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Saggi
LUCIANO VIOLANTE
Colpire per primi
La lotta alla mafia spiegata ai giovani
www.solferinolibri.it
ISBN 978-88-282-0341-4
Prima edizione: ottobre 2019
Colpire per primi
A Beatrice e Lorenzo
1
Parliamo di persone
Spesso voi e i vostri compagni mi avete chiesto di parlarvi delle persone
che hanno combattuto la mafia. Marcello mi ha domandato: «Se dovesse
allestire una galleria dell’antimafia con i ritratti delle personalità che più
l’hanno colpita chi non dovrebbe mancare?». Gli rispondo adesso. Sarebbe
una galleria lunga chilometri; non dovrebbe mancare nessuno. Non devono
di sicuro mancare gli uomini e le donne della polizia di Stato, dei
carabinieri, della guardia di finanza, della polizia penitenziaria che, dopo
mesi e mesi di ricerche ininterrotte, senza domeniche, senza Pasque e senza
Natali hanno scoperto piani omicidi, sequestrato beni per milioni di euro,
arrestato pericolosi capimafia, salvato vite umane. Non devono mancare
giornalisti, spesso di testate minori, di provincia, che denunciano e
documentano il malaffare mafioso: qualcuno è stato ucciso per questo, altri
sono in pericolo.
Nel corso di un convegno indetto dalla Rai il 16 maggio 2018 è risultato
che in quel momento erano ben diciannove i giornalisti sotto scorta. Non è
un caso. Per combattere la mafia bisogna conoscere i personaggi e i delitti,
e perché si conosca è necessario informare. La mafia, invece, vuole che cali
il silenzio sui suoi traffici e sui suoi crimini, perciò minaccia e spesso
uccide chi fa informazione. I giornalisti informano, tengono desta
l’attenzione, svelano fatti, nomi, connessioni. Per questa ragione molti
giornalisti sono gravemente minacciati e molti sono stati uccisi per i loro
articoli e per le loro inchieste.
Chi voglia approfondire la storia della difesa delle libertà deve sapere
che cosa hanno fatto concretamente tutti coloro che hanno contribuito a
difendere i nostri diritti aggrediti dalla violenza, dalla intimidazione e dalla
corruzione. Non solo i più noti, ma anche quelli che lo sono meno ma
altrettanto meritevoli di memoria e di rispetto. L’elenco è lungo, proprio
perché, per fortuna, in tanti si sono impegnati e si impegnano per
difenderci. Ho scelto alcuni personaggi che secondo la mia opinione e le
mie conoscenze risultano meno noti o addirittura dimenticati.
Federica Angeli, cronista de «la Repubblica», ha smascherato la mafia
di Ostia, dove vive con il marito e i figli. I suoi articoli, chiari e
documentati, hanno scatenato l’ira della mafia del posto che l’ha minacciata
più di una volta. Nel 2013, dopo un suo reportage sui gruppi criminali di
Ostia, è stata aperta un’inchiesta giudiziaria che ha portato all’arresto di
cinquantuno persone. Federica Angeli continua a scrivere e a denunciare le
imprese criminali di persone legate alla famiglia Spada. Il 25 gennaio 2018,
in seguito alle indagini di polizia, sono state arrestate, con l’imputazione di
associazione mafiosa, trentadue persone legate a quella famiglia. Il 19
febbraio dello stesso anno la giornalista si è recata in tribunale per
testimoniare nel processo contro Armando Spada, uno dei capi del clan.
Vive sotto scorta dal luglio 2013.
Roberto Antiochia era un poliziotto di ventitré anni quando rinunciò alle
ferie per fare da scorta al vicequestore Ninni Cassarà, capo della sezione
«catturandi» della Questura di Palermo. Il 6 agosto 1985 accompagnò
Cassarà a casa, via della Croce Rossa 81. Nove uomini armati di fucili
mitragliatori, appostati su un edificio di fronte, spararono centinaia di colpi
contro Cassarà, Antiochia e l’altro agente, Natale Mondo. Cassarà e
Antiochia rimasero uccisi. Natale Mondo, che si era salvato, verrà ucciso il
14 gennaio 1988. La madre di Roberto, Saveria Antiochia, insegnante, ha
dedicato la sua vita all’educazione civile delle generazioni più giovani. È
stata una delle fondatrici del Circolo Società Civile di Milano, del
Movimento antimafia di Palermo e dell’associazione Libera. Ha parlato in
centinaia di scuole di tutta Italia per raccontare la lotta contro la mafia, i
valori della legalità e il sacrificio del figlio.
«Roberto» scrisse in una lettera aperta inviata all’allora ministro
dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, pubblicata da «la Repubblica» il 22
agosto 1985, «è morto nel volontario, disperato tentativo di dare al suo
superiore e amico Cassarà un po’ di quella protezione che altri avrebbero
dovuto dargli, in ben altra proporzione, sapendo quanto fosse preziosa la
sua opera e in quale tremendo pericolo fosse la sua vita.»
Rita Atria viveva a Partanna, un piccolo comune della provincia di
Trapani di circa diecimila abitanti. Il padre, Vito, apparteneva alla mafia
locale e venne ucciso in un agguato quando lei aveva undici anni. Nella
gerarchia mafiosa del paese il posto del padre venne preso da suo fratello
Nicola, che le confidò diversi importanti segreti del gruppo criminale. Nel
giugno 1991 anche Nicola Atria venne ucciso. Sua moglie, Piera Aiello,
presente all’omicidio del marito, denunciò gli assassini e decise di
collaborare con la polizia. Rita Atria, a soli diciassette anni, nel novembre
1991, seguì l’esempio della cognata. Il primo a raccogliere le sue
rivelazioni fu Paolo Borsellino (all’epoca procuratore di Marsala), al quale
la giovane si legò come a un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera,
insieme ad altre testimonianze, permisero di arrestare molti mafiosi di
Partanna, Sciacca e Marsala. Una settimana dopo la strage di via D’Amelio
Rita si suicidò a Roma, lanciandosi dal settimo piano di un palazzo di viale
Amelia, nel quartiere Tuscolano, dove viveva in segreto per sfuggire alla
vendetta. Era stato ucciso il suo giudice, l’unico che aveva capito il
conflitto interiore, tra gli affetti famigliari e la sete di giustizia. La madre,
che l’aveva ripudiata, dopo la sua morte distrusse la lapide a martellate.
Rita Atria non era una «pentita»: non doveva pentirsi di nulla. Era una
testimone. Scrisse nel suo diario: «Prima di combattere la mafia devi farti
un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te,
puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi
e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in
cui credevi, ma io senza di te sono morta».
Paolo Borrometi è un giornalista della provincia siciliana che con le sue
inchieste ha contribuito allo scioglimento del comune di Scicli e al
commissariamento per mafia di Italgas, la prima azienda quotata in Borsa
oggetto di un provvedimento di questo tipo da parte del Tribunale di
Palermo. Ha fatto inchieste giornalistiche sul mercato ortofrutticolo di
Vittoria, il più grande del Sud, sulla presenza della mafia a Siracusa, sulle
vie della droga dal porto di Gioia Tauro sino alla provincia di Ragusa, sui
rapporti tra mafia e politica nei comuni di Pachino e di Avola, sui rapporti
tra Cosa Nostra e la ’ndrangheta. Nell’agosto del 2019 gli è stato conferito
il premio Peter Meckler, edizione 2019, per il giornalismo «coraggioso ed
etico». Il premio è conferito dalla Craig Newmark Graduate School of
Journalism di New York. Per la prima volta il riconoscimento è stato
attribuito a un giornalista europeo. Il premio gli è stato assegnato perché, si
legge nella motivazione, «Paolo ha già pagato caro e continua a pagare con
costanti minacce alla sua vita per aver esposto il costo devastante delle
operazioni di mafia in un numero crescente di Paesi europei». Un
capomafia della sua zona, Giuseppe Vizzini, è stato intercettato mentre
informava i figli del piano organizzato per uccidere Borrometi: «Ogni tanto
un murticeddu vedi che serve! Per dare una calmata a tutti». Borrometi oggi
vive e lavora a Roma, sotto la protezione della polizia.
Giacomo Ciaccio Montalto era sostituto procuratore della Repubblica a
Trapani. Indagò sul sistema bancario della città, sulle sofisticazioni
vinicole, sul potente clan mafioso dei Minore. Scoprì che un collega,
Antonio Costa, aveva accettato 150 milioni dai Minore per «ammorbidire»
le indagini. Costa venne arrestato. Il 15 ottobre 1982, in una intervista per
Tg2 Dossier, Ciaccio Montalto spiegò che la lotta contro la mafia «finisce
per apparire come una guerra privata mentre in realtà è una guerra pubblica.
Ma siccome siamo in pochi… va a finire che le nostre conoscenze…
finiscono con il divenire un patrimonio personale. Tutto ciò finisce per
individualizzare [personalizzare, NdA] la lotta al fenomeno mafioso…
comunque il canale del riciclaggio passa necessariamente attraverso le
banche di cui il trapanese è pieno. Dai dati ufficiali sappiamo che a Trapani
ci sono più banche che a Milano». Venne ucciso nella sera del 25 gennaio
1983 mentre tornava a casa dall’ufficio. Non gli era mai stata assegnata una
scorta.
Pippo Fava fu direttore de «Il Giornale del Sud» dal quale venne
licenziato per i suoi articoli che denunciavano le collusioni mafiose di
imprenditori e politici di Catania. Fondò il mensile «I Siciliani», che
pubblicò inchieste coraggiose sui rapporti tra mafia, imprese e politica più
scottanti e documentate anche con foto che ritraevano personaggi eminenti
della città con boss mafiosi. Curò la sceneggiatura del film Palermo o
Wolfsburg, che vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino del 1980. Fu ucciso
il 5 gennaio 1984 da esponenti del clan Santapaola di Catania, poi
condannati all’ergastolo.
Mario Francese, giornalista de «Il Giornale di Sicilia», fu ucciso la sera
del 26 giugno 1979, mentre tornava a casa. Per l’omicidio, Totò Riina fu
condannato all’ergastolo; Leoluca Bagarella, esecutore materiale
dell’omicidio, Raffaele Ganci, Francesco Madonia, Michele Greco furono
condannati a trenta anni di reclusione. In una delle sentenze di condanna dei
suoi assassini, i giudici scrissero: «Mario Francese era un protagonista se
non il principale protagonista della cronaca giudiziaria e del giornalismo
d’inchiesta siciliano. Nei suoi articoli spesso anticipava gli inquirenti
nell’individuare nuove piste investigative. […] Costituiva un pericolo per la
mafia emergente proprio perché capace di svelarne il suo programma
criminale, in un tempo ben lontano da quello in cui è stato successivamente
possibile, grazie ai collaboratori di giustizia, conoscere la struttura e le
regole di Cosa Nostra».
Peppino Impastato fu assassinato a Cinisi, il suo paese, in provincia di
Palermo, il 9 maggio 1978, lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere
di Aldo Moro. Il corpo venne dilaniato da una carica di tritolo posta sui
binari della ferrovia Palermo-Trapani. L’attenzione dell’opinione pubblica
era concentrata sul dramma del leader della Democrazia cristiana e le
indagini, superficiali, si orientarono verso l’ipotesi di un attentato
terroristico consumato addirittura dallo stesso Impastato, o, in subordine, di
un suicidio «eclatante». Le cose stavano diversamente. Il padre di Peppino
era un piccolo capomafia del comune di Cinisi. La sorella aveva sposato
Cesare Manzella, un importante boss della zona, che sarà poi ucciso nella
sua Giulietta imbottita di tritolo. Peppino, sostenuto dalla madre, aveva
preso le distanze dalla famiglia. Fondò nel suo comune una emittente
privata, Radio Aut, molto seguita dai giovani. Nel corso delle trasmissioni
incitava all’impegno contro la mafia, faceva i nomi e i cognomi dei boss,
denunciava i loro affari e i loro crimini, prendeva in giro Tano Badalamenti,
il potente capomafia della zona chiamandolo «Tano seduto». L’11 aprile
2002 Tano Badalamenti è stato riconosciuto colpevole del suo omicidio e
condannato all’ergastolo. Il fratello, Giovanni Impastato, è impegnato nella
sensibilizzazione e nel contrasto alla criminalità organizzata. Se volete
capire cosa significa fare lotta alla mafia in un piccolo paese dove i boss
spadroneggiavano, invitatelo nella vostra scuola e fatevi raccontare la vita
di Peppino.
Giancarlo Siani, giornalista de «Il Mattino» di Napoli, fu ucciso il 23
settembre 1985, a ventisei anni, per i suoi articoli contro la camorra. Siani,
in alcuni suoi articoli, aveva rivelato che il clan Nuvoletta, alleato di Totò
Riina, e il clan Bardellino avevano tradito il boss Valentino Gionta,
«vendendolo» alla polizia. Agli occhi dei cittadini, degli altri boss
partenopei e di Cosa Nostra (di cui erano gli unici componenti non
siciliani), i Bardellino apparivano «infami», ossia coloro che, violando le
regole della mafia, intrattenevano rapporti con le forze dell’ordine.
Giancarlo Siani, inoltre, stava per pubblicare un libro sui rapporti tra
politica e camorra negli appalti per la ricostruzione dopo il terremoto in
Irpinia del 23 novembre 1980. I suoi assassini vennero individuati e
condannati dodici anni dopo l’omicidio.
Angelo Vassallo è stato sindaco di Pollica, in provincia di Salerno. Nel
2010 era stato eletto per la quarta volta alla guida del suo comune con il 100
per cento dei voti. Ambientalista convinto, ha sempre difeso il suo
territorio, una delle zone più belle dell’intero Mediterraneo, dalla voracità
degli speculatori. Il mare di Pollica è stato premiato più volte con le
prestigiose 5 vele di Legambiente e Touring Club. La sera del 5 settembre
2010 venne ucciso mentre rincasava alla guida della sua auto. Gli assassini
sono ancora ignoti, ma Angelo Vassallo viene ricordato ogni anno il 21
marzo nella Giornata della Memoria e dell’impegno di Libera, insieme a
tutte le vittime delle mafie.
Non arrendersi
Molti di coloro che hanno combattuto la mafia sono stati uccisi; quasi
sempre i loro assassini sono stati individuati, arrestati, condannati e le loro
ricchezze sono state confiscate. Molti, inoltre, hanno preso il posto degli
uccisi. Questa è la forza di una democrazia: non arrendersi alla violenza.
Dopo la strage di Capaci, Ilda Boccassini, pubblico ministero (pm) a
Milano, andò a Caltanissetta, su sua richiesta, per partecipare alle indagini
sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Antonino Caponnetto prese il posto di Rocco Chinnici come capo
dell’Ufficio istruzione, nel novembre 1983. L’attività del suo Ufficio portò
all’arresto di più di quattrocento criminali legati a Cosa Nostra, culminando
nel maxiprocesso di Palermo. Le condanne furono quasi tutte confermate in
Cassazione. Per la mafia siciliana fu il primo durissimo colpo dopo decenni
di sostanziali impunità. Ne seguiranno molti altri.
Gian Carlo Caselli era presidente della Corte d’assise di Torino. Chiese
di dirigere la Procura di Palermo dopo le stragi di Capaci e di via
D’Amelio. Rimase sette anni. La Procura, sotto la sua guida, si distinse per
efficienza: sequestrò beni mafiosi per circa 10 miliardi di euro; sventò
decine di attentati; sequestrò interi arsenali di armi, compresi alcuni missili;
ottenne 650 condanne all’ergastolo. Tra le molte inchieste condotte dal suo
ufficio fece particolare scalpore quella che accusava l’ex presidente del
Consiglio Giulio Andreotti di partecipazione ad associazione mafiosa. La
Cassazione stabilì, con sentenza definitiva, che Andreotti poteva essere
ritenuto colpevole solo per i comportamenti tenuti sino al 1980, ma il reato
era prescritto. L’ex presidente del Consiglio fu assolto, invece, per i
comportamenti tenuti dopo quella data.
Il posto di Giacomo Ciaccio Montalto venne immediatamente ricoperto,
su sua richiesta, da Carlo Palermo, sostituto procuratore a Trento. Palermo
era diventato noto al grande pubblico per un’indagine su un ampio traffico
di armi e droga, che venne avviata nel 1980 in seguito al sequestro a Trento
di 110 chili di morfina base, destinati a criminali che garantivano i contatti
tra i trafficanti turchi e i mafiosi siciliani. Le indagini erano state condotte
d’intesa con Giacomo Ciaccio Montalto che aveva incontrato Carlo
Palermo a Trento poche settimane prima di essere ucciso. Carlo Palermo,
arrivato a Trapani, individuò una raffineria di eroina nei pressi di Alcamo,
quella che cercava il capitano Basile. La scoperta fece comprendere che la
Sicilia era diventata una piazza di esportazione, non di importazione,
dell’eroina. Ne derivava il ruolo centrale di Cosa Nostra nel traffico
internazionale di droga. Decisero di ucciderlo con una carica di cinquanta
chili di esplosivo nascosto in un bidone della spazzatura posto sul
marciapiede a un incrocio in località Pizzolungo che Palermo percorreva in
macchina ogni mattina per recarsi in ufficio. Un attimo prima
dell’esplosione la sua macchina venne superata da un’utilitaria guidata dalla
signora Barbara Asta con a bordo i suoi due bambini. L’utilitaria fu
investita in pieno dall’esplosione. La mamma e i due bambini rimasero
uccisi sul colpo. Frammenti dei loro corpi si sparsero dappertutto. Carlo
Palermo fu ferito in modo non grave. Dopo l’attentato si raccolsero a
Trapani alcune centinaia di firme, non contro la mafia, ma per far
allontanare Carlo Palermo dalla città. Carlo restò a Trapani sino al 1989 e
concluse le sue inchieste sul traffico di stupefacenti.
Roberto Saviano spende tutte le sue energie nel prezioso lavoro di
informazione per far crescere una coscienza civile contro la mafia. Ha
scritto libri importanti e scrive articoli documentati e precisi. Vive sotto
scorta per le minacce di omicidio, ripetute e circostanziate, che riceve da
tempo. Aggiungo i nomi di alcuni eccellenti giornalisti che si oggi
occupano di mafia in modo onesto e competente, come Lirio Abbate,
Giovanni Bianconi, Attilio Bolzoni, Giorgio Frasca Polara, Francesco La
Licata. Se ne potrebbero citare molti altri, per fortuna; qui indico alcuni di
quelli che, a mio avviso, nel corso del tempo si sono distinti per serietà e
rigore professionale.
La svolta di La Torre
Una figura forse da voi meno conosciuta, ma che ha costituito uno
spartiacque decisivo nella lotta contro la mafia è quella di Pio La Torre.
Pio nacque nel 1927 a Palermo in una famiglia di contadini poveri.
Voleva studiare, ma per la famiglia quello sembrava un lusso non
compatibile con le condizioni economiche. Tuttavia, contro il volere del
padre, ma sostenuto dalla madre, Pio riuscì comunque a frequentare le
elementari e poi l’istituto tecnico. Nel 1945 superò con la media dell’otto
gli esami dell’ultimo anno dell’istituto tecnico e prese contemporaneamente
la maturità scientifica. Si iscrisse alla Cgil e al Partito comunista. Diventò
sindacalista dei contadini. Cominciò fin da ragazzo a combattere la mafia e
a denunciare i capi delle diverse famiglie mafiose. Gli bruciarono la casa.
Nel 1950 organizzò una grande manifestazione per l’applicazione delle
leggi che assegnavano ai contadini le terre incolte dei feudi. Molti
proprietari si opposero e usarono bande di mafiosi per impedire l’ingresso
dei contadini nei feudi. La Torre fu arrestato con l’accusa, infondata, di aver
usato violenza contro un ufficiale dei carabinieri. Dopo diciassette mesi di
carcere all’Ucciardone venne assolto dall’accusa più grave e condannato a
quattro mesi e quindici giorni di reclusione per occupazione abusiva delle
terre.
Eletto alla Camera nel 1972, si impegnò per l’approvazione di una
proposta di legge che fissava due principi diventati i cardini dell’impegno
contro la mafia: la partecipazione a un’associazione mafiosa costituisce
reato, indipendentemente dai reati commessi dai singoli; le ricchezze della
mafia vanno confiscate. La legge fu approvata il 13 settembre 1982 da un
Parlamento convocato d’urgenza dopo l’assassinio di Carlo Alberto dalla
Chiesa (3 settembre 1982). Il suo omicidio (30 aprile 1982) non era stato
sufficiente.
L’articolo 1 della sua proposta di legge (oggi articolo 416 bis del Codice
penale) punisce con la reclusione da tre a sei anni chiunque fa parte di
un’associazione mafiosa; i capi sono puniti con la reclusione da quattro a
nove anni. La novità è costituita dalla definizione di associazione mafiosa:
«L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si
avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere
delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il
controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e
servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per
altri».
I requisiti sono: l’esistenza della forza intimidatrice del vincolo
mafioso; la condizione di assoggettamento o di omertà, derivante da quella
forza intimidatrice; l’utilizzazione delle intimidazioni e
dell’assoggettamento dei cittadini per realizzare vantaggi ingiusti di ogni
tipo. Prima di quella legge la mafia non era considerata reato. Il
cambiamento può essere reso particolarmente chiaro leggendo un brano di
una sentenza degli anni Sessanta:
«Non può dirsi sic et simpliciter che la mafia sia un’associazione per
delinquere… può tranquillamente affermarsi che la mafia, più che un
vincolo associativo, è uno stato d’animo, una sorta di “ipertrofia” dell’io, un
modo di sentire individualistico… Ne consegue che l’essere mafioso non
vuol dire essere associato per delinquere».
Il nuovo articolo 416 bis consentiva, finalmente, di superare questo
condiscendente sociologismo e di colpire la mafia ancora prima che si
scoprissero i singoli delitti commessi. La legge, inoltre, prevedeva per la
prima volta l’obbligo di compiere indagini patrimoniali nei confronti di
persone sospette di appartenere a una associazione mafiosa, per accertare
l’entità del loro patrimonio e la proporzionalità rispetto al reddito legale del
proprietario. Se il valore dei beni di cui l’imputato dispone è sproporzionato
rispetto al reddito dichiarato o all’attività svolta, oppure quando si può
ritenere, sulla base di sufficienti indizi, che abbiano provenienza delittuosa,
quei beni vengono sequestrati. Verranno poi confiscati, tolti cioè
definitivamente dalla disponibilità del proprietario, se questi non riesce a
provarne la origine legittima.
Per La Torre, la lotta alla mafia non si rivolge solo contro il latifondo, il
clientelismo mafioso e la corruzione. La mafia toglie libertà, svuota i valori
civili e soffoca lo sviluppo. Pertanto l’impegno antimafia assume un
carattere generale, diventa lotta per la democrazia e per l’economia legale.
L’azione di Pio La Torre costituì una rottura nei confronti delle due culture
che allora dominavano in Sicilia: la cultura della rassegnazione e la cultura
della convivenza. La cultura della rassegnazione era soprattutto la cultura
dei ceti popolari; la mafia per loro era troppo forte, troppo potente, troppo
aggressiva. E poi in un sistema pubblico inefficiente, come quello siciliano,
in cui i diritti erano degradati a favori, per la povera gente poteva sempre
tornare utile disporre di un «protettore».
La cultura della convivenza con la mafia, invece, era tipica dei ceti più
forti, quelli che traevano vantaggi e protezione. Lo dimostrarono alcune
dichiarazioni del capomafia Gaspare Mutolo, diventato collaboratore di
giustizia dopo la strage di Capaci. Con la sua prosa un po’ zoppicante,
spiegò alla Commissione antimafia, il 9 febbraio 1993, a meno di un anno
dalle stragi, come andavano le cose in tempi di convivenza tra mafia e
poteri legali: «L’unica preoccupazione poteva essere la polizia di Palermo;
se qualche pattuglia sprovvedutamente si allontanava, passava da una certa
zona e magari ci incontravamo con le macchine. Anche in questo caso
prima di tutto era difficile conoscerci e poi si trattava sempre di zone dove
anche se venivano tre poliziotti a fare un certo pattugliamento e vedevano
una macchina con delle persone a bordo, pure se vedevano che c’era un
latitante non è che si fermassero».
Altro esempio scandaloso, frutto di questa convivenza, riguarda
Tommaso Buscetta: da latitante abitava a Palermo nella propria casa di via
della Croce Rossa 1 e mandava i figli a una scuola pubblica registrati con il
loro vero cognome. Nessuno lo cercava.
Ecco perché considero il lavoro svolto da Pio La Torre un decisivo
spartiacque tra il prima e il dopo, tra la fase della convivenza e la fase
dell’impegno.
La mafia, le mafie
Contro la mafia
Abbiamo lavorato in modo efficace nella lotta contro la mafia? In alcuni
casi sì, in altri meno. Nei confronti di Cosa Nostra siciliana siamo stati
davvero incisivi. Come già ricordato, sono stati arrestati e sono morti in
carcere Totò Riina e Bernardo Provenzano, i due capi indiscussi,
responsabili di decine di stragi e omicidi. Più di cento mafiosi di Cosa
Nostra sono in carcere, in reparti di massima sicurezza, condannati
all’ergastolo, o a pene detentive molto lunghe. Solo uno dei capi è ancora
latitante, Matteo Messina Denaro, ma sono certo che prima o poi verrà
catturato, a meno che qualcuno dei suoi non lo uccida prima.
Alcuni dati sono eloquenti: gli omicidi di Cosa Nostra sono stati 226 nel
1988, 377 nel 1989, 557 nel 1990, 718 nel 1991. Il 1992 fu tragicamente
segnato dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Dopo quella data e sino a
oggi, in ventisette anni, sono stati commessi complessivamente circa 60
omicidi, meno di tre all’anno. È sempre grave la soppressione di una vita
umana; ma se gli omicidi passano da 718 a meno di 3 all’anno, significa che
molte vite sono state salvate, grazie all’azione antimafia e alla crescente
sensibilizzazione dei cittadini.
Sono gli stessi capimafia a confermarlo: «Purtroppo qua [a Marsala,
NdA] le batoste sono state a ruota continua e tra l’altro non accennano a
finire; credo che alla fine arresteranno anche le sedie» scrive il 1° febbraio
2004 Matteo Messina Denaro in un biglietto destinato a Bernardo
Provenzano. Anche Salvatore Lo Piccolo, capo del mandamento
palermitano, in un messaggio inviato allo stesso Provenzano, più di un anno
dopo, lamenta: «Siamo arrivati al punto che siamo quasi tutti rovinati e i
pentiti che ci hanno consumato girano indisturbati. Purtroppo ci troviamo in
una situazione triste e non sappiamo come nasconderci».
Meno efficaci siamo stati invece nei confronti della ’ndrangheta, la
mafia calabrese, molto presente nel Centro e nel Nord del Paese, Lazio,
Emilia-Romagna, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto. Per lunghi anni è
stata una mafia impermeabile alle indagini perché divisa in gruppi separati e
comunicanti tra loro solo attraverso i capi. La maggior parte degli aderenti,
inoltre, era imparentata tra loro. Per questa ragione era difficile che ci
fossero dei pentiti perché collaborare significava chiamare in causa genitori,
fratelli, persone legate da vincoli di parentela. Le indagini, quindi,
seguivano prevalentemente metodi tradizionali: tendevano a concentrarsi
sulle responsabilità per i singoli delitti e non miravano ricostruire il
complesso dei rapporti criminali, finanziari, imprenditoriali e politici della
’ndrangheta.
Il clima però è cambiato per effetto della strategia messa in campo da
alcuni eccellenti pubblici ministeri: Giuseppe Pignatone, procuratore della
Repubblica a Reggio Calabria dal 2008 al 2012 e Michele Prestipino, suo
vice. Di particolare efficacia anche il lavoro svolto da Nicola Gratteri,
procuratore della Repubblica a Catanzaro dal 2016.
Reggio Calabria è la capitale della ’ndrangheta, la Palermo della
Calabria. Pignatone e Prestipino venivano appunto da Palermo e avevano
svolto decisive indagini in quella città, seguendo il metodo dell’aggressione
alla mafia in quanto tale, indipendentemente dai singoli delitti, e della
ricomposizione dei frammenti apparentemente secondari che emergevano
da altre inchieste, metodo inaugurato da Borsellino e Falcone. La
’ndrangheta aveva abbandonato le vecchie separazioni e aveva assunto un
modello unitario e centralizzato, come quello della mafia siciliana.
Bisognava rispondere in modo altrettanto organizzato e unificato, come si
era fatto a Palermo. Sotto la guida di Pignatone e Prestipino la Procura di
Reggio Calabria cominciò a fare una lettura unificante di tutti gli elementi
emersi nelle diverse inchieste, anche nelle città del Nord, Milano, Torino,
Genova, aree nelle quali la ’ndrangheta era ed è presente e radicata.
Conversazioni intercettate, documentazione sequestrata, deposizioni
testimoniali, di per sé poco significative, studiate con l’attenzione rivolta
all’individuazione dei collegamenti tra fatti e tra persone fornirono il
quadro reale dell’organizzazione mafiosa calabrese e delle sue diramazioni
in tutta Italia. La Corte d’appello di Reggio Calabria in una sentenza del 4
maggio 2004 rilevava che era in corso nella ’ndrangheta «un processo
evolutivo di tipo piramidale, proteso in direzione di un maggiore
accentramento, soprattutto in relazione alle decisioni più importanti e
delicate in vista del raggiungimento di quegli obbiettivi tipici
dell’associazione mafiosa, e anche al fine di garantire la sopravvivenza e la
prosperità dell’istituzione ’ndrangheta».
Il gup (giudice dell’udienza preliminare) di Reggio Calabria in una
sentenza dell’8 marzo 2012, otto anni dopo quella appena citata, rilevava
che il processo evolutivo stava raggiungendo il suo obbiettivo: «La
’ndrangheta non può più essere vista in maniera parcellizzata, come un
insieme di cosche locali, di fatto non coordinate, i cui vertici si riuniscono
saltuariamente… ma come un “arcipelago” che ha una sua organizzazione
coordinata ed organi di vertice dotati di una certa stabilità e di specifiche
regole».
In una conversazione intercettata, il capo della cosca di Singen in
Germania, nel Baden-Württemberg, dopo aver riferito di alcune iniziative
individuali prese da un altro mafioso, avverte che non si possono trasgredire
le regole della verticalizzazione della ’ndrangheta: «Se vuole fare, lo fa,
però ci devono essere pure quelli del Crimine [il gruppo di comando
centrale, NdA] presenti… perché lui dipende da là, come dipendiamo tutti,
senza ordine di quelli lì, sotto non possono fare niente».
Dalle indagini relative a un altro processo risultò l’esistenza di un
conflitto tra una «locale» (struttura territoriale della ’ndrangheta) che aveva
sede in Svizzera e un’altra che aveva sede in Germania. Per dirimere la
questione viene investito Domenico Oppedisano, capo della ’ndrangheta di
Rosarno. Un conflitto che riguardava cosche in due Stati diversi veniva
risolto in provincia di Reggio Calabria, una piccola provincia con un peso
economico e politico poco rilevante che però riusciva a dirigere la vita di
persone e organizzazioni radicate in realtà così diverse e distanti.
Nelle zone non tradizionali del Nord e del Centro non ci sono, in
genere, insediamenti che visibilmente impongono assoggettamento e
omertà. Con i patrimoni accumulati, in un contesto caratterizzato da carenza
di risorse pubbliche e dalla difficoltà di accedere al credito da parte di
privati, i capi di quelle organizzazioni devono solo attendere che chi ha
bisogno si faccia vivo e chieda finanziamenti per superare mancanza di
liquidità e di credito bancario, per costruire relazioni con la politica locale
dirette a ottenere contratti pubblici, beni e servizi di vario genere. In questi
casi non ci sono intimidazioni né manifestazioni violente; funziona la
capacità di fare rete, di mettere in relazione soggetti diversi per uno scopo
comune. Naturalmente, alla fine della strada c’è sempre la capacità di
incutere timore, di ricorrere alla minaccia, di usare violenza. Una riserva
che può sempre scattare al momento opportuno.
Consiglio a chi di voi volesse comprendere meglio questi meccanismi di
leggere un libro-verità di un imprenditore torinese che racconta come si è
trovato lentamente ma progressivamente soffocato nelle spire della
’ndrangheta: Le mie due guerre di Mauro Esposito.
Contro la ’ndrangheta
Aver scoperto la struttura unitaria della ’ndrangheta ha consentito di
aggredire con efficacia l’intera organizzazione mafiosa perché ha permesso
di dare un preciso significato a ogni elemento di prova. Ogni
intercettazione, ogni documento, ogni assegno costituiva il capo di una
matassa da dipanare con pazienza, sino al vertice dell’organizzazione.
Le indagini che hanno conseguito i risultati più significativi, confermati
nei diversi gradi di giudizio, sino alla Cassazione, sono quelle che, per la
parte che si è svolta a Reggio Calabria sono conosciute come «Crimine» e
per la parte relativa a Milano sono conosciute come «Infinito». I due
processi hanno avuto nei confronti della ’ndrangheta lo stesso effetto
demolitorio che ha avuto il maxiprocesso del 1986 contro Cosa Nostra.
Sono state pronunciate centinaia di condanne, confiscate ricchezze per
diversi milioni di euro, scoperti i rapporti con uffici pubblici e con settori
del mondo politico.
Le reazioni non si fecero attendere. A Reggio Calabria, grazie a una
telefonata anonima, venne scoperto un bazooka destinato a Giuseppe
Pignatone.
Ho accennato a rapporti tra politica e ’ndrangheta. Ecco un esempio: un
candidato alle elezioni regionali del 2010 va a casa di un capo della
’ndrangheta e chiede che gli vengano assicurati un tot di voti. Il capo chiede
in contropartita che il fratello detenuto venga trasferito in un carcere più
vicino a casa.
Al suddetto politico un esponente della stessa cosca fa presente:
«Quando io sposo una causa io e gli amici miei diamo il massimo. Nello
stesso tempo, poi non dico che pretendiamo, perché non è nella mia natura e
di chi mi rappresenta, più grande, o di chi mi ha preceduto… però
desidereremmo avere proprio quell’attenzione per come poi ce la
accattiviamo [meritiamo, NdA] per simpatia… ma per amicizia, prima di
tutto» (queste citazioni sono tratte dal libro scritto da Giuseppe Pignatone e
Michele Prestipino, Il contagio. Come la ’ndrangheta ha infettato l’Italia).
Contro la camorra
La camorra è la mafia più violenta e quella con il maggior numero di
affiliati. Napoli ha il primato del numero di omicidi per 100.000 abitanti. La
Direzione investigativa antimafia (Dia) ha raccolto i dati relativi ai
destinatari delle ordinanze di custodia cautelare dal 1992 al 31 dicembre
2018, dai quali risulta che il numero più elevato di arrestati è accusato di
appartenere a organizzazioni camorristiche. Non tutti i destinatari,
naturalmente, potrebbero essere colpevoli, ma è presumibile che il tasso di
errore sia simile in tutti i casi e pertanto il quadro resta attendibile.
Organizzazioni Arrestati
Cosa Nostra 2.139
Camorra 3.167
’Ndrangheta 2.796
Mafie pugliesi 802
Altre 1.597
Totale 10.501
Le mafie in Puglia
La mafia pugliese è comunemente considerata la quarta mafia, dopo Cosa
Nostra, ’ndrangheta e camorra. Come spiega la Commissione antimafia
presieduta da Rosy Bindi, nel rapporto finale del febbraio del 2018, è stata
tradizionalmente identificata con la Sacra corona unita (Scu). Questa
organizzazione nacque nel 1983 nel carcere di Bari a opera di alcuni
delinquenti comuni che intendevano opporsi all’avanzata in Puglia della
camorra guidata da Raffaele Cutolo, un criminale campano, oggi
condannato a dieci ergastoli e rinchiuso in un carcere di massima sicurezza.
Cutolo negli anni Settanta costruì una potente organizzazione di carattere
verticistico simile a Cosa Nostra, la Nuova camorra organizzata (Nco). La
Scu tentò di imporre un dominio regionale, ma poi restrinse l’influenza alle
province di Brindisi e Lecce. Venne definitivamente liquidata come
organizzazione unitaria con un processo che iniziò nel 1991 a Lecce e si
concluse in Cassazione il 31 ottobre 2001 con trentadue pesanti condanne
definitive.
Tuttavia, per la criminalità pugliese è opportuno parlare di mafie, al
plurale. In Puglia, infatti, le organizzazioni mafiose non hanno né hanno
mai avuto un vertice regionale; si sono radicate soprattutto nella provincia
di Foggia e di Brindisi, ma sono presenti anche a Bari e a Lecce come
bande gangsteristiche, che si occupano del controllo del territorio, del
traffico di stupefacenti, della prostituzione e delle estorsioni, ma non
sembra abbiano rapporti con la politica e con la pubblica amministrazione.
La frantumazione è resa con chiarezza dal numero delle inchieste
giudiziarie, dai nomi un po’ strani: Pandora, Attila 2, Nel nome del Padre.
Non c’è un’inchiesta principe, come il maxiprocesso di Palermo o
l’inchiesta Crimine-Infinito nei confronti della ’ndrangheta. Ciascuna
inchiesta riguarda un’area particolare – Bari, Brindisi, Foggia, Lecce o
Taranto –, ciascuna con le proprie caratteristiche. Le organizzazioni della
provincia di Brindisi, per esempio, nascono dal contrabbando di tabacchi.
Le vecchie vie del tabacco sono oggi utilizzate per altri traffici. Il 27 marzo
2018 vennero sequestrate nel porto di Brindisi 13.821 bottiglie di prosecco
prodotte in Bulgaria, provenienti dalla Grecia, presentate come prodotto
italiano. Tanto le più recenti Commissioni antimafia quanto i rapporti della
Dia segnalano lo sgretolamento delle diverse organizzazioni per effetto
delle inchieste, degli arresti, dei sequestri e delle confische. Oggi, in Puglia,
la mafia più pericolosa opera nel foggiano. Secondo l’ultima relazione della
Dia nella zona operano 31 clan, impegnati nel traffico di droga e nelle
estorsioni che si combattono ferocemente per conquistare nuove fette di
territorio. Gli omicidi sono frutto di questa guerra permanente di tutti contro
tutti. La provincia di Foggia è la seconda d’Italia per estensione, con
sessantun comuni, al 99° posto su 107 nella graduatoria del pil pro capite,
quindi tra le più povere d’Italia. La tradizione è quella della ferocia. Gli
omicidi nella maggior parte dei casi hanno un tratto comune: gli assassini
sparano al viso della vittima, cancellandone le sembianze. Tra il 2017 e il
2018 si è registrata la media di un omicidio a settimana, una rapina al
giorno, un’estorsione ogni quarantotto ore.
La relazione conclusiva del 3 marzo 2015 della Commissione
parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle intimidazioni nei confronti
degli amministratori locali ha fissato la propria attenzione su questo
fenomeno: «Particolarmente preoccupante la situazione nel foggiano. […]
Soprattutto da alcune audizioni è emerso che nella regione, e in particolare
in alcune aree, si manifestano forme di criminalità organizzata non
percepite come tali e non riconosciute ancora per via giudiziaria e che,
nonostante vaste e ripetute operazioni di polizia nei confronti di tali gruppi
criminali, tendono ad autoalimentarsi in un contesto sociale fortemente
omertoso che stenta a riconoscere il fenomeno nella sua gravità» (p. 134).
Coerentemente, la presidente di quella Commissione, la senatrice Doris
Lo Moro, avendo acquisito nel corso del sopralluogo a Foggia le
dichiarazioni particolarmente allarmate del questore della città, inviò alla
collega Rosy Bindi, presidente della Commissione antimafia, il resoconto
stenografico della audizione del questore, segnalando l’opportunità di
prestare particolare attenzione al fenomeno mafioso nella provincia di
Foggia.
Sull’arretratezza storica delle zone dove è presente questa mafia sono
significativi i due brani che seguono.
«A Foggia, a Cerignola, a San Marco in Lamis havvi un ceto di
popolazione, addimandato col nome di terrazzani, che non possiede
assolutamente nulla. […] Nella sola città di Foggia i terrazzani assommano
ad alcune migliaia […] e molta gente che non sa come fare per lucrarsi la
vita. “I terazzani e i cafoni” ci diceva il direttore del demanio e tasse della
provincia di Foggia “hanno pane di tal qualità che non ne mangerebbero i
cani.”» Il brano fa parte della relazione sulle condizioni economiche e
sociali della provincia di Foggia verificate nella seconda metà
dell’Ottocento dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul
brigantaggio nelle province napoletane. La relazione fu illustrata
dall’onorevole Giuseppe Massari davanti alla Camera dei deputati nelle
sedute segrete del 3 e 4 maggio 1863.
Il secondo brano è stato scritto nel 2018, 155 anni dopo, dalla
Commissione parlamentare antimafia: «La solidità strutturale [delle
organizzazioni mafiose della provincia di Foggia, NdA] appare derivare da
una impenetrabilità propria del contesto sociale in cui operano tali gruppi,
caratterizzato da arretratezza culturale, omertà e illegalità diffusa […]
fondate sulla forza che spesso si trasforma in pura ferocia, con vendette e
punizioni mutuate dalle più arcaiche comunità agricolo-pastorali».
Colpisce che a distanza di più di un secolo e mezzo per la stessa zona
del Mezzogiorno, visitata da commissioni «cugine», sono cambiate le
parole ma le analisi sono drammaticamente simili.
La relazione del 1863 indicava come rimedi: «La diffusione della
istruzione pubblica, l’affrancazione delle terre, l’equa composizione delle
questioni demaniali, la costruzione di strade, le bonifiche di terre paludose,
l’attivazione dei lavori pubblici, il miglioramento dei boschi, tutti quei
provvedimenti, insomma, che, dando impulso vigoroso ai miglioramenti
sociali trasformino le condizioni economiche».
Una commissione del Csm dopo una visita effettuata il 15 settembre
2017 presso il Tribunale di Foggia, dopo aver segnalato la capacità di quella
mafia di condizionare l’agricoltura, l’edilizia e il turismo della provincia,
indicava, come nel 1863, la necessità di interventi sociali, economici e
culturali per rimuovere i fattori costitutivi di quella mafia. Però qualcosa si
muove non solo nella Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Bari,
competente per la provincia di Foggia, che sta procendo ad arresti e
sequestri. Il 9 agosto 2017 furono uccisi a San Marco in Lamis Luigi e
Aurelio Luciani, due agricoltori, testimoni involontari di un omicidio frutto
di un regolamento di conti tra clan rivali. Le loro mogli, Arcangela e
Marianna, non si sono chiuse in casa a piangere i loro morti, ma parlano
nelle scuole. «Andiamo in giro» racconta Arcangela a «La Stampa», il 10
agosto 2019, «spieghiamo che quel muro di omertà non ci protegge e finché
continueremo a far finta di niente, tutti saremo potenzialmente in pericolo.»
Altre mafie
Le inchieste e i giornali parlano sempre più spesso di nuove mafie: mafia
romana, mafia di Ostia, mafia delle zone pontine; sono inoltre molte e
preoccupanti le presenze mafiose, in particolare della ’ndrangheta, nelle
regioni del Nord. Effettivamente nel Lazio, da Ostia verso il Sud sono
presenti insediamenti criminali che controllano il territorio, impongono
soggezione e sudditanza, condizionano la vita economica e le relazioni
politiche. Ma non agiscono indisturbati, anzi.
Le inchieste su Roma, Ostia e sul litorale pontino hanno prodotto
condanne, sequestri e confische di beni. Nessuno è stato a guardare, ma
resta una forte preoccupazione per la capacità di condizionamento e la
spietatezza di queste organizzazioni. In particolare le inchieste della Dda di
Roma hanno accertato che esse hanno due fronti connessi, ma distinti. Il
primo è quello puramente criminale che si dedica al traffico di droga,
all’usura, alle estorsioni, al gioco d’azzardo e alle slot machine. Questo
fronte attraverso la violenza e le intimidazioni riesce a dominare il territorio
e a tenere in condizioni di subalternità una parte della popolazione. Per
fortuna c’è chi si ribella. È emblematico il caso della giornalista Federica
Angeli, di cui ho parlato in precedenza.
Il secondo fronte è quello dei rapporti con le imprese e con le
istituzioni. Imprenditori senza scrupoli, coinvolti nella struttura
dell’organizzazione, sfruttano la possibilità di ottenere appalti sicuri senza
doversi misurare con la concorrenza. L’arma dell’organizzazione mafiosa in
questo ramo di attività non è la violenza, ma la corruzione.
Si tratta quindi di una sorta di evoluzione del tradizionale modello
mafioso unitario e compatto, che teneva insieme tutte le funzioni; nel
modello «romano» le funzioni di violento o intimidatorio assoggettamento
dei cittadini sono distinte dalle funzioni di arricchimento della cosca e
trovano il punto di congiunzione nel capo che dirige entrambe le attività.
3
Dopo il 1992
Dopo il 1992 vengono arrestati i più importanti capi di Cosa Nostra, della
’ndrangheta e della camorra. Totò Riina è catturato nel gennaio del 1993;
seguono Nitto Santapaola, Salvatore Cancemi, Leoluca Bagarella, Pietro
Aglieri, Balduccio di Maggio e via via tutti gli altri sino a Bernardo
Provenzano (11 aprile 2006). Successi anche in Calabria, in Campania e in
Puglia. I processi si celebrano. La Commissione antimafia approva alla
quasi unanimità la prima relazione sui rapporti tra mafia e politica (6 aprile
1993). I pentiti si moltiplicano in tutte le organizzazioni mafiose. Il
carattere prevalente di questa fase è la continuità dell’azione giudiziaria e di
polizia, sino ai giorni nostri.
Un episodio rivela il carattere degli ultimi anni. La notte del 29 maggio
2018 i principali boss di Cosa Nostra si riuniscono in gran segreto a Passo
di Rigano, nel cuore di Palermo, per eleggere il nuovo capo, al posto di
Totò Riina, deceduto nel novembre 2017. Eleggono Settimino Mineo. I
carabinieri hanno costituito quindici nuclei, uno per ogni mandamento
mafioso; seguono attimo per attimo i movimenti dei capimafia e dei gregari.
Il 3 dicembre vengono arrestati tutti, compreso il nuovo capo. Non si è
atteso che il gruppo commettesse qualche specifico delitto. In base alla
legge La Torre, li si è fermati perché costituivano un’associazione mafiosa.
Il contesto politico
Alla radice del potere mafioso, per come si è manifestato dal 1943 sino alla
fine degli anni Ottanta, quando comincia il maxiprocesso (10 febbraio
1986), c’è il contesto politico.
Al termine della Seconda guerra mondiale il mondo si ritrovò diviso in
due: il blocco dell’Est, sotto il dominio dell’Unione Sovietica, e il blocco
occidentale sotto l’influenza stringente degli Stati Uniti. Ciascuno dei due
Stati-guida dominava senza ostacoli nella propria area. Se all’interno di
Paesi satelliti maturavano eventi capaci di compromettere gli equilibri
interni al blocco di cui si faceva parte, ciascuno aveva mano libera per
ricostituire l’ordine turbato. Le rivolte di Ungheria (1956) e di
Cecoslovacchia (1968) vennero represse militarmente dall’Unione
Sovietica, senza alcun serio intervento da parte dell’Occidente.
Allo stesso modo, le operazioni degli Stati Uniti in Sud America contro
regimi democratici e a favore di regimi dittatoriali (pensate per esempio al
Cile di Salvador Allende) non trovano alcun serio ostacolo da parte
dell’Urss.
L’Italia, con la sua posizione geostrategica al centro del Mediterraneo,
cerniera tra Oriente e Occidente e tra Europa e Africa, con il più forte
partito comunista del mondo occidentale per molti anni legato all’Unione
Sovietica, fu pesantemente condizionata dal bipolarismo internazionale. La
guerra fredda internazionale che spaccava il mondo in due blocchi diventò
guerra calda interna. Le stragi, i diversi terrorismi, il peso politico della
mafia sarebbero inspiegabili al di fuori di tale contesto. Per troppi anni la
legalità diventò una variabile dipendente dalla ragion di Stato e la mafia una
componente a volte determinante nella storia della Repubblica.
La necessità, a volte solo supposta, di combattere il nemico interno
ribaltò il rapporto fisiologico tra potere e legalità. Le indagini giudiziarie e
le inchieste parlamentari hanno dimostrato che la mafia fu tollerata e
protetta sin dai primissimi tempi del dopoguerra.
Emblematico è il messaggio che il generale Silvio Robino, comandante
dei carabinieri in Sicilia, scriveva il 21 aprile 1948 al suo comando
generale: «Il successore del commissario Messana, commissario Vittorio
Modica, a causa delle elezioni politiche che sconsigliavano un’azione a
fondo contro la mafia e i favoreggiatori, non ha potuto far nulla di
conclusivo anche perché attendeva che il Ministero risultante dalle nuove
elezioni si decidesse a fornire i maggiori mezzi per l’azione» (Luciano
Violante, Non è la piovra, Einaudi, Torino 1985, p. 52).
Perché la vicinanza delle elezioni politiche sconsigliava «un’azione a
fondo contro la mafia»? Se la mafia fosse stata considerata un nemico e non
un alleato, una repressione dura avrebbe fatto acquisire meriti ai partiti di
governo. Evidentemente non era così.
In quella fase confusa, pochi mesi dopo la fine della guerra, nella quale
il futuro era particolarmente incerto, la fragile democrazia era alla ricerca di
un modello di Stato forte sia nei confronti del neofascismo sia nei confronti
del comunismo filosovietico. Le incertezze nei riguardi della mafia, che in
alcune zone aveva agevolato lo sbarco delle truppe americane e che quindi
aveva assunto una sorta di legittimazione politica, possono essere comprese,
ma non giustificate. Il problema nacque dopo, quando, usciti dalla crisi del
dopoguerra, la questione «mafia» non venne affrontata con tutta la
determinazione e il rigore necessari.
La convivenza con la mafia ha indebolito la nostra democrazia, ha reso
l’Italia un caso drammaticamente unico per il peso che le organizzazioni
criminali hanno esercitato nella vita politica ed economica, ha rafforzato i
centri di potere mafioso che in non poche occasioni sono giunti al punto di
imporre le proprie regole a istituzioni e uomini politici.
L’anomalia italiana
L’Italia, proprio per la sua specifica collocazione geostrategica, è nel mondo
il Paese avanzato che in tempo di pace ha avuto il più alto numero di stragi,
due contrapposti terrorismi, uno di destra e uno di sinistra, il più alto
numero di giornalisti e magistrati uccisi. Abbiamo dovuto pagare un prezzo
molto alto per la difesa delle libertà costituzionali, del diritto
all’informazione e della legalità.
Undici stragi dal 1969 al 1993, con 164 morti e centinaia di feriti.
12 dicembre 1969, Piazza Fontana (Milano), 17 morti; 22 luglio 1970,
Gioia Tauro, 6 morti; 31 maggio 1972, Peteano, 3 morti; 17 maggio 1973,
Questura di Milano, 4 morti; 28 maggio 1974, Piazza della Loggia
(Brescia), 8 morti; 4 agosto 1974, treno Italicus, 12 morti; 16 marzo 1978,
via Fani (Roma), 5 morti; 2 agosto 1980, stazione di Bologna, 85 morti; 23
dicembre 1984, rapido 904, 16 morti; 27 maggio 1993, Uffizi (Firenze), 5
morti; 27 luglio 1993, via Palestro (Milano), 5 morti.
I giornalisti uccisi sono stati 11, spesso giovanissimi.
Cosimo Cristina (5 maggio 1960, 24 anni), da Cosa Nostra; Mauro De
Mauro (16 settembre 1970, 49 anni), da Cosa Nostra; Giovanni Spampinato
(27 ottobre 1972, 25 anni), da Cosa Nostra; Carlo Casalegno (29 novembre
1977, 61 anni), dalle Brigate rosse; Peppino Impastato (9 maggio 1978, 30
anni), da Cosa Nostra; Mario Francese (26 gennaio 1979, 53 anni), da Cosa
Nostra; Walter Tobagi (28 maggio 1980, 33 anni), dalla Brigata XXVIII
marzo; Pippo Fava (5 gennaio 1984, 58 anni) da Cosa Nostra; Giancarlo
Siani (23 settembre 1985, 26 anni), dalla Camorra; Mauro Rostagno (26
settembre 1988, 46 anni), da Cosa Nostra; Giuseppe Alfano (8 gennaio
1993, 47 anni), da Cosa Nostra.
I magistrati uccisi sono stati 24; 18 del pubblico ministero o giudici
istruttori.
Pietro Scaglione, procuratore della Repubblica a Palermo, fu ucciso
dalla mafia nella sua città il 5 maggio 1971; Francesco Ferlaino,
procuratore della Repubblica a Catanzaro, fu ucciso dalla ’ndrangheta a
Lamezia il 3 luglio 1975; Francesco Coco, procuratore della Repubblica a
Genova, fu ucciso dalle Br l’8 giugno 1976; Vittorio Occorsio, sostituto
procuratore della Repubblica a Roma, fu ucciso da Ordine nuovo il 10
luglio 1976; Riccardo Palma, magistrato addetto al ministero della
Giustizia, fu ucciso dalle Br a Roma il 14 febbraio 1978; Girolamo
Tartaglione, direttore generale degli Affari penali al ministero della
Giustizia, fu ucciso a Roma dalle Br il 10 ottobre 1978; Fedele Calvosa,
procuratore della Repubblica a Castrovillari, fu ucciso dalle Unità
comuniste combattenti a Patrica, in provincia di Frosinone, l’8 novembre
1978; Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica a Milano,
fu ucciso da Prima linea nella sua città il 29 gennaio 1979; Cesare
Terranova, consigliere istruttore a Palermo, fu ucciso dalla mafia nella sua
città il 25 settembre 1979; Nicola Giacumbi, procuratore della Repubblica a
Salerno, fu ucciso dalle Br nella sua città il 16 marzo 1980; Girolamo
Minervini, direttore generale degli Istituti di prevenzione e di pena, fu
ucciso a Roma dalle Br il 18 marzo 1980; Guido Galli, sostituto procuratore
della Repubblica a Milano, fu ucciso da Prima linea nella sua città il 19
marzo 1980; Mario Amato, sostituto procuratore della Repubblica a Roma,
fu ucciso nella capitale dai neofascisti Gruppi armati rivoluzionari il 23
giugno 1980; Gaetano Costa, procuratore della Repubblica a Palermo, fu
ucciso dalla mafia a Palermo il 6 agosto 1980; Giacomo Ciaccio Montalto,
sostituto procuratore della Repubblica a Trapani, fu ucciso dalla mafia nella
sua città il 25 gennaio 1983; Bruno Caccia, procuratore della Repubblica a
Torino, fu ucciso nella sua città da un gruppo di ’ndrangheta il 26 giugno
1983; Rocco Chinnici, consigliere istruttore a Palermo, fu ucciso dalla
mafia a Palermo il 29 luglio 1983; Alberto Giacomelli, magistrato in
pensione, già presidente della Corte d’appello, fu ucciso a Trapani il 14
settembre 1988 dalla mafia, che intendeva così lanciare un messaggio
intimidatorio anche ai magistrati giudicanti; Antonino Saetta, presidente
della Corte d’assise d’appello di Palermo, fu ucciso dalla mafia, con il
figlio, il 25 settembre 1988 a Canicattì; Rosario Livatino, giudice presso il
Tribunale di Agrigento, fu ucciso ad Agrigento il 21 settembre 1990;
Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Cassazione, fu
ucciso dalla mafia a Villa San Giovanni il 9 agosto 1991: qualche settimana
dopo avrebbe dovuto sostenere l’accusa davanti alla Cassazione nel
maxiprocesso. Nel corso del 1992 furono uccisi Giovanni Falcone,
Francesca Morvillo, Paolo Borsellino.
Nello stesso anno delle stragi di Capaci e di via D’Amelio comincia
Tangentopoli, la serie di processi per la corruzione in politica e nella
pubblica amministrazione. I processi videro impegnate 70 procure della
Repubblica, con procedimenti a carico di circa 12mila persone e
l’emissione di 25.400 avvisi di garanzia; 4.525 persone arrestate, 1.233
persone condannate. Furono avanzate 507 richieste di autorizzazione a
procedere per la Camera e 172 per il Senato. Sei ministri furono costretti a
dimettersi per aver ricevuto una comunicazione giudiziaria.
Nel 1993, in sole venti settimane, tutti i segretari dei partiti di
maggioranza lasciarono l’incarico. Il 9 febbraio Bettino Craxi lascia a
Giorgio Benvenuto la segreteria del Psi. Il 25 febbraio Giorgio La Malfa si
dimette da segretario del Pri. Il 22 aprile Carlo Vizzini si dimette dalla
segreteria del Psdi. Il 28 maggio Renato Altissimo si dimette da segretario
del Pli. Il 23 giugno Mino Martinazzoli, segretario della Dc, annuncia lo
scioglimento del suo partito.
Stragi, magistrati uccisi, un sistema politico decapitato, tutto negli stessi
anni. Non so quanti Paesi, apparentemente più forti di noi, sarebbero
sopravvissuti. Abbiamo una forza interiore della quale noi stessi a volte
siamo inconsapevoli.
4
Quanti sono i soldi della mafia? E dove li tengono? Perché lo Stato non li
porta via tutti?
Vi racconto un episodio. Nel 1993 chiesi a un mafioso pentito che era
stato convocato in Commissione antimafia: «Voi come fate per i soldi, dove
li tenete, come li investite?».
«Lei come fa?»
«Io non ne ho da investire» risposi.
«E se li avesse?»
«Andrei da un commercialista.»
«Noi facciamo più o meno lo stesso. E se l’investimento andasse bene
lei cosa farebbe?»
«Tornerei dal commercialista.»
«Noi facciamo più o meno lo stesso. E se l’investimento andasse
male?»
«Cambierei commercialista.»
«Noi, invece, lo ammazziamo. La differenza è questa. I nostri
professionisti lo sanno e non fanno scherzi.»
Lo scambio di battute riflette con chiarezza lo spirito della mafia. Non
sono validi i ragionamenti del tipo: «Ma come hanno potuto, uomini rozzi e
primitivi come Riina o Provenzano, amministrare miliardi e miliardi?
Certamente avevano alle spalle una potente organizzazione segreta che si
occupava degli investimenti». Certamente si avvalgono di abili e, a volte, di
apparentemente ineccepibili professionisti; ma la principale assicurazione
per un buon investimento è la violenza che non esiterebbero a mettere in
campo qualora l’investimento fallisse. Tuttavia il ricorso alla violenza non
fa recuperare i danni eventualmente subiti; costituisce solo una sorta di pena
inflitta a chi non garantisce i loro guadagni. Ai mafiosi interessa soprattutto
fare profitti. Perciò sono organizzati seguendo i principi delle aziende:
specializzazione delle funzioni, crescita delle dimensioni, espansione sui
mercati, legali e illegali, internazionalizzazione, ricorso a grandi studi
professionali italiani ed esteri. Tendono inoltre a inglobare le imprese legali
per godere della loro reputazione.
La mafia-azienda, a differenza delle aziende legali, ha una specifica
capacità espansiva determinata da tre caratteristiche che le sono proprie.
Risorse finanziarie praticamente illimitate: mentre l’imprenditore
onesto deve andare in banca per poter disporre del danaro che gli serve per
svolgere la propria attività, l’imprenditore mafioso è rifornito costantemente
di liquido attraverso i mercati criminali, traffico di droga, gioco d’azzardo,
usura, eccetera. Non deve pagare interessi passivi e non ha la
preoccupazione che la banca possa chiudergli l’accesso al credito.
Costo ridotto del lavoro: la mafia attua in genere una strategia di
riduzione salariale resa possibile dal fatto che i sindacati in genere sono
tenuti lontani con la violenza e con l’intimidazione; l’imprenditore mafioso
usa le stesse tecniche nei confronti dei lavoratori che intendono esercitare i
propri diritti, mentre gli altri soggiacciono all’implicito ricatto
occupazionale: se parli ti licenzio.
Tendenza a monopolizzare: l’azienda mafiosa si impone sul mercato per
i prezzi più bassi che riesce a proporre, grazie alla riduzione di costi di
produzione (costo del lavoro e costo del danaro), e per il ricorso alla
violenza nei confronti dei concorrenti. Come vedremo in un paragrafo
successivo, negli ultimi anni sono state approvate leggi che intervengono su
questi fattori e riducono la presenza delle aziende mafiose sul mercato.
Tuttavia, le organizzazioni mafiose si premuniscono intestando le aziende e
i beni a persone incensurate. Perciò le indagini della magistratura e della
polizia sono particolarmente sofisticate ed esigono un’altissima competenza
da parte degli inquirenti. Il Csm organizza periodici corsi di aggiornamento
per i magistrati, con esperti di alto livello che spiegano volta per volta quali
sono le più recenti tecniche per occultare gli investimenti di origine
criminale. La relazione della Direzione nazionale antimafia relativa al
secondo semestre 2018 segnala il rischio di transazioni mafiose attraverso
le criptovalute.
Un particolare impegno grava sulle specifiche competenze della guardia
di finanza, che ha competenze specifiche per individuare chi si nasconde
dietro prestanomi, chi sono i veri titolari di attività lucrose apparentemente
lecite, quali sono le diramazioni degli investimenti mafiosi, quali le
tecniche del «lavaggio» dei soldi sporchi.
Calcio e mafia
Non c’è che dire: il calcio piace proprio a tutti. Io ci ho giocato da giovane e
sono un tenace tifoso del Toro. Ma da quando ho abbandonato lo sport
attivo non sono più andato in uno stadio; vedo le partite in tv. Andare allo
stadio è un’esperienza unica: i riti, i colori da indossare, i canti fanno sentire
parte palpitante di una grande comunità. Bisogna però non farsi coinvolgere
da gruppi che ti fanno sentire importante, partecipe di un cerchio magico,
ristretto e selezionato e che sono nelle mani di personaggi con parentele
criminali molto pericolose o sono essi stessi esponenti dell’organizzazione
mafiosa.
La Commissione parlamentare antimafia nella XVII legislatura
(presidente Rosy Bindi) a seguito di un’accurata indagine ha redatto una
specifica relazione, che ha individuato due distinti profili del rapporto tra
mafia e calcio.
Il primo profilo riguarda le forme di integrazione tra gruppi mafiosi,
gruppi criminali, frange violente del tifo organizzato, per condizionare i
comportamenti delle società sportive. Questi gruppi, apparentemente
eterogenei, una volta entrati nello stadio, si ricompongono attorno a capi
riconosciuti e si distinguono per comportamenti violenti o minacciosi nei
confronti dei tifosi della squadra avversaria o, se i rapporti con la dirigenza
sono in crisi, nei confronti di singoli calciatori o dell’intera squadra. Questi
comportamenti servono come arma di pressione sulle società, che hanno
tutto l’interesse a uno svolgimento tranquillo delle partite di calcio. In
cambio della tranquillità questi gruppi esigono vantaggi economici, biglietti
omaggio, contributi per le trasferte. A differenza di quanto accadeva nel
passato, il fenomeno è oggi sotto l’esame di attente indagini giudiziarie. Il 7
agosto 2019 è stato ucciso a Roma con un colpo di pistola alla nuca un noto
capo degli ultras della Lazio, Fabrizio Piscitelli, implicato in traffici di
droga e in relazione con gruppi mafiosi.
Dall’inchiesta della Commissione antimafia è emerso che a Torino la
’ndrangheta si era inserita «come intermediaria e garante» nell’ambito del
fenomeno del bagarinaggio gestito da ultras della Juventus sino al controllo
di interi settori dello stadio. In alcuni casi i capi degli ultras sono anche capi
di gruppi mafiosi, come a Catania e a Napoli. In altri, evidenzia la
Commissione, come per il Genoa e la Lazio, non si è verificata una
saldatura tra mafia e tifoserie ma le tifoserie assumono comportamenti
ricattatori analoghi a quelli dei gruppi mafiosi.
Il secondo profilo emerso dall’indagine ha riguardato la presenza di
sospetti esponenti di organizzazioni mafiose nella proprietà di squadre di
calcio. La Commissione cita, tra gli altri, il caso della polisportiva Isola
Capo Rizzuto, proprietaria dell’omonima squadra di calcio, sottoposta a
sequestro con l’accusa di essere stata utilizzata come veicolo per il
reimpiego di capitali illeciti della ’ndrangheta, usati per acquistare la
squadra dai precedenti proprietari. Nel maggio 2017 la squadra di calcio del
Foligno, che militava in serie D, subì una interdittiva antimafia per le
vicissitudini del suo presidente uscendo dal calendario per tutta la stagione
sportiva («La Stampa», 8 luglio 2019).
Una storia vecchia, ma significativa, riguarda la squadra dell’Avellino.
Il 31 ottobre 1980 il patron della squadra, Antonio Sibilia, accompagna nel
Tribunale di Napoli il calciatore più rappresentativo della sua squadra,
Juary, che poi giocherà nell’Inter e chiuderà la sua carriera nel Porto, dove
vinse una Coppa dei campioni segnando la rete decisiva al Bayern Monaco.
In un’aula del tribunale si sta celebrando un processo contro Raffaele
Cutolo, allora capo indiscusso della camorra. Sibilia e Juary si avvicinano
alle sbarre dietro le quali c’è Cutolo. Sibilia saluta il boss baciandolo sulle
guance e Juary consegna al camorrista un pacchetto con dentro una
medaglia d’oro del peso di 70 grammi. Su un lato della medaglia è
raffigurato un lupo, simbolo della squadra; sull’altro lato c’è scritto: «A don
Raffaele Cutolo con stima». Il giornalista Luigi Necco, uno dei più grandi
giornalisti d’inchiesta, indagò su quello strano rapporto tra Sibilia e Cutolo
e rese nota la vicenda. Venne gambizzato.
Il gioco d’azzardo
Nel campo dell’azzardo e delle scommesse la mafia è molto presente e tenta
di accalappiare i giovani con il miraggio di facili guadagni. Gli italiani negli
ultimi dieci anni hanno perso circa 181 miliardi di euro e nel solo 2018
circa 19 miliardi di euro. Una quota molto rilevante, circa il 50 per cento
secondo i calcoli più attendibili, sarebbe finita nelle tasche delle diverse
organizzazioni mafiose.
Il gioco d’azzardo si distingue in legale e clandestino, ma la mafia è
interessata a entrambe le categorie.
Lo Stato, da noi come in quasi tutti gli altri Paesi, si riserva una sorta di
monopolio in materia di giochi e scommesse consentendo a privati
l’esercizio del gioco, previa concessione, lautamente pagata. I concessionari
gestiscono l’affare-gioco attraverso una capillare rete industriale che
interessa circa settemila imprese e coinvolge oltre 100mila addetti. La mafia
non si è lasciata sfuggire l’opportunità di penetrare in un settore attraverso
il quale è possibile ottenere ingenti introiti e investire o riciclare, senza
gravi rischi, elevate somme di danaro di provenienza criminale, soprattutto
estorsioni e traffico di droga.
Nel perimetro del gioco legale l’offerta mafiosa avviene attraverso
l’impiego di impianti che operano su rete fissa oppure online, attraverso siti
internet autorizzati. Le organizzazioni mafiose spendono molto per
acquistare sale da gioco che sono intestate a prestanomi, oppure per inserire
uno o più complici all’interno delle società di gestione.
Talvolta l’apertura di una sala gioco legale da parte di soggetti contigui
a organizzazioni mafiose è uno schermo di comodo per esercitare, accanto
alle attività legali, un analogo circuito di gioco clandestino.
Altre volte le associazioni criminali distribuiscono e installano propri
apparecchi nei bar e nei locali pubblici, determinando situazioni di
monopolio nei territori controllati, mediante l’imposizione violenta del
proprio prodotto ai titolari di pubblici esercizi e la pretesa del pagamento
del noleggio e di una percentuale sui ricavi. Sono state scoperte alterazioni
del gioco attraverso la manomissione e la clonazione delle schede
elettroniche situate all’interno delle new-slot, fino a giungere ai più
complessi interventi di alterazione dei sistemi di trasmissione dati e
all’utilizzo di circuiti di gioco online non autorizzati. Alcuni clan (come
quello camorristico dell’Alleanza di Secondigliano) hanno, per esempio,
gestito migliaia di apparecchi collocandoli in altrettanti esercizi
commerciali in numerosi comuni in tutto il napoletano. Talora viene
imposta la collocazione presso esercenti più o meno conniventi. In altri casi
gli esercenti devono ottenere il benestare dei boss per installare nuove
macchine, nonché pagare una somma periodica per la «protezione». È
chiaro: chi gioca aiuta, direttamente o indirettamente, la mafia. Durante uno
degli incontri che ho tenuto nelle aule scolastiche uno dei vostri compagni
ha obiettato: «Ma non sono i miei 20 euro che rendono potente la mafia!».
È vero, ma sono quelli di tutti i giocatori, voi compresi. E se nessuno
comincia a smettere, la mafia continuerà a prosperare.
Tuttavia, c’è un’altra ragione per non giocare d’azzardo. Per tutti i
giochi vale la stessa domanda. Quale vita vogliamo per noi? Quella legata
alla conoscenza, alla competenza, all’onestà? Oggi c’è disoccupazione nei
vecchi lavori ma straordinarie possibilità di reddito e buone occupazioni in
nuovi lavori, quelli connessi alla ospitalità, al tempo libero, alle nuove
tecnologie applicate alla vita quotidiana. Ci sono circa 150mila posti di
lavoro vacanti perché non esistono ancora le competenze tecnologiche
necessarie.
Chi sta piegato su una slot machine esce pian piano dal circuito della
formazione e del buon lavoro per entrare nel circuito dello sfruttamento di
se stesso, che abbrutisce e toglie dignità.
Insomma, anche contro il gioco d’azzardo è tempo di una pedagogia dei
valori civili, tra i quali rientra la dignità della persona in opposizione a chi
tenta di sfruttare i cittadini magari allettando con qualche piccola vincita a
fronte di una colossale sottrazione di risorse.
Un noto slogan dice: «Giocate responsabilmente». In realtà l’unico
modo per essere responsabili è non giocare.
Il mafioso imprenditore
Le ricchezze della mafia non inquinano solo l’economia, ma tutti i settori
della vita civile. Il mafioso ricco ragiona come qualunque uomo d’affari,
che bada ai propri interessi e cerca di aver attorno a sé un ambiente
favorevole. L’uomo di affari si chiede: «Che tipo di giornale, di radio, di tv,
di politico, di magistrato, di poliziotto mi serve per acquisire reputazione,
incrementare le entrate, ridurre le perdite, azzerare i rischi?». E agisce di
conseguenza. Sa che la reputazione è importante e cercherà perciò di avere
buoni rapporti, senza commettere scorrettezze, con la comunicazione, la
politica, le istituzioni. Se ne ha la possibilità, investirà in un giornale, una
radio e una tv; finanzierà una squadra di calcio a scopo promozionale;
mostrerà ai politici quello che fa per il territorio e la convenienza che il
territorio trae dallo sviluppo della propria azienda.
Il mafioso imprenditore fa la stessa cosa. Si dimostrerà favorevole
persino a sostenere iniziative antimafia, purché innocue; cercherà rapporti
con personaggi influenti e tenterà di concludere affari lucrosi.
Un amico magistrato che era stato mandato come primo incarico nella
Procura di un piccolo tribunale calabrese mi raccontò questa storia. Abitava
in albergo, in un paese vicino perché nella città sede del tribunale non
c’erano alberghi decenti; un paio di settimane dopo il suo arrivo chiese a un
funzionario della segreteria se a suo avviso ci fossero alloggi da affittare in
città. Il funzionario molto cortesemente gli assicurò che avrebbe chiesto in
giro. Dopo un’ora circa, gli si presentò un avvocato, ben vestito, che con
sobria cortesia gli disse: «Dottore, mi scusi, sono venuto a conoscenza della
sua richiesta. Capisco che lei, appena arrivato, preferirebbe abitare qui,
anche per poter svolgere meglio il suo lavoro. Come avvocato apprezzo la
sua dedizione al lavoro e la ringrazio. C’è un mio cliente, imprenditore di
specchiata onestà, che ha appena costruito alcuni villini non lontano dal
tribunale, di fronte al mare, con un piccolo giardino o con una terrazza. Se
vuole, nell’intervallo del pranzo l’accompagno». Il giovane giudice accettò.
L’avvocato lo invitò a pranzo e lo accompagnò su una lussuosissima
Mercedes spider al complesso immobiliare. Lo attendevano l’imprenditore,
in doppiopetto grigio, e un muratore. L’imprenditore lo salutò in modo
affabile, gli mostrò uno degli alloggi, «il migliore» precisò, ammobiliato
con gusto, con un piccolo terrazzo che s’affacciava sul mare, distante una
decina di metri. La spiaggia era separata solo da una strada. Per immettersi
in auto sulla strada, senza rischi, poteva essere azionato un telecomando che
apriva il cancello e faceva diventare verde un semaforo per chi usciva dal
villino. Il prezzo era decisamente conveniente. Il villino aveva quattro
alloggi. Negli altri tre abitavano un medico, un docente della vicina
università, una notaio. Il medico e il docente avevano famiglia, ma non
avevano bambini; la notaio, una bellissima signora, precisò con un sorriso
complice l’avvocato, veniva da Ravenna. Il mio amico si riservò di
decidere. L’indomani ne parlò con il capo della Procura. L’avvocato era da
molti anni il difensore tradizionale della cosca mafiosa più potente della
zona. L’imprenditore era imputato di riciclaggio e di illeciti urbanistici.
Quelle villette erano costruite su terreno demaniale e senza licenza. Il
sindaco sosteneva che la licenza c’era, e che il terreno non era demaniale: lo
avrebbe dimostrato appena avesse avuto il personale idoneo a farlo. Il mio
amico rinunciò alla villetta, all’eventuale incontro galante con la bella
notaia di Ravenna e continuò a vivere in albergo. Se avesse accettato
sarebbe apparso per lo meno amico dei due loschi figuri.
La Commissione parlamentare antimafia ha messo in luce con
particolare chiarezza le funzioni della cosiddetta «area grigia» in cui
operano quei professionisti, avvocati, commercialisti, notai, imprenditori
che, pur sapendo di avere a che fare con mafiosi, li agevolano aiutandoli nel
riciclaggio del danaro, nell’occultamento delle ricchezze, nel tenere i
rapporti tra chi è libero e chi è detenuto e così via. L’area grigia, a cavallo
tra illegalità e legalità, costituisce la porta d’ingresso della mafia nelle
attività legali.
La forza principale della mafia non è nella mafia, ma fuori di essa: nei
professionisti e pubblici funzionari che fingono di non vedere, non sapere e
non capire; in quelli che consapevolmente, per viltà o per brama di
ricchezza, pur non facendone parte, agevolano le organizzazioni mafiose;
nella indifferenza dei cittadini onesti che non si impegnano per la legalità,
ritenendo che si tratti puramente e semplicemente di una gara tra guardie e
ladri. Come scrisse Nicolò Machiavelli, per una buona e fiorente città non
bastano le leggi, ci vogliono anche i «buoni comportamenti» dei cittadini:
rifiutare guadagni facili e sospetti, non fare affari con malavitosi, non essere
indifferenti. Se tutti si comportassero onestamente, la mafia avrebbe
davvero i giorni contati.
Gli indifferenti sono complici perché permettono che la mafia vada
avanti. Essere cittadini non è un certificato, è una responsabilità; è la
capacità di contribuire responsabilmente al benessere della comunità in cui
si vive.
L’antimafia conviene
Corleone non è solo la città di Riina. Un recente libro di Toni Mira e
Alessandra Turrisi, Dalle mafie ai cittadini, spiega come circa seicento
ettari di terra confiscati a Riina, Provenzano e ad altri mafiosi, sono oggi
coltivati da cooperative che producono pasta, olio, legumi, passata di
pomodoro, venduti nei supermercati. Nelle campagne di Castel Volturno, in
un caseificio confiscato al boss della camorra Michele Zaza si producono
mozzarelle di bufala Dop, che riforniscono tre supermercati Coop a Milano,
uno a Roma e Eataly a Parigi.
L’utilizzazione sociale dei beni confiscati è prevista dalla legge n. 109
del 1996. Questa legge è il frutto della raccolta di oltre un milione di firme
nella primavera del 1996 che spinse il Parlamento a fare in fretta anche
perché di lì a poco sarebbero state sciolte le Camere. Promotrice di questa
petizione è stata l’associazione Libera che partiva da una considerazione
apparentemente banale: non basta sequestrare e confiscare, bisogna anche
riutilizzare socialmente i beni. Fare in modo che le comunità vedano che lo
Stato restituisce ai cittadini ciò che i mafiosi tenevano per sé. Se nel parco
di una villa confiscata a un boss i bambini del quartiere possono andare a
giocare, se la villa hollywoodiana di un mafioso è sede di un istituto
scolastico, se la terra confiscata produce beni e crea occupazione, se nella
sala giochi di un gruppo mafioso di Ostia ora c’è un centro di formazione e
cura contro le ludopatie, i cittadini capiscono che la lotta alla mafia non è
una rincorsa tra guardie e ladri; è un impegno che ai cittadini conviene
perché crea posti di lavoro, fornisce prodotti puliti, rende utilizzabili per
tutti i beni che una volta erano monopolizzati dalla mafia.
5
Isolare le mafie
La forza della mafia è determinata dai suoi legami interni e dai suoi rapporti
con il mondo esterno. I primi sono determinati dall’omertà e dalla
convenienza; gli altri dalla fragilità morale di uomini delle istituzioni, di
imprenditori, di cittadini comuni. L’omertà assicura la copertura reciproca
tra i componenti del gruppo mafioso; la convenienza è determinata dai
benefici economici e dal senso di potere che conferisce la soggezione ai
mafiosi di settori della società civile. I rapporti con il mondo esterno
riguardano lo scambio con la politica (voti contro favori), i patti con le
imprese (appalti e spartizione degli utili), le intimidazioni o le corruzioni
per chi opera nelle istituzioni, il potere esercitabile dalle carceri,
l’imposizione dell’omertà ai cittadini, attraverso minacce qualora
intendessero testimoniare contro l’organizzazione, l’indifferenza della gente
comune.
In questo capitolo indicherò sinteticamente alcune misure di lotta alla
mafia volte a spezzare i vincoli interni e quelli esterni: la tutela dei
cosiddetti pentiti e dei testimoni di giustizia, il carcere di massima
sicurezza, lo scioglimento per mafia dei consigli comunali, la selezione
delle candidature per le varie elezioni, il cosiddetto voto di scambio, le
interdittive antimafia (che sono provvedimenti amministrativi diretti a
impedire a determinati soggetti di prendere parte a gare pubbliche).
Prima però voglio parlarvi di una questione meno nota. Nel 1996, ero
vicepresidente della Camera, avevo tenuto a Reggio Calabria un’iniziativa
per i licei della città proprio sui temi della lotta alla mafia. Un giovane
funzionario di polizia venne a trovarmi in albergo. La moglie di un potente
capomafia della zona, in carcere con più ergastoli, voleva parlarmi, ma in
un’altra zona della città, meno esposta. Ci vedemmo l’indomani mattina
verso mezzogiorno quasi in campagna, in un casolare che stava in piedi per
miracolo. La donna era venuta con sua cognata, sorella del marito, a sua
volta moglie di un capomafia, anch’egli all’ergastolo. Aveva tre figli e la
cognata due: cinque maschi e nessuna delle due voleva che i figli
prendessero la strada dei padri. «Fate qualcosa, portateli via; qui finiscono o
al cimitero o al 41bis.» Ne parlai a don Luigi Ciotti, presidente di Libera.
Qualche settimana dopo venni eletto alla presidenza della Camera e non
potei più occuparmi personalmente della faccenda. Ma ero tranquillo perché
don Luigi se ne stava già prendendo cura, probabilmente meglio di quanto
non avessi saputo fare io.
Il problema dei «figli della mafia» è sempre più rilevante. Un numero
crescente di madri chiede segretamente a magistrati, poliziotti, carabinieri,
che i figli vengano sottratti a un destino di mafia perché, nella realtà in cui
sono immersi, i condizionamenti sono fortissimi. Un ragazzino, per dare
prova di coraggio ’ndranghetista, ha rifiutato l’anestesia nel corso della
estrazione di un dente. Un altro si è fatto tatuare sulla pianta del piede
l’immagine di un carabiniere per calpestarla quando cammina. Altre madri
chiedono di essere obbligate ad andar via per stare vicino ai figli, e liberarsi
così dalla trappola famigliare, ma con un provvedimento giudiziario che dia
a quella loro scelta le sembianze di un obbligo imposto.
Nel settembre del 2011 alla presidenza del Tribunale dei minori di
Reggio Calabria è arrivato un magistrato, Roberto Di Bella, che si è posto il
problema e lo sta affrontando efficacemente, come egli stesso ha spiegato ai
componenti della Commissione parlamentare antimafia, nel corso di
un’audizione del 29 aprile 2014: «La conseguenza immediatamente
tangibile della mia lunga esperienza professionale nel settore è che la
’ndrangheta si eredita. Le famiglie di ’ndrangheta si assicurano il controllo
del territorio attraverso la continuità generazionale. […] Da circa due anni,
al di là dei provvedimenti penali che adottiamo nei confronti di minori che
commettono reati, abbiamo mutato orientamento giurisprudenziale
provando a interrompere questa spirale perversa di trasmissione di valori
negativi da padre in figlio, adottando dei provvedimenti di limitazione della
potestà, ora responsabilità genitoriale, dei boss con contestuale
allontanamento dei minori dalle famiglie nei soli casi di concreto
pregiudizio, cioè di indottrinamento malavitoso, rischi per faide, pregiudizi
molto forti… L’obbiettivo non è la punizione delle famiglie; ma prestare
aiuto a questi ragazzi, allontanarli per fornire delle alternative culturali,
parametri valoriali educativi diversi da quelli deteriori del contesto di
provenienza nella speranza di sottrarli alla definitiva strutturazione
criminale. Se si nasce a San Luca, a Bovalino, a Rosarno, a Locri, se si ha
un nonno ’ndranghetista, un padre ’ndranghetista, fratelli ’ndranghetisti in
carcere, una madre intrisa di cultura mafiosa, la possibilità di uscire, di
affrancarsi dalle norme parentali sono quasi nulle» (Commissione
antimafia, relazione finale, p. 234).
Lasciare nella famiglia ragazzini che possono soltanto nutrirsi di cultura
mafiosa significa segnare il loro destino, o in carcere o al cimitero, come i
nonni, i padri, i fratelli. E quindi, in applicazione di leggi nazionali e di
convenzioni internazionali, che impongono di salvaguardare soprattutto il
futuro del minore, quando la famiglia lungi dall’essere un luogo educativo è
un luogo di formazione al crimine, il ragazzo o la ragazza sono allontanati
dalla famiglia e aiutati a costruirsi un percorso di vita nella legalità, grazie
al lavoro dei servizi sociali o di associazioni di volontariato, come Libera o
Addiopizzo, con la guida del Tribunale dei minori. Questo orientamento è
condiviso da altri importanti tribunali per i minorenni del Sud, come
Napoli, Catania e Catanzaro. A Reggio Calabria il provvedimento è stato
adottato nei confronti di trenta minori: i ragazzi hanno ripreso a frequentare
la scuola, svolgono attività socialmente utili, seguono percorsi di
educazione alla legalità.
«Spesso» ha spiegato Roberto Di Bella in una intervista a «L’Espresso»
dell’11 agosto 2019 «sono le stesse madri che ci pregano di mandare fuori i
loro figli e di poterli seguire… Se siamo noi a decidere, loro non saranno
colpite.»
Due bravi giornalisti, Carlo Bonini e Giuliano Foschini, hanno scritto
un bel libro sulla mafia foggiana, Ti mangio il cuore, nel quale raccontano
un episodio agghiacciante. Nella provincia di Foggia una giovane
bellissima ragazza sposa un capomafia locale e ha da lui due figli. Alcuni
anni dopo, il marito viene condannato a più ergastoli. La donna, rimasta
sola, cede alle avances di un altro giovane boss, capo di un gruppo mafioso
ferocemente rivale di quello capeggiato dal marito, dal quale ha altri due
figli. Anche il suo nuovo compagno finisce in carcere con gravi condanne.
Man mano che i figli crescono, i primi affidati alle cure della nonna, gli altri
rimasti con lei, la donna si rende conto che i ragazzi, figli di padri diversi e
tra lroro ferocemente nemici, avrebbero finito per considerarsi a loro volta
nemici e destinati a uccidersi l’uno l’altro. Decide quindi di parlare con i
magistrati rivelando tutto ciò che sa sulle imprese dei due clan e salvare
quindi tutti e quattro i suoi figli.
I pentiti
I pentiti hanno permesso agli inquirenti di addentrarsi e comprendere il
funzionamento dei meccanismi interni soprattutto a Cosa Nostra. Molti
vostri compagni mi hanno chiesto: «Ma sono veri pentiti oppure dopo aver
ucciso e accumulato ricchezze criminali, vogliono godersele con la
copertura dello Stato?».
Rispondo alla domanda partendo però da un doveroso distinguo.
Lo Stato laico non deve porsi il problema del pentimento morale dei
cittadini. La Costituzione non gli attribuisce alcun potere in questo campo.
Solo uno Stato etico potrebbe costituirsi come tribunale delle coscienze dei
cittadini. Ma gli esempi di Stato etico che l’umanità ha vissuto – come la
Santa Inquisizione, il nazismo, il fascismo, lo stalinismo – hanno
schiacciato i diritti fondamentali e la stessa dignità dell’uomo. Siamo ben
felici di affidare alla storia il loro ricordo.
Il problema va posto perciò in termini diversi. Lo Stato ha interesse a
salvare vite umane, a smantellare le organizzazioni mafiose, a processare e
condannare i responsabili, a confiscare le ricchezze, a bloccare i traffici
criminali. Se un mafioso decide di collaborare, pentito o meno, questo è
affar suo, e se le sue dichiarazioni servono a salvare vite, a indebolire o a
distruggere l’organizzazione, ben venga una ragionevole riduzione di pena e
un programma di protezione. Quante persone che sarebbero state uccise
oggi sono vive grazie a quei «pentimenti»? Quanti traffici di droga sono
stati interrotti? Quante aziende sono state finalmente liberate dalla servitù
del pizzo?
Ma la domanda posta dai vostri compagni è importante. Le leggi di
favore per i collaboratori, sino a quando non si sono toccati con mano i
vantaggi per la democrazia e la vita, hanno suscitato dibattiti, scontri e
sconcerto. Quali sono le ragioni per le quali è stato necessario approvare
queste leggi?
In Italia, a differenza di quasi tutti gli altri Paesi avanzati, la
Costituzione fissa il principio dell’azione penale obbligatoria. A ogni
notizia di reato deve corrispondere un processo. Il magistrato non può
scegliere quali processi fare e quali invece tralasciare. In molti altri Paesi
(Francia, Germania, Gran Bretagna), invece, vige il principio di
opportunità. Si fa un processo solo se l’accusa lo ritiene opportuno, in
relazione ai costi, al tempo, alla gravità dei reati.
Negli Stati Uniti, per esempio, avviene una vera e propria contrattazione
tra la difesa e l’accusa. L’accusa intende procedere, per esempio, per
traffico di droga, evasione fiscale (negli Usa reato assai grave) e per una
serie di estorsioni ai danni dei negozianti della città. Se l’imputato si
dichiara colpevole per l’evasione fiscale, accetta una pena di cinque anni di
reclusione, indica i complici delle estorsioni e fa scoprire tutte le
connessioni del traffico di droga, l’accusa si impegna a chiedere la
condanna solo per l’evasione fiscale e a ritirare l’accusa per gli altri reati.
Questa procedura, che risponde a una logica di «costi-benefici», non è
esente da critiche, fondate sull’eccessiva discrezionalità degli organi
dell’accusa, sulle possibili discriminazioni e sui sospetti di corruzione. Il
sistema italiano, invece, non riconosce questo potere al pm, il magistrato
che sostiene l’accusa, e quindi sono necessarie leggi che autorizzino
significativi sconti di pena e altri benefici (per esempio: protezione anche
per la famiglia, cambio delle generalità, salario per chi non ha fonti di
reddito).
Le dichiarazioni dei pentiti hanno inferto colpi durissimi a Cosa Nostra.
Centinaia di arresti e di condanne; aziende, auto di lusso, supermercati,
palazzi, terreni confiscati, conti bancari per molti milioni di euro congelati.
Il pentito infligge al clan mafioso un colpo anche di carattere psicologico:
l’immagine di impermeabilità e di assoluta fedeltà degli «uomini d’onore»
si scontra con i «traditori» che svelano macchinazioni, miserie, azioni
atroci, come l’assassinio per strangolamento del piccolo Giuseppe De
Matteo, dopo avergli fatto patire a lungo la fame, per costringere il padre a
ritirare le sue dichiarazioni accusatorie contro la mafia.
Lo Stato ha incentivato le dichiarazioni, ma non ha firmato un assegno
in bianco. Il collaboratore deve dire tutto quello che sa entro sei mesi
dall’inizio delle dichiarazioni, per evitare rivelazioni «a rate», rese in
relazione alla qualità dei vantaggi ottenuti. Il pentito deve sottostare a
precise regole di comportamento e se le viola perde tutti i benefici. Non può
scontare una pena inferiore a un quarto di quella alla quale sarebbe stato
condannato se non avesse collaborato. In caso di delitto punito con
l’ergastolo la pena effettiva non può essere inferiore a dieci anni. Le pene
per calunnia, qualora venga ingiustamente accusato un innocente, sono
gravissime.
Va precisato che oggi, con le sofisticate tecnologie di cui dispongono le
forze di polizia (apparecchi per intercettazioni, trojan scaricati direttamente
sui telefonini dei sospetti per acquisire informazioni, conversazioni e
persino foto dei luoghi dove si svolgono le conversazioni, microspie,
microfoni direzionali, tracce lasciate dai telefonini), è più facile, rispetto al
passato, acquisire informazioni direttamente dall’interno
dell’organizzazione, per cui il fenomeno del «pentitismo», pur essendo
costante, ha acquisito una rilevanza minore, passando da strumento
principale a strumento sussidiario.
La relazione della Direzione nazionale antimafia, relativa al secondo
semestre del 2018, ha informato che dal 2016 al 2018 i pentiti sono stati
complessivamente 222: 40 di Cosa Nostra, 77 della camorra, 34 della
’ndrangheta, 52 delle mafie pugliesi, 13 di altre mafie, 6 di mafie straniere.
In realtà la relazione indica in 108 i pentiti del periodo 2016-2017 e in 111 i
pentiti del periodo 2017-2018; la somma è di 219, tre in meno di quanti ne
risulterebbero dalla somma delle attribuzioni a ciascuna organizzazione. Si
tratta tuttavia di uno scarto minimo, del tutto ininfluente per la valutazione
del fenomeno.
Testimoni di giustizia
Chi assiste a un omicidio di mafia, chi è vittima di un’estorsione, chi è
strozzato dall’usura e rende testimonianza su quello che ha visto e che ha
subito può andare incontro alla vendetta della mafia. Lo Stato ha il dovere
di difenderlo soprattutto perché quel cittadino è in pericolo per aver
adempiuto al dovere civico della testimonianza. Dopo le prime incertezze,
determinate dalla confusione tra le figure di pentito, testimone, complice,
l’ordinamento ha definito con chiarezza i caratteri di questa figura e ha
stabilito le modalità per difenderla. È testimone di giustizia chi rende
dichiarazioni di «fondata attendibilità intrinseca»; assume rispetto ai fatti la
qualità di persona offesa o di testimone; non ha riportato condanne per
delitti non colposi connessi a quello per cui si procede; «non ha rivolto a
proprio profitto» la conoscenza dei fatti.
Oggi i testimoni di giustizia sono ottanta, ma cinquemila sono le
persone che devono essere protette insieme a loro perché famigliari o
collaboratori. Chi dichiara la verità compie un dovere costituzionale di
solidarietà civile, ricordato dall’articolo 2 della nostra Costituzione perché
contribuisce a conseguire un risultato, la sconfitta della mafia, che rafforza
la libertà dei cittadini e merita pertanto ogni forma di tutela.
L’obbiettivo principale dovrebbe essere un’efficace difesa del testimone
sui luoghi in cui vive e lavora. Ma questo non è possibile nelle zone dove lo
Stato non ha il pieno controllo del territorio.
Il testimone di giustizia è perciò tutelato con un programma di
protezione che spesso comporta lo sradicamento suo e della famiglia dai
luoghi di origine, la individuazione di un nuovo lavoro, una nuova scuola
per i figli, l’abbandono improvviso e spesso precipitoso di affetti e di
amicizie. Questa emigrazione forzata è disposta quando il testimone si trova
in una situazione di grave pericolo, rispetto alla quale risulti «l’assoluta
inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili direttamente
dall’autorità di pubblica sicurezza».
Il comportamento di questi testimoni è essenziale nella lotta contro la
mafia perché costituisce la prova della forza dell’onestà e del rifiuto
dell’omertà.
Voto di scambio
La mafia ha sempre considerato particolarmente rilevanti i rapporti con la
politica: per avere licenze, concessioni, assunzioni, delibere amministrative
di favore; per condizionare l’attività delle amministrazioni regionali e
locali; per ottenere leggi di favore, l’«aggiustamento» dei processi, un
canale con il potere. La mafia ricambiava votando e facendo votare i
candidati loro amici. «Il mafioso» dice Tommaso Buscetta alla
Commissione antimafia nel novembre del 1992 «ha sempre cercato… e
aveva l’appoggio politico del personaggio che a lui interessava per tutte le
cose che si sarebbero svolte, non parliamone processualmente, perché allora
non esistevano i processi, ma per le deleghe per una importazione. Ogni
candidato vendeva la sua disponibilità elettorale contro i voti.» Dalle sue
parole emergono due aspetti interessanti. Allora (si riferisce al periodo sino
al 1984, data della sua fuga in Brasile) non esistevano i processi, perché
vigeva il principio della convivenza con la mafia. Il favore poteva
consistere anche nel favorire un affare facendo ottenere un’autorizzazione
alla importazione. Più avanti Buscetta spiegherà che era stato autorizzato a
importare un certo quantitativo di burro.
La prima norma in materia di scambio politico mafioso fu introdotta nel
giugno del 1992, dopo la strage di Capaci. Ma risultò fin da subito poco
efficace perché si limitava a punire lo scambio tra danaro e voto mafioso,
quando è noto che la mafia non chiede soldi, ma favori. Nel 2014 ci fu una
riforma che finalmente puniva lo scambio tra il voto e la promessa (o la
consegna) di danaro o «altra utilità». La formula chiave era «altra utilità»,
ovvero tutto ciò di utile per la mafia che il candidato potesse promettere o
dare. La pena era da quattro a dieci anni.
Nel 2019 l’articolo è stato ulteriormente riformato: è punito con la pena
della reclusione da dieci a quindici anni chi accetta «direttamente o per
mezzo di intermediari la promessa di procurare voti da parte di soggetti la
cui appartenenza all’associazione di cui all’articolo 416 bis sia a lui nota in
cambio dell’erogazione o promessa di erogazione di danaro o di qualunque
altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le
esigenze dell’associazione mafiosa». Se il candidato è eletto, le pene sono
aumentate della metà.
La formulazione è ormai molto precisa; tuttavia l’entità della pena
sembra eccessiva rispetto a condotte forse ancora più gravi che vengono
punite con sanzioni meno gravi. Per la rapina, per esempio, la reclusione va
da tre a dieci anni.
L’aumento a volte irragionevole delle pene è il risultato di due potenti
meccanismi: uno è l’illusione e l’altro è la furbizia. L’illusione è che la
minaccia serva di per sé come deterrente, ma non è così.
Chi non ruba non lo fa perché c’è la minaccia della pena; non lo fa
perché è educato a rispettare i diritti altrui. Quando si deve ricorrere
all’aumento delle pene per recuperare un ordine è segno che i valori civili
son deboli, insufficienti a costruire legami di onestà. Pertanto, bisogna
lavorare per la civiltà dei comportamenti piuttosto che per l’asprezza delle
pene. L’ordine si recupera con la pedagogia civile, la fedeltà ai valori della
Costituzione, la correttezza dei comportamenti, il rispetto dell’altro.
Ora parlo della furbizia. Aumentando le pene a dismisura il politico
comunica ai cittadini una sua ferrea intransigenza e una cieca fiducia nella
legge come leva che da sola scardina il malaffare e risolve i problemi
sociali. Nomi evocativi come per esempio «legge spazzacorrotti» e
comunicati altisonanti come «Abbiamo abolito la povertà!» danno l’idea
che si è fatto tutto il possibile. Nell’età della comunicazione, comunicare
diventa parte del fare; serve per acquisire consenso, nei tempi brevi, ma non
a risolvere i problemi, che invece attendono il fare.
Il problema dell’onestà
Se la mafia fosse solo una sorta di malattia del nostro Paese, per sradicarla
sarebbe sufficiente un’azione di polizia. Ma non è così. La mafia non è un
marginale accidente del Mezzogiorno. È stata per lunghissimi anni una
componente strutturale di molte aree del Sud; è emigrata, ahimè con
successo, nel Nord e nel Centro del Paese, nonché in molti Paesi stranieri.
Ha avuto un ruolo determinante in molte vicende recenti della nostra storia
politica.
Pensate: cosa sarebbe l’Italia se fossero vivi Falcone e Borsellino, Dalla
Chiesa e don Puglisi, Mattarella e La Torre, Siani e Impastato? Cosa
sarebbe l’Italia se non ci fossero state e non ci fossero le mafie, se non
fossero stati uccisi i giornalisti, i poliziotti, i carabinieri, i politici, i cittadini
comuni, i magistrati, i sindacalisti, i sindaci che sono caduti sotto il piombo
di quelle organizzazioni? Non sarebbe più forte e più libera? Non potreste
voi guardare con maggiore fiducia al vostro futuro?
Processi, condanne, confische, carcere rigoroso sono indispensabili
contro le mafie. Ma non sono armi sufficienti per giungere alla sconfitta
definitiva. La lotta contro la mafia non è solo un problema di ordine
pubblico, è parte di un’azione per la difesa del presente e del futuro e
chiama in causa la responsabilità di tutti i cittadini. Se i cittadini, giovani e
adulti, sono indifferenti al rispetto delle regole, alla integrità morale delle
persone che eleggono alle diverse responsabilità politiche, ai
comportamenti che non rispettano la dignità delle persone e i luoghi in cui
le persone vivono, è inevitabile che nella società si crei l’humus nel quale
attecchisce ogni tipo di prepotenza e di violenza, compresa quella mafiosa.
La mafia teme la legalità, la correttezza, l’onestà dei cittadini e teme
coloro che educano i giovani a questi valori. La promozione dei
comportamenti civili toglie il terreno sotto i piedi alle organizzazioni
mafiose che temono tanto una società onesta quanto l’azione repressiva. Lo
dimostra in modo evidente l’omicidio di padre Puglisi nel quartiere
Brancaccio di Palermo impegnato a sottrarre alle organizzazioni mafiose la
loro egemonia sul terreno sociale o quello di don Giuseppe Diana, che era
impegnato sullo stesso terreno a Casal di Principe, ucciso il 19 marzo 1994.
Perciò non basta abbattere la mafia per via giudiziaria. Come ho detto
all’inizio, se un terreno è pieno di erbacce, per renderlo fertile non è
sufficiente strapparle. Quel terreno va dissodato, arato, concimato,
altrimenti le erbacce torneranno e svanirà anche la memoria del tentativo di
ripulirlo.
L’antimafia dei delitti, quella della repressione, che strappa le erbacce,
dev’essere affiancata dall’antimafia dei diritti, quella che sta nelle mani dei
cittadini comuni che rispettano le leggi, che hanno la consapevolezza dei
loro doveri, che esercitano le loro responsabilità.
Debiti e doveri
Di questa iniziativa è parte essenziale il vostro coinvolgimento. Voi giovani
avete il diritto di vivere in un Paese libero dalla mafia; ma questo diritto per
tutte le generazioni non è stato un dono del Cielo. La libertà dalla mafia non
è un regalo. È una conquista. Non avete il diritto di chiedere che se ne
facciano carico solo gli adulti, rimanendo in attesa che arrivino le buone
notizie. Dovete impegnarvi a conoscere la storia recente del nostro Paese, a
rispettare e a esigere il rispetto delle regole, delle persone e dei luoghi;
anche dei luoghi che sono gli spazi nei quali si svolge la vita delle persone.
Non bastano le leggi per rendere un Paese libero e civile. La democrazia
per vivere ha bisogno dei comportamenti democratici dei cittadini. Una
democrazia non può nascere né crescere in una società che non abbia onesti
comportamenti, nella quale cioè i cittadini non si prodighino per fare
emergere i valori civili.
La democrazia non è solo una forma di governo: è un complesso di
principi e di valori che orientano i comportamenti dei cittadini comuni e dei
responsabili politici, ispirati al rispetto. Il rischio per le giovani generazioni
è quello di non comprendere appieno che la democrazia non è un regalo. È
il frutto della ragione e del desiderio di libertà. In tutti i Paesi la democrazia
è stata conquistata con lotte, a volte con conflitti armati; così è accaduto
negli Stati Uniti con la guerra contro l’Inghilterra (1775-1783), in Europa
prima con la Rivoluzione francese (1789) e poi con la Seconda guerra
mondiale contro il nazifascismo; pensate ai sacrifici enormi dei cittadini
cileni, argentini, brasiliani contro le dittature militari di Pinochet, di Videla
e di Castelo Branco. Pensate ai rischi che corrono oggi i giovani come voi
che chiedono libertà in Russia o a Hong Kong. Per questa ragione va
tutelata. Molti sono portati a credere che la democrazia sia uno stato di fatto
che non può che migliorare, che non è a rischio di deperimento. Non è così.
La democrazia può estinguersi, se non è curata; come una pianta che può
ammalarsi, perdere le foglie e morire. Le medicine principali sono la
memoria e il rispetto. Se i responsabili politici demonizzano interamente il
passato, si insultano reciprocamente e dileggiano le istituzioni, tenendo
comportamenti offensivi della propria e dell’altrui autorevolezza, è difficile
che la democrazia si rafforzi. E se i cittadini non rispettano né i propri
doveri né i diritti altrui è difficile che il Paese progredisca. Chi pensa che
dileggiare l’altro serva a salvare se stesso si sbaglia. Questo atteggiamento
attiva, invece, un meccanismo di reciproca e continua delegittimazione che
nuoce a tutti e alla democrazia stessa.
Le democrazie non muoiono per omicidio, muoiono per suicidio.
Muoiono quando i cittadini perdono il senso della vita democratica o se ne
dimostrano estranei o indifferenti. Quando non credono più nelle ragioni
della democrazia. La democrazia è come l’aria. Quando c’è non te ne
accorgi. Ma quando manca cominci a stare male.
L’educazione
La scuola è un fattore essenziale per il consolidamento e lo sviluppo della
democrazia. Questo la mafia lo sa. Nell’introduzione a un libro che avevo
curato nel 1996 (Mafia e antimafia, Laterza, Bari-Roma, p. XIV) ricordavo
gli attentati agli istituti scolastici di quell’anno e del precedente. A Niscemi,
provincia di Caltanissetta, sindaco e assessori erano stati costretti a dormire
per circa due mesi tra il settembre e il novembre del 1995 in una nuova
scuola elementare per impedire che durante la notte i locali venissero
vandalizzati. In un liceo scientifico di Aversa, nel febbraio del 1996, era
stato collocato un sistema esplosivo composto da due bombole di gas
collegate da un innesco, ma per fortuna non aveva funzionato. Nella
provincia di Caserta, regno della camorra di Bardellino e Nuvoletta, legati
ai corleonesi di Totò Riina, tra l’ottobre del 1995 e il gennaio del 1996
vennero compiuti circa trenta attentati a scuole. A Vico Equense, nel
gennaio del 1996, dopo una manifestazione antimafia venne gravemente
danneggiata una scuola media.
Non tutti questi vandalismi sono stati commessi direttamente da
organizzazioni mafiose. Ma è la mafia che diffonde questo odio nei
confronti della cultura e dei luoghi deputati all’istruzione e alla trasmissione
dei valori della libertà. Conseguentemente o devasta direttamente o manda
altri a devastare. Libertà, istruzione, conoscenza sono temibili nemici per la
mafia, perché insegnano a riflettere, a essere autonomi e a rifiutare ogni
forma di subalternità.
Dopo l’assassinio di Piersanti Mattarella la Regione Sicilia approvò una
legge per stanziare fondi speciali diretti a sostenere l’educazione
«antimafia» delle generazioni più giovani. Seguirono analoghe leggi della
Regione Campania (1985), Calabria (1986) via via tutte le altre, sino alla
legge della Regione Lombardia del 2015 che è la più completa, anche
perché si è potuta avvalere delle esperienze precedenti. Nando dalla Chiesa,
figlio del generale Carlo Alberto della cui uccisione per mano della mafia
ho più volte parlato in queste pagine, è uno dei maggiori studiosi del
fenomeno della mafia e della risposta sociale e ha coordinato una ricerca
sulla storia dell’educazione alla legalità nella scuola, analizzando il tema
regione per regione e offrendo una panoramica dettagliata. Dal suo studio
emerge l’impegno civile di migliaia di insegnanti che in tutta Italia hanno
insegnato il rispetto delle leggi. Potete prendere visione della ricerca,
davvero ben fatta, sul sito dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata
dell’Università degli Studi di Milano (cross.unimi.it). Dalla stessa ricerca
emerge che le stragi del 1992 hanno segnato una svolta. Dopo quella data,
infatti, in centinaia di scuole dal Sud al Nord, dalle elementari ai licei,
grazie all’impegno spesso del tutto volontario degli insegnanti, si è tessuta
una rete tra le giovani generazioni fatta di nuove conoscenze e di
acquisizioni dei valori costituzionali. Queste generazioni hanno compreso la
necessità della legalità per lo sviluppo civile di un Paese moderno. Hanno
imparato a distinguere tra modernità e progresso, perché ci può essere la
prima senza il secondo. La modernità che consiste nelle scarpe griffate, nel
taglio di capelli simile a quello della star del momento, negli atteggiamenti
disinibiti non va confusa con il progresso che è fatto di adempimento dei
propri doveri, di rispetto per le istituzioni e per i beni pubblici, di serietà
nello studio e nel lavoro. La modernità senza progresso è propria della
mafia.
La politica e l’onestà
Le questioni affrontate in questo capitolo riguardano, direttamente o
indirettamente la politica e l’onestà, il modo in cui il responsabile politico si
confronta con i cittadini, il modo in cui i partiti concepiscono il proprio
ruolo nel Paese, il modo in cui si comportano i singoli cittadini. Sono state
approvate leggi per impedire la candidatura di chi abbia commesso
determinati reati, campagne di stampa, non sempre in buona fede, hanno
segnalato candidati imbarazzanti, molte Commissioni parlamentari
antimafia hanno redatto protocolli con una serie di prescrizioni dirette a
evitare candidature incompatibili con le responsabilità di chi assume un
ruolo politico. Leggi e regole approvate con larghissima maggioranza, ma
non necessarie. Infatti, nessuno obbliga i partiti a candidare persone
inaffidabili e nessuno obbliga i cittadini a votarle. Tuttavia, i partiti hanno
chiesto queste misure, o perché non riescono a opporsi ad alcune
candidature «pesanti» oppure perché cercano di apparire esempi di virtù.
Ora vi pongo due domande.
Perché molti partiti continuano a candidare persone inaffidabili?
Perché i cittadini votano persone inaffidabili?
Le questioni che i due quesiti sollevano sono connesse. Se i cittadini
non le votassero, i partiti non le candiderebbero; ma se non fossero
candidate non potrebbero essere votate. In molti casi gli elettori
manifestano una preoccupante indifferenza nei confronti del problema
dell’onestà politica. Si candidano persone disoneste perché sono portatrici
di voti; il cittadino li vota per ragioni che esulano dalla personale
correttezza: perché è simpatico, è alla mano, assicura che farà alcuni favori.
Di sicuro una parte della responsabilità è a carico dei partiti che candidano
persone «impresentabili», ma i cittadini non sono innocenti: se votassero
con senso dell’onestà, poiché persone oneste ci sono in tutti i partiti, gli
«impresentabili» non verrebbero candidati.
Nei primi decenni di vita della Repubblica hanno dominato alcune
grandi etiche pubbliche: cattolica, comunista, repubblicana, liberale. Le
diverse etiche avevano alcuni comuni denominatori: la dignità delle
istituzioni, il dialogo tra avversari, la necessità di regolare il conflitto
politico per salvaguardare l’efficienza e la credibilità delle istituzioni. Esse
derivavano non solo dall’impianto teorico delle diverse culture civili, ma da
una storia comune, fortemente intrecciata alla storia dell’Italia
repubblicana. Questo idem sentire consentiva, pur nella tensione del
conflitto politico, la costruzione di una rete di principi e consuetudini
politiche che ruotavano attorno al concetto della dignità delle istituzioni
della Repubblica, del loro carattere di bene della nazione, del dovere di
ciascuna parte e di ciascun singolo di rispettarle e di farle rispettare. Non
mancarono eccezioni, anche rilevanti, a questi principi. Ma si trattava
appunto di eccezioni che, proprio per il loro carattere derogatorio,
indirettamente confermavano il primato dei principi etici che regolavano la
sfera pubblica. Questi principi nascevano dalla vitalità dei partiti, dalla loro
legittimazione, dalle idee, dagli impegni e che caratterizzavano ciascuno di
essi. Ciascuno di quei partiti spiegava ai cittadini quale era stato il loro
ruolo nella storia dell’Italia e quale sarebbe stato il futuro che intendevano
costruire. In questa narrazione ciascuno dei seguaci scopriva e rafforzava la
propria identità e definiva il proprio ruolo nel futuro. Erano formazioni
della società costituite da comunità politiche riflessive, che affrontavano i
problemi nazionali e a volte anche internazionali, discutevano con metodo
le questioni della vita e le scelte di governo, costruivano ponti tra i cittadini
e le istituzioni. In quella fase erano ancora chiare le differenze tra morale,
politica e Codice penale. Oggi i confini sono scomparsi di fronte al vitello
d’oro del Codice penale. Eppure le differenze ci sono: alcuni
comportamenti moralmente riprovevoli possono non costituire reato (un
candidato mente gravemente ai cittadini per assicurarsene il consenso); al
contrario, comportamenti che costituiscono reato possono non essere
moralmente riprovevoli (un sindaco storna dei fondi dal bilancio del
comune per procurare un alloggio ai terremotati); esistono poi
comportamenti politicamente scorretti, che non ledono né la morale né il
Codice penale (in una trattativa politica non si mantiene la parola data).
AZIONE PENALE
L’articolo 112 della Costituzione stabilisce: «Il pubblico ministero ha
l’obbligo di esercitare l’azione penale». Ciò significa che il pm, in
attuazione del principio di legalità, deve avviare un’indagine ogni qualvolta
sia venuto a conoscenza che è stato commesso un reato. In quasi tutti gli
altri Paesi, per i costi pubblici che comporta l’amministrazione della
giustizia penale, vige invece il principio di opportunità, il pm cioè valuta
caso per caso se conviene procedere, in base alla maggiore o alla minore
rilevanza del fatto, al costo che avrebbero le indagini rispetto al risultato, al
comportamento del colpevole, per esempio se abbia risarcito il danno alla
vittima. In questi altri Paesi, per esempio Francia e Germania, il pm dipende
dal ministro della Giustizia ed è il ministro che indica i criteri generali per
l’esercizio dell’azione penale, quali reati perseguire con priorità, quali reati
non perseguire quando vi sia stato, per esempio, il risarcimento del danno.
Ma è regola generale che il ministro non possa dare ordini specifici su una
determinata inchiesta. Il ministro risponde delle sue scelte davanti al
Parlamento. In Italia il pm è indipendente dal ministro; perciò, in pratica,
nella impossibilità di avviare e portare a termine tutte le inchieste è lo stesso
pm che decide discrezionalmente e senza rispondere a nessuno. Questa
situazione dà adito a molte critiche, perché pone nelle mani di un soggetto
politicamente irresponsabile, il pm, scelte che sono di natura squisitamente
politica.
BLOCCO DEL POPOLO
Fu la lista, con Pci, Psi e Partito d’azione, che vinse le prime elezioni
regionali in Sicilia, il 20 aprile 1947. Prese il 30,4 per cento dei voti, mentre
la Dc, secondo partito, si fermò al 20,5 per cento. Il 1° maggio successivo,
dieci giorni dopo, a Portella della Ginestra il bandito Salvatore Giuliano,
per punire i vincitori, con la sua banda sparò sui contadini che
festeggiavano: rimasero sul terreno undici morti e decine di feriti.
CORTE D’ASSISE
Realizza il principio della partecipazione dei cittadini all’amministrazione
della giustizia. È composta da due magistrati, il presidente e un altro
magistrato, insieme a sei giudici popolari estratti a sorte da un elenco di
cittadini dotati di particolari caratteristiche (incensurati, licenza media,
eccetera). Giudica sui reati più gravi come omicidio, strage, ricostituzione
del disciolto partito fascista, riduzione in schiavitù. Giudici togati e popolari
formano un unico collegio e deliberano insieme, partecipando alla
formazione della sentenza con parità di voto. Al processo possono essere
chiamati ad assistere, giudici popolari supplenti, i quali subentrano ai
titolari qualora uno di loro, per un qualsiasi motivo, non sia più in grado di
svolgere le sue funzioni. La norma fu inserita ai tempi del terrorismo
quando si temeva che i terroristi potessero uccidere un giudice popolare per
far saltare il processo. In questo modo si sarebbe evitata l’interruzione del
processo imposta dal principio secondo il quale la sentenza deve essere
deliberata dagli stessi giudici che hanno preso parte al dibattimento.
COSTITUZIONE
La Costituzione è la legge fondamentale dello Stato italiano; tutte le altre
leggi devono adeguarsi ai suoi principi. Fu redatta da un’Assemblea
Costituente di 556 eletti il 2 giugno 1946. Per prima volta nella sua storia il
popolo italiano, senza distinzione di censo e di sesso (per la prima volta le
donne votarono e furono votate), quel 2 giugno scelse liberamente il proprio
destino. Agli elettori vennero consegnate contemporaneamente la scheda
per la scelta fra monarchia e repubblica, il cosiddetto referendum
istituzionale, e quella per l’elezione dei deputati dell’Assemblea
Costituente. Al referendum istituzionale la maggioranza dei votanti scelse
la forma di stato repubblicana con circa 12 milioni e 700mila voti, contro
10 milioni e 700mila per la monarchia. La vittoria della repubblica diede
l’impronta alla Costituzione; se avesse vinto la monarchia, infatti, la
Costituzione sarebbe stata diversa. La Costituzione fu promulgata dal capo
provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre seguente ed entrò
in vigore il 1º gennaio 1948. Consta di 139 articoli e di 18 disposizioni
transitorie e finali.
DOVERI CIVICI
Sono i doveri che derivano dall’essere cittadino: votare, pagare le tasse,
rispettare l’ambiente, assicurare ai figli una formazione scolastica.
L’articolo 4 della Costituzione stabilisce: «Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una
funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Da
questo principio deriva per gli studenti il dovere civico di studiare.
GIUDICE AMMINISTRATIVO
I giudici amministrativi esercitano le loro funzioni nei tribunali
amministrativi regionali (Tar) e nel Consiglio di Stato. Hanno competenze
sulla maggior parte delle controversie che riguardano gli atti della pubblica
amministrazione: appalti pubblici, concessioni, autorizzazioni urbanistiche,
eccetera.
GIUDICE ISTRUTTORE
Era previsto dal precedente Codice di procedura penale e faceva parte
dell’Ufficio istruzione. Aveva il potere di compiere tutte le indagini e tutti
gli atti nei confronti dell’imputato (mandato di cattura, ordine di
perquisizione, decreto di intercettazione telefonica, eccetera). Poteva
prosciogliere e rinviare a giudizio. Sono stati giudici istruttori, tra gli altri,
Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto, Giancarlo Caselli, Rocco Chinnici,
Giovanni Falcone.
GIUDICI POPOLARI
v. Corte d’assise
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
v. Giudice amministrativo
IMMUNITÀ PARLAMENTARE
L’articolo 68 della Costituzione stabilisce che i membri del Parlamento non
rispondono delle loro opinioni e dei voti che esprimono durante l’esercizio
delle loro funzioni. Questo significa che se un parlamentare durante un
discorso in Aula o, nella sua veste, in altro luogo offende un avversario
politico o anche un comune cittadino non può essere chiamato a rispondere
di quell’insulto o di quell’offesa. Il parlamentare, inoltre, non può essere
sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, o sottoposto a
intercettazioni telefoniche o al sequestro di documenti o cose in suo
possesso, né può essere arrestato senza l’autorizzazione (autorizzazione a
procedere) della Camera a cui appartiene. Il parlamentare però può essere
arrestato in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna o se colto
in flagranza, mentre commette un reato.
LEGITTIMA SUSPICIONE
È il legittimo sospetto che in un determinato luogo un processo non possa
svolgersi con la necessaria imparzialità, a causa di specifiche situazioni
locali. L’articolo 45 Codice di procedura penale prevede che «in ogni stato e
grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare
lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la
libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la
sicurezza o l’incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo
sospetto, la Corte di cassazione, su richiesta motivata del procuratore
generale presso la Corte d’appello o del pubblico ministero presso il giudice
che procede o dell’imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato
a norma dell’articolo 11».
LUDOPATIA
La ludopatia è l’incapacità di resistere all’impulso di giocare d’azzardo o di
fare scommesse, pur essendo consapevoli delle gravi conseguenze che
possono derivare. Per continuare a dedicarsi al gioco d’azzardo e alle
scommesse, chi è affetto da ludopatia trascura lo studio o il lavoro e può
arrivare a commettere delitti di vario genere, in particolare furti e truffe.
MAGNA CHARTA
Il 15 giugno 1215 il re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra fu costretto dai
baroni inglesi a riconoscere a loro, alla Chiesa, alle città e a tutti gli uomini
liberi una serie di diritti in un documento solenne, la Magna Charta
libertatum («Grande Carta delle libertà») che successivamente entrò a far
parte delle leggi fondamentali del regno inglese. Si stabiliva, in particolare
che: arresti e condanne sarebbero stati decisi soltanto da un tribunale
composto di persone di ceto pari a quello dell’individuo sottoposto a
giudizio e in conformità alle leggi in vigore; non sarebbe stata imposta
alcuna tassa senza l’approvazione del Consiglio comune del regno,
un’assemblea costituita da nobili feudatari (laici ed ecclesiastici); la
monarchia sarebbe stata affiancata da un organo composto da venticinque
baroni; i baroni avrebbero avuto il diritto di ribellarsi al re nel caso costui
commettesse un’evidente e grave ingiustizia. Si tratta forse della prima
forma di Costituzione.
MINISTRO DELL’INTERNO
Il ministro dell’interno è il capo dell’amministrazione dell’Interno e
responsabile dell’ordine pubblico. Da lui dipendono la polizia di Stato, il
corpo nazionale dei vigili del fuoco e i prefetti.
RAGION DI STATO
Si tratta del complesso di fattori relativi alla sicurezza dello Stato che
possono indurre chi deve assumere un’importante decisione politica a
giustificare o a coprire o a effettuare un’azione illecita. Per esempio, per
salvaguardare una decisiva alleanza internazionale, il decisore politico
acconsente al rapimento da parte di agenti stranieri di un cittadino straniero
sul territorio dello Stato.
SEPARATISMO
Ha riguardato la Sicilia. Si è trattato di un fenomeno politico di breve durata
(1943-1947), ma drammatico e caratterizzato da numerosi episodi violenti,
con il carattere di vera e propria guerra civile. Sostenuto da latifondisti e
dalla mafia, il separatismo puntava all’indipendenza della Sicilia dallo Stato
italiano. Dopo lo sbarco degli americani in Sicilia, esponenti del
separatismo proposero espressamente l’annessione della regione agli Stati
Uniti come 49° Stato.
SEQUESTRO
Il sequestro preventivo (articolo 321 del Codice di procedura penale)
consiste nella sottrazione al legittimo proprietario della disponibilità di cose
mobili o immobili, pertinenti a un reato, la cui libera disponibilità possa
consentire di commettere altri reati o aggravare le conseguenze del reato
contestato. L’altro tipo di sequestro (articolo 20 decreto legislativo
159/2011) riguarda i beni che possono essere oggetto di confisca perché,
come già detto (v. Confisca per reati di mafia):
SOGGIORNO OBBLIGATO
È l’obbligo di soggiornare in un comune lontano dalla propria residenza
abituale inflitto ai sospetti di attività mafiose. Purtroppo non è servito a
debellare la mafia e ha agevolato la penetrazione della mafia nei comuni del
Nord (di Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto) e del Centro (Emilia,
soprattutto).
STATO ETICO
È lo Stato che pretende di essere depositario di principi morali cui tutti
devono sottostare. Ritiene perciò di essere legittima fonte non solo di regole
giuridiche ma anche di regole etiche e a questo fine pretende di controllare
e sanzionare le condotte morali dei cittadini. Esempi di Stati etici nella
storia sono lo Stato nazista, lo Stato sovietico, oppure l’attuale regime della
Corea del Nord.
STATO LAICO
Lo Stato laico non ammette interferenze religiose o morali nella sua attività
e preserva la libertà morale dei cittadini.
UFFICIO ISTRUZIONE
v. Giudice istruttore
Bibliografia essenziale
Sitografia
www.camera.it
www.senato.it
www.benisequestraticonfiscati.it
www.anticorruzione.it
www.direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/
https://bit.ly/2L1iVtc (relazione della Commissione antimafia XVII
legislatura su mafia e massoneria.)
Ringraziamenti
2. La mafia, le mafie
Contro la mafia
Contro la ’ndrangheta
Contro la camorra
Le mafie in Puglia
Altre mafie
5. Isolare le mafie
Grand Hotel Ucciardone
Il problema dei difensori
I pentiti
Testimoni di giustizia
Voto di scambio
C’è stata una trattativa tra Stato e mafia?
È lo Stato che deve infiltrarsi?
I comuni sciolti per mafia e gli amministratori uccisi dalla mafia
Impedire l’infiltrazione nell’economia
6. Il problema dell’onestà
Rompere gli equilibri mafiosi
Debiti e doveri
L’educazione
L’esempio di Libera contro gli indifferenti
L’impegno prima di tutto
La politica e l’onestà
La necessità di un’etica politica
Piccolo glossario
Bibliografia essenziale
Ringraziamenti