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Restituire il mito.
Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa
Il poeta lombardo Emilio Villa, morto nel 2003 a quasi novant’anni, nel
corso della sua vita ha tradotto integralmente la Bibbia ebraica: la tôrah (istru-
zione), i profeti e gli scritti sapienziali, ovvero il complesso di libri che per il
canone cristiano costituisce l’Antico Testamento. La traduzione villiana venne
realizzata direttamente dalle lingue originali – l’ebraico e l’aramaico (quest’ulti-
mo per alcune sezioni di Daniele ed Esdra) – ed è l’unico esempio in Italia di
una traduzione integrale dell’Antico Testamento compiuta da una sola persona.
Nonostante ciò soltanto alcune parti di questa traduzione sono state pubblicate.
Villa, poeta, critico d’arte (è stato scopritore e sodale di molti talenti artistici
del secolo: Burri, Matta, Schifano, Cagli, Capogrossi…), artista visivo egli stes-
so, è stato un dispersore ostinato dei suoi scritti ed è stato ugualmente ostinato
nel coltivare una posizione nettamente marginale, irrequieta e non conformista
rispetto alla “cultura ufficiale”. Ha compiuto tuttavia un imponente lavoro di
traduzione dalle lingue antiche, affrontando, oltre alla Bibbia, l’Odissea, il
poema babilonese Enuma elis (pubblicato nel 1939 su «Letteratura») e il Dies
Irae di Tommaso da Celano. Tale profonda competenza linguistica era dovuta
alla sua storia personale: fra il 1925 e il 1932 visse in diversi seminari lombardi
e, dopo aver abbandonato il percorso di formazione al sacerdozio, fra il 1934 e
il 1938 frequentò come laico il Pontificio Istituto Biblico di Roma, studiando
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1
«Lo studio, sia pure ancora amatoriale, del fenicio lascia intravedere avvincenti oriz-
zonti sulle origini dell’alfabeto, e quello del caldeo sulle culture mesopotamiche, alle quali
egli più tardi si dedicherà con incontenibile e tenace entusiasmo», A. TAGLIAFERRI, Il clande-
stino. Vita e opere di Emilio Villa, Roma, DeriveApprodi, 2004, p. 17.
2
Masorah in ebraico significa tradizione, e masòra o massòra è il complesso di annota-
zioni critiche relative al testo della Bibbia, opera compiuta tra il VI e il X sec. d.C. che chiuse
definitivamente la porta a qualsiasi variazione e interpolazione nel testo biblico. In preceden-
za gli scribi ne avevano fissato il testo consonantico e i punteggiatori ne avevano fissato la
vocalizzazione.
3
Aldo Tagliaferri commenta così l’esito negativo: «La maledizione che pesa su coloro che,
lavorando nel settore dell’industria culturale, vogliono far quadrare presto i conti, è che di solito
ci riescono al prezzo di sbarazzarsi delle proposte che abbisognano di tempi lunghi per essere
recepite e per tramutarsi in vantaggi economici: quella di Emilio è una vita straordinariamente
produttiva di proposte, spesso generose e vitali, frustrate da un sistema incline a chiudere porte
e finestre in faccia alle idee autenticamente innovative, per adattarsi alla logica della continuità
e del crisma autorevole, accampata da dilaganti orde di “specialisti” universitari», ID., Il clande-
stino, cit., p. 95. E sono affascinanti i termini in cui descrive di Villa il «sovrano distacco che gli
impedisce di godere della proprietà delle cose e lo esime dal prendere sul serio una concezione
contabile delle energie investite nella traduzione della Bibbia», ivi, p. 83.
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Restituire il mito. Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa
L’intento primario della traduzione villiana era restituire al testo biblico il suo
valore pienamente umano e letterario, prima della sua portata sacra e religiosa, in
un’ottica assolutamente laica e aconfessionale. È lui stesso a dire di voler recupe-
rare il testo “attivo” al di là delle esegesi giudaica, ellenistica e cristiana che si
sono avvicendate nella lettura delle opere della letteratura ebraica antica. Nel ’74
in una scheda che doveva servire da proposta editoriale Villa scriveva appunto:
Non esiste in Italia, e nemmeno fuori d’Italia, una traduzione della Bibbia, o Antico
Testamento, che non sia solo a-confessionale, ma proprio intimamente, interamente laica.
Proponiamo quindi un progetto per una edizione dell’Antico Testamento, cioè del corpus
della letteratura ebraica antica, che contempli la necessità di una versione critica e tenga
conto dell’indispensabile libertà che la cultura avanzata esige nella ricostruzione del testo5.
4
E. VILLA, Attributi dell’arte odierna 1947-1967, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 4. È docu-
mentato inoltre che nella sua biblioteca vi erano libri pubblicati dal Biblico negli anni
Sessanta.
5
Citato da Aldo Tagliaferri nella nota introduttiva non firmata a E. VILLA, Sulla traduzio-
ne dei testi biblici, in «Il Verri», XLIII, nn. 7-8, 1998, p. 9.
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Nella nota del traduttore (che risale al 1971) stampata in calce alla sua tradu-
zione dell’Odissea assumeva del resto la medesima prospettiva, sancendo la
necessità di affrontare il testo con onestà tentando di ritrovarne e ristabilirne il
senso originario al di là delle sovrainterpretazioni prodotte dalle letture che si
sono succedute nei secoli:
6
E. VILLA, Nota del traduttore, in OMERO, Odissea, traduzione di E. Villa, Roma,
DeriveApprodi, 20054, pp. 421 e 419. Villa cominciò a tradurre l’Odissea durante la guerra
mondiale e la diede alle stampe per i tipi dell’editore Guanda (Parma) nel 1964 e poi, in una
versione riveduta, per la Feltrinelli nel 1972.
7
G. LACERENZA, Villa traduttore della Bibbia ebraica, contributo a un convegno su
Emilio Villa svoltosi nel 2005 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Salerno, atti in corso di pubblicazione.
8
TAGLIAFERRI, Il clandestino, cit., p. 21. Ritornare «all’atto originario col quale si creano
le cose nominandole», scrive sempre Tagliaferri nella nota introduttiva su «Il Verri», cit.
9
VILLA, Sulla traduzione dei testi biblici, cit., p. 12.
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Restituire il mito. Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa
La lingua ebraica, dunque, va intesa come lingua adottata, in secoli lontani, che cessò di
essere lingua parlata popolarmente, più o meno nel secolo V a.C., praticamente sostituita dal-
l’aramaico; mentre l’ebraico sopravvisse come lingua ufficiale del sacerdozio e del culto;
quasi lingua “sacra”, di quel sacerdozio che codificò in un unico grande corpus storico, lette-
rario, liturgico e teologico il complesso di prodotti di varia epoca, genere, formazione e
ascendenza. Quel corpus, canonicamente chiuso nel II sec. a.C., che venne, in epoca ellenisti-
ca, dai filologi giudeo-ellenistici mandato sotto il nome di tà biblìa, “i libri”; esattamente i
libri dell’Antico Patto (berit, synthèke), tradotto dai “Settanta” traduttori di Alessandria come
palaiè diathèke, “Antico Testamento”, continuato nelle versioni latine, vetus testamentum 11.
Fissando alcuni punti certi frutto delle indagini della critica testuale moder-
na, il traduttore spiega come questo «vasto materiale di formazione spontanea,
collettiva, nato e destinato ai suoi fini culturali», «oscillando da formazione
orale a tradizione orale e scritta», è stato infine, sotto la gestione del sacerdozio
colto, disposto secondo una griglia d’arte «narrativa, epica, etiologica, innica,
oracolare». La questione della cronologia e della datazione dei diversi materiali
è difficile però a causa della «durezza conservativa della lingua ebraica».
Questo materiale, di provenienza mitologica e rituale, è stato poi coperto nei
secoli da incrostazioni di varia natura, che hanno prodotto molteplici letture
allegoriche del testo, che hanno superato e annientato quelle letterali:
La confusione dei livelli ha portato a uno svuotamento dei miti e dei simboli arcaici; che
reinterpretati e deformati, poi entrati in collusione con altre nozioni neo-mesopotamiche, ira-
niche e mediterranee, si sono dissolti in nuovi vaghi contenuti dove l’esegesi giudaica, quella
ellenistica, e infine il cristianesimo hanno riversato le proprie intenzioni e attinto i propri
poteri […] Nel lungo travaglio giudaico-ellenistico-cristiano, il testo venne allora ad immer-
gersi nelle ondate allegoristiche. E l’aggressione “allegorica” al testo non è da intendersi
come fase organica del testo; ma, proprio, un incidente di disgregazione. È la fine (forse il
10
Ivi, p. 13.
11
Ivi, pp. 17-18.
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fine, il destino) del testo. Per questo, il testo attivo va recuperato, nei limiti del possibile,
sotto le manomissioni e i rimaneggiamenti, adattamenti e obliterazioni. Il lavoro di recupero
è stato lungamente tentato dalle moderne scienze storiche; e lungamente contrastato dalla
conservazione confessionale […]12.
12
Ivi, pp. 16-17.
13
Ivi, p. 19.
14
C. BELLO, Renovatum Mundiloqium: sul latino di Emilio Villa, in «Il Verri», XLIII,
nn. 7-8, 1998, pp. 82-83.
15
A. CORTELLESSA, Una nuova scienza dell’occhio rovesciato. Emilio Villa scrive l’arte,
ivi, p. 100.
16
A. TAGLIAFERRI, Prefazione a E. VILLA, Conferenza, Roma, Coliseum, 1997, p. 13. Ma
cfr. anche E. VILLA, L’arte dell’uomo primordiale, Milano, Abscondita, 2005.
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Villa, che per il testo fa riferimento alla masòra, alla versione dei Settanta e
alla Vulgata, nella sua traduzione espunge ciò che ritiene glossa e interpolazio-
ne, anche le aggiunte dei Settanta, riportando però in nota i versetti espunti e le
17
E. VILLA, Proverbi e Cantico. Traduzioni dalla Bibbia, cura e prefazione di C. Bello
Minciacchi, Napoli, Bibliopolis, 2004, nota 89 p. 175 (corsivo mio).
18
E. VILLA, Noi e la preistoria, in «Arti Visive», s. II, n. 1, 1954.
19
TAGLIAFERRI, Nota introduttiva, cit., p. 10.
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[…] proprio la realtà e la poesia dell’altissimo prodotto consistono appunto in questo suo
sommo essere, e essere al sommo, tutta realtà e pura manifestazione di musica rituale, mossa
in modi storicamente sussultori, attorno ad alcuni nuclei e morfemi di natura cultuale, solo
più tardi trasferiti in istituto cerimoniale; poi ancora, celebratoria; e infine caduta nella rete
letteraria.
L’epos omerico, noi crediamo, proviene direttamente, come spinta morfologica, e come
progressiva aggregazione, dall’azione rappresentativa liturgica di stanze mitologiche; o,
addirittura, di un mito. Per vie e gradi discendenti, l’epos organizzò o aggregò un materiale
accatastatosi nel corso di alcuni secoli, fino a prendere una intelaiatura bassa e lenta, che è
quella, forse, dell’VIII-VII secolo a.C., prima costellazione di nuclei che successivamente
verranno accolti e quasi come consumati, già logori e confusi, in una progressiva incastellatu-
ra letteraria, gonfiata da elementi eterogenei, tuttavia adattabili a una specie di antologia qua-
si disponibile a tutto, come una parvenza di nuova genesi, origine. Invece, arcaicamente,
doveva trattarsi, con grande probabilità, di una lunga teomachia. […] Ho tentato, dunque,
varianze e mobilità di toni, di misure, di timbri, di accenti, per riflettere, in modo s’intende
del tutto e soltanto indizievole, una ben complessa, e diciamo pure disordinatissima stratigra-
fia tonale e timbrica del testo, messo insieme da una evoluzione abbastanza inafferrabile, su
materiali forse già obsolescenti, per l’usura cui erano andati sottoposti, e per la naturale deca-
denza della funzione cultuale e rituale cui i materiali stessi erano naturalmente destinati 21.
20
Ivi, p. 9.
21
VILLA, Nota del traduttore, cit., pp. 413-414, 444 (corsivi miei).
208
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le», si serve d’altro canto proprio della mitologia per rappresentare un’ideale
cronologia sacra piegata in senso precisamente apocalittico ed escatologico.
Anche lo stesso Cantico – come vedremo – è per Villa la rappresentazione pun-
tuale di un rito ricorrente sotto forme diverse ma omologhe in più di una tradi-
zione cultuale (ammonea, amorrea, ugaritica…). E anche nella prima lunga nota
al libro dei Proverbi il traduttore spiegava che il vasto materiale di argomento
sapienziale che forma il libro è arrivato attraverso una lunga tradizione orale,
frutto di una “Internazionale del sapienzalismo” sviluppatasi tra Mesopotamia,
Siria, Egitto e Palestina a partire da un substrato “proverbialistico” di fondo
semitico nomade 22.
Possiamo verificare in questi versetti uno dei procedimenti tipici della tradu-
zione villiana, che consiste nel piegare il significato del testo di partenza con il
fine di ristabilirne l’interpretazione originaria. Come dire che nell’intento di
«restituire il mito» non si può percorrere altra strada che quella di deformarlo di
nuovo per renderlo nella sua assoluta contemporaneità. Lacerenza ha infatti
notato che Villa, parlando di Femmina e di Maschio nonostante l’ebraico biblico
disponga, per le definizioni di genere, di altri sostantivi specifici, «introduce tra-
mite una forzatura lessicale […] la sua lettura del racconto della Genesi come
un testo di mitografia delle origini: l’uomo e la donna divengono, sottolineando-
lo con l’uso delle maiuscole, il Maschio e la Femmina dei primordi; prototipi,
22
Siamo di fronte a un testo, spiega Villa, «spesso mal conservato; spesso avariato dai
redattori di ogni epoca; spesso internamente ambiguo; spesso deformato dalla trafila della
memoria; e spesso codificato in un lessico di cui non riusciamo a ricostruire l’etimologia e la
storia; spesso vessato da reinterpretazioni tardive o rifatto sulla lingua più tarda, e sottoposto
a processi di demagizzazione sia dai massoreti sia nell’ambito ellenistico», VILLA, Proverbi e
Cantico, cit., nota 1, p. 160.
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più che progenitori, della specie umana». Anche il maiuscolo Oasi ne rafforza
«la proiezione in uno spazio non riconducibile a un qualche luogo della terra,
ma alla sfera della mitopoiesi». «Villa – chiosa ancora Lacerenza – sceglie, per
le grandi realtà, le categorie del mitico». Nelle poche note alla traduzione di
questi versetti di Genesi Villa mette appunto in comunicazione «elementi e
mitemi tipici di questo racconto» biblico con quel «comune patrimonio mitolo-
gico» diffuso in tutta la zona medio-orientale e paleo-mediterranea e con miti
analoghi presenti nella cultura egiziana e nella letteratura akkadica, arrivando ad
augurarsi che «analogie testuali, o nuove comparazioni letterarie nell’ambito
dell’Antico Oriente, possano offrire mezzi più sicuri che ci aprano il testo»23.
I Proverbi e il Cantico, pubblicati assieme nel 2004, l’anno successivo alla
morte di Villa, sono invece, tra tutti i libri della Bibbia, i più improntati a un’ot-
tica umana e mondana ed entrambi presentano una forma poetica. Soprattutto il
Cantico è il libro biblico che in misura più incisiva è stato fonte di contrastanti
interpretazioni e di conflitti esegetici, finendo per essere sovrastato da congettu-
re e chiose erudite. Villa nell’edizione del ’47 forniva l’immagine particolar-
mente vivace di
Trenta secoli nei quali indagini, spiegazioni, torture e storture di vario genere, sovrastrut-
ture, sovrintenzioni e sottintenzioni, tentativi di raddrizzamenti, lotte dispute passioni polemi-
che dubbi scrupoli e godurie di scribi e farisei, di poeti e di santi padri, di gesuiti domenicani
carmelitani scalzi e di critici razionalisti filologi glottologi amatori di letterature comparate,
di monache e di seminaristi, di mistici e di erotomani, di parroci, di professori, e altre umane
agitazioni hanno sommosso i fondali di un testo, in sé scabroso dal punto di vista della lette-
ratura così detta ispirata a superis, in sé anche leggermente torbido, ma, in realtà, non così
oscuro, o tale da giustificare tutte le vicende e le peripezie alle quali un ingenuo e sfrenato
cantico amoroso ha dovuto sobbarcarsi per comunque resistere 24.
Villa si tiene nel solco della lettura esegetica che lo considera una descrizio-
ne dei riti della fecondità propri del culto ierogamico diffuso tra i Cananei. La
sua principale innovazione consiste nella divisione in battute teatrali, secondo
un criterio di attribuzione ai personaggi che si discosta da quello tradizionale.
Per spiegare i nomi dei due protagonisti (Shalma e Shulmit25) risale alle divinità
23
Cfr. ivi, nota 4, p. 25.
24
E. VILLA, Antico teatro ebraico. Giobbe. Cantico dei cantici, Milano, Il Poligono,
1947, citato da Tagliaferri (Il clandestino, cit., p. 43).
25
Shalma, il personaggio che viene comunemente inteso come Salomone – il primo ver-
setto del Cantico viene infatti letto «Cantico dei cantici, che è di Salomone», nel solco di una
«tradizione incontrollata» secondo cui il re sarebbe stato autore del componimento –, è il
nome della divinità. Shulmit, che nelle versioni tradizionali è la Sulamita – ma in realtà il
nome compare esclusivamente al versetto 7,1 e spesso gli esegeti lo ricollegano alla sunamita
di cui si parla nel I libro dei Re –, è la fanciulla. Tuttavia bisogna tenere presente che – come
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Restituire il mito. Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa
avverte Bello Minciacchi – «nelle più recenti riletture del Cantico Villa ha cancellato la distri-
buzione e le attribuzioni dei versetti ai tre personaggi, ovvero ha cassato le indicazioni nomi-
nali – “(Shalma)”, “(Shulmit)” e “(Coro)” – che aveva posto sul margine sinistro del testo»,
C. BELLO MINCIACCHI, Appendice II, in VILLA, Proverbi e Cantico, cit., p. 215.
26
Adone e Tanit (ovvero Tammuz e Ishtar), divinità della «primavera rinascente», voca-
lizzando mlk in Malic, ovvero Malkishalma, il corrispondente amorreo del dio Tammuz (o
Baal), cfr. ivi, note 1 e 3, pp. 217-218.
27
Cfr. ivi, note 35 e 37, p. 221. Al termine del poema, spiega Villa, sono stati inoltre
aggiunti materiali eterogenei di disparata provenienza: «componimenti brevi, forse canzoni
liturgiche popolari: una giaculatoria erotica, una canzone gnomica di grande valore espressi-
vo, due indovinelli, una storia di una vigna e un’altra canzone brevissima di origine certa-
mente popolare. Forse erano componimenti da recitare o cantare, ad libitum, durante la rap-
presentazione del mito», ivi, nota 42, p. 222.
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Marta Pensi
Nella traduzione del libro dei Proverbi – come si accennava – preme a Villa
ristabilire la portata dell’influenza sulla cultura ebraica di altre tradizioni cultua-
li e sapienziali, specialmente egiziane, rivelandone i residui ormai celati nelle
versioni tradizionali28. Perciò ad esempio laddove le versioni canoniche, in alcu-
ni punti oscuri segnalati come passi incerti, impiegano il concetto di malleveria
prestata avventatamente Villa nella sua traduzione cerca di far emergere con
maggiore evidenza le formule di buono e cattivo augurio, che invocano la fortu-
na o i malefici, e che indicano in tal modo il potere della parola pronunciata, che
è azione, gesto, immissione di energia nel mondo. Villa la definisce «provvista
di energia cosmica operante»29: «Morte e vita sono in balia di una formula
magica:/ ognuno avrà il frutto della formula che preferisce» (Proverbi 18,21).
Per Villa la qualità poetica del testo sta proprio nelle sue virtù espressive legate
all’uso della parola:
il sottile piacere dell’enigma svolto in una tendenza verso l’ordine; l’estro del calembour
secco; il gioco fine degli echi fonetici e delle rispondenze omofoniche; la rima mentale con-
creta; i richiami vistosi e ingenui delle coincidenze etimologistiche, delle assonanze del pen-
siero; l’attrito o l’aderenza delle connessioni vocali e ritmiche; la musica intuita e captata
nella passione iterativa della parola esemplare30.
Nella prima nota al libro dei Proverbi Villa dava inoltre delle indicazioni circa
il rapporto da tenere con il testo che possono valere per l’intera sua operazione:
È spesso un errore della lettura moderna, o almeno una ingenuità, il voler ritrovare, in una
letteratura che ha altri interessi, gli interessi che noi abbiamo fatti nostri per altre ragioni;
invece di trovare, nei testi stessi, quella natura obbiettiva, che può venire assorbita, sia come
termine di paragone sia come diversa energia, nei nostri interessi, per nuovamente animarli
con nuova energia, e arricchirli pertanto…
Dedicarsi a questo punto alla verifica sistematica di quelle che sono state
definite le «improvvise intrusioni della Bibbia ebraica nell’opera originale vil-
liana»31 sarebbe davvero un compito imponente ma credo sia utile presentare,
28
Denunciando i residui di visioni religiose più antiche, confluite in forma adattata nel
testo biblico, e le contaminazioni con civiltà culturali prossime da un punto di vista spaziale,
Villa dimostra ad esempio che molti di quelli che in testi «tardivi» e «laicizzati» sono divenu-
ti concetti astratti erano in realtà personificazioni demoniache. Dove le traduzioni convenzio-
nali rendono con il termine “morte” Villa preferisce infatti reinserire invece il nome del dio
della Morte, El Mawet. Numerosi sono i passi che mette in collegamento con le figure del
pantheon egiziano come Osiride, Horus e Râ, che nei testi sapienziali egiziani è «il “dio della
respirazione”, e principio di vita cosmica, e, insieme, luce solare» (ivi, nota 128, p. 180).
29
Ivi, nota 1, p. 159.
30
Ivi, nota 1, p. 161.
31
LACERENZA, Villa traduttore della Bibbia ebraica, cit.
212
Restituire il mito. Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa
con un fine puramente illustrativo, almeno alcuni esempi tratti da tre ambiti fon-
damentali della sua opera: la poesia, la critica d’arte, gli oggetti di poesia.
Tagliaferri ha infatti messo in luce la tendenza villiana,
sempre più accentuata a partire dai primi anni Cinquanta, a travolgere le paratie divisorie
convenzionali tra campi del sapere e tra lingue diverse, e per contro a intrecciare indissolubil-
mente le attività di semitista, traduttore, poeta e critico d’arte, scompaginando le ordinate
nomenclature dell’enciclopedia del sapere e affidando essenzialmente a una scrittura sempre
più enigmatica e lessicalmente stratificata il senso del proprio appassionato interrogarsi attor-
no al tema dell’origine […]32.
In un testo in francese per Barnett Newman del 1952 compare per esempio a
un certo punto l’espressione letterale bereshit, la prima parola del libro del
32
TAGLIAFERRI, Nota del curatore, cit., p. 6.
33
È stato Aldo Tagliaferri a scrivere che la poetica di Villa propone uno «sfondo teologi-
co» per «l’avventura dell’arte». Cfr. ID., Prefazione a E. VILLA, Conferenza, cit., 1997.
34
C. BELLO MINCIACCHI ha parlato di «vivida frizione di laicità e sacralità che tanta
espressione ironica e drammatica ha avuto nelle sue opere». Cfr. EAD., Prefazione a E. VILLA,
Proverbi e Cantico, cit., p. 11.
35
VILLA, Attributi dell’arte odierna, cit., pp. 17, 19, 23, 33.
213
Marta Pensi
Genesi (che è anche il suo titolo in ebraico), «in principio»: Villa scrive proprio
«au commencement (bereshit)». Se non si tratta di citazioni testuali vi sono
comunque riferimenti al linguaggio e al mondo biblico: «(come un umano deus
firmus, che io ho scoperto nell’antico testamento…)»36…
La formula che invece avevamo incontrato nel Cantico, che Villa aveva tra-
dotto «le Acque dell’Abisso infernale» con pregnanza ben superiore rispetto alla
traduzione canonica («le grandi acque»), si può ritrovare significativamente in
due testi diversi. Sia Lacerenza che Bello mettono in evidenza che in un verso
di Holocaustulum eros (una poesia contenuta nella raccolta Zodiaco) l’espres-
sione è riportata nella trascrizione dall’ebraico assieme alla traduzione in latino
della Vulgata: «a magnis aquis, mimmaim rabbìm», ma compare anche in italia-
no in un testo del 1961 contenuto in Attributi dell’arte odierna, con un’allusione
precisa al significato individuato nel Cantico: «liberare testimonianze sorgive,
fonde, tempestose, dalle “grandi acque”», preceduta nella pagina da due altret-
tanto tremendi «giorno dell’uomo» e «giorno di Jahvè» che biblicamente rap-
presentano la fine del mondo, il giudizio universale.
Un ultimo cenno a un «oggetto di poesia» di Villa, un’opera realizzata per
una mostra nel 1982, composta da una tovaglia, dei piatti di cartoncino, che
recano scritte a mano dell’autore, e delle brocche di vetro su cui sono incise
frasi in varie lingue. Su un piatto si trova una rilettura dell’incipit del Genesi
scritto in un tedesco alterato:
Im Amfang / es war nicht Ein / und was das Ein / kein Verkehr / und es wird
nicht kein / kein Umschlag / aber mindesten / ein Zwei verfügbar
All’inizio non c’era Uno, e l’Uno non era un transito, e non c’è divenire, nessun
ribaltamento, bensì, come minimo, un Due a disposizione37.
36
Ivi, p. 19.
37
L’opera è descritta da Tagliaferri, in ID., Il clandestino, cit., p. 183.
214