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U. O. CD/LEI
“Visti da vicino”
RELIGIONI E
CULTURE
NELL’EPOCA DELLA
GLOBALIZZAZIONE
Verso un approccio interculturale
RELIGIONI E
CULTURE
NELL’EPOCA DELLA
GLOBALIZZAZIONE
Verso un’ approccio interculturale
In collaborazione con:
GVC
Gruppo di Volontariato Civile Coop.' La Luna nel Pozzo"
BUDDHISM
JUDAISM
SIKHISM
INDICE
Premessa Pag. 3
Storia e finalità
Il CD/LEI nato nel 1992, oggi vive grazie a una convenzione fra Comune, Provincia, Ufficio
Scolastico Regionale per l’Emilia-Romagna, Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università
di Bologna.
Il centro svolge un’attività di divulgazione e sperimentazione destinata a sostenere il lavoro di coloro
che operano nell’ambito dell’educazione interculturale, attraverso seminari, corsi di formazione,
documentazione e consulenze pedagogiche.
Presso il CD/LEI esiste una banca dati che raccoglie bibliografie, un elenco di materiali didattici ed
audiovisivi e informazioni relative ad associazioni e gruppi che operano nel settore dell’intercultura.
Il CD/LEI si rivolge a insegnanti, mediatori linguistico – culturali, famiglie straniere, educatori,
operatori sociali, studenti e volontari.
Il CD/LEI fa parte del network DIECEC (Developing Intercultural Education trough Cooperation
between European Cities), composto da venti città europee finalizzato allo scambio di buone
pratiche interculturali, attraverso la partecipazione a progetti europei, visite di studio, seminari
transnazionali, formazione e preparazione di materiali didattici multimediali a livello europeo.
Il CD/LEI promuove e partecipa a progetti ed iniziative locali, nazionali ed europee.
Biblioteca multiculturale
Il centro offre una biblioteca contenente 2000 volumi su temi di educazione interculturale, pedagogia
e didattica, insegnamento della lingua seconda, educazione alla pace, letteratura comparata,
antropologia, immigrazione, diritti, religioni, geografia, sviluppo.
Presso la biblioteca è consultabile un catalogo di bibliografie tematiche ragionate volte a facilitare la
ricerca degli utenti ed è presente una sezione dedicata al materiale audiovisivo, di carattere
filmografico e didattico.
Il centro si occupa dell’ideazione e della produzione di “Quaderni” che raccolgono materiali relativi
alla conoscenza delle culture altre, e sussidi didattici finalizzati all’accoglienza, inserimento e successo
scolastico degli alunni stranieri e alla promozione dell’educazione interculturale.
Presso la biblioteca, sono consultabili i progetti e le esperienze interculturali realizzati nelle scuole di
ogni ordine e grado del territorio bolognese.
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Informazione e consulenza
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PREMESSA
Rosa Caizzi
Giorgio Dal Fiume
Myriam Traversi
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PER UN APPROCCIO INTERCULTURALE ALLE CULTURE
RELIGIOSE
Prof. Marcello Massenzio
27 ottobre 1997
Ringrazio tutti coloro che mi hanno invitato, un saluto particolare va a Miriam Traversi, con la quale
posso dire di avere condiviso gli anni della formazione intellettuale.
Il tema di oggi, "L'approccio interculturale alle culture religiose" è particolarmente complesso e
delicato. In casi come questi si cerca di cogliere alcuni momenti salienti, senza trascurare l'aspetto
metodologico del problema.
L'approccio interculturale alla religione è un problema che fa parte della nostra cultura, è un'esigenza
della nostra cultura che è maturata proprio negli ultimi tempi.
Quindi non si può affrontarlo senza chiedersi: "Ma come è stato pensato prima di noi?" Non siamo
mica noi, i primi a porci questo interrogativo. Altri se lo sono posto prima di noi. Quindi è legittimo
chiedersi che tipo di risposte è stato dato prima di noi. Bisogna riflettere sulla storia del pensiero
contemporaneo in merito a questo problema e chiedersi: come è stata problematizzata la nozione di
religione? Certamente, nel tempo, non è stata sempre la stessa perché ogni epoca culturale ha una
particolare accezione del problema religione come di tanti altri problemi. Ogni cultura, in ogni fase
storica, si crea una costellazione di concetti che rispondono ai propri bisogni. Com'è stata
problematizzata dal pensiero contemporaneo questa grande assente nei nostri discorsi: la dimensione
religiosa? Com'è stato tematizzato nel pensiero contemporaneo lo stesso tema dell'approccio
interculturale? Bisogna, per affrontare queste tematiche complesse in maniera rigorosa, ripercorrere
la storia del pensiero contemporaneo in relazione ai vari temi che si affrontano, e chiarirci, per
quanto ci riguarda in particolare, sul problema centrale che tutti gli altri ingloba in sé: il problema dei
rapporti tra noi e gli altri da noi, il problema del rapporto tra Occidente e alterità, tra Occidente e -
come si diceva negli anni `70 - Terzo Mondo.
Il problema dell'alterità nel pensiero contemporaneo non può essere eluso ed è da questo che
bisogna partire. Il discorso metodologico si articola su vari livelli, tutti collegati fra loro. Il primo
livello può essere letto in maniera molto semplice. In merito ad un problema così importante non
basta avere un'opinione soggettiva: avere opinioni personali è segno di vitalità, ma affinché l'opinione
acquisti spessore teorico bisogna chiedersi anche com'è stato affrontato quest'argomento dalla
tradizione di pensiero che ci ha preceduti e che ci ha consegnato questo problema. Io posso avere
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con tale tradizione, sia un rapporto di continuità, sia di discontinuità.
Posso pensare com'è stato pensato prima, e posso pensare in maniera rivoluzionaria rispetto a prima.
Ma non posso ignorare quello che è stato pensato prima di me. Occorre, pertanto, misurarsi in modo
dialettico, critico con la tradizione culturale per uscire dal piano della pura soggettività, della pura
espressione di un'opinione.
Il secondo punto di questo preambolo metodologico è esprimibile in termini semplici: bisogna avere
la capacità di integrare la parte nel tutto. Nel caso specifico la parte è costituita dalla religione, e il
tutto rinvia alla cultura. Ogni religione va inserita nel contesto culturale che le appartiene. Non
possiamo fare un discorso sulla religione ignorando i mille e infiniti nodi che legano la religione al
resto. Certo che la religione ha una sua autonomia. Altrimenti non potremmo chiamarla religione.
Così come l'arte ha una sua autonomia, perciò la chiamiamo arte e non filosofia; anche la filosofia ha
una sua autonomia, perciò la chiamiamo filosofia e non altro. Tuttavia, ogni aspetto della cultura, pur
avendo una sua specificità, va inserito nell'insieme e va compreso nell'insieme. Questo discorso, per
la religione in particolare, è fondamentale. Occorre recuperare il rapporto religione-cultura. Questo
rapporto lo posso indicare rimanendo sul piano teorico, in una lezione come quella di questa sera.
Voi dovete poi cercare di calarlo nel concreto. Io posso invitarvi a porre attenzione agli infiniti
legami che possono esistere tra religione e contesto; vi fornisco degli stimoli, sta a voi concretizzarli,
in questa o quell'area culturale a vostro piacimento. In sintesi, non si può fare un discorso sulla
religione, se non si fa un discorso sulla cultura: non possiamo neppure chiederci cos'è una religione,
se non ci chiediamo cos'è una cultura.
Questa è una piccola provocazione: religione e cultura, l'una non esiste senza l'altra. Anche il
concetto di cultura è una variabile storica. Ad ogni stadio della civiltà, si forgia un concetto di cultura
che è diverso da quello che hanno avuto le generazioni precedenti, e sarà diverso da quello che
avranno le generazioni future. I concetti vivono perché sono prodotti umani completamente inseriti
nella storia.
L'attuale percezione della cultura, non può essere identica a quella dei secoli passati perché lo
scenario storico è del tutto è cambiato. A questo punto si pone una domanda che nelle linee generali,
può essere così formulata: Qual è la nozione di cultura che si addice a noi, al nostro presente, in una
parola all'umanesimo contemporaneo? Noi abbiamo una concezione dell'umanesimo che è frutto del
tempo in cui viviamo, il nostro umanesimo non è certo quello classico, anche se affonda le proprie
radici in quest'ultimo.
All'interno dell'Umanesimo contemporaneo si è formata una nuova concezione di cultura e quindi
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una nuova concezione di religione.
Noi dobbiamo ad Ernesto De Martino, il più grande storico delle religioni del nostro tempo,
l'elaborazione della nozione di umanesimo contemporaneo (più esattamente: di "umanesimo
etnografico") che si trova all'interno di un'opera molto complessa e fondamentale La fine del mondo,
pubblicata postuma nel 1977. Alle pagine 395-6 si legge quanto segue:
[…] “ Con l'epoca delle scoperte geografiche e della fondazione dei grandi imperi coloniali fu gettato
il primo seme di un nuovo possibile umanesimo, che appena oggi, nell'epoca della decolonizzazione,
si appresta a dare i suoi frutti. Sino al `500 l'umanesimo fu la presa di coscienza dell'umano mediata
attraverso un ritorno diacronico dell'antichità classica: fu rammemorazione di un passato illustre
attraverso la quale si espresse l'esigenza di allargare la consapevolezza dell'umano oltre i limiti della
memoria cristianomedievale. [....]
Ma a partire dall'epoca delle scoperte si venne determinando una nuova situazione che racchiudeva la
maturazione di una nuova dimensione umanistica. La scoperta delle genti transoceaniche - sia pure
nel quadro di interessi coloniali e missionari- poneva in primo piano una nuova modalità di rapporto
con l'umano: la modalità dell'incontro sincronico con umanità aliene rispetto alla storia
dell'occidente, e quindi anche la modalità dello scandalo e la sfida di tale alienità. Non si trattava più
di una rammemorazione interna e più estesa della propria ascendenza culturale [...] si trattava invece
della scoperta di collaterali viventi, umanamente cifrati dinnanzi ai quali tuttavia non si poteva non
reagire con l'impegno conoscitivo poiché la fondazione dei grandi imperi coloniali e l'attività
missionaria erano comunque fondate sulla prassi del rapporto attuale, e sia pure sulla prassi del
signoreggiamento o della conversione. Questo nascente umanesimo etnografico [...] introduceva
potenzialmente una nuova dimensione valutativa: la dimensione del confronto non più soltanto
interno e diacronico fra epoche successive della storia culturale dell'occidente, ma esterno e
sincronico con umanità aliene rispetto alla totalità di tale storia e alla successione delle sue epoche.
Con ciò la storia dell'occidente guadagnava potenzialmente una nuova possibilità umanistica: quella
di mettere in causa se stessa, di problematizzare il proprio corso, di uscire dal suo isolamento
corporativo e dal suo etnocentrismo dogmatico, e di attingere un nuovo orizzonte antropologico
mediante la confrontante misurazione di sé con altri modi di essere uomini in società. Questo tema
tuttavia non poté dispiegarsi in tutta la sua ampiezza e complessità sin quando non maturarono
alcune condizioni. Il limite dell'umanesimo etnografico durante l'epoca del colonialismo e dell'attività
missionaria fu il limite stesso del colonialismo e dell'attività missionaria: senza dubbio l'espansione
della borghesia europea, lo sfruttamento delle terre transoceaniche, la protezione dei nuovi mercati, il
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rapporto amministrativo con la "gente di colore", lo sforzo drammatico connesso alla
cristianizzazione dei pagani, furono condizioni per il primo configurarsi dell'umanesimo etnografico,
ma solo nell'epoca della seconda rivoluzione industriale, della diffusione ecumenica della tecnica e del
tramonto del colonialismo poteva essere oltrepassato il limite inerente ad un rapporto pratico
fondato in ultima istanza su ragioni strumentali di potenza.”[….]
L'Umanesimo filologico rappresentò una grande rottura rispetto alla concezione del mondo di
stampo medievale.
L'Umanesimo filologico cerca di comprendere la nostra civiltà, identificata con la civiltà tout-court
arrivando alle sue radici storiche. La scoperta del passato illustre che fa capo alla Grecia e a Roma,
dava un senso del tutto nuovo all'identità culturale occidentale.
Siamo chi siamo, in quanto prodotti delle grandiose civiltà edificate dai Greci e dai Romani.
L'Umanesimo contemporaneo è di altro tipo, non comporta più un viaggio nel tempo, ma un viaggio
nello spazio. Non si tratta più di andare indietro a cercare le origini; si tratta di misurare il nostro
modo di essere uomini con altri modi di essere uomini esistenti nello spazio.
De Martino dice: "il primo seme di questo nuovo modo di fare Umanesimo fu gettato all'epoca delle
scoperte geografiche". Si sa che le scoperte geografiche non sono state motivate da intenti
scientifico-umanitari, ma da ragioni di carattere politico-economico. Eppure, nonostante tutto, tali
scoperte permisero l'incontro con altre organizzazioni umane: in un primo momento che
corrisponde ad una lunga fase della colonizzazione per sfruttarle in tutti i modi; poi finita la fase della
colonizzazione, comincia a farsi strada un nuovo orientamento. Ci si interroga sugli altri. Chi sono gli
altri? Sono uomini come noi, o no? E se sono uomini come noi, che cosa è l'uomo? Sono civiltà
come la nostra o no? Che cos'è una civiltà? Sono culture come la nostra, e allora in che cosa consiste
la cultura? Si sa che non è stata prevalente la risposta affermativa alla domanda: gli "altri", i primitivi
sono o no soggetti culturali? E' prevalsa la tendenza a considerare questi ultimi "selvaggi", uomini di
natura (la selva è per l'appunto metafora della natura). E' con l'epoca della decolonizzazione che è
nata una nuova riflessione sulle culture etnologiche: queste ultime in sintesi, non sono più
considerate inferiori, ma semplicemente diverse. E' molto più "facile" sfruttare degli uomini ai quali
non si sia riconosciuto lo statuto di uomini. E' stato sempre così, lo schiavismo si è basato su questa
terribile concezione. Il tema del rispetto del diverso, del confronto critico con il diverso ci riporta al
nucleo dell'Umanesimo contemporaneo (o etnografico).
Io, in quanto occidentale, capisco meglio me stesso confrontandomi con l'alterità culturale, perché
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sono in grado di comprendere meglio le mie scelte mettendole a confronto con le scelte altrui,
avendo maturato l'idea della pari dignità delle culture. La presa di coscienza del fatto che tutte le
culture hanno pari dignità e che non è assolutamente possibile fare una gerarchia tra culture è uno dei
prodotti più significativi dell'Umanesimo contemporaneo. Questi sono i temi e i problemi di oggi e
chi è in grado di affrontare questi temi e problemi può veramente dire di essere un uomo del
presente, perché di questi temi sostanziali la cultura contemporanea si occupa.
Ho accettato di parlare dell'approccio interculturale al tema religione perché vedevo uno stretto
rapporto tra questo tema e la problematica dell'alterità culturale. Noi oggi ci poniamo il problema di
conoscere tale alterità che in un primo momento ci appare strana e incomprensibile, perché non ci
appartiene: ma proprio per questo bisogna fare uno sforzo in più. Ciò significa anche, crearsi
parametri concettuali nuovi. Esempio: se io, sulla base del concetto tradizionale di religione, legato
esclusivamente alla cultura occidentale, pretendo di capire le religioni altrui, certamente fallirò nel
mio intento. Analogamente, se voglio capire l'arte diversa dalla mia, non posso partire dalla
concezione classica di arte: quindi bisogna riformulare il concetto di arte.
Quest'impegno richiede sforzo, tensione e il superamento di inveterati luoghi comuni. Ci fa comodo
pensare che i concetti siano inerti, che non cambino, rimanendo sempre uguali a se stessi. Invece essi
mutano così come muta il contesto storico. Noi viviamo dei contatti con l'alterità, pensate a quanto
ci ha dato l'arte africana per modificare la nostra visione dell'arte. Basti pensare all'influsso esercitato
dall'arte "primitiva" africana su un personaggio come Pablo Picasso.
I contatti interculturali, stimolano a capire se stessi in rapporto ad altri modi di essere sul piano della
cultura e della società: qui si scorge un segnale tra i più indicativi dell'Umanesimo contemporaneo
teorizzato da De Martino.
C'era una cosa che avrei dovuto dirvi e che non ho detto: come mai proprio uno storico delle
religioni (come De Martino) ha teorizzato l'Umanesimo contemporaneo nel senso brevemente
illustrato? Come mai l'ha fatto uno storico delle religioni e non un filosofo della religione? Occorre
prestare attenzione alla dicitura della mia disciplina, che era la disciplina di De Martino: non "storia
della religione" al singolare ma "delle religioni", di tutte le religioni poste sullo stesso piano: ne deriva
che chi fa storia delle religioni si applica a tutte le culture, visto il nesso religione-cultura, di cui si è
detto. In ambito filosofico non c'è stata un'analoga apertura e si è rimasti fermi all'idea che la nostra
religione coincida con la religione in assoluto. In questo ambito la filosofia non ha saputo fare il
grande passo che porta al confronto con altri sistemi di pensiero. Uno storico delle religioni è tenuto
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a confrontarsi con l'alterità, deve uscire dal proprio guscio, deve tenere presente il buddhismo,
l'islamismo, le religioni arcaiche, le religioni moderne, i movimenti religiosi giovanili: in breve, niente
gli è estraneo, niente gli deve essere estraneo e quindi può avere apertura mentale di tipo
universalistico. C'è un'altra domanda da porre: il tipo di umanesimo di cui abbiamo parlato aveva
avuto qualche anticipazione prima? Certamente si: la consapevolezza del fatto che l'uomo non
coincide con l'uomo occidentale è anteriore, ben anteriore alla teoria di De Martino. Tra l'essere
occidentale e il pretendere che i confini della cultura coincidano con i confini dell'Occidente c'è
un'enorme differenza. I confini dell'uomo non si identificano con i confini dell'Occidente. Per capire
l'uomo bisogna mettere a confronto i tanti modi di essere uomini che progressivamente scopriamo.
Per scoprire occorre proiettarsi oltre il proprio orizzonte culturale.
Ecco perché la metafora del sapere contemporaneo è il viaggio. Viaggiare, anche solo con la mente,
significa avere il coraggio di mettersi in causa.
I fermenti della nuova consapevolezza dell'umano sono presenti in J.J. Rousseau: ciò è stato
affermato dal più grande antropologo francese, Claude Levi-Strauss in un saggio (JJ. Rousseau,
fondatore delle scienze dell'uomo) contenuto in Antropologia strutturale due, Milano 1978,
pp.69-84.
"Stento a capacitarmi - scrive Rousseau nel Discours sur l'origine de l'inégalité - come mai in un
secolo in cui ci si picca di belle conoscenze non si trovino due individui; di cui l'uno sacrifichi 20.000
scudi dei suoi averi e l'altro 10 anni della sua vita a un celebre viaggio intorno al mondo per studiare
non sempre pietre e piante ma, una buona volta, gli uomini e i costumi" (...)
Supponiamo che un Montesquieu, un Buffon, un Diderot, un D'Alambert, un Condillac e altri
uomini della stessa tempra viaggino per istruire i loro compatrioti, osservando e descrivendo come
sanno fare la Turchia, l'Egitto, la Barbaria, l'Impero del Marocco, la Guinea, l'interno dell'Africa e le
sue coste orientali [...]; sarebbe il viaggio più importante di tutti e bisognerebbe farlo con la massima
cura. Supponiamo che i novelli Ercoli, reduci da quelle spedizioni memorabili, facessero poi a
bell'agio la storia naturale, morale e politica di quanto avessero visto, e vedremmo a nostra volta un
mondo nuovo uscire dalla loro penna e impareremmo in tal modo a conoscere il nostro mondo...”
(Discours sur l'origine de l'inégalité, nota 10).
C'è già in Rousseau l'idea che conoscere l'altro è un modo per guardare, da una prospettiva lontana,
noi stessi; un modo per conoscere, attraverso uno sguardo da lontano, la nostra stessa cultura. Non si
tratta di viaggiare per dimenticare noi stessi; non è neppure un viaggio alla ricerca dell'esotico.
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L'intento di questo viaggio è quello di capire gli altri e, soprattutto, di capire in cosa consiste la nostra
specificità.
Che cos'è la cultura? L'Umanesimo etnografico prospetta una definizione in termini non etnocentrici.
Che cosa è l'etnocentrismo? E' quella particolare tendenza che porta una certa cultura ad identificarsi
con la cultura in assoluto. Chi assume quest'atteggiamento pensa di essere "al centro del mondo" e
valuta gli altri sulla base delle proprie categorie mentali; dal momento che gli altri sfuggono a tali
categorie, si finisce per dire che essi non hanno cultura. Per la nostra civiltà è più corretto parlare di
etnocentrismo. L'etnocentrismo è intriso di razzismo perché chi pensa che la cultura sia un privilegio
esclusivo di un certo ethnos, pensa implicitamente che la cultura sia un fatto congenito, una
prerogativa razziale. Niente di più falso e deviante. Lévi-Strauss nel saggio Razza e storia (in
Antropologia strutturale due, Milano 1978, pp.366-408) ha contribuito efficacemente a dimostrare
l'infondatezza della mentalità etnocentrica e dei suoi pregiudizi. Tornando a discutere di cultura, vista
in una prospettiva non limitata all'Occidente, bisogna riconoscere all'antropologia britannica, in
particolare a E.B. Taylor, il merito di aver proposto per la prima volta un concetto di cultura di
portata universale. Nel 1871, ben più di un secolo fa, Taylor scrive Primitive culture, che è l'atto di
fondazione dell'etnologia come scienza autonoma destinata allo studio dell'alterità culturale.
L'Autore si interroga sulle cultura e ne dà una definizione nuova.
In breve, per Taylor la cultura è quell'insieme che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale,
il diritto, il costume. A ciò va aggiunto un elemento inedito: qualsiasi altra capacità, abitudine
acquisita dall'uomo come membro di una società. Tutto ciò che l'uomo fa, in quanto trasmessogli
dalla tradizione culturale alla quale partecipa, è cultura. Ecco, in riferimento ad una concezione così
ampia riesco a capire che l'altro ha cultura. Mi fermo qui: c'è quanto basta per dare un'idea del
passaggio da una visione della cultura di tipo tradizionale ad una visione che si proietta oltre i limiti
della consuetudine. E' fondamentale l'ampliamento di orizzonte di cui si è detto per poter avere la
chiave d'accesso al diverso culturale. Non si può rimanere sul piano delle "buone intenzioni" bisogna
forgiare strumenti concettuali grazie ai quali, noi possiamo affermare, con cognizione di causa, che
l'alterità è cultura.
Altri studiosi, dopo Taylor, si sono mossi sulla strada del rinnovamento del concetto di cultura.
Segnalo, a riguardo, il bel libro curato e introdotto da P. Rossi, Il concetto di cultura, Einaudi,
Torino 1970, che offre una panoramica molto interessante.
Facciamo un rapido salto che ci porta in Francia, a Lévi-Strauss, celebre antropologo e grande
teorico della cultura. L'opera in cui Lévi-Strauss affronta il problema della definizione di cultura in
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una prospettiva non etnocentrica è Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 1969
(la prima edizione francese risale al `47). L'opera in questione affronta, fin dal primo capitolo, il
problema della cultura: non si può parlare di cultura se si prescinde dalla natura, perché cultura è
tutto ciò che si oppone alla natura, in qualsiasi contesto. Si tratta di un approccio innovativo che
esclude la possibilità di parlare di cultura astraendo quest'ultima dal resto. La cultura è definibile solo
all'interno del rapporto con il termine che ne rappresenta l'antitesi, cioè la natura.
Tutto lo sforzo per oltrepassare la natura è cultura; laddove c'è questo sforzo c'è cultura. L'uomo è
un insieme di natura e cultura; c'è una sfera dell'uomo che partecipa della natura: è la sessualità, che
in sé per sé non differenzia l'uomo dagli altri animali. Ma la sessualità può essere vissuta
culturalmente, può essere superata nella sua oggettività pura é semplice: ciò avviene quando il suo
dominio è disciplinato da regole.
La regola, dunque, è il segno della presenza della cultura, in tutti i campi. In natura non ci sono
regole, è l'uomo che le crea per superare la natura e la regola attraverso la quale si dà un senso umano
alla sessualità è quella che vieta l'incesto, regola che abbiamo anche noi.
Il tabù dell'incesto (tabù è una parola esotica che significa proibizione solenne di carattere sacro),
esiste solo per gli uomini, gli animali si accoppiano tranquillamente senza rispettare questa regola,
ecco quindi dove appare l'uomo: proprio nel darsi questa regola.
Questa regola, è dunque specificamente umana, è il segno dell'esistenza della cultura che, per
l'appunto, è specificamente umana.
Cultura è superamento della natura: grazie al tabù dell'incesto si è messo in moto, per Lévi-Strauss, il
processo che spinge l'uomo ad andare oltre il piano meramente naturale.
In genere, quando si parla del tabù dell'incesto si pensa semplicemente all'aspetto negativo: "non fare
questo", "non accoppiarti con tua madre, sorella ecc.". Lévi-Strauss va oltre questa interpretazione
mettendo in luce il versante positivo, saldamente unito al versante negativo. Non accoppiarti con tua
sorella, ma dà tua sorella in moglie ad un altro affinché l'altro dia sua sorella in moglie a te stesso. E
in questa maniera cosa si fonda? Si fonda la socialità, l'intreccio dei rapporti sociali che dipende da un
patto fondato sulla reciprocità. L'uomo che per vivere ha bisogno degli altri.
Io ho bisogno di un altro che mi dia qualcosa e io stesso devo dare qualcosa di mio ad un altro: solo
attraverso il reciproco dare ed avere si crea la socialità, fatta di relazioni intersoggettive permanenti.
Io non mi rapporto agli altri gratuitamente, è il bisogno degli altri che mi fa ricorrere ad essi; perché
io possa comunicare con l'altro devo dare il mio all'altro e non consumarlo nel mio privato.
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Come entra in questa dinamica la religione ?
La regola dell'incesto è una regola, ma non è una regola come un'altra: si tratta di una regola speciale,
particolare e diversa, importante, è una regola fondamentale e, dunque, sacra. Sacra in quanto
inamovibile. Attraverso il sacro si arriva alla religione.
Lévi-Strauss inserisce la religione all'interno della dinamica che porta al superamento culturale della
natura.
Attribuire un carattere religioso, o sacro, ad una certa realtà (ad esempio alla regola che vieta
l'incesto) significa fare di questa realtà uno dei pilastri che sorreggono l'edificio della cultura.
Se tale pilastro fosse eliminato o, più semplicemente, spostato, l'intero edificio crollerebbe: Lévi-
Strauss definisce il dominio della religione (e del sacro) partendo dall'individuazione della funzione
specifica svolta. Per questo motivo il contributo di questo Autore è molto valido ai fini di un
approccio interculturale al problema della religione. In conclusione, la religione garantisce la cultura
rendendo sacra la regola (il tabù dell'incesto) che rende possibile il passaggio dalla natura alla cultura.
Esiste una regola che si stacca da tutte le regole perché è sacra, è sacra perché è fondamentale, è
fondamentale perché senza questa regola non esisterebbe l'uomo, esisterebbe l'animale uomo. Nella
nostra cultura la valenza negativa del tabù dell'incesto è fortemente avvertita perché nel mancato
rispetto di questa regola primaria vediamo una violazione dell'umano. Non importa che l'infrazione ci
tocchi o meno; essa tocca l'uomo in quanto tale.
Pensate come è distante un approccio alla religione così sottile, rispetto ad un approccio di tipo
ideologico. In questo caso, vediamo la vitalità, l'importanza, il significato del fenomeno senza
nessuna sovrastruttura ideologica.
Passiamo a De Martino, al suo approccio alla religione.
De Martino si pone in una prospettiva in parte diversa da quella di Lévi-Strauss. La cultura esiste se
c'è l'uomo che produce cultura, c'è la produzione di cultura se c'è un soggetto umano.
De Martino approfondisce tale discorso concentrando la sua attenzione sul concetto di "presenza
umana". Io vorrei spiegare in maniera semplice che cosa è la presenza umana.
Il concetto demartiniano di presenza è una rielaborazione creativa della nozione di Dasein propria di
Heidegger.
Mi è capitato di trovare una formulazione sintetica ed efficace, almeno a mio avviso, in un testo che
De Martino non ha pubblicato da vivo ma che ha lasciato tra gli inediti del suo archivio.
Ho avuto la fortuna di pubblicare questo testo, assieme ad altri inediti di carattere teorico, in un
volume che s'intitola Storia e Metastoria, Argo, Lecce 1995.
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"La presenza è movimento che trascende la situazione nel valore. Per questo movimento essa si
stacca dalla situazione, emerge da essa, la fonda come situazione di un mondo operabile". (Storia e
Metastoria, cit., p. 103).
Mi fermo qui. Ci sono già tutti gli elementi che ci interessano: quando si è di fronte ad un concetto,
occorre procedere analizzando parola per parola. "La presenza è movimento": cosa significa
movimento? Significa tensione intellettuale, che si traduce in impegno, in volontà costruttiva. Il
verbo "trascendere" significa oltrepassare, andare oltre: non fermarsi di fronte al dato apparente. Il
termine "situazione" allude a quell'insieme di circostanze che si verificano e che coinvolgono senza
essere state scelte. Il soggetto umano deve soggiacere alla situazione che si è imposta dall'esterno,
oppure deve andare oltre? La presenza impone di andare oltre la situazione al fine di conferire un
senso umano alla situazione stessa. Non posso dire di essere uomo se mi limito a registrare ciò che
accade indipendentemente da me. Sono uomo nella misura in cui do un valore umano a ciò che
accade: un valore socialmente condiviso. Io posso dire di possedere presenza umana se riesco ad
oltrepassare nel valore qualsiasi situazione, anche la più difficile, anche quella che meno di ogni altro
si presta ad essere valorizzata. Più in generale, la presenza è la capacità di significare culturalmente la
realtà. Non bisogna limitarsi ad accettare la naturalità del vivere, bisogna dare senso al vivere stesso.
De Martino ha scelto una dimensione molto difficile, quella della morte umana, per dimostrare
quanto sia aspro e necessario questo sforzo umano di significare la realtà. Il libro più bello di De
Martino si chiama Morte e pianto rituale edito dapprima da Einaudi (1958) e poi da Boringhieri.
Che cos'è il pianto rituale- ancora una volta entra di soppiatto la religione- se non un modo per
cominciare a conferire senso alla morte? Grazie alla mediazione della religione, vale a dire dei riti (in
questo caso) la morte di un congiunto non è più qualcosa che mi capita; sono io che divento arbitro
della situazione nel momento in cui riesco a separare il morto dalla sfera dei vivi. Pensate: non c'è
cultura umana che non possieda pratiche rituali destinate a disciplinare culturalmente la morte.
Pensate al terrore, forse paragonabile all'infrazione del tabù dell'incesto, che a noi provoca il morto
senza tomba, il morto privo di definizione culturale. Il Cristianesimo è una religione che ha
riconosciuto con grandissima profondità la necessità di dare un valore al morire umano: non per
nulla l'incarnazione di Cristo risponde anche all'esigenza di conferire un significato peculiare al
morire umano. Il rito di mettere una croce su ogni lapide esprime la volontà di ribadire il significato
cristiano alla morte. E' come dire: "Tu non sei un semplice morto, tu ripeti una morte "esemplare",
ricca di significato".
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Ecco cos'è il trascendere la situazione nel valore: è il superamento culturale di una circostanza
naturale.
Non c'è nessuna civiltà che non abbia una "religione della morte", che non abbia avvertito il bisogno
di creare un linguaggio simbolico per dare un senso alla morte, che è quel qualcosa che più di ogni
altra, sembrerebbe non aver senso perché essa "accade senza di noi e contro di noi". Pertanto, il
rischio di perdere le presenza, vale a dire di non trascendere nel valore la situazione luttuosa, è molto
elevato. Da questo esempio si può ricavare un'indicazione di carattere generale: la presenza è un bene
fondamentale, ma anche un bene fragilissimo perché non sempre e non dappertutto è in grado di
conferire senso alle situazioni oggettive. In tali condizioni di crisi entra in gioco la religione. La
religione per De Martino è un complesso sistema culturale che aiuta la presenza a esserci, a non
smarrirsi, a non dileguarsi anche nei momenti in cui la crisi potrebbe radicalizzarsi. Riepilogando, per
De Martino c'è cultura, se c'è presenza umana intesa nei modi analizzati. Il conferimento di senso
non è impresa facile, perché richiede tensione etica e capacità oggettivante: non sempre si è in grado
di elevarsi a tale altezza, perché certi eventi rischiano di travolgere la presenza. La religione nasce per
impedire che tali eventi, possano compromettere l'integrità della presenza umana. Leggo un'ultima
citazione demartiniana relativa alla funzione della religione: "La religione aiuta a vivere, ma non già
nel senso generico e banale dell'espressione ma nel senso profondo che recupera e mantiene la base
esistenziale della vita umana e cioè la presenza" (Storia e Metastoria, cit. p.62). Questo è un modo
per capire, al di là del concetto di religione, come opera la religione in tutti i contesti perché non c'è
contesto, non c'è cultura con cui non debba essere culturalmente fronteggiato questo dramma della
presenza che potrebbe non essere all'altezza del suo compito e che quindi, si deve valere della forza
che viene dal rito, dal mito, dai simboli. Quando la presenza non è in grado, da sola, di "oltrepassare
la situazione nel valore" ripete ritualmente un modello mitico in cui il superamento c'è stato. E così
l'iterazione mitico-rituale riscatta la presenza dal naufragio, riconsegnandola alla storia.
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Bibliografia ragionata per "Approccio interculturale alla religione" (a cura del Prof. Marcello
Massenzio):
Razza e storia
C. LEVI STRAUSS, Antropologia strutturale due, cit.
Opposizione natura/cultura
C.LEVI STRAUSS, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano, 1969 (ristampato di
recente)
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LA NOSTRA RELIGIONE VISTA DAGLI ALTRI1
3 novembre 1997
Chi sono gli altri? Sono molti e molto diversificati, spesso non molto visibili. Penso ad una
minoranza che nel sud dell'Italia sta diventando molto forte: i testimoni di Geova. Non ne parliamo
quasi mai, abbiamo un certo ritegno a parlarne.
Questa sera ci occupiamo invece soprattutto degli Altri più lontani e più numerosi, quelli che
pongono maggiori problemi oggi alla vita sociale e politica.
Questo Altro per eccellenza è oggi l'Islam. Fatta questa premessa che ci sono tanti altri vicini, non
dobbiamo dimenticare, anche se questa sera parliamo soprattutto di questi altri più vistosi e corposi,
e che lo diventeranno sempre di più, che le previsioni che fanno gli studiosi di demografia sono di un
mondo nel prossimo millennio nel quale i cristiani saranno probabilmente di meno, prendendo
cristiani di tutte le confessioni, mentre i musulmani saranno molti di più, anche per nn fatto
semplicemente demografico relativo alle nascite.
Quando noi diciamo "la nostra religione" non intendiamo in particolare la religione cattolica ma la
religione dell'occidente. E questo ci porta subito a precisare il termine religione, termine molto usato
e abusato, ma ormai abbastanza impreciso.
Non è facile distinguere una religione dalla cultura che l'accompagna, dalle tradizioni, dalle usanze
ecc. e questo legame è ancora più forte nel mondo islamico rispetto a quello cristiano. Stretto parente
è anche il termine: etica. Vedete che ricchezza e confusione si porta appresso il termine religione.
Morale, cultura, tradizioni, e, aggiungo, purtroppo sempre più spesso, etnia; non è facile distinguere
nell'Irlanda del nord e in quella del sud, religione da cultura, da etnia e qui il discorso diventa politico.
Ancora più difficile ciò diventa nel Medio Oriente, e in tanti paesi dell'Africa e dell'Estremo Oriente.
Quindi quella religione che forse la nostra cultura occidentale aveva relegato a qualche cosa di celeste,
non molto interessante per i problemi della società, è ritornata ad avere un ruolo a più dimensioni, è
ritornata importante e terrena. I problemi della interreligiosità sono diventati i problemi più scottanti
della politica e della globalizzazione. Prendete ad esempio il Medio Oriente e la ex Jugoslavia.
Queste sono le premesse per potervi impostare in maniera corretta un discorso sul nostro occidente
1 Per difficoltà tecniche parte della registrazione della relazione del Dott. Gentiloni non è riuscita. L’intervento non è
stato rivisto dal relatore.
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religioso visto dagli altri. Ripeto che gli Altri di cui parlerò sono soprattutto quelli, per così dire,
lontani: i musulmani.
Come ci vedono? La prima risposta che mi viene in mente è che ci vedono male: la nostra religione,
fondamentalmente cristiana, non cattolica perché ormai sappiamo che la nuova Europa che sta
nascendo sarà anche fortemente protestante è vista male da chi ne sta fuori. I motivi sono tanti:
alcuni antichi, altri di oggi. Per antichi intendo dire che l'Occidente viene identificato col
colonialismo. Quello che ha fatto il colonialismo cattolico, protestante, anglicano nei paesi
colonizzati, lo sappiamo dai libri di storia, da qualche pentimento che affiora qua e là, ma la gente
degli altri continenti lo sa sulla propria pelle, non sui libri di storia. Forse queste colpe della nostra
religione occidentale saranno anche esagerate, può essere, ma alcune sono storicamente enormi e
non le ricordiamo mai abbastanza.
Non si possono fare i confronti tra le varie tragedie, ma quello che hanno fatto i colonizzatori
spagnoli e portoghesi, laddove sono arrivati, è al livello delle grandi stragi nel mondo. Gli episodi non
possiamo ricordarli tutti. Ne ricordo solo uno che mi ha fatto sempre impressione quando l'ho letto e
riletto: le frustate inflitte agli schiavi negri importati dall'Africa nelle Americhe, erano sempre contate
sui grani del rosario: ogni Ave Maria una frustata. Queste sono cose che incidono enormemente nella
storia dei popoli; non meravigliamoci se oggi, questi popoli non amano sentir parlare di occidente
cristiano. Non dimentichiamo quello che hanno fatto gli Inglesi in India, e a come Gandhi ha cercato
di reagire pacificamente.
L'oggi è complesso. Il nostro occidente religioso cristiano, secondo le sue varie denominazioni,
appare come il mondo ricco. Il legame una volta era con il colonialismo, oggi è con la ricchezza.
Questo discorso va articolato. Quando un cinese pensa all'occidente cristiano, forse non pensa
immediatamente alla borsa di Wall Street ma a quella di Hong Kong, però sappiamo bene che cosa è
Hong Kong e quanto Hong Kong è surrettiziamente caposaldo di questo occidente cristiano. La
situazione non è quindi molto diversa da quella che era nel `500-`600 quando le caravelle di
Colombo andavano a scoprire l'America con la spada e con la croce. Oggi si identifica la croce di
Cristo con il dollaro, "In God we trust" c'è scritto sul dollaro. Questo God, di fatto è il Dio dei
cristiani. Nessuna meraviglia che dall'India all'Algeria, per dire due paesi diversissimi, di religione, di
colore, di colonizzazione, la religiosità cristiana è vista piuttosto male. Anche i missionari dichiarano
quanta fatica fanno oggi in paesi nei quali, solo qualche decennio fa, avevano un compito un po' più
facile. Penso ad alcuni paesi del centro Africa, per esempio, dove la cristianizzazione procedeva
abbastanza rapidamente. Oggi è tutto piuttosto fermo.
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I missionari molte volte tornano a casa, o sono maltrattati, o si ritirano a dare testimonianza di fede
senza nessuna preoccupazione di evangelizzazione: andare a convincere che ió non sono come i
cristiani legati ai padroni, non è molto facile.
I due più grandi Altri fra quelli che oggi ci stanno di fronte, sono diversissimi l'uno dall'altro: parlo
dell'Islam, e del mondo che fa capo al buddismo. Due mondi interessantissimi con i quali dovremo
fare i conti nel prossimo futuro e soprattutto li dovranno fare i nostri figli e i nostri nipoti, due realtà
molto diverse, in se stesse e nel modo di vederci.
Per i musulmani, siamo dichiaratamente altri, ci sono grandi difficoltà a gettare ponti, e i tentativi fatti
ad esempio in Medio Oriente o in Algeria, sono estremamente minoritari e fallimentari. Il grande e
compatto Islam, vuole essere una religione che è insieme diritto, etica, cultura e stato e in questo
senso il cristiano è l'avversario, l'Altro, con il quale è bene non avere rapporti profondi, è ancora
oggi, l'infedele.
Leggo un testo di uno dei nostri studiosi occidentali più conosciuti Bernard Lewis, uno dei più noti
studiosi inglese dell'Islam: "la visione musulmana del mondo si reggeva su una fondamentale
divisione dell'umanità, fra la casa dell'Islam e la casa della guerra."
Il nostro occidente cristiano era la casa della guerra, della gente che arrivava con la spada e poi con i
cannoni per evangelizzare conquistando, questo è quello che la cristianità ha fatto per secoli; non ero
io, nemmeno voi, ma i crociati si, e tutti i successori dei crociati anche. Questo era l'occidente che
voleva portare il cristianesimo e che oggi porta il dollaro, e ciò spiega come mai tutta la fascia
centrale dell'Africa stia diventando sempre più musulmana.
Questo è il primo tipo di Altro che dobbiamo conoscere meglio, non combattere con la spada.
Diverso è il discorso sul mondo buddista, il quale sta invadendo il nostro mondo cristiano, non tanto
perché aumenta il numero dei buddisti (anche questo è vero) ma soprattutto perché il buddismo si
diffonde in maniera dolce. Non ci sono dei confini ben precisi fra il buddista e il cristiano, ma la
mentalità, lo spirito buddista si sta infiltrando sempre di più anche nel nostro cattolicesimo ed è un
fenomeno socialmente molto interessante. Ci sono delle manifestazioni molto lontane, dal
cristianesimo, però ci sono molte infiltrazioni di mentalità buddista anche nell'ambito cristiano e ciò è
del tutto logico perché sta cambiando il concetto di religione.
La religione che una volta era soprattutto affermazione di una serie di verità, oggi è sempre più
ricerca di felicità, di senso della vita, di soddisfazione interiore. Dove vado a cercare qualche cosa che
mi rende più felice? Qualcuno va in discoteca, ma forse torna a casa meno felice, una volta si andava
nelle sezioni dei partiti, oggi se ne scappa via perché si esce più infelici di prima.
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Dove vai a cercare un po' di pace interiore? Le religioni, tutte, sono pronte a darti una mano, molto
di più se non sono religioni dogmatiche, ma soprattutto etiche. Questa è la grande forza delle
religioni orientali, diciamo in genere religioni orientali (per l'Induismo dovremmo fare delle
distinzioni), soprattutto significate dal buddismo, caratterizzato dal bisogno di ritirarsi in se stessi,
d'incontrare l'altro nella compassione e nella pace interiore. Lasciamo stare i discorsi su Dio, non ne
sappiamo niente, lasciamo stare i discorsi su un eventuale al di là, non ne sappiamo niente: alcuni
pensano che ci siano delle vite successive, altri no. La realtà è che da una parte l'Islam e dall'altra il
buddismo criticano in maniere ben diverse la nostra religiosità occidentale. La criticano e l'attaccano,
gli uni con decisione (l'Islam), gli altri in maniera dolce.
Questo per rispondere alla vostra domanda: come ci vedono gli altri?
Nel vostro corso parlate di "epoca della globalizzazione". C'è questa globalizzazione nel campo delle
religioni mondiali? Se è vero che c'è la globalizzazione anche nel campo delle religioni, allora
dovremo arrivare ad una forma di minimo comune denominatore, di compromesso. Che sta
succedendo? C'è la globalizzazione? Il buddismo noi lo conosciamo mediante i mass-media, i films, le
trasmissioni televisive, si parla di un attore o di un calciatore che si è fatto buddista (in altri tempi
l'avrebbero saputo solo i suoi parenti, ora lo sappiamo tutti). Quindi i mass-media ci portano questa
globalizzazione, sotto forma di un generale appiattimento, ci sono molto meno offerte di una volta,
ma molto più offerta di senso della vita, o di felicità, una parola un po' forte ma che possiamo usare.
C'è dunque un appiattimento di tutte le religioni e allora è vero che non è molto diversa l'offerta di
senso che viene fatta dai vari cristiani, (cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani) da quella che viene
fatta dai vari buddismi (noi diciamo buddhismo al singolare ma ce ne sono tanti) e, in genere, dalle
varie religioni. Mi pare che ci sia un notevole appiattimento dovuto alla globalizzazione, però
dobbiamo fare attenzione al rovescio della medaglia: dove ci sono gli appiattimenti, ci sono le nascite
dei fondamentalismi, perché è logico che ci saranno dei gruppi che sosterranno che bisogna prendere
alla lettera i testi sacri per non accettare l'appiattimento. Gli integrismi sono molto pericolosi: quelli
musulmani sono più vistosi e anche più violenti, lo vediamo in Algeria, ma gli integrismi cristiani non
scherzano, anche quelli cattolici.
Allora attenzione, stiamo vivendo un momento molto interessante dal punto di vista interreligioso e
quindi interculturale e interetico, perché è chiaro che gli integrismi toccano l'etica, la globalizzazione
viene vissuta in maniera contraddittoria: da un lato con una certa soddisfazione perché pensiamo che,
se le religioni si appiattiscono su un minimo comune denominatore, forse saranno meno violente, e
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forse quel minimo comune denominatore rappresenterà la loro "verità"; dall'altro dobbiamo fare
attenzione perché laddove c'è l'appiattimento sorgono gli integralismi, lo vediamo nel mondo
musulmano, l'abbiamo visto in maniera vistosissima in India, lo vediamo in Irlanda, lo vediamo da
noi. E' terribile questa specie di legge per cui rimane difficilissimo trovare una giusta via fra gli
appiattimenti e la loro positività e gli integrismi e la loro negatività. E' sempre successo così nella
storia, l'esempio più noto a tutti è quello della fine dell'Impero romano quando all'improvviso, dopo
appena qualche decennio dalle persecuzioni contro i cristiani, per volere di un imperatore, centinaia
di milioni di persone diventarono improvvisamente appiattiti cristiani.
Bibliografia ragionata per "La nostra religione vista dagli altri"(a cura del Dott. Filippo Gentiloni):
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RELIGIONE E CULTURA NELL'ERA DELLA
GLOBALIZZAZIONE
Prof. Arrigo Chieregatti
10 novembre 1997
Ogni religione nella storia ha espresso e generato una cultura, così come ogni cultura ha espresso e
generato una religione. A volte siamo coscienti di questo, a volte invece non ne siamo consapevoli,
ma comunque ogni cultura ha la propria religione a cui si riferisce in modo nascosto o in modo
evidente. Religione non tanto come struttura e istituzione, ma come riferimento a cose semplici e
vere, alla voglia di vivere e di amare, alla concretizzazione della solidarietà e di una vita sostenibile per
tutti e non come privilegio di alcuni con l'esclusione di molti. E' infatti la speranza e l'attesa di un
gran numero di uomini e di donne che venga messa al centro l'umanità di ognuno e non che alcuni
possano sfruttare la situazione per se stessi. E' il desiderio di tanti, e anche questa può essere
chiamata religione, che non venga uccisa la natura, che non vengano venduti i bambini a pezzi nel
commercio di organi perché sarebbe l'unico modo per aiutare i propri fratelli, le proprie sorelle e la
famiglia a sopravvivere.
Invece è divenuto ormai una religione mostrarsi in televisione a distruggere le mine, le stesse mine
che pochi mesi prima i soldati dell'esercito del proprio paese avevano seminato, oppure a contestare
il traffico d'armi che permette ad alcuni popoli della terra di vivere nella ricchezza. E' una religione
l'impegno di mostrare la forza della propria organizzazione davanti alla quale devono inchinarsi tante
persone perché sa risolvere i problemi, sa dare una risposta a tutto.
E' stata instaurata una religione che non vuole più la lotta, perché ormai è divenuta una brutta parola
per le orecchie "pudiche" del nostro tempo, e alla lotta abbiamo sostituito gli eserciti alle frontiere,
abbiamo inviato le navi da guerra ad affrontare i gommoni e le zattere pieni di profughi. Non
combattiamo più i ladri e gli scassinatori perché abbiamo messo la protezione elettronica ai cancelli e
alle finestre delle nostre case.
Ed è stata instaurata la religione del possesso. Abbiamo costruito la religione del contabile. Ormai la
nostra vita è diretta e orientata dai ragionieri e dagli economisti. Si vorrebbe spegnere le stelle e la
luna perché non procurano più un dividendo, perché le stelle e la luna, almeno per ora, non ci
possono procurare maggiore ricchezza.
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Mentre nelle "vecchie" religioni, in ogni religione degna di questo nome, e di qualsiasi cultura, erano
importanti le stelle, la luna, il sole e la terra.
Ogni cultura che non ha un senso "religioso" della terra e del cielo, della morte e della nascita avrà
sempre un'esperienza limitata di universalità, perché sarà sempre rinchiusa negli ambiti ristretti dei
propri interessi.
La globalizzazione, in cui siamo tutti immersi, e in cui vorremmo trascinare ogni essere vivente del
globo, risponde evidentemente a molte esigenza e ha grandi opportunità: nessun popolo potrà
pretendere di risolvere da solo i molti problemi che si affacciano all'orizzonte, alcuni problemi sono
certamente sovra-nazionali e anche sovra-continentali. Però questo ha portato alla convinzione che
ad ogni problema vi debba essere un'unica risposta per tutti. Una convinzione che è ormai divenuta
di portata "religiosa", per alcuni è una convinzione dogmatica, quasi un postulato, cioè indiscutibile.
Persino le "religioni" sembra debbano seguire la stessa strada, e anche le culture, che sono obbligate
ad incontrarsi, sono obbligate ad uniformarsi e a giungere un giorno ad accettare un'unica religione e
un'unica cultura per tutti.
Questa "religione" sembra abbia esigenze molto vicine a quelle che sono state contestate e dichiarate
colonialiste e oppressive nei secoli passati.
Già è stato accennato, un giorno il mondo ricco aveva bisogno di schiavi per il lavoro e folle di negri
sono state stipate nelle navi per essere trasportate dall'Africa in America e in Europa così ancora oggi
gli schiavi stipati nelle loro navi "liberamente" si offrono alle nazioni ricche e pagano per venire da
noi, e sfidano il mare e le cannoniere.
Sembra essere tornati di nuovo al cannibalismo: si comprano i reni, il fegato, il cuore con un pugno
di dollari e vengono rivenduti nei nostri paesi a prezzi inverosimili.
In Cambogia o in Cecenia durante il conflitto con la Russia, vengono prelevati gli organi ai bambini o
ai soldati caduti per circa trecento dollari, mentre nella banca del rene a Bruxelles un rene può essere
venduto anche a quattrocento milioni di lire.
E la globalizzazione è divenuto il nuovo idolo, a cui tutto può essere sacrificato, di cui sono state
costruite le norme e le regole, e la morale e la "religione". Della globalizzazione esistono ormai i riti e
i nuovi sacerdoti, dei quali dobbiamo conoscere il nome, i compiti e gli strumenti, e a queste divinità
vengono ogni giorno innalzate preghiere, e offerti sacrifici.
E' importante renderci conto come le "religioni" di questo momento siano coinvolte e partecipi del
sistema in cui viviamo: dobbiamo avere il coraggio di chiedere quale risposta sappiano dare, quali
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alternative possono offrire, perché si tratta della salvezza delle culture e delle religioni in cui tutti
viviamo.
Si stanno ripetendo in varie parti del mondo, in situazioni evidentemente differenti che permettono
quindi di ingannare chiunque, gli stessi eccidi, le stesse stragi operate dai colonialisti dei secoli passati,
le stesse pulizie etniche, gli stessi scontri tra culture e tra religioni, le stesse oppressioni a volte
suffragate e volute dalle filosofia e dalle dottrine religiose dell'Occidente, in genere appoggiate dai
sistemi politici ed economici, perché vedono compromesso il loro potere e la loro sovranità, che
vorrebbero estendere sul mondo intero.
"Il popolo musulmano è l'unico popolo con cui non è possibile trattare, è possibile solamente
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contrastarlo, è solo possibile eliminarlo".
"1 musulmani sono l'unico popolo che ha una volontà e una mente che non accetta il
dialogo; è necessario che tutti gli altri popoli si impegnino a rompere la solidità di questo legame che i
popoli musulmani hanno tra loro".
E non sono opinioni isolate di qualcuno che può avere avuto un'esperienza particolare, ma è anche
l'opinione di responsabili di gruppi missionari che hanno vissuto a lungo in ambiente musulmano, o
meglio che avevano vissuto in ghetti cristiani circondati da maggioranze musulmane.
Un altro personaggio, un uomo di cultura non ha avuto dubbi nel definire l'Islam: "... una religione e
una cultura di fanatici, con cui non è possibile dialogare. Anche noi facciamo azioni riprovevoli, ma
non sono mai giustificate dalle nostre dottrine come invece è per l'Islam.
L'integralismo islamico porta alla violenza, ad uccidere anche i bambini e a sacrificarli per gli interessi
dei capi politici e religiosi...".
E' inutile discutere: se qualcuno cerca di interpretare in modo diverso le indicazioni della dottrina
islamica viene giudicato come una persona che non apprezza la propria cultura e la propria religione.
Al di là della poca conoscenza della dottrina delle altre religioni, probabilmente il vero motivo per cui
non ci si vuole incontrare e confrontare è l'incapacità nostra di affrontare le diversità, siamo abituati
ad accettare solo una diversità che si annulla per lasciar posto ad un'identificazione sempre più
grossolana.
Uno dei segni più negativi della nostra cultura e della nostra religione, ma non solo della nostra, è
l'incapacità di realizzare la tolleranza: "Se ti avvicini in modo benevolo all'Islam significa che credi a
quella cultura, mentre l'atteggiamento giusto per andare nei paesi islamici è quello di insegnare loro la
tolleranza, l'indipendenza, la democrazia e la libertà, di cui forse non sentono neppure il bisogno".
A questo proposito mi ritorna spesso alla memoria l'incontro con un gruppo di parlamentari italiani
in visita in Cambogia che alla nostra domanda per sapere il motivo della loro visita, ci dissero che
erano venuti per aiutare il governo cambogiano ad uscire dalla grave situazione economica in cui si
trovava la nazione, per portare un aiuto finanziario per i bisogni più urgenti e per collaborare
affinché i politici cambogiani uscissero dalla corruzione (sic!). E ne erano perfettamente convinti.
E allora?
Gli studiosi di tutto il mondo considerano la globalizzazione il fine ultimo dello sviluppo: pur con
innumerevoli lati positivi, dilaga ormai ovunque il pensiero unico, che costituisce la trasposizione
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ideologica della globalizzazione, e per esso viene annullata ogni identità: classe, genere, cultura,
appartenenza, religione.
Tutto questo avrà come logica conclusione la marginalizzazione delle culture, in particolare delle
culture deboli, cioè quelle che non hanno dietro un forte esercito e grosse somme di danaro. Inoltre
siamo ad un processo di privatizzazione del legame sociale, e il rapporto con 1`altro" sarà relegato
alla buona volontà dei singoli o alla coscienza, o meglio, all'interesse delle nazioni che hanno a
disposizione la ricchezza.
Il territorio, ma anche lo spazio e il tempo vengono ridotti ad un unico mercato, alla soppressione dei
luoghi pubblici e alla privatizzazione del legame sociale.
Il mondo sarebbe diventato ormai comune a tutti e in esso ogni essere umano si deve annullare:
siamo chiamati a partecipare allo spettacolo degli eventi, allo spettacolo della moda, l'ambiente in cui
viviamo è solo un'occasione d'investimento e di profitto.
In questo quadro è stata costruita o si sta costruendo una religione "adatta" per la globalizzazione,
con le stesse caratteristiche di mercato., di efficientismo, di competitività e di meritocrazia come in
tutti gli altri ambiti della vita.
Il mondo dell'arte, della poesia, del gratuito, che è parte della cultura umana e su cui si costruisce la
religione, non viene escluso, ma viene confinato nell'ambito del volontariato, dell'opzionale, mentre
viene rifiutato come tessuto connettivo della realtà sociale, della vita familiare, della scienza, che può
invece procedere da sola.
Chi fa "cultura" non è più la poesia, non è più l'arte ma il mercato.
E' possibile un incontro tra religioni? E ugualmente, è possibile un incontro tra culture?
Ebbene, è necessario ammettere che l'incontro tra religioni, come tra culture, è una tragedia, perché
tutte le religioni e tutte le culture dovranno accettare di essere limitate, solamente relative e nessuna
potrà pretendere di essere assoluta o universale. La proposta di un valore per una cultura, o per una
religione, può essere per un'altra cultura o per un'altra religione una tragedia e persino apparire un
non valore e quindi da rifiutare, da condannare e da combattere.
E' necessario, e per ognuno di noi è uno scandalo, la messa in discussione di ciò che per noi è il
fondamento della nostra identità e della nostra verità.
Esistono infatti più identità per la stessa persona, esistono più verità per la stessa realtà: il bianco e il
nero non sono due colori contrari, ma sono parti diverse della stessa realtà.
Fare uscire i "selvaggi" dalle tenebre è stato il terreno in cui ci siamo impegnati da secoli sia per la
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religione, sia per la cultura, per la sanità, per la scuola e siamo convinti che possiamo insegnare molto
a tanti popoli.
Il processo di unificazione è in atto da secoli, ormai da millenni e forse oggi siamo giunti alla
conseguenza ultima: alla pretesa unità del genere umano riguardo alla religione, alla cultura, alla
scuola. Ma forse è la nostra pigrizia che ci spinge a confrontarci con quello che abbiamo in comune e
non con quello che abbiamo di differente, nel qual caso troveremmo che non sono diverse le norme
della vita, non sono diverse le cose pratiche, ma i principi indimostrabili su cui fondiamo la vita, la
cultura, la religione, l'amore, la relazione.
La vita non è semplice, è forse almeno doppia, e la verità ha sempre due volti, spesso contraddittori,
ma entrambi veri. Anche la storia ha differenti dimensioni secondo le visuali con le quali vengono
giudicate. Neppure l'amore unisce totalmente, perché l'amore esprime mondi differenti secondo
l'amore con cui siamo stati amati e secondo l'amore con il quale abbiamo amato.
Ci dovrebbe far riflettere il fatto che ogni incontro di cultura si è consumato nel sangue: in America
latina come in India, in Giappone come ad Auschwitz, .in Cambogia come in Ruanda, ma anche nelle
nostre scuole, nei nostri ospedali e nelle nostre famiglie, nei nostri monasteri, nelle chiese o nelle
prigioni dei nostri Stati cosiddetti "civili", si consumano nel sangue le stesse violenze e con difficoltà
ne prendiamo coscienza e lo ammettiamo.
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DOCUMENTO DEL SINODO DELLE CHIESE VALDESI E
METODISTE
Il protestantesimo, ponendo al centro della vita cristiana lo studio della Bibbia, ha fin dalle origini,
vissuto intensamente la passione per l'annuncio della Parola e l'impegno per istruire e far crescere le
persone nel confronto con il testo e nella discussione dell'assemblea.
In continuità con questa vocazione che, in passato, ha saputo rispondere alle carenze dello stato con
l'apertura di tante scuole evangeliche nel nostro paese, che oggi si esprime soprattutto nell'impegno
di numerose donne e uomini evangelici insegnanti nella scuola statale, sentiamo la responsabilità di
contribuire positivamente al progetto formativo della scuola in Italia e alla sua qualità, tanto più nel
momento in cui sono in cantiere rilevanti modificazioni del sistema scolastico.
Le nostre chiese, tramite il Consiglio della FCEI, hanno già espresso al Ministro della Pubblica
Istruzione alcune considerazioni in merito ai contenuti della prevista riforma scolastica, chiedendo in
particolare che, a partire dalla preparazione dei docenti e successivamente nei programmi, si realizzi
un'adeguata informazione sul "fatto religioso" e sul formidabile intreccio tra fenomeni religiosi e
comportamenti umani, accadimenti storici, realtà culturali.
Ribadiamo che il nostro intento non è di rivendicare uno spazio confessionale nella scuola né di
provocarne la lottizzazione.
Vorremmo invece contribuire a che il progetto formativo scolastico assicuri agli alunni una
comprensione completa e critica di quel complesso di idee, di fatti culturali, politici, economici,
artistici, e religiosi che sostanziano la storia occidentale e sono alla base della nostra identità
personale e collettiva.
In un simile percorso formativo che dovrebbe porsi come asse portante di una scuola seria,
democratica, laica, aperta all'Europa, il protestantesimo costituisce il terreno di maturazione di alcune
acquisizioni fondamentali per l'identità europea.
Innanzitutto la concezione dell'individuo che si pensa come soggetto, libero e autonomo, titolare di
diritti, ponendo in primo piano la sua libertà di coscienza, vincolata dalla Parola di Dio, ma non
sottoposta ad alcuna autorità né religiosa né politica.
Questa consapevolezza sostanzia la grande trasformazione da suddito a cittadino, progetto tuttora
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incompiuto perché la piena cittadinanza politica e sociale non è raggiunta per tutti neppure nelle
democrazie occidentali.
L'altra grande idea che sta alla base della stessa democrazia è quella del "patto" che affonda le radici
nella teologia biblica dell'alleanza tra Dio e il suo popolo.
Il patto, come contratto tra cittadini, va riproposto proprio nel contesto di società complesse come la
nostra, dove la tendenza a chiudersi all'interno di comunità omogenee a sfondo etnico-religioso, o ad
avanzare istanze separatiste, mette in forse l'universalismo della cittadinanza democratica e l'idea
stessa che di una società aperta e plurale.
Per evitare che la varietà delle appartenenze degeneri in forme di "neo-tribalismo" ma sia occasione
di arricchimento, è necessario che ogni persona sappia e possa far interagire in uno spazio pubblico
di confronto critico, il patrimonio che le deriva dalla sua collocazione di identità con quello degli altri,
accettando si sottoscrivere un nucleo forte di regole politiche e di principi di giustizia comuni.
La scuola può qui svolgere un ruolo decisivo, realizzando un progetto formativo sul duplice versante,
da un lato, dell'interculturalità come valorizzazione del pluralismo delle differenze e, dall'altro del
senso di appartenenza alla patria, cioè alla collettività politica intesa in termini di diritti e doveri validi
per chiunque e vincolanti per tutti, così come definiti nel Patto Costituzionale.
L'acquisizione di questa doppia consapevolezza ci pare determinante perché i futuri cittadini europei
sappiano essere coscienti di sé, adulti, capaci di scegliere in modo critico e di assumersi responsabilità
personali, liberi da indottrinamenti, solidali e curiosi delle differenze in un mondo complesso e
caratterizzato da culture, etnie, religioni diverse e spesso conflittuali.
L'insieme dei contenuti e degli obiettivi cui abbiamo fatto cenno, oggi largamente condivisi nel
mondo della scuola anche se spesso ne viene ignorata la matrice, dovrebbe costituire uno dei criteri
determinanti per qualificare una scuola come "pubblica", indipendentemente dal soggetto che la
gestisce.
Di conseguenza riteniamo che scuole promosse da formazioni sociali, caratterizzate da
pre - comprensioni ideologiche, che si propongono di farne strumento di indottrinamento più o
meno esplicito, non possano meritare in alcun modo una collocazione all'interno dell'insegnamento
pubblico.
Non intendiamo con ciò sostenere il monopolio statale nella formazione dei giovani, ma
riaffermiamo che, ferma restando la libertà d'insegnamento e l'autonomia degli istituti, è interesse
pubblico che vi sia un quadro di contenuti e di norme dell'istruzione comune a tutte le scuole.
In ordine al problema dell'ipotizzato finanziamento delle scuole private da parte dello stato e degli
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l'inequivocabile contenuto dell'articolo 33 della Costituzione enti locali si deve anzitutto richiamare
che, nel legittimare l'iniziativa privata in campo educativo, nega ogni correlativo diritto a far gravare i
corrispondenti oneri sulla finanza pubblica.
Si tratta di un accordo raggiunto tra le diverse componenti politiche e culturali in sede di
elaborazione della Carta costituzionale che non può essere violato senza metterne in discussione i
principi fondamentali.
Va inoltre osservato che il nostro paese è attualmente impegnato in vari tentativi di razionalizzazione
della spesa pubblica con conseguente ridimensionamento del cosiddetto "stato sociale".
Appare quindi inammissibile che, mentre si prospetta una drastica e talvolta ingiusta riduzione
dell'intervento pubblico posto a tutela di diritti ed esigenze essenziali dei cittadini, una fetta
consistente della risorse disponibili venga destinata al sostegno di iniziative private anziché a
riqualificare la scuola statale, a preparare ed aggiornare i docenti, a garantire la presenza di sedi
scolastiche su tutto il territorio e in particolare nelle zone montane e disagiate.
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RASSEGNA STAMPA DEL FILM MANTO NERO
Proiezione del 10 novembre 1997
Regia di Bruce Beresford. Con Lothaire Bluteau, August Schellenberg, Aden Young.
Avventura (prod. Canada 1991)
Durata: 110 minuti.
Nel filone "Vite di Fede e d'Avventura" Manto Nero conquista una nicchia decorosa. Benché non
esca dai binari di una certa convenzione spettacolare costruita sull'esotico e sostenuta da paesaggi
stupendi, offre infatti più di un motivo di interesse.
Per cominciare accresce il nostro sapere parlandoci degli Algonchini, degli Irochesi e degli Huroni, gli
amerindi che, pur essendo talvolta in guerra tra loro, dovettero difendersi dai coloni francesi e inglesi
andati a portare la civiltà nel Québec del Seicento.
Corre l'anno 1634, il gesuita Laforgue, infiammato d'amore per Cristo, percorre oltre duemila
chilometri in canoa al fine di raggiungere l'avamposto della missione.
E' stato affidato a un gruppo di indiani il cui capo Chomina ha promesso di proteggerlo, e ha con sé
il giovane falegname francese Daniel che spera di farsi prete, ma le peripezie sono tremende.
Viene il giorno che quei selvaggi lo abbandonano scambiandolo per un demonio (hanno creduto un
Dio l'orologio che batte le ore...) e Daniel perde la testa per l'indigena Annuka.
Chomina peraltro si pente del tradimento, e cerca di difendere Laforgue dalle tribù che lo accusano
di aver loro rubato lo spirito con lo scaramantico segno della Croce. L'impresa non ha successo.
Chomina sceglie di morire, dopo aver visto il figlioletto sgozzato e la moglie trafitta, e il prete si
rassegna a battezzare gli Huroni senza che essi abbiano sposato la fede cristiana.
Ma forse il nostro Laforgue, a contatto con quei primitivi a loro modo altrettanto religiosi, ha
corretto il proprio fanatismo: si è convinto che i sogni sono la realtà, la foresta parla e i morti
rivivono di notte.
Tratto da un romanzo dello stimabile Brian Moore (in Italia il volume è edito da Piemme), Manto
nero è frammentato in scene talvolta puramente illustrative e tuttavia ha la prestanza drammatica che
comportava il confronto tra due modi di vivere la fede, con in più l'apertura al soprannaturale
rappresentato dalle premonizioni di Chomina.
Il regista australiano Bruce Beresford non ha la mano ferma che procurò quattro Oscar al suo
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A spasso con Daisy, ma cura con discreta attenzione la figura del gesuita, debitamente turbato
dall'amore fra Daniel e Annuka, e quelle dei barbari armati d'arco e frecce, vestiti di pelli e di penne,
che diffidano della sua tonaca.
Gran lavoro per i costumisti e i truccatori sbizzarritisi nel dipingere gli indiani, panorami sontuosi,
bene utilizzati dallo scenografo Herbert Pinter e dal fotografo Peter James, musiche di Georges
Delerue, e nella parte di Padre Laforgue il buon attore canadese Lothaire Bluteau.
Né infami, crudeli e ululanti come nelle ormai polverose pellicole di John Wayne. Né generosi,
narcisisti e "democratici" come nel celebrato Balla coi lupi di Kevin Costner.
Gli indiani (per la precisione, il popolo degli Huroni) di Bruce Beresford, vincitore di quattro Oscar
per A spasso con Daisy, sono il frutto di meticolose ricerche storiche (il film è tratto dall'omonimo
romanzo dell'irlandese Brian Moore), splendidamente fotografati nel loro contesto naturale, (il
Québec settentrionale), antropologicamente ineccepibili (arnesi, abiti, utensili, armi ricostruiti a
dovere).
Manto nero è una complessa vicenda di contrasti razziali, di fanatismo religioso, d'intolleranza, di
segregazione, di tragiche incomprensioni culturali.
Ovvio che nel rivolgere lo sguardo al lontano 1634, centoquarantadue anni dopo la scoperta
dell'America e, dunque a colonialismo (imperialismo?) già consolidato, l'esule australiano Bruce
Beresford (emigrato prima in Inghilterra poi arresosi - non definitivamente allo star system di
Holliwood) esponga, sottintenda ed alluda alla sua propria condizione, all'epocale stato di sudditanza
(anche psicologica) del suo paese, all'indelebile "complesso di colpa" che macchia l'uomo bianco nei
confronti degli aborigeni, un "leit motiv" caro a molti registi provenienti dal quinto continente, Peter
Weir compreso.
Non di sole metafore o di parabole etnologiche vive tuttavia il film, cupo e angusto, ben girato e
ambizioso, frutto della prima coproduzione canadese e australiana che storia del cinema registri.
Incline all'autoflagellazione mistica e corporale, irradiato da una luce celeste intensa e accecante,
Padre Laforgue è un gesuita della Vecchia Francia giunto nella Nuova per convertire le tribù alla
legge del Signore.
Insieme ad un gruppo di Indiani che fungono da guide e a Daniel, un giovane compatriota, il
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sacerdote intraprende un lungo viaggio in canoa lungo il fiume per raggiungere l'avamposto della
missione.
Natura (bellissima), cultura e relazioni sociali gli sono però avversi.
Problematiche questioni morali e spirituali impediscono a Laforgue di mostrarsi tollerante e
comprensivo con gli indigeni, invasato come è di manie di redenzione e incapace di assimilare, da par
suo, tradizioni, mentalità e credenze del popolo ospite. Gli Indiani, d'altro canto, diffidano di lui: per
via della barba lo paragonano ad un cane ("faccia pelosa") e per quell'ingombrante e austera tunica
nera, lo soprannominano "black robe", manto nero.
Inverni terrificanti, tribù di irochesi con capigliature skinheads, amputazioni di dita, epidemie di
"febbre europea" che decimano gli Uroni e quel che è peggio, tormenti dell'anima ("non so cogliere
la morte come dovrebbe un santo") e tentazioni carnali, piegano ma non spezzano l'irriducibilità
dell'uomo di Chiesa sospinto da troppa fede ma da poco cuore.
Troppo calibrato e monocorde, adiacente ma lontano dalle travolgenti passioni etiche che animavano
il conquistador Robert De Niro e il più bonario gesuita Jeremy Irons in Mission, Manto nero soffre
d'una colpevole inerzia narrativa e della mancanza di adeguate sollecitudini avventurose. Nei panni
del protagonista, evidentemente adatto a ruoli mistici, l'attore canadese Lothaire Bluteau, già visto
nell'intellettualissimo Gesù di Montréal, per la regia di Denis Arcand.
Verso il 1630 un gesuita francese arriva in Canada assieme ai soldati e ai cacciatori di pellicce,
preparandosi a un lungo viaggio in canoa che lo porterà all'avamposto della missione gesuita in
Québec.
Padre Laforgue, così si chiama il protagonista di Manto nero, parte per il viaggio - guidato da un
gruppo di indiani Algonchini- che potrebbe finire con la tortura e la morte in un paese selvaggio
reclamato dalla Francia come suo possedimento, ma in realtà appartenente solo agli indigeni.
La trama del film - tratto dal libro di Brian Moore (edizioni Piemme)- si nutre dello storico spirito di
evangelizzazione che animava a quei tempi i seguaci di San Ignazio di Loyola, intenti a convertire le
anime e, persino a lottare contro il commercio degli schiavi suscitato dalla scoperta del Nuovo
Mondo, dando agli indigeni delle strutture comunitarie (come in Paraguay) capaci di affrancarli dalla
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dipendenza dai conquistatori.
Un soggetto interessante, affidato al regista australiano Bruce Beresford (Crimini del cuore, A
spasso con Daisv), e giocato sul contrasto fra due culture, due razze, due mondi, rappresentati da
Laforgue, l'uomo di fede che trova contraddizioni laddove spera di dare certezze, e da Chomina, il
capo degli indiani Algonchini che ha giurato di proteggerlo ma non si converte alla religione del
gesuita, ritenendo il battesimo ("la magia dell'acqua") un rito demoniaco, e il paradiso cristiano un
premio riservato a Laforgue e agli altri "manti neri" ("Che ci vado a fare nel tuo paradiso? C'è forse la
mia gente li? C'è del tabacco, ci sono le donne?").
E se all'inizio Laforgue è certo della sua fede, il viaggio, con la conseguente crisi spirituale,
rappresenta la sua crescita, la scoperta in quegli indigeni dei valori di carità, spiritualità e amicizia che
per lui erano patrimonio esclusivo della religione cristiana.
Il film di Beresford, nel ricostruire splendidamente il mondo selvaggio con immagini ruvidamente
maestose, pecca però nel disegno del sacerdote, quasi sommerso dalle avventure cruente e
sentimentali dei personaggi che lo attorniano: un suo giovane compagno innamorato di Annuka, la
figlia del capo indiano, l'attacco dei guerrieri Iroquois, l'eccidio degli Algonchini e la prigionia.
Fino al riscatto finale, quando Laforgue, rimasto solo, battezza gli indigeni Hurons, decimati dalla
febbre europea, anche se il suo gesto viene ritenuto un rito magico per sottrarre gli indiani alla
malattia. Per lui invece il sacramento è l'atto d'amore per celebrare un'anima ritrovata: la sua.
Denso d'informazioni su un periodo storico poco conosciuto, con gli indiani protagonisti della
vicenda e senza alcuna concessione al folklore, Manto nero è interpretato da Lothaire Bluteau, Aden
Young e Sndrine Holt.
Un film con gli indiani. Un film i cui dialoghi sono parzialmente in lingua algonquina (con
sottotitoli). Balla coi lupi 2 è già tra noi? Non precisamente. Una data dovrebbe metterci sull'avviso.
Siamo nel 1634, un passato assai più lontano dell'Ottocento dei western classici, e si narra la tragica
odissea di un gesuita spedito a "salvare le anime" dei pellerossa che vivono a Nord dei Grandi Laghi,
nella terra che oggi si chiama Canada.
Siamo più dalle parti di Mission, che da quelle di Balla coi lupi (dal quale il film di Beresford
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eredita, per altro, un'attrice, indiana Tantoo Cardinal).
E in effetti Manto nero ricorda molto il film di Joffé con Irons e De Niro, anche se non affronta lo
stesso tema: la società "comunista" in cui i gesuiti tentarono di aggregare gli indios del Paraguay,
ovviamente annullando la loro cultura, ma anche difendendoli dai mercanti di schiavi.
In Manto nero, siamo ancora a un grado primordiale della "missione" gesuita.
Padre Laforgue, appena arrivato dalla Francia, si addentra in un Canada ostile e selvaggio, scortato
solo da un gruppo di algonquini (indiani amici, e già in qualche misura "civilizzati" e da un
ragazzotto, Daniel, che gli fa da interprete.
Fra gli Algonquini c'è anche Annuka la figlia del capo, una ragazza talmente bella che Daniel non può
far altro che innamorarsene, ricambiato.
Strada facendo, la missione di Padre Laforgue fa cilecca con gli Irochesi, che li catturano e fanno
scempio degli Algonquini loro nemici, mentre riesce con i più pacifici Huroni.
Falcidiati da un'epidemia, questi ultimi si affidano al battesimo di Padre Laforgue come all'ultima
speranza: una didascalia metà tragica, metà beffarda ci informa che quindici anni dopo, divenuti
cristiani e pacifici, vennero sterminati dagli Irochesi; a far strage dei quali avrebbero provveduto i
bianchi, in tempi di poco più moderni.
E' un film bizzarro, Manto nero. Alterna parentesi assai spettacolari (soprattutto grazie agli
abbaglianti esterni naturali in cui è girato) a momenti di estrema crudezza. E si configura, in fondo,
come una parabola sulla violenza primordiale e sul tentativo, da parte della religione cristiana, di
rimuoverla.
In questo senso, il copione di Brian Moore -ispirato a un suo romanzo- non è manicheo: i pellerossa
sono crudeli ma "naturali", mentre Padre Laforgue è una sorta di "folle di Dio" nella cui vocazione
c'è una fortissima componente masochista (sarà un caso, ma quando gli Irochesi gli mozzano un dito
riesce a non emettere un gemito).
E alla fine, l'evangelizzazione degli indiani porta solo danni: l'unica speranza - del tutto utopica - è
nel rapporto tra Daniel e Annuka, che se ne vanno soli e innamorati verso un futuro che non esiste.
Memore di vecchi western di viaggio come Il grande cielo di Hawks e I due capitani di Maté, ma
anche di film sugli indiani come Uomo bianco va' col tuo dio di Sarafian e Un uomo chiamato
cavallo di Silvestein, Manto nero è suggestivo, generoso e lievemente prolisso: non rilancia la moda
del western, ma oppone nobili interrogativi e si lascia vedere, sia pure con un pizzico di noia.
Per essere un film canadese su personaggi francofoni, è singolare che l'abbia diretto un australiano:
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ma, una volta ammesso che Bruce Beresford (Tender Mercies, Crimini del cuore, King David, A
spasso con Daisy) è un regista senza grande personalità e che la riuscita dei suoi film dipende dai
copioni che gli danno, possiamo dire che Manto nero è uno dei suoi titoli migliori. Almeno finora.
Quando il Québec, trecento e più anni fa, si chiamava ancora Nuova Francia e i suoi abitanti, gli
Huroni, gli Irochesi, gli Algonchini, non si chiamavano ancora Pellirosse, perché i Francesi, che
attraversavano la regione commerciando pellicce, li definivano solo "selvaggi".
Tra questi francesi, i "manti neri", e cioè i Gesuiti delle Missioni, molto diversi dai loro connazionali
perché, anziché al denaro e al commercio, pensavano solo allo spirito e invece dell'odio e del profitto
praticavano e predicavano solo l'amor di Dio: visti con stupore dagli indigeni guidati, all'interno delle
loro culture, da concezioni della vita e della morte, animiste e edoniste, del tutto opposte alle loro.
Uno di questi "manti neri", padre Laforgue, è al centro della storia, tolta da un romanzo riscritto per
lo schermo dal suo stesso autore, l'inglese Brian Moore.
Padre Laforgue riceve il compito dai suoi superiori di recarsi a dar man forte a un altro gesuita che
vive in una sperduta Missione nel territorio degli Huroni. Lo accompagnano degli Algonchini e il
loro timore sono gli Irochesi, i più feroci "selvaggi" della regione. Difatti quando li incontreranno
sarà quasi una strage, ma alla fine padre Laforgue, solo e stremato, arriverà a destinazione: in tempo
per raccogliere l'ultimo respiro del suo confratello e sostituirlo nella sua missione.
Anche se più in là gli eventi procedendo in fretta, non tarderanno a vedere la completa distruzione
degli Huroni battezzati da parte degli Irochesi pagani.
Sembra una vicenda avventurosa, e in parte lo è, anche perché la regia di Bruce Beresford (A spasso
con Daisy) ha riservato ampi spazi alla vita nelle foreste, agli agguati degli indigeni, agli incontri e
agli scontri con le varie tribù indiane, in realtà, però, quello che soprattutto contava nel romanzo e
conta ancora abbastanza nel film è il contrasto tra il Cristianesimo e le credenze degli indigeni, con il
dilemma, che a un certo momento scuote anche il Gesuita protagonista, della reale validità di una
evangelizzazione del tutto estranea alla cultura di genti che, quando vi aderiscono, sembrano farlo
solo per superstizione (l'acqua del battesimo, ad esempio, vista come rimedio per malattie terrene).
Un contrasto dagli echi fondi e di non facile rappresentazione su uno schermo specie quando, sulle
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tracce del romanzo, vi si aggiungono anche i turbamenti di un sacerdote indotto nel corso della
storia, a porsi, sulla propria missione, interrogativi ansiosi fino al dubbio.
Beresford, nonostante la guida di Moore era troppo laico per interpretarlo in tutte le sue più giuste
dimensioni, così molti suoi risvolti, spesso, girano a vuoto, anche con il rischio di essere fraintesi;
qualcosa tuttavia resta e fa pensare nonostante, alla lunga, ad imporsi siano soprattutto i panorami
selvaggi del Québec e le truci apparizioni di Irochesi dediti al taglio delle dita o degli scuoiamenti, con
la gioia di terrorizzare gli avversari.
Attenti, però, il film non è soltanto questo: sotto ci sono turbamenti e drammi dello spirito cui
prestare orecchi attenti.
Nel "manto nero" di Padre Laforgue (per la storia è il "pallium hispanicum" dei Gesuiti del Seicento)
c'è il canadese Lothaire Bluteau, già visto in Gesù di Montréal di Denis Arcand: una maschera fine,
attraversata da lacerazioni dure ma anche da luci intense; con scabra intensità.
16-3-'92 Il Tempo
Nel Québec settentrionale vivevano gli indiani Uroni e nel 1634 non tutto il loro territorio era preda
dei colonizzatori (o colonialisti?) bianchi francesi.
Indiani soffocati non solo dai predatori di risorse naturali, con conseguente distruzione di splendidi
habitat, ma anche vittime di missionari, poco inclini a comprendere la cultura, le usanze, le credenze
dei nativi. Come accade per il gesuita padre Laforgue, il quale si imbarca in una impervia avventura,
scortato da un gruppo di indiani Algonchin, deciso a salvare le anime perse dei "selvaggi".
Incline al misticismo, all'autoflagellazione, chiuso in problematiche questioni morali e spirituali,
piuttosto che tollerante e comprensivo, Laforgue pensa solo alle sue manie di redenzione, senza
preoccuparsi degli indigeni, i quali, proprio per il suo comportamento intransigente e chiuso,
diffidano di lui e lo considerano un demone destinato a distruggere le loro ancestrali credenze
animistiche: per via della barba gli indiani lo paragonano a un cane e lo chiamano "faccia pelosa"; per
via della larga tunica lo soprannominano "manto nero".
Inevitabile sciagure si abbattono su Laforgue e il suo gruppo: le guide fuggono, gli Irochesi uccidono
e torturano i superstiti, la peste infuria, gli Uroni decimati dalla febbre e i correligionari gesuiti uccisi
dalla fame feroce.
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Solo dopo queste drammatiche prove Laforgue sarà maturo per una fede pura e senza pregiudizi.
Splendidamente fotografato nel suo contesto naturale e ineccepibile nella proposta antropologica,
Manto nero, diretto da un regista raffinato qual è l'australiano Bruce Beresford (quattro Oscar per A
spasso con Daisy), richiama analogie con Mission e con il convertito Robert De Niro ed è un film
abbastanza riuscito in quasi tutte le ambiziose metafore che la vicenda propone (il complesso di
colpa dei bianchi, i misfatti del colonialismo, il genocidio, la violenza di una cultura su un'altra);
tuttavia viene soffocato dalla cupa atmosfera misticheggiante che avvolge il protagonista, manca di
tensione emotiva e si adagia in un inerte e monocorde sviluppo narrativo privo di appigli avventurosi.
Sacchi in spalle, denti stretti; si va al Nord: il grande Nord americano, nella prima metà del Seicento.
Girato nel Québec dall'australiano Bruce Beresford, il regista di Crimini del cuore, A spasso con
Daisy e del recente Mr. Johnson (realizzato in Nigeria), Manto nero racconta il viaggio di un
gesuita francese inviato nel Nuovo Mondo a evangelizzare gli indiani sulla scia della colonizzazione
condotta dall'esploratore Champlain nell'area orientale del Canada (quella che si chiama Nuova
Francia). L'impresa, che ha per meta una lontana missione stabilita qualche anno prima nel territorio
degli indiani uroni, e che avviene con la benedizione dello stesso Champlain, si svolge nel 1634.
Ad accompagnare il gesuita sono una famiglia di indiani alleati e un giovane francese che ha messo gli
occhi sulla graziosa figlia del loro capo.
Il percorso, già difficile per l'intrico dei corsi d'acqua, delle foreste e dei ghiacci, è reso pericoloso
dagli incontri con gruppi di indiani irochesi, irriducibili nemici degli uroni e dei francesi, dal
momento che hanno ormai fatto lega con gli inglesi. Ma su questi risvolti storici il film non insiste.
La sua direttrice di marcia sembra essere essenzialmente quella illustrativa, in un diligente rispetto
della cultura indiana (nel bene e nel male) e in una riflessione priva di stonature polemiche sullo
spirito missionario, di cui si sottolinea tutt'al più la semplicistica indulgenza a promettere il paradiso
anche a quei "selvaggi". Insomma, il film preferisce narrare.
E al di là della disputa "spirituale" fra stregone e sacerdote, sullo schermo finisce per fluire senza
particolari invenzioni un classico racconto avventuroso, con le insidie della natura e l'agguato degli
uomini, con la cattura e la fuga fortunosa (grazie all'astuzia della ragazza indiana), con la morte
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dell'indiano amico e con il sospirato arrivo alla missione. Ma per trovarvi il vuoto o quasi.
Una didascalia finale avverte che quindici anni dopo gli irochesi avrebbero sterminato
definitivamente gli uroni.
Più che la volonterosa interpretazione di Lothaire Bluteau rimangono impressi i paesaggi: maestosi e
inquietanti, "veri" come di rado accade di ammirarne.
14-3-'92 P.P Il Secolo XIX
MANTO NERO
Regia di Bruce Beresford. Con Lothaire Bluteau, August Schellenberg, Aden Young, Sandrine Holt.
Drammatico (prod. Canada 1991).
Se Balla coi lupi s'è piazzato al vertice del successo, Manto nero, pur essendone la filiazione, non
sembra avviato ad altrettanta fortuna. Forse perché a parità di suggestioni ambientalistiche, fa un
discorso più serio.
Soldato blu dell'Ottocento americano, Kevin Costrner sposava la causa degli indiani e si batteva al
loro fianco: missionario nel grande Nord del 1634, Lothaire Bluteau non la finisce più di disgustarsi,
impaurirsi e tentennare in un rischio continuo della vita.
E alla fine del suo lungo pellegrinaggio in canoa e a piedi verso la remota missione dove il vecchio
prete, e con lui un'intera popolazione indigena, stanno consumandosi in una epidemia, riesce soltanto
a concludere che "prima di arrivare a capire si deve amare".
La riflessione è sottolineata dal gesuita Luis Alonso Schókel, prefattore del romanzo originario di
Brian Moore (Piemme Editore), scrittore irlandese stimato da Graham Greene, abile nell'intrecciare i
temi avventurosi con una tematica religioso-antropologica.
Tutto ciò è stato assunto dal regista australiano Bruce Beresford, non nuovo alle tematiche razziali,
come dimostra il suo fortunato A spasso con Daisy, in un film che respira a pieni polmoni negli
esterni canadesi e trasmette negli arredi, nei costumi e nelle tipologie un confortevole senso di verità.
I "manti neri" vorrebbero che Algonchini amici, come gli Irochesi nemici, come gli Uroni sull'orlo
della conversione, rinunciassero alla superstizione dei sogni, alla poligamia, al cannibalismo; ma i
nativi non afferrano il nuovo credo e si rinserrano legittimamente nelle loro tradizioni.
Sino a scuotere nel profondo (ed è questo il senso del film) le convinzioni propagandistiche del
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protagonista, che tuttavia non rinuncia alla sua missione.
Peccato che questi temi complessi non emergano con sufficiente chiarezza da un film a tratti
monotono.
Ma non mancano squarci suggestivi e situazioni forti; e almeno una sequenza d'antologia, quella della
morte del capo Chomina (l'attore autorevolissimo si chiama August Schellenberg), sullo sfondo di
un'isola che aveva già visto nel suo sogno.
La fede come conquista, la fede come battaglia, la fede come crescita interiore e sofferta. Il
protagonista di Manto nero il film dell'australiano Bruce Beresford (che nel 1990 ha ricevuto quattro
Oscar per A spasso con Daisy), è infatti un giovane gesuita francese che, nel lontano 1634, parte
dalle coste del Québec verso l'interno, per raggiungere lungo il fiume una remota missione nel
territorio degli Huroni.
Lo accompagna un giovane carpentiere francese, Daniel, e sono enigmatiche guide gli "indiani" di
una tribù di Algonchini.
Il romanzo di Brian Moore dal quale Beresford ha tratto la sua sceneggiatura è più pacato e ricco di
dettagli, nel raccontare la vicenda di padre Laforgue: che, invece, il regista ci propone senza
sfumature, nella sua totale dedizione all'impegno e nella sua incapacità di accettare l'atteggiamento
degli indigeni. Timorosi e diffidenti, gli Algonchini pensano che "Manto nero" sia un demonio: e
misurano l'efficacia delle sue parole sull'impaccio del suo volonteroso adattarsi alle prove più dure.
Padre Laforgue parla loro del Paradiso, lo presenta con rigore ortodosso ma non sa farsi
comprendere dai suoi compagni, che credono fermamente nel mondo dei sogni, nella permanenza
dei morti fra i vivi ("vagano di notte nella foresta"), in una vita futura che ricalchi la loro limitata
concezione di felicità terrena.
Se Daniel, attratto da Annucka, la figlia del capo Chomina, riesce a mediare le sue convinzioni con la
comprensione dei costumi e dei riti della tribù ("mettono tutto in comune, sono molto più generosi
di noi"), padre Laforgue è concentrato nella sua volontà di missionario: vuole battezzare la tribù con
quella che gli indigeni, disorientati, chiamano "la magia dell'acqua" e ritengono una "medicina"
contro le malattie del corpo.
Su questa base Beresford racconta il difficile viaggio e la sofferta prova con rapide scene, scoppi di
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violenza, lancinanti sguardi sul tormento del giovane prete, umiliato dalle sue stesse tentazioni e dalla
mancanza di rispetto in cui sprofonda la sua volontà di convertire.
Appare evidente, in alcuni dettagli, ma più ancora nell'intonazione del racconto, che Beresford si fa
portatore di una visione della Missione sostanzialmente protestante; così gli è difficile cogliere con
obiettività lo slancio generoso del sacerdote: mentre più facile - e vien da pensare al suo sofferto
"Breaker Morant" ambientato nel rigore militaresco e nelle sue estreme conseguenze - è per lui la
descrizione del Gesuita soldato di Cristo. C'è, negli sfondi ampi e affascinanti la sensazione di una
cupezza che è anche interiore disperazione.
La solitudine del giovane prete emerge nelle scene in cui la violenza delle situazioni e l'angoscia
dell'incomprensione stagliano il sacerdote in una sua desolata grandezza. Antropologicamente attento
- l'autore del romanzo si è fondato sulle "Relazioni" che i Gesuiti delle Colonie spedivano
periodicamente ai loro superiori - il film disegna con straordinaria efficacia la crudeltà di un mondo
"selvaggio", in cui le lotte fra le tribù si esprimono con orrore inevitabile e la morte è una compagna
costante.
Il suo protagonista assomiglia a quello descritto dallo scrittore Graham Greene, citando l'opera di
uno storico ottocentesco, Francis Parkman: "detestava il modo di vivere degli indiani ... aveva una
naturale incapacità di impararne il linguaggio.. e quando la tentazione del diavolo l'assalì
(suggerendogli di tornare in Francia) ... si vincolò con un voto solenne a restare in Canada fino alla
morte".
Mentre i protagonisti del celebre Mission di Roland Joffé sono, per vie diverse, ben convinti della
loro scelta, l'eroe di Beresford prega senza sosta, si mortifica, combatte con quel Diavolo che i
selvaggi immaginano invece albergare in lui.
Diviso fra l'incomprensione di un mondo che gli è estraneo e il desiderio acceso di convertire, padre
Laforgue non coglie l'elementare fede dei "selvaggi" nelle antiche credenze dei padri.
Anche per questo, al suo apparire in Canada nel novembre scorso, il film ha registrato un record
d'incassi e di polemiche: con le proteste dell' "American Indian Registry for Performing Arts" che ha
accusato il produttore Goldwin jr. di aver presentato i nativi con un forte spirito di discriminazione.
Ma Beresford ha scolpito con durezza tutti i suoi personaggi, senza eccezioni.
Ed è forse per questo che il film colpisce ed affascina, e il rispetto prevale sull'identificazione
emotiva.
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L'ISLAM IN EUROPA
Prof. Franco Ometto
24 novembre 1997
Explicatio terminorum
Non passa giorno senza che, attraverso i mezzi di comunicazione sociale, non si senta parlate di
Islam, integralismo islamico o di trame degli hezbollàh. L'Islam occupa e preoccupa articolisti di
giornali e riviste che ne parlano in toni più o meno tolleranti.
E già che ci siamo, soffermiamoci su questo termine tolleranza.
Se qualcuno di voi si alzasse e mi dicesse: "Noi tolleriamo il suo modo di parlare o le sue idee", penso
che non mi rimarrebbe, altro se non alzarmi dignitosamente ed andarmene. Alla voce tolleranza il
dizionario Palazzi dice: Virtù di indulgenza per cui ci si permette che altri dica o faccia cosa discorde
dal nostro sentimento o dalla nostra opinione e si dimostra comprensione per i difetti e mancamenti
altrui. In pratica è un esercizio di pazienza e longanimità di fronte a persone che, o per colpa loro o
senza loro colpa, riconosciamo trovarsi ad un livello nettamente inferiore.
Tolleranza è un eufemismo per esprimere spesso un malcelato complesso di superiorità.
Dopo questa parentesi, permettete che spezzi un'altra lancia contro gli specialisti dell'Islam: gente che
sta una settimana in un paese islamico, fa un'intervista ad un gruppetto di persone, usando una lingua
straniera conosciuta in modo assai precario, sia dall'intervistatore che dagli intervistati, interpretando,
più che comprendendo le risposte (quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur) e finalmente,
concretizzando ciò che è una loro personale impressione in un articolo che pretende riflettere la
realtà. Neppure gli ecclesiastici sono immuni da questa mentalità, se si eccettuano i missionari, che si
sono fatti arabi con gli arabi, per usare un'espressione paolina.
E già che ci siamo, mettiamo a fuoco un altro concetto: Islamismo o Arabismo?
Originariamente gli Arabi erano gli abitanti della penisola arabica, ma dopo la grande espansione
iniziata nel secolo VII, il nome si è esteso a molte popolazioni sottomesse e successivamente
arabizzate. Oggi si definiscono paesi arabi tutte le nazioni del Vicino Oriente e del Nord Africa che
hanno in comune la lingua araba, eccetto Israele, ove si parla ebraico e l'Iran, dove si parla una lingua
indoeuropea, anche se scritta con caratteri arabi.
Bisogna tuttavia ricordare che nei paesi arabi vivono anche popoli non arabi che hanno mantenuto
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lingua e tradizioni proprie e rivendicano la propria autonomia: per es. i Curdi.
Il fatto che fra gli arabi la religione più diffusa sia quella islamica, non significa che si possano usare
arabo e musulmano come sinonimi: non tutti gli arabi infatti sono musulmani (i cristiani del Libano
della Palestina, dell'Egitto ...) e non tutti i musulmani sono arabi (l'Indonesia è il più grande paese
musulmano del mondo: 150 milioni di credenti).
Dopo questa necessaria explicatio terminorum, affrontiamo l'argomento dell'Islam in Europa: ben
s'intende, l'Islam entrato in Europa tramite le immigrazioni, non quello autoctono dell'Albania,
Bulgaria ed ex-Iugoslavia.
La dottrina islamica
Riassumiamo brevemente i contenuti di questa religione: l'Islam è un sistema di credenze, di riti e di
metodologia esistenziale basata sul Corano.
La parola, derivata dalla radice trilittera SLM, significa sottomissione, pace, arrendersi a un potere
superiore. Il legame semantico dei vari significati è questo: dalla sottomissione alla legge di Dio deriva
la pace; quindi essere nell'Islam significa essere nella pace.
La permanenza in questo stato di pace richiede una applicazione continua di sforzo: Jihad.
Dalla radice JHD: sforzarsi, applicarsi con zelo, specie per vincere se stessi e le proprie cattive
inclinazioni. Questo è il Jihad ul akbar (grande). In questa specie di Jihad uno deve sottomettere ogni
aspetto della vita personale alla volontà di Dio, per controllare le passioni, usare bene del
matrimonio, educare i figli, compiere onestamente i doveri del suo stato e della sua professione, ecc...
Da questo Jihad si dirama anche il concetto di lotta contro il male esterno, cioè contro le varie
manifestazioni demoniache, la corruzione dei costumi e la cultura del peccato che travia il credente.
È quindi una lotta per inserire i valori umani e divini nella società, proteggere i diritti delle
minoranze, dei poveri e perseguire ciò che è giusto.
Infine da quest'ultimo concetto proviene l'estensione di Jihad alle politiche devianti basate sul
materialismo ateo o sul capitalismo egoistico ed oppressore dei popoli.
Il poeta Muhammad Eqbal diceva: La vita per l'uno è produzione e per l'altro riscossione di tasse.
L'uno porta alla rovina scienza, religione ed arte; l'altro rapisce l'anima al corpo, il pane alla mano.
Li veggo ambedue nel fango.
Ecco quindi la denominazione del Grande Satana attribuita agli Stati Uniti, sentita tante volte dalla
bocca dell'Imam Khomeyni.
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Allora, se è necessario, ci si oppone anche militarmente all'ingiustizia e all'oppressione.
Questi sono i vari significati di Jihad, parola che noi traduciamo con grossolana approssimazione
guerra santa.
Continuando l'accenno ai contenuti dottrinali islamici, si arriva ai cinque pilastri su cui poggia la
pratica religiosa:
1. Testimonianza (Shahadat): La ilaha illa Allàh, Muhammad rasul Allàh... cioè: non c'è dio tranne
Iddio, Muhammad è l'inviato di Dio.
2. Preghiera rituale (Salat).
3. Elemosina (Dhakat). Comprende l'imposta, le tasse e le varie specie di decime. La ricchezza è
concessa da Dio ad alcuni che ne sono i depositari e che la distribuiscono ai bisognosi o la usano per
le buone cause.
4. Digiuno (Saum): è un mezzo di affinamento spirituale, per allenare all'autodisciplina nella vita e per
mettere tutti, specie i benestanti, su di un piano di parità con quei molti che nel mondo soffrono la
fame. Viene osservato durante il mese del Ramadhan, dal sorgere del sole al tramonto. In questo
periodo è proibito mangiare, bere, fumare, avere rapporti sessuali...
5. Pellegrinaggio (Hajj) alla Mecca, ritenuta la casa che Abramo costruì per Dio. Qui convengono i
musulmani di tutti i paesi e razze.
Ecco lo sfondo religioso di gran parte di extracomunitari. Alla voce extracomunitario noi
colleghiamo automaticamente magrebino o senegalese, che poi riassumiamo nel termine generico
marocchino - non senza una venatura di disprezzo. A nessuno viene in mente di pensare ad uno
statunitense o a un giapponese. Eppure ce ne sono parecchie migliaia in Italia e sono proprio loro
che occupano posti prestigiosi e meglio remunerati.
Ma i ricchi che importano soldi o scienza e tecnologia sono sempre ben accetti. Anche lo sceicco che
viene a firmare un lauto contratto e sta in un hotel a quattro stelle, viene riverito da tutti, a
cominciare dai ministri, anche se è un arabo. Mentre il magrebino che raccoglie pomodori o compie
qualche umile lavoro o fa il vù cumprà è ritenuto un pericolo: ruba posti di lavoro; e se si adatta in
una catapecchia ristrutturata con i suoi risparmi e con l'aiuto di anime generose, occupa abitazioni.
Si deve concludere che ciò che fa paura, ciò che viene sentito come una minaccia non è lo straniero
in sé o il marocchino, è la povertà; e noi cerchiamo di difenderci da questa come da una grave
malattia sociale, o escogitiamo mezzi per debellarla, dimentichi del detto del Vangelo: I poveri li
avrete sempre con voi (Gio, XII.8).
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Le tesi illuministiche secondo cui la povertà sarebbe stata abolita con il trionfo della ragione e della
scienza o quelle marxiste si rivelano utopistiche oggi come non mai. La povertà non si può eliminare.
Francesco d'Assisi la chiamava Madonna Povertà e l'aveva abbracciata con amore.
Noi in questa sede scansiamo l'argomento e consideriamola pure una cosa da odiare, una piovra che
estende sempre più i suoi tentacoli e che ci incute spavento.
Il nostro istinto di conservazione ci allarma. I paesi ricchi non sanno come affrontare il problema
povertà, perché non ne hanno gli strumenti morali, cioè quei principi derivanti da un sano
ordinamento naturale, espresso praticamente dalle religioni, sia quella cristiana (cfr. le encicliche
sociali), sia quella musulmana ed altre.
Infatti l'Islam è basato su un principio di uguaglianza razziale, sociale ed economica che ha costituito
la molla della sua nascita, crescita e sviluppo fin dai tempi del Profeta.
Un accenno al concetto di economia sociale islamica.
La proprietà privata è permessa , il capitale è difeso, ma è la comunità dei credenti ('ummat) che
riceve i benefici del capitale privato, di modo che nella teoria della religione islamica non ci devono
essere poveri. Il bait ul mal, la cassa comune, è costituita dalle imposte date (dhakat) e dai pii lasciti e
va a beneficio dei poveri a livello locale. Ma anche a livello internazionale ci dovrebbe essere questo
bait ul mal, da parte dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri.
E se gli stati ricchi (Arabia Saudita, Qwait,...) non partecipano le loro ricchezze a quelli poveri, si
vedono il loro Islam messo in discussione e nasce la guerra del Golfo, quella del Qwait, le rivoluzioni
e i moti irredentisti nei vari paesi.
(Questa è un'analisi un po' sommaria dei problemi, ma rispecchia la realtà del pensiero del volgo
musulmano, che è poi quello che ci interessa, anche se dall'ottica dei politici che governano il mondo
la cosa è ben diversa).
Il fenomeno migratorio
Dopo questo breve excursus sulla dottrina islamica, si potrebbero esaminare le implicazioni sociali ed
economiche che il fenomeno migratorio dei musulmani comporta. Ma noi evidenzieremo l'aspetto
religioso, senza tuttavia sfuggire alle problematiche sociali che le comunità islamiche in Europa
comportano.
Sarebbe interessante sbizzarrirsi a immaginare un deputato o un sindacalista o un capoufficio
marocchino, come è già avvenuto in Francia (o negli Stati Uniti con i nostri italiani).
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A questo proposito si potrebbe considerare il fatto avvenuto qualche anno fa a Parigi, dove gli
studenti delle scuole superiori vollero e ottennero di parlare vis-à-vis con il Presidente Mitterand,
seduti ad uno stesso tavolo: i capi della pacifica rivolta studentesca non erano di origine francese, ma
figli degli immigrati del Nord Africa. Lì ci si accorse veramente che era entrato un flusso di sangue
nuovo nelle vene della vecchia Francia.
È quindi saggio prevedere e prevenire: intendiamoci, non nel senso di immunizzarci da un pericolo,
ma per risolvere una serie di problemi, avvalendoci dell'esperienza di paesi europei in cui il processo
migratorio è già in fase molto più avanzata che non in Italia, e si è giunti alla seconda e terza
generazione di immigrati.
Il processo migratorio dopo la seconda guerra mondiale si è manifestato in maniera sempre più
consistente, sia per l'attrattiva del bisogno di mano d'opera per la ricostruzione, sia per la
disuguaglianza sempre più evidente dei paesi ricchi e quelli poveri. Infatti la quasi totalità degli
immigrati in Europa è spinta da motivi economici o economico-politici.
Ora, siccome nei paesi poveri i problemi economici non diminuiscono, neppure il flusso migratorio
diminuirà, nonostante le barriere legislative che l'Europa progetta ed applica.
Sembra di trovarci di fronte a un fenomeno naturale, inarrestabile come l'avvicendarsi delle stagioni
o il fiorire degli alberi o lo scoppio di una tempesta in mare. E' un fenomeno che tende a diventare
qualcosa di permanente ed assume proporzioni sempre più consistenti.
Del resto l'umanità ha sempre conosciuto il fenomeno migratorio attraverso la preistoria e la storia.
Ma adesso al processo innato nella natura dei viventi di trovare luoghi più idonei alla propria
esistenza, si aggiunge il fatto che, da lungo tempo la ricchezza è stata trasferita dai paesi poveri verso
quelli ricchi, e ora necessariamente i poveri si muovono per recuperarla.
È inutile che ci affanniamo per frenare l'immigrazione, specie quella clandestina nei due paesi che
finora erano di transizione, Italia e Spagna; è inutile applicare leggi restrittive riguardanti permessi di
soggiorno e di lavoro in modo da impedire l'insediamento dei poveri in Europa: sembra di sentire
l'eco maestosa del libro di Giobbe: Ventus vehemens irruit a regione deserti et concussit quattuor
angulos domus... E chi può fermare la violenza del vento? Allora bisognerà lasciare che questi
vengano sine lege et sine rege e noi stare ad osservare imbelli? No di certo.
E' proprio qui che bisogna farsi su le maniche e studiare un piano per regolamentare questo
fenomeno che, lasciato a se stesso, non può produrre altro che miseria e malavita per loro e disagi
sociali per noi.
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E non aspettiamoci che le leggi, sia pur appropriate, dei governi riescano a risolvere i problemi.
Finché gli albanesi o i tunisini vedranno i nostri programmi televisivi, dove, per un nonnulla, per una
mossa d'anca o per aver risposto ad una domandina elementare, piovono milioni, ce li vedremo
venire a frotte con barchette e gommoni pieni zeppi che mettono in pericolo la loro stessa vita.
Quando poi vedono che attività come la prostituzione o lo spaccio di stupefacenti rendono in poco
tempo quanto una intera vita di stenti nei loro paesi, tutte le leggi sull'immigrazione vengono
facilmente sfidate.
In altri paesi europei, come la Francia e l'Inghilterra, anche a causa delle colonie che esse
possedevano, l'inizio del fenomeno migratorio risalente a varie decine di anni addietro, non fu
percepito in tutta la sua potenziale espansione. Ora esso si è largamente e profondamente radicato.
Infatti a quel tempo gli immigrati dell'Africa del Nord (per la Francia) si assoggettavano ad
abbandonare la famiglia, le loro abitudini e la loro cultura per un periodo limitato; ora invece coloro
che cercano una sistemazione per trasferire la famiglia in Europa, aumentano sempre più.
Essi sanno che ritornare al paese di origine con il gruzzolo racimolato non conferisce più quel certo
decoro economico e sociale che si potevano aspettare in tempi addietro.
Ora le condizioni politiche e sociali del paese di origine sono precarie e mancherebbe quel benessere
che hanno sperimentato nei paesi europei e che sperano acquisire, se non per se stessi, almeno per i
loro figli.
È qui che si inserisce la seconda fase del fenomeno migratorio, cioè quando l'extracomunitario si
stanzia nel paese europeo, trasferendo la famiglia o sposandosi con un/a cittadino/a europeo/a.
Logicamente si può pensare che il processo avrà un suo sviluppo naturale e non ci sono leggi che lo
arresteranno, come abbiamo visto, ma potranno almeno regolamentarlo.
È questione di anni: a tutti sono noti i fatti della diminuzione demografica, dell'invecchiamento della
nostra popolazione e dell'incremento della loro: tutti fattori che determineranno una società
multietnica nel giro di poche decine di anni.
Se, sotto l'aspetto logico, il fenomeno lascia prevedere quali ne saranno gli sviluppi, dal punto di vista
statistico, penso che si brancoli nel buio. Infatti le statistiche che ci vengono fornite dalle riviste o dai
mass media non sembrano attendibili. Si parla di oltre un milione di extracomunitari in possesso di
permesso di soggiorno in Italia; di questi ottocentomila all'incirca musulmani.
Nell'Europa occidentale comunque ci dovrebbero essere circa undici milioni di musulmani; oltre due
milioni nella ex Iugoslavia, un milione e mezzo in Francia, frutto della grande immigrazione nord
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africana, un milione e rotti in Germania. Metropoli come Londra, Parigi, Roma e Milano contano
decine di migliaia di musulmani. Inoltre l'Islam sembra che sia la religione che ha il più alto tasso di
incremento demografico nel mondo.
I matrimoni misti
Mettiamo subito in chiaro un principio inderogabile: il matrimonio è una istituzione di diritto divino-
naturale (cfr. Mt. 24,19; Eph. 5,31), quindi le legislazioni delle religioni o dei governi valgono solo in
quanto si appoggiano al diritto naturale, e possono subire deroghe, eccezioni o interpretazioni a
seconda dei vari casi.
Inoltre bisogna tener per certo che la vita matrimoniale presenta di per sé delle difficoltà derivanti da
differenze culturali, famigliari e da abitudini, più che dalla diversità della religione tra coniugi.
Però tutte queste difficoltà possono essere superate se c'è il vero amore fatto di comprensione e di
rispetto reciproco: cose che devono essere inculcate tramite una educazione specifica al matrimonio.
Nel campo particolare dei matrimoni tra cristiani e musulmani bisogna procedere con prudenza ed
evitare facilonerie. I vescovi del Triveneto in un documento ufficiale hanno espresso i loro timori e
perplessità. Mons. Clemente Riva, vescovo ausiliare di Roma, afferma: "Sconsigliate il matrimonio
con i musulmani, specie se si tratta di una ragazza cattolica, perché i drammi, qualche volta, le
tragedie che queste ragazze incontrano all'interno della famiglia, non potete immaginarle".
Ciò non vuole assolutamente dire che i musulmani siano cattivi mariti: non fraintendiamo.
Il costume e le leggi islamiche in genere prevedono la preminenza del marito in varie decisioni e in
materia di ripudio della moglie, di poligamia ecc... Questo non significa disprezzo della donna.
Il califfo ben guidato ‘Ali afferma che il paradiso sta sotto i piedi delle madri.
Però c'è una vasta gamma di problemi da affrontare tra stato italiano e comunità islamiche in materia
legislativa. Solo che lo stato italiano non ha una controparte, perché i musulmani in Italia o negli altri
stati europei non hanno gerarchia, non costituiscono un monoblocco.
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Di qui si capisce bene che la posizione dei vescovi non è basata su preconcetti. Inoltre, mentre la
Chiesa Cattolica riconosce i matrimoni misti che mantengano e rispettino l'identità religiosa dei due
coniugi - con la dispensa disparitatis cultus -, nell'Islam ciò non è generalmente ammesso; tant'è vero
che i musulmani stessi sconsigliano il matrimonio con fedeli di altre religioni o, se li permettono,
vogliono che la parte non musulmana si converta alla fede islamica, altrimenti i figli sono considerati
illegittimi.
Ora ditemi voi: se è vero che lingua e religione si imparano sulle ginocchia materne, che
impostazione religiosa islamica può dare una ragazza, diventata musulmana per opportunità di
matrimonio, alla vita di un figlio?
L'Islam è una religione che deve impegnare tutte le pieghe dell'animo umano - non meno del
Cristianesimo - e impregnare tutte le attività di un individuo a livello personale, famigliare, sociale e
politico.
E’ difficile trovare un neoconvertito a scopo di matrimonio, in possesso di convinzioni così
profonde da poter a sua volta impostare su di esse la vita della famiglia.
Ecco perché i musulmani illuminati sconsigliano i matrimoni misti. E la stessa posizione è tenuta dai
cristiani.
Conclusione
Il primo nostro dovere è di conoscere obiettivamente l'altro con un'apertura atta a coglierne i valori.
In secondo luogo, bisogna instaurare un rapporto di simpatia o amicizia o amore con l'altro,
anzitutto denunciando la violenza fisica o morale della nostra società nei confronti dei diversi;
evitando la derisione, la discriminazione, convinti che, come cristiani, siamo tenuti a promuovere il
rispetto dei diritti uguali per tutti.
Inoltre dobbiamo rifiutarci di rinchiudere gli immigrati musulmani o di altre confessioni religiose in
ghetti: essi hanno bisogno di aprirsi ai valori della società che li accoglie, con vari mezzi, primo fra
tutti la conoscenza della nostra lingua, via indispensabile per accedere al diritto di lavoro, di
assistenza sanitaria, di voto, di istruzione, di vita decente...
Infine occorre creare strutture di dialogo per trattare le problematiche inerenti ai matrimoni misti e
alla libertà di culto...
Sarebbe stato auspicabile esaminare, nel corso di queste parole, molti altri aspetti dei musulmani in
Europa: il loro modo di sentire intimamente la propria religione, l'influsso che essa esercita nella loro
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economia domestica, nel senso di pulizia rituale, nello spirito di sopportazione delle contrarietà (che
noi chiamiamo fatalismo), l'ospitalità, il concetto di legami famigliari a cui viene subordinato il lavoro
e il guadagno, ecc..., tutti fattori che aiutano a stabilire quel dialogo, base indispensabile di
uguaglianza sociale, di giustizia e di pace.
BIBLIOGRAFIA
Bausani, Corano, BUR, L'Islam, Garzanti.
Burgat F., Il fondamentalismo islamico, SEI
Cardini F., Noi e l'Islam, Sansoni
Mandel, Il Corano senza segreti, Rusconi
Ometto F., La saggezza del mistico cammello, PIEMME
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INDIA, INDIANI, INDUISMI
Dott. Gian Giuseppe Filippi
1 dicembre 1997
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DAL RUANDA AL CONGO
RELIGIONE TRADIZIONALE AFRICANA E SINCRETISMI
Dott. Giacomo Matti
10 dicembre 1997
Avrete notato che ho modificato il titolo che mi era stato assegnato per questa conferenza.
La denominazione Religione tradizionale africana (RTA) è ormai comune e sempre più usata tra gli
studiosi e i ricercatori. Gli esperti hanno rilevato tratti comuni nelle cosiddette religioni africane che
giustificano l'uso di tale qualifica.
Introduzione
Siamo nel 1969, forse 1970, nella regione dell'Alto Congo, nella zona di Basoko, delimitata a sud dal
fiume Zaire, a nord dal fiume Itimbiri, o se volete tra le zone di Yamgambi a est e quella di Bumba a
nord-ovest.
Lokwaikwai Bokula (Colui che abbraccia tutto nella luce), della chefferie dei ba-Ngelima, racconta:
"Giunti sul posto scelto per costruire il capanno (nganda) posano per terra tutte le cose che hanno
portato con sé. Il padre, la madre e i figli adulti prendono una foglia, chiamata lepango, nelle loro
mani.
Il papà comincia a pregare Moengei (Colui che illumina tutto) così:
"Onore a te capo del cielo e della terra.
Siamo venuti a cercare cibo per sopravvivere.
Non siamo venuti a cercare Mondili.
Voi spiriti degli antenati,
spiriti dei padri,
spiriti delle madri,
voi tutti spiriti benevoli
accorrete, proteggeteci.
L'elefante, il leopardo, il serpente
vadano lontano da noi.
Gli spiriti cattivi se ne vadano
come l'acqua che scorre a valle".
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Terminata la propiziazione, il padre di famiglia, con un machete, ripulisce un pezzo di terreno,
prende un ramo (bastone) degli antenati (baatolo) ne conficca un’estremita’ in terra e divide l'altra
estremità in quattro parti e le apre (punti cardinali).
A questo punto tutti, tenendo il lepango nella destra battono il dorso di questa nel palmo della
sinistra e recitano: "Dateci animali da cacciare".
Poi, mentre qualcuno parte per la caccia, gli altri costruiscono il capanno.
Se uccidono della selvaggina il capogruppo taglia la punta del cuore dell'animale e lo depone davanti
al baatolo, così prima di mangiare depone un po' di cibo davanti al bastone degli antenati".
Ho scelto, in apertura, questo racconto di Lokwaikwai Bokula perché presenta i quattro elementi
essenziali della RTA: l'uomo, gli antenati, gli spiriti e Dio. Sono entità ben distinte.
Gli antenati (protettori del clan) e gli spiriti (o geni - custodi della foresta, delle acque, dei campi..)
sono entità mediatrici e propiziatrici.
L'esistenza di Dio
L'esistenza di Dio viene affermata in base al principio di causalità. Poiché gli uomini e le cose
cominciano a esistere è necessario ammettere un Pre-esistente al primo Mu-ntu (uomo), un Pre-
esistente agli uomini e alle cose.
Dio è quindi Colui che non ha ricevuto l'esistenza, che è la spiegazione ultima di "tutti i comincianti a
esistere". A questa affermazione l'africano ci arriva per esclusione.
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Dio non appartiene né alla categoria del Mu-ntu (uomo) né del Ki-ntu (cosa) né del Ha-ntu
(localizzazione) né del Ku-ntu (modalità d'essere). É il tutt'altro, il necessariamente esistente, di cui
non si conosce il nome interiore (singì), è lo "straniero" di cui non si conosce né l'origine né la meta,
a meno che non li riveli.
Queste considerazioni di Alexis Kagame (La philosophie bantu comparée) sono fondate sugli
attributi primari o il nome proprio, il nome ufficiale che le varie etnie attribuiscono a Dio.
In Ruanda-Burundi Dio è:
Imana = l'Antenato
Iya-mbere = Colui del prima
Iya-kare = Colui dell'inizio
Rurema = il Creatore, il plasmatore
Rugabo = il Grande-potente, il Grande-forte
Nyamurunga = il Saldatore per eccellenza, Colui che organizza, che congiunge lo spirito vitale al
corpo.
Presso i ba-Shi del Congo Dio è:
Lungwe = Colui che unisce, Colui che unifica
Lugaba = il Donatore, il Distributore
Nnamahanga = il Padrone di tutto l'universo, Colui che tutto possiede.
Per i ba-Kundo (ancora Congo) Dio è:
Wangi = l'Architetto
Wanganjale = il Creatore del fiume
Anganko = il Creatore degli antenati
Per i ba-kongo Dio è:
Nzambi = il Realizzatore
Nzambi Mpungu = il Realizzatore grande
Nzambi Akikandika = il Dio assoluto, eterno
Nzambi Mayanama = il Dio che sta sopra tutto
Nzila a Nzambi = la Colonna vertebrale dell'universo.
Per i ba-luba Dio è:
Mulopo Maweja = il Capo potentissimo
Mvidi Mukulu = il Grande spirito
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Mukalenge Maweja Mangila, Diba katangila tshishiki = il Signore Dio, sole che non si può fissare.
Per i pigmei dell’Ituri Dio è:
Khmvum, l’Essere creatore.
Si manifesta nell'arcobaleno e nell'elefante.
Ci si potrebbe dilungare non solo nell'elencare i nomi di Dio, ma anche a cercare le aree e le
popolazioni che usano le stesse denominazioni oppure a cercare le combinazioni dei nomi dati alla
divinità, fenomeno dovuto agli scambi culturali, alle alleanze, alle fusioni di etnie, alle migrazioni.
La lontananza di Dio (Racconto dei Giziga del Camerun, cf. Allegato 1) se può dare l'impressione
del disinteresse del Creatore per il mondo, esprime bene la coscienza dell'autonomia e della dignità
del negro-africano.
Gli uomini devono provvedere da soli alla loro vita, devono dirimere le proprie liti e contese, anche
se possono sfociare nella guerra, devono sapere seppellire i propri morti, senza attendere chi li
"possa" o "deve" risuscitare.
La conformità ai miti ancestrali, al ritmo e alla parola creatrici assicurano al tempo stesso il
riconoscimento e la venerazione della divinità e la salvaguardia dell'autonomia della persona.
Non è poi un caso che sia la donna ad affermare la laicità della vita dell'africano, una laicità che, per
altri aspetti, parrebbe totalmente assente poiché tutto è permeato dalla presenza di "Colui del quale
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non si conosce il nome", di "Colui che non è possibile guardare", di "Colui del quale non si vede
neppure il fumo della casa".
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L'insegnamento religioso
Nei riti di iniziazione, dove all'iniziando vengono rivelati i segreti della tribù e, quindi l'architettura
del cosmo, il ritmo e la parola che lo hanno plasmato, Dio è presentato nella ricchezza dei nomi che
abbiamo ricordato sopra, come l'origine e il fine, come il garante della comunità e del creato. Alla
fine dei conti l'iniziando apprende, in questo momento particolare della propria esistenza, di essere
parte di un mondo creato, retto, appartenente a Dio. Nei riti di passaggio, in particolare
nell'iniziazione (morte e risurrezione) o semplicemente di preparazione al matrimonio e alla vita
sociale, viene esplicitato il senso religioso della vita, che occorre tramandare con formule consacrate,
ma anche con quello spirito di iniziativa che concilia il sapere religioso con le circostanze
dell'esistenza. É questo stile di vita che diventa culto e religione.
GLI SPIRITI
Se Dio è l'unico, se è senza eguali non si può ignorare che tra l'uomo e Dio esistono varie "divinità"
o esseri intermedi e/o intercessori.
Se intendiamo animismo nel senso che tutto è animato da un principio vitale (anima) non avremo
difficoltà a includere nella sfera del divino anche certi animali, in particolare gli animali totemici.
Difatti questi animali sono considerati il "doppio" dell'uomo, che è legato ad essi da un patto mitico
che sfocia nel rispetto reciproco. Gli animali totemici proteggono l'uomo a tal punto da essere
considerati, a volte, come fossero dei. L'animale totemico è comunque simbolo (serpente = fallo) o
reincarnazione dell'antenato (metempsicosi) o espressione dell'unità clanica. In ogni caso rimanda alle
sorgenti della vita del clan.
Con gli animali totemici vanno ricordati certi fenomeni atmosferici: sole, tuoni, lampi, l'arcobaleno o
le forze telluriche: terremoti, vulcani.
Non sempre però è possibile distinguere tra animali totemici, geni o spiriti.
Appare comunque chiaro che queste entità sono dei mediatori, anche se a volte sembrano sostituirsi
a Dio, inaccessibile, occupato in altro.
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Si tratta, come ho detto sopra, di un motivo di economicità: a Dio si ricorre nei casi estremi.
Se geni e spiriti hanno in gestione le acque, le foreste, le montagne, gli alberi, i villaggi e le case, e
sono essenzialmente buoni, non si può.. dimenticare che esistono degli spiriti cattivi.
Mondili (spirito cattivo della foresta), per esempio, è roso dalla gelosia perché Dio ama gli uomini e li
protegge.
Ebbene spiriti e geni vanno propiziati perché concedano i loro favori, o almeno perché non si
vendichino.
Ricordo che gli africani della regione che stiamo studiando credono che certi uomini abbiano la
conoscenza e la capacità di far attrarre i loro simili nella foresta da fonoli, che li riduce in schiavitù,
privandoli dell'anima (zombi).
Così è del monyama del fiume sul quale alcune persone hanno potere. Quando il monyama attira
qualcuno nelle acque e se lo porta in un'isola, per esempio, i suoi padroni si radunano attorno alla
vittima, avvertiti da un suono misterioso.
Fonoli e monyama sono forze o geni o spiriti? Certamente sono entità cattive gestite da persone
cattive. Se è impossibile resistere da soli a queste forze, occorre però affermare che sono forze
controllate da esseri umani cattivi, direi da una specie di società segreta.
Per difendersi occorre prevenire questi fenomeni e mettere in gioco altri spiriti buoni contrari o forze
in grado di neutralizzarli. Questo è il compito degli "nganga", che, però, non sempre riescono nel
loro intento.
La stregoneria e la magia hanno origine dalla credenza che esistono spiriti buoni e spiriti cattivi,
persone buone e persone cattive in grado di gestirli.
Da qui trae origine sia la magia bianca che la magia nera.
La proposizione 37 del Sinodo per l'Africa auspica che "sia costituito quanto prima un gruppo di
ricerca interdisciplinare per esaminare e chiarire questo problema (degli spiriti) che è complesso,
oscuro e diffuso" (il Regno-documenti, 11/'94/339).
Se per la Conferenza episcopale del Centrafrica, anticamente, "la sorcellerie était un moyen de régler
la présence de la violence et du mal et de les contenir", ora a causa della stregoneria si accusano e si
uccidono "in modo espeditivo" persone innocenti, si disgregano famiglie e si mette a rischio la
compagine sociale (Cfr. Lettre pastorale des éveques de Centrafrique: La sorcellerie, Bangui, le 12
janvier 1997).
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GLI ANTENATI
Non tutti i morti sono antenati. Per diventarlo occorre assolvere ad alcune funzioni sociali:
- aver trasmesso la vita, avere una numerosa progenitura
- godere di una certa quantità di beni da condividere, tale comunque da garantire il benessere della
famiglia allargata o del clan
- essere stato uomo di pace, un riconciliatore nella comunità.
La funzione divina di queste caratteristiche è evidente.
Gli antenati sono dei morti-vivi e la parte più importante della comunità (Cfr. Birago Diop,
Nigrizia, novembre 1997 oppure calendario Aifo, novembre '96, Allegato 4).
"I ba-luba vedono nei ba-kishi (gli antenati) i "fecondatori metafisici naturali" dei lignaggi intermedi
tra l'uomo e Dio".
Nella gerarchia divina si collocano tra gli uomini e gli spiriti o geni. Sono intermediari e portano
l'offerta dell'uomo. Nella piramide degli esseri-forza che costituisce l'universo si trovano, quindi, tra
l'uomo e gli spiriti/geni. In certe etnie, per lunghi processi, gli antenati vengono, a volte, assimilati ai
geni.
Riconoscere l'importanza degli antenati è riconoscere il datore della vita, Colui che preesiste agli
esseri che incominciano a esistere. Per questo si spiegano le libagioni offerte in loro onore, le
invocazioni affinché proteggano il clan, l'offerta della punta del cuore dell'animale cacciato, collocata
davanti al bastone dei baatolo. (Per inciso ricordo che Mobutu, all'inizio degli anni '70, risuscitò
questa pratica con il "Recours à l'authenticité").
In preparazione al Sinodo per l'Africa del 1994, le Conferenze episcopali dell'AMECEA hanno
chiesto che fossero approfonditi alcuni aspetti del tema degli antenati: "trama e ordito della società,
morti ancora vivi, radici della società, venerazione degli antenati, guardiani del codice morale". La
proposizione 36 del Sinodo citato conferma quanto già abbiamo detto: "In molte comunità africane
gli antenati occupano un posto d'onore. Sono parte della comunità insieme ai vivi. In molte culture
c'è un'idea chiara di chi merita di essere chiamato antenato. Molti di loro non hanno forse cercato
Dio con cuore sincero? Gli antenati sono venerati, una pratica che in nessun modo implica la loro
adorazione" (il Regnodocumenti 11/'94/339).
Bisognerebbe aprire un capitolo sulla magia che, per molti aspetti, costituisce un elemento della
religione. Si tratta della capacità di manipolare le forze, ma anche di vedere "nella notte", come scrive
De Rosny ne "Les yeux de ma chèvre". Ma questo ci porterebbe lontano.
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Allo stesso modo, affido al vostro interesse lo studio dell'antropologia africana, dell'uomo, l'artefice
della RTA, del soggetto che è in dialogo, seppur mediatico, con Dio.
BIBLIOGRAFIA
Louis-Vincent Thomas et René Luneau, Les sages dépossédés, éd. Robert Laffont, Paris 1977
- 85 -
Louis-Vincent Thomas, René Luneau, avec le concours de J.-L. Doneux, Les religions d'Afrique
noire, Fayard/Donoel, Paris 1969, pp. 408
Alexis Kagame, La Philosophie Bantu comparée, Présence africaine, Paris 1976, pp. 334
Engelbert Mveng, l'Afrique dans 1'Eglise. Paroles d'un croyant, L'Harmattan, Paris 1985, pp.
228
F. Eboussi Boulaga, Christianisme sans fétiche, Présence Africaine, Paris 1981, pp. 222
Eric de Rosny, Les yeux de ma chèvre, Terre humaine Plon, Paris 1981, pp. 474
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PER UNA DIDATTICA INTERCULTURALE DELLE
RELIGIONI: L’ESPERIENZA DELL’ INTERFAITH CENTER
BRADFORD 2
Dott. DAVID FITCH
Coordinatore
15 dicembre 1997
CHI SIAMO:
Educazione alle credenze, ai valori, alle visioni verso un'Europa Multireligiosa.
È una grande occasione incontrare la città di Bologna e voi insegnanti per parlare di temi che ci
interessano.
Abbiamo nel nostro centro Interreligioso (Interfaith Center) di Bradford alunni che parlano 56 lingue
differenti. Come vedete sono 5 i "benvenuti" che vengono dati e che rappresentano le lingue più
diffuse e le maggiori religioni presenti nel distretto di Bradford.
Come vedete sono accompagnati da un augurio di benvenuto che è tradotto vicino ad ogni simbolo
religioso.
PERCHE’ SIAMO QUI?
L'attuale società europea è caratterizzata da un processo crescente di immigrazione che porta i
membri delle diverse culture ad un contatto quotidiano.
Questa è la prima forte ragione del nostro essere qui.
Ce n'è una seconda, cioè il bisogno, che oggi sentiamo tutti, di promuovere un'educazione scolastica
per tutti, autoctoni e minoranze etniche ed una partecipazione attiva nella società democratica.
La terza ragione è che le diversità culturali, religiose europee sono ancora caratterizzate da un
dibattito circa la necessità di trovare un'unità nel rispetto della diversità.
Nel 1996, in un congresso per gli addetti ai lavori dell'educazione interculturale, è stata sottoscritta
una "Magna Carta" di cui oggi vorremmo discutere con voi almeno tre dei suoi obiettivi.
Il primo è spiegare l'attività del Centro per la Cultura interreligiosa nel contesto storico di Bradford e
della Gran Bretagna; il secondo è mostrare alcune risorse utili e reperibili nell'area dell'educazione
interculturale; il terzo: stimolare idee per suggerire sviluppi a Bologna al fine di venire incontro agli
attuali e ai futuri bisogni della vostra comunità.
2
Intervento non rivisto dal relatore
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Spero che potremo anche avere il tempo di dividerci in piccoli gruppi per rispondere ad alcune
domande che vi saranno sottoposte in modo da poter capire il reciproco pensiero riguardo
l'intercultura e l'educazione interreligiosa.
L'Inghilterra è una società che cambia, ci sono molti problemi, ma più che di problemi preferiamo
parlare di sfide.
Per iniziare mostriamo un video che ci illustra un piccolo esempio di presenze diverse a Bradford ma
non dobbiamo pensare che tutto il territorio nazionale inglese abbia la stessa presenza di minoranze
etniche. Nella società inglese abbiamo circa il 40% di minoranze.
Possiamo benissimo andare in qualche parte dell'Inghilterra e trovare un solo musulmano, un solo
israelita, al contrario, visitando alcune città dell'Inghilterra è difficile incontrare una faccia bianca e ciò
significa che la concentrazione è diversa in ogni regione dell'Inghilterra. Dal che si desume che le
minoranze non sono presenti in modo uniforme sul territorio nazionale ed anche i problemi
conseguenti non sono uniformi.
Per cui le iniziative di cui farò cenno si riferiscono a Bradford e non significa con ciò che le stesse
esperienza siano portate avanti anche in altre città inglesi.
Ciò di cui posso parlare è la nostra lotta contro il razzismo.
Vorrei leggervi una breve dichiarazione fatta dai componenti di una famiglia pakistana venuta per
qualche tempo in Inghilterra forse in visita ai parenti.
Durante la loro vacanza avevano raggiunto una città dove ci sono alcune minoranze religiose, e in
quella circostanza avevano ammesso:" non ci siamo mai sentiti così a disagio. Eravamo sorpresi a tal
punto che sentivamo come se qualcosa dentro di noi si fosse rotto, spezzato, fosse fuori luogo.
Alla fine abbiamo deciso di andare via. L'essere nero a volte è un lavoro molto, molto duro".
C'è un altro problema di cui voglio parlare onestamente perché c'è un nuovo vocabolo che oggi viene
molto usato: l'islamfobia. La gente sta mostrando una particolare paura nei confronti del credo
musulmano, e questo sentimento è arrivato ai media, televisione, radio e stampa.
Ricordiamo come due anni fa per esempio, in Oklaohma, Stati Uniti c'è stato lo scoppio di una
bomba e si pensò ad un attentato di origine musulmana.
Sugli schermi della televisione si vedeva una persona che portava il corpo della figlia morta. E il
commentatore diceva che probabilmente si trattava di un attentato fatto da un musulmano.
Quando si rivelò chiaro che non era assolutamente un mussulmano ad aver compiuto l'attentato
terroristico, non c'è stata nemmeno una parola di scusa nei confronti della popolazione musulmana.
Tutto questo rende molto difficile vivere in modo positivo e propositivo la vicinanza di più fedi
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religiose, tuttavia negli ultimi 20-30 anni le cose sono cambiate.
A livello nazionale stiamo fruendo di maggiori risorse e materiali per poterci dedicare in modo più
appropriato ai problemi da risolvere e all'educazione interculturale.
Quindici anni fa era molto difficile vedere piccoli pamphlet editi dalle minoranze etniche.
Adesso ci sono molte organizzazioni che stanno producendo materiali di ottime qualità per l'uso
degli insegnanti e degli allievi nelle scuole.
Restringendo un po' il campo, vediamo la situazione a Bradford, la mia città.
Gli scolari sono per il 68% costituiti da alunni di razza bianca e per il 30% da asiatici o neri. Facendo
una proiezione nel futuro nel 2001 la popolazione asiatica e nera arriverà al 40%, dall'odierno 16%.
Una situazione molto diversa da quella di Bologna oggi.
Da ciò capite come è necessario a Bradford partire da questi dati per poter impostare una giusta
politica d'integrazione.
Se vogliamo andare nel dettaglio della popolazione, abbiamo che su un totale di 483.000 presenze, i
musulmani sono 60.000, gli indù 8.000, i sik 8.000 (quindi 16.000 gli indiani presenti a Bradford) poi
c'è una comunità di israeliti, di buddisti e di seguaci di altre religioni.
Questo è il background della popolazione presente in Bradford.
Restringendo ancor più il campo della nostra ottica, andremo a parlare dei problemi che sorgono nel
campo educativo, specialmente nel campo dell'educazione interculturale e interreligiosa.
In Inghilterra abbiamo una lunga storia di religione che ha pesantemente contato sull'insegnamento
nelle scuole. Le prime scuole sono state iniziate dalla chiesa protestante inglese.
Quando all'iniziativa religiosa è subentrata l'opera dello stato, per quello che riguarda l'educazione, ci
sono state delle interferenze, degli accordi, degli agganci in modo da poter provvedere anche
all'educazione religiosa degli studenti.
E come in Italia abbiamo una presenza molto importante del cattolicesimo nelle scuole, così in
Inghilterra c'è una forte presenza della religione all'interno delle scuole.
Nel 1944, a ridosso della seconda guerra mondiale, il governo inglese emanò una dichiarazione
ufficiale sul tema religioso e l'educazione religiosa diventò materia obbligatoria nelle scuole.
Ma da allora la società inglese è cambiata in due direzioni veramente importanti.
Prima di tutto, la società è diventata molto più secolare, laica. Secondo importante fattore è stata
l'immissione di popolazioni che hanno portato con sé anche i loro usi e costumi religiosi.
Queste due componenti hanno portato ovviamente ad un radicale cambiamento dell'insegnamento
religioso nelle scuole.
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Sin dal `44 non c'è stata nessuna particolare indicazione del come insegnare la religione nelle scuole.
E questo significa che c'era una disposizione di legge secondo la quale ogni distretto educativo
doveva valutare, decidere, programmare in quale modo l'educazione religiosa dovesse essere
impartita nelle scuole. Questo ha come risvolto positivo il fatto che la popolazione locale dei singoli
distretti., ha un peso notevole circa le modalità d'insegnamento religioso per i propri figli.
La comunità non è interpellata per conoscere che tipo e come insegnare la matematica, la geografia o
la storia mentre invece viene interpellata sul come impostare l'insegnamento religioso.
Questo per sottolineare quale peso abbia la famiglia e la comunità nel suo insieme nel determinare il
taglio da conferire all'insegnamento religioso nelle scuole.
Considerando la società a ridosso degli anni '40, vediamo che allora era bassa la percentuale delle
presenze musulmane nel contesto della società inglese. Quindi possiamo capire come, quando i
gruppi delle comunità si radunavano per trattare i temi dell'insegnamento religioso, i gruppi erano
formati prevalentemente da cristiani.
Una data importante nel percorso dell'educazione religiosa fu l'anno 1976 allorché si tenne una
conferenza a Birmingham in cui si decise di non interpellare solo i cristiani ma tutte le
rappresentanze religiose presenti sul territorio.
Il risultato fu una specie di Magna Carta sulla quale tutti i gruppi religiosi si sono trovati d'accordo.
Adesso le comunità hanno un potere considerevole, considerato legale, nel determinare l'educazione
religiosa degli allievi.
Quindi abbiamo gruppi che si radunano per pianificare quali potrebbero essere gli sviluppi da seguire
nell'insegnamento religioso di quella determinata scuola.
Da ora in avanti è chiaro come l'obiettivo da raggiungere non sia soltanto l'istruzione riguardante la
fede cristiana. I fini da raggiungere sono tre:
-ottenere il riconoscimento della propria fede e delle altre
-riconoscere le conseguenze personali e sociali di credere o meno in una religione
- sviluppare un atteggiamento positivo verso gli altri tramite la conoscenza e il rispetto delle
differenze.
Il risultato di quanto detto è che ogni scuola è obbligata a provvedere ai mezzi e ai sussidi per
l'insegnamento religioso. Dal 1988 è chiaramente espresso a livello giuridico che ogni fede deve
godere della stessa qualità di insegnamento e che in ogni scuola deve essere impartito l'insegnamento
religioso riguardante le 5 religioni maggiormente rappresentate in Inghilterra.
C'è un sillabo nuovo dal 1996 che chiede agli alunni di imparare a conoscere le religioni principali
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con le quali si trova a convivere.
Proiettiamo una diapositiva che mostra quando questo nuovo sillabo è stato pubblicizzato nelle
scuole ed è importante conoscere come viene applicato.
Il governo a livello centrale emette alcune linee madri da seguire per l'insegnamento, valide per tutto
il territorio nazionale, ma è il distretto, la comunità locale che deve ritagliarsi la metodologia secondo
la quale introdurre l'insegnamento religioso nelle scuole.
Così si sono costituiti 6 comitati rappresentativi delle principali religioni che valutassero le cose da
dire e da insegnare, riguardo alla propria religione nelle scuole.
Un grosso risultato è che nessuno può dire: "la mia religione è la migliore".
C'è una tradizione in Gran Bretagna secondo la quale nelle scuole si inizia la giornata scolastica con
un momento di aggregazione, di assemblea, un momento devozionale durante il quale canti e
preghiere cristiane sono valide per tutti. In molte scuole inglesi tuttora questa tradizione è valida, in
altre invece c'è molta più flessibilità, i momenti devozionali vengono scaglionati nella mattinata, non
solo, ma diversi gruppi delle diverse religioni possono radunarsi separatamente.
Tradizionalmente la famiglia ha sempre avuto il diritto dovere di ritirare i propri figli
dall'insegnamento scolastico religioso o da questi momenti devozionali.
All'interno delle scuole di Bradford, dove c'è spazio per gli indù, per i musulmani, per gli israeliti, c'è
anche maggiore flessibilità e disponibilità da parte dei genitori a lasciare partecipare i propri figli a
questi momenti devozionali o all'educazione religiosa. (I gruppi maggiori sono formati dai
musulmani, dai sik, dagli indù, mentre il gruppo israelitico è appena rappresentato.)
I ragazzi che non partecipano a questo momento devozionale, partecipano ad attività alternative,
contraddistinte da un profilo qualitativo. Dal 1986 in 12 scuole gruppi appartenenti a diverse religioni
possono raggrupparsi separatamente, musulmani da soli, sik da soli, cristiani da soli.
Per rendere ciò possibile si fornisce la scuola di qualche supporto. Pertanto le scuole chiedono aiuto
sia per quel che riguardava l'educazione religiosa, sia per quello che riguarda il momento di preghiera.
Per questo è sorto il centro per l'educazione interreligiosa con sede in Bradford. Parte dello staff di
questo centro è costituito da persone che appartengono alla religione cristiana, agli indù, ai
musulmani, nonché ai sik e sono finanziati dalla municipalità. Lo staff proveniente da queste diverse
religioni, fa parte del centro interreligioso che è finanziato dal comune stesso.
Per quanto ne sappiamo è l'unica esperienza in Europa dove, a livello ufficiale, membri dello staff
provenienti dalle diverse formazioni religiose, sono pagati dalla società civile. Sulla porta del centro
interreligioso è appeso un cartello che dà il benvenuto a chiunque entra.
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Il nostro compito, nell'avvicinarci ad un'altra persona, cultura, religione è di toglierci le scarpe perché
il terreno sul quale noi camminiamo è santo; se così non facciamo possiamo trovarci a calpestare sui
sogni dell'altro. Che cosa fare dei ragazzi che non appartengono ad una religione specifica?
Le famiglie hanno sempre il diritto di ritirare il proprio figlio dall'insegnamento religioso e scegliere
un insegnamento alternativo che può vertere intorno ai valori etici e morali della società in genere
astraendo da qualsiasi differenza- religiosa. Ogni settimana sono 20 i minuti dedicati a questo tipo di
attività, di insegnamento non religioso e di aggregazione non religiosa che sicuramente ha una sua
validità. Nel 1986 si è cominciata questa iniziativa in parecchie scuole.
Fino ad ora abbiamo parlato di che cosa si fa dentro la scuola adesso vediamo cosa si fa fuori dalla
scuola per valorizzare gli stessi principi. Ogni anno viene promossa una marcia alla quale prendono
parte il sindaco di Bradford e i membri delle diverse comunità che indirizzano il loro cammino verso
tutti i luoghi di culto della città, in una specie di pellegrinaggio collettivo che dura tutta la giornata.
L'attività del centro interreligioso prevede anche l'aggiornamento di gruppi di professionisti teso a
fornire addestramento ad altri membri delle comunità, gruppi di infermieri, di poliziotti ecc. i quali si
trovano ad offrire un servizio pubblico a persone che non appartengono ad una sola etnia e religione,
quindi è bene insegnare loro come comportarsi di fronte alle diversità per poter fornire un servizio
pubblico migliore.
Alla fine dell'intervento il relatore ha proposto agli insegnanti presenti un breve questionario che
pensiamo utile allegare:
1) Quali sono le speranze e le aspettative dei genitori delle minoranze nelle nostre scuole in relazione
all'educazione dei propri figli?
Come veniamo a conoscenza delle loro aspettative? Come stiamo rispondendo alle loro richieste?
2) L'esperienza dell'educazione interculturale in Bradford e in altre città europee dimostra quanto sia
importante che le minoranze abbiano una voce che sia ascoltata dall'unità di accoglienza. Quali sono i
meccanismi che vengono attivati qui a Bologna e quali sono i risultati?
3) Nelle scuole dobbiamo educare "il bambino nel suo complesso" cosicché gli allievi non lasciano al
di fuori della scuola nessun aspetto della loro identità; nel fare questo abbiamo successo nelle nostre
scuole? Se no, che cosa si potrebbe fare per raggiungere questo scopo?
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BIBLIOGRAFIA GENERALE
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