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DELLO STESSO AUTORE

PRESSO LE NOSTRE EDIZIONI:


Un amore sporco (in: AA.VV., Donne a perdere)

Una brutta storia

La notte delle pantere

L’appuntamento

Il canto degli innocenti

Per sempre
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I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera e i nomi e i dialoghi ivi contenuti sono
unicamente frutto dell’immaginazione e della libera espressione artistica dell’autore. Ogni
similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale
e non intenzionale.

Grafica/Emanuele Ragnisco
www.mekkanografici.com
Illustrazione in copertina/Luca Laurenti

ISBN 9788866327844
PIERGIORGIO PULIXI

PRIMA DI DIRTI ADDIO


Per Simona Olivito,
persona di rara nobiltà e professionalità,
e infaticabile angelo di redazione.
Il Branco

Biagio Mazzeo: ispettore superiore della polizia di Stato; capo della banda di poliziotti corrotti.

Luca Zorzi: ispettore; “l’elegantone”.

Santo Spada: ex mastino della Narcotici; ucciso dalla ’ndrangheta.

Giorgio Varga: ispettore; ex NOCS; “l’ombra” di Mazzeo.

Zeno Marinoni: sovrintendente capo; l’uomo delle cimici.

Oscar Fortunato: vicecommissario della Polstrada, morto in un incidente.

Vito Filomena: viceispettore; un ragazzo rabbioso; reduce da un attentato.

Stefano “Ste” Zara: ispettore superiore della sezione Narcotici; migliore amico di Biagio; deceduto.

Rino Vanzan, Franco Speranzon: veterani della Narcotici e membri della banda.

Carmine Torregrossa: ispettore dell’Anticrimine, vecchio amico di Biagio.

Mirko “Piombo” Giacchetti: ex poliziotto, uomo di fiducia di Biagio.

Cristiano, Ronny, Paolo, Manuel: poliziotti del Branco.

La Giustizia

Giovanna De Rosa: questore della polizia di Stato.

Antonello “Placido” Verri: Primo dirigente della polizia di Stato.

Irene Piscitelli: dirigente di pubblica sicurezza dello SCO, Servizio Centrale Operativo della polizia
di Stato; scomparsa.
Antonio Gualtieri: procuratore aggiunto della DDA di Reggio Calabria; magistrato anti-’ndrangheta;

Pablo Montoya: magistrato colombiano che ha lavorato in tandem con Gualtieri per la cattura e
l’estradizione di Roberto Pagani.

Joseph Carbone: alto ufficiale della DEA statunitense, l’agenzia antidroga federale.

Michelangelo Corvetto: vicedirettore dell’AISI, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna


dell’intelligence italiana.

Gli altri

Sonja Comaneci: la donna di Mazzeo; deceduta.

Donna: vecchia amica di Biagio e matriarca del Branco.

Anna: la nipote di Giorgio, figlia di Omar Varga, ispettore ucciso dal fratello.

Miriam Petrarca: ex poliziotta, vedova di Stefano Zara e madre di Matteo; è incinta di Mazzeo.

Nicky: ladruncola quattordicenne innamorata di Biagio; scomparsa.

Mikaela “Lela”: ragazza per cui Carmine Torregrossa ha perso la testa.

Vanja: ragazzina di strada; in lei Mazzeo rivede Nicky.

Gli stranieri

Sergej Ivankov: capo mafioso ceceno; deceduto.

Vatslava Demidova: donna di Sergej; nuovo capo al vertice del clan Ivankov e della mafia cecena.

Samil Argun: consigliere di Sergej e ora braccio destro della sua erede: Vatslava.

El Chapo: capo incontrastato del cartello di Sinaloa; appena evaso da un carcere federale messicano;
latitante.

La ’ndrangheta

Natale Pugliese: maggiore esponente della ’ndrangheta al Nord che ha tentato una scissione col Sud;
arrestato da Mazzeo.

Romeo Labate: santista, uomo di fiducia della Mamma nella Giungla; elemento in ascesa
nell’Organizzazione.

La Mamma: viene così denominata il maggiore centro di potere decisionale della ’ndrangheta, una
sorta di consiglio che da San Luca in Calabria prende tutte le decisioni per l’Organizzazione a livello
sia nazionale che internazionale. La Mamma è custode delle regole, delle dodici tavole, e interviene
per le controversie e le faide in seno a tutti i locali.

Roberto Pagani: narcobroker internazionale di altissimo livello, lavora al soldo della ’ndrangheta
ma non è un affiliato; latitante.

Domenico “Dom” Cosentino: broker internazionale di stanza a Londra; anello di congiunzione


economica tra la cosca di Labate e la multinazionale distributiva di Roberto Pagani; gestisce una
miriade di società di intermediazione finanziaria legate alla ’ndrangheta.

Sigle e nomi

Obščina: termine russo con cui viene indicata la mafia cecena.

MS-13: Mara Salvatrucha, gang internazionale nata a Los Angeles, formata da immigrati salvadoregni
e diffusasi in tutto il mondo; è considerata una delle bande criminali più pericolose; è presente anche
in Italia, ed è rivale storica degli MS-18, altra gang di latinos; la MS-13 è alleata del cartello di
Sinaloa.

ROS: Raggrupamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri: gruppo investigativo dell’Arma
con competenza sulla criminalità organizzata e il terrorismo.
DDA: Direzione distrettuale antimafia.

SCO: Servizio centrale operativo della polizia di Stato.

SCIP: Servizio per la cooperazione internazionale di polizia, incardinata nella Criminalpol.

AISI: Agenzia informazioni e sicurezza interna dell’intelligence italiana.

FSB: Servizi federali per la sicurezza della federazione russa; è il servizio di intelligence della
Russia, erede del KGB sovietico.

DEA: Drug Enforcement Agency, l’agenzia antidroga statunitense.

AFI: Agencia Federal de Investigación, l’equivalente messicano dell’FBI.

NF: Nueva Federación, sodalizio criminale messicano tra vari cartelli della droga, tra cui spicca il
cartello di Sinaloa che ha vinto la guerra tra narcos in Messico; si ritiene che sia stata appoggiata
nella sua ascesa da apparati governativi.

I più importanti cartelli della droga messicani: Los Zetas; Comando Zetas; El Círculo; Unidad Zetas;
Grupo Delta Zetas; Fuerzas Especiales Zetas; Sonora; Sinaloa; cartello del Golfo; Familia
Michoacán; Juárez; Gente Nueva; Los Cabrera; Jalisco Nueva Generación; Guerreros Unidos;
Guadalajara; Los Mexicles.
Prologo
Shangai, Cina

Una goccia di sangue le schizzò sul viso. Rimase immobile. Lasciò che le colasse giù dallo zigomo
fino a raggiungere il labbro superiore. Sentì di avere gli occhi dei suoi uomini puntati addosso, così
dischiuse le labbra e con la lingua leccò il sangue, lentamente, quasi con bramosia, come se fosse
miele. Mentre il sapore ferroso le si spandeva in bocca, si ritrovò a considerare che in tutti i momenti
più importanti nella vita di una donna è presente il sangue. Quando nasci. Quando passi dall’infanzia
all’adolescenza. La prima volta che fai l’amore. Quando partorisci. E ogni mese quel sangue che ti
lasci dietro come a ricordarti che sei fatta di carne, ma soprattutto di sangue. Per rammentarti che sei
mortale. Pensò che la morte prende sempre alla sprovvista gli uomini ma non le donne. Le donne
hanno un rapporto diverso con lei. È come se morissero un poco ogni mese. Come se vivessero
quell’esperienza per imparare a conoscerla, a temerla, ma anche per scoprire i suoi segreti ed essere
coscienti di avere un tempo limitato così da viverlo al meglio. Quella piccola morte ti corteggia per
gran parte della tua esistenza. Ti insegna a non aver paura di lei ma anche a mettere in conto che
prima o poi arriverà. Questo ti porta a soppesare di più il futuro. A riflettere, prima di agire.

Ma il sangue è presente anche quando una donna imbocca la strada della vendetta.

L’uomo seduto di fronte a lei sanguinava e sentiva che stava per morire. Vatslava fece un cenno alla
guardia del corpo che lo stava prendendo a pugni e quello si scostò. La cecena si alzò e gli si piantò
innanzi. Il prigioniero era legato alla sedia. Tremava e ansimava come una bestia braccata. Per farlo
parlare gli avevano spezzato le dita delle mani con delle tronchesine. Non aveva funzionato. Allora
gli avevano mozzato il lobo di un orecchio e bruciato la schiena, ma lo scantinato si era riempito
soltanto di grida di dolore, non di informazioni. Così avevano iniziato a lavorarselo con pugni e
bastonate. Ma Vatslava aveva capito che era ormai al limite. Ancora qualche colpo e l’avrebbero
ucciso.

«Dimmi chi ti ha mandato e la finiamo qui, niente più torture» disse in ceceno. Aveva bisogno di
saperlo. Ne andava della sua sicurezza, e non solo. «Non mi importa nulla di te. So che non c’è
niente di personale. L’hai fatto perché ti hanno pagato per farlo… Dimmi chi ti ha ingaggiato e sei
libero».

L’uomo sollevò il viso tumefatto e la fissò di sottecchi.

«Ti do la mia parola» ribadì Vatslava. «Ti garantisco soldi e protezione».

«Armen Jabba…» sputacchiò il ceceno tra i denti spezzati.

Vatslava annuì. Qualche settimana prima si era liberata di tutti i boss della sua organizzazione,
avvelenandoli. Aveva conquistato col sangue il trono che le spettava. Pensava che sarebbe bastato
per non avere più problemi, ma si era sbagliata. I vecchi soci di Sergej Ivankov, il suo uomo, non
avevano gradito la notizia che sarebbe stata una donna a guidare l’Organizzazione. I pochi che erano
riusciti a salvarsi dall’epurazione le avevano sguinzagliato dietro dei killer prezzolati. Questo era il
secondo che tentava di farle la pelle. Nonostante si fosse nascosta dall’altra parte del mondo,
sebbene girasse con dei documenti falsi tenendo un bassissimo profilo, l’avevano scovata. Vatslava
si disse che il suo tempo a Shangai era finito. Perché come l’avevano trovata loro, avrebbe potuto
farlo anche lo sbirro, Mazzeo. E sarebbe stato un peccato. Perché la vendetta di Vatslava nei suoi
confronti era appena iniziata.

«Grazie per l’informazione».

Prese dalle mani di uno dei suoi una pistola e freddò il sicario.

Poi restituì l’arma e sospirò. Era sfiancata da quella latitanza e ora avrebbe dovuto ricominciare tutto
daccapo.

«Dite ai cinesi di farlo a pezzi» ordinò.

I suoi uomini annuirono e la guardarono andare via. Era stanca, Vatslava. Stanca di tutta quella
violenza, per quanto necessaria. Stanca fisicamente. La fuga la sfibrava e di notte era impossibile
dormire per via degli incubi che la tormentavano. Ma più che gli incubi temeva i sogni. Perché le
facevano più male. Perché nei sogni c’era lui. Il suo amore perduto. E con lui, la vita che avrebbero
potuto avere.

Entrò nell’auto blindata e si accarezzò la pancia. Si domandò se avesse fatto bene qualche settimana
prima a lasciare il poliziotto in vita. Se l’avesse ucciso, ora avrebbe avuto una preoccupazione in
meno. Ma al pensiero di quanto Biagio Mazzeo stesse soffrendo, Vatslava sorrise.

«Andiamo all’aeroporto, non possiamo passare da casa. Non è più sicuro» disse all’autista.

«Dove andremo?» le chiese uno dei contractor che formavano la sua scorta.

Per qualche istante la donna rimase in silenzio.

«Ovunque, purché lontano da qui» disse poi. «Notizie di Mazzeo?».

«Dicono che la sta ancora cercando… pare che sia diventato il fantasma di se stesso».

Vatslava assentì soddisfatta. Spedì un messaggio attraverso il suo cellulare criptato e poi diede
all’autista un indirizzo. Prima di andare in aeroporto doveva fare un’ultima cosa.

Dopo una ventina di minuti si fermarono in una zona semideserta sulle rive del fiume Huangpu. Un
altro Suv dai vetri oscurati li stava aspettando, degli uomini armati fuori, in attesa. Erano stranieri,
non ceceni.

«Con i cinesi?» chiese la donna ai suoi.

«Tutto sistemato. Penseranno loro a recapitare il pacco».

«Ottimo. Aspettatemi qui» ordinò.

Appena entrò nell’altro fuoristrada, gli stranieri circondarono la macchina con cui era arrivata e
iniziarono a sparare con fucili da guerra. I proiettili attraversarono la carrozzeria blindata come se
fosse burro.

«Era proprio necessario?» le chiese uno dei suoi soldati più fidati osservando i mercenari aprire le
portiere del Suv e finire i colleghi.

«Se mi hanno trovata è solo perché qualcuno dei miei ha parlato. Non so chi e non ho tempo per
scoprirlo».

«Capisco… Possiamo andare adesso?».

La donna fissò il fuoristrada tempestato dai colpi e assentì.

«Dove questa volta?» le chiese l’uomo.

«Sei davvero sicuro di volerlo sapere?» ribatté lei.

Il mercenario osservò l’auto crivellata di piombo su cui stavano versando della benzina.

«No. Credo di poterne fare a meno» disse recependo il messaggio.

Vatslava lanciò un’occhiata alle fiamme che divoravano il mezzo e i cadaveri. Il fuoco le ricordò la
notte di un mese prima.

…La vera vendetta non deve avere mai fine… deve perdurare nel tempo… Per sempre…

Erano state parole di Sergej. Uno dei suoi tanti insegnamenti. Vatslava lo aveva seguito alla lettera.
Si era vendicata in modo feroce, ma non aveva avuto nemmeno un ripensamento. Mai. Aveva dovuto
soffocare quel briciolo di umanità che le era rimasta, cominciando a pensare e comportarsi come un
capo. Come Ivankov.

Accarezzandosi la pancia riconobbe che aveva fatto un errore a fidarsi dei suoi uomini. Non avrebbe
mai più messo a rischio la vita di suo figlio. Aveva sbagliato, e nel suo nuovo mondo gli errori si
lavavano col sangue e si cancellavano col fuoco. La stavano cercando. Doveva essere più scaltra,
divenire un fantasma. Era l’unica soluzione.
Mentre l’auto la portava via e una coltre di fumo si alzava dal fuoristrada in fiamme, i suoi pensieri
andarono al poliziotto che le aveva rovinato la vita.

Biagio Mazzeo.

“Spero che tu stia soffrendo anche solo la metà di quanto ho sofferto io” pensò sfiorando l’anello di
platino di Ivankov che teneva legato a una catenina. “Anche solo la metà…”.
Parte prima
“Secondo i cablogrammi di Wikileaks, l’FBI ritiene che il denaro della droga di ’ndrangheta e
camorra finanzi gruppi armati in Afghanistan e in Colombia. La diplomazia degli Stati Uniti
elaborò nel 2008 un piano per aiutare l’Italia a combattere la criminalità organizzata. Secondo
quanto rivelano i documenti segreti del Dipartimento di Stato Americano, filtrati da Wikileaks ed
esaminati da El País, i diplomatici di Washington in Italia elaborarono nel giugno del 2008 un
programma composto da 12 misure concrete, con lo scopo di aumentare il coinvolgimento degli
Stati Uniti nella lotta alle mafie. La proposta, firmata dal console generale a Napoli J. Patrick
Truhn e approvata dalle delegazioni a Roma e nel Vaticano, era la conclusione di un lungo e
sconvolgente rapporto sul triangolo criminale costituito da Cosa Nostra siciliana, dalla camorra
campana e dalla ’ndrangheta calabrese. L’analisi, divisa in tre parti, fu trasmessa alla Segreteria
di Stato, alla CIA, all’FBI, alla DEA e ad altri 18 organismi ufficiali degli Stati Uniti, nel giugno
del 2008”.

El País, 20 gennaio 2011


Due cose portano alla follia:
l’amore e la sua mancanza.
ALDA MERINI
POR UNA CABEZA
Municipio di Caldas,

Medellín, Colombia

I corvi si stagliavano contro il bianco lucente della chiesa. Sembravano finti tanto erano immobili sul
cornicione. In realtà fissavano con pazienza il cane agonizzante sul ciglio della strada. Una macchina
l’aveva investito senza fermarsi, scaraventandolo dall’altra parte della carreggiata. Le mosche se lo
stavano già lavorando ebbre del profumo del sangue. Boccheggiava nel sole cocente di mezzogiorno
cercando di dibattersi sull’asfalto arroventato, spaventato dall’orda infernale dei clacson delle auto
in coda che assistevano cieche alla sua sofferenza. La povera bestia pareva fiutare la morte, tanto che
lanciava sguardi disperati ai corvi accalcati sull’architrave che, come attirati da un segnale arcano,
continuavano ad arrivare da chissà dove, sempre più numerosi. Sapevano che presto il cane si
sarebbe arreso. E loro si sarebbero fatti trovare pronti.

L’italiano osservava la scena come ipnotizzato. Il suo cuore gli diceva di finire quel povero animale
ponendo termine alla sua agonia, ma non poteva. Rischiava di rovinare tutto.

Il sole riluceva sul manto nero degli uccelli fissi come cecchini. Sentì un brivido di freddo. Era un
pessimo presagio quell’evocazione così cruda della lotta tra la vita e la morte. Ma Antonio Gualtieri
non era superstizioso. Se lo fosse stato, avrebbe lasciato il suo incarico molto tempo prima.

Scrutò la fede alla mano sinistra. L’accarezzò socchiudendo gli occhi. Lo faceva sempre prima di
un’operazione ad alto rischio. Il prezzo delle sue scelte pesava sulla moglie e i due figli. Col suo
lavoro ne aveva cambiato le vite per sempre, ne era consapevole sebbene loro cercassero di non
farglielo pesare. Ma la morte… Riaprì gli occhi di scatto. Non voleva nemmeno pensarci.

«Eccolo» sentì gracchiare da una delle radio.

Vide un uomo elegante accompagnato da una bella donna apprestarsi ad attraversare la strada. Intorno
a loro cinque uomini dai tratti sudamericani e l’aria guardinga.

«È ben protetto, state attenti» disse Gualtieri.

I quattro uomini nel fuoristrada annuirono.

Dalle radio Antonio udì voci in spagnolo mitragliare ordini.

«Dottore» disse uno degli italiani. «Hanno chiesto se può confermare che sia lui».

Antonio studiò meglio l’uomo. Indossava degli occhiali da sole. Gli sarebbe bastato che se li levasse
soltanto un momento per…

Come se la sua preghiera fosse stata ascoltata, notò il cane morente. Si fermò, si tolse gli occhiali e
poi spostò lo sguardo sulla chiesa e sullo stormo di corvi. Mentre il sospetto si faceva il segno della
croce per poi riprendere a camminare, Antonio Gualtieri disse ai suoi: «Sì, confermo. È lui».

Una manciata di secondi dopo che il suo agente ebbe tradotto in spagnolo il riconoscimento, le porte
scorrevoli di due furgoni parcheggiati da una parte e dall’altra della strada si aprirono di scatto e le
teste di cuoio del gruppo operativo di intelligence dell’esercito colombiano, assistite dal Corpo
tecnico investigativo della Fiscalía General di Bucaramanga accerchiarono il latitante e le sue
guardie del corpo che non poterono fare altro che sdraiarsi per terra, tenute sotto tiro a loro insaputa
dai cecchini della Brigada de Fuerzas Especiales dislocati sui palazzi vicini.

Vista la caratura del soggetto che avevano appena catturato, Antonio aveva paura che ci fossero altri
contractor mimetizzati intorno e disse ai suoi di sbrigarsi.

I carabinieri in borghese del ROS scesero dal fuoristrada armi in pugno e si disposero a raggiera
attorno al prigioniero.

Il procuratore aggiunto Antonio Gualtieri della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria
aspettò che uno dei carabinieri gli aprisse la portiera e, nonostante fosse appesantito dal giubbotto
antiproiettile, corse verso il prigioniero che i militari avevano tirato in piedi.

«Ci ha appena offerto due milioni di dollari a testa se lo lasciamo andare, dotto’» disse uno dei
carabinieri. «Lei com’è messo col mutuo?».

«Due milioni? Generoso. Sei anni fa ai poliziotti colombiani che l’avevano arrestato ne aveva offerto
uno a testa… Hai raddoppiato, Pagani?».

L’uomo scrollò le spalle. «Dottor Gualtieri. Quanto tempo. Hanno mandato addirittura lei?».

«Ricordami una cosa. Sei destro o mancino?» chiese il magistrato.

«Destro, signor giudice».

Gualtieri sorrise sprezzante. «No, sei mancino… Non stai iniziando bene, Robe’».

Nonostante fosse già ammanettato dietro la schiena, uno dei ROS tirò fuori delle manette speciali,
dalla catena più lunga. Ne fece scattare una al polso sinistro del prigioniero, e l’altra a quello destro
del magistrato.

Roberto Pagani scosse la testa. «Addirittura?».

«Così, se ti portano via di nuovo, questa volta devono portarsi dietro anche me» disse Gualtieri.

«Muoviamoci» disse uno dei carabinieri, nervoso. «Stiamo correndo un rischio inutile qui in mezzo
alla strada».

Un funzionario dell’intelligence colombiana mise un sacco nero in testa all’arrestato e fece per
spingerlo verso una delle macchine, quando Gualtieri disse a una delle teste di cuoio: «Capitán, por
favor…» indicando il cane che lo fissava come implorando pietà, la gola arsa dal caldo e dai gas di
scarico, la lingua tremante, le mosche che banchettavano sulle sue viscere esposte.

Il soldato puntò la mitragliatrice MP5 contro la bestia e tirò il grilletto, facendo sobbalzare il
prigioniero.

In un frullare d’ali, lo stormo di corvi si alzò in volo spaventato.

Gualtieri li osservò volare via soddisfatto, nonostante avvertisse una brutta sensazione che non seppe
spiegarsi dato che l’operazione era andata come da manuale. Udì Pagani dire qualcosa in tedesco
alla segretaria svizzera. Antonio non conosceva bene il tedesco, ma era abbastanza certo che l’uomo
avesse snocciolato alla donna un numero.

«Divideteli e andiamocene» disse ai suoi.

Li portarono dentro uno dei Suv che partì a sirene spiegate.

I suoi uomini si davano il cinque a vicenda, felici di aver catturato il latitante prima degli americani.

Gualtieri invece non festeggiò.

Il viaggio fino in Italia era ancora molto lungo.

La segretaria viaggiava con documenti falsi. Erano ormai quindici anni che lavorava per lui. L’aveva
tirata via da una banca di medio livello in Svizzera, dove era un quadro dirigenziale, offrendole
cinque volte il suo stipendio per curare i suoi interessi e appuntamenti. Lei aveva accettato senza
battere ciglio ed era stato l’affare migliore della sua vita.

Quando gli investigatori della Fiscalía General capirono che non avrebbe parlato, le fecero fare la
telefonata di rito. Léa compose un numero a memoria che la reindirizzò allo studio olandese degli
avvocati di Roberto Pagani. Parlò in perfetto dialetto basso sassone per non farsi capire da eventuali
soggetti in ascolto. Spiegò la situazione e poi dettò il codice che il suo principale le aveva affidato.

L’avvocato le rispose che si sarebbe mosso immediatamente e che entro due ore sarebbe stata libera.

Léa chiuse la chiamata restituendo il telefono agli investigatori.

«Che lingua era?» le chiesero.

La donna scosse la testa e in spagnolo disse: «Avreste fatto meglio a prendere quei soldi».
Porto di Limón,

Costa Rica

Henry Campbell, il capitano della Montezuma III, la nave cargo ancorata al largo del porto di Limón,
ascoltò senza fiatare la chiamata arrivata sul telefono satellitare.

«Ok, lo faccio fare subito» rispose in inglese. «Quando arrivano?».

«Manca poco. Sbrigatevi».

Campbell ordinò in spagnolo all’equipaggio di aprire uno dei sessanta container che il cargo
trasportava e di inserire il “prodotto” in alcune borse.

Nemmeno dieci minuti più tardi, mentre osservava il Mar dei Caraibi su cui si affacciava il porto,
vide le sagome di due elicotteri Lynx in dotazione ai reparti speciali della polizia nazionale. Dopo
essersi posti in volo a punto fisso a pochi metri dal ponte della nave, si calarono tramite fast rope sei
incursori in tenuta operativa e dal volto coperto che si affrettarono a recuperare i venti borsoni. Dopo
averli caricati sugli elicotteri, le teste di cuoio risalirono a bordo e i Lynx si levarono in volo fino a
sparire alla vista del capitano.

L’operazione di carico era durata poco più di un minuto e mezzo.

Campbell uscì sul ponte e compose un numero.

«Sì?».

«Ok, sono appena partiti» disse in un fluente olandese. «La consegna avverrà all’aeroporto di
Paramaribo, giù in Suriname. Da lì dovete sbrigarvela voi».

«Perfetto».

Henry Campbell chiuse la chiamata e gettò il telefono in mare. Vide i motoscafi della polizia, quella
vera questa volta, sfrecciare verso la Montezuma, e dopo qualche secondo sentì l’eco degli ordini
attraverso gli altoparlanti.

Campbell fece un fischio, calamitando l’attenzione del suo equipaggio.

«Nessuno ha visto niente, intesi?» disse in spagnolo.


I marinai annuirono e iniziarono a inginocchiarsi incrociando le mani sopra la testa, come abituati a
quel copione.

Gli investigatori avrebbero fatto molte domande, ma Campbell era sicuro che nessuno dei suoi
avrebbe parlato.

Amsterdam,

Olanda

L’avvocato fece disdire gli appuntamenti in programma, tirò fuori da un cassetto un cellulare che non
aveva mai usato e compose a memoria un numero con prefisso americano.

«Sì?» gli rispose un uomo da un appartamento di Manhattan.

«Che sta succedendo? Gli italiani l’hanno catturato in Colombia, come diavolo è possibile» si
lamentò in inglese, sapeva che la linea era sicura. «Immaginate cosa significa per voi?».

«Non so come sia successo, ma ce l’hanno messa in culo» rispose l’americano. «Hanno fatto tutto
senza coinvolgerci, dialogando direttamente con le autorità colombiane. Forse temevano che…».

«Cristo… senti, inventatevi qualcosa, ma dovete liberarlo».

«Troppo tardi. Ho già mosso i nostri contatti, ma quel bastardo del giudice italiano si è ammanettato
a lui. Non posso far fuori un giudice, è anche uno dei più famosi. E poi si è portato dietro sette
carabinieri, gente incorruttibile, lo sai. Questa volta non possiamo fare nulla…».

«Cosa vuoi dire?».

«Che a questo punto la palla passa agli italiani».

«Dov’è adesso?».

«Stanno per partire. Faranno scalo in Spagna e poi andranno in Italia».

«Fanculo» disse l’avvocato chiudendo la chiamata. Rimase a fissare l’apparecchio a lungo. Poi,
masticando una bestemmia, compose un altro numero. Il prefisso era italiano, e un telefono squillò
nell’ufficio del parroco di una chiesa a San Luca, in Calabria.

Cercò di ricordarsi come si diceva “problemi” in italiano.


Aeroporto di Rionegro,

Medellín, Colombia

Il magistrato e Pagani salirono per ultimi sull’aereo di linea diretto a Madrid, scortati da sette
carabinieri e da due ufficiali dell’intelligence colombiana che li avrebbero accompagnati fino in
Spagna. I posti in coda erano riservati a loro.

«È meglio per tutti se mi lascia in mano alle autorità colombiane, mi stia a sentire, dottore» disse
Pagani una volta che furono seduti.

Gualtieri si voltò verso l’uomo. Posandosi un giornale sulle mani per nascondere le manette disse:
«Pagani, sono ventisei anni che vivo sotto scorta, quindici che ti do la caccia… che cazzo stai a
dire?».

Il latitante scosse la testa.

«Inizia a pensare a tutto ciò che dovrai raccontare al processo, invece».

«Ma quale processo, Gualtieri? Non ci sarà nessun cazzo di processo».

«Perché, secondo te dove ti sto portando? A Disneyland?».

«Lei mi sta semplicemente condannando a morte, dottore. Ha presente quel cane sulla strada prima,
quello che ha fatto ammazzare? Lei mi farà fare la stessa fine».

«E non mi dispiacerebbe, credimi. Ma sono un giudice, e verrai assicurato alla giustizia come si
conviene a…».

«I corvi, dotto’, sono dappertutto. E non basta un colpo di pistola per farli volare via. Se lo ricordi
bene… dappertutto».

Brighton beach, Brooklyn,

New York

«Hello?» disse l’uomo rispondendo al telefono.


«Hai sentito cos’è successo?» esordirono dall’altra parte dell’oceano in dialetto calabrese.

«Sì, sì, ho sentito. Che devo fare?» rispose l’uomo nello stesso idioma.

«Di’ a quello là che non deve parlare, se no non se ne fa più niente… Non deve fiatare!».

«Non deve fiatare… riferirò» rispose l’uomo chiudendo la conversazione.


LAVARE LE COLPE
Tre giorni dopo

La cosa incredibile era che fossero stati i calabresi a dirgli di fare qualcosa. Non il questore, non il
Ministero, tantomeno nessuno dei suoi colleghi. Fino a quel momento li avevano tollerati. Le
pandillas, le bande di giovani teppisti sudamericani che seminavano il terrore a colpi di machete e
pestaggi, facevano folklore a loro dire, ma soprattutto, attirando l’attenzione su di sé, la distoglievano
dalle cosche impegnate a sbranare la città o quello che ne rimaneva. Però ora gli MS-13 avevano
passato il segno. Avevano tranciato di netto il braccio di un vigile ed erano scappati con l’arto a mo’
di trofeo, roteandolo in aria come una mazza da baseball tra l’incredulità e il terrore dei passanti.

La cosa aveva fatto parecchio scalpore e subito giornali e televisioni avevano soffiato sul fuoco
dell’emergenza sicurezza e sul fatto che le forze dell’ordine fossero allo sbando, inadeguate e
impotenti davanti a quel degrado sociale e alla violenza delle bande giovanili; ovviamente si erano
ben guardati dal parlare della “razionalizzazione della dislocazione dei presìdi di polizia sul
territorio”, come da circolare con cui in città erano stati chiusi una decina di commissariati ed erano
state soppresse settanta sottosezioni della Polfer. La colpa in questi casi era sempre e soltanto della
Polizia, e agenti e sottufficiali erano i primi a essere immolati sull’altare della gogna mediatica dallo
stesso dipartimento per lavarsene le mani; Mazzeo conosceva bene quel trattamento avendolo vissuto
più volte sulla sua pelle.

Per i calabresi, invece, con quasi tutte le mafie mondiali in visita all’Expo, era diventata una
questione d’onore: non potevano perdere la faccia così, facendo credere ai loro ospiti che non
avevano controllo sul proprio territorio. Oltre a essere stata una grossa occasione per fare cassa con
gli appalti pubblici, era stata un’ottima opportunità per stringere accordi e determinare il futuro delle
nuove rotte del narcotraffico in cui la ’ndrangheta aveva un ruolo di assoluto rilievo. La Mamma al
completo si era messa in ghingheri per far capire una volta per tutte a russi, colombiani, messicani e
cinesi che le chiavi dell’Europa erano in mano loro, che la Calabria era solo il cuore di un
organismo assai più grande che abbracciava tutti i continenti. Le guerre tra latinos in pieno centro
dimostravano però il contrario: se le ’ndrine non riuscivano a controllare delle gang di mocciosi,
come potevano pretendere di gestire tutto il narcotraffico europeo?

Da lì la chiamata all’ispettore superiore Biagio Mazzeo.

«Questi ragazzini c’hanno rotto i coglioni. Il fatto che sono finiti su tutti i giornali e i tg li ha
galvanizzati, facendogli credere di essere il nuovo pericolo numero uno. Fagli capire chi cazzo
comanda prima che ne combinino qualcun’altra, e vedi che la lezione sia ben chiara» gli dissero per
telefono, interrompendo la sua cena. «Occupati di questa cosa in prima persona, ci siamo spiegati?
Non mettere in mezzo quelle bande di negri che hai per le strade: sbrigatela tu con i tuoi. E fallo
stasera. Ripeto, questa situazione va risolta subito prima che facciano qualche altro casino».
«Ma…».

«Nessun ma, ispettore».

«Invece c’è un ma grande come una casa. Sono mesi che sto lavorando per voi, ma voi state
lavorando per me?».

«Certo, lo sai. E ficcati bene in testa che non ci hai chiesto di ritrovarti un bastardino. Ci vuole
tempo. Ma la vendetta deve aspettare, prima viene il business. Intesi?».

Il poliziotto grugnì un sì e chiuse la chiamata. Sapeva perché volevano che fosse lui a occuparsene:
non soltanto perché ormai non si sporcavano più le mani con quelle faccende, ma per umiliarlo. Per
ricordargli la sua posizione di subalterno e che era soltanto uno sbirro corrotto al loro servizio. Se
quella relazione fosse stata meramente affaristica, non ci avrebbe pensato due volte a mandarli al
diavolo e troncare i rapporti con le buone o le cattive. Ma non si era consegnato loro mani e piedi
per soldi. Il legame che li univa andava oltre il denaro e il potere.

Era qualcosa di personale.

Estremamente personale.

Mazzeo finì la Guinness in un sorso. Era solo. Qualche mese prima quella condizione sarebbe stata
inammissibile per lui che odiava la solitudine ed era sempre circondato dai suoi uomini, ma le cose
erano cambiate. Dopo quella notte tutto era cambiato.

Non aveva alcuna voglia di fare il vigilante per quei bastardi. Soprattutto quella sera. Ma solo i
calabresi potevano trovare chi stava cercando, e quella ora era l’unica cosa che potesse dare un
senso alla sua vita.

“Non potevano scegliere notte peggiore” pensò.

Infatti con un tempismo che in un’altra occasione gli avrebbe strappato un sorriso il cellulare squillò.
Era Giorgio Varga, il suo braccio destro dentro e fuori la Narco.

«Novità?» chiese Mazzeo.

«Sì, è appena entrata in sala parto».

Dunque Miriam stava per partorire. Era la vedova di un collega morto in servizio, Stefano Zara, il
miglior amico di Biagio. Dopo qualche anno dalla morte di Stefano lei e Mazzeo avevano iniziato a
frequentarsi, e senza volerlo Miriam era rimasta incinta. Avevano passato poco più di un mese
insieme prima che quella notte rovinasse tutto anche tra loro, cambiando Biagio per sempre. Miriam
aveva continuato a cercarlo, imperterrita, tanto che alla fine le aveva vomitato addosso la verità. Di
certo Miriam a quel punto aveva pensato di abortire ma era troppo tardi. Mazzeo da lontano aveva
fatto in modo che non le mancasse nulla, ma erano ormai passati quasi quattro mesi dall’ultima volta
che l’aveva vista. Quattro mesi di silenzio assoluto.

«Tu sei lì?» s’informò Biagio.

«Sì, certo».

«Come sta?».

«È serena. Sono sicuro che andrà tutto bene, sta’ tranquillo».

«Tu non sai quanto ti sono grato per questa cosa, non dimenticherò mai che…».

«Dovresti esserci tu qui, Biagio. È tuo figlio…».

«Lo so, ma non posso… E non c’è bisogno che ti spieghi il perché, giusto?».

«Già. Va bene, ti aggiorno appena so qualcosa».

«Ok… senti, Miriam ha per caso… chiesto di me?».

Varga rimase in silenzio per qualche secondo poi rispose di no.

«Bene… Bene. È meglio così per tutti» disse Mazzeo prima di chiudere la chiamata.

Le sue dita andarono a cercare l’anello all’anulare della mano sinistra, ma non lo trovarono. Non
smetteva di stupirsi di come non si fosse arreso all’idea che la fede di Ivankov non c’era più.
Quell’anello era sempre stato come un amuleto in grado di scacciare i demoni e i fantasmi che aveva
dentro, e ora che non c’era più quel pezzo di platino a imprigionarli, i suoi sensi di colpa gli si
agitavano rabbiosi intorno, ebbri di libertà e rancore.

Biagio si fissò le mani grandi e pesanti dalle nocche sporgenti costellate di cicatrici. Non erano mai
state così sporche di sangue. E per quanto le lavasse, la sensazione di sporcizia non spariva.

Le sue dita composero veloci un messaggio sul cellulare. “Stanotte devi coprirmi le spalle”.

«Eccolo» disse la donna.

I due uomini che erano con lei in macchina osservarono il poliziotto uscire dal pub dirigendosi verso
il suo Suv con una camminata sfrontata.

«Lo facciamo ora?» chiese la donna.


Il più anziano si guardò intorno. «No, troppo rischioso. E poi voglio stargli dietro ancora un po’».

«Sono due mesi e mezzo che gli stiamo appiccicati. Io sono con lei: facciamolo ora» disse l’altro.

«No… Appena parte vagli dietro, voglio vedere dove va».

Nessuno osò mettere in discussione la sua autorità.

Appena l’auto di Mazzeo fece inversione dirigendosi verso la periferia sud, l’uomo più giovane mise
in moto e prese a seguirlo.

Ci sono delle regole a cui ogni poliziotto deve attenersi se vuole arrivare vivo alla pensione. Una è:
mai andare a letto con un informatore. Nella classifica delle puttanate, scoparsi un informatore è
superato soltanto da una stronzata ancora più grande: innamorarsene.

Carmine Torregrossa si era innamorato come un ragazzino. Quattro mesi prima, dopo quella
maledetta notte, Biagio aveva sguinzagliato tutti i ragazzi della squadra per cercarla, setacciando la
Giungla. Carmine aveva obbedito all’ordine e si era rivolto in primo luogo ai suoi informatori. Era
tornato da circa sei mesi in città, richiamato da Biagio quando avevano avuto problemi con l’uomo
che aveva ucciso il loro mentore, Santo Spada. All’inizio non era stato facile riallacciare i rapporti
con la sua rete di confidenti: molti erano stati arrestati, qualcuno era morto, altri avevano
semplicemente cambiato vita. Riprendendo i vecchi contatti, un suo informatore gli aveva dato una
dritta su una ragazza che avrebbe potuto aiutarlo nell’indagine. Quando Carmine gli aveva chiesto di
chi si trattasse, il confidente gli aveva detto che era una ballerina parecchio addentro a
quell’ambiente. Così Torregrossa si era recato al night, il Blonde Blast: Biagio gli aveva detto che
era uno dei locali di Aleksandr Zoya, un imprenditore russo che aveva un sacco di proprietà in città e
poteva dare loro qualche dritta sulla persona che stavano cercando. Secondo la sua fonte, la ballerina
avrebbe fatto da intermediaria col russo. Mentre l’aspettava, dal bancone del bar il poliziotto aveva
lanciato uno sguardo alla pista da ballo e l’aveva vista. Un angelo biondo in perizoma e reggiseno
neri. Più che ballare, fluttuava.

Carmine aveva sentito una botta allo stomaco. Non poteva essere lei, si era detto. Aveva chiesto al
barista come si chiamava e lui gli aveva risposto Angel.

«Il nome vero, coglione» aveva ribattuto lo sbirro.

«Mikaela, mi pare» aveva risposto l’uomo.

“Sei cresciuta, piccolina” aveva pensato cercando di arrendersi all’evidenza che quella bellezza
mozzafiato era la stessa ragazzina che dieci anni prima gli faceva da informatrice: “Angel” dieci anni
prima era la sua Lela, una sedicenne ucraina che aveva aiutato lui e Biagio a sgominare diverse
bande di schiavisti sessuali. Si erano presi a cuore la piccola. Avevano aiutato lei e sua madre a
cambiare vita, spedendole in Germania con un bel po’ di soldi per ricominciare. Qualcosa doveva
essere andato storto però perché Lela ballava la lap dance nel locale di Zoya.

“Un classico” si era detto Carmine buttando giù il drink. “Hai già abbastanza casini, quindi vedi di
non aggiungerne altri. Alzati e vattene prima che ti riconosca e non tornare più”.

Ma Carmine non se n’era andato. Aveva visto tutto lo spettacolo, e quando la ragazza si era
avvicinata al bancone per bere qualcosa le aveva semplicemente detto: «Ciao, Lela», come se non
fossero passati dieci anni, come se lei fosse ancora quella ragazzina.

Mikaela l’aveva guardato con uno sguardo pregno di vergogna e sollievo allo stesso tempo, e prima
di saltargli addosso gli aveva sorriso in un modo che gli aveva fermato il cuore.

Per la prima volta in vita sua Carmine Torregrossa si era sentito in pace con se stesso.

Il telefono vibrò sul comodino sottraendolo al dormiveglia. Le accarezzò i lunghi capelli biondi.
Come sempre si era addormentata con la testa sul suo petto, le mani strette a pugno come una
bambina.

Il poliziotto riuscì a prendere il cellulare senza svegliarla. Un messaggio. Lo lesse: Ho bisogno che
mi copri le spalle stanotte. Sto passando a prenderti.

Biagio.

Carmine socchiuse gli occhi e continuò ad accarezzare la nuca di Lela. Amava Biagio come un
fratello. L’avrebbe seguito ovunque. Ma da quattro mesi era diventato tutto più difficile. Adesso
c’era Mikaela. L’amava, e fosse stato per lui non se ne sarebbe mai separato. Sapeva che quella
storia era sbagliata, che per uomini come lui e Biagio l’amore era una dannazione, e ciò che era
accaduto al suo amico lo dimostrava appieno. Ma per quanto Carmine provasse a convincersi che la
loro storia non aveva futuro e che non poteva esserci momento più sbagliato per abbandonarsi ai
sentimenti, il suo cuore e il suo sangue gridavano il contrario. Sapeva bene che l’amore mal si
conciliava col suo lavoro e con la strada che avevano intrapreso. Ed era proprio per questo che si
era ripromesso di abbandonare tutto, distintivo e quella maledetta città, una volta che l’avrebbero
trovata. Era l’ultimo favore che avrebbe fatto a Biagio, perché glielo doveva. Dopodiché se ne
sarebbe tirato fuori. Lui e Lela non avevano futuro nella Giungla. Il loro posto era altrove, lontano da
Biagio e dai suoi casini.

Carmine la coprì posandole un bacio sulla guancia e uscì dalla camera da letto con i vestiti
sottobraccio. Si cambiò in cucina. Indossò la fondina e oltre alla Beretta d’ordinanza prese un’altra
pistola dalla matrice abrasa.

Non aveva detto a nessuno di Mikaela, nemmeno a Biagio. Non perché volesse tenerlo nascosto, ma
perché si sentiva in colpa nel provare quell’immensa felicità mentre l’amico era a terra, divorato da
un’insaziabile fame di vendetta.
Ma c’era un altro motivo per cui era meglio tenere la loro storia nascosta. Lela aveva maturato un
grosso debito con Zoya, era per quello che aveva iniziato a ballare nel suo locale, per ripagarlo.
Quando l’aveva saputo, Carmine si era ripromesso di non immischiarsi in quella faccenda, salvo poi
presentarsi il giorno dopo dal mafioso dicendogli che la carriera come ballerina di Angel finiva lì:
avrebbe riscattato lui quanto la ragazza gli doveva. Il russo gli aveva detto che Mikaela non era in
vendita e che comunque quello non era un debito che si saldava con i soldi.

«Che cazzo vuoi allora?» gli aveva chiesto il poliziotto.

«Fammi qualche favore e poi è tua».

Zoya non era un delinquentello di strada, ma un boss che contava nella mafija, e Carmine e il Branco
non avevano certo bisogno né di scatenare una guerra né di un nuovo nemico, soprattutto in quel
momento.

«Ok, ma lei non ballerà più e non metterà mai più piede in questo cazzo di posto» aveva detto il
poliziotto. «Prendere o lasciare».

Zoya aveva annuito, sancendo con un brindisi la loro collaborazione.

Era per questo che Carmine non aveva detto nulla di lui e Mikaela né a Biagio né agli altri. Nessuno
doveva sapere che si era venduto ai russi.

Rifugio segreto, Norditalia

L’avvocato Nino De Pascale era seduto su una panca nel salone. Gualtieri lo osservò: stava
ascoltando musica dal suo lettore. Gli avevano sequestrato il cellulare e lo avevano perquisito più
volte in cerca di microspie e rilevatori GPS, ma l’avevano trovato pulito. Gli avevano lasciato solo
il lettore mp3 perché l’avevano costretto a quasi sei ore d’attesa in cui, bendato per non vedere dove
stavano andando, dopo tre cambi d’auto lo avevano portato alla casa in cui stavano nascondendo
Pagani. Il carcere per un uomo del suo calibro non era abbastanza sicuro come aveva dimostrato
l’esecuzione tra le sbarre di un altro boss ’ndranghetista, Natale Pugliese, circa sei mesi prima.

De Pascale era uno dei migliori avvocati di cui la ’ndrangheta si servisse. Vantava solidi agganci
politici e istituzionali. Attraverso un’istanza partita ancora prima dell’arrivo di Pagani sul suolo
italiano, era riuscito a far dichiarare l’incompetenza territoriale del processo a carico del suo
imputato a Reggio Calabria, e farlo trasferire nell’udienza in corso a Torino. Quella velocità era
inusuale nella giustizia italiana, ma l’imponente macchina burocratica si era messa in moto per
cercare di salvare Pagani, e lo stesso Gualtieri era stato richiamato d’urgenza dal suo procuratore
capo in Calabria, dove sapeva che avrebbe dovuto lottare con le unghie e con i denti per non farsi
estromettere dalle indagini a carico di Pagani. Non era la prima e non sarebbe stata di certo l’ultima
volta in cui cercavano di bloccare sul nascere una sua inchiesta, ma questa, per il magistrato, era la
madre di tutte le indagini che aveva seguito: era sulle tracce di Roberto Pagani da almeno quindici
anni. L’aveva arrestato anni prima, ma se l’era fatto soffiare via da sotto il naso per colpa di un
sistema carcerario pieno di falle e appestato dalla corruzione. Non avrebbe fatto lo stesso errore.

«Dottore, siamo pronti» disse uno dei cinque poliziotti che vegliavano su Pagani.

«Avvocato» disse il magistrato attirando la sua attenzione con un gesto.

De Pascale si tolse le cuffiette e Antonio sentì che stava ascoltando musica classica.

«Prego, è tutto suo» disse Gualtieri indicandogli una porta.

Gualtieri lanciò uno sguardo a uno dei poliziotti e poi annuì. Non era un ordine ufficiale, ma
l’assistente capo fece partire la registrazione tramite le cimici dentro la stanza; quei due erano troppo
scafati per non immaginare che li avrebbero spiati, ma non si poteva mai sapere.

Mentre li osservava parlare attraverso una finestra, Gualtieri risentì nella mente la frase di Pagani
che gli riecheggiava in testa da tre giorni:

“I corvi, dotto’, sono dappertutto. E non basta un colpo di pistola per farli volare via. Se lo
ricordi bene… dappertutto…”.

Antonio Gualtieri fissò con preoccupazione i poliziotti di guardia e si domandò se i corvi fossero
arrivati pure lì.

Roberto Pagani sorrise e strinse la mano a De Pascale. L’ultima volta che l’aveva visto si trovavano
a Lubiana, in Slovenia; Pagani, che in quel periodo viaggiava con un passaporto spagnolo e si faceva
chiamare Carlos, si era presentato con il direttore di una banca di San Marino che aveva consegnato
all’avvocato due trolley pieni di soldi per sbloccare un container sequestrato al porto di Livorno.

«Ti trovo bene» disse l’avvocato in olandese. Immaginava che i poliziotti li stessero ascoltando, e
ricorse all’olandese per rovinare loro i piani.

«Ah, lascia perdere, tanto poi si cercano un traduttore e si fanno tradurre tutto. Non ho nulla da
nascondere, io» disse Pagani in italiano.

De Pascale tirò fuori il lettore mp3 e ci giocherellò.

«Ti piace la musica?» chiese Pagani osservando l’apparecchio.

L’avvocato fece spallucce e posando il lettore sul tavolo, dopo aver digitato la password che lo
proteggeva, scorse le cartelle fino ad aprire un video. Durò poco meno di dieci secondi, il tempo di
inquadrare un uomo legato a una sedia, imbavagliato, segni di percosse sul viso, e una strana catena
addosso fatta di teste mozzate, tre per la precisione. Appartenevano alle guardie del corpo
colombiane che avrebbero dovuto proteggerlo. L’uomo terrorizzato sulla sedia, invece, era
Alessandro Pagani, suo figlio, il più grande, quello che aveva fatto sposare con la figlia del boss di
un potente cartello colombiano. In grembo, gli avevano posato una motosega che grondava sangue.

Roberto sollevò gli occhi dal piccolo schermo e osservò De Pascale cancellare il video.

«La miglior musica è il silenzio» disse in olandese l’avvocato.

Pagani rimase impietrito per qualche secondo, poi sempre in olandese snocciolò una cifra.

De Pascale fece cenno che aveva capito. Tirò fuori delle cartelle dalla ventiquattrore e iniziò a
parlare in italiano della sua posizione processuale e delle strategie di difesa che aveva in mente.

Pagani non lo sentì nemmeno.

Negli occhi aveva ancora le immagini delle teste mozzate e gli occhi di suo figlio sgranati dalla
paura.

Il teppista non doveva avere più di sedici anni. Guardava a testa alta la quindicina di ragazzi che lo
accerchiavano, il mento esageratamente in fuori quasi li stesse sfidando. Apriva e stringeva i pugni di
continuo, come per darsi la carica. Aveva la testa rasata e indossava solo una canottiera aderente
bianca che spiccava nell’oscurità. Gli altri avevano più o meno la stessa età ed erano vestiti alla
stessa maniera, in stile cholo, sebbene portassero tutti bandane bianche e azzurre. Gli giravano
intorno in cerchi concentrici come squali intorno a una preda. Il ragazzo fremeva ubriaco
d’adrenalina. Gli altri sembravano ringhiargli contro qualcosa, come se lo stessero insultando, poi
uno dei ragazzi fece partire da un grosso stereo portatile un potente reggaeton, e iniziò il pestaggio.

Pugni, calci, testate, ginocchiate. Si accanirono con violenza contro il ragazzo che non reagiva. Gli
gridavano «Respecto!» e «Bienvenido al mundo!» mentre lo colpivano.

«Questa è la loro iniziazione» disse Mazzeo, le mani aggrappate alla rete metallica che dall’alto si
affacciava sul Parco Nord. «Questa merda va avanti per tredici secondi. Si chiama misa, è una
riunione che fanno una volta alla settimana per parlare dei colpi e studiare le strategie di lotta con le
altre gang. O per arruolare nuovi adepti, come puoi vedere».

I tredici secondi finirono e i ragazzi gridarono alzando le braccia al cielo. Circolò una bottiglia di
rum da cui bevevano tutti e per ultimo fecero bere il disgraziato. Era instabile sulle gambe, aveva il
volto pesto e sanguinolento, ma sorrideva soddisfatto.

«Ora è diventato un rey, un affiliato. Più tardi lo tatueranno con i simboli della Mara, le iniziali MS
e il numero 13, croci e carte da gioco. Molti si tatuano le iniziali all’interno delle labbra, i più
coglioni addirittura sulle palpebre. È un modo per gridare al mondo che non potranno più uscire
dalla banda, se non da morti».

«Che teste di cazzo…» sussurrò schifato Carmine Torregrossa.

Quello che sembrava il più anziano si avvicinò al nuovo affiliato e gli porse una bandana bianca e
azzurra.

«Ogni pandilla, che vuol dire banda, è divisa in cliche, e ognuna di queste ha un capo, il ranflero,
che è quello che gli sta mettendo la bandana. Ed è anche il nostro uomo: Ogardo Cabrera, detto
Joker».

«Cristo, è un ragazzino…».

«Ventiquattro anni, ma non farti ingannare: l’hanno messo dentro la prima volta a quindici per tentato
omicidio. Aveva accoltellato un coglione dei Trinitarios, una banda rivale con cui si odiano, sebbene
mai quanto con gli MS-18, i nemici storici. Nella Mara l’obbedienza è assoluta, quelli lo seguono
come se fosse Gesù… Sono tutti giovanissimi, è questa la loro caratteristica oltre al fatto che sono di
origine sudamericana. La Mara Salvatrucha viene da El Salvador, ma ormai affiliano chiunque. Più
sono, più forza hanno nelle strade».

«Cazzo, sto diventando troppo vecchio per questa merda… Affiliano anche italiani?».

«Hanno iniziato, sì, e da quando hanno mozzato il braccio di quel vigile c’è la fila per entrare nella
banda… Ti potrebbero sembrare solo dei coglioncelli, e in effetti lo sono. Però sono in contatto
costante con la casa madre in Sudamerica e stanno aumentando. Ormai li vedi dappertutto, e si
prendono sempre più libertà. Spacciano pasticche e un po’ di coca, fanno rapine e scippi, chiedono la
renta, cioè il pizzo, a connazionali, ma passano per lo più il tempo a farsi la guerra con altri mareros
a colpi di coltelli e machete… Si drogano come scimmie. Guardali, sono tutti fatti di metamfetamine.
Non hanno ovviamente l’importanza e la potenza che hanno in America, però se continuano così…».

«Ti vedo parecchio informato, capo» disse il poliziotto, mentre osservava i ragazzi riformare il
cerchio e circondare un altro ragazzino, una nuovo soldato da battezzare.

«Qualche anno fa con la Narco ne abbiamo arrestati una ventina. Si erano messi in testa di poter
spacciare come se fossero i re del quartiere. Mi ero sbattuto per cercare di buttarne dentro il più
possibile, gli ero stato dietro per mesi. Ma questi bastardi si riproducono come il cancro».

«E da quant’è che sono arrivati questi merderos?».

Biagio sorrise. «Da una decina d’anni. I genitori sono dei poveracci scampati a una guerra civile.
Gente che si fa il culo come badanti e addetti alle pulizie, mentre i figli giocano a fare i gangster».

«Ho capito… e cos’è che dobbiamo fare esattamente stasera?».


«Fargli capire che è ora di tornarsene a casa».

Carmine distolse lo sguardo dal secondo pestaggio e lo seguì sghignazzando verso il fuoristrada, ma
in realtà non pensava che a Mikaela. Sperava che quella “lezione” finisse presto per poter tornare da
lei.

De Pascale sentì la macchina fermarsi. Qualche secondo più tardi i poliziotti gli tolsero il cappuccio
e appena si riabituò alla luce riconobbe il parcheggio dove l’avevano prelevato.

«Buona serata, avvocato» dissero gli agenti con malcelato disprezzo.

«Buonasera a voi» rispose l’uomo scendendo dall’auto. Entrò nella propria, prese il cellulare dal
portaoggetti e lo accese. Guidò evitando l’autostrada e stando attento che nessuno lo seguisse. Si
fermò alla prima cabina telefonica. Poi entrò in un bar e ordinò un whisky che pagò con una
banconota da venti euro.

«Può cambiarmeli, per favore?».

Il barista annuì, pensando di avere davanti l’ennesimo drogato di slot-machine. Ma appena gli diede
il pugno di monete, l’altro lasciò una banconota da dieci sotto il bicchiere e uscì dal caffè.

Tornò al telefono pubblico e inserì tutte le monete. Compose un numero internazionale e in seguito a
diversi segnali acustici, dall’altra parte del mondo, a Miami, un telefono iniziò a squillare. «Yes?»
rispose una voce maschile.

«Ho fatto visita al nostro amico».

«Ah, stavo aspettando la tua chiamata» rispose l’uomo. Ora che parlava in italiano si sentiva la
cadenza calabrese. «Ebbè?».

«Non ho la minima idea di dove sia. Qui al Nord, ma non so dove. Potrebbe essere dappertutto».

«Uhm. E che deve stare zitto l’ha capito?» chiese l’uomo passando al dialetto crotonese.

«Sì, e secondo me zitto ci sta pure, il problema è la testa di minchia del giudice che sta giocando a
fare il padreterno» gli rispose De Pascale nello stesso dialetto. «Vuole spedirlo al carcere pesante,
sezione morti viventi, e quello non è uno di noi né tantomeno un soldato. Quello è abituato a fare la
bella vita, te lo dico io. Figlio o non figlio, quello per me parla».

«Uhm… Una soluzione la si trova sempre. Ti sei fatto dare i codici?».

De Pascale gli diede le sequenze alfanumeriche che Pagani gli aveva sciorinato.

«Bene. Di lui ci occupiamo noi, tu ora cerca di prendere più tempo possibile e usa gli amici nostri
per affondare il giudice di carte. Questa cosa che uno gioca a nascondino tra due mondi e tu mi fai
tana in Colombia… uhm, non mi piace, non funziona così, mi spiego?».

«Sì, me ne occupo subito… Piuttosto, mi ha fatto capire anche che ci sono tre o quattro suore in
pellegrinaggio» disse il penalista.

«E adesso ci pensiamo noi a farle tornare a casa» disse l’uomo e chiuse la chiamata.

De Pascale tirò un sospiro di sollievo. Ora che la patata bollente era passata ad altri si sentiva molto
più leggero. Fece un’altra chiamata, questa volta dal cellulare, e si mise in contatto col proprio
studio legale.

«Il processo di estradizione più le carte fra Colombia e magistratura italiana. Spulciatele e trovatemi
qualcosa per mandare tutto all’aria, non deve nemmeno avvicinarsi al carcere. Voglio un cavillo, una
svista, una firma mancante. E se non c’è qualcosa a cui potete appigliarvi, cazzo, inventatevelo»
ordinò ai suoi mastini da tribunale abituati a fare mattina chini sulle scartoffie.

«Dove stanno andando?» chiese Torregrossa mentre seguivano i ragazzi.

«Hanno occupato un capannone industriale abbandonato. Ne hanno fatto il quartiere generale. È là


che si incontrano e fanno le loro merdate. Devono festeggiare l’affiliazione dei due nuovi membri».

«Ci sono anche ragazze…».

«Già, e a loro va anche peggio. Se vogliono entrare nella Mara devono sottoporsi a stupri di gruppo
da parte di tutta la gang».

«Cristo santo… sono animali».

«Ci puoi giurare. È per questo che dobbiamo intervenire ora che sono pochi. Se la città si riempie di
queste bestie allora sì che non ci sarà più niente da fare» disse Mazzeo. «Sono bestie e come bestie
vanno trattati».

I due poliziotti parcheggiarono il fuoristrada in una zona non illuminata e spiarono la processione dei
ragazzi festanti dentro l’hangar. Dopo qualche minuto l’eco di una musica altissima rimbombò nella
notte.

«Come la vuoi risolvere?» chiese Torregrossa guardando l’amico indossare dei guanti di pelle.

«Nulla di sanguinario, sta’ tranquillo. Per ora ce li compriamo».

«Ce li compriamo?».

«Già… Vieni. Tu tieni solo gli occhi aperti, ok?».


Biagio tirò fuori un piccolo zainetto sportivo che passò al collega e una grossa catena con un
lucchetto spesso come un suo pugno.

«Sei accavallato?».

Carmine rispose toccandosi il fianco dove teneva l’arma irrintracciabile.

«Bene. Andiamo».

Arrivati all’ingresso del capannone, Mazzeo gettò catena e lucchetto per terra, in mezzo a immondizia
e calcinacci.

«Caccia fuori il ferro, tanto per fargli capire che non siamo qui per scherzare».

Carmine obbedì. Biagio spinse la porta metallica ed entrarono.

Quando i ragazzi si resero conto della presenza dei due estranei presero a urlare e innervosirsi. Le
pareti erano ricoperte di graffiti della Mara: demoni, croci e carte da gioco. Mazzeo vide divani
ammassati l’uno vicino all’altro, tavoli, sedie e brandine, un lettino con a fianco dell’attrezzatura per
tatuaggi. In un angolo un gruppo elettrogeno che alimentava qualche frigorifero e le lampadine nude
che illuminavano una piccola parte del fabbricato. Gli idioti avevano appeso i machete alle pareti.

«Spegni quella cazzo di musica» disse Mazzeo al ranflero, il boss ventiquattrenne. Il ragazzo lo sfidò
con lo sguardo per qualche secondo poi fece cenno a uno dei suoi di spegnere la radio.

«Primo: tranquillizzatevi, siamo qui in pace e non vogliamo arrestare nessuno» disse Biagio, sebbene
Carmine continuasse a tenere la pistola puntata contro i teppisti e quattro ragazzine che stavano
ballando col seno scoperto.

«Che cazzo volete?» chiese Ogardo Cabrera.

«Mi sembra chiaro» rispose Torregrossa. «Affiliarci, che altro. Il tatuaggio lo voglio sul culo: MS su
una chiappa e tredici sull’altra, che dici?».

Mazzeo scoppiò a ridere. «Tu sei Joker, giusto?».

Cabrera annuì.

«Sai chi sono?».

«Lo sbirro della droga. Narcos» disse con disprezzo, circondato dai suoi.

«Già… Vi stavate divertendo, eh? Un party per i nuovi arrivati?».

Il ragazzo prese sottobraccio i nuovi affiliati e sorrise. «Due fratelli, due soldati. Ma tu che ne vuoi
capire, sbirro».
«Vacci piano, Joker, se no mi tocca fare Batman e magari vi sbatto tutti dentro…».

«O magari vi uccidiamo tutti e poi vi mettiamo armi e droga addosso» intervenne Torregrossa. «E via
di gang bang in cella con nigeriani e tunisini».

«Cosa volete?» chiese il ranflero. Sapeva bene chi aveva di fronte perché Mazzeo aveva arrestato
alcuni suoi parenti.

«Sono qui per parlare d’affari».

«Affari?».

«Forse… Mi avete rotto il cazzo: andate a tagliare braccia alla gente, terrorizzate casalinghe che
portano i figli al parco…».

«Noi non…».

«Sta’ zitto e ascolta, frocetto» intervenne duro Carmine. «O tutto quell’inchiostro ti ha liquefatto il
cervello?».

Cabrera lo insultò in spagnolo indicandolo.

«Oh, scusami se ho urtato la tua sensibilità, perché davvero non ho nulla contro le checche…».

Cabrera con il pollice di traverso fece il cenno di tagliarsi la gola.

Torregrossa spostò l’arma su uno dei ragazzi al suo fianco e fece fuoco, ferendogli una gamba di
striscio. Il ragazzo crollò a terra urlando, davanti allo sgomento degli altri.

«Io non sono un cazzo di vigile, capito?… Devo continuare?» chiese il poliziotto a Mazzeo,
spostando questa volta l’arma su Cabrera.

«Non lo so. Dipende da lui… vuoi che la risolviamo così?» domandò Biagio, scostandosi la giacca e
posando la mano sul calcio della pistola.

«Parla» disse il ragazzo a Mazzeo.

Biagio gli lanciò lo zaino. «Aprilo».

Cabrera obbedì e vide che la sacca conteneva droga: sembrava amfetamina liquida di un colore
verde acceso.

«Si chiama Mocarz. È il futuro. Viene dalla Polonia, ed è la nuova MDMA. Ti dà uno sballo che dura
fino a dodici, quattordici ore. In città non ce l’ha nessuno. Ho sequestrato un camion che ne
trasportava trenta chili. Dieci sono in questura, il resto lo voglio mettere sulle strade… che mi dici?
Pensi che tu e i tuoi possiate essere all’altezza o devo rivolgermi ai Trinitarios?».
«Certo che siamo in grado, tío» garantì Cabrera.

«Uhm, è tutto da dimostrare. Ma se vuoi fare affari con me, se vuoi fare soldi veri, dovete smetterla
con queste cazzate da ragazzini e comportarvi da professionisti. Se attirate l’attenzione vi ritroverete
sempre dietro gli sbirri, e gli affari si fermeranno. Io ho bisogno di gente affidabile».

«Quanto possiamo farci?».

Mazzeo glielo disse e i ragazzi fischiarono, increduli.

«Dici sul serio?».

«Tu pensi di riuscire a piazzarla?».

«Cazzo, sì».

Biagio lo fissò per qualche istante come se gli stesse prendendo le misure. «Ok. Quello è un
assaggio. Ce n’è abbastanza anche perché la possiate provare. Assaggiatela. Se la dovete vendere,
dovete capire che effetto fa. Mischiatela con l’alcol, rum o quello che volete, e mandatela giù… Ci
rivediamo qui tra una settimana esatta. Se nel frattempo sei riuscito a venderla tutta allora te ne do
altri due chili».

«È davvero tosta?».

«Che c’è? Sei troppo checca per provarla?» lo sfidò Torregrossa. «Provala e vendila».

«Ehi, Narcos, questa è merda per ragazzini da prima serata. Vogliamo entrare anche noi nel giro della
neve. Lo sappiamo che i negri piazzano la coca per te, noi siamo molto meglio».

«Ah sì? Dimostramelo. Spaccia questa roba e poi per la neve se ne riparla».

«La MS-13 fa il culo a tutti, sbirro».

«Io di opportunità ne do una soltanto. MS-13, MS-18, Trinitarios, Latin Kings, Neta, Commando, per
me siete tutti uguali, Cabrera. Uno vale l’altro… Quindi oggi lo sto chiedendo a te, ma se mi
deludete, passo la palla a un’altra gang. Entiendes, hermanito?».

«Sì».

«E allora stasera festeggiate pure e sballatevi quanto volete, ma da domani vi voglio sulle strade a
spacciare quella merda» disse Mazzeo riaccendendo lo stereo.

Carmine continuava a fissare Cabrera.

«Qualche problema, sbirrones?».


«La prossima volta che mi minacci ti taglio il cazzo e poi lo uso per incularti, mi spiego?».

«Wow, mi stai facendo eccitare» disse il ragazzo toccandosi vistostamente il pacco.

Carmine scattò verso di lui ma Biagio lo bloccò.

«Lascia perdere. Non ne vale la pena».

Torregrossa guardò Mazzeo. Era davvero cambiato, si disse.

Carmine gli andò dietro e abbassò l’arma solo quando furono fuori.

«Ma come? Tutto qui? Credevo volessi dargli una lezione».

Biagio recuperò la catena e la usò per chiudere l’ingresso dell’hangar, barricando i latinos dentro.

«Fidati di me, socio. La notte è giovane» sorrise Mazzeo battendogli una mano sul petto. «A forza di
fare il duro mi è venuta fame. Andiamo a mangiare qualcosa».

«E loro?» chiese Torregrossa indicando l’hangar.

«A loro pensiamo dopo, tranquillo».

Carmine lo seguì verso la macchina chiedendosi cosa diavolo avesse in mente.

Miriam aveva partorito. Un maschietto di quattro chili. Giorgio Varga ci aveva parlato appena i
medici gliel’avevano permesso e l’aveva trovata bene, col bimbo in braccio, addormentato.

«È bellissimo» le aveva detto.

«Lo è. Ma mi ha fatto penare. È un gigante, guarda che roba» aveva sussurrato lei.

Varga aveva sorriso riconoscendo le manine tozze e l’espressione imbronciata di Biagio. Ma si era
guardato dal fare qualsiasi riferimento all’amico. Dietro quei sorrisi e la felicità istintiva, Varga
sapeva che l’ex poliziotta stava soffrendo. L’unico uomo che in quel momento doveva essere lì non
c’era. E come se non bastasse, Miriam non gli aveva chiesto nulla di Biagio: era certa che non
sarebbe venuto, e stava prendendo consapevolezza del fatto che avrebbe dovuto crescere il piccolo
da sola. Varga era rimasto con lei finché l’infermiera aveva portato via il neonato, dicendogli che la
signora doveva riposare. Il poliziotto l’aveva salutata con un bacio sulla fronte ed era uscito, ma non
se n’era andato.

Era ancora lì, seduto su una panca fuori dal reparto. Mandò un messaggio all’amico: È nato. Un
maschietto. Quattro chili di pericolo pubblico. Miriam sta bene, ora dormono tutt’e due.
Congratulazioni, capo. Io rimango qui, non si sa mai.
Allegò una foto del bambino e gliela spedì.

Sapeva quanto Biagio stesse soffrendo. Quello era il suo primo figlio. Poteva immaginare la
preoccupazione, la paura e al tempo stesso la felicità che il collega stava provando. Però
comprendeva anche la sua scelta di non essere lì. Capiva che Biagio doveva tenersi il più lontano
possibile da Miriam e dal bambino. Dopo quella notte tutto era cambiato. I vecchi equilibri dissolti.
Tutte le persone a lui vicine erano a rischio, e Biagio non poteva permettersi di nuovo che accadesse
qualcosa come era successo con…

“Non pensarci” s’impose il poliziotto.

Il Biagio Mazzeo che conosceva era morto una notte di quattro mesi prima, e con lui era scomparsa
anche una parte di se stesso. Il “vecchio” Biagio non sarebbe più tornato. Il “nuovo” Biagio era un
uomo preda dei suoi fantasmi, divorato dalla vendetta e dominato dalla rabbia e dalla violenza. Un
uomo senza pace, che non si sarebbe fermato davanti a nulla pur di trovare la persona che l’aveva
ridotto così.

“E quando la troverà, cosa succederà?” si domandò il poliziotto.

Antonio Gualtieri sentiva la mancanza del forte caffè colombiano che aveva bevuto nei giorni
precedenti capace di tenerlo vigile per ore. Quando aveva detto a Pablo Montoya – il collega
magistrato con cui aveva lavorato in tandem per arrestare Pagani – che il loro caffè era uno dei
migliori che aveva bevuto, quello gli aveva risposto che era così buono e forte perché le loro terre
avevano il concime migliore in assoluto: il sangue. Antonio l’aveva guardato basito, salvo poi
rilassarsi quando il collega era scoppiato a ridere.

«Non siamo mica nel terzo mondo, Gualtieri. La violencia è passata da anni» aveva detto Montoya.
«Ora al massimo le concimano con la merda delle capre».

Gualtieri aveva scosso la testa, dicendosi che Pablo aveva maledettamente bisogno di quel senso
dell’umorismo per lavorare in uno dei paesi col grado di corruzione più alto al mondo, dove i
magistrati venivano o comprati dai cartelli o uccisi, dove tutto e tutti avevano un prezzo. Uno dei
poliziotti colombiani gli aveva rivelato che a Montoya il cartello di Cali aveva ucciso un figlio, e
non era stata una bella morte: Montoya non si era fatto inghiottire nel gorgo della disperazione e
aveva continuato a fare il proprio lavoro con ancora maggiore determinazione. Ascoltando quella
storia, Gualtieri si era sentito meno solo.

In viaggio verso Reggio, Antonio avvertì tutta la stanchezza accumulata nelle ore infinite spese a
cercare di mantenere il segreto sulla cattura di Pagani e sul suo trasferimento in Italia. La cosa più
snervante era doversi industriare per impedire che lo estromettessero dal caso: il suo capo aveva
fatto nuove pressioni perché tornasse subito in città e Gualtieri si era dovuto rassegnare a obbedire.
D’altronde la soffiata che aveva avuto sulla nave cargo in Costa Rica con trecento chili di coca
destinati all’Italia si era rivelata una bufala: aveva sperato che quel sequestro potesse dare manforte
al suo operato, ma o la sua fonte si era sbagliata o gli ’ndranghetisti erano stati più veloci. Era
riuscito però a tenere Pagani nella località segreta. Per ora. Aveva una montagna di lavoro da
sbrigare: indagini, processi, provvedimenti, udienze e riunioni della DDA, tre rogatorie da
completare, persone da interrogare e inchieste che si stavano accavallando, ma in qualche modo tutto
ruotava intorno a Pagani; Gualtieri sapeva che l’uomo che avevano catturato era come un sole in
grado di illuminare la galassia oscura della ’ndrangheta.

“È per questo che vogliono cercare di portartelo via, rispedendoti a casa” si disse accarezzandosi la
fede.

Era sempre stato così: quando si avvicinava a qualcuno di davvero importante, facevano carte false
pur di metterlo in difficoltà, e non vi era dimostrazione più lampante del fatto che sui giornali ancora
non fosse uscito nulla sull’arresto del latitante. Gualtieri aveva informato chi di dovere, ma non era
trapelata alcuna notizia.

“Questa volta la posta in gioco è troppo alta. Devi fregarli, devi giocare d’anticipo se vuoi
impedirgli di fotterti” pensò. Dopo qualche minuto decise che avrebbe tentato il tutto per tutto. Ai
suoi superiori non sarebbe andata giù, ma al momento doveva fare qualsiasi cosa per proteggere la
sua preda, a costo di esibirla davanti al circo mediatico.

Il magistrato fece una chiamata a un contatto fidato, sperando che non gli sarebbe costato la carriera.

Deserto del Mali,

Africa occidentale

Il Boeing commerciale 727-200 atterrò su una pista di fortuna nel mezzo del deserto maliano.
Proveniva dall’aeroporto internazionale Tocumen di Panamá, sebbene non avesse l’autorizzazione a
volare e l’equipaggio viaggiasse con documenti falsi. Il suo era stato uno dei tanti voli fantasma con
cui i trafficanti cercavano di eludere la sorveglianza marittima sempre più serrata lungo le coste
occidentali del Nordafrica.

Una volta effettuate le operazioni di sbarco, l’equipaggio di otto persone parlò in francese con una
delegazione che li aveva aspettati nel cuore della notte. Il gruppo era formato da maliani, algerini e
sauditi che avevano messo a disposizione una dozzina di jeep e camion oltre alle loro piste
clandestine verso l’Algeria e il Marocco. Appartenevano a un gruppo terrorista islamico che avrebbe
scortato la merce attraverso l’Africa per le rotte controllate dall’organizzazione. Quando iniziarono
le operazioni di scarico, dall’aereo sbarcarono casse imballate di armi e cocaina. Le casse vennero
nascoste dentro i camion. Quelli con le armi presero la via dell’Egitto, quelli con la droga partirono
per l’Algeria e il Marocco; da lì la coca sarebbe dovuta risalire attraverso la Grecia e i Balcani fino
ad arrivare in Germania, Italia e Svizzera, e così via fino a toccare le più importanti piazze di
smercio europee.

L’equipaggio sudamericano montò sulle jeep lasciate dagli islamici radicali e svanì nel deserto su
strade improvvisate e mal ridotte.

Gli uomini del gruppo armato piazzarono delle cariche dentro e fuori l’aereo e con un telecomando a
distanza lo fecero esplodere.

Il pilota del Boeing fantasma si voltò nella jeep appena sentì i boati, e lanciò una lunga occhiata alla
carcassa che bruciava nella notte. Da un telefono satellitare riuscì a chiamare un numero negli Stati
Uniti.

«Allora?» gli rispose una voce maschile in inglese.

«La suora è arrivata integra. Nessun problema e ognuno per la sua strada».

«La barca?»

«Affondata».

«Ne sei sicuro?».

«La sto guardando».

«Ottimo lavoro. Prenoto il tavolo per festeggiare».

Il pilota sorrise. Sapeva che quella frase in codice significava che da lì a qualche giorno sui suoi
conti sarebbero confluiti centocinquantamila dollari. Non aveva mai incontrato né visto di persona
gli individui per cui volava. Spesso si chiedeva quanto potessero guadagnare loro se non avevano
nessun problema a bruciare un Boeing dopo averlo utilizzato una sola volta. Ma erano pensieri
fugaci. Era meglio non fare domande se voleva continuare a fare tutti quei soldi.

«Devo rimettermi in marcia subito?» chiese invece.

«No. Abbiamo avuto qualche contrattempo. Per un po’ dovrete stare fermi, ma stiamo lavorando per
sistemare il guasto».

«Nessun problema».

Il pilota fece cenno ai suoi che era tutto a posto.

Le porte dell’ascensore si aprirono e Varga vide Biagio venirgli incontro. Si abbracciarono.


«Come ci si sente?» chiese Varga, stringendolo forte.

«Cazzo, è una sensazione stranissima…».

«Sono contento che tu sia qui».

«Non mi trattengo molto, volevo solo vederlo» disse Biagio. «Ehi, grazie di cuore, ragazzo. Non hai
idea di quanto sia importante per me».

«Smettila, vuoi che ti aspetti?».

«No, vai pure. È tardissimo, sarai stanco morto».

Quando le porte si chiusero, Biagio fece una chiamata. «Sono qui fuori» si limitò a dire.

Dopo nemmeno un minuto la porta del reparto di Ostetricia si aprì e nonostante fosse notte fonda il
primario gli sorrise e lo fece entrare.

«è in ritardo, ispettore» disse il medico stringendogli la mano.

«Lo so, ma ero bloccato con un’indagine e come sa i rapporti con la madre sono un po’ tesi» mentì
Mazzeo.

Il medico annuì comprensivo e gli fece strada verso il nido.

«Grazie per avere aspettato così a lungo… com’è andata?».

«Nel complesso tutto bene. Il parto non è durato più di tanto, e la signora Petrarca non ha avuto
nessun problema. Il travaglio è stato nella norma, e lei si è comportata bene. Il secondo parto
solitamente è meno problematico e faticoso. Il piccolo è un bel bambino in perfetta forma».

«Non so come ringraziarla, professore».

«Dovere, ispettore. Vuole vedere la madre?».

«No. È giusto che si riposi».

Il medico lo condusse davanti al nido. Da una vetrata si potevano vedere dieci culle addossate.
Dentro i lettini i neonati dormivano ben coperti. Le luci erano basse, ma si potevano distinguere con
nitidezza le fattezze.

Mazzeo si sentì mozzare il fiato.

«Eccolo il nostro campione» sussurrò il medico indicando il neonato al centro della fila.

Biagio fissò suo figlio e un sorriso gli distese il volto.


«È bello, vero?».

«Bellissimo».

«Credo che avrà i suoi stessi occhi, ispettore… Aspetti qui, chiamo un’infermiera e glielo faccio
portare».

«No» disse Biagio bloccandolo per una spalla.

«Non lo vuole prendere in braccio?» chiese il medico, confuso.

«No, non si preoccupi… solo… posso restare qui a guardarlo?».

«Certo, può restare quanto vuole».

«Grazie» rispose Biagio. Estrasse un fascio di banconote e le mise in mano al dottore. Erano
abbastanza anche per un primario. «Grazie ancora di tutto».

«Ispettore, sa che non c’è bisogno, io non ho fatto nulla per…».

«No, ha fatto molto invece. Li prenda, gliene sono molto grato».

In tutti quei mesi Biagio era rimasto in contatto diretto col medico. Si era assicurato che Miriam
venisse assistita nel migliore dei modi, e di nascosto aveva pagato il primario perché seguisse
personalmente la gravidanza, garantendole le migliori cure.

«È sicuro di non voler vedere il bambino?».

«Sì, lo lasci dormire tranquillo».

Il medico era spaesato.

«Professore» aggiunse il poliziotto. «La madre… Per favore, non le dica che sono venuto».

«Nessun problema» rispose il medico.

Non aveva voluto prenderlo in braccio perché non sarebbe nemmeno dovuto essere lì. Non si era
meritato quel figlio, così come non si meritava l’amore di Miriam. Amava il bambino, ma sapeva che
non poteva stargli vicino e fargli da padre. Non fino a quando avesse trovato chi stava cercando e le
avesse dato ciò che si meritava. Fino a quel momento nient’altro avrebbe avuto importanza, nemmeno
suo figlio. Più stava lontano dal bimbo e da Miriam, meglio sarebbe stato per loro.

Rimase così, immobile a fissarlo, le mani appoggiate al vetro, come incantato dal leggero respiro del
piccolo, ipnotizzato dal suo nasino microscopico e dalle guance paffute. Il desiderio di stringerlo e
baciarlo era pressante, ma aveva paura che se lo avesse preso in braccio non l’avrebbe più lasciato.
Provò un dolore quasi fisico, ma alla fine riuscì a staccarsi e ad andarsene senza guardarsi indietro.

Aveva un lavoro da finire.

«È chiaro che rimarrà lì tutta la notte… Andiamo, gli è nato il primo figlio, voi cosa fareste al suo
posto?» sbottò l’uomo più giovane. «Quando è nato mio figlio mi hanno dovuto sbattere fuori
dall’ospedale con la forza!».

«Ha ragione. Non ha senso stare qui ancora» disse la donna rivolta al più anziano. L’uomo si fidava
di lei. Tra loro c’era un rispetto reciproco. Volle assecondarla.

«Ok, andiamocene a nanna».

«Cazzo, era ora» disse il più giovane mettendo in moto.

«Comunque ci ho pensato su e alle fine ho deciso che abbiamo visto abbastanza» disse l’altro. «Lo
facciamo questa settimana… sempre se siete d’accordo».

Nell’abitacolo calò il silenzio. Aspettavano quel momento da due mesi.

«Chiaro. Sfondi una porta aperta» disse l’uomo alla guida, eccitato.

«Sono d’accordo anch’io» sentenziò la donna.

«Bene».

L’auto lasciò il grande parcheggio e dopo nemmeno un minuto Biagio Mazzeo uscì dall’ospedale e
raggiunse la sua auto.

Mentre Mazzeo si dirigeva verso la periferia, tra le ragazze seminude su un marciapiede ne vide una
che lo fece rallentare. Fermò il fuoristrada e la osservò. Sedici anni al massimo. Forse meno.
Rabbrividiva a braccia conserte seduta sul gradino di un negozio. Bionda, viso emaciato. Uno
scricciolo. La somiglianza con lei era impressionante, tanto che gli venne la pelle d’oca e si chiese
se fosse uno scherzo della sua mente. Scese e le andò incontro. Le altre ragazze cercarono di
abbordarlo e lui le scostò deciso, lo sguardo fisso sull’adolescente che ora lo squadrava
preoccupata.

Un flash del suo corpo in fiamme gli attraversò la mente.

Biagio sbatté le palpebre per scacciarlo.

«Quanti anni hai?» le chiese.


«Abbastanza per quello che hai in mente» gli rispose sfrontata, nessuna traccia d’innocenza negli
occhi dalle ciglia finte. Era straniera, ma doveva trovarsi in Italia da qualche anno a giudicare dal
suo italiano.

Mazzeo si era fatto ingannare dal trucco. A sedici anni non ci arrivava nemmeno.

«Come ti chiami?».

Le altre puttane gli stavano ancora ronzando intorno. Quando scostò la giacca lasciando in bella vista
la Beretta e le manette si dileguarono.

«Come ti chiami?» ripeté.

«Cazzo, sei uno sbirro… Mi vuoi arrestare?» sbuffò lei. Frugò nella borsetta e gli porse delle
banconote accartocciate. «Tieni, ma non mettermi dentro, ok? Zero assistenti sociali di merda, ho
fatto il pieno di quelle stronzate».

Non era nuova a quella vita. Dovevano averla tirata via dalla strada diverse volte, ma ci era sempre
tornata o l’avevano costretta a tornare. Un classico.

«Non mi hai ancora detto il tuo nome».

«Vanja».

«Hai fame, Vanja?».

«Offri tu?» chiese lei facendo sparire i soldi con la velocità di una borseggiatrice.

«Offro io».

Si avviarono verso una kebaberia. Lei mangiò come un’orca assassina. Lui mandò giù soltanto una
birra.

Era una chiacchierona. Parlava come se avesse dieci anni di più e aveva le idee chiare sulla vita. Più
l’ascoltava, più dentro sentiva un senso di immensa tristezza. Si mostrava spavalda e sicura di sé, ma
era solo una bambina travestita da adulta. Biagio scoprì che non aveva protettore, che si era unita con
delle ragazze più grandi perché non aveva altro da fare secondo lei.

«Se ti facessi affidare a una comunità scapperesti, vero?».

Lei fece cenno di sì come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Aveva le labbra sporche di
maionese.

Mazzeo le scrisse un numero su un foglietto e glielo porse. «Se mai cambiassi idea, se dovessi avere
qualche problema, chiamami. A qualsiasi ora».
«Sei gentile… hai una figlia della mia età?».

Quelle parole lo trafissero come una lama.

«L’avevo» rispose.

Lei rimase in silenzio per qualche secondo poi annuì, comprensiva.

Quando uscirono e lei riprese la sua postazione fu lui a passarle delle banconote. Tante.

«Per la chiacchierata» disse. «Se qualcuno ti crea problemi, chiamami a quel numero o chiedi in giro
di me».

«Come ti chiami?».

«Biagio Mazzeo».

«E lei? Come si chiamava?».

Il sangue nelle vene si incendiò.

«Ora non ha più importanza…».

Quando si voltò per andarsene, lei lo afferrò per la manica del giubbotto e alzandosi sulle punte gli
stampò un bacio sulla guancia. Mazzeo chiuse gli occhi e provò un brivido. Si aggrappò con tutto se
stesso al sogno impossibile che fosse lei a baciarlo. Trattenne il fiato e si godette quel momento
finché lei non parlò, spezzando l’incanto.

«Questo vuol dire che non finirò mai in prigione?».

Biagio abbozzò un sorriso. «Adesso non allargarti».

Mentre tornava verso la macchina fermò una delle ragazze più navigate e le infilò cento euro nella
scollatura del top.

«Sai chi sono, vero?».

«Il principe azzurro venuto a salvarmi?».

«Bella questa… Dalle un’occhiata e sta’ attenta che non le succeda nulla».

La puttana fissò la ragazzina. «Quando avevo la sua età nessuno mi controllava» disse scontrosa.

«Avrebbero dovuto» rispose Mazzeo. «Tienila d’occhio e spargi la voce. Se le succede qualcosa, me
la prendo con voi».
La ragazza masticò una bestemmia e tornò al lavoro.

La seguì ancora per qualche istante dallo specchietto retrovisore augurandole buona fortuna.

Quando si fermò al primo semaforo, Mazzeo si rese conto di avere il viso bagnato di lacrime.

Mocarz. Tradotto alla lettera significava prova di forza. Ma in Polonia la chiamavano la “droga degli
zombie”, un’amfetamina sintetica di nuova generazione. Aveva gli stessi effetti del THC, uno dei
princìpi attivi della cannabis, ma ottocento volte più forti: ipertensione, stato di alterazione molto
potente, punte di aggressività estrema, violenta paranoia, aumento della temperatura corporea oltre i
quaranta gradi, allucinazioni visive e uditive, psicosi, manie di persecuzione. Ma soprattutto grande
resistenza al dolore e una forza raddoppiata. Mazzeo aveva letto di ragazzini in Polonia già
ammanettati che erano riusciti a liberarsi e aggredire i poliziotti che li avevano arrestati. I tossicologi
e i medici dicevano di non aver mai visto una tale aggressività. Una partita su cui i chimici polacchi
avevano giocato un po’ troppo, aveva mandato in ospedale trecentocinquanta ragazzini; molti erano
morti di infarto, altri erano in stato vegetativo.

Mazzeo e i suoi avevano sequestrato un carico prima che invadesse l’Italia. Biagio ne aveva
trafugato un po’ e sapeva quali erano gli effetti sul corpo umano. Ma nemmeno lui era pronto allo
spettacolo che gli si parò di fronte quando entrò nel capannone degli MS-13.

Il poliziotto vide che i latinos avevano cercato di sfondare la porta senza risultato: la catena e il
lucchetto erano troppo grossi. Mazzeo estrasse la pistola ed entrò.

L’hangar era un inferno di corpi martoriati. La droga doveva aver fottuto loro il cervello a tal punto
che si erano ammazzati a vicenda a colpi di machete. Altri erano rannicchiati a terra con ancora la
bocca schiumante di bava e vomito, stroncati da infarti e convulsioni.

Il capogang della mara era riverso col machete ancora in mano. Dalla pozza di sangue che lo
attorniava Biagio dedusse che i suoi stessi uomini dovevano averlo sventrato, per poi continuare a
scannarsi a vicenda. Dalle ferite su alcuni corpi capì che alcuni si erano presi a morsi in preda a
chissà quale delirio.

«Cristo…» sussurrò Mazzeo, rendendosi conto di aver esagerato. Erano bastate poco più di tre ore
per trasformare quella banda di teppisti in zombie assetati di sangue. Dovevano essersi abbuffati di
Mocarz, che sommata alla droga e all’alcol che avevano già in circolo aveva prodotto un mix letale.

Un brontolio lo fece trasalire. Si voltò di scatto alzando la pistola. Dietro un divano vide un ragazzo
ancora vivo, scosso dalle convulsioni e da una crisi respiratoria. Era a terra, gli occhi spiritati.
Tremava come un ossesso mentre una bava verdastra mista a sangue gli colava dalla bocca. Non
doveva avere più di vent’anni.
Mosso più da un senso di pietà che dal timore di lasciarsi dietro un testimone scomodo, Mazzeo si
chinò e con le mani guantate tappò il naso e la bocca del marero, inchiodandogli la testa a terra.

«Shhh» sussurrò mentre il ragazzo si dibatteva con ancora più violenza. «Tranquilo, tranquilo…».

Dopo un minuto il corpo smise di opporre resistenza e il salvadoregno raggiunse i suoi compagni in
qualsiasi inferno fossero finiti.

Biagio si alzò e rinfoderò la pistola. Non poteva andarsene così. Doveva fare qualcosa.

Vide un coltello dalla lama insanguinata e lo impugnò. Si avvicinò al cadavere di Joker e sopra il
largo tatuaggio con le iniziali in stile gotico della gang gli incise la pelle sovrapponendoci un’altra
effigie, un numero per la precisione: il diciotto degli MS-18, l’odiata mara rivale. Una volta
terminato il lavoro, avvolse con cura il pugnale in un fazzoletto e lo infilò nella tasca interna del
giubbotto. Poi con una bomboletta spray spruzzò su qualche cadavere e sulla parete la sigla degli
MS-18. Era andato oltre i limiti che si era imposto, ma era troppo tardi per tornare indietro. I
calabresi avrebbero storto il naso, ma se ne sarebbero fatti una ragione.

Uscì dal capannone portandosi via la catena e appigliandosi al ricordo di suo figlio per non pensare
alla carneficina che si stava lasciando alle spalle. Ma per quanto lo amasse, nemmeno quello bastò.

Allora si concentrò su un altro viso, quello che ancora lo faceva svegliare nel cuore della notte in
preda alle urla e ai brividi. Funzionò eccome, rinvigorendo quell’odio e quella rabbia che erano le
uniche cose ancora capaci di tenerlo in vita.

Mise in moto e se ne andò rivivendo per l’ennesima volta la notte in cui lei era morta, e in cui in
qualche modo era morto anche lui.

Località segreta,

Norditalia

Da tre giorni si stava chiedendo cosa fosse saltato nel suo sistema di protezione per permettere a
Gualtieri e ai carabinieri di catturarlo. Eppure Pagani non riusciva a venirne a capo. In Colombia era
praticamente di casa, e al di là delle coperture politiche e istituzionali, era stato dichiarato
intoccabile dai cartelli perché comprava e muoveva per loro quantità stratosferiche di neve. Il suo
arresto avrebbe arrecato agli stessi cartelli e alla ’ndrangheta un danno economico incalcolabile, e
questo avrebbe avuto violente ripercussioni sia in Colombia che in Italia, ma non solo: c’erano in
gioco interessi internazionali che ruotavano tutti intorno alla sua persona.
“Ma allora cosa cazzo è successo?” si domandò.

Qualcuno della sua organizzazione doveva essere diventato una madrina, un informatore, e aveva
iniziato a parlare, non vedeva altre opzioni. Ma chi? E perché?

Il latitante non ne aveva idea. Sapeva soltanto che aveva diversi grossi carichi in viaggio e senza la
sua supervisione c’era il rischio che glieli sequestrassero. Il punto era che i suoi clienti avevano
pagato in anticipo per quella merce che in totale sfiorava quasi le otto tonnellate di cocaina. Sperava
che i suoi uomini fossero riusciti a risalire alle coordinate attraverso i codici che aveva dato alla
segretaria e a De Pascale e che avessero cambiato le rotte delle spedizioni. Ma quello era il
problema minore. Con lui fuori dai giochi c’era il rischio che i messicani facessero il passo che
aspettavano di fare da anni: prendere il controllo della distribuzione oltre che negli Stati Uniti anche
nel vecchio continente. Né lui né i calabresi potevano permetterlo, ma per impedirlo doveva
scappare, doveva tornare libero.

Pensò a suo figlio. L’avevano catturato per non farlo parlare, ma era una precauzione eccessiva.
Roberto non era un affiliato, ma ciò non significava che avrebbe parlato, soprattutto perché il suo
soggiorno in Italia sarebbe stato molto breve: c’erano troppi soldi in ballo per lasciare che Gualtieri
lo sbattesse in galera. Pagani sapeva che loro avrebbero trovato un modo per liberarlo e rimetterlo al
lavoro. Era solo una questione di ore, al massimo qualche giorno, e presto sarebbe tornato al
comando.

Cercò di addormentarsi, ma l’immagine di suo figlio con la motosega in grembo e quella collana di
teste mozzate glielo impedì.

La collina dei suicidi,

“Giungla”

La vendetta è donna. A questo pensava guardando dall’alto della collina la città scintillante di luci.
Perché un uomo si sarebbe limitato a sparargli un colpo in fronte. Magari a torturarlo un po’ prima di
freddarlo. E se si fosse trattato di un vero professionista del dolore, allora avrebbe anche potuto
tagliargli una mano o cavargli un occhio affinché si ricordasse ogni giorno cosa aveva perso. Ma
soltanto una donna poteva inventarsi la punizione più dolorosa di tutte: costringerlo a osservare a un
metro e mezzo di distanza la persona che amava di più al mondo mentre veniva uccisa senza che lui
potesse fare nulla, e poi a guardare il suo cadavere divorato dalle fiamme per una notte intera, mentre
una canzone – la loro canzone – suonava a ripetizione come in un incubo. Ma il vero colpo di genio
era stato lasciarlo vivo a combattere con quel ricordo. Costringerlo a temere ogni giorno l’arrivo
della notte che gli avrebbe fatto rivivere quell’incubo assieme all’impotenza e ai sensi di colpa che
non gli avrebbero mai dato tregua. Perché anziché una volta sola, lei sapeva che così sarebbe morto
ogni giorno. Il ricordo gli avrebbe scarnificato il cuore, notte dopo notte, settimana dopo settimana,
rendendolo il fantasma di se stesso.

La vendetta è un’arte da donne.

Biagio Mazzeo l’aveva scoperto sulla propria pelle.

Erano passati quattro mesi. A lui sembravano molti di più. Vatslava Demidov, o meglio Vatslava
Ivankova, come si faceva chiamare ora, dopo quella notte era sparita. Trovarla era diventata la sua
ragione di vita, ma la cecena si era come dissolta. Mettendo in moto tutte le sue fonti e riscuotendo
tutti i favori che gli dovevano, Biagio aveva scoperto che la donna di Sergej Ivankov aveva ucciso in
una notte sola tutti i dodici boss facenti capo alla mafia cecena, prendendone il controllo e
ammantandosi di un alone quasi leggendario. Il posto che era stato di Ivankov ora era suo. Per paura
di incorrere in vendette incrociate e rappresaglie da parte dei fedelissimi dei capi uccisi, si
mormorava che la donna fosse sparita. Nessuno sapeva dove si trovava. Le ultime notizie su di lei
erano relative alla scia di sangue che si era lasciata dietro la rotta delle schiave: Lituania,
Bielorussia, Moldavia, Albania, Romania, Bulgaria, Macedonia, la cecena e i suoi uomini erano
passati attraverso quei paesi distruggendo i più grandi centri di smistamento e vendita delle schiave
sessuali; si raccontava che un commando di ceceni entrava in quei “mercati della carne” e, prima di
darli alle fiamme, liberava le ragazze ed evirava tutti gli uomini coinvolti nel sex trafficking,
lasciandoli morire dissanguati. L’evirazione era diventata il suo tratto distintivo. A volte, dopo averli
castrati, faceva dare loro fuoco e li osservava bruciare: c’erano video caricati su Internet con quelle
torture. Video di propaganda, per mostrare al mondo della criminalità dell’Est di che pasta era fatta.
Prima che le autorità riuscissero a farli cancellare, Biagio ne aveva visto qualcuno tramite degli
agganci con la polizia albanese e gli si era accapponata la pelle osservando gli uomini implorare
pietà come bambini e poi gridare come bestie e lei – nascosta dalla telecamera – dare ordini, gelida.

Ma dopo quella vendetta esemplare, Vatslava era sparita. Alcuni dicevano che si fosse rifugiata in
Oriente, altri in Sudamerica, qualcuno parlava degli Stati Uniti, ma in realtà non se ne sapeva più
nulla. La guerra di successione aveva avuto degli strascichi: una serie di strani omicidi dalla Cecenia
alla Russia, passando per Francia e Spagna, riconducibili a ex appartenenti all’Organizzazione di
Sergej Ivankov - il criminale che Biagio aveva ucciso, dando inizio a una guerra con la mafia cecena
– ma né sui giornali né sui rapporti dell’Interpol era mai saltato fuori il nome della donna. Era come
un fantasma.

Mazzeo aveva dato fondo a tutte le sue risorse per stanarla, ma si era dovuto arrendere all’evidenza:
era solo un semplice poliziotto di provincia che stava dando la caccia al capo di una delle più ricche
e potenti organizzazioni criminali al mondo con fortissimi legami col terrorismo e la guerriglia
cecena. Non c’era partita. Ma lui doveva trovarla, doveva ucciderla, vendicandosi. Per lei. Per dare
pace alla sua anima.
Nessuno di loro aveva più nominato la ragazzina in sua presenza. Avevano preferito far finta che
quella parte della loro vita non fosse mai esistita. Era una scelta dettata dall’istinto di sopravvivenza.
Pensarci, riflettere su ciò che era successo, li avrebbe fatti uscire tutti fuori di testa. Ma lui non
poteva dimenticare. Non poteva soprassedere. Carmine lo conosceva meglio di chiunque e lo amava
come un fratello. Sapeva che sarebbe andato fino in fondo, che avrebbe sacrificato qualsiasi cosa pur
di trovare la cecena e fargliela pagare. Avrebbe immolato anche loro, i suoi uomini, la sua famiglia.

Quattro mesi prima a Carmine non gliene sarebbe importato nulla. Lo avrebbe seguito col sangue agli
occhi anche lui, pronto a tutto, anche a sacrificarsi sull’altare della sua vendetta.

Ma ora… semplicemente non poteva più, perché ora aveva qualcosa da perdere. Anzi: ora aveva
tutto da perdere.

Entrò in silenzio nella camera da letto. Si tolse la maglietta e i jeans. Un fruscio delle lenzuola e poi
la sua voce, soffice come la notte.

«Avevo paura che non tornassi» disse il suo tutto.

La fissò. Un angelo in un corpo da diavolo. Quel tipo di bellezza che ti toglie il fiato come una
coltellata.

«Io torno sempre, tesoro».

Non aveva mai provato nulla di simile, ma sapeva che il suo posto ora era lì. Non nelle strade a dare
la caccia a quella puttana slava, ma lì.

“Biagio, Nicky… perdonatemi” fu l’ultimo pensiero prima di annegare dentro di lei.

Mikaela.

Il suo angelo.

Il suo tutto.

Il suo referente si chiamava Romeo Labate. Era l’emanazione della Mamma al nord. Dopo che per
loro Biagio aveva fatto fuori Natale Pugliese, Labate aveva fatto carriera, prendendone il posto come
Responsabile generale della camera di controllo della Lombardia, intesa non come regione, ma come
la sovrastruttura di raccordo di tutti i locali di ’ndrangheta nel Norditalia. Labate mediava con le
cellule e le cosche al nord e faceva da tramite con la Calabria, assicurandosi che le direttive e le
regole dell’organizzazione venissero rispettate.

Biagio gli telefonò dalla stessa collina su cui mesi prima aveva visto i fuochi divorare le imprese di
Pugliese in quella che aveva denominato La notte delle pantere. La chiamavano la collina dei
suicidi, perché solitamente chi voleva farla finita in città sceglieva quel posto. Biagio si era sempre
chiesto se lo facevano per la certezza della morte data dall’altezza o se per imprimersi negli occhi
quello spettacolo mozzafiato di luci e colori.

«Dimmi» rispose lo ’ndranghetista. Se rispondeva significava che era sicuro che la comunicazione
non venisse ascoltata.

«Ho risolto quella questione» disse Biagio. «Diciamo che mi sono lasciato un po’ prendere la mano».

«Un po’ quanto?».

«Abbastanza».

«L’importante è che non creino più casini».

Le labbra del poliziotto si arricciarono in un sorriso. «Di questo puoi star certo».

«Bene».

«Parliamo di me. Sono quasi tre mesi che lavoro per voi, e tutto quello che ho avuto indietro sono
una manciata di foto».

Labate gli aveva fatto avere diverse fotografie di Vatslava scattate da telecamere di
videosorveglianza a Singapore, Hong Kong, e a Po Toi Island. Biagio aveva fissato così a lungo
quelle istantanee che se chiudeva gli occhi le poteva vedere nei minimi particolari: in una la donna
girava con una parrucca nera, in un’altra si era tinta i capelli di rosso, e nell’ultima invece non aveva
preso nemmeno quella precauzione. I calabresi l’avevano mancata di poco a Singapore, per una
settimana. Anche i partner russi li stavano aiutando nella ricerca, ma pure loro stentavano a starle
dietro.

«Una manciata di foto? E secondo te chi ha fatto trasferire quei magistrati che stavano iniziando a
fare troppe domande sul tuo operato? Chi ha fatto capire a carabinieri e finanza che era meglio per
tutti stare alla larga da te e i tuoi? Chi cazzo ti ha protetto per tutti questi mesi, dentro e fuori il tuo
dipartimento? Se sei ancora a piede libero dopo tutti i casini che hai fatto, il merito è solo nostro…».

«Della vostra protezione non me ne fotte nulla. Voi state solo proteggendo il vostro interesse che io
rappresento. I patti erano altri. Mi avevate assicurato che l’avreste trovata…».

«Tesoro, tu forse ci sopravvaluti: non siamo la CIA, e quella giustamente non dorme due notti nello
stesso posto. Viaggia con documenti falsi. Non lascia tracce dato che sta fuggendo dalla sua stessa
organizzazione dopo averla decimata, è chiaro che fa di tutto per non farsi trovare. Devi darci il
tempo necessario» disse Labate chiudendo la chiamata; lo ’ndranghetista aveva problemi molto più
seri di Biagio Mazzeo.
Il poliziotto rimase a fissare la Giungla.

Hong Kong, Singapore, Cina, Giappone, Vietnam… Quei posti gli sembravano così lontani, eppure
era pronto a recarsi fino alla fine del mondo pur di chiudere quella storia.

Per lei.

“Di’ il suo nome” si impose.

«Nicky…» disse alla notte.

Quello non era più il nome della figlia di Santo che Biagio aveva amato come se fosse sua. Quel
nome ormai era un affilatoio che arrotava i suoi istinti vendicativi.

«Nicky» disse ancora, e sentì l’odio divampare, feroce, spazzando via tutto.

Come se volesse farsi ancora più male, Biagio disse un altro nome: «Vatslava…».

Strinse i pugni e le nocche scrocchiarono. Una vena iniziò a pulsargli sulla fronte. Il respiro si fece
più corto.

Ma c’era ancora un altro nome.

Mazzeo chiuse gli occhi per un istante come per trovare la forza dentro di sé, poi li riaprì.

“Dillo” ordinò una voce nella sua mente.

E lui lo disse.

«Donna…».

Puente Mirador, Medellín,

Colombia

I due bambini fissavano lo spettacolo in silenzio.

Il cadavere ciondolava nel vuoto come il pendolo di un orologio. L’avevano appeso al ponte come se
volessero inscenare un suicidio. Ma era chiaro che l’uomo non si era suicidato.

«Perché non ha più la faccia?» chiese il più piccolo all’amico.


«Non lo so…» rispose dopo qualche secondo l’altro.

Non riuscivano a muoversi catturati dal lento dondolio del cadavere che ondeggiava e si avvitava su
se stesso. Quando si voltò verso di loro, quelle grosse cavità nel teschio insanguinato sembrarono
fissarli per un istante, e il più piccolo si spaventò. Il pallone gli cadde di mano e rotolò via.

«Perché gli hanno fatto questo?».

«Narcos… droga» rispose l’amichetto.

Non ci era andato molto lontano. Più tardi il medico legale avrebbe detto che al poveretto avevano
scuoiato la faccia da vivo. Un lavoro chirurgico, da professionisti. L’avevano appeso al ponte per
mostrare a tutti cosa succedeva a mettersi contro di loro, a fare i furbi. Non si vedeva in città una
violenza simile dai tempi di Escobar.

Chiunque fossero i sicarios, avevano ottenuto il risultato che si erano prefissati: terrore e sgomento,
tra i poliziotti in primis.

Perché quel cadavere senza volto non era di un uomo qualsiasi. E gli inquirenti lo scoprirono la
mattina dopo, quando alla Procura di Medellín venne consegnato un pacchetto anonimo.

Dopo aver controllato che non si trattasse di un involucro esplosivo, gli uomini della sicurezza lo
aprirono e dentro, in mezzo a del ghiaccio, trovarono ciò che rimaneva del viso di Pablo Montoya, il
giudice colombiano che aveva aiutato il magistrato italiano nella cattura di Roberto Pagani.

Biagio Mazzeo si risvegliò di colpo. Un altro maledettissimo incubo. In realtà si era documentato e
aveva letto che nel suo caso non si trattava di incubi, ma solo di ricordi processati dalla sua mente in
forma di sogno. Ricordi con cui non riusciva a convivere, eventi che non riusciva ad accettare. Il suo
inconscio sfruttava il sonno per costringerlo a prenderne consapevolezza, per fargli capire chi era
diventato e perché. In quei mesi persone a lui vicine gli avevano consigliato di farsi aiutare da
qualcuno per elaborare il lutto. Troppe morti e troppo dolore tutto insieme potevano buttare giù anche
un uomo forte come lui. Biagio aveva riso loro in faccia. Nel suo mondo il lutto si elaborava in un
solo modo: pianificando la vendetta.

Biagio sapeva che Vatslava non era il suo unico problema. Da un mese si era accorto che lo stavano
seguendo. A volte una macchina, più spesso due. All’inizio aveva pensato che fossero uomini del
Servizio Centrale operativo decisi a vendicarsi per la sparizione di Irene Piscitelli, la loro dirigente,
ma non erano loro. E non erano nemmeno i calabresi.

“Chi allora?” si domandò per l’ennesima volta.

Anche quella notte gli erano stati alle costole ma era riuscito a seminarli prima di andare nell’hangar
dei salvadoregni. L’avevano riagganciato all’ospedale, come se sapessero che sarebbe andato lì. Poi
avevano interrotto la sorveglianza e se n’erano andati. Biagio non lo aveva detto a nessuno. Però si
era stancato. Doveva capire chi lo stava seguendo e perché.

“E devi trovare una soluzione anche con Labate e i suoi” pensò. “Se la stanno prendendo troppo
comoda. Devi fare in modo che la trovino, e subito”.

Provò a riaddormentarsi ma non ci riuscì. Allora prese il cellulare e aprì l’immagine di suo figlio
che Varga gli aveva inviato.

Rimase a fissarla finché si fece mattina.


LA PERFEZIONE DEL MALE
Quando il magistrato della DDA entrò nella sala, i giornalisti si zittirono. Qualcuno dalle ultime file
fece partire un applauso ma Gualtieri lo bloccò con un cenno nervoso della mano. Non era un uomo
uso né alle telecamere né ai festeggiamenti; sapeva di avere un carattere burbero e non faceva nulla
per smussarne i tratti duri. Si sedette alla scrivania e lanciò uno sguardo alla foto a grandezza
naturale del latitante, che campeggiava su una lavagna appesa alla parete. Ringraziò i carabinieri e le
autorità colombiane per aver reso possibile quell’importante arresto, e senza troppi giri di parole
entrò in argomento.

«Dopo sei anni siamo riusciti finalmente a ricatturare Roberto Pagani, sfuggito alle misure cautelari
dopo una latitanza di circa quindici anni, e spero si riesca a fare presto luce anche sulle coperture
politiche e istituzionali che ne hanno permesso la fuga in passato… Ho voluto organizzare questa
conferenza stampa perché è un risultato importantissimo per la giustizia italiana, e può essere
decisivo per il futuro della lotta alla criminalità organizzata, non solo in Italia».

Gualtieri mandò giù un bicchiere d’acqua. La sua non era una pausa teatrale. Non era un magistrato
da comizi, abituato a leggere appunti o asettici comunicati stampa, ma solo un onesto e schietto uomo
del sud, abituato a guardare negli occhi le persone con cui parlava. Raccolse le idee e cercò di
parlare nel modo più chiaro possibile.

«Roberto Pagani è al vertice della multinazionale del narcotraffico europeo. È il top manager di
coloro che vengono definiti narcobroker, e al momento è imputato in almeno quattro processi.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è uno ’ndranghetista in senso stretto, cioè, non è
affiliato a nessuna cosca. Dovete immaginarvelo come un uomo d’affari in grado di dialogare alla
pari con i più importanti fornitori di cocaina sudamericani. Il suo motto è: guadagnare con tutti
senza diventare nemico di nessuno. Se hai i soldi, ti procura la droga e riesce a farla arrivare in
qualsiasi parte del globo. Movimenta anche tre, quattro tonnellate di cocaina per spedizione. Cura gli
interessi di tantissime cosche e famiglie di ’ndrangheta, spesso anche acerrime nemiche tra loro. Ma
quando c’è da fare soldi, tanti soldi, anche l’onore e il sangue passano in secondo piano. Non
obbedisce a nessun boss e non rende conto a nessuno dei soldi che gli vengono affidati: porta
semplicemente a compimento il lavoro assegnatogli».

Vide un collega della Direzione nazionale antimafia entrare nella sala e lanciargli un’occhiataccia,
facendogli cenno di smetterla subito con quella messinscena.

“Siete arrivati troppo tardi” sorrise dentro di sé Gualtieri. Lo ignorò tornando a rivolgersi a
giornalisti e telecamere.

«Voi vi chiederete come mai un’organizzazione criminale così grande e tradizionalista come la
’ndrangheta abbia deciso di dargli tutta questa responsabilità e questo enorme potere. La risposta è
semplice: soldi. Perché pagare quindici, venti, trenta volte le stesse persone nelle società di
navigazione, nelle dogane, nei porti, nelle forze dell’ordine, nella politica locale o nazionale?
Perché, quando puoi affidare tutte le noie a una sola persona? Anziché frazionare le spedizioni in
tanti piccoli carichi diversi, dovendo corrompere per ciascun carico le stesse persone, Pagani si
prende cura di un’unica grossa maxispedizione, e così facendo le cosche risparmiano tempo e
denaro… Pagani non è il classico criminale a cui siamo abituati. È un uomo elegante e dai modi
raffinati. Non ha mai fatto ricorso personalmente alla violenza, non ha mai ucciso nessuno.
Appartiene a una sfera più alta della criminalità organizzata, quella che non si sporca le mani. Una
sfera invisibile, composta di criminali che non contano i soldi, ma li pesano a centinaia di chili… È
sposato con la figlia di un boss della famiglia di Siderno, cosa che gli agevola contatti e agganci
ventennali con le più disparate cosche di ’ndrangheta. È stato un matrimonio studiato a tavolino, per
ottenere potere e protezione, così come quello del figlio Alessandro, che ha fatto sposare con la
figlia di un boss di un grosso cartello colombiano. Anche se pochissimi ne sono a conoscenza, è il
padrino di un sanguinario narco colombiano del cartello del Norte del Valle, e agli inizi della
carriera ha “studiato” in Canada da un latitante insediatosi a Toronto dopo la prima guerra di
’ndrangheta. Si è fatto le ossa col traffico di eroina alla fine degli anni Settanta, stringendo solide
amicizie con il versante americano di Cosa Nostra, prima di capire che i tempi stavano cambiando.
Insomma: ha un curriculum di tutto rispetto. Parla fluentemente quattro o forse cinque lingue. È
proprietario di un’intera flotta di navi cargo e di aerei mercantili. Non ha una laurea, ma potrebbe
dare lezioni di marketing ed economia a banchieri ed economisti. Si avvale dei più stimati
professionisti e consulenti ed ha all’attivo cinque o sei identità diverse. La sua specificità rispetto al
panorama criminale nostrano è che ha istituito un nuovo modo di gestire i traffici internazionali di
stupefacenti, non più per conto di un unico clan, ma in nome e per conto di più ’ndrine unite in joint
venture, in società. Un cartello in grado di mettere insieme liquidità importanti e un peso specifico
significativo in termini di autorità e forza. Se Pagani dovesse iniziare a collaborare, come mi auguro,
riusciremmo davvero a colpire la ’ndrangheta nel cuore del suo business più redditizio, perché se la
’ndrangheta oggi è il principale distributore di cocaina in Europa, gran parte del merito è di questo
signore qua» concluse Gualtieri indicando la foto del narcobroker alle sue spalle. «Ora, perdonatemi,
ma io e i miei collaboratori abbiamo del lavoro da fare».

Il magistrato si alzò e attorniato dalla sua scorta lasciò la sala, ignorando il collega che cercava di
parlargli.

Venti minuti dopo la sua dichiarazione era su tutti i tg nazionali.

Antonio Gualtieri sperò che quella conferenza stampa bastasse a fargli guadagnare un po’ di tempo.

Quando il suo cellulare prese a vibrare, pensò che fosse il suo capo. Era pronto a sorbirsi un
cazziatone.

Si trattava invece di un collega dell’Interpol. Gualtieri impallidì quando gli disse che il magistrato
colombiano Pablo Montoya era morto, il cadavere appeso a un ponte, il viso scuoiato.

Antonio capì che tutti i suoi sforzi erano stati vani.

Roberto Pagani non avrebbe mai parlato.


Quando con la Narco e la CCD aveva fatto irruzione nella casa dove vivevano insieme una decina di
MS-18, mentre i colleghi ammanettavano i ragazzi, Mazzeo aveva nascosto in camera di Ricardo
Ortiz, il capogang, la droga che aveva ucciso i mareros della MS-13, e il coltello con cui aveva
inciso il marchio dei 18 sulla schiena di Joker. Sulla lama c’era ancora il sangue del salvadoregno.

Guerra tra bande. Problema risolto.

Antonello Verri, il primo dirigente della polizia di stato da cui Mazzeo era a rapporto, gli fece capire
che non se la beveva.

«Questo dipartimento ha visto più merda del cesso di un autogrill… Poliziotti uccisi, arrestati,
scomparsi nel nulla. Rese di conti in pieno giorno. ’Ndrangheta, albanesi, e ora anche una guerra di
bande tra latinos?».

Mazzeo, stravaccato sulla sedia, scrollò le spalle. «Mi sembra l’unica spiegazione. Quei due si
odiavano, e ci sono dei precedenti. Ortiz e Cabrera se le sono date di santa ragione qualche mese fa
prendendosi a cinghiate per strada. Non hanno fatto in tempo ad accoltellarsi solo perché nel mentre
è arrivata una volante e sono scappati. Ma lo sanno tutti che se l’erano giurata a vicenda…
Sicuramente non sentirò la loro mancanza».

Verri, che i suoi uomini chiamavano Placido per la somiglianza con l’attore, gli mostrò le foto
scattate all’interno del capannone degli MS-13.

«E questa carneficina come la spiegheresti? Dal giurarsela a questo c’è un bel salto, non credi?».

«Sono un poliziotto non un sociologo».

«Cosa Cristo vorrebbe dire?».

«Senti, io stavo dormendo tranquillo, siete stati voi ad avermi buttato giù dal letto, chiedendomi chi
poteva aver fatto quel macello. Mi sono alzato e vi ho portati da chi effettivamente aveva fatto quel
troiaio, tutto questo nel mio giorno libero. Che altro devo dirti? Che cazzo ne so di cosa passa per la
testa di questi figli di puttana? Io mi limito a sbatterli dentro… Posso andare ora?».

«No. C’è un dirigente dello SCO, ti aspetta nella due. Vuole sentirti».

«Ancora? Perché? Cos’altro vogliono?».

«Piscitelli…».

«Ma è la terza volta in meno di tre mesi che mi interrogano».

«Avranno i loro buoni motivi» disse Verri inchiodando gli occhi in quelli dell’ispettore per qualche
secondo. Poi gli fece cenno che poteva andare.
Mazzeo uscì dall’ufficio e vide quattro uomini in giacca e cravatta. Tre erano i fedelissimi della
Piscitelli, la dirigente dello SCO con cui aveva fatto piazza pulita di Natale Pugliese e della sua
organizzazione. Il quarto era il pezzo grosso dello SCO mandato da Roma. Lo fece entrare nella
saletta dove si svolgevano gli interrogatori.

Ufficialmente la Piscitelli era scomparsa una notte di quasi tre mesi prima. Le ricerche continuavano
sebbene lo SCO brancolasse nel buio, senza nessuna pista valida all’orizzonte.

Per Biagio era fatica sprecata. Non l’avrebbero trovata mai.

Irene Piscitelli era morta la notte stessa della sua scomparsa.

Era stato lui a ucciderla.

Mayfair

Westminster, Londra

Di calabrese ormai Domenico Cosentino aveva solo il cognome. I più lo chiamavano Dom, altri
Dominique. Parlava un inglese perfetto. Si era laureato giovanissimo alla London Business School, e
dopo diversi master alla London School of Economics, si era fatto le ossa nella sede centrale della
Hsbc a Londra per poi entrare nell’arena della City, tra speculatori freddi come killer e alti dirigenti
pagati più delle star di Hollywood. Aveva iniziato a giocare duro in piena crisi finanziaria, quando i
broker si lanciavano dai grattacieli delle banche con una media di due suicidi al giorno. Dom era
passato sopra i loro cadaveri e aveva imparato a nuotare con gli squali, quelli che la crisi non aveva
fatto affondare, fino a divenire un trader specializzato in operazioni ad altissimo rischio. Si era
mosso in lungo e in largo nella più grande piazza finanziaria d’Europa assorbendone trucchi e segreti,
poi era stato mandato a Wall Street per studiare da vicino il Patriot Act, che imponeva alle banche
maggiore trasparenza nelle speculazioni finanziarie, nella rendicontazione, nelle operazioni
interbancarie e nei flussi di denaro intercontinentali, allo scopo di prevenire e stroncare il riciclaggio
internazionale di denaro sporco e il finanziamento del terrorismo. A trentasei anni, Dom Cosentino
era diventato uno dei maggiori esperti di antiriciclaggio: conosceva ogni trucco e ogni falla del
protocollo.

Roberto Pagani, che l’aveva mandato a studiare in Inghilterra dopo averne finanziato la formazione
da quand’era soltanto un ragazzino di Africo in gamba con i numeri, decise che era arrivato il
momento che tornasse a Londra. Dom aprì una società di intermediazione finanziaria che forniva ai
clienti – all’inizio perlopiù italiani, soci in affari di Pagani – movimenti di capitali, investimenti,
cambi di valuta, fiduciarie, pacchetti azionari, prestiti interbancari, consulenza nella creazione di
società e assistenza in grosse operazioni bancarie. Questo sulla carta. In realtà, Dom e la sua squadra
di broker riciclavano denaro sporco; trasferendolo, facendolo correre per mezzo mondo, ma
soprattutto confondendone la tracciabilità attraverso una serie infinita di fondi di investimento, trust e
pacchetti azionari che trasformavano il contante in titoli elettronici facilmente spostabili da un
continente all’altro. Aprì una succursale a Milano, una a Zurigo, una nelle Cayman, una nell’isola di
Man. Dom ci sapeva fare.

Le cose andarono sempre meglio: si sposò con la figlia di un bancario cipriota e allargò il giro di
amicizie influenti nell’alta finanza europea. Pagani disse che non bastava, che dovevano ampliarsi
ancora, così Dom aprì altre succursali: a New York, Bogotá, Mosca, Hong Kong, Melbourne. Non
era più un’agenzia di nicchia, ma una holding finanziaria. Pagani accrebbe anche il portfolio clienti
di Dom; oltre ai fidati soci calabresi, consigliò agli amici colombiani e sudamericani di rivolgersi al
suo pupillo per lavare i narcodollari.

Dom iniziò a dividersi fra Londra e New York, ripulendo una media di duecento milioni di dollari al
mese. La sua non era più una lavanderia internazionale di denaro sporco; ormai costruiva autostrade
a scorrimento veloce per i soldi che si muovevano da un paese all’altro. Non più milioni di dollari,
ma tonnellate di dollari. Spostava e faceva correre il denaro talmente veloce che le autorità
antiriciclaggio dovevano prendere la Xamamina per stargli dietro senza vomitare. Ma era
impossibile tenere il passo, e molte banche – diavolo, la maggior parte – chiudevano gli occhi su
quello che effettivamente avveniva, anche perché, con la devastante crisi di liquidità che le aveva
colpite, in parecchie si stavano salvando solo grazie ai soldi movimentati da Dom e soci: soldi dei
cartelli colombiani, ma soprattutto della ’ndrangheta, a cui non bastava più far entrare il denaro nei
circuiti bancari internazionali per poi poterlo reinvestire in business legali. I calabresi azzardarono
una mossa più ardita e diedero mandato a Pagani – e di conseguenza a Dom – di comprare delle
banche in crisi di liquidità. Riciclare soldi è più sicuro che trafficare droga: se ti beccano te la cavi
con una multa, un periodo di osservazione dalle autorità bancarie antiriciclaggio, e riprendi più forte
di prima. Nemmeno un giorno di galera. E se proprio le cose ti vanno male, hai centinaia di manager,
broker, direttori di filiali, impiegati amministrativi o agenti che dovrebbero far rispettare le norme
antiriciclaggio all’interno delle banche su cui poter scaricare le colpe; ma chi conta davvero, chi
possiede la banca, è al riparo da qualsiasi rischio.

Dom fece incetta di istituti in odore di fallimento, soprattutto in Grecia, Spagna e Ucraina,
aumentando a dismisura i profitti dei suoi clienti che non dovevano più pagare tasse e provvigioni
bancarie, perché ora le banche erano loro. Ma soprattutto, rendendo più veloci, sicure ed efficaci le
operazioni di riciclaggio.

Tutti felici. Tutti ricchi e soddisfatti.

Mai un problema e, di riflesso, mai una rogna per Dom.

Fino a quel giorno.


Martin Lodge era il vicepresidente della Bank of New York a Londra. Sua moglie era un alto
dirigente nel Consiglio di Amministrazione della Royal Bank of Scotland. Erano persone importanti
che avevano un forte peso nell’economia bancaria europea, gente rispettata nell’ambiente. Dom li
conosceva bene ed era andato spesso a cena a casa loro o ai party nella villa che possedevano nelle
campagne del Kent. Era stato Pagani a presentarglieli e a dirgli: «Questi sono più marci di noi. Se
riesci a lavorarci insieme, possiamo spostare denaro più che con chiunque altro e con coperture
blindate».

Dom l’aveva preso in parola e, dopo uno studio reciproco durato mesi, aveva iniziato a fare affari
con la coppia. Prima piccole somme, poi quantità sempre più ingenti fino ad arrivare a operazioni
multimilionarie. Mai un problema, mai un’incomprensione.

Fin quando Dom non era stato chiamato da uno dei suoi assistenti: «C’è un problema con dei
trasferimenti. Roba grossa. Bank of New York e Scotland».

«I Lodge?».

«Sì. La Bank of New York e la Scotland ci hanno chiuso tutti i depositi e hanno rispedito i soldi
indietro… Sai meglio di me che questo non va bene. Hanno ricacciato indietro milioni di dollari,
queste sono cose che attirano l’attenzione, e con tutti quegli agenti antiriciclaggio in giro…».

«Cristo… Ci penso io».

Stranamente il primo problema avveniva qualche giorno dopo l’arresto di Pagani. Dom capì che
doveva intervenire subito, prima che anche altri banchieri si facessero strane idee.

Il giorno dopo Dom andò a trovare Martin Lodge nella sua bella casa nel quartiere di Mayfair. Lo
lasciò parlare per mezz’ora, ascoltando le sue rimostranze mentre sfogliava un catalogo di Christie’s.
Lodge insisteva che al momento, finché non si fosse chiarita la posizione del loro amico, era meglio
congelare tutto perché le autorità italiane o colombiane potevano risalire anche a loro, e non
potevano permetterselo.

«Hai finito?» disse poi Dom, gelido. «Vi abbiamo pagato, vi abbiamo letteralmente inondato di soldi
per avere libertà di movimento su quei depositi. E sai perché? Perché attraverso quei depositi per far
girare i soldi devo fare al massimo quindici, venti passaggi. Ieri dopo che ci hai sbarrato la porta
gliene ho dovuti far fare duecento, con tanto di capriole e passo del giaguaro per scrollarmi di dosso
gli agenti della squadra anticrimine di Scotland Yard che avevano subodorato qualcosa. Ho dovuto
aprire e chiudere nello stesso giorno tredici società. Tredici. Ti rendi conto? Mi stai facendo perdere
un sacco di tempo, Martin, e lo sai, il tempo è denaro. Soprattutto nel nostro ambiente…».

«Lo so, Dom, ma…».


«E se proprio te la devo dire tutta, non mi piace che al minimo problema ci volti le spalle così, dopo
tutti i soldi che vi abbiamo fatto fare. Stai facendo un grande errore e mi stai deludendo» disse in
perfetto inglese. «E non stai deludendo solo me…».

«Dom, mettiti nei miei panni, stiamo parlando della…».

«Stiamo parlando di una barca di soldi, e sai a chi appartengono quei soldi? No che non lo sai, e
credimi: è meglio che tu non lo sappia».

Di gente come i Lodge Dom e i suoi ne avevano a dozzine sparse per tutto il mondo. Avrebbero anche
potuto fare a meno dei loro servizi. Il problema era un altro. Era una questione di credibilità e
rispetto. Né lui né i suoi soci potevano permettersi di creare il precedente di qualcuno che voltava
loro le spalle, soprattutto in un frangente difficile. Il messaggio che Dom doveva far passare per
conto dei suoi clienti era: nessuno ci può scaricare. Nessuno.

Il broker si alzò e scosse la testa. «Ci saranno delle conseguenze».

«Andiamo, non è il caso di…».

Dom se ne andò.

Dalla finestra Martin lo osservò montare sulla sua Bentley con autista e mormorò disgustato: Mafiosi
del cazzo.

Riprovò a chiamare la figlia in vacanza col marito a Santorini. Doveva essere arrivata il giorno
prima ma ancora non l’aveva sentita. Una voce preimpostata gli rispose che l’utenza non era al
momento raggiungibile.

Martin non vi diede troppo peso e riprese la lettura dei quotidiani finanziari.

Uffici dell’Anticrimine, questura,

“Giungla”

«Che ne dice di finirla qua?» sbottò Mazzeo dopo mezz’ora di quella farsa. «Se avessi saputo che
sarebbero piovute tutte queste stronzate, mi sarei portato l’ombrello».

L’uomo dello SCO avvampò di rabbia, mentre i fedelissimi della Piscitelli trattennero a stento le
risa.
Ferrari, così si chiamava il pezzo grosso che lo stava interrogando, aveva continuato a porgli
pressoché le stesse domande cercando di farlo cadere in contraddizione: erano tutte inerenti al suo
rapporto con la dirigente scomparsa. La realtà era che non avevano niente in mano. Forse i suoi
uomini sospettavano qualcosa, ma non si azzardavano a dire nulla. Erano marci quanto lo era stata
lei, e sapevano che se si fossero messi contro di lui, Mazzeo avrebbe potuto inchiodarli con una
verità in grado di mandarli tutti dietro le sbarre. Perché la bella e giovane Irene Piscitelli non era la
santa paladina della giustizia che avevano descritto i giornali dopo la sua sparizione. Dietro quel bel
viso si nascondeva una serpe che si era alleata col Diavolo, ricattando Biagio e trascinandolo in un
vortice di sangue e vendette. Se Claudia Braga, che era stata il braccio destro di Mazzeo, era morta,
la colpa era soltanto della Piscitelli. Ma la bella superpoliziotta dello SCO era responsabile anche di
un altro omicidio che aveva toccato Biagio ancora più nel profondo: Oscar Fortunato, uno dei
poliziotti storici del Branco, un amico, un fratello. Per vendicarsi di Mazzeo, la Piscitelli gli aveva
fatto credere che Oscar fosse una spia, di modo che Biagio lo uccidesse. E così era avvenuto, perché
il Branco non perdonava le spie. Quando poi gli aveva detto la verità, ovvero che l’aveva
manipolato costringendolo a uccidere Oscar per nulla, Biagio, annientato dal dolore, aveva deciso
che la donna doveva pagare con la morte. L’aveva attirata in una trappola e l’aveva massacrata a
mani nude, perdendo il controllo.

La polizia aveva avviato una ricerca in grande stile, ricorrendo addirittura ad apparecchi georadar di
ultima generazione in grado di indagare oltre i tre metri di profondità qualsiasi terreno e materiale.
Avevano scandagliato le zone vicine alla Giungla, le periferie, la campagna, e tutti quei luoghi dove
si poteva sotterrare un corpo, perché dopo tre mesi di silenzio assoluto, nonostante non lo
ammettessero ufficialmente, era quello che stavano cercando: un cadavere.

Mazzeo aveva la certezza che non l’avrebbero trovato mai. Aveva sciolto il corpo in un barile di
duecento litri d’acqua e quaranta chili di soda caustica. L’aveva fatta bollire per diciotto ore. Della
poliziotta erano rimasti solo i denti. Ma per poco. Biagio li aveva sbriciolati a martellate. Ne aveva
gettato la polvere nel cesso, aveva tirato l’acqua, e addio Irene Piscitelli.

«Andiamo, se fosse stata davvero uccisa, come dite, ne avreste già trovato il cadavere dato lo
spiegamento di forze che avete messo in gioco» disse Mazzeo. «Ma non mi risulta che abbiate trovato
nulla a parte qualche bunker della Seconda guerra mondiale e un vecchio arsenale in un cimitero di
partigiani, o sbaglio?».

Ferrari sostenne il suo sguardo.

«Nessun cadavere, nessun omicidio, mi sembra una base fondamentale dell’indagine investigativa,
no? Fossi in voi mi concentrerei su altre piste, e smettetela di insinuare stronzate che non potete
dimostrare» disse Mazzeo alzandosi. «È l’ultima volta che prendo parte spontaneamente a un
interrogatorio. Se volete qualcosa mettetevi d’accordo direttamente col mio avvocato. Vi anticipo
che ha un debole per queste puttanate illegali» concluse facendo l’occhiolino.

Mazzeo fulminò i tre uomini della Piscitelli con un’occhiataccia glaciale d’avvertimento: “Questa
storia finisce qui.Levatevi dal cazzo, altrimenti parlo e vi faccio ingabbiare a vita”.
Il più anziano annuì impercettibilmente. Messaggio ricevuto.

Biagio uscì soddisfatto dagli uffici dell’Anticrimine. Sapeva che i piani alti del dipartimento
avevano tra le mani casini ben più grossi: il capo dello SCO era indagato per sequestro di persona
insieme a un questore, a un pugno di ispettori e a un giudice per quel casino diplomatico con la
kazaka che avevano fatto estradare in barba a tutte le leggi; perdipiù, dopo gli attentati di Parigi, il
terrorismo era tornato a essere il problema numero uno. Come se non bastasse, il papa aveva avuto la
brillante idea di ripulire l’immagine della Chiesa istituendo un Giubileo quando Roma era in
ginocchio per l’inchiesta Mafia Capitale e in piena crisi politica, col sindaco costretto a dimettersi.
Terrorismo, corruzione e Giubileo: la trinità che toglieva il sonno ai capoccioni del ministero
dell’Interno. Con le città blindate, le questure e i presìdi di polizia in stato d’allerta, tutto il resto
passava in secondo piano, Mazzeo compreso. Quell’interrogatorio, però, era stato una buona
occasione per scoprire se la Piscitelli – nella sua trattativa – avesse agito da sola con la squadra o,
invece, col beneplacito dei superiori. Ferrari non era entrato nel dettaglio del suo rapporto con la
’ndrangheta, quindi Biagio era portato a credere che la Piscitelli si fosse mossa alle spalle degli alti
papaveri, o quantomeno della maggior parte di essi. In pochissimi dovevano essere a conoscenza di
ciò che aveva fatto, e l’uomo che l’aveva interrogato non era tra questi.

“Bene. Però adesso che hai la certezza di non avere lo SCO attaccato al culo, chi diavolo è allora
che ti sta seguendo?” si domandò preoccupato.

Commissariato di Fira,

Santorini, Grecia

Julia Lodge era rinchiusa nella camera di sicurezza di un commissariato di polizia a Fira. Suo marito
era ancora sotto interrogatorio. La ragazza non capiva cosa diavolo stesse succedendo. Sei ore prima
due poliziotti in borghese li avevano fermati e avevano trovato nella sua borsa trenta grammi di
cocaina. Julia non aveva idea di come ci fosse finita dentro.

Li avevano arrestati e portati in commissariato. Poi uno dei poliziotti era tornato dopo qualche ora e
le aveva mostrato un piccolo panetto di droga: duecentoventi grammi. A quanto diceva, lo aveva
scovato nella sua valigia nella loro camera in albergo.

«Mi sa che questa vacanza durerà parecchio più a lungo del previsto» le aveva detto in un inglese
stentato.

Più tardi la portarono di sopra e le dissero che aveva la possibilità di chiamare un avvocato.
Julia non conosceva nessuno sull’isola, così chiamò il padre.

«Pronto?» rispose Martin Lodge.

«Papà! Mio Dio, ascolta… mi hanno arrestata…».

London City Airport

Domenico Cosentino stava per imbarcarsi sul suo volo settimanale per New York quando uno dei
suoi tre cellulari prese a squillare. Sorrise ancora prima di vedere di chi si trattasse.

«Pronto?».

«Va bene. Rimandameli» disse Martin Lodge, lapidario.

«Martin? Di cosa stai parlando?».

Dom non aveva mai toccato un grammo di droga, non aveva mai messo le mani su qualsivoglia arma,
non aveva mai fatto del male a nessuno. Però dovette ammettere che recitare la parte del cattivo era
un piacere quasi estatico.

«So che li avete incastrati voi. Lasciateli andare, farò quello che volete. Avete vinto».

«È troppo tardi per il trasferimento, me ne sono già occupato io».

«Cristo, dimmi cosa devo fare, ma lasciatela stare, lei non c’entra nulla…».

«È una bella ragazza. Scommetto che quando entrerà in carcere tutte le guardie sapranno darle il
benvenuto che merita, non credi?».

«Ti prego…».

«Tua figlia è stata trovata con duecentocinquanta grammi di cocaina pura. A seconda del giudice che
trova potrebbe essere condannata per traffico internazionale di stupefacenti, te ne rendi conto?».

«Mio Dio…».

«Julia ora va in carcere e ci resta finché lo decidiamo noi. Quello che posso fare è assicurarle
protezione finché starà dentro».
«No, devi farla uscire! Devi sistemare…».

«Sta’ zitto e ascolta. Sistemare, dici? Sistemare un cazzo, è tempo di pagare. E la sua protezione ti
costerà cara… Ristabilisci subito i depositi, anzi sai che ti dico? Ne apri altri. All’istante, e lo fai tu
stesso, in prima persona».

«Va bene, ma…».

«D’ora in poi farai transitare il triplo dei soldi su quei conti e sai una cosa? Li farai passare sui tuoi
conti personali. I tuoi e quelli di tua moglie, così la prossima volta ci penserai bene prima di fotterci
e voltarci le spalle».

«Ma Julia?».

«Possono capitare cose peggiori della galera, Martin. Fammi avere quei conti» disse Domenico, e
chiuse la chiamata. Dopo la botta di adrenalina, a mente fredda compose un numero: lui doveva fare
ciò che sapeva fare, ovvero il broker, non il mafioso.

«Bisogna trovare subito una soluzione al problema italiano» disse in dialetto stretto. «Questo
contrattempo sta danneggiando gli affari, esponendoci a rischi inutili. Stiamo perdendo credibilità».

«Lo so. Ci stiamo lavorando».

«Ci sono un sacco di soldi di mezzo» disse Dom. «E i soldi non si possono fermare. Se fermi i soldi,
poi…».

«Ho detto che lo so. Tu stai tranquillo e continua a fare ciò che sei pagato per fare. A quel problema
ci pensiamo noi» disse Romeo Labate prima di chiudere la chiamata. Perché se lui era il broker, loro
erano i mafiosi. A ciascuno il suo.

Ospedale,

“Giungla”

Era come l’aveva sempre sognato. Nei suoi sogni di madre aveva quel nasino, quelle guance paffute
e quelle mani grassocce. Aveva occhi grandi, curiosi, che continuavano a guardarsi intorno. E il suo
sorriso, era quello del padre: improvviso, sfrontato, disarmante.

Osservando quel piccolo angelo, rivide Biagio da piccolo. La somiglianza era incredibile.
Si asciugò le lacrime e cercò di tornare con i piedi per terra.

Perché anche se aveva sempre sognato che suo figlio fosse così, quello che stava guardando
attraverso la vetrata del nido non era il suo bimbo. Lei non avrebbe mai avuto un figlio, tantomeno da
lui. Era troppo tardi, e le cose tra loro non erano andate esattamente come aveva sempre sperato.

Donna posò le mani sul vetro. Avrebbe dato qualsiasi cosa per prenderlo in braccio e sfiorare con le
labbra quella pelle rosea, per annusare il suo profumo e sentirlo respirare contro il petto. Ma non
poteva. Stava già correndo un grosso rischio a essere lì. Lui non avrebbe mai capito, figurarsi lei, la
puttana che era riuscita a partorire quella meraviglia.

“Avrebbe potuto essere tuo. Avresti potuto essere sua madre” disse una voce cattiva dentro di lei.

Sentì una presenza alle sue spalle e poi una voce la fece sobbalzare.

«Cosa ci fai qui?».

Penisola di La Guajira,

Venezuela

Alejandro Almeida mise via El Espectador e annuì soddisfatto. Era riuscito a far scivolare l’articolo
sulla morte del giudice Montoya a pagina 17.

Osservò gli ospiti rilassarsi nella grande piscina della sua finca paradisiaca, al cui orizzonte si
stagliava lo scintillante Golfo del Venezuela. Fra loro c’era il direttore della First InterAmericas
Bank di Panamá con tanto di famiglia al seguito, e anche il vicepresidente della sede colombiana
della Bank of America. Erano lì per festeggiare il master in Business Administration all’Università
della California di sua figlia Anabel. Dopo la festa, che andava avanti da quasi tre giorni, don
Alejandro avrebbe parlato loro del futuro della ragazza.

Almeida voleva conquistare ancora più spazio nell’economia legale. Industrie, squadre di calcio,
imprese di costruzione, centri commerciali, società di investimento, radio, giornali e televisioni non
bastavano più. Aveva cinque figli: due li aveva inseriti in politica, uno in Colombia e uno in
Venezuela; un altro gestiva l’intero apparato legale e amministrativo del suo impero imprenditoriale;
mentre il maggiore stava scalando la gerarchia dell’esercito, e tutti sapevano che sarebbe diventato il
più giovane generale nella storia della Colombia. Del mondo di Alejandro Almeida i figli
conoscevano solo i soldi e il potere che ne derivava, non la droga né tantomeno il sangue. Era la sua
più grande soddisfazione: essere riuscito a tenerli fuori dal narcotraffico.
Restava Anabel, la più giovane e la più intelligente, quella a lui più cara. Prima del master l’aveva
mandata un anno a Londra al fianco di Dom Cosentino: voleva che imparasse dal migliore. Dom se
l’era portata dietro per mezzo mondo, da New York a Parigi, da Tokyo a Singapore, mostrandole
come spostava e ripuliva quantità mastodontiche di denaro, per una grossa porzione appartenente al
padre. Anabel gli aveva detto che, dopo quell’anno al fianco del broker calabrese, il master
all’UCLA era stato come studiare la preistoria: Cosentino era avanti anni luce rispetto ai suoi
professori. Alejandro aveva grandi progetti per lei. Dopo aver piazzato diversi nipoti nel Congresso,
nelle forze di polizia statali e federali, nei comuni, e qualcuno anche nell’intelligence della Guardia
Nazionale del Venezuela – dove Alejandro si nascondeva da anni –, era giunto il momento di
consolidare l’unica area strategica in cui era più debole: l’alta finanza. Anabel avrebbe trasformato
la sua narcoimpresa in una multinazionale per azioni. Era questo il sogno di Almeida: consolidare il
potere economico per poter abbandonare le piantagioni di coca che avevano fatto la sua fortuna.
Nessuno dei figli avrebbe più dovuto rischiare la vita per i suoi errori. I nipoti non avrebbero
conosciuto la pazzia e il sangue sui quali Almeida aveva eretto quell’impero.

Don Alejandro aveva ricevuto proposte di matrimonio per Anabel dai narcos messicani dei
principali Cartelli: Sinaloa, Juárez, Gente Nueva, Los Cabrera, Jalisco Nueva Generación,
Guadalajara, Los Mexicles, e un’infinità di altri che, allacciando un legame di sangue, speravano di
mettere le mani sulle piantagioni e la produzione di coca, assumendo così il controllo dell’intera
filiera. Alejandro aveva respinto tutte le generose proposte e offerte. Non era più interessato ad
alleanze strategiche. Anabel avrebbe sposato un top manager di qualche multinazionale americana o
europea, non gente dalle mani sporche di sangue come lui.

Guardando la figlia discutere amabilmente e alla pari con quella squadra di banchieri, industriali e
politici, don Alejandro pensò a quanto fosse ormai diverso dall’uomo che venticinque anni prima
aveva ordinato di fare a pezzi con le motoseghe un intero villaggio di campesinos, guidati da un
parroco comunista che li aveva convinti a ribellarsi contro la violenza dei narcos e le tremende
condizioni di vita nelle campagne. Sì, girava ancora circondato da un piccolo esercito di sicarios e
guardie del corpo, ma era molto lontano dall’uomo violento e sanguinario di un tempo: ora lasciava
che fossero i messicani a incarnare la violenza e macchiarsi delle carneficine. Lui era un
businessman. Realizzava un prodotto e lo vendeva. Non doveva nemmeno seguire la distribuzione
della merce, perché c’era chi se ne occupava: messicani per il mercato nordamericano e calabresi –
attraverso l’intermediazione di Pagani – per la florida piazza europea. I messicani avevano grandi
disponibilità di denaro, ma erano macellai inaffidabili, invischiati in continui bagni di sangue
fratricidi in cui coinvolgevano anche la popolazione civile; avevano alle calcagna FBI, DEA e altre
agenzie federali statunitensi, e farci affari era sempre più rischioso.

Trattare con i calabresi, invece, era più semplice e sicuro. Erano persone intelligenti dal bassissimo
profilo; gente cosmopolita che del colonialismo criminale aveva fatto il proprio punto di forza.
Uomini che avevano il business nel sangue e riducevano quasi a zero gli spargimenti di sangue. Con
loro mai un problema, mai un contrasto. E Roberto Pagani era davvero un narcobroker di altissimo
livello: protetto e spalleggiato da quella organizzazione impenetrabile con ramificazioni in tutto il
mondo che era la ’ndrangheta, aveva il controllo delle rotte di esportazione. Don Almeida sapeva di
non essere il suo unico fornitore sudamericano, ma non voleva certo il diritto esclusivo dei servizi.
Con Pagani era in affari da tempo, e oltre al rapporto professionale c’era una profonda sintonia
umana insieme a rispetto e stima reciproci. Per questo lo preoccupava molto il suo arresto. E il fatto
che fosse avvenuto in Colombia, nella sua Colombia, lo imbarazzava. Da qui il gesto estremo e
sanguinario di uccidere Pablo Montoya, il giudice che aveva collaborato alla sua cattura. Erano anni
che Almeida non arrivava a una simile azione dimostrativa, ma l’aveva fatto per rispetto di Pagani e
per salvaguardare il rapporto con i calabresi. Così come non avrebbe mai voluto rapire il figlio di
Pagani, ma erano state le cosche italiane per cui il broker lavorava a chiedergli di farlo: Roberto non
doveva parlare, sapeva troppe cose.

Don Alejandro aveva deciso di accontentarli, a patto che si impegnassero a liberarlo: Pagani era una
miniera d’oro, e nella multinazionale distributiva che aveva creato era l’unico elemento non
interscambiabile. Se crollava lui, crollava l’intera filiera. Perché, come insegnava la più elementare
legge dell’economia, puoi avere anche la migliore merce del mondo – e la Perlata, la coca di
Almeida, era la migliore sulla piazza – ma se non hai qualcuno che la fa arrivare in qualsiasi angolo
del globo, non hai nulla, non sei nessuno. Pagani aveva flotte di aerei e navi, dozzine di consorzi di
autotrasporti, legioni di corrotti nelle società di navigazione, nelle dogane, nei porti, nelle forze
armate e dell’ordine, nelle banche, legami con pirati, terroristi, aveva sul libro paga una serie di
intermediari che non sapevano nulla l’uno dell’altro. E soprattutto, grazie alla ’ndrangheta, aveva il
pieno controllo del porto italiano di Gioia Tauro e di quello andaluso di Algeciras; ed era di casa ad
Anversa, Vigo, Amburgo e Rotterdam. Il modo in cui distribuiva e faceva transitare la droga dal
Sudamerica all’Europa attraverso la Spagna o l’Africa non era un’arte, ma una scienza. C’erano stati
altri narcobroker di cui la ’ndrangheta si era servita e con i quali Almeida aveva trattato: Fimbali, un
uomo ossessionato dalla sicurezza, e un romanaccio mezzo calabrese, geniale benché un po’ pazzo;
erano stati catturati ed estradati in Italia, lasciando campo libero a Pagani. Don Almeida era certo
che fosse stato Pagani a infamarli, a farli cadere per prenderne il posto, ma non gli importava. Gli
interessava solo che si continuasse a fare soldi, tanti soldi. L’invisibile autostrada Colombia-Europa
non poteva fermarsi per un arresto.

I calabresi gli avevano detto che l’Italia non era il Messico o la Colombia quanto a libertà di
movimento, ma avevano garantito l’assoluto impegno a lasciar andare il narcobroker e rimetterlo in
attività. Gli ’ndranghetisti, però, ignoravano che un altro problema rendeva la situazione complicata.

Qualche settimana prima, dal penitenziario in cui era rinchiuso, era evaso El Chapo, il più grande
narcotrafficante messicano, capo indiscusso del cartello di Sinaloa. Don Almeida era al corrente
della sua fuga da almeno sette giorni, perché il figlio del re dei narcos gli aveva telefonato
dicendogli che lui e il padre dovevano incontrarsi per parlare del futuro.

«La vedo difficile fare una riunione in un carcere federale di massima sicurezza» gli aveva risposto
Almeida.

Il figlio del narco aveva riso. «Sta’ tranquillo, non era a quello che papà stava pensando».

Don Alejandro aveva capito. Il governo messicano aveva perso la guerra al narcotraffico. Dopo la
cattura di El Chapo, il Messico era caduto in una spirale di sangue: i vecchi equilibri e i cartelli si
erano polverizzati, e a farla da padrone erano piccole e violentissime bande in guerra fra loro. Né
l’esercito, né l’Agencia Federal de Investigación, né tantomeno la superprocura specializzata nel
crimine organizzato erano riusciti a fare nulla, ammorbati da una corruzione che li aveva colpiti fino
al cuore. Il governatore aveva di sicuro alzato bandiera bianca e fatto liberare l’unica persona che
potesse portare un po’ di ordine e ristabilire una pax narcotica. Una pessima figura a livello politico
e diplomatico, ma forse l’unica soluzione per tamponare lo squarcio che stava dissanguando la sua
terra.

Almeida conosceva El Chapo da almeno trent’anni e sapeva perché il messicano volesse parlargli.
Voleva rimettere sul piatto un vecchio progetto: ampliare la propria fetta d’affari entrando di
prepotenza nel mercato europeo. Un chilo di cocaina si poteva vendere negli Stati Uniti per
venticinque-ventiseimila dollari; in Europa lo stesso chilo si poteva piazzare quasi al quadruplo.
Contando che la comprava all’ingrosso da Almeida a cinque-seimila dollari al chilo, e stimando che
il trenta-trentacinque per cento della produzione mondiale di cocaina pura finiva in Europa, era
chiaro che El Chapo volesse espandere la propria area di distribuzione in un mercato così florido. Ci
aveva provato anni prima, ma l’FBI aveva stroncato l’operazione e arrestato il cugino che il
narcotrafficante aveva mandato in avanscoperta. Almeida l’aveva avvertito: l’Europa non era il
Messico, e lui non aveva le coperture politiche e istituzionali necessarie, ma El Chapo era andato
avanti lo stesso ed era rimasto scottato. Ora però, con Pagani fuori dalle scene e il governo ai suoi
piedi, c’era il rischio che ci riprovasse e ci riuscisse, ottenendo così il monopolio mondiale del
narcotraffico. Il suo sogno.

Don Alejandro salutò la figlia e le fece cenno che l’avrebbe raggiunta subito. Si fece portare un
telefono sicuro e digitò uno dei numeri di emergenza che Pagani gli aveva dato.

«Pronto?» rispose uno dei calabresi.

«Sono io, come siete messi con quel problema?».

«Stiamo cercando di risolverlo» gli risposero in spagnolo. Erano nervosi. Era la terza volta in pochi
giorni che Almeida li chiamava.

«Dovete muovervi».

«Lo sappiamo, ma…».

«La situazione è più complicata del previsto».

«In che senso?».

Il colombiano spiegò che stavano rischiando di perdere la piazza europea. Nessuno voleva una
guerra con i messicani. Ma la sua merce non poteva stare ferma, la sua narcoimpresa doveva andare
avanti a qualsiasi costo. E se i calabresi non potevano più garantirgli gli ordini a cui era abituato…

«I’m sorry, but business is business» concluse il colombiano. Perché prima o poi El Chapo sarebbe
venuto a bussare alla sua porta e lui sarebbe stato costretto ad aprirgli.

Dall’altra parte rimasero in silenzio per qualche secondo.

«Quanto tempo abbiamo?» chiese poi lo ’ndranghetista.

«Una settimana… forse due. Di più non posso garantirvi».

«Ci rifacciamo vivi noi».

Don Alejandro Almeida si avviò a bordo piscina sforzandosi di sorridere.

Sperava che i calabresi avrebbero trovato presto una soluzione.

Non sapeva che era già troppo tardi.

Ospedale,

“Giungla”

Donna si voltò.

«Allora? Che ci fai qui fuori? Perché non entri e lo prendi in braccio?» disse Carmine, sorridendo.

«Mi piacerebbe, ma meglio di no».

Il poliziotto la abbracciò. «Guarda che roba, sputato il padre. Speriamo non nel carattere…».

Donna si rese conto che se in quei mesi Biagio si era come spento, Carmine si era invece acceso. E
gli uomini si illuminano in quel modo solo in una circostanza: quando si innamorano.

«Senti, io devo andare» gli disse.

«Di già? Non vuoi salutare Miriam?».

«No, meglio di no».

«Ok. Ti accompagno, così ci prendiamo un caffè, ti va?».

Donna annuì. Lanciò un’ultima occhiata al neonato e uscirono dal reparto. Dopo aver preso un caffè,
Carmine l’accompagnò al parcheggio.
«Dimmi soltanto una cosa» disse Donna cambiando discorso. «Quanti anni ha?».

«Chi?» rispose lui cadendo dalle nuvole.

«La ragazza che stai vedendo».

«Non sto…».

Donna inclinò la testa di lato. «Vuoi prendere in giro me, Carmine?».

«Io… ma come…».

«Te lo si legge in faccia. E sei arrossito quando te l’ho chiesto… Seriamente, quanti anni ha?».

«Ventisei… ma non pensare male, non è una cosa… passeggera».

«Non penso male. Mi sembri innamorato e felice, e te lo meriti».

Lui annuì, teso. «Per favore, non dirlo a Biagio. Anzi, non dirlo a nessuno».

«Perché?».

«Non voglio che pensi… insomma, sta passando un brutto periodo. Stiamo passando un brutto
periodo, e non vorrei che pensasse che non ci sono con la testa».

«Sono contenta per te, davvero… Non gli dirò nulla a patto che tu non dica a nessuno che sono venuta
a vedere il piccolo. Né a Biagio né a Miriam».

«Perché?».

Donna gli tese la mano.

«Affare fatto?».

Carmine gliela strinse. «Affare fatto».

«Non voltare mai le spalle all’amore, Carmine» gli disse prima di salire in macchina e andarsene.
Carmine percepì un senso di sconfitta in quelle parole. Donna era innamorata di Biagio, da sempre.
Da quando erano bambini. Poi entrambi avevano preso strade diverse. Ma l’amore di Donna non
aveva mai subìto scossoni. Era un amore puro, feroce. Di quelli per cui si uccide.

Carmine tornò al nido e osservò a lungo il figlio del collega, un sorriso idiota sul viso. No, si disse,
non avrebbe mai voltato le spalle all’amore, soprattutto non ora che l’aveva finalmente trovato.

“Chissà se Mikaela vuole averne uno” pensò.


In quel momento il telefonino vibrò. Era Zoya, il mafioso russo con cui Carmine era in “affari”.

Non voltare mai le spalle all’amore, risentì la voce di Donna.

Uscì dal nido e rispose.

Ristorante Kronenhalle,

Zurigo, Svizzera

Romeo Labate guardò con indifferenza i quadri di Chagall, Miró, Braque e Matisse appesi alle pareti
del ristorante, e si lasciò accompagnare dal maître al tavolo che aveva prenotato in un angolo
discreto. Era in anticipo di un’ora. Aveva un altro appuntamento prima della riunione.

Dopo qualche minuto, infatti, Eva Gasthaus, una bella tedesca sui quarantacinque anni, si avvicinò
scortata dalle guardie del corpo del calabrese e lo salutò con tre baci sulle guance. Non era
un’affiliata, ma gestiva parte della baciletta, la cassa comune del locale di Labate. I due iniziarono a
discorrere in tedesco. Labate lo parlava quasi come l’italiano, con un leggero accento amburghese:
quand’era ancora soltanto uno sgarrista, era stato mandato dal padre in Germania, a farsi le ossa; il
primo uomo che Romeo aveva ucciso era un ufficiale portuale che stava creando problemi con dei
carichi al porto di Amburgo. La notte in cui gli aveva fatto il servizio, Romeo non aveva ancora
compiuto diciannove anni. Tre anni dopo, e tre ufficiali portuali spariti nel nulla più tardi, la
’ndrangheta aveva il controllo del porto e Romeo una croce dietro la spalla destra.

Al suo arrivo, venticinque anni prima, le ’ndrine in suolo tedesco si potevano contare sulle dita di
due mani. Ora erano duecentotrenta. Quasi più che in Calabria. Gran parte del merito era di Romeo.
Per questo aveva fatto carriera in fretta, scalando la gerarchia. Ma a dare un’impennata alla sua
scalata all’Organizzazione era stata la notte delle pantere, che aveva visto sgretolarsi l’ala
scissionista di Natale Pugliese. Mazzeo e la Piscitelli, inconsapevoli, l’avevano reso un intoccabile.
Il pensiero di dover ringraziare due sbirri per la sua posizione attuale lo faceva ancora sorridere.

Eva gli fece vedere dei prospetti e delle proiezioni sul tablet. Era la sua consulente immobiliare,
oltre che la presidente di una società di investimento svizzera che curava gli interessi finanziari della
sua cosca. La donna gli mostrò degli appartamenti di lusso che aveva comprato per loro a Miami e in
Florida, poi dei villaggi turistici che aveva fatto costruire in Brasile, in Nicaragua e in alcune isole
caraibiche. Lo aggiornò sui prezzi degli immobili che possedevano a Buenos Aires, e visto che la
crisi stava arrivando nei paesi nordici, suggerì di fare incetta di case a Oslo e Stoccolma, dove il
mercato era in flessione, così come in Cina, che dopo il boom economico adesso era in caduta libera.
«E in più… se mi posso permettere, so che esula dai nostri soliti investimenti… ma una società
cinese sta raccogliendo fondi e cercando investitori per la creazione di un parco eolico e altri settori
della green economy. Si tratterebbe di un investimento modesto con ricavi enormi, sovvenzionato in
parte dallo Stato. I cinesi hanno capito che le energie rinnovabili sono l’unica prospettiva che può
salvarli dall’inquinamento e ci si stanno tuffando. Investire ora è la cosa giusta. Dopo, rischiamo di
non trovare più spazio e…».

«Fallo. Mettiti in contatto con Dom Cosentino e fatti dare quello che ti serve» disse Labate. Entrare
in un affare sovvenzionato dallo Stato cinese poteva tornare utile per agganci e alleanze strategiche.

«Perfetto. Vuoi che scenda un po’ più nel dettaglio?».

Romeo annuì. Si fidava di lei, era stato Roberto Pagani a presentargliela, e già quella era una
garanzia. Da quasi quindici anni Eva amministrava in modo brillante una piccola parte dei loro
proventi, con investimenti immobiliari in mezzo mondo. Mai in Italia, però. Solo un idiota avrebbe
investito in Italia, la nazione con la migliore e più rigida legislazione antimafia che ha capito che
attaccare soldi e capitali è l’unico modo per danneggiare sul serio le mafie. Il denaro che
l’Organizzazione guadagnava veniva ormai reinvestito fuori dal Paese, al riparo da confische e
sequestri. Nemmeno il Norditalia o snodi importanti come Milano e Torino erano più al sicuro dai
tentacoli della legge, come testimoniavano gli ultimi processi e l’inchiesta Aemilia, che li stava
dissanguando tra avvocati e persone da corrompere e far ritrattare. Come da tradizione centenaria, un
terzo dei profitti della ’ndrangheta veniva reinvestito in operazioni criminali, e i rimanenti due terzi
in affari legali, appalti e grandi opere pubbliche. Romeo Labate era certo che fosse questa la chiave
per il vero potere. Ancora qualche anno e sarebbe stato impossibile districarsi fra business legittimi
e illegittimi. Era il traguardo che si erano prefissati quell’anno a Polsi, quando si era parlato del
futuro della Società.

Mentre Eva continuava a snocciolare dati, mostrare immagini, progetti e nominare città che l’uomo
non aveva mai sentito prima e in cui pareva che fosse invece un grosso possidente, Labate elencò
nella propria mente altri dati. L’anno prima il loro fatturato era stato di cinquantatré miliardi di euro.
Più di quello di Deutsche Bank e McDonald’s messi insieme. Da soli sfioravano il quattro per cento
del Pil italiano. Soltanto il traffico di droga si era avvicinato ai venticinque miliardi di euro. Una
stima approssimativa degli affiliati di ’ndrangheta in tutto il mondo si aggirava intorno alle sessanta-
sessantacinquemila unità, divise in quattrocento cosche presenti in trentadue paesi. Se si contavano i
fiancheggiatori e le persone coinvolte con l’Organizzazione, il numero raddoppiava. Un impero.

I giornalisti li dipingevano ancora come terroni con la coppola nascosti sull’Aspromonte, che
uccidevano con la lupara e parlavano soltanto in dialetto stretto; uomini che ancora sequestravano, si
ammazzavano fra loro e chiedevano il pizzo indiscriminatamente, le cui donne si vestivano solo di
nero, col velo in testa, il rosario in mano e un latitante nascosto in cantina. Ignoranti. Gente così era
esistita, certo. Ma trenta, quarant’anni prima. I boss di quella generazione ora erano morti oppure al
41-bis. I nuovi capi erano insospettabili che si tenevano lontani dall’Italia e da giudici pericolosi e
incorruttibili come Gualtieri. Invisibili, dislocati in tutto il mondo: businessmen, speculatori edilizi,
politici, avvocati, capitani d’impresa, imprenditori, ristoratori, che viaggiavano con almeno due o tre
passaporti e i cui soldi erano al sicuro nelle isole off-shore con controlli irrisori, pochi adempimenti
contabili e regimi fiscali vantaggiosi. Alcuni di loro quelle isole le possedevano. Se Gualtieri fosse
stato davvero a conoscenza dell’indotto reale dell’Organizzazione, avrebbe compreso contro quali
interessi stava andando.

“Ma quell’idiota è troppo stupido per capirlo, e con la sua arroganza rischia di mandare a monte
tutto” rifletté Labate. Perché gran parte del successo attuale derivava dai servizi e dalle competenze
di quel genio di Pagani. Ma ora che lui era fuori dai giochi, e dopo le rivelazioni del fornitore
colombiano, stavano correndo un rischio mortale sia a livello economico sia criminale. Per quello
Romeo si trovava in quel ristorante.

Prima di congedarla, Labate incaricò Eva di seguire le linee che gli aveva esposto: rafforzare la loro
presenza immobiliare nei Paesi nordici e in Asia significava fortificarla anche a livello criminale,
quindi le diede la sua benedizione.

Una volta che la donna fu accompagnata fuori, i suoi uomini tornarono con i cinque ospiti che Romeo
aveva convocato d’urgenza. Erano tre evangelisti e due tre quartini: non semplici capicosca, ma
emissari e responsabili di interi Paesi. Al tavolo sedettero gli uomini più importanti di Germania,
Francia, Austria, Olanda e Spagna, al cospetto del delegato non solo dell’Italia, ma della Mamma. In
quel ristorante di lusso erano radunati non sei boss mafiosi, bensì il consiglio direttivo della più
grande multinazionale europea.

«Abbiamo un problema» esordì Labate dopo i saluti di rito. «Un grosso problema…».

“Giungla”

Che razza di uomo è uno che non riesce nemmeno a prendere in braccio suo figlio? Quella domanda
lo stava tormentando. Non gli dava pace. Cercava di non pensarci, ma la mente tornava sempre lì. La
sua parte più profonda, quella più vicina al cuore, voleva che corresse in ospedale, si scusasse con
Miriam e prendesse tra le braccia il piccolo, lasciandosi il resto alle spalle.

“Il passato non si può cambiare. Dimentica. Perdona te stesso e vivi” diceva quella voce.

Ma non poteva. Non poteva dimenticare e non poteva permettere che quanto accaduto con Nicky si
ripetesse. Miriam e il piccolo dovevano vivere le loro vite lontani da lui. Non era più la persona che
tutti credevano fosse. Si vergognava di ciò che aveva dovuto fare e di quello che era diventato. Ma
l’avrebbe rifatto mille volte ancora. Gli avrebbero potuto incidere sulla schiena tutte le croci che
volevano e non gli sarebbe importato, voleva solo arrivare a lei. Solo quello gli importava ora.
«Sei silenzioso» disse Varga strappandolo ai suoi pensieri.

«Già».

«C’entra il bambino?» chiese Giorgio mentre guidava.

«In parte».

«Lo SCO?».

«No, loro no. Non hanno un cazzo, e non hanno la minima idea di come muoversi per la Piscitelli, su
quello non c’è proprio da preoccuparsi».

«Stai pensando a lei, allora… Vatslava».

Mazzeo annuì. «Sono passati quattro mesi e ancora nulla. A volte credo che non la troverò mai. È
quella la sua vendetta. Una tortura psicologica senza fine».

«Le donne sanno fare male più degli uomini» disse Varga.

«Ci puoi scommettere le palle…» ribatté Mazzeo. «Stai attento che nessuno ci segua».

Varga bruciò diversi semafori per assicurarsene.

I due poliziotti rimasero in silenzio finché non arrivarono a destinazione, in una cascina in piena
campagna.

Varga gli fece strada guidandolo in un seminterrato all’interno del casale.

Mazzeo vide un tavolo coperto da un lungo telo. Varga lo sollevò, scoprendo una quantità di armi
sufficiente per un commando di incursori. Fucili AR-5, mitragliette, pistole, MP-5, visori notturni,
fucili di precisione, silenziatori, lanciagranate. Roba militare per la maggior parte. Quell’arsenale
era il comitato di accoglienza per la cecena quando l’avessero trovata.

Biagio annuì, soddisfatto.

«Ho recuperato tutto quello che mi avevi chiesto. È roba irrintracciabile, comprata da contatti
fidati».

«Perfetto» disse Biagio prendendo uno dei fucili.

Varga incrociò le braccia e si appoggiò a una parete. Si domandò se quello fosse il momento adatto
per fargli una domanda che l’aveva tenuto sveglio la notte prima, e alla fine decise di rischiare.

«Ho sentito che ieri hai fatto visita con Carmine ai latinos».
Per un attimo Biagio sollevò gli occhi dalle armi e gli fece cenno di andare avanti.

«E ho sentito anche come li hanno ritrovati… Mocarz, non è quella merda che avevamo sequestrato
insieme?».

«Dove vuoi arrivare?».

«Gli MS-13 erano dei casinisti, dei violenti, ma non ci hanno mai dato fastidio. Ragazzini,
null’altro… mi sembra strano che così d’improvviso abbia deciso di punirli in quel modo…».

Mazzeo non batté ciglio.

«Soprattutto la notte in cui…».

«È nato mio figlio» disse Biagio.

«Già».

Mazzeo fece spallucce soppesando una carabina tedesca. «Ripeto: dove vuoi arrivare?».

«Quando quella notte mi hai chiamato per aiutarti col cadavere della Piscitelli, mi avevi detto che
c’erano delle cose che ancora non potevi dirmi, ma che a tempo debito mi avresti raccontato tutto.
Nel frattempo sono passati quasi tre mesi, Biagio, e ho sempre fatto tutto ciò che mi hai chiesto,
compreso procurarti questa merda».

«E sai quanto te ne sono grato…».

«Lo so. Ma credo che sia il momento di parlarmi chiaramente. Cos’è successo davvero quella
notte?».

Ristorante Kronenhalle,

Zurigo, Svizzera

Una delle regole ataviche dell’Onorata Società dice che per appianare un conflitto è meglio ricorrere
ai soldi, e solo in ultima istanza al sangue.

Romeo Labate si era sempre attenuto a quel dettame.

Ma la pazienza ha un limite.
Anni prima avevano deciso di mettere in piedi un canale di rifornimento da affiancare a quello
colombiano e boliviano. L’idea era di agire su più fronti per avere più spedizioni, confondere gli
sbirri, massimizzare i profitti e minimizzare i rischi. Avevano incaricato Pagani di intercedere con i
narcos messicani, così il broker aveva preso contatti col cartello del Golfo e – dopo la sua
implosione – con il suo ex gruppo armato, i Los Zetas, che aveva il pieno controllo dei porti
messicani di Matamoros, Reynosa e Tampico. Dieci anni più tardi – e ottantamila morti dopo, legati
alla guerra fra narcos e apparati statali –, né il Golfo né gli Zetas esistevano più, annientati da faide
interne, scissioni, esecuzioni e arresti. Ciò che era rimasto degli Zetas si era frammentato in una serie
di piccoli e sanguinari cartelli in conflitto tra loro: Comando Zetas, El Círculo, Unidad Zetas, Grupo
Delta Zetas, Fuerzas Especiales Zetas e dozzine di altri. Avevano ancora il controllo dei porti e del
canale di approvvigionamento con i calabresi, ma il loro potere si era indebolito. Troppo, a quanto
pareva.

Uno degli uomini di Pagani raccontò a Labate che, diversi giorni prima, l’Agencia Federal de
Investigación – equivalente messicano dell’FBI – aveva fatto irruzione nei porti di Matamoros e
Reynosa, ingaggiando uno scontro a fuoco con i narcos della Unidad Zetas di guardia su delle navi
cargo destinate ai calabresi. Secondo i pochi testimoni, i federali avevano portato via i narcos ancora
vivi, mentre a dire dell’uomo di Pagani non era andata proprio così. I cargo erano partiti lo stesso e,
una volta a destinazione, gli uomini del narcobroker avevano condotto le solite operazioni di
trasbordo e stoccaggio dei loro container. Ma quando li avevano portati negli hangar e poi aperti,
dentro, tra la frutta, non ci avevano trovato i quattrocento chili di droga che avrebbero dovuto
esserci, ma sei cadaveri degli Zetas. Mutilati. Le teste in bella mostra fra ananas e noci di cocco. Le
dita e le mani che spuntavano fra le banane. Della cocaina nessuna traccia.

«Cristo…» disse il capo del mandamento tedesco mentre Labate li aggiornava.

«Non possono essere stati i federali» disse il capomandamento della Spagna.

«Sempre se erano davvero federali» rispose Labate. «O forse lo erano, solo che ora lavorano per
Sinaloa, che sta facendo piazza pulita di tutti questi piccoli cartelli, e come sempre usa polizia e
federali o l’esercito come gruppo armato. È il Messico, d’altronde; ogni cosa e ogni persona hanno
un prezzo».

«E perché toccare i nostri carichi?».

«Semplice» rispose Labate. «Ci vogliono tagliare fuori dalla distribuzione».

Perché quello non era stato l’unico affare andato male. Quattro container partiti dal porto colombiano
di Baranquilla, e destinati a Gioia Tauro e Adelaide, erano stati sequestrati. Così come un altro
carico partito dall’Ecuador e diretto a Vigo. E seicento chili della coca di Almeida, partiti dal porto
di Manaus e in viaggio per Rijeka dentro un bastimento che trasportava marmo, erano stati intercettati
e confiscati a metà strada. In totale, quasi tre tonnellate e mezzo di cocaina – per metà pagata in
anticipo – requisite. Una bella botta. E un messaggio esplicito: o lavorate per noi o non lavorate
più.
«Cosa sta succedendo?» chiesero a Labate.

«Non sono sequestri casuali. Questa è un’operazione studiata a tavolino… Secondo me, Sinaloa ha
studiato le rotte di esportazione, gli agganci e i metodi di distribuzione di Pagani, e poi li ha attaccati,
facendoci terra bruciata intorno per dimostrarci che sono loro gli unici interlocutori. Ho provato a
contattare degli uomini di Pagani in Colombia e in Bolivia, più uno a Città del Messico… Nessuno
ha risposto. E credo che non risponderanno mai più».

«Stai dicendo che…».

«Sì, credo che sia stata Sinaloa. Sono stati loro a dare l’imbeccata agli sbirri sulle rotte delle navi, e
penso anche che siano stati loro a fare la spiata su Pagani in Colombia, facendolo arrestare. Mi ci
gioco le palle. Diversamente, non mi spiego come sia stato possibile. Il ragazzo godeva di protezioni
troppo alte per venire ingabbiato così. Il giudice, Gualtieri, è stato manovrato dai messicani».

«Sono illazioni o hai la certezza di quello che dici?».

«Diciamo che per ora ho un presentimento molto forte, e che di solito in queste cose ci azzecco».

«Fin quando c’era Pagani, non si erano mai permessi di fare una cosa del genere».

«Lo so, è per questo che l’hanno fatto arrestare. Vogliono la piazza europea, e la vogliono a tutti i
costi. Sinaloa non vuole essere in affari con noi, non vuole che siamo indipendenti e che compriamo
da loro. Vuole che lavoriamo per loro, a stipendio fisso e facendoci accollare tutti i rischi. Vuole che
diventiamo i loro galoppini in Europa».

«Col cazzo».

«Cosa proponi?».

«Fossi al loro posto, chiuderei i nostri canali di approvvigionamento lasciandoci a secco e


costringendoci a elemosinare la coca. L’hanno già fatto con gli Zetas, subentrando nel controllo dei
porti nel Tamaulipas. Restano Almeida, le bandas criminales, le AUC e le FARC in Colombia, o
quello che ne rimane, e non so quali altri canali Pagani avesse tra i guerriglieri. È questo il problema
principale: Pagani. È lui che sa tutto: come muoversi, con chi parlare, quali fornitori proteggere e chi
sacrificare».

«Ma l’hanno fatto arrestare…».

«Ed è stato il loro colpo di genio; se pensi che avevamo delegato a lui tutta la distribuzione e la
gestione del Sudamerica… Ora non sappiamo a quali fornitori rivolgerci. Di chi fidarci e di chi no».

«E torniamo alla stessa domanda: cosa vuoi fare?» chiese il capomandamento dell’Olanda.

Romeo Labate glielo disse. Perché dove non arrivano i soldi, arriva il sangue.
«Non possiamo permetterci una guerra, e non è nel nostro stile» dissero gli altri. «Non più».

«Lo so. Nemmeno io voglio una guerra, intendiamoci. Ma bisogna mandare un segnale per far capire
che non staremo a guardare mentre ci bruciano i contatti. Perché una crisi finanziaria – e se ci
estromettono dalla distribuzione entriamo chiaramente in crisi – può diventare una crisi politica.
Sarebbe la fine. Abbiamo delle campagne elettorali da portare avanti, sia in Italia sia in Spagna,
giusto?».

Il capomandamento spagnolo assentì.

«Per non parlare degli investimenti in Brasile per le Olimpiadi. Il contante ci sta scivolando via
dalle mani come acqua. E con questo casino del Vaticano e dell’inchiesta Aemilia, i giudici tengono
d’occhio la maggior parte dei nostri conti. Ci stanno aspettando al varco… Il Crimine ha detto di non
toccare quei soldi… Tanto più che con questa cazzo di Mafia Capitale stanno spulciando vecchi
affari in cui siamo stati coinvolti e che potrebbero crearci dei casini. E anche lì ci sarà da ungere un
bel mucchio di persone per insabbiare tutto. Quindi ora abbiamo un bisogno fottuto di liquidità,
intendo vile cash. I soldi della neve ci servono per oliare la macchina amministrativa e politica, lo
sapete, non possiamo continuare a rimetterci di tasca nostra. Come diceva mio padre, senza soldi
non si cantano messe».

«Quindi proponi un’azione dimostrativa?».

«Diciamo così, ma la priorità rimane comunque quella di liberare Pagani, prima possibile. Gli affari
devono ripartire, e lui sa come rimettere le cose in sesto».

Gli uomini si fissarono, poi annuirono uno dopo l’altro.

«Ho la vostra benedizione?».

«Sì».

Labate sciolse la riunione.

La decisione era stata presa.

Si entrava in guerra.

Campagna,

“Giungla”
La vera famiglia non è quella in cui sei nato, ma quella per cui moriresti. Era sempre stato il suo
credo, il motivo per cui aveva costituito il branco.

Varga era più che un collega e un amico. Era un fratello, era la sua famiglia. Per lui avrebbe
sacrificato la sua vita, e sapeva che Giorgio avrebbe fatto lo stesso, gliel’aveva dimostrato svariate
volte.

Meritava una risposta.

«Non ti piacerà» disse Mazzeo.

«La verità fa sempre male» rispose Varga. «Ma se vuoi che ti copra le spalle, devo sapere».

Biagio gli disse di lasciare i telefoni dentro e uscire. Si sedettero sulla balaustra di pietra che
circondava la cascina e per qualche secondo osservarono gli alberi intorno.

Poi gli raccontò cosa aveva provato alla morte di Nicky. Gli rivelò come avrebbe voluto raschiare
via dalla memoria i ricordi di quella notte, ma non poteva farlo. Aveva bisogno della rabbia che essi
liberavano, perché la rabbia era l’unica cosa che lo faceva sentire vivo.

«Ma la rabbia e la vendetta possono portarti alla pazzia. E io, stavo impazzendo. Dovevo trovare
quella puttana, ma non ci riuscivo. Non ero abbastanza potente» disse Biagio fissandosi le mani.
«Così ho chiesto a loro se potevano trovarla».

Varga socchiuse gli occhi e poi con un filo di voce disse: «I calabresi?».

«Sì. Loro potevano trovarla».

«Cristo…».

«Pensavo di poter sistemare la cosa con i soldi, o spacciando la loro coca, al massimo uccidendo
qualcuno. Ma non gli bastava. Volevano di più».

«L’affiliazione».

«Già… Volevano una garanzia di sangue. E mi sono detto, fanculo. Se questo mi permette di trovarla,
va bene, posso passarci sopra…».

Varga lo fissava incredulo.

«Mi hanno portato al largo su un motoscafo, e mi hanno affiliato come santista. Mi hanno fatto
uccidere uno, non ho idea di chi fosse, e sono diventato uno di loro. Labate era lì, gli altri non so chi
cazzo fossero. Gente importante, comunque… avevo detto alla Piscitelli cosa stavo per fare, l’avevo
convinta che agendo come infiltrato potevo esserle molto utile, potevo distruggere le cosche
dall’interno. Ma erano tutte cazzate solo per trascinarla all’incontro. Quando l’ho vista l’ho uccisa
affinché quei bastardi non avessero più un referente come lei e potessero trattare con me alla pari:
volevo prendere il suo posto… Somma a questo il fatto che la troia era responsabile della morte di
Claudia e in qualche modo del tradimento di Oscar, e puoi capire quanto poco ci ho messo a decidere
di farla fuori… Ma il rapporto, anche dopo che l’ho uccisa, non è mai stato alla pari… Loro sanno
dov’è, ma non me lo dicono perché vogliono strizzarmi il più possibile, credo. Perlomeno, è quello
che farei io al loro posto, e al tempo stesso io non posso fare più di tanto perché mi tengono per le
palle».

Varga era senza parole. In passato si erano sporcati, avevano sempre oltrepassato le regole, usato il
pugno duro, ma dentro erano rimasti poliziotti.

Ora Biagio gli stava dicendo che non lo era più. Si era venduto alla ’ndrangheta. Era passato dalla
loro parte. E Varga sapeva che non c’era modo di tornare indietro. Non sulle proprie gambe.

«Ho sistemato quei ragazzini perché sono stati loro a chiedermelo».

«Quindi la foto che mi avevi fatto vedere quella notte, quella di Vatslava in Oriente…».

«Me l’hanno data loro, sì. L’hanno beccata lì. Mi hanno dato altre foto, sempre scattate in quella
zona. Credo che si stia nascondendo là, protetta dalle triadi o qualcosa del genere».

Osservarono un aereo di linea attraversare il cielo di un celeste innaturale.

«Mi dispiace, ragazzo. Non ti ho detto nulla perché questa è una cosa che riguarda solo me».

«Non è vero. Riguarda anche me, riguarda tutti noi… però… Cazzo, Biagio, è la ’ndrangheta.
Saranno anche di una cosca diversa, ma è la stessa gente che ha ammazzato Santo. Ieri ti hanno
chiesto di uccidere dei mareros del cazzo, ma domani potrebbero chiederti di freddare me, o
Carmine, o uno qualsiasi di noi. Cosa cazzo faresti a quel punto?».

Biagio non rispose.

Zurigo, Svizzera

Una volta in macchina, Romeo Labate estrasse il cellulare e fece due chiamate.

L’Australia e il Canada erano diventate a tal punto delle colonie di ’ndrangheta da formare un
Crimine a sé stante, suddiviso in sei mandamenti ciascuno che si coordinavano con quello di Polsi,
in Calabria. Labate si mise in contatto con i mandamenti più importanti dei due Paesi.

In seguito a quelle chiamate, cellule di soldati dormienti lasciarono l’assolata Gold Coast e la fredda
Toronto e si misero in viaggio per il Messico e la bassa California.

Labate chiamò anche un cugino a New York e gli anticipò, in dialetto stretto, che avrebbe dovuto fare
un lavoro per lui, poi, finalmente, spense il cellulare. Era stanco, ma soddisfatto della riunione.

Ora però aveva un grande problema.

Doveva trovare Pagani e liberarlo.

A qualsiasi costo.

Diede ordine agli uomini in auto con lui di fare pressione su tutte le persone sotto il loro controllo,
nella polizia, nelle procure locali, nella procura generale, nelle direzioni antimafia e in parlamento.
Disse anche di far girare voce presso i referenti napoletani e siciliani che se volevano continuare ad
approvvigionarsi dalle loro scorte di coca, dovevano aiutarli a trovare la località in cui era tenuto
nascosto il broker. La macchina tentacolare della ’ndrangheta si doveva mettere in moto con tutto il
suo potere di infiltrazione.

Poi rifletté che c’era una persona che forse più di tutte poteva scoprire dove l’avessero nascosto.
Una persona che in passato si era rivelata determinante.

Labate prese un altro telefonino. Cercò l’ultima foto di Vatslava Ivankov che i suoi contatti nel Sudest
asiatico gli avevano spedito dal luogo dove la cecena si era rintanata con il suo piccolo esercito di
guardie del corpo.

La inviò a Biagio Mazzeo con un messaggio: Ho bisogno che mi trovi una persona. Se ci riesci, ti
dico dove si sta nascondendo la troia e ti aiutiamo a farla fuori.

Il poliziotto lo richiamò dopo nemmeno un minuto.

«Ti ascolto» disse lo sbirro appena Labate rispose.

Il calabrese sorrise.

Campagna,

“Giungla”

Mazzeo rinfoderò il cellulare. Varga finì di sistemare alcune armi dentro dei borsoni che nascose in
un armadio a muro, poi si voltò verso il collega.
«Erano loro?» chiese.

«Sì».

Biagio gli mostrò la foto di Vatslava che gli avevano inviato.

«Vogliono che trovi uno per loro».

L’albino gli restituì il telefono. «Chi?».

«Un sorvegliato speciale, uno che sta in una località sicura, custodito credo dal Servizio Centrale di
Protezione».

«Una passeggiata, insomma… E dopo?».

«Devo consegnarglielo e mi diranno dov’è quella puttana».

«A questo punto cos’hai da perdere? Facciamolo».

«Se vogliono che lo trovi con tutta questa fretta significa che hanno paura che parli. Una volta che
glielo consegnerò è probabile che lo uccidano».

«Credi che un cadavere in più o in meno possa cambiare qualcosa?».

Mazzeo sorrise.

«Sei tu quello più saggio, quello che dà i consigli, Biagio. Ma ora lascia che sia io a dartene uno…
Troviamo questo figlio di puttana, glielo consegniamo, ci facciamo dire dove cazzo è Vatslava, le
facciamo il servizio e poi ce ne andiamo da questo cazzo di posto. Ce ne andiamo lontano, dove non
ci possono scovare. E ti porti dietro Miriam e il bambino. Se lo meritano e te lo meriti… basta con
questa vita. Non so tu, ma io non ne posso più».

Per qualche secondo Biagio s’illuse che potesse funzionare. Sarebbe stato bello. Non doversi più
guardare le spalle. Non avere più incubi. Tornare a sentirsi vivo.

«Non voglio che entri anche tu in questo cazzo di…».

«Basta con le stronzate. Ho raccolto i resti di Nicky con queste mani. In questa storia ci sono dentro
fino al collo, che tu lo voglia o meno».

«Sei un vero amico».

Varga gli si fece vicino e gli porse la mano. «Niente più segreti, ok?».

Mazzeo gliela strinse. «Niente più segreti».


Si abbracciarono forte e uscirono dalla cascina.

«Dimmi una cosa» disse poi Biagio mentre l’albino guidava attraverso le strade di campagna. «Mio
figlio… tu l’hai preso in braccio?».

Varga lo fissò di sfuggita e annuì.

«Cosa si prova?».

«È strano. È come tenere in braccio un angelo. È una delle sensazioni più belle che abbia mai
provato».

Mazzeo sorrise e si ripromise di chiudere in fretta quella faccenda.

Non vedeva l’ora di stringere suo figlio.

Sarebbe dovuto morire. Ogni volta che si fissava nudo allo specchio le cicatrici ancora fresche gli
ricordavano che sarebbe dovuto morire quattro mesi prima. E sarebbe stato giusto così, perché non si
meritava di vivere. Eppure, come se il destino volesse in quel modo punirlo, era scampato
all’agguato. Era sopravvissuto alla raffica di proiettili. Dieci, per la precisione. Il piombo gli aveva
strappato le carni ma non il cuore. Quello aveva continuato a battere, imperterrito. Cuore di pantera,
l’aveva definito Biagio. L’ispettore Vito Filomena alle parole del collega aveva sorriso, ma dentro
era rabbrividito. Il suo era il cuore di un traditore, non di un eroe. Ed era un segreto di cui solo lui
era a conoscenza. Dopo la scomparsa di Irene Piscitelli, che l’aveva costretto a tradire la squadra
con la minaccia di sbatterlo dentro, Vito si era sentito più al sicuro. Solo lei era a conoscenza del suo
doppio gioco, e ora che era fuori dai giochi, il poliziotto era tranquillo. Ma non significava che
stesse bene. In bocca sentiva ancora il sapore immondo del tradimento, e non c’era nulla che potesse
lavarlo via. Tradendo il branco, aveva facilitato i piani della Piscitelli, che si era vendicata su
Biagio facendogli uccidere Oscar, portandolo a credere che fosse lui la spia. Ma non era vero.
Biagio aveva ucciso la persona sbagliata.

E proprio quando aveva iniziato a sentirsi più tranquillo con la Piscitelli fuori dai giochi, il passato
era venuto a bussare alla sua porta, nella persona di Romeo Labate.

Lo ’ndranghetista si era presentato una settimana dopoche lo avevano dimesso dall’ospedale, con i
suoi uomini e un mazzo di fiori.

«Mi hanno detto che sei stato poco bene» aveva detto porgendogli il bouquet. Erano crisantemi.

Vito Filomena aveva quasi sperato che fosse lì per ucciderlo.

Troppo facile.
Labate gli aveva detto che la Piscitelli era stata una sua marionetta. L’aveva legata a sé,
manovrandola e ricattandola al punto che per lui non aveva più nessun segreto. Sapeva tutto, Labate,
su Oscar, sull’assassino della donna da parte di Biagio, ma soprattutto sapeva tutto di lui.

«Tramite lei, so che eri diventato una sua spia» aveva detto.

Vito si era lasciato cadere su una poltrona, annientato da quella rivelazione.

«So che hai tradito Mazzeo. So che hai tradito la tua squadra, e che sul tuo infamare pesa anche la
morte collaterale di Oscar Fortunato… sbaglio?».

Vito aveva scosso la testa.

«Le cose sono due. O io me ne vado da qui con questi fiori e li butto nel primo cestino. O te li lascio,
e se non collabori con me Mazzeo saprà cos’hai fatto, e i fiori finiranno sulla tua tomba… Che
facciamo?».

«Cosa vuoi?».

«Voglio che continui a fare ciò che a quanto pare sai fare meglio: il topo di fogna. Tieni d’occhio
Mazzeo da parte mia e mi riferisci tutte le sue mosse, tutto ciò che ti dice, foss’anche quante volte va
al cesso. Tutto… e se io ti chiamo, tu rispondi. Sempre. In qualsiasi momento, mi spiego, sbirretto?».

Filomena aveva chiuso gli occhi. Proprio quando aveva creduto di essere tornato libero, era invece
più prigioniero di prima. Era solo un cane che aveva cambiato padrone. Ma il guinzaglio e la catena
erano gli stessi: l’acciaio inossidabile di cui è composto il ricatto.

«Va bene» aveva sussurato con voce da Giuda.

«Bravo, Filomena, bravo. Ricorda, ogni cazzo di cosa che Mazzeo faccia, ti dica o ti chieda di fare,
intesi?».

Vito aveva annuito e Labate se n’era andato con i suoi uomini e con i fiori, salvo poi fermarsi,
voltarsi e mostrargli su un cellulare la foto di suo figlio: «Carino il piccolo. Cresce che è una
meraviglia, vero? Devo dire che t’assomiglia pure… spero solo che non diventi un sorcio anche
lui…».

Vito Filomena si era sentito gelare.

«Niente scherzi, Filome’» aveva detto Labate, questa volta lapidario, rinfoderando lo smartphone.

«Ho capito. Niente scherzi».

Il poliziotto era diventato gli occhi e le orecchie dei calabresi all’interno della Narco. E non c’era
modo per uscire da quella situazione.
O meglio, uno c’era.

Ma Vito Filomena era troppo codardo per metterlo in atto.

Il fatto di non avere una lapide su cui piangerla doveva renderlo ancora più tormentato. Non avevano
denunciato ciò che era accaduto realmente, ma solo la sua scomparsa. Per la legge Nicky era una
delle tante ragazzine fuggite chissà dove. Una sbandata. Un nome nei database alla sezione
scomparsi.

Se ci fosse stata una bara a contenere la sua anima e il suo ricordo, forse sarebbe stato diverso.
Senza, invece, era come se fosse ovunque. Quantomeno per Biagio, che ora era diventato un uomo
diverso, ossessionato dai fantasmi. Lei che lo conosceva più di chiunque se ne rendeva conto da ogni
gesto, da ogni parola, dagli sguardi freddi, senz’anima.

Se ci fosse stata giustizia a quel mondo, Donna ora avrebbe dovuto essere sotto un metro di terra.
Perché era stata lei ad aiutare Vatslava a vendicarsi. Non che avesse avuto scelta: la cecena si era
presentata a casa sua con uomini armati e poco inclini al dialogo. Però, in quel momento, aveva
voluto vendicarsi di Biagio per il dolore che le aveva arrecato; per averla sbattuta in un angolo, per
averla umiliata mettendosi con quella stronza di Miriam, per aver calpestato il suo amore. Ma
soprattutto perché odiava Nicky. Provava invidia per come quello scricciolo avesse le chiavi del suo
cuore. L’amore puro che Biagio aveva provato per Nicky era qualcosa che Donna avrebbe voluto per
sé. Sarebbe morta per un amore del genere. La gelosia era stata troppo forte. Così, come aveva fatto
mesi prima con Sonja, la ragazza di Biagio, aveva portato Nicky alla morte con le sue rivelazioni. Ed
era stata una brutta morte. Biagio aveva assistito a tutto, impotente. Lei era lì quella notte. Seduta in
un fuoristrada dai vetri oscurati da cui l’aveva visto dibattersi come una bestia impazzita, mentre il
cadavere della ragazzina bruciava a pochi passi da lui. Vatslava le aveva assicurato che l’avrebbe
risparmiato, era stata quella la base del loro accordo. Guardandolo, certi giorni Donna avrebbe
preferito che l’avesse ucciso. O meglio, che avesse ammazzato anche il suo corpo, perché la sua
anima era morta quella notte.

L’indomani se l’era ritrovato a casa, distrutto, svuotato di qualsiasi sentimento che non fosse la
rabbia o l’odio. Donna aveva pensato che avesse capito tutto, che fosse lì per ucciderla, e quasi
aveva provato sollievo. Ma non era lì per ucciderla. Era lì per chiedere il suo sostegno, per aiutarlo
a riprendersi. E così aveva fatto. Si era occupata lei delle famiglie dei poliziotti del branco, abbattuti
dalle morti che avevano investito la squadra. Era stata lei a tenerli uniti, a dare loro coraggio, mentre
lui cercava la cecena con la bava alla bocca. Era sempre stato quello il suo ruolo: la matriarca, la
versione di Biagio al femminile. Era stato bello avere di nuovo qualcosa da fare, essere tornata a
stretto contatto con lui, sebbene non fosse più quello di prima.

Però Donna viveva con l’incubo che Vatslava ricomparisse sputando in faccia a Biagio la verità.
Sapeva che lui la stava cercando dappertutto ormai da mesi, così come era certa che la cecena non si
sarebbe mai fatta trovare.
Ma se si fosse sbagliata? Se fosse davvero riuscito a trovarla? Vatslava avrebbe parlato pur di fargli
ancora più male. E per Donna sarebbe stato meglio tagliarsi la gola con le proprie mani piuttosto che
vedere l’odio smisurato negli occhi di Biagio.

L’uomo che amava.

L’uomo che aveva sempre amato.

A costo di uccidere.

Perché Donna aveva ucciso per lui.

E avrebbe ucciso ancora.

E ancora…
C’EST LA GUERRE
Qualche giorno dopo,

Brooklyn, New York

Jesús Gutierrez aveva notato subito la ragazza bionda al bancone del bar. Ci stava dando dentro con i
drink. Si chiese perché mai una tipa così bella e di classe fosse sola o chi fosse l’idiota che le aveva
dato buca. Da come era prona sul bancone e si reggeva la testa, capì che era ubriaca. Soppesò l’idea
di avvicinarla e invitarla al suo tavolo, ma decise di farlo dopo una visita al bagno. Tutti quei
Martini e lo spumante gli avevano messo voglia di pisciare. Era da quasi una settimana che
trascorreva le notti fra un locale e l’altro da Manhattan a Brooklyn per festeggiare la fuga di suo zio
dal carcere federale. Jesús era l’uomo che si occupava dello smistamento del prodotto a New York e
da lì in tutta l’East Coast. Gestiva un business da circa quaranta milioni di dollari al mese. Non male
per un giovane messicano di Badiraguato. Lasciò gli amici chiassosi e festanti che si passavano
l’ennesima bottiglia di Dom Pérignon, e si avviò verso i bagni facendo cenno alle guardie del corpo,
sobrie e annoiate, che andava a farsi una pisciata e una tiratina. Anche lui era stanco di tutto quel
festeggiare. Era la sua ultima notte libera: dall’indomani avrebbe ripreso a lavorare duramente. Suo
zio aveva grandi progetti, e Jesús era uno degli attori principali.

Mentre si sgrullava l’uccello davanti a uno dei pacchiani orinatoi placcati in oro, sentì la porta
aprirsi e riflessa sul metallo lucido vide l’immagine slanciata della bionda che entrava barcollando
nel bagno.

“Madre de Dios…” pensò accelerando il processo di scrollatura e rinfoderando l’attrezzo. Che fosse
uno scherzo dei suoi amici?, si chiese.

Si voltò e sorrise alla ragazza spaesata.

«Credo che hai sbagliato bagno. È quello degli uomini… tutto bene?».

La bionda lo fissò come se non riuscisse a metterlo a fuoco. Stringeva in mano una borsetta così
piccola che al massimo poteva contenere un cellulare e un rossetto. Aveva due occhi azzurri spiritati
dall’alcool.

Senza dire una parola fece dietrofront, diretta all’uscita, ma perse l’equilibrio e cadde a terra. Ovvio
con tutto quell’alcool in corpo e almeno dieci centimetri di tacchi.

Jesús le si avvicinò e l’aiutò ad alzarsi, restituendole la borsetta.

«Ehi, tutto ok? Stai male?» le chiese.


«De-devo vomitare…» biascicò la yankee.

«Ok, vieni, ci penso io» disse il narco sorreggendola per un braccio e posandole una mano sul culo
sodo.

«Devo vomitare…» ripeté la ragazza.

«Lo so, l’ho capito… un secondo di pazienza e ci siamo» disse lui aprendo la porta di uno dei bagni,
strizzandole per bene il sedere. «Come ti chiami?».

«A-Amy… devo vomitare…».

«Madre mia, l’ho capito, tía. Un secondo».

Mentre Jesús si sporse per tirare su la tavoletta del cesso e la porta alle loro spalle si richiudeva,
sfilò il fermaglio dall’acconciatura e con un movimento secco lo usò per aprire la gola del messicano
da una parte all’altra. Il fermacapelli nascondeva una lama a scatto. Afferrò il narco per i capelli
impomatati, manovrandogli la testa di modo che il sangue schizzasse dentro la tazza. Si stupì di come
il rumore di quell’operazione fosse quasi identico a quello di qualcuno che si stava liberando la
vescica.

Jesús Gutierrez crollò sulle ginocchia cercando di portarsi le mani tremanti alla gola, ma non ci
riuscì: morì prima. Le gambe continuarono per qualche secondo a sussultare come la coda mozzata di
una lucertola.

La bionda seguitò a sostenergli il capo pesante lasciando il sangue sgocciolare nell’acqua. Una volta
finito, gli lasciò la testa, che crollò dentro la tazza, e aprì la borsetta. Non conteneva un cellulare e un
rossetto ma un paio di forbici da elettricista e una bustina di plastica. Afferrò con le dita il lobo
sinistro del messicano che all’interno del padiglione auricolare si era fatto tatuare una “S” in stile
gotico e gli mozzò l’orecchio. Lo infilò nella busta e rimise tutto dentro. Raccolse il fermaglio,
ripulendolo sulla giacca di Tom Ford del narco. Si lavò le mani controllandosi per bene negli
specchi e si risistemò i capelli mentre una musica lounge rimbombava nella toilette. Uscì dopo
essersi assicurata di non avere tracce di sangue addosso

Simulò l’andatura da ubriaca, si confuse tra le ragazze che ballavano al centro della sala e
abbandonò il locale.

Una Mercedes nera la stava aspettando col motore acceso. Una volta dentro, l’autista partì, guidando
veloce verso la periferia.

«Tutto a posto?» chiese un uomo seduto sul sedile posteriore.

La ragazza si tolse la parrucca bionda e le lenti a contatto azzurre, rivelando due intensi occhi scuri.

«Sì».
«Sicura che fosse lui?» chiese l’altro in italiano.

Lei aprì la borsetta e gli porse la bustina con l’orecchio tatuato di Gutierrez. «Tu che dici?».

L’uomo prese la bustina e la infilò in una busta da lettera imbottita già affrancata e con l’indirizzo del
destinatario vergato con grafia elegante. La chiuse e poi, appena la Mercedes si fermò, scese
dall’auto e la inserì in una delle cassette grigio piombo della U.S. Mail.

«Vài» disse all’autista tornando a bordo. Avrebbe pagato oro per vedere l’espressione del ricevente
quando la lettera fosse arrivata a Sinaloa in uno dei suoi night di Mazatlán.

Estrasse il cellulare e mandò un messaggio in Italia a suo cugino Romeo Labate:

L’orecchio è partito.

Distretto di polizia di El Monte,

Contea di Los Angeles, California

Uccidere la manovalanza non serve a niente. Non è ammazzando dei sicarios che si danneggia
un’organizzazione come il Cartello di Sinaloa. Tantomeno eliminando pusher di strada o
fiancheggiatori del Cartello. Si sprecherebbero soltanto tempo e proiettili.

Ogni organizzazione criminale che si rispetti lo sa: se vuoi fare davvero male, non uccidi la
manodopera.

Ammazzi i contabili.

Banchieri, broker, ragionieri, consulenti finanziari, commercialisti, amministratori. È a loro che devi
fare il servizio. Perché i narcos sono bravi a trafficare, trattare sui prezzi, assassinare, torturare, ma
di economia, finanza e riciclaggio sanno poco. Si affidano agli specialisti, i migliori sulla piazza. E
se mandi in black-out il loro circuito finanziario, allora sì che fai un danno. Allora sì che pungi nel
vivo e attiri l’attenzione. Perché i bravi broker, con fiuto, palle e sprezzo della legge, sono merce
rara.

Roger Downey era uno di quelli. Ed era essenziale per la sopravvivenza del Cartello: ne gestiva il
patrimonio finanziario, ne curava gli interessi in California e riciclava il denaro attraverso banche
compiacenti e società di investimento.

I killer calabresi partiti dall’Australia parcheggiarono la sua Bentley davanti al distretto di polizia di
El Monte, la città in cui Downey viveva, e lasciarono il cofano posteriore aperto prima di salire su
un’altra macchina e sparire nel nulla.

Due ore dopo, Freddy Avila, un sergente che aveva appena finito il turno, uscendo dalla centrale notò
quell’auto di lusso con il cofano aperto. Si avvicinò, attirato da un ronzio basso, quasi elettrico.
Quando aprì il baule, interrompendo il gozzovigliare delle mosche, per prima cosa vide le dita
mozzate che uscivano dalla bocca della testa mutilata. Poi le restanti parti del cadavere, amputate e
mischiate come tessere di un macabro puzzle.

Avila vomitò sul marciapiede, poi corse a chiamare i colleghi.

Quasi contemporaneamente, altrettanti cadaveri furono trovati in bauli di auto parcheggiate davanti a
stazioni di polizia, dipartimenti dello sceriffo e semplici distretti, a Pasadena, Covina, San Dimas e
San Bernardino. Tutti broker e consulenti finanziari sul libro paga di Sinaloa. Tutti con le dita
mozzate in bocca. Nessun segno di rivendicazione. Non ce n’era bisogno. Chi doveva capire avrebbe
capito.

I calabresi avevano agito sul suolo americano per fare un danno ancora maggiore.

Perché in Messico i cadaveri brutalizzati in quel modo erano all’ordine del giorno.

In California, no.

Mar dei Caraibi, Santo Domingo,

Repubblica Dominicana

Data la posizione strategica fra l’Atlantico e il Mar dei Caraibi, negli ultimi anni Santo Domingo era
diventata una portaerei della cocaina che arrivava dal Venezuela e dalla Colombia. Dopo il Messico,
era il secondo punto preferito da Sinaloa per introdurre il prodotto negli Stati Uniti, via Miami. Il
metodo era consolidato: aerei da turismo provenienti da Colombia, Venezuela o Nicaragua
transitavano sul Mar dei Caraibi a qualche chilometro dalle spiagge di Santo Domingo; volando
molto bassi per tenersi fuori dallo spettro dei radar, lanciavano la cocaina chiusa in grossi sacchi
impermeabili contenenti dei localizzatori GPS. A seconda del periodo o dei controlli effettuati dalle
autorità, i charter lasciavano cadere la droga in mare o sulla terraferma, dopodiché gli uomini del
cartello, muniti di scanner, recuperavano le sacche e si dileguavano. Il carico frazionato in più parti
avrebbe poi raggiunto l’altro lato dell’isola, da dove piccole barche a vela, motoscafi e pescherecci
avrebbero raggiunto le coste della Florida.

Un meccanismo perfetto nella sua semplicità.

A occuparsi del trasbordo per conto dei messicani era Arturo Toledo. Quella notte il carico sarebbe
caduto in mare a circa venticinque chilometri da Santo Domingo. Arturo era un uomo la cui
previdenza rasentava la paranoia, uno dei tratti che El Padrino apprezzava di più nei propri
dipendenti. Non appena ricevette le coordinate del punto di atterraggio, fece passare come sempre un
paio d’ore prima di mandare motoscafi e sub a prendere le sacche, per non incrociare i mezzi della
Guardia Costiera insospettiti dal volo radente del charter.

Quando l’uomo costantemente all’ascolto degli scanner della Guardia marittima e delle autorità
portuali gli confermò che nessuno ronzava intorno all’area di scarico, Toledo diede ordine di
recuperare la merce. Come al solito, seguì le operazioni in diretta telefonica da un ristorante in Calle
Santiago; erano lontani i tempi in cui doveva infilare i suoi novantotto chili in mute sempre troppo
strette per raccattare i pacchi piovuti dal cielo. Aveva fatto carriera, Toledo. Ora era l’uomo a terra,
doveva solo dare ordini.

Qualche minuto più tardi, uno dei cellulari prese a vibrare.

«Problemi?» chiese.

«No, o meglio, non lo so… Uno dei sub dice che i pacchi sono più pesanti. Il peso dev’essere lo
stesso di sempre?» domandò uno dei suoi sottoposti.

«Claro».

«Strano… Vuoi che dia un’occhiata?».

«È tutto tranquillo lì in acqua?».

«Non vola una mosca…».

«Allora sì, controlla. Non si sa mai…».

«Aspetta un attimo, li faccio aprire».

Toledo rimase in attesa, chiedendosi come mai avessero aumentato il peso del carico senza dirglielo.
Il cartello in genere comunicava tempestivamente la minima variazione nelle consegne. Arturo non
amava quel genere di imprevisti.

«Cristo…» sussurrò il suo uomo.

«Che c’è?».

«La merce… non c’è…».


«Che vuol dire, non c’è? E cosa ci sta dentro?».

«…».

«Heriberto? Che cazzo c’è dentro?».

«Teste… Oh, madre mia, ci sono le loro teste…. Gli hanno tagliato le cazzo di teste!».

Arturo Toledo sentì la cena andargli di traverso.

Schaan, Liechtenstein

La sacca sportiva in tela pesava due chili e duecento grammi. Conteneva duemila banconote da
cinquecento euro: un milione. Soldi puliti e ripuliti, passati attraverso conti correnti bancari intestati
a terzi o società a responsabilità limitata, poi investiti in buoni del tesoro, fondi, azioni e polizze
assicurative. Soldi vergini, irrintracciabili, che avevano viaggiato telematicamente dal Messico
attraverso gli Stati Uniti e il Canada, passando per Italia, Francia e Inghilterra fino a materializzarsi
in quella sala privata di uno dei migliori ristoranti di Schaan.

Luís Fuentes passò la borsa ai due interlocutori italiani.

In Messico erano sette i principali cartelli che si contendevano il mercato della droga. Tra questi,
Sinaloa, Sonora, il Golfo e la Familia Michoacán avevano dato vita alla Nueva Federacíon, una
consorteria criminale che dettava legge sul narcotraffico messicano e in cui Sinaloa, appoggiata
seppur non ufficialmente da apparati governativi, la faceva da padrone guidando la guerra contro i
rivali storici: i Los Zetas, o ciò che ne rimaneva dopo le infinite scissioni.

Fuentes era stato mandato dalla dirección, l’esecutivo della Federazione, per trovare un accordo con
alcune ’ndrine considerate da El Padrino “ribelli” a San Luca. Quel milione di euro era il prezzo da
pagare per l’incontro segreto. Briciole per il numero uno di Sinaloa, che si stimava guadagnasse tre
miliardi di dollari all’anno, che però evidentemente non gli bastavano: El Padrino voleva entrare nel
mercato europeo, ed era disposto a tutto pur di ampliare la propria sfera di potere, anche creare una
guerra interna nella mafia calabrese, destabilizzandola, soprattutto ora che era evaso da Altiplano –
il carcere di massima sicurezza nei pressi di Città del Messico – e che smaniava per riprendere le
redini della Federacíon. Nonostante Fuentes e gli altri consiglieri cercassero di fargli capire che i
calabresi erano persone particolari, il narco continuava a trattarli come fossero suoi dipendenti,
persuaso che i soldi possono comprare qualsiasi cosa. Ma ci sono cose che non hanno prezzo.
L’onore, per esempio.
Mentre i camerieri servivano aragoste, ostriche e altre prelibatezze, Fuentes esponeva ai calabresi i
vantaggi di una collaborazione, cercando di ingraziarseli e promettendo che il ruolo che era stato di
Pagani sarebbe diventato loro. Una joint-venture Messico-Calabria li avrebbe fatti diventare tutti
schifosamente ricchi: era questo che El Padrino sognava.

Fuentes ancora non sapeva degli omicidi dei broker del cartello a El Monte, e nemmeno
dell’uccisione di Jesús a New York o di quanto accaduto a Santo Domingo.

La chiamata che avrebbe dovuto avvisarlo di squagliarsela arrivò troppo tardi.

Due camerieri sollevarono i coperchi dai grossi piatta di portata; ma anziché ostriche, sui vassoi in
argento erano posati due fucili MP-5 silenziati.

Le guardie del corpo di Luís si accorsero della trappola con un secondo di ritardo. Le mani oleose di
crostacei scivolarono sulle pistole, perdendo la presa.

I killer mandati da Labate falciarono Fuentes e la sua scorta, mentre i due trafficanti calabresi
lasciarono il ristorante attraverso le cucine, portandosi dietro il milione.

Uno dei sicari travestiti da camerieri estrasse il cellulare e scattò una foto ai cadaveri, spedendola in
Italia. Prima di fuggire, con calma afferrò un’ostrica, la cosparse di succo di limone e la succhiò via
con un rumore osceno. Scagliò il guscio contro il corpo del messicano e seguì gli altri passando per
le cucine.

I cuochi continuarono indifferenti a cucinare, come fossero abituati a vedere un commando armato
correre tra fornelli e frigoriferi.

Ogni poliziotto è figlio di qualcuno. Ogni poliziotto ha una madre, un padre, un fratello. Ogni sbirro
ama qualcuno. Moglie, fidanzata, amante, figli, animali. Tutti, agenti o dirigenti, hanno delle
debolezze. Soldi, gioco, sesso, droga. Ogni uomo e ogni donna in divisa ha dei segreti. Peccati
inconfessabili, tradimenti, debiti, mazzette, gelosie, bugie per avanzamenti di carriera, pedofilia. Che
sia il piantone della questura o il dirigente che punta a una poltrona al Viminale, tutti desiderano e
vivono per qualcosa o qualcuno. E così come tutti bramano qualcosa, tutti temono qualcos’altro.

Tutti.

Anche gli agenti del Servizio Centrale di Protezione.

Verona, Veneto
Mazzeo si era dato da fare. La notte delle pantere, oltre ad aver spazzato via Pugliese, gli aveva
permesso di maturare una lunga serie di crediti all’interno delle forze dell’ordine. Tantissimi
poliziotti, dirigenti e magistrati avevano fatto carriera grazie alle soffiate dell’ispettore della Narco.
E ora era arrivato il tempo di riscuotere.

Biagio non era riuscito a scoprire dove era tenuto nascosto Roberto Pagani.

Era stato impossibile anche per lui.

Però, grazie a una fonte, aveva scoperto l’identità di uno dei cinque agenti deputati alla sua scorta.

Era a casa sua in quel momento. Una maschera a forma di teschio gli copriva il volto. Puntava una
pistola contro la giovane moglie di Andrea Fontana, il sovrintendente capo che da qualche parte
vegliava sull’incolumità del narcobroker. Lui e Varga avevano fatto irruzione in casa della moglie
con le pistole spianate e le maschere da film horror a nascondere i volti. Le avevano intimato di fare
silenzio e mentre Biagio la teneva sotto tiro, Varga aveva perquisito velocemente le stanze,
assicurandosi che non ci fosse nessun altro.

Viviana, così si chiamava la donna, era incinta al quarto mese. Mazzeo sapeva che questo avrebbe
reso le cose molto più semplici. Agli agenti di scorta non era permesso avere telefoni personali in
servizio di protezione, ma per Fontana, vista la gravidanza della moglie, avrebbero concesso
un’eccezione, ne era quasi certo.

Mazzeo prese il cellulare della donna e glielo porse.

«Tuo marito. Chiamalo» ordinò.

Viviana obbedì. Con dita tremanti inserì il codice per sbloccare il telefono e chiamò Fontana.

«Non-non risponde… di solito mi richiama dopo un po’…».

«La prima regola se non vuoi morire è la sincerità. Se menti, sappi che morirai. Non vogliamo fare
del male né a te né a lui né tantomeno al bambino. Ho solo bisogno di un’informazione. Ma se non me
la darà, ti faremo molto male, capito?».

La donna in lacrime fece un cenno affermativo con il capo.

Mentre aspettavano, Mazzeo si fece dire tutti i nomi dei parenti più stretti del poliziotto compreso
l’indirizzo. Genitori, fratelli, nipoti, amici d’infanzia. Varga buttò giù i nomi su un foglio e glieli
passò.

Qualche minuto dopo il cellulare vibrò. Fontana.

Rispose Biagio. La voce contraffatta dal tessuto della maschera. «Ho tua moglie, allontanati dai tuoi
colleghi perché se parli o fai qualche cenno la uccido subito».

«Dammi solo un attimo…» disse l’uomo della scorta, la voce gelida e smarrita.

Biagio passò il telefono alla donna e la fece parlare per qualche secondo col marito, poi riprese in
mano il cellulare e si spostò in cucina, chiudendo la porta.

«Le cose sono due, o collabori con noi, o sventro tua moglie e quando torni ti faccio trovare il feto
sul tuo bel tavolo rotondo dalla tovaglia rosa merlettata».

«Come hai fatto a…».

«Collabori o devo ucciderla?».

«Collaboro».

«Bene. Poche e semplici regole: terrò tua moglie fino a quando non libererò Pagani. Se qualcosa va
storto, lei muore. Se tu parli con qualcuno, lei muore, e morirà soffrendo. Ora stai zitto e ascolta».

Mazzeo estrasse il foglio e lesse i nomi di tutti i suoi parenti.

«Se qualcosa va male» disse quando ebbe terminato di leggere i nomi sulla lista, «oltre a tua moglie
ce la prenderemo con queste persone… Questo se tu decidi di non collaborare o giocare sporco.
Siamo gente di ’ndrangheta, non cazzoni. Quindi se ce la metti in culo, sai che te la faremo pagare,
giusto?».

«Sì».

«Questi sono i patti: ho bisogno dell’indirizzo esatto di dove lo state nascondendo. Ho bisogno di
sapere quanti siete, i turni di guardia, gli accessi, le misure di sicurezza, i punti deboli, le frequenze
radio. Ti assicuro che faremo le cose per bene. Se mi dai tutte le informazioni che ti chiedo, ti do la
mia parola che né tu né nessuno dei tuoi colleghi si farà male. Siamo professionisti. Vogliamo solo il
prigioniero. Una volta che lo portiamo via, una, due ore dopo liberiamo tua moglie e nessuno saprà
che sei stato tu a dare l’imbeccata sul posto. Né tu né noi abbiamo interesse che questa
collaborazione venga fuori, giusto?».

«Sì».

«Dì: sì, amore».

«Sì, amore».

«Bene. Collabora, agevola il nostro lavoro e potrai tornare da tua moglie con qualche settimana
d’anticipo… In questo momento abbiamo lasciato casa tua, quindi non ha senso che tu avvisi i tuoi,
perché non troverebbero nessuno, e se ci accorgessimo che ci hai sputtanato, e credimi ce ne
accorgeremmo, sai che fine farebbe Viviana».
«Ho capito».

«Ottimo. Ti chiameremo da numeri diversi, così ti sarà impossibile far rintracciare la nostra
posizione se per caso ti venisse voglia di fotterci…».

«Non accadrà».

«Meglio per te… Dove lo state nascondendo?».

Il sovrintendente capo Andrea Fontana glielo disse.

Era un poliziotto ma faceva la vita di un criminale di alto profilo. Non dormiva più di due notti nello
stesso posto. Cambiava cellulari e schede SIM con frequenza maniacale, e quando doveva mettersi in
contatto con i suoi uomini usava apparecchi criptati. Pagava sempre in contanti e aveva intestati
pochissimi beni e proprietà. Ogni due giorni noleggiava una macchina diversa che alternava con la
propria o con altre senza contrassegni prese dal parco auto della questura. Girava ben armato a
giudicare dai rigonfiamenti sotto il giubbotto di pelle. Non sembrava rilassarsi mai. Era sempre
all’erta e nervoso. Evitava posti affollati e quando si trovava in un ingorgo faceva uso della sirena
per tirarsene fuori. Sembrava dormire pochissimo, e professionalmente parlando era quasi sempre in
“missione”. Godeva della massima libertà dentro e fuori la Narcotici, e pareva avere solide
protezioni sia da parte dei superiori, sia dentro la procura e anche a livello politico. I magistrati e gli
investigatori che avevano cercato di indagare su di lui e la sua squadra erano stati trasferiti o
pesantemente ostacolati. Incontrava i suoi uomini in ristoranti e pub in cui entrava dal retro, e in
occasioni particolari girava con un gruppetto di persone che avevano l’aria da duri, guardie del
corpo, pensavano.

Tutte queste caratteristiche lo rendevano impossibile da pedinare. Per questo l’uomo aveva preso
abbastanza bene il fatto che gli altri avessero perso le tracce di Mazzeo. Dopo circa due mesi che gli
stavano dietro, aveva capito che il poliziotto era soggetto a spostamenti improvvisi fuori città. In
certe circostanze stava via per giorni, talora settimane, ma tornava sempre.

Ora però era diverso. Aveva la sensazione che la sua mancanza fosse dovuta a qualcosa di
particolare, qualcosa di cui loro dovevano essere a conoscenza.

Entrò nella macchina fuori dalla questura e passò il caffè alla donna.

«Niente ancora?» chiese.

«Nulla» rispose lei.

«Tornerà, prima o poi».


«Lo credo anch’io… In ospedale?».

L’uomo scosse la testa. Il ragazzo era di guardia fuori dall’ospedale in caso Mazzeo tornasse, ma
dopo quella notte non si era più fatto vivo. Si erano chiesti che razza d’uomo potesse essere uno che
ignorava la nascita di suo figlio, ma avevano avuto paura di darsi una risposta. Sapevano quasi tutto
su di lui, ma per certi versi quell’uomo era un mistero insondabile.

«Dove pensi che sia?».

«Non lo so. Però appena risbuca fuori, questa volta lo facciamo, non possiamo rischiare di perderlo
di nuovo».

«Ok» disse la donna buttando giù un sorso di caffè. «È un uomo molto pericoloso».

«Stai avendo qualche ripensamento?» le chiese.

«No. E anche se fosse, ormai è troppo tardi» disse gelida. «Spero solo che non lo ammazzino prima».

L’uomo si sentì accapponare la pelle.

Non aveva calcolato quell’eventualità.

Varga e Mazzeo si erano documentati sull’uomo che dovevano liberare e consegnare a Labate. Era un
pezzo grosso del narcotraffico, l’uomo al vertice della distribuzione europea di cocaina per dozzine e
dozzine di ’ndrine, secondo i rapporti della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga: un
narcobroker di caratura internazionale con strettissimi legami con i narcos sudamericani. Pagani
doveva sapere abbastanza cose da distruggere i calabresi, per questo Labate gli aveva messo
addosso tutta quella pressione, dandogli disponibilità di soldi quasi illimitata. Quando Biagio gli
aveva detto che per trovarlo avrebbe dovuto oliare delle persone, Labate gli aveva dato l’indirizzo
di un ristorante, dove un tipo mezz’ora dopo l’aveva aspettato con una borsa contenente duecentomila
euro in contanti.

Quella era la ’ndrangheta.

«Sei sicuro che possiamo risolverla da soli?» chiese Mazzeo a Varga, alla guida del Suv. La donna
era nel bagagliaio, legata e imbavagliata. L’avevano addormentata con del cloroformio una volta
assicuratisi che non avrebbe avuto ripercussioni sulla gravidanza.

«Se questo Fontana ci dà tutte le informazioni sul posto e li prendiamo di sorpresa, sì, dovremmo
farcela».

«È quel dovremmo che mi preoccupa…».

Varga abbozzò un sorriso. «Stiamo rischiando davvero grosso, capo. Meno persone coinvolgiamo,
meno le esponiamo a rischi inutili… Ce la faremo, tranquillo».

Mazzeo avrebbe potuto chiedere l’aiuto dei calabresi e lasciare che si occupassero loro della
liberazione, senza rischiare la pelle o la galera a vita.

Ma non ne aveva la minima intenzione.

Labate non sapeva che aveva già individuato la casa sicura, e Biagio non intendeva dirglielo. Si era
stufato dei loro giochetti. Avrebbe liberato Pagani, sì, ma gliel’avrebbe consegnato solo quando gli
avessero detto dove si stava nascondendo la cecena, con tanto di prove e un gruppo di fuoco a
disposizione, come da patti originari.

E se non l’avessero fatto, avrebbe affidato il latitante alla Legge.

Quel piano era rischioso, quasi sicuramente folle.

Ma gli bastò riportare alla mente l’immagine del cadavere in fiamme di Nicky per spazzare via i
dubbi.

«Ok. Facciamolo» disse.

Pasadena, Contea di Los Angeles,

California

Ignacio “Nacho” Osorio fissò l’entrata con ansia e controllò per l’ennesima volta l’orologio. Erano
in ritardo. E lui rischiava la pelle ogni minuto di più. Se qualcuno l’avesse riconosciuto… non
voleva nemmeno pensarci.

Osorio era il Pagani messicano del Cartello di Sinaloa. Guatemala, Honduras, Belize, El Salvador,
Perù, Venezuela erano i suoi territori di competenza, oltre al Messico, ovviamente. Osorio non era un
soldato, ma un broker della coca. Dava più l’idea di un burocrate, mite e insospettabile. Si diceva
che fosse un genio nel suo lavoro, dalla memoria impressionante e la capacità gestionale
inarrivabile. El Padrino lo teneva in grande considerazione, perché Nacho non sbagliava mai. Era
una macchina.

Aveva fatto solo un errore, Osorio.

Aveva portato il figlio dentro il suo mondo.


El Padrino gli aveva detto: voglio l’Europa, e Osorio aveva capito che prendere le redini della
distribuzione europea partendo dalla Spagna era un errore madornale; ci avevano provato, in passato,
e l’FBI e la Guardia Civil spagnola li avevano stroncati sul nascere. Dal punto di vista del traffico di
droga, la Spagna era una sorta di colonia italiana. La loro presenza era troppo forte e radicata, e
godevano di alte protezioni politiche e istituzionali. Così Osorio aveva pensato di utilizzare l’Africa
come porta d’ingresso, sfruttando il deserto come un’autostrada per la distribuzione capillare della
loro droga in tutto il Mediterraneo. L’Africa era ancora terra vergine quanto a narcotraffico, quindi
non avrebbero avuto problemi.

Ottima idea.

Peccato che i calabresi ci avessero già pensato quindici anni prima.

Il mandamento di San Luca aveva fatto sequestrare Diego Osorio, il figlio di Nacho, all’aeroporto
Léopold Sédar Senghor di Dakar. Nacho aveva mandato il figlio in Senegal per costruire una
piattaforma logistica fra l’arcipelago di Capo Verde e la costa occidentale africana. L’idea era di far
partire le navi cargo dal Brasile e dal Venezuela, farle scaricare a Capo Verde e da lì suddividerle in
spedizioni più piccole che, attraverso il Senegal, avrebbero preso la via dell’Europa come voleva El
Padrino.

Anche in quello erano arrivati in ritardo. I calabresi usavano lo stesso sistema via mare e via aerea
da anni.

Capo Verde era territorio di ’ndrangheta.

Ignacio Osorio aveva ricevuto via mail un video del figlio torturato in quello che sembrava un
magazzino industriale. Aveva pensato che a tenerlo prigioniero fosse gente del Comando Zetas:
mefisto, coltelli, fiamme ossidriche, AK-47 e videomessaggi erano il loro tratto distintivo. Poi aveva
ricevuto una telefonata che gli aveva fatto capire di essere fuori strada: italiani, calabresi. Gente
ancora più pericolosa e determinata.

«Vogliamo incontrarti, da solo. Zero guardie del corpo. Territorio neutro, americano. Vogliamo
solo parlare e risolvere la questione messicana» gli avevano detto. «Se parli con qualcuno dei
tuoi, o se non ti presenti all’incontro, sai cosa succede a Diego».

E così eccolo là, in quella steak-house argentina, a fissare la porta e l’orologio. Dei grandi Ray-Ban
a nascondergli il viso, e un velo di sudore nonostante l’aria condizionata. Perché potevano anche
avergli mentito e averlo portato lì soltanto per sequestrarlo e torturarlo, farsi dire tutto su El Padrino
e poi seppellirlo nel deserto, un pezzo dopo l’altro. Sapeva degli omicidi a El Monte, a New York e
in Liechtenstein, e delle teste piovute dal cielo a Santo Domingo. Ma aveva dovuto correre quel
rischio. Per suo figlio.

Da un tavolo alle sue spalle, due uomini si alzarono e lo raggiunsero. I bastardi l’avevano osservato
per almeno mezz’ora prima di farsi vivi.
«Sei stato di parola, bravo» disse in inglese uno degli sgherri che Labate aveva fatto partire dal
Canada.

«Mio figlio…».

«Shhh. Lui sta benone» disse l’altro. «Questa guerra fredda deve finire. Farci la pelle a vicenda non
serve a un cazzo se non ad attirare l’attenzione degli sbirri, ne convieni?».

«Sì».

«Ottimo. Vogliamo una tregua. Sinaloa vuole iniziare a distribuire in Europa? Ok, ne possiamo
parlare, ci sediamo a tavolino e risolviamo la questione da businessmen. Ci diamo delle regole. Però
basta con i sequestri e le coltellate alle spalle. Basta con le soffiate agli sbirri di mezzo mondo, mi
spiego?».

«Non che voi siate stati a guardare. Avete ucciso cinque broker, uno era il migliore contador del
cartello, non penserete che…».

«Siamo pronti a ucciderne altri cinque, e li uccidiamo qui, in Nordamerica, così i gringos si
incazzano a morte e iniziano a darvi la caccia con la bava alla bocca, capisci?».

Avevano ragione. Quello avrebbe danneggiato ancora di più gli affari. Era gente furba: avevano
ammazzato i loro broker secondo modalità che avevano fatto pensare ai sicarios degli Zetas,
depistando le autorità. Lo stesso dicasi per le teste mozzate lanciate dagli aerei nella Repubblica
Dominicana: tipico modus operandi delle squadre Zetas. I calabresi avevano dato prova di saper
giocare duro, se la situazione lo richiedeva.

«Io non so cosa…».

«Volete davvero FBI, DEA e CIA a presidiare ogni coño di ciudad?» lo pressarono.

«No… Quindi?».

«Il passato è passato. Troviamo un accordo e non ci saranno più violenze, né da una parte né
dall’altra» dissero seguendo la linea di Labate: era meglio cercare una soluzione diplomatica al
problema. Ricorrere di nuovo alla violenza li avrebbe trascinati in una spirale sempre più cruda e
pericolosa, che avrebbe attirato l’attenzione da una parte all’altra dell’Atlantico. Avevano dovuto
uccidere per dimostrare che erano in grado di tenere loro testa anche a livello militare. Ma adesso
era venuto il momento di trattare.

«Cosa volete da me?».

«Devi far ragionare il tuo capo. Devi convincerlo ad accettare una tregua».

«Non è così semplice…».


«Devi riuscirci, se rivuoi Diego tutto intero».

Osorio sbiancò e sudò ancora più copiosamente. Gli uomini compresero di aver preteso qualcosa che
andava molto oltre le sue reali possibilità.

«Mi state chiedendo l’impossibile… Sinaloa non è disposta a scendere a patti, né con lo Stato né con
le altre organizzazioni. La guerra alla droga non l’hanno vinta né i gringos né il Messico. L’ha vinta
il cartello… E ora che El Padrino è fuori…».

I due italocanadesi si fissarono. Dall’Italia erano stati lapidari: fermate le ostilità e fate riprendere
traffici e spedizioni. Subito.

«Ok. Fin dove pensi che si possa arrivare come compromesso?».

Il messicano sembrò rifletterci sopra. Nel frattempo i due ordinarono e pagarono delle birre
ghiacciate.

«Abbiamo fatto il culo agli Zetas, estendendo il controllo su Guatemala, Colombia e Bolivia.
Controlliamo i porti in Brasile, Venezuela e Panamá. Se gli pagherete una tassa per il pedaggio, è
probabile che El Padrino vi faccia riprendere a usare quei porti senza problemi. Ma in cambio vorrà
qualcosa».

«Che cosa?».

«Contatti, protezioni e appoggi politici in Europa».

I due ’ndranghetisti sapevano che quello era il punto più critico della questione, ma Labate era stato
chiaro su quell’incontro: lasciategli pure credere che ci abbia beffato, l’importante è che la coca
riprenda a fluire. Poi, appena libereremo Pagani, penseremo a come risolvere gli altri dettagli.

«Di quanti soldi stiamo parlando?» chiesero.

L’uomo buttò una cifra.

«Questa è una rapina, non una tassa».

«A quella somma aggiungete anche una percentuale su ogni carico».

I due risero come se avesse fatto una bella battuta.

Ignacio Osorio era maledettamente serio. Scrollò le spalle come per dire che non poteva farci nulla
se il suo capo era un avido figlio di puttana. Era quello il messaggio che d’ora in poi El Padrino
avrebbe fatto passare: il Messico non è più un libero mercato, ma un monopolio; e il monopolio fa i
prezzi che vuole. Prendere o lasciare.

I calabresi decisero di prendere.


«Cerca di strappare quest’accordo e ci impegniamo a chiudere le ostilità. E tu riavrai tuo figlio
appena avremo la certezza, nelle parole e nei fatti, che l’intesa è in piedi, ci siamo capiti?».

«Sì».

«Un’ultima cosa. Roberto Pagani, il nostro uomo… È stato il tuo capo a farlo catturare?».

«Non potete chiedermi di rispondere a questa domanda, io sono solo un…».

«Basta che fai un cenno della testa» sussurrò uno dei due.

Ignacio “Nacho” Osorio annuì.

“Giungla”

Cosa c’è di più triste di un neonato senza nome?, si domandò. Quando Matteo, il figlio di sette anni,
le aveva chiesto come si chiamava il fratellino, Miriam gli aveva detto che non aveva ancora deciso.
Anche a medici e infermieri era parso strano. Ma lei non se l’era sentita di dargli un nome senza
prima parlarne col padre. Immaginava che Biagio tenesse particolarmente a un figlio maschio e che
quindi fosse giusto dargli la possibilità di scegliere un nome, ma anche in quello l’aveva delusa. Non
era venuto nemmeno a vedere suo figlio. Non si era illusa che potesse venire a trovare lei, ma almeno
il bambino…

Miriam finì di sistemare le sue cose in camera da letto e andò a dare un’occhiata al piccolo. Aveva
sperato che il bimbo potesse arrivare a riprenderlo negli abissi della sua anima, dove si era perso
inseguendo il fantasma di Nicky. Ma Biagio non era cambiato. Neppure suo figlio aveva avuto quel
potere. E lei ora si sentiva una stupida anche solo per il fatto di averlo pensato. Stupida e
abbandonata a se stessa. Certo, immaginava che lui non l’avrebbe lasciata sola a livello economico,
ma non era dei soldi che si preoccupava. Era la prospettiva che entrambi i suoi figli sarebbero
cresciuti senza padre ad annichilirla. Perché la strada che Biagio aveva intrapreso era senza ritorno.
L’amore non si concilia con la vendetta. Uno dei due divora l’altro. Per lui la vendetta era più forte
dell’amore. Anche dell’amore per un figlio.

In certi momenti Miriam lo capiva. Aveva sentito attraverso la sua voce a cosa aveva dovuto
assistere quella notte, e non osava pensare che genere di fantasmi lo tormentassero. Altre volte lo
odiava. Per non avere dato una possibilità a lei e a loro figlio. Per non averci nemmeno provato a
dimenticare, a concepire una vita diversa, con loro. Nicky era morta, e qualsiasi cosa avesse fatto
per onorare o vendicare la sua morte non l’avrebbe riportata in vita. Suo figlio, invece, era appena
nato e aveva bisogno di lui.
Guardando il piccolo dormire, Miriam provò una dolorosa fitta di vergogna al pensiero che aveva
fatto un errore a portare a termine la gravidanza.

Si sedette sul materasso e si coprì il viso con le mani, le lacrime che le bagnavano le dita.

Aveva già cresciuto un bambino da sola e sapeva cosa significava.

Non aveva la forza di farlo di nuovo.

Era stanca. Terribilmente stanca.

«Perdonami…» sussurrò.

Tre giorni dopo

Nizza, Costa Azzurra, Francia

Romeo Labate passeggiò per quasi mezz’ora sul boulevard che dava sulla Promenade des Anglais,
scortato a breve distanza dai suoi uomini. Camminare lo rilassava e lo aiutava a pensare. Era una
bella giornata di sole ed era piacevole sentirsi accarezzare dalla brezza fresca che veniva dal mare.
Sperava di riuscire a fare un salto all’officina di monsieur Polipot, in rue St. Gaetan, una piccola
bottega dove un vecchio e bizzarro mastro profumiere creava delle essenze paradisiache ad hoc di
cui sua moglie andava pazza. Gli mancava la moglie, così come i ragazzi. Dopo che avevano finito
l’università a Bruxelles, aveva inviato i due figli maschi in Cina a fare esperienza e colonizzare il
Paese. Sperava che quella grana finisse presto, così da poter andare con sua moglie a trovarli e
vedere come se la stavano cavando all’International Finance Centre, dove lavoravano nell’alta
finanza. Hong Kong, con i grattacieli e l’alveare infinito di luci, lo affascinava come tutte le città
portuali.

Ma il lavoro gli stava facendo perdere il sonno. Sapeva di avere addosso gli occhi di tutte le cosche
più importanti dell’organizzazione, ed era consapevole che il modo in cui stava gestendo il
“problema Pagani” avrebbe determinato il suo futuro, nel bene o nel male.

Era per questo che si trovava a Nizza. Per cercare una soluzione e incontrare una persona che forse
poteva fare un po’ di chiarezza.

Il contatto si chiamava Loredana Signati. Così come Pagani, non apparteneva all’Onorata Società,
sebbene la famiglia fosse originaria di San Luca. Era una delle persone più vicine a Pagani, che
l’aveva formata dopo che per anni la donna aveva amministrato come managing director una delle
più lussuose catene di alberghi al mondo. Per conto del broker la Signati coordinava i rapporti con
clienti e fornitori, dividendosi principalmente tra Miami, Città del Messico e Bogotá; aveva il
fascino e l’attitudine della donna d’affari abituata a misurarsi con l’alta società.

La incontrò verso mezzogiorno in uno dei bar all’aperto di place Charles-Felix, in fondo a cours
Saleya, seduta di modo che il sole la bagnasse. Era insieme a un uomo di mezza età, il presidente del
Banque Populaire di Francia, un amico fidato dell’organizzazione che la stava ospitando nella sua
casa privata. Quando i calabresi avevano saputo che Pagani era stato arrestato, avevano cercato di
far scappare tutta la cerchia di persone a lui più vicine, per paura che gli sbirri estendessero la loro
rete anche ai suoi collaboratori. Loredana, che si trovava a Miami, era stata messa sul primo jet
privato e spedita a Nizza con documenti falsi, e dopo quell’incontro Labate le aveva prenotato una
lunga vacanza a Dubai, finché la situazione non si fosse sbloccata.

Fecero colazione insieme al banchiere, poi Labate e la donna si allontanarono diretti alla Mercedes
blindata del calabrese. Una volta dentro, Labate cercò di farsi raccontare nel dettaglio come
funzionava il sistema del narcobroker, per capire come poteva correre ai ripari. La Signati gli parlò
delle aziende leader nel movimento dei container che possedeva in Italia, di città deposito che il
broker usava in Sudamerica, Spagna e Africa come punto di partenza per aerei cargo. Gli fece il
nome dei funzionari della dogana che conosceva, degli uomini sul loro libro paga nella Food and
Drug Administration che lasciavano passare senza controllarli i container che ufficialmente
trasportavano frutta. Gli parlò di infrastrutture di stoccaggio e trasbordo sulle coste africane, di flotte
aeree e navali che il narcobroker possedeva in Ecuador e Venezuela, dei contractor provenienti da
società private come la Blackwater o la Greystone, che Pagani assumeva e metteva a guardia dei
carichi nelle zone più pericolose dell’Africa e dei Balcani. Fece il nome di alcune società di comodo
dietro cui si nascondeva sempre Pagani che erano proprietarie di alcuni cantieri navali a Malaga e
sulla Costa del Sol.

Impressionante.

Ma nulla che l’uomo già non sapesse.

Più la donna parlava, più Labate si rendeva conto che non poteva aiutarlo: aveva solo un’idea
generale del sistema distributivo del broker, ma non era in grado di scendere nei dettagli perché
Pagani l’aveva tenuta all’oscuro del livello gestionale più alto. Roberto aveva impostato la sua
organizzazione così come facevano le grandi corporation: a ognuno veniva assegnato un compito, ma
nessuno aveva un’idea o una conoscenza generale tale da poter guidare la “macchina Pagani”.
L’unico elemento non interscambiabile in quell’organizzazione era proprio lui, Roberto Pagani. Tutte
le altre persone sotto di lui – e Loredana Signati era una di queste – erano professionisti di alto
livello, ma rimpiazzabili, di modo che se qualcuno fosse stato arrestato o non fosse più all’altezza, la
narcoimpresa sarebbe andata avanti senza intoppi o scossoni.

Labate capì che dare tutto quel potere a una sola persona era stato un errore madornale. Si ripromise
di rimettere in discussione con il Crimine la gestione della distribuzione del prodotto.
Romeo lasciò la donna all’aeroporto di Nizza Costa Azzurra. Da lì sarebbe partita per Dubai, dove
si nascondevano molti latitanti e contabili legati alla sua cosca. La tranquillizzò dicendole che
persone vicine all’organizzazione si sarebbero prese cura di lei, e che non doveva preoccuparsi di
nulla.

Una volta solo, sbuffò. Aveva pensato di poter ricavare qualcosa di utile dalla donna, ma era stata
solo una perdita di tempo.

Ordinò all’autista di ripartire per l’Italia e dopo pochi minuti gli arrivarono due telefonate che gli
fecero cambiare umore.

La prima era dei canadesi che aveva inviato in Messico.

Sinaloa si era fatta viva ed era disposta a trattare.

La seconda, invece, veniva da un loro uomo nel ministero dell’Interno italiano.

Aveva scoperto dove stavano nascondendo Pagani.

Casa sicura,

località protetta

Quando Roberto Pagani sentì nel cuore della notte voci e rumori che lo svegliarono, capì che erano
venuti a prenderlo. Mentre fuori dalla stanza dove era rinchiuso i rumori si facevano più forti, Pagani
si alzò, accese la luce e indossò l’abito che aveva piegato con cura, spogliandosi degli stracci che gli
avevano procurato gli sbirri.

La porta si aprì e vide prima un poliziotto del Servizio Protezione, poi un uomo alle sue spalle che
gli serrava un braccio intorno alla gola, puntandogli con l’altra mano una pistola alla tempia. Portava
guanti e una tenuta tattica scura come quella delle squadre speciali, il viso era coperto da un mefisto.
Il poliziotto aveva una ferita sul volto da cui colava un filo di sangue. Gli occhi erano iniettati di
paura.

«Sono pronto» si limitò a dire il narcobroker sentendo la botta dell’adrenalina svegliarlo di colpo.

L’assalitore gli fece strada. Nel salone Pagani vide un altro uomo mascherato, ancora più alto e
imponente del primo, che teneva sotto tiro con un fucile i quattro agenti che parevano svenuti sul
pavimento. Avevano le mani legate dietro la schiena con delle fascette stringi tubi. Nessuno sembrava
ferito in modo grave. Dovevano aver mandato dei professionisti, forse attingendo alle stesse agenzie
di mercenari di cui si serviva lui.

Il gigante gli lanciò un’occhiata di sfuggita e annuì al collega, che spinse il poliziotto verso la porta
dell’appartamento.

L’uomo mascherato sbatté il poliziotto contro il muro. Strinse le fasce che gli serravano i polsi dietro
la schiena, e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. L’uomo lo colpì alla nuca col calcio della pistola,
facendolo crollare a terra senza sensi.

Pagani avvertì una presenza alle spalle e mezzo secondo dopo l’altro lo ammanettò.

«Ehi, cosa state facendo, non c’è bisogno di…».

«Shh» intimò l’altro estraendo da una tasca dei pantaloni tattici due pettorine della Polizia di Stato.
Ne indossò una e lanciò l’altra al collega.

Pagani immaginò che si trattasse di una diversione e non disse altro. Erano professionisti. Meglio
star zitto e obbedire.

Lo scortarono armi in pugno lungo le scale senza fiatare. Una volta fuori, quello più basso rimase con
lui tenendolo stretto per un braccio, l’altro entrò in un fuoristrada di grossa cilindrata, mettendolo in
moto.

Per la prima volta Pagani vide dove l’avevano nascosto: un quartiere residenziale composto da due
filari di villette bifamiliari su tre piani. Era notte fonda e non si udiva il minimo rumore. Guardandosi
intorno si stupì di come i due da soli erano riusciti a liberarlo. Dovevano avere un addestramento
militare o qualcuno all’interno della squadra di protezione, si disse il broker; probabilmente
entrambe le cose.

L’uomo mascherato lo strattonò e corsero verso il Suv. Nel farlo passarono davanti a un’auto che
catturò la sua attenzione: aveva le gomme a terra, squarciate, e dentro vi dormiva un uomo. Pagani
notò che aveva un labbro spaccato. Sbirro. Doveva essere il primo che avevano messo fuori gioco.

L’uomo aprì il bagagliaio e gli fece cenno di entrare. Pagani obbedì e si accucciò nel vano.

«Chi vi ha mandato?» chiese.

L’uomo lo ignorò e frugò dentro una borsa.

«Chi vi ha mandato?» ripeté, rendendosi conto che da quando l’avevano liberato nessuno dei due
aveva aperto bocca. Sentì farsi strada un brutto presentimento. «Ehi? Dimmi solo per chi
lavorate…».

L’uomo mascherato estrasse qualcosa dalla borsa.

Pagani realizzò troppo tardi che si trattava di una siringa.


L’ago gli aveva già trafitto il collo.

«Buenas noches» disse l’assalitore.

Pagani al suono dello spagnolo si sentì morire.

L’uomo spinse lo stantuffo della siringa e tutto si fece buio.

Reggio Calabria

Si era ripromesso e aveva giurato a sua moglie che per una sera non avrebbe pensato al lavoro.
Avrebbero ignorato la scorta facendo finta che fossero soli, lui e lei. Trent’anni di matrimonio
d’altronde andavano festeggiati per bene. Glielo doveva. Lei che per il suo lavoro si era vista
sconvolta l’esistenza. Lei che non gliel’aveva mai fatto pesare, costretta a combattere in silenzio la
sua stessa guerra. Perché Antonio Gualtieri era in guerra.

Ma non quella sera.

Avevano cenato in buon ristorante che si affacciava sul lungomare, concedendosi due bottiglie di
bianco. Avevano mangiato senza fretta, guardando foto che lei aveva portato, ridendo dei vecchi
tempi, delle loro buffe acconciature, dei figli, di aneddoti di quando la loro vita aveva ancora una
parvenza di normalità. C’erano riusciti a far finta di essere due persone normali. Bastava spegnere i
cellulari e ignorare gli sguardi dei curiosi che lo riconoscevano. La maggior parte dei calabresi
erano dalla sua parte anche se molti lo appoggiavano solo in silenzio, per paura di esporsi. Ma
nessuno quella sera si era avvicinato per stringergli la mano o dirgli una parola di sostegno come
quasi sempre accadeva. Forse si percepiva che era una serata speciale. O forse semplicemente la
fortuna li aveva baciati, per una volta.

Dopo cena avevano passeggiato fino ai lidi dove avevano preso un gelato, cullati dallo sciabordio
del mare e accarezzati dalla brezza sottile, ed erano scoppiati a ridere quando si erano trovati di
fronte i due figli con le rispettive fidanzate. Antonio aveva capito che la sorpresa era stata
organizzata dal suo caposcorta e l’aveva ringraziato con un cenno. La famiglia, il suo orto e il suo
lavoro erano i tre capisaldi su cui si reggeva la sua esistenza, spesso non con questo ordine, suo
malgrado. Ma quella sera… c’era qualcosa di magico quella notte. Qualcosa che andava al di là
dell’anniversario. Era come se tutto fosse al proprio posto, una sensazione che aveva provato rare
volte.

Quando i figli li avevano lasciati, sua moglie gli aveva chiesto se potevano passeggiare ancora
nonostante fosse tardi. Guardandola, Antonio aveva capito che anche lei percepiva la stessa magia e
voleva che perdurasse il più a lungo possibile. L’aveva presa sottobraccio e avevano camminato sul
lungomare, sporgendosi sulla balaustra a osservare i riflessi della luna scivolare tra le onde,
complici di quella meraviglia. E quando aveva iniziato a piovere, non l’avevano presa male,
maledicendosi per non aver portato l’ombrello. Avevano riso. Perché nemmeno la pioggia poteva
rovinare quella serata speciale.

Erano corsi sotto il temporale fino alle macchine.

Ma la magia che li aveva protetti fino a quel momento, li abbandonò nell’istante stesso in cui
entrarono nell’auto blindata.

«Dottore» disse uno dei carabinieri in borghese. «Mi perdoni, ma mi hanno detto che è
importante…».

L’uomo gli stava porgendo un cellulare.

Antonio e la moglie si fissarono, consapevoli che l’incantesimo si era dissolto.

«Ma… sono quasi le tre del mattino» disse il magistrato.

Il carabiniere sostenne il suo sguardo e Antonio capì.

Carezzò la guancia della moglie e le chiese di perdonarlo. Prese il telefonino e scese dall’auto.

«Pronto» disse una volta fuori.

Ascoltò in silenzio.

Sbiancò.

Sentì come una mazzata sulle ginocchia e si dovette appoggiare alla carrozzeria per non perdere
l’equilibrio.

«Ma… ne siete sicuri?» quasi sussurrò.

Dall’altra parte gli risposero di sì.

Roberto Pagani era sfuggito alla sorveglianza.

L’avevano fatto scappare.

Di nuovo.
NIDO DI VESPE
Avrebbero dovuto già chiamare e invece ancora niente. Romeo Labate lanciò l’ennesima occhiata
all’orologio e cercò di scacciare la brutta sensazione che quel ritardo gli dava. Non potevano
sbagliare. Aveva messo tutto in mano a professionisti, contractor con anni d’esperienza nei teatri di
guerra più feroci. Uomini che venivano dai corpi speciali e avevano deciso di fare molti più soldi
con il settore privato. Gente che non faceva domande. Li pagavi e portavano a termine l’incarico.
Qualsiasi incarico.

“E allora perché non si fanno sentire?” pensò lo ’ndranghetista.

Era sul punto di prendere il cellulare e chiedere notizie quando qualcuno lo anticipò.

«Pronto» rispose ansioso.

«C’è un problema» disse un suo contatto.

«In che senso?».

«La zona è piena di poliziotti. Qualcuno ci ha preceduto».

«Cosa cazzo vorrebbe dire?».

«Il ragazzo… Qualcuno l’ha liberato e se l’è portato via».

«I nostri? Saranno loro, no?».

«No. Quando i nostri sono arrivati, il ragazzo era già sparito. Professionisti. Hanno messo fuori
gioco gli sbirri e se la sono squagliata col prigioniero».

«…».

«Ora devo andare. Ti richiamo appena so qualcosa di più».

Labate posò il telefono e si avvicinò alla vetrata dell’appartamento. Scagliò il calice di cristallo
contro il muro.

Qualcuno aveva liberato Pagani.

Si chiese chi, oltre a loro, poteva avere qualche interesse a farlo. Chi poteva fare la pazzia di entrare
in una casa sicura protetta da cinque poliziotti col rischio di fare una strage?

«Sinaloa…» sussurrò, sentendosi morire.


L’unica differenza era che loro lo volevano vivo.

I messicani no.

Avevano calcolato tutto nel dettaglio. Arrivarono alla piazzola del cambio auto con cinque minuti
d’anticipo. Nessuno li aveva seguiti.

Si tolsero le protezioni e le tute tattiche e misero tutto dentro una sacca.

Mentre uno restò in macchina, all’erta, il motore acceso, pronto a fuggire col prigioniero se qualcuno
fosse intervenuto, l’altro raggiunse la seconda auto e l’avvicinò al fuoristrada.

Solo allora il secondo uomo scese dal Suv rubato con l’arma in pugno. Aiutò l’altro a caricare il
corpo svenuto di Pagani dentro il baule dell’altra auto.

Lasciarono la città evitando strade trafficate. Veloci. Tesi. L’uomo che nascondevano nel bagagliaio
valeva cinque milioni di dollari.

Da vivo.

Morto, forse anche di più.

Romeo Labate si chiese cosa avessero in mente i messicani. Più ci pensava e più non capiva la loro
mossa. Perché sequestrare Pagani quando erano arrivati a un accordo, seppur iniziale? Volevano
aumentare il loro potere contrattuale? Sapevano che per Labate e i suoi costruire un altro Pagani
avrebbe significato anni di lavoro. E se anche ci fossero riusciti, a quel punto Sinaloa sarebbe stato
troppo potente per trattare alla pari, Europa o meno.

«Tu cosa faresti?» chiese a sua moglie.

«Al posto tuo o al posto loro?» rispose Vittoria Morabito, rigirandosi tra le mani la boccetta di
profumo che le aveva portato da Nizza.

Labate si voltò e la fissò. Vittoria era una donna dura anche nei tratti del viso. Sorrideva poco. Aveva
gli occhi neri e foschi di una sopravvissuta. Ciò che era: aveva perso il padre, i quattro fratelli e una
dozzina di cugini in una faida con una famiglia avversa. Si diceva che avrebbero ucciso anche lei se
la notte in cui avevano staccato di netto la testa di suo padre con cinque colpi di lupara avesse fatto
rumore da dentro l’armadio dove si era nascosta. Ma non aveva fiatato, Vittoria. Aveva aspettato che
i sicari se ne fossero andati dopo aver pisciato sul cadavere di suo padre e solo allora era uscita.
Aveva coperto ciò che rimaneva di Pasquale Morabito con un lenzuolo e poi era andata a chiamare
uno zio che abitava poco lontano. Solo allora aveva pianto. Suo zio l’aveva messa su un aereo la
mattina dopo con due cugini più grandi, destinazione Germania. Vittoria aveva solo sei anni.

«Al posto loro» disse Romeo.

La donna soffiò via il fumo della sigaretta e si allungò sul letto per prendere il posacenere. «Lo
porterei in un luogo sicuro, e lo torturerei» disse asettica. «Mi farei dire tutto. I porti che usa, tutti i
suoi contatti, tutte le sue coperture, i conti cifrati, le spie che ha nella polizia. Tutto quanto… Pagani
è una miniera d’oro. Vale più quello che ha dentro il cervello che quello che ha in banca… E forse
non ci sarà nemmeno bisogno di torturarlo. Potrebbero comprarselo».

«E suo figlio?».

«Danni collaterali… se scegli quel tipo di vita sono cose che metti in conto».

La fissò. Si scioglieva i lunghi capelli neri solo quand’era sola con lui. Normalmente li portava in
una rigida crocchia che metteva in risalto la fronte alta e gli zigomi taglienti. Era ancora una bella
donna, ma la sua era una di quelle bellezze crudeli, ombrose. Era stato quello a colpirlo quasi
trentacinque anni prima ad Amburgo, quando l’aveva vista alla cassa di un ristorante italiano. Un suo
compare gli aveva detto di lasciar perdere, ché aveva sangue cattivo. Lui non si era lasciato
intimidire, nemmeno dopo che l’altro gli aveva raccontato la sua storia. La ragazza taciturna dallo
sguardo scontroso l’aveva intrigato, ma l’aveva giudicata innocua. Una sopravvissuta di quella loro
terra così selvaggia e feroce. Una come tante.

Si era sbagliato. Due anni dopo la ragazza aveva guidato gli uomini di ciò che restava della sua
famiglia in una vendetta di cui ancora si parlava per la sua crudezza. Romeo aveva capito che
avrebbero potuto fare grandi cose insieme e l’aveva sposata. Era stato l’affare migliore della sua
vita.

«Merda, se parla siamo fottuti… Ascolta, c’è una pista e un deposito clandestino in Perù da dove i
messicani fanno partire tutti quei piccoli aerei che fanno la spola con Brasile e Bolivia carichi di
neve. Narcoavionetas, le chiamano. Hanno qualcosa come una ventina di aerei monoelica e una
decina di piloti. Stoccano cocaina e la portano in volo al confine, fino ai porti. Gente sul libro paga
di Sinaloa… Ho individuato la zona, e ho una squadra di guerriglieri pronta a farli fuori e bruciare
tutto. Aspettano solo un mio ordine. Significherebbe fargli molto male. Dici di reagire? Li metto in
moto?».

Vittoria fissò suo marito stupita dalla sua tensione e dai dubbi che lo stavano divorando. Capì che la
situazione era più delicata di quanto avesse pensato. Solitamente Romeo era un uomo freddo e
controllato. Quando le chiedeva un parere in realtà aveva già preso una decisione e voleva solo una
sua conferma. Ora, invece, brancolava nel buio. Ragionava più di pancia che con la mente, cosa che
non aveva mai portato altro che morte e miseria.

«Per prima cosa calmati. Se dài quell’ordine fai scoppiare una guerra, e cosa cambierebbe,
comunque? Parlo di Pagani… Gli daresti soltanto un motivo in più per ucciderlo o torturarlo… e poi
c’è un’altra cosa di cui ti stai dimenticando, dandola per certa».
«Cosa?».

Vittoria spense la sigaretta e disse: «Sei proprio sicuro che siano stati i messicani a rapirlo?».

Viviana si risvegliò con un forte mal di testa. Aveva la vista appannata ma scoprì di essere dentro una
macchina. La sua macchina. Si trovava sul sedile del guidatore. Era notte. Sull’altro sedile vide il
cellulare e il portafoglio. Le chiavi erano inserite nel quadro.

Si portò le mani alla pancia e poi controllò che non avesse ferite.

Non aveva un graffio.

Chiamò il marito e gli disse che stava bene. Gli uomini che l’avevano rapita erano stati di parola.

«Ok, torna a casa e non dire nulla a nessuno, va bene?».

«Ma…».

«A nessuno, Vivià! Guarda che non sto scherzando…» disse il sovrintendente capo Andrea Fontana,
allontanandosi dai colleghi. «Questa cosa rimane tra noi, è meglio così. E se qualcuno ti chiede
qualcosa, tu non aprire bocca, capito?».

«Ho capito» rispose la moglie.

«Bene… dove sei ora?».

La donna si guardò intorno, confusa. «Non ne ho la minima idea» disse.

Mazzeo, dopo essersi assicurato di non essere seguito, imboccò la strada di campagna per la cascina.
A un certo punto si erano divisi: lui aveva messo al sicuro la donna dello sbirro, Fontana, e Varga
aveva portato Pagani alla cascina.

Varga l’aveva legato a una sedia nello scantinato.

«È sveglio?» chiese Biagio.

Varga annuì.

«Via il bavaglio, dobbiamo parlare».

«Non siete messicani» disse il broker.


Mazzeo e Varga si scambiarono un’occhiata confusa.

«Sei ancora rincoglionito dal sonnifero? Perché dovremmo essere messicani?».

Pagani li fissò smarrito. «Chi cazzo siete?».

Biagio vide in un angolo una sedia di legno. La prese per la spalliera e la soppesò.

«Chi vi ha pagato per…».

Con una torsione violenta del busto, Biagio gli sbatté la sedia addosso, sfracellandola. Pagani crollò
a terra gridando di dolore.

Mazzeo lanciò via i pezzi di legno che gli erano rimasti in mano e l’osservò inarcarsi per la
sofferenza. L’aveva colpito per sfogare tutta la tensione repressa e per mettere in chiaro da subito che
doveva giocare secondo le sue regole.

Varga l’aveva capito e non disse nulla.

«Le domande le faccio io e tu rispondi, chiaro?» disse Mazzeo.

Pagani lo fissò. Una volta in Spagna con un suo contatto colombiano erano andati a una corrida per
festeggiare un affare andato a buon fine. Avevano rimediato posti talmente buoni che quando il toro
era passato loro vicino, Roberto era riuscito a vederne gli occhi. Due buchi neri di gelida rabbia
assassina. L’uomo che l’aveva colpito aveva gli occhi celesti come i mari artici. Ma lo sguardo era
lo stesso del toro. Nemmeno un palpito d’umanità. Ferocia pura.

«Ho detto, chiaro?».

Il broker assentì.

Varga lo rimise in piedi, sedia al seguito.

«Starai qui per un po’. Poche e semplici regole, bellezza: dovrai stare zitto, anche perché ti assicuro
che nessuno può sentirti, e non devi provare a scappare. Provaci e ti sparo alle gambe. Poi ti spezzo
la schiena. Mi servi vivo, ma questo non vuol dire tutto intero, mi spiego?».

«Qualunque cifra ti abbiano offerto, liberami o fammi fare una telefonata e te la raddoppio. Ti faccio
portare i soldi come e dove vuoi. Cash, conti cifrati, conti off-shore, dimmi solo una cifra…».

Varga e Mazzeo si scambiarono uno sguardo.

«Cinque milioni» disse Mazzeo.

«Nessun problema. Fammi fare una chiamata e li avrai».


«Il doppio?».

«Il doppio».

Mazzeo rise. «Il bello è che questo figlio di puttana sta dicendo la verità» disse rivolto a Varga. «Mi
dispiace. Non sono in vendita».

«Dieci milioni di euro? Vuoi di più?».

«Non sono i soldi che voglio. Ora sta’ buono e tra un paio d’ore ti facciamo bere e mangiare, ok?».

«Ma… lascia che…».

Varga gli rimise il bavaglio e seguì Biagio fuori dallo scantinato.

«Come te la vuoi giocare?» gli chiese l’albino.

«Adesso dobbiamo aspettare un po’. Facciamo uscire fuori di testa i calabresi, e poi gli dirò che ce
l’ho io. Che voglio Vatslava o lo uccido, o peggio, che lo consegno a qualcuno di incorruttibile, a
costo di portarlo io di peso in carcere».

«Vuoi che stia io qui?».

«Sarebbe meglio, almeno per oggi».

«Nessun problema. È meglio che ti fai vedere in giro altrimenti penseranno subito che sei stato tu».

«Già… Cazzo, ho ancora il cuore a mille. Com’è che tu sei sempre così calmo?».

«Perché mi ammazzo di seghe».

Biagio scoppiò a ridere e per qualche istante sentì il dolore e la paura lontani.

«Lo sbirro, pensi che parlerà?».

«No. Non gli conviene e ha troppa paura. Pensa che siamo ’ndranghetisti e ha una moglie incinta. Sa
che se l’abbiamo rapita una volta potremmo rifarlo… No, non parlerà».

«E i calabresi? Credi che ci diranno dov’è la cecena?» chiese l’albino.

«Sì, questo figlio di puttana è troppo importante per loro, e sicuramente è più importante di me».

«Ricordati la promessa che mi hai fatto. La uccidiamo e poi ci lasciamo tutto alle spalle. Tutto».

Mentre uscivano, Mazzeo vide delle strane apparecchiature elettroniche su un tavolo.

«Cosa sono?».
«Rilevatori di suono e di movimento. Li ho piazzati nel raggio di un chilometro qua intorno nelle vie
di accesso principali. Se qualcuno si avvicina quelle cose suonano, dandomi dai sette agli otto minuti
per sparire».

«Ottimo».

Fuori albeggiava. Il cielo era striato dai primi sussulti di luce. L’aria era fresca e rigenerante, sapeva
di terra umida e alberi. Il silenzio era assoluto. Gli occhi del poliziotto scrutarono gli alberi a
perdifiato, i sentieri e la vegetazione come se stesse cercando qualcosa. Forse solo un angolo di pace
come quello, dove la sua anima potesse rifugiarsi e riposare.

Ma non poteva fermarsi. Si sarebbe fermato quando Vatslava fosse morta e suo figlio e Miriam
fossero stati al sicuro. Ora, no.

«Tieni gli occhi aperti» disse voltandosi verso il collega.

Mazzeo salì sul fuoristrada e tornò in città.

Carmine Torregrossa si stiracchiò dentro l’auto fuori casa di Miriam. Quando vide la macchina di
Mirko Giacchetti venuto per dargli il cambio sorrise e uscì, sgranchendosi le ossa.

«Tutto ok?» chiese Giacchetti, salutandolo.

«Tutto ok un cazzo. Sai quella cosa che dicono delle fabbriche giapponesi di automobili, che una
volta finita la prima macchina ci mettono dentro un gatto, chiudono tutto e aspettano di vedere se
muore per la mancanza di aria?».

Mirko sorrise per l’espressione del poliziotto.

«Ecco, stanotte ho scoperto che il gatto non muore asfissiato, ma per il cazzo di freddo! Cristo,
questa merda la notte diventa un ghiacciolo anche se è tutta chiusa, mannaggia a loro».

«E a parte il freddo, tutto a posto?» chiese l’ex sbirro indicando la villa di Miriam.

«Tutto regolare… Ora però pensaci tu, ché ho bisogno di caffè e di una doccia bollente».

«Te la sei meritata, vai».

Carmine tornò in macchina. Aveva altro in mente per riscaldarsi. Guidò veloce perché aveva voglia
di rivedere Mikaela. Quando la sera prima Biagio lo aveva chiamato chiedendogli di piazzarsi fuori
casa di Miriam e controllarla fino a ordine contrario, senza dargli spiegazioni, Torregrossa era stato
quasi sul punto di dirgli di no. Era in quello stadio iniziale dell’innamoramento in cui tutto ciò che si
metteva tra lui e lei era un nemico, qualcosa di negativo. Anche Biagio. Poi però il cuore aveva
ascoltato le ragioni della mente, e si era zittito. Ma se anche quella notte gli avesse dovuto chiedere
di stare di nuovo fuori di guardia, Carmine decise che gli avrebbe detto di no. Aveva un’altra donna
da proteggere: la sua. Se lui non era in grado di proteggere Miriam, cazzi suoi.

“Non dovresti nemmeno pensarle queste cose” rifletté. Ma poi il ricordo della ragazza, il profumo
della sua pelle e il modo in cui gli faceva scivolare le dita tra il collo e il petto tagliarono via
qualsiasi altro pensiero, Biagio per primo.

L’amore rende ciechi, egoisti, e avidi.

Ma soprattutto ingrati.

Carmine era troppo innamorato per capire che si stava addentrando in un terreno pericoloso.

Non aveva chiuso occhio. Gli avevano affidato una missione e lui si era assunto la responsabilità di
portarla a termine. Tutto ciò di buono che aveva fatto in passato per l’Organizzazione non contava più
nulla. Labate sapeva che sarebbe stato giudicato solo sulla base dell’operazione Pagani.

Per questo non era riuscito a dormire. La cosa gli era sfuggita di mano. Fino a quel momento non
aveva avuto nessun contatto da parte dei messicani, e questo andava a rafforzare il dubbio di sua
moglie, che non ci fossero loro dietro il rapimento.

Romeo aveva pensato a quali altre opzioni erano possibili: che l’avessero rapito cosche avverse?
Troppo fantasioso: nessuna avrebbe scatenato una guerra contro una decisione presa dalla casa
madre. Aveva pensato anche che fosse tutta una messinscena degli sbirri e di Gualtieri per spostare
Pagani in una località ancora più segreta e depistarli; ma i suoi contatti gli avevano detto che il
magistrato era su tutte le furie e stava minacciando di far cadere teste a destra e a manca.

Chi, allora?

Sentì dei passi alle spalle. Vittoria.

«Credo che sia stato lo sbirro. Come si chiama… Mazzeo» disse la donna sedendosi davanti a lui.
Era vestita di tutto punto, i capelli tirati all’indietro.

Labate avvertì il sangue defluirgli di colpo alle gambe.

«È ossessionato dalla vendetta, vuole che tu gli dica dove si sta nascondendo la straniera che sta
cercando, no? Secondo me è stato lui… Tu gli hai chiesto di prendere Pagani, e lui l’ha preso. Solo
che non te lo darà finché tu non gli darai ciò che vuole… avete fatto male ad affiliare uno sbirro.
Perché uno sbirro continua a ragionare da sbirro, giuramento o meno».

«Il giuramento era solo una mezza messinscena per fotterlo e poterlo ricattare…».
«E allora avete doppiamente sbagliato: non si mischia il sacro e il profano, non si sputa sulle regole
e il buon nome di Dio… Ripeto, secondo me è lui. Non ha nulla da perdere. Voi sì».

«Come cazzo ho fatto a non pensarci prima?» mormorò lo ’ndranghetista.

«Perché, senza offesa, sei un uomo, e hai giocato a chi ce l’aveva più lungo, sottovalutandolo. Hai
sottostimato il suo bisogno di vendetta. E ora ha messo il gioco in scacco. È stato lui».

«Hai ragione».

«Forse» ammise Vittoria. «Ma devi avere la certezza prima di agire. Chiamalo».

Romeo obbedì. Vittoria veniva dal suo mondo. Sapeva cosa c’era in ballo. Non potevano fallire.

Labate prese il cellulare e chiamò Mazzeo.

Sarebbe voluto tornare a casa per una doccia veloce e un cambio abiti. Ma quando ci passò davanti,
vide che lo stavano aspettando in una delle solite macchine che usavano per seguirlo. Fece il giro
dell’isolato e notò che avevano iniziato a tallonarlo.

Biagio decise che quella storia doveva finire. Prese a guidare fuori dal quartiere e dopo qualche
minuto si accorse che le macchine che lo seguivano ora erano due. Erano professionisti, gente che
sapeva come condurre un pedinamento.

Estrasse la Beretta dalla fondina e tolse la sicura. La posò sul sedile del passeggero e stava per
prendere il cellulare per chiedere rinforzi, quando l’apparecchio vibrò. Numero anonimo.

“Che siano loro?” si chiese osservandoli dallo specchietto.

Decise di rispondere. Mise il vivavoce e disse: «Pronto».

«Che cosa aspettavi a chiamarmi?».

Labate.

«In merito a…?».

«Piantala con le stronzate. Pagani… dove lo stai nascondendo, e perché non mi avevi ancora
chiamato?».

Biagio si chiese se ci fosse arrivato per semplice deduzione o perché aveva lasciato delle tracce.

«Mazzeo…».
Non aveva senso mentire. Tanto valeva giocare a carte scoperte.

«Mi sono rotto il cazzo di essere il vostro burattino. Tu sai benissimo dov’è quella troia e non me lo
vuoi dire per spremermi fino all’osso… ma adesso basta, Labate. Voglio che mi dica dov’è altrimenti
lo consegno alla prima DDA che mi capita a tiro, mi spiego?».

«Non funziona così, non possiamo tollerare un comportamento del…».

«Sono io ad aver tollerato per troppo tempo le vostre stronzate. Ci stiamo usando a vicenda, ma voi
avete passato il segno. Abbiamo fatto un patto, rispettatelo, Cristo. Sono stato al vostro gioco, ma in
compenso mi avete soltanto fottuto. Adesso basta. Ditemi dov’è quella troia e io vi do Pagani».

«Va bene… voglio una prova che sia davvero in mano tua, però. Vivo».

«Ora non posso… ti chiamo più tardi… un’ultima cosa: mi hai messo qualcuno alle costole?».

«Cosa vuoi dire?».

«Mi stai facendo pedinare da qualcuno?».

«Forse».

Dal suono e dalla leggera esitazione nel rispondergli Mazzeo capì che stava mentendo. Gli uomini
che lo stavano seguendo non erano di Labate.

«Ok… Ti chiamo più tardi. Fatti dire esattamente dove si trova Vatslava, e voglio anch’io delle
prove, altrimenti non se ne fa un cazzo».

«Questo va contro…».

Biagio chiuse la chiamata. Aveva altro a cui pensare.

Tenne una mano sul volante e con l’altra impugnò la pistola.

Era quasi arrivato a casa quando si rese conto che stava facendo una stronzata.

“No, così non va bene. Ti ha dato un compito. Ti ha chiesto di seguire personalmente la cosa, è come
se ti stessi tirando indietro” si disse fermo al semaforo.

Guardò davanti a sé. Mancavano poco meno di trecento metri a casa sua. Mikaela stava dormendo
nel suo letto, nuda, i capelli biondi che sicuramente ora stavano rilucendo indorati dalle lame di luce
che passavano attraverso la persiana. Quella ragazza lo stava facendo impazzire.

Scattò il verde e le macchine in coda dietro di lui presero ad accanirsi sui clacson.
Scosso dai rumori, Carmine Torregrossa fissò le auto nello specchietto.

“Non ti ha dato spiegazioni, ti ha chiesto solo di controllare Miriam e il bambino, e l’ha chiesto a te,
non a Mirko o a qualcun altro. A te, perché di te si fida, ed è così che ripaghi la sua fiducia?
Andandotene? Mettendo la cosa in mano ad altri?” pensò, sentendo il senso di colpa dilagare.

«Fanculo» mormorò.

Aprì il finestrino e mise il lampeggiante, azionando la sirena. Fece un’inversione a u e tornò indietro.
Si fermò al bar di un distributore e si fece fare una tazzona di caffè con cinque espressi. Quando la
buttò giù nel tragitto fino alla macchina per poco non vomitò, ma qualche secondo dopo iniziò a
sentire la caffeina fare effetto, svegliandolo.

«Poi di’ che non ti voglio bene…» mormorò tra sé mettendo in moto e tornando verso casa di
Miriam.

Mikaela avrebbe dovuto aspettare.

Nel suo cuore Biagio aveva ancora la precedenza.

Per ora.

Aveva capito una cosa sugli uomini che lo seguivano: non conoscevano la città. Perlomeno non
quanto lui.

Li condusse per una via stretta, tra filari di container e capannoni, e accelerò d’improvviso, sparendo
alla loro vista.

Quando le due macchine diedero gas e dopo qualche minuto svoltarono in un grosso spiazzo, l’auto di
Mazzeo era sparita.

Non solo.

Erano in un vicolo cieco.

Una trave verticale si abbassò, sbarrando l’unica via di fuga.

Nel momento in cui si voltarono, videro il poliziotto venirgli incontro alle spalle. Impugnava due
pistole e le stava puntando contro di loro.

La donna capì che era sul punto di aprire il fuoco, così uscì dall’auto e fece l’unica cosa che poteva
bloccare sul nascere la sparatoria: estrasse il distintivo e si qualificò.

«Fermo, Mazzeo! Abbassa le armi, siamo agenti dell’FBI».


«Bella questa, tesoro. Inginocchiati e mani sulla testa, di’ ai tuoi amici di fare lo stesso o sparo».

«No, è la verità! Siamo dell’FBI. Mi chiamo Anita Gennaro, sono un’agente speciale».

«Che cazzo è, una candid camera? Speciale è il buco che ti faccio in fronte se non alzi le mani» disse
Mazzeo senza abbassare le armi di un millimetro. «Uscite dall’auto e inginocchiatevi, mani sulla
testa».

«Qualificatevi» disse la donna in inglese ai colleghi.

«Steven Bracco, agente speciale dell’FBI, abbassa quelle cazzo di armi, Serpico» disse l’uomo più
giovane in italiano, uscendo dall’auto mostrandogli il distintivo. Aveva un accento straniero.

«Mark Bruzzone, FBI. Ti do dieci secondi e poi sparo» disse un altro, una mano sulla Glock alla
fondina e l’altra che mostrava il tesserino di riconoscimento.

Per ultimo uscì dall’auto un uomo più anziano. Era molto alto e quasi completamente calvo, eccetto
per dei capelli tagliati a zero all’altezza delle tempie. Aveva un piglio militare e Mazzeo capì che
non aveva nessuna voglia di scherzare. Doveva essere a capo della squadra.

«Joseph Carbone. DEA. Metti giù quei giocattoli, Biagio, non siamo qui per arrestarti. Dobbiamo
parlare di ’ndrangheta e di Vatslava Demidov…».

Biagio sbiancò.

Per quanto ti possa ritenere importante e potente, c’è sempre qualcuno più importante e potente di te.

Romeo Labate, nonostante fosse una figura preminente all’interno della Società, capì che era venuto
il momento di chiedere l’ausilio e il consiglio di chi stava sopra di lui.

Qualche ora prima aveva chiesto di essere messo in contatto con il Capo Crimine, la figura al vertice
dell’organizzazione che faceva rispettare le leggi dell’Onorata Società.

Riuscì a mettersi in contatto col superiore e gli spiegò la situazione.

«Tu sei sicuro che questo ragazzo abbia chi dice di avere?» gli chiese l’altro in dialetto.

«Lo ha ammesso, e attraverso la sua stessa voce me lo farà sapere» rispose Labate.

«Uhm. E allora aspetta prima di fare qualsiasi altra cosa. Preparati al peggio, ma aspetta».

«Il ragazzo venne da noi e si unì alla tavolata, chiedendo in cambio che gli dessimo notizia di una
fidanzata» disse Labate in codice. «Ora vuole che gli diciamo dove sta la ragazza, cosa devo fare
con questo?».
«Tu gliela trovasti la fidanzata?».

«Gliela trovai».

«E dov’è ora?».

Labate glielo disse.

«Ho capito… e tu come pensavi di comportarti?».

Romeo gli spiegò il piano che in realtà gli aveva suggerito sua moglie Vittoria.

«Tu sai cosa sta succedendo a Roma, no? Le api hanno scoperto le scorte segrete di miele, e ora non
lo lasceranno più. Lì noi abbiamo tanto miele negli alveari e non possiamo toccarlo. Forse non
potremo mai più… Ma il miele è l’unica cosa che ci tiene vivi. E se quello di Dio non si può più
prendere, ci tocca andare a pigliarlo nelle Americhe, mi spiego?».

«Certo».

«Questa cosa è troppo importante per noi, e prima la si risolve, meglio è. Credo che questo sacrificio
si possa fare… Per me è conforme. Vai avanti».

Labate lo ringraziò e chiuse la chiamata.

«Cos’ha detto?» gli chiese la moglie.

«Ha detto di sì».

Vittoria Morabito sospirò. «Vai avanti allora».

Per quanto fosse incredibile, i loro documenti non mentivano. Erano davvero agenti americani
dell’FBI. Riuscirono a convincerlo a lasciare le armi e lo portarono in un appartamento che usavano
come quartier generale. Una volta dentro, capì che non scherzavano. Avevano attrezzato delle
postazioni di ascolto per le intercettazioni. Il muro del salone era tappezzato di foto, immagini
satellitari, documenti, articoli di giornale, schemi e atti ufficiali, la maggior parte in inglese. Due
scrivanie traboccavano di dossier e documenti con stemmi dell’Interpol e della Criminalpol, del
Servizio per la cooperazione internazionale di polizia e altre agenzie internazionali. Era gente che
faceva sul serio.

Mazzeo si avvicinò al mosaico di immagini. Molte delle foto riguardavano lui. Altre ritraevano
’ndranghetisti con cui aveva avuto a che fare, soprattutto Romeo Labate e gli uomini della sua cosca.
Altre ancora ritraevano i ragazzi della sua squadra.

«Vuoi caffè?» chiese la donna.


«Sì dice vuoi del caffè, bellezza. Comunque sì, lo voglio. Niente zucchero».

Anita gli lanciò un’occhiataccia e andò in cucina.

Mazzeo non aveva idea di cosa volessero. Di certo non arrestarlo. Perlomeno non ancora. Se lo
avessero voluto dentro, avrebbero potuto farlo mesi prima, quando avevano iniziato a seguirlo.

«Prego, siediti» disse l’uomo della DEA.

A Biagio era bastata un’occhiata per capire che erano tutti sbirri onesti. Sicuramente abituati a
giocare pesante. Sul filo della legge, forse. Ma onesti. Questo lo disorientava e lo preoccupava. Un
poliziotto corrotto è prevedibile. Uno onesto, no.

La donna dell’FBI tornò mettendogli una tazzona davanti. «Niente zucchero» lo scimmiottò.

Biagio la fissò. Il caffè galleggiava su qualcosa come mezzo litro d’acqua.

Alzò lo sguardo schifato e la fissò: «Cos’è questa merda?».

«Caffè americano» disse Carbone. «Questo passa il convento».

Biagio spostò la tazza lontano dalla sua portata. «Preferisco bere il mio piscio».

Bruzzone e Bracco sorrisero.

«Avete fatto il nome di Vatslava Demidov. Cosa sapete e perché ne siete a conoscenza?».

Joseph Carbone sapeva che quella era l’unica cosa che interessava davvero all’italiano. «Della
cecena parleremo tra un minuto. Prima vogliamo spiegarti chi siamo e perché siamo qui».

«Siete tutti italoamericani… vuol dire che vi occupate di mafia» disse Mazzeo.

Joe Carbone annuì. «Esatto. Un punto per te».

«Però non vedo nemmeno un poliziotto italiano. Quindi, o state agendo alle spalle della polizia e
dello Stato, oppure… oppure non lo so, ditemelo voi».

I federali si guardarono, come scegliendo chi dovesse parlare.

Iniziò Anita Gennaro, l’agente speciale dell’FBI.

«L’indagine che stiamo portando avanti è frutto di un lavoro avviato nel 2012 dallo SCO italiano
nell’ambito del protocollo d’intesa chiamato “Progetto Pantheon”, siglato fra Italia e Stati Uniti con
lo scopo di contrastare la criminalità organizzata transnazionale…».

«Ehi, se volevo una definizione andavo su Wikipedia, tesoro. Ho capito che sai parlare l’italiano, ma
calmati con i paroloni…».

Biagio e la Gennaro si scambiarono delle occhiate di fuoco.

«Mazzeo» intervenne Carbone. «Intanto vedi di darti tu una calmata e cerca di capire che siamo noi
che comandiamo qui perché sappiamo tutto di te».

«Ah, sì?».

«Sappiamo che sei un uomo di ’ndrangheta affiliato alla cosca Barbaro, cosa dici?» intervenne Mark
Bruzzone.

Mazzeo impallidì.

«Vuoi che parliamo un po’ della tua gitarella in barca?» continuò Bruzzone.

«A quello ci arriviamo tra un secondo… L’operazione è sotto il coordinamento dell’Eastern District


di New York con diversi agenti dell’FBI e della DEA sotto copertura» continuò Carbone, questa
volta senza che il poliziotto lo interrompesse. Carbone parlava un italiano perfetto, da madrelingua, a
differenza degli altri che nonostante avessero una notevole proprietà di linguaggio erano traditi
dall’accento estero. «Va avanti da due anni. Per la vostra polizia il profilo internazionale
dell’inchiesta è curato dalla Direzione centrale per i servizi antidroga e dal Servizio cooperazione
internazionale di Polizia… stavamo collaborando attivamente con una task force dello SCO, in
particolare con la dottoressa Irene Piscitelli, finché è scomparsa nel nulla… Tu ne sai qualcosa,
Mazzeo?».

I federali sapevano più di quello che Biagio immaginava. Se gli stavano dietro da due mesi,
dovevano per forza di cose conoscerlo bene. Decise di mostrarsi collaborativo per capire quanto
effettivamente sapevano, e scoprire se stavano cercando di fotterlo.

«Solo voci di corridoio» disse.

«Ovvero?».

«La Piscitelli era marcia fino alle ossa. Lavorava per i calabresi, aveva stretto un patto con loro.
Quando ha capito però che la ’ndrangheta non stava più ai patti originari dopo la morte in carcere di
Natale Pugliese, un boss che avevamo fatto arrestare insieme, ha alzato la voce e ha detto che il loro
accordo finiva lì, dichiarando guerra aperta. La Mamma non ha gradito. La Piscitelli sapeva troppe
cose e hanno deciso di farla sparire… questo è quello che so».

Dagli sguardi che si scambiarono comprese che non se l’erano bevuta. Continuò a fissarli senza
scomporsi.

«Sarà…» disse Carbone.


«Esattamente di cosa tratta questa vostra operazione?».

«Ci occupiamo di droga e ’ndrangheta» intervenne Bracco. «L’operazione si chiama New Era, e
vuole stroncare sul nascere l’asse Calabria- USA che si sta formando, soprattutto Calabria-New York
per quanto riguarda il traffico di droga. Eroina da una parte, cocaina dall’altra».

«I calabresi sono in affari da anni con Cosa Nostra americana e canadese» disse Anita Gennaro.
«Ora il loro rapporto si sta consolidando un po’ troppo. La ’ndrangheta vuole iniziare a distribuire
droga anche sul suolo nordamericano in partnership con i picciotti americani, sfruttando i loro
contatti e protezioni. Il nostro obiettivo è spezzare sul nascere questa alleanza per evitare che ricapiti
quanto accaduto con Cosa Nostra, in America».

«Cioè?».

«Che assuma troppo potere e diventi incontrollabile» intervenne l’uomo della DEA. «Tanto più che
la ’ndrangheta ha un potere di infiltrazione molto più forte dei siciliani. Sono nel Nordamerica già da
più di un secolo, e sanno come muoversi. Pensa che l’FBI si è accorta di loro e dei loro traffici solo
nel 2008. E poi sai meglio di me come sono fatti… inizierebbero a fare affari con i siciliani, per poi
spodestarli e prenderne il posto. Non li vogliamo in casa nostra».

«Abbiamo già i nostri problemi col terrorismo islamico» disse Bruzzone. «Hai visto il puttanaio che
stanno facendo in Francia e in Belgio, no? Non abbiamo tempo né soldi per gestire un casino del
genere. Le guerre in Medioriente ci hanno lasciato a secco, e sarà ancora peggio dopo questi ultimi
attentati. Lo Stato manderà tutti i soldi lì e a noi taglierà ulteriormente i fondi…».

«E quanto cazzo credi che me ne freghi a me da uno a dieci? Me ne sbatto il cazzo dei fondi dell’FBI.
Ripeto: di cosa stiamo parlando?» disse duro Mazzeo.

Bruzzone parve scattare sulla sedia e Carbone lo bloccò afferrandolo per un braccio. Mazzeo lo
sfidò con lo sguardo, sorridendo.

«C’è stata un’operazione qualche anno fa che si chiamava Old Bridge, sempre in coppia con la
polizia italiana» intervenne la Gennaro. «Abbiamo stroncato l’asse Sicilia-America. Le famiglie
stavano ricostruendo il ponte da una parte all’altra dell’oceano. Siamo riusciti a bloccarli e a
mandarli quasi tutti dentro. Ora però ci stanno riprovando, questa volta con la ’ndrangheta, una
“nuova era” appunto. La loro».

«E quindi avete paura, perché la ’ndrangheta non è Cosa Nostra…».

«Non solo. Ormai in America ci sono più mafiosi nel Programma di protezione testimoni che in
libertà» disse Anita. «È il momento giusto per spazzarli via definitivamente. Stroncare questa
alleanza significa rovinarli anche dal punto di vista economico, a parte il fatto che è una questione
d’immagine con i contribuenti, come non mancano di ricordarci i piani alti».

«E tu cosa ci fai qui? Cosa c’entra la DEA con l’FBI?» chiese Mazzeo a Carbone.
Gli agenti scossero la testa davanti alla sfrontatezza e l’ingenuità dello sbirro italiano.

«Sono quello che si chiama resident chief agent in charge della DEA in Italia» disse Joe Carbone.
«Sono quello che tu chiameresti un pezzo grosso, Mazzeo».

«Metti pure agli atti che sono molto impressionato» lo schernì l’italiano.

Carbone lasciò correre, non era tipo da reagire alle provocazioni. «I calabresi vogliono esportare
eroina in America e importare cocaina in Italia attraverso i rapporti dei Gambino con i narcos. Tutto
questo alle spalle dei messicani che distribuiscono la coca negli USA e guardano con la bava alla
bocca l’Europa, una cosa parecchio pericolosa… Vogliamo intervenire prima che scoppi un casino
che potrebbe tradursi in una guerra tra bande. Stiamo parlando di traffico internazionale di droga, è
chiaro che la DEA è in mezzo. Dietro quest’operazione ci sono io, sebbene non in via ufficiale…
Sono in Italia da tanti anni e sono in ottimi rapporti con le autorità italiane, leggasi dipartimento
dell’interno e Servizi. Ci siamo capiti, Mazzeo?».

Biagio aveva afferrato la minaccia insita nelle parole del federale. Non era uno con cui poteva
cazzeggiare. Doveva essere uno di quei nomi che non figurava mai nei rapporti ufficiali o negli
articoli di giornale: una mezza spia.

«Sono un esperto di ’ndrangheta e so come muovermi tra gli apparati istituzionali italiani. So di chi
posso fidarmi e di chi no, è per questo che ci stiamo incontrando qui. Quindi considerati al sicuro.
Sei circondato da professionisti della lotta al crimine organizzato».

«Come ti ho detto prima, sono impressionato» disse Biagio. «Il punto è: cosa c’entro io in tutto
questo?».

Joe Carbone si voltò verso gli agenti dell’FBI. «Vi dispiace se gli dico due parole in privato?».

Dai loro sguardi Mazzeo capì che avevano concordato quel passaggio. Quando i tre agenti federali si
alzarono e li lasciarono soli, Biagio ebbe un brutto presentimento.

«Ti tenevamo d’occhio da un po’, ancora prima che ti accorgessi di noi» proseguì Carbone
inchiodando i suoi occhi a quelli del poliziotto. Quelli dell’uomo della DEA erano altrettanto celesti
e freddi. Mettevano soggezione per la fissità con cui guardavano.

«Sappiamo cos’hai fatto con la Piscitelli, come vi siete sbarazzati di Pugliese. Idem per la “guerra di
secessione” tra i calabresi del nord e la Mamma, e siamo al corrente anche di come ti sei guadagnato
la loro stima e il loro rispetto… Sappiamo anche, però, che sei un soggetto pericoloso e corrotto,
Mazzeo» continuò giocherellando con un accendino.

«Ed ecco che arrivano le offese…».

«Nessuna offesa, sto parlando di dati di fatto. Sappiamo che sei salito su una barca due mesi e mezzo
fa, e che al largo hai prestato giuramento con la ’ndrangheta come santista».
Biagio si sentì gelare il sangue.

«E come lo so io, lo sanno anche loro» disse indicando i colleghi nell’altra stanza. «Siamo a
conoscenza della tua affiliazione, non solo perché eri entrato nella nostra, come dire, sfera di
interesse, ma perché abbiamo un infiltrato nelle cosche… o meglio, avevamo. Perché anche lui è
salito su quella barca, solo che non ne è mai sceso…».

Carbone estrasse una foto da un dossier e gliela passò. Biagio lo riconobbe subito: era l’uomo che
gli avevano fatto uccidere quella notte.

«Lo riconosci, vero?».

«Mai visto prima» mentì Mazzeo restituendogli l’immagine, cercando di nascondere l’angoscia.
Operazione parecchio complessa. Quella foto era stata una staffilata in pieno stomaco.

«Sarà… secondo me però te l’hanno fatto uccidere per sancire il vostro patto. Devono aver scoperto
che stava collaborando con le autorità e l’hanno fatto fuori, o meglio te l’hanno fatto ammazzare per
tenerti per le palle».

Biagio non fiatò.

«Perché ti tengono per le palle, vero?».

Il poliziotto spostò lo sguardo di lato, sottraendosi agli occhi inquisitori dell’americano.

«La tua fortuna, Mazzeo, era che non c’era ancora niente di ufficiale che lo collegasse a noi. Era
semplicemente uno che avevamo messo spalle al muro, e a cui avevamo offerto una via d’uscita…
ma dal mio punto di vista era un sacrificabile, mi spiego?».

Mazzeo ebbe la conferma di averci visto giusto: Carbone era abituato a giocare pesante.

«E torniamo allo stesso punto di prima: che cazzo vuoi da me?» gli chiese.

«Tu mi hai ucciso un infiltrato, caro mio, e adesso prenderai il suo posto».

Mazzeo gli rise in faccia.

«Non accetto no, Mazzeo».

Biagio rimase in silenzio per qualche secondo. Capì di trovarsi in un casino più grande di lui, e
proprio nel momento peggiore.

«Piantamola con i giochetti e dimmi cosa vuoi da me».

«Hai ammazzato il nostro informatore e l’operazione è troppo importante per farla saltare. Quindi
prenderai tu il suo posto, altrimenti racconteremo ai tuoi cos’hai fatto e cosa sei diventato».
«Passereste sopra un cadavere?».

«Un cadavere di un pezzo di merda di mafioso? Ci puoi scommettere… E comunque, meglio passare
sopra un cadavere che lasciar scoppiare una guerra. Tu non sai cosa c’è in ballo. Io sì. E sono troppo
vecchio per un’altra guerra di mafia… Inizia a collaborare con noi e aiutaci a stroncare
l’organizzazione tra Italia e Nordamerica prima che sia troppo tardi. Abbiamo fretta di dare
un’accelerata alle indagini e chiudere la faccenda».

«Perché tutta questa fretta?».

«L’FBI ha bisogno di riacquistare credibilità dopo gli ultimi scandali e tra poco si rimette in
discussione il budget del Bureau. Isis e Siria si mangeranno una bella fetta di fondi, quindi… Se c’è
un momento buono per un’operazione brillante su larga scala, credimi, è questo».

«Se lo faccio, sono un uomo morto. Mi troveranno e mi uccideranno».

«Un problema che possiamo risolvere».

«Come?».

«Il tuo tempo qui è finito, Mazzeo. Non sei più gestibile. I tuoi superiori ne hanno le palle piene di te.
A noi invece puoi servire. Lavora per noi e una volta spezzato il ponte ti accoglieremo a braccia
aperte negli Stati Uniti. Avrai un lavoro e tutte le protezioni del caso. Ci aiuterai a dare la caccia a
tutti gli ’ndranghetisti e mafiosi rimasti. Non dovrai preoccuparti di nulla…».

«Metti anche che ti dica di sì, come puoi fare una cosa del genere?».

«Ci sarà un grosso scambio di favori tra le autorità americane e quelle italiane, e la cosa si risolverà
sottotraccia. D’altronde anche lo SCO ha i suoi begli scheletri nell’armadio. Da dove pensi che sia
nata l’idea di mandare la Piscitelli a trattare con i calabresi? Stai tranquillo che so come fare leva
sulla polizia e il ministero dell’Interno. So a quali porte bussare e chi minacciare. Dimmi di sì e ti
faccio subito mettere dentro quest’operazione, non dovrai più rendere conto a nessuno, né a Verri né
al tuo vicequestore, solo a me. Mi occuperò io di tutto».

Mazzeo si rese conto che Carbone non aveva ancora fatto il nome di Pagani. Dedusse che non ne
sapeva nulla. Per il momento. Da quel punto di vista aveva ancora libertà di movimento, quindi.
Decise di prendere tempo, fargli credere che poteva essere interessato.

«Per quanto riguarda la mia posizione… Di cosa stai parlando esattamente?».

«Ti sollevo dal tuo incarico come ispettore di polizia e ti faccio venire in America, facendo cadere
qualsiasi capo d’imputazione i tuoi ti possano mettere addosso. Per le forze dell’ordine italiane
sparisci. Diventi un nostro infiltrato, sarai intoccabile per le autorità italiane… diventerai un
fantasma».
«Io non ho nulla di cui dovermi…»

«Non sono un semplice federale, Mazzeo… So tutto su di te, so cos’hai fatto. So del tuo uomo, Oscar
Fortunato. So di Ivankov, so di Nicky, della cecena. So tutto».

“Merda” pensò lo sbirro.

«E loro?» chiese indicando i federali nell’altra stanza.

«Sanno alcune cose, non tutto. Ma non preoccuparti di loro, conoscono le regole del gioco. Noi
americani siamo persone pragmatiche, puntiamo al risultato. Lavora con noi e per noi, e di loro non ti
dovrai preoccupare, te l’assicuro».

«I calabresi… diciamo anche che potrei venire dalla vostra parte, ma prima loro devono darmi una
cosa, una cosa per me molto importante».

«Vatslava Demidov» disse Carbone.

«Non l’ho fatto per soldi. È lei l’unica cosa che voglio».

«Lo so… Ma ti rendi conto che ti stanno usando?».

«No. Ci stiamo usando a vicenda. Io faccio quello che devo fare e loro mi danno la troia».

«Ti danno la troia?».

«È quello che ho detto».

«Sei un figlio di puttana, Biagio Mazzeo, ma sappi che mi dispiace molto».

«Ti dispiace per cosa?».

Mazzeo lesse negli occhi dell’americano una profonda pietà. Lo vide infilare la mano nella tasca
interna della giacca, prendere qualcosa e passarglielo.

Una bustina.

«Aprila».

Biagio l’aprì e si ritrovò tra le dita l’anello di Sergej Ivankov.

«Vatslava Demidov è stata uccisa tre mesi fa» disse Carbone. «I calabresi ti hanno preso in giro per
tutto questo tempo…».
Parte seconda
Tutta la guerra si basa sull’inganno.
SUN TZU

È più facile perdonare un nemico che un amico.


WILLIAM BLAKE
NULLA È PER SEMPRE
Privare un uomo della sua vendetta equivale a castrarlo.

Mazzeo si sentiva così: castrato.

Perché il pezzo di platino che stringeva tra le dita era certo che fosse quello appartenuto a Ivankov,
lo stesso che Vatslava gli aveva rubato la notte in cui aveva ucciso Nicky. Le dita del poliziotto
l’avevano accarezzato troppe volte per non riconoscerlo. E l’iscrizione all’interno dell’anello,
Aisha, il nome della moglie di Ivankov, Biagio la conosceva troppo bene per non identificarla in tutte
le sue asperità e solchi.

L’americano gli aveva appena restituito l’anello che Vatslava Demidov gli aveva strappato via
dall’anulare una notte di quattro mesi prima.

Per la donna quell’anello era uno dei pochi ricordi dell’uomo che aveva amato alla follia. Non se lo
sarebbe fatto portare via senza combattere. Questo significava soltanto una cosa: l’americano stava
dicendo la verità.

Eppure Biagio non poteva credere a quella notizia.

«No… È impossibile…» sussurrò scuotendo la testa, gli occhi smarriti che frugavano tra i graffi
sulla superficie dell’anello per cercare un’imperfezione, un dettaglio che gli dicesse che si trattava di
un falso.

Non ne trovò nemmeno uno.

L’anello non mentiva.

Così come non mentivano le foto che il federale gli mostrò. Ritraevano Vatslava scomposta
sull’asfalto, un buco bordato di sangue in fronte. Altre ritraevano il suo cadavere nudo, in procinto di
affrontare l’autopsia, ritratto dalle angolazioni più disparate. Alcune il suo corpo eviscerato.

Era lei. Biagio ne era certo.

«Mi dispiace… ti sei venduto per nulla» disse l’americano.

«No, ti sbagli… non, io… non…». Balbettava come un bambino, Biagio Mazzeo. Iniziò a tremargli
una palpebra e si sentì in debito d’ossigeno, come se avesse appena finito una maratona. Le dita
frugavano disperate l’anello, in cerca di un particolare che ne rivelasse la non autenticità.

«Vatslava è morta esattamente un mese dopo la scomparsa di Nicky. È stata uccisa da una squadra di
spie e sicari dell’FSB russo, l’unità speciale antiterrorismo ex KGB, per i suoi legami con la
guerriglia cecena. L’hanno freddata a Singapore, insieme ai suoi uomini, comprandosi la protezione
di alcuni poliziotti locali. Si è trattato di un’operazione militare, supportata dai servizi russi».

Carbone osservò Mazzeo andare in pezzi. Ma doveva continuare. Per quanto dolore potesse
arrecargli, il poliziotto doveva capire con chi si era messo in affari.

«Era riuscita a sopravvivere a diversi attentati, sicari mandati da ciò che rimaneva della vecchia
guardia di Ivankov, capi dell’Organizzazione a lei ribelli. Ma con i russi non ce l’ha fatta. Hanno
vinto loro… L’anello mi è stato mandato da un poliziotto cinese che lavora per noi… Se è stata
uccisa tre mesi fa, significa che quando tu hai fatto il giuramento, i calabresi già sapevano che lei era
morta».

Quelle parole trapassarono Biagio da parte a parte.

«Dopo una settimana dalla sua morte è stato ucciso anche Samil Argun, l’uomo a lei più vicino
nell’organizzazione, questa volta per mano dei mafiosi ceceni. Crediamo che siano stati gli stessi
ceceni a vendere Vatslava ai russi, per levarsela di torno e vendicare la morte dei dodici boss
uccisi… i russi non aspettavano altro. I conti con il clan Ivankov erano aperti dalle guerre civili in
Cecenia. Gli uomini che l’hanno uccisa si son fatti ricchi coi soldi della taglia sulla sua testa».

Biagio tremava. Lacrime di rabbia scorrevano sul suo viso.

Joseph Carbone non si fermò. Doveva andare fino in fondo.

«Non è uscito nulla sui giornali perché la donna non è stata identificata, girava con documenti falsi, e
i ceceni non hanno voluto fare pubblicità per non rovinare gli affari e la loro reputazione: di fatto
sono entrati in guerra tra loro per la spartizione dell’organizzazione, ma questo immagino che non ti
interessi… Per quanto riguarda i russi, beh, hanno agito con una black operation in territorio
straniero. Non sono cose che puoi pubblicizzare in giro».

«Co-come sai queste cose…».

«CIA e NSA. Non si muove una foglia in Cina senza che gli USA non lo sappiano. Sapevo che stavi
cercando Vatslava, ho chiesto ai nostri analisti il favore di trovarla, pensando di usarla come moneta
di scambio per farti lavorare per noi, ma sei stato più veloce e sei andato a cercare i calabresi,
infognandoti con loro… solo che lei era già morta».

Biagio si alzò e gli diede le spalle, asciugandosi gli occhi.

Per qualche minuto rimase immobile, in silenzio, il pugno che stritolava l’anello come se volesse
polverizzarlo. Quelle rivelazioni l’avevano annientato.

L’uomo della DEA rispettò il suo dolore. Aveva mandato via gli altri perché voleva evitargli
quell’umiliazione. L’umiliazione di riconoscere che aveva venduto l’anima per nulla. L’umiliazione
di un uomo che aveva sacrificato tutto per una vendetta effimera.
«Come fai a essere sicuro che i calabresi sapessero?» chiese poi.

L’americano prese un registratore vocale digitale e fece partire un audio. Nell’arco di un minuto la
voce di Romeo Labate spiegò a un superiore che la donna che lo sbirro stava cercando secondo i
loro contatti russi era morta, e che aveva intenzione di non dirlo a Mazzeo per continuare a usarlo.

«Risale a circa tre mesi fa» disse Carbone. «Mi dispiace, Mazzeo».

Biagio, sempre di spalle, annuì. Non c’era consapevolezza in quel gesto. Era un tic nervoso.

«Vatslava era una terrorista ancora prima di essere una mafiosa. Non eri l’unico con cui aveva conti
in sospeso… alcuni dirigenti dell’FSB gliel’avevano giurata dopo la morte di colleghi e parenti in
Cecenia».

«Labate… Qual era il loro piano?».

«Ti avrebbero usato ancora un po’ e poi ti avrebbero fatto fuori. Stavi diventando ingestibile anche
per loro».

Mazzeo sospirò e si passò una mano sul viso contratto dalla disperazione. Vatslava era morta eppure
la sua rabbia e il suo odio vendicativo ribollivano ancora in lui. Aveva la sensazione che non se ne
sarebbe potuto liberare mai più.

«L’anello… lo posso tenere?» mormorò.

«Per quanto mi riguarda è tuo».

Biagio chiuse gli occhi e s’infilò la fede di Ivankov all’anulare sinistro. Alla fine, come baciato da
una maledizione, quell’anello era ritornato da lui con il suo carico di sangue e incubi.

“Ora pensa… devi pensare a cosa fare” si disse.

I federali ancora non sapevano che aveva in mano il broker, ma l’avrebbero scoperto presto. Doveva
agire in fretta.

«Sei stato onesto e corretto con me, di questo ti ringrazio» disse Mazzeo voltandosi verso Carbone.
«Ma quello che mi proponi… ci devo pensare. Ho bisogno di un po’ di tempo».

«Non abbiamo tempo, Mazzeo».

«Lo so… ma qua c’è la mia vita in ballo. Ho avuto un figlio qualche giorno fa…».

«Ne sono a conoscenza, ma ho infranto molte regole portandoti qui e giocando a carte scoperte. Hai
ucciso un mio informatore… se non vuoi che la verità salti fuori, mi devi dare qualcosa di così
grosso da controbilanciare quella perdita, mi devi dare il ponte tra calabresi e americani, al
completo. Sappiamo che i contatti sono in questa città e che Labate è coinvolto fino al collo nella
faccenda. Dacci l’organizzazione e noi ci prenderemo cura di te. Diremo che stavi già lavorando per
noi, ti copriremo il culo e…».

«Se accetto la tua proposta, significa che dovrò dire addio per sempre a mio figlio, lo capisci
questo?».

«Sì, ma questo non è un mio problema, Mazzeo. Sei soltanto vittima delle tue scelte. È il prezzo che
devi pagare per tutto ciò che hai fatto finora…».

«Sarà, ma comunque parliamoci chiaro, Carbone: tu mi vuoi usare perché se le cose dovessero andar
male, non ci metteresti un secondo a silurarmi, e i tuoi uomini farebbero lo stesso. Io sono ancora più
sacrificabile del tuo infiltrato… anche tu mi vuoi usare, quindi non dirmi stronzate e smettila di
giocare al padreterno».

Si fissarono in silenzio per qualche secondo. Nessuno dei due levò gli occhi dall’altro.

«Mettila come vuoi, ma non mi sembra che tu abbia molte opzioni, Mazzeo».

«Senti, sono abbastanza sotto shock… devi darmi qualche ora per riprendermi, e per favore
smettetela di seguirmi… mi faccio vivo io».

L’americano lo fissò negli occhi arrossati, arsi dal sale delle lacrime.

«Ascoltami bene perché te lo dirò una volta soltanto. Se tu adesso vai contro Labate e i suoi, io non
potrò fare più niente per te, ficcatelo bene in testa. Da tuo possibile alleato, diventerò il tuo più
feroce nemico, mi spiego?».

Mazzeo annuì.

«So come ti senti. Quello che hai fatto finora l’hai fatto per niente. Ti hanno usato come una troia. Ma
sei entrato nel loro giro, Mazzeo. Sei un affiliato, una cosa troppo importante per sprecarla così.
Facciamogliela pagare, distruggiamoli dall’interno… So che stai pensando di ucciderli, ma A: è una
stronzata. E B: per quanti tu ne uccida, non puoi ucciderli tutti… se ti vuoi vendicare, lavora con noi,
aiutaci a spazzarli via… Devi dimenticarti di Vatslava. Ormai è una storia chiusa… Pensa a farla
pagare a chi ti ha fottuto per tutto questo tempo. Aiutaci perché, Cristo, vogliamo la stessa cosa…».

«Fammici pensare».

«Hai tempo fino a stanotte per decidere, poi, se non ricevo tue notizie, ti darò in pasto ai tuoi
colleghi…».

«Ok, ho capito».

«Prendi questo dossier e dagli uno sguardo. Cerchia tutte le persone che riconosci e con cui hai avuto
a che fare in questi mesi…».
Carbone gli consegnò anche un foglio con i suoi riferimenti. «Stanotte… non fare cazzate».

Biagio prese il foglio e il dossier e afferrò anche le foto dell’autopsia di Vatslava, chiedendo
tacitamente il permesso all’americano.

«Dato che immagino che non parli cinese, nel rapporto autoptico c’era scritto che era incinta. Il
bambino è morto con lei. I russi hanno ucciso due persone… non mi sembri il tipo a cui possa
interessare, ma…».

«Quella donna aveva portato via la cosa più bella della mia vita…» disse Biagio.

Carbone non rispose e l’osservò andarsene col materiale sottobraccio.

«Ehi, cosa fai, l’hai lasciato andare?» chiese Bruzzone rientrando con i colleghi.

L’uomo della DEA confermò.

«Perché?» chiese la donna. «Potrebbe scappare».

«No, non scapperà. Non ha altra scelta e lo sa».

Qualche minuto più tardi, Joseph Carbone uscì sulla terrazza dell’appartamento chiudendo la vetrata.
Sfilò una sigaretta dal pacchetto, l’accese e assaporò la prima boccata a occhi chiusi. Pensava a
come aveva visto la vita spegnersi negli occhi del poliziotto italiano. Le sue parole l’avevano
freddato. Per lavoro, nell’arco degli anni gli era già capitato di uccidere. Ma con le parole mai. Era
la prima volta. Si rese conto che solo il metodo cambiava, ma l’effetto era lo stesso.

Quando sentì la vetrata aprirsi, capì che era lei ancora prima che parlasse.

«Che impressione ti ha fatto?» gli chiese Anita Gennaro.

«È un uomo distrutto. Una mina vagante… e se almeno prima aveva uno scopo, una missione, ora non
ha nemmeno quello» rispose Carbone. «Un uomo così è un pericolo».

«Eppure vuoi continuare a usarlo».

«Non abbiamo scelta. È pericoloso, ma rappresenta una risorsa fondamentale per l’operazione… A
te che impressione ha fatto?».

«So che sembra una puttanata, ma hai presente quella storia cinese che dice che se ti vuoi vendicare
devi scavare due tombe, una per il tuo nemico e una per te?».

Carbone gettò la cicca a terra.


«Beh, basta guardare in faccia Mazzeo per capire che è vero… Ha lo sguardo di un leone in gabbia.
Lui è già dentro la fossa che si è scavato».

«Per questo dobbiamo servircene subito» disse Joseph. «Un uomo così non dura a lungo…».

«Speriamo… voglio tornare a casa, non ne posso più».

«A chi lo dici… a proposito di casa, fammi chiamare mia moglie prima che chieda il divorzio. Non
posso permettermene un altro…».

Anita lo lasciò solo, chiudendo la vetrata.

Joe compose un numero a memoria e aspettò accendendosi un’altra Marlboro.

«Sì?».

«L’ho agganciato» disse l’uomo della DEA.

«E allora?».

«Credo che ce l’abbia lui… non ho nominato Pagani di proposito e lui non si è azzardato a farlo. Ma
era in tensione, come se si aspettasse che lo tirassi in ballo da un momento all’altro. Quando non l’ho
fatto, l’ho visto rilassarsi. Quindi credo proprio che sia in mano sua».

«Come pensavamo…».

«Già».

«Dov’è ora?».

«L’ho lasciato andare».

«…».

«Era la cosa migliore da fare. Ci dobbiamo risentire stasera. E stai certo che mi chiamerà, non ha
altra scelta».

«Spero che tu abbia ragione» rispose l’altro. «Forse dovremmo…».

«Si fa come dico io» intervenne duro l’americano. «Andiamo avanti come da programma».

Joseph chiuse la chiamata, rinfoderò il cellulare e soffiò fuori il fumo.

“Ora non puoi più tornare indietro” si disse sentendo il formicolio dell’adrenalina attraversarlo.
Vatslava l’aveva beffato anche da morta. La vendetta l’aveva accecato. Ora vedeva tutto chiaramente
e non si capacitava di come avesse potuto non accorgersene prima. La reticenza di Labate, il modo in
cui l’aveva manovrato legandolo crimine dopo crimine sempre di più a lui e all’organizzazione…
avrebbe dovuto capirlo da subito. Sull’onda della disperazione Biagio aveva fatto tutto ciò che gli
avevano ordinato di fare, perché il pensiero che qualcuno potesse uccidere la cecena al posto suo
non era contemplabile per la sua mente affamata di vendetta.

E ora si trovava a non avere più niente, messo all’angolo dagli americani, con un latitante nascosto su
cui pendeva una taglia da cinque milioni di dollari, e una scia di sangue alle spalle così lunga che
non sapeva più dove iniziava. Tutto questo per nulla. Per tutto quel tempo aveva dato la caccia a un
fantasma. Letteralmente. Vatslava era morta. E la sua vendetta era morta con lei.

Accostò e spense il motore. Aveva guidato come un pazzo. Doveva fermarsi per qualche minuto e
quietarsi. Chiuso nel fuoristrada, si massaggiò le nocche doloranti. D’improvviso si sentiva vecchio
e debole, sprofondato in un abisso di colpa e inutilità. Non era riuscito a vendicare Nicky. Non lo
avrebbe più potuto fare. Che senso aveva continuare a vivere?

«Stupido… stupido… stupido…» mormorò, il corpo squassato dai tremiti, mentre nella sua mente
fluivano tutti i crimini che aveva commesso in nome della sua vendetta. Delitti inutili.

Fece l’errore di chiudere gli occhi.

Vide l’immagine di Nicky davanti a sé, gli occhi sgranati dalla paura, le catene che la inchiodavano a
terra. E subito dopo i proiettili che la trapassavano, e poi le fiamme che sbranavano il suo corpo…

La marea dell’ansia generata dai sensi di colpa s’alzò d’improvviso, travolgendolo. Si sentì mancare
il respiro. Si tolse nervoso il giubbotto e la fondina con la pistola portandosi una mano al petto dove
il cuore batteva imbizzarrito. Travolto dal panico, uscì dall’auto perché gli sembrava di non avere
più aria là dentro. Ma una volta fuori non cambiò nulla: era come se si trovasse su Marte, senza
ossigeno.

Si appoggiò al Suv per non crollare a terra, mentre i contorni delle cose sfumavano.

Ti voglio bene, Biagio… la sua voce.

Si sforzò di ignorarla e provò a incamerare aria, invano.

Prenditi cura di lei, ragazzo… la voce di Santo.

Scivolò di schiena sulla carrozzeria fino a trovarsi seduto sull’asfalto, le mani a nascondersi il viso.

Io ti amo, e ti amerò sempre, perché sei tutto per me… quella di Sonja.

Le voci si accavallarono nella sua mente, diventando un coro infernale. Voci di fantasmi. Voci di
persone che aveva perso in un modo orribile. Strappate alla vita, e strappate al suo cuore. Per colpa
sua. Solo e soltanto per colpa sua.

Avrebbe voluto morire, Biagio Mazzeo.

Sperava che il dolore che sentiva artigliargli il cuore fosse un infarto.

“Uccidimi” pensò. “Puniscimi con la morte e fammi andare da loro”.

Ma il suo cuore resse.

La morte sarebbe stata una pena troppo lieve.

La vita, invece, era la sua gabbia. Il suo inferno.

E le anime all’inferno gridano di disperazione.

Seduto sull’asfalto, a Mazzeo sembrò di sentire le risate della cecena che lo deridevano.

Non sei riuscito nemmeno a uccidermi, pezzente… non sei nulla… diceva Vatslava dentro la sua
testa.

Biagio urlò liberando tutto il dolore e la rabbia, tutte le colpe e i fantasmi che aveva dentro.

Una volta li chiamavano “i Servizi”. Avevano ampio potere operativo e decisionale, e godevano di
forti protezioni a livello istituzionale. Era stato bello finché era durato. Ma, come tutte le cose belle,
era destinato a finire. Dall’alto, ciclicamente, cambiavano il nome all’agenzia; come se,
presentandola con un nome diverso, automaticamente uccidessero e seppellissero l’amministrazione
precedente, infossando con il nome anche tutti i segreti, gli errori, gli orrori e le porcherie che
avevano fatto. E prima che cambiassero ancora nome qualche anno prima, di orrori e porcherie ne
avevano alle spalle parecchi, sebbene fossero stati abbastanza in gamba da nasconderli o addossarli
a qualche dirigente sacrificabile. Ora si erano ripuliti. Si chiamavano AISI: erano l’Agenzia
Informazioni e Sicurezza Interna. Un nome più moderno e rassicurante, sul modello delle agenzie di
intelligence americane, come per dire: vi sorvegliamo, ma lo facciamo con tatto e professionalità.
Puttanate. Al di là del nome, la sostanza di ciò che facevano non cambiava: spiare. Raccogliere
informazioni. Intervenire nell’ombra. Neutralizzare, far sparire, epurare, manovrare, rassicurare,
proteggere. Tutto con un bel nome che garantiva un’aura di professionalità e democrazia. Stronzate.
Gli ex operatori traghettati dal vecchio apparato continuavano a fare il loro lavoro come l’avevano
sempre fatto, senza onore né gloria, pronti a tutto per la salvaguardia del Paese. A tutto. E per quanti
paroloni e sinonimi gli uomini del ministero potessero inventarsi, la realtà era che erano rimasti
sempre gli stessi: spie.

E la spia che sedeva nella Mercedes blindata fuori dall’albergo del procuratore Antonio Gualtieri
era una delle migliori. Non solo la sua era stata una delle poche teste a non cadere nel passaggio
all’AISI, ma aveva fatto anche carriera in fretta, diventando uno dei tre vicedirettori sotto il direttore
generale della nuova agenzia. Si chiamava Michelangelo Corvetto, ma tutti lo chiamavano il Corvo.
E prima di approdare ai Servizi, era stato un vicequestore di polizia pluridecorato, specializzato nel
contrasto alla criminalità organizzata, soprattutto alla mafia siciliana. Per diversi anni era stato
mandato negli Stati Uniti per insegnare a FBI e varie polizie metropolitane cos’era Cosa Nostra e
come si combatteva. Per qualche tempo era stato anche un ufficiale di collegamento con l’Interpol, e
godeva di stima e rispetto nell’ambiente delle polizie straniere. Il direttore aveva scelto Corvetto
proprio per i suoi legami con la Polizia di Stato, e perché sapeva come muoversi tra forze
dell’ordine e magistratura.

Mentre aspettava che il magistrato calabrese uscisse dall’albergo con la scorta, Corvetto sfogliò sul
tablet gli aggiornamenti via mail sull’operazione New Era. Michelangelo, seppure nell’ombra, era
stato uno dei più agguerriti promotori del protocollo d’intesa denominato Progetto Pantheon, siglato
fra Italia e Stati Uniti per contrastare la criminalità organizzata internazionale. L’inchiesta New Era
dell’FBI e dello SCO italiano era nata in seno e con la benedizione del Pantheon, quindi Corvetto
sapeva tutto ciò che c’era da sapere sull’operazione e le forze in gioco. Antonio Gualtieri, invece,
no. Non sapeva su quale terreno si stava muovendo e quali equilibri correva il rischio di spezzare
con la sua sete di giustizia e la sua crociata contro la ’ndrangheta. Soprattutto dopo la fuga di Roberto
Pagani, Gualtieri aveva sollevato un polverone, vedendo nemici anche all’interno della sua stessa
procura; e a Michelangelo era arrivata la voce che il magistrato calabrese si apprestasse a mettere in
mezzo stampa e televisioni. Di nuovo. Una puttanata bell’e buona. Per questo si trovava lì, perché il
procuratore doveva perdere il vizietto di andare a piangere sulla morte della giustizia nei teatrini dei
salotti televisivi, creando allarme e tensione negli alti apparati governativi e nelll’opinione pubblica.
Corvetto voleva risolvere la questione di persona, senza possibilità di equivoci.

Gualtieri uscì dall’albergo protetto dalla scorta e subito il gruppetto fu intercettato dagli uomini in
borghese dell’intelligence, che si qualificarono e dissero al magistrato che c’era una persona con cui
doveva parlare. Davanti alle rimostranze del procuratore, bastò che uno degli uomini dicesse: «Si
tratta di Roberto Pagani», per ammansirlo e farlo entrare nella Mercedes, solo. La scorta rimase
fuori, nervosa, scambiando occhiate burrascose con gli uomini dei Servizi.

«E lei chi sarebbe?» chiese il calabrese con il suo piglio diffidente e scorbutico.

Corvetto glielo disse, qualificandosi.

Antonio Gualtieri scosse la testa: «E allora, qualsiasi cosa abbia da dirmi, non mi interessa. Ho già
avuto a che fare con voi, so come lavorate e non mi piace. Arrivederci».

Provò ad aprire la portiera, invano. Era chiusa dentro.

«Si dia una calmata, dottore» disse il vicedirettore dell’AISI.

«Mi faccia uscire. Subito».

«Tra un minuto… Lei sta collaborando attivamente, fra le sue varie inchieste, a una che si chiama
New Era, giusto?».

«Sa che è così… E allora? Cosa c’entrate voi?».

«Curiamo i rapporti con l’FBI e la DEA americana, e vigiliamo affinché tutto vada per il verso
giusto…».

«Ottimo. Ditemi allora dov’è Pagani, lui sì che può rompere il ponte fra gli ’ndranghetisti e i
Gambino. A meno che non l’abbiate liberato proprio voi…».

Corvetto non si lasciò toccare dalla vergognosa insinuazione e andò avanti come se non avesse
sentito. «Gli americani hanno individuato una fonte in grado di attivare un flusso di informazioni che
distruggeranno il ponte. Una persona all’interno».

«Chi?».

«Questo non posso dirglielo».

«Ma guarda…».

«Le basti sapere che le informazioni cominceranno ad arrivare presto, e con quelle lei dovrà
lavorare e far sì che l’operazione vada a buon fine».

«Non sono cose che vi riguardano, la magistratura è totalmente…».

«Stia zitto e guardi qui» disse Corvetto.

Sul tablet fece scorrere le immagini dei corpi amputati trovati a El Monte, in California, e il narco
messicano sgozzato a New York. Poi altre immagini di calabresi e messicani uccisi in Messico e in
Colombia, la scena del crimine nel ristorante del Liechtenstein, un susseguirsi di istantanee di
violenza e morte, che culminò con alcuni primi piani del viso scuoiato del giudice Pablo Montoya e
del suo cadavere senza volto appeso al ponte.

Gualtieri distolse lo sguardo mentre lo stomaco gli si annodava per i sensi di colpa.

«Questi che vede sono i risultati concreti dell’arresto di Pagani, ed è soltanto l’inizio… Lei ha
ignorato un’informativa riservata che le avevamo fatto recapitare – e so con certezza che l’ha
ricevuta e visionata – dove le intimavamo di mettersi in contatto qualora avesse ricevuto notizie in
qualsiasi misura su Pagani. Lei ci ha ignorato e ha agito in autonomia, manovrato dai Cartelli
messicani che le hanno lanciato un’esca avvelenata. Ha le mani sporche di sangue, Gualtieri, e la
colpa è unicamente sua e della sua ostinazione a voler combattere da solo contro i mulini a vento».

«Che diavolo sta dicendo, lei non…».

Il vicedirettore dell’intelligence aveva voglia di schiaffeggiarlo. «Le ho detto di stare zitto, cazzo…
Lei ha fatto un casino, Gualtieri. Ha messo le mani dove non doveva metterle, dove già le avevano
DEA e FBI, vanificando anni d’indagine. E se siamo in questa macchina, è perché ora deve smetterla,
prima che questa storia si trasformi in un inferno diplomatico».

«Non può dirmi cosa…».

«Invece posso. Abbiamo riscontrato delle irregolarità nelle sue ultime inchieste, tali da mettere in
mezzo il Consiglio Superiore della Magistratura. Le verranno tolte le funzioni e sarà sottoposto al
vaglio di una commissione, oltre che messo fuori servizio, in congedo, crocifisso sulla stampa e negli
stessi salotti tv in cui va così spesso. Le scateneremo contro una campagna di veleni, fango e dubbi
che demolirà la sua reputazione».

«Cazzate».

«Non credo».

I due si fissarono in tralice. Il calabrese capì che l’uomo dei servizi non mentiva. O faceva come
volevano loro, o avrebbero trovato il modo di fotterlo.

«Cosa cazzo volete da me? Sto solo facendo il mio lavoro, Cristo».

«Si dimentichi di Pagani. Non è affar suo. Si concentri invece sull’operazione New Era, che è di
fondamentale importanza per la tenuta democratica del Paese e per i rapporti con gli Stati Uniti. È a
questa che deve dare priorità assoluta. Ci stiamo giocando la credibilità a livello internazionale, e lei
invece, abituato com’è a passare più tempo in televisione che in aula, sta mandando tutto a puttane».

«Ma come si permette? Lei non…».

«Scelga: o la facciamo mettere sotto inchiesta, mandandola in panchina dai sei mesi a un anno e
fottendole la reputazione per sempre, oppure le spianiamo la strada per distruggere questo cazzo di
ponte fra ’ndrangheta e Cosa Nostra americana. E scelga bene, altrimenti di sostituti procuratori a cui
affidare l’inchiesta ne troviamo quanti ne vogliamo. O pensa di essere l’unico magistrato onesto in
questo Paese?».

«Dov’è Pagani?».

«Non lo so».

«Lui è lo snodo che permette alle cosche di restare in piedi».

«Gliela faccio ancora più semplice: può occuparsi dell’inchiesta in tandem con l’FBI, lasciando
l’affare Pagani in mano agli americani. Viceversa, può lavorare al suo orto in forma permanente, e
tutte le sue inchieste saranno passate a qualche giovane magistrato inesperto che o verrà comprato
dalle cosche, o finirà per fare un casino, lasciando alla ’ndrangheta tutto lo spazio di manovra di cui
ha bisogno… Scelga».
«Cosa volete davvero? Cosa ci guadagnate?» chiese Gualtieri, inviperito.

«Se i calabresi rafforzano il rapporto con gli americani distribuendo anche in Nordamerica, non ce
ne libereremo più. Acquisiranno più potere economico, diventando ancora più sfuggenti e influenti
nel panorama internazionale. È questo che vuole?».

«Chiaro che no».

Michelangelo gli passò uno smartphone con un caricabatterie. «Lo prenda. È un apparecchio sicuro.
Sarà la linea con cui si terrà in contatto con l’FBI e Joseph Carbone, l’agente a capo della DEA in
Italia. È lui l’ufficiale di collegamento al comando dell’operazione per gli USA».

Sfiancato da quella conversazione e dalle rivelazioni della spia, il magistrato prese il cellulare.

«Fornisca tutte le informazioni di cui gli americani hanno bisogno, e cerchi di tenere un atteggiamento
collaborativo, mi spiego?».

Gualtieri assentì.

«E la smetta di andare in televisione… Non è nemmeno telegenico, fra l’altro».

«Vada a farsi fottere» disse Gualtieri provando di nuovo a uscire. Stavolta la portiera si aprì.

Rimasto solo, Corvetto digitò un numero sul telefonino e si mise in contatto con Joe Carbone:
«Allora, ho appena avuto un colloquio col giudice. È a bordo. Penso che abbia capito che deve stare
alla larga da Pagani».

«Pensi?» disse l’uomo della DEA, critico.

«Gli starà alla larga» si corresse Michelangelo. «Voi però mettetelo subito al lavoro e dategli
qualcosa da fare. Tenetelo occupato con altro».

«Va bene» disse Carbone, e chiuse la chiamata.

Dopo aver rinfoderato il telefonino, Michelangelo ordinò all’autista di partire, poi aprì una cartella
sul tablet e iniziò a studiare il fascicolo riservato sull’ispettore superiore Biagio Mazzeo.

Miriam andò ad aprire convinta che si trattasse di Carmine. E invece si trovò davanti quegli occhi di
un celeste così trasparente da poterci vedere l’anima, se gliene fosse rimasta una.

Si sentì gelare e avvampare allo stesso tempo, la bocca inaridita dalla sorpresa e l’imbarazzo, il
respiro più corto.

«Ehi» disse lui.


Erano passati quattro mesi dall’ultima volta che l’aveva visto. Quattro mesi di silenzio. Aveva il viso
più affilato, gli occhi incavati e freddi, le rughe agli angoli della bocca più pronunciate. Dava l’idea
di un uomo prosciugato da qualcosa di vorace e famelico che se lo stava mangiando. Vivo.

«Mi dispiace essere…» iniziò lui.

Miriam lo schiaffeggiò con tutto il rancore e la solitudine accumulati in quei mesi. Odiò suo figlio.
Era un sentimento orribile, ma lo detestò comunque, perché sapeva che Biagio non era lì per lei, ma
per il piccolo.

Dopo averlo colpito, con una freddezza assassina si scostò dal ciglio e gli permise di entrare, senza
dire una parola, senza nemmeno guardarlo in faccia.

Lui la fissò con una luce colpevole negli occhi e capì che era meglio non dire nulla. A volte il
silenzio è la miglior difesa.

Lei gli fece strada conducendolo nella camera da letto dove si trovava la culla che aveva montato da
sola, e dove riposava loro figlio.

Con un gesto nervoso Miriam gliela mostrò. Lui si avvicinò, mortificato da quel silenzio
insopportabile e dall’odio che la donna sembrava emanare. Quando si voltò, colse solo una visione
fugace di lei che chiudeva la porta, lasciandolo col bimbo, sbarrandolo fuori dal suo mondo, dal suo
cuore.

Non poteva sapere Mazzeo che un secondo dopo, dietro quella porta, Miriam Petrarca si portò le
mani alla bocca per soffocare i singhiozzi e scoppiò a piangere mentre il suo orgoglio di donna e il
suo cuore di madre andavano in pezzi.

Biagio provò un profondo senso di inadeguatezza e guardò quasi con spavento la culla, come se non
fosse all’altezza, come se non sapesse cosa fare. Dopo qualche secondo vinse l’esitazione. Suo figlio
era sveglio. Minuscolo in un vestitino celeste chiaro. Gli si aprì il cuore e sorrise meccanicamente.
Si sentiva impacciato e aveva paura anche solo di sfiorarlo, temendo di poterlo far piangere. Ma era
troppo bello per non rischiare, e in cuor era certo che quell’occasione non si sarebbe più
ripresentata. Quello sarebbe stato il loro ultimo momento insieme.

Con la sua mole da orso, cercò di prenderlo con la massima delicatezza e se lo portò al petto,
goffamente, trattenendo il respiro, pronto allo scoppio di urla ultrasoniche.

Ma il neonato non pianse. Gli sfiorò col nasino la pelle e sembrò riconoscere il suo odore. Biagio lo
vide sorridere e gli si aprì il cuore. Gli sussurrò parole che non si sarebbe mai sognato di
pronunciare, e lo cullò assaporando il suo profumo e baciando quelle gote di una rotondità perfetta.
Se la felicità esisteva, pensò, era quella: stringere il suo piccolo, seguire la sorpresa e l’innocenza
dei suoi occhi che lo fissavano per la prima volta, curiosi e sfrontati. Si rese conto che quel batuffolo
di carne avrebbe potuto salvarlo. Ora era troppo tardi, ma se lo avesse avuto qualche anno prima era
certo che le cose sarebbero andate diversamente. Biagio Mazzeo capì quanto era preziosa la vita, e
comprese anche che Ivankov si era sbagliato quando gli aveva detto che l’amore rendeva deboli. Era
tutto il contrario: l’amore ti dava una forza sovrumana.

Si sedette sul letto continuando a solleticare il bimbo con i suoi baci. In quel momento, solo con suo
figlio, tutti i suoi fantasmi e i suoi demoni si quietarono. Era come se la barbarie della sua vita fosse
rimasta fuori da quella porta. In quel luogo, lo spettro di Vatslava, la minaccia dei calabresi, il ricatto
degli americani non potevano entrare. C’era spazio solo per lui e il piccolo.

Lo posò sul materasso e l’osservò cercare di stringergli le dita. Gli si distese a fianco e si lasciò
rapire da quella meraviglia.

Per la prima volta in vita sua, Biagio Mazzeo si sentì in pace con se stesso.

Uscì dalla camera da letto quasi un’ora dopo. La trovò in cucina, seduta a fumare. Una tazza di caffè
appena fatto davanti, ma non gli chiese se ne voleva. Appena varcò la soglia gli lanciò un rapido
sguardo talmente freddo che sembrò cristallizzarlo.

Imbarazzato, Mazzeo si appoggiò alla parete, s’infilò le mani nei jeans e la osservò in silenzio per
qualche secondo.

«Dorme» disse poi.

«Va bene» disse lei soffiando il fumo di lato.

Il poliziotto vide sul tavolo una busta da lettera ingiallita dal tempo.

«Cos’è?» le chiese.

«Una lettera di Nicky, di tanti anni fa. L’ho trovata sistemando le vecchie cose. È per te. Pensavo che
ti facesse piacere riaverla» disse.

Lui la fece sparire nella tasca del giubbotto. «Grazie».

Lei scrollò le spalle, indifferente. Aveva gli occhi arrossati. Biagio capì che aveva pianto.

«Vorrei dirti tante cose, ma so che non cambierebbe nulla» trovò il coraggio di dirle.

«Non c’è bisogno, capisco» disse lei lapidaria. «Il bambino puoi vederlo quando vuoi, se vorrai
vederlo».

Quel se era così affilato che lo sfregiò.


«Mi dispiace per come sono andate le cose…» disse lui. «Ti posso solo dire che io ci ho provato a
farle funzionare. Te lo giuro… Ma la vita…».

Lei si alzò, spense la cicca nel posacenere e gli diede le spalle, gettando il caffè residuo nel
lavandino e sciaquando tazzina e caffettiera, facendo un gran casino.

Biagio provò ad attirare la sua attenzione, ma lei non si girò. Qualsiasi cosa volesse dirle, non era
interessata ad ascoltarlo. L’aveva abbandonata e l’aveva tagliata fuori dal suo mondo. Era una colpa
troppo grave.

Dopo diversi tentativi, Biagio si arrese. Si disse che forse era meglio così.

«Mi dispiace…» disse ancora.

Lei rimase immobile.

Vinto dal suo ostracismo, il poliziotto si staccò dalla parete e se ne andò.

Quando udì la porta dell’ingresso chiudersi, Miriam lanciò contro il muro la caffettiera che stava
asciugando. Le guance erano umide di lacrime.

Si sentiva una stronza per come si era comportata, ma non ne aveva potuto fare a meno. Si rese conto
che lo amava ancora, nonostante tutto, e che forse lo avrebbe amato per sempre.

Si sedette e si asciugò le lacrime, imponendosi di non guardarlo attraverso la finestra.

Non sapeva Miriam Petrarca che non lo avrebbe rivisto mai più.

Se lo avesse saputo, sarebbe corsa fuori e l’avrebbe abbracciato, dicendogli che lo amava e che lo
perdonava, che era disposta a riprovarci e lasciarsi il passato alle spalle.

Ma non lo sapeva.

E quel momento di gelo, e tutte quelle parole non dette sospese nell’aria, divennero il loro freddo
addio.

Mazzeo uscì dalla villa cercando di soffocare le emozioni scaturite dall’incontro col figlio e lo
scontro con Miriam. Non era facile non far trapelare nulla, ma in qualche modo, quando Carmine e
Mirko uscirono dalle macchine e gli si fecero vicini, ci riuscì.

«Allora? Come sta l’erede?» chiese Carmine, una luce ironica negli occhi e le mani a cercare di
domare la massa nera dei capelli irsuti.

«Be’, ha una bella donna che gli fa da mangiare e lo imbocca, che gli massaggia la pancia dopo
mangiato, e che gli pulisce il culo quando caga… Chi cazzo sta meglio di lui?».

I due risero.

Biagio li prese a braccetto e si allontanò dalla casa verso la strada e le auto.

«So che vi sto chiedendo molto, ma ho bisogno che stiate ancora con gli occhi aperti» disse loro.

«Problemi?» chiese Mirko, preoccupato.

«Solo una precauzione, le cose stanno tornando a scaldarsi… Mirko, tu dovresti andare a prendere
Matteo a scuola, o aspettare che finisca e poi portarlo qua» disse Mazzeo riferendosi al figlio di
Miriam e del suo vecchio collega.

«Nessun problema» rispose Giacchetti.

«Carmine» disse poi a Torregrossa, posandogli una mano sulla spalla. «So che ci stai mettendo le
radici qui e che sei stanco morto, ma dovresti stare qua fuori ancora un po’, dammi solo il tempo di
farti dare il cambio da qualcun altro, ok?».

«Tutto il tempo che ti serve, Biagio, lo sai» rispose il gigante.

«Grazie, ragazzi».

«C’è qualcosa in più che dobbiamo sapere?» chiese Torregrossa.

Biagio sembrò rifletterci su frizionandosi la fronte con le dita. Aveva la mente ancora ovattata dallo
shock datogli dalle parole dell’americano e il cuore in tumulto dopo l’incontro con suo figlio e
Miriam. Non riusciva a pensare con lucidità.

«Forse sono solo io che sto diventando paranoico, ma ho una brutta sensazione, quindi meglio non
rischiare» si limitò a dire. «Grazie, ragazzi».

Per timore che potessero porgli altre domande scomode, Biagio si avviò verso l’auto. Prima di
entrarci lanciò un’occhiata alla casa di Miriam, consapevole che sarebbe stata l’ultima volta che la
vedeva. Poi si voltò, entrò in macchina, mise in moto e si lasciò tutto alle spalle.

Mirko e Carmine lo guardarono andare via scambiandosi un lungo sguardo perplesso.

«Era veramente strano… e quando dico strano, intendo più del solito» disse Mirko.

«Già» rispose Carmine, la mente allertata da qualcosa che non era riuscito ad afferrare.

«Ok, facciamo come ci ha detto» disse a Giacchetti.


Mirko andò a prendere il figlio di Miriam.

Quando Carmine rientrò in macchina, realizzò quale fosse il particolare che tanto l’aveva allarmato.

Quando gli aveva stretto una spalla, qualcosa nella mano di Biagio aveva riflesso la luce del sole.

Un anello.

E non un anello qualunque, ma quell’anello.

Lo stesso che Vatslava Demidov gli aveva rubato quattro mesi prima.

“Che cazzo sta succedendo?” si chiese il poliziotto mentre un brivido freddo gli attraversava la spina
dorsale.

L’odio febbrile che l’aveva tenuto in vita in quei mesi era come sparito. Evaporato. Dissolto. Era
come se gli avessero anestetizzato l’anima. Dopo la prima brutale mareggiata di rancore e i sensi di
colpa che questa aveva trascinato a riva, l’oceano di rabbia che aveva dentro si era quietato. Non
sapeva se era una tregua momentanea e quando e se si sarebbe ridestato. Sapeva solo che si sentiva
svuotato.

Aveva parcheggiato in una zona periferica sotto un ponte della circonvallazione, spento motore e
cellulari ed era rimasto a fissare le foto dell’autopsia della cecena senza provare nulla. Aveva
sperato che vedere il suo corpo lacerato dai proiettili e sfigurato dal bisturi potesse dargli un senso
di sollievo, ma non sentì nulla. Non era in grado di leggere i referti autoptici, ma dalle immagini
dedusse che la donna non aveva sofferto. Forse non si era nemmeno accorta dei suoi assalitori. Il
trapasso era stato fulmineo, indolore.

Mazzeo aveva sacrificato tutto per trovarla, e ora che aveva le prove decisive dell’incompiutezza di
quella tanto agognata vendetta, non provava nulla.

Studiò ancora le immagini accarezzando l’anello, poi abbassò il finestrino, estrasse l’accendino e
una dopo l’altra bruciò le foto lasciandole volare fuori dall’auto. Era finita. Tutti gli scenari di
vendetta che aveva proiettato nella mente in quei quattro mesi si concludevano lì, sotto un ponte,
nella sua città, non in un brutto quartiere della Cecenia o in qualche chiassosa metropoli orientale.

Quando ebbe finito, osservò la cenere dissolversi al vento e con essa la sua vendetta.

Così come Sergej Ivankov, anche Vatslava Demidov non sarebbe mai morta. In qualche modo
avrebbe continuato a vivere dentro di lui. Ne era consapevole e non poteva farci nulla. Lui, Ivankov e
Vatslava era come se fossero diventati una cosa sola. Mazzeo era la prigione che li rinchiudeva
entrambi. Sarebbero rimasti dentro di lui, a tormentarlo, per sempre.
Si sentiva stranamente calmo, la mente sgombra da pensieri. Mise il gomito fuori dal finestrino e con
la destra afferrò il volante. Chi l’avesse visto in quel momento avrebbe pensato che fosse un uomo
che stava aspettando qualcuno, o che stava ingannando il tempo. Ma si sarebbe sbagliato. L’uomo in
quella macchina stava iniziando a fare i conti col vuoto oceanico che aveva dentro. Un vuoto
assoluto. Il vuoto della perdita. Il vuoto della resa. Il vuoto di chi rinuncia ai sentimenti perché ha
deciso di farla finita. Per certi versi era quasi una sensazione piacevole. Non c’era più l’urgenza e la
furia data dagli istinti vendicativi, e nemmeno la preoccupazione di proteggere i suoi uomini e le
persone che amava. Era finita. Aveva giocato a poker col destino, e aveva perso su tutta la linea. Il
fato non l’aveva lasciato soltanto in mutande. Gli aveva pignorato cuore e anima. Gli aveva tolto
tutto.

Tutto.

Tirò fuori dalla tasca del giubbotto la letterina di Nicky e l’aprì. Era un disegno con alcune frasi. In
alto la maestra con una penna rossa aveva indicato: Disegna e descrivi il tuo migliore amico. Dalla
data in un angolo del foglio Biagio calcolò che la bambina doveva aver avuto sui sette-otto anni
quando l’aveva scritta. Aveva disegnato loro due: lui alto e imponente con una pistola di proporzioni
esagerate alla cintola. Lei al suo fianco che gli stringeva la mano. Sorridevano entrambi. Dietro di
loro una macchina della polizia. Mazzeo lesse le parole trattenendo il fiato: Biagio è il mio eroe. Lui
è la persona più gentile che conosco. Mi fa un sacco di regali, mi compra mille caramelle,
mangiamo tanta pizza e non mi sgrida mai. Ridiamo molto insieme e se qualcuno prova a farmi
male lui lo porta in prigione. Biagio è un poliziotto. È il più bravo poliziotto del mondo. Se io
sono triste, lui mi fa sempre ridere. È pieno di muscoli ed è meglio non farlo arrabbiare. Lui è il
migliore amico che ho e io gli voglio un bene enorme. Staremo insieme per sempre, Nicky.

Mazzeo sorrise. Si chiese se Miriam gli avesse dato quella lettera solo per fargli del male o se
invece fosse stato un semplice pensiero gentile. Capì che non gli importava. La letterina gli portò bei
ricordi e frammenti di pura felicità e quello gli bastò. Per un istante il pensiero di suo figlio cercò di
attraversargli la mente ma glielo impedì.

«Ti voglio bene anch’io, piccolina» sussurrò lanciando un ultimo sguardo alla lettera e riponendola
nella tasca. Si strofinò le mani doloranti come per riscaldarsele e poi mise in moto, senza fretta,
mentre i suoi occhi colsero due corvi appollaiati su una ringhiera che parevano fissarlo. Li osservò
per qualche secondo poi li lasciò perdere e se ne andò.

Ormai aveva scelto.

Doveva solo capire come uscire di scena.

Ma soprattutto, decidere quante persone portarsi appresso nella tomba.


CENERE ERI…
Nel viaggio fino alla cascina aveva avuto modo di riflettere con più lucidità. Aveva spento i
cellulari, rimuovendone le batterie, e controllato che il dossier che gli aveva dato Carbone non
contenesse microspie o rilevatori di posizione. Non ne aveva. Era sicuro che nessuno lo stesse
seguendo. Tutta quella libertà era strana dopo il patto che l’americano gli aveva proposto. Biagio
capì che quelli dell’FBI potevano anche volere che li aiutasse a spezzare l’asse Calabria-Stati Uniti.
Ma Carbone voleva altro: Pagani. Se lo tenevano d’occhio da due mesi e mezzo o tre, dovevano
sapere tutto di lui. Era certo che avessero fatto le cose in grande stile. Non solo intercettazioni
ambientali e telefoniche, ma anche rilevazioni radar, software di controllo e chissà quali altre
diavolerie tecnologiche. L’uomo della DEA sapeva del narcobroker e non gliene aveva parlato
ancora perché sicuramente voleva qualcosa da lui.

“Ma cosa?” si chiese Biagio parcheggiando dietro la cascina. “Qualcosa di illegale altrimenti ti
avrebbe imposto di consegnarglielo o ti avrebbe fatto seguire per poi sbucare fuori con un mezzo
esercito”.

«Tutto ok?» chiese Varga venendogli incontro.

«Una favola» rispose Mazzeo.

L’albino aggrottò la fronte.

«Dobbiamo parlare» disse Biagio passandogli il dossier.

Centomila morti e ventiseimila desaparecidos. Era il bollettino di guerra ufficiale di otto anni e
mezzo di conflitto tra cartelli della droga e governo messicano. Una stima per difetto. Sinaloa ed El
Chapo galleggiavano su quell’oceano di sangue in cima a uno sterminato iceberg di cocaina, vincitori
assoluti della narcoguerra tra i cartelli. Per questo Romeo Labate immaginava che la tregua con i
messicani non sarebbe durata a lungo. Era stato versato troppo sangue perché un uomo come El
Padrino si tirasse indietro. Se lui voleva qualcosa, lo otteneva. E quell’armistizio era solo una pausa
tattica per capire come prendersi l’Europa, con loro o senza di loro.

Labate stava ricevendo pressioni da tutte le parti. Lo stallo nel business stava creando delle
ripercussioni economiche di vasta portata da una parte all’altra dell’oceano. I flussi finanziari si
erano interrotti, e il nervosismo cominciava a serpeggiare nelle banche di mezzo mondo, mentre le
polizie e le agenzie antidroga iniziavano a scaldarsi, pronte a sfruttare quell’occasione più unica che
rara per spazzarli via. Tutta la filiera, dal semplice doganiere allo spacciatore di quartiere, era in
agitazione. L’eco dei morti dalla Colombia e dal Messico si stava propagando fino in Europa. E
rimanere fermi, bloccare le spedizioni e l’importazione era un segno di debolezza. Un’ammissione di
fragilità. I soldi dovevano ricominciare a fluire. E per farlo, dovevano riprendersi Pagani.
Piccolo particolare: Pagani era in mano a Mazzeo, e il poliziotto aveva tirato fuori le zanne. Labate
sapeva dall’inizio che la sua ribellione sarebbe stata solo una questione di tempo, ma era avvenuta
nel momento peggiore. Alla base del loro accordo c’era il ritrovamento della cecena. Ma la donna
ormai era cibo per vermi, e quando Mazzeo l’avesse scoperto…

Labate non voleva nemmeno pensarci. Ma doveva pensarci. Così come doveva fare in modo di
mettere le mani su Pagani prima che il poliziotto scoprisse che l’avevano preso in giro, usandolo,
strizzandolo per i loro scopi.

Lo sbirro gli aveva dato una scadenza per quella notte. Voleva delle prove. Labate non poteva
dargliele. Questo restringeva il suo campo d’azione. Ma il calabrese aveva un piano di emergenza,
come sempre. Si era tenuto pronto una carta da giocare. Un asso nella manica.

Il cellulare gli vibrò in tasca.

«Sì?» rispose.

«Ce l’abbiamo» dissero dall’altra parte.

«Bene… andate avanti» ordinò.

Era arrivato il momento di buttare sul tavolo quell’asso.

Se la visione che ossessionava Mazzeo era il corpo di Nicky in fiamme, quella che perseguitava
Varga erano i resti del suo cadavere carbonizzato che era stato costretto a portare via. Poco più che
cenere. Varga non avrebbe mai potuto dimenticare la polvere che gli scivolava fra le dita, e la
cartilagine che era stata la pelle che si spezzava come cartapesta. Era il suo tormento. Ed era su ciò
che era rimasto della piccola che aveva giurato vendetta.

Quasi due metri di altezza, centotrenta chili di muscoli, un istinto omicida forgiato dai corpi speciali
dell’esercito e della polizia, e ora tremava come un bambino. Un gigante dai piedi d’argilla. Ecco
come si sentiva dopo le rivelazioni di Biagio. Perché la vendetta che aveva giurato non sarebbe mai
avvenuta. Vatslava era morta, e Biagio ne aveva la prova all’anulare della mano sinistra.

Varga non aveva detto una parola. L’aveva ascoltato, stentando a riconoscere la voce flebile,
tentennante, che si appoggiava a pause e sguardi nel vuoto. L’albino non aveva ribattuto nulla. Si era
allontanato verso gli alberi che circondavano la cascina e si era seduto di schiena contro un tronco,
cercando di quietare il respiro e fermare il tremore alle mani.

L’inferno, per uomini come loro, era quello. L’inutilità. La passività forzata. Il dover accettare
l’inesorabile destino senza poter controbattere, senza poter fare nulla se non autocommiserarsi e
maledire il percorso che li aveva portati in quel vicolo cieco. Gli uomini come loro avevano bisogno
di un nemico. E quando l’avversario moriva o spariva, era come se scomparissero anche loro. Varga
aveva visto morire un pezzo di Biagio dopo che avevano ucciso Ivankov. E ora aveva visto spegnersi
anche ciò che rimaneva di lui dopo la notizia che la cecena era stata uccisa dai russi.

Non erano riusciti a dare pace all’anima di Nicky.

Biagio si era venduto alla ’ndrangheta per niente.

Che senso aveva ancora vivere?, si chiedeva l’albino.

Ma le brutte notizie non erano finite.

Il poliziotto aprì il dossier della DEA e iniziò a leggere, scoprendo che al peggio non c’è limite.

Roberto Pagani non aveva idea di cosa diavolo stesse accadendo. Aveva perso la cognizione del
tempo e non sapeva quante ore fossero passate dalla sua liberazione. Erano molti i fatti che ignorava.
L’unico di cui era certo era che i due uomini che l’avevano sequestrato facevano sul serio. Si erano
mostrati a viso scoperto, e ciò significava o che erano ingenui, oppure che non si erano presi la briga
di mascherarsi perché l’avrebbero ucciso. Il broker propendeva per la seconda ipotesi. Quello che
non capiva era per chi lavorassero. Aveva provato a corromperli ma gli avevano riso in faccia.
Aveva tanti di quei soldi nelle banche dell’atollo di Nauru, nel Pacifico, o ad Andorra, Cipro, e
Jersey nel Canale della Manica che avrebbe potuto comprarsi un esercito intero, ma in quel momento
non gli serviva a nulla.

“Pensa” si disse. “Cerca di capire… se non sono mossi dai soldi, cos’è che li muove?”.

L’ipotesi della vendetta non stava in piedi. Lui era un uomo d’affari, non aveva mai ammazzato
nessuno o impugnato un’arma. La violenza non gli apparteneva. Quando c’era da liquidare qualcuno
preferiva farlo attraverso i soldi, e solo in ultima istanza col sangue. E anche in quell’occasione
appaltava il lavoro ai calabresi o a qualche squadra di mercenari. No, non l’avevano catturato per
vendicarsi, si disse.

“Perché, allora?”.

Aveva preso in considerazione il fatto che fossero sul libro paga di Sinaloa, ma l’avevano negato,
non capendo cosa avevano da spartire con i messicani. Sicuramente non erano calabresi, e non
parevano nemmeno legati a essi in qualsivoglia maniera. Sinaloa era dietro la soffiata che aveva
portato al suo arresto in Colombia, ma non sul suo sequestro nella località protetta.

“Chi, quindi?”.

Professionisti, chiaramente. Il modo in cui erano riusciti a soffiarlo via agli uomini del Servizio
Protezione era appannaggio di uomini d’armi. Ma pagati da chi?
Incatenato alla sedia, una benda sugli occhi e uno straccio in bocca, il narcobroker seguitava a far
lavorare la mente alla ricerca di una risposta. Non era facile, perché il pensiero di suo figlio in mano
ai calabresi e la consapevolezza che la sua assenza avrebbe potuto portare a una guerra con Sinaloa
per occupare il vuoto che lui stava lasciando continuavano a distrarlo.

Ma c’era un altro pensiero che lo tormentava. Aveva una flotta in mare aperto di tre navi, e non
contenevano droga, ma qualcosa di molto più importante.

Solo lui era a conoscenza delle coordinate e del contenuto.

E se quelle navi con il loro carico fossero state intercettate, la guerra che ne sarebbe scaturita
sarebbe stata molto più cruenta e sanguinaria di quella tra il Cartello di Sinaloa e la ’ndrangheta.

Roberto Pagani pregò con tutto se stesso che i tre cargo non fossero stati ancora captati.

Diversamente, la morte sarebbe stata una soluzione tutto sommato accettabile.

Carmine non capiva cosa Biagio gli stesse nascondendo e perché. Era quasi certo che quello che gli
aveva visto fosse l’anello di Ivankov.

“Quindi che cazzo significa? Che ha trovato la puttana e si è vendicato?” seguitava a chiedersi. “E se
sì, perché l’ha fatto senza dirmi niente?”.

Avviluppato in quel turbinio di domande e inferocito dal pensiero di essere stato estromesso da una
questione così intima e personale, Carmine allungò la mano per prendere il telefonino e chiederglielo
di persona.

Ma qualcuno lo precedette.

Qualcuna.

Vide il nome Mikaela sullo schermo del cellulare, e il suo volto si distese in un sorriso.

«Ben svegliata, tesoro» rispose il poliziotto, spostando gli occhi da casa di Miriam all’orologio sul
cruscotto.

«Grazie, amore».

Ma non era la voce della ragazza ad avergli risposto.

Era una voce maschile.

Carmine Torregrossa si sentì gelare.


«Chi cazzo sei?» chiese con un filo di voce.

Mezz’ora dopo Varga tornò e si sedette accanto a Mazzeo sul muretto di recinzione, posandogli la
cartella in grembo.

«Fammi indovinare: l’uomo che ti hanno fatto uccidere i calabresi sulla barca era un loro infiltrato».

Biagio confermò, lo sguardo perso nel vuoto. «Non per nulla sei un poliziotto…».

«E ti hanno detto che dovrai lavorare per loro altrimenti diranno tutto».

«Più o meno».

«Quanto ci sono andato vicino?».

Mazzeo gli fece un resoconto completo della conversazione con gli americani e in particolare con
l’uomo della DEA.

«Cristo…» sospirò Varga quando Biagio ebbe finito.

«Chi cazzo avrebbe immaginato che la questione fosse così importante? Io volevo solo Vatslava, non
mi sarei mai sognato che quelli avessero gli americani attaccati al culo…».

«Non so cosa tu stia pensando, ma non puoi accettare».

Biagio non rispose.

«L’immunità per te, va bene, ok. Ma hai considerato Miriam e il bambino? O gli altri ragazzi, e tutte
le loro famiglie? Non saranno mai al sicuro, e loro non possono proteggerli tutti, e nemmeno io
posso. Quello che è successo con Nicky… non posso viverlo una seconda volta, Biagio…».

Mazzeo socchiuse gli occhi e si accarezzò le nocche. Quando la sua mente, crudele, partorì il ricordo
del corpo della ragazzina in fiamme, li riaprì di scatto.

«Non me ne fotte un cazzo dell’immunità, ma loro devono pagare…».

«Ci puoi giurare, ma se tu fai una cosa del genere…» disse Varga battendo un dito sul dossier. «I
calabresi si vendicheranno non su di te, ma sulle persone che ami, lo sai questo, vero?».

«Lo so» rispose Biagio a denti stretti.

«E cosa vuoi fare, allora?».

Rimase in silenzio per qualche secondo.


«Mi hanno preso in giro, Giorgio. Quando mi hanno affiliato sapevano già da un pezzo che quella
troia era morta…».

«Ancora vendetta… non hai visto dove ci ha portato?».

«No. Non si tratta più di vendetta… non esiste una punizione sufficiente per ciò che mi hanno fatto».

«Cosa allora?».

«Voglio solo andarmene da poliziotto».

«Che cazzo vorrebbe dire?».

«Usiamo Pagani per fotterli come vogliono gli americani, e poi la faccio finita… La loro vendetta
finirà solo con la mia morte, l’unico modo per mettere al sicuro la mia famiglia, te e tutti gli altri è
sparire… Solo che non saranno loro a tirare il grilletto» disse Biagio spostando gli occhi sul collega.
«Sarai tu…».

Aveva sperato con tutto se stesso che fosse uno scherzo. Aveva abbandonato la sorveglianza della
casa ed era corso a sirena spiegata verso il suo appartamento. Quando ci era entrato l’aveva trovato
vuoto. L’uomo al telefono non aveva mentito: l’avevano rapita.

«Ti richiamiamo noi» avevano detto. Non avevano accento dell’Est, ma aveva comunque pensato che
fossero uomini legati a Zoya, il russo che lo ricattava. Aveva quasi sperato che fosse lui, perché
sarebbe stato tutto molto semplice: qualsiasi cosa gli avesse chiesto di fare, qualsiasi legge gli
avesse chiesto di violare, Carmine l’avrebbe fatto.

Ma non c’era il russo di mezzo.

«E se contatti o chiami Mazzeo, te la squartiamo come un agnello a Pasqua… Quindi sta’ zitto e
aspetta una nostra chiamata» gli avevano intimato.

Biagio.

Quindi si trattava di lui.

Di nuovo.

Carmine si era chiesto chi fosse coinvolto. Calabresi, ceceni, salvadoregni? Qual era il nemico
questa volta? La consapevolezza di quanto accaduto a Nicky lo aveva scosso fino alle ossa.

«No…» aveva sussurrato lasciandosi cadere sul letto, dilaniato dal terrore che per una vendetta
trasversale su Biagio si rifacessero sulla sua Lela. Quella prospettiva l’aveva annichilito.
I minuti in attesa della telefonata erano stati uno stillicidio che l’aveva portato sull’orlo della follia.
L’amore sfrenato che aveva provato per Biagio si era tramutato in odio. Se la ragazza che amava era
nelle mani di quei bastardi la colpa era solo del collega. Era soltanto colpa sua se Lela era stata
rapita. Per colpa di quell’uomo che aveva chiamato fratello, che però non si confidava più con lui,
che aveva vendicato Nicky, la loro Nicky, senza dirgli nulla, agendo alle sue spalle. Un vero amico,
un fratello, non si comporta così. Non ti estromette lasciandoti a fare da balia alla propria donna,
mentre la tua donna viene sequestrata per colpa sua.

Trentasette minuti dalla loro chiamata e ancora niente.

Trentotto.

Carmine si alzò di scatto e con un calcio sfondò le ante dell’armadio. Avrebbe voluto chiamare
Mazzeo e gridargli contro tutto l’odio che lo scuoteva dentro.

Ma non poteva.

Se contatti o chiami Mazzeo, te la squartiamo come un agnello a Pasqua…

«Calmo… sta’ calmo…» si disse.

Ma una voce dentro di lui continuava a ripetergli: non ora… non ora che tutto si era messo per il
meglio… non ora che avevi scoperto cos’è la felicità… ti prego, non ora…

Poi finalmente il telefono vibrò.

Numero anonimo.

«Pronto?» rispose il poliziotto.

«Quanto tieni a questa ragazza?» chiese la stessa voce di prima.

«Dimmi cosa vuoi e lo faccio, ma lei lasciala stare…».

«Il piano era quello…».

«Cosa vuoi?».

«Mazzeo. Sta nascondendo qualcuno, qualcuno di nostro. Devi scoprire dove, senza fargli capire che
stai giocando per noi. Se glielo dici, o se lo scopre prima che ci arriviamo noi… devo continuare?».

«No» disse Carmine, socchiudendo gli occhi.

«C’è un’ultima cosa».

«C’è sempre un’ultima cosa» lo schernì Torregrossa.


«Esatto… una volta che lo trovi, dovrai uccidere Mazzeo».

Quando sei abituato a mangiare in ristoranti da almeno due stelle Michelin, è dura passare a del
semplice pane e formaggio. Eppure Pagani spazzolò tutto in un lampo.

«Allora, devo rifare il giochino della sedia?» disse Mazzeo scendendo nello scantinato insieme a
Varga e andando a sedersi sul tavolo davanti al prigioniero.

Pagani scosse la testa. Le membra ancora gli pulsavano dopo la botta datagli dallo sconosciuto.

«Bene. Ricordatelo prima di parlare, ma soprattutto ricordatelo prima di provare a rifilarmi qualche
puttanata».

«Chi siete?» chiese Roberto ai due uomini che lo fissavano.

«Ufficialmente questo…» disse Mazzeo mostrandogli il tesserino e la placca da ispettore superiore


di Polizia.

Pagani sbiancò.

«In realtà… hai mai sentito parlare di un uomo chiamato Sergej Ivankov?» chiese Biagio.

«Certo. Mafia cecena. Un tipo tosto».

«Sono quello che l’ha ucciso» disse Mazzeo.

Il prigioniero lo fissò ancora più confuso mentre un brivido di paura lo pugnalava alla schiena.

«Io non capisco cosa volete da me. Siete davvero poliziotti?».

Biagio lo soppesò per qualche secondo. Dalla freddezza che il criminale aveva manifestato fino a
quel momento aveva compreso che era una di quelle persone che cadono sempre in piedi. Un
calcolatore, uno svelto di cervello. Questo andava a suo favore.

«Te l’ho detto, ufficialmente sì. Ma siamo poliziotti un po’ particolari. Eravamo in affari con Romeo
Labate, hai presente?».

Per poco Pagani non tirò un sospiro di sollievo. «Sì, certo».

«Ho detto eravamo… ce l’ha messa in culo, e ora siamo sul piede di guerra».

«Ve l’ho detto, se è una questione di soldi, posso darvene molti di più di quelli che Labate vi ha…».

«Non è una questione di soldi» disse Varga.


«Mi sembri un tipo intelligente e non credo ci sia bisogno di arrivare alle minacce» aggiunse
Mazzeo. «La situazione è questa: i calabresi mi hanno pagato per portarti via dal servizio di
protezione. Il piano era che ti consegnassi a loro, ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto perché i tuoi
amichetti mi hanno fottuto, e non sto parlando di soldi… per me ora sei un problema. Sarebbe molto
più semplice piantarti un proiettile in testa e farti sparire in questi campi sotto tre metri di terra, mi
spiego?».

Pagani fece segno di sì.

«E non ti nascondo che non sto escludendo quest’idea, perché se i miei superiori scoprono cos’ho
fatto, finisco dentro per sempre. Capisci cosa voglio dire?».

«Sì».

«Bene. Voglio collaborazione assoluta da questo momento in poi, anche per il tuo bene… Sei uno
molto importante, vero?» chiese Biagio accarezzando l’anello.

Pagani annuì.

«Perché?».

«Non credo quindi che questo sia un interrogatorio formale, vero?».

Biagio sollevò il lenzuolo sopra il tavolo scoprendo l’arsenale di armi. «Tu che dici?».

«Ok, credo proprio di no… A quanto dicono i giudici sono il principale intermediario tra i calabresi
e i cartelli colombiani e messicani. Sarei quello che fa portare materialmente la neve in Europa».

«Saresti… Uno come tanti, no? Cos’hai di così speciale?» minimizzò Biagio.

Pagani mostrò i denti come uno squalo. «Diciamo che nel tempo ho eliminato la concorrenza…».

Biagio afferrò una sedia e la fece ondeggiare in aria. «Ok, questo è l’ultimo avviso. Basta parlare per
mezze parole… Chi cazzo sei e cosa fai per loro? E dimmi qualcosa che non abbia già letto sulle tue
informative».

Il broker fece rimbalzare gli occhi dalla sedia a Mazzeo e iniziò a raccontare.

«A livello mondiale il sessanta per cento della cocaina viene sequestrato in mare o in porto. Se
restringiamo il campo all’Europa, si parla del settantotto, ottanta per cento. Il problema è che la
polizia sequestra a stento un decimo dei carichi. Sono importante perché ho diverse flotte, aeree e
navali, tutta roba legale. Ho aziende e industrie ortofrutticole sotto cui viaggia la merce. Le mie navi
salpano dal Venezuela, o dal Brasile. Ho cinque flotte in Africa occidentale. Ho tre navi madri
sempre in viaggio. Sempre. È come il gioco delle tre carte: le faccio partire da tre punti diversi, ma
solo in una c’è il carico. E solo io e pochissime altre persone sanno di quale si tratta. A volte sono io
stesso a farmi da spia: faccio arrivare alla Guardia Civil spagnola o ai servizi antidroga della polizia
olandese la soffiata che in una nave al largo delle loro coste è nascosto un grosso carico di coca.
Quei coglioni ci si fiondano in massa, e a volte gli faccio trovare giusto una ventina di chili per non
fargli perdere la faccia. Si chiama diversione, e quando lo faccio, non uso mai una delle mie navi. Le
affitto appositamente. Mentre i cani si gettano sull’osso spolpato, la mia maxispedizione continua
tranquilla il viaggio... Ho aerei che uso per una sola operazione e poi faccio bruciare per farne
perdere le tracce. Aerei mercantili, commerciali, da turismo, navi e barche delle più svariate
dimensioni, elicotteri, impianti di stoccaggio. Cazzo, ormai faccio attraccare le navi al largo e smisto
i carichi portandoli a riva con piccoli droni… Non fate quella faccia, dico sul serio… Il trenta,
trentacinque per cento della produzione mondiale di cocaina pura finisce in Europa. Io ne movimento
la maggior parte, fai tu i conti…».

«Vedo che la modestia è il tuo punto forte» disse Mazzeo.

«Oltre alla parlantina…» aggiunse Varga.

«Credimi, sono il migliore, e fanculo la modestia. In tutti questi anni in cui il sangue ha inzuppato il
Messico e il Sudamerica ho visto tanti narcos e figli di puttana cadere. Io sono rimasto sempre in
piedi. So tutto, conosco tutti, e ho il rispetto».

«Per chi lavori esattamente?» chiese Varga.

«Per chiunque abbia abbastanza soldi da ingaggiarmi. Molte famiglie e cosche di ’ndrangheta
mettono insieme i soldi per comprare più droga, in modo che io possa trattare al ribasso. Come
investimento la coca garantisce più sicurezza dei titoli di Stato, e tutti vogliono essere della partita.
L’unica loro preoccupazione è pagarmi, per il resto faccio tutto io, dalla contrattazione allo
stoccaggio, al trasbordo, ai viaggi, alla questione burocratica, al riciclaggio del contante… è
impossibile dirti per chi lavoro. ’Ndrangheta, senza dubbio, ma sarebbe riduttivo…».

«Ok, ma perché ti stanno cercando col sangue agli occhi?».

«Soldi. Una marea di soldi… Non è per vantarmi, ma curo gli interessi vitali di un continente intero,
il Sudamerica. A te può sembrare una cazzata, ma se fermano me, fermano una bella fetta di una parte
di economia globale, e nessuno se lo può permettere. Tantomeno loro, soprattutto in questo momento
che il Vaticano è nella merda, e con lui le sue banche, e hanno un disperato bisogno di cash. E non ci
sono soltanto mafiosi di mezzo, ma banche, apparati istituzionali, politici, società di investimento…
pensate a una multinazionale della coca e ci andrete vicino».

«Quindi immagino che sappia davvero un bel po’ di cose» disse Mazzeo.

«Sul narcotraffico?».

«Uh-uh».

«Sono dentro questa merda da più di trent’anni. Non un po’. So tutto quello che c’è da sapere».
Varga e Mazzeo si scambiarono un’occhiata soddisfatta.

«Qual è il piano? Cosa volete fare di me?».

«Perché hai pensato che fossimo messicani?» gli chiese Mazzeo ignorando la sua domanda. «Che
cazzo c’entrano i messicani con questa storia?».

«Cazzo, voi sbirri siete uguali in qualsiasi parte del mondo. Ma non li leggete mai i giornali?».

Varga allungò una mano sul tavolo e imbracciò un fucile AR-5. «Stavi dicendo sugli sbirri?».

Pagani impallidì e disse loro tutto sul Cartello di Sinaloa, la fuga di El Padrino e il suo piano di
prendere in mano le redini della distribuzione in Europa a scapito dei calabresi.

«È stato lui a farti la spiata?» chiese Mazzeo.

«Quasi sicuramente».

«Questo spiega molte cose…» disse Biagio tra sé.

«Quali cose?»

Mazzeo sfilò un foglio dal dossier di Carbone e glielo gettò in grembo.

«Non sono solo i calabresi e i messicani a darti la caccia… Al primo posto della lista c’è la DEA. E
ora lavoro per loro».

Mazzeo uscì dallo scantinato e andò fuori a prendere un po’ d’aria. Il broker non aveva mentito.
Sapeva tutto. Aveva parlato per quasi un’ora e mezza, riconoscendo le persone nel dossier degli
americani. Biagio a stento gli era stato dietro. Pagani era un colletto bianco in grado non solo di
spezzare l’asse ’ndrangheta-Cosa Nostra statunitense, ma di mandare in galera centinaia e centinaia
di ’ndranghetisti in ogni parte del mondo. Ora capiva cosa Carbone voleva davvero da lui: i suoi
amichetti dell’FBI potevano anche solo essere interessati alla loro operazione, ma la DEAvoleva
Pagani. Un criminale di quella risma sarebbe stato in grado di infliggere un duro colpo non solo ai
calabresi, ma a una miriade di cartelli e microcartelli di narcos nell’intera America latina, svelando
nomi di spie, infiltrati, politici e agenti corrotti da una parte e dall’altra del confine americano,
rendendo Carbone un eroe della guerra alla droga.

“Se quel bastardo ti ha lasciato questa libertà di movimento, mettendo sul piatto l’immunità totale,
significa che vuole che faccia il lavoro sporco. Vuole che gli porti Pagani negli Stati Uniti” pensò
Biagio. “Lo farebbe lui stesso, ma non vuole un altro scandalo alla Abu Omar o alla Shalabayeva.
Non vuole correre il minimo rischio per evitare una cascata di ripercussioni. Tiene un poliziotto
corrotto per le palle, e cosa c’è di meglio e di più sacrificabile di uno come te?”.
Ancora imbevuto di adrenalina e sgomento dopo la notizia su Vatslava, Biagio realizzò che non era
più l’uomo di un tempo. Anche soltanto sei mesi prima avrebbe capito al volo le intenzioni
dell’americano. Ora era stato Pagani a prenderlo per mano e accompagnarlo lungo il ragionamento
che aveva portato a quella conclusione. Era stanco, Mazzeo. Stanco e distrutto, sia nel fisico che
nella mente. Sapeva di essere al capolinea. Voleva solo cercare di chiudere più conti possibili prima
della fine. Restava da capire come usare il broker al meglio.

«Cristo…» disse Varga raggiungendolo. L’albino era stordito dalla mole di informazioni che il
broker aveva rivelato. «Quello è il Pablo Escobar della ’ndrangheta».

«Da non credere» gli fece eco Mazzeo.

«Sembra un cazzo di brutto film. Una pizzeria, un immigrato calabrese legato a doppio filo con i
Gambino e i Genovese, e una caterva di parenti tra Calabria, Miami e New York che gli reggono il
gioco… Non solo sa luoghi e rotte di spedizione, ma anche i giorni e i codici dei carichi. Quelli
dell’FBI avranno una serie di orgasmi multipli appena sentiranno questa storia».

«Già. E tieni conto che quello che ti ha detto è l’un per cento di ciò che sa, figurati cosa davvero c’è
sotto».

«Il problema è come giustificheranno queste informazioni, voglio dire, come possono renderle
ammissibili in tribunale?».

«Ah, sono cazzi loro» disse Mazzeo.

«Cosa vuoi fare ora?».

«Devo dar loro un antipasto per tenermeli buoni mentre capiamo come uscire da questo casino».

«Senti, su quanto mi hai detto prima, pensavo che…».

«No. Quella storia è chiusa. Mi hai dato la tua parola» disse Biagio voltandosi verso di lui, gli occhi
più freddi che mai. «Pensa a Miriam e al bambino, pensa ai ragazzi… Lo devi fare per loro, non per
me».

Varga resse il suo sguardo per qualche secondo poi annuì.

Biagio si strofinò con le mani il volto contratto da tensione e stanchezza per poi tornare a rivolgersi
all’albino.

«Ok, fammi andare. Prima li incontro e prima chiudiamo questa storia. Devo anche passare in
centrale» disse prendendo il dossier. «So di chiederti molto, ma resisti ancora un po’. Mando
Carmine a darti il cambio, ok? Chiamerei anche qualcun altro, ma meno persone coinvolgiamo e
meglio è».
«Nessun problema» rispose Varga.

«Ora lo chiamo. Tanto Mirko starà tornando a casa col bambino a quest’ora» disse guardando
l’orologio. «Può dargli lui il cambio a casa di Miriam».

«Biagio… per quell’altra cosa che c’è in quei documenti… ci hai pensato?».

Il viso di Mazzeo si oscurò. «Sì, cercherò di risolverla, e se non dovessi riuscirci ci penserai tu, va
bene?».

«Certo».

«Bene. Tieni gli occhi aperti, ragazzo».

«Anche tu».

Varga lo osservò andare via mentre una strana sensazione lo pervadeva.

Quando il suo fuoristrada sparì tra i campi, il poliziotto fu colto dalla convinzione che non l’avrebbe
più rivisto.

È dura essere padri. L’angoscia che ti opprime il petto è proporzionale all’affetto che provi per i tuoi
figli. Hai paura, vorresti che non accadesse loro nulla. Anche quando tutto va bene, anche quando
nessuna nube si profila all’orizzonte, sei comunque in ansia, perché il vento potrebbe cambiare a
sorpresa, e un un fulmine strappare la quiete. Non solo quando sono bambini, ma anche quando sono
ormai adulti. Anzi, forse perfino di più.

È dura essere padri.

Roberto Pagani aveva scoperto quanto nel momento in cui lo sbirro gli aveva buttato addosso il
dossier della DEA e fatto il nome di Joseph Carbone. Solo allora il broker aveva compreso la
gravità della situazione, e capito quanto doloroso può rivelarsi l’essere padre.

Perché suo figlio era in mano ai calabresi, e non ci avrebbero messo nulla a ucciderlo, a mozzargli la
testa, se lui avesse parlato.

Lo sbirro non faceva minacce a vuoto. Aveva occhi da assassino. Quando gli aveva ordinato di
parlare, nei suoi occhi era insita la minaccia che se non l’avesse fatto quella storia sarebbe finita lì,
con la sua morte.

Ma quello sarebbe stato anche accettabile. La sua morte in cambio della vita di suo figlio era un atto
quasi scontato. Pagani ci avrebbe messo la firma.

Il problema era che quello in mano agli ’ndranghetisti di Labate non era il suo unico figlio.
Ne aveva altri tre. E voleva a tutti loro un bene dell’anima.

Se non avesse parlato avrebbe salvato solo uno dei figli, perché i proprietari dei carichi delle tre
navi di cui lo sbirro era all’oscuro, se lui fosse morto, si sarebbero rifatti sui figli rimanenti, ne era
certo. Avrebbero pensato che anche loro sapessero o c’entrassero qualcosa e li avrebbero torturati
fino a ucciderli. E quelle persone lo spaventavano più del poliziotto che lo teneva prigioniero, o di
Labate e i suoi uomini.

Molto di più.

Quattro figli.

Uno da una parte, e tre dall’altra.

Il loro destino nelle sue mani.

C’era soltanto una via di fuga da quel vicolo cieco: aiutare i due sbirri e l’FBI a spazzare via Labate,
e sperare che con le sue rivelazioni ci riuscissero. Solo quello avrebbe potuto salvare i suoi figli,
tutti e quattro.

Così, appeso a quella speranza, Roberto Pagani si era giocato il tutto per tutto e aveva parlato, ben
conscio che stava mettendo sul piatto la testa del suo primogenito. Letteralmente.

È dura essere padri.

Donna non ci aveva dormito per tutta la notte. Si era tormentata nel dubbio che fosse una pessima
idea, ma poi aveva accantonato le incertezze e quella mattina si era presentata alla fioreria
scegliendo una ventina di rose bianche, meravigliose. Era tempo di accantonare l’odio e il rancore e
cercare di comportarsi da persona adulta, sotterrando l’ascia di guerra e i loro brutti trascorsi. E poi,
più che per lei, lo faceva per il bambino. Lui non aveva nessuna colpa, e Donna – nonostante non
fosse suo – sentiva dentro di sé un amore folle per quel piccolo. Voleva soltanto chiederle di
dimenticare il passato e contare su di lei per qualsiasi cosa, più che per il loro rapporto, per suo
figlio.

Mossa da queste buone intenzioni, si recò fino a casa di Miriam. Da circa un mese Donna non
zoppicava più e aveva ripreso a guidare. Si era vestita bene, e aveva limitato il trucco e la matita
nera che le dava sempre un’aria aggressiva, propendendo per un make up più naturale. Voleva che
fosse chiaro anche dal suo aspetto fisico che era lì in pace. Sapeva che era ciò che Biagio voleva.
Dato che lui aveva deciso di non starle vicino, avrebbe apprezzato che lei avesse posto rimedio alle
sue mancanze di padre, aiutando Miriam.
Prese coraggio e suonò il campanello.

Niente.

Riprovò, ma nulla.

Strano. Sapeva tramite Carmine che era stata dimessa, forse stava riposando, si disse. Suonò ancora.

Nulla.

Insospettita, Donna costeggiò la casa e si alzò sui tacchi per sbirciare dalla finestra della cucina.

La vide. Era seduta al tavolo, una bottiglia di liquore davanti e un bicchiere da cui beveva
avidamente. Le mani le tremavano.

Nessuna traccia del bambino.

“Che cazzo fa? Beve a quest’ora?” pensò Donna.

Picchiò sul vetro cercando di attirare la sua attenzione.

Finalmente l’ex poliziotta si voltò. Piangeva. Lo sguardo era quello di una persona che ha perso tutto.

Donna aveva già visto quello sguardo. Era lo stesso di Biagio dopo che Nicky era stata uccisa.

«Il bambino…» sussurrò la maȋtresse lasciando cadere i fiori per terra, mentre una staffilata
d’angoscia le attraversava il petto.

Immobile sopra un palo della luce davanti a casa dell’ex poliziotta, un corvo la osservò correre alla
porta d’ingresso e battere e scampanellare allo stesso tempo, gridando di aprirle.

Donna sperava che non fosse troppo tardi.

I fantasmi sono più pericolosi dei vivi. Perché non li puoi uccidere. Puoi scacciarli, puoi
nasconderti, ma loro ritornano e ti ritrovano. Sempre. Dai vivi puoi fuggire. Dai fantasmi no. C’è un
unico modo per fotterli: diventare un fantasma a tua volta.

Era quello il suo piano per liberarsi dello spettro della cecena.

Farla finita. Per sempre.

Doveva soltanto limitare i danni. Evitare che le persone che amava pagassero al suo posto. Per
questo doveva ragionare con freddezza, soffocare la rabbia incendiaria ed elaborare un piano.
Ma la sua mente non ne voleva sapere. Perché ora che Vatslava era morta, rimaneva solo una persona
con cui prendersela per la morte di Nicky.

Donna.

Era stata lei a tradirlo, a dire alla cecena dove si trovavano e cosa la ragazzina significasse per lui.
Donna, col suo amore folle e malato, con la sua disperata gelosia. Aveva cercato di eliminare tutte le
persone che amava di più, e ci era riuscita. Sonja, Nicky, aveva provato a mettergli contro anche
Varga. Quell’infinito senso di vuoto lasciato dalla morte inaspettata di Vatslava l’avrebbe colmato
col suo sangue. Era questione di ore. Prima, però, doveva pensare a Pagani e agli americani.

Mazzeo prese il cellulare e compose il numero di Carmine Torregrossa mentre entrava nella
superstrada.

«Pronto?» rispose Torregrossa.

«Ehi, tutto ok?».

«Sì, dove sei?».

«Sto tornando in città ora».

«Ok».

«Senti, so che ti sto chiedendo tanto, ma sono incasinato marcio. Ho bisogno che vai in un posto e che
fai una cosa per me» disse Mazzeo.

«Nessun problema. Di che si tratta?».

«Troverai Giorgio lì, discutine con lui. Non voglio parlarne per telefono».

«È una linea sicura…».

«Lo so, ma nessuna linea è veramente sicura per questo genere di cose».

«Come vuoi».

«Va’ lì, parla con Varga e fatti spiegare tutto. Devi dargli il cambio e aspettare che rientri anche io,
poi sei libero e giuro che non ti rompo più il cazzo, va bene?».

«Certo che sì ».

«Uhm… sicuro che va tutto bene? Hai una voce strana?».

«Sto bene, ma sono stanco».


«Immagino».

«Dove devo andare?».

Mazzeo glielo disse.

«Lì da Miriam è tutto ok?».

«Sì, niente da segnalare» mentì Torregrossa. «A parte il mio culo che si sta appiattendo».

«Ottimo, allora vai. Tanto Mirko starà per tornare col bambino, quindi Miriam può stare sola per una
ventina di minuti».

«Ok».

«A più tardi».

«A più tardi».

Carmine Torregrossa mise giù e subito dopo chiamò i calabresi di Labate.

Alla fine riuscì a farsi aprire.

«Cosa cazzo vuoi?» furono le sue prime parole. Puzza di liquore nel fiato. Fronte imperlata di sudore
alcolico. Gli occhi arrossati dalle lacrime che aveva cercato di asciugarsi impiastricciandosi il viso
di mascara. Si appoggiava alla porta come se non fosse in grado di reggersi in piedi.

«Dov’è il bambino?» chiese Donna, brusca.

«Che cazzo te ne frega del bambino? Vattene».

Fece per chiudere, ma Donna glielo impedì. Spinse di scatto la porta facendo cadere Miriam.

«Sei ubriaca, guardati. Che diavolo t’è preso?».

«Vattene!» gridò l’ex poliziotta da terra. «Non entrare, va’ via o ti faccio arrestare».

Donna non la stette nemmeno a sentire. Posò la borsa e corse in cucina, ma il picccolo non era lì.
Mentre Miriam continuava a gridarle addosso, perlustrò il salone, il bagno e poi corse di sopra,
verso le stanze da letto. Aveva il respiro corto, Donna. Temeva che Miriam avesse fatto qualche
cazzata viste le sue condizioni.

Quando trovò il piccolo addormentato nella culla, socchiuse gli occhi e si portò una mano al petto,
sospirando di sollievo.
“Non puoi lasciarlo qui. Non con lei in quello stato” pensò. L’ideale sarebbe stato chiamare Biagio e
avvisarlo di ciò che stava accadendo, si disse. Avrebbe mandato lui qualcuno a occuparsi di Miriam
e del bambino, ma fino a quel momento Donna non gliel’avrebbe lasciato. Non avrebbe messo a
rischio la vita del piccolo.

«Cazzo» disse tra i denti. Aveva lasciato il telefonino nella borsa.

Si avvicinò alla culla decisa a prendere il neonato in braccio e portarlo di sotto, quando udì ansimare
alle sue spalle.

Non appena si voltò, vide Miriam che la fissava con occhi di fuoco. Le vene sul collo in rilievo. La
bocca ripiegata in un ghigno spaventoso.

In pugno brandiva un coltello.

Anita Gennaro, la donna dell’FBI, lo aspettava nel parcheggio di un centro commerciale, sola.
Quando Mazzeo arrivò, la donna scese dall’auto e s’appoggiò di spalle alla carrozzeria.

«Hai fatto i compiti a casa?» chiese Anita.

Biagio le consegnò il dossier. «Direi di sì».

La donna si guardò intorno. Il parcheggio era semivuoto. Iniziò a sfogliare le pagine. Mazzeo aveva
cerchiato di rosso alcune foto e scritto a margine delle note con nomi, informazioni, in alcuni casi
anche indirizzi.

«Posso andare?» chiese Mazzeo, nervoso.

«No, aspetta… mancano delle pagine» disse lei fissandolo.

«Su quelle ci sto ancora lavorando».

«Non erano questi gli accordi, Mazzeo».

Biagio aveva tolto di proposito alcuni fascicoli. Non voleva dare tutto ai federali per paura che lo
scaricassero. Doveva tenere in mano qualcosa per lasciare il gioco in stallo.

«Mi avete dato pochissimo tempo… devo lavorarci su ancora».

La donna gettò il raccoglitore dentro l’auto.

«Lascia che ti spieghi come…».

«C’è una raffineria a Spilinga, Calabria, i dettagli sono nel fascicolo. Se vi muovete, troverete un
uomo fatto venire apposta dalla Colombia per insegnare ai calabresi a raffinare la coca e a estrarla.
Importano la droga dalla Colombia attraverso vestiti imbevuti di cocaina liquida. Con un processo
inverso la estraggono dagli indumenti» disse Biagio, rivelando una delle tante informazioni che
Pagani gli aveva dato. «È il chimico colombiano a insegnare ai calabresi questo tipo di estrazioni. È
un uomo legato ai nuovi cartelli colombiani. Se lo prendete, farete un grosso danno sia ai calabresi
che ai narcos. In quel casolare troverete abbastanza neve da assicurarvi per sempre il favore degli
sbirri e dei giudici italiani. Passate l’informazione e vi daranno tutto lo spazio di manovra che vi
serve per la vostra operazione».

«Perché mi stai dicendo queste cose?».

«Per farvi capire che voglio collaborare, che so molte cose e sono pronto a dirvele. Ma dovete darmi
tempo… Nessuno sa di quella raffineria».

«A noi interessa il ponte…».

«Calabria-New York, lo so, e il chimico non lavora solo per i calabresi ma anche per i Gambino, fa
parte dell’asse pure lui. Per il resto ho bisogno di più tempo… e finora da voi ho avuto solo parole e
promesse. Voglio qualcosa di più sicuro, qualcosa di scritto».

La donna gli rise in faccia. «Scordatelo».

«C’è in gioco la mia vita e quella dei miei uomini, lo capisci?» disse Biagio abbassando il tono.

Anita lo guardò in quegli occhi celeste mare. La fissità del suo sguardo le fece venire un brivido di
freddo.

«Vi ho dato la mia parola, e voglio giocare alle vostre regole ma ho bisogno di più tempo».

«Non abbiamo tempo…».

«Lo so, ma…».

Uno dei cellulari annunciò una chiamata. Mirko lo stava chiamando.

“Che cazzo vorrà adesso?” pensò Mazzeo.

«Devo rispondere» disse indicando il telefonino. «Ci metto un secondo».

La Gennaro acconsentì e il poliziotto si allontanò di qualche metro. Solo quando le diede le spalle,
Anita ricominciò a respirare. Guardarlo negli occhi era stato come affacciarsi sull’inferno che
quell’uomo aveva dentro. E quella visione, per quanto fugace, l’aveva annichilita. Faticava a capire
come potesse essere ancora in piedi. Ma comprendeva ancora meno come un uomo del genere
potesse averle fatto pietà. Aveva letto e riletto i fascicoli che lo riguardavano. Sapeva chi era e cosa
aveva fatto. Ma in qualche modo le dispiaceva per lui. Perché quell’uomo aveva scritto negli occhi il
suo destino. E il brivido di freddo che la donna aveva provato derivava proprio da quello.

Aveva avuto la sensazione di parlare con un uomo già morto.

Non aveva idea del casino in cui Biagio e Varga dovevano essersi infilati. E a dire il vero, non gli
interessava nemmeno. Carmine voleva soltanto che lasciassero andare Lela. Tutto il resto passava in
secondo piano. Anche parole come amicizia, amore, e fratellanza. Quello era il passato. La violenza
del mondo di Biagio era entrata di prepotenza nel suo, ingoiandolo. Ma lui non avrebbe permesso che
Lela facesse la fine di Nicky o Sonja. Mai.

Dallo specchietto retrovisore vide due fuoristrada immettersi sulla sua scia, seguendolo. Quando
lampeggiarono con i fari, Carmine Torregrossa ebbe la certezza che fossero gli uomini dei calabresi.
Avrebbe dovuto portarli sul luogo indicato da Biagio, fare abbassare le difese a Varga mostrandosi, e
poi al resto avrebbero pensato loro. Non avrebbe dovuto intromettersi qualsiasi cosa avessero fatto.
Era questo il prezzo per la vita di Mikaela. Un prezzo che il poliziotto era disposto a pagare.

Pigiò sull’acceleratore e guidò nelle campagne fuori città, deciso a chiudere quella storia prima
possibile.

Donna arretrò, coprendo con la schiena la culla e il piccolo.

«Miriam, sei impazzita? Abbassa quel coltello».

L’ex poliziotta avanzò di un passo, per quanto incerto, continuando a brandire la lama. Strizzò gli
occhi per mettere a fuoco Donna. La mente, sballottata dalle ondate alcoliche e dalla rabbia, doveva
tornare lucida, c’era la vita del bambino in gioco, le gridava il suo istinto materno. «Allontanati da
mio figlio, puttana!».

Donna lanciò un’occhiata veloce al neonato. Per fortuna stava ancora dormendo. «Abbassa la voce, o
vuoi svegliarlo?».

«Esci da casa mia» disse l’altra, la voce strascicata.

«Sei ubriaca… abbassa il coltello, non c’è bisogno di arrivare a tanto, voglio solo assicurarmi che il
bambino sia…».

«Fuori!» gridò questa volta Miriam, agitando la lama.

Donna rimase immobile. Non sapeva cosa fare. Miriam era fuori di sé, persa nel suo delirio alcolico.
Non l’avrebbe mai lasciata col piccolo. Ma al tempo stesso aveva paura di lei, di avvicinarsi.
Rimpianse di non aver preso la pistola che aveva in macchina.
«Ok» disse conciliante. «Me ne vado. Ma abbassa quel coltello…».

«No» disse Miriam facendo un altro passo in avanti. Ora la distanza tra loro era meno di due metri.

«Ascolta, non me ne vado finché non poggi a terra quel coltello… ho paura che possa fare del male
al bimbo… mettilo giù».

«Io fare del male a mio figlio?» disse Miriam come se non credesse alle sue orecchie. «Questa è
bella davvero. Non sto facendo altro che proteggerlo, da te… Fuori da casa mia, assassina».

Donna storse la bocca. «Assassina? Cosa diavolo stai dicendo?».

Miriam fece un altro passo avanti, scostandosi di lato, liberando l’uscita.

«Fuori».

Questa volta la sua voce era un sibilo velenoso.

«Perché hai detto assassina?» domandò Donna assottigliando gli occhi.

Miriam sorrise diabolica

«Perché è quello che sei. So tutto, stronza… Tutto…» disse senza abbassare la lama.

The Savoy Hotel, Strand,

Londra

Il detective capo James Reacher dell’Unità Speciale Crimini violenti della Metropolitan Police di
Londra entrò nella lussuosa stanza d’albergo senza togliere le mani dalle tasche dei pantaloni. Il suo
vice lo accompagnò davanti alla bellissima vetrata che s’affacciava sul fiume. Un panorama
mozzafiato se non fosse stato per il cadavere che ciondolava impiccato all’asta della tenda. L’uomo,
un quarantenne dall’aspetto distinto che indossava un completo d’alta sartoria con tanto di gemelli in
oro, aveva usato la cintura dei pantaloni per farla finita. Un classico. Così come era un classico la
pozza di urina ai piedi del cadavere e l’olezzo acre di escrementi.

«Quando l’hanno trovato?» domandò Reacher.

«Nemmeno due ore fa» rispose Roger Raymond, il suo vice.


«E si può sapere perché hanno chiamato noi? Mi sembra un semplicissimo suicidio, cosa diavolo
c’entriamo?» chiese seccato, le mani sempre sprofondate nelle tasche. Londra era una delle città
europee col più alto tasso di suicidi. Ordinaria amministrazione per gli ufficiali della Met.

«Ci sono alcune cose che non tornano…».

«Sentiamo» disse Reacher guardandosi intorno e stimando che il morto doveva aver avuto parecchi
soldi per permettersi quella stanza e quegli accessori sfarzosi abbandonati sul letto king size.

«Primo. Il nostro amico si è registrato con documenti falsi, peraltro di ottima fattura… Si è spacciato
per un tale John Gerritsen, ma mentiva».

«E da cosa l’abbiamo dedotto questo?».

Raymond gli allungò un passaporto ma Reacher non tolse le mani di tasca.

«L’abbiamo trovato sopra il letto, ben aperto» disse il sergente mostrandogli nome e fotografia di
riconoscimento. Era un documento italiano.

«Domenico Cosentino» lesse Reacher. «Italiano… Mestiere?».

«Broker di altissimo livello» rispose Raymond. «Si faceva chiamare Dom. Un’altra stranezza è che
oltre ad avere una società qua ed essere residente da più di dieci anni, aveva due case, una in centro
e una a Fulham. Perché prendere una stanza?».

«Uhm, quello non vuol dire. Magari non voleva farlo a casa sua o essere trovato dalla moglie e dai
figli, chi lo sa… Dimmi una cosa, invece: si è registrato da solo?».

«No, era in compagnia di altri due uomini che l’hanno seguito in stanza, salvo andarsene dopo un’ora.
Stiamo cercando di identificarli attraverso le riprese delle cctv».

«I ragazzi hanno trovato impronte?».

«Apparentemente solo quelle del morto».

«Ok… Pensi che sia roba di mafia?».

«Sospetto di sì. Puzza tutto di messinscena».

«Merda… altro?».

«Sì, la Scientifica gli ha trovato in tasca questo» disse Raymond porgendogli qualcosa.

Di malavoglia Reacher tolse le mani dalle tasche, indossò dei guanti in lattice e prese il piccolo
oggetto. Era una scatola di fiammiferi.
«Mata León…» lesse. «Che cazzo è?».

Raymond gli fece cenno di voltarlo. «È il nome di uno strip-bar in Messico. Per la precisione nello
Stato di Sinaloa…».

Campagna,

“Giungla”

Varga l’aveva accompagnato a pisciare senza perderlo di vista nemmeno per un secondo. Mentre lo
stava riallacciando alla sedia, Pagani chiese: «Il tuo collega ha davvero ucciso Ivankov?».

Varga annuì quasi sovrappensiero. Era inquieto. Era come se avvertisse una strana tensione. Una
brutta sensazione che lo teneva oltremodo vigile e all’erta.

«Allora non dovrebbe vantarsene così tanto» proseguì il broker.

Giorgio gli puntò gli occhi addosso. Ora aveva tutta la sua attenzione.

«Perché mai?» chiese l’albino.

«Perché a confronto con noi il ceceno era una mezza calzetta…».

«Come no… se devi continuare a dire puttanate ti imbavaglio, capito?».

«Te ne accorgerai, te ne accorgerai…».

Il poliziotto stava per ribattere quando uno dei segnalatori di movimento spedì un‘onda radio che
fece suonare l’apparecchio elettronico sul tavolo. Varga sussultò. Qualcuno si stava avvicinando alla
cascina.

Pagani sospirò. «A quanto pare te ne accorgerai prima di quello che pensavo».

Varga imprecò e imbracciò un fucile.

Donna si sentì gelare.

«Tutto che?» chiese.


«Allontanati da mio figlio».

Donna lo guardò. Il piccolo si era svegliato. Si scostò di lato. «Tutto che?» ripeté.

Miriam avanzò di un passo, il coltello sempre puntato contro la vecchia amica di Biagio. «Sei stata tu
a far uccidere Nicky…».

La lama era nelle sue mani, ma era come se l’avesse trapassata da parte a parte, perché Donna si
sentì mozzare il fiato, e una sensazione di gelo le si insinuò fino alle ossa.

«Che cazzo dici?».

«Non far finta di niente… so tutto… sei stata tu a fare la spiata alla cecena… sei stata tu a tradire
Biagio…».

«Ma cosa diavolo…».

«Era solo una bambina. Cosa cazzo hai nel cuore, si può sapere?».

«Miriam, tu non stai bene… abbassa quel coltello e…».

«Non avvicinarti… allontanati dal bambino, o giuro su Dio che ti strappo via quel cuore marcio che
ti ritrovi…».

«Ascoltami, cosa pensi che direbbe Biagio se ti vedesse in questo momento…».

Miriam scoppiò a ridere. «Sarebbe il primo a dirmi di sbatterti fuori a costo di pugnalarti…».

«…».

«Ah, ancora non lo sai?».

«Sapere che cosa?» chiese Donna, la voce questa volta tremante.

Miriam rise ancora mentre il bambino iniziava a piangere. «Chi pensi che mi abbia detto che dietro
la morte di Nicky c’eri tu?».

Donna si dovette poggiare alla parete per non cadere.

«Biagio sa tutto».

«No… impossibile…».

«Sì, invece. Lo sapeva dal primo istante. È stato lui a dirmi di non lasciare che tu ti avvicinassi a noi,
mai più…».
«No… non è possibile… lui non… non…».

«Mi aveva fatto giurare che non te l’avrei detto, ma non ho resistito. Dovevi sapere quanto mi fai
schifo. E ora fuori da casa mia, puttana!».

Il bambino lanciò uno strillo più acuto e Miriam si voltò istintivamente verso di lui.

Donna non stava aspettando altro.

Le si lanciò contro con tutta la disperazione che le si agitava in petto.


GIÙ ALL’INFERNO
Che cazzo vuol dire che non te lo fanno portare via?» disse Mazzeo cercando di non alzare troppo la
voce.

«A quanto pare Miriam ha dato questa disposizione alla dirigente scolastica: solo lei può prendere e
portare via Matteo. Nessun altro» rispose Mirko Giacchetti dall’altra parte del telefono.

«Cristo…».

«Ho pensato di chiamare Miriam per risolvere questa cosa, ma alla fine ho deciso che era meglio
sentire te prima».

«Hai fatto bene… hai fatto bene… Ok, ascolta, tu rimani lì e assicurati che la situazione sia
tranquilla, ora provo io a chiamare Miriam e risolvere questa cosa, va bene?».

«Io non mi muovo. Aspetto una tua chiamata».

«Perfetto. A tra poco».

Biagio chiuse la comunicazione e fece cenno alla donna dell’FBI, a qualche metro da lui, di
pazientare ancora qualche minuto.

Provò a chiamare Miriam sul cellulare nonostante gli costasse parecchio dopo il gelido incontro di
qualche ora prima, ma ne andava della sua sicurezza.

Il cellulare squillò a vuoto ed entrò la segreteria telefonica. Il poliziotto ci riprovò con lo stesso
esito.

“Merda, rispondi. Lo so che sei incazzata, ma… rispondi per favore” pensò insistendo.

Niente. Il cellulare continuava a squillare a vuoto. Provò sul telefono fisso, ma nulla.

“Dove cazzo è, merda…”.

Pensò di chiamare Carmine, ma si ricordò un secondo dopo che l’aveva mandato a dare il cambio a
Varga. Si rese conto di aver perso la lucidità dopo la notizia su Vatslava. Ora che più che mai doveva
rimanere lucido e all’erta, la sua mente sembrava naufragare nel caos generato dalla disperazione.

Fece un ultimo tentativo sul cellulare, invano. Lasciò allora un messaggio vocale e le scrisse su
WhatsApp. Attese per qualche minuto, ma nessun segnale dall’ex poliziotta.

“E adesso?” si disse. Da dove si trovava a casa di Miriam ci avrebbe messo nemmeno un quarto
d’ora se fosse partito subito.
«Problemi?» chiese Anita Gennaro, avvicinandosi.

«Sempre» rispose Mazzeo. «Ascolta, devo andare, ho delle cose urgenti da risolvere…».

«Ma…».

«So quali sono gli accordi e ho già dato la mia parola. Sono in gioco, ok? Ma alle mie regole.
Datemi ancora qualche ora».

«Non abbiamo tempo, Mazzeo».

Come per rassicurarla delle sue intenzioni Biagio la prese per le braccia. «Sai cosa mi hanno fatto,
vero?».

Anita fissò le sue mani poi lo guardò negli occhi e annuì.

«Ho perso tutto. E la colpa è delle stesse persone che volete ingabbiare voi, quindi credimi, non
voglio fottervi. Vogliamo la stessa cosa. Ma devo mettere al sicuro le poche persone care che mi
sono rimaste. Non posso ripetere lo stesso errore».

«Va bene. Ma la scadenza rimane per stanotte» disse l’americana.

Biagio la lasciò andare e la ringraziò. Corse alla macchina e guidò verso casa di Miriam.

Il poliziotto era troppo agitato per accorgersi di una berlina giapponese che era uscita dal parcheggio
del centro commerciale qualche secondo dopo di lui, iniziando a seguirlo.

Il segnalatore di movimento aveva suonato quattro volte. Ciò significava almeno quattro macchine.
Quattro macchine con perlomeno tre persone in ognuna significava una dozzina di uomini. Varga,
invece, era solo. Per quanto potesse essere armato, era solo.

Aveva provato a chiamare Biagio, ma il telefono era sempre occupato. Alla fine aveva rinunciato.
Anche se fosse riuscito a chiamarlo, Mazzeo ci avrebbe messo come minimo mezz’ora, forse
correndo al massimo venti minuti per arrivare. Troppo tempo.

«Vuoi un consiglio? Lasciami qui e scappa. Che senso ha morire? Non lasceranno testimoni,
credimi… sii furbo e usa la…».

Varga lo schiaffeggiò. «Sta’ zitto».

Il rilevatore di movimento emise un altro segnale acustico. Un’altra macchina. Altre tre persone.
Quindici uomini in tutto, calcolò. Forse di più. I calabresi avevano deciso di fare le cose in grande e
non correre rischi. E tra una manciata di minuti gli sarebbero stati addosso. Doveva sbrigarsi.
Tagliò le corde che legavano Pagani e lo tirò in piedi. Prese un altro fucile e col broker al seguito
salirono di sopra.

«Cos’hai intenzione di fare?» chiese il criminale.

«Spero per te che sia veloce» disse Varga togliendogli le manette che gli serravano i polsi e
spingendolo fuori.

Le portò via il coltello di mano e la colpì con un pugno allo stomaco che la fece crollare a terra
senza fiato. Come aveva imparato da Biagio guardandolo fare a botte quand’era ancora un bambino,
sfruttò il vantaggio dato dalla sorpresa e doppiò con un calcio alla milza che strappò a Miriam un
urlo di dolore.

Il piccolo stava strillando, ma l’attenzione di Donna era concentrata sull’ex poliziotta. Impugnò il
coltello e mentre con una mano le tirava i capelli all’indietro, con l’altra le posò la lama sulla
carotide. Fece pressione e un rivolo di sangue serpeggiò sul collo dell’ex poliziotta.

«Prova a mentirmi e ti scanno» le sibilò in un orecchio.

Ancora senza fiato e terrorizzata, Miriam provò a scalciare e levarsela di dosso. Donna lasciò che
l’acciaio le mordesse la pelle e l’altra si bloccò, il corpo teso in uno spasmo di sofferenza.

«Ecco, brava. Sta’ ferma… E ora dimmi tutto…».

Miriam, in lacrime per il dolore e la paura, esitò.

Donna spostò il filo della lama sulla coscia dell’ex poliziotta e la squarciò.

Il sangue iniziò a fluire dalla carne lacerata, creando una pozza sul pavimento.

«Parla!».

«Lui… lui sa tutto… prima di sparire e non farsi più vivo, mi ha detto di stare attenta a te… quando
gli ho chiesto perché, me l’ha detto… ha detto che per ora era meglio che tu non sapessi, che
continuassi a pensare che lui non sapesse nulla…».

«Perché?».

«Non lo so… Ma sa che sei stata tu a tradirlo, a parlare con Vatslava… ha detto che avevi fatto la
stessa cosa con Sonja…».

“Lui sa cos’hai fatto… sa che ci sei tu dietro la morte della persona che amava di più al mondo…
Sa…” pensò, sgomenta.
Per un attimo il terrore che lui sapeva parve paralizzarla.

Miriam ne approfittò. Con la forza della disperazione riuscì ad allontanare il coltello dalla gola e le
morse un braccio, strappandole via un lembo di carne.

Donna gridò e perse la presa sull’arma, che le cadde per terra.

Miriam tentò di tirarsi in piedi ma scivolò sul suo stesso sangue e rovinò a terra. Cercò di
proteggersi con una spalla che fece un brutto rumore di ossa spezzate. Il suo istinto di madre vinse
anche su quell’immane dolore e provò a strisciare in direzione del figlio che continuava a strillare,
con lo scopo di proteggerlo e portarlo via da lei.

Donna glielo impedì. L’afferrò per una caviglia e la tirò all’indietro. Le montò sopra e le abbrancò la
testa sbattendogliela sul pavimento. Preda della disperazione data dal sapere che Biagio aveva
scoperto il suo ruolo nell’omicidio di Nicky, iniziò a sbattere ripetutamente il volto dell’ex
poliziotta. Continuò come in preda al delirio, anche quando Miriam smise di agitarsi e gemere.
Seguitò, Donna, con tanto accanimento da fracassarle il cranio, gridandole che era una puttana, che se
era arrivata al punto di tradirlo la colpa era anche sua che gliel’aveva portato via, che ci aveva fatto
un figlio insieme, alle sue spalle.

I capelli e la nuca erano talmente impiastricciati di sangue che Donna perse la presa e dovette lasciar
andare il capo di Miriam, che s’adagiò senza alcuna resistenza.

Ansimava e tremava, Donna, ancora a cavalcioni sopra di lei che non si muoveva più.

Si inarcò, toccando con la fronte la nuca dell’ex poliziotta dagli occhi sbarrati rivolti verso la culla,
in un ultimo, disperato sguardo al neonato.

Le strilla del bambino continuarono a trapanarle le orecchie. Si sollevò e osservò il corpo scomposto
di Miriam, le dita tese come in soccorso del figlio. La pozza di sangue ora arrivava fino alla culla.

Inebetita, Donna si alzò sulle gambe malferme e cercando di non scivolare sul sangue si avvicinò alla
culla. Con le mani tremanti prese il bambino e se lo portò al petto, cercando di calmarlo. Lo cullò
implorandolo di smetterla di piangere.

S’appoggiò a una parete e si lasciò scivolare, fino a sedersi sul pavimento. Allungò una mano e prese
il coltello che brandì in direzione di Miriam, come se avesse paura che potesse rialzarsi e
scagliarlesi addosso. La punta della lama oscillava come un sismografo, mentre i suoi occhi
tentavano di trasmettere al cervello l’immagine sanguinaria che aveva innanzi, e le labbra
articolavano una sorta di litania continua. Lentamente, Donna realizzò ciò che aveva fatto e questo
l’annichilì.

Stordito da quel continuo dondolio, il bambino si calmò e si riaddormentò tranquillo, come se ciò
che l’aveva svegliato fosse soltanto un incubo.
Ma non era stato un incubo.

E il cadavere al centro della stanza di Miriam Petrarca, sua madre, stava lì a dimostrarlo.

Dieci minuti, forse meno e sarebbe arrivato a casa di Miriam. Il contrattempo di Matteo non ci
voleva. Biagio aveva mille cose da fare tra cui spostare Pagani. La cascina non era più sicura.
Avrebbe dovuto portarlo da qualche altra parte. Un posto altrettanto isolato e irrintracciabile. E ora
che avevano tirato dentro l’affare anche Carmine avrebbe dovuto parlarci e spiegargli quanto meno
per sommi capi cosa stavano facendo. Lo amava come un fratello e sapeva che l’avrebbe seguito in
qualsiasi decisione, a qualsiasi costo, ma doveva cercare di limitare la valanga di conseguenze che
la malagestione del narcobroker avrebbe potuto scatenare. Lui e Varga erano la sua famiglia, e
doveva fare in modo di proteggerli prima di uscire di scena.

Provò a richiamare Miriam sperando di risparmiare tempo, ma nulla. Sempre quella dannata
segreteria telefonica.

Vide delle chiamate senza risposta di Varga e provò a richiamare anche lui, ma doveva essere la
giornata nazionale delle segreterie telefoniche.

«Che cazzo…» mugugnò. Tentò con Carmine.

Finalmente uno che rispondeva.

«Dimmi, Biagio».

«Ho visto che Giorgio stava cercando di chiamarmi, ma ora non risponde… dove sei?».

«Guarda, sono praticamente arrivato… anzi, ecco, vedo la sua macchina».

«Perfetto. Chiedigli cosa vuole e fammi richiamare».

«Ok. Tu dove sei?».

«Sto andando un secondo a casa di Miriam… ci vediamo tra un po’, allora».

«Ok. A dopo».

Mazzeo chiuse la chiamata. Nove minuti da casa di Miriam. Si domandò che scusa avrebbe dovuto
inventarsi, soprattutto dopo il gelo che c’era stato tra loro qualche ora prima. Se avesse potuto,
avrebbe evitato di rivederla. Non voleva ritrovarsi davanti ai suoi occhi glaciali, all’odio che i suoi
lineamenti sembravano contenere come una diga in procinto di crollare. Sapeva di averle fatto tanto
male, di averla ferita nel suo essere donna, nel suo essere madre. Ma non aveva avuto altra scelta.

“La sua sicurezza è più importante del tuo imbarazzo” si disse.


E poi, il pensiero che avrebbe potuto rivedere suo figlio un’ultima volta anche se per pochi minuti
alleviò la tensione e rese la prospettiva di quell’incontro molto più rosea.

Biagio Mazzeo pigiò sull’acceleratore, e l’autista della macchina che lo stava seguendo fece lo
stesso.

Per la prima volta si rese conto di quanto il silenzio della morte fosse più profondo di qualsiasi altro
silenzio. Aveva qualcosa di infrangibile e sacro. Qualcosa di definitivo.

Donna, d’un tratto, come se avesse preso coscienza di ciò che aveva fatto e che non c’era possibilità
di tornare indietro, si tirò in piedi e lasciò la stanza. Andò in bagno e, dopo aver posato il bambino
dentro la vasca, cercò di lavarsi le mani e il viso. L’acqua che gorgogliava e scivolava nello scarico
era rossa. E sulla ceramica bianca rimasero i capelli neri e crespi di Miriam insieme ad alcuni
frammenti di cuoio capelluto.

“Cos’hai fatto?” si chiese. “Cosa diavolo hai fatto?”.

«Quello che dovevi fare da un pezzo…» mormorò poi allo specchio. Si ispezionò la ferita
all’avambraccio dove quella puttana l’aveva morsa e ci avvolse della garza presa da un armadietto,
bloccando l’emorragia.

«Tranquillo, piccolo. Adesso andiamo a casa… penserò io a te…» disse con voce dolce. Si legò i
capelli e poi prese il neonato in braccio. Cercò la borsa del bimbo e ci infilò qualche giocattolo e
qualche vestito di riserva, poi si diresse verso le scale, senza lanciare nemmeno un’occhiata al
cadavere di Miriam.

«Ora sei al sicuro… ci sono io, tesoro. Ci sono io, la tua vera mamma» sussurrò stretto a sé. «Ora
siamo insieme…».

Recuperò la borsa e dentro ci gettò il latte e le pappe che trovò nel frigorifero. Poi, dopo aver
coperto per bene il bambino, abbandonò la casa senza preoccuparsi di nascondere le proprie tracce.
Si muoveva come in trance, Donna, tanto che non si era resa nemmeno conto di avere i vestiti
imbrattati di sangue. Aveva il suo bambino, e nient’altro le importava.

Nient’altro.

Quando le gomme del fuoristrada esplosero una dopo l’altra, Varga comprese che avevano mandato
dei professionisti. Fucili di precisione silenziati, roba da mercenari. Si rinserrò dentro la casa, il
borsone delle armi a portata di mano, e attese che si rivelassero.

Contrariamente a quanto si era aspettato, Pagani aveva obbedito senza fare storie. Era corso verso il
bosco alle spalle della cascina seguendo le sue indicazioni. Ci avrebbe pensato lui a coprirgli la
fuga. Doveva soltanto sbarrare loro la strada per un po’, dandogli il tempo di fuggire. Perché Pagani
era l’ultima carta che Biagio aveva. Se glielo portavano via, non avrebbe avuto più nulla. Senza il
broker il patto stretto con gli americani sarebbe crollato: sarebbero finiti entrambi in galera, lui e
Biagio, visto tutto ciò che i federali sapevano su di loro. E in carcere i calabresi gliel’avrebbero
fatta pagare nel modo peggiore. No, meglio morire in quei campi che accoltellato nella lavanderia
della prigione.

Stava per sparare per bloccare la loro avanzata, quando si ricordò che Biagio avrebbe mandato
Carmine a sostituirlo.

«Merda» mormorò il poliziotto. Si maledì per aver dato il suo cellulare a Pagani, chiedendogli di
mettersi in contatto con Biagio. Gli aveva spiegato che i calabresi lo volevano morto e lui aveva
stranamente assentito. Evidentemente c’erano delle cose di cui li aveva tenuti all’oscuro.

Senza telefonino Varga non poteva avvisare Torregrossa dell’agguato. Aveva un altro apparecchio,
ma l’aveva lasciato giù, nello scantinato. Sarebbe potuto andare di sotto a prenderlo, ma c’era il
rischio che al suo ritorno la casa fosse stata già circondata e a quel punto il telefono non sarebbe
servito a nulla. Decise di rimanere.

I vetri esplosero per via di una raffica inudibile. La porta venne falciata via. Fuoco di copertura.

Varga cercò di spostarsi ma le scariche proseguirono costringendolo a mantenere la posizione.


Stavano sparando da più lati, accerchiandolo. Dovevano essere più di una dozzina, calcolò, era gente
di sicuro abituata a centrare il bersaglio da mezzo chilometro e ora si trovava a centro metri da lui,
forse meno. Dalla potenza dei colpi, Varga capì che stavano usando proiettili calibro .50 sparati,
avrebbe scommesso, da carabine di precisione M-93, un fucile da cecchini dei corpi speciali o da
caccia agli orsi. Con quella superiorità numerica il poliziotto realizzò che non c’era partita. Non era
una caccia all’uomo, ma un semplice tiro al bersaglio.

Continuarono a sparare per almeno un minuto, soffocando qualsiasi sua reazione.

Poi smisero.

Per un attimo s’illuse che Carmine e Biagio fossero arrivati in suo soccorso, mettendo i mercenari
dei calabresi fuori gioco. Si aggrappò a quella speranza con tutte le sue forze, salvo tornare con i
piedi per terra qualche secondo dopo, quando vide i sottili fasci rossi dei laser frugare la casa
attraverso le finestre distrutte.

“Ti hanno voluto far capire che possono ucciderti quando vogliono… è arrivato il momento di
trattare” si disse.

Si sporse leggermente di lato alla finestra. Dalla vegetazione vide convergere su di sé il luccichio
dei mirini telescopici di almeno sei fucili e i fasci di luce infrarossi. Ma soprattutto a una ventina di
metri scorse Carmine venirgli incontro. Era scortato da due uomini mascherati e muniti di giubbotti
antiproiettile che gli puntavano delle pistole alle tempie. Il viso era una maschera di tensione.

Varga capì che era troppo tardi per trattare.

Stava per suonare quando vide il sangue per terra. Il primo pensiero fu che avessero scoperto il
bambino e deciso di utilizzarlo per costringerlo alla resa e farsi consegnare Pagani. Tipico metodo di
quel pezzo di merda di Labate e dei suoi.

“Ti prego, dimmi di no. Non anche questo, ti prego…” implorò dentro di sé Biagio estraendo la
pistola. La porta era chiusa. Corse alla finestra della cucina e lanciò un’occhiata all’interno. Vuota.
Vide solo un bicchiere e una bottiglia di liquore sul tavolo. Strano. In preda all’ansia e alla paura,
fece il giro della casa, tenendosi basso. Il villino di Miriam aveva un’entrata posteriore e sotto il
tappeto davanti all’uscio Biagio sapeva esserci una chiave di riserva. Sperò con tutto il cuore che ci
fosse.

C’era.

Cercando di fare il minimo rumore aprì ed entrò. Tese l’orecchio. Silenzio assoluto. Si domandò se
fosse il caso di annunciare in qualche modo la sua presenza, ma scartò l’idea. Magari il sangue che
aveva visto era di qualche randagio ferito e si stava preoccupando per niente. Ma aveva una brutta
sensazione. Decise di prepararsi al peggio. Con l’arma spianata scivolò dentro l’abitazione e
perlustrò il primo piano. Vide una fuga disordinata di passi e si sentì gelare. Erano impronte di
sangue. Osservandole con attenzione, si rese conto che erano state lasciate da calzature femminili.

“Vatslava…” pensò, salvo ricordarsi un attimo dopo che la cecena era morta.

Si avvicinò alle scale. Le impronte sembravano essere arrivate dal secondo piano.

Una carrellata di parole e immagini gli attraversò la mente.

…Infanticidio materno… depressione post-partum… psicosi postpartum…

L’ultima volta che l’aveva vista, poche ore prima, Miriam sembrava reduce da una brutta crisi di
nervi. E la sua presenza forse era stata la goccia che ne aveva fatto traboccare la paranoia
indirizzandola contro il bambino, ai suoi occhi l’origine di tutto quel male. A Biagio era capitato
troppo spesso di intervenire in casi simili.

«No…» sussurrò il poliziotto che sentì le gambe farsi molli quando la mente associò il sangue, la
depressione e la bottiglia sul tavolo. Strizzò gli occhi come per scacciare quelle immagini e quei
pensieri, e senza abbassare l’arma avanzò per le scale.
I due uomini mascherati si fermarono a meno di dieci metri dalla casa, coprendosi col corpo di
Torregrossa a cui continuavano a puntare le armi alla tempia.

«Non fare cazzate, Varga» gridò uno di loro.

Il poliziotto si chiese come potessero sapere il suo nome. Poi pensò al grado di pericolosità di quelle
persone e non si sorprese. Pregò soltanto che non avessero scoperto anche di Anna, la nipotina, che
aveva allontanato dalla sua vita per proteggerla. Quella sarebbe stata l’unica cosa in grado di
metterlo in ginocchio.

«Sai le regole del gioco, e hai visto che non stiamo scherzando. Non ci interessi, vogliamo solo
Pagani. Daccelo e la chiudiamo qui».

Doveva prendere tempo. Dare modo a Pagani di scappare raggiungendo la strada alla fine del bosco.
Il broker era l’unica speranza per Biagio, perché per quanto riguardava se stesso e Carmine non
nutriva alcuna illusione. I calabresi non lasciavano testimoni.

«Siamo due poliziotti. Vi rendete conto della cazzata che state facendo?» gridò.

«Sul fatto che siate davvero poliziotti si potrebbe discutere a lungo… Forza. Esci con le mani alzate
e lascia i tuoi giocattoli dentro casa… ci stiamo innervosendo».

«E fate bene. Ho chiamato i rinforzi. Tra poco questo posto sarà pieno di sbirri. Liberatelo e giuro
che non sparerò nemmeno un colpo» urlò di rimando l’albino.

«Varga, basta con le troiate da telefilm. Tra due secondi sparo al tuo amico a un ginocchio, tra cinque
te l’ammazzo qui e poi veniamo a finirti… sto iniziando a contare…».

Torregrossa era un duro, ma si era fatto catturare. Dovevano averlo preso di sorpresa, o attirato in
una trappola. Ciò significava che erano davvero in gamba. Ed erano troppi. Varga sapeva che era
finita. Socchiuse gli occhi e sorrise, perché di lì a poco si sarebbe ricongiunto con Claudia, a costo
di andarla a cercare all’inferno.

“Sto arrivando, bellezza” pensò.

Lanciò fuori i fucili e si sistemò una pistola dietro la schiena. Sarebbe morto, ma avrebbe cercato di
portarsene appresso il più possibile. Sarebbe morto da poliziotto.

«Sto uscendo!» gridò.

Alzò le mani e uscì. I raggi infrarossi conversero sul suo petto come un nugolo di insetti elettrici.
Varga contò almeno una mezza dozzina di puntini luminosi all’altezza del cuore. Quantomeno sarebbe
stato veloce e indolore, si disse.

«Sta’ fermo e non fare cazzate» gli ordinarono.


«Ti sei fatto prendere» rimproverò Torregrossa scuotendo la testa. «Dilettante».

«Grazie per non avermi fatto sparare» rispose Carmine.

Varga notò che aveva le mani libere. Non l’avevano né ammanettato né legato. “Perché mai?” si
domandò. Dei professionisti che facevano un errore di quel genere? O l’avevano sottovalutato?

Prima che la sua mente potesse elaborare delle risposte, Varga capì. Suo malgrado capì, e si sentì
svuotato di qualsiasi energia, ancora prima che i due mercenari spostassero le pistole dalla testa di
Torregrossa alla sua.

«Ti hanno comprato…» disse l’albino con disprezzo.

Carmine abbassò gli occhi per un istante poi scosse la testa. «No, non sono quel tipo d’uomo».

«Che cazzo sta succedendo allora?».

«Non ho avuto scelta. Hanno preso la mia donna».

«Ah, sì? Ho sempre pensato che fossi frocio…».

Le labbra di Torregrossa si distesero in un sorriso amaro. «Mi dispiace, socio».

Un solo proiettile. Varga sapeva di avere il tempo soltanto per un proiettile. E decise che non
l’avrebbe usato per i soldati dei calabresi, ma per quel pezzo di merda che l’aveva condannato a
morte.

«Spero per te che Biagio non lo scopra mai» disse Varga.

Vide la fronte di Torregrossa contrarsi per la tensione.

“Sto arrivando, tesoro. Vieni a prendermi” pensò l’albino.

Poi estrasse in un lampo la pistola da dietro la schiena e la puntò sul collega, il grilletto già in
tensione.

Era stato velocissimo, Varga.

Ma i cecchini lo furono di più.

I messicani li avevano fottuti. Avevano finto di accettare la tregua solo per prendere tempo e sferrare
il colpo più micidiale. Quello che li aveva trafitti nel centro nevralgico: l’alta finanza, i soldi. In una
parola, Dom Cosentino.
Romeo Labate era basito. El Padrino aveva agito in modo scientifico: prima aveva eliminato Pagani,
il genio della logistica. Poi gli appoggi in Sudamerica e Messico. Ora Dom Cosentino, il pilastro
economico dell’Organizzazione. Il Cartello stava minando la loro credibilità a livello internazionale,
creando pericolose tensioni all’interno dell’Onorata Società. Perché gli sbirri ci avrebbero messo
poco a scoprire che quello di Cosentino non era un suicidio ma un omicidio, e a quel punto tutte le
società, i conti e le carte del broker sarebbero stati messi sotto l’attento vaglio degli inquirenti. Ciò
significava che i calabresi per qualche tempo avrebbero dovuto tenersi alla larga dai conti che Dom
amministrava per loro, conti multimilionari.

Labate non capiva come fosse potuto accadere. Dall’alto avevano ordinato che Cosentino dopo la
cattura di Pagani girasse sempre con documenti falsi, scortato a turno da almeno due uomini; gli
ordini imponevano anche che dormisse soltanto in alberghi, e mai due notti di fila nello stesso. Gli
avevano messo a disposizione un autista e a fianco due mercenari fidati e con anni di esperienza, ma
il messicano doveva esserseli comprati tutti. Sinaloa ancora una volta si era rivelata un nemico
letale, perché in possesso di una quantità di denaro pressoché illimitata che, unita alla fredda e
geniale intelligenza di El Chapo, aveva messo Labate e i suoi in ginocchio.

La morte del broker rendeva ancora più pressante il bisogno di ritrovare Pagani, a qualsiasi costo.
Perché ora tra tutti gli affiliati e i collaboratori dell’Organizzazione sarebbe serpeggiata la paura.
Esattamente ciò che Sinaloa voleva. Cosentino non era soltanto un genio della finanza, ma un
simbolo. Il Cartello, uccidendolo, aveva dimostrato che loro erano sotto tiro, nessuno escluso e a
qualsiasi latitudine.

Come se non bastasse, il giorno prima la DDA di Venezia e i finanzieri del GICO avevano
sequestrato nell’hinterland dell’area lagunare quattrocento chili di cocaina, provenienti dal
Sudamerica e nascosti in container di frutta, e arrestato una decina di affiliati. Qualcuno da una parte
o dall’altra dell’Oceano aveva parlato, ma visti gli ultimi sviluppi Labate riteneva che dietro
quell’ennesimo sequestro ci fosse la mano di Sinaloa.

…O lavorate per noi, o non lavorerete più…, sembrava quasi di sentire al messicano.

Con le mani tremanti per la rabbia, Romeo Labate afferrò il cellulare. «Sì?» rispose sperando di
ricevere qualche buona notizia.

«Siamo qui, dove lo sbirro ci ha portato. C’è stato un po’ di trambusto, ma ora abbiamo la situazione
sotto controllo… Abbiamo trovato soltanto l’altro sbirro, quello albino. Dell’ingegnere non c’è
traccia».

«Cosa cazzo vuol dire che non c’è traccia?».

«Non è qui. Devono averlo trasferito».

Sinaloa li stava spazzando via. L’unico modo per tornare in pista era rimettere le mani su Pagani.
Dovevano trovarlo a qualsiasi costo.
«Torregrossa?».

«È qui con noi».

«E quest’albino dov’è?» domandò Labate.

Un attimo di silenzio.

«Allora? Dove cazzo è?».

«Qui, davanti a me».

«Fatti dire dov’è l’ingegnere. Devo saperlo. Qualsiasi mezzo è lecito, mi sono spiegato?».

«È pericoloso, qui. Potrebbe aver chiamato rinforzi, forse è il caso di spostarlo e…».

«Fallo ora, Cristo! Subito».

«E una volta che parla?».

«Tu fallo parlare. E come l’hai fatto parlare, poi fallo stare zitto…».

Romeo Labate chiuse la chiamata e fissò con l’angoscia negli occhi la moglie che, glaciale, fumava
osservandolo.

«La situazione mi sta sfuggendo di mano, Vitto’».

La donna si voltò verso la finestra aperta. Fece un ultimo tiro e poi lanciò di sotto la cicca. Soffiò via
il fumo e gli si avvicinò, accarezzandogli dolcemente una guancia.

«Tu sei stretto in mezzo a due uomini, Romeo. Sono due uomini pericolosi, due serpi. Solo che uno
sta in Messico, ed è fuori portata. L’altro sta qui, vicino a te… La guerra è come l’amore, richiede la
stessa dedizione. E come non si possono amare due donne allo stesso tempo, così non si possono
combattere due guerre insieme. Soprattutto se i nemici sono tanto forti e hanno bisogno di tutta la tua
attenzione… È ora di eliminare almeno un nemico per poterti concentrare soltanto sull’altro. È
arrivato il momento di spazzare via questo Biagio Mazzeo».

Romeo Labate prese il telefonino per chiamare una persona che poteva aiutarlo.

Dopo qualche secondo il cellulare del viceispettore Vito Filomena iniziò a vibrare.

Gli si aprì dentro una voragine quando vide il cadavere brutalizzato di Miriam. Una voragine
famelica che lo inghiottì tutto. Sentì la pistola scivolargli di mano e poi il suono metallico quando
sbatté per terra. Ma erano rumori di fondo. Ovattati, lontani.
Crollò sul pavimento, gli occhi sbarrati. Le urla gli si erano strozzate in gola. No!, gridava la sua
mente. Dopo Nicky, non poteva essere accaduto anche questo. Non a lui…

Una fitta gli trafisse il petto. Dovette posare le mani a terra per non cadere. Il cuore, quel suo cuore
maledetto, si ribellò a quella visione e sembrò quasi esplodere.

Quando il dolore passò, si rialzò e si osservò le mani. Erano fradice del sangue della madre di suo
figlio. Inchiodato vivo a quella realtà, Mazzeo sentì le lacrime solcare la maschera di ghiaccio che
era diventato il suo viso.

Si odiò, si maledì, si dannò, rimpianse di essere nato e di aver amato, tutto in un istante.

Miriam, la sua bellissima Miriam, giaceva sul pavimento, il viso irriconoscibile, la sua materia
cerebrale sparsa per terra insieme a quel lago di sangue che si era allargato per tutta la stanza. Quale
bestia poteva averla ridotta così? Chi poteva odiarlo così tanto da essersi vendicato in quel modo?

Lo sgomento gelido che l’aveva come cristallizzato cominciò a sciogliersi sotto la lava della rabbia
incendiaria che iniziò a infiammarlo. I muscoli gli si irrigidirono tanto che uno spasmo lo contrasse
tutto.

Sonja…

Nicky…

Miriam…

Le donne della sua vita. Le persone che più aveva amato, per cui sarebbe morto, per cui aveva
ucciso.

Ma c’era un’altra cosa che le accomunava oltre al suo amore disperato.

Erano tutte morte a causa sua. Il suo amore era il baratro che le aveva inghiottite.

Tutte.

Mentre veniva risucchiato dagli abissi dei sensi di colpa, Biagio Mazzeo scorse il sangue lambire i
piedi della culla del bambino.

Si rese conto che la culla era vuota.

Qualcuno aveva rapito suo figlio.

L’avevano costretto a guardare. Avrebbe volentieri levato il disturbo, ma gli avevano ordinato di
rimanere lì a osservare come lo torturavano. Stringendo i pugni e i denti, e con la mente inchiodata al
pensiero che avevano in mano Mikaela e doveva obbedire, se n’era rimasto zitto e buono mentre
davanti a lui Varga si dibatteva in preda a dolori atroci. Sanguinava, tremava, piangeva, ma non
parlava. Non urlava nemmeno, come se non fossero degni della sua sofferenza. Nessuno di loro.
Carmine compreso.

Da quando l’avevano legato a quella sedia e lui aveva detto che non aveva idea di dove fosse Pagani,
che Biagio l’aveva portato via senza dirgli dove, gli uomini di Labate avevano iniziato a torturarlo in
modi che Torregrossa non aveva visto nemmeno nei film horror. Alcune delle bestie che Varga aveva
tatuato sulla larga schiena ora erano ai suoi piedi.

Torregrossa aveva sperato che il collega morisse d’infarto piuttosto che vederlo ancora contorcersi,
scosso dagli spasmi incontrollabili scatenati dalle mani feroci e abili dei suoi torturatori e dai loro
strumenti improvvisati. Il poliziotto aveva scoperto che tutto può diventare uno strumento di tortura.
Ogni cosa.

Mentre uno dei mercenari lo teneva sotto tiro alle spalle, Carmine si premeva la mano sulla ferita
all’altezza dello zigomo dove il proiettile l’aveva lambito. Se Varga non l’aveva centrato in piena
fronte era solo perché nel frattempo i cecchini gli avevano piazzato tre colpi sul braccio che reggeva
l’arma e due sulla spalla. Diversamente, Torregrossa sapeva che sarebbe stato già cibo per vermi.
Ciò che avrebbe meritato.

Dopo averlo azzoppato, i mercenari avevano trascinato l’albino dentro casa e avevano iniziato a
lavorarselo di fino. Si stavano accanendo soprattutto sulle ferite dei proiettili, scavando nella carne,
strappando tendini e nervi, raschiandogli le ossa pur di farlo confessare.

Ma Varga non parlava. Sputava e vomitava sangue, ma non fiatava.

Carmine sapeva perché. Non era solo per proteggere Biagio. C’era dell’altro.

Gli stava dando una lezione. Gli stava mostrando cos’è un vero uomo. Ogni tanto lo guardava. Negli
occhi iniettati di sangue una luce accusatoria e schifata. Carmine non avrebbe mai dimenticato quegli
occhi dai capillari esplosi. In essi era riflessa la sua infamità.

«Giorgio… questi qua finisce che t’ammazzano… se sai qualcosa, cazzo, diglielo» lo implorò.

L’albino, ormai allo stremo, si chinò per quanto il nastro adesivo glielo permetteva e gli sputò
addosso.

Carmine capì che non c’era verso di farlo ragionare, così tentò con i suoi torturatori. «Non sa nulla,
che cazzo di senso ha continuare? Non vedete che sta per crollare? A questo punto vi avrebbe già
detto tutto quanto. È chiaro che non sa un cazzo» sbottò.

«Tu sta’ zitto» gli intimarono. Sentì la pressione della pistola contro la nuca farsi più forte.

Continuarono. Questa volta gli fecero talmente male che Varga gridò. Un urlo che gelò l’anima di
Carmine. Per reazione, gli occhi di Torregrossa lacrimarono. Le lacrime si mischiarono al sangue sul
suo viso. Lacrime di pietà. Lacrime di colpa.

«Per favore, basta» sussurrò il poliziotto agli uomini incappucciati che si accanivano sul collega con
ferocia disumana, mentre il suo sangue inzuppava le assi del pavimento.

In quel momento tornarono gli uomini che il capo di quel commando aveva mandato in esplorazione
nel bosco dietro la cascina, convinto che Pagani fosse scappato da quelle parti.

«Allora?».

«Non abbiamo trovato un cazzo. E il posto è troppo grande per batterlo tutto… abbiamo bisogno di
più tempo».

«Non abbiamo più tempo! Stiamo già rischiando un casino a starcene qui».

«E lui? Non ha parlato?».

Il capo dei mercenari fissò ciò che restava di Varga. L’albino sembrava aver perso i sensi. Il
contractor scosse la testa. «No, è un duro figlio di puttana…».

«È diverso. Dopo quello che gli avete fatto anche Gesù Cristo avrebbe parlato…» intervenne
Torregrossa. «Non sa nulla. Sicuramente Pagani è con Biagio, o l’ha nascosto da qualche altra parte.
Lui non sa nulla, guardalo. Avrebbe già parlato… lasciatelo stare e andiamocene».

L’uomo mascherato parve rifletterci per qualche secondo. Tirò fuori una pistola da una fondina alla
coscia e disinserì la sicura.

«Se non sa nulla, allora non ci serve più a niente» disse.

«Andiamo, è un poliziotto. Non puoi ucciderlo» s’intromise Carmine.

Il mercenario si voltò verso di lui. «Infatti non lo ammazzo io… Lo ammazzi tu» disse porgendogli la
pistola.

Relegò lo choc in un angolo dell’anima, e preso dalla disperazione per il figlio lo cercò per tutta la
casa, invano.

Si muoveva come un automa. Non ragionava. L’istinto era il suo burattinaio. Ma doveva pensare.
Doveva rimettere in moto il cervello. Doveva scuotersi, riflettere e agire. Si sarebbe fatto
crocifiggere più avanti dai sensi di colpa. Ora doveva ritrovare suo figlio. Il suo Golgota doveva
attendere.

Chiuse gli occhi e accarezzò l’anello di Ivankov. L’anello maledetto che era ritornato da lui col suo
carico di incubi e violenza.

Ma quel gesto funzionò. Spazzò via il dolore i sensi di colpa, e l’angoscia, e risvegliò la sua mente.

…Le impronte femminili… Chi stava dietro la morte di Nicky?… Chi ha tentato di uccidere Sonja?

«Donna…» mormorò il poliziotto. E di nuovo: «Donna…».

Era stata lei a uccidere Miriam e rapire suo figlio.

Non la ’ndrangheta, ma Donna.

La persona a lui più vicina.

Nello scappare aveva perso il cellulare che gli aveva dato il poliziotto. Aveva provato a tornare
indietro per cercarlo, ma poi aveva sentito dei rumori e intravisto degli uomini mascherati correre
nella sua direzione armati di tutto punto. Pagani si era addossato al tronco di un albero, lasciandosi
cadere a terra. Aveva chiuso gli occhi come se facendolo si fosse potuto rendere invisibile. In
qualche modo aveva funzionato.

Dai rumori aveva capito che gli uomini mascherati l’avevano superato senza accorgersi di lui. Col
fiatone e il cuore che batteva imbizzarrito, il broker era scivolato dentro un’insenatura nel terreno
dove una pozza di liquame verde l’aveva avvolto fino al collo.

Di nuovo aveva chiuso gli occhi.

Paradossalmente, era più al sicuro nelle mani di quei due poliziotti che in quelle dei calabresi di
Labate. Perché c’era qualcosa di cui Mazzeo era all’oscuro. Nell’istante in cui lo sbirro gli aveva
fatto il nome di Joseph Carbone Pagani aveva capito cosa doveva fare se voleva salvare i suoi figli.
Se invece si fosse consegnato a Labate o se i suoi uomini l’avessero catturato, il suo piano sarebbe
andato a monte.

Per questo rimase immerso in quel mefitico acquitrino non appena sentì gli uomini tornare indietro e
sorpassarlo per ritornare alla cascina.

La sua salvezza non erano i calabresi, ma Biagio Mazzeo.

Avrebbe dovuto aspettare il suo ritorno, sperando che i calabresi si convincessero che non fosse lì e
se ne andassero. Stava pensando che forse avrebbe potuto trascinarsi fuori da quella pozza e cercare
il telefonino che aveva perso, quando due boati strapparono la quiete del bosco.

Due spari.
Spaventata dai frastuoni, una turba d’uccelli si librò in volo con un gracchiare e un frullare d’ali.

Un’oscura sensazione di déjà-vu invase l’uomo mentre, alzando gli occhi, si accorse che si trattava di
uno stormo di corvi.
Parte terza
Guardate i talebani in Afghanistan, i gruppi terroristici in Kosovo, le Farc in Colombia, l’Ira in
Irlanda o Sendero Luminoso in Perù… tutti questi gruppi sono stati finanziati da organizzazioni dedite
al commercio di droga. Anche le bombe dell’11 marzo 2004 a Madrid sono state finanziate dal
narcotraffico in Spagna….
ANTONIO MARIA COSTA, ex presidente UNODC,
Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo
della droga e la prevenzione del crimine

Terrorismo e narcotici sono legati da sempre.


DON WINSLOW, The Daily Beast,
12 settembre 2015

«Dobbiamo essere come i polipi, ci dobbiamo agganciare dappertutto, i tentacoli devono arrivare
dappertutto, ci sono le condizioni per poterlo fare».
Intercettazione telefonica del 6 aprile 2012
di un capocosca ’ndranghetista di Desio, Brianza.
Ricordi?
Ricordi? Eri solo un bambino ma avevi la forza e lo sguardo di un uomo. Ricordi quando rubasti
quella bambola per me? Io non lo dimenticherò mai. Ti scoprirono, ti trovarono, ma tu li mandasti
via. Mettesti loro paura. E se avessero provato a levarmi quella bambola dalle mani, sono certa
che li avresti uccisi. Per me. Quel giorno mi facesti paura. Ma più di tutto ti amai. Ti ho sempre
amato. Ho sempre aspettato che te ne accorgessi, che iniziassi a vedermi sotto un’altra luce. Non
solo la tua amica, la tua confidente, la tua complice, ma la Donna che avrebbe fatto qualsiasi cosa
per te. E l’ho fatto. Quella bambina che ti ronzava intorno, ti ricordi? Ti ricordi quando da un
giorno all’altro è sparita? Sono stata io. No, non l’ho uccisa. Ma minacciai di farlo se avesse
continuato a mettersi in mezzo. Lesse nei miei occhi che l’avrei fatto e sparì. Tutti lo sapevano che
eri cosa mia e che era meglio non mettersi in mezzo. Ma crescendo qualcosa ci ha rovinato, ci ha
allontanati. Il desiderio di lasciarci la strada e quel quartiere alle spalle, forse. Ma credimi, io
non ho mai smesso di amarti. Non ho mai smesso di rincorrerti. Ti diedi più libertà, capii che era
ciò di cui avevi bisogno. Ora me ne pento, ma sul momento non ci badai. Ero convinta che per
quanto tu avessi potuto allontanarti da me, alla fine saresti sempre tornato perché il legame che ci
unisce è qualcosa che va oltre l’amore.

Ma ho sopravvalutato quel sentimento. La cosa che mi fa più male, l’errore che mi brucia di più, è
aver creduto di poter avere la meglio su tutte le altre. D’altronde era a me che avevi regalato
quella bambola, era a me che avevi comprato tutti i 33 giri di Etta James con i primi soldi rubati.
Era a me che avevi fatto provare tutti i gioielli della tua prima rapina… A me. E ricordi con chi
festeggiasti la notte che entrasti in Polizia? Chi fu la prima persona che presentasti a Santo?A chi
affidasti la droga dei primi sequestri? A me. Ero io la persona a te più vicina, quella di cui ti
fidavi di più. Ero più di un’amica, ero la tua famiglia. Ma soprattutto ricordi la prima volta in cui
uccidesti un uomo? Ricordi quella notte? Io sì. Chi chiamasti? Me. Non chiamasti né Santo né
Carmine o Ste per risolvere quel casino. Chiamasti me. Quando arrivai il pedofilo era a terra in
un lago di sangue. La bambina era in un angolo, in lacrime. Avevi la pistola in mano, gli occhi
sbarrati dalla paura. Tremavi. Avevi perso la testa. Volevi solo dargli una lezione, ma quando
avevi visto la bambina… Ti levai l’arma di mano. Cancellai le tue impronte e ci impressi le mie.
Fui io a parlare con la piccola, a tranquillizzarla. A dirle che era stato solo un brutto incubo e che
era tutto finito. Ma nemmeno io potevo far sparire quel cadavere. Così feci l’unica cosa che c’era
da fare. Ti dissi di chiudere gli occhi della piccola. Puntai l’arma e gli sparai ancora. Avrei detto
che il bastardo aveva tentato di uccidermi ed ero stata costretta a difendermi. Ti dissi di non dirlo
a nessuno, sarebbe stato un nostro segreto. Ricordi cosa mi chiedesti? Mi domandasti “perché?”,
e non ebbi il coraggio di dirtelo. Era più facile addossarsi un omicidio che dire che ti amavo alla
follia. Ti dissi di andartene e rimasi sola. Mi spogliai, presi una Bibbia dal comodino e iniziai a
sbattermela addosso, sul viso, sul naso, sulle labbra, finché non sanguinai. Poi la misi in mano a
quel pezzo di merda a terra… Quando arrivarono i tuoi colleghi, mi trovarono in lacrime, in un
angolo, la pistola ancora in mano. Qualcosa non li convinse del tutto. Eccesso di legittima difesa
e qualche altro reato. Con i miei precedenti mi beccai tre anni e mezzo. Della galera non avevo
paura, sapevo come difendermi. Ma stare tre anni lontana da te… quella era la vera condanna.
Avevo paura. Paura che ti allontanassi da me, nonostante ciò che avevo fatto. E avevo ragione ad
aver paura… Quando uscii ti eri sposato. Non appena lo seppi mi mancò il fiato. Lei era una
regolare, una che non veniva dalla strada ma da quella bella vita che desideravi tanto. Il giorno in
cui la vidi per la prima volta per poco non mi misi a piangere, io, che ero diventata il terrore del
carcere femminile, fui costretta a rinchiudermi in bagno e soffocare i singhiozzi e le lacrime come
una ragazzina. Era così diversa da noi, così “pulita”. Ma non fu quella la cosa che mi fece più
male. La coltellata la vibrasti mentre mi dicevi che non ti eri dimenticato di me, anzi, ti eri
preoccupato di assicurarmi un futuro e mi avevi comprato il Dolcenera. Un centro benessere e di
massaggi. Un posto di lusso. Ma non era altro che uno scannatoio. Mi dicesti che da quel giorno
eravamo soci. Eri felice, eri soddisfatto della tua “generosità”. Non capivi che mi stavi
uccidendo. Avevo sacrificato tre anni della mia vita per te, e per ripagarmi mi avevi regalato un
casino. Il poliziotto e la puttana. Questi erano i nostri ruoli per te. Avrei dovuto mandarti al
diavolo, e invece assunsi quel ruolo, illudendomi che prima o poi avresti capito, che prima o poi il
mio amore sarebbe stato riconosciuto. Non andò così. Alla fine dopo qualche anno il tuo
matrimonio naufragò. Non avrebbe mai potuto reggere, eravate troppo diversi. Pensai che fosse
arrivato il mio momento, che finalmente potevo averti. Ma ero di nuovo in ritardo. Ti eri sì
innamorato di una puttana, ma quella puttana non ero io. Sonja. Ti eri innamorato di quella troia
dell’Est che avevi liberato in una delle tue operazioni. Era molto più giovane di te e me, e aveva
tutto quello che io stavo perdendo o avevo già perso. La giovinezza, la bellezza, la luce negli
occhi, la purezza che io non avevo mai avuto. Era così bella, Sonja. Troppo bella e troppo perfetta.
Non so se la amassi davvero, però tutte le attenzioni che negli anni erano state per me le rivolgesti
a quella scialba puttanella. Io rimasi confinata al ruolo di vecchia puttana e matriarca del
branco, mentre Sonja aveva messo il lucchetto sul tuo cuore. Non avevo né la forza né la voglia
per competere con lei. E avevo paura di mettermi in mezzo. Temevo che facendolo mi avresti
allontanata definitivamente, estromettendomi dal tuo mondo. Decisi di starti accanto, di
prendermi tutto ciò che potevi darmi. Volevi che rimanessi soltanto la tua amica puttana?
Perfetto, che fosse così. Anche questo è amore, sai? Accontentarsi, aspettare il momento giusto. E
dopo anni quel momento arrivò. Gli uomini di Sergej Ivankov fecero il lavoro sporco e io mi
limitai a finirlo. Bye bye, Sonja. Ricordi quando lo scopristi? Ricordi come mi ridussero quelle tue
mani grandi e pesanti da cui sognavo di farmi accarezzare e che invece mi picchiarono
selvaggiamente? Se non ti ricordi guarda qui, ho ancora i segni… Morii quella notte. L’uomo che
amavo, l’uomo per cui avevo ucciso mi sfregiò il cuore. Ma nemmeno quello mi fece desistere. Il
mio amore per te è sempre stato feroce e incrollabile. È un amore supremo. Fuori Sonja, ci sarebbe
stato spazio per me prima o poi, pensavo. Dovevo solo aspettare il momento giusto. Ma c’era
un’altra donna che aveva preso possesso del tuo cuore, forse anche più di quella sciacquetta
romena. Nicky. Hai sempre amato quella bambina come una figlia. E lo sai perché? No che non lo
sai, ma te lo dico io. Perché ti ricordava me. Pensaci: una linguaccia, una ladra con una famiglia
incasinata, che passava più tempo sulla strada che in casa. Nicky ero io, o meglio l’immagine di
ciò che io ero stata. Tu volevi proteggere Nicky per impedire che facesse la mia stessa fine, che si
perdesse per strada come me. Il tuo subconscio, i tuoi sensi di colpa nei miei confronti si erano
proiettati su Nicky. Ti sei sempre sentito in colpa per avermi rovinata, per avermi reso così simile
a te. E Nicky non era altro che la personificazione dei tuoi errori e delle tue colpe nei miei
confronti. Cosa ci voleva a capirlo? Questo mi fece male… sai perché? Perché io potevo essere
ancora salvata. Non ero finita, c’erano ancora speranze per me, potevo diventare qualsiasi cosa
volessi da me. Avrei cambiato vita in un soffio se solo me l’avessi chiesto. Ma per te ero una causa
persa. Ero il passato. Nicky era il futuro… Così come Miriam. La troia si era infilata fra noi.
Stretto in mezzo a lei e la ragazzina, ti dimenticasti di me. Mi scaricasti addosso tutte le colpe e
mi abbandonasti. Dopo tutto ciò che avevo fatto per te. Dopo tutte le lacrime, tutte le illusioni e i
sogni di una vita… Sei stato davvero crudele, amore mio. E quando Nicky sparì, pensasti che fossi
stata io a rapirla e farle del male. Come puoi averlo pensato? Ti dissi di no. Te lo giurai. E cosa
ebbi in cambio? Un proiettile in una gamba. Mi sparasti… A me. A quella bambina per cui rubasti
una bambola. Alla ragazza con cui perdesti la verginità. A quella donna che andò in galera per
proteggerti. Alla persona che ti ha aspettato in silenzio per tutta una vita sperando che ti
accorgessi di lei. Mi desti della puttana e mi sparasti… A me, la cui unica colpa era stata amarti
alla follia. Scusami se al ricordo piango, ma sai, lì toccai davvero il fondo. Tutto quell’amore si
tramutò in odio. E quando Vatslava si presentò a casa mia con i suoi uomini e mi disse che dovevo
parlare o mi avrebbe scuoiata e avrebbe appeso la mia pelle all’attaccapanni come una delle mie
pellicce, mi dissi che era destino. Le rivelai di te e Nicky. Le dissi che era il tuo punto debole. Mi
costrinse a guardare quella notte mentre la uccideva e mentre tu morivi osservando le fiamme
divorare il suo corpo. Mi pentii di ciò che avevo fatto perché solo in quel momento, guardandoti
dibatterti come una bestia impazzita, capii che non saresti più tornato lo stesso. Mi pentii, ma era
troppo tardi. Nicky era già morta e tu ti spegnesti con lei. Quando la mattina dopo venisti da me,
pensai che avessi scoperto tutto e che volessi farla finita con me. Mi sbagliavo. Mi dicesti che
avevi bisogno di me, che non ce la facevi più da solo. Per quattro mesi ti sono rimasta accanto e
mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, di vivere un sogno. È vero, non sei più stato lo stesso,
ma prendermi cura di te, cercare di lenire il tuo dolore… è stato come poter dare libero sfogo a
tutto quell’amore che avevo tenuto prigioniero nel mio cuore.

Fino a oggi.

Quando Miriam mi ha detto che sapevi la verità e che l’avevi sempre saputa, mi sono sentita
morire… mi stavi solo usando. Di nuovo. Mi stavi tenendo vicina per potermi controllare e punire
appena fosse arrivato il momento… Ho perso la testa. Scoprire questo e al tempo stesso vedere
quella puttana che era riuscita a partorire tuo figlio è stato troppo. Ho perso davvero la testa,
amore mio… Ma tutto quel sangue… è colpa tua se sono stata costretta a versarlo. È colpa delle
tue bugie, della tua indifferenza, del tuo avermi messa in un angolo. So che pensi che sono un
mostro, ma tutto ciò che ho fatto l’ho fatto solo per te. Per averti.

Siamo rimasti soli, Biagio.

Io e te.

Finalmente non c’è più nessuno tra noi. Era destino. E nessuno può fermare il destino. Nemmeno
tu.

Ora sai tutto. Sono contenta di non dovermi più tenere dentro tutti quei segreti. Non sai quanto mi
sento leggera.
Lo so che stai arrivando. Tranquillo, non andrò da nessuna parte, amore mio. Sono qui che ti
aspetto. Anzi, ti aspettiamo. Perché nostro figlio è qui con me, tra le mie braccia, al sicuro. Sì,
“nostro”. Perché quella puttana può anche averlo partorito, ma questo è mio figlio. Quello che mi
sarebbe spettato per diritto. Quello che ho tanto sognato. Quello che mi avrebbe resa una persona
diversa. Quello che ci avrebbe salvato, Biagio. Ma non è mai troppo tardi. Soltanto… sbrigati.
Torna da noi. È tempo che finalmente la famiglia si riunisca al completo.

Tu sai dove trovarmi… ora che ci penso, è come se non ci fossimo mai mossi da qui. Ecco, lascia
che metta su questa canzone. Oh, erano anni che non la sentivo. Mi regalasti tu questo album.
Dicevi che ti saresti preso cura di me per sempre. Me lo giurasti…

Ricordi?
CUPIO DISSOLVI
Quantomeno aveva un futuro come centralinista. Perché era stato quello il suo ruolo nell’operazione.
Il maxisequestro della fabbrica, dei due quintali di sostanza e delle diverse tonnellate di precursori
usati per la trasformazione della cocaina, che aveva portato all’arresto di sei persone in flagranza di
reato, non era frutto di una “geniale intuizione investigativa” come aveva declamato ai giornalisti il
suo procuratore capo, ma di un semplice smistamento di telefonate. Antonio Gualtieri aveva ricevuto
una chiamata da parte di Joseph Carbone, l’americano della DEA, che gli aveva fornito la soffiata
sulla raffineria di coca a Spilinga, in Calabria, che aveva portato tra gli altri all’arresto del chimico
colombiano che stava istruendo le maestranze calabresi sull’arte della raffinazione ed estrazione. Il
magistrato non aveva fatto altro che passare l’informazione alla sua DDA e muovere alcune leve di
sua conoscenza al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri per agire subito, prima che ci fosse
una fuga di notizie. Tutto questo a migliaia di chilometri di distanza.

Dopo un flusso devastante di telefonate da parte di colleghi che volevano congratularsi e giornalisti
che chiedevano una sua dichiarazione, il magistrato spense il cellulare e accese quello che gli aveva
dato l’uomo dei servizi. Digitò il numero di chi quella soffiata gliel’aveva passata.

«Sì?» rispose Carbone dopo qualche secondo.

«Suppongo che le debba dire grazie».

«Ah, è lei, dottore. Non mi deve ringraziare. Sto soltanto tenendo fede all’accordo».

«Ci tengo a precisare che questo accordo mi è stato imposto, non sono stato io a cercarlo e tantomeno
a volerlo».

«Però mi pare che abbia messo a frutto l’informazione che le abbiamo dato» disse serafico
l’americano calando l’affondo.

«…».

«Dottore, questa è la cosa migliore per il Paese e per continuare le pulizie che lei sta portando avanti
da anni. Il ponte Calabria-Stati Uniti deve necessariamente…».

«Mi ascolti bene, Carbone. Io le sue cazzate non me le bevo. Ho passato le sue informazioni a chi di
dovere solo per cercare di recuperare l’immagine persa con la figuraccia della fuga di Pagani. Il mio
obiettivo è lui, da quindici anni. È lui che permette alla ’ndrangheta di essere ciò che è. Altro che
ponte con l’America, se si fa cadere lui si fanno cadere tutti i ponti col mondo che la ’ndrangheta ha
costruito negli anni, lo capisce? Ma evidentemente questo è meglio che non accada. Evidentemente a
qualcuno tutti quei ponti fanno comodo, no?».

«…».
«Ah, ora è lei quello senza parole?».

«Si attenga alle disposizioni, Gualtieri. Faccia il bravo e le informazioni continueranno ad


arrivarle».

Il calabrese stava per ribattere ma Carbone riattaccò.

Antonio Gualtieri fissò la notte prendere possesso del cielo. Fino a quel momento l’aveva soltanto
sospettato, ma ora aveva la certezza che Pagani rappresentasse per gli Stati Uniti degli interessi
troppo preziosi per essere sacrificato sull’altare della giustizia italiana. Non si trattava più di un
caso di criminalità organizzata ma di una pressante questione di politica estera tale da scavalcare
polizia e magistratura. Pensò al povero Montoya che era morto per niente. Pensò ai tanti colleghi che
avevano gettato la spugna e si erano fatti trasferire, o avevano deciso di passare alla più tranquilla e
proficua avvocatura. Pensò ai poliziotti morti in quella maledetta guerra, alle vittime di mafia, ai
giornalisti comprati e a quelli uccisi con proiettili o con cause e querele che li avevano dissanguati e
fatti desistere. E per ultimo pensò a se stesso che aveva sacrificato la sua vita per quella lotta
effimera, che si illudeva ancora di poter cambiare le cose, quando non era altro che una marionetta
nelle mani di un Potere più alto che si beffava di lui.

“Che senso ha continuare?” si chiese.

«Tutto bene, amore?» disse sua moglie uscendo dal bagno della loro stanza d’albergo. Aveva insistito
tanto per passare un po’ di tempo insieme e Gualtieri aveva acconsentito. Fu felice di averle detto di
sì.

«Che c’è? Cos’è questa brutta faccia?» chiese lei. «Dovresti essere contento, no?».

La donna aveva assistito a tutta l’operazione e agli ordini che il marito aveva impartito per telefono:
era a conoscenza dei più intimi dettagli della missione e del suo buon esito. D’altronde anche lei
faceva parte di quella guerra, volente o nolente.

«Cosa c’è?» chiese accarezzandogli il viso.

«Potrei cercare di spiegartelo a parole mie, ma ci metterei una vita, Maria. Faccio prima così,
invece. Come era solito dire mio padre: la zucchina va sempre in culo all’ortolano… volgare, ma
direi che sintetizza bene la situazione».

La donna sussultò perché le labbra del marito sorridevano, ma i suoi occhi erano lucidi di rabbia.
Non l’aveva mai visto così abbattuto.

L’istinto di padre aveva polverizzato tutto il resto. Ritrovare il figlio era diventata la sua unica
preoccupazione. Quando era riemerso dall’abisso di disperazione in cui era piombato, Biagio era
uscito da casa di Miriam in preda ai tremiti e alle vertigini. Raggiunta l’auto, si era appoggiato alla
carrozzeria e aveva vomitato, liberandosi di tutta la tensione accumulata. Aveva cercato di scrollarsi
di dosso il ricordo di Miriam e aveva tirato fuori il cellulare senza badare alle chiamate senza
risposta, componendo il numero di Mirko. Gli aveva detto di non allontanarsi dalla scuola e di non
riportare il figlio di Miriam a casa per nessuna ragione. Chiameranno gli assistenti sociali se la
madre non viene a prenderlo, aveva ribattuto l’ex poliziotto. Lascia che li chiamino, ma non
riportarlo a casa… Abbiamo rogne, aveva detto Mazzeo. Quella parola era bastata per zittire
Giacchetti, che aveva assicurato che avrebbe fatto come ordinatogli.

Biagio aveva messo via il cellulare passandosi le mani sul volto contratto. Con la sua follia omicida
Donna aveva reso orfani due bambini: suo figlio e Matteo. L’abisso dentro il suo cuore aveva iniziato
a richiamarlo a sé, ma Biagio l’aveva ignorato, salendo in macchina e correndo a casa di Donna.

“Fa’ che non abbia fatto nulla al bambino” ripeteva dentro di sé come un mantra guidando veloce
con i lampeggianti accesi.

A meno di dieci minuti dalla casa della vecchia amica, aveva sentito il cellulare vibrare. Un
messaggio.

Sono qua. Tutto ok. Varga dorme. Il telefono non prende bene. Ti aspetto qui.

Carmine.

Bene. Un pensiero in meno.

Mazzeo aveva lanciato il cellulare sul sedile del passeggero e si era concentrato sulla strada,
cercando di scacciare dalla mente le istantanee del corpo martoriato di Miriam che si mischiavano al
ricordo dei loro corpi che facevano l’amore.

Arrivato a casa di Donna ci mise poco a capire che era vuota.

Lei e il bambino non erano lì.

Mazzeo provò a chiamarla di nuovo, ma il suo cellulare era ancora staccato.

Non appena entrò la segreteria telefonica decise di lasciarle un messaggio: «Donna, so cos’hai fatto.
Non toccare il bambino e ti perdono, te lo giuro. Non ti farò niente. Ma lascia stare il piccolo, ti
prego… Lascialo stare… Basta che mi dica dov’è, puoi anche scappartene, non ti cercherò. Ma non
fare nulla al piccolo… Ti prego».

Il segnale acustico mise fine alla chiamata e riprese a cercarla.

Sapeva, Mazzeo, di lottare contro il tempo.

Il filmato del dvd terminò e sulla casa cadde un silenzio mortale.


Vito Filomena capì da quel gelo che il video era finito e si avvicinò per spegnere il televisore. Non
aveva voluto vedere le stesse immagini una seconda volta ed era rimasto a fissare la città attraverso
la vetrata del salone.

«Ditemi che non è vero…» sussurrò Luca Zorzi dopo quasi un minuto.

Era la stessa cosa che aveva pensato Vito dopo aver visto il video per la prima volta. Dimmi che non
è vero. Ma Labate non gli aveva dato modo di riflettere perché l’aveva richiamato subito, manco
avesse calcolato con precisione matematica quanto avrebbe impiegato a guardarlo.

«Hai visto il video?» aveva domandato.

«Sì».

«Bene. Fallo vedere anche agli altri e fagli capire cos’ha fatto Mazzeo, cos’è diventato, poi
richiamami».

Ora avevano visto. Luca, Zeno, Rino, Franco e ciò che era rimasto del branco avevano guardato
Biagio uccidere su quella barca uno sconosciuto, venire inciso sulla spalla con un pugnale e poi
giurare fedeltà alla ’ndrangheta. L’avevano affiliato. Era diventato uno di loro.

Vito notò che Franco, uno dei veterani della Narco, stava piangendo.

Biagio, il loro leader, il loro capo, l’amico di una vita che li aveva uniti e sempre protetti era passato
dall’altra parte. Li aveva traditi. Tutti. Era una verità dura da mandare giù anche per uomini tutti d’un
pezzo come loro.

«Giorgio e Carmine?» chiese Zeno, la voce lacerata dal dolore.

«Ancora non mi rispondono» disse Vito. «Non ho idea di dove siano. Sembrano spariti nel nulla».

«Che ci siano in mezzo anche loro?» chiese Luca.

«Non ne ho idea, ma credo di no. Sarebbero stati su quella barca altrimenti».

«Io non riesco ancora a crederci… chi ti ha mandato il video?» chiese Rino Vanzan.

«Labate. Mi ha chiamato e mi ha detto di controllare la cassetta della posta… Biagio deve aver fatto
loro qualcosa, e quelli si sono vendicati così, tradendolo».

«Non ha tradito loro, ma noi. Vi rendete conto? Ci ha tradito…» disse freddo Zeno. «Capite cosa
significa, vero?».

Gli altri rimasero in silenzio, ancora smarriti in quella devastante rivelazione.


«Ha tradito la divisa, e ha tradito tutti noi. Noi, la sua squadra!».

Vito abbassò lo sguardo. Anche lui li aveva traditi, forse in un modo ancora più subdolo che aveva
portato a una spirale di morte e violenza che li aveva decimati. Labate gli aveva assicurato che se
avesse agito secondo i suoi dettami, non avrebbe detto loro del suo tradimento. Codardo fino alle
ossa, Vito si appese a quella speranza e incanalò il loro odio verso Biagio, crocifiggendolo alle sue
colpe.

«Sapete cosa accadrebbe se questa cosa finisse sui giornali o sulla scrivania di qualche magistrato,
vero?» disse, soffiando sulle braci del loro odio.

I tizzoni crepitarono.

«E immaginate come potrebbe reagire Verri o il questore se venisse a conoscenza di questo video,
giusto?» rincarò.

Le braci questa volta si infiammarono.

«Questo video non deve uscire da questa stanza» disse Luca. «Altrimenti siamo tutti nella merda.
Tutti, dal primo all’ultimo».

Vito Filomena comprese come si era dovuto sentire Giuda la notte dell’ultima cena. Stava assistendo
alla rovina di una famiglia. Il branco si stava sbriciolando davanti ai suoi occhi, smembrato dal
tradimento del suo capo. E toccava a lui vibrare la coltellata finale.

«Ci ha traditi. È passato al nemico. Mi fa male dirlo, ma è così, l’avete visto tutti… Ha tradito il
branco, e il branco…».

«Non perdona le spie» conclusero gli altri.

«Potrebbero avere delle copie del video, anzi sicuramente le hanno. C’è solo un modo per insabbiare
questa cosa» disse Vito.

«Ucciderlo» concluse Luca per lui, gli occhi lucidi di sgomento e rabbia. «Non possiamo fare altro
che ucciderlo».

«Se questa cosa saltasse fuori» disse Zeno, «sarebbero le nostre famiglie a pagare. Di nuovo… non
possiamo permetterlo. Sarebbe un’onta troppo grande… sono d’accordo anch’io. Dobbiamo
ucciderlo».

Il dubbio, la paura e l’incredulità serpeggiavano tra i poliziotti. Si stava parlando di uccidere non un
criminale, ma Biagio Mazzeo, l’uomo che li aveva uniti, che li aveva fatti sentire una famiglia. Che
cosa era successo? Cos’erano diventati?

Vito non poteva permettere che il dubbio e l’amore che ancora provavano per Biagio spegnessero le
braci trasformandole in cenere. Doveva impedirlo. Doveva soffocare quel poco di amore che ancora
nutrivano se voleva salvarsi. Strinse i denti e sputò fuori tutto il suo veleno.

«C’è qualcosa che ancora non sapete» disse, e tutti i poliziotti lo fissarono.

«Quello che avete visto non è tutto… Labate mi ha detto un’altra cosa. Oscar, il suo non è stato un
incidente… Oscar aveva scoperto tutto su Biagio e i calabresi, ed era stato sul punto di sputtanarlo,
dicendoci cosa Biagio era diventato…».

Vito vide i volti dei colleghi impallidire e gli occhi avvampare di rabbia.

«Biagio aveva provato a convincerlo a passare dalla sua parte, quella dei calabresi, ma Oscar aveva
rifiutato… Così ha fatto l’unica cosa che poteva proteggerlo: l’ha fatto ammazzare…».

«Stai dicendo che…».

«Non è stato un incidente. Biagio ha ordinato ai calabresi di uccidere Oscar…».

Vito lesse nei loro occhi che era fatta.

Quel colpo aveva definitivamente sepolto il passato.

La condanna era stata accolta all’unanimità.

Il branco aveva deciso: Biagio Mazzeo doveva morire.

L’aveva cercata dappertutto. Aveva provato a immaginare dove potesse essersi rifugiata spinta dalla
disperazione, ma aveva esaurito tutti i luoghi possibili. Non doveva essere in sé, ma aveva la
sensazione che Donna fosse ancora in città. La sua non era stata una fuga programmata. Le modalità
con cui aveva ucciso Miriam facevano pensare a una reazione improvvisa, a un istinto animale che si
era impadronito di lei. Miriam doveva averle detto qualcosa che aveva scatenato la sua ferocia.

Dopo l’ennesimo tentativo a vuoto a casa di un’amica comune, Mazzeo rientrò in macchina. Si era
fatta notte. Pioveva e un brutto vento vibrava raffiche d’acqua che sembravano mitragliare l’auto. Si
sentiva maledettamente solo e debole, due sensazioni a lui sconosciute fino alla morte di Nicky e che
ora, invece, erano una costante. Ma dopo Miriam, quelle emozioni erano quadruplicate d’intensità. Si
sentiva come una delle tante foglie in balìa del vento fuori dell’abitacolo, alla mercé di un elemento
incontrastabile: il suo destino.

“Devi smetterla di pensare a Miriam e concentrarti su tuo figlio e Donna. Devi trovarli” si disse
massaggiandosi il collo umido di pioggia. “E devi trovarli prima dei colleghi e di chiunque altro.
Donna deve pagare per tutto questo”.

Dove cercarla, però? Aveva dato fondo a tutte le idee, a tutti i possibili nascondigli e ai luoghi in cui
lui al suo posto si sarebbe rifugiato.

Alla fine si rese conto che aveva tralasciato un luogo. Il più ovvio.

Mise in moto, dandosi dello stupido.

Aveva solo sprecato tempo prezioso. Ma era certo di aver capito dove fosse andata Donna.

Non si stava nascondendo.

Lo stava aspettando.

Biagio ebbe la nitida percezione che tutto sarebbe finito dove era iniziato.

Erano anni che non metteva piede nel suo vecchio quartiere. Aveva avuto una brutta infanzia, sebbene
si fosse divertito e dalla povertà avesse tratto una voglia atroce di riscatto. Lui e Donna erano
cresciuti per le strade, all’ombra di quei brutti palazzoni che puzzavano di miseria e mediocrità. Era
lì che avevano covato per anni il loro odio e un disperato desiderio di fuga. Ma ora, mentre si
riappropriava dei ricordi, comprese che per quanto avesse cercato di allontanarsene, era come se
non se ne fosse mai andato. Quel posto se l’era portato appresso, come se fosse stato impossibile
tagliare i ponti col luogo dove era nato e con quel bambino arrabbiato con il mondo che era stato.

E ora, dopo tanti anni, era di nuovo lì.

Ebbe la sensazione di non essersene mai andato.

Come se fosse stato tutto un sogno.

O meglio: un incubo.

Sei piani a piedi. La distanza che lo separava da suo figlio. Sei piani di ricordi, di voglia di fuggire.
Sei piani di rabbia e frustrazione, di promesse tradite e di amori soffocati. Sei piani che parvero
portarlo indietro nel tempo.

Mentre saliva le scale del palazzo, udì la musica provenire dall’appartamento che era stato dei
genitori dell’amica.

Come A Little Closer di Etta James. Era stato lui a regalarle quel 33 giri. L’avevano ascoltato per ore
da piccoli. Pareva passata un’eternità da quei pomeriggi spesi a ballare davanti al giradischi.

Mazzeo estrasse l’arma e si preparò a sfondare la porta. Ma non ce ne fu bisogno. Era aperta. Lei lo
stava aspettando.
La trovò in salone. La finestra spalancata. Aveva smesso di piovere e nel cielo terso risplendeva una
luna piena così luminosa da sembrare elettrica. In lontananza le luci tremolanti della città
sembravano irraggiungibili da laggiù.

Donna era seduta su una sedia a dondolo, lo sguardo rivolto al cielo, il bambino addormentato in
braccio, uno scialle a coprirlo. Etta James continuava a cantare di “avvicinarsi un po’ di più”. La
luce lunare li bagnava entrambi, soffice e sottile. La scena pareva un quadro nella sua atmosfera
languida di pace, se non fosse stato per il sangue che li macchiava.

Biagio fece qualche passo in avanti finché intravide il petto del neonato alzarsi leggermente al ritmo
del suo respiro lento. Era vivo.

Il poliziotto riprese a respirare.

«Ce ne hai messo di tempo» disse lei piano, senza distogliere gli occhi dalla luna. Biagio notò che
aveva una pistola in pugno. Era puntata contro la pancia del bambino.

«Ho trovato traffico» ribatté lui, strappandole un sorriso amaro.

«Hai il fiatone. Stai invecchiando…».

«Se ho il fiato corto non è certo per le scale…».

«Metti via la pistola, Biagio. L’ultima volta l’hai usata, e ora mi innervosisco se ti vedo con un’arma
in mano… mettila via, tanto non ti servirà» disse spostando gli occhi su di lui.

Fu incerto se darle retta o meno, poi, guardando suo figlio, decise che non poteva rischiare. Posò
l’arma per terra.

«Mandamela qui».

La sospinse con un calcio fino a farla arrivare ai piedi di Donna a meno di cinque metri da lui.

«Molto meglio».

Biagio non riusciva a inquadrarla, a capire se fosse uscita di testa. Comprese che doveva prendere
tempo. «Dimmi solo una cosa, perché?».

«Miriam?».

«Sì».

«Dimmela tu una cosa: almeno scopava bene quella troia?».

Quelle parole gli sfregiarono il cuore. Non aveva rispetto nemmeno dei morti. Serrò i pugni.
“Stai calmo” si disse. “Pensa al bambino”.

«Non riesco a credere che tu possa essere così marcia dentro…».

«Senti chi parla… L’ho uccisa perché ho perso la testa. Indovina perché? Per colpa tua
ovviamente… mi ha detto che sapevi tutto di Vatslava e di Nicky».

Ora comprendeva. Si chiese perché mai Miriam avesse fatto quell’errore.

“La bottiglia di liquore” pensò subito dopo. “Doveva aver bevuto…”.

«Questo cosa c’entra con lei? Lei non c’entrava niente con me».

«Non c’entrava niente? Aveva cercato di fotterti facendosi mettere incinta e partorendo tuo figlio, e
dici che non c’entrava niente?».

«Donna, allontana quella pistola dal bambino. Sono disarmato. Giuro che non mi avvicino, ma tu
sposta quella pistola».

Andò avanti come se non l’avesse sentito.

«Fino a oggi ci avevo creduto, lo sai? Mi avevi chiesto di riavvicinarmi a te, ero felice come non
mai quel giorno. Vuoi sapere se mi sento in colpa per Nicky? Sì, che tu ci creda o no. Ma ci potevo
convivere… potevo andare avanti, nonostante tutto. Ora invece…».

Le lacrime rigarono il suo viso. Mentre parlava cullava con dolcezza il bambino. Ma la pistola era
sempre lì, all’altezza del piccolo. Col dorso della mano libera si asciugò il volto.

«Vuoi un perché? Il perché è sempre quello, Biagio… è lo stesso perché di Sonja, lo stesso perché di
Nicky e quello di Miriam… perché ti amo. Ed è un amore di cui tu nemmeno hai idea. Un amore
supremo».

«Nicky non aveva nessuna colpa…» disse Mazzeo cercando di controllare l’ira.

«Invece aveva la colpa più grande di tutte: aveva rubato il tuo cuore. Hai sempre amato soltanto lei.
Non potevo sopportarlo…».

«Era solo una bambina, Cristo…».

«Tu non puoi capire…».

Biagio accarezzò l’anello di Ivankov per calmarsi e questo gli fece ricordare di Vatslava. Donna notò
il suo gesto e aggrottò la fronte.

Mazzeo alzò la mano sinistra e lasciò che il riflesso della luna brillasse sull’anello. «Sì, hai visto
bene».
«È una copia?».

«No».

«L’hai trovata allora?».

«È morta un mese dopo quella notte. L’hanno uccisa. Mi hanno fatto credere che fosse ancora viva,
ma era tutta una montatura e questo...» disse indicando la fede. «Lascia stare, sarebbe troppo lungo
da spiegare».

«È morta…» sussurrò Donna.

«Già… Quella mattina ce l’avevi scritto in fronte che eri stata tu, Donna. Ma anche se non fossi
venuto da te, l’avrei capito lo stesso che eri tu. Nessun altro poteva scendere così in basso».

Lei assottigliò gli occhi e per un istante Mazzeo ne ebbe pietà. Non erano così diversi alla fine.
Avevano distrutto tutto ciò che avevano amato. Erano stati entrambi traditi dalle persone che avevano
amato di più. L’amore era stato la loro condanna.

«La proposta che ti ho fatto per telefono è ancora valida. Lascia stare quella pistola e fammi portare
via il bambino, non ti farò niente. Non voglio ucciderti. Ti sei già uccisa da sola».

«Menti».

«No, questa volta è la verità. Dammi il bambino, me ne andrò e non mi vedrai mai più. Basta
vendette e basta sangue».

Le lacrime le solcarono il viso di nuovo, perché guardandolo capì che stava dicendo la verità. La
loro storia, la loro amicizia e il loro amore finivano lì dove tutto era iniziato, e non c’era nulla che
potesse fare per impedirlo. Era troppo tardi.

Si alzò, il neonato sempre in braccio. Il disco era finito. Quel silenzio era insopportabile.

«Sai, ho sognato che questo bambino potesse essere mio. Che tu potessi perdonarmi, che potessimo
passare sopra tutto per lui… non sai cosa darei perché fosse così».

«Donna…».

«Lasciamelo stringere un’ultima volta. E per favore, rimetti su il disco. Ho bisogno di sentire quella
canzone».

Lui rimase immobile a fissarla. Gli occhi di lei erano colmi d’amore e pentimento. Non c’era più
traccia della follia che li aveva animati poco prima.

Donna posò un bacio sulla fronte del bimbo e disse: «Per favore…».
Mazzeo esitò, poi raggiunse il vecchio giradischi. Le sue non erano più mani di bambino, ma si
mossero ancora con la stessa dimestichezza di tanti anni prima. Posarono la puntina esattamente sul
solco di Come A Little Closer e la musica iniziò a fluire.

Fu quando Etta James incominciò a cantare che sentì lo schianto.

Biagio chiuse gli occhi.

Quando li riaprì e si voltò vide il bambino agitarsi sulla sedia a dondolo. La musica doveva averlo
svegliato. La pistola giaceva per terra vicino alla sua.

Biagio si avvicinò e prese in braccio suo figlio, stringendoselo al petto.

Non ebbe il coraggio di guardare giù.

Fissò la luna, invece.

…Finché ci sarò io non dovrai aver paura di niente, sentì nella mente la sua voce di bambino. E
dopo, quella di Donna: Promettimelo… e la sua: …Promesso…

Le lacrime scesero sul viso di suo figlio. Si mischiarono al sangue della madre che ancora gli
macchiava il volto. Le lacrime del padre che piangeva l’assassina di sua madre. In quell’immagine
era scritto tutto il suo destino.

Le luci scintillanti della città scossero il poliziotto dal suo dolore.

Recuperò la pistola, avvolse il bambino nello scialle e se ne andò tenendolo stretto a sé.

Dal giradischi Etta James stava ancora cantando il loro struggente addio.

Marina di Pietrasanta,

Versilia, Toscana

La Mercedes blindata si fermò davanti a una splendida villa in stile liberty sul lungomare tra Forte
dei Marmi e Marina di Pietrasanta. Il mare sbrilluccicava a poche decine di metri. Corvetto, il
vicedirettore dell’AISI, scese dall’auto, solo, e si avvicinò al grande cancello in ferro battuto.
L’inferriata si aprì e un uomo in completo scuro, dopo averlo salutato, lo accompagnò dentro la
lussuosa dimora. L’uomo dei servizi camminò sul pavimento in battuto veneziano, non potendo fare a
meno di notare lo sfarzo dilagante: il camino dai marmi neri, le ringhiere in ferro battuto smaltate in
bianco e oro anticato, gli splendidi lampadari di Murano su soffitti decorati, i marmi in Calacatta
oro, i divani in seta e le poltrone in velluto pregiato. Era un lusso studiato, elegante, che sapeva di
aristocrazia e raffinatezza. Il suo accompagnatore lo lasciò davanti a una piscina riscaldata ornata da
mosaici Bisazza azzurri. Si trovava all’ultimo piano. Dalle vetrate si stagliava davanti a lui il litorale
versiliese in tutto il suo splendore. Da casse acustiche invisibili fuoriusciva una sonata di Bach.

Corvetto aveva indossato il suo completo migliore per non sfigurare in quell’ambiente. Ma
nonostante ciò si sentiva profondamente inadeguato. Lo mascherava bene però. Perché poteva pure
non avere tutti i loro soldi, ma dalla sua aveva qualcosa di più impressionante: il potere istituzionale.
O perlomeno si illudeva di possederlo.

Quando un uomo si unì a lui a bordo piscina capì che non era così. La persona che gli si era
affiancata con un calice di rosso in mano era il sottosegretario allo Sviluppo Economico italiano. Si
salutarono con un cenno del capo e aspettarono in religioso silenzio che il proprietario della villa
finisse le sue vasche notturne.

Dopo qualche minuto l’uomo uscì dall’acqua. Michelangelo notò che la sua pelle fumava. Aveva un
fisico tonico e asciutto per un uomo che si avvicinava ormai ai settanta.

«Scusatemi» disse lasciandosi avvolgere da un sontuoso accappatoio. «Ma ne avevo proprio


bisogno. Sono appena arrivato da Zagabria, solo per voi… Weekend con degli investitori coreani. Si
preannunciano commesse da miliardi di euro, ma non avete idea della rottura di coglioni che sono
questi qua. Devi fargli credere a tutti i costi che ce l’hai più grosso di loro altrimenti non ti salutano
nemmeno… Asiatici… a volte mi chiedo cosa direbbe Churchill se vivesse quest’orientalizzazione».

L’uomo si fece vicino ai due ospiti e strinse loro la mano. Era uno dei più alti dirigenti di
Sanmeccanica, la multinazionale italiana leader a livello europeo nel settore dell’alta tecnologia,
difesa, aerospazio e sicurezza, e tra le prime quattro a livello mondiale.

«Lei ha lavorato per me, vero, Corvetto?» chiese il top manager.

La spia annuì. La persona che aveva innanzi era stata ai vertici del Dipartimento di Pubblica
sicurezza, uomo dal polso di ferro e dall’intelligenza machiavellica. Nel mondo della Polizia e dei
Servizi era una leggenda. Il Potere, quello vero, aveva premiato la sua carriera istituzionale dandogli
una poltrona di prestigio in quella che all’unanimità era riconosciuta come la più florida e potente
azienda italiana. La pensione è un lusso che non è concesso ai più fedeli e brillanti servitori dello
Stato. Se avevano mandato lui come tramite era perché veniva dallo stesso mondo di Corvetto: un
mondo di sbirri e spie.

«Bene, questo ci farà risparmiare tempo… prego, accomodiamoci» disse indicando un tavolo in
marmo di Carrara a bordo piscina.

Quando si sedettero, Michelangelo si accorse subito che l’aria era tesa. Il volto del politico
trasudava tensione. L’aver scomodato un pezzo grosso come l’industriale significava che la
situazione non era più tollerabile.
«Lei sa cos’ha impedito che il nostro Paese facesse la fine della Grecia, Corvetto?» attaccò Giacomo
De Mauro, il dirigente, versandogli una flûte di champagne. Non aspettò una replica e seguitò: «Le
mafie, la Chiesa e l’industria delle armi… Lei dovrebbe saperlo bene, no?».

«Sì» rispose Corvetto.

«La Chiesa è nella merda al momento. Rimangono due attori».

«Due attori molto legati tra loro…» lo pizzicò la spia per fargli capire che non era più un suo
sottoposto, perlomeno sulla carta. «E comunque c’è stato un altro fattore a impedire che non
fallissimo, e spero che l’onorevole ne convenga» continuò Corvetto.

«Ovvero?» chiese De Mauro incrociando le gambe.

«Gli Stati Uniti. Sono stati loro a intercedere per noi» disse la spia sapendo dove il dirigente voleva
andare a parare.

«Mah, guardi, più che gli Stati Uniti in sé, io direi le guerre degli Stati Uniti» sottolineò il dirigente
con un tono che non ammetteva repliche. «Il conflitto armato produce più ricchezza che devastazione,
se mi lascia passare questo paradosso. È l’unico mercato che non conosce crisi… genera alleanze,
rinsalda vecchie promesse. Rispolvera il passato, non so se mi spiego. La guerra è un treno su cui
non si può fare a meno di salire posto che non si voglia retrocedere economicamente sul piano
internazionale».

L’aria divenne elettrica. Gli Stati Uniti erano il cliente più importante dell’azienda di De Mauro. Il
politico continuava a non spiccicare parola. Non era il silenzio di un potente, ma quello imbarazzato
di un questuante.

«Siamo uomini di mondo, dottore. Penso che possiamo parlare senza mezze parole e andare dritti al
motivo per cui siamo qui, così magari l’onorevole riesce a tornare a Roma stanotte stessa» disse
Corvetto che non aveva voglia di girarci attorno.

«Uhm. Mi piace il suo stile… Dunque, questo Pagani. C’è la sua faccia su ogni tg. Quel magistrato
calabrese, Gualtieri, ha tirato su un polverone a tratti imbarazzante su questa storia…».

«L’abbiamo rimesso al suo posto» intervenne Corvetto.

«Con fastidioso ritardo, però. La notizia era già esplosa, e ora non c’è italiano che non sappia di
questa storia. Giornali, tg, radio, internet. La sua faccia è ovunque. L’italiano medio si aspetta una
caccia all’uomo, e ogni pattuglia di carabinieri e polizia gira con una foto del fuggitivo sui tablet o
appiccicata al quadro delle auto. Se dovessero trovarlo o arrestarlo, lo scenario che si profilerebbe
sarebbe inquietante, politicamente parlando».

«Quindi?».
«Io e l’onorevole abbiamo ricevuto richieste da più parti inerenti a questo soggetto. Tralasciando le
mezze parole, come dice lei, gli Stati Uniti non vogliono che quest’uomo finisca nelle mani della
giustizia italiana».

«Lo so, sto lavorando infatti di concerto con un ufficiale della…».

«Mi lasci finire, per cortesia. So che sta lavorando con Carbone, con chi crede di parlare?».

Corvetto s’irrigidì.

«Rappresento le istanze di più parti: politica, sotto richiesta dell’onorevole qui presente, ma anche le
sollecitazioni di una cordata di industrie legate al settore della difesa e delle armi, che mi hanno
chiesto questo favore. Mi hanno pregato di intercedere perché la situazione è particolarmente
delicata» proseguì De Mauro. «C’è in ballo non soltanto un interesse, come dire, poliziesco, ma
soprattutto economico. E non sto parlando solo di narcotici. Questo Pagani rappresenta l’ago della
bilancia di assetti di potere ed equilbri finanziari e geopolitici di due mondi molto diversi tra loro,
ma in profonda sintonia e confidenza. Due mondi solidi e floridi, che però si reggono su
quest’equilibrio molto fragile. Questi assetti devono rimanere tali come è stato deciso che siano
diversi anni fa. Se dovessero cambiare… non voglio farle una lezione di economia globale, non ce
n’è bisogno, giusto?».

«No».

«Ottimo. Si tratta di una situazione complicata, non soltanto a livello economico-finanziario, ma


intendo dire a livello politico per quanto concerne il profilo della difesa dell’Occidente, leggasi
Pakistan, Turchia e Siria, e tutto il medioriente. In America si stanno giocando le presidenziali su
questo, e non è il caso di servire loro un boccone avvelenato che mandi tutto a scatafascio. Non è il
momento di scandali… Prima ancora dell’undici settembre a livelloNATO si è deciso di adottare una
politica finanziaria che passi attraverso le maglie della Difesa e dell’Antiterrorismo, mi sta
seguendo?».

Una persona normale non lo avrebbe compreso. Ma per un vicedirettore dei servizi quel groviglio di
paroloni in politichese era un messaggio cristallino: non era la droga il motivo per cui Roberto
Pagani era così conteso; sapeva o era coinvolto in qualcosa di evidentemente imbarazzante per gli
americani e le multinazionali che De Mauro rappresentava e che in un modo o nell’altro orientavano
la politica estera americana. Qualcosa di una portata tale – se i giudici italiani ne fossero venuti a
conoscenza – che avrebbe potuto portare al collasso della politica, a quanto pareva non solo italiana.

«Cosa vuole da me, signore?» chiese Corvetto a De Mauro, perché con quei quindici miliardi di euro
annui che la sua azienda fatturava era il vero detentore del potere politico del Paese che Corvetto e il
sottosegretario servivano.

«Se i calabresi vogliono continuare ad avere il controllo sul mercato europeo, gli dica di fare un
passo indietro su questa cosa. Le nostre guerre hanno la precedenza sulle loro. Mi trovi questo cazzo
di Pagani e lo consegni subito a Carbone, o ancora meglio: portateglielo direttamente a casa loro,
cosicché la finiscano con le loro cazzo di minacce» disse rabbioso l’industriale. «Se fanno un passo
indietro a livello economico con le commesse che ci stanno versando, allora sì che questo Paese
andrà veramente a puttane… Risolva questo casino, a qualsiasi costo».

De Mauro si alzò e se ne andò senza dire altro.

Corvetto mandò giù ciò che restava del suo champagne e si rivolse al politico: «Buona serata,
onorevole».

L’uomo annuì impercettibilmente, non che Corvetto si aspettasse altro da un manichino come lui.

Mentre usciva dalla villa il vicedirettore dei servizi ripensò all’assurdità di quell’incontro voluto
dall’alto, e in particolare a una frase di De Mauro che continuava a rimbombargli in testa.

… Le nostre guerre hanno la precedenza sulle loro… aveva detto l’industriale, ma Corvetto non ci
aveva creduto nemmeno per un istante.

La guerra era una sola, ed era una guerra economica dove qualsiasi cosa poteva essere sacrificata.

Una volta fuori la spia prese il cellulare e chiamò Carbone.

«Michelangelo…» rispose l’uomo della DEA.

«Immagino tu abbia sentito cosa sia successo a Londra. La questione si sta allargando, e i tuoi capi
stanno facendo un casino ai miei, che a loro volta rompono il cazzo a me. Questa situazione va risolta
subito: devi farti riportare Pagani a casa. Usa Mazzeo e dagli carta bianca, ma la situazione va risolta
subito».

«Ecco, Mazzeo, è proprio di questo che ti volevo parlare» disse l’americano.

«…».

«Abbiamo un problema…» sospirò il federale.

Da solo con lui sarebbe morto. Non era in grado di provvedere a suo figlio. Non sapeva cosa dargli
da mangiare, né quanto né quanto spesso. Non sapeva come pulirlo. Aveva paura di stringerlo troppo
forte o di prenderlo in una maniera sbagliata che potesse fargli male. Non aveva idea di come
metterlo a dormire senza che soffocasse. Non sapeva nulla su suo figlio, Biagio Mazzeo. Nulla a
parte che lo amava con tutto il cuore. Ma l’amore non bastava per la sua sopravvivenza. Il piccolo
aveva bisogno di cure. Cure che Mazzeo non poteva dargli. E questo non solo lo faceva sentire in
colpa e inadeguato, ma lo spaventava. Avrebbe avuto meno paura a fare irruzione da solo, senza
giubbotto antiproiettile, in un covo di trafficanti strafatti di amfetamine che scegliere quale
omogeneizzato o latte dargli, sempre che uno scricciolo di una settimana o poco più potesse
mangiarne.

Il bambino aveva bisogno di una madre e un padre che sapessero davvero occuparsi di lui.

“In realtà avrebbe solo bisogno di sua madre” disse una voce cattiva dentro il poliziotto. “Quella che
è stata uccisa per colpa tua”.

Si ricordò che aveva spento il cellulare quando era andato alla vecchia casa di Donna.
Probabilmente avevano già trovato il cadavere di Miriam e fatto scattare le ricerche per il piccolo.
Non risultava da nessuna parte che fosse lui il padre. Se l’avessero trovato col bambino l’avrebbero
schiaffato in galera per omicidio e sequestro. Non poteva finire dentro. Avrebbe rispettato il piano
originale. Ma non voleva nemmeno che suo figlio finisse nelle mani dello Stato.

Mazzeo lasciò il piccolo nell’auto. Stava usando come culla improvvisata il suo giubbotto. Entrò nel
garage dove aveva nascosto i soldi datigli dai calabresi per trovare Pagani. Dei duecentomila
originari glien’erano rimasti centoventi circa. Li infilò in una borsa e tornò in macchina.

Suo figlio era un angelo. Nonostante l’avesse sballottato da una parte all’altra, piangeva raramente.
Per lo più sorrideva e osservava stupito ogni cosa.

«Bravo. Impara a tenere gli occhi aperti» disse Mazzeo mettendo in moto e uscendo dalla rimessa.
«Ne avrai bisogno».

Si fidava ciecamente di lui. Lo aveva aiutato a salvare tante ragazze, offrendo loro una seconda
opportunità, una via di fuga dalla miseria e dalla barbarie dei marciapiedi. Era un prete di strada,
Basilio, un uomo in gamba. Poche chiacchiere, tutto fatti. Un duro. Tirava di boxe e qualche volta se
l’erano date di santa ragione sul ring. Se fai a pugni con qualcuno sei in grado di capire molte cose
del tuo avversario; più di quante ne scopriresti in anni di frequentazione. Mazzeo aveva capito che si
poteva fidare, tanto che quando aveva fatto disintossicare Sonja l’aveva affidata a lui. Da quando si
conoscevano gli aveva passato parecchi soldi trafugati dai sequestri o sottratti a spacciatori e
trafficanti, perché sapeva che erano ben spesi. Nelle occasioni in cui il prete l’aveva chiamato per
chiedergli di aiutarlo con qualche ragazza o qualche pappone particolarmente insistente e violento,
Biagio non si era mai tirato indietro.

Quella notte, però, era lui ad aver bisogno di un favore.

«È ferito?» fu la prima cosa che disse quando vide il bambino e il sangue sul vestitino.

«No, il sangue non è il suo».

«Ti vedo parecchio impacciato, da’ qua» disse il prete.


Aveva trascorso un’ora fermo in macchina col bambino stretto a sé prima di convincersi a fare quel
passo.

Guardò suo figlio, lo baciò sulla fronte e lo passò al prete che lo avvolse in una presa molto più
sicura e disinvolta. La sensazione di perdita e distacco gli provocò un dolore lancinante. Biagio
cercò di mascherarlo meglio che poteva.

«Chi è?» domandò Basilio.

«Un bambino sfortunato» rispose Mazzeo. Aveva deciso di non dirgli la verità. Per quanto gli facesse
male, era meglio cancellare qualsiasi legame con lui.

«Hai intenzione di dirmi qualcos’altro o mi devo far bastare questo?».

«Fattelo bastare».

«Voglio che gli trovi una buona famiglia. Gente di cui ti fidi ciecamente. Brave persone, né ricchi né
poveri. Non cazzoni, ma nemmeno gente che lo rincoglionisca. Persone tranquille che se ne prendano
cura. Conosci tante coppie che non possono avere figli, no?».

«Sì… Niente documenti?».

«Niente documenti. Fai fare loro un viaggetto in Romania, Bulgaria, o dove cazzo vogliono, e falli
tornare col piccolo».

«Non sarà così facile».

Biagio gli tirò la borsa contenente i soldi. «Sono centodiecimila euro. Con quelli possono mettere in
scena qualsiasi recita, e ne avanzano abbastanza per crescerlo come si deve, no? Perlomeno per
metterlo sulla buona strada».

«Sono un mucchio di soldi».

«Non sono miei, sono suoi» disse indicando il piccolo.

«Ok. C’è altro che devo sapere?».

«C’è della gente che lo sta cercando, sbirri anche. Quindi tieniti basso, coinvolgi chi devi
coinvolgere ma state attenti».

«Hai proprio una brutta cera, Biagio… cos’è successo?».

«Non pensare a me. Fai passare qualche giorno, meglio qualche settimana. Fai finta che sia di
qualcuna delle ragazze del centro e poi mettiti in moto…».

«Conosco il mio lavoro».


Biagio si rese conto di averlo offeso e gli chiese scusa. «Perdonami, ma ci tengo a lui. È appena nato
ma ha già visto l’inferno».

«Se la caverà, non preoccuparti».

«Bene. So che posso fidarmi di te».

«Non mi piaci, Biagio… c’è qualcosa nel tuo sguardo che mi dice che non ci vedremo più».

«Non sarebbe tutta questa grande perdita, no?» sorrise il poliziotto porgendogli la mano. «I pezzi di
merda come me non muoiono mai, sta’ tranquillo».

Il prete gliela strinse. «Biagio…» iniziò.

«Grazie per tutto quello che hai fatto per me» disse il poliziotto. Poi, accarezzando una guancia del
neonato: «Per favore, assicurati che cresca bene e lontano dalla strada».

«Non vuoi proprio dirmi chi è?».

«Soltanto un bambino sfortunato» ripeté Mazzeo, allontanandosi.

Luca Zorzi e Zeno fecero cenno ai colleghi di lasciar passare Mirko Giacchetti, che li raggiunse
dentro casa. Dopo che i ragazzi della scientifica gli ebbero fatto indossare dei calzari ed ebbero
preso le sue impronte per i confronti, lo scortarono di sopra fino a mostrargli il cadavere di Miriam.

Piombo, come veniva chiamato tra loro, chiuse gli occhi.

«Ho bisogno di fumare» disse dopo qualche secondo.

Una volta fuori raggiunsero gli altri membri della Narco che aspettavano in silenzio. Mirko si accese
una Camel e tirò qualche avida boccata. Gli altri fremevano, ma gli diedero il tempo di elaborare
l’orrore che aveva appena visto.

«Per favore, ripetici cosa ti ha detto Biagio» gli chiese Vito.

«Mi ha detto di non riportare il bambino a casa, ché c’erano rogne. Di affidarlo alle tipe dei servizi
sociali se ce ne fosse stato bisogno, ma di non portarlo a casa per nessun motivo…».

«Questo significa che lui sapeva cos’era successo e che si trovava a casa» disse Zeno. «O che
comunque aveva visto».

«E perché si trovava in casa?» domandò Vito.

«Potrebbero esserci mille motivi» rispose Luca.


«Sicuro, ma il bambino? Dov’è?» chiese Zeno.

Nessuno rispose. Non ne avevano idea.

Il telefono di Luca iniziò a vibrare. Il poliziotto prese la chiamata separandosi dai colleghi.

«Varga e Carmine?» chiese Rino Vanzan.

«Niente. Ancora non rispondono» rispose Franco Speranzon.

«E lui?» chiese Zeno, riferendosi a Biagio.

«Nemmeno. Telefono spento».

«Qui butta male…» disse Zeno.

«Non penserete mica che sia stato lui, vero?» disse Rino.

Gli risposero soltanto le loro occhiate venate di dubbi.

Ci pensò Luca a spazzare via tutti i sospetti. «Spostiamoci un secondo da qui».

«Perché?» gli chiesero.

Non rispose e si separò di una cinquantina di metri. I colleghi lo seguirono.

«Allora?» chiese Franco che non riusciva più a sostenere la tensione.

«Donna… è morta. È stata trovata ora nel suo vecchio quartiere».

Agli altri si gelò il sangue nelle vene.

«Apparentemente un suicidio…».

Franco e Rino dovettero appoggiarsi a una macchina. Erano i più anziani, e quelli più legati a Donna.

«Ma che cazzo sta succedendo!» sbottò Franco.

«Non è vero…».

«Purtroppo sì» disse Luca.

«Il bambino? Hai chiesto?» chiese Vito.

«Sì, nessuna traccia» rispose Luca.

Un silenzio greve piombò tra loro.


«È stato lui» disse Vito, lapidario. «Prima Miriam e poi Donna… È chiaro che è stato Biagio».

Il destino ce l’aveva con lui. Non era riuscito a vendicarsi di Vatslava e nemmeno di Donna. Le
persone che gli avevano fatto più male avevano abbandonato quel mondo, ma non la sua testa,
tantomeno il suo cuore. Ora la sua anima sanguinava più che mai. La sua sete di vendetta aveva
portato alla morte di Miriam.

“Ci sono più fantasmi nel tuo cuore che in un cimitero” gli aveva detto una volta Varga. Mai frase
più azzeccata, pensava ora Mazzeo al riparo dentro la sua auto. Aveva ripreso a piovere. Una pioggia
rabbiosa.

Non sapeva cosa fare né dove andare. Le morti di Miriam e Donna, e l’abbandono forzato di suo
figlio, l’avevano messo in ginocchio. Si sentiva svuotato di ogni energia. Perso.

Tirò fuori dalla tasca dei jeans l’accendino d’argento. Erano quasi vent’anni ormai che aveva smesso
di fumare, ma continuava a portarselo appresso. Non se ne separava mai. Era stato Santo Spada a
regalarglielo quando era stato promosso ispettore, una vita prima. Sul dorso Santo aveva fatto
incidere una frase che voleva essere un monito, uno sprono a sbranare la vita.

“Alla fine la nostra tristezza sarà pesata col coraggio che non abbiamo avuto”.

Questo aveva fatto scrivere il suo mentore. Come a incitarlo a osare sempre, a non avere paura di
niente, a soffocare sul nascere dubbi e timori.

In tutti quegli anni aveva seguito quel consiglio alla lettera, Biagio. Ma evidentemente aveva
esagerato anche agli occhi stessi di Santo che l’aveva tradito, iniziando a collaborare con la
Piscitelli e lo SCO per cercare di salvare quantomeno il resto del Branco dai casini in cui Mazzeo li
aveva ficcati. Il coraggio di Biagio nel tempo si era trasformato in ambizione, poi ossessione e alla
fine in follia. La follia gli aveva fatto perdere la lucidità, l’aveva portato ad ardire troppo, senza
intravedere le possibili ricadute delle sue azioni scellerate. Quel maledetto coraggio l’aveva
trascinato in quell’auto a piangere la morte delle persone a lui più care.

Fece scattare la fiamma e la osservò illuminare l’abitacolo buio. La luce tremula gli fece notare il
dossier della Criminalpol abbandonato sul sedile del viaggiatore. I documenti dell’FBI e della DEA
si erano sparpagliati, e una foto era scivolata a terra. L’immagine ritraeva Pagani.

Mazzeo rilasciò il gas e il buio lo inghiottì di nuovo. Lasciò scivolare le dita sulla frase incisa
sull’argento, pensando che Santo avrebbe fatto meglio a ucciderlo anziché infamarlo allo SCO.
Avrebbe risparmiato un sacco di casini a tutti, e probabilmente Claudia, Nicky, Miriam e Donna
sarebbero ancora vive.

“Se davvero mi amavi, avresti dovuto uccidermi… Ma il problema era che mi amavi troppo” pensò
Biagio. “L’amore ha fottuto anche te”.
Aprì il finestrino e gettò fuori l’accendino.

C’era ancora una cosa da fare.

Tirò fuori il cellulare sicuro e l’accese.

Se in quel momento avesse avuto uno specchio, non avrebbe mai riconosciuto in sé l’uomo fine
sempre ben incravattato e stretto nei completi di alta sartoria italiana, abituato a cene raffinate a
tavoli préstige di ristoranti stellati con Chopin o Bach in sottofondo, in grado di sostenere amabili
conversazioni in quattro o cinque lingue diverse. Sembrava più “il mostro della palude” quando uscì
dall’insenatura rocciosa sotto cui si era nascosto per proteggersi dalla pioggia. Tremava, e sentiva il
freddo pungolargli le ossa. Dopo gli spari aveva avuto paura di venire fuori dal suo nascondiglio.
Gli uomini di Labate potevano essere ancora in giro pronti a fargli il servizio o portarlo via. Non
sapeva più cosa pensare, Roberto Pagani.

“Ma se rimani qui, morirai congelato” si disse. “Ci penserà il freddo a finirti”.

Cessò di piovere, ma s’alzò un vento gelido e tagliente. Aveva pensato di raggiungere la strada alla
fine del bosco, ma la paura di incappare in un’autopattuglia della polizia o dei carabinieri l’aveva
dissuaso dal farlo. Se finiva di nuovo nelle mani della Legge, quella vera, era spacciato.

“Ma non puoi stare qui” decise.

Si maledisse per aver perso il cellulare che gli aveva dato lo sbirro. In quel bosco era tagliato fuori
dalla civiltà, non aveva idea di dove si trovasse e se fosse in atto una caccia all’uomo nei suoi
confronti. L’unica opzione praticabile era tornare alla cascina. E se gli uomini di Labate fossero stati
ancora lì, pazienza, avrebbe trovato una soluzione; d’altronde la ’ndrangheta aveva bisogno di lui
perché era l’unico baluardo tra loro e Sinaloa.Avrebbe trattato e cercato di trovare un appianamento
che non condannasse a morte certa i suoi figli. L’importante era levarsi di lì. Da morto non sarebbe
servito a nessuno.

Con gli abiti zuppi di acqua e fango, Roberto Pagani abbandonò il rifugio improvvisato e cercò di
orientarsi per ritrovare la strada della casa. Scivolò diverse volte, cadde, ma si rialzò sempre.
Sentiva che le forze lo stavano abbandonando e che la febbre si stava impadronendo del suo corpo
sfibrato, ma si aggrappò al pensiero che doveva andare avanti e resistere per i suoi figli.

Dopo un quarto d’ora di camminata diede un’occhiata intorno. Alla luce diafana della luna il bosco
sembrava tutto uguale.

Iniziò ad abbandonare le speranze arrendendosi all’idea di essersi perso, quando vide qualcosa
brillare tra le radici di un albero.

Si avvicinò.
Era il cellulare che gli aveva affidato il poliziotto.

Qualcuno lo stava chiamando.

Avevano voluto vederla con i loro occhi. Quando i colleghi sollevarono il lenzuolo, gli uomini della
Narco annuirono e si allontanarono in silenzio. Vito rimase indietro per via della zoppia e della
stanchezza accumulata in quelle ore: non era ancora abituato a muoversi così tanto, e tutto il corpo
era un fascio di nervi doloranti.

Luca Zorzi lo aspettò e gli disse: «Avevi ragione. Troppe coincidenze».

Vito annuì.

«Ci vorranno sentire. E vorranno sentire pure lui, è probabile che ci chiedano dove sia… che
facciamo?».

«Dobbiamo arrivare a lui prima di loro. Se lo inchiodano per gli omicidi, può essere che faccia
saltare fuori anche la storia della ’ndrangheta. A quel punto sarà una cascata: potrebbe iniziare a
parlare, e finiremmo anche noi nella merda…».

«No, quello no» disse Luca. «Non è un infame».

«Fossi in te non ne sarei così sicuro. Avresti mai pensato che potesse farsi affiliare?».

«No…».

«Ecco… È pieno di gente che vuole fargli la festa, da anni. Questi due omicidi sono un boccone
troppo ghiotto per gente come Claudetti e tutti gli sbirri e i giudici che ce l’hanno con lui. Se lo
mettono in ginocchio inizierà a parlare».

«Quindi?».

«Quindi troviamolo prima noi e facciamogliela pagare per quello che ha fatto a Miriam e a
Donna…».

«Ma perché l’avrebbe fatto?».

«Onestamente? Non me ne frega un cazzo del perché. Dopo Nicky, Biagio ha perso la testa. Ho finito
di chiedermi perché cazzo agisce in questo modo. So solo che qualcuno deve fermarlo, ed è giusto
che siamo noi a farlo».

«Lo so, ma…».

«Non voglio andare in prigione, Luca. E voglio che Oscar, Donna e Miriam abbiano pace. Non
possiamo rischiare… Dobbiamo trovarlo e chiudergli la bocca per sempre».

«Dovremmo sapere prima cosa ne pensano Varga e Carmine, no?».

«Non si fanno sentire… E ho una brutta sensazione. O sono dalla sua parte, oppure ha ucciso anche
loro…».

«Impossibile».

«E allora perché non riusciamo a metterci in contatto con loro? Mirko ha detto che Carmine era
rimasto di guardia davanti a casa di Miriam. Dov’era allora quando è stata uccisa?».

«Non ne ho idea…».

«Non abbiamo tempo, Luca. Se lo trovano prima di noi siamo fottuti».

Raggiunsero gli altri che li aspettavano vicino alle auto.

«Allora? Cosa facciamo?» chiese Zeno.

«Troviamolo e facciamola finita» disse Luca.

Un brivido di sollievo attraversò Vito nell’udire quelle parole.

Gli altri si divisero.

Vito Filomena per tutto quel tempo aveva tenuto le mani nelle tasche dei jeans. Non per il freddo, ma
per nascondere il tremore che si era impadronito di loro da quando aveva messo i ragazzi contro
Biagio. Per fortuna, si disse, tutto stava per finire.

Aveva ripreso a piovere e non si vedeva quasi nulla attraverso il parabrezza appannato dal loro fiato.
I due mercenari chiusi dentro il fuoristrada nei pressi della cascina erano stanchi e infreddoliti. Ma
soprattutto erano certi che quella sorveglianza fosse inutile. L’uomo che cercavano i calabresi se
l’era data a gambe. Erano passate troppe ore perché potesse tornare indietro. Stavano sprecando
soltanto tempo, esponendosi al rischio maledettamente concreto che gli sbirri si presentassero in
forze. Ma dall’alto erano stati irremovibili: «State di guardia a turni di due, e tenetevi in stretto
contatto qualsiasi cosa accada».

«Fanculo» avevano mormorato i due contractor tra i denti. Ma l’appaltatore pagava per il lavoro di
un giorno quanto solitamente prendevano per un turno di tre mesi in Medioriente, quindi avevano
obbedito, ed erano rimasti lì fuori, nascosti tra gli alberi, in attesa che l’uomo tornasse, mentre i
colleghi controllavano in macchina i paesi limitrofi nel caso il bastardo si fosse nascosto lì.

Uno dei due stava dormendo, mentre l’altro cercava di rimanere vigile nonostante la noia e il buio.
Dopo l’ennesima volta che spazzò il vetro con la manica della giacca, il contractor vide qualcosa
muoversi vicino alla casa. Si fece più vicino al parabrezza. Di nuovo notò qualcosa: il profilo di un
uomo che si stava dirigendo all’entrata della cascina.

«Ehi, è tornato. Andiamo» disse al collega, scrollandolo dal sonno.

«Sicuro che sia lui?» chiese l’altro, recuperando un fucile.

«No, ma penso di sì… Guardalo, sembra uno straccione. Credo che si sia nascosto nel bosco finora.
Su, andiamo a vedere».

I due scesero dall’auto e gli anfibi affondarono nel terreno fangoso. La visibilità era pessima. Si
calarono sulla testa i cappucci dei giubbotti per proteggersi dalla pioggia. Mentre camminavano
imbracciando i fucili, uno dei due sentì vibrare il cellulare in tasca. Lo tirò fuori. Era il poliziotto.

«Sta ricevendo una chiamata dallo stesso numero di prima».

«Credo si tratti di Pagani, il nostro obiettivo».

Mentre stavano parlando un uomo sgusciò fuori dal buio alle loro spalle, puntò la canna della sua
arma all’altezza della nuca di quello a lui più vicino e fece fuoco. Il corpo del contractor fu
scaraventato dal proiettile contro quello del collega più fortunato. I proiettili destinati a lui gli
attraversarono una spalla e il braccio destro, e come crollò a terra lo sconosciuto gli sparò a una
gamba. Il silenziatore aveva reso gli spari degli sbuffi inaudibili sotto il mitragliare della pioggia.

Roberto Pagani si era voltato al primo grido di dolore e aveva assistito a tutto, tremante e fradicio
fino alle ossa. Fece un cenno col capo all’uomo che stava disarmando il mercenario ancora in vita ed
entrò nella cascina.

Il tizio che aveva sparato pestò con un piede il braccio ferito del contractor e gli puntò la pistola
silenziata alla testa.

«Sei solo o ce ne sono altri? Se menti sparo…» disse. Era un bestione dal collo taurino e il torace
possente. Aveva due occhi di un celeste elettrico. Occhi di assassino.

L’ex soldato pensò che non voleva morire e decise di collaborare. «Sono solo… ma….».

Mazzeo calpestò più forte il braccio ferito strappandogli un grido di dolore. Gli puntò l’arma contro
la mano, inchiodandola a terra, e fece fuoco, con tante condoglianze alla carriera da cecchino. Quello
s’agitò, ma Biagio lo bloccò afferrandolo per la gola. Non aveva tempo e non poteva rischiare:
Pagani per telefono gli aveva detto che avevano mandato dei professionisti, non criminalotti da due
soldi.

«Dove sono i miei uomini?» chiese Biagio.


«De-dentro…».

«E allora in piedi. Si va dentro» ordinò tirandolo per il braccio sano.

«Io non c’entro niente. Mi hanno solo pagato per fare il lavoro e…».

«Sta’ zitto e cammina» disse Mazzeo ficcandogli un dito dentro la ferita nel braccio. Quello s’inarcò
dal dolore e non cadde solo perché il poliziotto lo stava sostenendo. Proseguì fino alla casa senza
osare parlare di nuovo.

Sull’uscio Biagio vide Pagani risbucare fuori. Era irriconoscibile: inzaccherato di fango, gli abiti
stracciati, un’espressione di dolore misto a sgomento a corrucciargli il viso.

«Rientra» ordinò Mazzeo notando che porta e finestre erano state distrutte. Dovevano muoversi in
fretta.

Pagani parve volergli sbarrare la strada. «No, senti, forse è meglio se…».

Con una manata Biagio lo spinse all’interno.

Fu come se gli avessero sparato in pieno petto.

Annichilito, lasciò andare il mercenario che rovinò a terra, e lui stesso crollò in ginocchio come se
gli avessero reciso i tendini delle gambe.

Pagani osò riguardare la scena, ma questa volta il suo stomaco non resse e vomitò sulle assi del
pavimento.

Mazzeo si sentì girare la testa come se fosse sul punto di svenire e dovette posare le mani a terra per
non collassare. Chiuse gli occhi per un istante come se volesse cancellare le immagini impresse sulle
retine, come se fosse tutto uno scherzo della sua mente sadica. Ma quando li riaprì l’orrore era
ancora lì, a gridargli tutte le sue colpe.

Varga era legato a una sedia. Il modo in cui l’avevano ridotto…

L’avevano finito con un colpo in piena fronte che l’aveva scaraventato all’indietro.

Il contractor che aveva scritto e spedito l’sms dal telefono di Torregrossa vide Mazzeo fissare
imbambolato la scena e iniziò a scivolare all’indietro.

La mano tremante del poliziotto toccò la testa di Carmine. Anche lui era riverso a terra. Un buco alla
nuca. Sparo da esecuzione. Biagio lo prese sotto le spalle e se lo mise in grembo, grugnendo di
dolore. Le dita tremolanti accarezzarono il viso esangue del suo vecchio amico ormai gelido.
Disperato, iniziò a cullarlo come se fosse un bambino, come se scuotendolo potesse riportarlo in
vita. Si chinò fino a baciarlo sulla fronte singhiozzando parole incomprensibili mentre qualcosa
fremeva in lui così forte da farlo rabbrividire tutto.
Quando gli avevano ordinato di uccidere Varga, Carmine non c’era riuscito. Aveva alzato l’arma
puntandola contro il collega. La canna aveva tremato d’esitazione, per poi spostarsi di scatto contro i
mercenari, nel disperato tentativo di ucciderli. L’uomo alle sue spalle l’aveva freddato non appena
aveva alzato l’arma contro di loro. Anche Varga aveva provato a scattare ed era andato incontro allo
stesso destino. Erano morti così come avevano vissuto.

L’uomo che aveva ucciso i due poliziotti sfruttò lo choc di Mazzeo e si tirò in piedi, saltellando su un
piede fuori dall’abitazione. Il corpo era un unico brivido di dolore, ma doveva resistere se voleva
salvarsi. Doveva soltanto arrivare alla macchina. Scivolò e cadde sul terreno fangoso, mentre la
pioggia martellante sembrava volerlo inchiodare a terra. Ma l’ex soldato si alzò con la forza della
disperazione e continuò ad avanzare, mentre il sangue seguitava a fluire dalle ferite.

Biagio posò con delicatezza la testa dell’amico per terra e si alzò con una lentezza esasperante. Si
sentiva instabile sulle gambe. Era come se fosse scollegato dal suo corpo. Gli occhi sembravano
smarriti nel vuoto. Raccolse la pistola. Mentre usciva come un automa dalla casa sfilò il silenziatore.

Il contractor lo sentì alle spalle e provò a saltellare più velocemente, grugnendo come una bestia
braccata.

Biagio camminava lento, come se avesse i piedi di piombo. Un tuono squarciò l’aria, ma lui
nemmeno parve accorgersene.

Quando fu a poco più di un metro dal mercenario, lo afferrò con la sinistra per i capelli, tirandogli la
testa all’indietro. Senza dire una parola gli ficcò la canna della pistola in bocca e tirò il grilletto
quattro volte. I capelli dell’uomo gli rimasero in mano mentre il suo corpo venne scaraventato a terra
dai proiettili.

Mazzeo crollò di nuovo in ginocchio. Questa volta le sue gambe affondarono nel terreno paludoso.
Era fradicio. La pioggia lavava via il sangue che gli macchiava il viso. Alzò gli occhi verso il cielo
plumbeo per poi chiuderli, come se stesse pregando. Bruciava di un fuoco che nemmeno quel diluvio
poteva spegnere. Un fuoco che avrebbe continuato ad arderlo vivo fino al suo ultimo respiro. Un
fuoco che si trasformò in un urlo disumano.

Si era fatto riaccompagnare a casa. Era stanco morto. Non sarebbe nemmeno dovuto uscire di casa, i
medici gliel’avevano vietato, ma aveva contravvenuto vista la situazione. Si lasciò cadere sulla
poltrona e sfilò dai jeans la Glock che Luca gli aveva dato. Non si sa mai… aveva detto. Gli altri
erano fuori a dargli la caccia. Dovevano trovarlo prima dei colleghi.

Vito si sentiva una merda. Almeno Biagio un motivo per essersi venduto ai calabresi l’aveva: Nicky
e quella troia che gliel’aveva uccisa. La causa del suo tradimento, invece, era pura codardia.

Prese il cellulare e compose il numero che gli aveva dato Labate.


«Sì?».

«Lo stiamo cercando. Ho tutti i ragazzi fuori che lo stanno cercando col sangue agli occhi. Batteranno
i posti che conosciamo, quelli dove potrebbe essersi nascosto, quelli che solo noi sappiamo… è
questione di tempo».

«Bene. L’uomo che è con lui lo voglio vivo. Capito? Vivo. E lo devi consegnare a me, non alla
Legge».

«Ho capito».

«A lui invece fai chiudere la bocca per sempre» ordinò Romeo Labate. «Un’ultima cosa. Mazzeo ha
una cicatrice sulla schiena, dietro la spalla destra, una croce. Una volta che gli fanno il servizio,
voglio la croce».

«In che senso?».

«La pelle… strappategliela».

Vito Filomena socchiuse gli occhi e disse di sì.

Posò il cellulare sul tavolino e prese la pistola, rimirandola. Non riusciva a credere di essere
arrivato fino a quel punto. Biagio era l’uomo che l’aveva salvato: l’aveva tirato su e rimesso in pista.
Era come un padre per lui. E la sua gratitudine per essere stato messo in salvo era stata condannarlo
a morte, mettergli contro i suoi stessi uomini, i ragazzi che Mazzeo aveva tirato su come figli. Quella
famiglia che aveva messo in piedi, che aveva sostenuto con tanto amore, ora era diventata uno
squadrone della morte. La sua. I figli si erano ribellati al padre. L’amore si era tramutato in odio. Le
pantere si erano rivoltate contro il capobranco.

Vito sperò con tutto il cuore che lo ammazzassero subito. Non si sarebbe mai voluto trovare di fronte
a lui, guardarlo negli occhi e osservare lo sgomento e la delusione sul suo volto.

La città era battuta da una tempesta. Sul vetro vide il proprio riflesso. Sembrava un fantasma. Un
fantasma dalle mani tremanti. Tremavano così tanto che aveva difficoltà anche a reggere l’arma.

…Un’ultima cosa. Mazzeo ha una cicatrice sulla schiena, dietro la spalla destra… una croce…

Sentì una staffilata contrargli lo stomaco.

…Una volta che gli fanno il servizio, voglio la croce… la pelle, strappategliela…

Vito Filomena non riuscì a raggiungere il bagno.

Vomitò nel bel mezzo del salone.


Dopo minuti che gli erano sembrati infiniti, Pagani vide lo sbirro rimettersi in piedi e camminare
verso la casa. Le sue urla bestiali gli riecheggiavano ancora in testa. In pugno stringeva la pistola con
cui aveva ammazzato il mercenario. Aveva paura che stesse venendo per lui, e per la prima volta in
vita sua decise che non si sarebbe ribellato al destino. Se era così che doveva finire, fanculo. Si
sedette sui gradini del portico e chiuse gli occhi, sperando che fosse una cosa rapida. Quando udì i
passi pesanti del poliziotto sugli scalini, strinse i pugni più forte. Ma Biagio lo sorpassò senza
degnarlo di un’occhiata. Tornò dentro e fissò i suoi uomini a terra.

Pagani gli si avvicinò, poggiandosi a una parete. Si sentiva scottare di febbre e provava al tempo
stesso brividi di freddo. Si reggeva in piedi a stento.

«Mi dispiace» sospirò il broker. «Per quanto può valere, credimi, mi dispiace davvero…».

Biagio non fiatò, gli occhi sempre incollati ai cadaveri.

Le lacrime più dolorose sono quelle che non riusciamo a piangere. Mazzeo lo scoprì sulla sua pelle.
Aveva amato Varga e Carmine alla follia eppure non riusciva nemmeno a piangere per loro, come se
il dolore fosse tale da andare oltre le lacrime e la disperazione.

«Dovremmo andarcene da qui…» disse Pagani dopo alcuni minuti di silenzio rotti solo dal rumore
delle gocce d’acqua che dai vestiti del poliziotto colavano per terra. «Potrebbero arrivarne altri…».

Biagio si voltò verso di lui.

«Gli spari… potrebbero aver sentito gli spari» spiegò il trafficante.

Il poliziotto stava per dire qualcosa quando sentì dei passi alle sue spalle e poi una voce.

«What the hell…».

Il viso di Mazzeo venne illuminato dalle torce elettriche fissate alle pistole di Joseph Carbone e uno
dei suoi uomini.
PRIMA DI DIRTI ADDIO
Ogni uomo non è ciò che è in sé, ma è quello che rimane di lui dalla contrapposizione col suo
destino.

Dopo trent’anni di carriera Joseph Carbone si era persuaso di questo. E ora ne aveva l’ennesima
conferma.

Biagio Mazzeo aveva vissuto scaraventandosi contro il destino. Aveva sbranato la vita. Pisciato sul
fato. Gabbato la morte e sconfessato l’amore. Aveva abiurato le leggi dell’uomo e si era imposto di
vivere seguendo una sola legge: la propria. Aveva sfregiato cuori e fagocitato anime. Aveva
calpestato stuoli di cadaveri e si era immolato al Male. Ogni sua azione era stato un sasso lanciato
nell’acqua piatta che era stata fino a quel momento la sua realtà. Ogni sua decisione aveva creato un
cerchio concentrico sempre più ampio, finché gli anelli d’acqua erano divenuti onde. E le onde un
maremoto che aveva dilaniato la sua esistenza e quella delle persone intorno a lui. Ora che le acque
si erano ritirate, tutto ciò che rimaneva di Mazzeo era un corpo senza soffio vitale, condannato
all’inferno più crudele che può esistere sulla terra: la memoria. Il ricordo delle persone che erano
morte per colpa della sua ambizione e delle sue debolezze. La memoria era il suo inferno e i ricordi
le fiamme che lo lambivano.

Joseph aveva innanzi a sé un uomo smarrito nell’abisso che aveva dentro. Era come se i sensi di
colpa gli avessero spolpato il viso che ora appariva smunto, tutto spigoli e ossa. Le rughe sul suo
viso sembravano crepe profonde sul punto di cedere. Stava crollando, Biagio Mazzeo. Ma questo non
gli impedì di agire con una velocità ferina.

Alla vista dell’americano serrò di scatto l’avambraccio sinistro intorno alla gola di Pagani
puntandogli con la mano destra la pistola alla tempia.

«Abbassate quelle cazzo di pistole o l’ammazzo» disse. Non c’era rabbia nella sua voce. Era quasi
atona. Fu quell’assenza di vita a far capire al federale che Mazzeo l’avrebbe ucciso davvero. Non
aveva più nulla da perdere. Così abbassò l’arma e ordinò al suo uomo di fare lo stesso. Non poteva
rischiare. Pagani gli serviva vivo.

Joseph fece rimbalzare lo sguardo dai cadaveri di Varga e Torregrossa al poliziotto. «Sta’ calmo,
Mazzeo… Calmo…».

«Mettetele a terra e spostatele con i piedi…».

I due americani obbedirono.

«Come hai fatto a trovarmi?» chiese Mazzeo, gli occhi spiritati per la sorpresa.

«Lo stai soffocando, Mazzeo. Lascialo respirare…».


«Come cazzo mi hai trovato??!».

«Ti ho agganciato nel parcheggio dove ti sei incontrato con Anita. Ti ho perso dopo che sei scappato
da casa di Miriam… Ti ho ripreso quando sei andato al garage, col bambino. Lui» disse indicando
l’uomo più giovane al suo fianco. «Lui era lì fuori di guardia, sapevo che saresti andato lì prima o
poi. Ho avuto una botta di culo. A quel punto ti è stato dietro fino a qui… So cosa hai fatto a Miriam
e a Donna. È finita, Mazzeo…».

«Non sono stato io»

«Andiamo su…».

«Non sono stato io!».

«Ok, ma guarda» disse Carbone indicando i cadaveri dei due poliziotti. «È finita, Biagio. Hai
perso… Il patto che abbiamo fatto se n’è andato a puttane dopo quello che hai fatto. La missione è
stata compromessa, l’operazione è saltata… Ti do l’ultima possibilità: dammi Pagani e ti lascerò
andare….».

Biagio continuava a serrare la gola del broker, premendogli la bocca della canna contro la tempia.
Gli tremava una palpebra, e la vena verdastra a forma di ipsilon sulla sua fronte pulsava. Cercava di
pensare nonostante il dolore, nonostante la disperazione e le perdite. Non era facile. Tutto sembrava
bruciare.

«Non me ne sbatte un cazzo di te, lo sai, voglio solo lui» continuò il federale, approfittando del suo
stato confusionale. «Dammelo e ti lascio andare. Ti darò un giorno di vantaggio e poi…».

«Sta’ zitto… arretrate. Spalle al muro, tutti e due» ordinò Mazzeo.

«Stai facendo l’ennesima cazzata».

«Schiena al muro. Subito».

I due americani eseguirono.

Sempre tenendo stretto il broker, Biagio si avvicinò di qualche passo e scalciò via le pistole.

Joe Carbone disse qualcosa in inglese a Pagani, che gli rispose nella stessa lingua.

Mazzeo lasciò andare il broker e lo colpì con un gancio allo stomaco che spezzò le sue parole
piegandolo in due. Biagio armò il cane e affondò la canna nel collo di Pagani.

«Prova a dirgli un’altra parola in inglese e ti toccherà parlare col suo cadavere… Intesi?».

Biagio si sfilò le manette dalla cintura e gliele tirò. «Ammanettati al termosifone».


«Che cosa? Stai impazzendo?».

«Fallo, e tu, avvicinati».

L’uomo della DEA obbedì e il suo uomo si avvicinò di qualche passo.

«Inginocchiati a terra e metti le mani sopra la testa».

L’uomo eseguì.

«Mazzeo…» iniziò Carbone.

«Fai scattare le manette».

Il federale serrò il polso alla manetta, mentre l’altra l’attaccò al tubo di ghisa del calorifero.
«Ascolta, so di tuo figlio. Vuoi tenermi qui prigioniero? Nessun problema, ma lascia qui anche lui…
diversamente ti giuro che farò finire tuo figlio in un istituto» lo minacciò sperando che almeno quello
sortisse qualche effetto in lui.

Biagio non sembrò nemmeno ascoltarlo. Con due falcate fu sul suo collega a cui schiantò la canna
della pistola in testa. Due volte. L’americano svenne.

Il poliziotto raccolse le due pistole da terra e se le infilò dietro la schiena.

«Ora ascoltami bene, Carbone. Il patto che avevamo rimane invariato. Avrai le tue informazioni sul
ponte con New York, e avrai anche Pagani. Te lo porterò io, alle mie condizioni e con i miei tempi»
disse afferrando Pagani per il collo e tirandolo in piedi. «E una delle condizioni è che ti dimentichi
di mio figlio…».

«Io non…».

«Zitto. Hai detto di essere un pezzo grosso? Bene, risolviti tu questo casino allora. I miei uomini…
vuoi dire che li ho uccisi io? Dillo, non me ne frega più un cazzo… ma mio figlio… lui è fuori da
questo gioco, ok? Fuori. Rispetterò i patti. Ti porterò questo pezzo di merda negli Stati Uniti e una
volta lì, ognuno per la sua strada».

«Mazzeo, per l’amor di Dio, ascoltami. Tu non stai pensando… Hai lasciato troppe prove contro di
te e tutti i poliziotti di questa maledetta città si stanno mettendo in moto per trovarti! E se non ti
trovano prima loro, ti troveranno i calabresi. E hai visto cosa sono disposti a fare pur di
riprenderselo» sbottò indicando con il mento i cadaveri di Giorgio e Carmine. «Sei solo. E non puoi
farcela da solo…».

«Ti contatterò al numero che mi hai dato e avrai le informazioni per e-mail» disse Mazzeo
ignorandolo. «Mio figlio… sei stato corretto con me finora. Lo sarò anch’io. Te lo porterò in
America come ti avevo detto. Ma a modo mio… dimenticati di mio figlio. Ti chiedo solo questo».
Provare a farlo ragionare era impossibile. E così com’era, disarmato e ammanettato al termosifone,
non c’era nulla che Joseph potesse fare. Provò un’ultima volta.

«Biagio, non sei in te… ragiona, Dio santo, se ti prendono, e nelle condizioni in cui sei ti
prenderanno, io non potrò più fare nulla per te. Guardati. Guarda come sei ridotto… Sei un
assassino. Ti stanno già cercando là fuori, io non posso…».

«Lo prendo come un sì» disse l’uomo della Narco lasciando cadere le chiavi delle manette sul
federale svenuto a terra. Spinse via Pagani. Quando stava per uscire si fermò e tornò a rivolgersi
all’americano. «I miei uomini con me non c’entrano nulla. Li ho tirati io dentro questa merda, la
colpa è solo mia. Assicurati che vengano ricordati come poliziotti, non come criminali».

«Mazzeo…».

«E lascia stare mio figlio».

Carbone lo fissò in quegli occhi di ghiaccio in cui si era accesa una determinazione assassina. Si era
sbagliato, Carbone. Lo aveva dato per morto ma non era così. Il poliziotto era più vivo che mai.

Mazzeo afferrò il broker per il collo e se ne andò.

Carbone provò a raggiungere le chiavi delle manette ma era troppo distante.

«Mazzeo!» gridò. «Cazzo… Mazzeo!».

Gli rispose solo lo scroscio violento della pioggia.

La macchina sarebbe stata un’ulteriore prova a suo carico. Non poteva più usarla. L’avevano
pedinato, sapevano di quell’auto e non ci avrebbero messo nulla a segnalarla e trovarlo. Doveva
cambiare mezzo.

Controllò che il Suv dei mercenari avesse le chiavi inserite nel cruscotto. Le aveva. Aprì il baule e
ci gettò dentro Pagani. Lo svuotò dalle armi che conteneva finché non rimase solo il corpo fradicio e
tremante del narcobroker.

«Ora siamo soltanto io e te. La tua vita dipende da me, ficcatelo in testa» gli disse. «Siamo entrambi
ricercati, e se ci trovano nessuno ci salverà dall’ergastolo, e tu in carcere non duri nemmeno un
giorno… Da adesso in poi si fa come dico io».

«Ti prego, lasciami andare» quasi mormorò Pagani arso dalla febbre e dalla paura. «Lasciami qui…
io non… di’ una cifra… di’ una cazzo di cifra e…».

Mazzeo gli chiuse il baule in faccia.


Andò al volante e si fece strada sotto il diluvio fino alla sua auto che aveva nascosto poco lontano.
Scese e portò via tutto ciò che potesse collegarla a lui. Per ultimo raccolse il dossier con le foto e i
documenti che gli aveva dato Carbone. Se lo mise sotto la giacca di pelle per non farlo bagnare e
tornò nell’auto dei mercenari.

Posò sotto il sedile il fascicolo e le due pistole sottratte e si lasciò andare sul poggiatesta per
qualche secondo.

Lui, l’unico che meritava davvero di morire, era ancora in vita.

“Perché?” si chiese tormentandosi l’anello. “Perché Nicky, Miriam, Donna, Varga, Carmine, e non
io? Perché?”.

Smettila di farti domande senza senso. È ora di farla pagare a chi è rimasto. Hai visto come hanno
ridotto Varga, no?, disse la voce di Sergej Ivankov dentro la sua testa come evocata dall’anello.

«Sì» rispose Mazzeo a voce alta.

E vuoi lasciare che chi ha ordinato di ridurlo così rimanga impunito?

«No. Mai».

E allora non pensare ai morti. Pensa ai vivi… Falli soffrire, devono implorare pietà, devono
pentirsi di ciò che hanno fatto…

Sentì il fuoco bruciargli il sangue. Di nuovo. Era una sensazione stupenda.

«Devono morire» disse Mazzeo.

Esatto…

«Con chi cazzo stai parlando?» gridò dal baule Pagani.

«Con quella troia di tua madre» rispose Mazzeo. «Chiudi la bocca e sta’ buono o ti lascio davanti al
primo commissariato che trovo».

Il broker si zittì. La bocca del poliziotto si deformò in una smorfia malata. Folle.

Muoviti, non c’è tempo da perdere, disse Ivankov.

Mazzeo obbedì ai suoi demoni. Innestò la prima e lasciò andare la frizione, guidando rabbioso fuori
dal bosco.

Quando stava per entrare in città il cellulare abbandonato sul sedile iniziò a vibrare. Non era il suo –
che aveva spento – ma quello di uno dei due mercenari. Lo fissò chiedendosi se dovesse rispondere.
Il numero era anonimo.

Rispose.

«Allora? Ma non dovevate richiamarmi voi, cazzo…?».

La voce era inconfondibile: Romeo Labate.

«Oh, Romeo, Romeo. Perché sei tu, Romeo?» rispose Biagio.

«Chi cazzo sei?… Mazzeo?».

«No, Giulietta…».

«…».

«Ah, adesso stai zitto, vero?».

«Dove sei?».

«La vera domanda è con chi sei. Vuoi saperlo?».

«Pagani…».

«Esatto. Lo sto portando direttamente in tribunale. Consegna a domicilio».

«No!…».

«Perché no?».

«La cecena. So dove…».

«Piantala. È morta tre mesi fa, ammazzata dalle spie russe. E tu lo sapevi. L’hai sempre saputo, figlio
di puttana…».

«…».

«Mi hai mentito. Hai fatto uccidere due miei uomini… uno l’hai torturato…».

«Mazzeo…».

«Non mi vedrai arrivare, Labate» promise Mazzeo e chiuse la chiamata. Aprì il finestrino e scagliò
fuori il cellulare. Si artigliò al ricordo di suo figlio per non pensare alle immagini dei cadaveri dei
suoi uomini e delle donne che aveva amato. Era l’unico modo per non impazzire.
Due giorni dopo

Fu il ronzio elettrico a svegliarlo. Si guardò intorno non capendo dove diavolo fosse. Sembrava uno
scantinato. Molto spartano. Due brandine, una scrivania. Roba ammucchiata dappertutto. Pavimento
in cemento grezzo. Un odore insopportabile di frittura e cibo che appestava l’aria. Rastrelliere
metalliche che contenevano flebo di cui una attaccata al suo avambraccio sinistro. Due ventilatori
elettrici che cercavano di aiutare due ventole a muro a spazzare via l’aria fetida, e sacchi di soia
ammassati fino a sfiorare il soffitto da cui, appesi a dei ganci metallici, penzolavano due maiali
scuoiati. Per terra gocce di sangue essicate.

«Che cazzo…» sussurrò Roberto Pagani mettendosi in piedi. Si accorse di indossare vestiti puliti e
di stare decisamente meglio. La febbre era sparita. Era tornato come prima.

Si staccò l’ago dal braccio e si avvicinò alla fonte del ronzio. C’era uno stanzino nascosto da un telo
viola. Lo scostò e vide Mazzeo davanti a un lavandino e uno specchio. Era a torso nudo e si stava
radendo i capelli a zero. Pagani non poté fare a meno di notare la croce incisa sulla spalla destra.
Roba di ’ndrangheta. Si domandò chi fosse davvero il poliziotto.

«Dove siamo?» chiese.

Il posto era un bagno con i sanitari d’acciaio, come negli aerei. La doccia dava l’idea di essere il
luogo in cui i maiali erano stati uccisi e spellati.

Il poliziotto nell’udirlo scorse il suo riflesso nello specchio e si voltò, spegnendo il rasoio elettrico.

«Benvenuto al China Hotel. La puzza che senti è del ristorante qui sopra» disse Mazzeo. Anche lui
sembrava essersi ripreso. Perlomeno fisicamente. I capelli così corti facevano risaltare il celeste
fluorescente degli occhi.

«Do-dove siamo?».

«Te l’ho appena detto. È un posto sicuro. Fattelo bastare…».

«Da quanto sto…».

«Dormendo? Poco più di due giorni. Ti stavi per prendere una polmonite, hai delirato per un giorno e
mezzo. Ti ricordi qualcosa?».

Pagani alzò le spalle.

«Meglio. Quello che ti ha curato non è che fosse propriamente un medico».


«Perché siamo in questa topaia?».

“Bella domanda” pensò Mazzeo. Lui, il poliziotto più temuto e rispettato della città costretto a
nascondersi come un topo di fogna. Da non credere. Ma quella era la sua nuova condizione. Era un
fuggiasco. Avrebbe fatto meglio ad abituarsi in fretta all’idea.

«Non fare domande stupide, Pagani. Secondo te perché siamo qui? Perché mi piace la cucina cinese?
Perché ci stanno cercando tutti. Sbirri e criminali».

«Avresti dovuto lasciarmi con Carbone…».

«Come no, così io finivo subito al gabbio e tu estradato. Non dire puttanate».

Pagani comprese che il poliziotto era all’oscuro della verità. Decise di assecondarlo.

«Quindi qual è il piano?».

«Il piano è che ho ancora delle cose da sbrigare e poi ce ne andiamo».

«Quando?».

«Se tutto va bene, stanotte».

«Andiamo dove?».

«Tu non preoccuparti» disse il poliziotto indossando una maglietta nera. «Qui non possiamo restare
oltre. Non è più sicuro. Stare oltre significa sfidare la fortuna, e ultimamente non sono molto
fortunato…».

«Che troiaio…» disse il broker.

«Come ti senti?».

«Meglio, ma credimi, se mi lasci andare tu…».

Mazzeo lo afferrò per un braccio e lo costrinse a sedersi davanti alla scrivania. Il broker notò il
dossier della Criminalpol e quello che sembrava un registratore vocale.

«Compiti a casa» disse Mazzeo. «Mentre starò via voglio che butti fuori e registri tutto ciò che sai
sul ponte tra Calabria e Stati Uniti. Nomi, luoghi, personaggi istituzionali coinvolti, rotte e metodi di
trasporto, rifugi e nascondigli. Tutto…».

«Perché?».

«Fa parte del patto con Carbone. Se vuoi salvarti, devi far cadere quel cazzo di ponte».
«E se anche lo facessi?».

«A quel punto ti riporto negli Stati Uniti e da lì ti affido a Carbone, te la vedrai con lui».

«Ho alternative?».

«Non più».

«Ok, diciamo che ti aiuto a distruggere il ponte, e dopo?».

«Una cosa alla volta, bellezza… Una cosa alla volta».

«Mazzeo, tu non hai idea di chi io sia…».

«Vedi, mio caro» disse il poliziotto stringendogli le spalle. «Tu sbagli i tempi verbali. Non di chi tu
sia, ma di chi eri. Perché quello che eri non lo sei più. Ora sei soltanto un pezzo di merda in fuga,
esattamente come me…. E in questo momento, per quanto assurdo ti possa sembrare, io sono il tuo
unico amico».

I due si fissarono. Pagani avrebbe voluto mandarlo al diavolo ma aveva visto cos’era in grado di fare
lo sbirro, così domandò: «Puoi almeno far portare via quei maiali?».

Mazzeo si voltò a osservare le carcasse appese nel vuoto. «No. Ti serviranno per trovare
l’ispirazione. Perché se non ci muoviamo e non gli diamo quello che vogliono, faremo la loro stessa
fine» disse indicando col capo le bestie.

Prese da un gancio il giubbotto di pelle. Da una mensola afferrò la fondina con la pistola e il
portafoglio con il distintivo della Polizia. Lo fissò per qualche secondo prima di metterlo in tasca.
Allacciò la fondina alla cintura e sfiorò con le dita il disegno di Nicky che aveva appeso al muro. La
carta era incartapecorita per via della pioggia, e anche i colori e le forme si erano come liquefatti,
rendendo il disegno quasi incomprensibile, a tratti spaventoso. Come se la bambina e il poliziotto
fossero mostri. O fantasmi.

“Forse è proprio così” si disse.

Si portò le dita alle labbra e le baciò per poi voltarsi verso il narcobroker. «Tu non piaci a me e io
non piaccio a te. Ma adesso dobbiamo collaborare se vogliamo uscirne vivi… Ti devi fidare di me»
disse Biagio.

«Perché hai la croce sulla spalla?».

«Errore di gioventù» disse Mazzeo. «Ora mettiti al lavoro. Quando torno devi aver finito… Non
provare a uscire o a gridare. La porta è blindata e la sbarrerò con tanto di catena. Non ci sono
finestre. Non ci sono telefoni. Se fai casino ci penseranno i cinesi a chiuderti la bocca… Intesi?».

«Tu dove vai?».


«A trovare un vecchio amico…».

Tra le tante ferite che gli avevano procurato le informazioni e le rivelazioni nel dossier
dell’americano, una gli faceva particolarmente male. Di tutte le coltellate che aveva subìto nel
volgere di quei giorni, quella era forse la più innocua ed era rimasta come sopita. Ma la lama era
ancora lì, conficcata nel suo costato. Ed era arrivato il momento di strapparla dalle carni per quanto
male potesse fare e restituirla al legittimo proprietario.

Quando Vito udì il campanello era notte fonda. Non aspettava visite. Spinto da un brutto
presentimento afferrò la pistola che gli aveva dato Luca e si avvicinò alla porta.

«Chi è?» domandò sollevando la Glock ad altezza d’uomo.

«Biagio».

Vito si sentì gelare. Mentre i suoi colleghi erano fuori a cercarlo, lui era venuto lì, a casa sua.

“Cazzo” pensò.

«Sei solo, Biagio?» chiese afferrando il cellulare. Lo sbloccò e digitò velocemente un messaggio agli
altri: È qui da me. Muovetevi.

«Con chi cazzo dovrei essere?» disse Mazzeo dall’altra parte.

Teoricamente lui non sapeva del suo tradimento. Era in fuga, ricercato dalle autorità. Poteva essere
venuto da lui in cerca di aiuto e riparo. Doveva aprire. Doveva farlo entrare e aspettare che
arrivassero gli altri, era l’unica cosa da fare.

Guardò attraverso lo spioncino. Era lui. Aveva il viso più affilato e i capelli cortissimi, ma era lui.
Si stava guardando di lato, nervoso.

“Non può sapere nulla di te” pensò il giovane poliziotto. “Devi recitare mentre arrivano gli altri.
Puoi farcela”.

Così gli aprì.

«Biagio…».

«Ti trovo in forma, ragazzo».

«Ci hai fatto morire di paura. Che cazzo sta succedendo?».


«Anche per me è bello vederti» disse Mazzeo indicando la pistola nel suo pugno.

«Oh, scusami» disse Filomena. «Vieni qui, fatti abbracciare».

I due si strinsero in un forte abbraccio. Da fratelli. Da pantere.

Quando Vito si ritrasse, però, aveva un’espressione incredula sul viso. Come se non riuscisse a
capacitarsi del coltello infilato fino al manico nel suo stomaco.

Provò ad alzare la pistola ma Biagio gliela strappò di mano. «Avrei detto tutti, credimi, ma non tu…
Non tu» disse Mazzeo spingendolo ed entrando in casa. Avrebbe potuto andarsene, ma voleva
qualcos’altro da Vito. Qualcosa che doveva assolutamente avere.

L’aveva afferrato per un braccio e fatto sedere sul divano. Il coltello era ancora conficcato nella sua
pancia. Vito teneva le mani sulla ferita, incapace di estrarre la lama dalle carni. Mazzeo si era
versato un bourbon e si era seduto di fronte al ragazzo. L’aveva salvato. L’aveva tirato su come un
figlio. Vito gli aveva giurato fedeltà, tanto da tatuarsi una pantera sulla schiena. Ma dalle
informazioni riservate dello SCO nel dossier che gli aveva dato l’uomo della DEA, aveva scoperto
che Vito era stato il primo a tradirlo iniziando a collaborare con la Piscitelli.

Glielo disse. La voce atona. Né odio né rabbia a venarla. Solo un’infinita delusione.

«Ho fatto di tutto per te, Vito. Di tutto… Ti ho tirato fuori dai debiti. Ti ho salvato quando Oscar
voleva ucciderti. Mi sono assicurato che avessi le migliori cure… Ho battezzato tuo figlio… dimmi
perché. Sul serio, lo voglio capire».

Il ragazzo spostò gli occhi da Biagio al coltello.

«Non morirai subito. Sarà una morte lenta. Molto dolorosa. Una morte da spie… Ora dimmi perché.
O non hai nemmeno le palle per questo?».

Vito non rispose. Aveva paura che aprendo la bocca avrebbe vomitato sangue.

Biagio stava frugando nel suo cellulare. Vide il messaggio che Vito aveva inviato agli altri.

«Allora? Perché?» chiese tornando a guardarlo. Si puntò le dita contro le tempie. «Sono giorni che
me lo chiedo. Cosa ti ho fatto? Cosa vi ho fatto per meritarmi questo?».

«Sta-stanno arrivando gli altri…» biascicò il ragazzo.

«Me ne fotto degli altri. Voglio sapere perché mi hai tradito».

Avrebbe voluto dirgli che aveva sempre sognato di diventare come lui, un capo, un leader, ma quando
si era reso conto che non lo sarebbe mai diventato aveva provato una devastante sensazione di
inferiorità, di inadeguatezza. E col tempo quell’inadeguatezza si era trasformata in gelosia, e la
gelosia in odio verso l’oggetto del suo assillo: Biagio. La Piscitelli era stata una fine psicologa.
Aveva avvertito il suo disagio, la sua irrequietudine, ed era su quello che aveva fatto leva. Fatto fuori
Mazzeo, sarebbe diventato lui il leader, il capobranco. L’aveva convinto di questo. Non erano state le
sue minacce a portarlo a collaborare con lo SCO, ma l’invidia.

Avrebbe voluto dirgli tutte queste cose, Vito, ma non ci riuscì.

Biagio lasciò passare qualche secondo e comprese che non avrebbe mai avuto una risposta.

«Carmine e Varga sono morti… Non sono stato io, ma i calabresi. E Miriam, è stata Donna a
ucciderla. Per gelosia. Quando sono andato da lei si è suicidata pur di non farsi ammazzare da me…
Tutto questo per dirti che non sono il mostro che tu pensi che sia… Ma soprattutto per assicurarti che
dove stai andando non sarai solo».

Nessuna reazione. Nemmeno una parola.

«Avrei dovuto accorgermene prima, ma ti amavo troppo anche solo per sospettarlo. L’amore ti
impedisce sempre di vedere la verità… Ivankov aveva ragione».

Biagio allungò le mani, tolse quelle tremanti del collega e afferrò il manico del coltello. Lo rigirò
con calma prima da una parte e poi dall’altra, senza distogliere nemmeno per un secondo lo sguardo
dai suoi occhi che si inondarono di dolore.

«Fa male, vero? Mi hai spezzato il cuore, bellezza. Avrei dovuto lasciarti nella merda da cui ti ho
raccolto…».

«N-no…» mugugnò Vito.

Alla fine, molto lentamente, Mazzeo sfilò la lama dalla carne e la lasciò cadere a terra. Il sangue
iniziò a fluire violento, inzuppando i vestiti di Vito e il divano.

Biagio si versò altre due dita di liquore. Si accomodò meglio sulla poltrona, incrociò le gambe e
sorseggiando il bourbon osservò il ragazzo morire dissanguato.

Lugano, Svizzera

I manager cambiano come il vento, ma l’azienda rimane sempre la stessa. È uno dei punti cardine
della filosofia delle multinazionali. Labate aveva fatto l’errore di darlo per scontato, manco fosse il
presidente della compagnia. Si era sbagliato. I capi cadono, la ’ndrangheta no. Per quanto importante
l’avevano fatto sentire, Romeo era comunque un semplice manager. E i manager vengono rimpiazzati.
Soprattutto quelli che sbagliano, danneggiando la ditta. Lui si era mostrato particolarmente deleterio
per l’immagine della Società.

Dall’alto l’avevano sollevato dai suoi incarichi e trasferito. Dubai sarebbe stata la sua nuova sede.

“C’è un mondo che si sta creando. Dobbiamo rafforzare la nostra presenza. Curerai gli interessi
della Società sul posto. Abbiamo bisogno di ristoranti, negozi di alta sartoria italiana e di creare
più rete con gli arabi. Sei l’uomo giusto per farlo” gli avevano detto. Niente più coca. Niente più
guerra ma negozi e ristoranti. Destituito e demansionato. Per uno della vecchia guardia come lui non
c’era umiliazione più grande. Quel trasferimento non era che un atto d’accusa sulla sua malagestione
dell’affare Pagani. Aveva accettato piegando il capo con umiltà perché non c’era altro da fare, ma
Labate sapeva che la sua carriera era finita. Dubai puzzava di esilio e punizione. Sarebbe invecchiato
e morto nel deserto. Era questo il prezzo che avrebbe pagato per la sua incompetenza. Si era
macchiato di un’onta indelebile. Non era degno nemmeno di un proiettile in testa, ma solo di un
disonore ancora più grande per un soldato: l’esilio.

L’unica consolazione era che El Padrino non se la stava passando meglio. L’aver fatto arrestare
Pagani ed eliminato Cosentino, mettendo in stallo l’Organizzazione calabrese, doveva avergli fatto
montare la testa: sicuramente aveva pensato che era solo questione di settimane e la Società gli
avrebbe consegnato le chiavi del mercato distributivo europeo pur di non essere tagliata fuori
dall’affare della coca. Puttanate. Ma il messicano doveva averci creduto, perché aveva iniziato ad
agire sulla sua terra in modo spregiudicato, come se fosse intocable. L’ultima azione dimostrativa era
stata far uccidere una giovane sindaca nello Stato di Morelos che con la sua amministrazione aveva
giurato guerra senza confine ai narcos, promettendo ai giornali e ai suoi elettori che avrebbe fatto
piazza pulita del narcotraffico nella città di Temixco. Un’eresia. Andava fermata prima che altri
seguissero il suo esempio, così come tanti altri amministratori locali erano stati falciati via al primo
segnale di interferenza. L’avevano trucidata appena fuori da casa sua, a Pueblo Viejo, quando non
aveva compiuto nemmeno un giorno di mandato. Un messaggio ben chiaro:lasciateci stare. Si
pensava che El Padrino avesse demandato l’omicidio a una delle bande sotto il suo controllo. Ma
questa volta, se davvero era stato lui a far partire l’ordine, aveva esagerato. La notizia aveva varcato
i confini nazionali, e il comunicato della morte della giovane trentenne era finito sulle prime pagine e
i notiziari di tutto il mondo. Il Messico e la guerra alla droga erano tornati alla ribalta. La giovane
era diventata una martire della lotta al narcotraffico, l’emblema di tutte le persone perbene che non
volevano arrendersi alla violenza e alla prepotenza dei narcos. Ora il governo messicano aveva gli
occhi di tutto il globo puntati addosso, Stati Uniti in primis. La gente si aspettava una reazione dura e
definitiva. E nell’immaginario collettivo il “cattivo per eccellenza” era proprio lui, El Padrino. Era
su di lui che si era catalizzata la rabbia della popolazione non soltanto messicana. E Romeo Labate
era pressoché certo che la furia delle autorità si sarebbe concentrata sulla sua persona e sulla sua
cattura; perché anche se non fosse stato coinvolto direttamente come mandante dell’omicidio, lui, che
era stato liberato per riportare ordine e pace nelle strade, non era stato in grado di tenere a freno le
bande che avevano ucciso la giovane politica, venendo meno al patto di pax mafiosa stretto con
chiunque avesse permesso la sua fuga dal carcere di massima sicurezza di Altiplano.
Quello che nella mente dei narcotrafficanti doveva essere un atto d’autorità si era rivelato un errore
strategico suicida. Labate era sicuro che il messicano avesse i giorni contati. Avrebbe pagato caro e
per tutti. Questo avrebbe comportato un terremoto nel panorama geo-politico dei cartelli messicani, e
un nuovo riassetto di poteri ed equilibri, alleanze e protezioni, sia in Messico che in Europa. Ma
questa volta Labate non avrebbe avuto nessun ruolo. A seguito di ciò la figura di Roberto Pagani
assumeva se possibile ancora più importanza e credito, come collante e mediatore tra Messico e
Calabria. Peccato che nessuno sapesse dove fosse. L’unica cosa che Labate sapeva era che Mazzeo
lo stava nascondendo.

“Mazzeo… l’hai sottovalutato, e hai pagato per questo” pensò il calabrese sfilandosi la cravatta
davanti alla vetrata che dava sul centro di Lugano. L’avevano mandato lì per incontrare alcuni
banchieri prima di partire per Dubai. Avrebbe dovuto sbloccare dei fondi e dei conti per portare un
po’ di liquidità con sé. Questione di pochi giorni.

…Non mi vedrai arrivare…, l’aveva minacciato il poliziotto.

All’inizio quell’intimidazione non l’aveva sfiorato.

Ma ora che Mazzeo pareva essere sparito nel nulla, Romeo sentiva una strana sensazione di pericolo
formicolargli addosso.

“Avresti dovuto ucciderlo quando ne avevi l’occasione” si disse.

Non persero tempo a bussare. Sfondarono la porta e fecero irruzione con le armi spianate, neanche
dovessero catturare un boss mafioso. Luca, Zeno, Manuel. I suoi ragazzi.

Lui era seduto col bicchiere ancora in mano. La testa piacevolmente leggera. Vito aveva perso i sensi
ormai da parecchi minuti. Probabilmente era morto. Non si era disturbato di verificarlo. Il sangue si
era allargato sul pavimento fin quasi a raggiungere la porta, tanto che Luca scivolò e cadde a terra.

Lo circondarono e presero la Glock abbandonata sul tavolino insieme al coltello. Lui li osservò
senza muovere un muscolo.

«Siete arrivati tardi» disse.

Zeno toccò la giugulare del collega. «È morto» confermò, allibito.

Avrebbe potuto dire loro cosa aveva fatto Vito. Confessare perché l’aveva ucciso, così come chi
fosse il reale assassino di Varga e Carmine, ma non lo fece. Aveva letto nei loro sguardi che
l’avevano già condannato. Lo attendeva il rogo purificatore della loro vendetta. La vendetta dei suoi
stessi uomini.

«Alzati, Biagio» disse Zeno. Un senso di sconfitta nella voce esitante.


Mazzeo obbedì e gli porse i polsi. Fu Luca ad ammanettarlo mentre Zeno lo teneva sotto tiro.

«Dove volete farlo?» si limitò a chiedere.

«Non qui» rispose sbrigativo Luca perquisendolo e portandogli via la pistola dalla cinta.
«Andiamo».

La “collina dei suicidi”,

“Giungla”

Quando lo fecero scendere e vide dove l’avevano portato, sorrise.

“Se avessi potuto scegliere, avrei scelto esattamente questo posto” pensò, osservando lo spettacolo
di luci della città ai suoi piedi. Si trovavano nel punto più alto della collina. Gli altri li aspettavano
già lì. Rino Vanzan, Franco Speranzon, Mirko Giacchetti, Cristiano, Ronny, Paolo. C’erano tutti. Il
Branco al completo. O meglio: ciò che ne rimaneva.

Lo fecero inginocchiare sul terreno e lo accerchiarono.

«Abbiamo visto il video… Il tuo giuramento su quella barca…» iniziò Franco.

Mazzeo socchiuse gli occhi mentre una sensazione di vergogna e perdita lo pervadeva. Comprese che
Vito doveva averlo infamato non solo con la Piscitelli ma anche con Labate, perché soltanto lui
poteva avergli dato quel video. Biagio rimpianse che l’agonia del ragazzo non si fosse protratta più a
lungo.

«Perché?» chiese Rino.

Mazzeo riaprì gli occhi e rispose senza guardare nessuno in particolare. «Dopo quello che era
successo a Nicky io… dovevo trovare quella puttana. Da solo era impossibile. Così ho chiesto aiuto
a loro, ma hanno voluto qualcosa in cambio… l’ho fatto per lei. Non vi ho detto nulla perché non
volevo mettervi in mezzo».

«Ti rendi conto di cos’hai fatto? Hai ucciso Carmine e Varga. Donna e Miriam. E ora Vito…
perché?» quasi strillò Zeno.

Guardandoli Biagio comprese che qualsiasi cosa avesse potuto dire, non gli avrebbero creduto. Vito
era stato bravo: li aveva convinti della sua colpevolezza. Era troppo tardi per far cambiare loro idea.
«Biagio, per favore, rispondi. Di’ qualcosa… dicci che non c’entri nulla, che è tutto uno sbaglio…»
quasi lo implorò Mirko.

Mazzeo gli rivolse uno sguardo di compassione, come se fosse lui quello sul punto di essere
giustiziato. “Povero Mirko. Tu sì che mi sei sempre stato fedele… e quando lei è morta… hai
sofferto quanto me” pensò il capobranco.

«Mirko ha ragione. Parla!» gridò Luca strattonandolo.

Mazzeo non si scompose. Continuò a stare in silenzio, lo sguardo perso nel vuoto. Dentro, il suo
cuore bruciava. Aveva dato tutto quello che aveva per la sua famiglia. Aveva corrotto, ucciso,
mentito pur di salvaguardarla. E l’aveva fatto solo per amore. Perché li amava. E ora tutto era
imploso. Stava per essere ammazzato non dai calabresi o dai ceceni, ma dai suoi stessi uomini.

«Vito sapeva la verità… è per questo che l’hai ucciso?» chiese Zeno.

Mazzeo non rispose.

«Oscar… anche lui sapeva» rincarò Luca. «Il suo non è stato un incidente, vero? L’hai fatto uccidere
tu… per proteggerti».

Al nome di Oscar qualcosa nella maschera di ghiaccio di Biagio si ruppe e una lacrima silenziosa
solcò il suo viso.

«Sta piangendo» disse Cristiano. «Vuol dire che è vero, solo che non ha nemmeno le palle di
ammetterlo… Ha ucciso Oscar così come ha ucciso Giorgio e Carmine…».

«E Vito…» aggiunse Zeno.

Biagio continuava a tacere. Ogni loro parola era una pietra. Lo stavano lapidando vivo.

Luca circondò gli altri con lo sguardo e allargò le braccia. «È chiaro che il suo silenzio è
un’ammissione di colpa… Mi pare che abbiamo tutte le prove che ci servivano, no? Ci ha traditi e ha
ucciso i suoi stessi uomini… cosa cazzo stiamo aspettando?».

«Biagio…» accennò Mirko. Ma anche la sua voce era incrinata dal dubbio e dal sospetto. Anche lui
era passato dalla loro parte. Tra loro non c’era più nessuno dalla sua parte.

«Dov’è il bambino, Biagio? Sii uomo almeno in questo. Dicci dov’è così almeno potremo prenderci
cura di lui» disse Luca.

Silenzio.

«Biagio, ha ragione. Dov’è il bambino?» quasi lo implorò Piombo.

«O ti sei sbarazzato pure di lui?» chiese Zeno.


«È così, Biagio?» chiese Rino. «Hai ucciso anche tuo figlio?».

Biagio ormai nemmeno li ascoltava. Fissava le tremolanti luci della città in lontananza e solo ora si
rendeva conto di quanto la Giungla fosse bella. Si pentì di non aver mai portato Nicky lassù, di notte,
per farle vedere quella meraviglia. Le sarebbe piaciuta. No, sarebbe impazzita e si sarebbe fatta
riportare là tutte le notti, perché era uguale a lui.

Gli uomini della Narco si scambiarono uno sguardo d’intesa e poi agirono come se stessero seguendo
un copione. Ognuno di loro estrasse la propria arma e la puntò contro quello che era stato il loro
capo. Tutti. Anche Mirko, nonostante la mano gli tremasse.

«Ci hai deluso, Biagio… ti sei rivelato per quello che sei: un mostro» gli sputò addosso Luca.

Biagio preferì guardare le bocche delle nove pistole puntate contro di lui anziché gli occhi brillanti
d’odio dei suoi uomini.

«Sei stato tu a insegnarcelo» disse Zeno. «Il Branco non perdona le spie».

Sarebbe potuta finire così, con un’esecuzione che l’avrebbe ricongiunto alle persone che aveva
amato.

Ma non poteva finire così. Non poteva permetterlo. Non perché avesse paura di morire, ma perché li
amava troppo, nonostante tutto. Se lui fosse morto, i calabresi li avrebbero uccisi uno dopo l’altro
per paura che fossero a conoscenza di qualche segreto, Biagio ne era certo. Li avrebbero rapiti e
torturati come avevano fatto con Varga pur di farsi dire dov’era Pagani. Biagio aveva visto come
avevano ridotto Giorgio, e non avrebbe augurato quel trattamento a nessuno. Tantomeno a loro che
amava ancora di un amore folle e inspiegabile.

No, non poteva morire.

Non ancora.

«Se mi uccidete morirete tutti» disse, cristallizzandoli.

«Cosa stai…» iniziò a dire Luca.

«Sta’ zitto» lo gelò Biagio, la voce imperiosa come una volta. «Ho rapito un loro broker, quello che è
su tutti i giornali. È l’unica moneta di scambio che mi permette di tenere il gioco in stallo con loro.
Solo io so dov’è. Se mi uccidete, lo scopriranno, e penseranno che ci siete anche voi dietro il
rapimento».

I poliziotti ammutolirono.

«Vi cercheranno, vi troveranno e vi tortureranno fino alla morte. Non vi crederanno, diranno che
eravate d’accordo con me, e non serviranno a nulla le vostre parole… Avete visto come hanno
ridotto Giorgio, no? Con voi faranno anche di peggio perché sono disperati… No. Non potete
uccidermi, perché la vostra vita dipende dalla mia».

Zeno e gli altri si fissarono confusi.

Biagio si alzò in piedi, le pistole sempre puntate contro.

«Questa storia non vi riguarda. Finora ho fatto di tutto per lasciarvi fuori. Ma se mi uccidete, allora
verranno da voi e dalle vostre famiglie… abbassate quelle cazzo di armi, a meno che non vogliate
suicidarvi».

«Cioè ci stai dicendo che dovremmo lasciarti andare? Che finisce così, con te che te ne vai dopo
tutto ciò che hai fatto?» chiese Zeno rabbioso.

Biagio lo fissò. Qualcosa nei suoi occhi costrinse Zeno a distogliere lo sguardo.

«Pagherò io per tutti come è giusto che sia. Se terrete la bocca chiusa, ve la caverete. Andatevene e
tornate dalle vostre famiglie… È finita».

La situazione si era capovolta: ora era quell’uomo in manette a ordinare loro cosa fare. E il suo tono
non ammetteva repliche.

«No…».

«Preferisci che si rifacciano su tua moglie, Luca?» ribatté Mazzeo.

«Figlio di puttana…».

«Forza, liberatemi e levatevi dal cazzo. Tutti».

Prima una e poi a seguire tutte le altre, le pistole si abbassarono.

«Cioè ti lasciamo andare e poi…».

«Non mi vedrete più».

«Dove andrai?» chiese Mirko.

Mazzeo non gli rispose.

«Incredibile» rise Luca. «Ci stai dicendo che hai vinto tu, Biagio?».

«Svegliati, bellezza. Non ha vinto nessuno in questa storia».

«Cristo… Devi giurare che non tornerai mai più…» iniziò Zeno. «Ti devi dimenticare di questa città,
perché se solo ci rimetterai piede, ti ammazzerò con queste mani».
«Prova a tornare e ti ammazziamo, Biagio» si accodò Luca. «Puoi starne certo».

Zeno gli sputò sugli anfibi e lasciò cadere per terra le chiavi delle manette. Si voltò e se ne andò
imitato dagli altri.

«Non tornare, Biagio» disse Rino.

Luca Zorzi gli gettò ai piedi le chiavi della sua auto che aveva guidato fin lì con l’idea di
sbarazzarsene una volta finito con lui. «Mi fai schifo, Biagio… spero che la notte tu non riesca a
dormire. Non tornare mai più…».

Biagio Mazzeo rimase solo. Sentì i motori delle loro auto accendersi e poi li vide sfilare via uno
dopo l’altro, abbandonandolo al suo destino.

Si chinò, raccolse le chiavi e si tolse le manette che allacciò alla cinta.

Si voltò e camminò fino a raggiungere il ciglio dell’altura. Fissò la città dall’alto, perdendosi nella
sua bellezza notturna.

La osservò a lungo come se volesse imprimersi nella memoria ogni singolo particolare.

Era l’ultima volta che la vedeva.

Il puttaniere aprì la portiera per far entrare la ragazzina.

Non fece in tempo a vederlo.

Qualcuno gli afferrò il polso e tirò il braccio fuori dall’auto con una brutalità ferina. Lo sconosciuto
gli chiuse la porta contro l’avambraccio con così tanta violenza da spezzargli il radio e l’ulna. Per
accertarsene, gli schiantò la portiera sul braccio altre tre volte, con ancora più forza. Quando ebbe
finito, lo trascinò fuori dall’auto facendolo crollare sull’asfalto. Il braccio sembrava uno spaghetto
scotto.

«Questo è quello che accade a chi va con le bambine» disse l’uomo dagli occhi celeste elettrico
strattonandolo per i capelli. Lo lasciò andare e ghermì la ragazzina per un braccio, buttandola dentro
la sua auto, sordo alle sue rimostranze, e partì via a razzo.

Si fermò davanti alla stazione degli autobus. Aveva rischiato grosso a fare quella pazzia, ma quando
aveva visto Vanja sul punto di entrare in quella macchina aveva perso la testa. Lei aveva continuato a
gridargli contro per tutto il tragitto, urlandogli che era un pazzo, che le aveva rovinato la piazza, che
non avrebbe più trovato un cliente. Lui aveva continuato a guidare in silenzio immerso nei suoi
pensieri, gli occhi incollati allo specchietto.
«Perché cazzo ti sei fermato qui?» disse la ragazzina.

Somigliava così tanto a Nicky che ogni sguardo era una coltellata in pieno petto.

«Io non capisco cosa diavolo vuoi da me, sbirro di merda che non sei…».

Biagio le mise in mano due mazzette di contante. «Sono trentamila euro. Non è tantissimo, ma è
abbastanza…».

«Abbastanza per cosa?».

Biagio le prese dolcemente la testa tra le mani e la fissò nonostante il dolore che questo gli
provocasse. «Tu devi salvarti, capito? Devi salvarti. Vattene da questa cazzo di città e da questo
Paese. Ricomincia da qualche altra parte, tornatene a casa, ma vattene da qui. Ora hai i soldi per
farlo…».

La ragazzina fece rimbalzare gli occhi dal viso del poliziotto ai fasci di soldi che le aveva dato. Non
capiva.

Mazzeo le strinse il viso più forte come per attirare tutta la sua attenzione. «Ti prego, vattene via.
D’ora in poi non fidarti di nessuno, capito? Di nessuno… Almeno tu, ti prego… almeno tu, salvati»
la implorò senza un battito di ciglia, gli occhi lucidi. «Promettimelo».

«Sì» balbettò Vanja confusa.

Biagio l’abbracciò forte e la baciò a lungo sulla fronte come se stesse baciando non lei ma la
ragazzina che aveva perduto.

«Cosa ti è successo?» chiese Vanja, spaventata.

«Ricordati: hai promesso… ora devo andare. C’è un bus che parte ogni mezz’ora. Francia, Germania,
Svizzera, Austria… ce n’è uno per qualsiasi posto…».

«Ma io… adesso?».

«Adesso».

Biagio le infilò nella borsa una delle sue carte di credito. Aveva inciso il pin sul retro. Lui non
avrebbe più potuto usarla ma lei sì.

«Scendi e non tornare mai più».

«Ma… e tu?».

«Io cosa?».
«Perché non posso restare con te?»

Mazzeo, paziente, le spiegò cosa avrebbe dovuto dire agli agenti della dogana e le chiese se aveva
capito.

Lei annuì. Era solo una bambina ma era sveglia. Proprio come lei.

«Stai lontana dalla strada, piccola» disse accarezzandola. Si sporse e le aprì la portiera. «Ora vai».

La ragazzina scese dall’auto ed entrò nella stazione.

Negli anni a seguire Vanja non avrebbe mai capito perché aveva dato retta al poliziotto quella notte.
Si sarebbe solo ricordata di essersi messa le cuffiette dell’iPhone, aver fatto partire Shells of Silver
dei Japanese Popstars ed essersi avvicinata alla biglietteria, comprando il primo biglietto per
Berlino. Dell’uomo che l’aveva salvata non avrebbe mai dimenticato gli occhi di quel celeste
straordinario e come l’aveva visto andare via, uno spettro in una città di fantasmi.

«Come sta il tuo amico?» chiese Pagani appena Mazzeo entrò nel rifugio.

«Diciamo che ha visto giorni migliori… Hai fatto quello che ti avevo detto?».

Il broker gli lanciò il registratore. Biagio se lo rigirò tra le mani e lo infilò in tasca. «C’è tutto?».

«Tutto quanto».

«Bene… Un pezzo grosso come te ha cassette di sicurezza con dentro soldi e documenti falsi in
qualsiasi parte del mondo. Dimmi dov’è quella più vicina e non provare a mentirmi».

«Prima dimmi dove siamo».

Biagio glielo disse e Pagani gli diede una manciata di indirizzi.

«Di quanti soldi stiamo parlando?» chiese il poliziotto.

«Abbastanza da sparire… cos’hai in mente?».

«Te l’ho già detto: ti consegnerò a Carbone, poi saranno cazzi suoi».

Pagani sospirò come se avesse messo da un pezzo una pietra sopra il proprio destino.

«Tu sai chi c’è sopra Labate, vero? Chi tira le fila?».

«Direi proprio di sì».


«E magari sai anche come contattarlo…».

«Perché?».

Biagio strappò il disegno di Nicky dal muro e se lo mise in tasca. «Ti consiglio di farti una bella
pisciata perché ci aspetta un lungo viaggio».

In macchina Biagio fece partire la registrazione del broker. Due ore dopo Pagani nell’audio stava
ancora facendo nomi e sputtanando ruoli e metodi di trasporto tra l’Italia e New York. Anita Gennaro
e i suoi colleghi all’FBI avrebbero fatto festa per un mese, si disse Mazzeo spegnendo il registratore.
Almeno qualcuno avrebbe vinto in quella brutta storia.

«Ehi, puoi tirare il fiato, siamo appena entrati in Slovenia» gridò Mazzeo a Pagani che viaggiava in
business class ammanettato nel baule dell’auto.

Il broker non replicò. Non poteva. Biagio l’aveva imbavagliato prima di partire.

Mazzeo vide sfilare via sullo specchietto retrovisore il confine con l’Italia.

Lasciare il Paese era stata una passeggiata.

Il bello iniziava ora.

Quattro giorni dopo,

Brooklyn, New York

Antonio Gualtieri aveva cercato in tutti i modi di evitare di presenziare alla conferenza stampa, ma
non c’era stato verso. Tutti volevano che fosse presente. Sia gli americani che gli italiani. D’altronde
era stato lui l’ispiratore di quell’inchiesta, ed era stato sempre lui a tenere i contatti con l’agente
infiltrato che aveva spezzato il ponte tra le famiglie calabresi e quella mafiosa dei Gambino a New
York. Per quanto odiasse i riflettori, tutti lo consideravano una star e fremevano per sentirlo parlare
dell’operazione. Ovviamente a parte Carbone e Corvetto tutti ignoravano che quell’agente infiltrato
non era altro che una loro invenzione per giustificare l’oscuro flusso di informazioni riservate.

Seduto tra il procuratore federale di Brooklyn e l’agente speciale Anita Gennaro dell’FBI, il
magistrato italiano sperava solo che quella farsa finisse in fretta. Il risultato ottenuto era sicuramente
eccellente: quaranta persone indagate, una decina di arresti a New York e una quindicina in Italia,
quattrocento chili di cocaina e due tonnellate di eroina sequestrate, e si era soltanto all’inizio. Ma le
modalità con cui le informazioni erano arrivate e il patto di segretezza a cui sia Corvetto che Carbone
gli avevano ordinato di attenersi gli davano il voltastomaco.

“L’importante è che quei criminali siano finiti in carcere, il come non è un problema così rilevante”
gli aveva detto l’uomo dei Servizi al cellulare.

Antonio gli aveva chiuso il telefono in faccia. Lui non lavorava in quel modo. Se aveva accettato era
solo perché l’avevano ricattato.

Realizzò che sulla sala era piombato un silenzio irreale e tutti gli occhi erano puntati su di lui.
Dovevano avergli fatto una domanda ma non aveva idea di cosa gli avessero chiesto. I dirigenti in
alta uniforme dello SCO e dello SCIP della Polizia italiana lo stavano bruciando con gli sguardi.

«Le hanno chiesto una dichiarazione, dottore» intervenne in suo aiuto la donna dell’FBI.

Gualtieri si avvicinò al microfono panoramico.

«Con l’operazione New Era siamo riusciti a dimostrare, ancora una volta, tutta la potenza della
’ndrangheta a New York, tanto da essere in posizione predominante rispetto a Cosa Nostra. I
Gambino compravano eroina dai calabresi, eroina proveniente dall’Afghanistan, via Turchia,
Albania e quindi Italia. C’è una ripresa del consumo di eroina in Italia come qui negli Stati Uniti sia
perché si è abbassato il prezzo, sia perché i talebani ne stanno producendo una quantità enorme»
improvvisò. «Con i calabresi, poi, Cosa Nostra stava organizzando importazioni di cocaina dagli
Stati Uniti in Italia, anche con il concorso dei cartelli messicani, per cinquecento chili al mese.
Ormai è da anni che affermiamo che la ’ndrangheta è la prima organizzazione criminale in Europa,
primo attore nel traffico internazionale di cocaina. L’inchiesta conclusa oggi dimostra che il primato
non è solo europeo ma internazionale, anche per quanto riguarda l’eroina».

Quando uno dei giornalisti gli chiese se potesse dare qualche informazione aggiuntiva sul famoso
infiltrato che aveva permesso di sgominare il traffico di droga, Gualtieri fu lapidario.

«No» rispose secco.

«Non può dirci nemmeno se è americano o italiano?».

«No comment».

Un altro reporter chiese di fare luce anche su una strana scia di omicidi tra l’Italia, New York e il
Messico e gli domandò se ci fosse una correlazione tra quei delitti e l’operazione.

Gualtieri vide Joseph Carbone in fondo alla sala che gli fece l’occhiolino. Il procuratore americano
gli diede di gomito. I cronisti aspettavano una sua risposta.

«Sì, certo… Sì, è vero. Gli inquirenti hanno scoperto una serie di omicidi: esecuzioni cruente e
spietate, ma su cui sono ancora in corso le indagini, quindi non mi sento di affermare o negare un
legame con i crimini di cui lei parla. Sarà un lavoro lungo, ma non ci tireremo indietro».

«Chiedo scusa» intervenne un altro cronista. «Da dove arriva l’eroina che i calabresi stavano
importando? Lei parla di talebani, ma che relazione c’è tra terrorismo islamico e mafia calabrese?».

“Bella domanda” pensò Gualtieri. «Non posso rispondere a questa domanda perché l’indagine è
ancora in corso e ci sono dei dettagli che per ora devono rimanere riservati».

Quando pensava che le domande fossero finite, dalle retrovie una giornalista gli chiese se ci fossero
novità sul narcobroker della ’ndrangheta Roberto Pagani.

«Al momento no» rispose Gualtieri.

«Ma pensa che Pagani avesse un ruolo in questo ponte?» insistette la giovane.

Sulla sala calò di nuovo un silenzio irreale.

Gualtieri buttò giù qualche sorso d’acqua per prendere tempo e tornò a guardare l’uomo della DEA.
Questa volta l’americano non sorrideva. Bada a quello che dici, sembrava dire il suo sguardo.

Antonio Gualtieri decise di fottersene e lanciò un messaggio ben preciso a tutti quei capoccioni della
guerra al narcotraffico presenti.

«Pagani non è che avesse un ruolo nel ponte, signorina… Roberto Pagani è quel ponte».

In seguito a quella risposta decine di braccia si alzarono tra il pubblico ma il magistrato disse che si
scusava tanto ma aveva un aereo da prendere. Si alzò e lasciò la sala. Andò in bagno per pisciare e
quando uscì, Joseph Carbone lo aspettava a braccia incrociate vicino al distributore di fazzoletti.

«L’ultima esternazione poteva risparmiarsela, dottore».

«A dire il vero potevo risparmiarmi tutta questa pagliacciata, Carbone».

«È giusto che la gente sappia che anche i buoni vincono».

Gualtieri rise. «Bella questa… perché non va a dirlo alla lapide di Pablo Montoya in Colombia?».

«Lei ha proprio un carattere di merda, Gualtieri, se lo lasci dire».

«Mi dica lei una cosa invece» disse il magistrato fissandolo negli occhi. «Lei sa dov’è Pagani ora?».

«Mi creda, dottore, vorrei davvero saperlo, ma non ne ho la minima idea… Ci vediamo in Italia»
disse Carbone, e se ne andò.

Antonio si lavò le mani e si guardò nello specchio. Non ci avrebbe messo la mano sul fuoco, ma
aveva avuto la netta sensazione che per la prima volta Joseph Carbone gli avesse detto la verità.

Lugano, Svizzera

Romeo Labate ci aveva visto giusto. Non avevano lasciato passare nemmeno cinque giorni
dall’omicidio della sindaca che l’avevano arrestato. Cinque giorni, il tempo per organizzare un blitz
supportato da un bel lavoro di pianificazione e di intelligence, o i giorni necessari per mettere in
piedi un nuovo accordo con gli emissari del governo. Perché il numero uno di Sinaloa, el jefe de
jefes, era stato catturato vivo dai marines messicani delle Fuerzas Especiales. E questo di per sé la
diceva lunga, perché di solito gli uomini del FES non facevano prigionieri, soprattutto tra i narcos.
Così come era sospetto il luogo dove l’avevano trovato: Los Mochis, nello Stato di Sinaloa,
praticamente a casa sua. Il presidente messicano gongolava sui social network e Labate stentava a
credere che qualcuno si bevesse davvero la versione ufficiale secondo cui El Padrino era stato
catturato grazie al fatto che stava prendendo contatti per fare un film. Conoscendo il bastardo e le sue
manie di grandezza, Labate era certo che la storia del film fosse vera, ma la cattura era avvenuta solo
perché il messicano aveva stretto un nuovo patto con chi di dovere e si era fatto ricatturare. Alle sue
condizioni. La prova ineluttabile di ciò era che l’avrebbero rinchiuso nello stesso carcere federale
da cui era fuggito due volte. Era chiaro che si trattava dell’ennesima manovra politica. Il calabrese
era certo che in seno al cartello e alla lotta ai narcotraficantes non sarebbe cambiato nulla a parte il
prezzo della coca che per qualche settimana sarebbe salito alle stelle garantendo a Sinaloa
un’iniezione di contante tale da potersi comprare – se possibile – ancora più potere politico in
Messico, ma soprattutto negli Estados Unidos.

“E comunque puoi anche dimenticarti di tutte queste cose” pensò rientrando nel suo appartamento nel
centro di Lugano. “Ormai sei stato messo in panchina… e probabilmente starà meglio El Chapo in
carcere che tu a Dubai”.

Labate entrò in casa ma la luce non si accese in automatico. Strano. Si disse che forse i rilevatori di
movimento dovevano aver fatto cilecca. Il fuoco era acceso nel camino, segno che sua moglie era in
casa.

«Vittoria, tutto ok?» la chiamò.

Per precauzione impugnò la pistola da cui ormai non si separava mai e si tastò il giubbotto
antiproiettile, diventato un accessorio irrinunciabile fintanto che Mazzeo non fosse stato ucciso o
arrestato.

Disinserì la sicura e puntò l’arma. Provò ad accendere manualmente le luci ma sembrava che la
corrente fosse saltata.
Troppo strano, si disse, pervaso da un sinistro senso di allarme.

Estrasse il cellulare per chiamare i suoi uomini quando qualcuno gli strappò l’arma di mano. Non
fece in tempo a rendersi conto di venire intrappolato in una presa di soffocamento da due braccia
possenti che non gli diedero modo di reagire. Si sentì spingere la testa in avanti senza che potesse
fare nulla. Gli mancò l’aria e la pressione corporea s’alzò facendogli girare la testa. Avvertì un
dolore lancinante alla gola e la vista si offuscò. Dopo una manciata di secondi il flusso di ossigeno e
sangue al cervello si arrestò e Romeo Labate si accasciò a terra senza sensi.

Quando rinvenne era tornata l’elettricità.

Vide Mazzeo davanti a sé, seduto su una poltrona, intenta a osservarsi le grosse mani. L’ex poliziotto
indossava una tuta bianca simile a quella degli operatori della Scientifica.

Biagio notò che si era svegliato.

«Sai quasi tutto di me, ma non so se sai che negli ultimi anni ho sofferto di artrite alle nocche. La
chiamano artrite reumatoide. I medici hanno detto che mi è venuta perché ho causato troppe
sollecitazioni violente alle ossa… Ovviamente hanno ragione. Queste mani… beh, le ho usate
abbastanza…».

Labate provava dolore per lo straccio che lo sbirro gli aveva ficcato in bocca, per poi avvolgerle
intorno una cintura di cuoio e sopra diverse passate di nastro da pacchi. Provò ad allargare le
braccia, ma gli aveva legato i polsi dietro la schiena con delle fascette stringitubi.

Cercò con gli occhi la moglie. La trovò legata a una sedia in prossimità del camino. Aveva
imbavagliato anche lei.

«Dicevo, quindi non posso più picchiare come una volta. O se lo faccio, poi impazzisco dal dolore…
È un peccato, perché sono un uomo pratico, mi piace lavorare con le mani, credo di aver preso da
mio padre… e quando in questi giorni stavo pensando a come ucciderti…».

Vittoria si contorse al suono di quelle parole.

«…Mi son detto: Labate te l’ha fatta troppo grossa, devi risolverla alla vecchia maniera, senza
pistole né coltelli. Così sai cos’ho fatto? Dopo averti tenuto d’occhio per due giorni, sono andato in
una clinica privata qui in zona dicendo che ero un pugile e che volevo combattere per l’ultima volta
in carriera, se potevano fare qualcosa in merito alle mie nocche. Non hanno voluto nemmeno vedere
un documento, solo il contante. È stato Pagani a suggerirmi il posto… mi hanno fatto delle punture e
ora, guarda» disse Biagio aprendo e serrando i pugni dalle nocche sporgenti e segnate. «Mi sembra
di essere tornato un teppista di diciott’anni…» sorrise.

Labate scattò in piedi e Mazzeo lo rispinse sul divano con una manata. Indossò dei guanti di pelle e
poi spostò quegli occhi di ghiaccio sul calabrese. Era la prima volta che lo fissava da quando aveva
ripreso conoscenza. Il suo sguardo bruciava di follia assassina.

«Sono stati i tuoi a dirmi dove trovarti. È bastato fargli sentire per telefono la voce di Pagani e
minacciarli che l’avrei portato direttamente da quel giudice rompicoglioni, come si chiama…
Gualtieri, ecco. Ho patteggiato la cattura di Pagani col tuo prepensionamento. Il Crimine,
Capocrimine, Infinito o come cazzo si chiama si è messo d’accordo direttamente con Pagani, e di
comune accordo ti hanno posato… La sua libertà per la tua vita…».

Mazzeo si alzò. Labate notò sulla poltrona dove si era seduto l’ex sbirro un’automatica silenziata.
Sperò che la usasse.

«Se tu non mi avessi ingannato, Carmine e Varga sarebbero ancora vivi… Tu mi hai fatto male in un
modo che non hai nemmeno idea. Mi hai dato la speranza, la speranza che potevo trovarla e
vendicarmi di lei, e in quel momento… cazzo, era l’unica cosa che mi teneva in vita…».

Labate provò a pensare a una soluzione per uscire da quel casino, ma non c’era modo. Sperò solo che
lasciasse stare sua moglie.

«Immagino che ti sia divertito a illudermi, a raccontarmi le tue puttanate sugli avvistamenti, sulle
false piste, a vedere come mi sporcavo sempre di più per te, vero?» disse Mazzeo infilandosi il
cappuccio elastico della tuta protettiva.

Labate lanciò un ultimo sguardo alla moglie poi chiuse gli occhi.

«Ora sarò io a divertirmi…» disse Biagio sferrando il primo pugno che spappolò il naso dello
’ndranghetista.

Con una furia disumana Mazzeo lo massacrò a mani nude davanti agli occhi sbarrati della moglie.

Quando finì aveva il fiatone. L’anestesia aveva funzionato alla grande perché non aveva provato il
minimo dolore. Era come se le mani gli fossero diventate di piombo. Soddisfatto fissò l’ammasso di
carne sanguinolento rincantucciato per terra. La moglie aveva chiuso gli occhi a un certo punto e
Biagio l’aveva costretta a riaprirgli macchiandole il viso col sangue del marito.

Ora tremava imprigionata alla sedia. Ai piedi una pozza d’urina. Mazzeo non provava nulla. Pagani
gli aveva detto che era una ’ndranghetista anche lei e che forse era peggio del marito, che si affidava
a lei come consigliera. Probabilmente era stata la moglie a suggerirgli di fotterlo.

Biagio afferrò il cadavere per un braccio e lo trascinò fino a scaraventarlo dentro il grosso
caminetto.

«Guarda come brucia…» disse alla donna dopo qualche minuto. «E dire che avrei giurato che i pezzi
di merda fossero incombustibili…».

La donna piangeva e si dibatteva sulla sedia.

Biagio andò in bagno, si tolse i guanti e il cappuccio. Si lavò con cura le mani e il viso e poi tornò in
salone, indossando dei guanti in lattice. L’aria puzzava di carne bruciata. L’olezzo era tanto forte da
far lacrimare gli occhi.

«Io vado via, gioia, prima che i vicini si lamentino per la grigliata…».

La donna non faceva parte dell’accordo.

Biagio la fissò chiedendosi cosa dovesse fare ma il suo istinto decise per lui. Aveva già lasciato in
vita una volta una donna innamorata e assetata di vendetta.

Non avrebbe commesso due volte lo stesso errore.

«Mi dispiace» disse scrollando le spalle. «Ma non credo che ci sia spazio per tutti e due nel
camino…».

Vittoria sbarrò gli occhi.

Mazzeo impugnò l’arma silenziata e fece fuoco tre volte.

Con calma sfilò il silenziatore e raggiunse l’ingresso senza guardarsi indietro.

Tirò fuori il cellulare e chiamò lui stesso la polizia, denunciando l’omicidio e dando all’operatore
l’indirizzo della casa.

Si tolse i calzari e la tuta protettiva in tyvek e cacciò tutto dentro uno zaino.

Aveva sperato che far fuori Labate alleviasse i sensi di colpa per Varga e Carmine.

Non era così.

Quando sentì le sirene, lasciò la casa saltando nel giardino dei vicini e da lì correndo fuori
attraverso una via di fuga che aveva studiato nei giorni precedenti, raggiunse un dedalo di viuzze che
percorse a passo spedito. Gli uomini che gli avevano mandato i calabresi per seguirlo dovevano
essersi allontanati spaventati dalle autopattuglie, come aveva previsto.

Biagio raggiunse la moto che aveva noleggiato in contanti, montò in sella e si dileguò nella notte.

Mancava ormai poco alla fine di quella brutta storia, si disse.

Pochissimo.
Epilogo
Una settimana dopo,

El Paso,Texas

Mazzeo si svegliò di soprassalto. Aveva sognato di nuovo quella notte. Si passò le mani sul viso e
poggiò i piedi a terra, tirando il fiato. Ormai non riusciva a dormire per più di due, tre ore per notte.
Gli incubi lo tormentavano. Quando non era Nicky, sognava Varga e Carmine, o Donna e Miriam.
Dopo, era impossibile riaddormentarsi. La paura di sognarli di nuovo glielo impediva.

Le lame di luce penetravano le tapparelle tagliando a fette la stanza. Guardò l’ora. Mezz’ora e
sarebbero arrivati. Lanciò un’occhiata a Pagani. Dormiva ancora ammanettato al radiatore. Uno
straccio in bocca, e un completo spiegazzato a dargli un’aria da uomo d’affari reduce da una notte di
bagordi. Il broker era stato di vitale importanza per la fuga. Avevano cambiato passaporti tre volte
attraversando mezza Europa, seguendo le sue cassette di sicurezza dislocate in quattro Paesi. Alla
fine i passaporti che avevano usato per entrare negli USA glieli aveva procurati un suo contatto, un
ufficiale della Guardia Civil spagnola. Si era fatto pagare diecimila a documento il figlio di puttana,
ma ne era valsa la pena. Alla dogana non avevano battuto ciglio.

Biagio si rivestì e svegliò il broker con qualche schiaffetto. Una sosta in bagno e poi tornò nella
stanza da letto del motel a ore. Il cellulare prepagato vibrò per un messaggio ricevuto. Carbone.
Quindici minuti e sono da voi.

Un quarto d’ora e tutto sarebbe finito.

L’ex poliziotto liberò Pagani e gli tolse lo straccio di bocca. «Vatti a dare una rinfrescata. Sta
arrivando».

Quando tornò, Mazzeo era sul letto che fissava il disegno rattrappito. Era l’unica cosa, insieme
all’anello, che gli era rimasta della sua vita precedente. Per qualche oscura ragione Pagani provò
pena per quell’uomo che aveva perso tutto.

«La DEA sta arrivando… Ancora qualche minuto e non mi vedrai più» disse Mazzeo rinfoderando il
foglio di carta.

Un’alba struggente illividiva il cielo. Pagani gli si sedette a fianco e senza nemmeno sapere perché si
confidò. «Mazzeo, alzati e va’ via».

«Scusami?».

«Scappa… sei ancora in tempo… vattene via».


«Perché?».

«Ti uccideranno».

«Sai quanto me ne fotte? Ma non credo che lo faranno… sono federali…».

«Ti hanno fottuto. Joseph Carbone è un capocentro della CIA di stanza in Italia. È l’uomo che si
occupa di tenere le mafie sotto controllo. La storia della DEA è solo una copertura. Quel bastardo è
un figlio di puttana della CIA».

Questo spiegava molte cose, pensò Biagio. «DEA, FBI, CIA, che cazzo vuoi che me ne freghi a
questo punto?».

«Tu non capisci… la storia è molto più grande di quello che pensi».

«Tu che ne sai?».

«Cristo, ma ancora non l’hai capito che lavoro per loro?» sbottò.

Mazzeo impallidì.

«Tutto il macello che hanno fatto per liberarmi, il motivo per cui hanno messo in mezzo uno sbirro
corrotto come te, è solo perché non volevano che scoppiasse il casino».

«Quale casino?».

«Ascoltami, alzati e vattene prima che sia troppo tardi…».

«No. Spiegami. Quale casino?».

«Le mie navi non portano più solo droga…».

«Di che cazzo stai parlando?».

Pagani distolse lo sguardo.

Mazzeo lo afferrò per il collo e gli intimò di spiegarsi.

«Ti sei mai chiesto che fine fanno tutte le armi usate o sequestrate nelle guerre come in Iraq,
Afghanistan, eccetera? Dovrebbero essere messe su una nave e distrutte, no? Neutralizzazione viene
chiamata in gergo militare. E secondo te gli Stati Uniti sprecherebbero tonnellate e tonnellate di
armamenti così?».

«…».

«I cartelli hanno bisogno di armamenti militari, roba pesante. Ormai un quinto della coca la paghiamo
così, con armamento bellico. Le stesse armi che i marines usano in Medioriente… ma non solo i
messicani. Gli americani ci usano come distributori di quelle armi in tutto il mondo. Chi cazzo credi
che le faccia avere all’Isis, o Al-Shabaab, Hamas ed Hezbollah? Loro ci inondano di soldi ed eroina
e noi forniamo loro le armi… la CIA, o comunque il gruppetto di spie di cui Carbone fa parte, sa
tutto e ci dice chi rifornire e chi no. I calabresi sono dentro questo sistema da anni. Sono azionari
delle maggiori industrie di armi legali, ed esportano armi legalmente in Qatar per novanta milioni di
euro all’anno… ma hai idea del mercato illegale che gestiamo? Ci frutta almeno un miliardo di euro
all’anno. Almeno. Insieme alle armi legali, ne viaggia come minimo il quadruplo di stampo illegale.
E sto parlando anche di munizionamento all’uranio impoverito, armi chimiche e bombe al fosforo».

Mazzeo lo lasciò andare. Pagani parlava con l’entusiasmo e l’arroganza dei grandi capitani
d’industria. All’ex poliziotto venne voglia di spezzargli il collo.

«Non sto parlando di AK-47 del cazzo, capisci?… Sto parlando di armamento da guerra… Kuwait,
Arabia Saudita, Qatar e tutti gli altri stati islamici continuano a fare affari con l’Italia solo perché
sottobanco gli passiamo le armi che poi distribuiscono a tutti i gruppi estremisti… Le commesse da
otto miliardi di euro all’anno che le lobby italiane incassano dall’Arabia sono niente. A loro
interessano le armi, nient’altro, mentre gli italiani pensano solo a non far fallire il sistema. Gli
americani si appoggiano alla ’ndrangheta, e quindi a me, per distribuire le armi in tutto il mondo.
Turchia, Siria, Colombia, Messico. È come se fossimo dei grossisti. Le armi provenienti soprattutto
dai vecchi armamenti dell’ex Jugoslavia viaggiano sui miei mercantili e sugli aerei cargo delle mie
aziende e io le porto alle FARC, così come a Daesh o Al-Qaeda…».

Biagio pensò a tutti i colleghi morti in conflitti a fuoco per sequestrare nemmeno due etti di neve, e
gli si annodò lo stomaco al pensiero di chi reggesse davvero quel gioco mortale. «Carbone sapeva
tutto questo?» chiese, incredulo.

«No, non hai capito: Carbone è dietro a tutto questo… Sycamore Tree. Questo è il nome
dell’operazione. Doveva essere un qualcosa di segreto, ma la missione gli è scoppiata tra le mani».

«Ma scusa… perché mai dovrebbero fare una cosa del genere?».

«La lotta al terrorismo ha le stesse dinamiche interne della lotta al narcotraffico. Loro non si
espongono, affidando tutti i rischi a me. Se dovessero beccarci, avrebbero l’agnello sacrificale:
l’organizzazione mafiosa italiana che sovvenziona e fa affari con i terroristi. Semplice, no? Cattivi
che fanno affari con cattivi ancora più cattivi… Loro ci danno protezione e noi in cambio li aiutiamo
a creare il terrore. È per questa ragione che quegli idioti di Sinaloa avevano perso in partenza. Noi
avevamo protezioni molto più in alto dei narcotraficantes del Cartel… C’è una montagna di denaro
in ballo. E dove c’è denaro c’è ’ndrangheta. Se ci pensi bene il percorso seguito dalle armi è lo
stesso della droga. Per me non cambia niente utilizzare Gioia Tauro per la coca o per razzi Katjuša. A
me non interessa il carico, mi importa solo che tutto fili liscio e che mi paghino. Il casino è scoppiato
perché quando mi hanno arrestato avevo tre navi piene di testate…».

«Bloccati qua» lo fermò Mazzeo. «Lo sai che ti dico? Dei vostri giochetti, delle vostre operazioni e
delle vostre cazzo di guerre non me ne fotte nulla… Le tue giustificazioni, così come i tuoi miliardi,
puoi sbatterli in faccia a chi vuoi, ma non a me. Non siete che pezzi di merda. Tutti, dal primo
all’ultimo… e adesso fammi un favore: chiudi quella cazzo di bocca».

Un rumore di auto in avvicinamento catturò la loro attenzione. Biagio si alzò e scostò la veneziana.
Due Suv neri erano appena entrati nel parcheggio del motel.

«Alzati. I tuoi amichetti sono arrivati» disse Mazzeo indossando il giubbotto.

Dai fuoristrada oltre a Carbone scesero quattro uomini armati che circondarono Mazzeo e Pagani
tenendoli sotto tiro.

«Sei armato?» chiese Joseph.

Biagio scosse la testa.

Joe lo colpì con un violento gancio al viso. Carbone era un sessantenne coriaceo di un metro e
novanta. Quel colpo avrebbe mandato a terra chiunque. Ma non Mazzeo.

L’ex poliziotto sputò per terra e fissò l’americano. «Questo per cos’era?».

«Per avermi fatto cagare sangue pur di non far saltare l’operazione…».

Mazzeo sorrise in quel suo modo diabolico.

Gli uomini in borghese ammanettarono sia Biagio che Pagani. Li perquisirono ma non trovarono
nulla.

Carbone fece un cenno ai suoi che presero Pagani e lo portarono dentro uno dei Suv. Biagio fissò il
latitante sfilare via. Il broker gli fece l’occhiolino prima che il fuoristrada partisse, lasciando
Mazzeo e l’uomo della CIA soli nel parcheggio del motel.

“Brutto segno” pensò Biagio.

«Dove lo stanno portando?» chiese.

«Non sono cose che ti riguardano. Ora tieni la bocca chiusa» disse Carbone afferrandolo per un
braccio e portandolo nel Suv rimasto. Lo fece sedere sul sedile posteriore e si mise alla guida. Il
fuoristrada si mosse in direzione contraria a quella che aveva preso l’altro.

Dopo qualche minuto, il paesaggio metropolitano venne sostituito da una zona desolata e priva di
vegetazione che sembrava estendersi a non finire.

Biagio capì cosa stava succedendo.


Carbone si stava inoltrando nel deserto.

Per ucciderlo.

Joseph fermò il Suv in mezzo al nulla. A un certo punto aveva preso una deviazione dalla infinita
lingua d’asfalto e si era avventurato in una smisurata steppa arida che aveva messo a dura prova le
sospensioni del fuoristrada.

L’americano scese dall’auto e aprì la portiera posteriore. In pugno brandiva una pistola.

Biagio uscì senza che l’altro glielo chiedesse. La terra brulla riarsa dal sole si allungava a perdita
d’occhio confondendosi col cielo di un azzurro innocente. Tutto quello spazio vuoto dava un senso di
infinita libertà. Era un bel posto per morire.

«Pagani non farà nemmeno un giorno di prigione, vero?».

Joseph sembrava combattuto sul rispondergli o meno, ma alla fine decise di parlare. A quel punto non
cambiava nulla.

«Pagani è di importanza strategica sul piano europeo del narcotraffico, una risorsa troppo importante
per sprecarlo così. Sinaloa può fare quello che vuole, ma in Messico. Invece si stavano prendendo
troppe libertà e troppo potere… Non potevamo permettergli di prendersi anche l’Europa. Pagani ci
servirà a ristabilire gli equilibri».

Mazzeo era tranquillo. Sapeva che sarebbe finita così e non aveva paura. Voleva soltanto mettere le
cose in chiaro prima di andarsene.

«Ho rispettato i patti. Il ponte è caduto e ti ho portato quel figlio di puttana tutto intero… Ora sta a te
tener fede ai patti. Nessun arresto né procedimento disciplinare contro i miei uomini, e dimenticati di
mio figlio» disse Biagio. «Non ti chiedo altro».

Carbone lo fece voltare con uno strattone e lo spinse contro la carrozzeria del Suv. Iniziò a
perquisirlo puntandogli l’arma alla nuca, ma trovò soltanto il passaporto falso e in una tasca nascosta
del giubbotto il tesserino da sbirro con la placca della Polizia.

«E questo? Non sei riuscito a separartene, vero?».

Biagio non rispose.

Carbone si mise il tesserino e il passaporto in tasca. Dopo, fece qualcosa che Biagio non si sarebbe
aspettato. Gli tolse le manette.

«Voltati» ordinò.
Mazzeo si girò. Carbone gli stava puntando l’arma contro.

«Ah, ho capito… vuoi che corra per spararmi alle spalle… Proprio come nei film».

L’uomo della CIA abbassò la pistola. «Il Messico è da quella parte» disse indicando la direzione.
«Vattene…».

«Scusa?».

«Ho detto di andartene… Forza, prima che cambi idea».

Mazzeo lo fissò smarrito. «Non capisco…».

«Non c’è nulla da capire. Tra qualche giorno verrà ritrovato un cadavere in una macchina bruciata. Il
cadavere sarà in condizioni tali da renderne impossibile l’identificazione che avverrà solo grazie a
questo» disse Carbone battendo la mano sulla tasca dove aveva infilato il tesserino dello sbirro.
«Nessuno saprà il come e il perché della morte di un poliziotto italiano. Il caso verrà chiuso senza
troppe indagini, e Biagio Mazzeo diverrà ufficialmente morto per le autorità americane e italiane che
non vedono l’ora di far cadere il sipario su un ufficiale infedele e corrotto. Stessa cosa per la
’ndrangheta… Questo è tutto ciò che farò per te. D’ora in avanti sarai completamente solo… Mucha
suerte» disse Carbone rinfoderando l’arma e aprendo lo sportello del guidatore.

Biagio capì che non stava scherzando. Lo stava lasciando andare.

«Mio figlio?».

«Quale figlio?» chiese l’americano.

«Perché stai facendo questo?» gli chiese.

Carbone si bloccò e si voltò verso l’ex poliziotto. «Perché ti avevo dato la mia parola e perché la
vita ti ha già punito abbastanza… E poi, chissà, magari un giorno potresti tornarmi utile» disse la
spia con un leggero sorriso a stendergli le labbra. «Adiós, Mazzeo».

Biagio l’osservò montare a bordo. Il Suv si allontanò sollevando un’enorme coltre di polvere.

Dopo nemmeno un minuto sparì alla sua vista.

Mazzeo era solo in pieno deserto al confine col Messico.

Libero.

Non riusciva a capacitarsene. Non aveva messo in conto che sarebbe sopravvissuto. Si guardò
intorno, come se potesse trovare una risposta tra le rocce e le sterpaglie.

“Che cazzo faccio ora?” pensò.


Non aveva nulla. Né soldi né documenti. Era in una terra straniera, di cui ignorava tutto.

Un fantasma. Non era altro che un fantasma.

Strofinò nervoso l’anello di platino all’anulare cercando di capire cosa fare.

Messico… una volta quello era stato il loro sogno. Era lì che avrebbero speso il tesoretto, lui,
Santo,Varga, Claudia, Carmine e tutti gli altri.

Alla fine ci era arrivato davvero.

Ma da solo.

“E a quale prezzo?” si domandò. In un istante rivide tutte le morti che avevano costellato la sua
esistenza. Pensò a suo figlio, a cui aveva rinunciato per proteggerlo dal suo nefasto destino. Capì che
il suo inferno era quello, la vita. La sua espiazione sarebbe stata convivere con quel dolore, per
sempre. Carbone non gli aveva fatto un favore. Morire al confronto sarebbe stata una passeggiata.

Si sfilò l’anello di Sergej Ivankov, l’uomo che aveva dato inizio a quell’incubo. Lo fissò per qualche
secondo e poi lo lanciò via con tutta la sua forza.

Da quando aveva incontrato il ceceno non aveva fatto che cercare di assomigliargli, di diventare
come Sergej. Ma lui non era Ivankov e non lo sarebbe mai stato.

Non sapeva più nemmeno chi era.

Ma era ancora vivo, nonostante tutto.

Così disse addio all’uomo che era stato e prese a camminare verso il Messico.

Verso una nuova vita.


NOTA DELL’AUTORE
Questo è un libro di fantasia. Ma a volte la verità deve indossare la maschera della finzione. Esiste
davvero un’operazione che ha visto collaborare brillantemente FBI, il Servizio Centrale Operativo
della Polizia di Stato italiana e diverse procure da una parte all’altra del Pacifico, che ha spezzato
sul nascere l’asse ’ndrangheta- Cosa Nostra americana, solo che nella realtà l’operazione ha preso il
nome di New Bridge. Esiste anche l’inchiesta dell’FBI e della DEA chiamata Dark Waters, che ha
impedito e soffocato le mire espansionistiche dei cartelli messicani sul mercato del narcotraffico
europeo, dove la ’ndrangheta ha ancora il predominio sulle reti distributive, come attestano le ultime
inchieste a livello europeo come l’operazione Overing. Esiste anche un uomo chiamato El Chapo che
è riuscito a scappare da un carcere federale di massima sicurezza in Messico nel luglio 2015. Per la
seconda volta. El Chapo è ritenuto il capo incontrastato del cartello di Sinaloa: è l’uomo al vertice
della Nueva Federación che ha vinto la guerra di bande tra narcos in Messico, e al momento è stato
ricatturato e imprigionato nello stesso carcere federale da cui è fuggito due volte e da cui in passato
ha governato il cartello come se fosse in libertà. Misteri messicani… Esiste, ed è più vivido che mai,
il suo sogno di soppiantare le altre organizzazioni mafiose nella distribuzione della cocaina sul
mercato europeo. Esiste, inoltre, un’operazione della CIA chiamata Timber Sycamore che nel 2013
iniziò ad armare e addestrare i ribelli sotto attacco in Siria; come scritto da due giornalisti del New
York Times, M. Mazzetti e M. Apuzzo, pare che l’operazione di copertura sia stata finanziata
dall’Arabia Saudita, e che questa regia occulta abbia portato, grazie ai miliardi di dollari sauditi,
armamenti da guerra letale direttamente nelle mani dei terroristi, come ha dichiarato il vicepresidente
degli USA Joe Biden in un discorso tenuto all’Università di Harvard e riportato il 7 ottobre 2014
dalla CNN: “Hanno fatto piovere centinaia di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate
di armi nelle mani di chiunque fosse in grado di combattere contro Assad, peccato che chi ha
ricevuto i rifornimenti erano Al-Nusra, Al-Qaeda e gli elementi estremisti della Jihad provenienti
da altre parti del mondo”.

In una bella inchiesta sul mercato nero delle armi che finanziano il terrorismo islamico pubblicata
sulla Stampa l’11 novembre 2015, l’inviato a New York Paolo Mastrolilli stima che la ’ndrangheta
incassi circa un miliardo di euro all’anno da questo traffico. Un miliardo di euro.

Esistono uomini come Roberto Pagani, narcobroker dalle capacità manageriali geniali, capaci di far
dialogare cartelli e ’ndrangheta e spostare quantità enormi di cocaina da una parte all’altra del globo
con la massima facilità. Esistono le banche compiacenti, le banche di loro proprietà, le società di
investimenti, i magistrati sotto scorta, quelli bravi che vengono trasferiti solo per aver fatto troppo
bene il loro mestiere, gli scambi di favori tra agenzie di intelligence, le ingerenze della politica, i
rapporti tra organizzazioni mafiose e terrorismo islamico e sudamericano, i sequestri fantasma, i
giornalisti sotto scorta, i collaboratori di giustizia che spariscono nel nulla, gli amministratori locali
uccisi in Messico così come nel Suditalia, gli strani suicidi di alcuni banchieri, le falle nel sistema di
protezione, oscure coperture istituzionali, e molto, molto altro.
Soprattutto esistono donne e uomini che combattono tutto ciò: sono magistrati, ma specialmente
infiltrati, appartenenti alle forze dell’ordine e alle intelligence, di cui non conosceremo mai i nomi.
Agiscono nell’ombra, in silenzio, in condizioni di assoluto pericolo. A volte falliscono, e anche sulla
loro morte cala il segreto. Ma la maggior parte delle volte vincono, ed è grazie a loro che operazioni
e processi come New Bridge, Dark Waters, Overing, Vertigo, Cerberus, Crimine-Infinito,
Minotauro, Dos Equis, Aemilia, Picciotteria e tanti altri riescono a vedere la luce. Esistono anche le
troppe vittime e la parte sana della Calabria – che è la maggior parte – composta da persone che
nonostante tutto resistono, spesso sfidando con coraggio questo potere occulto che sembra
invincibile. Non lo è.

Questa storia è per tutte quelle donne e tutti quegli uomini senza nome, e per il loro valoroso
sacrificio.
Colonna sonora di Prima di dirti addio
Johnny Cash – God’s Gonna Cut You Down.

Editors – No Harm.

Japanese Popstars – Shells of Silver.

Foals – A Knife in the Ocean.

Stabbing Westward – Shame.

Jeff Buckley – Calling You.

Etta James – Come a Little Closer.

Arctic Monkeys – Do I Wanna Know?.

James Vincent Mc Morrow – Wicked Game.

Etta James – Misty Blue.

James Brown – It’s a Man’s, Man’s World.

Marilyn Manson – Sweet Dreams.

Etta James – At Last.

Nine Inch Nails – Dead Souls.

Johnny Cash – Hurt.

Pantera – Cowboys from Hell.

Los tigres del Norte – Jefe de Jefes.

Cypress Hill– Tequila Sunrise.


NOTA SULL’AUTORE
Piergiorgio Pulixi è nato a Cagliari nel 1982. Fa parte del collettivo di scrittura Sabot creato da
Massimo Carlotto. Insieme allo stesso Carlotto e ai Sabot ha pubblicato Perdas de Fogu (Edizioni
E/O 2008) e L’albero dei microchip (Edizioni Ambiente 2009), e singolarmente il romanzo sulla
schiavitù sessuale Un amore sporco, inserito nel trittico noir Donne a perdere (Edizioni E/O 2010); i
polizieschi Una brutta storia (Edizioni E/O 2012), miglior noir del 2012 per i blog Noir Italiano e
50/50 Thriller, e La notte delle pantere (Edizioni E/O 2014); L’appuntamento (Edizioni E/O 2014),
Il canto degli innocenti (Edizioni E/O 2015) e Per sempre (Edizioni E/O 2015). Alcuni suoi
racconti sono stati pubblicati sul Manifesto e su Micromega.

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