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2022-2023
Facoltà di LETTERE E FILOSOFIA
Università LA SAPIENZA di ROMA
CdLM in EDITORIA E SCRITTURA
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IL SISTEMA P2 – L’intervista di Licio Gelli al Corriere della Sera e la perquisizione
a Castiglion Fibocchi con la clamorosa scoperta di dossier scottanti e dell’elenco degli
iscritti alla P2. Il governo Forlani cade a causa dello scandalo: a Palazzo Chigi va il
repubblicano Spadolini, primo premier non democristiano dal dopoguerra. Gelli fa
volutamente ritrovare il ‘Piano di rinascita democratica’, che contiene i punti di un
golpe strisciante da lui progettato per sovvertire la Costituzione. La Commissione
parlamentare sulla P2, presieduta da Tina Anselmi, elabora la tesi della ‘doppia
piramide’, senza però riuscire a individuare il livello politico più elevato.
- Il sistema di potere occulto rappresentato dalla loggia P2 viene scoperchiato con la
perquisizione del 17 marzo 1981 a Castiglion Fibocchi, ordinata dallo stesso Turone
e dal collega Gherardo Colombo, entrambi giudici istruttori a Milano, i quali
indagavano sul bancarottiere Michele Sindona, accusato di essere il mandante
dell’uccisione di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca privata,
guidata dallo stesso Sindona. La perquisizione viene ordinata perché Licio Gelli, alla
guida della P2 insieme al faccendiere Umberto Ortolani, si era - sia pubblicamente,
sia riservatamente - speso per l’accoglimento di improbabili piani di salvataggio
proposti dallo stesso Sindona. I magistrati si erano, inoltre, insospettiti per il
contenuto di un’intervista al Corriere della Sera, in cui lo stesso Gelli descriveva per
la prima volta il sistema di potere costituito intorno alla P2 da lui guidata. Da
sottolineare che l’intervista era stata rilasciata al giornalista Maurizio Costanzo – il
quale poi risultò iscritto alla stessa P2 - e a un quotidiano, il Corriere della Sera,
facente parte del gruppo editoriale Rizzoli, che, sempre successivamente, si scoprì
essere sotto il controllo della stessa P2. Basti pensare che l’allora direttore del
quotidiano milanese, Franco Di Bella, era un affiliato alla loggia massonica di Gelli.
- La perquisizione viene effettuata nella sede della ditta Giole del gruppo Lebole, il
cui indirizzo era contenuto in un’agendina sequestrata a Sindona. I finanzieri che la
effettuano scoprono che, in quella ditta, Licio Gelli ha una segretaria personale e una
sua propria stanza, all’interno della quale viene sequestrata una gran mole di
documenti, fra cui l’elenco dei 963 iscritti alla loggia segreta, che comprende
personaggi al vertice delle istituzioni: ministri, esponenti del mondo politico,
economico e giudiziario, alte cariche militari, dirigenti dei servizi segreti, giornalisti.
- Il 25 marzo Turone e Colombo si fanno ricevere dall’allora presidente del
Consiglio, Arnaldo Forlani, per informarlo dell’esito della perquisizione e
consegnargli la documentazione ritrovata. Il premier tiene inizialmente nascosta la
notizia, poi, dopo un paio di mesi di voci e indiscrezioni incontrollate, è costretto a
renderla pubblica. La reazione dell’opinione pubblica è enorme e travolge Forlani e
il suo governo. Al suo posto arriva a Palazzo Chigi il repubblicano, Giovanni
Spadolini, primo premier non democristiano della storia del Paese.
- Il Sistema P2 non tarda a reagire. Innanzitutto, il sostituto procuratore di Roma,
Domenico Sica, avoca a sé l’inchiesta sulla P2 per competenza territoriale. Ottiene il
via libera della Cassazione e la toglie ai colleghi milanesi che, però, non si fidano dei
magistrati romani e, per cautelarsi, inviano nella capitale solo le fotocopie dei
documenti, trattenendo gli originali a Milano. La seconda reazione di quello che
Turone chiama Sistema P2, è il ritrovamento del ‘Piano di rinascita democratica’,
elaborato da Licio Gelli nel 1976. Il documento viene fatto volutamente trovare nel
sottofondo di una valigia della figlia dello stesso Gelli, allo scopo, spiega Turone, di
lanciare avvertimenti a chi doveva capire e rassicurare gli iscritti alla P2 sul fatto che
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lo scandalo scoppiato dopo la perquisizione di Castiglion Fibocchi non avrebbe
fermato i progetti prestabiliti.
- Il Piano di rinascita democratica contiene le istruzioni per realizzare una sorta di
“golpe strisciante”, allo scopo di imporre una svolta autoritaria all’Italia e impedire
l’ingresso dei comunisti al governo. Questi i punti del piano: selezionare e formare
pochi elementi in grado di condizionare e controllare tutti i partiti politici
(naturalmente, con l’esclusione del Pci), i sindacati e i giornali; indebolire la Rai in
nome della libertà d’antenna; riformare l’ordinamento giudiziario allo scopo di
limitare l’indipendenza dei magistrati e porli sotto il controllo della politica.
- Nel 1984 la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presieduta da Tina
Anselmi, conclude i lavori, approvando una Relazione finale che descrive il Sistema
P2 con la metafora della “doppia piramide”, vale a dire di due piramidi poste una
sull’altra a forma di clessidra. In base a questa ricostruzione, la Commissione
parlamentare colloca Licio Gelli al vertice della prima piramide, in quanto custode
della P2 e punto di collegamento con la piramide superiore. Di quest’ultima, a sua
volta portatrice e responsabile degli obiettivi ultimi, la Commissione ammette di non
essere riuscita a conoscere né la struttura, né i componenti: “Non ci è dato conoscere
– scriveva Anselmi - le forze che si agitano nella struttura a noi ignota”. L’inchiesta
di Turone è volta a dimostrare che, sulla base delle conoscenze giudiziarie e storiche
emerse dopo il 1984, è oggi possibile avere un quadro molto più chiaro e preciso sui
personaggi che si trovavano nella piramide superiore. È quello che vedremo nel
prosieguo dei fatti e delle circostanze narrate dall'autore.
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- Lo scontro all’interno dell’Arma dei carabinieri esplode in occasione della scoperta,
da parte degli uomini di Dalla Chiesa, del covo milanese delle Brigate Rosse di Via
Monte Nevoso, avvenuta nell’ottobre 1978. Il generale Palumbo ostacola in ogni
modo il lavoro di Dalla Chiesa e si arroga il diritto di procedere in prima persona alla
perquisizione del covo, creando ogni tipo di ostacolo al lavoro degli uomini di Dalla
Chiesa. Questi decide allora di accelerare le operazioni di perquisizione, proprio per
evitare che gli uomini di Palumbo mettano le mani sul materiale ritrovato. A causa
di ciò, il covo non viene setacciato a dovere: dodici anni dopo, nel 1990, durante
lavori di ristrutturazione dell’appartamento, un operaio trova all’interno di
un’intercapedine posta dietro a un termosifone, una cartella contenente il Memoriale
di Moro, vale a dire la trascrizione degli interrogatori ai quali lo statista era stato
sottoposto dodici anni prima, durante la prigionia.
- Nel 1982, quindi otto anni prima del ritrovamento del Memoriale, la brigatista Carla
Maria Brioschi aveva denunciato, in un’aula di tribunale, la mancanza di parte
rilevante della documentazione che, a suo parere, si trovava nel covo di Via Monte
Nevoso. Nascono subito sospetti sul fatto che Dalla Chiesa avesse volutamente
tenuto nascosto una parte del Memoriale perché troppo compromettente per la classe
politica. Ebbene, si lasciano circolare queste voci che gettano un’ombra su Dalla
Chiesa, ma curiosamente nessun magistrato decide di ascoltare il generale che,
all’epoca, era ancora vivo. Così come non viene chiamato a testimoniare nessuno dei
carabinieri che avevano materialmente effettuato la perquisizione e redatto il relativo
referto dei beni rinvenuti nel covo. In ogni caso, Turone ritiene del tutto ingiustificati
i sospetti su Dalla Chiesa, non foss’altro perché, in realtà, nel Memoriale di Moro
non c’era nulla di scottante. Moro aveva parlato tanto nel corso degli interrogatori
subiti, ma, dice Turone, in realtà non aveva rivelato nulla di importante e
significativo.
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tante persone i cui nomi sono segnati nell’agenda di Pecorelli, molte delle quali
avrebbero potuto fornire elementi utili alle indagini.
- La svolta sul caso Pecorelli avviene nel 1992, quando il pentito di mafia, Tommaso
Buscetta, rivela che i mandanti dell’omicidio erano stati i cugini Nino e Ignazio
Salvo - affiliati al boss mafioso Bontate - su mandato di Giulio Andreotti e di uno
stretto collaboratore di quest’ultimo, Claudio Vitalone. Quello di Pecorelli, disse
Buscetta, è stato un delitto politico per eliminare un “giornalista scomodo”. In altre
parole, secondo il pentito di mafia, uccidendo Pecorelli, la mafia aveva fatto un
favore ad Andreotti.
- Successivamente alla testimonianza di Buscetta, diversi esponenti della Banda della
Magliana rivelano il coinvolgimento diretto dell’organizzazione criminale della
capitale, facendo i nomi degli esecutori materiali: Massimo Carminati, estremista
di destra legato alla stessa banda, e Michelangelo La Barbera, affiliato alla mafia.
- A occuparsi dell’inchiesta è la procura di Perugia: in primo grado la Corte d’Assise
di Perugia assolve tutti, mentre, al secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello
condanna alcuni imputati (fra questi Andreotti), ma ne assolve altri (fra questi, i
presunti esecutori materiali Carminati e La Barbera), il cui ruolo era comunque
strettamente legato ai primi. La sentenza è, per tale motivo, definita da Turone
“illogica e abnorme”. Ma le stranezze non finiscono qua. Il pm, scrive Turone,
avrebbe dovuto fare ricorso alla Cassazione denunciando la manifesta illogicità della
sentenza d’appello e chiedendo il totale annullamento della sentenza e la ripetizione
del processo. Il pm, non solo non lo fa, ma presenta ricorso esclusivamente per le
assoluzioni e non già per le condanne. Ne consegue che la Corte di Cassazione non
può che annullare la sentenza della Corte d’Appello, ma senza chiedere un nuovo
processo, rendendo così automaticamente definitive le assoluzioni decise in primo
grado. Insomma, un gran pasticcio giudiziario.
- A questa verità giudiziaria sul caso Pecorelli si affianca una verità storica, che Turone
si sforza di ricostruire, individuando una serie di eventi che possono essere collegati
al delitto Pecorelli, ma non sono stati sufficientemente approfonditi dagli inquirenti.
- Nel 1981 viene fatta la clamorosa scoperta di un deposito clandestino di armi della
Banda della Magliana in uno scantinato del ministero della Sanità. Vengono, fra
l’altro, trovate numerose cartucce Gevelot calibro 7,65, facenti parte dello stesso
stock di quelle utilizzate per uccidere Pecorelli. Si tratta, sottolinea Turone, di un
collegamento diretto fra il delitto Pecorelli e la Banda della Magliana. Un elemento
su cui si sarebbe dovuto indagare, ma che, invece, viene inspiegabilmente trascurato
dagli inquirenti.
- Altro elemento di cui tener conto è la campagna di stampa orchestrata su OP da
Pecorelli contro Andreotti, in cui il giornalista denunciava il pagamento di assegni
per due miliardi di lire a favore dello stesso Andreotti, da parte dell’imprenditore
chimico, Nino Rovelli. Due mesi prima dell’omicidio si svolge una cena a cui
partecipano, fra gli altri, Pecorelli e Claudio Vitalone, uomo di fiducia di Andreotti.
In quell’occasione, a detta degli altri partecipanti, Pecorelli annuncia a Vitalone che
presto pubblicherà un’altra puntata della sua inchiesta con le foto degli assegni. Allo
stesso tempo, il giornalista si lamenta dell’inaridirsi dei finanziamenti alla sua
agenzia da parte della corrente andreottiana della Democrazia Cristiana. Elementi
che lasciano capire come l’azione di Pecorelli fosse un ricatto in piena regola ai
danni di Andreotti. Vitalone cerca di dissuadere il giornalista dall’andare avanti con
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la pubblicazione dell’inchiesta, ma Pecorelli dà solo vaghe rassicurazioni. Due mesi
dopo quella cena, verrà assassinato.
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avevano scelto la strada del dialogo con le istituzioni, incarnate proprio da
Andreotti. È proprio l’esito della guerra di mafia, con la sconfitta dei Bontate e la
vittoria del fronte opposto dei corleonesi, a convincere la Corte che il rapporto
associativo di Andreotti con la mafia si era concluso all’inizio del 1980. E a far
decadere la condanna dello stesso Andreotti perché, dopo 23 anni, il reato penale era
caduto in prescrizione.
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Gli inquirenti che indagano sull’uccisione di Ambrosoli indirizzano immediatamente
le indagini su Sindona - il solo a trarre vantaggio dalla sua morte – e lo incriminano
per essere il mandante dell’omicidio. La seconda mossa sbagliata di Sindona è il
finto rapimento orchestrato in Sicilia ad opera di una fantomatica organizzazione
terroristica di estrema sinistra.
- Gelli, di cui Sindona era una creatura, capisce a questo punto che il finanziere è ormai
bruciato e si reca in Sicilia per incontrare i mafiosi del clan Bontate-Inzerillo che fino
a quel momento avevano appoggiato le mosse spericolate di Sindona nella speranza
di recuperare, almeno in parte, i soldi investititi nella Banca Privata. In
quell’incontro, Gelli scredita Sindona e convince i boss ad abbandonarlo al suo
destino. Il finto rapimento viene così smascherato e Sindona è costretto a scappare
negli Stati Uniti, dove però viene arrestato e successivamente estradato in Italia. Il
finanziere subirà diversi processi e andrà incontro a varie condanne, compresa quella
all’ergastolo per l’uccisione di Ambrosoli. Pone termine alla sua vita, suicidandosi
in carcere nel 1986.
- Le sentenze e le carte processuali dimostrano che, tra Andreotti e Sindona, esisteva
“un legame intenso e compromettente”, che ha portato l’uomo politico dc ad
assumere iniziative favorevoli a Sindona in diverse occasioni, fra il 1974 e il 1980,
dunque anche durante il periodo della latitanza del finanziere. Del resto, già nel 1973
Andreotti, in occasione di un ricevimento a New York organizzato da Sindona in
onore di Andreotti, qualificò il finanziere come “salvatore della lira”. Da
sottolineare, in proposito, che una successiva ispezione della Banca d’Italia accerterà
che, nel solo periodo compreso tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974, Sindona aveva
elargito alla Dc un finanziamento illecito di oltre due miliardi di lire. Sempre dalle
carte processuali emerge, inoltre, che Andreotti aveva avuto frequenti incontri con il
legale di Sindona, Rodolfo Guzzi, in seguito ai quali “Andreotti si dava
effettivamente da fare” per sostenere i dissennati piani di salvataggio di Sindona,
sistematicamente bocciati, invece, dalla Banca d’Italia e da istituti del calibro di
Mediobanca e della Banca Commerciale. Istituti che Sindona avrebbe voluto
coinvolgere per avere supporto finanziario alle sue operazioni.
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vigilanza sulle banche e sulle operazioni di carattere finanziario, tutela del pubblico
risparmio.
- Il 24 marzo 1979 è una data nefasta: La Malfa viene colpito da emorragia cerebrale
e due giorni dopo morirà. Nello stesso giorno, la procura di Roma sferra un
clamoroso attacco ai vertici della Banca d’Italia, facendo arrestare il governatore
Luigi Baffi – il quale evita il carcere solo per l’età avanzata – e Mario Sarcinelli,
capo della vigilanza bancaria che aveva trattato il dossier della Banca Privata,
sbarrando ripetutamente la strada ai piani di salvataggio proposti da Sindona.
Sarcinelli, al quale non viene risparmiata l’onta della galera, subisce anche la revoca
dell’incarico in Banca d’Italia. L’accusa - lanciata dal pubblico ministero, Luciano
Infelisi, e dal giudice istruttore, Antonio Alibrandi - era di non aver trasmesso alla
magistratura un rapporto ispettivo effettuato dall’organo di vigilanza su alcuni istituti
di credito. Accusa, sostiene Turone, “palesemente infondata e pretestuosa”: la
mancata trasmissione degli atti era legata al fatto che dalle ispezioni non erano emersi
elementi penalmente rilevanti e che dunque non c’era alcun obbligo di trasmetterli
alla magistratura.
- L’inconsistenza dell’accusa viene alla fine riconosciuta dagli stessi magistrati
inquirenti che, dopo un anno e mezzo decretano il proscioglimento sia di Baffi, sia
di Sarcinelli. Ciò a cui punta l’azione dei magistrati non è, in realtà, condannare Baffi
e Sarcinelli, ma eliminare questi ultimi, in particolare il capo della Vigilanza
Sarcinelli, dai vertici di Bankitalia. Cosa che in effetti avverrà.
- Ad aprile il governatore Baffi incontra Andreotti, all’epoca presidente del Consiglio,
per sollecitare la revoca, da parte dei magistrati, del provvedimento di sospensione
dell’incarico per Sarcinelli. Andreotti si mostra disponibile, ma solo a patto che
Sarcinelli non si occupi più di vigilanza bancaria e venga dirottato ad
- altro incarico. Baffi cede al ricatto di Andreotti, sia per salvare Sarcinelli, sia per
salvaguardare Bankitalia da ulteriori interferenze. Da galantuomo qual era, Baffi
viene, tuttavia, travolto dall’amarezza e ad agosto si dimette dalla carica di
governatore. Nel suo diario scriverà: “Non posso continuare a identificarmi col
sistema delle istituzioni che mi colpisce o consente che mi si colpisca in questo
modo”.
- Intanto, dopo l’incontro con Baffi, Andreotti scrive ad Alibrandi, chiedendogli di
annullare la revoca di Sarcinelli, al fine di consentire il suo rientro in Banca
d’Italia. Il giudice acconsente. Turone sottolinea la singolarità del fatto che un
presidente del Consiglio chieda a un giudice – che è costituzionalmente autonomo
dal potere politico - di correggere un suo atto giudiziario, definendo questo
atteggiamento "sintomatico di quanto fosse anomala, oscura e deviante questa
vicenda apparentemente giudiziaria”. Questo è potuto avvenire, scrive Turone,
perché l’attacco ai vertici di Bankitalia è stata “una subdola manovra riconducibile
all’intreccio di trame e cospirazioni contro la Repubblica”. Una manovra volta
ad allontanare due rigorosi e scomodi dirigenti di Bankitalia dai loro incarichi e,
soprattutto, sfilare la vigilanza bancaria a Sarcinelli, ‘reo’ di aver ostacolato i piani
di Sindona.
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L’UCCISIONE DI GIORGIO AMBROSOLI – In qualità di commissario liquidatore
della Banca Privata, Ambrosoli si oppone ai piani di salvataggio progettati da Sindona,
ritenendoli dannosi per la collettività. Paga la sua intransigenza con la morte: a
ucciderlo un boss mafioso su mandato dello stesso Sindona. In un’intervista, Andreotti,
parlando di Ambrosoli, disse che “era uno che se l’andava cercando…”.
- Altra vicenda oscura, a cui abbiamo già fatto accenno, è l’uccisione di Giorgio
Ambrosoli, avvocato nominato nel 1974 dalla Banca d’Italia commissario
liquidatore della Banca Privata, finita sull’orlo del fallimento a causa delle
manovre spericolate di Sindona. Ambrosoli finisce per pagare con la vita la dura
opposizione ai dissennati piani proposti dal finanziere d’assalto, che si basavano tutti
su finanziamenti a carico del bilancio statale e del pubblico risparmio. Nel luglio del
1979, proprio mentre è in pieno corso l’attacco ai vertici della Banca d’Italia,
Ambrosoli viene ucciso a Milano da un killer mafioso su mandato dello stesso
Sindona che, per questo omicidio, verrà successivamente condannato all’ergastolo.
- Turone dice che dalle carte processuali emerge una “responsabilità politica e
morale” di Giulio Andreotti riguardo all’omicidio di Ambrosoli. E segnala
un’intervista rilasciata dall’uomo politico democristiano molti anni dopo, nel 2010,
nella quale, alla domanda sul perché, secondo lui, Ambrosoli fosse stato ucciso,
risponde testualmente: “Non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo
(Ambrosoli, ndr) è una persona che, in termini romaneschi, se l’andava cercando”.
Parole senza alcun dubbio agghiaccianti.
- A opporsi ai piani di Sindona è anche il presidente di Mediobanca, Enrico Cuccia.
Il finanziere aveva assoldato un killer per sopprimere anche lui. Riuscì a salvarsi
fortuitamente perché, avendo già ricevuto diverse minacce, aveva deciso di cambiare
casa e sfuggì così al killer.
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alla fine cedette e cambiò idea, portando la maggioranza del collegio a decretare
l’annullamento della sentenza.
- In appello Carnevale viene condannato a sei anni, ma la Cassazione annulla la
sentenza senza rinviarla in appello, cancellandola, in tal modo, definitivamente.
Anche su questa sentenza Turone eccepisce. L’annullamento viene, infatti, motivato
con il fatto che i giudici La Penna e Garavelli avevano riferito fatti avvenuti in camera
di consiglio, i cui atti sono protetti dal segreto d’ufficio e che, per tale ragione, non
potevano essere neanche presi in considerazione in un procedimento penale.
- Turone definisce “anomalo e stupefacente” l’annullamento della sentenza da parte
della Cassazione, non foss’altro perché le pressioni nei confronti del giudice La
Penna erano iniziate già prima dell’inizio della camera di consiglio. Turone ricorda,
inoltre, che, successivamente a quella sentenza, la stessa Cassazione ha stabilito che
il vincolo del segreto sugli atti avvenuti in camera di consiglio, decade di fronte
all’obbligo di denunciare fatti penalmente rilevanti.
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ortodossa: non un golpe tradizionale come nella Grecia dei colonnelli, ma una serie
di azioni eversive, appunto non ortodosse.
- L’inizio della Strategia della tensione coincide con la bomba fatta scoppiare nella
sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, il 12
dicembre 1969. Le indagini si caratterizzano immediatamente con una serie di
azioni di depistaggio che si ripresenteranno anche in tutte le successive stragi: la
polizia indirizza l’inchiesta seguendo la falsa pista anarchica e trascurando, invece,
quei segnali, fin dall’inizio evidenti, sul coinvolgimento delle organizzazioni
estremistiche di destra. L’obiettivo è preciso: far cadere la responsabilità sull’estrema
sinistra e incutere paura nell’opinione pubblica, inducendola ad accettare una svolta
autoritaria nel Paese.
- Riguardo alle azioni di depistaggio, Turone cita, a mo’ d’esempio, quanto avvenuto
in occasione della bomba in Piazza della Loggia a Brescia nel 1974 fatta scoppiare
durante un comizio sindacale, che provocò otto morti e oltre cento feriti.
Immediatamente dopo la strage, il vicequestore, con la scusa di ripulire la piazza, ne
ordina il lavaggio, cancellando in questo modo le prove dell’esplosione.
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- Giusva Fioravanti e Francesca Mambro vengono arrestati e confessano di aver
ucciso il giudice Amato, rivendicandone l’azione e subendo la condanna
all’ergastolo. Da parte sua, il procuratore De Matteo, a causa della mancata
protezione ad Amato, viene incriminato per omissione di atti d’ufficio, ma non
subisce alcuna sanzione per colpa dell’istruttoria – definita da Turone
“scandalosamente lacunosa” - portata avanti dalla competente procura di Perugia.
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il quale rivela ai magistrati che nei giorni immediatamente successivi alla strage, i
due si recano da lui per chiedergli documenti d’identità falsi e gli rivelano di aver
compiuto la strage, minacciandolo di uccidergli il figlio nel caso in cui avesse parlato.
Il racconto di Sparti ottiene ampi riscontri, mentre gli alibi forniti da Fioravanti,
Mambro e Ciavardini – i quali negano l’accaduto - risultano inverosimili e
discordanti fra loro. Riguardo agli alibi forniti dagli imputati, la prima sentenza di
condanna del 1984 sostiene che “gli elementi qui esaminati sono indicativi di una
costruzione artificiosa che integra gli estremi dell’alibi falso”. Proseguono i giudici:
se i tre fossero stati davvero innocenti, avrebbero avuto tutto l’interesse a dire la
verità e fornire gli alibi veri. E invece diedero ai magistrati versioni contrastanti.
- Nelle prime fasi delle indagini sulla strage di Bologna, il Sisde (Servizi segreti
interni) collabora con la procura di Bologna e invia informative precise che
accreditano la pista neofascista. Ma ben presto scattano una serie di depistaggi
orchestrati dal Sistema P2. Gelli incontra un alto funzionario del Sisde, Elio
Cioppa, e lo convince che la pista che porta ai neofascisti italiani è falsa: da quel
momento il Sisde interrompe la collaborazione con la procura di Bologna,
accreditando la pista di elementi della destra internazionale.
- Successivamente viene messa in piedi una “fantomatica pista libanese”. A tal fine
viene fatta trovare su un treno una valigia carica di esplosivo dello stesso tipo usato
per la strage di Bologna, con all’interno documenti che indirizzano alla pista della
destra internazionale. La messinscena viene successivamente smontata in sede
processuale, tanto da portare alla condanna dei vertici della P2, in testa Licio Gelli,
per “calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo e di eversione”. Da qui, sottolinea
Turone, la dimostrazione che il Sistema P2 è stato l’autentico “dominus” del
depistaggio, cosa provata in sede processuale al di là di ogni ragionevole dubbio.
Depistaggio attuato per coprire le responsabilità degli estremisti di destra, autori
materiali della strage di Bologna.
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fosse stato eletto capo dello Stato, il suo primo atto sarebbe stato “una completa
revisione della Costituzione che oggi è un abito liso e sfibrato e risulta inefficiente e
inadeguato”.
- Sempre il Corriere pubblica, inoltre, una serie di articoli elogiativi della giunta
militare argentina guidata dal generale Videla, che aveva conquistato il potere
con un golpe sanguinario e stava procedendo all’eliminazione fisica degli oppositori,
facendoli letteralmente sparire (i cosiddetti ‘desaparecidos’).
- Il Corriere pubblica anche una serie di articoli favorevoli al network televisivo
privato che in quegli anni sta mettendo in piedi l’imprenditore Silvio Berlusconi,
anch’egli, si scoprirà successivamente, iscritto alla P2. Fra questi articoli anche
un’intervista elogiativa a Berlusconi firmata dallo scrittore e giornalista Roberto
Gervaso, anch’egli iscritto alla P2.
- Il 21 maggio 1981 avviene la perquisizione a Castiglion Fibocchi nella sede di una
società del gruppo Lebole che, come abbiamo visto in precedenza, custodiva molti
documenti di Licio Gelli, fra cui l’elenco degli iscritti alla loggia P2, molti dei quali
ai vertici degli apparati istituzionali (politici, militari, servizi segreti), insieme a
imprenditori e giornalisti. Quando il presidente del Consiglio di allora, Arnaldo
Forlani, decide di pubblicare quell’elenco fornitogli dai magistrati che indagavano
su Gelli (Giuliano Turone e Gherardo Colombo), il suo governo è travolto dallo
scandalo e cade.
- A Palazzo Chigi arriva Giovanni Spadolini, esponente del Partito Repubblicano,
primo capo del governo non democristiano. I primi atti di Spadolini sono molto duri
nei confronti della P2, fino al decreto di scioglimento della loggia massonica e
all’introduzione del reato di delitto associativo, fino ad allora assente nella nostra
legislazione. Ma i primi ostacoli arrivano quando Spadolini si oppone alla richiesta
del Partito Socialista italiano (allora guidato da Bettino Craxi) di nominare alla
presidenza dell’Eni, colosso statale dell’energia, Leonardo Di Donna, il cui nome è
nell’elenco degli iscritti alla P2. Il capo del governo resiste alle pressioni fino a
novembre 1982, quando è costretto a dimettersi e a cedere il posto all’esponente
democristiano, Amintore Fanfani, il quale accetta il diktat dei socialisti e dà il via
libera alla nomina di Di Donna ai vertici dell’Eni.
- Tale nomina viene, in realtà, successivamente bloccata dal presidente della
Repubblica, Sandro Pertini, il quale pronuncia la frase: “Mai cariche pubbliche a
chi è implicato nella P2”. E tuttavia si avverte che il clima sta ormai cambiando e che
lo scandalo suscitato inizialmente nel Paese dopo la scoperta della loggia segreta, va
ora decisamente scemando. A riprova di ciò - e a dispetto delle parole pronunciate
dal capo dello Stato Pertini - nel governo Fanfani entra, in qualità di ministro, il
segretario del Partito Socialdemocratico, Pietro Longo, iscritto alla P2. Intanto, Gelli
evade dal carcere di Ginevra dove era in attesa di estradizione, grazie, sottolinea
Turone, a “ignote e solide complicità”.
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della P2, i quali, però vengono condannati solo per reati minori (peraltro caduti in
prescrizione) e assolti per l’accusa più grave di cospirazione.
- Sul piano politico, Tina Anselmi (democristiana) guida con coraggio e
determinazione la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, la cui
Relazione finale costituisce una dura requisitoria nei confronti della loggia
massonica e dei poteri occulti che hanno pesantemente condizionato la vita politica
e la storia del nostro Paese. Le raccomandazioni in essa contenute per continuare a
indagare sul Sistema P2 e smascherare le trame occulte da essa ordite, verranno
regolarmente disattese dai governi che si susseguiranno.
- Sul piano giudiziario, il trasferimento dell’istruttoria sulla P2 da Milano a Roma
determina un affossamento del procedimento. Dopo una prima richiesta di
archiviazione, le indagini riprendono grazie soprattutto al coraggio e alla
determinazione del pubblico ministero Elisabetta Cesqui che, in mezzo a difficoltà
e ostacoli di ogni genere, riesce a portare a giudizio Gelli e altri vertici della P2 con
l’accusa di “cospirazione politica mediante associazione finalizzata anche
all’attentato contro la Costituzione”, oltre che per altri reati minori. Fra ritardi e
colpevoli sottovalutazioni, la sentenza definitiva arriva soltanto nel 1994 con la
condanna degli imputati per i soli reati minori (peraltro caduti nel frattempo in
prescrizione) e l’assoluzione riguardo al capo principale d’imputazione, vale a dire
la cospirazione politica.
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Cossiga. Queste le parole di Gelli: “C’era la Gladio, che era comandata da Cossiga,
l’Anello, che era diretto da Andreotti, e la P2 che era diretta da me”.
- Gladio era l’organizzazione paramilitare e clandestina a guida Nato, creata dopo la
fine della Seconda guerra mondiale per difendere l’Italia, con azioni anche non
convenzionali, contro la possibile invasione di una potenza straniera. L’Anello era,
invece, una sorta di servizio segreto parallelo e clandestino, che si occupava di fare
i cosiddetti “lavori sporchi”, lasciandone fuori i servizi segreti ufficiali.
- Dell’esistenza di Gladio e delle sue finalità, gli italiani vengono a sapere soltanto nel
1990 dalla bocca dell’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. La
rivelazione viene accompagnata dall’annuncio che la struttura sarebbe stata sciolta
giacché, con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, non aveva
più ragion d’essere. Subito dopo l’annuncio di Andreotti sull’esistenza di Gladio,
Cossiga, che all’epoca è presidente della Repubblica, rivendica la sua piena adesione
e appartenenza a quella organizzazione fin dal Dopoguerra, esaltandone gli aspetti
patriottici. In realtà, sia Andreotti nel rivelarne l’esistenza, sia Cossiga nel
rivendicarne l’appartenenza, si limitano a parlare del ruolo di Gladio dal Dopoguerra
fino agli Anni Sessanta, sorvolando, invece, sul ruolo dell’organizzazione negli Anni
Settanta, ma soprattutto negli Anni Ottanta, quando il pericolo di un’invasione
straniera era di fatto scomparso.
- In proposito, Turone segnala due importanti testimonianze che gettano una luce
diversa sul ruolo di Gladio. La prima, di Paolo Emilio Taviani, storico esponente
democristiano, ministro della Difesa e dell’Interno in diverse occasioni e da sempre
a conoscenza dell’esistenza di Gladio. In un’intervista al Corriere della Sera del
1990, Taviani dice: “Bisogna capire che la cosiddetta Gladio ha avuto stagioni
diverse. Una cosa era la struttura degli Anni Cinquanta e Sessanta, una cosa è stata
quella degli Anni Settanta e un’altra ancora quella del decennio appena concluso
[degli Anni Ottanta, n.d.a]”. Ancora più esplicito il generale Gerardo Serravalle
che di Gladio era stato alla guida per tre anni, dal 1971 al 1974, avendo quindi una
visione diretta della situazione. In una deposizione al giudice istruttore della strage
di Bologna, Serravalle dichiara: “Non vorrei che Gladio avesse rappresentato una
specie di coperchio per qualcosa di ben diverso. Che cioè vi fosse una struttura
presentabile, appunto la Gladio, e un’altra, al di sotto, impresentabile, con finalità
illecite”. Prosegue Serravalle: “Ebbi a un certo punto la sensazione che Gladio fosse
una realtà che serviva a coprire qualcosa di diverso e di pericoloso, qualcosa che
doveva rimanere segreto”.
- Passiamo all’Anello. Turone ricorda che lo stretto legame fra Andreotti e questa
organizzazione clandestina, rivelata peraltro dallo stesso Gelli, è stata confermata
agli inquirenti da diversi importanti esponenti dell’organizzazione stessa. Turone
ricorda uno dei più clamorosi ‘lavori sporchi’ fatti dall’Anello, vale a dire la fuga
dall’ospedale militare del Celio del generale nazista Kappler, condannato
all’ergastolo come responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine del 1943. Le carte
processuali, ricorda Turone, hanno accertato che la “vergognosa fuga fu organizzata
per conto della Presidenza del Consiglio in cambio di una cospicua somma di
denaro”. Presidente del Consiglio dell’epoca era Giulio Andreotti.
- Altro episodio carico di significati di cui l’Anello è protagonista, avviene durante il
rapimento del presidente della dc, Aldo Moro. Un religioso vicino all’Anello, frate
Enrico Zucca, entra in contatto con le Br e, con il beneplacito della Santa Sede,
imbastisce una trattativa con i terroristi. Il religioso riesce a raccogliere una
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considerevole somma di denaro (due milioni di dollari) che deve servire per pagare
il riscatto e ottenere, in cambio, la liberazione del presidente della Dc. Zucca capisce,
però, che deve coprirsi le spalle con la politica e cerca l’appoggio del governo: il
frate è consapevole del fatto che, in una materia così delicata e scivolosa, non può
muoversi senza il consenso delle istituzioni. A tal fine, scrive una lettera ad
Andreotti, che all’epoca è presidente del Consiglio, spiegandogli dettagliatamente i
termini dell’operazione e chiedendo il suo avallo. Andreotti non risponde a quella
lettera. Dal silenzio del capo del governo, il frate capisce che la sua iniziativa non è
gradita alle istituzioni e, quindi, interrompe le trattative con i brigatisti. Pochi giorni
dopo Moro viene ucciso.
- Ma perché Andreotti non rispose a frate Zucca? Turone spiega il suo silenzio,
rifacendosi a quanto successivamente dichiarato da Steve Pieczenik, noto come
“l’uomo di Kissinger”, all’epoca segretario di Stato americano. Pieczenik è l’esperto
inviato in Italia dall’amministrazione americana durante il rapimento di Moro che
affianca, in veste di consulente, l’Unità di crisi costituita da Cossiga al ministero
dell’Interno. In alcune interviste rilasciate diversi anni dopo, Pieczenik rivela che la
sua missione non era quella di salvare Moro, ma di evitare che il sistema politico
italiano crollasse. E spiega candidamente che il dipartimento Usa era convinto del
fatto che il sistema italiano sarebbe crollato se Moro fosse stato liberato. Nelle
stesse interviste, l’esperto dice che l’obiettivo della sua missione, peraltro coronata
da successo, era far cadere in trappola i brigatisti, convincendoli che la liberazione
di Moro avrebbe sancito la loro sconfitta politica, mentre nella realtà egli temeva che
Moro libero – con le sue rivelazioni e la rabbia accumulata durante la prigionia nei
confronti degli esponenti del suo stesso partito – avrebbe portato alla caduta del
sistema politico su cui si era retta fino ad allora l’Italia. Pieczenik fa un’altra
importante rivelazione: ammette di essere stato lui a far fallire la trattativa messa in
piedi da frate Zucca: “In quel momento – dice - stavamo chiudendo tutti i possibili
canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato”. Da lì la mancata risposta
di Andreotti alla lettera di frate Zucca.
- Chiosa Turone: è evidente che tale strategia di Pieczenik, che voleva la morte di
Moro, “fosse condivisa, o comunque subita, da chi deteneva il potere in Italia: un
governo fortemente controllato dal binomio Andreotti-Cossiga e fortemente
condizionato dal Sistema P2 nel pieno della sua potenza”.
- A conclusione dell’inchiesta, Turone torna sulla metafora della ‘Doppia piramide’
contenuta nella Relazione della Commissione Anselmi sulla P2. La Relazione, datata
1984, diceva che al vertice della prima piramide c’era senz’altro Licio Gelli, ma che
non era stato possibile sapere chi si trovasse in cima alla seconda piramide, quella
che perseguiva le finalità ultime del potere occulto, utilizzando la struttura e gli
uomini della piramide inferiore. Ebbene, Turone dice che oggi se ne sa molto di più
del 1984, quando la Relazione fu scritta. E che, sulla base delle attuali conoscenze,
giudiziarie e storiche, “non sembra azzardato visualizzare nella piramide superiore
proprio Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, i due protagonisti dell’aforisma
gelliano, i quali, tra l’altro, a differenza di Gelli, i loro segreti se li sono portati nella
tomba”. In questa piramide superiore, conclude Turone, “la posizione di Cossiga
appare un po’ defilata, mentre ad Andreotti va invece riconosciuta una posizione
decisamente dominante”.
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CONSIDERAZIONI FINALI
‘Italia occulta’ racconta vicende e personaggi che hanno segnato la storia del
nostro Paese a partire dagli Anni Settanta. Una storia che, solo in apparenza, è lontana
nel tempo, ma che invece continua a produrre riverberi sulla vita di oggi. Non
foss’altro perché gli avvenimenti drammatici narrati da Giuliano Turone hanno
lasciato una lunga scia di sangue e condizionato pesantemente lo sviluppo della
società e della politica italiana in senso democratico.
- L’autore intende rileggere la Strategia della tensione, quell’insieme di atti eversivi
pianificati e realizzati da una parte infedele delle istituzioni che, avvalendosi anche
del sostegno di servizi segreti stranieri, si ponevano l’obiettivo di imporre al Paese
una svolta autoritaria. ‘Italia occulta’ è un’inchiesta realizzata per conoscere la
storia d’Italia, per capire la realtà che stiamo vivendo oggi e soprattutto per non
dimenticare. L’originalità del lavoro di Turone è saper mettere insieme quei fatti,
alcuni molto distanti fra loro, eppure legati da un ‘filo nero’ rappresentato dal
Sistema P2, che racchiudeva in sé tutte le forze anti-Stato. Al suo interno, troviamo
uomini delle istituzioni, importanti esponenti del mondo politico, imprenditoriale,
dell’informazione, servizi segreti deviati, alti gradi militari, neofascisti utilizzati
come manovalanza.
- La Strategia della tensione fu alimentata sostanzialmente da due fattori fra loro in
conflitto: l’appartenenza dell’Italia al blocco atlantico stabilita nella Conferenza di
Yalta del 1945 e la presenza nel nostro Paese del più grande partito comunista
dell’Occidente. La prospettiva che i comunisti potessero giungere al potere spinse
le forze più reazionarie a mettere in moto atti eversivi allo scopo di generare paura
nella popolazione e favorire, in tal modo, l’accantonamento della Costituzione e la
creazione di un regime autoritario.
- Il valore del libro di Turone sta nello sforzo di mettere insieme sentenze,
testimonianze, perizie, verbali trascurati dagli inquirenti, piste investigative non
sufficientemente seguite. Il tutto nel tentativo di coniugare la verità giudiziaria delle
sentenze alla verità storica, individuando circostanze di fatto e ricostruzioni
logiche oggi rese possibile da una più ampia conoscenza di quei fatti, degli autori
materiali degli atti eversivi e dei burattinai che operavano dietro le quinte. E così,
alla luce di quanto sappiamo oggi, vicende che allora apparivano distanti fra loro si
prestano a una lettura differente. Ciò che all’epoca dei fatti era confuso, ora appare
molto più chiaro. Anche perché, nel frattempo, la caduta del Muro di Berlino e la
scomparsa del pericolo comunista hanno fatto allentare le maglie e diradare la
nebbia.
- L’inchiesta si concentra sul Triennio maledetto che va dal rapimento e assassinio
di Aldo Moro alla strage di Bologna. Parla degli omicidi di Piersanti Mattarella,
Giorgio Ambrosoli e Mino Pecorelli, dell’assalto giudiziario ai vertici della Banca
d’Italia, del ruolo di manovalanza giocato dall’estremismo di destra. Parla della
mafia, dei rapporti fra Andreotti e Cosa Nostra, delle uccisioni di Falcone e
Borsellino. In tutti questi intrecci, ci si imbatte continuamente nella P2, che emerge
come qualcosa di inquietante, di pervasivo, un vero e proprio Sistema, che lega gli
atti eversivi che hanno insanguinato il nostro Paese. Sistema P2 che ha condotto
quella 'guerra non ortodossa' che ha seminato morte e paura, allo scopo di
rovesciare l’ordinamento costituzionale. Lo scopo non era quello di un colpo di Stato
tradizionale, come era avvenuto nella Grecia dei colonnelli, ma di un ‘golpe
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strisciante’, i cui contorni erano ben sintetizzati nel ‘Piano di rinascita
democratica’ elaborato da Gelli, che prevedeva il controllo di partiti e sindacati,
della magistratura e dell'informazione.
- Le tesi di Turone hanno ottenuto un’importante conferma nella recente sentenza
della Corte d'Assise di Bologna, che ha condannato all'ergastolo Paolo Bellini,
quale 'quinto uomo' della banda di neofascisti che il 2 agosto 1980 mise la bomba
alla stazione del capoluogo emiliano. Quella stessa sentenza, di cui si attendono a
breve le motivazioni, ha, infatti, individuato come mandanti e finanziatori della
strage proprio Licio Gelli e Umberto Ortolani, i capi della P2, insieme a Federico
Umberto D’Amato, responsabile dell'Ufficio Affari Riservati del ministero
dell’Interno, una sorta di servizio segreto parallelo specializzato nel depistaggio
sistematico delle indagini sulle attività eversive che hanno insanguinato il Paese.
- ‘Italia occulta’ si snoda come un romanzo poliziesco, è un libro ricco di avvenimenti
e di personaggi: da una parte, criminali, neofascisti, terroristi rossi, boss mafiosi,
magistrati corrotti, giudici ammazza-sentenze, uomini delle istituzioni infedeli alla
Costituzione, servizi segreti deviati, imprenditori rampanti, finanzieri d’assalto che
riciclavano i soldi della mafia; dall’altra, quelli che potremmo definire eroi, coloro i
quali ‘hanno retto’, anche se con fatica, consentendo, comunque, al nostro Paese di
resistere ai tentativi di rovesciare la democrazia. Sono tanti questi eroi, molti dei quali
hanno pagato con la vita il coraggio e la fedeltà alla Costituzione: solo per fare alcuni
nomi, Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata di Sindona,
Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, il generale dei carabinieri Carlo
Alberto Dalla Chiesa, i magistrati Falcone e Borsellino uccisi dalla mafia, Occorsio
e Amato assassinati dai neofascisti. Ma anche coloro che non hanno pagato con la
vita, ma sono rimasti leali alle istituzioni: il ministro del Tesoro Ugo La Malfa, i
vertici della Banca d’Italia accusati ingiustamente dalla procura di Roma soltanto
perché facevano il loro dovere, la presidente della Commissione parlamentare P2,
Tina Anselmi.
- Fra questi personaggi positivi, spicca la figura di Aldo Moro, esponente principale
di quella parte della Democrazia Cristiana non coinvolta nel malaffare, che aveva
una ‘visione’ e faceva politica per dare una prospettiva di progresso all’Italia. Fin
dagli Anni Cinquanta, Aldo Moro perseguì una politica estera di apertura ai Paesi
africani mediterranei e a quelli del Medio Oriente, anche allo scopo di
approvvigionarsi delle materie prime di cui quei Paesi erano ricchi e svincolarsi, così,
dal monopolio delle ‘Sette sorelle’, le principali compagnie petrolifere che
controllavano il mercato del petrolio. A tal fine, si avvalse della preziosa
collaborazione del presidente dell’Eni, Enrico Mattei. Politica estera che fece
entrare Moro in rotta di collisione con Gran Bretagna e Francia, le quali temevano
conseguenze negative per le loro politiche neocolonialistiche nel Mediterraneo. E
non fu un caso che Mattei morì nel 1962 in un misterioso incidente aereo che, a
distanza di anni, venne riconosciuto come frutto di un sabotaggio.
- L’insofferenza dei Paesi Nato nei confronti di Aldo Moro diventò vera e propria
ostilità quando l’esponente Dc disegnò, insieme al segretario del Partito Comunista,
Enrico Berlinguer, la strategia del Compromesso storico che prevedeva
un’alleanza provvisoria fra i due grandi partiti popolari e una successiva separazione
in una logica politica dell’alternanza, tipica delle democrazie occidentali avanzate.
Abbiamo visto quanto questo disegno fosse ritenuto pericoloso dai Paesi Nato, in
primo luogo dagli Stati Uniti, i quali avevano avvertito direttamente e pesantemente
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Moro di abbandonare quella strada. Moro non si fece intimorire e portò avanti la sua
strategia. Sappiamo tutti come andò a finire: il presidente della Dc fu rapito dalle
Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e giustiziato dopo 55 giorni di prigionia, durante i
quali prevalse la volontà di non trattare con i terroristi per la sua liberazione. A far
propendere per quella scelta fu la deliberata considerazione, da parte del governo
italiano e dei principali Paesi Nato alleati, che Moro libero sarebbe stato
devastante per il sistema politico italiano.
- E veniamo al ruolo giocato da Francesco Cossiga e da Giulio Andreotti negli
avvenimenti raccontati da Turone, il quale ricorda che Licio Gelli, in un’intervista
rilasciata poco prima di morire, disse di aver operato sempre in stretta collaborazione
con i due esponenti dc, indicando il primo come capo di Gladio (la struttura
paramilitare creata nel Dopoguerra per azioni non convenzionali contro una
eventuale invasione straniera), il secondo come capo dell’Anello (servizio segreto
parallelo e clandestino destinato a realizzare i cosiddetti ‘lavori sporchi’). Turone
individua elementi che confermerebbero la rivelazione di Gelli.
- Riguardo a Cossiga, Turone ricorda innanzitutto che durante il rapimento di Aldo
Moro, la maggior parte dei suoi consiglieri al Viminale risulterà iscritto all’elenco
della P2 ritrovato durante la perquisizione a Castiglion Fibocchi. C’è poi da
sottolineare la fiera rivendicazione di appartenenza a Gladio fatta dallo stesso
Cossiga nel 1990, all’indomani dell’annuncio di Andreotti sull’esistenza di quella
struttura paramilitare clandestina.
- Molti di più gli elementi messi in fila da Turone riguardo al ruolo giocato da
Andreotti.
- a) Innanzitutto, la sentenza che riconosce il “rapporto associativo penalmente
rilevante” con il clan mafioso Bontate. Rapporto di contiguità interrottosi soltanto
nel 1980 dopo la sconfitta dei Bontate nella sanguinosa guerra di mafia che vide
uscire vincente il clan dei corleonesi.
- b) Andreotti è stato inquisito e condannato in appello come mandante del giornalista
Mino Pecorelli che probabilmente lo ricattava pubblicando materiale
compromettente per lui e per la sua corrente all’interno della Dc. La sentenza di
condanna venne annullata dalla Cassazione a causa di un ‘pasticcio giudiziario’ e
di un errore di tecnica giuridica del pubblico ministero che aveva fatto ricorso al
giudice di terzo grado.
- c) Andreotti era molto vicino al finanziere d’assalto, Michele Sindona, e appoggiò i
dissennati piani di salvataggio che quest’ultimo proponeva per salvarsi dalla
bancarotta. E parlando dell’uccisione, ordinata dallo stesso Sindona, del commissario
liquidatore Ambrosoli che a quei piani si opponeva, rilasciò la famosa intervista in
cui pronunciò la frase a dir poco infelice: “Ambrosoli era uno che se l’andava
cercando”.
- d) Andreotti giocò un ruolo nell’attacco giudiziario ai vertici della Banca
d’Italia, facendo pressione sul governatore Baffi affinché togliesse l’incarico di capo
della vigilanza bancaria a Sarcinelli, il quale si era opposto ai piani di Sindona.
- e) Il ruolo di guida di Andreotti all’interno dell’Anello è stato confermato da molti
esponenti dell’organizzazione clandestina. Turone elenca, inoltre, due episodi: la
fuga Kappler organizzata dall’Anello con l’avallo di Andreotti che all’epoca era
presidente del Consiglio; la mancata risposta di Andreotti a frate Zucca, religioso
vicino all’Anello, che aveva avviato una trattativa con le Br per la liberazione di
Moro ma che, prima di consegnare il denaro ai brigatisti, aveva scritto allo stesso
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Andreotti per avere il via libera alla sua iniziativa. La mancata risposta di Andreotti
convinse frate Zucca a interrompere la trattativa e dopo pochi giorni Moro fu ucciso.
Sulla base di questi elementi, Turone si pone, infine, la domanda delle
domande: erano Cossiga e Andreotti i personaggi che, secondo la metafora della
Doppia Piramide elaborata dalla Commissione Anselmi, si trovavano ai vertici del
Sistema P2? La risposta di Turone non è definitiva ma tende decisamente al sì. Egli
sostiene testualmente che “non sembra azzardato” attribuire ai due esponenti dc il
ruolo di protagonisti di quella stagione. Un ruolo più “defilato” per Cossiga, mentre
Andreotti appare, invece, in “posizione decisamente dominante”.
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