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1. Introduzione
371
Giovanna Marotta
1
Cfr. Greville Corbett, Gender, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1991;
Romano Lazzeroni, Il genere indoeuropeo. Una categoria naturale?, in Maschile/Femminile. Ge-
nere e ruoli nelle culture antiche, a cura di Maurizio Bettini, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 3-16;
Roberta Meneghel, Animato e inanimato vs comune e neutro: tratti pertinenti, in Metalinguaggio.
Storia e statuto dei costrutti della linguistica, a cura di Vincenzo Orioles-Raffaella Bombi-Marica
Brazzo, Roma, il Calamo, 2014, pp. 595-612.
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Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche
concettuali di qualche tipo devono stare alla base dell’alternanza di genere che si
riscontra per alcuni nomi inanimati in italiano; ad es. buco vs. buca, fosso vs. fossa,
pennello vs. pennellessa, coltello vs. coltella (in toscano), e in genere il femminile
rinvia a referenti di maggiori dimensioni2. Nel contempo, il peso dei tratti formali
riemerge a sua volta nel cambiamento linguistico, come dimostra in italiano la con-
fluenza nel genere maschile dei nomi latini terminanti in -us, -um > -o, indipenden-
temente dalla declinazione di appartenenza e dal genere originari, ad esempio per
le piante da frutto sopra menzionate, il melo, il pero, il fico.
Tuttavia, la linguistica non si interroga più di tanto sulle ragioni che sovrinten-
dono all’assegnazione del genere nelle lingue né sul perché per lo stesso referente si
ha in una lingua un nome di genere maschile e in un’altra, magari contigua geogra-
ficamente o imparentata genealogicamente, un nome femminile o neutro3. Chiare
o oscure che siano le ragioni che hanno portato ad assegnare il genere a un nome,
ciò che conta è il suo status di categoria grammaticale, con specifiche funzioni nel
sistema. In questa prospettiva strutturale, interna alla lingua, poco conta quindi
discutere sul genere da assegnare ai nomi di professioni o cariche pubbliche, que-
stione che è stata ed è tuttora al centro di vivaci discussioni a proposito dei rapporti
tra genere dei parlanti e genere grammaticale. Di questo ci occuperemo più avanti
(cfr. § 5). Ma fin da ora vorremmo osservare che la categoria grammaticale del ge-
nere tende facilmente a caricarsi di valori extralinguistici, nel senso che la selezione
di un suffisso rispetto a un altro si colora di nuances sociologiche, su base seman-
ticamente motivata. Così, la mancata flessione per genere in parole come avvocato,
architetto, senatore, sindaco diventa pretesto per rivendicare la parità tra i sessi.
Per comprendere il passaggio dalla grammatica alla sociologia, riteniamo sia
utile far ora riferimento all’impiego della categoria di genere in ambito sociolingui-
stico e psico-sociale.
Già nella dialettologia dei primi decenni del secolo scorso, vera e propria so-
ciolinguistica ante litteram, il genere del parlante è stato considerato come una
variabile di primo piano. In particolare, negli studi condotti sui dialetti italiani4,
da tempo si è riconosciuto un peso specifico al genere dei parlanti, un elemento
2
Carlo Volpati, Coppie di nomi di due generi, in «Lingua nostra», XVI (1955), pp. 2-5.
3
Noti esempi sono il mare (maschile) in italiano, ma la mer in francese; il ponte in italiano, ma
die Brücke (femminile) in tedesco.
4
Ma non solo; cfr. già Louis Gauchat, L’unité phonètique dans le patois d’une commune, in
Aus romanischen Sprachen und Literaturen: Festschrift für Heinrich Morf, Whitefish, Kessinger,
1905 (3a ed., 2010), pp. 174-232.
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Giovanna Marotta
5
Cfr. Gianna Marcato, Italienisch: Sprache und Geschlechter / Lingua e Sesso, in Lexikon
der romanistischen Linguistik (LRL), a cura di Günter Holtus-Michael Metzeltin-Christian
Schmitt, IV: Italienisch, Korsisch, Sardisch, Tübingen, Niemeyer, 1988, pp. 237-246.
6
La sociolinguistica variazionista ha spesso insistito sulla necessità di tener distinti i termini
sesso e genere a seconda dei contesti; cfr. ad esempio Jenny Cheshire, Sex and Gender in Varia-
tionist Research, in Handbook of Language Variation and Change, a cura di Jack K. Chambers-Pe-
ter Trudgill-Natalie Schilling-Estes, Oxford, Blackwell, 2002, pp. 423-443; Penelope Eckert-
Sally McConnell Ginet, Language and Gender, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
7
William Labov, Sociolinguistic Patterns, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1972.
8
Si rinvia a Marcato, Italienisch, cit., per un’utile rassegna degli studi in tal senso.
9
Possiamo limitarci a citare alcuni studi recenti dedicati al toscano, tra cui Giovanna Ma-
rotta-Nadia Nocchi, La liquida laterale nel livornese, in «Rivista italiana di dialettologia», XXV
(2001), pp. 285-326; Roberta Combei-Ottavia Tordini, A corpus-based sociophonetic analysis of
open-mid vowels uttered by young male and female speakers of the Pisan variety, in Sources and
functions of speech variation. Disentangling the role of biological and social factors. Atti dell’Asso-
ciazione Italiana di Scienze della Voce, a cura di Chiara Celata (in corso di stampa), come pure
al sardo, ad esempio Simone Pisano, Esiti dell’approssimante palatale j nella varietà di Orune: diffe-
renziazione fonetica su base sessuale, in «L’Italia dialettale», LXVIII (2007), pp. 99-143.
10
Tra gli altri, si veda Leonardo M. Savoia, Sistemi flessionali e variazione morfologica in
alcuni dialetti arbëreshe, in I dialetti italo-albanesi. Studi linguistici e storico-culturali sulle comunità
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Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche
arbëreshe, a cura di Francesco Altimari-Leonardo M. Savoia, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 306-357
per la parlata arbëreshe di Falconara (Cosenza), in rapporto alla selezione degli allomorfi dell’in-
dicativo imperfetto.
11
Duccio Piccardi, Sociophonetic factors of speakers’ sex differences in Voice Onset Time: a
Florentine case study, in Sources and functions of speech variation, cit.
12
Arrigo Castellani, Precisazioni sulla gorgia toscana, in «Boletim de filología», XIX (1960),
pp. 242-262.
13
Cfr. Penelope Eckert, The Whole Woman: Sex and Gender Differences in Variation, in «Lan-
guage Variation and change», I (1989), 1, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 213-227.
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Giovanna Marotta
Invece, nelle società occidentali avanzate, soprattutto nelle aree urbane, es-
sendo ormai sostanzialmente raggiunta la parità tra i sessi, anche a seguito dell’e-
mancipazione economica e sessuale, le donne svolgono ruoli attivi a tutti i livelli,
per cui possono introdurre e promuovere i tratti innovativi, diventare cioè vettori
di cambiamento, sul piano linguistico come su quello degli altri comportamenti
sociali (ad esempio il fumo o il consumo di stupefacenti).
Da questo punto di vista, sono numerosi gli studi condotti sulla lingua inglese,
sia europea che americana, che mostrano la tendenza delle donne ad adottare le
varianti dotate di prestigio, sia stabili che innovative. Basterà ricordare, tra gli altri,
gli studi di Chambers e Trudgill14, e soprattutto di Milroy e Milroy15 sulla lingua
parlata a Belfast, nell’Irlanda del Nord: l’innalzamento di /e/, processo fonologico
innovativo, è promosso dalle giovani donne appartenenti al ceto medio irlandese
residenti nella periferia della città e appartenenti a una rete sociale poco densa, a
maglie più larghe rispetto a quella dei giovani uomini operai. In questo caso, gli
elementi portatori di innovazione sono dunque parlanti di genere femminile, an-
che se il successo definitivo della variante innovativa risulta condizionato dalla sua
diffusione per opera di parlanti che, in quanto dotati di un certo prestigio sociale,
possono svolgere il ruolo di “attuatori” del mutamento stesso.
Analogamente, in Scouse, la varietà di inglese parlata a Liverpool, il processo
della lenizione, in origine stigmatizzato come tratto basso, ma attualmente dotato
di un certo prestigio coperto, è più frequente nel parlato informale delle giovani
donne, che tra l’altro impiegano un numero più alto di allofoni del fonema /d/16.
Ancora una volta, le donne risultano conservative nel rispetto delle forme stabil-
mente accolte dalla comunità, ma innovative nell’adozione di varianti relative a
mutamenti in atto (cfr. supra), purché dotate di un certo prestigio sociale.
In sintesi, è il prestigio sociale (scoperto o coperto) associato alle forme alter-
nanti che guida le scelte delle parlanti di genere femminile. Sembra dunque pro-
spettarsi una sorta di “paradosso di genere”: da un lato, le donne mostrano un’at-
tenzione più marcata degli uomini nei confronti delle forme standardizzate della
lingua; dall’altro, nel mutamento linguistico, le donne svolgono spesso un ruolo
trainante. Ma il paradosso è soltanto apparente, dal momento che, come osserva
14
Jack Chambers-Peter Trudgill, Dialectology, Cambridge, Cambridge University Press,
1980.
15
James Milroy-Lesley Milroy, Linguistic change, social network and speaker innovation, in
«Journal of linguistics», XXI (1985), pp. 339-384; trad. it. Il mutamento linguistico, la rete sociale
e l’innovazione del parlante, in Introduzione alla sociolinguistica, a cura di Stefania Giannini-Ste-
fania Scaglione, Roma, Carocci, 2003, pp. 91-149.
16
Cfr. Giovanna Marotta-Marlen Barth, Acoustic and Sociolinguistic Aspects of Lenition in
Liverpool English, in «Studi linguistici e filologici online», III (2005), 2 , online su www.humnet.
unipi.it/slifo/2005vol2/Marotta-Barth3.2.pdf, ultimo accesso: 29.11.2018), pp. 377-413.
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Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche
17
William Labov, Principles of Linguistic Change, II: Social Factors, Oxford, Blackwell, 2001,
p. 291.
18
Benedetta Baldi, Lingua e identità di genere, in La lingua e i parlanti. Studi e ricerche di lin-
guistica, a cura di Benedetta Baldi-Leonardo M. Savoia, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 2016,
pp. 293-336, pp. 303-304.
19
Si vedano Marcato, Italienisch, cit.; Monica Berretta, Per una retorica popolare del lin-
guaggio femminile, ovvero: la lingua delle donne come costruzione sociale, in Comunicare nella vita
quotidiana, a cura di Franca Orletti, Bologna, il Mulino, 1983, pp. 215-240; Baldi, Lingua, cit.
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vocali20. D’altro canto, la voce acuta e sottile, motivata su base fisica, si colora di
nuances psico-sociali, non tanto per ragioni naturali quanto piuttosto per cause
psico-sociali. E dunque la voce femminile caratterizzata da alte frequenze e da
toni ascendenti viene associata non soltanto alle minori dimensioni corporee delle
donne, ma anche al bisogno di protezione che la voce esprimerebbe e dunque al
ruolo subalterno ricoperto dalla donna rispetto all’uomo nelle dinamiche sociali.
Del resto, già nei testi dell’antichità classica la voce femminile è connotata da
una serie di luoghi comuni e di stereotipi, correlati ad attributi sia di natura fisica
(in primis, l’acutezza) che psichica e sociale. Come ha messo in luce Dovetto21, sul
piano psicologico, si tratta in genere di una qualità della voce fortemente impron-
tata ai canoni dell’emotività e/o della capacità di seduzione, mentre sul piano so-
cio-culturale, emerge la marcatezza, rispetto alla voce maschile, presa come punto
di riferimento, per cui le voci di donne sono spesso magiche, ma anche profetiche,
o straniere, ma anche incantatrici. In una parola, le voci delle donne sono “diver-
se”. E dunque potenzialmente pericolose, per quanto affascinanti22.
Ormai più di trenta anni or sono, Ohala23 parlò a questo proposito di un “co-
dice della frequenza” (Frequency Code), attivo negli scambi comunicativi tra gli
esseri umani così come in altre specie animali: vocalizzazioni e modulazioni tonali
caratterizzate da frequenze basse sarebbero associate ad atteggiamenti aggressivi,
minacciosi e direttivi, mentre toni acuti e profili melodici ascendenti correlano
con atteggiamenti improntati alla disponibilità, alla cortesia, alla richiesta, e in-
fine, alla subordinazione sociale. Il gatto, ad esempio, usa modulazioni diverse a
seconda che intenda chiedere del cibo al padrone oppure attaccare un suo pari.
Lo stesso dimorfismo sessuale presente nel tratto vocale confermerebbe l’esistenza
di un codice della frequenza innato e specie-specifico, che da un lato associa le
frequenze acustiche basse a un essere animale di grandi dimensioni (large voca-
lizer), tendenzialmente dominante, aggressivo, minaccioso, e dall’altro correla le
frequenze acustiche alte con un essere animale di piccole dimensioni (small vocali-
zer), caratterizzato da attributi secondari di remissività, subordinazione, tendenza
alla cooperazione.
Sulla scia di Ohala, Gussenhoven24 ha recentemente introdotto nella letteratu-
ra fonetica il cosiddetto “codice delle sirene” (Sirenic Code), in riferimento speci-
20
John Laver, Principles of phonetics, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.
21
Francesca Maria Dovetto, Etichette della voce femminile nell’antichità classica, in Parole
di donne, a cura di Francesca Maria Dovetto, Roma, Aracne, 2009, pp. 67-85.
22
Cfr. Cristina Vallini, Gli uccelli parlanti, le fanciulle e il Presidente Schreber, ivi, pp. 19-28.
23
John Ohala, Cross-language use of pitch: an ethological view, in «Phonetica», XL (1983),
1, pp. 1-18; Id., An ethological perspective on common cross-language utilization of f0 in voice, in
«Phonetica», XLI (1984), pp. 1-16.
24
Carlos Gussenhoven, Foundations of Intonational Meaning: Anatomical and Physiological
Factors, in «Topics in Cognitive Science», VIII (2016), pp. 425-434.
378
Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche
25
Christer Gobl-Ailbhe Ni’ Chasaide, The role of voice quality in communicating emotion,
mood and attitude, in «Speech communication», 2003, 40, pp. 189-212.
26
Sulla vocal actractiveness, si veda il contributo di Molly Babel-Grant McGuire-Joseph
King, Towards a More Nuanced View of Vocal Attractiveness, in «PLoS ONE», IX (2014), 2,
pp. 1-10, e la ricca bibliografia ivi citata. Ringrazio Duccio Piccardi per l’opportuna segnala-
zione.
27
Ragioni biologiche quali quella avanzata da John Laver, Voice quality and indexical infor-
mation, in The gift of speech: Papers in the analysis of speech and voice, a cura di Id., Edinburgh,
Edinburgh University Press, 1991, pp. 147-161, che fa riferimento all’andamento degli ormoni
durante il ciclo mestruale, lasciano francamente perplessi. Analogamente, la tesi che la voce di una
donna è più attraente nel periodo che precede l’ovulazione pare trovar ragion d’essere soprattutto
nel giudizio degli uomini.
379
Giovanna Marotta
marcato (ad esempio ministro, sindaco, assessore, etc.). Proprio per questi nomi si
è proposta negli ultimi anni l’introduzione nell’uso parlato e scritto dei corrispon-
denti termini femminili, per cui si dovrebbe dire d’ora in poi sindaca, ministra,
assessora, etc. D’altro canto, il genere epicene sembra rimanere intatto per alcuni
nomi. Ad esempio, non ci pare che venga proposta una forma presidenta, da affian-
care a presidente. Né ci risulta che qualcuno abbia proposto di usare procuratora,
al posto di procuratore.
Sembra che siano i morfemi di genere più semplici e più comuni (dunque,
in primo luogo, -o) a costituire l’area lessicale primaria di diffusione delle forme
flesse al femminile, mentre altri suffissi sono più stabili, ad esempio -ente. Analo-
gamente, risultano stabili le forme comuni con suffisso -ista, ad esempio dentista,
professionista, giornalista, internista. Ci si potrebbe pertanto chiedere perché, in
parallelo, non si propone una flessione in -o per questi nomi, se riferiti a soggetti
di sesso maschile.
Da tempo sappiamo che ogni lingua naturale tollera ampi margini di variazio-
ne e di elasticità all’interno del suo impianto strutturale. La variazione e la con-
seguente tolleranza investono tutti i livelli, dalla fonologia alla morfologia e alla
sintassi. Nella fattispecie in oggetto, è facile rilevare la compresenza di nomi di
professione flessi per genere accanto ad altri privi di tale distinzione. Del resto,
la commutazione di genere non è ammessa anche per vari nomi di animali, che
possono presentare desinenze diverse (ad esempio pecora, zebra, giraffa, accanto a
volpe, tigre). Si osservi che questa comunanza di genere non ha creato finora e non
crea nessun tipo di ambiguità né di intoppo comunicativo.
Il punto di partenza per il progressivo estendersi del dibattito sul genere di
alcuni nomi di professioni e di cariche pubbliche può essere individuato nelle Rac-
comandazioni per un uso non sessista della lingua italiana contenute nel testo di
Sabatini28, risultato del lavoro di ricerca promosso dalla Commissione per la rea-
lizzazione della parità tra uomo e donna. Da allora sono ormai trascorsi trent’anni
e la questione è ben lungi dall’essere risolta. Il dibattito sul genere dei nomi, in
particolare in riferimento a ruoli istituzionali (la ministra, la sindaca, l’assessora)
sembra infatti esser divenuto nel tempo sempre più vivace, con coinvolgimento di
vari ambiti, da quello giornalistico29 a quello politico, con prese di posizione anche
forti30.
28
Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato, 1987.
29
Ad esempio, si veda l’articolo di Monica D’Ascenzo sul Sole24Ore del 28 aprile 2017,
intitolato Le professioni hanno un genere?
30
In ambito politico, si segnala l’attivismo dell’attuale Presidente della Camera Laura Boldri-
ni, divenuta un’icona del movimento di opinione che potremmo denominare neo-femminismo
grammaticale.
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Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche
Molte le parole sul tema, sia pronunciate che scritte31; e vari i contributi conte-
nuti in volumi miscellanei sul tema32.
Sulla questione si è espressa anche l’Accademia della Crusca: nel suo inter-
vento del 5 dicembre 2013, pubblicato sul sito ufficiale dell’Accademia, l’allora
Presidente, Nicoletta Maraschio, ribadiva
A nostro parere, si tratta di una questione di carattere più normativo che lin-
guistico. Ci si preoccupa cioè di fissare una norma relativa a questo campo speci-
fico della morfologia, cui gli utenti della lingua sono chiamati ad attenersi. Sap-
piamo tuttavia da tempo che è difficile incidere sulla lingua, come difficile se non
31
Non potendo rendere conto di un dibattito tanto prolisso, in prospettiva più o meno lingui-
stica o sociologica, ci limitiamo a segnalare gli interventi di Giulio Lepschy, Lingua e sessismo, in
Id., Nuovi Saggi di linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 61-84 (trad. it. di Id., Sexism
and the Italian language, in «The Italianist», VII [1987], pp. 158-169); Elisabeth Burr, Dilettanti
e linguisti di fronte al ‘genere’, in Italiano. Strana lingua?, a cura di Gianna Marcato, Padova, Uni-
press, 2003, pp. 105-111. Cecilia Robustelli, Il sessismo nella lingua italiana, in Enciclopedia Trec-
cani online, 2012, www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/femminile/Robustelli.html
(ultimo accesso: 30.06.2017); Ead., Genere, grammatica e grammatiche, in La differenza insegna.
La didattica delle discipline in una prospettiva di genere, a cura di Serena Sapegno, Roma, Carocci,
2014, pp. 64-75; Ead., Donne, grammatica e media, in Gi.U.Li.A. Giornaliste, Firenze, Accademia
della Crusca, 2014; Ead., Linguaggio discriminatorio e testi istituzionali: la questione del genere,
in La qualità degli atti normativi e amministrativi, a cura di Saulle Panizza, Pisa, Pisa University
Press, 2016, pp. 99-122; Ead., Sindaco e sindaca. Il linguaggio di genere, in L’italiano. Conoscere e
usare una lingua formidabile, IV, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2016.
32
Donna e Linguaggio. Atti del Convegno Internazionale di studi “Dialettologia al femminile”
(Sappada-Plodn, 26-30 giugno 1995), a cura di Gianna Marcato, Padova, Cleup, 1995; Giuliana
Giusti, Linguaggio e questioni di genere: alcune riflessioni introduttive, in Mi fai male..., a cura di
Ead.-Stefania Regazzoni, Venezia, Cafoscarina, 2009, pp. 115-133; Ead., Riferimento al genere e
costruzione d’identità, in Nominare per esistere: nomi e cognomi, a cura di Ead., Venezia, Cafosca-
rina, 2011, pp. 13-28; Parole di donne, cit.; Nome e identità femminile nel mondo antico, a cura di
Francesca Maria Dovetto-Maria-Frías Urrea Rodrigo, Roma, Aracne, 2016.
33
Altre iniziative sulla stessa linea: il Progetto “Genere e linguaggio” svolto in collaborazione
col Comune di Firenze; la Guida agli Atti Amministrativi, pubblicata dalla Crusca e dall’Istituto di
Teoria e Tecnica dell’Informazione Giuridica del CNR (www.ittig.cnr.it/Ricerca/Testi/GuidaAt-
tiAmministrativi.pdf, ultimo accesso: 30.06.2017). Si segnala anche un’ulteriore presa di posizione
nel Tema del mese a cura di Cecilia Robustelli, pubblicato nel marzo 2013 sul sito dell’Acca-
demia (www.accademiadellacrusca.it/it/tema-del-mese/infermiera-s-ingegnera, ultimo accesso:
30.06.2017), nonché varie interviste rilasciate da membri dell’Accademia.
381
Giovanna Marotta
Usi come quelli illustrati [...], per cui una donna si autodesigna come diretto-
re, professore, podologo, segretario, evidentemente possono esistere perché è
indeterminato se la regola di congruenza tra genere del nome che designa una
persona e sesso della persona designata si applichi o meno con questi lessemi.
Sembra che la sua applicazione in questi casi sia opzionale.
34
Ead., Linguaggio, cit.; Ead., Sindaco, cit.
35
Giusti, Linguaggio, cit., p. 95 si spinge a sostenere che l’incertezza «testimonia la mancanza
di coscienza linguistica collettiva nella cultura femminista italiana».
36
Anna Thornton, Designare le donne, in Mi fai male…, cit., pp. 115-133, p. 127.
382
Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche
Nei primi due casi, si tratterà di usi scritti, tipicamente la targa dello studio
professionale e un avviso, mentre negli ultimi due casi, di possibili frammenti
di dialogo. Operano quindi condizionamenti di tipo sia diamesico che diafasico
sull’uso del genere femminile per questo tipo di nomi, nel senso che il femminile
viene più frequentemente usato nella lingua parlata e a livello informale, mentre il
maschile risulta associato alla lingua scritta e ai contesti formali.
In merito al secondo aspetto, le ragioni per cui le stesse donne preferiscono
usare le forme maschili possono essere varie, come già messo in luce da Thornton37.
Accanto al banale desiderio di non commettere errori, visto che alcune forme al
femminile non sono ancora entrate nell’uso corrente né sono registrate nei dizio-
nari, può agire anche la percezione della stranezza della forma, che “suona male”
all’orecchio dei parlanti proprio perché non ancora completamente sdoganata, per
così dire, né nella grammatica né nell’uso. Un ulteriore fattore che facilita l’uso del
termine professionale maschile anche da parte di parlanti di sesso femminile, sia
che si autodesignino sia che si riferiscano a donne professioniste, va individuato
nell’allure di ironia, più o meno mascherata, che continua ad accompagnarsi all’u-
so del femminile per certi nomi.
Illuminante a tale riguardo è la ricerca condotta da Lepschy, Lepschy e San-
son38 sulle voci dottora e dottoressa nei dizionari italiani della seconda metà dell’Ot-
tocento e dei primi decenni del Novecento. Ne emergono esplicite connotazioni
negative, quali donna sacciuta e salamistra, donna che vuol far la saputa, che vuol
parer dotta. Lo stesso dicasi per la voce ministra, in cui è possibile rilevare simili
valori di scherno e velata censura, come ha ben mostrato recentemente Sgroi39.
Nel parlato contemporaneo, forme quali dottoressa, professoressa, studentessa
si sono ormai affermate, anche e soprattutto in virtù del numero elevato di donne
cui questi termini possono riferirsi. Con l’uso costante, anche i valori negativi as-
sociati ai termini femminili si sono attenuati, fino a scomparire quasi del tutto. E
crediamo che vada sottolineato “quasi”, perché è probabile che ancor oggi alcune
donne che svolgono professioni sia pubbliche che private di un certo prestigio ri-
nuncino a usare il termine femminile per non correre il rischio di “non essere prese
sul serio”, o per evitare di divenire oggetto di critica o di scherno.
Può darsi che tra cinquant’anni o anche prima sindaca e ministra diverranno
di uso comune e non saranno più ammantate di scarso prestigio. Nel frattempo, la
grammatica normativa, non insensibile alle rivendicazioni femminili, invita a usare
le forme al femminile. Sull’esito di queste campagne grammaticali, atte a promuo-
37
Thornton, Designare, cit.
38
Giulio Lepschy-Anna Laura Lepschy-Helena Sanson, A proposito di -essa, in L’Accade-
mia della Crusca per Giovanni Nencioni, a cura di Arrigo Castellani et al., Firenze, Le Lettere,
2002, pp. 397-409.
39
Salvatore Claudio Sgroi, “La ministra”, “la ministro” o “il ministro”?, in «Lingua italiana
d’oggi», IV (2008), pp. 217-225, p. 218.
383
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vere una potenziale riforma linguistica, è tuttavia prudente non fare previsioni:
le lingue non ammettono imposizioni esterne, come già osservavano Simone40 e
Valentini41, dopo la pubblicazione delle Raccomandazioni di Sabatini42.
A mo’ di postilla, ci sia consentita una riflessione finale sull’argomento. Pur
consapevoli che molta strada deve ancora esser compiuta affinché sia raggiunta
una vera parità tra i sessi, ci chiediamo se la battaglia a favore dei morfemi femmi-
nili per i nomi di ruoli istituzionali e di professione possa e debba diventare una
sorta di nuova bandiera del femminismo. Altri e più importanti aspetti della vita,
professionale e privata, ci paiono più rilevanti a tale scopo. Di maggiore spessore
ci parrebbe piuttosto la sensibilizzazione sul rapporto tra uomini e donne ai vertici
della società, nelle sue varie espressioni, economica, politica, giuridica, accademi-
ca; e in parallelo, last but not least, sul versante della vita domestica e familiare.
40
Raffaele Simone, Le donne tra desinenze e discorsi, in «Italiano e oltre», II (1987), pp. 99-
100.
41
Ada Valentini, Il sesso delle parole, ivi, pp. 108-112.
42
Sabatini, Il sessismo, cit.
384