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Giovanna Marotta

SULLE DIFFERENZE DI GENERE E


SULLE LORO IMPLICAZIONI SOCIOLOGICHE

1. Introduzione

In linguistica, il genere è una categoria dalla natura duplice. Accanto al genere


dei nomi (e delle categorie ad essi ricollegabili) esiste infatti il genere dei parlanti.
Nel primo caso, si fa riferimento all’universo della grammatica, nell’altro alla sfera
socio-culturale in cui la lingua viene usata. Se da un lato in numerose lingue esiste
il contrasto tra nomi e affini di genere maschile e femminile, codificati morfologi-
camente (ad es. la casa vs. il martello, bella vs. bello), dall’altro, parlanti di sesso
maschile possono variabilmente presentare tratti linguistici specifici, almeno in
parte diversi da quelli mostrati da parlanti di sesso femminile, e viceversa. Si parla
dunque di genere grammaticale come categoria della struttura linguistica da una
parte (prospettiva interna) e di genere dei parlanti come variabile di tipo sociolin-
guistico dall’altra (prospettiva esterna).
Questa natura bifronte della categoria di genere non va dimenticata, perché
da una eventuale confusione di piani possono derivare alcuni equivoci pericolosi.
D’altro canto, interazioni tra le due facies della categoria non sono da escludersi
a priori, sia perché nella lingua ogni elemento è costantemente interconnesso con
gli altri elementi che appartengono alla medesima struttura, anche se afferenti a
domini diversi, sia perché il genere grammaticale può in alcuni casi avere delle ri-
cadute rilevanti sulla sociologia del linguaggio e sulla psicologia sociale. In sintesi,
il genere può ben dirsi una categoria “socialmente sensibile”.
In queste pagine svolgeremo alcune riflessioni sulla categoria del genere (§ 2),
nelle sue diverse accezioni. Dopo un rapidissimo excursus sul genere grammaticale,
si farà riferimento alla prospettiva della sociolinguistica classica e della psicologia
sociale, per mettere in evidenza le correlazioni tra genere dei parlanti e processi
linguistici (§ 3), nonché caratteristiche peculiari del parlato femminile (§ 4). Saran-
no infine considerate alcune ricadute sociologiche che la selezione del genere dei

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nomi può determinare, con specifico riferimento ai nomi di professione e di carica


istituzionale in italiano (cfr. § 5).

2. Il genere come categoria grammaticale

Il genere rappresenta una delle categorie morfologiche centrali all’interno del-


la grammatica, almeno di quella che si è sviluppata nella cultura di ascendenza
occidentale. Nella flessione dei nomi, come pure di aggettivi, pronomi e participi,
viene costantemente annoverato nelle lingue indoeuropee, sia antiche che moder-
ne. La distinzione più comune prevede il contrasto tra maschile e femminile, per
quanto in molte lingue sia presente anche il genere neutro, che rinvia all’opposizio-
ne animato vs. inanimato, più antica anche nel dominio indoeuropeo1.
L’assegnazione del genere ad un nome risponde a criteri sia semantici che for-
mali, per cui la linguistica da tempo ha distinto tra genere naturale e genere gram-
maticale in senso stretto. Nel primo caso, si può riconoscere una certa congruenza
tra sesso dei referenti dei nomi e loro genere, per cui uomo vs. donna in italiano,
come vir vs. foemina in latino, anche se non mancano nomi epiceni, cioè con lo stes-
so genere comune a entrambi i referenti maschile e femminile (volpe, tigre) oppure
nomi con referente maschile ma genere femminile (guardia), il che ridimensiona di
fatto la portata del riferimento naturale e motivato nell’assegnazione del genere.
Del resto, si rivelano pertinenti per la selezione del genere dei nomi animati non
solo la caratterizzazione sessuale dei referenti, ma anche altri tratti salienti sul piano
percettivo, in primis visivo, ad esempio le dimensioni fisiche, il colore, la forma. Nei
casi in cui gli esseri animati non presentino tratti vistosamente diversi a seconda del
sesso, la marcatura di genere dei loro nomi non è più naturale, ma semplicemente
grammaticale, cioè arbitraria, così come accade per i nomi con referente inanimato.
Il genere viene in effetti associato ai nomi non tanto su base naturale, quanto
su base culturale, e dunque solo in teoria arbitraria, essendo motivata dal punto di
vista antropologico. Così si spiega ad esempio il fatto che in latino le piante abbia-
no genere femminile (malus, pirus, ficus), in quanto producono frutti. Le ragioni
semantiche dei nomi sembrano dunque riaffiorare anche nell’assegnazione del ge-
nere ai nomi inanimati, visto che i parlanti organizzano il loro sapere linguistico e
cognitivo nei termini di paradigmi ricorrenti, percettivamente motivati. Metafore

1 
Cfr. Greville Corbett, Gender, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1991;
Romano Lazzeroni, Il genere indoeuropeo. Una categoria naturale?, in Maschile/Femminile. Ge-
nere e ruoli nelle culture antiche, a cura di Maurizio Bettini, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 3-16;
Roberta Meneghel, Animato e inanimato vs comune e neutro: tratti pertinenti, in Metalinguaggio.
Storia e statuto dei costrutti della linguistica, a cura di Vincenzo Orioles-Raffaella Bombi-Marica
Brazzo, Roma, il Calamo, 2014, pp. 595-612.

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Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche

concettuali di qualche tipo devono stare alla base dell’alternanza di genere che si
riscontra per alcuni nomi inanimati in italiano; ad es. buco vs. buca, fosso vs. fossa,
pennello vs. pennellessa, coltello vs. coltella (in toscano), e in genere il femminile
rinvia a referenti di maggiori dimensioni2. Nel contempo, il peso dei tratti formali
riemerge a sua volta nel cambiamento linguistico, come dimostra in italiano la con-
fluenza nel genere maschile dei nomi latini terminanti in -us, -um > -o, indipenden-
temente dalla declinazione di appartenenza e dal genere originari, ad esempio per
le piante da frutto sopra menzionate, il melo, il pero, il fico.
Tuttavia, la linguistica non si interroga più di tanto sulle ragioni che sovrinten-
dono all’assegnazione del genere nelle lingue né sul perché per lo stesso referente si
ha in una lingua un nome di genere maschile e in un’altra, magari contigua geogra-
ficamente o imparentata genealogicamente, un nome femminile o neutro3. Chiare
o oscure che siano le ragioni che hanno portato ad assegnare il genere a un nome,
ciò che conta è il suo status di categoria grammaticale, con specifiche funzioni nel
sistema. In questa prospettiva strutturale, interna alla lingua, poco conta quindi
discutere sul genere da assegnare ai nomi di professioni o cariche pubbliche, que-
stione che è stata ed è tuttora al centro di vivaci discussioni a proposito dei rapporti
tra genere dei parlanti e genere grammaticale. Di questo ci occuperemo più avanti
(cfr. § 5). Ma fin da ora vorremmo osservare che la categoria grammaticale del ge-
nere tende facilmente a caricarsi di valori extralinguistici, nel senso che la selezione
di un suffisso rispetto a un altro si colora di nuances sociologiche, su base seman-
ticamente motivata. Così, la mancata flessione per genere in parole come avvocato,
architetto, senatore, sindaco diventa pretesto per rivendicare la parità tra i sessi.
Per comprendere il passaggio dalla grammatica alla sociologia, riteniamo sia
utile far ora riferimento all’impiego della categoria di genere in ambito sociolingui-
stico e psico-sociale.

3. Il genere come variabile sociolinguistica

Già nella dialettologia dei primi decenni del secolo scorso, vera e propria so-
ciolinguistica ante litteram, il genere del parlante è stato considerato come una
variabile di primo piano. In particolare, negli studi condotti sui dialetti italiani4,
da tempo si è riconosciuto un peso specifico al genere dei parlanti, un elemento

2 
Carlo Volpati, Coppie di nomi di due generi, in «Lingua nostra», XVI (1955), pp. 2-5.
3 
Noti esempi sono il mare (maschile) in italiano, ma la mer in francese; il ponte in italiano, ma
die Brücke (femminile) in tedesco.
4 
Ma non solo; cfr. già Louis Gauchat, L’unité phonètique dans le patois d’une commune, in
Aus romanischen Sprachen und Literaturen: Festschrift für Heinrich Morf, Whitefish, Kessinger,
1905 (3a ed., 2010), pp. 174-232.

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capace di influenzare la selezione delle forme adottate nel parlato, specialmente in


rapporto al grado maggiore o minore di conservatività delle forme5.
Com’è noto, la lingua è per molti versi lo specchio della cultura e dell’orga-
nizzazione sociale, per cui il repertorio fonologico così come le scelte lessicali e
morfosintattiche si correlano con il contesto comunicativo e sociale, concorrendo
a definire l’identità dei parlanti all’interno di una determinata comunità. Il modo
di parlare esprime pertanto le differenze esistenti all’interno di una struttura socio-
economica così come rappresenta il relativo sistema di valori e di credenze.
Gli studi di sociolinguistica condotti negli USA fin dagli anni Sessanta del se-
colo scorso hanno magistralmente indicato che la variazione linguistica è indice
di differenziazione sociale: le variabili si distribuiscono nel tessuto sociale non in
modo casuale, ma in rapporto alla condizione socio-culturale dei parlanti. In tal
modo la struttura sociale e demografica modula finemente la variazione; in parti-
colare, fattori come l’età, il genere6 e la classe sociale giocano un ruolo determi-
nante nelle alternanze stilistiche rilevabili nel parlato di una comunità. Per quanto
riguarda in particolare il genere dei parlanti, Labov7 ha riconosciuto da tempo che
le donne non solo tendono a evitare le varianti stigmatizzate, ma sono anche più
sensibili degli uomini al prestigio sociale associato alle forme linguistiche.
Anche la dialettologia italiana ha avuto modo a più riprese di mettere in evi-
denza l’aspetto tendenzialmente più conservatore del parlato femminile rispetto a
quello maschile, specialmente in ragione dell’isolamento e della marginalità della
figura femminile nelle comunità di stampo patriarcale, a carattere rurale, a lungo
dominanti nel nostro Paese8. La variazione modulata dal genere dei parlanti inte-
ressa in primo luogo il livello fonologico9, ma anche la morfologia non è indenne10.

5 
Cfr. Gianna Marcato, Italienisch: Sprache und Geschlechter / Lingua e Sesso, in Lexikon
der romanistischen Linguistik (LRL), a cura di Günter Holtus-Michael Metzeltin-Christian
Schmitt, IV: Italienisch, Korsisch, Sardisch, Tübingen, Niemeyer, 1988, pp. 237-246.
6 
La sociolinguistica variazionista ha spesso insistito sulla necessità di tener distinti i termini
sesso e genere a seconda dei contesti; cfr. ad esempio Jenny Cheshire, Sex and Gender in Varia-
tionist Research, in Handbook of Language Variation and Change, a cura di Jack K. Chambers-Pe-
ter Trudgill-Natalie Schilling-Estes, Oxford, Blackwell, 2002, pp. 423-443; Penelope Eckert-
Sally McConnell Ginet, Language and Gender, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
7 
William Labov, Sociolinguistic Patterns, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1972.
8 
Si rinvia a Marcato, Italienisch, cit., per un’utile rassegna degli studi in tal senso.
9 
Possiamo limitarci a citare alcuni studi recenti dedicati al toscano, tra cui Giovanna Ma-
rotta-Nadia Nocchi, La liquida laterale nel livornese, in «Rivista italiana di dialettologia», XXV
(2001), pp. 285-326; Roberta Combei-Ottavia Tordini, A corpus-based sociophonetic analysis of
open-mid vowels uttered by young male and female speakers of the Pisan variety, in Sources and
functions of speech variation. Disentangling the role of biological and social factors. Atti dell’Asso-
ciazione Italiana di Scienze della Voce, a cura di Chiara Celata (in corso di stampa), come pure
al sardo, ad esempio Simone Pisano, Esiti dell’approssimante palatale j nella varietà di Orune: diffe-
renziazione fonetica su base sessuale, in «L’Italia dialettale», LXVIII (2007), pp. 99-143.
10 
Tra gli altri, si veda Leonardo M. Savoia, Sistemi flessionali e variazione morfologica in
alcuni dialetti arbëreshe, in I dialetti italo-albanesi. Studi linguistici e storico-culturali sulle comunità

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Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche

In alcuni processi fonologici attivi in Toscana, connotati a livello diafasico e


diastratico, si rileva parimenti una significativa differenza di genere. Significati-
va in tal senso l’evidenza empirica che emerge dagli studi recenti di Piccardi11
dedicati alla gorgia enfatica fiorentina, un fenomeno per cui le occlusive sorde
vengono prodotte come aspirate in contesti “forti”, quali quelli postconsonantici
(ad es. in cantina [khan’ti:na]), connotati da un certo grado di forza illocutoria, da
cui l’attributo di “enfatica”, coniato da Castellani12. Tanto i contesti di occorrenza
quanto la valenza pragmatica inscrivono il processo nell’ambito dei fenomeni di
rafforzamento consonantico, anziché di indebolimento, come accade invece per la
gorgia toscana propriamente detta. I rilievi effettuati da Piccardi mostrano che il
processo si manifesta tipicamente in situazioni informali e si correla statisticamente
con i parlanti giovani di sesso maschile. Sul piano psico-sociale, il processo appare
connesso con atteggiamenti di tipo virile. I parlanti fiorentini ritengono infatti che
la pronuncia “enfatica” sia impiegata per esprimere emozioni forti e decise, tipi-
camente associate a un comportamento maschile; e dunque, come tale, dovrebbe
essere assente dal parlato femminile.
La tendenza femminile ad adottare le forme ritenute più prestigiose all’interno
di una comunità linguistica deriva in definitiva dall’asimmetria di potere esisten-
te tra uomini e donne13. In altri termini, consapevoli del ruolo tendenzialmente
subordinato che ad esse compete, nel tentativo di raggiungere una posizione più
elevata nella scala sociale, le donne tendono a impiegare le varianti linguistiche che
ritengono in uso presso i ceti più colti e più forti sul piano socio-economico, al fine
di ottenere un migliore riconoscimento all’interno della comunità di appartenenza.
Tuttavia, il quadro nel quale le donne tendono a perpetuare le forme lingui-
stiche standardizzate vige soprattutto nelle piccole comunità di stampo tradizio-
nale, nelle quali la donna ha un ruolo nettamente marginale e subordinato. In
tali contesti, la lingua si uniforma ad altri comportamenti sociali: le donne risul-
tano spesso conservatrici, ligie al rispetto delle norme sociali, di tipo linguistico
e non (ad esempio, anche nel campo dell’educazione, dell’alimentazione, degli
scambi comunicativi), vere e proprie vestali della tradizione, pronte a frenare
ogni violazione dei principi comportamentali che la comunità ritiene opportuno
mantenere.

arbëreshe, a cura di Francesco Altimari-Leonardo M. Savoia, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 306-357
per la parlata arbëreshe di Falconara (Cosenza), in rapporto alla selezione degli allomorfi dell’in-
dicativo imperfetto.
11 
Duccio Piccardi, Sociophonetic factors of speakers’ sex differences in Voice Onset Time: a
Florentine case study, in Sources and functions of speech variation, cit.
12 
Arrigo Castellani, Precisazioni sulla gorgia toscana, in «Boletim de filología», XIX (1960),
pp. 242-262.
13 
Cfr. Penelope Eckert, The Whole Woman: Sex and Gender Differences in Variation, in «Lan-
guage Variation and change», I (1989), 1, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 213-227.

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Invece, nelle società occidentali avanzate, soprattutto nelle aree urbane, es-
sendo ormai sostanzialmente raggiunta la parità tra i sessi, anche a seguito dell’e-
mancipazione economica e sessuale, le donne svolgono ruoli attivi a tutti i livelli,
per cui possono introdurre e promuovere i tratti innovativi, diventare cioè vettori
di cambiamento, sul piano linguistico come su quello degli altri comportamenti
sociali (ad esempio il fumo o il consumo di stupefacenti).
Da questo punto di vista, sono numerosi gli studi condotti sulla lingua inglese,
sia europea che americana, che mostrano la tendenza delle donne ad adottare le
varianti dotate di prestigio, sia stabili che innovative. Basterà ricordare, tra gli altri,
gli studi di Chambers e Trudgill14, e soprattutto di Milroy e Milroy15 sulla lingua
parlata a Belfast, nell’Irlanda del Nord: l’innalzamento di /e/, processo fonologico
innovativo, è promosso dalle giovani donne appartenenti al ceto medio irlandese
residenti nella periferia della città e appartenenti a una rete sociale poco densa, a
maglie più larghe rispetto a quella dei giovani uomini operai. In questo caso, gli
elementi portatori di innovazione sono dunque parlanti di genere femminile, an-
che se il successo definitivo della variante innovativa risulta condizionato dalla sua
diffusione per opera di parlanti che, in quanto dotati di un certo prestigio sociale,
possono svolgere il ruolo di “attuatori” del mutamento stesso.
Analogamente, in Scouse, la varietà di inglese parlata a Liverpool, il processo
della lenizione, in origine stigmatizzato come tratto basso, ma attualmente dotato
di un certo prestigio coperto, è più frequente nel parlato informale delle giovani
donne, che tra l’altro impiegano un numero più alto di allofoni del fonema /d/16.
Ancora una volta, le donne risultano conservative nel rispetto delle forme stabil-
mente accolte dalla comunità, ma innovative nell’adozione di varianti relative a
mutamenti in atto (cfr. supra), purché dotate di un certo prestigio sociale.
In sintesi, è il prestigio sociale (scoperto o coperto) associato alle forme alter-
nanti che guida le scelte delle parlanti di genere femminile. Sembra dunque pro-
spettarsi una sorta di “paradosso di genere”: da un lato, le donne mostrano un’at-
tenzione più marcata degli uomini nei confronti delle forme standardizzate della
lingua; dall’altro, nel mutamento linguistico, le donne svolgono spesso un ruolo
trainante. Ma il paradosso è soltanto apparente, dal momento che, come osserva

14 
Jack Chambers-Peter Trudgill, Dialectology, Cambridge, Cambridge University Press,
1980.
15 
James Milroy-Lesley Milroy, Linguistic change, social network and speaker innovation, in
«Journal of linguistics», XXI (1985), pp. 339-384; trad. it. Il mutamento linguistico, la rete sociale
e l’innovazione del parlante, in Introduzione alla sociolinguistica, a cura di Stefania Giannini-Ste-
fania Scaglione, Roma, Carocci, 2003, pp. 91-149.
16 
Cfr. Giovanna Marotta-Marlen Barth, Acoustic and Sociolinguistic Aspects of Lenition in
Liverpool English, in «Studi linguistici e filologici online», III (2005), 2 , online su www.humnet.
unipi.it/slifo/2005vol2/Marotta-Barth3.2.pdf, ultimo accesso: 29.11.2018), pp. 377-413.

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Labov17, tanto la tendenza verso la conservazione quanto quella verso l’innovazio-


ne riflettono la maggiore sensibilità delle donne nei confronti del valore sociale
della lingua. Di conseguenza, i parlanti di genere femminile non solo sono di nor-
ma inclini ad adoperare le forme standard e stabilmente accettate dalla comunità,
ma contemporaneamente sono disponibili ad adottare le forme innovative, purché
siano percepite come dotate di prestigio e vincenti sul piano sociale.
Conferma diretta in tal senso si ha per la nostra lingua osservando i dati pub-
blicati dall’Istat negli ultimi decenni in riferimento all’uso dei dialetti rispetto alla
lingua nazionale: le donne usano l’italiano più degli uomini, anche in contesti fa-
miliari e quotidiani; in parallelo, usano il dialetto meno dei maschi (dati reperibili
in Baldi18). L’uso più frequente dell’italiano è coerente sia con la tendenza verso la
standardizzazione sia con il cambiamento che mira a marginalizzare sempre di più
il dialetto, forma di comunicazione ritenuta priva di prestigio.

4. Sul “parlato femminile”

Lo stretto legame tra fattori di ordine socio-culturale e la variabile genere dei


parlanti trova un’ulteriore manifestazione nei giudizi relativi al modo di parlare
delle donne. Tratti tipici del parlato femminile sarebbero ad esempio la maggio-
re espressività, la scarsa pianificazione logica, una gestualità più marcata, l’uso di
modalità dubitative e non assertive o direttive, la spiccata attenzione verso l’ascol-
tatore, la tendenza a ripetersi19. Ancora una volta, anche nelle credenze condivise
della società occidentale contemporanea, le modalità discorsive associate agli stili
femminili si discostano da quelle maschili. E i giudizi dati da uomini e donne sul
parlato femminile finiscono per riflettere i rispettivi ruoli occupati all’interno del
contesto sociale, perpetuando e alimentando pregiudizi e stereotipi della femmini-
lità, con conseguenti atteggiamenti discriminatori, in maniera più o meno esplicita.
Paradigmatico è il caso della voce femminile, cui viene di norma associata una
serie di attributi psicologici che rinviano a chiari risvolti fisico-anatomici. La voce
delle donne è più acuta rispetto a quella degli uomini, pour cause, vista la diver-
sa lunghezza e larghezza della laringe, nonché il differente spessore delle pliche

17 
William Labov, Principles of Linguistic Change, II: Social Factors, Oxford, Blackwell, 2001,
p. 291.
18 
Benedetta Baldi, Lingua e identità di genere, in La lingua e i parlanti. Studi e ricerche di lin-
guistica, a cura di Benedetta Baldi-Leonardo M. Savoia, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 2016,
pp. 293-336, pp. 303-304.
19 
Si vedano Marcato, Italienisch, cit.; Monica Berretta, Per una retorica popolare del lin-
guaggio femminile, ovvero: la lingua delle donne come costruzione sociale, in Comunicare nella vita
quotidiana, a cura di Franca Orletti, Bologna, il Mulino, 1983, pp. 215-240; Baldi, Lingua, cit.

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vocali20. D’altro canto, la voce acuta e sottile, motivata su base fisica, si colora di
nuances psico-sociali, non tanto per ragioni naturali quanto piuttosto per cause
psico-sociali. E dunque la voce femminile caratterizzata da alte frequenze e da
toni ascendenti viene associata non soltanto alle minori dimensioni corporee delle
donne, ma anche al bisogno di protezione che la voce esprimerebbe e dunque al
ruolo subalterno ricoperto dalla donna rispetto all’uomo nelle dinamiche sociali.
Del resto, già nei testi dell’antichità classica la voce femminile è connotata da
una serie di luoghi comuni e di stereotipi, correlati ad attributi sia di natura fisica
(in primis, l’acutezza) che psichica e sociale. Come ha messo in luce Dovetto21, sul
piano psicologico, si tratta in genere di una qualità della voce fortemente impron-
tata ai canoni dell’emotività e/o della capacità di seduzione, mentre sul piano so-
cio-culturale, emerge la marcatezza, rispetto alla voce maschile, presa come punto
di riferimento, per cui le voci di donne sono spesso magiche, ma anche profetiche,
o straniere, ma anche incantatrici. In una parola, le voci delle donne sono “diver-
se”. E dunque potenzialmente pericolose, per quanto affascinanti22.
Ormai più di trenta anni or sono, Ohala23 parlò a questo proposito di un “co-
dice della frequenza” (Frequency Code), attivo negli scambi comunicativi tra gli
esseri umani così come in altre specie animali: vocalizzazioni e modulazioni tonali
caratterizzate da frequenze basse sarebbero associate ad atteggiamenti aggressivi,
minacciosi e direttivi, mentre toni acuti e profili melodici ascendenti correlano
con atteggiamenti improntati alla disponibilità, alla cortesia, alla richiesta, e in-
fine, alla subordinazione sociale. Il gatto, ad esempio, usa modulazioni diverse a
seconda che intenda chiedere del cibo al padrone oppure attaccare un suo pari.
Lo stesso dimorfismo sessuale presente nel tratto vocale confermerebbe l’esistenza
di un codice della frequenza innato e specie-specifico, che da un lato associa le
frequenze acustiche basse a un essere animale di grandi dimensioni (large voca-
lizer), tendenzialmente dominante, aggressivo, minaccioso, e dall’altro correla le
frequenze acustiche alte con un essere animale di piccole dimensioni (small vocali-
zer), caratterizzato da attributi secondari di remissività, subordinazione, tendenza
alla cooperazione.
Sulla scia di Ohala, Gussenhoven24 ha recentemente introdotto nella letteratu-
ra fonetica il cosiddetto “codice delle sirene” (Sirenic Code), in riferimento speci-

20 
John Laver, Principles of phonetics, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.
21 
Francesca Maria Dovetto, Etichette della voce femminile nell’antichità classica, in Parole
di donne, a cura di Francesca Maria Dovetto, Roma, Aracne, 2009, pp. 67-85.
22 
Cfr. Cristina Vallini, Gli uccelli parlanti, le fanciulle e il Presidente Schreber, ivi, pp. 19-28.
23 
John Ohala, Cross-language use of pitch: an ethological view, in «Phonetica», XL (1983),
1, pp. 1-18; Id., An ethological perspective on common cross-language utilization of f0 in voice, in
«Phonetica», XLI (1984), pp. 1-16.
24 
Carlos Gussenhoven, Foundations of Intonational Meaning: Anatomical and Physiological
Factors, in «Topics in Cognitive Science», VIII (2016), pp. 425-434.

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Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche

fico alla voce sussurrata, bisbigliata, che tradizionalmente si associa all’espressione


e alla percezione della femminilità. La qualità della voce sussurrata si produce
mediante il rilassamento delle pliche vocali, con concomitante adduzione incom-
pleta delle medesime. Di conseguenza, la pressione dell’aria a livello della glottide
diminuisce e la vibrazione vocale che si origina è minore. Negli studi sulla per-
cezione delle diverse qualità della voce, la voce sussurrata viene costantemente
associata alla femminilità, e in particolare a valori quali intimità, calma, affetto, e
anche timidezza25.
La voce roca sembra invece esprimere un più marcato valore sensuale e sedut-
tivo26, probabilmente in ragione del minore controllo motorio che trasmette e che
finisce facilmente per evocare situazioni di allentato controllo del proprio corpo,
tipico dell’atto sessuale.
La correlazione tra qualità della voce e femminilità andrà ricercata ancora una
volta nelle opinioni che stanno alla base della differenza tra i due generi e che ri-
sultano condivise all’interno di una comunità di parlanti27. Del resto, sono le donne
stesse che fanno frequente uso del codice della frequenza e del codice delle sirene,
continuando così ad alimentare gli stereotipi sociali di genere e, in parallelo, l’asim-
metria di potere che caratterizza i ruoli di uomini e donne. L’abile e consapevole
impiego di voci diverse a seconda dell’interlocutore e del contesto consente ancor
oggi alle donne più “femminili” di raggiungere i loro scopi in maniera indiretta ed
efficace.

5. Il genere grammaticale e la sua valenza sociologica

Nella stampa corrente e su vari media si è molto discusso di genere grammati-


cale in relazione ai nomi di professioni e di cariche pubbliche. Accanto a nomi che
vengono da tempo flessi per genere (ad esempio dottoressa, infermiera, maestra),
ve ne sono altri che hanno mantenuto sinora il genere maschile come termine non

25 
Christer Gobl-Ailbhe Ni’ Chasaide, The role of voice quality in communicating emotion,
mood and attitude, in «Speech communication», 2003, 40, pp. 189-212.
26 
Sulla vocal actractiveness, si veda il contributo di Molly Babel-Grant McGuire-Joseph
King, Towards a More Nuanced View of Vocal Attractiveness, in «PLoS ONE», IX (2014), 2,
pp.  1-10, e la ricca bibliografia ivi citata. Ringrazio Duccio Piccardi per l’opportuna segnala-
zione.
27 
Ragioni biologiche quali quella avanzata da John Laver, Voice quality and indexical infor-
mation, in The gift of speech: Papers in the analysis of speech and voice, a cura di Id., Edinburgh,
Edinburgh University Press, 1991, pp. 147-161, che fa riferimento all’andamento degli ormoni
durante il ciclo mestruale, lasciano francamente perplessi. Analogamente, la tesi che la voce di una
donna è più attraente nel periodo che precede l’ovulazione pare trovar ragion d’essere soprattutto
nel giudizio degli uomini.

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marcato (ad esempio ministro, sindaco, assessore, etc.). Proprio per questi nomi si
è proposta negli ultimi anni l’introduzione nell’uso parlato e scritto dei corrispon-
denti termini femminili, per cui si dovrebbe dire d’ora in poi sindaca, ministra,
assessora, etc. D’altro canto, il genere epicene sembra rimanere intatto per alcuni
nomi. Ad esempio, non ci pare che venga proposta una forma presidenta, da affian-
care a presidente. Né ci risulta che qualcuno abbia proposto di usare procuratora,
al posto di procuratore.
Sembra che siano i morfemi di genere più semplici e più comuni (dunque,
in primo luogo, -o) a costituire l’area lessicale primaria di diffusione delle forme
flesse al femminile, mentre altri suffissi sono più stabili, ad esempio -ente. Analo-
gamente, risultano stabili le forme comuni con suffisso -ista, ad esempio dentista,
professionista, giornalista, internista. Ci si potrebbe pertanto chiedere perché, in
parallelo, non si propone una flessione in -o per questi nomi, se riferiti a soggetti
di sesso maschile.
Da tempo sappiamo che ogni lingua naturale tollera ampi margini di variazio-
ne e di elasticità all’interno del suo impianto strutturale. La variazione e la con-
seguente tolleranza investono tutti i livelli, dalla fonologia alla morfologia e alla
sintassi. Nella fattispecie in oggetto, è facile rilevare la compresenza di nomi di
professione flessi per genere accanto ad altri privi di tale distinzione. Del resto,
la commutazione di genere non è ammessa anche per vari nomi di animali, che
possono presentare desinenze diverse (ad esempio pecora, zebra, giraffa, accanto a
volpe, tigre). Si osservi che questa comunanza di genere non ha creato finora e non
crea nessun tipo di ambiguità né di intoppo comunicativo.
Il punto di partenza per il progressivo estendersi del dibattito sul genere di
alcuni nomi di professioni e di cariche pubbliche può essere individuato nelle Rac-
comandazioni per un uso non sessista della lingua italiana contenute nel testo di
Sabatini28, risultato del lavoro di ricerca promosso dalla Commissione per la rea-
lizzazione della parità tra uomo e donna. Da allora sono ormai trascorsi trent’anni
e la questione è ben lungi dall’essere risolta. Il dibattito sul genere dei nomi, in
particolare in riferimento a ruoli istituzionali (la ministra, la sindaca, l’assessora)
sembra infatti esser divenuto nel tempo sempre più vivace, con coinvolgimento di
vari ambiti, da quello giornalistico29 a quello politico, con prese di posizione anche
forti30.

28 
Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato, 1987.
29 
Ad esempio, si veda l’articolo di Monica D’Ascenzo sul Sole24Ore del 28 aprile 2017,
intitolato Le professioni hanno un genere?
30 
In ambito politico, si segnala l’attivismo dell’attuale Presidente della Camera Laura Boldri-
ni, divenuta un’icona del movimento di opinione che potremmo denominare neo-femminismo
grammaticale.

380
Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche

Molte le parole sul tema, sia pronunciate che scritte31; e vari i contributi conte-
nuti in volumi miscellanei sul tema32.
Sulla questione si è espressa anche l’Accademia della Crusca: nel suo inter-
vento del 5 dicembre 2013, pubblicato sul sito ufficiale dell’Accademia, l’allora
Presidente, Nicoletta Maraschio, ribadiva

l’opportunità di usare il genere grammaticale femminile per indicare ruoli


istituzionali (la ministra, la presidente, l’assessora, la senatrice, la deputata,
ecc.) e professioni alle quali l’accesso è normale per le donne solo da qualche
decennio (chirurga, avvocata o avvocatessa, architetta, magistrata, ecc.) così
come del resto è avvenuto per mestieri e professioni tradizionali (infermiera,
maestra, operaia, attrice, ecc.)33.

A nostro parere, si tratta di una questione di carattere più normativo che lin-
guistico. Ci si preoccupa cioè di fissare una norma relativa a questo campo speci-
fico della morfologia, cui gli utenti della lingua sono chiamati ad attenersi. Sap-
piamo tuttavia da tempo che è difficile incidere sulla lingua, come difficile se non

31 
Non potendo rendere conto di un dibattito tanto prolisso, in prospettiva più o meno lingui-
stica o sociologica, ci limitiamo a segnalare gli interventi di Giulio Lepschy, Lingua e sessismo, in
Id., Nuovi Saggi di linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 61-84 (trad. it. di Id., Sexism
and the Italian language, in «The Italianist», VII [1987], pp. 158-169); Elisabeth Burr, Dilettanti
e linguisti di fronte al ‘genere’, in Italiano. Strana lingua?, a cura di Gianna Marcato, Padova, Uni-
press, 2003, pp. 105-111. Cecilia Robustelli, Il sessismo nella lingua italiana, in Enciclopedia Trec-
cani online, 2012, www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/femminile/Robustelli.html
(ultimo accesso: 30.06.2017); Ead., Genere, grammatica e grammatiche, in La differenza insegna.
La didattica delle discipline in una prospettiva di genere, a cura di Serena Sapegno, Roma, Carocci,
2014, pp. 64-75; Ead., Donne, grammatica e media, in Gi.U.Li.A. Giornaliste, Firenze, Accademia
della Crusca, 2014; Ead., Linguaggio discriminatorio e testi istituzionali: la questione del genere,
in La qualità degli atti normativi e amministrativi, a cura di Saulle Panizza, Pisa, Pisa University
Press, 2016, pp. 99-122; Ead., Sindaco e sindaca. Il linguaggio di genere, in L’italiano. Conoscere e
usare una lingua formidabile, IV, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2016.
32 
Donna e Linguaggio. Atti del Convegno Internazionale di studi “Dialettologia al femminile”
(Sappada-Plodn, 26-30 giugno 1995), a cura di Gianna Marcato, Padova, Cleup, 1995; Giuliana
Giusti, Linguaggio e questioni di genere: alcune riflessioni introduttive, in Mi fai male..., a cura di
Ead.-Stefania Regazzoni, Venezia, Cafoscarina, 2009, pp. 115-133; Ead., Riferimento al genere e
costruzione d’identità, in Nominare per esistere: nomi e cognomi, a cura di Ead., Venezia, Cafosca-
rina, 2011, pp. 13-28; Parole di donne, cit.; Nome e identità femminile nel mondo antico, a cura di
Francesca Maria Dovetto-Maria-Frías Urrea Rodrigo, Roma, Aracne, 2016.
33 
Altre iniziative sulla stessa linea: il Progetto “Genere e linguaggio” svolto in collaborazione
col Comune di Firenze; la Guida agli Atti Amministrativi, pubblicata dalla Crusca e dall’Istituto di
Teoria e Tecnica dell’Informazione Giuridica del CNR (www.ittig.cnr.it/Ricerca/Testi/GuidaAt-
tiAmministrativi.pdf, ultimo accesso: 30.06.2017). Si segnala anche un’ulteriore presa di posizione
nel Tema del mese a cura di Cecilia Robustelli, pubblicato nel marzo 2013 sul sito dell’Acca-
demia (www.accademiadellacrusca.it/it/tema-del-mese/infermiera-s-ingegnera, ultimo accesso:
30.06.2017), nonché varie interviste rilasciate da membri dell’Accademia.

381
Giovanna Marotta

impossibile risulta imporre parole e modi di parlare, perché i parlanti in realtà


decidono in assoluta libertà e autonomia. Potremmo addirittura sostenere, quasi
paradossalmente, che è la lingua medesima che seleziona le sue forme. In partico-
lare, l’intervento in questa area della grammatica si mostra oltre modo complesso,
a causa delle implicazioni psico-sociali che la selezione di genere comporta.
La questione è stata dibattuta soprattutto per i suoi aspetti sociologici. La pre-
supposizione soggiacente sembra essere che l’uso del maschile per entrambi i sessi
sia sintomo di un uso discriminatorio nei confronti delle donne34. Chiamare sindaco
o ministro una donna che ricopra queste cariche sarebbe cioè una forma di sessismo
linguistico. Per converso, l’uso del suffisso femminile sarebbe simbolico, fino a di-
ventare un elemento capace di garantire, o quanto meno favorire, la parità tra i sessi.
Da linguisti, ci limitiamo a rilevare due aspetti della questione, nel momento
attuale: persistenza dell’incertezza sul genere da usare per i nomi delle professio-
ni, pubbliche e private, quando riferiti a donne; in parallelo, preferenza verso il
termine maschile anche da parte delle stesse donne professioniste o che ricoprono
cariche pubbliche35. In merito al primo aspetto, scrive Thornton36:

Usi come quelli illustrati [...], per cui una donna si autodesigna come diretto-
re, professore, podologo, segretario, evidentemente possono esistere perché è
indeterminato se la regola di congruenza tra genere del nome che designa una
persona e sesso della persona designata si applichi o meno con questi lessemi.
Sembra che la sua applicazione in questi casi sia opzionale.

Poiché si tratta di un’area della grammatica attualmente dinamica, in cui non


vige una regola fissa e invariabile, le singole donne hanno la facoltà di decidere in
prima persona e in autonomia come autodenominarsi.
Tuttavia, alcuni parametri sembrano modulare la variazione esistente. In pri-
mo luogo, il grado di formalità: nei contesti più formali, viene ancora preferito il
termine maschile, mentre nei registri meno accurati, caratterizzati da una forza il-
locutiva più elevata, diventa più frequente adoperare e sentire adoperato il termine
femminile corrispondente. Ad esempio, un sintagma come avvocato Maria Marini
potrà avere diversi gradi di accettabilità a seconda dei contesti; schematicamente:

Avvocato Maria Marini


L’Avvocato Maria Marini riceve lunedì e martedì pomeriggio
L’Avvocatessa Marini mi ha telefonato ieri
La Marini è proprio una brava avvocatessa

34 
Ead., Linguaggio, cit.; Ead., Sindaco, cit.
35 
Giusti, Linguaggio, cit., p. 95 si spinge a sostenere che l’incertezza «testimonia la mancanza
di coscienza linguistica collettiva nella cultura femminista italiana».
36 
Anna Thornton, Designare le donne, in Mi fai male…, cit., pp. 115-133, p. 127.

382
Sulle differenze di genere e sulle loro implicazioni sociologiche

Nei primi due casi, si tratterà di usi scritti, tipicamente la targa dello studio
professionale e un avviso, mentre negli ultimi due casi, di possibili frammenti
di dialogo. Operano quindi condizionamenti di tipo sia diamesico che diafasico
sull’uso del genere femminile per questo tipo di nomi, nel senso che il femminile
viene più frequentemente usato nella lingua parlata e a livello informale, mentre il
maschile risulta associato alla lingua scritta e ai contesti formali.
In merito al secondo aspetto, le ragioni per cui le stesse donne preferiscono
usare le forme maschili possono essere varie, come già messo in luce da Thornton37.
Accanto al banale desiderio di non commettere errori, visto che alcune forme al
femminile non sono ancora entrate nell’uso corrente né sono registrate nei dizio-
nari, può agire anche la percezione della stranezza della forma, che “suona male”
all’orecchio dei parlanti proprio perché non ancora completamente sdoganata, per
così dire, né nella grammatica né nell’uso. Un ulteriore fattore che facilita l’uso del
termine professionale maschile anche da parte di parlanti di sesso femminile, sia
che si autodesignino sia che si riferiscano a donne professioniste, va individuato
nell’allure di ironia, più o meno mascherata, che continua ad accompagnarsi all’u-
so del femminile per certi nomi.
Illuminante a tale riguardo è la ricerca condotta da Lepschy, Lepschy e San-
son38 sulle voci dottora e dottoressa nei dizionari italiani della seconda metà dell’Ot-
tocento e dei primi decenni del Novecento. Ne emergono esplicite connotazioni
negative, quali donna sacciuta e salamistra, donna che vuol far la saputa, che vuol
parer dotta. Lo stesso dicasi per la voce ministra, in cui è possibile rilevare simili
valori di scherno e velata censura, come ha ben mostrato recentemente Sgroi39.
Nel parlato contemporaneo, forme quali dottoressa, professoressa, studentessa
si sono ormai affermate, anche e soprattutto in virtù del numero elevato di donne
cui questi termini possono riferirsi. Con l’uso costante, anche i valori negativi as-
sociati ai termini femminili si sono attenuati, fino a scomparire quasi del tutto. E
crediamo che vada sottolineato “quasi”, perché è probabile che ancor oggi alcune
donne che svolgono professioni sia pubbliche che private di un certo prestigio ri-
nuncino a usare il termine femminile per non correre il rischio di “non essere prese
sul serio”, o per evitare di divenire oggetto di critica o di scherno.
Può darsi che tra cinquant’anni o anche prima sindaca e ministra diverranno
di uso comune e non saranno più ammantate di scarso prestigio. Nel frattempo, la
grammatica normativa, non insensibile alle rivendicazioni femminili, invita a usare
le forme al femminile. Sull’esito di queste campagne grammaticali, atte a promuo-

37 
Thornton, Designare, cit.
38 
Giulio Lepschy-Anna Laura Lepschy-Helena Sanson, A proposito di -essa, in L’Accade-
mia della Crusca per Giovanni Nencioni, a cura di Arrigo Castellani et al., Firenze, Le Lettere,
2002, pp. 397-409.
39 
Salvatore Claudio Sgroi, “La ministra”, “la ministro” o “il ministro”?, in «Lingua italiana
d’oggi», IV (2008), pp. 217-225, p. 218.

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Giovanna Marotta

vere una potenziale riforma linguistica, è tuttavia prudente non fare previsioni:
le lingue non ammettono imposizioni esterne, come già osservavano Simone40 e
Valentini41, dopo la pubblicazione delle Raccomandazioni di Sabatini42.
A mo’ di postilla, ci sia consentita una riflessione finale sull’argomento. Pur
consapevoli che molta strada deve ancora esser compiuta affinché sia raggiunta
una vera parità tra i sessi, ci chiediamo se la battaglia a favore dei morfemi femmi-
nili per i nomi di ruoli istituzionali e di professione possa e debba diventare una
sorta di nuova bandiera del femminismo. Altri e più importanti aspetti della vita,
professionale e privata, ci paiono più rilevanti a tale scopo. Di maggiore spessore
ci parrebbe piuttosto la sensibilizzazione sul rapporto tra uomini e donne ai vertici
della società, nelle sue varie espressioni, economica, politica, giuridica, accademi-
ca; e in parallelo, last but not least, sul versante della vita domestica e familiare.

40 
Raffaele Simone, Le donne tra desinenze e discorsi, in «Italiano e oltre», II (1987), pp. 99-
100.
41 
Ada Valentini, Il sesso delle parole, ivi, pp. 108-112.
42 
Sabatini, Il sessismo, cit.

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