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Corso di GIORNALISMO D’INCHIESTA A.A.

2022-2023
Facoltà di LETTERE E FILOSOFIA
Università LA SAPIENZA di ROMA
CdLM in EDITORIA E SCRITTURA

Appunti del professore Ottavio Mancuso

GIULIANO TURONE, “ITALIA OCCULTA”


(Milano, 2021, Chiarelettere editore)

IL TRIENNIO MALEDETTO – Dalla morte di Moro alla strage di Bologna: fenomeni


criminali e anti-istituzionali che hanno sconvolto l’Italia, mettendo a rischio l’equilibrio
costituzionale del Paese. Il ruolo della P2 di Licio Gelli per imporre una svolta
autoritaria.
- Il libro parla del “triennio maledetto” - così definito dall’autore – che va dal delitto
Moro (1978) alla strage di Bologna (1980). Un periodo sconvolgente per l’Italia,
che trova le premesse in una serie di fatti precedenti a quegli accadimenti e che
condizionerà profondamente la storia del nostro Paese fino ai giorni nostri. Turone
definisce quegli avvenimenti come “fenomeni criminali e anti-istituzionali di
devastante pericolosità, tale da mettere a rischio lo stesso equilibrio
costituzionale del Paese”. L’autore non si limita ad analizzare gli anni che vanno
dal 1978 al 1980, ma allarga lo sguardo al periodo precedente e a quello successivo
a quei fatti. Il tutto allo scopo di dipanare la fitta trama di misteri che caratterizza
quelle vicende e sollevare la nebbia determinata da depistaggi e procedimenti
giudiziari a volte lacunosi, arrivando a una ricostruzione storica e giornalistica, il
più possibile vicina alla realtà dei fatti.
- L’autore è magistrato e saggista. Attuale giudice emerito della Corte di Cassazione,
ha svolto la funzione di giudice istruttore. A cavallo tra la fine degli Anni Settanta e
l’inizio degli Anni Ottanta ha portato avanti le inchieste sul finanziere d’assalto
Michele Sindona, accusato, fra l’altro, di aver fatto uccidere Giorgio Ambrosoli,
commissario liquidatore della Banca Privata dello stesso Sindona. Proprio indagando
su questo omicidio, Turone giunge alla clamorosa scoperta degli iscritti alla loggia
massonica segreta P2 guidata da Licio Gelli, nel corso di un sequestro a Castiglion
Fibocchi - nella sede aretina di una società del gruppo Lebole - ordinato insieme al
collega Gherardo Colombo.
- Turone ricostruisce nei minimi dettagli il ‘Sistema’ messo in piedi dalla P2 allo
scopo di imporre al Paese una svolta autoritaria. Un sistema basato non solo sul
coinvolgimento diretto di apparati istituzionali, esponenti politici, alti gradi militari,
servizi segreti deviati, imprenditori, giornalisti, ma anche su stretti legami con la
criminalità mafiosa e l’estremismo di destra. Un sistema complesso intorno al
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quale ruota una lunga serie di fatti criminosi e di intrighi, insomma quell’Italia
occulta che tanto pesantemente ha condizionato la storia del nostro Paese.
- La metodologia utilizzata da Turone nella sua inchiesta coniuga verità giudiziarie
a verità storiche. L’autore non si limita a far parlare le sentenze emesse sugli
avvenimenti trattati – peraltro, in alcuni casi, lacunose - ma amplia lo sguardo a una
più complessiva ricostruzione storica che mette insieme fatti solo all’apparenza
distanti fra loro. Le sentenze, spiega Turone, devono stabilire la colpevolezza degli
imputati “al di là di ogni ragionevole dubbio” e quindi, in assenza di prove
incontrovertibili contro gli imputati, non sempre si arriva a stabilire la verità assoluta.
La rielaborazione storica e/o giornalistica, invece, partendo dalle sentenze, punta a
“ricostruire circostanze di fatto” che non sono state sufficientemente chiarite a
livello investigativo, collegando tutti gli elementi a disposizione – anche di
avvenimenti e procedimenti giudiziari diversi fra loro - allo scopo di avere il quadro
più ampio possibile e fornire una chiave di interpretazione di quanto accaduto, il più
vicino possibile alla realtà. Il libro-inchiesta di Turone fonde, quindi, le verità
giudiziarie contenute nelle sentenze, nei verbali, nelle testimonianze, a dati di fatto
storici e a ricostruzioni logiche degli avvenimenti. Tutti elementi che, considerati nel
loro complesso, squarciano i veli dell’’Italia occulta’, dipanando intrecci e facendo
venire alla luce oscuri legami.

LE TRE PECULIARITÀ DELLA STORIA D’ITALIA - La presenza delle mafie


storiche, gli oltre mille anni di vita dello Stato della Chiesa, l’esistenza del partito
comunista più forte del mondo occidentale.
- Le mafie sono state, in diversi momenti della nostra storia, utilizzate dal potere
centrale per esercitare il controllo del territorio in determinate aree geografiche. Basti
ricordare che gli americani, appena sbarcati in Sicilia, affidarono i comuni siciliani e
calabresi nelle mani di notabili che altri non erano che i boss mafiosi locali. Lo fecero
allo scopo di evitare che quelle zone finissero nelle mani di esponenti politici
comunisti, ma, in tal modo, rafforzarono i centri di potere criminale, dando loro un
riconoscimento istituzionale.
- Il millennio pontificio, a sua volta, ha prodotto lasciti ingombranti che hanno influito
sul percorso storico-politico dell’Italia dall’Unità a oggi. Turone si limita a ricordare
“il ruolo deleterio” che ebbe la banca vaticana Ior (Istituto per le opere religiose)
negli anni in cui fu presidente il cardinale Paul Marcinkus (1971-1989). È stato
accertato da diverse sentenze che, in quegli anni, lo Ior intrattenne “rapporti intensi”
con la loggia massonica P2, con i finanzieri d’assalto bancarottieri, Michele Sindona
e Roberto Calvi, e con esponenti della mafia siciliana e siculo-americana.
- Infine, la forte presenza del Partito comunista in un Paese come l’Italia che la
Conferenza di Yalta del 1945 aveva assegnato al blocco occidentale, determinò la
nascita di formazioni anticomuniste che fecero ricorso anche a mezzi estremi (la
cosiddetta Strategia della tensione), pur di impedire l’ascesa dei comunisti al potere.

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IL SISTEMA P2 – L’intervista di Licio Gelli al Corriere della Sera e la perquisizione
a Castiglion Fibocchi con la clamorosa scoperta di dossier scottanti e dell’elenco degli
iscritti alla P2. Il governo Forlani cade a causa dello scandalo: a Palazzo Chigi va il
repubblicano Spadolini, primo premier non democristiano dal dopoguerra. Gelli fa
volutamente ritrovare il ‘Piano di rinascita democratica’, che contiene i punti di un
golpe strisciante da lui progettato per sovvertire la Costituzione. La Commissione
parlamentare sulla P2, presieduta da Tina Anselmi, elabora la tesi della ‘doppia
piramide’, senza però riuscire a individuare il livello politico più elevato.
- Il sistema di potere occulto rappresentato dalla loggia P2 viene scoperchiato con la
perquisizione del 17 marzo 1981 a Castiglion Fibocchi, ordinata dallo stesso Turone
e dal collega Gherardo Colombo, entrambi giudici istruttori a Milano, i quali
indagavano sul bancarottiere Michele Sindona, accusato di essere il mandante
dell’uccisione di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca privata,
guidata dallo stesso Sindona. La perquisizione viene ordinata perché Licio Gelli, alla
guida della P2 insieme al faccendiere Umberto Ortolani, si era - sia pubblicamente,
sia riservatamente - speso per l’accoglimento di improbabili piani di salvataggio
proposti dallo stesso Sindona. I magistrati si erano, inoltre, insospettiti per il
contenuto di un’intervista al Corriere della Sera, in cui lo stesso Gelli descriveva per
la prima volta il sistema di potere costituito intorno alla P2 da lui guidata. Da
sottolineare che l’intervista era stata rilasciata al giornalista Maurizio Costanzo – il
quale poi risultò iscritto alla stessa P2 - e a un quotidiano, il Corriere della Sera,
facente parte del gruppo editoriale Rizzoli, che, sempre successivamente, si scoprì
essere sotto il controllo della stessa P2. Basti pensare che l’allora direttore del
quotidiano milanese, Franco Di Bella, era un affiliato alla loggia massonica di Gelli.
- La perquisizione viene effettuata nella sede della ditta Giole del gruppo Lebole, il
cui indirizzo era contenuto in un’agendina sequestrata a Sindona. I finanzieri che la
effettuano scoprono che, in quella ditta, Licio Gelli ha una segretaria personale e una
sua propria stanza, all’interno della quale viene sequestrata una gran mole di
documenti, fra cui l’elenco dei 963 iscritti alla loggia segreta, che comprende
personaggi al vertice delle istituzioni: ministri, esponenti del mondo politico,
economico e giudiziario, alte cariche militari, dirigenti dei servizi segreti, giornalisti.
- Il 25 marzo Turone e Colombo si fanno ricevere dall’allora presidente del
Consiglio, Arnaldo Forlani, per informarlo dell’esito della perquisizione e
consegnargli la documentazione ritrovata. Il premier tiene inizialmente nascosta la
notizia, poi, dopo un paio di mesi di voci e indiscrezioni incontrollate, è costretto a
renderla pubblica. La reazione dell’opinione pubblica è enorme e travolge Forlani e
il suo governo. Al suo posto arriva a Palazzo Chigi il repubblicano, Giovanni
Spadolini, primo premier non democristiano della storia del Paese.
- Il Sistema P2 non tarda a reagire. Innanzitutto, il sostituto procuratore di Roma,
Domenico Sica, avoca a sé l’inchiesta sulla P2 per competenza territoriale. Ottiene il
via libera della Cassazione e la toglie ai colleghi milanesi che, però, non si fidano dei
magistrati romani e, per cautelarsi, inviano nella capitale solo le fotocopie dei
documenti, trattenendo gli originali a Milano. La seconda reazione di quello che
Turone chiama Sistema P2, è il ritrovamento del ‘Piano di rinascita democratica’,
elaborato da Licio Gelli nel 1976. Il documento viene fatto volutamente trovare nel
sottofondo di una valigia della figlia dello stesso Gelli, allo scopo, spiega Turone, di
lanciare avvertimenti a chi doveva capire e rassicurare gli iscritti alla P2 sul fatto che
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lo scandalo scoppiato dopo la perquisizione di Castiglion Fibocchi non avrebbe
fermato i progetti prestabiliti.
- Il Piano di rinascita democratica contiene le istruzioni per realizzare una sorta di
“golpe strisciante”, allo scopo di imporre una svolta autoritaria all’Italia e impedire
l’ingresso dei comunisti al governo. Questi i punti del piano: selezionare e formare
pochi elementi in grado di condizionare e controllare tutti i partiti politici
(naturalmente, con l’esclusione del Pci), i sindacati e i giornali; indebolire la Rai in
nome della libertà d’antenna; riformare l’ordinamento giudiziario allo scopo di
limitare l’indipendenza dei magistrati e porli sotto il controllo della politica.
- Nel 1984 la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presieduta da Tina
Anselmi, conclude i lavori, approvando una Relazione finale che descrive il Sistema
P2 con la metafora della “doppia piramide”, vale a dire di due piramidi poste una
sull’altra a forma di clessidra. In base a questa ricostruzione, la Commissione
parlamentare colloca Licio Gelli al vertice della prima piramide, in quanto custode
della P2 e punto di collegamento con la piramide superiore. Di quest’ultima, a sua
volta portatrice e responsabile degli obiettivi ultimi, la Commissione ammette di non
essere riuscita a conoscere né la struttura, né i componenti: “Non ci è dato conoscere
– scriveva Anselmi - le forze che si agitano nella struttura a noi ignota”. L’inchiesta
di Turone è volta a dimostrare che, sulla base delle conoscenze giudiziarie e storiche
emerse dopo il 1984, è oggi possibile avere un quadro molto più chiaro e preciso sui
personaggi che si trovavano nella piramide superiore. È quello che vedremo nel
prosieguo dei fatti e delle circostanze narrate dall'autore.

IL GENERALE DALLA CHIESA E I CARABINIERI PIDUISTI – Lo scontro,


all’interno dell’Arma, tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e i generali Palumbo e Picchiotti,
iscritti alla P2 di Gelli. La perquisizione nel covo Br di Via Monte Nevoso e gli attacchi
a Dalla Chiesa.
- Turone affronta il caso Moro da una particolare angolazione, evidenziando i contrasti
che scoppiarono all’interno dell’Arma dei carabinieri fra Carlo Alberto Dalla
Chiesa e i generali piduisti Giovanbattista Palumbo e Franco Picchiotti.
All’indomani dell’uccisione di Moro, il generale Dalla Chiesa aveva ricevuto dal
ministro dell’Interno, Virginio Rognoni – che aveva preso il posto del dimissionario
Francesco Cossiga - l’incarico di coordinare la lotta al terrorismo, mentre Palumbo e
Picchiotti, rispettivamente comandante della divisione Pastrengo di Milano e
comandante della divisione carabinieri di Roma, si scoprirà successivamente essere
stretti collaboratori di Gelli. Palumbo, inoltre, era stato coinvolto nel 1974
nell’organizzazione del ‘golpe bianco’ tentato da Edgardo Sogno, allo scopo di
imporre al Paese un regime presidenzialista alla stregua di quello realizzato da De
Gaulle in Francia. Dalle pagine di Turone emerge la gelosia e l’antipatia personale
nutrita da Palumbo e Picchiotti nei confronti di Dalla Chiesa. Ma è tutt’altro che
secondario il fatto che Dalla Chiesa fosse un militare fedele alla Costituzione, mentre
gli altri due coltivavano i progetti piduisti di trasformazione dell’assetto politico
italiano in chiave autoritaria.

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- Lo scontro all’interno dell’Arma dei carabinieri esplode in occasione della scoperta,
da parte degli uomini di Dalla Chiesa, del covo milanese delle Brigate Rosse di Via
Monte Nevoso, avvenuta nell’ottobre 1978. Il generale Palumbo ostacola in ogni
modo il lavoro di Dalla Chiesa e si arroga il diritto di procedere in prima persona alla
perquisizione del covo, creando ogni tipo di ostacolo al lavoro degli uomini di Dalla
Chiesa. Questi decide allora di accelerare le operazioni di perquisizione, proprio per
evitare che gli uomini di Palumbo mettano le mani sul materiale ritrovato. A causa
di ciò, il covo non viene setacciato a dovere: dodici anni dopo, nel 1990, durante
lavori di ristrutturazione dell’appartamento, un operaio trova all’interno di
un’intercapedine posta dietro a un termosifone, una cartella contenente il Memoriale
di Moro, vale a dire la trascrizione degli interrogatori ai quali lo statista era stato
sottoposto dodici anni prima, durante la prigionia.
- Nel 1982, quindi otto anni prima del ritrovamento del Memoriale, la brigatista Carla
Maria Brioschi aveva denunciato, in un’aula di tribunale, la mancanza di parte
rilevante della documentazione che, a suo parere, si trovava nel covo di Via Monte
Nevoso. Nascono subito sospetti sul fatto che Dalla Chiesa avesse volutamente
tenuto nascosto una parte del Memoriale perché troppo compromettente per la classe
politica. Ebbene, si lasciano circolare queste voci che gettano un’ombra su Dalla
Chiesa, ma curiosamente nessun magistrato decide di ascoltare il generale che,
all’epoca, era ancora vivo. Così come non viene chiamato a testimoniare nessuno dei
carabinieri che avevano materialmente effettuato la perquisizione e redatto il relativo
referto dei beni rinvenuti nel covo. In ogni caso, Turone ritiene del tutto ingiustificati
i sospetti su Dalla Chiesa, non foss’altro perché, in realtà, nel Memoriale di Moro
non c’era nulla di scottante. Moro aveva parlato tanto nel corso degli interrogatori
subiti, ma, dice Turone, in realtà non aveva rivelato nulla di importante e
significativo.

IL CASO PECORELLI – Il giornalista Mino Pecorelli, legato ai servizi segreti, viene


ucciso nel marzo del 1979. L’ombra del ricatto nei confronti di Giulio Andreotti, che
viene accusato da Buscetta di essere il mandante dell’omicidio. Come esecutori
materiali sono indagati elementi della mafia e della Banda della Magliana. Le indagini
lacunose degli inquirenti producono una sentenza ‘illogica e abnorme’ che viene
annullata dalla Cassazione, determinando l’assoluzione di tutti gli imputati, sia
mandanti sia esecutori.
- Mino Pecorelli era un giornalista, direttore dell’agenzia di stampa OP, che si
occupava di inchieste politiche e sociali per le quali si avvaleva di fonti riservate,
spesso legate ai servizi segreti. Viene ucciso il 20 marzo 1979 a Roma subito dopo
aver lasciato la redazione del giornale. La prima istruttoria sull’omicidio viene
condotta dal sostituto procuratore di Roma, Domenico Sica. Indagine che si protrae
“stancamente” per ben dodici anni ed è scandita da “gravi omissioni”. Va ricordato
che il magistrato Sica è lo stesso che successivamente si occuperà della P2, anche in
quel caso dimostrando, sostiene Turone, a dir poco scarsa cura. L’inchiesta condotta
da Sica sul caso Pecorelli praticamente non porta a nulla di concreto. Una delle più
evidenti lacune è il fatto che Sica non avverte nemmeno la necessità di convocare le

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tante persone i cui nomi sono segnati nell’agenda di Pecorelli, molte delle quali
avrebbero potuto fornire elementi utili alle indagini.
- La svolta sul caso Pecorelli avviene nel 1992, quando il pentito di mafia, Tommaso
Buscetta, rivela che i mandanti dell’omicidio erano stati i cugini Nino e Ignazio
Salvo - affiliati al boss mafioso Bontate - su mandato di Giulio Andreotti e di uno
stretto collaboratore di quest’ultimo, Claudio Vitalone. Quello di Pecorelli, disse
Buscetta, è stato un delitto politico per eliminare un “giornalista scomodo”. In altre
parole, secondo il pentito di mafia, uccidendo Pecorelli, la mafia aveva fatto un
favore ad Andreotti.
- Successivamente alla testimonianza di Buscetta, diversi esponenti della Banda della
Magliana rivelano il coinvolgimento diretto dell’organizzazione criminale della
capitale, facendo i nomi degli esecutori materiali: Massimo Carminati, estremista
di destra legato alla stessa banda, e Michelangelo La Barbera, affiliato alla mafia.
- A occuparsi dell’inchiesta è la procura di Perugia: in primo grado la Corte d’Assise
di Perugia assolve tutti, mentre, al secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello
condanna alcuni imputati (fra questi Andreotti), ma ne assolve altri (fra questi, i
presunti esecutori materiali Carminati e La Barbera), il cui ruolo era comunque
strettamente legato ai primi. La sentenza è, per tale motivo, definita da Turone
“illogica e abnorme”. Ma le stranezze non finiscono qua. Il pm, scrive Turone,
avrebbe dovuto fare ricorso alla Cassazione denunciando la manifesta illogicità della
sentenza d’appello e chiedendo il totale annullamento della sentenza e la ripetizione
del processo. Il pm, non solo non lo fa, ma presenta ricorso esclusivamente per le
assoluzioni e non già per le condanne. Ne consegue che la Corte di Cassazione non
può che annullare la sentenza della Corte d’Appello, ma senza chiedere un nuovo
processo, rendendo così automaticamente definitive le assoluzioni decise in primo
grado. Insomma, un gran pasticcio giudiziario.
- A questa verità giudiziaria sul caso Pecorelli si affianca una verità storica, che Turone
si sforza di ricostruire, individuando una serie di eventi che possono essere collegati
al delitto Pecorelli, ma non sono stati sufficientemente approfonditi dagli inquirenti.
- Nel 1981 viene fatta la clamorosa scoperta di un deposito clandestino di armi della
Banda della Magliana in uno scantinato del ministero della Sanità. Vengono, fra
l’altro, trovate numerose cartucce Gevelot calibro 7,65, facenti parte dello stesso
stock di quelle utilizzate per uccidere Pecorelli. Si tratta, sottolinea Turone, di un
collegamento diretto fra il delitto Pecorelli e la Banda della Magliana. Un elemento
su cui si sarebbe dovuto indagare, ma che, invece, viene inspiegabilmente trascurato
dagli inquirenti.
- Altro elemento di cui tener conto è la campagna di stampa orchestrata su OP da
Pecorelli contro Andreotti, in cui il giornalista denunciava il pagamento di assegni
per due miliardi di lire a favore dello stesso Andreotti, da parte dell’imprenditore
chimico, Nino Rovelli. Due mesi prima dell’omicidio si svolge una cena a cui
partecipano, fra gli altri, Pecorelli e Claudio Vitalone, uomo di fiducia di Andreotti.
In quell’occasione, a detta degli altri partecipanti, Pecorelli annuncia a Vitalone che
presto pubblicherà un’altra puntata della sua inchiesta con le foto degli assegni. Allo
stesso tempo, il giornalista si lamenta dell’inaridirsi dei finanziamenti alla sua
agenzia da parte della corrente andreottiana della Democrazia Cristiana. Elementi
che lasciano capire come l’azione di Pecorelli fosse un ricatto in piena regola ai
danni di Andreotti. Vitalone cerca di dissuadere il giornalista dall’andare avanti con

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la pubblicazione dell’inchiesta, ma Pecorelli dà solo vaghe rassicurazioni. Due mesi
dopo quella cena, verrà assassinato.

ANDREOTTI E I RAPPORTI CON LA MAFIA – Giulio Andreotti, riconosciuto


‘contiguo alla mafia’ fino al 1980, evita la condanna solo per la prescrizione del reato.
Accertati due incontri in Sicilia fra Andreotti e il boss mafioso Bontate: nel primo,
Bontate si lamenta per le iniziative anti-mafiose di Piersanti Mattarella; nel secondo,
avvenuto dopo l’uccisione di quest’ultimo, il boss ‘alza la voce’ intimando all’esponente
dc di adoperarsi al fine di evitare che lo Stato adotti misure severe a causa di
quell’assassinio. Accertati anche scambi di favori. La guerra di mafia nasce proprio dal
forte legame del clan Bontate con Andreotti, che scatena la reazione dei corleonesi per
la conquista della supremazia in Cosa Nostra.
- La sentenza della Corte d’Appello di Palermo del 2003, successivamente confermata
dalla Cassazione, riconosce Andreotti responsabile di complicità con Cosa Nostra
fino alla primavera del 1980, a causa dei rapporti intrattenuti con il gruppo criminale
mafioso Bontate-Inzerillo. L’esponente dc evita la condanna perché, essendo passati
23 anni dai fatti addebitatigli, il reato è caduto in prescrizione.
- La sentenza accerta diverse circostanze di fatto. Innanzitutto, in un incontro fra
Bontate e Andreotti avvenuto a Catania nel 1979, il boss mafioso si era lamentato
con l’esponente dc per l’atteggiamento dell’allora presidente della Regione Sicilia,
Piersanti Mattarella, il quale aveva avviato misure di forte contrasto alla mafia,
bonificando, fra l’altro, il sistema degli appalti pubblici. Il 6 gennaio 1980 Mattarella
viene ucciso dalla mafia e tre mesi dopo Bontate riceve per una seconda volta
Andreotti a Palermo. Durante il colloquio, a detta di diversi testimoni, il boss mafioso
“alza la voce” con Andreotti, intimandogli di fare in modo che lo Stato non adotti
misure severe in seguito all’omicidio Mattarella. Viene, fra l’altro, accertato che, in
quella occasione, Andreotti aveva raggiunto Palermo a bordo di un aereo privato
messo a disposizione dai cugini Salvo, referenti di Andreotti in Sicilia e legati al clan
mafioso di Bontate.
- La sentenza di Palermo del 2003 accerta, inoltre, uno scambio di favori tra
Andreotti e Bontate. Verso la fine degli Anni Settanta, l’esponente dc aveva
ottenuto dal boss mafioso che si ponesse termine a un’estorsione praticata dalla
‘ndrangheta calabrese nei confronti di un imprenditore laziale vicino ad Andreotti.
Favore ricambiato da quest’ultimo quando, su richiesta di Gaetano Badalamenti, si
era attivato per ‘aggiustare’ un processo a carico di una persona legata al boss
mafioso.
- La sentenza della Corte stabilisce, dunque, che fra Andreotti e il clan mafioso
Bontate-Inzerillo è esistito un rapporto associativo penalmente rilevante.
Proprio questo rapporto privilegiato, spiega Turone, è alla base della guerra di mafia
che, all’inizio degli Anni Ottanta, viene scatenata dai boss corleonesi (Liggio, Riina
e Provenzano), timorosi del fatto che il gruppo Bontate potesse acquisire troppo
potere a loro discapito. In tale guerra, che finirà per determinare la supremazia dei
corleonesi all’interno di Cosa Nostra, i Bontate erano considerati l’ala ‘moderata’
della mafia, non perché fossero meno violenti, ma perché, a differenza dei corleonesi,

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avevano scelto la strada del dialogo con le istituzioni, incarnate proprio da
Andreotti. È proprio l’esito della guerra di mafia, con la sconfitta dei Bontate e la
vittoria del fronte opposto dei corleonesi, a convincere la Corte che il rapporto
associativo di Andreotti con la mafia si era concluso all’inizio del 1980. E a far
decadere la condanna dello stesso Andreotti perché, dopo 23 anni, il reato penale era
caduto in prescrizione.

I FINANZIERI D’ASSALTO MICHELE SINDONA E ROBERTO CALVI –


Attraverso la Banca Privata e il Banco Ambrosiano, Sindona e Calvi (entrambi iscritti
alla P2) ripuliscono i soldi della mafia provenienti da attività illecite. Sindona è legato
ad Andreotti e ricicla i soldi del clan Bontate, Calvi quelli dei corleonesi. La Banca
Privata va in bancarotta e i piani di salvataggio proposti da Sindona vengono respinti.
Il finanziere viene condannato per bancarotta fraudolenta e per l’assassinio del
commissario liquidatore Ambrosoli: pone vita alla sua vita in carcere. Calvi, anch’egli
in bancarotta, viene ucciso dai corleonesi.
- Michele Sindona e Roberto Calvi – alla guida, rispettivamente, della Banca
Privata e del Banco Ambrosiano – per anni finanziano occultamente la mafia con
il riciclaggio dei soldi sporchi provenienti da attività criminali. Sindona ripuliva gli
illeciti introiti del gruppo Bontate-Inzerillo (lo stesso a cui, secondo i giudici
palermitani, era legato Andreotti), mentre Calvi faceva lo stesso lavoro con i
corleonesi. Particolare non trascurabile, sia Calvi, sia Sindona, erano iscritti alla P2,
protagonisti di primo piano del progetto orchestrato dai vertici di quella loggia
massonica, vale a dire Licio Gelli e Umberto Ortolani.
- Le mosse spericolate di Sindona mettono in difficoltà la Banca Privata da lui guidata,
che finisce sull’orlo del fallimento. Nel 1973, a fronte di una grave crisi di liquidità,
il finanziere propone un piano di salvataggio che si basa su un aumento di capitale
‘monstre’ di 160 miliardi di lire, attraverso la raccolta di pubblico risparmio. Il
ministro del Tesoro dell’epoca, Ugo La Malfa - che Turone definisce persona
“accorta e onesta” - si oppone a quel piano, considerandolo, né più né meno, un
tentativo maldestro di scaricare i guai della banca sulla collettività e su ignari
risparmiatori. Sindona viene incriminato per bancarotta fraudolenta, mentre la
sua banca viene messa in liquidazione, con la conseguenza che il clan Bontate-
Inzerillo, che aveva investito i propri fondi illeciti in quell’istituto, teme a quel punto
di perdere tutto. Per tale motivo, i clienti mafiosi di Sindona, in una prima fase,
appoggiano in pieno i tentativi di Sindona di salvare la Banca privata con i piani di
salvataggio presentati dal finanziere. Diversa sorte tocca, invece, a Roberto Calvi
che, con il suo Banco Ambrosiano, si era ritrovato in una situazione analoga a quella
di Sindona. Solo che i clienti mafiosi di Calvi sono i corleonesi, poco disposti, a
differenza dei Bontate, a trattare e a dialogare. Calvi viene così ucciso senza troppi
complimenti: il corpo viene ritrovato nel 1982, sotto il ponte dei Frati Neri a Londra.
- Nel 1979 Sindona fa due mosse che alla fine si ritorceranno contro di lui. La prima è
l’assassinio, da lui ordinato, del commissario liquidatore della Banca Privata,
Giorgio Ambrosoli, colpevole ai suoi occhi di essersi opposto (malgrado le minacce
subite) ai dissennati piani di salvataggio proposti, a più riprese, dallo stesso Sindona.

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Gli inquirenti che indagano sull’uccisione di Ambrosoli indirizzano immediatamente
le indagini su Sindona - il solo a trarre vantaggio dalla sua morte – e lo incriminano
per essere il mandante dell’omicidio. La seconda mossa sbagliata di Sindona è il
finto rapimento orchestrato in Sicilia ad opera di una fantomatica organizzazione
terroristica di estrema sinistra.
- Gelli, di cui Sindona era una creatura, capisce a questo punto che il finanziere è ormai
bruciato e si reca in Sicilia per incontrare i mafiosi del clan Bontate-Inzerillo che fino
a quel momento avevano appoggiato le mosse spericolate di Sindona nella speranza
di recuperare, almeno in parte, i soldi investititi nella Banca Privata. In
quell’incontro, Gelli scredita Sindona e convince i boss ad abbandonarlo al suo
destino. Il finto rapimento viene così smascherato e Sindona è costretto a scappare
negli Stati Uniti, dove però viene arrestato e successivamente estradato in Italia. Il
finanziere subirà diversi processi e andrà incontro a varie condanne, compresa quella
all’ergastolo per l’uccisione di Ambrosoli. Pone termine alla sua vita, suicidandosi
in carcere nel 1986.
- Le sentenze e le carte processuali dimostrano che, tra Andreotti e Sindona, esisteva
“un legame intenso e compromettente”, che ha portato l’uomo politico dc ad
assumere iniziative favorevoli a Sindona in diverse occasioni, fra il 1974 e il 1980,
dunque anche durante il periodo della latitanza del finanziere. Del resto, già nel 1973
Andreotti, in occasione di un ricevimento a New York organizzato da Sindona in
onore di Andreotti, qualificò il finanziere come “salvatore della lira”. Da
sottolineare, in proposito, che una successiva ispezione della Banca d’Italia accerterà
che, nel solo periodo compreso tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974, Sindona aveva
elargito alla Dc un finanziamento illecito di oltre due miliardi di lire. Sempre dalle
carte processuali emerge, inoltre, che Andreotti aveva avuto frequenti incontri con il
legale di Sindona, Rodolfo Guzzi, in seguito ai quali “Andreotti si dava
effettivamente da fare” per sostenere i dissennati piani di salvataggio di Sindona,
sistematicamente bocciati, invece, dalla Banca d’Italia e da istituti del calibro di
Mediobanca e della Banca Commerciale. Istituti che Sindona avrebbe voluto
coinvolgere per avere supporto finanziario alle sue operazioni.

L’ATTACCO GIUDIZIARIO ALLA BANCA D’ITALIA – Con un’accusa infondata e


pretestuosa la procura di Roma fa arrestare il governatore della Banca d’Italia, Paolo
Baffi, e il capo della vigilanza bancaria, Mario Sarcinelli. Andreotti interviene nella
vicenda imponendo a Baffi l’allontanamento di Sarcinelli dalla vigilanza. Baffi cede al
ricatto ma si dimette dalla guida di Bankitalia.
- A opporsi ai piani elaborati da Sindona per evitare il fallimento della Banca Privata,
sono la Banca d’Italia, il ministro del Tesoro, Ugo La Malfa, il commissario
liquidatore, Giorgio Ambrosoli, ed Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca,
l’istituto che rappresentava il ‘salotto buono’ della finanza milanese, quello
attraverso il quale passavano tutte le operazioni finanziarie più importanti. Vale la
pena sottolineare il ruolo importante e delicato che riveste la Banca d’Italia: banca
centrale, istituto di emissione (oggi questo compito è svolto dalla Bce che emette gli
euro), difesa della moneta dagli attacchi speculativi, custode delle riserve valutarie,

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vigilanza sulle banche e sulle operazioni di carattere finanziario, tutela del pubblico
risparmio.
- Il 24 marzo 1979 è una data nefasta: La Malfa viene colpito da emorragia cerebrale
e due giorni dopo morirà. Nello stesso giorno, la procura di Roma sferra un
clamoroso attacco ai vertici della Banca d’Italia, facendo arrestare il governatore
Luigi Baffi – il quale evita il carcere solo per l’età avanzata – e Mario Sarcinelli,
capo della vigilanza bancaria che aveva trattato il dossier della Banca Privata,
sbarrando ripetutamente la strada ai piani di salvataggio proposti da Sindona.
Sarcinelli, al quale non viene risparmiata l’onta della galera, subisce anche la revoca
dell’incarico in Banca d’Italia. L’accusa - lanciata dal pubblico ministero, Luciano
Infelisi, e dal giudice istruttore, Antonio Alibrandi - era di non aver trasmesso alla
magistratura un rapporto ispettivo effettuato dall’organo di vigilanza su alcuni istituti
di credito. Accusa, sostiene Turone, “palesemente infondata e pretestuosa”: la
mancata trasmissione degli atti era legata al fatto che dalle ispezioni non erano emersi
elementi penalmente rilevanti e che dunque non c’era alcun obbligo di trasmetterli
alla magistratura.
- L’inconsistenza dell’accusa viene alla fine riconosciuta dagli stessi magistrati
inquirenti che, dopo un anno e mezzo decretano il proscioglimento sia di Baffi, sia
di Sarcinelli. Ciò a cui punta l’azione dei magistrati non è, in realtà, condannare Baffi
e Sarcinelli, ma eliminare questi ultimi, in particolare il capo della Vigilanza
Sarcinelli, dai vertici di Bankitalia. Cosa che in effetti avverrà.
- Ad aprile il governatore Baffi incontra Andreotti, all’epoca presidente del Consiglio,
per sollecitare la revoca, da parte dei magistrati, del provvedimento di sospensione
dell’incarico per Sarcinelli. Andreotti si mostra disponibile, ma solo a patto che
Sarcinelli non si occupi più di vigilanza bancaria e venga dirottato ad
- altro incarico. Baffi cede al ricatto di Andreotti, sia per salvare Sarcinelli, sia per
salvaguardare Bankitalia da ulteriori interferenze. Da galantuomo qual era, Baffi
viene, tuttavia, travolto dall’amarezza e ad agosto si dimette dalla carica di
governatore. Nel suo diario scriverà: “Non posso continuare a identificarmi col
sistema delle istituzioni che mi colpisce o consente che mi si colpisca in questo
modo”.
- Intanto, dopo l’incontro con Baffi, Andreotti scrive ad Alibrandi, chiedendogli di
annullare la revoca di Sarcinelli, al fine di consentire il suo rientro in Banca
d’Italia. Il giudice acconsente. Turone sottolinea la singolarità del fatto che un
presidente del Consiglio chieda a un giudice – che è costituzionalmente autonomo
dal potere politico - di correggere un suo atto giudiziario, definendo questo
atteggiamento "sintomatico di quanto fosse anomala, oscura e deviante questa
vicenda apparentemente giudiziaria”. Questo è potuto avvenire, scrive Turone,
perché l’attacco ai vertici di Bankitalia è stata “una subdola manovra riconducibile
all’intreccio di trame e cospirazioni contro la Repubblica”. Una manovra volta
ad allontanare due rigorosi e scomodi dirigenti di Bankitalia dai loro incarichi e,
soprattutto, sfilare la vigilanza bancaria a Sarcinelli, ‘reo’ di aver ostacolato i piani
di Sindona.

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L’UCCISIONE DI GIORGIO AMBROSOLI – In qualità di commissario liquidatore
della Banca Privata, Ambrosoli si oppone ai piani di salvataggio progettati da Sindona,
ritenendoli dannosi per la collettività. Paga la sua intransigenza con la morte: a
ucciderlo un boss mafioso su mandato dello stesso Sindona. In un’intervista, Andreotti,
parlando di Ambrosoli, disse che “era uno che se l’andava cercando…”.
- Altra vicenda oscura, a cui abbiamo già fatto accenno, è l’uccisione di Giorgio
Ambrosoli, avvocato nominato nel 1974 dalla Banca d’Italia commissario
liquidatore della Banca Privata, finita sull’orlo del fallimento a causa delle
manovre spericolate di Sindona. Ambrosoli finisce per pagare con la vita la dura
opposizione ai dissennati piani proposti dal finanziere d’assalto, che si basavano tutti
su finanziamenti a carico del bilancio statale e del pubblico risparmio. Nel luglio del
1979, proprio mentre è in pieno corso l’attacco ai vertici della Banca d’Italia,
Ambrosoli viene ucciso a Milano da un killer mafioso su mandato dello stesso
Sindona che, per questo omicidio, verrà successivamente condannato all’ergastolo.
- Turone dice che dalle carte processuali emerge una “responsabilità politica e
morale” di Giulio Andreotti riguardo all’omicidio di Ambrosoli. E segnala
un’intervista rilasciata dall’uomo politico democristiano molti anni dopo, nel 2010,
nella quale, alla domanda sul perché, secondo lui, Ambrosoli fosse stato ucciso,
risponde testualmente: “Non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo
(Ambrosoli, ndr) è una persona che, in termini romaneschi, se l’andava cercando”.
Parole senza alcun dubbio agghiaccianti.
- A opporsi ai piani di Sindona è anche il presidente di Mediobanca, Enrico Cuccia.
Il finanziere aveva assoldato un killer per sopprimere anche lui. Riuscì a salvarsi
fortuitamente perché, avendo già ricevuto diverse minacce, aveva deciso di cambiare
casa e sfuggì così al killer.

DAL MAXI-PROCESSO AGLI OMICIDI DI FALCONE E BORSELLINO -


Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno inaugurano la stagione del pentitismo mafioso.
Si crea a Palermo il pool antimafia. Fioccano le condanne al maxi-processo imbastito
da Falcone e Borsellino. Falcone annuncia allora di voler indagare sui collegamenti tra
mafia e politica, ma viene, via via, isolato. Il capo del pool Antonino Caponnetto si
dimette per ragioni di salute e a Falcone, suo naturale sostituto, il Csm preferisce, a
sorpresa, Antonino Meli il cui primo atto è smembrare il pool e togliere a Falcone le
indagini più importanti. A nulla valgono le parole di Borsellino che denuncia
l’isolamento di Falcone, il quale è costretto a lasciare Palermo e ad accettare l’incarico
offertogli al ministero della Giustizia a Roma. A gennaio del 1992, la Cassazione
conferma le condanne del maxi-processo e la mafia si vendica: Falcone e Borsellino,
ormai isolati, vengono assassinati, il primo a maggio, il secondo a luglio.
- All’inizio degli Anni Ottanta scoppia in Sicilia la sanguinosa guerra di mafia fra
clan rivali, al termine della quale i Bontate-Inzerillo vengono annientati dai
corleonesi, i quali salgono così ai vertici di Cosa Nostra. Due appartenenti al clan
sconfitto, Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, sfuggono alla morte e
decidono di vendicarsi: fanno i nomi degli affiliati alla mafia e spiegano il
funzionamento della struttura apicale di Cosa Nostra. Sulla base delle testimonianze
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dei primi due pentiti di mafia, hanno origine le indagini del pool antimafia di
Palermo, guidato da Antonino Caponnetto, che ha come magistrati di punta
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Grazie anche alla collaborazione di altri
pentiti, i magistrati palermitani imbastiscono il maxi-processo che porterà alla
condanna di centinaia di mafiosi e al sequestro di ingenti beni. La sentenza del maxi-
processo riconosce il carattere unitario e verticistico di Cosa Nostra, confermando la
linea processuale condotta dall’accusa che aveva consentito di risalire ai mandanti
ultimi dei vari delitti mafiosi, oltre che agli esecutori materiali.
- Dopo aver chiuso l’istruttoria sul primo maxi-processo, Falcone denuncia il fatto che,
tra mafia e alcuni settori dell’imprenditoria e della politica esiste non solo contiguità,
ma una vera e propria “convergenza d’interessi, retroterra di segreti e inquietanti
collegamenti”. Il magistrato si riferisce, in particolare, agli omicidi politici effettuati
da Cosa Nostra: Michele Reina, segretario della Dc palermitana, Piersanti
Mattarella, presidente della Regione Sicilia, Pio La Torre, segretario regionale del
Pci, e Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale dei carabinieri che, dopo i successi
nella lotta al terrorismo rosso, era stato inviato in Sicilia per coordinare la lotta alla
mafia.
- Falcone fa, insomma, capire che la lotta alla mafia deve ora puntare su un livello più
alto, più ‘politico’ in senso lato. Quel livello volutamente non toccato nel maxi-
processo per evitare che si alzassero polveroni che avrebbero finito per mettere a
rischio l’intero procedimento.
- Alla fine del 1987, Caponnetto, consigliere istruttore e ideatore del pool antimafia,
si dimette per ragioni di salute, convinto che al suo posto verrà nominato Giovanni
Falcone, il magistrato che, più di ogni altro, si era impegnato e distinto nella lotta
alla mafia. A sorpresa il Csm nomina, invece, Antonino Meli con il pretesto della
maggiore anzianità di servizio. Peccato che Meli non abbia alcuna esperienza nella
lotta alla mafia e sia anche un magistrato ‘burocratico’. Il suo primo atto è
smembrare il pool, assegnando i vari processi a magistrati diversi e mettendo fine
al coordinamento, all’interno della procura di Palermo e fra le diverse procure
siciliane, che si era rivelata l’arma vincente in occasione del maxi-processo.
- Borsellino, che intanto è stato trasferito alla procura di Marsala, in una clamorosa
intervista a Repubblica, lancia un pesante ‘j’accuse’, denunciando lo scioglimento
di fatto del pool antimafia e l’isolamento che è costretto a subire Falcone all’interno
della procura di Palermo. Il Csm apre un’istruttoria contro Borsellino per le sue
dichiarazioni e invia a Palermo gli ispettori, i quali accertano che il pool è stato
praticamente distrutto e dunque che Borsellino ha detto il vero. Il Csm decide allora
di non prendere provvedimenti nei suoi confronti, ma non fa nulla per rimettere in
piedi il pool.
- A giugno del 1989 Falcone subisce un attentato all’Addaura – sobborgo marinaro
di Palermo - andato per fortuna a vuoto. Un anno dopo arriva a capo della procura di
Palermo Pietro Giammanco, il quale emargina definitivamente Falcone.
Amareggiato e consapevole di non poter più svolgere i compiti che si era prefissato,
Falcone accetta nel 1991 la proposta del ministro della Giustizia, Claudio Martelli, il
quale gli affida l’incarico di direttore generale degli Affari penali del dicastero.
- All’inizio del 1992 arriva la sentenza definitiva della Cassazione che conferma le
condanne del maxi-processo. Il fatto scatena la reazione della mafia che effettua in
successione tre delitti eccellenti: a marzo, Salvo Lima, referente politico di Andreotti
in Sicilia, allo scopo di ‘punire’ lo stesso Andreotti per non aver impedito le
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condanne; a maggio viene assassinato Giovanni Falcone e a luglio Paolo
Borsellino. Omicidi, questi ultimi, che Turone considera controproducenti per la
mafia, giacché, proprio in seguito a quei delitti, lo Stato, come era prevedibile,
adotterà misure ancora più rigorose nella lotta alla mafia, con la conseguenza che le
condanne continueranno a fioccare. Talmente controproducenti da far sorgere il
sospetto che dietro quegli omicidi ci fossero interessi diversi da quelli mafiosi.

CORRADO CARNEVALE, IL GIUDICE AMMAZZA-SENTENZE – Corrado


Carnevale, presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, è noto come il
giudice ‘ammazza-sentenze’, avendo bocciato, per meri vizi di forma, un notevole
numero di sentenze, in particolare relative a vicende mafiose. Per questo motivo è stato
inquisito e condannato da una sentenza di secondo grado, che però è stata alla fine
anch’essa annullata dalla Cassazione stessa.
- Corrado Carnevale è passato alla storia come giudice ‘ammazza-sentenze’. La
prima sezione della Corte di Cassazione, da lui guidata, ha annullato una lunga serie
di sentenze riguardanti spesso vicende mafiose. La Cassazione è il giudice di terzo
grado, quello che emette le sentenze definitive e irrevocabili sui procedimenti
giudiziari.
- Turone porta ad esempio il processo per l’assassinio del capitano dei carabinieri,
Emanuele Basile, avvenuto, per mano di Cosa Nostra, il 3 maggio 1980 a Monreale,
città alle porte di Palermo. I boss mafiosi accusati dell’omicidio vengono condannati,
per due volte, all’ergastolo dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, ma per due
volte Carnevale fa annullare le sentenze per presunti vizi di forma, adducendo
motivazioni che Turone definisce “astratte e indeterminate”. Vale la pena
sottolineare che il giudice Antonino Saetta, che, pur subendo minacce e
intimidazioni, aveva fatto condannare, nel secondo grado di giudizio, gli imputati
mafiosi, pagherà con la vita il suo coraggio e la fedeltà alle istituzioni.
- In seguito al secondo annullamento, il procedimento torna per la terza volta alla Corte
d’Assise d’Appello di Palermo, la quale condanna ancora una volta gli imputati
mafiosi. La parola finale passa di nuovo alla Cassazione che questa volta conferma
le condanne. Particolare importante: a emettere il giudizio definitivo non è la
famigerata prima sezione di Corrado Carnevale, ma la quinta sezione presieduta da
un altro giudice.
- Alla fine degli Anni Novanta, Carnevale viene incriminato per concorso esterno in
associazione mafiosa. I due annullamenti delle sentenze relative al caso Basile
costituiscono il cardine principale dell’accusa. Determinante la testimonianza dei
giudici Antonio La Penna e Mario Garavelli, che avevano fatto parte del collegio
della Cassazione che aveva annullato la seconda sentenza del caso Basile. La Penna
rivela che, pochi minuti prima di entrare in camera di consiglio, aveva subito forti
pressioni da Carnevale, affinché votasse a favore dell’annullamento della stessa
sentenza. La Penna e Garavelli rivelano poi che le pressioni erano continuate nel
corso della camera di consiglio non solo nei loro confronti, ma anche verso un terzo
giudice, Lucio Del Vecchio, inizialmente favorevole a confermare, come La Penna
e Garavelli, la sentenza di condanna. In seguito a tali reiterate pressioni, Del Vecchio

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alla fine cedette e cambiò idea, portando la maggioranza del collegio a decretare
l’annullamento della sentenza.
- In appello Carnevale viene condannato a sei anni, ma la Cassazione annulla la
sentenza senza rinviarla in appello, cancellandola, in tal modo, definitivamente.
Anche su questa sentenza Turone eccepisce. L’annullamento viene, infatti, motivato
con il fatto che i giudici La Penna e Garavelli avevano riferito fatti avvenuti in camera
di consiglio, i cui atti sono protetti dal segreto d’ufficio e che, per tale ragione, non
potevano essere neanche presi in considerazione in un procedimento penale.
- Turone definisce “anomalo e stupefacente” l’annullamento della sentenza da parte
della Cassazione, non foss’altro perché le pressioni nei confronti del giudice La
Penna erano iniziate già prima dell’inizio della camera di consiglio. Turone ricorda,
inoltre, che, successivamente a quella sentenza, la stessa Cassazione ha stabilito che
il vincolo del segreto sugli atti avvenuti in camera di consiglio, decade di fronte
all’obbligo di denunciare fatti penalmente rilevanti.

I LEGAMI TRA MAFIA ED ESTREMISMO DI DESTRA: L’OMICIDIO


MATTARELLA – Piersanti Mattarella viene assassinato da Cosa Nostra il 6 gennaio
del 1980 a causa delle iniziative antimafia messe in atto in qualità di presidente della
Regione Sicilia. I magistrati palermitani trascurano colpevolmente la pista del
collegamento tra mafia ed estremismo di destra. Una sentenza del 2021 sulla strage di
Bologna riapre finalmente il caso, confermando di fatto l’esistenza di quei legami.
- Il decadimento, a partire dalla fine degli Anni Ottanta, della qualità del lavoro della
procura di Palermo nella lotta alla mafia, trova evidente conferma nelle istruttorie
sugli omicidi ‘politici’ di Cosa Nostra: Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La
Torre. Le indagini trascurano colpevolmente i legami fra i vertici della Cupola e
l’estrema destra, realizzatisi intorno alla figura di Pippo Calò, che svolge la
funzione di coordinatore.
- Riguardo, in particolare, all’uccisione di Mattarella, il magistrato Loris D’Ambrosio,
in qualità di commissario antimafia, invia un’argomentata relazione alla procura di
Palermo nella quale invita i colleghi a indagare su alcuni pezzi di targa ritrovati a
Torino in un covo dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari, gruppo terroristico di
estrema destra) che potevano essere serviti per falsificare la targa dell’auto utilizzata
dai killer di Mattarella. I magistrati di Palermo non fanno, però, alcuna verifica a
riguardo e trascurano, così, un importante indizio che, se confermato, avrebbe
rappresentato una svolta nelle indagini. Più avanti vedremo come l’ipotesi di
D’Ambrosio fosse corretta e che una semplice messa a confronto di quei pezzi di
targa avrebbe consentito di dimostrarlo, confermando lo stretto legame tra mafia e
terroristi di destra, in relazione all’omicidio di Mattarella.
- Cristiano Fioravanti, esponente dei Nar, si ‘pente’ e accusa il fratello Giusva e
Gilberto Cavallini (anch’essi appartenenti ai Nar) di essere gli esecutori materiali
dell’assassinio di Mattarella. La testimonianza coincide con quella di altri estremisti
di destra.
- Mattarella era un personaggio “pericolosissimo” per la mafia, poiché, da presidente
della Regione Sicilia, aveva deciso di contrastare la mafia, bonificando il sistema
dell’assegnazione degli appalti pubblici. I boss avevano, dunque, tutto l’interesse
nell’eliminarlo. Ma perché i Nar avrebbero dovuto ucciderlo? Che interesse potevano
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avere a farlo? La ragione è che gli estremisti di destra volevano fare un favore alla
mafia e accreditarsi presso la criminalità organizzata come “forza anti-Stato”, cosa
che era il principale obiettivo della loro azione.
- La mancata verifica dei pezzi di targa ritrovati nel covo dei Nar e altre sciatterie in
diverse fasi istruttorie e processuali, porta all’assoluzione degli estremisti di destra
Fioravanti e Cavallini. Per l’uccisione di Mattarella vengono così condannati solo
gli esponenti mafiosi.
- Una svolta giudiziaria sul caso Mattarella è avvenuta di recente. Nella sentenza del
2020 di condanna all’ergastolo per Cavallini riguardo alla strage di Bologna, si
afferma che i famosi pezzi di targa rinvenuti nel covo dei Nar a Torino sono del tutto
compatibili con quelli utilizzati per falsificare la targa dell’auto utilizzata dai killer
di Mattarella, confermando, quindi, la partecipazione diretta dell’estrema destra a
quel delitto, in concorso con la mafia siciliana. La stessa sentenza mette anche in
evidenza come Cavallini fosse in stretti rapporti con il Sistema P2.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE – La sanguinosa guerra non ortodossa


orchestrata per imporre all’Italia una svolta autoritaria. Protagonisti i servizi segreti
deviati e Federico Umberto D’Amato che si avvalgono di appoggi internazionali da
parte di ambienti della Nato e utilizzano la manovalanza degli estremisti di destra. Le
attività di depistaggio per coprire i veri responsabili delle stragi.
- Non si può avere un quadro esatto degli accadimenti e dei misteri della storia italiana,
se non ci si sofferma sulla Strategia della tensione, la cosiddetta “guerra non
ortodossa”, orchestrata da ambienti della Nato e dalla parte deviata dei servizi segreti
italiani allo scopo di imporre una svolta autoritaria al Paese, avvalendosi della
manovalanza costituita dai gruppi dell’estrema destra, in particolare, di ‘Ordine
Nuovo’, l’organizzazione creata da Pino Rauti negli Anni Cinquanta.
- Tutte le stragi che hanno insanguinato l’Italia per decenni, a partire da quella di
Piazza Fontana nel 1969, sono riconducibili a un’organizzazione eversiva e
terroristica di estrema destra che aveva rapporti articolati e solidi con apparati
istituzionali, italiani e stranieri, da cui ricevevano protezione, supporto e direttive.
Dice Turone: “Una sorta di anti-Stato annidatosi nello Stato”.
- Oltre a Ordine Nuovo, l’altra organizzazione di estrema destra a cui fa riferimento
Turone è ‘Avanguardia Nazionale’, guidata da Stefano Delle Chiaie, che, rispetto
a Ordine Nuovo presenta una sua peculiarità: ha diversi infiltrati nei gruppi
dell’estrema sinistra e coltiva rapporti molto stretti con Federico Umberto
D’Amato, per decenni alla guida dell’Ufficio Affari Riservati del ministero
dell'Interno, che ha tutte le caratteristiche di un servizio segreto parallelo rispetto a
quelli ufficiali. Turone definisce D’Amato “eminenza grigia della guerra segreta
al comunismo in Italia”.
- La Strategia della tensione viene teorizzata nel 1965 nel convegno dell’Istituto
Alberto Pollio tenutosi all’Hotel Parco dei Principi di Roma, a cui partecipano una
serie di personaggi che, in vario modo e in differente misura, risulteranno
successivamente coinvolti nelle stragi che insanguineranno il Paese. In quel
convegno vengono gettate le basi teoriche e pratiche della cosiddetta guerra non

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ortodossa: non un golpe tradizionale come nella Grecia dei colonnelli, ma una serie
di azioni eversive, appunto non ortodosse.
- L’inizio della Strategia della tensione coincide con la bomba fatta scoppiare nella
sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, il 12
dicembre 1969. Le indagini si caratterizzano immediatamente con una serie di
azioni di depistaggio che si ripresenteranno anche in tutte le successive stragi: la
polizia indirizza l’inchiesta seguendo la falsa pista anarchica e trascurando, invece,
quei segnali, fin dall’inizio evidenti, sul coinvolgimento delle organizzazioni
estremistiche di destra. L’obiettivo è preciso: far cadere la responsabilità sull’estrema
sinistra e incutere paura nell’opinione pubblica, inducendola ad accettare una svolta
autoritaria nel Paese.
- Riguardo alle azioni di depistaggio, Turone cita, a mo’ d’esempio, quanto avvenuto
in occasione della bomba in Piazza della Loggia a Brescia nel 1974 fatta scoppiare
durante un comizio sindacale, che provocò otto morti e oltre cento feriti.
Immediatamente dopo la strage, il vicequestore, con la scusa di ripulire la piazza, ne
ordina il lavaggio, cancellando in questo modo le prove dell’esplosione.

I NAR E LE UCCISIONI DEI MAGISTRATI OCCORSIO E AMATO – L’estremismo


di destra dalla bassa manovalanza della Strategia della tensione, alla lotta ‘anti-Stato’.
Le uccisioni dei magistrati, Vittorio Occorsio e Mario Amato, e il ruolo dei Nar.
- Fin dall’inizio della Strategia della tensione, gli estremisti di destra fungono da bassa
manovalanza per attentati e stragi. A metà degli Anni Settanta avviene un salto di
qualità con l’acquisizione di un maggior grado di autonomia, dal punto di vista
ideologico e dell’azione concreta. Nel luglio del 1976, il neofascista, Pierluigi
Concutelli, uccide il procuratore di Roma, Vittorio Occorsio, il quale, con le sue
indagini, aveva portato allo scioglimento di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
- Concutelli è arrestato e condannato all’ergastolo. La sua eredità viene raccolta alla
fine del 1977 da un gruppo di giovani neofascisti: i fratelli Giusva e Cristiano
Fioravanti, Gilberto Cavallini, Luigi Ciavardini, Francesca Mambro e Alessandro
Alibrandi (figlio del giudice istruttore Antonio, autore, nel 1979, dell’attacco
giudiziario ai vertici della Banca d’Italia). Vengono costituiti i Nar (Nuclei armati
rivoluzionari), come risposta di destra al terrorismo rosso, di cui imitano in buona
parte i metodi di lotta e l’obiettivo anti-Stato. I Nar portano a termine azioni efferate,
come l’uccisione di poliziotti e l’assalto alle armerie.
- Un ulteriore salto di qualità dell’estremismo di destra si ha con l’uccisione del
giudice Mario Amato che aveva ereditato le inchieste di Occorsio dopo l’assassinio
di quest’ultimo. Nei mesi precedenti la sua morte, Amato lancia in più occasioni
l’allarme e chiede due cose ai suoi superiori: non essere lasciato solo nel seguire le
inchieste sul terrorismo nero per non diventare facile bersaglio di probabili ritorsioni;
ottenere una scorta per proteggersi dalle ripetute minacce ricevute. Nessuna delle due
richieste viene accolta dall’allora capo della procura di Roma, Giovanni De Matteo.
Decisione che Turone definisce “irresponsabile”. La mattina del 23 giugno 1980 il
giudice Amato viene ucciso con un colpo di pistola alla nuca, mentre è in attesa
dell’autobus che avrebbe dovuto portarlo in procura.

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- Giusva Fioravanti e Francesca Mambro vengono arrestati e confessano di aver
ucciso il giudice Amato, rivendicandone l’azione e subendo la condanna
all’ergastolo. Da parte sua, il procuratore De Matteo, a causa della mancata
protezione ad Amato, viene incriminato per omissione di atti d’ufficio, ma non
subisce alcuna sanzione per colpa dell’istruttoria – definita da Turone
“scandalosamente lacunosa” - portata avanti dalla competente procura di Perugia.

LA STRAGE DI BOLOGNA – Per l’attentato vengono condannati gli estremisti di


destra dei Nar: prima, Fioravanti, Mambro e Ciavardini, più recentemente Cavallini e
Bellini. Una sentenza dell’aprile 2022 riconosce come mandati i vertici della P2, Gelli
e Ortolani, insieme a Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati del
ministero dell’Interno. Provato anche il coinvolgimento delle strutture clandestine
paramilitari ‘Gladio’ e ‘Anello’. La matrice neofascista dell’attentato viene riconosciuta
dagli inquirenti, malgrado i tentativi di depistaggio che accreditavano una pista
straniera.
- Il terribile attentato (85 morti e oltre 200 feriti) avviene il 2 agosto 1980 alle 10,25
del mattino all’interno della stazione ferroviaria di Bologna. Per la strage vengono
condannati, con sentenza diventata definitiva nel 2007, gli estremisti di destra
Giusva Fioravanti, Francesco Mambro (ergastolo per entrambi) e Luigi
Ciavardini (30 anni, in considerazione del fatto che all’epoca dei fatti aveva solo 17
anni). Più recentemente, con una sentenza del 2020, viene condannato all’ergastolo
anche un altro estremista di destra, Gilberto Cavallini, come esecutore materiale in
concorso con i primi tre.
- Sulla base delle risultanze emerse nel processo a carico di Cavallini, viene avviato
un procedimento nei confronti di un ‘quinto uomo’, Paolo Bellini, che nell’aprile del
2022 viene condannato in primo grado all’ergastolo per concorso materiale in strage.
Al di là della condanna di Bellini, l’importante novità del processo a suo carico è la
rivelazione dei mandanti e dei finanziatori della strage di Bologna, individuati nei
capi della P2, Licio Gelli e Umberto Ortolani, nell’ex capo dell’Ufficio Affari
Riservati del ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato, e nell’ex direttore
del periodico ‘Borghese’, Mario Tedeschi. Tutti defunti.
- Nel corso dell’istruttoria e del processo a carico di Cavallini, emerge che
quest’ultimo operava in stretto contatto con apparati militari e dei servizi segreti
legati al Sistema P2 e con le organizzazioni clandestine e paramilitari, Anello e
Gladio. Gladio era l’organizzazione paramilitare e clandestina a guida Nato, creata
dopo la fine della Seconda guerra mondiale per difendere l’Italia, con azioni anche
non convenzionali, contro la possibile invasione di una potenza straniera. L’Anello
era, invece, una sorta di servizio segreto parallelo e clandestino, che si occupava
di fare i cosiddetti “lavori sporchi”, lasciandone fuori i servizi segreti ufficiali. Il
nome di anello nasce dalla sua funzione di collegamento fra esponenti del mondo
politico con quello militare, uniti nella comune lotta al comunismo.
Le accuse a Fioravanti e Mambro, che peraltro hanno sempre negato la loro
responsabilità riguardo alla strage di Bologna, si basano sulle testimonianze di due
pentiti. La più importante è quella di un altro estremista di destra, Massimo Sparti,

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il quale rivela ai magistrati che nei giorni immediatamente successivi alla strage, i
due si recano da lui per chiedergli documenti d’identità falsi e gli rivelano di aver
compiuto la strage, minacciandolo di uccidergli il figlio nel caso in cui avesse parlato.
Il racconto di Sparti ottiene ampi riscontri, mentre gli alibi forniti da Fioravanti,
Mambro e Ciavardini – i quali negano l’accaduto - risultano inverosimili e
discordanti fra loro. Riguardo agli alibi forniti dagli imputati, la prima sentenza di
condanna del 1984 sostiene che “gli elementi qui esaminati sono indicativi di una
costruzione artificiosa che integra gli estremi dell’alibi falso”. Proseguono i giudici:
se i tre fossero stati davvero innocenti, avrebbero avuto tutto l’interesse a dire la
verità e fornire gli alibi veri. E invece diedero ai magistrati versioni contrastanti.
- Nelle prime fasi delle indagini sulla strage di Bologna, il Sisde (Servizi segreti
interni) collabora con la procura di Bologna e invia informative precise che
accreditano la pista neofascista. Ma ben presto scattano una serie di depistaggi
orchestrati dal Sistema P2. Gelli incontra un alto funzionario del Sisde, Elio
Cioppa, e lo convince che la pista che porta ai neofascisti italiani è falsa: da quel
momento il Sisde interrompe la collaborazione con la procura di Bologna,
accreditando la pista di elementi della destra internazionale.
- Successivamente viene messa in piedi una “fantomatica pista libanese”. A tal fine
viene fatta trovare su un treno una valigia carica di esplosivo dello stesso tipo usato
per la strage di Bologna, con all’interno documenti che indirizzano alla pista della
destra internazionale. La messinscena viene successivamente smontata in sede
processuale, tanto da portare alla condanna dei vertici della P2, in testa Licio Gelli,
per “calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo e di eversione”. Da qui, sottolinea
Turone, la dimostrazione che il Sistema P2 è stato l’autentico “dominus” del
depistaggio, cosa provata in sede processuale al di là di ogni ragionevole dubbio.
Depistaggio attuato per coprire le responsabilità degli estremisti di destra, autori
materiali della strage di Bologna.

IL SISTEMA P2 DOPO LA STRAGE DI BOLOGNA – Il Corriere della Sera finisce


sotto il controllo di uomini della P2 e viene utilizzato per realizzare i piani della loggia
massonica di Gelli. I documenti scoperti a Castiglion Fibocchi scuotono il Paese e il neo
premier Spadolini adotta misure severe. Il Sistema P2 tuttavia reagisce abbastanza in
fretta e Spadolini è costretto a gettare la spugna e a dimettersi.
- All’inizio degli Anni Ottanta, il principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera
e la casa editrice Rizzoli cadono sotto il controllo di uomini della P2. Il direttore del
quotidiano, Franco Di Bella, risulterà iscritto alla loggia massonica di Gelli. A
ottobre del 1980 esce sul Corriere un’intervista-fiume a Gelli, firmata dal
giornalista Maurizio Costanzo (anch’egli risulterà iscritto alla P2), nella quale il
capo della loggia massonica, usando un linguaggio sibillino e allusivo, manda segnali
a chi doveva capire. Da tener conto che all’epoca non era stata ancora effettuata la
perquisizione a Castiglion Fibocchi e non erano noti né gli elenchi degli iscritti alla
P2, né il ‘Piano di rinascita democratica’. Nell’intervista Gelli si autodefinisce al
centro di un “potere nascosto”, si compiace di essere ritenuto un “burattinaio”, si
pronuncia a favore di una Repubblica presidenziale e sostiene che, nel caso un giorno

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fosse stato eletto capo dello Stato, il suo primo atto sarebbe stato “una completa
revisione della Costituzione che oggi è un abito liso e sfibrato e risulta inefficiente e
inadeguato”.
- Sempre il Corriere pubblica, inoltre, una serie di articoli elogiativi della giunta
militare argentina guidata dal generale Videla, che aveva conquistato il potere
con un golpe sanguinario e stava procedendo all’eliminazione fisica degli oppositori,
facendoli letteralmente sparire (i cosiddetti ‘desaparecidos’).
- Il Corriere pubblica anche una serie di articoli favorevoli al network televisivo
privato che in quegli anni sta mettendo in piedi l’imprenditore Silvio Berlusconi,
anch’egli, si scoprirà successivamente, iscritto alla P2. Fra questi articoli anche
un’intervista elogiativa a Berlusconi firmata dallo scrittore e giornalista Roberto
Gervaso, anch’egli iscritto alla P2.
- Il 21 maggio 1981 avviene la perquisizione a Castiglion Fibocchi nella sede di una
società del gruppo Lebole che, come abbiamo visto in precedenza, custodiva molti
documenti di Licio Gelli, fra cui l’elenco degli iscritti alla loggia P2, molti dei quali
ai vertici degli apparati istituzionali (politici, militari, servizi segreti), insieme a
imprenditori e giornalisti. Quando il presidente del Consiglio di allora, Arnaldo
Forlani, decide di pubblicare quell’elenco fornitogli dai magistrati che indagavano
su Gelli (Giuliano Turone e Gherardo Colombo), il suo governo è travolto dallo
scandalo e cade.
- A Palazzo Chigi arriva Giovanni Spadolini, esponente del Partito Repubblicano,
primo capo del governo non democristiano. I primi atti di Spadolini sono molto duri
nei confronti della P2, fino al decreto di scioglimento della loggia massonica e
all’introduzione del reato di delitto associativo, fino ad allora assente nella nostra
legislazione. Ma i primi ostacoli arrivano quando Spadolini si oppone alla richiesta
del Partito Socialista italiano (allora guidato da Bettino Craxi) di nominare alla
presidenza dell’Eni, colosso statale dell’energia, Leonardo Di Donna, il cui nome è
nell’elenco degli iscritti alla P2. Il capo del governo resiste alle pressioni fino a
novembre 1982, quando è costretto a dimettersi e a cedere il posto all’esponente
democristiano, Amintore Fanfani, il quale accetta il diktat dei socialisti e dà il via
libera alla nomina di Di Donna ai vertici dell’Eni.
- Tale nomina viene, in realtà, successivamente bloccata dal presidente della
Repubblica, Sandro Pertini, il quale pronuncia la frase: “Mai cariche pubbliche a
chi è implicato nella P2”. E tuttavia si avverte che il clima sta ormai cambiando e che
lo scandalo suscitato inizialmente nel Paese dopo la scoperta della loggia segreta, va
ora decisamente scemando. A riprova di ciò - e a dispetto delle parole pronunciate
dal capo dello Stato Pertini - nel governo Fanfani entra, in qualità di ministro, il
segretario del Partito Socialdemocratico, Pietro Longo, iscritto alla P2. Intanto, Gelli
evade dal carcere di Ginevra dove era in attesa di estradizione, grazie, sottolinea
Turone, a “ignote e solide complicità”.

LE INDAGINI SULLA P2 – La dc Tina Anselmi guida con coraggio la Commissione


parlamentare. Sul piano giudiziario, si procede con enorme lentezza: dopo una prima
richiesta di archiviazione, il procedimento riparte portando a processo Gelli e i vertici

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della P2, i quali, però vengono condannati solo per reati minori (peraltro caduti in
prescrizione) e assolti per l’accusa più grave di cospirazione.
- Sul piano politico, Tina Anselmi (democristiana) guida con coraggio e
determinazione la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, la cui
Relazione finale costituisce una dura requisitoria nei confronti della loggia
massonica e dei poteri occulti che hanno pesantemente condizionato la vita politica
e la storia del nostro Paese. Le raccomandazioni in essa contenute per continuare a
indagare sul Sistema P2 e smascherare le trame occulte da essa ordite, verranno
regolarmente disattese dai governi che si susseguiranno.
- Sul piano giudiziario, il trasferimento dell’istruttoria sulla P2 da Milano a Roma
determina un affossamento del procedimento. Dopo una prima richiesta di
archiviazione, le indagini riprendono grazie soprattutto al coraggio e alla
determinazione del pubblico ministero Elisabetta Cesqui che, in mezzo a difficoltà
e ostacoli di ogni genere, riesce a portare a giudizio Gelli e altri vertici della P2 con
l’accusa di “cospirazione politica mediante associazione finalizzata anche
all’attentato contro la Costituzione”, oltre che per altri reati minori. Fra ritardi e
colpevoli sottovalutazioni, la sentenza definitiva arriva soltanto nel 1994 con la
condanna degli imputati per i soli reati minori (peraltro caduti nel frattempo in
prescrizione) e l’assoluzione riguardo al capo principale d’imputazione, vale a dire
la cospirazione politica.

IL RUOLO DI ANDREOTTI E COSSIGA – Gelli rivela di aver intrattenuto legami di


forte collaborazione con Cossiga e Andreotti, indicando il primo come capo di Gladio e
il secondo come capo dell’Anello. I dubbi sulle reali finalità di Gladio e le oscure
manovre dell’Anello. Il ruolo di Steve Pieczenik, inviato dagli Usa in Italia per gestire
il rapimento Moro: gli ostacoli posti alla liberazione del presidente della Dc. La
conclusione di Turone: “Andreotti e Cossiga ai vertici della seconda piramide della P2?
Non sembra azzardato affermarlo”.
- Turone si chiede perché la giustizia non sia riuscita a portare a compimento il suo
compito sulla vicenda P2. Secondo l’autore dell’inchiesta, i fatti dimostrano che,
dopo una prima fase di grande scalpore suscitato nel Paese e negli ambienti politici
dalla scoperta dell’elenco degli iscritti alla P2, si verifica, fin da subito, “un
inesorabile e graduale ricomporsi delle logiche e dei meccanismi di potere occulto,
spesso attraverso vicende contorte e contraddittorie”. Turone ricorda, in proposito, le
parole pronunciate da Gelli in una conferenza stampa del 2008, nel corso della quale
rivendica la paternità del Piano di rinascita democratica: “Peccato non averlo
depositato alla Siae per i diritti, tutti ne hanno preso spunto. L’unico che può portarlo
avanti è l’attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi”. Quest’ultimo non
replica alle frasi pronunciate da Gelli.
- Gelli rilascia un’altra intervista tre anni dopo, nel 2011, nella quale rivela i particolari
di un fantomatico e improbabile colpo di Stato che la P2 avrebbe voluto realizzare
nel 1981, se qualche mese prima non ci fosse stato il sequestro della documentazione
a Castiglion Fibocchi. In quella intervista, il capo della P2 rivela anche di aver
intrattenuto rapporti di stretta collaborazione con Giulio Andreotti e Francesco

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Cossiga. Queste le parole di Gelli: “C’era la Gladio, che era comandata da Cossiga,
l’Anello, che era diretto da Andreotti, e la P2 che era diretta da me”.
- Gladio era l’organizzazione paramilitare e clandestina a guida Nato, creata dopo la
fine della Seconda guerra mondiale per difendere l’Italia, con azioni anche non
convenzionali, contro la possibile invasione di una potenza straniera. L’Anello era,
invece, una sorta di servizio segreto parallelo e clandestino, che si occupava di fare
i cosiddetti “lavori sporchi”, lasciandone fuori i servizi segreti ufficiali.
- Dell’esistenza di Gladio e delle sue finalità, gli italiani vengono a sapere soltanto nel
1990 dalla bocca dell’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. La
rivelazione viene accompagnata dall’annuncio che la struttura sarebbe stata sciolta
giacché, con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, non aveva
più ragion d’essere. Subito dopo l’annuncio di Andreotti sull’esistenza di Gladio,
Cossiga, che all’epoca è presidente della Repubblica, rivendica la sua piena adesione
e appartenenza a quella organizzazione fin dal Dopoguerra, esaltandone gli aspetti
patriottici. In realtà, sia Andreotti nel rivelarne l’esistenza, sia Cossiga nel
rivendicarne l’appartenenza, si limitano a parlare del ruolo di Gladio dal Dopoguerra
fino agli Anni Sessanta, sorvolando, invece, sul ruolo dell’organizzazione negli Anni
Settanta, ma soprattutto negli Anni Ottanta, quando il pericolo di un’invasione
straniera era di fatto scomparso.
- In proposito, Turone segnala due importanti testimonianze che gettano una luce
diversa sul ruolo di Gladio. La prima, di Paolo Emilio Taviani, storico esponente
democristiano, ministro della Difesa e dell’Interno in diverse occasioni e da sempre
a conoscenza dell’esistenza di Gladio. In un’intervista al Corriere della Sera del
1990, Taviani dice: “Bisogna capire che la cosiddetta Gladio ha avuto stagioni
diverse. Una cosa era la struttura degli Anni Cinquanta e Sessanta, una cosa è stata
quella degli Anni Settanta e un’altra ancora quella del decennio appena concluso
[degli Anni Ottanta, n.d.a]”. Ancora più esplicito il generale Gerardo Serravalle
che di Gladio era stato alla guida per tre anni, dal 1971 al 1974, avendo quindi una
visione diretta della situazione. In una deposizione al giudice istruttore della strage
di Bologna, Serravalle dichiara: “Non vorrei che Gladio avesse rappresentato una
specie di coperchio per qualcosa di ben diverso. Che cioè vi fosse una struttura
presentabile, appunto la Gladio, e un’altra, al di sotto, impresentabile, con finalità
illecite”. Prosegue Serravalle: “Ebbi a un certo punto la sensazione che Gladio fosse
una realtà che serviva a coprire qualcosa di diverso e di pericoloso, qualcosa che
doveva rimanere segreto”.
- Passiamo all’Anello. Turone ricorda che lo stretto legame fra Andreotti e questa
organizzazione clandestina, rivelata peraltro dallo stesso Gelli, è stata confermata
agli inquirenti da diversi importanti esponenti dell’organizzazione stessa. Turone
ricorda uno dei più clamorosi ‘lavori sporchi’ fatti dall’Anello, vale a dire la fuga
dall’ospedale militare del Celio del generale nazista Kappler, condannato
all’ergastolo come responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine del 1943. Le carte
processuali, ricorda Turone, hanno accertato che la “vergognosa fuga fu organizzata
per conto della Presidenza del Consiglio in cambio di una cospicua somma di
denaro”. Presidente del Consiglio dell’epoca era Giulio Andreotti.
- Altro episodio carico di significati di cui l’Anello è protagonista, avviene durante il
rapimento del presidente della dc, Aldo Moro. Un religioso vicino all’Anello, frate
Enrico Zucca, entra in contatto con le Br e, con il beneplacito della Santa Sede,
imbastisce una trattativa con i terroristi. Il religioso riesce a raccogliere una
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considerevole somma di denaro (due milioni di dollari) che deve servire per pagare
il riscatto e ottenere, in cambio, la liberazione del presidente della Dc. Zucca capisce,
però, che deve coprirsi le spalle con la politica e cerca l’appoggio del governo: il
frate è consapevole del fatto che, in una materia così delicata e scivolosa, non può
muoversi senza il consenso delle istituzioni. A tal fine, scrive una lettera ad
Andreotti, che all’epoca è presidente del Consiglio, spiegandogli dettagliatamente i
termini dell’operazione e chiedendo il suo avallo. Andreotti non risponde a quella
lettera. Dal silenzio del capo del governo, il frate capisce che la sua iniziativa non è
gradita alle istituzioni e, quindi, interrompe le trattative con i brigatisti. Pochi giorni
dopo Moro viene ucciso.
- Ma perché Andreotti non rispose a frate Zucca? Turone spiega il suo silenzio,
rifacendosi a quanto successivamente dichiarato da Steve Pieczenik, noto come
“l’uomo di Kissinger”, all’epoca segretario di Stato americano. Pieczenik è l’esperto
inviato in Italia dall’amministrazione americana durante il rapimento di Moro che
affianca, in veste di consulente, l’Unità di crisi costituita da Cossiga al ministero
dell’Interno. In alcune interviste rilasciate diversi anni dopo, Pieczenik rivela che la
sua missione non era quella di salvare Moro, ma di evitare che il sistema politico
italiano crollasse. E spiega candidamente che il dipartimento Usa era convinto del
fatto che il sistema italiano sarebbe crollato se Moro fosse stato liberato. Nelle
stesse interviste, l’esperto dice che l’obiettivo della sua missione, peraltro coronata
da successo, era far cadere in trappola i brigatisti, convincendoli che la liberazione
di Moro avrebbe sancito la loro sconfitta politica, mentre nella realtà egli temeva che
Moro libero – con le sue rivelazioni e la rabbia accumulata durante la prigionia nei
confronti degli esponenti del suo stesso partito – avrebbe portato alla caduta del
sistema politico su cui si era retta fino ad allora l’Italia. Pieczenik fa un’altra
importante rivelazione: ammette di essere stato lui a far fallire la trattativa messa in
piedi da frate Zucca: “In quel momento – dice - stavamo chiudendo tutti i possibili
canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato”. Da lì la mancata risposta
di Andreotti alla lettera di frate Zucca.
- Chiosa Turone: è evidente che tale strategia di Pieczenik, che voleva la morte di
Moro, “fosse condivisa, o comunque subita, da chi deteneva il potere in Italia: un
governo fortemente controllato dal binomio Andreotti-Cossiga e fortemente
condizionato dal Sistema P2 nel pieno della sua potenza”.
- A conclusione dell’inchiesta, Turone torna sulla metafora della ‘Doppia piramide’
contenuta nella Relazione della Commissione Anselmi sulla P2. La Relazione, datata
1984, diceva che al vertice della prima piramide c’era senz’altro Licio Gelli, ma che
non era stato possibile sapere chi si trovasse in cima alla seconda piramide, quella
che perseguiva le finalità ultime del potere occulto, utilizzando la struttura e gli
uomini della piramide inferiore. Ebbene, Turone dice che oggi se ne sa molto di più
del 1984, quando la Relazione fu scritta. E che, sulla base delle attuali conoscenze,
giudiziarie e storiche, “non sembra azzardato visualizzare nella piramide superiore
proprio Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, i due protagonisti dell’aforisma
gelliano, i quali, tra l’altro, a differenza di Gelli, i loro segreti se li sono portati nella
tomba”. In questa piramide superiore, conclude Turone, “la posizione di Cossiga
appare un po’ defilata, mentre ad Andreotti va invece riconosciuta una posizione
decisamente dominante”.

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CONSIDERAZIONI FINALI

‘Italia occulta’ racconta vicende e personaggi che hanno segnato la storia del
nostro Paese a partire dagli Anni Settanta. Una storia che, solo in apparenza, è lontana
nel tempo, ma che invece continua a produrre riverberi sulla vita di oggi. Non
foss’altro perché gli avvenimenti drammatici narrati da Giuliano Turone hanno
lasciato una lunga scia di sangue e condizionato pesantemente lo sviluppo della
società e della politica italiana in senso democratico.
- L’autore intende rileggere la Strategia della tensione, quell’insieme di atti eversivi
pianificati e realizzati da una parte infedele delle istituzioni che, avvalendosi anche
del sostegno di servizi segreti stranieri, si ponevano l’obiettivo di imporre al Paese
una svolta autoritaria. ‘Italia occulta’ è un’inchiesta realizzata per conoscere la
storia d’Italia, per capire la realtà che stiamo vivendo oggi e soprattutto per non
dimenticare. L’originalità del lavoro di Turone è saper mettere insieme quei fatti,
alcuni molto distanti fra loro, eppure legati da un ‘filo nero’ rappresentato dal
Sistema P2, che racchiudeva in sé tutte le forze anti-Stato. Al suo interno, troviamo
uomini delle istituzioni, importanti esponenti del mondo politico, imprenditoriale,
dell’informazione, servizi segreti deviati, alti gradi militari, neofascisti utilizzati
come manovalanza.
- La Strategia della tensione fu alimentata sostanzialmente da due fattori fra loro in
conflitto: l’appartenenza dell’Italia al blocco atlantico stabilita nella Conferenza di
Yalta del 1945 e la presenza nel nostro Paese del più grande partito comunista
dell’Occidente. La prospettiva che i comunisti potessero giungere al potere spinse
le forze più reazionarie a mettere in moto atti eversivi allo scopo di generare paura
nella popolazione e favorire, in tal modo, l’accantonamento della Costituzione e la
creazione di un regime autoritario.
- Il valore del libro di Turone sta nello sforzo di mettere insieme sentenze,
testimonianze, perizie, verbali trascurati dagli inquirenti, piste investigative non
sufficientemente seguite. Il tutto nel tentativo di coniugare la verità giudiziaria delle
sentenze alla verità storica, individuando circostanze di fatto e ricostruzioni
logiche oggi rese possibile da una più ampia conoscenza di quei fatti, degli autori
materiali degli atti eversivi e dei burattinai che operavano dietro le quinte. E così,
alla luce di quanto sappiamo oggi, vicende che allora apparivano distanti fra loro si
prestano a una lettura differente. Ciò che all’epoca dei fatti era confuso, ora appare
molto più chiaro. Anche perché, nel frattempo, la caduta del Muro di Berlino e la
scomparsa del pericolo comunista hanno fatto allentare le maglie e diradare la
nebbia.
- L’inchiesta si concentra sul Triennio maledetto che va dal rapimento e assassinio
di Aldo Moro alla strage di Bologna. Parla degli omicidi di Piersanti Mattarella,
Giorgio Ambrosoli e Mino Pecorelli, dell’assalto giudiziario ai vertici della Banca
d’Italia, del ruolo di manovalanza giocato dall’estremismo di destra. Parla della
mafia, dei rapporti fra Andreotti e Cosa Nostra, delle uccisioni di Falcone e
Borsellino. In tutti questi intrecci, ci si imbatte continuamente nella P2, che emerge
come qualcosa di inquietante, di pervasivo, un vero e proprio Sistema, che lega gli
atti eversivi che hanno insanguinato il nostro Paese. Sistema P2 che ha condotto
quella 'guerra non ortodossa' che ha seminato morte e paura, allo scopo di
rovesciare l’ordinamento costituzionale. Lo scopo non era quello di un colpo di Stato
tradizionale, come era avvenuto nella Grecia dei colonnelli, ma di un ‘golpe
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strisciante’, i cui contorni erano ben sintetizzati nel ‘Piano di rinascita
democratica’ elaborato da Gelli, che prevedeva il controllo di partiti e sindacati,
della magistratura e dell'informazione.
- Le tesi di Turone hanno ottenuto un’importante conferma nella recente sentenza
della Corte d'Assise di Bologna, che ha condannato all'ergastolo Paolo Bellini,
quale 'quinto uomo' della banda di neofascisti che il 2 agosto 1980 mise la bomba
alla stazione del capoluogo emiliano. Quella stessa sentenza, di cui si attendono a
breve le motivazioni, ha, infatti, individuato come mandanti e finanziatori della
strage proprio Licio Gelli e Umberto Ortolani, i capi della P2, insieme a Federico
Umberto D’Amato, responsabile dell'Ufficio Affari Riservati del ministero
dell’Interno, una sorta di servizio segreto parallelo specializzato nel depistaggio
sistematico delle indagini sulle attività eversive che hanno insanguinato il Paese.
- ‘Italia occulta’ si snoda come un romanzo poliziesco, è un libro ricco di avvenimenti
e di personaggi: da una parte, criminali, neofascisti, terroristi rossi, boss mafiosi,
magistrati corrotti, giudici ammazza-sentenze, uomini delle istituzioni infedeli alla
Costituzione, servizi segreti deviati, imprenditori rampanti, finanzieri d’assalto che
riciclavano i soldi della mafia; dall’altra, quelli che potremmo definire eroi, coloro i
quali ‘hanno retto’, anche se con fatica, consentendo, comunque, al nostro Paese di
resistere ai tentativi di rovesciare la democrazia. Sono tanti questi eroi, molti dei quali
hanno pagato con la vita il coraggio e la fedeltà alla Costituzione: solo per fare alcuni
nomi, Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata di Sindona,
Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, il generale dei carabinieri Carlo
Alberto Dalla Chiesa, i magistrati Falcone e Borsellino uccisi dalla mafia, Occorsio
e Amato assassinati dai neofascisti. Ma anche coloro che non hanno pagato con la
vita, ma sono rimasti leali alle istituzioni: il ministro del Tesoro Ugo La Malfa, i
vertici della Banca d’Italia accusati ingiustamente dalla procura di Roma soltanto
perché facevano il loro dovere, la presidente della Commissione parlamentare P2,
Tina Anselmi.
- Fra questi personaggi positivi, spicca la figura di Aldo Moro, esponente principale
di quella parte della Democrazia Cristiana non coinvolta nel malaffare, che aveva
una ‘visione’ e faceva politica per dare una prospettiva di progresso all’Italia. Fin
dagli Anni Cinquanta, Aldo Moro perseguì una politica estera di apertura ai Paesi
africani mediterranei e a quelli del Medio Oriente, anche allo scopo di
approvvigionarsi delle materie prime di cui quei Paesi erano ricchi e svincolarsi, così,
dal monopolio delle ‘Sette sorelle’, le principali compagnie petrolifere che
controllavano il mercato del petrolio. A tal fine, si avvalse della preziosa
collaborazione del presidente dell’Eni, Enrico Mattei. Politica estera che fece
entrare Moro in rotta di collisione con Gran Bretagna e Francia, le quali temevano
conseguenze negative per le loro politiche neocolonialistiche nel Mediterraneo. E
non fu un caso che Mattei morì nel 1962 in un misterioso incidente aereo che, a
distanza di anni, venne riconosciuto come frutto di un sabotaggio.
- L’insofferenza dei Paesi Nato nei confronti di Aldo Moro diventò vera e propria
ostilità quando l’esponente Dc disegnò, insieme al segretario del Partito Comunista,
Enrico Berlinguer, la strategia del Compromesso storico che prevedeva
un’alleanza provvisoria fra i due grandi partiti popolari e una successiva separazione
in una logica politica dell’alternanza, tipica delle democrazie occidentali avanzate.
Abbiamo visto quanto questo disegno fosse ritenuto pericoloso dai Paesi Nato, in
primo luogo dagli Stati Uniti, i quali avevano avvertito direttamente e pesantemente
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Moro di abbandonare quella strada. Moro non si fece intimorire e portò avanti la sua
strategia. Sappiamo tutti come andò a finire: il presidente della Dc fu rapito dalle
Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e giustiziato dopo 55 giorni di prigionia, durante i
quali prevalse la volontà di non trattare con i terroristi per la sua liberazione. A far
propendere per quella scelta fu la deliberata considerazione, da parte del governo
italiano e dei principali Paesi Nato alleati, che Moro libero sarebbe stato
devastante per il sistema politico italiano.
- E veniamo al ruolo giocato da Francesco Cossiga e da Giulio Andreotti negli
avvenimenti raccontati da Turone, il quale ricorda che Licio Gelli, in un’intervista
rilasciata poco prima di morire, disse di aver operato sempre in stretta collaborazione
con i due esponenti dc, indicando il primo come capo di Gladio (la struttura
paramilitare creata nel Dopoguerra per azioni non convenzionali contro una
eventuale invasione straniera), il secondo come capo dell’Anello (servizio segreto
parallelo e clandestino destinato a realizzare i cosiddetti ‘lavori sporchi’). Turone
individua elementi che confermerebbero la rivelazione di Gelli.
- Riguardo a Cossiga, Turone ricorda innanzitutto che durante il rapimento di Aldo
Moro, la maggior parte dei suoi consiglieri al Viminale risulterà iscritto all’elenco
della P2 ritrovato durante la perquisizione a Castiglion Fibocchi. C’è poi da
sottolineare la fiera rivendicazione di appartenenza a Gladio fatta dallo stesso
Cossiga nel 1990, all’indomani dell’annuncio di Andreotti sull’esistenza di quella
struttura paramilitare clandestina.
- Molti di più gli elementi messi in fila da Turone riguardo al ruolo giocato da
Andreotti.
- a) Innanzitutto, la sentenza che riconosce il “rapporto associativo penalmente
rilevante” con il clan mafioso Bontate. Rapporto di contiguità interrottosi soltanto
nel 1980 dopo la sconfitta dei Bontate nella sanguinosa guerra di mafia che vide
uscire vincente il clan dei corleonesi.
- b) Andreotti è stato inquisito e condannato in appello come mandante del giornalista
Mino Pecorelli che probabilmente lo ricattava pubblicando materiale
compromettente per lui e per la sua corrente all’interno della Dc. La sentenza di
condanna venne annullata dalla Cassazione a causa di un ‘pasticcio giudiziario’ e
di un errore di tecnica giuridica del pubblico ministero che aveva fatto ricorso al
giudice di terzo grado.
- c) Andreotti era molto vicino al finanziere d’assalto, Michele Sindona, e appoggiò i
dissennati piani di salvataggio che quest’ultimo proponeva per salvarsi dalla
bancarotta. E parlando dell’uccisione, ordinata dallo stesso Sindona, del commissario
liquidatore Ambrosoli che a quei piani si opponeva, rilasciò la famosa intervista in
cui pronunciò la frase a dir poco infelice: “Ambrosoli era uno che se l’andava
cercando”.
- d) Andreotti giocò un ruolo nell’attacco giudiziario ai vertici della Banca
d’Italia, facendo pressione sul governatore Baffi affinché togliesse l’incarico di capo
della vigilanza bancaria a Sarcinelli, il quale si era opposto ai piani di Sindona.
- e) Il ruolo di guida di Andreotti all’interno dell’Anello è stato confermato da molti
esponenti dell’organizzazione clandestina. Turone elenca, inoltre, due episodi: la
fuga Kappler organizzata dall’Anello con l’avallo di Andreotti che all’epoca era
presidente del Consiglio; la mancata risposta di Andreotti a frate Zucca, religioso
vicino all’Anello, che aveva avviato una trattativa con le Br per la liberazione di
Moro ma che, prima di consegnare il denaro ai brigatisti, aveva scritto allo stesso
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Andreotti per avere il via libera alla sua iniziativa. La mancata risposta di Andreotti
convinse frate Zucca a interrompere la trattativa e dopo pochi giorni Moro fu ucciso.
Sulla base di questi elementi, Turone si pone, infine, la domanda delle
domande: erano Cossiga e Andreotti i personaggi che, secondo la metafora della
Doppia Piramide elaborata dalla Commissione Anselmi, si trovavano ai vertici del
Sistema P2? La risposta di Turone non è definitiva ma tende decisamente al sì. Egli
sostiene testualmente che “non sembra azzardato” attribuire ai due esponenti dc il
ruolo di protagonisti di quella stagione. Un ruolo più “defilato” per Cossiga, mentre
Andreotti appare, invece, in “posizione decisamente dominante”.

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