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«Non voglio parlarvi della mafia come protagonista, ma come

obbiettivo di una lotta per l’onestà. Voglio spiegarvi perché


Borsellino, Chinnici, Falcone, La Torre, Mattarella e molti altri sono
stati uccisi, spiegare come sono cambiati gli strumenti per
combattere questa guerra e dirvi dei risultati che abbiamo
conseguito come di quello che ancora dobbiamo e possiamo fare.»
Ci sono molte storie della criminalità organizzata, ma poco è stato
scritto sull’antimafia, su cos’è davvero e cosa ha fatto negli ultimi
cinquant’anni. Lo fa Luciano Violante in questo libro che ricostruisce
eventi, protagonisti e significato di una battaglia in corso che lo ha
visto impegnato a lungo in prima persona. Una ricostruzione
puntuale e appassionata, indirizzata anzitutto alle nuove
generazioni, che racconta le storie di giornalisti, amministratori,
poliziotti, giudici, sacerdoti, anche dei meno noti; ma anche la
battaglia per la confisca dei beni sequestrati, l’introduzione di misure
carcerarie, lo scioglimento dei consigli comunali, le commissioni
antimafia e le grandi inchieste fino al processo Andreotti e alla
presunta trattativa tra Stato e mafia. Una storia civile che non
possiamo dimenticare e un appello autorevole per il futuro che aiuta
a comprendere che la mafia non è un mostro invincibile ma
un’organizzazione di uomini e donne che si può combattere
cercando anzitutto di «colpire per primi» con l’educazione alla
legalità, a partire dalla scuola e dai più giovani.

LUCIANO VIOLANTE, già professore ordinario di diritto e procedura


penale all’Università di Camerino e a lungo magistrato e
parlamentare del Pci, del Pds e dei Ds, è stato presidente della
Camera dei Deputati e presidente della Commissione antimafia. Per
Einaudi ha curato alcuni volumi degli Annali della Storia d’Italia.
Come autore ha pubblicato tra l’altro Non è la piovra (1994), Un
mondo asimmetrico (2003), Magistrati (2009), Politica e menzogna
(2013), Il dovere di avere doveri (2014), Democrazie senza memoria
(2017) e, con Marta Cartabia, Giustizia e mito (2018).
Progetto grafico:
Mauro de Toffol / theWorldofDOT

www.solferinolibri.it
Saggi
LUCIANO VIOLANTE
Colpire per primi
La lotta alla mafia spiegata ai giovani
www.solferinolibri.it

© 2019 RCS MediaGroup S.p.A., Milano


Proprietà letteraria riservata

ISBN 978-88-282-0341-4
Prima edizione: ottobre 2019
Colpire per primi
A Beatrice e Lorenzo
1

Un pezzo della nostra storia

Bruno, Comasia, Marcello, Chiara, tra voi non vi conoscete. Frequentate


quattro diverse scuole superiori in quattro diverse città a quattro diverse
latitudini. Avete in comune ricerche sulla mafia, interesse a capire,
domande che mi avete inviato anche per posta elettronica, dopo le nostre
conversazioni a scuola. Comasia vuol fare il magistrato, Bruno il
giornalista, Marcello l’astrofisico, Chiara, campionessa di greco e latino,
frequenterà la facoltà di Lettere classiche. Mi avete quasi aggredito con i
vostri perché. Siete innamorati degli eroi – Falcone, Borsellino, Dalla
Chiesa, Mattarella –, ma non vi bastano le commemorazioni. Volete capire a
fondo che cosa hanno fatto, quale è stato il loro specifico contributo. Siete
rimasti in silenzio quando vi ho chiesto se conoscevate Lenin Mancuso,
Domenico Russo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro,
Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina,
Claudio Traina. Una donna e nove giovani uomini delle scorte uccisi con
Cesare Terranova, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo
Borsellino. Vi ho detto che in un Paese democratico non devono esistere
morti di serie A e morti di serie B. Gli uomini e le donne delle scorte sanno
che in servizio potrebbero morire e se moriranno per loro non ci saranno
ricordi solenni, né i loro nomi entreranno nei libri di storia. Tuttavia
adempiono ai loro impegni con dedizione e sapienza professionale. Perché
la dignità degli umili è stata ed è tutt’ora la forza dell’Italia.
Guardando la nostra corrispondenza, sfogliando gli appunti presi
durante le conversazioni nelle vostre scuole e in tanti altri luoghi, ho
pensato di scrivere per voi e per i vostri coetanei una lettera aperta
sull’antimafia, una conversazione con le informazioni essenziali per aiutarvi
a comprendere cosa è accaduto, un contributo al vostro essere cittadini
responsabili e riflessivi.
Le mafie, oggi, si muovono sotto il pelo dell’acqua, agiscono
silenziosamente. Sono meno visibili e se ne parla di meno. Ma il silenzio
non deve ingannarci. Le forze di polizia e la magistratura lo sanno e
continuano ad agire senza sosta. Ma anche i cittadini, compresi voi giovani,
devono essere consapevoli della costante presenza delle mafie, meno
agguerrite di ieri ma certamente ancora molto pericolose.
Colpire per primi vuol dire non attendere che la mafia ci colpisca per
reagire. Agire per primi vuol dire agire con continuità, contro la mafia in
quanto tale, prescindendo dai singoli delitti, tanto sul piano dell’intervento
giudiziario quanto sul piano del consolidamento dei valori civili.
In queste pagine non troverete le gesta truci degli assassini di mafia.
Non voglio parlare della mafia come protagonista di cronache criminali;
voglio parlarne come obbiettivo di una lotta per l’onestà. Perciò parlo non
della mafia, ma della lotta contro la mafia, non dei boss, ma di chi li ha
combattuti. Parlo degli strumenti che sulla base dell’esperienza sono stati
progressivamente ideati, elaborati, raffinati e sempre in via di
miglioramento. Voglio parlare dei risultati che abbiamo conseguito e che
stiamo conseguendo, ma anche dei punti ancora deboli, di alcune perduranti
inefficienze. Intendo spiegare, inoltre, per quali specifiche ragioni
Borsellino, Ciaccio Montalto, Chinnici, Dalla Chiesa, Falcone, La Torre,
Mattarella, Siani e tanti altri sono stati uccisi. La lotta contro la mafia è una
straordinaria chiave di lettura della nostra storia, dei nostri cedimenti, ma
anche del coraggio di molte migliaia di uomini e donne, la gran parte
sconosciuti, di come siamo riusciti a restare un Paese di persone libere e di
istituzioni libere nonostante le stragi, le intimidazioni, le corruzioni.
La storia dell’antimafia non è la storia d’Italia, ma serve a capire la
storia d’Italia.

Non parliamo di «mostri»


Molti definiscono la mafia come piovra o come cancro. È un approccio
molto sbagliato. Questo giudizio giova solo alla mafia perché la fa apparire
invincibile. La mafia non è un mostro imbattibile né un male incurabile. È
un’organizzazione, fatta di uomini e ora, dopo la cattura di centinaia di
boss, anche donne; poi ci sono i soldi, la droga, le armi, le relazioni sociali e
politiche. Bisogna smantellare l’organizzazione, catturare quegli uomini e
quelle donne, intervenire efficacemente sui traffici criminali, confiscare
soldi, droga, armi, spezzare le alleanze, punire chiunque aiuti i mafiosi a
conseguire i loro obbiettivi. È quello che polizie, magistrature, autorità
antiriciclaggio e anticorruzione stanno facendo attraverso l’azione, il
Parlamento e i governi attraverso le leggi e gli atti di direzione
amministrativa.
Tutto perfetto dunque, tutto è stato fatto bene?
Certamente no. Come ho accennato poco fa, ci sono stati e ci sono
ritardi, errori, viltà, incapacità. Ma non c’è stato solo questo, altrimenti non
avremmo potuto arrestare tutti i capi di Cosa Nostra, meno uno: Matteo
Messina Denaro. Totò Riina e Bernardo Provenzano, che per mezzo secolo
hanno riempito di sangue le strade della Sicilia e di soldi le loro casseforti,
sono morti in carcere. Né avremmo potuto cominciare ad assestare colpi
efficaci, finalmente, a ’ndrangheta e camorra. Abbiamo confiscato in tutta
Italia beni e danaro per centinaia di milioni di euro. Sono serviti capacità
professionali, coraggio, spirito di sacrificio, senso del dovere. Sono servite
soprattutto dignità e voglia di libertà, perché la mafia si combatte con la
testa prima che con le leggi; si combatte se non si vuole vivere da servi.
Oggi abbiamo raggiunto risultati importanti, molto importanti, ma non
definitivi. I risultati definitivi si potranno ottenere solo quando all’azione
repressiva contro le organizzazioni mafiose si accompagnerà un impegno
continuativo delle istituzioni politiche, dell’istruzione pubblica e dei
cittadini. Le prime devono assicurare l’efficienza e la correttezza
dell’amministrazione. Le scuole e i cittadini non devono restare indifferenti:
le scuole devono trasmettere valori, i cittadini devono praticare valori.
L’onestà di ciascuno di noi è decisiva per una vittoria definitiva. Tutti
dobbiamo essere onesti nel lavoro e nella vita.
Da un terreno incolto non basta strappare le erbacce, attraverso arresti e
condanne; occorre poi dissodare, arare, irrigare, coltivare con cura. Questa è
l’antimafia dei diritti, l’antimafia che non attende la strage per mobilitarsi.
Sa che la mafia opera anche quando non si manifesta e sa che l’arma
decisiva è costituita dal rifiuto civile dei cittadini. La lotta contro la mafia
dà vita a un singolare paradosso. Più la si combatte, più la si rende
percepibile. Al massimo livello di contrasto, con arresti, condanne e
confische, corrisponde il massimo livello di percezione e quindi di allarme.
Pertanto, più crescono i successi, più cresce l’allarme e cresce la sensazione
che non si faccia abbastanza. Per assurdo, si avrebbe una percezione più
bassa, meno allarmata, se la mafia fosse combattuta con minore intensità o
non fosse combattuta per nulla. Oggi, a differenza del passato, quando
addirittura si negava l’esistenza della mafia, l’impegno è quotidiano e
investe, in misura diversa, tutti gli organi della Repubblica e significative
fasce della società civile. Pertanto, gli arresti, i sequestri, le condanne e le
confische non sono il segno della forza della mafia, ma, al contrario, la
dimostrazione della sua battibilità e della forza della democrazia.

Parliamo di persone
Spesso voi e i vostri compagni mi avete chiesto di parlarvi delle persone
che hanno combattuto la mafia. Marcello mi ha domandato: «Se dovesse
allestire una galleria dell’antimafia con i ritratti delle personalità che più
l’hanno colpita chi non dovrebbe mancare?». Gli rispondo adesso. Sarebbe
una galleria lunga chilometri; non dovrebbe mancare nessuno. Non devono
di sicuro mancare gli uomini e le donne della polizia di Stato, dei
carabinieri, della guardia di finanza, della polizia penitenziaria che, dopo
mesi e mesi di ricerche ininterrotte, senza domeniche, senza Pasque e senza
Natali hanno scoperto piani omicidi, sequestrato beni per milioni di euro,
arrestato pericolosi capimafia, salvato vite umane. Non devono mancare
giornalisti, spesso di testate minori, di provincia, che denunciano e
documentano il malaffare mafioso: qualcuno è stato ucciso per questo, altri
sono in pericolo.
Nel corso di un convegno indetto dalla Rai il 16 maggio 2018 è risultato
che in quel momento erano ben diciannove i giornalisti sotto scorta. Non è
un caso. Per combattere la mafia bisogna conoscere i personaggi e i delitti,
e perché si conosca è necessario informare. La mafia, invece, vuole che cali
il silenzio sui suoi traffici e sui suoi crimini, perciò minaccia e spesso
uccide chi fa informazione. I giornalisti informano, tengono desta
l’attenzione, svelano fatti, nomi, connessioni. Per questa ragione molti
giornalisti sono gravemente minacciati e molti sono stati uccisi per i loro
articoli e per le loro inchieste.
Chi voglia approfondire la storia della difesa delle libertà deve sapere
che cosa hanno fatto concretamente tutti coloro che hanno contribuito a
difendere i nostri diritti aggrediti dalla violenza, dalla intimidazione e dalla
corruzione. Non solo i più noti, ma anche quelli che lo sono meno ma
altrettanto meritevoli di memoria e di rispetto. L’elenco è lungo, proprio
perché, per fortuna, in tanti si sono impegnati e si impegnano per
difenderci. Ho scelto alcuni personaggi che secondo la mia opinione e le
mie conoscenze risultano meno noti o addirittura dimenticati.
Federica Angeli, cronista de «la Repubblica», ha smascherato la mafia
di Ostia, dove vive con il marito e i figli. I suoi articoli, chiari e
documentati, hanno scatenato l’ira della mafia del posto che l’ha minacciata
più di una volta. Nel 2013, dopo un suo reportage sui gruppi criminali di
Ostia, è stata aperta un’inchiesta giudiziaria che ha portato all’arresto di
cinquantuno persone. Federica Angeli continua a scrivere e a denunciare le
imprese criminali di persone legate alla famiglia Spada. Il 25 gennaio 2018,
in seguito alle indagini di polizia, sono state arrestate, con l’imputazione di
associazione mafiosa, trentadue persone legate a quella famiglia. Il 19
febbraio dello stesso anno la giornalista si è recata in tribunale per
testimoniare nel processo contro Armando Spada, uno dei capi del clan.
Vive sotto scorta dal luglio 2013.
Roberto Antiochia era un poliziotto di ventitré anni quando rinunciò alle
ferie per fare da scorta al vicequestore Ninni Cassarà, capo della sezione
«catturandi» della Questura di Palermo. Il 6 agosto 1985 accompagnò
Cassarà a casa, via della Croce Rossa 81. Nove uomini armati di fucili
mitragliatori, appostati su un edificio di fronte, spararono centinaia di colpi
contro Cassarà, Antiochia e l’altro agente, Natale Mondo. Cassarà e
Antiochia rimasero uccisi. Natale Mondo, che si era salvato, verrà ucciso il
14 gennaio 1988. La madre di Roberto, Saveria Antiochia, insegnante, ha
dedicato la sua vita all’educazione civile delle generazioni più giovani. È
stata una delle fondatrici del Circolo Società Civile di Milano, del
Movimento antimafia di Palermo e dell’associazione Libera. Ha parlato in
centinaia di scuole di tutta Italia per raccontare la lotta contro la mafia, i
valori della legalità e il sacrificio del figlio.
«Roberto» scrisse in una lettera aperta inviata all’allora ministro
dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, pubblicata da «la Repubblica» il 22
agosto 1985, «è morto nel volontario, disperato tentativo di dare al suo
superiore e amico Cassarà un po’ di quella protezione che altri avrebbero
dovuto dargli, in ben altra proporzione, sapendo quanto fosse preziosa la
sua opera e in quale tremendo pericolo fosse la sua vita.»
Rita Atria viveva a Partanna, un piccolo comune della provincia di
Trapani di circa diecimila abitanti. Il padre, Vito, apparteneva alla mafia
locale e venne ucciso in un agguato quando lei aveva undici anni. Nella
gerarchia mafiosa del paese il posto del padre venne preso da suo fratello
Nicola, che le confidò diversi importanti segreti del gruppo criminale. Nel
giugno 1991 anche Nicola Atria venne ucciso. Sua moglie, Piera Aiello,
presente all’omicidio del marito, denunciò gli assassini e decise di
collaborare con la polizia. Rita Atria, a soli diciassette anni, nel novembre
1991, seguì l’esempio della cognata. Il primo a raccogliere le sue
rivelazioni fu Paolo Borsellino (all’epoca procuratore di Marsala), al quale
la giovane si legò come a un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera,
insieme ad altre testimonianze, permisero di arrestare molti mafiosi di
Partanna, Sciacca e Marsala. Una settimana dopo la strage di via D’Amelio
Rita si suicidò a Roma, lanciandosi dal settimo piano di un palazzo di viale
Amelia, nel quartiere Tuscolano, dove viveva in segreto per sfuggire alla
vendetta. Era stato ucciso il suo giudice, l’unico che aveva capito il
conflitto interiore, tra gli affetti famigliari e la sete di giustizia. La madre,
che l’aveva ripudiata, dopo la sua morte distrusse la lapide a martellate.
Rita Atria non era una «pentita»: non doveva pentirsi di nulla. Era una
testimone. Scrisse nel suo diario: «Prima di combattere la mafia devi farti
un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te,
puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi
e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in
cui credevi, ma io senza di te sono morta».
Paolo Borrometi è un giornalista della provincia siciliana che con le sue
inchieste ha contribuito allo scioglimento del comune di Scicli e al
commissariamento per mafia di Italgas, la prima azienda quotata in Borsa
oggetto di un provvedimento di questo tipo da parte del Tribunale di
Palermo. Ha fatto inchieste giornalistiche sul mercato ortofrutticolo di
Vittoria, il più grande del Sud, sulla presenza della mafia a Siracusa, sulle
vie della droga dal porto di Gioia Tauro sino alla provincia di Ragusa, sui
rapporti tra mafia e politica nei comuni di Pachino e di Avola, sui rapporti
tra Cosa Nostra e la ’ndrangheta. Nell’agosto del 2019 gli è stato conferito
il premio Peter Meckler, edizione 2019, per il giornalismo «coraggioso ed
etico». Il premio è conferito dalla Craig Newmark Graduate School of
Journalism di New York. Per la prima volta il riconoscimento è stato
attribuito a un giornalista europeo. Il premio gli è stato assegnato perché, si
legge nella motivazione, «Paolo ha già pagato caro e continua a pagare con
costanti minacce alla sua vita per aver esposto il costo devastante delle
operazioni di mafia in un numero crescente di Paesi europei». Un
capomafia della sua zona, Giuseppe Vizzini, è stato intercettato mentre
informava i figli del piano organizzato per uccidere Borrometi: «Ogni tanto
un murticeddu vedi che serve! Per dare una calmata a tutti». Borrometi oggi
vive e lavora a Roma, sotto la protezione della polizia.
Giacomo Ciaccio Montalto era sostituto procuratore della Repubblica a
Trapani. Indagò sul sistema bancario della città, sulle sofisticazioni
vinicole, sul potente clan mafioso dei Minore. Scoprì che un collega,
Antonio Costa, aveva accettato 150 milioni dai Minore per «ammorbidire»
le indagini. Costa venne arrestato. Il 15 ottobre 1982, in una intervista per
Tg2 Dossier, Ciaccio Montalto spiegò che la lotta contro la mafia «finisce
per apparire come una guerra privata mentre in realtà è una guerra pubblica.
Ma siccome siamo in pochi… va a finire che le nostre conoscenze…
finiscono con il divenire un patrimonio personale. Tutto ciò finisce per
individualizzare [personalizzare, NdA] la lotta al fenomeno mafioso…
comunque il canale del riciclaggio passa necessariamente attraverso le
banche di cui il trapanese è pieno. Dai dati ufficiali sappiamo che a Trapani
ci sono più banche che a Milano». Venne ucciso nella sera del 25 gennaio
1983 mentre tornava a casa dall’ufficio. Non gli era mai stata assegnata una
scorta.
Pippo Fava fu direttore de «Il Giornale del Sud» dal quale venne
licenziato per i suoi articoli che denunciavano le collusioni mafiose di
imprenditori e politici di Catania. Fondò il mensile «I Siciliani», che
pubblicò inchieste coraggiose sui rapporti tra mafia, imprese e politica più
scottanti e documentate anche con foto che ritraevano personaggi eminenti
della città con boss mafiosi. Curò la sceneggiatura del film Palermo o
Wolfsburg, che vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino del 1980. Fu ucciso
il 5 gennaio 1984 da esponenti del clan Santapaola di Catania, poi
condannati all’ergastolo.
Mario Francese, giornalista de «Il Giornale di Sicilia», fu ucciso la sera
del 26 giugno 1979, mentre tornava a casa. Per l’omicidio, Totò Riina fu
condannato all’ergastolo; Leoluca Bagarella, esecutore materiale
dell’omicidio, Raffaele Ganci, Francesco Madonia, Michele Greco furono
condannati a trenta anni di reclusione. In una delle sentenze di condanna dei
suoi assassini, i giudici scrissero: «Mario Francese era un protagonista se
non il principale protagonista della cronaca giudiziaria e del giornalismo
d’inchiesta siciliano. Nei suoi articoli spesso anticipava gli inquirenti
nell’individuare nuove piste investigative. […] Costituiva un pericolo per la
mafia emergente proprio perché capace di svelarne il suo programma
criminale, in un tempo ben lontano da quello in cui è stato successivamente
possibile, grazie ai collaboratori di giustizia, conoscere la struttura e le
regole di Cosa Nostra».
Peppino Impastato fu assassinato a Cinisi, il suo paese, in provincia di
Palermo, il 9 maggio 1978, lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere
di Aldo Moro. Il corpo venne dilaniato da una carica di tritolo posta sui
binari della ferrovia Palermo-Trapani. L’attenzione dell’opinione pubblica
era concentrata sul dramma del leader della Democrazia cristiana e le
indagini, superficiali, si orientarono verso l’ipotesi di un attentato
terroristico consumato addirittura dallo stesso Impastato, o, in subordine, di
un suicidio «eclatante». Le cose stavano diversamente. Il padre di Peppino
era un piccolo capomafia del comune di Cinisi. La sorella aveva sposato
Cesare Manzella, un importante boss della zona, che sarà poi ucciso nella
sua Giulietta imbottita di tritolo. Peppino, sostenuto dalla madre, aveva
preso le distanze dalla famiglia. Fondò nel suo comune una emittente
privata, Radio Aut, molto seguita dai giovani. Nel corso delle trasmissioni
incitava all’impegno contro la mafia, faceva i nomi e i cognomi dei boss,
denunciava i loro affari e i loro crimini, prendeva in giro Tano Badalamenti,
il potente capomafia della zona chiamandolo «Tano seduto». L’11 aprile
2002 Tano Badalamenti è stato riconosciuto colpevole del suo omicidio e
condannato all’ergastolo. Il fratello, Giovanni Impastato, è impegnato nella
sensibilizzazione e nel contrasto alla criminalità organizzata. Se volete
capire cosa significa fare lotta alla mafia in un piccolo paese dove i boss
spadroneggiavano, invitatelo nella vostra scuola e fatevi raccontare la vita
di Peppino.
Giancarlo Siani, giornalista de «Il Mattino» di Napoli, fu ucciso il 23
settembre 1985, a ventisei anni, per i suoi articoli contro la camorra. Siani,
in alcuni suoi articoli, aveva rivelato che il clan Nuvoletta, alleato di Totò
Riina, e il clan Bardellino avevano tradito il boss Valentino Gionta,
«vendendolo» alla polizia. Agli occhi dei cittadini, degli altri boss
partenopei e di Cosa Nostra (di cui erano gli unici componenti non
siciliani), i Bardellino apparivano «infami», ossia coloro che, violando le
regole della mafia, intrattenevano rapporti con le forze dell’ordine.
Giancarlo Siani, inoltre, stava per pubblicare un libro sui rapporti tra
politica e camorra negli appalti per la ricostruzione dopo il terremoto in
Irpinia del 23 novembre 1980. I suoi assassini vennero individuati e
condannati dodici anni dopo l’omicidio.
Angelo Vassallo è stato sindaco di Pollica, in provincia di Salerno. Nel
2010 era stato eletto per la quarta volta alla guida del suo comune con il 100
per cento dei voti. Ambientalista convinto, ha sempre difeso il suo
territorio, una delle zone più belle dell’intero Mediterraneo, dalla voracità
degli speculatori. Il mare di Pollica è stato premiato più volte con le
prestigiose 5 vele di Legambiente e Touring Club. La sera del 5 settembre
2010 venne ucciso mentre rincasava alla guida della sua auto. Gli assassini
sono ancora ignoti, ma Angelo Vassallo viene ricordato ogni anno il 21
marzo nella Giornata della Memoria e dell’impegno di Libera, insieme a
tutte le vittime delle mafie.

Mai per caso


Ci sono sempre ragioni specifiche quando vengono commessi omicidi di
personalità significative. Perché la mafia non uccide mai per caso.
Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo dopo
l’assassinio del suo predecessore, Cesare Terranova, coordinava con mano
ferma tutta l’azione antimafia del suo ufficio; cominciò a seguire il flusso
delle ricchezze mafiose e a individuare il carattere unitario e centralizzato di
Cosa Nostra. Non tutti i colleghi lo aiutarono. Nel suo diario, reso pubblico
dopo l’omicidio, scrisse: «Vado da Pizzillo [il procuratore generale a
Palermo, NdA] e mi investe in malo modo dicendo che all’Ufficio
istruzione stiamo rovinando l’economia palermitana disponendo indagini e
accertamenti a mezzo della guardia di finanza. Mi dice chiaramente che
devo caricare di processi semplici Falcone in maniera che cerchi di scoprire
nulla, perché i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla». Fu ucciso il
29 luglio 1983. A pagina 711 dell’ordinanza di rinvio a giudizio del
maxiprocesso, firmata da Borsellino e Falcone, si legge una breve nota:
«Riteniamo, inoltre, doveroso ricordare che l’istruttoria venne iniziata, oltre
tre anni fa, dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, che in essa profuse
tutto il suo impegno civile, a prezzo della sua stessa vita».
Lo incontrai per l’ultima volta, mi sembra un anno prima della sua
morte, in un convegno di magistrati a Pugnochiuso, in Puglia. Mi fece
cenno sorridendo mentre era vicino a un giovane collega con una folta
barba nera. «Vieni» mi disse «ti presento un giovane collega da poco
arrivato all’Ufficio istruzione. Non capisce ancora nulla di diritto penale,
ma ha lavorato in banca, prima di vincere il concorso in magistratura e a noi
servono colleghi che sappiano leggere i conti bancari. Si chiama Giovanni
Falcone.»
Gaetano Costa era diventato procuratore della Repubblica a Palermo nel
luglio del 1978. Nel breve discorso di insediamento disse che non avrebbe
accettato pressioni e che non si sarebbe fatto condizionare né da simpatie,
né da risentimenti. Parole che nella Palermo di quegli anni apparivano più
minacciose che tranquillizzanti. Il 4 maggio 1980 venne ucciso il capitano
dei carabinieri Emanuele Basile che comandava la compagnia di Monreale;
aveva in corso importanti indagini sul traffico di stupefacenti e sospettava
che una delle fonti del traffico fosse una raffineria nei pressi di Alcamo,
che, come vedremo, venne poi scoperta da Carlo Palermo. I carabinieri
inviarono alla Procura della Repubblica un rapporto a carico di trenta
persone accusandole di mafia e della partecipazione all’omicidio. Gaetano
Costa era convinto della fondatezza di quel rapporto. Convocò i magistrati
del suo ufficio per discuterne, annunciando la sua idea di spiccare l’ordine
di cattura contro i boss indicati nel rapporto come responsabili
dell’omicidio. Nessuno volle sottoscrivere il provvedimento e Costa lo
firmò da solo. Qualcuno informò i giornalisti del dissenso dei magistrati nei
confronti di quella decisione. Costa fu ucciso tre mesi dopo, il 6 agosto
1980, mentre, da solo, andava a comprare i giornali.
Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, dopo aver ottenuto risultati
importanti nella lotta contro il terrorismo rosso, fu mandato come prefetto a
Palermo il 6 aprile 1982, con la speranza che potesse conseguire gli stessi
risultati contro la mafia. Il ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, gli
promise poteri speciali. Questi poteri non gli vennero mai attribuiti.
Vennero invece attribuiti al suo successore, dopo il suo assassinio. Il 10
agosto 1982 rese un’importante intervista a Giorgio Bocca, per «la
Repubblica», nella quale denunciava la solitudine, la mancanza di poteri e,
insieme, i cambiamenti nella struttura del potere mafioso: «Oggi mi
colpisce il policentrismo della mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero
una svolta storica. È finita la mafia geograficamente definita della Sicilia
occidentale. Oggi la mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene
alla conquista di Palermo. Con il consenso della mafia palermitana, le
quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede
che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere
mafioso?». Seguì il risentimento dei titolari delle imprese citate dal prefetto,
Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Graci, Francesco Finocchiaro
(gli stessi che avevano reagito duramente alle analoghe accuse di Pippo
Fava) e una polemica ufficiale dell’allora presidente della Regione siciliana,
Mario D’Acquisto, che invitò pubblicamente Dalla Chiesa a specificare il
contenuto delle sue dichiarazioni e ad astenersi da quei giudizi qualora tali
circostanze non fossero state provate. Fu ucciso con la moglie, Emanuela
Setti Carraro, che era alla guida della sua macchina, e l’autista Domenico
Russo, che lo seguiva con l’auto dell’ufficio, ventiquattro giorni dopo, il 3
settembre. «Come tutti gli omicidi che riguardano giudici, politici, persone
importanti, si aspetta il momento in cui quella persona è meno in auge;
appena si trova un po’ nella bassa fortuna, gli danno il colpo per non essere
attaccati eccessivamente.» Dirà Gaspare Mutolo il 9 febbraio 1993
nell’audizione davanti alla Commissione antimafia. È quanto accaduto a
Carlo Alberto dalla Chiesa.
Piersanti Mattarella era presidente della Regione Sicilia. Intendeva
risanare gli uffici della Regione, molti dei quali erano centri di clientelismo,
corruzione e intrecci mafiosi. Una delegazione parlamentare del Pci, ne
facevo parte anch’io, deputato da pochi mesi, lo incontrò nel dicembre del
1979. Mi colpirono la calma del suo atteggiamento e la forza del suo
sguardo. Mattarella riteneva che il numero degli incarichi in Assemblea e
Giunta regionale fosse eccessivo, tale da frenare l’efficacia dell’azione di
governo: proponeva perciò la riduzione del numero degli assessorati e delle
commissioni. Sosteneva inoltre la rotazione negli incarichi amministrativi,
per evitare una eccessiva continuità di esercizio dello stesso tipo di potere
da parte delle stesse persone e proponeva che l’Assemblea esprimesse un
unico voto di fiducia nei confronti del presidente e di tutti gli assessori
invece che un voto per ciascun assessore, prassi che favoriva accordi
sottobanco, spesso indicibili. Seguace di Moro, cercava di costruire rapporti
positivi tra il suo partito, la Dc, e il Pci. Questi progetti, istituzionali e
politici, mettevano in crisi gli equilibri di potere mafioso. Fu ucciso il 6
gennaio 1980.
Conobbi don Pino Puglisi nei primi giorni del settembre 1993. Ero
presidente della Commissione parlamentare antimafia e parlavo in un
quartiere di Palermo. Alla fine, tra le persone che si avvicinavano per
salutare o per avanzare qualche domanda c’era un sacerdote. Era messo
abbastanza male in arnese. Mi disse che era parroco a Brancaccio e mi
invitò a visitare la sua parrocchia. Gli chiesi: «Lei cosa fa?», intendevo
«contro la mafia». Mi rispose: «Insegno ai bambini a dire “per favore”». Lo
guardai perplesso. «Se un bambino ha sete e vuol bere a una fontanella
pubblica» continuò «nel mio quartiere è normale che cacci con una spinta
l’altro bambino che sta bevendo. Io insegno a dire “per favore”, insegno il
rispetto ai ragazzini.» Prendemmo un appuntamento per il successivo 25
settembre. Lo uccisero il 15 settembre, su ordine dei fratelli Graviano, boss
del quartiere. Non potevano tollerare che qualcuno offrisse prospettive di
vita diverse dalla soggezione alla mafia. Dopo, ho cercato di conoscere
meglio la sua opera. Faceva, con alcuni volontari, doposcuola ai bambini
più disagiati; organizzava partite di calcio per i ragazzi; aveva allestito una
sorta di banco alimentare per le famiglie povere. Chi aveva bisogno entrava
nell’ingresso della parrocchia e trovava su un tavolo pacchi di pasta e
bottiglie di salsa; prendeva quello che gli serviva e andava via. Senza
controlli; un rapporto basato sulla fiducia. Ma questo era troppo per la
mafia.

Non arrendersi
Molti di coloro che hanno combattuto la mafia sono stati uccisi; quasi
sempre i loro assassini sono stati individuati, arrestati, condannati e le loro
ricchezze sono state confiscate. Molti, inoltre, hanno preso il posto degli
uccisi. Questa è la forza di una democrazia: non arrendersi alla violenza.
Dopo la strage di Capaci, Ilda Boccassini, pubblico ministero (pm) a
Milano, andò a Caltanissetta, su sua richiesta, per partecipare alle indagini
sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Antonino Caponnetto prese il posto di Rocco Chinnici come capo
dell’Ufficio istruzione, nel novembre 1983. L’attività del suo Ufficio portò
all’arresto di più di quattrocento criminali legati a Cosa Nostra, culminando
nel maxiprocesso di Palermo. Le condanne furono quasi tutte confermate in
Cassazione. Per la mafia siciliana fu il primo durissimo colpo dopo decenni
di sostanziali impunità. Ne seguiranno molti altri.
Gian Carlo Caselli era presidente della Corte d’assise di Torino. Chiese
di dirigere la Procura di Palermo dopo le stragi di Capaci e di via
D’Amelio. Rimase sette anni. La Procura, sotto la sua guida, si distinse per
efficienza: sequestrò beni mafiosi per circa 10 miliardi di euro; sventò
decine di attentati; sequestrò interi arsenali di armi, compresi alcuni missili;
ottenne 650 condanne all’ergastolo. Tra le molte inchieste condotte dal suo
ufficio fece particolare scalpore quella che accusava l’ex presidente del
Consiglio Giulio Andreotti di partecipazione ad associazione mafiosa. La
Cassazione stabilì, con sentenza definitiva, che Andreotti poteva essere
ritenuto colpevole solo per i comportamenti tenuti sino al 1980, ma il reato
era prescritto. L’ex presidente del Consiglio fu assolto, invece, per i
comportamenti tenuti dopo quella data.
Il posto di Giacomo Ciaccio Montalto venne immediatamente ricoperto,
su sua richiesta, da Carlo Palermo, sostituto procuratore a Trento. Palermo
era diventato noto al grande pubblico per un’indagine su un ampio traffico
di armi e droga, che venne avviata nel 1980 in seguito al sequestro a Trento
di 110 chili di morfina base, destinati a criminali che garantivano i contatti
tra i trafficanti turchi e i mafiosi siciliani. Le indagini erano state condotte
d’intesa con Giacomo Ciaccio Montalto che aveva incontrato Carlo
Palermo a Trento poche settimane prima di essere ucciso. Carlo Palermo,
arrivato a Trapani, individuò una raffineria di eroina nei pressi di Alcamo,
quella che cercava il capitano Basile. La scoperta fece comprendere che la
Sicilia era diventata una piazza di esportazione, non di importazione,
dell’eroina. Ne derivava il ruolo centrale di Cosa Nostra nel traffico
internazionale di droga. Decisero di ucciderlo con una carica di cinquanta
chili di esplosivo nascosto in un bidone della spazzatura posto sul
marciapiede a un incrocio in località Pizzolungo che Palermo percorreva in
macchina ogni mattina per recarsi in ufficio. Un attimo prima
dell’esplosione la sua macchina venne superata da un’utilitaria guidata dalla
signora Barbara Asta con a bordo i suoi due bambini. L’utilitaria fu
investita in pieno dall’esplosione. La mamma e i due bambini rimasero
uccisi sul colpo. Frammenti dei loro corpi si sparsero dappertutto. Carlo
Palermo fu ferito in modo non grave. Dopo l’attentato si raccolsero a
Trapani alcune centinaia di firme, non contro la mafia, ma per far
allontanare Carlo Palermo dalla città. Carlo restò a Trapani sino al 1989 e
concluse le sue inchieste sul traffico di stupefacenti.
Roberto Saviano spende tutte le sue energie nel prezioso lavoro di
informazione per far crescere una coscienza civile contro la mafia. Ha
scritto libri importanti e scrive articoli documentati e precisi. Vive sotto
scorta per le minacce di omicidio, ripetute e circostanziate, che riceve da
tempo. Aggiungo i nomi di alcuni eccellenti giornalisti che si oggi
occupano di mafia in modo onesto e competente, come Lirio Abbate,
Giovanni Bianconi, Attilio Bolzoni, Giorgio Frasca Polara, Francesco La
Licata. Se ne potrebbero citare molti altri, per fortuna; qui indico alcuni di
quelli che, a mio avviso, nel corso del tempo si sono distinti per serietà e
rigore professionale.

La svolta di La Torre
Una figura forse da voi meno conosciuta, ma che ha costituito uno
spartiacque decisivo nella lotta contro la mafia è quella di Pio La Torre.
Pio nacque nel 1927 a Palermo in una famiglia di contadini poveri.
Voleva studiare, ma per la famiglia quello sembrava un lusso non
compatibile con le condizioni economiche. Tuttavia, contro il volere del
padre, ma sostenuto dalla madre, Pio riuscì comunque a frequentare le
elementari e poi l’istituto tecnico. Nel 1945 superò con la media dell’otto
gli esami dell’ultimo anno dell’istituto tecnico e prese contemporaneamente
la maturità scientifica. Si iscrisse alla Cgil e al Partito comunista. Diventò
sindacalista dei contadini. Cominciò fin da ragazzo a combattere la mafia e
a denunciare i capi delle diverse famiglie mafiose. Gli bruciarono la casa.
Nel 1950 organizzò una grande manifestazione per l’applicazione delle
leggi che assegnavano ai contadini le terre incolte dei feudi. Molti
proprietari si opposero e usarono bande di mafiosi per impedire l’ingresso
dei contadini nei feudi. La Torre fu arrestato con l’accusa, infondata, di aver
usato violenza contro un ufficiale dei carabinieri. Dopo diciassette mesi di
carcere all’Ucciardone venne assolto dall’accusa più grave e condannato a
quattro mesi e quindici giorni di reclusione per occupazione abusiva delle
terre.
Eletto alla Camera nel 1972, si impegnò per l’approvazione di una
proposta di legge che fissava due principi diventati i cardini dell’impegno
contro la mafia: la partecipazione a un’associazione mafiosa costituisce
reato, indipendentemente dai reati commessi dai singoli; le ricchezze della
mafia vanno confiscate. La legge fu approvata il 13 settembre 1982 da un
Parlamento convocato d’urgenza dopo l’assassinio di Carlo Alberto dalla
Chiesa (3 settembre 1982). Il suo omicidio (30 aprile 1982) non era stato
sufficiente.
L’articolo 1 della sua proposta di legge (oggi articolo 416 bis del Codice
penale) punisce con la reclusione da tre a sei anni chiunque fa parte di
un’associazione mafiosa; i capi sono puniti con la reclusione da quattro a
nove anni. La novità è costituita dalla definizione di associazione mafiosa:
«L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si
avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere
delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il
controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e
servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per
altri».
I requisiti sono: l’esistenza della forza intimidatrice del vincolo
mafioso; la condizione di assoggettamento o di omertà, derivante da quella
forza intimidatrice; l’utilizzazione delle intimidazioni e
dell’assoggettamento dei cittadini per realizzare vantaggi ingiusti di ogni
tipo. Prima di quella legge la mafia non era considerata reato. Il
cambiamento può essere reso particolarmente chiaro leggendo un brano di
una sentenza degli anni Sessanta:
«Non può dirsi sic et simpliciter che la mafia sia un’associazione per
delinquere… può tranquillamente affermarsi che la mafia, più che un
vincolo associativo, è uno stato d’animo, una sorta di “ipertrofia” dell’io, un
modo di sentire individualistico… Ne consegue che l’essere mafioso non
vuol dire essere associato per delinquere».
Il nuovo articolo 416 bis consentiva, finalmente, di superare questo
condiscendente sociologismo e di colpire la mafia ancora prima che si
scoprissero i singoli delitti commessi. La legge, inoltre, prevedeva per la
prima volta l’obbligo di compiere indagini patrimoniali nei confronti di
persone sospette di appartenere a una associazione mafiosa, per accertare
l’entità del loro patrimonio e la proporzionalità rispetto al reddito legale del
proprietario. Se il valore dei beni di cui l’imputato dispone è sproporzionato
rispetto al reddito dichiarato o all’attività svolta, oppure quando si può
ritenere, sulla base di sufficienti indizi, che abbiano provenienza delittuosa,
quei beni vengono sequestrati. Verranno poi confiscati, tolti cioè
definitivamente dalla disponibilità del proprietario, se questi non riesce a
provarne la origine legittima.
Per La Torre, la lotta alla mafia non si rivolge solo contro il latifondo, il
clientelismo mafioso e la corruzione. La mafia toglie libertà, svuota i valori
civili e soffoca lo sviluppo. Pertanto l’impegno antimafia assume un
carattere generale, diventa lotta per la democrazia e per l’economia legale.
L’azione di Pio La Torre costituì una rottura nei confronti delle due culture
che allora dominavano in Sicilia: la cultura della rassegnazione e la cultura
della convivenza. La cultura della rassegnazione era soprattutto la cultura
dei ceti popolari; la mafia per loro era troppo forte, troppo potente, troppo
aggressiva. E poi in un sistema pubblico inefficiente, come quello siciliano,
in cui i diritti erano degradati a favori, per la povera gente poteva sempre
tornare utile disporre di un «protettore».
La cultura della convivenza con la mafia, invece, era tipica dei ceti più
forti, quelli che traevano vantaggi e protezione. Lo dimostrarono alcune
dichiarazioni del capomafia Gaspare Mutolo, diventato collaboratore di
giustizia dopo la strage di Capaci. Con la sua prosa un po’ zoppicante,
spiegò alla Commissione antimafia, il 9 febbraio 1993, a meno di un anno
dalle stragi, come andavano le cose in tempi di convivenza tra mafia e
poteri legali: «L’unica preoccupazione poteva essere la polizia di Palermo;
se qualche pattuglia sprovvedutamente si allontanava, passava da una certa
zona e magari ci incontravamo con le macchine. Anche in questo caso
prima di tutto era difficile conoscerci e poi si trattava sempre di zone dove
anche se venivano tre poliziotti a fare un certo pattugliamento e vedevano
una macchina con delle persone a bordo, pure se vedevano che c’era un
latitante non è che si fermassero».
Altro esempio scandaloso, frutto di questa convivenza, riguarda
Tommaso Buscetta: da latitante abitava a Palermo nella propria casa di via
della Croce Rossa 1 e mandava i figli a una scuola pubblica registrati con il
loro vero cognome. Nessuno lo cercava.
Ecco perché considero il lavoro svolto da Pio La Torre un decisivo
spartiacque tra il prima e il dopo, tra la fase della convivenza e la fase
dell’impegno.

Una coppia formidabile


Falcone e Borsellino sono stati una formidabile coppia di magistrati. «In
cosa è consistito il loro lavoro?» mi ha chiesto Chiara con il suo viso serio.
«Non li voglio ricordare solo perché sono stati assassinati. Vorrei capire
l’importanza del loro lavoro e perché fu più determinante dell’opera degli
altri giudici» ha concluso.
Giovanni aveva le intuizioni, Paolo le esaminava criticamente, le
passava al vaglio della documentazione, le faceva diventare ipotesi di
interpretazione dei fatti. Giovanni coglieva le connessioni tra fatti
apparentemente lontani, ricostruiva i fili che legavano un omicidio a un
altro; disegnava la ragnatela degli affari mafiosi, le gerarchie interne, le
procedure decisionali attraverso l’analisi meticolosa dei conti bancari, dello
scambio di assegni, delle connessioni tra i diversi omicidi. Interrogava a
lungo, molto a lungo, con pazienza e rispetto per l’interrogato. E questo gli
faceva acquisire la considerazione delle persone che aveva di fronte. Poi,
prima di passare al successivo interrogatorio, verificava anche i più piccoli
particolari. Paolo rimetteva i «pezzi» in ordine; forniva la riflessione
essenziale; coglieva l’anello apparentemente mancante. E scriveva tutto; le
schede di Paolo erano più precise di un computer.
I due misero in atto la «strategia del primo colpo», usando con grande
capacità l’articolo 1 della legge La Torre che, come ho ricordato, puniva
l’appartenenza a un’associazione mafiosa, indipendentemente dai singoli
specifici delitti. In pratica, non aspettavano che la mafia commettesse un
delitto specifico; procedevano indipendentemente dai singoli delitti perché
la mafia in sé, dopo la legge La Torre, costituiva reato. L’interpretazione di
fondo di Falcone e di Borsellino, sulla scorta delle intuizioni di Chinnici,
riguardò l’organizzazione della mafia: si trattava di una struttura unitaria
con al vertice un gruppo di comando, la «Commissione», che la dominava
tutta. I collaboratori, cosiddetti «pentiti», soprattutto Tommaso Buscetta,
Gaspare Mutolo, Giuseppe Di Cristina, Salvatore Contorno, confermarono
con dovizia di particolari l’impianto verticistico. Conferme ulteriori
vennero da intercettazioni telefoniche e ambientali e da documentazione
sequestrata.
Tutte le prove raccolte confluirono nel cosiddetto «maxiprocesso», che
si svolse a Palermo, davanti alla Corte d’assise, tra il 10 febbraio 1986 e il
16 dicembre 1987, e che vide coinvolti 475 imputati e 200 avvocati, riempì
40 volumi di documenti e produsse un provvedimento di 8.607 pagine e che
comincia così: «Questo è il processo alla organizzazione mafiosa
denominata Cosa Nostra, una pericolosissima associazione criminosa che,
con la violenza e la intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore».
Collaborarono con Falcone e Borsellino altri due validissimi giudici
istruttori, Giuseppe Di Lello Finuoli e Leonardo Guarnotta.
Nelle pagine scorrono i nomi di coloro, spesso non molto noti, che a
Palermo si sono distinti nella lotta contro la mafia e che sono stati uccisi per
questo. Come, per esempio, il capo della squadra mobile di Palermo Boris
Giuliano che aveva scoperto come l’eroina veniva raffinata in Sicilia e poi
spedita negli Stati Uniti e che venne ucciso il 21 luglio 1979. Oppure
l’agente di polizia Calogero Zucchetto, della sezione «catturandi», che era
solito girare con il vespone per i quartieri più assoggettati alla mafia, per
individuare i nascondigli dei latitanti (a lui si devono molti successi nella
lotta contro le famiglie mafiose di Palermo, l’ultimo fu l’arresto di
Salvatore Montalto, boss di Villabate) che venne ucciso il 14 novembre
1982 a soli ventisette anni. O infine il professore di Medicina legale Paolo
Giaccone, che si era rifiutato di agevolare, tramite false perizie, un
capomafia responsabile di quattro omicidi e poi condannato all’ergastolo e
che fu ucciso nei viali del Policlinico di Palermo l’11 agosto 1982.
Nel 1985, dopo l’omicidio di Ninni Cassarà, giunse la notizia che dal
carcere dell’Ucciardone era partito l’ordine di uccidere Falcone e
Borsellino. I due stavano scrivendo l’ordinanza per il maxiprocesso. Erano
gli unici che conoscevano tutti gli atti. Se fossero stati uccisi, sarebbero stati
necessari anni perché altri giudici potessero studiare interamente i quaranta
volumi e potessero scrivere un’ordinanza convincente e nel frattempo i
mafiosi detenuti sarebbero stati scarcerati per decorrenza dei termini di
carcerazione. Fu perciò deciso di mandare Falcone e Borsellino all’Asinara,
un’isola con un carcere di massima sicurezza molto ben protetto. Al loro
ritorno venne chiesto loro di pagare le spese del soggiorno, come se fossero
stati in un albergo di lusso.
Il maxiprocesso si concluse in primo grado con 19 ergastoli e 2.655 anni
di reclusione, 11 miliardi e mezzo di multe, 114 assoluzioni. La Cassazione
confermò la gran parte delle condanne.
Oggi tutti onorano Falcone e Borsellino. Ma quando erano in vita le
cose andarono diversamente.
Dopo la conclusione del maxiprocesso, Antonino Caponnetto lasciò
l’Ufficio istruzione di Palermo e ritornò a Firenze. Chiesero di succedergli
due magistrati, Antonino Meli e Giovanni Falcone. Il primo era più anziano
ma senza alcuna esperienza di processi di mafia. L’altro era più giovane ma
ritenuto, dall’Europa agli Stati Uniti, il magistrato più esperto. Il Consiglio
superiore della magistratura (Csm), a maggioranza, scelse il dottor Meli.
Era il 19 gennaio 1988. Sotto la gestione di Meli il pool antimafia venne
smantellato e negato il carattere unitario di Cosa Nostra. I processi di mafia
non furono più unificati e le indagini segnarono un forte arretramento.
Successivamente Meli sottrasse a Falcone alcune importanti indagini,
avocandole a sé. Da quel gennaio del 1988 Giovanni Falcone entrò in una
spirale che lo portò di sconfitta in sconfitta, quasi inesorabilmente, verso la
morte.
Il 6 luglio 1988 venne presentato ad Agrigento un libro sulla mafia.
Erano presenti Paolo Borsellino, Leoluca Orlando, Alfredo Galasso e chi
scrive. Paolo Borsellino denunciò la stasi nelle indagini. Meli, magistrato
onesto, ma non competente in fatti di mafia, stava paralizzando l’azione
investigativa. I quotidiani ripresero le preoccupazioni di Borsellino
attraverso interviste al magistrato. Meli reagì a sua volta con un’intervista:
«Non una sola parola tra quelle dette da Borsellino risponde a verità. Mi
chiedo se non sia il caso di investire il Csm di questa intervista».
Paolo Borsellino, immediatamente convocato dal Csm, denunciò lo
smantellamento del pool antimafia e l’allentamento delle indagini. Il Csm
accusò Borsellino di aver parlato con i giornalisti di questioni inerenti al
funzionamento di un ufficio giudiziario. Borsellino tentò di spiegare la sua
posizione: «Non vedo perché l’opinione pubblica non debba essere
interessata a questo problema. […] È grave con riferimento alle indagini
sulla criminalità mafiosa che l’opinione pubblica se ne disinteressi o le
sopporti come se si trattasse di assistere ad una lotta tra giudici e mafiosi».
Ma il Csm non si occupò dell’efficienza del Tribunale di Palermo;
censurò Paolo Borsellino per aver parlato alla stampa.
La sera del 30 gennaio 1992 le agenzie di stampa battevano la notizia
della sentenza che avrebbe costituito uno dei momenti chiave nel contrasto
a Cosa Nostra. La Prima Sezione Penale della Cassazione aveva
sostanzialmente confermato l’impianto accusatorio e le condanne inflitte
dalla Corte d’assise di Palermo. Soprattutto aveva riconosciuto la struttura
unitaria di Cosa Nostra e il collegamento della intera attività criminosa a un
unico vertice, la cupola, centro dell’organizzazione. Era la grande vittoria di
tutti coloro che avevano partecipato alle indagini e le avevano condotte, a
partire da Borsellino e Falcone.
Da allora nei processi di mafia, per affermare la responsabilità degli
imputati per il reato di cui all’articolo 416 bis, non è più necessario fornire
in via preliminare la prova dell’esistenza dell’associazione mafiosa
denominata Cosa Nostra, delle sue regole, della sua struttura, perché la sua
esistenza è ormai un fatto incontrovertibile; si discute direttamente sulle
prove raccolte per dimostrare l’appartenenza di ogni singolo imputato
all’organizzazione.
Falcone e Borsellino avevano vinto; per questa vittoria verranno
massacrati con le loro scorte pochi mesi dopo, a Capaci il primo e in via
Mariano D’Amelio il secondo.
2

La mafia, le mafie

Nella vita di ogni giorno si sente citare la mafia o in modo troppo


restrittivo, con riferimento esclusivo a Cosa Nostra siciliana, oppure in
modo troppo estensivo incorporando tutte le forme di criminalità
organizzata: mafia nigeriana, mafia albanese, mafia turca. La
denominazione «mafia» non può usarsi a proposito di ogni forma di
criminalità pericolosa e violenta.
I requisiti che permettono di qualificare un fenomeno criminale come
mafioso sono quelli indicati nell’articolo 416 bis del Codice penale
sintetizzati nel capitolo precedente. Sulla base dell’esperienza, quei
caratteri, pur rimanendo fondamentali, vanno integrati e spiegati.
La caratteristica essenziale della mafia consiste nell’installarsi in un
territorio, piccolo o grande (un quartiere, una città, una regione), per
assumere una funzione di «governo» della vita di quel territorio, a partire
dalle attività economiche. La mafia cerca di dettare le regole della
comunità. Per poter svolgere efficacemente questa funzione si avvale della
minaccia, dell’intimidazione, della corruzione e, solo nei casi estremi, della
violenza.
Perché la violenza solo nei casi estremi? Innanzitutto, mi spiegò un
mafioso pentito, durante una seduta della Commissione antimafia da me
presieduta, bisogna distinguere la violenza all’interno dell’organizzazione
mafiosa da quella compiuta nei confronti di persone estranee. La violenza è
rivolta nei confronti di un altro mafioso quando è stata violata una regola
interna, per esempio quando quel mafioso si è appropriato degli utili di un
affare che avrebbero dovuto essere ripartiti tra i componenti del gruppo,
oppure se si tratta di un pentito o del parente di un pentito. Per esempio
Giuseppe Di Matteo, quindici anni, figlio del mafioso Santino (arrestato per
aver commesso dieci omicidi), venne rapito dopo le rivelazioni del padre
sulla strage di Capaci. Il ragazzo fu strangolato e disciolto nell’acido l’11
gennaio 1996 dopo 779 giorni di prigionia. Per il suo omicidio sono stati
condannati all’ergastolo e a pene severe circa cento mafiosi che
collaborarono al rapimento e all’uccisione. Tra loro alcuni capi come
Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano.
Omicidi «interni» possono scatenarsi se c’è una guerra in corso tra
diverse «famiglie» per il controllo di un territorio o di un traffico, come «la
seconda guerra di mafia» che si scatenò tra la fine degli anni Settanta e i
primi anni Ottanta per il controllo del traffico di eroina. Mentre la violenza
interna è un segno di forza, la violenza «esterna», spiegava sempre quel
capomafia, manifesta una debolezza. Se si ricorre alla violenza contro un
esterno, è segno che non sono serviti né la minaccia, né l’intimidazione, né
la corruzione; questo significa che la famiglia mafiosa non è «rispettata».
Un secondo caso di violenza esterna può aversi quando è necessario punire
qualcuno, per esempio l’autore del furto dell’auto di un mafioso o di un suo
parente, oppure chi turba l’ordine imposto. Una banda di ragazzi, nei primi
anni Ottanta, commetteva furti e piccole rapine in un quartiere di Palermo
dominato da una potente famiglia mafiosa. Quella banda poneva quindi in
discussione l’autorità di quella famiglia in quel quartiere. Alcuni dei
giovani delinquenti furono fatti trovare «incaprettati» e l’ordine mafioso
tornò a regnare. L’incaprettamento è una morte terribile. La persona è
bocconi, con le mani legate dietro la schiena e le gambe rivolte all’indietro
tenute in tensione da una corda che passa attorno al collo e finisce per
strangolare la vittima. Quando andrete a Palermo – se non ci siete mai stati
dovete andarci e girarla a piedi perché è una città affascinante – visitate il
Museo archeologico regionale, poco conosciuto, ma di grande interesse.
Anni fa fui colpito da un’incisione preistorica su pietra, lì conservata, che
raffigurava appunto un incaprettamento.

Contro la mafia
Abbiamo lavorato in modo efficace nella lotta contro la mafia? In alcuni
casi sì, in altri meno. Nei confronti di Cosa Nostra siciliana siamo stati
davvero incisivi. Come già ricordato, sono stati arrestati e sono morti in
carcere Totò Riina e Bernardo Provenzano, i due capi indiscussi,
responsabili di decine di stragi e omicidi. Più di cento mafiosi di Cosa
Nostra sono in carcere, in reparti di massima sicurezza, condannati
all’ergastolo, o a pene detentive molto lunghe. Solo uno dei capi è ancora
latitante, Matteo Messina Denaro, ma sono certo che prima o poi verrà
catturato, a meno che qualcuno dei suoi non lo uccida prima.
Alcuni dati sono eloquenti: gli omicidi di Cosa Nostra sono stati 226 nel
1988, 377 nel 1989, 557 nel 1990, 718 nel 1991. Il 1992 fu tragicamente
segnato dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Dopo quella data e sino a
oggi, in ventisette anni, sono stati commessi complessivamente circa 60
omicidi, meno di tre all’anno. È sempre grave la soppressione di una vita
umana; ma se gli omicidi passano da 718 a meno di 3 all’anno, significa che
molte vite sono state salvate, grazie all’azione antimafia e alla crescente
sensibilizzazione dei cittadini.
Sono gli stessi capimafia a confermarlo: «Purtroppo qua [a Marsala,
NdA] le batoste sono state a ruota continua e tra l’altro non accennano a
finire; credo che alla fine arresteranno anche le sedie» scrive il 1° febbraio
2004 Matteo Messina Denaro in un biglietto destinato a Bernardo
Provenzano. Anche Salvatore Lo Piccolo, capo del mandamento
palermitano, in un messaggio inviato allo stesso Provenzano, più di un anno
dopo, lamenta: «Siamo arrivati al punto che siamo quasi tutti rovinati e i
pentiti che ci hanno consumato girano indisturbati. Purtroppo ci troviamo in
una situazione triste e non sappiamo come nasconderci».
Meno efficaci siamo stati invece nei confronti della ’ndrangheta, la
mafia calabrese, molto presente nel Centro e nel Nord del Paese, Lazio,
Emilia-Romagna, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto. Per lunghi anni è
stata una mafia impermeabile alle indagini perché divisa in gruppi separati e
comunicanti tra loro solo attraverso i capi. La maggior parte degli aderenti,
inoltre, era imparentata tra loro. Per questa ragione era difficile che ci
fossero dei pentiti perché collaborare significava chiamare in causa genitori,
fratelli, persone legate da vincoli di parentela. Le indagini, quindi,
seguivano prevalentemente metodi tradizionali: tendevano a concentrarsi
sulle responsabilità per i singoli delitti e non miravano ricostruire il
complesso dei rapporti criminali, finanziari, imprenditoriali e politici della
’ndrangheta.
Il clima però è cambiato per effetto della strategia messa in campo da
alcuni eccellenti pubblici ministeri: Giuseppe Pignatone, procuratore della
Repubblica a Reggio Calabria dal 2008 al 2012 e Michele Prestipino, suo
vice. Di particolare efficacia anche il lavoro svolto da Nicola Gratteri,
procuratore della Repubblica a Catanzaro dal 2016.
Reggio Calabria è la capitale della ’ndrangheta, la Palermo della
Calabria. Pignatone e Prestipino venivano appunto da Palermo e avevano
svolto decisive indagini in quella città, seguendo il metodo dell’aggressione
alla mafia in quanto tale, indipendentemente dai singoli delitti, e della
ricomposizione dei frammenti apparentemente secondari che emergevano
da altre inchieste, metodo inaugurato da Borsellino e Falcone. La
’ndrangheta aveva abbandonato le vecchie separazioni e aveva assunto un
modello unitario e centralizzato, come quello della mafia siciliana.
Bisognava rispondere in modo altrettanto organizzato e unificato, come si
era fatto a Palermo. Sotto la guida di Pignatone e Prestipino la Procura di
Reggio Calabria cominciò a fare una lettura unificante di tutti gli elementi
emersi nelle diverse inchieste, anche nelle città del Nord, Milano, Torino,
Genova, aree nelle quali la ’ndrangheta era ed è presente e radicata.
Conversazioni intercettate, documentazione sequestrata, deposizioni
testimoniali, di per sé poco significative, studiate con l’attenzione rivolta
all’individuazione dei collegamenti tra fatti e tra persone fornirono il
quadro reale dell’organizzazione mafiosa calabrese e delle sue diramazioni
in tutta Italia. La Corte d’appello di Reggio Calabria in una sentenza del 4
maggio 2004 rilevava che era in corso nella ’ndrangheta «un processo
evolutivo di tipo piramidale, proteso in direzione di un maggiore
accentramento, soprattutto in relazione alle decisioni più importanti e
delicate in vista del raggiungimento di quegli obbiettivi tipici
dell’associazione mafiosa, e anche al fine di garantire la sopravvivenza e la
prosperità dell’istituzione ’ndrangheta».
Il gup (giudice dell’udienza preliminare) di Reggio Calabria in una
sentenza dell’8 marzo 2012, otto anni dopo quella appena citata, rilevava
che il processo evolutivo stava raggiungendo il suo obbiettivo: «La
’ndrangheta non può più essere vista in maniera parcellizzata, come un
insieme di cosche locali, di fatto non coordinate, i cui vertici si riuniscono
saltuariamente… ma come un “arcipelago” che ha una sua organizzazione
coordinata ed organi di vertice dotati di una certa stabilità e di specifiche
regole».
In una conversazione intercettata, il capo della cosca di Singen in
Germania, nel Baden-Württemberg, dopo aver riferito di alcune iniziative
individuali prese da un altro mafioso, avverte che non si possono trasgredire
le regole della verticalizzazione della ’ndrangheta: «Se vuole fare, lo fa,
però ci devono essere pure quelli del Crimine [il gruppo di comando
centrale, NdA] presenti… perché lui dipende da là, come dipendiamo tutti,
senza ordine di quelli lì, sotto non possono fare niente».
Dalle indagini relative a un altro processo risultò l’esistenza di un
conflitto tra una «locale» (struttura territoriale della ’ndrangheta) che aveva
sede in Svizzera e un’altra che aveva sede in Germania. Per dirimere la
questione viene investito Domenico Oppedisano, capo della ’ndrangheta di
Rosarno. Un conflitto che riguardava cosche in due Stati diversi veniva
risolto in provincia di Reggio Calabria, una piccola provincia con un peso
economico e politico poco rilevante che però riusciva a dirigere la vita di
persone e organizzazioni radicate in realtà così diverse e distanti.
Nelle zone non tradizionali del Nord e del Centro non ci sono, in
genere, insediamenti che visibilmente impongono assoggettamento e
omertà. Con i patrimoni accumulati, in un contesto caratterizzato da carenza
di risorse pubbliche e dalla difficoltà di accedere al credito da parte di
privati, i capi di quelle organizzazioni devono solo attendere che chi ha
bisogno si faccia vivo e chieda finanziamenti per superare mancanza di
liquidità e di credito bancario, per costruire relazioni con la politica locale
dirette a ottenere contratti pubblici, beni e servizi di vario genere. In questi
casi non ci sono intimidazioni né manifestazioni violente; funziona la
capacità di fare rete, di mettere in relazione soggetti diversi per uno scopo
comune. Naturalmente, alla fine della strada c’è sempre la capacità di
incutere timore, di ricorrere alla minaccia, di usare violenza. Una riserva
che può sempre scattare al momento opportuno.
Consiglio a chi di voi volesse comprendere meglio questi meccanismi di
leggere un libro-verità di un imprenditore torinese che racconta come si è
trovato lentamente ma progressivamente soffocato nelle spire della
’ndrangheta: Le mie due guerre di Mauro Esposito.

Contro la ’ndrangheta
Aver scoperto la struttura unitaria della ’ndrangheta ha consentito di
aggredire con efficacia l’intera organizzazione mafiosa perché ha permesso
di dare un preciso significato a ogni elemento di prova. Ogni
intercettazione, ogni documento, ogni assegno costituiva il capo di una
matassa da dipanare con pazienza, sino al vertice dell’organizzazione.
Le indagini che hanno conseguito i risultati più significativi, confermati
nei diversi gradi di giudizio, sino alla Cassazione, sono quelle che, per la
parte che si è svolta a Reggio Calabria sono conosciute come «Crimine» e
per la parte relativa a Milano sono conosciute come «Infinito». I due
processi hanno avuto nei confronti della ’ndrangheta lo stesso effetto
demolitorio che ha avuto il maxiprocesso del 1986 contro Cosa Nostra.
Sono state pronunciate centinaia di condanne, confiscate ricchezze per
diversi milioni di euro, scoperti i rapporti con uffici pubblici e con settori
del mondo politico.
Le reazioni non si fecero attendere. A Reggio Calabria, grazie a una
telefonata anonima, venne scoperto un bazooka destinato a Giuseppe
Pignatone.
Ho accennato a rapporti tra politica e ’ndrangheta. Ecco un esempio: un
candidato alle elezioni regionali del 2010 va a casa di un capo della
’ndrangheta e chiede che gli vengano assicurati un tot di voti. Il capo chiede
in contropartita che il fratello detenuto venga trasferito in un carcere più
vicino a casa.
Al suddetto politico un esponente della stessa cosca fa presente:
«Quando io sposo una causa io e gli amici miei diamo il massimo. Nello
stesso tempo, poi non dico che pretendiamo, perché non è nella mia natura e
di chi mi rappresenta, più grande, o di chi mi ha preceduto… però
desidereremmo avere proprio quell’attenzione per come poi ce la
accattiviamo [meritiamo, NdA] per simpatia… ma per amicizia, prima di
tutto» (queste citazioni sono tratte dal libro scritto da Giuseppe Pignatone e
Michele Prestipino, Il contagio. Come la ’ndrangheta ha infettato l’Italia).

Contro la camorra
La camorra è la mafia più violenta e quella con il maggior numero di
affiliati. Napoli ha il primato del numero di omicidi per 100.000 abitanti. La
Direzione investigativa antimafia (Dia) ha raccolto i dati relativi ai
destinatari delle ordinanze di custodia cautelare dal 1992 al 31 dicembre
2018, dai quali risulta che il numero più elevato di arrestati è accusato di
appartenere a organizzazioni camorristiche. Non tutti i destinatari,
naturalmente, potrebbero essere colpevoli, ma è presumibile che il tasso di
errore sia simile in tutti i casi e pertanto il quadro resta attendibile.

Organizzazioni Arrestati
Cosa Nostra 2.139
Camorra 3.167
’Ndrangheta 2.796
Mafie pugliesi 802
Altre 1.597
Totale 10.501

La camorra non ha un modello organizzativo precostituito, né vertici


riconosciuti, né stabili strutture di comando. I nuclei si compongono e si
dissolvono con estrema facilità. È una galassia di clan dal potere
apparentemente incrollabile e un sottobosco di gruppi spesso in conflitto tra
loro per la supremazia su un determinato territorio e per la gestione
monopolistica delle attività illecite.
Le indagini, gli arresti, i sequestri dei patrimoni e l’aumento dei
collaboratori di giustizia hanno comportato il crollo di potentati criminali e
la scomparsa dei capi carismatici, alcuni detenuti e altri costretti da tempo
alla latitanza. Il loro ruolo è stato assunto da famigliari, spesso dalle mogli o
dalle sorelle, o da elementi di secondo piano molto giovani.
Questi giovani delinquenti fanno abitualmente ricorso ad azioni violente
e gratuite che scatenano guerre feroci tra le diverse bande; oppure si
pongono a capo di gruppi emergenti, tentando di assumere il predominio
nello spaccio di droghe, nelle estorsioni ai danni di negozianti e
imprenditori, nel mercato della contraffazione di oggetti di abbigliamento
con azioni connotate da notevole aggressività, omicidi, attentati e
sparatorie. La camorra, come le altre mafie, si regge sulla soggezione dei
cittadini imposta con la paura. Una pratica per imporre la soggezione è la
«stesa». Un gruppo di ragazzi in sella a motorini e a motociclette percorre a
velocità elevata le strade e i vicoli del rione dove si vuole imporre o
riaffermare l’egemonia camorristica e sparano all’impazzata contro balconi,
saracinesche, lampioni, portoni, segnali stradali. Non vogliono uccidere,
vogliono solo imporre il dominio. Si chiama «stesa» perché chi si trova nei
paraggi deve stendersi a terra per evitare di essere colpito. Le
organizzazioni camorristiche sono particolarmente interessate alla gestione
delle slot machine e delle scommesse sportive online. Si tratta di attività
dalle quali i clan traggono ingenti profitti sia direttamente, riuscendo a
gestire tutta la filiera delle operazioni che riguardano i giochi (imposizione
delle macchine ai locali pubblici, prelievo degli utili), sia concedendo
prestiti a tassi usurari a giocatori affetti da ludopatia. La camorra è presente
in molti Paesi dell’Est europeo e dei Balcani. Ma la sua «migrazione», a
differenza di quella della ’ndrangheta, non prevede la costituzione di nuclei
organizzati. Non si sposta la camorra; si sposta il camorrista che poi chiama
i suoi sodali e si raccorda alle organizzazioni criminali locali.
L’azione repressiva nei confronti della camorra pur essendosi svolta con
particolare efficacia, come dimostrano le confische, gli arresti e le
condanne, è particolarmente complessa perché proprio l’anarchia, la
frammentazione e la rigenerazione dei modelli criminali costituiscono un
fattore di continua riproposizione dei fenomeni camorristici.
Nel giugno del 2019 la Procura di Napoli diretta da Giovanni Melillo ha
ottenuto dal giudice per le indagini preliminari (gip) l’emissione di 126
ordinanze di custodia cautelare nei confronti di altrettanti imputati di
camorra appartenenti a tre clan federati nella cosiddetta Alleanza di
Secondigliano, che avevano «occupato criminalmente la città (Napoli), il
suo tessuto economico finanziario, le relazioni sociali e umane».
L’alleanza stabile di diversi gruppi criminali è un’eccezione rispetto alla
tradizionale anomia della camorra; potrebbe costituire il segno di un
pericoloso mutamento dei caratteri strutturali del fenomeno. Ragione di più
per essere soddisfatti dell’inchiesta.
Cito due brani del provvedimento: «I clan dell’Alleanza di
Secondigliano sono in grado, oggi, di gestire a Napoli e oltre, molto oltre, i
più vari comparti economici con forme che rasentano il monopolio: dalla
distribuzione di carburanti al mercato dei preziosi; dalle attività recettizie e
di intrattenimento a quelle di bar e ristorazione; dal mercato
dell’abbigliamento a quello degli elettrodomestici. Ancora: il mercato
immobiliare; la erogazione di credito al consumo; il mondo delle
scommesse online e del gioco in generale. La produzione e distribuzione di
beni di consumo».
«Le potenti organizzazioni criminali napoletane si sono poi di fatto
impossessate di alcune strutture pubbliche assolutamente nevralgiche come
gli ospedali, utilizzati non solo per summit criminali o per ricevere le
vittime di rapporti usurari o estorsive, ma anche come strumento ulteriore di
gestione del proprio potere mafioso: con affiliati assunti come infermieri,
barellieri, portantini, autisti, addetti alle pulizie, che chiaramente tutto fanno
in ospedale fuorché lavorare, e tengono sotto controllo l’intera vita della
struttura, dalle liste dei ricoveri a quelle delle operazioni chirurgiche, dai
rapporti con sindacalisti e pubblici funzionari Asl alle assunzioni; con
medici collusi pronti a stilare centinaia di referti e certificati falsi per gli usi
che il camorrista intenda o possa farne. Il tutto anche al fine di raggiungere
il risultato, di grande rilievo per il clan, di distribuire favori e piaceri ad altri
malavitosi nel momento del bisogno (malattie vere o fasulle, agognate
scarcerazioni, truffe, eccetera), intranei o appartenenti ad altri clan, favori
produttivi di riconoscenza e potere.»
Questa descrizione non può che allarmare; ma, come detto in
precedenza, non dobbiamo cadere nel paradosso per cui la scoperta di
organizzazioni di questo tipo genera più allarme per la gravità dei fatti che
soddisfazione per la capacità dimostrata di mettere fine a un blocco
criminale di questa potenza.
Se non fossero stati scoperti saremmo stati più tranquilli?

Le mafie in Puglia
La mafia pugliese è comunemente considerata la quarta mafia, dopo Cosa
Nostra, ’ndrangheta e camorra. Come spiega la Commissione antimafia
presieduta da Rosy Bindi, nel rapporto finale del febbraio del 2018, è stata
tradizionalmente identificata con la Sacra corona unita (Scu). Questa
organizzazione nacque nel 1983 nel carcere di Bari a opera di alcuni
delinquenti comuni che intendevano opporsi all’avanzata in Puglia della
camorra guidata da Raffaele Cutolo, un criminale campano, oggi
condannato a dieci ergastoli e rinchiuso in un carcere di massima sicurezza.
Cutolo negli anni Settanta costruì una potente organizzazione di carattere
verticistico simile a Cosa Nostra, la Nuova camorra organizzata (Nco). La
Scu tentò di imporre un dominio regionale, ma poi restrinse l’influenza alle
province di Brindisi e Lecce. Venne definitivamente liquidata come
organizzazione unitaria con un processo che iniziò nel 1991 a Lecce e si
concluse in Cassazione il 31 ottobre 2001 con trentadue pesanti condanne
definitive.
Tuttavia, per la criminalità pugliese è opportuno parlare di mafie, al
plurale. In Puglia, infatti, le organizzazioni mafiose non hanno né hanno
mai avuto un vertice regionale; si sono radicate soprattutto nella provincia
di Foggia e di Brindisi, ma sono presenti anche a Bari e a Lecce come
bande gangsteristiche, che si occupano del controllo del territorio, del
traffico di stupefacenti, della prostituzione e delle estorsioni, ma non
sembra abbiano rapporti con la politica e con la pubblica amministrazione.
La frantumazione è resa con chiarezza dal numero delle inchieste
giudiziarie, dai nomi un po’ strani: Pandora, Attila 2, Nel nome del Padre.
Non c’è un’inchiesta principe, come il maxiprocesso di Palermo o
l’inchiesta Crimine-Infinito nei confronti della ’ndrangheta. Ciascuna
inchiesta riguarda un’area particolare – Bari, Brindisi, Foggia, Lecce o
Taranto –, ciascuna con le proprie caratteristiche. Le organizzazioni della
provincia di Brindisi, per esempio, nascono dal contrabbando di tabacchi.
Le vecchie vie del tabacco sono oggi utilizzate per altri traffici. Il 27 marzo
2018 vennero sequestrate nel porto di Brindisi 13.821 bottiglie di prosecco
prodotte in Bulgaria, provenienti dalla Grecia, presentate come prodotto
italiano. Tanto le più recenti Commissioni antimafia quanto i rapporti della
Dia segnalano lo sgretolamento delle diverse organizzazioni per effetto
delle inchieste, degli arresti, dei sequestri e delle confische. Oggi, in Puglia,
la mafia più pericolosa opera nel foggiano. Secondo l’ultima relazione della
Dia nella zona operano 31 clan, impegnati nel traffico di droga e nelle
estorsioni che si combattono ferocemente per conquistare nuove fette di
territorio. Gli omicidi sono frutto di questa guerra permanente di tutti contro
tutti. La provincia di Foggia è la seconda d’Italia per estensione, con
sessantun comuni, al 99° posto su 107 nella graduatoria del pil pro capite,
quindi tra le più povere d’Italia. La tradizione è quella della ferocia. Gli
omicidi nella maggior parte dei casi hanno un tratto comune: gli assassini
sparano al viso della vittima, cancellandone le sembianze. Tra il 2017 e il
2018 si è registrata la media di un omicidio a settimana, una rapina al
giorno, un’estorsione ogni quarantotto ore.
La relazione conclusiva del 3 marzo 2015 della Commissione
parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle intimidazioni nei confronti
degli amministratori locali ha fissato la propria attenzione su questo
fenomeno: «Particolarmente preoccupante la situazione nel foggiano. […]
Soprattutto da alcune audizioni è emerso che nella regione, e in particolare
in alcune aree, si manifestano forme di criminalità organizzata non
percepite come tali e non riconosciute ancora per via giudiziaria e che,
nonostante vaste e ripetute operazioni di polizia nei confronti di tali gruppi
criminali, tendono ad autoalimentarsi in un contesto sociale fortemente
omertoso che stenta a riconoscere il fenomeno nella sua gravità» (p. 134).
Coerentemente, la presidente di quella Commissione, la senatrice Doris
Lo Moro, avendo acquisito nel corso del sopralluogo a Foggia le
dichiarazioni particolarmente allarmate del questore della città, inviò alla
collega Rosy Bindi, presidente della Commissione antimafia, il resoconto
stenografico della audizione del questore, segnalando l’opportunità di
prestare particolare attenzione al fenomeno mafioso nella provincia di
Foggia.
Sull’arretratezza storica delle zone dove è presente questa mafia sono
significativi i due brani che seguono.
«A Foggia, a Cerignola, a San Marco in Lamis havvi un ceto di
popolazione, addimandato col nome di terrazzani, che non possiede
assolutamente nulla. […] Nella sola città di Foggia i terrazzani assommano
ad alcune migliaia […] e molta gente che non sa come fare per lucrarsi la
vita. “I terazzani e i cafoni” ci diceva il direttore del demanio e tasse della
provincia di Foggia “hanno pane di tal qualità che non ne mangerebbero i
cani.”» Il brano fa parte della relazione sulle condizioni economiche e
sociali della provincia di Foggia verificate nella seconda metà
dell’Ottocento dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul
brigantaggio nelle province napoletane. La relazione fu illustrata
dall’onorevole Giuseppe Massari davanti alla Camera dei deputati nelle
sedute segrete del 3 e 4 maggio 1863.
Il secondo brano è stato scritto nel 2018, 155 anni dopo, dalla
Commissione parlamentare antimafia: «La solidità strutturale [delle
organizzazioni mafiose della provincia di Foggia, NdA] appare derivare da
una impenetrabilità propria del contesto sociale in cui operano tali gruppi,
caratterizzato da arretratezza culturale, omertà e illegalità diffusa […]
fondate sulla forza che spesso si trasforma in pura ferocia, con vendette e
punizioni mutuate dalle più arcaiche comunità agricolo-pastorali».
Colpisce che a distanza di più di un secolo e mezzo per la stessa zona
del Mezzogiorno, visitata da commissioni «cugine», sono cambiate le
parole ma le analisi sono drammaticamente simili.
La relazione del 1863 indicava come rimedi: «La diffusione della
istruzione pubblica, l’affrancazione delle terre, l’equa composizione delle
questioni demaniali, la costruzione di strade, le bonifiche di terre paludose,
l’attivazione dei lavori pubblici, il miglioramento dei boschi, tutti quei
provvedimenti, insomma, che, dando impulso vigoroso ai miglioramenti
sociali trasformino le condizioni economiche».
Una commissione del Csm dopo una visita effettuata il 15 settembre
2017 presso il Tribunale di Foggia, dopo aver segnalato la capacità di quella
mafia di condizionare l’agricoltura, l’edilizia e il turismo della provincia,
indicava, come nel 1863, la necessità di interventi sociali, economici e
culturali per rimuovere i fattori costitutivi di quella mafia. Però qualcosa si
muove non solo nella Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Bari,
competente per la provincia di Foggia, che sta procendo ad arresti e
sequestri. Il 9 agosto 2017 furono uccisi a San Marco in Lamis Luigi e
Aurelio Luciani, due agricoltori, testimoni involontari di un omicidio frutto
di un regolamento di conti tra clan rivali. Le loro mogli, Arcangela e
Marianna, non si sono chiuse in casa a piangere i loro morti, ma parlano
nelle scuole. «Andiamo in giro» racconta Arcangela a «La Stampa», il 10
agosto 2019, «spieghiamo che quel muro di omertà non ci protegge e finché
continueremo a far finta di niente, tutti saremo potenzialmente in pericolo.»

Altre mafie
Le inchieste e i giornali parlano sempre più spesso di nuove mafie: mafia
romana, mafia di Ostia, mafia delle zone pontine; sono inoltre molte e
preoccupanti le presenze mafiose, in particolare della ’ndrangheta, nelle
regioni del Nord. Effettivamente nel Lazio, da Ostia verso il Sud sono
presenti insediamenti criminali che controllano il territorio, impongono
soggezione e sudditanza, condizionano la vita economica e le relazioni
politiche. Ma non agiscono indisturbati, anzi.
Le inchieste su Roma, Ostia e sul litorale pontino hanno prodotto
condanne, sequestri e confische di beni. Nessuno è stato a guardare, ma
resta una forte preoccupazione per la capacità di condizionamento e la
spietatezza di queste organizzazioni. In particolare le inchieste della Dda di
Roma hanno accertato che esse hanno due fronti connessi, ma distinti. Il
primo è quello puramente criminale che si dedica al traffico di droga,
all’usura, alle estorsioni, al gioco d’azzardo e alle slot machine. Questo
fronte attraverso la violenza e le intimidazioni riesce a dominare il territorio
e a tenere in condizioni di subalternità una parte della popolazione. Per
fortuna c’è chi si ribella. È emblematico il caso della giornalista Federica
Angeli, di cui ho parlato in precedenza.
Il secondo fronte è quello dei rapporti con le imprese e con le
istituzioni. Imprenditori senza scrupoli, coinvolti nella struttura
dell’organizzazione, sfruttano la possibilità di ottenere appalti sicuri senza
doversi misurare con la concorrenza. L’arma dell’organizzazione mafiosa in
questo ramo di attività non è la violenza, ma la corruzione.
Si tratta quindi di una sorta di evoluzione del tradizionale modello
mafioso unitario e compatto, che teneva insieme tutte le funzioni; nel
modello «romano» le funzioni di violento o intimidatorio assoggettamento
dei cittadini sono distinte dalle funzioni di arricchimento della cosca e
trovano il punto di congiunzione nel capo che dirige entrambe le attività.
3

Non attendere che colpisca la mafia

Nel 1993, ero presidente della Commissione antimafia, chiesi al prefetto


Angelo Finocchiaro, che era stato Alto commissario antimafia, quali
caratteristiche avesse avuto la lotta alla mafia sino a quel momento. «È
andata avanti a fisarmonica» rispose il prefetto «quando loro attaccavano
noi rispondevamo.» La risposta nella sua disarmante onestà era
significativa. Sino a quel momento si era scelta la strategia del secondo
colpo: si attendeva che la mafia commettesse qualcosa di eclatante per
rispondere.
La legge sulle misure di prevenzione (575/65), per esempio, è
successiva alla strage di Ciaculli, un quartiere di Palermo, dove esplose una
Giulietta imbottita di tritolo che uccise quattro carabinieri, due appartenenti
all’esercito e un agente di polizia.
Il decreto-legge antiracket, richiesto per anni da molte associazioni di
imprenditori, fu presentato alle Camere (31 dicembre 1991) solo dopo
l’omicidio di Libero Grassi (29 agosto 1991) che si era rifiutato di pagare il
«pizzo» e aveva denunciato gli estorsori.
La stessa legge La Torre, a lungo ostacolata dalla maggioranza politica
dell’epoca, come abbiamo visto fu approvata dal Parlamento (13 settembre
1982) solo dopo il suo omicidio e quello di Carlo Alberto dalla Chiesa (3
settembre 1982).
La strategia del secondo colpo è perdente perché indebolisce la
credibilità dello Stato, lascia alla mafia la scelta dei tempi e delle modalità
dell’attacco, fa crescere la passività. La cultura del secondo colpo
presuppone la convivenza con la mafia, non la lotta contro di essa. Se per
colpirla, aspetto che colpisca per prima vuol dire che accetto la sua presenza
come un fatto normale. Chi sostiene questa linea, inoltre, trascura il ruolo
della formazione civile e degli interventi di risanamento sociale ed
economico e ritiene che la mafia esiste perché uccide; invece la mafia
uccide perché esiste. La cultura della convivenza non è tramontata del tutto.
Nel giugno del 2019, in una trasmissione Rai, il conduttore intervista un
cantante napoletano neomelodico mentre sullo schermo appaiono le
immagini di Falcone e Borsellino. Il cantante, che sulle scene si fa chiamare
Scarface, nomignolo di un gangster italo-americano, commenta: «Quelle
persone hanno fatto scelte di vita, le sanno le conseguenze. Come ci piace il
dolce, ci deve piacere anche l’amaro». Tradotto: se non avessero processato
la mafia sarebbero vivi. E quindi, conviene convivere con la mafia, invece
che combatterla.
Purtroppo, quella frase ha un drammatico precedente. L’11 luglio 1979
venne ucciso a Milano l’avvocato Giorgio Ambrosoli, nominato dalla
Banca d’Italia commissario liquidatore della Banca Privata Finanziaria del
banchiere siciliano Michele Sindona, legato alla mafia e sostenuto dall’ex
presidente del Consiglio Giulio Andreotti. L’assassino fu un sicario pagato
da Sindona con 25mila dollari e un bonifico di 90mila dollari su un conto
svizzero. Sindona fu condannato all’ergastolo per questo omicidio e morì
avvelenato in carcere a Voghera nel 1986, non si sa se suicida o ucciso. La
sera dell’8 settembre 2010 Giulio Andreotti, intervistato su Giorgio
Ambrosoli nel corso di una trasmissione televisiva, disse che si trattava di
«una persona che, in termini romaneschi, se l’andava cercando». Come dire
che se avesse lasciato correre sugli affari sporchi di Michele Sindona non
sarebbe stato ucciso: con Sindona, come con la mafia, sarebbe stato meglio
convivere.
La dinamica dello scontro tra Stato e mafia è stata caratterizzata dal
pendolarismo tra fasi di efficienza della mafia e fasi di efficienza dello
Stato. Dopo le stragi del 1992 il pendolarismo si è fermato, l’azione
repressiva è diventata permanente e si è avviato un movimento civile contro
la mafia che, a volte con fatica, a volte con entusiasmo, ha coinvolto milioni
di cittadini e ha visto protagonisti molte istituzioni pubbliche, la scuola,
l’università, il volontariato, l’associazione Libera.
Prima di quella tragica primavera possiamo distinguere cinque fasi
diverse.

Dal 1943 al 1950


Sono gli anni confusi dell’immediato dopoguerra nei quali si intrecciano
mafia, separatismo, banditismo, criminalità comune: la mafia colpisce
agenti di polizia, sindacalisti, militanti democratici, contadini che si battono
per l’occupazione e la coltivazione delle terre incolte. Cosa Nostra si
presenta sulla scena della Sicilia come forza violenta al servizio del
separatismo e del latifondo, nemica di sindacalisti e contadini che si battono
per i loro diritti.
Prima della fine della guerra, il 6 agosto 1944, viene ucciso Andrea
Raia, sindacalista di Casteldaccia. Il triennio 1946-1948 è il più feroce. A
Niscemi, il 10 gennaio 1946 vengono fucilati da una banda separatista otto
carabinieri catturati in un’imboscata. Il 16 maggio successivo viene ucciso
Gaetano Guarino, sindaco socialista di Favara. Il 28 giugno Pino Camilleri
sindaco socialista di Naro. Il 22 settembre sono uccisi in Alia Giovanni
Castiglione e Girolamo Scaccia, sindacalisti e dirigenti contadini. Il 21
dicembre tocca a Nicolò Azoti, capo della Lega contadina di Baucina. Il
1947, 4 gennaio, si apre con l’assassinio di Accursio Miraglia, capo della
Camera del Lavoro di Sciacca. Il 1° maggio il bandito Salvatore Giuliano,
per reagire alla vittoria del Blocco del Popolo nelle elezioni regionali
siciliane, compie la strage di Portella della Ginestra, con undici morti (otto
adulti e tre bambini) e ventisette feriti, alcuni dei quali morirono in seguito
per le ferite riportate. Il 22 giugno, nella notte, vengono attaccate con
bombe a mano o bruciate le sezioni del Pci di Partinico, Carini, Borgetto,
San Giuseppe Iato. Il 23 giugno sono incediate le sezioni del Pci di
Monreale e Cinisi. Il 3 marzo 1948 è ucciso Epifanio Li Puma, segretario
della Federterra di Petralia Sottana. Il 10 marzo è ucciso a Corleone Placido
Rizzotto segretario della Camera del Lavoro di Corleone. Il 1° aprile la
vittima è Calogero Cangelosi, sindacalista di Camporeale.
Vennero condotte indagini serie e approfondite su mandanti ed
esecutori. Ma l’inchiesta unitaria che si era avviata a Palermo venne
smembrata e ciascun delitto venne giudicato da un tribunale diverso; si
perse così la visione globale delle operazioni criminali di Cosa Nostra e le
assoluzioni fioccarono.
Dal 1950 al 1968
È la fase della prima modernizzazione di Cosa Nostra, che trova il culmine
tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, in corrispondenza del
processo di urbanizzazione, trasferimento di migliaia di famiglie dalla
campagna alla città, che investe tutta l’Italia. A Palermo nel decennio 1951-
1961 la popolazione aumenta di 100mila unità. Servono case e mercati. La
mafia coglie l’occasione ed entra prepotentemente nell’edilizia e nei
commerci. Sindaco democristiano di Palermo è Salvo Lima, vicino alla
famiglia dei Bontade; assessore ai lavori pubblici è Vito Ciancimino, anche
lui democristiano, legato invece ai corleonesi. Ma i due vanno d’accordo e
Palermo, che con Praga era la più bella città liberty d’Europa, viene
distrutta per far posto a grandi condomini, di stile sovietico. Un’inchiesta
accertò che su quattromila concessioni edilizie ben duemilacinquecento
erano state rilasciate a tre pensionati, evidentemente prestanome di Cosa
Nostra. Esponenti democristiani, come Lima e Ciancimino, ma non solo,
sono legati alle varie componenti di Cosa Nostra. Ma ci sono anche
esponenti di Cosa Nostra che cercano di inserirsi in quel partito che domina
in Sicilia. C’è chi resiste e paga per questo: il 25 marzo 1957, per esempio,
è ucciso a Camporeale il segretario locale della Dc, Pasquale Almerico, che
si era opposto all’ingresso nel suo partito del capomafia Vanni Sacco. Due
anni prima, il 16 maggio 1955 viene ammazzato a Sciara, nei pressi di
Palermo, Salvatore Carnevale, sindacalista e bracciante, che si batteva per
una diversa ripartizione dei prodotti della terra in applicazione della riforma
agraria (60 per cento al contadino e 40 per cento al padrone del latifondo).
Nel processo per l’omicidio, Sandro Pertini difendeva la famiglia della
vittima e Giovanni Leone era nel collegio di difesa degli imputati. Due
diversi futuri presidenti della Repubblica.
A Palermo la tregua pattuita tra le diverse famiglie mafiose non dura a
lungo. Il 3 giugno 1963 nel quartiere di Ciaculli un’autobomba destinata a
Totò e Michele Greco, potenti capimafia, uccide cinque carabinieri e due
altri militari intervenuti per disinnescarla. Vengono finalmente aperti
numerosi processi e centinaia di mafiosi sono mandati al soggiorno
obbligato.
La prima reazione è dura. Arresti, soggiorni obbligati, processi. Viene
attivata la prima Commissione parlamentare antimafia. Nel 1965 è
approvata la legge che prevede il soggiorno obbligato per i sospetti mafiosi.
Il giudice istruttore Cesare Terranova, che, come ricordato, sarà ucciso dalla
mafia il 25 settembre 1979, rinvia a giudizio il Gotha di Cosa Nostra con
cinque diversi provvedimenti nel 1964, nel 1965, nel 1967 e nel 1968.
Temendo che la mafia possa intimidire i giudici popolari, i processi
vengono trasferiti «per legittima suspicione» a Catanzaro e a Bari.
Antonino Calderone, uno dei più importanti pentiti, dirà alla
Commissione antimafia a proposito di quegli anni: «Dal 1962 al 1969, anni
della strage di viale Lazio [sette vittime, decisa da Riina e Provenzano,
NdA] una grande confusione regnò nella mafia. Vi furono molti morti per la
guerra di mafia e molti arresti. Più di cento. I capi più importanti furono
incarcerati e poi ci fu il processo di Catanzaro… Cosa Nostra non è più
esistita nel palermitano dopo il 1963. Era il k.o. La mafia fu sul punto di
sciogliersi e andò allo sbando».
Il trasferimento a Catanzaro e a Bari funzionò come un ricostituente per
Cosa Nostra. A Catanzaro su 117 imputati ne vengono condannati solo 4 a
pene severe. Agli altri sono comminate pene brevi, già scontate e scarcerati.
A Bari, nel giugno 1969, la Corte d’assise assolve o condanna a pene
lievissime mafiosi del calibro di Luciano Liggio, Salvatore Riina, Bernardo
Provenzano, Leoluca Bagarella. Questi boss tornati a Palermo si
riorganizzano.
La modernizzazione della ’ndrangheta comincia con i lavori per
l’autostrada Salerno-Reggio Calabria che si avviano nel 1962. Il questore di
Reggio Calabria, Emilio Santillo, che poi si distinguerà per la lotta contro il
terrorismo, documenta come i vincitori degli appalti, imprenditori del Nord,
prima di iniziare i lavori si rivolgono ai capimafia locali per ottenere, in
cambio di danaro, la protezione dei cantieri. In più vengono subappaltati a
gruppi della ’ndrangheta i lavori più semplici come il movimento terra e il
trasporto materiali.
Per la camorra, invece, la svolta arriva vent’anni dopo, con il terremoto
in Campania della notte tra il 23 e il 24 novembre 1980: 2.735 morti, circa
9.000 feriti. Vengono stanziati complessivamente circa 50mila miliardi di
lire, pari a circa 26 miliardi di euro attuali, con una legislazione
d’emergenza che cancella i controlli e delega i poteri pubblici a soggetti
privati. La camorra interviene immediatamente nell’attività di rimozione
delle macerie e di installazione dei prefabbricati. Da quel momento diventa
camorra-impresa.
Gli anni Settanta
Gli anni Settanta sono gli «anni d’oro». Cosa Nostra e ’ndrangheta entrano
nel mercato degli stupefacenti, ma in modo del tutto originale. Fino a quel
momento si riteneva che la mafia siciliana importasse l’eroina dagli Stati
Uniti. Ma, come già accennato, il commissario Boris Giuliano intercetta una
valigia proveniente da New York con 650mila dollari e intuisce che il
percorso è esattamente l’inverso: l’eroina viene raffinata in Sicilia e da
Palermo parte per gli Stati Uniti. Giuliano viene ucciso (il 21 luglio 1979) e
alla cerimonia per i suoi funerali il cardinale di Palermo, Salvatore
Pappalardo, è chiarissimo: «Troppi mandanti, troppi vili esecutori e
fiancheggiatori sono liberi e circolano alteri e sprezzanti per le nostre strade
ed è difficile raggiungerli perché variamente protetti».
Un episodio significativo della protezione della quale in quegli anni
gode la mafia è la vicenda di Leonardo Vitale, un mafioso di medio calibro.
Il 30 marzo 1973 Vitale si presenta spontaneamente negli uffici della
squadra mobile di Palermo: non vuole più partecipare a omicidi e rivela la
struttura unitaria di Cosa Nostra, gli organigrammi, i progetti. Per tutta
risposta viene ritenuto pazzo e internato nel manicomio criminale di
Barcellona Pozzo di Gotto. Il 2 dicembre 1984 verrà ucciso da Cosa Nostra.
Intanto in Calabria si svolge la prima guerra di mafia (1975-1977) tra i
giovani impazienti che facevano capo al clan De Stefano e i vecchi che
facevano capo a Mico Tripodo. I primi spingevano affinché la ’ndrangheta
facesse i sequestri di persona e avviasse rapporti con la politica e con le
istituzioni. Tripodo era nettamente contrario a entrambi i progetti. Vi furono
più di duecento morti. Tra questi l’avvocato generale presso la Corte
d’appello di Catanzaro, Francesco Ferlaino (3 luglio 1975), contrario
all’ingresso della ’ndrangheta nella massoneria, di cui forse faceva parte. La
guerra fu vinta dalla giovane guardia. Tra il 1972 e il 1989 ci furono in tutta
Italia seicento sequestri di persona, più di quattrocento a opera della
’ndrangheta.

Dal 1980 al 1992


Gli anni che vanno dal 1980 al 1987 sono contrassegnati da alcuni omicidi
importanti, ma anche da una ripresa della lotta contro la mafia. Sono
soprattutto gli anni delle confessioni di Tommaso Buscetta, che comincia a
parlare nel luglio 1984 e dell’inizio del maxiprocesso. Le confessioni di
Buscetta squarciano il sipario. Vengono rivelate la struttura di comando di
Cosa Nostra, le responsabilità per i singoli omicidi, le date e i luoghi delle
riunioni più importanti. Sono descritti gli scontri e le alleanze.
Negli stessi anni sono uccisi Piersanti Mattarella, Rocco Chinnici, Pio
La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa. Viene approvata la legge La Torre.
Cominciano gli arresti per associazione a delinquere mafiosa e i sequestri
dei beni. Dopo l’assassinio di Chinnici, come ricordato in precedenza,
arriva a Palermo da Firenze, su sua richiesta, a capo dell’Ufficio istruzione
Antonino Caponnetto, che fu la guida di Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino.
Tra il 1988 e il 1992, Cosa Nostra entra nei mercati finanziari per
investire le colossali quantità di danaro guadagnato con il traffico di eroina,
ma continua a uccidere. Il 13 settembre 1991 si tiene a Palermo, per reagire,
una grande manifestazione contro la mafia cui partecipano insieme per la
prima volta imprenditori e operai. Comincia però la delegittimazione di due
simboli, loro malgrado, dell’antimafia. Come ho già detto, il Csm boccia
Falcone come nuovo capo dell’Ufficio istruzione e critica pesantemente
Borsellino per avere rivelato ai giornalisti il calo dell’impegno antimafia.
Falcone accetta la proposta del ministro della Giustizia Claudio Martelli di
ricoprire la carica di direttore generale degli Affari penali.
Dal 1985 al 1991 scoppia in Calabria la seconda guerra di ’ndrangheta
determinata dall’ambizione dei gruppi che fanno capo ai De Stefano di
mettere le mani su Villa San Giovanni nella prospettiva della costruzione
del ponte sullo Stretto. Ma la città rientra nel territorio controllato dalla
cosca degli Imerti, che reagiscono violentemente. Ci furono circa settecento
morti. Il 9 agosto 1991 la ’ndrangheta uccide a Reggio Calabria, per fare un
favore a Cosa Nostra, il sostituto procuratore generale presso la Corte di
cassazione Antonino Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere di lì a poco
l’accusa nel grado di Cassazione del maxiprocesso. Negli anni successivi la
’ndrangheta, approfittando della concentrazione delle forze di polizia e
dell’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di Cosa Nostra dopo le
stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio, sviluppa pressocché
indisturbata la sua potenza economica e criminale. Le indagini
accerteranno, tra l’altro, che comprava cocaina purissima in Sud America al
prezzo di 1.000 dollari al chilo e rivendeva alle organizzazioni europee del
traffico lo stesso quantitativo a 35mila euro.
Il Parlamento approva alcune importanti leggi antimafia su iniziativa
della Commissione antimafia, presieduta da Gerardo Chiaromonte, e dei
ministri Enzo Scotti e Claudio Martelli. Sono uccisi Falcone, Borsellino,
Salvo Lima e Ignazio Salvo.

Dopo il 1992
Dopo il 1992 vengono arrestati i più importanti capi di Cosa Nostra, della
’ndrangheta e della camorra. Totò Riina è catturato nel gennaio del 1993;
seguono Nitto Santapaola, Salvatore Cancemi, Leoluca Bagarella, Pietro
Aglieri, Balduccio di Maggio e via via tutti gli altri sino a Bernardo
Provenzano (11 aprile 2006). Successi anche in Calabria, in Campania e in
Puglia. I processi si celebrano. La Commissione antimafia approva alla
quasi unanimità la prima relazione sui rapporti tra mafia e politica (6 aprile
1993). I pentiti si moltiplicano in tutte le organizzazioni mafiose. Il
carattere prevalente di questa fase è la continuità dell’azione giudiziaria e di
polizia, sino ai giorni nostri.
Un episodio rivela il carattere degli ultimi anni. La notte del 29 maggio
2018 i principali boss di Cosa Nostra si riuniscono in gran segreto a Passo
di Rigano, nel cuore di Palermo, per eleggere il nuovo capo, al posto di
Totò Riina, deceduto nel novembre 2017. Eleggono Settimino Mineo. I
carabinieri hanno costituito quindici nuclei, uno per ogni mandamento
mafioso; seguono attimo per attimo i movimenti dei capimafia e dei gregari.
Il 3 dicembre vengono arrestati tutti, compreso il nuovo capo. Non si è
atteso che il gruppo commettesse qualche specifico delitto. In base alla
legge La Torre, li si è fermati perché costituivano un’associazione mafiosa.

Il contesto politico
Alla radice del potere mafioso, per come si è manifestato dal 1943 sino alla
fine degli anni Ottanta, quando comincia il maxiprocesso (10 febbraio
1986), c’è il contesto politico.
Al termine della Seconda guerra mondiale il mondo si ritrovò diviso in
due: il blocco dell’Est, sotto il dominio dell’Unione Sovietica, e il blocco
occidentale sotto l’influenza stringente degli Stati Uniti. Ciascuno dei due
Stati-guida dominava senza ostacoli nella propria area. Se all’interno di
Paesi satelliti maturavano eventi capaci di compromettere gli equilibri
interni al blocco di cui si faceva parte, ciascuno aveva mano libera per
ricostituire l’ordine turbato. Le rivolte di Ungheria (1956) e di
Cecoslovacchia (1968) vennero represse militarmente dall’Unione
Sovietica, senza alcun serio intervento da parte dell’Occidente.
Allo stesso modo, le operazioni degli Stati Uniti in Sud America contro
regimi democratici e a favore di regimi dittatoriali (pensate per esempio al
Cile di Salvador Allende) non trovano alcun serio ostacolo da parte
dell’Urss.
L’Italia, con la sua posizione geostrategica al centro del Mediterraneo,
cerniera tra Oriente e Occidente e tra Europa e Africa, con il più forte
partito comunista del mondo occidentale per molti anni legato all’Unione
Sovietica, fu pesantemente condizionata dal bipolarismo internazionale. La
guerra fredda internazionale che spaccava il mondo in due blocchi diventò
guerra calda interna. Le stragi, i diversi terrorismi, il peso politico della
mafia sarebbero inspiegabili al di fuori di tale contesto. Per troppi anni la
legalità diventò una variabile dipendente dalla ragion di Stato e la mafia una
componente a volte determinante nella storia della Repubblica.
La necessità, a volte solo supposta, di combattere il nemico interno
ribaltò il rapporto fisiologico tra potere e legalità. Le indagini giudiziarie e
le inchieste parlamentari hanno dimostrato che la mafia fu tollerata e
protetta sin dai primissimi tempi del dopoguerra.
Emblematico è il messaggio che il generale Silvio Robino, comandante
dei carabinieri in Sicilia, scriveva il 21 aprile 1948 al suo comando
generale: «Il successore del commissario Messana, commissario Vittorio
Modica, a causa delle elezioni politiche che sconsigliavano un’azione a
fondo contro la mafia e i favoreggiatori, non ha potuto far nulla di
conclusivo anche perché attendeva che il Ministero risultante dalle nuove
elezioni si decidesse a fornire i maggiori mezzi per l’azione» (Luciano
Violante, Non è la piovra, Einaudi, Torino 1985, p. 52).
Perché la vicinanza delle elezioni politiche sconsigliava «un’azione a
fondo contro la mafia»? Se la mafia fosse stata considerata un nemico e non
un alleato, una repressione dura avrebbe fatto acquisire meriti ai partiti di
governo. Evidentemente non era così.
In quella fase confusa, pochi mesi dopo la fine della guerra, nella quale
il futuro era particolarmente incerto, la fragile democrazia era alla ricerca di
un modello di Stato forte sia nei confronti del neofascismo sia nei confronti
del comunismo filosovietico. Le incertezze nei riguardi della mafia, che in
alcune zone aveva agevolato lo sbarco delle truppe americane e che quindi
aveva assunto una sorta di legittimazione politica, possono essere comprese,
ma non giustificate. Il problema nacque dopo, quando, usciti dalla crisi del
dopoguerra, la questione «mafia» non venne affrontata con tutta la
determinazione e il rigore necessari.
La convivenza con la mafia ha indebolito la nostra democrazia, ha reso
l’Italia un caso drammaticamente unico per il peso che le organizzazioni
criminali hanno esercitato nella vita politica ed economica, ha rafforzato i
centri di potere mafioso che in non poche occasioni sono giunti al punto di
imporre le proprie regole a istituzioni e uomini politici.

L’anomalia italiana
L’Italia, proprio per la sua specifica collocazione geostrategica, è nel mondo
il Paese avanzato che in tempo di pace ha avuto il più alto numero di stragi,
due contrapposti terrorismi, uno di destra e uno di sinistra, il più alto
numero di giornalisti e magistrati uccisi. Abbiamo dovuto pagare un prezzo
molto alto per la difesa delle libertà costituzionali, del diritto
all’informazione e della legalità.
Undici stragi dal 1969 al 1993, con 164 morti e centinaia di feriti.
12 dicembre 1969, Piazza Fontana (Milano), 17 morti; 22 luglio 1970,
Gioia Tauro, 6 morti; 31 maggio 1972, Peteano, 3 morti; 17 maggio 1973,
Questura di Milano, 4 morti; 28 maggio 1974, Piazza della Loggia
(Brescia), 8 morti; 4 agosto 1974, treno Italicus, 12 morti; 16 marzo 1978,
via Fani (Roma), 5 morti; 2 agosto 1980, stazione di Bologna, 85 morti; 23
dicembre 1984, rapido 904, 16 morti; 27 maggio 1993, Uffizi (Firenze), 5
morti; 27 luglio 1993, via Palestro (Milano), 5 morti.
I giornalisti uccisi sono stati 11, spesso giovanissimi.
Cosimo Cristina (5 maggio 1960, 24 anni), da Cosa Nostra; Mauro De
Mauro (16 settembre 1970, 49 anni), da Cosa Nostra; Giovanni Spampinato
(27 ottobre 1972, 25 anni), da Cosa Nostra; Carlo Casalegno (29 novembre
1977, 61 anni), dalle Brigate rosse; Peppino Impastato (9 maggio 1978, 30
anni), da Cosa Nostra; Mario Francese (26 gennaio 1979, 53 anni), da Cosa
Nostra; Walter Tobagi (28 maggio 1980, 33 anni), dalla Brigata XXVIII
marzo; Pippo Fava (5 gennaio 1984, 58 anni) da Cosa Nostra; Giancarlo
Siani (23 settembre 1985, 26 anni), dalla Camorra; Mauro Rostagno (26
settembre 1988, 46 anni), da Cosa Nostra; Giuseppe Alfano (8 gennaio
1993, 47 anni), da Cosa Nostra.
I magistrati uccisi sono stati 24; 18 del pubblico ministero o giudici
istruttori.
Pietro Scaglione, procuratore della Repubblica a Palermo, fu ucciso
dalla mafia nella sua città il 5 maggio 1971; Francesco Ferlaino,
procuratore della Repubblica a Catanzaro, fu ucciso dalla ’ndrangheta a
Lamezia il 3 luglio 1975; Francesco Coco, procuratore della Repubblica a
Genova, fu ucciso dalle Br l’8 giugno 1976; Vittorio Occorsio, sostituto
procuratore della Repubblica a Roma, fu ucciso da Ordine nuovo il 10
luglio 1976; Riccardo Palma, magistrato addetto al ministero della
Giustizia, fu ucciso dalle Br a Roma il 14 febbraio 1978; Girolamo
Tartaglione, direttore generale degli Affari penali al ministero della
Giustizia, fu ucciso a Roma dalle Br il 10 ottobre 1978; Fedele Calvosa,
procuratore della Repubblica a Castrovillari, fu ucciso dalle Unità
comuniste combattenti a Patrica, in provincia di Frosinone, l’8 novembre
1978; Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica a Milano,
fu ucciso da Prima linea nella sua città il 29 gennaio 1979; Cesare
Terranova, consigliere istruttore a Palermo, fu ucciso dalla mafia nella sua
città il 25 settembre 1979; Nicola Giacumbi, procuratore della Repubblica a
Salerno, fu ucciso dalle Br nella sua città il 16 marzo 1980; Girolamo
Minervini, direttore generale degli Istituti di prevenzione e di pena, fu
ucciso a Roma dalle Br il 18 marzo 1980; Guido Galli, sostituto procuratore
della Repubblica a Milano, fu ucciso da Prima linea nella sua città il 19
marzo 1980; Mario Amato, sostituto procuratore della Repubblica a Roma,
fu ucciso nella capitale dai neofascisti Gruppi armati rivoluzionari il 23
giugno 1980; Gaetano Costa, procuratore della Repubblica a Palermo, fu
ucciso dalla mafia a Palermo il 6 agosto 1980; Giacomo Ciaccio Montalto,
sostituto procuratore della Repubblica a Trapani, fu ucciso dalla mafia nella
sua città il 25 gennaio 1983; Bruno Caccia, procuratore della Repubblica a
Torino, fu ucciso nella sua città da un gruppo di ’ndrangheta il 26 giugno
1983; Rocco Chinnici, consigliere istruttore a Palermo, fu ucciso dalla
mafia a Palermo il 29 luglio 1983; Alberto Giacomelli, magistrato in
pensione, già presidente della Corte d’appello, fu ucciso a Trapani il 14
settembre 1988 dalla mafia, che intendeva così lanciare un messaggio
intimidatorio anche ai magistrati giudicanti; Antonino Saetta, presidente
della Corte d’assise d’appello di Palermo, fu ucciso dalla mafia, con il
figlio, il 25 settembre 1988 a Canicattì; Rosario Livatino, giudice presso il
Tribunale di Agrigento, fu ucciso ad Agrigento il 21 settembre 1990;
Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Cassazione, fu
ucciso dalla mafia a Villa San Giovanni il 9 agosto 1991: qualche settimana
dopo avrebbe dovuto sostenere l’accusa davanti alla Cassazione nel
maxiprocesso. Nel corso del 1992 furono uccisi Giovanni Falcone,
Francesca Morvillo, Paolo Borsellino.
Nello stesso anno delle stragi di Capaci e di via D’Amelio comincia
Tangentopoli, la serie di processi per la corruzione in politica e nella
pubblica amministrazione. I processi videro impegnate 70 procure della
Repubblica, con procedimenti a carico di circa 12mila persone e
l’emissione di 25.400 avvisi di garanzia; 4.525 persone arrestate, 1.233
persone condannate. Furono avanzate 507 richieste di autorizzazione a
procedere per la Camera e 172 per il Senato. Sei ministri furono costretti a
dimettersi per aver ricevuto una comunicazione giudiziaria.
Nel 1993, in sole venti settimane, tutti i segretari dei partiti di
maggioranza lasciarono l’incarico. Il 9 febbraio Bettino Craxi lascia a
Giorgio Benvenuto la segreteria del Psi. Il 25 febbraio Giorgio La Malfa si
dimette da segretario del Pri. Il 22 aprile Carlo Vizzini si dimette dalla
segreteria del Psdi. Il 28 maggio Renato Altissimo si dimette da segretario
del Pli. Il 23 giugno Mino Martinazzoli, segretario della Dc, annuncia lo
scioglimento del suo partito.
Stragi, magistrati uccisi, un sistema politico decapitato, tutto negli stessi
anni. Non so quanti Paesi, apparentemente più forti di noi, sarebbero
sopravvissuti. Abbiamo una forza interiore della quale noi stessi a volte
siamo inconsapevoli.
4

Dove mettono i soldi i mafiosi?

Quanti sono i soldi della mafia? E dove li tengono? Perché lo Stato non li
porta via tutti?
Vi racconto un episodio. Nel 1993 chiesi a un mafioso pentito che era
stato convocato in Commissione antimafia: «Voi come fate per i soldi, dove
li tenete, come li investite?».
«Lei come fa?»
«Io non ne ho da investire» risposi.
«E se li avesse?»
«Andrei da un commercialista.»
«Noi facciamo più o meno lo stesso. E se l’investimento andasse bene
lei cosa farebbe?»
«Tornerei dal commercialista.»
«Noi facciamo più o meno lo stesso. E se l’investimento andasse
male?»
«Cambierei commercialista.»
«Noi, invece, lo ammazziamo. La differenza è questa. I nostri
professionisti lo sanno e non fanno scherzi.»
Lo scambio di battute riflette con chiarezza lo spirito della mafia. Non
sono validi i ragionamenti del tipo: «Ma come hanno potuto, uomini rozzi e
primitivi come Riina o Provenzano, amministrare miliardi e miliardi?
Certamente avevano alle spalle una potente organizzazione segreta che si
occupava degli investimenti». Certamente si avvalgono di abili e, a volte, di
apparentemente ineccepibili professionisti; ma la principale assicurazione
per un buon investimento è la violenza che non esiterebbero a mettere in
campo qualora l’investimento fallisse. Tuttavia il ricorso alla violenza non
fa recuperare i danni eventualmente subiti; costituisce solo una sorta di pena
inflitta a chi non garantisce i loro guadagni. Ai mafiosi interessa soprattutto
fare profitti. Perciò sono organizzati seguendo i principi delle aziende:
specializzazione delle funzioni, crescita delle dimensioni, espansione sui
mercati, legali e illegali, internazionalizzazione, ricorso a grandi studi
professionali italiani ed esteri. Tendono inoltre a inglobare le imprese legali
per godere della loro reputazione.
La mafia-azienda, a differenza delle aziende legali, ha una specifica
capacità espansiva determinata da tre caratteristiche che le sono proprie.
Risorse finanziarie praticamente illimitate: mentre l’imprenditore
onesto deve andare in banca per poter disporre del danaro che gli serve per
svolgere la propria attività, l’imprenditore mafioso è rifornito costantemente
di liquido attraverso i mercati criminali, traffico di droga, gioco d’azzardo,
usura, eccetera. Non deve pagare interessi passivi e non ha la
preoccupazione che la banca possa chiudergli l’accesso al credito.
Costo ridotto del lavoro: la mafia attua in genere una strategia di
riduzione salariale resa possibile dal fatto che i sindacati in genere sono
tenuti lontani con la violenza e con l’intimidazione; l’imprenditore mafioso
usa le stesse tecniche nei confronti dei lavoratori che intendono esercitare i
propri diritti, mentre gli altri soggiacciono all’implicito ricatto
occupazionale: se parli ti licenzio.
Tendenza a monopolizzare: l’azienda mafiosa si impone sul mercato per
i prezzi più bassi che riesce a proporre, grazie alla riduzione di costi di
produzione (costo del lavoro e costo del danaro), e per il ricorso alla
violenza nei confronti dei concorrenti. Come vedremo in un paragrafo
successivo, negli ultimi anni sono state approvate leggi che intervengono su
questi fattori e riducono la presenza delle aziende mafiose sul mercato.
Tuttavia, le organizzazioni mafiose si premuniscono intestando le aziende e
i beni a persone incensurate. Perciò le indagini della magistratura e della
polizia sono particolarmente sofisticate ed esigono un’altissima competenza
da parte degli inquirenti. Il Csm organizza periodici corsi di aggiornamento
per i magistrati, con esperti di alto livello che spiegano volta per volta quali
sono le più recenti tecniche per occultare gli investimenti di origine
criminale. La relazione della Direzione nazionale antimafia relativa al
secondo semestre 2018 segnala il rischio di transazioni mafiose attraverso
le criptovalute.
Un particolare impegno grava sulle specifiche competenze della guardia
di finanza, che ha competenze specifiche per individuare chi si nasconde
dietro prestanomi, chi sono i veri titolari di attività lucrose apparentemente
lecite, quali sono le diramazioni degli investimenti mafiosi, quali le
tecniche del «lavaggio» dei soldi sporchi.

Quali sono gli affari della mafia?


Si farebbe prima a elencare le attività in cui le diverse mafie non sono
coinvolte.
La relazione della Dia relativa al secondo semestre 2018 indica: traffico
di stupefacenti, eroina, cocaina, hashish, marijuana, droghe sintetiche;
energie rinnovabili; traffico di armi; estorsioni; usura; truffe sui
finanziamenti dell’Unione europea; gioco d’azzardo; scommesse; appalti
pubblici; smaltimento rifiuti, soprattutto tossici; edilizia; aziende sanitarie;
investimenti immobiliari; aziende agricole; autotrasporti; pulizie; bar,
ristoranti; compravendita di autoveicoli; onoranze funebri; allevamento
bufale e vendita latticini.
Recentemente si è constatato l’ingresso di organizzazioni mafiose nel
mondo del calcio, sia attraverso l’acquisizione di squadre di serie minori,
sia attraverso la presenza massiccia nelle tifoserie delle squadre maggiori,
che poi esercitano pesanti ricatti sulle dirigenze.
Le indagini hanno accertato in Lombardia la presenza della ’ndrangheta
nei settori dei call center, della comunicazione, dell’accoglienza dei rifugiati
(«Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga
rende meno» dice uno dei condannati a Roma per mafia, ma il principio
vale a qualsiasi latitudine), del trasporto e della consegna merci. La
presenza nel trasporto e consegna merci, spiegano Giuseppe Pignatone e
Michele Prestipino nel libro Modelli criminali, avveniva, in un caso
individuato in Lombardia, attraverso i subappalti e il loro integrale controllo
era garantito dall’espulsione di tutte le imprese concorrenti. In sostanza, le
organizzazioni mafiose sono presenti in ogni settore commerciale legale.
Attenzione: questo non vuol dire che tutti i settori commerciali sono in
mano alla mafia, ma significa che la mafia non esclude alcun settore dai
propri interessi.
Nel 1994 un pentito di Cosa Nostra, tale Cangemi, fece trovare alla
polizia italiana in territorio svizzero un sacco contenente due miliardi di lire
appartenenti a Totò Riina.
Venticinque anni dopo, nel 2019, il procuratore nazionale antimafia su
richiesta della Commissione finanze della Camera ha inviato una breve
relazione dalla quale risulta che il 70 per cento dei sequestri effettuati nei
confronti delle organizzazioni mafiose riguardano aziende e quote
societarie. Dalle segnalazioni di operazioni sospette inviate dai notai a un
apposito ufficio della Banca d’Italia, Unità di informazione finanziaria
(Uif), risulta che ben 481 riguardano cessioni di azienda. Il procuratore
sottolinea: «Dalle indagini svolte da tutte le Direzioni distrettuali antimafia
in materia di contrasto patrimoniale emerge con chiarezza che le mafie
fanno uso di società e aziende per rendere più difficile la tracciabilità dei
beni e la riconduzione al loro legittimo proprietario; l’utilizzo di scatole
societarie può rendere molto difficile l’identificazione del beneficiario
effettivo (beneficial owner) che si cela dietro il velo della personalità
giuridica; l’investimento in aziende e in titoli societari permette di
diversificare meglio il reinvestimento degli illeciti profitti e quindi di
renderlo meno aggredibile dalle forze di polizia».
Insomma, oggi le organizzazioni mafiose non mettono più i soldi in un
sacco, come aveva fatto Riina, ma investono massicciamente nell’economia
legale.
A volte l’ingresso della mafia negli affari è favorito dalla crisi
economica. L’imprenditore onesto che non riesce ad avere credito dalla
banca si rivolge al mondo mafioso; spera solo temporaneamente, ma è
un’inutile speranza. «Purtroppo» racconta uno di loro che operava in
Lombardia «quando c’è bisogno… ci si rivolge… anche a questa gente. Poi
però è molto difficile liberarsene.»
I casi analoghi sono centinaia e dimostrano come spesso è il mondo
legale che apre le porte al mondo criminale.
Molti ritengono che il danaro non abbia odore, anzi che l’ingresso del
danaro sul mercato sia un fatto in sé positivo, indipendentemente
dall’origine lecita o criminale di quel danaro.
Pecunia non olet, pare che abbia ribattuto Vespasiano al figlio Tito che
gli aveva contestato di avere messo una tassa, la centesima venalium,
sull’urina raccolta nelle latrine gestite dai privati, tassa che rendeva
all’erario cospicue entrate. La storia, al contrario, dimostra che il danaro
sporco ha dietro di sé uomini altrettanto sporchi. Questi usano quel danaro
come una leva per entrare nella vita dei cittadini onesti e delle aziende sane,
per trasformarle in gusci vuoti, pieni di polpa mafiosa.
Secondo gli studiosi delle mafie, i principali effetti della loro presenza
nell’economia si possono così sintetizzare: distruggono le aziende oneste;
riducono la fiducia nella legalità; scoraggiano gli investimenti; alimentano
la crescita dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale; limitano
l’esercizio del diritto di proprietà; scoraggiano la formazione di
un’imprenditoria sana; impoveriscono la società.

Calcio e mafia
Non c’è che dire: il calcio piace proprio a tutti. Io ci ho giocato da giovane e
sono un tenace tifoso del Toro. Ma da quando ho abbandonato lo sport
attivo non sono più andato in uno stadio; vedo le partite in tv. Andare allo
stadio è un’esperienza unica: i riti, i colori da indossare, i canti fanno sentire
parte palpitante di una grande comunità. Bisogna però non farsi coinvolgere
da gruppi che ti fanno sentire importante, partecipe di un cerchio magico,
ristretto e selezionato e che sono nelle mani di personaggi con parentele
criminali molto pericolose o sono essi stessi esponenti dell’organizzazione
mafiosa.
La Commissione parlamentare antimafia nella XVII legislatura
(presidente Rosy Bindi) a seguito di un’accurata indagine ha redatto una
specifica relazione, che ha individuato due distinti profili del rapporto tra
mafia e calcio.
Il primo profilo riguarda le forme di integrazione tra gruppi mafiosi,
gruppi criminali, frange violente del tifo organizzato, per condizionare i
comportamenti delle società sportive. Questi gruppi, apparentemente
eterogenei, una volta entrati nello stadio, si ricompongono attorno a capi
riconosciuti e si distinguono per comportamenti violenti o minacciosi nei
confronti dei tifosi della squadra avversaria o, se i rapporti con la dirigenza
sono in crisi, nei confronti di singoli calciatori o dell’intera squadra. Questi
comportamenti servono come arma di pressione sulle società, che hanno
tutto l’interesse a uno svolgimento tranquillo delle partite di calcio. In
cambio della tranquillità questi gruppi esigono vantaggi economici, biglietti
omaggio, contributi per le trasferte. A differenza di quanto accadeva nel
passato, il fenomeno è oggi sotto l’esame di attente indagini giudiziarie. Il 7
agosto 2019 è stato ucciso a Roma con un colpo di pistola alla nuca un noto
capo degli ultras della Lazio, Fabrizio Piscitelli, implicato in traffici di
droga e in relazione con gruppi mafiosi.
Dall’inchiesta della Commissione antimafia è emerso che a Torino la
’ndrangheta si era inserita «come intermediaria e garante» nell’ambito del
fenomeno del bagarinaggio gestito da ultras della Juventus sino al controllo
di interi settori dello stadio. In alcuni casi i capi degli ultras sono anche capi
di gruppi mafiosi, come a Catania e a Napoli. In altri, evidenzia la
Commissione, come per il Genoa e la Lazio, non si è verificata una
saldatura tra mafia e tifoserie ma le tifoserie assumono comportamenti
ricattatori analoghi a quelli dei gruppi mafiosi.
Il secondo profilo emerso dall’indagine ha riguardato la presenza di
sospetti esponenti di organizzazioni mafiose nella proprietà di squadre di
calcio. La Commissione cita, tra gli altri, il caso della polisportiva Isola
Capo Rizzuto, proprietaria dell’omonima squadra di calcio, sottoposta a
sequestro con l’accusa di essere stata utilizzata come veicolo per il
reimpiego di capitali illeciti della ’ndrangheta, usati per acquistare la
squadra dai precedenti proprietari. Nel maggio 2017 la squadra di calcio del
Foligno, che militava in serie D, subì una interdittiva antimafia per le
vicissitudini del suo presidente uscendo dal calendario per tutta la stagione
sportiva («La Stampa», 8 luglio 2019).
Una storia vecchia, ma significativa, riguarda la squadra dell’Avellino.
Il 31 ottobre 1980 il patron della squadra, Antonio Sibilia, accompagna nel
Tribunale di Napoli il calciatore più rappresentativo della sua squadra,
Juary, che poi giocherà nell’Inter e chiuderà la sua carriera nel Porto, dove
vinse una Coppa dei campioni segnando la rete decisiva al Bayern Monaco.
In un’aula del tribunale si sta celebrando un processo contro Raffaele
Cutolo, allora capo indiscusso della camorra. Sibilia e Juary si avvicinano
alle sbarre dietro le quali c’è Cutolo. Sibilia saluta il boss baciandolo sulle
guance e Juary consegna al camorrista un pacchetto con dentro una
medaglia d’oro del peso di 70 grammi. Su un lato della medaglia è
raffigurato un lupo, simbolo della squadra; sull’altro lato c’è scritto: «A don
Raffaele Cutolo con stima». Il giornalista Luigi Necco, uno dei più grandi
giornalisti d’inchiesta, indagò su quello strano rapporto tra Sibilia e Cutolo
e rese nota la vicenda. Venne gambizzato.
Il gioco d’azzardo
Nel campo dell’azzardo e delle scommesse la mafia è molto presente e tenta
di accalappiare i giovani con il miraggio di facili guadagni. Gli italiani negli
ultimi dieci anni hanno perso circa 181 miliardi di euro e nel solo 2018
circa 19 miliardi di euro. Una quota molto rilevante, circa il 50 per cento
secondo i calcoli più attendibili, sarebbe finita nelle tasche delle diverse
organizzazioni mafiose.
Il gioco d’azzardo si distingue in legale e clandestino, ma la mafia è
interessata a entrambe le categorie.
Lo Stato, da noi come in quasi tutti gli altri Paesi, si riserva una sorta di
monopolio in materia di giochi e scommesse consentendo a privati
l’esercizio del gioco, previa concessione, lautamente pagata. I concessionari
gestiscono l’affare-gioco attraverso una capillare rete industriale che
interessa circa settemila imprese e coinvolge oltre 100mila addetti. La mafia
non si è lasciata sfuggire l’opportunità di penetrare in un settore attraverso
il quale è possibile ottenere ingenti introiti e investire o riciclare, senza
gravi rischi, elevate somme di danaro di provenienza criminale, soprattutto
estorsioni e traffico di droga.
Nel perimetro del gioco legale l’offerta mafiosa avviene attraverso
l’impiego di impianti che operano su rete fissa oppure online, attraverso siti
internet autorizzati. Le organizzazioni mafiose spendono molto per
acquistare sale da gioco che sono intestate a prestanomi, oppure per inserire
uno o più complici all’interno delle società di gestione.
Talvolta l’apertura di una sala gioco legale da parte di soggetti contigui
a organizzazioni mafiose è uno schermo di comodo per esercitare, accanto
alle attività legali, un analogo circuito di gioco clandestino.
Altre volte le associazioni criminali distribuiscono e installano propri
apparecchi nei bar e nei locali pubblici, determinando situazioni di
monopolio nei territori controllati, mediante l’imposizione violenta del
proprio prodotto ai titolari di pubblici esercizi e la pretesa del pagamento
del noleggio e di una percentuale sui ricavi. Sono state scoperte alterazioni
del gioco attraverso la manomissione e la clonazione delle schede
elettroniche situate all’interno delle new-slot, fino a giungere ai più
complessi interventi di alterazione dei sistemi di trasmissione dati e
all’utilizzo di circuiti di gioco online non autorizzati. Alcuni clan (come
quello camorristico dell’Alleanza di Secondigliano) hanno, per esempio,
gestito migliaia di apparecchi collocandoli in altrettanti esercizi
commerciali in numerosi comuni in tutto il napoletano. Talora viene
imposta la collocazione presso esercenti più o meno conniventi. In altri casi
gli esercenti devono ottenere il benestare dei boss per installare nuove
macchine, nonché pagare una somma periodica per la «protezione». È
chiaro: chi gioca aiuta, direttamente o indirettamente, la mafia. Durante uno
degli incontri che ho tenuto nelle aule scolastiche uno dei vostri compagni
ha obiettato: «Ma non sono i miei 20 euro che rendono potente la mafia!».
È vero, ma sono quelli di tutti i giocatori, voi compresi. E se nessuno
comincia a smettere, la mafia continuerà a prosperare.
Tuttavia, c’è un’altra ragione per non giocare d’azzardo. Per tutti i
giochi vale la stessa domanda. Quale vita vogliamo per noi? Quella legata
alla conoscenza, alla competenza, all’onestà? Oggi c’è disoccupazione nei
vecchi lavori ma straordinarie possibilità di reddito e buone occupazioni in
nuovi lavori, quelli connessi alla ospitalità, al tempo libero, alle nuove
tecnologie applicate alla vita quotidiana. Ci sono circa 150mila posti di
lavoro vacanti perché non esistono ancora le competenze tecnologiche
necessarie.
Chi sta piegato su una slot machine esce pian piano dal circuito della
formazione e del buon lavoro per entrare nel circuito dello sfruttamento di
se stesso, che abbrutisce e toglie dignità.
Insomma, anche contro il gioco d’azzardo è tempo di una pedagogia dei
valori civili, tra i quali rientra la dignità della persona in opposizione a chi
tenta di sfruttare i cittadini magari allettando con qualche piccola vincita a
fronte di una colossale sottrazione di risorse.
Un noto slogan dice: «Giocate responsabilmente». In realtà l’unico
modo per essere responsabili è non giocare.

La ricchezza della mafia


È difficile fare un calcolo preciso delle ricchezze della mafia. Ma alcuni
indici sono eloquenti.
Un’indagine condotta alcuni anni fa ha accertato che il gruppo
camorristico dei Nuvoletta disponeva di ben ventidue diverse società
operanti nei più diversi settori commerciali.
Il 10 novembre 1989, il giorno successivo alla caduta del Muro di
Berlino, un giovane appartenente alla ’ndrangheta telefonò da Berlino al
suo padrino, in un piccolo paese delle Serre dell’Aspromonte. La telefonata
era intercettata: «Don Peppe, qui è crollato il muro, ’a gente scappa. Che
dobbiamo fare?». Don Peppe rifletté qualche secondo e poi ordinò: «Vai lì
[nella Germania Est, NdA] e compra tutto».
Vito Galatolo, boss dell’Acquasanta, un quartiere di Palermo, dice nel
2018 al magistrato che lo interroga: «Di tutti questi soldi sinceramente non
sapevo cosa fare. Il vizio che avevo io è che giocavo, così passavo il
tempo». Galatolo, in un’occasione, aveva puntato 500mila euro su una
partita di calcio.
L’investimento in droga, di qualsiasi tipo, rende circa il triplo. Per ogni
100 euro investiti, l’organizzazione ne guadagna 300. Chi investe 100 euro
il lunedì ne incassa 300 il martedì. Se poi investe quei 300 euro il martedì,
ne incassa 900 il mercoledì. Se continua così il giovedì ne incassa 2.700, il
venerdì 8.100, il sabato 24.300, la domenica 72.900. Fate il calcolo di
quanto ne guadagna in un mese. E poiché le mafie non investono centinaia,
ma migliaia e migliaia di euro, potete immaginare l’entità complessiva dei
profitti solo per lo smercio della droga.
La guardia di finanza, nel maggio del 2019, ha presentato un rapporto
completo sulle attività antimafia compiute nell’anno precedente. Sono stati
eseguiti 1.617 accertamenti nei confronti di 10.997 persone; sono stati
sequestrati beni per più di due miliardi di euro, confiscati beni per più di
780 milioni di euro. Questi sono dati relativi alla sola guardia di finanza e
bisogna poi aggiungere l’attività dei carabinieri e della polizia di Stato.
La Dia nel suo rapporto relativo al 2018 ha informato che nel solo
primo semestre di quell’anno (i dati del secondo semestre sono in corso di
elaborazione) sono stati confiscati alle organizzazioni mafiose beni per più
di 209 milioni di euro. La metà del valore, più di 105 milioni, riguarda la
sola camorra, una mafia poco visibile, ma molto potente, come emerge dalle
sue ricchezze.
Questi dati dimostrano la forza economica delle mafie, ma anche una
indiscutibile capacità delle forze di polizia e della magistratura. Togliere
beni alle mafie, impoverirle, è la strada maestra per sconfiggerle
definitivamente. Queste le cifre, fornite dalla Dia relative al periodo 1992-
30 giugno 2019; i valori sono espressi in euro.

Organizzazioni Sequestri Confische


Cosa Nostra 13.357.889.803 7.226.542.856
Camorra 5.840.926.767 1.521.129.299
’Ndrangheta 3.501.582.278 2.129.035.889
Mafie pugliesi 251.021.874 156.817.763
Altre 1.914.022.571 468.851.583
Totale 24.829.443.293 11.502.277.390

Alcune brevi considerazioni. I sequestri assistiti da prove più rigorose


sembrano essere stati quelli nei confronti della ‘ndrangheta, perché sono
stati trasformati in confisca beni per un valore pari ai due terzi del valore
dei beni sequestrati. Per la camorra, invece, il valore dei beni confiscati
ammonta a circa il 25 per cento del valore dei beni sequestrati. Le mafie più
povere sembrano essere quelle pugliesi. Ma occorre tener conto del ritardo
con il quale ci si è mossi nei confronti della mafia più potente della regione,
quella foggiana. Per circa metà dei beni complessivamente sequestrati nel
periodo indicato non si è raggiunta la prova della provenienza illecita. Nel
passato, sino a circa dieci anni fa, si confiscavano beni il cui valore era di
circa un quarto del valore complessivo dei beni sequestrati; se la media
degli ultimi diciassette anni è salita al 50 per cento circa, evidentemente
dobbiamo registrare una notevole crescita dell’accuratezza nella
individuazione delle prove idonee a trasformare il sequestro in confisca. La
crescita della efficienza è positiva. Ma non possiamo ancora dirci
soddisfatti; se restituiamo ben il 50 per cento dei beni sequestrati significa
che o a volte si sequestra con una certa leggerezza, o si procede, dopo il
sequestro, con una competenza professionale ancora insufficiente.

Il mafioso imprenditore
Le ricchezze della mafia non inquinano solo l’economia, ma tutti i settori
della vita civile. Il mafioso ricco ragiona come qualunque uomo d’affari,
che bada ai propri interessi e cerca di aver attorno a sé un ambiente
favorevole. L’uomo di affari si chiede: «Che tipo di giornale, di radio, di tv,
di politico, di magistrato, di poliziotto mi serve per acquisire reputazione,
incrementare le entrate, ridurre le perdite, azzerare i rischi?». E agisce di
conseguenza. Sa che la reputazione è importante e cercherà perciò di avere
buoni rapporti, senza commettere scorrettezze, con la comunicazione, la
politica, le istituzioni. Se ne ha la possibilità, investirà in un giornale, una
radio e una tv; finanzierà una squadra di calcio a scopo promozionale;
mostrerà ai politici quello che fa per il territorio e la convenienza che il
territorio trae dallo sviluppo della propria azienda.
Il mafioso imprenditore fa la stessa cosa. Si dimostrerà favorevole
persino a sostenere iniziative antimafia, purché innocue; cercherà rapporti
con personaggi influenti e tenterà di concludere affari lucrosi.
Un amico magistrato che era stato mandato come primo incarico nella
Procura di un piccolo tribunale calabrese mi raccontò questa storia. Abitava
in albergo, in un paese vicino perché nella città sede del tribunale non
c’erano alberghi decenti; un paio di settimane dopo il suo arrivo chiese a un
funzionario della segreteria se a suo avviso ci fossero alloggi da affittare in
città. Il funzionario molto cortesemente gli assicurò che avrebbe chiesto in
giro. Dopo un’ora circa, gli si presentò un avvocato, ben vestito, che con
sobria cortesia gli disse: «Dottore, mi scusi, sono venuto a conoscenza della
sua richiesta. Capisco che lei, appena arrivato, preferirebbe abitare qui,
anche per poter svolgere meglio il suo lavoro. Come avvocato apprezzo la
sua dedizione al lavoro e la ringrazio. C’è un mio cliente, imprenditore di
specchiata onestà, che ha appena costruito alcuni villini non lontano dal
tribunale, di fronte al mare, con un piccolo giardino o con una terrazza. Se
vuole, nell’intervallo del pranzo l’accompagno». Il giovane giudice accettò.
L’avvocato lo invitò a pranzo e lo accompagnò su una lussuosissima
Mercedes spider al complesso immobiliare. Lo attendevano l’imprenditore,
in doppiopetto grigio, e un muratore. L’imprenditore lo salutò in modo
affabile, gli mostrò uno degli alloggi, «il migliore» precisò, ammobiliato
con gusto, con un piccolo terrazzo che s’affacciava sul mare, distante una
decina di metri. La spiaggia era separata solo da una strada. Per immettersi
in auto sulla strada, senza rischi, poteva essere azionato un telecomando che
apriva il cancello e faceva diventare verde un semaforo per chi usciva dal
villino. Il prezzo era decisamente conveniente. Il villino aveva quattro
alloggi. Negli altri tre abitavano un medico, un docente della vicina
università, una notaio. Il medico e il docente avevano famiglia, ma non
avevano bambini; la notaio, una bellissima signora, precisò con un sorriso
complice l’avvocato, veniva da Ravenna. Il mio amico si riservò di
decidere. L’indomani ne parlò con il capo della Procura. L’avvocato era da
molti anni il difensore tradizionale della cosca mafiosa più potente della
zona. L’imprenditore era imputato di riciclaggio e di illeciti urbanistici.
Quelle villette erano costruite su terreno demaniale e senza licenza. Il
sindaco sosteneva che la licenza c’era, e che il terreno non era demaniale: lo
avrebbe dimostrato appena avesse avuto il personale idoneo a farlo. Il mio
amico rinunciò alla villetta, all’eventuale incontro galante con la bella
notaia di Ravenna e continuò a vivere in albergo. Se avesse accettato
sarebbe apparso per lo meno amico dei due loschi figuri.
La Commissione parlamentare antimafia ha messo in luce con
particolare chiarezza le funzioni della cosiddetta «area grigia» in cui
operano quei professionisti, avvocati, commercialisti, notai, imprenditori
che, pur sapendo di avere a che fare con mafiosi, li agevolano aiutandoli nel
riciclaggio del danaro, nell’occultamento delle ricchezze, nel tenere i
rapporti tra chi è libero e chi è detenuto e così via. L’area grigia, a cavallo
tra illegalità e legalità, costituisce la porta d’ingresso della mafia nelle
attività legali.
La forza principale della mafia non è nella mafia, ma fuori di essa: nei
professionisti e pubblici funzionari che fingono di non vedere, non sapere e
non capire; in quelli che consapevolmente, per viltà o per brama di
ricchezza, pur non facendone parte, agevolano le organizzazioni mafiose;
nella indifferenza dei cittadini onesti che non si impegnano per la legalità,
ritenendo che si tratti puramente e semplicemente di una gara tra guardie e
ladri. Come scrisse Nicolò Machiavelli, per una buona e fiorente città non
bastano le leggi, ci vogliono anche i «buoni comportamenti» dei cittadini:
rifiutare guadagni facili e sospetti, non fare affari con malavitosi, non essere
indifferenti. Se tutti si comportassero onestamente, la mafia avrebbe
davvero i giorni contati.
Gli indifferenti sono complici perché permettono che la mafia vada
avanti. Essere cittadini non è un certificato, è una responsabilità; è la
capacità di contribuire responsabilmente al benessere della comunità in cui
si vive.

Area grigia e massoneria


Secondo le indagini è risultato che l’«area grigia» per eccellenza è costituita
dalle logge massoniche che permettono l’incontro con professionisti,
politici e funzionari pubblici nella garanzia dell’assoluta riservatezza. La
massoneria è un’associazione a sfondo morale e solidaristico che risale al
Settecento, anche se alcune tesi, un po’ fantasiose, la fanno risalire alla
notte dei tempi.
In Italia le associazioni massoniche (logge) hanno avuto ruoli
significativi nel corso del Risorgimento e nell’antifascismo. Ma sono state
frequenti le deviazioni dalla legalità, la più grave delle quali è stata
costituita dalla loggia deviata P2 (sciolta con la legge 17/82).
Ne erano iscritti i massimi dirigenti dei servizi di sicurezza e delle forze
di polizia, molti alti ufficiali della forze armate, magistrati, politici,
imprenditori, giornalisti. La loggia P2 si proponeva il sovvertimento
dell’ordinamento costituzionale della Repubblica.
Una regola assoluta delle logge massoniche è la segretezza. La formula
ufficiale utilizzata per l’adesione alla massoneria da parte della Glri (Gran
loggia regolare d’Italia), spiega la Commissione antimafia della XVII
legislatura, prevede un impegno a «non palesare giammai i segreti della
libera muratoria; di non far conoscere ad alcuno ciò che verrà svelato […]
durante le tornate rituali e di formazione massonica, né in relazione alle
cerimonie di iniziazione ai gradi della libera muratoria» addirittura «sotto
pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, fatto il mio corpo
cadavere in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento
per esecrata memoria ed infamia eterna». La retorica è evidente, ma
emergono oggettive, preoccupanti assonanze con alcuni giuramenti
’ndranghetisti. Altrettanto chiara è la formula della Gran loggia d’Italia
degli Alam (Antichi liberi accettati muratori), costituita nel primo
Novecento: «Il primo dovere è un silenzio assoluto su tutto ciò che vedrete
e saprete, in seguito, su tutto ciò che potrete udire e scoprire tra noi».
La Costituzione vieta le associazioni segrete ma la legge di
scioglimento della loggia P2, sopra richiamata, ha limitato la illiceità a
quelle associazioni che mediante apparati occulti si propongono di
condizionare l’attività degli organi dello Stato e di enti pubblici o
comunque sottoposti al controllo statale.
La Commissione parlamentare antimafia della XI legislatura (1992-
1994) si occupò delle relazioni tra le organizzazioni mafiose e le logge
massoniche (Docc. XXIII, n. 2 e n. 14).
In un passaggio chiave della relazione conclusiva si sosteneva che «il
terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di
Cosa Nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è
rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica
serve a stabilire rapporti organici e continuativi». E ancora: «L’ingresso
nelle logge massoniche di esponenti di Cosa Nostra, anche di alto livello,
non è un fatto episodico e occasionale ma corrisponde a una scelta
strategica […]. Il giuramento di fedeltà a Cosa Nostra resta l’impegno
centrale al quale gli uomini d’onore sono prioritariamente tenuti. […] Le
affiliazioni massoniche offrono all’organizzazione mafiosa uno strumento
formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in
ogni campo; sia per la conclusione di grandi affari, sia per
l’“aggiustamento” dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori
di giustizia». Nella relazione si ricordava che rapporti fra Cosa Nostra e
logge massoniche erano già emersi nell’ambito dei lavori delle
Commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Sindona e sulla loggia
massonica P2.
In pratica quella relazione metteva in luce una classica «area grigia»,
chiarita brutalmente dal pentito Leonardo Messina in un’audizione del 4
dicembre 1992: «È nella massoneria che si possono avere i contatti totali
con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il
potere diverso da quello punitivo di Cosa Nostra».
Il tema è stato ripreso dalla specifica relazione dalla Commissione
antimafia della XVII legislatura, presieduta dall’onorevole Rosy Bindi.
Questa Commissione, intendendo fare un lavoro approfondito, e non
potendo, per ragioni di tempo, indagare in tutta l’Italia, ha concentrato la
propria analisi sulla Calabria e la Sicilia, ove erano già emersi nel passato
preoccupanti connessioni tra mafia e alcune logge massoniche. Le
preoccupazioni appaiono confermate anche dal fatto che in Sicilia sono
state sciolte dalle autorità interne alla massoneria 86 logge e in Calabria 52,
anche se con motivazioni non sempre note. Le indagini hanno quindi
confermato il persistente interesse delle associazioni mafiose a entrare nelle
logge massoniche, ma, aggiunge la Commissione: «Questo non consente
alcuna criminalizzazione delle obbedienze in quanto tali [le obbedienze
sono le diverse organizzazioni massoniche, NdA] che, nella loro qualità di
associazioni di diritto privato rimangono sino a prova contraria compagini
sociali lecite, meritevoli di tutela giuridica» (p. 49).
Resta la necessità che le varie obbedienze massoniche, a tutela della
propria reputazione, apprestino misure interne di selezione degli iscritti e
cooperino pienamente con le autorità dello Stato che intendono individuare
le eventuali infiltrazioni. La Commissione ha segnalato numerosi casi di
reticenza a fornire notizie utili alle indagini; il Gran Maestro della Glri ha
reagito con considerazioni critiche sul sito glri.it.

L’onere della prova


Come vi ho raccontato all’inizio, colpire i patrimoni mafiosi, sottrarli ai
capimafia e restituirli alla società civile è stato il grande obbiettivo
perseguito da Pio La Torre, che fu ucciso per questo.
La prima legge che affrontò il problema fu proprio quella che porta il
nome del parlamentare siciliano. La norma chiave dispone che il giudice
può procedere al sequestro e, dopo, alla confisca dei beni di cui dispone
direttamente o indirettamente una persona indiziata di appartenere a una
associazione mafiosa, quando il valore di questi beni «risulta
sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero
quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere sia il frutto
di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego».
In questa disposizione si fissa per la prima volta il principio della
«inversione dell’onere della prova».
Mentre in tutti gli altri casi l’onere di dimostrare l’esistenza di una
prova a carico di un accusato spetta al magistrato, nei casi di imputazione
per mafia, quando c’è sproporzione tra il valore dei beni e il reddito della
persona, sta alla persona accusata di mafia dimostrare che quei beni hanno
provenienza lecita, altrimenti vengono confiscati. Questo modello è stato
contestato da molti studiosi proprio perché incentrato sul ribaltamento
dell’onere della prova; si tratterebbe di una previsione contraria ai principi
generali per i quali dev’essere lo Stato a provare la colpevolezza dei
cittadini e non i cittadini a provare la propria innocenza. In realtà le cose
stanno diversamente. Lo Stato deve dimostrare che i beni hanno un valore
sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta.
Una volta che lo Stato abbia dimostrato questa sproporzione, spetta al
cittadino dimostrare che lo Stato ha sbagliato e che i beni hanno una
provenienza lecita. In ogni caso, il criterio italiano è stato considerato in
diverse sedi internazionali all’avanguardia nella lotta alla criminalità ed è
stato fatto proprio dalla Convenzione dell’Onu contro la criminalità
organizzata, approvata a Palermo il 15 dicembre 2000.
Leggi successive hanno perfezionato i meccanismi del sequestro e della
confisca, specie per la salvaguardia delle capacità produttive delle imprese,
la tutela dei posti di lavoro dei dipendenti non mafiosi, le garanzie per
persone estranee alla mafia che abbiano avuto in buona fede rapporti con
imprese mafiose.
Il sequestro e la confisca dei beni aprono la strada a procedure
particolarmente complesse quando gli atti riguardano imprese che non
possono essere chiuse in attesa delle pronunce definitive della magistratura.
Pensate a un’impresa agricola: se è tempo di raccolta, bisogna raccogliere,
non si possono attendere le sentenze. In un’impresa di trasporti i camion e
gli autobus devono muoversi: se stanno fermi anche solo per sei mesi, poi
sono da buttare. La ricchezza non va dispersa; bisogna evitare che la
legalità, paradossalmente, contribuisca a distruggere beni e posti di lavoro.
Oltre all’offesa per la giustizia sociale, questo genere di ricadute sarebbero
carburante al motore della mafia.
Proprio per evitare gli effetti negativi e garantire produttività e posti di
lavoro, il codice antimafia prevede che per la gestione dei beni sequestrati,
il tribunale nomini immediatamente all’atto del sequestro un amministratore
giudiziario. Nei casi complessi, per esempio, un supermercato, un’azienda
di trasporti, due alberghi e tre ristoranti appartenenti allo stesso clan (caso
verificatosi) gli amministratori possono essere più d’uno. L’amministratore
(o gli amministratori) deve gestire i beni sotto sequestro e deve depositare
per il tribunale una relazione sulla sussistenza di concrete possibilità di
prosecuzione o di ripresa dell’attività imprenditoriale. Se si decide in senso
positivo, l’amministratore si comporta come gestore unico dell’azienda.
Quando il giudice ritiene che l’attività di un’azienda, pur non essendo
mafiosa, sia direttamente o indirettamente assoggettata a organizzazioni
mafiose, oppure che possa agevolare l’attività di persone sottoposte a
procedimento per mafia o per altri gravi reati, come per esempio la
corruzione, ne dispone l’amministrazione giudiziaria. In questi casi il
tribunale nomina il giudice delegato e l’amministratore giudiziario. Questi
gestisce l’azienda ed esercita tutte le facoltà che spetterebbero ai titolari di
diritti sui beni. A differenza dell’azienda mafiosa, in questi casi
l’amministrazione giudiziaria non può durare più di due anni. Scaduto il
termine, sulla base della relazione presentata dall’amministratore
giudiziario, il tribunale può: revocare l’amministrazione giudiziaria e
riconsegnare l’azienda ai proprietari; o confiscare i beni che risultano essere
il frutto o il reimpiego di attività illecite; o applicare il controllo giudiziario.
La magistratura è ricorsa all’amministrazione giudiziaria in un caso in
Lombardia che riguardava grandi banche o multinazionali in rapporti
economici con la ’ndrangheta; in un caso di consorzi di cooperative di
rilevanza nazionale in rapporto con un’organizzazione mafiosa romana,
oppure ancora di grandi imprese in rapporto con organizzazioni di Cosa
Nostra e della ’ndrangheta per lavori da eseguire in Sicilia e in Calabria.
In questi casi non sono stati in discussione né l’origine dei beni
dell’azienda né il suo operato complessivo; è emerso invece che qualcuno
dei dirigenti di queste aziende aveva costruito rapporti con esponenti delle
diverse organizzazioni mafiose al fine di regolare i reciproci interessi. In
simili casi è sufficiente rimuovere i dirigenti collusi tramite
l’amministrazione giudiziaria e non è necessario procedere alla confisca
dell’azienda.
Ho indicato il controllo giudiziario come possibile esito
dell’amministrazione giudiziaria. Vediamo più nel dettaglio in cosa
consiste. Il controllo giudiziario delle aziende va da uno a tre anni e
comporta una minuziosa supervisione di ogni attività dell’azienda:
pagamenti effettuati e ricevuti, acquisti, incarichi. Può essere inoltre
imposto all’azienda di non cambiare ragione sociale, né la composizione
degli organi dirigenti e di informare l’autorità giudiziaria sulle eventuali
forme di finanziamento.
Credo che da questa rapida panoramica possiate farvi un quadro della
complessità che presenta l’aggressione ai patrimoni mafiosi e, insieme,
dell’intensità e della continuità dell’azione di Parlamento, governo,
magistratura, forze di polizia, ma anche di professionisti, come
commercialisti, avvocati, esperti di finanza e di mercati per sostenere
l’obbiettivo del primato della legalità.

La confisca dei beni


Un fondamentale aiuto alla magistratura e agli amministratori viene
dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni
sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Istituita nel 2007
(www.benisequestraticonfiscati.it), l’Agenzia è un ente con duecento
dipendenti, molti altamente qualificati, con una sede principale a Roma e
quattro sedi periferiche a Milano, Napoli, Reggio Calabria, Palermo.
Il sequestro, la confisca, la gestione, la valorizzazione e la restituzione
alla collettività dei beni che provengono dalle mafie comportano un lavoro
di squadra piuttosto complesso. I beni si trovano su un determinato
territorio e quindi occorre l’intervento degli enti locali; impegnano
lavoratori e quindi bisogna interessare i sindacati; sono oggetto di atti di
polizia giudiziaria e quindi è necessario consultare l’autorità di polizia che
ha proceduto; sono coinvolti in un processo penale e bisogna pertanto
sentire la magistratura; hanno debitori e creditori, che vanno consultati,
potrebbero essere gestiti da organi di partenariato sociale (come Libera);
alcuni beni sono su un terreno demaniale e quindi va coinvolto il Demanio.
I beni possono essere distinti in tre categorie: mobili (automobili, spesso
di lusso e di grossa cilindrata), immobili (appartamenti, ville, a volte
castelli, complessi immobiliari in località di vacanza), aziende (la maggior
parte sono aziende di costruzione, commercio all’ingrosso e al dettaglio,
informatica, ricerca, servizi alle imprese). Al giugno del 2019 sono 959 le
aziende per le quali è stata definita una destinazione: 884 sono in
liquidazione perché non in grado di svolgere una reale attività produttiva,
71 saranno vendute, 3 date in affitto e 1 in cessione gratuita.
Sono invece in gestione ben 3.033 aziende, 30 delle quali all’estero. È
interessante seguire la collocazione territoriale. In Sicilia ce ne sono 968, in
Campania 594, nel Lazio 390, in Calabria 372, in Lombardia 258, in Puglia
135. Nelle regioni di più recente insediamento si distinguono l’Emilia-
Romagna con 94 aziende, il Friuli con 2, la Toscana con 49, il Veneto con
24, l’Umbria e le Marche con 5 aziende ciascuna.
Il 1° luglio 2019 il direttore dell’agenzia, il prefetto Bruno Frattasi, nel
corso di un’audizione davanti alla Commissione antimafia ha tracciato un
quadro dei risultati e delle difficoltà. Il problema principale è rimettere sul
mercato le aziende che possono diventare sane. Per far fronte a questo
problema il prefetto intende «valorizzare forme di collaborazione con
associazioni di qualificati professionisti che possono portare in queste
aziende una cultura manageriale fortemente orientata al rispetto delle
regole» («Il Sole 24 Ore», 20 luglio 2019). I tre obbiettivi principali
dell’Agenzia sono: rafforzamento della cooperazione tra le diverse
istituzioni, valorizzazione del patrimonio immobiliare, reimmissione nel
circuito legale delle aziende portate via alla mafia.
Al termine di questa lunga cavalcata vi risulterà evidente: quanto è
importante togliere le ricchezze alla mafia; quanto è importante restituire
queste ricchezze alla collettività; quanto difficile, complesso e non
conosciuto è il lavoro di quelle migliaia di persone che si dedicano a questo
pericolosissimo impegno.
Forse potreste chiedere ai vostri insegnanti di invitare a scuola uno di
questi funzionari in modo che possa spiegarvi in termini semplici in cosa
consiste il suo lavoro e quale sia la sua utilità sociale.

L’antimafia conviene
Corleone non è solo la città di Riina. Un recente libro di Toni Mira e
Alessandra Turrisi, Dalle mafie ai cittadini, spiega come circa seicento
ettari di terra confiscati a Riina, Provenzano e ad altri mafiosi, sono oggi
coltivati da cooperative che producono pasta, olio, legumi, passata di
pomodoro, venduti nei supermercati. Nelle campagne di Castel Volturno, in
un caseificio confiscato al boss della camorra Michele Zaza si producono
mozzarelle di bufala Dop, che riforniscono tre supermercati Coop a Milano,
uno a Roma e Eataly a Parigi.
L’utilizzazione sociale dei beni confiscati è prevista dalla legge n. 109
del 1996. Questa legge è il frutto della raccolta di oltre un milione di firme
nella primavera del 1996 che spinse il Parlamento a fare in fretta anche
perché di lì a poco sarebbero state sciolte le Camere. Promotrice di questa
petizione è stata l’associazione Libera che partiva da una considerazione
apparentemente banale: non basta sequestrare e confiscare, bisogna anche
riutilizzare socialmente i beni. Fare in modo che le comunità vedano che lo
Stato restituisce ai cittadini ciò che i mafiosi tenevano per sé. Se nel parco
di una villa confiscata a un boss i bambini del quartiere possono andare a
giocare, se la villa hollywoodiana di un mafioso è sede di un istituto
scolastico, se la terra confiscata produce beni e crea occupazione, se nella
sala giochi di un gruppo mafioso di Ostia ora c’è un centro di formazione e
cura contro le ludopatie, i cittadini capiscono che la lotta alla mafia non è
una rincorsa tra guardie e ladri; è un impegno che ai cittadini conviene
perché crea posti di lavoro, fornisce prodotti puliti, rende utilizzabili per
tutti i beni che una volta erano monopolizzati dalla mafia.
5

Isolare le mafie

La forza della mafia è determinata dai suoi legami interni e dai suoi rapporti
con il mondo esterno. I primi sono determinati dall’omertà e dalla
convenienza; gli altri dalla fragilità morale di uomini delle istituzioni, di
imprenditori, di cittadini comuni. L’omertà assicura la copertura reciproca
tra i componenti del gruppo mafioso; la convenienza è determinata dai
benefici economici e dal senso di potere che conferisce la soggezione ai
mafiosi di settori della società civile. I rapporti con il mondo esterno
riguardano lo scambio con la politica (voti contro favori), i patti con le
imprese (appalti e spartizione degli utili), le intimidazioni o le corruzioni
per chi opera nelle istituzioni, il potere esercitabile dalle carceri,
l’imposizione dell’omertà ai cittadini, attraverso minacce qualora
intendessero testimoniare contro l’organizzazione, l’indifferenza della gente
comune.
In questo capitolo indicherò sinteticamente alcune misure di lotta alla
mafia volte a spezzare i vincoli interni e quelli esterni: la tutela dei
cosiddetti pentiti e dei testimoni di giustizia, il carcere di massima
sicurezza, lo scioglimento per mafia dei consigli comunali, la selezione
delle candidature per le varie elezioni, il cosiddetto voto di scambio, le
interdittive antimafia (che sono provvedimenti amministrativi diretti a
impedire a determinati soggetti di prendere parte a gare pubbliche).
Prima però voglio parlarvi di una questione meno nota. Nel 1996, ero
vicepresidente della Camera, avevo tenuto a Reggio Calabria un’iniziativa
per i licei della città proprio sui temi della lotta alla mafia. Un giovane
funzionario di polizia venne a trovarmi in albergo. La moglie di un potente
capomafia della zona, in carcere con più ergastoli, voleva parlarmi, ma in
un’altra zona della città, meno esposta. Ci vedemmo l’indomani mattina
verso mezzogiorno quasi in campagna, in un casolare che stava in piedi per
miracolo. La donna era venuta con sua cognata, sorella del marito, a sua
volta moglie di un capomafia, anch’egli all’ergastolo. Aveva tre figli e la
cognata due: cinque maschi e nessuna delle due voleva che i figli
prendessero la strada dei padri. «Fate qualcosa, portateli via; qui finiscono o
al cimitero o al 41bis.» Ne parlai a don Luigi Ciotti, presidente di Libera.
Qualche settimana dopo venni eletto alla presidenza della Camera e non
potei più occuparmi personalmente della faccenda. Ma ero tranquillo perché
don Luigi se ne stava già prendendo cura, probabilmente meglio di quanto
non avessi saputo fare io.
Il problema dei «figli della mafia» è sempre più rilevante. Un numero
crescente di madri chiede segretamente a magistrati, poliziotti, carabinieri,
che i figli vengano sottratti a un destino di mafia perché, nella realtà in cui
sono immersi, i condizionamenti sono fortissimi. Un ragazzino, per dare
prova di coraggio ’ndranghetista, ha rifiutato l’anestesia nel corso della
estrazione di un dente. Un altro si è fatto tatuare sulla pianta del piede
l’immagine di un carabiniere per calpestarla quando cammina. Altre madri
chiedono di essere obbligate ad andar via per stare vicino ai figli, e liberarsi
così dalla trappola famigliare, ma con un provvedimento giudiziario che dia
a quella loro scelta le sembianze di un obbligo imposto.
Nel settembre del 2011 alla presidenza del Tribunale dei minori di
Reggio Calabria è arrivato un magistrato, Roberto Di Bella, che si è posto il
problema e lo sta affrontando efficacemente, come egli stesso ha spiegato ai
componenti della Commissione parlamentare antimafia, nel corso di
un’audizione del 29 aprile 2014: «La conseguenza immediatamente
tangibile della mia lunga esperienza professionale nel settore è che la
’ndrangheta si eredita. Le famiglie di ’ndrangheta si assicurano il controllo
del territorio attraverso la continuità generazionale. […] Da circa due anni,
al di là dei provvedimenti penali che adottiamo nei confronti di minori che
commettono reati, abbiamo mutato orientamento giurisprudenziale
provando a interrompere questa spirale perversa di trasmissione di valori
negativi da padre in figlio, adottando dei provvedimenti di limitazione della
potestà, ora responsabilità genitoriale, dei boss con contestuale
allontanamento dei minori dalle famiglie nei soli casi di concreto
pregiudizio, cioè di indottrinamento malavitoso, rischi per faide, pregiudizi
molto forti… L’obbiettivo non è la punizione delle famiglie; ma prestare
aiuto a questi ragazzi, allontanarli per fornire delle alternative culturali,
parametri valoriali educativi diversi da quelli deteriori del contesto di
provenienza nella speranza di sottrarli alla definitiva strutturazione
criminale. Se si nasce a San Luca, a Bovalino, a Rosarno, a Locri, se si ha
un nonno ’ndranghetista, un padre ’ndranghetista, fratelli ’ndranghetisti in
carcere, una madre intrisa di cultura mafiosa, la possibilità di uscire, di
affrancarsi dalle norme parentali sono quasi nulle» (Commissione
antimafia, relazione finale, p. 234).
Lasciare nella famiglia ragazzini che possono soltanto nutrirsi di cultura
mafiosa significa segnare il loro destino, o in carcere o al cimitero, come i
nonni, i padri, i fratelli. E quindi, in applicazione di leggi nazionali e di
convenzioni internazionali, che impongono di salvaguardare soprattutto il
futuro del minore, quando la famiglia lungi dall’essere un luogo educativo è
un luogo di formazione al crimine, il ragazzo o la ragazza sono allontanati
dalla famiglia e aiutati a costruirsi un percorso di vita nella legalità, grazie
al lavoro dei servizi sociali o di associazioni di volontariato, come Libera o
Addiopizzo, con la guida del Tribunale dei minori. Questo orientamento è
condiviso da altri importanti tribunali per i minorenni del Sud, come
Napoli, Catania e Catanzaro. A Reggio Calabria il provvedimento è stato
adottato nei confronti di trenta minori: i ragazzi hanno ripreso a frequentare
la scuola, svolgono attività socialmente utili, seguono percorsi di
educazione alla legalità.
«Spesso» ha spiegato Roberto Di Bella in una intervista a «L’Espresso»
dell’11 agosto 2019 «sono le stesse madri che ci pregano di mandare fuori i
loro figli e di poterli seguire… Se siamo noi a decidere, loro non saranno
colpite.»
Due bravi giornalisti, Carlo Bonini e Giuliano Foschini, hanno scritto
un bel libro sulla mafia foggiana, Ti mangio il cuore, nel quale raccontano
un episodio agghiacciante. Nella provincia di Foggia una giovane
bellissima ragazza sposa un capomafia locale e ha da lui due figli. Alcuni
anni dopo, il marito viene condannato a più ergastoli. La donna, rimasta
sola, cede alle avances di un altro giovane boss, capo di un gruppo mafioso
ferocemente rivale di quello capeggiato dal marito, dal quale ha altri due
figli. Anche il suo nuovo compagno finisce in carcere con gravi condanne.
Man mano che i figli crescono, i primi affidati alle cure della nonna, gli altri
rimasti con lei, la donna si rende conto che i ragazzi, figli di padri diversi e
tra lroro ferocemente nemici, avrebbero finito per considerarsi a loro volta
nemici e destinati a uccidersi l’uno l’altro. Decide quindi di parlare con i
magistrati rivelando tutto ciò che sa sulle imprese dei due clan e salvare
quindi tutti e quattro i suoi figli.

Grand Hotel Ucciardone


Lo chiamavano «Grand Hotel Ucciardone», il tetro carcere di Palermo, nel
cuore di Borgo Vecchio, uno dei più antichi quartieri di Palermo. Costruito
nei primi dell’Ottocento come carcere, non è mai stato una fortezza militare
o un convento come altri istituti penitenziari. Sempre e soltanto un carcere.
Tommaso Buscetta, molti anni prima di collaborare con Giovanni Falcone,
celebrò lì dentro, mentre era detenuto, le nozze della figlia e festeggiò con
champagne e aragoste per tutti. Giuseppe Guttadauro, ex aiuto primario
nell’Ospedale Civico di Palermo, capomafia di Brancaccio, rievoca così in
una deposizione il pranzo del giorno di Pasqua del 1984 alla VII sezione
dell’Ucciardone. «Arrivò il furgoncino della Cuccagna, un famoso
ristorante di Palermo». A Gaspare Mutolo, altro pentito di mafia era affidata
la chiave di una cella dove i capimafia custodivano champagne, formaggi,
prosciutti e anche quaranta coltelli. A proposito di quel pranzo di Pasqua,
Mutolo dice: «C’erano casse di Dom Pérignon, le aragoste ce le tiravamo in
faccia». Ma il Grand Hotel Ucciardone non si limitava a questo. Il boss
Giuseppe Graviano, intercettato, rivelò a un suo interlocutore di aver
dormito in carcere per più notti con la moglie Bibbiana, fino a concepire un
figlio.
Il boss latitante della famiglia di Partanna-Mondello, Saro Riccobono,
entrò in carcere senza alcun ostacolo per parlare con Gaspare Mutolo, allora
un suo uomo di fiducia. Terminato il colloquio uscì tranquillamente
dall’edificio. Francesco Marino Mannoia, anche lui latitante, entrò in
carcere per presentare ai boss un nuovo adepto, Antonino Vernengo, un
imprenditore che si era messo al servizio di Cosa Nostra ricavandone
ingenti profitti.
Nell’agosto del 1979, il maresciallo Calogero Di Bona, che provò a
opporsi a questa vergogna, fu attirato in un tranello, torturato, strangolato e
bruciato vivo. L’8 gennaio 2008 il carcere dell’Ucciardone è stato
rinominato alla sua memoria.
Oggi la situazione è rovesciata. L’articolo 41 bis dell’ordinamento
penitenziario fissa il principio dell’interruzione delle comunicazioni del
mafioso detenuto con il mondo esterno e con quello interno. Le
conversazioni con i parenti si svolgono attraverso un citofono, un vetro
divisorio e il controllo visivo da parte di un agente della polizia
penitenziaria. La questione dei rapporti interni è particolarmente delicata.
Non di rado, infatti, si è verificato che i compagni di cella, spesso di
caratura criminale più limitata, si prestassero a fare da corrieri. Ecco perché
la detenzione è regolata in modo stringente: per evitare che il boss possa
continuare ad avere rapporti con la sua organizzazione attraverso il
compagno di passeggiata, oppure il detenuto della cella di fronte, o il
carcerato che passa apparentemente per caso davanti alla cella. Il Dap
(Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), che gestisce l’intera
situazione carceraria, tiene quasi quotidiani rapporti con la Dna (Direzione
nazionale antimafia) per avere le informazioni necessarie a evitare rapporti
tra i capimafia e l’esterno.
I colloqui con i famigliari possono essere effettuati una sola volta al
mese, sono sottoposti a videoregistrazione e, su autorizzazione motivata
della magistratura, possono essere sottoposti a controllo auditivo. In pratica
un agente della polizia penitenziaria può essere autorizzato ad ascoltare.
Oggi i detenuti sottoposti alla rigida disciplina prevista dall’articolo 41
bis dell’ordinamento penitenziario sono circa settecento. Il numero
naturalmente varia in relazione agli arresti, alle valutazioni di pericolosità,
al termine della pena.
Un tema delicato è quello dei colloqui con i minorenni. Il minore di
dodici anni può avere un colloquio con il detenuto (padre, zio, nonno,
madre, fratello) senza il vetro divisorio e alla presenza degli altri famigliari.
È evidente che queste modalità possono in alcuni casi favorire il passaggio
di notizie o di ordini all’esterno, perché anche il bambino può essere, anche
inconsapevolmente, latore di messaggi criminali.
Il tentativo è quello di tenere in equilibrio il diritto della Repubblica alla
sicurezza dei propri cittadini e il diritto umano del mafioso a intrattenere nei
limiti del possibile le proprie relazioni famigliari.
È risultato, d’altra parte, che i capimafia e i complici in libertà
escogitano tutte le possibili vie per comunicare tra loro: striscioni negli
stadi che sono poi visti nelle celle attraverso le dirette televisive, sms
mandati in sovraimpressione nel corso di trasmissioni tv, o dediche
radiofoniche.
Rita Barbera, straordinaria direttrice dell’Ucciardone, circa dieci anni fa
vietò ai detenuti di indossare abiti firmati e indicò le firme proibite: Prada,
Gucci, Valentino, Versace, Vuitton, Armani. La dottoressa Barbera sapeva
che in carcere il prestigio è tutto e che la gerarchia si rivela soprattutto dagli
abiti firmati. Contro la sua decisione montò la protesta da parte dei
famigliari dei detenuti, perché, sostenevano, gli abiti firmati sono di qualità
migliore e durano di più. «Possiamo mica andare ai mercatini» ribatté la
moglie di un noto capomafia. La dottoressa Barbera non cedette di un
millimetro, con tutti i rischi che possiamo immaginare. I detenuti dovettero
adeguarsi.
A volte nelle scuole mi chiedono se non sia possibile adottare reclusioni
meno severe.
Io invito a ricordare che si tratta di individui feroci che hanno seminato
morte e sofferenza. Quando hanno intrapreso la carriera criminale sapevano
bene quali sarebbero state le restrizioni della libertà a cui andavano
incontro. Dico ai ragazzi di pensare alle vittime di questi sanguinari
criminali: purtroppo loro non potranno indossare abiti firmati e non
potranno mai più parlare con i propri cari… neanche attraverso un vetro
divisorio.
Se godessero degli stessi diritti degli altri detenuti, come accadeva ai
tempi del Grand Hotel Ucciardone, se ne avvarrebbero per dirigere le loro
reti criminali all’esterno e dominare il carcere dall’interno.

Il problema dei difensori


La Costituzione stabilisce che il diritto alla difesa «è inviolabile in ogni
stato e grado del procedimento»; questo diritto spetta a tutti, compresi i
mafiosi. Gli avvocati possono trovarsi in condizioni difficili, con imputati
che pretendono di ottenere comportamenti di favore che esulano dal
mandato difensivo. Può peraltro accadere che il difensore di più imputati di
mafia, pur senza volerlo, comunichi ai suoi clienti notizie utili per l’attività
criminale.
La relazione finale della Commissione parlamentare presieduta
dall’onorevole Rosy Bindi cita (p. 330) il caso degli avvocati Cinzia Lipari
e Lorenza Guttadauro. La prima, attraverso colloqui con il padre, Giuseppe
Lipari, non sottoposto al regime del 41 bis, «veicolava pizzini da e per
Bernardo Provenzano». Sulla seconda sarebbero stati sollevati numerosi
sospetti dal momento che difendeva il padre Filippo Guttadauro, cognato
del boss latitante Messina Denaro, l’unico capomafia di Cosa Nostra ancora
latitante. Inoltre, la stessa avvocato difendeva anche il fratello detenuto
Francesco.
Questi pochi esempi non autorizzano semplicistiche conclusioni. Solo la
presenza attiva dell’avvocato rende il processo legale, nei binari fissati dalla
Costituzione. Naturalmente sta alla deontologia professionale dell’avvocato
tenere ben ferma la linea di divisione tra la difesa del cliente e il suo
favoreggiamento.

I pentiti
I pentiti hanno permesso agli inquirenti di addentrarsi e comprendere il
funzionamento dei meccanismi interni soprattutto a Cosa Nostra. Molti
vostri compagni mi hanno chiesto: «Ma sono veri pentiti oppure dopo aver
ucciso e accumulato ricchezze criminali, vogliono godersele con la
copertura dello Stato?».
Rispondo alla domanda partendo però da un doveroso distinguo.
Lo Stato laico non deve porsi il problema del pentimento morale dei
cittadini. La Costituzione non gli attribuisce alcun potere in questo campo.
Solo uno Stato etico potrebbe costituirsi come tribunale delle coscienze dei
cittadini. Ma gli esempi di Stato etico che l’umanità ha vissuto – come la
Santa Inquisizione, il nazismo, il fascismo, lo stalinismo – hanno
schiacciato i diritti fondamentali e la stessa dignità dell’uomo. Siamo ben
felici di affidare alla storia il loro ricordo.
Il problema va posto perciò in termini diversi. Lo Stato ha interesse a
salvare vite umane, a smantellare le organizzazioni mafiose, a processare e
condannare i responsabili, a confiscare le ricchezze, a bloccare i traffici
criminali. Se un mafioso decide di collaborare, pentito o meno, questo è
affar suo, e se le sue dichiarazioni servono a salvare vite, a indebolire o a
distruggere l’organizzazione, ben venga una ragionevole riduzione di pena e
un programma di protezione. Quante persone che sarebbero state uccise
oggi sono vive grazie a quei «pentimenti»? Quanti traffici di droga sono
stati interrotti? Quante aziende sono state finalmente liberate dalla servitù
del pizzo?
Ma la domanda posta dai vostri compagni è importante. Le leggi di
favore per i collaboratori, sino a quando non si sono toccati con mano i
vantaggi per la democrazia e la vita, hanno suscitato dibattiti, scontri e
sconcerto. Quali sono le ragioni per le quali è stato necessario approvare
queste leggi?
In Italia, a differenza di quasi tutti gli altri Paesi avanzati, la
Costituzione fissa il principio dell’azione penale obbligatoria. A ogni
notizia di reato deve corrispondere un processo. Il magistrato non può
scegliere quali processi fare e quali invece tralasciare. In molti altri Paesi
(Francia, Germania, Gran Bretagna), invece, vige il principio di
opportunità. Si fa un processo solo se l’accusa lo ritiene opportuno, in
relazione ai costi, al tempo, alla gravità dei reati.
Negli Stati Uniti, per esempio, avviene una vera e propria contrattazione
tra la difesa e l’accusa. L’accusa intende procedere, per esempio, per
traffico di droga, evasione fiscale (negli Usa reato assai grave) e per una
serie di estorsioni ai danni dei negozianti della città. Se l’imputato si
dichiara colpevole per l’evasione fiscale, accetta una pena di cinque anni di
reclusione, indica i complici delle estorsioni e fa scoprire tutte le
connessioni del traffico di droga, l’accusa si impegna a chiedere la
condanna solo per l’evasione fiscale e a ritirare l’accusa per gli altri reati.
Questa procedura, che risponde a una logica di «costi-benefici», non è
esente da critiche, fondate sull’eccessiva discrezionalità degli organi
dell’accusa, sulle possibili discriminazioni e sui sospetti di corruzione. Il
sistema italiano, invece, non riconosce questo potere al pm, il magistrato
che sostiene l’accusa, e quindi sono necessarie leggi che autorizzino
significativi sconti di pena e altri benefici (per esempio: protezione anche
per la famiglia, cambio delle generalità, salario per chi non ha fonti di
reddito).
Le dichiarazioni dei pentiti hanno inferto colpi durissimi a Cosa Nostra.
Centinaia di arresti e di condanne; aziende, auto di lusso, supermercati,
palazzi, terreni confiscati, conti bancari per molti milioni di euro congelati.
Il pentito infligge al clan mafioso un colpo anche di carattere psicologico:
l’immagine di impermeabilità e di assoluta fedeltà degli «uomini d’onore»
si scontra con i «traditori» che svelano macchinazioni, miserie, azioni
atroci, come l’assassinio per strangolamento del piccolo Giuseppe De
Matteo, dopo avergli fatto patire a lungo la fame, per costringere il padre a
ritirare le sue dichiarazioni accusatorie contro la mafia.
Lo Stato ha incentivato le dichiarazioni, ma non ha firmato un assegno
in bianco. Il collaboratore deve dire tutto quello che sa entro sei mesi
dall’inizio delle dichiarazioni, per evitare rivelazioni «a rate», rese in
relazione alla qualità dei vantaggi ottenuti. Il pentito deve sottostare a
precise regole di comportamento e se le viola perde tutti i benefici. Non può
scontare una pena inferiore a un quarto di quella alla quale sarebbe stato
condannato se non avesse collaborato. In caso di delitto punito con
l’ergastolo la pena effettiva non può essere inferiore a dieci anni. Le pene
per calunnia, qualora venga ingiustamente accusato un innocente, sono
gravissime.
Va precisato che oggi, con le sofisticate tecnologie di cui dispongono le
forze di polizia (apparecchi per intercettazioni, trojan scaricati direttamente
sui telefonini dei sospetti per acquisire informazioni, conversazioni e
persino foto dei luoghi dove si svolgono le conversazioni, microspie,
microfoni direzionali, tracce lasciate dai telefonini), è più facile, rispetto al
passato, acquisire informazioni direttamente dall’interno
dell’organizzazione, per cui il fenomeno del «pentitismo», pur essendo
costante, ha acquisito una rilevanza minore, passando da strumento
principale a strumento sussidiario.
La relazione della Direzione nazionale antimafia, relativa al secondo
semestre del 2018, ha informato che dal 2016 al 2018 i pentiti sono stati
complessivamente 222: 40 di Cosa Nostra, 77 della camorra, 34 della
’ndrangheta, 52 delle mafie pugliesi, 13 di altre mafie, 6 di mafie straniere.
In realtà la relazione indica in 108 i pentiti del periodo 2016-2017 e in 111 i
pentiti del periodo 2017-2018; la somma è di 219, tre in meno di quanti ne
risulterebbero dalla somma delle attribuzioni a ciascuna organizzazione. Si
tratta tuttavia di uno scarto minimo, del tutto ininfluente per la valutazione
del fenomeno.

Testimoni di giustizia
Chi assiste a un omicidio di mafia, chi è vittima di un’estorsione, chi è
strozzato dall’usura e rende testimonianza su quello che ha visto e che ha
subito può andare incontro alla vendetta della mafia. Lo Stato ha il dovere
di difenderlo soprattutto perché quel cittadino è in pericolo per aver
adempiuto al dovere civico della testimonianza. Dopo le prime incertezze,
determinate dalla confusione tra le figure di pentito, testimone, complice,
l’ordinamento ha definito con chiarezza i caratteri di questa figura e ha
stabilito le modalità per difenderla. È testimone di giustizia chi rende
dichiarazioni di «fondata attendibilità intrinseca»; assume rispetto ai fatti la
qualità di persona offesa o di testimone; non ha riportato condanne per
delitti non colposi connessi a quello per cui si procede; «non ha rivolto a
proprio profitto» la conoscenza dei fatti.
Oggi i testimoni di giustizia sono ottanta, ma cinquemila sono le
persone che devono essere protette insieme a loro perché famigliari o
collaboratori. Chi dichiara la verità compie un dovere costituzionale di
solidarietà civile, ricordato dall’articolo 2 della nostra Costituzione perché
contribuisce a conseguire un risultato, la sconfitta della mafia, che rafforza
la libertà dei cittadini e merita pertanto ogni forma di tutela.
L’obbiettivo principale dovrebbe essere un’efficace difesa del testimone
sui luoghi in cui vive e lavora. Ma questo non è possibile nelle zone dove lo
Stato non ha il pieno controllo del territorio.
Il testimone di giustizia è perciò tutelato con un programma di
protezione che spesso comporta lo sradicamento suo e della famiglia dai
luoghi di origine, la individuazione di un nuovo lavoro, una nuova scuola
per i figli, l’abbandono improvviso e spesso precipitoso di affetti e di
amicizie. Questa emigrazione forzata è disposta quando il testimone si trova
in una situazione di grave pericolo, rispetto alla quale risulti «l’assoluta
inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili direttamente
dall’autorità di pubblica sicurezza».
Il comportamento di questi testimoni è essenziale nella lotta contro la
mafia perché costituisce la prova della forza dell’onestà e del rifiuto
dell’omertà.

Voto di scambio
La mafia ha sempre considerato particolarmente rilevanti i rapporti con la
politica: per avere licenze, concessioni, assunzioni, delibere amministrative
di favore; per condizionare l’attività delle amministrazioni regionali e
locali; per ottenere leggi di favore, l’«aggiustamento» dei processi, un
canale con il potere. La mafia ricambiava votando e facendo votare i
candidati loro amici. «Il mafioso» dice Tommaso Buscetta alla
Commissione antimafia nel novembre del 1992 «ha sempre cercato… e
aveva l’appoggio politico del personaggio che a lui interessava per tutte le
cose che si sarebbero svolte, non parliamone processualmente, perché allora
non esistevano i processi, ma per le deleghe per una importazione. Ogni
candidato vendeva la sua disponibilità elettorale contro i voti.» Dalle sue
parole emergono due aspetti interessanti. Allora (si riferisce al periodo sino
al 1984, data della sua fuga in Brasile) non esistevano i processi, perché
vigeva il principio della convivenza con la mafia. Il favore poteva
consistere anche nel favorire un affare facendo ottenere un’autorizzazione
alla importazione. Più avanti Buscetta spiegherà che era stato autorizzato a
importare un certo quantitativo di burro.
La prima norma in materia di scambio politico mafioso fu introdotta nel
giugno del 1992, dopo la strage di Capaci. Ma risultò fin da subito poco
efficace perché si limitava a punire lo scambio tra danaro e voto mafioso,
quando è noto che la mafia non chiede soldi, ma favori. Nel 2014 ci fu una
riforma che finalmente puniva lo scambio tra il voto e la promessa (o la
consegna) di danaro o «altra utilità». La formula chiave era «altra utilità»,
ovvero tutto ciò di utile per la mafia che il candidato potesse promettere o
dare. La pena era da quattro a dieci anni.
Nel 2019 l’articolo è stato ulteriormente riformato: è punito con la pena
della reclusione da dieci a quindici anni chi accetta «direttamente o per
mezzo di intermediari la promessa di procurare voti da parte di soggetti la
cui appartenenza all’associazione di cui all’articolo 416 bis sia a lui nota in
cambio dell’erogazione o promessa di erogazione di danaro o di qualunque
altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le
esigenze dell’associazione mafiosa». Se il candidato è eletto, le pene sono
aumentate della metà.
La formulazione è ormai molto precisa; tuttavia l’entità della pena
sembra eccessiva rispetto a condotte forse ancora più gravi che vengono
punite con sanzioni meno gravi. Per la rapina, per esempio, la reclusione va
da tre a dieci anni.
L’aumento a volte irragionevole delle pene è il risultato di due potenti
meccanismi: uno è l’illusione e l’altro è la furbizia. L’illusione è che la
minaccia serva di per sé come deterrente, ma non è così.
Chi non ruba non lo fa perché c’è la minaccia della pena; non lo fa
perché è educato a rispettare i diritti altrui. Quando si deve ricorrere
all’aumento delle pene per recuperare un ordine è segno che i valori civili
son deboli, insufficienti a costruire legami di onestà. Pertanto, bisogna
lavorare per la civiltà dei comportamenti piuttosto che per l’asprezza delle
pene. L’ordine si recupera con la pedagogia civile, la fedeltà ai valori della
Costituzione, la correttezza dei comportamenti, il rispetto dell’altro.
Ora parlo della furbizia. Aumentando le pene a dismisura il politico
comunica ai cittadini una sua ferrea intransigenza e una cieca fiducia nella
legge come leva che da sola scardina il malaffare e risolve i problemi
sociali. Nomi evocativi come per esempio «legge spazzacorrotti» e
comunicati altisonanti come «Abbiamo abolito la povertà!» danno l’idea
che si è fatto tutto il possibile. Nell’età della comunicazione, comunicare
diventa parte del fare; serve per acquisire consenso, nei tempi brevi, ma non
a risolvere i problemi, che invece attendono il fare.

C’è stata una trattativa tra Stato e mafia?


Le cronache politiche e giudiziarie sono state impegnate per alcuni anni sul
tema della cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Secondo questa ipotesi,
dopo la strage di Capaci, ci sarebbe stato un accordo tra la mafia ed
esponenti del potere politico volto a far ottenere notevoli benefici ai mafiosi
in cambio della cessazione della stagione delle stragi. Il dialogo con la
mafia avrebbe accelerato la decisione di uccidere Paolo Borsellino,
assolutamente contrario a ogni negoziazione. Questa tesi è stata alla base
della sentenza (non definitiva) emessa dalla Corte d’assise di Palermo il 20
aprile 2018, che ha condannato gli ex vertici del Ros (Raggruppamento
operativo speciale, organo investigativo dell’Arma dei carabinieri con
competenza sulla mafia e sul terrorismo), il generale Antonio Subranni e il
prefetto Mario Mori, l’ex senatore Marcello dell’Utri e il boss Nino Cinà a
dodici anni di reclusione, il colonnello Giuseppe De Donno a otto anni, il
boss Leoluca Bagarella a ventotto anni.
Ma altre tre sentenze, anch’esse non definitive, sostengono il contrario.
La Corte d’assise di Caltanissetta, con una sentenza del 20 aprile 2017,
ha stabilito che Paolo Borsellino fu ucciso non per la presunta trattiva ma
per la sua azione devastante nei confronti della organizzazione mafiosa, la
stessa motivazione che determinò la strage di Capaci.
Il gup di Palermo ha assolto il 4 novembre 2015 l’ex ministro Calogero
Mannino dall’accusa di aver trattato con Cosa Nostra; l’assoluzione è stata
confermata in appello il 22 luglio 2019. Si tratta di decisioni, ripeto, non
definitive, ma importanti perché, secondo l’accusa, Mannino sarebbe stato
proprio colui che, per salvare la propria vita, avrebbe promosso la trattativa
dopo la strage di Capaci.
Su questo tema non ho certezze, ma dubbi. C’è stata, a mio avviso, una
trattativa di polizia, diretta a favorire l’arresto di qualcuno in cambio di
favori a qualcun altro (sembra che il vecchio boss Vito Ciancimino, pur
essendo imputato per gravi reati, avesse chiesto il passaporto). Ma non ho
mai avuto sentore di una trattativa a livello politico. È certamente possibile,
anzi probabile, che alcuni capimafia abbiano tentato qualche approccio con
personalità politiche per avviare un’intesa volta a ridurre la pressione nei
loro confronti. La mafia, d’altra parte, ha sempre cercato una negoziazione
con la politica. Ma quanto è accaduto dopo la strage in cui fu ucciso Paolo
Borsellino non sembra avvalorare la tesi della trattativa: i boss al carcere
duro, milioni di beni confiscati, arresti e sequestri quasi quotidiani.
Tuttavia, le sentenze vanno rispettate, sia quando piacciono, sia quando
non piacciono. Quindi resta una sola possibilità: attendere che quelle
sentenze giungano alla fase definitiva. Per farsi una propria opinione, nel
frattempo, vi consiglio di prendere visione di fonti diverse perché le
posizioni si contrappongono in modo radicale e a volte con qualche
parzialità. In ogni caso a chi volesse saperne di più consiglierei di leggere
tanto gli articoli pubblicati da «il Fatto Quotidiano» a favore della tesi della
esistenza della trattativa, quanto quelli pubblicati da «Il Foglio», che
sostiene la tesi opposta (per esempio 27 giugno e 17 luglio 2019). Su
ilpost.it del 25 aprile 2018 ho letto una sintetica ricostruzione che mi
sembra ragionevole. Due giornalisti, Marco Lillo e Marco Travaglio, hanno
pubblicato un libro, Padrini fondatori. La sentenza sulla trattativa Stato-
mafia che battezzò col sangue la Seconda Repubblica, che sostiene la tesi
della trattativa. Due studiosi, il giurista Giovanni Fiandaca e lo storico
Salvatore Lupo hanno invece sostenuto la tesi contraria in La mafia non ha
vinto. Il labirinto della trattativa. La cosa migliore, ovviamente, sarebbe
leggersi le sentenze; ma si tratta di documenti non facilmente reperibili,
complessi nelle argomentazioni tecniche e di molte migliaia di pagine.

È lo Stato che deve infiltrarsi?


La mafia considera i comuni l’obbiettivo prioritario per i propri affari. I
criminali sono attirati dalla loro capacità di spesa per opere pubbliche come
ponti, strade, edifici, dighe e, spesso, quando si tratta di piccoli comuni,
dall’assenza di specifiche competenze tecniche nell’amministrazione. Le
vie d’ingresso della mafia sono molteplici: condizionamento degli appalti
per favorire imprese vicine, guardiania dei cantieri, estorsioni nei confronti
delle imprese operatrici e dei fornitori di materiali, subappalti.
Bloccare le infiltrazioni mafiose è decisivo per evitare che il danaro
pubblico invece che a beneficio dei cittadini vada nelle mani delle mafie.
Ecco perché è previsto lo scioglimento dei consigli comunali, comunità
montane, unioni di comuni, aziende sanitarie, quando la loro attività appaia
condizionata dalla presenza della mafia.
In alcuni contesti territoriali i condizionamenti sono così forti da
rendere l’ente locale quasi impermeabile ai principi di legalità. È rimasta
famosa un’espressione dell’allora procuratore nazionale antimafia, Pietro
Grasso, poi eletto al Senato e diventatone presidente (2013-2018), nel corso
di un’audizione davanti alla Commissione antimafia nel 2007: «In certi
paesi come Africo, Platì e San Luca è lo Stato che deve cercare di
infiltrarsi». Un paradosso efficace sulla presenza totalizzante della mafia in
alcuni piccoli comuni.
Quando, attraverso una notizia di qualsiasi origine (denuncia all’autorità
giudiziaria, inchiesta giornalistica, un documento di cittadini, una polemica
politica), il prefetto della provincia ritiene che sussistano le ragioni per
accertare l’effettiva presenza di infiltrazioni mafiose in un’amministrazione
comunale, o in una Asl, invia una «commissione d’accesso». La
commissione, in genere composta da funzionari della prefettura, esamina le
attività, studia tutta la documentazione relativa ad appalti, licenze,
assunzioni, autorizzazioni e riferisce al prefetto. Il prefetto convoca il
comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, cui partecipa
anche il procuratore distrettuale antimafia, e quindi invia entro
quarantacinque giorni una relazione al ministro dell’Interno. Il ministro
riferisce al Consiglio dei ministri, che poi potrà chiedere al presidente della
Repubblica di emettere il decreto di scioglimento.
Il ministro non è obbligato a seguire il parere del prefetto: può proporre
lo scioglimento quando il prefetto propone di non farlo e, al contrario,
potrebbe non sciogliere nonostante il parere favorevole del prefetto.
In caso di scioglimento il comune sarà retto per un periodo che può
andare da due a ventiquattro mesi da una commissione che eserciterà tutti i
poteri: quelli del sindaco, della giunta, del presidente del consiglio
comunale, del consiglio comunale stesso.
Quando non ci sono i presupposti per lo scioglimento, ma risulta che
qualche dipendente sia collegato a organizzazioni mafiose o da queste
condizionato, possono assumersi diversi provvedimenti, come la
sospensione dall’impiego del dipendente, o l’attribuzione ad altre mansioni.
La Corte costituzionale ha stabilito in una importante sentenza del 1993
che per decidere lo scioglimento non bastano i collegamenti diretti o
indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata o, in
alternativa, il condizionamento che la mafia impone agli amministratori. È
necessario che questi fattori abbiano prodotto l’andamento negativo
dell’ente locale, il malfunzionamento dei servizi, il pericolo per l’ordine e la
sicurezza pubblica. Questa situazione può apparire evidente in determinati
casi: appalti pubblici (per esempio per la raccolta dei rifiuti, per la
realizzazione di infrastrutture) affidati in maniera irregolare oppure a
un’impresa collegata direttamente o indirettamente alla mafia, concessioni o
autorizzazioni amministrative rilasciate in modo irregolare o dietro minacce
o pressioni oppure emesse in favore di soggetti collegati direttamente o
indirettamente alla criminalità organizzata, affinità, parentela,
frequentazioni degli amministratori e/o dipendenti pubblici con soggetti
appartenenti direttamente o indirettamente alla criminalità organizzata,
precedenti penali o procedimenti penali pendenti a carico di amministratori
e/o dipendenti pubblici, la presenza particolarmente condizionante di una o
più famiglie mafiose sul territorio comunale, abusivismo edilizio diffuso,
mancata riscossione dei tributi, adesione culturale o omissioni degli
amministratori dinanzi alle gesta della mafia. La Corte ha ricordato, inoltre,
che per arrivare allo scioglimento di un ente locale per infiltrazioni mafiose
gli elementi probatori non devono essere «oltre ogni ragionevole dubbio»,
come invece è richiesto per provare la responsabilità penale di una persona;
lo scioglimento non è una sanzione, è una misura che serve a prevenire
l’inquinamento mafioso e quindi può essere decretato anche quando c’è
solo il pericolo che uno o più clan influiscano sulla vita dell’ente pubblico.

I comuni sciolti per mafia e gli amministratori uccisi


dalla mafia
Dal 1991, data della prima legge sullo scioglimento dei comuni per mafia a
oggi (legge 55/90) sono stati sciolti per mafia 292 comuni e 6 aziende
sanitarie e ospedaliere. In 21 casi, bisogna aggiungere, lo scioglimento è
stato annullato dalla giustizia amministrativa.
Lo scioglimento non è di per sé garanzia di liberazione dai lacci della
mafia. Infatti, per 41 comuni si è dovuto procedere allo scioglimento per
ben due volte e in 14 casi per tre volte. In questi casi la mafia, dopo le
nuove elezioni, è tornata a condizionare la vita dell’amministrazione
comunale.
Nella maggior parte dei casi i comuni sciolti sono in genere di modeste
dimensioni; ma anche un piccolo comune può avere in prospettiva una
spesa rilevante, per costruire una diga o un edificio scolastico, per esempio.
Mettere le mani su quel danaro pubblico diventa per l’organizzazione
mafiosa anche una questione di prestigio. Se non lo facesse, darebbe
l’impressione che non è in grado di controllare tutto, che c’è qualcosa che
sfugge e forse si aprirebbe una competizione violenta perché nuove bande
potrebbero decidere di subentrare a un gruppo mafioso ritenuto privo di
sufficiente capacità di intimidazione.
In 16 casi lo scioglimento ha riguardato città medio-grandi con più di
50mila abitanti come Battipaglia, Scafati, Giugliano, Lamezia Terme, Ostia
che è un Municipio di Roma. In un caso, Reggio Calabria, ha riguardato
addirittura un capoluogo di regione.
Il 35 per cento degli scioglimenti è avvenuto in Campania, il 34 per
cento in Calabria, il 24 per cento in Sicilia. In Puglia ci sono 11 casi.
Scioglimenti ci sono stati in Piemonte, Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna.
In molti dei decreti di scioglimento le motivazioni denunciano
intimidazioni contro amministratori in carica ed episodi di dimissioni,
collettive o individuali, dovute a pressioni mafiose. La resistenza a queste
pressioni a volte si paga con la vita.
Dal 1974 a oggi sono stati uccisi 134 amministratori locali, la maggior
parte dalla mafia.
Per conoscere il problema il Senato ha costituito un’apposita
Commissione d’inchiesta, quella presieduta dalla senatrice Doris Lo Moro,
che ha portato alla luce un fenomeno pressocché ignorato.
La Campania (32 per cento del totale) è la regione dove più frequente è
il rapporto segnalato tra scioglimenti e intimidazioni, seguono quindi la
Sicilia e la Calabria.
Secondo la Commissione gli episodi di aggressione, dall’intimidazione
sino all’omicidio, sono motivati da quattro diverse finalità: vincere la
resistenza ai tentativi di condizionamento; ritorsione per il mancato rispetto
di accordi pregressi; ricorso alla violenza tra gli stessi componenti della
maggioranza di governo per effetto di precedenti dissidi; ricorso alla
violenza verso minoranze che fanno opposizione o verso dipendenti che
svolgono una funzione di controllo.
La Commissione ha segnalato nella relazione finale (26 febbraio 2015)
lo scioglimento del comune di Cellino San Marco, in provincia di Brindisi,
e il prefetto di Brindisi così si esprime al proposito: «In quel caso, una delle
cose che subito balzò agli occhi era che tutti gli assessori, e non solo,
avevano ricevuto intimidazioni pesanti, dal tentativo di incendio
dell’autovettura, all’incendio del portone, allo sfregio della cappella
cimiteriale, eccetera. Quando il fatto è isolato si può pensare legittimamente
a un qualche problema tra una persona e un’altra, ma poiché il fenomeno si
riferiva a tutti gli amministratori abbiamo voluto monitorare attentamente e
accendere un faro ancora più forte su quel comune. Le risultanze hanno poi
portato allo scioglimento del consiglio comunale: lì c’erano queste
intimidazioni».

Impedire l’infiltrazione nell’economia


Un’ulteriore misura di separazione della mafia dall’economia è costituita
dalla interdittiva antimafia. Consiste nel divieto per le imprese di stipulare
contratti con gli enti pubblici e nella decadenza da quelli eventualmente in
corso quando per una serie di elementi oggettivi c’è il rischio di una
infiltrazione mafiosa che potrebbe condizionare le scelte e gli indirizzi della
impresa interessata: per esempio, un socio della impresa è mafioso, o
l’impresa ha avuto prestiti consistenti da soggetti mafiosi. L’interdittiva
dura un anno. Viene revocata anche prima se vengono meno le ragioni che
ne hanno determinato l’emissione. Dal 2014 sino al maggio 2019 sono state
emesse 2.243 interdittive antimafia. Questo non vuol dire che i sospetti
fossero fondati in tutti i casi. È possibile infatti impugnare il provvedimento
del prefetto davanti al giudice amministrativo. In alcuni casi
all’impugnazione è seguito l’annullamento dell’interdittiva.
Nella relazione dell’Autorità anticorruzione sulle interdittive antimafia
dal 2014 al 2019 risulta che questa misura registra un consistente aumento
nell’arco del quinquennio. Rispetto alle 122 interdittive del 2014, infatti, le
573 notificate all’Autorità nel 2018 rappresentano un incremento pari al
370 per cento.
Non è da escludere che ciò sia in parte dovuto a un miglioramento delle
informazioni, ovvero a comunicazioni più puntuali effettuate dalle
Prefetture all’Autorità. I dati dimostrano che non esistono zone immuni
dalle infiltrazioni mafiose e che il comparto degli appalti pubblici è uno dei
più a rischio. Se si considera che il settore nel 2018 ha sfiorato i 140
miliardi, osserva il presidente Raffaele Cantone nella relazione sull’attività
dell’anno, è comprensibile per quale ragione esso rappresenti uno dei
«terreni di caccia» preferiti dalla mafia. Tuttavia, poiché il presupposto non
è la certezza, ma il rischio dell’infiltrazione mafiosa, occorre ricorrere a
questa misura con molta prudenza per non penalizzare aziende sane.
Esaminando nel dettaglio la ripartizione per macro-aree geografiche, si
può in primo luogo constatare come tale impennata sia generalizzata in ogni
zona del Paese: nel complesso le aziende del Nord interdette sono quasi
quadruplicate (da 31 a 116), quelle del Centro sono raddoppiate (da 16 a 34)
e quelle con sede nel Mezzogiorno sono aumentate di oltre cinque volte (da
75 a 423).
6

Il problema dell’onestà

Se la mafia fosse solo una sorta di malattia del nostro Paese, per sradicarla
sarebbe sufficiente un’azione di polizia. Ma non è così. La mafia non è un
marginale accidente del Mezzogiorno. È stata per lunghissimi anni una
componente strutturale di molte aree del Sud; è emigrata, ahimè con
successo, nel Nord e nel Centro del Paese, nonché in molti Paesi stranieri.
Ha avuto un ruolo determinante in molte vicende recenti della nostra storia
politica.
Pensate: cosa sarebbe l’Italia se fossero vivi Falcone e Borsellino, Dalla
Chiesa e don Puglisi, Mattarella e La Torre, Siani e Impastato? Cosa
sarebbe l’Italia se non ci fossero state e non ci fossero le mafie, se non
fossero stati uccisi i giornalisti, i poliziotti, i carabinieri, i politici, i cittadini
comuni, i magistrati, i sindacalisti, i sindaci che sono caduti sotto il piombo
di quelle organizzazioni? Non sarebbe più forte e più libera? Non potreste
voi guardare con maggiore fiducia al vostro futuro?
Processi, condanne, confische, carcere rigoroso sono indispensabili
contro le mafie. Ma non sono armi sufficienti per giungere alla sconfitta
definitiva. La lotta contro la mafia non è solo un problema di ordine
pubblico, è parte di un’azione per la difesa del presente e del futuro e
chiama in causa la responsabilità di tutti i cittadini. Se i cittadini, giovani e
adulti, sono indifferenti al rispetto delle regole, alla integrità morale delle
persone che eleggono alle diverse responsabilità politiche, ai
comportamenti che non rispettano la dignità delle persone e i luoghi in cui
le persone vivono, è inevitabile che nella società si crei l’humus nel quale
attecchisce ogni tipo di prepotenza e di violenza, compresa quella mafiosa.
La mafia teme la legalità, la correttezza, l’onestà dei cittadini e teme
coloro che educano i giovani a questi valori. La promozione dei
comportamenti civili toglie il terreno sotto i piedi alle organizzazioni
mafiose che temono tanto una società onesta quanto l’azione repressiva. Lo
dimostra in modo evidente l’omicidio di padre Puglisi nel quartiere
Brancaccio di Palermo impegnato a sottrarre alle organizzazioni mafiose la
loro egemonia sul terreno sociale o quello di don Giuseppe Diana, che era
impegnato sullo stesso terreno a Casal di Principe, ucciso il 19 marzo 1994.
Perciò non basta abbattere la mafia per via giudiziaria. Come ho detto
all’inizio, se un terreno è pieno di erbacce, per renderlo fertile non è
sufficiente strapparle. Quel terreno va dissodato, arato, concimato,
altrimenti le erbacce torneranno e svanirà anche la memoria del tentativo di
ripulirlo.
L’antimafia dei delitti, quella della repressione, che strappa le erbacce,
dev’essere affiancata dall’antimafia dei diritti, quella che sta nelle mani dei
cittadini comuni che rispettano le leggi, che hanno la consapevolezza dei
loro doveri, che esercitano le loro responsabilità.

Rompere gli equilibri mafiosi


Avremmo potuto sconfiggere la mafia da tempo senza attendere le stragi del
1992.
Se la Corte d’assise di Bari avesse colto, nel giugno del 1969, il peso
criminale di Liggio, Riina, Provenzano e Bagarella, forse Cosa Nostra non
si sarebbe ricostituita. Se gli imprenditori del Nord che andarono in
Calabria per costruire l’autostrada Salerno-Reggio Calabria non avessero
stretto un patto con la ’ndrangheta, forse quella mafia non avrebbe avuto la
spinta che ne ha fatto col tempo una delle più potenti organizzazioni
criminali del mondo. Se la squadra mobile di Palermo avesse creduto a
Leonardo Vitale invece di considerarlo pazzo e di farlo internare in
manicomio, forse la Cupola di Cosa Nostra sarebbe stata smantellata con
quindici anni d’anticipo. Si potrebbe andare avanti: ma con i «se» e con i
«forse» si fanno congetture, non si risolvono i problemi. È vero; tuttavia
resta il fatto che avremmo potuto fare prima quello che abbiamo fatto dopo
e che avremmo potuto risparmiare molte vite umane. Quello che nel passato
ha impedito di andare a fondo è stata l’ideologia dell’ineluttabilità della
mafia, che ha prodotto la strategia della convivenza.
Vi racconto un episodio.
Quando, nel 1985, Carlo Palermo andò da Trento a Trapani, al posto di
Giacomo Ciaccio Montalto, io, che ero responsabile per il mio partito, il
Pci, della lotta alla mafia, mi espressi pubblicamente a favore della scelta
del giudice di Trento. In quei giorni venni avvicinato da un collega
parlamentare siciliano autorevole, onesto e stimato. Mi chiese cortesemente
di parlare della situazione di Trapani e io accettai volentieri. «Vedi» mi
disse «voi [si rivolgeva al mio partito, NdA] non capite che così si rompono
gli equilibri e non si sa mai che cosa può succedere.» Mi colpì l’espressione
«si rompono gli equilibri».
«Quali equilibri?» gli chiesi. «Se sono gli equilibri tra mafia e Stato»
aggiunsi «sono proprio quelli che bisogna spezzare, altrimenti la mafia ce la
porteremo dietro per altri cento anni.»
«Sì» disse lui «ma nel frattempo la mafia risponderà. Lo capisci?»
«So che c’è questo rischio, ma so anche che la mafia bisogna
combatterla altrimenti si sarà sempre meno liberi. E comunque equilibri o
no, la mafia continuerà a uccidere e a opprimere. Con la mafia non
possiamo convivere. È come tenere un coccodrillo affamato in sala da
pranzo. Ci uccide tutti. Se lo sforzo lo facciamo insieme, se facciamo capire
ai capi che la stagione della convivenza è finita, diventiamo più forti e la
mafia s’indebolisce perché isolata. Gli equilibri servono solo alla mafia.»
Non lo convinsi e, ripeto, era una persona onesta e stimata.
Qualche settimana dopo ci fu la strage di Pizzolungo; l’attacco, come
raccontato, era diretto contro Carlo Palermo, ma colpì una madre e i suoi
due bambini. L’arrivo del magistrato di Trento a Trapani aveva
evidentemente rotto un equilibrio. Ma la responsabilità degli omicidi era
della mafia, non certo di chi la combatteva.
La più grande rottura dell’equilibrio mafioso si deve al maxiprocesso,
che portò all’ergastolo per tutti i capimafia. La reazione furono le due stragi
del 1992, il prezzo terribile che abbiamo dovuto pagare per difendere la
democrazia dalla mafia. Ma la responsabilità delle due stragi non è né di
Falcone né di Borsellino che hanno istruito il maxiprocesso; è dei boss di
Cosa Nostra che le hanno ordinate. Erano entrambi consapevoli dei rischi,
ma non si sono fatti intimidire: sono arrivate la cattura dei latitanti, le
confische delle loro ricchezze, le lunghe condanne al carcere duro, le leggi
che hanno sollecitato le collaborazioni. E tuttavia non basta. Gli equilibri
mafiosi si possono spezzare definitivamente solo se contro la mafia si
sviluppa un’iniziativa civile e istituzionale, permanente, giorno dopo
giorno, ora dopo ora, sino al suo definitivo annientamento.

Debiti e doveri
Di questa iniziativa è parte essenziale il vostro coinvolgimento. Voi giovani
avete il diritto di vivere in un Paese libero dalla mafia; ma questo diritto per
tutte le generazioni non è stato un dono del Cielo. La libertà dalla mafia non
è un regalo. È una conquista. Non avete il diritto di chiedere che se ne
facciano carico solo gli adulti, rimanendo in attesa che arrivino le buone
notizie. Dovete impegnarvi a conoscere la storia recente del nostro Paese, a
rispettare e a esigere il rispetto delle regole, delle persone e dei luoghi;
anche dei luoghi che sono gli spazi nei quali si svolge la vita delle persone.
Non bastano le leggi per rendere un Paese libero e civile. La democrazia
per vivere ha bisogno dei comportamenti democratici dei cittadini. Una
democrazia non può nascere né crescere in una società che non abbia onesti
comportamenti, nella quale cioè i cittadini non si prodighino per fare
emergere i valori civili.
La democrazia non è solo una forma di governo: è un complesso di
principi e di valori che orientano i comportamenti dei cittadini comuni e dei
responsabili politici, ispirati al rispetto. Il rischio per le giovani generazioni
è quello di non comprendere appieno che la democrazia non è un regalo. È
il frutto della ragione e del desiderio di libertà. In tutti i Paesi la democrazia
è stata conquistata con lotte, a volte con conflitti armati; così è accaduto
negli Stati Uniti con la guerra contro l’Inghilterra (1775-1783), in Europa
prima con la Rivoluzione francese (1789) e poi con la Seconda guerra
mondiale contro il nazifascismo; pensate ai sacrifici enormi dei cittadini
cileni, argentini, brasiliani contro le dittature militari di Pinochet, di Videla
e di Castelo Branco. Pensate ai rischi che corrono oggi i giovani come voi
che chiedono libertà in Russia o a Hong Kong. Per questa ragione va
tutelata. Molti sono portati a credere che la democrazia sia uno stato di fatto
che non può che migliorare, che non è a rischio di deperimento. Non è così.
La democrazia può estinguersi, se non è curata; come una pianta che può
ammalarsi, perdere le foglie e morire. Le medicine principali sono la
memoria e il rispetto. Se i responsabili politici demonizzano interamente il
passato, si insultano reciprocamente e dileggiano le istituzioni, tenendo
comportamenti offensivi della propria e dell’altrui autorevolezza, è difficile
che la democrazia si rafforzi. E se i cittadini non rispettano né i propri
doveri né i diritti altrui è difficile che il Paese progredisca. Chi pensa che
dileggiare l’altro serva a salvare se stesso si sbaglia. Questo atteggiamento
attiva, invece, un meccanismo di reciproca e continua delegittimazione che
nuoce a tutti e alla democrazia stessa.
Le democrazie non muoiono per omicidio, muoiono per suicidio.
Muoiono quando i cittadini perdono il senso della vita democratica o se ne
dimostrano estranei o indifferenti. Quando non credono più nelle ragioni
della democrazia. La democrazia è come l’aria. Quando c’è non te ne
accorgi. Ma quando manca cominci a stare male.

L’educazione
La scuola è un fattore essenziale per il consolidamento e lo sviluppo della
democrazia. Questo la mafia lo sa. Nell’introduzione a un libro che avevo
curato nel 1996 (Mafia e antimafia, Laterza, Bari-Roma, p. XIV) ricordavo
gli attentati agli istituti scolastici di quell’anno e del precedente. A Niscemi,
provincia di Caltanissetta, sindaco e assessori erano stati costretti a dormire
per circa due mesi tra il settembre e il novembre del 1995 in una nuova
scuola elementare per impedire che durante la notte i locali venissero
vandalizzati. In un liceo scientifico di Aversa, nel febbraio del 1996, era
stato collocato un sistema esplosivo composto da due bombole di gas
collegate da un innesco, ma per fortuna non aveva funzionato. Nella
provincia di Caserta, regno della camorra di Bardellino e Nuvoletta, legati
ai corleonesi di Totò Riina, tra l’ottobre del 1995 e il gennaio del 1996
vennero compiuti circa trenta attentati a scuole. A Vico Equense, nel
gennaio del 1996, dopo una manifestazione antimafia venne gravemente
danneggiata una scuola media.
Non tutti questi vandalismi sono stati commessi direttamente da
organizzazioni mafiose. Ma è la mafia che diffonde questo odio nei
confronti della cultura e dei luoghi deputati all’istruzione e alla trasmissione
dei valori della libertà. Conseguentemente o devasta direttamente o manda
altri a devastare. Libertà, istruzione, conoscenza sono temibili nemici per la
mafia, perché insegnano a riflettere, a essere autonomi e a rifiutare ogni
forma di subalternità.
Dopo l’assassinio di Piersanti Mattarella la Regione Sicilia approvò una
legge per stanziare fondi speciali diretti a sostenere l’educazione
«antimafia» delle generazioni più giovani. Seguirono analoghe leggi della
Regione Campania (1985), Calabria (1986) via via tutte le altre, sino alla
legge della Regione Lombardia del 2015 che è la più completa, anche
perché si è potuta avvalere delle esperienze precedenti. Nando dalla Chiesa,
figlio del generale Carlo Alberto della cui uccisione per mano della mafia
ho più volte parlato in queste pagine, è uno dei maggiori studiosi del
fenomeno della mafia e della risposta sociale e ha coordinato una ricerca
sulla storia dell’educazione alla legalità nella scuola, analizzando il tema
regione per regione e offrendo una panoramica dettagliata. Dal suo studio
emerge l’impegno civile di migliaia di insegnanti che in tutta Italia hanno
insegnato il rispetto delle leggi. Potete prendere visione della ricerca,
davvero ben fatta, sul sito dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata
dell’Università degli Studi di Milano (cross.unimi.it). Dalla stessa ricerca
emerge che le stragi del 1992 hanno segnato una svolta. Dopo quella data,
infatti, in centinaia di scuole dal Sud al Nord, dalle elementari ai licei,
grazie all’impegno spesso del tutto volontario degli insegnanti, si è tessuta
una rete tra le giovani generazioni fatta di nuove conoscenze e di
acquisizioni dei valori costituzionali. Queste generazioni hanno compreso la
necessità della legalità per lo sviluppo civile di un Paese moderno. Hanno
imparato a distinguere tra modernità e progresso, perché ci può essere la
prima senza il secondo. La modernità che consiste nelle scarpe griffate, nel
taglio di capelli simile a quello della star del momento, negli atteggiamenti
disinibiti non va confusa con il progresso che è fatto di adempimento dei
propri doveri, di rispetto per le istituzioni e per i beni pubblici, di serietà
nello studio e nel lavoro. La modernità senza progresso è propria della
mafia.

L’esempio di Libera contro gli indifferenti


Nel corso della mia presidenza della Commissione antimafia (1992-1994)
ero entrato in contatto con decine e decine di associazioni che si ignoravano
reciprocamente; un mondo fatto di grandi potenzialità ma frantumato e a
volte in disaccordo. Terminato il mio mandato, con alcuni colleghi e amici,
tra cui Peppino Di Lello Finuoli, che era stato giudice istruttore al fianco di
Borsellino e Falcone, Manuele Braghero (che diventò vicepresidente di
Libera), Anna Finocchiaro, Pietro Folena, Livia Minervini, Tiziana
Strabello, ci ponemmo il problema di come intervenire sull’antimafia
sociale, come fare in modo che tutte quelle energie non venissero sprecate
in rivoli separati ma che confluissero. Di qui l’idea di creare una sorta di
«associazione delle associazioni», una rete che comprendesse e stimolasse
sinergie tra tutte le associazioni antimafia già esistenti. Prendemmo contatto
con un’agenzia pubblicitaria di Modena che colse subito il senso
dell’iniziativa e con grande generosità si mise al lavoro. Dopo molti
tentativi nacque il brand, bellissimo: Libera. Associazioni, nomi e numeri
contro le mafie. Ci ponemmo quindi il problema della presidenza. Il fatto di
essere parlamentare mi impediva di assumere quella carica per non
politicizzarla. Pensammo perciò a don Luigi Ciotti, un uomo e un sacerdote
straordinario per generosità impegno e lucida visione. Accettò e fu una
fortuna. Prese nelle sue mani un piccolo seme e ne ha fatto un albero
rigoglioso che dà in continuazione splendidi frutti.
Sul sito libera.it trovate tutte le attività che svolge; parlatene ai vostri
compagni e, se potete, date una mano. Libera sotto la guida di Luigi Ciotti
si è distinta per l’educazione alla legalità e per l’utilizzazione sociale dei
beni confiscati alla mafia.
Chi di voi si impegna o intende impegnarsi si sente spesso ripetere: «Ma
lascia perdere, chi te lo fa fare? Tanto quelli che parlano sono tutti uguali».
Non è vero. Non siamo tutti uguali. Ci sono i disonesti e gli onesti, i
responsabili e i pusillanimi. Persone oneste e capaci sono presenti in tutti i
partiti e a tutti i livelli, così come persone disoneste e incompetenti. Chi
mette sullo stesso livello corrotti e onesti, vili e responsabili, fa un favore ai
corrotti e ai vili che si vedono accomunati agli altri e reca un danno grave
agli onesti e ai responsabili che vengono trattati come se non lo fossero.
Non vi lasciate condizionare: valutate le persone da come si comportano
e da ciò che fanno, distinguete sempre, non fate di tutta l’erba un fascio.
Voi ragazzi potete fare la differenza: grazie alle vostre energie avete la
possibilità di influenzare gli adulti, a partire dai vostri genitori se ce ne
fosse bisogno. Occorre persuadere, non imporre. E lo strumento principale
della persuasione è l’esempio. Dimostrare agli adulti e a voi stessi che si
può fare.
Vi cito alcuni esempi, diversi tra loro, ma sulla stessa linea.
Greta Thunberg, ragazza svedese di quindici anni che dal settembre
2018, ogni venerdì, si presenta davanti al Parlamento svedese per
manifestare in difesa del clima e della Terra. Nel dicembre 2018 tenne a
Katowice, in Polonia, durante la 24° Conferenza delle Parti sul Clima, un
discorso semplice, molto convincente che potete trovare su diversi siti.
All’inizio del suo discorso tra l’altro diceva: «Molte persone dicono che la
Svezia è solo un piccolo Paese e non importa quel che facciamo. Ma ho
imparato che non sei mai troppo piccolo per fare la differenza. E se alcuni
ragazzi ottengono attenzione mediatica internazionale solo perché non
vanno a scuola per protesta, immaginate cosa potremmo fare tutti insieme,
se solo lo volessimo veramente. Ma per fare ciò dobbiamo parlare
chiaramente, non importa quanto questo possa risultare scomodo».
Olga Misic ha sedici anni. Nel luglio e nell’agosto del 2019, a Mosca,
ha sfidato i divieti di Putin, leggendo la Costituzione russa ai poliziotti
schierati per impedire la manifestazione. Quella Costituzione garantisce la
libertà di parola, di manifestazione e di pensiero. Ma il governo russo, dopo
aver impedito a molti esponenti dell’opposizione di candidarsi nelle
elezioni locali, ha represso le manifestazioni di protesta, giungendo ad
arrestare i maggiori esponenti del dissenso. Olga è stata arrestata, ma non
ha avuto paura e il suo gesto, attraverso i social, ha comunicato il valore
della libertà a molti milioni di altri giovani in tutto il mondo. «Il futuro
appartiene ai giovani» ha detto in un’intervista a «la Repubblica» del 9
agosto 2019. «Siamo pronti a costruirlo.»
Giacomo Ulivi era un giovane partigiano di diciannove anni. Fu fucilato
il 10 novembre 1944 a Modena da un plotone di militari della Repubblica di
Salò. Durante la prigionia scrisse una lettera agli amici, che vi invito a
leggere e che è un sereno e rigoroso invito all’impegno civile e politico
(https://bit.ly/2KW8Ooc). Mi colpisce in particolare una frase di quella
lettera: «No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere.
Pensate che tutto è successo [il fascismo, il disastro della guerra, NdA]
perché non ne avete voluto più sapere».
L’11 febbraio 1917 Antonio Gramsci pubblicò su «La città futura» un
duro articolo contro gli indifferenti, quelli, che come avrebbe scritto
Giacomo Ulivi, non ne avevano più voluto sapere: «L’indifferenza è il peso
morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera
passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò
che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la
materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si
abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua
volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia
salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.
Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun
controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non
se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti,
sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale,
un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e
chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi
indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano
oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il
mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo
ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà
fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro
del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone
quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto.
E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di
non dover spartire con loro le mie lacrime».
Per tornare ai giorni nostri, alla luce di quelle parole, si comprende
come la indifferenza e il disimpegno possano diventare i maggiori alleati
delle organizzazioni mafiose.
Hong Kong è una regione amministrativa speciale della Repubblica
popolare cinese che possiede un sistema politico diverso dalla Cina
continentale. Il funzionamento della magistratura, indipendente dal potere
politico, segue il modello di ordinamento giuridico britannico. Una legge
fondamentale stabilisce per la regione un alto grado di autonomia in tutti gli
ambiti, tranne che nelle relazioni estere e nella difesa militare.
Nei primi mesi del 2019 la Cina ha chiesto al governo di Hong Kong di
far approvare dal Parlamento una legge che lo obbliga a concedere
l’estradizione in Cina (cioè l’arresto e l’invio in Cina) di colpevoli di
diversi reati tra i quali quelli che puniscono il dissenso e l’espatrio
clandestino. La Cina è un Paese autoritario e non riconosce il diritto al
dissenso né il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Se la legge
fosse stata approvata, la Cina avrebbe potuto richiedere l’arresto e il
trasferimento nelle carceri cinesi di tutti i dissidenti. Ne è nata in forma
spontanea una imponente protesta che ha bloccato per molti giorni la
capitale. Hanno partecipato, accanto a cittadini adulti, molte migliaia di
giovani ed è stata la caratteristica principale delle manifestazioni. Protestare
contro questa legge era giusto, ma pericoloso, perché se la richiesta di
Pechino fosse stata accolta, i primi a pagare il prezzo sarebbero stati proprio
i giovani che avevano guidato la ribellione. Il 9 luglio 2019, dopo più di un
mese di proteste pubbliche, cortei, blocco della città, e anche
un’inaccettabile invasione del Parlamento, il governatore di Hong Kong, la
signora Carrie Lam, ha sospeso l’esame del progetto di legge e ha chiesto
scusa per le violenze della polizia. Ma chi protesta per la libertà chiede che
la proposta sia definitivamente ritirata. Purtroppo, va detto, la protesta è
degenerata forse per l’infiltrazione di persone interessate a screditare e a
provocare la reazione cinese.
Ci sono stati e ci sono giovani sdraiati, come scrive in un bel libro
Michele Serra; ma ci sono stati e ci sono anche i giovani che stanno i piedi,
credono in se stessi e nella loro vita e sanno che nessuna vita dignitosa è
possibile quando ci si abbandona all’indifferenza.

L’impegno prima di tutto


Nel rapporto con gli altri e con se stessi si può certamente sbagliare, ma si
deve avere il coraggio di correggersi e di tornare indietro. Bisogna
combattere dentro di sé il gusto dell’irrisione, il sentimento
dell’indifferenza, il cinismo del lasciar perdere.
La vita è un impegno, consiste nel costruirsi continuamente, giorno
dopo giorno, nel rispetto di se stessi e degli altri. Si impara
quotidianamente, sia da ragazzi, sia da vecchi. Quando si smette di
imparare e di conoscere si comincia a morire. Si può cominciare a morire a
ottant’anni come a diciotto, dipende dall’atteggiamento nei confronti della
vita e dall’impegno che si mette nell’adempiere ai propri doveri.
Ho detto, non a caso, «doveri» e non «diritti». La moltiplicazione dei
diritti è sostenuta da gran parte della politica, dai mezzi di comunicazione,
dalle informazioni che circolano in rete. Questa impostazione possiede un
indubbio fascino seduttivo; non costa nulla, apparentemente; è facilmente
comprensibile dai singoli, conquista facili consensi, mette in difficoltà
coloro che non si appropriano della sua retorica. La cultura dei diritti pone
al centro dei sistemi democratici la garanzia dei diritti. È un merito
indiscutibile, ma è condizionato da limiti che possono condurre al risultato
paradossale dell’ulteriore indebolimento di quella democrazia che invece
vorrebbe salvare. Innanzitutto, estende la categoria dei diritti molto oltre i
limiti propri sino a farla coincidere irresponsabilmente con tutto ciò che può
apparire desiderabile, per il fatto stesso di essere desiderabile. Nasce una
sorta di cortocircuito tra quantità di diritti desiderati e qualità della
democrazia. La democrazia non ha risorse illimitate: se i diritti desiderati
non sono riconosciuti a causa della limitatezza delle risorse della
democrazia (non per insensibilità dei governanti) o della loro eventuale
carica distruttiva dei valori di solidarietà, chiederne ancora di più produce
ulteriori fratture nella società. La cultura dell’espansione illimitata dei diritti
trascura il ruolo dei doveri per la tenuta di quel contesto di civiltà senza del
quale i diritti diventano armi che ciascun cittadino, isolato dagli altri, punta
contro il concorrente per soddisfare un proprio individuale interesse. Un
sistema politico privo di diritti non è una democrazia. Ma una democrazia
senza doveri resta in balia di egoismi individuali e conflitti istituzionali, è
priva dei valori della solidarietà e dell’unità politica, capisaldi di qualunque
società democratica. I diritti diventano strumenti di democrazia e di
soddisfacimento di legittime pretese individuali quando possono contare sui
doveri di solidarietà; altrimenti diventano fattori di egoismo, rottura sociale
e arretramento civile. «Questo Paese non si salverà» scrisse Aldo Moro «la
stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà
un nuovo senso del dovere.»
Lunghi anni di demagogia ci hanno disabituato all’adempimento delle
nostre responsabilità e hanno concentrato sulle varie «caste», con un pizzico
di furbizia, l’intera responsabilità della fragilità italiana. Le responsabilità
dei gruppi dirigenti, pubblici e privati, ci sono e sono gravi. Ma questo non
esime i cittadini dalle proprie responsabilità. Solo nelle dittature i cittadini
sono estranei alla vita politica e deresponsabilizzati rispetto alle sue
evoluzioni. Le democrazie, invece, camminano con le gambe di tutti e su
ciascuno grava una quota, piccola o grande, di responsabilità; di qui il
rapporto fra doveri, diritti, unità del Paese, democrazia. L’Italia ha bisogno
di una pedagogia civile, incentrata sull’equilibrio fra doveri e diritti, sul
principio di responsabilità, sui valori della solidarietà politica, economica e
sociale, come scrive l’articolo 2 della Costituzione. L’etica della
Repubblica, contrapposta alle pretese irragionevoli dei singoli e delle
corporazioni, comporta luoghi di formazione ai valori della convivenza
civile. Il nemico più pericoloso è il discredito di tutto e di tutti, che è
deresponsabilizzante e fa nascere la pianta velenosa del cinismo. La
soluzione è nel ricollegare e riequilibrare diritti e doveri e nel coraggio di
riconoscere i propri errori e di impegnarsi a porre rimedio.
Ho usato non a caso il termine «coraggio», perché correggersi è
difficile, ma è il segno della propria maturità. A Rosarno, nel maggio del
2010, nel corso di un’assemblea di studenti del liceo Piria sulla cultura della
legalità, è premiata per un suo componimento Roberta, il cui padre è
condannato all’ergastolo per reati di mafia, e ristretto al 41 bis. Roberta
legge in un silenzio assoluto: «Ho 17 anni e un cuore pieno di dolore […]
ho un papà che ho conosciuto a frammenti e solo tramite immagini
sporadiche. […] Non ho avuto la gioia di crescere insieme a lui. […] È
lontano da qui […] posso vederlo solo una volta al mese […] posso
parlargli solo tramite carta e penna. […] Attraverso il suo vissuto e
attraverso la sua vita rocambolesca ho capito cosa sia legalità. Non so dare
di essa una definizione, ma so che è tutto quello che non ti limita i valori, i
sentimenti, le dimostrazioni d’affetto, la vita familiare. Ho conosciuto la
legalità tramite le conseguenze della illegalità. Dalla storia di papà ho
capito che quando si sbaglia o si frequentano cattive compagnie, redimersi e
immettersi sulla giusta via è una cosa che deve essere fatta prima che sia
troppo tardi, prima che tutto sia perduto» (l’episodio è raccontato nel libro
di Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, Modelli criminali).
«Immettersi sulla giusta via» dice la vostra collega «è una cosa che deve
essere fatta prima che sia troppo tardi.» Vuol dire che c’è sempre il tempo
per riparare purché lo si faccia appena ci si rende conto dell’errore. Riparare
all’indifferenza, al cinismo, al disimpegno è essenziale per la vittoria contro
le organizzazioni della mafia.

La politica e l’onestà
Le questioni affrontate in questo capitolo riguardano, direttamente o
indirettamente la politica e l’onestà, il modo in cui il responsabile politico si
confronta con i cittadini, il modo in cui i partiti concepiscono il proprio
ruolo nel Paese, il modo in cui si comportano i singoli cittadini. Sono state
approvate leggi per impedire la candidatura di chi abbia commesso
determinati reati, campagne di stampa, non sempre in buona fede, hanno
segnalato candidati imbarazzanti, molte Commissioni parlamentari
antimafia hanno redatto protocolli con una serie di prescrizioni dirette a
evitare candidature incompatibili con le responsabilità di chi assume un
ruolo politico. Leggi e regole approvate con larghissima maggioranza, ma
non necessarie. Infatti, nessuno obbliga i partiti a candidare persone
inaffidabili e nessuno obbliga i cittadini a votarle. Tuttavia, i partiti hanno
chiesto queste misure, o perché non riescono a opporsi ad alcune
candidature «pesanti» oppure perché cercano di apparire esempi di virtù.
Ora vi pongo due domande.
Perché molti partiti continuano a candidare persone inaffidabili?
Perché i cittadini votano persone inaffidabili?
Le questioni che i due quesiti sollevano sono connesse. Se i cittadini
non le votassero, i partiti non le candiderebbero; ma se non fossero
candidate non potrebbero essere votate. In molti casi gli elettori
manifestano una preoccupante indifferenza nei confronti del problema
dell’onestà politica. Si candidano persone disoneste perché sono portatrici
di voti; il cittadino li vota per ragioni che esulano dalla personale
correttezza: perché è simpatico, è alla mano, assicura che farà alcuni favori.
Di sicuro una parte della responsabilità è a carico dei partiti che candidano
persone «impresentabili», ma i cittadini non sono innocenti: se votassero
con senso dell’onestà, poiché persone oneste ci sono in tutti i partiti, gli
«impresentabili» non verrebbero candidati.
Nei primi decenni di vita della Repubblica hanno dominato alcune
grandi etiche pubbliche: cattolica, comunista, repubblicana, liberale. Le
diverse etiche avevano alcuni comuni denominatori: la dignità delle
istituzioni, il dialogo tra avversari, la necessità di regolare il conflitto
politico per salvaguardare l’efficienza e la credibilità delle istituzioni. Esse
derivavano non solo dall’impianto teorico delle diverse culture civili, ma da
una storia comune, fortemente intrecciata alla storia dell’Italia
repubblicana. Questo idem sentire consentiva, pur nella tensione del
conflitto politico, la costruzione di una rete di principi e consuetudini
politiche che ruotavano attorno al concetto della dignità delle istituzioni
della Repubblica, del loro carattere di bene della nazione, del dovere di
ciascuna parte e di ciascun singolo di rispettarle e di farle rispettare. Non
mancarono eccezioni, anche rilevanti, a questi principi. Ma si trattava
appunto di eccezioni che, proprio per il loro carattere derogatorio,
indirettamente confermavano il primato dei principi etici che regolavano la
sfera pubblica. Questi principi nascevano dalla vitalità dei partiti, dalla loro
legittimazione, dalle idee, dagli impegni e che caratterizzavano ciascuno di
essi. Ciascuno di quei partiti spiegava ai cittadini quale era stato il loro
ruolo nella storia dell’Italia e quale sarebbe stato il futuro che intendevano
costruire. In questa narrazione ciascuno dei seguaci scopriva e rafforzava la
propria identità e definiva il proprio ruolo nel futuro. Erano formazioni
della società costituite da comunità politiche riflessive, che affrontavano i
problemi nazionali e a volte anche internazionali, discutevano con metodo
le questioni della vita e le scelte di governo, costruivano ponti tra i cittadini
e le istituzioni. In quella fase erano ancora chiare le differenze tra morale,
politica e Codice penale. Oggi i confini sono scomparsi di fronte al vitello
d’oro del Codice penale. Eppure le differenze ci sono: alcuni
comportamenti moralmente riprovevoli possono non costituire reato (un
candidato mente gravemente ai cittadini per assicurarsene il consenso); al
contrario, comportamenti che costituiscono reato possono non essere
moralmente riprovevoli (un sindaco storna dei fondi dal bilancio del
comune per procurare un alloggio ai terremotati); esistono poi
comportamenti politicamente scorretti, che non ledono né la morale né il
Codice penale (in una trattativa politica non si mantiene la parola data).

La necessità di un’etica politica


A partire dalla fine degli anni Settanta, dopo l’assassinio di Aldo Moro
(1978), i partiti hanno cominciato a rattrappirsi. Si sono progressivamente
allontanati dalla società, dove invece crescevano movimenti come
l’ambientalismo, il femminismo, il terrorismo, estranei alla loro tradizione e
che essi non comprendevano, e si sono insediati nel sistema pubblico. I
partiti, da espressione delle società, sono diventati espressione del sistema
pubblico: si è avviata così la statalizzazione dei partiti politici. La
statalizzazione ha segnato l’esaurimento del partito come comunità politica
e il trionfo del partito come aggregazione di persone attorno a un leader; se
si preferisce, si è passati dal partito-comunità al partito-satellite, che ruota
attorno a un capo.
Per effetto della statalizzazione è raro che oggi un dirigente politico non
abbia un qualsivoglia incarico pubblico, da consigliere di circoscrizione a
parlamentare. Ieri alcuni partiti avevano il principio di incompatibilità tra
cariche pubbliche e responsabilità nel partito; oggi prevale il principio
opposto.
Il punto di massimo allontanamento dei partiti dalla società si è
raggiunto per effetto della legge elettorale Calderoli (2005). Quella legge,
infatti, toglieva ai cittadini il diritto di scelta dei candidati. I candidati
venivano eletti automaticamente in base al posto occupato nella lista,
sostituendo la scelta dei cittadini con la cooptazione da parte dei gruppi
dirigenti di ciascun partito. I partiti diventavano piedistalli per il capo.
Al partito-piedistallo si è accompagnata l’apologia del capo. Questo tipo
di partito non è più comunità e quindi non è in grado di rispondere alle
domande proprie dell’etica pubblica sul buono e sul giusto, sul degno e
sull’indegno, sui fini e sui doveri. L’etica, infatti, non può esaurirsi nella
volontà di un singolo chiunque esso sia; ha un senso se è il patrimonio di
valori che identifica una comunità alla quale il singolo accede con la
propria storia e portando il contributo dei propri valori che vanno mediati
con quelli di coloro che della comunità fanno parte.
L’etica pubblica non è cosa separata dall’etica dei privati; società e
politica si trasmettono pregi e difetti. Una società con una salda etica dei
privati non può avere etiche pubbliche traballanti. Anche voi, ragazze e
ragazzi, avete una responsabilità nella costruzione di una nuova vita civile
del nostro Paese. I comportamenti eticamente corretti li costruisce ogni
giorno ciascuno di noi, anche nel piccolo impegno quotidiano. Non
aspettate che cominci qualcun altro; portate alla luce tutto quello che di
positivo c’è attorno a voi e dentro di voi. Respingete il cinismo e
l’indifferenza. Il progresso civile passa attraverso la trasmissione di valori.
Questo vale anche e forse di più per la mafia. Una volta chiesero a
Falcone se contro la mafia sarebbe stato necessario schierare l’esercito. «Un
esercito, sì» rispose il giudice «ma di insegnanti.» Se ha gradito la lettura di
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Piccolo glossario

ARTICOLO 2 DELLA COSTITUZIONE


Un regime democratico si fonda sull’equilibrio tra diritti e doveri. Questo
equilibrio è sancito nell’articolo 2 della Costituzione che parla tanto di
«diritti inviolabili» quanto di «doveri inderogabili». «La Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale.» È una norma fondamentale per più ragioni: ai diritti inviolabili
corrispondono i doveri inderogabili di solidarietà. È scritto nell’articolo 2
che la Repubblica «riconosce» i diritti inviolabili dell’uomo; «riconosce»
significa che i diritti preesistono allo Stato, non sono «concessi» dallo
Stato; essi attengono alla stessa natura della persona umana e riguardano
chiunque, dall’immigrato, al naufrago, al cittadino. Persino il potere dello
Stato si deve arrestare davanti a questi diritti. Un’altra caratteristica dei
diritti inviolabili è l’imprescrittibilità, ossia l’impossibilità che tali diritti si
estinguano pur non essendo esercitati per lungo tempo. I principali diritti
inviolabili sono il diritto alla vita, alla integrità fisica e psichica, alla libertà
personale, al matrimonio, alla iniziativa economica.
La Repubblica, inoltre, richiede l’adempimento dei «doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale». Per esempio, il dovere di pagare
le tasse, il dovere di essere fedele alla Repubblica e di rispettarne le leggi, il
dovere di istruire e di educare i figli.
AUTORITÀ ANTICORRUZIONE (ANAC)
L’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) è stata istituita da una legge del
2014. Sino al luglio del 2019, data delle sue dimissioni per tornare alla
magistratura, è stata presieduta da Raffaele Cantone, magistrato a Napoli.
L’Anac ha il compito di prevenire la corruzione nella pubblica
amministrazione; a questo scopo è dotata di poteri molto penetranti
nell’attività delle pubbliche amministrazioni. Vigila per prevenire la
corruzione creando una rete di collaborazioni nell’ambito delle
amministrazioni pubbliche e cerca di aumentare l’efficienza nell’utilizzo
delle risorse. Consiglio di visitare il sito anticorruzione.it, chiaro e facile da
consultare, dal quale ho preso le notizie riportate.

AZIONE PENALE
L’articolo 112 della Costituzione stabilisce: «Il pubblico ministero ha
l’obbligo di esercitare l’azione penale». Ciò significa che il pm, in
attuazione del principio di legalità, deve avviare un’indagine ogni qualvolta
sia venuto a conoscenza che è stato commesso un reato. In quasi tutti gli
altri Paesi, per i costi pubblici che comporta l’amministrazione della
giustizia penale, vige invece il principio di opportunità, il pm cioè valuta
caso per caso se conviene procedere, in base alla maggiore o alla minore
rilevanza del fatto, al costo che avrebbero le indagini rispetto al risultato, al
comportamento del colpevole, per esempio se abbia risarcito il danno alla
vittima. In questi altri Paesi, per esempio Francia e Germania, il pm dipende
dal ministro della Giustizia ed è il ministro che indica i criteri generali per
l’esercizio dell’azione penale, quali reati perseguire con priorità, quali reati
non perseguire quando vi sia stato, per esempio, il risarcimento del danno.
Ma è regola generale che il ministro non possa dare ordini specifici su una
determinata inchiesta. Il ministro risponde delle sue scelte davanti al
Parlamento. In Italia il pm è indipendente dal ministro; perciò, in pratica,
nella impossibilità di avviare e portare a termine tutte le inchieste è lo stesso
pm che decide discrezionalmente e senza rispondere a nessuno. Questa
situazione dà adito a molte critiche, perché pone nelle mani di un soggetto
politicamente irresponsabile, il pm, scelte che sono di natura squisitamente
politica.
BLOCCO DEL POPOLO
Fu la lista, con Pci, Psi e Partito d’azione, che vinse le prime elezioni
regionali in Sicilia, il 20 aprile 1947. Prese il 30,4 per cento dei voti, mentre
la Dc, secondo partito, si fermò al 20,5 per cento. Il 1° maggio successivo,
dieci giorni dopo, a Portella della Ginestra il bandito Salvatore Giuliano,
per punire i vincitori, con la sua banda sparò sui contadini che
festeggiavano: rimasero sul terreno undici morti e decine di feriti.

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA


La Commissione parlamentare antimafia è una commissione d’inchiesta
composta da venticinque deputati e da venticinque senatori, con sede a
palazzo San Macuto a Roma. Istituita per la prima volta con legge del 20
dicembre 1962, da allora viene promossa con legge all’inizio di ogni
legislatura. La Commissione parlamentare antimafia non fu costituita solo
nella VII legislatura (1976-1979). La Commissione, come tutte le
commissioni d’inchiesta, procede ai suoi accertamenti con gli stessi poteri
dell’autorità giudiziaria (articolo 82 della Costituzione). Naturalmente, non
può privare i cittadini della libertà personale, ma può procedere al sequestro
di documenti e di oggetti. Questi sono i principali poteri attribuiti dalla
legge 99/2018 alla Commissione parlamentare antimafia dell’attuale XVIII
legislatura: la tutela delle vittime di estorsione e usura; la tutela dei
famigliari delle vittime delle mafie; il monitoraggio delle scarcerazioni; il
traffico di stupefacenti e di armi e commercio di opere d’arte; il rapporto tra
le mafie e l’informazione, con particolare riferimento alle diverse forme in
cui si manifesta la violenza o l’intimidazione nei confronti dei giornalisti; i
giochi e le scommesse le modalità di azione delle associazioni mafiose e
similari mediante condotte corruttive o collusive; l’infiltrazione all’interno
di associazioni massoniche o comunque di carattere segreto o riservato; il
movimento civile antimafia; l’acquisizione di informazioni
sull’organizzazione degli uffici giudiziari e delle strutture investigative
competenti in materia di mafia e sulle risorse umane e strumentali di cui
essi dispongono; la valutazione della penetrazione sul territorio nazionale e
le modalità operative delle mafie straniere e autoctone tenendo conto delle
specificità di ciascuna struttura mafiosa e l’individuazione, se necessario,
delle specifiche misure legislative e operative di contrasto.
COMMISSIONI PARLAMENTARI
Sono organi del Senato e della Camera dei deputati, previsti dall’articolo 72
della Costituzione, ai quali vengono assegnati i progetti di legge prima di
essere discussi in Aula per la deliberazione conclusiva. La composizione
dei membri delle commissioni deve rispettare le proporzioni tra i vari
gruppi parlamentari. Le Commissioni sono quattordici tanto al Senato
quanto alla Camera; si distinguono in base alle materie assegnate alla loro
competenza (per esempio: Giustizia, Difesa, Affari esteri, eccetera).

CONFISCA PER REATI DI MAFIA


La confisca per reati di mafia, prevista dall’articolo 24 del decreto
legislativo 159/2011, consiste nello spossessamento definitivo dei beni
sequestrati (v. Sequestro), in presenza di due condizioni:
1. il valore dei beni è sproporzionato rispetto alla sua attività economica o
al reddito dichiarato ai fini delle imposte al reddito oppure i beni risultino
provenienza di reato o del reimpiego di risorse frutto di reato;
2. il titolare non può giustificarne la legittima provenienza.
L’articolo 12 sexies del decreto legislativo 306/1992, prevede che la
confisca sia effettuata anche nel caso in cui il condannato abbia concordato
l’entità della pena con il pm.

CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA (CSM)


Il Consiglio superiore della magistratura è un organo previsto dalla
Costituzione, cui spetta il compito di «governare» la magistratura ordinaria
garantendone l’autonomia e l’indipendenza. La Costituzione non fissa il
numero dei componenti (oggi sono 24), ma stabilisce che due terzi siano
eletti dai magistrati tra i magistrati e un terzo (otto) sia eletto dal
Parlamento tra i professori ordinari di materie giuridiche nelle università o
tra gli avvocati con almeno quindici anni di servizio. Il Csm è presieduto
dal capo dello Stato e ne fanno parte di diritto il presidente della Corte di
cassazione e il procuratore generale presso la stessa Corte. La Costituzione
attribuisce al Csm tutte le decisioni più significative sulla carriera e sullo
status professionale dei magistrati, compresa la responsabilità disciplinare.
CORRUZIONE
La corruzione è il reato consistente nell’accordo tra un funzionario pubblico
e un soggetto privato, mediante il quale un funzionario pubblico accetta da
un privato un compenso (di qualsiasi natura, anche una prestazione
sessuale) che non gli è dovuto, per un atto relativo alle proprie attribuzioni.
La corruzione può riguardare tanto un atto legale quanto un atto illegale,
contrario ai doveri di ufficio. Le pene, a seconda dei casi, vanno da uno a
venti anni di reclusione si applicano tanto al corrotto quanto al corruttore.

CORTE D’ASSISE
Realizza il principio della partecipazione dei cittadini all’amministrazione
della giustizia. È composta da due magistrati, il presidente e un altro
magistrato, insieme a sei giudici popolari estratti a sorte da un elenco di
cittadini dotati di particolari caratteristiche (incensurati, licenza media,
eccetera). Giudica sui reati più gravi come omicidio, strage, ricostituzione
del disciolto partito fascista, riduzione in schiavitù. Giudici togati e popolari
formano un unico collegio e deliberano insieme, partecipando alla
formazione della sentenza con parità di voto. Al processo possono essere
chiamati ad assistere, giudici popolari supplenti, i quali subentrano ai
titolari qualora uno di loro, per un qualsiasi motivo, non sia più in grado di
svolgere le sue funzioni. La norma fu inserita ai tempi del terrorismo
quando si temeva che i terroristi potessero uccidere un giudice popolare per
far saltare il processo. In questo modo si sarebbe evitata l’interruzione del
processo imposta dal principio secondo il quale la sentenza deve essere
deliberata dagli stessi giudici che hanno preso parte al dibattimento.

COSTITUZIONE
La Costituzione è la legge fondamentale dello Stato italiano; tutte le altre
leggi devono adeguarsi ai suoi principi. Fu redatta da un’Assemblea
Costituente di 556 eletti il 2 giugno 1946. Per prima volta nella sua storia il
popolo italiano, senza distinzione di censo e di sesso (per la prima volta le
donne votarono e furono votate), quel 2 giugno scelse liberamente il proprio
destino. Agli elettori vennero consegnate contemporaneamente la scheda
per la scelta fra monarchia e repubblica, il cosiddetto referendum
istituzionale, e quella per l’elezione dei deputati dell’Assemblea
Costituente. Al referendum istituzionale la maggioranza dei votanti scelse
la forma di stato repubblicana con circa 12 milioni e 700mila voti, contro
10 milioni e 700mila per la monarchia. La vittoria della repubblica diede
l’impronta alla Costituzione; se avesse vinto la monarchia, infatti, la
Costituzione sarebbe stata diversa. La Costituzione fu promulgata dal capo
provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre seguente ed entrò
in vigore il 1º gennaio 1948. Consta di 139 articoli e di 18 disposizioni
transitorie e finali.

CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE


La custodia cautelare in carcere consiste nella reclusione in carcere prima
della condanna definitiva. Le condizioni per la custodia cautelare in carcere
sono indicate nell’articolo 274 del Codice di procedura penale, che è un
testo chiaro e comprensibile; potete trovarlo su qualsiasi sito che si occupi
di giustizia.

DIPARTIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA (DAP)


È uno dei quattro dipartimenti del ministero della Giustizia; si occupa in
particolare del trattamento dei detenuti, dell’esecuzione delle pene e delle
misure cautelari (per esempio, custodia cautelare, divieto o obbligo di
dimora, ecetera), della gestione amministrativa del personale degli istituti di
prevenzione e di pena.

DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA


v. Direzione nazionale antimafia

DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA


È un ufficio giudiziario, costituito all’interno della Procura generale presso
la Corte di cassazione; è costituita da venti magistrati ed è diretta da un
procuratore nazionale antimafia nominato dal Csm. Ha funzioni di
coordinamento delle ventisei Direzioni distrettuali antimafia che, a loro
volta, hanno il compito di condurre le indagini nei confronti delle
organizzazioni mafiose in ciascun distretto di Corte d’appello. Ha potere di
impulso alle indagini che non può però condurre direttamente; non può dare
direttive vincolanti alle singole procure. Può però avocare le indagini in
caso di inerzia di una procura distrettuale. È frutto di un’intuizione di
Giovanni Falcone, che riteneva necessario avere un organo d’indagine
centralizzato nei confronti di una struttura criminale, come la mafia, che era
centralizzata.

DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA (DIA)


La Direzione investigativa antimafia è un organismo investigativo
interforze, inquadrato nel Dipartimento della pubblica sicurezza del
ministero dell’Interno, con compiti di contrasto nei confronti delle
organizzazioni mafiose. Ne fanno parte personale della polizia di Stato,
dell’Arma dei carabinieri, della guardia di finanza, della polizia
penitenziaria. La Dia si compone di una struttura centrale a Roma, articolata
in tre reparti (Investigazioni preventive, Investigazioni giudiziarie e
Relazioni internazionali ai fini investigativi) con sette uffici, e di una
struttura periferica, costituita da dodici centri operativi (Torino, Milano,
Genova, Padova, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Palermo,
Catania, Caltanissetta) e nove sezioni operative (Trieste, Salerno, Lecce,
Catanzaro, Messina, Trapani, Agrigento, Bologna, Brescia), per un totale di
circa milletrecento uomini.

DIRITTO ALLA DIFESA


L’articolo 24 della Costituzione afferma che il diritto di difesa è un diritto
inviolabile, in qualsiasi stato e grado del procedimento. Il diritto di difesa
non può essere sacrificato per altre esigenze di altra natura, come la celerità
delle indagini o l’accelerazione del processo. Il diritto di difesa è garantito
dall’assistenza di un avvocato.

DOVERI CIVICI
Sono i doveri che derivano dall’essere cittadino: votare, pagare le tasse,
rispettare l’ambiente, assicurare ai figli una formazione scolastica.
L’articolo 4 della Costituzione stabilisce: «Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una
funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Da
questo principio deriva per gli studenti il dovere civico di studiare.

GIUDICE AMMINISTRATIVO
I giudici amministrativi esercitano le loro funzioni nei tribunali
amministrativi regionali (Tar) e nel Consiglio di Stato. Hanno competenze
sulla maggior parte delle controversie che riguardano gli atti della pubblica
amministrazione: appalti pubblici, concessioni, autorizzazioni urbanistiche,
eccetera.

GIUDICE ISTRUTTORE
Era previsto dal precedente Codice di procedura penale e faceva parte
dell’Ufficio istruzione. Aveva il potere di compiere tutte le indagini e tutti
gli atti nei confronti dell’imputato (mandato di cattura, ordine di
perquisizione, decreto di intercettazione telefonica, eccetera). Poteva
prosciogliere e rinviare a giudizio. Sono stati giudici istruttori, tra gli altri,
Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto, Giancarlo Caselli, Rocco Chinnici,
Giovanni Falcone.

GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI (GIP)


Il giudice per le indagini preliminari ha la funzione di decidere sulle
richieste del pm che riguardano l’indagato, per esempio: richiesta di misura
cautelare, richiesta di sequestro, richiesta di intercettazione. Inoltre, il gip
può accogliere o respingere la richiesta di archiviazione della notizia di
reato avanzata dal pubblico ministero. Il gip non ha autonomi poteri di
iniziativa (a differenza del giudice istruttore, che li aveva), ma provvede
solo su istanza del pm.

GIUDICI POPOLARI
v. Corte d’assise

GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
v. Giudice amministrativo

GIUDICE DELL’UDIENZA PRELIMINARE (GUP)


Il giudice dell’udienza preliminare decide, durante l’udienza preliminare,
sulla richiesta del pm di rinviare a giudizio l’imputato o di disporre il non
luogo a procedere. Se ritiene sufficienti gli elementi di prova raccolti nella
fase delle indagini preliminari, dispone il decreto di rinvio a giudizio
(dinanzi a un giudice diverso, il giudice del dibattimento); altrimenti decide,
con sentenza di non luogo a procedere, di chiudere il procedimento. Nel
corso della udienza preliminare l’imputato può chiedere di essere giudicato
dal gup, con un rito speciale (patteggiamento della pena o rito abbreviato).

IMMUNITÀ PARLAMENTARE
L’articolo 68 della Costituzione stabilisce che i membri del Parlamento non
rispondono delle loro opinioni e dei voti che esprimono durante l’esercizio
delle loro funzioni. Questo significa che se un parlamentare durante un
discorso in Aula o, nella sua veste, in altro luogo offende un avversario
politico o anche un comune cittadino non può essere chiamato a rispondere
di quell’insulto o di quell’offesa. Il parlamentare, inoltre, non può essere
sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, o sottoposto a
intercettazioni telefoniche o al sequestro di documenti o cose in suo
possesso, né può essere arrestato senza l’autorizzazione (autorizzazione a
procedere) della Camera a cui appartiene. Il parlamentare però può essere
arrestato in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna o se colto
in flagranza, mentre commette un reato.

LEGGE ELETTORALE CALDEROLI


La legge 270 del 21 dicembre 2005, comunemente nota come «legge
Calderoli» dal nome del ministro proponente, era una legge elettorale
proporzionale con premio di maggioranza e liste bloccate, che ha regolato
l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in Italia
nel 2006, 2008 e 2013. La legge privava i cittadini del voto di preferenza e
stabiliva che i candidati erano eletti secondo l’ordine di presentazione nelle
liste. Per esempio, se il partito A aveva guadagnato in una determinata
circoscrizione tre seggi risultavano eletti i primi tre della lista. Erano quindi
i capi dei partiti e non gli elettori che stabilivano chi sarebbe stato eletto.
Nel gennaio del 2014, con sentenza n. 1/2014, la Corte costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale di parte della legge, che è stata poi
sostituita dalla legge elettorale 52/2015, cosiddetta «Italicum».

LEGITTIMA SUSPICIONE
È il legittimo sospetto che in un determinato luogo un processo non possa
svolgersi con la necessaria imparzialità, a causa di specifiche situazioni
locali. L’articolo 45 Codice di procedura penale prevede che «in ogni stato e
grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare
lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la
libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la
sicurezza o l’incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo
sospetto, la Corte di cassazione, su richiesta motivata del procuratore
generale presso la Corte d’appello o del pubblico ministero presso il giudice
che procede o dell’imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato
a norma dell’articolo 11».

LUDOPATIA
La ludopatia è l’incapacità di resistere all’impulso di giocare d’azzardo o di
fare scommesse, pur essendo consapevoli delle gravi conseguenze che
possono derivare. Per continuare a dedicarsi al gioco d’azzardo e alle
scommesse, chi è affetto da ludopatia trascura lo studio o il lavoro e può
arrivare a commettere delitti di vario genere, in particolare furti e truffe.

MAGNA CHARTA
Il 15 giugno 1215 il re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra fu costretto dai
baroni inglesi a riconoscere a loro, alla Chiesa, alle città e a tutti gli uomini
liberi una serie di diritti in un documento solenne, la Magna Charta
libertatum («Grande Carta delle libertà») che successivamente entrò a far
parte delle leggi fondamentali del regno inglese. Si stabiliva, in particolare
che: arresti e condanne sarebbero stati decisi soltanto da un tribunale
composto di persone di ceto pari a quello dell’individuo sottoposto a
giudizio e in conformità alle leggi in vigore; non sarebbe stata imposta
alcuna tassa senza l’approvazione del Consiglio comune del regno,
un’assemblea costituita da nobili feudatari (laici ed ecclesiastici); la
monarchia sarebbe stata affiancata da un organo composto da venticinque
baroni; i baroni avrebbero avuto il diritto di ribellarsi al re nel caso costui
commettesse un’evidente e grave ingiustizia. Si tratta forse della prima
forma di Costituzione.

MINISTRO DELL’INTERNO
Il ministro dell’interno è il capo dell’amministrazione dell’Interno e
responsabile dell’ordine pubblico. Da lui dipendono la polizia di Stato, il
corpo nazionale dei vigili del fuoco e i prefetti.

PROCURA DELLA REPUBBLICA


È l’ufficio del pubblico ministero, collocato presso ogni tribunale. Ogni
procura della Repubblica ha un procuratore della Repubblica, affiancato da
sostituti procuratori della Repubblica ed eventualmente da uno o più
procuratori aggiunti della Repubblica. Ciascun magistrato svolge le indagini
relative ai procedimenti penali e prende parte alle udienze dei processi
penali e civili che gli sono stati assegnati.

PUBBLICO MINISTERO (PM)


È il magistrato della procura della Repubblica che, quando riceve, tramite
denuncia, rapporto di polizia, o anche un’inchiesta giornalistica, una notizia
di reato che non appare fantasiosa o assolutamente priva di fondamento ha
l’obbligo di avviare le indagini e di esercitare l’azione penale. Nel
dibattimento sostiene l’accusa, ma può anche chiedere l’assoluzione
dell’imputato, se ritiene che le prove a suo carico si siano rivelate
insufficienti (v. Azione penale).

RAGION DI STATO
Si tratta del complesso di fattori relativi alla sicurezza dello Stato che
possono indurre chi deve assumere un’importante decisione politica a
giustificare o a coprire o a effettuare un’azione illecita. Per esempio, per
salvaguardare una decisiva alleanza internazionale, il decisore politico
acconsente al rapimento da parte di agenti stranieri di un cittadino straniero
sul territorio dello Stato.

SEPARATISMO
Ha riguardato la Sicilia. Si è trattato di un fenomeno politico di breve durata
(1943-1947), ma drammatico e caratterizzato da numerosi episodi violenti,
con il carattere di vera e propria guerra civile. Sostenuto da latifondisti e
dalla mafia, il separatismo puntava all’indipendenza della Sicilia dallo Stato
italiano. Dopo lo sbarco degli americani in Sicilia, esponenti del
separatismo proposero espressamente l’annessione della regione agli Stati
Uniti come 49° Stato.

SEQUESTRO
Il sequestro preventivo (articolo 321 del Codice di procedura penale)
consiste nella sottrazione al legittimo proprietario della disponibilità di cose
mobili o immobili, pertinenti a un reato, la cui libera disponibilità possa
consentire di commettere altri reati o aggravare le conseguenze del reato
contestato. L’altro tipo di sequestro (articolo 20 decreto legislativo
159/2011) riguarda i beni che possono essere oggetto di confisca perché,
come già detto (v. Confisca per reati di mafia):

1. il valore dei beni è sproporzionato rispetto alla sua attività economica o


al reddito dichiarato ai fini delle imposte al reddito oppure i beni risultino
provenienza di reato o del reimpiego di risorse frutto di reato;
2. il titolare non può giustificarne la legittima provenienza.

SOGGIORNO OBBLIGATO
È l’obbligo di soggiornare in un comune lontano dalla propria residenza
abituale inflitto ai sospetti di attività mafiose. Purtroppo non è servito a
debellare la mafia e ha agevolato la penetrazione della mafia nei comuni del
Nord (di Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto) e del Centro (Emilia,
soprattutto).

STATO ETICO
È lo Stato che pretende di essere depositario di principi morali cui tutti
devono sottostare. Ritiene perciò di essere legittima fonte non solo di regole
giuridiche ma anche di regole etiche e a questo fine pretende di controllare
e sanzionare le condotte morali dei cittadini. Esempi di Stati etici nella
storia sono lo Stato nazista, lo Stato sovietico, oppure l’attuale regime della
Corea del Nord.

STATO LAICO
Lo Stato laico non ammette interferenze religiose o morali nella sua attività
e preserva la libertà morale dei cittadini.

UFFICIO ISTRUZIONE
v. Giudice istruttore
Bibliografia essenziale

FEDERICA ANGELI, A mano disarmata, Baldini e Castoldi, Milano 2018.


ANDREA APOLLONIO, Storia della Sacra Corona Unita, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2016.
FRANCESCO BARBAGALLO, Storia della camorra, Laterza, Roma-Bari 2011.
GIUSEPPE BASCIETTO, CLAUDIO CAMARCA, L’uomo che incastrò la mafia,
Aliberti, Correggio 2018.
CARLO BONINI, GIULIANO FOSCHINI, Ti mangio il cuore, Feltrinelli, Milano
2019.
PAOLO BORROMETI, Un morto ogni tanto, Solferino, Milano 2018.
GIAN CARLO CASELLI, GUIDO LO FORTE, La verità sul processo Andreotti,
Laterza, Roma-Bari 2018.
ENZO CICONTE, ’Ndrangheta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011.
GIUSEPPE DI LELLO, Giudici. Cinquant’anni di processi di mafia, Sellerio,
Palermo 1994.
MAURO ESPOSITO, Le mie due guerre, La nave di Teseo, Milano 2019.
DIDIER FASSIN, Punire, Feltrinelli, Milano 2017.
GIOVANNI FIANDACA, SALVATORE LUPO, La mafia non ha vinto. Il labirinto
della trattativa, Laterza, Roma-Bari 2014.
MARCO LILLO, MARCO TRAVAGLIO, Padrini fondatori. La sentenza sulla
trattativa Stato-mafia che battezzò col sangue la Seconda Repubblica,
PaperFirst, Roma 2018.
SALVATORE LUPO, Storia della mafia. La criminalità organizzata in Sicilia
dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 2003.
TONI MIRA, ALESSANDRA TURRISI, Dalle mafie ai cittadini, San Paolo,
Cinisello Balsamo 2019.
GIUSEPPE PIGNATONE, MICHELE PRESTIPINO, Il contagio. Come la
’ndrangheta ha infettato l’Italia, Laterza, Roma-Bari 2012.
—, Modelli criminali, Laterza, Roma-Bari 2019.
ISAIA SALES, Storia dell’Italia mafiosa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015.
LUCIANO VIOLANTE, Il ciclo mafioso, Laterza, Roma-Bari 2004.

Sitografia

www.camera.it
www.senato.it
www.benisequestraticonfiscati.it
www.anticorruzione.it
www.direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/
https://bit.ly/2L1iVtc (relazione della Commissione antimafia XVII
legislatura su mafia e massoneria.)
Ringraziamenti

Gli insegnanti trasmettono conoscenza, valori civili, senso di appartenenza.


Costruiscono ponti tra le generazioni.
Abbattono i muri delle incomprensioni.
Sono migliaia gli insegnanti, soprattutto dopo le stragi del 1992, che ogni
giorno educano alla legalità generazioni di giovani, nei piccoli borghi come
nelle grandi città, nella scuola primaria come nell’Università.
Studiano, si informano, si confrontano tra loro e con persone esperte.
Guidano ricerche, ricostruiscono memorie, ristabiliscono verità.
Ma gli insegnanti non hanno il riconoscimento che meritano.
È un difetto della nostra democrazia, che deve essere superato nel mondo
politico, nella società e soprattutto nelle famiglie.
Questo piccolo libro è un grazie per tutti loro, con ammirazione.
Gli insegnanti sono il polmone della libertà.
Indice

1. Un pezzo della nostra storia


Non parliamo di «mostri»
Parliamo di persone
Mai per caso
Non arrendersi
La svolta di La Torre
Una coppia formidabile

2. La mafia, le mafie
Contro la mafia
Contro la ’ndrangheta
Contro la camorra
Le mafie in Puglia
Altre mafie

3. Non attendere che colpisca la mafia


Dal 1943 al 1950
Dal 1950 al 1968
Gli anni Settanta
Dal 1980 al 1992
Dopo il 1992
Il contesto politico
L’anomalia italiana

4. Dove mettono i soldi i mafiosi?


Quali sono gli affari della mafia?
Calcio e mafia
Il gioco d’azzardo
La ricchezza della mafia
Il mafioso imprenditore
Area grigia e massoneria
L’onere della prova
La confisca dei beni
L’antimafia conviene

5. Isolare le mafie
Grand Hotel Ucciardone
Il problema dei difensori
I pentiti
Testimoni di giustizia
Voto di scambio
C’è stata una trattativa tra Stato e mafia?
È lo Stato che deve infiltrarsi?
I comuni sciolti per mafia e gli amministratori uccisi dalla mafia
Impedire l’infiltrazione nell’economia

6. Il problema dell’onestà
Rompere gli equilibri mafiosi
Debiti e doveri
L’educazione
L’esempio di Libera contro gli indifferenti
L’impegno prima di tutto
La politica e l’onestà
La necessità di un’etica politica

Piccolo glossario
Bibliografia essenziale
Ringraziamenti

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