Sei sulla pagina 1di 124

1

Vincenzo Musacchio

Angeli
contro le mafie
(Antologia delle vittime di mafia)

Ad uso degli studenti di ogni ordine e grado

Scuola di Legalità
“don Giuseppe Diana”
di Roma e del Molise
2016

2
NOTA

Il presente libro non è in vendita viene messo a disposizione


di tutte le scuole d'Italia ad uso gratuito.

La legalità non si vende ma si diffonde come il vento e come


l'aria che sono beni di tutti.

Chiunque utilizzi il presente libro a fini di lucro sarà punito ai


sensi e per gli effetti di legge anche penalmente.

3
A mia figlia Isabella con la speranza
che possa vivere la sua vita percorrendo
il “difficile” sentiero della legalità.
.

4
BIOGRAFIE

1. Beppe Alfano 18. Peppino Impastato


2. Giorgio Ambrosoli 19. Pio La Torre
3. Rita Atria 20. Rosario Livatino
4. Emanuele Basile 21. Piersanti Mattarella
5. Paolo Borsellino 22. Beppe Montana
6. Ninni Cassarà 23. Domenico Noviello
7. Rocco Chinnici 24. Mino Pecorelli
8. Gaetano Costa 25. Don Pino Puglisi
9. Carlo A. Dalla Chiesa 26. Mauro Rostagno
10. Mauro De Mauro 27. Silvia Ruotolo
11. Giuseppe Di Matteo 28. Pietro Scaglione
12. Don Giuseppe Diana 29. Antonino Scopelliti
13. Giovanni Falcone 30. Giancarlo Siani
14. Pippo Fava 31. Giovanni Spampinato
15. Lea Garofalo 32. Cesare Terranova
16. Boris Giuliano 33. Giuseppe Valarioti
17. Libero Grassi 34. Angelo Vassallo

5
PREMESSA

“Angeli contro le maie” è il titolo che ho fortemente


voluto per questo libro, perché l’angelo è un essere
spirituale al servizio dell'uomo durante il cammino nella
sua esistenza terrena. Molti angeli, hanno lo scopo di
mantenere alto il valore della giustizia e tra questi ho
voluto inserire, a pieno titolo, alcuni fra coloro che
hanno combattuto le maie nel nostro sfortunato Paese.
Il libro è semplicemente un abbecedario delle vittime
della criminalità organizzata con le loro storie e so-
prattutto con alcuni particolari della loro vite private
forniti direttamente dai loro familiari o parenti più
prossimi. Si tratta di uno strumento di educazione civica
e di acquisizione di nozioni che andrà a rilevare anche
le maie presenti in Italia, le loro metamorfosi e soprat-
tutto alcune delle igure che le hanno combattute
ainché queste ultime non siano mai dimenticate e
restino nella memoria dei più giovani come esempio e
ricordo imperituro. Per quanto riguarda il mio incontro
con la legalità e l’antimaia, intese nel contesto più
ampio della giustizia, è avvenuto nel lontano 1991
quando, giovane laureando in giurisprudenza, scrissi al
giudice Giovanni Falcone una lettera nella quale lo
elogiavo e lo ammiravo ritenendolo esempio da seguire
ma, al tempo stesso, lo rimproveravo perché stava
lasciando Palermo per andare a Roma al Ministero di
Grazia e Giustizia come direttore generale degli afari
penali. Era un momento diicile per lui e per il pool
antimaia, coordinato da Antonino Caponnetto, ma
nonostante ciò, nel febbraio del 1992, del tutto
inaspettata, mi arrivò la risposta di Giovanni Falcone:
aveva trovato il tempo di rispondere a un giovane
6
anonimo nonostante in quel periodo fosse bersaglio
continuo di attacchi e denigrazioni. La lettera è
meravigliosa e si chiuse con una frase che ha segnato
per sempre la mia vita: “Continui a credere nella
giustizia, c’è tanto bisogno di giovani con nobili ideali”.
Falcone non fu l’unico contatto che ho avuto nella mia
esperienza di vita. Nel luglio del 1991 a Trivento ascoltai
e strinsi la mano a Paolo Borsellino che era venuto
invitato dalla Caritas diocesana per parlare dei rapporti
tra maia e politica. Queste due grandi personalità
segnarono profondamente il mio cammino esistenziale,
di studio e di formazione. L’anno successivo, mi laureai
con una tesi dal titolo “Appalti pubblici e normativa
antimaia” e incominciai, giovanissimo professore a
contratto, ad insegnare diritto penale e a occuparmi di
criminalità organizzata, di corruzione e di crimini dei
colletti bianchi. Un altro incontro segnò ulteriormente la
mia esistenza: quello con il giudice Antonino
Caponnetto. Con lui incominciai un cammino
entusiasmante e straordinario caratterizzato da tanti
incontri con i ragazzi in molte scuole d’Italia. Da allora
sino a oggi il lavoro continua in maniera incessante e
con questo libro si arricchisce di uno strumento di cono-
scenza e di approfondimento. Chiedo scusa a tutti quelli
che per motivi editoriali non ho potuto inserire, ma
pongo rimedio a questa mancanza ricordandoli nelle
lezioni ai ragazzi con la Scuola di Legalità intitolata a
Don Peppe Diana.

Portocannone, 8 marzo 2016

Vincenzo Musacchio

7
LA SCUOLA DI LEGALITÀ "DON PEPPE DIANA"

Fondare una Scuola di Legalità dopo oltre vent’anni di


insegnamento universitario è stata un’esigenza, quasi
egoistica, costruita sulla necessità di mettere a
disposizione degli studenti, strumenti di sostegno e di
complemento per percorsi di educazione alla legalità,
all’etica pubblica, alla giustizia e alla cittadinanza
attiva. Due sono i motivi che hanno determinato la
nascita della Scuola di Legalità circa tre anni fa: 1)
dimostrare ai ragazzi con i fatti che attraverso
l’impegno, lo studio e la conoscenza sia possibile lottare
consapevolmente le illegalità; 2) proporre percorsi
formativi, attraverso i quali ediicare le basi di un serio
e articolato impegno per promuovere i valori della
giustizia e della legalità. L’azione della nostra Scuola si
rivolge a tutti gli studenti, dalle scuole elementari sino
all’Università, promuovendo analisi collegate alla
conoscenza consapevole delle maie, della corruzione,
dell’evasione iscale e di qualsiasi altra illegalità.
Avvicinare il mondo della scuola a questi temi può
favorire concretamente l’impegno civile di molti giovani,
ponendo le basi per azioni coscienti da parte degli stes-
si contro le maie. E’ necessario che i nostri ragazzi
prima conoscano le problematiche legate alla
criminalità e poi ne discutano con intento costruttivo
contrapponendosi consciamente all’illegalità. La nostra
Scuola, nel nome di don Peppe Diana, vuole formare
ragazzi che non solo rispettino le regole del vivere
civile, ma contribuiscano a far crescere e realizzare, una
società diversa, più consapevole, più responsabile e più
giusta. Stiamo investendo energie e risorse per divenire
riferimento serio e duraturo di lotta alla criminalità
organizzata e alle illegalità.
8
Riferimenti:

Pagina: https://www.facebook.com/scuoladellalegalita/

Sito: http://scuoladellalegalitadonpeppediana.it.gg/

E-mail: sdldpd1994@gmail.com

La Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del


Molise è a disposizione di tutte le scuole d’Italia per
approfondire tematiche riguardanti la corruzione, le
maie e la legalità.

9
LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA OGGI

La criminalità organizzata rappresenta oggi, in Italia,


una delle principali minacce alla sicurezza e alla
sopravvivenza della stessa democrazia. La presenza
nella società di gruppi criminali organizzati ha conse-
guenze quanto mai gravi sulla vita quotidiana, sui
rapporti sociali e sull'economia. Gli appartenenti al
crimine organizzato usano la violenza per estorcere
denaro ai commercianti e agli imprenditori; sono in
grado di corrompere o ricattare uomini politici e
dipendenti della pubblica amministrazione; possono
perino falsare le elezioni costringendo i cittadini a
votare i propri candidati. Allo stesso tempo, la cri-
minalità organizzata opera anche a livello
internazionale, gestendo i grandi traici illegali di
droga, armi, esseri umani. Le metamorfosi del crimine
organizzato sono sotto gli occhi di tutti così come la
colpevole sottovalutazione del fenomeno da parte delle
istituzioni. Una delle evidenti cause dell'attuale
virulenza risiede, proprio, nello scarso impegno dello
Stato nei confronti di questa multiforme realtà
criminale. Oggi, la criminalità organizzata di matrice
economica e politica governa la maggior parte delle
attività illecite tra le quali spiccano soprattutto il traico
internazionale di stupefacenti, la gestione degli appalti
pubblici e delle grandi opere. Potendo contare su
enormi quantità di denaro, le sue attività prevalenti non
possono non essere la corruzione, la ripulitura e il
reimpiego del denaro sporco. Lo stretto legame tra
organizzazioni criminali, economia e politica
rappresenta un pericolo talmente grave da minacciare
la stessa sopravvivenza delle istituzioni. Questo
connubio ha una potenza inanziaria tale da poter
10
persino ripianare il deicit del bilancio statale. La
domanda da porsi a questo punto è la seguente: come
sia potuto accadere che queste organizzazioni criminali
anziché avviarsi alla sconitta hanno aumentato la loro
aggressività e la loro pervasività? Siamo passati dalla
"maia imprenditrice" teorizzata dal prof. Pino Arlacchi,
alla "maia politica" che gestisce le principali attività
produttive dell'Italia. Mentre lo Stato - negli anni che
vanno dalla morte di Falcone e Borsellino ad oggi - è
restato immobile, le maie si sono evolute e modellate
con rapidità e lessibilità alle mutevoli esigenze dei
tempi. Dalla fase stragista, attribuita a Riina in Sicilia, si
è passati alla fase della mimetizzazione sociale, all'uso
brutale della forza si è preferito l'uso delicato della
corruzione. Oggi le maie sono addirittura in grado di
legiferare perché eleggono i loro esponenti in
Parlamento. Hanno forza, consistenza e indipendenza
tali da poter dialogare e stringere accordi in posizione di
netta supremazia. Per esercitare al meglio questo
potere le maie hanno bisogno di personaggi estranei
alle associazioni criminali. Per effetto dell'espansione
degli afari soprattutto di tipo economico, hanno creato
strutture operative non maiose, sempre controllate
dall'organizzazione criminale. Si tratta di organi molto
articolati e complessi con ramiicazioni soprattutto
all'estero che, funzionano quasi in anonimato,
consentono però alle maie notevoli guadagni. I sistemi
di riciclaggio e di reimpiego dei capitali si sono sempre
più perfezionati sia a seguito delle maggiori quantità di
denaro disponibili che della necessità di eludere
indagini patrimoniali. Mentre ino a pochi anni fa il
sistema bancario rappresentava il canale privilegiato,
oggi, è stato addirittura accertato il coinvolgimento di
intere nazioni nelle operazioni di cambio di valuta
estera. Non poche attività illecite delle maie, come, ad
esempio, gli appalti e le frodi comunitarie, hanno
11
rappresentato il mezzo per consentire l'alusso di
ingenti quantitativi di denaro già ripulito all'estero. Il
declino del crimine organizzato più volte annunciato dai
vari governi succedutisi negli ultimi venti anni non si è
mai veriicato, e non è, purtroppo, nemmeno
ipotizzabile. È vero che non pochi "boss" sono detenuti,
tuttavia i "veri" vertici del crimine organizzato, alcuni
dei quali siedono a Roma, non sono stati messi al
tappeto. Le indagini da qualche tempo hanno perso
d'intensità e d'incisività a fronte di organizzazioni
criminali che hanno complicità nelle alte sfere e sono
diventate sempre più inattaccabili. I rapporti tra
criminalità organizzata e centri occulti di potere
costituiscono tuttora nodi irrisolti. Fino a quando non
sarà fatta luce su moventi e mandanti dei nuovi e dei
vecchi "omicidi eccellenti", non si faranno passi concreti
avanti. Le conische patrimoniali, molto temute dai
maiosi, languono e anche questo è un aspetto a dir
poco preoccupante. Non mi sento di avere titoli di
legittimazione per censurare qualcuno né tanto meno
per suggerire rimedi, ma devo rilevare che oggi la
situazione generale, non ci fa essere ottimisti. Camorra,
Ndrangheta e Maia (rispettivamente Campania,
Calabria e Sicilia), sono radicate non solo nel
Mezzogiorno d’Italia ma soprattutto nei maggiori centri
economici e produttivi del Paese con grandi inluenze a
livello europeo ed internazionale. Nella mia esperienza
personale, noto un difuso clima di rassegnazione e di
abbandono oltre che dello Stato anche della società
civile. Ritengo, quindi, mio dovere morale evidenziare
che continuando a percorrere questa strada, nel
prossimo futuro, saremo costretti a contrapporci a una
criminalità organizzata talmente forte da essere
addirittura invincibile.

12
1. Beppe ALFANO

Beppe Alfano: “Non è più tollerabile che Barcellona


Pozzo di Gotto debba sottostare alla legge del terrore
imposta da esseri socialmente pericolosi. Il tutto mentre
le istituzioni politiche di peso stanno a guardare e alcuni
partiti sono più latitanti che mai”.

Giornalista, militante di destra, cominciò la sua carriera


collaborando con alcune radio provinciali, con
l'emittente locale Radio Tele Mediterranea e fu
corrispondente del giornale “La Sicilia”. Divenne il “vo-
lano giornalistico” di due televisioni locali della zona di
Barcellona Pozzo di Gotto, Canale 10 e Tele News,
questa ultima di proprietà di Antonino Mazza, ucciso
come lui dalla maia. Non divenne mai direttore
responsabile di queste testate poiché non fu mai
iscritto, in vita, all'albo dei giornalisti per una sua
posizione di protesta contro esistenza stessa dell'albo.
Gli fu concessa l'iscrizione all'albo dei pubblicisti alla
memoria. Nella realtà, era molto più giornalista di tanti
13
altri che potevano fregiarsi del titolo. La sua attività
antimaia fu intensa e rivolta principalmente verso
uomini d'afari, maiosi latitanti, massoneria, politici e
amministratori locali corrotti. Si occupò spesso di trafici
internazionali di armi nell’area di Messina, contribuì
notevolmente anche alla cattura del boss Nitto
Santapaola nel 1993 e scrisse più volte di una
massoneria deviata che speculava sulle sovvenzioni
europee. Con i suoi articoli di denuncia, Beppe Alfano
portò alla luce gli intrecci tra criminalità organizzata,
politica inquinata e comitati d’afari e questo gli costò la
vita. La notte dell'8 gennaio 1993 fu colpito da tre
proiettili mentre era fermo alla guida della sua auto a
Barcellona Pozzo di Gotto. Alla morte seguì un lungo
processo, tuttora in corso, che condannò un boss locale,
Giuseppe Gullotti, all'ergastolo per aver organizzato
l'omicidio, lasciando ancora ignoti i veri mandanti e le
circostanze da cui nacque l'ordine di morte nei suoi con-
fronti. I suoi familiari, nel suo nome, fanno parte
dell'Associazione Nazionale Familiari Vittime di Maia. In
particolare, la iglia Sonia è molto impegnata nel
conservare la memoria del padre e i diritti delle vittime
della maia, oltre che nel condurre un'intensa attività
informativa sulla criminalità organizzata.
Nell'assemblea di Strasburgo ricopre diversi ruoli, fra
cui quello di presidente della commissione speciale
sulla criminalità organizzata, la corruzione e il
riciclaggio di denaro.

Sonia Alfano (iglia di Beppe): “Per tanti anni


abbiamo sopportato gli insulti di quanti dicevano che
mio padre non fosse un giornalista perché non avevano
mai letto niente di suo. È vero, non era iscritto all'albo,
non lo è mai stato, ma io ricordo mio padre come un
14
cane sciolto, un segugio. Era lui che trovava la notizia e
spesso la ribaltava sul tavolo degli investigatori. Mio
padre aveva scoperto il nascondiglio di Nitto
Santapaola prima che vi arrivassero le forze dell'ordine,
così come ha denunciato un traico di armi con il
Sudamerica. Lo ricordo come un uomo solo contro tutto
e tutti”.

15
2. Giorgio AMBROSOLI

Giorgio Ambrosoli: “Con questo incarico che accetto,


cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche
fesseria. Lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi
lamento afatto perché per me è un'occasione unica di
fare qualcosa per il mio Paese”.

Avvocato, fu ucciso l'11 luglio 1979 da un sicario


assoldato dal banchiere siciliano Michele Sindona, sulle
cui attività Ambrosoli stava indagando, nell'ambito
dell'incarico di commissario liquidatore della Banca
Privata Italiana. Fu nominato dall'allora governatore
della Banca d'Italia Guido Carli, al ine di esaminarne la
situazione economica prodotta dall'intricato intreccio
tra la politica, alta inanza, massoneria e criminalità
organizzata siciliana. I sospetti sulle attività di Sindona
nascono già nel 1971, quando la Banca d'Italia,
attraverso il Banco di Roma, inizia a investigare sulle
attività del banchiere siciliano nel tentativo di evitare il
16
fallimento degli Istituti di credito da lui gestiti. Ciò che
emerse dalle indagini indusse a nominare un
commissario liquidatore che fu individuato proprio nella
persona di Giorgio Ambrosoli. In questo ruolo,
l’avvocato milanese assunse la direzione della banca e
si trovò ad esaminare tutta la trama delle articolate
operazioni del gruppo. Nel corso dell'analisi da lui
condotta emersero gravi irregolarità di cui la banca si
era macchiata e numerose falsità nelle scritture
contabili, oltre alla scoperta delle connivenze di pubblici
uiciali con il mondo occulto della inanza di Sindona.
Contemporaneamente a quest’attività di controllo,
Ambrosoli cominciò ad essere oggetto di pressioni e di
tentativi di corruzione inalizzate a ottenere che avallas-
se documenti comprovanti la buona fede di Sindona.
Con questo astuto stratagemma, lo Stato Italiano, per
mezzo della Banca d'Italia, avrebbe dovuto sanare gli
ingenti scoperti dell'istituto di credito. Sindona, inoltre,
avrebbe evitato ogni coinvolgimento penale e civile.
Ambrosoli non cedette, sapendo di correre notevoli
rischi. In questo periodo, ricevette minacce ed
intimidazioni nelle quali il suo interlocutore, gli intimava
di ritrattare la testimonianza resa dinnanzi ai giudici
statunitensi che indagavano sul crack del Banco
Ambrosiano, ino a minacciarlo di morte. In un clima di
alta tensione e di forti pressioni politiche, Ambrosoli
concluse la sua inchiesta. Avrebbe dovuto sottoscrivere
una dichiarazione formale il 12 luglio1979. La sera
dell'11 luglio 1979, rincasando dopo una serata
trascorsa con amici, Ambrosoli fu avvicinato sotto il suo
portone da uno sconosciuto che si scusò per quello che
stava per fare e gli esplose contro quattro colpi di
pistola uccidendolo sull'istante. I suoi funerali furono
una vergogna nazionale poiché nessuna autorità
pubblica partecipò alle esequie di Ambrosoli, ad
eccezione di alcuni esponenti della Banca d'Italia. Il suo
17
esempio è ancora vitale dopo trent'anni, soprattutto
perché la situazione del nostro Paese non sembra
essere cambiata.

Umberto Ambrosoli (Figlio di Giorgio) : “L'esempio


di mio padre è quello di una persona normalissima, con
la sua famiglia, i suoi dubbi e le sue preoccupazioni,
ucciso per aver fatto semplicemente il proprio dovere”.

18
3. Rita ATRIA

Rita Atria: “Prima di combattere la maia devi farti un


auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconitto la
maia dentro di te, puoi combattere la maia che c'è nel
giro dei tuoi amici, la maia siamo noi e il nostro modo
sbagliato di comportarsi. Borsellino sei morto per ciò in
cui credevi, ma io senza di te sono morta”.

Testimone di giustizia, si uccise una settimana dopo la


strage di via d'Amelio per la iducia che riponeva nel
giudice Paolo Borsellino con l'aiuto del quale si era
decisa a collaborare con gli inquirenti. Nel 1985, all'età
di undici anni Rita perde il padre Vito, maioso della lo-
cale cosca ucciso in un agguato. Alla morte del padre
Rita si lega molto al fratello Nicola anch'egli maioso,
ella raccoglie le più intime conidenze sugli afari e sulle
dinamiche maiose a Partanna. Nel giugno 1991 Nicola
viene ucciso e sua moglie, che era presente all'omici-
dio, denuncia i due assassini e collabora con la polizia.
Rita Atria, a soli 17 anni, nel novembre 1991, decide di
seguire le orme della cognata, cercando, nella
19
magistratura, giustizia per quegli omicidi. Il primo a rac-
cogliere le sue rivelazioni è il giudice Paolo Borsellino
(all'epoca procuratore della Repubblica di Marsala), al
quale si lega come ad un padre. Le deposizioni di Rita e
di Piera, unitamente ad altre testimonianze, permettono
di arrestare numerosi maiosi di Partanna, Sciacca e
Marsala e di avviare un'indagine sull'onorevole de-
mocristiano Vincenzino Culicchia, per trent'anni sindaco
di Partanna. Una settimana dopo la strage di via
d'Amelio, in cui perderà la vita il giudice Borsellino, Rita
Atria si uccide a Roma, dove vive in segreto, lanciandosi
dal settimo piano di un palazzo. Rita per molti
rappresenta un'eroina, per la sua capacità di rinunciare
a tutto, inanche agli affetti della madre (che la ripudiò
e che dopo la sua morte distrusse la lapide a
martellate), per inseguire un ideale di giustizia
attraverso un percorso di crescita interiore che la
porterà dal desiderio di vendetta al desiderio di una
vera giustizia.

Paola Aiello (cognata di Rita): “Rita era una ragazza


sensibile e coraggiosa che ha sacriicato la propria vita
con il gesto più estremo che l’essere umano possa fare
su se stesso: togliersi la vita”.

20
4. Emanuele BASILE

Emanuele Basile: “Seguendo il traico degli


stupefacenti e i patrimoni sospetti si arriva sempre alla
maia e ai suoi capi”.

Capitano dei Carabinieri, precedentemente al suo


assassinio, aveva condotto alcune indagini
sull'uccisione di Boris Giuliano, durante le quali aveva
scoperto l'esistenza di un traico internazionale di
stupefacenti in Sicilia. Tuttavia, apprestandosi a lasciare
Monreale, si era premurato di consegnare tutti i risultati
a cui era pervenuto a Paolo Borsellino. La sera del 4
maggio 1980 mentre con la iglia Barbara di quattro
anni e la moglie Silvana aspettando di assistere allo
spettacolo pirotecnico della festa del Santissimo
Croceisso a Monreale, un killer maioso gli sparò alle
spalle e poi fuggì in auto atteso da due complici. Basile
fu subito trasportato all'ospedale di Palermo dove i
medici tentarono di salvargli la vita con un delicato
intervento chirurgico ma purtroppo morì durante
l'operazione lasciando nel dolore la moglie e lo stesso
21
Paolo Borsellino che era corso in ospedale per stargli
vicino. Vincenzo Puccio, sospettato di essere il suo
assassino, fu catturato dai carabinieri subito dopo
l'omicidio ma fu assolto tre anni dopo, creando
sgomento e rabbia sia tra i magistrati sia tra i suoi
colleghi. Tre anni dopo la sua morte, il 13 giugno 1983,
morirà ucciso il capitano Mario D'Aleo che aveva preso
il posto di Basile come comandante della Compagnia
dei carabinieri di Monreale, sempre per mano di “cosa
nostra”. Insieme a D'Aleo e all'appuntato Giuseppe
Bommarito, trovò la morte in quell'agguato anche l'ex
autista di Basile, Pietro Morici.

Silvana Basile (moglie di Emanuele): “Era un


servitore della Stato e per lo Stato ha dato la sua vita”.

22
5. Paolo BORSELLINO

Paolo Borsellino: “Nella lotta alla maia, il primo


problema da risolvere nella nostra terra bellissima e
disgraziata, non deve essere soltanto una distaccata
opera di repressione, ma un movimento culturale e
morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani ge-
nerazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del
fresco profumo di libertà che fa riiutare il puzzo del
compromesso morale, dell'indiferenza, della contiguità
e quindi della complicità”.

Magistrato, assassinato dalla maia assieme a cinque


agenti della sua scorta nella strage di via d'Amelio. E’
considerato uno dei personaggi più esperti e incidenti
nella lotta alla maia in Italia, insieme al collega ed
amico fraterno Giovanni Falcone. Dopo la morte del
giudice Rocco Chinnici, giunse a Palermo da Firenze il
giudice Antonino Caponnetto nominato al suo posto.
Quest’ultimo decise di continuare l’opera del suo
predecessore e istituì presso l'Uicio istruzione un “pool
23
antimaia”, ossia un gruppo di giudici istruttori che si
sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo
maioso e, lavorando in gruppo, avrebbero avuto una
visione più chiara e completa del fenomeno maioso e,
di conseguenza, la possibilità di combatterlo più
eicacemente. Borsellino, più volte sottolineò che il
pool nacque per risolvere il problema dei giudici
istruttori che lavoravano separatamente, senza che
avvenisse scambio d’informazioni fra quelli che si
occupavano di materie contigue, cosa che avrebbe
potuto consentire una maggiore eicacia nell'esercizio
dell’azione penale il cui coordinamento avrebbe
permesso di fronteggiare meglio il fenomeno maioso
nella sua globalità. Le indagini del pool si basarono
soprattutto su accertamenti bancari e patrimoniali,
vecchi rapporti di polizia e carabinieri ma anche su
nuovi procedimenti penali, che consentirono di
raccogliere un abbondante materiale probatorio. Nello
stesso periodo Giovanni Falcone iniziò a raccogliere le
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso
Buscetta e Salvatore Contorno, la cui attendibilità fu
confermata dalle indagini del pool: il 29 settembre 1984
le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di
cattura mentre il mese successivo quelle di Contorno
altri 127 mandati di cattura, e arresti eseguiti tra
Palermo, Roma, Bari e Bologna. Nel 1987, mentre il
maxiprocesso di Palermo si avviava alla sua
conclusione, Antonino Caponnetto lasciò il pool per
motivi di salute e tutti (Borsellino compreso) si at-
tendevano che al suo posto fosse nominato Falcone, ma
il Consiglio Superiore della Magistratura non la vide alla
stessa maniera e il 19 gennaio 1988 nominò Antonino
Meli; sorse il timore che il pool stesse per essere sciolto.
Borsellino parlò allora in pubblico a più riprese,
raccontando quel che stava accadendo alla Procura
della Repubblica di Palermo. Dichiarò tra l'altro
24
espressamente che si sarebbe dovuto nominare Falcone
per garantire la continuità all'Uicio e che non facendo
in tal modo si sarebbe disfatto il pool antimaia. Denun-
ciò, inoltre, il fatto che a Falcone furono tolte le grandi
inchieste contro la maia e fu contemporaneamente
indebolita la squadra mobile. Per queste dichiarazioni
rischiò un provvedimento disciplinare (fu messo sotto
inchiesta). Il 31 luglio il C.S.M. (Consiglio superiore della
Magistratura) convocò Borsellino, il quale rinnovò
accuse e perplessità. Il 14 settembre Antonino Meli, in
conformità a una decisione fondata sulla mera anzianità
di ruolo in magistratura, fu nominato capo del pool.
Borsellino tornò a Marsala, dove riprese a lavorare
alacremente insieme a giovani magistrati, alcuni di
prima nomina. Iniziava in quei giorni il dibattito per la
costituzione di una Procura antimaia e su chi porvi a
capo, nel frattempo Falcone fu chiamato a Roma per
assumere la direzione degli afari penali del Ministero di
Grazia e Giustizia e da lì premeva per l'istituzione di
questa Procura. Nel settembre del 1991, “cosa nostra”
aveva già abbozzato progetti per l'uccisione di Borselli-
no. A rivelarlo furono il collaboratore di giustizia
Vincenzo Calcara, maioso di Castelvetrano cui il suo
capo Francesco Messina Denaro aveva detto di tenersi
pronto per l'esecuzione, che si sarebbe dovuta eseguire
mediante un fucile di precisione o con un'autobomba.
Calcara decise di diventare collaboratore di giustizia e
s’incontrò proprio con Borsellino, al quale, una volta
rivelatogli il piano e l'incarico, disse: "Lei deve sapere
che io ero ben felice di ammazzarla". Con Falcone a
Roma, Borsellino chiese il trasferimento alla Procura di
Palermo e nel marzo 1992 vi ritornò come procuratore
aggiunto, insieme al sostituto procuratore Antonio
Ingroia. Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a
Villagrazia di Carini con la moglie Agnese e i igli
Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla
25
sua scorta in via d'Amelio, dove viveva sua madre. Una
Fiat 126 imbottita di tritolo che era parcheggiata sotto
l'abitazione della madre detonò al passaggio del
giudice, uccidendo oltre a Borsellino anche i cinque
agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano,
Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
L'unico sopravvissuto fu l'agente Antonino Vullo,
scampato perché al momento della delagrazione stava
parcheggiando uno dei veicoli della scorta. Un mese
prima Borsellino aveva chiesto alla questura di Palermo
di porre un divieto di sosta per le autovetture nella
piazzetta antistante alla casa della madre. La richiesta
rimase inevasa. Il 24 luglio circa diecimila persone
parteciparono ai funerali privati di Borsellino (i familiari
riiutarono il rito di Stato; la moglie Agnese Borsellino
accusava il governo di non aver saputo proteggere il
marito, e volle una cerimonia privata senza la presenza
dei politici), celebrati nella chiesa di Santa Maria Luisa
di Marillac, disadorna e periferica, dove il giudice era
solito sentir messa, quando poteva, nelle domeniche di
festa. L'orazione funebre fu pronunciata da Antonino
Caponnetto, il vecchio giudice che diresse l'uicio di
Falcone e Borsellino. Una folla inferocita sfondò la
barriera creata dai quattromila agenti chiamati per
mantenere l'ordine, la gente mentre strattonava e
spingeva, gridava "Fuori la maia dallo Stato".

Agnese Borsellino (moglie di Paolo): “Mio marito mi


ha parlato di una trattativa Stato-maia conidandomi
che sarebbe stata la maia a ucciderlo quando altri
poteri più forti della maia stessa lo avrebbero
consentito”.

26
6. Antonino (Ninni) CASSARA’

Ninni Cassarà: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri


che camminano (a Paolo Borsellino dopo l’omicidio di
Beppe Montana) ”.

Commissario della Polizia di Stato, operò nella questura


di Reggio Calabria e poi a Trapani, dove ebbe modo di
conoscere Giovanni Falcone. Fu poi vice questore
aggiunto in forza presso la questura di Palermo e vice
dirigente della squadra mobile. Nel 1982 lavorava per le
strade di Palermo insieme all'agente Calogero
Zucchetto, nell'ambito delle indagini sui clan di Cosa
nostra. In una di queste occasioni Cassarà e Zucchetto
riconobbero i due killer latitanti Pino Greco e Mario Pre-
stiilippo, ma non riuscirono ad arrestarli perché questi
fuggirono. Tra le numerose operazioni cui prese parte,
molte delle quali insieme al commissario Giuseppe
Montana, la nota operazione "Pizza Connection", in
collaborazione con forze di polizia degli Stati Uniti.
Cassarà fu uno stretto collaboratore di Giovanni Falcone
27
e del cosiddetto "pool antimaia" della Procura di
Palermo e le sue indagini contribuirono all'istruzione del
primo maxiprocesso alle cosche maiose. Il 6 agosto
1985, rientrando dalla questura nella sua abitazione a
Palermo a bordo della sua auto e scortato da due
agenti, scese per raggiungere il portone della sua
abitazione quando un gruppo di nove uomini armati di
fucile, appostati sulle inestre e sui piani dell'ediicio in
costruzione di fronte alla sua palazzina, sparò
sull'autovettura. L'agente Roberto Antiochia, che era
uscito dall'auto per aprire lo sportello a Cassarà, fu
violentemente colpito dagli spari e cadde a terra
davanti al portone di ingresso dello stabile. Natale
Mondo, l'altro agente di scorta restò illeso riuscendosi a
riparare sotto l'automobile bersagliata dai colpi dei
killers. Cassarà, colpito quasi contemporaneamente ad
Antiochia, spirò sulle scale di casa tra le braccia della
moglie Laura, accorsa in lacrime dopo aver visto
l'accaduto insieme alla iglia dal balcone della propria
abitazione. Antonino Cassarà è seppellito nel Cimitero
di Sant'Orsola a Palermo. Dopo l'assassinio (o
contemporaneamente a esso) sparì in questura la sua
agenda, dove si presume fossero annotate importanti
informazioni. Il 17 febbraio 1995, la terza sezione della
Corte d'Assise di Palermo ha condannato all'ergastolo
cinque componenti della cupola maiosa (Totò Riina,
Bernardo Provenzano, Michele Greco, Bernardo Brusca e
Francesco Madonia) come mandanti del delitto.

Laura Cassarà (moglie di Ninni): “La morte di mio


marito fu decretata, così come per Falcone e Borsellino,
indipendentemente da alcuni episodi marginali e
speciici che avvennero in quello spazio di tempo molto
vicino alla data dell'omicidio. Se si esamina il contesto
28
nel quale avvenne, è assolutamente certo che ci sia
stato qualcuno da dentro la questura che abbia dato
informazioni precise sul suo rientro a casa. In quel
periodo, non aveva assolutamente orari iss i”.

29
7. Rocco CHINNICI

Rocco Chinnici: “Sono i giovani che dovranno


prendere domani in pugno le sorti della società, ed è
quindi giusto che abbiano le idee chiare. Parlate ai
giovani, alla gente, raccontate chi sono e come si
arricchiscono i maiosi. Senza una nuova coscienza, noi,
da soli, non ce la faremo mai”.

Magistrato, divenuto famoso per l'idea dell'istituzione


del "pool antimaia", che diede una svolta decisiva nella
lotta alla maia in Italia. Nel 1980, la maia uccise il
capitano dei Carabinieri Emanuele Basile e il
procuratore Gaetano Costa, amico di Chinnici, con cui
aveva condiviso indagini scottanti i cui esiti i due giudici
si scambiavano in tutta riservatezza dentro un
ascensore di servizio del palazzo di Giustizia. Dopo
questo omicidio, Chinnici ebbe l'idea di istituire una
struttura collaborativa fra i magistrati dell'Uicio (poi
nota come "pool antimaia"), conscio che l'isolamento
dei servitori dello Stato li esponesse all'annientamento
e che, in particolare per i giudici e i poliziotti, li ren-
30
desse vulnerabili poiché uccidendo chi indagava da
solo, si seppelliva con lui anche il contenuto delle sue
indagini. Entrarono a far parte della sua "squadra"
alcuni giovani magistrati fra i quali Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino. Altro avrebbe legato le tre igure
qualche anno dopo. L'Uicio Istruzione di Palermo
diretto e coordinato da Chinnici fu un centro pilota della
lotta antimaia e un esempio per le altre magistrature
d'Italia. I magistrati dell'Uicio Istruzione furono un
gruppo compatto, attivo e battagliero. Il primo grande
processo a “cosa nostra”, il cosiddetto maxiprocesso di
Palermo, fu proprio il risultato del lavoro istruttorio
svolto da Chinnici. In una delle sue ultime interviste,
disse che la cosa peggiore che potesse accadergli fosse
quella di essere ucciso ma che questo non gli impediva
afatto di continuare a lavorare alacremente. Fu ucciso il
29 luglio 1983 con un’autobomba imbottita di tritolo
davanti alla sua abitazione a Palermo. Ad attivare il
detonatore che provocò l'esplosione, fu Antonino
Madonia. Accanto al suo corpo giacevano altre tre
vittime raggiunte in pieno dall'esplosione: il maresciallo
Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta,
componenti della scorta del magistrato, e il portiere
dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi.
L'unico superstite fu Giovanni Paparcuri, l'autista. Ad
accorrere fra i primi furono due dei suoi igli, ancora
ragazzini.

Caterina Chinnici (iglia di Rocco): “Mio padre era


profondamente giudice, profondamente padre, era un
marito amorevole, un uomo cui è toccata in sorte una
vita straordinaria, o forse un destino, che lui ha scelto
di assecondare ino alle estreme conseguenze” .

31
8. Gaetano COSTA

Gaetano Costa: “Dopo anni quest’uicio ha la


possibilità di colpire il cuore del sistema maioso. Le
prove sono suicienti, irmiamo i mandati”.

Magistrato, esercitò le funzioni di procuratore capo di


Palermo all'inizio degli anni ottanta. Fu assassinato dalla
maia il 6 agosto 1980, mentre sfogliava dei libri su una
bancarella, sita in un marciapiede di via Cavour a
Palermo, a due passi da casa sua, freddato da tre colpi
di pistola sparatigli alle spalle da due killer in moto.
Causa di quella spietata esecuzione, il fatto che egli
avesse irmato personalmente dei mandati di cattura
nei confronti del boss Rosario Spatola e alcuni dei suoi
uomini che altri suoi colleghi si erano riiutati di irmare.
Il delitto fu ordinato dal clan maioso capeggiato da
Salvatore Inzerillo. Nonostante il carattere
apparentemente freddo e distaccato e la poca in-
clinazione ai rapporti sociali, gli fu sempre
unanimemente riconosciuta una grande umanità e
attenzione soprattutto nei confronti dei soggetti più
32
deboli. Sin dagli anni sessanta, come risulta dalla sua
deposizione alla prima Commissione Antimaia, intuì
che la maia aveva subito una radicale mutazione e che
si era annidata nei gangli vitali della pubblica
amministrazione controllandone gli appalti, le
assunzioni e la gestione del mondo del lavoro in genere.
Inutilmente, all'epoca, richiamò l'attenzione delle
massime autorità sul fatto che un'eicace lotta alla
maia imponeva la predisposizione di strumenti
legislativi che consentissero di indagare sui patrimoni
dei presunti maiosi e di colpirli. Nel gennaio del 1978 fu
nominato Procuratore capo di Palermo ma la reazione
del “Palazzo” fu, in larga misura, negativa, tanto da far
sì che si ritardasse la sua immissione in possesso sino al
luglio di quell'anno. Nel breve periodo di sua gestione
della Procura di Palermo avviò una serie di delicatissime
indagini nell'ambito delle quali, sia pure con i limitati
mezzi all'epoca a sua disposizione, tentò di penetrare i
santuari patrimoniali della maia. Di lui scrisse un suo
sostituto che era un uomo “di cui si poteva comprare
solo la morte”. Al funerale parteciparono poche persone
soprattutto pochissimi magistrati. Non va dimenticato
che, pur essendo l'unico magistrato a Palermo al quale,
in quel momento, erano state assegnate un'auto
blindata e una scorta, non ne usufruiva ritenendo che la
sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che lui
era uno di quelli che “aveva il dovere di avere co-
raggio”. Nessuno è stato condannato per la sua morte
ancorché la Corte di Assise di Catania ne abbia
accertato il contesto individuandolo nella zona grigia tra
afari, politica e crimine organizzato. Da molti settori,
compresa la magistratura, si è cercato di farlo
dimenticare anche, forse, per nascondere le colpe di
coloro che lo lasciarono solo e, come disse Sciascia, lo
additarono alla vendetta maiosa. Il suo impegno fu
continuato da Rocco Chinnici, allora tra i pochi che lo
33
capirono e ne condivisero gli intenti e l'azione, cui, per
questo, toccò la stessa sorte.

Michele Costa (iglio di Gaetano): “Mio padre non


interessa più a nessuno e prima si dimentica meglio è.
Certi comportamenti lo dimostrano. Non dimentichiamo
però che irmò da solo una quarantina di ordini di
cattura contro boss maiosi, isolato dai magistrati del
suo uficio che non vollero irmare quei provvedimenti e
lo lasciarono solo”.

34
9. Carlo Alberto DALLA CHIESA

Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Finché una tessera di


partito conterà più dello Stato, non riusciremo mai a
battere la maia”.

Generale dell’Arma dei Carabinieri, nel 1982 fu


nominato prefetto di Palermo. Il tentativo del Governo
dell’epoca fu di ottenere contro “cosa nostra” gli stessi
risultati brillanti ottenuti contro le brigate rosse. Dalla
Chiesa inizialmente si dimostrò perplesso su tale
nomina, ma fu convinto dal ministro dell’Interno Virginio
Rognoni, che gli promise poteri straordinari per
contrastare la guerra tra le cosche, che insanguinava
l'isola. A Palermo, dove arrivò uicialmente nel maggio
del 1982, lamentò più volte la mancanza di sostegno da
parte dello Stato (emblematica la sua amara frase: "Mi
mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi
poteri del prefetto di Forlì"). In un’intervista concessa a
Giorgio Bocca, il generale dichiarò ancora una volta la
mancanza di sostegno e di mezzi, necessari per la lotta
alla maia, che nei suoi piani doveva essere combattuta
35
strada per strada, rendendo palese alla criminalità la
massiccia presenza di forze dell'ordine. Nel luglio del
1982, Dalla Chiesa dispose che il cosiddetto "rapporto
dei 162" fosse trasmesso alla Procura di Palermo: tale
rapporto portava la irma di polizia e carabinieri e
ricostruiva l'organigramma delle famiglie maiose
palermitane attraverso scrupolose indagini e riscontri.
Per la prima volta, con una telefonata anonima fatta ai
carabinieri di Palermo a ine agosto, fu annunciato
(probabilmente per opera del boss Filippo Marchese)
l'attentato al Generale, dichiarando che, dopo gli ultimi
omicidi di maia, «l'operazione Carlo Alberto fosse
conclusa». Il 3 settembre 1982, la A112 bianca sulla
quale viaggiava il Prefetto, guidata dalla moglie
Emanuela Setti Carraro, fu aiancata in via Carini a Pa-
lermo da un’auto di grossa cilindrata, dalla quale
partirono alcune rafiche di Kalashnikov, che uccisero
sul colpo il Prefetto e la moglie. Nello stesso momento
l'auto con a bordo l'autista e agente di scorta,
Domenico Russo, che seguiva la vettura del Prefetto,
era aiancata da una motocicletta, dalla quale partì
un'altra raica, che uccise Russo. Per i tre omicidi
furono condannati all'ergastolo come mandanti i vertici
di “cosa nostra”. Nel 2002 sono stati condannati in
primo grado anche gli esecutori materiali dell'attentato.
Il giorno dei suoi funerali, che si tennero nella chiesa
palermitana di San Domenico, una grande folla protestò
contro le presenze politiche, accusandole di averlo la-
sciato solo. Vi furono attimi di tensione tra la folla e le
autorità, sottoposte a lanci di monetine e insulti al
limite dell'aggressione isica. Solo il Presidente della
Repubblica Sandro Pertini fu risparmiato dalla
contestazione. La iglia Rita pretese che fossero
immediatamente tolte di mezzo le corone di iori inviate
dalla Regione Siciliana (era presidente Mario
D'Acquisto) e volle che sul feretro del padre fossero de-
36
posti il tricolore, la sciabola e il berretto della sua divisa
da Generale con le relative insegne. Dell'omelia del
cardinale Pappalardo, fecero il giro dei telegiornali, le
seguenti parole (citazione di un passo di Tito Livio), che
furono liberatorie per la folla, mentre causarono
imbarazzo tra le autorità (il iglio Nando le deinì "una
frustata per tutti"): Mentre a Roma si pensa sul da fare,
la città di Sagunto viene espugnata dai nemici e questa
volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Pa-
lermo.

Simona Dalla Chiesa (Figlia di Carlo Alberto): “Mi


mancano la sicurezza che mi dava, il senso di giustizia
che si portava appresso. Il ruvido della sua divisa
quando l’abbracciavo, mi manca la sua telefonata
serale, mi mancano tante cose. Io ho avuto un padre,
non il generale Dalla Chiesa. Mi manca mio padre” .

37
10. Mauro DE MAURO

Mauro De Mauro: “La maia è un intreccio di criminali,


politica e massoneria dai risvolti impensabili e
pericolosissimi”.

Giornalista, trasferitosi Palermo con la famiglia dopo la


seconda guerra mondiale, lavorò presso giornali come
“Il Tempo”, “Il Mattino” e “L'Ora”, rivelandosi un ottimo
cronista. Nel 1962 aveva seguito la morte del
presidente dell'Eni Enrico Mattei e nel settembre del
1970 si stava nuovamente occupando del caso, in
seguito all'incarico ricevuto dal regista Francesco Rosi
per il suo ilm “Il caso Mattei”, che sarebbe poi uscito
nel 1972. De Mauro aveva pubblicato, sempre su L'Ora,
il 23 e il 24 gennaio 1962 il verbale di polizia, risalente
al 1937 e caduto nel dimenticatoio, in cui il medico
siciliano Melchiorre Allegra, tenente colonnello medico
del Regio Esercito durante la prima guerra mondiale,
ailiato alla maia nel 1916 e pentito maioso dal 1933,
elencava tutta la struttura del vertice maioso, gli

38
aderenti, le regole, l'ailiazione, l'organigramma della
società malavitosa. Tommaso Buscetta, davanti ai
giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quindici anni
dopo la morte del giornalista, ebbe ad afermare che De
Mauro era un cadavere che camminava. Cosa nostra
era stata costretta a perdonare il giornalista perché la
sua morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla
prima occasione utile avrebbe pagato anche per I suoi
scoop. La sentenza di morte era solo stata
temporaneamente sospesa. Le indagini sulla sparizione
del giornalista furono seguite sia dai carabinieri,
secondo i quali sarebbe stato eliminato da “cosa
nostra” in seguito ad indagini sul traico di
stupefacenti, sia dalla polizia, che ritenne piuttosto che
la sua sparizione fosse collegata alle sue ricerche sul
caso Mattei (l'aereo caduto era decollato da Catania il
27 ottobre 1962), anche in seguito, il giorno stesso del
suo rapimento, alla sparizione dal cassetto del suo
uicio di alcune pagine di appunti e di un nastro
registrato con l'ultimo discorso tenuto da Mattei a
Gagliano Castelferrato. Principale investigatore per
l'Arma fu Carlo Alberto dalla Chiesa, per la polizia Boris
Giuliano; anni dopo entrambi caddero, in circostanze
diverse, per mano della maia. Il 4 giugno 2015 la
Cassazione ha confermato l'assoluzione di Totó Riina,
unico imputato del delitto, "per non aver commesso il
fatto".

Franca De Mauro (iglia di Mauro): “Per fortuna


dopo tutto questo tempo tanta gente a Palermo ricorda
ancora mio padre e questo per me è il ceppo più bello
perché signiica che il suo lavoro non è stato vano”.

39
11. Giuseppe DI MATTEO

Figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo,


ex-maioso, divenne vittima di una vendetta trasversale
nel tentativo di far tacere il padre. La sua morte ha
avuto grande risalto su tutti i media dell'epoca perché il
cadavere del ragazzo non fu mai trovato, essendo stato
disciolto in una vasca di acido. Fu rapito il 23 novembre
1993, quando aveva quasi tredici anni, al maneggio di
Altofonte da un gruppo di maiosi che agivano per conto
di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San
Giuseppe Jato. Secondo le deposizioni di Gaspare
Spatuzza, che prese parte al rapimento, i sequestratori
si travestirono da poliziotti ingannando agevolmente il
bambino, che credeva di poter rivedere il padre in quel
periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia. Dice
Spatuzza: “Agli occhi del bambino siamo apparsi degli
angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. Lui era felice,
diceva: papà mio, amore mio”. Il piccolo fu legato e
lasciato nel cassone di un furgoncino, prima di essere
consegnato ai suoi carcerieri. La famiglia cercò presso
tutti gli ospedali cittadini notizie del iglio, ma quando, il
1º dicembre 1993, un messaggio su un biglietto giunse
alla famiglia con scritto “Tappaci la bocca” e due foto
40
del bambino che teneva in mano un quotidiano del 29
novembre 1993, fu subito chiaro che il rapimento era
inalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le
sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sulla uccisione di
Ignazio Salvo. Il 14 dicembre 1993 Francesca
Castellese, moglie di Di Matteo, denunciò la scomparsa
del iglio. Nella serata fu recapitato un nuovo messaggio
a casa del suocero (Giuseppe Di Matteo, padre di
Santino) con scritto “Il bambino lo abbiamo noi e tuo
iglio non deve fare tragedie”. Dopo un iniziale
cedimento psicologico, Santino Di Matteo sebbene fosse
angosciato dalle sorti del iglio non si piegò al ricatto, e
dopo un tentativo andato a vuoto di cercarlo, decise di
proseguire la collaborazione con la giustizia. Brusca
ordinò così l'uccisione del ragazzo, ormai fortemente
dimagrito e indebolito per la prolungata e dura
prigionia, che fu strangolato e poi sciolto nell'acido l'11
gennaio 1996, all'età di quindici anni, dopo venticinque
mesi di prigionia. Per il sequestro e l'omicidio del
piccolo Giuseppe, oltre che Giovanni Brusca, sono stati
condannati all'ergastolo circa cento maiosi.

Francesca Di Matteo (madre di Giuseppe): “Mio


iglio era un bambino solare, con tanta voglia di vivere.
Amava i cavalli, ed era un campione nel salto ad
ostacoli. Il suo ricordo resterà sempre vivo in me. Sono
arrabbiata, non sono rassegnata. Una mamma non si
può rassegnare”.

41
12. Don Giuseppe DIANA

Don Giuseppe Diana: “La Camorra rappresenta uno


Stato deviante parallelo rispetto a quello uiciale, privo
però di burocrazia e d'intermediari che sono la piaga
dello Stato legale. L'ineicienza delle politiche
occupazionali, della sanità e di altri settori creano sidu-
cia negli abitanti dei nostri paesi. Forse le nostre
comunità avranno bisogno di nuovi modelli di
comportamento: certamente di realtà, di testimonianze,
di esempi, per essere credibili”.

Sacerdote, assassinato il 19 marzo 1994, giorno del suo


onomastico, nella sacrestia della chiesa di San Nicola di
Bari a Casal di Principe, mentre si accingeva a celebrare
la santa messa. Un camorrista lo affronta con una
pistola e chiede: “chi è don Peppe Diana? E lui rispose:
sono io”. I cinque proiettili esplosi contro di lui vanno
tutti a segno: due alla testa, uno al volto, uno alla mano
e uno al collo. Don Peppe muore all'istante. L'omicidio,
di puro stampo camorristico, fa scalpore in tutta Italia.
Un messaggio di cordoglio è pronunciato da papa Gio-
42
vanni Paolo II durante l'Angelus del 20 marzo 1994. Don
Peppino Diana cerca di aiutare la gente nei momenti
resi diicili dalla camorra, negli anni del dominio
assoluto dei Casalesi, legata principalmente al boss
Francesco Schiavone, detto Sandokan. Gli uomini del
clan controllavano non solo i traici illeciti, ma si erano
anche iniltrati negli enti locali e gestivano fette
rilevanti di economia legale, tanto da diventare
"camorra imprenditrice". Lo scritto più noto di don
Peppe Diana è la lettera “Per amore del mio popolo”, un
documento difuso a Natale del 1991 in tutte le chiese
di Casal di Principe e della zona aversana insieme ai
parroci della foranìa di Casal di Principe, un manifesto
dell'impegno contro il sistema criminale: “Assistiamo
impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro
igli inire miseramente vittime o mandanti delle
organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo,
come pastori della Forania di Casal di Principe ci
sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di
essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come
chiesa “dobbiamo educare con la parola e la
testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo
che è la povertà, come distacco dalla ricerca del
superluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto
privilegio, come servizio sino al dono di sé, come
esperienza generosamente vissuta di solidarietà. La
Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute
paura, impone le sue leggi e tenta di diventare
componente endemica nella società campana. I
camorristi impongono con la violenza, armi in pugno,
regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre
zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite
senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti
al venti per cento e oltre sui lavori edili, che
scoraggerebbero l'imprenditore più temerario; traici
illeciti per l'acquisto e lo spaccio delle sostanze
43
stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani
emarginati, e manovalanza a disposizione delle
organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che
si abbattono come veri lagelli devastatori sulle famiglie
delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia
adolescenziale della popolazione, veri e propri
laboratori di violenza e del crimine organizzato. È
oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili
ha consentito l'iniltrazione del potere camorristico a
tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere
dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è
caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.
La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo
rispetto a quello uiciale, privo però di burocrazia e
d'intermediari che sono la piaga dello Stato legale.
L'ineicienza delle politiche occupazionali, della sanità,
non può che creare siducia negli abitanti dei nostri
paesi; un preoccupato senso di rischio che si va
facendo più forte ogni giorno che passa, l'inadeguata
tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini;
le carenze anche della nostra azione pastorale ci
devono convincere che l'Azione di tutta la Chiesa deve
farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle
parrocchie di riscoprire quegli spazi per una
“ministerialità” di liberazione, di promozione umana e
di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di
nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà,
di testimonianze, di esempi, per essere credibili”. Le
sue non erano prediche generiche o esortazioni buone
per ogni cerimonia, ma ragionamenti ricchi di esempi,
di nomi e di cognomi, di denunce etiche e politiche. Non
aveva nulla a che spartire con quella parte della Chiesa
che benediceva le feste della camorra, frequentava
corrotti e collusi, arrivando persino a negare l’esistenza
stessa delle maie. Don Peppe era della stessa pasta di
Don Pino Puglisi o dell’arcivescovo Romero, ammazzato
44
sull’altare perché aveva scelto di stare dalla parte degli
ultimi, di chi contrastava emarginazione e sfruttamento.
Don Diana fu ammazzato perché non si era arreso al
tramonto dello Stato di diritto e voleva educare i
giovani alla legalità e al riiuto della connivenza e della
convivenza con la camorra e il suo sistema di potere,
quello invisibile e quello visibile, rappresentato dai suoi
delegati nelle istituzioni, negli afari, nelle professioni.
Questa sua “pretesa”, quest’azione civica quotidiana,
quest’uso della parola gli sono costate la vita.

Iolanda Diana (madre di don Peppe): “Come igli vi


chiamo ancora tutti a raccolta per tornare a far sentire
forte la vostra presenza in questo nostro paese, che da
luogo di camorra sta diventando anche simbolo di
riscatto e speranza. Continuate ad impegnarvi in suo
nome per un mondo migliore”.

45
13. Giovanni FALCONE

Giovanni Falcone: “In Sicilia la maia colpisce i


servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a
proteggere”.

Magistrato, assassinato con la moglie Francesca


Morvillo e tre uomini della scorta nella strage di Capaci.
Assieme al collega e amico Paolo Borsellino è
considerato una delle personalità più importanti e
prestigiose nella lotta alla maia in Italia e all’estero.
Dopo l'omicidio del giudice Cesare Terranova, nel
settembre del 1979, nonostante le preoccupazioni
familiari, accettò l'oferta che da tanto tempo Rocco
Chinnici gli proponeva e passò così all'Uicio istruzione
penale, che in breve tempo divenne un esempio
innovativo di organizzazione giudiziaria. Chinnici
chiamò al suo ianco anche Paolo Borsellino, che di-
venne collega di Falcone nello sbrigare il lavoro ar-
retrato di oltre cinquecento processi. Nel maggio del
1980 Chinnici afidò a Falcone la sua prima inchiesta
contro Rosario Spatola, un costruttore edile pa-

46
lermitano, incensurato e molto rispettato perché la sua
impresa aveva dato lavoro a centinaia di operai.
Doveva la sua fortuna al riciclaggio di denaro frutto del
traico di eroina dei clan italo-americani. Alle prese con
questo caso, Falcone comprese che per indagare con
successo le associazioni maiose era necessario basarsi
anche su indagini patrimoniali e bancarie, ricostruendo
il percorso del denaro che accompagnava i traici e
avendo così un quadro complessivo del fenomeno. Notò
che gli stupefacenti erano venduti negli Stati Uniti così
chiese a tutti i direttori delle banche di Palermo e
provincia di mandargli le distinte di cambio valuta
estera dal 1975 in poi. Alcuni telefonarono
personalmente a Falcone per capire che intenzione
avesse e lui rimase fermo sulle sue richieste. Grazie a
un attento controllo di tutte le carte richieste, una volta
superate le reticenze delle banche, e "seguendo i soldi"
cominciò a vedere il quadro di una gigantesca
organizzazione criminale: i conini di cosa nostra. Risalì
così al rapporto fra gli amici di Spatola e la famiglia
Gambino, rivelando i collegamenti fra maia americana
e siciliana. In quel periodo fu ucciso il procuratore capo
di Palermo Gaetano Costa e subito dopo assegnarono la
scorta a Falcone. Grazie a un assegno dell'importo di
centomila dollari incassato in una banca di Palermo,
Falcone trovò la prova che Michele Sindona si trovava in
Sicilia smascherando quindi il into sequestro
organizzato a suo favore dalla maia siculo-americana
alla vigilia del suo giudizio. Nei primi giorni del mese di
dicembre 1980 Giovanni Falcone si recò per la prima
volta a New York per discutere di maia e stringere una
collaborazione con Victor Rocco, investigatore noto per
la sua esperienza nella lotta alla maia. Entrando negli
ufici di Rudolph Giuliani rimase stupito dall'eicienza e
dai loro strumenti, fra i quali c'era per esempio il
computer e le banche dati. Falcone seppe instaurare
47
subito un rapporto di iducia con Giuliani e con i suoi
collaboratori, oltre che con gli agenti della Dea e
dell'Fbi. Grazie a questa collaborazione riuscirono a
sgominare il traico di eroina nelle pizzerie,
l’operazione passo alla storia con il nome di “pizza con-
nection”. Anche la stampa americana seguiva con
attenzione questa sinergia e presentava la igura di
Falcone con stima e grandissimo favore. Furono anni
tumultuosi che videro la prepotente ascesa dei
Corleonesi, i quali imposero il proprio feudo criminale
insanguinando le strade a colpi di omicidi. Indicativi i
titoli del quotidiano palermitano L'Ora, che arriverà a
titolare le sue prime pagine enumerando le vittime della
drammatica guerra di maia. Tra queste vittime anche
svariati e valorosi servitori dello Stato come Pio La
Torre, principale arteice della legge Rognoni-La Torre
(che introdusse nel codice penale il reato di
associazione maiosa), e il generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa. Il 6 giugno 1983 Rosario Spatola fu condannato,
insieme con settantacinque esponenti della cosca
Spatola-Gambino-Inzerillo, a dieci anni di reclusione ma
sarebbe stato arrestato a New York dall'Fbi, in
collaborazione con la polizia italiana, solo nel 1999. In
precedenza per indagare su Spatola avevano già perso
la vita, il capo della squadra mobile Boris Giuliano e il
capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Il processo
Spatola fu quindi molto delicato, ma rappresentò anche
un grande successo per Falcone perché venne così
universalmente riconosciuto il "metodo Falcone".
Questo e tanti altri successi investigativi e giudiziari, lo
esposero in maniera mortale alla vendetta della maia,
così dopo aver fatto esplodere in aria un tratto di
autostrada e ucciso gli uomini della sua scorta (Vito
Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro), Giovanni
Falcone morì dopo alcuni disperati tentativi di

48
rianimazione, a causa della gravità delle lesioni interne.
Francesca Morvillo morirà poco dopo.

Maria Falcone (sorella di Giovanni): “Mio fratello


era un uomo con un profondissimo senso del dovere e
ha scelto con grande coraggio e altrettanta
consapevolezza di proseguire ino in fondo nella lotta al-
l’illegalità, rinunciando alla propria vita per un’idea di
bene comune”.

49
14. Giuseppe (Pippo) FAVA

Giuseppe Fava: “Ho un concetto etico del giornalismo.


Ritengo che in una società democratica e libera quale
dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo
rappresenti la forza essenziale della società. Un
giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni,
frena la violenza la criminalità, accelera le opere
pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei
servizi sociali. Tiene continuamente allerta le forze
dell'ordine, sollecita la costante attenzione della
giustizia, impone ai politici il buon governo”.

Giornalista, fu un personaggio carismatico, apprezzato


dai propri collaboratori per la professionalità e il modo
di vivere umile e semplice. È stato direttore
responsabile del “Giornale del Sud” e fondatore de “I
Siciliani”, secondo giornale antimaia in Sicilia. È stato
ucciso nel gennaio 1984 e per quel terribile delitto sono
stati condannati alcuni membri del clan Santapaola. È
stato il secondo intellettuale ad essere assassinato dalla
maia dopo Peppino Impastato (9 maggio 1978). Era il
50
padre del giornalista e politico Claudio Fava e di Elena
Fava (1950-2015), presidente della Fondazione
Giuseppe Fava. Nella primavera del 1980 gli fu aidata
la direzione del Giornale del Sud. Inizialmente accolto
con scetticismo, Fava creò una redazione, aidandosi a
giovani cronisti improvvisati. Fece in brevissimo tempo
del Giornale del Sud un quotidiano innovativo e
coraggioso. L'11 ottobre 1981 pubblicò un articolo in cui
chiariva le linee guida che faceva seguire alla sua
redazione: “basarsi sulla verità per realizzare giustizia e
difendere la libertà”. Fu in quel periodo che furono
denunciate le attività di “cosa nostra”, attiva nel
capoluogo etneo soprattutto nel traico della droga. Per
un anno il Giornale del Sud continuò senza soste il suo
lavoro. Il tramonto della gestione Fava fu segnato da tre
avvenimenti: la sua avversione all'installazione di una
base missilistica a Comiso (poi efettivamente
realizzata), la sua presa di posizione a favore
dell'arresto del boss Alio Ferlito e l'arrivo di una nuova
cordata d’imprenditori al giornale. Fu organizzato
persino un attentato, cui scampò, con una bomba
contenente un chilo di tritolo. In seguito, la prima
pagina del Giornale del Sud che denunciava alcune
attività di Ferlito fu sequestrata prima della stampa e
censurata, mentre il direttore era fuori. Di lì a poco fu
licenziato. I giovani giornalisti occuparono la redazione,
ma a nulla valsero le loro proteste. Per una settimana
rimasero chiusi nella sede, ricevendo pochi attestati di
solidarietà. Dopo un intervento del sindacato,
l'occupazione cessò. Poco tempo dopo, il Giornale del
Sud chiuse i battenti per volontà degli editori. Rimasto
senza lavoro, Fava si rimboccò le maniche e con i suoi
collaboratori fondò una cooperativa per inanziare un
nuovo progetto editoriale. In pratica senza mezzi
operativi (solo due rotative Roland di seconda mano
acquistate grazie alle cambiali) ma con molte idee, il
51
gruppo riesce a pubblicare il primo numero della rivista
nel novembre 1982. La nuova rivista, con cadenza
mensile, si chiamò “I Siciliani”. Diventò subito una delle
esperienze decisive per il movimento antimaia. Le
inchieste pubblicate nella rivista diventarono un caso
politico e giornalistico innanzitutto per le continue
denunce sulla presenza della maia in Sicilia.
Probabilmente l'articolo più importante fu il primo
irmato Pippo Fava, intitolato “I quattro cavalieri
dell'apocalisse maiosa”. Si tratta di un'inchiesta-
denuncia sulle attività illecite di quattro imprenditori
catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario
Rendo e Francesco Finocchiaro e di altri personaggi
come Michele Sindona. Senza giri di parole, Fava
collega i cavalieri del lavoro con il clan del boss Nitto
Santapaola. Nell'anno successivo, Rendo, Salvo Andò e
Graci cercarono di comprare il giornale per poterlo
controllare, ottenendo solo riiuti. I Siciliani continuò a
essere una testata indipendente. Seguitò a mostrare le
foto di Santapaola con politici, imprenditori e uomini di
spicco delle forze dell'ordine. Immagini conosciute dalle
forze di polizia ma non usate contro i collusi. Il 5
gennaio 1984 Giuseppe Fava si trovava in via dello
Stadio e stava andando a prendere la nipote che
recitava al teatro Verga. Aveva appena lasciato la
redazione del suo giornale. Non ebbe il tempo di
scendere dalla sua auto che fu raggiunto da cinque
proiettili alla nuca. Inizialmente, l'omicidio fu etichettato
come delitto passionale, sia dalla stampa, sia dalla
polizia. Si disse che la pistola utilizzata non fosse tra
quelle solitamente impiegate nei delitti di stampo
maioso. S’iniziò anche a cercare tra le carte de I
Siciliani, in cerca di prove: un'altra ipotesi era il
movente economico, per le diicoltà in cui versava la
rivista. Il funerale si tenne nella piccola chiesa di Santa
Maria della Guardia in Ognina e poche persone diedero
52
l'ultimo saluto al giornalista: furono soprattutto giovani
e operai ad accompagnare la bara. Fava spesso
scriveva dei funerali di Stato organizzati per altre
vittime della maia, cui erano presenti ministri e alte
cariche pubbliche: il suo, invece, fu disertato da molti,
gli unici presenti erano il questore, alcuni membri del
PCI e il presidente della regione Santi Nicita. Per
l'omicidio Fava sono stati condannati all'ergastolo il
boss Nitto Santapaola come mandante, Marcello
D'Agata e Francesco Giammuso come organizzatori,
Aldo Ercolano e Maurizio Avola come esecutori
materiali.

Elena Fava (iglia di Pippo): “L’allegria di mio padre.


La sua voglia di vivere intensissima, la sua capacità di
fare lo sport. Lui amava talmente lo sport che sia con
me, sia con mio fratello, quando eravamo piccoli,
faceva i conti di quanti allenamenti avremmo dovuto
fare per arrivare alle Olimpiadi. Mi piace ricordare il
sorriso che aveva quando usciva sul palcoscenico,
insieme agli attori a ringraziare il pubblico: era il sorriso
di un fanciullo”.

53
15. Lea GAROFALO

Lea Garofalo: “Devo avere il coraggio di farlo, di


denunciare, lo devo a me e alla mia famiglia”.

Testimone di giustizia, decise di deporre sulle faide


interne tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno
Carlo Cosco. L'azione di repressione del clan Garofalo si
concretizza il 7 maggio 1996, quando i carabinieri di
Milano svolgono un blitz in via Montello 6 e arrestano
anche Floriano Garofalo, fratello di Lea, boss di Petilia
Policastro dedito al controllo dell'attività malavitosa nel
centro lombardo. Floriano Garofalo, nove anni dopo
l'arresto e dopo l'assoluzione al processo, è assassinato
in un agguato il 7 giugno 2005. In particolare, Lea,
interrogata dal pubblico ministero antimaia Salvatore
Dolce, riferì dell'attività di spaccio di stupefacenti
condotta dai fratelli Cosco grazie al benestare del boss
Tommaso Ceraudo. Lea dichiara al pubblico ministero:
“L'ha ucciso Giuseppe Cosco, mio cognato, nel cortile
nostro”, attribuendo così la colpa dell'omicidio al
cognato, Giuseppe e all'ex convivente, Carlo Cosco,
fornendo anche il movente. Ammessa già nel 2002 nel
54
programma di protezione insieme alla iglia Denise e
trasferita a Campobasso, si vede estromessa dal
programma nel 2006 perché l'apporto dato non era
stato signiicativo. La donna si rivolge allora prima al
TAR, che le dà torto, e poi al Consiglio di Stato, che le
dà ragione. Nel dicembre del 2007 è riammessa al
programma, ma nell'aprile del 2009 – pochi mesi prima
della sua scomparsa – decide all'improvviso di
rinunciare volontariamente a ogni tutela e di riallacciare
i rapporti con Petilia Policastro rimanendo però a vivere
a Campobasso per permettere alla iglia di terminare
l'anno scolastico. La nuova abitazione la trova insieme
all'ex compagno Carlo Cosco. Il 20 novembre del 2009
Cosco attirò l'ex compagna a Milano, anche con la scusa
di parlare del futuro della loro iglia Denise. La sera del
24 novembre, approittando di un momento in cui Lea
rimase da sola senza Denise, Carlo la condusse in un
appartamento che si era fatto prestare proprio per
quello scopo. Ad attenderli in casa c'era Vito Cosco
detto "Sergio". In quel luogo Lea fu uccisa. A portar via
il cadavere da quell'appartamento furono poi Carmine
Venturino, Rosario Curcio e Massimo Sabatino. Il corpo
di Lea fu, infatti, portato a San Fruttuoso, un quartiere
di Monza, dove fu poi dato alle iamme per tre giorni
ino alla completa distruzione (solo dopo la condanna di
primo grado, Carmine Venturino iniziò a fare
dichiarazioni che nel processo d'Appello portarono a
rinvenire più di 2000 frammenti ossei e la collana di Lea
Garofalo). Il 28 maggio 2013 la Corte d'assise d'appello
di Milano confermò quattro dei sei ergastoli inlitti in
primo grado. Confermò, inoltre, l'ergastolo per Carlo e
Vito Cosco, Rosario Curcio e Massimo Sabatino;
venticinque anni di reclusione per Carmine Venturino e
assoluzione per non aver commesso il fatto per
Giuseppe Cosco. Le condanne di secondo grado sono

55
state tutte confermate dalla Cassazione che le ha rese
così deinitive.

Marisa Garofalo (sorella di Lea): “Quello che rimane


impresso, non solo a me ma a tutti quelli che la
conoscevano, è la sua risata coinvolgente. Era sempre
solare. L'ho vista perino ballare. Quando era a Pa-
gliarelle non usciva neanche di casa”.

56
16 . Boris GIULIANO

Boris Giuliano: “Mi chiamano “lo scerifo” non so per


qual motivo ma di certo i miei metodi investigativi non
piacciono ai maiosi”.

Capo della squadra mobile di Palermo, diresse le


indagini con metodi innovativi e determinazione,
facendo parte di un gruppo di funzionari dello Stato che,
a partire dalla ine degli anni settanta, iniziarono una
dura lotta contro “cosa nostra”. Durante gli anni
sessanta, molti processi erano falliti per mancanza di
prove ma con i suoi metodi investigativi Boris Giuliano
riuscì a colpire più volte e duramente la maia siciliana.
Nel 1962 vinse il concorso come uiciale di Polizia e al
termine del corso di formazione chiese di essere
assegnato a Palermo, dove poco tempo dopo entrò alla
locale squadra mobile in cui lavorò sino all'ultimo
giorno, alla sezione omicidi. Conseguì una specializza-
zione presso la FBI National Academy, ebbe meriti
speciali e ottenne numerosi riconoscimenti per le sue
attività operative ed investigative. Si occupò
57
dell'omicidio di Mauro De Mauro, di traico di
internazionale di stupefacenti, di indagini patrimoniali
ed ebbe anche contatti di tipo investigativo con Giorgio
Ambrosoli. Il 21 luglio 1979, mentre pagava il cafè in
una cafetteria di via Di Blasi, a Palermo, Leoluca
Bagarella gli sparò a distanza ravvicinata sette colpi di
pistola alle spalle, uccidendolo. La sua morte è stata
associata all'assassinio del capitano dei carabinieri
Emanuele Basile, ucciso a Monreale pochi mesi dopo,
che stava svolgendo indagini in ordine all'attentato di
cui era stato vittima Giuliano. Secondo molti esperti di
lotta alla maia, con Giuliano si spense un grande
talento investigativo, un onesto funzionario di polizia
che nel suo ruolo fu una grande personalità delle
istituzioni, il cui ricordo, come accade anche per altri
suoi colleghi di analogo destino, non è stato
adeguatamente onorato, ed anzi particolarmente
lasciato all'oblio. Nel 1995, nel processo per l'omicidio
Giuliano, vennero condannati all'ergastolo i boss maiosi
Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco,
Francesco Madonia, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca,
Nenè Geraci e Francesco Spadaro come mandanti del
delitto mentre Leoluca Bagarella venne condannato alla
stessa pena come esecutore materiale dell'omicidio.

Alessandro Giuliano (iglio di Boris): “Era un padre


non autoritario, disponibile e sempre pronto al dialogo”.

58
17. Libero GRASSI

Libero Grassi: “Non mi piace pagare il pizzo perché è


una rinunzia alla mia dignità di imprenditore e non mi
piace dividere i frutti del mio lavoro con i maiosi”.

Imprenditore, ucciso da “cosa nostra” dopo aver


intrapreso un'azione solitaria contro una richiesta di
pizzo senza ricevere alcun appoggio da parte delle
associazioni di categoria. Dopo aver avuto alcuni pro-
blemi con la fabbrica di famiglia, fu preso di mira da
“cosa nostra”, che pretendeva il pagamento del pizzo.
Libero Grassi ebbe il coraggio di opporsi alle richieste
estorsive della maia, e di uscire allo scoperto de-
nunciando gli estorsori. I suoi dipendenti lo aiutarono
facendo scoprire degli emissari, ma la situazione
peggiorò. La condanna a morte di Grassi arrivò con la
pubblicazione sul Giornale di Sicilia di una lettera sul
suo riiuto a cedere ai ricatti della maia. La sua lotta
proseguì in televisione, intervistato su Rai 3, e anche
dalla giornalista tedesca Katharina Burgi (NZZ Folio)
59
colpita dal suo comportamento positivo volto a
denunciare i maiosi. Libero Grassi fu lasciato solo nella
sua lotta contro la maia, senza alcun appoggio da parte
dei suoi colleghi imprenditori, fu, infatti, assassinato il
29 agosto 1991. Il 26 settembre successivo Michele
Santoro e Maurizio Costanzo gli dedicarono una serata
televisiva a reti uniicate. Dopo la sua scomparsa,
l'esempio dato di coraggio e onestà è servito a tanti per
contrastare il racket gestito dalle organizzazioni
criminali. Sono nati fondazioni, movimenti, sono state
fatte leggi contro il racket e istituiti fondi per le vittime.

Alice Grassi (iglia di Libero): “Mio padre era una


persona molto giusta, di sani principi e sempre
amorevole con noi”.

60
18. Giuseppe (Peppino) IMPASTATO

Peppino Impastato: “Se s’insegnasse la bellezza alla


gente, la si fornirebbe di un’arma contro la
rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di
orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro
squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con
pronta facilità, si mettono le tendine alle inestre, le
piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come
erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto
che è così, pare dover essere così da sempre e per
sempre. È per questo che bisognerebbe educare la
gente alla bellezza: perché in uomini e donne non
s’insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma
rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.

Giornalista, attivista e poeta, noto per le sue denunce


contro le attività di cosa nostra a seguito delle quali fu
assassinato, vittima di un attentato il 9 maggio 1978.
Nato in una famiglia maiosa (il padre Luigi era stato
inviato al conino durante il periodo fascista, lo zio e
61
altri parenti erano maiosi e il cognato del padre era il
capomaia Cesare Manzella, ucciso nel 1963 in un
agguato), ancora ragazzo litigò con il padre, che lo
cacciò da casa, e avviò un'attività politico-culturale anti-
maiosa. Nel 1965 fondò il giornalino “L'idea socialista”
e aderì al PSIUP. Dal 1968 in poi, partecipò, con ruolo di
dirigente, alle attività dei gruppi comunisti. Condusse le
lotte dei contadini espropriati per la costruzione della
terza pista dell'aeroporto di Palermo in territorio di
Cinisi, degli edili e dei disoccupati. Fondò Radio Aut
gestita in regime di autoinanziamento potendo così
liberamente utilizzare questo mezzo per denunciare i
potenti maiosi del paese in cui viveva ed in quello
di Terrasini, con coraggio e determinazione, che lo
portarono a non essere ben visto dalla popolazione.
Questo ino al giorno in cui fu preso ed assassinato
soltanto per aver sbefeggiato colui che non si doveva
"toccare". La trasmissione andava in onda ogni venerdì
sera ed assieme ad altri suoi tre colleghi metteva in
atto "Onda Pazza a Maiopoli" riuscendo a farsi
ascoltare dalla cittadinanza dei due paesi e inondando
di satira "politica" tutti quei personaggi che conosceva
personalmente senza risparmiare nessuno speculatore
e contando sul fatto che aveva sempre notizie
freschissime e riservate pronte per essere messe in
onda alla sua maniera. La radio cessò le trasmissioni
qualche mese dopo l'uccisione dello stesso Peppino. Nel
1978 si candidò nella lista di Democrazia Proletaria alle
elezioni comunali, ma non fece in tempo a sapere l'esito
delle votazioni perché fu assassinato nel corso della
campagna elettorale. Col suo cadavere fu inscenato un
attentato, atto a distruggerne anche l'immagine, in cui
la stessa vittima apparisse come suicida, ponendo una
carica di tritolo sotto il suo corpo adagiato sui binari
della ferrovia. Pochi giorni dopo, gli elettori di Cinisi
votarono ancora il suo nome, riuscendo a eleggerlo,
62
simbolicamente, al Consiglio comunale. L'uccisione,
avvenuta in piena notte, riuscì a passare, la mattina
seguente, quasi inosservata, poiché proprio in quelle
ore era ritrovato il corpo senza vita del presidente della
DC Aldo Moro a Roma. Nel 1998 presso la Commissione
parlamentare antimaia si è costituito un Comitato sul
caso Impastato e il 6 Dicembre 2000 è stata approvata
una relazione sulle responsabilità di rappresentanti
delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Il 5 marzo
2001 la Corte d'assise ha riconosciuto Vito Palazzolo
colpevole e lo ha condannato a trent’anni di reclusione.
L'11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è stato
condannato all'ergastolo.

Felicia Impastato (madre di Peppino): “Peppino mio


era un buono, spesso lo guardavo e gli dicevo: Figlio,
chi sa come ti inisce. Giuseppe, iglio mio, io mi
spavento, ho paura per te”.

63
19. Pio LA TORRE

Pio La Torre: “So che per voi la maia sembra un’onda


inarrestabile, ma la maia si può fermare e insieme la
fermeremo”.

Politico, consigliere comunale di Palermo, entrò nel


Comitato centrale del PCI, e fu eletto segretario
regionale, succedendo a Emanuele Macaluso. Nel 1963
fu eletto per il PCI deputato all'Assemblea regionale
siciliana e rieletto nel 1967, ino al 1971. Nel 1969 si
trasferì a Roma per dirigere prima la direzione della
Commissione agraria e poi di quella meridionale.
Messosi in luce per le sue doti politiche, Enrico
Berlinguer lo fece entrare nella Segreteria nazionale di
Botteghe Oscure. Nel 1972 fu eletto deputato alla
Camera nel collegio Sicilia occidentale, e subito in
Parlamento si occupò di agricoltura. Propose una legge
che introduceva il reato di associazione maiosa (c.d.
Legge Rognoni-La Torre) e una norma che prevedeva la
conisca dei beni ai maiosi. Rieletto alla Camera nel
1976 e nel 1979, fu componente della Commissione

64
Parlamentare Antimaia ino alla conclusione dei suoi
lavori nel 1976. Nello stesso anno fu tra i redattori della
relazione di minoranza della Commissione antimaia,
che accusava duramente Giovanni Gioia, Vito
Ciancimino, Salvo Lima ed altri uomini politici di avere
rapporti con la maia. Nel 1981 decise di tornare in
Sicilia per riassumere la carica di segretario regionale
del partito. Svolse la sua maggiore battaglia contro la
costruzione della base missilistica Nato a Comiso che,
secondo lui, rappresentava una minaccia per la pace
nel Mar Mediterraneo e per la stessa Sicilia; per questo
raccolse un milione di irme in calce ad una petizione al
Governo. Ma le sue iniziative erano rivolte anche alla
lotta contro la speculazione edilizia. Il 30 aprile 1982,
con un’auto guidata da Rosario Di Salvo, Pio La Torre
stava raggiungendo la sede del partito. Quando la
macchina si trovò in una strada stretta, una moto di
grossa cilindrata obbligò Di Salvo, ad uno stop,
immediatamente seguito da raiche di mitra. Da
un'auto scesero altri killer per completare il duplice
omicidio. Pio La Torre morì all'istante mentre Di Salvo
ebbe il tempo per estrarre una pistola e sparare alcuni
colpi, prima di soccombere. Al funerale presero parte
centomila persone tra cui Enrico Berlinguer, il quale
fece uno storico discorso contro la maia. La Torre fu
ucciso perché aveva osato proporre il disegno di legge
che prevedeva per la prima volta il delitto di
"associazione maiosa" e la conisca dei patrimoni
maiosi, due strumenti ancor oggi determinanti nella
lotta alla criminalità organizzata. Dopo nove anni
d'indagine, furono condannati all'ergastolo i mandanti
dell'omicidio La Torre: Salvatore Riina, Michele Greco,
Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò,
Francesco Madonia e Nenè Geraci.

65
Franco La Torre (iglio di Pio): “Mio padre era un
esempio di buona politica. Era attento, generoso, leale,
mi ha trasmesso un forte senso di responsabilità. Era
un uomo semplice, amava stare in famiglia. Si
accontentava di poco per divertirsi, gli piaceva giocare
a briscola. Per me era mio padre e faceva il suo
mestiere, nel bene e nel male”.

66
20. Rosario LIVATINO

Rosario Livatino: “Quando moriremo, nessuno ci


verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma
credibili. Il magistrato oltre che essere deve anche
apparire”.

Magistrato, assassinato dalla Stidda (parte della maia


siciliana del sud). Fu ucciso il 21 settembre del 1990
mentre si recava, senza scorta, in tribunale, per mano
di quattro sicari. Del delitto fu testimone oculare Pietro
Nava, sulla base delle cui dichiarazioni furono indivi-
duati gli esecutori materiali dell'omicidio. Nella sua
attività giudiziaria si era occupato di quella che sarebbe
esplosa come la Tangentopoli siciliana e aveva messo a
segno numerosi colpi nei confronti della maia,
attraverso lo strumento della conisca dei beni. Otto
mesi dopo la morte del giudice, l'allora presidente della
Repubblica Francesco Cossiga deinì “giudici ragazzini”
una serie di magistrati neoiti impegnati nella lotta alla
maia: “Possiamo continuare con questo tabù, che poi
signiica che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ri-
67
tiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a
rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a
nessuno? Non è possibile che si creda che un ragazzino,
solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in
grado di condurre indagini complesse contro la maia e
il traico di droga. Questa è un'autentica sciocchezza! A
questo ragazzino io non gli aiderei nemmeno
l'amministrazione di una casa terrena, come si dice in
Sardegna, una casa a un piano con una sola inestra,
che è anche la porta”. Dodici anni dopo l'assassinio, in
una lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia e
indirizzata ai genitori del giudice, Cossiga smentì che
quelle afermazioni dispregiative fossero riferite a
Rosario Livatino, che deinì invece "eroe" e "santo".
Papa Giovanni Paolo II, lo deinì, invece, martire della
giustizia e indirettamente della fede. Nel 1993 il
vescovo di Catania Luigi Bommarito, già vescovo di
Agrigento, incaricò Ida Abate, che del giudice fu
insegnante, di raccogliere testimonianze per la causa di
beatiicazione. Il 19 luglio 2011 è stato irmato
dall'arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, il
decreto per l'avvio del processo diocesano di
beatiicazione, aperto uicialmente il 21 settembre
2011 nella chiesa di San Domenico di Canicattì. Livatino
era stato tra i primi, forse il primo, a indagare sui
celebri cavalieri del lavoro catanesi, intoccabile potere
imprenditoriale dell’isola etnea. Aveva preso parte a un
indimenticabile interrogatorio dell’onorevole Calogero
Mannino a proposito delle sue frequentazioni sospette
di personaggi maiosi nell’agrigentino, il grande forziere
del voto democristiano. Avrebbe insomma oggi tutti i
requisiti per diventare bersaglio di campagne di stampa
e degli insulti di Palazzo. Resta un grande esempio di
moralità e un modello da seguire per i giovani.

68
Rosalia Livatino (mamma di Rosario): “Anche se
dentro di me ero spinta a non farlo, ho perdonato i suoi
assassini perché ho pensato a mio iglio e al Vangelo
che teneva sempre sopra la scrivania: Rosario li
avrebbe sicuramente perdonati”.

69
21. Piersanti MATTARELLA

Piersanti Mattarella: “Nella lotta alla maia,


meritocrazia, responsabilizzazioni, controlli e divisioni di
compiti hanno lo scopo di vivacizzare e rinnovare
l’apparato burocratico e sono compiti che spettano alla
politica”.

Politico, assassinato da “cosa nostra” durante il


mandato di presidente della Regione Sicilia. Fra i suoi
ispiratori, Giorgio La Pira e Aldo Moro. Rappresentò una
chiara scelta di campo il suo atteggiamento alla
Conferenza regionale dell'agricoltura, tenuta a Villa Igea
nel febbraio del 1979. Il deputato Pio La Torre, presente
in quanto responsabile nazionale dell'uicio agrario del
Partito Comunista Italiano (sarebbe divenuto dopo
qualche mese segretario regionale dello stesso partito)
attaccò, con furore, l'Assessorato dell'agricoltura,
denunciandolo come centro della corruzione regionale,
e additando lo stesso assessore come colluso alla
delinquenza maiosa. Mentre tutti attendevano che il
presidente della Regione difendesse vigorosamente il

70
proprio assessore, Giuseppe Aleppo, sgomentando la
sala, Mattarella riconobbe pienamente la necessità di
correttezza e legalità nella gestione dei contributi
agricoli regionali. Un solo periodico sidando il clima
imposto pubblicò il resoconto, sottolineando come fosse
generale lo sconcerto e come fosse comune la
percezione che si apriva, quel giorno a Palermo, un
confronto che non avrebbe non potuto conoscere eventi
drammatici. Un senatore comunista e il presidente
democristiano della regione si erano, di fatto, esposti
alle pesanti reazioni della maia. Il mese successivo
comunque Mattarella confermò Aleppo alla guida
dell'assessorato. La sua politica di radicale
moralizzazione della vita pubblica, secondo lo slogan
che la Sicilia doveva mostrarsi “con le carte in regola”,
aveva turbato il sistema degli appalti pubblici con gesti
clamorosi, mai attuati nell'isola prima di allora. Il 6
gennaio 1980, a Palermo in via della Libertà, appena
entrato in auto insieme con la moglie, con i due igli e
con la suocera per andare a messa, un killer si avvicinò
al suo inestrino e lo uccise a colpi di pistola. Il vice
presidente, il socialista Gaetano Giuliano, guidò la
giunta regionale ino al termine della legislatura cinque
mesi dopo. Nel luogo dove è avvenuto l'omicidio, in via
della Libertà, è stata posta una targa in suo ricordo.
Inizialmente fu considerato un attentato terroristico,
poiché subito dopo il delitto arrivarono rivendicazioni da
parte di un sedicente gruppo neo-fascista. Pur nel
disorientamento del momento, il delitto apparve
anomalo per le sue modalità, portando il giorno stesso
lo scrittore Leonardo Sciascia ad alludere a "confortevoli
ipotesi" che avrebbero potuto ricondurre l'omicidio, in
modo comodamente riduttivo, alla maia siciliana. Nel
1995 furono condannati all'ergastolo i mandanti
dell'omicidio Mattarella. Secondo il collaboratore di
giustizia Francesco Marino Mannoia, ritenuto dalla
71
Cassazione un collaboratore di giustizia attendibile,
Giulio Andreotti era consapevole dell'insoferenza di
cosa nostra per la condotta di Mattarella, ma non
avvertì né l'interessato né la magistratura.

Sergio Mattarella (fratello di Piersanti): “Sentiti gli


spari sono sceso immediatamente in strada e l'ho
portato al pronto soccorso. Ma era già morto. E' un
ricordo per me molto doloroso”.

72
22. Beppe MONTANA

Beppe Montana: A Palermo siamo poco più d'una


decina a costituire un reale pericolo per la maia. E i
loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili,
purtroppo. E se i maiosi decidono di ammazzarci
possono farlo senza alcuna diicoltà.

Commissario di Polizia, operativo nella squadra mobile


di Palermo e capo della sezione catturandi, che si
occupava della ricerca dei latitanti. In questa veste
ottenne grandi risultati, scoprendo nel 1983 l'arsenale
di Michele Greco ed assicurando alle patrie galere
Tommaso Spadaro (amico d'infanzia di Giovanni
Falcone), divenuto boss del contrabbando di sigarette e
del traico di droga. Aveva collaborato al "maxi blitz di
San Michele" del pool antimaia, eseguendo parte dei
475 mandati di cattura. Con il pool avrebbe continuato
a lavorare a stretto contatto ino all'ultimo suo giorno,
consolidando con quella struttura un rapporto nato con
73
il giudice Rocco Chinnici, impegnato in prima linea nella
"sida" con cosa nostra. Tre giorni prima della morte di
Montana, il 25 luglio 1985 la catturandi aveva arrestato
otto uomini di Michele Greco, che si era sottratto alla
cattura. Intensa fu la collaborazione, accompagnata da
un rapporto umano profondo, con Ninni Cassarà, che
sarebbe stato ucciso nove giorni dopo di lui. Il 28 luglio
1985, il giorno prima di andare in ferie, venne ucciso a
colpi di pistola mentre era con la idanzata a Porticello,
frazione del comune di Santa Flavia, nei pressi del porto
dove era ormeggiato il suo motoscafo. Dal giorno della
sua uccisione iniziò un'estate che vide la città di
Palermo immersa nel sangue delle vittime della maia:
in soli dieci giorni vennero assassinati tre investigatori
della squadra mobile di Palermo, particolarmente
esposta perché, secondo un gran numero di fonti
unanimi a partire dallo stesso Cassarà, lasciato solo. Nel
corso della testimonianza del 1994 Mannoia disse che la
decisione di uccidere Montana, l'unico poliziotto che
"osava invadere il territorio di Ciaculli", sarebbe
maturata a causa della già accennata voce, circolata da
talpe interne alla questura, secondo la quale Montana e
Cassarà avrebbero impartito l'ordine di uccidere, prima
della cattura, Pino Greco, Prestiilippo e Lucchese. Alla
presenza di talpe nella mobile aveva già alluso anche
Laura Cassarà, vedova del vicequestore ucciso, durante
una testimonianza ad un processo del 1993 aveva ag-
giunto che anche lei ed il marito avrebbero dovuto
essere in compagnia di Montana a Porticello il giorno
dell'omicidio, ma non vi andarono per un imprevisto
sorto all’ultimo momento. Per l’omicidio di Beppe
Montana furono condannati all’ergastolo Totò Riina,
Michele Greco, Francesco ed Antonio Madonia, Bernardo
Provenzano, Bernardo Brusca, Rafaele e Domenico
Ganci, Salvatore Buscemi, Giuseppe e Vincenzo

74
Galatolo. Carcere a vita anche per l’esecutore
materiale, Giuseppe Lucchese.

Luigi Montana (nipote di Beppe): “Combatté ogni


giorno le maie, mettendoci la faccia e cercando
giustizia e verità, senza paura”.

75
23. Domenico NOVIELLO

Domenico Noviello: “Non pago il pizzo perché io


lavoro con il sudore della mia fronte e con il mio lavoro
mantengo la mia famiglia e non quelle dei camorristi”.

Imprenditore, brutalmente assassinato dalla camorra,


insignito della medaglia d'oro al valor civile fu ucciso da
dei sicari del clan dei Casalesi, perché si era riiutato di
pagare il pizzo. Un uomo che ha tenacemente, forse
ben conscio, lottato contro l'oppressione di un sistema
malavitoso che gli imponeva il pagamento di una tassa
occulta, ingiusta ed esosa. La morte di Noviello non è
rimasta però un'altra sterile pagina dei giornali perché a
Castel Volturno, luogo dell'agguato è stata aperta la
prima associazione antiracket del litorale domizio.
Noviello ebbe un encomiabile coraggio, denunciò alcuni
esponenti della criminalità organizzata locale,
consentendone l'arresto e la successiva condanna. A
distanza di alcuni anni dall'evento, mentre era alla
guida della propria autovettura, fu barbaramente

76
assassinato in un vile agguato camorristico. Resta un
esempio di impegno civile e rigore morale fondato sui
più alti valori di libertà e di legalità. La Cassazione ha
emesso una sentenza di condanna a trent'anni per tre
dei dieci componenti del commando. Massimo Aliero,
Davide Granato e Massimo Bartolucci hanno scelto il
rito abbreviato nel processo per l'omicidio
dell'imprenditore, trucidato con ventidue colpi di pistola
perché si era riiutato di pagare il pizzo. Noviello aveva,
infatti, denunciato e fatto condannare gli estorsori del
clan. La Cassazione ha scritto una parola deinitiva su
personaggi che hanno fatto del male alla mia famiglia e
alla nostra terra ma ino alla ine – commenta la
Noviello – l'avvocato di Aliero ha provato in tutti i modi
a ottenere una forte riduzione di pena. Se la Corte
avesse accolto la sua richiesta per me e i miei familiari
sarebbero stato un duro colpo. Queste persone devono
pagare tutto.

Massimo Noviello (iglio di Domenico): “A causare


la morte di mio padre non fu solo la denuncia degli
estorsori e non è stato aver scelto di essere un uomo
libero. Mio padre fu ucciso perché era stato lasciato
solo. E’ questo il punto attorno al quale la nostra
rilessione non deve fermarsi”.

77
24. Mino PECORELLI

Mino Pecorelli: “Un giornalista deve sempre


pubblicare una notizia che interessa il cittadino costi
quel che costi, qualsiasi sia il prezzo da pagare”.

Giornalista, nel 1978 trasformò la sua agenzia di


stampa in un periodico regolarmente in vendita nelle
edicole. Pecorelli non aveva il denaro necessario per
una simile avventura editoriale. Lo stesso giornalista,
infatti, chiese spesso a personaggi di spicco delle
sovvenzioni pubblicitarie per la sua rivista. L'operazione
sbalordì per lo stupefacente tempismo tra il primo
numero del settimanale OP (Osservatore Politico) e la
strage di via Fani a Roma, con cui iniziò il periodo dei
cinquantacinque giorni del sequestro di Aldo Moro. Il
periodico si occupò a più riprese del rapimento e
dell'omicidio dello statista democristiano, arrivando a
fare rivelazioni sconcertanti (ad esempio sulla falsità del
comunicato relativo al lago della duchessa). Altri
bersagli di Pecorelli furono Andreotti ed in particolare
l'ambiente (fatto di politici, professionisti, industriali e
78
faccendieri) che alimentava la sua corrente: esemplare
l'episodio di una cena in cui il braccio destro di An-
dreotti, Franco Evangelisti, cercò di convincere Pecorelli,
con un assegno di trenta milioni di lire a non pubblicare
un reportage sugli assegni milionari che Andreotti
avrebbe girato all'imprenditore Nino Rovelli o a Mario
Giannettini del Sid. Altri rimarcabili scandali regolar-
mente pubblicati su OP furono quello dell’Italpetroli e
quello sulla presenza di una loggia massonica in
Vaticano. La sera del 20 marzo 1979 Mino Pecorelli fu
assassinato da un sicario che gli esplose quattro colpi di
pistola, poco lontano dalla redazione del giornale. I
proiettili, calibro 7,65, trovati nel suo corpo erano molto
particolari, della marca Gevelot, assai rari sul mercato
(anche su quello clandestino), ma dello stesso tipo di
quelli che sarebbero poi stati trovati nell'arsenale della
banda della Magliana, rinvenuto nei sotterranei del
Ministero della Sanità. L'indagine aperta all'indomani
del delitto seguì diverse direzioni, coinvolgendo nomi
come Massimo Carminati (esponente dei Nuclei Armati
Rivoluzionari e della banda della Magliana), Antonio
Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti. Il 6 aprile 1993, il
pentito Tommaso Buscetta, interrogato dai magistrati di
Palermo, parlò per la prima volta dei rapporti tra politica
e maia e raccontò, tra le altre cose, di aver saputo dal
boss Gaetano Badalamenti che l’omicidio Pecorelli
sarebbe stato compiuto nell’interesse di Giulio Andreot-
ti. La magistratura aprì un fascicolo sul caso ma gli
imputati, tra i quali Giulio Andreotti, furono tutti assolti.

Rosita Pecorelli (sorella di Mino): “Mino me lo


diceva sempre: non è facile scrivere la verità. Aveva
ragione. Lo hanno ucciso per questo”.

79
25. Don Pino PUGLISI

Don Pino Puglisi: “Serve parlare di maia, parlarne


spesso, in modo capillare specialmente a scuola: è una
battaglia contro la mentalità maiosa, che è poi
l’ideologia disposta a svendere la dignità dell'uomo per
soldi”.

Sacerdote, meglio conosciuto come padre Pino Puglisi,


ucciso da cosa nostra il giorno del suo
cinquantaseiesimo compleanno per il suo costante
impegno antimaia, evangelico e sociale. Il 25 maggio
2013, sul prato del Foro Italico di Palermo, davanti ad
una folla di circa centomila fedeli, è stato proclamato
beato. È il primo martire della Chiesa ucciso dalla maia.
Il 15 settembre 1993, fu assassinato davanti al portone
di casa in piazza Anita Garibaldi, nella zona est di
Palermo. Sulla base delle ricostruzioni, don Pino Puglisi
era a bordo della sua Fiat Uno di colore bianco e, sceso
dall'automobile, si era avvicinato al portone della sua
abitazione. Qualcuno lo chiamò, lui si voltò mentre
qualcun altro gli scivolò alle spalle e gli esplose uno o
80
più colpi alla nuca. Una vera e propria esecuzione
maiosa. Il 19 giugno 1997 fu arrestato a Palermo il
latitante Salvatore Grigoli, accusato di diversi omicidi
tra cui quello di don Pino Puglisi. Poco dopo l'arresto
Grigoli cominciò a collaborare con la giustizia,
confessando quarantasei omicidi tra cui quello di don
Puglisi. Grigoli, che era insieme a un altro killer,
Gaspare Spatuzza, gli sparò un colpo alla nuca. Dopo
l'arresto egli sembrò intraprendere un cammino di
pentimento e conversione. Lui stesso raccontò le ultime
parole di don Pino prima di essere ucciso: un sorriso e
poi un criptico "me lo aspettavo". Mandanti
dell'omicidio furono i capimaia Filippo e Giuseppe
Graviano, arrestati il 26 gennaio 1994. Giuseppe
Graviano fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di
don Puglisi il 5 ottobre 1999. Il fratello Filippo, dopo
l'assoluzione in primo grado, fu condannato in appello
all'ergastolo il 19 febbraio 2001. Furono condannati
all'ergastolo dalla Corte d'assise di Palermo anche
Gaspare Spatuzza, Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro e
Luigi Giacalone, gli altri componenti del commando che
aspettò sotto casa il prete. Sulla sua tomba, nel
cimitero di Sant'Orsola a Palermo, sono scolpite le
parole del Vangelo di Giovanni: "Nessuno ha un amore
più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv
15,13). Resta un esempio, il suo impegno di educatore
delle coscienze, in particolare delle giovani generazioni,
nell'afermare la profonda coerenza tra i valori
evangelici e quelli civili di legalità e giustizia, in un
percorso di testimonianza per la dignità e la promozione
dell'uomo. Sacriicò la propria vita senza piegarsi alle
pressioni della criminalità organizzata. Fu esempio di
straordinaria dedizione al servizio della Chiesa e della
società civile, spinta ino all'estremo sacriicio.

81
Gaetano Puglisi (fratello di don Pino): “Quando era
parroco si era messo in testa di chiedere per la periferia
di Palermo cose normali, come una scuola media.
Nessuno lo ascoltava. Solo dopo la sua morte, il
Comune l'ha realizzata”.

82
26. Mauro ROSTAGNO

Mauro Rostagno: “Noi non vogliamo trovare un posto


in questa società ma creare una società in cui valga la
pena trovare un posto”.

Giornalista, fu uno dei fondatori del movimento politico


Lotta Continua e della comunità socioterapeutica
Saman. Dalla metà degli anni ottanta lavorò come
conduttore per l'emittente televisiva locale Radio Tele
Cine (RTC), dove in seguito si avvalse della
collaborazione anche di alcuni ragazzi della Saman.
Intervistò Paolo Borsellino e Leonardo Sciascia, e indagò
su “cosa nostra” e il suo potere. Attraverso la
televisione denunciò le collusioni tra maia e politica
locale: tra i tanti servizi giornalistici di denuncia del
fenomeno, la trasmissione di Rostagno seguì tutte le
udienze del processo per l'omicidio del sindaco Vito
Lipari, nel quale erano imputati i boss maiosi Nitto
Santapaola e Mariano Agate, che durante la pausa di
un'udienza mandò a dire a Rostagno che “doveva dire
meno minchiate” sul suo conto. Il 26 settembre 1988
83
pagò la sua passione sociale e il suo coraggio con la
vita: venne, infatti, assassinato in un agguato in
contrada Lenzi, a poche centinaia di metri dalla sede
della Saman, all'interno della sua auto, da alcuni uomini
nascosti ai margini della strada; mentre rientrava alla
comunità con una giovane ospite (che si salverà
divenendo l'unica testimone del delitto) i sicari maiosi
gli spararono con un fucile, che scoppiò in mano ad uno
degli assassini. Bettino Craxi e Claudio Martelli,
quest'ultimo presente al funerale di Rostagno,
indicarono subito la responsabilità della maia
nell'omicidio, ma nel 1996 la procura di Trapani reagì
all'indicazione della pista maiosa, accusando i due
socialisti di voler depistare le indagini. La pista maiosa
fu quella proposta subito dopo il delitto anche dai
quotidiani siciliani e nazionali. Sul luogo dell'agguato è
stato posto un monumento commemorativo che recita:
“Mauro Rostagno - vittima della maia - Io sono più
trapanese di voi perché ho scelto di esserlo”. Nel 1997
l'inchiesta passò alla direzione antimaia di Palermo,
che acquisì le dichiarazioni di alcuni collaboratori di
giustizia: secondo il collaboratore Vincenzo Sinacori (ex
esponente di spicco della cosca di Mazara del Vallo),
l'omicidio Rostagno era stato determinato dai suoi
interventi giornalistici di denuncia che davano fastidio
agli esponenti di cosa nostra di Trapani, i quali
discussero la sua eliminazione in occasione di alcuni
incontri tenutisi a Castelvetrano. A Trapani, dal febbraio
2011, è stato riaperto il processo per la morte di
Rostagno, dopo ventitré anni dall'uccisione del
giornalista per mano maiosa. La Corte d'Assise di
Trapani, presieduta da Angelo Pellino, nel maggio 2014
ha condannato in primo grado all'ergastolo i boss
trapanesi Vincenzo Virga e Vito Mazzara, accusati
dell'omicidio di Rostagno. Tra le motivazioni del delitto,
deciso dai vertici di cosa nostra trapanese, vi sarebbero
84
le sue numerose denunce del potere della criminalità
maiosa siciliana (specialmente sull'omicidio Lipari) e il
riiuto del giornalista a più miti consigli, fatto con
minacce e pressioni.

Maddalena Rostagno (iglia di Mauro): “Mio padre


sapeva benissimo a cosa andava incontro, poi ino a
quando non succede sulla pelle non si può dire quanto
si sia coscienti o lucidi. Di certo aveva le idee molto
chiare”.

85
27. Silvia RUOTOLO

Silvia Ruotolo, madre, fu assassinata l'11 giugno del


1997 a Napoli, mentre tornava nella sua casa nel
quartiere Arenella, dopo essere andata a prendere a
scuola il iglio Francesco, di cinque anni. A guardarla dal
balcone c'era Alessandra, la iglia di dieci anni. Il
commando di camorra che sparò all'impazzata aveva
come obiettivo Salvatore Raimondi, ailiato al clan
Cimmino, avversario del clan Alieri. Furono sparati
quaranta proiettili che, oltre ad uccidere Salvatore
Raimondi e ferire Luigi Filippini, raggiunsero Silvia
Ruotolo - che era in strada con il iglio - alla tempia,
uccidendola sul colpo. La collaborazione con la polizia di
uno dei killer, Rosario Privato, fu decisiva per
l'individuazione del gruppo di fuoco. Rosario Privato fu
arrestato il 24 luglio dello stesso anno mentre era in
vacanza al mare in Calabria. L'assassinio di Silvia
Ruotolo ebbe grande risalto mediatico e contribuì alla
crescita della consapevolezza sulla gravità del
fenomeno camorristico. Silvia Ruotolo era cugina di
Sandro Ruotolo, giornalista della RAI e del fratello
gemello di quest'ultimo Guido Ruotolo giornalista de La
Stampa. L'11 febbraio 2001 la quarta sezione della
86
Corte d'Assise di Napoli ha condannato all'ergastolo i
responsabili della strage: il boss Giovanni Alfano,
Vincenzo Cacace, Mario Cerbone, Raffaele Rescigno
(l'autista del commando) e Rosario Privato (in seguito
pentitosi dopo l'omicidio). Il Comitato Silvia Ruotolo,
presieduto da Lorenzo Clemente, marito di Silvia, è
molto attivo nell'impegno per la legalità e contro la
camorra. In piazza Medaglie d'oro a Napoli, su una
lapide nei giardinetti c'è una targa intitolata a Silvia
Ruotolo, dove ogni 11 giugno i familiari e la società
civile si riuniscono e depongono i iori per
commemorare la sua memoria, innocente vittima della
camorra. Il 25 settembre 2012, il consiglio comunale di
Napoli ha approvato, votando all'unanimità, la proposta
di intitolare la strada Salita Arenella a Silvia Ruotolo.

Lorenzo Clemente (marito di Silvia): “L’unica colpa


di Silvia è stata quella di passare li in quel momento.
Morì sul colpo. Mentre teneva per mano suo iglio e dal
balcone di casa l'altra iglia, Alessandra, che vedeva la
scena”.

87
28. Pietro SCAGLIONE

Pietro Scaglione: “La maia ha origini politiche e i


maiosi di maggior rilievo bisogna snidarli nelle
pubbliche amministrazioni”.

Magistrato, dopo avere esordito in aula come pubblico


ministero negli anni quaranta, Scaglione indagò sulla
banda Giuliano e preparò dure requisitorie contro gli
assassini del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso
nel 1955, negli anni del latifondismo e delle lotte
contadine per la redistribuzione delle terre. Diventato
procuratore capo della Procura di Palermo nel 1962,
Scaglione inquisì Salvo Lima, Vito Ciancimino e altri
politici locali e nazionali. Scaglione indagò sulla strage
di Ciaculli del 1963 e, grazie alle inchieste condotte
dall'Uicio Istruzione del Tribunale di Palermo (guidato
da Cesare Terranova) e dalla Procura della Repubblica
(diretta da Pietro Scaglione) "le organizzazioni maiose
furono scardinate", come si legge nella Relazione della
Commissione parlamentare antimaia del 1976. La
mattina del 5 maggio 1971 Scaglione, mentre

88
percorreva via dei Cipressi a Palermo a bordo dell’auto
guidata dall’agente di custodia Antonino Lo Russo, fu
bloccato da un'altra automobile da cui uscirono tre
persone che fecero fuoco con pistole freddando
all'istante Scaglione e il suo autista. Nel 1984 il
collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta dichiarò al
giudice Giovanni Falcone che Scaglione era «un
magistrato integerrimo e spietato persecutore della
maia» e il suo omicidio era stato organizzato ed
eseguito da Luciano Leggio e dal suo vice Salvatore
Riina con l'approvazione del loro associato Pippo Calò.
Tuttavia nel gennaio 1991 il giudice istruttore del
tribunale di Genova Dino Di Mattei, che si occupava
delle indagini, dichiarò di non doversi procedere nei
confronti dei presunti responsabili dell'omicidio del
procuratore Scaglione in quanto non è stato possibile
individuare nei confronti di questi imputati gli elementi
convincenti di accusa, come ad esempio il rinvenimento
delle armi usate o testimonianze dirette, che
giustiicassero il rinvio a giudizio ed il passaggio alla
fase dibattimentale. Il tutto si risolse con un nulla di
fatto.

Antonio Scaglione (iglio di Pietro): “Mi auguro che


il rigore e la coerenza di mio padre, magistrato
integerrimo e persecutore spietato della maia, possano
essere di esempio per tutti noi”.

89
29. Antonino SCOPELLITI

Antonino Scopelliti: “Il buon giudice, nella sua


solitudine, deve essere libero, onesto e coraggioso”.

Magistrato, ha rappresentato, la pubblica accusa nel


caso Moro, durante il primo processo, al sequestro
dell'Achille Lauro, alla strage di piazza Fontana e alla
strage del rapido 904. Per quest'ultimo processo, che si
concluse in Cassazione nel marzo del 1991, il
procuratore Scopelliti aveva chiesto la conferma degli
ergastoli inferti al boss della maia Pippo Calò e a Guido
Cercola, nonché l'annullamento delle assoluzioni di
secondo grado per altri maiosi. Il collegio giudicante
della prima sezione penale della Cassazione, presieduto
da Corrado Carnevale, rigettò la richiesta della pubblica
accusa, assolvendo Calò e rinviando tutto a nuovo
giudizio. Il magistrato fu ucciso il 9 agosto 1991, mentre
era in vacanza in Calabria, sua terra d'origine, in località
Piale. Quando fu ucciso, stava preparando, in sede di
legittimità, il rigetto dei ricorsi per Cassazione avanzati
dalle difese dei più pericolosi esponenti maiosi
90
condannati nel primo maxiprocesso a “cosa nostra”. Si
ritiene che per la sua esecuzione si siano mosse
insieme la 'ndrangheta e cosa nostra, dopo che il
magistrato riiutò diversi tentativi di corruzione (il
pentito Marino Pulito rivelò che a Scopelliti furono offerti
cinque miliardi di lire italiane per "raddrizzare" la
requisitoria contro i boss della Cupola siciliana). Anche
secondo i pentiti della 'ndrangheta Giacomo Lauro e
Filippo Barreca, sarebbe stata la cupola di cosa nostra
siciliana a chiedere alla 'ndrangheta di uccidere
Scopelliti, che avrebbe rappresentato la pubblica
accusa in Cassazione nel maxiprocesso a cosa nostra.
In cambio del favore ricevuto, cosa nostra sarebbe
intervenuta per fare cessare la seconda guerra di
'ndrangheta che si protraeva a Reggio Calabria
dall'ottobre 1985, quando fu assassinato il boss Paolo
De Stefano. Nell'abitazione paterna di Scopelliti, dove il
magistrato soggiornava durante le vacanze, furono
trovati gli incartamenti processuali del maxiprocesso.
Per la sua uccisione furono istruiti e celebrati presso il
Tribunale di Reggio Calabria ben due processi. Dopo
anni di stasi giudiziaria nei quali non si è riusciti ad
assicurare alla giustizia i responsabili del delitto, l'11 lu-
glio 2012 nel corso di un'udienza del processo "Meta"
contro la 'ndrangheta a Reggio Calabria, il pentito della
cosca De Stefano, Antonino Fiume, dichiarò che ad
uccidere il giudice sarebbero stati due reggini su
richiesta di “cosa nostra”. Il collaboratore di giustizia,
però, su invito del pubblico ministero non ha fatto i
nomi dei presunti assassini ma questo confermò le tesi
investigative a suo tempo ricostruite dagli inquirenti.

Rosanna Scopelliti (Figlia di Antonino): “Ero molto


piccola quando lui fu ucciso, ma ciò che più mi è
91
rimasto impresso è quel senso di sicurezza che mi
proteggeva quando stavo in famiglia con lui e mam-
ma”.

92
30. Giancarlo SIANI

Giancarlo Siani: “Le persone per scegliere devono


sapere, devono conoscere i fatti e allora quello che un
giornalista dovrebbe fare è semplice: informare”.

Giornalista, assassinato dalla camorra, si occupò


principalmente di cronaca nera e quindi di camorra,
studiando e analizzando i rapporti e le gerarchie delle
famiglie camorristiche che controllavano il Comune di
Torre Annunziata e i suoi dintorni. Fu in questo periodo
che iniziò anche a collaborare con l'Osservatorio sulla
Camorra, periodico diretto dal sociologo Amato
Lamberti. Al quotidiano "Il Mattino" faceva riferimento
alla redazione distaccata di Castellammare di Stabia.
Pur lavorando come corrispondente da giornalista
frequentava stabilmente la redazione del Comune
stabiese: il suo sogno era strappare il contratto da
praticante giornalista per poi poter sostenere l'esame e
diventare giornalista professionista. Lavorando per “Il
Mattino”, Siani riuscì ad approfondire la conoscenza del

93
mondo della camorra, dei boss locali e degli intrecci tra
politica e criminalità organizzata, scoprendo una serie
di connivenze che si erano stabilmente create, al-
l'indomani del terremoto in Irpinia, tra esponenti politici
e il boss locale, Valentino Gionta, che, da pescivendolo
ambulante, aveva costruito un business illegale. Gionta
era partito dal contrabbando di sigarette, per poi
spostarsi al traico di stupefacenti, e inine controllando
l'intero mercato di droga nell'area torrese-stabiese. Le
vigorose denunce del giovane giornalista lo condussero
ad essere regolarizzato nella posizione di
corrispondente dal quotidiano nell'arco di un anno. Le
sue inchieste scavavano sempre più in profondità, tanto
da arrivare a scoprire la moneta con cui i boss maiosi
facevano afari. Siani con un suo articolo accusò il clan
Nuvoletta, alleato dei Corleonesi di Totò Riina, e il clan
Bardellino, esponenti della "Nuova Famiglia", di voler
spodestare e vendere alla polizia il boss Valentino
Gionta, divenuto pericoloso, scomodo e prepotente, per
porre ine alla guerra tra famiglie. Ma le rivelazioni,
ottenute da Giancarlo grazie ad un suo amico
carabiniere e pubblicate il 10 giugno 1985, indussero la
camorra a sbarazzarsi di questo scomodo giornalista. In
quell'articolo Siani ebbe modo di scrivere che l'arresto
del boss Valentino Gionta fu reso possibile da una
"soiata" che esponenti del clan Nuvoletta fecero ai
carabinieri. Il boss fu, infatti, arrestato poco dopo aver
lasciato la tenuta del boss Lorenzo Nuvoletta a Marano
di Napoli. Secondo quanto in seguito rivelato dai
collaboratori di giustizia, l'arresto di Gionta fu il prezzo
che i Nuvoletta pagarono al boss Antonio Bardellino per
ottenerne un patto di non belligeranza. La
pubblicazione dell'articolo suscitò le ire dei fratelli
Nuvoletta che, agli occhi degli altri boss partenopei e di
cosa nostra (di cui erano gli unici componenti non
siciliani), facevano la igura degli "infami", ossia di
94
coloro che, contrariamente al codice degli uomini
d'onore della maia, intrattenevano rapporti con le forze
di polizia. Da quel momento i capi-clan Lorenzo ed
Angelo Nuvoletta tennero numerosi summit per
decidere in che modo eliminare Siani, nonostante
l’avversione di Valentino Gionta, detenuto in carcere. A
ferragosto del 1985 la camorra decise di uccidere Siani,
che doveva essere assassinato lontano da Torre
Annunziata per depistare le indagini. Giancarlo lavorava
sempre alacremente alle sue inchieste e stava per
pubblicare un libro sui rapporti tra politica e camorra
negli appalti per la ricostruzione post-terremoto. Il 23
settembre 1985, appena giunto sotto casa sua con la
propria Citroën Méhari, Giancarlo Siani fu ucciso. Gli
sparò una squadra di almeno due assassini mentre era
seduto nell'auto. Fu colpito dieci volte in testa da due
pistole: l'agguato avvenne a pochi metri dall'abitazione,
in piazza Leonardo nel quartiere napoletano
dell'Arenella.

Paolo Siani (fratello di Giancarlo): “Di noi due,


insieme, conservo l'immagine di una giornata a Roma, a
una marcia per la pace. Io col gesso che gli dipingo in
faccia il simbolo anarchico della libertà. E lui che mi
sorride”.

95
31. Giovanni SPAMPINATO

Giovanni Spampinato: “Un giornalista non può mai


nascondere la verità altrimenti non è un giornalista”.

Giornalista, corrispondente da Ragusa de “L'Ora” di


Palermo e de “l'Unità” tra la ine degli anni sessanta e i
primissimi dei settanta, Giovanni Spampinato,
venticinque anni, si era afermato pubblicando
un'ampia e approfondita inchiesta sul neofascismo. Un
lavoro sul campo, condotto a Ragusa, Catania e
Siracusa, col quale il giovane cronista era riuscito a
documentare le attività clandestine e i rapporti delle
organizzazioni di estrema destra locale con la
criminalità organizzata – che controllava i traici illeciti
di opere d'arte, armi, sigarette e droga – e con
esponenti di primo piano del fascismo eversivo na-
zionale e internazionale, fautori di quella strategia della
tensione che già nel 1969 a Milano aveva provocato la
strage di piazza Fontana. Nella sua cinquecento, la
notte del 27 ottobre del 1972, fu raggiunto da sei pal-
lottole. A sparare, a pochi centimetri da lui dentro
96
l'abitacolo, fu Roberto Campria, iglio del presidente del
tribunale di Ragusa. L'intoccabile trentenne era uno dei
maggiori indiziati di un altro omicidio, quello del
commerciante di antiquariato e oggetti d'arte, Angelo
Tumino, consumato nella stessa città il 25 febbraio dello
stesso anno. Giovanni Spampinato era stato l'unico
giornalista a rivelare che era coinvolto nelle indagini;
che una pista, quindi, portava dentro il Palazzo di
Giustizia; e che, perciò, secondo logica e procedura, l'in-
chiesta penale doveva essere aidata ai giudici di
un'altra città. L'inchiesta invece non fu trasferita e il
giovane cronista fu criticato e isolato nell'ambiente dei
corrispondenti. Ad oggi, del delitto Tumino non si
conoscono ancora esecutori, mandanti e movente.
Quell'omicidio avvenne proprio nei giorni in cui
Spampinato rivelava la presenza a Ragusa del
“bombardiere nero” Stefano Delle Chiaie (all'epoca
ricercato per le bombe del 12 dicembre 1969 all'Altare
della Patria) e di altri noti fascisti romani legati a Junio
Valerio Borghese, che nel dicembre del 1970 aveva
tentato un colpo di Stato. Uno di questi personaggi,
Vittorio Quintavalle, fu interrogato dagli inquirenti che
seguivano le indagini sul delitto e questo raforzò nella
mente del cronista l'impressione che l'omicidio Tumino
potesse essere collegato alle trame eversive che stava
documentando. Tanto più che i contatti fra Campria e
Tumino e fra questi e i traicanti di estrema destra
erano molto frequenti. Fu assassinato prima di poterlo
dimostrare. Nel settembre 2007, Giovanni Spampinato
è stato insignito dal Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano del premio Saint Vincent per il giornalismo
alla memoria.

97
Alberto Spampinato (fratello di Giovanni):
“Giovanni indagava su un delitto ma non solo: aveva
scoperto che la “pista nera” di Piazza Fontana portava
al Palazzo di Giustizia. Tutti sapevano, ma l’unico a rive-
larlo fu lui e questo gli costò la vita”.

98
32. Cesare TERRANOVA

Cesare Terranova: “La maia uccide così come uccide


il silenzio, l’omertà dei cittadini altro non è che
sostegno alla maia”.

Magistrato, si distinse per aver processato e


condannato all'ergastolo, nel 1974, la "primula rossa" di
Corleone, Luciano Liggio. Fu deputato alla Camera,
come indipendente di sinistra, e fu membro della Com-
missione parlamentare Antimaia, contribuendo,
insieme ad altri deputati del PCI ad elaborare la famosa
relazione di minoranza in cui si criticavano aspramente
le conclusioni di quella della maggioranza (redatta dal
deputato democristiano Luigi Carraro), nella quale
erano sottaciuti o sottovalutati i collegamenti fra maia
e politica, e in particolar modo il coinvolgimento della
Democrazia Cristiana in numerose vicende di maia:
infatti, nella relazione di minoranza redatta da Ter-
ranova e dagli altri deputati erano accusati i
democristiani Giovanni Gioia, Vito Ciancimino, Salvo
Lima ed altri uomini politici di avere rapporti con la
99
maia. Dopo l'esperienza parlamentare, Terranova tornò
in magistratura per essere nominato Consigliere presso
la Corte di appello di Palermo. Il 25 settembre del 1979
la sua auto di scorta arrivò sotto casa del giudice a
Palermo per portarlo a lavoro. Cesare Terranova si mise
alla guida della vettura mentre accanto a lui sedeva il
maresciallo Lenin Mancuso, l'unico uomo della sua
scorta che lo seguiva da vent'anni come un angelo
custode. L'auto imboccò una strada secondaria
trovandola chiusa da una transenna di lavori in corso. Il
giudice Terranova non fece in tempo a intuire il pericolo.
In quell'istante da un angolo sbucarono alcuni killer che
aprirono ripetutamente il fuoco contro la sua Fiat 131.
Cesare Terranova istintivamente ingranò la retromarcia
nel disperato tentativo di sottrarsi a quella tempesta di
piombo mentre il maresciallo Mancuso, in un estremo
tentativo di reazione, impugnò la pistola di ordinanza
per cercare di sparare contro i sicari, ma entrambi
furono raggiunti dai proiettili in varie parti del corpo e
perirono. Al giudice Terranova i killer riservarono anche
il colpo di grazia, sparandogli a bruciapelo alla nuca. La
sua fedele guardia del corpo, Lenin Mancuso, morì dopo
alcune ore di agonia in ospedale.

Sandro Pertini (amico di Cesare): “Fu uomo di alto


sentire e di grande cultura. Ma egli era anche animato,
oltre che da un virile coraggio, anche da ininita
speranza, che scaturiva dalla sua profonda bontà
d'animo. Ancora una volta la violenza omicida della
delinquenza organizzata ha colpito uno degli uomini
migliori, uno dei igli più degni della terra di Sicilia”.

100
33. Giuseppe VALARIOTI

Giuseppe Valarioti: “Se vogliono intimidirmi si


sbagliano. Noi non ci piegheremo mai al malafare e alla
criminalità organizzata”.

Politico, insegnante, esercitò la cattedra di storia e


ilosoia al liceo scientiico Piria di Rosarno, fu studioso
della civiltà magno-greca, pubblicando anche numerosi
scritti sull'argomento. A metà degli anni '70 s’iscrisse al
Partito Comunista Italiano e divenne segretario della
sezione di Rosarno, fu anche eletto consigliere
comunale di Rosarno. Dirigente del PCI sempre accanto
agli operai, braccianti agricoli, studenti per tutelare i
diritti, il lavoro, lo sviluppo sociale-culturale-economico
della Piana di Gioia Tauro e della Calabria e contrastare
lo strapotere 'ndranghetista e del malafare politico-
istituzionale che opprimevano le speranze di
cambiamento della Calabria, fu assassinato in un
agguato maioso (a colpi di lupara) di matrice tuttora
oscura l'11 giugno 1980, al termine di una cena tenuta
insieme ai compagni di partito per festeggiare una

101
vittoria elettorale importantissima perché con quel voto
i cittadini rosarnesi avevano dato sostegno a Valarioti e
ai suoi compagni e alle loro battaglie di civiltà e
avevano detto no ai soprusi della 'ndrangheta. La
campagna elettorale era stata infuocata e
caratterizzata da pesanti intimidazioni (l'auto bruciata
al candidato PCI al consiglio provinciale Giuseppe
Lavorato, l'incendio appiccato alla sezione cittadina
sempre del PCI) e minacce nei confronti degli esponenti
comunisti che avevano impostato l'attività elettorale
contro i boss ndranghetisti e i loro loschi afari, ma che
portò comunque alla vittoria per Valarioti e i suoi
compagni (furono eletti sia il candidato da loro proposto
per il consiglio regionale che il candidato per il consiglio
provinciale), tutto ciò non fu tollerato dalla criminalità
organizzata che decise di rispondere in modo
sanguinario ristabilendo in tal modo il predominio
criminale sul territorio. Il processo indiziario svoltosi nel
1982 a Palmi vide imputato il capobastone della
famiglia 'ndranghetista Pesce e si concluse con
l'assoluzione del boss con formula piena. In seguito, nel
1983, avvenne una svolta che consentì di far luce
sull'omicidio, questo grazie alle dichiarazioni del pentito
Pino Scriva che chiarì il movente e indicò i mandanti e
gli esecutori materiali del delitto maioso, infatti,
secondo gli atti processuali e le numerose
testimonianze dell'epoca (in particolare quella di
Scriva), l'origine dell'omicidio andava ricercata nel
connubio tra 'ndrangheta, afari sporchi e mala politica
che ruotava attorno alla cooperativa "Rinascita" di
Rosarno, una delle prime esperienze associazionistiche
nel settore della produzione e della trasformazione
agrumicola, nata proprio grazie all'impegno del PCI ed
inoltre per l'impegno anti ndrangheta di Valarioti che in
comizi, convegni e all'interno del consiglio comunale,
denunciava il malafare politico-maioso. Per quanto ri-
102
guarda invece i mandanti ed esecutori il collaboratore
di giustizia tirò in ballo le 'ndrine dei Pesce e dei
Piromalli indicando anche l'autore materiale
dell'assassinio in Francesco Dominello (in seguito
ucciso); tali dichiarazioni però non portarono nemmeno
all'apertura di un nuovo processo e il tutto si chiuse con
un'archiviazione.

Enrico Berlinguer (Amico e compagno di


Giuseppe): “Si comincia dai comunisti, per poi colpire
tutti. Tutti gli uomini onesti, di tutti i partiti. Tutti coloro
che vogliono proseguire il cammino per il rinnovamento
come voleva fare il compagno Peppino”.

103
34. Angelo VASSALLO

Angelo Vassallo: “Quanto più si fa per gli altri, tanto


più si rimane soli, alla ine si dà quasi fastidio. Spesso la
legalità è vista come un limite e non come un valore”.

Politico, è stato Sindaco del Comune di Pollica, ucciso in


un attentato di matrice camorristica, è tuttora oggetto
di indagini da parte della magistratura. Conosciuto ai
tanti con l’appellativo di “Sindaco pescatore”,
politicamente, Vassallo si distingueva per un marcato
ambientalismo. La sera del 5 settembre 2010, mentre
rincasava alla guida della sua automobile, Vassallo è
stato ucciso da uno o più attentatori allo stato ignoti;
contro di lui sono stati esplosi nove proiettili, sette dei
quali a segno. Benché allo stato la matrice
dell'attentato sia incerta, il pubblico ministero,
incaricato delle indagini, ha formulato l'ipotesi che esso
sia stato commissionato dalla camorra al ine di punire
un rappresentante delle istituzioni che si era opposto a
pratiche illegali: un collegamento potrebbe risiedere
nelle azioni incisive svolte da Vassallo a tutela
dell'ambiente, era visto dalla camorra come un ostacolo

104
al controllo del porto che le garantiva libertà nei
commerci illegali di droga. Il 25 marzo 2015, Bruno
Umberto Damiani è l'unico indagato per l'omicidio di
Angelo Vassallo. Il Parlamento europeo, per evidenziare
il brutale assassinio, ha decretato un minuto di silenzio
in omaggio a Vassallo, e il presidente dell'assemblea ha
ricordato che il Sindaco è stato ucciso dalla camorra e
che la sua morte non dovesse passare invano.

Antonio Vassallo (iglio di Angelo) : “Mio padre è


stato lasciato solo da tutti anche dalle istituzioni perciò
l’hanno ucciso”.

105
TABELLE DI APPROFONDIMENTO

LE MAFIE IN ITALIA

SICILIA: Cosa Nostra, Stidda.


CALABRIA: Ndrangheta.
PUGLIA: Sacra Corona Unita, Società Foggiana, Clan
Baresi.
CAMPANIA: Camorra, Clan Casalesi.
ABRUZZO: Maia Rom.
BASILICATA: Basilischi (scomparsa)
LAZIO: Clan Rom, Ex banda della Magliana, Maia
capitale
VENETO: Mala del Brenta (scomparsa e poi riapparsa).

MAFIE PROVENIENTI DALL'ESTERO

CINA: Triadi, Gang, Nuova maia economica.


ALBANIA: Maia albanese.
SERBIA: Maia serba.
EX URSS: Maia russa.
ROMANIA: Maia rumena, maia rom.
NIGERIA/SENEGAL: Black Axe, gruppi criminali
organizzati
BULGARIA: Maia bulgara.
PERU/ECUADOR: Gang
ERITREA: Gruppi organizzati nel traico esseri umani.

106
LE MAFIE PRESENTI IN ITALIA

Sembra ormai deinitivamente provato che la maia


emerge come fenomeno criminale durante il complesso
processo di formazione dello Stato nazionale italiano in
Sicilia. E’ nel corso di questo processo che si
trasformano in ceto autonomo di professionisti della
violenza quei soggetti che in precedenza sotto il
dominio dell’aristocrazia latifondista e assenteista
siciliana, avevano esercitato funzioni di custodia e
protezione dei fondi. Venuta meno la legittimazione del
loro potere di esercitare l’ordine pubblico a seguito del
crollo del potere dei baroni siciliani; coloro che erano
specialisti nell’oferta di protezione privata diventarono
autonomi rispetto all’aristocrazia. Allo stesso tempo lo
Stato italiano mostra un deicit nella capacità di
esercitare il monopolio della violenza legittima, sorge
così una vera e propria “fabbrica della violenza” che
ofre protezione in cambio di denaro, i maiosi quindi
divengono veri e propri imprenditori della protezione, e
devono mantenere alta la domanda della merce da loro
oferta. I maiosi devono dunque far sì che la violenza
sia sempre presente sul loro mercato, cioè che la
domanda di protezione non venga meno. A tal ine essi
utilizzano la propria capacità di esercitare violenza;
minacciano i soggetti nelle loro incolumità isiche o di
consistenza patrimoniale e al contempo ofrono la loro
protezione contro queste minacce in cambio di tangenti
e altre forme di contribuzioni economiche. Le principali
organizzazioni maiose in Italia sono: la maia in Sicilia;
la ndrangheta in Calabria; la camorra in Campania; la
sacra corona unita in Puglia.

La Maia: in Sicilia la maia si chiama «cosa nostra».


Cosa nostra nasce nella Sicilia occidentale ai primi
dell’Ottocento. Le sue origini sono strettamente legate
107
a quelle del latifondo, che domina l’economia della
Sicilia ino agli inizi del Novecento. Cosa nostra è forse
la più potente associazione per delinquere esistente nel
nostro Paese. Ha una struttura piramidale fortemente
gerarchizzata: alla base ci sono i «soldati» o «uomini
d’onore», i quali compongono la «famiglia», che con-
trolla il territorio di una zona della città o di un intero
centro abitato. Il controllo di una zona permette di
svolgere ogni sorta di traico e di esercitare il dominio
sulla popolazione e su tutte le attività economiche
presenti, praticando estorsioni, prestando denaro con
tassi usurai, partecipando a gare di appalto truccate per
la realizzazione e di opere pubbliche. Il vertice è
costituito dalla «cupola», una sorta di commissione che
sovrintende a tutti gli afari maiosi.

La Camorra: è difusa in particolare nell’area della


Campania, è costituita da un insieme di bande che si
compongono e si scompongono con grande facilità, a
volte paciicamente, altre volte con scontri sanguinosi.
A Napoli, gli ailiati dei clan non usano la parola
“Camorra” per indicare l’organizzazione, ma parlano di
“Sistema”: il sistema di Secondigliano, di Scampia, di
questo o quel camorrista, secondo la zona territoriale
controllata e del capo del clan. La camorra è l’unica
organizzazione di carattere maioso che abbia origine
urbane. Tanto cosa nostra, infatti, quanto la
‘ndrangheta hanno radici agrarie. La camorra sfrutta la
miseria e la disperazione sociale di persone “senza la-
voro”, cerca in tutti i modi di entrare in contatto con il
potere dello Stato, per proteggere le proprie attività
illecite. L’ambito degli afari dei clan camorristici va
dall’usura alle rapine, dalle estorsioni al traico di armi,
dall’industria del falso allo spaccio di stupefacenti, dalle
estorsioni alle scommesse illegali ino al traico dei
riiuti tossici. Nello spaccio della droga, in particolare,
108
sono coinvolte bande di ragazzini o, addirittura, intere
famiglie impiegate nella preparazione delle dosi e nello
smercio delle bustine.

La Ndrangheta: è presente soprattutto in Calabria.


Negli anni ha praticato sequestri di persona, estorsioni
e traici di droga. La struttura di base della ‘ndrangheta
è la ‘ndrina, radicata in un comune o in un quartiere
cittadino. La ‘ndrina è formata essenzialmente dalla
famiglia naturale, di sangue, del capobastone.
Rigidissima è la gerarchia all’interno di ogni famiglia,
regolata da un codice che prevede rituali in ogni
momento della vita associativa: dall’ailiazione
all’investitura del nuovo adepto, al giuramento che
deve essere prestato con solennità, al passaggio al
grado successivo, ino ai processi cui il tribunale della
cosca può sottoporre i propri ailiati, qualora si
dovessero rendere responsabili di eventuali violazioni
alle regole sociali. All’interno dell’organizzazione le
donne hanno sempre avuto un ruolo di rilievo: esse
vigilano, infatti, sull’andamento delle estorsioni,
riscuotono le tangenti, sono intestatarie di beni
appartenenti al sodalizio e curano i rapporti con i
latitanti e con l’esterno del carcere.

La Sacra Corona Unita: è un insieme di gruppi


criminali formatosi nella prima metà degli anni ottanta
nell’area del Salento, in Puglia. L’ingresso
nell’associazione avviene con la cerimonia solenne del
“battesimo”. Il giuramento è preceduto da un taglio
sull’avambraccio che è praticato al candidato dal suo
compare di sangue. Gli ailiati fanno giuramento di
omertà e di fedeltà alla Sacra Corona Unita e spesso si
fanno tatuare sul corpo simboli di riconoscimento. Tra le
principali attività di quest’organizzazione ci sono: il
traico di stupefacenti, e in particolare di eroina, il
109
commercio illecito di armi, le estorsioni, la gestione del
gioco d’azzardo clandestino, l’usura e la gestione dei
lussi di immigrati irregolari nel nostro Paese.

110
COME VEDONO LA MAFIA I RAGAZZI

Mi sembra utile riportare un breve sunto sulla visione


della maia da parte degli alunni delle scuole elementari
e medie della provincia di Campobasso. Premetto che
hanno le idee molto chiare su questo fenomeno di cui
percepiscono senz’altro la gravità. Ecco perché riporto
alcune loro rilessioni che mi paiono interessanti per un
confronto di idee e perché no anche di soluzioni.

Le domande sono apparentemente semplici:

Cos’è la maia?

Come la combatteresti?

Alcuni dei tantissimi ragazzi hanno risposto così:

Antonio (Classe prima media)

La maia è un'organizzazione che fa reati gravi in tutta


la terra. Per combattere la maia prima di tutto bisogna
che noi stessi non ci comportiamo come i maiosi.

Stefano (Classe quinta elementare)

La maia è una delle più gravi piaghe della nostra


società. La maia si sconigge combattendo l'omertà.

Giuliana (Classe quinta elementare)


111
La maia è un'organizzazione che agisce non
rispettando la legge. Per sconiggere la maia non
bisogna avere paura.

Antonio (Classe quinta elementare)

La maia è un'associazione criminosa sorta perché in


quei posti manca lo Stato. E' diicile combattere la
maia perché lì non c’è lavoro. Si può creare lavoro così
giovani lavorano e non diventano maiosi.

Giuseppina (Classe seconda media)

La maia è un'organizzazione antistatale con scopi di


lucro. La maia si combatte con l'aver iducia nelle
istituzioni, nel compiere il proprio dovere di cittadini e
denunciare i maiosi.

Nicola (Classe seconda media)

La maia è un fenomeno di cultura che si è radicata


nella nostra mentalità. La lotta contro la maia è molto
dura, bisogna avere coraggio di cambiare.

Lucia (Classe prima media)

La maia è il disinteresse della gente. La maia la si può


combattere con l'onestà, eliminando l'omertà.

Daniele (Classe quarta elementare)

La maia è dentro lo Stato. La maia si combatte contro


l'omertà e i politici corrotti.

Luigi (Classe quinta elementare)


112
La maia è un fenomeno molto difuso ai nostri giorni.
Per combatterla bisogna che sia impartita ai giovani
un'educazione come questa di oggi (si riferisce alla
lezione sulla legalità).

Maria Teresa (Classe terza media)

La maia è un'organizzazione contro i cittadini. Per


combattere la maia dobbiamo togliere i privilegi e dare
lavoro a chi non ce l’ha.

Tommaso (Classe quinta elementare)

La maia porta solo tanti morti e tanto dolore. Per


combatterla ci vogliono pene severe e prendergli tutti i
loro beni.

Mattia (Classe terza elementare)

La maia è meglio se non c’è, così stiamo tutti più


tranquilli.

113
IL RUOLO DELLA SCUOLA NELLA LOTTA ALLE
MAFIE

Dopo oltre venti anni di insegnamento universitario,


sono fermamente convinto che il metodo educativo
frontale e diretto sia fondamentale nella prevenzione
della criminalità perché i ragazzi devono poter
conoscere ed assimilare il valore della legalità. Il nostro
dovere, dunque, deve consistere nella valorizzazione
dello studente, ofrendogli la capacità di conoscere e di
esprimere al massimo le sue potenzialità. Ovviamente
questo non si realizza soltanto nella scuola, penso,
tuttavia, che se un giovane in essa acquisisca questi
due elementi, questo gli ofra una base fondamentale
anche per la prevenzione e la lotta della criminalità. Ho
sempre ritenuto che, prima della famiglia, la scuola sia
uno strumento di immunizzazione possibile dai pericoli
dell’illegalità, è una proilassi che funge da vaccino
contro il virus del reato. La scuola, oltre al buon
studente, ha il compito non facile di formare anche il
buon cittadino. Don Peppe Diana era solito dire: “Per
lottare la camorra basterebbe il coraggio di denunciare”
perché il silenzio è la prima fase di complicità alle maie
e di allontanamento dalle istituzioni. Ai ragazzi cui è
rivolto principalmente questo piccolo abecedario, ho
cercato di spiegare la realtà delle organizzazioni ma-
iose, soprattutto facendogli conoscere le vittime che
per lottarle hanno perso la loro vita. Non dobbiamo
dimenticarle! Le maie, come diceva don Pino Puglisi ai
suoi ragazzi, agiscono unicamente per ini di proitto
personale: ci sono dei guadagni enormi che non si
traducono mai in sviluppo ma sempre in regressione
dell’individuo e della società. Per questo unico scopo, le
maie non esitano a dare morte. Il boss maioso però
114
non è un mito ma un perdente in partenza che nella mi-
gliore delle ipotesi conduce una vita disperata nel
tentativo di sottrarsi alla morte che gruppi criminali a
lui contrapposti cercano di dargli per avere maggior
potere. La lotta senza quartiere all’illegalità è molto
complessa, intima e profonda ma non è delegabile
totalmente agli altri, in particolare alla magistratura,
alle forze di polizia, alle istituzioni: se non si crea
armonia tra società civile e istituzioni, che spesso
tendono a restare lontane, la battaglia è persa in
partenza. Ecco perché abbiamo fondato la Scuola di
Legalità “don Peppe Diana” e siamo partiti dalle scuole
d’Italia come esperienza costruttiva e positiva: questo
libro completa il nostro impegno e da un senso al nostro
progetto: lottare ogni forma di illegalità partendo dai
nostri ragazzi, dal nostro futuro.

(Vincenzo Musacchio)

115
LA LETTERA DI GIOVANNI FALCONE

In questa brevissima lettera (sembra sia l’ultima scritta


prima di morire) Falcone pone in risalto il tema della
legalità, il suo forte impegno contro la maia, la sua
determinazione portata avanti e difesa ino alle estreme
conseguenze. C’è il forte invito ai giovani a far propri i
principi di legalità e giustizia. Bisogna credere nella
giustizia nonostante la crisi dei valori etici, della politica
incapace di afrontare e risolvere i mali che
attanagliano tutti settori della vita sociale, a partire
proprio dai giovani, senza una prospettiva di lavoro, che
116
assistono impotenti al dissolvimento dello Stato, delle
istituzioni, dei partiti politici, dell’ordine giudiziario e
della perdita, giorno dopo giorno, dell’arma del voto per
la scelta responsabile degli uomini migliori per la po-
litica. In questa lettera si deve leggere il Falcone che
stimola i giovani a lottare per nobili ideali, si deve
leggere tutto quello che non è stato detto a chiare
lettere in questi anni dopo la sua morte e quella del suo
fraterno amico Paolo Borsellino.

117
ANEDDOTI

Un capo maia spiega a Paolo Borsellino cosa sia la


maia in poche parole: “Cos’è la maia? Faccia conto
che ci sia un posto libero da procuratore della
repubblica e che presentino domanda tre magistrati. Il
primo è bravissimo, senza dubbi il migliore, il più
preparato e il più esperto. Il secondo ha appoggi
formidabili dalla politica. Il terzo è un fesso. Chi
vincerà? Il fesso. Ecco, questa è la maia!”

“L'avverto, signor giudice. Dopo questo interrogatorio


lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di
distruggerla isicamente e professionalmente. E con me
faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto che ha
aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. Non mi
chieda chi sono i politici compromessi con la maia
perché se le rispondessi, potrei destabilizzare lo
Stato. È sempre del parere di interrogarmi?” (Tommaso
Buscetta a Giovanni Falcone).

Mi ido della mia professionalità, sono convinto che con


un abile, paziente lavoro si può sottrarre alla maia il
suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma
forse decisiva: gran parte delle protezioni maiose, dei
privilegi maiosi certamente pagati dai cittadini non
sono altro che i loro elementari diritti che però la maia
garantisce e lo Stato no. (Carlo Alberto Dalla Chiesa)

118
“Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me.
Lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire
che era un galantuomo e che io sono stato dell’area
andreottiana da sempre. Eccola qui, la storia del bacio.
(Interrogatorio di Salvatore Riina)

“Se parlo io ballano le scrivanie di mezzo Parlamento”.


(Rafaele Cutolo a Repubblica del 2 marzo 2015).

“All’inizio uccidere è bello, ti senti onnipotente. Dopo


averlo fatto la prima volta, vuoi subito riprovarci, ma ad
un certo punto ti rendi conto di essere una nullità e di
essere stato usato. Capisci l’errore e vorresti morire.”
(Killer del clan dei Casalesi)

119
Vincenzo MUSACCHIO: Docente di diritto penale e
criminologia in varie Università italiane e straniere.
Studioso ed esperto di criminalità organizzata e di
strategie di lotta alla corruzione. Fondatore e direttore
scientiico della prima Scuola di Legalità in Italia
intitolata a don Giuseppe Diana. La sua attività
scientiica ha inizio nel 1992, quando diventa professore
di diritto penale nell'Università degli studi del Molise e a
soli ventiquattro anni è titolare della cattedra di diritto
penale amministrativo diventando il più giovane
professore a contratto d'Italia per quell'anno. Ha
insegnato materie aferenti alle discipline penalistiche e
alla criminologia a Brescia, Napoli, Chieti, Campobasso
e da ultimo presso l'Alta Scuola di Formazione della
Presidenza del Consiglio in Roma e tenuto corsi in
Università straniere tra cui l'Università di Siviglia e di
Barcellona, in Argentina ed in Brasile. Dal 1994 al 1996
ha svolto attività di ricerca presso il Consiglio Nazionale
delle Ricerche (IRSIG-CNR) di Bologna sotto la direzione
del Prof. Giuseppe Di Federico, occupandosi di studi
comparatistici riguardanti la criminalità organizzata nei
paesi europei ed extraeuropei. La sua attività didattica
e di ricerca è dedita soprattutto a studi ed approfondi-
menti su tematiche riguardanti il diritto penale
sostanziale, la criminalità organizzata, la corruzione e i

120
reati dei colletti bianchi. Tra i maestri che hanno
inluenzato il suo pensiero igurano Giuliano Vassalli,
Giuseppe Bettiol ed Ettore Gallo. È membro del
comitato direttivo e collabora con riviste penali italiane
ed estere, quali Cassazione Penale (Giufrè), Rivista
Penale, Giustizia Penale, Giurisprudenza Italiana (Utet),
Rivista di Polizia, Il Diritto delle Persone e della Famiglia
(Giufrè), Giurisprudenza di Merito (Giufrè) e all'estero
con Il New Journal of European Criminal Law (Belgio), la
Revista General de Derecho Penal (Spagna), German
Law Journal (Germania), L'Astree (Francia), Ciencias
Penales Conteporaneas (Argentina), Revista Instituto
Brasileiro de Ciencias Criminais (Brasile). Ha collaborato
all'Enciclopedia del Diritto (Giufrè) e al Digesto delle
Discipline Penalistiche (Utet). Ha partecipato nel 2005,
unico penalista italiano, al XVII Congresso
Latinoamericano di diritto penale e criminologia
organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università di Guayaquil, in Ecuador sui temi
dell'eicacia della pena nel moderno diritto penale. È
stato collaboratore del Consiglio dell’Unione europea in
materia di criminalità organizzata e traico di esseri
umani. Ha collaborato con l’Istituito Brasiliano di
Scienze Criminali ad un progetto internazionale sui
rapporti tra economia e criminalità organizzata
nell’Unione europea (IBCCRIM). Ha collaborato ad un
progetto in materia di corruzione con il Governo
spagnolo e l'Università di Siviglia coordinando il settore
riguardante i sistemi di prevenzione e repressione. È
iscritto all'Albo degli esperti in materie penali del
Consiglio d'Europa. E' associato presso il Rutgers
Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di New York
occupandosi principalmente dei sistemi di lotta alla
corruzione nella pubblica amministrazione. Da oltre
vent'anni è promotore e attivista nella difusione della
cultura della legalità nelle scuole di ogni ordine e grado.
121
"Il prof. Vincenzo Musacchio - scrive Maria Falcone -
svolge una attività meritoria nelle scuole italiane
facendo si che uomini che per la legalità hanno oferto
la loro vita non siano dimenticati”. Comincia la sua
attività di lotta contro le maie quando conosce
Antonino Caponnetto e con lui organizzano vari incontri
nelle scuole italiane. Come editorialista, il Prof.
Musacchio ha collaborato con il Sole 24ore, Italia Oggi e
collabora attualmente con lo storico quotidiano
palermitano “L'ORA”, con il mensile “I Siciliani” fondato
da Pippo Fava, con il quotidiano online “Resto al Sud”,
con la testata nazionale “Il Garantista” e con la
“Gazzetta del Sud”. Il 1º marzo 2015, nell'edizione della
domenica, "L'ORA" pubblica una lettera inedita di
Giovanni Falcone indirizzata al professore Vincenzo
Musacchio e ripresa dai principali quotidiani nazionali.
Nel 2014 fonda la Scuola di Legalità “Don Peppe Diana”
con sede a Roma e in Molise e realizza il Progetto
“Legalità Bene Comune” che nello stesso anno si
estende in ambito nazionale nella scuole di ogni ordine
e grado con nomi di spicco quali Pino Arlacchi, Maria
Falcone, Emilio Diana, Elena Fava, Salvatore Borsellino,
Simona Dalla Chiesa, Giovanni Impastato e tantissimi
altri attivisti nella lotta alle maie d’Italia. Nella sua
attività contro le maie e per la legalità, subisce anche
minacce di morte a se ed ai propri familiari ma continua
senza timori il suo lavoro e la sua attività di difusione
della legalità in tutte le scuole d'Italia passando da
Scampia ino a Foggia e a Palermo.

122
AVVERTENZE

Le fotograie utilizzate in questo libro sono tratte da


internet e sono di pubblico dominio. I brani e le frasi, o
sono diretta concessione degli interessati, o tratte da
quotidiani nazionali e quindi anch’esse di dominio
pubblico.

123
La mafia sarà vinta da un
esercito di maestre elementari.

Gesualdo Bufalino

124

Potrebbero piacerti anche