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MARTA PENSI

Restituire il mito.
Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa

Il mito è intraducibile, inesplicabile, sempre, senza


speranza. Il mito è la strada tumultuosa ove un
sentimento infinito trova stanza. Il suo periodo è
un punto, la sua frequenza irreale, fittizia.
EMILIO VILLA, introduzione alla traduzione del-
l’Enuma elis

Il poeta lombardo Emilio Villa, morto nel 2003 a quasi novant’anni, nel
corso della sua vita ha tradotto integralmente la Bibbia ebraica: la tôrah (istru-
zione), i profeti e gli scritti sapienziali, ovvero il complesso di libri che per il
canone cristiano costituisce l’Antico Testamento. La traduzione villiana venne
realizzata direttamente dalle lingue originali – l’ebraico e l’aramaico (quest’ulti-
mo per alcune sezioni di Daniele ed Esdra) – ed è l’unico esempio in Italia di
una traduzione integrale dell’Antico Testamento compiuta da una sola persona.
Nonostante ciò soltanto alcune parti di questa traduzione sono state pubblicate.
Villa, poeta, critico d’arte (è stato scopritore e sodale di molti talenti artistici
del secolo: Burri, Matta, Schifano, Cagli, Capogrossi…), artista visivo egli stes-
so, è stato un dispersore ostinato dei suoi scritti ed è stato ugualmente ostinato
nel coltivare una posizione nettamente marginale, irrequieta e non conformista
rispetto alla “cultura ufficiale”. Ha compiuto tuttavia un imponente lavoro di
traduzione dalle lingue antiche, affrontando, oltre alla Bibbia, l’Odissea, il
poema babilonese Enuma elis (pubblicato nel 1939 su «Letteratura») e il Dies
Irae di Tommaso da Celano. Tale profonda competenza linguistica era dovuta
alla sua storia personale: fra il 1925 e il 1932 visse in diversi seminari lombardi
e, dopo aver abbandonato il percorso di formazione al sacerdozio, fra il 1934 e
il 1938 frequentò come laico il Pontificio Istituto Biblico di Roma, studiando

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assiriologia, le lingue semitiche e del settore cananaico, l’ugaritico, il fenicio,


l’accadico, il caldeo, i geroglifici egizi, oltre ovviamente ad approfondire lo stu-
dio del latino e del greco1.
Accostatosi alla storia delle versioni dell’Antico Testamento e alla lingua
nella quale esso fu redatto – racconta Aldo Tagliaferri che ha scritto una vivacis-
sima biografia di Villa – si convinse che era necessario accostarsi direttamente
ai testi originari e non era legittimo limitarsi alle versioni delle Scritture traman-
date (rispettivamente il testo masoretico giudaico 2, la traduzione dei Settanta, la
Vulgata di san Girolamo), e che era altrettanto necessario rivalutare la parentela
culturale con le antiche civiltà mesopotamiche e con l’Egitto.
Negli anni Quaranta Villa iniziò in maniera discontinua a dedicarsi a questa
traduzione, ma risale solo al principio del decennio successivo la concezione di
un progetto di traduzione integrale, che diede il via a una serie di abbozzi man
mano rimaneggiati. A partire dal 1954 Bobi Bazlen convinse Villa a stipulare un
contratto con la casa editrice Einaudi in base al quale, dietro il pagamento di
una somma fissa mensile, si impegnava a portare a compimento l’intera tradu-
zione. Fino alla fine di quel decennio Villa continuò ad onorare il suo compito,
ma la traduzione venne rifiutata dall’editore. La storia di Villa è effettivamente
costellata di arditi progetti editoriali bloccati (e probabilmente avviliti) da una
serie di rinunce e rifiuti, ma l’interesse per i testi biblici aveva, come abbiamo
visto, radici lontane e si prolungò per tutto il corso della sua vita3.
Nel 1947 infatti aveva stampato sotto il titolo di Antico teatro ebraico la tra-
duzione del libro di Giobbe e del Cantico dei cantici, ma questa operazione non

1
«Lo studio, sia pure ancora amatoriale, del fenicio lascia intravedere avvincenti oriz-
zonti sulle origini dell’alfabeto, e quello del caldeo sulle culture mesopotamiche, alle quali
egli più tardi si dedicherà con incontenibile e tenace entusiasmo», A. TAGLIAFERRI, Il clande-
stino. Vita e opere di Emilio Villa, Roma, DeriveApprodi, 2004, p. 17.
2
Masorah in ebraico significa tradizione, e masòra o massòra è il complesso di annota-
zioni critiche relative al testo della Bibbia, opera compiuta tra il VI e il X sec. d.C. che chiuse
definitivamente la porta a qualsiasi variazione e interpolazione nel testo biblico. In preceden-
za gli scribi ne avevano fissato il testo consonantico e i punteggiatori ne avevano fissato la
vocalizzazione.
3
Aldo Tagliaferri commenta così l’esito negativo: «La maledizione che pesa su coloro che,
lavorando nel settore dell’industria culturale, vogliono far quadrare presto i conti, è che di solito
ci riescono al prezzo di sbarazzarsi delle proposte che abbisognano di tempi lunghi per essere
recepite e per tramutarsi in vantaggi economici: quella di Emilio è una vita straordinariamente
produttiva di proposte, spesso generose e vitali, frustrate da un sistema incline a chiudere porte
e finestre in faccia alle idee autenticamente innovative, per adattarsi alla logica della continuità
e del crisma autorevole, accampata da dilaganti orde di “specialisti” universitari», ID., Il clande-
stino, cit., p. 95. E sono affascinanti i termini in cui descrive di Villa il «sovrano distacco che gli
impedisce di godere della proprietà delle cose e lo esime dal prendere sul serio una concezione
contabile delle energie investite nella traduzione della Bibbia», ivi, p. 83.

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era affatto legata a quel «progetto sistematico di traduzione integrale» che


avrebbe affrontato nel decennio successivo e che avrebbe conosciuto costanti
modifiche nel corso della sua esistenza. Nel 1970 nella nota biografica che scri-
ve per il suo volume Attributi dell’arte odierna, Villa dà testimonianza di questo
work in progress raccontando di sé che, nei dieci anni di «assoluto silenzio» tra
il 1937 e il 1947, si era dedicato «alla filologia semitica (traduzioni dall’assiro,
poi dall’ugaritico), allo studio dei problemi lessicali e testuali della Bibbia (è in
continua elaborazione la sua traduzione dell’Antico Testamento), a studi mice-
nei e paleogreci (traduzione, anche, dell’Odissea) […]»4.
È noto inoltre che nel 1966 Villa prestò la sua consulenza per il kolossal
cinematografico La Bibbia del regista John Houston, per il quale aveva lavorato
gran parte della cerchia di artisti vicini a Villa (Cagli, Fontana…). Nel 1975
sfumò tuttavia anche la pubblicazione di Genesi presso la casa editrice
Feltrinelli e più o meno nello stesso periodo Villa rifiutò un incarico di semitista
che gli era stato proposto dall’Università di Ankara.
La maggior parte del materiale della traduzione è rimasta sostanzialmente
inedita: solo nel 1998 sulla rivista «il verri», in un numero monografico dedica-
to a Villa, vide la pubblicazione l’unico testo teorico villiano sulla traduzione
della Bibbia, intitolato Sulla traduzione dei testi biblici, assieme ad una parte
del terzo capitolo di Genesi. Poi nel 2004 sono state pubblicate, con la cura di
Cecilia Bello, le traduzioni del libro dei Proverbi e del Cantico dei cantici. Tutto
il materiale inedito relativo alla Bibbia (per ogni libro traduzione, note e com-
mento) è conservato in un fondo presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia.

L’intento primario della traduzione villiana era restituire al testo biblico il suo
valore pienamente umano e letterario, prima della sua portata sacra e religiosa, in
un’ottica assolutamente laica e aconfessionale. È lui stesso a dire di voler recupe-
rare il testo “attivo” al di là delle esegesi giudaica, ellenistica e cristiana che si
sono avvicendate nella lettura delle opere della letteratura ebraica antica. Nel ’74
in una scheda che doveva servire da proposta editoriale Villa scriveva appunto:

Non esiste in Italia, e nemmeno fuori d’Italia, una traduzione della Bibbia, o Antico
Testamento, che non sia solo a-confessionale, ma proprio intimamente, interamente laica.
Proponiamo quindi un progetto per una edizione dell’Antico Testamento, cioè del corpus
della letteratura ebraica antica, che contempli la necessità di una versione critica e tenga
conto dell’indispensabile libertà che la cultura avanzata esige nella ricostruzione del testo5.

4
E. VILLA, Attributi dell’arte odierna 1947-1967, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 4. È docu-
mentato inoltre che nella sua biblioteca vi erano libri pubblicati dal Biblico negli anni
Sessanta.
5
Citato da Aldo Tagliaferri nella nota introduttiva non firmata a E. VILLA, Sulla traduzio-
ne dei testi biblici, in «Il Verri», XLIII, nn. 7-8, 1998, p. 9.

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Nella nota del traduttore (che risale al 1971) stampata in calce alla sua tradu-
zione dell’Odissea assumeva del resto la medesima prospettiva, sancendo la
necessità di affrontare il testo con onestà tentando di ritrovarne e ristabilirne il
senso originario al di là delle sovrainterpretazioni prodotte dalle letture che si
sono succedute nei secoli:

su alcuni testi “monstre”, poggiano a volte sterminate impalcature culturali, ideologiche,


e, alla fine, attuali; come può essere l’Antico Testamento e come può essere, sia pure in altra
misura, il testo detto di Omero […] di fronte a un simile stato di cose, la posizione del lin-
guista, e dello storico, è di relativa serenità: si tratta di ritrovare, recuperare tutti i fili, le vene,
ripercorrere tutte le stazioni cellulari; e in questo senso bisogna dire che siamo proprio soltan-
to agli albori, forse nemmeno. Il lavoro fatto dalla filologia passata e moderna, in un paio di
secoli è da considerarsi, né più né meno, come preparatorio6.

Il semitista Giancarlo Lacerenza, descrivendo la traduzione villiana del cor-


pus biblico, ne ha dato tre definizioni particolarmente significative: la traduzio-
ne di Villa è concretizzante, etimologizzante e mitologizzatrice, tre tendenze
inequivocabilmente connesse tra loro. È una traduzione, ha spiegato inoltre,
«orientata a seguire il principio delle cosiddette equivalenze dinamiche o fun-
zionali rispetto a quello delle corrispondenze formali»7.
In questo vasto lavoro su alcune opere fondative del «canone occidentale»,
l’Odissea e la Bibbia in primis, e risalendo alle loro origini ancora più antiche,
il filo conduttore di Villa è infatti un radicale interesse per le potenzialità della
parola umana. Questo risalire alle radici per restituire l’inizio significa infatti
anche ripercorrere le stratificazioni storiche depositate all’interno della singola
parola, per di più nella convinzione radicata che tutte le lingue possano «essere
fatte risalire a una loro unità originaria»8.
Fin dall’apertura del testo teorico Sulla traduzione dei testi biblici Villa
dichiara precisamente il suo progetto: «Questa traduzione del primo libro della
bibbia, definito in epoca ellenistica “Genesi” cioè “Origine”, propone l’abban-
dono della nozione confessionale di rivelazione “divina”, in cui il celebre
monumento letterario è andato storicamente a dissolversi»9. E mette in luce pro-
prio le origini mitologiche della letteratura ebraica antica:

6
E. VILLA, Nota del traduttore, in OMERO, Odissea, traduzione di E. Villa, Roma,
DeriveApprodi, 20054, pp. 421 e 419. Villa cominciò a tradurre l’Odissea durante la guerra
mondiale e la diede alle stampe per i tipi dell’editore Guanda (Parma) nel 1964 e poi, in una
versione riveduta, per la Feltrinelli nel 1972.
7
G. LACERENZA, Villa traduttore della Bibbia ebraica, contributo a un convegno su
Emilio Villa svoltosi nel 2005 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Salerno, atti in corso di pubblicazione.
8
TAGLIAFERRI, Il clandestino, cit., p. 21. Ritornare «all’atto originario col quale si creano
le cose nominandole», scrive sempre Tagliaferri nella nota introduttiva su «Il Verri», cit.
9
VILLA, Sulla traduzione dei testi biblici, cit., p. 12.

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Restituire il mito. Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa

Il delirio storico della letteratura ebraica nasce da un groviglio di nozioni e invenzioni


mitologiche sulle origini del mondo. Una pura fictio mitica […] rappresenta e fonda il valore
fittivo della parola creante e operante; una concezione geodinamica che è fondamento di ogni
religione; e che, nella letteratura degli ebrei, sembra aver ricevuto una particolare e decisiva
impronta dalla più ferma e antica teologia egiziana10.

Il Genesi è infatti «una disorganica accolta di miti da epoche immemorabili»


redatti tra X e III secolo, che provengono in larga parte dall’«ecumene letterario
delle coste siro-palestinesi e delle aree mesopotamiche ed egizie». Originaria-
mente la funzione di tali miti – spiega Villa – era liturgica e la lingua stessa è
testimone della destinazione cultuale del materiale narrativo che è il risultato
della fissazione di quei miti antichi.

La lingua ebraica, dunque, va intesa come lingua adottata, in secoli lontani, che cessò di
essere lingua parlata popolarmente, più o meno nel secolo V a.C., praticamente sostituita dal-
l’aramaico; mentre l’ebraico sopravvisse come lingua ufficiale del sacerdozio e del culto;
quasi lingua “sacra”, di quel sacerdozio che codificò in un unico grande corpus storico, lette-
rario, liturgico e teologico il complesso di prodotti di varia epoca, genere, formazione e
ascendenza. Quel corpus, canonicamente chiuso nel II sec. a.C., che venne, in epoca ellenisti-
ca, dai filologi giudeo-ellenistici mandato sotto il nome di tà biblìa, “i libri”; esattamente i
libri dell’Antico Patto (berit, synthèke), tradotto dai “Settanta” traduttori di Alessandria come
palaiè diathèke, “Antico Testamento”, continuato nelle versioni latine, vetus testamentum 11.

Fissando alcuni punti certi frutto delle indagini della critica testuale moder-
na, il traduttore spiega come questo «vasto materiale di formazione spontanea,
collettiva, nato e destinato ai suoi fini culturali», «oscillando da formazione
orale a tradizione orale e scritta», è stato infine, sotto la gestione del sacerdozio
colto, disposto secondo una griglia d’arte «narrativa, epica, etiologica, innica,
oracolare». La questione della cronologia e della datazione dei diversi materiali
è difficile però a causa della «durezza conservativa della lingua ebraica».
Questo materiale, di provenienza mitologica e rituale, è stato poi coperto nei
secoli da incrostazioni di varia natura, che hanno prodotto molteplici letture
allegoriche del testo, che hanno superato e annientato quelle letterali:

La confusione dei livelli ha portato a uno svuotamento dei miti e dei simboli arcaici; che
reinterpretati e deformati, poi entrati in collusione con altre nozioni neo-mesopotamiche, ira-
niche e mediterranee, si sono dissolti in nuovi vaghi contenuti dove l’esegesi giudaica, quella
ellenistica, e infine il cristianesimo hanno riversato le proprie intenzioni e attinto i propri
poteri […] Nel lungo travaglio giudaico-ellenistico-cristiano, il testo venne allora ad immer-
gersi nelle ondate allegoristiche. E l’aggressione “allegorica” al testo non è da intendersi
come fase organica del testo; ma, proprio, un incidente di disgregazione. È la fine (forse il

10
Ivi, p. 13.
11
Ivi, pp. 17-18.

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fine, il destino) del testo. Per questo, il testo attivo va recuperato, nei limiti del possibile,
sotto le manomissioni e i rimaneggiamenti, adattamenti e obliterazioni. Il lavoro di recupero
è stato lungamente tentato dalle moderne scienze storiche; e lungamente contrastato dalla
conservazione confessionale […]12.

Se le interpretazioni allegoriche del materiale mitologico sono frutto di


appropriazioni successive, solo restituendo la lettera del testo, si può provare a
scorgerne il significato originario. Il risalire al passato e la ricostruzione del
materiale mitologico e cultuale passa dunque per lo studio della lingua, con
un’attenzione specifica per la storia della parola e per il suo statuto sacro. La
passione per l’etimologia nasce dunque da qui, da questa inesausta tensione a
ritroso sino alle origini del linguaggio umano:

La ricerca sistematica dell’etimologia sacra e organica (speciale paretimologia) è, nel


complesso corpo biblico, la vertebra che lo percorre tutto, a perpendicolo e in orizzontale, in
ogni tempo e in ordine al principio della creatività della parola, concezione propria dell’anti-
co pastore arameo come del colto sacerdote di epoca ellenistica. (E la presente versione cerca
di segnalare, scegliendole nella maggiore congerie, in parte ermetica, in parte incerta, in parte
irrecuperabile, le mosse principali del procedimento etimologizzante, etiologico o demonolo-
gico)13.

In questa ricerca di un «linguaggio originario» – i cui frutti, nella visione vil-


liana, si offrono alla «considerazione moderna» per essere re-investiti feconda-
mente – è naturale che la predilezione di Villa sia per le parole «caric[he] di
riferimenti e sovrapposizioni culturali e cultuali»14 o, in altre parole, per il «se-
dimento verbale concreto, che il più possibile si avvicini alla deflagrazione ba-
belica, e quindi che maggiormente rechi i segni dell’“unità strutturale” a essa
deflagrazione precedente»15.
La Bibbia diventa per Villa il campo di prova ideale in cui sperimentare il
rapporto tra parola umana e parola divina, in un’ottica secondo cui la parola
umana è sacra perché è magica, è azione, emette energia e produce effetti sul
mondo, «il puro linguaggio come origine dei mondi, sia esso il logos divino o
quello poetico e artistico»16. Nel libro dei Proverbi ad esempio approda a note-
voli risultati questo laboratorio sulla parola, studiata nelle sue potenzialità

12
Ivi, pp. 16-17.
13
Ivi, p. 19.
14
C. BELLO, Renovatum Mundiloqium: sul latino di Emilio Villa, in «Il Verri», XLIII,
nn. 7-8, 1998, pp. 82-83.
15
A. CORTELLESSA, Una nuova scienza dell’occhio rovesciato. Emilio Villa scrive l’arte,
ivi, p. 100.
16
A. TAGLIAFERRI, Prefazione a E. VILLA, Conferenza, Roma, Coliseum, 1997, p. 13. Ma
cfr. anche E. VILLA, L’arte dell’uomo primordiale, Milano, Abscondita, 2005.

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Restituire il mito. Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa

magiche di intervento sul mondo. È frequente infatti in questo libro biblico,


spiega Villa, un uso del linguaggio «rifatto sul calco della fraseologia magica» e
dettato da una penetrante «visione magica del mondo». Nella concezione
sapienziale – scrive il traduttore – «anche le formule della divinazione, del sorti-
legio, della mantica […] sono fondamento di conoscenza, di scienza e di giusti-
zia, in quanto partecipi della potenza creativa della parola, secondo la conce-
zione mitologica, specialmente paleo-egiziana»17.
Proprio la peculiarità della lingua ebraica, che necessita – com’è noto – di
essere vocalizzata per essere letta, apre la strada nella sua indeterminatezza
costitutiva a infiniti giochi di omofonie, polisemie, etimologie e paretimologie.
Possiamo infatti affermare che la traduzione della Bibbia costituisce per Villa un
vastissimo laboratorio sul linguaggio e sulla parola, che gli consente uno scavo
dall’interno alla ricerca di etimologie il più possibile arretrate, forzate a volte
sino a false etimologie, basate sul suono, sulle assonanze. È significativo che tra
i suoi progetti culturali vi fosse un dizionario etimologico italiano (oltre a un
dizionario mitologico, entrambi rimasti inediti), di cui sono pervenute migliaia
di schede, che intendeva mostrare il reale peso dell’influenza delle lingue semi-
tiche, sumeriche e mesopotamiche nella formazione delle parole italiane. Nella
scheda che illustrava il progetto editoriale della Bibbia, Villa deplorava proprio
il fatto che «storicamente i nostri dizionari non conoscevano mai i rapporti sto-
rico-morfologici con le lingue mesopotamiche antiche, con le lingue medio-
orientali, con i linguaggi preistorici paleo-mediterranei, paleo-africani, paleo-
alpini ecc.».
In un articolo degli anni Cinquanta Villa sosteneva: «rimane il fatto che la
parte più sollevata, più solenne, più audace della produzione artistica moderna,
e ormai anche statisticamente più ricca, è quella che cerca il suo orientamento
nella naturale reviviscenza delle etimologie sorprese nel loro trasalimento origi-
nario, e nella sua alterna condotta storica»18, ma era tuttavia consapevole che –
come spiega ancora Tagliaferri – «proprio inseguendo il senso originario delle
parole, e quindi rinnovando lo scandalo dello iato tra significante e significato»
non si può che giungere ad ammettere «l’inevitabilità della re-etimologizzazio-
ne infinita»19.

Villa, che per il testo fa riferimento alla masòra, alla versione dei Settanta e
alla Vulgata, nella sua traduzione espunge ciò che ritiene glossa e interpolazio-
ne, anche le aggiunte dei Settanta, riportando però in nota i versetti espunti e le

17
E. VILLA, Proverbi e Cantico. Traduzioni dalla Bibbia, cura e prefazione di C. Bello
Minciacchi, Napoli, Bibliopolis, 2004, nota 89 p. 175 (corsivo mio).
18
E. VILLA, Noi e la preistoria, in «Arti Visive», s. II, n. 1, 1954.
19
TAGLIAFERRI, Nota introduttiva, cit., p. 10.

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scelte delle traduzioni convenzionali, e si dilunga nel fitto apparato di note a


spiegare attraverso quali vicende testuali questi libri sono pervenuti. Cerca coin-
cidenze tra miti di ambiti culturali diversi, formula (e azzarda) ricostruzioni
morfologiche e ipotesi interpretative, censurando le «pigrizie» filologiche e
offrendo «provocazioni esegetiche». Nel lavoro villiano «traduzione e interpre-
tazione si intrecciano e condizionano reciprocamente»20, e attraverso il suo
commento e le sue annotazioni si viene tessendo una vera e propria ragnatela di
continui rimandi tra i libri dell’Antico Testamento.
Per Villa la teofania, la «resa visibile» del divino, agiscono nella Bibbia
come mito allo stato puro, oppure, il che è lo stesso, come «culto operante».
Villa è convinto, appunto, che il mito teologico ha radici nel culto liturgico e
tale convinzione trova una conferma parallela nel materiale mitologico che è
andato a formare l’Odissea, che Villa rilegge (e traduce interamente) come una
lunga serie di scene cultuali e liturgiche montate assieme, che sono a loro volta,
in un continuo cortocircuito, rievocazioni di miti e delle azioni rituali che li
accompagnavano. Scriveva infatti nella Nota del traduttore apposta alla fine
della traduzione dell’Odissea:

[…] proprio la realtà e la poesia dell’altissimo prodotto consistono appunto in questo suo
sommo essere, e essere al sommo, tutta realtà e pura manifestazione di musica rituale, mossa
in modi storicamente sussultori, attorno ad alcuni nuclei e morfemi di natura cultuale, solo
più tardi trasferiti in istituto cerimoniale; poi ancora, celebratoria; e infine caduta nella rete
letteraria.
L’epos omerico, noi crediamo, proviene direttamente, come spinta morfologica, e come
progressiva aggregazione, dall’azione rappresentativa liturgica di stanze mitologiche; o,
addirittura, di un mito. Per vie e gradi discendenti, l’epos organizzò o aggregò un materiale
accatastatosi nel corso di alcuni secoli, fino a prendere una intelaiatura bassa e lenta, che è
quella, forse, dell’VIII-VII secolo a.C., prima costellazione di nuclei che successivamente
verranno accolti e quasi come consumati, già logori e confusi, in una progressiva incastellatu-
ra letteraria, gonfiata da elementi eterogenei, tuttavia adattabili a una specie di antologia qua-
si disponibile a tutto, come una parvenza di nuova genesi, origine. Invece, arcaicamente,
doveva trattarsi, con grande probabilità, di una lunga teomachia. […] Ho tentato, dunque,
varianze e mobilità di toni, di misure, di timbri, di accenti, per riflettere, in modo s’intende
del tutto e soltanto indizievole, una ben complessa, e diciamo pure disordinatissima stratigra-
fia tonale e timbrica del testo, messo insieme da una evoluzione abbastanza inafferrabile, su
materiali forse già obsolescenti, per l’usura cui erano andati sottoposti, e per la naturale deca-
denza della funzione cultuale e rituale cui i materiali stessi erano naturalmente destinati 21.

Il cosiddetto Pentateuco, quello che Villa chiama «l’appassionato congegno


antologico dei primi cinque libri della Bibbia, nato nella didascalica sacerdota-

20
Ivi, p. 9.
21
VILLA, Nota del traduttore, cit., pp. 413-414, 444 (corsivi miei).

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Restituire il mito. Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa

le», si serve d’altro canto proprio della mitologia per rappresentare un’ideale
cronologia sacra piegata in senso precisamente apocalittico ed escatologico.
Anche lo stesso Cantico – come vedremo – è per Villa la rappresentazione pun-
tuale di un rito ricorrente sotto forme diverse ma omologhe in più di una tradi-
zione cultuale (ammonea, amorrea, ugaritica…). E anche nella prima lunga nota
al libro dei Proverbi il traduttore spiegava che il vasto materiale di argomento
sapienziale che forma il libro è arrivato attraverso una lunga tradizione orale,
frutto di una “Internazionale del sapienzalismo” sviluppatasi tra Mesopotamia,
Siria, Egitto e Palestina a partire da un substrato “proverbialistico” di fondo
semitico nomade 22.

Per fornire qualche prelievo esemplificativo del modus operandi villiano,


accostiamoci ora ai testi tradotti che sono stati pubblicati: il frammento di
Genesi, i Proverbi e il Cantico dei cantici. Guardiamo innanzi tutto ai primi ver-
setti del terzo capitolo di Genesi che narrano l’episodio biblico in cui la donna
mangia del frutto dell’albero e ne dà anche all’uomo:
6
La Femmina allora si accorse che l’albero era buono da mangiare, e che solo a guardarlo
metteva appetito. L’albero dava la concupiscenza di comprendere le cose. Essa staccò un frut-
to dall’albero e mangiò; e ne diede anche al suo Maschio, che le stava accanto; e questi man-
giò. 7Si aprirono allora gli occhi a tutt’e due, e s’accorsero che loro eran nudi! Cucirono subi-
to insieme delle foglie di fico, e si fecero dei perizomi. 8A un certo punto udirono il rumore di
Jahwè che passeggiava su e giù per l’Oasi, alla brezza marina; l’Uomo e la Donna si nascose-
ro, lontano dalla presenza di Jahwè, in mezzo agli alberi dell’Oasi.

Possiamo verificare in questi versetti uno dei procedimenti tipici della tradu-
zione villiana, che consiste nel piegare il significato del testo di partenza con il
fine di ristabilirne l’interpretazione originaria. Come dire che nell’intento di
«restituire il mito» non si può percorrere altra strada che quella di deformarlo di
nuovo per renderlo nella sua assoluta contemporaneità. Lacerenza ha infatti
notato che Villa, parlando di Femmina e di Maschio nonostante l’ebraico biblico
disponga, per le definizioni di genere, di altri sostantivi specifici, «introduce tra-
mite una forzatura lessicale […] la sua lettura del racconto della Genesi come
un testo di mitografia delle origini: l’uomo e la donna divengono, sottolineando-
lo con l’uso delle maiuscole, il Maschio e la Femmina dei primordi; prototipi,

22
Siamo di fronte a un testo, spiega Villa, «spesso mal conservato; spesso avariato dai
redattori di ogni epoca; spesso internamente ambiguo; spesso deformato dalla trafila della
memoria; e spesso codificato in un lessico di cui non riusciamo a ricostruire l’etimologia e la
storia; spesso vessato da reinterpretazioni tardive o rifatto sulla lingua più tarda, e sottoposto
a processi di demagizzazione sia dai massoreti sia nell’ambito ellenistico», VILLA, Proverbi e
Cantico, cit., nota 1, p. 160.

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più che progenitori, della specie umana». Anche il maiuscolo Oasi ne rafforza
«la proiezione in uno spazio non riconducibile a un qualche luogo della terra,
ma alla sfera della mitopoiesi». «Villa – chiosa ancora Lacerenza – sceglie, per
le grandi realtà, le categorie del mitico». Nelle poche note alla traduzione di
questi versetti di Genesi Villa mette appunto in comunicazione «elementi e
mitemi tipici di questo racconto» biblico con quel «comune patrimonio mitolo-
gico» diffuso in tutta la zona medio-orientale e paleo-mediterranea e con miti
analoghi presenti nella cultura egiziana e nella letteratura akkadica, arrivando ad
augurarsi che «analogie testuali, o nuove comparazioni letterarie nell’ambito
dell’Antico Oriente, possano offrire mezzi più sicuri che ci aprano il testo»23.
I Proverbi e il Cantico, pubblicati assieme nel 2004, l’anno successivo alla
morte di Villa, sono invece, tra tutti i libri della Bibbia, i più improntati a un’ot-
tica umana e mondana ed entrambi presentano una forma poetica. Soprattutto il
Cantico è il libro biblico che in misura più incisiva è stato fonte di contrastanti
interpretazioni e di conflitti esegetici, finendo per essere sovrastato da congettu-
re e chiose erudite. Villa nell’edizione del ’47 forniva l’immagine particolar-
mente vivace di

Trenta secoli nei quali indagini, spiegazioni, torture e storture di vario genere, sovrastrut-
ture, sovrintenzioni e sottintenzioni, tentativi di raddrizzamenti, lotte dispute passioni polemi-
che dubbi scrupoli e godurie di scribi e farisei, di poeti e di santi padri, di gesuiti domenicani
carmelitani scalzi e di critici razionalisti filologi glottologi amatori di letterature comparate,
di monache e di seminaristi, di mistici e di erotomani, di parroci, di professori, e altre umane
agitazioni hanno sommosso i fondali di un testo, in sé scabroso dal punto di vista della lette-
ratura così detta ispirata a superis, in sé anche leggermente torbido, ma, in realtà, non così
oscuro, o tale da giustificare tutte le vicende e le peripezie alle quali un ingenuo e sfrenato
cantico amoroso ha dovuto sobbarcarsi per comunque resistere 24.

Villa si tiene nel solco della lettura esegetica che lo considera una descrizio-
ne dei riti della fecondità propri del culto ierogamico diffuso tra i Cananei. La
sua principale innovazione consiste nella divisione in battute teatrali, secondo
un criterio di attribuzione ai personaggi che si discosta da quello tradizionale.
Per spiegare i nomi dei due protagonisti (Shalma e Shulmit25) risale alle divinità

23
Cfr. ivi, nota 4, p. 25.
24
E. VILLA, Antico teatro ebraico. Giobbe. Cantico dei cantici, Milano, Il Poligono,
1947, citato da Tagliaferri (Il clandestino, cit., p. 43).
25
Shalma, il personaggio che viene comunemente inteso come Salomone – il primo ver-
setto del Cantico viene infatti letto «Cantico dei cantici, che è di Salomone», nel solco di una
«tradizione incontrollata» secondo cui il re sarebbe stato autore del componimento –, è il
nome della divinità. Shulmit, che nelle versioni tradizionali è la Sulamita – ma in realtà il
nome compare esclusivamente al versetto 7,1 e spesso gli esegeti lo ricollegano alla sunamita
di cui si parla nel I libro dei Re –, è la fanciulla. Tuttavia bisogna tenere presente che – come

210
Restituire il mito. Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa

dell’antico pantheon ammoneo26 contestando la canonica attribuzione al re


Salomone. Il Cantico è una scena di valore liturgico: la rievocazione di un mito
e della processione rituale che lo celebra. È il mito diffuso con diverse varianti
in molte culture, secondo cui il dio della fecondità, rimasto imprigionato negli
inferi durante l’inverno, viene cercato dalla dea sua sposa e, una volta ritrovati-
si, provocano riunendosi il rifiorire della natura. Villa legge tutto il libro in que-
sta ottica, spiegando ogni simbolo e ogni gesto con riferimenti ai culti ammonei
e amorrei, suffragando le sue osservazioni con prove e documenti etnologici e
archeologici27. Anche nel Cantico «astrazioni come la morte, l’amore e la pas-
sione, realtà indimostrabili come l’inferno, o forze elementari come le acque
abissali, sono riletti come mitologemi». Leggiamo nella traduzione villiana due
famosi versetti dalla conclusione:
6b
Sì, forte come Mawet è l’Amore
e la Passione è ostinata come l’Inferno.
I suoi ardori sono ardori di fuoco,
e le sue fiamme …
7
Le Acque dell’Abisso infernale
non possono estinguere Amore,
né i Fiumi rapirlo.

In essi ritroviamo l’uso delle maiuscole notate in Genesi: l’Amore, la


Passione, l’Inferno, le Acque dell’Abisso infernale, tutti gli elementi sono personi-
ficati (Mawet è il dio della Morte, «la divinità somma degli inferni» come scrive
Villa in una nota al libro dei Proverbi). Villa lascia la lacuna del versetto 6 dopo
«le sue fiamme», laddove le versioni convenzionali traducono solitamente più o
meno in questo modo: «le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del
Signore!», che sarebbe l’unico punto in cui nell’intero libro compare la menzione
di Dio, ma che tuttavia secondo il traduttore è soltanto un’interpolazione.

avverte Bello Minciacchi – «nelle più recenti riletture del Cantico Villa ha cancellato la distri-
buzione e le attribuzioni dei versetti ai tre personaggi, ovvero ha cassato le indicazioni nomi-
nali – “(Shalma)”, “(Shulmit)” e “(Coro)” – che aveva posto sul margine sinistro del testo»,
C. BELLO MINCIACCHI, Appendice II, in VILLA, Proverbi e Cantico, cit., p. 215.
26
Adone e Tanit (ovvero Tammuz e Ishtar), divinità della «primavera rinascente», voca-
lizzando mlk in Malic, ovvero Malkishalma, il corrispondente amorreo del dio Tammuz (o
Baal), cfr. ivi, note 1 e 3, pp. 217-218.
27
Cfr. ivi, note 35 e 37, p. 221. Al termine del poema, spiega Villa, sono stati inoltre
aggiunti materiali eterogenei di disparata provenienza: «componimenti brevi, forse canzoni
liturgiche popolari: una giaculatoria erotica, una canzone gnomica di grande valore espressi-
vo, due indovinelli, una storia di una vigna e un’altra canzone brevissima di origine certa-
mente popolare. Forse erano componimenti da recitare o cantare, ad libitum, durante la rap-
presentazione del mito», ivi, nota 42, p. 222.

211
Marta Pensi

Nella traduzione del libro dei Proverbi – come si accennava – preme a Villa
ristabilire la portata dell’influenza sulla cultura ebraica di altre tradizioni cultua-
li e sapienziali, specialmente egiziane, rivelandone i residui ormai celati nelle
versioni tradizionali28. Perciò ad esempio laddove le versioni canoniche, in alcu-
ni punti oscuri segnalati come passi incerti, impiegano il concetto di malleveria
prestata avventatamente Villa nella sua traduzione cerca di far emergere con
maggiore evidenza le formule di buono e cattivo augurio, che invocano la fortu-
na o i malefici, e che indicano in tal modo il potere della parola pronunciata, che
è azione, gesto, immissione di energia nel mondo. Villa la definisce «provvista
di energia cosmica operante»29: «Morte e vita sono in balia di una formula
magica:/ ognuno avrà il frutto della formula che preferisce» (Proverbi 18,21).
Per Villa la qualità poetica del testo sta proprio nelle sue virtù espressive legate
all’uso della parola:

il sottile piacere dell’enigma svolto in una tendenza verso l’ordine; l’estro del calembour
secco; il gioco fine degli echi fonetici e delle rispondenze omofoniche; la rima mentale con-
creta; i richiami vistosi e ingenui delle coincidenze etimologistiche, delle assonanze del pen-
siero; l’attrito o l’aderenza delle connessioni vocali e ritmiche; la musica intuita e captata
nella passione iterativa della parola esemplare30.

Nella prima nota al libro dei Proverbi Villa dava inoltre delle indicazioni circa
il rapporto da tenere con il testo che possono valere per l’intera sua operazione:

È spesso un errore della lettura moderna, o almeno una ingenuità, il voler ritrovare, in una
letteratura che ha altri interessi, gli interessi che noi abbiamo fatti nostri per altre ragioni;
invece di trovare, nei testi stessi, quella natura obbiettiva, che può venire assorbita, sia come
termine di paragone sia come diversa energia, nei nostri interessi, per nuovamente animarli
con nuova energia, e arricchirli pertanto…

Dedicarsi a questo punto alla verifica sistematica di quelle che sono state
definite le «improvvise intrusioni della Bibbia ebraica nell’opera originale vil-
liana»31 sarebbe davvero un compito imponente ma credo sia utile presentare,

28
Denunciando i residui di visioni religiose più antiche, confluite in forma adattata nel
testo biblico, e le contaminazioni con civiltà culturali prossime da un punto di vista spaziale,
Villa dimostra ad esempio che molti di quelli che in testi «tardivi» e «laicizzati» sono divenu-
ti concetti astratti erano in realtà personificazioni demoniache. Dove le traduzioni convenzio-
nali rendono con il termine “morte” Villa preferisce infatti reinserire invece il nome del dio
della Morte, El Mawet. Numerosi sono i passi che mette in collegamento con le figure del
pantheon egiziano come Osiride, Horus e Râ, che nei testi sapienziali egiziani è «il “dio della
respirazione”, e principio di vita cosmica, e, insieme, luce solare» (ivi, nota 128, p. 180).
29
Ivi, nota 1, p. 159.
30
Ivi, nota 1, p. 161.
31
LACERENZA, Villa traduttore della Bibbia ebraica, cit.

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Restituire il mito. Sulla traduzione dei testi biblici di Emilio Villa

con un fine puramente illustrativo, almeno alcuni esempi tratti da tre ambiti fon-
damentali della sua opera: la poesia, la critica d’arte, gli oggetti di poesia.
Tagliaferri ha infatti messo in luce la tendenza villiana,

sempre più accentuata a partire dai primi anni Cinquanta, a travolgere le paratie divisorie
convenzionali tra campi del sapere e tra lingue diverse, e per contro a intrecciare indissolubil-
mente le attività di semitista, traduttore, poeta e critico d’arte, scompaginando le ordinate
nomenclature dell’enciclopedia del sapere e affidando essenzialmente a una scrittura sempre
più enigmatica e lessicalmente stratificata il senso del proprio appassionato interrogarsi attor-
no al tema dell’origine […]32.

Elementi biblici e più genericamente liturgici ricorrono costantemente nella


sua produzione poetica, soprattutto nella raccolta Oramai dello stesso 1947 in
cui escono le traduzioni di Antico teatro ebraico (alcuni titoli sono Genesis,
Letanie, Maria Virgo, Antiphona, Natus de muliere, brevi vivens, citazione que-
st’ultima fin dal titolo del libro di Giobbe), e una memoria testuale dei libri
biblici fermenta e riaffiora anche nella critica d’arte, considerando soprattutto
che uno dei caratteri essenziali della scrittura villiana è la mescidazione di lin-
gue diverse dall’italiano, in primo luogo il latino e il francese, deformate e
smontate dall’interno, forzate nelle etimologie, nella grafia e accostate in ragio-
ne esclusivamente del loro suono.
Basterebbe leggere anche solo qualche pagina dagli Attributi dell’arte odier-
na (raccolta di scritti d’arte stesi tra il ’47 e il ’67) per imbattersi quasi ad ogni
riga in formule liturgiche, riferimenti puntuali o meno a passi dell’Antico e
Nuovo Testamento, della patristica (regolarmente in latino, ma non solo), intes-
suti su uno «sfondo teologico»33, a volte con intenti apertamente blasfemi34, in
continuo cortocircuito tra passato e presente. Solo qualche esempio:

vox clamantis in tenebris: rectas facite vias;


in imo, in intumo homine;
O crux ave spes;
bereshit;
repromisti ut resurgerem35…

In un testo in francese per Barnett Newman del 1952 compare per esempio a
un certo punto l’espressione letterale bereshit, la prima parola del libro del

32
TAGLIAFERRI, Nota del curatore, cit., p. 6.
33
È stato Aldo Tagliaferri a scrivere che la poetica di Villa propone uno «sfondo teologi-
co» per «l’avventura dell’arte». Cfr. ID., Prefazione a E. VILLA, Conferenza, cit., 1997.
34
C. BELLO MINCIACCHI ha parlato di «vivida frizione di laicità e sacralità che tanta
espressione ironica e drammatica ha avuto nelle sue opere». Cfr. EAD., Prefazione a E. VILLA,
Proverbi e Cantico, cit., p. 11.
35
VILLA, Attributi dell’arte odierna, cit., pp. 17, 19, 23, 33.

213
Marta Pensi

Genesi (che è anche il suo titolo in ebraico), «in principio»: Villa scrive proprio
«au commencement (bereshit)». Se non si tratta di citazioni testuali vi sono
comunque riferimenti al linguaggio e al mondo biblico: «(come un umano deus
firmus, che io ho scoperto nell’antico testamento…)»36…
La formula che invece avevamo incontrato nel Cantico, che Villa aveva tra-
dotto «le Acque dell’Abisso infernale» con pregnanza ben superiore rispetto alla
traduzione canonica («le grandi acque»), si può ritrovare significativamente in
due testi diversi. Sia Lacerenza che Bello mettono in evidenza che in un verso
di Holocaustulum eros (una poesia contenuta nella raccolta Zodiaco) l’espres-
sione è riportata nella trascrizione dall’ebraico assieme alla traduzione in latino
della Vulgata: «a magnis aquis, mimmaim rabbìm», ma compare anche in italia-
no in un testo del 1961 contenuto in Attributi dell’arte odierna, con un’allusione
precisa al significato individuato nel Cantico: «liberare testimonianze sorgive,
fonde, tempestose, dalle “grandi acque”», preceduta nella pagina da due altret-
tanto tremendi «giorno dell’uomo» e «giorno di Jahvè» che biblicamente rap-
presentano la fine del mondo, il giudizio universale.
Un ultimo cenno a un «oggetto di poesia» di Villa, un’opera realizzata per
una mostra nel 1982, composta da una tovaglia, dei piatti di cartoncino, che
recano scritte a mano dell’autore, e delle brocche di vetro su cui sono incise
frasi in varie lingue. Su un piatto si trova una rilettura dell’incipit del Genesi
scritto in un tedesco alterato:

Im Amfang / es war nicht Ein / und was das Ein / kein Verkehr / und es wird
nicht kein / kein Umschlag / aber mindesten / ein Zwei verfügbar

che riporto secondo la traduzione di Tagliaferri:

All’inizio non c’era Uno, e l’Uno non era un transito, e non c’è divenire, nessun
ribaltamento, bensì, come minimo, un Due a disposizione37.

36
Ivi, p. 19.
37
L’opera è descritta da Tagliaferri, in ID., Il clandestino, cit., p. 183.

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