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i.
Le due conferenze (i cui testi, come anche gli altri di questa raccolta rela-
tiva agli anni 1870-73, saranno pubblicati soltanto postumi)1 che Nietzsche
tiene a Basilea il 18 gennaio 1870 e il primo febbraio dello stesso anno, ri-
spettivamente sul Dramma musicale greco e su Socrate e la tragedia, meri-
tano attenzione per almeno tre buoni motivi. Anzitutto, in esse Nietzsche
anticipa i risultati di quel suo «vagabondare nei campi della filologia»1 che
renderà noti nella Nascita della tragedia due anni dopo, e li anticipa in for-
ma più radicale e scabra, libero com'è ancora dalla seduzione wagneriana.
In secondo luogo, egli denuncia la sostanziale insufficienza della stessa fi-
lologia e affida un'estrema e marginale possibilità di accostamento della
tragedia greca alla «fantasia» piuttosto che «all'erudizione, al sapere sac-
cente e presuntuoso», fino al punto di scrivere, in una lettera a Rohde di
quegli stessi giorni: «L'esistenza filologica con aspirazioni critiche ma mil-
le miglia lontana dalla grecità, mi diventa sempre più impossibile»3. Terzo
motivo: nonostante il giovane filologo creda che solo infuturo gli sarà da-
to di esprimere il suo pensiero «in modo serio e franco», là dove invece per
il momento non può che constatare nei suoi uditori «paure e fraintendi-
menti»4, è proprio qui, in particolare nella seconda di queste conferenze,
ch'egli porta in primo piano la domanda decisiva, quella che attraversa
tutta la sua riflessione sul mondo greco e, a partire dal 1872, ne determina
il senso: la domanda, cioè, non tanto sui modi del venire alla luce del tragi-
1
Ora nel voi. m, tomo 2: Nachgelassene Schrtften 1870-1873, della Kritische Gesamtausga-
be, cui si affianca, a partire dal 1977, il Briefwechsel (in 18 voli.) a cura di G. Colli e M. Mon-
tinari, Berlino, 1967 ss. A questo volume, che contiene tra l'altro anche «Die Philosophie im
tragischen Zeitalter der Griechen», si riferiscono le citazioni con la sigla KG, salvo indicazio-
ne contraria. La traduzione è la nostra. Cfr. anche «La filosofia nell'età tragica dei Greci», in
questo voi.
2
Cfr. la lettera a Friedrich Ritschl del 2 agosto 1869.
3
«Das griechische Musikdrama», in KG, in, 2, cit., p. 6. La lettera a Rohde è del gennaio
1870. In essa si possono trovare espressioni che anticipano già le risposte di Nietzsche alle cri-
tiche che Wilamowitz di lì a tre anni avrebbe sollevato contro la Nascita della tragedia, dando
luogo alla celebre polemica cui avrebbe partecipato, oltre allo stesso Rohde, anche, Wagner.
Nietzsche insomma appare fin d'ora consapevole dell'irriducibilità delle sue ricerche all'ambi-
to strettamente filologico. Non altrettanto, invece, Nietzsche sembra rendersi conto di come
queste sue ricerche s'innestino nel solco della filosofia classica tedesca. Una ricostruzione in
questo senso è stata tentata, tra gli altri, da Otto Kein (Das Apollinische und Dionysische bei
Nietzsche und Schelling, Berlino, 1935). Kein ricorda come la problematica fatta valere da
Nietzsche nella Nascita della tragedia e quindi nelle opere giovanili scaturisca dalle radici stes-
se dell'idealismo: infatti, scrive Kein, non solo l'opposizione di dionisiaco e apollineo si trova
già in Friedrich Schlegel, in Hegel e soprattutto in Schelling con accenti che richiamano deci-
samente quelli nietzschiani, ma soprattutto è la stessa opposizione a costituire un motivo di
continuità tra l'ultimo Schelling e Schopenhauer, come avrebbe notato Eduard von Hart-
mann, precisamente l'autore che introdusse Nietzsche alla filosofia di Schopenhauer (cfr. op.
cit., p. 12 ss.). Cfr. anche «La filosofia nell'età tragica dei Greci», in questo voi.
4
Cfr. la lettera a Rohde del 15 febbraio 1870.
26 VERITÀ E MENZOGNA
co (cui pure allude il titolo della contrastata opera del 1872), bensì sulle ra-
gioni del suo tramontare.
II.
In ogni caso gli scritti giovanili di Nietzsche, ad eccezione della Nascita
della tragedia (che in un certo senso è opera meno ricca di implicazioni del-
le altre cui si è fatto cenno), non hanno mai avuto molta fortuna, e questo,
sostanzialmente, per due ragioni; anzitutto, in quanto condizionati da quel
wagnerismo e da quello schopenhauerismo che Nietzsche stesso avrebbe
poi decisamente ripudiato, e poi per il loro carattere semplicemente prepa-
ratorio o tutt'al più anticipatorio. Gli autori che, a partire da Lowith (con
il suo Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkunft des Gleichen, che è
del 1935) e da Heidegger (le sue lezioni universitarie su Nietzsche risalgono
al 1936, mentre i due volumi del Nietzsche sono stati pubblicati nel 1961 J]0
hanno profondamente rinnovato la storiografia nietzschiana, sembrano
per lo più adottare una prospettiva che riduce notevolmente la portata di
questi scritti. C'è accordo, infatti, nel sostenere che solo liberandosi da
Schopenhauer e da Wagner Nietzsche finalmente giunge a sviluppare e a
portare a compimento quei presentimenti ancora distorti e sfigurati dalla
sua disperata fedeltà ai maestri. Addirittura Lowith afferma che in Nietz-
sche il pensiero si dà come «destino» e perciò solo a partire dal suo compi-
mento (qual è espresso dall'idea dell'«eterno ritorno dell'uguale» e quale
Nietzsche vive in prima persona) si lascia interpretare: ultimo discepolo di
Dioniso, dice Lowith, Nietzsche ripropone la domanda sul senso dell'esi-
stenza dell'uomo nel tutto e rimane preso dentro l'inevitabile morsa che fa
del profeta di un «Neuland der Seele» un uomo «im Wahnsinn gekreu-
zigt»11, quasiché il movimento sia non tanto dall'uomo al superuomo, ma,
viceversa, dal superuomo della metafisica all'uomo della lacerazione ap-
punto dionisiaca. Anche Heidegger (il quale, com'è noto, vede in Nietz-
sche l'esecutore della metafisica ma anche la sua vittima, e questo perché la
«volontà di potenza» identifica l'essere con il divenire — il divenire appun-
to è l'essere che è voluto da una volontà — e dunque metafisicamente iden-
tifica l'essere, ne fa qualcosa che è come un ente)12, gioca tutte le sue carte
sull'ultimo Nietzsche e quindi inevitabilmente trascura quegli scritti che,
come soprattutto i molti sulla tragedia, a loro modo si sottraggono all'esi-
to cui Nietzsche perviene con le opere degli anni più tardi.
Ma l'interprete che più recisamente ha negato qualsiasi valore agli scritti
giovanili di Nietzsche è senz'altro Sestov 13. Il quale, sulla base di quel che
9
L'opera di Lowith è stata pubblicata a Berlino e ha inaugurato, come si sa, quella Nietz-
sche-Renaissance che non solo ha fatto giustizia dei noti abusi e stravolgimenti storiografici di
stampo nazista, ma che costituisce oggi più che mai uno dei motivi più interessanti dell'attua-
le dibattito filosofico.
10
Heidegger ha tenuto le sue lezioni su Nietzsche a Friburgo, in Brisgovia, a partire dal se-
mestre invernale 1936 e fino al 1940. Il Nietzsche, che riprende i temi di quelle lezioni, è stato
pubblicato a Pfullingen.
"
12
Op. cit., p. 10.
È questa la tesi presente anche nel saggio, contenuto in Holzwege (1950), Nietzsches
Wort
11
«Goti ist tot».
Cfr. L. Sestov, La filosofia della tragedia in Dostoevskij e in Nietzsche, trad. it. di E. Lo
Gatto, Napoli, 1950.
INTRODUZIONE DI SERGIO GIVONE 29
Nietzsche stesso afferma, non esita a fare di Nietzsche il discepolo e l'erede
di Dostoevskij, cioè il continuatore di quella «filosofia della tragedia» che
consiste essenzialmente, nel riconoscimento del carattere residuale del tragi-
co rispetto a qualsiasi ricomposizione armonica del mondo e della sua as-
soluta irriducibilità ad un'eventuale teodicea. Da questo punto di vista gli
scritti giovanili di Nietzsche non rappresentano neppure una pallida prefi-
gurazione di sviluppi futuri; anzi, ne costituiscono l'antitesi, fiacca ed elu-
siva, dal momento che in essi «si insegna a riconciliarsi con gli orrori della
vita»1*. Non stupisce quindi che Sestov arrivi a definire tutte le opere pre-
cedenti Umano, troppo umano come «romanticismo della più pura acqua,
cioè un più o meno specioso gioco con immagini poetiche e concetti filoso-
fici già pronti»15. (Paradossalmente, però, è proprio Sestov a offrire alcuni
degli spunti più efficaci per una rivalutazione di quelle opere: infatti, die-
tro Sestov, non è più possibile interpretare la relazione posta dall'ultimo
Nietzsche tra volontà di potenza ed eterno ritorno in termini di semplice
rovesciamento del tragico, dal momento che interno al tragico, e dunque in
qualche modo legato alla sua prima formulazione, rimane il rovesciamento
stesso o meglio quella «redenzione» in cui la volontà si appropria, volen-
dolo come suo, del tempo e quindi tutto ciò — Nietzsche ne parla come
dell'«orrore dell'esistenza» — che in esso si consuma.)
Un certo mutamento di prospettiva s'incontra, a questo proposito, in
Deleuze16. È vero che secondo Deleuze il tragico in Nietzsche, così come
viene alla luce negli scritti che mettono capo alla Nascita della tragedia, è
ancora pensato attraverso le stesse categorie — quella di «giustificazione»,
per esempio — di cui viene proposto un superamento. Tuttavia Deleuze ve-
de già in quegli scritti un 'implicita critica della dialettica, per un verso, e
del cristianesimo, per l'altro, la quale applicata al problema del tragico si-
gnifica disvelamento nella tragicità di quella «forma estetica della gioia»
che è al di là sia della dialettica e del suo modo di intendere il negativo sia
del cristianesimo e della metafisica cui esso resterebbe legato11. È questa la
scoperta che fa del filologo già il precursore d'un pensiero in cui il tragico
si manifesta sempre come altro da sé: come gioia, appunto, come riconci-
liazione, o, meglio, come fonte di piacere. Il tragico, dunque, è questo non
essere mai identico con sé, è questa negazione stessa dell'identità: il tragico
è differenza. Anzi, meglio, la «differenza» è ciò che scaturisce dal tragico.
Da questo punto di vista, secondo Deleuze, quell'affermazione della diffe-
renza in cui il pensiero di Nietzsche culmina e si riassume, ne è anche il filo
rosso: giacché sempre si tratta di sostituire il no dialettico con il sì al molte-
plice, al disperso, all'irriducibile, alla totalità, e a questo compito Nietz-
sche si dedica ininterrottamente a partire dalla sua interpretazione della
tragedia greca. Non importa che questa interpretazione si svolga, come di-
ce Deleuze, ancora all'ombra del cristianesimo (Nietzsche è ben lontano
dall'ammetterlo; ma con lucida consapevolezza più tardi accomunerà il
cristianesimo e Schopenhauer) e di Schopenhauer, fondata com 'è sulle no-
zioni di «compassione» e di «ascesi»18: di fatto Nietzsche si è già posto nel-
la prospettiva in cui non è tanto il male uno scandalo per la vita che alla vi-
ta chiede di essere giustificato, bensì la vita una giustificazione per il male e
14
Op.cit.,p. 146.
15
Op. cit., p. 143.
" Cfr. G. Deleuze, Nietzsche, Parigi, 1962.
17
Op. cit.,p. 19.
18
Op. cit.,j>. 13.
30 VERITÀ E MENZOGNA
III.
siero la verità in definitiva tragica per cui redime l'orrore dell'esistenza sol-
tanto colui che lo patisce. Nietzsche sospetta quanto questa verità appar-
tenga all'orizzonte cristiano. Insomma, che Dioniso il redentore per mezzo
della sua passione gli appaia infine come il crocifisso, è un paradosso tut-
t'altro che risolvibile nei termini d'una generica analogia, e tanto meno im-
putabile alla demenza incombente.
SERGIO GIVONE
Due conferenze pubbliche sulla tragedia greca
tà anche in caso di fallimento, qui l'attore, così come nel suo costume
esprimeva un'elevazione al di sopra della figura umana di tutti i giorni,
sentiva anche in se stesso uno slancio nel quale le parole forti, aspre e piene
di passione di Eschilo dovevano essere per lui un linguaggio naturale.
Pieno d'un sacro entusiamo allo stesso modo che l'attore, lo spettatore
stava ad ascoltare: anche su di lui si diffondeva l'atmosfera d'una festa ec-
cezionale e lungamente attesa. Non l'angosciosa fuga dalla noia, non la
voglia di liberarsi ad ogni costo per qualche ora di se stessi e della propria
miserevolezza spingeva quegli uomini a teatro. L'uomo greco fuggiva da
quella vita pubblica per lui così banale e distraente, quella vita nella strada
o nella piazza o nel tribunale, verso la solennità invitante al raccoglimento
e alla pace della rappresentazione teatrale: non come il tedesco antico, il
quale voleva distrarsi ogni volta che spezzava il cerchio della sua esistenza
interiore e che trovava una giusta e piacevole distrazione nei dibattiti giudi-
ziari, che perciò determinarono la forma e l'atmosfera del suo dramma.
L'anima dell'ateniese invece, che veniva ad assistere alla tragedia in occa-
sione delle grandi festività dionisiache, aveva in sé ancora qualcosa di quel-
l'elemento da cui la tragedia era nata. È questo l'impulso primaverile che
scaturisce dirompente, un tumultuare e un infuriare in senso diverso, come
sanno tutti i popoli primitivi e l'intera natura all'approssimarsi della pri-
mavera. Notoriamente anche le nostre rappresentazioni carnascialesche e i
nostri scherzi in maschera hanno la loro origine nelle sagre della primave-
ra, che solo per motivi confessionali sono un po' retrodatate. Quelle por-
tentose processioni dionisiache dell'antica Grecia hanno una certa analogia
con quei danzatori medievali di S. Giovanni e di S. Vito che si muovevano
di città in città danzando e cantando e saltando in masse grandissime e
sempre crescenti. Parli pure di quel fenomeno, la medicina di oggi, come
d'un'epidemia medievale: resta il fatto che il dramma antico è sbocciato da
una tale epidemia e che la sfortuna dell'arte moderna è di non essere venu-
ta fuori da una tale fonte misteriosa. Nulla di sfrenato o di licenzioso, in
queste folle che correvano per i campi e i boschi con selvaggio tumulto, ai
primordi del dramma, con costumi da Satiro e da Sileno, i volti coperti di
fuliggine, di minio e succhi vegetali, con corone di fiori intorno al capo:
l'azione onnipotente della primavera manifestandosi di colpo conduce le
forze vitali a un tale eccesso che ovunque si danno stati di estasi, visioni in-
sieme con la fede in un proprio incantesimo, e creature che sentono allo
stesso modo si aggirano a schiere per tutta la regione. Ed è qui la culla del
dramma. Il quale non incomincia là dove qualcuno si traveste per far na-
scere in altri un'illusione: no, ma piuttosto là dove l'uomo è fuori di sé e si
crede trasformato e oggetto d'incantesimo. Nello stato dell'«essere fuori di
sé», per l'estasi non è necessario che un passo: si tratta non già di ritornare
nuovamente in noi stessi, ma piuttosto di entrare in un altro essere, così da
comportarsi da creature fatate. Perciò sta tutta qui la ragione fondamenta-
le dello stupore che il dramma suscita: il terreno vacilla, così come la fede
nella indissolubilità e nella fissità dell'individuo. E come l'entusiasta di
Dioniso crede alla propria trasformazione, giusto in antitesi al programma
del Sogno d'una notte d'estate, così il poeta drammatico crede alla realtà
delle sue figure. Chi non ha questa fede, può certo far parte dei portatori
di tirso, dei dilettanti, ma non dei veri servi di Dioniso, i bacchici.
Qualcosa di questa vita naturale dionisiaca era ancora nell'anima degli
spettatori al tempo della fioritura del dramma attico. Non si trattava d'un
pubblico d'abbonati, pigro e affaticato, che viene a teatro con i sensi stan-
chi e fiacchi, per lasciarsi trasportare da qualche emozione. In antitesi a
DUE CONFERENZE PUBBLICHE SULLA TRAGEDIA GRECA 45
Qui ritorno a quel punto di vista cui ho già fatto cenno in precedenza,
per cui nel dramma greco l'accento è posto sul patire e non sull'agire; ora
si comprenderà più facilmente perché io ritengo che noi dobbiamo essere
ingiusti nei confronti di Eschilo e di Sofocle e che anzi non li conosciamo
affatto. 11 fatto è che noi non abbiamo nessun criterio in base al quale con-
trollare il giudizio del pubblico attico su di un'opera poetica, perché noi
non sappiamo o sappiamo solo in minima parte come il dolore e più in ge-
nerale la realtà dei sentimenti venisse tradotta in un'impressione capace di
commuovere. Noi siamo, di fronte a una tragedia greca, incompetenti,
perché il suo effetto fondamentale consisteva per una buona parte d'un
elemento che per noi è andato perduto, cioè la musica. Circa la posizione
della musica nel dramma antico vale pienamente ciò che Gluck nella cele-
bre prefazione al suo Alcesti esprime in termini di esigenza. La musica do-
vrebbe sostenere la poesia, rafforzare l'espressione dei sentimenti e l'inte-
resse delle situazioni, senza spezzare l'azione o disturbarla con inutili fio-
rettature. La musica dovrebbe essere per la poesia ciò che la vivacità dei
colori e una felice mescolanza d'ombre e di luci sono per un disegno corret-
to e ben studiato; cose, tutte, che servono unicamente a dar vita alle figure
senza confondere i contorni. La musica perciò è stata esclusivamente usata
come mezzo in vista di uno scopo: suo compito era tradurre il dolore del
dio e dell'eroe nella più forte compassione degli spettatori. Naturalmente
anche la parola ha lo stesso compito, ma per essa diviene molto più diffici-
le, e solo attraverso un percorso meno diretto, raggiungere lo stesso risul-
tato. La parola fa presa anzitutto sul mondo concettuale e solo a partire di
qui sul sentimento, sicché abbastanza spesso a causa della lunghezza della
strada non arriva alla meta. La musica invece penetra nel cuore immedia-
tamente, come autentico linguaggio universale ovunque comprensibile.
Certamente ancora oggi hanno diffusione a proposito della musica greca
certe opinioni, in base alle quali essa non sarebbe stata per niente un tal
linguaggio universalmente comprensibile, ma piuttosto un complesso tona-
le trovato per via erudita, ricavato dalle varie teorie sull'acustica, del tutto
estraneo a noi. Qua e là per esempio ci si attiene ancora alla falsa credenza
che nella musica greca l'intervallo di terza fosse sentito come una disso-
nanza. È bene liberarsi completamente da queste idee ed è bene tener conto
del fatto che la musica dei Greci è molto più vicina al nostro modo di senti-
re che quella medievale. Ciò che si è conservato delle antiche composizioni,
nella sua rigida struttura ritmica rimanda direttamente ai nostri canti po-
polari: del resto è proprio dal canto popolare che sono scaturite sia la mu-
sica sia la poesia degli antichi. Certo c'era anche della musica puramente
strumentale: tuttavia quel che si faceva valere in essa era solo il virtuosi-
smo. Ma l'uomo greco vi sentiva sempre qualcosa di estraneo e di forestie-
ro, qualcosa di asiatico. La musica propriamente greca non è che musica
vocale: la naturale solidarietà di linguaggio verbale e linguaggio tonale non
s'era ancora spezzata, e questo fino al punto che il poeta doveva essere an-
che il compositore della sua lirica. I Greci non potevano apprendere tali li-
riche se non per mezzo del canto; ma anche nell'ascoltare essi percepivano
l'intima fusione di parola e suono. Noi, cresciuti come siamo sotto l'in-
fluenza della moderna degenerazione artistica, della separazione delle arti,
a malapena riusciamo a gustare insieme testo e musica. In effetti ci siamo
abituati a gustarli separatamente, il testo attraverso la lettura — tanto che
non ci fidiamo del nostro giudizio quando una poesia ci vien letta o un
dramma rappresentato, e pretendiamo il libro — e la musica attraverso l'a-
scolto. Inoltre noi troviamo sopportabile anche il testo più assurdo, quan-
DUE CONFERENZE PUBBLICHE SULLA TRAGEDIA GRECA 49
do la musica è bella: il che sarebbe apparso a un greco, in tutto e per tutto,
una barbarie.
Di là dalla già sottolineata parentela di poesia e musica, la musica antica
appare caratteristica per altri due motivi: la sua semplicità, in fatto di ar-
monia, e la sua ricchezza quanto ai mezzi espressivi ritmici. Ho già accen-
nato che il canto corale si distingueva dal canto solista unicamente per il
numero delle voci e che una pluralità peraltro limitatissima, cioè un'armo-
nia nel nostro senso, era ammessa solo per gli strumenti d'accompagna-
mento. Esigenza primaria era che si comprendesse il contenuto dei canti re-
citati: e se davvero era possibile comprendere un canto corale pindarico o
eschileo con le sue audaci metafore e salti di pensiero, bisogna allora am-
mettere qui un'arte della recitazione stupefacente così come una capacità
d'accentuazione e di ritmo del tutto caratteristici. Al fraseggio ritmico-mu-
sicale, che si muoveva nel più stretto parallelismo con il testo, s'aggiungeva
d'altro lato, come mezzo espressivo ausiliario, un certo movimento di dan-
za e cioè l'orchestica. L'evoluzione dei coreuti, che nel vasto piano dell'or-
chestra disegnava arabeschi davanti agli occhi degli spettatori, era colta co-
me una sorta di musica da vedere. Mentre la musica aumentava l'effetto
della poesia, allo stesso modo l'orchestica illustrava la musica. Col che
s'imponeva al poeta e al musicista un nuovo compito: essere un creativo
maestro di ballo.
Qui c'è ancora una parola da dire circa i limiti della musica nel dramma.
Il significato più profondo di questi limiti come tallone d'Achille dell'anti-
co dramma musicale, in quanto è da essi che comincia il suo processo di
decomposizione, non può essere discusso oggi, giacché io penso di trattare
della decadenza della tragedia antica e quindi del punto cui ho appena ac-
cennato nella mia prossima conferenza. Qui basti questo fatto: non tutto
ciò ch'era messo in versi poteva venir cantato e di quando in quando veni-
va anche recitato, con l'accompagnamento di musica strumentale, allo
stesso modo che nel nostro melodramma. Un tal recitare tuttavia dobbia-
mo immaginarcelo come semi-recitativo, e infatti quel suo particolare tono
echeggiante non produceva alcun dualismo all'interno del dramma musica-
le; anzi, era il dominante influsso della musica a farsi sentire potentemente
nel linguaggio. Si ha in qualche modo un'eco di questo tono recitativo nel
cosiddetto tono lezionario, con cui nella Chiesa cattolica si recitano i Van-
geli, le Epistole e molte preghiere. «Il prete che legge per mezzo di pause e
chiuse di frase usa certe flessioni di voci con cui assicura la chiarezza del-
l'esposizione e nello stesso tempo evita qualsiasi monotonia. Ma nei mo-
menti importanti dell'ufficio sacro la voce del celebrante si alza, e il padre
nostro, il prefazio, la benedizione diventano canti declamatori.» Ma so-
prattutto nel rituale della messa cantata molto rimanda al dramma musica-
le greco, solo che in Grecia tutto era molto più splendente, più solare e in
generale più bello, anche se meno interiore e senza quell'enigmatico infini-
to simbolismo della Chiesa cristiana.
Con ciò, egregi signori qui convenuti, io sono giunto alla conclusione. Io
ho paragonato prima l'autore del dramma musicale greco al péntathlos,
colui che partecipa a cinque gare; ma un'altra metafora ci può avvicinare
ancor di più a un tal pentatleta musicodrammatico a fronte di tutta l'arte
antica. Circa la storia dell'abbigliamento antico Eschilo riveste un signifi-
cato particolare, in quanto è lui che ha introdotto quello che costituisce lo
sfarzo, la leggiadria e la grazia dell'abito principale e cioè il panneggia-
mento che cade liberamente, mentre prima di lui i Greci nel vestire barba-
reggiavano alquanto e comunque non conoscevano un tal panneggiamen-
50 VERITÀ E MENZOGNA
to. Il dramma musicale greco è per tutta l'arte antica precisamente quel ve-
stito: con esso qualsiasi costrizione, qualsiasi isolamento delle singole arti è
superato: nella loro festa collettiva si inneggia alla bellezza e nello stesso
tempo all'audacia. Obbligazione e tuttavia grazia, molteplicità e tuttavia
unità, diverse arti nella loro più alta espressione e tuttavia una sola opera
d'arte — ecco l'antico dramma musicale. Ma chi soffermandosi su di esso
si rammentasse dell'ideale dei nostri riformatori dell'arte, ebbene, costui
dovrebbe nello stesso tempo confessare che quell'opera d'arte del futuro
non è altro che un miraggio illusorio, anche se luccicante: ciò che noi ci
aspettiamo dall'avvenire è precisamente quanto già fu realtà — in un pas-
sato più che bimillenario.
dello schiavo domestico bonario e scaltro, che così spesso sta al centro di
tutto il dramma come grande intrigante. Ciò che Euripide nelle Rane di
Aristofane si attribuisce a merito, cioè d'aver svotato l'arte tragica e la sua
gravità attraverso una cura termale, vale anzitutto per le figure degli eroi:
in sostanza lo spettatore sulla scena euripidea vedeva e ascoltava il suo
doppio, sia pur ricoperto dell'abbigliamento sfarzoso della retorica. L'i-
dealità si è rifugiata nella parola e se n'è sparita dal pensiero. Ma certo qui
abbiamo a che fare con il lato luccicante e che salta agli occhi dell'innova-
zione euripidea: il popolo ha imparato a parlare da lui, e lui stesso si vanta
di ciò nella gara con Eschilo: per merito suo il popolo ora sa
mettersi all'opera secondo le regole dell'arte, ponderare parola per parola
osservare, pensare, vedere, capire, raggirare, amare, insinuare,
diffidare, negare, esaminare attentamente.
Grazie a lui alla commedia nuova si è sciolta la lingua, mentre fino a Eu-
ripide non si sapeva come far esprimere sulla scena in maniera acconcia la
vita quotidiana. Il ceto medio borghese, sul quale Euripide fondava tutte le
sue speranze politiche, ottiene ora la parola, dopo che fino a quel momen-
to nella tragedia a dettar legge quanto al linguaggio era stato il semidio, co-
sì come nella commedia antica il Satiro ebbro o il semidio.
Ho rappresentato casa e masseria, luoghi del nostro vivere e agire
E mi sono esposto al giudizio dal momento che tutti, conoscitori di queste cose,
Hanno giudicato la mia arte.
colo, racconti chi egli sia, di cosa tratti l'azione, che cosa è già successo e
che cosa succederà nel corso della rappresentazione, bene, un drammatur-
go moderno definirebbe certamente tutto ciò come una sconsiderata rinun-
cia all'effetto della tensione. Si sa già tutto quel che è accaduto e quel che
accadrà: chi vorrà aspettare la fine? Ben altrimenti rifletteva Euripide.
L'effetto della tragedia antica non poggiava mai sulla tensione, sull'inquie-
tante incertezza di ciò che sta per avvenire, ma piuttosto su quelle scene di
pàthos grandiosamente strutturate, nelle quali la sostanza musicale del di-
tirambo dionisiaco si faceva di nuovo sentire in tutta la sua forza. Ma ciò
che impedisce la fruizione di tali scene a un livello di massima intensità, è
un anello mancante, una smagliatura nel tessuto dell'antefatto; fin tanto
che lo spettatore deve badare attentamente a chi è questa o quella persona
o al senso di questa o di quella azione, è impossibile calarsi pienamente in
ciò che gli eroi patiscono o fanno, è impossibile insomma la compassione
tragica. In Eschilo e in Sofocle per lo più si faceva in modo, con dei sottili
artifici, di dare in mano allo spettatore fin dalle prime scene come per caso
tutti i fili necessari alla comprensione; col che si esibiva anche quell'alta
maestria che per così dire maschera ciò che è necessario, formale. Ma Euri-
pide credette comunque di osservare che in quelle prime scene lo spettatore
era del tutto a disagio, alle prese con l'indovinello dell'antefatto, sicché per
lui la bellezza poetica dell'esposizione andava perduta. Perciò egli scrisse
un prologo in forma di programma e lo fece declamare da un personaggio
attendibile, una divinità. Così egli potè anche trattare il mito più libera-
mente, giacché per mezzo del prologo gli era possibile mettere in chiaro
qualsiasi dubbio circa la. sua elaborazione del mito. Nella perfetta consape-
volezza di questo suo vantaggio, nelle Rane di Aristofane così Euripide si
scaglia contro Eschilo:
E allora io mi rivolgerò ai tuoi prologhi
Per poter così criticare di lui, il grande spirito,
La prima parte della tragedia!
Egli è confuso, quando racconta come stan le cose.
Quel che però vale per il prologo, vale anche per il famigerato deus ex
machina: esso delinea il programma del futuro, così come il prologo quello
del passato. Tra l'antefatto e il postfatto epici stanno la realtà drammati-
co-lirica e il presente.
Euripide è il primo drammaturgo che segue consapevolmente un'esteti-
ca. Di proposito egli cerca ciò che è perfettamente comprensibile: i suoi
eroi sono nei fatti quel che sono quando parlano. Essi si esprimono total-
mente attraverso le parole, là dove invece i personaggi di Eschilo e di Sofo-
cle sono assai più profondi e più pieni rispetto alle parole che dicono: pro-
priamente essi balbettano su di sé. Euripide dà forma ai personaggi, e nello
stesso tempo li decostruisce: di fronte alla sua anatomia essi non hanno più
niente di nascosto. Se Sofocle aveva detto di Eschilo ch'egli faceva il giusto
pur senza averne coscienza, Euripide avrebbe dovuto dire di lui ch'egli fa-
ceva quel che non bisognava fare, poiché non ne aveva coscienza. Ciò che
Sofocle nei confronti di Eschilo sapeva di più e ciò che teneva per buono
non era niente che andasse al di là dell'ambito dell'artificio tecnico; nessun
poeta dell'antichità fino a Euripide era stato nella condizione di giustifica-
re le sue migliori trovate con ragioni estetiche. Ed è appunto questo il mira-
colo dello sviluppo di tutta l'arte greca: che il concetto, la coscienza, la teo-
ria non erano ancora pervenuti ad espressione verbale e tutto ciò che l'al-
lievo poteva imparare dal maestro era ricavabile dalla tecnica. In questo
senso si può dire che quanto dà a Thorwaldsen quel tono fittizio di antico è
54 VERITÀ E MENZOGNA
il fatto ch'egli rifletteva poco, e parlava e scriveva male, che il sapere pro-
priamente artistico non gli aveva ancora penetrato la coscienza.
Intorno a Euripide c'è come un alone fosco, che è proprio degli artisti
moderni: il carattere quasi non greco della sua arte può essere espresso nel
modo più conciso in termini di socratismo. «Tutto dev'essere consapevole,
per essere bello», ecco la formula di Euripide, parallela a quella socratica:
«Tutto dev'essere consapevole, per essere buono». Euripide è il poeta del
razionalismo socratico.
Nell'antichità greca si ebbe il sentimento della reciproca appartenenza di
questi due nomi, quello di Socrate e quello di Euripide. Era molto diffusa
in Atene l'opinione che Socrate aiutasse Euripide a poetare: dal che si può
anche dedurre quanto di socratico venisse finemente percepito nella trage-
dia euripidea. I fautori del «buon tempo antico» avevano cura di pronun-
ciare in un sol fiato i nomi di Socrate e di Euripide come di corruttori del
popolo. Risulta inoltre che Socrate solitamente si asteneva dall'assistere a
tragedie, ma era tra gli spettatori se veniva portata in scena una nuova ope-
ra di Euripide. In un senso più profondo i due nomi sono messi l'uno ac-
canto all'altro nel famoso responso di quell'oracolo delfico che produsse
un effetto decisivo sulla concezione della vita di Socrate. La parola del dio
delfico, in base alla quale Socrate risultava il più saggio degli uomini, con-
teneva anche il giudizio che toccasse ad Euripide il secondo premio nella
gara della saggezza.
Si sa quanto Socrate sulle prime fosse diffidente nei confronti del verdet-
to del dio. Per vedere se il dio aveva ragione, egli si recò dagli uomini di
Stato, dagli oratori, dai poeti e dagli artisti, in modo da verificare se non ci
fosse uno più saggio di lui. Ma la parola del dio la trova giustificata ovun-
que: vede i più celebri uomini del suo tempo esibire un alto concetto di sé e
scopre ch'essi non hanno neppure un'effettiva consapevolezza della loro
attività, ma agiscono solo per istinto. «Solo per istinto», ecco il chiodo su
cui batte il socratismo. Mai come in quella tendenza della vita di Socrate, il
razionalismo si è mostrato più ingenuo. Mai in questo orizzonte è venuto
un dubbio circa la giustezza della posizione del problema nel suo insieme.
«Saggezza è sapere»; e «non si sa, ciò che non si può esprimere e ciò di cui
non si può persuadere altri». Questo è più o meno il principio di quella
strana attività missionaria di Socrate, che dovette raccogliere intorno a sé
una nube della più cupa irritazione, certamente perché nessuno era in gra-
do di impugnare il principio stesso contro Socrate: per questo si sarebbe
dovuto avere ciò che appunto non si aveva, quella superiorità socratica
nell'arte della disputa, nella dialettica. A partire dall'infinitamente appro-
fondita coscienza germanica quel socratismo appare come un mondo del
tutto capovolto; ma è da supporre che già anche ai poeti e agli artisti di
quei tempi Socrate dovesse presentarsi per lo meno come molto noioso e ri-
dicolo, per lo meno quando con la sua sterile euristica faceva valere la se-
rietà e la dignità di una vocazione divina. I fanatici della logica sono insop-
portabili come vespe. E ora si pensi a una volontà smisurata dietro un in-
telletto così unilaterale, così come alla forza originaria d'un carattere in-
flessibile in una deformità d'aspetto stranamente attraente: e si potrà capi-
re come un così grande talento come Euripide precisamente dalla serietà e
dalla profondità del suo pensiero potesse essere trascinato quasi inevitabil-
mente sulla via scoscesa d'un fare artistico cosciente. Il declino della trage-
dia, come Euripide credette di vederlo, era una fantasmagoria socratica:
poiché nessuno sapeva tradurre adeguatamente in concetti e parole la sa-
pienza dell'antica tecnica artistica, Socrate e con lui il plagiato Euripide
DUE CONFERENZE PUBBLICHE SULLA TRAGEDIA GRECA 55
concetto comune, non doveva darsi per il dialogo platonico niente di natu-
ralistico che fosse oggetto d'imitazione. Così egli oscilla tra tutti i generi
d'arte, tra prosa e poesia, racconto, lirica, dramma, allo stesso modo in
cui ha spezzato la rigorosa antica legge della forma linguistica — stilistica-
mente — unitaria. Gli scrittori cinici poi porteranno il socratismo a una de-
formazione ancora più grande: essi cercheranno nei più marcati contrasti
stilistici e nell'oscillazione tra forme prosaiche e forme metriche di rispec-
chiare anche quell'aspetto esteriore di Socrate che lo faceva simile a un Si-
leno, quei suoi occhi da granchio, quelle sue labbra a cuscinetto e quel suo
ventre cadente.
Chi farà attenzione all'influsso antiartistico del socratismo, un influsso
radicantesi in profondità anche se qui se ne fa solo un cenno, non potrà
non dar ragione ad Aristofane, quando fa cantare al coro:
Viva chi con Socrate
Non vuol sedere e discutere
Chi non disprezza l'arte delle Muse
E non guarda schifato dall'alto in basso
Il più alto momento della tragedia!
Proprio una bella follia questa,
Prestare una diligenza inoperosa
A discussioni boriose e vuote
E a un astratto almanaccare.
Ma quanto di più profondo si poteva dire a Socrate, glielo disse un so-
gno. Spesso capitava a Socrate, com'egli stesso ebbe a raccontare agli ami-
ci in prigione, di sognare lo stesso sogno, dove gli veniva detta sempre la
stessa cosa: «Socrate, fa' della musica!». Socrate fino ai suoi ultimi giorni
si è attenuto all'opinione secondo cui la sua filosofia sarebbe la musica più
alta. Finalmente in prigione, per sgravarsi l'animo, si adattò anche a que-
sto, a coltivare quella musica «volgare». E in effetti tradusse in versi certe
favole in prosa che conosceva; ma io non credo che con questi esercizi me-
trici si sia riconciliato con le Muse.
In Socrate prende corpo quel particolare aspetto della grecità, quella
chiarezza apollinea, senza nessuna commistione estranea; egli risplende co-
me un raggio di luce perfettamente trasparente, come il messaggero e l'a-
raldo della Scienza, che proprio in Grecia doveva avere la sua nascita. Ma
la scienza e l'arte si escludono a vicenda: da questo punto di vista è signifi-
cativo che Socrate sia il primo grande greco ad essere brutto, tutto essendo
in lui simbolico. Egli è il padre della logica, la quale presenta nel modo più
generale il carattere della scienza; egli è il distruttore del dramma musicale,
che aveva radunato in sé i raggi di tutta l'arte antica.
Egli è distruttore del dramma musicale in un senso anche più profondo
di quanto si sia finora potuto dire. Il socratismo è più antico di Socrate; il
suo influsso dissolv'itore dell'arte si fa notare già da molto prima. L'ele-
mento, a lui proprio, della dialettica già molto tempo prima di Socrate si
era insinuato nel dramma musicale e aveva prodotto guasti in quel bel cor-
po. La degenerazione incomincia dal dialogo. Notoriamente il dialogo non
è originario nella tragedia; è solo da quando si danno due attori insieme,
cioè relativamente tardi, che si sviluppa il dialogo. Già prima esisteva un
che di analogo nello scambio di battute tra l'eroe e il corifeo: tuttavia qui il
contrasto dialettico era impossibile per via della subordinazione dell'uno
all'altro. Ma non appena due personaggi principali dello stesso livello stet-
tero uno di fronte all'altro, esplose, in conformità ad un impulso profon-
damente ellenico, la competizione e precisamente la competizione fatta di
DUE CONFERENZE PUBBLICHE SULLA TRAGEDIA GRECA 57
mente affine ad Eschilo come nessun altro. Si sa, solo il simile riconosce il
simile.
Per concludere un'ultima questione. Il dramma musicale è realmente
morto, morto per tutti i tempi? Davvero deve il tedesco non poter mettere
accanto a quella scomparsa opera d'arte del passato altro che la «grande
opera», più o meno come accanto a Ercole era solita apparire la scimmia?
È questa la questione più seria che si ponga alla nostra arte: e chi come te-
desco la serietà di questa questione [testo interrotto, N.d.T.]
La visione dionisiaca del mondo
1.
I Greci, che nello stesso tempo si pronunciano e tacciono sulla dottrina
esoterica della visione del mondo che riguarda i loro dèi, hanno posto co-
me doppia fonte della loro arte due divinità, Apollo e Dioniso. Questi no-
mi rappresentano nel campo dell'arte due poli opposti d'ordine stilistico,
che si presentano quasi sempre in lotta l'un con l'altro e che solo una volta,
nel momento della fioritura della «volontà» ellenica, appaiono fusi nell'o-
pera d'arte della tragedia attica. In effetti sono due gli stati in cui l'uomo
raggiunge il sentimento estatico dell'esistenza: il sogno e l'ebbrezza. La
bella apparenza del mondo del sogno, in cui ciascun uomo in tutto e per
tutto è artista, è l'origine di ogni arte figurativa e, come vedremo, anche di
una metà importante della poesia. Noi godiamo la forma in una compren-
sione immediata, tutte le forme anzi ci parlano; non c'è nulla di interscam-
biabile e di non necessario. Nella vita più alta di questa realtà di sogno tut-
tavia noi abbiamo ancora il trasparente sentimento del suo essere apparen-
za; sentimento, questo, che non appena viene a mancare dà via libera agli
effetti patologici, dove il sogno non è più ristoratore e dove la forza risana-
trice della natura cessa. Ma, entro quei limiti, non sono soltanto le imma-
gini piacevoli e gioiose quelle che noi cerchiamo in noi con quella assenna-
tezza che è di tutti: no, anche il serio, il triste, il torbido, l'oscuro sono os-
servati con lo stesso piacere, solo che appunto anche qui il velo dell'appa-
renza dev'essere leggermente mosso e le forme fondamentali della realtà
non possono essere interamente coperte. Dunque, mentre il sogno è il gio-
co d'un singolo uomo con il reale, l'arte dell'artista figurativo (in un senso
più ampio) è il gioco con il sogno. La statua come blocco di marmo è qual-
cosa di molto reale, ma la realtà della statua come figura di sogno è la vi-
vente persona del dio. Finché la statua come immagine fantastica sta da-
vanti agli occhi dell'artista, egli gioca ancora con il reale; ma quando tra-
duce questa immagine nel marmo, egli gioca con il sogno.
Ora, in che senso Apollo poteva essere considerato dio dell'arte? Solo in
quanto egli è il dio delle rappresentazioni del sogno. Egli è in ogni caso il
«risplendente»: nella sua radice più profonda è il dio del sole e della luce,
che si rivela nello splendore. La «bellezza» è il suo elemento: eterna giovi-
nezza gli è propria. Ma anche la bella apparenza del mondo del sogno è il
suo regno: la più alta verità, la perfezione di questi stati in opposizione alla
malcomprensibile realtà diurna, lo sollevano al rango di dio profetico, ma
appunto perciò anche al rango di dio artistico. Il dio della bella apparenza
deve essere anche il dio della conoscenza vera. Ma quel limite appena ac-
cennato, che l'immagine di sogno non può oltrepassare senza cadere nel
patologico, là dove non solo illude ma anche inganna, non può mancare
all'essenza di Apollo: è quella limitazione misurata, quella libertà dagli im-
pulsi più selvaggi, quella saggezza e calma del dio plastico. Il suo occhio
LA VISIONE DIONISIACA DEL MONDO 61
2.
Gli dèi greci nella loro compiutezza, quale già ci è dato incontrare in
Omero, certo non sono da intendere come figli della necessità e del biso-
gno: tali esseri non sono certo stati inventati da un animo angosciato, e
non è che una geniale fantasia abbia proiettato le sue immagini in cielo per
sottrarsi alla vita. In esse parla una religione della vita, non del dovere o
dell'ascesi o della spiritualità. Tutte queste figure diffondono il trionfo del-
l'esistenza, un sentimento esuberante della vita accompagna il loro culto.
Esse non esigono niente: in esse l'esistente è divinizzato, indipendentemen-
te dal fatto se sia buono o cattivo. Commisurata alla serietà, alla sacralità e
all'austerità di altre religioni, quella greca corre il rischio di essere sottova-
lutata come una fantasticheria giocosa — se non si mette in chiaro un trat-
to, spesso disconosciuto, di profondissima sapienza, per mezzo del quale
quelle divinità epicuree appaiono senz'altro come la creazione di un incom-
parabile popolo di artisti e quasi come la più alta creazione in assoluto. È
64 VERITÀ E MENZOGNA
la filosofia del popolo, quella che l'incatenato dio dei boschi svela ai mor-
tali: «La cosa migliore è non essere nati, altrimenti, morire presto». È una
filosofia del genere quella che fa da sfondo a quel mondo di dèi. Il greco
conosceva gli orrori e le atrocità dell'esistenza, ma li velava, per poter vive-
re: una croce occultata tra le rose, secondo il simbolo goethiano. Che l'im-
magine d'un Olimpo luminoso si sia imposta, deriva dal fatto che si dove-
va nascondere, per mezzo di figure solari come quelle di Zeus, Apollo,
Hermes ecc., quell'oscuro dominio della moira che è causa per Achille d'u-
na morte precoce e per Edipo d'una unione nefasta. Se l'apparenza artisti-
ca di quel mondo di mezzo fosse stata soppressa, allora si sarebbe dovuto
adottare la sapienza del dio dei boschi, del seguace dionisiaco. Ecco la ne-
cessità in base alla quale il genio artistico di questo popolo ha creato tali
dèi. Per questa ragione una teodicea non ha mai fatto problema per i Gre-
ci: ci si guardò dall'imputare agli dèi l'esistenza del mondo e dunque la re-
sponsabilità per com'esso è fatto. Anche gli dèi sono soggetti àìVanànke:
questa è una dichiarazione di rara sapienza. Vedere la propria esistenza co-
sì com'essa è ma in uno specchio trasfigurante e con questo specchio ripa-
rarsi dalla Medusa — era questa la geniale strategia della «volontà» elleni-
ca in generale per poter vivere. Come altrimenti avrebbe infatti potuto sop-
portare l'esistenza quel popolo così infinitamente sensibile e così luminosa-
mente predisposto al dolore, se la stessa cosa non gli fosse apparsa nei suoi
dèi come trasfigurata da una gloria più alta! Lo stesso impulso che chiama
l'arte alla vita come completamento e perfezionamento che invogliano a
una vita ulteriore, fece sorgere altresì il mondo olimpico, un mondo della
bellezza, della calma, del piacere.
Per effetto di una tale religione, nel mondo greco la vita viene concepita
come qualcosa che è desiderabile di per sé: la vita sotto il chiaro bagliore
solare di simili dèi. Il dolore dell'uomo omerico si definisce a partire dal
congedo da questa esistenza, soprattutto quando il congedo è prematuro:
in generale, se si levano lamenti, è per «Achille dalla breve vita», per il ra-
pido trapasso delle generazioni, per la fine dei tempi eroici. Non è indegno
dei più grandi eroi aspirare a una continuazione della vita, foss'anche una
vita da servi. La «volontà» non si è mai espressa così apertamente come
presso i Greci, dove anche il lamento è un inno in sua lode. Perciò l'uomo
moderno ha nostalgia per quel tempo in cui crede di sentire il perfetto ac-
cordo di uomo e di natura; perciò è in un orizzonte greco che si trova la pa-
rola decisiva per tutti coloro che cercano modelli luminosi per la loro con-
sapevole affermazione della volontà; perciò è dalle mani di scrittori sen-
suali che vien fuori il concetto di «serenità greca», sicché una vita scape-
strata e oziosa trova modo in un certo senso irriverente di giustificarsi e an-
zi di nobilitarsi con la parola «greco».
In tutte queste rappresentazioni, che degenerano da ciò che è più nobile
a ciò che è più volgare, lo spirito greco è colto con rozzezza e in maniera
semplicistica e in una certa misura sulla base di immagini che ne hanno da-
to popoli privi di ambiguità e insomma tutti d'un pezzo (i romani, per
esempio). Tuttavia il bisogno di apparenza artistica dovrebbe essere dato
per scontato nella visione del mondo d'un popolo capace di trasformare in
oro tutto quello che tocca. Del resto in questa visione del mondo s'incontra
realmente, come già accennato, una sconfinata illusione, la stessa di cui la
natura si serve così regolarmente nel perseguimento dei suoi scopi. La vera
meta viene occultata da un'immagine di sogno: verso questa noi tendiamo
le mani, e la natura ottiene quella grazie al nostro inganno. Presso i Greci
la volontà ha voluto intuirsi come trasfigurata in opera d'arte: per esaltare
LA VISIONE DIONISIACA DEL MONDO 65
se stessa, i suoi prodotti dovettero sentirsi degni di esaltazione, dovettero
vedersi riflessi in una sfera più alta, quasi innalzati alla sfera dell'ideale,
senza che questo mondo perfetto dell'intuizione valesse da imperativo o da
rimprovero. Questa è là sfera della bellezza, nella quale essi scorgono le lo-
ro immagini speculari, gli Olimpici. Con quest'arma la volontà greca lottò
contro la disposizione correlativa a quella artistica, la disposizione per il
dolore e per la sapienza del dolore. Da questa lotta e come monumento
della vittoria conseguita da essa è nata la tragedia.
L'ebbrezza dei dolore e il bel sogno hanno le loro diverse costellazioni di
dèi: la prima con l'onnipotenza del suo essere penetra i più reconditi pen-
sieri della natura, conosce il tremendo impulso verso l'esistenza e nello
stesso tempo la morte che incombe su tutto ciò che è trascinato ad esistere;
gli dèi ch'essa modella sono buoni e cattivi, simili al caso essi terrorizzano
con una inesorabilità che affiora improvvisa, sono senza pietà e senza gu-
sto per il bello. Sono affini alla verità e prossimi al concetto: raramente e
difficilmente si concretizzano in figure. Guardarli pietrifica: come si può
vivere con loro? Ma non lo si deve: ecco il loro insegnamento.
Dal mondo di questi dèi, che non si poteva svelare interamente come un
segreto inviolabile, lo sguardo dovette essere distolto verso quella luminosa
e contigua figurazione di sogno che è il mondo olimpico: perciò tanto più
intensa si leva la vampa dei suoi colorì e la sensualità delle sue forme,
quanto più forte è fatta valere la verità o il suo simbolo. Né la battaglia tra
verità e bellezza fu mai più grande che con l'irruzione del culto dionisiaco:
in esso la natura si svelava e parlava del suo mistero con spaventosa chia-
rezza, con il suono, a fronte del quale la seducente apparenza aveva quasi
perduto il suo potere. Questa fonte era sgorgata dall'Asia; ma in Grecia
doveva diventare un torrente, giacché trovò qui per la prima volta ciò che
l'Asia non le aveva offerto: la sensibilità più eccitabile e la disposizione al
dolore insieme con un'intelligenza e un'acutezza delle più sottili. In qual
modo Apollo salvò la grecità? Accogliendo nel mondo della bella apparen-
za, cioè nel mondo olimpico, il nuovo venuto: a lui furono sacrificati molti
degli onori propri delle divinità più importanti, come per esempio Zeus e
Apollo. Mai si sono fatti tanti complimenti con un forestiero: e dire che si
trattava anche d'un forestiero che incuteva terrore (hostis sotto ogni aspet-
to), abbastanza forte per scuotere dalle fondamenta la casa in cui era ospi-
te. Una grande rivoluzione incominciò in tutte le forme di vita: Dioniso fe-
ce sentire ovunque la sua presenza, anche nell'arte.
La contemplazione, la bellezza, l'apparenza definiscono l'ambito del-
l'arte apollinea: è il mondo trasfigurato dell'occhio, che crea artisticamen-
te un sogno a palpebre chiuse. Anche l'epos vuol portarci a questo stato di
sogno: noi non dobbiamo vedere a occhi aperti e dobbiamo invece pascerci
delle immagini interiori, la cui produzione il rapsodo cerca di suscitare in
noi con i suoi concetti. L'effetto delle arti figurative qui lo si ottiene per
via traversa: lo scultore attraverso il marmo lavorato ci conduce a quel dio
vivente che lui ha visto in sogno, sicché la figura presentata come télos ap-
pare in evidenza tanto allo scultore quanto allo spettatore e il primo tra-
smette al secondo la sua visione per mezzo della figura mediatrice della sta-
tua, il poeta epico, invece, vede la stessa figura vivente e la offre in visione
anche ad altri, ma tra sé e gli altri non pone nessuna statua. Piuttosto rac-
conta come quella figura attesta la sua vita con gesti, suoni, parole, azioni,
ci costringe a riportare una quantità di effetti alle loro cause, ci obbliga a
una composizione artistica. Ha raggiunto il suo scopo quando noi vediamo
con chiarezza di fronte a noi la figura o il gruppo o l'immagine, quando ci
66 VERITÀ E MENZOGNA
partecipa quel suo stato di sogno nel quale lui stesso per primo ha prodotto
quelle rappresentazioni. Che l'epica induca a creare plasticamente, dimo-
stra quanto assolutamente differenti siano l'epica e la lirica, dal momento
che la lirica non ha mai come scopo quello di ricavare forme dalle immagi-
ni. Ciò che epica e lirica hanno in comune è solo qualcosa di materiale, la
parola, e ancor più in generale il concetto: quando noi parliamo di poesia,
non abbiamo in proposito una categoria che sia coordinata con l'arte figu-
rativa e con la musica, bensì la fusione di due mezzi artistici in sé totalmen-
te differenti, dei quali l'uno indica la via per l'arte figurativa, l'altro invece
quella per la musica: entrambi sono solo vie che portano alla creazione ar-
tistica, non arti in se stesse. In questo senso naturalmente anche la pittura e
la scultura sono solo mezzi artistici: l'arte vera e propria è la capacità di
produrre immagini, indipendentemente dal fatto che si tratti d'un produrre
originario o d'un produrre derivato. Su questa proprietà — dell'uomo in
generale — si basa il significato culturale dell'arte. L'artista — come que-
gli che induce all'arte attraverso un determinato mezzo artistico — non
può essere nello stesso tempo l'organo recettivo dell'attività artistica.
Il culto dell'immagine che è proprio della cultura apollinea, quale si ma-
nifesta nel tempio, nella statua o nell'epos omerico, aveva il suo scopo più
alto nell'esigenza etica della misura, che corre parallela all'esigenza estetica
della bellezza. La misura fatta valere in quanto esigenza è possibile solo là
dove la misura, il limite, passa per riconoscibile. Per tener fermi questi li-
miti, bisogna conoscerli: di qui l'ammonimento apollineo del gnòthi seau-
tòn. Ma lo specchio, nel quale soltanto il greco apollineo poteva vedersi e
cioè riconoscersi, era il mondo degli dèi olimpici: qui egli poteva riconosce-
re la sua essenza più intima, velata dalla bella apparenza del sogno. La mi-
sura, sotto il cui giogo si muoveva il nuovo mondo di dèi (a fronte di un di-
strutto mondo di Titani), era quello della bellezza: il limite, cui il greco do-
veva attenersi, era quello della bella apparenza. Lo scopo specifico di una
cultura tutta basata sull'apparenza e sulla misura in effetti può essere solo
l'occultamento della verità: al ricercatore instancabile nel perseguirla così
come al tracotante Titano viene rivolto l'ammonimento del medèn àgan.
Nel Prometeo si mostra alla grecità un esempio di come un ampliamento
eccessivo della conoscenza umana abbia effetti nefasti sia per chi lo pro-
muova sia per chi ne risulti favorito. Chi vuol mettersi di fronte al dio con
la sua sapienza deve, come dice Esiodo, métron échein sophìes.
In un mondo così strutturato e protetto ad arte fece allora irruzione il
suono estatico della festa di Dioniso, dove tutto l'eccesso della natura in
gioia e dolore e conoscenza si rivelò in un colpo solo. Tutto ciò che fino ad
allora si era fatto valere in termini di limite e di misura, si rivelò qui come
apparenza artistica, mentre l'«eccesso» si svelò come verità. Per la prima
volta si sentì fremere il canto popolare dal fascino demoniaco in tutta l'e-
brietà d'un sentimento straripante. Che cosa poteva significare al contrario
l'artista salmodiarne apollineo, con i timidi e solo accennati accordi della
sua kithàral Ciò che precedentemente era stato trapiantato entro corpora-
zioni poetico-musicali secondo criteri di casta e perciò era stato tenuto lon-
tano da ogni commistione profana, ciò che doveva essere conservato in vir-
tù della potenza apollinea sul piano di una semplice architettonica, insom-
ma l'elemento musicale, qui si liberò d'ogni costrizione: la ritmica, che pri-
ma si muoveva nel più semplice degli zig-zag, sciolse le sue membra nella
danza baccantica: si levò la voce strumentale, non più come prima in una
rarefazione spettrale, bensì con un aumento moltiplicato dalla massa e con
un accompagnamento dei più bassi strumenti a fiato. E quanto c'è di più
LA VISIONE DIONISIACA DEL MONDO 67
misterioso venne alla luce: venne al mondo l'armonia, la quale nel suo mo-
vimento porta ad immediata comprensione la volontà della natura. Nell'o-
rizzonte dionisiaco ebbero voce cose che nel mondo di Apollo erano tenute
nascoste ad arte: tutto lo scintillio degli dèi olimpici si affievolì di fronte al-
la sapienza di Sileno. Un'arte che nella sua ebbrezza estatica diceva la veri-
tà spaurì le muse dell'arte dell'apparenza; nell'oblio di sé degli stati dioni-
siaci, l'individuo con i suoi limiti e le sue misure fu travolto: un crepuscolo
degli dèi era prossimo a venire.
Qual era il progetto del volere, che è pur sempre uno solo, nel lasciar ir-
rompere gli elementi dionisiaci contro la sua stessa creazione apollinea?
Si trattava d'una nuova e più alta mechané dell'esistenza, la nascita del
pensiero tragico.
3.
L'estasi dello stato dionisiaco con la sua soppressione delle costrizioni e
dei limiti quotidiani dell'esistenza, contiene nel corso del suo perdurare un
elemento letargico, nel quale affonda tutto ciò che è stato vissuto nel pas-
sato. Così questo abisso della dimenticanza separa uno dall'altro il mondo
della realtà consueta e il mondo della realtà dionisiaca. Ma non appena
quella realtà consueta riemerge di nuovo alla coscienza, essa viene in quan-
to tale sentita con nausea: una disposizione ascetica e negatrice della vo-
lontà è il frutto di quegli stati. Nel pensiero il dionisiaco è contrapposto co-
me un ordine cosmico superiore a uno comune e triviale: l'uomo greco de-
siderava evasione assoluta da questo mondo della colpa e del destino. Egli
si consolava a malapena con la speranza d'un mondo dopo la morte: aveva
nostalgia per qualcosa di più alto e superiore agli stessi dèi, negava l'esi-
stenza insieme con il suo variopinto e splendente riflesso divino. Nella con-
sapevolezza del risveglio dall'ebbrezza vedeva tutto l'orrore o l'assurdo
dell'esistenza umana: e ne provava nausea. Ora egli comprende la sapienza
del dio silvano.
Qui si tocca il limite più pericoloso che la volontà ellenica con il suo
principio fondamentale apollineo-ottimistico abbia concesso di toccare.
Qui essa operò con la sua naturale forza guaritrice, per piegare nuovamen-
te quella disposizione negativa: suo strumento è l'opera d'arte tragica e la
concezione tragica. La sua intenzione non poteva in alcun modo essere
quella di temperare o di reprimere lo stato dionisiaco: soggiogarlo diretta-
mente era impossibile, e anche se non lo fosse stato, restava pur sempre
una cosa pericolosa, dal momento che se quell'elemento fosse stato tratte-
nuto nella sua espansione si sarebbe aperto altrove una via e sarebbe pene-
trato in tutti i vasi sanguigni della vita.
Per prima cosa si trattava di trasformare quei pensieri di disgusto sul-
l'assurdo e l'orrore dell'esistenza in rappresentazioni con le quali convive-
re: esse sono il sublime in quanto imprigionamento artistico dell'orrore e il
comico in quanto liberazione artistica dalla nausea dell'assurdo. Questi
due elementi intrecciati insieme si riuniscono in un'opera d'arte che imita
l'ebbrezza e gioca con essa.
Tanto il sublime quanto il comico sono un passo al di là del mondo della
bella apparenza, giacché in entrambi i concetti si sente una contraddizione.
D'altro lato essi non collimano per niente con la verità; piuttosto, essi rap-
presentano un velario della verità, certo più trasparente della bellezza, ma
pur sempre velario. Si può riconoscere in essi una sorta di inf ramando tra
bellezza e verità: e qui è possibile una negazione di Dioniso e Apollo. Que-
68 VERITÀ E MENZOGNA
non sono più istintiva ebbrezza naturale, la massa corale nella sua estasi
dionisiaca non è più la massa popolare inconsapevolmente catturata dal-
l'impulso primaverile. La verità ora viene simboleggiata, essa si serve del-
l'apparenza, essa può e deve a tal fine utilizzare anche le arti dell'apparire.
Già qui viene alla luce una grande differenza rispetto all'arte precedente ed
è il fatto di chiamare in aiuto contemporaneamente tutti i mezzi artistici
dell'apparenza, con la conseguenza che la statua cammina, i fondali dipinti
si spostano e sullo stesso sfondo vengono portati davanti agli occhi ora il
tempio ora il palazzo. Si nota dunque nello stesso tempo una certa insensi-
bilità per l'apparenza, la quale deve a questo punto spogliarsi delle sue
eterne pretese e delle sue esigenze sovrane. L'apparenza non viene più frui-
ta direttamente in quanto apparenza, ma in quanto simbolo e cioè segno
della verità. Di qui l'unione — di per sé scandalosa — dei mezzi artistici.
La prova più chiara di questo non tenere in nessun conto l'apparenza è la
maschera.
Allo spettatore si impone quindi l'esigenza dionisiaca di rappresentarsi
tutto nella forma dell'incantamento, di vedere tutto sotto la specie del sim-
bolo, di considerare l'intero mondo visibile della scena e dell'orchestra co-
me il regno del miracolo. Ma dov'è la potenza che lo porta a uno stato di
fede nel miracoloso, attraverso la quale egli vede tutto come soggetto ad
incantamento? Chi vince la potenza dell'apparire e lo riduce a simbolo?
È la musica.
4.
Quel che designiamo come «sentimento», è definito da una filosofia che
segua la via tracciata da Schopenhauer come un complesso di rappresenta-
zioni inconsce e di stati di volontà. Del resto ciò cui la volontà aspira si ma-
nifesta come piacere o dolore e rivela in ciò solo una differenza quantitati-
va. Non ci sono tipi diversi di piacere, ma solo gradi e un'infinità di rap-
presentazioni che l'accompagnano. Con il termine piacere si tratta di inten-
dere il soddisfacimento di una sola volontà, con il termine dolore, invece,
il suo non soddisfacimento.
In che modo il sentimento è partecipabile? In parte, ma solo in piccola
parte, lo può essere in termini di pensiero, di rappresentazione cosciente; il
che vale, naturalmente, solo per le rappresentazioni che accompagnano il
sentimento. Ma anche su questo terreno del sentimento c'è sempre un resto
irriducibile. Riducibile è solo ciò che ha a che fare col linguaggio e quindi
col concetto: di qui il limite della «poesia» viene stabilito in relazione alla
capacità di esprimere il sentimento.
I due altri modi di partecipazione sono decisamente istintivi, senza co-
scienza e tuttavia tali da agire in vista di uno scopo. Si tratta del linguaggio
gestuale e del linguaggio musicale. Il linguaggio gestuale è fatto di simboli
universalmente comprensibili ed è ottenuto in base a movimenti riflessi.
Questi simboli sono visibili: gli occhi, che li vedono, trasmettono subito lo
stato prodotto e simboleggiato dai gesti: per lo più anzi colui che vede sen-
te come un'innervazione simpatetica a livello delle stesse parti del viso o
delle stesse membra il cui movimento egli percepisce. Simbolo significa qui
una figura frammentaria e del tutto incompiuta, un segno allusivo, per la
cui comprensione è necessario trovare un terreno d'incontro; solo che in
questo caso la comprensione generale è un che di istintivo, di non penetra-
to dalla chiarezza della coscienza.
LA VISIONE DIONISIACA DEL MONDO 71
Che cosa simboleggia allora il gesto di quella realtà ancipite che è il sen-
timento?
Manifestamente la rappresentazione che l'accompagna, giacché solo es-
sa può essere accennata attraverso il gesto visibile, incompiuto e frammen-
tario: un'immagine può essere simboleggiata solo da un'immagine.
La pittura e la scultura rappresentano l'uomo nell'atto di compiere un
gesto: questo significa ch'esse imitano il simbolo e hanno ottenuto il loro
effetto se noi comprendiamo il simbolo. Il piacere del contemplatore consi-
ste nella comprensione del simbolo, benché questo sia apparenza.
L'attore invece rappresenta il simbolo realmente, non solo in apparenza:
però l'effetto che produce in noi non si basa sulla sua comprensione: noi
anzi ci immergiamo nel sentimento simboleggiato e non ci limitiamo al pia-
cere dell'apparenza, non ci appaghiamo della bella apparenza.
Così nel dramma la decorazione non induce il piacere dell'apparenza,
piuttosto noi la percepiamo come simbolo e comprendiamo la realtà cui il
simbolo allude. Pupazzi di cera e piante vere ci appaiono qui, accanto ad
altre dipinte a colori vivaci, come perfettamente giustificate, a prova del
fatto che noi qui evochiamo nella nostra mente la realtà stessa e non un
fantasma artificioso. In gioco qui è la verosimiglianza, non più la bellezza.
Ma che cos'è la bellezza? — «La rosa è bella» significa semplicemente:
la rosa ha una bella apparenza, essa ha qualcosa di luminoso che piace.
Circa la sua essenza non vien detto nulla con ciò. Essa piace, essa, in quan-
to apparenza, suscita piacere: come dire che la volontà è soddisfatta dal
suo apparire e dunque il piacere di esistere ne viene incrementato. Essa è —
così come appare — un'immagine fedele del suo volere: ossia, per usare al-
tre parole: essa corrisponde nella sua apparenza alla determinazione della
specie. Tanto più essa fa questo, tanto più è bella: e qualora corrispondes-
se nella sua essenza a quella determinazione, sarebbe «buona».
«Un bel quadro» significa semplicemente: la rappresentazione che noi
abbiamo di un quadro è qui esaudita. Quando invece di un quadro diciamo
che è «buono», noi designiamo la nostra rappresentazione di un determi-
nato quadro come corrispondente all'essenza del quadro. Però general-
mente per bel quadro si intende un quadro che rappresenta qualcosa di bel-
lo: così almeno giudicano gli incompetenti. Questi gustano la bellezza del
soggetto; così del resto noi dobbiamo gustare le arti figurative nel dram-
ma, salvo che qui il compito non può essere soltanto quello di rappresenta-
re qualcosa di bello: è sufficiente che esso appaia vero. L'oggetto rappre-
sentato dev'essere visto il più possibile nella sua viva concretezza; esso de-
ve far l'effetto della verità: un'esigenza, di cui è stato rivendicato Voppo-
sto da tutte le opere della bella apparenza.
Ma quando il gesto simboleggia, del sentimento, le rappresentazioni che
l'accompagnano, per mezzo di quale simbolo saranno partecipati e fatti
comprendere gli impulsi della volontà! Qual è qui la mediazione istintiva?
La mediazione del suono. Detto più precisamente, sono i diversi modi
del piacere e del dolore — senza alcuna delle rappresentazioni che li ac-
compagnano — ad esser simboleggiati dal suono.
Tutto quel che si può dire ai fini di una caratterizzazione delie diverse
sensazioni di dolore, appartiene alle immagini delle rappresentazioni di-
Ventate chiare attraverso la simbolica del gesto: così, per esempio, quando
di un improvviso sgomento parliamo in termini di «colpi, convulsioni, spa-
simi, fitte, ferite, morsi, pungoli» del dolore. Con ciò sembrano esprimersi
certe «forme d'intermittenza» della volontà, in breve — nella simbologia.
del linguaggio dei suoni — la ritmica. La pienezza delle sfumature della vo-
72 VERITÀ E MENZOGNA
lontà, la quantità variabile della gioia e del dolore, tutto ciò noi lo ricono-
sciamo nella dinamica del suono. Ma la sua essenza più propria si cela,
senza che la si possa esprimere in modo simbolico, nell'armonia. La volon-
tà e il suo simbolo — l'armonia —, l'una e l'altra in fin dei conti logica pu-
ra] Mentre la ritmica e la dinamica sono ancora aspetti esteriori della vo-
lontà che si manifesta attraverso simboli, e quasi hanno ancora il carattere
dell'apparenza, l'armonia invece è il simbolo della pura essenza della vo-
lontà. Ne consegue che nella ritmica e nella dinamica l'apparenza singola
deve ancora essere caratterizzata come apparenza, e da questo punto di vi-
sta si può sviluppare la musica come arte dell'apparenza. Il resto irriduci-
bile, cioè l'armonia, parla della volontà, interiormente ed esteriormente a
tutte le forme dell'apparenza, e non è semplice simbolismo del sentimento
bensì simbolismo del mondo. Nella sua sfera il concetto è del tutto impo-
tente.
Ora afferriamo la portata del linguaggio del gesto e del linguaggio del
suono per l'opera d'arte dionisiaca. Nel ditirambo delle sagre di primavera
che originariamente era proprio del popolo, l'uomo non si esprimeva come
individuo bensì in quanto esponente della sua specie. Che l'uomo si spogli
della sua individualità, ciò viene espresso per mezzo del simbolismo del-
l'occhio, il linguaggio dei gesti, nel fatto che egli parla nei suoi gesti come
satiro, come essere naturale tra esseri naturali e particolarmente in un lin-
guaggio dei gesti potenziato ossia nei gesti di danza. Del resto per mezzo
del suono egli esprime i più intimi pensieri della natura: non solo il genio
della specie, come nel gesto, ma il genio dell'esistenza in sé e cioè la volon-
tà si fa qui immediatamente comprensibile. Mentre però con il gesto egli ri-
mane entro i confini della specie e cioè entro il mondo dell'apparenza, con
il suono invece egli dissolve il mondo dell'apparenza nella sua originaria
unità e il mondo di Maja si annichilisce di fronte al suo incantesimo.
Ma quando l'uomo naturale perviene al simbolismo del suono? Quando
il linguaggio del gesto non è più bastante? Quando il suono si fa musica?
Anzitutto negli stati più alti di piacere e di dolore della volontà, quando la
volontà è giubilante o stretta nell'angoscia di morte, in una parola nell'eb-
brezza del sentimento: nel grido. Quanto più potente e immediato è il grido
nei confronti dello sguardo! Ma anche gli stimoli più deboli della volontà
hanno il loro simbolismo sonoro: in generale a ogni gesto corrisponde un
suono: ed è soltanto l'ebbrezza del sentimento a portarlo al livello del puro
suono.
La fusione più intima e più corrente di un determinato tipo di simboli-
smo gestuale con il suono è detta linguaggio. Nella parola, attraverso il to-
no e la sua sfumatura e attraverso la potenza e il ritmo della modulazione,
viene simboleggiata l'essenza della cosa, mentre attraverso i movimenti
della bocca viene simboleggiata la rappresentazione che l'accompagna,
l'immagine, l'apparenza dell'essenza. I simboli possono e devono essere
diversi; essi del resto crescono istintivamente e con grande e sapiente rego-
larità. Un simbolo designato è un concetto: ora, siccome nelle maglie della
memoria il suono si perde interamente, nel concetto si conserva solo il sim-
bolo della rappresentazione che l'accompagna. Ciò che si può definire e di-
stinguere, lo si «concepisce».
Nell'amplificazione del sentimento l'essenza della parola si manifesta
più chiaramente e più sensibilmente nel simbolo del suono: perciò essa ri-
suona più intensamente. Il recitativo è qualcosa come un ritorno alla natu-
ra: il simbolo che tende ad usurarsi ripropone qui di nuovo la sua forza
originaria.
LA VISIONE DIONISIACA DEL MONDO 73
Nel discorso, ossia attraverso una catena di simboli, deve venir rappre-
sentato simbolicamente qualcosa di nuovo e di più grande: con ciò la ritmi-
ca, la dinamica e l'armonia tornano a essere necessarie. Questa cerchia più
vasta domina ora quella più angusta della parola singola: si rende necessa-
ria una nuova scelta di parole e una nuova collocazione delle stesse, sicché
la poesia comincia. Il recitativo di una frase non è qualcosa di simile a una
successione di suoni verbali: infatti una parola ha un suono del tutto relati-
vo, poiché la sua essenza, il suo contenuto rappresentato per mezzo del
simbolo muta a seconda della posizione. In altri termini: a partire dalla più
alta unità della frase e dell'essenza simboleggiata attraverso di essa il sim-
bolo specifico della parola è progressivamente determinato in modo nuo-
vo. Una catena di concetti è un pensiero: questo è anche la più alta unità
delle rappresentazioni che li accompagnano. L'essenza della cosa è per il
pensiero inattingibile: ma ch'esso agisca su di noi come motivo, come im-
pulso della volontà, ciò si spiega con il fatto che il pensiero è già diventato
nello stesso tempo un simbolo designato per un'apparenza della volontà e
cioè per una sua pulsione o manifestazione. Ma espresso in parole con il
simbolismo del suono esso agisce in modo incomparabilmente più efficace
e diretto. Espresso in canto — esso perviene al più alto livello delle sue pos-
sibilità quanto il melos è il simbolo comprensibile del suo volere: altrimen-
ti, è la successione dei suoni ad agire su di noi, mentre la successione delle
parole, cioè il pensiero, ci rimane lontano e indifferente.
Ora, a seconda che la parola debba agire prevalentemente come simbolo
della rappresentazione che l'accompagna o come simbolo della pulsione
originaria della volontà, ossia a seconda che debbano essere simboleggiati
sentimenti o immagini, si dipartono due strade di fronte alla poesia, l'epica
e la lirica. La prima porta all'arte figurativa, la seconda alla musica: il pia-
cere dell'apparenza domina l'epica, la volontà si manifesta nella lirica.
Quella si libera dalla musica, questa rimane legata ad essa.
Ma nel ditirambo dionisiaco l'entusiasta di Dioniso viene spinto alla più
ampia dilatazione di tutte le sue facoltà simboliche: qualcosa di mai sentito
irrompe alla superficie, come la soppressione dell'individualo, l'unifica-
zione nel genio della specie e anzi della natura. Ora è l'essenza della natura
che deve esprimersi: un nuovo universo simbolico è necessario, mentre le
rappresentazioni relative si fanno simboliche nelle immagini di una natura
umana esaltata e vengono rappresentate con la più alta energia fisica per
mezzo dell'intero simbolismo del corpo ossia per mezzo della danza. Però
anche il mondo della volontà tende a una inaudita espressione simbolica,
tanto che le potenze dell'armonia, della dinamica e della ritmica crescono
con subitanea violenza. Anche la poesia, già divisa tra due mondi, raggiun-
ge adesso una nuova dimensione: raggiunge cioè nello stesso tempo la sen-
sibilità dell'immagine, come nell'epica, e l'ebbrezza sentimentale del suo-
no, come nella lirica. Per comprendere la totale fusione di tutte queste for-
ze simboliche, occorre quella stessa elevazione esistenziale che le ha create:
il seguace ditirambico di Dioniso può essere compreso solo da chi gli sia
perfettamente affine. Perciò questo nuovo mondo artistico nella sua sco-
nosciuta e seducente magnificenza si muove tutto, tra lotte terrificanti, en-
tro i confini della grecità apollinea.
Cinque prefazioni per cinque libri non scritti
Alla signora Cosima Wagner in sincero omaggio e come risposta a questioni poste
a viva voce e per lettera; scritte con gioia nei giorni di Natale del 1872
via la chiave. Oh, l'infausta brama di novità del filosofo, il quale pretende
di guardar fuori e in basso, attraverso una fessura, dalla chiusa stanza del-
la sua coscienza; forse allora intuisce che l'uomo, nell'indifferenza del suo
non sapere e appeso ai sogni come al dorso di una tigre, si basa su ciò che è
avido, insaziabile, ripugnante, senza pietà e mortifero.
«E che stia lì appeso», risponde l'arte. «Svegliatelo», risponde il filoso-
fo, nel pàthos della verità. Eppure lui stesso scivola, mentre crede di desta-
re colui che dorme, in un magico sopore ancor più profondo — è il mo-
mento in cui forse sogna le «idee» o l'immortalità. L'arte è più potente del-
la conoscenza, giacché essa vuole la vita, mentre quella raggiunge come ul-
tima meta soltanto — l'annichilimento.
3. Lo Stato greco
Noi moderni a differenza dei Greci abbiamo due concetti che in un certo
senso sono dati come palliativi a un mondo che sembra proprio un mondo
di schiavi e che tuttavia evita timorosamente la parola «schiavo»: mi riferi-
sco alla «dignità dell'uomo» e alla «dignità del lavoro». È tutto un affan-
narsi per perpetuare miserabilmente una vita miserabile; questa spaventosa
necessità induce ad un lavoro divorante, che l'uomo o — più esattamente
— l'intelletto umano sedotto dalla volontà contempla come qualcosa di as-
solutamente degno. Ma perché il lavoro possa rivendicare titoli onorifici,
bisognerebbe prima di tutto che l'esistenza stessa, di fronte alla quale il la-
voro non è che un crudele strumento, possedesse maggiore dignità e valore
di quanto non sia apparso finora alle filosofie e alle religioni prese sul se-
rio. Nella necessità di lavorare di tutte le miriadi di uomini, che cosa pos-
siamo mai trovare se non l'impulso a sopravvivere a tutti i costi, quello
stesso impulso onnipotente in base al quale le piante più rinsecchite pene-
trano con le loro radici nella roccia priva di terra?
Da questa atroce lotta per l'esistenza possono emergere soltanto quegli
individui che si lasciano senz'altro riplasmare dalle nobili chimere della
cultura artistica, in modo da non pervenire a quel pessimismo pratico che
la natura detesta come del tutto contrario ad essa. Nel mondo moderno, il
quale, paragonato a quello greco, sembra per lo più produrre abnormità e
centauri, e nel quale l'individuo come quella creatura fantastica che s'in-
contra nell'introduzione alla poetica oraziana è pittorescamente composto
CINQUE PREFAZIONI PER CINQUE LIBRI NON SCRITTI 79
no conforme al mondo e alla terra» che è la nostra vista come brama insa-
ziabile di essere ed eterna autocontraddizione nella forma del tempo, cioè
come divenire. Ogni attimo inghiotte quello che l'ha preceduto, ogni nasci-
ta è la morte d'un'infinità di creature; procreare e vivere e uccidere sono
una cosa sola. Perciò noi possiamo anche paragonare la grande cultura a
un vincitore grondante sangue che nel suo corteo trionfale trascina come
schiavi i vinti legati al suo carro: e questi una forza caritatevole li ha acce-
cati, cosicché essi, quasi schiacciati dalle ruote del carro, tuttavia esclama-
no ancora: «dignità del lavoro!», «dignità dell'uomo!». La cultura, come
una lasciva Cleopatra, continua a gettare le sue perle più preziose nel suo
calice dorato: perle, queste, che sono le lacrime della compassione per lo
schiavo e per la sua miserabile condizione. È dalla bolsaggine dell'uomo
moderno che è sorto l'enorme stato di crisi sociale del presente, non da ve-
ra e profonda pietà per quella miserabile condizione; e se fu vero che i Gre-
ci si persero per via della loro schiavitù, è ancor più vero che noi ci perdere-
mo per via della nostra mancanza di schiavitù: la quale non urtò in alcun
modo né il cristianesimo delle origini né il germanesimo, e tantomeno sem-
brò loro riprovevole. Come ci è di sollievo la considerazione dei servi della
gleba medievali, con i loro rapporti giuridici e di costume, ordinati gerar-
chicamente, intimamente forti e delicati, e con il triste ambito della loro
angusta esistenza — come ci è di sollievo, e come ci è di monito!
Ora, chi non può riflettere sulla configurazione della società senza ma-
linconia, chi ha imparato a concepirla come il parto doloroso e progressivo
di quegli uomini di cultura di cui s'è detto, al cui servizio tutto il resto deve
piegarsi, costui non si lascerà più ingannare da quel falso splendore di cui i
moderni hanno soffuso il significato e l'origine dello Stato. Che cosa può
infatti significare per noi lo Stato, se non lo strumento con cui attivare il
processo sociale sopra descritto e con cui garantirne una durata irrefrena-
bile? Fosse pure ancora così forte nei singoli uomini l'impulso alla socievo-
lezza, è soltanto la morsa d'acciaio dello Stato a tenere talmente unite le
grandi masse, che ormai una tale composizione chimica della società, con
la sua nuova costruzione piramidale, dovrà durare. Ma da dove vien fuori
questa subitanea forza dello Stato, il cui scopo va ben oltre la prospettiva e
l'egoismo del singolo? Come è sorto lo schiavo, la cieca talpa della cultu-
ra? Ce l'hanno rivelato i Greci, con il loro istinto per il diritto dei popoli, il
quale anche nella pienezza della loro civiltà e della loro umanità non ha
cessato di pronunciare con labbra di bronzo parole come queste: «È al vin-
citore che appartiene il vinto, con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni e il
suo sangue. La violenza è il primo fondamento del diritto, e non c'è diritto
che, nel suo fondamento, non sia tracotanza, usurpazione, prepotenza».
Qui noi osserviamo nuovamente con quale impietosa inflessibilità la na-
tura, per giungere alla società, si forgi il crudele artificio dello Stato — os-
sia di quel conquistatore dal pugno di ferro che non è se non l'oggettivazio-
ne dell'istinto di cui s'è detto. Di fronte all'indefinibile grandezza e poten-
za di quei conquistatori l'osservatore si avvede che si tratta soltanto di
mezzi in vista d'un'intenzione che in loro si manifesta e tuttavia si nascon-
de ai loro occhi. È come se da essi sortisse un volere magico, tanto rapida-
mente e enigmaticamente si stringono ad essi le forze più deboli e si tra-
sformano mirabilmente per l'improvviso gonfiarsi di quella slavina di vio-
lenza sotto l'incantamento di quel nucleo creativo, in un'affinità fino a
quel momento disconosciuta.
Se ora noi osserviamo quanto poco si inquietano per quell'atroce origine
dello Stato coloro che vi sono sottomessi, sicché a ben vedere non ci sono
o2 VERITÀ E MENZOGNA
in alcun modo avvenimenti su cui la storia ci ammaestri peggio che sul con-
figurarsi di quelle usurpazioni improvvise, violente, sanguinose e per lo
meno su di un punto inspiegabili; se piuttosto noi vediamo come i cuori
senza volerlo si schiudano alla magia dello Stato in divenire, con il presen-
timento d'un'intenzione invisibile e profonda là dove l'intelletto calcolato-
re è capace di scorgere soltanto un'addizione di forze; se pensiamo che ora
lo Stato è con ardore considerato addirittura come se fosse lo scopo e l'api-
ce dei sacrifici e dei doveri dei singoli: allora da tutto ciò emerge la stermi-
nata necessità dello Stato, senza la quale alla natura non sarebbe concesso
di pervenire, attraverso la società, alla propria redenzione, nell'apparenza,
nello specchio del genio. Quante conoscenze possono essere superate dall'i-
stintivo piacere dello Stato! Eppure si dovrebbe pensare che chi ha guarda-
to a fondo in quella che è l'origine dello Stato, d'ora in avanti cercherà la
sua salvezza solo nell'allontanarsene disgustato; dove, del resto, non si ve-
dono monumenti di questa sua origine, terre devastate, città rase al suolo,
uomini rinselvatichiti, odio feroce tra i popoli? Lo Stato, dall'origine igno-
miniosa, fonte straripante di angoscia per la maggior parte degli uomini,
fiamma divorante del genere umano in epoche spesso ricorrenti — e tutta-
via un'eco che ci fa dimenticare di noi stessi, un grido di guerra che ha ispi-
rato infinite azioni veramente eroiche, forse l'oggetto più alto e degno d'o-
nore per la massa cieca ed egoistica, la quale soltanto nei momenti eccezio-
nali della vita dello Stato reca sul volto una singolare espressione di gran-
dezza!
Però noi già a priori dobbiamo figurarci i Greci come «uomini politici in
sé», in riferimento alla loro arte d'un'altezza e d'un'unicità solari; e in ef-
fetti la storia non conosce un altro esempio d'una così terribile esplosione
dell'impulso politico e di un così incondizionato sacrificio di tutti gli altri
interessi al servizio di questo istinto dello Stato — a meno che non si voglia
designare con lo stesso titolo, per analogia e su basi simili, gli uomini del
rinascimento italiano. Quell'impulso è presso i Greci così prepotente,
ch'esso sempre di nuovo ricomincia a infierire contro se stesso e pianta i
denti nella propria carne. Questa rivalità sanguinosa di una città contro
l'altra, di un partito contro l'altro, questa brama omicida di tutte quelle
• piccole guerre con quel trionfo da tigri sul cadavere del nemico atterrato,
in breve il rinnovarsi senza fine di quelle scene troiane di battaglie e di
atrocità nella cui contemplazione Omero da autentico greco si immerge
pieno di piacere, — questa ingenua barbarie dello Stato greco che cosa mai
significa e donde trae giustificazione davanti al tribunale della giustizia
eterna? Orgoglioso e sereno si fa avanti dinanzi ad esso lo Stato e conduce
per mano una magnifica donna fiorente, la società greca. Per questa Elena
esso ha fatto tutte quelle guerre — e quale canuto giudice potrebbe in tal
caso condannarlo?
In questa relazione misteriosa, che qui noi presentiamo, tra Stato e arte,
brama politica e produzione artistica, campo di battaglia e opera d'arte,
come già osservato, lo Stato si dà a conoscere soltanto per quella morsa di
ferro che tiene sotto controllo il processo di formazione della società: del
resto senza Stato, nel naturale bellum omnium contro omnes, la società in
generale non può penetrare con le sue radici in una vasta area e comunque
non al di là del dominio della famiglia. Ora, dopo che la formazione degli
Stati si è generalmente diffusa, quella tendenza del bellum omnium contro
omnes si concentra nelle nubi delle atroci guerre dei popoli di tanto in tan-
to e si abbatte per così dire in più radi ma ben più forti tuoni e fulmini.
Nelle pause è dato tempo alla società, sotto l'effetto concentrato e rivolto
all'interno di quel bellum, di germinare e di verdeggiare ovunque, così che
CINQUE PREFAZIONI PER CINQUE LIBRI NON SCRITTI 83
non appena si danno giorni più caldi, i fiori del genio possono sbocciare
splendidamente.
Rispetto al mondo politico dei Greci, non voglio nascondere in quali fe-
nomeni del presente credo di riconoscere gravi forme degenerative della
sfera politica, pericolose sia per l'arte sia per la società. Se devono esserci
uomini che per la loro stessa nascita sono sottratti per così dire agli istinti
del popolo e dello Stato, e che perciò ammettono lo Stato solo a misura
che possono comprenderlo nel loro stesso interesse: allora uomini del gene-
re si rappresenteranno necessariamente come scopo supremo dello Stato
una coesistenza il più possibile indisturbata di grandi comunità politiche,
nelle quali fosse loro concesso di perseguire i propri progetti senza condi-
zionamenti. Con questa idea in merito essi promuoveranno la politica che
offra ai loro progetti la massima sicurezza, mentre è impensabile ch'essi,
contro i loro progetti e guidati da una sorta di istinto inconscio, debbano
offrirsi in sacrificio a ciò cui tende lo Stato; impensabile dal momento
ch'essi appunto non hanno quell'istinto. Tutti gli altri cittadini sono all'o-
scuro di ciò che la natura persegue in essi con quel loro istinto dello Stato e
seguono ciecamente; soltanto coloro che stanno al di fuori di questo istinto
sanno quel che vogliono dallo Stato e quel che lo Stato deve garantire loro.
Perciò è senz'altro inevitabile che tali uomini esercitino grande influenza
sullo Stato, perché essi sono in grado di trattarlo come mezzo, mentre tutti
gli altri, sottoposti alla potenza di quell'inconscia intenzione dello Stato
stesso, non sono che mezzi in vista dello scopo che lo Stato si prefigge.
Quindi per soddisfare per mezzo dello Stato la più alta esigenza dei propri
scopi egoistici, è anzitutto necessario che lo Stato venga liberato da quegli
atroci e non prevedibili spasimi della guerra, in modo che se ne possa dare
un uso razionale; e in modo che essi possano tendere, quanto più coscien-
temente è possibile, a una situazione in cui la guerra è impossibile. A que-
sto proposito si tratta anzitutto di troncare e di depotenziare il più possibi-
le gli impulsi politici particolari e, attraverso la costituzione di grandi corpi
statali equilibrati e di reciproche garanzie, di rendere il più possibile inve-
rosimile l'esito favorevole di una guerra di aggressione e quindi la guerra
stessa: d'altra parte essi cercano di sottrarre la questione della guerra e del-
la pace alla decisione dei singoli che detengono il potere per appellarsi piut-
tosto all'egoismo della massa o dei suoi rappresentanti: perciò essi devono
di nuovo dissolvere lentamente gli istinti monarchici dei popoli. A questo
scopo essi corrispondono tramite la diffusione universale della concezione
del mondo liberale e ottimistica, la quale ha le sue radici nelle dottrine del-
l'illuminismo francese e della rivoluzione, cioè in una filosofia assoluta-
mente non germanica, tipicamente latina, piatta e antimetafisica. Nel pre-
sente e dominante movimento delle nazionalità e nella contemporanea dif-
fusione del suffragio universale non posso fare a meno di vedere anzitutto
gli effetti della paura della guerra; e, sullo sfondo di questi movimenti, non
posso anzi fare a meno di scorgere come i veramente timorosi della guerra
quei solitari del denaro davvero internazionali e senza patria, i quali, in
virtù della loro naturale mancanza di istinto statale, hanno imparato a
sfruttare la politica come strumento della borsa e lo Stato e la società come
apparato di arricchimento personale. Contro la diversione, che per questo
verso è da temere, dalla tendenza dello Stato alla tendenza del denaro, l'u-
nico rimedio è la guerra, nuovamente la guerra: nel cui sollevamento per lo
meno diventa molto chiaro che lo Stato non è fondato sulla paura del de-
mone della guerra, quasi organismo di difesa di egoistici individui, ma pro-
duce piuttosto nell'amore per la patria e per i princìpi uno slancio etico che
84 VERITÀ E MENZOGNA
paiono tradotte in una atmosfera più libera e come trasfigurate, non è pe-
raltro in alcun modo il risultato di queste virtù; visto da vicino, il motivo
della spinta verso un conoscere illimitato, in Germania sembra piuttosto
una mancanza, un difetto, una lacuna, che non uno straripare di forze,
quasi l'effetto di una vita fiacca, povera e informe e anzi un'evasione di
fronte alla meschineria e alla malvagità, di cui il tedesco senza tali diversio-
ni sarebbe preda e che in ogni caso, nonostante la scienza, proprio nella
scienza emergono ripetutamente. Quanto alla disciplina, nel vivere come
nel conoscere e nel giudicare, i tedeschi si danno a conoscere come autenti-
ci virtuosi del filisteismo; ma se qualcuno vuole innalzarli al di sopra di lo-
ro stessi verso il sublime, allora si fanno pesanti come il piombo, e appunto
come pesi di piombo si appendono ai loro veri grandi, per tirarli giù dall'e-
tere verso di loro e verso la loro miseranda miseria. Può darsi che questa
giovialità di tipo filisteo non sia che una degenerazione di virtù autentica-
mente tedesche — una sorta di immersione nell'intimo di ciò che è singolo,
piccolo, prossimo e nei misteri dell'individuo — ma questa virtù avvizzita è
oggi più trista del vizio più sbandierato; e ciò in particolare da quando di
questa proprietà si è preso allegramente coscienza, fino all'autoglorifica-
zione letteraria. Ora gli «intellettuali», tra i tedeschi notoriamente molto
colti, e i «filistei», tra i tedeschi notoriamente molto incolti, si danno aper-
tamente la mano e stringono un patto gli uni gli altri sul come, d'ora in
avanti, scrivere, poetare, dipingere, far musica e addirittura filosofare e,
perché no, governare, per non star troppo lontani dalla «cultura» degli uni
e per non avvicinarsi troppo alla «giovialità» degli altri. Questo ora lo si
chiama «la cultura tedesca di oggi». Al che ci sarebbe soltanto più da chie-
dersi, da quale segno è riconoscibile quell'«intellettuale», dal momento che
noi sappiamo che il suo fratello di latte, il filisteo tedesco, senza vergogna,
quasi avesse perduto l'innocenza, si dà a conoscere come tale in giro per il
mondo.
L'intellettuale oggi ha anzitutto una cultura storica: attraverso la sua co-
scienza storica egli si sottrae al sublime; cosa che al filisteo è possibile me-
diante la sua «giovialità». Non più l'entusiasmo, che la storia suscita —
come ancora Goethe poteva pensare — ma precisamente lo spegnimento di
ogni entusiasmo è ora il fine di questi ammiratori del nil admirarì, quando
cercano di comprendere tutto storicamente; ma a loro bisogna rispondere:
«Siete voi i matti di tutti i secoli! La storia vi farà solo quelle confessioni
che sono degne di voi! In ogni tempo il mondo fu pieno di banalità e di
quisquilie: appunto queste e soltanto queste si sveleranno alla vostra cupi-
digia storica. Potete precipitarvi a migliaia sopra una determinata epoca —
resterete affamati come prima e gloriosi d'una salute che consiste nella fa-
me. lllam ipsam quam iactant sanitatem non firmitate sed ieiunio conse-
quuntur. (Dial. de orator., e. 25.) Tutto ciò che è essenziale la storia non
ha voluto rivelarvelo, ponendosi piuttosto, senza essere vista, accanto a voi
e deridendovi, col mettere nelle mani dell'uno un'azione politica, in quelle
dell'altro una relazione diplomatica, in quelle di un altro ancora una data
o un'etimologia o una ragnatela di fatti. Credete voi davvero di potere fare
i conti con la storia come se si trattasse di fare un'addizione e a questo pro-
posito voi tenete abbastanza per buona la vostra piatta intelligenza e la vo-
stra cultura matematica? Come dev'essere seccante per voi sentire che altri
parlano di cose, tratte da periodi storici noti a tutti, ma che voi non riusci-
rete assolutamente mai a concepire».
Quando poi a questa cultura vuota d'ogni ispirazione che si chiama sto-
rica e a quel filisteismo astioso e nemico di ogni cosa grande si unisce an-
CINQUE PREFAZIONI PER CINQUE LIBRI NON SCRITTI 87
5. Certame omerico
Quando si parla di umanità, l'idea in fondo riguarda ciò che separa e
contraddistingue l'uomo dalla natura. Ma una tale separazione in realtà
non si dà: le qualità «naturali» e quelle che si presumono specificamente
«umane» sono cresciute insieme inseparabilmente. L'uomo, nelle sue forze
più alte e più nobili, è tutto natura e porta in sé questo suo strano carattere
ancipite. Le sue tendenze terribili e ritenute disumane non sono forse che il
terreno fertile dal quale soltanto può svilupparsi, nei sentimenti e nelle
azioni e nelle opere, tutto ciò che si chiama umanità.
Così i Greci, gli uomini più umani dell'antichità, hanno in sé un tratto di
ferocia, di brama distruttiva alla maniera delle tigri — un tratto che è assai
visibile anche in colui che è l'immagine speculare del greco ingrandita fino
al grottesco e cioè Alessandro Magno — ma che in tutta la loro storia così
come nella loro mitologia è per noi, che l'accostiamo per mezzo del nostro
edulcorato concetto di umanità, fonte di angoscia. Quando Alessandro fa
bucare i piedi del bravo difensore di Gaza, Batis, e lega il suo corpo vivo al
suo carro, per portarlo in giro tra lo scherno dei suoi soldati: ecco, questa è
la caricatura, che suscita ripulsione, di Achille, il quale di notte strazia il
cadavere di Ettore trascinandolo alla stessa maniera; e anche qui c'è per
noi qualcosa che offende e ispira orrore. Noi qui penetriamo nell'abisso
88 VERITÀ E MENZOGNA
i.
In un qualche angolo remoto dell'universo che fiammeggia e si estende
in infiniti sistemi solari, c'era una volta un corpo celeste sul quale alcuni
animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e
menzognero della «storia universale»: e tuttavia non si trattò che di un mi-
nuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli
animali intelligenti dovettero morire. — Ecco una favola che qualcuno po-
trebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che
modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia
atteggiato l'intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui
esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo nien-
te. Per quell'intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che
conduca al di là della vita dell'uomo. Esso è umano, e soltanto il suo pos-
sessore e produttore può considerarlo con tanto pàthos, come se in lui gi-
rassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la
zanzara, verremmo a scoprire che anch'essa con lo stesso pàthos nuota nel-
l'aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo. Non c'è nien-
te in natura di così spregevole e dappoco che con un piccolo soffio di quel-
la facoltà conoscitiva non si possa gonfiare come un otre; e allo stesso mo-
do in cui qualsiasi facchino vuol avere i suoi ammiratori, anche il più orgo-
glioso degli uomini, il filosofo, è convinto che da ogni lato gli occhi dell'u-
niverso siano puntati telescopicamente sul suo fare e sul suo pensare.
È degno di nota che a tanto giunga l'intelletto, qualcosa cioè che è con-
cesso proprio solo come strumento ausiliario alle più infelici, alle più fragi-
li, alle più transitorie delle creature, per conservarle un minuto nell'esisten-
za; giacché esse altrimenti, senza quel supporto, avrebbero tutte le ragioni
a volatilizzarsi tanto rapidamente quanto il figlio di Lessing. Quella traco-
tanza legata alla conoscenza e alla sensibilità, nebbia accecante che sta da-
vanti agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell'e-
sistenza, portando in se stessa la valutazione più piena di lusinghe circa la
conoscenza. Il suo effetto più generale è l'inganno — ma anche gli effetti
più particolari portano con sé qualcosa dello stesso carattere.
L'intelletto, come mezzo per la conservazione dell'individuo, sviluppa le
sue forze più importanti nella simulazione; infatti è questo il mezzo attra-
verso cui si conservano gli individui più deboli, meno robusti, visto che a
loro è negato di condurre la battaglia per l'esistenza con le corna o con i
morsi laceranti degli animali feroci. Nell'uomo quest'arte della simulazio-
ne tocca il suo culmine: qui l'ingannare, l'adulare, il mentire, e il fingere,
lo sparlare dietro le spalle, il rappresentare, il vivere in una magnificenza
d'accatto, il mascherarsi, le convenzioni che servono a nascondere, il reci-
tare una parte dinanzi agli altri e a se stessi, in una parola l'incessante svo-
lazzare intorno a quella fiamma che è la vanità, tutto ciò così spesso è la re-
94 VERITÀ E MENZOGNA
gola e la legge che niente è più inconcepibile del fatto che tra gli uomini
possa emergere un impulso onesto e puro verso la verità. Essi sono profon-
damente immersi in sogni e illusioni, il loro occhio scivola soltanto sulla
superficie delle cose e non vede che «forme», in nessun modo la loro sensi-
bilità conduce al vero, bastandole di ricevere stimoli ossia di giocare un
gioco tattile sul dorso delle cose. Inoltre l'uomo durante la notte, per tutta
la vita, si lascia ingannare in sogno, senza che il suo sentimento morale
glielo impedisca; mentre devono esserci uomini che grazie alla forza di vo-
lontà hanno eliminato il russare. Che cosa sa propriamente l'uomo di sé?
Davvero sarebbe capace, anche solo una volta, di avere di sé una percezio-
ne completa, come se si trovasse in una vetrina illuminata? Non gli tace la
natura quasi tutto, anche riguardo al suo stesso corpo, per confinarlo e im-
prigionarlo in una orgogliosa e illusoria coscienza, lontano dal viluppo del-
le interiora, dal rapido flusso del sangue, dai nascosti brividi delle fibre?
Essa ha gettato via la chiave: e guai all'infausta curiosità di guardare dalla
camera della coscienza attraverso una fessura all'esterno e nel basso e guai
al presentimento che l'uomo poggi su ciò che è spietato, avido, insaziabile,
omicida e stia sospeso in sogno, nella sua beata ignoranza, per così dire sul
dorso di una tigre! Dov'è mai, in quale parte del mondo, sotto questa co-
stellazione l'impulso alla verità?
In quanto l'individuo vuole conservare se stesso di fronte ad altri indivi-
dui, in uno stato di cose naturale egli si serve dell'intelletto per lo più sol-
tanto per la simulazione; ma poiché l'uomo vuole anche esistere, sia per bi-
sogno sia per noia, socialmente e come in un gregge, stipula un patto di pa-
ce e si adopera per cancellare dal suo mondo almeno il più brutale bellum
omnium contra omnes. Questo patto di pace porta qualcosa con sé, che è
come il primo passo verso il raggiungimento di quell'enigmatico impulso
alla verità. A questo punto cioè viene fissato ciò che da allora in poi dovrà
essere la «verità», il che significa che si è trovata una connotazione vinco-
lante e uniformemente valida delle cose e che la norma linguistica istituisce
anche le prime regole della verità; sicché si chiarisce qui per la prima volta
il contrasto di verità e menzogna: il mentitore si serve delle connotazioni
valide, le parole, per far apparire l'irreale come reale; egli dice per esempio
d'essere ricco, mentre in questo caso la connotazione appropriata sarebbe
«povero». Stravolge le convenzioni basilari attraverso scambi arbitrari o
addirittura inversione dei nomi. Se fa questo a proprio vantaggio e anzi in
modo da recare dannò, la società non avrà più fiducia in lui e senz'altro lo
bandirà da sé. Gli uomini qui fuggono non tanto il fatto di essere truffati,
quanto il fatto di essere danneggiati attraverso la truffa. In fondo non è
l'inganno che in questo caso essi detestano, bensì le brutte e nocive conse-
guenze di certi generi di inganni. Soltanto in un senso ristretto come questo
l'uomo vuole anche la verità. Egli desidera gli effetti piacevoli, e atti a con-
servare la vita, della verità; verso la conoscenza pura, priva di conseguen-
ze, egli è indifferente, ed ha addirittura un atteggiamento ostile verso le ve-
rità che possono essere dannose e distruttrici. Inoltre: che ne è delle con-
venzioni linguistiche? Sono forse strumenti della conoscenza, del senso
della verità, nel senso che le connotazioni e le cose coincidono? Il linguag-
gio è allora l'espressione adeguata di tutte le realtà?
Soltanto uno smemorato può giungere a credere questo: che l'uomo è
capace di una verità nel grado sopra descritto. S'egli non s'accontenta del-
la verità in forma di tautologia e cioè di gusci vuoti, finirà sempre per
prendere le illusioni per delle verità. Che cos'è una parola? Il riflesso sono-
ro di uno stimolo nervoso. Ma dedurre dallo stimolo nervoso l'esistenza
SU VERITÀ E MENZOGNA IN SENSO EXTRAMORALE 95
d'una causa fuori di noi, è già il risultato d'una falsa e indebita applicazio-
ne del principio di causalità. Posto che nella genesi del linguaggio decisiva
sia stata soltanto la verità, così come il punto di vista della certezza nelle
connotazioni, come possiamo noi ancora dire: «La pietra è dura», come se
per noi la «durezza» fosse altrimenti nota e non soltanto uno stimolo del
tutto soggettivo? Noi suddividiamo le cose in generi, designiamo l'albero
come maschile, la pianta come femminile: che trasposizioni arbitrarie! E
quanto al di là del canone della certezza! Noi parliamo di un serpente: la
connotazione non tocca che il muoversi torcendosi e quindi potrebbe anche
adattarsi al verme. Quali abbreviazioni arbitrarie, e che preferenze unilate-
rali per questa o per quella proprietà di una cosa! Le diverse lingue poste
l'una accanto all'altra dimostrano che nelle parole non è mai la verità che
importa o l'adeguatezza dell'espressione: diversamente, infatti, non ci sa-
rebbero così tante lingue. La «cosa in sé» (il che appunto sarebbe la pura
verità senza scopo) risulta del resto del tutto inconcepibile all'inventore di
un linguaggio e assolutamente non degna d'essere perseguita. Costui con-
nota soltanto le relazioni delle cose con gli uomini, per l'espressione delle
quali egli si serve delle più ardite metafore. Uno stimolo nervoso tradotto
anzitutto in immagine! prima metafora. L'immagine nuovamente ripla-
smata in un suono! seconda metafora. E ogni volta un completo salto di
orizzonte, dentro uno nuovo e del tutto diverso. Si può pensare a un uomo
completamente sordo e che non abbia mai avuto percezione alcuna del
suono e della musica: come costui osserva meravigliato sulla sabbia cose
come le figure sonore di Chladni poi scopre che la loro causa è nel vibrare
della corda e infine è pronto a giurare ormai di sapere cos'è ciò che gli uo-
mini chiamano suono, così di tutti noi per quel che riguarda il linguaggio.
Noi crediamo di sapere qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di al-
beri, colori, neve e fiori e tuttavia non disponiamo che di metafore delle
cose, che non esprimono in nessun modo le essenze originarie. Allo stesso
modo in cui il suono prende l'aspetto di figura tracciata sulla sabbia, così
l'enigmatica X della cosa in sé prende l'aspetto di uno stimolo nervoso, poi
di un'immagine, infine di un suono. Dunque non c'è niente di logico nel-
l'origine del linguaggio e tutto il materiale su cui e con cui più tardi l'uomo
della verità, il ricercatore, il filosofo lavora e costruisce, vien fuori, se non
proprio dal paese delle nuvole, certo in nessun caso dall'essenza delle cose.
Riflettiamo in particolare sulla formazione dei concetti: ogni parola divie-
ne senz'altro concetto, dal momento che essa non deve servire come ricor-
do per una esperienza originaria del tutto singolare e individualizzata, cui
deve il suo sorgere, ma piuttosto deve adattarsi a innumerevoli casi più o
meno simili e cioè, in senso stretto, mai identici, quindi a casi puramente
diseguali. Ciascun concetto sorge dall'eguagliare il non eguale. Certamente
mai una foglia è del tutto eguale a un'altra, e certamente il concetto di fo-
glia è formato attraverso il lasciar cadere queste differenze individuali os-
sia attraverso la dimenticanza di ciò che distingue, sicché spunta l'idea che
nella natura al di là delle foglie ci sia qualcosa come la «foglia», una sorta
di forma originaria, sulla base della quale tutte le foglie sarebbero plasma-
te, disegnate, sfumate, colorate, graffite, dipinte, ma da mani inesperte,
tanto che nessun esemplare possa riuscire corretto e sicuro come riflesso
fedele della forma originaria. Noi chiamiamo un uomo «onesto»; perché
costui oggi si è comportato così onestamente? Poniamo la questione. La
nostra risposta tende a essere: a causa della sua onestà. L'onestà! è come
dire di nuovo: la foglia è la causa delle foglie. Noi non sappiamo nulla di
una tale qualità essenziale, che si chiama onestà, ma certo conosciamo in-
96 VERITÀ E MENZOGNA
mente alle prescrizioni: contare con precisione i punti segnati, tenere cata-
loghi esatti e non sovvertire mai l'ordine gerarchico e la successione delle
classi. Come i romani e gli etruschi spartivano il cielo per mezzo di rigide
linee matematiche e in ciascuno spazio così delimitato confinavano un dio,
così ciascun popolo ha sopra di sé un tale cielo concettuale spartito mate-
maticamente e capisce che se si vuol giungere alla verità ciascun dio concet-
tuale debba essere ricercato soltanto nella sua sfera. Qui si può di certo
ammirare l'uomo come un potente genio della costruzione, capace di erge-
re su fondamenta mobili e per così dire sull'acqua corrente un arco concet-
tuale infinitamente complicato; e di certo per trovare stabilità su tali basi
bisogna che la costruzione sia fatta di ragnatele, così leggera da lasciarsi
trasportare dalle onde e così salda da non essere soffiata via dal vento. In
questo modo l'uomo, come genio costruttivo, s'innalza al di sopra delle
api: queste costruiscono sulla cera, ch'esse raccolgono dalla natura, egli in-
vece sulla più sottile materia dei concetti, che deve fabbricarsi da sé. Egli è
da ammirare — ma non a causa del suo impulso verso la verità, verso la
conoscenza pura delle cose. Se qualcuno nasconde un oggetto dietro un ce-
spuglio, e poi torna lì a cercarlo e lo trova, non è che per lui ci sia molta
gloria in questo cercare e trovare: ma proprio così stanno le cose quanto al-
la ricerca e alla scoperta della «verità» entro l'ambito della ragione. Se io
produco la definizione di un mammifero e poi dichiaro, alla vista di un
cammello: guarda, un mammifero! certo con questo una verità viene por-
tata alla luce, ma essa è di valore limitato, mi pare; in tutto e per tutto essa
è antropomorfica e non contiene un solo singolo punto che sia «vero in
sé», reale e universalmente valido, al di là della prospettiva dell'uomo. Il
ricercatore di simili verità in fondo non cerca che la metamorfosi del mon-
do nell'uomo; egli si affatica per comprendere il mondo come cosa umana
e nel migliore dei casi consegue con la sua lotta il sentimento di un'assimi-
lazione. Allo stesso modo in cui l'astrologo considera le stelle al servizio
dell'uomo e le tratta in connessione con la sua felicità e il suo dolore, così
un tal ricercatore tratta tutto il mondo come asservito all'uomo, come l'e-
co infinitamente ripetuta di un suono originario, come il riflesso moltipli-
cato di un'immagine originaria, ossia dell'uomo. Il suo procedimento è
questo: considerare l'uomo come misura di tutte le cose, dove però si inco-
mincia con un errore, che consiste nel ritenere che all'uomo queste cose
siano date immediatamente, come puri oggetti. Egli dimentica dunque le
metafore intuitive che stanno alla base in quanto metafore, e le prende per
le cose stesse.
Soltanto attraverso la dimenticanza di quel primitivo mondo di metafo-
re, soltanto attraverso l'indurimento e l'irrigidimento di una originaria
massa di immagini sgorgante con flusso impetuoso da quella facoltà origi-
naria che è la fantasia umana, solo attraverso la fede invincibile che questo
sole, questa finestra, questo tavolo siano delle verità in sé, in breve solo se
l'uomo si dimentica di sé come soggetto e anzi come soggetto che crea arti-
sticamente, egli può vivere con tranquillità, con sicurezza e con coerenza;
se gli fosse possibile uscire solo per un attimo dalle pareti di questa fede
che lo tiene prigioniero, immediatamente della sua «autocoscienza» non ne
sarebbe più nulla. Già gli costa molta fatica ammettere che l'insetto o l'uc-
cello percepiscono un mondo del tutto diverso rispetto a quello dell'uomo,
e che chiedersi quale sia la più giusta delle due percezioni è assolutamente
privo di senso, poiché qui si dovrebbe misurare in base al paradigma della
giusta percezione e cioè in base a un paradigma che non esiste. Ma in gene-
rale a me sembra che la giusta percezione — il che significherebbe l'espres-
98 VERITÀ E MENZOGNA
2.
Alla elaborazione dei concetti lavora originariamente, come abbiamo vi-
sto, il linguaggio, e in tempi successivi la scienza. Allo stesso modo in cui
l'ape allestisce le sue celle e nello stesso tempo le riempie di miele, così la
scienza lavora instancabilmente a quel grande columbarium dei concetti
che è il cimitero delle intuizioni, e vi costruisce sempre nuovi e più alti pia-
ni, e puntella, ripulisce, rinnova le antiche celle e anzitutto s'adopera per
riempire quello smisurato edificio a compartimenti e collocarvi in ordine
l'intero mondo empirico, ossia il mondo antropomorfico. Se già l'uomo
d'azione vincola la sua vita alla ragione e ai suoi concetti, per non essere
spazzato via e per non perdersi, a sua volta il ricercatore costruisce la sua
capanna proprio sotto la torre della scienza, per aiutarne lo sviluppo e per
trovare un riparo sotto il bastione che già c'è. E di riparo ha bisogno: giac-
ché ci sono potenze terribili che continuamente gli si fanno incontro e con-
trappongono alla verità scientifica delle «verità» di tutt'altro genere e dalle
insegne più varie.
Quell'impulso verso la formazione di metafore, quell'impulso fonda-
mentale dell'uomo di cui neppure per un attimo non si può non tenere con-
to, perché allora non si terrebbe conto dell'uomo, è in realtà non represso e
anzi a malapena controllato, dal momento che con i suoi prodotti evane-
scenti, ossia i concetti, viene edificato un nuovo mondo, regolare e saldo
come un baluardo. Esso cerca per sé un nuovo ambito d'azione, un nuovo
alveo, e lo trova nel mito e in generale nell'arte. Continuamente scompagi-
na i cataloghi e gli scomparti dei concetti esibendo nuove trasposizioni,
metafore, metonimie; continuamente mostra la bramosia di rifare il mon-
do attuale dell'uomo desto in modo variopinto, irregolare, privo di conse-
guenze, incoerente, esaltante ed eternamente nuovo come il mondo dei so-
gni. Di per sé l'uomo nello stato di veglia è convinto d'essere desto grazie
alla rigida e regolare ragnatela dei concetti, ma proprio perciò crede di so-
gnare non appena quella ragnatela concettuale viene lacerata dall'arte. Pa-
scal ha ragione quando afferma che se sognassimo tutte le notti lo stesso
sogno, ne saremmo presi come dalle cose di tutti i giorni: «Se un operaio
• fosse certo di sognare per dodici ore filate tutte le notti di essere un re, io
credo — dice Pascal — che sarebbe altrettanto felice di un re il quale so-
gnasse tutte le notti dodici ore di essere un operaio». Il giorno di un popolo
che viva nell'emozione mitica, come per esempio i Greci più antichi, in vir-
tù del prodigio continuamente operante proprio del mito, è in realtà più si-
mile al sogno che alla veglia del pensatore scientificamente disincantato.
Quando ogni albero può parlare come se in lui ci fosse una ninfa, quando
sotto le spoglie di un toro un dio carpisce vergini, quando la stessa dea
Atena improvvisamente è vista attraversare le piazze di Atene su di un bel
100 VERITÀ E MENZOGNA
la felicità dalle sue astrazioni, mentre egli mira il più possibile alla libera-
zione dal dolore, l'uomo intuitivo a sua volta stando nel cuore di una civil-
tà, dalle sue intuizioni ottiene non solo una protezione dal male, ma anche,
in flusso continuo, rischiaramento, serenità, redenzione. Certo egli soffre
più intensamente, quando soffre; anzi, egli soffre più di frequente, perché
non accetta di imparare dall'esperienza e sempre di nuovo cade nel medesi-
mo tranello. Nel dolore egli è tanto irragionevole quanto nella felicità,
giacché grida ad alta voce e non si dà pace. Quanto diversamente si com-
porta lo stoico, in una disgrazia analoga, ammaestrato com'è dall'espe-
rienza, lui, che si domina grazie al concetto! Egli, che in altre occasioni
cerca unicamente la rettitudine, la verità, la liberazione dagli inganni e la
difesa dalle seducenti sorprese, esibisce ora, nell'infelicità, il capolavoro
della simulazione allo stesso modo in cui il suo antagonista l'aveva esibito
nella felicità; non mostra un volto che si contrae e si scompone, ma per co-
sì dire una maschera con tratti di dignitoso equilibrio, e non grida né altera
la sua voce. E se un temporale si abbatte su di lui, si avvolge nel suo man-
tello e lentamente s'incammina sotto di esso.