dunque, a giustificazione della necessità di
provvedere alla fusione fra società target e società acquirente, dovrebbero
essere di per sé sufficienti per scongiurare il rischio di eventuali censure da
parte dell’Amministrazione finanziaria in merito alla sussistenza di possi-
bili profili elusivi dell’operazione. A quanto consta, tuttavia, non sempre
l’Agenzia giudica le suindicate motivazioni quali valide ragioni economi-
che; ciò nell’errato presupposto che, nelle fusioni, dette ragioni debbano
necessariamente consistere in procedimenti di ristrutturazione aziendale,
nell’acquisizione di nuove tecnologie e professionalità, e più in generale,
in un riflesso benefico e diretto sul conto economico della società incor-
porante o risultante dalla fusione.
Questa impostazione non tiene conto, però, che la fusione societaria
costituisce in sé lo strumento naturale e fisiologico per assicurare la piena
copertura del fabbisogno finanziario dell’acquisizione, attraverso l’uni-
ficazione dei patrimoni delle società partecipanti123; inoltre, non si tiene
conto che la fusione tra la società target e la società acquirente costituisce
il momento finale di un’operazione più ampia, con la conseguenza che le
ragioni economiche che sorreggono la fusione non possono essere ricercate
isolando tale singola operazione dalle fasi precedenti, ma devono essere
valutate in una prospettiva unitaria.
Uno spunto interessante, in tema di LBO e indici di elusività, si può
cogliere dalla sentenza della Corte di Cassazione del 21 gennaio 2011, n.
1372124, dove il Supremo Collegio ha esaminato i profili elusivi di un’ope-
razione di leveraged buyout, consistenti:

123
  Sulla classificazione delle ragioni di ordine finanziario e patrimoniali quali motivazioni
tipiche della fusione, si veda tra gli altri E. Potito, «Le «valide ragioni economiche» di cui
all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973: considerazioni di un economista d’azienda», in Rass. trib. n.
1/1999, 61.
124
  La sentenza è stata commentata da G. Andreani, A. Tubelli, Sono elusive le operazioni
di «merger leveraged buyout»?, cit., 524; D. Stevanato, Ancora un’accusa di elusione senza
«aggiramento» dello spirito della legge,  cit., 678; R. Rizzardi, Abuso del diritto: svolta della
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 331

a)  nell’acquisto, da parte di una società italiana facente parte di un grup-


po societario, delle partecipazioni di controllo di un’altra società facente
parte del medesimo gruppo, mediante accensione di un finanziamento a
titolo oneroso presso terzi;
b)  nella successiva fusione per incorporazione della società acquistata
nella società acquirente.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, tali operazioni avrebbero integrato una
condotta elusiva intesa alla mera pre-costituzione di oneri finanziari da
portare ad abbattimento del reddito imponibile della società acquirente,
giacché all’unificazione giuridica delle due società si sarebbe potuto per-
venire, più linearmente, mediante una fusione con concambio di parteci-
pazioni tra le due società (facenti entrambe parte del medesimo gruppo),
senza quindi ricorrere al finanziamento a titolo oneroso.
La Suprema Corte ha invece giudicato non elusiva la condotta tenuta
dalla società, prendendo atto che nel caso di specie non si trattava di ope-
razioni finanziarie del tutto fini a se stesse, ma si era in presenza di un
processo di riorganizzazione societaria, che, sebbene privo di un riscontro
positivo immediato sul conto economico dei soggetti partecipanti, era co-
munque finalizzato ad ottenere un miglioramento strutturale e funzionale
alle imprese. Tale risultato ben poteva essere raggiunto tramite la fusione
con concambio ipotizzata dall’Agenzia delle entrate, ma questa soluzione
non si presentava più lineare o diretta rispetto a quella in concreto prescelta
dal contribuente, il quale mantiene la libertà di scegliere, tra le varie forme
giuridiche che alternativamente gli si prospettano, quella che ritiene più
opportuna125.

Corte di cassazione e della Corte di giustizia UE, in Corr. trib., 2011, 663; M. Basilavecchia,
Non sempre sono abusive le scelte negoziali ed organizzative produttive di risparmi d’imposta, in
Riv. giur. trib., 2011, 287. Si rinvia altresì a F. Tundo, Il «merger leveraged buy out» tra valide
ragioni economiche e disposizioni antielusive, in Corr. trib., 2011, 1411.
125
  Cfr. Comm. Trib. regionale della Lombardia, sent. 13 aprile 2011, n. 36, con nota di F.
Tundo, «Merger leveraged buy out» e abuso del diritto: quali strumenti per sindacare l’elusività
di un atto complesso e degli interessi passivi, in Riv. di giur. trib., 2011, 611. L’autore sottolinea
come « la giurisprudenza di merito dimostra di aver recepito i principi di diritto statuiti dalla
Corte di Cassazione con la sent. 21 gennaio 2011, n. 1372. In primo luogo, è ora evidente – e
la Commissione tributaria regionale della Lombardia sembra averlo ben chiaro – che le fusioni
a seguito d’indebitamento non possono più essere considerate quali operazioni frammentate e,
anzi, il sindacato di elusività deve considerare il MLBO quale atto complesso, che vede nell’in-
corporazione finale un passaggio, certamente necessario, non isolato dall’iter  che lo precede.
In secondo luogo, poi, è appena il caso di sottolineare come l’operato dei verificatori debba
necessariamente tenere conto del singolo tipo di MLBO con cui ci si sta confrontando, in modo
da calibrare di conseguenza il giudizio sulle valide ragioni economiche. In terzo luogo, infine,
nonostante l’operazione in questione costituisca un plesso inscindibile, l’Amministrazione dovrà
332 Giuseppe Corasaniti

Tale approdo della giurisprudenza di legittimità, peraltro accolto anche


in sede di giurisprudenza di merito, va salutato con favore, costituendo la
prova della superiore sensibilità raggiunta dalla giurisprudenza. Sarebbe
auspicabile a questo punto che anche l’Amministrazione finanziaria ma-
nifestasse maggiore aderenza al dato reale delle operazioni straordinarie.
La presenza nel nostro ordinamento di singole norme speciali antielusive
(speciali anche con riferimento all’art. 37-bis), impone di azionare gli stru-
menti antiabuso in via razionale: se una disposizione speciale non risul-
ta applicabile perché il contribuente si colloca all’interno della ratio della
norma (eventualmente previa presentazione di istanza di interpello), allora
non sarà ammissibile l’accertamento di quella stessa fattispecie sulla base
dell’art. 37-bis o del principio del divieto di abuso del diritto.
8.  La disapplicazione delle disposizioni antielusive specifiche
Il contribuente può chiedere la disapplicazione delle disposizioni an-
tielusive specifiche attraverso il procedimento previsto dall’art. 37 – bis,
ottavo comma, d.p.r. n. 600/1973. Infatti, secondo quanto statuito dalla
disposizione in parola, «le norme tributarie che, allo scopo di contrastare
comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o
altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario,
possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella par­
ticolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine
il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate
competente per territorio, descrivendo compiutamente l’operazione e indi­
cando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione»126.
Il D.M. 19 giugno 1998, n. 259 (vigente dal 18 agosto 1998), che costi-
tuisce la normativa attuativa di riferimento per la procedura in esame, sta-
bilisce, al comma 1 dell’unico articolo, che l’istanza di disapplicazione deve
essere rivolta al direttore regionale delle entrate (secondo l’attuale organiz-
zazione, al direttore regionale dell’Agenzia delle entrate) competente per

azionare diverse norme antielusive a seconda della frazione che intende sindacare, non risultando
possibile una contestazione di elusività – per così dire – indistinta sulla base dell’art. 37-bis del
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600».
126
  G. Fransoni, Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, cit., 13 ss.
L’Autore, partendo dalla premessa che il contribuente, dando prova della non ricorrenza degli
effetti elusivi, dimostra in concreto l’esistenza di una condotta contrapposta alla definizione di
operazione elusiva prevista dal primo comma dell’art. 37-bis, rileva che anche fra le norme an-
tielusive speciali e la norma antielusiva semigenerale esiste (rectius deve esistere) un «concorso»
risolto sulla base del principio di specialità. Da ciò ne deriva che la procedura di interpello disap-
plicativo ha senso solo se, ottenuta la disapplicazione della norma antielusiva speciale, il contri-
buente è al riparo dal rischio di un accertamento sulla base della norma antielusiva semigenerale.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 333

territorio ed è spedita, a mezzo del servizio postale, in plico raccomandato


con avviso di ricevimento, all’Ufficio finanziario competente per l’accerta-
mento in ragione del domicilio fiscale del contribuente. Tale Ufficio deve
trasmettere al direttore regionale l’istanza, unitamente al proprio parere,
entro trenta giorni dalla ricezione.
Il contribuente deve descrivere compiutamente nell’istanza la fattispecie
concreta per la quale ritiene non applicabili le disposizioni normative che
limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni sogget-
tive altrimenti ammessi dall’ordinamento tributario.
All’istanza deve essere inoltre allegata copia della documentazione, con
relativo elenco, rilevante ai fini dell’individuazione e della qualificazione
della fattispecie prospettata.
Le determinazioni del direttore regionale relative all’istanza sono co-
municate al contribuente mediante servizio postale, in plico raccomanda-
to con avviso di ricevimento. Si tratta qui di «determinazioni» precedenti
all’emanazione del provvedimento, il quale – secondo quanto stabilito dal
comma 6 – deve essere comunicato al contribuente non oltre 90 giorni dalla
presentazione dell’istanza e assume carattere «definitivo».
L’istanza di disapplicazione s’intende presentata all’atto della ricezio-
ne del plico raccomandato da parte dell’Ufficio competente per l’accerta-
mento, mentre le comunicazioni relative all’istanza e le eventuali richieste
istruttorie s’intendono eseguite al momento della ricezione del plico racco-
mandato da parte del destinatario. Le richieste istruttorie rivolte al contri-
buente o a soggetti diversi sospendono il termine normativamente stabilito
(di 90 giorni, come si diceva) per l’emanazione del provvedimento fino al
giorno di ricezione della risposta127, e al contribuente medesimo deve essere
data comunicazione delle richieste istruttorie rivolte ad altri soggetti (ad
esempio, a Uffici pubblici).
Per quanto concerne l’eventuale obbligatorietà o facoltatività circa la
proposizione della domanda di interpello disapplicativo, la giurisprudenza
di legittimità128 ha avuto modo di porre l’accento sulla libertà e facoltà che
residuano in capo al contribuente, atteso che la domanda predetta non è
prevista quale elemento indispensabile per conseguire l’effetto della non
operatività di puntuali norme antielusive.

127
  Si tratta pertanto di una semplice «sospensione», nella quale il conteggio dei giorni in
attesa del termine riprende dopo la ricezione del materiale richiesto (diversamente da quanto
accade nell’interpello ordinario ex art. 11 della legge n. 212/2000, nel quale il termine riprende
a decorrere «da capo» a seguito della richiesta istruttoria, potendo giungere fino a 240 giorni).
128
  Cfr. Cass. 15.07.2014, n. 16183, con nota di F. Pistolesi, La non obbligatorietà dell’inter­
pello disapplicativo, in Corr. trib., 2014, 2932 ss.
334 Giuseppe Corasaniti

L’interpello disapplicativo, infatti, ha quale finalità principale quella di


orientare la condotta di chi ritenga di trovarsi nella condizione prevista
dall’art. 37-bis, comma 8, citato, ossia di chi reputi che, nel caso che lo
riguarda, gli effetti elusivi della norma di cui viene invocata l’inapplicabilità
«non potevano verificarsi».
La risposta dell’Amministrazione fonda il legittimo affidamento del
contribuente, derivandone, nel caso in cui il contribuente si conformi alla
risposta ricevuta, la preclusione di sottrarsi all’indicazione fornita. Pertan-
to, la risposta fornita dall’Amministrazione finanziaria sarà vincolante solo
per quest’ultima, ben potendo il richiedente, invece, disattenderla qualora
non la condivida e altresì disapplicare il precetto antielusivo senza ricorrere
all’interpello.
Si rileva, inoltre, che l’Agenzia delle Entrate ha chiarito129 che qualora
il contribuente disapplichi la norma antielusiva senza previamente presen-
tare domanda di interpello, subirà la medesima contestazione impositiva e
sanzionatoria, salvo l’irrogazione della sanzione da euro 258 a euro 2065,
prevista dall’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 471/1997, di colui che parimenti
ha disatteso tale norma dopo aver visto rigettato l’interpello. Entrambi,
inoltre, non incorreranno in alcuna preclusione processuale, una volta che
sia stato incardinato il giudizio.
Con riguardo alla mancata risposta all’istanza di disapplicazione, si se-
gnala che non è espressamente previsto il cd. silenzio – assenso come lo è
invece nell’interpello ordinario ex art. 11, l. n. 212/00. In dottrina, tuttavia,
si afferma che la risposta positiva e anche il silenzio – assenso rendono
non applicabile la disposizione antielusiva130, affermando implicitamente
che, anche con riferimento all’istanza di disapplicazione, opererebbe il cd.
silenzio – assenso131.
Con riguardo all’impugnabilità dell’eventuale risposta negativa all’istan-
za di disapplicazione, si possono evidenziare diverse posizioni. In dot-
trina, un parere negativo è stato espresso facendo leva sul carattere non
vincolante della risposta, per il contribuente ed altresì per il giudice132. In
questa prospettiva la tutela del contribuente viene differita al momento
dell’eventuale emanazione di un avviso di accertamento. Altra dottrina ha
espresso un parere maggiormente favorevole alla impugnabilità della rispo-

129
  Cfr. Circ. Agenzia delle Entrate 2 febbraio 2007, n. 5.
130
  In tal senso Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, cit., 389.
131
  Favorevole al silenzio – assenso anche G. Fransoni, Efficacia ed impugnabilità degli in­
terpelli fiscali con particolare riguardo all’interpello disapplicativo, in Maisto (a cura di), Elusione
e abuso del diritto, in Quaderni della rivista di diritto tributario, 2009, 105.
132
  Cfr. F. Pistolesi, Gli interpelli tributari, Milano, 2007, 100.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 335

sta. L’Amministrazione finanziaria, invece, si è espressa133 nel senso della


non impugnabilità delle risposte rese in sede d’interpello, facendo leva sulla
natura della risposta, che sarebbe quella di atto amministrativo non prov-
vedimentale. La tutela, secondo l’Agenzia, viene differita fino al momento
dell’emanazione di un atto impugnabile ex art. 19, d.lgs. n. 546/1992.
Sul punto, il Supremo Collegio a Sezioni Unite134 ha sostenuto, di re-
cente, la possibilità che venga accordata al contribuente una «tutela antici-
pata» , con riferimento al responso negativo a seguito di presentazione di
interpello disapplicativo di norme antielusive, in quanto la risposta negativa
predetto, è atto idoneo ad incidere immediatamente nella sfera giuridica del
destinatario. Tale pronuncia prende le mosse dalla considerazione che «(…)
la natura tassativa, e quindi soggetta ad interpretazione rigorosa dell’elen­
cazione degli atti contenuta nel citato d.lgs. n. 546 del 1992, art. 19, con il
correlato onere di impugnazione a pena di cristallizzazione della pretesa in
essi contenuta, non comporta, tuttavia, che l’impugnazione di atti diversi da
quelli ivi specificamente indicati sia in ogni caso da ritenere inammissibile».
Più precisamente, residua in capo al contribuente la facoltà di ricorrere
avverso qualsivoglia atto, ovvero pronuncia di rigetto, che porti a cono-
scenza del contribuente medesimo una «ben individuata pretesa tributaria»,
senza che sia necessario che la stessa «si vesta della forma autoritativa» di
uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 del d.lgs. n.
546/1992135. Ciò che, in altre parole, viene valorizzato dalla giurisprudenza
di legittimità citata, attiene il profilo dell’interesse ad agire che residua in
capo al contribuente, in quanto l’interesse predetto non si configurerebbe
solo ove vi sia la notifica di uno degli atti di cui all’art. 19 cit. , ma tutte le
volte in cui, genericamente, l’Ufficio eserciti il proprio potere impositivo.
Si segnala, tuttavia, che la descritta ipotesi di «tutela anticipata» che viene
accordata al contribuente nella ipotesi sopra esemplificata rappresenta una
facoltà e non un obbligo, sicché il caso di mancato esercizio non determina
alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la
pretesa in un secondo momento, quando cioè essa risulti cristallizzata in
uno degli atti espressamente elencati dal legislatore nell’art. 19, d.lgs. n.
546/1992.
Da ultimo, mette conto segnalare che una parte della dottrina136 ha
sottolineato come, concretamente, i casi di disapplicazione ai sensi del

133
  V. Circ. Agenzia delle Entrate 3 marzo 2009, n. 7.
134
  Cfr. Cass., SS. UU., 18.02.2014, n. 3773, in banca dati Fisconline.
135
  In questi termini v. Cass. 5.10.2012, n. 17010, in banca dati Fisconline.
136
  Cfr. M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, cit., 39.
336 Giuseppe Corasaniti

menzionato comma 8 siano poco frequenti. Tale scarsa utilizzazione di


una disposizione all’apparenza «dirompente» sul piano sistematico trova
giustificazione in considerazioni sia di matrice giuridica che di matrice psi-
cologica.
Sul versante giuridico, è evidente che l’applicazione del comma 8 dell’art.
37-bis, d.p.r. n. 600/1973, richiede certezza circa la natura di disposizione
«correttiva» con funzione antielusiva, derivandone, in capo all’Ammini-
strazione finanziaria, il delicato onere di accertare la natura della dispo-
sizione per la quale il contribuente invoca la disapplicazione. Ma tale
accertamento richiede capacità di orientamento in un sistema fiscale che
ormai ha assunto dimensioni spropositate e che è connotato da ipertrofica
produzione normativa.
Da quanto detto, ne consegue che il problema centrale attiene al con-
vincimento dell’Amministrazione finanziaria circa il carattere di norme
«correttive» da attribuire alle disposizioni per le quali il contribuente ha
presentato istanza di disapplicazione.
Inoltre, non si deve trascurare l’impatto psicologico della disposi-
zione che contempla l’interpello disapplicativo. A prescindere dal fatto
che la richiesta di disapplicazione non è vincolante per l’Amministrazio-
ne, si deve pur valutare come la presentazione di tale istanza si traduca
nell’enunciazione di fattispecie che magari il contribuente vuol mante-
nere riservate.
Quanto alle prospettive future in tema di interpelli, si rileva, brevemen-
te, che il legislatore, attraverso la l. n. 23/2014 (cd. «delega fiscale»), ha de-
mandato al Governo il compito di provvedere ad una «revisione generale»
degli interpelli, «anche ai fini della tutela giurisdizionale e di una maggiore
tempestività nella redazione dei pareri»137.
Sul punto, l’art. 6 della legge delega individua alcuni criteri direttivi
chiari per il Governo, segnatamente: i) omogeneità della disciplina degli
interpelli; ii) efficienza del relativo assetto; iii) eliminazione delle fattispecie
di interpello obbligatorio che siano fonti di «aggravi» per il privato e per
l’Amministrazione finanziaria.
Per quel che qui rileva, si auspica che il legislatore delegato, in ossequio
agli obiettivi di semplificazione e razionalizzazione, provveda ad unifica-
re sotto un’unica forma l’interpello  antielusivo, che dovrebbe avere, sia
funzione disapplicativa che funzione interpretativa, rendendolo valido per
tutte le fattispecie antielusive generali (elusione e abuso del diritto) e speci-

137
  Per un’analisi più approfondita si veda, F. Pistolesi, Dalla delega fiscale più omogeneità
ed efficienza per gli interpelli, in Corr. trib., 2014, 1836.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 337

fiche (ad esempio quelle contemplate in materia di paradisi fiscali dagli artt.


110 e 167 Tuir.)138.
9.  Abuso del diritto e fattispecie sanzionabile
Vi è un’ultima questione, assai spinosa, che rende problematica la di-
scussione intorno all’abuso del diritto: è sanzionabile la violazione del di-
vieto d’abuso?139
La Corte di Giustizia UE, con la sent. 21 febbraio 2006, causa C-255/02
(caso Halifax) ha ritenuto non sanzionabile in via amministrativa il com-
portamento connotato da abuso perché privo di «un fondamento chiaro
ed univoco», non trovando, tuttavia, tale pronuncia un riscontro diretto
nella giurisprudenza di legittimità interna.
La Corte di Cassazione, infatti, modificando il suo precedente orien-
tamento140, ha finito per applicare la disposizione dell’art. 1, comma 2, del
d.lgs. n. 471 del 1997 alle sole fattispecie connotate da abuso, per così dire,
codificate, che , sempre per la Corte, integrerebbero ipotesi di dichiara-
zione infedele, ossia di dichiarazione nella quale l’imponibile o l’imposta
liquidata è inferiore a quella dovuta in seguito ad accertamento141.
Per quanto riguarda le sanzioni penali, la Suprema Corte ha ritenuto
che esse siano applicabili in forza degli artt. 1 e 16 del d.lgs. n. 74 del 2000
solo, però, se il fatto censurato è tra quelli indicati nell’art. 37-bis d.p.r. n.
600 del 1973, se rientra, cioè, in una delle fattispecie lì richiamate142.

138
  Cfr. A. Tomassini, Riordino degli interpelli: un’occasione da non perdere, in Corr. trib.,
2014, 1380 ss.
139
  Sul tema dell’applicazione delle sanzioni amministrative e penali si segnalano: A. Gian-
nelli, Sanzione ed elusione fiscale: considerazioni a margine del recente orientamento della Corte
di Cassazione, in Riv. Trim. dir. trib., 2014, 121 ss.; G. Marini, Note in tema di elusione fiscale,
abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Riv. Trim. dir. trib., 2013, 325
ss.; E. De Mita, I confini dell’abuso del diritto e della rilevanza penale dei comportamenti elusivi,
in Corr. trib., 2012, 2509 ss.; A. Contrino, Sull’ondivaga giurisprudenza in tema di applicabilità
delle sanzioni amministrative tributarie nei casi di «elusione codificata» e di «abuso/elusione», in
Riv. dir. trib., 2012, I, 261 ss.
140
  Cfr. Cass., 25 maggio 2009, n. 12042. Il Supremo Collegio ha chiarito, in questa pronun-
cia, che nel caso di violazione di un principio di ordine generale come l’abuso del diritto non
possono trovare applicazione le sanzioni essendo in presenza di obiettive condizioni di incertezza
sulla portata della norma sanzionatoria. Sul punto, A. Marcheselli, Elusione e sanzioni: un’in­
compatibilità logico giuridica, in Corr. trib., 2009, 1988; M. Beghin, L’abuso del diritto nell’im­
posta di registro e il problema della «selezione» negoziale degli elementi costituendi l’azienda, in
Il fisco, 2009, 5326; V. Ficari, Principio di collaborazione e buona fede, disapplicazione delle san­
zioni amministrative tributarie ed abuso del diritto nelle imposte sul redditi, in Il fisco, 2009, 5319.
141
  Cfr. Cass., 30 novembre 2011, n. 25537, con nota di M. Nussi, Elusione fiscale «codificata»
e sanzioni amministrative, in Riv. giur. trib., 2012, 1936.
142
  Cfr. Cass., 28 febbraio 2012, n. 7739, con nota di M. Basilavecchia, Quando l’elusione
338 Giuseppe Corasaniti

La dottrina, con qualche rara eccezione143, è largamente contraria alla


posizione giurisprudenziale144.
Èopportuno, in premessa, segnalare che tradizionalmente la questione
concernente i rapporti tra elusione ed illecito amministrativo tributario è
stata affrontata dalla dottrina avendo riguardo alla natura dell’art. 37 – bis,
d.p.r. n. 600/1973.
La tesi favorevole all’applicabilità delle sanzioni è fondata sul carattere
sostanziale della norma, la quale richiederebbe al contribuente di tenere
conto, sin dal momento della redazione della dichiarazione, del quadro
giuridico complessivo e lo vincolerebbe alla sua osservanza, non limitando-
si ad attribuire all’Amministrazione finanziaria poteri da esercitare nell’am-
bito del procedimento di imposizione, ma stabilendo veri e propri obblighi
di contribuzione ex artt. 2 e 53 Cost145. L’art. 37 – bis, d.p.r. n. 600/1973
concorrerebbe quindi all’individuazione della portata effettiva della norma-
tiva impositiva elusa, rendendola applicabile a fattispecie formalmente non
riconducibili al suo ambito operativo.
L’orientamento contrario all’irrogabilità delle sanzioni amministrative
attribuisce all’art. 37-bis, d.p.r. n. 600/1973 natura procedimentale, trovan-
do esso applicazione esclusivamente in sede di controllo. In base a questa
seconda concezione, il disconoscimento dell’indebito vantaggio fiscale –
con conseguente prelievo del tributo dovuto – deriverebbe dal controllo
effettuato dall’Amministrazione finanziaria; l’elusione, non implicando
l’infedeltà della dichiarazione, non potrebbe dar luogo all’irrogazione del-
la relativa sanzione146.

costituisce reato, in Riv. giur. trib., 2012, 381; Cass. 23 maggio 2013, n. 19100; Cass. 9 settembre
2013, n. 36894.
143
  Cfr. F. Gallo, Rilevanza penale dell’elusione tributaria, in Rass. trib., 2001, 321 ss.; C.
Attardi, Elusione fiscale, abuso del diritto e sanzioni tributarie, in Il fisco, 2011, 212 ss; L. Del
Federico, Elusione tributaria codificata e sanzioni amministrative, in Giust. Trib., 2007, 283 ss;
M. Montanari, Elusione fiscale senza sanzione?, in Giur. It., 2002, 2433 ss.
144
  Negano la sanzionabilità: G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, cit., 226; G. M.
Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quale rilevanza penale?, in Giur. Comm., 2011, 465
ss.; A. Carinci, Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministra­
tive, in Dir. prat. trib., 2012, 785 ss.
145
  Cfr. F. Gallo, Rilevanza penale del’elusione tributaria, cit., 327.
146
  Sul punto, si veda M. Basilavecchia, Quando l’elusione costituisce reato, cit., 381. L’A.
critica la tesi della natura sostanziale dell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973. Prendendo le mos-
se, infatti, dall’indubbio dato testuale, e dalla collocazione certo non arbitraria della norma tra
quelle attributive di poteri all’Amministrazione finanziaria, non risulta condivisibile l’idea che
allo stesso contribuente che ha scelto delle soluzioni negoziali trasparenti e palesi venga chiesto
di rinnegarle in sede di adempimenti fiscali: il superamento della soglia di tollerabilità della
pianificazione fiscale può allora costituire oggetto di rettifica ex post da parte del Fisco, e con il
recupero della maggiore imposta viene trovato un equilibrio che, pur essendo già molto gravoso
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 339

Invero, oltre alla dicotomia tra norma sostanziale e norma procedimen-


tale, si segnala un ulteriore orientamento, secondo cui l’art. 37-bis, d.p.r.
n. 600/1973 costituirebbe norma sull’interpretazione: nell’ipotesi di defini-
zione della fattispecie imponibile mediante elencazione meramente esem-
plificativa, opererebbe, «a completamento dell’impiego (autorizzato) del
ragionamento analogico, (…) una clausola antielusiva (essa pure fondata
sull’analogia) per scoraggiare i comportamenti che dovessero essere escogi-
tati per approfittare dei varchi lasciati aperti dalle previsioni legislative»147.
Il predetto orientamento prende le mosse dalla constatazione che il bi-
nomio «norme sostanziali – norme procedimentali» non può esaurire l’in-
tero universo della formazione giuridica, in particolare non può ammettersi
che se una norma non è procedimentale, è sostanziale, e viceversa148.
Vi è, in dottrina149, chi, invece, individua nell’art. 37 – bis, d.p.r. n.
600/1973 una norma la cui natura è al contempo sostanziale e procedi-
mentale.
Secondo tale orientamento, dall’analisi della disposizione si evince come
l’insieme dei primi tre commi, incluso l’ottavo comma, racchiuda una nor-
ma attributiva di poteri. Ed una norma che attribuisce dei poteri non po-
trebbe essere una norma procedimentale ma di diritto sostanziale. Gli altri
commi sono procedimentali, perché regolano le modalità di esercizio dello
speciale potere impositivo definito nei primi tre commi.
In altri termini, non sarebbe corretto chiedersi se l’art. 37-bis abbia
natura sostanziale o procedimentale e ciò per l’ovvio motivo che l’articolo
predetto sarebbe da considerare un enunciato «complesso».
Nell’art. 37-bis vi è dunque una particolare conformazione del pote-
re impositivo. L’Amministrazione finanziaria può agire considerando a sé
inopponibile il negozio con la conseguente applicazione della norma elusa,
anche se non è stata realizzata la fattispecie prevista dalla norma elusa.
Pertanto, l’Amministrazione finanziaria, in virtù del secondo comma
dell’art. 37-bis, detiene uno speciale potere impositivo, ovverosia quello

per il contribuente, non postula un irragionevole obbligo dichiarativo avulso dagli effetti giuridici
degli atti posti in essere.
147
  G. Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola immanen­
te al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, cit., 293.
148
  Cfr. G. Falsitta, Natura delle disposizioni contenenti «norme per l’interpretazione di
norme» e l’art. 37-bis sull’interpretazione analogica o antielusiva, in Riv. dir. trib., 2010, I, 519
ss. Secondo l’A., il comma 1 dell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973 è disposizione che racchiude
una norma sussumibile sotto la categoria di appartenenza degli artt. 12, 13, 14 delle «disposizioni
sulla legge in generale» (le così dette preleggi). Si tratterebbe, pertanto, di norma che disciplina
l’attività d’interpretazione delle norme tributarie.
149
  F. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, cit., 683.
340 Giuseppe Corasaniti

di poter tassare un atto che non è stato posto in essere, ma un «dover


essere»; non lo schema negoziale posto in essere, ma quello adeguato alla
realtà economica150.
È un potere speciale, esercitabile, in quanto tale, solo nelle ipotesi pre-
viste dallo stesso art. 37-bis, non nelle fattispecie ritenute elusive in base
alla clausola generale inespressa.
Ne deriva che gli avvisi emessi in base all’art. 37-bis non sono dun-
que espressione dell’ordinario potere impositivo; non sono atti impo-
sitivi «antievasivi», e non presuppongono la violazione dell’obbligo di
dichiarazione. L’art. 37-bis delineerebbe una forma particolare di potere
impositivo, perché, ferme restando le imposte dovute sul comportamen-
to effettivamente posto in essere, l’Amministrazione può imporre il pa-
gamento di un quid supplementare, pari alla differenza tra la maggiore
imposta dovuta in base ad un comportamento che doveva essere e non
è stato posto in essere e le imposte dovute sul comportamento effettiva-
mente realizzato151. Sembrerebbe più che evidente il valore costitutivo di
simili atti impositivi152.
Sulla scorta di tali orientamenti, infatti, sono state mosse convincenti
repliche alla posizione giurisprudenziale partendo dall’assunto che la disci-
plina contenuta nell’art. 37-bis d.p.r. n. 600/1973, ad eccezione di quanto
previsto dall’ultimo comma, non sarebbe destinata al contribuente e non
sarebbe fonte di obblighi tributari (di dichiarazione e di versamento), dei
quali possa contestarsi la violazione. Piuttosto, la disciplina in questione è
dedicata all’Amministrazione finanziaria, cui consente entro limiti precisi

150
  Come scrive S. La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto,
cit., 788, si tratta di fare applicazione di una norma la cui fattispecie non si è in realtà verificata,
in luogo di quella regolatrice del fatto che si è storicamente verificato.
151
  È quel che avviene, ad esempio, in tema di scissione con conferimento alla beneficiaria
di immobili della scissa, seguita dalla cessione delle quote di partecipazione nella beneficiaria
detenute dalla scissa, quando l’Amministrazione finanziaria tassa la plusvalenza che sarebbe stata
realizzata se l’immobile fosse stato ceduto dalla scissa alla beneficiaria. Nel caso esaminato da
Cass., 10 giugno 2011,  n. 12788, con nota di A. Lovisolo, Il contrasto all’interposizione «ge­
storia» nelle operazioni effettive e reali, ma prive di valide ragioni economiche, cit., 2011, 869,
sull’imputazione del reddito nel caso di interposto reale privo di autonoma funzione economica,
l’Amministrazione finanziaria aveva imputato ad una società italiana, che vendeva dei beni ad una
società svizzera, che a sua volta li vendeva ad una società tedesca, redditi realizzati dalla società
svizzera (interposta reale). L’Amministrazione finanziaria aveva richiamato l’art. 37, 3° comma,
d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, considerato applicabile, oltre che all’interposizione fittizia, anche
a quella reale; era un caso, invece, di applicazione di imposta elusa, ex art. 37-bis, 2° comma (ma
non ricorreva nessuna delle ipotesi di cui al comma 3°).
152
  Tuttavia G. Fransoni, Appunti su abuso del diritto e «valide ragioni economiche, cit., 941,
ne tenta un inquadramento in chiave dichiarativa.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 341

un singolare giudizio comparativo tra norme in tutto o in parte config-


genti, finalizzato all’individuazione di quella che pare più aderente al caso
concreto.
Ma qualora si riferisse pure al contribuente la disciplina in esame, come
sembra fare la giurisprudenza ed i sostenitori della natura sostanziale
dell’art. 37-bis, mancherebbe, in ogni caso, quella compiuta disciplina del-
le fattispecie (impositive) sanzionatorie, che possa giustificare la punizione
del contribuente. Infatti, se è vero che la violazione, di cui all’art. 1, comma
2, del d.lgs. n. 471/1997 è parametrata alla differenza tra quanto dichiarato
e quanto accertato, per la sua irrogazione occorrerebbe prima di tutto che
si violasse un obbligo di dichiarazione: il che in presenza di condotte elu-
sive non si verifica, non potendosi concepire un obbligo di dichiarazione
che riguardi componenti reddituali ipotetiche, derivanti cioè da fatti non
avvenuti o diversi da quelli avvenuti, che il contribuente sarebbe chiamato
a ricostruire nel rispetto dello «spirito» della norma, anche se in contrasto
con il suo significato palese153. Inoltre, è verosimile che difetti l’elemento
soggettivo di un eventuale illecito e, in ogni caso, sussisterebbe l’esimente
delle «obiettive condizioni d’incertezza sulla portata e sull’ambito di ap-
plicazione della norma tributaria», di cui all’art. 10, comma 2, dello Sta-
tuto dei diritti dei contribuenti, (ma anche all’art. 8 del d.lgs. n. 546/1992
e all’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 472/1997)154. Insomma, la distinzione
giuridica tra i fenomeni dell’elusione e dell’evasione, che è presente nel
sistema (e che sembra mantenuta dalla delega, che vuole la «revisione delle
disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto
dell’abuso del diritto») diventerebbe priva di significato se si assoggettas-
sero entrambi al medesimo trattamento giuridico.
Interessante appare il ragionamento di autorevole dottrina155 alla luce del
quale, invece, qualsiasi comportamento connotato da abuso possa sempre
generare fattispecie sanzionabili, sia in via penale, sia in via amministrativa.

153
  Cfr. A. Guidara, Sulla sanzionabilità delle condotte elusive nel quadro della nuova legge
delega, in Riv. dir. trib., 2014, 425.
154
  A tal proposito, S. La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del
diritto, cit., 799. L’Autore sottolinea come vi è la necessità si stabilire quale sia il «tipo» di an-
tielusione che può dirsi recepito nell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973. Se si parte dall’assunto
che alla disapplicazione antielusiva debba far seguito l’applicazione della disciplina risultante
dalle norme eluse (disapplicazione «ordinamentale»), malgrado non se ne siano verificati i pre-
supposti di fatto, si giunge all’automatica conseguenza, considerato che le clausole antielusive
vanno ad incidere su vere e proprie antinomie, che i risvolti sanzionatori dei comportamenti dei
contribuenti dovrebbero trovare il loro naturale referente normativo nell’esimente dell’obiettiva
incertezza delle regole.
155
  Cfr. A. Giovannini, Il Diritto tributario per principi, Milano, 2014, 133 ss.
342 Giuseppe Corasaniti

Ciò che si punirebbe, allo stato attuale della legislazione, sarebbe, infatti,
non il comportamento abusivo in quanto tale o l’abuso in sé, ma l’infedeltà
della dichiarazione come fattispecie conseguente ad una condotta artificio-
sa contraria alle regole che informano la buona fede in senso oggettivo.
Tale orientamento prende le mosse dalla constatazione che di abuso si
deve parlare quando atti od operazioni complesse, pur esattamente corri-
spondenti al contenuto di una situazione soggettiva e di un precetto nor-
mativo, sono determinati per perseguire un interesse proprio dell’agente in
spregio a quello oggettivo del creditore, interesse il cui rispetto costituisce
limite esterno alle libertà giuridiche individuali, comprese le libertà econo-
miche e d’impresa.
Agganciare il concetto di abuso, per un verso, a situazioni soggettive
espresse in atti e negozi e all’interesse in concreto perseguito dal contri-
buente, e, per un altro verso, al diritto potenziale del creditore erariale,
significa raggiungere due obiettivi. Il primo: legittimare l’inopponibilità
all’Amministrazione degli effetti giuridici di quei negozi, senza vanificarne
gli effetti privatistici. Il secondo: legare il concetto di divieto di abuso a
quello di buona fede in senso oggettivo, principio, quest’ultimo, che è con-
sacrato nell’art. 10 della legge n. 212/2000. Dunque, buona fede oggettiva e
abuso avrebbero la medesima connotazione: entrambe le nozioni si caratte-
rizzano per esigere una valutazione bilaterale. Se impongono di valutare gli
interessi del privato alla realizzazione di interessi suoi propri che lo hanno
indotto ad utilizzare specifici atti o negozi, al contempo esigono che sia
accertato il diritto del creditore alla realizzazione della pretesa secondo la
sua reale configurazione.
Ma il principio della buona fede oggettiva introduce un elemento ulte-
riore: la correttezza della condotta. L’abuso del diritto, pertanto, si traduce
in un comportamento artificioso, contrario alle regole che lo dovrebbero
informare seguendo quelle della buona fede in senso oggettivo. Il divieto
di abuso sarebbe regola di condotta, il cui perno è la buona fede oggettiva.
In altri termini, l’abuso connota un comportamento artificioso o in-
teso a raggirare la legge; comportamento che, come tale, si differenzia da
quelli, pure illegali, ma semplicemente sottrattivi della materia imponibile.
A differenza dell’abuso, l’evasione è il risultato che accomuna tutti questi
comportamenti, siano essi riconducibili alla violazione della buona fede
oggettiva e quindi del divieto di abuso, siano essi riportabili a «semplice»
sottrazione di imponibile. La distinzione tra abuso ed altre forme di rispar-
mio illegale di imposta, insomma, non risiede nel risultato, ossia nell’eva-
sione, ma nelle condotte.
Dunque, se la disposizione sanzionatoria che s’intende applicare ha
come suo elemento costitutivo l’evasione dell’imponibile o dell’imposta,
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 343

senza specificazioni ulteriori sui fatti ad essa prodromici, la disposizione


stessa è suscettibile senz’altro di ricomprendere anche l’evasione determi-
nata da un comportamento non meramente sottrattivo, ma abusivo.
Ne deriva che, secondo questa linea di pensiero, i fatti integranti la
condotta d’abuso, come tutti gli altri fatti prodromici alla dichiarazione,
sono attratti nell’orbita normativa solo indirettamente, come antecedenti
all’infedeltà e dunque come fatti che vengono in considerazione al limitato
fine di accertare la realizzazione degli elementi oggettivi del reato (esistenza
di comportamenti attivi di reddito non dichiarato o componenti passive
fittizie dichiarate) e le condizioni della sua punibilità (ammontare dell’im-
posta non dichiarata e ammontare di quegli elementi attivi o passivi non
dichiarati o dichiarati fittiziamente).
Tale autorevole orientamento dottrinale, tuttavia, non è allineato a
quanto statuito dalla Suprema Corte in alcune recenti pronunce, ovve-
rosia: soltanto l’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973 soddisfa i requisiti
di determinatezza e tassatività e, dunque, soltanto le fattispecie ad esso
riconducibili sono sanzionabili156.
Sul punto, altra autorevole dottrina157, ponendosi in antitesi con l’Au-
tore da ultimo citato, ha rilevato come, sul piano sanzionatorio, l’evasio-
ne e l’elusione sono state spesso accomunate e sottoposte al medesimo
trattamento a causa di un evidente mancanza di punti di riferimento, tal
per cui si sono radicate singolari teorie sul «diretto accesso giurispruden-
ziale ai principi158», capaci di giustificare la tassazione di fatti economici
mai realizzati dal contribuente. Secondo la citata dottrina, al fine di com-
prendere se l’elusione è sanzionabile, quantomeno in via amministrativa,
occorre preliminarmente stabilire quale rapporto intercorre tra elusione e
dichiarazione e, segnatamente, se le regole in tema di elusione assumano
connotati sostanziali oppure attengano al mero procedimento, vale a dire
alle modalità di azione dell’Agenzia delle Entrate.
Ebbene, qualora si affermi che la disposizione sull’elusione è di tipo so-

156
  Cfr. A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, cit., 135. L’A. critica l’orientamento
giurisprudenziale sostenendo che, al fine di soddisfare i requisiti di determinatezza e tassatività,
si finisce per fondare una discriminazione tra comportamenti – quelli riconducibili all’art. 37-bis
e quelli estranei a questa disposizione – alcuni dei quali soltanto punibili, quando, invece, tutti
sono ugualmente caratterizzati dalla violazione del canone della buona fede oggettiva e dallo
scopo sostanzialmente evasivo, compresi, appunto, i comportamenti «codificati», che lo sono in
forza di una norma speciale d’interpretazione del principio generale.
157
  M. Beghin, Elusione fiscale, abuso del diritto e profili sanzionatori, in Boll. trib., 2015,
805 ss.
158
  M. Cicala, Attività di accertamento e contraddittorio amministrativo: verso un nuovo
intervento delle sezioni unite, in Boll. trib., 2015, 86 ss.
344 Giuseppe Corasaniti

stanziale, dovrebbe automaticamente ammettersi che l’elusione è, di fatto,


formalizzata nella dichiarazione. In altri termini, il carattere sostanziale si
tradurrebbe in un obbligo per il contribuente di immettere nella propria
dichiarazione i risultati economico – giuridici scaturenti dall’operazione
elusa, applicando non già le disposizioni che si riferiscano all’operazione
elusiva, bensì quelle riferibili, per l’appunto, all’operazione che è stata ag-
girata.
Di contro, qualora si affermi che la regola sull’elusione è riconducibile
al comparto delle disposizioni procedimentali, e riferibile, pertanto, all’at-
tività dell’Amministrazione finanziaria, si potrebbe immaginare un con-
testo nel quale la dichiarazione rimane fedele, anche se, parallelamente, il
Fisco interviene per contestare l’inopponibilità dei vantaggi fiscali. Non
vi sarebbe, in tale ultimo caso, una vera rettifica della dichiarazione, ma
una semplice contestazione di vantaggi sistematici che non possono essere
riconosciuti al contribuente.
Orbene, secondo la tesi della dottrina da ultimo citata pur avendo
l’elusione una connotazione prettamente procedimentale, ciò non fun-
gerebbe da ostacolo ad ammettere l’esistenza di avvisi di accertamento
che non sono funzionali alla rettifica della dichiarazione. A tal riguar-
do, è possibile distinguere tra accertamenti diretti alla rettifica della di-
chiarazione, in quanto correlati a fattispecie di evasione, e accertamen-
ti che, invece, non rettificando alcuna posta, si limitano a dichiarare
inopponibili al Fisco un determinato vantaggio tributario. Questi ulti-
mi provvedimenti sarebbero compatibili, secondo l’Autore, con una di-
chiarazione fedele e sarebbero produttivi di effetti soltanto in punto di
inopponibilità del risparmio d’imposta sistematico conseguito dall’elu-
sore.
Non essendovi, pertanto, un collegamento tra elusione e infedeltà di-
chiarativa, non dovrebbero tantomeno prevedersi sanzioni tributarie e pe-
nali, perlomeno fino a quando non rimarrà in vigore la Carta costituzionale
e, segnatamente, il principio della riserva di legge. In virtù di tale princi-
pio, a maggior ragione, non dovrebbero trovare applicazione le sanzioni
amministrative e penali nei casi di abuso del diritto il quale consiste in un
prodotto giurisprudenziale volto a contrastare fattispecie che, nel momen-
to in cui sono stati formulati i provvedimenti impositivi, non avrebbero
potuto essere affrontate attraverso la disposizione sull’elusione. Nei casi
di abuso del diritto, prevedere l’irrogazione di sanzioni amministrative o
penali, significherebbe, secondo l’Autore, violare il principio di legalità in
quanto non si può essere puniti sulla base di principi immanenti; serve,
invece, una disposizione che indichi sia il fatto illecito, sia la sanzione da
applicare a tale fatto.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 345

10.  Il divieto dell’abuso di diritto nella legge delega n. 23 del 2014: i


criteri definitori della condotta abusiva e il conseguimento di un van-
taggio fiscale indebito come causa prevalente dell’operazione abusiva
Con l’approvazione della legge delega fiscale159 n. 23 del 2014, il Parla-
mento ha dato il via libera ad una rivisitazione del vigente sistema impo-
sitivo, al fine di renderlo «più equo, trasparente ed orientato alla crescita».
La delega non è destinata ad introdurre una radicale riforma del nostro
sistema impositivo, trattandosi, piuttosto, di un’opera di «manutenzione
straordinaria», volta ad affrontare quei profili che si è ritenuto necessitas-
sero di un aggiustamento, per restituire equità e certezza di rapporti tra
Amministrazione finanziaria e contribuente.
In tale ambito, si inserisce l’art. 5 della legge delega160 (rubricato «Disci-
plina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale»), il quale contiene i criteri
direttivi del Parlamento per la futura formazione del principio generale
dell’abuso del diritto161.
In particolare, alla lett. a), prevede che la condotta abusiva sia definita
«come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica
disposizione». E alla lett. b), al fine di «garantire la libertà di scelta del
contribuente tra diverse operazioni comportanti un diverso carico fiscale»,
prescrive di «considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come
causa prevalente dell’operazione abusiva» e di «escludere la configurabilità
di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata
da ragioni extrafiscali non marginali»162.
Sul punto, si nota come l’intento del legislatore di procedere alla co-
dificazione del principio del divieto di abuso del diritto è dettato dal
susseguirsi di variegati orientamenti giurisprudenziali sul tema che han-
no ingenerato elementi di forte incertezza operativa e, comunque, una

159
  Cfr. legge 11 marzo 2014,  n. 23, recante disposizioni per un sistema fiscale più equo,
trasparente e orientato alla crescita.
160
  Cfr. F. Gallo, Brevi considerazioni sulla definizione di abuso del diritto e sul nuovo
regime del c.d. adempimento collaborativo, in Dir. prat. trib., 2014, I, 6, 947 ss.
161
  Si veda E. Altieri, La codificazione di una clausola generale antielusiva: giunga o wild
west?, in Rass. trib., 2014, 521 ss.
162
  Cfr. A. Giovannini, La delega unifica elusione ed abuso del diritto: nozione e conseguen­
ze, in Corr. trib., 2014, 1827. L’ A. sottolinea come l’art. 5 della legge delega tende a disciplinare la
ripartizione dell’onere della prova conformemente all’art. 2697 c.c. e alla collocazione strutturale
delle ragioni economiche in seno alla condotta; per un altro verso declina «le valide ragioni eco-
nomiche» nella normale logica di mercato. Inoltre, l’art. 5 amplia l’oggetto della prova rimessa al
contribuente, qualificando alla stregua di cause giustificative dell’operazione anche ragioni prive
di rilievo economico.
346 Giuseppe Corasaniti

sua applicazione non sempre uniforme. L’ambiguo confine tratteggiato


dal Supremo Collegio tra abuso e legittimo risparmio d’imposta ha co-
stituito un potenziale fattore di disincentivo all’iniziativa economica: è,
infatti, insegnamento elementare nella teoria micro – economica quello
per cui la vaghezza del quadro di riferimento normativo condiziona, in
senso restrittivo, le scelte degli operatori economici, essendo, questi, av-
versi al rischio.
Dunque, ormai da tempo, si avverte l’esigenza di una previsione nor-
mativa generale del principio anti abuso, collegata alla richiesta di garan-
zie procedimentali quantomeno allineate a quelle previste dalla disciplina
positiva (i.e., art. 37 bis del d.p.r. n. 600/1973) per il connesso principio
anti-elusione.
In tal senso, l’art. 5 della legge delega ha colmato un vuoto di disciplina,
assecondando conformi sollecitazioni di fonte comunitaria163, nonché le
istanze di certezza giuridica provenienti dal mondo produttivo.
Ciò che però occorre sottolineare è che il ricorso, nella costruzione
della clausola generale, alla fattispecie di matrice giurisprudenziale crea una
serie di dubbi in fase di attuazione, posto che i suoi contorni sono a tratti
decisamente fumosi164.
Infatti, non risulta per nulla agevole decifrare la nozione di «utiliz-
zo distorto», al quale è in massima misura affidata la connotazione della
condotta. Incerta è poi la relazione tra ragioni fiscali e ragioni extrafiscali
della condotta. Da un lato si afferma che l’abuso si configura se le prime
prevalgono sulle seconde. Dall’altro si esclude l’abuso laddove le seconde
appaiano non marginali.
Nell’incipit della norma, si rileva, a conferma dell’indirizzo interpreta-
tivo consolidatosi negli anni, che l’abuso del diritto costituisce una cate-

163
  Cfr. Raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressi-
va n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012. Qui la condotta abusiva si connota sia per essere priva
di sostanza economica sia per essere posta in essere essenzialmente per ottenere un risparmio
d’imposta. Lo scopo di ottenere un risparmio d’imposta deve risultare essenziale nella decisione
di realizzare la manovra, nel senso che «qualsiasi altra finalità che è o potrebbe essere attribu­
ita alla costruzione o alla serie di costruzioni sembri per lo più irrilevante alla luce di tutte le
circostanze del caso». La Raccomandazione lascia dunque aperta la porta alla possibilità che la
condotta priva di sostanza economica sia stata comunque posta in essere per finalità extrafiscali,
o anche per finalità extrafiscali, e ravvisa l’abuso non quando la finalità di risparmio d’imposta
appaia prevalente su queste ulteriori finalità, ma quando esse appaiono «irrilevanti», e dunque
marginali, inconsistenti, pretestuose rispetto alla finalità di risparmio d’imposta.
164
  G. Zizzo, L’abuso del diritto tra incertezze della delega e raccomandazioni europee, in
Corr. trib., 2014, 2997: G. Zizzo, La giurisprudenza in materia di abuso ed elusione nelle imposte
sul reddito, in Corr. trib., 2012, 1019; G. Zizzo, Gli obiettivi della riforma e la clausola generale
per il contrasto all’abuso del diritto, in Corr. Trib., 2012, 2848.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 347

goria generale rispetto all’elusione, cui è legato da una relazione di genus


e species.
Quanto ai contenuti, la delega definisce l’abuso del diritto in termini
conformi a quelli emersi nella giurisprudenza del Supremo Collegio, in-
dicando, altresì, taluni criteri definitori del confine tra abuso del diritto e
legittimo risparmio d’imposta, sul presupposto che la libertà di iniziativa
economica non possa essere condizionata fino al punto di imporre al con-
tribuente di scegliere l’operazione commerciale che reca il maggior carico
fiscale.
Inoltre, l’art. 5 prevede che la «causa prevalente» dell’operazione co-
stituisce elemento cruciale di giudizio: in presenza di «non marginali»
ragioni extra-fiscali165 si ha legittimo risparmio d’imposta, con tali in-
tendendo «anche quelle che non necessariamente producono una reddi-
tività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura
organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale
dell’azienda».
Pertanto, alla luce anche delle indicazioni comunitarie, si deve chiarire,
in primo luogo che la nozione di «utilizzo distorto» di strumenti giuridici
alla quale si riferisce nell’art. 5 non può essere fatta coincidere con quella
di utilizzo degli stessi per fini di risparmio d’imposta. Semmai va correlata
alla «artificiosità» di cui alla Raccomandazione della Commissione europea
sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012,
e quindi intesa come utilizzo di strumenti giuridici non accompagnato dal-
la creazione di sostanza economica.
In secondo luogo, si deve escludere la necessità di instaurare un giudi-
zio di prevalenza166 tra finalità di matrice extrafiscale e finalità di matrice
fiscale, preferendo il criterio direttivo secondo cui l’abuso è escluso «se

165
  Cfr. S. La Rosa, Abuso del diritto ed elusione fiscale: differenze ed interferenze, in Dir.
prat. trib., I, 4, 2012, 707 ss. L’A. precisa che l’espressione «ragioni economiche extrafiscali non
marginali» sembra che finisca con l’attrarre nell’area delle condotte abusive tutti i comportamenti
che risultano unicamente dettati dal fine (esclusivamente fiscale) del risparmio di imposte, se
caratterizzati dal ricorso ad un uso anomalo o «distorto» degli strumenti giuridici (si pensi all’ac-
quisto di una villa a fini residenziali tramite una società appositamente costituita o alla cessione di
diritti di usufrutto al coniuge per beneficiare dei minori livelli impositivi ai quali essa è soggetta).
Il pericolo è, secondo l’Autore, che alla fine finirà col prevalere il riconoscimento del non potersi
di per sé considerare «distorto» l’uso degli strumenti giuridici a meri fini di risparmio d’imposta;
e quindi anche con il pervenirsi ad una sostanziale vanificazione del tentativo di procedere alla
formalizzazione del concetto delle condotte fiscalmente «abusive».
166
  Sul punto M. Procopio, La poco convincente riforma dell’abuso del diritto ed i dubbi di
legittimità costituzionale, cit., 759, il quale sottolinea che se verrà codificato il concetto di «pre-
valenza» si incorrerà nel rischio di attribuire agli organi di controllo dell’Amministrazione finan-
ziaria un inconcepibile potere discrezionale stante l’ampia latitudine dell’avverbio «prevalente».
348 Giuseppe Corasaniti

l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extrafiscali non


marginali».
In terzo luogo, non basta riscontrare la presenza di un risparmio d’im-
posta, ma occorre che la sua appropriazione sia contraria alla ratio della
disposizione applicata o di quella che sarebbe altrimenti applicabile.
In altri termini, sarebbe stato necessario che il legislatore delegato
avesse chiarito meglio il ruolo chiave che spetta alla connotazione come
«indebito» del risparmio d’imposta. Nella lettera a) dell’art. 5 della leg-
ge delega, il «risparmio d’imposta» non è accompagnato dalla necessaria
specifica della sua natura «indebita», essenziale nell’economia della nor-
ma. Il carattere «indebito» del vantaggio fiscale viene invece richiamato
nella lettera b), disposizione che da un lato, in positivo, richiede che lo
scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali assurga al rango di causa pre-
valente dell’operazione e dall’altro, in negativo, esclude la natura abusi-
va laddove le scelte imprenditoriali siano connotate, da «ragioni fiscali
non marginali». Ne deriva che ponendo sullo stesso piano, foss’anche
esclusivamente formale, la natura indebita del risparmio e le valide ra-
gioni economiche rischiano di riproporre (o, quantomeno, di non risol-
vere) l’equivoco in cui è caduta l’interpretazione giurisprudenziale degli
ultimi anni167.
Una domanda ricorrente riguarda, peraltro, la sorte dei fatti, degli atti
e delle operazioni che hanno «accompagnato» il comportamento dei par-
tecipanti all’operazione successivamente risultata abusiva.
Situazioni del genere reclamano, sul versante fiscale, una sistemazione,
considerato che la legge delega non fa alcun accenno. Dunque, dovrà es-
sere il decreto delegato a prevedere non solo la riproposizione della regola
prevista dall’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973, laddove si specifica che i
soggetti « possono richiedere il rimborso delle imposte pagate a seguito dei
comportamenti disconosciuti dall’amministrazione finanziaria», ma anche
una disciplina specifica attraverso la quale il rimborso può (e deve) essere
conseguito168.

167
  Cfr. A. Manzitti, M. Fanni, Abuso ed elusione nell’attuazione della delega fiscale: un
appello perché prevalgano la ragione e il diritto, in Corr. trib., 2014, 1140. Gli Autori sostengono
che il denunciato vizio è ancor più grave se si riflette sul fatto che nell’art. 5 la «condotta abusiva»
è definita come «uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta».
Se, infatti, è abuso l’uso distorto di uno strumento giuridico, dovrebbe esistere una norma che
definisca qual è l’uso «non distorto» dello stesso.
168
  T. Lamedica, Abuso del diritto ed elusione: disciplina unificata, in Corr. trib., 2014, 1429,
chiarisce che la disciplina di carattere generale contenuta nell’art. 38 del d.p.r. n. 602/1973, non
sarebbe sufficiente a tal proposito,
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 349

10.1.  I profili procedimentali tra contraddittorio preventivo e nullità


dell’accertamento per carenza di motivazione
Le novità più importanti previste della delega, però, attengono ai profili
procedimentali, in particolare:
a)  la fissazione dell’onus probandi a carico dell’Amministrazione finan-
ziaria, in relazione alla dimostrazione del disegno abusivo169;
b)  l’obbligo – a pena di nullità – di  motivare  l’accertamento  fisca-
le mediante la puntuale individuazione delle ragioni di «abusività» della
condotta;c) la necessità di forme preventive di contraddittorio, che consen-
tano al contribuente di evitare il contenzioso, dimostrando, sin da subito, le
valide ragioni extra-fiscali («non marginali») delle operazioni contestate170.
Tuttavia, nonostante la chiarezza delle previsioni di cui sopra è possibile
sottolineare taluni profili di criticità che rischiano concretamente di mani-
festarsi in sede di applicazione.
In primo luogo, se si guarda alla «storia» dell’attuale disposizione antie-
lusiva, la motivazione ivi prevista è stata vanificata da una giurisprudenza
assai permissiva nel valutare il rigore, spesso carente, del collegamento logi-
co esistente tra presupposti di fatto e ragioni giuridiche alla base della con-
testazione o, ancora, nel valutare la completezza delle ricostruzioni operate
dagli enti impositori in relazione, ad esempio, alla natura «indebita» del
risparmio d’imposta.
In secondo luogo, occorrerebbe chiedersi come conciliare l’obbligo di
motivazione dell’accertamento e la garanzia di un contraddittorio efficace
con la recente giurisprudenza che, proprio con riferimento all’abuso, ha
affermato il potere di rilevarlo in via «officiosa» in ogni stato e grado171.

169
  Cfr. T. Lamedica, Abuso del diritto ed elusione: disciplina unificata, cit., 2014, 1429. L’A.
sottolinea come la legge delega ha posto sulle spalle dell’Amministrazione finanziaria di due
grossi macigni: da un lato, l’onere di provare il disegno abusivo, nonché la mancata conformità
a una normale logica di mercato e, dall’altro, la puntuale individuazione della condotta abusiva
nella motivazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso. In altre
parole, l’Amministrazione finanziaria dovrà darsi carico di mettere insieme le singole condotte
ritenute abusive per una necessaria comparazione – quantitativamente soddisfacente – di quanto
rappresentato dalle singole operazioni che hanno portato all’abuso del diritto. E il tutto deve es-
sere messo per iscritto, analiticamente,nella motivazione che costituirà la base dell’accertamento.
170
  Cfr. A. Giovannini, La delega unifica elusione ed abuso del diritto: nozione e conse­
guenze, cit., 2014, 1827. L’Autore sottolinea come l’art. 5 non specifica se il provvedimento
d’accertamento emanato in assenza di preventivo contraddittorio si debba considerare invalido o
inesistente. La mancanza di una previsione espressa improntata al principio di tipicità della nullità
e della tassatività dei vizi che la determinano, rischierebbe di determinare la nullità, non come
invalidità assoluta o inesistenza dell’avviso di accertamento, ma potrebbe dar luogo ad un’ipotesi
di annullabilità ai sensi del comma 2 dell’art. 21 – octies della legge n. 241/1990.
171
  Cfr., per tutte, Cass. 20.05.2013, n. 12282. Sul punto v., fra gli altri, A. Poddighe, Abuso
350 Giuseppe Corasaniti

Più precisamente, la giurisprudenza di legittimità172 si è spinta sino ad


affermare che il giudice tributario potrebbe rilevare d’ufficio l’abuso del
diritto in ogni stato e grado del procedimento atteso che il concetto di
«inopponibilità» di negozi e operazioni all’Amministrazione finanziaria è
riferibile solo all’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973 e non ad una «regola ge­
nerale evincibile da precetti costituzionali». Seguendo questo ordine di idee,
siccome tale inopponibilità è prevista dall’art. 37-bis, se manca il riferimen-
to esplicito a quella, nella motivazione accertativa, il giudice tributario, in
qualunque stato e grado del processo, non può supplire all’irrimediabile
carenza (violativa di legge), consumata dall’Ufficio accertatore sul piano
del contraddittorio endoprocedimentale.
A tal riguardo, autorevole dottrina173, ha sottolineato che non esiste,
nell’ordinamento processuale, una regola che attribuisce al giudice il po-
tere di rilevare d’ufficio un elemento costitutivo della domanda, perché
ciò significherebbe accogliere una domanda diversa da quella proposta.
In sostanza, il giudice può sempre rilevare d’ufficio le eccezioni, in tutti i
casi in cui non via sia una norma espressa che lo escluda, riservandola alle
parti. Tale regola è desunta, a contrario, dall’art. 112 c.p.c., secondo cui
il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere
proposte soltanto dalle parti. In altre parole, il giudice non può respinge-
re un ricorso contro un avviso di accertamento basandosi ex officio sulla
«eccezione» che la pretesa fiscale, se non è fondata sulla violazione di un
obbligo di dichiarazione (evasione), è comunque fondata perché il com-
portamento del contribuente è elusivo, o abusivo. Se la «ragione giuridica»

del diritto e contraddittorio processuale, in Rass. trib., 2009, 1830 ss.; G. Fransoni, Preclusioni
processuali, rilevabilità d’ufficio e giusto processo, in Corr. trib., 2013, 449. Si veda, inoltre, A.
Giovannini, La delega unifica elusione e abuso del diritto: nozione e conseguenze, cit., 1827, il
quale ammette la rilevazione in giudizio dell’abuso in forza dell’art. 113 c.p.c., in quanto trat-
tandosi di una norma giuridica in senso proprio deve essere vista come «regola di giudizio».
172
  Cfr. Cass. 4.04.2014, n. 7961, con nota di F. Giuliani – S.Scalini, Abuso del diritto contro
elusione nel procedimento e nel processo tributari, in Boll. trib., 2014, 1262. Il ragionamento viene
svoloto dal Supremo Collegio avendo riguardo ad un caso in cui ad una società veniva notificato
un avviso di accertamento, motivato con la sola menzione dell’art. 39 del d.p.r. n. 600/1973. Solo
nel corso del secondo grado di giudizio, l’Ufficio accertatore contestava l’elusività delle opera-
zioni poste in essere dalla società contribuente, in violazione dell’art. 37-bis d.p.r. n. 600/1973,
senza che però fossero state precedentemente rispettate le garanzie procedurali a favore del con-
tribuente, previste dalla disposizione normativa de qua. In sostanza, il Supremo Collegio, oltre a
chiarire che un avviso di accertamento, se non motivato espressamente con la menzione dell’art.
37-bis, non possa essere riqualificato antielusivo dall’Agenzia delle Entrate, chiarisce anche che
nel caso di specie nemmeno una rilevabilità d’ufficio da parte del giudice sarebbe possibile, a
differenza dell’abuso del diritto.
173
  Cfr. F. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, cit., 2012, I, 683.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 351

posta a fondamento dell’avviso impugnato non è la clausola antielusiva, il


giudice non può dotare l’avviso di accertamento di una ragione giuridica
diversa (antielusiva), e respingere in base a tale diversa «ragione giuridica»
il ricorso del contribuente174. Il giudice non può insomma rilevare d’ufficio
(facendo la parte dell’amministrazione) una «ragione giuridica», che non
sia stata posta a base dell’avviso di accertamento, perché ciò significa pro-
nunciarsi su una domanda diversa da quella proposta175.
Sembrerebbe, sostanzialmente, che le garanzie procedimentali auspicate
dalla delega non hanno impedito alla giurisprudenza delle Corti di creare
un proprio sistema extra – normativo di regole di valutazione e censura dei
comportamenti elusivi. E ciò nonostante l’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973
dimostri la massima sensibilità nel tutelare «a pena di nullità» la mancata
osservanza delle regole e tutele procedimentali ivi previste176.
Tuttavia, per quanto attiene l’importanza del contraddittorio endopro-
cedimentale, la storica sentenza n. 19667 del 2014177 delle SS. UU della

174
  F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 197. L’A. sottolinea che vi
sono dei criteri identificativi della domanda, a cui il giudice deve attenersi (ex art. 112 c.p.c.)
anche nei processi d’impugnazione, come il processo amministrativo e tributario; tra i criteri
identificativi della domanda sono compresi il presupposto d’imposta e la norma impositiva, in-
dicati nella motivazione dell’atto impugnato. Il giudice tributario deve muoversi insomma entro
questo perimetro, segnato dalla motivazione dell’atto impugnato e dai motivi del ricorso, come
del resto ripetutamente affermato dalla Cassazione (ex multis, Cass. 20.10.2011, n. 21719).
175
  Perciò la tesi secondo cui il giudice può rilevare e applicare d’ufficio la clausola generale
antielusiva non è in linea con i principi che governano il processo tributario e, ancor prima, con
l’obbligo della motivazione degli atti impositivi, che debbono precisamente indicare, secondo le
norme che li regolano, i presupposti di fatto e le considerazioni di diritto posti a fondamento
della pretesa. Così M. Cantillo, Profili processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note
sulla rilevabilità d’ufficio, in Rass. trib., 2009, 475, che aggiunge: «L’oggetto del giudizio è deli­
mitato, anche con riguardo ai poteri cognitivi e decisionali del giudice, appunto dalle allegazioni
addotte nell’atto impositivo dell’Amministrazione e dai motivi del ricorso del contribuente, non
essendo consentito alle parti introdurre fatti ed elementi diversi da quelli enunciati (come sanci­
scono gli  artt. 7  e  24  del d.lgs. n. 546/1992). Inoltre, il negozio ritenuto elusivo non è nullo ma
inopponibile all’amministrazione; non si discute, in pratica, di un contratto ex se invalido, bensì
della sua inefficacia nei confronti dell’Amministrazione, in quanto qualificabile come abuso; e ciò
significa che l’illiceità del comportamento deve essere espressamente dedotta con l’atto impositivo
a fondamento della pretesa tributaria. Non è dunque applicabile l’art. 1421 cod. civ».
176
  Sul punto, A. Manzitti, M. Fanni, Abuso ed elusione nell’attuazione della delega fiscale:
un appello perché prevalgano la ragione e il diritto, cit., 1140. Gli Autori rilevano che: «emerge
dall’analisi giurisprudenziale una volontà, sorprendente, che non è quella di estendere le garanzie
previste dall’ art. 37-bis alle altre fattispecie di abuso di matrice giurisprudenziale (a) per identità
della finalità di tutela che vi sono sottese, (b) perché soluzione costituzionalmente orientata ex art.
117 Cost. alla luce della giurisprudenza comunitaria in materia di diritto al procedimento, e (c)
perché principio accolto nella legge delega seppur ancora non approvata, ma quella, contraria, di
parificare le situazioni in peius, eliminando le tutele e le garanzie ove previste».
177
  Cfr. Corte di Giustizia UE, 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13.
352 Giuseppe Corasaniti

Corte di Cassazione ha spazzato via gli ultimi dubbi, affermando che il


contraddittorio va applicato a tutti i procedimenti amministrativi, e che, se
esso non viene effettuato, l’avviso di accertamento è nullo, perché l’avviso
di accertamento è espressione di un potere sovrano che va esercitato in
modo partecipato, per consentire il diritto di difesa e imporre un’adeguata
istruttoria.
Da tale pronuncia si traggono una serie di utili corollari.
In primo luogo, l’obbligo di rispettare il diritto al contraddittorio e
attuare il dovere di integrare l’istruttoria sentendo il contribuente grava
sulle Agenzie fiscali.
In secondo luogo, poiché il citato diritto è espressione di un diritto
riconosciuto a livello comunitario, il giudice ha il potere ed il dovere di
accertarne l’eventuale violazione, eventualmente anche disapplicando le
norme interne in contrasto.
In terzo luogo, per quel che qui rileva, l’orientamento della Suprema
Corte che ha ritenuto non applicabile il contraddittorio in materia di abuso
del diritto, siccome non espressamente previsto, a differenza che nelle ipo-
tesi di elusione codificata ex art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973, sarà destinato
ad essere definitivamente abbandonato178. Tuttavia, di recente le Sezione
Unite della Corte di Cassazione hanno superato l’orientamento giurispru-
denziale del 2014 statuendo che, differentemente dal diritto dell’Unione
Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo
all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento
lesivo dei diritti del contribuente in assenza di specifica prescrizione, un
generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportan-
te, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue pertanto che,
in tema di tributi «non armonizzati», l’obbligo dell’Amministrazione di
attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto,
sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbli-
go risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi «armonizzati»,
avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione
dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Ammi-
nistrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità
dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in
concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio

178
  Cfr. A. Marcheselli, Il contraddittorio deve precedere ogni provvedimento tributario,
in Corr. trib., 2014, 3019 ss. L’A. sottolinea che non è illegittima la norma che prevede il con-
traddittorio, ma quella che non lo prevede; è il contraddittorio ad essere conforme ai principi
fondamentali e non viceversa.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 353

fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni si


riveli non puramente pretestuosa179.
10.2.  La sanzionabilità della condotta abusiva nella legge delega
Un risvolto interessante della «revisione delle vigenti disposizioni an-
tielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso
del diritto», di cui all’art. 5, è costituito dal problema della sanzionabilità
amministrativa e penale delle condotte elusive ed abusive.
Si deve, infatti, constatare come circa l’applicabilità di sanzioni alle con-
dotte in esame l’art. 5 della legge delega non chiarisca alcunché.
La norma mira essenzialmente a definire la condotta abusiva, indivi-
duarne le conseguenze sul piano sostanziale e metterne in evidenza i profili
procedimentali e processuali180.
Non vi sono, pertanto, all’interno della legge delega degli elementi che
depongano nel senso dell’applicazione delle sanzioni amministrative alle
condotte elusive.
In primo luogo, risalta come l’art. 5, comma 1, escluda la contrarietà alla
legge della condotta abusiva: così espressamente il primo criterio della de-
lega ove si prescrive al legislatore delegato di «definire la condotta abusiva
come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifi-
ca disposizione»181. In altre parole, è abbastanza evidente che sulla scorta
di quanto previsto dalla legge delega le condotte elusive non contrastano
con alcuna disposizione normativa, non sono cioè illecite; l’esigenza di
una disciplina specifica per l’elusione, comprensiva di una clausola gene-
rale antiabuso, dimostrano la diversità ontologica e giuridica dell’elusione
dall’evasione fiscale, che si traduce nella liceità/non illiceità della prima a
differenza di quanto accade per la seconda.

179
  Cfr. Cass., SS.UU., 9 dicembre 2015, n. 24823.
180
  A. Guidara, Sulla sanzionabilità delle condotte elusive nel quadro della nuova legge
delega, cit., 415 ss. L’A. sottolinea come analoga constatazione deve farsi circa la raccomanda-
zione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva del 6 dicembre 2012, cui
l’art. 5 rinvia. Anche in questo caso, infatti, la raccomandazione si limita a definire le condotte
abusive e le possibili conseguenze sul piano sostanziale; per altro verso procede ad una serie di
specificazioni (circa la nozione di costruzione, la sua qualificazione come artificiosa, il fine di
eludere le imposte, la presenza di un vantaggio fiscale).
181
  Sulle conseguenze negative della sovrapposizione, giurisprudenziale, dei piani dell’evasio-
ne e dell’elusione fiscale si vedano le puntuali osservazioni di S. La Rosa, Ancora sugli incerti
confini tra abuso del diritto, elusione ed illecito fiscale, in Riv. dir. trib., 2012, II, 353 ss. Tale
sovrapposizione, poi, viene spesso in essere in forza della regola, anch’essa di affermazione giu-
risprudenziale, della rilevabilità ex officio della violazione del divieto di abuso del diritto.
354 Giuseppe Corasaniti

In secondo luogo, l’art. 5 è chiaro nell’individuare la reazione prevista


nel caso di elusione/abuso: disconoscere o ignorare le conseguenze fisca-
li favorevoli e rideterminare il carico tributario secondo le norme eluse,
ovvero fare riferimento alla «sostanza economica» delle costruzioni poste
in essere e per questa via comporre il contrasto di tali costruzioni con
«l’obiettivo, lo spirito e la finalità delle disposizioni fiscali che sarebbero
altrimenti applicabili»182.
La descritta reazione dell’ordinamento giuridico naturalmente penalizza
il contribuente, che perde o non consegue il vantaggio fiscale.
Essa potrebbe essere considerata una vera e propria sanzione183 che l’or-
dinamento ammette, per la quale, poi, manca una previsione di legge che
legittimi l’applicazione (anche) delle sanzioni ordinarie184.
Un ulteriore profilo critico rinvenibile nella delega è quello afferente la
rilevanza penale dell’abuso del diritto. L’unico passaggio della delega nella
quale si scorge un residuo accenno di soluzione al problema è contenuto
nell’art. 8, laddove si afferma la necessità di «individuazione dei confini tra
le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale».
Nonostante la vaghezza del riferimento, sembrerebbe avvertirsi, tutta-
via, la consapevolezza da parte del legislatore delegante, dell’esistenza di
una gradazione di colpevolezza tra le condotte che integrano l’evasione e
quelle che implicano l’elusione/abuso del diritto.

182
  È una reazione piuttosto forte, visto che i fatti che vi danno causa sono leciti, che viene,
però, temperata dalla consapevolezza che le discipline tributarie possono presentare imperfezioni,
smagliature, ossia dalla consapevolezza che vi è una concausa pubblica al verificarsi di siffatte
erosioni. In tal senso S. La Rosa, Elusione ed antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto,
cit., 791 ss, riferisce di una «fisiologica patologia» delle moderne discipline tributarie:«le quali
sono sempre più minuziose, articolate, analitiche, asistematiche, sotto la spinta sia di certezza
sui comportamenti da tenere che di aderenza delle discipline fiscali alle sempre più diversificate
forme dei fenomeni economico-giuridici che s’intendono colpire; ma con ciò stesso moltiplica-
no le strade che i contribuenti possono percorrere nella ricerca delle soluzioni fiscalmente più
convenienti per le loro iniziative; e diventano quindi esse stesse motivo di successivi interventi
normativi, volti a sbarrare le strade che, benché percorribili, vengono poi dal legislatore consi-
derate troppo vantaggiose per i contribuenti, e quindi elusive».
183
  Talvolta si qualificano tali sanzioni come «improprie» o «indirette», si veda, in tal senso,
ex multis, L. Del Federico, Sanzioni improprie e imposizione tributaria, in Aa.Vv., Diritto
tributario e Corte Costituzionale, a cura di Perrone e Berliri, Napoli, 2006, 529 ss.
184
  A. Guidara, Sulla sanzionabilità delle condotte elusive nel quadro della nuova legge
delega, cit., 434. L’A. sottolinea come nel diritto tributario, accanto alle sanzioni pecuniarie e a
quelle accessorie afferenti al d.lgs. n. 472/1997, comunemente note come sanzioni amministra-
tive o sanzioni amministrative tributarie, si profilano altre sanzioni, pur sempre tributarie. Esse
sono evidentemente speciali, hanno dei contenuti variabili e presentano delle discipline spesso
singolari. Ad esempio, vanno considerate quali sanzioni speciali gli aumenti – ex art. 13, commi
3 bis e 6, d.p.r. 115/2012, – del contributo unificato qualora si ometta la dichiarazione del codice
fiscale, del fax e della PEC, ma anche del valore della lite.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 355

Inoltre, non si potrebbe riferire la parola «confini» anche alle «conse-


guenze sanzionatorie», e per questa via trarre il risultato che tale criterio
presupponga un’indistinta punibilità dei fatti di elusione e di quelli di eva-
sione. Piuttosto, dal punto di vista grammaticale e sintattico le «conse-
guenze sanzionatorie» vanno riferite alla «individuazione», ossia il testo va
letto nel senso che si manda al governo anche «l’individuazione delle con-
seguenze sanzionatorie», oltre che la distinzione tra elusione ed evasione;
e così si spiegherebbero, pur nell’ambito di una formulazione non proprio
felice, correlazioni e differenze circa preposizioni usate, loro caratteristiche
e complementi dell’enunciato.
Invero, vi è chi, d’altra parte, ritiene che la lettura del combinato di-
sposto degli artt. 5 e 8 della legge delega possa orientare, in qualche modo,
nella ricerca di una soluzione ragionevole al problema.
Tale ragionamento prende le mosse da una preliminare e necessaria di-
stinzione che occorre fare fra elusione, abuso ed evasione.
L’elusione, infatti, non potrebbe essere considerata una categoria che
risponda compiutamente al diritto, piuttosto deve essere guardata come
categoria economica, esaurente la propria utilità sul piano della descrizione
della fattispecie.
Per il diritto la categoria che verrebbe in considerazione è l’abuso per-
ché sarebbe solo la violazione del divieto che determina conseguenze giu-
ridicamente rilevanti: l’abuso, dunque, come condotta contraria alle regole
della buona fede oggettiva, come comportamento artificioso lesivo del di-
ritto del creditore erariale, volto ad ottenere, come finalità prevalente, un
vantaggio fiscale185.
L’evasione, di conseguenza, sarebbe apprezzabile per il diritto come
evento, in quanto scolpisce il risultato di quel comportamento sul duplice
piano della sottrazione o occultamento di materia imponibile e del «rispar-
mio» d’imposta, come specificato dall’art. 1, lett. f), del d.lgs. n. 74/2000.
Data questa fondamentale distinzione, se si considera la disposizione
sanzionatoria che s’intende applicare è di evento, ovvero ha come suo
elemento costitutivo l’evasione, senza alcuna specificazione circa i fatti
prodromici, anche l’evasione determinata da un comportamento abusivo
sarebbe suscettibile di esservi ricompresa. E, l’eventuale contestazione
fondata sull’asserita violazione, operando in tal senso, dei principi di
tassatività e determinatezza delle norme sanzionatorie e della loro in-
terpretazione, potrebbe essere superata sostenendo la non necessarietà
della individuazione «casistica» delle modalità di realizzazione del pre-

  Cfr. A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, cit., 133 ss.


185
356 Giuseppe Corasaniti

giudizio del bene giuridico tutelato precedenti a quelle che determina-


no l’infedeltà della dichiarazione; né si potrebbe ammettere che chi tie-
ne comportamenti abusivi non conosca ormai la rimproverabilità della
condotta per contrasto con una norma giuridica impeditiva e non possa
prevederne gli effetti.
In definitiva, secondo tale dottrina, il non prevedere la sanzionabilità
del divieto di abuso, atteso che si tratta di comportamenti connotati da
disvalore e pregiudizialità nei confronti dello Stato, equivarrebbe a ledere
i principi di ragionevolezza e proporzionalità della reazione ordinamentale
rispetto al disvalore del fatto (artt. 3 e 27 Cost.); inoltre, l’eventuale esclu-
sione della sanzionabilità penale ed amministrativa del divieto di abuso,
non sarebbe giustificata nemmeno da un’interpretazione della determina-
tezza (art. 25 Cost.) intesa come vincolo di individuazione «casistica» dei
comportamenti prodromici all’evento.
Tuttavia, d’altro lato, se è vero che la giurisprudenza di legittimità si è
più volte espressa in termini d’irrilevanza penal-tributaria dell’abuso del
diritto186, non essendo sanzionabile la violazione di un principio generale,
è anche vero, sulla scorta delle considerazioni svolte, che l’emanazione di
una disciplina positiva del divieto anti-abuso rende palesemente precario
l’indirizzo giurisprudenziale segnalato, eliminandone il fondamento moti-
vazionale.
In altri termini, sarebbe possibile sostenere la non sanzionabilità dei
comportamenti elusivi/abusi solo leggendo fra le pieghe della legge delega,
ovverosia partendo dalla constatazione che le norme elusive concernono
comportamenti leciti, i quali non possono essere puniti con sanzioni che
conseguono a specifiche violazioni di legge.
Ed ancora emerge che, poiché l’ordinamento esprime comunque un di-
svalore giuridico nei confronti degli stessi fatti, la reazione è qualificabile
pur sempre come una sanzione, appunto speciale, che, in difetto di con-
traria indicazione normativa, deve ritenersi incompatibile con le sanzioni
ordinarie (quelle afferenti al d.lgs. 472/1997).
Sembrerebbe, dunque, come la delega fiscale, nella sua indeterminatezza
e a volte nella sua ambiguità, sia passibile di molteplici letture ed interpre-
tazioni dalle quali si traggono orientamenti contrastanti tra loro. È que-
sto, forse, l’elemento distintivo della l. n. 23/2014 in materia di abuso del
diritto: ovverosia, essere un prodotto legislativo risultante da una corposa

186
  Cfr. Cass., Sez. II pen., n. 7739/2012, con nota di P. M. Corso, Una elusiva sentenza della
Corte di Cassazione sulla rilevanza penale dell’elusione, in Corr. trib., 2012, 1074; cfr., altresì,
Cass., n. 25537/2011 e n. 2234/2013.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 357

operazione di assemblaggio degli orientamenti giurisprudenziali, contra-


stanti anch’essi, susseguitisi negli ultimi anni187.

11.  Il decreto delegato n. 128 del 2015: gli elementi costitutivi della
fattispecie abusiva
Da ultimo, il 1 ottobre 2015 è entrato in vigore l’art. 10-bis della legge
27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), introdotto dal
decreto legislativo del 5 agosto 2015, n. 128, riguardante la certezza nei rap-
porti tra Fisco e contribuente che attua alcune previsioni della legge delega,
fra le quali, per quel che qui rileva, quelle in tema di abuso del diritto188.
Dal punto di vista della collocazione dell’istituto nell’ordinamento, va
osservato che la disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale è stata
inserita nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente189, al fine

187
  Di questo avviso, G. Zizzo, L’abuso del diritto tra incertezze della delega e raccoman­
dazioni europee, cit., 2997. L’A. definisce la delega «ambigua, confusa e reticente, frutto di una
scelta precisa del legislatore delegante, ovverosia quella di accodarsi alla giurisprudenza di le­
gittimità degli ultimi anni, operando dei taglia e cuci di singoli affermazioni estrapolate dalle
singole pronunce».
188
  In dottrina per un approccio critico al nuovo art. 10-bis si veda D. Stevanato, Elusione
fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, in Dir. prat. trib., 2015, I, 695
ss.; V. Mastroiacovo, L’abuso del diritto o elusione in materia tributaria: prime note nella
prospettiva della funzione notarile, Studio n. 151-2015/T approvato dal CNN nella seduta del
12-13 gennaio 2016; L. Miele, Abuso del diritto distinto dalle fattispecie di evasione, in Corr.
trib., 2015, 243 ss. L’A. sottolinea che lo schema di d.lgs. consta sostanzialmente di tre Titoli: il
primo concernente la disciplina dell’abuso del diritto, il secondo i reati tributari e il raddoppio
dei termini di accertamento e il terzo il regime dell’adempimento collaborativo (cd. compliance).
Da ultimo si veda F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass.
trib., 2015, 1315 ss., in cui l’Autore, dopo aver esaminato il testo della nuova disciplina, giunge
alla conclusione che, «pur essendosi fatti passi avanti sul piano interpretativo, non si sono però
risolti del tutto – né si potevano risolvere – i problemi definitori di un istituto che, per sua na-
tura, richiede pur sempre una verifica della compatibilità della nuova normativa con la clausola
generale antiabuso di derivazione costituzionale».
189
  Per comodità del lettore si riporta, di seguito, l’art. 10-bis della l. 212/2000.
«1. Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che,
pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indipendentemente dalle intenzioni del contri-
buente, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili
all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base
delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di
dette operazioni.
2. Ai fini del comma 1 si considerano:
a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati,
inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di
sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni
con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti
giuridici a normali logiche di mercato; b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non imme-
358 Giuseppe Corasaniti

di conferire alla disciplina predetta la forza di principio preordinato alle


regole previste nelle discipline dei singoli tributi.
Più precisamente, il legislatore delegato ha provveduto alla unificazione
dei concetti di elusione e di abuso del diritto ed alla contestuale abrogazio-
ne dell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973.
Analizzando, brevemente, i contenuti del nuovo istituto si rileva che
l’articolato e la relazione illustrativa configurano la disciplina dell’abuso del
diritto come norma di chiusura del sistema che può trovare applicazione
solo se i vantaggi fiscali non possono essere contestati utilizzando le altre
disposizioni vigenti. In altri termini, se una fattispecie configura una frode,
una simulazione o un’interposizione va perseguita con gli strumenti, anche
penali, che l’ordinamento tributario già prevede, senza invocare l’abuso
del diritto.
Per quanto concerne la nozione di abuso, la stessa è sinteticamente
enunciata nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, laddove

diati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento
tributario.
3. Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni ex-
trafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di
miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del con-
tribuente.
4. Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla
legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale, salvo che queste ultime non confi-
gurino un caso di abuso del diritto.
5. Il contribuente può proporre interpello preventivo per conoscere se le operazioni che
intende realizzare costituiscano fattispecie di abuso del diritto. Con decreto del Ministero
dell’economia e delle finanze, sono disciplinate le modalità applicative del presente comma. Fino
all’emanazione del decreto, si applica il regolamento di cui al decreto del Ministro delle finanze
19 giugno 1998, n. 259.
6. Senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti per i singoli tributi,
l’abuso del diritto è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al
contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni, in cui
sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto.
7. La richiesta di chiarimenti è notificata dall’amministrazione finanziaria ai sensi dell’articolo
60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modifica-
zioni, entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell’atto impositivo. Tra la data
di ricevimento dei chiarimenti ovvero di inutile decorso del termine assegnato al contribuente per
rispondere alla richiesta e quella di decadenza dell’amministrazione dal potere di notificazione
dell’atto impositivo intercorrono non meno di sessanta giorni. In difetto, il termine di decadenza
per la notificazione dell’atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordi-
nario, fino a concorrenza dei sessanta giorni.
8. Fermo quanto disposto per i singoli tributi, l’atto impositivo è specificamente motivato,
a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti
vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente nel termine di cui al
comma 6.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 359

si prevede che: «configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di
sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indi­
pendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzano essenzialmente
vantaggi fiscali indebiti».
Gli elementi costitutivi dell’abuso sono, invece, specificati all’interno
del 2 comma dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, e
sono: i) assenza di sostanza economica dell’operazione; ii) realizzazione di
un vantaggio fiscale indebito; iii) il requisito che il vantaggio sia l’elemento
essenziale dell’operazione.

9. L’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abu-


siva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2. Il contribuente ha
l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3.
10. In caso di ricorso, i tributi o i maggiori tributi accertati, unitamente ai relativi interessi,
sono posti in riscossione, ai sensi dell’articolo 68 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n.
546, e successive modificazioni e dell’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre
1997, n. 472.
11. I soggetti diversi da quelli cui sono applicate le disposizioni del presente articolo possono
chiedere il rimborso delle imposte pagate a seguito delle operazioni abusive i cui vantaggi fiscali
sono stati disconosciuti dall’amministrazione finanziaria, inoltrando a tal fine, entro un anno dal
giorno in cui l’accertamento è divenuto definitivo ovvero è stato definito mediante adesione o
conciliazione giudiziale, istanza all’Agenzia delle entrate, che provvede nei limiti dell’imposta e
degli interessi effettivamente riscossi a seguito di tali procedure.
12. In sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi
fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di altre disposizioni e, in par-
ticolare, di quelle sanzionabili ai sensi del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, e successive
modificazioni.
13. Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie.
Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie.»
2. L’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e
successive modificazioni, è abrogato. Le disposizioni che richiamano tale articolo si intendono
riferite all’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, in quanto compatibili.
3. Le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano dedu-
zioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordina-
mento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella parti-
colare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente presenta
istanza di interpello ai sensi del regolamento del Ministro delle finanze 19 giugno 1998, n. 259.
Resta fermo il potere del Ministro dell’economia e delle finanze di apportare modificazioni a
tale regolamento.
4. I commi da 5 a 11 dell’articolo 10-bis della legge n. 212 del 2000 non si applicano agli
accertamenti e ai controlli aventi ad oggetto i diritti doganali di cui all’articolo 34 del decreto
del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, che restano disciplinati dalle disposizioni
degli articoli 8 e 11 del decreto legislativo 8 novembre 1990, n. 374, e successive modificazioni,
nonché dalla normativa doganale dell’Unione europea.
5. Le disposizioni dell’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, hanno efficacia a de-
correre dal primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto e
si applicano anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali,
alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo.
360 Giuseppe Corasaniti

Ciò che viene a rilievo, dall’analisi della nuova figura dell’abuso del
diritto e dei presupposti costitutivi, è il conferente rinvio a quanto previ-
sto nella Raccomandazione della Commissione del 6 dicembre 2012 sulla
pianificazione aggressiva190.
La richiamata Raccomandazione della Commissione Europea indica
diversi esempi di mancanza di sostanza economica. Il decreto delegato li
ha riassunti nei seguenti due: la non coerenza della qualificazione delle
singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non
conformità degli strumenti giuridici usati in normali logiche di mercato
(art. 10-bis, comma 2, letta).
Nello stesso tempo, è stata fornita una definizione di «vantaggi fiscali
indebiti» desumendola dalla Raccomandazione predetta. In particolare, i
vantaggi, per essere indebiti, devono essere fondamentali rispetto agli altri
fini perseguiti dal contribuente e, soprattutto, in contrasto con le finalità
delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento (art. 10-bis, comma
2, lett. b).
Nonostante tale ultimo riferimento, tuttavia, il decreto legislativo n. 128
del 2015 non sembra risolvere taluni dubbi191, già avanzati all’indomani
della pubblicazione della legge delega, che sorgono allorquando si vada a
riflettere intorno alle conseguenze pratiche derivanti dall’applicazione della
novella norma.
Anzitutto, mentre la legge delega prevede, insidiosamente a dire il
vero, il principio secondo cui la (presunta) operazione abusiva può aver
tratto origine da operazioni economiche realizzate prevalentemente allo
scopo di ottenere vantaggi fiscali indebiti, il decreto legislativo richiede
il requisito dell’ essenzialità, per nulla dirimente circa l’eventuale potere

190
  Secondo la Raccomandazione, «Per determinare se la costruzione o la serie di costruzioni
è artificiosa, le autorità nazionali sono invitate a valutare se presenta una o più delle seguenti
situazioni: a) la qualificazione giuridica delle singole misure di cui è composta la costruzione non è
coerente con il fondamento giuridico della costruzione nel suo insieme; b) la costruzione o la serie
di costruzioni è posta in essere in un modo che non sarebbe normalmente impiegato in quello che
dovrebbe essere un comportamento ragionevole in ambito commerciale; c) la costruzione o la serie
di costruzioni comprende elementi che hanno l’effetto di compensarsi o annullarsi reciprocamente;
d) le operazioni concluse sono di natura circolare; e) la costruzione o la serie di costruzioni com­
porta un significativo vantaggio fiscale, di cui tuttavia non si tiene conto nei rischi commerciali
assunti dal contribuente o nei suoi flussi di cassa; f) le previsioni di utili al lordo delle imposte sono
insignificanti rispetto all’importo dei previsti vantaggi».
191
  M. Beghin, La clausola generale antiabuso tra certezza e profili sanzionatori, in Il Fisco,
2015, 2207 ss. L’A. sottolinea come la definizione della sostanza economica si presenta un po’
contorta; per tal ragione, sarebbe necessario chiarire meglio che la sostanza dell’operazione at-
tiene al modo d’essere della forma giuridica prescelta, in assenza di valide ragioni economiche,
rispetto all’obiettivo che il contribuente intendeva raggiungere.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 361

discrezionale che, di fatto, viene attribuito all’Amministrazione finan-


ziaria.
Sul punto, il legislatore delegato avrebbe dovuto disporre che la cau-
sa dell’elusività dell’operazione potesse derivare da fini aventi l’esclusiva
volontà di ottenere un vantaggio fiscale, limitando, in tal senso, il potere
discrezionale dell’Amministrazione finanziaria192.
Inoltre, altra autorevole dottrina193 ha rilevato che, indipendentemente
dagli sforzi fatti dal legislatore delegato, sarà difficile per il futuro eliminare
del tutto il conflitto tra l’esigenza di certezza e la astratta nozione di abu-
so. In altri termini, data la inevitabile circolarità delle formule normative
usate, l’Amministrazione finanziaria e i giudici avranno sempre il difficile
problema di determinare concetti necessariamente astratti, di concretizzare
le clausole generali e, conseguentemente, di disapplicare il regime giuridico
formalmente applicabile sostituendo ad esso quello eluso individuato dal
giudice.
Condivisibile appare, invece, la previsione secondo la quale non si con-
siderano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni
extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale che
rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impre-
sa ovvero dell’attività professionale del contribuente.
Conformemente alle indicazioni già fornite dalla legge delega, e a quan-
to sostenuto recentemente dal Supremo Collegio194, sono definite ragioni
economiche extrafiscali non marginali anche quelle che, pur non essen-

192
  Sul punto si veda M. Procopio, La poco convincente riforma dell’abuso del diritto ed
i dubbi di legittimità costituzionale, cit., 759. L’A. rileva che, nel dibattito afferente i concetti
di prevalenza ed esclusività del vantaggio fiscale indebito, la Corte Costituzionale francese ha
assunto una posizione molto netta. Infatti, i giudici transalpini, con sent. 685 del 2013, hanno
precisato che la modifica dell’avverbio esclusivo con quello principale produce l’effetto di attribu-
ire un margine di apprezzamento importante all’Amministrazione finanziaria, mentre i principi
contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo (artt. 4, 5, 6 e 16) impongono al legislatore «
di adottare disposizioni di legge sufficientemente precise e norme non equivoche al fine di proteg­
gere le persone da interpretazioni contrarie alla Costituzione o dal rischio di arbitrio, senza che
si debba riversare sull’autorità amministrativa o giudiziaria il compito di creare regole, compito
che la Costituzione assegna solo alla legge».
193
  In tal senso si veda F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale,
cit., 1332.
194
  Sul punto si veda Cass. 14 gennaio 2015, n. 439, ove è stato chiarito, facendo espresso
riferimento all’art. 5 della l. n. 23/2014, che: « (…) nei processi di ristrutturazione e riorganiz­
zazione aziendale integra gli estremi della condotta elusiva quella costruzione che, tenuto conto
sia della volontà delle parti implicate che del contesto fattuale e giuridico, ponga quale elemento
essenziale dell’operazione economica lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che
il divieto di comportamenti abusivi non vale ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti
che con il mero conseguimento di risparmi d’imposta e manchi il presupposto dell’esistenza di un
362 Giuseppe Corasaniti

do alla base di operazioni produttive di una redditività immediata, sono


comunque volte al perseguimento, nell’ambito dell’attività economica del
contribuente, di finalità organizzative o gestionali.
Il contribuente, pertanto, dovrà farsi carico, ai sensi dell’art. 10-bis,
comma 9, dello Statuto dei diritti del contribuente, di provare le ragioni
extrafiscali ed il loro «peso» che hanno condotto all’operazione economica.
Si segnalano, altresì, ulteriori due profili che il legislatore delegato ha
condivisibilmente affrontato e risolto, a vantaggio della certezza del diritto.
In primo luogo, è stato chiarito, sulla scorta di quanto già previsto
dall’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973, che « (…) i soggetti diversi da quelli
cui sono applicate le disposizioni del presente articolo possono chiedere il
rimborso delle imposte pagate a seguito delle operazioni abusive i cui van­
taggi fiscali sono stati disconosciuti dall’amministrazione finanziaria, inol­
trando a tal fine, entro un anno dal giorno in cui l’accertamento è divenuto
definitivo ovvero è stato definito mediante adesione o conciliazione giudi­
ziale, istanza all’Agenzia delle entrate, che provvede nei limiti dell’imposta
e degli interessi effettivamente riscossi a seguito di tali procedure (…)».
11.1.  Le garanzie procedurali previste dalla nuova disciplina in tema
di abuso del diritto
Per quanto concerne il punto di vista procedimentale, si rileva che il
comma 6 dell’art. 10-bis citato ha previsto che l’abuso del diritto è accer-
tato con apposito atto preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al con-
tribuente da una richiesta di chiarimenti da fornire entro 60 giorni, in cui
sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile l’abuso del diritto.
Inoltre, qualora l’Amministrazione finanziaria emani successivamente l’at-
to impositivo, specificamente motivato in relazione alla condotta abusiva,
alle norme eluse e agli indebiti vantaggi, senza tener conto dei chiarimenti
forniti dal contribuente, ne conseguirà la nullità dell’atto predetto.
A tal riguardo, si segnala, con riferimento al fatto che l’Amministrazio-
ne Finanziaria debba adeguatamente argomentare l’elusione in modo chia-
ro, spiegando le ragioni per le quali si recupera la differenza tra l’imposta
gravante sull’operazione elusa e quella elusiva e, segnatamente, indicando
l’operazione congrua, che la Corte di Cassazione, con la sentenza del 27
marzo 2015, n. 6226, ha chiarito che è necessario condurre l’argomento
della similitudine tra l’operazione elusiva e l’operazione elusa sul piano
economico-giuridico. L’Ufficio impositore deve in altre parole individuare

idoneo strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dalla parte contribuente, sia
comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito (…)»
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 363

l’operazione alternativa, più lineare rispetto a quella concretamente effet-


tuata, che il contribuente avrebbe dovuto effettuare per evitare la conte-
stazione di elusione195.
Inoltre, di rilevante importanza è la previsione contenuta nel comma
9 dell’art. 10-bis, laddove si prevede che il riparto dell’onere della prova
tra Amministrazione e contribuente comporta che l’Amministrazione ha
l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva e il secondo,
a sua volta, ha l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali
non marginali, fermo restando che la sussistenza di tale condotta non è
rilevabile d’ufficio.
Ebbene, con tale previsione si supera, definitivamente, quella giurispru-
denza di legittimità che consentiva al giudice tributario di poter riquali-
ficare come abusivi i fatti di causa, anche se li Amministrazione non li
aveva configurati in tal modo nell’avviso di accertamento. La legge delega,
difatti, ha chiarito che l’Amministrazione finanziaria consuma il proprio
potere con l’emissione del provvedimento nel quale ha indicato le ragioni
dell’accertamento e, di conseguenza, nessuna integrazione è possibile in
corso di giudizio né da parte sua né da parte del giudice, vietandolo l’art.
112 c.p.c., a mente del quale il giudice può pronunciare d’ufficio solo su
eccezioni proposte dalle parti.
Alla luce di quanto detto, sebbene la tematica di cui si è discusso conti-
nui a presentare profili dai contorni ancora non ben definiti, si ritiene che
la nozione abuso/elusione, così come configurata dal decreto delegato n.
128 del 2015, e i suoi presupposti costitutivi siano ora enucleati con mag-
giore certezza e costituiscano un importante passo in avanti in termini di
certezza del diritto.

11.2.  La sanzionabilità amministrativa e l’irrilevanza penale della


condotta abusiva
Inoltre, il decreto legislativo risolve anche l’annosa questione afferente
la sanzionabilità amministrativa/penale dell’abuso del diritto, prevedendo,
in modo sintetico, al comma 13 dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del
contribuente che « (…) le operazioni abusive non danno luogo a fatti pu­
nibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l’applicazione delle
sanzioni amministrative tributarie (…)»196. Sulla scorta di tale previsione,

195
  Cfr M. Beghin, «Elusione», tassazione differenziale e impatto sulla motivazione degli
avvisi di accertamento, in Corr. trib., 2015, 1827 ss.
196
  Cfr. A Giovannini, Note controcorrente sulla sanzionabilità dell’abuso del diritto, in
Corr. trib., 2015, 823 ss.
364 Giuseppe Corasaniti

il Supremo Collegio, di recente, con sentenza del 6 marzo 2015, n. 4561,


ha chiarito che «il legislatore non ritiene gli atti elusivi quale criterio scri­
minante per l’applicazione delle sanzioni, che, al contrario, sono irrogate
quale naturale conseguenza dell’esito dell’accertamento volto a contrastare
il fenomeno dell’abuso del diritto. Del resto, non può ritenersi accoglibile la
teoria circa la natura meramente procedimentale della norma antielusiva,
che consentirebbe di escludere l’applicabilità delle sanzioni amministrative
alle forme elusive. Nella sostanza, quindi, le sanzioni si applicano per il
solo fatto che la dichiarazione del contribuente sia difforme rispetto all’ac­
certamento».
Sul punto, si condivide l’orientamento di autorevole dottrina197 che
sottolinea come, ragionando in questi termini, si finisce con l’equipara-
re, con riferimento all’irrogazione delle sanzioni tributarie amministrative,
l’evasione sul fatto, l’evasione sul diritto e l’abuso. La conseguenza di tale
ragionamento conduce alla mancanza, in effetti, di una previsione di gra-
dualità dei carichi sanzionatori, perché, sulla base del testo di cui ad oggi
si dispone, non vi è alcuna differenza tra quel contribuente che abbia evaso
ed il contribuente che abbia conseguito un risparmio fiscale indebito.
In altre parole, sembrerebbe trovarsi al cospetto di norme che, nono-
stante gli intenti, finiscono per accomunare gli evasori e gli elusori, senza
distinzione tra chi ha nascosto al Fisco ricchezza concretamente generata,
tra chi ha male interpretato una disposizione e chi, invece, ha generato
vantaggi indebiti operando alla luce del sole.
La formulazione della neo-introdotta norma, tuttavia, mal si concilia,
con l’art. 1 del D.Lgs. n. 128/2015, il quale sancisce le disposizioni intro-
dotte avranno efficacia a decorrere dal primo giorno del mese successivo
alla data di entrata in vigore del Decreto e che le stesse si applicheranno
anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per
le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositi-
vo. Da tale scelta legislativa deriverebbe, infatti, che il regime di maggior
favore, ovvero la non sanzionabilità e, dunque, l’irrilevanza penale delle
condotte abusive, si applicherebbe unicamente a quelle, anche antecedenti
all’emanazione del Decreto, avverso le quali non sia ancora stato notifi-
cato l’avviso di accertamento. Rimarrebbero pertanto escluse dall’ambito
operativo della norma tutte le condotte già oggetto di un atto impositivo
notificato e potenzialmente ancora oggetto di procedimenti penali.
Il tema della sanzionabilità penale dell’abuso del diritto è stato ampia-

197
  Il riferimento è a M. Beghin, La clausola generale antiabuso tra certezza e profili san­
zionatori, cit., 2210.
Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario 365

mente dibattuto e fortemente controverso, specie negli ultimi anni. Secon-


do l’indirizzo affermatosi nella più recente giurisprudenza di legittimità, le
operazioni elusive potrebbero assumere rilevanza penale – in particolare,
nel quadro del paradigma punitivo della dichiarazione infedele –, ma solo
se contrastanti con specifiche disposizioni198. Si è negata, invece, la punibi-
lità della cosiddetta «elusione non codificata», sul rilievo che – anche alla
luce di quanto affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (in
particolare, nella sentenza Halifax) – in assenza di un preciso fondamento
normativo, non potrebbe ritenersi sanzionabile la violazione del principio
generale del divieto di abuso del diritto. L’introduzione di una disciplina
positiva di tale ultima figura – conseguente all’attuazione dell’articolo 5
della legge delega – muta evidentemente i termini del dibattito, rendendo
necessaria una puntuale presa di posizione da parte del Legislatore. La
scelta adottata nel comma 13 del nuovo articolo 10-bis è stata quella di
escludere la rilevanza penale delle operazioni costituenti abuso del dirit-
to, quali descritte dalla norma generale del citato articolo, facendo salva,
per converso, l’applicabilità ad esse delle sanzioni amministrative, ove ne
ricorrano in concreto i presupposti (a cominciare dalla sussistenza dell’ele-
mento psicologico richiesto ai fini della configurabilità di una violazione
amministrativa tributaria, non necessariamente presente nell’operazione
abusiva, che – per quanto si è visto – si qualifica come tale in rapporto al
suo risultato oggettivo).
In dottrina è stato autorevolmente sostenuto che al legislatore delegato
è sembrato che «l’esclusione della punibilità dell’abuso del diritto con san-
zioni penali dovesse essere data per scontata, essendo essa la conseguenza
… della generale definizione che l’art. 5 della legge delega dà dell’abuso.
Tale definizione infatti, per un verso, postula di per sé l’assenza del com-
portamento elusivo del contribuente di tratti riconducibili ai paradigmi,
penalmente rilevanti, della simulazione, della falsità o, più in generale, del-
la fraudolenza in senso naturalistico di cui all’art. 3 della legge n. 74 del
2000 e, per l’altro verso, imprime … alla disciplina dell’abuso un indub-
bio carattere di residualità rispetto agli altri strumenti di reazione previsti
dall’ordinamento tributario»199.
Le disposizioni dell’art. 10-bis «hanno efficacia a decorrere dal primo
giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore del presente decre­

198
  Cfr. per tutte, tra le ultime Cass., sez. III, 6 marzo 2013-3 maggio 2013, n. 19100; Cass.,
sez. III, 12 giugno 2013-31 luglio 2013, n. 33187; Cass., sez. III, 20 marzo 2014-3 aprile 2014,
n. 15186.
199
  In tal senso si veda F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale,
cit., 1339.
366 Giuseppe Corasaniti

to» e quindi, dalla data del 1° ottobre 2015, essendo tale decreto entrato in
vigore il 2 settembre, «e si applicano anche alle operazioni poste in essere
in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia
stato notificato il relativo atto impositivo».Le disposizioni recanti la nuova
disciplina tributaria dell’abuso del diritto sono destinate a esplicare effetto
per le operazioni poste in essere dalla data del 1° ottobre 2015 per effetto
del principio tempus regit actum, ossia del principio di irretroattività della
legge sopravvenuta di cui all’art. 11 delle disposizioni preliminari del codi-
ce civile. Per contro, la disposizione del comma 1, recante la statuizione di
irrilevanza penale delle operazioni abusive, è destinata a esplicare effetto,
oltre che per le nuove operazioni abusive poste in essere dalla data del
1° ottobre 2015, anche per quelle poste in essere prima di tale data per il
principio di retroattività della legge penale più favorevole sancito dall’art.
2 del cod. penale200.

200
  Cfr. Cass., 1 ottobre 2015, n. 40272.
Caterina Corrado Oliva
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione
e onere della prova

Sommario:  1. L’onere della prova sull’abuso del diritto nella giurisprudenza tributaria
e nella normativa di recente introduzione. – 2. Fatti e giudizi nella fattispecie dell’abuso
del diritto. – 3. Il problema dei fatti non direttamente rilevanti. – 4. Allegazione e non
contestazione nei processi sull’abuso del diritto tributario. – 5. Onere della prova e
onere di allegazione. – 6. Conclusioni.

1.  L’onere della prova sull’abuso del diritto nella giurisprudenza tri-
butaria e nella normativa di recente introduzione.
La giurisprudenza della Suprema Corte sull’abuso del diritto in materia
tributaria si riferisce sovente all’onere della prova. Tanto da dare l’impres-
sione che il problema, in materia, sia centrale e tanto che lo stesso legisla-
tore, nella normativa di recente introduzione relativa al divieto di abuso
del diritto, ha voluto dedicare apposito comma alla ripartizione degli oneri
probatori1.

*  Il lavoro rappresenta la rielaborazione di una relazione svolta al Convegno L’abuso del


diritto tra «diritto» e «abuso», Macerata, 29 – 30 giugno 2012 e di altra effettuata al Convegno
Il divieto dell’abuso del diritto, Brescia, 26 – 27 giugno 2015, opportunamente aggiornata per
tener conto della giurisprudenza più recente e della normativa di recente introduzione sul tema.
1
  L’art. 10 bis, l. n. 212 del 2000, articolo introdotto dall’art. 1, comma 1, d. lgs. 5 agosto
2015, n. 128, contiene apposito comma dedicato all’onere della prova, il comma 9, che testual-
mente recita: «L’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta
abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2. Il contribuente
ha l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3».
Ora i commi 1 e 2, sui quali verterebbe l’onere della prova dell’Amministrazione, sono così
formulati:
1. Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur
nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali
operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi de­
terminando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato
dal contribuente per effetto di dette operazioni.
2. Ai fini del comma 1 si considerano:
a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati,
inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di
sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni
con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti
giuridici a normali logiche di mercato;
368 Caterina Corrado Oliva

Sennonché tanta attenzione all’onere della prova, in tema di abuso del


diritto, appare probabilmente eccessiva.
L’onere della prova, infatti, propriamente inteso quale regola deciso-
ria finale del fatto incerto2, ha un ruolo davvero marginale nei processi
sull’abuso del diritto, laddove raramente si pone, nel concreto, un proble-

b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le
finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.
Il comma 3, oggetto dell’onere probatorio del contribuente, scrive invece:
3. Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni ex­
trafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di
miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contri­
buente.
2
  Pare opportuno chiarire fin d’ora che, nel presente lavoro, allorché si parlerà di onere
della prova, si farà riferimento esclusivamente a ciò che la dottrina definisce con la locuzione
«onere della prova in senso oggettivo», e cioè al principio, o meglio, alla regola che consente
di risolvere una controversia, anziché pronunciare un non liquet, in caso di prova mancante o
non sufficiente di un elemento decisivo, facendone ricadere le conseguenze sulla parte che ne
era appunto onerata.
La dottrina tedesca (Betzinger, Die Beweislast im Zivilprozess, Berlin, 1910, 63 e Zitelmann,
Internationales Privatrecht, Leipzig) nei primi decenni del XX secolo, ha introdotto la distinzio-
ne tra onere della prova in senso soggettivo e onere della prova in senso oggettivo.
La distinzione in questione, che trova un corrispondente anche nel diritto anglosassone J. B.
Thayer, The burden of proof, 4 Harv. L. R., 1890, 45 e ss.; Mcnughton, Burden of production
evidence: a function of the burden of persuasion, Harv. L. R., 1955, 1382 e ss. e la distinzione
tra burden of producing evidence e burding of persuasion, facendo riferimento rispettivamente
all’onere della parte chiamata a fornire la prova di un certo fatto (e quindi, a ciò che verrà definito
come onere della prova in senso soggettivo) e all’onere che ha la parte di persuadere l’organo
giudicante. Essa ha avuto, invece, un minor séguito nella letteratura italiana (cfr. S. Patti, Prove.
Disposizioni generali, commento all’art. 2697 c.c., in Commentario del Codice Civile, a cura di
Scialoja e Branca, Bologna, 1987, 12 ss., il quale attribuisce all’influenza esercitata dall’opera di
G. A. Micheli la colpa della distrazione della dottrina italiana in proposito. G. A. Micheli, invero,
ha del tutto svalutato l’aspetto soggettivo dell’onere della prova.
Secondo tale impostazione, l’espressione «onere della prova in senso soggettivo» indica quale
parte deve provare un certo fatto, su chi incombe il «carico», la «charge de la preuve»: «esso
incombe sulla parte che intende avvalersi di un fatto a lei favorevole, poiché la prova costituisce
il presupposto necessario affinché esso venga preso in considerazione ai fini dell’applicazione di
una norma» (S. Patti, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 12). Nello stesso senso, si veda S.
Patti, Le prove, Giuffrè, 2010, 57.
La definizione di onere della prova in senso soggettivo esprime, pertanto, il concetto che la
parte interessata alla prova deve assumerne l’iniziativa onde sperare di ottenere una decisione a
sé favorevole.
L’onere della prova in senso oggettivo indica, invece, la parte nei cui confronti si produce
l’effetto negativo nel caso di mancato raggiungimento della prova di una situazione di fatto
rilevante ai fini del giudizio. Esso esprime, quindi, il rischio del mancato raggiungimento della
prova riguardante un certo tipo di fatto, rischio che dipende, ovviamente, dal convincimento del
giudice. Se, infatti, il giudice ha raggiunto il convincimento nonostante che la parte gravata (sog-
gettivamente) dell’onere non abbia fornito le prove, poco importa, la regola di giudizio non opera
a suo sfavore; se, invece, nonostante che la parte onerata abbia fornito diverse prove, il giudice
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 369

ma di prova dei fatti direttamente rilevanti3. Nella fattispecie dell’abuso del


diritto, invero, i fatti rilevanti sono pochi, marginali e spesso incontestati
tra le parti ed il processo non verte tanto sulla prova quanto piuttosto sulla
valutazione di essi.
Ciononostante, la maggior parte delle sentenze della Suprema Corte
in tema di abuso del diritto, tramite formule più o meno standardizzate e
ripetitive, precisa come, relativamente a questo o quel profilo dell’abuso4,
l’onere probatorio spetti all’Amministrazione ovvero al contribuente.
A ben vedere, tali sentenze, laddove impropriamente parlano di prova e
di onere della prova, in realtà nella maggior parte dei casi non si riferiscono

le abbia ritenute insufficienti a formare il proprio convincimento, «scatta» la regola dell’onere


della prova in senso oggettivo e la parte ne subisce le conseguenze negative.
Con riferimento all’onere della prova in senso oggettivo è diffusa ormai l’espressione «regola
di giudizio», poiché la sua funzione è quella di permettere al giudice di porre fine ad un dibattito
rivelatosi infruttuoso, lasciando immutata la situazione preesistente, mentre il suo rilievo pratico,
per quanto concerne il futuro, è quello di precludere definitivamente il riesame della controversia
in virtù degli effetti del giudicato.
Tale regola di giudizio, pertanto, una volta esaurita l’istruzione probatoria in maniera infrut-
tuosa o insufficiente, si rivolge al giudice, per permettergli di decidere comunque, e anche alle
parti, facendole sottostare alla decisione svantaggiosa per la parte che era onerata della prova
non fornita (rileva questa duplice direzione, al giudice e alle parti, dell’onere della prova in
senso oggettivo: S. Pugliatti, voce Conoscenza, in Enc. dir., vol. IX, Milano, 1961, 45 ss., 102.
In senso parzialmente difforme, V. Andrioli, voce Prova (dir. proc. civ.), in Noviss. dig. it.,
vol. XIV, Torino, 1967, 260 ss., in particolare 292, il quale distingue onere della prova in senso
soggettivo e oggettivo sulla base dei loro diversi destinatari, essendo il primo rivolto alle parti,
ed il secondo al giudice).
Secondo tale ricostruzione dottrinale, accanto al rischio che ogni parte sente a causa della
propria carente, o addirittura mancante, attività probatoria, vi sarebbe un rischio obiettivo della
incertezza, che si presenta anche indipendentemente da qualsiasi attività di parte. In tal modo,
accanto ad un onere della prova soggettivo, se ne è costruito uno oggettivo, battezzato poi va-
riamente, che ha, a poco a poco, acquisito rilievo determinante, anche perché ci si è resi conto
che tutta l’attività probatoria esplicata dalle parti è finalizzata proprio ad esso, cioè al risultato
favorevole per una di esse nella fase decisoria finale. Il merito della riconosciuta prevalenza del
concetto di onere della prova in senso obiettivo nella dottrina italiana è dovuto soprattutto a G.
A. Micheli, L’onere della prova, Padova, 1942, cap. III e a F. Carnelutti, La prova civile, Edi-
zione dell’Ateneo, Roma, 1947, 210; gli A. ricordati si soffermano ad analizzare la preponderanza
del criterio oggettivo, giacché rileva che tutto l’aspetto subiettivo del fenomeno si riduce allo
studio del potere probatorio riconosciuto alle parti nel processo, costituisce un frammento della
stessa teorica della azione, mentre, per comprendere l’aspetto essenziale e caratteristico di esso
è necessario insistere sull’aspetto oggettivo dell’onere della prova, quello di regola di giudizio.
3
  Cfr. infra, paragrafo 3.
4
  E il medesimo errore svolge il legislatore, laddove parla di onere della prova con riguardo
agli «elementi» di cui ai commi 1 e 2, di cui sarebbe onerata l’Amministrazione finanziaria, e agli
«elementi» di cui al comma 3, posti a carico del contribuente. Ora il riferimento agli elementi
appare già di per sé ambiguo, posto che la prova verte su fatti e soltanto su essi. Oltretutto, se-
guendo il richiamo normativo, e quindi rifacendosi ai commi da 1 a 3, ivi non si trovano soltanto
elementi fattuali, ma anche diversi giudizi, sicché l’ambiguità ne resta ulteriormente accentuata.
370 Caterina Corrado Oliva

neppure a fatti, i soli che per loro natura necessitano di prova, bensì per lo
più a valutazioni dei fatti, in quanto tali non soggette a prova ma a dimo-
strazione puramente teorica, ad argomentazione difensiva. Ad esempio si
parla di «prova» della validità delle ragioni economiche addotte5 o ancora
di «prova» della portata distorsiva di una operazione o di una struttura di

5
  Si riportano qui di seguito alcuni passaggi di sentenze che parlano di prova o onere della
prova, ma in verità fanno evidentemente riferimento, per lo più, a valutazioni sulla portata di-
storsiva dell’operazione o sulla validità delle ragioni economiche.
Cass., sez. trib., 4 aprile 2008, n. 8772, statuisce: «non hanno efficacia nei confronti dell’Am-
ministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscano «abuso del
diritto», cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di
un vantaggio fiscale; ed incombe sul contribuente la prova della esistenza di ragioni economiche
alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico».
Cass., sez. trib., 21 aprile 2008, n. 10257, riprende lo stesso concetto, per il caso in cui l’abuso
del diritto dia luogo ad un elemento negativo del reddito o dell’imposta. Tale sentenza, infatti,
scrive: «incombe sul contribuente la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o
concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico, specie quando l’abuso dia luogo ad
un elemento negativo del reddito o dell’imposta».
Ancora con riguardo alla prova della esistenza e particolarmente alla valutazione delle ra-
gioni economiche, la Cassazione, sez. trib., 30 novembre 2011, n. 25537, scrive che il requisito
dell’assenza delle valide ragioni economiche, a differenza degli altri due requisiti dell’abuso «può
ritenersi implicitamente verificato, ove si assuma […] che l’unico motivo dell’aggiramento della
norma tributaria sia il conseguimento di un vantaggio fiscale. Infatti la sentenza afferma che il
discrimine tra una attività lecita ed elusiva consiste nel fatto che la seconda e compiuta «essen­
zialmente (ovvero unicamente, n.d.e.) per il conseguimento di un vantaggio economico (sul piano
fiscale)» e ciò esclude, univocamente, la presenza di una valida ragione economica di fondo, la
quale, ove esistente, si pone come elemento in primo luogo anteriore, ma comunque diverso e
aggiuntivo rispetto al mero vantaggio pecuniario perseguito con l’aggiramento della normativa
fiscale. Ciò è così vero che la stessa sentenza richiama, correttamente, il principio giurispruden­
ziale secondo cui una volta che si sia in presenza di atto che appaia di abuso del diritto l’onere
di provare la esistenza di valide ragioni economiche per compierlo ricade sul contribuente (Cass.,
n. 8772 del 2008)».
Sempre valutazione e non prova del fatto, si ha allorché la Cassazione parla dell’«onere di
provare» che il fine del risparmio di imposta non era essenziale. Cfr., Cass., 19 maggio 2010, n.
12249, «si pone a carico del soggetto che ne invoca l’applicazione ai fini fiscali l’onere di provare
che l’impiego dello strumento contrattuale in contestazione non aveva il fine essenziale di conse­
guire un risparmio di imposta».
Si veda sempre nello steso senso Cass., sez V, ord. 26 febbraio 2014, n. 4603: «in materia
tributaria, secondo l’orientamento di questa Corte […] la prova sia del disegno elusivo sia della
manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici [..] incombe sull’Amministrazione
finanziaria»ed inoltre Cass., sez. V, 16 aprile 2014, n. 8849 : «grava sul contribuente, secondo
le regole ordinarie ex art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare che le transazioni sono intervenute per
valori di mercato da considerarsi normali alla stregua dell’art. 9, comma 3 tuir, sicché l’opera­
zione non possa considerarsi ispirata dalla finalità di evasione delle imposte dovute», nonché più
recentemente Cass. sez. V, 30 dicembre 2015, n. 26060: «tanto premesso la deduzione del vizio
di insufficienza motivazionale della sentenza impugnata imponeva alla Agenzia fiscale ricorren­
te di fornire in modo specifico la prova dei fatti dimostrativi  dell’abuso  di  diritto, gravando su
quest’ultima il relativo onere della prova».
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 371

operazioni. Vero è che talora queste sentenze, oltre all’inconferente riferi-


mento alla prova e all’onere della prova, utilizzano anche espressioni più
vaghe, ma più corrette, e parlano di un «onere di spiegare» le ragioni per
cui si ritenga sussistente questo o quel requisito dell’abuso6.
Ancora, molto spesso accade che, in tema di abuso del diritto, i (po-
chi) fatti, che pur sarebbero suscettibili di prova, sono pacifici tra le parti:
questo elimina sul nascere ogni problema di prova e, per conseguenza, di
onere della prova. Tanto che, a legger bene, le sentenze spesso hanno ri-
guardo più ad un onere di «allegare» alcuni fatti7, che non alla loro prova;
questo accade anche perché in materia di abuso i fatti, una volta introdotti
nel processo, solitamente restano incontestati e quindi non bisognevoli di
prova. Si riscontra, dunque, di frequente, un riferimento improprio e in-
differenziato ad onere di allegazione ed onere della prova, nozioni che, pur
necessariamente correlate, non coincidono affatto.
La giurisprudenza in esame, poi, disattende i più elementari tratti della
regola dell’onere della prova allorché sposta l’onere probatorio da un sog-
getto all’altro in funzione di una precisa scansione funzionale e temporale,
secondo la quale l’onere su questo o quell’elemento della fattispecie spet-
terebbe in prima battuta all’Amministrazione e solo in seconda battuta al
contribuente8. L’onere della prova come regola decisoria finale del fatto

6
  Cass., 21 gennaio 2011, n. 1372: «incombe all’amministrazione finanziaria l’onere di spiega­
re, anche nell’atto impositivo, perché la forma giuridica (o il complesso di forme giuridiche) impie­
gata abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa, mentre è
onere del contribuente provare l’esistenza di un contenuto economico dell’operazione diverso dal
mero risparmio fiscale». Ancora, si veda Cass., 17 ottobre 2008, n. 25374, ove si legge che l’Am-
ministrazione finanziaria ha l’onere di «individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che
fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio di imposta».
7
  È chiara nel riferirsi all’onere di allegazione, piuttosto che ad un onere della prova, Cass.,
sez. trib., 18 febbraio 2011, n. 3947, in cui si legge che «il tema relativo all’esistenza, validità
e opponibilità all’amministrazione del negozio da cui deriva, nella sostanza, la pretesa fiscale è
acquisito al processo per effetto dell’allegazione da parte del contribuente»; la stessa sentenza
rigetta il ricorso dell’Amministrazione finanziaria perché «la ricorrente non ha neppure allegato
(essendosi limitata a supporre un obbligo del giudice di verificare, comunque ed in astratto, se
le stesse «rispondessero o meno ad effettive esigenze di razionalità economica, o fossero piuttosto
finalizzate al perseguimento di illeciti vantaggi fiscali») quale sia, in effetti, il risparmio fiscale
tratto dalla contribuente delle contestate operazioni commerciali poste in essere con le cooperative:
segnatamente quale fosse l’irrazionalità economica di quelle operazioni che il giudice del merito
avrebbe dovuto rilevare e valutare».
8
  I passaggi che sottolineano la ripartizione delle «prove» tra Amministrazione e contribuen-
te sono numerosi e variamente distribuiti nelle varie sentenze sul tema. Se ne riportano qui sol-
tanto alcuni, solo per la comodità di qualche esempio. Cass., sez. trib., 21 gennaio 2009, n. 1465,
la quale afferma: «è onere dell’Amministrazione finanziaria – non solo – prospettare il disegno
elusivo a sostegno delle operate rettifiche ma – anche – le supposte modalità di manipolazione o
di alterazione di schemi classici rinvenute come irragionevoli in una normale logica di mercato se
372 Caterina Corrado Oliva

incerto, cioè l’onere della prova in senso oggettivo, è assolutamente incom-


patibile con una scansione di questo tipo, dal momento che opera solo e
soltanto nel momento della decisione finale, e non si modifica in ragione
della prova fornita da questo o quel soggetto nel corso del giudizio. Esso
ha una struttura più semplice, o se si vuole più rozza9: se il giudice non ha
raggiunto il convincimento dell’esistenza di un determinato fatto, in base

non per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale così come incombe al contribuente allegare
la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino
operazioni così strutturate».
Cass., sez. trib., 22 settembre 2010, n. 20030 statuisce: «la prova sia del disegno elusivo sia
delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come
irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato
fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di alle­
gare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino
operazioni in quel modo strutturate».
9
  9  Da alcuno è stata rilevata l’«ingiustizia» della regola dell’onere della prova, a causa della
sua eccessiva «staticità». L’istituto in questione, invero, porta il giudice, non pervenuto ad un
convincimento, ad effettuare un passo indietro, una rinuncia mantenendo la situazione preesi-
stente all’instaurazione del processo (S. Patti, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 158). Esso
rende così del tutto superflua ed inutile l’attività probatoria già svolta, interrompe definitivamen-
te il processo di avvicinamento alla verità che, comunque, nel processo si è svolto, a discapito
di quella parte che, nonostante la prova fornita, pur rilevante, non sia riuscita comunque a in-
generare il convincimento nel giudice (G. A. Micheli, L’onere della prova, Padova, 1966, 185,
ha rimarcato l’equivalenza, dal punto di vista dell’onere della prova, tra il non provare affatto e
il provare ma non sufficientemente).
È stato tuttavia rilevato come sia invece giusto, o forse meno ingiusto, che l’incertezza del
giudice ridondi a danno di chi era tenuto ad eliminarla, perché ciò «è espressione della fonda-
mentale esigenza del vivere civile, rappresentata dell’agire a proprio rischio (suae quisque artifex
fortunae)» Così, V. Andrioli, in Prova (dir. proc. civ.), in Novissimo Digesto Italiano, volume
XIV, Torino, 1967, 260 ss., in particolare 300, nota 1.
La «staticità» dell’onere della prova si giustifica, pertanto, in base al principio, di ragione
anzitutto, secondo cui colui che richiede un mutamento dello status quo deve fornire la relativa
prova.
Se la prova non è fornita o non è sufficiente, indipendentemente dal fatto che ciò dipenda
dalla colpevole carenza dell’attività probatoria svolta dalla parte onerata oppure dalla materiale
impossibilità di fornirla ovvero dal mancato esercizio dei poteri istruttori di cui il giudice even-
tualmente disponga o comunque dalla discrezionale valutazione del giudice medesimo circa il
mancato raggiungimento del convincimento, le conseguenze sfavorevoli dovranno necessaria-
mente ricadere sulla parte che ha richiesto all’ordinamento una modificazione della situazio-
ne preesistente, assumendosi così il rischio dell’iniziativa intrapresa e dovendone sopportare le
conseguenze. Ciò, anche se, in ipotesi, i fatti presupposti del diritto vantato dalla parte si erano
effettivamente verificati nella realtà, pur non essendo stato possibile acclararlo nel processo.
E così, con le parole di Carnelutti: «le prove, che sul principio mi parvero uno strumento di
giustizia, son finite per capovolgersi in uno strumento d’ingiustizia» (F. Carnelutti, La prova
civile, op. cit., 8).
La regola dell’onere della prova può comportare, al termine del giudizio, un sacrificio alla
«giustizia» e alla verità, pur perseguite nel corso di ogni giudizio per il tramite dell’istruzione
probatoria, sacrificio che si giustifica in base ad un bilanciamento di interessi con l’altrettan-
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 373

alle prove fornite nel processo e del tutto indipendentemente da chi e da


come siano state introdotte, egli dovrà decidere in senso sfavorevole alla
parte che aveva l’onere di provare10.
Non all’onere della prova in senso proprio, quindi, si riferisce la giuri-
sprudenza in questi passaggi, ma ad un concetto ultroneo seppure simil-
mente denominato, l’onere della prova c.d. soggettivo, e cioè l’onere che
ha la parte di introdurre prove in giudizio al fine di diminuire il rischio
dell’operatività della regola decisoria in suo danno.
In conclusione, la giurisprudenza, nonostante ritorni più volte sull’one-
re probatorio delle parti, spesso lo fa in un contesto in cui neppure sussiste
un problema di prova dei fatti, ma soltanto di loro valutazione.
Di frequente, poi, i giudici intendono riferirsi non tanto alla prova, e al
relativo onere, quanto piuttosto all’onere di allegazione dei fatti generatori
dell’abuso del diritto, così come di quelli che sono idonei ad escluderlo;
senza contare che, forse proprio in seguito a tale indifferenziato riferimen-
to all’allegazione e alla prova dei fatti, praticamente mai i giudici ricono-
scono l’operatività del principio di non contestazione.
Ed infine, allorché la giurisprudenza parla di onere della prova, in realtà
ha per lo più riguardo ad un concetto dalla denominazione simile ma del
tutto ultroneo, quale è l’onere della prova in senso soggettivo.
Le sentenze insomma parlano indifferentemente di onere di spiegare, di
allegare, di provare e mai affrontano il tema in maniera rigorosa ed appro-
fondita, limitandosi, come spesso accade in materia di onere della prova
nel processo tributario, a pochi fugaci richiami nei quali si evidenzia, con
il tono autoreferenziale della enunciazione di principio, a chi nei diversi
casi spetti un onere della prova che tale, propriamente, non è.
Sia consentito poi rilevare che, fatta eccezione per pochi autori11, la dot-

to fondamentale valore della certezza nei rapporti giuridici che il processo deve assicurare (G.
Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1966 (ristampa), 788 e ss.).
Verità e certezza sono i termini che racchiudono il nucleo della problematica ed esprimono
la tensione ed il travaglio del giudice, nel perenne sforzo di colmare lo scarto tra l’effettiva co-
noscenza dei fatti e il loro reale svolgersi.
10
  Si veda la nota n. 1 relativamente alla distinzione tra onere della prova oggettivo e sog-
gettivo.
11
  M. Scuffi, Il sindacato antiabuso del giudice tra elusione, frode e oneri probatori, in Corr.
trib., 1580; P. Russo, L’onere probatorio in ipotesi di «abuso del diritto» alla luce dei principi
elaborati in sede giurisprudenziale, in Il fisco, 2012, 1301.
Hanno operato trattazioni del problema meno specifiche, perché contenute nell’ambito di
lavori dal tema ben più ampio, ma rigorose sul piano dei principi del diritto processuale, A.
Marcheselli, Equivoci e prospettive della elusione tributaria, tra principi comunitari e principi
nazionali, retro, 2010, 801 ss., in particolare 820 e 824; E. Marello, Elusione fiscale ed abuso
del diritto: profili procedimentali e processuali, in Giur. it., 2010, 1731 ss., in particolare 1733.
374 Caterina Corrado Oliva

trina non ha manifestato particolare attenzione per il problema dell’onere


della prova dell’abuso del diritto, dato che ha rarissimamente trattato del
problema e spesso si è semplicemente limitata a parafrasare le soluzioni
della giurisprudenza.
Si ritiene quindi possa esser utile affrontare il tema in questione, e af-
frontarlo con una prospettiva ed un esito particolare, e cioè per giungere
ad escluderne la rilevanza, non senza però prima aver esaminato ad uno
ad uno, seguendo il fil rouge delle «confusioni» della giurisprudenza sul
tema (anche perché l’abuso stesso è di matrice giurisprudenziale), i delicati
profili che essa più o meno avvertitamente involge (e cioè l’oggetto della
prova, l’onere di allegazione, il principio di non contestazione).
Tutto questo non solo con l’intento di contribuire, ove possibile, alla
chiarificazione del problema sul piano ordinamentale, ma anche con la
consapevolezza che, con un fugace e spesso autoreferenziale riferimento
alla ripartizione dell’onere della prova, talora sono decise le sorti di un
giudizio. Pertanto, specie per un processo che già ha per tema l’abuso del
diritto – e quindi un comportamento non normativamente sanzionato, ri-
messo alla valutazione (leggasi, discrezionalità) del giudice, che addirittura
può rilevarlo d’ufficio in sede di legittimità12 – è vieppiù necessario limitare
quella errata abitudine di utilizzare riferimenti all’onere della prova onde
giustificare, e mascherare, decisioni arbitrarie.
Ne risulterà come, anche in ragione di tale abuso che la giurisprudenza
effettua nel riferimento all’onus probandi, la regola dell’onere della prova
non rappresenta affatto un «baluardo», una garanzia per il contribuente che
subisca una contestazione di abuso del diritto tributario, contrariamente a
quanto possa apparire al primo esame.
La tutela del contribuente, in materia di abuso del diritto, ha, o meglio
dovrebbe avere, ben più saldi appigli.

2.  Fatti e giudizi nella fattispecie dell’abuso del diritto


Al fine di affrontare con ordine il problema, è utile eliminare prelimi-
narmente la principale ragione di confusione sopra rilevata e cioè sceve-
rare i fatti, che soli sono oggetto di prova, da giudizi e valutazioni13 che li

12
  In tal senso, ex plurimis, Cass. ss. uu., 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056, 30057; Cass.,
sez. trib., 9 dicembre 2009, n. 25726; Cass., sez. trib., 22 ottobre 2010, nn. 21692, 21693; Cass.,
sez. trib., 11 maggio 2012, n. 7393. Per una puntuale riflessione al riguardo F. Tesauro, Elusione
e abuso nel diritto tributario italiano, retro, 683 ss., nonché C. Glendi, Elusione tributaria e
bisogno di certezza giuridica, in Riv. giur. trib., 2006, 925.
13
  A proposito dell’impiego di termini valutativi, e della sua distinzione rispetto ai termini
descrittivi, con riguardo alla individuazione dei fatti e alla relativa prova, M. Taruffo, La prova
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 375

qualificano e che ad essi si intersecano in maniera difficilmente scindibile


in tema di abuso del diritto.
Per il momento, concentriamo la nostra attenzione sui fatti che han-
no rilevanza diretta ed immediata, e cioè quelli che sono individuati già
nell’ambito della nozione di abuso del diritto14, rinviando al successivo
paragrafo l’esame di quegli ulteriori fatti che possono essere utilizzati per
provare in via indiretta i primi (e cioè quelli che i processualcivilisti chia-
mano i «fatti secondari»15).

nel processo civile, Milano, 2012, 17 ss., scrive: «un enunciato valutativo può essere condiviso
o non condiviso, ma non può essere vero o falso, almeno per chi condivida la validità della
distinzione tra essere e dover essere. Quindi solo un enunciato formulato in termini descrittivi
è realmente apofantico e può essere dimostrato vero o falso». Poco oltre, il medesimo A. ag-
giunge «le valutazioni possono essere condivise, approvate o disapprovate, giustificate o criticate
con idonei argomenti, che possono anche avere una struttura razionale, ma non possono essere
provate nel senso rigoroso del termine, proprio perché non sono né vere né false». «Ciò implica
che se l’attore allega un fatto esprimendo su di esso un giudizio di valore, con ciò non defini-
sce propriamente un factum probandum ma qualcosa di diverso, eterogeneo e più complesso,
e quindi non definisce propriamente ciò che può essere oggetto di prova. Potrà essere vera o
falsa, e quindi potrà essere eventualmente provata, quella parte dell’enunciato che espressamente
o implicitamente si riferisce al verificarsi di un accadimento empirico. Quanto alla valutazione
formulata dall’autore dell’enunciato, questa potrà essere o non essere condivisa da altri – ad es.
dal giudice – ma non rappresenta oggetto di dimostrazione probatoria. Può dunque accadere
che il fatto in senso proprio risulti provato, ma che il giudice non condivida la valutazione che
la parte ne ha formulato nell’enunciarlo».
Ancora più significativamente, con riguardo alle espressioni valutative contenute nelle fatti-
specie normative, il medesimo Autore, nell’opera citata, a pag. 20 e ss., scrive che si ha un «fatto
valutativamente determinato [...] quando la norma di riferimento definisce il fatto giuridicamente
rilevante impiegando termini valutativi invece che – od oltre a – termini descrittivi». «Si tratta
– prosegue l’A. – di una situazione molto frequente, poiché spesso la rilevanza giuridica di una
circostanza viene riferita non tanto al suo verificarsi come fenomeno empirico, quanto ad un
aspetto valutativo di essa: basta pensare ad ipotesi come quelle della «giusta causa», «condotta
riprovevole», «amministrazione corretta», «convivenza intollerabile», «danno grave», e così via
elencando. In questi casi l’enunciato che si riferisce ad un fatto valutativamente determinato
conterrà a sua volta termini valutativi, dato che il fatto in questione dev’essere ricondotto ad
una norma che lo determina valutativamente. Ciò non toglie tuttavia, come si è già accennato,
che oggetto di prova non sia la componente valutativa nella determinazione del fatto ma la sua
componente empirica: per stabilire che una condotta è riprovevole bisogna accertare che una
certa condotta ha avuto luogo con certe modalità; poi si valuterà se essa è o non è riprovevole.
Per stabilire che un danno è grave bisognerà accertare che un danno si è verificato e che esso ha
un certo controvalore monetario; poi si valuterà se esso è o non è grave».
14
  Con terminologia processualcivilistica, desunta dall’art. 2697 c.c., diremmo i fatti costituti-
vi, da un lato, e i fatti impeditivi, estintivi, modificativi, dall’altro lato, anche se fin d’ora è bene
precisare che tali terminologie non sono perfettamente applicabili al processo tributario per le
ragioni precisate supra, nota n. 2.
15
  S. Patti, Le prove. Parte generale, in Trattato di diritto privato a cura di G. Iudica e P.
Zatti, Milano, 2010, 2 scrive «è principale il fatto costitutivo del diritto dedotto in azione; come
pure il fatto impeditivo, modificativo od estintivo dedotto in eccezione. È secondario il fatto che
376 Caterina Corrado Oliva

Solitamente, per individuare quali siano questi «principali» fatti16, si fa


riferimento alla fattispecie legale astratta17, ma, nel ca-so, non si può che

consente di acquisire l’elemento principale secondo il già descritto meccanismo probatorio indi-
retto». Anche G. Tarzia, Il litisconsorzio facoltativo nel processo di I grado, 1972, Giuffré, 350,
fornisce una chiarissima definizione di fatti giuridici o principali come «quelli che concorrono
a costituire la fonte del diritto dell’attore o del convenuto», laddove i fatti secondari o semplici
sono quelli «dai quali direttamente o indirettamente possa desumersi l’esistenza o l’inesistenza o
comunque un modo di essere dei fatti giuridici». Ancora, A. Proto Pisani, Allegazione dei fatti
e principio di non contestazione nel procedimento civile, in Foro it., 2003, 604, in particolare 605,
scrive: «come è noto la distinzione tra fatti principali e fatti secondari attiene alla circostanza
che talvolta non si vuole e, soprattutto, non si può provare «direttamente» attraverso una fonte
materiale di prova (ispezione, documento, dichiarazione di scienza) il singolo fatto principale ma
questo può essere provato solo indirettamente tramite l’intermediazione di un altro fatto (fonte
di presunzione ex art. 2727 e 2729 c.c.), il fatto secondario di cui è acquisita la conoscenza al
processo tramite una fonte materiale di prova».
Sulla distinzione tra fatti principali e fatti secondari (o semplici), si vedano altresì M. Ta-
ruffo, Note in tema di giudizio di fatto, in Riv. dir. civ., 1971, 33 ss.; Id., Le preclusioni nella
riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 1992, 300; A. Proto Pisani, Allegazione dei fatti e
principio di non contestazione nel processo civile, in Foro it., 2003, 604; C. Ferri, Struttura del
processo e modificazione della domanda, Padova, 1975, 92 ss., E.T. Liebman, Manuale di dirit­
to processuale civile, IV ed., Milano, 1980, 173; C. Mandrioli, Riflessioni in tema di «petitum»
e «causa petendi», in Riv. proc. civ., 1984, 475, L.P. Comoglio, voce Allegazione, in Dig. disc.
priv. (sez. civ.), Torino, 1987, 279; A. Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova,
1991, 67 ss., C. Consolo, Un codice di procedura civile «seminuovo», in Giur. it., 1990, IV,
434; S. Chiarloni, Prime riflessioni su valori sottesi alla novella del processo civile, in Riv. dir.
proc., 1991, 675 ricorda peraltro che se la distinzione tra fatti principali e fatti secondari ap-
pare chiara a livello teorico, essa poi diviene evanescente allorché verificata nel concreto delle
singole fattispecie.
Non si può dire che la distinzione in questione sia invece approfondita dagli studiosi del
processo tributario, i quali, se, particolarmente con riguardo all’onere della prova, richiamano la
classificazione dei fatti costitutivi, estintivi, modificativi, impeditivi, non trattano praticamente
mai dei fatti secondari. Li valorizza, invece, il Glendi, individuando come tali anche quelli che la
restante dottrina definisce come principali, in ragione della particolare configurazione dei motivi
nella sfera della pregiudizialità secondo la ricostruzione del processo tributario di tale A., su cui
infra, nota n. 40. Si veda C. Glendi, voce Processo tributario, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2005,
Vol. Agg. XIII e C. Glendi, Prova testimoniale, principio dispositivo, onere della prova e oggetto
del processo tributario, in GT – Riv. giur. trib., 2007, 741.
16
  L’inversione dell’aggettivo «principali» rispetto all’usuale formula «fatti principali» ha il
fine di evidenziare che, in questa sede, il termine è usato in maniera atecnica e non vale ad intro-
durre la distinzione tra fatti principali e fatti secondari ben nota alla dottrina processualcivilistica,
distinzione che non è universalmente considerata applicabile al processo tributario (in senso
contrario, C. Glendi, cfr. nota precedente).
17
  A. Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel procedimento
civile, in Foro it., 2003, 604, significativamente scrive: «la determinazione dei fatti da provare deve
muovere necessariamente dalla individuazione ed interpretazione della norma, della fattispecie le-
gale astratta sotto cui sussumere il diritto fatto valere dall’attore in giudizio»; indi, l’A. prosegue:
«individuata ed interpretata la norma, suscettibili di prova saranno tutti i fatti che alla stregua
della fattispecie legale astratta assurgono al rilievo: a) di fatti costitutivi, normalmente allegati
al giudizio dall’attore e posti a fondamento del diritto fatto valere in giudizio [...]; b) di fatti
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 377

trarre le mosse dalla nozione giurisprudenziale dell’abuso del diritto, dato


che, come è ben noto, il principio non ha (ancora) un recepimento nor-
mativo.
L’abuso del diritto, secondo l’individuazione della più matura giuri-
sprudenza18 e della più autorevole dottrina19, si evidenzia quando una o
più operazioni negoziali tra loro collegate effettuate dal contribuente pre-
sentano tre requisiti:
– uso distorto degli strumenti giuridici, con aggiramento dei principi e
dello spirito (non violazione) di una norma tributaria;
– indebito vantaggio fiscale;
– assenza di valide ragioni economiche.
Al ricorrere delle tre condizioni menzionate, l’Amministrazione è le-
gittimata a disconoscere, ai soli fini fiscali, gli effetti delle operazioni poste
in essere dal legislatore.
Così brevemente descritta la fattispecie astratta del divieto di abuso,
occorre dunque tentare di individuare quali siano, all’interno di essa, i fatti,
eliminando da essi tutto ciò che appartiene al giudizio e alla loro valuta-
zione, in quanto non oggetto di prova.
Ne risulterà che tali fatti sono pochi, marginali20 e solitamente pacifici
tra le parti.

impeditivi, modificativi o estintivi, normalmente allegati al giudizio dal convenuto e posti a fon-
damento delle eccezioni». «Questi fatti, immediatamente rilevanti, si chiamano fatti principali».
18
  Quanto alla definizione dell’abuso del diritto e alle sue conseguenze, si veda, per tutte,
Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30055, in Corr. trib., 2009, 411 e ss., che ha così sancito:
«in materia tributaria esiste un generale principio antielusivo la cui fonte, in tema di tributi non
armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria, quan-
to piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano.
In particolare non può non ritenersi insito nell’ordinamento – come diretta derivazione delle
norme costituzionali – il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi
fiscali dall’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti
giuridici idonei a ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili
che giustifichino l’operazione, diversa dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale. Il riferito
principio non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione
di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi
di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta
l’inopponibilità del negozio all’amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantag-
gio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso
da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in
vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione».
19
  Non è qui possibile, ovviamente, elencare i numerosissimi contributi dottrinali sull’abuso
del diritto nel processo tributario e quindi sia consentito il rinvio al presente e all’ultimo numero
della rivista (retro, n. 4 del 2012) in cui sono riportate le relazioni di un recente convegno sul
tema all’Università di Macerata, relazioni che hanno coperto i vari profili del tema.
20
  A rigore, è la prova dei fatti ad essere del tutto marginale rispetto all’oggetto della lite.
378 Caterina Corrado Oliva

Vediamo quali sono i fatti, nei requisiti menzionati, separandoli rigo-


rosamente dai giudizi.
È, in primo luogo, un fatto la esistenza ed efficacia del negozio giuridi-
co, o della serie collegata di negozi giuridici, che l’Amministrazione ritiene
abusivi e di cui intende disconoscere gli effetti fiscali. È, però, oggetto di
una valutazione, di un giudizio, la disquisizione circa la loro idoneità ad
aggirare la norma, la distorsione del sistema da essi provocata, la differenza
tra l’operazione realizzata e l’operazione che si considera normale.
Solo l’esistenza e l’efficacia del negozio, o dei negozi, quindi, sarà ogget-
to di prova, e non la valutazione di asistematicità, di anomalia dello stesso.
La prova del negozio (o dei negozi), tra l’altro, non crea particolari
problemi; essa è per lo più documentale, posto che si possono produrre
direttamente i contratti, se scritti, ed è accessibile dalla stessa Ammini-
strazione dato che è sovente desumibile dalle scritture contabili o dalla
dichiarazione del contribuente21.
Soprattutto, nella maggior parte dei casi, non vi è contestazione di sorta
al riguardo, posto che il contribuente intende valersi degli effetti, anche
fiscali, di quel contratto e quindi non ne contesta l’esistenza, e l’Ammini-
strazione dal canto suo ne riconosce l’esistenza ma ne disconosce soltanto
gli effetti sul piano fiscale.
Non vi è quindi, di solito, alcuna controversia tra le parti circa l’esisten-
za del negozio, o dei negozi collegati, ma soltanto circa la sua eventuale
portata distorsiva, l’indebito vantaggio fiscale che essa procura, l’assenza
di valide ragioni economiche, che sono i profili in base ai quali sono rico-
nosciuti o meno i relativi effetti fiscali.
La prova dell’esistenza dell’operazione, o della serie di operazioni col-
legate, quindi, è semplicissima, spesso non è neppure necessaria perché le
parti non ne contestano assolutamente la veridicità. La «battaglia» è tutta
su un altro piano, quello della sua qualificazione giuridica e fiscale. In que-
sto senso, quindi, si è detto che la prova del fatto è «marginale» rispetto
alla lite che verte piuttosto sulla valutazione di esso.

La controversia tra le parti, generalmente, non riguarda la prova dei fatti; il dibattito, il punto
delicato dei giudizi in tema di abuso del diritto, infatti, è sulla parte valutativa dei fatti, sulla
portata distorsiva delle operazioni, sulla validità delle ragioni economiche alternative e diverse
dal vantaggio fiscale, etc.
21
  L’osservazione è di E. Marello, Elusione fiscale ed abuso del diritto: profili procedimen­
tali e processuali, op. cit., 1734, il quale scrive «la prova dell’efficacia generica del negozio non
costituisce in realtà un vero problema, in quanto se il contribuente intende rendere efficace nei
confronti dell’amministrazione un negozio (che si ritiene abusivo), ne indicherà i corrispettivi
già in contabilità e nella dichiarazione».
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 379

Potrebbe apparire più complessa, ma in realtà non è diversa, l’ipotesi


in cui la condotta abusiva è contestata non con riguardo ad un singolo
negozio, ma ad una serie collegata di operazioni. In questo caso, il fatto
da provare riguarda la esistenza delle operazioni negoziali ed ha, quindi, le
stesse caratteristiche della prova del singolo contratto. Il collegamento tra
i negozi, infatti, non è un fatto accertabile, ma è frutto di una valutazione
dell’Amministrazione (o della Cassazione!22) che ravvisa l’abuso proprio
nella anomala connessione di essi. Anche il collegamento rilevante nelle
fattispecie dell’abuso, dunque, è frutto di una valutazione e non è un fatto
da provare23.
Veniamo ora più propriamente ai requisiti del negozio (o negozi colle-
gati) che ne determinano l’abusività.
Il primo requisito dell’abuso ha riguardo all’uso distorto degli strumenti
giuridici con aggiramento della norma, e cioè al perseguimento, mediante
quel negozio (o serie di negozi), di un fine contrario o diverso rispetto a
quello che era previsto dalla norma. Nel primo requisito, dunque, non vi
sono fatti da provare in via immediata, dato che la verifica dell’uso distorto,
dell’aggiramento, è oggetto di un giudizio e non di una prova.
Quanto al secondo requisito, l’indebito vantaggio fiscale, occorre nuo-
vamente sceverare il fatto dal giudizio. L’esistenza di un vantaggio fiscale,
cioè di un risparmio di imposta numericamente determinato, è un fatto. È,
precisamente, un calcolo, anzi proprio il calcolo posto alla base dell’avviso
di accertamento (o che dovrebbe esser posto alla base dell’avviso). Invece,
la circostanza che esso sia indebito, in quanto scaturisce da un aggiramento
dello spirito della norma, è ancora una questione valutativa, connessa con
il primo requisito24, che non entra nel giudizio sul fatto e non è oggetto
di prova.

22
  Il riferimento polemico è ovviamente alla rilevabilità d’ufficio anche in sede di legittimità
dell’abuso del diritto.
23
  Pare, invece, trascendere dalla prova dei fatti alla loro valutazione, E. Marello, Elusione
fiscale ed abuso del diritto: profili procedimentali e processuali, in Giur. it., 2010, 1731 ss., in par-
ticolare 1734, laddove scrive «in caso di pluralità di atti che l’Amministrazione ritiene collegati,
va provato il collegamento causale. E questo spetta all’Amministrazione, che dovrà, sulla scorta
dei documenti emersi nel corso dell’istruttoria, dare la prova del collegamento tra i differenti atti
e della loro inscindibile valutazione complessiva. I documenti dovranno dimostrare che le obbli-
gazioni sorgenti negli atti che si ritengono collegati hanno avuto una genesi ed un adempimento
guidati dal medesimo intento negoziale».
24
  Con nettezza e puntualità, A. Di Pietro, negli Atti del Convegno tenutosi a Bologna, il
13 dicembre 2010, sul tema Teoria e pratica dell’abuso del diritto nel processo tributario, è così
intervenuto a definire «le aggettivazioni ricorrenti nella nozione di divieto di abuso: distorto, per
quanto attiene all’utilizzo di norme e/o strumenti negoziali, ed indebito, per ciò che concerne
il risparmio di imposta».
380 Caterina Corrado Oliva

Con riguardo alla prova del vantaggio fiscale, da un punto di vista nu-
merico, alcuna dottrina ha sottolineato, sulla scia della giurisprudenza in
proposito, la necessità di desumerla da un confronto con il negozio (o la
serie di negozi) che sarebbe normale. È bene precisare che si tratta, anche in
questo caso, non di un fatto da provare, ma di una argomentazione da svol-
gere; invero, il confronto va effettuato non con una operazione negoziale
reale ed esistente, che possa essere oggetto di prova, ma semplicemente con
un astratto negozio considerato normale. La individuazione del negozio
normale, da cui desumere la corretta imposizione della fattispecie, nasce
da valutazioni e non da fatti.
Anche per il terzo requisito, l’assenza delle valide ragioni economiche,
la parte valutativa è assolutamente preponderante su quella fattuale.
È infatti evidente che ciò che conta non è tanto l’esistenza di una qual-
sivoglia ragione economica, quanto piuttosto la sua validità. E la verifica
della validità non è un fatto da accertare, ma una valutazione da effettuare.
La giurisprudenza chiamata a specificare il significato di tale «validità», che
deve qualificare le ragioni economiche per escludere l’abuso, ha utilizzato
altri vari aggettivi: «prevalenti» o «essenziali», «non marginali» etc. A pre-
scindere dal dibattito sulla scelta degli aggettivi che traducano l’aggettivo
validità utilizzato nella fattispecie astratta dell’abuso del diritto, resta che
siamo nuovamente, e decisamente, sul piano del giudizio e non ricorre un
problema di prova del fatto. Come è valutazione quella sulla validità, così
è una valutazione anche quella che la individua come prevalenza o non
marginalità rispetto alla ragione di risparmio di imposta.
L’unico fatto oggetto di prova, come si è detto, è l’esistenza di tali ra-
gioni, non le loro caratteristiche.
Si tratta di un fatto psicologico e formulato al negativo, due elementi,
questi, che generalmente complicano non poco i profili probatori; ma, nel
caso della prova dell’assenza delle valide ragioni economiche nell’abuso del
diritto, non si riscontrano grandi difficoltà.
Con riguardo alla prova del fatto psichico25, che solitamente è con-

25
  Bene definisce il fatto psichico e il problema della sua prova, M. Taruffo, La prova nel pro­
cesso civile, Milano, 2012, 21-22, ove si legge: «il fatto non è costituito da un evento materiale ma
da uno stato mentale, una condizione psicologica, un atteggiarsi della volontà o una condizione
emotiva. Si tratta delle numerose ipotesi in cui la «conoscenza» o la «volontà» di un soggetto
rispetto a qualcosa rilevano come produttive di effetti giuridici». «Anche la categoria del fatto
psichico, dunque, è quanto mai ampia e varia: essa suscita problemi di notevole difficoltà quando
si tratta sia di enunciare questi fatti in modo tale che l’enunciato possa considerarsi vero o falso, e
quindi sia suscettibile di prova, sia quando si tratta di fornirne la dimostrazione psicologica». Lo
stesso A. si è occupato più diffusamente del problema in M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici.
Nozioni generali, Milano, 1992, 136 ss.
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 381

siderata difficile perché non è possibile verificare l’animo delle persone


e conoscere con certezza le ragioni che le hanno spinte ad assumere un
determinato comportamento, occorre tuttavia rilevare come nel caso di
specie il problema è piuttosto stemperato: la giurisprudenza invero richiede
la prova che alcune ragioni vi siano e siano oggettivamente plausibili con
le circostanze del caso, ma non si pone il problema di verificare che effet-
tivamente quelle ragioni, e non altre, fossero alla base del comportamento
soggettivo del contribuente.
Quanto alla formulazione negativa26, essa ha fatto sì che la giurispruden-
za abbia attribuito al contribuente la prova del fatto positivo incompatibile,
e cioè appunto quello della sussistenza di valide ragioni economiche27; non
senza prima precisare che l’Amministrazione dovrebbe in prima battuta
comunque individuare il fine del vantaggio fiscale come unico possibile.
La distinzione tra quanto è attribuito ad una parte e quanto all’altra è co-
munque labile nella giurisprudenza e perde poi ogni nettezza anche perché
inficiata dalle connotazioni valutative delle ragioni dedotte.
A prescindere dai problemi suddetti, su cui molto si sono soffermati i
giudici, se sia la Amministrazione a dover dimostrare l’assenza di esse o il
contribuente a dover provare la loro sussistenza, nel rispetto del generale

26
  M. Taruffo, La prova nel processo civile, Milano, 2012, 21, evidenzia il problema, scriven-
do «un’altra situazione problematica si verifica quando una norma determina negativamente
un fatto, attribuendo rilevanza al suo mancato verificarsi. Un fatto determinato negativamente
viene enunciato in termini negativi («non è vero che F...»), ma problemi rilevanti possono sorgere
quanto alla prova di un fatto così definito. A parte il tradizionale brocardo negativa non sunt
probanda, rimane che in molti casi risulta impossibile fornire la prova diretta di un fatto nega-
tivo, mentre può essere più agevole fornirne una prova indiretta, attraverso la dimostrazione di
fatti incompatibili con il suo verificarsi (come nel caso dell’alibi). È chiaro però che ciò implica
una differenza tra il fatto come è definito dalla norma di riferimento e il fatto che rappresenta
effettivamente oggetto di prova».
27
  Si vedano, al riguardo, le attente riflessioni di A. Marcheselli, Equivoci e prospettive della
elusione tributaria, tra principi comunitari e principi nazionali, retro, 2010, I, 801 ss., in partico-
lare 820, laddove l’A. si domanda se l’attribuzione da parte della giurisprudenza al contribuente
dell’onere di provare la sussistenza delle valide ragioni economiche sia una inversione dell’onere
della prova o meno. L’A. rigorosamente sottolinea che una siffatta inversione dovrebbe scaturire
da una previsione di legge, che tuttavia nella fattispecie non sussiste. Ancora, l’A. considera la
possibilità che l’inversione sia riconnessa ad una presunzione giurisprudenziale: sennonché anche
tale ipotesi viene scartata perché una tale presunzione dovrebbe fondasi su una ragionevolezza
empirica e cioè se fosse «statisticamente normale» che un risparmio fiscale sia elusivo e privo di
ragioni economiche ulteriori, ciò che invece appare dubbio. Per conseguenza, l’A. esclude vi sia
una inversione dell’onere della prova ed invece riconosce un vero e proprio onere della prova
in capo al contribuente, in quanto soggetto più vicino alla prova, quanto alla sussistenza delle
valide ragioni economiche. Tra l’altro, la sussistenza di tali ragioni è ricondotta agli oneri proba-
tori del contribuente anche perché può considerarsi come fatto impeditivo della configurazione
dell’elusione.
382 Caterina Corrado Oliva

brocardo secondo cui negativa non sunt probanda e anche dalle difficoltà
generalmente legate alla prova di un fatto psicologico, quale è appunto
l’aver compiuto un determinato atto in virtù di un determinato fine (la «ra-
gione»), anche in questo caso buona parte dell’accertamento del requisito,
ed ogni discussione in proposito, si svolge su un piano diverso da quello
della prova del fatto.
Riassumendo, l’abuso del diritto si fonda quindi preminentemente su
valutazioni e poco su fatti di cui accertare l’esistenza o meno. I pochi fatti
direttamente rilevanti da provare sono: l’esistenza ed efficacia del negozio
(o dei negozi collegati), la sussistenza di un vantaggio fiscale (nel senso,
materiale, di minor pagamento di imposta) che si desume dal confronto con
l’operazione considerata normale, e la sussistenza di ragioni economiche.
Tali fatti, peraltro, come si è detto, sono marginali nel giudizio, facili da
provare e spesso pacifici tra le parti.
Queste considerazioni preliminari possono apparire ovvie, dato che è
del tutto evidente che un giudizio su un fatto non è un fatto da prova-
re; eppure, la enorme confusione della giurisprudenza in proposito, ed il
silenzio della dottrina, hanno reso necessario precisare che non vi è una
possibile prova, e tantomeno un onere della prova, sulla validità di una
ragione economica o sulla portata distorsiva di una operazione.
3.  Il problema dei fatti indirettamente rilevanti
La ricostruzione dei fatti da provare effettuata al precedente paragrafo
potrebbe però apparire semplicistica, non tanto per la espunzione dei giu-
dizi, che anzi era doverosa, quanto piuttosto perché tiene conto soltanto
dei fatti direttamente menzionati nella fattispecie legale astratta, alias la
«fattispecie giurisprudenziale astratta», dell’abuso del diritto, e non di tutti
quei fatti che, pur non menzionati in essa, possono essere comunque og-
getto di prova in un processo sull’abuso del diritto.
A ben vedere, infatti, nel corso di un processo per abuso del diritto,
possono venire in rilievo anche molti fatti differenti da quelli specifica-
mente menzionati nella fattispecie ed individuati nel paragrafo precedente.
Ci si deve, dunque, chiedere che ruolo abbia la prova di questi ulteriori
fatti e se essi pongano eventualmente un problema di onere della prova.
I fatti possono essere numerosi, perché oltre a quei (pochi) direttamente
desumibili dalla fattispecie astratta dell’abuso del diritto, immediatamente
rilevanti, debbono considerarsi anche quelli che possono esser strumento
per la prova indiretta dei primi mediante ragionamento inferenziale.
Per provare, ad esempio, che esiste una valida ragione economica alla
base di una operazione di fusione che l’amministrazione contesta come
abusiva, il contribuente può addurre di avere inteso riorganizzare in manie-
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 383

ra più logica il proprio gruppo di società, eliminando duplicazione inutile


di costi. Per fornire prova di tale suo intendimento, egli può fare riferimen-
to ad altri fatti che, in via indiretta, dimostrino tale sua ragione economica,
tale suo intento, e così consentano al giudice di apprezzarne la validità.
Questi altri fatti potrebbero essere rappresentati dalla prova dell’acqui-
sto di un altro gruppo societario e della intervenuta fusione di tutte le
società che, nell’ambito dei due gruppi, avevano analoghe funzioni, onde
aumentare le economie di scala e migliorare l’organizzazione. Allegando e
provando l’acquisto di un altro gruppo, gli atti di fusione di tutte le società
dei due gruppi, si può provare che appunto la fusione è stata determinata
da una ragione economica di riorganizzazione28.
Tutti i fatti menzionati, però, ruotano intorno alla prova di un fatto,
l’esistenza delle valide ragioni economiche, direttamente menzionato dal
principio del divieto di abuso del diritto come elemento idoneo ad impe-
dirne la sussistenza.
Per giungere a tale giudizio di prevalenza, di validità delle ragioni ad-
dotte, ci si può affidare semplicemente alla forza e pregnanza di esse oppu-
re si possono evidenziare altri fatti che, una volta provati, lascino desumere
la non marginalità delle ragioni economiche evidenziate.
Ancora, la prova della sussistenza di un negozio, qualora non fosse otte-
nibile in via diretta mediante la produzione del contratto o della contabilità
del contribuente, e nelle limitate ipotesi in cui effettivamente la circostanza
risultasse contestata e non provata, si potrebbe desumere anche in via in-
ferenziale dal comportamento delle parti di adempimento delle rispettive
obbligazioni contrattuali, dalla documentazione bancaria di pagamento del
prezzo, e così via.
Una riflessione esemplificativa su tali fatti, che con formulazione atecni-
ca abbiamo chiamato «indirettamente rilevanti»29, può effettuarsi anche con
riguardo ad altro requisito dell’abuso, quello relativo al vantaggio fiscale
dell’operazione, vantaggio da determinarsi rispetto all’operazione consi-
derata normale.
La normalità di un determinato negozio e correlativamente la anomalia
di quello contestato certamente non sono fatti ma giudizi. Normalità e
anomalia, peraltro, sempre che non risultino evidenti già a livello argo-
mentativo, possono essere indirettamente desunte allegando alcuni fatti che

28
  L’esempio è tratto dal caso concreto oggetto della sentenza di Cass., sez. trib., 21 gennaio
201 n. 1372, in Corr. trib., 2011, 673, con nota di D. Stevanato, Ancora un’accusa di elusione
senza «aggiramento» dello spirito della legge.
29
  Cfr. le precisazioni esposte supra, alla nota 2.
384 Caterina Corrado Oliva

possono essere oggetto di prova. Si potrebbe allegare ad esempio il fatto


che quel contribuente ha sempre effettuato quella operazione in maniera
diversa da quella realizzata, o che la generalità dei contribuenti si compor-
ta in quel determinato modo considerato valido dall’Amministrazione e
provare tali circostanze producendo, ad esempio, documentazione relativa
alle modalità seguite in diverse occasioni da quello o da tanti altri contri-
buenti30. Se poi il fatto, con riguardo al comportamento della generalità dei
contribuenti, fosse una «massima di esperienza», non vi sarebbe neppure
necessità di provarlo31.
Si tratta, in ogni caso, non di fatti immediatamente rilevanti, ma di fatti
da cui desumere in via inferenziale la prova di altro fatto o da cui trarre
il convincimento di una valutazione indicati, essi soltanto, nella fattispecie
dell’abuso.
Questa precisazione è importante.
La rilevanza soltanto indiretta dei fatti in questione, infatti, la circo-
stanza che essi non siano enunciati nella fattispecie astratta dell’abuso del
diritto, comporta che, se pur può porsi per essi un problema di prova, non
potrà certamente mai aversi un problema di onere della prova.
L’onere della prova, quale regola decisoria finale, si applica soltanto
quando resta incerto un fatto che è oggetto della decisione. In quel caso,
il giudice decide di attribuirne la conseguenza sfavorevole alla parte che
aveva l’onere di provarlo in giudizio.
Quando peraltro l’incertezza riguarda un fatto indirettamente rilevante,
essa opera in via indiretta anche sull’oggetto della decisione e non deter-
mina affatto l’applicazione inevitabile della regola dell’onere della prova.
Se infatti rimane incerto un fatto che era stato addotto per fornire la prova
di un altro fatto menzionato nella fattispecie dell’abuso, le conseguenze
possono essere varie.

30
  P. Russo, L’onere probatorio in ipotesi di «abuso del diritto» alla luce dei principi elaborati
in sede giurisprudenziale, op. cit., 1309, ha peraltro opportunamente ricordato come la Corte di
Giustizia europea (CGUE, sent. C-103/09, 22 dicembre 2009) ritenga che la anormalità delle
operazioni contestate non può essere provata dal fatto che esse non sono normalmente poste in
essere dal contribuente interessato, dato che: «la constatazione della esistenza di una pratica abu-
siva deriva non dalla natura delle operazioni commerciali cui si dedica normalmente il soggetto
... bensì dallo scopo, dalla finalità e dagli effetti di tali operazioni». A parte tale rilievo, corretto,
comunque va osservato che il comportamento ordinario del contribuente può comunque avere
importanza, sul piano indiziario, sia perché può evidenziare quali siano i comportamenti nor-
malmente seguiti in generale sia perché può appunto essere significativo proprio per desumere
lo scopo, l’intento da egli realmente perseguito.
31
  Cfr. art. 115, 2o comma, c.p.c., a mente del quale «il giudice può tuttavia, senza bisogno
di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatti che rientrano nella comune
esperienza».
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 385

O il giudice ritiene che il fatto principale, menzionato nella fattispecie,


è stato comunque provato, eventualmente grazie ad altri elementi, indi-
pendentemente dal fallimento della prova sul fatto indiretto, e allora non
si pone alcun problema di onere della prova.
Ovvero, il giudice ritiene non provato il fatto principale e quindi appli-
ca la regola decisoria finale; ma la applica, si noti, non perché non è stato
provato il fatto indirettamente rilevante, bensì perché non è stata raggiunta
la prova del fatto principale menzionato nella fattispecie legale astratta.
Soltanto i fatti enucleati all’interno della fattispecie astratta dell’abuso
del diritto – e cioè quei fatti che nel processo civile si chiamerebbero fatti
principali – potrebbero eventualmente32, ove rimanessero incerti, porre un
problema di regola decisoria finale secondo l’insegnamento tradizionale ed
il sistema processualcivilistico33 e quindi di onere della prova.
I fatti che, invece, rilevano in via indiretta ai fini della prova di quelli
menzionati nella fattispecie dell’abuso – i c.d. fatti secondari, nel diritto
processuale civile – possono essere oggetto di prova ma non pongono cer-
tamente mai un problema di onere della prova.
Non è questa la sede per affrontare il delicato tema dell’onere della
prova nel processo tributario e pertanto manteniamo generiche queste af-
fermazioni, che in maniera volutamente atecnica richiamano nozioni ben
note al diritto processuale civile, quale la distinzione tra fatti principali e
fatti secondari, distinzione la cui validità per il processo tributario non è
affatto scontata34.
A prescindere da tali questioni, è qui importante considerare come,
secondo nozioni universalmente condivise dai processualcivilisti, un pro-
blema di onere della prova può porsi solo e soltanto con riguardo ai fatti
menzionati nella fattispecie legale astratta. E così, erra e si confonde la giu-

32
  L’avverbio è riferito al fatto che in dottrina vi è chi ritiene non vi siano fatti incerti nell’og-
getto della decisione nel processo trubutario e che tutti i fatti siano secondari in tale processo (C.
Glendi, per le cui tesi e riferimenti al riguardo, si rinvia alla nota n. 40).
33
  La regola dell’onere della prova è enunciata in linea generale, per il diritto processuale
civile, all’art. 2697 c.c., rubricato appunto Onere della prova, il quale come è ben noto recita
«Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l’eccezione si fonda». La norma, nella sua formulazione, contiene già in
sé l’origine della classificazione dei fatti in costitutivi, impeditivi, modificativi ed estintivi e così
chiarisce che la regola in questione si riferisce soltanto ai fatti principali, cioè quelli che fondano
la domanda o l’eccezione affermata in giudizio. Per un’esegesi della norma, e la «semplificazione
analitica della fattispecie» nei suoi fatti principali (cioè, appunto, costitutivi, estintivi, modifica-
tivi, impeditivi) che essa comporta, cfr. S. Patti, Le prove. Parte generale, in Trattato di diritto
privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2010, 49 e passim capitolo II.
34
  Si rinvia alle precisazioni fornite supra, alla nota n. 2.
386 Caterina Corrado Oliva

risprudenza allorché menziona l’onere della prova con riguardo a fatti in-
direttamente rilevanti, i quali certamente possono essere oggetto di prova,
ma mai comportano come conseguenza immediata e diretta l’applicazione
della regola decisoria finale.
E così, risulta confermato che un eventuale problema di onere della pro-
va può porsi soltanto con riguardo a quei pochi e marginali fatti individuati
nel paragrafo precedente e menzionati nella fattispecie giurisprudenziale
astratta dell’abuso del diritto.
Converrà, a questo punto, fare un passo indietro, perché occorre con-
siderare che un fatto, prima di essere oggetto di prova, pone il problema
della sua allegazione in giudizio e della eventuale non contestazione ad
opera della controparte.

4.  Allegazione e non contestazione nei processi sull’abuso del diritto


tributario
Delimitato come sopra l’ambito del giudizio di fatto nei processi verten-
ti in tema di abuso del diritto, si comprende quanto angusto sia lo spazio
della prova e dell’istruttoria nei processi che hanno per tema l’abuso del
diritto, e conseguentemente anche quello dell’onere della prova; ché, anzi,
come si è visto, quest’ultimo è profilo reso ancor più marginale dato che
riguarderebbe comunque solo i pochi fatti direttamente menzionati nella
fattispecie dell’abuso del diritto.
Ma ogni problema di prova, e di eventuale applicazione della regola
dell’onere della prova, è anche enormemente ridotto per altra significativa
ragione.
I pochi fatti, che astrattamente potrebbero necessitare di una prova, e
quindi che potrebbero restare incerti, nella pratica dei processi in materia
di abuso del diritto non la richiedono quasi mai, giacché su di essi non vi
è contrasto tra le parti35.
Come già si è anticipato, nei processi sull’abuso, invero, non vi è, di
solito, contestazione circa l’esistenza e l’efficacia di un determinato negozio
giuridico o di una serie di operazioni tra loro collegate, che sono ricono-
sciuti da entrambe le parti. Quel che si contesta è se quel negozio o serie

35
  A. Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel procedimento ci­
vile, in Foro it., 2003, 604, in particolare 606, significativamente chiarisce il rapporto tra la prova,
possibile solo con riguardo ai fatti, e il principio di non contestazione, che esclude la necessità
della prova, scrivendo che «solo i fatti, principali o secondari, rilevanti possono formare oggetto
di prova, ma non tutti i fatti rilevanti hanno bisogno di prova». Invero, «i fatti non contestati
sono posti fuori dal thema probandum, non hanno bisogno di essere provati».
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 387

di negozi abbiano o meno valenza distorsiva, se realizzino un aggiramento


di una norma.
Il contrasto tra le parti, quindi, non è mai (o quasi mai) sul fatto, che
non è contestato, quanto sulla sua interpretazione e valutazione.
Opera, cioè, il principio di non contestazione36, secondo il quale, ex art.
115 c.p.c., i fatti allegati e non specificamente contestati non abbisognano
di essere provati. E, questo, tra l’altro, vale per ogni tipo di fatto, sia per
quelli direttamente menzionati nella fattispecie dell’abuso sia per quelli che
abbiamo chiamato indirettamente rilevanti37.

36
  In passato, allorché il principio di non contestazione aveva portata solo giurisprudenziale,
si poneva il delicato problema della individuazione delle ipotesi di non contestazione, al fine di
verificare se, ad escludere la prova di un fatto, ed il correlativo onere probatorio, fosse sufficiente
un atteggiamento passivo della controparte, ad esempio un mero silenzio, oppure occorresse
un’esplicita ammissione. Aveva affermato che, ai fini di escludere la prova di un fatto, non sa-
rebbe sufficiente una mera «non contestazione» del medesimo ex adverso ma occorrerebbe una
esplicita sua «ammissione», F. Carnelutti, Prova civile, op. cit., 23 ss. In senso contrario, sulla
distinzione tra non contestazione e ammissione esplicita, cfr. L.P. Comoglio, Le prove, in Trat­
tato di diritto privato diretto da P. Rescigno, Vol. 19, tomo 1, III, 182, il quale sottolineava che
mentre la non contestazione escluderebbe provvisoriamente la prova, senza però precludere la
contestazione successiva, possibile fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, la ammis-
sione esplicita, invece, fornirebbe una prova completa.
Oggi, peraltro, il problema è risolto dal diritto positivo, che ha rimarcato il valore di un
atteggiamento anche meramente passivo della parte non contumace. La riforma del diritto pro-
cessuale civile, operata con l. n. 60 del 2009, ha invero modificato l’art. 115 c.p.c. sancendo che
«il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico
ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita». Per un commento
alla nuova normativa, si veda S. Patti, Le prove. Parte generale, op. cit., 13 ss.
37
  Contra S. Patti, Le prove. Parte generale, op. cit., 2, il quale richiama, per condividere,
l’affermazione della Suprema Corte, a sezioni unite (Cass., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761, in
Foro it., 2002, I, 2909, con nota di C.M. Cea e ivi, 2003, I, 604 con nota di A. Proto Pisani),
secondo la quale il principio di non contestazione avrebbe diversa efficacia a seconda della na-
tura – principale o secondaria – del fatto. Il Patti accentua la differenziazione accennata dalla
Corte di cassazione, per concludere che «soltanto per i fatti principali la mancata contestazione
nei termini di rito, rivestendo il significato di una manifestazione di autonomia privata nel senso
della disposizione del diritto controverso, ha l’effetto di rendere incontrovertibile l’allegazione.
Per i fatti secondari, invece, collocandosi questi nell’area della valutazione probatoria riservata
al giudice, l’omessa contestazione non ha un valore vincolante e costituisce soltanto argomento
di prova liberamente apprezzabile dal giudice».
Di diverso avviso, A. Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel
procedimento civile, in Foro it., 2003, 604, in particolare 606, il quale invece ritiene che il principio
di non contestazione valga sia per i fatti principali che per quelli secondari («opera allo stesso
modo sia riguardo ai fatti principali che riguardo ai fatti secondari», giacché «la non contesta-
zione è sempre la stessa cosa»); e questo perché l’allegazione dei fatti non sarebbe espressione
dell’autonomia sostanziale, ciò che comporterebbe un diverso rilievo per i fatti principali, ma
semplicemente un «problema di tecnica processuale».
Del resto, la tesi di Patti appare a chi scrive criticabile anche sotto altro profilo, nella parte in
cui trae spunto dalle norme relative al contenuto della citazione e della comparsa di risposta. Con
388 Caterina Corrado Oliva

Lo stesso accade, generalmente, per gli altri requisiti che vengono in ri-
lievo in un processo in tema di abuso del diritto, con riguardo, sempre, alle
componenti fattuali. Ad esempio, l’esistenza di un risparmio di imposta,
che generalmente non è contestata nella sua esistenza materiale e nella sua
valenza per così dire quantitativa e matematica. È molto spesso pacifico tra
le parti che quella determinata operazione abbia comportato un pagamento
di imposta inferiore rispetto alla operazione alternativa e «normale» ipotiz-
zata dall’Amministrazione finanziaria. Il contribuente, però, generalmente
deduce che quel risparmio di imposta non sia indebito, nel senso che non
sia frutto di un aggiramento normativo, ma invece sia previsto e voluto, o
comunque consentito, dall’ordinamento. Oppure, correlativamente, il con-
tribuente assume che il confronto non possa effettuarsi con l’operazione
assunta come normale dall’amministrazione.
In altri termini, anche in questo caso, il fatto del minor pagamento di
imposta, di solito, è pacifico tra le parti, quindi non abbisogna di pro-
va, e pertanto non può mai comunque porre, in caso di fallimento della
prova, un problema di eventuale applicazione della regola decisoria finale
dell’onere della prova.
Lo stesso, per le valide ragioni economiche. L’Amministrazione deduce
che l’unica ragione che spiega l’operazione realizzata dal contribuente è
quella del risparmio d’imposta; e questo, lo deduce praticamente in forma
implicita, dal momento che, quando contesta un indebito risparmio fiscale,
evidentemente ha riguardo al fatto che la normativa non intendeva con-
cedere alcuna riduzione di imposta per quella fattispecie. A fronte di ciò,
il contribuente può allegare ragioni economiche diverse dal risparmio di
imposta, che debbono essere valide e pregnanti. Soltanto la sussistenza di
tali ragioni è oggetto di prova (con tutte le difficoltà della prova di un fatto

riguardo a quest’ultima, invero, egli afferma che «l’onere del convenuto di prender posizione sui
fatti allegati dall’attore a fondamento della domanda (art. 167 c.p.c.) non abbraccia invece i fatti
(secondari) dedotti in funzione probatoria e la mancata contestazione di questi ultimi costitu-
isce soltanto argomento di prova liberamente apprezzabile dal giudice ai fini del giudizio circa
l’esistenza del fatto da provare». Per il vero, appare fuorviante il riferimento normativo indivi-
duato dall’A.: considerato che il principio di non contestazione non nasce dalle norme relative
alla introduzione della causa, bensì piuttosto dall’art. 115, c.p.c., in tema di prove, e soprattutto
verificato che tale ultima norma non introduce alcuna distinzione sulla natura dei fatti che, se
non contestati, devono essere posti alla base della decisione, non si vede perché anche per i c.d.
fatti secondari non possa operare il principio suddetto. Se mai potrebbe dirsi che l’art. 115 c.p.c.
escluda i fatti secondari laddove fa riferimento a fatti da porre «a fondamento della decisione»,
ché solo i fatti principali possono essere direttamente oggetto della decisione: ma, a ben vedere,
anche in questo caso, la norma sarebbe interpretata in maniera ingiustificatamente restrittiva, dato
che anche i fatti secondari, se non sono oggetto della decisione, possono riconnettersi ad essa, e
fondarla, sia pure in via indiretta, in quanto strumenti per la prova di quelli primari.
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 389

psicologico, quale è la ragione determinante un comportamento); ma il vero


punto controverso, di solito, non è l’esistenza di questa o quella ragione
economica dedotta dal contribuente (e che l’Amministrazione non contesta
nella sua mera esistenza), quanto piuttosto la sua validità e significatività.
In materia di abuso del diritto, quindi, anche laddove vi siano fatti ri-
levanti astrattamente suscettibili di prova, questi sono oggetto di una alle-
gazione delle parti o, meglio, di un onere di allegazione38.

38
  Parte della dottrina già da tempo aveva rilevato la configurabilità di un autonomo onere di
allegazione, diverso rispetto all’onere della prova. In tal senso: G. De Stefano, voce Onere (diritto
processuale civile), in Enc. dir., vol. XXX, Milano, 1980, 114 ss., 120; E.T. Liebman, Intorno ai
rapporti tra azione ed eccezione, in Riv. dir. proc., 1960, 450.
Altra parte della dottrina, invece, aveva affermato l’inutilità del concetto di onere di allega-
zione, scorgendo un perfetto parallelismo tra onere di allegazione e onere della prova. Così, R.
Sacco, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, in Riv. dir. civ.,
1957, I, 416 e ss. e, prima ancora, F. Carnelutti, La prova civile. Parte generale, Milano, 1992
(ristampa), 21 e ss., in particolare, 22 (in nota), il quale sostiene che l’allegazione del fatto può
essere utile perché se ne abbia una trattazione nella sentenza, ma nega recisamente che possa
configurarsi un onere di allegazione del fatto parallelo o analogo all’onere della prova.
Lo ha criticato S. Patti, Prove. Disposizioni generali, op. cit., 11, il quale rileva come Carne-
lutti abbia del tutto dimenticato, nella propria ricostruzione, i fatti notori, in relazione ai quali,
nella tesi di Patti, si configura un onere di allegazione, ma non un onere della prova. Secondo
l’A., la distinzione tra onere della prova e dell’allegazione si coglie specialmente considerando i
fatti che non abbisognano di prova, ma solo di allegazione, quali sono appunto i fatti presunti
o i fatti notori. In particolare, il Patti afferma che «i fatti su cui si basa il diritto devono essere
sempre enunciati dalla parte, anche se si tratta di fatti notori, perché alla parte spetta sempre
dichiarare se intende utilizzare i loro effetti giuridici» (S. Patti, Prove. Disposizioni generali, op.
cit., 11; l’A. ribadisce il concetto anche in S. Patti, Le prove, op. cit., 54 ss.). Nello stesso senso:
V. Denti, Ancora sulla nozione di fatto notorio, in Giur. compl. cass. civ., 1947, 265 ss.; L.P. Co-
moglio, Le prove, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, XIX, Torino, 181; G. Verde,
voce Prova, (dir. proc. civ.), in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, 613 ss., nota 237. In senso
contrario, L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, in Giur. compl. cass. civ., 1947, III, 222
ss., secondo il quale il giudice può utilizzare il fatto notorio indipendentemente dall’allegazione
di parte «perché la notorietà esclude il sospetto di parzialità inerente all’autonoma acquisizione
della fonte stessa da chi deve valutarla». Critica tale A., sempre il Patti, affermando che egli
confonderebbe tra massime di esperienza, che in quanto «regole» non devono essere allegate, e
i fatti notori, che invece necessitano di allegazione.
Altri in dottrina hanno affermato che è possibile cogliere la rilevanza autonoma dell’onere
di allegazione rispetto all’onere della prova in relazione proprio alle ipotesi in cui la parte è
dispensata dall’onere di provare e cioè ad esempio per i fatti presunti, che la parte ha l’onere di
allegare ma non di provare (es. buona fede ex art. 1147, 3o comma, c.c.). Così M. Taruffo, Studi
sulla rilevanza della prova, Cedam, Padova, 1970, 19 ss.; L. Mengoni, Gli acquisti a non domino,
Giuffré, Milano, 1975, 358.
La riflessione già svolta può riproporsi, alla luce della recente modifica dell’art. 115 c.p.c.,
anche in relazione ai fatti non contestati. Essi, pur oggetto di un onere di allegazione, non sono
poi soggetti a prova e, quindi, non determinano l’applicazione della regola dell’onere della prova.
I fatti non contestati, quindi, al pari di quelli presunti e di quelli notori, evidenziano l’autonomia
dei due concetti.
390 Caterina Corrado Oliva

Dopo tale allegazione, soltanto nei poco frequenti casi in cui il fatto sia
contestato, si pone un problema di prova e, allorché questa non sia fornita,
di eventuale applicazione della regola decisoria finale dell’onere della prova.
Altrimenti, la allegazione, unita alla non contestazione, esclude la neces-
sità di prova e quindi, in radice, anche ogni problema di onere della prova,
ovvero regola decisoria finale del fatto incerto, non essendovi, appunto, il
fatto incerto39.
Alla luce di quanto sinora visto, dunque, occorre rileggere le sentenze
della Suprema Corte, per avvedersi come esse, il più delle volte, quando
applicano conseguenze sfavorevoli all’una o all’altra parte in relazione ad
un presupposto di fatto dell’abuso, generalmente si riferiscono alla mancata
allegazione di detto fatto, più che alla mancata prova; la giurisprudenza,
quindi, in tema di abuso del diritto, piuttosto evidenzia l’onere dell’allega-
zione che non quello della prova.
Talora le sentenze parlano espressamente di onere di «allegare»; pur-
troppo, la formulazione corretta è scarsamente utilizzata e, quando lo è,
viene accostata all’onere della prova quasi che si trattasse di sinonimi40.
Probabilmente in seguito a tale confusione tra allegazione e prova, non-
ché relativi oneri, la giurisprudenza sull’abuso del diritto dimentica sempre
di considerare il principio di non contestazione, che consente appunto di
non provare i fatti allegati e non contestati.
Per tutte le ragioni sinora evidenziate, quindi, è davvero esiguo l’ipotetico
spazio per l’applicazione della regola dell’onere della prova in tema di abuso
del diritto, intesa – lo si ribadisce – come regola decisoria finale del fatto in-
certo: vi sono pochi fatti su cui decidere, cioè fatti direttamente rilevanti per
la sussistenza della fattispecie astratta dell’abuso, e sono oggetto di facile pro-
va, essenzialmente documentale e agevolmente reperibile dalle parti, ovvero
per lo più sono fatti non contestati, quindi raramente rimangono incerti.
5.  Onere della prova e onere di allegazione
Nel presente lavoro si è lasciato sullo sfondo un altro problema per il
vero preliminare, relativo all’operatività della regola dell’onere della prova
nel processo tributario in generale.

39
  L’onere della prova interessa, ovviamente, i soli fatti che hanno bisogno di prova, con
esclusione pertanto di quei fatti che sono incontestati tra le parti o che sono notori. Cfr., in tal
senso, per tutti, V. Andrioli, Prova (dir. proc. civ.), in Noviss. dig. it., Vol. XIV, Torino, 1967, 260
ss., 293, il quale afferma che «tale rilievo lascia intendere la caratteristica fondamentale dell’onere
della prova, consistente in ciò che può essere considerato non in astratto, ma con riferimento
alle concrete vicende del processo.
40
  Cfr. note nn. 6 e 37.
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 391

Tale questione «pregiudiziale», su cui si intende tornare ampiamente


in altra sede, è molto dibattuta in dottrina e si ritiene non abbia ancora
raggiunto una definizione compiuta, anche in ragione del fatto che essa si
riconnette ad altro, essenziale e irrisolto, dibattito, quello sulla natura del
processo tributario e sull’oggetto della decisione che in esso viene resa41.

41
  La regola sull’onere della prova, quale regola decisoria finale, invero, incide sugli elementi
essenziali di un sistema processuale ed è proprio su questi che non vi è chiarezza in dottrina
o, meglio, non vi è uniformità di soluzioni. A seconda dell’orientamento che si sceglie intorno
all’identificazione dell’oggetto della domanda e della decisione del processo tributario, diversa
sarà, o dovrà essere, la soluzione del problema dell’onere della prova, che vi è irrimediabilmente
legato.
Da qui, precisamente, nasce la problematicità dell’onere della prova nel processo tributario,
anche se, per la verità, non può dirsi vi sia mai stata troppa consapevolezza nella dottrina tri-
butaristica circa tale stretta connessione, sul piano teorico, tra onere della prova e oggetto della
domanda e della decisione.
È, invero, su un piano concettuale, di teoria generale, che precisamente si trova la conferma
della inscindibilità delle due questioni.
L’onere della prova, secondo la unitaria definizione che si è deciso di assumere, è la regola
decisoria finale che indica al giudice come decidere, alias a chi attribuire le conseguenze negative
in caso di mancata prova di un fatto incerto.
Da tale definizione discende che per l’operare della regola in questione occorre valutare se
vi sia, e quale sia, il fatto incerto intorno al quale il giudice debba decidere. L’elemento – chiave
che fa «scattare» l’applicazione della norma è precisamente questo: il fatto incerto nell’oggetto
della decisione.
Ciò posto, per valutare l’applicabilità della regola dell’onere della prova nel processo tribu-
tario, occorre valutare come si collochi in esso il fatto incerto in rapporto con l’oggetto della
decisione.
E pertanto risulta preliminare individuare quale sia l’oggetto della decisione, il thema de­
cidendum, connesso con l’oggetto della domanda. Ma, sull’oggetto della decisione e della do-
manda, come è noto, la dottrina tributaristica non ha proprio le idee chiare o, meglio, ha tante
idee chiare diverse.
Ci si riferisce allo «storico» dibattito tra dichiarativisti e costitutivisti, in relazione al quale
qui ci si limita ad un breve richiamo dei principali contributi dottrinali al riguardo.
Per la dottrina più antica, nel senso dichiarativista, cfr.: A.D. Giannini, Il rapporto giuridico
d’imposta, Milano, 1937, 232 ss.; Id., I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956,
270 ss.; Id., Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1965, 179 ss.; M. Pugliese, Istituzioni di diritto
finanziario, Padova, 1937, 121 ss.; G. Tesoro, Principi di diritto tributario, Bari, 1938, 176 ss.; E.
Vanoni, Nascita dell’obbligazione di pagare il tributo e descrizione di alcune fattispecie tributarie,
in Opere giuridiche, Milano, 1962, vol. II, 293 ss.
Più recentemente: A.F. Basciu, Contributo allo studio dell’obbligazione tributaria, Napoli,
1964, 42 ss.; F. Batistoni Ferrara, La determinazione della base imponibile nelle imposte dirette,
Napoli, 1964, passim; Id., Appunti sul processo tributario, Padova, 1995, 56 ss.; Id., Obbligazioni,
296 ss.; C. Longobardi, La nascita del debito d’imposta, Padova, 1965, passim; E. Potito, L’or­
dinamento tributario italiano, Milano 1978, 62 ss.; E. Nuzzo, Natura ed efficacia della dichia­
razione tributaria, retro, 1986, I, 35; P. Russo, Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione
tributaria, Milano, 1969, passim; Id., Manuale di diritto tributario, Milano, II ed., 1996, 109; P.
Russo, L’obbligazione tributaria, in Trattato di diritto tributario, a cura di Amatucci, Cedam, II
vol., parte I, capitolo XX, 9; A. Giovannini, Riflessioni in margine all’oggetto della domanda nel
392 Caterina Corrado Oliva

In questa sede, si è inteso più modestamente affrontare il tema specifico


dell’onere della prova in materia di abuso del diritto, tentando di fornire,
rispetto alla stanca ed inconferente riproposizione del tema da parte della
giurisprudenza, una chiave di lettura nuova e più rigorosa, partendo da basi
e nozioni largamente condivise dalla dottrina processualcivilistica relative
ad oggetto della prova, allegazione e non contestazione, natura dei fatti da
provare.
L’esito della ricerca effettuata è stato quello di una fortissima svalutazio-
ne del ruolo dell’onere della prova in tema di abuso del diritto.
A fronte di tale conclusione, pare necessario qualche ulteriore consi-
derazione di natura ricostruttiva, che appaia volta al recupero delle «gua-
rentigie». Sì, perché l’impressione generale è che la stanca ripetizione della
formula che l’onere della prova spetta all’Amministrazione finanziaria sia
un «baluardo» per la tutela del contribuente dalle pretese ingiuste, con la

processo tributario, in Riv. dir. trib., 1998, I, 35 ss.; Id., Il ricorso e gli atti impugnabili, in Giu­
risprudenza sistematica di diritto tributario – il processo tributario, diretta da F. Tesauro, Torino,
1998, 329 ss., in particolare 379 ss.; F. Moschetti, Emendabilità della dichiarazione tributaria tra
esigenze di stabilità del rapporto e primato dell’obbligazione dovuta per legge, in Rass. trib., 2001,
1149 ss.; G. Fransoni, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, Milano,
2001, 104 ss.
Per le teorie costitutive, cfr.: E. Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 60 ss. e
162 ss.; C. Magnani, Il processo tributario. Contributo alla dottrina generale, Padova, 1965, 57 ss.;
F. Maffezzoni, Il procedimento di imposizione nell’imposta generale sull’entrata, Napoli, 1965, 23
ss.; A. Fantozzi, La solidarietà nel diritto tributario, Torino, 1968, 154 ss.; G. Falsitta, Il ruolo di
riscossione, Padova, 1972, 82 ss.; Id., Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2003,
614 ss.; F. Tesauro, Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975, 127 ss.; Id., Lineamenti del processo
tributario, Rimini, 1991, 106 ss.; Id., Istituzioni di diritto tributario, vol. 1, Parte generale, Tori-
no, 2003, 153 ss.; G. Tremonti, Imposizione e definitività nel diritto tributario, 216 ss. e 248 ss.
Nel senso di un costitutivismo radicale, cfr., C. Glendi, L’oggetto del processo tributario,
Padova, 1984, 242 ss. e passim. La particolare configurazione del processo tributario proposta da
tale A., e specialmente la particolare configurazione della domanda, come domanda autodetermi-
nata di annullamento tout court, e la particolare collocazione dei motivi, ricondotti nell’ambito
pregiudiziale della cognitio, posti al di fuori dell’oggetto della domanda e della decisione, conduce
a conseguenze interessanti sul tema dell’onere della prova. Invero, posto che i fatti altro non
sono che la parte, fattuale appunto, dei motivi, l’A. ne conclude che i fatti non sono mai parte
dell’oggetto della domanda e del corrispondente oggetto della decisione; quindi non si pone
un onere della prova nel senso tradizionale, come regola decisoria del fatto incerto nell’oggetto
della decisione, dato che, appunto, non vi sono fatti nell’oggetto della decisione. I fatti sono,
tutti, secondari rispetto alla decisione, hanno un rilievo indiretto; il conseguimento della prova
consente la valutazione di fondatezza dei motivi ed eccezioni nella loro parte fattuale. Così, l’A.
conclude: «se le circostanze fattuali allegate dal ricorrente non si riesce a provare siano vere, qual
è la conseguenza? Il rigetto del ricorso, perché infondato. Questa è la semplicissima regola finale
del fatto incerto, non altra, e grava sempre sul ricorrente, contrariamente a quanto si afferma e si
sostiene» (così in C. Glendi, Prova testimoniale, principio dispositivo, onere della prova e oggetto
del processo tributario, in GT – Riv. giur. trib., 2007, 741 ss., in particolare 743).
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 393

conseguenza che minimizzare o addirittura eliminare la regola dell’onere


della prova – per di più in relazione al temuto istituto dell’abuso del diritto
– potrebbe far tremare i polsi ai «garanti» del contribuente.
Nella realtà, occorre tranquillizzarsi, per due ragioni.
La prima è la, ovvia, considerazione che la ridotta applicazione della
regola dell’onere della prova non elimina affatto la necessità di fornire la
prova dei fatti ai fini della fondatezza della domanda del contribuente e
delle eccezioni dell’Amministrazione finanziaria. Quest’ultima deve dare la
prova di avere esercitato correttamente il proprio potere e quindi di avere
spiccato un atto impositivo in presenza dei presupposti normativamente
previsti per farlo; ché altrimenti il giudice accoglierà la domanda annullato-
ria del contribuente il quale, però, abbia regolarmente contestato, nei moti-
vi del ricorso, detta carenza di prova come profilo di illegittimità dell’atto.
L’affermazione è, come si diceva, ovvia, ma appare necessaria. A ben
vedere, non è l’onere della prova a rappresentare la garanzia che il pro-
cesso tenda verso l’accertamento della verità, ma, se mai, la prova. Ché
anzi, l’onere della prova ha proprio la direzione opposta, e cioè quella di
assicurare certezza, definizione del giudizio, pur quando la prova della
verità non sia raggiunta.
Il punto è che in un processo sull’abuso del diritto non vi è tanto il
problema di accertare la verità dei fatti quanto piuttosto quello di valutarli.
Certamente, l’affermazione secondo cui l’onere della prova spetta
all’Amministrazione finanziaria appare di tutela per il contribuente in
quanto si ritiene che egli possa rimanere protetto rispetto a quei casi in
cui l’Ufficio non riesce a fornire la prova della propria pretesa. Ma è falsa
illusione. Nei processi sull’abuso del diritto, come si ritiene di avere di-
mostrato, la prova dei (pochi) fatti menzionati nella fattispecie astratta è
comunque piuttosto semplice e spesso neppure è necessaria in forza del
principio di non contestazione. Il punto dolente è piuttosto la valutazione
dei fatti e il rischio che essa sia inidonea o sfavorevole per il contribuente
non è affatto ridotto né eliminato dall’istituto dell’onere della prova.
La seconda considerazione è che, per una più effettiva garanzia sempre
sul piano del giudizio di fatto, occorre invece, proprio traendo le mosse
da qualche espressione in tale senso della giurisprudenza di legittimità,
spostare l’attenzione su altro onere delle parti, onere che oggi42 ha assunto

42
  M. Taruffo, La prova nel processo civile, in Trattato di diritto civile e commerciale Cicu
Messineo, Milano, 2012, 25 ss., sottolinea come «la necessità della fissazione precoce del thema
probadum sia tutto sommato un’acquisizione recente, legata all’emergere di una maggiore con-
sapevolezza della sua importanza per il funzionamento ordinato e razionale – e quindi più effi-
ciente – del processo, ed anche a trasformazioni che attengono alla struttura del procedimento».
394 Caterina Corrado Oliva

un nuovo vigore specie dopo la valorizzazione, anche sul piano normativo,


del principio di non contestazione: l’onere di allegazione.
Nei precedenti paragrafi si è parlato della allegazione dei fatti in maniera
del tutto neutra, come un accadimento del processo, senza specificare quale
sia la posizione delle parti rispetto ad esso.
Ora, occorre precisare che anche nel processo tributario, come in quel-
lo civile43, le parti sono onerate di dedurre, di allegare i fattiche possano
fondare le rispettive domande ed eccezioni. Il contribuente, nel proporre
i motivi di ricorso, deduce i fatti che sono necessari per fondarli; a sua
volta l’Amministrazione, nelle sue difese, allega i fatti a fondamento della
legittimità del proprio atto44 e quindi delle sue eccezioni.

L’A. quindi completa così la sua affermazione «è evidente, infatti, che quanto prima si perviene
a stabilire in modo completo e tendenzialmente definitivo quali sono i fatti che dovranno essere
provati, tanto più rapida potrà essere la decisione del giudice sulla rilevanza e ammissibilità dei
mezzi di prova, più agevole sarà la difesa dell’altra parte con l’eventuale contestazione dei fatti,
accompagnata se del caso da controdeduzioni istruttorie, e quindi più ordinato sarà il successivo
svolgimento del processo».
43
  L.P. Comoglio, Allegazione, in Dig. disc. priv. (sez. civ.), I, Torino, 1987, 272 ss., rileva
come il concetto di allegazione non sia definito da alcuna enunciazione normativa ed evidenzia
come esso sia spesso dato per presupposto, nell’uso corrente, senza una attenta e tecnica medi-
tazione del suo significato e delle sue implicazioni.
L’A. rileva come il termine allegazione abbia due diverse etimologie che ne descrivono una
duplice accezione: allegare significa infatti addurre (dal latino allegatio) ma significa anche col-
legare, cioè produrre (dal latino alligatio), che è poi la conseguenza della deduzione. In senso
stretto e tecnico, peraltro, l’allegazione è una attività tipicamente postulatoria, essa «rappresenta
l’atto processuale con cui chi agisce (o resiste) in giudizio afferma (oppure nega) la sussistenza di
determinati fatti concreti, prospettati od esposti a fondamento di una domanda o di un’eccezione,
quali elementi genetici dell’effetto giuridico invocato».
La dottrina processualcivilistica ha sempre avuto difficoltà ad individuare dati normativi che
possano costituire il fondamento dell’onere di allegazione.
Una norma da cui potrebbero desumersi argomentazioni in tale senso era l’art. 163, 4o com-
ma, c.p.c., laddove prevede «l’esposizione dei fatti [...] costituenti le ragioni della domanda». A
suo tempo, era stato obiettato che non era prevista dall’ordinamento alcuna conseguenza sfavo-
revole a fronte di un eventuale mancato rispetto della ricordata norma (es. nullità della citazione
ex art. 164 c.p.c.), di talché non sarebbe possibile qualificare tale allegazione di fatti come un
onere (R. Sacco, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, op.
cit., 416). Patti obiettava che l’argomentazione non reggeva, poiché il mancato adempimento di
un onere non deve comportare un risultato sfavorevole, quale la citata nullità della citazione, ma
invece concretarsi nella impossibilità di conseguire un risultato favorevole (S. Patti, Le prove.
Disposizioni generali, op. cit., 9). Tale argomentazione peraltro è oggi smentita dalla riforma del
1990, che ha inserito la sanzione della nullità della citazione, così consentendo di utilizzare, a
contrario, la critica esposta per confermare una base normativa dell’onere menzionato.
44
  I fatti dedotti dell’Amministrazione riprenderanno quelli già menzionati nell’avviso di
accertamento, come parte della motivazione dell’atto. La motivazione, infatti, è composta della
menzione degli elementi giuridici e dei presupposti di fatto della pretesa. Di conseguenza, i fatti
direttamente rilevanti a fondare il recupero dovrebbero già essere menzionati nella motivazione,
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 395

I fatti del processo entrano in questo modo nella sfera del giudice e la
delimitano rigorosamente, nel senso che egli ne è vincolato, nel senso che
non può introdurne altri, pur con gli ampi poteri istruttori di cui dispo-
ne45, né può considerarne altri per la valutazione di fondatezza delle do-
mande ed eccezioni delle parti. Se, dunque, il giudice sul piano del diritto
ha qualche potere di rilievo d’ufficio, potere che diviene poi abnorme nel
caso dell’abuso del diritto, sul piano del fatto invece egli resta vincolato
dalle deduzioni delle parti. E, in una materia come l’abuso del diritto, tanto
contestato soprattutto per la facilità con cui ne fa uso sia l’Amministra-
zione sia soprattutto il giudice tributario, anche di ultimo grado, un limite
netto alla rilevabilità d’ufficio, sia pure sul piano dei fatti46, è assolutamente
essenziale.

salva la possibilità di aggiungere altri fatti indiretti, necessari ai fini della prova, nel corso del
processo.
Opportunamente valorizza l’onere di allegazione, in materia di abuso del diritto, e lo ricon-
nette con l’indicazione dei fatti nell’avviso di accertamento, A. Marcheselli, Equivoci e prospet­
tive della elusione tributaria, tra principi comunitari e principi nazionali, retro, 2010, I, 801 ss.,
in particolare 813 laddove scrive che, con riguardo ai profili processuali dell’abuso, «sembra di
dovere dare spazio alle più moderne tendenze in ordine alla portata dell’onere di allegazione.
Esso, nella versione tradizionale, implica che il giudice (tributario) non possa porre a fondamento
della decisione fatti che non siano allegati dalle parti. Tale onere deve essere però calato nella
particolarità del giudizio tributario che è, per così dire, un procedimento di secondo grado: il
processo tributario si innesta e presuppone il completamento di un procedimento amministra-
tivo. È nostra modesta, ma ferma, convinzione che, allora, l’onere di allegazione dell’ammini-
strazione finanziaria abbia una sua precisa forma legale: esso deve essere adempiuto attraverso
l’avviso di accertamento; in altri termini: l’area dei fatti valutabili dal giudice tributario, quanto
al fondamento della pretesa, deve essere circoscritta a quelli enunciati nell’avviso (o negli atti
richiamati in esso). L’Amministrazione ha doveri di diligenza e di trasparenza che le impongono:
a) di raccogliere già nella fase amministrativa tutti i fatti che possono fondare la sua pretesa; b) di
enunciarli al contribuente nel provvedimento amministrativo. La soluzione opposta, quella che
consente al fisco di integrare la sua attività amministrativa, sarebbe, a nostro avviso, in radicale
contrasto non solo con principi di economia ma anche e soprattutto con quelli dell’imparzialità
della Pubblica Amministrazione e della buona fede».
45
  Come è noto, l’art. 7, 1o comma, d.lgs. n. 546 del 1992 consente al giudice di esercitare
tutti i poteri istruttori propri degli Uffici tributari nella fase procedimentale restando però «nei
limiti dei fatti dedotti dalle parti».
46
  Sostengono che il giudice non possa introdurre come temi di prova neppure i fatti secon-
dari, se non allegati dalle parti, M. Capelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità.
Contributo alle teorie della utilizzazione probatoria del sapere delle parti nel processo civile,
Giuffré, Milano, 1962, 339 e ss.; G. Tarzia, Il litisconsorzio facoltativo nel processo di primo gra­
do, Milano, 1972, 349 e ss. In senso contrario, A. Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio
di non contestazione nel procedimento civile, in Foro it., 2003, 604, in particolare 605 scrive che
«i fatti secondari – tutti i fatti secondari anche se relativi a fatti costitutivi indispensabili per
l’individuazione del diritto fatto valere in giudizio, o relativi a fatti impeditivi, modificativi,
estintivi posti a fondamento di eccezioni in senso stretto che possono essere proposte soltanto
dalle parti – normalmente saranno allegati dalle parti ma ben possono emergere dagli atti del
396 Caterina Corrado Oliva

L’onere di allegazione, dunque, innanzitutto fornisce una garanzia per


le parti di attiva e corretta delimitazione dell’ambito del giudizio di accer-
tamento del fatto.
Come si è detto, l’allegazione, oltreché un limite per il giudice, costitui-
sce anche un onere per le parti ed anche in questo senso può rappresentare
una garanzia per il contribuente da pretese impositive del tutto arbitrarie:
l’Amministrazione, per contestare l’abuso del diritto, deve allegare i fatti
che delineano l’abuso e, tra l’altro, in caso di mancata allegazione, non vi
è intervento integrativo possibile da parte del giudicante.
Ora, nella materia dell’abuso del diritto, come si è detto, i fatti sono
pochi, giacché è prevalente il profilo della qualificazione, della valutazione
di essi. Quei, pur pochi, fatti, però, debbono essere allegati dalle parti. Se,
ad esempio, l’Amministrazione non allegasse, non deducesse, quale sia il
negozio giuridico che ritiene abusivo, quale sia l’importo del vantaggio
fiscale contestato, e così via, non potrebbe (o meglio non dovrebbe) mai
ottenere il rigetto del ricorso. A sua volta, il contribuente che, a fronte di
ciò, non deducesse le ragioni economiche alternative rispetto al risparmio
di imposta, non potrebbe ovviamente mai ottenere che il giudice le con-
sideri valide.
Come si è detto, poi i (semplici) fatti dedotti spesso rimangono inconte-

processo» durante tutto il corso del giudizio e anche per la prima volta in appello. Lo stesso E.
Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, Giuffré,
Milano, 1957, 375, afferma che la parte deve formulare i fatti indispensabili per l’identificazione
della ragione sostenuta in giudizio, cioè, in definitiva, dell’oggetto del processo e quindi pare
riferirsi ai soli fatti principali.
A favore di un generale onere di allegazione, sia dei fatti principali che secondari, dopo la
riforma del 1990, G.F. Ricci, L’allegazione dei fatti nel nuovo processo civile, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1992, 835. L’A. argomenta che tale onere di allegazione di tutti i fatti non discende-
rebbe tanto dall’art. 163, n. 3, c.p.c. riferito esclusivamente ai fatti che costituiscano elementi
identificativi della domanda (e quindi da precisarsi nella individuazione della «cosa oggetto della
domanda»), bensì dal n. 4 della medesima norma, laddove il legislatore chiede «l’esposizione dei
fatti ... costituenti le ragioni della domanda». L’A. rileva che «il complesso dei fatti di cui parla
l’art. 163, n. 4, rappresenta l’insieme anche dei c.d. fatti secondari (o fatti semplici della domanda)
quelli cioè che attengono essenzialmente alla prova [...] ed il cui mutamento in corso di causa non
comporta la modifica della domanda (a differenza di quanto avviene per il mutamento dei fatti
principali, cioè quelli costitutivi del diritto e dell’azione)». Tali fatti, che non hanno la funzione
di individuare la causa petendi e quindi, secondo l’A., la cosa oggetto della domanda, ex art. 163,
n. 4, c.p.c., debbono essere inseriti a pena di nullità già nell’atto iniziale non tanto per una «rinata
considerazione del legislatore per la «causa petendi», ma per la diversa necessità che nell’atto
introduttivo venga riferita ogni circostanza che sia essenziale per permettere al convenuto di
prendere posizione fin dall’inizio su tutti i punti della controversia. Si evidenzia, inoltre, che
l’istituto dell’allegazione dei fatti come elemento autonomo rispetto a petitum e causa petendi,
in quanto tale esterno al contenuto della domanda giudiziale, è stata felice intuizione del Cerino
Canova, Dell’introduzione della causa, in Comm. C.p.c., diretto da Allorio, II, Torino, 1980, 278.
L’abuso del diritto tributario tra onere di allegazione e onere della prova 397

stati tra le parti nei processi sull’abuso del diritto, giacché non è la struttura
della operazione che viene in discussione, tantomeno il risparmio di impo-
sta o la esistenza di una qualsivoglia ragione economica, bensì, piuttosto, la
qualificazione come distorsiva, con riguardo all’operazione, come indebita,
in relazione al risparmio fiscale, e come valide, per le ragioni economiche.
Così, come si è visto, una volta che le parti hanno allegato i rispettivi
fatti, spesso non si ha neppure un problema di prova, perché essi riman-
gono incontestati. Se però le parti non li allegano, essi non potranno essere
considerati: e quindi se l’Amministrazione non allega nel dettaglio l’opera-
zione e la sua struttura, non potrà introdurla in un secondo momento oltre
i termini di preclusione né il giudice potrà procedere, neppure d’ufficio,
alla valutazione della sua portata distorsiva e rilevare – eventualmente d’uf-
ficio – l’abuso del diritto.
L’onere di allegazione, quindi, diviene uno snodo centrale, nel proces-
so tributario in generale e in quelli sull’abuso in particolare, dove i fatti
debbono essere indicati ma restano spesso incontestati tra le parti e dove
il vero punto controverso non è la verità o meno di essi ma la loro valuta-
zione, che ovviamente non potrà avvenire, neppure d’ufficio da parte del
giudice, laddove essi non siano stati addotti.
L’allegazione dei fatti crea quindi lo spazio e il limite invalicabile all’in-
terno del quale si muoverà il processo sull’abuso del diritto e, in questo
senso, rappresenta per il contribuente, seppure sempre sul limitato pia-
no del giudizio di fatto, un baluardo ben più solido e conferente rispetto
all’onere della prova nei confronti di contestazioni di abuso inadeguata-
mente o tardivamente47 introdotte dall’Amministrazione finanziaria così
come dal giudice.
6.  Conclusioni
Questa, la chiave di lettura che il presente lavoro si propone di fornire
per l’esame delle sentenze sull’abuso del diritto le quali, sempre a spropo-
sito ed in maniera autoreferenziale, fanno rinvio al concetto di onere della
prova.

47
  L’inadeguatezza e la tardività sono qui riferite ad una carente o incompleta allegazione dei
fatti che possono dare origine alla contestazione di abuso. Spesso accade infatti che l’Amministra-
zione spicchi un atto impositivo avendo riguardo a profili di evasione, e quindi non alleghi, nelle
proprie controdeduzioni, con precisione, la struttura della operazione, il vantaggio economico
rispetto all’operazione normale etc. L’onere di allegazione impedisce che, nel corso del processo,
oltre i termini di preclusione, la Amministrazione introduca nuovi fatti per modificare la propria
pretesa e contestare l’abuso. Correlativamente, esso impedisce che una siffatta operazione venga
effettuata, d’ufficio, dal giudice.
398 Caterina Corrado Oliva

L’onere della prova, inteso come regola decisoria finale del fatto incerto,
e a prescindere dalle problematiche tuttora irrisolte circa la sua natura e
operatività nell’ambito del processo tributario, ha in materia di abuso del
diritto un ambito applicativo del tutto marginale.
Secondo la dottrina maggioritaria, invero, un problema di onere della
prova in senso proprio si pone con esclusivo riguardo ai fatti direttamen-
te rilevanti, quelli che i processualcivilisti chiamano i c.d. fatti principali,
cioè fatti costitutivi, impeditivi, estintivi, modificativi del diritto o delle
eccezioni affermate in giudizio. Per individuarli, occorre avere riguardo
alla definizione – non normativa, ma giurisprudenziale – dell’abuso del
diritto. E, come si è visto, «sezionando» tale definizione ed esaminando i
requisiti dell’abuso del diritto, i presupposti fattuali sono risultati pochi e
marginali, nel senso che non sono il terreno di scontro, non sono il punto
delicato delle controversie sull’abuso del diritto.
Tanto che tali fatti, già di per sé generalmente molto facili da provare,
spesso non sono neppure contestati tra le parti e quindi neppure richiedo-
no prova. Tali circostanze, quindi, rendono, per l’abuso del diritto, molto
più che per altri settori del diritto tributario, davvero marginali le questioni
di prova dei fatti e, ove anche configurabile, di onere della prova.
Eppure la giurisprudenza sull’abuso del diritto, più che per altri settori
del diritto tributario, puntualmente interviene sulla spettanza dell’onere
della prova.
Invece essenziale appare l’onere di allegazione, anch’esso citato dalla
giurisprudenza della Suprema Corte menzionata all’inizio del presente ar-
ticolo. Esso opera in un duplice senso, giacché le parti hanno l’onere di
allegare tempestivamente ed in maniera completa i fatti posti a fondamento
delle rispettive tesi (e quindi l’Amministrazione finanziaria deve allegare
con precisione la struttura dell’operazione contestata, il vantaggio fiscale
riveniente dal confronto con l’operazione normale, etc.) ed i giudici sono
costretti a rimanere nell’ambito di tale allegazione, senza possibilità di tar-
dive «sanatorie» di una eventuale carenza sotto tale profilo.
Se, dunque, la sostenuta marginalizzazione dell’onere della prova può
aver creato qualche, ingiustificata, preoccupazione per le garanzie del
contribuente, per la sua tutela, sul piano del giudizio di fatto, di fronte
all’«abuso dell’abuso del diritto», pare che l’onere dell’allegazione, ed una
sua valorizzazione, possa costituire un più saldo e coerente appiglio.
Parte Quarta
La teoria dell’abuso del diritto in altri ordinamenti
400 Guido Alpa
Guido Alpa
Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito
comunitario e sui suoi riflessi negli ordinamenti degli
Stati Membri

Sommario:  1. Introduzione. – 2. Le regole scritte. – 3. La costruzione giurisprudenziale


dell’abuso del diritto. – 4. Le perplessità della dottrina di diritto privato europeo. – 5.
Abuso del diritto e principio di buona fede. – 6. I limiti all’applicazione del divieto.
– 7. L’ignoranza dell’abuso del diritto nei testi di armonizzazione del diritto privato
europeo.

1.  Introduzione
Dell’«abuso del diritto» nel diritto dell’Unione europea si discute ormai
da quasi mezzo secolo, ma il dibattito non è sopito; anzi, si rinvigorisce
vieppiù, risvegliando un interesse sempre più esteso, anche in quelle espe-
rienze in cui la concezione dell’abuso non aveva innestato le sue radici. A
tutt’oggi la formula appare controversa sotto molti aspetti1.
Ci si chiede, innanzi tutto, se sia configurabile come regola avente te-
nore generale, oppure se si tratti di una regola applicata soltanto in alcuni
settori dell’ordinamento dell’Unione europea. Si mette in forse la sua na-
tura di principio generale2, al punto che in alcune recenti indagini scien-
tifiche sui principi generali del diritto non si fa menzione dell’abuso3,o si
pone il problema della sua sussistenza con accenti interrogativi4, oppure
si nega esplicitamente che abbia qualche credito; anche se, nelle analisi più
accurate, non si manca di rilevare il numero cospicuo di contributi che,
soprattutto a partire dagli anni Settanta del Novecento, si sono dedicati
al tema, costruendo la formula in termini di principio generale sotteso
all’intero ordinamento.

1
  Nella copiosa letteratura tra i contributi più recenti v. Carbone, Brevi riflessioni sull’abu­
so del diritto comunitario: commercio internazionale ed esercizio delle libertà individuali, in Dir.
comm. internazionale, 2011, p. 67 ss., con ampia nota bibliografica finale; Lenaerts, The Gene­
ral Principle of the Prohibition of Abuse of Rights: A Critical Position on Its Role in a Codified
European Contract Law, in ERPL, 6-2010, p. 1121 ss.; Ionescu, L’abus de droit en droit
communautaire, thèse pour le doctorat en droit, Barcellona, 2008; Bonanzinga, Abuso del diritto
e rimedi esperibili, in www.comparazionedirittocivile.it.
2
  Cataudella, L’uso abusivo dei principi, in Riv. dir. civ., 2014, I, p. 747 ss.
3
  Reich, General Principles of EU Civil Law, Cambridge, Antwerp, Portland, 2014.
4
  De la Feria e Vogenauer (edts), The Prohibition of Abuse of Law. An Emerging
Principle of EU Law?, Oxford, 2014.
402 Guido Alpa

Si discute anche se sia il frutto di una costruzione giurisprudenziale – il


che è innegabile, come si documenterà, esaminando le centinaia di sentenze
della Corte di Giustizia – e se questa creazione, derivante dalla interpre-
tazione dei giudici, debba essere considerata con favore, essendo vincolata
ai poteri (non illimitati) dell’interprete, o piuttosto con sfavore, affidando
essa all’interprete una libertà di azione di confini incerti. Si controverte
ancora sulla sua origine nell’ambito del diritto dell’Unione, e cioè se sia
un principio di nuovo conio, se sia il portato di disposizioni espresse, se sia
ricavabile da disposizioni vigenti oppure se discenda dall’abuso del diritto
di antica tradizione, essendo l’abuso connaturato con lo stesso concetto
di diritto5.
Si revoca in dubbio la sua autonomia da altre clausole generali, come la
buona fede6, e si tenta di delimitarne i caratteri, distinguendolo dalla simu-
lazione, dalla frode alla legge7, e dalle altre figure che nel diritto dell’Unio-
ne includono l’espressione «abuso» o «abusivo», come abuso di posizione
dominante, abuso di dipendenza economica, clausole abusive nei contratti
dei consumatori ed altre ancora. E poi si discute sulla declinazione dei re-
quisiti dell’abuso: se si debbano coniugare requisiti soggettivi (intenzione
di nuocere, dolo, violazione intenzionale di norme) e requisiti oggettivi
(frustrazione dei propositi della legge, aggiramento della legge, insussisten-
za di vantaggi economici) oppure se si debba coglierne solo l’aspetto og-
gettivo, essendo indifferente l’intenzione del soggetto agente o la volontà
soggettiva delle parti, se si tratta di un contratto, di una convenzione, di
un accordo in senso lato.
Essendo calata questa problematica nell’ambito del diritto dell’Unione
europea, cioè di un ordinamento composto da norme primarie – che re-
golano il funzionamento dell’Unione – e da norme secondarie, che hanno
vigenza negli ordinamenti degli Stati membri, la figura dell’abuso del di-

5
  V. i diversi saggi raccolti in The Prohibition of Abuse of Law, supra cit.
6
  Per tutti v. Galgano, Il dovere di buona fede e l’abuso del diritto, relazione svolta
all’incontro di studio tenutosi a Tivoli dal 6 al 10 giugno 1994, in Persona e danno, p. 21 ss.; Id.,
Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in questa rivista, 2011, p. 311 ss.; D’Amico, Ancora su
buona fede e abuso del diritto. Una replica a Galgano, in Contratti, 2011, p. 653 ss.; Sacco, Il di­
ritto soggettivo. L’esercizio e l’abuso del diritto, in Tratt. dir. civ., Torino, 2001, p. 373; Villa,
Abuso, buona fede e asimmetria nei contratti tra imprese, in Annuario del contratto, 2011, p.
57 ss.; Zimmermann e Whittaker (edts), Good Faith in ERCL, Cambridge, 2000, p. 53 ss.
7
  Gentili, Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, in Ianus n.
1-2009; Prosperi, L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un civilista, relazione tenuta al con-
vegno su L’abuso del diritto: tra diritto e abuso, Macerata, 29-30 giugno 2012; Scognamiglio,
L’abuso del diritto nella disciplina dei contratti, in Libro dell’anno del Diritto 2013, Enc. giur.
Treccani, Roma, 2013; Alpa, Il contratto in generale. Fonti, teorie.
Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario 403

ritto viene studiata in due versanti, e si presenta come un Giano bifronte:


il ricorso al diritto dell’Unione per eludere l’applicazione di norme del
diritto interno, o l’uso distorto di regole dell’Unione per ottenere vantaggi
indebiti.
Più se ne discute, più si complicano le concezioni dell’abuso: perché la
dottrina spesso ne parla come se tutti dovessero procedere da una defini-
zione unitaria, stipulativa, e non controversa; sì che la formula «abuso del
diritto» senza altre qualificazioni appare altamente allusiva, quasi che non
sorgessero problemi definitori ed il suo significato fosse da tutti condivi-
so. In realtà di «abuso del diritto» si possono dare diverse accezioni, che
mutano nel tempo e a seconda dei contesti in cui la formula è utilizzata,
sì che sarebbe necessario in via cautelativa esplicitarne il significato quante
volte si fa ricorso ad essa8.
Occorre anche avvertire che nel corso del tempo, in questo mezzo se-
colo di studi, di pronunciamenti giurisprudenziali, ma anche di produzione
normativa, gli stessi contributi elaborati dagli interpreti debbono essere
«relativizzati». Sì che molti dei problemi sopra indicati hanno ricevuto,
per le ragioni più diverse, una soluzione, e pertanto molti contributi sono
ormai superati perché collocati in un contesto che è cambiato; in ogni
caso, ancor oggi, la situazione non si può dire né certa né consolidata, né
immutabile. La formula è per sua natura ambigua, sfuggente, e tuttavia
necessaria, né si può bandire, come ha tentato di fare qualche legislatore,
perché è proprio come l’Araba fenice, più si cerca di esorcizzarla, più si
riafferma con vigore.
Una delle ragioni della sua ambiguità è data dal fatto che, essendo pre-
esistente all’ordinamento comunitario, essa porta con sé la sua tradizione,
che è onusta di glorie, di vittorie e di sconfitte, ma soprattutto porta con sé
una sua identità. Non si tratta di una identità uniforme, essa è poliedrica e
variegata, perché ogni interprete, in quanto proveniente da una esperienza
nazionale (come è fisiologico che accada fin tanto che l’Unione europea

8
  Per il diritto italiano sono sempre illuminanti le pagine di Rescigno, L’abuso del di­
ritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, p. 211 ss. (ora anche ne L’abuso del diritto, Bologna, 1998, p. 11
ss.; e v. più di recente Pino, L’abuso del diritto tra teoria e dogmatica (precauzioni per l’uso), in
Eguaglianza, ragionevolezza e logica giuridica a cura di Maniaci, Milano, 2006, p. 115 ss.; Bar-
cellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teleologicamenteorientata
del traffico giuridico, in Riv. dir. civ., 2014, I, p. 247 ss.; restano sempre attuali le pagine di Salvi,
Abuso del diritto. I) Diritto civile e di Gambaro, Abuso del diritto. II) Diritto comparato e
straniero Enc. giur., vol. I, Roma, 1988, p. 1. Incomprensibile la posizione critica di Ancel e
Didry, L’abus de droit: une notion sans histoire? L’apparition de la notion d’abus de droit en
droit français au debut du XXe siècle (ma v. più correttamente Sériaux, Abus de droit, voce del
Dictionnaire de la culture juridique diretto da Alland e Rials, Paris, 2003).
404 Guido Alpa

non diventerà uno Stato autonomo vero e proprio, compatto e monocul-


turale) è naturalmente indotto a riflettere nei suoi modelli interpretativi la
concezione di abuso del diritto espressa dall’ordinamento da cui provie-
ne. Per la verità, ogni provenienza crea problemi agli interpreti: tanto per
esemplificare, crea problemi all’interprete italiano, per il fatto che il codice
civile (del 1942) ha bandito espressamente la figura, ma poi l’ha recupe-
rata – o si ritiene da molti che l’abbia recuperata – codificando il divieto
degli atti emulativi, la clausola di buona fede, e regole che consentono il
ricorso all’exceptio doli; all’interprete francese, perché da più di un secolo
la dottrina è divisa in Francia tra una concezione soggettiva ed una con-
cezione oggettiva di abus de droit, e la giurisprudenza ne fa un uso poco
sorvegliato; all’interprete tedesco, perché pur essendovi una disposizione
del B.G.B. che codifica il divieto di abuso del diritto (§ 226), la dottri-
na e la giurisprudenza hanno preferito utilizzare più frequentemente ed
estensivamente la disposizione che richiede un comportamento conforme a
buona fede (§ 242); all’interprete di common law inglese o nord-americano,
perché, pur essendo questi ordinamenti assai distanti dalla concezione di
una figura astratta come quella continentale di abuso, tuttavia diversi ri-
medi mirano ad ottenere i medesimi effetti della formula ignorata, sicché
sostenerne l’inapplicabilità appare frutto di un preconcetto piuttosto che
non il portato di una reale situazione di indifferenza9.
Da questo complesso di temi e di problemi emerge, da un lato, l’im-
portanza del diritto comparato, che consente di decifrare e di riconoscere
le origini di certi usi della formula, dall’altro l’importanza della identifi-
cazione del contesto, per poterne discorrere in modo appropriato. Quale
ultimo caveat, anche se non esaustivo, val la pena di segnalare che l’inter-
prete deve superare le apparenze momentanee per non essere fuorviato nel
suo percorso volto ad acclarare la sussistenza, il contenuto, le finalità della
formula. Ad esempio, il fatto che oggi in Italia la discussione sull’abuso del
diritto sia monopolizzata dal settore tributario, ed abbia una molteplicità di
impieghi sempre connessi alla disciplina tributaria, non può oscurare né il
suo radicamento nel diritto dell’Unione europea in tanti settori diversi da
questo, né la sua sostanziale applicazione specie in ambito giudiziale, anche
in rapporti privi di interesse o di riflessi per il diritto tributario.
Vi è poi un’ultima notazione da fare, prima di addentrarci nella tematica
più complessa, e cioè che il contorno ideologico-politico a cui erano sensi-

9
  Oltre alle pagine di Gambaro, op. cit., v. di Robilant, Abuse of Rights: The Continental
Drug and the Common Law, in http://works.bepress.com; Byers, Abuse of Rights: An Old
Principle, a New Age, in McGill Law Journal 47, 2001-2002, p. 392 ss.
Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario 405

bili gli autori francesi di fine Ottocento e inizio del Novecento, o i giuristi
tedeschi del periodo nazista, o ancora i primi commentatori del codice
civile italiano, e che hanno ispirato contributi di eccezionale rilievo, a cui
oggi molti ancora si ricollegano10, sono del tutto ignorati nella letteratura di
diritto comunitario e nei contributi recenti di diritto comparato. Segno che
la formula può essere depurata dei suoi indubbi connotati politico-sociali,
anche se essi sono latenti nell’uso degli interpreti, e che questa operazione
non ha conseguenze sul piano pratico. Dottrina e giurisprudenza comuni-
tarie sono informate ad una concezione pragmatica del diritto di cui dob-
biamo prendere atto, anche se essa può non soddisfare compiutamente il
palato raffinato dell’interprete più avvertito. E pertanto, salve le eventuali
agnazioni o affinità con i diversi modelli nazionali, l’abuso del diritto così
come si delinea nell’ordinamento dell’Unione europea presenta contorni
originali, ha una sua fisionomia ed una sua disciplina che lo rende figura
autonoma rispetto a quelle emergenti dalle esperienze nazionali.
Il che implica l’impossibilità di assimilare l’abuso del diritto di deriva-
zione comunitaria alle figure o ai principi di (divieto dell’) abuso di diritto
emergenti dalle esperienze nazionali.
2.  Le regole scritte
I principi generali si desumono dalle regole scritte per via di induzio-
ne. Tuttavia, non mancano testi normativi in cui i principi generali sono
tradotti in regole scritte, ed assumono una valenza generale, se il contesto
normativo ha carattere generale, oppure più circoscritta se il contesto nor-
mativo ha un contenuto specifico ed è dedicato a disciplinare un settore
dell’ordinamento oppure un istituto in sé e per sé compiuto.
Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona dal 2009 ha acquisito va-
lore giuridico la Carta europea dei diritti fondamentali. Il testo, modificato
nel 2007, prevede un articolo (l’art. 54) a mente del quale « nessuna disposi­
zione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare
il diritto di esercitare una attività o compiere un atto che miri a distruggere
diritti o libertà riconosciuti nella presente Carta o a imporre a tali diritti e
libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta ».
Se la rubrica di questa disposizione non recasse le parole « divieto
dell’abuso di diritto » si potrebbe leggere il testo come se si trattasse di una
semplice regola di interpretazione della Carta che faccia divieto di assegna-
re alle sue disposizioni un significato più circoscritto rispetto a quello fatto
palese dalle parole o rispondente alle intenzioni del legislatore; ma il testo

  Mi riferisco sempre a Rescigno, L’abuso del diritto, cit.


10
406 Guido Alpa

aggiunge che l’interpretazione (ampia o ristretta che sia) potrebbe essere


tale da pregiudicare i diritti e le libertà garantiti dalla Carta perseguendo
una intenzione lesiva («miri a distruggere») di tali posizioni soggettive.
Il testo riproduce sostanzialmente l’analogo art. 17 della Convenzione
europea dei diritti fondamentali, la quale specifica anche i soggetti che
potrebbero avere questa intenzione lesiva, cioè gli Stati, i gruppi, gli indivi-
dui, e che a sua volta riproduce i contenuti dell’art. 30 della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo.
I commenti all’art. 17 della Convenzione si potrebbero, per la maggior
parte dei loro contenuti, riferire alla Carta europea. In effetti, si è posta in
rilievo la contraddittorietà della norma, o quanto meno la sua ambiguità
di fondo, e se ne è predicata la natura interpretativa, o addirittura la inu-
tilità. Lo scopo della norma è la tutela dei diritti rispetto alla invadenza
di Stati o gruppi (o anche individui) che vogliano conculcarli utilizzando
altre disposizioni della medesima Convenzione; è un problema di demo-
crazia, di contemperamento dei diritti, e di valutazione della violazione di
un diritto effettuata mediante l’invocazione di un altro diritto. I casi decisi
dalla Corte di Strasburgo applicando l’art. 17 non sono numerosi e tuttavia
sono consistenti, perché consentono di delineare un contenuto un po’ più
corposo rispetto a quello derivante della semplice analisi lessicale del testo.
Si tratta di casi nei quali sono stati coinvolti la libertà di espressione, il
diritto alla vita privata, la libertà di coscienza e di religione, in cui questi
diritti si sono posti in conflitto con finalità degli Stati volte a salvaguardare
la democrazia: in questo senso si è parlato, in modo enfatico, ma accatti-
vante, di «diritti liberticidi».
Nei Trattati non vi sono regole scritte che richiamino l’abuso del diritto,
ma si ritiene che ad esso alluda l’art. 4 § 3 del T.F.U.E. là dove esso dispone
che «gli Stati adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta
ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguen­
ti agli atti delle istituzioni dell’Unione». È la disposizione che prevede il
principio di cooperazione, l’effetto diretto delle direttive negli ordinamenti
nazionali, il primato del diritto dell’Unione europea e il risarcimento del
danno da parte dello Stato inadempiente agli obblighi comunitari, nonché
il dovere di cooperazione giudiziaria.
Mentre numerose sono le direttive che usano l’espressione «abuso» o
l’aggettivo «abusivo», ma, secondo i commentatori, non si tratta di parti-
colari applicazioni del divieto dell’abuso del diritto11.

11
  Per tutti v. i commenti nel Codice dell’Unione europea operativo diretto da Curti
Gialdino, Napoli, 2012
Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario 407

3.  La costruzione giurisprudenziale dell’abuso del diritto


Più consistente è la giurisprudenza della Corte di Giustizia, sia quella
della Grande Chambre, sia quella del Tribunale. Nell’elenco delle voci del-
la banca di dati della Corte la voce abuso è ripresa in quaranta pronunce,
mentre ad un esame più accurato le pronunce che si fondano e o richia-
mano l’abuso del diritto sono quasi il doppio. In ogni caso, la formula è
considerata espressione di un principio – per l’appunto il divieto di abuso
– ma l’orientamento non è stato univoco, né nel fissare i requisiti della sua
applicazione né nel fissare il limite netto tra l’espansione dell’esercizio del
diritto e la sua trasformazione in una lesione del diritto altrui. L’ambito
comunque considerato è variegato e non si concentra, come si potrebbe
pensare dalla rilevanza che la giurisprudenza della corte ha avuto nel nostro
Paese, nel settore del diritto tributario.
Ed in effetti il divieto di abuso si è applicato in materia di libertà di
stabilimento, di politica commerciale, di libera circolazione delle merci,
di libera circolazione dei lavoratori, di proprietà intellettuale, industriale e
commerciale, di libertà, sicurezza e giustizia, di immigrazione e di asilo, di
circolazione dei capitali, di concorrenza, di aiuti di Stato, di cittadinanza,
di ambiente, di comunicazioni, di insolvenza, anche se il maggior numero
di casi in cui si è fatto ricorso all’abuso riguarda la materia fiscale12.
Non vi sono definizioni codificate dell’abuso del diritto, ma è evidente
che l’uso della formula da parte della Corte vada ben al di là della sempli-
ce direttrice interpretativa di cui si è parlato sopra a proposito dell’art. 54
della Carta europea dei diritti fondamentali13. Non vi è solo l’elusione di
una norma dei Trattati, vi è anche l’uso strumentale del diritto comunitario
per eludere il diritto interno.
I fattori componenti della figura sono tre: la titolarità e l’esercizio di
un diritto, la realizzazione di una finalità che apporta un beneficio, l’uso
«distorto» della disposizione che istituisce il diritto in capo al soggetto
agente; l’intenzione di eludere una norma non è requisito costantemente
richiesto, essendo ormai per lo più oggettivati il comportamento tenuto e
il vantaggio conseguito.
Le definizioni sono articolate.

12
  V. gli atti del convegno su Il diritto e le discipline economiche, Torino, 8 maggio 2014, ora
in Nuovo dir. soc., 2014 ed ivi il contributo di Panzani; Panzani, Abuso del diritto. Profili di
diritto comparato con particolare riferimento alla disciplina dell’insolvenza transfrontaliera, in
Giust. civ., 2014, 3, p. 693 ss.; Eidenmueller, Abuse of Law in the Context of European Insol­
vency Law, in http://ssrn.com.
13
  Per un’accurata analisi v. il Comm. breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
Padova, 2012, sub art. 54.
408 Guido Alpa

Si è notato che in materia di circolazione delle persone la valutazione è


meno rigorosa di quanto non accada per altri settori14.
Da quanto emerge leggendo le motivazioni la concezione di abuso è
molto più evanescente delle concezioni che si sono accreditate nelle espe-
rienze nazionali, talvolta è accostata alla buona fede (ma non è considerata
come una sottospecie di essa) altra volta alla frode alla legge.
Si considerino in particolare le più recente sentenze, di cui, per ragioni
di divario temporale tra il momento delle ricerche effettuate, il momento
della loro pubblicazione e la fase attuale, i commentatori non hanno potuto
tener conto.
Nel caso Italmoda (C-131/13) concernente una serie di operazioni eco-
nomiche dalle quali era emersa l’evasione dell’IVA in Italia la Corte ha
accostato l’evasione e l’elusione fiscale all’abuso, lasciando intendere che
l’evasione e l’elusione si possono verificare anche in via indiretta, cioè non
violando direttamente le norme nazionali, ma mediante artifici che vor-
rebbero far apparire l’operazione conforme alle disposizioni e tuttavia, es-
sendo votata ad ottenere un beneficio illegale, essa deve essere considerata
vietata. Il risultato è ottenuto attraverso una serie di argomenti logici così
articolati: la premessa è che:

42  « (...) la lotta contro l’evasione, l’elusione fiscale e gli eventuali abusi costituisce
un obiettivo riconosciuto ed incoraggiato dalla sesta direttiva (v., in particolare, sentenze
Halifax ea., C-255/02, EU:C:2006:121, punto 71; Kittel e Recolta Recycling, C-439/04 e
C-440/04, EU:C:2006:446, punto 54, nonché Mahagében e Dávid, C-80/11 e C-142/11,
EU:C:2012:373, punto 41).
43  A tale riguardo, la Corte ha più volte sottolineato che i singoli non possono
avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione (v., in
particolare, sentenze Kittel e Recolta Recycling, EU:C:2006:446, punto 54; Fini H,
C-32/03, EU:C:2005:128, punto 32, e Maks Pen, C-18/13, EU:C:2014:69, punto 26).
44  Da ciò la Corte ha desunto, in primo luogo, nell’ambito di una giurisprudenza
costante vertente sul diritto a detrazione dell’IVA previsto dalla sesta direttiva, che spetta
alle autorità e ai giudici nazionali negare il beneficio di tale diritto se è dimostrato, alla
luce di elementi oggettivi, che quest’ultimo è invocato fraudolentemente o abusivamente
(v., in particolare, sentenze Kittel e Recolta Recycling, EU:C:2006:446, punto 55; Bonik,
C-285/11, EU:C:2012:774, punto 37, nonché Maks Pen, EU:C:2014:69, punto 26).
45  In secondo luogo, dalla giurisprudenza della Corte risulta che tale conseguenza
di un abuso o di una frode si ripercuote, in linea di principio, anche sul beneficio del
diritto all’esenzione per una cessione intracomunitaria (v., in tal senso, sentenze R.,
C-285/09, EU:C:2010:742, punto 55, e Mecsek-Gabona, C-273/11, EU:C:2012:547,
punto 54).
46  In terzo luogo, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi da 50 a 52 delle
sue conclusioni, nei limiti in cui un diniego eventuale del beneficio di un diritto derivante
dalla sesta direttiva riflette il principio generale, menzionato al punto 43 della presente

14
  Carbone, op. cit.
Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario 409

sentenza, secondo il quale nessuno può beneficiare abusivamente o fraudolentemente


dei diritti derivanti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, un siffatto diniego spetta,
in generale, alle autorità e ai giudici nazionali, qualunque sia il diritto in materia di IVA
interessato dalla frode, ivi compreso, pertanto, il diritto a rimborso dell’IVA ».

Come si vede, la nozione di abuso o di comportamento abusivo non


viene illustrata nel dettaglio, presumendosi che, sulla base della giurispru-
denza pregressa e del principio del divieto di ricorso al diritto comunitario
per sottrarsi alla applicazione del diritto interno, il termine «abusivo» sia
immediatamente comprensibile.

Più esaustiva è la motivazione del caso Torresi (C-58/13), in cui la


Corte rigetta gli argomenti del Consiglio Nazionale Forense il quale
aveva sollevato la questione pregiudiziale sulla applicazione della dir. n.
98/5/CE ritenendo che un italiano laureato in giurisprudenza non po-
tesse recarsi in altro Stato Membro per acquisire il titolo di avvocato
e tornare in Italia senza aver ottemperato all’obbligo di sostenere l’esa-
me di abilitazione in Italia, perché questo comportamento implicava un
abuso del diritto, e non invece l’applicazione della direttiva sulla libertà
di stabilimento.
La Corte non si è espressa come nel caso Italmoda, pur partendo dal
medesimo presupposto, perché ha sì precisato che

42  « (...) secondo una giurisprudenza costante della Corte, i singoli non possono
avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme dell’Unione (v., in particolare,
sentenze Halifax ea., C-255/02, EU:C:2006:121, punto 68, nonché SICES ea., C-155/13,
EU:C:2014:145, punto 29).
43  In particolare, quanto alla lotta contro l’abuso della libertà di stabilimento, uno
Stato membro ha il diritto di adottare misure volte ad impedire che, grazie alle possibilità
offerte dal Trattato FUE, taluni dei suoi cittadini tentino di sottrarsi abusivamente alle
norme delle loro leggi nazionali » (v. sentenza Inspire Art, C-167/01, EU:C:2003:512,
punto 136).

Tuttavia ha precisato che

44  « L’accertamento dell’esistenza di una pratica abusiva richiede che ricorrano


un elemento oggettivo e un elemento soggettivo (v. sentenza SICES ea., EU:C:2014:145,
punto 31).
45  Per quanto riguarda l’elemento oggettivo, deve risultare da un insieme di
circostanze oggettive che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla
normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non è stato raggiunto (v.
sentenza SICES ea., EU:C:2014:145, punto 32 e giurisprudenza ivi citata).
46  Quanto all’elemento soggettivo, deve risultare che sussiste una volontà di
ottenere un vantaggio indebito derivante dalla normativa dell’Unione mediante la
creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento » (v., in tal senso,
sentenza O. e B., C-456/12, EU:C:2014:135, punto 58 e giurisprudenza ivi citata).
410 Guido Alpa

Ed ha ritenuto che l’obiettivo fosse quello di consentire l’esercizio nel


Paese di origine sulla base di un certificato rilasciato da altro Paese Mem-
bro, sicché non emergeva l’abuso in senso proprio.

Ancora. Nel caso Bonnier Audio AB (C-461/10) a parere della Bonnier


Audio i diritti esclusivi di cui era titolare sarebbero stati violati a causa del-
la diffusione al pubblico di ventisette opere senza il suo consenso a mezzo
di un server FTP (« file transfer protocol »), che consente la condivisione
di file e il trasferimento di dati tra computer connessi a internet.
In un obiter dictum la Corte ha precisato che

56  « (...) nella trasposizione (...) delle direttive (...) gli Stati membri devono avere
cura di fondarsi su un’interpretazione delle direttive medesime tale da garantire un
giusto equilibrio tra i diversi diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento giuridico
dell’Unione. Inoltre, in sede di attuazione delle misure di recepimento di tali direttive,
le autorità e i giudici degli Stati membri devono non solo interpretare il loro diritto
nazionale in modo conforme a dette direttive, bensì anche provvedere a non fondarsi su
un’interpretazione di esse che entri in conflitto con i summenzionati diritti fondamentali
o con gli altri principi generali del diritto dell’Unione, quale, ad esempio, il principio di
proporzionalità » (v., in tal senso, sentenza Promusicae, cit. supra, punto 68, e ordinanza
LSG-Gesellschaft zur Wahrnehmung von Leistungsschutzrechten, cit. supra, punto 28).

E per risolvere la questione ha ritenuto che sia possibile al titolare del


diritto d’autore rivolgersi al provider per ottenere il nominativo del sog-
getto che ha violato tale diritto. Qui l’abuso è più criptico: l’agente ave-
va ottenuto la riproduzione della proprietà intellettuale ricorrendo ad un
internet provider, e quindi inserendo un terzo, in una operazione illecita.
Per chiudere qui una ricognizione che potrebbe risalire nel tempo, ma
senza dover ripercorrere le analisi già effettuate in modo encomiabile da
altri Autori, si può prendere in considerazione il caso 3M Italia (C-417/10)
che è emblematico per la costruzione di una operazione il risultato della
quale avrebbe avuto un vantaggio di natura fiscale per la società. L’opera-
zione è così descritta:

4  «La società 3MCompany, con sede negli Stati Uniti, ha costituito un diritto di
usufrutto sulle azioni della 3MItalia, di cui essa ha il controllo, a favore della società
Shearson Lehman Hutton Special Financing, anch’essa avente sede negli Stati Uniti.
Quest’ultima, a sua volta, ha trasferito tale diritto di usufrutto alla società Olivetti &
C., con sede in Italia, con diritto di voto riservato al nudo proprietario, vale a dire alla
3MCompany.
5  A seguito di un’ispezione, l’amministrazione finanziaria italiana ha ritenuto
che la cessione di usufrutto a favore della Olivetti & C. fosse fittizia e che i dividendi
distribuiti dalla 3MItalia a quest’ultima fossero stati, in realtà, percepiti dalla Shearson
Lehman Hutton Special Financing, società non residente in Italia. Di conseguenza, essa
ha deciso che a tali dividendi doveva essere applicata la ritenuta a titolo d’imposta del
Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario 411

32,4%, prevista dalla legislazione italiana sull’imposizione dei redditi da proprietà e


non la ritenuta d’acconto del 10% e il corrispondente credito d’imposta applicabili ai
contribuenti residenti in Italia. Inoltre, l’amministrazione finanziaria ha ritenuto che
la società 3MItalia fosse responsabile dell’errata applicazione delle ritenute fiscali. Di
conseguenza, ha reclamato alla stessa società il pagamento delle somme di ITL20089887000
per l’anno 1989, di ITL12960747000 per l’anno 1990 e di ITL9806820000 per l’anno
1991, con sanzioni e interessi ».

Con le questioni pregiudiziali sollevate nel corso del giudizio promosso


dal Ministero dell’Economia contro la società il giudice del rinvio aveva
chiesto

15 « (...) in sostanza, se il diritto dell’Unione, ivi compresi, in particolare il


principio del divieto dell’abuso di diritto, l’art. 4, par. 3, T.U.E., le libertà garantite dal
Trattato F.U.E. ex art. 12 ora 18, n. v., il principio di non discriminazione, le norme in
materia di aiuti di Stato nonché l’obbligo di garantire l’applicazione effettiva del diritto
dell’Unione, debba essere interpretato nel senso che osta, in una fattispecie come quella
di cui al procedimento principale, vertente sulla fiscalità diretta, all’applicazione di una
disposizione nazionale che preveda l’estinzione dei procedimenti in materia fiscale
pendenti dinanzi al giudice che si pronuncia in ultimo grado, mediante pagamento di
un importo pari al 5% del valore della controversia, qualora tali procedimenti traggano
origine da ricorsi proposti in primo grado più di dieci anni prima della data di entrata in
vigore di tale disposizione e l’amministrazione finanziaria sia rimasta soccombente nei
primi due gradi di giudizio ».

La Corte ritiene che in questa fattispecie il principio del divieto dell’abu-


so del diritto non sia stato invocato in modo appropriato:

32  « (...) nel diritto dell’Unione non esiste alcun principio generale dal quale
discenda un obbligo per gli Stati membri di lottare contro le pratiche abusive nel settore
della fiscalità diretta e che osti all’applicazione di una disposizione come quella di cui
trattasi nel procedimento principale, qualora l’operazione imponibile derivi da pratiche
siffatte e non sia in discussione il diritto dell’Unione.
33  Ne consegue che il principio del divieto dell’abuso di diritto e l’art. 4, par. 3,
T.U.E., che impone agli Stati membri di adottare ogni misura di carattere generale o
particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione
e di astenersi da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione
degli obiettivi dell’Unione, non ostano, in linea di principio, all’applicazione, in un
procedimento come quello principale, di una disposizione nazionale quale l’art. 3,
comma 2° bis, lettera b), del d.l. n. 40/2010 ».

Pertanto la questione è risolta in senso favorevole alla società, perché

48 « (...) Il diritto dell’Unione – in particolare il principio del divieto dell’abuso


di diritto, l’art. 4, par. 3, T.U.E., le libertà garantite dal Trattato F.U.E., il principio di
non discriminazione, le norme in materia di aiuti di Stato nonché l’obbligo di garantire
l’applicazione effettiva del diritto dell’Unione – deve essere interpretato nel senso che
non osta, in un procedimento come quello principale, vertente sulla fiscalità diretta,
412 Guido Alpa

all’applicazione di una disposizione nazionale che prevede l’estinzione dei procedimenti


pendenti dinanzi al giudice che si pronuncia in ultimo grado in materia tributaria,
mediante pagamento di un importo pari al 5% del valore della controversia, qualora
tali procedimenti traggano origine da ricorsi proposti in primo grado più di dieci anni
prima della data di entrata in vigore di tale disposizione e l’amministrazione finanziaria
sia rimasta soccombente nei primi due gradi di giudizio ».

Il divieto dell’abuso del diritto dunque è un principio di cui non si può


più dubitare: esso è operativo nell’ambito del diritto dell’Unione ma, di-
rettamente, anche negli ordinamenti degli Stati membri nei settori di com-
petenza dell’Unione. E ciò sia come fonte dell’ordinamento comunitario,
attesa la funzione della giurisprudenza, sia come criterio interpretativo, dal
momento che le fonti del diritto comunitario si debbono interpretare alla
luce degli orientamenti della Corte di Giustizia.
E proprio dalla giurisprudenza della Corte ha preso le mosse la dottrina
per analizzare l’uso del principio e i suoi contenuti. Due sono, tra i tanti,
i contributi più corposi: la raccolta degli atti di un seminario svoltosi a
Oxford nel 200815, che vedono ora la luce, e quindi debbono essere letti
sulla base di una giurisprudenza un po’ datata, e una tesi di dottorato or-
ganizzato dall’Università autonoma di Barcellona16.
Nel primo contributo campeggiano posizioni conflittuali: accanto
ad analisi della espressione «principio del diritto» o della stessa figura
dell’abuso, vi sono contributi che nei singoli settori dell’ordinamento co-
munitario discutono i casi in cui si è fatto ricorso alla figura, e quindi ne
documentano il radicamento. Nel secondo l’analisi è svolta nel contesto
del diritto comparato, e quindi con la consapevolezza imprescindibile per
poter accreditare il radicamento di questo principio.
In questo senso appaiono fondamentali, al di là dei casi iniziali con cui
si è avviato il lungo percorso (per l’appunto più che quarantennale) della
Corte, pronunce che i commentatori, con diverse motivazioni, ritengono
ormai pietre miliari di questo itinerario: Diamantis, Kofoed, a cui si deb-
bono aggiungere i casi più noti, Centros, e Inspire Art, sulla possibilità di
istituire sedi secondarie di società in Stati diversi da quello originario –
operazione considerata lecita e quindi non importante abuso del diritto – e
Halifax in materia di imposizione fiscale.
Il caso Diamantis (C-373/97) è utile per comprendere i rapporti tra
diritto dell’Unione europea e diritto interno. Risolvendo la questione pre-
giudiziale, la Corte ha precisato che

15
  De Feria e Vogenauer (edts), op. cit.
16
  Ionescu, op. cit.
Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario 413

46 « Il diritto comunitario non osta a che i giudici nazionali applichino una


disposizione di diritto interno che consenta loro di valutare se un diritto riconosciuto da
una norma comunitaria venga esercitato in modo abusivo (...) ».

La Corte ritiene che non si possa contestare ad un azionista di aver


agito in giudizio per accertare, sulla base della seconda direttiva in materia
di società, se l’aumento di capitale era stato deliberato dal soggetto legit-
timato, ma i giudici nazionali possono contestare che l’azione sia volta a
produrre un danno talmente grave ai legittimi interessi altrui da risultare
manifestamente sproporzionato.
Il caso Kofoed (C-321/05) riguardava un caso di fusione societaria e di
imposizione fiscale degli utili. Al di là del caso di specie, la Corte ribadi-
sce il principio comunitario del divieto dell’abuso di diritto, incorporato
nella dir. 90/434/CEE:« i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o
abusivamente delle norme di diritto comunitario; l’applicazione di queste
ultime non può essere estesa sino a comprendere pratiche abusive, ossia
operazioni effettuate non nell’ambito di normali transazioni commerciali,
ma unicamente allo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti
dal diritto comunitario ».
Qui abbiamo esposti in modo chiaro i presupposti dell’abuso del diritto
comunitario.

3.  Le perplessità della dottrina di diritto privato europeo


Sulla base di quanto sopra sinteticamente illustrato non sembrano con-
divisibili le perplessità che molti studiosi del diritto privato europeo hanno
sollevato a proposito della cittadinanza del principio del divieto dell’abuso
del diritto in questo settore.
Se si può fare una eccezione per quanti hanno studiato la problematica
prima del 2000, anno cruciale non solo per la giurisprudenza, ma anche
per la redazione dei testi scritti (la Carta di Nizza è della fine del 2000),
diversa è la valutazione dei contributi contemporanei. Mi riferisco in par-
ticolare ai General Principles of EU Civil Law in cui Norbert Reich espri-
me l’opinione che il principio sia riconosciuto in singoli settori (libertà di
circolazione delle persone, diritto finanziario) ma non abbia portata gene-
rale, condividendo l’opinione di Metzger, pure espressa nell’ambito di un
seminario che si concludeva con l’affermazione di un generale principio di
divieto dell’abuso.
Ma i più avveduti studiosi del diritto privato europeo sono di diverso
avviso. Anzi: Stefan Grundmann ha sostenuto che il divieto dell’abuso del
diritto ha avuto una applicazione più ampia di ogni altra clausola generale
o standard, anche a non considerare la direttiva sulle clausole abusive.
414 Guido Alpa

Si deve anche considerare, a questo proposito, la letteratura (e la giuri-


sprudenza a cui essa si riferisce) riguardante l’applicazione diretta dei prin-
cipi fondamentali ai rapporti tra privati: è evidente che nella comparazione
degli interessi, chi invoca un diritto che, in conflitto con altri provvisti di
una garanzia di pari grado, raggiungerebbe effetti a sé favorevoli ma del
tutto sproporzionati non fa che abusare di quel diritto. In altri termini,
la repressione dell’abuso del diritto avviene spesso in modo criptico, sen-
za neppure invocare il principio, ma conseguendone i medesimi effetti in
modo pratico.
4.  Abuso del diritto e principio di buona fede
Gran parte degli studiosi che si sono occupati del tema tendono a non
assegnare al divieto dell’abuso del diritto un ruolo autonomo, ma ad inglo-
barlo nel principio, che essi considerano più ampio, dell’osservanza della
buona fede. L’affinità dei due principi è innegabile e spesso nelle decisio-
ni si accostano abuso e violazione della buona fede, quasi che i principi
fossero due aspetti complementari della stessa direttiva, che richiede co-
operazione tra le parti, solidarietà sociale, temperamento delle pretese e
limitazione dell’esercizio di un diritto se rivolto a danneggiare il prossimo
senza alcun vantaggio per il titolare o a raggiungere effetti spropositati. È
pur vero, però, che a fronte di quanti ritengono che un principio inglobi
l’altro o l’un principio sia una specificazione più ridotta dell’altro, vi sono
autori che spiegano con chiarezza come pur essendo finitime le due pre-
scrizioni abbiano origini e finalità diverse: la buona fede, prevista in tante
disposizioni dei codici continentali, è una clausola che consente di integrare
il rapporto sulla base di valori sociali, di misurare la pretesa sulla base della
esigibilità della prestazione senza imporre al creditore uno sforzo eccessi-
vo, prescinde dalla violazione di specifiche disposizioni, e non è valutata
alla luce degli effetti che la sua violazione produrrebbe, mentre l’abuso del
diritto implica un controllo sulla modalità di esercizio di un diritto.
Tuttavia la suggestione dell’accostamento o della consustanzialità è for-
te, come dimostra sia la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia,
che invoca la buona fede insieme con l’abuso del diritto, sia il legislatore
comunitario, quando, facendo riferimento alle clausole abusive, accosta lo
squilibrio eccessivo alla buona fede, sia quella dottrina che, temendo la
discrezionalità troppo ampia dell’interprete se si dovesse accogliere il di-
vieto di abuso, si rifugia nella più tranquillante formula del principio di
buona fede17.

17
  Per una discussione recente v. i contributi sopra cit. alla nota 6.
Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario 415

5.  I limiti all’applicazione del divieto


Proprio l’eccesso di discrezionalità dell’interprete – che fu la ragione
per la voluta omissione di ogni citazione dell’abuso del diritto nel codice
civile italiano (ma che non impedì al contrario la sua codificazione in altre
esperienze) – conduce gli interpreti che ammettono l’applicazione del di-
vieto di abuso a precisarne i confini con molte cautele.
In particolare, nel caso Halifax, che riguardava l’applicazione della
disciplina delle imposte indirette e la sua possibile elusione, la Corte ha
precisato che « perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le ope­
razioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle con­
dizioni previste dalle pertinenti disposizioni (...), procurare un vantaggio
(...) la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle
stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi
obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere
un vantaggio (...) ».
Muovendo dai casi Emsland-Staerke e Halifax, Stefan Vogenauer in-
dividua allora tre requisiti per configurare l’abuso di diritto: l’osservanza
formale di una disposizione, la violazione dello scopo della norma, l’af-
fidamento dell’agente sulla acquisizione di un vantaggio conseguente alla
applicazione della norma.
Dei tre requisiti, mentre il primo e il terzo sono facilmente accertabili,
sul piano oggettivo, il secondo non implica più alcuna considerazione di
natura soggettiva, cioè l’intenzione di frodare la legge, di eluderla, di dan-
neggiare la controparte o i terzi, ma semplicemente comporta un accerta-
mento oggettivo sulla base dello scopo della norma. La violazione dello
scopo della norma – che in altre esperienze giuridiche è uno dei requisiti
dell’atto illecito extracontrattuale – si può ricostruire tenendo conto delle
finalità legislative e quindi dell’interpretazione del testo.
In ogni caso, si tratta di abuso del diritto oggettivo – in inglese, abu­
se of law, non quindi abuse of rights – cioè non di abuso di poteri, di
potestà, di diritti soggettivi individuali. In questo senso, restano al di
fuori della concezione di abuso del diritto comunitario in senso stretto,
come fin qui si è detto, le figure di abuso a cui più spesso ci si riferisce
quando si applica il principio nell’ambito dei rapporti di diritto privato:
mi riferisco all’abuso di posizione dominante in materia di concorren-
za, all’abuso di dipendenza economica nei rapporti tra imprese, all’abu-
so di potere contrattuale nei rapporti tra imprese e consumatori, l’abuso
nell’esercizio dell’attività economica perpetrato mediante pratiche com-
merciali scorrette.
Queste figure, insieme con l’abuso dei poteri del socio e l’abuso del
416 Guido Alpa

processo, fanno parte di una concezione più ampia di abuso del diritto e
sono, – insieme con l’abuso dei poteri del proprietario o dell’usufruttuario
(in particolare, il divieto degli atti emulativi) – gli esempi più frequenti di
abuso del diritto nell’ordinamento italiano.
7.  L’ignoranza dell’abuso del diritto nei testi di armonizzazione del
diritto privato europeo
Questa distinzione di ambiti del principio del divieto potrebbe essere
una giustificazione – ex post – della omissione, o dell’assenza, di una qual-
siasi menzione dell’abuso del diritto nei testi di armonizzazione del diritto
privato europeo. In questi testi si dovrebbe parlare comunque non di abuso
della legge ma di abuso di diritti, se volessimo considerare i rapporti tra le
parti nell’ambito del diritto privato.
Per leggere con una certa consapevolezza questi testi conviene richia-
mare i caveat esposti in apertura del discorso: in altri termini, i gruppi
di lavoro che li hanno compitati erano composti da giuristi provenienti
dalle esperienze continentali e di common law in cui l’abuso del diritto
aveva una storia radicata ma diseguale, arricchita di trapianti e circolazione
di modelli, ma sostanzialmente frammentata in percorsi propri a ciascun
ordinamento, quindi difficilmente riducibile ad unità. In più, seguendo le
sorti dell’abuso del diritto nei singoli ordinamenti, gli autori affiancano o
includono la problematica in quella della buona fede.
Ecco alcuni esempi.
I Principi di diritto comunitario in materia di contratto (Acquis Prin­
ciples) solo l’art. 7:101 potrebbe essere richiamato per alludere alla appli-
cazione del divieto di abuso del diritto, nella misura in cui si fa obbligo
al debitore di adempiere secondo buona fede; l’art. 7:103 sull’obbligo del
debitore di curare gli interessi del creditore e l’art. 7:104 sull’obbligo del
creditore e debitore di cooperare.
Neppure nei Principles of European Contract Law l’art. 0:302 dedicato
alla lealtà contrattuale fa riferimento all’abuso del diritto.
Altrettanto silente è il Draft Common Frame of Reference. Neppure
nelle note iniziali, del Book I, riguardanti le disposizioni di apertura su
good faith and fair dealing,e reasonableness (I:1:103 e 104) fanno cenno
all’abuso del diritto.
Nonostante ciò, le analisi di diritto comparato in materia sono parti-
colarmente accurate, e descrivono tutte le soluzioni che in ciascun ordina-
mento sono state assunte per dare soluzione al problema del riconoscimen-
to del divieto di abuso del diritto: dalle codificazioni esplicite del divieto
a quelle criptiche.
Se, al contrario, si esamina la giurisprudenza della Corte di Cassazione,
Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito comunitario 417

ormai si può dire che il principio è accolto con ampiezza, e i suoi confini
vanno ben al di là degli atti emulativi.
Insomma, la problematica si appresta ad infittirsi, il principio ad esten-
dere la sua applicazione, e quindi occorrerà provvedere ad una revisione
degli schemi tradizionali, senza preclusioni dogmatiche e con spirito di
cooperazione al dialogo, questa volta, tra giurisprudenza e dottrina, e tra
ordinamenti nazionali e diritto dell’Unione Europea.
418 Guido Alpa
Sonja Haberl e Alessandro Somma *
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca

Sommario:  1. Dalla funzionalizzazione all’abuso del diritto. – 2. Il divieto di atti emu-


lativi. – 3. L’abuso del diritto nella giurisprudenza del Reichsgericht. – 4. Il dibattito
dottrinale e la sua influenza sulla giurisprudenza. – 5. Abuso del diritto e ordine giuri-
dico nazista. – 6. Gli orientamenti del Bundesgerichtshof: venire contra factum proprium
e Verwirkung. – 7. Segue: acquisto e frustrazione sleale di una posizione giuridica e
assenza di un interesse legittimo. – 8. Abuso del diritto, ordoliberalismo ed economia
sociale di mercato.

1.  Dalla funzionalizzazione all’abuso del diritto


Con la transizione dalla società borghese alla società industriale, le pro-
messe formulate dall’ordine proprietario, che la proprietà fosse veicolo di
emancipazione, si rivelarono nella loro essenza di pie illusioni. La socie-
tà borghese era nata a partire dal patto per cui il sovrano accentrava il
potere politico, assicurando in cambio all’individuo l’esclusiva titolarità
del potere economico e dunque il riconoscimento di una libertà innata da
esprimere nell’appropriazione dei beni1. Per contro la società industriale,
plasmata a immagine e somiglianza del sistema di fabbrica, metteva in luce
la sua natura fortemente classista: l’appropriazione dei beni produttivi, che
la tradizione liberale ammetteva come conseguenza della loro trasforma-
zione attraverso il lavoro, costituiva la prerogativa di una ristretta cerchia
di individui nell’ambito di strutture incapaci di produrre mobilità sociale.
Peraltro la società industriale non era minacciata unicamente dal conflit-
to tra la classe proprietaria e la classe cui la proprietà dei beni produttivi era
irrimediabilmente preclusa: il conflitto alla base dell’incipiente questione
sociale, ovvero della questione operaia «contenuta in embrione nel contrat-
to di lavoro»2. La richiesta di una mano visibile cui affidare il compito di
sostenere l’ordine proprietario, cioè, non discendeva solamente dal bisogno
di pace sociale e dunque di cooperazione tra produttori. A essere minac-

*  Sebbene il lavoro rappresenti il frutto di riflessioni comuni, i parr. 1, 5 e 8 sono di Ales-


sandro Somma, mentre i parr. 2-4 e 6-7 di Sonja Haberl.
1
  Exposé des motifs de la loi relative à la Propriété par le conseiller d’état Portalis, in Code
civil des Français, vol. 4, Paris, 1804, p. 31.
2
  G. Solari, Socialismo e diritto privato (1906), Milano, 1980, p. 208 e 212.
420 Sonja Haberl e Alessandro Somma

ciato era anche il funzionamento del meccanismo concorrenziale, il libero


incontro di domanda e offerta alla base dell’ordine proprietario, messo a
rischio dalla volontà di costituire cartelli, e più in generale dai molti falli-
menti del mercato che la mano invisibile non riusciva certo a prevenire o
a risolvere. Era insomma indispensabile individuare e percorrere una terza
via tra il liberalismo tradizionale, quello della mano invisibile, e i tentativi
di superare l’ordine proprietario intrapresi dal nascente movimento ope-
raio.
La terza via poteva assumere molte sembianze: prendere la forma del
solidarismo o del funzionalismo, o eventualmente del socialismo della cat-
tedra. I solidaristi chiarirono che il loro credo era incentrato sull’autode-
terminazione e sulla relativa «lotta per lo sviluppo individuale». E tuttavia
occorreva promuovere «l’associazione di azioni individuali» nella misu-
ra utile a «mantenere l’individuo in uno stato di durevole prosperità e
sicurezza»3. Nello stesso senso i funzionalisti riconoscevano spazi entro
cui «sviluppare la propria individualità», ma solo se l’esercizio del relativo
potere assolveva al dovere di contribuire all’equilibrio tra le diverse com-
ponenti dell’organismo sociale4.
Dal canto loro i socialisti della cattedra sottolinearono il nesso tra ela-
borazione della terza via e crisi della distinzione tra il diritto pubblico
dello «Stato onnipotente» e il diritto privato per «l’individuo sciolto da
ogni comunità». La crisi avrebbe prodotto un nuovo momento di sintesi
tra le due impostazioni, per cui il diritto pubblico sarebbe infine penetrato
dall’individualismo, e il diritto privato da «una goccia di olio sociale»: solo
in tal modo l’organismo sociale avrebbe evitato conflitti destabilizzanti,
come quelli originati dalla divisione in classi5.
Tutto ciò produsse modificazioni sostanziali nel modo di intendere le
costruzioni privatistiche, quelle che il patto fondativo della società bor-
ghese voleva incentrato sul tema dell’assolutezza dei diritti individuali, ora
osservati in prospettiva relazionale e in quanto tali necessariamente rela-
tivizzati.
Tra i primi fautori della terza via la commistione tra individualismo e
prospettiva superindividuale poteva assumere coloriture differenti, e tut-
tavia essa indicava una tendenza irreversibile. L’organicismo tipico delle
costruzioni pubblicistiche, quelle da cui l’individuo si difendeva rinchiu-

3
  L. Bourgeois, Solidarité, 3. ed., Paris, 1902, p. 61 s.
4
  L. Duguit, Les transformation générales du droit privé (1911), 2. ed., Paris, 1920, pp. 26
s. e 37.
5
  O. Gierke, Die soziale Aufgabe des Privatrechts, Berlin, 1889, p. 9 ss.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 421

dendosi nella cittadella del diritto privato, sarebbe infine divenuto perva-
sivo, intaccando l’idea dell’assolutezza delle costruzioni tradizionalmente
utilizzate per il funzionamento del mercato. L’ordine proprietario si avvia-
va insomma a divenire terreno nel quale i diritti erano riconosciuti e tutelati
solo nella misura in cui il loro esercizio realizzava finalità sistemiche, quelle
di cui l’ordine si rendeva interprete.
È a partire dalla conclusione del primo conflitto mondiale che la nuova
prospettiva venne assunta in modo consapevole: quel conflitto aveva ab-
battuto definitivamente l’individualismo, esattamente come la Rivoluzione
francese aveva abbattuto il feudalesimo, rendendo ineludibile la costruzio-
ne di un ordine capace di conciliare «gli opposti interessi tra il capitale e
il lavoro»6. Il tutto accelerò e consolidò alcune costruzioni che avevano
preso corpo nel decennio precedente a completamento dell’approccio fun-
zionalista e dunque dell’idea di diritti funzionalizzati7. Costruzioni come
in particolare l’abuso del diritto, elaborata in area francese proprio per
amplificare il punto di vista relazionale nell’analisi dei diritti: per affermare
che essi sono «concessi dai pubblici poteri» e che in quanto tali «hanno
una missione sociale da compiere, contro la quale non possono insorgere»8.
Anche in area tedesca si è evidentemente discusso di abuso del diritto
(Rechtsmissbrauch), e a monte di funzionalizzazione dei diritti nell’ambi-
to di un ordine economico bisognoso di una mano visibile incaricata di
assicurarne l’equilibrio e lo sviluppo. Anzi, proprio in area tedesca questi
temi hanno conosciuto uno sviluppo particolare, dovuto alle modalità con
cui si è realizzato il processo di modernizzazione, diverso dal percorso
intrapreso in altre aree perché non si è accompagnato allo sviluppo della
democrazia: la modernizzazione tedesca costituisce il punto di arrivo di un
percorso governato da un potere politico autoritario, se non totalitario9.
In questo lavoro metteremo in luce le vicende che hanno sottolineato
quel percorso e condotto a elaborazioni dottrinali e orientamenti giuri-
sprudenziali che, se per un verso sono riferiti al tema dell’abuso del diritto,
sono per molti altri riconducibili a un vero e proprio dato caratteristico

6
  N. Stolfi, La rivoluzione francese e la guerra mondiale in rapporto alle trasformazioni del
diritto, in Rivista di diritto pubblico, 1922, I, p. 386 ss.
7
  L. Duguit, Les transformation générales du droit privé, cit., p. 51: «la conception de la
liberté-fonction remplace la notion de liberté-droit».
8
  L. Josserand, Cours de droit civil positif français, vol. 1, Paris, 1938, p. 118. In precedenza
Id., De l’abus des droits, Paris, 1905.
9
  È questo il senso della teoria del «percorso eccezionale» (Sonderweg): cfr. A. Somma, I
giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino. Economia e politica nel diritto fascista e nazionalsocia­
lista, Frankfurt M., 2005, p. 4 ss.
422 Sonja Haberl e Alessandro Somma

dell’esperienza tedesca: l’attitudine autoritaria nel modo tedesco di presi-


diare l’ordine economico. Un’attitudine che evidentemente ha conosciuto
momenti drammatici, come quelli relativi all’epoca nazista, quando la de-
mocrazia è stata sacrificata alle necessità sistemiche dell’ordine economi-
co. Ma che continua a integrare un dato caratteristico, se non altro per i
notevoli momenti di continuità tra le vicende della prima e della seconda
metà del Novecento, che anche il tema dell’abuso del diritto consentiranno
di evidenziare.

2.  Il divieto di atti emulativi


La questione riguardante l’inserimento di un divieto generale di abuso
del diritto nel Codice Civile tedesco del 1896 fu oggetto di accese discus-
sioni durante i lavori preparatori.
Sulla scia della Prima commissione, al riguardo contraria, la cosiddetta
Commissione preliminare presso l’Ufficio imperiale della giustizia (Vor­
kommissione des Reichsjustizamtes) motivò il suo rifiuto con il timore che
un simile divieto avrebbe condotto a decisioni fondate su un senso giustizia
«oscuro» e «puramente soggettivo». Considerazioni simili furono svolte
nell’ambito della Seconda commissione a proposito dell’exceptio doli gene­
ralis, azione riconosciuta nel diritto comune come rimedio generale dispo-
nibile al convenuto per opporsi all’esercizio fraudolento o sleale dell’altrui
diritto. Vi fu chi propose di codificarla nella Parte generale del Codice, in
una disposizione dal seguente tenore: «una pretesa giuridica può essere
legittimamente respinta dal soggetto nei cui confronti viene fatta valere,
quando l’esercizio della medesima, a seconda delle circostanze del caso,
risulti lesiva dei buoni costumi». Prevalse però l’orientamento negativo,
anche qui ispirato dal timore che si sarebbe altrimenti sponsorizzata una
«confusione tra diritto e morale»10.
Infine si trovò un accordo per un divieto di atti emulativi (Schikanever­
bot), inizialmente relativo al solo diritto di proprietà, poi trasformato in
principio generale contenuto nella Parte generale del Codice civile tedesco:
«è inammissibile l’esercizio del diritto se può avere soltanto lo scopo di
provocare danno ad altri» (par. 226). Il divieto si ricollega alla teoria gene-
rale della aemulatio che Samuel Stryk sviluppò sulla base dell’Usus moder­
nus pandectarum: teoria che, diversamente dalle precedenti elaborazioni,
non era più limitata alle ipotesi di rapporti di vicinato, ma riguardava l’in-

10
  Per tutti H.-P. Haferkamp, Die heutige Rechtsmissbrauchslehre – Ergebnis nationalsozia­
listischen Rechtsdenkens?, Berlin, 1995, p. 95 ss.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 423

sieme delle azioni compiute dal titolare del diritto in assenza di interesse
proprio, ovvero all’unico scopo di arrecare danni ad altri11.
L’elemento soggettivo dell’intento di nuocere rappresentò un presup-
posto anche del primo divieto di atti emulativi codificato in area tedesca,
quello contenuto nell’Allgemeines Landrecht prussiano del 1794, dove si
prevedeva il risarcimento del danno subito da chi «tra più modalità pos-
sibili di esercizio del diritto abbia scelto quella che è dannosa per l’altro,
con l’intenzione di danneggiarlo» (par. 37 I tit. 6)12. Le difficoltà probatorie
legate a questo presupposto portarono la giurisprudenza a rompere con il
tenore letterale del divieto e ad affermare la responsabilità dell’agente an-
che nel caso in cui «l’elemento soggettivo non può essere comprovato»13.
L’orientamento non ebbe però influenza alcuna nell’individuazione poi
accolta dal Codice civile tedesco, nel cui vigore non venne più significati-
vamente proposto dalle corti.
Insomma, quando fu approvato, il divieto di atti emulativi venne sa-
lutato come il veicolo di trasformazioni epocali, in particolare come una
spinta verso la socializzazione del diritto e dunque verso il superamento
dei paradigmi individualisti ereditati dalla tradizione pandettista14. Tuttavia
le difficoltà legate alla prova dell’animus nocendi, prova sostanzialmente
impossibile15, condannarono il divieto a risultare del tutto trascurabile dal
punto di vista pratico, perché sostanzialmente non applicato. Ciò non to-
glie, però, che il principio posto alla base del divieto non abbia attecchito
nell’esperienza giuridica tedesca, essendo esso espressione di quanto abbia-
mo indicato come un vero e proprio dato di sistema: lo sviluppo di istituti
del diritto privato in linea con il proposito di edificare un ordine del merca-
to incentrato sul tema della funzionalizzazione delle libertà economiche. Il
tutto, come vedremo, con il fondamentale contributo della clausola di buo-
na fede, quindi del più noto tra gli strumenti tecnico giuridici utilizzati per
ottenere la conformazione dei comportamenti economicamente rilevanti.
3.  L’abuso del diritto nella giurisprudenza del Reichsgericht
Il destino del divieto di atti emulativi apparve segnato fin dai primissi-
mi anni dall’entrata in vigore del Codice civile tedesco, quando la Corte

11
  S. Stryk, De iure aemulatione (1678), in Id., Dissertationes iuridicae de selectis utriusque
iuris materiis, vol. 3, Frankfurt Oder, 1690, p. 52 ss.
12
  Altri divieti erano contenuti nella disciplina della proprietà, ai parr. 27 e 28 I Tit. 8.
13
  Preussisches Obertribunal, 7 giugno 1852, in Striethorst Archiv, 5, 1852, p. 282 ss.
14
  Ad es. R. Saleilles, Introduction à l’étude du droit civil allemand, Paris, 1904.
15
  Per tutti B. von Feldmann, Sub Par. 226, in BGB – Münchener Kommentar, vol. 1,
München, 1993, n. 1.
424 Sonja Haberl e Alessandro Somma

civile di ultima istanza decise di ovviare alla situazione riattivando l’isti-


tuto dell’exceptio doli generalis. Già nella seconda metà dell’Ottocento il
Reichsgericht aveva fatto ricorso all’istituto, richiamandosi lapidariamen-
te al suo ancoraggio nella tradizione romanistica16. Nella prima metà del
Novecento si assistette a un rafforzamento di questa linea interpretativa,
che pure conviveva con una relativa incertezza circa il suo fondamento
normativo.
In una sentenza del 1904, i giudici, riconosciuto che «il Codice civi-
le tedesco era privo di una disposizione generale» chiaramente fondativa
dell’exceptio doli generalis, si rivolsero a una previsione tratta dalla disci-
plina dell’illecito extracontrattuale: quella contenente il divieto di recare
un danno ad altri «intenzionalmente in modo contrario ai buoni costu-
mi» (par. 826)17. La previsione divenne il «canale di legittimazione» per
reprimere una serie di tipici comportamenti emulativi18, consentendo nel
contempo di non mettere in discussione la connotazione soggettiva della
fattispecie richiamata dal requisito dell’intenzionalità19. In tal modo, però,
si continuava a non avanzare verso un divieto generale di esercizio del
diritto anche solo oggettivamente contrario al buon costume.
Il tutto mentre i tentativi di ampliare per via giurisprudenziale lo stretto
ambito di applicazione del par. 226 BGB continuavano a essere timidi e
isolati. L’orientamento concettualistico e formalistico dell’epoca, del resto,
non permetteva interpretazioni più libere della disposizione, o almeno let-
ture capaci di evitarle la scarsa fortuna a cui fu condannata. Vi fu per la
verità qualcuno intento a cantare fuori dal coro, sostenendo che «di sicuro
non nuocerebbe se in futuro non prendessimo più tanto sul serio il presup-
posto dello scopo esclusivo di provocare danni ad altri». Quel qualcuno,
però, avrebbe più avanti constatato che il divieto di atti emulativi di certo
«non aveva soddisfatto le aspettative poste in essa»20.

16
  Cfr. RG, 13 gennaio 1885, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 13, 1885,
p. 32 ss.; RG, 9 novembre 1886, ivi, 18, 1887, p. 238 ss.; RG, 31 dicembre 1887, ivi, 20, 1888, p.
93 ss. e RG, 3 maggio 1888, ivi, 21, 1888, p. 243 ss.
17
  RG, 30 maggio 1904, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 58, 1905, p.
35 ss.
18
  F. Ranieri, Norma scritta e prassi giudiziale nell’evoluzione della dottrina tedesca del
Rechtsmissbrauch, in M. Rotondi (a cura di), L’abus de droit, Padova, 1979, p. 371.
19
  Cfr. RG, 9 dicembre 1905, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 62, 1906,
p. 19 ss. e RG, 27 maggio 1911, ivi, 76, 1911, p. 319 ss., ove si ritenne comunque sufficiente il
dolus eventualis.
20
  V. rispettivamente J.W. Hedemann, Zivilistische Rundschau 1908/09, in Archiv für bür­
gerliches Recht, 1910, p. 151. e Id., Die Flucht in die Generalklauseln. Eine Gefahr für Staat und
Recht, Tübingen, 1933, p. 7.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 425

In una nota sentenza del 1909, di frequente citazione ancora oggi per
la particolarità della vicenda, il Reichsgericht fece direttamente ricorso al
divieto di atti emulativi per risolvere il caso in cui un padre aveva vietato al
figlio, con il quale aveva rotto ogni relazione, di accedere nel parco del suo
castello e dunque di visitare la tomba della madre21. Si tratta di una delle
rare decisioni in cui il tribunale, accedendo a una sua interpretazione am-
pia, applicò il par. 226 BGB22: «precetto di etica sociale in misura limitata»
in quanto concernente non la sola provocazione di un «danno materiale,
bensì anche la violazione di valori e interessi ideali». Il tutto in attuazione
di un principio fondamentale (Rechtsgrundsatz) di cui il giudice deve tene-
re conto d’ufficio, tanto è vero che il figlio non aveva chiesto di ricorrere
alla disposizione utilizzata dalla corte per risolvere la controversia, come
invece richiesto dalla prevalente dottrina dell’epoca23.
È così che il Reichsgericht giunse ad affermare un divieto di atti emu-
lativi nella sua veste di limite «anche del diritto di proprietà quale diritto
assoluto», cui in effetti il padre si era appellato. Con ciò urtando la su-
scettibilità di molti autori, i quali lamentarono fra l’altro la mancanza di
considerazioni approfondite riguardanti l’animus nocendi, se non altro in
quanto il padre, a giustificazione del suo rifiuto, lamentava la sofferenza di
problemi di cuore che l’eventuale visita del figlio avrebbe acuito, mettendo
a rischio la sua salute24. I giudici si erano invece limitati a generici rinvii a
quanto stabilito nel precedente grado di giudizio, dal quale sarebbe «emer-
so senza alcun dubbio come il divieto di visita posto dal convenuto fosse
esclusivamente finalizzato ad arrecare danno all’attore».
Qualche anno dopo la giurisprudenza sembrò assumere il punto di vi-
sta della dottrina, stabilendo che «è da escludersi l’atto emulativo qualora
un interesse legittimo sia anche soltanto la concausa del comportamento»
al vaglio della corte25. Nel complesso, poi, furono di gran lunga preva-

21
  RG, 3 dicembre 1909, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 72, 1910, p.
251 ss. In dottrina da ultimo M.J., Das Schikaneverbot im Spiegel zweier höchstrichterlicher
Entscheidungen zum deutschen und englischen Recht um 1900 – Ein Gebot der sozialen Ethik
oder gefährliche uncertainty in the law?, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte
– Germanistische Abteilung, 2010, p. 338 ss.
22
  Stesso schema in RG, 6 giugno 1905, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen,
61, 1906, p. 94 ss.; RG, 10 dicembre 1912, ivi, 65, 1907, p. 10 ss.; RG, 27 giugno 1919, ivi, 96,
1919, p. 184 ss. e RG, 24 gennaio 1924, ivi, 120, 1928, p. 47.
23
  Per cui era necessaria un’eccezione della parte interessata: ad es. G. Planck, Sub Par. 226,
in BGB – Plancks Kommentar, vol. 1, Berlin, 1898, p. 276.
24
  Per tutti K. Larenz e M. Wolf, Allgemeiner Teil des Bürgerlichen Rechts, 9. ed., Mün-
chen, 2004, p. 283.
25
  RG, 8 gennaio 1920, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 98, 1920, p. 15 ss.
426 Sonja Haberl e Alessandro Somma

lenti, le sentenze che, se non altro nell’esito finale, seguirono l’indiriz-


zo giurisprudenziale già emerso nella sentenza del 1904: negarono cioè
un’applicazione diretta del par. 226 BGB e ricorsero al principio generale
dell’exceptio doli.
Da un’analisi di tali sentenze emerge tuttavia la mancanza di un fonda-
mento concettuale stabile, essendo varie le motivazioni sui cui esse pog-
giano. Con l’intenzione di sottolineare l’esistenza di un principio gene-
rale, l’eccezione di dolo generale venne infatti rinvenuta nell’insieme di
disposizioni assai eterogenee tra di loro26. In particolare, oltre al par. 826,
si richiamano i parr. 133, 157, 242 BGB: il primo concernente l’interpre-
tazione della dichiarazione di volontà secondo criteri soggettivi, il secon-
do e il terzo relativi rispettivamente all’interpretazione di buona fede del
contratto e all’esecuzione di buona fede della prestazione obbligatoria. Le
disposizioni richiamate sarebbero «espressione particolare di un principio
generale», i cui confini teorici «non sono tracciabili», motivo per cui esso
deve rimanere «oggetto di libera valutazione da parte del giudice»27.
L’orientamento appena tracciato conobbe un primo ridimensionamen-
to in una sentenza del 1915. In essa i giudici negarono l’esistenza di una
exceptio doli slegata dal tenore di disposizioni legislative ed «eccepibile a
qualsiasi esercizio ingiusto del diritto», sottolineando allo stesso tempo
che l’eccezione trovava un suo fondamento nel par. 826 BGB28. Numerose
sentenze successive percorsero questa linea, confermando la necessità di
ancorare l’eccezione di dolo generale al diritto oggettivo esistente, e ri-
conoscendo i parr. 242 e 826 BGB come fondamenti per la costruzione29.
In queste decisioni il riferimento a disposizioni legislative diverse, an-
che se limitato ai parr. 242 e 826 BGB, è ancora una volta riscontro di
una ritrosia a identificare una «sovrastruttura metodologica» (methodischer
Überbau) idonea a contenere e articolare la lotta contro l’abuso del diritto
di quel periodo. Nel corso del tempo la casistica elaborata dal Reichsgericht
permise tuttavia l’individuazione di diverse fattispecie particolarmente tipi-
che di «esercizio inammissibile del diritto», tra cui il principio del venire

26
  Ad es. RG, 17 settembre 1904, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 58,
1905, p. 428 ss.; RG, 8 ottobre 1909, ivi, 71, 1909, p. 435 ss. e RG, 26 maggio 1914, ivi, 85,
1915, p. 108 ss.
27
  RG, 26 maggio 1914, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 85, 1915, p.
108 ss.
28
  RG, 3 febbraio 1915, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 86, 1915, p.
195 ss.
29
  Ad es. RG, 17 marzo 1932, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 135, 1932,
p. 376 ss.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 427

contra factum proprium, quello del dolo agit o la nota Verwirkung: figure
sulle quali torneremo fra breve.
Negli anni trenta del Novecento, poi, scontato ormai il tramonto di
quanto si era appalesato come un troppo «angusto» divieto di atti emula-
tivi, la clausola della buona fede di cui al par. 242 BGB assunse la veste di
cardine attorno al quale far ruotare tutte le costruzioni giurisprudenziali
degli anni successivi: giurisprudenza caratterizzata, come si vedrà, da una
«cospicua inammissibilità dell’esercizio del diritto»30.
4.  Il dibattito dottrinale e la sua influenza sulla giurisprudenza
Anche la dottrina che al principio del Novecento si dedicò alla funzione
e alla portata del divieto di atti emulativi, oramai valutato alla stregua di un
mero «cartello etico decorativo» (moralisches Dekorationsschild)31, giacché
ci si era orientati verso una stretta concezione del par. 226 BGB. I dibattiti,
di conseguenza, si incentrarono prima sul par. 826, e poi sul par. 242 BGB.
Le prime ricerche tedesche dedicate al tema dell’abuso del diritto sono
in parziale ritardo su quelle confezionate in Francia: risalgono agli anni
trenta del secolo scorso. Tra esse spicca, per l’influenza tutt’altro che tra-
scurabile sugli orientamenti giurisprudenziali successivi, l’opera di Wolf-
gang Siebert, all’epoca giovane professore di diritto privato e di diritto del
lavoro presso l’Università di Kiel.
Non diversamente da altri autori e dal Reichsgericht, anche Siebert di-
scusse del divieto di atti emulativi come di un precetto con un ruolo del
tutto trascurabile, «consumato» da clausole generali più ampie. Il punto
di partenza per le sue riflessioni in merito a una teoria generale sull’abuso
del diritto furono infatti i parr. 242 e 826 BGB. Entrambi furono da lui
considerati limiti generali all’esercizio del diritto, da intendersi, più preci-
samente, come limiti interni comportanti una «relatività del contenuto del
diritto» (Relativität des Rechtsinhalts) e, nel caso fossero stati oltrepassati
dal suo titolare, un «agire senza diritto» (Handeln ohne Recht)32. Mentre
però la delimitazione dell’ambito di applicazione delle due norme nella
giurisprudenza del Reichsgericht rimase piuttosto vaga, Siebert giunse a
una sua demarcazione alquanto netta. Mosse dall’idea di «relazione ecce-

30
  H. Merz, Vom Schikaneverbot zum Rechtsmissbrauch, in Zeitschrift für Rechtsverglei­
chung, 1977, p. 168.
31
  K. Huber, Über den Rechtsmissbrauch, Bern, 1909.
32
  W. Siebert, Verwirkung und Unzulässigkeit der Rechtsausübung. Ein rechtsvergleichender
Beitrag zur Lehre von den Schranken der privaten Rechte und zur exceptio doli (Parr. 226, 242,
826 BGB), unter besonderer Berücksichtigung des gewerblichen Rechtsschutzes (Par. 1 UWG),
Marburg, 1934, p. 87 ss.
428 Sonja Haberl e Alessandro Somma

zionale» tra i soggetti interessati (Sonderbeziehung)33, per poi precisare che


la clausola di buona fede, in quanto «criterio oggettivo omnicomprensivo»,
operava all’interno della relazione, laddove il par. 826 BGB, con una con-
notazione soggettiva, operava invece al di fuori di essa. Con la precisazione
che l’elemento soggettivo si realizzava comunque se «la fattispecie esterna
del comportamento è talmente grave da rendere insostenibile il tener conto
di un’eventuale fattispecie interna scriminante»34.
Fu così che Siebert giunse a elaborare quella «sistematicità delle clausole
generali» (Generalklauselsystematik) che diventò lo schema di riferimento
per la dottrina e la giurisprudenza. Già nel 1935 il Reichsgericht, per la
prima volta dopo il 1900, fece riferimento a una concezione dottrinale per
fornire le basi al suo orientamento in tema di abuso del diritto35, e succes-
sivamente la utilizzò come punto di riferimento costante della sua prassi.
Il tutto non coinvolse il solo piano terminologico, ovvero non si ri-
solse nella sostituzione dei riferimenti all’exceptio doli generalis con altri
riferimenti, come quelli, di cui diremo meglio fra breve, all’«esercizio del
diritto inammissibile» (Unzulässigkeit der Rechtsausübung). Sulla scia delle
riflessioni di Siebert, i giudici iniziarono in primo luogo ad abbandonare
il par. 826 BGB come norma centrale nella lotta contro l’abuso del diritto,
e a utilizzare, in sua vece, la clausola di buona fede36. Pertanto, l’ambito di
applicazione del par. 242 BGB finiva per non essere più limitato al diritto
delle obbligazioni, risultando esteso a tutti i casi in cui vi era «un qualsiasi
rapporto giuridico tra le parti» nel senso di una Sonderbeziehung37. Si coin-
volgevano cioè il diritto di famiglia, il diritto dei beni38 e financo il diritto
pubblico: la norma doveva valere, come affermato da Siebert, nei confronti
di «ogni diritto imperativo»39.
Allo stesso tempo, il tribunale si allontanò dall’idea, in precedenza so-
stenuta da gran parte della dottrina, di considerare il par. 242 BGB un’ec-

33
  Su questo tipo di relazione, comportante l’esistenza di un qualche «contatto sociale», ad
es. A. Teichmann, Sub Par. 242, in BGB-Soergel, Kommentar, vol. 2, Stuttgart, 1990, n. 33 ss.
34
  W. Siebert, Verwirkung und Unzulässigkeit der Rechtsausübung, cit., p. 116.
35
  RG, 22 gennaio 1935, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 146, 1935, p.
385 ss.
36
  Ad es. RG del 30 luglio 1936, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 152,
1937, p. 150 ss. e RG, 22 gennaio 1938, in Juristiche Wochenschrift, 1938, p. 1023 ss.
37
  RG, 24 marzo 1939, in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, 160, 1939, p.
348 ss.
38
  Molto discussi, a tal proposito, i casi del «rapporto comunitario di vicinato» (nachbarliches
Gemeinschaftsverhältnis): ad es. RG, 16 giugno 1936, in Entscheidungen des Reichsgerichts in
Zivilsachen, 155, 1937, p. 154 ss.
39
  W. Siebert, Verwirkung und Unzulässigkeit der Rechtsausübung, cit., p. 123 s. Ad es. RG,
16 giugno 1936, cit. e RG, 24 marzo 1939, cit.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 429

cezione, e spesso iniziò a intervenire d’ufficio. Tutto ciò, come abbiamo


detto, portò il par. 826 BGB a giocare un ruolo sempre più di second’or-
dine, limitato alle ipotesi prive di una Sonderbeziehung. Ciò anche perché
tale norma, nonostante la sua applicazione fosse accompagnata dalla rinun-
cia all’animus nocendi e al danno cagionato, mantenne in qualche modo
la sua connotazione soggettiva40. E questa sua natura di disposizione più
«stretta» rispetto al par. 242, caratterizzato invece dal riferimento a criteri
meramente oggettivi, ben spiega a sua volta il continuo spostamento del
baricentro applicativo verso la clausola di buona fede che, in fin dei conti,
portò a poteri di intervento da parte del giudice quasi illimitati.
Per la dottrina del dopoguerra le riflessioni di Siebert rappresentarono41,
e rappresentano tutt’ora42, un punto di riferimento centrale: senza aver mai
veramente messo in discussione i fondamenti delle sue elaborazioni, essa
seguì quasi incondizionatamente la teoria dei limiti interni, l’idea del par.
242 BGB quale disposizione di cui tener conto d’ufficio, nonché la sua
connotazione oggettivistica. Del resto lo stesso Siebert continuò a fornire,
attraverso i suoi contributi in un noto commentario al par. 242 BGB, il suo
contributo al tema43. In questo modo si rivelò fondamentale per la costru-
zione di una «sistematicità interna» (Binnensystematik) del par. 242 BGB,
basata sull’individuazione di diversi «gruppi di casi» tipici (Fallgruppen)
concernenti un «esercizio inammissibile del diritto», ancora oggi fonda-
mentale nelle discussioni in tema di abuso del diritto.
5.  Abuso del diritto e ordine giuridico nazista
Wolfgang Siebert, come abbiamo detto il principale fautore della teoria
dell’abuso del diritto nella versione tuttora prevalente, è stato un acceso so-
stenitore del nazismo, in prima fila nel cosiddetto rinnovamento del diritto
secondo i dettami della dittatura44. Non fu certo l’unico giurista di regime
a mantenere posizioni di potere dopo la conclusione del secondo conflitto
mondiale45. Si trovò in buona compagnia, circondato da molti tra coloro i

40
  RG, 16 giugno 1936, cit.
41
  Ad es. A. Böhle-Stamschräder, Sub Par. 242, in BGB-Erman Kommentar, Köln, 1952,
n. 7 s. e F. Wieacker, Zur rechtstheoretischen Präzisierung des Par. 242 BGB, Tübingen, 1956,
pp. 26 e 46.
42
  Per tutti H. Heinrichs, Sub Par. 242, in BGB-Palandt Kommentar, 60. ed., München,
2001, n. 38.
43
  W. Siebert, Sub Par. 242, in BGB-Soergel Kommentar, 9. ed., Stuttgart, 1959, n. 24 ss.
44
  Per tutti H.-P. Haferkamp, Wolfgang Siebert, in Neue Deutsche Biographie, vol. 24, Ber-
lin, 2010, p. 325.
45
  Già I. Müller, Furchtbare Juristen. Die unbewältigte Vergangenheit unserer Justiz, Mün-
chen, 1989.
430 Sonja Haberl e Alessandro Somma

quali si erano occupati di edificare l’ordine economico nazista, non a caso


assunto a punto di riferimento per l’ordine economico della Repubblica di
Bonn: sul punto torneremo nella conclusione di questo lavoro.
Siebert fu un esponente di primo piano della Kieler Schule, la scuola
di diritto nazista tra i cui esponenti si annoverano Karl Larenz e Franz
Wieacker, oltre che membro dell’Accademia del diritto tedesco (Akademie
für Deutsches Recht), cui il potere politico conferì l’incarico di supporta-
re le riforme legislative nei più disparati settori dell’ordinamento, diritto
dell’economia in testa46. In quell’ambito si lavorò tra l’altro al Volksgeset­
zbuch, il «Codice civile popolare» che avrebbe dovuto sostituire il Bür­
gerliches Gesetzbuch, letteralmente «Codice civile borghese», i cui lavori
furono però interrotti al principio degli anni quaranta47. Ebbene, proprio al
tema dell’abuso del diritto l’articolato, pur ampiamente incompleto, dedica
notevole spazio, il tutto sulla base di costruzioni che appaiono decisamente
influenzate da Siebert.
Di questa influenza troviamo riscontro innanzi tutto nell’attrazione
della figura entro l’orbita della buona fede, come evidenziato dalle di-
sposizioni in tema di «abuso del diritto e limiti all’esercizio del diritto»
(Rechtsmißbrauch und Grenzen der Rechtsausübung), collocate in apertura
dell’articolato tra le «regole fondamentali per il Codice popolare» (Grun­
dregeln für das Volksgesetzbuch). Lì si premette che «chiunque, nell’adem-
pimento dei suoi doveri e nell’esercizio dei suoi diritti, deve rispettare la
buona fede e il buon costume», e che «deve tenere doverosamente conto
dei legittimi interessi del membro della comunità di popolo partecipante
al traffico giuridico, ovunque preferendo il benessere della comunità alla
propria utilità». Segue la precisazione che «l’abuso del diritto non riceve
tutela giuridica» e che «è abusivo ogni esercizio del diritto che contrasta
con la buona fede o il buon costume». Il tutto completato da una esem-
plificazione di questi assunti: «abusa di un diritto in particolare chi insiste
nel richiedere il letterale adempimento di una obbligazione divenuta senza
senso o senza scopo, chi fa valere una pretesa così tardi da porsi in con-
trasto in modo insopportabile con un suo precedente comportamento, chi
in sede di esecuzione agisce con una durezza tale da essere confliggente
grossolanamente con il sano sentimento popolare»48.
Il nazismo, come l’esperienza fascista in genere, è stata perversione

46
  Per tutti H. Hattenhauer: Die Akademie für Deutsches Recht, in Juristische Schulung,
1986, p. 680 ss.
47
  Ad es. M. Stolleis, Voce Volksgesetzbuch, in Handwörterbuch zur deutschen Rechtsge­
schichte, vol. 5, Berlin, 1998, col. 990 ss.
48
  Cfr. i punti 18, 19 e 20 delle Grundregeln für das Volksgesetzbuch des Grossdeutschen
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 431

delle libertà politiche, al servizio della quale si è posto anche l’istituto


dell’abuso del diritto, ad esempio per allineare il diritto delle persone
e della famiglia alla politica razziale del regime e in particolare alla sua
ispirazione antisemita49. Peraltro fu tipico dell’esperienza fascista aver sa-
crificato le libertà politiche in funzione di una riforma delle libertà eco-
nomiche, che la mano visibile dello Stato doveva presidiare al fine di pre-
venire e fronteggiare i fallimenti del mercato50. Era, questo, il senso di una
dottrina che fu chiamata ordoliberalismo per sottolinearne l’essenza: una
commistione tra istanze liberatorie e istanze ordinatorie nel senso precisa-
to da una scuola di giuristi ed economisti che contribuì a definire le linee
di un’economia nazista51.
In fin dei conti le formule elaborate dalla Pandettistica offrivano spun-
ti per sviluppare entrambe le istanze, come si evince in particolare dalla
tradizionale definizione di diritto soggettivo come «signoria della volontà
concessa dall’ordinamento giuridico»52. Era sufficiente porre l’accento su
quest’ultimo aspetto per produrre costruzioni capaci di superare l’asso-
lutezza del diritto nello stesso senso auspicato dalla letteratura italiana di
epoca fascista. Anche quest’ultima non metteva in discussione l’esistenza
del diritto soggettivo, ma attribuiva ai pubblici poteri il compito di ridur-
lo a funzione53, ovvero di definirne il contenuto sulla base di valutazioni
concernenti quanto si ritiene essere il motore del sistema economico: il
coordinamento delle attività umane attraverso interventi incisivi e non il
loro abbandono alle discrete cure della mano invisibile.
Da quanto appena riferito si comprende la veste retorica utilizzata dalla
letteratura di epoca nazista per affrontare il tema dell’abuso del diritto,
considerato alla luce di una caratteristica attribuita al diritto germanico,
capace di differenziarlo dal diritto romano: se il secondo era divenuto lo
strumento per esaltare la signoria dell’individuo e dunque il profilo dei
diritti del singolo, il primo poneva invece l’accento sui doveri di questo nei

Reiches (maggio 1941), in W. Schubert (a cura di), Volksgesetzbuch. Teilentwürfe, Arbeitsberichte


und sonstige Materialien, Berlin e New York, 1988, p. 46.
49
  Esempi in G. Dahm, Deutsches Recht, Hamburg, 1944, p. 357.
50
  Su questo rinviamo ad A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del
debito, Roma, 2014, p. 49 ss.
51
  F. Böhm, W. Eucken e H. Großmann-Doerth, Unsere Aufgabe, in F. Böhm, Die Ordnung
der Wirtschaft als geschichtliche Aufgabe und rechtsschöpferische Leistung, Stuttgart e Berlin,
1937, p. I ss.
52
  B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, 8. ed. a cura di T. Kipp, vol. 1, Frankfurt
M., 1901, p. 131.
53
  F. Vassalli, Motivi e caratteri della codificazione civile, in Rivista italiana delle scienze
giuridiche, 1947, p. 93 (il lavoro si fonda su una relazione pronunciata dall’autore nel 1942).
432 Sonja Haberl e Alessandro Somma

confronti della collettività, cui sacrificare l’interesse individuale54. Di qui


l’assenza di una disposizione generale inclusa nel Bürgerlichs Gesetzbuch,
il «Codice borghese», che tuttavia si sarebbe potuto ricavare dalle molte
disposizioni che costituiscono una sua applicazione: prime fra tutte quelle,
contenute anche in provvedimenti speciali di diritto civile e amministra-
tivo, che disciplinano l’uso della proprietà produttiva e quella abitativa55.
Va da sé che, tra gli abusi del diritto colpiti dalla disciplina della proprie-
tà produttiva, rientrano anche i comportamenti che alimentano la «lotta
di classe»: quindi le serrate, gli scioperi e i boicottaggi. Ma l’intero ordine
economico è complessivamente governato dal principio per cui le condot-
te individuali sono riconosciute nella misura in cui perseguono finalità di
ordine superindividuale, ovvero se contribuiscono al benessere collettivo:
solo a queste condizioni un diritto astrattamente riconosciuto può essere
concretamente esercitato56.
Non è un caso se gli studiosi che elaborarono queste posizioni, e più
in generale alimentarono il punto di vista ordoliberale sulla disciplina del
mercato, attraversarono indenni il crollo del nazismo e restarono prota-
gonisti anche negli anni successivi la fine del secondo conflitto mondiale.
Non è un caso giacché l’ordoliberalismo, in quanto teoria indifferente alle
sorti della democrazia, ben può convivere con essa, alla sola condizione
di contemplare un utilizzo del principio di concorrenza come strumento
di direzione politica dell’ordine economico57. E questo è esattamente ciò
che è avvenuto e avviene tutt’ora anche grazie alla disciplina dell’abuso
del diritto: ne parleremo in conclusione, dopo aver passato in rassegna la
giurisprudenza del Bundesgerichtshof, il vertice della giustizia civile nella
Repubblica di Bonn prima, e nella Germania unita poi.
6.  Gli orientamenti del Bundesgerichtshof: venire contra factum po-
prium e Verwirkung
Anche la giurisprudenza del Bundesgerichtshof, sostanzialmente sul-
le orme di quella del Reichsgericht, fu profondamente influenzata dalle
teorie formulate nel corso degli anni Trenta. Ciò emerse fin da subito,
quando in una sentenza dei primissimi anni Cinquanta la Corte, con si-

54
  Cfr. A. Somma, Da Roma a Washington, in P.G. Monateri, T. Garo e A. Somma, Le
radici comuni del dritto europeo. Un cambiamento di prospettiva, Roma, 2005, p. 194 ss.
55
  Ad es. F. Wieacker, Bodenrecht, Hamburg, 1938, p. 47 ss.
56
  Cfr. K. Larenz, Vertrag und Unrecht, vol. 1, 1937, p. 85 ss. e vol. 2, Hamburg, 1936, p. 43.
57
  Già L. Miksch, Möglichkeiten und Grenzen der gebundenen Konkurrenz, in G. Schm-
ölders (a cura di), Der Wettbewerb als Mittel volkswirtschaftlicher Leistungssteigerung und
Leistungsauslese, Berlin, 1942, p. 102 ss.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 433

gnificativi richiami alla dottrina francese, fece diretto riferimento all’idea


della «relatività del diritto» sostenuta da Siebert. E lo fece per affermare
che «l’esercizio inammissibile del diritto è un agire senza o contro il di-
ritto», e che «il contenuto di ogni diritto è limitato dai buoni costumi e
dalla buona fede»58.
A questo orientamento giurisprudenziale, in linea con una diffusa
propensione dell’ordinamento tedesco al suo sviluppo per via giurispru-
denziale (richterliche Rechtsfortbildung), non furono risparmiate critiche
da parte della dottrina. Alcuni autori formulavano condanne definitive,
rimproverando a Siebert di aver pervertito il sistema di tutela dei diritti
individuali: lo vedremo fra breve. Altri autori puntavano più semplice-
mente a ricondurre il principio dell’inammissibilità del diritto a schemi
ancorabili alla tradizione etico sociale e tecnico giuridica (sozialethische
und fachjuristische Tradition). Fu questa la prospettiva scelta da un autore
come Franz Wieacker, prima tra i principali esponenti della Scuola di Kiel
e poi impegnato a prevenire che le corti decidessero secondo «un’equità
del tutto arbitraria» (willkürliches Billigkeitsstreben)59.
Per evitare questa deriva, Wieacker volle tipizzare la buona fede sulla
base delle principali funzioni da essa svolte (Funktionsschichten), indivi-
duando tra esse una funzione suppletiva, a concretizzare ulteriormente le
diverse categorie già individuate da Siebert60. Ancora oggi, sia in sede te-
orica sia in sede giurisprudenziale, si fa ampiamente riferimento a questa
individuazione e concretizzazione, anche se non si è affermata, al riguardo,
né una suddivisione, né una terminologia uniforme61.
A tal proposito, tre le ipotesi individuate dalle corti e poi elaborate
in dottrina, rientra il divieto del venire contra factum proprium. Inteso
dal Reichsgericht come il vero principio fondante l’exceptio doli62, l’ipotesi
dell’esercizio di un diritto in contrasto con un precedente comportamento
del suo titolare rappresenta una delle fattispecie centrali in cui general-
mente viene ravvisato un abuso del diritto. Ciò a condizione che sia sta-
to ingenerato un legittimo affidamento della controparte63, o che vi siano

58
  BGH, 12 luglio 1951, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 3, 1951, p.
94 ss.: «la proposizione valevole per il diritto francese per cui le droit cesse où l’abus commence
vale anche per il diritto tedesco».
59
  F. Wieacker, Zur rechtstheoretischen Präzisierung, cit., p. 27.
60
  Anche per Wieacker le riflessioni di Siebert rappresentarono un punto di riferimento es-
senziale: Zur rechtstheoretischen Präzisierung, cit., pp. 26, 27, 46.
61
  H. Heinrichs, Sub Par. 242, cit., n. 42.
62
  RG del 30 maggio 1904, cit.
63
  Ad es. BGH, 22 maggio 1985, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen,
94, 1985, p. 344 ss.
434 Sonja Haberl e Alessandro Somma

state «altre particolari circostanze» da cui ricavare indizi di un esercizio


del diritto contrario a buona fede64, e sempre che la controparte, in virtù
dell’affidamento, sia stata indotta a tenere un comportamento svantaggio-
so: di norma effettuando disposizioni patrimoniali, ma anche evitando di
farlo, come nel caso in cui ometta di concludere un’assicurazione sulla
vecchiaia nell’erronea convinzione che avrebbe percepito la pensione65, o
di intervenire per interrompere una prescrizione66.
Sulla base di questi presupposti la Cassazione civile tedesca ha sostenuto
una violazione del par. 242 BGB nel caso in cui la parte, intenzionata a
trattenere la prestazione della controparte, si era appellata comunque alla
nullità del contratto per sottrarsi alla propria obbligazione67. E lo stesso
dicasi per il caso del dipendente che, dopo essersi dimesso, sostiene l’inef-
ficacia del licenziamento e chiede la continuazione del rapporto lavorati-
vo68. O per l’ipotesi in cui il locatore receda dal contratto di locazione in
ragione di «necessità proprie» (Eigenbedarf), non sopravvenute ma note
nel momento della conclusione del contratto69.
In parte considerato un esempio applicativo tipico del divieto di veni­
re contra factum poprium70, e in parte considerata un’ipotesi a esso vici-
na71, viene poi in rilievo l’istituto della Verwirkung. Quest’ultima è intesa
come inerzia nell’esercizio di un proprio diritto, o nella reazione alla sua
violazione, per un determinato periodo di tempo (Zeitmoment)72, tale da
provocare nella controparte l’affidamento legittimo che il diritto non verrà

64
  BGH, 5 giugno 1997, in Neue Juristische Wochenschrift, 1997, p. 3377 ss.
65
  BGH, 3 febbraio 1982, in Monatsschrift für Deutsches Recht, 1986, p. 732 ss.
66
  BGH, 8 giungo 1978, in Neue Juristische Wochenschrift, 1978, p. 1975 ss e BGH, 10
maggio 1983, ivi, 1983, p. 2075 ss.
67
  BGH, 20 gennaio 1954, in Der Betrieb, 1954, p. 150 ss.
68
  BGH, 29 novembre 1965, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 44,
1966, p. 271 ss. e BGH, 8 novembre 1999, in Neue Juristische Wochenschrift, 2000, p. 1329 ss.
69
  Ad esempio BGH, 21 gennaio 2009, in Neue Juristische Wochenschrift, 2009, p. 1139 ss.;
BGH, 13 aprile 2010, in Wohnungswirtschaft und Mietrecht, 2010, p. 575 ss.; BGH, 6 luglio 2010,
ivi, 2010, p. 512 ss. e BGH, 20 marzo 2013, in Neue Juristische Wochenschrift, 2013, p. 1596 ss.
Recentissima, ma negando un abuso del diritto, BGH, 4 febbraio 2015, ivi, 2015, p. 1087 ss.
70
  Per tutti H. Heinrichs, Sub Par. 242, cit., n. 87 e A. Teichmann, Sub Par. 242, cit., n. 332.
71
  K. Larenz e M. Wolf, Allgemeiner Teil des Bürgerlichen Rechts, cit., p. 289. V. anche P.
Roth, Sub Par. 242, in BGB-Münchener Kommentar, vol. 2, München, 2003, n. 297, che discorre
di uno sviluppo autonomo della Verwirkung.
72
  L’elemento temporale non è precisamente determinabile, ma condizionato, tra l’altro, dal
tipo di diritto considerato, dal grado di intensità dell’affidamento ingenerato, oltre che dalle cir-
costanze del singolo caso: ad es. H. Heinrichs, Sub Par. 242, cit., n. 93. Sulla delimitazione tra
prescrizione (Verjährung) e Verwirkung – la prima Einrede, e quindi da tenere in considerazione
solo nel caso in cui il soggetto se ne avvalga, la seconda Einwendung e quindi da considerare
d’ufficio – v. ad es. A. Teichmann, Sub Par. 242, cit., n. 332 ss.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 435

più esercitato73. Presupposto, quest’ultimo, escluso ad esempio nel caso


in cui il debitore non conceda le informazioni necessarie in merito all’esi-
stenza e all’entità della pretesa, causando così l’inerzia dell’avente diritto74,
o avrebbe dovuto riconoscere che l’avente diritto non era a conoscenza
della sua pretesa75.
La Cassazione civile tedesca ha ripetutamente affermato che il mero tra-
scorrere del tempo non porta automaticamente a soddisfare l’ulteriore pre-
supposto che condiziona la Verwirkung: l’aver tenuto un comportamento
svantaggioso, ovvero, di norma, aver effettuato disposizioni patrimoniali
tali da comportare uno «svantaggio irragionevole» (Umstandsmoment)76.
Presupposto soddisfatto, per esempio, laddove la controparte rinunci a
una possibile traslazione verso terzi dell’importo controverso77, ovvero
quando, di fronte alla richiesta successiva e tardiva di prestazioni alimen-
tari, si vede costretta ad affrontare difficoltà economiche che si sarebbero
altrimenti evitate78.
7.  Segue: acquisto e frustrazione sleale di una posizione giuridica e
assenza di un interesse legittimo
Alle due ipotesi cui abbiamo fatto finora riferimento, si aggiungono
ulteriori Fallgruppen che fungono da segnavia per la giurisprudenza nell’in-
dividuazione di un abuso del diritto nel caso concreto. Mentre l’eccezione
dell’«acquisto sleale della propria posizione giuridica» (unredlicher Erwerb
der eigenen Rechtstellung), sviluppatasi sulla base dell’exceptio doli preteriti
del diritto comune, riguarda la rivendicazione di un diritto da parte di un
soggetto che l’ha acquisito in modo contrario alla legge o al contratto79,

73
  Ad es. BGH, 16 marzo 2007, in Neue Juristische Wochenschrift, 2007, p. 2183 ss. Quest’ul-
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timo presupposto esclude la Verwirkung in merito a tutti quei diritti di cui la controparte non
è l’unica a poter disporre, diritti, quindi, che tutelano la collettività, come ad esempio quelli
riguardanti la concorrenza sleale: BGH, 7 novembre 2002, in Gewerblicher Rechtsschutz und
Urheberrecht, 2003, p. 628 ss.
74
  BGH, 27 giugno 1957, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 25, 1958,
p. 47 ss.
75
  BGH, 5 settembre 1999, in Neue Juristische Wochenschrift, 2000, p. 140 ss. Recentemente
anche BAG, 22 febbraio 2012, in Zeitschrift für Wirtschaftsrecht, 2012, p. 1629 ss.
76
  Da ultimo BGH, 23 gennaio 2014, in Neue Juristische Wochenschrift, 2014, 1230. Ma vedi
già BGH, 20 luglio 2010, in Neue Juristische Wochenschrift, 2011, p. 212 ss. e BGH, 14 gennaio
2010, in Baurecht, 2010, p. 618 ss.
77
  BGH, 22 maggio 1997, in Versicherungsrecht, 1997, p. 1004 ss.
78
  BGH, 13 gennaio 1988, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 103,
1988, p. 63 ss.
79
  BGH, 6 ottobre 1971, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 57, 1972,
p. 108 ss. Il comportamento del soggetto, dovendo essere causale per l’acquisto del diritto, non
436 Sonja Haberl e Alessandro Somma

quella della «frustrazione sleale di una posizione giuridica» (unredliche


Vereitelung einer Rechtsstellung) riguarda il caso speculare, ovvero quello
in cui il soggetto impedisce che la controparte possa acquisire determinati
diritti.
Entrambe le ipotesi comprendono anche le azioni contrarie a buona fede
che conducono alla creazione di presupposti tali da permettere l’esercizio
di diritti all’interno di un rapporto regolarmente instaurato, così come le
azioni anch’esse contrarie a buona fede che mirano a impedire l’esercizio
di diritti esistenti sulla base di un rapporto regolarmente instauratosi. Sono
le ipotesi in cui, ad esempio, non si possono far valere la mancata notifica
da parte da chi l’ha ostacolata attraverso la rimozione della cassetta delle
lettere80, oppure determinati vizi di forma da parte di chi ha impedito la
conclusione del contratto nella forma dovuta81.
Con riferimento alla validità di un contratto viziato nella forma, il Bun­
desgerichtshof ha affrontato il problema in una serie di casi riguardanti
innanzi tutto contratti di compravendita di immobili. La formula utilizza-
ta dalla Corte, secondo la quale il contratto è da ritenersi valido qualora
il risultato della nullità sarebbe «del tutto insostenibile» (schlechthin un­
tragbar) per la parte coinvolta82, può essere intesa in due modi: in senso
socio economico, in quanto attiene a una «minaccia alla propria esistenza»
(Existenzgefährdung)83, oppure in senso morale, come ipotesi di «viola-
zione particolarmente grave del principio di lealtà» (besonders schwere
Treuepflichtverletzung)84.
La dottrina, critica verso una formula troppo vaga e arbitraria perché

impedisce l’avanzamento delle pretese nel caso in cui l’acquisizione sarebbe avvenuta anche senza
un comportamento contrario a buona fede: cfr. A. Teichmann, Sub Par. 242, cit., n. 281.
80
  BGH, 3 novembre 1976, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 67,
1977, p. 271 ss. Anche BGH, 27 ottobre 1982, in Neue Juristische Wochenschrift, 1983, p. 929
ss. riguardante il rifiuto infondato di prendere in consegna una raccomandata.
81
  Per F. Wieacker, Zur rechtstheoretischen Präzisierung, cit., p. 28 s. l’inammissibilità della
domanda di far valere certi vizi di forma, essendo dovuta a un determinato comportamento
precedente del soggetto, rappresenta un esempio applicativo del divieto di venire contra factum
proprium.
82
  Così già BGH, 27 ottobre 1967, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen,
48, 1968, p. 396 ss. Successivamente BGH, 5 maggio 1983, in Neue Juristische Wochenschrift,
1983, p. 2504 ss.; BGH, 20 settembre 1984, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivil­
sachen, 92, 1985, p. 164 ss. e BGH, 24 aprile 1998, ivi, 138, 1998, p. 339 ss.
83
  V. già BGH, 18 febbraio 1955, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen,
16, 1955, p. 334 ss. e BGH del 5 febbraio 1957, ivi, 23, 1957, p. 249 ss. Più di recente BGH, 20
dicembre 2001, ivi, 149, 2002, p. 326 ss.
84
  BGH, 5 maggio 1983, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 87, 1983,
p. 237 ss.; BGH, 20 settembre 1984, ivi, 92, 1985, p. 164 ss. e BGH, 20 dicembre 2001, cit.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 437

priva di criteri precisi, propone in sua vece l’applicazione dei criteri del ve­
nire contra factum proprium, potendo così operare distinzioni sulla base del
criterio della legittimità dell’affidamento della controparte85. In tal modo
la conoscenza da parte dell’acquirente della prescrizione di forma implica
la consapevolezza circa il rischio inerente l’affidamento della mera «buona
volontà» del venditore, e in quanto tale comporta l’esclusione del diritto
all’adempimento86. Diverso è invece il caso in cui l’acquirente era legitti-
mato a fidarsi sul presupposto che il contratto non avrebbe necessitato una
determinata forma, che può ad esempio discendere da un gap informativo
tra le due parti: si pensi alla grande società la quale, nel momento della
conclusione di un contratto richiedente il rogito notarile, induca l’altra
parte, un ex-impiegato, a rinunciare alla forma prescritta richiamando la
sua importanza e fama, oltre al fatto che in genere usa ritenere equivalente
la scrittura privata87.
Al di là delle ipotesi già riportate, abusa del suo diritto anche colui che
sia privo di un «interesse proprio legittimo» (berechtigtes Eigeninteresse).
Un simile interesse può essere del tutto inesistente fin dal principio o
cessare di esistere in seguito al raggiungimento dello scopo che il titolare
dell’interesse si era prefisso. Questa fattispecie, che pur non comprendendo
l’animus nocendi si avvicina molto al divieto di atti emulativi88, si verifica
ad esempio quando si fanno valere vizi della cosa nonostante essi non
siano più esistenti perché già eliminati89. Oppure qualora i fatti che hanno
causato l’errore non siano più esistenti nel momento dell’impugnazione90,
o ancora quando dichiarazioni mendaci nei confronti dell’assicurazione
vengano corrette prima che quest’ultima possa subire un danno91.
Se in simili ipotesi il creditore è immeritevole di tutela in modo asso-
luto, in altre esso può esserlo in termini relativi, da valutare attraverso un
raffronto con gli interessi del debitore: occorre che l’esercizio del diritto
provochi al creditore svantaggi o danni sproporzionati92, o che comunque
la sua posizione risulti bisognosa di maggiore tutela.
La Cassazione tedesca ha affrontato quest’ultimo aspetto in una serie di

85
  Così A. Teichmann, Sub Par. 242, cit., n. 326 ss.
86
  Stesso esito in BGH, 22 giugno 1973, in Neue Juristische Wochenschrift, 1973, p. 1455 ss.
87
  BGH, 27 ottobre 1967, cit.
88
  A. Teichmann, Sub Par. 242, cit., n. 291.
89
  BGH, 22 febbraio 1984, in Neue Juristische Wochenschrift, 1984, p. 2287 ss.
90
  BGH, 11 marzo 1992, in Wertpapiermitteilungen, 1983, p. 1055 ss. Anche BGH, 30 giugno
2000, in Neue Juristische Wochenschrift, 2000, p. 2894 ss.
91
  BGH, 5 dicembre 2001, in Neue Juristische Wochenschrift, 2002, p. 518 ss.
92
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Tale ipotesi può considerarsi espressione del principio di proporzionalità: BGH, 7 no-
vembre 2002, in Gewerblicher Rechtsschutz und Urheberrecht, 2003, p. 628 ss.
438 Sonja Haberl e Alessandro Somma

casi concernenti l’esclusione, contrattualmente concordata, della compen-


sazione. Si è ritenuto di non consentire di avvalersi di una tale previsione
al creditore successivamente fallito93, o al creditore nei cui confronti la con-
troparte avanzi una pretesa risarcitoria per fatto illecito94. La dottrina acco-
glie con favore l’orientamento giurisprudenziale per quest’ultima vicenda,
ritenendolo giustificato dal fatto che rappresenta un’ipotesi molto vicina a
quella dell’«acquisto sleale della propria posizione giuridica». È invece più
critica nel caso del fallimento del creditore: l’esclusione contrattuale della
compensazione, invero, sarebbe segno del fatto che il debitore, avendo
voluto assumersi in tutta autonomia determinati rischi, ha rinunciato «a
mettere al sicuro i propri interessi»95.
Infine, nella categoria dell’interesse legittimo mancante, giurispruden-
za e dottrina fanno rientrare anche l’ipotesi del cd. dolo agit: l’ipotesi in
cui un soggetto richiede a un altro soggetto di effettuare una prestazione
che tuttavia, poco dopo, sarebbe tenuto a restituirgli perché quest’ultimo
dispone di una contropretesa nei suoi confronti. L’eccezione del dolo agit
qui petit, quod stat redditurus est, basata sull’idea dell’inammissibilità di
pretese qualora manchi un interesse proprio «duraturo»96, è applicabile a
qualsiasi tipo di contropretesa: sia essa relativa a un diritto reale97, a un
adempimento contrattuale98, a un risarcimento del danno99 o a un arricchi-
mento ingiustificato100.
Il tutto, sia detto per inciso, a condizione che la contropretesa non sia
relativa a un rapporto a prestazioni correlate (Zug-um-Zug-Leistung) che
il richiedente si rifiuta di effettuare101. In tal senso la Cassazione tedesca ha
affermato un esercizio abusivo del diritto per la richiesta di consegna, da

93
  BGH, 6 marzo 1975, in Wertpapiermitteilungen, 1975, p. 614 ss.; BGH, 26 febbraio 1987,
ivi, 1987, p. 732 ss. e BGH, 19 settembre 1988, in Neue Juristische Wochenschrift-Rechtspre­
chungsreport, 1989, p. 1984 ss.
94
  BGH, 15 febbraio 1978, in Wertpapiermitteilungen, 1978, p. 620 ss. V. anche BGH, 6 aprile
2011, ivi, 2011, p. 1870 ss.
95
  Per tutti A. Teichmann, Sub Par. 242, cit., n. 294.
96
  F. Wieacker, Zur rechtstheoretischen Präzisierung, cit., p. 29.
97
  BGH, 21 maggio 1953, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 10, 1954,
p. 69 ss.
98
  BGH, 7 maggio 1974, in Neue Juristische Wochenschrift, 1974, p. 1651 ss.
99
  BGH, 17 dicembre 1986, in Wertpapiermitteilungen, 1987, p. 349 ss.; BGH del 24 maggio
1976, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 66, 1977, p. 302 ss. e BGH, 3
dicembre 1991, ivi, 116, 1992, p. 200 ss.
100
  BGH, 19 marzo 1973, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 56, 1971,
p. 22 ss. e BGH, 28 maggio 1979, ivi, 74, 1980, p. 300 ss.
101
  BGH, 24 ottobre 2003, in Neue Juristische Wochenschrift-Rechtsprechungsreport, 2004,
p. 229 ss.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 439

parte del datore di lavoro, di copie di documenti dei cui originali egli stesso
disponeva, al solo fine di mettere in difficoltà il lavoratore per la deduzione
della prova102. Lo stesso si è deciso nel caso in cui l’avente diritto intenda-
va avvalersi di un debito fondiario rispetto al quale esisteva, da parte sua,
l’obbligo di restituzione103, o ancora nel caso in cui ci si voleva appellare
alla nullità di una procura e il rappresentato era tenuto a conferirla104.
Il panorama giurisprudenziale qui descritto conferma il ruolo indiscus-
so del par. 242 BGB, norma cardine nella lotta contro l’abuso del diritto,
rispetto alla quale i parr. 826 e 226 BGB assumono un ruolo assolutamente
secondario: il primo ha ben presto esaurito la sua funzione pratica, mentre
le applicazioni del secondo da sempre devono cercarsi «con la lanterna»105.
Attraverso il riferimento alla buona fede le corti hanno comunque con-
dotto a una nozione di Rechtsmissbrauch che va al di là delle ipotesi di
abuso del diritto in senso stretto. Il par. 242 BGB ha cioè assunto, anche
al di fuori del campo dell’esecuzione dell’obbligazione in senso stretto, «il
compito di giustificare un generale divieto di esercizio scorretto o inten-
zionalmente dannoso del diritto»106.

8.  Abuso del diritto, ordoliberalismo ed economia sociale di mercato


Quello dell’abuso del diritto è un tema tipicamente ordoliberale. È anzi
il tema ordoliberale per antonomasia, costitutivo di un movimento nato
per contrastare le concentrazioni di potere economico e per ritenere a tal
fine che, sebbene rappresentassero per un verso un’attuazione della libertà
contrattuale, ne costituivano per un altro un abuso, dunque un comporta-
mento non tutelato dal diritto.
Dal punto di vista ordoliberale le concentrazioni di potere sono produt-
tive di comportamenti antisistema: consentono agli operatori economici di
esercitare forza centrifuga, ovvero di assecondare finalità che frustrano il
libero incontro di domanda e offerta e dunque inceppano il funzionamen-
to del meccanismo concorrenziale. Azzerare il potere economico significa
allora spoliticizzare il mercato, costringere i suoi operatori a tenere i soli

102
  BGH, 21 dicembre 1989, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 110,
1990, p. 30 ss. ove la Corte, oltre al par. 242, ricorre anche al par. 226 BGB.
103
  BGH, 2 dicembre 1955, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen, 19,
1956, p. 205 ss. Anche BVerfG, 8 novembre 2004, in Neue Juristische Wochenschrift-Rechtspre­
chungsreport, 2005, p. 500 ss.
104
  BGH, 22 ottobre 2003, in Neue Juristische Wochenschrift, 2004, p. 62 ss.
105
  B. von Feldmann, Sub Par. 226, cit., n. 1.
106
  A. Las Casas, Tratti essenziali del modello dell’abuso del diritto nei sistemi giuridici eu­
ropei e nell’ordinamento comunitario (luglio 2013), in www.comparazionedirittocivile.it, p. 24.
440 Sonja Haberl e Alessandro Somma

comportamenti che costituiscono reazioni automatiche ai suoi stimoli, con


ciò «sincronizzando interessi individuali e interessi collettivi»107. Di qui la
tradizionale lotta, cui abbiamo appena fatto riferimento, contro i cartelli tra
imprese e contro la tendenza, ben rappresentata nella giurisprudenza del
Reichsgericht, a considerarli espressione di autonomia privata, in quanto
tali non passibili di essere repressi dal diritto108.
Nel merito, fin dagli anni Venti del secolo scorso, l’ordinamento tedesco
si era dotato di un disciplina più o meno organica, che tuttavia mirava al
controllo amministrativo e dunque politico sui cartelli, piuttosto che al
loro divieto109. Una disciplina che il regime nazista, fin da subito impe-
gnato a edificare un’economia di guerra, modificò per amplificare i poteri
di intervento del potere politico, che avrebbe anche potuto imporre la co-
stituzione di cartelli ove ritenuta corrispondente «all’interesse del sistema
economico e al benessere collettivo»110. Di qui la battaglia che gli ordoli-
berali condussero per ottenere, dopo il crollo del nazismo, un intervento
del legislatore in linea con il proposito di contrastare le concentrazioni
economiche in quanto tali.
Il tutto avveniva in un contesto decisamente favorevole a quelle con-
centrazioni, che sicuramente intralciavano le necessità dell’ordine econo-
mico eretto a sistema, ma che altrettanto sicuramente corrispondevano ai
desiderata dei singoli operatori economici, comprensibilmente interessati
a mettersi al riparo dalla concorrenza. E questi erano decisamente nume-
rosi, come testimonia la circostanza che nei settori siderurgico, minerario,
chimico e bancario le concentrazioni monopolistiche avevano assunto le
medesime dimensioni registrate al principio dell’epoca weimariana111.
La volontà di produrre una nuova disciplina sul presidio della concor-
renza condusse a un disegno di legge che vide la luce verso la metà degli
anni Cinquanta, quando il problema delle concentrazioni aveva assunto
dimensioni incompatibili con l’inerzia dei pubblici poteri112. Il disegno era
incentrato sul divieto di ricorrere ai cartelli tra imprese e sul controllo
delle concentrazioni e fusioni societarie, quindi appariva massimamente

107
  F. Böhm, Die Bedeutung der Wirtschaftsordnung für die politische Verfassung, in Süd­
deutsche Juristen-Zeitung, 1946, p. 147.
108
  Ad es. F. Böhm, Das Reichsgericht und die Kartelle. Eine wirtschaftsverfassungsrechtliche
Kritik an dem Urteil des RG vom 4. Februar 1897, in Ordo, 1948, p. 197 ss.
109
  Verordnung gegen Missbrauch wirtschaftlicher Machtstellungen del 2 novembre 1923.
110
  Par. 1 Gesetz über die Errichtung von Zwangskartellen del 15 luglio 1933.
111
  Per tutti D.J. Gerber, Law and Competition in Twentieth Century Europe, Oxford,
2003, p. 266 ss.
112
  Cfr. P. Hüttenberger, Wirtschaftsordnung und Interessenpolitik in der Kartellgesetz­
gebung der Bundesrepublik 1949-1957, in Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte, 1976, p. 287 ss.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 441

ispirato al credo ordoliberale. Nella relazione di accompagnamento il con-


trasto delle concentrazioni di potere economico veniva infatti considerato
il presidio primo di un’economia di mercato, a sua volta ritenuta il miglior
modo di assicurare un alto rendimento delle attività produttive e quindi un
cospicuo benessere sociale, inteso come benessere dei consumatori elevati
al rango di «conduttori della vita economica»113.
Se queste furono le premesse per l’emanazione di una disciplina sul
contrasto delle limitazioni alla concorrenza, il risultato finale non appariva
coerente, il tutto come esito di pressioni esercitate dagli interessi impren-
ditoriali organizzati. Nella seconda metà degli anni Cinquanta si giunse
infatti alla Legge contro le limitazioni della concorrenza tutt’ora vigente114,
un provvedimento fondato sull’idea che le limitazioni della concorrenza
potevano ammettersi oltre l’ipotesi, ammessa da parte ordoliberale, dei
cosiddetti «monopoli inevitabili»: quelli che favoriscono l’efficienza pro-
duttiva o generano effetti di favore per i consumatori115. Se non altro, la
valutazione delle limitazioni della concorrenza era stata concepita in modo
tale da prevenire eccessive ingerenze della politica: il sistema di controllo
del mercato è di tipo amministrativo, ma concepito con le modalità e le
prerogative di un controllo giudiziale, secondo uno schema non del tutto
distante da quello voluto dagli ordoliberali116.
Peraltro, dal punto di vista ordoliberale, il contrasto dell’abuso del di-
ritto non si esaurisce nel divieto dei cartelli o nel loro controllo. Questo,
come abbiamo detto, è l’aspetto centrale, ma evidentemente non è l’uni-
co: per il corretto funzionamento del meccanismo concorrenziale occorre
che le condotte degli operatori economici complessivamente intese siano
tali da incentivare o quantomeno assecondare il funzionamento della con-
correnza117. Occorre cioè che siano condotte le quali, oltre a presidiare la
moltiplicazione dell’offerta di beni e servizi, inducano relazioni corrette e
trasparenti tra coloro chi produce quei bene e quei servizi e chi li richiedo-
no: i consumatori, infatti, devono essere posti nelle condizioni di assolvere
alla loro funzione di sistema, ovvero di selezionare in modo efficiente i

113
  Amtliche Begründung zu dem Regierungsentwurf eines Gesetzes gegen Wettbewerbsbe­
schränkungen del 17 febbraio 1954, in G. Brüggemeier, Entwicklung des Rechts im organisier­
ten Kapitalismus, vol. 2, Frankfurt M., 1979, p. 412 ss.
114
  Gesetz gegen Wettbewerbsbeschränkungen del 27 luglio 1957.
115
  Cfr. F.A. Lutz, Bemerkungen zum Monopolproblem, in Ordo, 1949, p. 39.
116
  Lo ammette per tutti W. Eucken, Die Wettbewerbsordnung und ihre Verwirklichung, in
Ordo, 1949, p. 68.
117
  S. Haberl, Riflessioni sparse sul divieto di discriminazione nel diritto dei contratti, in
Politica del diritto, 2011, p. 79 ss.
442 Sonja Haberl e Alessandro Somma

beni e servizi immessi sul mercato118. E ciò è quanto viene incentivato da


molti tra i precetti elaborati dalla giurisprudenza a partire dalle disposizioni
del Codice civile tedesco, quella sull’esecuzione della prestazione secondo
buona fede in testa, da cui ricavare il principio per cui l’ordinamento col-
pisce l’abuso del diritto.
Tutto ciò avviene sulla base di costruzioni che derivano dall’epoca na-
zista e che anzi sono state concepite da un nazista come Wolfgang Siebert.
Di qui le riflessioni che hanno appassionato alcuni autori, impegnatisi nel
tentativo di comprendere se questo comportava e comporta una sorta di
fascistizzazione dell’attuale ordinamento privatistico tedesco119.
A ben vedere il tema rinvia a una tra le questioni più controverse, in
Germania, tra i cultori del diritto e delle scienze sociali in genere: il se-
gno politico dell’economia sociale di mercato (soziale Marktwirtschaft),
la dottrina ritenuta una sorta di mito fondativo della rinata democrazia
tedesca, i cui padri nobili furono i giuristi e gli economisti che al tempo
della dittatura nazista elaborarono il credo ordoliberale. Va da sé che per
la schiacciante maggioranza dei tedeschi l’ordoliberalismo non appare in
alcun modo compromesso con la dittatura: al contrario, i suoi esponenti
sarebbero stati in verità oppositori della dittatura, tutt’al più impegnati a
limitarne i danni. E tuttavia non mancano ricostruzioni di tutt’altro se-
gno120, le quali possono a ben vedere fondarsi su numerosi riscontri121: pri-
mo fra tutti la circostanza che l’espressione «economia sociale di mercato»
fu coniata da Alfred Müller-Armack, braccio destro di Ludwig Erhard, il
Ministro dell’economia dell’Era Adenauer, come rivendicato dal diretto
interessato e unanimemente riconosciuto122.
Ebbene, Müller-Armack fu un iscritto al partito nazista, nel quale militò
fin dal 1933, servendo il regime da posizioni di rilievo nell’amministrazione
dell’economia, oltre che un ammiratore di Mussolini e del suo sistema di
potere123. E coniò l’espressione «economia sociale di mercato» anche per
l’ambiguità del termine, che i più ritengono voglia alludere a un non meglio

118
  Cfr. A. Somma, Razzismo economico e società dei consumi, in Materiali per una storia
della cultura giuridica, 2009, p. 447 ss.
119
  Cfr. H.-P. Haferkamp, Die heutige Rechtsmissbrauchslehre, cit., p. 339 ss. In precedenza
W. Weber, Sub Par 242, in BGB-Staudingers Kommentar, Berlin, 1961, n. D 29.
120
  Per tutti D. Haselbach, Autoritärer Liberalismus und Soziale Marktwirtschaft, Baden-
Baden, 1991 e R. Ptak, Vom Ordoliberalismus zur Sozialen Marktwirtschaft, Opladen, 2004.
121
  Ricostruiti in A. Somma, La dittatura dello spread, cit., p. 19 ss.
122
  A. Müller-Armack, Voce Soziale Marktwirtschaft, in Handwörterbuch der Sozialwis­
senschaften, vol. 9, Stuttgart, 1956, p. 392.
123
  A. Müller-Armack, Entwicklungsgesetze des Kapitalismus. Ökonomische, geschichts­
theoretische und soziologische Studien zur modernen Wirtschaftsverfassung, Berlin, 1932.
L’abuso del diritto nell’esperienza tedesca 443

definito capitalismo dal volto umano. Tanto che Friedrich von Hayek ebbe
a osservare: «non mi piace questo uso, anche se grazie a esso alcuni amici
tedeschi sembrano riusciti a rendere appetibile a circoli più ampi il tipo di
ordine sociale che difendo»124.
La verità è che l’espressione coniata da Müller-Armack indica che l’eco-
nomia di mercato in quanto tale è un istituzione sociale, capace di re-
alizzare un’ottimale produzione e distribuzione della ricchezza. Il tutto
nell’ambito di un ordine che concepisce bensì un intervento perequativo
dei pubblici poteri, tuttavia solo nella misura necessaria e sufficiente a pro-
durre pacificazione sociale e collaborazione tra capitale e lavoro: è, questo,
un altro significato del rifermento al «sociale». A dimostrazione di come lo
scioglimento dell’individuo nell’ordine sia un dato caratteristico dell’espe-
rienza tedesca, anche e soprattutto con riferimento all’ordine concepito per
il funzionamento del mercato concorrenziale: il diritto è chiamato a presi-
diarlo con i molteplici istituti di cui dispone, incluso il Rechtsmißbrauch,
per trasformare la concorrenza in uno strumento di direzione politica dei
comportamenti individuali.

  F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà (1973-79), Milano, 2000, p. 283, nt. 26.
124
444 Sonja Haberl e Alessandro Somma
Jean-Sébastien Borghetti
L’abuso del diritto in Francia *

Sommario: 1. Premessa e prospettiva generale. – 2. L’abuso come comportamento col-


poso. – A. Esemplificazioni: i) L’abuso del diritto di proprietà; ii) L’abuso del diritto di
azione; iii) L’abuso del diritto di recedere dalla trattativa precontrattuale e dal contratto
– B. Il problema della distinzione tra abuso e colpa. – 3. L’abuso come indebito supera-
mento di una prerogativa. – A. Esemplificazioni – B. Abuso e delimitazione dei diritti.

1.  Premessa e prospettiva generale


1.  L’abuso del diritto, per la maggior parte dei giuristi francesi, è un
concetto al contempo molto noto e molto sfumato. È molto noto soprat-
tutto in ragione dei celebri dibattiti che hanno animato la dottrina francese
alla fine del secolo XIX e all’inizio del XX. Fu allora che Louis Josserand
diede alle stampe un’opera poi divenuta famosa (De l’abus des droits, 1ª
ed. 1905), e fu allora che una vigorosa polemica lo contrappose ad altri
grandi giuristi del suo tempo, in particolare a Marcel Planiol e Georges
Ripert. Josserand difendeva l’idea che i diritti soggettivi possono essere
fatti oggetto di un uso abusivo, suscettibile d’innescare la responsabilità
civile dei loro titolari, laddove Planiol e Ripert erano dell’avviso che il
diritto soggettivo apre al titolare uno spazio di libertà all’interno del quale
quest’ultimo è protetto proprio contro la possibilità che nei suoi confronti
una qualche responsabilità venga fatta valere. Si tratta di un dibattito che è
rievocato in tutti i corsi d’introduzione al diritto, e dunque è conosciuto,
se non altro a grandi linee, da tutti i giuristi francesi. Ed essi ricordano
altresì, in generale, la sentenza con cui la Corte di cassazione francese ha
formalmente consacrato la possibilità di sanzionare l’abuso del diritto di
proprietà, pur qualificato dal Code civil1 come diritto assoluto. I fatti di
causa erano effettivamente singolari. Il vicino di un industriale produttore
di dirigibili – si era nel 1910 –, in cattivi rapporti con quest’ultimo, aveva
fatto costruire sul suo terreno delle strutture in legno che raggiungevano
un’altezza di sedici metri; sopra le strutture erano state apposte delle aste

*  Trad. it. di Mauro Grondona.


1
  Art. 544 cod. civ. fr.: «La propriété est le droit de jouir et disposer des choses de la manière
la plus absolue, pourvu qu’on n’en fasse pas un usage prohibé par les lois ou par les règlements».
446 Jean-Sébastien Borghetti

di ferro acuminate allo scopo di rendere più difficile la manovra dei dirigi-
bili. La Corte di cassazione, con la sentenza Clément-Bayard del 3 agosto
1915, ha riconosciuto la sussistenza di un abuso del diritto di proprietà e
ha condannato il vicino malintenzionato a risarcire il danno e a rimuovere
le strutture2.
2.  Cento anni più tardi, tuttavia, l’abuso del diritto è circondato, in
Francia, da un’aura di notevole vaghezza. In effetti non esiste alcuna
definizione di abuso del diritto, né codicistica, né giurisprudenziale. Il
Code Napoléon, contrariamente ad altri codici più moderni, non con-
tiene alcuna previsione generale in materia di abuso del diritto. Dal can-
to suo la giurisprudenza ricorre regolarmente alla nozione di abuso del
diritto, ma i giudici, almeno finora, non ne hanno definito i contorni
con precisione. Al giorno d’oggi l’abuso del diritto assume rilevanza con
riguardo al diritto di proprietà (raramente, per vero), al diritto dei con-
tratti, al diritto di proprietà intellettuale, al diritto tributario, al diritto
processuale e ad altri campi ancora. Da tutta questa abbondante giuri-
sprudenza emerge in realtà l’impressione di una gran confusione, sì che
i rimedi contro l’abuso del diritto sono assai diversificati: a seconda del
caso, potrà trattarsi del risarcimento del danno, di una sanzione pecunia-
ria, della nullità, dell’inopponibilità, della decadenza, fino all’inefficacia
di una clausola contrattuale.
3.  Di fronte a questa copiosa giurisprudenza, la dottrina manifesta un
certo imbarazzo. I dibattiti teorici dell’inizio del XX secolo (che d’altra
parte non hanno mai interessato molto i giudici) sono ormai superati, e
oggi nessuno contesta più che l’esercizio di un diritto possa essere fonte
di responsabilità per il titolare. Il problema è però che non c’è accordo sul
modo in cui, astrattamente, l’abuso di diritto potrebbe o dovrebbe essere
definito. Ciò dipende in particolare dal fatto che la stessa nozione di diritto
soggettivo non è stata chiaramente delineata nel diritto francese, a dispetto
di una considerevole letteratura in tema. Talvolta si è suggerito di distin-
guere tra diritto soggettivo e libertà, prestandosi solo il primo all’abuso,
ma poi nessuno è mai riuscito a tracciare una chiara linea di confine tra le
due nozioni – e tra l’altro la giurisprudenza è assai poco rigorosa nell’uso
di questi differenti termini. La nozione di abuso è anch’essa problematica.

2
  Cass. (chambre des requêtes), 3 agosto 1915, Coquerel c. Clément-Bayard, DP (= Dalloz
périodique), 1917, 1; GAJC (= H. Capitant, F. Terré, Y. Lequette, Les grands arrêts de la
jurisprudence civile), t. 1, 13e éd., 2015, n. 69 (la sentenza si può leggere al seguente link: 70http://
mafr.fr/media/attachments/2012/10/2/Arret_Clement_Bayard.pdf).
L’abuso del diritto in Francia 447

Taluni hanno proposto di distinguere tra abuso di diritto e carenza di di-


ritto, tra abuso ed eccesso, o ancora tra abuso e frode. Ma tuttavia anche
su questi aspetti le frontiere concettuali restano vaghe e la mancanza di
rigore terminologico da parte della giurisprudenza non facilita certo questo
lavoro di distinzione e di chiarificazione3.
4.  Tenuto conto di tali problemi concettuali, la dottrina ha qualche
difficoltà nel mettere ordine all’interno delle numerose evocazioni giuri-
sprudenziali dell’abuso del diritto. E peraltro, se l’abuso del diritto fos-
se definito con precisione, è probabile che alcune fattispecie rispetto alle
quali i giudici parlano di abuso del diritto dovrebbero essere diversamente
qualificate. Tuttavia, per come stanno attualmente le cose, la dottrina è
per così dire condannata a prendere la giurisprudenza per come si ma-
nifesta, passando in rassegna i vari impeghi dell’abuso e accontentandosi
di classificarli. Una parte degli autori dubita del resto che oggi esista un
concetto unitario di abuso del diritto. Alcuni sono anche dell’avviso che
«l’inconsistenza della nozione [di abuso] sarebbe in qualche modo la sua
virtù propria»4. In questa prospettiva, il ricorso all’abuso del diritto sareb-
be di fatto una manifestazione di equità giudiziale, il che ne impedirebbe
appunto una definizione precisa.
5.  Questa opinione non è evidentemente condivisa da tutti, ma la va-
ghezza che circonda l’abuso del diritto è sufficientemente rilevante da aver
portato gli autori dei recenti progetti di riforma del diritto francese a pru-
dentemente astenersi dal disciplinare l’abuso del diritto. È vero che questi
progetti si focalizzano sul diritto dei contratti e della responsabilità civile,
e dunque una disposizione di carattere generale sull’abuso del diritto tro-
verebbe la sua collocazione ideale all’interno di una «parte generale» del
codice civile (che a tutt’oggi manca). Tenuto conto degli stretti nessi tra
l’abuso del diritto e la responsabilità civile, tuttavia, sarebbe stato possibile
prevedere, nei progetti di riforma della responsabilità, una disposizione
sull’abuso del diritto. Ma non è andata così. A nostro avviso, una delle
ragioni del silenzio sta nella difficoltà che hanno i giuristi francesi di per-
venire a una definizione di abuso del diritto che sia al tempo stesso concet-
tualmente rigorosa e sufficientemente in linea con gli usi giurisprudenziali
dell’abuso stesso.

3
  Su tali aspetti v. l’eccellente ed esaustivo scritto di L. Cadiet e Ph. le Tourneau, Abus de
droit, Répertoire civil Dalloz, 2e éd., 2008.
4
  Ph. Stoffel-Munck, L’abus dans le contrat. Essai d’une théorie. Préf. R. Bout, LGDJ,
2000, n. 3, che comunque non condivide questa opinione.
448 Jean-Sébastien Borghetti

6.  All’interno di un tale contesto è evidentemente un compito piuttosto


delicato pretendere di lumeggiare esaustivamente in poche pagine la figura
dell’abuso del diritto, anche per un lettore colto e consapevole. Ma tenu-
to appunto conto dell’aura di vaghezza che regna sull’analisi concettuale
dell’abuso del diritto in Francia, mi asterrò dall’entrare nel vivo del dibat-
tito vertente sulla definizione possibile o almeno auspicabile di abuso. Mi
concentrerò piuttosto sulle principali ipotesi di abuso nel diritto francese,
provando a vedere se, nonostante l’apparente disordine giurisprudenziale,
sia possibile ordinarle in un modo che faccia emergere, se non l’unità della
nozione, quantomeno una certa sua coerenza interna.
7.  A tale riguardo mi sembra interessante adottare una distinzione pro-
posta dal prof. Philippe Stoffel-Munck, nella tua tesi di dottorato pubbli-
cata nel 2000 e dedicata all’abuso contrattuale5. Questo autore ricorda che,
nell’ambito del grande dibattito che vide lo scontro tra Josserand e Planion
all’inizio del XX secolo, ciascuno avanzava argomenti che ben potevano
apparire incontestabili. Per combattere la nozione in sé di abuso del diritto,
Planiol faceva valere l’argomento per cui parlare di uso abusivo di un dirit-
to è contraddittorio, perché appunto il diritto finisce proprio dove l’abuso
inizia. Josserand, dal canto suo, rispondeva «che ben si può avere un diritto
tutto per sé, a propria completa disposizione, un diritto ben determinato,
e tuttavia aver contro il Diritto nella sua interezza, esattamente allo stesso
modo per cui con armi lecite ben si possono commettere delitti». Ora, se
entrambe queste due posizioni potevano apparire al medesimo tempo op-
poste e convincenti è senza dubbio perché i due autori, quando evocavano
l’abuso del diritto, pensavano a due realtà differenti. Dietro la questione
dell’abuso del diritto, Planiol pare guardare alla questione dei limiti dei
diritti soggettivi. Per lui, il preteso abuso del diritto non era altro che l’atto
di esercizio fuoriuscente dai limiti del diritto di cui dispone il titolare. La
formula di Josserand rinvia invece a un problema diverso, che si riferisce
al modo in cui si comporta il titolare di un diritto nel momento in cui lo
esercita senza fuoriuscire dai limiti suddetti.
8.  Detto con altre parole, l’abuso può consistere nel fuoriuscire dal con-
tenuto sostanziale di un diritto, indipendentemente da ogni giudizio rela-
tivo alla condotta dell’esercente il diritto stesso, ovvero può consistere in
un comportamento colposo nel momento dell’esercizio del diritto. Questa
distinzione è senza dubbio un po’ schematica, ma tuttavia consente di dar

5
  Ph. Stoffel-Munck, L’abus dans le contrat, cit.
L’abuso del diritto in Francia 449

conto e di ordinare gli impieghi più notevoli dell’abuso del diritto in Fran-
cia. Per tale ragione saranno qui di seguito distinti l’abuso come compor-
tamento colposo (I) e l’abuso come superamento di una prerogativa (II).
2.  L’abuso come comportamento colposo
Il riconoscimento dell’abuso di diritto, in diritto francese, rinvia molto
spesso a un comportamento colposo. La sanzione consiste allora nel risar-
cimento del danno. La questione che si pone, tuttavia, è di sapere perché
i giudici effettuino, per così dire, una deviazione, passando appunto per il
concetto di abuso di diritto, invece di parlare semplicemente di colpa del
titolare del diritto. Tale questione sarà affrontata (B) dopo che saranno stati
descritti alcuni impieghi particolarmente significativi dell’abuso del diritto
per sanzionare comportamenti colposi6 (A).
A.  Esemplificazioni
Sono tre i diritti il cui esercizio connotato da colpa e qualificato in
termini di abuso merita particolare attenzione7: il diritto di proprietà, il
diritto di azione, il diritto di recedere dalla trattativa precontrattuale o dal
contratto.
i) L’abuso del diritto di proprietà
1.  La tipologia più nota di abuso nel diritto francese è l’abuso del dirit-
to di proprietà, per le ragioni precedentemente richiamate. Si tratta di un
abuso che va ricondotto alla prima tipologia, nel senso che presupposto
di applicazione è il comportamento colposo di chi esercita il diritto. È
proprio l’aspetto che, come già precisato, venne appunto in gioco nel caso
Clément-Bayard, al cui cuore stava evidentemente il comportamento mali-
zioso del vicino, il quale era peraltro rimasto all’interno dei limiti oggettivi
del suo diritto di proprietà, poiché tale diritto in effetti gli consentiva di
costruire delle strutture sul suo terreno. Una volta ammesso il principio
della sanzione contro l’abuso del diritto – sanzione che normalmente viene
attuata attraverso il risarcimento del danno ma che può anche consistere
nella riparazione in forma specifica sub specie di distruzione dell’opera

6
  Non è possibile, entro i limiti circoscritti di questo contributo, presentare un panorama
esaustivo di tutti i casi nei quali il diritto francese sanziona una colpa attraverso l’abuso del
diritto. Per un censimento completo v. però L. Cadiet e Ph. le Tourneau, op. cit., nn. 42-193.
7
  Non si tratterà qui dell’abuso in materia di concorrenza, che ormai da tempo trova ampia
applicazione nel diritto dell’Unione europea. Sarà allo stesso modo lasciata da parte, nonostante
la sua rilevanza nel diritto interno, la questione dell’abuso nel diritto societario, su cui v. spec.
L. Cadiet e Ph. le Tourneau, op. cit., nn. 187-193.
450 Jean-Sébastien Borghetti

fonte del pregiudizio –, resta ancora da chiarire qual è il criterio di opera-


tività dell’abuso.
2.  Nel secolo passato, Josserand si era distinto difendendo l’idea che i
diritti soggettivi avessero una funzione sociale e che l’abuso di un diritto
consistesse perciò nel suo esercizio antisociale, cioè a dire contrario alla
sua propria finalità8. Un siffatto limite all’esercizio dei diritti è davvero
notevole, almeno potenzialmente, e del resto questa tesi non è stata mai
ripresa dalla giurisprudenza, se non altro apertamente. In materia di dirit-
to di proprietà, le prime sentenze ad aver sanzionato l’abuso del diritto9
avevano adottato il criterio dell’intenzione di nuocere, che è stato del resto
ripreso anche nel caso Clément-Bayard. Se non v’è dubbio che l’esercizio
del diritto di proprietà sulla base della mera intenzione del titolare di nuo-
cere ad altri costituisca, ancora oggi, un abuso del diritto, la giurisprudenza
si mostra a volte meno esigente. E così, in una pronuncia relativamente
recente, la Corte di cassazione ha riconosciuto che integra abuso del diritto
la circostanza che il proprietario di un fondo si opponga a che il suo vicino
installi sul suo fondo un’impalcatura per un periodo di tre settimane al
solo fine di effettuare dei lavori al proprio tetto: e ciò, o quando non esista
alcun altro modo per realizzare questi lavori, oppure quando tale modo in
effetti esista ma il costo sia del tutto sproporzionato al valore economico
dei lavori da effettuarsi10.
Pare allora che la mancanza di utilità per il titolare del diritto di tenere
un certo comportamento, nonché il carattere pregiudizievole (rispetto ad
altri soggetti) di tale comportamento siano elementi sufficienti per l’inte-
grazione della fattispecie di abuso11. È vero del resto che quando questi due
elementi sono chiaramente presenti, l’intenzione di nuocere è probabile
anche se non assolutamente certa.
3.  In ogni modo, le applicazioni dell’abuso del diritto di proprietà sono
oggi abbastanza rare. E ciò si spiega in particolare con il fatto che la giuri-
sprudenza, più o meno nello stesso torno di tempo in cui affermava l’abuso

8
  V. in particolare L. Josserand, De l’esprit des droits et de leur relativité – Théorie dite de
l’abus des droits, 2e éd., Dalloz, 1939.
9
  CA Colmar, 2 maggio, 1855, DP, 1856, 2, 9; T. civ. Sedan, 17 dicembre 1901, DP, 1906, 5,
38; Cass. req., 28 gennaio 1903, DP, 1903, 1, 64; CA Chambéry, 21 luglio 1914, Gaz. Trib., 19
gennaio 1916; Cass. req., 16 giugno 1913, DP, 1914, 5, 23.
10
  Cass., 3e civ., 15 febbraio 2012, n. 10-22899, in Bull. civ. III, n. 32; D, 2012, 1308, con
nota di Thomassin.
11
  V. Les grands arrêts de la jurisprudence civile, cit., con riferimento alle osservazioni che si
leggono al caso Clément-Bayard.
L’abuso del diritto in Francia 451

del diritto di proprietà12, sviluppava altresì la teoria dei disturbi anomali


da vicinato (troubles anormaux de voisinage). Esiste ormai un principio
consolidato secondo cui il proprietario o l’occupante di un terreno o di un
fabbricato è responsabile, anche senza sua colpa, del danno cagionato a un
vicino, in tanto in quanto il danno ecceda la misura dei fisiologici e come
tali tollerabili disturbi all’interno dei normali rapporti di vicinato13. Questa
responsabilità senza colpa permette molto spesso all’attore – in caso di
lite tra vicini – di ottenere il risarcimento del danno senza essere gravato
dall’onere di provare l’abuso di controparte. Per di più, il moltiplicarsi
dei regolamenti disciplinanti la materia urbanistica ha considerevolmente
limitato la libertà del proprietario di un immobile di fare uso del proprio
bene. Conseguentemente, l’abuso del diritto di proprietà, se ha giocato un
ruolo decisivo in vista della costruzione e del consolidamento del concetto
di abuso di diritto in Francia, è oggi un istituto giuridico d’importanza as-
sai circoscritta, almeno quando sia la proprietà di beni materiali a venire in
gioco14. Bisogna peraltro segnalare che l’abuso è invocato anche in materia
di proprietà intellettuale15. Il contenzioso concerne in particolare il rifiuto
di divulgazione di un’opera dopo la morte del suo autore, da parte degli
aventi diritto16.
ii) L’abuso del diritto di azione
1.  L’abuso del diritto, sempre inteso quale comportamento colposo,
sembra essere molto spesso invocato in materia processuale. In effetti la
giurisprudenza ammette da lungo tempo che un abuso possa essere com-
messo nell’ambito processuale (da parte di chi agisce o resiste in giudizio
nel processo di cognizione ordinaria, così come nel processo esecutivo).
E ancora una volta è il comportamento colposo di una persona che viene
sanzionato, e la sanzione ha la forma originaria del risarcimento del dan-
no, cui potrà affiancarsi eventualmente un’ammenda civile17. Il principale

12
  Cass. civ., 27 novembre 1884, DP, 1845, 1, 14; Cass. req., 20 febbraio 1849, S, 1849, 1, 346.
13
  V. in particolare Cass., 2e civ., 19 novembre 1986, Bull. civ. II, n. 172, la quale afferma:
«Nessuno deve cagionare ad altri un anomalo disturbo da vicinato».
14
  L’abuso di altri diritti reali aventi ad oggetto beni materiali è altrettanto possibile. L’art.
618 cod. civ. fr. ravvisa d’altronde «l’abus que l’usufruitier fait de sa joussance»; abuso che può
condurre all’estinzione anticipata dell’usufrutto.
15
  Sul tema v. in particolare C. Caron, Abus de droit et droit d’auteur. Préf. A. Françon,
Litec, 1998.
16
  L. Cadiet e Ph. le Tourneau, Abus de droit, cit., nn. 70-74.
17
  V. gli artt. 32-1, 559, 581 e 628 cod. proc. civ. fr. Queste disposizioni sono entrate in
vigore molto tempo prima che la giurisprudenza ammettesse la possibilità di abusare del diritto
d’azione.
452 Jean-Sébastien Borghetti

problema attiene evidentemente alla determinazione del concetto di abuso


processuale. Si tratta di una questione che ha dato luogo a una letteratura
abbondante e a una giurisprudenza copiosa18.
2.  Da parecchio tempo è parso che la giurisprudenza abbia fatta propria
una concezione relativamente ristretta dell’abuso processuale, consideran-
do che l’esercizio di un’azione processuale non è fonte di responsabilità
civile, a meno che essa costituisca un comportamento doloso, di mala fede
o sia il prodotto di un grossolano errore equiparabile al dolo19. La Corte
di cassazione, però, ritiene ormai che «la colpa nell’esercizio di una pretesa
in sede processuale è suscettibile di far sorgere la responsabilità in capo al
soggetto esercente» senza che sia richiesta la qualificazione della condotta
processuale in termini di atto doloso o almeno gravemente colposo20. Ciò
non impedisce alla suprema giurisdizione di continuare a parlare di abuso
del diritto nell’esercizio dell’azione21; ma a ben vedere sembra piuttosto
che, in quest’ambito, l’abuso oggi non si differenzi più, in sostanza, dalla
semplice colpa civile.
iii) L’abuso del diritto di recesso dalla trattativa precontrattuale e
dal contratto

1.  Il diritto francese conosce ovviamente il principio della libertà con-


trattuale, da cui deriva in particolare che una parte che avvia una nego-
ziazione in vista della conclusione di un contratto è astrattamente libera
di rompere la trattativa precontrattuale. E tuttavia è nozione acquisita in
giurisprudenza che la «rottura abusiva» della trattativa può dar luogo a
responsabilità. L’espressione «rottura abusiva» non compare nel Codice
civile, che è senza dubbio muto sulla questione della negoziazione contrat-
tuale, e del resto essa non viene utilizzata in modo sistematico dai tribunali
francesi, ma in realtà si ritrova regolarmente impiegata sia nella giurispru-
denza delle giurisdizioni superiori22 sia in dottrina. E però questa rottu-
ra abusiva sembra confondersi con la colpa configurabile nel momento
dell’esercizio del diritto di recesso dalla trattativa. Pertanto, ancora una
volta, non emerge una chiara distinzione tra abuso e colpa.

18
  V. L. Cadiet e Ph. le Tourneau, Abus de droit, cit., nn. 119-178.
19
  V. L. Cadiet e E. Jeuland, Droit judiciaire privé, 5e éd., Litec, 2006, n. 447, e i riferimenti
ivi citati.
20
  Cass., 2e civ., 11 settembre 2008, n. 07-18.483, JCP 2009, I, 123, n. 5, con osservazioni di
Stoffel-Munck; LPA 4 novembre 2008, 13, con nota di Canselier.
21
  V. ad es. Cass., 3e civ., 1° aprile 2009, n. 07-21.833, Bull. civ. III, n. 74.
22
  V. ad es. Cass., 1 e civ., 19 dicembre 2013, n. 12-26459.
L’abuso del diritto in Francia 453

2.  Allo stesso modo, in diritto francese esiste un principio in forza del
quale una parte di un contratto di durata indeterminata può recedere in
qualunque momento, mediante la fissazione di un termine di preavviso
ragionevole. Questa libertà conosce tuttavia alcuni limiti e, secondo una
giurisprudenza costante, «nei contratti a esecuzione continuata o periodica
in cui nessun termine è stato previsto, il recesso unilaterale spetta, salvo
il caso di abuso, a entrambe le parti»23. Ciò che può costituire abuso in
un caso del genere è meno chiaro, ma un autore ha sostenuto con molta
incisività che un tale abuso non è nient’altro che la violazione della buona
fede, la quale peraltro equivarrebbe a una colpa civile24 .
B) Il problema della distinzione tra abuso e colpa
1.  I giudici francesi utilizzano dunque abbastanza frequentemente il
concetto di abuso per sanzionare condotte sleali che giustificano una san-
zione del loro autore sotto forma di risarcimento del danno. In tutti i
casi che vengono al proposito evocati non c’è in realtà alcun dubbio che
l’abuso costituisce una tipologia di colpa. La questione è sapere se l’abuso
si distingua o no dalla colpa «ordinaria».
2.  Come noto, il diritto francese conosce la clausola generale di respon-
sabilità per colpa, espressa all’art. 1382 cod. civ. fr. Questo testo prevede:
«Tout fait quelconque de l’homme, qui cause à autrui un dommage, oblige
celui par la faute duquel il est arrivé à le réparer». Altrimenti detto: ogni
colpa che cagiona un danno ad altri obbliga l’autore del danno a risarcirlo.
Il codice civile non definisce però la colpa e anche la giurisprudenza ha
evitato di farlo. La ragione, senza dubbio, è che la Corte di cassazione,
che controlla la qualificazione del fatto compiuta dai giudici di merito, si
trova in questo modo a disporre di un ampio margine di libertà onde sta-
bilire se vi sia o non vi sia colpa. Sul versante giurisprudenziale è del resto
chiaro che ogni imprudenza, anche lieve, e pure lievissima, costituisce una
colpa suscettibile di far scattare la responsabilità dell’agente25. Dunque, in
diritto francese, le maglie della responsabilità per colpa sono estremamente
larghe26 .

23
  Cass., 1e civ., 5 febbraio 1985, n. 83-15.895, Bull. civ. I, n. 54, e le altre pronunce citate da
Ph. Stoffel-Munck, L’abus dans le contrat, cit., n. 76.
24
  Ph. Stoffel-Munck, loc. cit. et passim.
25
  L’art. 1383 cod. civ. fr. precisa del resto che la colpa si estende altresì all’imprudenza:
«Chacun est responsable du dommage qu’il a causé non seulement par son fait, mais encore par
sa négligence ou par son imprudence».
26
  Senza contare che ogni danno è in principio risarcibile, e che la causalità è valutata in
maniera non troppo rigorosa.
454 Jean-Sébastien Borghetti

3.  Sta qui verosimilmente una delle ragioni, se non la ragione principale,
che spiega perché la giurisprudenza parli di abuso del diritto, piuttosto che
di colpa, in certi contesti27. L’applicazione pura e semplice dell’art. 1382 ri-
porterebbe ad ammettere come fonte di responsabilità qualunque negligen-
za, qualunque minimo scostamento dalla condotta astrattamente dovuta.
Ora, ci sono ambiti rispetto ai quali tale approccio non sembra, o almeno
non sembrerebbe, auspicabile. Ad esempio si comprende facilmente perché
la giurisprudenza non abbia voluto fare applicazione della responsabilità
del proprietario a fronte di una minima negligenza di quest’ultimo nell’uso
del proprio fondo o del proprio immobile. Ragionare in modo opposto
avrebbe significato restringere in modo davvero eccessivo la libertà del
proprietario, soprattutto nel contesto storico risalente alla fine del XIX
e all’inizio del XX secolo. In materia processuale, l’esigenza di disporre
del criterio dell’abuso nell’esercizio del diritto di azione è ormai da lungo
tempo il segno di una reticenza ad ammettere che la minima colpa può
configurare la responsabilità della parte. Allo stesso modo, in materia di
trattativa precontrattuale e di recesso contrattuale, il ricorso alla nozione
di abuso traduce, mi pare, l’idea che non è sufficiente qualunque grado di
colpa per far sorgere responsabilità in capo all’agente.
4.  Il ricorso alla nozione di abuso si spiega allora facilmente in ragione
della portata applicativa estremamente ampia della responsabilità prevista
dalla clausola generale di cui all’art. 1382. L’esigenza di ricorrere alla figura
dell’abuso è stato un mezzo per restringere, senza dirlo espressamente,
il campo di applicazione di tale testo normativo, scartando in certi casi
il requisito della sufficienza della colpa ‘semplice’ e rimpiazzandolo con
una colpa ‘qualificata’. Questo meccanismo di messa fuori gioco della col-
pa semplice è del resto esplicito in alcuni casi. Così, in materia di libertà
d’espressione, la giurisprudenza subordina la responsabilità dell’autore di
affermazioni pregiudizievoli all’esistenza di un abuso ed essa così facendo
aggira appunto espressamente l’applicazione dell’art. 138228.
5.  Di fatto, ben si comprende che, in certi ambiti, l’applicazione, in
tutto il suo rigore, del principio francese di responsabilità per colpa sarebbe

27
  È anche vero che, in ragione della c.d. regola del divieto di cumulo delle responsabilità,
non è possibile invocare l’art. 1382 cod. civ. fr. nel quadro di un rapporto contrattuale. Ma del
resto al contratto si applica il principio di buona fede (art. 1134 cod. civ. fr.), ed è stato dimostrato
che si tratta di un principio sostanzialmente equivalente alla norma che l’art. 1382 sottende: v.
Ph. Stoffel-Munck, op. cit.
28
  V. Cass., ass. plén., 12 luglio 2000, n. 98-10160, Bull. civ., n. 8; JCP 2000, I, 280, n. 2, con
osservazioni di Viney; RTDCiv 2000, 845, con osservazioni di Jourdain.
L’abuso del diritto in Francia 455

inopportuno. Questo principio limita fortemente la libertà d’agire dei sog-


getti titolari di diritti e la sua applicazione è perciò indesiderabile in tutti
i casi in cui l’ordinamento cerchi giustamente di preservare questa libertà
d’azione. Non è dunque sorprendente che l’esigenza della configurabilità
dell’abuso sia stata posta proprio in riferimento a diritti soggettivi o a
libertà che attribuiscono ai titolari una margine di manovra significativo.
6.  Ciò detto, la giurisprudenza pare sempre meno reticente ad appli-
care l’art. 1382 in tutta la sua portata generalizzante29. Tale stato di cose
spiega come mai, in un certo numero di casi, e in particolare in materia
processuale, l’abuso del diritto non si distingua più dalla colpa «ordinaria»
dell’art. 1382. L’abitudine fa sì che si continui a parlare di abuso, ma in
sostanza è la responsabilità per colpa ordinaria che si applica30. Al limite,
bisognerebbe allora distinguere tra i veri e i falsi abusi, cioè tra i casi in
cui il riferimento all’abuso rinvia ancora a un’esigenza di colpa qualificata
(come, verosimilmente, in materia di diritto di proprietà) e quelli in cui
l’abuso si è ormai ridotto a una colpa semplice.
7.  Il fatto che l’abuso serva, o abbia potuto servire, a mettere in scacco
l’applicazione del principio generale della responsabilità per colpa ci sem-
bra trovare una conferma nell’uso che la giurisprudenza fa della nozione di
diritto discrezionale. Un diritto soggettivo è detto discrezionale quando il
suo esercizio non è suscettibile di abuso. In pratica, i diritti discrezionali, la
cui esistenza è stata peraltro da taluni contestata, sono estremamente rari.
Se ne possono segnalare due. Il primo (e concretamente il più importante)
è il diritto del proprietario di un fondo di far distruggere ogni costruzione
altrui che invada i confini della sua proprietà. Secondo una formula giuri-
sprudenziale costante, «la difesa del diritto di proprietà contro lo sconfina-
mento altrui non può mai degenerare in abuso»31. Il secondo è il diritto di
testare, cioè di redigere, di modificare o di revocare il proprio testamento.

29
  V. ad es. Cass., ass. plén., 6 ottobre 2006, n. 05-13255, Bull. civ. ass. plén., n. 9; D, 2006,
1825, con nota di Viney; JCP G, 2006, II, 10181, con opinione di Garizzo e nota di Billiau; Resp.
civ. et assur., 2006, études 17, di Bloch; RTDCiv, 2007, 123, con osservazioni di Jourdain; Les
grands arrêts de la jurisprudence civile, 12e éd., Dalloz, 2008, t. 2, n. 177, che pone il sorpren-
dente principio secondo cui il terzo può invocare, in chiave di responsabilità extracontrattuale,
l’inadempimento contrattuale, dal momento che proprio tale inadempimento gli ha cagionato
un danno.
30
  In materia di recesso dalla trattativa la giurisprudenza indica nella stessa direzione che
l’abuso sarebbe equivalente alla colpa. Detto questo, non è del resto certo che qualunque com-
portamento negligente, anche quando la negligenza sia lieve, tenuto durante la negoziazione
comporti la responsabilità dell’agente.
31
  V. ad es. Cass., 3e civ., 7 giugno 1990, n. 88-16277, Bull. civ. III, n. 140.
456 Jean-Sébastien Borghetti

In una fattispecie piuttosto divertente, in cui una signora aveva agito per
il risarcimento del danno contro i successori del suo ex compagno cui
rimproverava di aver modificato di nascosto il testamento con cui avrebbe
dovuto legarle il proprio appartamento, la Corte di cassazione ha affermato
che «la facoltà di revocare il testamento costituisce diritto discrezionale,
che come tale esclude ogni azione di responsabilità»32. Al di là del dibattito
sull’esistenza o non esistenza dei diritti discrezionali, questa affermazione
per cui certi diritti sono insuscettibili di abuso ci pare ancora una volta
rappresentare soprattutto un mezzo per mettere fuori gioco l’applicazione
della responsabilità per colpa, nelle ipotesi in cui la Corte di cassazione
la ritenga manifestamente inopportuna. Certamente si può discutere circa
l’opportunità di queste soluzioni e delle ragioni di politica del diritto che
le giustificano, ma esse alla fin fine suggeriscono che ci sono tre livelli di
applicazione del principio di responsabilità per colpa: 1) in quanto prin-
cipio generale, si applica astrattamente in tutti i casi di responsabilità; 2)
esistono tuttavia casi in cui questo principio è sostanzialmente aggirato e
in cui, ricorrendo alla copertura dell’abuso di diritto, l’applicazione della
responsabilità civile è subordinata alla sussistenza di una colpa qualificata;
3) infine, si danno circostanze molto rare nelle quali la persona dispone di
una assoluta libertà di agire, senza che alcuna responsabilità a suo carico
possa operare, e si tratta di casi in cui si parla di diritti discrezionali ovvero
insuscettibili di essere oggetto di abuso.
3.  L’abuso come indebito superamento di una prerogativa
Accanto ai casi in cui l’abuso consiste in un comportamento deviante, e
dunque in una colpa, esistono altri casi in cui l’abuso è indipendente dalla
valutazione del comportamento del titolare del diritto, ma consiste in un
superamento, per così dire oggettivo, dei limiti delle prerogative di cui
dispone il titolare del diritto. Gli esempi di tale tipo di abuso sono perciò
meno numerosi (A), il che si spiega in particolare ponendo mente alle
modalità con cui oggi la maggior parte dei diritti è strettamente delimitata
quanto al contenuto (B).
A. Esemplificazioni
1.  La più conosciuta ipotesi di abuso di questo secondo tipo è certa-
mente quella delle clausole contrattuali abusive. In base alla direttiva del
Consiglio 93/13/CEE del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei

32
  Cass., 1e civ., 30 novembre 2004, n. 02-20883, Bull. civ. I, n. 297; D, 2005, 1621, con nota
di Maréchal.
L’abuso del diritto in Francia 457

contratti conclusi con i consumatori, una clausola è abusiva «lorsque, en dé-


pit de l’exigence de bonne foi, elle crée au détriment du consommateur un
désequilibre significatif entre les droits et obligations des parties découlant
du contrat» (art. 3)33. Certo, il testo fa riferimento alla buona fede, e sembra
dunque rinviare a una norma di comportamento. Eppure, non è il compor-
tamento di una parte a rappresentare il problema, almeno non indirettamen-
te; è il contenuto del contratto. La nozione di clausola abusiva permette di
paralizzare una stipulazione contrattuale che, pur restando entro i limiti for-
mali della libertà contrattuale, si rivela essere incompatibile con gli obiettivi
generali posti dal legislatore. È dunque legittimo parlare di abuso, anche se
nessuna delle versioni linguistiche della direttiva impiega questo termine34.
2.  La giurisprudenza francese ammette così la possibilità che un con-
traente abusi di una prerogativa contrattuale. L’accertamento di un abuso
è allora un mezzo di cui il giudice dispone per far rispettare il contenuto
dell’accordo, facendo così prevalere lo spirito del contratto sulla lettera del
testo. Ciò dà ragione del fatto che l’esatta estensione di una prerogativa
giuridica non è riducibile alla formulazione letterale di quest’ultima, ma di-
pende dallo spirito e dalla finalità di essa. Ne deriva che l’uso, formalmente
corretto, di una prerogativa può tuttavia risultare abusivo con riguardo alla
ratio ad essa sottesa. Nel caso di abuso di una prerogativa contrattuale,
l’abuso non gioca allora contro il contratto, ma al contrario consente di
fare in modo che il creditore resti entro i limiti del diritto di cui è titolare35,
e in questo modo è ad esempio possibile impedire che il creditore faccia
valere abusivamente una clausola risolutiva espressa.36
3.  Allo stesso modo può essere ricondotta all’abuso per superamento
indebito di una prerogativa ciò che a volte va sotto il nome di frode alla
legge, in particolare in materia fiscale o di diritto internazionale privato.
Si ha pertanto frode quando una persona, facendo uso formalmente cor-
retto di una prerogativa che l’ordinamento le riconosce, in realtà si sot-
trae indebitamente all’applicazione di una precisa regola legislativa. Nel
famoso caso della principessa di Beauffremont, una signora francese aveva
acquistato la nazionalità di un ducato tedesco per poter divorziare dal suo
anziano marito in conformità a quanto previsto da quella legge tedesca e

  Questo testo è stato trasposto nell’art. L. 132-1 del Codice del consumo francese.
33

  È ben noto che, in inglese, il tema è quello degli unfair contract terms.
34

35
  V. L. Cadiet e Ph. le Tourneau, Abus de droit, cit., n. 84; Ph. Stoffel Munck, L’abus
dans le contrat, cit., n. 686 e s.
36
  V. ad es. Cass., 1e civ., 7 febbraio 2006, n. 03-15094, D, 2006, 1796, con nota di Penneau;
RTDciv, 2006, 763, con osservazioni di Mestre e Fages.
458 Jean-Sébastien Borghetti

così potersi risposare; ma la Corte di cassazione ha ritenuto che tale cam-


biamento di nazionalità, realizzato al solo fine di sottrarsi al divieto della
legge francese, fosse fraudolento e inopponibile al primo marito37. Nello
stesso senso, in materia fiscale, l’art. L. 64 del Livre des procédures fiscales
prevede che l’amministrazione finanziaria ha diritto di disconoscere, non
essendo pertanto ad essa opponibili, gli atti integranti abuso di diritto38.
4.  Nel caso di abuso attuato attraverso il superamento indebito di una
prerogativa, la sanzione astrattamente consisterà nella neutralizzazione
dell’eccesso. Ecco che allora la clausola abusiva è normalmente privata della
sua efficacia, o l’attivazione abusiva di una prerogativa contrattuale resta
senza effetto. Nello stesso senso, in caso di frode alla legge, l’atto abusivo
non sarà opponibile nei confronti delle persone che ha cercato di ledere.
Ciò marca la differenza con il primo tipo di abuso, la cui sanzione consiste
in via di principio nel risarcimento del danno. Può tuttavia accadere che la
neutralizzazione degli effetti dell’atto abusivo non sia possibile, o che ciò
non sia comunque sufficiente a cancellare tutte le conseguenze dell’atto
medesimo, e in tali casi il risarcimento del danno sarà ugualmente ipotiz-
zabile39. Ma è evidente che tutto ciò contribuisce a offuscare la distinzione
tra le due tipologie di abuso che abbiamo tentato di distinguere40.
B. Abuso e delimitazione dei diritti
1.  Gli abusi del secondo tipo sembrano meno numerosi di quelli del
primo. In altri termini, quando i giudici francesi riconoscono l’abuso del

37
  Cass. civ., 18 marzo 1878, S, 1878, 1, 93, con nota di Labbé.
38
  Art. L. 64, comma 1°, del Livre des procédures fiscales: «Afin d’en restituer le véritable
caractère, l’administration est en droit d’écarter, comme ne lui étant pas opposables, les actes
constitutifs d’un abus de droit, soit que ces actes ont un caractère fictif, soit que, recherchant le
bénéfice d’une application littérale des textes ou de décisions à l’encontre des objectifs poursuivis
par leurs auteurs, ils n’ont pu être inspirés par aucun autre motif que celui d’éluder ou d’atténuer
les charges fiscales que l’intéressé, si ces actes n’avaient pas été passés ou réalisés, aurait norma-
lement supportées eu égard à sa situation ou à ses activités réelles».
39
  V. ad es., in materia di clausole abusive, Cass., 1e civ., 1° febbraio 2005, n. 02-20633, Bull.
civ. I, n. 63; RDC, 2005, 736, con osservazioni di Fenouillet.
40
  Questa confusione è particolarmente evidente nell’ipotesi dei contratti-quadro di fornitura
o di distribuzione che prevedano la conclusione di futuri contratti di approvvigionamento in cui
il prezzo potrà essere fissato unilateralmente dal fornitore. La Corte di cassazione ritiene che
l’abuso nella fissazione del prezzo di tali contratti possa essere sanzionato o attraverso il recesso
o attraverso un indennizzo: Cass., ass. plén., 1° dicembre 1995, n. 91-15578, n. 91-19653, n. 91-
15999 e n. 93-13688, D, 1996, 13, conclusioni di Jéol (Premier Avocat général) e nota di Aynès;
JCP, 1996, II, 22565, conclusioni di Jéol e nota di Ghestin. Su tale delicata questione dell’abuso
della fissazione del prezzo nei contratti-quadro v. Les grands arrêts de la jurisprudence civile, t.
2, cit., nn. 152-155.
L’abuso del diritto in Francia 459

diritto, essi stigmatizzano in linea di massima una condotta sleale e non


il superamento oggettivo di una prerogativa. Verosimilmente, una delle
ragioni è che oggi i numerosi diritti soggettivi e le numerose prerogative
giuridiche sono situazioni con un contenuto così strettamente determinato
e così dettagliatamente disciplinato che è divenuto pressoché impossibile
abusarne, cioè rispettarne la lettera senza rispettarne lo spirito.
2.  Il diritto di proprietà illustra bene tutto ciò, quantomeno in materia
immobiliare. Gli atti normativi in materia urbanistica che vanno a limitare
l’uso di questo diritto sono oggi così numerosi che, se da un lato resta sem-
pre possibile fare un uso del diritto di proprietà che formalmente rispetta
i limiti di tale diritto ma che in realtà è volto a pregiudicare altri soggetti
(abuso del primo tipo), dall’altro lato è molto difficile compiere un atto che
formalmente resti entro i limiti del diritto di proprietà ma che comunque
ne superi o ne violi lo spirito. Ciò ovviamente non vuol dire che i proprie-
tari non violino mai le regole dirette a restringere o a circoscrivere i diritti
di proprietà di cui sono titolari. Molto semplicemente, questi atti non van-
no ricondotti alla categoria dell’abuso del diritto di proprietà, ma alla cate-
goria della violazione della disciplina urbanistica (per esempio). D’altronde
lo sviluppo della normativa volta a circoscrivere il contenuto del diritto di
proprietà è almeno in parte il prodotto della volontà di sventare gli abusi.
Come alcuni autori di frequente sottolineano, infatti, l’abuso ha spesso
tratti sfuggenti: se un tipo di abuso particolare tende a ripetersi nel tempo,
ciò tendenzialmente provocherà una reazione del legislatore, dell’esecutivo
e della giurisprudenza diretta a delimitare con nettezza i confini del diritto
o della prerogativa oggetto di abuso, sì che l’abuso non sia più possibile41.
3.  La incisiva delimitazione delle prerogative del titolare del diritto
spiega così come sia quasi impossibile l’abuso di un diritto di credito.
Poiché le prerogative del creditore sono specificamente delimitate e circo-
scritte, è difficile pensare che un creditore possa scavalcarle e abusare del
diritto di cui è titolare. Certo, il creditore ha tutta la libertà di far valere
o di non far valere il proprio diritto, ma la prerogativa essenziale che la
legge gli attribuisce – quella di esigere l’esecuzione della prestazione – è
chiaramente delimitata. Inoltre, discende dalla natura stessa dell’obbliga-
zione che l’adempimento di essa implica un sacrificio per il debitore, ma

41
  V. in particolare E. Morin, Quelques observations critiques sur le concept d’abus de droit,
in Mélanges Lambert, Sirey, 1938, t. II, 467; L. d’Avout, La «fonction sociale» des droits selon
et depuis Josserand, in W. Dross e Th. Favario (dir.), Un ordre juridique nouveau? Dialogues
avec Louis Josserand, Mare et Martin, 2014, 29, 37.
460 Jean-Sébastien Borghetti

certo quest’ultimo non potrà aprioristicamente dolersi di quanto gli costi


l’esercizio del diritto da parte del creditore. La giurisprudenza peraltro è
orientata nel senso che la condotta scorretta del creditore possa privare
quest’ultimo della possibilità di esigere il pagamento del suo credito42.
4.  L’abuso del diritto è dunque una realtà al tempo stesso viva e sfug-
gente del diritto francese contemporaneo. Ciò, in parte, senza dubbio
dipende dal fatto che l’abuso ha per sua natura una funzione sussidia-
ria, poiché serve in particolare a colmare le lacune che possano esistere
nell’ordinamento giuridico, volgendosi così a sanzionare o neutralizzare
comportamenti socialmente inopportuni ma che non sono contemplati da
altre regole più precise. Questa funzione sussidiaria spiega almeno in parte
il carattere disparato delle applicazioni dell’abuso del diritto e spiega la
difficoltà di circoscriverne con precisione la nozione. Così stando le cose,
sarebbe certamente possibile chiarire la nozione di abuso del diritto e de-
limitare meglio il suo campo di applicazione. Il diritto comparato potrà a
questo riguardo essere di grande aiuto.

42
  V. Cass. com., 10 luglio 2007, n. 06-14768, Bull civ. IV, n. 188; D, 2007, AJ, 1955, con
osservazioni di Delpech, 2839, con nota di Stoffel-Munck, e 2844, con nota di Gautier; JCP E
2007, 2394, con nota di Mainguy e Respaud; Cass., 2e civ., 25 giugno 2009, n. 08-14254. Bisogna
peraltro segnalare che l’art. 2321, comma 2°, cod. civ. fr. ravvisa la possibilità dell’abuso del diritto
di credito, a proposito dell’operatività di una garanzia autonoma.
Maurizio Lupoi
Strade e sensibilità diverse: l’Equity inglese

Sommario: 1. Diritto comune ed Equity. – 2. La discrezionalità del giurdice di Equity.


– 3. Analisi casistica. – 4. Una prima fattispecie: il comportamento inequitable di una
società che, dopo essersi accordata informalmente con altra per acquistare insieme un
terreno edificabile, procede all’acquisto da sola. – 5. Seconda fattispecie: l’abuso della
posizione di preminenza connaturata a un rapporto fiduciario .– 6. Terza fattispecie:
uso di una norma sulla forma di un contratto per fine diverso da quello perseguito dalla
legge. – 7. Conclusioni

1.  Quasi un quarto di secolo fa la Corte suprema degli Stati Uniti si è


trovata a discutere quali siano le tipologie di rimedi giudiziari tipici della
giurisdizione di equity1 e la questione è tornata in una causa decisa nel
2002, sentenza redatta dal giudice Scalia2. Secondo la visione tradizionale,
l’equity è null’altro che il frutto della giurisprudenza della corte del Can-
celliere – la Chancery – o delle analoghe corti stabilite fuori dell’Inghilterra
nelle colonie e ex-colonie ove, come in Inghilterra, furono o sono ancora
distinte dagli organismi giudiziari di diritto comune o di common law in
senso stretto. Queste corti separate sono state abolite quasi da per tutto,
ma non ovunque: negli ordinamenti statali statunitensi più di uno o man-
tiene l’originaria struttura della Corte separata o ha creato una specifica
sezione all’interno della Corte con generale giurisdizione per l’applicazione
dell’equity3; ed è da notare che la competenza di alcune di queste corti,
come per esempio la Court of Chancery del Delaware, è precisamente
quella della Court of Chancery inglese al momento dell’indipendenza ame-
ricana nel 1776 (ricordo che il Delaware è una delle originarie 13 colonie).
Incidentalmente, la Court of Chancery del Delaware decise nel 1952
– prima assoluta negli Stati Uniti – che il sistema di segregazione razziale
nelle scuole era incostituzionale (sia pure non in via di principio, ma per
come veniva in concreto applicato)4; la relativa causa confluì poi con altre

1
  Mertens v. Hewitt Associates, 508 U.S. 248, 251 (1993) a 254: «those categories of relief
that were typically available in equity».
2
  Great-West Life v. Annuity Ins. Co. V. Knudson 534 U.S. 204 (2002).
3
  Delaware, Mississippi e Tennessee hanno corti di equity separate.
4
  Gebbart v. Belton, 33 Del. Ch. 144, 87 A.2d 862 (Del. Ch. 1952), aff’d, 91 A.2d 137 (Del.
1952).
462 Maurizio Lupoi

dinanzi la Corte Suprema nella notissima causa Brown v. Board of Edu­


cation5.
Sebbene non più affidati a separati sistemi di corti, diritto comune e
equity sono rimasti distinti e, quel che più conta, irriducibili. Quest’ultimo
è un dato non comunemente percepito dal giurista di diritto civile, il quale
non può pensare che quel che dall’esterno appare essere un ordinamento
giuridico ne nasconde due; tanto meno può pensarlo se poi viene a sapere
che non esiste un riparto di competenze fra i due ordinamenti e che la
medesima fattispecie può essere diversamente valutata dall’uno e dall’altro;
che ciascun ordinamento conosce alcuni rimedi giuridici e non altri; che
anche la procedura è diversa: per esempio, negli Stati Uniti il diritto di es-
sere giudicato dalla giuria è garantito dal settimo emendamento per le sole
cause da decidere secondo il diritto comune, non per quelle da decidere
secondo l’equity6.
È da aggiungere che il diritto comune è, secondo la teoria classica, esi-
stito da tempo immemorabile, mentre le regole dell’Equity, secondo il co-
mune modo di vedere, sono il portato delle decisioni giurisprudenziali,
tanto che di molte di esse si conosce l’autore7.
Questo sommario richiamo introduttivo è stato necessari perché le con-
siderazioni che sto per formulare regolarmente oscilleranno fra il diritto
comune e l’equity.
2.  È a tutti noto che il Cancelliere del re parlava della propria corte
come di una «Corte della coscienza». L’equity comanda al convenuto, ri-
correndone i presupposti, di tenere il comportamento che è conforme ai
dettati della coscienza; la coscienza della quale si tratta è, dunque, in primo
luogo la coscienza del convenuto.
Così operando, il giudice di equity tendenzialmente colloca sul terreno
giuridico quanto resterebbe altrimenti sul terreno della morale; in sostanza,
l’equity non distingue fra foro interno e foro esterno.

5
  Brown v. Board of Education of Topeka, 347 U.S. 483 (1954).
6
  «In Suits at common law, where the value in controversy shall exceed twenty dollars,
the right of trial by jury shall be preserved, and no fact tried by a jury, shall be otherwise re-
examined in any Court of the United States, than according to the rules of the common law».
7
  In proposito, si cita un brano da una sentenza di fine Ottocento: In Re Hallett’s Estate;
Knatchbull v. Hallett (1880) 13 Ch.D. 696, per Sir George Jessel M.R. a p. 710: «it must not be
forgotten that the rules of courts of equity are not, like the rules of the common law, supposed
to have been establlished from time immemorial. It is perfectly well known that they have been
established from time to time – altered, improved, and refined from time to time. In many cases
we know the names of the Chancellors who invented them. No doubt they were invented for
the purpose of securing the better administration of justice, but still they were invented».
Strade e sensibilità diverse: l’Equity inglese 463

Nell’impartire il proprio «comando» – questo è il termine corretto per-


ché la giurisdizione della Corte di equity è sempre una giurisdizione in
personam – il giudice gode spesso di vasta discrezionalità,, che si estende
alla enunciazione di regole nuove e allora tenendo conto degli effetti che
l’ipotizzata nuova regola avrà nel contesto sociale e economico. Per esem-
pio, nella House of Lords del 1996 (non ancora Corte Suprema) si discusse
se il soggetto il quale riceve una somma pagata da una persona giuridica che
ha agito al di là del proprio oggetto statutario, all’insaputa del destinatario
del pagamento, sia trustee della somma ricevuta. Nel motivare l’opinione
negativa uno dei giudici osservò che il danaro si confonde nel patrimo-
nio del destinatario al momento del pagamento, quando egli ancora non
sa del vizio e quindi la sua coscienza non può essere chiamata in causa8;
infatti, sono innumerevoli le sentenze fondate sul fatto che il convenuto
è a conoscenza di fatti che gli impongono in coscienza di tenere un certo
comportamento.
La discrezionalità del giudice di equity è talmente vasta che egli può
rigettare una domanda qualora l’attore non abbia le «mani pulite» – una
espressione coniata ben prima che da noi e che si combina con l’altra,
secondo la quale «chi chiede equity deve essersi comportato secondo
l’equity» (si tratta di due fra le cosiddette «massime dell’equity») – ovvero
quando ritenga che l’attore ha atteso troppo tempo prima di agire in giu-
dizio, e questo a prescindere da qualsiasi termine prescrizionale, anche qui
in ottemperanza a una massima: «Vigilantibus non dormientibus aequitas
subvenit»9.
Quanto sto dicendo tocca all’evidenza temi rilevantissimi sulle fonti del
diritto e sulla funzione stessa del diritto e del giudice; nulla posso però
aggiungere, a pena di trattare argomenti magari interessantissimi ma al di
fuori dell’oggetto di questo convegno.
3.  Analizzerò ora tre fattispecie senza preoccuparmi di accertare se esse
rientrerebbero sotto il nostro concetto di «abuso del diritto», anche perché

8
  «on receipt of the money by the payee it is to be presumed that (as in the present case)
the identityh of the money is immediately lost by mixing with other assets of the payee, and
at that time the payee has no knowledge of the facts giving rise to the failure of consideration.
By the time that those facts come to light, and the conscience of the payee may thereby be af-
fected, there will therefore be no identifiable fund to which a trust can attach»: Westdeutsche
Landesbank Girozentrale v Islington London Borough Council [1996] AC 669 per Lord Browne-
Wilkinson a p. 689.
9
  Le alter due massime richiamate nel testo sono: «He who comes into equity must come
with clean hands»; «One who seeks equity must do equity»; cfr. J. Martin, Hanbury and Martin’s
Modern Equity, 19th ed., 2012, ch. 1.
464 Maurizio Lupoi

abbiamo tutti potuto vedere quanto sarebbe improprio richiamare il «no-


stro» concetto di abuso del diritto. Proprio con riferimento alla struttura
del dibattito svoltosi nel corso dei lavori di questo convegno ho scelto un
approccio strettamente casistico e ho ignorato temi di fondo che un non
comparatista avrebbe potuto ritenere fruttuosi: per esempio, la fairness o
la good faith. È proprio l’insegnamento comparatistico rivelatosi maggior-
mente fruttuoso – quello di Gino Gorla sul contratto – che richiede di
stare lontani dalla comparazione per concetti (se poi la si vuole chiamare
«comparazione») quando il terreno dell’indagine palesa diversità strutturali
come quelle che ho appena finito di elencare.
Ci concentreremo, quindi, su specifici temi che si abbeverano alle fonti
originarie e caratterizzanti dell’equity.
4.  Due società, Alfa e Beta, sono interessate indipendentemente a ac-
quistare un medesimo terreno edificabile. L’operazione è finanziariamente
impegnativa e quindi, dopo alcuni contatti esplorativi, i rispettivi dirigenti
concordano informalmente che le due società acquistino il terreno insieme;
i rispettivi avvocati si mettono al lavoro per stendere un contratto. Alfa
però ci ripensa e, dopo essersi accertata di non essere ancora giuridicamen-
te obbligata verso l’altra, fa presentare un’offerta da una propria controllata
e procede all’acquisto. Beta la conviene in giudizio e la Corte d’appello
inglese giudica nel 2000 che, pur non esistendo alcun vincolo giuridico fra
le due società, sarebbe contro coscienza se la società acquirente – la società
controllata da Alfa – potesse restare sola proprietaria dell’immobile acqui-
stato10. Nella motivazione della sentenza compare un aggettivo centrale
in molte pronunce delle Corti di Equity: «unconscionable», che significa
letteralmente «contro la coscienza»; esso è parificato a «inequitable»11.
La Corte muove da un precedente di prima istanza del 195312, che era
già stato seguito da altre pronunce di prima istanza, ma che mai era stato
valutato al livello di secondo grado. La premessa fondamentale alla base
del precedente è che manchi fra le parti un contratto e che, di conseguenza,
appaia legittimo il comportamento della parte che procede da sola all’ac-
quisto; affinché si verifichi il presupposto per l’intervento del giudice, però,
occorre anche che questo comportamento sia stato tenuto senza preavver-
tire l’altra parte e, infine, che proprio l’affidamento tradito dell’altra parte
abbia cagionato a questa un danno o all’altra un vantaggio (o entrambi): è

10
  Banner Homes Group Plc v. Luff Developments and Another [2000] Ch. 372, [2000] 2
WLR 772.
11
  V. il brano riportato avanti, nota 13.
12
  Pallant v Morgan [1953] Ch. 43.
Strade e sensibilità diverse: l’Equity inglese 465

questo che renderebbe contro coscienza il perdurare della situazione cre-


atasi quale conseguenza dell’intervenuto acquisto13.
La società Alfa è allora dichiarata trustee della propria partecipazione
nella controllata nella misura del 50% in favore di Beta. Questo costringerà
le parti a addivenire a un accordo; in mancanza, Beta potrà pretendere che
il terreno sia rivenduto e che le sia accreditato metà del ricavato, detratto
quando essa avrebbe dovuto versare per l’acquisto. Nel frattempo Alfa,
in quanto trustee, non potrà tenere alcun comportamento che privilegi i
propri interessi rispetto a quelli di Beta.
È evidente che si tratta di una forma di tutela fortissima, secondo alcuni
eccessiva. Fra le conseguenze dell’avere ravvisato un trust non è soltanto
quella appena indicata circa il futuro comportamento di Alfa perché alme-
no egualmente significativo e protettivo per gli interessi di Beta è il regime
della segregazione; ne dirò trattando la prossima fattispecie.
5.  La seconda fattispecie che vi propongo riguarda l’abuso della po-
sizione di preminenza connaturata a un rapporto fiduciario. Qualsiasi
rapporto fiduciario – per come io lo concepisco – poggia su una disegua-
glianza: una persona può compiere atti che direttamente hanno effetto sul
patrimonio dell’altra, la quale ne subisce gli effetti. Si può ragionare al
contrario: qualsiasi rapporto che consenta a una parte di produrre effetti
nel patrimonio di un’altra, che può solo subirne gli effetti, è un rappor-
to fiduciario. Fondamentale in quest’ottica è non limitarsi a considerare i
rapporti nascenti da contratto, i quali rappresentano una minima frazione
della fenomenologia, e non correre a rifugiarsi nella categoria del diritto
potestativo, che restringerebbe radicalmente l’oggetto del discorso.
Si ha abuso quando la posizione di preminenza venga volta a vantaggio
del soggetto preminente.
La casistica è impressionante. Cominciamo da una fattispecie che ben
si presta alla comparazione con il diritto civile, ovviamente a prescindere
dall’etichetta «abuso del diritto», e che è stata giudicata dalla Corte Su-
prema britannica nel 2014: un mandatario compie quanto il mandante gli
ha richiesto – nel caso specifico, la trattativa e il successivo acquisto di un
albergo a Monte Carlo – ma riceve una commissione (segreta) anche dal

13
  Banner Homes Group Plc v Luff Developments and Another [2000] Ch. 372, per Chad-
wick LJ a p. 398: «It is the existence of the advantage to the one, or detriment to the other,
gained or suffered as a consequence of the arrangement or understanding, which leads to the
conclusion that it would be inequitable or unconscionable to allow the acquiring party to retain
the property for himself, in a manner inconsistent with the arrangement or understanding which
enabled him to acquire it».
466 Maurizio Lupoi

venditore. È pacifico, in diritto inglese, che il mandatario sia obbligato a


rimettere questa commissione al mandante e questo è già un risultato che
non trova corrispondenza in diritto italiano. Infatti, il diritto dal mandan-
te non è necessariamente legato a un pregiudizio risentito, per esempio
perché il prezzo di acquisto sarebbe stato inferiore se il venditore non
avesse dovuto impiegarne una parte per pagare la commissione segreta al
mandatario: tutti fatti logicamente presumibili, ma non da dimostrare per-
ché il profilo risarcitorio è estraneo alla regolamentazione giuridica della
fattispecie14; il diritto del mandante deriva dal principio secondo il quale
qualsiasi utilità ottenuta da un mandatario, a parte la commissione versata-
gli dal mandante, appartiene al mandante stesso perché si presume che un
mandatario agisca esclusivamente in favore del suo mandante.
Questo principio ha ricevuto note applicazioni in materia societaria
(vantaggi ottenuti dagli amministratori), che in parte hanno trovato in-
gresso in Italia (nuovo art. 2391, u.co., cod. civ.). Il punto che interessa,
però, non è questo – che già distingue radicalmente il diritto inglese dal
diritto italiano – ma uno ulteriore: il mandante è titolare di un diritto sulla
commissione impropriamente incassata dal suo mandatario?
Posta in questi termini, la domanda non è facilmente comprensibile per
il giurista italiano. Sarebbe comprensibile se la commissione segreta fosse
un oggetto, per esempio un orologio Rolex d’oro? Potremmo noi chiederci
se l’orologio appartiene al mandante piuttosto che al mandatario che lo
indossa al polso?
Potremmo certo chiedercelo e la risposta negativa sarebbe scontata; non
così in diritto inglese, ove prima il Privy Council nel 199315 e poi la Corte
Suprema nel 201416 hanno deciso, come già era stato deciso in altre giuri-
sdizioni del Commonwealth17, che la commissione, sia essa danaro sia essa
invece uno specifico bene mobile, è tenuta dal mandatario in trust per il

14
  Cfr. l’osservazione di Lord Neuberger in FHR European Ventures LLP and others v
Cedar Capital Partners LLC [2014] UKSC 45, n. 37: «in terms of elementary economics, there
must be a strong possibility that the bribe has disadvantaged the principal. Take the facts of this
case: if the vendor was prepared to sell for € 211.5m, on the basis that it was paying a secret
commission of € 10m, it must be quite likely that, in the absence of such commission, the vendor
would have been prepared to sell for less than € 211.5 m, possibly € 201.5 m. While Simon J was
not prepared to make such an assumption without further evidence, it accords with common
sens that i should often, even normally, be correct; indeed, in some cases, it has been assumed
by judges that the price payable for the transaction in which the agent was acting was influenced
pro rata to account for the bribe».
15
  Attorney General for Hong Kong v Reid [1994] 1 AC 324.
16
  È il caso appena riferito.
17
  V. in Australia Grimaldi v Chameleon Mining NL (No 2) (2012) 287 ALR 22.
Strade e sensibilità diverse: l’Equity inglese 467

mandante. Questo significa innanzi tutto che i creditori del mandatario


non possono soddisfarsi sulla commissione, vincolata dal trust. Ma questo
significa anche che il beneficiario del trust, il mandante, può seguire la com-
missione nelle sue permutazioni e, trattandosi di danaro, di rivendicare per
sé i beni immobili con esso acquistati dal mandatario: fu questo l’esito della
causa del 1993, che riguardava tangenti pagate a un pubblico dipendente in
Hong Kong e la rivendica da parte della pubblica amministrazione di un
palazzo acquistato dal dipendente in Nuova Zelanda.
In conclusione: qui l’abuso non riguarda propriamente un diritto, ma
una posizione giuridica, nella quale un soggetto si trova ad operare in fa-
vore di un altro soggetto e che egli volge a proprio vantaggio: questo van-
taggio non gli appartiene e quindi, pur essendo entrato nel suo patrimonio,
è destinato all’altro soggetto e, per assicurare che a questi pervenga senza
che diritti di terzi possano interferire sulla destinazione, è per legge reso
oggetto di trust del quale il soggetto agente è trustee e l’altro soggetto è il
beneficiario.
La segregazione conseguente al venire in essere del trust assicura – è
sempre questa la funzione della segregazione – l’insensibilità rispetto a
eventi che altrimenti pregiudicherebbero la funzione: noi ci esprimeremmo
probabilmente in termini di opponibilità del diritto del mandante rispetto
all’universo intero, perfino in caso di fallimento del mandatario.
Di questi profili del trust il civilista italiano non sa nulla; eppure essi
costituiscono il «cuore» del trust18.
6.  L’ultima fattispecie che desidero presentare è caratterizzata dalla pre-
tesa, manifestata da una parte contraente, di applicare la norma di legge
che per la conclusione di un determinato contratto prescrive una forma
che in concreto non è stata rispettata. Negozio nullo, dunque, per il diritto
comune, ma per l’equity il discorso non finisce qui.
La relativa massima recita: «L’equity non permette che una legge sia
usata per perpetrare una frode» 19; essa è stata spesso applicata a casi di
trasferimento di beni preceduti da un accordo verbale che il bene sarebbe
stato acquistato a beneficio di un’altra persona oppure accompagnati dalla
dichiarazione verbale del trasferente che il trasferimento era in trust: in
questi casi l’accordo e la dichiarazione sono verbali e vengono poi negati
dalla parte contro la quale si cerca di fatti valere. Tale parte deduce il difetto
di forma scritta, richiesto dalla legge a pena di nullità.

  Richiamo qui la mia monografia «Trusts», Milano 1997 e (2.a ed.) 2001.
18

 �������������������������������������������������������������������������������������������
19
«Equity will not permit a statute to be used as an instrument of fraud». ������������������
Di recente su que-
sta massima v. M. Pawlowski, Fraud, Legal Formality and Equity, 23 Liverpool LR 79 (2001).
468 Maurizio Lupoi

Come a questo punto vi aspettate che sia, il giudice di equity ritiene che
sarebbe contro coscienza per colui che ha acquistato o ricevuto il bene di
tenerlo per se stesso, scevro da obbligazioni verso l’altra parte: avvalersi
del disposto di legge sulla forma (sebbene ad substantiam) equivale a ten-
tare una fraud. L’uso di questo termine di grande ascendenza nel diritto
romano e dal Continente pervenuto in Inghilterra ci colloca al centro del
tema della coscienza secondo un’ottica non comune: quando è che preten-
dere esattamente ciò che la legge prescrive può essere riprovevole? E cioè
connotato da «fraud»?
La risposta non è agevole. Gioca certamente l’esistenza di un arricchi-
mento che appare derivare soltanto dal mancato rispetto delle regole sulla
forma e quindi, visto in coscienza, un arricchimento ingiustificato: rispet-
tivamente, chi ha acquistato a beneficio un’altra persona tiene il bene per
se stesso ovvero chi lo ha ricevuto affinché fosse vincolato da un trust lo
tiene libero da tale vincolo. Sul piano generale, la fraud consiste nell’av-
valersi della eccezione di difetto di forma per finalità diverse da quelle in
vista delle quali il precetto sulla forma è stato legislativamente disposto;
nel caso specifico, però, la fraud è riscontrata quando appaia manifesto
l’affidamento che una parte, magari ignorante delle prescrizioni di legge,
ha fatto sulla parola dell’altra. Interessante, da questo punto di vista, che la
legge sulla forma degli atti promulgata nel 1677 e in vigore fino ai primi del
Novecento fosse intitolata «Statute of Frauds» ossia «Legge per reprimere
la frode» e che proprio avvalersi delle sue disposizioni può oggi essere
considerato un caso di frode.
Gioca anche il valore attribuito alle intese informali, proprio a quelle
che secondo il diritto comune non sono valide e non solo per la mancanza
della forma; qui l’equity torna alle proprie origini intrise di diritto canoni-
co, ripete connotati della exceptio doli generalis e anche il nudum pactum
non è di ostacolo a meccanismi di tutela.
7.  Il titolo della mia relazione è stato concepito per consentirmi di toc-
care solo alcuni temi e poi concludere: è quello che faccio ora, invitando i
giovani civilisti – dei comparatisti non ho alcuna speranza – a bagnarsi in
questo mare e assicurando loro che ne usciranno ritemprati.
Guido Calabresi
Riepilogo

Parliamo di abuso del diritto e comincerò con una storiella che ri-
guarda la famiglia dei suoceri di mia cognata. Le persone molto ricche
spesso lo sono perché hanno inventato qualcosa o perché hanno rubato
con successo. Questi invece erano molto ricchi perché non hanno mai
speso niente. Sono arrivati nella Nuova Inghilterra nei primi anni del
‘600 e hanno conservato tutto perché si sono trovati perfino i panni e
gli spilli del «600 fra le loro cose. Roba ora trasferita al Museo Smi-
thsonian a Washington. Questi avevano molti terreni ed avevano paura
dell’esproprio, perché c’erano terreni loro che il governo desiderava per
costruire basi di Marina militare. In America l’esproprio equivale a un
risarcimento a valore di mercato ma questi lo temevano lo stesso perché
l’esproprio portava ad avere soldi, e se c’erano soldi, se c’era il liquido,
c’era la tentazione di spendere. Nel Connecticut, il nostro Stato, c’era
una legge che dava il diritto di esproprio a qualsiasi cimitero, se questo
cimitero stava per riempirsi. La ragione per cui questo poteva occupare
un po’ di terreno vicino era per poter essere in grado di seppellire pa-
renti di persone già ivi sepolte. Questa famiglia ha notato che c’era un
cimitero quasi pieno vicino ai propri terreni. Quindi hanno fatto una
riunione di famiglia e hanno deciso che la vecchia zia Elisa, che aveva
novant’anni e che non stava bene, appena morisse, doveva venire sepolta
al confine delle loro proprietà perché c’era un’eccezione a questo diritto
di esproprio per cui un cimitero non poteva espropriare le terre di un
altro cimitero. Quando la zia Elisa è morta, l’hanno sepolta lì. Il cimite-
ro adiacente ha domandato l’esproprio e ha fatto causa sostenendo: «La
sepoltura di Elisa non è un vero cimitero!». Il caso è andato fino alla
Corte Suprema del Connecticut, che – forse perché in quell’epoca l’abu-
so del diritto non veniva ancora riconosciuto, forse perché si trattava di
una questione di proprietà – ha detto: «Eh, se c’è un corpo sepolto li è
in un cimitero. Questa sarà anche gentaccia, ma non ci guardiamo den-
tro e non concediamo l’esproprio».
Questo caso, questa storiella descrive l’uso del diritto in un modo forse
contrario e certo non concepito da chi l’aveva creato. In questo caso la
Corte per varie ragioni non ha riconosciuto l’abuso; altre volte invece le
470 Guido Calabresi

Corti lo riconoscono come e perché nei termini in cui questo bel convegno
ha trattato l’argomento.
Sono emersi nei lavori quattro aspetti fondamentali, che io credo siano
stati i fili conduttori di questo convegno. Fili non sempre espliciti ma che,
a mio avviso, si sono visti attraverso tutte le relazioni.
Il primo è la disputa sulle parole, per la formula. Chi vuole usare questa
formula, e chi vuole proibirla . Proprio, la lotta su c’è / non c’è, quando si
può usare, quando non è permesso usare l’espressione «l’abuso del diritto».
Il secondo è un filo ideologico, ossia di certuni che per via del fatto che
questa formula potrebbe in certi casi lasciare potere allo Stato e in altre
situazioni invece no, sono favorevoli o meno.
Il terzo filo, che è molto importante, riguarda la questione di chi decide,
di chi fa il diritto, il legislatore, il giudice, l’amministratore? Anche questo
è un filo che attraversa tutte le relazioni, puntando su come chi decide
influisce sull’uso della formula.
E l’ultimo, che non è stato esplicitato in questo modo, ma che mi pare
molto importante, è l’importanza delle aspettative delle parti e quindi il
pericolo di cose troppo incerte, di formule o poteri generali in contrasto
con poteri specifici.
Allora, incomincio con la disputa sulla formula.
Perché discutiamo su quando si può usare la formula «l’abuso del di-
ritto» o meno? Perché facciamo questo invece di chiedere direttamente
qual è il risultato che desideriamo? Perché importa tanto la formula? La
formula importa perché ogni formula porta con sé un bagaglio enorme di
precedenti legali, di norme, di considerazioni emotive.
Pensiamo all’uso della parola «proprietà». Se si riesce a dire che questa
è una questione di proprietà, sappiamo subito tante cose che si possono
fare e altre che non si possono fare. Quindi alcuni inventano la «nuova»
proprietà, altri dicono che questa cosa non è più proprietà. Si fa proprio
una disputa, e così si è visto in questo contesto. Fare una discussione per
la formula «abuso del diritto» e sull’uso di questa, è quasi come mettere
in discussione il diritto stesso. Se si chiama una cosa diritto, tante cose
seguono, se si dice non è diritto, altre cose seguono, e non solo a livello
di terminologia.
Sono molto importanti quindi le parole, le frasi e i termini che si usano,
per via di quello che portano con loro, quello che – usando o bocciando
una formula – vogliamo che avvenga.
Abbiamo visto in questo seminario, che alcuni hanno voluto usare la
formula «abuso del diritto» in situazioni molto diverse, con risultati molto
diversi. Incomincio con quella cui si riferisce la mia storiella ovvero l’uso
della formula quando la legge viene impiegata in modo diverso, forse con-
Riepilogo 471

trario da come il legislatore avrebbe voluto. Poi invece c’è stata tutta una
serie di relatori che hanno inteso servirsi della formula se e quando il dirit-
to viene usato in un modo che il relatore o il giudice trova fosse antipatico
ovvero per prendere vantaggi su un’altra persona. E questo è un uso del
tutto diverso dal primo e si è visto che i processualisti ci hanno detto in
sostanza : «Ma in tali casi non si deve usare questa formula perché esiste
nel codice di procedura civile italiano la disciplina della lite temeraria».
Pensate specialmente alla doccia fredda dataci da Taruffo e Chiarloni. Ma
poi invece Dalla Massara ha detto: «Stiamo attenti perché infatti non è
sempre così come hanno dichiarato questi relatori».
Noto poi che questo uso o non uso della formula è diverso nei vari
paesi. Certe cose sono riconosciute come abusi del diritto facilmente in
certi paesi e altre invece sono poco riconosciute come abusi. Quello che
Taruffo, molto mio amico, ha detto essere una pazzia è fatto normalmente
negli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti, per esempio, nei casi di discriminazione – al contra-
rio di quanto si usa nella legge americana, – il costo degli avvocati viene
rimborsato ai vincitori. La legge che proibisce le discriminazioni dice così
in termini assoluti. Quindi se promuovo una causa per un caso di discri-
minazione e vinco io e miei avvocati veniamo rimborsati dal perdente. Ma
se come succede spesso un caso di discriminazione viene sollevato da una
poveretta e questa perde perché non si è riscontrata la discriminazione il
difensore non ha diritto ad avere i costi degli avvocati rimborsati. Questo
deriva da una interpretazione asimmetrica data alla legge antidiscrimina-
zione dalla Corte Suprema. Ma la Corte ha riconosciuto una eccezione. Se
la causa era frivola c’era un abuso. La Corte nella sua discrezione può fare
proprio quello che Taruffo ci ha detto essere assurdo, ovvero rimborsare
tali costi. Ma certe volte lo fanno. Io come giudice di Corte d’Appello ten-
do ad essere molto severo nel controllare quando il giudice di prima istanza
si arrabbia con quello che ha promosso la causa e ordina il rimborso. Però
è una cosa lasciata alla sua discrezionalità e questo abuso da parte di chi
ha agito può dar luogo a sanzioni fortissime e noi lo chiamiamo proprio
abuso del diritto.
Poi ci sono tanti altri abusi del diritto processuale che noi riconosciamo.
Per esempio, se uno è un grande avvocato ed ha una ditta con centinaia di
collaboratori e cerca da distruggere l’altra parte, mandando una quantità di
avvocati con una quantità di domande la Corte può dire: «ma no questo
non lo puoi fare perché è un abuso del processo».
Questo punto di vista si vede in situazioni ben diverse. Per esempio:
a un datore di lavoro che minaccia immigrati illegali di denunciarli come
illegali per far loro accettare salari minimi ( non salari proibiti ma minimi)
472 Guido Calabresi

non è permesso il ricorso alla polizia, perché tale denuncia è invalida. E in


contrasto di quello che ci ha detto uno dei relatori a proposito del diritto
del cittadino contro la Pubblica Amministrazione invece il ricorso a un
simile abuso da parte della polizia stessa per arrivare a un risultato da lei
voluto è da noi spesso permesso. Fermare uno perché ha fatto qualsiasi
piccolo sbaglio guidando l’automobile o perché non ha una luce in pie-
na funzione, quando lo scopo vero invece è di vedere se ci sono droghe
nell’auto è spesso permesso secondo sentenze della Corte Suprema. Fare
ciò non viola la Costituzione federale. Però la Corte più alta dello Stato
di New York, in certi casi analoghi ha detto: «È stato usato in un modo
abusivo..... e viola la Costituzione del New York e quindi in quanto si
parla di diritti statali, anziché federali, non può essere fatto».
Notiamo qui la questione ideologica. Nel primo caso era una contro-
versia di un privato contro un privato. Nella seconda casistica ((federale)
e nella terza (statale) l’abuso del diritto, come ci ha detto il relatore, viene
invece dibattuto – usato o non usato – quando in ballo c’è il proteggere un
soggetto, cittadino, dallo Stato. Ossia si usa la formula o no in situazioni
ideologicamente ben diverse.
C’è poi l’uso completamente diverso della formula nelle controversie
fiscali. Ma anche lì, non è strano che i fiscalisti vogliono usare la formula
‘abuso del diritto’, perché porta con sé tante conseguenze che a loro ser-
vono, ossia la possibilità di far pagare a chi si è avvantaggiato di «buchi»
sulle leggi fiscali per non pagare le tasse.
Noto che in America situazioni analoghe non sono quasi mai conside-
rate abusive.
Una cosa di cui non si è parlato molto ma a cui Francesca Benatti ha
accennato alla fine della sua relazione, è una delle cose che noi invece
chiamiamo abuso del diritto molto spesso, ed è quello di promuovere una
causa frivola per fare una specie di ricatto al difensore. In America è par-
ticolarmente importante perché se uno riesce ad arrivare davanti ad una
giuria, una certa possibilità di vincere c’è sempre. E se la causa è per 20
milioni di dollari e uno riesce ad arrivare davanti a una giuria, anche se c’è
una possibilità su duecento di vincere, il difensore è incentivato a pagare
almeno 100.000 dollari per evitare che il processo continui. E quindi si
parla di questo in America come abuso del diritto. ..
Va bene, questi sono tutti modi diversi di parlare di questo, perché fa-
cendo così, si usa il concetto di abuso del diritto che porta con se elementi
di morale e elementi di storia che sono molto importanti.
Il secondo filo, come ho detto, è un filo ideologico perché la formula
permetterebbe allo Stato di intervenire nei rapporti che molti vorrebbero
fossero «privatisches». Benedetti ci ha parlato molto bene di questo tra
Riepilogo 473

l’altro in un fine intervento giuridico, ma come dico, lì ci possono essere


reazioni diverse da parte dei giuristi.
Passo in fretta al terzo filo che è quello che in un certo senso è forse il
più importante, chi decide? Quando è un giudice, quando è un legislatore?
E anche qui bisogna ricordare che molti hanno punti di vista diversi, a
seconda del settore e che vari Paesi hanno punti di vista molto diversi. Per
noi in America, l’idea che il diritto viene fatto spesso da un giudice non
ci fa paura, né sorpresa perché siamo nella tradizione di Common Law,
tradizione in cui i giudici partecipano regolarmente nel creare il diritto.
La tradizione italiana è ben diversa e, qui si fa uso di una formula ge-
nerale come «abuso del diritto» come mezzo in certe circostanze di dare
ai giudici il potere di «fare» il diritto. Si ricorre a questo quando il diritto
non sembra giusto, non è quello che avrebbe voluto il legislatore. Taruf-
fo e Chiarloni hanno detto: «Guarda, qui sono stati i legislatori che non
hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare» e si può dire che spetta a
loro curare il male. E se i legislatori facessero quello che dovrebbero fare
avrebbero risolto tutto loro e basta. Invece c’è chi, come Lupoi, che ci dice:
«Ma no, i legislatori non possono mai fare quello», c’è sempre spazio per
interventi giudiziari: quando il diritto cambia, quando i valori cambiano.
In proposito io direi solo una cosa che questa mancanza di legislazione va
datata al 1922 in Italia perché allora il legislatore fascista voleva apportare
dei cambiamenti ai codici liberali e tanti studiosi italiani sono diventati in
allora formalisti proprio per proteggere il diritto liberale e i valori liberali
dei tempi di prima del fascismo. Nel 50 invece le cose sono cambiate grazie
a Calamandrei e insieme a lui tanti che erano stati formalisti hanno detto
che non c’era più bisogno di esserlo. Si poteva sperare che il diritto, legi-
slativo e giudiziario rispondesse alle necessità e ai valori attuali e non solo
a quelli dei codici ottocenteschi.
Ma, spetta al legislatore o anche al giudice di aggiornare il diritto?
Quando il diritto deve essere fatto dai giudici, quando dev’essere fatto dai
legislatori, e quando in altro modo, è ovviamente una questione complica-
tissima, sia in sè ma anche perché la risposta giusta è ben diversa in certe
circostanze rispetto ad altre. In Inghilterra si risale al duecento quando si
trovano già discussioni interessanti su questa questione. Aggiungo solo una
cosa a proposito di come la vedo io da giudice. Ci sono giudici che dicono:
no no no, noi di diritto non ne dobbiamo fare: noi risolviamo la causa, ov-
vero la disputa tra A e B e poi andiamo a casa. Boudine, un giudice molto
bravo prende questa posizione. Invece ci sono degli altri giudici federali,
anche loro bravissimi, come Posner a Chicago (di destra) e Reinhart a San
Francisco (di sinistra), che dicono: «Noi dobbiamo creare e aggiornare il
diritto». E questi sono molto aggressivi in tante circostanze.
474 Guido Calabresi

La mia posizione è una posizione di mezzo. Ossia io sostengo che i


giudici fanno parte, sono una delle fonti che partecipano nella creazione
del diritto. Il nostro compito spesso è di incominciare l’aggiornamento del
diritto chiacchierando. E questo vuol dire fare proprio quello che oggi De
Giorgi ci ha detto così bene, che spesso la legislatura poi segue quando i
giudici hanno fatto un primo passo senza andare troppo avanti. Ma proprio
i legislatori molte volte vanno avanti solo un po’, dicendo che ci sono
dei problemi e che vale la pena dialogare con altri personaggi, studiosi e
amministratori del diritto. Così il diritto viene fatto in un modo molto più
complesso di quello che spesso si pensa e i giudici fanno la loro parte in
questa complessa creazione del diritto.
Il concetto di «abuso del diritto» può fare parte di questa complessa
creazione del diritto stando attenti però che ci sono dei pericoli perché ai
giudici piace il potere, e quindi se è troppo facile dire ai giudici fate voi, essi
operano anche in situazioni dove non si vuole che creino loro. il diritto e
qui si vedono tutti i dettagli importantissimi, i modi di cercare di limitare
l’uso di questo concetto, come ha detto Giovanna Visintini: quando è lecito
chiamare qualcosa abuso del diritto e quando non lo è. La questione che,
questo congresso ha posto in discussione è come si fa a limitare l’uso del
concetto per non dare poteri troppo grandi ai giudici. E quindi si sono
sviluppate regole per cui certe volte si può usare il concetto e altre no.
Va bene, vengo al quarto filo conduttore che riguarda le aspettative.
In quanto il diritto viene reso incerto dall’uso del concetto di «abuso del
diritto»; si creano dei veri problemi, perché le parti hanno diritto ad una
determinata certezza. L’effetto dell’incertezza poi è molto più forte in certe
zone del diritto che in altre. Ci sono cose in ogni società che non si pos-
sono fare se non si è sicuri di come il diritto le tratta. La cosa che mi ha
sorpreso molto qui è stata la discussione dei fiscalisti perché da noi si di
dice che è proprio a riguardo del diritto fiscale che la gente ha più diritto
alla certezza, a sapere quello che sarà l’effetto fiscale di quello che loro
fanno. Io anni fa insegnavo il diritto delle successioni e in quel campo le
cose sono pressoché assolutamente certe in America. Non si creano mai
incertezze, mai cambiamenti retroattivi. Un Tizio fa un testamento, poi
se ne dimentica e se la legge cambia rimane intrappolato. Lui ha fatto una
cosa perfettamente legittima e invece adesso secondo i fiscalisti comporta
effetti fiscali disastrosi. Loro dicono: «Ma, quest’azione è stata fatta per
risparmiare le tasse, quindi è invalida», è abuso del diritto. Ma come….
tutte le azioni fiscali sono fatte per risparmiare le tasse, da noi si dice che
l’evasione è proibita quando è chiaro che è evasione ma il cercare di ridurre
le tasse è una cosa sacrosanta. Ciò non vuol dire che quello stesso che cerca
di ridurre le proprie tasse non può politicamente dire: «Cambiate il diritto
Riepilogo 475

in futuro per fare che queste cose non siano più permesse». I fiscalisti ci
hanno detto: ma si possono colpire retroattivamente azioni che non hanno
significato economico. Cosa vuol dire? Ma non vuol dire niente. Quante
volte infatti lo Stato dà vantaggi fiscali a Tizio e Caio, vantaggi che non
hanno altro significato economico. Succede dappertutto. Il problema è che
i fiscalisti vedono che la reazione del legislatore è spesso troppo lenta, e
quindi quando un bravo avvocato trova un modo secondo cui si posso-
no legalmente risparmiare le tasse, i fiscalisti (e l’amministrazione fiscale)
vogliono bloccarlo prima che il legislatore riesca ad agire. E qui nasce la
questione delle sanzioni, perché forse se si potesse fare una tale sentenza
senza imporre sanzioni retroattive non sarebbe ingiusto. I fiscalisti dicono:
«Ma forse quello che si deve fare è solo far pagare gli interessi ....» Invece
anche solo gli interessi che si sono accumulati attraverso molti anni sono
in sè una sanzione grande. Un modo di trattare queste cose è di dire che
quando una azione è di incerta validità fiscale si deve chiedere al Fisco se
è valida o no. Ma allora bisogna che la risposta venga molto presto. In
America questo si fa spesso e il Fisco risponde in fretta e allora uno può
dire che colui che agisce senza chiedere, si mette in pericolo.
Il problema dell’incertezza è un problema molto più generale. Diceva
il grande giudice Cardozo che il problema è che, quando i giudici fanno
diritto, lo fanno retroattivamente e quindi distruggono le aspettative. E
dato questo è spesso impossibile usare le Corti per fare la riforma del
diritto. Ma questo crea altri problemi, perché siccome il legislatore quasi
sempre cambia il diritto solo prospettivamente tante persone non vanno
mai dal legislatore per chiedere riforme. Nel diritto della responsabilità
civile in America, per esempio, il danneggiato non va dal legislatore, sono
danneggiato, voglio il risarcimento, non mi interessa andare dal legislatore
per far cambiare la legge così che altri danneggiati possano avere il risar-
cimento in futuro. Non sono così altruista da cercare la riforma solo per
beneficiare altri. Uno va davanti alla Corte proprio perché spera di avere
il diritto al risarcimento anche se questo impone oneri inaspettati sull’altra
parte. Cardozo, forse inventando, diceva che i pretori romani dichiaravano:
«domani deciderò così» e sosteneva che i nostri giudici lo potessero fare;
andrebbe benissimo, ma quello che è stato danneggiato non affronterebbe
mai una causa per sentirsi dire: tu perdi ma domani uno come te vince-
rà! Infatti nella responsabilità civile, per ragioni complicate, si è potuto
cambiare il diritto e dare il risarcimento a quello che ha fatto causa senza
danneggiare aspettative importanti all’altra parte. Questo è avvenuto per-
ché a una compagnia di assicurazione importa pochissimo di perdere una
piccola causa singola perché la sua base di prezzi include la possibilità di
perdere «inaspettatamente» un caso o l’altro. Quindi, se si dà risarcimento
476 Guido Calabresi

retroattivo solo a chi porta tale causa e in riguardo di altri il cambiamento


è solo in prospettiva: quando la compagnia di assicurazione ha potuto cam-
biare i prezzi si crea l’incentivo per cambiare il diritto senza distruggere
ingiustamente aspettative. In molte parti del diritto però non c’è possibilità
simile. Io ho suggerito ai miei studenti – non l’ho mai pubblicato – che
forse sarebbe possibile creare una possibilità analoga interessante se quan-
do una causa si vince, una piccola percentuale fosse messa da parte nella
Corte per stabilire un fondo di riforma del diritto. Dopo di questo se uno
promuove una causa in cui decidere in un certo modo sarebbe giusto, ma
danneggerebbe aspettative, la Corte potrebbe dire: «Tu vinci, perché hai
promosso la causa e hai un risarcimento da questo fondo. Quello a cui hai
fatto causa non paga perché aveva aspettative che devono essere rispetta-
te». In futuro prospettivamente persone che si trovano nella tua posizione
vinceranno ma solo nei confronti di coloro che, dopo questa sentenza non
hanno più aspettative valide. In questo modo si potrebbe dare alla Corte il
potere di fare riforme come Cardozo auspicava. Ma questo è il pensiero
di un accademico un po’ matto!
Usare il concetto di abuso del diritto invece può portare a risultati giusti
ma troppo spesso senza rispettare aspettative.
1.Va bene, si arriva alla fine, più o meno e finisco con due punti: tutte
queste cose, sia i vantaggi, che i pericoli diversi dell’abuso del diritto varia-
no drammaticamente da settore a settore e, quindi, non è strano che queste
cose sotto un nome o sotto un altro vengono usate in modo diverso nei
vari settori del diritto. Però non variano solo da un settore ad un altro,
ma anche da un Paese ad un altro perché le ideologie sono diverse, perché
le funzioni dei giudici e quindi quello che si vuole che i giudici decidano
sono diverse da un Paese all’altro.
Quando ho detto a Michele Taruffo: ma guarda.....  noi facciamo re-
golarmente quello che tu hai detto sarebbe pazzesco qui, lui, da persona
molto intelligente, ha risposto subito: «Ma i giudici americani sono scelti,
trainati e hanno un modo di fare del tutto diverso dai giudici italiani», os-
sia, se si dà questo potere ai giudici bisogna essere ben sicuri che i giudici
vengono scelti e trainati in un modo adatto ad avere tale potere. Notiamo
la differenza tra chi è giudice della Corte Costituzionale italiana, che spesso
esercita poteri analoghi, e chi fa il magistrato di corte ordinaria in Italia.
Finisco con la questione posta da vari relatori. «Esiste o non esiste
l’abuso del diritto?». Ha detto molto bene Meruzzi: non spetta a noi giu-
dici di rispondere, noi decidiamo casi, poi spetta a voi, non con la parruc-
ca ma con la toga di accademico, di cercare di definire che cos’è questo
concetto. E qui, faccio notare solo una cosa, alla fine dell’ottocento, c’era-
no una quantità di casi di giurisprudenza in America, che non erano ben
Riepilogo 477

spiegati. Che cosa significavano era del tutto incerto. Finché Brandeis che
poi è diventato giudice della Corte Suprema, e Warren (mi dispiace dirlo
professore a Harvard ) hanno scritto un grandissimo articolo dopo aver
studiato tutta questa giurisprudenza. In questo articolo non hanno detto:
« ci dovrebbe essere un essere un diritto di privacy» hanno invece detto
«c’è un diritto di privacy» – data la giurisprudenza – « è definito così»
Ed è proprio questo il dovere, il mestiere dell’accademico e il valore
della dottrina.
Fino ad ora, un grande articolo, tipo Brandeis e Warren, sull’abuso del
diritto non c’è stato. D’altra parte si può dire che questo bel congresso ha
fatto qualche passo in quella direzione e mi auguro che ci si arrivi presto.
478 Guido Calabresi
Gli autori

Guido Alpa  professore ordinario di diritto civile Università La Sa­


pienza Roma, già Presidente del Consiglio Nazionale Forense
Francesca Benatti  professore ordinario di diritto comparato Univer­
sità di Padova
Alberto Maria Benedetti  professore associato di diritto privato
Università di Genova, abilitato alla prima fascia di docenza
Jean Sébastien Borghetti  professeur droit privé Université Pan­
théon Assas – Paris II
Guido Calabresi  professore di diritto civile Università di Yale Stati
Uniti e giudice della U.S. Court of Appeals for the Second Circuit
Sergio Chiarloni  professore emerito di diritto processuale civile
Università di Torino
Giuseppe Corasaniti  professore ordinario di diritto tributario Uni­
versità di Brescia
Caterina Corrado Oliva  dottore di ricerca in Diritto Tributario e
avvocato del Foro di Genova
Andrea D’angelo  professore ordinario di diritto civile Università di
Genova
Tommaso Dalla Massara  professore ordinario di diritto romano e
docente di Fondamenti del diritto privato europeo Università di Verona
Maria Vita De Giorgi  professore ordinario di diritto civile Univer­
sità di Ferrara
Angelo De Zotti  magistrato Presidente del TAR di Milano
Francesco galgano  professore emerito di diritto civile Università di
bologna; Fondatore della rivista Contratto e impresa – scomparso nel 2012
Franco Gallo  professore ordinario di diritto tribuatario Università
La Sapienza Roma già giudice costituzionale
Aurelio Gentili  professore ordinario di diritto civile Università
Roma Tre
480 Gli autori

Mauro Grondona  professore associato di diritto privato Università


Genova
Sonja Haberl  ricercatore in diritto comparato Università di Ferrara
Maurizio Lupoi  profesore emerito di diritto comparato Università
di Genova
Giovanni Meruzzi  professore ordinario di diritto commerciale Uni­
versità di Verona
Mario Mistretta  Notaio a Brescia e Presidente della Cassa Nazio­
nale del Notariato a Roma
Pietro Rescigno  professore emerito di diritto civile Università La
Sapienza Roma – Accademico dei Lincei
Alessandro Somma  professore ordinario di diritto comparato Uni­
versità di ferrara
Michele Taruffo  professore emerito di diritto processuale Università
di Milano Cátedra de Cultura Jurídica, Girona
Victor Uckmar  professore emerito di diritto tributario Università
Genova
Vito Velluzzi  professore Associato confermato di Filosofia del diritto
presso il Dipartimento di Scienze giuridiche «Cesare Beccaria» dell’Uni­
versità di Milano
Piera Maria Vipiana  professore ordinario di diritto amministrativo
Università del Piemonte Orientale
Giovanna Visintini  professore emerito di diritto civile Università
Genova

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