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LA GESTIONE DELLE EMERGENZE CLINICHE

MODULO 1

1. IL TRIAGE DI PRONTO SOCCORSO

MODULO 2

2.LA GESTIONE DELLE EMERGENZE CLINICHE PER LE VIE


RESPIRATORIE

2.1 Cenni di anatomia dell’apparato respiratorio

2.2 Approccio al paziente per la gestione delle vie respiratorie

2.3 Tracheotomia e tracheostomia

MODULO 3

3.STABILIZZAZIONE DEL PAZIENTE IN STATO DI SHOCK

MODULO 4

4.LA GESTIONE DELLE EMERGENZE CLINICHE NEUROLOGICHE

4.1 Crisi epilettiche

4.2 Vertigini

4.3 Malattia cerebrovascolare

4.4 Intossicazione da farmaci o da alcool

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MODULO 1

1. IL TRIAGE DI PRONTO SOCCORSO

Fra la fine degli anni ‘ 80 e l’inizio degli anni ‘ 90 del secolo scorso , si è assistito ad
un costante aumento degli accessi nei Pronto Soccorso ospedalieri italiani che,
analogamente a quanto verificatosi in altri paesi, non erano preparati ad affrontare
questa crescente ondata di pazienti e soprattutto non erano in grado di regolarne il
flusso. Alla base di questo fenomeno possiamo includere l’insorgenza di nuovi
bisogni assistenziali, il progressivo invecchiamento della popolazione, l’aumento del
numero di pazienti complessi , l’avvento di nuove tecnologie di diagnosi e cura . Le
nuove criticità che si sono determinate sono rappresentate dal ritardo di accesso alle
cure, dallo stazionamento (boarding) dei pazienti in attesa di ricovero e, in generale,
dal sovraffollamento (over-crowding) nei Servizi di Pronto soccorso. Questi fattori
hanno indirizzato istituzioni e operatori verso la ricerca di nuovi scenari, capaci di
realizzare una presa in carico precoce del paziente fin dal suo arrivo in Pronto
Soccorso ed un utilizzo attivo dei tempi di attesa.

Ci si è quindi occupati di affrontare tale situazione attivando , in linea con le direttive


nazionali e le evidenze scientifiche del momento , un sistema di accoglienza e
valutazione del grado di priorità di acc esso alle cure . Tale sistema, individuato nel
Triage infermieristico è stata la prima risposta del Servizio Sanitario a tali criticità ,
favorendo in particolare un più appropriato accesso alle cure.

Il quadro normativo di riferimento è rappresentato da:

➢ATTO D’INTESA Stato-Regioni del maggio 1996 - “Atto d’intesa Stato-Regioni di


approvazione delle linee guida sul sistema di emergenza sanitaria in applicazione del
D.P.R. 27 marzo 1992”

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➢ D.P.R. 27 marzo 1992 - “Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni per la
determinazione dei livelli di assistenza sanitaria in emergenza”

➢ACCORDO Stato-Regioni del 25.10.01 - “Linee Guida su Triage intraospedaliero


- valutazione gravità all’ingresso - e chirurgia della mano e microchirurgia nel
sistema dell’emergenza-urgenza sanitaria” .

A seguito di tali norme , nel nostro Servizio Sanitario Nazionale è stata introdotta e
implementata la metodologia del Triage infermieristico, intesa quale strumento per
effettuare una idonea selezione degli accessi in Pronto Soccorso, in base alla priorità
determinata dalle condizioni cliniche dei pazienti e del loro rischio evolutivo, nonché
dal grado di impegno delle risorse disponibili.

Le Linee guida del 2001 hanno rappresentato un punto di svolta nel miglioramento
del sistema di Triage infermieristico in Italia e ancora oggi costituiscono un valido
riferimento. Ciononostante, la loro parziale diffusione sul territorio nazionale e,
soprattutto, l’assenza di un modello uniforme e condiviso, con criteri definiti e
caratterizzato da un percorso formativo rigoroso, hanno indotto nel tempo i
professionisti del settore a confrontarsi sulla metodologia e sugli obiettivi da
raggiungere per la condivisione di un modello nazionale di riferimento del sistema
stesso.
Il ruolo fondamentale assunto dal Triage all’interno dei servizi di PS , il progressivo
sviluppo ed affinamento delle metodologie di valutazione , la migliore capacità di
stratificare i gradi di priorità e l’attivazione di percorsi basati sull’intensità di cura
hanno portato, analogamente alle più importanti esperienze internazionali , a
riconoscere la necessità di modificare l’attuale sistema di codifica a quattro codici.

Alla luce anche del progressivo sviluppo di sperimentazioni avanzate, che


rappresentano nuove modalità di realizzazione di soluzioni operative , quale il “fast
track” ed il “see and treat” , è necessaria una adeguata regolamentazione in un’ottica
di corretta risposta assistenziale ed appropriatezza delle prestazioni.

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In questo contesto si inserisce la necessità di aggiornare ed integrare le Linee guida
del 2001 con la finalità di garantire la realizzazione di un sistema di Triage
infermieristico uniforme su tutto il territorio nazionale, sensibile ai nuovi bisogni di
salute della popolazione e in linea con le evidenze scientifiche più recenti , che
risponda alle attuali esigenze dei contesti operativi , nel rispetto della qualità e della
sicurezza delle cure , con un’attenzione particolare nei riguardi dei soggetti portatori
di fragilità psicosociale, così da attuare un corretto approccio valutativo e realizzare ,
già dall’ inizio del percorso di cura, un’ adeguata presa in carico della persona.

Il Triage, quale primo momento d’accoglienza delle persone che giungono in PS , è


una funzione infermieristica volta alla identificazione delle priorità assistenziali
attraverso la valutazione della condizione clinica dei pazienti e del loro rischio
evolutivo, in grado di garantire la presa in carico degli utenti e definire l’ordine
d’accesso al trattamento. Generalmente la funzione di Triage non riduce i tempi
d’attesa dei pazienti , ma li ridistribuisce a favore di chi ha necessità d’interventi in
emergenza e urgenza. La funzione di Triage deve essere garantita in modo
continuativo nelle 24 ore. I servizi di Pronto Soccorso sviluppano uno specifico
progetto per ottimizzare l’attività di Triage garantendo il rispetto dei criteri nazionali
e il miglior adattamento possibile alle esigenze della realtà locale . A tal fine è
necessaria l’attivazione di gruppi multi-disciplinari (medici ed infermieri esperti) che
definiscono metodi di monitoraggio del proprio sistema di Triage, elaborando ed
implementando strategie di miglioramento.

Lo scopo del Triage è di gestire la presa in carico di tutte le persone che ac cedono al
PS, con particolare attenzione a quelle in condizioni di criticità, valutandone i dati ed
i segni clinici che contraddistinguono situazioni di rischio, complicanze e/o effetti
indesiderati di trattamenti in atto, mediante l’osservazione clinica, l’impiego di
scale/strumenti appropriate/i e idonei sistemi di monitoraggio.

Gli obiettivi del Triage in PS si configurano, pertanto, nel:

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• Identificare le persone che necessitano di cure immediate e garantirne il tempestivo
avvio al trattamento, applicando le procedure idonee a fronteggiare le situazioni di
criticità in attesa dell’intervento medico , con la finalità di ridurre il tempo libero da
trattamento per tutte le patologie tempo sensibili;

• Attribuire a tutti gli assistiti un codice di priorità di accesso alle cure in relazione
alla criticità delle loro condizioni ed al possibile rischio evolutivo;

• Contribuire all’ottimizzazione del processo di cura della persona assistita anche


attraverso l’attivazione e l’inserimento in un percorso di valutazione e trattamento
appropriato (es: patologie tempo-dipendenti, percorsi per soggetti fragili);

• Sorvegliare le persone in attesa e rivalutarne periodicamente le condizioni;

• Gestire e modificare le priorità clinico - terapeutico- assistenziali sulla base di


risorse, contesti e necessità contingenti;

• Garantire l’adeguata e continua presa in carico delle persone in attesa e degli


accompagnatori, fornendo assistenza ed informazioni pertinenti e comprensibili.

I sistemi di Triage implementati nelle realtà italiane si ispirano a un modello che


garantisce un approccio globale alla persona e ai suoi familiari, mediante la
valutazione infermieristica basata sulla raccolta di dati soggettivi e oggettivi e degli
elementi situazionali significativi e sulle risorse disponibili.

I presupposti di questo modello di Triage sono identificabili nelle seguenti attività:

• Realizzare l’effettiva presa in carico della persona e degli accompagnatori dal


momento in cui si rivolgono al Pronto Soccorso;

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• Assicurare la valutazione professionale da parte di un infermiere specificamente
formato;
• Garantire l’assegnazione del codice di priorità attraverso la considerazione dei
bisogni di salute dell’assistito , delle sue necessità di cura e del possibile rischio
evolutivo;
• Utilizzare un processo di valutazione strutturato in grado di garantire l’approccio
complessivo alla persona ed ai suoi problemi di salute;
• Utilizzare un sistema codificato di livelli di priorità di accesso alle cure;

• Disporre di un sistema documentale adeguato e informatizzato.

Dal punto di vista metodologico il processo di Triage si articola in quattro fasi:

1) Fase della Valutazione immediata (c.d. sulla porta):


consiste nella rapida osservazione dell’aspetto generale della persona con
l’obiettivo di individuare i soggetti con problemi assistenziali che necessitano
di un intervento immediato.

2) Fase della Valutazione soggettiva e oggettiva:

a. valutazione soggettiva, viene effettuata attraverso l’intervista (anamnesi mirata),


b. valutazione oggettiva, viene effettuata mediante la rilevazione dei segni clinici e
dei parametri vitali e l’ analisi della documentazione clinica disponibile.

3) Fase della Decisione di Triage: consiste nell’assegnazione del codice di priorità,


nell’attuazione dei necessari provvedimenti assistenziali e nell’eventuale attivazione
di percorsi diagnostico-terapeutici.

4) Fase della Rivalutazione: si intende la conferma o, nel caso di variazioni delle


condizioni cliniche o dei parametri vitali del paziente, l’eventuale modifica del codice
di priorità assegnato ai pazienti in attesa.

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L’assegnazione del codice di priorità è l’esito della decisione infermieristica
formulata nell’ambito dell’attività di Triage ed è basata sugli elementi rilevati nelle
fasi di valutazione soggettiva ed oggettiva. Ciò determina la priorità dell’accesso alle
cure da attribuire al paziente in relazione alle sue condizioni cliniche , al rischio
evolutivo e alla disponibilità delle risorse . Non necessariamente il codice di priorità
assegnato al Triage corrisponde alla gravità del paziente ; soltanto l’integrazione con
la successiva fase di valutazione , effettuata in sede di visita medica , permetterà di
disporre degli elementi essenziali per la corretta formulazione del giudizio di gravità
clinica del caso.

Nella decisione di Triage, oltre ai sintomi ed al possibile rischio evolutivo , devono


essere considerati anche ulteriori fattori che condizionano il livello di priorità e la
qualità dell’ assistenza da fornire per una corretta presa in carico , come il dolore ,
l’età, la disabilità, la fragilità , le particolarità organizzative e di contesto . Per questi
motivi è necessario che la gestione della lista di attesa avvenga ad opera dell’
infermiere di Triage.

La metodologia dell’attribuzione della codifica ha permesso in questi anni di


rispondere alle esigenze di gestione di un aumento progressivo della richiesta di
prestazioni ospedaliere.

Infatti, in condizioni di normale affluenza e assetto organizzativo vengono garantiti


gli standard temporali previsti (tempo massimo di attesa) per l’inizio del percorso
diagnostico-terapeutico-assistenziale (PDTA), ponderati sulla base degli studi
effettuati dalle società scientifiche ed in accordo con la letteratura internazionale . In
nessun caso il codice di priorità può essere usato per altri scopi che non sia no l’
individuazione della priorità dell’ accesso alle cure . Eventuali ulteriori codifiche di
percorsi clinico assistenziali successivi al Triage , devono essere chiaramente
diversificate dal codice di priorità , evitando ulteriori stratificazioni o differenti
sistemi di codifica aggiuntiva.
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Alla luce dell’esperienza maturata negli anni , considerata la necessità di definire
percorsi più appropriati che possono trovare risposte anche nell’ambito della rete dei
servizi di Cure primarie o in altri setting di cura (come previsto dall’Accordo Stato
Regioni del 7 febbraio 2013 sul documento di “Riorganizzazione del Sistema di
Emergenza urgenza in rapporto alla Continuità assistenziale” ), è emersa
progressivamente la necessità di differenziare ulteriormente i l sistema di codifica
attualmente in uso, basato su quattro codici colore. Ciò è in linea anche con le attuali
principali evidenze scientifiche internazionali.

Con la definizione di accoglienza in Triage si intende intendiamo la presa in carico


globale della persona e la gestione delle informazioni con i relativi care givers , dal
momento dell’arrivo in P .S. e durante l’attesa . Questa fase rappresenta una fase
critica del rapporto tra il cittadino e il Servizio Sanitario , perché gravata da
aspettative emotivamente importanti relative alla necessità di ottenere una
soddisfazione rapida del proprio bisogno di salute.

Nelle diverse esperienze internazionali è ormai riconosciuta la complementarietà


degli interventi sanitari e psicosociali nei confronti della popolazione e con essa la
necessità di un supporto agli operatori . E’ evidente, quindi, la necessità di una stretta
relazione metodologica tra gli aspetti sanitari e quelli psicosociali negli interventi di
assistenza e supporto agli utenti.

Per una corretta presa in carico della persona e dei suoi accompagnatori , è necessario
prevedere azioni di miglioramento finalizzati alla formazione specifica degli
infermieri di Triage sugli aspetti relazionali, la gestione dei conflitti ed il
rafforzamento della motivazione. Particolare rilevanza rivestono anche gli aspetti
della comunicazione per i quali è necessario prevedere non solo una formazione
specifica per l’infermiere di Triage, ma anche una formazione specifica in qualità di
counselor per quegli infermieri che dimostrino di avere particolari capacità di

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relazione con la persona assistita e con il nucleo familiare nella gestione di conflitti e
di eventi critici.

A tale scopo è opportuno formare , in qualità di counselor , più unità di personale


magari e disporre di un Servizio di Psicologia aziendale che , sulla base di procedure
organizzative concordate, intervenga sia nelle situazioni ritenute più complesse che
richiedono un contributo specialistico, con l’eventuale presa in carico di eventi critici,
sia per sostenere l’equipe assistenziale attraverso incontri periodici.
Per accogliere i cittadini che giungono in PS, è possibile prevedere nella sala d’attesa
anche la presenza di personale laico volontario, specificatamente formato ed
autorizzato, attraverso appositi progetti . Questa funzione può essere svolta , ad
esempio, da personale appartenente ad Associazioni di volontariato accreditate o da
studenti provenienti da Corsi di Laurea in discipline umanistiche e sanitarie. Tali
professionisti hanno il compito di rispondere tempestivamente ai bisogni di
informazione ed accudimento del paziente e degli accompagnatori , fornendo
indicazioni e raccogliendone le segnalazioni . Non è richiesta a queste figure
professionali alcuna conoscenza sanitaria di tipo assistenziale o clinico: esse
integrano, ma non sostituiscono, la funzione del personale sanitario.

Nella gestione complessiva del cittadino-utente-paziente, l’organizzazione degli spazi


prevede un’area dedicata alla presa in carico della persona, in quanto entità sociale
con una famiglia e un ambiente di riferimento . Con questo si intende considerare ,
nell’ambito delle attività assistenziali , non solo le valutazioni clinico assistenziali
proprie della condizione che porta il paziente al Pronto Soccorso, ma anche la presa
in carico della persona stessa nella sua interezza , considerando quindi la sua
“umanità”.

Questa attenzione, che oggi si definisce “umanizzazione delle cure” , è a tutti gli
effetti un aspetto del piano assistenziale.

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Particolare attenzione deve essere posta anche all’implementazione di strategie
informative, con strumenti quali l’uso di idonea cartellonistica e di sistemi di
monitoraggio che aggiornino l’utenza in tempo reale sulla situazione del servizio di
Pronto Soccorso. L’inizio del Triage, ovvero la valutazione sulla porta, deve esser
garantito di norma entro 5 minuti a tutti coloro che accedono al Pronto Soccorso.
La rivalutazione, quale imprescindibile fase del processo di Triage, si definisce come
l’attività profess ionale mirata a consentire il monitoraggio clinico dei pazienti in
attesa, mediante il rilievo periodico dei parametri soggettivi e/o oggettivi che
consentiranno di cogliere tempestivamente eventuali variazioni dello stato di salute.
L’iter di Pronto Soccorso si configura come il percorso successivo all’accoglienza del
paziente, comprensivo della visita medica e degli accertamenti diagnostici fino alla
definizione dell’esito che può essere costituito da:

•Ammissione in Osservazione Breve Intensiva (O.B.I.);

• Ricovero presso una unità di degenza della struttura ospedaliera mediante


attivazione della relativa procedura con apertura della scheda di ammissione;

• Trasferimento presso altra struttura per acuti o post acuti con l’attivazione della
relativa procedura;

• Invio al domicilio con affidamento alle strutture territoriali prevedendo, se


necessario, il controllo presso strutture ambulatoriali ospedaliere.

Per una corretta gestione del percorso diagnostico terapeutico dei pazienti che
accedono al P.S. si raccomanda un tempo non superiore alle 8 ore dall’arrivo, anche
nel caso di presentazioni cliniche complesse, in aderenza a quanto evidenziato nella
letteratura internazionale.

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L’ammissione dei pazienti in O.B.I., laddove appropriata, deve avvenire entro un
tempo massimo di 6 ore dalla presa in carico e la permanenza non deve superare le 36
ore dall’ inizio del Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PDTA).

Il trattamento in O.B.I. può esitare in:

• Ricovero presso una unità di degenza della struttura ospedaliera;


• Trasferimento presso altra struttura per acuti o post acuti con l’attivazione della
relativa procedura;

• Invio al domicilio con affidamento alle strutture territoriali prevedendo, se


necessario, il controllo presso strutture ambulatoriali ospedaliere.

Al termine della valutazione l’infermiere, assegnato il codice di Triage, può attivare il


percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA) più appropriato tra quelli
previsti dall’organizzazione, ottimizzando i tempi di presa in carico e trattamento e
contribuendo alla diminuzione dei tempi di attesa globale . L’attivazione dei flussi di
trattamento, basati su diversi livelli d’intensità di cura , richiede la redazione di
appositi protocolli e la realizzazione delle attività fo rmative utili alla loro
implementazione. In particolare , in relazione al livello di complessità del Presidio
ospedaliero, in coerenza con le indicazioni della programmazione regionale, si
raccomanda lo sviluppo di percorsi dedicati per Fast Track, See and Treat, patologie
tempo-dipendenti (rete SCA , rete Stroke e rete Trauma grave ) e condizioni
particolari (fragilità, vulnerabilità).

Sulla base di quanto affermato nell’accordo della Conferenza Stato -Regioni del 7
febbraio 2013, nel quale si indica di “realizzare all’interno di PS e DEA percorsi
separati clinico organizzativi diversi in base alla priorità” , appare evidente come sia
necessario prevedere lo sviluppo di percorsi diagnostico terapeutici rapidi che
richiedono prestazioni a bassa complessità con invio a team sanitari distinti da quelli

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del PS/DEA, facilitando, contemporaneamente, l’integrazione tra i diversi servizi
ospedalieri.

Il See and Treat è un modello di risposta assistenziale alle urgenze minori che si
basa sull’ adozione di protocolli per il trattamento di specifici problemi clinici
preventivamente definiti. Tale modalità, diffusa nel Servizio Sanitario Inglese, è stata
introdotta anche in alcune realtà del panorama nazionale (es. Regione Toscana )
fornendo risultati soddisfacenti riassumibili nella riduzione delle attese e dei tempi di
permanenza nei Pronto Soccorso , nonché nella riduzione della quota di pazient i che
si allontanano spontaneamente , con conseguente miglioramento della qualità
percepita dai cittadini e dagli operatori. E’ uno dei percorsi che può essere attivato dal
Triage; il paziente è accolto direttamente in un’ area specifica del Pronto Socco rso
dall’ infermiere dedicato. L’infermiere esperto valuta, in autonomia, l’appropriatezza
dell’accesso e avvia tutte le procedure previste dai protocolli, facilitando il percorso
del paziente fino alla dimissione.

Il Fast Track è un modello di risposta assistenziale alle urgenze minori di pertinenza


mono specialistica (ad es . oculistica, otorinolaringoiatrica, odontoiatrica,
ginecologica/ostetrica, dermatologica), alle quale nella fase di Triage è stata attribuita
una codifica di urgenza minore. Anche per questo percorso l’attivazione si avvia dal
Triage ed è condotta sulla base di protocolli validati localmente . Questo percorso
prevede la dimissione diretta del paziente da parte dello specialista, ad esclusione dei
casi non risolvibili con questa modalità ma che necessitano della presa in carico del
problema clinico da parte del Medico dell’ Emergenza.

L’adozione di tali modelli clinici-organizzativi valorizza ulteriormente la funzione di


Triage, attivando percorsi differenziati di presa in carico all’interno dei PS,
migliorandone l’appropriatezza di trattamento.

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Nella organizzazione del sistema ospedaliero di emergenza -urgenza è fondamentale
che si consideri ,se si dovesse trattare di un bambino, il bambino insieme alla sua
famiglia.

La Società Italiana di Pediatria ha redatto nel 2008 la Carta dei Diritti del Bambino e
dell’adolescente in Ospedale che riprende la Convenzione Internazionale sui Diritti
dell'Infanzia e dell'Adolescenza del 1989 e si ispira alla Carta di EACH (European
Association for Children in Hospital ) del 1988. Tale documento riconosce che i
minori hanno il diritto di avere accanto a sé, in ogni momento, i genitori o chi esercita
la patria potestà ; hanno il diritto di essere ricoverati in reparti idonei, di essere
assistiti da personale con preparazione adeguata a rispondere alle necessità fisiche ,
emotive e psichiche loro e della loro famiglia . Nel rispetto della Carta dei Diritti del
Bambino e dell’adolescente in Ospedale , si indicano le modalità di organizzazione
del percorso pediatrico in Pronto Soccorso.

La specificità del Triage pediatrico è data dalla valorizzazione di alcuni


parametri/segni/sintomi peculiari delle fasi dell’accrescimento (neonato, lattante,
bambino, adolescente) e diversi da quelli dell’adulto.

Il Triage pediatrico, pertanto, deve essere effettuato da un infermiere specificamente


formato per la valutazione e la presa in carico del paziente pediatrico e della sua
famiglia. All’ingresso nel PS, l’infermiere procede alla valutazione soggettiva ed
oggettiva per assegnare il codice di priorità alla visita medica , avvalendosi di
specifiche griglie di valutazione di riferimento e di protocolli condivisi e validati.
Particolare attenzione deve essere dedicata al trattamento del dolore pediatrico e, a
tale scopo, devono essere disponibili ed utilizzate , correttamente e costantemente ,
dall’infermiere addetto al Triage le scale validate del dolore pediatrico, specifiche per
fascia di età . Importante è la fase di rivalutazione a causa della variabilità del
manifestarsi della condizione clinica . Il bambino , infatti, non è sempre in grado di
manifestare il mutamento della sua condizione : tanto più è piccolo , tanto maggiore
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sarà la difficoltà nella segnalazione dei cambiamenti , per cui è necessario prevedere
la ripetizione della rilevazione di uno o più parametri vitali, nonché dell’esame fisico,
per confermare o modificare il codice di priorità assegnato all’ingresso.

Il Sistema di Triage si deve adeguare al Modello Globale fondato su un approccio


olistico alla persona in base alla raccolta di dati soggettivi ed oggettivi , alla
considerazione di elementi situazionali significativi e all 'effettiva disponibilità di
risorse della struttura.

L' organizzazione specifica deve consentire di:

• Realizzare l'effettiva presa in carico della persona dal momento in cui si rivolge alla
struttura.

• Assicurare la valutazione professionale da parte di un infermiere adeguatamente


formato e competente

.
• Garantire l 'assegnazione del codice di priorità al trattamento attraverso la
considerazione dei bisogni di salute dell 'assistito, delle sue necessità di cura e del
possibile rischio evolutivo.

• Identificare rapidamente le persone che richiedono cure immediate e garantirne il


tempestivo avvio al trattamento.

• Utilizzare un processo di valutazione strutturato in grado di garantire l'approccio


complessivo alla persona ed ai suoi problemi di salute.

• Utilizzare il sistema codificato di livelli di priorità.

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• Contribuire all'ottimizzazione del processo di cura della persona assistita all' interno
del PS anche attraverso l'attivazione e l'inserimento del paziente in particolari
percorsi di valutazione (Fast Track, See and Treat, PDTA).

• Controllare e regolamentare tutti gli accessi dei pazienti alle aree di visita del PS. •
Disporre di un sistema documentale adeguato.

• Disporre di un sistema adeguato di identificazione del paziente, in linea con le


evoluzioni tecnologiche (es. braccialetto, bar code).

•Gestire la lista e l'attesa dei pazienti.

• Fornire assistenza ed informazioni pertinenti e comprensibili agli assistiti.

• Gestire e fornire informazioni agli accompagnatori dei pazienti, in collaborazione


con gli altri operatori del PS.

L'organizzazione del Triage deve salvaguardare le esigenze di tutte le persone che


accedono alle cure in emergenza urgenza. La funzione di Triage deve essere attiva
presso tutte le strutture sede di PS e garantita continuativamente nelle 24 ore. Dopo
l’accesso, è garantita l’accoglienza e la valutazione da parte dell’infermiere di Triage,
l’assegnazione dell’idoneo codice di priorità e l’attivazione del percorso più
appropriato tra quelli previsti dall'organizzazione. Ogni organizzazione realizza
protocolli relativi alla valutazione e al trattamento dei quadri sintomatologici più
frequenti e/o di maggiore complessità , condivisi con il responsabile di Struttura e di
Dipartimento, e organizza attività formative utili alla loro impleme ntazione nonché
alla verifica periodica della loro attuazione . Le attività accessorie al Triage
(registrazione dei dati anagrafici , supporto logistico, assistenza di base ) si svolgono

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sotto la responsabilità dell'infermiere che può avvalersi di personale amministrativo o
personale sanitario di supporto per la loro esecuzione.

Nella definizione e progettazione dell' architettura e degli spazi si deve tener conto
della tipologia dell'ospedale e del processo metodologico di Triage.
La funzione di Triage intraospedaliero deve essere espletata in posizione strategica
rispetto agli ingressi del PS (pedonale, auto, ambulanze) e l’area Triage deve essere
immediatamente identificabile per tutti coloro che accedono al Pronto soccorso.

Gli elementi fondamentali necessari a garantire il rispetto della privacy e l’adeguata


funzione di Triage attraverso le 4 fasi (valutazione sulla porta, raccolta dati, decisione
di Triage, rivalutazione), sono rappresentati da:

• ambienti dedicati all’area accoglienza, segnalati e ben individuati con accesso


facilitato per le persone in condizioni di fragilità , non deambulanti, deambulanti,
minori;

•ambienti dedicati all’area Triage dotati di:

- postazioni telematiche per la raccolta delle informazioni di accesso;

- locali per la raccolta di informazioni cliniche e la valutazione dei parametri vitali;

- sale di attesa per pazienti non deambulanti, e pazienti deambulanti pazienti


pediatrici, persone in condizioni di fragilità , attigui all’area Triage in modo da
consentire la sorveglianza continua da parte dell'Infermiere e la rivalutazione
(osservazione diretta e/o telematica);

- sale di attesa per pazienti ambulanti , autosufficienti, già sottoposti a Tria ge e per i
loro accompagnatori .

•altri ambienti:

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- sale riservate ai pazienti pediatrici;

- sale riservate ai pazienti affetti da malattia potenzialmente contagiosa;

- sale riservate a persone in condizioni di fragilità e vittime di abuso;

- locali per gli assistenti sociali, per la comunicazione dei lutti o delle gravi malattie,
per le necessità sociali degli accompagnatori ;

- servizi igienici, anche per disabili, punti acqua e ristoro facilmente accessibili dalla
sala di attesa.

L’area Triage e post Triage dispone di risorse adeguate, materiali e tecnologie, per
consentire la realizzazione di un sistema strutturato secondo le direttive contenute nel
presente documento e per il mantenimento di appropriati standard qualitativi.

Per garantire la sicurezza delle cure e prevenire o contenere la possibile insorgenza di


eventi avversi, nella elaborazione di protocolli e procedure è necessario considerare
con particolare attenzione i seguenti aspetti:

• la comunicazione/informazione tra il personale del 112 e quello del Triage del PS

• la comunicazione/informazione tra il personale del Triage e della sala visita

• l’osservazione e l’ascolto attento del paziente

• l’eventuale nuovo accesso al PS per il medesimo problema clinico a distanza di 24 -


48 ore dal primo

• la valutazione appropriata del paziente nella fase di attribuzione del codice di


priorità

• la compilazione corretta della scheda di Triage

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• la rivalutazione periodica dei pazienti per la conferma o modifica del codice di
priorità

• le informazioni e raccomandazioni fornite al paziente in attesa e/o ai


familiari/accompagnatori

• la continuità nella presa in carico del paziente durante il cambio del turno

• il mantenimento di standard di personale per turno con attenzione ai picchi di


maggior affluenza

• l’allontanamento volontario del paziente prima dell'accesso alla visita medica.

La documentazione clinica di Triage e la tracciabilità del processo sono elementi


fondamentali per la gestione del Rischio Clinico.

Nelle procedure di gestione del Rischio Clinico deve essere previsto l’utilizzo di
adeguati strumenti e metodologie di supporto indirizzate all’identificazione, l’analisi
e la gestione del rischio clinico, al fine di rilevare le insufficienze nel sistema che
possono contribuire al verificarsi di un evento avverso , e di individuare e progettare
le idonee barriere protettive e le opportune azioni di miglioramento. Fondamentale, in
tal senso, è l’utilizzo di un sistema strutturato di segnalazione degli event i avversi e
dei Near Miss (schede di Incident reporting), il monitoraggio e la gestione degli
Eventi Sentinella, il monitoraggio degli indicatori di processo e di esito, l’utilizzo
sistematico e continuativo dell'AUDIT Clinico. Tali strumenti consentono di
migliorare la qualità e la sicurezza del Percorso Clinico Assistenziale e di ridurre
l’occorrenza degli Eventi Sentinella che , è bene ricordare , rappresentano eventi di
particolare gravità che possono esitare in ritardi diagnostici e terapeutici con
implicazione sulla durata e severità della prognosi , così come nel decesso del
paziente.

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Particolare attenzione sarà rivolta alla segnalazione e gestione, degli eventi sentinella
relativi a:

• Arresto cardiaco improvviso in area Triage;

• Morte o grave danno conseguente a non corretta attribuzione del codice Triage nella
Centrale operativa 112 e/o all'interno del Pronto Soccorso ;

• Prevenzione e gestione della caduta del paziente nelle strutture sanitarie (v.
Raccomandazione n. 13 - Ministero della Salute);

• Prevenzione degli atti di violenza a danno degli operatori sanitari (v.


Raccomandazione n. 8 Ministero della Salute).

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MODULO 2

2.LA GESTIONE DELLE EMERGENZE CLINICHE PER LE VIE


RESPIRATORIE

Il paziente critico è il soggetto in cui, a causa dell’alterazione di una o più funzioni


vitali sussiste il PERICOLO DI VITA.
Tale pericolo è misurabile in termini di tempo in maniera direttamente proporzionale
al tempo di latenza (tempo che intercorre tra evento dannoso e primo trattamento
finalizzato al compenso), alla gravità dell’insufficienza, alla quantità di organi o
apparati compromessi in maniera simultanea, alle patologie eventualmente già
presenti (comorbilità) che ne peggiorano il quadro. Questi criteri aumentano il
pericolo e richiedono intervento ed un trattamento più tempestivo possibile.
La sintomatologia è contraddistinta dal fatto che nell’emergenza sussiste il pericolo
di vita a causa dell’improvvisa e rapida compromissione di tutte le funzioni vitali:
percettivo sensoriale (stato di coscienza), respiratoria, cardiocircolatroria, emuntoria
con evidenti segni e sintomi aggiuntivi valutabili con l’esposizione e l’analisi del
comportamento del paziente da trattare.
L’arte del professionista si concentra nella gestione a 360° della scena, del team e del
paziente. Il trattamento immediato viene calibrato sul ripristino delle defiance di
funzione di organo e proiettato sulla consecutio rapida degli interventi, compenso e
stabilizzazione valutandone l’efficacia in tempi relativamente brevi.
Il know how del professionista favorisce la rapidità della complessa valutazione, la
scelta consapevole, l’abbattimento del rischio, la prevenzione degli eventi avversi
migliorando il risultato per mortalità e outcome. Un buon professionista, può fare la
differenza in setting vari: dagli ambienti ospedalieri sanitari di III livello fino alle
20
gestioni assistenziali extraospedaliere.
La gestione delle vie aeree e della successiva ventilazione artificiale è una priorità in
rianimazione per pazienti in condizioni critiche d’urgenza garantendone in tempi
brevi o brevissimi la ripresa delle funzioni vitali.
La funzione respiratoria può essere garantita con manovre di base, operate da persone
che hanno ricevuto una formazione minima (respirazione bocca- bocca, ventilazione
con pocket mask o con pallone auto espandibile) oppure con manovre avanzate
operate da specialisti esperti.
In una aliquota di pazienti le manovre disostruttive con tecniche manuali risultano
efficaci, in altre purtroppo vane.
In caso di difficoltà di estrazione di corpo estraneo, di edema della glottide o per
distrurbi neuromuscolari centrali e periferici, la via chirurgica di ventilazione risulta
necessaria ed indispensabile per supportare una funzione vitale seriamente
compromessa.
L’accesso alle vie aeree per via percutanea talvolta diventa un rimedio per:
• Superare l’emergenza;
• Garantire un intervento rapido;
• Ridurre le complicanze a breve e lungo termine;
• Ossigenare il paziente;
• Garantire uno scambio alveolo – capillare.
Tecnicamente diverse possono essere le tecniche utilizzabili:
• percutanea con ago;
• inserimento di microcannula o mini cricotiroidotomia;
• cricotiroidotomia chirurgica d’urgenza
Anatomicamente il foro va praticato sulla parete anteriore della laringe,
immediatamente sotto la cartilagine tiroidea (pomo d’Adamo) a livello del legamento
cricotiroideo mediano. Si accede così all’interno della laringe al di sotto della piega
vocale.
La sede è scelta per sede anatomica lontana dalla tiroide e per la

21
caratteristica elastica della membrana cricotiroidea, evita emorragie, peraltro rare,
che possano ostruire la trachea peggiorando lo scambio alveolo – capillare.
Le linee guida internazionali prevedono nel paziente NON VENTILABILE e NON
INTUBABILE la jet ventilation con tecnica percutanea che, con ago cannula,
determina un rapido accesso alle vie aeree per una ventilazione ed una ossigenazione
temporanea quando non è possibile nessun altro controllo delle vie aeree.
Si chiama “ventilazione jet” in quanto una sorgente ad alta pressione viene utilizzata
per fornire ossigeno.
Le INDICAZIONI all’esecuzione della manovra sono:
• ostruzione delle vie aeree da sanguinamento incontrollato nella cavità
orale e/o vomito
• grave trauma maxillo-facciale – smussato, penetrante, o associata a frattura
mandibolare
• laringea corpo estraneo che non può essere rimosso rapidamente
• gonfiore delle strutture delle vie aeree superiori, gli esempi includono:
• Infezione, come epiglottite o angina di Ludwig
• allergica o una reazione immunologica, come da allergia alimentare o angioedema
ereditario
• chimica o ustioni al epiglottide e vie aeree superiori
• Post-estubazione con edema della glottide.
L’Ago cricotiroidotomia può essere eseguita su pazienti di qualsiasi età, ma è
considerato preferibile nei neonati e nei bambini fino a 10 a 12 anni di età,
perché anatomicamente il punto di repere è più facile da aggredire.
OCCORRENTE SALVAVITA in assenza di presidio apposito e/o in emergenza:
DPI(dispositivi di protezione individuale) per l’operatore;
Garze e disinfettante
Fonte di ossigeno ad alto flusso 15l/min;
Siringa da 10 ml contenente 5 ml di soluzione fisiologica;
Ago cannula 16G o 14 G;

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Deflussore per fleboclisi(dal quale ricavare il connettore luer lok
terminale per agganciare stabilmente l’ago);
Tubo di raccordo per ossigenoterapia collegato ad una estremità alla
fonte di ossigeno ed all’altra a un controllo in cui inserire il luer ricavato dal
deflussore per garantire l’espirazione ed agganciare la cannula dell’ago
stabilmente (è sufficiente, anche per velocizzare, ed evitare la valvola
controllo, praticare un foro di circa 3-5 mm di diametro prossimalmente alla
connessione sull’ago in modo da chiudere aprire il flusso di ossigeno con il
pollice) per lasciare espirare il paziente.
TECNICA:
• Paziente supino con iperestensione del capo ( non eseguibile in paziente con
sospetto trauma spinale) preferibilmente già in barella se la scena è
extraospedaliera per evitare di muoverlo successivamente;
• Spazio per operare e materiale adeguatamente organizzato;
• Ricerca del punto di repere;
• Disinfezione della cute;
• Inserimento dell’ago cannula a 45°, decussato verso l’alto in aspirazione collegato a
siringa da 10 ml con 5 ml di soluzione fisiologica all’interno;
• L’accesso alle vie aeree è confermato dall’aspirazione continua di aria (e dalle bolle
all’interno della siringa;
• Inserimento della cannula più in profondità sfilando l’ago metallico;
• Collegamento tramite luer all’ago cannula con controllo (foro di apertura)
prossimale;
• Apertura del flusso di ossigeno a 15l/minuto con 1-2 secondi di chiusura del
controllo (pollice giù) per l’insufflazione seguito da 3 secondi di apertura del
controllo (pollice sù) per garantire l’espirazione;
• È possibile così ottenere con semplici valutazioni matematiche una frequenza
respiratoria di 12 atti respiratori al minuto con circa 250 ml di volume corrente.
CONTROINDICAZIONI ASSOLUTE alla ventilazione transtracheale percutanea

23
(PTV):
• vie aeree sono gestibili attraverso mezzi non invasivi;
• danni alla laringe, cricoide o trachea;
• gozzo tiroideo.
CONTROINDICAZIONI RELATIVE: sorgono in situazioni in cui la distorsione
anatomica che aumenta il rischio di complicanze delle vie aeree:
• gonfiore anteriore del collo (ad esempio, angioedema, ematoma) che oscura punti
di repere anatomici
• anomalie anatomiche o distorsioni della laringe e della trachea (ad esempio,
anomalie tracheali riparati, Hurler sindrome)
• disturbo della coagulazione
LE COMPLICANZE possono essere:
• Barotrauma polmonare derivante da una frequenza respiratoria eccessivamente alta
con espirazione passiva insufficiente (che può causare
iperinsufflazionepolmonare, pneumotorace e pneumomediastino).
• Ridotto ritorno venoso al cuore con conseguente riduzione della gittata cardiaca e /
o ipotensione .
Limiti della procedura sono: l’impossibilità di ossigenazione e di ventilazione
mobilità della cannula che può piegarsi o fuoriuscire.
Il Monitoraggio successivo si esegue attraverso la valutazione obiettiva e continua
del paziente e la valutazione strumentale della frequenza cardiaca e ritmo,
della pressione arteriosa, frequenza respiratoria e la saturazione di ossigeno durante
tutta la procedura. Emogasanalisi se possibile.

24
2.1 CENNI DI ANATOMIA DELL’APPARATO RESPIRATORIO

Proprio per l’importanza che ha la respirazione rivediamo in sintesi l’ apparato


respiratorio è composto dalle VIE RESPIRATORIE e dai POLMONI.
Le vie respiratorie hanno la funzione di condurre l’aria ed i polmoni hanno un
parenchima organizzato in modo da consentire l’ematosi, cioè lo scambio di ossigeno
e di anidride carbonica.
Funzioni connesse con l’apparato respiratorio sono:
RESPIRATORIA: la respirazione interna è quella che le cellule effettuano a livello
dei liquidi tessutali, tramite lo scambio dei gas. Il sangue circolando porta
nuovo ossigeno ai liquidi tessutali, porta via l’anidride carbonica, che verrà
espirata, mentre viene immagazzinato ossigeno;
FONAZIONE a livello della laringe e delle corde vocali;
IMMISSIONE DI SOSTANZE VOLATILI (vedi test del palloncino dove l’alcol
viene in parte eliminato attraverso l’espirazione);
ENDOTELIALE perché associato ai capillari dei polmoni c’è l’enzima convertente
angiotensina che trasforma l’angiotensina 1 in angiotensina 2. L’angiotensina è
un potente vasocostrittore e di conseguenza fa aumentare la pressione
sanguigna.
Vediamo gli organi che costituiscono questo apparato seguendo il percorso dell’aria:
cavità nasale, rinofaringe, orofaringe, laringe, trachea e bronchi e polmoni.
Andiamo a studiare la struttura microscopica di queste foormazioni. Ricordiamo che
gran parte delle vie respiratorie, dalla laringe in giù, sono delle estroflessioni
dell’intestino primitivo per cui troveremo delle formazioni simili a quelle che
abbiamo visto nell’apparato digerente (per esempio ghiandole sieromucose come

25
quelle dell’apparato digerente dove costituiscono le ghiandole salivari).
Cominciamo la descrizione dei vari segmenti e partiamo dalle cavitá nasali.
L’aria entra attraverso le cavità nasali, rinofaringe, orofaringe, ma può entrare
nell’apparato respiratorio anche grazie alla bocca, attraverso la cavità orale. Tuttavia,
a livello della cavità orale non ci sono quelle caratteristiche tipiche della mucosa
respiratoria che consentono all’aria di essere umidificata, riscaldata e purificata.
Dal punto di vista clinico si può fare una divisione tra vie aeree superiori e vie aeree
inferiori. Il limite è rappresentato dall’ingresso nella laringe. Quindi tutto ciò che sta
dalla laringe in giù fa parte delle vie aeree inferiori, il resto è delle vie aeree superiori.

Tratto superiore delle vie respiratorie


• Le cavità nasali con annesse le cavità paranasali.
• La rinofaringe: è adibita esclusivamente al passaggio dell’aria.
• L’orofaringe: dove avviene l’incrocio con la via digerente.
Tratto inferiore delle vie respiratorie
• La laringe.
• La trachea
• I bronchi extrapolmonari: originano a livello di T4.
• I bronchi intrapolmonari.
• Le ramificazioni bronchiali che questi ultimi formano una volta entrati nell’ilo
polmonare.

Il limen nasi
E’ un solco che si trova all’interno delle cavità nasali ed è dato dal margine superiore
della cartilagine alare maggiore. Costituisce il limite tra il vestibolo del naso e la
cavità nasale propriamente detta, nella quale si esplica anche la funzione olfattiva
della ricezione degli odori . Si fa questa distinzione perché da un punto di vesta
microscopico queste due aree sono diverse.

26
Vestibolo del naso.
Il vestibolo è in continuità, a livello della narice, con la cute sottile che riveste la
superficie esterna del naso. Dall’alto troviamo:
-epitelio pluristratificato piatto cheratinizzato.
Presenta dei peli spessi e corti che sono detti vibrisse. Possono essere presenti
ghiandole sebacee e ghiandole sudoripare, di tutti e due i tipi.

-Al di sotto dell’epitelio c’è la tonaca propria, connettivo abbastanza denso,


che aderisce al pericondrio della cartilagine alare (cartilagine ialina) .Poi
vediamo tessuto connettivo con inframmezzati dei fasci di muscolatura.Man
mano che ci spostiamo dal vestibolo del naso verso la cavità nasale, abbiamo
questo trapasso di caratteri tipici della mucosa: da epitelio pluristratificato
piatto cheratinizzato a epitelio pluristratificato piatto senza cheratinizzazione.
Quindi, sul contorno del vestibolo abbiamo ancora la cute sottile, poi abbiamo
progressivamente la perdita della corneificazione a favore dell’epitelio
pavimentoso stratificato varietà molle e, al di là del limen nasi, quando si entra
nella cavità nasale propriamente detta, diventa epitelio respiratorio.

Per riassumere:
–Orifizio della cavità nasale à la cute sottile sulla superficie esterna, epitelio
pavimentoso stratificato varietà corneificata che riveste l’interno.
–Vestibolo della cavità nasale à permane un epitelio pavimentoso stratificato
varietà corneificata più sottile, con vibrisse.
–Cavità nasale propriamente detta à dal limen nasi in poi dall’epitelio pavimentoso
stratificato varietà corneificata, si passa progressivamente ad un epitelio
pavimentoso stratificato non cheratinizzato.

La mucosa della cavità nasale è mucosa respiratoria e la troveremo per gran


parte dell’albero respiratorio. Ha delle caratteristiche tali da permettere la:

27
PURIFICAZIONE, l’UMIDIFICAZIONE ed il RISCALDAMENTO
DELL’ARIA.
L’ aria che entra dalle narici e tende ad andare subito a sbattere contro la volta
della cavità nasale. A livello della volta delle cavità nasali è presente l’epitelio
olfattivo, quindi la prima cosa che avviene è un’analisi chimica dell’aria che
respiriamo, cioè riconosciamo subito gli odori. Sbattendo poi contro il tetto ed i
cornetti si creano delle turbolenze che fanno sbattere più volte l’aria contro
tutte le pareti della cavità nasale (entra anche nei seni paranasali e succede la
stessa cosa perché anche qui abbiamo mucosa respiratoria).Come è fatta la
mucosa per svolgere questi 3 compiti:
PURIFICAZIONE. Bisogna tener presente che la mucosa respiratoria è sempre
ricoperta da un film di muco prodotto da cellule caliciformi mucipare e
ghiandole siero-mucose. Questo muco funziona come la carta moschicida, cioè
intrappola lo sporco contenuto nell’aria viziata, lo lega e grazie alle ciglia
dell’epitelio respiratorio il muco viene costantemente spostato in direzione
dell’orofaringe in modo che ci possa essere continuamente del muco nuovo
pulito che appiccichi queste particelle. Quindi il muco va verso l’orofaringe
dove viene deglutito e questo consente una continua produzione di muco (è
chiaro che l’aria che deve arrivare nei polmoni deve essere conservata in
questo modo, deve essere pulita, deve essere calda e NON deve essere né
fredda né secca).
UMIDIFICAZIONE e RISCALDAMENTO. Avviene grazie al fatto che il film
di muco è bagnato, c’è del liquido prodotto in continuazione da cellule sierose
e da ghiandole siero-mucose della tonaca propria. Questo liquido sospeso
sempre sulla mucosa evapora in continuazione saturando di vapore acqueo
l’aria inspirata. L’acqua evapora perché nella tonaca propria della mucosa ci
sono dei vasi venosi allargati, dei seni venosi, pieni di sangue a 37°C che
funzionano come un termosifone, cioè scaldano in continuazione la mucosa e
la mucosa scaldandosi trasmette calore all’acqua che evapora e riscalderà a sua

28
volta l’aria. Quindi la presenza di questi vasi venosi a 37° da un lato fa
evaporare l’acqua, dall’altro riscalda l’aria. Quando uno respira un’aria molto
fredda essa deve essere riscaldata in modo che arrivi a livello dei polmoni ad
una temperatura tiepida; la gran parte del riscaldamento avviene nel naso,
contribuisce in piccola parte il resto delle vie respiratorie. L’Epitelio delle vie
respiratorie è un epitelio pseudostratificato cigliato, cellule cigliate alte
prismatiche con cellule calciformi mucipare, cellule basali .Al di sotto
dell’epitelio si vede la tonaca propria piena di laghi venosi e ghiandole siero-
mucose (tubulo acinose ramificate, con porzioni tubulari a secrezione mucosa e
porzioni a secrezione sierosa).Non c’è sottomucosa, la mucosa aderisce al
periostio dell’osso o al pericondrio della cartilagine; si parla allora di
mucoperiostio o fibromucosa (termini per definire questo tipo di mucosa).A
livello della cavità nasale, specialmente sui cornetti nasali, questa mucosa ricca
di vasi può andare incontro a congestione, a edema: quando abbiamo il
raffreddore si tappa il naso perché riempiendosi di liquido aumenta lo spessore
della tonaca mucosa tanto che viene quasi occluso il lume della cavità nasale e
si fa fatica a respirare. La direzione del battito delle ciglie che portano il muco
è rivolta verso l’orofaringe in modo che in condizioni normali possa essere
deglutito. La velocità di spostamento del muco è di circa 6mm/min.
Soffiandosi il naso si sposta il muco contro corrente. Quindi, per garantire la
unidirezionalità del muco, a livello delle cavità nasali le ciglia sbattono
indietro, ma siccome l’epitelio respitaorio c’è anche nella trachea, la direzione
è sempre verso l’orofaringe e questo muco tende a risalire dalle vie aeree
inferiori verso la faringe dove viene deglutito. Ci sono 10 tipi cellulari
nell’epitelio respiratorio: 8 di origine epiteliale e 2 di origine non epiteliale:
CELLULE CIGLIATE;
CELLULE BASALI, che sono elementi di rimpiazzo;
CELLULE CALICIFORMI MUCIPARE;
EPITELIOCITI INTERMEDI, che sono intermedi tra una cellula basale ed una

29
cellula cigliata;
CELLULE SIEROSE, che producono in parte il liquido del muco bagnato. Il
liquido contiene un isoenzima con azione antibatterica .
CELLULE CON ORLETTO A SPAZZOLA con microvilli (i microvilli
solitamente si trovano nelle zone di assorbimento) che possono ridurre le
concentrazioni di liquido. Questi due tipi di cellule possono essere associate
perché le sierose producono liquido e le cellule con orletto a spazzola lo
possono riassorbirlo;
CELLULE DEL CLARA, di cui se ne vedono tante soprattutto a livello di
bronchioli e prendono praticamente il posto delle cellule caliciformi mucipare.
Le cellule del Clara producono una componente del surfattante, il quale è
importante che ci sia a livello dei bronchioli respiratori terminali e degli
alveoli;
CELLULE NEUROENDOCRINE, che presentano dei granuli verso il lato
basale e producono sostanze ad azione endocrina che vengono riversate nel
lume dei capillari posti al di sotto di queste cellule;
LINFOCITI e MASTOCITI sono i due tipi cellulari di origine NON
EPITELIALE. Svolgono una funzione di difesa.
Le associazioni sono quindi:
cellule cigliate – cellule caliciformi mucipare
cellule sierose – cellule con orsetto a spazzola

L’Epitelio olfattivo è caratterizzato da cellule olfattive che sono neuroni bipolari. Il


loro dendrite all’apice si slarga in una vescicola la quale emette delle ciglia molto
lunghe. Queste ciglia servono ad aumentare la superficie del dendrite e presentano
chemiocettori per le sostanze dolorose. Gruppi di assoni si uniscono per costituire i
filuzzi olfattivi che passano per la lamina cribrosa dell’etmoide. Poi si vedono cellule
di sostegno inframezzate a cellule olfattive e poi cellule basali di rimpiazzo che
possono dare origine a entrambi i tipi cellulari (questi neuroni sono gli unici in grado

30
di rigenerarsi).
La tonaca propria, oltre al connettivo che la caratterizza, presenta filuzzi olfattivi dati
dall’unione di assoni e corpi ghiandolari. Sono le Ghiandole di Bowman, ghiandole
tubulo-acinose sierose. Il secreto viene riversato alla superficie dell’epitelio e qui si
stende formando un velo di liquido bagnando sia le ciglia che i microvilli.
La funzione di questo liquido è duplice (come abbiamo visto per le ghiandole di Von
Ebner dei calici gustativi nella papilla circumvallare):
va a disciogliere in liquido le molecole odorose prima che vadano a raggiungere i
recettori;
allo stesso tempo consente il lavaggio dell’epitelio e quindi dei recettori rendendoli
disponibili per un nuovo legame.
L’epitelio è sempre pseudostratificato, ma è molto più alto rispetto quello della
mucosa respiratoria. In alto si vede uno strato con i microvilli e le ciglia. Segue uno
strato di citoplasma al di sotto del quale si vede uno strato compatto di nuclei
appartenenti alle cellule di sostegno. Invece i nuclei delle cellule olfattive si
dispongono a varia altezza per tutto lo spessore dell’epitelio. Alla base ci sono poi i
nuclei delle cellule basali. Nella tonaca propria si vedono i vasi, di colore scuro,
mentre più chiari vediamo i fasci di assoni delle cellule olfattive e le cellule un pò più
scure sono le ghiandole di Bowmann. Anche questa mucosa aderisce all’osso senza
interposizione di sottomucosa (fibromucosa).

La Rinofaringe ha una struttura uguale all’orofaringe:


• mucosa;
• membrana basifaringea;
• muscolatura.
Però al posto dell’epitelio tipico della cavità orale pluristratificato piatto non
cheratinizzato abbiamo l’epitelio respiratorio.
Nella volta della rinofaringe c’è anche la tonsilla faringea o adenoide. Si possono qui

31
riconoscere i noduli linfatici, la tonaca propria che viene invasa dai linfociti e poi c’è
epitelio respiratorio colonnare con cellule caliciformi mucipare. Questa tonsilla
faringea, al di dietro delle coane, può aumentare moltissimo di volume e intorno ai
cinque anni di età può ostruire le coane. Non si potrà più respirare con il naso e allora
questi bambini respirano con la bocca aperta, hanno una faccia strana e possono
anche far fatica a sentire se vengono chiuse le tube uditive. Devono allora essere
rimosse queste formazioni che possono comunque riformarsi.
La rinofaringe non si chiude mai perché sappiamo che la membrana faringo-basilare
quando si stacca alla base dell’encefalo ha un attacco molto ampio quindi le sue
pareti non arrivano mai a collabire ed inoltre la parete anteriore della faringe è
sempre aperta.
Però può succedere a livello della laringe ci sia un edema della laringe, tale che la
mucosa della laringe si gonfia talmente tanto che va a chiudere il lume ed allora
bisogna intervenire con una tracheotomia.

Nel legamento vocale fibroelastico l’epitelio è pluristratificato pavimentoso. La


mucosa aderisce direttamente al tessuto fibroso del legamento vocale. Qui non ci
sono ghiandole perché non si deve avere muco sopra alla mucosa per poter vibrare ed
emettere dei suoni.
Questo epitelio è sede dei carcinomi della laringe (spino cellulari perché provengono
dallo strato spinoso).
È importante che l’epitelio sia stratificato pavimentoso molle per i seguenti motivi:
• per una ragione meccanica_ le corde vocali vibrano e sono responsabili della
fonazione, quindi c’è uno stimolo meccanico. Abbiamo visto che nel nostro
organismo, quando c’è uno stimolo meccanico, il tipico epitelio che troviamo è
il pluristratificato piatto;
• non c’è epitelio respiratorio perché sulle pieghe vocali delle cellule cigliate o
caliciformi mucipare renderebbero la fonazione non ottimale.
È importante che la corda vocale vera sia sempre bagnata, la mucosa deve cioè essere

32
umettata. Qui non ci sono nella tonaca propria delle ghiandole siero-mucose, perché
ne deriverebbe una produzione eccessiva di muco e di siero e potrebbe verificarsi una
condizione di mucosi.
Invece le ghiandole sono molto abbondanti nella piega ventricolare e il loro secreto
può raggiungere e bagnare in modo adeguato la piega vocale.
Se la deposizione di questo liquido non è adeguata, per esempio quando si parla
molto, ne deriva la raucedine: le corde vocali vengono un pò a seccarsi e la voce
viene un pò alterata.

33
2.2 Approccio al paziente per la gestione delle vie respiratorie

Un paziente si definisce critico quando presenta una o più alterazioni d'organo che
necessitano una correzione in tempi più o meno brevi per evitare una peggioramento
clinico che potrebbe degenerare sino all'arresto cardio-respiratorio (ACR).
Una
buona parte degli ACR è quasi sempre preceduta da un peggioramento delle
condizioni cliniche del paziente, spesso misconosciute o sottostimate.


Importante è imparare a riconoscere le alterazioni cliniche e strumentali che
rendono un paziente critico prima che diventi instabile, in modo tale da correggerle
per cercare prevenire l'ACR. 

 E' necessario, saper riconoscere le alterazioni
obiettive e strumentali che precedono questa fase, che possono essere, invece,
paucisintomatiche sul piano clinico.
Quando vi è una certa esperienza è più facile
riconoscere precocemente i segni di allarme che un organismo in difficoltà lancia:
aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, alterazioni dello stato di coscienza e
così via. Per orientarsi nelle prime fasi può essere utile ricorrere all'uso di alcuni
score. 
Uno score utilizzato è l'EWS - Early Warning Score (score di allertamento
precoce) utilizzato negli stati anglofoni da parte del personale sanitario.


Un paziente con valori pressori inferiori a 90 mmHg, con una saturazione di ossigeno
< 91%, con una frequenza respiratoria minore di 8/min o maggiore di 25/min, con
una frequenza cardiaca inferiore a 40/min o superiore a 131/min, sarà un paziente da
tenere in considerazione, anche se apparentemente "asintomatico". 


Ci troviamo di fronte ad un paziente critico, adesso cosa faccio?


Aver riconosciuto che il tuo paziente è critico è già il primo passo per cercare di
tirarlo fuori dai guai. 
Un valido approccio è quello dell'Advance Life Support

34
(ALS) dell'Italian Resuscitation Council. E' importante sottolineare che si riporterà
solo la parte teorica e che da sola essa non può essere considerata esaustiva per
trattare un paziente critico. Per acquisire padronanza e sicurezza in tale ambito, sarà
necessario di frequentare un corso di rianimazione avanzata ALS. 
Il metodo ALS
per la valutazione del paziente critico prevede un approccio sequenziale atto ad
esplorare diverse funzioni corporee in ordine di importanza in relazione alla
possibilità di evoluzione verso l'arresto cardiorespiratorio. 
L'approccio prevede una
sequenza che deve essere rispettata che utilizza la seguente formula: controllo,
riconosco e tratto. Va da se che si passa al punto successivo solo quando si è risolto il
problema nello step in corso di valutazione. Se sono presenti più sanitari, nulla vieta
di dividersi i compiti, valutando più punti contemporanemente, per velocizzare il
tutto. 
La prima cosa da fare quando si inizia a gestire un paziente critico, è
assicurare la propria incolumità e quella dei colleghi che vi accompagnano. Indossare
sempre i guanti e tutti i presidi che possono essere necessari nel caso specifico
(occhiali protettivi, camici monouso, mascherina facciale).
Chiedere al paziente
"come sta?" per una valutazione iniziale dello stato di coscienza. Se non risponde
passare alla sezione Rianimazione CardioRespiratoria (RCP).
L'approccio è il
medesimo per tutti i pazienti critici:
Airways (vie aeree),
Breathing (respiro),
Circulation (circolo),
Disability (stato neurologico),
Exposure (esposizione del paziente, cioè spogliarlo e valutarlo nell'insieme).

1.Airways (Vie Aeree)
:



E' il primo aspetto che si deve considerare in un paziente critico poichè la presenza
di ostruzione delle vie aeree, se non rapidamente risolta, condurrà ad arresto
cardiorespiratorio in tempi brevi. L'approccio iniziale comincia con le presentazioni

35
"Buongiorno sono il dottor/l'infermiere ... come sta?".
Se il paziente è in grado di
parlare normalmente e non presenta rumori respiratori si può escludere, con relativa
certezza, l'ostruzione delle vie aeree. 
I segni clinici dell'ostruzione delle vie aeree
sono caratterizzati da un respiro altalenante o paradosso (estroflessione dell'addome
durante l'espirazione ed introflessione durante l'inspirazione), dall'utilizzo dei muscoli
accessori della respirazione e da rumori respiratori. 

N.B: la presenza di respiro paradosso indica un'ostruzione pressochè completa
delle vie aeree e necessita un trattamento immediato (emergenza) mentre la
presenza di rumori respiratori indica un'ostruzione parziale e necessita un
trattamento urgente. 

Rumori di russamento devono far sospettare la caduta del palato molle sulla lingua
(tipico del paziente incosciente/sedato/intossicato). La presenza di rumori inspiratori
(tirage, cornage) depone per una ostruzione delle vie aeree superiori (laringe). La
presenza di rumori di "gorgogliamento" riflettono, invece, la presenza di materiale
fluido nelle vie aeree.

Se si rilevano i segni clinici di un'ostruzione delle vie aeree, che da qui in avanti
chiameremo problema di A(irways), è necessaria correggerla prima di passare al
punto successivo (cerco, riconosco e tratto) pena peggioramento clinico del paziente
(è poco efficace somministrare ossigeno supplementare se non arriva ai polmoni).

La maggior parte dei "problemi di A" sono dovuti ad un abbassamento del livello
di coscienza che determina una caduta del palato molle sulla lingua. Per ovviare a
questo inconveniente la prima manovra da fare è iperestendere il capo (se il paziente
non ha subito traumi al rachide cervicale). L'iperestensione del capo si effettua
mettendo una mano sulla fronte del paziente e due dita sotto al suo mento,
sollevandolo verso l'alto. Qusta manovra è chiaramente temporanea (non si può
rimanere a lungo in questa posizione). Se il livello di coscienza è sufficientemente
depresso sarà necessario posizionare una cannula orofaringea (Guedel) o una cannula
rinofaringea (quest'ultima meglio tollerata in caso di alterazione del livello di
coscienza meno pronunciato). Se dovessero comparire conati di vomito il Guedel va

36
rimosso per evitare un'ostuzione delle vie aeree da vomito.
Un GCS score (Glasgow Coma Scale) inferiore a 8 indica che le vie aeree del
paziente sono ad alto rischio ed andrà contattato un esperto per valutare un'eventuale
indicazione ad intubazione orofaringea. 
Un'altra causa di ostruzione delle vie
aeree può essere data dalla presenza di materiale (liquido o solido) all'interno delle
stesse. L'aspirazione di un corpo estraneo solido non è, per fortuna, un evento così
frequente e spesso è il paziente stesso a comunicarci, verbalmente o con i gesti,
l'avventuta ingestione. Possono essere presenti tirage e cornage inspiratori (ostruzione
parziale). L'inalazione di corpo estraneo rappresenta un'emergenza soprattutto quando
l'oggetto si localizza nelle prime vie aeree (laringe, trachea) e necessita di una
valutazione immediata da parte di un esperto disponibile. L'otorinolaringoiatra dovrà
essere contattato per le prime vie aeree, il pneumologo per i bronchi. La presenza di
un rianimatore è comunque fortemente consigliata data la possibilità di evoluzione
verso l'ACR in tale tipologia di paziente. Se il corpo estraneo è visualizzabile
all'esame diretto senza fibroscopio è necessario tentare una rimozione con una pinza
di Magill, evitando di sospingere più a fondo lo stesso. L'incuneamento di un corpo
estraneo in un bronco periferico, pur necessitando una rimozione, non rappresenta
un'emergenza in assenza di segni clinici d'allarme.
La presenza di secrezioni fluide
o semisolide (vomito, secrezioni mucopurulente) si presenta clinicamente con la
presenza di rumori di gorgogliamento (si può associare anche il respiro paradosso nei
casi più gravi) e deve essere risolta mediante broncoaspirazione.

Una volta risolta l'ostruzione delle vie aeree prima di passare allo step successivo
(Breathing), si deve posizionare ossigeno supplementare (generalmente mediante
Reservoir nelle prime fasi di vautazione) con l'obiettivo di mantenere una saturazione
di 94-98% (88-92% nel BPCO noto). Quando si utizza il reservoir è necessario
garantire un alto flusso di ossigeno (12-15 l/min) con lo scopo di mantenere il
palloncino sempre ben gonfio. In questo modo si garantisce una FiO2 dell'85% circa.

37
Vediamo la tabella Glasgow Coma Scale:

Glasgow Coma Scale Score


Apertura degli occhi - E(yes):
- Spontanea
- 
4
3
2
1
Al richiamo
- Al dolore
- Assente
Risposta Verbale - V(erbal):
- Orientata
- 
5
4
3
2
1
Confusa (Dove sono? Chi sei?)
- Parole ripetute
(Giovanni! Giovanni!)
- Suoni
incomprensibili
- Assente
Risposta motoria - M(otorial):
- Esegue gli 
6
5
4
3
2
1
ordini (tiri fuori la lingua)
- Localizza il dolore
(afferra la mano)
- Retrae al dolore
- Flette al
dolore (contrae gli arti)
- Estende al dolore
(estende gli arti)
- Nessuna risposta al dolore
GCS Score = E + V + M

2.Breathing. Assicurata la pervietà delle vie aeree, sarà possibile passare alla
valutazione del respiro. E' importante ribadire che giunti a questo punto il nostro
paziente critico dovrà avere già ricevuto ossigeno ad alto flusso (nei pazienti ad
rischio di ipercapnia - es. BPCO noti - somministrare ossigeno al fine di mantenere la

38
pulsossimetria a 88-92%).

La respirazione è un processo complesso in cui sono implicati diversi sistemi:



• Sistema Nervoso Centrale (SNC): il centro del respiro è localizzato a livello
del SNC e risente della concentrazione dei valori di pO2 e pCO2. Un
malfunzionamento a tale livello (farmaci che deprimono il SNC - quali ad
esempio eroina, barbiturici, benzodiazepine - oppure un trauma o
un'emorragia) può determinare insufficienza respiratoria. 

• Trasmissione nervosa (Vie di conduzione): l'impulso nervoso viaggia
all'interno del midollo spinale, passa a livello dei nervi periferici innervando i
muscoli della gabbia toracica e del diaframma. Malattie del motoneurone
oppure traumatismi che provochino una sezione midollare possono provocare
insufficienza respiratoria. 

• Trasmissione meccanica (muscoli, gabbia toracica, pleura): perchè i
polmoni si riempiano è necessario che il torace aumenti il suo volume
richiamando aria dall'esterno e ciò avviente mediante una contrazione dei
muscoli intercostali e del diaframma. La presenza di aria (PNX) o liquido
(versamento) nello spazio pleurico può provocare insufficienza respiratoria.
Il paziente con BPCO è affetto da fatica cronica dei muscoli respiratori che
può essere ulteriormente messa in crisi da riacutizzazioni bronchitiche.
Fratture costali multiple, infine, possono rendere meno efficace l'espansione
del torace determinando insufficienza respiratoria.

• Scambi gassosi: perchè il sangue venoso venga correttamente ossigenato è
necessario che alveoli, interstizio, bronchi e sistema vascolare del polmone
siano normofunzionanti. La presenza di essudato interstizio-alveolare (edema
polmonare, focolaio broncopneumonico, contusione polmonare) o la
presenza di malfunzionamento del sistema arterioso polmonare (es. trombo-
embolia) determinano insufficienza respiratoria. Anche l'ostruzione

39
bronchiale che caratterizza l'asma e/o BPCO riacutizzata può determinare
insufficienza respiratoria. 
La presenza di un "problema di B(reathing)" può
pertanto essere secondario a molteplici cause che, una volta riconosciute,
devono essere corrette il più precocemente possibile. L'esame obiettivo
spesso non è sufficiente da solo a capire quale sia il problema principale ma
può essere molto utile, unitamente alla raccolta anamnestica e all'esperienza
clinica, nell'orientamento diagnostico. 
Le metodiche d'imaging
(radiografia, ecografia, TAC) pur rappresentando, indubbiamente, un valido
ausilio entrano in campo in seconda battuta. 

Per valutare la presenza di
eventuali "problemi di B" utilizzeremo un approccio utilizzato nel
PreHospital Trauma Care (PTC) denominato O.P.A.C.S.
• Osservo: osservo entrambi gli emitoraci per valutarne la simmetricità di espansione
e l'utilizzo dei muscoli accessori della respirazione. La presenza di ecchimosi
potrà orientare verso la sede del traumatismo in caso di paziente incosciente ed
incapace di comunicare la sede del dolore.

• Palpo: con le mani palpare entrambi gli emitoraci dalla base agli apici al fine di
ricercare delle crepitazioni, indicative di enfisema sottocutaneo. La presenza di
enfisema sottocutaneo è fortemente sospetta per pneumotorace.
Palpatoriamente è inoltre possibile avvertire degli scrosci costali, indicativi di
fratture scomposte.

• Ascolto: utilizzando il fonendoscopio auscultare il torace anteriore su 4 campi: 2
superiori simmetrici (dx e sn) a livello dell'intersezione tra la linea emiclaveare
e il 2° spazio intercostale e 2 inferiori simmetrici (dx e sn) a livello
dell'intersezione tra l'ascellare media e gli ultimi spazi costali (vedi immagine
nel riquadro). Se i rumori ambientali lo consentono sarà possibile ricercare la
presenza di soffio bronchiale (addensamento con bronchi pervi) o
riduzione/assenza del murmure (versamento/PNX). La presenza di rumori
umidi alle basi (crepitazioni) è generalmente indicativa di edema polmonare
mentre la presenza di ronchi-sibili-fischi espiratori depone per broncospasmo

40
(crisi asmatica/BPCO riacutizzata).

• Conto: appoggiare una mano sul torace del paziente contando la frequenza
respiratoria, normalmente pari a 12-20 atti al minuto. Una frequenza superiore
a 25 atti/minuti è indicativa di distress respiratorio importante. Una frequenza
respiratoria molto bassa è generalmente secondaria ad un ipoventilazione
centrale (farmaci, traumi o emorragia SNC).

• Saturimetria: posizionare e leggere il saturimetro. I valori vengono considerati
normali se sono superiori a 92% ed accettabili se sono superiori a 90% in aria
ambiente. Una saturazione inferiore a 90% in aria ambiente è indicativa di
insufficienza respiratoria da trattare rapidamente. Valori inferiori ad 80% sono
ad alto rischio di arresto cardio-respiratorio imminente. 

Il trattamento
specifico dei problemi respiratori dipende dalla causa, ma a tutti i pazienti
critici va somministrato ossigeno con il fine di mantenere la saturazione a
valori compresi tra 94-98%. Anche nel paziente con BPCO in insufficienza
respiratoria va somministrato ossigeno, generalmente partendo con una
Ventimask al 24% tarandosi sui valori sulla saturimetria con un target
compreso tra 88-92%, fino a quando non saranno disponibili i valori
emogasanalitici.
L'utilizzo della ventilazione meccanica non invasiva (CPAP
o BiPAP), se il paziente è cosciente e collaborante, può essere di grande
ausilio, ove disponibile. 


3.Circulation (Circolo)

L'approccio sistematico in "C" è mirato a riconoscere tutti i segni clinico-
obiettivi di ipoperfusione. 
In questa fase sarà necessario collegare il paziente
a monitor multiparametrico e reperire un accesso venoso con esami
ematochimici, qualora ciò non sia già stato fatto. Un buon metodo per ricordare
tutti gli aspetti da considerare in "C" è quello di disegnare la lettera "C" sul
corpo del paziente partendo dalla mano dx fino ad arrivare alla mano sn
passando per il torace:

41
Mano dx- valutare il tempo di Refill capillare Time(CRT è un rapido indicatore
dello status circolatorio) premendo con il proprio pollice l'unghia del paziente.
Il tempo che il letto ingueale impiega per tornare di colore rosa prende il nome
di Refill capillare. Indica la vascolarizzazione del microcircolo del paziente ed
è normale se è inferiore a 2 secondi. Valutare inoltre, sempre a livello della
mano, la temperatura e l'eventuale presenza di sudorazione (entrambi indici di
ipoperfusione periferica)

Polso dx: palpare il polso avvertendone le caratteristiche: se il polso è debole e
veloce è indice di probabile ipovolemia.

Braccio dx: misurare la pressione arteriosa. Può anche essere normale nelle
iniziali fasi dello shock. Ricorda di valutare anche la pressione differenziale:
un valore alto, ad esempio perchè la diastolica è molto bassa, riflette
vasodilatazione arteriosa ( PA 110/30 / PA differenziale = 110-30 = 80 mmHg,
tipico nello shock settico); un valore basso (es. PA 80/60 / PA differenziale 80-
60 = 20 mmHg) è indice di vasocostrizione arteriosa (es. shock
ipovolemico).

Cuore: toni cardiaci deboli/assenti o sfregamenti possono suggerire versamento
pericardico

Braccio sn: reperire accesso venoso ed effettuare esami ematochimici.

Polso sn: effettuare un'emogasanalisi arteriosa 

Genitali: posizionare catetere vescicale e monitorare la diuresi

In questa fase, in casi particolari quali ad esempio il dolore toracico, può essere
richiesto in anticipo un ECG a 12 derivazioni (normalmente richiesto dopo la
fase E[sposizione])

I problemi di "C" sono spesso dovuti ad ipovolemia
che deve essere considerata come la principale responsabile di ipotensione sino
a prova contraria. Per tale motivo è molto importante, appena ottenuto un
accesso venoso di grosso calibro (meglio 2...) iniziare a somministrare liquidi
(cristalloidi, es. soluzione fisiologica). Si comincia con 500 ml endovena rapidi
(10-15 minuti). In assenza di segni di scompenso cardiaco è possibile

42
continuare a somministrare soluzione fisiologica sino a 2000 ml con l'obiettivo
di raggiungere valori di pressione sistolica > 100 mmHg (raggiunto questo
obiettivo è possibile rallentare la velocità di infusione). Se compaiono segni di
scompenso cardiaco (crepitazioni alle basi polmonari, turgore giugulare, linee
B all'ecografia toracica per chi è competente) rallentare l'infusione di liquidi e
cominciare a somministrare inotropi (e considerate di contattare precocemente
un rianimatore ed un cardiologo). 
Dopo riempimento volemico con 2000 ml,
in caso di valori di pressione arteriosa ancora inferiori a 100 mmHg si parla di
shock refrattario al riempimento volemico. Iniziare a somministrare inotropi
(dopamina, noradrenalina, isoprenalina a seconda della disponibilità e/o
competenza) e contattare un rianimatore. Se siete voi il rianimatore cominciate
a prepararvi per il ricovero in rianimazione dopo aver completato la
diagnostica.
4.Disability (Sistema Nervoso Centrale)
Per monitorare il livello di coscienza possono essere utilizzate diversa scale. La
più facile è la AVPU, ed è alla portata di tutti:
A (Alert): il paziente è sveglio e collaborante

V (Verbal): il paziente è ad occhi chiusi e li riapre se chiamato per nome, può
essere confuso.

P (Pain): il paziente risponde allo stimolo doloroso (si lamenta, si muove, apre
gli occhi).

U (Unresposive): il paziente non risponde a nessuna stimolazione. 
Per
stimolo doloroso si intende una pressione a livello del III medio-prossimale
dell'arcata sopraccigliare (strizzare un capezzolo va ugualmente bene, ma in
caso di traumatismo della colonna vertebrale cervicale può non essere presente
la sensibilità dolorifica a tale livello).Il Glasgow Coma Scale è più preciso e
permette un monitoraggio più stretto del paziente ed una più precoce diagnosi
di approfondimento dello stato di coma. Per valori di GCS < 8 il paziente deve
essere considerato con vie aeree non protette (alto rischio di ab-ingestis in caso

43
di vomito). Tale valore rappresenta un'indicazione all'intubazione oro-tracheale
(nella pratica clinica a volte si può posizionare un sondino nasogastrico ed una
cannula oro-faringea in attesa di una valutazione da parte di un
esperto).

Le cause più comuni di incoscienza sono dovute ad una
diminuzione di apporti nutrienti al cervello. Il cervello si nutre di ossigeno e
zucchero. Perchè entrambi siano disponibili alle cellule del SNC è necessario
che la portata cardiaca sia sufficientemente elevata. Alcune sostanze possono
determinare diminuzione del livello di coscienza (anidride carbonica, farmaci
sedativi). Perchè il paziente sia vigile e orientato è necessario, infine, che le
cellule cerebrali siano integre (un'emorragia cerebrale o un ictus esteso
possono provocare diminuzione dello stato di coscienza). 
La valutazione
dalla glicemia è parte integrante della valutazione di "D".
Vediamo al tabella Glasgow Coma Scale
Glasgow Coma Scale Score
Apertura degli occhi - E(yes):
- Spontanea
- 
4
3
2
1
Al richiamo
- Al dolore
- Assente
Risposta Verbale - V(erbal):
- Orientata
- 
5
4
3
2
1
Confusa (Dove sono? Chi sei?)
- Parole ripetute
(Giovanni! Giovanni!)
- Suoni
incomprensibili
- Assente
Risposta motoria - M(otorial):
- Esegue gli 
6
5
4
3
2
1
ordini (tiri fuori la lingua)
- Localizza il dolore
(afferra la mano)
- Retrae al dolore
- Flette al
dolore (contrae gli arti)
- Estende al dolore
(estende gli arti)
- Nessuna risposta al dolore
GCS Score = E + V + M

5.Exposure (Esposizione-Ecografia d'Urgenza)



Svestire il paziente ed effettuare un esame obiettivo approfondito. Ricercare eventuali

44
fonti di sanguinamento (effettuare a tutti i pazienti ipotesi un'esplorazione rettale al
fine di valutare la presenza di rettorragia/melena).
In questa fase, se competenti,
completare con un'ecografia mirata a ricercare segni di malfunzionamento d'organo
(ecocardio/ecotorace/eco addome).
Completare raccogliendo dati anamnestici
aggiuntivi. Richiedere esami strumentali appropriati (RX, TC, ECG a 12 derivazioni
ove non ancora effettuato).


IMPORTANTE: Qualora le condizioni cliniche del paziente dovessero deteriorarsi
(peggioramento dello stato di coscienza, desaturazione, ipotensione) ripartire sempre
da A.

45
2.3 Tracheotomia e tracheostomia

Premessa_
La tracheostomia è l'operazione chirurgica tramite la quale si crea, a livello del collo,
una via di passaggio per l'aria destinata ai polmoni. Ciò permette, a chi si sottopone a
questo intervento, di respirare nuovamente e/o in modo corretto. Le condizioni che
spingono i medici a optare per una tracheostomia sono numerose: possono essere
gravi patologie neurodegenerative, tumori alla gola, traumi accidentali al torace ecc.
La procedura di tracheostomia non richiede una particolare preparazione ed è,
relativamente, di facile esecuzione. Le complicazioni, infatti, sono rare e riservate per
lo più ai casi d'emergenza.
I risultati sono, in genere, soddisfacenti, tuttavia, nella valutazione dei benefici,
vanno considerate anche le condizioni che hanno richiesto la tracheostomia.
Cos'è la tracheostomia?
La tracheostomia è la procedura chirurgica utilizzata per creare un'apertura (o stoma)
sul collo, a livello della trachea. Tale operazione si esegue congiungendo i margini di
un'incisione cutanea, praticata sul collo, al tubo tracheale, anch'esso forato.
Una volta collegate le due aperture, si infila un piccolo tubo, detto cannula
tracheostomica, che consente di convogliare aria nei polmoni e di respirare.
La tracheostomia è, solitamente, un rimedio a lunga permanenza.
TRACHEOSTOMIA E TRACHEOTOMIA
È bene precisare che tracheostomia e tracheotomia, pur essendo eseguite per
consentire la respirazione e avendo degli aspetti procedurali comuni, non sono la

46
stessa cosa.
La tracheotomia, infatti, prevede la creazione di un'apertura (sempre) temporanea
sulla trachea, effettuata con una semplice incisione del collo. Pertanto, a differenza
della tracheostomia, non è prevista alcuna modificazione del tratto tracheale, tanto
che, se non si mantiene pervia volontariamente l'apertura (mediante una cannula),
questa si richiude spontaneamente nel giro di poco tempo.

TRACHEOSTOMIA E VENTILAZIONE ASSISTITA


In determinate situazioni, la cannula tracheostomica va collegata a uno strumento per
la ventilazione assistita. Questo strumento è una macchina trasportabile, che si
occupa di infondere ossigeno ai polmoni del paziente tracheostomizzato.
Quando si esegue
La tracheostomia, solitamente, si mette in pratica quando un individuo non riesce più
a respirare adeguatamente, a causa di un disturbo di salute o di un'ostruzione delle vie
aeree.
Le principali situazioni che richiedono la tracheostomia sono tre:
• In caso di insufficienza respiratoria
• In caso di blocco delle vie aeree superiori
• In caso di accumulo di fluido all'interno delle vie aeree inferiori e nei polmoni
INSUFFICIENZA RESPIRATORIA
Si chiama insufficienza respiratoria la condizione in cui un individuo ha difficoltà a
respirare o non respira affatto.
I casi di insufficienza respiratoria, che necessitano di tracheostomia, sono provocati
dalle seguenti circostanze:
• Ictus o grave trauma cerebrale, che provocano, nel paziente, uno stato di coma o di
incoscienza.
• Paralisi, dovuta a un grave trauma del midollo spinale, a livello del collo.
• Danno profondo dei polmoni, causato da una polmonite o dalla fibrosi cistica.
• Malattie degenerative del sistema nervoso, come quelle che colpiscono i

47
motoneuroni (per esempio, la SLA o sclerosi laterale amiotrofica) o la sclerosi
multipla.
BLOCCO DELLE VIE AEREE SUPERIORI
Le vie aeree superiori possono bloccarsi per diverse ragioni. La tracheostomia
diventa fondamentale quando l'ostruzione è permanente.
Ostruzioni permanenti sono provocate da traumi, infezioni gravi e reazioni allergiche
severe, che restringono la gola; oppure da un tumore della bocca, della laringe o della
ghiandola tiroide.
La cannula tracheostomica, in questi frangenti, serve a bypassare un ostacolo che si
trova a monte.
ACCUMULO DI FLUIDO NELLE VIE AEREE
Nelle vie aeree inferiori o nei polmoni, può accumularsi del liquido, il quale, oltre a
ridurre le capacità respiratorie di un individuo, può dare il via a un'infezione.
Tramite la tracheostomia, si ristabilisce la respirazione e si ripuliscono le vie aeree
che hanno accumulato il fluido.
La raccolta di liquido può avvenire per i seguenti motivi:
Dopo una grave infezione ai polmoni (polmonite)
Dopo un trauma a carico delle vie aeree inferiori e dei polmoni. Il liquido, in questo
caso, è soprattutto sangue.
Dopo una patologia neuromuscolare (per esempio, la SMA o atrofia muscolare
spinale), che impedisce al paziente di muovere i muscoli toracici e di tossire. La
tosse serve a espellere le secrezioni nasali, le quali, accumulandosi, sono
terreno di coltura per i batteri.
QUANDO LA TRACHEOSTOMIA È PERMANENTE E QUANDO NON LO È?
La tracheostomia viene praticata, solitamente, come rimedio permanente, in tutte
quelle situazioni (gravi o non gravi) in cui non è previsto un recupero delle normali
capacità respiratorie. Tuttavia, se i disturbi respiratori sono curabili, può
rappresentare una soluzione temporanea, ma di discreta durata, applicata in attesa che
il paziente guarisca.

48
VENTILAZIONE MECCANICA: QUANDO APPLICARLA?
Talvolta, la tracheostomia non è sufficiente a garantire la respirazione del paziente.
Infatti, casi d'insufficienza respiratoria grave, o particolari patologie
neurodegenerative che colpiscono i muscoli del torace, richiedono una ventilazione
assistita. Questa si esegue per mezzo di uno strumento trasportabile (o non fisso), che
è collegato alla cannula tracheostomica e infonde, attraverso di essa, ossigeno ai
polmoni.

La tracheostomia prevede, salvo eccezioni, l'anestesia generale; pertanto, nel giorno


dell'intervento, bisogna presentarsi a digiuno da diverse ore (in genere, dalla sera
precedente).
Inoltre, è bene munirsi di tutto ciò che potrebbe servire durante il ricovero (che è di
diversi giorni) e, in base ai consigli medici, interrompere l'assunzione di determinati
farmaci (per esempio, gli anticoagulanti), in quanto questi potrebbero far insorgere
delle complicazioni.
Come ogni operazione chirurgica, anche la tracheostomia richiede un check-up
preoperatorio, che serve a valutare lo stato di salute del paziente e se questo è in
grado di sopportare l'operazione.
La tracheostomia può essere svolta sia come intervento programmato sia come
soluzione d'emergenza.
Quando è programmata, c'è il tempo per preparare l'operazione nei minimi dettagli e
ricorrere all'anestesia generale; quando, invece, è un rimedio d'emergenza, il tempo a
disposizione è poco, l'anestesia è locale e bisogna agire rapidamente, se si vuole
salvare la vita del paziente.

Come si effettua l'anestesia generale?


L'anestesia generale prevede l'uso di anestetici e antidolorifici, che rendono il
paziente incosciente e insensibile al dolore.
La somministrazione di questi farmaci, effettuata per via endovenosa e/o tramite

49
inalazione, avviene prima e per tutta la durata dell'intervento chirurgico.
A operazione conclusa, infatti, si cessa il trattamento farmacologico, per consentire al
paziente di riprendere i sensi.
Al risveglio, è probabile che l'individuo operato si senta confuso: è un effetto normale
degli anestetici, che nel giro di poche ore svanisce progressivamente.

TRACHEOSTOMIA COME INTERVENTO PROGRAMMATO


L'intervento programmato si può eseguire in due modi diversi: tramite una
tracheostomia percutanea o tramite una tracheostomia a cielo aperto.
-Tracheostomia percutanea (o tracheostomia minimamente invasiva).
Durante la tracheostomia percutanea, il chirurgo incide la gola del paziente, in modo
tale da avere una via d'ingresso per un set di dilatatori di dimensioni crescenti. Questi
strumenti, utilizzati uno alla volta, creano un'apertura (o stoma), nella trachea e nella
cute, via via sempre più grande. Una volta che le dimensioni dello stoma permettono
l'ingresso della cannula tracheostomica, vengono congiunti i margini del foro cutaneo
con il tubo tracheale. Vi sono vari tipi di cannule tracheostomiche. La scelta del tipo
più appropriato spetta al chirurgo. L'intervento di tracheostomia percutanea può
svolgersi sia in sala operatoria sia in un reparto ospedaliero.
-Tracheostomia a cielo aperto.
Durante la tracheostomia a cielo aperto, il chirurgo pratica, per prima cosa,
un'incisione orizzontale nella parte bassa del collo, tra pomo d'Adamo e sterno.
Successivamente, seziona i muscoli e parte della ghiandola tiroide, presenti in
quest'area e avvolgenti la faccia anteriore del tubo tracheale. Infine, perfora la trachea
e la collega all'incisione cutanea, formando lo stoma per il passaggio del tubo
tracheostomico.
L'intervento di tracheostomia a cielo aperto si svolge in sala operatoria.

Le due tecniche a confronto

50
La tracheostomia percutanea ha il vantaggio, rispetto a quella a cielo aperto, di essere
minimamente invasiva. Tuttavia, non è sempre sicura e attuabile in tutte le situazioni.
Infatti, la tracheostomia a cielo aperto è l'unica soluzione quando:
Il paziente ha meno di 12 anni.
Il collo non presenta la classica anatomia, a causa di un tumore o di una raccolta di
sangue.
Il paziente è notevolmente sovrappeso e ha molto tessuto adiposo attorno al collo.
TRACHEOSTOMIA NELLE EMERGENZE
Le classiche situazioni che richiedono la tracheostomia d'emergenza, sono quelle in
cui il paziente soffre di insufficienza respiratoria.
Come detto, l'anestesia è (quasi sempre) locale, perché non c'è il tempo materiale per
agire in altra maniera, e l'operazione può avvenire anche in un reparto ospedaliero
ben attrezzato.
L'esecuzione è del tutto analoga a quella prevista dalla tracheostomia a cielo aperto,
con la sola differenza che va eseguita con estrema rapidità. A tal proposito, per
velocizzare la procedura, si pone un asciugamano arrotolato dietro le spalle del
paziente disteso, in modo tale da raddrizzare il collo e facilitare la perforazione della
trachea.
In genere, i pazienti, che si sottopongono a una tracheostomia d'emergenza,
necessitano di essere ventilati meccanicamente, perché soffrono di un'insufficienza
respiratoria grave e permanente.
A INTERVENTO CONCLUSO
Terminato l'intervento, il paziente viene sottoposto a un esame radiologico del collo,
che serve, al medico, per vedere se il tubo tracheostomico è stato inserito
correttamente.
Se non ci sono anomalie, il personale medico esegue una sorta di bendaggio attorno
alla ferita, per proteggerla dagli agenti esterni (batteri in particolare), e applica del
nastro sulla cannula, per fissare quest'ultima.
Il ricovero ospedaliero può durare diversi giorni. La durata precisa non è

51
quantificabile, in quanto ogni paziente rappresenta un caso a sé stante. In ogni caso,
lo scopo è quello di monitorare il paziente, seguendo il decorso post-operatorio, e
insegnargli come prendersi cura di sé, una volta dimesso dall'ospedale.
La qualità di vita dei pazienti, sottoposti a tracheostomia, può essere anche buona. Se,
infatti, non si soffre di gravi patologie respiratorie o di qualche malattia
neurodegenerativa, è possibile riprendere diverse attività quotidiane e condurre
un'esistenza quasi normale.
Chiaramente, serve un periodo di assestamento, per abituarsi nuovamente a parlare, a
mangiare ecc con un tubo in trachea.
In condizioni gravi, le cose sono ben diverse: il malato dipende da una strumento per
la ventilazione meccanica e, oltre a non respirare autonomamente, presenta altri
disturbi.
Il paziente tracheostomizzato può riprendere la maggior parte delle normali attività
quotidiane, purché lo faccia in modo graduale. In genere, per almeno sei settimane, è
bene evitare le mansioni più pensanti: questo lasso di tempo serve ad abituarsi alla
presenza della cannula.
È fondamentale ricordarsi che ogni mansione va svolta con estrema cura e
proteggendo il tubo tracheostomico dalla polvere, dall'acqua e da qualsiasi altra
particella dell'ambiente esterno. Il modo migliore per impedire che qualcosa entri nel
tubo, è usare un foulard attorno al collo.
N.B: ci si sta riferendo a individui tracheostomizzati affetti da disturbi respiratori
relativamente lievi. La precisazione è d'obbligo, in quanto, per tutti coloro che
soffrono di gravi disturbi respiratori o di patologie neurodegenerative, il ritorno alle
normali attività quotidiane è irrealizzabile ed è reso tale da altri fattori.
Per poter parlare, bisogna che l'aria attraversi le corde vocali, poste a livello della
laringe. In un individuo tracheostomizzato, questo passaggio d'aria non si verifica
più, pertanto il paziente ha grosse difficoltà a parlare, specialmente dopo l'intervento.
Con determinati accorgimenti (per esempio, le valvole fonatorie), da applicare alla
cannula, e con degli esercizi mirati, insegnati da un logopedista, è possibile

52
riprendere a parlare in modo quasi normale.
E’ bene ricordare che il paziente, fino a quando non è in grado di mangiare
autonomamente, viene nutrito tramite un sondino naso-gastrico o gastrostomia.
Il tubo tracheostomico va pulito almeno un paio di volte al giorno. Durante il
ricovero ospedaliero, se ne occupa il personale medico, ma, una volta a casa
dall'ospedale, deve essere il paziente a prendersene cura.
Tutte le informazioni, relative alla pulizia della cannula tracheostomica, vengono
fornite al momento del ricovero.
COSA SUCCEDE QUANDO È PREVISTA LA RIMOZIONE DELLA CANNULA
La tracheostomia, come si è detto, non è sempre un rimedio permanente.
Quando non è più necessaria, bisogna rimuovere il tubo, coprire la ferita con un
foulard o una sciarpa e attendere che lo stoma si cicatrizzi. Possono volerci anche
diverse settimane e il ricorso ad alcuni punti di sutura.
Rischi
Dal punto di vista chirurgico, la tracheostomia è un intervento abbastanza semplice e
sicuro. Pertanto, è raro che insorgano complicazioni durante o dopo l'intervento.
Queste, se compaiono, consistono in:
• Emorragie
• Danni accidentali alla trachea
• Danni accidentali ai nervi, che controllano la laringe o l'esofago. Questi conducono
a disturbi del linguaggio e della deglutizione
• Pneumotorace, se dell'aria si accumula attorno a uno o a entrambi i polmoni
• Formazione di un ematoma sul collo, che comprime la trachea e rende difficile la
respirazione
• Infezioni batteriche, da trattare immediatamente con antibiotici
• Dislocamento della cannula tracheostomica, che provoca successivamente un
collasso della trachea
• Formazione di un punto di passaggio tra esofago e trachea (fistola), che potrebbe
concludersi con l'entrata di cibo nelle vie respiratorie. È un disturbo che, per

53
avvenire, richiede molto tempo
• Ostruzione della cannula o delle vie aeree. Se avviene nelle vie aeree, serve uno
stent per garantire la riapertura del passaggio per l'aria
• Formazione di un fistola tra trachea e arteria anonima, passante nelle vicinanze.
Questa possibilità è assai pericolosa
DA COSA DIPENDONO LE COMPLICAZIONI?
Incidono sicuramente sulla buona riuscita dell'intervento i seguenti fattori:
• Età e stato di salute del paziente. Un paziente giovane e in discreta salute sopporta
meglio l'intervento e si abitua più velocemente a convivere con una cannula in
trachea
• La ragione della tracheostomia. Un paziente, che soffre di una grave insufficienza
respiratoria o di una malattia neurodegenerativa, è esposto maggiormente a più
complicazioni post-intervento
• Tracheostomia d'emergenza o programmata. Gli interventi d'emergenza, a
differenza delle operazioni pianificate, sono assai più rischiosi
Risultati
La tracheostomia, di per sé, è un intervento chirurgico che fornisce buoni risultati.
Infatti, i benefici sono apprezzabili sia che i disturbi respiratori del paziente siano
lievi e/o temporanei, sia che i disturbi siano gravi e/o richiedano la ventilazione
assistita. Tuttavia, è chiaro che, nella valutazione a lungo termine degli effetti
terapeutici, vanno inclusi anche i motivi che hanno reso necessaria la tracheostomia.
Fino ad oggi, il numero ridotto di utenti portatori di tracheostomia seguiti a
domicilio, ha permesso solo ad alcuni infermieri delle cure domiciliari di consolidare
competenze assistenziali specifiche, anche per il ruolo fondamentale svolto dai
caregivers familiari. Prima della dimissione ospedaliera è infatti fondamentale che
l’assistito o i familiari /caregiver siano in grado di gestire le procedure assistenziali
(per es. la tracheoaspirazione) e di affrontare eventuali situazioni di criticità.

Per quanto riguarda la gestione della tracheoaspirazione, ciò è anche previsto


all'interno dell’ “Accordo, ai sensi dell’articolo 4 del Decreto legislativo 28 agosto

54
1997 n. 281 tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano
concernente la formazione di persone che effettuano la tracheoaspirazione a
domicilio del paziente non ospedalizzato” sancito dalla Conferenza Stato-Regioni
nella seduta del 29 aprile 2010. A completamento del lavoro e' prevista la
realizzazione di progetti formativi, finalizzati a consolidare l’apprendimento degli
aspetti teorico/pratici da parte degli infermieri.

ALLORA FACENDO UN FOCUS DI QUANTO FINORA DESCRITTO SI HA


CHE:

La tracheostomia è un incisione chirurgica della trachea , finalizzata ad aprire una


via respiratoria alternativa a quella naturale. Questo intervento viene praticato di
routine nei pazienti che necessitano di intubazione endotracheale per periodi, in
genere, superiori ad una settimana (es. stato di coma prolungato), o all'inizio di
interventi chirurgici alla testa e al collo che rendono impossibile l 'intubazione. Per
definizione la via respiratoria creata con la tracheotomia è destinata ad essere
provvisoria. In questo consiste la differenza fra tracheotomia e tracheostomia.
Quest'ultima, infatti, pur non rappresentando un atto chirurgico irreversibile , è
destinata ad essere permanente e prevede, pertanto, la sutura dei margini della stomia
alla cute del collo.

Nota: per semplificazione, verrà comunemente utilizzato il termine tracheostomia ,


fatti salvi i casi in cui i contenuti si riferiscano esclusivamente alla tracheotomia.

LE PRINCIPALI INDICAZIONI ALL’ESECUZIONE DI QUESTI


INTERVENTI SONO:

1. emergenze che comportano una grave insufficienza respiratoria (lesioni


cerebrali, del massiccio facciale e della laringe)
2. interventi di chirurgia parziale e ricostruttive della laringe, del cavo orale e
dell’oro- ipofaringe nei quali viene eseguita a scopo profilattico per evitare che
un’eventuale edema
55
post chirurgico possa ostacolare il passaggio d’aria attraverso le vie aeree
superiori

3. necessità di assistenza respiratoria prolungata principalmente in pazienti con


malattie del sistema nervoso
4. presenza di malformazioni congenite, di corpi estranei o processi flogistici
gravi a carico delle vie aeree superiori

L’inserimento di una cannula endotracheale si propone i seguenti scopi:

• realizzare una via di comunicazione diretta tra l’ambiente e le vie aeree


inferiori, superando eventuali ostacoli al passaggio dell’aria presenti nel cavo
orale a livello di faringe o laringe
• rendere possibile un collegamento corretto e sicuro al respiratore automatico
per la ventilazione artificiale
• ridurre lo spazio morto anatomico da 150 ml a 50 ml al fine di diminuire le
resistenze ai flussi dei gas e migliorare la ventilazione alveolare
• consentire un’accurata pervietà delle vie aeree , permettendo una valida pulizia
tracheobronchiale e un miglior rendimento della fisiochinesiterapia
• stabilire una netta e completa separazione tra vie aeree e digestive permettendo
nei pazienti coscienti la ripresa di una normale alimentazione per bocca
• consentire interventi di otorinolaringoiatria, come per esempio una
laringectomia
• consentire la fonazione nei pazienti che hanno bisogno di un sostegno
ventilatorio ad intervalli.

La cannula tracheale è un dispositivo indispensabile per:

• conservare pervia la tracheostomia, consentendo un regolare flusso


d’aria
• fornire una specifica via di ventilazione in persone con ostruzione delle
vie aeree superiori
56
• proteggere le vie aeree dal rischio di inalazione
• rendere possibile un accesso alle basse vie aeree al fine di rimuovere le
secrezioni
• consentire il collegamento a ventilatori o altri dispositivi di terapia
respiratoria La scelta della cannule dipende da molti fattori:

• motivi clinici e patologici che hanno richiesto la tracheostomia


• grado di dipendanza della ventilazione meccanica
• capacità di sostenere il respiro autonomo
• livello di coscienza e/o di collaborazione
• presenza di riflessi di protezione delle vie aeree superiori (tosse e deglutizione)
• capcità di rimuovere attivamente le secrezioni bronchiali
• livello di sostegno familiare

I materiali utilizzati per la costruzione delle cannule tracheali devono rispondere a


precise caratteristiche di atossicità e superare i test di efficacia . I materiali più
utilizzati sono:

• polivinilcloruro (PVC): questo materiale è , ad oggi , il più ut ilizzato; ha la


caratteristica di essere atossico, termosensibile, radioopaco. Risulta
confortevole per il paziente e riduce il rischio di lesioni tracheali.
• silicone: elastomero ad elevata tollerabilità che può essere sterilizzato in
autoclave. Presenta costi elevati.
• metallo (argento, ottone, ottone argentato, oro, acciaio), sono cannule utilizzate
per tracheostomie di lunga durata o permanenti, ma alcune loro caratteristiche
ne limitano l'utilizzo a pochi e selezionati pazienti prevalentemente in ambito
ORL. Il diametro della cannula deve essere scelto in base alle dimensioni dello
stoma tracheale. Le cannule endotracheali possono essere di forma angolata,
utilizzate nelle tracheotomie percutanee, o a semicerchio, utilizzate per le
tracheostomie di lunga durata o permanenti . La lunghezza è un parametro

57
molto variabile che dipende dalla ditta produttrice (generalmente è compresa
tra i 65 e gli 81 mm).

I Componenti cannula tracheale sono:

• 􂀀 Cannula: è la parte che viene inserita nella trachea ; mantiene la


tracheostomia pervia consentendo una normale respirazione.
• 􂀀 Mandrino (otturatore): posto all’interno della cannula, serve per facilitarne
l’introduzione rendendo la manovra atraumatica. Va rimosso subito dopo
l’introduzione della cannula
• 􂀀 Controcannula (se in dotazione ): è inserita dentro la cannula dopo il
posizionamento, serve a mantenere la cannula pulita evitando che questa debba
essere rimossa durante le manovre di pulizia.
• 􂀀 Cuffia le cannule cuffiate hanno un manicotto esterno (la cuffia) che viene
gonfiato a bassa pressione. La cuffia permette la ventilazione senza perdite
d'aria, protegge le vie aeree da possibili inalazioni e limita i traumi sulla
mucosa. E’ collegata, mediante un tubicino, ad un palloncino posto al di fuori
della flangia, che permette di verificare lo stato di tensione della cuffia nella
trachea.
• 􂀀 Valvola unidirezionale (valvola fonatoria o tappo fonatorio): è un accessorio
che elimina la necessità di usare il dito per chiudere l’apertura della cannula
tracheostomica e consentire la fonazione. Permette all'aria di entrare durante
l'inspirazione mentre si chiude durante l'espirazione, indirizzando l'aria verso le
vie respiratorie superiori e quindi verso le corde vocali
• 􂀀 Flangia è una lamina , posta in posizione perpendicolare rispetto alla
cannula, che ne impedisce la caduta nel lume tracheale. E’ provvista di fori a
forma di asole in cui vengono fatti passare i sistemi di ancoraggio (fettuccia o
velcro) che si fissano attorno al collo . Normalmente è saldata alla cannula ma

58
esistono modelli in cui essa può scorrere permettendo l’adattamento alle
diverse esigenze dei pazienti.
• 􂀀 Connettore esterno permette di connettere alla cannula al ventilatore a
dispositivi di terapia respiratoria per ottenere un 'ottimale umidificazione
attiva/passiva o comunicazione ; le dimensioni variano a seconda della ditta
costruttrice (di solito la lunghezza è di 15 mm)
• 􂀀 Punta, ovvero l 'estremità endotracheale della cannula , che può essere di
forma arrotondata o a becco di flauto.

In base alle loro caratteristiche possono essere:

• Cannule cuffiate: tale tipologia viene utilizzata nelle persone disfagiche ed è


dotata di palloncino gonfiabile posto sul terzo distale della cannula. Per evitare
episodi di inalazione di sangue e saliva o lesioni tracheali la cuffia va gonfiata
tra 20-25 mmHg e mantenuta a tale pressione.

Vantaggi: prevenzione di episodi di inalazione nelle persone disfagiche

Svantaggi: maggior trauma nella sostituzione, possibilità di rottura della cuffia


e/o usura del sistema di gonfiaggio, eventuale insorgenza di lesioni da decubito
e da compressione ischemizzante sulla mucosa tracheale (tale evenienza può
essere evitata sgonfiando periodicamente la cuffia nell’arco della giornata e
utilizzando cuffiature a bassa pressione).

• Cannule fenestrate: sono dotate di contro cannula e vengono utilizzate in


persone che, conservando le corde vocali, sono in grado di parlare. La
fenestratura, posta nel dorso della cannula a circa 2 cm dalla flangia e presente
anche nella controcannula, consente il passaggio di aria attraverso le corde
vocali e con esso la fonazione.

Vantaggi: permettono il passaggio di aria alle corde vocali e da qui alla bocca
dando la possibilità alla persona di parlare, chiudendo il foro esterno della
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cannula
Svantaggi: si possono formare granulomi da contatto a livello della
fenestratura.

• Cuffiate e fenestrate: vengono utilizzate nelle persone che, per problemi


respiratori, necessitano di ventilazione assistita e in quelle sottoposte ad
interventi conservativi del distretto cervico-facciale. Conservando le corde
vocali, mantengono la fonazione anche quando sono collegati al respiratore.
Hanno tutte le caratteristiche delle cannule cuffiate e fenestrate compresi gli
stessi vantaggi e svantaggi.
• Non cuffiate e non fenestrate: vengono utilizzate nella fase post-operatoria di
interventi cervico-facciali, in persone in respiro spontaneo con tracheotomia di
lunga durata o tracheostomia oppure in persone che necessitano di
broncoaspirazioni frequenti e comunque non sottoposte a respirazione assistita.

Vantaggi: fonazione a cannula chiusa (esclusi i laringectomizzati ), riduzione


del rischio di decubito tracheale e facilità di gestione , minor trauma nella
sostituzione
Svantaggi: mancata prevenzione di episodi di inalazione

È molto importante effettuare la pulizia della cannula e dello stoma tracheale ,


soprattutto nell 'immediato post intervento , poichè vi è un aumento delle
secrezioni bronchiali e della loro viscosità. Ne consegue un'elevata probabilità
di sovrainfezioni batteriche. Tali operazioni sono da eseguirsi almeno due volte
al giorno o più spesso se le condizioni del paziente lo richiedono. La cuffia è la
principale causa di ischemie della mucosa tracheale. È consigliabile, pertanto,
mantenere la pressione di gonfiaggio tra i 20 e 25 mm di Hg (si ricorda che la
quantità di aria da immettere durante la cuffiatura, di norma, va dai 5 ai 7 cc di
aria in base alle indicazioni previste dalle schede tecniche) e sgonfiare la cuffia
quando non è necessaria (per esempio quando la persona è in respiro

60
spontaneo). E’ possibile verificare la pressione della cuffia con appositi
manometri.

Un danno ischemico prolungato può portare ad una stenosi tracheale


permanente o a fistola tracheo/esofagea. Il sistema di fissaggio con il quale
viene assicurata la cannula dovrebbe essere sufficientemente stretto da
impedire la decannulazione, evitando di ledere la cute sottostante. E' di uso
comune l'indicazione di stringere il collarino in modo che si possa inserire
all'interno dello stesso un dito. Si possono utilizzare collarini in velcro oppure
fettucce opportunamente annodate. Il sistema di fissaggio deve essere cambiato
quando sporco o baganato Quando la ferita chirurgica è cicatrizzata è
sufficiente effettuare la pulizia dei bordi dello stoma con tecnica asettica,
utilizzando soluzione fisiologica sterile e garze sterili. In presenza di secrezioni
secche, si possono utilizzare garze imbevute di acqua ossigenata, che dopo
essere stata applicata deve essere rimossa con soluzione fisiologica in quanto
lesiva per la cute peristomale. La pulizia della tracheostomia va eseguita
almeno una volta al giorno e ogniqualvolta le garze si presentano sporche o
bagnate. Se la ferita è ancora in fase di cicatrizzazione , dopo la detersione con
fisiologica e garze sterili è indicata la disinfezione con soluzione a base di
iodiopovidone al 10% su base acquosa. La sostituzione della cannula tracheale,
in pazienti sottoposti a tracheotomia, è una manovra rischiosa qualora venga
praticata in ambiente non protetto e/o eseguita da personale non adeguatamente
qualificato (soprattutto in ambito domiciliare). E' necessario quindi che la
sostituzione venga eseguita dal medico di medicina generale o dallo specialista
in collaborazione con l'infermiere. Nel caso invece di paziente
laringectomizzato, l'intervento di sostituzione deve essere effettuato
quotidianamente dall'infermiere fino a quando l'assistito o il
familiare/caregiver siano indipendenti nell'effettuazione della manovra.

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Obiettivo dell’intervento infermieristico

• favorire la respirazione, prevenire la dispnea e le infezioni locali e/o polmonari


• rendere autonomo l'assistito o il parente/caregiver nella gestione delle
procedure di igiene del tracheostoma e di sostituzione della cannula tracheale

Materiale occorrente

• Telino non sterile


• Cannula, controcannula e otturatore
• Fettuccia e “metallina”
• Gel o olio lubrificante
• Garze sterili
• Dispositivi di protezione individuali (guanti monouso indispensabili,
mascherina, occhiali, camice monouso in funzione della valutazione del rischio
di contaminazione)
• Soluzione fisiologica sterile 0,9%
• Sondini d’aspirazione e aspiratore
• Contenitore di plastica cilindrico
• Detergente-disinfettante (amuchina 5%) per la pulizia della cannula
• Contenitore dei rifiuti

Per la sostituzione della cannula tracheostomica (laringectomizzato)

Raccomandazioni Center Disease Control:

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􂀀 Lavarsi le mani dopo qualsiasi contatto con mucose, secrezioni o oggetti
contaminati con secrezioni respiratorie, sia che si indossino o meno i guanrti

• 􂀀 Indossare i guanti per manipolare le secrezioni respiratorie o oggetti


contaminati con secrezioni respiratorie di qualsiasi paziente
• 􂀀 Indossare il camice quando è probabile la contaminazione con le secrezioni
respiratorie di un paziente; cambiare il camice dopo tale contatto e prima di
assistere un nuovo paziente
• 􂀀 Prima di sgonfiare la cuffia del tubo endotracheale per rimuoverlo o prima
di rimuovere il tubo, assicurarsi che siano state rimosse le secrezioni sotto la
cuffia endotracheale

Procedura:

1. Valutare il livello di collaborazione della persona assistita.


2. Informare la persona sulle manovre che si eseguono ed il loro scopo
3. Predisporre un piano di lavoro con tutto l’occorrente e preparare, insieme
all’assistito o al caregiver tutto il materiale (cannula, controcannula ed
otturatore, la fettuccia e le garze metalline), avendo cura di informare rispetto
alle caratteristiche, al nome e alle funzioni dei singoli componenti del set
4. Lubrificarelacannulae,seditipocuffiato,verificarelatenutadelpalloncino
5. Eseguire il lavaggio sociale delle mani
6. Indossare i guanti
7. Far assumere alla persona la posizione seduta, con il capo leggermente in
iperestensione, posizionando un telino per proteggere gli indumenti
8. Indossare i DPI: maschera con visiera, camice monouso
9. Disporsi in posizione laterale rispetto alla persona
10.Far espettorare, se possibile, in maniera spontanea oppure procedere
all'aspirazione di eventuali secrezioni. Se presente, togliere la controcannula
ruotandola e sfilandola.
63
11.Slegare con una mano il fissaggio di sicurezza e sfilare delicatamente la
cannula.
12.Pulire lo stoma da eventuali secrezioni con garze e soluzione fisiologica,
facendo attenzione a non fare scivolare liquidi all’interno della trachea.
13.Valutare lo stoma e le condizioni della cute peristomale.
14.Mostrare alla persona le modalità di introduzione della cannula (fino a quando
la persona diventa autosufficiente nella manovra).

15.Procedere all’introduzione della nuova cannula come segue: inserire, ruotando


delicatamente, la cannula spingendola in avanti e poi in basso con un movimento ad
arco. Togliere immediatamente l’otturatore, tenendo la cannula in posizione con le
dita. Fissare la cannula, allacciando la fettuccia dietro al collo. Inserire, infine, la
controcannula verificando che sia adeguatamente fissata.

16.Istruire poi la persona sulla pulizia della cannula asportata precedentemente La


controcannula e la cannula vanno lavate con acqua e soluzione detergente e con
l’ausilio di uno scovolino, per poter rimuovere secrezioni ed eventuali incrostazioni.
La controcannula può essere riposta in soluzione di amuchina al 5% e sciacquata con
soluzione fisiologica prima del riposizionamento nella cannula tracheale.

Al termine provvedere a rimuovere i guanti utilizzati e lavarsi le mani.

• Prima di togliere la cannula , controllare che non sia cuffiata ; se la cuffia è


presente accertarsi che sia sgonfia prima di rimuovere la cannula
• Quando si utilizza una cannula fenestrata, la controcannula deve essere priva di
fenestratura, poiché durante l’aspirazione il sondino potrebbe causare un
danneggiamento della parete tracheale
• In caso di resistenze durante l'inserimento della controcannula non forzare ma
avvisare il medico in quanto una delle complicanze tardive potrebbe essere la
formazione di un granuloma all’interno della fenestratura della cannula

Valutazione dell’efficacia dell'intervento educativo


64
Al termine del percorso di addestramento, l’assistito/il caregiver deve essere in grado
di:

• conoscere le motivazioni per le quali è importante mantenere una corretta


igiene della cannula e dello stoma tracheale
• saper rilevare tempestivamente eventuali segni e/o sintomi di infezione locale
(arrossamento e tumefazione dello stoma , caratteristiche delle secrezioni
rispetto a quantità , colore, odore) e/o polmonare (febbre persistente, segni e
sintomi di ipossia, presenza di tosse)
• essere in grado di gestire autonomamente l’igiene dello stoma e la sostituzione
della cannula.

L’infermiere ha la responsabilità di supervisionare e rinforzare nel tempo le


capacità acquisite dalla persona e/o dal caregiver.

Considerando che la funzione della cannula è quella di garantire la


respirazione, mantenendo pervia una via aerea artificiale , è estremamente
importante assicurare il suo fissaggio e la sua perfetta pervietà .
In presenza di tracheotomia l’estrusione accidentale ed indesiderata della
cannula è sempre un evento drammatico in quanto i tess uti connettivali che
circondano la tracheotomia, soprattutto se di recente confezionamento, tendono
a collassare in assenza della cannula. La gravità varia da paziente a paziente , a
seconda della pervietà residua delle vie respiratorie sovratracheali . La cannula
deve essere riposizionata in breve tempo ; tale manovra può presentare
difficoltà per la rapida retrazione dei tessuti , per la presenza di granulazioni e
per la condizione di agitazione dovuta alla dispnea del paziente . Per questo
motivo è richi esto un intervento urgente di personale qualificato.
In presenza di tracheostomia , a seconda della pervietà delle vie aeree , la
manovra di reinserimento potrebbe essere gestita in autonomia da un
infermiere esperto e/o dal caregiver adeguatamente formato.
Si tratta sempre e comunque di un fatto grave ed imprevisto per il quale è
65
necessaria la completa conoscenza degli aspetti anatomo-fisio-patologici
dell'assistito.

L’ostruzione della cannula:

E’ quasi sempre dovuta ad un'inadeguata umidificazione, che rende le


secrezioni dense e crostose , con formazione di tappi di muco all’interno della
cannula; la prestazione da eseguire con urgenza è , quando presente, il cambio
rapido della controcannula e relativa pulizia, oppure la sostituzione della
cannula. E' importante ricordare che per facilitare la rimozione delle secrezioni
respiratorie l 'intervento più efficace è quello di mantenere una corretta
idratazione del paziente . Non è convalidata dalla letteratura l’introduzione di
boli di soluzione fisiologica allo 0,9% per rendere più fluide le secrezioni . Nei
pazienti con tracheotomia recente si ha normalmente una abbondante
produzione di secrezioni tracheo -bronchiali ciò è principalmente alla
diminuzione drastica dell'umidificazione dell'aria respirata a causa del "by-
pass" delle vie aeree superiori da parte della cannula ; con il tempo la
tracheotomia si stabilizza e le secrezioni tendono a diminuire . Ciò nonostante
la presenza di secrezioni più o meno abbondanti facilita da una parte il rischio
di formazioni crostose che possono formare tappi di muco e talvolta occludere
anche totalmente il lume della trachea o della cannula , dall'altra può
rappresentare l'ideale terreno di coltura per germi patogeni favorendo le
infezioni stomali e polmonari. Le secrezioni vanno quindi accuratamente
aspirate al fine di mantenere la via aerea libera e lo stoma tracheale asciutto. La
broncoaspirazione ha lo scopo di rimuovere le secrezioni presenti nell 'albero
respiratorio, mantenere la pervietà delle vie aeree e migliora re la funzionalità
respiratoria della persona. E' effettuata in base alla diagnosi di "incapacità, da
parte del paziente, a rimuovere le secrezioni bronchiali presenti nell'albero
respiratorio"(Nanda Nursing Diagnoses 2001-2002). L'aspirazione tracheale è
una componente dell'igiene bronchiale che consiste nella rimozione meccanica

66
delle secrezioni presenti nell'albero repiratorio in pazienti con inefficace
riflesso della tosse.

Obiettivi:
􂀀 mantenere la pervietà delle vie aeree

􂀀 migliorare la funzionalità respiratoria

􂀀 prevenire le infezioni favorite dal ristagno delle secrezioni.

La broncoaspirazione è una tecnica invasiva fastidiosa per l'assistito e potenzialmente


rischiosa, pertanto va eseguita solo se vi è una reale necessità . La decisione clinica
dell'infermiere sulla necessità della broncoaspirazione viene effettuata:

GUARDANDO il modo di respirare (rilevare la presenza di irregolarità nell 'atto


respiratorio o affaticamento), il colore della cute (presenza di cianosi), la velocità del
respiro che si modifica. Tali segni indicano che non vi è una respirazione efficace

ASCOLTANDO il rumore del respiro: la presenza di gorgoglii o di tosse persistente,


sono indice di presenza di secrezioni da aspirare

TOCCANDO il torace della persona: appoggiando il palmo della mano all 'incirca
10/15 cm sotto lo stoma , si riescono a percepire delle vibrazioni ; questo fremito
tattile, è dovuto al passaggio di aria attraverso abbondanti secrezioni.

PER I PAZIENTI SOTTOPOSTI A VENTILAZIONE MECCANICA OLTRE AI


SEGNI E SINTOMI SOPRA ELENCATI VANNO AGGIUNTI I DATI
RILEVABILI AL VENTILATORE QUALI:

67
• innesco dell’allarme a seguito di variazioni delle pressioni respiratorie nelle
ventilazioni volumetriche (allarme di pressione di picco)

• innesco dell’allarme a seguito di variazioni del volume corrente nelle ventilazioni


pressometriche (allarme di volume/minuto inferiore)

In ambito domiciliare le due tecniche di aspirazione maggiormente utilizzate sono:

a) aspirazione superficiale: consiste nell'inserimento del catetere solo nell'ostio della


cannula tracheale per rimuovere le secrezioni che sono state tossite sino all'apertura
della cannula;

b) tecnica premisurata: il catetere viene inserito ad una profondità premisurata, con il


foro più distale appena fuori dalla punta della cannula tracheostomica.

Per misurare la profondità esatta si utilizza una cannula dello stesso tipo e della stessa
misura di quella posizionata in trachea , individuando sul catetere l 'esatta profondità
d'inserzione. Per eseguire correttamente la tecnica premisurata è necessario effettuare
la rotazione del sondino tra pollice e indice senza perdere il punto di repere. Nella
fase di inserimento del catetere, che deve essere effettuata senza aspirare, la rotazione
riduce l 'attrito e provvede a muovere i fori laterali del sondino in modo elicoidale ,
permettendo l 'aspirazione delle secrezioni in tutti i punti della parete della cannula
tracheale. Questa tecnica può essere sempere utilizzata in aspirazioni di routin e in
quanto riduce il possibile danno dell 'epitelio delle vie aeree La durata della
tracheoaspirazione non deve essere superiore a 10-15 secondi ed è consigliato non
ripeterla per più di due volte ad ogni aspirazione . Il sondino è in materiale morbido ,
flessibile, monouso, trasparente (ad es . polivinile) e può misurare da 12 a 18 CH
(3Ch=1mm), oppure 10-16 Fr (1 Fr= 3 mm circa ). La misura del catetere di
aspirazione non deve essere di diametro superiore alla metà del diametro interno della
cannula tracheostomica, per evitare un aumento della pressione negativa nelle vie
aeree e una riduzione del valore di PaO2.
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La pressione di aspirazione deve essere tale da aspirare in modo efficace il muco in
pochi secondi senza creare danni. Le pressioni consigliate sono:

-60-100 mmHg per i bambini sotto l 'anno di età 100-120 mmHg per i bambini sopra
l'anno

-100-150 per le persone adulte.

La pressione d'aspirazione non dovrebbe mai superare i 150 mmHg; pressioni


superiori possono causare traumi, ipossia e atelectasie.

Il Materiale occorrente:

• Guanti monouso ed eventuali altri dispositivi di protezione individuale (camice


monouso, mascherina, occhiali) in funzione del possibile rischio di
contaminazioni
• Fonte di aspirazione con regolazione del vuoto, tubo di connessione e vaso di
raccolta
• Catetere da aspirazione monouso , sterile (il calibro indicato negli adulti è 12-
18 Fr)
• Flacone di soluzione fisiologica sterile per lavare il catetere
• Garze sterili 10x10 cm
• Telino per proteggere gli abiti dell’assistito e i cuscini
• Contenitore dei rifiuti Tecnica

1. Informare la persona, valutando il livello di coscienza, sulle finalità e modalità


di esecuzione della tracheoaspirazione
2. Eseguire il lavaggio sociale delle mani
3. Predisporre il piano di lavoro con il materiale occorrente (aprire il flacone della
soluzione fisiologica e il pacchetto delle garze sterili)
4. Posizionare l'assistito semiseduto se possibile o in decubito supino (paziente
non cosciente)

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5. Posizionare il telino per proteggere la biancheria del letto e dell'assistito
6. Azionare l'aspiratore regolandolo ad una aspirazione massima compresa tra
100 e 120 mm Hg.
7. Indossare i dispositivi di protezione individuali
8. Aprire la confezione del sondino e, prima di sfilarlo, collegarlo al tubo di
raccordo dell'aspiratore con l'aspirazione spenta
9. Rimuovere, se presente, la controcannula
10.Sfilare il catatere dalla confezione e inserirlo nella cannula, senza aspirare, con
movimento rotatorio tenendolo tra indice e pollice, facendolo avanzare fino al
limite previsto (vedi punto 4.3) questo movimento faciliterà l 'introduzione del
catetere e l'aspirazione delle secrezioni in tutti i punti della cannula
tracheostomica
11.Azionare l'aspirazione e broncoaspirare ad intermittenza per periodi non
superiori a 10-15 secondi, ritraendo il sondino con movimento rotatori

12.Pulire il catetere aspirando soluzione fisiologica e in seguito spegnere


l'aspiratore
13.Valutare le condizioni della persona, osservando le caratteristiche della
respirazione e il colore della cute e mucose
14.Se necessario ripetere la manovra di aspirazione lasciando riposare per qualche
minuto la persona tra una aspirazione e l'altra
15.Risistemare la persona in posizione comoda e confortevole
16.Riordinare il materiale. Il sondino al termine dell 'utilizzo può essere racchiuso
nella mano ancora guantata e lasciato nel guanto mentre lo si sfila al rovescio
Inserirne una controcannula pulita
17.Lavare le mani al termine della procedura
18.Osservare e riportare nella documentazione infermieristica le caratteristiche
delle secrezioni aspirate
19.Reintegrare il materiale e le attrezzature in modo che la aspirazione sia pronta
per essere ripetuta

70
RACCOMANDAZIONI CDC

• 􂀀 Lavarsi le mani dopo qualsiasi contatto con mucose, secrezioni respiratorie


o oggetti contaminati con secrezioni respiratorie, sia che si indossino o meno i
guanti
• 􂀀 Indossare i guanti per manipolare secrezioni respiratorie o oggetti
contaminati con secrezioni respiratorie di qualsiasi paziente
• 􂀀 Sostituire i guanti e lavarsi le mani dopo aver manipolato secrezioni
respiratorie o oggetti contaminati con secrezioni respiratorie di un qualsiasi
paziente e prima del contatto con un altro paziente, oggetto o superficie
ambientale; tra i contatti con un sito corporeo contaminato e il tratto
respiratorio o un presidio respiratorio dello stesso paziente
• 􂀀 Indossare un sovracamice quando è probabile la contaminazione con le
secrezioni respiratorie di un paziente e cambiare il camice dopo tale contatto
• 􂀀 Non vi sono sufficienti evidenze che raccomandino sull’uso di guanti sterili
al posto di guanti puliti per l’aspirazione delle secrezioni respiratorie del
paziente Si consiglia comunque l'utilizzo di tecnica asettica.
• 􂀀 Utilizzare solo liquido sterile per rimuovere le secrezioni dal catetere di
aspirazione se tale catetere deve essere reinserito nuovamente nel tratto
respiratorio del paziente. Durante le procedure di aspirazione tracheale
l'assistito dovrebbe essere adeguatamente monitorato valutando:

• i rumori respiratori
• il colore della cute e della mucosa (assenza o presenza di canosi)
• la frequenza respiratoria e cardiaca
• la saturazione periferica (in presenza di saturi metro)
• le caratteristiche dell'escreato (colore, volume, consistenza e odore)

71
• la presenza di sanguinamento o di traumi
• la risposta dell'assistito
• la tosse.

Alcune precisazioni

◊ Durante le manovre di aspirazione non forzare mai il catetere se incontra un


ostacolo
◊ Incoraggiare il paziente (se cosciente) a respirare profondamente e a tossire tra
un’aspirazione e l’altra.

◊ Sostituire o lavare e disinfettare giornalmente tubi e bottiglia dell’aspiratore (se


riutilizzabili).

◊ Utilizzare un sondino sterile per ogni aspirazione.

L'aspirazione tracheale è considerata efficace se determina almeno uno dei seguenti


risultati:

• 􂀀 rimozione delle secrezioni


• 􂀀 miglioramento dei rumori respiratori
• 􂀀 riduzione della pressione di picco (durante la ventilazione volumetrica) o
aumento del volume corrente (durante la ventilazione pressimetrica)
• 􂀀 miglioramento della saturimetria
• 􂀀 riduzione della sensazione di dispnea e/o riduzione della frequenza cardica
e/o respiratoria
• 􂀀 miglioramento soggettivo dell'assistito.

Le complicanze che possono essere causate dall'aspirazione tracheale sono le


seguenti:

• 􂀀 infezioni causate dall'introduzione nelle basse vie aere di batteri che


colonizzano il tubo tracheale

72
• 􂀀 ipossiemia (oltre alle secrezioni vengono rimosse anche aria ed ossigeno)
• 􂀀 arresto cardiaco o respiratorio
• 􂀀 collasso alveolare : durate l 'aspirazione, in particolare se eseguita con
pressioni troppo elevate o troppo in profondità , vengono rimosse le secrezioni
ma anche O2 e aria con possibile collasso degli alveoli
• 􂀀 stimolazione vagale che provoca una repentina e importante bradicardia,
con conseguente bassa portata cardiaca e caduta della pressione arteriosa
• 􂀀 broncospasmo come conseguenza dell'irritazione causata dall'aspirazione
• 􂀀 trauma della mucosa : ogni volta che il sondino raggiunge la mucosa
tracheale può lesionarla sia in modo diretto sia per effetto del vuoto applicato .
Questo tipo di lesioni può causare infiamm azione della mucosa, petecchie
emorragiche, emorraggie della mucosa, edema.
• 􂀀 aumento della pressione intracranica negli adulti con lesioni cerebrali gravi;
aspirazioni ripetute possono aumentare la pressione intracranica
• 􂀀 fame d'aria e ansia legate alla manovra causano tachicardia, ipertensione
arteriosa, agitazione e arossamento del viso.

In pazienti con ventilazione meccanica continua o a intervalli (per es. in


ventilazione meccanica solo durante il sonno), la tecnica della
tracheoaspirazione non cambia. Ovviamente durante la manovra l'assistito deve
essere staccato dal circuito del ventilatore: si rimuove il filtro antibatterico e il
catetere mount (il quale connette la cannula tracheostomica al filtro
umidificatore) per evitare che il ventilatore prenda dall’ambiente esterno aria,
che, essendo ricca di polvere e batteri, andrebbe a “sporcare” il filtro
umidificatore.
Successivamente si introduce il sondino con la tecnica di aspirazione già
precedentemente descritta. Al termine della procedura riconnettere il circuito
ventilatorio e controllare il corretto funzionamento dell'apparecchiatura.
NB: Durante la tracheoaspirazione è normale osservare un aumento della
frequenza cardiaca ed una diminuzione della saturazione dell'ossigeno. Tali

73
parametri possono essere corretti sottoponendo la persona ad una
preossigenazione.
La preossigenazione consiste nella somministrazione di ossigeno al 100% per
un minuto da effettuarsi subito prima della manovra ; è il metodo di prima
scelta per evitare una diminuzione della pressione parziale di ossigeno durante
l'aspirazione.

Si ricorda che:

1.L'aspirazione deve essere fatta solo quando è stata compiuta una valutazione
completa del paziente ed è stata stabilita la necessità per tale procedura . Si
raccomanda una valutazione individuale preliminare , ed una accurata
osservazione durante e dopo la procedura . Il paziente deve essere incoraggiato
a tossire e ad espettorare autonomamente se è in grado.

2. A causa dei potenziali rischi associati, gli infermieri devono possedere


abilità procedurali e delicatezza per eseguire la manovra di aspirazione.

3. Gli infermieri non devono instillare la soluzione fisiologica allo 0.9% prima
di aspirare gli adulti con tracheostomia o intubati. Accertando che i pazienti
siano adeguatamente idratati è un modo con il quale gli infermieri possono
facilitare la rimozione delle secrezioni respiratorie.

4. Devono essere utilizzate tecniche asettiche durante l’aspirazione dei pazienti


adulti ospedalizzati con tracheostomia.

5. La misura del sondino di aspirazione non deve occupare più della metà del
diametro intero della via respiratoria artificiale per evitare pressioni negative
maggiori nelle vie respiratorie e per minimizzare la caduta della PaO2

74
6. L’opinione degli esperti suggerisce che la durata dell'aspirazione deve essere
inferiore ai 10-15 secondi.

7.Alcune forme di iperossigenazione prima di compiere l’aspirazione possono


ridurre la potenziale ipossiemia post-aspirazione nei pazienti adulti
ospedalizzati. Combinando l'iperossigenazione e l 'iperinsuflazione si può
potenzialmente minimizzare l'ipossiemia indotta dall'aspirazione.

8. Utilizzando volumi correnti proporzionali alle dimensioni del paziente si


può contribuire ad una riduzione delle difficoltà potenziali.

9. Quando si iperossigena, lasciare il tempo perché l’aumentata percentuale di


ossigeno passi attraverso i tubi del ventilatore e raggiunga il paziente

10. Deve essere utilizzato un ventilatore, piuttosto che un dispositivo di


rianimazione manuale, per fornire l'iperventilazione/iperossigenazione prima di
aspirare al fine di ridurre le alterazioni emodinamiche

11. Utilizzare al massimo due passaggi di aspirazione

12. È necessaria una completa valutazione del paziente per pianificare gli
interventi di aspirazione. L’iperinsuflazione può avere implicazioni cliniche per
pazienti che hanno un aumento della PIC o che hanno di recente subito un
intervento vascolare o cardiochirurgico o che sono emodinamicamente instabili

13. Modificare le attività e distanziare g li interventi che sono riconosciuti


responsabili nel determinare un aumento della MICP o MAP con intervalli di
almeno 10 minuti. Le azioni devono essere pianificate su una completa
valutazione dei bisogni del paziente; quando possibile occorre considerare le
attività di assistenza passo per passo piuttosto che farle come attività
consolidate

75
Tutti gli studi sono stati classificati secondo la forza delle evidenze basate sul
seguente sistema di classificazione:

Livello I Evidenza ottenuta da una revisione sistematica di tutti i trial


randomizzati e controllati rilevanti.

Livello II Evidenza ottenuta da almeno un trial randomizzato e controllato


propriamente disegnato.

Livello III.1 Evidenza ottenuta da un trials ben disegnato senza


randomizzazione.Livello III.2 Evidenza ottenuta da un studio di coorte ben
disegnato o da un studio caso controllo analitico preferibilmente condotto in
più di un centro o in più gruppi di ricerca .Livello III.3 Evidenza ottenuta da
uno studio longitudinale con o senza interventi. Risultati in sperimentazioni
non controllate.Livello IV Opinioni di autorità, basate sulla esperienza clinica,
studi descrittivi o report di comitati di esperti. L’ossigenoterapia consiste nella
somministrazione di ossigeno in concentrazione maggiore rispetto a quella
presente nell’aria al fine di trattare o prevenire i sintomi e le manifestazioni
dell’ipossiemia arteriosa (American College of Chest Phjsicians National
Heart-1984). Questa terapia può essere applicata sia nel caso di acuzie (es.
insufficienza respiratoria acuta ), sia a lungo termine quando esiste una grave
ipossiemia cronica stabilizzata (es. broncopneumopatia cronica ostruttiva). Lo
scopo della ossigenoterapia è riportare i livelli di PaO 2 (pressione parziale di
ossigeno nel sangue) a valori normali (>80mm/Hg) o il più vicino possibile
alla normalità. Gli effetti dell'ossigenoterapia sono: migliorare l'ossigenazione
dei tessuti e ridurre le resistenze vascolari polmonari. L'ossigeno è equiparato
ad un farmaco e va somministrato solo su prescrizione medica che deve
indicare:

dosaggio (litri di ossigeno al minuto)

durata dell’applicazione (continua, intermittente)


76
dispositivi di somministrazione

Nel paziente tracheostomizzato la via aerea artificiale bypassa il normale processo


di filtrazione, umidificazione e riscaldamento effettuato fisiologicamente da naso,
faringe, laringe e parte della trachea. Essendo l'ossigeno un gas freddo e secco , è
necessario umidificarlo e riscaldarlo prima della sua somministrazione. I
dispositivi che forniscono gas umidificato sono:

• Il tubo a” T” (noto come adattatore di Briggs ) è un dispositivo con una


connessione di 15mm che collega un erogatore di ossigeno a una via artificiale
• Collare da tracheostomia ovvero un sistema simile ad una maschera
tradizionale. Si differenzia da essa per la sua conformazione alla tracheostomia
• “maschera di Venturi” (Venti Mask ): generalmente usata quando si vuole
somministrare ossigeno ad alte dosi e si vuole essere più precisi rispetto al
flusso di O2 somministrato al paziente (frazione inspirata di ossigeno-FiO2).
La Venti Mask comprende, oltre alla apposita maschera tracheostomica, un set
di ugelli intercambiabili, di diverso colore. Ogni ugello riporta la percentuale
di FiO2 (frazione di O2 presente nell'aria inspirata; in aria ambiente il valore
della FiO2 è del 21% circa) ed il flusso di O 2 che è necessario applicare per
ottenere quella determinata FiO 2. Ad ogni colore ne corrisponde una diversa .
La maschera è inoltre provvista di aperture per la dispersione d ella CO2
espirata e viene posizionata davanti alla cannula.

Normalmente nel paziente cannulato (in respiro spontaneo) l’ossigeno viene


somministrato mediante un tubicino di gomma che viene collegato al naso
artificiale.
Nella maggior parte delle persone sottoposte a ventilazione meccanica invasiva
l’ossigeno viene erogato da una “bombola madre” che attraverso un tubicino di
gomma può essere collegato direttamente al ventilatore (umidificazione attiva)
oppure collegato al naso artificiale (umidificazione passiva) posto fra circuito e
catetere mount.
77
L'infermiere durante l'O2 terapia deve controllare alcuni parametri:

• pressione di erogazione, concentrazione della miscela, temperatura e


durata della somministrazione
• umidificazione, verificando il corretto funzionamento dell'umidificatore,
il livello dell'acqua, la temperatura e la presenza di condense nel
circuito, che vanno eliminate.

Vi sono diversi tipi di apparecchi per l 'ossigeno. Il tipo di apparecchio


dipenderà dal luogo in cui si vive e dallo sc opo per cui si assume
l’ossigeno che può essere erogato da tre tipi di apparecchiature:

-Bombole a gas compresso: sono grandi recipienti che contengono


ossigeno sotto pressione (circa 10,000 lt.) Sono pesanti, ingombranti e
con poca autonomia. Sono utilizzati per l’ossigenoterapia a breve
termine. L'ossigeno in bombola va sempre usato con un dispositivo di
riduzione della pressione, un flussometro e un umidificatore.

-Concentratore di ossigeno : è un 'apparecchiatura elettrica che preleva


l'aria dall'ambiente circostante e la convoglia attraverso un filtro
speciale, raccogliendo solo l'ossigeno in un serbatoio. La concentrazione
di ossigeno erogata dal concentratore è pari al 90-95%. Vengono di
norma usati da persone allettate o impossibilitate all'attività
extradomestica.

-Contenitori di ossigeno liquido : l'ossigeno liquido è ossigeno


raffreddato a -183°C. Quando è in forma liquida l'ossigeno occupa molto
meno spazio e può essere conservato in contenitori speciali (1 lt di
ossigeno liquido = 360 lt O2 gassoso) È il sistema più usato e
normalmente è distribuito mediante due contenitori:

78
• ▪ contenitore madre munito di ruote per facilitare lo spostamento in
ambito domestico ; è di capacità variabile da 20 a 24 litri ed eroga un
flusso costante di ossigeno
• ▪ contenitore portatile (stroller): contenitore di capacità variabile (da 0,5
a 1,2 lt) facilmente trasportabile in spalla o su apposito carrellino e che
permette alla persona di muoversi liberamente . Lo stroller è ricaricabile
attraverso il contenitore madre.

Vanno rispettate scrupolosamente le norme di sicurezza: l'ossigeno non


esplode e non brucia senza la presenza di una fiamma. Per evitare il
rischio di incendio bisogna:

• mantenere l'apparecchiatura ad una distanza di almeno 1,5 metri da


qualsiasi dispositivo elettrico
• posizionare l'apparecchiatura ad almeno 2 metri di distanza da fiamme
vive quali forni o stufe
• non fumare quando si assume ossigeno , poichè i vestiti e i capelli
prendono fuoco facilmente
• non usare grassi e oli per lubrificare apparecchiature destinate a
contenere ossigeno. Non usare mai spray ad aerosol nelle vicinanze
dell’apparecchiatura
• mantenere un'adeguata ventilazione attorno agli apparecchi per
l'ossigeno; mantenere i contenitori sempre in posizione verticale

La somministrazione di farmaci per via inalatoria è ampiamente diffusa


nel trattamento di molte malattie respiratorie . Essa può, a differenza dei
farmaci a uso orale , apparire come un 'azione scontata ma in realtà i
pazienti spesso non riescono a eseguire correttamente la manovra o
commettono errori nell 'utilizzo dei dispositivi , riducendo in tal modo
l'efficacia del trattamento . La terapia inalatoria può risultare , pertanto,
79
piuttosto complessa e di difficile attuazione . La maggior parte delle
problematiche si riscontra nella difficoltà di gestione del dispositivo di
erogazione e dall 'incapacità di coordinare l 'erogazione con l 'atto
inspiratorio. Il farmaco , che deve essere nebulizzato , rappresenta il
fattore chiave della terapia : la sua idrosolubilità è , infatti, determinante
dato che quanto è più facilmente solubile nell 'albero bronchiale, tanto
più prontamente è disponibile per essere assorbito . Anche le condizioni
di flusso e le condizioni cliniche del paziente sono un elemento da tenere
in considerazione; per esempio, nella cura di un soggetto bradipnoico ,
con eventuali intervalli di apnea , il farmaco raggiunge più agevolmente
le zone distali dell'albero bronchiale. L'assorbimento dipende dalle
dimensioni delle particelle espulse dall'inalatore e un farmaco, per essere
inalato, deve essere prima nebulizzato . La dimensione delle particelle e
la velocità di diffusione sono direttamente proporzionali alla possibilità
che si depositino sulle pareti delle mucose. I principali benefici della
terapia inalatoria sono:

• — importanti effetti terapeutici con dosi inferiori rispetto alla

somministrazione per via sistemica

• — la rapidità d'azione

• — la riduzione degli effetti collaterali sistemici

• — la diffusione del farmaco in tutto l'albero respiratorio

• — la possibile autogestione da parte dell’assistito

La somministrazione dei farmaci per via inalatoria non permette la guarigione


completa, ma, se vengono assunti in modo corretto, danno un importante aiuto
nella gestione dei sintomi, permettendo quindi alla persona di stare meglio e di
migliorare la propria qualità di vita . Le due principali categorie utilizzate sono

80
i BRONCODILATATORI e gli ANTINFIAMMATORI . Possono essere
prescritti da soli o in associazione . I farmaci BRONCODILATATORI sono
considerati fra i farmaci più importanti poiché concorrono a tenere aperte le vie
respiratorie e a diminuire la “mancanza di fiato” . Quando prescritti in
associazione con altri farmaci è bene somministrarli per primi al fine di
facilitarne l’assorbimento bronchiale. In base alla loro durata d’azione sono
classificati come:

􂀀 Short – acting (a breve azione ): il loro effetto è breve e pertanto devono


essere assunti più volte nell’arco della giornata . Manifestano la loro azione in
4/6 ore e per questo la prescrizione è generalmente di 3/4 somministrazioni al
giorno. In questa categoria vi è un gruppo di farmaci chiamati “di salvataggio”
(nomi commerciali Broncovaleas e Ventolin). Essi, infatti, hanno una breve
durata ma agiscono velocemente una volta assunti dando un rapido beneficio.
Questi ultimi farmaci sono da utilizzarsi solo al bisogno in caso di emergenza.
􂀀 Long – acting (a lunga azione): il loro effetto dura a lungo quindi sono
necessarie meno somministrazioni nell’arco della giornata. Una volta assunti
manifestano la loro azione in circa 12 ore e per questo la prescrizione è
generalmente di 2 somministrazioni al giorno. Tra i farmaci antinfiammatori, i
cortisonici sono quelli maggiormente utilizzati per:

• ridurre l'ostruzione delle vie respiratorie


• prevenire la frequenza delle riacutizzazioni (BPCO)
• migliorare la sintomatologia collegata alla malattia

Vengono solitamente somministrati tramite inalatori.

Tra i modelli di erogatori maggiormente utilizzati ci sono:

• nebulizzatori (pneumatico, a membrana, a ultrasuoni) adatti per le soluzioni, le


sospensioni e le associazioni di farmaci

81
• MDI (metered dose inhaler ) aerosol dosati pressurizzati , conosciuti come
“Puff”; è consigliabile utilizzarli con l’ausilio del distanziatore/spaziatore.
• DPI (dry powder inhaler) erogatori di polvere secca, conosciuti come “diskus,
handialer, turbohaler; possono essere utilizzati solo per somministrazione
attraverso la bocca e non attraverso la tracheostomia.

Le evidenze scientifiche dimostrano che i benefici ottenuti con l'utilizzo di


nebulizzatori equivalgono a quelli derivanti dall'uso di inalatori . Nella
percezione del paziente è possibile che una seduta di aerosolterapia
tradizionale appaia come un intervento terapeutico più consistente rispetto
all'inalazione di una dose da erogatore. Se gli aerosol dosati non vengono usati
correttamente, la percentuale di farmaco che raggiunge i polmoni può essere
molto bassa (<10%). Per ovviare a questo inconveniente è indicato l 'uso del
distanziatore (spaziatore). Si tratta di un dispositivo in plastica a forma di tubo
più o meno panciuto a seconda dei modelli , munito di una valvola a senso
unico in grado di trattenere al suo interno il farmaco per alcuni secondi , fin
quando si è pronti per inalarlo, evitandone quindi la dispersione. Esso permette
inoltre al farmaco di raggiungere le vie respiratorie inferiori migliorandone
l’effetto e riducendo eventuali sgradevoli effetti collaterali quali sapore amaro,
raucedine e comparsa di mughetto sulla mucosa orale. I distanziatori
aumentano lo spazio che il farmaco deve percorrere prima di essere inalato ,
facendo evaporare il gas propellente e rallentando la velocità delle particelle .
Ciò favorisce la riduzione del diametro delle particelle . Va lavato con acqua e
sapone neutro almeno una volta al mese e sostituito annualmente o secondo le
indicazioni della casa produttrice. In una persona cannulata la terapia inalatoria
può essere necessaria in forma estemporanea , continua o intermittente a
seconda della patologia di base del paziente. I farmaci possono essere
somministrati in formulazione liquida (ovvero aerosolizzati) e/o in sospensione
attraverso bombolette spray (MDI = metered dose inhaler; DPI = dry powder
inhaler)

82
Per la tecnica di somministrazione farmaci in sospensione:

1. In respiro spontaneo, siano essi assunti tramite cannula o per OS:

• Utilizzare possibilmente sempre il distanziatore/spaziatore


• Agitare bene la bomboletta spray prima dell’uso
• Connettere la bomboletta al distanziatore o, in sua assenza, tenerla a circa 10
cm dalla cannula
• Invitare il soggetto a eseguire una respirazione profonda
• Avvicinare, se presente, il distanziatore/spaziatore alla cannula
• Invitare a eseguire un’inspirazione profonda e premere contemporaneamente
l’erogatore (si dice comunemente “fare un puff”)
• Far trattenere il respiro per alcuni secondi prima di espirare
• Far eseguire un secondo respiro normale
• Ripetere la procedura fino ad erogare tutti i puff prescritti

2. In ventilazione meccanica:

• Agitare bene la bomboletta spray prima dell’uso


• Connettere la bomboletta al distanziatore apposito ed inserirlo sul circuito di
ventilazione
• • Somministrare lo spray seguendo le curve di inspirazione ed espirazione del
ventilatore

L’obiettivo terapeutico da raggiungere è fare in modo che ogni persona abbia a


disposizione i farmaci più appropriati , imparando ad utilizzare in modo corretto
l’inalatore più adatto alla propria situazione clinica . La letteratura è concorde
nell'affermare che ai fini di una terapia inalatoria efficace , è necessario che i pazienti
e i loro caregiver vengano adeguatamente formati per quanto riguarda:

• tipologia di dispositivo
• modalità di utilizzo

83
• verifica della corretta esecuzione della procedura e dell'uso dei dispositivi.

Si sottolinea che la ventilazione meccanica è una terapi a strumentale che, con


l’impiego di opportuni apparecchi (ventilatori meccanici), ha lo scopo di
sostituire o integrare una funzione respiratoria insufficiente in modo da
garantire l’allontanamento dell’anidride carbonica prodotta e l’apporto
dell’ossigeno necessario. La ventilazione meccanica a lungo termine viene
utilizzata, quindi, per aiutare il paziente a ripristinare il più stabilmente
possibile normali livelli di ossigeno e anidride carbonica e va pertanto
utilizzata secondo le indicazioni stabilite dal medico specialista . Tale
condizione è garantita dal fatto che vengano consentite la messa a riposo dei
muscoli respiratori, la migliore espansione del polmone e quindi una migliore
ossigenazione dello stesso , riducendo la quantità di anidride carbon ica nel
sangue. Essa viene utilizzata in maniera continuativa (24 ore al giorno ) o ad
intervalli cioè con paziente in respiro spontaneo quando sveglio ed in
ventilazione meccanica durante il sonno.

Quindi ricordiamo è importante ventilare per:

-Allungare la sopravvivenza del paziente

-Migliorare la prognosi

-Evitare il peggioramento dello stato di coscienza dovuto ad un'insufficiente


ventilazione polmonare

-Ridurre al minimo il numero di riacutizzazioni della malattia e, nel caso, permetterne


un migliore controllo

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-Evitare i ricoveri ospedalieri per le riacutizzazioni della malattia (in particolare
quelli in terapia intensiva)

-Migliorare la qualità della vita del paziente affinché possa vivere presso il proprio
domicilio, avere rapporti sociali accettabili almeno durante le ore diurne

-Migliorare la qualità del sonno

Per molti pazienti cannulati , nei quali la funzione respiratoria è gravemente


“danneggiata” a seguito di malattia , l’uso della ventilazione è l’unica possibilità di
rimanere in vita. È comunque indubbio che i pazienti e le loro famiglie devono poter
contare su alcuni presupposti:

􂀀motivare l’assistito, che dovrà comprendere l’importanza di questa terapia a lungo


termine.

􂀀 avere il supporto dei familiari, per poter gestire questa terapia in modo corretto a
domicilio; uno stato di grave disagio economico -culturale, qualora non supportato ,
può essere considerato un criterio di esclusione dal programma di ventiloterapia a
domicilio.

􂀀 poter contare sulla disponibilità del medico di famiglia che potrà essere coinvolto
per aiutare a risolvere le problematiche meno complesse che la persona assistita
incontrerà durante il programma.

􂀀avere garanzia della società fornitrice dei presidi la quale dovrà intervenire
tempestivamente in caso di problemi tecnici, per fornire in tempo reale i necessari
supporti e i materiali in uso. Le ditte fornitrici hanno l’obbligo di fornire un celere
intervento presso il domicilio dell'utente al fine d'assicurare un'adeguata assistenza
tecnica nelle emergenze o comunque qualora ne fosse richiesta l 'opera. Solitamente
vengono concordati piani di intervento differenziati in base alla gravità della

85
situazione clinica della persona . Le Società di Servizi hanno l’obbligo di mettere a
disposizione un numero verde di chiamata, attivo 24 ore su 24, per poter
tempestivamente intervenire al domicilio del paziente per guasti meccanici.

La ventilazione meccanica è di tipo invasivo quando viene attuata attraverso un tubo


orotracheale (paziente intubato) o una cannula tracheale.
Il ventilatore meccanico è uno strumento che sostituisce o aiuta i muscoli respiratori a
lavorare correttamente in modo da produrre l’energia necessaria ad assicurare flusso,
pressione e volume di ossigeno nel polmone adeguati durante l’inspirazione.

Ora aggiungiamo anche qualcosaltro di quanto già detto sulla ventilazione


meccanica si divide in:

• ventilazione assistita (parziale): parte del lavoro respiratorio del paziente è svolto
dal ventilatore, poiché l'assistito conserva un'autonoma attività respiratoria che risulta
però insufficiente; quindi durante la ventilazione vi è un 'interazione tra ventilatore e
persona;
• ventilazione controllata (totale): tutto il lavoro respiratorio dell'assistito è svolto dal
ventilatore poiché non vi è alcuna attività respiratoria spontanea e non c’è alcuna
interazione tra ventilatore e la persona.

I ventilatori portatili o domiciliari possono essere pressumetrici o volumetrici. Quelli


pressumetrici sono in grado di erogare una pressione positiva nelle vie aeree ad ogni
atto inspiratorio . Il livello di pressione da raggiungere è stabilito dal medico e
regolato sull'apparecchio; tale livello viene raggiunto ad ogni atto respiratorio.
Questo tipo di ventilatore non garantisce però un volume di aria costante per ogni atto
respiratorio; il volume è quindi variabile.

Quelli volumetrici sono, invece, in grado di erogare nelle vie aree un volume
prestabilito di aria per ogni atto inspiratorio. A differenza degli apparecchi
pressumetrici, il volume di aria è deciso ed impostato dal medico ed è costante ad

86
ogni atto respiratorio. Quello che varia è il livello di pressione positiva nelle vie aeree
necessario per raggiungere tale volume.

Generalmente nel paziente ventilato per via tracheale (ventilazione invasiva),


vengono prescritti ventilatori pressumetrici, in grado di erogare una pressione
positiva nelle vie aeree ad ogni atto inspiratorio. I ventilatori sono forniti di una
batteria interna di durata variabile a seconda dei modelli (comunque non meno di 4
ore) e sono dotati di un adeguato sistema di allarme (per pressione minima e
massima, volume, disconnessione, interruzione di alimentazione elettrica) che si
attiva in modo acustico e visivo in caso di problema. In ogni caso il ventilatore da
prescrivere deve essere provato, valutato e regolato nel modo ottimale per un periodo
sufficiente in ambiente ospedaliero prima di dimettere a domicilio il paziente in
ventilazione a lungo termine. Per la ventilazione meccanica invasiva si utilizza una
cannula tracheale di tipo “cuffiato” . Esso deve essere cuffiato quando il paziente
ventila e scuffiato quando il paziente è in respiro spontaneo.

Vediamo le indicazioni utili per la lettura dei dati sul display del ventilatore
Nonostante al domicilio possano essere presenti diverse tipologie di ventilatori ,
riportiamo una breve legenda rispetto alle più frequenti sigle presenti sulle
apparecchiature:
FR (frequenza respiratoria) è il numero di atti respiratori al minuto . Il ventilatore è in
grado di distinguere e di indicare sul display quanti atti sono prodotti dalla sua azione
e quanti sono invece realizzati dal paziente in autonomia.
VC (volume corrente inspiratorio ) è la quantità di aria espressa i n unità di volume
(ml, cc, l) che la macchina insuffla al paziente ad ogni atto respiratorio.
VCE (volume corrente espiratorio ) è la quantità di aria che il paziente espira per
ritorno elastico della gabbia toracica quando termina l’azione di inspirazione.
VT (volume totale al minuto ) è la quantità di aria che la macchina riesce a far
respirare al paziente in un minuto.

87
PI (pressione inspiratoria) è la pressione positiva (cioè al di sopra della pressione
atmosferica) con cui la macchina comprime l’aria per farla entrare nei polmoni.
Pi PICCO (pressione di picco inspiratorio ) è un livello di pressione massimo ed è il
principale parametro di sicurezza perché, se viene superata, il polmone si danneggia o
addirittura si lacera originando un pneumotorace.

LA PRESSIONE INSPIRATORIA MEDIA:

è un parametro calcolato che dà la media delle pressioni raggiunte dal ventilatore .


Viene dato come numero o evidenziato come una linea soglia nei grafici . F (flusso
ventilatorio) è la quantità di aria che viene immessa o emessa dal polmone in una
determinata unità di tempo; in genere viene indicata in litri al minuto o al secondo.La
Fi 02 (frazione inspiratoria di ossigeno ) è la percentuale di ossigeno contenuta
nell’aria ed usata dal ventilatore per ossigenare il paziente.
I:E (rapporto inspirazione/espirazione) indica il rapporto esistente tra il tempo
dedicato all’inspirazione e quello all’espirazione.

TRIGGER (grilletto) è un meccanismo mediante il quale il ventilatore avverte se il


paziente sta iniziando un atto respiratorio spontaneo e se è necessario procedere
all’erogazione di un supporto ventilatorio.

PEEP (positive end expiratory pressure): quando si respira normalmente, alla fine
dell’espirazione, la pressione nel polmone ritorna uguale a quella atmosferica e il
flusso di aria si ferma. E’ possibile però che questo non avvenga a causa di condizioni
patologiche che impediscono al polmone di svuotarsi del tutto . Al suo interno
permane una certa pressione positiva che viene chiamata PEEPi cioè intrinseca .
A-CV (ventilazione assistita-controllata) è una ventilazione controllata nella quale la

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FR è determinata non dalla macchina ma dal paziente , che con i suoi sforzi attiva il
TRIGGER. Bisogna spesso impostare anche una FR minima di sicurezza per evitare
eventuali apnee.

SIMV (ventilazione sincronizzata intermittente obbligatoria ): il concetto base di


questa ventilazione è l'impostazione di un certo numero di atti respiratori obbligatori,
tra i quali il paziente è libero di fare o non fare atti spontanei. In pratica, il ventilatore
eroga un atto controllato, attende per un certo tempo impostato che il paziente attivi il
TRIGGER e poi fa partire un altro atto . Se il paziente respira da solo, il ventilatore si
limita a seguirlo e non interviene più.

PSV (ventilazione a supporto pressorio) è forse la modalità più utilizzata e quella che
supporta il maggior numero di situazioni cliniche. E’ possibile trovarla indicata con
vari nomi. In pratica il paziente fa partire l’atto, la macchina fornisce una pressione
costante con flusso decrescente (perché man mano il polmone si riempie ci sta meno
aria), quando il flusso scende sotto un certo limite si arresta e si permette
l’espirazione.
CPAP (pressione delle vie aeree positiva continua): si tratta dell’applicazione
continua di una pressione positiva ad un paziente che respira normalmente in
autonomia. E’ una metodica applicata soprattutto con modalità non invasive , come
maschere o caschi.

Gestione domiciliare del ventilatore meccanico e dei suoi componenti Materiale


occorrente per la ventilazione meccanica invasiva:

• corpo macchina
• cavo elettrico
• filtri antipolvere ed antibatterico
• circuito

89
• valvola espiratoria
• raccordi O2
• interfaccia (catetere mount)
• sistema di umidificazione
• eventuale carrellino o piano di appoggio

Il filtro antipolvere ha la funzione di “pulire” l’aria che il ventilatore prende


dall’ambiente e manda al paziente ed è solitamente situato nella parte posteriore del
ventilatore. Si consiglia di lavarlo con acqua tiepida una volta alla settimana.
Generalmente ne vengono forniti due ricambi l’anno. La presa della corrente (da 220
V) non rende necessaria la richiesta di attivazione di un aumento dell’energia elettrica
presso l’ente erogatore ; tuttavia il centro prescrittore provvederà a compilare un
modulo con i dati ed il numero di utenza del paziente , che avrà in oggetto
“Segnalazione di utenza presso cui è domiciliato un soggetto in ventilazione
meccanica con apparecchiature alimentate ad energia elettrica”. Il filtro antibatterico,
protegge il ventilatore da contaminazioni batteriche. Viene applicato tra il ventilatore
(via inspiratoria) e il circuito. Esso non ha funzione terapeutica , quindi il ventilatore
svolgerà comunque la sua funzione , sia esso presente o meno. Se in dotazione, va
sostituito una volta al mese nel caso in cui il paziente ventili meno di 16 ore al
giorno, ogni 15 giorni se la persona ventila più di 16 ore al mese. Il circuito è un tubo
che serve per portare l’aria dal ventilatore meccanico al paziente. Spesso ogni
ventilatore ha il proprio modello , è flessibile , in materiale plastico e leggero ,
monouso. La sostituzione avviene una volta al mese se il paziente ventila meno di 16
ore al giorno, ogni 15 giorni se ventila più di 16 ore al giorno.

Tipi di circuito

1. Monotubo: è composto da un unico tubo che collega il ventilatore all'assistito.

La presenza di un’unica via, entro cui passa sia l’aria inspirata che quella espirata,
impone, per evitare l’ipercapnia dovuta all'ispirazione della CO2, il ricorso ad una

90
valvola espiratoria, da applicare alla fine del circuito che può essere di forme diverse
e chiamata con vari nomi (plateau valve , whisper ecc .). Se la valvola è già
incorporata al circuito, il suo cambio avverrà quando si sostituisce il circuito stesso ;
qualora non già pr esente sul circuito va montata come unità separata ed in questo
caso disinfettata ogni 15 giorni immergendola, senza smontarla e per almeno 20
minuti, in una soluzione di amuchina.

N.B. dalla valvola espiratoria deve sempre fuoriuscire aria . È quindi im portante che
tale sfiato di aria non venga mai chiuso o coperto né con la biancheria del letto né con
parti del corpo. Sarebbe buona abitudine mantenere tutto il circuito sopra le lenzuola.

2. Bitubo: il circuito è composto da due tubi che fanno passare l ’aria in direzioni
diverse. Sono due vie distinte in cui l’aria rispettivamente entra ed esce dal
paziente. In presenza di questo circuito non serve avere la valvola espiratoria
poiché la sua funzione è svolta dal secondo tubo che riporta l’aria espirata al
ventilatore, che sarà provvisto di valvola espiratoria incorporata . Il circuito , sia
nella versione monotubo che bitubo , può essere munito di bicchierini raccogli
condensa che hanno la funzione di “catturare” l’umidità in eccesso dell’aria
inspirata. Essi vanno svuotati regolarmente, facendo attenzione a non contaminarli
e a richiuderli bene per evitare una perdita d’aria durante la ventilazione,
mandando in allarme di bassa pressione o basso volume. Il circuito viene poi
connesso al paziente attraverso un catetere mount , spesso chiamato dai pazienti
proboscide. Esso funge da raccordo e permette di rendere più confortevole
l’ingombro del circuito, che altrimenti dovrebbe essere attaccato in maniera rigida
direttamente alla cannula tracheale. Di cateteri mount ne esistono di vari tipi e
forme. Alcuni di essi presentano , nella parte di raccordo con la cannula , un
tappino apribile attraverso il quale è possibile far passare il sondino per la
tracheoaspirazione, per garantire al paziente la ventilazione anche durante tale
manovra. Il catetere mount va sostituito ad ogni fine seduta di ventilazione e al
bisogno. In questi casi, dopo averlo sciacquato sotto acqua corrente, va lasciato in

91
immersione in un apposito contenitore riempito con una soluzione di acqua e
ipoclorito di sodio (tipo Amuchina ) da cambiare ogni giorno ( per la diluizione
seguire le indicazioni della casa produttrice ). Normalmente, se il paziente ventila
per meno di 16 ore al giorno , vengono prescritti 52 cateteri mount (quindi se ne
può buttare uno alla settimana ). Se invece il paziente ventila per più di 16 ore al
giorno la prescrizione sarà di 365 unità. Le vie aeree (naso, oro-faringe e trachea)
funzionano da filtro, umidificatore e riscaldatore dei gas inspirati. In condizioni
fisiologiche a livello della carena la temperatura dei gas inspirati è di 32- 34°C
con il 100% di umidità relativa ed un’umidità assoluta tra i 33 e i 37 mg di H20/L.
Nei polmoni l’aria raggiunge la temperatura corporea. Quando le alte vie aeree
sono escluse dalla presenza di una tracheostomia , l’aria inspirata , se non è
adeguatamente condizionata con sistemi esterni di umidificazione , può causare
gravi danni tra cui: deficit di funzionamento delle ciglia vibratili, danno delle
ghiandole mucose e dell’epitelio stesso delle vie aeree. Tali alterazioni possono
causare ispessimento delle secrezioni mucose, deterioramento della funzione
polmonare ed aumento del rischio di infezione. Per contro, surriscaldamento ed
iper-idratazione delle vie aeree (temperatura > 37° e umidità > 44mg/L)
espongono il paziente a rischio di ustioni tracheali e aumento delle resistenze
bronchiali.
Durante la ventilazione tramite tracheostomia è necessario umidificare le vie
aeree. Gli umidificatori possono essere classificati in base all’umidità prodotta . I
meccanismi di umidificazione distinguono i dispositivi in sistemi attivi o passivi.

Gli umidificatori passivi sono conosciuti come nasi artificiali. Funzionano sulla base
della conservazione del calore e dell’acqua contenuti nell’aria espirata dal paziente e
ceduta nuovamente ai gas insufflati nella successiva inspirazione. Sono costituiti da
un’ampolla in plastica che contiene un filtro e viene inserita tra il catetere mount ed il
circuito.

92
Gli umidificatori possono essere:

• igrofobici: poco efficienti in termini di condizionamento dei gas ma elevata


capacità di filtrazione batterica
• igroscopici: buone proprietà idrofile che fan si che durante l’espirazione
seguente l’acqua e il vapore siano restituiti ai gas inspirati dal paziente
• misti (igrofobici e igroscopici ): consentono un buon compromesso clinico
associando performance di condizionamento termico e di umidificazione con
un’adeguata qualità di filtrazione microbiologica.

Il naso artificiale deve essere sostituito quando sporco o contaminato e


comunque ogni 24/48 ore.

Negli umidificatori attivi il gas erogato dal ventilatore passa attraverso una
campana contenente acqua, per caricarsi di vapore acqueo ad una temperatura
pari a quella ambientale. La temperatura viene controllata e mantenuta
artificialmente ai livelli desiderati. La condensa viene raccolta in appositi
contenitori posti lungo la linea espiratoria del circuito. L’utilizzo di un
umidificatore attivo comporta un sistema di ventilazione artificiale che deve
essere dotato di dispositivi specifici. E’ da ricordare che l’utilizzo di un
umidificatore attivo prevede un maggior rischio infettivo di proliferazione
batterica, di ustioni della mucosa tracheale (qualora la temperatura
dell’umidificatore fosse troppo elevata) e eccessivo aumento o eccessiva
secchezza delle secrezioni. Le caratteristiche di questi sistemi (attivi e passivi)
si traducono nel vantaggio per il paziente di un’umidificazione ottimale , che
garantisce una elevata e costante fluidità de l muco e una considerevole
riduzione delle ostruzioni del tubo tracheale. La seduta di ventilazione
meccanica invasiva

Con “seduta di ventilazione meccanica invasiva” si intende il lasso di tempo

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durante il quale il paziente respira attaccato al ventilatore meccanico. La durata
di ogni seduta è variabile a seconda dei pazienti e viene stabilita dal medico .
Alcuni pazienti necessitano di una ventilazione per 24 ore/die, taluni solo di
notte e durante il sonno diurno, altri ancora a fasi alterne, ad esempio un paio
d’ore alla mattina e al pomeriggio e durante la notte. I lassi di tempo nei quali
il paziente respira in autonomia (con o senza aggiunta di ossigeno) prendono il
nome di “respiro spontaneo”.

La seduta di ventilazione si compone di tre fasi:

1. fase pre-ventilatoria - fase preparatoria che precede la connessione del paziente al


ventilatore. Si deve quindi :

• verificare che il ventilatore sia attaccato alla rete elettrica e riceva corrente
• accertarsi che il circuito sia correttamente montato in tutte le sue parti
• verificare che ogni parte del circuito sia pulita (catetere mount pulito,
bicchierini raccogli condensa svuotati)
• verificare che la campana sia adeguatamente riempita ed accendere
l’umidificatore, nel caso quest'ultimo sia attivo,
• predisporre l’ossigeno se prescritto
• controllare che il paziente sia in posizione confortevole ai fini della
ventilazione (non è necessario che sia posizionato a letto)
• eseguire una tracheoaspirazione in caso di necessità

2. fase ventilatoria (monitoraggio e sorveglianza durante la ventilazione meccanica)

• Accendere il ventilatore meccanico mantenendolo staccato dal paziente


• Togliere al paziente il nasino o la valvola fonatoria
• Gonfiare la cuffia della cannula con la quantità di aria prescritta
• Attaccare il circuito del ventilatore al paziente
• Verificare che il ventilatore funzioni correttamente , con l 'invio di aria al
paziente e senza allarmi che suonano . È da considerarsi normale che nei primi
94
minuti di ventilazione il paziente tossisca ed il ventilatore suoni . Ciò è dovuto
alla necessità di adattamento.
• Controllare che il paziente si sia ben adattato alla ventilazione e non presenti
problemi quali ad es . difficoltà di respiro , alterazione della colorazione del
volto
• Controllare eccessiva condensa
• Tracheoaspirare il paziente , durante la ventilazione, se necessario

3. fasepost–ventilatoria

• Scollegare il paziente dal ventilatore


• Sgonfiare la cuffia della cannula
• Applicare sull’esterno della cannula il nasino artificiale o la valvola fonatoria
• Applicare ossigeno se prescritto
• Spegnere il ventilatore e l'umidificatore
• Staccare dal circuito il catetere mount, porlo in disinfezione e montarne sul
circuito uno pulito
• Conservare i circuiti (lasciati inseriti nel ventilatore) in una federa in cotone, al
riparo dalla polvere
• Verificare che il paziente sia in una posizione confortevole

L'allarme di distacco dal ventilatore si attiva quando l’assistito viene


sconnesso, volontariamente o accidentalmente, dal ventilatore
L'allarme di interruzione di alimentazione elettrica si attiva in mancanza di
corrente.
Si registra un allarme di pressione massima nel caso in cui:

• il tubo del circuito si dovesse piegare


• vi sia un accumulo di secrezioni
• si verifichi accumulo di condensa ed acqua nel circuito
• • l'assistito tossisca, parli o si muova

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Si verifica invece un allarme di pressione minima se:

• il paziente è scollegato dal ventilatore


• la valvola espiratoria funziona male
• si rilevano delle perdite sull’umidificatore o sui circuiti
• si evidenziano dei buchi nei circuiti
• la cuffia della cannula è rotta o gonfiata male.

Possibili effetti collaterali della ventilazione meccanica invasiva


La presenza di tracheotomia e la ventilazione meccanica invasiva possono dar
luogo ad effetti collaterali, principalmente legati a due fenomeni:

1) iperproduzione di secrezioni bronchiali con la formazione di tappi di muco che


possono ostruire la cannula tracheale (da cui l’importanza di eseguire e rispettare una
corretta umidificazione delle vie aeree e corretta tracheoaspirazione), determinando
sul ventilatore allarmi di alta pressione o rendendo difficoltosa la manovra di
aspirazione con il sondino tracheale.

2) possibile disfagia legata a interferenza della cannula con una normale


deglutizione. Questo problema deve essere preventivamente verificato in ospedale,
ma si ha motivo di ritenere che un'alimentazione che privilegi cibi solidi, e
l'occlusione del foro tracheale durante il pasto con la valvola fonatoria (qualora le
condizioni del paziente lo consentano ) diano le più ampie garanzie per evitare l '
inalazione di cibo ed i rischi conseguenti.

Vengono di seguito brevemente descritte le principali patologie che possono portare


al confezionamento di una tracheostomia . Ad ogni assistito /caregiver dovrà essere
illustrata solo la patologia da cui è affetto.

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Si osservano alcune patologie:

Neoplasie prime vie aeree

-Tumori della laringe: originano, nella maggior parte dei casi , dalla mucosa
(epitelio) che riveste l’interno del canale : il tumore più comune è il carcinoma
a cellule squamose. In caso di carcinoma della laringe si effettua un intervento
chirurgico detto "laringectomia totale"; tale intervento viene effettuato nello
stadio "tre" e "quattro" del cancro della laringe (carcinoma coinvolgente
profondamente la corda vocale con immobilità della stessa o con estensione
anche ad altre sedi della laringe o della faringe) e prevede l'asportazione totale
della laringe insieme ad eventuali linfonodi interessati. La laringectomia
comporta l'asportazione delle corde vocali e questo determina la modifica delle
caratteristiche vocali.

-Tumori della faringe: possono colpire ciascuna delle tre porzioni della
faringe: il nasofaringe (o rinofaringe), l’orofaringe e l’ipofaringe (dove si
separano la via alimentare e quella respiratoria). Quelli del nasofaringe o
rinofaringe sono prevalentemente rappresentati da carcinomi indifferenziati
frequentemente associati al virus EBV (Epstein-Barr virus), mentre nelle altre
regioni prevale il carcinoma a cellule squamose. L’orofaringe include la base
della lingua, il palato molle, l’arco delle tonsille e la parte posteriore della
cavità della bocca.

-Tumori della bocca. Le forme più comuni di alterazioni dei tessuti che
ricoprono la cavità buccale sono la leucoplachia (aspetto a macchia bianca ) e
l’eritroplachia (aspetto a macchia rossa ). Si tratta di lesioni pre -cancerogene,
cioè a potenziale rischio di trasformazio ne. In genere le lesioni bianche hanno
minor rischio di cancerizzazione (intorno al 5 – 10 %) rispetto a quelle rosse
(fino al 70 %). Solo la biopsia , cioè il prelievo di una parte della lesione ,

97
permette di valutare l’entità del rischio di trasformazion e tumorale (displasia
lieve, media o severa ) ovvero la presenza di una lesione già neoplastica
(carcinoma in situ, carcinoma microinvasivo). Le tonsille, che fanno parte del
sistema linfatico, sono colpite dai tumori tipici di questo tipo di tessuto
(linfomi), che hanno un decorso e una prognosi diversa , in genere più
favorevole, rispetto a quella dei tumori epiteliali. Per i tumori della laringe e
della faringe i principali fattori di rischio sono rappresentati dal fumo di
sigaretta e dall'abuso di alcool: il 90% circa dei pazienti affetti da queste
neoplasie è dedito all'uso di tabacco e assume alcolici in quantità elevate.

Angina di Ludwig

L'Angina di Ludwig è una grave forma di infiammazione acuta suppurativa del


pavimento della bocca, in genere secondaria a infezioni dentarie o delle ghiandole
salivari. L'infiammazione si estende rapidamente ai tessuti molli del collo, alla base
della lingua e alla regione laringea, con pericolo di soffocamento per edema della
glottide. La terapia si basa sull'utilizzo di antibiotici e pulizia chirurgica delle raccolte
ascessuali. La gestione delle vie aeree dipenderà dal quadro clinico , dalle preferenze
chirurgiche e da altri fattori (ad. es. i reperti TAC), ma la tracheostomia di elezione,
prima di incidere e drenare, rimane la strategia classica di trattamento.

Ascessi retrofaringei

La formazione degli ascessi retrofaringei può verificarsi a causa di un 'infezione


batterica dello spazio retrofaringeo secondariamente a infezioni tonsillari o dentali. In
assenza di trattamento, la parete posteriore della faringe può avanzare anteriormente
nell'orofaringe, causando difficoltà respiratoria e ostruzione delle vie aeree . Altri
segni clinici possono essere difficoltà a deglutire , chiusura spasmodica della bocca
(trisma) e presenza di massa fluttuante nel retrofaringe. La presenza di trisma può

98
complicare l’ostruzione delle vie aeree . Incisione e drenaggio sono il cardine del
trattamento. La tracheostomia è spesso necessaria.

Sclerosi laterale amiotrofica (SLA)

La SLA è una malattia degenerativa e progressiva del sistema nervoso che colpisce i
cosidetti neuroni di moto (motoneuroni), ovvero le cellule nervose del cervello e del
midollo spinale che comandano il movimento dei muscoli. Le conseguenze di questa
malattia sono la perdita progressiva e irreversibile della capacità di deglutizione
(disfagia), dell'articolazione della parola (disartria) e del controllo dei muscoli
scheletrici, con una paralisi che può avere estensione variabile , fino alla
compromissione dei muscoli respiratori, quindi alla necessità di ventilazione assistita.
La SLA in genere non altera le funzioni cognitive, sensoriali, sessuali e sfinteriali
della persona. Nelle fasi avanzate della malattia possono essere necessarie forme di
ventilazione meccanica effettuata per mezzo intubazione oro o nasotracheale nelle
situazioni acute o di emergenza e per mezzo di una tracheostomia in previsione di
problemi di lunga durata. Prima di prendere decisioni circa il supporto ventilatorio
della tracheotomia il paziente e i familiari devono essere informati sui suoi effetti : il
supporto ventilatorio, infatti, può migliorare i problemi respiratori e prolungare la
sopravvivenza, ma non incide sulla progressione della malattia. Alcuni pazienti
ventilati con tracheotomia di lunga durata possono parlare se il palloncino che
mantiene in sede la cannula viene sgonfiato o la stessa ne è sprovvista.

Sclerosi multipla

La sclerosi multipla (SM), chiamata anche sclerosi a placche , è una malattia


infiammatoria cronica demielinizzante, a patogenesi autoimmune, che colpisce il
sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale). Nel corso della malattia la
distruzione delle guaine mieliniche delle fibre nervose causa il blocco o
rallentamento degli impulsi che vanno dal sistema nervoso centrale verso le diverse
parti del corpo e viceversa . Le aree in cui la mielina è stata danneggiata vengono

99
anche dette placche; da ciò deriva l'appellativo sclerosi a placche. Nei casi avanzati la
tracheotomia può rendersi inevitabile.

Coma
Si definisce coma un profondo stato di incoscienza che può essere provocato da
intossicazioni (stupefacenti, alcool, tossine), alterazioni del metabolismo (ipo-
perglicemia, chetoacidosi) o danni e malattie del sistema nervoso centrale (ictus,
traumi cranici, ipossia): fra tutte, le più comuni cause di coma sono le alterazioni del
metabolismo. In rianimazione , a volte , può essere necessario indurre un coma
artificiale temporaneo per mezzo di farmaci , per ridurre l 'edema cerebrale dopo un
danno subito e permettere al respiratore artificiale di "lavorare" più facilmente. Se lo
stato di coma continua per alcune settimane , in alcuni casi può essere nec essaria la
tracheotomia.

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MODULO 3

3.STABILIZZAZIONE DEL PAZIENTE IN STATO DI SHOCK

Lo shock è una condizione in cui si attua una perfusione sistemica ridotta, cioè ,
succede, per esempio, che a seguito di emorragie imponenti, traumi, ustioni estese
ecc, si determina una caduta della pressione arteriosa sanguigna e, poiché, ogni
tessuto e specialmente quelli nobili, necessita di un adeguato apporto di ossigeno e di
glucosio, al crollo del circolo sanguigno, consegue una drastica riduzione di
comburente e combustibile e si determina una grave sofferenza energetica dei tessuti
(alterazione del metabolismo). E’ chiaro che stiamo parlando di condizioni ai limiti
della compatibilità con la vita dell’organismo, poiché ogni corpo umano, davanti ad
una emorragia imponente, è in grave pericolo di vita, per la grave ipotensione che ne
consegue.
Noi sappiamo, inoltre, che una pressione sanguigna è funzione de:
-il volume del sangue circolante
-il diametro dei vasi sanguigni che causano la resistenza al circolo
-la spinta contrattile della pompa cardiaca
Dunque in caso di ipotensione questi fattori possono presentarsi alterati, nel senso
che lo shock può dipendere :
a) dal calo della gittata cardiaca ( scompenso acuto, es.infarto
- shock anafilattico da reazione allergica di tipo immediato (tipo 1) (allergeni
scatenanti: mezzi di contrasto iodati, antibiotici, anestetici locali, destrani ed altri
- per farmaci, veleni di insetti, estratti organi ecc.).
c) dal calo della volemia (es. emorragie gastrointestinali, perdita acuta di sangue,
plasma,vomitoincoercibile, diarrea).
Dato che la pressione arteriosa (PA) è data dalla gittata cardiaca (GC) e dalle
resistenze periferiche totali (RPT) secondo la formula: PA = GCxRPT, ogni
condizione che altera la portata o potenza della pompa cardiaca o che riduce le
resistenze causa uno shock.

101
Cause di shock:
•Calo della gittata cardiaca
• Shock cardiogeno
• miopatico (infarto miocardico, cardiomiopatia dilatativa)
• meccanico (insufficienza mitralica grave, difetti del setto interventricolare, stenosi
aortica, cardiomiopatia ipertrofica)
• aritmico
Shock da ostruzione circolatoria
• tamponamento pericardico
• embolia polmonare massiva
• mixoma atriale, trombo a palla
• pneumotorace iperteso
• Shock ipovolemico
• postemorragico
• da disidratazione
•secondario a ustioni
Diminuzione delle resistenze periferiche totali' (shock distributivo)
• Shock settico
• Shock anafilattico
• Shock neurogeno
Fisiopatogenesi e sviluppo dello shock
Nello shock la caduta di pressione arteriosa porta alla liberazione di catecolamine con
aumento della frequenza cardiaca e vasocostrizione delle arteriole e dei vasi di
capacità venosi. Tramite questo meccanismo regolatorio, la pressione arteriosa può
essere inizialmente ancora normale. In funzione della diversa distribuzione dei
recettori alfa e beta, si verifica una ridistribuzione della massa sanguigna circolante
per garantire la vascolarizzazione del cuore e del cervello. Mentre inziaImente si
verifica un passaggio di liquidi dall'interstizio al lume vasale, di significato
compensatorio, man mano che aumentano l’ipossia tissutale e l'accumulo di

102
metaboliti acidi si verifica invece un aumento della permeabilità capillare, con
passaggio di liquidi dai vasi all'interstizio e peggioramento dell'ipovolemia. I tratti
vasali precapillari sono più sensibili all'acidosi rispetto ai postcapillari: ne risulta
quindi una perdita di tono delle sezioni vascolari precapillari con una costrizione
delle sezioni postcapillari; si verifica il sequestro locale del sangue e l'aumento del
fenomeno di sludge degli eritrociti come pure la formazione di microtrombi (nei casi
estremi la formazione di microtrombi multipli conduce a una coagulopatia da
consumo).
Fasi dello shock
1. fase iniziale: formazione di una lieve depressione delle attività cardiocircolatorie
2. fase compensatoria: la depressione cardiocircolatoria si aggrava e vengono messi
in atto meccanismi di compenso
3. fase di progressione: il compenso diviene inefficace e il deficit di apporto ematico
agli organi vitali provoca gravi squilibri fisiopatologici
4. fase di irreversibilità: lo shock porta alla morte.
Sintomatologia

Il paziente si presenta ipotensione tachicardia, oliguria-anuria, ipotermia, pallore,


debolezza, acidosi metabolica, confusione mentale, febbre-brividi (shock settico).
Metabolismo nello shock: a causa del deficit di ossigeno la glicolosi aerobia peggiora
e si accumulano i prodotti finali della glicolisi anaerobia, in particolare l'acido lattico.
Ciò conduce all'acidosi metabolica..

Vediamo LO SHOCK SETTICO

La sepsi, la sepsi grave e lo shock settico rappresentano stati infiammatori che


derivano dalla risposta sistemica a un'infezione batterica. Nella sepsi grave e nello
shock settico, è presente una riduzione critica della perfusione tissutale. Gli agenti
causali comuni comprendono i microrganismi Gram-negativi, stafilococchi e
meningococchi. I sintomi spesso iniziano con brividi scuotenti e comprendono
febbre, ipotensione, oliguria e confusione. Si può verificare un'insufficienza acuta di
103
più organi, tra cui polmoni, reni e fegato. Il trattamento si basa su infusione massiva
di liquidi, antibiotici, rimozione chirurgica dei tessuti infetti o necrotici, drenaggio
del pus, assistenza di supporto e talora controllo intensivo della glicemia e
somministrazione di corticosteroidi e proteina C attivata.

Si definisce sepsi un'accertata o sospetta infezione con sindrome da risposta


infiammatoria sistemica che includa ≥ 2 dei seguenti segni: temperatura > 38 °C o <
36 °C; frequenza cardiaca > 90 battiti/min; frequenza respiratoria > 20 atti/min o
Paco2< 32 mmHg; conta leucocitaria > 12 000 cellule/μL o < 4000 cellule/μL o >
10% di forme immature. La sepsi è un'infezione accompagnata da una risposta
infiammatoria acuta con manifestazioni sistemiche associata alla liberazione in
circolo di numerosi mediatori infiammatori endogeni. Pancreatite acuta e traumi
maggiori, tra cui le ustioni, possono manifestarsi con segni di sepsi. La reazione
infiammatoria si manifesta tipicamente con ≥ 2 dei seguenti:

•Temperatura > 38 °C o < 36 °C

•Frequenza cardiaca > 90 battiti/min

•La frequenza respiratoria > 20 respiri/min o Paco2< 32 mmHg

•Conta leucocitaria > 12 000 cellule/μL o < 4000 cellule/μL o > 10% di forme
immature

Tuttavia, questi criteri vengono attualmente considerati come indicativi ma non


sufficientemente precisi per essere diagnostici.La sepsi grave è la sepsi accompagnata
dai segni di compromissione di almeno un organo. Lo scompenso cardiovascolare si
manifesta tipicamente con l'ipotensione, l'insufficienza respiratoria con l'ipossiemia,

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l'insufficienza renale con l'oliguria e lo scompenso ematologico con una
coagulopatia.

Lo shock settico è una sepsi grave con ipoperfusione degli organi e ipotensione,
scarsamente reattive alla rianimazione iniziale con liquidi.

Eziologia

La maggior parte dei casi di shock settico è causata da bacilli Gram-negativi o cocchi
Gram positivi nosocomiali e spesso si verifica nei pazienti immunocompromessi e in
quelli con patologie croniche e debilitanti. Raramente, è causata da Candida o altri
funghi. Una forma particolare di shock causato da tossine stafilococciche e
streptococciche è denominata shock tossico ( Sindrome da shock tossico).Lo shock
settico si verifica più spesso nei neonati ( Sepsi neonatale), nei pazienti di età > 35
anni e nelle donne gravide. I fattori predisponenti comprendono il diabete mellito;
cirrosi; la leucopenia specialmente quella associata a neoplasie maligne o al
trattamento con farmaci citotossici; i dispositivi invasivi, tra cui i tubi endotracheali, i
cateteri vascolari o urinari, i tubi di drenaggio e altri materiali estranei; e una
precedente terapia con antibiotici o corticosteroidi. Le sedi frequenti responsabili
dell'infezione comprendono i polmoni e i tratti urinario, biliare e GI.

Fisiopatologia

La patogenesi dello shock settico non è stata completamente compresa. Uno stimolo
infiammatorio (p.es., una tossina batterica) scatena la produzione di mediatori
proinfiammatori, tra cui il tumor necrosis factore l'IL-1. Queste citochine causano
l'adesione dei neutrofili alle cellule endoteliali, attivano il meccanismo della
coagulazione, e producono microtrombi. Esse determinano anche il rilascio di

105
numerosi altri mediatori, tra cui i leucotrieni, la lipossigenasi, l'istamina, la
bradichinina, la serotonina e l'IL-2. Queste sostanze si contrappongono ai mediatori
antinfiammatori, come l'IL-4 e l'IL-10, determinando un meccanismo di feed-back
negativo.All'inizio, le arterie e le arteriole si dilatano, con una riduzione delle
resistenze arteriose periferiche; la portata cardiaca tipicamente aumenta. Questo
stadio è stato descritto come "shock caldo". Successivamente, la gittata cardiaca può
diminuire, la PA si riduce (con o senza aumento delle resistenze periferiche) e
compaiono gli aspetti tipici dello shock.Persino nello stadio caratterizzato
dall'aumento della gittata cardiaca, a causa dei mediatori vasoattivi il flusso ematico
bypassa i vasi capillari di scambio (difetto distributivo). Lo scarso flusso capillare
dovuto a questo shunt insieme all'ostruzione capillare da microtrombi riduce il
rilascio di O2 e compromette la rimozione della CO2 e dei prodotti di scarto. La
riduzione della perfusione causa la disfunzione e talora lo scompenso di uno o più
organi, tra cui reni, polmoni, fegato, cervello e cuore. Si può sviluppare una
coagulopatia a causa della coagulazione intravascolare con il consumo dei principali
fattori coagulativi, oltre che un'eccessiva fibrinolisi nella reazione e più spesso
un'associazione di entrambe.

Sintomatologia

In caso di sepsi, il paziente generalmente presenta febbre, tachicardia e tachipnea; la


PA rimane normale. Sono generalmente presenti altri segni dell'infezione causale.
Quando si sviluppa una sepsi grave o uno shock settico, il primo segno può essere la
confusione mentale o una riduzione della vigilanza. La PA generalmente si riduce,
anche se la cute è paradossalmente calda. È frequentemente presente oliguria (< 0,5
mL/kg/h). Più tardivamente, gli arti diventano freddi e pallidi, con cianosi periferica e
106
marezzature. L'insufficienza d'organo produce ulteriori sintomi e segni specifici a
carico dell'organo interessato.

Diagnosi

La sepsi viene sospettata quando un paziente con un'infezione nota sviluppa i segni
sistemici di un'infiammazione o di una disfunzione organica. In modo simile, un
paziente con i segni dell'infiammazione sistemica, altrimenti inspiegabili, deve essere
valutato alla ricerca di un'eventuale infezione mediante l'anamnesi, l'esame obiettivo
e i test diagnostici, tra cui l'esame delle urine e l'urinocoltura (in particolare nei
pazienti con cateteri a permanenza), le emocolture seriate e le colture degli altri
liquidi corporei sospetti. I livelli ematici di procalcitonina e proteina C-reattiva sono
elevati nella sepsi grave e possono facilitare la diagnosi, ma non sono specifici. Alla
fine, la diagnosi è clinica.Bisogna ricercare le altre cause di shock (p.es., ipovolemia,
infarto del miocardio), con l'anamnesi, l'esame obiettivo, l'ECG e i marker sierici
cardiaci. Anche in assenza di un infarto del miocardio, l'ipoperfusione può
determinare segni di ischemia all'ECG, tra cui alterazioni aspecifiche delle onde ST-
T, inversioni dell'onda T e aritmie sopraventricolari e ventricolari. Vengono
monitorati emocromo, emogasanalisi, RX torace, elettroliti sierici e livelli di lattato o
Pco2 sublinguale. All'esordio dello shock settico, la conta dei GB può essere ridotta
inizialmente a < 4000/μL, e i PMN possono abbassarsi fino al 20%. Tuttavia, questa
situazione regredisce entro 1–4 h, e si verifica un incremento significativo sia della
conta dei GB totali fino a > 15 000/μL che dei PMN fino a > 80% (con forme
prevalentemente immature). Spesso, compare precocemente una netta riduzione della
conta piastrinica fino a ≤ 50 000/μL. Anche l'iperventilazione con alcalosi
respiratoria (Paco2 bassa e pH arterioso aumentato) si verifica precocemente, in parte
come meccanismo di compenso all'acidosi lattica. Gli HCO3 sierici sono di solito
bassi, mentre i livelli dei lattati sierici ed ematici sono aumentati. Con il progredire
dello shock, l'acidosi metabolica peggiora e il pH ematico si abbassa. L'insufficienza
respiratoria precoce determina un'ipossiemia con Pao2< 70 mmHg. Alla RX torace

107
possono comparire infiltrati diffusi ( Arresto respiratorio). L'azotemia e la
creatininemia di solito aumentano progressivamente in conseguenza dell'insufficienza
renale. Si può avere un incremento della bilirubina e delle transaminasi, sebbene sia
rara un'insufficienza epatica franca. Fino al 50% dei pazienti con sepsi grave sviluppa
un'insufficienza surrenalica relativa (ossia livelli normali o lievemente aumentati di
cortisolo che non aumentano significativamente in risposta a ulteriori stress o
all'ACTH esogeno). La funzione surrenalica può essere valutata misurando il
cortisolo sierico alle ore 8 del mattino; un livello < 5 mg/dL è inadeguato. In
alternativa, il cortisolo può essere misurato prima e dopo l'iniezione di 250 μg di
ACTH sintetico; un aumento di < 9 μg/dL è considerato insufficiente. Tuttavia, la
maggior parte dei medici somministra semplicemente dosi sostitutive di
corticosteroidi senza eseguire questo test. Si possono utilizzare misurazioni
emodinamiche con un catetere venoso centrale o polmonare arterioso quando il tipo
specifico di shock è poco chiaro o sono necessari grossi volumi di liquidi (p.es., > 4–
5 L di soluzione fisiologica allo 0,9% in 6–8 h). A differenza dello shock
ipovolemico, durante lo shock settico è più probabile che la gittata cardiaca sia
normale o aumentata e le resistenze periferiche diminuite. Né la pressione venosa
centrale (PVC) né la pressione di occlusione dell'arteria polmonare (POAP) sono
probabilmente alterate, diversamente dallo shock ipovolemico, ostruttivo o
cardiogeno. L'ecocardiografia (compresa quella transesofagea) è un'utile alternativa
per valutare la performance cardiaca.

Prognosi

La mortalità totale nei pazienti con shock settico è in calo e ora è del 40% circa
(range da 10 a 90%, a seconda delle caratteristiche del paziente). I risultati peggiori
sono spesso dovuti alla mancata istituzione di una terapia aggressiva precoce (p.es.,
entro 6 h dal sospetto diagnostico). Una volta che si è instaurata un'acidosi lattica

108
grave con acidosi metabolica scompensata, soprattutto in presenza di un'insufficienza
multiorgano, è probabile che lo shock settico sia irreversibile e fatale.

Trattamento

•Reintegrazione dei liquidi con soluzione fisiologica (0,9%)

•O2

•Antibiotici ad ampio spettro (modificato dai risultati colturali)

•Drenaggio di ascessi e l'escissione del tessuto necrotico

•La normalizzazione dei livelli di glucosio nel sangue

•Corticosteroidi a dose "sostitutiva"

I pazienti con shock settico devono essere trattati in un'UTI. I seguenti parametri
devono essere monitorati frequentemente ( Monitoraggio e controllo del paziente in
terapia intensiva : Monitoraggio con catetere arterioso polmonare): pressione
sistemica; PVC, pressione di occlusione dell'arteria polmonare, o entrambi; la
pulsossimetria; emogasanalisi; glicemia, livelli di lattato ed elettroliti; funzione renale
e possibilmente Pco2sublinguale. Bisogna misurare, di solito mediante un catetere a
permanenza, la diuresi che rappresenta un buon indicatore della perfusione renale.

L'infusione rianimatoria di liquidi con soluzione fisiologica allo 0,9% va continuata


fino a quando la PVC non raggiunge il valore di 8 mmHg (10 cm H2O) o la pressione
di occlusione dell'arteria polmonare raggiunge i 12–15 mmHg. L'oliguria con

109
ipotensione non rappresenta una controindicazione a un'infusione rianimatoria
vigorosa di liquidi. La quantità di liquidi necessaria spesso supera di molto la volemia
normale e può raggiungere i 10 L in 4–12 h. La pressione di occlusione dell'arteria
polmonare o l'ecocardiografia possono identificare delle limitazioni della funzione
ventricolare sinistra e un edema polmonare incipiente dovuto al sovraccarico di
liquidi.Se un paziente con shock settico resta ipoteso anche dopo aver riportato la
PVC o la pressione di occlusione dell'arteria polmonare ai valori desiderati, si può
somministrare dopamina al fine di aumentare la PA media fino ad almeno 60 mmHg.
Se la dose di dopamina supera i 20 μg/kg/min, si può aggiungere un altro
vasopressore, generalmente la noradrenalina. Tuttavia, la vasocostrizione causata da
dosi maggiori di dopamina e noradrenalina pone i rischi di ipoperfusione degli organi
e di acidosi e non è stato dimostrato che questi farmaci migliorino la
sopravvivenza.L'O2 viene somministrato per mezzo di una maschera o di cannule
nasali. In seguito possono essere necessarie l'intubazione tracheale e la ventilazione
meccanica a causa dell'insufficienza respiratoria ( Insufficienza respiratoria e
ventilazione meccanica).Gli antibiotici per via parenterale devono essere
somministrati dopo aver effettuato i prelievi di sangue, di liquidi organici e i tamponi
delle ferite cutanee, da sottoporre a colorazione di Gram e all'esame colturale. Una
terapia empirica immediata, iniziata subito dopo il sospetto di sepsi, è essenziale e
può salvare la vita. La selezione degli antibiotici richiede un'ipotesi ragionata in base
alla fonte di infezione sospetta, al contesto clinico, alla conoscenza o sospetto dei
microrganismi e ai tipi di sensibilità comuni alla specifica unità di degenza e ai
precedenti risultati colturali.

Uno schema terapeutico per lo shock settico da causa ignota è rappresentato dalla
gentamicina o tobramicina alla dose di 5,1 mg/kg EV più una cefalosporina di terza
generazione (cefotaxime 2 g ogni 6–8 h o ceftriaxone 2 g 1 volta/die, o, se si sospetta
lo Pseudomonas, la ceftazidima 2 g EV ogni 8 h). In alternativa, si può utilizzare la

110
ceftazidima più un fluorochinolone (p.es., ciprofloxacina). La monoterapia con dosi
massime terapeutiche di ceftazidima (2 g EV ogni 8 h) o di imipenem (1 g EV ogni 6
h) può essere efficace ma non viene raccomandata.Se si sospettano stafilococchi o
enterococchi resistenti bisogna aggiungere la vancomicina. In presenza di una fonte
di infezione addominale, va incluso un farmaco efficace contro gli anaerobi (p.es.,
metronidazolo). Quando sono disponibili i risultati colturali e l'antibiogramma, la
terapia antibiotica viene modificata di conseguenza. La terapia antibiotica viene
continuata per almeno 5 die dopo la risoluzione dello shock e la scomparsa dei segni
dell'infezione.Bisogna drenare gli ascessi ed escindere chirurgicamente i tessuti
necrotici (p.es., intestino infartuato, colecisti gangrenosa, utero ascessualizzato). Le
condizioni del paziente continueranno a peggiorare nonostante la terapia antibiotica
se non vengono eliminati i focolai settici.La normalizzazione della glicemia migliora
i risultati nei pazienti critici, persino in quelli con un'anamnesi negativa per diabete.
Un'infusione continua di insulina (da 1 a 4 U/h di zinco cristallina) EV viene dosata
in modo da mantenere la glicemia tra 80 e 110 mg/dL . Questo approccio necessita di
una misurazione frequente della glicemia (p.es., ogni 1–4 h). La terapia
corticosteroidea sembra efficace. Il trattamento consiste in dosi sostitutive, piuttosto
che farmacologiche. Un protocollo terapeutico è rappresentato da idrocortisone alla
dose di 50 μg EV ogni 6 h (o 100 mg ogni 8 h) più fludrocortisone 50 μg PO 1
volta/die durante la fase di instabilità emodinamica e nei tre giorni successivi. La
proteina C attivata (drotrecogin alfa), un farmaco ricombinante con attività
fibrinolitica e antinfiammatoria, è stata ritenuta efficace per la sepsi grave e lo shock
settico se iniziata precocemente. Tuttavia, studi recenti non hanno confermato il
beneficio, e il farmaco è stato ritirato dal mercato.

Le altre terapie emergenti per la sepsi grave comprendono la refrigerazione per


l'ipertermia e il trattamento precoce dell'insufficienza renale (p.es., con
emofiltrazione continua veno-venosa).Studi clinici con Ac monoclonali diretti contro

111
la frazione del lipide A dell'endotossina, antileucotrieni e Ac contro il tumor necrosis
factor non hanno dimostrato l'efficacia di questi trattamenti.

LA SINDROME DA SHOCK TOSSICO

La sindrome da shock tossico è causata da esotossine stafilococciche o


streptococciche. I sintomi comprendono febbre alta, ipotensione, rash erimatoso
diffuso e disfunzione multiorgano che può rapidamente progredire verso uno shock
grave e intrattabile. La diagnosi viene effettuata clinicamente e tramite l'isolamento
del microrganismo. La terapia prevede antibiotici, supporto intensivo, e
immunoglobuline.La sindrome da shock tossico è causata da cocchi produttori di
esotossina. Ceppi di Staphylococcus aureus di gruppo fagico 1 elaborano la TSS
toxin-1 (TSST-1, TSS = toxic shock syndrome) o esotossine correlate; alcuni ceppi di
Streptococcus pyogenes producono almeno 2 esotossine.

Shock tossico da stafilococco

Le donne che abbiano avuto una preesistente colonizzazione stafilococcica della


vagina e che utilizzano tamponi sono maggiormente a rischio. Fattori meccanici o
chimici correlati all'uso dei tamponi probabilmente aumentano la produzione di
esotossine o facilitano la loro entrata nel circolo sanguigno attraverso una lesione
della mucosa o attraverso l'utero. Stime effettuate su piccole casistiche suggeriscono
un'incidenza attuale pari a circa 3 casi/100 000 donne in fase mestruale, e sono
ancora descritti casi in donne che non usano tamponi e in donne sottoposte ad
intervento chirurgico e nel postpartum. Circa il 15% dei casi si manifesta nel
postpartum o come conseguenza di infezioni stafilococchiche di ferite chirurgiche, di
solito apparentemente banali. Sono stati anche descritti casi in pazienti con influenza,
osteomielite o cellulite.La mortalità da sindrome da shock tossico stafilococcica è <

112
3%. Nei primi 4 mesi successivi a un episodio di malattia sono frequenti recidive tra
le donne che continuano a usare i tamponi.

Shock tossico da streptococco

La sindrome è simile a quella causata da S. aureus, ma la mortalità è più elevata (da


20 a 60%). Inoltre, circa il 50% dei pazienti ha una batteriemia da S. pyogenes e il
50% ha una fascite necrotizzante (nessuna delle due si associa frequentemente a
sindrome da shock tossico stafilococcica). I pazienti sono generalmente bambini o
adulti altrimenti in buona salute. Le infezioni primitive della cute e dei tessuti molli
sono più frequenti rispetto ad altri siti. In contrasto alla sindrome da shock tossico
stafilococcica, la sindrome da shock tossico streptococcica ha maggiori probabilità di
causare una sindrome da distress respiratorio (ARDS) e minori probabilità di causare
reazioni cutanee tipiche.La sindrome da shock tossico da S. pyogenes è definita come
qualsiasi infezione da streptococco di gruppo A β-emolitico, associata a shock e a
insufficienza d'organo. Fattori di rischio per la sindrome da shock tossico da
streptococco di gruppo A β-emolitico comprendono traumi minori, interventi
chirurgici, infezioni virali (p.es., varicella), e l'uso di FANS.

Sintomatologia

L'esordio è improvviso, con febbre (39 °-40,5 °C, che si mantiene elevata),
ipotensione, un diffuso eritroderma maculare e il coinvolgimento di almeno altri due
organi.

La sindrome da shock tossico stafilococcica causa più spesso vomito e diarrea,


mialgia e innalzamento dei valori di CK, mucosite, danno epatico, trombocitopenia e
stato confusionale. Il rash della sindrome da shock tossico stafilococcica è più

113
soggetto a desquamazione, in particolare sui palmi e sulle piante, tra 3 e 7 die
dall'esordio.Una sindrome da shock tossico streptococcica causa più frequentemente
sindrome da distress respiratorio, coagulopatia e danno epatico ed è più spesso causa
di febbre, malessere, e dolore grave nella sede di infezione dei tessuti molli.
L'insufficienza renale è frequente e comune a entrambe. La sindrome può progredire
entro 48 h fino alla sincope, allo shock e al decesso. I casi meno gravi di sindrome da
shock tossico stafilococcica sono abbastanza diffusi.

La diagnosi viene effettuata clinicamente e mediante l'isolamento del microrganismo


dalle emocolture (per Streptococcus) o dal sito specifico. La sindrome da shock
tossico assomiglia alla malattia di Kawasaki, ma la malattia di Kawasaki solitamente
si verifica nei bambini < 5 anni di età e non causa shock, rialzo dell'azotemia, o
trombocitopenia; e il rash cutaneo è maculopapulare. Altre malattie da prendere in
considerazione sono la scarlattina, la sindrome di Reye, la sindrome della cute
ustionata da stafilococco, la meningococcemia, la febbre delle Montagne Rocciose, la
leptospirosi, e le malattie virali esantematiche. Queste ultime vengono escluse in base
alle differenze del quadro clinico e agli studi sierologici e colturali. I campioni per le
colture possono essere prelevati da qualsiasi lesione, dal naso (per lo stafilococco),
dalla faringe (per gli streptococchi), dalla vagina (per entrambi) e dal sangue. La RM
o la TC dei tessuti molli sono utili per localizzare le sedi di infezione. Il continuo
monitoraggio delle funzioni renale, epatica, midollare e cardiopolmonare è
indispensabile.

Trattamento

•Misure a livello locale (p.es., decontaminazione, sbrigliamento chirurgico)

•Fluidoterapia e supporto circolatorio

114
•Una β-lattamina (p.es., penicillina) con clindamicina

I pazienti in cui si sospetta una sindrome da shock tossico vanno immediatamente


ricoverati e sottoposti a cure intensive. Tamponi vaginali, diaframmi, ed ogni altro
corpo estraneo devono essere immediatamente rimossi. I principali siti sospetti
devono essere accuratamente decontaminati. La decontaminazione comprende la re-
ispezione e l'irrigazione delle ferite chirurgiche, anche se appaiono in ordine; lo
sbrigliamento chirurgico ripetuto dei tessuti devitalizzati; e l'irrigazione delle
potenziali sedi di colonizzazione naturale (cavità sinusali, vagina). Si somministrano
liquidi ed elettroliti per prevenire o trattare l'ipovolemia, l'ipotensione e lo shock.
Dato che la perdita di liquidi a livello dei tessuti può avvenire in tutto il corpo (per
una sindrome da aumentata permeabilità capillare), lo shock può essere profondo e
resistente. Sono talvolta necessari una terapia infusionale e un supporto circolatorio
aggressivi.Le infezioni evidenti devono essere trattate. Se viene isolato S. pyogenes,
una β-lattamina (p.es., penicillina) associata alla clindamicina (900 mg EV ogni 8 h)
e proseguita per 14 die, si ritiene attualmente che sia il trattamento antibiotico più
efficace. Se lo S. aureus meticillino-resistente (MRSA) è sospettato o confermato,
sono indicate vancomicina, daptomicina, linezolid, o tigeciclina ( Resistenza agli
antibiotici). Gli antibiotici assunti durante la malattia acuta possono eradicare i
focolai patogeni e prevenire le recidive. L'immunizzazione passiva verso le tossine
della sindrome da shock tossico con immunoglobuline EV (400 mg/kg) si è
dimostrata utile nei casi gravi causati da entrambi i tipi di sindrome da shock tossico
e l'effetto dura per settimane, ma la malattia può non indurre immunità attiva, motivo
per cui le recidive sono possibili. Se il test di sieroconversione o gli Anticorpi nel
siero corrispondono a una TSST-1 in fase acuta ma anche in via di guarigione, e la
fase del ciclo mestruale è negativa, le donne che hanno avuto una sindrome da shock
tossico stafilococcica dovranno probabilmente evitare l'uso di tamponi e cappucci
cervicali, candelette e diaframmi. Si consiglia a tutte le donne, indipendentemente

115
dallo stato degli Ac TSST-1, per essere prudenti di cambiare frequentemente
assorbenti o usare semmai tovaglioli e per evitare tamponi iperassorbenti

Quindi l'alterazione principale nello shock è rappresentata dalla ridotta perfusione


degli organi vitali. Una volta che la perfusione si riduce tanto da rendere il rilascio di
O2 inadeguato per il metabolismo aerobico, le cellule passano a un metabolismo
anaerobico con un aumento della produzione di CO2 e accumulo di acido lattico. La
funzione cellulare si riduce, e se lo shock persiste, si verificano un danno cellulare
irreversibile e la morte della cellula. Durante lo shock, nelle aree ipoperfuse possono
essere innescati gli eventi della cascata sia infiammatoria sia coagulativa. Le cellule
ipossiche dell'endotelio vascolare attivano i GB, che si legano all'endotelio e
rilasciano direttamente sostanze dannose (p.es., specie reattive dell'O2, enzimi
proteolitici) e mediatori della flogosi (p.es., citochine, leucotrieni, tumor necrosis
factor [TNF]). Alcuni di questi mediatori si legano ai recettori di superficie cellulare
e attivano il fattore nucleare kappa B (NFκB), che determina la produzione di
ulteriori citochine e di ossido nitrico (NO), un potente vasodilatatore.
La vasodilatazione dei vasi di capacità porta a stasi ematica e ipotensione per
ipovolemia "relativa" (ossia troppo volume da riempire con la quantità di sangue
presente). La vasodilatazione localizzata può deviare il sangue al di là del letto di
scambio capillare, causando un'ipoperfusione focale, pur essendo normali la gittata
cardiaca e la PA. Inoltre, l'eccesso di NO viene convertito in perossinitrito, un
radicale libero che danneggia i mitocondri e riduce la produzione di ATP.
In caso di shock settico, il flusso di sangue ai microvasi compresi i capillari si riduce,
anche se il flusso ematico nei grossi vasi è conservato. Un'ostruzione meccanica del
microcircolo può, almeno in parte, essere la causa di un tale limitato apporto di
substrati. I leucociti e le piastrine aderiscono all'endotelio e il sistema della
coagulazione viene attivato dalla deposizione di fibrina.
Molteplici mediatori, insieme alla disfunzione delle cellule endoteliali, incrementano
marcatamente la permeabilità capillare, consentendo ai fluidi e, a volte, alle proteine
plasmatiche di migrare nello spazio interstiziale.

116
.
La PA non è sempre bassa nelle prime fasi dello shock (anche se alla fine
l'ipotensione compare se lo shock non viene corretto). Allo stesso modo, non tutti i
pazienti con PA "bassa" hanno uno shock. Il grado e le conseguenze dell'ipotensione
variano in base all'adeguatezza del compenso fisiologico e alle patologie di base del
paziente. Perciò, un modesto grado di ipotensione ben tollerato da un soggetto
giovane e relativamente sano può provocare un grave danno cerebrale, cardiaco o
renale in un paziente affetto da un'arteriosclerosi importante.
All'inizio, quando l'apporto di O2 è ridotto, i tessuti compensano estraendo una
maggiore percentuale di O2 somministrato. Le attuali linee guida prevedono
interventi tali da mantenere una saturazione venosa mista di O2 al di sopra del 30%.
In aggiunta, la bassa pressione arteriosa scatena una risposta adrenergica con una
vasocostrizione simpatico-mediata e spesso un incremento della frequenza cardiaca.
Inizialmente, la vasocostrizione è selettiva e realizza uno shunt del sangue verso il
cuore e il cervello. Anche le ammine β-adrenergiche circolanti (adrenalina,
noradrenalina) determinano un incremento della contrattilità cardiaca e stimolano il
rilascio di corticosteroidi dal surrene, di renina dal rene e di glucosio dal fegato.
L'incremento di glucosio può superare le capacità dei mitocondri sofferenti, causando
un'ulteriore produzione di lattato.
La riperfusione delle cellule ischemiche può determinare un ulteriore danno. Quando
viene reintrodotto il substrato, l'attività dei neutrofili può aumentare, incrementando
la produzione di radicali dannosi superossidi e idrossilici. Dopo il ripristino del flusso
ematico, i mediatori infiammatori possono essere trasferiti nel circolo verso altri
organi. L'associazione del danno diretto e di quello da riperfusione può determinare
una sindrome da disfunzione multiorgano, la progressiva disfunzione ≥ 2 organi
conseguente a una patologia o lesione potenzialmente fatale. La sindrome da
disfunzione multiorgano può far seguito a qualsiasi tipo di shock ma nella maggior
parte dei casi si verifica quando è presente un'infezione; l'insufficienza d'organo è una
delle caratteristiche specifiche dello shock settico.La sindrome da disfunzione

117
multiorgano si verifica anche nel > 10% dei pazienti con gravi lesioni traumatiche e
rappresenta la causa principale di decesso in quelli che sopravvivono > 24 h.
Qualsiasi organo può essere colpito, ma il bersaglio più frequente è rappresentato dal
polmone, in cui l'aumento della permeabilità di membrana determina il riempimento
degli alveoli dovuto alla rottura dei capillari. L'ipossia progressiva può essere sempre
più resistente alla terapia con supplemento di O2. Questa condizione viene definita
come danno polmonare acuto o, se grave, sindrome da distress respiratorio acuto
(ARDS). I reni vengono danneggiati quando la loro perfusione si riduce in modo
critico, determinando una necrosi tubulare acuta e un'insufficienza renale che si
manifesta con l'oliguria e il progressivo incremento della creatinina sierica.
Nel cuore, la ridotta perfusione coronarica e i mediatori (tra cui il TNF e l'IL-1)
possono deprimere la contrattilità, peggiorare la compliance miocardica e
sottoregolare i recettori β. Questi fattori riducono la gittata cardiaca, peggiorando
ulteriormente sia la perfusione miocardica che quella sistemica e causano un circolo
vizioso che spesso culmina nel decesso.
L'ipoperfusione epatica può determinare una necrosi epatocellulare focale o diffusa,
un aumento delle transaminasi e una ridotta produzione dei fattori della coagulazione.

Ci sono diversi meccanismi responsabili dell'ipoperfusione d'organo e dello shock.


Lo shock può essere dovuto al basso volume circolante (shock ipovolemico), alla
vasodilatazione (shock distributivo), alla riduzione primaria della gittata cardiaca
(shock sia cardiogeno che ostruttivo), o a una combinazione di queste forme.

SHOCK IPOVOLEMICO
Lo shock ipovolemico è causato da una riduzione critica del volume intravascolare.
La diminuzione del ritorno venoso (precarico) determina una riduzione del
riempimento ventricolare e del volume della gittata. A meno che non sia compensata
da un incremento della frequenza cardiaca, la gittata cardiaca si riduce.

118
Una causa frequente è rappresentata dal sanguinamento (shock emorragico),
generalmente dovuto a traumi, interventi chirurgici, ulcera gastroduodenale, varici
esofagee o aneurisma aortico. Il sanguinamento può essere evidente (p.es.,
ematemesi, melena) o nascosto (p.es., rottura di una gravidanza ectopica).
Lo shock ipovolemico può far seguito anche all'aumento delle perdite di liquidi
corporei oltre che dal sangue .
Lo shock ipovolemico può essere dovuto all'inadeguata assunzione di liquidi (con o
senza perdita di liquidi). L'acqua può non essere disponibile, l'invalidità neurologica
può compromettere il meccanismo della sete o la disabilità fisica può
comprometterne la capacità di introdurre liquidi.
Nei pazienti ospedalizzati, l'ipovolemia può risultare peggiorata se i segni precoci
dell'insufficienza circolatoria vengono erroneamente attribuiti a uno scompenso
cardiaco e si evita la somministrazione di liquidi o si somministrano diuretici.

SHOCK DISTRIBUTIVO

Lo shock distributivo è causato da un'inadeguatezza relativa del volume


intravascolare determinata da una vasodilatazione arteriosa o venosa; il volume del
sangue circolante è normale. In alcuni casi, la gittata cardiaca (e DO2) è elevata, ma
il flusso ematico aumentato bypassa il letto capillare, attraverso gli shunt arterovenosi
causando ipoperfusione cellulare (come dimostrato dalla riduzione del consumo di
O2). In altre situazioni, il sangue ristagna nel letto venoso di capacità e la gittata
cardiaca diminuisce. Lo shock può essere causato da anafilassi (shock anafilattico,
Anafilassi); da un'infezione batterica con rilascio di endotossine (shock settico, Sepsi
e shock settico); da una grave lesione cerebrale o del midollo spinale (shock
neurogeno); e dall'ingestione di alcuni farmaci o veleni, come i nitrati, gli oppioidi e i

119
bloccanti adrenergici. Lo shock anafilattico e quello settico spesso hanno anche una
componente di ipovolemia.

SHOCK CARDIOGENO E OSTRUTTIVO

Lo shock cardiogeno è rappresentato da una riduzione relativa o assoluta della gittata


cardiaca dovuta a una cardiopatia primitiva. I fattori meccanici che interferiscono con
il riempimento o lo svuotamento del cuore o dei grossi vasi spiegano lo shock
ostruttivo.

Sintomatologia
Sono frequenti la letargia, la confusione e la sonnolenza. Le mani e i piedi sono
pallidi, freddi, umidi e spesso cianotici, come lo sono i lobi auricolari, il naso e il
letto ungueale. Il tempo di riempimento capillare è prolungato e, fatta eccezione per
lo shock distributivo, la cute appare grigiastra o discromica e umida. Si può verificare
un'evidente sudorazione. I polsi periferici sono deboli e generalmente rapidi; spesso,
sono palpabili soltanto i polsi femorale o carotideo. Possono essere presenti tachipnea
e iperventilazione. La PA tende a essere bassa (< 90 mmHg la sistolica) o non
misurabile; la misurazione diretta con un catetere intra-arterioso, se eseguita, spesso
fornisce valori più elevati e più accurati. La diuresi è diminuita.
Lo shock distributivo produce segni clinici simili, eccetto che nella cute che può
apparire calda o arrossata, specialmente in caso di sepsi. Il polso può essere
discontinuo piuttosto che debole. Nello shock settico, è presente generalmente la
febbre, di solito preceduta da brividi. Alcuni pazienti con shock anafilattico
presentano orticaria o sibili. Numerosi altri sintomi (p.es., dolore toracico, dispnea,
dolore addominale) possono essere dovuti alla patologia di base o a un'insufficienza
d'organo secondaria.

Diagnosi

120
La diagnosi è principalmente clinica, basata sull'evidenza di una perfusione tissutale
insufficiente (obnubilamento del sensorio, oliguria, cianosi periferica) e dei segni dei
meccanismi di compenso (tachicardia, tachipnea, sudorazione). I criteri specifici
comprendono l'obnubilamento del sensorio, una frequenza cardiaca > 100, una
frequenza respiratoria > 22, l'ipotensione (PA sistolica < 90 mmHg) o una riduzione
di 30 mmHg della PA rispetto al valore di base e una diuresi < 0,5 mL/kg/h. I dati di
laboratorio che supportano la diagnosi comprendono livelli di lattato > 3 mmol/L, un
deficit di base <−5 mEq/L e una Paco2< 32 mmHg. Tuttavia, nessuno di questi
reperti da solo è diagnostico e ciascuno di essi, compresi i segni obiettivi, viene
valutato in un contesto clinico complessivo. Recentemente, la misura della PCO2
sublinguale è stata introdotta come una misurazione non invasiva e rapida della
gravità dello shock.

Il riconoscimento della causa dello shock è più importante della classificazione del
tipo di shock. Frequentemente, la causa è evidente oppure può essere rapidamente
riconosciuta con l'anamnesi e l'esame obiettivo, con l'ausilio di semplici indagini.
Il dolore toracico (con o senza dispnea) indica un infarto del miocardio, una
dissezione aortica o un'embolia polmonare. La presenza di un soffio sistolico può
essere indicativa della rottura del setto interventricolare o dell'insufficienza mitralica
dovuta a infarto del miocardio acuto. Un soffio diastolico può indicare
un'insufficienza aortica dovuta a una dissezione che interessa la radice aortica. Si
sospetta un tamponamento cardiaco in presenza di distensione delle vene giugulari,
toni cardiaci parafonici e polso paradosso. L'embolia polmonare abbastanza grave da
produrre shock in genere causa diminuzione della saturazione di O2 e si verifica più
spesso in casi particolari, tra cui il prolungato riposo a letto e dopo un intervento
chirurgico. I test diagnostici comprendono l'ECG, la troponina I, la RX torace,
l'emogasanalisi, la scintigrafia polmonare, la TC spirale e l'ecocardiografia.
Un dolore addominale o alla schiena o un addome teso possono indicare una

121
pancreatite, la rottura di un aneurisma dell'aorta addominale, una peritonite o, nelle
donne in età fertile, la rottura di una gravidanza ectopica. Una massa pulsante sulla
linea mediana suggerisce la rottura di un aneurisma dell'aorta addominale. Una massa
annessiale dolente suggerisce una gravidanza ectopica. I test diagnostici
generalmente comprendono la TC dell'addome (se il paziente è instabile, l'ecografia a
letto può risultare utile), l'emocromo, la titolazione delle amilasi e delle lipasi e, per
le donne in età fertile, il test di gravidanza nelle urine.
La febbre, i brividi e i segni locali di infezione suggeriscono uno shock settico,
soprattutto nei pazienti immunocompromessi. La febbre isolata, a seconda
dell'anamnesi e del quadro clinico, può indicare un colpo di calore. Gli esami
comprendono la RX torace, l'esame delle urine, l'emocromo, e la coltura dalle ferite,
l'emocoltura, l'urinocoltura e la coltura degli altri liquidi corporei.

In pochi pazienti, la causa è sconosciuta. I pazienti senza segni o sintomi focali


indicativi dell'eziologia devono essere sottoposti ad ECG, esame degli enzimi
cardiaci, RX torace ed emogasanalisi. Se i risultati di questi test sono normali, le
cause più probabili comprendono il sovradosaggio di farmaci, l'infezione occulta
(incluso lo shock da endotossine) e lo shock ostruttivo.
Se non già eseguiti, l'ECG, la RX torace, l'esame emocromocitometrico, la titolazione
di elettroliti sierici, azotemia, creatinina, PT, PTT, i test di funzionalità epatica, il
fibrinogeno e i prodotti di degradazione della fibrina vengono eseguiti per monitorare
le condizioni del paziente e servono come punto di partenza. Se è difficile
determinare lo stato volemico del paziente, possono risultare utili il monitoraggio
della pressione venosa centrale (PVC) o della pressione di occlusione dell'arteria
polmonare.

Prognosi e trattamento
Se non trattato, lo shock è di solito fatale. Anche se trattato, la mortalità da shock
cardiogeno dopo un infarto del miocardio e da shock settico è elevata (60–65%). La

122
prognosi dipende dalla causa, dalla presenza di patologie preesistenti o sopraggiunte,
dal tempo trascorso tra l'esordio clinico e la diagnosi e dalla prontezza e adeguatezza
della terapia.

Trattamento generale
Il primo intervento prevede di mantenere il paziente riscaldato. Si arrestano le
emorragie, si controllano le vie aeree e la ventilazione e, se necessario, si procede
all'assistenza respiratoria. Non bisogna somministrare nulla PO, e la testa del paziente
viene girata da un lato per impedire l'inalazione in caso di vomito.

Il trattamento inizia contestualmente alla valutazione del paziente. Si somministra O2


per mezzo di una maschera facciale. Se lo shock è grave o la ventilazione inadeguata,
è necessaria l'intubazione delle vie aeree con la ventilazione meccanica. Si
inseriscono due cannule EV di grosso calibro (da 16 a 18 gauge) in due diverse vene
periferiche. Quando non è possibile accedere rapidamente alle vene periferiche, si
può utilizzare come alternativa un catetere venoso centrale o, specialmente nei
bambini, un ago intraosseo .

Generalmente, 1 L (o 20 mL/kg nei bambini) di soluzione fisiologica allo 0,9% viene


somministrata in 15 min. In caso di emorragia maggiore, è generalmente utilizzato il
Ringer lattato. A meno che i parametri clinici non ritornino nella norma, si ripete
l'infusione. Si utilizzano volumi inferiori (p.es., 250–500 mL) nei pazienti con segni
di elevata pressione nelle camere destre (p.es., distensione delle vene del collo) o di
infarto del miocardio acuto. In un paziente con i segni dell'edema polmonare, si deve
evitare la somministrazione di liquidi. L'ulteriore infusione di liquidi dipende dalla
patologia di base e può richiedere il monitoraggio della PVC o della pressione di
occlusione dell'arteria polmonare. I pazienti in stato di shock sono in condizioni
critiche e devono essere ricoverati in un'UTI. Il monitoraggio comprende l'ECG; la
misurazione della PA sistolica, diastolica e media, preferibilmente con un catetere

123
intra-arterioso; la frequenza e la profondità degli atti respiratori; la pulsossimetria; la
diuresi per mezzo di un catetere vescicale a permanenza; la temperatura corporea; e
lo stato clinico, tra cui sensorio (p.es., Glasgow Coma Scale).volume del polso, la
temperatura e il colore della cute. La misurazione della PVC, della pressione di
occlusione dell'arteria polmonare e della gittata cardiaca con la termodiluizione
utilizzando un catetere polmonare arterioso dotato di un palloncino all'estremità può
essere utile per la diagnosi e il trattamento iniziale dei pazienti con uno shock di
origine incerta o mista o con uno shock grave, soprattutto se accompagnato da
oliguria o edema polmonare. L'ecocardiografia (a letto del paziente o per via
transesofagea) rappresenta un'alternativa meno invasiva. Si eseguono emogasanalisi
periodiche, Hct, elettroliti, creatinina e lattato sierici. La misurazione del CO2
sublinguale, se disponibile, costituisce un monitoraggio non invasivo della perfusione
viscerale. È utile una chiara documentazione dei valori.
Dal momento che l'ipoperfusione tissutale rende l'assorbimento intramuscolare poco
affidabile, tutti i farmaci parenterali vengono somministrati EV. Gli oppioidi in
genere vengono evitati in quanto possono causare vasodilatazione, ma il dolore grave
può essere trattato con morfina 1–4 mg EV ogni 2 min e ripetuta ogni 10–15 min, se
necessario. Anche se l'ipoperfusione cerebrale può causare ansia, i sedativi o i
tranquillanti non vengono somministrati di routine.
Dopo la rianimazione iniziale, il trattamento specifico mira alla patologia di base.
L'ulteriore terapia di supporto dipende dal tipo di shock.

NELLO SHOCK EMORRAGICO, è fondamentale il controllo chirurgico del


sanguinamento. Una vigorosa reintegrazione di liquidi accompagna piuttosto che
precedere il controllo chirurgico. Per lo shock emorragico che non risponde a 2 L (o
40 mL/kg nei bambini) di cristalloidi si ricorre alle trasfusioni di sangue. La mancata
risposta di solito indica la somministrazione di un volume insufficiente o di
un'emorragia in atto non riconosciuta. I farmaci vasopressori non sono indicati per il
trattamento dello shock emorragico a meno che non siano presenti anche cause

124
cardiogene, ostruttive o distributive.

NELLO SHOCK DISTRIBUTIVO accompagnato da ipotensione profonda, dopo


l'iniziale reintegrazione di liquidi con soluzione fisiologica allo 0,9%, può essere
trattato con farmaci inotropi o vasopressori (p.es., dopamina, noradrenalina). Ai
pazienti con shock settico si somministrano anche almeno due antibiotici ad ampio
spettro.

NELLO SHOCK CARDIOGENO, i difetti strutturali (p.es., disfunzione valvolare,


rottura del setto) vengono riparati chirurgicamente. La trombosi coronarica viene
trattata con interventi percutanei (angioplastica, posizionamento di stent), con
l'intervento chirurgico di bypass coronario o con la trombolisi.La tachiaritmia (p.es.,
fibrillazione atriale ad alta frequenza, tachicardia ventricolare) viene rallentata per
mezzo della cardioversione o con una terapia farmacologia. La bradicardia viene
trattata con il posizionamento di un pacemaker transcutaneo o transvenoso; in attesa
del posizionamento del pacemaker, si possono somministrare 0,5 mg di atropina EV
fino a 4 dosi ogni 5 min.
Lo shock che segue un infarto del miocardio acuto viene trattato con l'espansione di
volume se la pressione di occlusione dell'arteria polmonare è bassa o normale; un
valore compreso tra 15 e 18 mmHg è considerato normale. Se un catetere polmonare
arterioso non è stato posizionato, si può tentare una cauta infusione di volume (bolo
di 250–500 mL di soluzione fisiologica allo 0,9%) mentre si ausculta frequentemente
il torace per ricercare gli eventuali segni del sovraccarico di liquidi. Lo shock
secondario a un infarto del miocardio del ventricolo destro di solito risponde solo
parzialmente all'espansione della volemia; comunque, può essere necessario
utilizzare farmaci vasopressori.
Se l'ipotensione è moderata (p.es., PA media 70–90 mmHg), l'infusione di
dobutamina può essere utilizzata per migliorare la gittata cardiaca e per ridurre la
pressione di riempimento ventricolare sinistra. Durante la somministrazione di

125
dobutamina, soprattutto se ad alte dosi, possono verificarsi occasionalmente
tachicardia e aritmie, e in tal caso è necessario ridurre la dose. Vasodilatatori (p.es.,
nitroprussiato, nitroglicerina), che incrementano la capacitanza venosa o riducono le
resistenze vascolari sistemiche, determinano una riduzione del carico di lavoro sul
miocardio danneggiato e possono aumentare la gittata cardiaca nei pazienti che non
presentano un'ipotensione di grado grave. La terapia combinata (p.es., dopamina o
dobutamina con nitroprussiato o nitroglicerina) può essere particolarmente utile ma
richiede uno stretto controllo ECG e il monitoraggio emodinamico polmonare e
sistemico.

Per l'ipotensione più grave (PA media < 70 mmHg), si può somministrare
noradrenalina o dopamina, con l'obiettivo di raggiungere una pressione sistolica di
80–90 mmHg (e non > 110 mmHg). Un contropulsatore aortico è utile per la
temporanea correzione dello shock nei pazienti con infarto del miocardio acuto.
Questa procedura deve essere considerata come un supporto temporaneo per
permettere l'angiografia coronarica e l'angioplastica prima che sia possibile
l'intervento chirurgico nei pazienti con infarto del miocardio acuto complicato dalla
rottura del setto interventricolare o con insufficienza mitralica acuta di grado grave,
che richiedono un supporto con vasopressori per > 30 min.
Nello shock ostruttivo, il tamponamento cardiaco richiede una pericardiocentesi
immediata, che può essere realizzata a letto del paziente. Il pneumotorace iperteso
deve essere immediatamente decompresso con un catetere inserito nel 2° spazio
intercostale, sulla linea emiclaveare. L'embolia polmonare massiva che determina
uno shock viene trattata con la trombolisi o l'embolectomia chirurgica.

126
MODULO 4

4.LA GESTIONE DELLE EMERGENZE CLINICHE NEUROLOGICHE

Dopo una prima valutazione clinica in un paziente che presenti segni o sintomi
neurologici di recente insorgenza con sospetto di vasculopatia cerebrale acuta, la
TCT(Tomografia Computrizzata) del cranio eseguita in urgenza costituisce l’esame
strumentale d’elezione; insieme a questa va di norma richiesta una valutazione
neurologica per la diagnosi differenziale con altre patologie e l’inquadramento
patogenetico e di sede della lesione in atto.

1) La TC può mostrare segni di ESA(emorragia subaracnoidea), di emorragia


intraparenchimale o altre lesioni di natura non vascolare. Nel primo caso, il
paziente deve essere immediatamente trasferito in reparto
NCH(neurochirurgia); nel secondo caso devono essere valutate dal neurologo
la dimensione e la sede (tipica o atipica) del focolaio emorragico, con
successiva eventuale consulenza NCH mediante invio delle immagini tramite
rete telematica Tempore/Patatrac. Anche nel caso di TC normale, nel sospetto
clinico di ESA o processo infiammatorio cerebrale, andrà eseguita dal
neurologo una rachicentesi con esame del liquor cerebro-spinale: solo nel caso
in cui questo non dimostri anomalie potrà essere riconsiderata l’ipotesi di
ischemia cerebrale.

2) La TC può essere normale, o evidenziare esiti di lesioni vascolari pregresse.


La lesione ischemica si evidenzia alla TC da 6 a 24 ore dopo l’insorgenza del
deficit neurologico, quindi eseguita nelle prime ore può risultare spesso
normale; anche se normale questo esame è importante perché permette
comunque di escludere una lesione emorragica che è immediatamente evidente
o altre patologie. Nel caso di esiti di lesioni vascolari pregresse, andrà
attentamente valutata la congruità di queste con il quadro clinico.

127
3)La TC può evidenziare segni precoci di ischemia, o una lesione ischemica già
definita. Nell’evoluzione dell’infarto cerebrale, nelle prime ore si possono spesso
evidenziare alla TC dei segni precoci di ischemia, quali lo spianamento dei solchi
corticali o la mancata visualizzazione del nucleo lenticolare, e in caso di trombosi
o embolia dell’arteria cerebrale media, questa può apparire iperdensa sin
dall’inizio, mentre nelle ore successive il focolaio ischemico si andrà delimitando
sempre più chiaramente. Parallelamente alla TC, va considerata l’eventuale
indicazione ad eseguire un esame dei vasi epiaortici con ultrasuoni in questa prima
fase diagnostica, su indicazione dello specialista neurologo. A questo punto,
essendo state ragionevolmente escluse altre patologie, il paziente con sospetta o
già evidente lesione ischemica cerebrale va ricoverato nell’area critica o nella
degenza ordinaria del reparto di Medicina. Un quadro particolare di ischemia che
merita particolare attenzione e che necessita di tempestiva valutazione neurologica
e neuroradiologica è costituito dalla trombosi basilare evolutiva: in tali casi,
infatti, data l’estrema gravità prognostica, può essere indicata a scopo terapeutico
la trombolisi loco-regionale intrarteriosa dopo studio angiografico. Si tratta in
questi casi di pazienti che presentano segni ingravescenti di sofferenza del tronco
encefalico, con compromissione quindi di nervi cranici, delle vie lunghe motorie o
sensitive o cerebellari, associate spesso ad alterazioni dello stato di coscienza,
causati da stenosi od occlusione dell'arteria basilare, in cui la trombolisi ha
dimostrato di potere migliorare i gravi esiti del danno ischemico, qualora venga
effettuata precocemente entro 4-6 ore dall’insorgenza dei sintomi (max 10-12
h).Per eseguire l’approfondimento diagnostico necessario, associato all’eventuale
trattamento trombolitico, il paziente con il sospetto clinico di trombosi basilare va
trasferito, previ accordi, in PS ospedale Molinette o direttamente presso la
Neuroradiologia Universitaria.

Vediamo la National Istitute of Health (NIH) Stroke Scale: la scala NIHSS

128
La scala per l’ictus messa a punto dai neurologi statunitensi del National
Institute of Health (NIH) misura la gravità del deficit neurologico provocato da
un’ictus cerebrale acuto. Fu messa a punto nel 1989, con l’esigenza di disporre
di uno strumento standardizzato, valido e affidabile da impiegare nei trial
terapeutici. Da allora è largamente impiegata sia nella ricerca che nella pratica
clinica.La scala per l’ictus dell’NIH è costituita da 15 item, che esplorano
l’integrità dello stato di coscienza, della visione, della motilità, della
sensibilità, della parola e del linguaggio, e dell’attenzione multimodale. Il
punteggio totale va da 0 (assenza di deficit delle funzioni esplorate) a 42 (pz in
coma e senza risposta agli stimoli). Gli stimoli sono stati scelti in base
all’opinione di un gruppo di esperti in malattie cerebrovascolari e alla
letteratura esistente sull’argomento. La scala può essere somministrata da
medici ed Infermieri indifferentemente.
La somministrazione della scala non
necessita dell’apprendimento di alcuna tecnica semeiologica nuova, tuttavia vi
sono delle regole da seguire nel suo utilizzo poiché l’assegnazione dei punteggi
non è sempre intuitiva e immediata. Le prove devono essere effettuate
seguendo l’ordine precostituito degli item.
L’esaminatore è invitato a
considerare come valida la prima risposta del paziente, a non cambiare il
punteggio sulla base della semplice osservazione della prestazione del
paziente.
Tutto ciò al fine di ridurre il più possibile la variabilità intra e inter
osservatore nonché la possibilità di commettere errori.
La versione italiana
della NIHSS, It-NIHSS è stata realizzata e valicata dal dipartimento di Scienze
Neurologiche e dall’Agenzia di sanità Pubblica della Regione Lazio nel
2003.
Ad oggi più di mille operatori hanno frequentato i corsi ECM per
ottenere la certificazione NIHSS.
La scala NIH è un buon indicatore
dell’evoluzione dello status neurologico del paziente. Studi di validazione
hanno suggerito alcuni items della scala NIH hanno un’affidabilità inferiore
agli altri. Per questo motivo è stata proposta la modified NIHSS (mNIHSS) ,
che consta di 11 item rispetto ai 15 della versione completa, ed ha un

129
punteggio totale che può andare da 0 ad un massimo di 31. L’esigenza di uno
strumento clinimetrico più semplice è nata anche dall’osservazione che negli
Stati Uniti la scala viene somministrata a poco più dell’1% dei pazienti con
ictus acuto, nonostante una consulenza neurologica venga eseguita nella
maggioranza dei casi. Anche la mNIHSS si è dimostrata valida ed affidabile.

Elementi esplicativi relativi alla compilazione della scala:

- Tempo di somministrazione

Occorrono da 5 a 8 minuti per somministrare in toto la scala, ma chiaramente questo


tempo è anche in funzione della capacità del paziente di collaborare con
l’esaminatore.

Come funziona la scala?

-La scala prevede l’uso di uno schema standardizzato formale. Ciascun item della
scala è stato scelto per obiettivare i disturbi neurologici dei pazienti con ictus, ed è
bene sottolineare che l’uso della scala non prevede l’impiego di alcuna nuova tecnica
semeiologica e che tutti gli 11 item di questo strumento rientrano nel normale esame
neurologico del paziente con ictus.

Questo prezioso strumento di valutazione può essere adottato in Pronto Soccorso –


DEA, nelle Stroke unit e in tutti i reparti di medicina o chirurgia.

- I vincoli nella compilazione:

-valutare il paziente in base all’ordine precostituito degli item. Non tornare mai
indietro durante l’esecuzione del test per cambiare i punteggi già assegnati;

-assegnare il punteggio in base a ciò che si vede e non a ciò che si pensa si
dovrebbe vedere;

-non influenzare il paziente nelle risposte ai test.

130
VEDIAMO LA TABELLA CHE SINTETIZZA LA FUNZIONE DI NIH

Al momento del ricovero e, successivamente ad ogni trasferimento di unità operativa


(u.o.). del malato, l’Infermiere si occupa di prendere in carico la persona assistita e la
sua famiglia fornendo le prime informazioni necessarie rispetto alla gestione
organizzativo-assistenziale del reparto (personale, orari, attività, oggetti necessari).Il
malato viene posizionato a letto, con la testiera sollevata a 30° (se indicazione).
E’
prioritario mantenere la pervietà delle vie aeree, l’allineamento posturale degli arti e
l’immobilizzazione del braccio plegico in posizione flessa, come fratturato, fino a
valutazione fisiatrica.
Nello stesso momento, o in un momento successivo dedicato,
si procede all’esame obiettivo e alla raccolta dei dati anamnestici, e relativi alla
situazione socio-familare con individuazione di una persona di riferimento tra i
familiari.
131
Oltre alla visita medica e alla stesura della valutazione dei problemi assistenziali e
pianificazione degli interventi vi è il monitoraggio stato di coscienza (con scala
Glasgow/NIHSS) e parametri vitali :

Pressione Arteriosa (PA), Frequenza Cardiaca (FC), Glicemia, Saturazione di


Ossigeno (O2 ), TC ad orari stabiliti e secondo necessità

Elettrocardiogramma (ECG) monitoraggio continuo o 1 Elettroencefalografia


(ECG) ogni 8 ore – su indicazione medica

Valutazione del dolore con scala analogica visiva (VAS) almeno ogni 8 ore

Valutazione del rischio da lesioni da pressione (LDP) attraverso scala di Norton e


mobilizzazione passiva e corretta igiene

Valutazione del rischio di trombosi venosa profonda (TVP) e posizionamento calze


antitrombo

Valutazione del rischio di cadute e posizionamento sbarre di contenzione al letto o



interventi di contenimento del rischio

Esecuzione del Test di primo livello per la disfagia entro la prima assunzione di
cibo o 
farmaci

Posizionamento di un accesso venoso funzionante e somministrazione di infusioni


di 
idratazione secondo piano terapeutico

Gestione dei sintomi e delle complicanze (piano terapeutico)

Nei giorni successivi:

-ricontrollo ad orario dei parametri vitali alterati secondo PAI
o Monitoraggio


alimentare e valutazione stato nutrizionale


132
-sostituzione e supporto nel mantenimento di un adeguato livello di cura di sé,
nell’igiene, alimentazione, posizionamento e mobilizzazione


-sorveglianza e gestione delle funzioni di eliminazione urinaria e fecale


-mobilizzazione precoce, secondo indicazione del fisiatra


-prevenzione dei rischi di caduta, sindromi da immobilità, lesioni da pressione,


infezioni


-controllo dell’ambiente per favorire la presenza di stimoli adeguati


all’emisomaplegico
o valutazione e gestione in collaborazione dei sintomi associati

-dolore, alterazioni del ritmo sonno-veglia, alterazioni della coscienza, disturbi


comunicativi, alterazione dei processi di pensiero, memoria, deficit visivi o disturbi
dell’equilibrio, alterazione tono dell’umore, neglect e segnalazione per ulteriori
accertamenti specifici,

-valutazioni ripetute livello di autonomia, sostegno e incitamento al recupero


dell’autonomia

- organizzazione e partecipazione all’esecuzione del percorso diagnostico-terapeutico

-raccolta informazioni sulla situazione socio-familiare e abitativa per la valutazione


delle prospettive post ricovero


-educazione sanitaria alla persona assistita e alla famiglia per le problematiche


assistenziali

-garantire il trasferimento delle informazioni necessarie durante il ricovero e per la


dimissione

-favorire l’acquisizione di competenza del caregiver
• Favorire l’adattamento


efficace della persona assistita e della famiglia alla disabilità

133
- valutazione integrata percorso di dimissione, necessità di ausili a domicilio, O2

Durante il ricovero gli accertamenti diagnostici si propongono di:

• Definire l’origine ischemica dell’ictus, qualora questa non sia già emersa dagli
accertamenti eseguiti in Pronto Soccorso

• Definire l’eziologia dell’ictus ischemico che, alla fine del percorso diagnostico
deve schematicamente essere ricondotta a:

o Malattia dei grossi vasi: patologia aterosclerotica steno-occlusiva dei vasi


epiaortici(carotide, vertebrale e basilare). In tali casi l’ictus può conseguire ad un
meccanismo emodinamico o, più frequentemente, ad emboli che si dipartono da
placche ateromasiche (meccanismo atero-embolico)

o Malattia dei piccoli vasi: infarto lacunare conseguente ad interessamento delle


arterie perforanti di piccolo calibro

o Cardioembolismo
o Altre cause: dissecazioni, vasculiti, coagulopatie, trombosi


venosa cerebrale
o Eziologia indeterminata o “criptogenetica”: qualora non sia
definibile la eziopatogenesi
al momento del ricovero il paziente deve già essere
sottoposto ad una TC cranica, ad una prima batteria di esami ematochimici e ad ECG


o Qualora la TC eseguita in PS sia negativa o evidenzi segni precoci di


lesioneischemica o lesioni non congrue con il quadro clinico, una seconda TC deve
essere eseguita a distanza di 12-48 ore (dall’esordio dell’ictus). Ulteriori controlli TC
andranno eseguiti a seconda dei casi (es. voluminosi infarti con effetto massa, infarto
cerebellare con potenziale rischio di compressione sul tronco encefalico, valutazione
di evoluzione (o comparsa di) infarcimento emorragico, modificazione/aggravamento
del deficit neurologico, etc).

o Qualora anche una seconda TC risultasse negativa (o la lesione non fosse congrua
con il deficit neurologico) è consigliabile una risonanza magnetico nucleare (NMR)

134
dell’encefalo

o In presenza di ischemia del tronco (o più in generale di lesioni ischemiche in fossa


posteriore), tenuto conto del limitato potere risolutivo della TC, è indicato uno studio
RMN, che fornisce peraltro informazioni sulla pervietà dei vasi irroranti tale distretto
anatomico (a. vertebrale e a. basilare). Una angio NMR va inoltre generalmente
eseguita per il completamento diagnostico.

o In presenza di infarti lacunari è poco utile/non urgente la ricerca di fonti


emboligene a livello cardiaco essendo l’eziologia riconducibile ad una primaria
obliterazione (lipoialinosi) dei vasi perforanti di piccolo diametro e non ad occlusione
embolica (fanno eccezione gli infarti lacunari del talamo). Gli infarti lacunari sono di
piccole dimensioni (generalmente con diametro < 1.5 cm) localizzati a livello dei
gangli della base, sostanza bianca emisferica, talamo e tronco cerebrale. Nei referti
TC/RMN vengono identificati con il termine di: infarto lacunare, microinfarti nel
territorio delle arterie perforanti, ipodensità a livello della Sostanza Bianca, Gangli
della Base, Capsula Interna, Talamo, etc.; analogo significato hanno i termini di:
leucoaraiosi, diffusa ipodensità periventricolare, ipodensità del centro semiovale,
encefalopatia vascolare sottocorticale, etc.

o Una cardiopatia emboligena deve essere ricercata: 1) in presenza di infarto “non


lacunare” qualora non vi sia una significativa ateromasia dei vasi epiaortici; 2) in
presenza di infarto lacunare in giovani-adulti senza (o scarso rilievo di) i classici
fattori di rischio vascolare (ipertensione e diabete soprattutto); in presenza di certi
infarti lacunari del talamo

o In presenza di Fibrillazione Atriale l’esecuzione di un’indagine ecocardiografica


per ricercare trombi atriali/auricolari può essere non indispensabile vista
l’indicazione in ogni caso ad un trattamento anticoagulante di prevenzione secondaria

o Il tipo di metodica ecocardiografica da impiegare va valutato caso per caso; come


regola generale può essere utile ricordare che in presenza di cardiopatia clinicamente

135
evidente (scompenso cardiaco, valvulopatia, cardiopatia dilatativa, infarto del
miocardio acuto (IMA), pregresso IMA, etc) la tecnica transtoracica può essere
sufficientemente informativa, mentre in assenza di cardiopatia
clinicamente/anamnesticamente evidente la tecnica transesofagea è più utile nel
diagnosticare la presenza di cardiopatie emboligene “minori” (spesso basso/incerto
rischio embolico quali forame ovale pervio (PFO), aneurisma del setto interatriale,
mixomatosi mitralica, endocardite, etc.) o la presenza di ateromi dell’arco aortico.

o In presenza di PFO è indicata l’esecuzione di un Eco-Doppler venoso degli arti


inferiori e la ricerca di condizioni trombofiliche (genetiche o acquisite).

o Nel caso di sospetto clinico o TC di trombosi dei seni venosi, è indicato procedere
con urgenza ad approfondimento diagnostico con NMR e Angio NMR encefalica

o Lo studio dei vasi epiaortici andrebbe sempre eseguito entro 24-72 ore. La necessità
di eseguire altre indagini sui vasi epiaortici (angio-RM, angiografia) va valutata in
base alla prospettiva chirurgica (endoarteriectomia-TEA) nei casi in cui l’Eco-
Doppler tronchi sovraortici (TSA) sia dubbio o di difficile interpretazione o qualora
si sospetti una dissecazione vasale (in questo caso con urgenza).

IMPORTANTE E’ LA VALUTAZIONE DI PRIMO LIVELLO DI


MALNUTRIZIONE E DISFAGIA

• Escludere la presenza di disfagia, effettuando il test dell’acqua già durante la


degenza in dipartimento di emergenza ed accettazione (DEA), se questa supera le
6 ore.

• Ripetere il test dell’acqua in reparto, registrando il risultato

• Se il test dell’acqua è negativo fornire comunque per i primi giorni una dieta
semisolida 
prudenziale

• Se il test dell’acqua è positivo o dubbio non somministrare nulla per bocca e

136
richiedere 
valutazione logopedica (da effettuarsi entro 24 ore feriali)

• Se viene posta una diagnosi di disfagia lieve, occorre che venga concordata con la

logopedista stessa e con la dietista una dieta congrua

• Se viene posta diagnosi di disfagia grave occorre considerare una nutrizione


artificiale. 
Salvo controindicazioni è da preferirsi la via entrale (NET),
inizialmente via sng, entro 
2-4 giorni, con particolare urgenza nei pazienti
affetti da malnutrizione

• Se si verifica la persistenza di disfagia grave, dopo un mese, prevedere l’inserzione



della gastrostomia endoscopica percutanea (PEG)

• Considerare l’eventualità di atteggiamento solo palliativo nei pazienti a prognosi



infausta

• In tutti i pazienti fornire un foglio per l’anamnesi alimentare (il rischio di


malnutrizione è 
elevato per quasi tutti i pazienti con ictus)

• Valutare lo stato nutrizionale servendosi preferibilmente di uno score ed utilizzando


come parametri: l’albuminemia (considerando anche la conta linfocitaria e la
transferrinemia), l’esame obiettivo, la capacità di alimentarsi autonomamente, la
quantità di cibo effettivamente introdotta (fornire sempre uno schema per
l’anamnesi alimentare)

• Se l’alimentazione risulta incongrua (indipendentemente dalla assenza o presenza


di disfagia), considerare un’integrazione alimentare con integratori calorici,
oppure una nutrizione entrale via sng, o un’integrazione parenterale con preparati
per nutrizione parenterale periferica. Quest’ultima opzione è attuabile solo dopo
la fase acuta (indicativamente dopo la prima settimana) per l’elevato apporto
glucidico presente nelle sacche nutrizionali parenterali In caso di indicazione a
nutrizione enterale (NET) domiciliare occorre avviare le pratiche per la

137
prescrizione già durante la degenza

• Il paziente deve mangiare seduto, con il busto eretto e con il capo leggermente
flesso anteriormente

• Verificare che il paziente sia sufficientemente attento ed interrompere ai primi


segni di stanchezza

• Pulire la bocca dopo ogni pasto o con il normale lavaggio dei denti o usando una
garza se il paziente non è autonomo

LA CONSISTENZA DEGLI ALIMENTI CONSIGLIATA:

acqua: la somministrazione deve avvenire lontano dai pasti con l’aiuto


di un cucchiaino e sono dopo aver pulito la bocca e aver dato qualche colpo di
tosse.

liquidi senza scorie: acqua con sciroppi, the, tisane ed infusi ben filtrati,
distillati di frutta, bevande gasate.

liquidi addensati: acqua gelatificata e bevande addensate.

semi-liquidi (consistenza dello sciroppo): gelati, granite, creme, passato


di verdura, 
frullati di frutta, omogeneizzati di frutta, yogurt senza i pezzi.

semi-solidi (consistenza della crema): polenta morbida, creme di farine


di cereali, 
passati e frullati densi, omogeneizzati di carne e di pesce, uova
alla coque, gelatine di 
carne, carne cruda, ricotta piemontese e formaggi
cremosi, budini e mousses.

Solidi morbidi: gnocchi di patate molto conditi, pasta ben cotta e ben
condita, uova 
sode, pesce senza lische (sogliola, platessa, nasello), soufflè,
verdure cotte non filacciose, formaggio crescenza, ricotta romana, carne tenera
ben cotta sminuzzata, pere, banane, fragole e pesche ben mature.

138
CIBI DA EVITARE:

Cibi a doppia consistenza (liquidi con pezzi): minestrone con i pezzi, pastina in
brodo.

Riso
Legumi


Frutta secca,

Fette biscottate

Alcolici.

Per il trattamento dell’ipertensione endocranica sono indicate le seguenti opzioni


con:


-agenti osmotici:

sono le prime sostanze da utilizzare, ma non sono da usare come profilassi. Il


mannitolo al 20% (0,25-0,5 g/kg per 4 ore) è da riservare ai pazienti con ipertensione
endocranica di livello elevato e clinica in rapido deterioramento. Per i noti fenomeni
di rebound è da utilizzare per tempi inferiori ai 5 giorni. Il glicerolo viene
generalmente somministrato per via parenterale , in alternativa è possibile la
somministrazione orale. Anche in questo caso l’uso non è ancora sostenuto da solide
evidenze esterne. Da ricordare la necessità di controllo dell’emocromo durante la
terapia con glicerolo in quanto il farmaco può indurre emolisi.. L’osmolarità
plasmatica va valutata due volte al giorno nei pazienti in terapia osmotica e come
obiettivo vanno mantenuti livelli indicati dalle linee guida.

139
-
iperventilazione:

l’ipocapnia causa vasocostrizione cerebrale, la riduzione del flusso cerebrale è


praticamente immediata con riduzione dei valori di pressione endocranica dopo 30
minuti. Una riduzione di pCO2 a 30-35
mm Hg si ottiene mediante ventilazione
costante con volumi di 12-14 mL/kg e riduce la pressione endocranica del 25-
30%.
farmaci sedativi: la paralisi neuromuscolare in combinazione con una
adeguata sedazione con tiopentale previene le elevazioni di pressione intratoracica da
vomito, tosse, resistenza al respiratore. In queste situazioni sono da preferirsi farmaci
non depolarizzanti come il vecuronio o il pancuronio.

4.1 Crisi epilettiche


L’epilessia è una manifestazioni clinica contraddistinta da fenomeni improvvisi con
crisi generalizzate dovuti ad una scarica elettrica anomala che si prolunga,
interessando gruppi di cellule nervose sia della corteccia cerebrale che del tronco.
Poiché, come dicono molti medici, un buon 5% delle persone durante la propria vita
può avere una crisi epilettica, senza essere epilettico, si capisce bene anche solo da
questo dato come la singola o sporadica crisi possa essere spesso messa in relazione
con altre patologie o infortuni a carico del sistema nervoso o a seguito di determinati

stimoli esterni che determinano la comparsa del fenomeno. Per una corretta

descrizione dell’eziologia delle forme di epilessia incidente, occorre fare riferimento


alle linee-guida ILAE del 1993, con suddivisione delle epilessie sintomatiche (o
etiologicamente determinate) in forme “remote” e “progressive”. Si ha una
suddivisione delle epilessie sintomatiche nelle categorie eziologiche principali: e.
post-traumatica, e. cerebrovascolare, e. da infezione SNC, e. da neoplasia primitiva o
secondaria, e. da cause pre e perinatali, e. post-encefalopatiche, e. da infezioni
progressive, e. da patologie autoimmuni del SNC, e. da malattie metaboliche del
SNC, e. da patologie neurodegenerative. L’utilizzo di tale classificazione eziologica
negli studi successivi al 1993-95, ha permesso di stabilire un profilo eziologico delle
varie forme di epilessia sintomatica, consentendo un confronto tra le varie aree

140
geografiche e nel tempo. Negli studi condotti su tutte le fasce d’età l’epilessia è
associata a una causa in una percentuale variabile tra 14 e 45%, la rimanente
percentuale è rappresentate da forme criptogenetiche (o probabili sintomatiche),
forme idiopatiche e non classificabili. Con utilizzo su larga scala di tecniche di
neuroimaging sempre più raffinate (Risonanza Magnetica cerebrale su tutte), la quota
di forme sintomatiche è progressivamente incrementata e sarà destinata a “eclissare”
il gruppo delle epilessie criptogenetiche o non classificate. Le forme di epilessia
sintomatica tendono a ad aumentare di incidenza a partire dalla IV decade (per effetto
di e. da neoplasie, e. post-traumatica) , per poi aumentare esponenzialmente dopo la
sesta decade, grazie all’alta frequenza di comparsa di patologie cerebrovascolari. Il
comportamento dei diversi fattori eziologici è certamente in relazione alle classi
economico- sociali e alle aree geografiche di riferimento . In realtà geografiche
culturalmente arretrate, con prevalenza dei lavori di manovalanza prevalgono
eziologie tipo post -traumatico e talora infettivo , mentre nei paesi economicamente
più sviluppati avranno un maggiore impatto le forme cerebrovascolari . Tale dato è
sintetizzato dall’immagine seguente che mostra un confronto tra i tassi di eziologia
incidente dello studio di Preux condotto in Africa Subsahariana e quello noto di
Forsgren in Svezia. Entrambi i lavori sono stati pubblicati nel 2005. Il gruppo di
epilessie definite come idiopatiche, negli studi “all ages” attuali, tende a
rappresentare mediamente il 10% di tutte le forme di epilessia.
Le forme idiopatiche si mantengono prevedibilmente elevate nelle prime due decadi
di vita, per la naturale tendenza a sviluppare precocemente il primo evento critico. Ne
consegue che la percentuale di forme idiopatiche risulta elevata negli studi della
popolazione infantile, mentre tende a scendere abbondantemente sotto il 10% nelle
indagini condotte sulla popolazione adulta. Si nota negli anni novanta come nella
popolazione generale la maggior parte dei casi incidenti è rappresentata dalle
epilessie sintomatiche “localization-related” , in minor misura dalle analoghe
epilessie criptogenetiche o probabili sintomatiche.Estremamente più bassa è la
frequenza di forme idiopatiche “localization-related” e di tutte le sindromi epilettiche

141
note, tipiche dell’infanzia.

Considerando la sola popolazione al di sotto dei 15 anni, le sindromi epilettiche più


frequenti sono l’Epilessia Mioclonica Giovanile o Sindrome di Janz con tassi di
incidenza compresi tra 1-6 casi 100.000 ab/anno e la Sindrome di Lennox Gastaut .
Tra le epilessie idiopatiche del bambino , la forma certamente più frequente è
l’epilessia a parossismi rolandici che rappresenta il 14-24% dei casi incidenti al di
sotto dei 15 anni. L’incidenza cumulativa rappresenta il rischio individuale di
sviluppare l’epilessia nell’arco di un determinato intervallo di tempo. Gli studi di
Olafsson (1996) hanno calcolato in islanda un tasso di incidenza cumulativa dell’1%
fino a un età di 15 anni, il valore cresce successivamente a 1,9% a 55 anni, 3,6% a 75
anni, fino a raggiungere il 4,5% a 85 anni. In altre parole , una persona con una
aspettativa media di vita pari a 85 anni, ha il 4,5% di possibilità di sviluppare una
epilessia nel corso della propria vita. Il tasso raggiunge il 6% se si considerano anche
le “unprovoked sezures”. In linea teorica l’incidenza cumulativa a 80-85 anni
dovrebbe coincidere con il tasso di prevalenza di epilessia attiva nella popolazione. In
realtà, come si vedrà successivamente , gli studi di prevalenza mostrano degli indici
significativamente inferiori , questo è verosimilmente in relazione a una notevole
quota di pazienti con epilessia in remissione e a una maggiore mortalità dei pazienti
con epilessia.

La prevalenza è una stima del numero di persone con epilessia in una popolazione di
riferimento in un determinato momento o in un preciso intervallo di tempo . L’indice
di prevalenza è espressione di un relazione dinamica esistente tra cas i incidenti
(nuovi casi), casi di epilessia attiva o in remissione e decessi di casi pregressi. Si
stima nel mondo una prevalenza media pari a 4-10 per 1000 abitanti. In Europa,
considerando un tasso medio di 6 x 1000/ab, si calcola che un totale di 3,1 milioni di
persone siano affette da epilessia attiva . Esistono più studi epidemiologici di
prevalenza che di incidenza , per la relativa semplicità nella raccolta dei dati e la
minore necessità di rigidità metodologica . Buona parte dei lavori di prevalenza,

142
utilizzano il sistema del “door -to-door survey”, metodologia indubbiamente di facile
utilizzo, soprattutto per realtà geografiche difficili come i paesi in via di sviluppo . I
rimanenti studi adottato una metodologia “record-based” con raccolta dei casi sulla
base dei dati clinici e elettroencefalografici raccolti per ciascun soggetto che avesse
avuto anche un solo contatto con l’area sanitaria di riferimento . Questo sistema di
accertamento dei dati è chiaramente applicabile in solo in realtà che preve dano un
sistema sanitario capillare che raggiunga ogni singolo individuo del distretto in
esame. Sono pertanto studi maggiormente sofisticati rispetto ai precedenti e pertanto
sono generalmente condotti nei paesi economicamente avanzati.

In una review di Banerjee e Hauser sono stati considerati un totale di 48 studi di


prevalenza di epilessia o crisi epilettiche non provocate , 29 di loro utilizzavano il
sistema “porta a porta” ed erano stati condotti in realtà geografiche arretrate dal punto
di vista sanitario (Ecuador, Bolivia, Turchia, India, Pakistan, Arabia Saudita ,
Ecuador, Honduras, Nigeria, Etiopia, Tanzania, Kenia , Uganda, Isola di Guam ) . In
tali aree il tasso di prevalenza grezzo e standardizzato è mediamente 1,5-2 volte
rispetto alla media mondiale, i tassi più elevati si raggiungono in Sudamerica
(Ecuador (biblio), Honduras (biblio) e Boliva) con valori compresi tra 14 e 22 casi
x1000/ab. Uno studio di Lavados (Chile), basato sui registri medici, e non sulle
indagini “porta a porta”, ha ottenuto un valore di 17 x1000/ab. In Africa i valori sono
generalmente più bassi con un massimo di 12,5-13,2 casi ottenuto in Zambia e in
Tanzania, verosimilmente in relazione a difficoltà maggiori nella raccolta dei dati .
Non vengono considerati significativi i valori di 22 e 41 casi/1000/ab riscontrati in
due vecchi studi condotti in Ecuador e Nigeria , per la presenza di vizi metodologi e
la successiva smentita in termini numerici da lavori successivi nelle medesime aree
geografiche. Gli studi asiatici, in gran parte provenienti dall’India e solo raramente
dalla Cina, mostrano valori compresi tra i 4 e 10 casi, con un picco massimo
registrato in Pakistan e Turchia (9,8 e 10,2/1000/ab). L’unica ricerca epidemiologica
asiatica condotta con metodologia “record-based” ha ottenuto un tasso di 7,2/1000/ab
(Thailandia). Da segnalare che al momento risultano sostanzialmente assenti dati

143
dall’indistrializzato Giappone .Per quanto concerne i paesi industrializzati, la strada è
stata segnata dai dati americani dello studio di Hauser a Rochester , nel corso dei 5
decenni di riferimento il tasso di prevalenza è salito da 2,5 (1940) a 7,1 (1980). I
medesimi risultato si sono ripetuti in uno studio ”door to door” nella regione del
Missisipi del 1986 (7,1 x1000). In Europa occorre citare storicamente il lavoro di
Granieri et pubblicato nel 1982 , relativo al distretto di Copparo , con indice di
prevalenza standardizzato pari a 6.1 x 1000/ab. Più recentemente va citato Forsgren
sia per il lavoro pubblicato nel 1992 (unendo i dati della popolazione infantile di
Sindevall) relativo alla Svezia (prevalenza 5,2 x 1000), sia per la review pubblicata
nel 2005, dove ha raccolto e suddiviso i principali lavori epidemiologici europei.
Esistono numerosi studi condotti in Europa sui bambini (0-15 anni), con indici di
prevalenza media compresi tra 3.2 e 4.5. Pochi sono i lavori rivolti esclusivamente
alla popolazione adulta (Oun, Forsgren, Keranen) con tassi di prevalenza compresi
tra 4.0 e 5.2. In generale, estrapolando i dati dai principali lavori “all ages” , gli indici
di prevalenza nel bambino (0-15) e nell’adulto (15-59) tendono mediamente a
sovrapporsi ad un valore di 5,5 , con oscillazioni comprese tra 3.3 e 9.6. Nei lavori
più recenti si è assistito a un progressivo aumento dell a prevalenza nella terza fascia
d’età. Nei primi studi epidemiologici l’anziano tendeva a presentare i tassi di
prevalenza più bassi delle 3 fasce d’età principali, verosimilmente in relazione a una
certa difficoltà nell’identificare casi di epilessia in pazienti affetti da patologie
multisistemiche. Uno studio tedesco (de La court 1996) ha calcolato un tasso di
incidenza pari a 6.1 nella fascia d’età 55-64, con progressivo aumento a 9.7 (quasi
1%) nella fascia 85-94. Ne risulta che la curva di prevalenza per fasce d’età tende a
presentare un andamento in salita nel primo decennio di vita per poi mantenersi
stabile fino ai 65 anni e riprendere un andamento ascendente . In realtà le curve
ottenute da Hauser tendevano a presentare, nelle ultime due decadi, anche un picco
intermedio nella fascia di età compresa tra i 35 e 40 anni, costituito prevalentemente
da epilessie focali. Nei paesi in via di sviluppo tale picco tende ad anticipare di circa

144
15 anni, ed è espressione delle forme di epilessia post - traumatica correlate all’inizio
dell’attività lavorativa all’interno della popolazione maschile.

I tassi di prevalenza risultano più alti nel maschio rispetto alle donne nella maggior
parte degli studi . Tuttavia tale differenza è raramente statisticamen te significativa.
Solo in un lavoro condotto in India nel territorio di Bombay (Bharucha 1988) la
prevalenza nei maschi era superiore al doppio delle femmine (5.1 vs 2.2); in realtà in
tale popolazione esisteva un Bias “culturale” che tendeva a sottostimare l’epilessia
nel sesso femminile, in quanto considerata patologia sconveniente ai fini del
matrimonio.

Come per l’incidenza , anche per la prevalenza i pochi dati significativi provengono
da studi condotti da società multietniche come quella americana . Haerer nel 1986
riportò un tasso di prevalenza (aggiustata per età ) più alto nella popolazione afro -
americana rispetto alla popolazione caucasica (8.2 vs 5.4); lo studio seguiva la
metodologia “door to door” . Un lavoro inglese più recente basato sulla revisione di
dati clinici e elettroencefalografici (Wright 2000) ha mostrato un tasso di prevalenza
significativamente più basso (3.6 vs 7.8) nella popolazione con origini sud-asiatiche
(pakistan, india) rispetto al resto della popolazione, con un OR pari a 0.46.

Le sindromi epilettiche con crisi focali sono espressione spesso di eziologie lesionali
e pertanto tendono a manifestarsi prevalentemente nella terza età , mentre le epilessie
generalizzate tendono ad associarsi alle prime due decadi di vita.

Attualmente, considerando tutti gli studi, esiste un 60% di epilessie prevalenti


idiopatico- criptogenetiche contro un 40% di forme prevalenti ad eziologia
determinata.
In passato gli studi riportavano una notevole predominanza di epilessia a eziologia
sconosciuta, con prevalenza delle forme criptogenetiche rispetto alle idiopatiche.
Rimanevano relativamente poche le epilessie ad eziologia determinata. A tutt’oggi
studi condotti in africa riportano un’alta proporzione di casi a eziologia

145
indeterminata, soprattutto se confrontati con lavori contemporanei condotti in nord -
america e europa. Questa differenza è legata alla difficoltà di utilizzo nella raccolta e
classificazione dei dati di indagini diagnostiche adeguate alla definizione
dell’eziologia. ll miglioramento del metodo di accertamento dei casi, lo sviluppo
delle tecniche di neuroimaging e soprattutto la distribuzione su larga scala di
apparecchiature neuro radiologiche, ha consentito una migliore definizione eziologica
delle epilessie. L’avvento della Risonanza Magnetica cerebrale ha portato negli
ultimi 10 anni alla cancellazione di numerosi casi di epilessia prevalente definita in
passato come criptogenetiche, per il riscontro di lesioni epilettogene non rilevabili
con le precedenti indagini. Il termine “probabili-sintomatiche” introdotto nella
classificazione ILAE 2003 sottolinea l’importanza delle indagini neuroradiologiche
per la caratterizzazione di lesioni al momento solo ipotizzabili; spesso epilessie
criptogenetiche diventano sintomatiche passando da una struttura sanitaria all’altra.
Non va inoltre dimenticato il ruolo della neuro genetica; negli ultimi anni sono state
scoperte diverse forme di epilessia idiopatica correlate a determinate mutazioni
genetiche, tanto che la nuova proposta classificativa ILAE del 2010 ha inserito la
nuova categoria di epilessie geneticamente determinate, creando problemi ai clinici e
soprattutto agli epidemiologi nel collocare queste forme nelle epilessie a eziologia
nota o nelle forme idiopatiche.

Esistono fattori eziologici per cui è stata stabilita un diretta relazione causa -effetto
per lo sviluppo di epilessia . Tale discorso vale per i traumi cranici , disordini
cerebrovascolari e infezioni del SNC , che in virtù della diretta causalità sono
responsabili di crisi epilettiche sintomatiche acute (5% dei casi) con un prevedibile
aumentato rischio di sviluppo di epilessia. Vengono di seguito passati in rassegna i
vari fattori di rischio eziologici stabiliti dalle linee- guida ILAE 1993 .

Il trauma cranico si associa a un rischio di epilessia 3 volte superiore rispetto alla


popolazione normale. La presenza di una lesione penetrante, l’alterazione prolungata
dello stato di coscienza si associano ad un’alta percentuale di sviluppo di epilessia

146
post-traumatica (da 10% al 50% a seconda della gravità). Il rischio rimane elevato per
i primi 5 anni in un trauma cranico minore, mentre occorrono 15-20 anni prima di
normalizzare il rischio dopo un trauma cranico severo.

Pazienti con disordini cerebrovasocolari acuti presentano un rischio aumentato di


circa 20 volte rispetto alla popolazione normale; come per il trauma cranico i valori
rimangono elevati nei 5 anni successivi allo stroke ischemico o emorragico. Esiste
una differenza tra lesioni ischemiche e emorragiche, il rischio di sviluppo di epilessia
appare più alto nelle seconde (intraparenchimali e sub aracnoidee) , per il maggiore
effetto irritativo dei prodotti di degradazione dell’emoglobina.

Le infezioni del SNC, mediamente si associano a un rischio triplicato, i valori


risultano più elevati in caso di meningiti batteriche (5 volte) e di encefaliti virali (10
volte).Le neoplasie cerebrali spesso presentano come sintomo iniziale una crisi
epilettica focale, questo avviene in circa il 30% dei pazienti. Tra le patologie
neurodegenerative , la Malattia di Alzheimer è quella che si associa a un maggior
rischio di epilessia; si calcola che dopo 10 anni di malattia circa il 10% dei pazienti
presenta crisi epilettiche. Tra le patologie autoimmuni del SNC, la Sclerosi multipla
presenta un rischio aumentato di 3.4 volte. Il consumo di alcool vede un rischio di
epilessia proporzionale al “daily intake” del soggetto, con aumento di oltre 20 volte
per consumi alcolici superiori ai 300g/die. Per quanto concerne fattori di rischio non
eziologici, è stato calcolato che la familiarità per epilessia aumenta il rischio di
malattia di 2,5 volte. La presenza di handicap neurologici alla nascita si associa
prevedibilemente ad un elevato rischio per epilessia, in quanto sono espressione
sintomatica di verosimili lesioni o anomalie di sviluppo cerebrale. Notevole interesse
ha destato nel corso degli anni il ruolo delle convulsioni febbrili. Una percentuale
compresa tra il 2 e 5% di tutti i bambini ha manifestato questo evento nelle primi fasi
della vita . Esistono dei “fattori di rischio” per l’epilettogenicità delle convulsioni
febbrili: - punteggio APGAR basso, presenza di deficit neurologici permanenti dopo
le prime convulsioni, convulsioni focali, presenza di paralisi post.critica, familiarità

147
per epilessia).
NB: per indice di AGPAR (dal nome dell’anestesista statunitense che lo introdusse
negli anni ‘50, Virginie Apgar) consiste nel risultato di una serie di test effettuati di
routine al bambino appena nato per valutare la vitalità e l’efficienza delle funzioni
primarie dell’organismo.
I parametri di riferimento considerati dall’indice di Apgar sono 5: battito cardiaco,
capacità respiratoria, tono muscolare, riflessi neurologici, colorito di pelle e mucose
(ovvero il rivestimento interno) di bocca e unghie. In pratica, si tratta di una sorta di
“pagella” indicativa delle condizioni di salute e della capacità di adattamento
all’ambiente esterno del neonato.
Come si calcola
Sommando i punteggi relativi ai 5 esami eseguiti (per ognuno viene assegnato un
voto compreso tra 0 e 2) si ottiene l’indice di Apgar che va da un minimo di 0 e un
massimo di 10 punti. Indicativamente i criteri di valutazione sono i seguenti:
– punteggio tra 7 e 10 punti: neonato “entro la norma”;
– punteggio tra 4 e 7 punti: neonato “depresso in maniera moderata”;
– punteggio tra 0 e 3 punti: neonato “depresso in maniera seria”.
Subito dopo la nascita
Il test viene effettuato 2 volte, 1 minuto e 5 minuti dopo nascita: il neonato, infatti,
può compiere progressi significativi in questo breve lasso di tempo; se il punteggio
risulta ancora basso (sotto i 6 punti) l’esame viene ripetuto nuovamente dopo altri 5
minuti e se necessario il piccolo viene subito sottoposto ai trattamenti utili presso il
reparto di terapia intensiva neonatale.
Perché a volte è basso
Vi sono alcuni importanti fattori che il neonatologo deve considerare valutando i
risultati dell’indice di Apgar:
– il bambino è prematuro (cioè è nato prima della 37° settimana);
– risulta piccolo per l’età gestazionale,
– ha subito traumi nel corso del parto;

148
– è stata rilevata sofferenza fetale;
– il parto è stato eseguito tramite un cesareo.

In tutti questi casi in genere l’inevitabile svantaggio iniziale viene recuperato nel
giro di poco tempo grazie al progressivo adattamento del bimbo all’ambiente
esterno.

Si stima che circa il 30% dei pazienti presentano un epilessia di grado lieve, che non
richiede trattamento ; un 30% è affetto da un a forma facilmen te controllabile dai
farmaci, il 20% presenta un quadro di epilessia che risponde solo parzialmente alle
terapia e infine un 20% di pazienti definiti farmaco-resistenti (Sander 1993).

Diverse sindromi epilettiche (Sindrome di West, encefalopatie epilettiche infantili


precoci, epilessia mioclonica severa dell’infanzia , epilessia parziale continua ,
Sindrome di Lennox Gastaut , etc) si associano a una cattiva prognosi in termine di
frequenza di crisi, di risposta al trattamento e di qualità di vita . Viceversa altre forme
di epilessia (crisi di assenza del bambino , epilessia rolandica , epilessia a punte
occipitali, convulsioni neonatali benigne , epilessia della terza età ) tendono a
presentare una prognosi migliore. E’ stato valutato che il rischio di ricorrenza dopo
una singola crisi epilettica è del 67% nel primo anno e del 78% entro i primi tre anni,
si tratta di dati riferiti all’unico studio attendibile in materia, in quanto prospettico
(National General Practice Study of Epilepsy- Sander 1990). Chiaramente il rischio
di ricorrenza è legato all’eziologia dell’epilessia e alla presenza di determinati fattori
di rischio. Maggiori predittori negativi in tal senso sono la presenza di una pregressa
lesione cerebrale , un età inferiore a 15 anni o superiore a 65 anni, la presenza di
anomalie epilettiformi frequenti all’EEG e la presenza di familiarità per epilessia e
l’esordio con uno stato epilettico. Una volta iniziato un trattamento con farmaci
antiepilettici, l’intervallo di tempo necessario per raggiungere un buon controllo delle
crisi è inversamente proporzionale alla frequenza annuale delle crisi prima della
terapia, al numero di farmaci utilizzati, alla presenza di deficit neurologici focali , alla
persistenza di anomalie elettroencefalografiche, alla semeiologia delle crisi e all’età
149
di inizio del trattamento (> 16aa) .Il tasso di mortalità di una determinata patologia si
riferisce al rapporto tra mortalità all’interno della popolazione di affetti con la
mortalità attesa in una popolazione di soggetti sani standardizzata per età e sesso alla
precedente. Tale indice riferito all’epilessia risulta essere compreso tra 2 e 4 e
raggiunge i valori più alti nei primi 10 anni dopo la diagnosi.

QUINDI IN SINTESI RICAPITOLANDO:

Quando si verifica una crisi epilettica, il medico una volta accorso al paziente
cercherà di accertare la natura della manifestazione cercando anche di capire se la
crisi è la prima con la quale si imbatte il paziente o se vi sia stata in precedenza una
crisi similare, prezioso sarà dunque l’apporto dei familiari che forniranno al medico
tutte quelle notizie importanti per poter escludere o meno eventuali patologie anche
in sede di prima visita. Per esempio, è frequente che nei malati di epilessia, al
miglioramento dei sintomi durante una cura, questa si ripresenti in maniera anche
violenta perché il malato ha sospeso di propria iniziativa la prescrizione medica,
anche solo per qualche giorno; tale fatto è importante perché consente all’operatore
sanitario di farsi un’idea di ciò che è accaduto al suo paziente.
Quando invece ci si imbatte in una crisi mai verificatasi in un individuo, sarà
l’indicazione del medico a far sottoporre l’assistito ad una Tac al fine di escludere
eventuali forme sistemiche, stessa cosa andrà fatta anche a distanza di tempo da un
infortunio, un incidente ad esempio, che abbia comportato eventuali traumi cranici
anche quando il paziente pare abbia ripreso in pieno tutte le proprie funzioni, atteso
che, potrebbero essersi verificate delle lesioni o danni cerebrali che dovranno essere
indagati con cura, per non contare che la crisi epilettica in chi non vi abbia mai
sofferto potrebbe anche indicare un’eventuale patologia cerebrale, come un tumore
ed essere proprio la prima crisi il segnale di una situazione che potrebbe conclamarsi
in breve tempo.

150
La Classificazione delle crisi epilettiche:
Grande Male
Nell’epilessia, questa è la forma ritenuta più impegnativa, durante la crisi il paziente
si irrigidisce in una prima fase, fermo il fatto che quando è già incorso a precedenti
crisi solitamente avverte il sopraggiungere di un altro fenomeno epilettico, fatto che
lo induce anche ad assumere posizioni che evitino il verificarsi di lesioni causate dai
movimenti inconsulti o dalle cadute. La crisi prosegue con la perdita della vigilanza
da parte di chi ne è colto che cade a terra, spesso dopo un urlo, perdendo conoscenza
ed agitandosi in violenti movimenti ritmici; durante questa fase è facile assistere allo
stato cianotico del paziente che può giungere persino a vere e proprie crisi dispnoiche
accompagnate anche da perdita involontaria di urine e, più raramente feci. Altra
caratteristica, durante la crisi, è assistere alla perdita di bava dalla bocca a volte
frammista a sangue per via della lacerazione che il paziente s’è arrecato alla lingua
durante i movimenti inconsulti finendo per morsicarla. La successiva fase è quella del
risveglio, con recupero graduale della vigilanza, che però, viene solitamente
preceduto da una stato confusionale se non, addirittura, da un vero e proprio
addormentamento seguito da un lento risveglio.
Piccolo Male
La differenza, almeno apparentemente, tra il Grande Male e il Piccolo, è che in
questa seconda forma, pur assistendo, nella generalità dei casi agli stessi sintomi, il
paziente perde la vigilanza per un periodo di tempo più breve, a volte persino una
manciata di secondi, dove a caratterizzare le crisi provvede una sequela di scosse
diffuse in tutto il corpo ma anche queste di breve durata.
Le forme particolari
Insieme a questi due grandi gruppi si conoscono crisi epilettiche che traggono origine
da altre cause in forme definite particolari, ricordiamo, ad esempio, l’epilessia
infantile, spesso associata ad una malattia cerebrale, oppure ad una malformazione
congenita o, ancora, ad un errore metabolico. Queste, solitamente, sono forme severe

151
e impegnative il cui esito, spesso, può essere infausto. Le epilessie infantili si
manifestano di solito intorno ai 3 fino ai 9 mesi di vita del bambino dove si assiste a
veri e propri spasmi muscolari. Giungere alla diagnosi in assenza di adeguate
tecniche diagnostiche è quasi impossibile, anche perché, ogni eventuale studio andrà
condotto sulla base delle esclusioni che si andranno a fare riguardo ad eventuali
patologie insorte o pregresse.
Si può assistere a degli sporadici attacchi epilettici, che nulla hanno a che vedere,
anche per la loro atipicità in relazione all’età del paziente, solitamente comunque si
verificano nei bambini, a causa di una parassitosi intestinali. Parliamo di forme rare,
oltretutto è difficile che la presenza di parassiti intestinali non venga accertata prima
di giungere alle crisi epilettiche, tuttavia, laddove si assistesse a manifestazioni simil
epilettiche in assenza di altre cause, potrebbe essere utile non escludere la presenza di
eventuali parassiti intestinali che, se in numero cospicuo, possono secernere delle
tossine che agiscono a livello cerebrale generando le crisi.
Le convulsioni Febbrili
Queste forme nulla hanno in comune con le normali epilessie, tuttavia i sintomi
spesso sono in parte sovrapponibili e potrebbero essere scambiati dai familiari,
impressionati dagli attacchi violenti e repentini cui vanno incontro i bambini, a vere e
proprie crisi epilettiche. Sono manifestazioni, tuttavia, transitorie e quasi sempre
messe in relazione con gli stati febbrili la cui temperatura si eleva oltre i 38 gradi
centigradi e che riguardano un numero cospicuo di piccoli pazienti. Sono
manifestazioni reversibili che conviene, tuttavia, sottoporre al giudizio di un medico
neurologo magari su consiglio del pediatra che istituiranno delle cure ad hoc, fermo il
fatto che, generalmente, tali manifestazioni regrediscono, fino a scomparire, dopo i
dieci anni d’età, anche in concomitanza con episodi febbrili in cui si assiste ad una
temperatura elevata.
Epilessia tardiva
Si definisce tale una epilessia insorta nella persona dopo i 25 anni d’età e dovrà
essere indagata a fondo avvalendosi della Tac perché potrebbe celare un eventuale

152
danno cerebrale a causa di una o più patologie, ricordiamo le encefaliti, la sclerosi
multipla, i tumori, solo per citare alcune malattie che si rendano responsabili degli
attacchi o, ancora, a causa di un eventuale infortunio, anche distante nel tempo
laddove si sia verificato un trauma che abbia compromesso, in parte, la massa
cerebrale, ad esempio, un ematoma che abbia comportato danni cerebrali a causa
della compressione sul cervello e sulle sue strutture.
Alcolisti
Negli alcolisti cronici, non è infrequente assistere ad eventuali crisi epilettiche prima
che avvenga il cosiddetto delirium tremens, una grave manifestazione che comporta
per il paziente un penosissimo stato clinico in cui, durante la crisi, ci si dibatte nel
fronteggiare pericoli inesistenti derivanti da allucinazioni ottiche e uditive che
complicano di molto la vita del paziente che si trova a dover fronteggiare due
situazioni pericolose per via dei traumi consequenziali che il malato potrebbe
arrecarsi a causa delle cadute cui va incontro, durante la crisi epilettica, prima e a
causa dei movimenti scoordinati e violenti seguiti dal delirium tremens nel tentativo
di sfuggire alle minacce fantastiche afferenti al grave stato. La conseguenza è che
spesso lo stesso paziente finisce per ferirsi a tal punto da incorrere in veri e propri
traumi cranici, imputati, eventualmente essi stessi di causare le crisi di epilessia.
Forme minori ed occasionali
Esistono forme di epilessia ancora più rare e particolari, dove a scatenare gli attacchi,
sono eventuali agenti esterni intervenuti. Sono forme dipendenti da una situazione
contingente che a volte basta allontanare affinché tutto si risolva al meglio, ciò non
toglie che anche questi casi, pur di più facile trattamento, andranno monitorati al più
presto da un medico specialista che escluda eventuali altre cause. Ricordiamo,
tuttavia, l’epilessia fotosensibile, per lo più scatenata da luci intermittenti o, peggio
ancora psichedeliche, che potrebbero essere aggravate da periodi di stress o eventuale
ingestione di alcune sostanze ad azione centrale, ferma la possibilità che la semplice
esposizione prolungata alla sollecitazione visiva generata, ad esempio, da alcuni
videogiochi in taluni soggetti predisposti, può generare un attacco epilettico. Più

153
facile da diagnosticare invece quella forma di epilessia definita, Catameniale e che
riguarda alcune donne che, prima, durante e subito dopo il ciclo mestruale
manifestano attacchi epilettici che si esauriscono con la contestuale scomparsa dei
cicli mestruali stessi come durante una gravidanza o in menopausa. La causa è nota
ed è dovuto al rilascio disordinato di ormoni e che generalmente ha il suo esordio in
prossimità del menarca. In questo caso, il lavoro congiunto del medico ginecologo,
con il neurologo, è sufficiente a fronteggiare il problema. Alla categoria delle
epilessie derivanti da fattori minori ed/od occasionali, aggiungiamo anche l’epilessia
da sforzo fisico, abbastanza rara ma possibile, dovuta all’iperventilazione polmonare
e al disordine della concentrazione di ossigeno, anidride carbonica nell’organismo.
Così come si assiste in alcuni soggetti a vere e proprie crisi epilettiche durante il
sonno, sia esso fisiologico che indotto da farmaci e val la pena ricordare quelle forme
afferenti a stati patologici diversi che trovano nell’epilessia una delle manifestazioni
della patologia di base; ricordiamo le crisi epilettiche messe in relazione con disordini
metabolici, quando non siano essi stessi vera e propria patologia, parliamo di
epilessie dismetaboliche in questo caso il cui esordio segue, ad esempio, una
diminuzione della concentrazione del calcio nel sangue, o del magnesio o in caso di
severe forme di ipoglicemia si assiste a vere e proprie crisi epilettiche con tutti i
sintomi dell’epilessia comunemente nota, fatto che può avvenire nei diabetici quando
la quantità di insulina indotta dall’esterno dovesse essere superiore al fabbisogno
dell’organismo e non è stata messo in atto alcun correttivo per riportare la glicemia ai
valori di norma. Altre patologie quali l’ipoparatiroidismo, il Morbo di Addison,
l’ipertiroidismo nelle crisi di tireotossicosi potrebbe generare in questo caso delle
forme apparentemente simili alle crisi epilettiche anche se il quadro clinico del
paziente è più vicino ad un delirio che ad una crisi epilettica; stati di insufficienza
renale grave così come epatica e respiratoria o nelle donne in gravidanza durante una
tossicosi possono evidenziare episodi sporadici assimilabili alle crisi epilettiche.

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Diagnosi
Tornando alla epilessia vera e propria, il medico se assiste ad una crisi dalla sequela
di sintomi è sempre in grado di discernere un Grande Male da un Piccolo Male
cercando anche di annotare, dopo aver prestato i primi soccorsi, nel quadro
anamnestico del paziente eventuali traumi subiti potendo così diradare, prima di ogni
altro accertamento diagnostico, l’esatta natura della patologia. L’anamnesi prevedrà
anche il riconoscimento di alcuni eventi verificatesi durante la crisi, la morsicatura
della lingua, l’addormentamento del paziente dopo la crisi in modo da fornire allo
specialista quanti più elementi possibili per giungere ad una corretta diagnosi potendo
lo stesso classificare anche sulla base dei referti della Tac e dell’EEC , il tipo di
epilessia davanti al quale ci si trova.
Terapia e trattamento
Se non ci si trova di fronte a delle gravi crisi epilettiche che in rari casi potrebbero
avere nel paziente un esito infausto, il fenomeno, quasi sempre, è fronteggiabile da
chi vi assiste anche se non si tratti di un medico. Ci sono manovre ad esempio che
possono essere compiute con una certa facilità se si riesce a mantenere la calma e se
soprattutto si entra nella logica che l’epilettico non è una persona pericolosa, l’unico
male che è capace di arrecare è, involontariamente, contro se stesso. Appunto per
questo, chi assiste un malato di epilessia, durante una crisi dovrà porre in atto tutti
quei presidi atti ad evitare che il paziente si ferisca, ad esempio cadendo, o
muovendosi violentemente e scordinatamente, ciò significa, adagiare, nel possibile il
paziente su una superficie morbida, anche quando dovesse agitare la testa si dovrà
fare in modo che non possa sbatterla violentemente ferendosi, a volte, anche
gravemente. Inoltre, se la situazione lo permette si dovrà evitare che il paziente si
tagli la lingua con i denti. Per evitare ciò si dovrà porre sotto le arcate dentarie un
fazzoletto di stoffa ripiegato che ammortizi i colpi inferti dai denti sulla lingua,
evitando che la manovra, comunque, non provochi ferite da morsicatura al
soccorritore. Il paziente dovrà essere tenuto limitando i movimenti inconsulti, ma ciò
andrà fatto con decisione ma anche delicatezza cercando di essere elastici ed,

155
eventualmente, assecondando i movimenti improvvisi ma smorzandone l’intensità.
L’eccessivo contenimento dei gesti, proprio perché violenti ed improvvisi, possono
causare fratture e lesioni al paziente che non dovrà, men che meno, essere bloccato
sotto il peso del soccorritore, fatto questo pericoloso perché finisce con l’aggravare la
situazione a causa del fatto che il paziente così costretto potrebbe finire per non
respirare adeguatamente ed andare in ipossia cerebrale, fatto che peggiora
sicuramente la crisi. Semmai, in maniera delicata, si potrà comprimere la gabbia
toracica del paziente laddove lo stesso dopo aver effettuato una lunga inspirazione
non riesca ad espirare la quantità di aria necessaria. L’accorgimento dovrà essere
delicato anche per evitare fratture alle coste.
Mai somministrare farmaci per bocca durante la crisi, si rischia di fare soffocare il
paziente che non è assolutamente in grado di esercitare alcun controllo deglutitorio.
Generalmente la crisi evolve dopo un periodo di tempo variabile, in relazione al tipo
di Male accusato dal malato, al risveglio il paziente sarà confuso e prostrato, cercate
di rassicurarlo senza spaventarlo e prima di farlo bere, visto che è probabile che vi
chieda dell’acqua per via dell’immane sforzo effettuato, accertatevi che sia sveglio al
punto da riuscire a deglutire senza problemi, senno aspettate che si svegli del tutto. E’
sempre bene, comunque che vi sia la presenza di un medico il quale somministrerà i
farmaci idonei, consigliato, in qualche caso, anche il ricovero in ospedale, soprattutto
se ci si trova di fronte ad un primo attacco.
Se si conosce la storia clinica del malato, riferite tutto con dovizia di particolari al
medico o al pronto soccorso, compresi i farmaci di cui conoscete l’esistenza e che
assume la persona; non è detto che il paziente sia in grado di collaborare in maniera
efficace subito dopo una crisi. Per chi invece soffre di crisi epilettica, è indispensabile
che sia avvertito che ogni farmaco, anche quello ritenuto il più banale, preso per altre
cause dovrà essere sottoposto a giudizio del medico, atteso che può avere effetti sulla
cura praticata.
Terapia dell’epilessia
Inutile catalogare i farmaci utilizzati per la cura della epilessia e per contrastare gli

156
eventuali attacchi, sono di stretta pertinenza medica e nessuno, senza aver prima
sentito un medico, dovrà azzardarsi a praticare cure di propria iniziativa. Oggi,
tuttavia, il ricorso a speciali classe farmaceutiche tiene a bada il paziente da
successive crisi e gli assicura una qualità della vita normale, purchè non si provveda
in proprio a modificare le prescrizioni del medico.
Difficilmente durante un attacco si corre il rischio di una crisi mortale, oltretutto i
farmaci di cui si dispone oggi nella malaugurata ipotesi di una crisi, soprattutto se in
presenza di personale specializzato, riescono a minimizzare le conseguenze anche più
gravi. Tuttavia esistono delle crisi molto gravi dove il ricorso all’ospedalizzazione è
quanto mai necessario soprattutto se il paziente non riesce a riprendere conoscenza
oltre un determinato lasso di tempo, in questi casi, in ambiente medico si richiede
l’ausilio del rianimatore che provvederà a ripristinare tempestivamente le funzioni
fisiologiche, soprattutto in quei casi in cui il torpore, la perdita di conoscenza va, via,
via aggravandosi, fatto quest’ultimo spesso causato da una grave compromissione
cerebrale che potrebbe essere seria espressione di una patologia di fondo, come
quelle già ricordate, tumori, ascessi o ematomi cerebrali sorti per cause patologiche o
eventuali traumi cranici dove, ad esempio, si assiste ad una copiosa emorragia che
può conclamare il quadro clinico verso il coma. Al di là di ciò, ripetiamo di come
oggi sia possibile convivere con l’epilessia, purchè, ci si sottoponga alle cure di un
neurologo.

157
4.2 La Vertigine

La vertigine è un sintomo molto frequente infatti circa il 16% della popolazione


vive almeno una volta l’esperienza di una vertigine acuta con forte
compartecipazione emotiva ed angoscia. Altrettanto comune è il non corretto iter
diagnostico-terapeutico soprattutto a causa di “luoghi comuni” e disinformazione.

Cosa si intende per vertigine?

Per vertigine si intende l’erronea percezione di rotazione dell’ambiente attorno a


noi stessi (vertigine oggettiva) o di noi stessi nell’ambiente (vertigine soggettiva).
Tale disturbo si può presentare a qualsiasi età e può riconoscere diverse cause.

Contrariamente a quanto si pensa la comune artrosi cervicale non determina mai


episodi vertiginosi ma può essere responsabile di una alterata postura in
associazione ai classici sintomi (dolori al collo e formicoli al braccio).

Quali sano le cause più frequenti di vertigini?

-Vertigine parossisitica posizionale:

Tali vertigini insorgono tipicamente durante i cambiamenti di posizione, per


esempio quando ci si distende a letto o quando ci si rialza, oppure quando ci si
abbassa come per allacciarsi le scarpe o ancora quando si guarda in alto.E’ una
vertigine tipicamente oggettiva (ossia si ha la sensazione che l’ambiente ci giri
intorno), insorge in maniera brusca ed ha una durata di pochi secondi o minuti (in
genere meno di un minuto). Tale sintomatologia è spesso accompagnata da nausea,
vomito, sudorazione, pallore cutaneo etc.La causa é da ricondurre al distacco di
piccolissimi sassolini, chiamati otoliti, nell’orecchio interno che muovendo
nel liquido labirintico sono capaci di generare le vertigini. La terapia consiste
nell’effettuare manovre liberatorie (per riposizionare gli otoliti).
158
-Neurite vestibolare (chiamata anche labirintite)

La neurite vestibolare rappresenta la 2° causa più frequente di vertigine oggettiva


improvvisa. Essa è dovuta ad una infiammazione del nervo vestibolare la cui causa
è spesso riconducibile ad una infezione virale.Si presenta con il quadro clinico di
perdita improvvisa della funzione vestibolare monolaterale e quindi un’ intensa
vertigine, a carattere rotatorio, che può durare più di un giorno, accompagnata da
nausea e vomito. La diagnosi si basa sull’anamnesi, nistagmo spontaneo
unidirezionale, otoscopia ed esami audiometrici negativi. La terapia è
essenzialmente basata sull’utilizzo di farmaci antivertiginosi e cortisonici con
risultati eccellenti già dopo le prime ore di trattamento e successivamente può
essere necessario una riabilitazione vestibolare.

-Malattia di Meniere (chiamata anche Sindrome di Meniere)

La Malattia di Ménière è un’affezione che colpisce l’orecchio interno


caratterizzata da un’aumento della pressione dei liquindi labirintici (endolinfa).I
sintomi tipici sono rappresentati da ipoacusia, acufeni, ovattamento
auricolare e vertigini oggettive. La sintomatologia uditiva spesso precede di alcune
ore la sintomatologia vertiginoso-posturale. La diagnosi si basa sull’anamnesi e
anche sul quadro audiometrico caratterizzato da ipoacusia neurosensoriale
fluttuante prevalentemente sulle basse frequenze. La terapia si avvale di farmaci
quali la betaistina, diuretici cortisonici, etc. fondamentale è seguire una dieta
povera di sodio ed iperidrica.In casi selezionati è indicato un intervento chirurgico
con infiltrazione endotimpanica di gentamicina.

159
-Vertigine emicranica

Patologia a carattere familiare, l’emicrania colpisce prevalentemente il sesso


femminile. La sintomatologia più comune è la vertigine che si accompagna alla
cefalea (vertigine emicranica associata) o talvolta la vertigine come unico sintomo
in un paziente con storia di cefalea emicranica (vertigine emicranica equivalente).
Gli episodi vertiginosi sono ricorrenti e possono essere scatenati da privazione del
sonno, squilibri ormonali, stress emotivo etc. La diagnosi si basa sostanzialmente
su una attenta anamnesi sia personale che familiare dopo aver escluso altre cause
di vertigine periferica o centrale. La terapia prevede la somministrazione di
farmaci utilizzati nella profilassi dell’emicrania come la flunarizina, beta-
bloccanti, amitriptilina, triptani.

-“Dizziness” soggettivo cronico

Non è una vera e propria vertigine ma una condizione di instabilità posturale e


disequilibrio. I sintomi peggiorano in piedi e quando si cammina, mentre si
riducono quando ci si siede o addirittura scompaiono quando ci si sdraia. Questa
condizione, poco conosciuta, ma molto frequente, è secondaria ad un evento acuto
o ricorrente come può essere una disfunzione vestibolare periferica o centrale o
altre patologie come il trauma cranico, colpo di frusta, le aritmie), disordini
psichiatrici. Gli esami otoneurologici risultano negativi se non per un disturbo
vestibolare preesistente. La causa di questo disturbo va ricercata in un fallimento
del riadattamento dopo un evento acuto, favorito da un uno stato ansioso. Il
trattamento medico consiste nell’utilizzo di farmaci inibitori della ricaptazione di
serotonina e/o noradrenalina, associato a rieducazione vestibolare e terapia
cognitivo-comportamentale.

160
Cosa fare quando si presentano le vertigini?
Quando insorge una vertigine la prima cosa da fare è sospendere tutte le attività
che si stanno compiendo e adagiarsi a letto trovando una posizione che scateni il
meno possibile la sintomatologia. Chiamare il proprio medico di fiducia in modo
da tranquillizzarsi ed iniziare una terapia sintomatica. Successivamente, se la
sintomatologia persiste è buona norma rivolgersi ad un esperto de settore
(vestibologo) affinchè sia possibile capire la causa ed iniziare una terapia specifica.

Strategia diagnostica

Il primo approccio, in particolare durante la crisi, si articola in:

1) Anamnesi che deve precisare:

- l’illusione del movimento


- la concomitanza di sintomi uditivi (acufeni, ipoacusia)
- la nozione di crisi anteriore (i)
- eventuali precedenti ontologici (chirurgici, traumatici, infettivi)
-
2) Esame Clinico che deve ricercare

- il nistagmo che denuncia il danno vestibolare (bisogna evidenziare il lato della


scossa rapida)

- la presenza di eventuali segni neurologici

3)Esame Otoscopico ricerca una eventuale patologia dell’orecchio medio

Al di fuori dalla crisi, l’anamnesi è fondamentale per ricostruire l’andamento della


crisi ed è completata dall’esame clinico e dall’esame otoscopico

Al termine dell’esame clinico, può essere posta l’indicazione di un esame


cocleovestibolare strumentale.

L’esame cocleo-vestibolare (o labirintico) strumentale può comprendere:

161
a) per la componente vestibolare

- esame calorico senza registrazione,

- esame videonistagmoscopico senza registrazione (con l’ausilio delle lenti di


Frenzel),

- esame vestibolare con registrazione elettronistagmografica o videonistagmografico


in caso di

prove caloriche, pendolari o rotatorie

- esame dell’equilibrio con piattaforme di equilibrio e di postura (stabilometria),

b) per la componente cocleare

- audiometria tonale, liminare e sopraliminare

- audiometria vocale

- timpanometria con studio del riflesso stapediendiale

- potenziali evocati auditivi preci

- elettrococleografia

PER LA :

1) VERTIGINE ASSOCIATA a SEGNI NEUROLOGICI: si impone un bilancio


neurologico e/o un ricovero in ospedale. Le indagini complementari saranno adattate
alle patologie ricercate (Accidente ischemico vertebro-basilare, sclerosi a placche,
processo espansivo della fossa cerebrale posteriore, ecc.)

2) VERTIGINE NEL CONTESTO DI UNA PATOLOGIA DELL’ORECCHIO


MEDIO (Infettiva, traumatica, post-operatoria, malformativa): è necessario un

162
bilancio ORL. Una tomodensiometria può essere necessaria dopo l’esame
otologico.

3) VERTIGINE ISOLATA o ASSOCIATA a SEGNI COCLEARI: comprende


diversi forme nosologiche:

- Vertigine posizionale parossistica benigna;

- Neuronite o nevrite vestibolare

- Malattia di Meniére,

- Vertigine iterativa o ricorrente

- Vertigine non classificabile

In letteratura non c’è consenso sui criteri diagnostici e sulla terapia della vertigine
iterativa. In caso di persistenza di crisi di vertigini e della comparsa di nuovi sintomi,
bisogna ripetere l’esame cocleo-vestibolare per non disconoscere nessuna causa

Vediamo la tabella
Differenze tra nistagmo posizionale riscontrato nella patologia del tronco cerebrale e

quello della vertigine posizionale parossistica benigna. (Dix, 1984)

Caratteristiche del Vertigine posizionale Centrale


nistagmo
parossistica benigna

Periodo di latenza 2 – 20 secondi 0

Adattamento Scompare in 50 secondi Persiste

Fatigabilità Scompare in caso di Persiste


ripetizioni

Vertigine Sempre presente Assente

Direzione del nistagmo Verso l’orecchio più basso Variabile

Frequenza Relativamente frequente Raro

163
ILPRIMO APPROCCIO AL PAZIENTE CON VERTIGINI IN PRONTO
SOCCORSO
L’Infermiere del Triage solitamente attribuisce al paziente con vertigini, il codice-
colore “Verde”. Per il Medico del PS è di stabilire, mediante accurata anamnesi,
esame obiettivo completo, indagini strumentali e di laboratorio, se i sintomi riferiti
dal paziente hanno le caratteristiche della vertigine vera o della pseudovertigine e se
l’eziologia è più tipicamente centrale o periferica.

Anamnesi:

Domande volte a definire le caratteristiche del sintomo (vera e propria vertigine,


sensazione di testa leggera, sensazione di instabilità, ...)In particolare mirata a
definire: tipo di vertigine, modalità di insorgenza della vertigine, corteo di sintomi di
accompagnamento (turbe neurovegetative, acufeni, ipoacusie)

Modalità di esordio e durata della sintomatologia (es.: primo episodio o recidiva,


inizio graduale o improvviso; sintomi costanti o episodici, durata e frequenza,
correlazione con il cambiamento di posizione, con lo stress, ...)

Sintomi associati: audiologici, visivi, neurologici, cardiaci, psichiatrici (es.: Nausea o


Vomito, Ipoacusia, Tinnito, Acufeni, Atassia, Possibili sintomi neurologici nelle
forme “centrali” (diplopia, scotomi scintillanti, offuscamento della visone, ipostenia,
disartria, difficoltà alla deglutizione, ...), pregressa otite, sensazione di pressione
all’orecchio, pregresso trauma, ecc. ...)

Fattori precipitanti: cambiamento di posizione, traumi, stress, assunzione di farmaci


ototossici

Malattie predisponenti: infezioni virali sistemiche, cardiopatie, cerebrovasculopatie

164
Comportamento della funzione uditiva:

- udito compromesso all’insorgere della crisi (interessamento dell’arteria uditiva e


dell’orecchio interno; lesione traumatica dell’orecchio interno);
- modificazione uditiva in concomitanza (prima, durante e dopo) della crisi (=
sintomo di Lermoyez) (malattia di Meniére, sindromi menieriformi);
- udito non compromesso (lesione traumatica dell’orecchio interno; interessamento
dell’arteria vestibolare anteriore; neuronite vestibolare, sindrome nucleare e
reticolare acuta di Arslan; sclerosi a placche di Barré ad insorgenza acuta; trauma
cranico, “colpo di frusta”, ecc.)
- compromissione progressiva (lesione del nervo VIII: neurinoma o tumori
dell’angolo pontocerebellare)
- non compromissione (interessamento delle vie vestibolari e nervose centrali, turbe
della cenestesi, vertigini psicogene)

Esame obiettivo
Ricerca del nistagmo e delle deviazioni segmentario-toniche (test di Romberg e prova
della marcia) deviazione degli indici, prova di Unterbergher, valutazione neurologica
completa

Diagnostica strumentale di 1° livello

Esame otoscopico, misurazione della Pressione arteriosa, ECG.

Esami di Laboratorio: Emocromo, glicemia, elettroliti, ed eventualmente


EmoGasAanalis. Consentono di confermare in breve tempo il sospetto diagnostico di
“Pseudovertigine” da anemia, ipoglicemia, alterazioni idro-elettrolitiche,
iperventilazione)

165
Costituiscono inoltre indicazioni a visita specialistica o ricovero urgente le vertigini
accompagnate da:

• cefalee intense (gravi malattie cerebrali)


• segni neurologici complessi (lesioni del tronco cerebrale, sclerosi a placche,
tumori del tronco)
• sindrome infettiva (meningo-encefalite)
• quadri dubbi con sospetta componente cardio-circolatoria o scompensata.

Terapia riabilitativa della vertigine


La riabilitazione è una terapia funzionale: non interferisce con i meccanismi
eziopatogenetici della vertigine, bensì essa mira al ripristino delle funzioni alterate.
Non esiste pertanto la rieducazione di una data patologia, ma quelle di una data
situazione funzionale. Questa terapia necessita pertanto di un preventivo ed
accurato bilancio funzionale del paziente che comprenda la componente
oculomotrice e posturale.
La terapia riabilitativa prevede 4 fasi fondamentali

1) Selezione dei pazienti:

2) Programmazione di un protocollo riabilitativo: vario ed individuale in relazione


alla situazione del paziente e sue abitudini.

3) Esecuzione degli esercizi:

4) Monitoraggio dei risultati:

Le tecniche di riabilitazione sono orientate in due distinte vie:

1) Rieducazione della oculomotricità

2) Rieducazione della postura e marcia

166
4.3 Malattia cerebrovascolare

Le malattie cerebrovascolari sono malattie ad elevatissima frequenza rappresentate da


ischemie ed emorragie cerebrali che clinicamente si manifestano in fase acuta con il
quadro dell’ictus o apoplessia cerebrale, dall’esito talora invalidante o addirittura
mortale, in fase cronica (per quanto concerne l’ischemia) con il quadro
dell’encefalopatia vascolare tipica dell’età senile.
Nella popolazione generale l’incidenza degli ictus è di circa 1,5 casi all’anno per
1000 abitanti aumentando in modo progressivo con l’età (30 per mille oltre i 75 anni
di età).
I più comuni fattori di rischio sono rappresentati da:
per le ischemie: ipertensione arteriosa, diabete, fumo, cardiopatie ischemiche e
cardiopatie embolizzanti, dislipidemia, obesità, più raramente l’emicrania, l’uso di
estroprogestinici, le arteriti, fattori meccanici (compressioni sulla arteria vertebrale
da osteofiti cervicali), fattori emodinamici (es. sindrome da furto della succlavia),
disturbi della coagulazione (trombocitosi);
per le emorragie: l’ipertensione arteriosa, gli aneurismi e le malformazioni artero-
venose cerebrali.

FORME CLINICHE ischemiche


In ordine crescente di gravità:
-Soffio carotideo asintomatico = in assenza di segni clinici presenza di un
soffio carotideo ascoltabile con lo stetoscopio, da distinguere rispetto a quelli
cardiaci irradiati al collo. E’ provocato da una stenosi della carotide interna ed
è un segnale della presenza di aterosclerosi in quella sede, aumentando il
rischio di ictus in misura del 2-3 % in più rispetto ai soggetti sani.
In casi selezionati utile l’approccio chirurgico mediante endarteriectomia.

167
- Attacchi ischemici transitori o TIA = si esprimono con deficit neurologici focali
che regrediscono completamente in meno di 24 ore, durando spesso solo pochi minuti
o 1-2 ore.

- Vengono distinti in carotidei (retinici oppure emisferici), molto più frequenti, e


vertebro-basilari a seconda del distretto interessato con conseguente diversità del
quadro sintomatologico ed anche prognostico essendo i primi a più elevato rischio di
ictus.

- Deficit neurologici ischemici reversibili o RIND = simili ai precedenti per eziologia


, patogenesi e semeiologia ma caratterizzati da durata maggiore (sempre superiore
alle 24 ore), di solito compresa fra 1 e 3 settimane e maggiore rischio di ictus
successivo (30 % circa entro 5 anni), comunque non aumentando il rischio di morte.
- Ictus cerebrale propriamente detto = rappresenta la conseguenza di un infarto
cerebrale manifestandosi con deficit neurologici persistenti o con la morte. Viene
comunemente definito maggiore se il pz. conserva a distanza gravi deficit, minore se
questi sono lievi mentre a seconda delle modalità d’esordio si parla di ictus completi
(natura generalmente embolica) se il deficit neurologico è massimale sin dall’inizio,
ictus in evoluzione (natura generalmente trombotica) se invece i deficit evolvono a
gradini nell’arco di uno o più giorni. Spesso sono preceduti da TIA ed esordiscono
durante il sonno senza rapporto con sforzo o stress.
Se l’ictus colpisce le cosiddette piccole arterie penetranti (profondità degli emisferi o
nel tronco encefalico) si parla allora di infarti lacunari dalla tipica sintomatologia
“pura” che permette una diagnosi agevole e dalla prognosi solitamente benigna.
Vediamo da vicino le patologie quali
:
- ENCEFALOPATIA VASCOLARE CRONICA = encefalopatia progressiva
costituita da deterioramento cognitivo e deficit neurologici focali, un tempo attribuita
all’ipossia

168
cerebrale cronica secondaria all’aterosclerosi, attualmente considerata la somma
spaziale e temporale di vari infarti (encefalopatia multi-infartuale). La patologia di
base può colpire le arterie sia di piccolo che di grande calibro risultandone infarti di
piccolo o grosso calibro.
FORME CLINICHE EMORRAGICHE SONO:
- Emorragia intraparenchimale primaria o ipertensiva = emorragia localizzata in una
sede cerebrale, cerebellare o del tronco dovuta alla rottura spontanea di un’arteria
penetrante (spesso facente parte del circolo di Willis) colpita da degenerazione di
natura ipertensiva. L’esordio si colloca generalmente nell’età avanzata (dopo i 60-65
anni) e risulta spesso in rapporto con stress psicofisici. La prognosi appare
generalmente legata alla gravità dello stato neurologico alla prima osservazione;
rappresenta il 25 % circa di tutti gli ictus.
- Emorragia da rottura di aneurismi o subaracnoidea = costituiscono il 5-10 % di tutti
gli ictus e sono dovute alla rottura spontanea di aneurismi cerebrali cioè dilatazioni
sacculari o fusiformi di arterie cerebrali con conseguente spandimento di sangue a
livello subaracnoideo.Gli aneurismi, unici o multipli, non sono congeniti in senso
stretto pur formandosi su tessuti vascolari congenitamente fragili e solitamente si
rendono sintomatici fra i 30 e i 60 anni.
La prognosi è simile alle forme precedenti ed è spesso legate alle tipiche
complicazioni dei giorni successivi : idrocefalo da blocco liquorale da parte del
coagulo, vasospasmo, recidiva.

- Emorragia da rottura di malformazioni artero-venose (MAV) = sono dovute alla


rottura di anomalie vascoolari congenite formate da arterie e vene direttamente
comunicanti senza l’interposizione di un circolo capillare. L’esordio si colloca
solitamente in età giovanile o primo-adulta; spesso prima di rompersi tali
malformazioni danno segni della loro presenza mediante cefalea, epilessia, TIA, soffi
endocranici, malformazioni vascolari della retina.
La prognosi è variabile, il trattamento è tipicamente chirurgico.

169
DIAGNOSI CLINICA:
La diagnosi clinica si effettua mediante una approfondita raccolta dell’anamnesi
remota e recente e l’esecuzione dell’esame obiettivo neurologico e sistemico.

ANAMNESI
- familiarità positiva o negativa per malattie neurologiche in particolare di tipo
cerebrovascolare
- anamnesi fisiologica completa (assunzione pregressa di farmaci, uso di
contraccettivi, etc.)
- presenza di patologie concomitanti, in particolare quelle considerate fattori di
rischio per le malattie cerebro-vascolari (vedi sopra )
- eventuali pregressi interventi chirurgici di significativa importanza
- esordio graduale , acuto o subacuto della sintomatologia neurologica
- evoluzione graduale o rapida della stessa sintomatologia
- eventuale presenza di sintomi associati neurologici e/o extraneurologici (disturbi
cardiologici, visivi, dermatologici , reumatologici ad es)
- attuale e pregressa terapia farmacologica ed eventualmente riabilitativa con
relativi benefici ed effetti collaterali riferiti
- terapie concomitanti anche di tipo non neurologico
SEGNI E SINTOMI
A seconda dei distretti colpiti dalla lesione di base (es. placche atero-trombotiche o
emorragie) si possono riscontrare ed essere riferiti con varia gravità e diversa
evoluzione nel tempo:
- deficit visivi uni- o bilaterali
- deficit motori uni- o bilaterali
- deficit di uno o più nervi cranici
- disturbi sensitivi obiettivi (ipo- o anestesia tattile e termodolorifica) uni- o
bilaterali
- disturbi sensitivi soggettivi (sensazione di ridotta sensibilità, parestesie,

170
dolori) uni- o bilaterali
- ipotonia muscolare di vario grado
- ipotrofia muscolare di vario grado ( atrofia in stadi avanzati)
- vivacità , riduzione o assenza dei riflessi profondi
- disturbi cerebellari
- cefalea ad esordio generalmente “ictale”
- sindrome vertiginosa
- crisi epilettiche
- disturbi di memoria
- disturbi di percezione (vedi s. dell’apice della basilare)
- disturbi della vigilanza (dalla confusione al coma)
SINTOMI ASSOCIATI = tutti i possibili sintomi sistemici suggestivi della patologia
di base (es. soffi carotidei, disturbi della conduzione cardiaca, etc. )
OBIETTIVI TERAPEUTICI
L’orientamento terapeutico è rivolto a migliorare i danni fisici e psico-sociali della
malattia fornendo inoltre indicazioni sulle ulteriori possibilità riabilitative da seguire
anche all’uscita dal Reparto ed in eventuali sedi superspecialistiche. Infatti eseguita la
corretta diagnosi, in caso di terapie farmacologiche di tipo non neurologico o terapie
chirurgiche (neurochirurgiche in particolare) o specifici approfondimenti diagnostici
(in particolare arteriografia) al paziente saranno date tutte le informazioni del caso
con indicazione di eventuali centri specializzati.
Accanto alla terapia farmacologica ritenuta più adatta e alle norme igieniche e
generali, nei casi indicati sarà eseguita anche una terapia psicologica di sostegno, in
particolare per i pazienti più giovani o per i pazienti che al termine degli accertamenti
riceveranno la diagnosi in questione per la prima volta.
Le terapie farmacologiche sono rappresentate da:
TIA = antiaggreganti, eventualmente anticoagulanti, correzione fattori di rischio
cardiovascolare
ICTUS MINORE (RIND) = antiaggreganti o anticoagulanti a seconda dell’eziologia

171
ICTUS MAGGIORE = antiedemigeni (glicerolo) e misure generali
ENCEFALOPATIA VASCOLARE CRONICA = nootropi ,nimodipina, l-dopa o
dopaminergici a basse dosi
in caso di segni parkinsoniani, terapie sintomatiche (es. per incontinenza sfinterica)
EMORRAGIE DI LIEVE ENTITA’ = antiedemigeni e misure generali
EMORRAGIE DI GRAVE ENTITA’ o in evoluzione = trasferimento presso Unità
Neurochirurgica
Infine in caso di diagnosi di malformazioni atero-venose (MAV), anche in assenza di
emorragia, è necessario il trasferimento del paziente presso una Unità
Neurochirurgica per approfondimenti diagnostici e terapie specifiche.
.
PIANO D’ASSISTENZA:
Comprende:
1.
Definizione della patologia
2.
Anamnesi infermieristica (raccolta dati)
3.
Esame obiettivo (dati oggettivi)
4.
Indagini diagnostiche = informazioni riguardo agli esami di laboratorio e diagnostici
5.
Complicanze potenziali = complicazioni più frequenti di una data condizione
6.
Diagnosi infermieristica = individuazione del problema
7.
Priorità assistenziale = indicano il centro di interesse dei successivi interventi
infermieristici
8.
Obiettivo o bisogno specifico
9.
Interventi infermieristici
10.
Valutazione finale = risposta ideale all’intervento che ci si attende da parte del
paziente.

172
4.4 Intossicazione da farmaci o da alcool

….(Agenzia Giornalistica Italiana AGI ) - Italy: 25 Gen. 2005
 Sono sempre piu'
numerosi i casi di intossicazione acuta causati da farmaci e come per altre
sostanze, i bambini sono coinvolti in larga misura. E' quanto emerge dai dati
analizzati dal Centro Antiveleni dell'Ospedale Niguarda Ca' Granda, frutto di
migliaia di segnalazioni. Delle 54.869 consulenze erogate nel periodo analizzato,
17.418 (pari al 34%) hanno come oggetto il farmaco e tra queste quasi 6mila
riguardano i bimbi da 0 a 4 anni. "Le cause piu' frequenti -, sono soprattutto dovute
all'assunzione da parte dei bambini di farmaci lasciati alla loro portata, piuttosto che

Il Centro
ad errori di somministrazione del farmaco prescritto in terapia".
Antiveleni ha la piu' ampia casistica a livello nazionale e costituisce un osservatorio
privilegiato per l'analisi dei comportamenti a rischio dei cittadini, non soltanto per
quanto riguarda i farmaci, ma per diverse categorie di prodotti che possono dare
origine ad intossicazioni acute (casalinghi, alimenti, cosmetici, droga, presidi
medico chirurgici, antiparassitari e altri).

Che cosa si intende per avvelenamento:


per avvelenamento si intende un problema di salute più o meno grave che può
presentare molteplici e differenti segni e sintomi, conseguenti all’introduzione
nell’organismo di varie sostanze, droghe o veleni. Essa è una condizione patologica
dovuta all’introduzione di una sostanza velenosa o tossica nell’organismo. Il contatto
con il veleno può avvenire con diverse modalità (via cutanea, orale, inalatoria,
endovenosa ecc.) e i sintomi possono apparire subito dopo il contatto con la sostanza
responsabile o insorgere in un momento successivo.
Il numero delle sostanze che, se ingerite o introdotte per altra via nell’organismo,
sono in grado di provocare manifestazioni dannose per la salute del soggetto, o
pericolose per la sua stessa sopravvivenza, è enorme e in continuo aumento. Si tratta
sia di sostanze naturali, presenti nell’ambiente vegetale, animale o minerale, sia,

173
soprattutto, di composti prodotti dall’uomo, in particolare reagenti chimici, insetticidi
e pesticidi. Molti avvelenamenti sono accidentali; avvengono cioè per errore della
vittima o di altra persona, o per inosservanza di regolamenti di sicurezza, o sono
attribuibili alla fatalità.
Tossicologia
Disciplina medica che studia i veleni. La tossicologia si occupa della composizione
delle sostanze chimiche tossiche, medicamentose e non, dei loro effetti
sull’organismo, della diagnosi e del trattamento delle intossicazioni. In tutte le grandi
città è presente un centro antiveleni, in grado di fornire telefonicamente le
informazioni richieste su una sostanza che si suppone essere tossica, organizzare le
cure d’urgenza e garantire il trattamento.
Tossicità dei veleni
La tossicità dei diversi tipi di veleno varia notevolmente, come pure la possibilità di
essere avvelenati. Alcune specie animali, infatti, sono paurose, timide o poco
aggressive (api, vespe e alcuni serpenti). Tra i veleni poco tossici vi sono quello di
ortica, zanzara, pulce, tafano e formica; tra quelli molto potenti, il veleno di cobra e
serpente corallo.
Un veleno reputato poco tossico può però rivelarsi molto pericoloso se comporta un
edema delle vie respiratorie (rischio di morte per asfissia) o una reazione allergica
generalizzata (shock anafilattico).
Questi due rischi insorgono soprattutto nel caso di punture, in particolare se multiple,
di imenotteri (api, vespe e calabroni). L’azione distruttrice dei veleni può esercitarsi
sul sangue (emolisi, o distruzione dei globuli rossi), sul sistema nervoso (presenza di
neurotossine responsabili di neurolisi) oppure sul fegato (citolisi epatica).
Tipi di avvelenamento:
A questo proposito è opportuno distinguere tra avvelenamento acuto, nel quale la
condizione patologica è causata da un episodio nel quale il soggetto è entrato a
contatto con il veleno (ingestione o inalazione di cibi o sostanze tossiche, puntura di
insetto o animale ecc.), che porta in tempi brevi (di solito entro le 24 ore) alla

174
comparsa di sintomi, e avvelenamento cronico, nel quale i sintomi si manifestano
dopo una esposizione prolungata alla sostanza in questione (avvelenamento da
piombo, da mercurio ecc.).
-L’Avvelenamento alimentare
Tra le tipologie più comuni di avvelenamento, quello di carattere alimentare è
causato dall’ingestione di cibi avariati, contaminati da sostanze o parassiti o
intrinsecamente tossici. Quest’ultimo è il caso di alcune specie di funghi, come quelli
appartenenti al genere Amanita, che contengono sostanze altamente nocive per
l’organismo (muscarina, falloidina), che provocano nel paziente gravi alterazioni
emocoagulative, epatiche e renali che possono in alcuni casi portare a morte.
Il Clostridium botulinum determina una grave malattia che è conseguenze
all’ingestione di cibi conservati, proprio contaminati dal Clostridium botulinum il
quale produce una tossina in grado di provocare il blocco della trasmissione degli
impulsi nervosi ai muscoli.
Il botulismo alimentare si verifica se il cibo da conservare è contaminato dalle spore
del batterio e consegue generalmente alla non corretta preparazione casalinga di
conserve, soprattutto a base di verdure, frutta e condimenti, mentre è meno frequente
con la carne e il pesce.Il tempo di comparsa dei sintomi è variabile (da poche ore a 7
giorni) e segue all’ingestione di cibi conservati contaminati da Clostridium
botulinum. I sintomi comprendono nausea e diarrea nelle forme più lievi, mentre la
forma più grave è caratterizzata da un coinvolgimento dei nervi cranici e da una
progressione della malattia che vede interessati tutti i gruppi muscolari fino alle
estremità. Sono presenti pertanto disturbi quali visione doppia (diplopia),
abbassamento delle palpebre (ptosi palpebrale), difficoltà di deglutizione (disfagia),
disturbi della parola (disartria) fino alla totale incapacità di emettere suoni (afonia) e
paralisi dei muscoli respiratori. Può essere presente sudorazione profusa; il polso, se
palpato, viene apprezzato di ridotta intensità (polso piccolo).Di fronte al sospetto di
botulismo è opportuno recarsi nel Pronto soccorso più vicino portando con sé
l’alimento sospetto.

175
-L’Avvelenamento da farmaci
L’avvelenamento da farmaci è causato dall’ingestione di quantità eccessive di
sostanze farmaceutiche. Può essere accidentale o volontario (tentativi di suicidio per
ingestione di barbiturici, che in grandi quantità provocano una sonnolenza che
degenera nel coma).
In una certa percentuale dei casi, l’intossicazione non è accidentale, ma dovuta a
suicidio. L’ingestione di un veleno è uno dei metodi più comuni adottati da chi voglia
togliersi la vita. Le sostanze impiegate sono le più varie, e comprendono medicinali
(soprattutto psicofarmaci: barbiturici ed altri), veleni veri e propri (stricnina) ed altri
composti chimici (alcool metilico, solventi, coloranti).
Tra i farmaci, i barbiturici sono molto pericolosi, perché in grado di indurre uno stato
di sonno sempre più profondo fino al coma, con arresto della respirazione e
dell’attività cardiaca, con conseguente decesso. La loro azione può essere potenziata,
e quindi peggiorata, con l’ingestione di bevande alcoliche. Una volta ingerita una
forte quantità di barbiturico, il soggetto ha pochissimo tempo per pentirsi del proprio
gesto avvertendo qualcuno; se cede al sopore provocato inizialmente dal farmaco, e
se non viene curato in tempo, il decesso è sicuro.
Negli ultimi anni si è assistito ad una diminuzione nella prescrizione di farmaci
barbiturici per la terapia dell’insonnia, in parte anche a causa della disponibilità di
medicamenti diversi (come le benzodiazepine) altrettanto efficaci come induttori del
sonno, ma assai meno pericolosi; di conseguenza, anche i suicidi per mezzo del
barbiturico si stanno facendo anno dopo anno meno frequenti.
L’Avvelenamento in ambiente domestico
Nell’ambiente domestico e quotidiano altre sostanze di uso comune ma molto
pericolose per l’organismo sono gli antiparassitari, utilizzati su frutta e ortaggi, e i
caustici acidi o basici (candeggina, acetone, soda caustica, ammoniaca ecc.).
La maggior parte di tali intossicazioni si realizza in ambiente domestico. Sono
soprattutto i bambini ad andare incontro ad avvelenamenti accidentali in casa;

176
specialmente quelli di età compresa fra i tre e i sei anni, dotati come sono di una forte
curiosità non ancora tenuta a freno da un sufficiente senso critico. Essi pertanto
tendono a portare alla bocca e a ingerire le cose più svariate, senza rendersi conto
della pericolosità di quanto stanno facendo, o ritenendo che si tratti di dolci o altri
alimenti appetibili. In Italia vi sono ogni anno migliaia di casi di intossicazioni
accidentali di bambini, molti dei quali hanno esito letale. Di avvelenamenti
accidentali possono restare vittime, sempre in ambiente domestico, anche persone
adulte che ingeriscono, per esempio, medicinali scaduti o in quantità diverse a quanto
prescritto; particolarmente pericolosi sono farmaci conservati in un contenitore
diverso da quello originale e magari contrassegnati in maniera poco chiara.
L’Avvelenamento in ambiente lavorativo
Le intossicazioni in ambiente domestico sono in genere di tipo acuto, vale a dire
dovute a ingestione (o introduzione per un altra via) di una quantità relativamente alta
di sostanza velenosa in un tempo molto breve. Invece gli avvelenamenti che si
riscontrano in ambiente lavorativo sono più spesso dovuti ad una esposizione cronica
all’agente chimico lesivo, anche se non mancano casi di infortunio da esposizione
massiccia (e quindi avvelenamento acuto) a una sostanza tossica. L’esposizione a
sostanze nocive con intossicazione cronica è dovuta di solito a inosservanza dei
regolamenti di igiene industriale.
Per completate il quadro degli avvelenamenti e/o intossicazioni va ricordata un’altra
forma di avvelenamento da prendere in considerazione è quello criminoso.
L’omicidio attuato tramite veneficio è meno frequente oggi che nel passato, anche a
causa dell’affinarsi delle tecniche di tossicologia forense (un settore della medicina
legale) che permettono di rilevare tracce anche minime di veleno nel cadavere. Il
veneficio veniva infatti utilizzato assai spesso proprio perché può non lasciare
evidenti tracce esterne, e quindi può far pensare a una morte naturale.
Troppo lungo sarebbe elencare qui le principali sostanze comunemente implicate
negli avvelenamenti. Basti citare, tra i farmaci, il paracetamolo, gli antistaminici,
l’atropina, i sali di ferro, i salicilati; fra i composti chimici vari, gli acidi, gli alcali, il

177
monossido di carbonio, la formalina, gli idrocarburi alogenati, i nitriti, il fenolo.
Spesso implicati negli avvelenamenti sono anche i distillati di petrolio (benzine, olii
ed altri), gli insetticidi e gli altri pesticidi, i coloranti e le vernici.
Proprio a causa della notevole diffusione di sostanze tossiche, presenti praticamente
in ogni casa, gli avvelenamenti accidentali sono estremamente frequenti. Vittime di
questi incidenti sono soprattutto i bambini, di età compresa fra i tre e i sei anni: in
questo periodo, infatti, i bambini sono dotati di forte curiosità, mentre non riescono a
rendersi conto del pericolo che può derivare dalle loro azioni; così, quanto trovano in
casa una sostanza sconosciuta, possono assaggiarla, soprattutto se il suo aspetto è tale
da far loro sperare che si tratti di un dolce. Sono, quindi, particolarmente pericolosi
alcuni cosmetici, prodotti per l’igiene personale e confetti farmaceutici.
Queste sostanze, come del resto tutte le altre sostanze tossiche presenti in casa,
devono sempre essere conservati in armadietti ben chiusi, fuori dalla portata dei
bambini. Anche gli adulti possono andare incontro ad avvelenamenti accidentali:
questo si verifica, di solito, dopo la sostanza tossica viene conservata in un involucro
diverso da quello originale. Può così avvenire che sostanze tossiche, conservate in
bottiglie o vasetti per alimenti, vengano ingerite per errore, o che un farmaco tossico
tenuto in un contenitore privo di etichette venga confuso con un’altra medicina e sia
ingerito in dosi eccessive e pericolose.
Quindi, anche se in casa non ci sono bambini, è importante conservare correttamente
le sostanze tossiche nelle loro confezioni originali.
I sintomi variano a seconda del tipo di avvelenamento. Nausea, vomito, crampi e
dolori addominali si riscontrano nella maggior parte dei casi.
Dipende dalla causa. In generale le tre azioni principali consistono nel rimuovere il
veleno dal corpo (lavanda gastrica) o nel cercare di ridurne o rallentarne il più
possibile l’assorbimento; nel trattare i sintomi con misure generiche (induzione del
vomito o della diuresi, somministrazione di ossigeno e grandi quantità di acqua) o
specifiche del caso .
In genere, il sospetto di intossicazione viene preso in considerazione nella diagnosi

178
differenziale di gravi stati acuti quali le convulsioni, coma di natura da determinare,
gli stati psicotici acuti (soprattutto in pazienti senza alcun precedente psichiatrico),
l’insufficienza epatica e renale a comparsa improvvisa, l’insufficienza midollare
(aplasia midollare acuta).
Proprio la brusca manifestazione di una grave sintomatologia, a carico di un paziente
che aveva goduto di buona salute, può far sospettare la possibilità di un
avvelenamento acuto. Sospettato l’avvelenamento e ristretta la cerchia delle possibili
sostanze in causa, se è disponibile un laboratorio di tossicologia (di solito annesso ai
“”centri antiveleni”” degli ospedali) gli si inviano campioni biologici del paziente
(sangue, urine, od altro) chiedendo l’identificazione chimica della sostanza
responsabile necessaria per eseguire una terapia mirata, basata sulla
somministrazione di antidoti.
Importante chiaramente è l’identificazione del tipo di veleno
Una efficace terapia può essere istituita soltanto dopo aver formulato una diagnosi
precisa di avvelenamento e identificato la sostanza che con maggiori probabilità è
responsabile dell’avvelenamento stesso.
Il medico è spesso aiutato nella formulazione della diagnosi dal dato circostanziale:
in casa del paziente o vicino ad esso possono essere rinvenuti contenitori, scatole od
altri oggetti utili per l’identificazione della sostanza responsabile. Se il paziente
collabora, si possono ottenere da lui informazioni sulla natura del veleno, tenendo
però conto che egli può avere la tendenza a non rivelare un tentativo di suicidio,
oppure non essere affatto consapevole della sua esposizione alla sostanza tossica
(come avviene in molti casi di intossicazioni professionali).
Il ruolo del medico è reso particolarmente difficile dal fatto che, se alcune sostanze
chimiche (soprattutto quelle con spiccata azione farmacologica) sono in grado di
indurre modificazioni specifiche nell’organismo, inquadrabili in sindromi e pertanto
agevolmente riconoscibili, molte altre danno invece luogo a sintomi del tutto non
specifici o che possono far pensare a malattie diverse.
Terapia e cura dell’avvelenamento

179
La terapia degli avvelenamenti è basata su questi quattro criteri:
1) impedire ogni ulteriore assorbimento della sostanza tossica;
2) alallontanare dall’organismo la sostanza tossica già assorbita;
3) instaurare una terapia di sostegno non specifica;
4) somministrare antidoti generici o meglio, se possibile, specifici.
Il primo scopo si ottiene (per quanto riguarda la via di assorbimento più comune,
quella digerente) tramite lavanda gastrica, induzione del vomito, somministrazione di
sostanze che impediscano l’ulteriore assorbimento del tossico. La rimozione del
veleno dall’organismo può essere accelerata, conoscendone la via di eliminazione,
mediante la somministrazione di certi farmaci (diuretici, alcalinizzanti, etc) o tramite
dialisi o exanguinotrasfusione. La terapia di sostegno, che mira a mantenere buone le
condizioni generali del paziente, comprende la terapia dell’eventuale stato
convulsivo, dell’edema cerebrale, delle aritmie cardiache, della depressione del
sistema nervoso centrale, dell’edema polmonare.
La somministrazione di antidoti è ottimale nel caso in cui sia disponibile l’antidoto
specifico verso la sostanza che ha causato l’avvelenamento; ciò è possibile,
purtroppo, solo in una piccola parte dei casi di avvelenamento. La somministrazione
dell’antidoto specifico migliora in maniera assai notevole le condizioni
dell’intossicato.

Vi sono poi alcuni veleni usati per scopi terapeutici


Alcuni tipi di veleni sono impiegati, in dosi controllate, a scopo terapeutico
Soccorrere la vittima di un avvelenamento non è facile, richiede molto sangue freddo
per non aggravare le sue condizioni con manovre sbagliate, qualche conoscenza
medica e qualche nozione di chimica, che permetta di riconoscere la natura del
veleno. Il rimedio più ovvio è quello di far espellere all’intossicato la maggior parte
del veleno con il vomito: ma questa misura è controindicata se il veleno è un acido o
una base forte, oppure se si tratta di petrolio, benzina o solventi. Se si possono
escludere queste possibilità, si induce il vomito, facendo bere all’intossicato

180
dell’acqua calda contenente senape o sale. É necessario assistere l’infortunato,
tenendogli la testa bassa e girata da un lato, in modo che il vomito non lo soffochi.
Una volta liberato lo stomaco, gli si può somministrare un antidoto universale:
carbone vegetale, oppure diversi albumi crudi.
Se la sostanza velenosa è un acido o una base forte (questi veleni provocano delle
causticazioni, simili ad ustioni, della bocca) la si può neutralizzare. Nel caso degli
acidi si somministrano al paziente due cucchiaini di bicarbonato di sodio sciolti in un
bicchiere d’acqua, mentre le basi si neutralizzano con succo di limone o aceto diluiti.
Naturalmente, prima di somministrare questi liquidi, bisogna essere sicuri di avere
identificato la sostanza. Nel caso di avvelenamento da petrolio, benzina o solventi,
tutto quello che può fare il soccorritore è cercare di diluire il veleno con qualche
bicchiere d’acqua; non bisogna invece mai somministrare il latte. Immediatamente
dopo aver prestato i primi soccorsi, bisogna chiamare un medico, anche se
l’infortunato sembra essersi ripreso completamente: è compito del soccorritore
osservare tutto quello che può essere utile per la diagnosi, cercare di capire la
quantità di veleno che è stata ingerita, raccogliere campioni della sostanza che ha
provocato l’avvelenamento.

La Prevenzione contro i veleni


La prevenzione degli incidenti causati da veleni consiste nell’evitare il più possibile
le piante e gli animali o altri agenti in causa e nell’osservare la massima prudenza
quando non è possibile sottrarsi all’esposizione (abiti adatti, uso di repellenti,
desensibilizzazione in caso di allergia provata). Le persone che sanno di essere
allergiche alle punture di ape, per esempio, dovrebbero portare sempre con sé una
dose di adrenalina e antistaminici.Talvolta la sostanza coinvolta non è un veleno di
per sé ma lo diventa in relazione alla dose assunta (come nel caso dei farmaci),
mentre in altri casi la sostanza è tossica anche a dosi estremamente piccole (come è

181
invece il caso dell’amatossina del fungo Amanita phalloides). Le cause di un
avvelenamento possono essere molteplici: quasi il 90% degli avvelenamenti è
conseguente a esposizione non intenzionale alla sostanza incriminata. Nella maggior
parte dei casi si determina una tossicità trascurabile, ma che va comunque sempre
valutata in ambito medico. Gli avvelenamenti intenzionali rappresentano il 10-15%
dei casi.
Tra le intossicazioni da farmaci vediamo ad esempio:
- Il Paracetamolo
Il paracetamolo è comunemente utilizzato sia come farmaco per abbassare la
febbre (antipiretico) sia come analgesico.
Un’intossicazione clinicamente rilevante di paracetamolo si verifica in genere solo
per assunzione di singole dosi maggiori di 7,5-10 grammi (15-20 delle comuni
compresse da 500 mg) o di dosi di 6 grammi al giorno per più giorni. Dosi inferiori
possono essere tossiche solo in alcuni soggetti, per esempio negli alcolisti cronici.
Le principali manifestazioni cliniche sono rappresentate da nausea, vomito, dolori
addominali e sudorazione, che compaiono da 1 a 24 ore dopo l’ingestione della dose
tossica e durano fino a 7 giorni.
La manifestazione più grave è la necrosi epatica acuta, che si osserva in genere per
dosi superiori ai 10 grammi.
È opportuno, in caso di ingestione eccessiva, recarsi al più vicino Pronto soccorso nel
più breve tempo possibile, in quanto il trattamento specifico è più efficace se iniziato
entro 12 ore dall’assunzione della dose tossica.

I nomi commerciali del paracetamolo sono Acetamol, Tachipirina, Efferalgan. Co-


efferalgan e Tachidol contengono insieme al paracetamolo anche la codeina.

-Le Benzodiazepine
Di largo impiego nella pratica clinica soprattutto come sedativi o induttori del sonno.
Sono anche i farmaci più frequentemente utilizzati a scopo suicida.
Nei casi di intossicazione lieve, il paziente appare come “rallentato” ma è

182
risvegliabile, mentre se vi è stata ingestione di maggiori quantità di farmaco è
presente una grave alterazione dello stato di coscienza che può giungere fino al coma
e all’insufficienza respiratoria. Va prestata anche particolare attenzione all’inalazione
polmonare. I soggetti intossicati possono presentare, a vari livelli di gravità,
abbassamento della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca e della temperatura
corporea. Nei soggetti anziani, anche le dosi corrette usate in terapia possono risultare
tossiche, specie se assunte insieme ad altri farmaci che esercitano un effetto
depressore sul sistema nervoso centrale (effetto additivo). In questi casi è
consigliabile non indurre il vomito e recarsi al Pronto soccorso il prima possibile.
Alcune tra le benzodiazepine di più frequente riscontro nella pratica clinica sono
alprazolam (Xanax), bromazepan (Lexotan), clonazepam (Rivotril), delorazepam
(En), diazepam (Valium), flunitrazepan (Roipnol), lorazepam (Tavor).

-Gli Antidepressivi triciclici

La gravità dell’intossicazione è correlata con la dose del farmaco ingerita. Le


principali manifestazioni di tossicità sono neurologiche (nervosismo-agitazione o
sonnolenza e convulsioni) e cardiache (anomalie del ritmo) accompagnate a
ritenzione urinaria, ridotta motilità gastroesofagea e secchezza delle fauci. Le
manifestazioni più gravi di tossicità neurologica e cardiaca compaiono da mezz’ora a
6 ore dopo l’ingestione della dose tossica del farmaco. Antidepressivi triciclici sono
l’amitriptilina (Laroxyl) e la clomipramina (Anafranil).
Antidepressivi SSRI (inibitori della ricaptazione della serotonina)
Le manifestazioni cliniche più frequenti dell’intossicazione da questi farmaci
comprendono nausea, vomito, diarrea, eccitazione, tremori, aggressività, aumento o
riduzione della frequenza cardiaca e, per dosi molto elevate, letargia, depressione
respiratoria e rigidità muscolare. Può manifestarsi anche la cosiddetta sindrome
serotoninergica determinata anche da una singola dose di questi farmaci. Tale
sindrome dipende proprio dal meccanismo d’azione di questi antidepressivi, che
determinano l’aumento dei livelli di serotonina nel sangue. Si possono manifestare

183
forme lievi con aumento della frequenza cardiaca (tachicardia), brividi, sudorazione e
tremori, fino a forme gravi con marcato aumento del tono muscolare e grave
incremento della temperatura corporea (ipertermia maligna).
Generalmente il quadro clinico non è grave, ma è fondamentale rivolgersi al Pronto
soccorso nel più breve tempo possibile.
I principali antidepressivi della classe degli inibitori della ricaptazione della
serotonina sono citalopram, escitalopram, fluoxetina, sertralina paroxetina,
venlafaxina.
-I Barbiturici
Utilizzati a lungo come sedativi, anestetici e antiepilettici, attualmente vengono usati
molto meno perché sono stati messi in commercio farmaci più sicuri ed efficaci.
Alcuni barbiturici ad azione prolungata sono fenobarbital e primidone. Tali farmaci
determinano depressione del sistema nervoso centrale, fino al coma respiratorio. La
dose in grado di provocare tossicità acuta da fenobarbital è pari a 1 grammo, quella
letale va da 2 a 10 grammi.

Si ricorda quindi che l’intossicazione lieve determina sintomi simili a quella da alcol
e comprende difficoltà più o meno marcate di movimento, di articolazione della
parola e dello stato di coscienza. Le intossicazioni gravi, invece, provocano
rallentamento della respirazione fino all’arresto respiratorio. Possono essere presenti
anche abbassamento della pressione arteriosa, della temperatura corporea e degli
zuccheri del sangue (ipoglicemia).

Differenze fra tossicità e genotossicità


La prima ed essenziale differenza fra le sostanze tossiche e genotossiche è che,
mentre qualunque sostanza, nessuna esclusa, può diventare tossica con l'aumento
della dose, nessuna sostanza che non sia genotossica può diventarlo con l'aumento
della dose, dato che la genotossicità richiede la possibilita' di reagire con il DNA, e
ciò dipende esclusivamente dalla struttura chimica del composto .

Per effetto tossico di una sostanza chimica s'intende qualunque alterazione che

184
determini danni funzionali, strutturali e/o la stessa morte cellulare. Effetti tossici si
hanno quindi a qualsiasi dose perchè, per quanto piccola, un certo numero, anch'esso
molto piccolo, di cellule può venir danneggiato dal contatto col tossico. 
Tuttavia
questo minimo danno non è rilevabile non solo sintomatologicamente ma neppure
con le piu sensibili metodiche di indagine biochimica. 
Bisogna infatti che siano
danneggiate o uccise almeno migliaia di cellule, ad esempio epatiche (fegato), perchè
sia rilevabile biochimicamente il danno, e probabilmente devono essere danneggiati
milioni di cellule perchè si abbiano sintomi clinicamente rilevabili . Esiste quindi
per ogni sostanza tossica una "soglia" al di sotto della quale non è possibile
rilevare in alcun modo un effetto tossico . La massima dose senza effetti rilevabili è
chiamata "no effect level". Questa dose determinata sugli animali viene poi riportata
all'uomo utilizzando un fattore di sicurezza che di solito è 100. 
Questo fattore è
applicato per evitare l'effetto di fenomeni di accumulo nel caso di tossici che si
eliminano con difficoltà, di interazioni per esposizione simultanea ad altri tossici e
per tener conto delle differenze di specie e individuali di suscettibilità agli effetti
tossici e della presenza nella popolazione di vecchi, bambini, malati e gestanti. Il "no
effect level" diviso per 100 si può applicare come dose minima permissibile per
l'uomo.
Caratteristica dell'azione tossica, oltre la presenza della soglia, è l'aumento della
frequenza (nella popolazione) e dell'intensità dei fenomeni tossici con l'aumento della
dose. Inoltre passa un tempo piuttosto breve fra l'inizio dell'esposizione e la comparsa
degli effetti tossici. Alla sospensione dell'esposizione segue l'attenuarsi e la
progressiva scomparsa dei fenomeni tossici, con il ripristino delle condizioni di salute
iniziali. La tossicità è quindi, specialmente se lieve o iniziale, un fenomeno
reversibile .
Per gli agenti genotossici, di cui fanno parte i cancerogeni, la situazione è molto
diversa: intanto non esiste soglia. Con l'aumentare della dose aumenta la frequenza
(più individui colpiti) ma non l'intensità: il tumore provocato da dosi bassissime è
uguale a quello provocato da alte dosi di cancerogeno. 
La sospensione

185
dell'esposizione non influisce sullo sviluppo del tumore, che è irreversibile. Il periodo
di latenza è poi lunghissimo, da 10 a 40 anni dall'inizio dell'esposizione, tanto che
moltissimi tumori sono diagnosticati quando l'esposizione che li ha provocati è gia'
cessata da anni. Si tratta di differenze così profonde da rendere impossibile
l'applicazione ai cancerogeni degli schemi impiegati per le sostanze tossiche e quindi
la fissazione di livelli, dosi e concentrazioni di sicurezza. 
Le concentrazioni soglia
dei cancerogeni sono cosi basse da esser vicine allo zero analitico.
Infine, mentre per i tossici, a parte i casi ben noti di sinergismo, le azioni tossiche di
due di essi, anche se somministrati contemporaneamente, di solito sono indipendenti,
nel caso dei cancerogeni l'interazione è la regola e spesso gli effetti non si sommano
ma si esaltano. E dato che la condizione più diffusa per la popolazione dei Paesi
industrializzati è l'esposizione a piccole quantità di un gran numero di cancerogeni
diversi, l'aumento anche modesto di questo carico, anche per un solo cancerogeno,
può avere conseguenze superiori a quelle prevedibili dagli e sperimenti su animali nei
quali si ha l'esposizione ad un solo cancerogeno. A questo si deve aggiungere la
possibilità di effetti cocancerogeni da parte di numerose sostanze del tutto prive di
attività genotossica e quindi cancerogena ma capaci di potenzia re anche migliaia di
volte la cancerogenicità dei composti genotossici. Attualmente le procedure
d’assistenza delle ingestioni incongrue non sono universalmente definite , dando
luogo ad approcci differenti basati più sull’esperienza del singolo che su studi
randomizzati. Nello sviluppo dell’elaborato l’autore vuole illustrare non solo le
singole tecniche, bensì presentare ciò che i più recenti studi hanno dimostrato essere
il gold standard per ogni sostanza . All’atto pratico , come si scoprirà , sono poche,
proporzionalmente al numero delle sostanze, le indicazioni assolute ritenute esser
indiscutibilmente più efficaci.

Anche oggigiorno sono centinaia le sostanze d’uso quotidiano che possono causare
un’intossicazione, quindi vanno conosciute.

186
Quando vengono inviati sul luogo, gli operatori del 112 hanno quasi sempre le
indicazioni fondamentali in anticipo. L’approccio ad un paziente intossicato prevede
una gamma di situazioni ed ambienti molto vasta, che spaziano dall’agricoltore
investito dai prodotti chimici quando si rovescia col trattore nel campo, alla coppia di
senzatetto che si intossica col monossido di carbonio cercando di scaldarsi in
macchina con il motore acceso d’inverno, all’ adolescente che tenta di suicidarsi
bevendo sapone da piatti, al bambino incustodito che ingerisce un blister intero delle
pastiglie della mamma credendo si tratti di caramelle e così via . All’arrivo dei
soccorritori la prima cosa da fare è la valutazione dell’ambiente e della sicurezza :
individuare i pericoli e le cause. In un’intossicazione alimentare le precauzioni si
limiteranno all’utilizzo dei guanti contro sostanze potenzialmente corrosive, tossiche,
infette, mentre per quanto riguarda intossicazioni da monossido di carbonio o altri
gas esse saranno ben più severe , dalla maschera con la bombola all’autorespiratore.
Potrebbero esserci scoppi di condutture di altri tipi di gas o esalazioni di solventi per
le quali siano necessarie maschere a protezione degli occhi e delle mucose
respiratorie, come potrebbe essere necessario l’utilizzo di guanti ben più pesanti .

Si procede secondo lo schema ABCDE dell’emergenza, applicato all’argomento


trattato.

Airway: se la sostanza è stata ingerirà è possibile che una percentuale della stessa
possa aver leso le mucose nasali irritandole e occludendole, per cui la prima cosa da
accertare è la loro pervietà.

Breathing: la persona può essere già in coma al momento dell’arrivo o avere


difficoltà respiratorie, quindi in prima istanza occorre verificare se l’eventuale tossina
stia compromettendo il respiro.

Circulation: pressione arteriosa, frequenza cardiaca, volemia, funzione di pompa e


centri regolatori possono subire alterazioni pericolose e talvolta incompatibili con la
vita. Il monitoraggio è il primo punto dell’intervento sulla circolazione .

187
Disability: l’ansia, la confusione, il dolore possono mascherare e rendere difficoltosa
la valutazione. Interagendo con l’assistito si deve cercar di capire se e quali funzioni
cognitive sono compromesse. Si utilizza la Glasgow Coma Scale per i casi più gravi .
Exposure: riguarda principalmente la decontaminazione in questo caso. Indumenti ed
oggetti contaminati vanno rimossi, cute e mucose sciacquate.

Mentre si agisce vanno raccolte quante più informazioni possibili, ma essenzialmente


saranno quelle illustrate poi al momento del triage . Comprendere la causa
dell’accaduto può essere fondamentale : un tentativo di suicidio può essere
mascherato, non immediatamente riconoscibile o negato e identificarlo subito
permette di entrare già nell’ottica di sapere di non fidarsi delle informazioni date.

Nell’intossicazione da ingestione (funghi, prodotti domestici, farmaci, droghe, alcol)


le evidenze mettono in luce di provvedere al trasporto in ospedale nel più breve
tempo possibile , contattando già da subito il centro an tiveleni di competenza per
sapere come comportarsi. Il vomito, se non è già stato indotto o sopravvenuto, non va
causato, specie con sostanze schiumogene , corrosive, metalli pesanti . Essendo
preparati e conoscendo con certezza la sostanza ingerita è pos sibile intervenire
somministrando acqua, albume d’uovo (solo con metalli pesanti o caustici) o latte
(solo con acidi, basi e generalmente con i detersivi d’uso comune, mentre non va
MAI somministrato con derivati del petrolio, solventi e smacchiatori).

Procedere secondo la valutazione ABCDE , quindi monitorare i parametri durante il


percorso verso l’ospedale più vicino ed assistere le funzioni vitali compromesse fino
all’arrivo alla struttura.

IL TRIAGE

L’intervento infermieristico nel paziente con intossicazione acuta esordisce con il


triage in pronto soccorso. Questa causa rappresenta circa il 4% degli accessi. ne e
respirazione vengono saltati i passi successivi e interviene un medico rianimatore. E’
possibile che non si presentino ancora manifestazioni e sintomi da parte del paziente :
188
è fondamentale sfruttare questa fase per raccogliere quanti più dati possibili nel minor
tempo. Le risposte da ottenere sono, nell’ordine:

1. Tipo di sostanza: veleno, farmaco, gas, droga, alcol, diserbanti...


2. Via di somministrazione: enterale, inalatoria, parenterale, oculare, da
contatto...
3. Dose stimata
4. Ora del contatto
5. Sintomi (da quando e come si sono evoluti)
6. Cosa è stato fatto (manovre casalinghe, antidoti, vomito...)
7. Causa: accidentale o volontaria?

Successivamente vengono misurati i parametri vitali e lo stato di coscienza, quindi


recuperati i contenitori o i resti delle sostanze eventualmente trovate sul posto portati
dai soccorritori del 112 o dagli accompagnatori del paziente. Si procede quindi
all’assegnazione di un codice colore . In seguito sarebbe opportuno reperire un
accesso venoso, prelievo venoso, eseguire un ECG a 12 derivazioni, eseguire un EGA
e valutare nuovamente ed in maniera più approfondita:

Respirazione(frequenza, qualità, secrezioni...)

Circolazione (frequenza, qualità)

Risposta oculare (diametro pupillare, nistagmo, fotofobia, lacrimazione, cecità...)

Stato mentale (agitazione, letargia, aggressività, delirio, allucinazioni...)

Cute (cianosi, colorazioni anomale, ustioni, alopecia, sudorazione, secchezza...)

189
Esami ematochimici Esami urinari
Etanolo Benzodiazepine
Fenobarbital Cocaina
Carbossiemoglobina Oppiacei
Digossina Barbiturici
Valproato Cannabinoidi
Antidepressivi triciclici Paracetamolo
Salicilati Amfetamine
Ulteriori esami che possono
Litio Antidepressivi triciclici
essere richiesti in urgenza.

Le indagini strumentali comprendono:

• ECG: richiesto per le intossicazioni moderate-severe, ad esempio il

QRS>100millisecondi nelle intossicazioni da antidepressivi triciclici.

• EEG: alcolismo cronico, abuso cronico di sostanze...


• RX torace/addome: utile per evidenziale la presenza di aspirazione, patologie

preesistenti, presenza di compresse, metalli pesanti, composti iodati, body


packers.

• EGDS: è l’unico esame in grado di stabilire l’entità del danno da ingestione di

tossici sulla via enterale. Viene preferito per sostanza caustiche.

190
-La Stabilizzazione

Attraverso i protocolli ABLS, PBLS e BLSD s’interviene sul paziente


attraverso un approccio sintomatico codificato , a seconda del grado di
compromissione dei vari apparati . Data la vastità non ci si soffermerà nello
specifico. Già a questo punto del percorso del paziente possono essere di vitale
importanza alcuni antidoti, ad esempio nell’arresto cardiaco :

l’ossigeno per l’intossicazione da monossido di carbonio, Fab (frammenti


anticorpali) antidigitale...

Quattro T Quattro I
PreumoTorace Ipovolemia
Trombosi Ipotermia
Tamponamento cardiaco Ipo/iperkaliemia
Tossicosi Ipossia

La Decontaminazione

Per quanto concerne la decontaminazione ci limiteremo a quella del tratto


gastrointestinale, vertendo la tesi sulle intossicazioni da ingestione di tossici. Le linee
guida di riferimento sono due: l’EAPCCT (European Association of Poison Center
and Clinical Toxicology ) e l’AACT (American Academy of Clinical Toxicology ).
Questa fase è una delle più delicate e al momento meno organizzate a livello pratico .
Ciò che viene valutato all’istante , oltre alle domande cardine poste al momento del
triage, è: il grado di tossicità , la cinetica del tossico , condizioni cliniche e anamnesi
per patologie concomitanti . La decontaminazione gastro -enterica può essere

191
effettuata con più approcci e più logiche. Qui verranno presentate le tecniche, mentre
il confronto vero e proprio seguirà nell’ultimo capitolo.

-Lo Svuotamento gastrico

Il concetto è quello di rimuovere meccanicamente il tossico non ancora assorbito .


Controindicato in caso di: vie aeree non protette, alterazione dello stato di coscienza,
ingestione di caustici , idrocarburi e di sostanze schiumogene per il rischio di
aspirazione, successivo trattamento con CA , neonati ed anziani , probabilità di
convulsioni o coma stimati entro un’ora. Porre l’assistito in decubito laterale sinistro,
in leggera Trendelemburg o semiseduto . Utilizzare sonde oro -gastriche di grosso
calibro (12-13 mm nell’adulto e 7-8 mm nel bambino ). Il SNG è meglio tollerato e
può essere utilizzato anche per la successiva somministrazione di CA , ma rende più
difficoltosa l’aspirazione del contenuto gastrico . Controllare il posizionamento della
sonda tramite prova con schizzettone d’aria (50-60 mL), quindi aspirare la medesima
quantità e conservarla per l’analisi . Quindi iniziare ad introdurre boli d’acqua, 150-
200 mL nell’adulto, 10 mL/kg nel bambino.

“Gli antidoti sono sostanze che, con meccanismo aspecifico o specifico e per vie
diverse, possono prevenire o limitare l’assorbimento, l’azione lesiva sui parenchimi
o le alterazioni funzionali indotte dai veleni” (Bozza-Marrubini et al,1987).

Un antidoto è una sostanza che interagendo con un tossico lo rende meno dannoso:

• Modificandolo chimicamente
• Comportandosi da antagonista a livello dei recettori
• Legando il tossico e rendendolo facilmente eliminabile

Non esistono antidoti per ogni veleno, quindi è la rianimazione che rappresenta
il trattamento cardine, salvo alcune eccezioni: queste sono rappresentate da
quei farmaci che, con azione immediata e specifica a livello recettoriale
(antagonisti), permettono di risolvere immediatamente un quadro tossico ben

192
definito. Essi devono esser presenti in quantità sufficienti nei centri antive leni
distribuiti nel territorio. Al fine di permettere ad ogni struttura di sapere con
esattezza dove sono dislocati i vari antidoti nell’intera nazione, il CAV di
Pavia (www.cavpavia.it) ha redatto un apposito database on-line denominato
Banca dati Nazionale degli Antidoti (BaNdA), il quale riporta tutti gli antidoti
disponibili in ogni singolo servizio del territorio nazionale che intenda
condividere tali dati, la via di somministrazione e l’indicazione al trattamento .
Per ogni antidoto è riportata la data dell’ultimo aggiornamento ed i riferimenti
per ottenerlo. Va tenuto in considerazione che non tutti gli antidoti sono
presenti in Italia e che devono essere richiesti ai fornitori esteri con appositi
moduli e possono rientrare in tutte le tre classi di priorità (es. fisostigmina
salicilato e vaccino antirabico di classe 1, siero antibotulinico di classe 2, siero
antivipera di classe 3….). La richiesta per ottenerli si trova su ogni sito dei
CAV e si tratta di un singolo foglio intestato con le informazioni minime ,
veloce da compilare . Per i vaccini non presenti in Italia si può contattare il
CAV o chiamare i numeri che vengono riportati nelle tabelle della BaNdA.

Priorità Principali antidoti


Amido, atropina, bicarbonato di sodio, blu di metilene, calcio cloruro, calcio
gluconato, carbone vegetale attivato, cobalto edetato, dantrolene ev,
diazepam, dimeticone, dobutamina, Fab antidigitale, fentolamina,
1 fisostigmina, flumazenil, glucagone, idrossietilcellulosa, idrossocobalamina,
magnesio solfato, naloxone, ossigeno, PEG 400, propranololo ev, sciroppo
di ipecacuana, sodio solfato, sodio tiosolfato, solfato di protamina, solfato di
rame, vitamina C, vitamina K.
acido cloridrico 0,1 N, acido folinico, calcio-disodioedetato, calcium gel,
2 cloruro di ammonio, cloruro di arginina, colestiramina, dantrolene,
desferossamina, dimercaprolo, etanolo, ferrocianuro di potassio, magnesio

193
citrato, magnesio solfato, mannitolo, N-acetilcisteina, ossigeno iperbarico,
piridossina, pralidossima, sorbitolo, terra di Fuller.
blu di prussia, colestiramina colinesterasi sieriche umane, Fab anti-vipera,
3
penicillamina, siero antibotulinico, sieri antitossine.

In particolare tra le intossicazioni vi è quella da alcol è la droga più utilizzata nel


mondo ed i prodotti alcolici sono responsabili di circa il 9-10 % del totale delle
malattie nella Regione Europea aumentando il rischio di cirrosi epatica, di
alcuni tipi di tumore, di incidenti sulla strada e sul lavoro, di comportamenti
violenti e suicidi. Nel rapporto “GLOBAL DESEASE BURDEN”(2003) viene
ribadito che l’alcol è il 3° fattore di D.A.L.Y.(anni di disabilità) al mondo.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) calcola che i morti causati dall’alcol
siano 1 milione e 300mila all’anno in tutto il mondo.
Nel periodo 2010-2012, si è verificata negli Stati uniti una media annuale di decessi
per avvelenamento di 8,8 per 1 milione di abitanti tra le persone di età compresa
≥15 anni. Di queste oltre 2221 morti, 1.681 (75,7%) erano di età compresa tra 35-64
anni, e 1.696 (76,4%) erano uomini. I bianchi non ispanici hanno rappresentato la
maggior parte dei decessi per avvelenamento di alcol (67,5%, 1.500 decessi), ma il
più alto tasso di mortalità aggiustata per età, è stato registrato tra gli indiani
d’America / Alaska (49.1 morti per milione). Il tasso aggiustato per età di decessi per
avvelenamento di alcol in stati variava dal 5,3 per 1 milione in Alabama a 46,5 per
milione (Alaska). Da rilevare anche che si è registrata una media totale annua di 44
decessi (2,0%) in cui le persone coinvolte in età erano tra 15-20 anni, sotto l’età
legale per bere di 21 anni.
In media quindi sei persone, per lo più uomini adulti, muoiono per avvelenamento da

194
alcol ogni giorno negli Stati Uniti ma i tassi di mortalità avvelenamento da alcol
variano notevolmente da Stato a stato. Le implicazioni che si intendono fornire per la
sanità pubblica pratica sono relativa all’incremento e potenziamento delle strategie
basate sull’evidenza per prevenire il “potus” eccessivo (ad esempio prevenire la
vendita di alcol illegale in ambienti di vendita al dettaglio e incrementare le politiche
sull’alcol portate avanti dai diversi stati) in modo da ridurre i decessi per
avvelenamento di alcol, riducendo la prevalenza, la frequenza e l’intensità del binge
drinking.
Questa espressione binge drinking è stata introdotta all’inizio degli anni 2000 nel
panorama italiano ed è ormai d’uso comune tra gli addetti ai lavori e nel linguaggio
giornalistico, che però ne fa un utilizzo confusivo, in primis sovrapponendo questo
termine a quello di ubriachezza e poi racchiudendo all’interno di questa formula
situazioni eterogenee che in realtà sono distinte in base alle caratteristiche del
bevitore (età e genere), tipi di bevande consumate, contesti del bere, motivi e
conseguenze. A tale scopo è stata realizzata un’indagine qualitativa su motivi e
funzioni che il bere eccessivo e l’ubriachezza assumono per i giovani italiani,
prestando particolare attenzione ai significati attribuiti al concetto di troppo e di
ubriachezza, al nesso tra quantità bevute e percezione di ubriachezza, alle
caratteristiche dei diversi contesti in cui i giovani eccedono nel bere e all’influenza di
norme di controllo formale e informale sui consumi alcolici dei giovani.
Pubblicato in salute mentale e dipendenze - 22 Maggio 2014
Metodologia
Per perseguire questi obiettivi conoscitivi sono state sviluppati due studi
complementari. Il primo, svolto in 3 città italiane (Torino, Roma e Salerno), ha
coinvolto interviste individuali face-to-face 134 giovani (suddivisi in due fasce d’età,
i 15-17enni e i 22-24enni) che hanno dichiarato di avere bevuto troppo nell’ultimo
anno. Il secondo ha utilizzato il web, un approccio innovativo per gli studi alcologici,
per rilevare giudizi e atteggiamenti prevalenti nei confronti del fenomeno, non solo
dal punto di vista dei binge drinker ma della popolazione giovanile in generale. Per
raccogliere queste informazioni è stato creato un forum online dove i visitatori di età
195
compresa tra i 15 e i 24 anni sono stati invitati a commentare liberamente un video
stimolo che rappresenta il fenomeno in esame. Sono stati analizzati 132 commenti
pervenuti tra luglio e ottobre.
Risultati
I diversi repertori del binge drinking
Un primo risultato indica che coloro che nelle survey sono accomunati dall’etichetta
di binge drinker, espressione spesso tradotta con ‘consumatori a rischio’, non
rappresentano una categoria di bevitori omogenea, ma appartengono a diversi profili
di bevitori. Ad esempio, alcuni sono abituati a concentrare le bevute in un arco
temporale ristretto (specialmente i più giovani e gli appartenenti al ceto sociale
medio-basso), altri a diluirle in più tempo (la maggioranza, costituita soprattutto dai
più grandi) al fine di non ubriacarsi. Così come ci sono quelli che bevono a stomaco
vuoto per sentire prima gli effetti dell’alcol, c’è anche chi conta tra le 5 o più bevute
quelle consumate durante una cena con gli amici o i parenti. Questi risultati non
possono che fare sorgere un ragionevole dubbio: se tutti questi profili possano
legittimamente ricadere sotto la stessa definizione di binge drinker.
Vi sono poi diversi contesti, motivi e forme di regolamentazione del bere, che
descrivono una molteplicità di repertori del bere tanto. Questi non descrivono solo
differenze individuali, ma rappresentano anche le diverse forme che in diverse
situazioni può assumere il bere della stessa persona.
Binge drinking vs ubriachezza
Una parte considerevole degli intervistati distingue nettamente binge drinking e
ubriachezza sostenendo che bere 5 o più bevande in un’unica occasione non rende
ubriachi ma brilli. Secondo la loro opinione questa modalità del bere porterebbe a
uno stato di ebbrezza con alterazioni dell’umore e dell’attività inibitoria, ma senza
una significativa limitazione delle capacità percettive e di comprensione del soggetto.
Anche se il binge drinking non comporta necessariamente l’ubriachezza, ciò non
toglie che per molti bere 5 consumazioni in un’occasione sia comunque troppo:
infatti quelli che superano questa soglia, se non occasionalmente, sono una

196
minoranza. Il bere tanto non risulta quindi socialmente approvato nemmeno dai
giovani che lo praticano, che lo percepiscono come condizione deplorevole e non
auspicabile.
Anche la ricerca web mostra come il binge drinking sia giudicato piuttosto
severamente dai giovani commentatori. I termini più ricorrenti nei commenti lasciati
al video fanno riferimento al concetto di esagerazione e i binge drinker sono descritti
come persone immature che non sanno divertirsi e che vanno oltre il limite
socialmente accettabile (un limite definito in base alla perdita di autocontrollo e
identificato perlopiù con l’ubriachezza). Al contrario, il proprio modo di consumare
alcolici è descritto prevalentemente come un bere controllato, il più delle volte non
finalizzato e non risultante nell’ubriachezza, se non occasionalmente e non
intenzionalmente.
Permangono dunque anche nelle nuove generazioni una connotazione negativa
dell’ubriachezza e attese negative rispetto alle sue conseguenze, che si accentuano
crescendo. L’ubriachezza infatti è spesso descritta come non intenzionale, e può
essere tollerata solo nel caso di inesperienza, mentre una volta sperimentata la propria
soglia di tolleranza, nella maggior parte dei casi si vuole evitare di subire i postumi
della sbornia e di perdere il controllo, né si vuole correre il rischio di rovinare le
interazioni sociali. Mentre l’ebbrezza è vista come un collante sociale, l’ubriachezza,
anche secondo i ragazzi, può arrecare danno agli altri e guastare una serata.
I motivi per bere
In genere i giovani bevono e si ubriacano più frequentemente per ragioni positive,
cioè con l’intento di enfatizzare uno stato d’animo di per sé già positivo, che non per
ragioni negative, cioè allo scopo di non pensare ai propri problemi o di superare il
proprio senso di inadeguatezza. I motivi più frequentemente citati per bere tanto, la
compagnia e il festeggiamento, sono gli stessi che da secoli contraddistinguono la
tradizione del bere italiana. Gli altri dunque rappresentano un riferimento molto
importante per il bere dei giovani, sia come spinta a bere tanto ma anche come freno
all’ubriachezza, il piacere di stare insieme infatti è posto al di sopra del piacere del

197
bere. Una minoranza di giovani parla però anche di ragioni negative per bere,
facendo riferimento ai problemi personali e alle difficoltà di rispondere alle attese
sociali. L’alcol diventa dunque, ad esempio, il mezzo attraverso cui mettere al bando
preoccupazioni, freni inibitori e timidezza, perché nel mondo della notte
divertimento, disinibizione e protagonismo sono d’obbligo.
Ci sono inoltre delle differenze tra i sottocampioni sui motivi per bere che non vanno
trascurate: gli adolescenti e chi proviene da una famiglia con uno status
socioeconomico medio-basso risultano più inclini al bere farmacologico, che è
proprio di chi cerca di compensare con l’alcol un disagio e quindi vuole
intenzionalmente alterare il proprio umore se non addirittura il proprio stato di
coscienza.
I luoghi di consumo
Se si sposta l’attenzione dai motivi ai contesti in cui si beve, per la maggior parte dei
ventenni il sabato sera è sinonimo di movida, lo si trascorre passando da un locale
all’altro, quindi da una bevuta all’altra. La serata può iniziare dalla cena con gli amici
in un ristorante o da un ‘apericena’ e proseguire fino all’alba, magari in discoteca,
dopo avere fatto tappa al pub.
Le esperienze degli adolescenti nei locali sono ovviamente più limitate e spesso si
preferisce frequentare un posto fisso, dove ci si sente più liberi e sicuri di
sperimentare. Tuttavia durante le serate nei locali l’ubriacatura non è sempre scontata
nemmeno tra i binger più giovani, perché non tutti si trovano a proprio agio a
eccedere nei luoghi pubblici. Gli adolescenti, nonostante viga il divieto di
somministrazione di alcolici ai minori, solo in pochi casi riportano di essere incappati
in controlli. La discoteca è uno dei luoghi più frequentati dai binge drinker, sia
adolescenti che giovani, è il contesto dove si beve di più e più frequentemente ci si
ubriaca. A descrivere situazioni di bere eccessivo in discoteca sono soprattutto gli
adolescenti provenienti da famiglie con livello socio-economico meno elevato. La
serata in discoteca è spesso preceduta da un bere preparatorio, quello che nei Paesi
Anglosassoni è chiamato ‘pre-loading’, si beve prima di entrare per risparmiare

198
sull’acquisto degli alcolici, ma anche per “scaldarsi” e arrivare in discoteca già
“carichi” e pronti a ballare. Una volta in discoteca la musica alta, il ballo e il caldo
sono tutte caratteristiche che favoriscono il bere eccessivo, e per questo chi beve si
organizza in modo da non dover guidare a fine serata.
Piazze, parchi, spiagge, e altri luoghi pubblici all’aperto sono un’alternativa ai locali
che piace ai più grandi e ai più giovani. È anche un modo di risparmiare, la regola
infatti è quella della condivisione: si compra qualcosa nei supermercati o nei
negozietti gestiti da stranieri dove gli alcolici costano ancora meno (anche qui, per i
minorenni, senza timore di incorrere in controlli), e si condivide con amici. Anche le
feste private sono un’alternativa ai locali pubblici molto apprezzata e rappresentano
un contesto privilegiato per le sperimentazioni alcoliche degli adolescenti, perché al
tempo stesso fuori dal controllo degli adulti e protetti dalla presenza degli amici.
Tra i più grandi la festa in casa inizia quasi sempre con una cena, che assume un
valore centrale nella serata, e il bere accompagna il cibo. Se per i più giovani la
ricerca dell’ubriachezza è un modo per prendere le misure con l’alcol e sperimentare i
propri limiti, per i più grandi l’ubriachezza è spesso una conseguenza, perlopiù non
intenzionale, del convivio e del piacere di stare insieme.
Alcol e altre sostanze
L’argomento del consumo associato di alcolici e di altre sostanze psicoattive illegali è
stato toccato solo marginalmente nell’intervista. Circa un terzo degli intervistati ha
ammesso di consumare occasionalmente anche droghe, per lo più spinelli. I
consumatori più regolari di questa sostanza non corrispondono tuttavia ai binger più
assidui. Il consumo di droghe, anche leggere, è giudicato da alcuni come
l’ubriachezza: un comportamento deviante, che porta alla perdita del controllo, da
confinarsi nella fase sperimentale dell’adolescenza. L’uso associato di alcol e droghe
è stato generalmente criticato, sia da chi ha sperimentato dei postumi sgradevoli, sia
da chi sostiene che lo sballo ricercato attraverso l’alcol e alle droghe è differente.
Le differenze geografiche
Il bere nelle tre diverse città campione (Torino, Roma e Salerno) non mostra

199
differenze sostanziali nei significati e nei motivi attribuiti al binge drinking. Tuttavia
possiamo evidenziare alcune specificità rilevate. Il sottocampione costituito dai
binger in senso stretto (5+ consumazioni in due ore e lontano dai pasti) è costituito in
prevalenza dai giovani residenti a Torino e solo in minima parte dai salernitani. A
Salerno inoltre è molto più diffuso il modello di ‘binge a tavola’ (se così si può
chiamare), che non compare per nulla a Roma e in misura ridotta a Torino. Inoltre a
Salerno sembra permanere una connotazione maggiormente negativa nei confronti sia
del bere tanto che dell’ubriachezza (che si evince anche da una maggioranza di
soggetti che distinguono il binge drinking dall’ubriachezza). Infine a Roma e a
Torino le economie della notte sembrano giocare un ruolo più rilevante
nell’incentivare i consumi, con una maggiore diffusione di strategie di marketing.
Salerno dunque, rispetto a Roma e Torino, mostra di conservare maggiormente le
specificità della cultura tradizionale, secondo un gradiente nord-sud che sembra
riproporre in Italia ciò che avviene in scala più estesa in Europa.
Le forme di controllo
A regolare il bere dei giovani binger hanno maggiore importanza le forme di
controllo informali rispetto a quelle formali. Il controllo informale si esprime nel
rapporto tra genitori e figli, tra pari e all’interno della coppia, dove non sono più solo
le ragazze a svolgere il ruolo di “controllore”, ma anche i ragazzi. In particolare ciò
che emerge da questo studio è che crescendo si passa da una preponderanza delle
forme di controllo esterne (segnatamente i genitori) al prevalere dell’autocontrollo:
l’acquisizione dello status di adulto e delle sue responsabilità (per i ventenni
soprattutto quelle lavorative) rappresenta per i più una forte limitazione degli eccessi
alcolici e in particolare dell’ubriachezza, considerata un comportamento immaturo e
non compatibile con gli impegni adulti.
Rispetto al controllo formale sono da rilevare due aspetti, uno positivo l’altro
decisamente negativo. Il primo riguarda la legge che limita il tasso alcolemico
consentito alla guida: nessuno dei giovani intervistati critica questa norma mettendo
in dubbio la sua appropriatezza, all’opposto sono convinti che guidare sotto l’effetto

200
dell’alcol comporta rischi elevati, per sé e per gli altri. Sembra dunque che la pratica
di evitare di mettersi alla guida dopo aver bevuto sia ormai comune. Per contro il
diffuso mancato rispetto del divieto di somministrazione e vendita di bevande
alcoliche ai minori fornisce un cattivo esempio di incoerenza del mondo adulto, che
da un lato vieta e dall’altra chiude un occhio. Questa incoerenza è percepita e criticata
dai giovani e solleva parecchi dubbi sull’opportunità di introdurre restrizioni sul bere
se non c’è la capacità o la volontà di farle applicare.
Conclusioni
La ricerca mostra come in genere vengano accomunati sotto la stessa etichetta di
binge drinking stili di consumo molto diversi (per bevande, arco temporale, numero
di consumazioni, effetti, motivi). Ha anche mostrato come il concetto di binge
drinking non possa essere utilizzato come sinonimo di ubriachezza, e come
quest’ultima sia giudicata severamente anche dai giovani bevitori.
E’ evidente che occorre prima di tutto riflettere sull’opportunità di fare apparire come
maggioritario un fenomeno che non lo è, sostenendo la tesi della normalizzazione
(che persino i binger sono restii ad affermare) con il rischio di incentivare il
consumo eccessivo tra coloro che non si sentono “normali”. Questa visione, che
rende omogenei tutti i giovani e fa coincidere il binge con il divertimento giovanile in
generale, porta, da un lato, a sovrastimare il fenomeno, dall’altro, a trascurare quella
minoranza di giovani che beve tanto, frequentemente e per accantonare problemi
personali o per migliorare le proprie “perfomance” secondo quanto richiede il
contesto sociale. Sono questi ultimi che meritano tutta l’attenzione del mondo adulto
al fine di individuare strategie di prevenzione e di intervento mirate e adeguate.
Nell’ottica di una più onesta e utile strategia comunicativa bisognerebbe invece
riconoscere e valorizzare gli aspetti che, nonostante le influenze della cultura globale
dell’alcol e delle economie della notte, denotano un carattere ancora fortemente
legato alla cultura tradizionale: in particolare, oltre alla concezione negativa
dell’intossicazione alcolica e dei suoi effetti, l’importanza attribuita all’autocontrollo
e il progressivo diradarsi degli episodi di ubriachezza tra i giovani che si affacciano

201
all’età adulta, accompagnato da una modificazione dei motivi per bere e delle sue
modalità. Questi aspetti non rappresentano affatto una novità: piuttosto è il lasso di
tempo percepito tra giovinezza e adultità a essersi dilatato, e, di conseguenza, si è
dilatato il periodo degli eccessi.
In passato è stato raccomandato di effettuare screening e interventi medici “brevi”
di counselling per prevenire l’uso eccessivo di alcol come il binge drinking, tra gli
adulti. Tuttavia, un recente studio ha rilevato che nel complesso solo un adulto su sei
e uno su cinque bevitori (uno su quattro bevitori binge) ha riferito di parlare dei
propri problemi relativi all’alcol con un medico o o con un altro operatore sanitario
(dati relativi a 44 stati). il 65,1% di coloro che hanno praticato il binge drinking ≥10
volte nel mese scorso non aveva mai avuto questo dialogo. Questo significa che le
politiche di comunicazione con i sanitari e di informazione dovrebbero essere
potenziate per favorire un migliore dialogo ai fini della prevenzione.

L’aumento dei consumi di alcolici riguarda soprattutto le donne e i più giovani. Dalla
onnipresenza della birra al rito dell’aperitivo, al culto per prodotti particolari come il
limoncello o il ritorno di moda dell’assenzio, la diffusione dell’alcol non suscita
allarme sociale paragonabile alle droghe illegali ma rappresenta la sostanza
psicoattiva più utilizzata nei policonsumi e più frequentemente collegata con
comportamenti a rischio come sesso non sicuro, violenza ed incidenti stradali. In
questi ultimi anni, a seguito dell'evoluzione del fenomeno della tossicodipendenza, il
rapporto tra disturbi da abuso di sostanze e disturbi mentali ha assunto maggiore
rilevanza per una serie di fattori causali quali l'evoluzione nel consumo delle sostanze
d'abuso con l'immissione nel mercato delle cosiddette “nuove droghe”, in particolare
psicostimolanti, le diverse modalità d’uso di vecchie droghe come l’alcol e la crescita
delle condotte di poliabuso. Le principali tendenze attuali indicano infatti un maggior
accostamento dei giovani all’alcol ed uno sviluppo dei modelli di consumo “ad alto
rischio” come l’abuso e l’ubriachezza soprattutto da parte degli adolescenti e dei
giovani adulti, così come il consumo concomitante di alcol con altre sostanze
psicotrope (cannabinoidi, cocaina, benzodiazepine etc…).

202
L’assunzione di sostanze psicoattive può essere causa e contemporaneamente
risultato di un problema psicopatologico. Spesso è difficile discriminare se i problemi
psicopatologici sono causati dall’uso di alcol e droga o se rappresentano la
problematica “a monte” che porta come conseguenza alla ricerca della sostanza
d’abuso. Negli ultimi anni in campo nazionale ed internazionale è cresciuto l'interesse
per i problemi alcolcorrelati, testimoniato dal fatto che si è sempre più diffusa anche
in Italia la rete dei servizi specialistici indirizzati allo studio ed al trattamento dei
quadri di abuso e dipendenza da alcol, servizi che a volte si affiancano altre volte si
identificano con quelli delle tossicodipendenze.

Poco più di trenta anni fa il problema del trattamento dell'alcolismo era affidato alle
istituzioni psichiatriche e gli alcolisti costituivano quasi un terzo in media della
popolazione manicomiale.

Le leggi n.685 del 1975 e n.180 del 1978 hanno determinato un progressivo
disimpegno della psichiatria rispetto al trattamento dell'alcolista, spostando l'impegno
assistenziale sulle divisioni di medicina interna, gastroenterologia e neurologia
dell'Ospedale Generale con difficoltà crescente di presa in carico globale della
persona con problemi alcolcorrelati e con esasperata scissione dello psichico dal
somatico.

Per gli operatori dei servizi di salute mentale e dei Ser.T. è esperienza comune, in
questi ultimi anni, trovarsi di fronte a nuovi emergenti e complessi bisogni di cura,
difficilmente decodificabili nei correnti sistemi nosografici di tipo categoriale o
dimensionale. La complessità di tale tematica è stata oggetto di approfondimento
durante i lavori della Conferenza Nazionale sulle Tossicodipendenze tenutasi a
Genova già dal Novembre 2000 e nelle sue riflessioni conclusive è emersa in pieno
la criticità della presa in carico di soggetti con problemi di dipendenza da sostanze
sempre più connotata da problematiche connesse alla comorbilità psichiatrica ed in
particolare del processo di integrazione tra servizi diversi e della carenza di strutture
organizzative aziendali di riferimento.

203
Gli interventi di tipo integrato risulterebbero offrire maggiori garanzie di efficacia,
questi possono essere organizzati attraverso un livello di collaborazione tra Servizi
che può essere parziale, attraverso un gruppo di operatori di entrambi i Servizi che
collaborano con interventi congiunti nella gestione dei casi, oppure può realizzarsi
attraverso la creazione di gruppi misti inter-servizi, con un luogo unico per le
prestazioni ed eventualmente con gli stessi operatori che sviluppano i trattamenti per
le due problematiche ma quello che sembra fare la differenza nei risultati è la
condivisione del progetto di trattamento sul singolo caso seguendo il modello definito
“cura condivisa”, evoluzione del modello “parallelo” di trattamento della doppia
diagnosi caratterizzato da stretta collaborazione tra Ser.T. e Servizi di Salute Mentale.

La Regione Toscana si è impegnata per far fonte a questa problematica: il Consiglio


Regionale Toscano ha posto tale problematica tra le priorità degli interventi da
realizzare ed in particolare ha sostenuto azioni e progetti tesi a rafforzare la
formazione degli operatori e come altre regioni italiane, ha inoltre finanziato negli
anni passati vari progetti aventi come obiettivo l’integrazione dei servizi e delle
figure professionali coinvolte nei percorsi assistenziali dei casi “complessi” ed ha
sostenuto e promosso la sperimentazione di modelli condivisi di intervento,
residenziali e semiresidenziali.Si tratta ovviamente solo dell’inizio di un percorso,
ancora non concluso, che ha visto protagonisti i professionisti sia dei servizi pubblici
delle dipendenze e salute mentale che del privato sociale. La comorbilità psichiatrica
nei pazienti con disturbo da uso di sostanze è un tema ampiamente affrontato e
studiato, tuttavia recentemente è il termine “Doppia Diagnosi” che sembra aver
acquisito i caratteri di una “parola chiave”, una sorta di paradigma che, oltre a
segnalare un’evoluzione scientifica e culturale avvenuta nel settore, richiama alcune
problematiche di grande interesse per gli operatori. Il termine “Doppia Diagnosi”
rimanda, infatti, all’ampio capitolo della correlazione tra effetti delle sostanze
d’abuso e sintomi psichiatrici, ma anche al dibattito sull’eziologia dei disturbi da uso
di sostanze. Inoltre il concetto di “Doppia Diagnosi” segnala l’esistenza di un
problema a livello istituzionale, connesso al fatto che, nella specifica realtà italiana, il

204
trattamento della malattia mentale è nettamente separato da quello della dipendenza
da sostanze perciò, la comorbilità psichiatrica, pone il problema della corretta
integrazione tra i Servizi per le Tossicodipendenze e Servizi di Salute Mentale. Su
tale piano istituzionale tuttavia, la “collaborazione” rimane uno dei nodi irrisolti ed è
spesso complicata da conflittualità, sfiducia ed accuse reciproche, la cui conseguenza
principale è quella di peggiorare la qualità dell’assistenza fornita ai pazienti e alle
loro famiglie.

QUINDI Il termine “DOPPIA DIAGNOSI” (o meglio “COMORBILITA'


PSICHIATRICA”) indica la compresenza di due o più sindromi, distinguibili
nosograficamente a prescindere dalla patogenesi, presenti nello stesso individuo nel
periodo di tempo preso in esame . L'uso acuto e cronico di sostanze psicoattive può
avere effetti profondi sul funzionamento cognitivo, l'umore, i processi ideativi ed il
funzionamento della personalità. Le sindromi indotte da sostanze dovrebbero essere
classificate come disturbi mentali organici ma spesso nella pratica clinica i pazienti
con disturbi da uso di sostanze vanno incontro anche a tassi elevati ( dal 40 al 68% )
di disturbi psichiatrici non organici con difficoltà di distinzione fra disturbi
psichiatrici primari e secondari all'abuso di sostanze. Sfortunatamente, il trattamento
delle dipendenze da sostanze è sfuggito per lungo tempo ad un approccio medico-
psichiatrico, nonostante la psichiatria ufficiale ne abbia recepito la fenomenica e
l’abbia da qualche tempo codificata nella propria nosografia .Ne sono derivati alcuni
limiti quali la difficoltà nel diagnosticare la dipendenza rispetto alle altre condizioni
che comportano l’abuso di sostanze e la tendenza a non considerare le dipendenze
come problema medico (e quindi psichiatrico), se non che per le sue conseguenze. Da
tempo, il riscontro di questa realtà da parte degli stessi operatori ha richiamato
l’attenzione sulla necessità di diffondere e migliorare il sapere psichiatrico all’interno
dei servizi per le tossicodipendenze. L’inquadramento dei disturbi da dipendenza
nell’ambito della maggior parte dei servizi psichiatrici si risolve, abitualmente, nella
rilevazione di una generica patologia della personalità complicata da aspetti
d’intossicazione acuta o cronica. Fanno talora eccezione i casi di comorbidità con

205
gravi disturbi psicotici gestiti, in genere, attraverso gli stessi canali dei pazienti senza
“doppia diagnosi”. In questo modo il disturbo correlato all’uso di sostanze resta
spesso misconosciuto, nonostante esso si componga di sintomi e segni propri della
semeiotica e della clinica psichiatrica.

A tutt'oggi non si può definire univocamente la categoria dei pazienti con doppia
diagnosi.

Nel corso degli anni sono state formulate diverse classificazioni:

1. pazienti psichiatrici con problemi legati all'abuso/dipendenza da sostanze (MICA:


Mental III Chemical Abuser);

2. pazienti con problemi primari di tossicodipendenza con gravi disturbi psichiatrici


(CAMI: Chemical Abusers With Mental IIIness);

3. pazienti con problemi primari di tossicodipendenza associati a disturbi di


personalità e/o lievi disturbi psichiatrici (CA: Chemical Abusers).

Quello che è importante, nel formulare una diagnosi, è, capire il paziente che
abbiamo di fronte per poi stabilire la terapia; ma forse ciò che ancora è più
importante è stabilire una relazione significativa fra operatori e paziente, che deve
essere accompagnato in un percorso assistenziale e riabilitativo di lunga durata.

La letteratura scientifica internazionale è coerente nell’affermare che la coesistenza


nello stesso individuo di un Disturbo da Uso di Sostanze(DUS) e di un altro disturbo
psichiatrico in particolare Disturbi dell’Umore e Disturbi di Personalità è “importante
e non casuale”. La doppia diagnosi ( comorbilità psichiatrica “vera o spuria” tra Uso
di Sostanze e Disturbi Mentali ) è sempre di più “una aspettativa , non una eccezione”
per gli utenti dei Servizi di Salute Mentale o dei Servizi per le Dipendenze negli
USA.

206
Ma quale è il confine fra psicopatologia e dipendenza ?

Forse si deve pensare la dipendenza come una patologia mentale(magari psico-


organica) e quindi alla comorbilità come ad un problema interno alla clinica
psichiatrica?

Oltre ad alcolisti e tossicodipendenti, malati psichici e soggetti con entrambe le


patologie, potremmo avere anche “soggetti che presentano una condizione patologica
nuova, che esprime la sofferenza attraverso modalità originali, in parte in continuità
con quadri già conosciuti ma in parte difformi e difficili da comprendere ,
riconoscere, classificare e curare” .

Nella pratica clinica infatti in alcuni casi è evidente la primarietà del disturbo
psichiatrico (es. soggetti depressi e ansiosi che cercano sollievo nell’abuso alcolico) o
del disturbo da uso di sostanze (es. giovani che manifestano sintomi psicotici dopo
assunzione di psicostimolanti e allucinogeni), ma nella maggioranza dei casi non solo
è difficile stabilire quale dei due disturbi è primario e quale è secondario, ma spesso è
inutile e dannoso perdersi in discussioni infinite di tal genere, che possono generare
effetti perversi di deresponsabilizzazione nei professionisti addetti al caso, che nel
“ping-pong” di scarico delle responsabilità .Si tratta in effetti in genere di casi gravi e
gravosi che causano spesso difficoltà gestionali nei servizi e frustrazione negli
operatori.

La comorbilità psichiatrica si dimostra associata infatti a:

1. cronicizzazione del Disturbo Mentale

2. ricaduta più frequente nell’abuso di sostanze

3. percorsi terapeutici lunghi e spesso incongrui(utenti “revolving door”, alti


utilizzatori dei servizi socio-sanitari assistenziali con bassa compliance ai vari tipi di
trattamento…)

4. fallimento dei programmi di trattamento e prognosi infausta sia per suicidio che

207
per problemi clinici (sieropositività HIV,HCV…) e
sociali(disoccupazione,marginalità…) più gravi.

Soggetti affetti da Abuso o Dipendenza da Alcol hanno evidenziato nei vari studi in
letteratura una probabilità dieci volte maggiore di essere affetti da un altro Disturbo
da Uso di Sostanze , quattro volte maggiore di andare incontro a disturbi della sfera
affettiva e tre volte maggiore di ammalare di disturbi d’ansia. L’alcolismo è uno dei
principali fattori di rischio di suicidio e da un recente studio è risultato che almeno il
40% di persone con problemi alcolcorrelati tentano il suicidio nel corso della vita e il
7% muore. In particolare l’essere uomo, aver più di 50 anni, vivere da soli, essere
disoccupati, la mancanza di supporto sociale, l’abuso alcolico recente, un episodio
depressivo e atti di suicidio tentati nel passato recente risultano le caratteristiche di
maggior rischio ma tutti i pazienti con problemi alcolcorrelati dovrebbero essere
valutati per il rischio di suicidio.

Gli abusatori di alcol in comorbidità psichiatrica presentano inoltre una maggiore


disabilità e ricorrono molto più spesso ai servizi di assistenza rispetto agli abusatori
di alcol che non presentano comorbidità.

Anche se mancano dati univoci sul numero di persone alcoliste o tossicodipendenti


con questa comorbilità psichiatrica la clinica e la ricerca hanno mostrato che è molto
frequente e la tendenza è verso un progressivo aumento legato alla
“territorializzazione” dell’assistenza psichiatrica ed alla diffusione di vecchie e nuove
droghe legali ed illegali.

Secondo quanto pubblicato nella letteratura scientifica internazionale, come già detto,
circa il 50% degli individui con gravi disturbi mentali hanno un problema di abuso di
sostanze legali ed illegali. Le persone con doppia diagnosi, inoltre, sono ad alto
rischio di contrarre l'AIDS ed altre malattie infettive, un problema che colpisce la
società nel suo insieme. I costi crescono ancora di più quando queste persone con
“tripla” diagnosi, si trovano coinvolte più e più volte in episodi di criminalità e

208
periodi di detenzione. Senza stabili programmi di trattamento integrato, il ciclo
continuerà.

Perché appare utile un approccio integrato per trattare i pazienti con gravi malattie
mentali in comorbilità con problemi da abuso di sostanze?

A dispetto di molte ricerche che supportano il suo successo, il trattamento integrato


non è ancora ampiamente disponibile per gli utenti. Le persone che si trovano
coinvolte in una seria malattia mentale e anche nell’abuso di sostanze devono
fronteggiare problemi di proporzioni enormi.

I servizi per la Salute Mentale non sono sufficientemente preparati a trattare con
pazienti che hanno entrambi i problemi. Spesso solo uno dei due problemi è
identificato. Se entrambi sono riconosciuti, l'individuo può andare avanti e indietro
tra i servizi per le malattie mentali e quelli per abuso di sostanze, o possono essere
rifiutati da uno di essi. Servizi frammentati e non coordinati possono creare ulteriori
problemi alle persone con doppia diagnosi .

Istituire servizi appropriati e integrati per questi utenti, non solo renderà possibile la
ripresa e un miglioramento generale della salute, ma potrà migliorare gli effetti che
questi disturbi hanno sui familiari, amici e sulla società in generale.

Aiutandoli a seguire la cura, a cercare casa e lavoro, sviluppando un miglioramento


delle capacità sociali e di giudizio, possiamo iniziare a diminuire alcuni dei più
minacciosi e costosi problemi della società: criminalità, HIV/AIDS, violenza in
famiglia e altro ancora.

Bisognerà anche studiare come evitare i fattori di rischio e le relazioni che sono
collegate all’abuso di sostanze.

Gli operatori dovrebbero riconoscere che il rifiuto delle cure è intrinseco al problema
che l’utente propone e lavorare molto sulla condivisione del programma di
trattamento e sull’accompagnamento motivazionale ad una maggiore compliance alle
terapie coinvolgendo anche i familiari .
209
I pazienti spesso non hanno la percezione della gravità ed estensione del problema.
L'astinenza può essere un traguardo del programma ma non dovrebbe essere un
presupposto per iniziare il trattamento. Se le persone con doppia diagnosi non
riescono ad inserirsi nei Gruppi di Auto Aiuto locali come i Club Alcolisti in
Trattamento e gli Alcolisti Anonimi o Narcotici Anonimi dovrebbero essere
organizzati dei gruppi analoghi basati sui principi dell’Auto Aiuto e della psico-
educazione.

Gli operatori dovrebbero comunicare la conoscenza di quanto sia difficile risolvere


un problema di doppia diagnosi e incoraggiare ogni piccolo miglioramento. Deve
essere data molta attenzione a tutta la rete sociale che può costituire un’importante
risorsa. Agli utenti dovrebbe essere data opportunità di socializzare, avere accesso ad
attività ricreative e sviluppare relazioni alla pari. Alle loro famiglie dovrebbe essere
offerta informazione e supporto, insegnando a non reagire con sensi di colpa o accuse
ma portandoli a saper affrontare due malattie che interagiscono. Ci sono parecchi
fattori chiave in un programma di trattamento integrato.

Il trattamento può essere affrontato attraverso degli stadi. Il primo passo è stabilire un
rapporto di fiducia tra l'utente e l’operatore. Questo aiuta a motivare l'utente ad
apprendere delle abilità per il controllo attivo delle proprie emozioni e per focalizzare
gli obiettivi. Inoltre un rapporto di fiducia sostiene l'utente a mantenersi in
carreggiata, evitando le ricadute. Il programma è personalizzato per ciascun
individuo.Un trattamento efficace comprende anche interventi motivazionali, i quali,
attraverso l’educazione, il supporto e il counselling, aiutano a rendere capaci le
persone a riconoscere i loro obiettivi e ad apprendere l'auto-gestione della malattia.

I modelli di trattamento descritti in letteratura per doppia diagnosi sono


essenzialmente di tre tipi:

Il primo modello è il “trattamento sequenziale”, i pazienti vengono dapprima


trattati per il problema che è più acuto e, una volta completato il trattamento sono
trattati per l'altro problema. Il peggiore dei trattamenti è quello in cui il paziente viene

210
inviato ad un programma per i problemi psichiatrici piuttosto che per la droga e una
volta completato lo mandano sequenzialmente all'altro. E' destinato ad un fallimento
quasi sempre perchè inevitabilmente i pazienti non hanno voglia, non sono disposti a
spostarsi verso l'altro trattamento. Di solito si usa dire che in questo trattamento
sequenziale “perdiamo i pazienti che cadono nelle crepe del pavimento, proprio
perchè non sono disposti a passare da un programma all'altro” .

Il secondo tipo di trattamento è il “modello parallelo”: il trattamento si svolge in


diversi ambiti allo stesso tempo. Spesso le due diverse fonti di trattamento hanno
diverse filosofie e diversi approcci terapeutici che possono anche essere
contraddittori. Il trattamento parallelo è meglio di quello precedente, ma sicuramente
non è il migliore per un mancanza di comunicazione fra due ambiti di cura del tutto
separati, con approcci terapeutici talora diversi. Di solito gli psichiatri non parlano
con gli operatori per i programmi di droga ed anche viceversa; la mancanza di
comunicazione lo rende assolutamente inefficace, anche se è comunque meglio di
quello precedente, perchè in fin dei conti vengono trattati tutti e due i problemi. Un
nuovo sottotipo di trattamento parallelo è rappresentato dal modello di “cura
condivisa” (“shared care” di M. Flanagan), caratterizzato da una realistica “mezza
via” , cioè stretta collaborazione tra SERT e Salute Mentale con “presa in carico
condivisa” ma percorsi di trattamento paralleli su progetto concordato tra equipe
diverse.

Il terzo tipo è il “trattamento integrato”: per entrambe le condizioni, all'interno


dello stesso ambiente, sullo stesso ambito; molti programmi non sono pienamente
integrati ma hanno gli elementi di un programma integrato. Un trattamento integrato
può avere come base un programma psichiatrico (che è anche un programma per i
problemi della droga) o avere una base in un programma dedicato alla doppia
diagnosi in modo specifico.

211
Ogni trattamento deve prevedere equipe multiprofessionali dei vari servizi anche in
collaborazione con il privato sociale e deve essere costituito da diverse fasi di
intervento(programma stadiale):

1. accoglienza-diagnosi (protocollo diagnostico specifico)


2. stabilizzazione o disintossicazione rapida (ambulatoriale o in day hospital)
3. trattamento riabilitativo integrato di prevenzione della ricaduta (ambulatoriale,
territoriale, semiresidenziale e residenziale) a medio o lungo termine
4. follow-up (protocollo di valutazione)
5. fine programma (gestito in accordo con il paziente,la famiglia, il servizio e/o la
struttura riabilitativa.
Il trattamento riabilitativo integrato (T.R.I.), per l’alcolismo con comorbilità
psichiatrica, combina come programma globale elementi di trattamento sia del
disturbo mentale che della dipendenza da alcol ed è gestito in una unica struttura da
operatori esperti in entrambi i settori e unificato secondo la metodologia del
“management del caso”.

L’alcol è una droga “a ponte” tra le sostanze psicoattive neurodeprimenti e quelle


psicostimolanti, avendo una azione “bifasica” con effetto iniziale “disinibente” ed
“antifobico” (che lo rende sostanza particolarmente appetita da soggetti ansiosi e
fobici) ed effetto successivo di accentuazione dei sintomi psicopatologici ansioso-
depressivi e chiusura socio-relazionale con instaurazione di un circuito
autoalimentatesi:

attenuazione dei problemi psicopatologici - accentuazione sintomi e creazione


nuovi problemi.

L'abuso di sostanze psico-attive, cioè capaci di modificare la sfera affettiva, ideativa,


senso-percettiva e comportamentale è un'abitudine molto antica nella storia dell'uomo
(già migliaia di anni fa varie civiltà antiche conoscevano le proprietà gratificanti ed

212
euforizzanti della Cannabis Sativa, dell’oppio ed ancor prima delle bevande
alcoliche), ed in generale con il concetto di abuso si intende l'uso di sostanze illegali
o legali per scopi non terapeutici e con modalità e conseguenze dannose per
l'individuo e per la società. Una delle conseguenze dell'abuso di sostanze psico-attive
può essere lo sviluppo di una dipendenza.

La dipendenza o “addiction” viene definita, dal punto di vista comportamentale,


come la auto – somministrazione compulsiva e ripetuta di alcol o di droghe (sigla
AODs) malgrado la conoscenza delle conseguenze avverse dell'abuso ed i tentativi di
smettere. Tipicamente la giornata del dipendente da sostanze psicoattive è centrata
intorno all'acquisto e al consumo a spese dell'attività lavorativa; alla base del
consumo, dell'abuso e del progressivo sviluppo della dipendenza vi sono fattori
genetici, psicosociali e ambientali.

Nei passati decenni è stata prodotta una enorme quantità di ricerche e sono state
proposte molte teorie per aiutare a capire il processo delle dipendenze da sostanze
psicoattive. Queste teorie hanno determinato la scelta della modalità di trattamento
degli alcolisti e dei tossicodipendenti non tenendo sufficientemente conto della
complessità e della multifattorialità dei Disturbi da uso di sostanze psicoattive con
conseguenti approcci di trattamento parziali e quindi poco efficaci.

Tradizionalmente, ci sono state tre principali scuole di pensiero :

1. una che enfatizza gli effetti dell'ereditarietà (modello della tossico-


alcoldipendenza come malattia)
2. un'altra gli effetti dell'ambiente e del comportamento (modello
comportamentale-ambientale) e
3. l'ultima gli effetti fisiologici propri delle sostanze psicoattive (modello
accademico ).
Alcuni individui sono più sensibili di altri, come anche evidenziato dagli studi sulla
familiarità e sui fattori genetici, in particolare studi sull'attività MAO piastrinica e sul
gene recettore D2 della dopamina (K.Blum et coll.,1994). Centinaia di

213
sperimentazioni hanno suggerito fortemente che il desiderio abnorme di alcol, di
droghe e di cibo rappresentano la conseguenza di abnormi meccanismi che
coinvolgono la cascata della gratificazione a livello dell'area mesolimbica del
cervello.

In base a questo modo di vedere K.Blum tenta di derivare un semplice modello:

1. Le anomalie genetiche inducono la comparsa di un difetto della cascata della


gratificazione,

2. Questi difetti della cascata della gratificazione provocano una distorsione


comportamentale definita "malattia compulsiva".

Sempre secondo K.Blum esistono sia in campo neuro-genetico che farmacologico


prove inconfutabili che alla base delle malattie compulsive ci sono difetti a carico di
uno o più geni che regolano la funzionalità del recettore D2 della dopamina a livello
di aree critiche della gratificazione. Sono queste anomalie a determinare le malattie
compulsive che caratterizzano la predisposizione alla dipendenza del cervello .Le
alterazioni biochimiche schematicamente accennate nella precedente diapositiva si
riscontrano in diverse aree cellulari del cervello (Locus coeruleus, N.Accumbens,
SGPA, ) e coinvolgono sistemi molecolari quali il secondo messaggero cAMP, la
Proteina G, canali ionici, e danno luogo ad alterazioni della fisiologia cellulare
attraverso alterazioni dei processi di replicazione che portano alla sintesi dei recettori.
Le alterazioni durevoli e potenzialmente permanenti derivanti dall’assunzione
prolungata di sostanze riguardano il sistema del compenso, i neurotrasmettitori, la
risposta allo stress. Non si sa ancora quale dose e durata siano necessarie per
determinare tali alterazioni, né se e quali di queste siano eventualmente destinate a
normalizzarsi:

•i segni somatici di astinenza durano alcuni giorni

•i problemi motivazionali e la compromissione cognitiva possono durare alcuni mesi

•gli aspetti “appresi” di tolleranza alla sostanza possono permanere indefinitamente.


214
Questo aspetto, importante perché alla base delle ricadute, dipende dalla integrazione
del sistema del compenso con i centri che governano motivazione, emozioni e
memoria, tutti collocati nel sistema limbico: la interconnessione di tali centri
permette alla persona non solo di sperimentare piacere a seguito dell’uso di una
sostanza, ma anche di apprendere il segnale per tale compenso e rispondere in
maniera anticipatoria. Da qui l’effetto a lunghissimo termine, delle reazioni
fisiologiche condizionate a stimolo correlati al precedente uso di sostanze.

Vediamo cosa significa il "craving" è la cosiddetta "appetizione patologica", cioè il


fortissimo ed irresistibile desiderio di assumere una sostanza, desiderio che, se non
soddisfatto, causa intensa sofferenza psichica e fisica. Il "craving" nasce sia dalla
necessità di interrompere il malessere (fobia-astinenza o rinforzo negativo) che dal
desiderio di provare piacere (mania-appetizione o rinforzo positivo).

Quindi è il sintomo psicopatologico della dipendenza da sostanze di abuso, il


"craving", che ricompone quell'unità biologica costituita da psiche e soma, fino a
pochi anni fa separate nella diagnosi, nella terapia e nella prognosi. Oggi, sulla base
delle recenti acquisizioni scientifiche, non dobbiamo più distinguere la dipendenza
psichica da quella fisica perchè la scoperta del "craving" le riunifica e quindi ci
impone di conferire alla sostanza ed al suo abusatore un'unità di azione che accomuna
in maniera globale le varie sostanze a seconda che rispettino le caratteristiche sopra
descritte.

Vengono distinti da Verheul , che nel 1999 ha elaborato un modello psicobiologico


per l’alcolismo, 3 tipi di craving :

1. reward craving (desiderio per la ricompensa)


2. relief craving (desiderio di ridurre la tensione)
3. obsessive craving (pensieri ossessivi per l’alcol e perdita di controllo
La caratteristica principale del modello di Verheul è proprio la perdita di controllo
con compulsione per l’alcol e sintomatologia alcolcorrelati. Al craving è strettamente
collegata la ricaduta nel consumo di alcol correlata a situazioni ad alto rischio come

215
stati emotivi negativi e positivi, disturbi psicopatologici e conflitti interpersonali in
famiglia e sul lavoro.

Facciamo un po’ di breve storia:

si ricorda che già l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definì la dipendenza
da una sostanza come "uno stato psichico e talora anche fisico che risulta
dall'interazione dell'organismo con una sostanza ad azione farmacologica, che si
caratterizza per alcune modificazioni del comportamento e di altri aspetti; comprende
sempre una compulsione ad assumere la sostanza, in modo continuo o periodico, al
fine di provocare effetti sulla psiche e talora di evitare il disagio della sua mancanza.
Si può accompagnare o non a tolleranza" (OMS,1969)

Questa definizione vale naturalmente per l'alcol etilico la cui assunzione impropria
può esitare anche in stati tossicomanici veri e propri con conseguenze non di rado
gravi per i singoli individui come per la società, tanto che l'alcolismo costituisce
attualmente uno dei problemi medico-sociali più rilevanti.

Ma riguardo alle definizioni di "alcolismo" e " dipendenza da alcol" tuttavia il


dibattito tra ricercatori e operatori impegnati nel campo del trattamento dei problemi
alcolcorrelati è ancora molto aperto. In accordo con quanto dichiarato nel
documento finale della prima Consensus Conference sull'Alcol tenutasi in Italia a
Borgo San Felice nel 1994 si possono definire i problemi alcolcorrelati come: "tutte
le situazioni di disturbo riconducibili all'uso episodico e /o protratto di bevande
alcoliche" e l'alcolismo come: "un disturbo a genesi multifattoriale (bio-psico-sociale
) associato alla assunzione protratta ( episodica o cronica ) di bevande alcoliche, con
presenza o meno di dipendenza, capace di provocare una sofferenza
multidimensionale che si manifesta in maniera diversa da individuo a individuo.".

Nel 1990 l’American Society of Addiction Medicine ha definito invece l’alcolismo


come “malattia di per sé e non sintomo di altre condizioni, a andamento cronico,
caratterizzata da:

216
• incapacità di controllare la compulsione al bere,
• polarizzazione ideativi sull’alcol,
• uso di alcol nonostante il manifestarsi delle conseguenze dell’assunzione,
• distorsioni cognitive.

Prima di entrare negli aspetti più propriamente clinici è opportuno richiamare le


principali tappe che hanno condotto la Dipendenza da Alcol alla attuale collocazione
nella nosografia psichiatrica: generalmente si ritiene che B. Rush, padre della
psichiatria americana, nel lontano 1796, per primo abbia considerato l'abuso cronico
di oppio o di alcol come l'espressione di una "monomania" ed abbia posto a
fondamento dell'alcolismo la dipendenza con "la perdita di controllo sul
comportamento potatorio" come sintomo caratteristico del disturbo; per molti anni
sono stati valorizzati ora gli aspetti somatici ed i danni d'organo, di interesse
principale della medicina interna e della gastroenterologia, ora gli elementi di
deviazione e di trasgressione, che giunsero con il proibizionismo, a sottrarre
l'alcolismo al modello medico biologico per attribuirlo all'ambito sociopsicologico
della devianza sociale. In particolare il sociologo Durkheim (1930) ha sottolineato
l'importanza del contesto sociale, con il termine "anomia", nella genesi di diverse
manifestazioni di sofferenza di una società (abuso di sostanze, aumento del numero
di suicidi, di divorzi e di comportamenti criminali). Essendo l'uomo sempre e
comunque in relazione con gli altri, la patologia della dipendenza non può essere
altro che una "patologia della relazione" e la dimensione sociale del legame profondo
che unisce le persone fra di loro secondo Durkheim viene confermata proprio
dall'aumento di comportamenti patologici individuali all'interno di una società
quando viene a mancare ciò che ne consente l'adesione: i miti, i riti e tutti i valori in
generale ai quali crede il gruppo sociale.

Nella classificazione di Jellinek (1960), con la quale si è recuperato alla medicina


questo capitolo della patologia, la dipendenza è condizione necessaria in due delle

217
cinque forme di alcolismo, l'alcolismo gamma e l'alcolismo delta, mentre nelle altre è
solo elemento accessorio.

Nella nosografia psichiatrica nordamericana l'alcolismo è stato considerato a lungo


tra i disturbi di personalità, vuoi come sottotipo della personalità sociopatica (DSM-I,
1952), vuoi come devianza alla stregua di quelle sessuali (DSM-II, 1968). Nel 1970
l'Organizzazione Mondiale della Sanità definiva la sindrome di dipendenza da alcol
in accordo alle caratteristiche della dipendenza farmacologica già riportate e la
inseriva nell'ICD-9 come categoria nosografica comprendente l'alcolismo cronico, la
dipsomania e l'ubriachezza in corso di alcolismo. L'ICD-9 distingue la sindrome di
dipendenza da alcol dalle psicosi alcoliche, in cui oltre all'eccessivo uso di alcol
sembrano giocare un ruolo importante anche difetti della nutrizione. Nel 1976
Edward e Gross propongono una definizione provvisoria dei criteri sintomatologici
per la diagnosi della sindrome di dipendenza da alcol che viene a connotarsi per:

a) il progressivo restringimento del repertorio potatorio dell'individuo la cui modalità


di assunzione diventa sempre più stereotipa;

b) la prevalenza del comportamento potatorio sugli altri;

c) aumento della tolleranza;

d) comparsa di ripetuti sintomi di astinenza alla caduta dei livelli alcolemici (tremori
del mattino);

e) il sollievo dei sintomi di astinenza dopo la riassunzione di alcol (bicchiere del


mattino);

f) consapevolezza della compulsione al bere, ed infine, g) ricomparsa, dopo una


astensione anche protratta, della dipendenza più rapidamente rispetto ai soggetti non
dipendenti.

La Dipendenza da Alcol, insieme a quella da altre sostanze psicoattive, è stata


chiaramente enucleata dai disturbi alcol correlati e distinta dai disturbi di personalità

218
con il DSM III (1980 ). La sua diagnosi, come quella di Abuso, nel manuale suddetto
richiedeva una ingestione di alcol, abnorme per quantità, modalità e durata (almeno
un mese), la presenza di segni di intossicazione con incapacità a ridurre o ad
interrompere l'assunzione, la perseverazione nel comportamento potatorio pur in
presenza di un disturbo fisico da questo esacerbato, nonché la compromissione delle
attività sociali e professionali. La diagnosi differenziale tra la Dipendenza e l'Abuso
si basava su due elementi essenziali, la tolleranza e la comparsa di fenomeni di
astinenza alla sospensione anche temporanea dell'alcol.

Con il DSM III-R (1987) è stato invece introdotto il concetto di severità e la


Dipendenza è stata distinta in lieve, moderata e grave in base alla intensità delle
sintomatologie ed al deterioramento lavorativo e delle relazioni interpersonali
(Rounsaville B.J., 1998).

Con il DSM-IV (1994) infine l'attenzione è stata rivolta agli aspetti evolutivi,
nell'intento di verificare la autonomia nosografica dell'Abuso, che nella versione
precedente del manuale di fatto era una categoria di transizione verso la Dipendenza e
comunque una diagnosi residua. L'OMS, con l'ultima edizione dell'ICD (ICD 10,
1993) ha praticamente raccolto i criteri diagnostici del DSM III-R sancendo
ulteriormente la Dipendenza da Alcol tra le categorie nosografiche dei disturbi
psichiatrici.

Allo stato attuale,quindi, la distinzione tra Dipendenza da Alcol e Patologia Alcolica,


proposta vari decenni fa (Bowman, 1941), è ampiamente accettata anche se nella
pratica clinica la Dipendenza Alcolica e la Patologia Alcolica quasi costantemente
coesistono e si rinforzano vicendevolmente (Sarteschi e Maggini, 1982).

Concordemente si afferma che la Dipendenza da Alcol riconosce tre ordini di


alterazioni, uno Stato Comportamentale alterato, uno Stato Soggettivo alterato ed uno
Stato Psicobiologico alterato.

Nella pratica clinica, la Dipendenza da Alcol è associata frequentemente ad altri

219
disturbi psichiatrici che rendono complesso l'inquadramento diagnostico, l'adozione
di presidi terapeutici e la formulazione del giudizio prognostico. In particolare è la
popolazione femminile alcol-dipendente a presentare un'alta percentuale di
comorbilità psichiatrica.

La Dipendenza Alcolica è classificata sia dal sistema americano DSM sia dall'altro
sistema ICD dell'Organizzazione Mondiale della Sanità come “Disturbo Mentale”.
Numerosi studi indagano sui problemi psichici antecedenti all'uso di alcol. Questi
studi portano alle conclusioni più varie. Non è possibile oggi indicare un unico
disturbo mentale, o una condizione psichica come specificamente associata allo
sviluppo di alcolismo;numerosi studi riportano un elevata incidenza di Disturbi
Mentali (in primo luogo Disturbi affettivi, Disturbi d'ansia e Disturbi di Personalità)
sia durante l'uso di alcol sia dopo la sua sospensione. Per quanto riguarda il punto
uno, esso ha principalmente un valore speculativo.

L'uso di farmaci antidepressivi e di sali di litio così frequente nella terapia degli
alcolisti, oltre che dal corrente riscontro della sintomatologia depressiva in questi
pazienti, discende dalla convinzione diffusa che l'abuso alcolico in molti casi è
espressione sintomatica di un disturbo affettivo e l'alcol una specie di autoterapia; i
risultati di questi trattamenti tuttavia sono discordanti e comunque inferiori a quelli
che generalmente si ottengono nei pazienti con disturbi primitivamente dell'umore ciò
che rimanda a rapporti più complessi tra queste patologie.

I primi a difendere il concetto "alcolismo=malattia" furono gli Alcolisti Anonimi,


organizzati nel 1935 ad Akron negli Stati Uniti (Alcoholics Anonymous
1939,1953,1976; Kurtz E. 1979). Solamente dopo la seconda guerra mondiale
l'alcolismovenne gradualmente accettato come malattia grazie anche a Jellinek che
pubblicò nel 1960 il libro " Disease concept of alcoholism" (Jellinek E., 1960), nel
quale difese il concetto medico dell'alcolismo. Oggi esiste una forte pressione a
medicalizzare i problemi alcolcorrelati e ad inserirli nelle classificazioni delle
malattie psichiatriche.

220
Il concetto ecologico-sociale, sul quale si basa il lavoro del Club degli Alcolisti in
Trattamento o CAT, vede i problemi alcolcorrelati e complessi come un tipo di
comportamento, uno stile di vita che può causare molti disagi, che non è una malattia,
ma che può diventare anche una malattia quando si manifestano complicanze
organiche o psicopatologiche. Questo stile di vita , questo legame che esiste fra
l'individuo, la famiglia e la comunità con il bere alcolici, nasce dalla cultura che
accetta il bere sotto un gran numero di influssi interni, esterni od ambientali. Secondo
il modello ecologico-sociale la salute dipende dalla cultura sanitaria e generale nella
comunità, che nei paesi mediterranei ammette il bere come un comportamento
accettabile, molte volte desiderabile; c'è , pertanto, la necessità sia di cambiare la
cultura esistente sia di un trattamento prolungato che richiede un cambiamento del
comportamento, dello stile di vita, quali che siano i risultati che ha dato la terapia
medica delle eventuali complicazioni organiche e psicopatologiche .

Con l'evoluzione della metodologia dei CAT verso i Club Ecologici Familiari (CEF)
ed in un'ottica futura verso i Club Ecologici Comunitari (CEC) vengono raggiunte
altre persone “problematizzate”, altre famiglie con problemi assai diversi da quelli
dell'alcoldipendente e ci si allarga in maniera sempre più organizzata alle figure di
riferimento per chi è "orfano" in senso proprio o traslato .

Come già sottolineato per le doppie diagnosi in generale anche per l’alcolismo in
comorbilità con altri disturbi psichiatrici si tratta di quadri clinici “complessi”,
“gravi” e “gravosi” per i servizi socio-sanitari che si trovano attualmente specie in
Italia in una fase di scarsità di risorse.

Nella pratica clinica viene suggerito di utilizzare le seguenti aree:

· abitudini alcoliche, ed uso di altre sostanze psicoattive che si evidenziano con


anamnesi alcologica e tossicologica, esami ematochimici specifici, ricerca di alcol e
di altre sostanze nelle urine, familiarità per alcoldipendenza e disturbi mentali;

· condizioni fisiche, vale a dire valutazione generale del soggetto e diagnosi di

221
sindrome d'astinenza e di patologie alcol-correlate attraverso anamnesi medica,
esame obbiettivo generale e neurologico, esami ematochimici e altri presidi sanitari al
bisogno;

· condizione psicologica, in cui vanno rilevati disturbi mentali preesistenti e


concomitanti l'uso problematico di alcol, disturbi di personalità, sintomi quali ansia e
depressione, funzionamento della famiglia con evidenziazione di problemi e conflitti,
motivazioni e resistenza al trattamento, attraverso anamnesi personale o
psicopatologica, esame psichico, eventuali test psicometrici;

· situazione sociale, che raccoglie elementi riguardanti la vita di relazione,


l'adattamento sociale, la situazione socio-economica, il lavoro, eventuali problemi
legali, gli incidenti stradali e di altro tipo, tramite l'anamnesi personale e il colloquio
di servizio sociale.

La valutazione secondo le suddette aree dovrebbe essere fatta a tutti i pazienti


all'inizio e nel corso del trattamento. Inoltre è consigliabile, come sopra accennato,
prevedere due livelli di inquadramento del caso: un primo livello allo scopo di stilare
un programma di trattamento alcologica da rivalutare a breve e a medio termine, e un
secondo livello da destinarsi solo a quei soggetti che presentano problemi specifici,
vale a dire quando è necessario un approfondimento delle aree più compromesse allo
scopo di individuare strumenti terapeutici o riabilitativi specifici.

Per maggior chiarezza al riguardo della connessione tra valutazione multipla e


obiettivi terapeutico-riabilitativi, è bene chiamare le fasi relative al trattamento stesso,
fasi che richiedono decisioni di procedura e di valutazione. L' entrata dell'utente in un
sistema di trattamento alcologico prevede come obiettivo generale quello di fornire
una accoglienza all'alcolista e di dare una risposta ai suoi bisogni più immediati. E' a
questo punto che solitamente viene effettuata la diagnosi di alcoldipendenza, o
quantomeno formulata una ipotesi diagnostica, e vengono evidenziati patologie e

222
problemi alcol-correlati urgenti o gravi. Le decisioni da prendere a tal fine
riguardano:

· eventuale necessità di ricovero in psichiatria, neurologia, medicina generale,


etc;

· gestione di intossicazione acuta;

· gestione della sindrome da astinenza alcolica;

· gestione psicologica di ansia, depressione, sentimenti di autosvalutazione e


colpevolizzazione;

· presa di contatto con i familiari od individuazione di altri referenti.

La fase successiva rappresenta il vero e proprio inizio del trattamento ed è a questo


punto che possibile stilare un programma a breve e a medio termine. Andranno
raccolti elementi dall'utente stesso e da altre fonti riguardanti la storia personale e la
situazione nelle diverse aree di salute vitale atti a formulare una valutazione globale e
articolata: ciò rappresenta la base dell'inquadramento multiplo che verrà completato
nella fase successiva o, se necessario, approfondito, nel corso del trattamento.

L'obiettivo principale del programma a breve e a medio termine è di instaurare una


relazione con l'alcolista e di evitarne il drop-out, utilizzando le seguenti tecniche:

· sostegno psicologico;

· attivazione della rete;

· inserimento in gruppi di auto-mutuo-aiuto.

Sono stati proposti e sperimentati vari farmaci (acamprosato, acido gamma-


idrossibutirrico, antidepressivi triciclici ed SSRI, baclofene, benzodiazepine,
buspirone, disulfiram,naltrexone) nel trattamento della dipendenza da alcol con vari
obiettivi, che si possono riassumere in:

223
• mantenimento dell’astinenza o, in subordine,
• diminuizione del potus o, ancora
• diminuizione dei disturbi fisici e psichici correlati all’uso di alcol
Analizzando più dettagliatamente i farmaci più utilizzati nell’ esperienza clinica nel
trattamento dell’alcolismo è possibile fare una distinzione tra due categorie di
farmaci, quelli con azione “anticraving” e quelli con azione “avversivante”. I farmaci
ad azione avversivante sono quei farmaci che associati all’assunzione di alcol
provocano nel soggetto effetti sgradevoli legati alla liberazione massiva di
acetaldeide nell’organismo, tali da portare questi soggetti a non bere, tra i farmaci più
conosciuti e utilizzati in questa categoria c’è il disulfiram. Questo farmaco, scoperto
nel 1945 da due medici danesi Hald e Jacobsen, se assunto in modo regolare, a
distanza di 15-20 minuti dall’ingestione di alcol provoca una reazione tossica
altamente sgradevole. Questa reazione da acetaldeide si presenta al soggetto con una
sensazione di calore al volto, senso di costrizione al petto che influenza la normale
respirazione, nausea e vomito; proprio la sgradevolezza di questi sintomi dovrebbe
favorire l’astensione dal consumo di alcol. Perché questo farmaco risulti efficace
deve essere assunto con regolarità, quindi è necessario che i soggetti che utilizzano
questo farmaco abbiano vicino un coniuge o comunque un familiare che possa
supervisionarne l’assunzione(Chick, Cibin). Questo farmaco di per sé non riduce il
desiderio di bere e anche se utilizzato sotto il controllo di altri può risultare molto
efficace, lo stesso non accade se questo farmaco viene introdotto nella quotidianità
dell’individuo.

Heather (2003) riteneva che per avere l’estinzione di un dato comportamento il


soggetto deve essere esposto ad una tentazione. Inoltre lui riteneva che per aumentare
la stima in se stesso un individuo deve attribuire i successi alla propria capacità e non
a fattori esterni. Possiamo dunque affermare che, anche se il disulfiram non
rappresenta una cura alla dipendenza dall’alcol, risulta di notevole utilità associato ad
altri tipi di terapie di supporto psico-sociale individuali e di gruppo.

224
In base ad esperienze cliniche su casi “complessi” che presentavano forte craving
persistente per l’alcol è stata ipotizzata l’utilizzazione di questo farmaco(disulfiram)
nella prevenzione della ricaduta in associazione con un altro farmaco ad azione anti-
astinenziale ed anti-craving:

l’acido gamma-idrossibutirrico(GHB).

Gli studi riguardo all’introduzione del GHB nel trattamento dell’alcolismo sono
iniziati intorno al 1980.

Recentemente grazie a studi sulla sperimentazione del GHB su soggetti alcol-


dipendenti si è potuto osservare che questo farmaco oltre a controllare la sindrome di
astinenza, provocando una sensazione di benessere che deriva soprattutto
dall’assenza della sintomatologia dolorosa, possiede la capacità di ridurre il desiderio
di bere, proprio per questa caratteristica spesso questo farmaco viene utilizzato come
“anti-craving” oltre che come “anti-astinenza”.

LE CRITICITA’ doppia diagnosi nel rapporto Psichiatria-Servizi Dipendenze


 Criticità gestionali dei pazienti “doppia diagnosi” che negli ultimi due decenni
hanno acquisito un rilievo clinico ed assistenziale in progressivo aumento per
la convergenza tra la presenza nella comunità di un gran numero di malati
psichiatrici , prima condannati ad “internamento asilare” spesso senza fine , e
l’aumento della quantità e della varietà di sostanze di abuso disponibili sul
mercato
 Formazione (universitaria e post-universitaria) degli operatori dei 2
servizi(Salute Mentale e Dipendenze) rispetto ad un problema di sanità
pubblica così rilevante e così complesso.
I quadri clinici della tossicomania, imperniati sull’ipertrofia delle spinte istintuali
(craving), sul discontrollo comportamentale e sulla cronicità ricorrente (auto-
predisposizione alla ricaduta), sono in pratica tenuti fuori dal campo dell’intervento
psichiatrico o non sono affrontati in termini psichiatrici. Si nota come gli stessi ambiti
semeiotici siano invece considerati di sicura pertinenza psichiatrica nel caso di altre

225
condizioni psicopatologiche, come ad esempio i disturbi del controllo degli impulsi;
inoltre, nella valutazione clinica del soggetto con abuso di sostanze, la diagnosi
differenziale tra uso, abuso e tossicomania è spesso posta, erroneamente, in base a
criteri tossicologici o di disadattamento globale, piuttosto che facendo riferimento
alla “presenza” ed al “livello” di gravità degli elementi nucleari della dipendenza: il
craving, la perdita di controllo e la tendenza a recidivare. Lo psichiatra che si trova di
fronte alla “doppia diagnosi” tende, spesso, ad intervenire esclusivamente sull’
“altro” disturbo piuttosto che sulla tossicomania, con l’aspettativa o nell’ottica,
fallimentari, di controllare in questo modo la spinta verso le sostanze. Il terreno su cui
si fonda tale comportamento è spesso la suggestione (non corroborata dalle evidenze
empiriche) che la dinamica autoterapica costituisca la regola nella tossicodipendenza
o che comunque sia la chiave di volta dei casi di tossicodipendenza in “doppia
diagnosi”. Di fatto, ogni intervento che non incida sul nucleo tossicomanico come
nucleo psicopatologico autonomo si rivela spesso inefficace, sia sulla tossicomania
che sull’eventuale disturbo in comorbidità. Infatti, se l’uso di sostanze persiste, di
regola, anche i disturbi mentali in comorbidità sono resistenti alle terapie standard o
comunque sono soggetti a frequenti ricadute o a cronicizzazione; d’altra parte, le
terapie utilizzate nel controllo del craving e delle recidive sono essenzialmente
psicotrope mentre, i fenomeni di astinenza e d’intossicazione sono, se non marginali,
sicuramente incidentali nella clinica e nella terapia delle dipendenze.

Quindi :

I servizi dedicati al problema della doppia diagnosi sono strutture per persone che
soffrono sia di malattie mentali sia di abuso di sostanze. Gli studi effettuati hanno
chiaramente indicato che per riprendersi totalmente, un utente con comorbilità, ha
bisogno del trattamento per entrambi i problemi e focalizzarsi solo su uno di essi non
assicura che l'altro venga risolto. I servizi dedicati alle doppie diagnosi integrano
assistenza per ciascun problema, aiutando le persone ricoverate per entrambi i
problemi in una collocazione unica, nello stesso momento.

226
I servizi per le doppie diagnosi comprendono differenti modalità di assistenza che
vanno dalla terapia farmacologica al supporto socio-assistenziale e comprende anche
il sostegno per i familiari, e può arrivare anche alla gestione del denaro e dei rapporti
interpersonali.Il trattamento personalizzato ha prospettive di lungo periodo e può
essere iniziato in qualunque fase del ricovero. Positività, speranza e ottimismo sono
le basi del trattamento integrato.Alcuni malati mentali possono auto-curarsi con
sostanze illecite e alcol, altri, che assumono una terapia con neurolettici, possono
usare sostanze stimolanti per contrastare gli effetti collaterali extrapiramidali. Anche
in Italia, con la chiusura delle istituzioni psichiatriche per lungodegenti e la crescente
importanza data alla cura e all’assistenza sul territorio, i malati mentali sono esposti
forse più di prima ad una gamma di sostanze lecite e illecite. Inoltre i malati mentali,
che vanno incontro ad isolamento sociale, possono essere spinti ad entrare in una
sottocultura nella quale si fa uso di droga, che appare molto più attraente e meno
stigmatizzata sul piano delle interazioni sociali. Non riuscire a riconoscere problemi
di salute mentale tra i tossicodipendenti e viceversa può portare a risultati inefficaci
per quanto riguarda la gestione e il trattamento.

Anche quando viene individuato un problema di doppia diagnosi, molti pazienti


tendono ad andare a finire “tra i Servizi per le Tossicodipendenze e i Servizi per la
Salute Mentale”, che operano separatamente e con filosofie e regimi di trattamento
differenti. Appare pertanto fondamentale la formazione comune sul tema “doppia
diagnosi” degli operatori dei 2 servizi.

Ci sono già alcuni punti “fermi” e condivisi” nella letteratura scientifica


internazionale che possono essere così riassunti:

-Trattamento della doppia diagnosi Disturbo da Uso di Sostanze DUS-Spettro


Bipolare

227
1. TRATTARE DUS in primo luogo al fine di stabilizzarlo (astinenza, agonisti,
antagonisti, terapie avversive) perché i disturbi mentali-organici hanno una
gerarchia più potente rispetto ai disturbi mentali –funzionali
2. TRATTARE DISTURBO UMORE con stabilizzanti, antipsicotici tipici ed
atipici , antidepressivi
3. PREVENIRE CRAVING-condotte appetitive DUS e la CICLICITA’ del
Disturbo Bipolare con trattamenti combinati a lungo termine.
(I.Maremmani,2004)

-9 principi del trattamento per i casi “doppia diagnosi”:

1. Outreach assertivo(accoglienza attiva)


2. Monitoraggio attento dei piani di trattamento
3. Integrazione ( o cura condivisa )
4. Completezza del trattamento
5. Stabilità delle condizioni di vita
6. Flessibilità
7. Trattamento per stadi (“matching”= accoppiamento)
8. Prospettiva longitudinale
9. Ottimismo (infondere fiducia)
- Modello della Cura Condivisa (“shared care”) che presenta queste caratteristiche:

1. Tipo particolare di “modello parallelo”caratterizzato da una realistica “mezza


via” , cioè stretta collaborazione tra SERT e Salute Mentale con “presa in
carico condivisa”
2. Necessita di strategia a lungo termine di FORMAZIONE comune e reciproca
degli operatori dei 2 Servizi esistenti per condividere conoscenze e superare le
resistenze alla collaborazione attraverso modelli organizzativi chiari

228
3. Condivisione di filosofia degli interventi , di linee guida di presa in carico e di
protocolli operativi di collaborazione rispetto ai piani di trattamento dei
pazienti con doppia diagnosi.

Linee guida per i trattamenti integrati:

1.Modello integrato ( luogo dell’integrazione collocato nel professionista )

2.Flessibilità e specializzazione dei clinici

3.Approccio assertivo al cliente


4.Riconoscimento delle esigenze del cliente
5.Lavoro di rete
6.Servizi con approccio globale alla persona
6.Raggiungimento della stabilità abitativa
7.Prospettive a lungo termine con progetto a mini-obiettivi
8.Trattamento stadiale ovvero “fatto su misura”
9.Ottimismo(mantenere la speranza sul lungo termine)

VEDIAMO IN PARTICOLARE ALCUNE MALATTIE:


-ENCEFALOPATIA DI WERNICKE
L'encefalopatia di Wernicke è caratterizzata dall'esordio acuto di confusione,
nistagmo, oftalmoplegia parziale e atassia da deficit di tiamina. La diagnosi è
principalmente clinica. Il disturbo può regredire in seguito alla terapia, persistere o
degenerare nella psicosi di Korsakoff. Il trattamento consiste in somministrazioni di
tiamina e terapie di supporto.L'encefalopatia di Wernicke è causata dall'insufficiente
assunzione o assorbimento di tiamina, combinati all'ingestione continua di
carboidrati. L'alcolismo grave è una frequente condizione sottostante. L'eccessiva
assunzione di alcol interferisce con l'assorbimento di tiamina a livello del tratto GI e
con il suo deposito a livello epatico; la malnutrizione associata con l'alcolismo spesso
impedisce un'adeguata assunzione di tiamina. L'encefalopatia di Wernicke può anche

229
derivare da altre condizioni che determinano una prolungata iponutrizione o una
carenza vitaminica (p.es., frequente dialisi, iperemesi, digiuno, plicatura gastrica,
carcinoma, AIDS). Un carico di carboidrati in pazienti con carenza di tiamina (ossia
rialimentazione dopo digiuno o somministrazione EV di soluzioni contenenti
destrosio per i pazienti ad alto rischio) possono innescare l'encefalopatia di Wernicke.
Non tutti gli alcolisti con carenza di tiamina sviluppano l'encefalopatia di Wernicke,
suggerendo che anche altri fattori possano essere coinvolti. Possono essere coinvolte
anomalie genetiche che esitano in un deficit della transchetolasi, un enzima che
metabolizza la tiamina.Tipicamente le lesioni del SNC sono simmetricamente
distribuite attorno al 3° e 4° ventricolo e all'acquedotto di Silvio. Sono frequenti
modificazioni nei corpi mammillari, nel talamo dorsomediale, nel locus coeruleus,
nella sostanza grigia periacqueduttale, nei nuclei oculomotori e vestibolari.
SintomatologiaLe modificazioni cliniche si manifestano improvvisamente. Sono
frequenti anomalie oculomotorie, incluso nistagmo orizzontale e verticale e
oftalmoplegie parziali (p.es., paralisi del retto laterale, paralisi coniugate dello
sguardo). Le pupille possono essere anormali; solitamente sono poco reattive o
ineguali.È frequente una disfunzione vestibolare senza ipoacusia e il riflesso
oculovestibolare può essere danneggiato. L'andatura atassica può derivare da disturbi
vestibolari e da disfunzione cerebellare; l'andatura è a base ampia e lenta, a piccoli
passi. Uno stato di confusione generalizzata è spesso presente; essa è caratterizzata da
profondo disorientamento, indifferenza, disattenzione, sonnolenza o stupor. La soglia
nocicettiva dei nervi periferici risulta spesso elevata e molti pazienti sviluppano una
grave disfunzione del sistema autonomo caratterizzata da iperattività del simpatico
(p.es., tremore, agitazione) oppure ipoattività dello stesso (p.es., ipotermia,
ipotensione arteriosa posturale, sincope). Nei pazienti non trattati, lo stupor può
progredire fino al coma e al decesso.

Diagnosi

230
La diagnosi è clinica e si basa sul riconoscimento della sottostante iponutrizione o
della carenza vitaminica. Non ci sono anomalie caratteristiche nel LCR nei potenziali
evocati, nell'imaging cerebrale o nell'EEG. Tuttavia, questi esami, così come quelli di
laboratorio (p.es., esami del sangue, glicemia, emocromo, analisi della funzionalità
epatica, emogasanalisi, screening tossicologici), devono essere effettuati per
escludere altre eziologie. I livelli di tiamina non vengono misurati routinariamente.

Prognosi
La prognosi dipende da una diagnosi tempestiva. Se effettuato in tempo, il
trattamento può correggere tutte le anomalie. I sintomi oculari solitamente iniziano a
scomparire entro 24 h dopo somministrazione precoce di tiamina. L'atassia e la
confusione possono persistere per giorni e mesi. Se non trattato, il disturbo
progredisce; la mortalità va dal 10 al 20%. Dei pazienti sopravvissuti, l'80% sviluppa
una psicosi di Korsakoff; la combinazione viene definita sindrome di Wernicke-
Korsakoff.

Trattamento
• 
Tiamina parenterale

• 
Mg parenterale


Il trattamento consiste in un'immediata somministrazione di tiamina . Il Mg è un


cofattore necessario nel metabolismo tiamina-dipendente e l'ipomagnesemia deve
essere corretta con l'utilizzo di Mg solfato. La terapia di supporto consiste nella
reidratazione, nella correzione delle alterazioni elettrolitiche e in un trattamento
generale nutrizionale, che comprende complessi multivitaminici. Pazienti con quadri
avanzati di malattia richiedono il ricovero ospedaliero. La cessazione dell'assunzione
di alcol è obbligatoria.

231
Poiché l'encefalopatia di Wernicke è prevenibile, tutti i pazienti denutriti devono
essere trattati con infusione parenterale di tiamina insieme a vitamina B12 e folati in
particolare se è necessario il destrosio EV. Si raccomanda inoltre di somministrare
tiamina prima dell'inizio di qualsiasi trattamento in pazienti che presentano ridotti
livelli di coscienza. I pazienti denutriti devono continuare ad assumere tiamina anche
dopo la dimissione.

-LA PSICOSI DI KORSAKOFF

La psicosi di Korsakoff è una complicanza tardiva di una persistente encefalopatia di


Wernicke e porta a deficit mnesici, confusione e cambiamenti comportamentali.
La psicosi di Korsakoff (sindrome amnesica di Korsakoff) insorge in circa l'80% dei
pazienti con encefalopatia di Wernicke non trattati. Non è chiaro il motivo per cui la
psicosi di Korsakoff si sviluppa solo in alcuni pazienti con encefalopatia di
Wernicke. Un grave e ripetuto attacco di delirium tremens post-alcolico può indurre
una psicosi di Korsakoff, che si sia manifestato o meno in precedenza un tipico
attacco di encefalopatia di Wernicke.Altre cause scatenanti comprendono traumi
cranici, emorragia subaracnoidea, emorragia talamica, infarto ischemico del talamo e,
meno frequentemente, tumori che interessano la regione talamica paramediana
posteriore.

Sintomatologia
La memoria a breve termine è gravemente compromessa; l'amnesia retrograda e
anterograda si manifesta in vari gradi. I pazienti tendono a mantenere la memoria
degli eventi remoti, che sembra essere meno compromessa rispetto alla memoria
degli eventi recenti. Il disorientamento temporale è frequente. I cambiamenti emotivi
sono frequenti; essi comprendono apatia, tristezza o lieve euforia con scarsa o nulla
risposta agli eventi, anche a quelli terrorizzanti. La spontaneità e l'iniziativa possono
essere ridotte.

232
La confabulazione è spesso una caratteristica iniziale importante. I pazienti confusi
creano inconsciamente resoconti immaginari o confusi di eventi che non possono
ricordare; queste confabulazioni possono essere così convincenti che il disturbo
sottostante non viene riconosciuto.

Diagnosi
La diagnosi si basa sui tipici sintomi in pazienti con un'anamnesi positiva per grave
dipendenza cronica da alcol. Devono essere escluse altre possibili cause dei sintomi
(p.es., lesioni del SNC o infezioni).

Prognosi
La prognosi è abbastanza buona nei pazienti affetti da trauma cranico, da emorragia
subaracnoidea o da entrambi; l'amnesia è transitoria. La prognosi è sfavorevole
quando la causa è la carenza di tiamina o l'ictus; è necessario il ricovero prolungato
per circa il 25% dei pazienti e solo il 20% circa guarisce completamente. Tuttavia,
essi possono migliorare anche a distanza di 12–24 mesi dall'esordio e i pazienti non
devono essere prematuramente istituzionalizzati.

Trattamento
Il trattamento consiste nella somministrazione di tiamina e in un'idratazione adeguata.

-LA MALATTIA DI MARCHIAFAVA-BIGNAMI


La malattia di Marchiafava-Bignami è una rara demielinizzazione del corpo calloso
che si manifesta negli alcolisti cronici, principalmente di sesso maschile.
L'anatomopatologia e le circostanze correlano questo disturbo a una sindrome
osmotica da demielinizzazione (precedentemente detta mielinolisi pontina centrale),
di cui può essere una variante ( Sindrome da demielinizzazione osmotica). Nella
malattia di Marchiafava-Bignami, agitazione e confusione si manifestano assieme a

233
progressiva demenza e segni di rilascio frontale. Alcuni pazienti guariscono dopo
diversi mesi; altri manifestano convulsioni e coma, che possono precedere il decesso.

Ora concludendo si puuò constatare che nonostante l’entusiasmo suscitato dai


programmi di trattamento integrato dei pazienti con doppia diagnosi restano irrisolti
numerosi problemi di tipo organizzativo e finanziario, sia a livello federale che
statale. Così, nonostante l’affermarsi di moltissimi programmi di eccellenza in tutti
gli Stati Uniti, la maggior parte dei sistemi sanitari non è ancora riuscita a garantire lo
sviluppo di servizi per la doppia diagnosi alla popolazione con gravi disturbi mentali.
Studi relativi a modalità di finanziamento, di erogazione, di riorganizzazione e di
formazione sul tema della doppia diagnosi sono solo alle fasi preliminari.

Mancano dati certi sui costi dei servizi integrati, così come sui risparmi realizzati
fornendo cure migliori da parte di questi stessi servizi. Sebbene i pazienti con doppia
diagnosi siano certamente ad alto costo presso i servizi tradizionali e costringano le
loro famiglie a sopportare alti costi diretti ed indiretti , il trattamento integrato
potrebbe essere ancora più costoso, soprattutto nel breve periodo. Alcuni studi
suggeriscono che la quota di risparmi nei costi diretti ed indiretti utilizzando servizi
specialistici integrati sia notevole , ma è necessario saperne di più al riguardo.

Un’altra area di ricerca che sta avendo un grande impulso è quella che indaga la
specificità degli interventi integrati. I singoli interventi variano molto da luogo a
luogo e non sono quasi mai descritti in manuali che ne garantiscano la fedeltà. In
questo momento c’è molta attività volta ad affinare, descrivere e standardizzare gli
approcci specialistici per la doppia diagnosi riguardo a counselling individuale,
interventi sulla famiglia, farmaci, trattamenti di gruppo, assistenza sociale, auto
pratico, ed altre componenti essenziali.

Infine esistono le criticità poste da gruppi minoritari di pazienti con doppia diagnosi.
Alcuni studi hanno esplorato i bisogni specifici delle donne con doppia diagnosi dei

234
pazienti provenienti da minoranze etniche , ma modifiche individualizzate sulle
necessità di queste sottopopolazioni necessitano di essere ancora valutate con
attenzione. Per esempio, molti programmi integrati hanno identificato la presenza di
casi con storie personali di traumi e con sintomi post-traumatici ed hanno suggerito
interventi specifici, ma non esistono ancora risultati attendibili sui loro esiti. La
ricerca e la sperimentazione sulle modalità di presa in carico e trattamento dei
gravissimi disturbi di personalità antisociale e paranoide, spesso associati ad uso di
alcool e sostanze, non ha dimostrato che queste modalità di presa in carico e
trattamento hanno avuto una efficacia nel prevenire gli aspetti comportamentali e
criminali di questi disturbi. Nè trattamenti psicoterapici, nè farmacologici, nè
integrati farmaco-psicoterapici, e nemmeno le terapie residenziali.

Pertanto, in aggiunta agli interventi psicoeducativi, dovrebbero essere disponibili per


i familiari anche interventi sulla rete sociale e gruppi di auto-aiuto e, nelle situazioni
più difficili da gestire sul territorio, deve essere previsto l’inserimento in strutture
residenziali con programmi adeguati.

Sebbene infatti la maggior parte dei pazienti con doppia diagnosi risponda bene ai
trattamenti integrati sul territorio, una minoranza ha esiti negativi e continua ad
essere ad alto rischio di serie complicanze come infezioni HIV, problemi giudiziari,
homelessness, riospedalizzazioni etc…

Si stanno sviluppando algoritmi di trattamento per i “non-responders” che prevedono


trattamenti residenziali a lungo termine , trattamento delle sequele post-traumatiche ,
gestione controllata del denaro , gestione territoriale con negoziazione quotidiana
delle attività , ed approcci farmacologici come clozapina ,disulfiram , naltrexone.

Uno stile organizzativo dei servizi di tipo “motivazionale” con uno spazio adeguato
lasciato alla relazione terapeutica con l’utente , all’empatia ed all’ascolto riflessivo
anche attraverso il counselling fatto di professionisti per accrescere la disponibilità
al cambiamento può contribuire a migliorare il clima di lavoro ed i risultati degli
interventi.

235
Una nota merita il concetto di counselling:

la BAC (British Association for Counseling, 1985) da la seguente definizione di


counseling: “Si effettua un intervento di counseling quando una persona, che riveste
temporaneamente il ruolo di counselor, offre o concorda esplicitamente di offrire
tempo, attenzione e rispetto ad un’altra persona, o persone, temporaneamente nel
ruolo di cliente. Compito del counseling è di dare al cliente un’opportunità di
esplorare, scoprire e chiarire dei modi di vivere più fruttuosi e miranti a un più
elevato stato di benessere”. In questa definizione si avverte una necessità di
precisazione relativa a varie modalità di applicazione che l’intervento può
comportare, ad esempio il counseling individuale o il counseling di gruppo, e
contemporaneamente la necessità di precisare un’etica della relazione. Nel 1987
Folgheraiter: “Il counseling ha a che fare con l’area del conflitto, delle confusioni
mentali, dell’ambivalenza, del turbamento emotivo in seguito a stress più o meno
violenti nei vari ambienti di vita (famiglia, lavoro, scuola ecc.) in persone altrimenti
ben integrate e adattate”. Questa definizione appare centrata sulla necessità di
precisare aree di confine dell’intervento rispetto alla psicoterapia, con la precisazione
delle caratteristiche del target a cui è rivolto.

Sempre nel 1987 Reddy definisce il Counseling come: “Insieme di tecniche, abilità e
atteggiamenti per aiutare le persone a gestire i loro problemi utilizzando le loro
risorse personali.

E secondo National Association of Young People’s Counseling and Advisory


Services (1989) il Counseling è: “modo di agire che richiede di lavorare a fianco e in
collaborazione con le persone, attraverso l’uso esplicito della relazione stabilita, per
raggiungere un determinato cambiamento desiderato dal cliente. Queste due
definizioni introducono la riflessione sull’aspetto e della competenza dell’operatore
di counseling, richiamando ad aspetti legati al sapere, al saper fare e al saper essere, e
sottolineando l’uso della relazione e l’importanza del cliente nello stabilire la
direzione e la tematica di approfondimento.

236
La definizione successiva focalizza e sottolinea l’area decisionale come ambito
privilegiato del counseling e introduce una precisazione sul campo d’intervento che
deve avere, per quanto intenso, un focus ben determinato e una brevità in termini
temporali: “Processo decisionale e di problem solving che coinvolge un counselor e
un cliente. Attraverso il dialogo e l’interazione il counseling aiuta le persone a
risolvere o controllare i problemi, a capirli e ad affrontare i disagi psicosociali e i
bisogni nel modo più razionale possibile. Il counseling è intenso, focalizzato, limitato
nel tempo e specifico” (World Health Organization, 1989).

Sempre la British Association for Counselling, nel 1990, da la seguente definizione:


“Il counselor può indicare le opzioni di cui il paziente dispone e aiutarlo a seguire
quella che sceglierà. Il counselor può aiutare il paziente ad esaminare
dettagliatamente le situazioni o i comportamenti che si sono rivelati problematici e
trovare un punto piccolo ma cruciale da cui sia possibile originare qualche
cambiamento. Qualunque approccio usi il counselor, lo scopo fondamentale è
l’autonomia del cliente, ovvero che possa fare le sue scelte, prendere le sue decisioni
e porle in essere”. Tale definizione fa emergere l’importanza di un cambiamento
piccolo ma concreto nella realtà del “cliente”-paziente e sottolinea inoltre la direttrice
fondamentale dell’autonomia del cliente stesso.

La definizione di Munro, del 1991, “Attività di problem solving in cui si distinguono


diverse fasi con caratteristiche precise. E’ un modello di problem solving in cui si
raccomanda al counselor di accettare i problemi del cliente e di presumere che il
cliente possa essere aiutato a capire meglio sé stesso e la sua situazione e a cercare
una soluzione”, caratterizza l’intervento in termini di problem solvine e il bisogno
della comprensione e della non valutazione del cliente da parte dell’operatore per
poter fornire un aiuto valido.

Dal 1999 al 2000 troviamo altre quattro definizioni di counseling, delle quali tre,
appartengono al contesto italiano. Questo sta a dimostrare come, progressivamente, il

237
counseling si sta affermando anche nel nostro territorio e da qui la necessità di
precisazioni e arricchimenti definitori.

La prima è la seguente: “Il counselor professionale è un operatore della salute, che


promuove il benessere psicofisico dell’individuo e della comunità. Il suo compito è
quello di riconoscere le risorse utili della persona e usarle come punti di forza per un
suo migliore divenire” (Giusti, Montanari e Spalletta, 2000). Tale definizione offre
un contributo importante perché illumina la valenza preventiva dell’intervento e si
centra sul benessere dell’individuo e della comunità.

La seconda è: “Il counseling è una particolare modalità di intervento comunicativo,


individuale o di gruppo, finalizzato ad affrontare le difficoltà emergenti in momenti
critici dell’esistenza attraverso una relazione professionale d’aiuto” (Fulcheri e
Accomazzo, 1999). Per questi autori è importante focalizzare la necessità di
riconoscere al counseling la valenza di un intervento che richiede una professionalità
ben costruita e non l’improvvisazione, con un richiamo al concetto di crisi e,
conseguentemente, all’importanza di competenze raffinate.

La terza definizione sostiene: “La psicologia del counseling facilita il funzionamento


personale e interpersonale attraverso il vissuto, focalizzandosi sugli aspetti
emozionali, sociali, educativi, legati alla salute, evolutivi e organizzativi. Segue sia le
tematiche del normale sviluppo sia quelle dello sviluppo disfunzionale o disordinalto,
secondo una prospettiva individuale, familiare, di gruppo, di sistema o organizzativa”
(Schmidt, 2000). Questa definizione riporta l’attenzione sul contesto internazionale
sia per la sua ricchezza in termini di visione del counseling, sia per l’ampiezza e le
potenzialità di intervento che è possibile ravvisarvi.

L’ultima definizione di questo gruppo è la prima definizione AURAC (Associazione


Universitari Relazione d’Aiuto e Counseling), che costituisce un valido punto di
riferimento nel contesto nazionale, riassumendo in maniera concisa le caratteristiche
salienti dell’intervento e presentando le direttrici fondamentali del counseling:
opportuna preparazione professionale degli operatori, valenza dell’assetto

238
comunicativo come prospettiva dirimente, facilitazione rispetto alla percezione del
cliente di momenti critici e conseguentemente il valore preventivo dell’azione, la
centratura sulle risorse del cliente per potenziarne evoluzioni adattive: “Il counseling:
specifica relazione professionale d’aiuto, realizzata attraverso un peculiare intervento
comunicativo finalizzato ad affrontare disagi e difficoltà emergenti in momenti critici
dell’esistenza, attraverso l’attivazione e la riorganizzazione delle risorse
dell’individuo e con l’obiettivo di favorire in lui scelte e cambiamenti adattivi
(AURAC, 2000).

Nel 2001 troviamo nel contesto nazionale una sola definizione che avverte la
necessità di precisare in maniera riassuntiva le direttrici di riferimento dell’intervento
di counseling e le sue ricchezze operative: “Il counseling è un processo relazionale di
tipo professionale che coinvolge un counselor e una persona che sente il bisogno di
essere aiutata a risolvere un problema o a prendere una decisione; l’intervento si
fonda sull’ascolto, il supporto e su principi peculiari ed è caratterizzato dall’utilizzo
da parte del counselor di qualità personali, di conoscenze specifiche, nonché di abilità
e strategie comunicative e relazionali finalizzate all’attivazione e alla
riorganizzazione delle risorse personali dell’individuo al fine di rendere possibili
scelte e cambiamenti in situazioni percepite come difficili dalla persona stessa, nel
pieno rispetto dei suoi valori e delle sue capacità di autodeterminazione” .Quindi il
counselor è un professionista che ascolta, non consiglia, non commenta, non giudica,
bensì aiuta la persona a riconoscere le proprie potenzialità, a comprendere meglio sé
stessa e ciò che gli accade intorno; tutto questo attraverso la costruzione di una
relazione d’aiuto basata sulla comunicazione. Infatti possiamo dire che il counseling
è essenzialmente un tipo particolare di relazione d’aiuto, il cui scopo è quello di
perseguire obiettivi specifici primari di apprendimento, di soluzione di problemi
attinenti la sfera materiale, di socializzazione, di riabilitazione, in funzione delle
diverse competenze professionali, ma al tempo stesso realizzano obiettivi secondari
di tipo psicologico come incremento dell’autostima, della stabilità emotiva,
dell’integrazione sociale. E’ facile quindi capire come diventi sottile il confine che

239
divide il counseling dalla psicoterapia. La diffusione del counseling in Italia appare
lenta e sicuramente in ritardo rispetto al contesto anglosassone. Esaminando i due
contesti, del resto, si nota che la realtà italiana appare diversa se comparata al mondo
anglosassone.

La Seconda Guerra Mondiale e il periodo successivo hanno segnato per l’Italia un


vero e proprio passaggio storico durante il quale un paese prevalentemente agricolo si
è trasformato in una nazione urbanizzata e industrializzata. Un elemento di forte
differenziazione tra la cultura italiana e quella anglosassone sembra essere la famiglia
e la sua diversa concezione. In Italia il fenomeno dell’abbandono delle campagne a
favore delle città e la nascita dei grandi centri urbani determina il passaggio da una
famiglia di tipo patriarcale a una di tipo nucleare caratterizzata dalla riduzione del
numero dei componenti e da una maggiore responsabilizzazione per ognuno di essi.
In questo processo il ruolo del nucleo familiare rimane indubbiamente centrale, ma si
assiste ad una chiusura sempre più spiccata degli elementi che lo compongono al loro
interno, data la frequente mancanza di collegamenti con l’esterno. E’ infatti alla
famiglia che lo Stato delega le più varie responsabilità sociali e culturali piuttosto che
offrirle sostegno: la tendenza dello Stato risulta quella non di aiuto alle famiglie con
la creazione di servizi, ma piuttosto la richiesta alle famiglie di autogestirsi nel
tentativo di non sovraccaricare le strutture pubbliche. L’abitudine a rivolgere tutte le
proprie attenzioni all’interno e la mancanza di servizi dedicati non facilita la richiesta
d’aiuto al di fuori della famiglia stessa.

Il counseling, che troverà spazio d’azione dell’ambito dei contesti comunitari,


lavorativi e ospedalieri, inizia a diffondersi in Italia nel 1990 con l’avvio della
campagna informativa sull’AIDS e sulla sua diffusione. La pratica del counseling in
ambito socio-sanitario si è affermata proprio con la legge n. 135 del 1990, che ha
sancito l’importanza dei colloqui di counseling prima e dopo il test per l’HIV. Da
questo, che costituisce uno dei primi ambiti di applicazione, molti altri contesti hanno
mostrato interesse nei confronti del counseling, ma la sua diffusione risulta ancora
incerta e non regolamentata.

240
Tra le azioni a favore della sua diffusione nel contesto italiano si rintraccia
l’inserimento del counseling tra le nuove professioni a opera del Consiglio Nazionale
dell’Economia e del Lavoro (CNEL), atto che sicuramente ha permesso di aprire un
varco per il futuro di questa attività.

Dal 2001 si è assistito in Italia a una realtà di grande significato in tema di offerta
formativa e di potenzialità in termini di costruzione dell’identità professionale del
counselor, ossia la nascita dell’AURAC (Associazione universitari relazione d’aiuto e
counseling) con la finalità da un lato di raccordare e implementare l’apertura di centri
di counseling universitari, dall’altro di supervisionare e fare da elemento propulsivo
per la creazione di percorsi formativi universitari in grado di facilitare l’affermazione
del counseling e della relazione d’aiuto con solide competenze psicologiche
condivisibili a vari livelli di professionalità.

Negli ultimi anni sono nate diverse associazioni di counseling, che però non sono
riuscite a costituire un corpus unico, elemento questo che dovrebbe spingere a
riflettere e a individuare le aree di fragilità del contesto italiano. Tali associazioni
sono: l’ASPIC (Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell’Individuo e della
Comunità); la SICO (Società Italiana di Counseling); il CNCP (Coordinamento
Nazionale Counselor Professionisti); l’AICO (Associazione Italiana di Counseling);
il REICO (Registro Italiano dei Counselor). Tutte queste associazioni hanno finalità
dichiarate di promozione della materia e di formazione dei soci.

Il Counseling nelle Comunità per intossicazioni, si basa sul costrutto


dell’empowerment. Dal verbo inglese to empower, significa letteralmente “favorire
l’acquisizione di potere, rendere in grado di”, e definisce il processo tramite il quale
gli individui accrescono la possibilità di controllare la propria vita, assumono la
padronanza di abilità e di capacità che rafforzano il senso di sé e una consapevolezza
critica della realtà.

241
Assunta la convinzione che ogni persona sia potenzialmente capace e competente di
influenzare e di controllare la propria vita, in realtà molte persone si percepiscono in
assenza di potere e di controllo rispetto al proprio mondo quotidiano, pur disponendo
di risorse personali e ambientali, esprimendo così una specifica caratteristica del
soggetto, il quale si vive un senso di sfiducia e di sconforto nell’affrontare e risolvere
i problemi. E’ attraverso il processo di empowerment che il soggetto acquisisce
l’autostima necessaria nelle proprie capacità e abilità che condurrà ad un maggior
controllo degli eventi. Il Counselor decide di assumersi la responsabilità della "guida"
evolutiva, mettendo a disposizione la sua competenza professionale. Secondo
Levinas, il primum movens è costituito dal "volto” In questo senso non può esistere
sostegno senza una "necessaria e sufficiente" attitudine all'incontro umano che
si traduce in una "immedesimazione intenzionale" nei vissuti dell'altro.La figura
del Counselor in ambito educativo-formativo è relativamente recente. Il suo ambito
nasce dalla necessità di consigliare, orientare, promuovere un processo personale di
crescita che è da sempre una delle finalità preminenti delle Istituzioni preposte
all'educazione. Nella sua struttura moderna il Counselor ha assunto una
configurazione di competenza specifica. Le sue funzioni prima venivano svolte dal
docente perché l'esigenza dell'aiuto alla persona, sia essa in età preadolescenziale o
successiva, è stata sempre avvertita.

Il Counselor diventa oggi estremamente importante e le sue competenze


professionali sono finalizzate all’aiuto nel processo di auto-comprensione, alla
valutazione delle proprie esperienze e al controllo delle proprie emozioni. Il fulcro
dell'intervento è dunque la Persona, non il problema.

L'intervento efficace è quello che consente «alla persona di crescere,


modificare sé stessa fino ad acquisire gli strumenti concettuali, cognitivi e
comportamentali con i quali affrontare i problemi avvertiti in un certo momento della
vita»..

242
Lo psicologo C.Rogers ha identificato le seguenti condizioni fondamentali affinché si
possa affrontare un processo di consulenza:

• una relazione significativa tra due persone che "siano in contatto


psicologico fra di loro";
• uno stato di incongruenza, di vulnerabilità o di ansia dell'utente;
• uno stato di congruenza dell'operatore, quini l'esigenza che egli nella relazione,
sia profondamente se stesso

• sentimenti di considerazione positiva da parte del consulente verso la persona


in stato di bisogno;
• comprensione autentica da parte dell'operatore, del sistema di riferimento
interno della persona;
• comunicazione anche solo parziale, della comprensione autentica e della
considerazione positiva incondizionata dell'operatore verso l'utente

In sintesi, il processo riuscito di relazione d'aiuto consulenziale è contraddistinto


da: "non direttività, considerazione positiva incondizionata, comprensione
empatica". La comunicazione non direttiva si fonda sul rapporto interpersonale
centrato sul soggetto che chiede aiuto, al fine di facilitare la sua comunicazione
spontanea con atteggiamenti di accettazione e comprensione, sapendo cogliere i
sentimenti dell'altro senza valutarli, ed evitando atteggiamenti giudicanti ed intrusivi.
Per essere orientato all’altro, il consulente dovrà essere in grado di conoscere,
ascoltare ed accettare pienamente sé stesso.

Il consulente non mantiene un ruolo passivo, ma stimola attivamente l'impegno della


persona a chiarire la situazione e ad assumere decisioni costruttive» Il rapporto tra
professionista e utente deve determinare una situazione di interrelazione motivata in
cui la funzione del consulente rimane valida in termini di disuguaglianza nel
rapporto, come conduttore di un dialogo efficace.

243
Appare utile citare il modello di consulenza elaborato da R.Mucchielli, che riassume i
principi caratteristici di un atteggiamento efficace dell'operatore nella relazione di
aiuto. Il modello è chiaramente confacente con le teorie rogersiane:

• impegno personale autentico dell'operatore;


• individuazione dell'aiuto;
• espressione, da parte dell'utente, delle proprie opinioni;
• accettazione dell'utente;
• atteggiamento non giudicante;
• autodeterminazione dell'utente.

In questa direzione si può convenire che l'atto consulenziale: “resta perciò sia atto
sociale che rapporto psicologicamente significativo, ma è anche relazione
educante... “

Per chiarire la portata degli elementi concettuali propri della pratica empatica è
opportuno analizzare il percorso formativo dell’attività in parola e l'innesto della sua
struttura portante sugli studi di filosofia, di pedagogia e di psicologia che ne hanno
favorito la nascita e sostenuto la validità anche ai nostri giorni .Il concetto di empatia
acquista rilevanza nella riflessione filosofica ed estetica dei primi anni del Novecento
in termini di «partecipazione interiore coinvolgente l'intera persona. L'empatia
consiste, quindi, nel sentirsi in "sintonia con l'oggetto percepito" nulla può essere
oggetto di contemplazione estetica se non viene appunto contemplato, appreso, fatto
proprio interiormente... ».

Il passaggio dal piano estetico a quello filosofico avviene principalmente in


riferimento all'intersoggettività e alla relazione soggetto-oggetto propri del pensiero
di E. Husserl e della scuola fenomenologica: «Tutto ciò che vale per me vale anche
per tutti gli altri uomini che mi sono alla mano nel mio mondo circostante.
Sperimentandoli come uomini li comprendo e li accetto come "io", quale io sono».

244
Il processo evolutivo del concetto di empatia trova opportunità di espansione
nell'ambito della psicologia umanistica dalla quale, poi, si estenderà anche
all'ambito psicopedagogico. Condizione necessaria perché si possa creare una
relazione di aiuto è mostrare "interesse" per la persona in stato di bisogno. Una
considerazione positiva è il fattore fondamentale all'interno di una relazione
centrata sul cliente. Il "rallentamento evolutivo" costituisce la motivazione al
colloquio più frequente fra il Counselor e il cliente. Esso consiste nella frustrazione
della tendenza esistente in ogni soggetto all'attualizzazione delle proprie esperienze
interne.

L'atteggiamento del Counselor "positivo incondizionatamente" agevola nel paziente


l'assunzione di una direttività che operi su sé stesso e che lo faccia riappropriare della
tendenza alla attualizzazione. Rogers ipotizza che si deve percepire una
considerazione incondizionata per correggere lo stato psicologico. Le persone
divengono incongruenti e sviluppano problemi a causa dell'introiezione di stima
condizionata da altri significativi e dalla società. Gli individui perdono il contatto con
la primitiva e incondizionata natura delle loro esperienze.

E’ notevole il cambiamento che da l978 ad oggi hanno vissuto le aziende sanitarie.


La gestione e l’organizzazione sono profondamente mutati per l’obbligo di un
equilibrio finanziario e per fornire prestazioni appropriate e di qualità.

L’organizzazione è un sistema aperto che interagisce con l’ambiente nella


soddisfazione del bisogno di salute dell’utenza, dove coesistono obiettivi,
responsabilità, strategie.

Il contesto sanitario è particolare perché presenta delle peculiarità assenti in altri


contesti lavorativi, la più importante delle quali è la relazione con la persona malata,
debole dal punto di vista psicologico, indifesa, che cerca nel professionista un punto
di riferimento e qualcuno in cui riporre la propria fiducia. Per quanto riguarda le

245
figure professionali coinvolte nel processo di cura e assistenza, un grande carico
emotivo è costituito dalla necessità di prendere decisioni che influenzano la vita di
coloro con i quali entrano in relazione, sobbarcandosi sia lo stress derivante dalla
perdita della salute che la paura di ciò che li aspetta nel futuro. L’infermiere vive a
stretto contatto con la persona ricoverata, staccata dal suo contesto di vita e di
relazioni abituali, spesso è la figura a cui vengono confidati dubbi e timori,
nell’aspettativa di una risposta che possieda un contenuto da una parte tecnico-
scientifico, e dall’altra l’instaurarsi di un rapporto umano che trasmetta
rassicurazioni, senso di attenzione, comprensione, empatia.

La conoscenza di sé, dei meccanismi di comunicazione e di relazione,


l’autocoscienza, il saper cogliere i segnali che l’altro manda, sono indispensabili per
una relazione costruttiva orientata al miglioramento della salute e al miglior comfort
possibile. La consapevolezza del “qui ed ora” contestualizza il rapporto nel momento
in cui si vive, con lo scopo di favorire gli aspetti positivi e costruttivi per l’attivazione
delle risorse individuali.

Ma vediamo come la terapia della Gestalt pone l’accento sulla “presa di


coscienza dell’esperienza attuale il ‘qui e ora’ e dà risonanza e spazio al
sentito corporeo ed emozionale”. Essa promuove un contatto autentico con gli
altri e con sé stessi, al fine di realizzare un adattamento creativo
nell’organismo nei confronti dell’ambiente, studiando i processi di “blocco”
nel ciclo delle gratificazioni dei bisogni e mettendo in risalto gli “esitamenti”,
le angosce e le inibizioni della persona. Essa propone una chiave di accesso al
sé per conoscersi meglio ed accettarsi, discriminando le correnti interne e
profonde della personalità, seguendo dei criteri di responsabilità personale nei
confronti delle proprie scelte.

La Gestalt mira a far “sperimentare” al soggetto un percorso diverso, per


mettere in atto nuove soluzioni ai problemi, al fine di mobilitare il
cambiamento e sperimentare azioni che siano adeguate a soddisfare i bisogni.

246
La terapia della Gestalt riprende dall’esistenzialismo la nozione secondo la
quale l’individuo funziona come parte di un “campo ambientale”, ed in
particolare studia ciò che accade al confine-contatto tra l’individuo ed il suo
ambiente, dove si verificano gli eventi psicologici e l’individuo stesso funziona
come parte di un “campo ambientale”.

Ogni persona, infatti, conosce il mondo solo attraverso la propria percezione,


per cui ognuno, a seconda della propria struttura di riferimento e delle
esperienze di vita, percepisce la realtà in modi differenti ed agisce in relazione
ad una serie di stimoli ambientali. La Terapia della Gestalt considera il Sé
come un processo che dà significato e valore “all’essere al mondo” di ciascun
individuo. Il Sé caratterizza il modo di agire, in un dato momento e in un dato
ambiente, secondo il proprio stile personale: il Sé è quindi un “agente di
contatto con l’esterno nel presente”, che consente lo scambio e l’adattamento
creativo tra l’individuo e l’ambiente.

La Teoria della Gestalt viene utilizzata ormai in diversi contesti e settori, in


quanto è un approccio molto flessibile che si rivolge non sono alle persone che
hanno disturbi psicologici, ma è utile a tutti coloro che vogliono raggiungere
un maggior livello di consapevolezza e di benessere, ai fini di una convivenza
più ricca, sia con gli altri, che con il proprio mondo interiore.

L’approccio gestaltico può essere usato agilmente per aiutare a sperimentare i


propri bisogni e mantenere un proprio equilibrio, attraverso la consapevolezza
dei processi interni ed esterni per attivare la giusta interazione tra le due
istanze. La consapevolezza è la conoscenza che l’individuo ha dei bisogni
personali e della capacità di scegliere tra diverse opzioni per soddisfare i propri
bisogni. Se le gestalt del cliente sono abbastanza flessibili da adattarsi ai
bisogni individuali sempre in cambiamento, rispetto all’ambiente esterno,
allora la persona ha la possibilità di crescere in modo sano, in caso contrario, si
manifesteranno dei problemi di sviluppo.

247
La Teoria della Gestalt aiuta a far emergere in superficie i sentimenti negativi e
la sofferenza che le gestalt non escluse producono sulla vita, sulla personalità e
sulle scelte attuali del soggetto.

Il cliente-paziente impara a formarsi un sostegno interno (auto sostegno),


attraverso la consapevolezza piuttosto che affidarsi e dipendere da un sostegno
esterno.

L’individuo equilibrato, è capace di affrontare i problemi che la vita gli


presenta. Il Counselor stimola il cliente ad individuare le vicende non escluse,
che influenzano le scelte e le azioni del presente.

La Teoria della Gestalt promuove il benessere individuale attraverso il


raggiungimento di tre obiettivi: l’integrazione, la consapevolezza e
l’accettazione di come si è realmente, mediante un lavoro su sé stessi, teso a
provare nuovi comportamenti a livello reale, avvicinandosi con coraggio a
zone di sé che sono spesso fonte di paura ed ansia.

Gli stadi del Counseling gestaltico, si sviluppano con il seguente cammino:

• Il primo stadio corrisponde alla fase in cui il cliente è capace di


esprimere le esperienze interne ed osservarle oggettivamente: la fase
della “consapevolizzazione”
• Il secondo stadio è detto della “differenziazione”: le forze opposte del
Sé frammentato devono essere riconosciute e differenziate dal cliente.
• Il terzo stadio è costituito dall’ “affermazione”: il cliente è
consapevole delle proprie esperienze, è capace di focalizzarsi su di Sé
e sperimentare nel “qui ed ora” chi egli sia realmente e
consapevolmente. La persona matura è responsabile delle proprie
azioni, conosce i propri bisogni, agisce secondo le proprie aspettative
e non secondo quello che gli altri si aspettano o vogliono da lui. La
persona sana si accetta, consapevole del suo potenziale e si accosta al

248
mondo con congruenza ed autenticità.

Nel contesto sanitario la situazione attuale si presenta complessa e di difficile


gestione; c’è un elevato grado di turn-over: per lo spostamento, il licenziamento e il
pensionamento degli operatori.

Gli ambiti di intervento sono diversi. La SICO (Società Italiana di Counseling) ha


tracciato una mappa:

ambito comunitario:

• couseling psicopedagogico
• counseling di comunità
• counseling spirituale
ambito lavorativo

• counseling aziendale
• career counseling
ambito socio-sanitario:

• counseling psicologico
• counseling socio-sanitario
• counseling medico
• art counseling
• counseling in ambito privato (agevolatore nella relazione di aiuto)
• counseling nella relazione di coppia
• counseling di accompagnamento alla morte
• counseling telefonico

249
Il counselling diventa applicabile al mondo sanitario in tre dimensioni, in tre
situazioni o per tre tipi di operatori.

-Gli operatori che hanno un diretto contatto con il paziente, medici e infermieri,
possono avere più visibile il mondo interiore del paziente, si tende in genere ad
interpretare le emozioni disturbanti come sintomi e non come espressione del mondo
interno. Il counselling può aiutare anche nel come comunicare una diagnosi. Il
counselling può aiutare anche medici, infermieri e coordinatori nella relazione tra di
loro, comprendere cosa significa stare all’interno di un gruppo professionale,
aiutando la gestione delle proprie emozioni.

-Anche gli operatori di front office, a diretto contatto con il cliente esterno, quali ad
esempio gli sportellisti e i centralinisti, i quali per primi raccolgono il bisogno di
salute del paziente e vengono a contatto con la loro insoddisfazione e frustrazione,
beneficiano della consapevolezza delle emozioni proprie e degli altri.

-Spesso la cura si identifica con l’azione diagnostica e terapeutica, tralasciando la


relazione emotiva, penalizzando la parte umana del soggetto, concentrandosi sulla
malattia e sull’organo malato, in un approccio organocentrico e non antropocentrico,
pur sottolineando l’importanza della cura e del risultato in termine di recupero della
salute.

Da un lato c’è l’aspetto più legato alla relazione e quindi l’aiuto attraverso la
relazione. Da sottolineare l’aiuto che l’infermiere attraverso l’atto assistenziale,
azione svolta nella quotidianità dell’assistenza.
La prima promotrice del counseling in ambito infermieristico può essere considerata
Hildegard E. Peplau, teorica del nursing psichiatrico, che analizza la relazione
interpersonale in ambito infermieristico e teorizza:
• il ruolo educativo dell’infermiere in ambito di cura;
• la relazione interpersonale (se opportunamente organizzata ed orientata) può
divenire terapia;

250
• l’infermiere valida l’esperienza soggettiva del paziente e attraverso la relazione
attua un processo maturante degli eventi psichici (accettazione validazione e
simbolizzazione dell’esperienza consapevolezza ed infine nuova
rappresentazione di Sè);
• promozione del processo di apprendimento nel paziente;
• promozione di una nuova cultura negli infermieri: sviluppo di competenze e
abilità relazionali promotrici della salute e della valorizzazione delle risorse del
paziente
L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito il counseling come "un processo
di dialogo e di interazione duale attraverso il quale il consulente aiuta il consultante a
prendere delle decisioni e ad agire di conseguenza, oltre a fornire una accurata e
attenta informazione ed un sostegno psicologico adeguato. Il counseling è diretto ad
aiutare il paziente in un momento di crisi, ad incoraggiare cambiamenti nel suo stile
di vita, se necessario, proponendo azioni e comportamenti realistici, ed è volto a
metterlo in grado di accettare le informazioni ansiogene favorendo l'adattamento alle
relative implicazioni" (World Health Administration, 1992).

Sottolineare l’importanza del colloquio come base della relazione è


fondamentale, proprio perché la comunicazione verbale ci aiuta a entrare in
relazione con l’altro: questa dapprima contiene un messaggio di tipo
professionale, che viene rafforzato e modificato dalla comunicazione non
verbale, che si manifesta negli atteggiamenti, che devono essere tranquilli e
positivi, proprio per trasmettere i senso della cura e dell’importanza dello stato
d’animo dell’interlocutore. Indubbiamente occorre riconoscere che ci si trova in
presenza di un'azione tendente a fare chiarezza e a dare una lettura completa ed
efficace del problema. Il colloquio, per la sua rilevanza come componente
fondamentale dell'intervento di aiuto, deve essere adeguatamente preparato sia nel
contesto sia nell'offerta di un ambiente accogliente e nell’immagine dell’ordine della
divisa che abitualmente indossiamo. Il colloquio avrà un inizio caratterizzato da una
presentazione in cui il Counselor potrà chiarire cosa può offrire il servizio e quali

251
sono le condizioni per una buona riuscita della consulenza d'aiuto, sottolineando
l’importanza della collaborazione e della fiducia reciproca. Sarà opportuno che egli
formuli delle domande "aperte", non intrusive, in modo da permettere
all'interlocutore di rispondere con adeguata libertà agevolando il superamento di
una difficoltà spesso connessa alla condizione di parlare di sé o comunque di
problemi di cui non si ha chiarezza. Si sottolinea qui la reticenza insita spesso
nell’individuo a parlare di sé, a esternare i propri sentimenti, le paure, le emozioni, i
dubbi, il suo intimo, mascherandoli con silenzio, aggressività, riduzione della
comunicazione, l’evitamento anche fisico e lo sviare dall’argomento oggetto del
discorso. Il Counselor sin dal primo incontro chiarisce il contratto: durata, natura e
scopo del percorso, compenso. Le informazioni relative alla persona vengono
raccolte in una cartella anamnestica, la cui compilazione ha lo scopo, oltre quello di
raccogliere informazioni significative sul paziente, di metterlo nella condizione di
riorganizzare e rileggere la propria storia; nella compilazione bisogna tener conto
delle informazioni anagrafiche e socio demografiche, del motivo del colloquio e
l’obiettivo che si vuole raggiungere, della descrizione e la storia del problema, delle
abitudini e dei cambiamenti significativi affrontati di recente, dell’anamnesi
familiare, delle informazioni sull’infanzia e sull’adolescenza, della storia scolastica
e lavorativa/professionale, di una descrizione soggettiva del cliente da parte del
Counselor.

Nella fase iniziale, pre-contatto, si lavora sulla relazione, in cui il Counselor


accoglie il suo paziente, infondendo piena fiducia, trasmettendo empatia,
accettazione ed autenticità utilizzando l’approccio rogersiano, che concerne la
centralità della persona. E’ importante in questa fase rispettare i tempi del cliente, se
ha bisogno di stare in silenzio o di piangere, permettendo che si sfoghi senza
interromperlo.

L'impegno da parte del Counselor è indubbiamente, quello di "sentire", cogliere il


significato autentico delle parole e "restituirle" con rinnovato spirito. Per quanto
attiene all'argomento delle domande, strumento e mezzo di stimolazione del
252
colloquio, secondo una classificazione descritta da J. E R. Sommers-Flanagan, le
domande più utilizzate nel colloquio sono:

• domande aperte: consentono una ampia possibilità di articolarle in maniera


varia e personalizzare la risposta;
• domande chiuse: richiedono una risposta limitata ad un sì o a un no e
consentono al consulente di verificare il peso dello stimolo e la percezione dei
significati emozionali;
• domande indirette: tendono a far superare eventuali stati emotivi riferibili al
contenuto delle domande stesse, escludendo la percezione dell'obbligo alla
risposta;
• domande proiettive: caratterizzate dall’espressione e dall'analisi di
eventuali conflitti di cui il cliente non ha piena consapevolezza. La
naturale conclusione del colloquio è da cercare in una forma di proposta
operativa con la quale il consulente riassume le varie fasi del colloquio,
mettendo in evidenza e chiarendo all'utente il peso delle problematiche
emerse; con l'intento di farne prendere coscienza e coinvolgendolo ad un
impegno personale per il loro superamento. L’ascolto attivo è la base della
relazione d’aiuto, l’abilità di comunicazione e di relazione è funzionale
all’integrazione delle competenze. La trasmissione del messaggio avviene
sotto forma orale ma anche scritta e visuale: l’immagine, le parole, il
silenzio, la postura e l’espressione trasmettono impressioni all’interlocutore,
da cui questi, ricava un feedback che deve ricalcare il contenuto che
l’emittente vuole trasmettere. L’ascolto attivo è l’azione intellettuale basata
sull’empatia e la comprensione, l’assenza di giudizio e la disposizione
emotiva verso l’altro che ci fa vedere il punto di vista, la posizione, le
percezioni. Nel tempo, l’interlocutore arriva ad esprimersi con libertà e
fiducia in se stesso e nell’altro, determinando un clima positivo e creativo,
orientato alla valorizzazione del sé. Questo si realizza ad ogni livello:
l’infermiere instaura una relazione con il proprio assistito, i colleghi e le

253
altre figure sanitarie, il coordinatore si relaziona da una parte con pazienti,
collaboratori e altri professionisti, e dall’altra con le direzioni che guidano la
gestione dell’intero ospedale.La Direttiva emanata dal Dipartimento della
Funzione Pubblica il 13 Dicembre 2001 sostiene che “tutte le organizzazioni,
per gestire il cambiamento e garantire un’elevata qualità dei servizi, devono
fondarsi sulla conoscenza e sulle competenze. Devono assicurare il diritto alla
formazione attraverso la programmazione delle attività formative che tengano
conto anche delle esigenze e delle inclinazioni degli individui”.La Regione
Toscana, con il DGR 903 del 12/09/2005 come modificato dalla 1017/05 -
"Approvazione del disciplinare per la gestione del repertorio regionale dei
profili professionali" definisce la finalità del Repertorio Regionale dei profili
professionali: esso “costituisce uno strumento per la progettazione e la
realizzazione di interventi formativi finalizzati al conseguimento di qualifiche
professionali. Si definisce competenza “l’insieme delle caratteristiche
individuali che concorrono all’efficace presidio di una situazione lavorativa, di
una prestazione, di un’attività” Le Boterf sostiene che “La competenza non
risiede nelle risorse da mobilitare ma nella mobilizzazione stessa dei saperi
che si sono saputi selezionare, integrare e combinare in un contesto e per un
obiettivo specifico”.

Nei vari ambiti della formazione professionale si evidenziano tre modelli:

• Capacità: Insieme delle conoscenze, dei comportamenti, e degli atteggiamenti,


acquisiti sia in processi d’apprendimento mirati, sia nell’esperienze pratica. Le
capacità rappresentano il potenziale di una persona.
• Competenze: Combinazione, interazione delle capacità che vengono
mobilitate per soddisfare determinate esigenze o per effettuare determinate
attività.
• Qualifiche: Gruppi di competenze che vengono riconosciute da una autorità

254
esterna.

La Competenza è formata da tre componenti:

• La Conoscenza, cioè l’ambito del sapere concettuale


• L’Abilità (o Skill), il mettere in atto i principi che appartengono alla
conoscenza
• Il Comportamento (o modo d’agire), il modo di eseguire le attività che incide
sui rapporti con gli altri.

Nel settore sanitario si distinguono:

• Competenze di base: le capacità che tutti i professionisti devono possedere


all’ingresso nel mondo del lavoro;
• Competenze trasversali: le capacità comunicative e relazionali
• Competenze tecnico professionali: le capacità distintive identificate in base
alla figura professionale.
• Competenze tecnico professionali trasversali: identificano le funzioni che
descrivono le competenze comuni ad ogni professionista dell’ambito sanitario
e comprendono la gestione, la formazione, la ricerca e la consulenza

255
Una relazione professionale o interprofessionale deve seguire alcuni principi
fondamentali, oltre all’analisi di sé stessi, dei propri bisogni e delle proprie
motivazioni:

• accoglienza;
• ascolto attivo;
• focalizzazione del problema emergente;
• identificazione di un obiettivo condiviso, concreto, realistico e raggiungibile
per la persona, che non sempre corrisponde con l’obiettivo iniziale
dell’operatore;
• individuazione di soluzioni alternative per permettere alla persone di scegliere
quella più adeguata a sé in quel momento, con la facilitazione dell’operatore,
non con l’indicazione della “sua” soluzione;
• riassunto di quanto emerso nella relazione;
• verifica ciò che la persona ha effettivamente compreso;
• chiusura e saluto adeguato;
• capacità di accoglienza;
• ascolto attivo, riformulazione, capacità di indagine, delucidazione, messaggi in
prima persona;
• empatia;
• autoconsapevolezza;
• capacità di organizzare il setting esterno e interno;
• capacità di ridefinizione del “reale problema” o della “reale domanda”
(focalizzazione);
• capacità di affrontare il silenzio.

256
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www.ipasvi.it › NORME E CODICI › Deontologia
“Il Codice deontologico dell'Infermiere”.
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ASPIC COUNSELING & CULTURA Sede territoriale di Mestre Venezia
Scuola Superiore Europea di Counseling Professionale - Master in Gestalt
Counseling 2003-2006

263
ALLEGATI

PERCORSO DIAGNOSTICO-TERAPEUTICO DEL PAZIENTE CON ICTUS

RAZIONALE

Mentre l’ictus ischemico rappresenta la forma più frequente di ictus (80% circa), le
emorragie intra parenchimali rappresentano il 15-20%di tutte le forme di ictus.
Le emorragie subaracnoidee ne rappresentano, invece il 3%.

L’ictus ischemico colpisce soggetti con età media superiore a 70 anni, più spesso
uomini che donne; quello emorragico intraparenchimale colpisce soggetti
leggermente meno anziani , sempre con lieve prevalenza per il sesso maschile ;
l’emorragia subaracnoidea colpisce più spesso soggetti di sesso femminile , di età
media sui 50 anni circa.

La mortalità acuta (30 giorni) dopo ictus è pari a circa il 20% mentre quella ad I anno
ammonta al 30% circa; le emorragie (parenchimali e subaracnoidee ) hanno tassi di
mortalità precoce più alta (30% e 40% circa dopo la prima settimana; 50% e 45% ad I
mese).

Ad 1 anno circa dall’evento acuto , un terzo circa dei soggetti sopravviventi ad un


ictus — indipendentemente dal fatto che sia ischemico o emorragico - presenta un
grado di disabilità elevato, tanto da poterli definire totalmente dipendenti.

La tempestività dell a diagnosi e del ricovero in ambiente ospedaliero nelle


primissime ore dall’ictus è fattore determinante per una migliore prognosi
indipendentemente dal trattamento prescelto, medico o chirurgico.

Fase-PRE-OSPEDALIZZAZIONE
-Paziente con alterazione parametri vitali, CPSS, segni di allarme ESA

FaseOSPEDALIERA
-Triage Paziente in PS in codice rosso o giallo neurovascolare o Attivazione Percorso
Ictus

264
IMPIEGO DEL D-DIMERO IN PRONTO SOCCORSO

RAZIONALE

Il D-dimero è un prodotto della degradazione della fibrina che si accumula nel sangue
dopo che è stato attivato il processo di fibrinolisi . Deve il suo nome alla struttura (è
composto da due monomeri di fibrinogeno legati tra loro).

A partire dagli anni Ottanta , è stato sempre più utilizzato per la diagnosi di malattia
tromboembolica; nello stesso tempo, tuttavia, il suo dosaggio è stato esteso in modo
eccessivo ed improprio, tale spesso da fuorviare il clinico. A tal proposito, un recente
studio americano di Jones et al. (3) evidenzia che il D-dimero viene dosato in quasi
un quarto degli accessi in Pronto Soccorso per patologie non traumatologiche

Cause, patologiche e non, di aumento del Ddimero:

CONDIZIONI NON PATOLOGICHE ASSOCIATE AD AUMENTO DEL D-


DIMERO:

fumo di sigaretta o età (anziani sani di età maggiore di 70 anni)

razza (afroamericani)

gravidanza

terapie ormonali e assunzione di estroprogestinici o periodo postoperatorio

CONDIZIONI PATOLOGICHE ASSOCIATE AD AUMENTO DEL D-DIMERO:

traumi

preeclampsia

neoplasie

infezioni

radioterapia e chemioterapia

coagulazione intravascolare disseminata

265
vasculiti, tromboembolismo arterioso e venoso o patologie autoimmuni o anemia
falciforme

fibrillazione atriale

ictus
emorragia del tratto gastroenterico superiore o dissecazione aortica

VERTIGINE AD INSORGENZA ACUTA

RAZIONALE

La vertigine non è un disturbo reale dell’equilibrio ma della percezione


dell’equilibrio stesso ; si distingue dalla vera instabilità (tendenza a cadere o a
sbandare legata ad una vera e propria incoordinazione del tono muscolare).

La vertigine è un sin tomo molto frequente di accesso in Pronto Soccorso , di


valutazione complessa in ragione della sua multifattorialità , solitamente non
pericoloso quod vitam, ma percepito dal paziente come altamente invalidante; spesso
vi si associano altri sintomi, nausea e vomito in particolare. Abitualmente si
accompagna a segni neurovegetativi.

Il paziente resta cosciente durante tutta la crisi . Queste definizioni escludono le turbe
dell’equilibrio senza illusione di movimento . La illusione di movimento può essere
descritta spontaneamente dal paziente o deve essere precisata dall’anamnesi quando il
paziente è osservato al di fuori della crisi ; infatti l’anamnesi è la tappa fondamentale
per riconoscere la vertigine e orientare la diagnosi eziologica .

Essa rappresenta la possibile prima espressione di processi morbosi diversi (sistemici,


neurologici, otoiatrici, oculistici, psicopatologici), per cui è necessario un approccio
sistematico (anamnesi attenta e dettagliata ed esame clinico completo ed
266
approfondito, che insieme permettono di ottenere già in Pronto Soccorso un’ipotesi
diagnostica corretta in circa l’80% dei casi

CRISI IPERTENSIVA

Si definisce crisi ipertensiva il riscontro di valori di pressione arteriosa notevolmente


elevati. Non vi sono limiti al di sopra dei quali si parla unanimemente di crisi
ipertensiva, in quanto i valori pressori di per sé sono solo un elemento , e non il più
importante, che concorre alla prognosi del soggetto con crisi ipertensiva.

Tre fattori concorrono a determinare il significato clinico e prognostico della crisi


ipertensiva: o i valori pressori:

si definisce crisi ipertensiva una pressione arteriosa sistolica > 220 mmHg

e/o una pressione arteriosa diastolica > 120-130 mmHg;

o la rapidità dell’insorgenza dei valori pressori elevati;

o l’evidenza (all’esame clinico o agli esami strumentali o di laboratorio) di danno


acuto d’organo.

267
PAZIENTE CON VALORI PRESSORI SISTOLICI maggiori di 120 mm HG

DESCRIZIONE ATTIVITÀ

Emergenze ipertensive necessitano di ricovero mentre le urgenze solo di osservazione


breve.

Emergenze ipertensive : condizioni in cui è necessaria l’immediata riduzione della


P.A.* (non necessariamente entro i valori normali), per prevenire o limitare danni
agli organi bersaglio → (monitoraggio in U.T.I. e terapia e.v.).

Urgenze ipertensive: condizioni in cui la riduzione della P.A. dovrebbe essere


ottenuta entro poche ore → (spesso possibile una terapia orale senza monitoraggio in
U.T.I.).

CLASSIFICARE CORRETTAMENTE LA CRISI IPERTENSIVA

.
INDIVIDUARE LA PRESENZA O MENO DI DANNO D’ORGANO.

DEFINIRE L’INTERVENTO TERAPEUTICO PIÙ IDONEO.

E’ molto importante fare una accurata anamnesi del paziente:

gravidanza (quindi pressione arteriosa > 140/90 mmHg in pazienti precedentemente


normotese) escludere la preeclampsia;

-precedente diagnosi di ipertensione, la terapia farmacologia e l’aderenza alla stessa,

-la presenza di precedenti crisi ipertensive;

-l’impiego di inibitori della monoamino-ossidasi o droghe (cocaina, anfetamina, ecc).

SINTOMI CARDIOVASCOLARI: dispnea, agitazione, tachicardia in caso di


scompenso cardiaco, dolore toracico in caso di ischemia cardiaca, dolore toracico o
interscapolare per la dissezione aortica; sintomi neurologici come nausea, vomito,
cefalea severa, pulsante, confusione, disorientamento, astenia, deficit neurologici
focali, ecc. nel caso di encefalopatia ipertensiva o stroke, oliguria.

268
I pazienti con una urgenza ipertensiva possono solitamente essere trattati con farmaci
per via orale .

I farmaci più utilizzati nella emergenza ipertensiva sono il labetatolo ed il


nitroprussiato di sodio.

PRIMA CRISI EPILETTICA

Nei Paesi industrializzati l 'incidenza annua dell'epilessia (definita dall' occorrenza di


due o più crisi non provocate separate da almeno 24 ore) è di 29-53 casi per 100.000.
Il tasso sale a 73-86 casi se si aggiungono le crisi isolate, e a 93-116 casi dopo
inserimento delle crisi provocate o sintomatiche acute (crisi che si manifestano in
269
stretta associazione temporale con un danno acuto sistemico, metabolico o tossico del
SNC).

Sulla base di queste stime, sono attesi in Italia ogni anno 17.000-30.000 casi di
epilessia, 20.000-25.000 casi con crisi isolate, e 12.000-18.000 casi con crisi
sintomatiche acute. La frequenza relativamente elevata dell'epilessia e delle crisi
epilettiche fa si che diagnosi e trattamento siano effettuati in centri di primo, secondo
e terzo livello. Tuttavia, epilessia e crisi epilettiche non sono sufficientemente
frequenti da assicurare una pratica clinica ottimale ed omogenea da parte delle
diverse figure socio-sanitarie coinvolte nella loro gestione (medici di medicina
generale, pediatri, neuropsichiatri infantili, neurologi dell'adulto, medici addetti alla
medicina d'urgenza).

Nel caso in cui la prima crisi sia ancora in corso al momento dell'osservazione
medica, occorre verificarne la durata. Qualora la durata della crisi superi i 20 minuti,
va prefigurata una condizione di stato di male epilettico per il quale si rimanda alla
linea-guida omonima. In tutti gli altri casi, al termine della crisi, occorre effettuare
una raccolta anamnestica (preferibilmente interrogando un testimone della crisi ) per
l'accertamento della natura epilettica dell'episodio e per la verifica dell'unicità o della
ripetitività del fenomeno ; la diagnosi differenziale va fatta per escludere altri episodi
di origine neurologica, psichica o sistemica (endogena o esogena).

RACCOLTA DATI ANAMNESTICI

1. SEMEIOLOGIA DELLA CRISI.


2.CONDIZIONI AL MOMENTO DELLA
VEGLIA o SONNO
CRISI:
FEBBRE
INFEZIONI
DISIDRATAZIONE
3.PATOLOGIE/SINTOMI
TRAUMA
INTERCORRENTI:
IPERTENSIONE
EVENTO VASCOLARE ACUTO
LESIONI RIPETITIVE E

270
DEGENERATIVE
DEPRIVAZIONE DI SONNO
4.CONDIZIONI POTENZIALMENTE SOSTANZE TOSSICHE
SCATENANTI: FOTOSTIMOLAZIONE
ALTRISTIMOLI
5.PATOLOGIE DI BASE O
PREGRESSE.
6. FAMILIARITÀ.

DESCRIZIONE PROCEDURA

Raccolta dei dati anamnestici

Valutare le condizioni al momento della crisi, patologie e sintomi intercorrenti

Condizioni potenzialmente scatenanti, patologie concomitanti e familiarità

Esame obiettivo clinico/neurologico:

Buoni predittori per una crisi epilettica sono: cianosi, ipersalivazione, morsus e

disorientamento post-critico.

Esami ematochimici:

Routine,cpk,prolattina,transaminasi,urine, eventuali esami tossicologici;

Eeg eseguito nelle 24 ore, specialmente nei bambini; ove l’eeg in veglia fosse
negativo, si raccomanda eeg in sonno.

TC/RMN encefalo subordinata alla necessità di ricorrere ad interventi specifici nel


caso di grave lesione strutturale.

Rachicentesi in caso di crisi febbrili con sintomi di irritazione meningea per escludere
un’infezione cerebrale; controindicato in assenza di febbre.

Terapia:
In presenza di una crisi provocata (encefalopatia metabolica, danno cerebrale)

la terapia è etiologica.

271
Terapia sintomatica con benzodiazepine in caso di stato di male epilettico.

La terapia sintomatica con benzodiazepine non è giustificata nel caso di una prima
crisi non provocata.

Particolari condizioni possono suggerire l’astensione dal trattamento (gravidanza).

CONVULSIONI FEBBRILI

RAZIONALE

Il livello minimo del rialzo termico perché si possa diagnosticare la febbre è variato
nel tempo e varia secondo le società scientifiche e le metodiche di misurazione . Per
American Academy of Pediatrics: febbre = ogni rialzo della temperatura corporea
esterna oltre i 38° C.

Non è necessario che la febbre sia stata rilevata prima della crisi , ma deve essere
presente almeno nell’immediato periodo post-critico ed essere espressione di una
affezione pediatrica.

DEFINIZIONI:

272
Convulsione febbrile semplice (CFS)
crisi convulsiva generalizzata di durata non superiore a 15 minuti, non ripetuta nelle
24 ore, che si presenta durante un episodio di febbre non dovuto ad una affezione
acuta del Sistema Nervoso in un bambino di età compresa fra 6 mesi e 5 anni, senza
precedenti neurologici

Convulsione febbrile complessa (CFC)


crisi convulsiva focale o generalizzata prolungata , ossia di durata superiore a 15
minuti, o ripetuta entro le 24 ore, e/o associata ad anomalie neurologiche post -ictali,
più frequentemen te una paresi post critica (paresi di Todd), o con precedenti
neurologici.
Il bambino che presenta una crisi prolungata interrotta con terapia anticonvulsivante
(diazepam) prima del 15° minuto deve essere classificato in questo gruppo.

Se la convulsione febbrile complessa è caratterizzata da una crisi di durata superiore


a 30 minuti o da crisi seriate più brevi , senza ripristino della coscienza a livello
interictale, si parla di stato di male febbrile.

CONVULSIONI FEBBRILI SEMPLICI

Esami di Laboratorio e Routine: non sono raccomandati.

Idonei solo per identificare la causa dello stato febbrile.


EEG di routine : non è raccomandato perché di dubbio valore diagnostico in una
prima crisi.

TC/RMN: non raccomandate.

Puntura Lombare da eseguirsi:

. in presenza di segni meningei [considerare anche il mascheramento dei segni


meningei

dovuto a pregresse terapie antibiotiche]


. inutile in bambini di età < 18 mesi [considerare però che a questa età i segni
meningei non

sono sempre manifesti, per cui osservare in OBI 24h]

CONVULSIONI FEBBRILI COMPLESSE

273
Ricerca etiologica della febbre: raccomandata

.
Indagini ematochimiche: da effettuare in relazione alle condizioni cliniche.

EEG di routine: raccomandato.

TC/RMN: fortemente raccomandati

.
Puntura Lombare: da effettuare nel sospetto di infezione del SNC.

CONVULSIONI FEBBRILI SEMPLICI


1.ETÀ<18MESI [prima va previsto il ricovero ed è raccomandata l’osservazione
crisi]: per l’eventuale esecuzione di una puntura lombare.
se clinicamente stabile , senza segni o sintomi che
2.ETÀ>18MESI [prima
richiedano approfondimenti diagnostici : il ricovero non è
crisi]:
necessario, vanno adeguatamente istruiti i genitori.
il ricovero non è necessario , va verificato che i genitori
siano adeguatamente istruiti.
3. PATOLOGIA GIÀ va sottolineato, comunque, che una storia di pregresse
DIAGNOSTICATA: convulsioni febbrili semplici non esclude che la crisi in
corso possa essere sintomatica di altre patologie come una
patologia infettiva del S.N.C.
CONVULSIONI FEBBRILI COMPLESSE
va previsto il ricovero per accertamenti , data la grande variabilità di condizioni
sottese a questo evento. Una convulsione febbrile che sia stata interrotta
farmacologicamente nei primi 15 minuti va considerata, in termini di appropriatezza
del ricovero, al pari di una convulsione febbrile complessa.

ACIDOSI RESPIRATORIA: QUADRO CLINICO

PRINCIPALI CAUSE SINTOMI


1. IPOVENTILAZIONE Ridotta frequenza e profondità direspiro.

2.LESIONE ENCEFALICA Ridotta attività delSNC conl etargia,


(MESENCEFALO) disorientamento.

3.DEPRESSIONE CENTRI Cefalea,visioneoffuscata.

274
RESPIRATORI DA AritmiaeCrisiconculsive(seipokaliemia).
BENZODIAZEPINE, OPPIACEI,
ALCOOL

4. DANNO POLMONARE OPPURE


OSTRUZIONE VIE AEREE

ACIDOSI METABOLICA: QUADRO CLINICO

PRINCIPALI CAUSE SINTOMI


1. ANORMALE PERDITA DI
BICARBONATO:

. DIARREA O VOMITO
PROLUNGATO
. CHETOACIDOSI DIABETICA
. AUMENTATO METABOLISMO,
Deterioramento del livello di coscienza dal
DIGIUNO PROLUNGATO
sopore fino al coma.
2. ACIDOSI LATTICA DA Iperventilazione(compensatoria).
ANOSSIA
Aritmia e Crisi conculsive (se ipokaliemia).
3. INGESTIONE DI ACIDI:
. ACIDO SALICILICO,
GLICOLE ETILENE,
ALCOL METILICO
4. INADEGUATA FUNZIONE
RENALE

ALCALOSI METABOLICA: QUADRO CLINICO

PRINCIPALI CAUSE SINTOMI

275
1.PERDITA DI ACIDO
CLORIDRICO DALLO STOMACO:

VOMITO, ASPIRAZIONE GASTRO-


INTESTINALE

2.RIASSORBIMENTO DI Respirolento,superficiale(da compenso).


BICARBONATI:
. DIURETICI, VOMITO Vertigini,formicolioalleestremità, tetania,
convulsioni, ipertono muscolare.
ECCESSIVO, RITENZIONE DI
SODIO Irritabilità,disorientamento.
3.ECCESSIVA INGESTIONE DI Aritmia (se ipokaliemia).
ALCALI:
. BICARBONATO DI SODIO,
LATTE DI MAGNESIA

4.SOMMINISTRAZIONE EV DI
SODIO BICARBONATO

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