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SOMMARIO

PREMESSA 2

ELEMENTI FORMULARI TRADIZIONALI 4

OSSERVAZIONI SULLA LINGUA DI SOLONE 12

1. Tratti linguistici principali 12


2. Altri tratti ionici 14
3. Altre osservazioni 15

OSSERVAZIONI SULL’ELEGIA DELL’EUNOMIA 17

CONCLUSIONI 27

BIBLIOGRAFIA 28

1
PREMESSA

In questo lavoro si intende presentare un quadro relativamente alla lingua di Solone


sulla base dei più recenti studi e con riferimento ai frammenti poetici pervenutici, che
saranno citati secondo l’edizione di B. Gentili e C. Prato, Poetarum elegiacorum
testimonia et fragmenta, I (Leipzig 1988), tenendo presente anche l’edizione di M.L.
West, Iambi et elegi Graeci ante Alexandrum cantati (Oxford 1989-92).

Solone nasce ad Atene attorno al 640 a.C. ed è discendente di una delle famiglie più
antiche della città, quella dei Medontidi. Figura tra le più eminenti del mondo antico,
viene ricordato dalla tradizione soprattutto per tre aspetti della sua attività all’interno di
Atene: quella di legislatore in primis, quella di ‘saggio’ e quella di poeta. Il terzo
aspetto, ovvero quello legato all’attività letteraria, è stato oggetto di una grande
rivalutazione durante lo scorso secolo, soprattutto dopo il ritrovamento e la successiva
pubblicazione del P. Lond. 131 della Costituzione degli Ateniesi di Aristotele nel 1891.
Il ritrovamento di tale papiro ha dato infatti una rinnovata spinta agli studi linguistici su
Solone, dal momento che esso ha comportato il delinearsi di una nuova possibile lettura
del colorito dialettale, in questo caso attico piuttosto che ionico, di alcuni frammenti in
esso contenuti, tra cui il fr. 29b,30 e 31 G.-P.2.

Il lavoro è diviso in tre parti. Una tale disposizione del materiale segue il percorso della
ricerca svolta. La prima sezione nasce infatti dall’intenzione di prendere in esame
alcune delle ricorrenti formule tradizionali che Solone utilizza nella sua produzione
elegiaca, attinte da un patrimonio epico comune, evidenziando come egli adatti il lessico
e le immagini dell’epica a concetti e circostanze diversi, in modo particolare al contesto
politico e cittadino, con la più grande consapevolezza e abilità.
Il secondo parte ha l’obiettivo di mettere in risalto gli aspetti linguistici tipici della
poesia di Solone, in relazione al genere elegiaco, ponendo particolare attenzione alla
forte interdipendenza tra la lingua dell’elegia e la dizione epica. L’analisi si concentrerà

2
soprattutto sui tratti fonetici e morfologici che caratterizzano il dialetto ionico e su
alcune forme, invece, proprie dell’attico.
Nella terza parte si intende proporre un commento di uno tra i più famosi frammenti di
Solone, l’Eunomia (fr. 3 G.-P.). Tale commento proverà a declinare le prime due sezioni
della ricerca svolta, osservando come il poeta abbia modulato e coniugato ionismi,
atticismi, espressioni formulari, immagini tradizionali ed elementi di innovazione al fine
di fare della lingua uno strumento espressivo consono alla trasmissione dei valori e dei
messaggi politici ed etici al corpo civico dell’Atene di VI sec.

3
ELEMENTI FORMULARI TRADIZIONALI

In questo capitolo si intende presentare i principali fenomeni1 ed idiomi dell’opera


soloniana che trovano piena rispondenza nei modi della composizione epica, verso la
quale Solone è dunque debitore. Si intende inoltre mettere in luce, laddove possibile,
come egli si ponga da ‘innovatore’ nei confronti di un patrimonio vastissimo,
patrimonio che si declina non solo nelle forme della tradizione epica dei poemi omerici,
ma che si estende a tutto il mondo della grecità arcaica. Solone infatti adotta soluzioni
nuove sia attribuendo significati e sfumature inediti agli stilemi della formularità
tradizionale, sia modificando la lingua dell’epica a seconda delle proprie necessità.
Proponiamo qui di seguito alcuni fenomeni ed espressioni che risalgono, appunto, a
precedenti epici, facendo riferimento in modo particolare all’analisi condotta da P.
Giannini in Espressioni formulari nell’elegia arcaica, QUCC 16 (1973).

1) δόξαν ἔχειν ἀγαθήν Sol. 1.4

Tale espressione formulare assume un valore centrale nell’elegia alle Muse,


laddove Solone, utilizzandola in positio princeps, chiede loro di ottenere una
buona fama da parte di tutti gli uomini: si tratta di una valenza chiaramente
politica, poiché il poeta, come confermato dall’interpretazione di alcuni
commentatori2, ricerca per sé tale doxa, proprio in stretto collegamento con il
suo operato di uomo politico a cui sta a cuore il bene della polis e che spesso ha
ricoperto il ruolo centrale di mediatore tra le varie fazioni in lotta.

1
Per il testo di Solone nel corso del lavoro ci si è serviti dell’edizione di NOUSSIA 2001
2
ALT 1979, p. 393; VOX 1983 pp. 517-9

4
Come commenta in modo assai efficace la studiosa Noussia nell’edizione dei
Frammenti del 2001, la preghiera per la buona reputazione doveva avere una
larga diffusione ancora nel periodo in cui opera Solone ed in contesti geografici
anche differenti: infatti l’espressione in oggetto ricorre in un’iscrizione di
Metaponto risalente al VI a.C. (CEG 396) che recita δὸς δὲ ϝ’ἰν ἀνθρόποις δόξαν
ἔχεν ἀγαθάν, ossia «concedigli di avere tra gli uomini buona fama».
La formula tradizionale impiegata da Solone ricorre in Omero in due passi dello
stesso libro nella variante col sostantivo αἰδώς, ossia in Od. 17.352; 374, in cui
si ribadisce l’importanza del disonore in abbinamento al concetto della
καλοκαγαθία3. Nei due versi contigui dell’Odissea si esprime infatti, dapprima
da parte di Telemaco, e poi da parte del porcaro Eumeo, il concetto per cui
all’uomo indigente (si tratta di Odisseo mendico) non si addice il ritegno e
dunque l’ αἰδώς ἀγαθή: da entrambi i personaggi, infatti, Odisseo viene invitato
a chiedere l’elemosina a tutti i pretendenti dell’isola.
Come osserva la Noussia a p. 193 della sua edizione, il termine δόξα ricorreva
in Omero solo due volte, nell’espressione avverbiale οὐδ’ἀπὸ δόξης, ossia “non
diversamente da come ci si aspetta”, poiché l’idea della reputazione presso gli
altri era intesa come l’equivalente del kleos, ossia della gloria, che spesso si
conquistava mettendo a rischio la propria vita e determinando la fama presso i
posteri.

2) θεῶν φρένας ἀθανάτων Sol. 3.2

Si tratta di un’espressione formulare di antichissima ascendenza, poiché


impiegata più volte nei testi omerici. L’impiego della formula da parte di
Solone, anche in questo caso in positio princeps e in corrispondenza del secondo
emistichio del verso, si contraddistingue per una notevole solennità, dal
momento che il destino immortale di Atene (nel verso precedente leggiamo “la
nostra città non perirà mai per decisione di Zeus”) è determinato dall’intenzione

3
DODDS 2009

5
chiarissima del padre degli dei e di tutti gli dei immortali. È possibile, in questo
contesto, stabilire un parallelo con il famoso verso di Il. 6.448 in cui Ettore fa
riferimento alla distruzione di Troia: al contrario Atene è destinata a vita e fama
imperiture. Tale espressione, dunque, attinta da un patrimonio tradizionale
comune, vuole porre in rilievo la fiducia in un costante ed inesauribile sostegno
divino di cui Solone si fa portavoce, proponendosi come statista fondamentale
per ciò che concerne l’Eunomia della polis.
Di certo la sicurezza dell’aiuto divino e il riferimento alla volontà dei numi
proprio all’inizio dell’elegia si inseriscono nella tradizione innodica e dei
componimenti a sfondo religioso, come suggerisce anche Noussia (p. 237),
laddove parla di una formula di invocazione tradizionale della preghiera e cita Il.
3.2984 e 3.308.

3) ἔρχεται εἰς Ἀίδεω Sol. 18.8

L’espressione in questione rimanda ad un’idea assai diffusa nel mondo greco


arcaico ed in particolare nella poesia. Posta da Solone in positio princeps, è
foriera di un messaggio ben chiaro, inequivocabile: chi viene accolto nell’Ade
non può portare con sé alcuna delle proprie ricchezze terrene, per di più inutili
nel regno dei morti. Tale motivo viene utilizzato dal poeta per mettere in rilievo
valori diversi rispetto alla ricchezza, e così avviene anche in Omero, Od. 12.383
e Il. 3.3225; Teognide, 1191-4; Pindaro, Nem. 7.19-20; Eschilo, Pers. 842.6
È interessante notare come il parallelo migliore con il testo soloniano sia, però,
rappresentato da un testo molto arcaico, tuttavia non greco: si tratta dell’epitafio
sulla tomba del re assiro Sardanapalos risalente al VII secolo, attorno alla cui

4
Tuttavia nel riferimento a Il. 3.298 è il dio Apollo che, riferendosi a Tidide, non esprime una preghiera
ma piuttosto un avvertimento, suggerendogli di mettere da parte il proprio atteggiamento improntato alla
hybris.
5
Da notare in particolare l’uso di un verbo diverso dall’ἔρχομαι di Solone, mai impiegato nei poemi per
esprimere l’idea di “scendere nell’Ade”.
6
Le espressioni presenti nel testo di Solone e Teognide sono chiaramente di ascendenza omerica, perché
nei poemi, dopo ἐς, è usato sempre il genitivo, con espresso o sottinteso δόμον.

6
figura i Greci costruirono e modellarono una personalità leggendaria. Tale
epitafio sottolineava come egli stesso, pur avendo regnato a lungo su Ninive,
avesse dovuto abbandonare tutti i grandi beni una volta morto.7
Del tutto fuorviante sarebbe la lettura, nel frammento in questione,
dell’edonismo tipico della poesia lirica, un edonismo come topos letterario del
carpe diem, molto frequente in altri autori (in particolare Simonide o
Mimnermo). Il messaggio soloniano non è quello di un individualismo
dirompente, ma va letto nell’ottica delle frequenti critiche alla sopravvalutazione
della ricchezza. Così la Noussia: «Solone attua l’operazione linguistica […] che
tradisce i suoi interessi specifici: proclama infatti che il piacere fisico è la vera
‘ricchezza’, animato com’è dall’intento di svalutare la piacevolezza del possesso
di ingenti ricchezze».8

4) ὥσπερ θνητὸς ἀνήρ Sol. 1.26

Tale sintagma risponde all’intenzione di sottolineare la diversità che intercorre


tra le divinità, in questo caso Zeus, e gli uomini. Solone infatti, facendo
riferimento all’agire del re degli dei, ne enfatizza la ponderatezza e l’assoluta
estraneità all’incontrollata irrazionalità umana. Il termine di paragone, introdotto
dalla congiunzione ὥσπερ, è quello per l’appunto dell’uomo mortale: si tratta di
una concezione della divinità analoga a quella che ritroveremo in Senofane, VS
21B23 «il dio non è analogo ai mortali né nel corpo né nel pensiero (οὔτι δέμας
θνητοῖσιν ὁμοίις οὐδὲ νόημα)»9, e che pare avere un parallelo in un passo di
Omero, più precisamente Il. 16.386-8810, dove Zeus, avendo tra le più rilevanti
prerogative quella di tutelare l’ordine e la giustizia, si adira con i giudici che
nelle assemblee emanano sentenze non rette, incuranti del castigo degli dei.
Ritroviamo lo stesso sintagma in altri passi sia di Omero (Il. 20.41 e 265s.;

7
NOUSSIA 2001, p. 301
8
NOUSSIA 2001, p. 306
9
UNTERSTEINER 2008, p. 128
10
«Zeus versa pioggia, quando sdegnato si adira con gli uomini, che con prepotenza in piazza danno
sentenze inique, perseguitando la giustizia, non curando lo sguardo degli dei». Ci si è serviti della
traduzione di CERRI 2011

7
24.259,11 Od. 10.306 e 16.196; HHom. 19.33) sia di Esiodo (Th. 967) sempre
volti a sottolineare la differenza tra la natura o la condizione umana e divina.

5) τοῖσι μὲν αἰδοῖον, δὲ δεινὸν ἰδεῖν Sol. 1.6

Contestualmente all’invocazione alle Muse, Solone evidenzia con questa


espressione «visto con rispetto da alcuni, con timore da altri» un’inevitabile
duplicità nei rapporti con i cittadini, che egli distingue tra amici e nemici.12
L’accento è però posto sull’aggettivo δεινόν, dal momento che l’intento di
Solone non è quello di danneggiare i propri nemici ed oppositori, ma di
diventare oggetto di un timore reverenziale ed un rispetto che accompagnano
perfettamente l’idea di un uomo politico che si propone sia come mediatore tra
le parti sociali, sia come custode dell’equilibrio della polis.
Forme analoghe a quella citata, in cui l’infinito ἰδεῖν, con valore limitativo, è in
cesura preceduto da un aggettivo, le troviamo poco più avanti all’interno dello
stesso componimento:13

a) αὖτις ἔθηκεν ἰδεῖν Sol. 1.22

Il verso in cui è contenuta la formula sembra essere il risultato di una


conflazione dell’espressione tradizionale θῆκεν ἰδέσθαι, «fece vedere»,
che è peculiare per l’introduzione agli effetti dei miracolosi e salvifici
interventi della dea Atena, in particolare in Od. 8.20, 18.195, 24.396, ed

11
In particolare nell’Iliade viene messo in risalto, come discrimine, il fattore fisico della forza e della
discendenza divina piuttosto che quello della saggezza e della capacità di discernimento, contrariamente
alla posizione assunta da Solone. Ciò probabilmente deriva da una semplice diversità di preponderanza di
ciascuna caratteristica all’interno delle due opere, e non fa che confermare il sapiente ‘riuso’ che Solone
adopera degli stilemi omerici, conferendo loro un nuovo significato.
12
Cfr. Hom., Od. 6.184s.; Sapph., fr. 5.6; Archil., 23.14 ecc.
13
GIANNINI 2004, p.18

8
il verso omerico di Il. 17.645s. Ζεῦ πάτερ […] ἰδέσθαι «Zeus padre, […]
fa’ sì che con gli occhi vediamo!»14.

b) οὐδὲν ἔτ’ἔστιν ἰδεῖν Sol. 1.24

Il valore di infinito limitativo è attestato anche in Od. 22.405, mentre diversa


natura ha in Il. 9.523 e Od. 22.59. Come afferma Giannini, tra l’altro, l’uso del
medio ἰδέσθαι con valore limitativo è per l’appunto peculiare e quasi esclusivo
nell’epica: il sintagma θαῦμα ἰδέσθαι si trova, ad esempio, sette volte in fine di
verso. Negli Inni omerici, tuttavia, oltre a forme medie con la medesima
funzione sintattica (Hymn. Ven. 90; Hymn. Cer. 10,427; Hymn. Pan. 36)
troviamo anche θαῦμα ἰδεῖν (Hymn. Ven. 205) e μεγάλη ἰδεῖν (Hymn. Apoll.
198).15

6) μήτε λίαν ἀνεθείς Sol. 8.2

Il distico soloniano in cui è contenuta l’espressione in questione,16 che compare


in forma simile sempre preceduta da una negazione e ad inizio di verso in Od.
13.243 e 23.175, sembra essere stato preso a modello da Eschilo per gli
ammonimenti sia del coro di Eum. 526-30,17 sia di Atena in Eum. 696s.18 La
suddetta formula compare anche, stavolta in fine di esametro, per ben quattro

14
A proposito della nebbia miracolosa mandata da Zeus in aiuto dei difensori del corpo di Patroclo.
15
L’uso irregolare delle diatesi attiva e media nell’infinito limitativo è caratteristica di Omero (cfr. P.
CHANTRAINE, 1953, pp. 300-302).
16
Interessante è il confronto con il frammento 128 West2 di Archiloco, in cui l’espressione μὴ λίην
testimonia come il concetto di μηδὲν ἄγαν (‘nulla di troppo’) sia una delle eredità più costanti e pregnanti
del pensiero greco arcaico.
17
Μήτ’ἂναρκτον βίον || μήτε δεσποτούμενον || αἰνέσῃς‧ παντὶμέσῳ τὸ κράτος θεὸς || ὤπασεν «Possa tu
lodare un modo di vivere che non sia né privo di comando né soggetto a despotismo. In ogni occasione il
dio dà la supremazia a tutto ciò che sta nel mezzo». BATTEZZATO-PATTONI 2012.
18
Τὸ μήτ’ἂναρχον μήτε δεσποτούμενον || ἀστοῖς περιστέλλουσι βουλεύω σέβειν «Ciò che non è né privo
di comando né soggetto a dispotismo: questo consiglio ai cittadini di curare». BATTEZZATO-PATTONI
2012

9
volte negli Inni omerici (Hymn. Cer. 467). Da notare, contestualmente al
frammento 8, l’utilizzo peculiare del termine κόρος, cui viene attribuito un
valore inedito rispetto a quello della tradizione (sia in Omero sia in Esiodo è
sempre legato fortemente alla ricchezza e al potere, e specialmente nel primo
assume sempre un deciso sapore proverbiale19), dal momento che Solone si
rivolge non solo all’aristocrazia, ma soprattutto ai membri del demos, venuti a
disporre di nuovi beni ma manchevoli di grande discernimento.

7) μοῖραν ἔχοι θανάτου Sol. 23.18

Il concetto e le componenti linguistiche della formula citata sono ampiamente


tradizionali, molto frequente è infatti nell’Iliade l’associazione dei due termini
μοῖρα e θάνατος, in particolare in 17.478 e 17.672: θάνατος καὶ μοῖρα κιχάνει;
altrettanto frequente nell’Odissea dove per ben quattro volte ricorre μοῖρ’ὀλοὴ
θανάτοιο (cfr. Od. 3.269, 17. 478, 17. 672, 22.413). Con Solone, tuttavia,
l’espressione del ‘destino di morte’ viene spogliata del suo sapore
eminentemente tragico, attribuitole soprattutto dalle considerazioni sulla vita
umana dei lirici e degli elegiaci, e viene investita di una legittimità nuova in
quanto culmine dell’ordine naturale delle cose; tale legittimazione le deriva
anche dalla litote con cui si parla del suo sopraggiungere «non a un’età
ingiusta».20
Di seguito si riportano forme analoghe sempre del corpus soloniano:

c) μοῖρα κίχοι θανάτου Sol. 26.4

Questo emistichio ha, alle spalle, vari paralleli propri della tradizione
epica, in modo particolare Omero, Il. 13.602 μοῖρα κακὴ θανάτοιο
analogamente nel secondo emistichio e Od. 2.100, 3.238, 17.326, 24.135.

19
TOSI 2011, pp. 18-19
20
BURZACCHINI 1995, pp. 69-124

10
Il sintagma ricorre anche negli Inni omerici (Hymn. Aphr. 269) ed in
Esiodo, fr. 35.4.

d) μοῖρ’ἐπιοῦσα κίχῃ Sol. 1.30:

Il sintagma è una variazione rispetto al modello più diffuso, costruito


comunque su forme omeriche come quelle presenti in Od. 3.269 e
22.413. La μοῖρα qui equivale alla ‘sorte decisa’ dagli dei, riprendendo
precisamente, ma con valore e significato nuovi, una formula
tradizionale utilizzata nell’epica arcaica solo in relazione all’arrivo del
‘fato di morte’.

Nel presente capitolo ci si proponeva di analizzare alcune formule tradizionali utilizzate


da Solone nella sua opera, mettendo in luce come egli si sia servito del patrimonio epico
come veicolo espressivo di gran lunga versatile. Si è cercato di porre l’accento sui
paralleli più significativi con altri autori ed opere del mondo arcaico, evidenziando sia
l’originalità di alcune combinazioni di sintagmi ed epiteti, sia il legame e la continuità
con l’epica, come se «Solone volesse che il pubblico percepisse le sue idee come
emergenti dallo sfondo della tradizione, che nel suo caso era essenzialmente la
tradizione epica»21.

21
NOUSSIA 2001, p. 7

11
OSSERVAZIONI SULLA LINGUA DI SOLONE

1. TRATTI LINGUISTICI PRINCIPALI

La poesia di Solone risponde alle caratteristiche tipiche della tradizione arcaica,


sviluppando immagini e concetti in forma generalmente paratattica, tratto questo che
deve aver contribuito non poco alla derivazione di motti ed espressioni proverbiali dalle
sue elegie. L’aspetto tuttavia più eminente per una riflessione sulla lingua soloniana
consiste nella sua natura ionico-epica, che pur consente di rilevare, nei testi, tratti non
ionici ma più ‘locali’, sempre rimanendo nel quadro di una sostanziale conformità ai
caratteri della lingua elegiaca.22

In questo capitolo si intende presentare i tratti salienti del linguaggio elegiaco di Solone.

Come anticipato, la mistione dei dialetti all’interno dell’elegia comincia ad apparire già
nel VI/V secolo, soprattutto in ambiente attico, ed ha spesso motivazioni contingenti,
come il luogo d’origine dell’autore o del suo uditorio, ma in molti casi «la mistione
sembra avere una vera e propria motivazione stilistica».23 A tal proposito, uno dei
problemi fondamentali circa la lingua di Solone viene messo in luce dal ritrovamento
del papiro (P. Lond. 131) dell’Ἀθηναίων πολιτεία, dove sono riportati, tra gli altri, i
frammenti 34, 36 e 37 W. (29b, 30 e 31 G.-P.2). Questi stessi frammenti erano giunti a
noi unicamente da manoscritti e da un papiro berlinese (P. Berol. 5009), in cui
rivestivano, per lo più, una facies ionica. Tuttavia, il ritrovamento del papiro londinese
ha comportato il delinearsi di una nuova possibile lettura del colorito dialettale dei
frammenti in questione, dal momento che esso presenta, di solito, la variante attica di
diverse forme contemplate.

22
PASSA in CASSIO 2008, p. 212
23
PALUMBO STRACCA 1987, pp. 429-434

12
Qui di seguito si proporranno i tratti linguistici salienti documentati dal P. Lond. 131 ed
evidenziati dall’analisi condotta dalla Kaczko24 e da Adrados25:

 Si nota la presenza di [a:] originario dopo [e], [i], [r] in ἀφνεάν (fr. 29b G.-P.2, v.
1), βία (scil. βίᾳ) (fr. 29b G.-P.2, v. 9), βίαν (fr. 30 G.-P.2, v. 16; fr. 31 G.-P.2, v.
4), πιεί[.]ας (scil. πιεί[ρ]ας) (fr. 29b G.-P.2, v. 9), ἰσομοιρίαν (fr. 29b G.-P.2, v.
10), ἐλευθέρα (fr. 30 G.-P.2, v. 7), di contro alla lezione dei manoscritti con
fonologia ionica in [e:] (<η>).
 Sono presenti, nel papiro, due dativi plurali in –αισι in ἁρπαγαῖσιν (fr. 29b G.-
P.2, v. 1) e πολλαῖσιν (fr. 30 G.-P.2, v. 27), invece che ἁρπαγῇσιν e πολλῇσιν dei
manoscritti che presentano la versione ionica.
 Si riscontrano varie contrazioni che hanno luogo in attico, come δεσποτῶν (fr.
30 G.-P.2, v. 14), ποιούμενος (fr. 30 G.-P.2, v. 26), ]υν, integrato in κἀδόκουν
(fr. 29b G.-P.2, v. 2), al posto della facies ionica di δεσποτέων, ποιεόμενος in
sinizesi o, probabilmente, ποιούμενος.

Il papiro londinese, tuttavia, manca di coerenza per quanto riguarda invece la coloritura
attica di altre forme, come ci si sarebbe aspettati dalla lettura dei casi precedenti. Esso
attesta, infatti, forme chiaramente ioniche come ἀναγκαίης (fr. 30 G.-P.2, v. 10),
δουλίην (fr. 30 G.-P.2, v. 13), τρομευμένους (fr. 30 G.-P.2, v. 14): a questo punto, «il
problema è dunque se ritenere affidabile il papiro e ammettere la presenza di tratti attici
nei componimenti soloniani – e in questo caso, dati i casi di incoerenza del papiro,
comprendere se fosse lo stesso Solone a non essere coerente – oppure se, al contrario,
interpretare i tratti attici come frutto di una banalizzazione di chi ha copiato il testo». 26

Martin West 1993 tende a mantenere sempre le forme ioniche, siano esse ἀφνεήν, βίῃ,
βίην ἐλευθέρη, ἁρπαγῇσιν e πολλῇσιν27, ma anche le forme con [eo] in sinizesi come
ποιεόμενος e κἀδόκ[ε]ον.

24
KACZKO in CASSIO 2008, p. 240
25
ADRADOS 1956
26
KACZKO in CASSIO 2008, p.
27
Si tenga presente che il P. Lond. 131 appartiene ad un’epoca (79-125 d.C.) in cui la forma normale dei
dativi plurali era quella della koiné in –αις e nonostante la forma –αισι fosse più vicina, a livello

13
Altri studiosi, tuttavia, come Debrunner-Scherer 1969, poi ancora Hiersche 1970 e
Adrados 1999, sostengono che la facies principale della lingua di Solone sia
sostanzialmente attica, ed i vari ionismi siano giustificabili volta per volta da più
motivazioni. Tra questi si sottolineano i seguenti fenomeni:28

 ἀναγκαίης ὑπὸ || χρειοῦς (fr. 30 G.-P.2, vv. 10-11), che riecheggerebbe χρειοῖ
ἀναγκαίῃ di Il. 8, 57.
 τοὺς δ’ἐνθάδ’αὐτοῦ δουλίην ἀεικέα || ἔχοντας, ἤθη δεσποτῶν τρομευμένους ||
ἐλευθέρους ἔθηκα (fr. 30 G.-P.2, vv. 13-15) con [a:] che diventa [e:] dopo [i] e la
contrazione <ευ> sarebbe la citazione di un giambografo ionico.29

Le forme appena menzionate vanno a sommarsi ad altri ionismi e riprese dall’epica che
costituiscono l’opera di Solone, assieme ad esempio a μοῦνος, νόος, δήϊος.30

2. ALTRI TRATTI IONICI

Gli ulteriori ionismi ed epicismi riscontrabili nell’opera soloniana sono numerosissimi,


ed è impossibile qui poter analizzare ogni forma: si è scelto dunque di riportare solo le
forme più evidenti e significative. Prendendo in esame, ad esempio, il fr. 3 G.-P.2,
conosciuto come Eunomia, notiamo:

 l’ionico ἀφραδίῃσιν in luogo dell’attico ἀφραδίαις (v. 5)


 il dativo plurale epico οἷσιν invece che l’attico οἷς (v. 7)
 il genitivo singolare ὕβριος in alternativa all’attico ὕβρεως ed il neutro plurale
ionico ἄλγεα, forma intermedia tra l’originario * ἄλγεσα e l’attico ἄλγη (v. 8)

fonologico, all’attico e alla suddetta koiné, non sembra si possa trattare di un’ovvia banalizzazione di chi
ha copiato il testo.
28
KACZKO in CASSIO 2008, p. 240
29
In questo quadro, come suggerisce la Kaczko, δεσποτῶν andrebbe forse più coerentemente interpretato
e stampato, come fa infatti West, con –εων in sinizesi contro -ῶν contratto del papiro.
30
KACZKO in CASSIO 2008, p. 241

14
 il dativo plurale ionico ἀεικελίοισι per l’attico ἀεικελίοις, da ἀεικέλιος, forma
epica per ἀεικής (v. 25)
 il dativo singolare ἡσυχίῃ forma ionica per l’attico ἡσυχίᾳ (v. 10)

Per quanto riguarda il frammento 1 G.-P.2, troviamo:

 il genitivo singolare ὕβριος in alternativa all’attico ὕβρεως, che ricorre sia al v.


11 sia al v. 16
 il genitivo singolare epico ἀτρυγέτοιο (v. 19)
 il genitivo singolare epico ἠελίοιο (v. 23)
 l’avverbio αἰεί, forma ionica per l’attico αεί (v. 27)

Proseguiamo analizzando il frammento 23 G.-P.2, che presenta:

 il participio ἐών, forma comune ionica, dorica ed epica, che ricorre sia al v. 1 sia
al v. 18
 il participio ἀεξομένων in luogo dell’attico αὐξανομένων (v. 5)
 il genitivo singolare χροιῆς, forma con vocalismo ionico in [e:] dopo [i] (v. 6)
 l’accusativo singolare ionico γενεήν, laddove in attico ci si sarebbe aspettati
γενεάν (v. 10)
 la forma non contratta νόος in luogo del contratto νοῦς (v. 11)
 l’uscita ionica in [e:] dopo [i] nel nominativo σοφίη in luogo dell’attico σοφία
con [a:] originario.

3. ALTRE OSSERVAZIONI

La forte interdipendenza tra la lingua dell’elegia e la dizione epica conferisce alla prima
un’impressione di «maggiore conservatorismo»31 rispetto, ad esempio, al giambo, dal
momento che è impossibile, come sottolinea Passa, «aggirare la presenza di forme
omeriche se esse sono garantite dal metro e quindi non sostituibili con gli equivalenti
31
PASSA in CASSIO 2008, p. 212

15
ionici»: si pensi infatti, nell’opera di Solone, ai numerosi genitivi singolari in –οιο,
alcuni dei quali messi in evidenza sopra. Tuttavia, è bene sottolineare come la grande
influenza del patrimonio espressivo epico non abbia ridotto l’elegia ad una mera
imitazione o compilazione, ma anzi le abbia conferito una certa ‘autonomia’ dal punto
di vista linguistico, che diventa evidente in alcuni aspetti in particolare: il termine ἔργον
è infatti letto come se avesse un ϝ ad inizio di parola ancora operante; si pensi al
sintagma καλὰ ἔργα presente in Sol. 13.21, mentre il ϝ era già caduto, in modo graduale
a seconda delle posizioni32, già nelle ultime fasi della tradizione orale che decretò la
veste definitiva del testo omerico. Tanta fu la pressione di tali epicismi che Solone
stesso coniò il termine non omerico ἔ(ϝ)ερδον, che però segue a tutti gli effetti le regole
della prosodia epica antica.33

I tratti epici e ionici sono dunque perfettamente comprensibili nel carattere dell’opera di
Solone, soprattutto perché essi sono il frutto di prestiti da quel bacino di elementi
tradizionali che caratterizza la produzione lirica arcaica del mondo greco.

32
La caduta del ϝ [w] nel dialetto ionico è stata per l’appunto graduale, infatti dapprima si perse [w] in
posizione intervocalica, poi [w] in posizione postconsonantica e in ultimo [w] ad inizio parola. A tale
proposito cfr. PASSA in CASSIO 2008, p. 120
33
PASSA in CASSIO 2008, p. 211

16
OSSERVAZIONI SULL’ ELEGIA DELL’ EUNOMIA

Nelle pagine seguenti si propone l’analisi di alcuni aspetti linguistici e lessicali peculiari
del fr. 3 G.-P., meglio noto come Eunomia. Si intende evidenziare come l’elegia in
questione si declini nei tratti prevalentemente ionici propri del genere letterario in cui la
si fa rientrare, e sviluppi immagini di sapore eminentemente politico sia attraverso un
lessico epico e tradizionale, sia tramite soluzioni innovative come l’uso originale di
alcuni verbi e termini inusuali nel contesto elegiaco.

1. UN’ANALISI LINGUISTICA

Dopo la celeberrima Elegia alle Muse (fr. 1 G.-P.), l’Eunomia (fr. 3 G.-P.) è il testo più
ampio di Solone, e di certo il più significativo ed emblematico della sua produzione
poetica, trattandosi di una testimonianza quanto mai esplicita del suo programma
politico. Essa rintraccia, infatti, gli effetti della hybris umana e della conseguente tisis
divina nel contesto cittadino, evidenziando come Solone stesso ponga la sua ideologia
«al servizio di una lucida volontà pratica, consapevole della sua capacità di modificare
le condizioni politiche».34 In questo paragrafo si intende mettere in luce i principali tratti
linguistici che caratterizzano il frammento, facendo riferimento all’analisi svolta da
Degani-Burzacchini 2005 e da Neri 2011.

Si propone il testo del frammento e, a seguire, la traduzione di responsabilità di chi


scrive, che deve comunque molto a quella realizzata da Noussia 2001.

fr. 4 W.2 (3 G.-P.2)

ἡμετέρη δὲ πόλις κατὰ μὲν Διὸς οὔποτ' ὀλεῖται

34
MASARACCHIA 1958, p. 247

17
αἶσαν καὶ μακάρων θεῶν φρένας ἀθανάτων·
τοίη γὰρ μεγάθυμος ἐπίσκοπος ὀβριμοπάτρη
Παλλὰς Ἀθηναίη χεῖρας ὕπερθεν ἔχει·
αὐτοὶ δὲ φθείρειν μεγάλην πόλιν ἀφραδίῃσιν 5
ἀστοὶ βούλονται χρήμασι πειθόμενοι,
δήμου θ' ἡγεμόνων ἄδικος νόος, οἷσιν ἑτοῖμον
ὕβριος ἐκ μεγάλης ἄλγεα πολλὰ παθεῖν·
οὐ γὰρ ἐπίστανται κατέχειν κόρον οὐδὲ παρούσας
εὐφροσύνας κοσμεῖν δαιτὸς ἐν ἡσυχίῃ 10
*
πλουτέουσιν δ' ἀδίκοις ἔργμασι πειθόμενοι
*
οὔθ' ἱερῶν κτεάνων οὔτε τι δημοσίων
φειδόμενοι κλέπτουσιν ἀφαρπαγῇ ἄλλοθεν ἄλλος,
οὐδὲ φυλάσσονται σεμνὰ Δίκης θέμεθλα,
ἣ σιγῶσα σύνοιδε τὰ γιγνόμενα πρό τ' ἐόντα, 15
τῷ δὲ χρόνῳ πάντως ἦλθ' ἀποτεισομένη.
τοῦτ' ἤδη πάσῃ πόλει ἔρχεται ἕλκος ἄφυκτον,
ἐς δὲ κακὴν ταχέως ἤλυθε δουλοσύνην,
ἣ στάσιν ἔμφυλον πόλεμόν θ' εὕδοντ' ἐπεγείρει,
ὃς πολλῶν ἐρατὴν ὤλεσεν ἡλικίην· 20
ἐκ γὰρ δυσμενέων ταχέως πολυήρατον ἄστυ
τρύχεται ἐν συνόδοις τοῖς ἀδικέουσι φίλους.
ταῦτα μὲν ἐν δήμωι στρέφεται κακά· τῶν δὲ πενιχρῶν
ἱκνέονται πολλοὶ γαῖαν ἐς ἀλλοδαπὴν
πραθέντες δεσμοῖσί τ' ἀεικελίοισι δεθέντες 25
*
οὕτω δημόσιον κακὸν ἔρχεται οἴκαδ' ἑκάστωι,
αὔλειοι δ' ἔτ' ἔχειν οὐκ ἐθέλουσι θύραι,

18
ὑψηλὸν δ' ὑπὲρ ἕρκος ὑπέρθορεν, εὗρε δὲ πάντως,
εἰ καί τις φεύγων ἐν μυχῶι ᾖ θαλάμου.
ταῦτα διδάξαι θυμὸς Ἀθηναίους με κελεύει, 30
ὡς κακὰ πλεῖστα πόλει Δυσνομίη παρέχει·
Εὐνομίη δ’εὔκοσμα καὶ ἄρτια πάντ’ἀποφαίνει
καὶ θαμὰ τοῖς ἀδίκοις ἀμφιτίθησι πέδας·
τραχέα λειαίνει, παύει κόρον, ὕβριν ἀμαυροῖ,
αὑαίνει δ' ἄτης ἄνθεα φυόμενα, 35
εὐθύνει δὲ δίκας σκολιάς, ὑπερήφανά τ' ἔργα
πραΰνει· παύει δ' ἔργα διχοστασίης,
παύει δ' ἀργαλέης ἔριδος χόλον, ἔστι δ' ὑπ' αὐτῆς
πάντα κατ' ἀνθρώπους ἄρτια καὶ πινυτά.

La nostra città non perirà mai per decisione di Zeus


e per volontà dei beati dèi immortali:
tale è infatti la custode magnanima e protettrice, figlia di padre possente,
Atena Pallade, che tiene dall’alto le mani;
ma sono gli stessi cittadini che per singoli atti di insensatezza,
persuasi dalle ricchezze, vogliono distruggere una grande città,
e la mente ingiusta dei capi del popolo, per cui è stabilito
che soffrano molti dolori per grave arroganza:
infatti non sanno contenere l’insolenza,
né gestire con armonia le gioie del banchetto, che sono pronte.
*
arricchiscono invece sedotti da azioni ingiuste
*
senza rispettare né i luoghi sacri né i beni pubblici
razziando rubano da una parte e dall’altra,

19
non custodiscono gli altari sacri di Dike,
che silenziosa conosce le cose che sono e quelle che furono,
e col tempo giunge in ogni caso, a far pagare il fio.
Questa ferita inevitabile ormai giunge per tutta la città,
e velocemente è caduta in terribile schiavitù,
che ridesta la lotta interna e la guerra dormiente,
che distrugge di molti l’amabile giovinezza;
rapidamente infatti a causa dei nemici l’amata città
si sfalda nei conciliaboli grati agli ingiusti.
Questi mali serpeggiano tra il popolo: dei poveri
molti vanno in terra straniera
venduti e legati a ceppi non tollerabili.
*
Il male pubblico così penetra in casa di ciascuno
e le porte del cortile non sono più disposte a fermarlo,
salta oltre l’alto recinto e trova tutti,
anche se uno fugge nel recesso di un talamo.
Queste cose il cuore mi ordina di insegnare agli ateniesi,
che Dysnomia causa molte sciagure ad una città,
Eunomia invece mette in luce ogni cosa in buon ordine e ben fatta,
e spesso pone ceppi agli ingiusti,
leviga le asperità, pone fine all’insolenza, fiacca la tracotanza,
secca i germogli della rovina che nascono,
raddrizza le sentenze deviate, affievolisce le azioni superbe,
spegne il rancore di straziante contesa, è suo merito
che tutto tra gli uomini è convenienza e saviezza.

20
È interessante notare come due delle edizioni principali dell’opera di Solone, ovvero
West 1992 e Gentili-Prato 1988, delineino due differenti letture della facies dialettale
all’interno del frammento dell’Eunomia, la prima conservando gli ionismi, la seconda
preferendo una lettura attica di alcune forme. Qui di seguito verranno elencati
prevalentemente i tratti ionici dell’elegia, evidenziando, laddove presente, la
discordanza tra le due edizioni.

1-4. L’elegia, che ci è giunta attraverso la tradizione indiretta costituita da Demosth.


Or. 19, 225, si apre con un δέ (v. 1) di interpretazione piuttosto problematica agli
occhi degli studiosi. Poiché abitualmente è particella correlativa ad μέν, la sua
posizione ad inizio di un carme e la mancanza, dunque, di una correlazione di
proposizioni, ha fatto pensare ad una lacuna nella citazione di Demostene35. Più
probabilmente, come sottolinea la Noussia, si tratta di un δέ incettivo36, quale si trova
anche in Hes., Op. 286; Mimn., 7.1; Heraclit., VS 22B1 ecc. L’uso di particelle di
carattere continuativo come ἀλλά, γάρ e δέ si spiega molto bene con la pratica della
‘continuazione del canto’, per cui la battuta di canto di un simposiasta poteva essere
considerata come una sorta di ‘ripresa’ della battuta del simposiasta precedente, in
una serie di contributi distinti all’insieme della performance simposiale.37 Si nota,
nell’edizione di West, ἡμετέρη «nostra» (v. 1), riferito alla polis, con l’uscita in [e:]
(<η>) dopo [r] tipica del vocalismo ionico, mentre l’attico ἡμετέρα è presente
nell’edizione Gentili-Prato. Il verso prosegue con la clausola formulare
οὔποτ’ὀλεῖται, che l’epica arcaica usa regolarmente per dichiarare l’immortalità della
gloria: essa ricorre infatti in Hom., Il. 2.325, 7.91, Od. 24.196, HHom. Apoll. 156,
Hes., fr. 70.7.38 La facies ionica del testo riemerge al v. 3, dove il dimostrativo
(generalmente poetico) τοίη «tale» è caratterizzato dall’uscita in [e:], invece della
forma attica in –ία. La scelta degli epiteti è molto attenta alle funzioni cui Atena
assolve in questi versi, tanto che nello stesso verso se ne contano ben tre: μεγάθυμος,
il primo, è riferito tipicamente a soldati e guerrieri anche in Omero (cfr. Il. 6.145,
20.498); ἐπίσκοπος risulta essere detto di una ‘spia’ che sorveglia le azioni nemiche
35
NOUSSIA 2001, p. 237
36
CFR. LEUMANN 1949, pp. 85-9
37
CFR. ALLEN 1993 p. 186
38
NOUSSIA 2001, p. 238

21
(Il. 10.38 e 342), dei pastori ‘guardiani’ del gregge (Hes. fr. 217.3) e inoltre degli dèi
in quanto testimoni e ‘garanti’ dei patti (Il. 22.255); ὀβριμοπάτρη «dal padre
possente», già noto in Omero ed in Esiodo, presenta la forma ionico-epica in [e:],
laddove in attico ci si sarebbe aspettati un’uscita in [a:]. Anche Ἀθηναίη (v. 4) è
forma ionica dell’attico arcaico Ἀθηναία, che dal IV sec. a. C. diventerà Ἀθηνᾶ. Il v.
4 si conclude con un ulteriore idioma tradizionale, χεῖρας ὕπερθεν (tenere le mani su
qualcosa o su qualcuno), che vuole indicare un atteggiamento di tutela e protezione
da parte della divinità: cfr. Hom., Il. 4.249, 9.416s., 9.686s, 5.433, ma anche Theogn.,
757, Eur., IA 916, Theod., Ant. Pal. 6.155.6, Epigr. Gr. 831.10 Kaibel (II sec. a.C.).39

5 s. Non sono gli dèi, ma gli stessi cittadini a voler distruggere la loro grande città
«per singoli atti di insensatezza» (v. 5), come sottolineato dal dativo plurale
concretizzante ἀφραδίῃσιν, forma ionica in luogo dell’attico in –ίαις. Il concetto è
peraltro anche omerico (Od. 1.32-4) e torna nel fr. 11 W.2 εἰ δὲ πεπόνθατε λυγρὰ
δι’ὑμετέρην κακότητα || μὴ θεοῖσιν τούτων μοῖραν ἐπαμφέρετε· «se avete subìto
miserie per la vostra dappocaggine, non attribuite agli dèi la causa di esse». Al v. 6 è
da notare la scelta di βούλονται «vogliono», che diversamente da altri verbi servili
volti a mettere in risalto un’idea di futuro, come ad esempio μέλλειν, mira ad
enfatizzare la deliberazione e l’immediatezza con cui i cittadini si apprestano a
rovinare la città. Nel secondo emistichio del verso è attestata, oltre a χρήμασι
πειθόμενοι, la variante ῥήμασι πειθόμενοι40, che richiamerebbe dal punto di vista
formale l’ultimo emistichio del fr. 5. Pare preferibile tuttavia, agli occhi della
Noussia, la forma χρήμασι πειθόμενοι, oltretutto in accordo con il parallelo
teognideo del v. 194.

7 s. A macchiarsi di ingiustizia sono i ‘capi del popolo’, forma che designa la classe
dirigente41, per la quale è già ἑτοῖμον «stabilita» la punizione a causa sia della loro
mente ingiusta, dove νόος «mente» è forma poetica non contratta in luogo del
contratto νοῦς, sia per la «tracotante arroganza» indicata genitivo singolare ὕβριος (v.
8), forma comune non attica, in alternativa all’attico ὕβρεως. È inevitabile, dunque,

39
NOUSSIA 2001, p. 239, DEGANI-BURZACCHINI 2005, p. 109
40
WILAMOWITZ, cfr. ora MASARACCHIA 1958, p. 255
41
FORTI-MESSINA 1956, p .233 ss.

22
che i capi del popolo, i suddetti ἡγεμόνες, debbano ἄλγεα πολλὰ παθεῖν, «soffrire
molti mali»; il neutro plurale ionico ἄλγεα (v. 8) è forma intermedia tra l’originario
*ἄλγεσα e l’attico ἄλγη.

9-13. In Omero ed in Esiodo il termine κόρος, «sazietà», possedeva un valore


esclusivamente positivo, che «esprimeva in sé sedazione di uno stato precedente, per
lo più negativo»42, ma già in Saffo (cfr. fr. 68, 8 κόρον οὐ κατισχε) il termine aveva
assunto un’accezione negativa. In Solone κόρος è l’atteggiamento altero ed insolente
che nasce dall’eccessiva opulenza, ed è riferito a coloro che, al verso successivo, non
sanno gestire le gioie del banchetto «con ordine» dove il dativo singolare ἡσυχίῃ (v.
10) presenta la forma ionica con l’uscita in [e:] dopo [i] per l’attico ἡσυχίᾳ. Si
segnala inoltre, ai v. 10-12, un guasto del testo, rivelato dalla impossibile successione
di tre pentametri. Il v. 11 potrebbe costituire un pentametro isolato conseguente alla
caduta di due esametri43, o addirittura un esametro con il secondo emistichio
corrotto, ipotesi peraltro preferita dalla Noussia, dal momento che «non si sente il
bisogno di alcuna aggiunta di senso prima o dopo di esso» (p. 245). Sempre al v. 11,
la terza persona plurale πλουτέουσιν «arricchiscono» (v. 11) mantiene la forma
ionica non contratta, quando in attico ci si sarebbe aspettati un’uscita in -τοῦσιν, e
regge l’espressione ἀδίκοις ἔργμασι πειθόμενοι, che troviamo anche al fr. 13 W., v.
12 ed in Theogn., 380. Al v. 12, il termine δημόσιος risulta attestato per la prima
volta44, mentre il genitivo plurale κτεάνων «beni45» presenta una forma ionica non
contratta in luogo dell’attico κτήνων. Un'altra questione di carattere filologico
riguarda il v. 13. Solo alcuni codici recenziori hanno ἐφ’ἀρπαγῇ, evidentemente da
intendere in senso avverbiale46. West, secondo la tradizione, legge ἀφαρπαγῇ, che
andrebbe interpretata come hapax soloniano sulla base del verbo ἀφαρπαζω e che si
trova, spiegata con abreptio, in qualche tardo glossario47. La Noussia preferisce però

42
NOUSSIA 2001, p. 243
43
DEGANI-BURZACCHINI 2005, p. 108
44
NOUSSIA 2001, p. 245
45
Il termine indicava in particolare le proprietà terriere. Cfr. MASARACCHIA 1958, pp. 246-72
46
Per esempi di questo valore di ἐπί + dativo cfr. MASARACCHIA 1958, p. 258
47
DEGANI-BURZACCHINI 2005, p. 108

23
uniformarsi alla forma di Solone 29b G.-P.2 ἐφ’ἀρπαγαῖσιν, considerando la
possibilità che ἀφαρπαγῇ sia un errore prolettico ἐφα- > ἀφα-.

14-15. L’attenzione di Solone si concentra ora sul ‘sacrilegio etico’ di chi viola le
norme basilari di Dike, tramite la cui citazione «il linguaggio del poeta acquista un
tono solenne e ieratico»48. Il termine θέμεθλα «fondamenta» non ricorre in senso
metaforico prima di Solone, e a tale proposito Masaracchia (1958, p. 258) sostiene
che esso sia vox Homerica e vada inteso nel senso di θέμις «legge». In questi versi,
dunque, «siamo davanti ad una rappresentazione grandiosa, il cui effetto di
sovrumana grandezza è accresciuto dall’efficacissimo silenzio della dea»49, che
conosce le cose che sono e quelle «che furono» (v. 14), dove il participio ἐόντα è
forma comune ionica, dorica ed epica.

16-20. Il concetto soloniano di Dike che punisce la superbia ed è guardiana e


custode dell’ordine sociale è comune anche ad Esiodo (Op. 217 s.). Il termine ἕλκος
indica una ferita inflitta da un’arma o da un animale, una piaga imputridita o
un’ulcera, come causata dal morso di un serpente (cfr. Hom., Il. 2.723), o dalla peste
(cfr. Thuc., 2.49.5; Xen., Eq. 5.1). Il primo significato sembra il più plausibile,
specialmente in riferimento ai vv. 19-2050. Solone è il primo dei lirici che
conosciamo ad usare ἕλκος metaforicamente per i mali che minacciano la città.51 Al
v. 18 segnaliamo l’uso della terza persona singolare ἤλυθε «è caduta», forma comune
prevalentemente poetica (epica, lirica e tragica) dell’attico ἦλθε, in riferimento
sempre alla città di Atene, personificata e schiavizzata. La schiavitù, anch’essa
personificata, risveglia la «guerra dormiente», che a sua volta è la causa principale
della distruzione dell’«amabile giovinezza» di molti: al v. 20 osserviamo
nuovamente il fenomeno con fonologia ionica in [e:] (<η>) dopo [i] anche
nell’accusativo ἡλικίην «giovinezza» (v. 20).

21-25. Il termine πολυήρατος (v. 21) è presente in Omero riferito sia alla città di
Tebe in Od. 11.275, sia a ἥβη in Od. 15.366; ma anche in Bacchyl., 19.9s. riferito ad

48
MASARACCHIA 1958, p. 258-9
49
MASARACCHIA 1958, p. 258-9
50
ADKINS 1985, p. 118, ANHALT 1993, p.102
51
HENDERSON 2006, p. 3

24
Atene, e in Aristoph., Nub. 301., riferito all’Attica.52 La rovina dell’«amata città» è
introdotta dal complemento di causa ἐκ […] δυσμενέων «per via dei nemici», che si
presenta in forma non contratta, come anche la terza persona plurale ἀδικέουσι
«commettono ingiustizie» (v. 22), forma ionica non contratta in luogo dell’attico in -
κοῦσι. Nell’edizione di West 1992 manca la contrazione anche nella terza persona
plurale ἱκνέονται «giungono» (v. 24), mentre Gentili-Prato preferiscono leggere la
forma contratta attica ἱκνοῦνται. In Omero lo stesso verbo τρύχω costituiva, con
l’accusativo οἷκον «casa», una formula fissa per indicare la distruzione dei beni di
Odisseo da parte dei proci (τρύχουσι δὲ οἷκον, cfr. Od. 1.248, 16.125, 19.133).
Perciò, anche se sicuramente il verbo non era abbastanza specificamente collegato
all’Odissea da autorizzare certezze, è plausibile che Solone confronti implicitamente
il comportamento dei proci e quello dei nemici del bene pubblico (come voleva
Adkins 1985, 119, di cui va però respinta l’idea che per ‘nemici’ si intendano nemici
esterni).53 Osserviamo al v. 24 l’evidente epicismo di γαῖαν «terra», per l’attico γῆν,
e al verso successivo i dativi ‘lunghi’ δεσμοῖσι […] ἀεικελίοισι «da catene indegne»
che seguono la dizione epica. Πραθέντες è participio aoristo da πέρνημι.

27-30. Il male pubblico ora invade ogni casa della città, nonostante alte barriere e
recinti, fino a raggiungere l’angolo del talamo, tanto che le stesse porte non riescono
a trattererlo: οὐκ ἐθέλουσι del v. 27 va inteso come οὐκ δύνανται: questa particolare
accezione di (ἐ)θέλω è ristretta di norma alla forma negativa e ad esseri inanimati (in
questo caso le αὔλειοι θύραι «porte del cortile») ed è comune anche ad Hom., Il.
9.353, 21.366.54 Al v. 29 la Noussia preferisce leggere ᾖ congiuntivo del verbo
«essere» connesso al genitivo θαλάμου in luogo della congiunzione disgiuntiva
tràdita ἢ col dativo θαλάμῳ, che coordinerebbe μυχός «recesso» e θάλαμος
«talamo», avendo inoltre, il sintagma μυχός θαλάμου «penetrali del talamo», una
frequenza idiomatica nella tradizione epica e nella lingua poetica, tanto da essere
presente in Hom., Il. 17.36 e Od. 16.285, 22.180, 23.41; HHom., Dem. 143; Pind.,
Nem. 1.42; Sim., 26.17.

52
NOUSSIA 2001, p. 252
53
NOUSSIA 2001, p. 252
54
DEGANI-BURZACCHINI 2005, p. 110

25
31-33. Solone, attingendo al solito repertorio tradizionale (τά με θυμὸς ἐνὶ στήθεσσι
κελεύει è formula frequente, cfr. Il. 7.68, 7.349, 8. 6 ecc.) ed assumendo in questa
circostanza «il ruolo che presso Omero ed Esiodo è proprio del messaggero divino»55
riassume quanto detto nei vv. 17-29 ed introduce la parte finale della sua elegia, ossia
l’enumerazione dei benefici di Eunomia. I nomi di Dysnomia ed Eunomia, sono letti
da West Δυσνομίη (v. 31) ed Εὐνομίη (v. 32) con vocalismo ionico in [e:] dopo [i],
mentre in Gentili-Prato si trova la forma attica con [a:] (<α>) originario. Eunomia è
raffigurata apporre ceppi agli ingiusti, facendo cessare, di conseguenza, le loro azioni
crudeli. La metafora è anticipata alla lettera al v. 25, dove sono i poveri ad essere
mandati in terra straniera avendo perso la loro libertà a causa dei debiti.56

34s. Due metafore accompagnano l’elenco dei benefici di Eunomia: i germogli della
rovina, dove il neutro plurale ἄνθεα «germogli» (v. 35) è forma ionica per l’attico
ἄνθη, e il loro disseccare, espresso dal verbo αὐαίνω, di uso peculiare e piuttosto raro
in attico.57 Inoltre, il significato fondamentale di πραΰνω (v. 37) è quello di ‘calmare’
e riguarda uno stato fisico o psicologico. Potrebbe comunque essere inteso
metaforicamente nel senso di ‘addomesticare’ il male pubblico, considerato quasi di
58
natura ferina. Sullo stesso verso, il genitivo singolare διχοστασίης «di sedizione»
presenta nuovamente il con vocalismo ionico in [e:] dopo [i], come ionica è la forma
non contratta ἀργαλέης «della dolorosa» (v. 38), in luogo dell’attico ἀργαλῆς.

Con il commento proposto si intendeva mettere in risalto alcuni aspetti della poesia e
della lingua soloniana, spaziando dalle riflessioni morfologiche e fonologiche alle scelte
lessicali. In tale ottica, si è osservato come il poeta abbia impiegato numerosi ionismi
parallelamente ad alcuni atticismi, e come egli si sia servito di espressioni formulari ed
immagini tradizionali combinandole con altrettanti elementi di innovazione.

55
JAEGER 1966, p. 74
56
HENDERSON 2006, p.5
57
HENDERSON 2006, p.6
58
HENDERSON 2006, p.6

26
CONCLUSIONI

Quelli che seguono sono gli elementi più significativi emersi dalla ricerca svolta.

 A proposito della lingua abbiamo osservato come, nei testi di Solone,


provenienti da testimonianze dirette e indirette, vi sia una cospicua presenza di
forme ioniche sia a livello fonologico sia morfologico, in accordo col genere
elegiaco della sua produzione poetica. Abbiamo osservato inoltre come parte
della tradizione documenti per alcuni frammenti una facies più attica, in modo
particolare per quanto riguarda certi termini, lasciando così irrisolta la questione
su quale delle due coloriture sia preferibile accogliere.

 Circa le espressioni formulari presenti nell’opera soloniana, si è cercato di


presentare i principali sintagmi ed idiomi che trovano piena rispondenza nei
modi della composizione epica, verso la quale Solone si pone come debitore ma
anche come innovatore, sia attribuendo significati e sfumature inediti agli stilemi
della formularità tradizionale, sia modificando la lingua dell’epica a seconda
delle proprie necessità.

 In ultimo abbiamo proposto un’analisi del fr. 3 G.-P., Eunomia, che cercasse di
verificare quanto emerso dalla parte precedente, riservando particolare
attenzione ai fenomeni linguistici più rilevanti, come gli ionismi, proponendo
riflessioni di natura lessicale e mettendo in luce i frequenti paralleli con la
tradizione poetica, condivisa non solo con Omero, ma anche con vari esponenti
della lirica arcaica.

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