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popolare in
Lombardia
Mondo
popolare in
Lombardia
Bergamo e
il suo territorio
a cura di Roberto Leydi
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Nel tempo che gli rimane libero dagli impegni scolastici completa la
raccolta di materiale linguistico e folcloristico bergamasco iniziato da
tempo, come dichiara in una nota Al lettore del volume Parre ed il
gergo de' suoi pastori, che pubblica proprio in quegli anni:
Nato e cresciuto fra i monti di questa nostra Provincia, sino dall'adolescenza
meravigliai della varietà e ricchezza de' dialetti che vi si parlano, e dell'im-
pronta di loro antichità e originalità. Compresi per tempo come l'idioma ber-
gamasco sia stato meritatamente sopra molti altri; quindi si accese in me
amorosa curiosità di raccogliere i materiali linguistici più peregrini, ed insie-
me le correlative tradizioni ed i proverbi, che in grande copia trovansi sparsi
nelle nostre valli. In capo ad alcuni anni mi trovai possessore di tanto mate-
riale da poter formare un volume in 8° di forse 1200 pagine.
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ha, nel giugno dell'anno successivo una figlia, Maria Luigia ( 7 ), e nel
maggio del 1873 un figlio, Alessandro ( 8 ).
La sua attività a favore della comunità con « prestazioni nelle scuole
serali e domenicali aperte dalla Società Industriale Bergamasca, letture
pubbliche popolari date per incarico della Società Industriale e dalla
Biblioteca Popolare » (9), l'esser Consigliere Comunale (10), gli meri-
tano la carica di direttore della società di Mutuo Soccorso di Ber-
gamo ( 11 ).
piacere dalla mia famiglia; e mentre il suo ritratto passava dalle mani di mio padre
a quelle della mia buona matrigna, de' miei fratellini, era una vera festa. Non le
ripeto le lusinghiere osservazioni che gli si facevano attorno, perché non voglio pa-
rere adulatore nemmeno per un istante: Lei può esser certa della mia più grande
stima e della mia più sincera affezione, e tanto basti. Si ha vivo desiderio di impa-
rarla a conoscere personalmente, ed io sarò lieto se dalla sua gentilezza mi sarà
concesso di poter presto appagare mio padre. Di ciò parleremo appena avrò il van-
taggio di rivederla; intanto accetti i miei più cordiali saluti, quelli de' miei e li
faccia aggradire anche all'intiera sua famiglia » (AT).
( 7 ) « Maria Luigia Tiraboschi figlia di Antonio e di Clementina Vergani nacque il
7 giugno 1872, alle 2 ore pomeridiane. — Sii felice. » (AT). Comunica la notizia
anche suo padre (AT, 8.6.72): «Jeri, verso le due pomeridiane, diventai padre di
una bambina: il parto fu felicissimo, onde mia moglie sta bene, e tutto fa credere
una pronta guarigione. Noi vi aspettiamo ansiosamente per avervi a padrino: il bat-
tesimo si farà quando voi arriverete qui. Intanto ricevete i nostri cordiali saluti, e
partecipateli anche alla Barbara ed ai piccini ».
( 8 ) Ancora dai documenti AT: « Antonio Luigi Alessandro Tiraboschi figlio, nac-
que il 15 Maggio 1873, alle 4 antimeridiane, proprio allo spuntar dell'alba. A lieto
augurio di questo mio figlio ricordo il proverbio tedesco che dice: Morgenstunde
hat Gold im Munde, L'ora mattutina ha oro in bocca. — Poverino! nel pomeriggio
del giorno 3 di ottobre 1874 ebbe una tale scottatura di olio bollente che gli investì
tutta la parte sinistra del volto: Iddio gli salvi almeno l'occhio! — Oggi, 12 otto-
bre, l'abbiamo levato di balia; così avrà quella cura che solo i genitori amorosi
possono prestare ».
( 9 ) Da uno Stato di servizio nelle carte della raccolta Ravelli conservate presso la
Biblioteca Civica di Bergamo.
( 10 ) Ne dà notizia il Mantovani nella sua Biografia sinottica cit. e due lettere di
dimissione inviate al Sindaco di Bergamo nel 1873. Riporto la seconda (AT 6 mag-
gio 1873): « La lettera gentile, colla quale mi si invita a ritirare la mia rinuncia
alla carica di Consigliere, è una tentazione potente; ma per resistervi mi sorreggo
sempre la coscienza, che rinunciando ad un incarico, pel quale ho esperimentato di
non avere il tempo né le cognizioni, corrispondo nel miglior modo che per me si
possa, ai benevoli sentimenti dimostrati a mio riguardo. Voglia, Ill.mo Sig.r Sindaco,
credere che non senza dispiacere rinunciai alla carica di Consigliere, poiché per essa
avea l'opportunità di trovarmi in un consesso di rispettabili cittadini: voglia ancora
comunicare al Consiglio la mia più viva gratitudine per la benignità colla quale ha
accettato il mio povero dono ».
(11) « Risoluto a non accettare la direzione di codesta Società, non seppi poi resistere
alle cordiali insistenze di alcuni rispettabil.mi Cittadini, consiglieri di codesto
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La pubblicazione in volume del Vocabolario dei dialetti bergama-
schi (1873), gli procurano l'attenzione di vari studiosi, del Biondelli,
dell'Ascoli, del Lussana (12) e del Corazzini. Quest'ultimo sta fondan-
do a Firenze una Società dialettologica italiana e vuole il Tiraboschi
quale socio promotore:
Eccole la mia quota di Lire cinque, mi dispiace assai che debba servire pei
funerali della nostra società. Io sarei stato lietissimo di potervi prestare la
mia opera; non potendolo continuerò solingo a spigolare nel vasto campo del
dialetto, delle tradizioni, degli usi, ecc. di questa mia cara provincia, confor-
tandomi colla speranza d'un migliore avvenire per le generose imprese ».
medesimo sodalizio. A loro però dichiarava, come nuovamente dichiaro, che la mia
accettazione muove dal grandissimo assegnamento ch'io faccio sulla saggezza del Con-
siglio di Codesta Società: senza un tale appoggio io non potrei essere di alcun gio-
vamento: poiché sento, non è modestia, che io non posso portare alla nostra Associa-
zione altro che un po' di buon volere. Questo varrà a qualche cosa quando sia assi-
stito dalla saviezza del Consiglio, e dalla concordia dei Soci. Saviezza e concordia
faranno prosperare la nostra Società, quantunque abbia un direttore quale io sono »
(AT, 15.5.1872).
(12) Il Lussana da Padova gli scrive (28.5.1874): « ... che tutti gli idiomi accettas-
sero un medesimo simbolo alfabetico per gli identici suoni parlati, cioè un alfabeto
universale, cosiddetto fonico, che ci darebbe addirittura la pronuncia dei vocaboli
stranieri, quand'anche noi non li avessimo mai uditi. A questa grande riforma che
faciliterebbe tanto l'uso del massimo mezzo di perfezionamento e progresso dell'uma-
nità (lingua scritta), ... deve cooperare la fratellanza internazionale, dimandandone
l'indirizzo alla fisiologia della loquela ed alla filologia etnografica. Forse Ella avrà
già rimarcato come il nostro dialetto abbia il singolare carattere degli articoli dei
verbi, come l'ha la lingua moldavo-valacca. È abbastanza singolare questa coinciden-
za: quale significato etnografico può mai avere? »
(13) Lettera del 4.4.1873. Sostanzialmente uguale è anche quella del 12.5 pubblicata
dal Corazzini in I componimenti minori della letteratura popolare italiana nei prin-
cipali dialetti o Saggio di letteratura dialettale comparata, Benevento 1877, p. 534
(ora anche « Strumenti di lavoro / Archivi del mondo popolare » n. 17, Milano,
Edizioni del Gallo, a cura di Alberto M. Cirese): «Ho ricevuto il Program-
ma per una Società dialettologica italiana, e nel vedere il mio povero nome fra i
nomi illustri dei Promotori ne misurai l'infinita distanza; ma anziché smarrirmi
presi ardire pensando che la novella Società dialettologica ha bisogno di manovali,
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I suoi vasti interessi per la storia locale lo spingono a fondare una
Società Storica Bergamasca, ma anche questa, come l'altra avrà breve
vita ( 14 ).
Difficoltà economiche e di altro genere derivate dalle sue idee in po-
litica (15), la prospettiva di potersi dedicare con maggior tranquillità
e mezzi ai suoi studi, lo inducono nell'ottobre del 1876 a inoltrare la
domanda a ricoprire il posto di bibliotecario rimasto vacante (16), e
ne riceve la nomina l'8 gennaio 1877 (17); tuttavia continua la sua at-
tività di insegnante fino al termine dell'anno scolastico.
Il Corazzini si mette di nuovo in contatto col Tiraboschi, inviandogli
il 9.2.77 la seguente lettera di richiesta di collaborazione:
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Il Tiraboschi così risponde:
Le mando il saggio da lei chiestomi con cartolina del 9 corr.te, e La ringrazio
d'avermi posto l'occasione di presentare al pubblico una piccola parte di un
materiale, che da tempo vado penosamente raccogliendo. Il lavoro ch'Ella ha
in corso di stampa, mi sarà di grande giovamento per i raffronti e dalla Sua
cortesia mi aspetto anche consigli e indicazioni di altri lavori che possono
servirmi di guida. [16.2.1877]
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operosità mi ha giovato anche come eccitamento a non lasciarmi vivere nel-
l'indifferentismo, col quale si tratta il lavoro dello spirito; ora mi deciderò
forse a tentare la sottoscrizione per la pubblicazione di due volumi che con-
tengono nuovi miei studi e nuove mie ricerche. [18.8.1878]
Ma gli stimoli più fruttuosi gli sono venuti quasi certamente dall'am-
mirazione che il Pitrè nutriva per il suo lavoro. Si veda ad esempio
quanto gli scrive a proposito del Gergo dei pastori bergamaschi (1879):
Ho ricevuto ieri Il gergo de' pastori Bergamaschi, e ieri sera ho goduto della
lettura di esso. Io già conoscevo in buona parte questo lavoretto perché S.V.
mi aveva a suo tempo mandato il Parre18. Dico ho goduto, perché, occupan-
domi di questo genere di linguaggio presso i Siciliani ho trovato che le me-
desime leggi regolano i parlari furbeschi dappertutto.
Ella, un po' alla volta, viene illustrando la sua provincia natale, quella classe
cioè, che meno si conosce da chi non vi è nato ed anche da chi vi è nato,
e queste sue pagine sul gergo sono delle vere rivelazioni e degli appunti pre-
ziosi per un futuro vocabolario di questo linguaggio in Italia. [6.11.1879]
( 18 ) Si tratta dell'opuscolo Parre ed il gergo de' suoi pastori del 1864. Ritengo sia
questo il primo contatto fra i due studiosi, ma poco c'è ancora della confidenza e
della stima delle lettere degli anni successivi. Ringraziandolo del dono, il Pitrè gli
scrive (2.9.1864): «G. Pitrè ringrazia l'egr. e chia.mo Prof. Tiraboschi della genti-
lissima sua lettera del 29 u.s. non meno che dell'importante opuscolo, da lui già
letto e caramente conservato, sopra Parre ecc. Gli prega dal cielo salute e coraggio
per proseguire questi preziosi studi, i quali sono tra' primi onde la scienza moderna
trae profitto per meglio approffondire la storia de' popoli che furono. Il Pitrè sarà
sempre lieto quando potrà fare per l'ottimo suo Tiraboschi ciò che suole per con-
fratelli maggiori nelle discipline che si coltivano ».
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non si fa oggi, si farà domani" e chi sa che un giorno non risponda al suo
libretto come ad ogni altro suo lavoro.
Gli interessi del Tiraboschi si sono ormai decisamente indirizzati verso
il folclore e le sue più varie manifestazioni. Continua la raccolta di
materiale per tutta la provincia.
Esce nell'80 il volume del Nerucci Sessanta Novelle Montalesi:
Colle quattro lire, prezzo di una copia delle Sue Sessanta Novelle montalesi,
mi permetto di mandarle anche le mie più sincere congratulazioni. Io pure
mi occupo, come so, di siffatti studi; può dunque immaginare che boccone
ghiotto sia per me il Suo libro, che mi fornisce nuovi documenti sulla comu-
nanza di tradizioni fra queste e codeste popolazioni. Qui la forma è rozza
e aspra, costì è linda, graziosa, incantevole, ma la sostanza è la medesima.
Se questi nostri studi non avessero altro merito, avranno quello di mettere
sempre più in evidenza la stretta parentela delle popolazioni d'Italia. AT,
[15.3.1880]
La fama che si è andata man mano acquistando coi suoi studi ri-
salta bene se messa a confronto con quella di Comparetti, D'Ancona,
De Gubernatis, De Nino, Nerucci e lo stesso Pitrè. È quanto fa Ari-
stide Baragiola che nel maggio dell'80 spedisce al Tiraboschi e a pa-
recchi altri studiosi tra i quali i sopracitati, un volantino a stampa (19).
Il Tiraboschi gli invia la versione dialettale di una novella boccacce-
sca e Baragiola lo ringrazia:
La somma gentilezza da Lei dimostratami, quando mi occupava delle tra-
scrizioni dialettali, mi consiglia di mandarle una copia di una Crestomanzia
Italiana (Prosa) venuta da ultimo alla luce.
Ella vi troverà la versione della novella Boccaccesca ch'Ella si compiacque
di mandarmi [pp. 476-77].
Mi sarebbe assai caro avere altre sue opere, in ispecie per il III volume
"Dialetti" nel quale vorrei che il suo nome vi facesse buona figura, come
Ella ben merita. [27.1.1881].
Ristrettezze economiche — stampava le sue opere a proprie spese
o con sottoscrizioni — lo inducono a chiedere di poter nuovamente
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insegnare (20), ma questa sua richiesta non viene nemmeno presa in
considerazione, così come le ripetute e patetiche richieste per la pen-
sione ( 21 ).
Il Pitrè gli scrive e questo sembra scuoterlo un po' dall'abbattimento
di vedersi così ingiustamente trattato dai suoi stessi concittadini.
Nella introduzione al I volume di Proverbi avrà visto citata la sua bella rac-
coltina. Adesso mi è lecito sperare che Ella voglia darci una raccolta di pan-
zane bergamasche. Oh! non ce le darà il nostro bravo Tiraboschi?
( 20 ) Così scrive al Suardo, molto influente presso il ministro: « Da persona, che può
essere benissimo informata, vengo a sapere che il Sig. Lodovico Cobianchi, profes-
sore di francese in questo R. Istituto Tecnico, ha chiesto di essere traslocato. Se
ciò avvenisse, io aspirerei a quel posto perché credo che potrei, senza venir meno
a' miei doveri, soddisfare ai due uffici di insegnante governatico e di bibliotecario
comunale, migliorando così la meschina condizione della mia famigliuola. Quando
poi non fosse compatibile l'unione di due servizi, io darei la preferenza a quello
d'insegnante, anche per la sola ragione che ritornando all'Istruzione mi saranno
calcolati per la pensione i miei diciassette anni di servizio che il Comune di Bergamo
m'ha dichiarato di non calcolare, quantunque li abbia passati tutti in questa Regia
Scuola Tecnica, ed abbia come cittadino fatto qualche cosa più del mio dovere.
Mi perdoni questa intonazione un po' brusca, ed Ella voglia contribuire a mettere
un padre nella condizione di poter fissare con occhio tranquillo l'avvenire della
propria famigliuola» (13.7.1881).
( 21 ) Doveva essere un momento particolarmente difficile per il Tiraboschi, frustrante
moralmente, defatigante fisicamente, insostenibile economicamente. Redige alcuni pro-
memoria, in uno così si esprime: « Nella mia domanda di concorso al posto di
bibliotecario manifestava la lusinga che, nel caso di nomina, mi sarebbero calcolati
per la pensione gli anni d'insegnamento da me impartito nella Scuola Tecnica di
questa Città. — Siccome nell'atto di partecipazione della mia nomina a Bibliotecario
non era fatto alcun cenno circa il compiuto de' miei anni di servizio quale inse-
gnante, per chiarire la mia posizione presentai alla Onor.le Commissione sopra la
Civica Biblioteca una domanda, che dalla stessa fu accompagnata favorevolmente alla
Giunta Municipale. Con lettera del 3 Settembre 1879 l'Ill. Sig. Presidente della
Commissione Sorvegliatrice mi partecipava che "la Giunta Comunale avea fissato il
cominciamento del tempo utile per la pensione dal giorno della nomina, non esclu-
dendo però che il Consiglio Comunale potesse, all'evenienza, adottare una delibe-
razione più favorevole". Quantunque la risposta dell'Onorevole Giunta contenesse
una lusinga per l'avvenire, ed io fossi persuaso dei benevoli sentimenti del Consiglio
Comunale, i doveri di padre di famiglia mi eccitarono a non lasciare in dubbio i
benefici, che può avermi procurato un servizio regolare in quindici anni, oltre due
anni di supplenze. Perciò anziché aspettare un tempo in cui non mi sarebbe più
possibile riparare ad una deliberazione sfavorevole, mi decisi a pregare l'Onorevole
Giunta che volesse sottoporre la mia domanda al Consiglio Comunale, dichiarando
ch'io era pronto a versare al fondo pensioni quella somma che sarebbe per risultare
in confronto dei relativi Regolamenti. — Il civico Consiglio, nell'Adunanza 20 Set-
tembre 1880, non accolse la mia domanda; ond'io da quel giorno sono angustiato
dall'incertezza dell'avvenire della mia famigliuola ed ho perduta quella tranquillità
d'animo, che era necessaria per continuare studi patrii, a cui ho sacrificato tempo,
denaro e carriera ».
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Tra qualche giorno vedrà un programma che forse non le dispiacerà. Si tratta
di un "Archivio per lo studio delle tradizioni popolari" rivista trimestrale.
Se i miei voti saranno compiuti, avremo dall'82 in poi una rivista che terrà
al corrente del movimento demoscopico in Europa. [25.7.1881]
Una lettera che il Lussana gli scrive il 29 marzo 1883 è molto indi-
cattiva per comprendere la vita del Tiraboschi in questo ultimo anno:
... Ella intanto lasci riposare un po' il suo cervello dopo tanta fatica, perché
so quanto impegno psichico Le sarà costato. E di ciò La prego anche avendo
riguardo agli alcuni suoi disturbi nervosi...22
Più tardi (25 agosto), rispondendo al Ministro degli Interni che gli
chiedeva notizie sulla storia delle case di correzione per minori, ci
dà lui stesso una chiara immagine di sé:
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Chiedo perdono a Sua Eccellenza del ritardo a risponderla. La causa è che
arrivai a Bergamo ai cinque del corr.te dopo la cura di bagni di 34 giorni;
essendo ancora convalescente, andai a passare parecchi giorni in campagna.
Dopo lunga agonia questa mattina alle 10½ antim. ebbero fine le sue soffe-
renze togliendo alla società un uomo stimabilissimo.
( 21 ) Voglio qui ringraziare il Prof. Della Torre che mi ha gentilmente fornito questo
importantissimo documento, estremamente interessante anche sotto l'aspetto pura-
mente clinico.
( 24 ) La figlia Luigia gli era morta nel luglio del 1877, un anno dopo gli nasceva un
altro figlio; come il Tiraboschi stesso ricorda: « Luigi Antonio Tiraboschi nacque
il 19 Settembre 1878, alle 6 pom. — Otto giorni dopo moriva a Scano, dove fu
anche sepolto... » (AT). A Scano andava per il baliatico. Quanto soffrì per la morte
della bambina si può vedere dalla dedica dell'opuscolo che scrive per la commemo-
razione del Canonico Giovanni Maria Finazzi: « A Luigia Tiraboschi. A te, angio-
letto, sono dedicate queste poche pagine, scritte quando ancora ci scherzavi dattorno,
lette mentre giacevi colpita da crudo morbo, stampate fra le lagrime versate per la
tua morte. — Quale conforto possiamo noi trovare al nostro ineffabile dolore? Sor-
ridici dal Paradiso, ed angioletto, quale ci piace di immaginarti, volita sopra di noi
e sopra Sandrino, che in te ha perduta la cara sorellina, compagna de' suoi bambi-
neschi trastulli. Poverino egli piange con noi! E tu, cara BIGIA, ci sorridi dal Pa-
radiso ».
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Nota all'edizione
Il testo
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« Bergamo / Pietro Greppi — Librajo e Cartolajo ». Il testo, eccetto
la riga iniziale di ogni fiaba, è scritto rientrando.
2. Stesse caratteristiche del quaderno precedente. In prima pagina di
copertina al centro in alto la segnatura; sotto, in penna « II »; sotto
l'illustrazione « Cart. 12 ».
3. Stesse caratteristiche dei quaderni precedenti. La pagina di coper-
tina è andata perduta.
4. Quaderno scolastico a righe di 29 fogli di 23 righe per facciata, di
15 x 21 cm. La numerazione dello stesso Tiraboschi è cancellata e
sostituita da un'altra posteriore che continua dai quaderni precedenti
e va da pag. 37 a pag. 66, mentre quella originaria inizia dall'« 1 ».
Il testo è scritto prevalentemente sulla facciata di destra. In prima
pagina di copertina in alto a destra la segnatura; al centro « V »: que-
sta numerazione dei quaderni fa supporre l'esistenza di un quaderno
« IV » che però non è stato trovato. Più sotto « Carte 30 ».
5. Quaderno scolastico a righe di 20 fogli di 23 righe per facciata.
Continua la numerazione di altra mano iniziata col quaderno prece-
dente, da pag. 67 a pag. 86, cancellando la numerazione del Tiraboschi
che pure continua dal quaderno precedente. In prima pagina di coper-
tina, in alto a destra, la segnatura; al centro in penna « VI »; più
sotto « Carte 20 ».
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« Un conte est un mythe transformé
dans la conscience populaire ».
Il pestello d'oro
Cfr. colla III [e colla XV] (1) delle Sessanta Novelle popolari monta-
lesi [raccolte da Gher. Nerucci] ( 2 ).
(1) Tra parentesi quadre sono integrazioni interlineari o a piè pagina. Le note del
Tiraboschi sono sempre indicate con la menzione dell'autore fra parentesi tonda.
( 2 ) Tiraboschi aveva inviato una versione in dialetto di questa fiaba a Benvenuto
Corazzini che gliel'aveva richiesta per una sua pubblicazione: « Stimatissimo Signore,
Se non fosse indiscretezza la pregherei a favorirmi una novella o fiaba inedita nel
suo dialetto. La mia collezione è presso al termine, siamo al libro IV che contiene
novelle, tra le quali vorrei che almeno una mi rappresentasse la Lombardia ». La
troviamo infatti pubblicata nei Componimenti minori della letteratura popolare ita-
liana nei principali dialetti o Saggio di letteratura dialettale comparata, Benevento
1877, pp. 482-84:
« La storia del pestù d'or
U paisà e so fiöla, in del laurà' ü càp, i à troât ü pestù d'or. Ol pader al völìa
portàl al padrù del câp, ma la fiöla la gli disìa de nó portàghel miga, perchè dopo
'l pestil l'avrès volît a' 'l mortér; ol pader però l'â portât ol pestù al padrù, che
l'era 'l re. Ol re 'l ga sircât söbet a' 'l mortér. «La gh'à pròpe üt resù me fiöla»
l'è borlât föra a dì 'l paisà. Ol re l'à sentìt quele parole e l'à ölìt che 'l gh'i spieghès;
ol póer paisà 'l ghe l'à cöntada sö tal e qual. Ol re, a sentì xé, al s'è indispetît:
« Com'a pôdela pretènd tò fiöla de saì quel che pós pensà' mé? Giösto perchè l'è
xé braa, pórtega sta basa de lì e diga che vói che l'am' faghe dét tât pan da quarcià
'l me reàm. » — Ol paisà töt malinconiûs al porta a ca 'l lì e 'l ga dîs i parole del
re: lé la scèta e gh' respónd... Nó pensé negót, tata; sté sö alégher. « La s'è metida
a spinà' 'l lì del re, l'à metît insèma töte i resche che l'era gnìt fò e po' l'à déc a
sò pader: « Toli sti resche, portéle al nost padrù e racomandéga che 'l faghe dêt tace
telér, se 'l völ che mè del sò lì faghe tât pan da quarcià zo 'l so reàm. « Ol paisà 'l
töl sö e 'l va dal re, che sta olta l'è restât piö sorprês che indispetît. « Tó gh' diré
a tò fiöla che la egne da me gna nüda gna estita, gne a pe gne a caàl, gne por l'ös,
gne per la porta. « Ol pòer pader, töt fò de lü, al fa la riferta a sò fiöla, ma lé, come
se niente fosse, la gh'à fac sö coragio e po' l'à pensat com' a l'ìa de fà'. La s'è caada
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Un contadino e sua figlia, lavorando il campo, trovarono un pestello
d'oro. Il padre avendo detto (3) di volerlo portare al padrone del
campo, la figlia ne lo sconsigliava avvertendo che avrebbe chiesto an-
che il mortajo. Tuttavia il buon contadino portò il pestello al padro-
ne, che era re; essendo richiesto del mortajo, il villano assicurò di non
averlo trovato, ed aggiunse: « Avea ragione mia figlia » (4). Il re volle
una spiegazione di queste parole, ed avutala (5), domandò stizzoso:
« Come può tua figlia pretendere di sapere ciò ch'io posso pensare?
Perché ella pretende a tanta saggezza, portale questa matassa di lino e
dille ch'io voglio ch'essa ne faccia tanto stame da coprire il mio
reame (6). Dolente l'agricoltore riferì l'incarico alla propria figliuola,
la quale (7) disse tosto: « Non datevi pensiero, padre mio ». Si pose a
1 bis spinare il lino del re, e riunite le lische che ne erano uscite / le diede
al padre perché le portasse al re: « Datele al nostro signore » diss'ella,
« e raccomandategli che ne faccia tanti telaj, se vuole ch'io del suo lino
faccia tanto stame da coprire il suo reame ». Il contadino si recò dal
principe, il quale sta volta più meravigliato che stizzito gli replicò:
« Dirai a tua figlia che venga a me né ignuda né vestita, né a piedi né
a cavallo, né per l'uscio né per la porta ». Il povero padre [afflittissimo]
fò i sò pagn e la s'è 'ntorciada 'n d'öne rêt, la s'à bötada sö 'n döna cavra a üso
öna sòma a po' a treèrs al giardì l'è riada al palás del re. Ol re l'è restât incantât a
ed tâta finessa, a 'l l'à caren sada e 'l la ölida spusà'. De lè xé 'mpó àl ghe s'è pre-
sentât ün om ché 'l gh'ìa 'n cöstodia tant bestiàm del re, e 'l ghe s'è presentàt per
dìga che 'l re, so marìt, nó 'l ga pagaa miga la mercede. Quela braa dòna la gh'à
dac istò consei: «Va, la gh'à déc, in rìa al már dòe 'l re l'è sòlet a 'ndàga; sèguita
a bötà' di sas in d'aqua e a la domanda che 'l te farà 'l re respòndega: A s' guadagna
tât a' ch'a laura' al re. « L'è sucedida pròpe com'a la gh'ìa déc lé; ol re l'à capìt de
che banda la egnìa quela risposta, e 'l n'à üt tâta rabia che l'è 'ndàc a ca e 'l gh'à
déc: « Tö sö quel che t'è piö câr e va vià de ché, perchè nò t' voi piô sóta i mé
cop. » — Le, prima de 'ndà', l'à domandât la grazia de pödì sentâs zo a tàola a' mò
öna olta col sò om. La gh'è riada a otegnì' la grazia. Intât che 'l mangiàa e 'l biìa
la gh'à dac zo tâta sdòrmia che 'l s'è 'ndormentât, e dormêt la l'à portàt a la ca de
sò pader. Quando 'l re 'l s'è desdàt fo, l'a domandàt a che manéra 'l se troàa 'n quel
sito, e lé la gh'à respondît: « Quando té tó m'é cassât vià tó m'é dac ol permès de
tö sö quel che m'era piö câr: mé nó gh'ó negót che me sèa piô càr de la tò persuna,
dòca per pödì aît t'ò dac zo la sdòrmia. » — A sentì' xé ol re al l'à basada e 'l l'à
menada à mò 'n del sò palàs, dò i à fac pastì e pastù e a me nó i m' n'à 'nvidât
gna ü bocù ».
( 3 ) È in interlinea, corregge una cancellatura illeggibile.
( 4 ) Ho uniformalo l'uso del discorso diretto con le virgolette.
( 5 ) In interlinea, corregge un precedente « avendola ».
( 6 ) Tat pan da quarcià 'l me reàm. (Nota del Tiraboschi).
(7) Seguono due parole cancellate non leggibili.
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fece l'ambasciata alla figlia che (8) lo rincorò e provvide tosto a
trarlo d'impaccio. Spogliatasi de' suoi panni si avvolse in una rete, si
pose a modo di soma sopra una capra e (9) attraverso il giardino giunse
alla porta del re. Questi sommamente sorpreso la accarezzò e volle (10)
farla sua sposa. Non corse gran tempo che un uomo il quale avea in
custodia molto bestiame del re venne a lagnarsi a lei perché il suo spo-
so / non si curava di dargli la mercede stabilita. La saggia donna lo con-
sigliò così: « Va' presso il mare, dove il re suole venire; continua a get-
tare sassi (11) nelle acque, e alla domanda che ti sarà fatta dal principe
rispondi: « Tanto si guadagna anche lavorando al re ». La cosa seguì
appuntino, ma il re (12), non dubitando da quale parte fosse venuto un
tale (13) consiglio, volle scacciare la moglie, la quale prima della separa-
zione chiese che le fosse concesso di sedere ancora una volta alla mensa
del suo sposo. Durante il pasto la scaltra donna propinò al re molto
oppio, e dormiente lo portò all'umile casa del proprio padre. Quando
si svegliò chiese spiegazione del fatto, e dalla consorte (14) gli fu rispo-
sto: « Scacciandomi da te mi permettevi di portar meco ciò che avea di
più caro; nulla di più caro della tua persona, laonde (15) per possederti
ricorsi allo stratagemma d'oppiarti ». Il re la baciò e la ricondusse
all'abitazione reale, dove fecero pastino e pastone e non me ne offri-
rono un boccone.
Tiraboschi Maria di Gazzi
2
Ol sgranf (16)
359
si diede per Sgranf, alla serva fece credere di nomarsi Culo, ed
al padrone Come Sto. Un giorno, mentre si era a palazzo, il servitore
trasse una coreggia; si incolpò la serva, la quale per iscolparsi disse fu
il Culo. La padroncina destandosi una notte, trovò che accanto a lei
giaceva un uomo, che riconobbe essere il servitore. Si mise a gridare
che aveva lo Sgranf; la madre dalla stanza vicina a rispondere: « Allar-
gati e allungati e lo sgranf se ne andrà », ma la piccina non si ristava
dal gridare. Allora la madre si recò nella stanza della figlia, ed avendovi
trovato il servitore chiamò il marito perché venisse a scacciare il Bianco.
Il marito non sapendo raccapezzare nulla entrò nella stanza / della figlia
tutto impaurito, ed entrando gli cadde il cappello di testa, che fu rac-
colto dal servitore fuggente, ed in cui questi depose sozzure. Il padrone
nell'inseguire il ribaldo si incontrò nel proprio cappello che si rimise
in capo, e giunto dal portinajo gli chiese: « Hai veduto Come Sto? »,
« Ah signore » rispose il portinajo, « vedo che sta molto male »; donde
un battibecco indiavolato, mentre quel mariuolo andò a porsi in salvo.
3
La sciocca
(17) Le restanti dieci righe della pagina non sono state utilizzate.
( 18 ) Aggiunta sul margine superiore, sopra il titolo.
(19) Aggiunta di seguito al titolo e occupando la riga che separa il titolo dal testo.
( 20 ) In interlinea, corregge una parola cancellata illeggibile.
360
ripensato, si ricordò di un abito scarlatto di suo marito: andò a pren-
derlo e ne fece tanti brani quanti erano i gamberi da vestire di rosso.
Inutile ripetere le sfuriate del povero uomo, il quale tra le altre cose
ebbe a durar molta fatica ad intendere all'imbecille sua consorte in
qual maniera dovesse preparargli del riso imbracato ( 2l ). / Sta volta
riuscì a far cuocere il riso, ma quando fu cotto c'era l'imbroglio d'im-
bracarlo e di portarlo sull'ora (22) come le aveva raccomandato il ma-
rito. Lo avvolse in un pajo di calzoni, che andò ad appendere al cam-
panile del villaggio. « Oggi vo' mangiare pasta regalata (23) con burro,
ma netta, netta, capisci »; andava ripetendo il nostro uomo, « Bada an-
che, o stordita, che questo cane non fugga ». Il cane avea nome Tan-
t'Altro. Perché la pasta riuscisse netta netta, la donna si spogliò (24)
intieramente delle vesti; ed essendosi in quel momento accorta che il
cane se n'era fuggito ( 25 ), nuda nata corse per le vie del paese doman-
dando a quanti incontrava: « Avete mai veduto Tant'Altro? ». Tutti
le rispondevano con uno scoppio di risa; finché il povero marito di-
chiarò che l'avrebbe abbandonata se per l'avvenire non si fosse mo-
strata più saggia; e volle tosto tentare un'ultima prova. / « Il mugnajo
deve portare un sacco di farina, altri porterà un botticello di vino, oggi
non mangeremo altro che polenta e vino; siamo intesi » ( 26 ). Quando
fu portato il vino, la sciocca non poté resistere alla tentazione d'assag-
giarlo. Trasse lo zipolo, e quando volle turare, lo zipolo non si rinvenne
più. Del resto pensò al desiderio del marito, e per soddisfarvi vuotò il
sacco di farina nel vino versato, facendo un imbratto che vi (27) potete
immaginare e che decise il marito ad abbandonare la sua casa disgra-
ziata. Non si era scostato di molto quando vide in un campo una donna
che stava sdrajata coll'orecchio contro terra: « Che fai? » le chiese. Ed
avendo avuto per risposta che quivi stava per sentire crescere l'erba,
crollò il capo e (28) proseguì il suo cammino. Poco discosto trovò una
donna che pretendeva di far salire un asino su di una scala a piuoli.
Allora pensò che tanto valeva ritornare / presso la sua moglie, perché
361
delle sciocche se ne incontravano anche altrove. Di ritorno a casa rac-
contò quanto aveva veduto, e confidò di nuovo nel rinsavimento della
sua compagna. Le lasciò certa somma di denaro da consegnare a un tal
Giovannino. Appena partito l'uomo, la sciocca si pose sul limitare della
sua casa per richiedere quanti passavano se avessero nome Giovannino.
Un venditore d'immagini rispose affermando e si ebbe la bella somma
di denaro, lasciando in cambio tutta la sua merce. Quando rivenne il
marito vide tutte quelle immagini, e saputa la sua nuova disgrazia volle
andarsene, ma la moglie si ostinò a volerlo seguire, e lui stizzito: « Ti-
rati dietro almeno la porta », ciò che la moglie fece perfettamente. Era
notte quando i nostri conjugi attraversavano una selva oscura: stanchi
e paurosi si arrampicarono sur un albero per trovarsi possibilmente un
asilo sicuro. Volle / il caso che quivi capitassero alcuni malfattori per
dividersi un ricco bottino. Crebbe la paura nei conjugi, e la moglie non
ebbe più la forza di tenere la porta, onde lasciolla precipitare, ciò che
produsse un tale spavento nei malandrini, che si diedero alla fuga. Ces-
sato ogni pericolo i consorti discesero a terra, dove trovarono un tesoro,
alla qual vista il marito esclamò: « Tu fosti la mia rovina, ma sei anche
la mia fortuna ». Così fecero pastino e pastone ecc.
(29) Scil. « ol sò òm ».
( 30 ) Questa variante in dialetto occupa le restanti otto righe della pagina, invade per
quattro righe il margine inferiore e continua per due righe e mezza sul margine di
sinistra, qui fra parentesi quadre.
362
4
L'amore dei tre naranci (laràns)
363
alle scale che mettevano agli appartamenti del mago; ma una donna
condannata a scopare colla lingua sarebbe stata di insuperabile im-
pedimento se non le avesse regalato una scopa, e questa gli fu tanto
grata, che gli indicò la stanza dov'era l'Amore dei tre aranci; lo av-
vertì che non facesse il più lieve rumore perché quivi dormiva il
mago. Il principe si introdusse pian piano nella camera indicatagli, vi
trovò sopra una caminiera tre bei aranci, di cui si impadronì; quando
stava per allontanarsi il mago si destò, gridò alle donne che arrestassero
il ladro, ai polli, ai gatti, ai cani che lo dilaniassero, ma tutti ricorda-
rono il beneficio avuto, e non gli opposero alcuna resistenza. Il giovane
reale si era posto in salvo / quando si sentì preso da grandissima sete.
Non essendo goccia d'acqua in quel posto, tagliò uno dei tre aranci, dal
quale uscì bellissima fanciulla, che gli disse (35): «Dammi da bere».
Avendole risposto « Da bere non ce n'ho », la meschina spirando escla-
mò: « Dunque morrò » (36). Dopo lungo cammino il principe fu nuova-
mente tormentato da sete ardentissima, e trovandosi presso a morire, si
decise di tagliare il secondo arancio, da cui uscì pure una (37) leggiadra
giovinetta, ch'ebbe la stessa sorte della prima. Trovata (38) una fonte
volle tagliare l'ultimo arancio, dal quale uscì la più avvenente (39) delle
fanciulle, che rimase in (40) vita avendo (41) potuto dissetarla, e la fece
sua sposa. La grande felicità dei due conjugi reali ridestò i dispetti e
l'invidia della vecchia caduta nel vaso da miele. Essa era una strega;
chiese ed ottenne di porsi al loro servizio. Un giorno questa vecchia
strega sorprese la giovane regina dormiente; figgendole uno spillo nel-
l'orecchio la / tramutò in colomba, che volò via. Il principe di ritorno
dalla caccia richiese della consorte, ed essendoglisi presentata la vecchia
contraffatta disse: « Tu non sei la mia sposa ». A cui la vecchia: « Sì,
certamente; devi pensare che una donna uscita da un arancio può ben
avere virtù di tramutarsi: oggi mi son fatta brutta; domani potrò ridi-
venir più bella di prima. Lo sposo si acconciò a questa risposta. All'in-
domani, verso l'ora del pranzo, la colomba volò sulla finestra della
cucina del re e chiese: « Cógo, bel cógo, che fai da mangiare ». Cuoco:
364
« Carne a lesso ». Colomba: « Carne a lesso non voglio io; ricordati
dello sposo mio ». Il giorno seguente la colomba fu di ritorno, ed
avendo udito dal cuoco che preparava lesso e arrosto, volò via. Infor-
mato il principe dell'accorso, disse al cuoco di preparare tanta varietà
di cibi per il pranzo del dì seguente, da poter incontrare il gusto della
colomba. Essa venne a ripeter la sua domanda, ed essendole stato ri-
sposto « un po' di tutto », disse: « Allora / mi fermo anch'io ». Giunta
l'ora del pranzo, la colomba volò sulla mensa, da dove la vecchia ma-
ligna si sforzava di scacciarla. Al contrario il principe prese ad accarez-
zarla molto amorevolmente, ed accarezzandola si accorse della spilla
che portava infitta nell'orecchia. Gliela estrasse e la colomba prese (42)
di nuovo le forme della sua diletta sposa, la quale svelò tutte le arti
della strega malvagia, che fu tosto scacciata come meritava. Gli sposi
fecero pastì e pastù e no i m' n'à 'nvidàt gna ü bocù.
Cfr. Il Mago dalle sette teste, che è la 8a delle Sessanta Novelle [Mon-
talesi] (44).
Vi furono già un fratello ed una sorella, il cui patrimonio si compone-
va di tre pecore. Un giorno il fratello stava a guardarle mentre pasco-
lavano; gli si avvicina un vecchione seguito da tre grossi cani e gli ri-
volse queste parole: « Perché perdi tempo attorno a queste bestie dalle
quali ti può venir meschinissimo vantaggio? Dàlle a me in cambio di
questi cani che ti faranno ricco ». Il giovane dopo aver dimostrato che
non era il solo proprietario, si decise a cedere una pecora ricevendo in
sua vece un cane chiamato Bacaferro. La sorella si mostrò malcontenta
del cambio, ma il fratello finì per fare il volere suo, cioè volle dare al
vecchio anche le altre due pecore, riportandone due cani che avean
nome Bacaforte e Va come 'l Vento (45). Alle vive lagnanze della sorella
365
oppose la promessa di farla ricca quanto prima e uscì dal (46) / suo
paese co' fedeli compagni. Avea fatto lunghissimo viaggio ed era presso
a cader morto di fame; i cani però si allontanarono per pochi istanti e
ritornarono con abbondanza di cibi. Ristorate le forze si pose nuova-
mente in cammino ed infine giunse in una città tutta parata di nero.
Avendo chiesto la cagione di tanto lutto, gli fu risposto che quella città
era funestata da un mostro di sette teste, al quale giornalmente si dovea
sacrificare una donzella, e che in quel dì la sorte crudele avea colpito
la figlia del re, la quale stava sul luogo del sacrificio ( 47 ). Il nostro viag-
giatore vi si recò e le dichiarò ch'egli si accingeva a (48) salvarla. Appo-
stò i cani alla bocca dell'antro da cui soleva uscire il mostro, e quando
l'avvicinarsi di esso fu avvertito da spaventevole / rumore, glieli eccitò
contro; furono tanto forti che in breve ora lo tolsero intieramente di
vita. Il salvatore levò dalle teste le sette lingue, che portò per prova
alla figlia del re, la quale disse: « Se a te piacesse, in guiderdone vorrei
darti la mia mano di sposa allo scadere di un anno e tre giorni ». Ac-
colse di buon grado e intanto volle andare pel mondo. Un servitore del
re incontrò la figlia prima di ogni altro, e udito come fosse avvenuta
la liberazione, le intimò con minaccia di morte di riferire al re, lui es-
sere stato il liberatore, e si fece promettere la mano. La povera figliuola
cedette alla minaccia, ma alle sollecitazioni di matrimonio oppose che
nel momento del suo grande pericolo avea fatto un voto che dovea du-
rare un anno. L'anno si compì e la corte diede principio ai preparativi
di nozze. Nel terzo giorno dopo l'anno entrò in città il vero liberatore,
il quale, informato / della cagione dei preparativi, mandò i suoi ca-
ni fedeli al palazzo reale perché ponessero tutto sossopra. Fu grandis-
simo lo scompiglio e durò tanto che il re seppe da chi muovea; fece
chiamare il padrone dei cani che si diede a conoscere pel vero libe-
ratore smascherando il perfido servitore. Costui subì l'estremo sup-
plizio e l'altro si ebbe il guiderdone meritato. Ai conjugi si unì presto
366
la sorella del pastorello d'una volta, e così anch'essa ebbe i grandi
frutti del suo tenue patrimonio (50).
6
Il mostro dalle tre teste (51)
(Silano nella Libia) era un laco grande quanto un mare, nel quale stava nascosto un
pestifero dracone. Li cittadini doveano a esso dracone ogni dì due pecore. Venute
meno le pecore, davano un uomo od una pecora. La sorte colpì anche l'unica figlia
del re, e già era esposta perché il mostro la divorasse, quando fu scorta e liberata
da S. Giorgio». [È chiaro il riscontro fra quella leggenda e quella narrata dal nostro
popolo]. (Nota del Tiraboschi - La nota occupa le restanti otto righe della pagina,
e una riga e mezza del margine inferiore, qui fra parentesi quadre).
( 50 ) Questa favola ha pure grande rassomiglianza con una narrata da M. Francesco
Straparola da Caravaggio nella X delle sue Piacevoli Notti, la quale s'intitola [«Cesa-
rino di Berni Calabrese con un leone, un orso e un lupo si parte dalla madre e
dalle sorelle, e giunto nella Sicilia, trova la figliuola del re, che deveva esser divo-
rata da un ferocissimo dracone, et con quelli tre animali l'uccide, e liberata da
morte vien presa da lui in moglie»]. (Nota del Tiraboschi - La nota è, per due
righe scritta sul margine inferiore della pag. 10 bis e continua per quattro righe sul
margine inferiore di pag. 11, qui fra parentesi quadre).
( 51 ) Una riga bianca separata il titolo dal testo.
( 52 ) Una riga del testo invade il margine inferiore; un tratto la separa dalla nota
della fiaba precedente.
367
gregge [intatto]. Alla sera di ritorno a casa fu lodato dal re e la stessa
figlia del re gli fece tali cerimonie da mostrare che n'era presa d'amore.
Le offrì il mazzetto di fiori che avea raccolto, ma non si diede inteso
di nulla. Il giorno seguente ritornò allo stesso luogo, operò secondo i
consigli della vecchia e sta volta nella seconda testa del mostro trovò
una chiave d'argento, che gli aprì un palazzo d'argento adorno di splen-
dido giardino. Vi fece un mazzolino di fiori, e ritornò presso al re, dal
quale ebbe nuove lodi e dalla figlia del re, ch'era tutto amore per lui,
ebbe segni cordialissimi. All'indomani tagliò l'ultima testa al mago, poi-
ché tale era il mostro, e vi rinvenne / una chiave d'oro, che dovea
aprirgli uno splendido palazzo d'oro con giardino incantevole. In una
stanza del palazzo vide tre vecchioni dalla barba bianca e lunghissima,
i quali lo salutarono liberatore: « Noi eravamo condannati qui fino a
che qualcuno avesse tagliato le teste al mostro che ci teneva schiavi:
ora tu sei meritatamente il padrone di questi luoghi ». Ritornato al re
fu ricolmo di infinite lodi; la figlia regale non poté più contenere il
suo immenso amore, e chiese di sposarsi al bravo ed avvenente pasto-
rello. Questi non si manifestò molto contento del partito principesco,
tuttavia cedette all'amore della giovine regina. Non andò guari che
essa gli chiese dove avesse preso i bellissimi fiori donatile, e lo sposo
decise di condurla nei giardini in cui li avea côlti. Fu lietissimo di po-
terle far vedere che non l'amore dell'oro lo avea determinato a / spo-
sarla, poiché egli era possessore di meravigliosi tesori. Questa scoperta
recò grande piacere alla consorte e allo stesso re, e contribuì a rendere
più sicura e duratura la loro felicità (53).
7
54
La bella ( ) del mondo
( 53 ) Le restanti 15 righe sono bianche. Con questa fiaba si chiude il primo quader-
netto.
( 54 ) Nel testo « La più bella », dove più è stato cancellato.
( 55 ) Questa nota occupa la riga fra il titolo e l'inizio del testo.
368
raggiunto l'età di quattordici o quindici anni lo manderai a me con
una lettera, la quale possa farmelo riconoscere. Quando fu arrivato
il tempo stabilito la regina (5Ó) chiamò il proprio figlio, gli fece prepa-
rare un bel destriere e gli ordinò di portare una lettera ad un tal si-
gnore che si trovava nella tal città e dal quale avrebbe ottenuto la
risposta. Il giovinetto si pose in sella (57), ma dopo lungo cammino
attraverso una grandissima selva non poté più reggere dalla sete. In-
contrato un giovane [storpio] gli chiese dove potesse trovare un po'
d'acqua, e colui gli indicò una fonte in luogo basso, al quale non si /
potea (58) andare col cavallo, perciò il nostro viaggiatore dovette af-
fidarne la custodia allo storpio. Questi, appena fu (59) solo, frugò nella
valigia del giovinetto. Trovata la lettera, la lesse, ed avendo appreso
che il latore sarebbe riconosciuto quale figlio di re, salì a cavallo e
fuggì via con somma prestezza. Giunse al luogo del riconoscimento; si
presentò al re a cui consegnò la lettera. Il re non potendo dubitare
della veracità dei contrassegni fu assai spiacente di vedere come suo
figlio fosse storpio e brutto; ma ciò nullameno lo riconobbe e lo acca-
rezzò come suo figliuolo. Intanto il vero, avendo invano cercato il suo
cavallo (60), mosse in cerca del più vicino luogo abitato onde trovare
rimedio alla grande miseria in cui era caduto. Si pose a servire in
un'osteria, dove si fece molto amare pe' suoi modi e per la sua dili-
genza. Fattosi molto esperto dell'arte culinaria / entrò in qualità di
cuoco in un albergo della stessa città in cui abitava il re suo padre.
Quivi il giovane cuoco fece molto parlare di sé, e tutti i buongustai
correvano in folla a godere della squisitezza delle sue vivande. Ne
crebbe in modo la fama che il re volle gli fosse imbandito un lauto
pranzo. Dopo che ne ebbe gustate le squisite vivande, fece chiamare
il padrone dell'albergo per dirgli che era suo desiderio d'avere a ser-
vizio l'espertissimo cuoco. Il locandiere, quantunque molto largamente
ricompensato, permise (61) con grande rammarico che l'abile cuciniere
passasse ai servigi del re. Non andò guari che a corte fu riconosciuto
dallo storpio maligno, che n'ebbe grande paura. Per liberarsene pensò
di mostrarsi di continuo molto afflitto e piangente, onde il re avesse
a chiedere la cagione della sua grande afflizione. / Lo stratagemma
369
riuscì come era desiderio del (62) finto figliuolo, e quando il re gli
chiese la cagione delle sue sofferenze, gli rispose lagrimando che non
potea più guarire dalla terribile sua malinconia se non col venire in
possesso della cavallina del mago. Il re coll'amore di padre gli ricordò
che quanti ne avevano tentato l'acquisto erano stati divorati dal mago
inesorabile, e che non si avrebbe trovato chi avrebbe voluto tentare
l'impresa. Lo sciancato maligno tra i singhiozzi rispose che la grande
capacità del giovane cuoco sarebbe riuscita a vincere il mago, e così
egli sarebbe scampato dalla morte a cui dovrebbe soggiacere quando
gli mancasse quella cavallina. Il principe commise l'impresa al cucinie-
re, e questi, siccome non si può contrariare (63) un re che vuole, mosse
verso la dimora del mago. Cammin facendo incontrò una vecchietta la
quale lo confortò dicendogli che sarebbe riuscito facilmente avvolgen-
do i piedi della cavalla con / cenci, onde il mago non fosse desto
da alcun rumore. Seguì i consigli della vecchia ed involò la cavalla.
Verso la domane il mago svegliandosi chiamò il suo papagallo perché
gli dicesse l'ora: « Sono le sette » rispose l'uccello, « stanotte ti hanno
rubata la cavalla ». Il mago montò sulle furie, ma il ladro era già in
salvo. Quando allo storpio malvagio fu presentato l'animale desiderato,
finse grande contentezza, che ben presto però si tramutò in disperato
dolore, a cui, siccome protestava, potevano porre rimedio certe (64) re-
liquie del mago. Ecco di nuovo spedito all'acquisto il nostro cuoco,
che avea nome Giovannino: anche sta volta incontrò la vecchierella,
che gli consigliò di provvedersi un sacco di noci e nocciole. Durante
la notte le farebbe cadere sul letto del mago, il quale credendole gran-
dine, esporrebbe le sue reliquie e così avrebbe potuto impadronirsene
impunemente. I consigli della vecchia furono seguiti da felice successo,
che però non valse a / liberare Giovannino dalle insidie dell'infame
storpio. Dopo le reliquie volle anche la coperta del letto del mago; ad
un ordine reale non si resiste, e Giovannino deve partire. Ma egli in-
contra la buona vecchia che lo avverte di provvedersi di bambagia e
di unirsi ad un compagno: « Entrerai per tempo » gli dice essa, « nella
camera del mago e ti porrai sotto il suo letto. Colla bambagia empie-
rai tutti i campanelluzzi che pendono tutto intorno alla coperta del
mago e per tal modo ne impedirai il suono. Al compagno darai un
fantoccio che dovrà far comparire alla finestra della stanza del mago,
370
quando questi griderà "Chi tira la coperta". Alla vista del fantoccio il
mago griderà al ladro, balzerà dal letto per inseguirlo e tu potrai in-
tanto impadronirti della coperta ». Tutto procedette appuntino, e quan-
do lo storpio malvagio si vide presentata la coperta fu presso a dispe-
rarsi davvero; ma poi facendosi forte / dell'accondiscendenza reale,
chiese d'avere in sue mani lo stesso mago. Se non che in questa lotta
il genio del bene non viene meno, e la vecchia, che lo rappresenta, è
pronta a consigliare il buon Giovannino: « Ti recherai presso l'abita-
zione del mago » gli dice, « quivi farai grande rumore nel fabbricare
una cassa. Il mago vorrà sapere l'uso di questa, e tu dirai che deve
servire a seppellirvi un mariuolo che da qualche tempo ti ruba. Il mago
si unirà teco nella credenza che possa esser lo stesso mariuolo che ha
rubato pure a lui; e quando sarai presso ad inchiodare il coperchio lo
inviterai a distendersi per assicurarsi che il mariuolo vi possa capire,
essendo egli della sua medesima statura. Il mago accondiscenderà alla
tua domanda, e tu allora prontamente inchiodalo nella cassa ed egli
vi si dibatterà invano ». Pure questa volta riuscirono i consigli della
vecchia e quando la cassa fu portata allo storpio, questi ottenne dal
re / che il mago fosse abbruciato vivo, siccome quegli era (65) stato
cagione di tutte le sue afflizioni. Ma siccome la cagione continuava
ad esistere, il (66) perverso non poteva rinunciare a liberarsene. Tornò
al pianto ed ai lamenti, ripetendo senza posa che a lui era mestieri
possedere La bella del mondo, e che solo Giovannino poteva essere
atto a procurargliela. Infatti Giovannino è messo sulle tracce (67) della
donna desiderata senza averne alcuna indicazione. Dopo lunghi viaggi
e molte ricerche gli è finalmente indicato il luogo dove La bella del
mondo è gelosamente guardata da un terribile mago, e tutti lo sconsi-
gliano da un'impresa (68) ch'era [già] costata la vita a molti coraggiosi.
Egli non si lascia spaventare, poiché il dovere lo spinge, e si presenta
allo stesso geloso custode, il quale gli dice: « Tu avrai la Bella del
mondo, se ti basterà l'animo di compiere durante una sol notte quanto
io sarò per / indicarti; ma bada che ci va della vita, non riuscendo.
Giovannino si dichiarò pronto alla prova, ed il mago per più accen-
dergli l'animo, gli volle prima d'ogni altra cosa mostrare l'oggetto del-
l'arrischiata impresa. Dopo esser disceso per una scala lunga cento gradini
371
si trovò in una stanza dove risplendeva il volto della Bella quan-
tunque coperto da sette veli. « Qui rimarrai cinque minuti per con-
templarla » gli disse il mago, « ma guai a te se rimani un istante di
più ». Giovannino rimasto solo fu meravigliato della straordinaria bel-
lezza della donna, a cui era dinnanzi, e si accrebbe la sua meraviglia
quando sentì dirsi: « Nessuno dei coraggiosi che vennero qui mi piac-
que tanto, quanto tu mi piaci; in te ravviso bellezza di lineamenti re-
gali unita a grande nobiltà; onde a te comunicherò ciò che devi ope-
rare perché io possa divenir tua. Prendi questo pettine che gettato in
quel giardino si tramuterà in grande torre (69). / A mezzanotte ver-
rai a prendermi, e dopo avermi trasportata sulla torre mi getterai pezzo
a pezzo da essa, [mano mano ti dirò "Getta, Getta"], ciò che produrrà
grandissima luce. Ti sentirai (70) cascare dal sonno: resisti o saremo
perduti. Ora parti perché i cinque minuti son presso a finire ». Quan-
do fu di nuovo alla presenza del mago (71) dichiarò finalmente di es-
sere preparato a qualunque cimento. « Ebbene » disse il mago, « avrai
la Bella se per mezza notte (72) costruirai altissima torre in questo
giardino, che dovrai illuminare splendidamente ». Appena Giovannino
ebbe gettato il pettine, vede innalzarsi maestosa torre, che in breve ora
fu pressoché compiuta. A mezzanotte [vi] avea già trasportata la sua
Bella; ma non sapeva decidersi a farla in pezzi. Ma persuaso da lei che
non v'era altra via di salvezza, incominciò l'opera dolorosa, ed imman-
tinente si sparse tutto all'intorno una grande luce. Della sua Bella re-
stava solo il dito grosso d'un piede, quando il sonno / gli impedì di
udire la voce che continuava a gridare « Getta getta ». Però i pezzi
gettati si erano già ricomposti, onde la Bella sebbene difettosa di un
dito, venne a scuoterlo ed eccitarlo alla fuga per cercarsi uno scampo.
Appena cessata la luce, il mago andò al luogo della Bella, e non tro-
vandola più, né trovando perfettamente compiuta la torre, corse ad
inseguire i due fuggitivi. Era già presso a raggiungerli, ma un pane di
sapone gettato dalla Bella diventò un monte di sapone che sarebbesi
giudicato ostacolo insuperato. Tuttavia il mago lo superò, e la Bella
gettando un chiodo gli creò un monte di chiodi, che pure fu superato
dal mago. Gettò una spina che divenne un monte di spine, gettò uno
specchio che si tramutò in un lago, ma né l'uno né l'altro furono suf-
ficienti ad assicurarsi lo scampo. Allora la Bella disse: « io mi cambierò
372
in / una chiesa, di cui tu sarai il campanajo. Il mago ti chiederà
dei due fuggiaschi, e tu fa' vista di non capire la sua domanda ». So-
praggiunse il mago e tosto domandò al campanajo: « Hai tu visto due
fuggitivi? »; « È già molto che suono a messa, ma il prete non viene
ancora ». « Ti ho chiesto se di qui passarono due fuggitivi »; « Giac-
ché il prete non viene, andrò anch'io pe' fatti miei ». Il mago disperato
ritornò a casa, dove la moglie lo rimproverò di non aver capito che la
chiesa ed il campanajo erano appunto i due fuggitivi. Allora ne riprese
l'inseguimento e già sperava di raggiungerli, quando la Bella si tramutò
in giardino, e Giovanni in giardiniere. Interrogato costui se avesse ve-
duto due fuggitivi, rispose: « Sto innaffiando i fiori »; « Io vorrei sa-
pere di due fuggitivi » ripeté il mago. E l'altro: « Il cielo è però molto
rannuvolato », « Non mi capisci ». « Giacché vuol piovere, mi rispar-
mierò la fatica ». Il mago disperò / nuovamente. Ed intanto i fuggi-
tivi varcarono i confini de' suoi domini. Lietissimi di essere giunti in
salvo, proseguirono tranquilli il loro viaggio, e dovunque si spargeva la
notizia della venuta della Bella del mondo. Il re ed il finto suo figliuo-
lo con tutta la corte e con grande pompa le mossero incontro, e lo
storpio maligno volle salutarla come sua futura consorte. Si fece un
gran banchetto, durante il quale ciascuno raccontò le proprie avven-
ture; ed arrivata la volta della Bella chiese che durante il suo racconto
nessuno abbandonasse la sala del convito. Il re promise che ciò sarebbe
fatto, e la Bella narrò tutto quanto il genio perverso avea operato a
danno del genio benigno e chiuse la narrazione chiedendo la condanna
del perverso. Fu dannato ad essere rinchiuso in una gabbia di ferro,
e poi ad essere abbruciato. Giovannino sposò la Bella del mondo, pre-
mio troppo ben meritato.
8
Il Dio d'Amore (73)
373
sarebbe impiccata, se non potesse avere la fortuna di piacergli. Il Dio
le rispose mandandole un capestro. La giovine gli scrisse che si sarebbe
consumata (74) gli occhi a furia di piangere; ed in risposta ricevette un
fazzoletto bianco. Gli scrisse di nuovo per dirgli che si sarebbe trafitta,
quando si vedesse respinta anco questa terza volta; ed il Dio le mandò
uno stilo. La nostra bellezza invece di uccidersi, pensò di girare il mon-
do, finché riuscisse ad incontrare l'oggetto desiderato. Una sera bussò
alla porta di una casuccia per cercarvi alloggio; ed essendole stato ri-
sposto che quivi non era che dolore per la morte dell'ava, essa si /
offrì a vegliare durante la notte nella stanza della defunta. Fu accet-
tata la pietosa offerta, e quando la giovine si trovò sola nella funebre
stanza si accinse a levare la pelle dal volto dell'estinta per farsene una
larva, che al bisogno le servisse a nascondere la grande sua bellezza.
Il domani si rimise in cammino, e dopo lunga giornata, entrò in una
città, dove era grande afflizione per la malattia terribile che tormen-
tava il figliuolo del re. Ottenne di poterlo vedere, e dopo attenta os-
servazione poté persuadersi che l'abbruciamento (75) di fegato di cui si
doleva era opera di ammaliamento. Si fece dare un fiasco di buon vino,
buona dose di oppio, carne e pane; poscia si recò sulla cima di un
monte, dove sapea avervi stanza alcuni stregoni. Penetrata in una ca-
verna li trovò seduti attorno ad una tavola, e fattasi arma della sua
avvenenza ottenne da loro il permesso di riposare e prendervi ristoro.
[Parve che] quei venti maliardi gareggiassero in cortesie, onde la gio-
vane / prese ardire e domandò che sorte di carne fosse quella che
stavano facendo cuocere allo spiedo. Uno di quei vecchioni rispose:
« poiché alla tua divina beltà non si può nulla negare, sappi che quello
è il fegato di un giovane principe (76), il quale non potrà guarire fino
a tanto che qualcuno [non] verrà ad impadronirsi di questo fegato e
non glielo farà mangiare fetta a fetta ». Ciò detto si discorse di molte
altre cose, e gli ammaliatori furono siffattamente ammaliati dalla gio-
vane bellezza, che a gara se (77) [ne] rubavano il cibo e la bevanda.
Quando furono ben alloppiati essa fuggì via seco portando il fegato del
figliuolo del re, a cui lo fece mangiare nel modo indicato dagli stregoni.
Appena ebbe mangiato l'ultima fettuccia sorse dal letto sanissimo, e
374
per gratitudine e per simpatia volea sposare la sua benefattrice. Ma
questa, ferma nel volere il Dio d'Amore, corse nuovamente sua ven-
tura. Giunse in un luogo dove la gente era meravigliata per una zi-
tella, / che da lunga pezza giacea inferma (78) senza prendere alcun
cibo e senza profferire una parola e senza permettere che nessuno po-
nesse piede nella sua stanza. La nostra giovane ottenne che, durante
un momento in cui l'inferma era addormentata potesse andare a (79) na-
scondersi sotto il suo letto. Quivi rimase cheta fino verso la mezza
notte, tempo in cui vide entrare dalla finestra un giovane di meravi-
gliosa bellezza, circondato da luce abbagliante, e che andò a porsi ac-
canto all'inferma, la quale riprese facoltà di parlare. Dopo molte e mol-
te carezze si posero anche a mangiare di cibi che comparivano per in-
canto, e dopo il cibo nuove carezze e nuove dolci parolette, alcune
delle quali furono le seguenti: « Se i galli non cantassero, se le campa-
ne non suonassero, non mi scosterei (80) giammai dal tuo fianco ». Dopo
non so quali altre parole e carezze il Dio d'Amore, poiché era appunto
lui, cavò la lingua alla sua amante e partì. La nostra giovane diede
ordine che per (81) [la domane del] giorno susseguente si / uccides-
sero tutti i galli del vicinato, e che non si avessero a suonare le cam-
pane e che poco prima dell'albeggiare applicassero tanta roba alla par-
te esterna della finestra della stanza in cui era la creduta inferma che
non vi potesse entrare un raggio di luce. A giorno avanzato si avrebbe
dovuto scoprire ad un tratto la finestra. Essendo proceduta la cosa per
l'appunto, il Dio d'Amore per la grande sorpresa se ne fuggì senza (82)
levar la lingua alla sua amante, e però fu tutto scoperto. Il Dio n'ebbe
tanto rammarico, che fu preso da indicibile afflizione. Giunse a sua
notizia che una giovane (la nostra) si era meritata il soprannome di
Consolatrice degli afflitti. Le mandò messaggi per dirle che era presso
ad impiccarsi dalla disperazione, ed essa gli mandò il noto (83) cape-
stro. Il Dio lo riconobbe e per uscir d'ogni dubbio spedì nuovo mes-
saggio alla Consolatrice per dirle che la melanconia lo costringeva ad
un continuo pianto dirotto; ed essa gli mandò il fazzoletto bianco. Al
375
terzo messaggio consegnò lo stilo. Allora il Dio (84) / mise tutto in
opera perché la Consolatrice venisse a lui: quando l'ebbe veduta la
trovò degna del suo amore, e la fece sua sposa (8S).
9
La lanterna magica (86)
376
giorno (87) si decise a scacciarlo di casa e mentre il discolo pensava a
qual partito dovesse appigliarsi vide capitargli dinnanzi un uomo, il
quale lo invitò a volersi porre al suo servizio per un anno. Quell'uomo
era un mago. Dopo lunghissimo tratto di strada il discolo non potea
più reggere dalla fame; passa e passa dalle osterie, ma il mago ripeteva
sempre: « Mangeremo più avanti ». Giunsero ad un albergo, ch'era ai
piedi d'alta montagna. « Mangiamo qui, prima di salire il monte » dis-
se il giovane; ma il mago seccamente rispose: « Non siamo lungi da
un luogo dove si mangia bene e a buon mercato; colà caveremo il no-
stro corpo di grinze. Dopo faticosissima erta entrarono in una caverna;
il mago levò una pesante pietra che copriva l'adito a stanze sotterranee,
a cui spinse il giovane dicendogli: « Va', attraverserai alcune stalle,
molte voci ti chiameranno, [ma guardati di prestar loro orecchio. Tro-
verai in una greppia una vecchia lanterna, che porterai a me senza] (88)
la sent istà ûs, la fa ciamà quel dì lanterne e l'à fač ol barât. Ol mago l'à fač
sóbet iscomparì 'l palàs cò la principessa e l'à fač restà lé sö la nüda tera 'l sò
marît. Ol re 'l fa ciapà e 'l gh'à déč che 'l l'avrès mandât a la mort, se entro ün
an e tri dé nó 'l gh'aés restitüìt la sò fiöla.
Al s'è metît a girà, l'è riàt sö la séma d'öna montagna dò gh'era ü mago; al gh'à
domandât se l'ìa 'ést (veduto) a passà ü palàs. Ol mago 'l gh'à respondît de nò e
pò 'l gh'à déč: « Me so' 'l padrù de töc i rač (topi), adès i ciamerò per ved se ergù
de lur sa ergót (qualche cosa) ». L'à tirât fò öna gran siglada (fischio, fischiata) e
töc i rač i è vegnič, ma nissù sìa negót; alura l'à déč al viasadûr: « Tö sö ü de sti
rač, chè 'l ta 'egnirà bu; va sö 'n quel' otra montagna dò 'l ghe sta ü mé fradèl, che
l'è padrù de töc i gač, da lù tó pödire forse saì ergót ». Al töt sö e 'l va; al rìa sö
la montagna de quel óter mago, ma gna da lü gne di sò gač nó l'à pödìt saì ergót;
al gh'à però déč: « Tö sö ü de sti gač, va sö 'n quel'otra montagna dò gh'è ü mé
fradèl, che l'è padrù de töč i osei ». Xé (Così) l'à fač. Ol mago, padrù de töč i osei,
al tira fù öna gran siglada per ciamai. Du i è vegnìč tarde e per iscüsàs, i à déč
ch'i era restàč incantàč a 'ed a passà ü bel palàs. Alura 'l mago l'à déč al viasadùr:
« Tö sö ü de sti du osei che 'l te servirà de guida per troà 'l palàs che tó sìrchet ».
Riàč sö 'l sito dò gh'era 'l palàs, al gh'à déč a l'osèl che l'indés a ardà dêt di finestre
per troà la stansa 'ndó l'era só moér e 'l ga domandès cönt de la lanterna che lé
l'ìa dač vià. L'osèl l'è 'ndač e pó l'è turnât a dì che la lanterna l'era sóta 'l cössì
del mago che 'n quel momènt al dormìa. Sensa perdì tép ol rat al s'è metît a rösià e il
s'è fač ü büs per indà 'ndel palàs; ol gat l'à sgrandit impo' 'l büs e l'è 'ndàč de
dét a' (anche) lü. I è 'ndàč töč du 'n da stansa del mago; ol rat al gh'è saltàt söl
lèč e 'l gh'à cassàt ol sò cuì (codino) sö per i büs del nâs per obligàl a strenüdà.
Intât che 'l mago l'à alsât sö 'l có per strenüdà, ol gat l'à tiràt fò d' sóta la lanterna,
e via! i l'à portada al viasadùr. Lü 'l l'à sgörlida e l'à comandàt che 'l comparès
à mo' (ancora) ü bel palàs comè prima de fassada a quel del re; i s'è troàč là töč
insèma, i à fač pastì e pastù,
nò i me n'à 'nvidàt gna (nemmeno) ü bocù ».
( 87 ) Segue una parola cancellata, non leggibile.
( 88 ) Due righe del testo invadono il margine inferiore della pagina, qui sono fra
parentesi quadre.
377
/ scuoterla punto. Il discolo calò nelle stalle, e trovata la lanterna per
dispetto la scosse violentemente. Allora sentì domandarsi: « Che
vuoi? »; ed egli: « Voglio essere a casa mia »; detto, fatto; vedutosi
con indescrivibile sorpresa accanto a sua madre, l'assicurò che per l'av-
venire sarebbe stato (89) buono e che l'avrebbe ricompensata dei dolori
cagionatile. Scosse la sua lanterna e la sua casuccia fu ricolma d'ogni
ben di Dio. Avvenne che in una città si dovea combattere in un tor-
neo per tre giorni continui, ed al vincitore dovea toccare in moglie la
figliuola del re. Tosto una scossa alla lanterna, perché lo trasformi (90)
in perfetto cavaliere e d'un valore invincibile. Vinse tutti i competitori
più valenti, ma il re si rifiutava a dare la propria figliuola ad uno
sconosciuto, che non poteva dare mallevadore del come avrebbe soste-
nuto il grado di una principessa. Ricorse alla sua magica lanterna ed
ebbe un palazzo magnifico di facciata a quello del re, grandissima (91)
copia di ornamenti, grandissimo numero di servi e di ancelle. Da qual-
che tempo traeva lauta vita e [tranquilla; però il mago non si ristava
un momento per recuperare la lanterna fatata. Dopo averla cercata
vana] / mente (92) in molti luoghi, giunse nella città dei nostri conjugi.
Quivi girando sotto le spoglie di lanternajo gridava ad ogni porta:
« Lanterne nuove da darsi in cambio di lanterne vecchie ». La princi-
pessa si ricordò d'averne veduta una molto malconcia a suo marito, e
fu lieta di poterne avere una nuova in cambio. Fu assai più lieto il
mago, il quale fece tosto scomparire il superbo palazzo con entro la
principessa e lasciando sul terreno il consorte, cui fu minacciato di
morte dal re, se non gli avesse quanto prima restituita la figlia. Si pose
in viaggio, e quando fu sulla cima d'alto monte si abbatté in un mago,
al quale (93) domandò se avesse veduto passare di là (94) un palazzo.
Il mago gli rispose negativamente, ma poi soggiunse: « Io sono il si-
gnore di tutti i topi; or ora li radunerò per sapere qualche cosa ».
Con un grande fischio li fece venire, ma non poté avere alcuna noti-
zia, onde disse al viaggiatore: « Prendi teco uno di questi topi, il quale
ti sarà di non lieve ajuto; intanto va' nella vicina montagna, dove
abita un mio fratello, padrone di tutti i gatti; da lui forse saprai qual-
che cosa ». Vi si recò ed avendo fatto la stessa domanda che al primo,
378
n'ebbe la stessa [risposta negativa, soggiungendo però: « Io sono il
signore di tutti i gatti, ecc. ». Nemmeno questi animali seppero dir
nulla,] (95) / ed uno di loro fu dato dal mago al viaggiatore, accompa-
gnandolo colle (96) parole: « Prendi teco ecc., va' nella vicina monta-
gna, dove è mio fratello padrone di tutti gli uccelli ». Per dirla in breve
al fischio del signore degli uccelli ne mancarono due; sorvenuti più
tardi si scusarono dicendo che erano rimasti meravigliati alla vista di
uno splendido palazzo. Allora il mago disse al viaggiatore: « Prendi
teco ecc. ». Guidato dall'uccello e seguito dal topo e dal gatto arrivò
nel luogo dove era il suo palazzo; ordinò all'uccello che volasse a guar-
dare attraverso le finestre per trovare la stanza in cui stava rinchiusa
la sua moglie e trovata le domandasse conto della lanterna da lei ce-
duta. L'uccello messaggero ritornò presto a riferire che la lanterna era
sotto il guanciale del mago, che in quel punto era coricato. Il topo ro-
sicchiando si aperse un bugigattolo per entrare nel palazzo; il gatto
facendolo un po' più ampio, vi entrò pure; ed ecco i due animaletti
nella stanza del mago addormentato. L'uno e l'altro saltano sul letto;
il gatto passa la coda sotto il naso del mago, che costringe ad alzare
il capo per / starnutare; intanto il topo trae di sotto al guanciale la
lanterna, che in grande fretta portano al viaggiatore. Questi la scuote
e chiede che palazzo e consorte ritornino nel luogo primitivo. Ciò che
succedette felicemente onde (97) fecero un lauto pranzo, di cui non mi
esibirono un sol boccone (98).
Cfr. colla Pura di sórec.
Fu stampata [da me] in bergamasco nel vol. 1°, fasc. 4° della
di letteratura popolare.
10
Il Leonino d'oro (99)
È già tempo un uomo rimase vedovo con un figlio ed una figlia. Prese
altra moglie, la quale fu matrigna nel più cattivo senso della parola.
(95) Due righe invadono il margine inferiore della pagina; qui fra parentesi quadre.
( 96 ) Segue la parola « seguenti » cancellata.
(97) Corregge in interlinea una parola cancellata illeggibile.
(98) Una riga bianca separa il testo dalla nota; le restanti dieci righe dopo la nota
sono bianche. Con questa fiaba si chiude il secondo quadernetto.
(99) Due righe bianche separano il titolo dal testo. La numerazione delle pagine
continua dai quaderni precedenti.
379
Era così grande il suo odio contro i due figliastri e particolarmente
contro la giovinetta, che manifestò l'intenzione di ucciderla. Per buona
ventura i due fratelli si accordarono in tempo di fuggire dalla casa
paterna. Soli soletti e senza conoscenza dei luoghi si smarrirono in un
foltissimo bosco. Il fratello si sentiva abbruciare dalla sete quando
giunsero ad un piccolo fonte, sopra il quale stava scritto: « Chi beve
di quest'acqua, un asino diventerà» ( 100 ). Il pensiero della sorte infeli-
cissima di quest'animale gli diede forza per sopportare ancora l'arden-
tissima sete. Giunse ad altra fonte, sopra la quale si leggeva: « Chi beve
di quest'acqua, uno scorpione diventerà ». La buona sorella lo scon/-
giurò di voler piuttosto morire che vedersi tramutato in un insetto,
che per la sua schifezza e pel suo veleno sarebbe presto schiacciato.
Il povero assetato si arrese alle istanze della sorella; ma giunto ad altra
fonte su cui era scritto: « Chi beve di quest'acqua, un leone d'oro di-
venterà », volle bere e la metamorfosi si fece (101) immantinente. Era
però un leone d'oro vivo, ed intelligente come un cristiano. Non si
staccava mai un solo istante dalla sorella, che si era ricoverata in una
capannina di pastori e deserta. Penuriava di tutto, quando un giorno
sopravvenne un cane con un pane in bocca, e glielo depose ai piedi
e fuggì via. Era il cane del figliuolo del re, e nei giorni successivi ri-
tornò sempre a compiere la stessa pietosa azione. I servi, che si erano
accorti della sottrazione del pane operata dal cane, ebbero ordine di
seguirne i passi e lo stesso principe volle essere con loro. Le tracce (102)
del cane generoso / lo condussero davanti alla giovane solitaria, da
cui apprese la dolorosa istoria. Il principe ne sentì compassione e la
invitò a volerlo seguire alla corte, dove avrebbe trovato asilo sicuro.
La giovane accettò a condizione che vi accogliesse anche il fedele leo-
nino. Non andò guari che il figliuolo del re, invaghitosi grandemente
della bellezza e delle virtù della sua ospite, volle farla sua sposa. Vive-
vano felicissimi i conjugi reali; ma la loro felicità era di sommo tor-
mento alla cattiva matrigna, che ne era fatta consapevole. Con fina
scaltrezza riuscì a farsi accettare in qualità di serva presso la famiglia
reale. Ne fu inquieto il leonino ed ancor più la sua sorella; ma questa
non si fece scorger per nulla dal suo reale consorte: anzi ostentò confi-
denza nella vecchia serva, ed un giorno se [ne] lasciò perfino accom-
pagnare ad una passeggiata in riva al mare. Quivi l'infame matrigna
(100) Riferisco le precise parole della mia narratrice. (Nota del Tiraboschi).
(101) «Si fece» corregge in interlinea «divenne» cancellato.
(102) Nel testo « traccie ».
380
colse il destro per gettarla in mare. Compiuto l'atto crudele / prese
parte al dolore che afflisse la corte per l'improvvisa scomparsa del-
la buona principessa, e mentre versava finte lagrime, pensava a disfarsi
anche del leon d'oro. Questo, conscio della gravità della matrigna, si
recò in riva al mare e gridò: « Sorella, mia sorella, si stanno prepa-
rando falce e coltello per uccidere il tuo fratello » (103). Dall'onde usci-
rono queste parole: « Non ti posso aiutare, perché sono nel ventre del-
la balena ». In quel medesimo tempo alcuni pescatori presero la balena,
dal cui ventre uscì sana e salva la principessa, la quale sta volta svelò
tutte le male arti della cattiva serva. Questa si ebbe il castigo meritato,
poiché fu arsa viva, e la nostra coppia reale trasse giorni felici e si-
curi (104).
11
La strega (105)
Vi fu già un giovane, che disse alla propria madre essere sua inten-
zione di ammogliarsi. La madre fece ogni sforzo per dissuaderlo, poi-
ché la donna che voleva prendere non era partito conveniente: « Bada »
gli ripeteva, « ch'essa è una bacchettona piena di imposture; non c'è
da fidarsi ». I consigli della madre non approdarono a nulla; il matri-
monio si fece, alla condizione che il marito non avesse mai a guardare
nella cassa della moglie. Questa si mostrava buona e attenta in casa,
devotissima in chiesa; ciò nullameno era una strega. Il marito si strug-
geva dalla voglia di conoscere la cagione per la quale gli fosse proibito
di guardare nella cassa della moglie. Una mattina, essendo corsa pre-
cipitosamente a (106) messa, si dimenticò di chiudere a / chiave la
cassa, accortosene, non poté resistere alla curiosità. Vi trovò molti abi-
ti, benissimo disposti, e nel fondo vi scorse un bellissimo mantile.
Avendolo sollevato fu sorpreso di vedere gran numero di lumicini ac-
cesi e che non abbruciavano le robe a loro sovrapposte. Rimise ogni
cosa regolarmente al suo posto, ma la moglie, appena ritornata dalla
chiesa, lo rimproverò aspramente della sua trasgressione. Tentò (107) invano
381
di reagire, e recossi dal prevosto per narrargli l'accaduto. Questi
gli disse che avea la sventura di avere per moglie una strega e che
tutti quei lumicini erano tante ostie ch'essa fingeva di prendere alla
comunione, ma che invece di tragugiare riponeva nel fondo di quella
cassa: « Per assicurarti di quanto dico » gli soggiungeva il prevosto,
« fa' una prova. Quando alla [sera del] giovedì vi raccogliete a dire
il rosario, della tua moglie è presente solo una larva; nel pronunciare
le parole Ave / Maria urta quella larva e la vedrai cadere. Durante
la notte va' a guardare attraverso la toppa dell'uscio della tua cucina,
e vi vedrai il corpo reale di tua moglie ». Il marito operò perfetta-
mente quanto gli era stato suggerito, ed infatti attraverso la toppa
scorse (108) la moglie in oscena tresca con altre donne, le quali, veden-
dosi spiate fuggirono tutte per la gola del camino. Si recò di nuovo
dal prevosto, il quale gli disse: « Vuoi tu nuova prova delle strego-
nerie di tua moglie? Poni il tuo piede destro sul mio piede destro, la
tua mano destra sulla mia spalla destra e vedrai ». Fece quanto indi-
cato dal prete e vide nuovamente la moglie in oscene tresche sulla
cima di alta montagna, donde gli gridò con atto e con voce minacciosi
ch'essa non sarebbe più mai ritornata a lui. Di questa minaccia non
sentì alcun dolore, anzi fu lieto di vedersi liberato dalla compagnia
di una strega (109).
12
La bella cenerentola (110)
382
Palesò le intenzioni del padre ad una amica (112), da cui ebbe il se-
guente consiglio: « Di' a tuo padre che lo sposerai quando ti avrà
procurato una veste del colore del sole, per tal modo lo porrai nell'im-
possibilità di soddisfarti, e tu avrai ragione / di tener fermo il tuo
rifiuto ». Non giovò il consiglio, perché il padre riuscì a procurarle la
veste desiderata. Seguendo i suggerimenti dell'amica chiese una veste
color di luna e poi una veste color del cielo. A tutto soddisfece il
padre, e la figlia per tentare un ultimo scampo chiese una bacchetta
del comando, ed una cassetta entro la quale potesse comodamente
adagiarsi. Quando ebbe tutto pronto dispose nella cassa le vesti, vi si
distese sopra e poscia percuotendola colla bacchetta ordinò che si tra-
sportasse nella città dove era il suo amante. Intanto il padre deluso (113)
si rinviene dalla dolorosa sorpresa cagionatagli dalla scomparsa della
figlia, seguiamo questa nelle sue imprese (114). Per (115) assicurarsi della
sincerità del suo innamorato si presentò contraffatta in forma di vec-
chia alla casa di lui, e domandò di esservi accettata in qualità di serva.
Vi giunse notizia / della sua scomparsa ed il suo amante ne provò un
sì grande dolore che cadde in profonda melanconia (116). La madre per
consolarlo radunava ogni sera allegre brigate di suono e di ballo; tutto
era inutile. Una sera la vecchia serva chiese di esser ammessa nella sala
da ballo, ma le fu negato perché troppo brutta e sudicia. Nel più bello
della festa entrò nella sala sotto le sue vere spoglie, e la gioia brillò
sul volto del giovane infelice, ma quando era presso a toccare la sua
bella questa gli sfuggì, e nella fuga gettò una manata di cenere negli
occhi a colui che la inseguiva. Il dì seguente era la vecchia serva attor-
no al fuoco, e mentre cuoceva l'imbratto pe' suoi polli frugacchiava
come per isvago nella cenere. La guardò il giovane afflitto e le disse:
« Scendrö, bella Scendrö, con qui du öč te m' pàret tö », ma essa finse
di non capire. Essendosi ripetuti i festini e sempre cogli stessi acci-
denti, il povero giovane pensò di danzare colla donna meravigliosa e
di lasciarle / cadere in un dito il proprio diamante per avere qualche
segnale a cui riconoscerla. Gli riuscì perfettamente il suo stratagemma,
ma poi non vide più né donna né diamante. Si ammalò gravemente ed
ognuno disperava della sua guarigione. Allora la giovane, non potendo
dubitare del sincero amore di lui, chiese di portargli una tazza di caffè
383
e gliene fu data licenza. Quando l'infermo era presso al fondo della
chicchera vide splendere il diamante e insieme vide la vecchia trasfor-
marsi nella bellissima donna che tanto avea vagheggiata e colla quale
visse poi felicissimo.
13
Andreana (118)
Un padre affidò una sua figliuola ad una maestra. Si era fatta grandi-
cella e bellina, e la maestra mandavala nel giardino ad innaffiare i fiori.
Sopra il giardino vi era una loggia del palazzo reale. Un giorno, mentre
Andreana innaffiava i fiori, il figliuolo del re le indirizzò la seguente
domanda: « Andreana, bella Andreana, Quanti fiori ci è nella tua nisu-
rana? ». Non rispose la ragazza; ma la maestra le disse: « Se il figlio
del re ti avesse a ripetere la stessa domanda, e tu chiedigli: "E tu, che
sei il figliuol del re, quante stelle nel ciel vi è?" ». Rimase meraviglia-
to il principe a siffatta interrogazione, ed essendogli capitato il destro,
prese Andreana per le vesti mentre discendeva una scala, e non ne fu
veduto. La giovanetta gridò: « Maestra, maestrina, la scala la mi tègn ».
A cui la maestra rispose: « Tira, tira che la ti lasserà vègn ». Altro dì
Andreana compiva il solito ufficio nel giardino quando il principe /
venne a ripeterle: « Maestra, maestrina, la scala la mi tègn ». Comprese
lui essere stato l'autore dello scherzo fattole sulla scala, e volle vendi-
carsene. Salì sopra una mula che adornò di bellissima cintura, e pas-
seggiando per la città andava ripetendo: « Chi bacia questa mula gli do
questa cintura ». Sopraggiunse il figliuolo del re, baciò la mula, ma la
mula scappò. Per vendicarsi alla sua volta si vestì da pescivendolo, ed
andò gridando (119): «Pesce, pesce, chi compra questo pesce!». An-
dreana andò per comprarne e quando si chinò il principe la baciò (120).
Essendosi nuovamente incontrati nel giardino del principe ripeté: « Pe-
sce, pesce, chi compra questo pesce! ». S'accorse Andreana dell'ingan-
no e pensò a farsi preparare un bello specchio sovrapposto ad un armadio,
( 117 ) Una riga separa il testo dalla nota. Le restanti cinque righe sono bianche.
( 118 ) Una riga separa il titolo dal testo.
(119) «Andò gridando» in interlinea corregge due parole non leggibili.
( 120 ) Sottolineato nel manoscritto.
384
nel quale vi si nascose dopo essersi accertata che sarebbe (121)
stato comperato dal figliuolo del re. Lo specchio fu posto nella camera
del principe, e quando fu notte avanzata Andreana [uscì dall'armadio,
batté l'acciarino, accese candele,] (122) / nel mezzo delle quali si mo-
strò biancovestita, nera in volto e minacciosa. Il principe spaventato le
chiese ripetutamente che cosa volesse, ed ella ripeté sempre: « Ti vo-
glio te »; infine il principe svenne per lo spavento, che gli fu cagione
di grave malattia. Quando convalescente si mostrò sulla loggia che dava
sul giardino, Arianna (123) si trovò pronta a sussurrargli: « Ti voglio te,
ti voglio te ». Il principe volle trarne terribile vendetta; la sposò col-
l'intenzione di ucciderla nella stessa prima notte del matrimonio. Arian-
na fu avvertita della grande disgrazia che le sovrastava, onde (124) nel
talamo pose in sua vece un fantoccio avente nel cuore una vescica
piena di latte e vino. Il principe non venne meno al suo fiero propo-
sito; quando credette addormentata la sposa si recò pian piano al letto
nuziale, vibrò il colpo e l'umore della vescica gli spruzzò le labbra;
sentendolo dolce esclamò: « O come è dolce il sangue / della mia An-
dreana! Perché l'ho io uccisa? » e molte altre esclamazioni che lo mo-
stravano pentito. Comparve allora Andreana, che confessò il suo strata-
gemma. Ne fu lietissimo il principe ed a corte fu imbandito ricchissimo
banchetto facendosi un gran pasto, di cui non mi si offrì nemmeno un
boccone (125).
14
La stanga picchia e torna (126)
385
un mago, che gli domandò che cosa chiedesse. Avendogli risposto
che chiedeva lavoro, il mago lo invitò a volersi porre al suo servizio.
Introdottolo in un'ampia stalla dove erano molti cavalli, gli diede in
mano una frusta e gli disse: « Tu non farai altro che percuotere questi
cavalli; alla fine di un anno e tre giorni io ti darò quel compenso che
sarai per chiedermi ». Il giovane intraprese il suo crudele ufficio, quan-
do udì un cavallo lamentarsi con linguaggio umano: « Chi sei tu? »
domandogli. « Sono tuo nonno, dannato qui a questo supplizio, abbi
compassione di me ». Ed infatti fu risparmiato. Quando fu alla fine
dell'anno e tre giorni, il giovane, secondo le istruzioni avute dal nonno,
chiese in pagamento l'asino che caca denari. Il mago fedele / alla pro-
messa, glielo concesse. Tutto festoso prese il cammino verso casa pa-
terna; ma siccome il viaggio era lungo, fu costretto a cercarsi alloggio
in un'osteria. Quivi commise l'imprudenza di far cacare denari al suo
asino, presente l'oste. Questi, durante la notte, poté scambiargli l'asino
prezioso con un altro che gli rassomigliava perfettamente. Così, quando
ebbe radunata molta gente del suo paese per farla assistere allo spetta-
colo di un asino che caca denari, raccolse beffe e dileggi. Ritornò al
servizio del mago, e compiuto l'anno e tre giorni, chiese per mercede
il mantile incantato, e lietissimo volle rivedere la sua famiglia. Ospitò
nella stessa osteria, e qui, chiuso in una stanza [volle] fare esperimento
del suo mantile. Appena spiegato sopra un tavolo, si ricopriva di tutti
quei cibi, di cui egli formava (127) desiderio. Pieno di vino e di squisite
vivande si addormentò; l'oste (128), che lo avea spiato, pose altro (129)
mantile nel luogo del mantile incantato. / L'incauto, arrivato al suo
paese, si espose a nuove derisioni ed a nuovi scherni. Confuso fece ri-
torno al mago; sostenne l'ingrato supplizio (130) per altro anno e tre
giorni, e dietro consiglio del nonno domandò per compenso la stanga
picchia e torna. « Per mezzo di essa » gli disse il nonno, « riacquisterai
l'asino e il mantile; poiché, quando dirai: ''Picchia e torna" nessuno
potrà resistere alle sue percosse ». Più lieto che mai si recò all'osteria
dove era stato derubato, mangiò, bevette e per iscotto ordinò alla
stanga fatata che picchiasse. Fu uno spavento, grida, minacce, preghie-
re; famiglia e casa dell'oste era tutto sossopra, né lo scompiglio e le
busse cessarono se non quando asino e mantile furono restituiti. Fece
ingresso trionfante nel suo paese natale; radunò gran gente nella sua
386
casa per dare lo spettacolo meraviglioso dell'asino che caca denari. Ac-
crebbe infinitamente la meraviglia [e la gioja] degli astanti coi pro-
digi del mantile incantato. Nel mentre si stava facendo una vera bal-
doria di vino e [di vivande, venne in ballo la terribile stanga, che lo
vendicò tremendamente delle beffe e degli scherni d'altra volta]. (131)
15
Un padre alla disperazione (132)
Un padre da buonissimo stato cadde nella più grande miseria. Era ve-
dovo e avea sette figli ed una figlia. Un giorno, mentre stava per com-
mettere atto disperato, si abbatté con uno sconosciuto, il quale si offrì
a prestargli grandissimo ajuto a condizione che gli cedesse i suoi sette
figli. Esitò dapprima il padre, poscia si decise al sacrificio ed in premio
ricevette dallo sconosciuto una borsa d'oro inesauribile. Dovunque si
sparse la voce di questo fatto, ed alla scuola tutte le ragazze tormen-
tavano la povera Maria (tale era il nome della sorella dei sette figliuoli
venduti) col ripeterle continuamente ch'essa avea sette fratelli a casa
del diavolo. Stanca di sì crudele persecuzione ricorse alla maestra per
aver spiegazioni e protezione. Quando alla povera Maria fu (133) con-
fermata la sorte de' suoi fratelli, ne sentì acerbissimo dolore. / S'in-
ginocchiò davanti ad una Madonna e pregò con tanto ardore che sentì
rispondersi: « Per liberare i tuoi fratelli devi mantenerti nel più stretto
silenzio per sette anni, e per la metà di sette anni, per sette mesi
e per la metà di sette mesi, per sette ore e per la metà di sette ore,
per sette quarti d'ora e per la metà di sette quarti d'ora. Maria accettò
di buon grado il sacrificio e per mantenervisi fedele decise di ritirarsi in
un deserto. Quivi era da qualche tempo allorché fu veduta da un prin-
cipe; questi fu sorpreso della bellezza di Maria e le rivolse la parola;
ma per risposta non ebbe che segni. Ritornò a lei molte volte e ne prese
tale vaghezza che risolvette di sposarla quantunque muta. Nessuna op-
posizione de' suoi valse a fargli mutare consiglio. Uno de' più fieri
nemici di Maria fu la suocera. Durante l'assenza del marito Maria ebbe
un figliuolino; la suocera glielo uccise e poi accusò la nuora del / misfatto.
(131) Il testo invade per tre righe il margine inferiore della pagina; qui tra paren-
tesi quadre.
(132) Una riga bianca separa il titolo dal testo.
( 133 ) In interlinea, corregge «seppe che», cancellato.
Durante una seconda assenza del marito Maria ebbe altro figliuo-
lino, che subì la stessa sorte del primo. L'amore del principe fu presso
a cambiarsi nell'odio più spietato; ma si limitò a minacciare la consorte,
che alla terza (134) volta sarebbe fatta abbruciare viva. Non passò un an-
no che a Maria nacque una bambina, che fu pure vittima della efferatez-
za della suocera. Gli sforzi che Maria fece per dimostrare la sua innocen-
za non valsero a nulla; dovea inesorabilmente subire l'estremo supplizio
del fuoco. Quando fu presso al rogo chiese di poter pregare; le fu con-
cesso, e siccome (135) mancavano pochi istanti a spirare il tempo del
suo silenzio, non avea ancora finito di pregare che si videro sette cava-
lieri venire innanzi seguiti da due vezzosi bambini e da una leggiadra
bambina. Questi sette cavalieri erano i sette fratelli di Maria, che da
lontano le gridavano: «Evviva Maria! Il tuo costante sacrificio ci ha
liberati! Noi veniamo a te seguiti dai tuoi figliuolini! Evviva Maria! »
/ Fu generale e grande la sorpresa, e fu così grande quando si udirono
i tre bambini (136) narrare la vera storia della loro uccisione. La suocera
crudele dovette salire il rogo, che avea preparato alla nuora, e questa
in premio della sua virtù visse lietamente in mezzo ad una famiglia,
dalla quale era giustamente adornata (137).
Cfr. col Giovannino insenza paura, la 44a delle Sessanta Novelle mon-
talesi(3).
L'èra ü che faa 'l scarpolì. Stöf id laurà, l'è 'ndac in d'öna çità e gliò
l'à domandàt cossa gh'éra de nöf. I gh'a déč che 'l gh'éra ü palàz sö 'n
d'öna colina, ch'i ghe ölìa sta nigü perchè i ghe sentìa la noč, e quel
che sarès istač bu de passaga tri noč in fila al sarès deentàt patrù dol
palàz. Gioanì senza pura l'è 'ndàč sö; al tróa 'l portù spalancàt e lö
va d dét. Al va sö per i scai, al gira per i stanze e nó 'l tróa nigü 'n
nigü löc; menemà 'l rìa 'n d'öna gran sala, do' gh'éra ü pignetù. Al la
taca sö per fa bói la càren; l'éra dré a sčömà quando 'l sét: « Arda ch'a
böte » e lò 'l ga respónd: « Böté, böté, ma ardé la me pignàta ». Nó
l'à gna déč ixé ch'i gh'a bötàt gió öna gamba. Dré 'l sét amó: « Arda
ch'a böte » e lö 'l ga dis: « Böté, böté » ecc. I gh'a bötàt gió ön'otra
gamba. La terza ölta 'l sét amò: « Arda ch'a böte » ecc. E i gh'a bötàt
gió töt ol rest d'ü cadàer. Dré sto corp al s'è ünìt e po' l'è 'ndàč a
tàola. Gliò i s'è metìč dré töč du a scarpà sö la càren e a majà; ma
l'óm ch'éra stač bötàt gió dol camì nó 'l bajaa mai. Quando i à üt šenàt,
Gioanì l'è 'ndač id sura e 'l mòrt al gh'è 'ndač vià dré. Gioanì l'è
'ndač in lèč e quel óter al s'è metìt a spassegià per la camàra; l'ispicotàa,
(1) Scritto sulla metà destra delle righe 13-16. Il resto della pagina non è utilizzato.
La pag. [2] come la maggior parte delle pagine pari di questo quaderno, è bianca.
( 2 ) Contrariamente alle fiabe dei quaderni precedenti, queste non sono numerate nel
testo. Una numerazione a matita delle pagine continua quella dei quaderni precedenti
cancellando una sottostante di Tiraboschi, che qui si segue, ove non scritta la si è
integrata fra parentesi quadre.
( 3 ) La nota è scritta nella riga che separa il titolo dal testo.
tàa, al ga tiraa gió i pagn dal leč, ma Gioanì semper senza pura. La
domà l'è leàt sö e l'è stač ilò töt ol dé 'n dol palàz. Da la séra 'l taca
sö 'l pignetù e 'l sét amò: « Arda ch'a böte » ecc. E 'l vé gió ü cadàer
intréc. Dré 'l sent amó: « Arda ch'a böte » ecc., al n'è gnìt gió ün óter.
Dopo ì šenàt töč tri 'nsèma, Gioanì 'l va 'n lèč. Quando l'è stač in
lèč, d'ü (4) momént / i l'à tiràt fò e i l'à strozzàt gió per la scala, i gh'
n'à dač assé e i l'à lagàt töt fracàt. Ol dé dré l'è leàt sö tarde e l'è stač
ilò per ol palàz. La terza séra 'l taca sö 'l pignetù per fa da šèna e 'l
sét amó: « Arda ch'a böte » ecc. E i à bötàt gió tri cadàer ü dré l'óter.
I à šenàt töč quater e pò Gioanì senza pura 'l va 'n lèč come se niente
fosse. I tri mòrč i l'à tiràt fò, i gh' n'à petàt assé [e pò] i l'à cašàt in
d'öna coldéra de öle. Gioanì l'è gnìt fò e sicòme lö l'ìa finìt la sò próa,
l'è restàt padrù dol palàz; ol l'à endìt e xé l'è turnàt a ca sò a godisla.
I tri morč i era tre persune confinade 'n quel palàz fina che ergù
gh'aès ol coragio de passàga tri noč.
(Raccolta a Gazzaniga) (5)
I gigànč
Al gh'éra öna ölta öna edva con d'ü fiöl in mis*ria afàč, com'a so' a'
mé (6). Ü dé, disperàč, i töl sö i sò quater stràš e pò i va. Camina e
che te camina i ria 'n d'ü bosc, do' s' gha sentìa di granč us. La mader,
ch'a nó la 'n podìa plö, la gh' dis a sò fiöl: « Làssem possà ü falì »;
la s' böta gió e la s' dröméta. Ol fiöl intàt l'è rampàt sö 'n d'öna
pianta; al vèc da lonč ü lüsurì e töt contét al vé gió d' la pianta. Al
tróa ilò du çentürì da gamba, al s'i mèt e 'l se sent a gnì öna forza
straordinaria. Sò mader la s' desta fò e la gh' dis: « Com'a m' farai a
passà sto bosc e qui montagne? ». Nó 'l ga dis negót di çentürì, al ga
dis nomà: « Coragio, mama; ó ést ü lüsurì, indèm ilò 'ndo' l'è e m'
troerà ergü ». I sa 'nvia là, menemà i tróa ü fiöm. « Com' a m' fa-
rài? », dis la mader. Ol fiöl strepa sö ü piantù comià se 'l fös ü bösc,
al la böta a treèrs e 'l furma ü pùt. I passa in là ben polito. Al gh'éra
ü gran palàz, do' 'l ga staa ü gigànt; stó tùs al péca e 'l gigànt al vé
Ona ölta 'l gh'éra ü vèdof che 'l gh'ìa öna sčèta e l'à spusàt óna édoa
che la gh'ìa öna sčèta a' le, ma la sò l'era bröta e quel'ótra l'era öna
belezza. La madrégna la gh'ìa dré invidia e la se n' sarès desfacia
ontéra; ma fina che la gh'a üt so pàder l'è 'ndacia a' mo miga mal.
Quando l'è stač mort l'à comensàt a töla a perseguità. Ü dé la la manda
'n del càp co' la 'aca, la ghe dà dré ü zerlì de füs e ü zerlì de stópa,
che la döìa filà per l'ura de disnà. Quela povra sčèta l'era 'n del càp
töta 'n fastöde, quando la ed a gnì 'nsö per öna piana ün om; al ga 'è
depröf e pò 'l ga dìs: « Ardem söl có ». « Nò gh'ó miga tép, perchè
guai a mé se nó ó filàt töta sta stopa per l'ura de disnà ». « Té àrdem
söl có e làssem pensà a me per ol rest ». Lé la s' mèt dré a ardàga söl
có e lü ghe domanda: « Cóssa tróet? », « Or e arzènt » ( 11 ), la gh'
respónd. Quel om ilura, che l'era S. Marti, l'à metìt la stópa sö i
córegn a la aca, e (12) lé la gh' l'à filada töta. Dopo S. Marti 'l ga dìs
a la sčèta: « In del indà a ca óltet indré ». Ixé l'à fač e 'l gh'è picàt
söl vis öna bela stèla. Un'ótra matina la madrégna la manda 'n del
càp la sò sčèta e la ghe dà dré noma ü füs e ü spissèc de stópa. Al vé
'nsö per la piana S. Marti e 'l ga dis: « Ardem söl có ». La ghe respónd
con sgarbo, perchè chi è bröt è a' malgarbàt; peró la s' mèt dré a
ardàga söl có. « Cossa tróet? », al ghe domanda, e lé la ghe respònd:
« Piöč e lendèn » ( I3 ). San Martì 'l ga dìs: « A mità strada, 'n del indà
( 8 ) Le rimanenti sei righe della pagina sono bianche. Pure bianche sono le pagg.
14-18. Il foglio 19 manca. La numerazione riprende con la pag. 21.
( 9 ) Questo titolo è scritto sul margine superiore, cancella un precedente « Šcendrì
Šcendrö » sulla linea; così sulla linea è pure la nota del Tiraboschi: V.S.M., La
stèla Panicèla.
( 10 ) Questa nota è scritta sulla linea che separa il titolo dal testo.
(11) V.S.M. Orle e perle. (Nota del Tiraboschi).
(12) In interlinea, corregge «che» cancellato.
(13) V.S.M. Piögiù e lendenù. (Nota del Tiraboschi - Queste tre note dell'autore sono
scritte sul margine inferiore).
a ca, óltet indré ». Ixé l'à fač, ma 'nvéce d'öna stèla al gh'è picàt söl
vis öna boassa. Sà mader töta stremida a ed che l'era deentada a' mo
piö bröta, la gh' domanda: « Ma chi t'à fač quel desprése? », e per nó
saì con chi töla, la manda l'ótra sčèta 'n cantù del föc e la gh' dìs:
« Te staré semper lé fina che te 'l dirò mé ». A la sò la gh' n'à / fač
dré de töte i sorč per fàga 'ndà vià la boassa, ma l'è stač töt inötel.
In del stàl gh'era öna pianta de pom, ma bela, d'ön'altezza spreposi-
tada. Al passa fo 'l fiöl dol re, e 'l ne öl quater de sti pom. La madré-
gna per servìl la va sóta la pianta e la gh' dìs: « Pianta, pianta de pom,
isbàsset, chè 'l fiöl del re 'l ne öl quater ». Quando l'à déč ixé, la
pianta la s'è alsada sö a' de piö. La ciama de föra la so sčèta e la dìs
a' le: « Pianta », ecc. Ma la pianta l'è 'ndacia sö de piö a' mo che nó
s' vedìa gna i ram. Ol re alura 'l ga domanda: « Nò gh'ì-v piö nissü? ».
La madrègna la ghe respónd de no. « E sé gh'ì a' mo ergü ». Ma lé
la sta ostinada. « Disìm impo', nó gh'i-v' öna certa Šendrì-Šendrö? ».
« Cara lü, l'è tàt bröta e tàt bröta che gh'ó ergogna a menala föra ».
« Mé nó arde gne a brötezze gne a belezza, vòi che la menéghef ché ».
La 'é de föra, l'era nüda 'n di pé e per vèsta la gh'ìa ü sac strač adòs.
[La va a' lé sóta la pianta e la dìs: « Pianta, » ecc. e la pianta la vé
coi ram a tèra] (14). Ol fiöl del re [a ved ixé e a] (15) ved istà [gran]
bela sčèta co' la stela (16) sö la front al dìs: « Preparémla a l'urden
per domà d' matìna, che vegneró me a töla per mé spusa ». E la ma-
drégna cóssa fa-la? La gh'à metìt sö di gran bei vestìč a la sò e a la
matina, quando l'è capitàt ol fiöl del re, la gh'à déč: « Sta noč la s'è
stremìda e l'è per quest che l'è deentada bröta ». Quela bela la l'ìa
mandada 'n del panighèt per fa sta vià i pàssere. Intàt che l'era 'n del
càp, la ed che 'l passa föra ü legn; la s'è metìda a crida: « Pàssere,
pàssere, föra del mé panìc, che la bröta egia la va col mé marìt ».
Ol fiöl del re l'à sentìt istò cridùr e 'l s'è fermàt. / Quela bröta la
gh'à déč: « Indèm aante, i è sčeč ch'è föra coi bestie ». Ma lü 'l va
föra del legn e 'l ved ü splendùr che vé sö del cap e 'l conòs che l'è
quela che l'ìa de spusà. Al l'à estida sö coi bei pagn de quel'ótra al
l'à facia 'ndà in legn e 'l se l'è menada a casa. Dopo ün an che Šendrì-
Šendrö (17) l'era maridada la gh'à üt eréde. La madrègna l'à saìt che
( 14 ) La frase fra parentesi è aggiunta in calce, sulle ultime due righe della pagina;
una riga lasciata bianca separa il testo da questa integrazione.
(15) Aggiunto in interlinea, corregge un « a d » cancellato.
(16) Segue « söl vis » cancellato.
(17) « Šendrì-Šendrö » risulta cancellato e corretto in interlinea da «la Bèla», ma
non pare calligrafia del Tiraboschi.
la gh'ìa üt erede; l'à spiàt quando l'era föra de casa ol re, l'à fač finta
de 'ndà a troàla, e la l'à bötàda lé e pò a' ì sò bambì in d'öna sisterna
che gh'era 'n curt. Dopo l'à fač sö ü pöòt e la l'à metìt in lèč co' la
sò sčèta de lé. « Quando », la gh' dis a la sò sčèta, « tó sèntet a egn
ol re, dìga: "Derf a belase, se nó egne bröta" ». Lü 'l vé e lé la ghe
dis iste parole; al fa per dàga ü basì al sò sčèt e 'l ved che l'è ü fagòt
de stras. « Aimé, che so' tradìt! » L'à ciapàt la dòna e 'l pöòt, e i à
bötàč zo de la finestra. Al va de bas e de la passiù che 'l gh'ìa, al völìa
saltà 'n da sisterna. Al sent ü gran canto. L'à dübitàt che 'l fös la sò
spusa e 'l ga dis: « Ah, cara amante, so' ché coi flagelli e cortelli per
scanarmi mè ». Le la ghe respónd: « So' chè 'n baléna col bambino in
mano e non posso voltare ». Lü 'l turna a dìga: « Ah cara amante », ecc.,
e lé ghe respónd a' mo: « So' ché » ecc. Lü l'à ciamàt de la zét per fa
sügà la sisterna; quando l'è stacia söcia, la baléna l'è gnida sö e l'à trač
sö lé e 'l bambì. I à fač ü gran disnà; dopo 'l pranzo i gh'à fač cönta
töta la éta che l'ìa fač dai du agn in poi. Quando i à üt sentìt la storia
com'a l'era, i è 'n dač a tö la madrégna e i l'à brüsada 'n mès a öna
piassa (18).
Cfr. La bella e la brutta nelle Novelline di S. Stefano di Calcinaja,
An. XVII, vol. LIX della Rivista Contemporanea.
(18) Due righe bianche separano il testo dalla nota, che è scritta sull'ultima riga
della pagina e invade il margine inferiore.
(19) Una riga bianca separa il titolo dal testo.
Si pronuncia eziandio Lönöč e Lösnöč, che credo debba spiegarsi l'un
occhio = monocolo, cioè l'uomo d'un occhio solo ( 20 ).
L'oselì che parla, l'aqua che bala e la pianta che suna (21)
Öna ölta 'l gh'era öna regina; l'èra édoa e la gh'ìa ü fiöl. Stó fiöl l'à
tölt moér; l'è stač insèma 'mpó e pò 'l gh'è tocàt de 'ndà a la guèra.
La sò mama la pödìa miga èd ista spusa; l'è comè 'l sólet che sücéd
tra nöra e madòna. Passàt quac mìs che l'éra vià 'l fiöl de la regina,
la spusa l'à compràt öna sčèta. La regina l'à scréč a sò fiöl disendo
che 'l gh'éra nassìt öna creatüra e che lé (22) la [la] l'ìa facia mör,
perchè la parìa öna bestiöla; invece la l'ìa bötada 'n d'ü fiöm. Al gh'éra
öna faméa, nóma marìt e moér, e i desideraa de iga ü quàc fiöl; i à
pò troàt la sčetìna che l'éra stacia bötada 'n del fiöm. Ün an dopo i n'à
troàt ün óter a' mò 'n del fiöm, e quel pò l'éra 'l fradel de la sčèta.
Lü 'l gh'ìa nom Belpóm e lé Marina. In del vegnì sö granč i s'è ciapàt
a ölì bé compàgn de morùs e morusa. Ü dé ch'i éra 'n giardì, i vèd al
rastèl öna ègia e i sent che la gh' dìs: « Sto giardì l'è bel; ma 'l sarés
assé piö bel, se 'l ghe fös l'oselì che parla, l'aqua che bala e la pianta
che suna ». Belpóm al s'è metìt in del có de ölì 'ndà a sircài, gnè nó
gh'è stač nigü de persöadìl de nó 'ndà miga. Ona nòč, de nascùs, l'à
tölt sö 'l sò caàl e l'è 'ndàč. Camina e camina l'è riàt in d'ü pràt pié
de statöe, e 'l sa sent a dì da öna ègia: « Cósa fét' ché, Belpóm? ».
« Com'a fàla a sai 'l mé nom quela lé? ». Nó l'à gna finìt de dì xé
che l'è deentàt öno stàtöa de prèda. Intàt quei a ca nó i pödìa das
pàs de nó saìn piö gne nöe gne noèla, e Marina, ü dé che nó la 'n
pödìa piö l'à tölt sö a' lé e l'è 'ndàcia. / Dopo de ì caminàt e caminàt,
la rìa 'n d'ü sito do' gh'éra ü palàs; la fa per picà a la porta e la s'
sent a dì: « Nó pica miga ». Chi gh'ìa déč ixé l'éra ün osèl in gabia,
l'osèl che parla. « Töm sö » al seguita a dìga, « e tö sö a' quel vasetì
d'aqua e quel ramèl; pò 'ndèm ». Lé xé l'à fač e pò l'è turnàda 'ndré;
l'è gnìda a troàs in del pràt do' gh'éra töte quele statöe de préda;
e 'n del fale passà la 'n vèd öna che sömeàa afàč ol sò Belpóm. Ilura
l'oselì al ga dis: « Bagnela co' l'aqua del vasetì ». Apéna bagnada l'è
turnada de carne comè prima. Nò s' pöl dì quat a i fös contéč, e che
Al gh'éra öna olta marìt e moér, e i gh'ìa öna sčèta che l'ìa nom Er-
nesta. Fina che l'era picola l'à mai sentìt ch'i ghe disès negót; sö l'età
di quatórdes agn l'à comensàt a sentì semper öna ùs che ghe disìa:
« T'é de spusà ü mort ». Le l'à portàt passiensa per impó e pò la gh'
l'à déč a sò mader; la gh'à déč che l'èra stöfa de sentì semper istà ùs
e che la ölìa 'ndà a girà 'l mond. I sò i völìa miga lassala 'nda a nis-
söna manéra, e perché la ölìa 'ndà per forsa i l'à ciaada sö. Lé l'ìa
preparat fač sö la sò borsèta, do' la gh'ìa dét töč i laùr per leà zo la
seradüra. L'à spetàt ch'i 'ndès i' lèč e pò lé la gh'è scapada. L'à giràt
tri dé e 'l gh'è egnìt noč in d'öna boschina; l'è 'ndacia sö 'n d'öna
pianta per ved se s' vedìa quac lüsùr per inda a ricòero. L'à èst ü ciarì
de lontà e la gh'è 'ndacia dré. La s'è troada apröf a ü palassì; l'è
'ndacia de dét, al gh'éra ert de per töt e 'l gh'éra 'mpés i ciàr. La ed
che 'l gh'è nissü de bas, l'è 'ndacia de sura. L'à giràt sic istanse senza
troà negót, la va de dét in d'öna otra do' 'l gh'éra ü leč con sö ü
cadàer e sura sto cadàer al gh'éra sö ü biglièt. Al gh'éra scréč sö 'n
sto biglièt: « Quela (26) che staré [che] con sto cadàer ün an e tri dé
la sarà sò spusa ». E lé la s'è fermàda là; töte i làgrime ch'a l'à fač
i à salvade 'n d'öna scödèla. Quando che 'era passàt l'an, al passa
föra ün om che 'l vusaa: « Chi öl la móra per öna scödèla d'aqua? ».
Le l'à signàt zo de la finestra, l'à est che 'l gh'ìa 'n spàla öna dòna e
la gh'à déč: « Mé de l'aqua nó ghe n'ó miga, gh'ó öna scödèla de
làgrime ». Lü l'à déč che 'l ciapaa a' quele, che l'éra / l'istès per lü.
Lé l'à ciapàt la dòna e quando l'è stacia de sura, sta dòna la gh'à déč
de 'ndà a bötàs zo; per impo' la s'è facia pregà, ma dopo che la Móra
la gh'à (27) üt dač la sdormia, la s'è lassada lüsinga de 'ndà a dormì.
( 23 ) Il testo a questo punto ha una cancellatura, sono leggibili solo: « ... de l'oselì
che parla ».
( 24 ) Il testo si interrompe a questo punto; le rimanenti dodici righe sono bianche.
( 25 ) Una riga bianca separa il titolo dal testo.
( 26 ) In interlinea, corregge un « Chi » cancellato.
( 2 7 ) « Ma dopo che la Móra la gh'à » è all'interlinea e corregge « dopo lé la s'è
lüsingada l'è 'ndacia... » di cui l'ultima parola non è leggibile.
La Móra l'à fač la sò finteréa per fàs ispusà le invece de quel'otra.
In del tép che l'Ernesta la dormìa ol cadàer al s'è destàt, perchè l'era
passàt l'an e tri de; l'à brassàt fo la Mòra e 'l gh'à déč: « Té tó sarè
la me spusa ». Le la gh'à fač ved la scödèla de làgrime e la gh'à déč:
« Pensa che l'è ün an e tri de che so' ché; arda quate lagrime o fač
per té ». E lü 'l gh'à domandàt: « Sé-t' prope semper istacia ché de
per té? », e pò l'à ölìt indà a girà per i stanse. Al na tróa öna serada
e la Móra l'à miga ölìt che 'l dervès, perchè 'l gh'era seràt de dét
quel'ótra. I è 'ndàč de bas, menemà 'l ghe càpita zo quel'otra. Lü 'l
ved istà bela zùena e 'l domanda a la Móra chi l'era; la gh' respónd
che l'era la sguàtera che l'ìa mandàt a ciamà lé. Dopo lur i è andàč a
fa ü vias e lü l'à domandàt a la sguàtera cosa l'ìa de portàga a casa
de regàl. E lé la gh'à respondìt che la desideraa la préda de la passiù.
Quando ch'i à üt giràt a fač töte i sò spése, i s'è metič in viàs per
turnà a casa; i va söl bastimènt, ma 'l bastimènt al völìa miga 'ndà.
Ol priùr del bastimènt al ga ( 28 ) domanda se i s'era desmentegàč ver-
29
gót; i pensa sö bé e a lü 'l ghe 'é 'n del cör che 'l s'era ( ) desmen-
tegàt de la preda d la passiu. L'è 'ndàč d'ü siòr per saì doe s' pödìa
troàla, e lü 'l gh'à 'ndicàt indo' l'ìa de 'nda. L'è 'ndàč d'ün orées che
'l gh'à déč che 'l ghe l'ìa, ma che nó gh'era solč che podìa pagàla. Lü
'l gh'à dač töt quel che 'l volìa e l'orées, in del dàga la preda, 'l gh'à
déč: « Quela che gh'ì de dà sta preda l'à de ìga öna gran passiù; biso-
gnerà stà atènč bé, perchè la ghe cönterà sö töt a sta préda, e es
isvèlč / quando la fenés de cöntala, perchè quando l'avrà finìt al
salterà fò öna spada per copàla ». Riàč a casa lü 'l dà la préda a la
sguàtera e l'istà bé atènt. L'à sentìt töta la sò storia e a la fi l'è sbalsàt
là, l'à ciapàt la zùena e 'l gh'à déč: « Indèm, che te saré té la mià
spusa ». I va de bas do' gh'era la Móòra; i l'à ciapàda e pò i l'à facia
brusà. I óter du i s'è spusàč; i à fač pasti e pastù nó i me n'à 'nvidàt
gna ü bocù, sére sóta la tàola i me n'à 'nvidàt gna öna gandàola.
Ghita (30)
Ol castèl d'or
Al gh'éra öna ölta ü re (31) che 'l gh'ìa sés isčète; ol gh'éra ün óter re
che 'l gh'ìa ü fiöl che descorìa a öna de quele sčète. La gh'ìa nom
I tri maghi
Öna ölta 'l gh'éra ü re èdof con tri sčèč. Ü che l'èra xé mai catìf l'à
ölìt la sò part e l'è 'ndàč de per lü. Ol re 'l gh'à dač la sò parte e 'l
l'à lassàt indà. In poc tép l'à mangiàt fò töt quel che 'l gh'ìa. Ü dé
'n del indà per öna strada l'à 'ncontràt ü poarèt e 'l gh'à déč se 'l
völìa fa baràt coi pagn. I à fač ol cambe; l'à lassàt vegnì sö la barba
e l'indàa a sircà la carità. Va che te va, l'è riàt al palàs de sò pader;
al gh'éra sö ü rastèl che ardaa vers istrada. In del passa föra 'l ved
che gh'éra là sò pader e po' a' sò fradel, ch'i disnaa 'n mès al giardì.
Lü 'l s'è fermàt lé al rastèl a sircàga la carità. L'è saltàt sö l'óter fiöl
del re e 'l gh'à portàt impó de pa e salàm e ü bicér de 'i. Quando l'à
üt mangiàt, al s'è sentàt zó al rastèl e l'è stač lé ü pès. Lur i ved che
nó 'l va mai, nó i sìa cosa pensà. Ol fiöl del re 'l ga domanda perchè nó
l'indàa miga; ma lü nó 'l ga respónd negót. Alura 'l va lé 'l re: « Ma-
dóna » 'l dìs, « l'è töta la céra del nost Bepi ». Ol poarèt l'è stač lé
'mpo' senza respónd; dopo 'l s'è metìt a pians e 'l l'à ciamàt: « Papà ».
Ol papà 'l l'à menàt de dét, al l'à fač laà zó e vestì sö polito. Per
impo' l'à fač gran bé, dopo l'à comensàt a fa de mat comè 'l faa
prima ( 33 ), fina che l'óter fradel al s'è redüsìt a dì: «Me nó voi stà
'nsèma piö ». Quando 'l pader al gh'à üt dač la sò part ac a lü, l'à tölt
sö l'è 'ndàč. Al ghe egnìt noč in d'öna boschina; l'à caminàt ü gran
toc ixé al fosc e 'nfi l'à troàt öna casa. Al pica; al ved a egn aànte öna
egì; lü 'l ga domanda alògio e le la ghel dà. Lü a la matina 'l völ indà
e lé nó la öl lassai indà a nissöna manéra; la ghe disia: « L'istàghe
ché, al tegniró comè mé fiöl ». Lü l'è stač lé per tri dé e dopo l'à ölìt
indà; e lé la gh'à déč: « Tö sto sčiòp, töte i sčiopetade che te traré
al ta egnirà zò tace osèi coč ». Lü l'à ciapàt istó sčiop e pò l'è 'ndàč.
Manimà / quando l'è stač aante ü toc al gh'ìa öna gran fam. Al s'è
metìt dré a tra föra dì sčiopetade, e l'à (34) mangiàt di osèi che gh'
piöia zó bei e coč. Pò 'l töl sö e 'l va aante a' mò ü gran toc; l'è riàt
in d'öna sità che 'l ghe staa ü re. Sö la porta de sto re 'l gh'éra tacàt
(32) Il testo è steso occupando le prime tre righe della pagina, il resto non è stato
utilizzato.
(33) Segue « e l'óter » cancellato.
( 34 ) In interlinea, corregge « Intàt che 'l » cancellato.
föra öna carta che la sircaa ü scriànt. Lü cossa l'à fač l'è 'ndač a
esibìs lü, e 'l re 'l l'à ciapàt. Sto re 'l gh'ìa öna gran bela fiöla; lé la
ed istó bel zuen, la se n'è inamurada; e a' lü 'l gh'à ölia bé a (35) le.
Ü dé ch'i èra dré a disnà ol re l'è egnìt föra a dì: « Indomà voi 'ndà
a cassa ». Ol fiöl salta föra a dì se 'l la menaa dré a' lü. Ol re 'l gh'à
déč de sé. I à preparàt töta la sò roba de mangià, po' i l'à facia mèt
in d'ü zerlì, e a la matina i töl sö i va. Dopo de i caminàt ü bel pès
i è riàč in d'ü bosc. Ol re 'l gh'à déč al zuen: « Té va de lé, chè mé
'ndaró de ché ». Ol zuen l'è 'ndač in d'öna boschina; l'éra dré che 'l
pensaa de fa sö ü massölì de fiùr per la fiöla del re quando 'l figüra
ü palàs de cristàl. Al ghe 'a apröf e 'l ved che gh'è ü giardì con di
fiùr tàt bei tàt bei, che sčiao! Lü cóssa 'l fa? al va de dét per fa sö
sto massölì. Intàt che l'è dré a catà zo i fiùr al sent öna ùs de dré
de lü che la gh' dìs: « Cossa fé-t' le, èrem de la tèra? ». Lü 'l sa olta
'ndré, al ved che l'è 'l mago. « Erem de la tèra compàgn de té », al ga
respond, e po' col sò sčiòp al l'à copàt. Dopo 'l töl zo i fiùr che 'l völ
e 'l turna a ca. Ol re, [che] l'éra zemò a ca, al s'è metìt a usàga dré.
Lü 'l gh'à domandàt iscüsa. I sa mèt dré a disnà e lü 'l ghe mèt deante
a la fiöla del re 'l sò bel massölì de fiùr. Ol re, apéna ésč al gh'à dìč:
« Tó se' 'ndač in del giardì del mago a robài ». E lü 'l gh'à giüràt de
nó. Ol re 'l dis: « Indomà voi 'ndà a' mò a la cassa ». Infati 'l va e
'l se ména dré a' mò 'l zuen, ma col pato che nó 'l s'aés (36) mai de
slontanà. Quando i è stač in mèz a ü bosc, ol zuen l'à fač pari de
'ndà a fa 'l sò bisògn, e 'nvece l'è 'ndač a' mò de la banda do' l'ìa
copàt / ol mago. Quando l'è stač lé al palas de cristàl, l'à figüràt de
lontà ü toc un oter palàs; al gh'è 'ndač apröf e l'à 'ést che l'era ü
palàs d'arzènt. Al va là a ardà de dét de la porta, al ved che gh'era ü
giardì coi fiùr piö bei de quel de prima, e lü va de dét per tön' zo ü
massetì. Intàt che 'l tölìa zo i fiùr al sa sent a dì: « Cossa fé-t' (37) lé,
èrem de la tèra? ». E lü 'l se olta 'ndré, [al ved che l'è 'l mago] e
senza dì gna bé gne sé al l'à copàt. Al turna a ca töt contét (38), ma
'l re nó 'l la öl piö perchè 'l gh'era scapàt. Lü l'à pregàt tàt tàt fina
che 'l re al l'à ciapàt a' mò. Long ol dé i se mèt dré a disnà e lü 'l
ghe prepara la 'l massetì de fiùr al post de la fiöla. Ol re 'l turna a dì:
« Domà voi 'ndà a' mò a la cassa ». I va 'nsèma de recò; manimà
Ol candelér d'or 49
Al gh'era öna olta ü siòr che 'l gh'ìa tré sčète; l'era èdof. A dò 'l ghe
ölia bé e öna nó 'l la pödìa gna ed. Ü dé l'ìa de 'ndà 'n d'ü sito; l'à
domandàt a töte tré cossa 'l gh'ìa de portaga a ca. Salta föra la prima,
la gh' dis: « Portem ü vestìt colùr vi ». La segonda la ghe dis de por-
taga ü estìt colùr carne e la tersa la ghe dìs de portaga ü estit colùr
sal. Quando l'è turnàt a ca, al gh'à portàt i estìč a quele dò che 'l ghe
Öna olta 'l gh'era ü om (46) e 'l gh'ìa sés sčète; öna la fàa l'armùr col
fiöl d'ü (47) re; la gh'ìa i' nom Margaritì (48). Ü dé sto fiöl al passa
föra dol palàs do' gh'era la sò morusa e 'l troa sö la porta ol papà de
lé, e 'l ghe dìs: « Adìa, padre de sés möle ». Lü 'l gh'à respondìt:
« Nò, gh'ó anche ün maschio ». « Do' ghe l'ì-v? ». « Ghe l'ó sö i
scöle ». « Entro tri dé mandémel a casa méa, sö de nó la òsta testa la
pagherà ». Sto pader, ch'al sìa de ì déč ü laùr che l'éra miga ira, l'è
'ndač in ca malinconiùs e nissü nó i pödìa piö 'ndàga 'nvèrs. Ma la
Margaritì la ghe se presenta e la gh' dis in genöciù: « Dìm cossa tó
gh'é, chè mé te öteró ». Lü 'l basa sö la sò sčeta e 'l gha cönta la storia
com'a l'era. E lé, dopo de ì sentìt bé töt, la gh' dič: « Penséga miga,
'u tata, chè 'ndaró me a presentàm per vost fiöl. Si presenta al figlio
del re vestita da uomo, e rimane con lui; usa stratagemmi perché egli
non ne riconosca il sesso. La mader de stó re ( 49 ), invidiosa del servo
che si faceva chiamare Enrico, dice a suo figlio che Enrico si era van-
tato d'esser capace di avvicinare al palazzo reale il Castello d'oro. Il
figlio del re [gli] intimò di compiere il vantato trasporto ( 50 ), ed egli
vi riesce. La madre del re gli dice che Enrico si è vantato di saper
impadronirsi del Can d'or. Gli è intimato di compiere l'impresa. In
un bosco incontra un vecchietto, che gli dice de 'ndà a tö ü vedèl, ü
sòi de 'i e öna cóbia de corda. All'odore viene il Can d'or che mangia
e beve tanto da ubbriacarsi. Lo lega e lo conduce al figlio del re /
che fa le maggiori feste ad Enrico. [Dietro istigazione del]la madre (51)
il figlio del re intima ad Enrico che abbia a far parlare il Can d'or.
E lü per fal parla 'l gh'à déč: « Perchè é-t' fač quela gran grignàda
quando tà sé riàt in da curt del re? ». « Perchè quela 'egia là l'è ina-
murada de té che tè sé öna dòna compàgn de lé ». Quando l'à sentìt
Öna olta 'l gh'era tre sčete; nó i gh'ìa gna papà gne mama. Dò i era
grande e öna l'era picola, ma quela picola l'era öna belessa. A lé nó
i ga ölìa bé; lure i andaa semper a spas e lé i la lassaa a ca a fa de
mangià; lur i 'ndaa a tàola, e lé i la mandaa 'n del sigér; per vesta la
gh'ìa adòs ü sac. Ona matina i gh'à dič: « Va' 'n piassa a tö tre ten-
chine, ma la tersa che la séa pìcola ». Lé la 'è a ca, la se mèt dré a
netàle e quela picinìna la gh' scapa zodel sigér. Al ve a ca i sò sorele,
i sirca la tersa tenchina. « La m'è scapada zo del sigér ». « Té, tè
'ndarè 'ndel sigér a mangià la polènta ». Intàt che la mangiaa la po-
lenta, la seguitaa a dì: « Tenchina, bela tenchina, caösa tó 'l me tóca
mangià la polènta tòca ». L'à ripetìt tre olte sta resù, dopo l'è egnìt
sö la tenchina e la gh'à dič: « Pians miga, e ciàpa (54) sta bacheta ché;
sta sira (55) i tò sorèle i sarà al festì de bal, e té, se to 'ö 'ndàga pica
zo la tò bachetina e comanda quel che te n'è òia ». Lé la pica zo sta
bachetina, al gh'è comparìt lé ü legn a tir de du, po' a' ü piö bel
vestìt. L'è 'ndacia al festì, l'à ciapàt al fiöl del re, l'à balàt insema e
po' l'è scapada [a ca]. Ol fiöl del re l'è restàt lé, nó 'l gh'à üt piö òja
de balà gne de negóta. Quele otre i è 'ndacie a ca rabiuse e i seguitaa
a dì: « Chi saràla mai stacia? ». E lé la sentìa töt. Ol dé dopo i à tur-
nàt a fa 'l festì, e lé la gh'è 'ndacia a tir de quater e con dì 'èste a'
mo piö bele. L'à balàt col fiöl del re e po' l'è scapada a ca. I sò sorèle
i è turnade a ca a' mo piö rabiuse. La tersa sira i ripét ol festì. Lé
la va 'n del sigér la dis, comè i otre olte: « Tenchina, bela tenchina ».
La tenchina la 'é sö / e la ghe dà la sò bacheta del comando; l'à comandàt
(?2) Due righe bianche separano il testo dalla nota. Le rimanenti tredici righe sono
bianche.
(5Ì) Questa parte del titolo è scritta sul margine superiore.
f 54 ) In interlinea, corregge « basta che sta sira tó vaghet al festì de bai con » can-
cellato.
( 55 ) In interlinea, corregge « al gha sarà » cancellato.
404
ü legn a tir de sés e ü vestìt a' mo piö bel dì otre sire. Ol fiöl
del re l'ìa desponìt ch'i l'aés de ciapà quando la 'egnìa föra del teatro;
lé l'à fač sö ü balèt e pò vìa! l'è scapàda, e 'n del iscapà ( 56 ) l'à perdìt
öna sibra. I soldàč ch'i ghe corìa dré i à tölt sö la sibra e i l'à dacia
al fiöl del re. Lü l'à mandàt aturen a proà sö la sibra (57) col dì che
quela che la ghe 'ndaa bé l'era sò spusa. I va là di tre sorele, i se mèt
dré quele dò o proàla sö e de rabia perchè la ghe 'ndaa miga bé i l'à
bötàda 'ntèra. Negano dapprima di avere una sorella, si rifiutano poscia
di farla vedere perché bruttissima; i messi del re la cercano e la tro-
vano in cucina (58) 'n cantù del föc. I ga próa sö la sibra e i troa che
la ghe 'ndaa bé. Il figlio del re la fa quindi sua sposa ( 59 ).
Öna olta gh'era ü re; al sircaa 'l servitor [e 'l la troaa mai]. Ü dé 'l
va (61) a cassa e 'n del passà ü bosc l'à 'ést ü zuen bötàt zo. Sto re
'l gh'à domandàt cosa 'l faa e Iü 'l gh'à respondit: « Sto ché perchè
nó gh'ó negót de laura ». « Se te 'ö egn to gniré 'n casa mia a fa 'l
servitùr ». Lü 'l gh'à déč de sé. I va; longo la strada 'l re 'l gh'à do-
mandàt com' al gh'ìa nom. Ol zuen al gh'à déč che 'l gh'ìa nom Come
stó. I rìa a ca; ol zuen al va 'n cüsina: al gh'era là la serva e la gh'à
domandàt: « Coma gh'ì v' nom? » E lü 'l gh'à déč che 'l gh'ìa nom
Cül. [A la fiöla del re al gh'à déč che 'l gh'ìa nom Sgranf e a la moér
del re Niént] ( 62 ). I è dré ch'i disna l'à fač öna scorèsa. Ol re al gh'à
bajàt dré a la serva; e le la gh'à respondit: « So' miga stacia mé, l'è
stač ol Cül ». Öna noč ol servitùr al gh'è 'ndač in stansa a la fiöla del
re; lé la s' mèt a cridà: « L'è 'l Sgranf! L'è 'l Sgranf! » E la sò mama,
che l'à sentìt, la ghe dìs: « Slonga gió i gamb ( 63 ).
Öna olta gh'éra ü sčèt e öna sčèta; sto sčèt e sta sčèta i era re-
stàč senza tata e sensa mama. Al sčèt al ghe dìs a sò sorèla: « Cos'à m'
de fa ché dòma nóter du? Sé t' cos'à m' farà? Am torà sö ol nost caàl
e ma 'ndarà a gira 'l mund; ergót am truerà de fa tàt assé de vìf ».
Eiè 'ndàč per öna strada tàt foresta che i gh'ìa öna pura fiöla. Me-
nemà i à truàt öna ca; i pica a la porta e i sént öna ùs de dòna che
ghe dis: « Chi è? Chi péca a la mia porta? ». Ol sčèt al ghe respùnd:
« Em sè dù póer fìöi, che m' se troa ché 'n sto bosc; se 'ulì fa m' la
carità e logiàm istà noč ». E sta dòna la dis: « Cara óter 'mpó! mé ve
logierés vontérà, ma questa l'è la ca del mago sabino e se 'l vé a ca
che 'l sente odùr de cristià, lü 'l ve mangia töč du in d'ü bocù sul ».
E lü sto sčèt el dis: « Cara 'u 'mpó! dervìm l'istès, chè me scundirì in
d'ü quac cantù ». E lé sta póvra dòna l'à dervìt la porta e la 'ed sto
sčèt e sta sčèta che l'era tàt bela e tàt bela che la faa inemurà dóma
a ardaga. La i à fač indà de dét de la porta e la i à fač scund dét in
del furen. De le 'mpó la sent a picà a la porta, l'era 'l mago. Lü l'à
senàt e po' 'l dis: « Me ghe sente odùr de cristià e se ghe n'è mé n'
vói majà ». E lé la ghe dis: « Caro té 'mpó, te gh'é dóma di bale, gh'è
nigü che de dét de cristià ». Ma lü l'è saltàt im pé e l'è 'ndàč a fa
passà töč i cantù de la ca; l'è 'ndàč a 'ardà 'n del furen e 'l ved
che de dét gh'era sti du sčèč. I à fač vegn fò e 'l ghe dìs: « Vardé,
mé v'ó fač vegn fò del furen per mangiaf; ma perchè sì xé bei töč
du, vói tègnef ché sempre insèma mé. Té che tè sé ü sčèt, tè menaró
'nturen insèma mé, / e la tò sorela la starà insèma la mià maga a fàga
compagnìa. Té 'ndumà tè egnaré insèma mé a trà dét ü pal de fer in
del mar; se té te l' bötaré piö de luntà de mé, bene, e se te l' bötaré
piö de pröf tè majerò ». Dopo 'l mago l'è 'ndàč i' lèč e la maga l'è
curida là 'ndo' gh'era chel sčèt e la ghe dis: « Varda, quanta 'l mago
'l tè ména a laurà insèma lü, fa semper a parì che té tó pö fa al dópe
de lü e tè 'ediré che te la faré sempre franca ». Sichè a la matina
bun'ura al ghe dà (65) ü pal de fer a sto sčèt e pò 'l ne töl sö ü a' lü.
I è riàč C66) a la rìa del mar pre trà dét istó pal: prima 'l l'à bötàt dét
ol mago e 'l l'à bötàt iglià apéna ü tochèl. Alura 'l sčèt al s'è metìt
dré a usà quàt fiàt ei gh'ìa 'n gola: « O chi de là del mar, indi 'ndré
(64) Le prime due pagine di questo quaderno, pagg. [61] e [62] sono bianche.
(65) Segue « 'l » cancellato.
(66) « 'ndàč » sottostante è corretto da « riàč ».
töč perchè me co' sto pal ve cópe töč ». Ol mago, a sent ixé, ei ghe
dìs: « Ma caro té, bàtel miga fina de là perchè chi de là del mar i gh'à
piö càr ol fer de l'ór ». Al gh'à fač tö sö a' mò 'l sò pal e pò i' è
'ndàč a ca. Riàč a ca, 'l mago 'l dis a sò moér: « Gh'ó ü gran laùr de
cüntàt, varda, a quel sčèt lé dàga de mangià e de bìf, chè 'l la mèrita;
te cünteró pò quel che l'à fač istà matina ». E 'l gh'à cüntàt sö cóssa
l'era sücedìt. Ü dé 'l mago 'l l'à menàt in d'ü bosc: se lü 'l tölìa sö ü
fas de legna, ol sčèt al ne ölìa tö sö öna méda. L'à sčepàt öna bóra e
coi ma 'l la ölìa spartì 'n du; ol mago mètega a' lü i ma 'n da spa-
cadüra (67) e 'l sčèt, svelto, tira 'ndré i sò ma e quele del mago i è
restade ciapade dét. L'à profitàt del momènt per cor a la ca del mago,
l'à tölt sö sò sorela, e xé i se n'è liberàč.
(Sull'Isola) (68)
La bela Nina
Gh'éra ü póer (69) om che gh'ìa tre pöte; l'è gnìt fo ü dé ch'i gh'ìa
negót de mangia. La prima de sti pöte l'è 'ndacia gió 'n del ort a tö sö
öna gamba de sèlem. In del tirà sö la gamba de sèlem le sét a dé:
« Aih! » Al vé sö ü šatù e 'l ga dis: « Se te ö la gamba de sèlem, te
é de egn gió insèma mé ». E lé l'è 'ndacia a déghel a sò pader, che
'l gh'à respondit: « Mai piö ». « Se te m' làsset miga 'ndà, al m'à déč
che 'l vegnerà a töm' lü o che 'l me brüserà 'n ca ». Agliura 'l pader
al va co' la tusa dal šatù e 'l se sét a dé: « Voi la tò pröma, se te m' la
dé miga la tò pèl pagherà ». E 'l pader de pura 'l ghe l'à lagada. Ol
šat al l'à tirada gió 'n d'öna büsa; al gh'éra ü palàz: « Ché te gh'è de
bìf e de servém mé; quac dé te s' troeré contéta ». Al gh'à 'ndicàt la
càmera do' l'ìa de 'ndà a dormé, al gh'à déč de 'ndà pör (70) in lèč,
de nó speciàl miga e de leà sö nóma quando lü l'avrès picàt. A ön'ura
la 'l sét a picà; la 'a a dervéga e po' l'è turnàda 'n lèč, e perchè
l'istantaa la gh'à déč: « 'É ša, 'é ša, 'l mé càr šatù ». Lü 'l n'à üt rabia
e 'l l'à strangulada. La segunda pöta l'à fač compàgn de la pröma; ma
la terza [che la gh'ìa nom la bela Nina], invece de déga: « Ol mé car
šatù », l'à ga déč: « Ol mé càr amùr ». E lü l'à caàt la sò pèl de šat e
l'è deentàt ü bel giuen, fiöl d'ü re. Al gh'à déč che se la ghe faa compagnéa
67
( ) Segue « per » cancellato.
(68) L'ultima riga è bianca.
(6970) Segue « pader », cancellato.
( ) Segue « a dormé » cancellato.
ün an e tri dé, l'era fortünada. A lé gh'è gnìt in del cör de
brüsàga la pèl de šat intàt ch'al dormìa. Lü dopo l'è leàt sö a šircàla:
« Aih mé che so' tradìt! Al ma tóca a stà ché a' mò ün an e tri dé
adès che sére 'n có. Al ma rincrès a copàt' compàgn di tò sorele: a t'
darò ü göminsèl de ref e te 'ndaré infina che 'l sarà 'n có. Do' 'l sa /
finirà, al ghe sarà ü palàz; domanda s'i te öl a servé ». La va, la va e
la tróa 'l palàz; la domanda s'i la öl a servé, i ga dìs de sé. Quando
l'è stač inco a ün an, la gh'à üt ü fiöl. In quela noč l'è gnìt ol šat;
al va 'n d'öna curt do' gh'era öna làmpeda, e 'l ga dìs: « O làmpeda
d'oro e stopino di argento, mia moglie dòrmela? ». « Va pör avanti
che tua moglie dorme ». Lü 'l va aante, l'entra 'n da stansa do' l'era
sò (71) moér e 'l sò bambì; al ciapa sà 'l bambì e 'l dìs: « Se 'l saés
mio padre che te se' 'l figlio di suo figlio, co' le fasce d'oro ti fascerìa,
panisei d'argento ti meteria. Se i gai nó i cantès e i campane nó i
sunès mé me deslibererès ». I gai i à cantàt e i campane i à sunàt;
lü 'l n'è 'ndàč, ma öna dòna l'à sentìt töt. Sta dòna la ghe l'à déč al
re, e lü l'à fač copà töč i gai e l'à fač ligà töte i campane. Xé ol fiöl
al s'è desliberàt e l'è restàt in ca del re, che l'era sò pader.
(V. S. M.) (72)
(*) Cfr. Novelline popolari toscane pubblicate da Giuseppe Pitrè, a pag. 10.
Il n. 143 delle Fiabe, novelle e racconti popolari pubbl. dallo stesso ( 73 ). La favo-
la ( 74 ) 14, notte IX, delle Piacevoli notti dello Straparola ( 75 ).
Öna 'olta 'l gh'era ü che 'indaa a moruse. Al vé 'l momènt che 'l völ
menà a ca la spusa e 'l ga dìs: « Bisogna che ve 'ise d'ü laùr e l'è che
nóter am fa miga comè óter a parlà; cóssa ghe disiv' vóter al mis-
sér? » « Pòta! am ga dis missér », la respónd la spusa. « Dìsiga mis-
sér bèc ». « Sé, ghe dirò missér Bèc ».
« Cossa ghe disiv' a la madòna? »
« Am ga dìs madòna ».
L'öcialino
L'era noč e du òmegn i viasaa 'n d'ü bosc; camina che te camina, me-
nemà (77) i ved ü lüsurì de lontà. I va de quela banda e i rìa 'n d'ü
sito do' gh'era öna grota, che per porta la ghìa ü gran predù. I se
mèt a usà e a picà; al càpita l'öcialì, al ga derf i à ména de dét e pò
i à fa sentà zo al föc, perchè nó i ne pödìa piö del freč. Intàt che i se
scoldaa l'öcialì 'l ghe va dré e 'l ghe cassa i ma zo per ol copì per ved
qual a l'era 'l piö gras. Ol piö gras al l'à menàt in d'öna stansa al l'à
copàt, e dopo l'è gnìt sà a fan' röstì ü toc. Dopo coč al l'à mangiat e
po' 'l s'è 'ndormentàt. Quel óter che 'l s'era xé mai spaentàt a 'ed la fi
dol sò compàgn, l'à fač infogà ü fer e po' 'l ghe l'à cassàt in de l'öč
e xé 'l l'à inorbìt. L'öcialino alura sbalsa 'n pé e 'l se mèt a sircà de
per töt e a palpà i sò pégore per troà quel che 'l l'ìa inorbìt; ma quel
ol s'era tacàt sóta la pansa d'ü bel bessotù e a quela manéra 'l ghe
l'à metida.
(Da una donna di Aviatico) (78)
Ol gajofì
Öna olta 'l gh'era ü siòr; sto siòr al gh'ìa tri sčèč. Ü dé i töl sö i va
a fa öna spassesada töč insèma; quando i è riàč in d'öna campagna i
sčèč i ga dis al papà: « Al me piasirès a iga öna casa ché ». E lü per
contentà i sò sčèč al sa mèt a fa fabricà sö ü palàs. Dopo lur i va a ca
e de lé tri o quatre dé i ghe manda a dì, che quel ch'ì faa sö del dé
de noč i ghe 'l bötaa zo. Salta sö i sčèč e i dis: « Làssem inda nó-
ter, papà, a 'ed (79) chi è chi la böta zo ». Sti sčèč i töl sö i va a (80)
fa la guardia. Lé dré la mesanòč i sent ü gran frecàs; i se arda aturen
82
Ol bö e l'asen. (Narrata da Veronica Brescianini di Covo) ( )
Öna 'olta 'l gh'era ü siòr, che l'era nóma lü e la moér. Lü 'l capìa 'l
linguàs di animai, ma no i pödìa dì a nissü quel che 'l sentìa. Ü dé
'l sent che 'l bö al ghe dis a l'asen: « Me, che 'l me tóca a laura tàt,
mange mal, e té te manget bé e tè fé negóta ». « Se te se' mai cojó »
al ghe respónd l'asen, « fa parì de es malàt, che te laureré miga e te
mangeré bé ». A la matina 'l massér al va 'n de stala per tö sö 'l bö
per inda 'n del càp; ma lü 'l s'è trač malàt. Alura 'l padrù 'l ghe dis
al massér: « Tö sö l'asen e fàl laura; dàga de mangia quel che te dé
al bö e se 'l laura miga, bastùnel ». Stó asen a forsa de bastunade l'à
scömìt laura. A la sira 'l va a ca strac mort e 'l ghe dis al bö: « Te
se' che 'n cö ó döìt laura per té (83); per strada o 'ncontràt ol veteri-
nare e l'ó sentìt a diga al padrù che 'l te pöl copà perchè té guaresset
miga. Bisogna che saltet sö söbet a mangià e a fat' ved prosperùs se
nó tó 'ö ch'i te cópe ». Ol padrù, che 'l sentìa sti parole, al s'è metìt
a grignà; nel mentre che 'l grignaa l'è riàt in da stala sò moér. « Per
cóssa grìgnet? » E lü 'l gh'à rispòst: « Negót, negót », ma lé la 'ölia
saìl. « E me », 'l dis, « pòs miga dìtel; ghìe 'oja de grignà, ó grignàt ».
La sò moér la s'è metìda a pians e a cridà: « Voi che te dìghet perchè
t'é grignàt ». Ma lü 'l l'à lassàda pians e l'è 'ndàč zo 'n curt lü e 'l
sò ca. Al gh'era là 'l gal e i galine che i era alégher e 'l ca 'l gh'à déč:
« Sì lé xé alégher e 'l padrù 'l ga tata passiù perchè sò moér la sèguita
a pians ». E 'l gal al gh'à respondìt: « Mé ghe n'ó che tate di galine /
e ghe fó a töte quel che voi mé, e lü 'l padrù che 'l ghe n'à apéna öna
l'à miga de es bu de fa stà doér quela? » Al ca 'l gh'à déč: « Coss'al
de fa? » « Dìga che 'l ciape ü bu bastù e 'l la bastùne, e po' 'l ghe
domande se la gh'è passada; se la gh'è miga passada al turne a bastunala
fina che la passada » (84).
(81) Il testo si interrompe a questo punto. Le restanti undici righe sono bianche.
Sono bianche pure le successive pagg. 78-80.
( 82 ) Il titolo è sul mezzo della riga, la frase in corsivo è stata aggiunta più tardi.
( 83 ) Seguono alcune parole non leggibili.
(84) Le rimanenti diciotto righe della pagina sono bianche.
Ol merlo bianc. (Narrata da Veronica Brescianini di Covo)
Gh'éra ü re che gh'ìa tri fiöi; al comensaa a gni 'eč e l'à perdìt la
'éstà. L'è 'ndàč là ü dotur e l'à déč che no 'l gh'era óter riméde che
'ndà a tö ol merlo bianco, ma che l'era molto de lontà e bisognaa
robàl. Ol fiöl piö 'èč al s'è metìt in vias per indà a sircàl. Quando l'à
üt caminàt quac dé, al rìa sö 'n d'öna piassa doe gh'era ü mort.
Sö 'n de sta piassa gh'era de la zét che bastunaa 'l mort; i era i sò
creditùr che lü l'ìa miga pagàt. L'è 'ndàč là sto zuen e 'l gh'à déč:
« Perchè mo bastunà sto póer mort? » Ü vèč al gh'à respondit: « L'è
üsansa de sto paìs de bastunà i morč ch'i a lascàt indré i dèbeč ».
« Pötòst che 'ed istó spetàcol pagherò mé töč i sò dèbeč ». I creditùr
töč contéč i è 'ndàč a ca coi sò solč e lü l'à seguitàt ol sò viàs. Dré
la strada al ghe se presenta 'l mort e 'l ghe dis: « Al sé t' té dóe
bisogna 'ndà per troà 'l merlo bianco? » « Nò » al ghe respónd, « vo
là xé a stampa ». Inalura te 'nsegneró mé; va 'n del tal paìs, te troaré
ü stalàs. Al ghe sarà di guardie; dàga de mangià e de bif, inciòchele
zò bé fina ch'i se 'ndormenta. Quando ch'i dorma va 'n da stanza del
merlo: àrda che 'l sarà 'n d'öna gabia töta róta; nó sta' cambiàla, se
nó lü 'l vusa ». Ol fiöl del re al va e 'nvece de daga scolt al mort,
l'è 'ndàč in d'ön albergo e 'l s'è fermàt là a diertìs senza pensa piö al
merlo gnè al sò pader orb. A ca i vèd che 'l turna piö, ün óter fradèl
al va a' lü per troà 'l merlo. Dopo quac dé l'è riàt a' lü 'n del me-
désem albergo e le 'l s'è fermàt a' lü. Ol ters fradel, dopo de i spetàt
asse 'nvàno, al völ indà a' lü a sircà 'l merlo. / Al s'è redüsìt do'
gh'era i óter fradei; i volìa che 'l se fermés, ma lü l'à tölt sö l'è 'ndàč.
L'è riàt in d'ü paìs do gh'era l'usansa de bat i morč debitùr; l'à fač
quel che l'ìa fač ol sò prim fradèl e 'l mort dré la strada 'l gh'à 'nse-
gnàt come l'ìa de fa a troà 'l merlo. Xé l'à fač; l'è 'ndàč in da stansa
del merlo, al töl sö la gabia e a 'edìla xé bröta l'à ölìt cambiàla. In
del mentre che 'l tölìa föra 'l merlo per mètel in d'öna gabia nöa, al
s'è metìt a usà e con lü töč i óter osèi; al s'è destàt i guardie e i l'à
ciapàt. I la mèna deante al padrù di osèi. « Perchè » al ghe domanda,
« 'ölìet' robà 'l merlo bianc? » « Perchè mé gh'ó mé pader orb e i
gh'l'à ordinàt per medesìna ». « Mé te 'l darès ol merlo, ma in cambe
vorés quela caala ch'è poc distànt de ché e che fa sento mèa a l'ura ».
Ol zuen, a sent ixé, al va a sircà la caala. Per istrada al tróa a' mò
chel mort. « Indo' 'et'? » « Vó a sircà la caala che fa sento mèa a
l'ura ». « Vèdet'? Se te m' dàet iscólt, tó gh'avrésset zemò 'l merlo e
e xé 'l te tóca de tribüla. Te 'nsegneró a' mo per istà 'olta; va 'n del tal
stalàs do' gh'è tance caai; in fonta te troaré öna caala bianca con sö i
förnimenč istrassàč; nó sta' cambiàghei ». Dopo de ì 'nciocàt bé i
guardie l'è 'ndàč in da stala per robà la caala. Al l'à troada che la
perdìa i forniméč a tochèi, e l'à 'ölìt cambiàghei. La caala e töč i caai
i s'è metìč a usà (85); i guardie i l'à arestàt e i l'à menàt deante al
padrù. « Perchè 'ölìet robàm' la caala bianca? ». « Perchè co' la caala
bianca avrés pödìt procüràm ol merlo bianc ». « Bé, 'l dis ol padrù,
quando tó m' porteré ché la bianca come 'l lač e la rossa come 'l vi,
te darò la caala ». Ol zùen al va per sircà la zùena e l'incontra a' mò
chel mort, che ghe dis: « Per cósa m'é t' miga öbedìt? tei meriterésset
miga, ma sčiao, te porterò me do' l'è la bianca come 'l lač e la róssa
come 'l vi ». Riàč a la rìa d'ü fiöm ol mort al gh'à déč: « 'Arda quela
casa, là ghe stà dét ol mago co' la bianca come 'l lač ( 86 ); va sóta la
finestra e quando te la 'èdet fàga 'nsègna de 'egn de bas ». Cosè 'l
fa stó zuèn; lé l'è capitada de bas e 'l mort i à brassàč fo töč du e i
à portač de là del fiöm; po' 'l gh'à déč de caminà fina che i era a la
sità do' gh'era 'l padrù de la caala e de proponìga 'l cambe co' la con-
dissiù però che 'l ghe lassés fa öna spassesada co' la caala in compa-
gnéa de la zùena. Ol padrù l'à acetàt, ma lur, invece de fa la spasse-
sada, i è corìč a la sità del merlo. I se presenta al padrù del merlo
per fa (87) 'l cambe, ma lü a vedistàzùenaal dis: « Mé te (88) darò 'l merlo,
se té te m' daré sta zùena ». « Bé », al ghe respónd ol zùen, « mé te
la dò, ma prima vòi tö sö la caala, la zùena e 'l merlo per fa öna
spassesada 'nsèma inturen a la sità ». In del fa 'l giro de la sità al ghe
compàr ol mort, i à porta via töč e po' 'l ghe dis: « Adès tó gh'é töt
quel che te podìet mai desiderà e mé t'ó ricompensàt de quel che té
tó é fač per mé: te avise a' mo d'öna roba e l'è de comprà miga de
la carne 'endida ». Ol mort al scompàr e 'l zuen co' la caala, la bianca
come 'l lač e 'l merlo i se met in viàs. Al rìa a quela sità do' gh'era
i sò du fradei e 'l sent ch'i era condanàč a la / mort per dèbeč e lü per
desliberài al gh'à pagàt töč i dèbeč. Quei du braghér, in pagamét de
es istač desliberàč, i à fač congüra de bötà quel óter in d'öna sistema;
con di ciàcole i l'à tiràt là e i l'à bötàt dét. Dopo i à tölt sö la zùena,
la caala e 'l merlo e i è corìč a la ca de sò pader, ma la zùena nó la
faa che pians, perchè nó gh'era piö chi l'ìa salvada, ol merlo nó 'l
89
( ) Le ultime nove righe della pagina sono bianche.
( 90 ) Scritto sulla riga che separa il titolo dal testo.
91
( ) Segue « diàol » cancellato.
( 92 ) Una macchia copre la parola che è perciò di lettura incerta.
( 93 ) L'ultima riga della pagina è bianca.
I du orées
94
(Narrata da Veronica Brescianini di Covo) ( )
Du orées i s'è 'ncontràč sö 'n d'öna strada e ü l'à déč: « L'è prope
'ira che a fa mal a s' tróa bé ». Quel óter al gh'à respondìt: « Ma caro
té, te dìghet a l'incontrare; a fa bé s' troa bé e a fa mal a s' troa
mal ». « Nó, mé ó semper vést che a fa mal a s' troa bé, e so' tàt certo
che vói fina fa öna scomessa. Se la prima persuna che m' troa per
strada la dis che a fa mal a s' troa bé, te tóca de dam la tò cassèta
a me; se la dis che a fa bé a s' troa bé, te darò la me cassèta a té ».
Ol prim' om ch'i à 'nscontràt l'era 'estìt de rós e quel l'à déč: « Si-
gür che a fa mal a s' troa bé ». L'à scömit daga la cassèta e solo, sensa
negót, l'è 'ndàč in d'ü bosc. L'à troàt öna gròta e l'è 'ndàč dét a
ricoero. L'èra lé per indormentàs, quando 'l sent a parlà; al gh'era de
föra i striù e la storta stréa la dìs: « Incö ó fač ü striamét che gh' sére
mai riada a fa; ó striàt la fiöla del re e nissü pöl fàla guarì gnè la pöl
miga mör fina che nó la gh'à piö gna öna góta de sang gnè ön'onsa
de carne adòs. Ol remede per guarì la ghe l'à sóta la piö [bela] pianta
del sò giardì: gh'è sóta ü rospo de sèt pis e bisogna ch'i la ciape, ch'i
la faghe bói fina che 'l se redüs a dò carafe de aqua e po' ch'i ghe la
faghe bìf ; inalura la guarirà ». L'orées, ch'era 'n da gròta, l'à sentìt töt.
Apéna che l'à pòdìt vegn de fò l'è 'ndàč al palàs del re; l'è 'ndàč là
come professùr per fa guarì la fiöla del re, e quei che gh'era de guardia
i gh'à déč: « Nò 'l se presente miga, se nó l'è sigùr de fàla guarì, se
nò i / ghe tajà zó 'l có ». Lü 'l s'è presentàt e a la malada 'l gh'à
déč: « Se l'è contéta de fa strepà la pianta piö bela che la gh'à 'n
giardì e se la cred de bìf quel che ghe darò mé, lé la guarirà ». E lé la
ghe respónd: « Al faghe quel che 'l völ, pör che 'l me faghe guarì ».
I strapa la pianta, i tróa 'l rospo e i la fa bói. - Dopo i gh'à fač bìf
l'aqua; a la prima carafa l'à comensàt a sentìs mèi e a la segonda
l'è guarìda del töt. L'à spusàt l'orées che l'à guarida e dopo fač i sposi
i è 'ndàč a fa 'l sò viàs. Dré al viàs i à 'ncontràt quel óter orées, che
nó 'l gh'ìa piö gnè la sò cassèta gnè quela del sò compàgn. Ol sposo
'l s'è fač conòs, al ga dač vergót e po' 'l gh'à déč: « É t' vést se a fa
mal a s' tróa bé? ». « Tó gh'é resù; com'è t' fač a spusà la fiöla
del re? ». Dopo che l'à üt sentìt la storia, al va a' lü a la gròta. Ma
la gh'è 'ndacia mal, perchè i striù i è 'ndàč de dét e i l'à copàt (95).
Sti tre mölinére i èra le tòte tre sentade zo de fò del sò möli, la m'
la cöntaa sö la mé nóna. Manimà i sent di pedù e di cà; e lure i istà
atente cossa 'l vegnìa. I ved che 'l passa fò tri cassadùr; ü l'era 'l re,
l'óter l'era 'l fiöl del re e chel di tri l'era 'l sò servitùr. Al salta sö la
piö bela de sti mölinére e la dis: « [Mé] n'avrés assé de spusà 'l re ».
E la segonda: « Mé n'avrés assé a' del fiöl ». E la tersa: « Mé po'
spuserèf a' 'l servitùr del re ». Sti tri i à sentìt, i è turnàč indré. Lure
quant' i à 'ést a turnà 'ndré sti tri, i gh'à üt öna de quele pure, che
vìo! i è scapade de dét; e po' patapùnfete! i à seràt la porta. E lur i
pica; i ciama zó la piö bela. E le la 'è zò, töta stremida; la (96) derv
la porta, la 'ed che l'è 'l re. « Cara lü, 'l me perdune, che nótre m'à
déč sö ergót de grignà ». « Ah! ah! negót de perdunà; té te é déč che
te spusàet ventéra ol re, e 'l re t'é de spusà. Ciama i otre sorele ».
Sti sčète i vé zo; i gh'ìa öna pura fiöla. Al se fa aante al fiöl del re
e a la segonda al ghe dis: « Té tó é üt de dì che te spuserésset ol fiöl
del re; e 'l fiöl del re te spuseré ». E la tersa, che l'era la piö pisséna
e la piö belìna, al se fa aante 'l servitùr e 'l ga dìs l'istès a' lü. Dopo
i cassadùr i è 'ndàč. A la matina i sa 'ed isti sčète a capita ü carossù
con dét töta bela roba, tace bei vestìč e po' öna caròssa con dét (97)
i tri cassadùr. I gh'à dič de fa prest a 'estìs e po' dopo 'estìde i a fa
saltà sö sö la caròssa e i a ména a spusàs. A quela che l'à tölt ol re
i gh'à metìt sö la coruna; i sò sorele, a 'ed che la staa xé mai bé,
(mé 'l me par de es là a 'édela) / i sò sorele i gh'ìa öna de de quele
rabie, öna de quele rabie, che sčiao! Ol re l'à 'ölìt a' i ótre dò 'n del
sò palàs; ognü gh'ìa ol sò apartament de per lur però. La regina l'è
restada 'ncinta; i sò sorele i gh'ìa (98) rabia (99) e i sircàa de mètegla
in öde al re, e quand al ghe calaa póc a partorì, al rìa öna letra al re
che 'l ghe tocaa de partì söbet. Lü 'l va di cügnade a racomandàga sò
moér e de tègnel informàt. Lü 'l va; apéna dopo quac dé che l'è vià,
lé l'à partorìt. I ved che la gh'à üt ü piö bel sčèt, e lur i ciapa sö sto
[póer] bambì [sensa che lé 'l la vedés], i la porta vià e i ghe porta
lé ü löatì. Ol bambì [i l'à metìt in d'öna cassetina (100) e po' i l'à
bötàt in d'ü fiöm. Inzó ü toc la cassetìna] [(101) l'è 'ndacia 'n d'un mölì
( 96 ) Una « e » che precedeva è stata cancellata.
( 9 7 ) Segue « sti » cancellato.
( 98 ) Segue « üt » cancellato.
(99) Segue una parola cancellata illeggibile.
( 100 ) Segue « d e fer » cancellato.
(101) Questa parte contenuta fra parentesi quadre è aggiunta a pie' pagina.
e la röda la s'è fermada. Ol (102) mölinér al va a 'ed e 'l tróa sta casse-
tina, al la (103) desquarcia, al troa dét sto bel sčetì, e lü 'l ghe n'ìa
giösto miga, al ghe l'à üt xé mai car]. I (104) ghe 'l fa 'ed (105) e i ghe
dìs: « Dio sa cosa 'l dirà 'l tò om, 'e, a (106) iga üt ü löatì ». La malada
la s' mèt a pians comè öna disperada; ciapa stó löatì, la se 'l tira zo
per ol lèč e nó la faa che löcià. Lé la ghe ölìa bé compàgn de iga lé
ü sčetì. Intàt i sò sorele i scrif al re credendo che 'l ghe es de mandà
a dì de copala; scambe al gh'à scréč öna letra de 'ölìga bé tàt a sò
moér comè a sto löatì e de nó faga nigü 'ntórt compàgn che 'l fös istàč
ü sčetì. Lur iscambe (107) i ghe faa töč i sberlèf del mond. De le poc
dé capita a ca 'l re; apéna riàt a ca al ved sto bel löatì ma la sò moér,
poarèta, la gh'ìa öna céra che la faa compassiù. La 'est istà sò moér
ixé 'ndacia, per fala tö fò 'm po', al gh'à fač fa (108) öna gabiina de fer
e po' i è 'ndàč töč tri. I sò sorele i à 'ést che 'l ghe ölia a' mò xé bé,
i völìa mör de rabia. Nò i sìa piö cosè stödià i gh'à mandàt a dì [per
fala egn], che öna di sò sorele l'era malada bé, che xé n'avrès fač ved
a' mò tàte d'otre. Lé l'è turnada söbet col sò löatì e l'era za 'n catìf
istàt ön'otra ölta (109). Lur i ghe 'n faa 'ed öna per sort; quando 'l /
ghe rìa öna letra del re che la gh' desia de nó faga di 'ntórč gnè a sò
moér gnè al löatì, e de faga (110) saì quando [a] sò moér ghe calaa per
partorì, che 'l volìa esser (111) lü presènt. Ma lure, i förbe, i gh'à
mandàt a dì negót. La gh'à üt öna bela sčetina; prope perchè 'l pecàt
al gènera la mort, màndega negót; i è 'ndàč a tö öna löatina (che cör
però, neh! am sarès miga bu nóter, neh!). I ghe scriv al re de scüdàle
tant se i l'ìa miga pödìt avertì, perchè (112) l'à partorìt sensa de nigü
segn che 'l ghe rincrissìa tant che sta ölta l'era öna löatina. A la sčeta
i gh'à fač öna cassetina de fer compàgn del sčet e i l'à bötàda zó per
stó fiöm. Quel mölinér, al ved che 'l se ferma 'l mölì, al va 'ed e 'l
troa ön'otra cassetina. A la derv e 'l troa dét öna bela sčetina. Al la
porta a ca a sò moér. La moér la s' lamentaa, ma lü 'l dis: « Fina che
m' mangerà nóter i mangerà a' lur ». Al vé 'l re a ved come l'è sta
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i
L
storia; lé, permissiù [del Signùr] la staa bé; al fa fà a' mò öna gabiina
e 'l met dét la löatina. L'à mandàt a ciamà ü professùr per domandàga
cosa 'l podìa es istà roba. Ol professùr al ghe respond: « Al dipènd
da quel che le la praticaa ». Ol re alura al gh'à perdìt l'afessiù. L'è
stač a ca 'mpo' e l'à ölìt proà ön'otra olta. « Se sta olta te gh'é a' mò
de chi bestiölì le, te cope ». I sò sorele i s' la godìa a sent ixé. Ol re
l'è turnàt vià; lé l'è restada a ca coi sorele chi la perseguitaa; i era piö
tante i löciade che la faa che gna i bocù de pa che la mangiaa. Passàt
i nöf mìs, la gh'à üt a' mò ü sčet. I sorele i à fač comè i otre 'olte
[e 'l mölinér a' quel di tri]. Ol re l'è miga riàt a ura per ved; l'òrdina
de / fa öna nécia 'n d'ü mür; al fa mèt dét la moér e denàč al ghe
mèt i tre gabiine. Lü 'l se la godìa coi sò cögnàde, e lé poareta, la
'edìa töt e la pödìa negóta. Adès lassémla lé ü momènt e 'ndèm dal
mölinér. I sčeč i era gnič sö granč; ol mölinér l'à mandàt i du sčeč a
fa 'l bagai e la sčeta al l'à mandada a servì 'n d'öna ca. Ü dé la 'ndaa
a tö ü sedelì de aqua, l'à 'ncontràt öna 'egì, che la gh'à déč: « Indó
'e-t', bela sčeta? » « Indó a tö l'aqua per i mé padrù ». E la 'egia:
« Se té tó sé contéta, te fó cambià mestér ». La sčeta la gh'à déč de sé.
« Tö sto caagnölì de bombàs e va a ca tò; fa parì negót col tò tata e
la tò mama (113). Dàga 'mpo' de bonbàs a tò fradel e dìga che 'l vaghe
de lontà; al sentirà ü gran rümùr ma lü no 'l se olte mai 'ndré. Se 'l
se 'olta 'ndré, al deenta öna statöa. E té, ciapa sta spada; se te 'edet
che la se 'nsanguina l'è segn che 'l s'è oltàt (114) indré. Té alura to
'ndaré do' l'è 'ndač tò fradel, ma regórdet bé de quel che t'ó déč ».
Sta 'egì l'è scomparìda. [La sčeta] la 'ed che la spada la s'insanguina;
alura la va, la va, la va e la sent ü rümùr, ü de chi rümùr che v' dighe
oter. La sčeta la se stópa i orege col bombàs de la egì; ma sensa pura
l'à tiràt dréč. La 'ed ü lüsurì de lontà; la 'a là a picà. Al se presenta
la 'egì e la sčeta la s'è sentida töta a consulà. Sta egì la gh'ìa a' mo
ü caagnölì söl bras pié de bombàs. « Cossa fé-t' ché, bela sčeta? »
« So' egnìda ché perchè la spada la s'è 'nsanguinada » (115).
basa: baciare
basì: bacino
ac: anche bé: bene; gnè bé gnè sé: forma
àca: vacca idiomatica per « nulla »
adìa: addio bèc: becco, capro
afàc: affatto bechér: beccaio, macellaio
afessiù: affetto a belase: piano, cfr. a bell'agio
agn: anni bessotù: montone pegg.
ama gió: pender (giù) bif: bere
anze: anzi bo: bue
apròf: vicino, appresso boàssa: stereo di mucca
arda sol co: rivedere il conto delle boi: bollire
azioni a qualcuno, leti.: guar-
bombàs: bambagia, cotone
dare in testa bòra: tronco d'albero
asse: abbastanza bota: buttare, gettare
atùren: attorno, in giro braghér: attaccabrighe, intrigante,
dappoco
B branca: prendere, ghermire
brusà: bruciare
bagài: famiglio, ragazzo di fattoria
busi: buchino
bajà: abbaiare, sparlare
balòs: birbante, cfr. balosso, ba-
logio C
baràca: baracca, gozzoviglia
bàrigo: steccato per ovile o por- caà fo: levare, cavar fuori, spo-
cile, italianizzazione di bàrec gliar(si)
ovile, porcile? caagnól: cestello di vimini
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caéč: cavicchio, bastoncino dò: due
cap: campo dóca: dunque
caponéra: stia anche fig. dóma: soltanto
càren: carne dré: dietro
cassà fò: metter, spinger fuori (èser) dré: star facendo
catà zó: (rac)cattare, cogliere
dröméta: si addormenta
ciaà sö: chiudere a chiave
ciàcole: chiacchiere
ciapà: (ac)chiappare, prendere
çità: città
ciùc: ubriaco
cheèl: capello Èd: vedere
chelò: qui, in questo luogo edva: vedova
chelöga: qui, in questo luogo ègia: vecchia
có: capo, testa egua: acqua
cóbia: corda, fune (ì) eréde: partorire, aver figli
cógo: cuoco èrem : verme
caldéra: caldaia ergü: qualcuno
comenzà: cominciare erì: aprire
compàgn: uguale, simile; come
esibìs: offrirsi, presentarsi
copà: (ac)coppare, uccidere
cör: cuore; a lü 'l ghe 'é 'n del ésta: vista
cör: si ricorda
córegn: corna
coč: cotti
crapà: crepare, morire
cridà: gridare, urlare faméa: famiglia
cridùr: gridore, gridio f a s : fascio
curt: corte, cortile fassinàl: fascina
fastöde: fastidio, preoccupazione
fevra: febbre
D figüra: figura; f i g ü r à : vedere
fintaréa: finta, simulazione
dacórde: d'accordo fiöl: figlio
dé: giorno
fò: fuori
denàč: dinanzi, davanti
denturen: d'intorno, attorno föc: fuoco
de pröf: vicino fómna: donna
dervì : aprire föra: fuori
descorì: discorrere, esser fidanzato fórbe: forse
dét: dentro fornimenč, forniméč: finimenti
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fósc: buio
fracàt: fracassato, rotto
fùren: forno laràns: arancio
füs: fuso laùr: cosa
leč: letto
leéra: leva, attrezzo agricolo
legn: carrozza
lenden: lendine
gabüs: cavolo cappuccio, cfr. lì : lino ga-
buso löatì: lupicino
gandaola: ghianda löc: luogo
genöciù: ginocchioni, in ginocchio löcià: piangere
ghèba: nebbia, foschia lömentàs: lamentarsi
gió: giù (de) lonč: da lontano
giögà: giocare lüsurì: lumicino
gliò: là
gliùra: allora
M
gnì fò: venir fuori
göminsèl: gomitolo madóna: suocera
góta: goccia madrègna: matrigna
grignà: ridere majà: mangiare
massölì: mazzolino (di fiori)
menemà: in quel mentre, immanti-
nente
metìghela: scappare, lett.: metter-
ilò: là cela
ilùra: allora missér: suocero
inàč: avanti möle: ragazze
inalùra : allora mölinéra: molinara, mugnaia
indà: andare moér: moglie
indré: indietro mör: morire
infogà: mettere a fuoco, attizzare
il fuoco
morbìt: accecato N
inpé: in piedi
implenì: riempire nécia: nicchia
intàt: intanto, mentre negóta: nulla, cfr. negotta
intréc: intero nigü: nessuno
ispicotà: picchiare, far rumore nöf: nuovo; gne nöe gne noèle:
frequentat. forma idiom. per « nulla »
nöra: nuora polìto: bene, molto, cfr. polita-
'ntìs: inteso, intesi mente
pöòt: bambola, fantoccio
pör: pure, anche
O
pòta intercalare: che ci vuoi fa-
öč: occhio, occhi re?, niente
öde : odio pöta: ragazza, figlia (non mari-
öf: uovo, uova tata)
öle: olio preda: pietra
ómegn: uomini proisgiù: provvigioni, provviste
öndes: undici pura: paura; pura fiöla: paura
ónsa: oncia grande
ontéra: volentieri put: ponte
orées: orefice
osèl: uccello
òt: otto
ötà: aiutare
quac: qualche
quarcià: coprire, ricoprire
quater: quattro
pagn: panni
palpegnà: palpeggiare R
panìc, panighèt: panico, biada
ramèl: ramoscello
panisèi: pannicelli, pannolini
rampà: (ar)rampicarsi
(fa) parì: fingere
rastèl: cancello, steccato di bastoni
pas: passo (de) recó: di nuovo, cfr. di ricapo
pecà, pica: picchiare (alla porta),
redusì: ridursi, arrivare, giungere
bussare reedìs: arrivederci
pès: pezzo, momento
reméde: rimedio, medicina
pesàde: pedate resù: ragione, cosa detta
petà: gettare sgarbatamente, cfr.
risčà: rischiare
(ap)pettare
röda: ruota
piàns: piangere
pièr: pepe
piöì : piovere
piöč: pidocchi
plécia: coperte e biancheria del sachèl: sacchetto
letto, cfr. piétta šatù: rospo pegg.
plö: più sbogià: rompere, fracassare
pögn: pugno sborà: sborrare
sčafetì: schiaffetto specià: aspettare
scai: scale, gradinate spessegà: affrettare, sollecitare,
scambe: scambio, cambio, barat- cfr. spessecare
to; invece spìssec: pizzico
scarpà: spezzare, prendere pezzetti stal: casa di coloni
scarpolì: ciabattino, calzolaio stöf: stufo, stanco
sčepà: tagliare, rompere (la legna), stréa: strega
cfr. schiappare stremì: impaurirsi, spaventarsi;
sčèt: figlio, ragazzo far giungere a ebollizione
schissà: schiacciare stremida: impaurita, spaventata
sčiao: intercalare indicante suffi- streólč: stravolti
cienza, sovrabbondanza strìa: strega
sčömà: schiumare striamét: ammaliamento, incante-
scömì: dovere, esser costretto simo
scùa: scopa striù: stregone
sdormia: sonnifero strozzà: strascinare
sedelì : secchiello sügà: asciugare
sèlem : sedano sùra: sopra
šena: cena; šenà: cenare
sentàs zó: sedersi, cfr. sentare
sentì: sentire (gli spettri)
serà fò: chiudere, serrare tacà sö: far cuocere, lett. metter
sgranf: crampo, granchio su (alla catena del camino)
sibra: piannella (di sughero) tas (zo): tacere
sic, çic: cinque tata: papà voce infantile
sigér: lavandino tenchina: tinca dim.
siòr: signore tép: tempo
sìra: sera tö, tölì, tö fò: togliere, prender
sircà: cercare (fuori)
sisterna: pozzo, cisterna tòca: asciutta, senza companatico
sità: città tri, tré: tre
sö: su tribülìna: tabernacoletto
söbet: subito treèrs: di, a traverso
söca: zucca trighéf: fermatevi, entrate
söcia: asciutta tus: ragazzo
sòi: tino, tinozza, cfr. soglio
sólet: suole, è solito U
sorč: sorte, tipi, qualità
sórec: sorcio ùrden: ordine
sóta: sotto us: voce
V z
vardà: guardare, badare; cercare, zemò: (di) già
tentare zerlì: gerlo dim.
vérs: verza zét: gente
vif: vivere zó: giù
vusà: vociare, gridare zùena: giovane f.
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