Sei sulla pagina 1di 1

Femminicidio

La lingua è una porta stretta ma rivela molto della cultura che esprime. E la fatica che fa
oggi la nostra lingua a riconoscere la violenza contro le donne dice molto del nostro paese:
non riusciamo a tradurre adeguatamente Stalking e solo da poco siamo riusciti a far entrare
nel lessico corrente la forma ‘Femminicidio’, già da tempo adottata delle organizzazioni
internazionali.

Il rifiuto di nominare le forme di una violenza che ha distinto l’Italia nel mondo, portando
alla “visita” della rapporteur dell’ONU Rashida Manjoo, esprime in maniera eloquente la
resistenza a misurarsi con un crimine che interroga direttamente gli equilibri civili di un
paese.

“Ciò che non si dice non esiste”, ha scritto Cecilia Robustelli, storica della lingua italiana:
parlare di femminicidio equivale a poter nominare il fatto che questo crimine attiene al
genere, ossia che muoiono donne – ma anche bambine e ragazze – e muoiono per mano
maschile.

Le parole sono cose, non da oggi. La disputa sulla qualità estetica di un vocabolo non può
impedire di vedere cosa c’è dietro. Una parola che non ci piace evoca qualcosa che non ci
piace: non respingiamo la sequenza delle sillabe, ma il referente di quel vocabolo: le donne
che muoiono e gli uomini che “le amavano” e le uccidono. Non c’è “ma” tra l’amore e la
morte in queste cronache: sono delitti “passionali”, l’omicida “aveva paura di essere
tradito” o “era stato abbandonato”. L’amore “malato”, offeso o rifiutato, diviene una
movente, a dispetto delle leggi, ancora largamente tollerato.

Chiediamoci allora quanto ha pesato il racconto e l’esaltazione di una disponibilità continua,


che ha segnato il racconto delle donne degli ultimi venti anni. E chiediamoci quanto ha
pesato il lungo silenzio – trasversale – maschile che ha accompagnato quel racconto.

Manjoo lo ha scritto con grande chiarezza nel suo rapporto alle Nazioni Unite: la violenza si
presenta in queste forme e con questi numeri quando una cultura la tollera e le leggi non
riescono a contrastarla. E’ necessario, allora, che il nostro quadro legislativo si attrezzi a
riconoscere il crimine del femminicidio, della persecuzione e dell’abuso, in tutta la loro
gravità e faccia cadere il velo che ancora copre la violenza domestica. La Commissione
Esteri del Senato si sta muovendo per la ratifica “secca” del Trattato di Istambul: davvero ci
si augura che accada e che dalle parole si passi ai fatti, sostenendo le reti di aiuto e
prevenzione della violenza. Ma non basta: perché cambi l’aria è necessario rompere la rete
di complicità che sostiene la violenza e ricostruire un senso comune, dove gli uomini non
amino le donne più della loro vita, riprendendo il titolo del bel dialogo di Cristina
Comencini. Per farlo, come abbiamo scritto a maggio, quando abbiamo lanciato l’appello
“Mai più complici” gli uomini devono prendere parola e rompere il muro del silenzio
complice che arriva fino a noi. La violenza esce dalla vita delle donne se donne e uomini
trovano insieme la forza di stanarla e respingerla, se si trovano forme e parole nuove che
esprimano il rispetto, il coraggio e la libertà.

Potrebbero piacerti anche