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Indice

Introduzione I

1 Le proteine 2
1.1 La struttura delle proteine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2
1.2 Folding vs Misfolding . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10
1.3 Ruolo biologico dei metalli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

2 La malattia di Alzheimer 20
2.1 Fisiologia e patologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20
2.2 La diagnosi della malattia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22
2.3 Il peptide β -amiloide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30
2.4 Ioni metallici e Aβ peptide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36

3 Dinamica molecolare 40
3.1 Teoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
3.2 Force field . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45
3.3 Gli ensemble statistici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
3.4 Schematizzazione dell’algoritmo di dinamica
molecolare classica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60

4 Studio quantistico dei sistemi a molti corpi 63

i
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4.1 Approssimazione di Born-Oppenheimer . . . . . . . . . . . . . . 63


4.2 Problema elettronico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66
4.3 L’approssimazione di Hartree-Fock . . . . . . . . . . . . . . . . . 69
4.4 Teoria del funzionale densità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74
4.4.1 Teorema di Hohenberg e Kohn . . . . . . . . . . . . . . . 75
4.4.2 Lo schema di Kohn e Sham . . . . . . . . . . . . . . . . 81
4.4.3 Il funzionale di scambio e correlazione . . . . . . . . . . 86
4.5 Dinamica molecolare ab initio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89
4.6 Metodi ibridi QM/MM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93
4.6.1 Il metodo a “strati di cipolla” ONIOM . . . . . . . . . . . 99

5 Simulazioni di dinamica molecolare classica 104


5.1 Operazioni preliminari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105
5.2 Risultati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 110
5.3 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128

6 Simulazioni QM/MM-ONIOM 130


6.1 Operazioni preliminari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131
6.2 Risultati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 136
6.3 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143

A Mini Mental State Examination 150

B Condizioni periodiche al contorno 155

C Vincoli geometrici 158

D Basis set 161

E Il principio di Ritz 167

ii
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F Algoritmi di ottimizzazione 170

G Pseudopotenziali 182

H Algoritmo di Berny 187

I Natural Bond Orbital (NBO) 192

Bibliografia 200

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Introduzione

Il lavoro di tesi qui presentato riguarda lo studio mediante simulazioni di


dinamica molecolare classica e QM/MM-ONIOM dell’interazione del peptide
β -amiloide con lo ione metallico Zn2+ . E’ stato svolto sotto la guida della Dott.ssa
Velia Minicozzi dell’Università di Roma “Tor Vergata” ed in collaborazione con il
gruppo di chimica teorica dell’Università della Calabria, in particolare con il Prof.
Nino Russo e la Dott.ssa Tiziana Marino. E’ in fase di preparazione un articolo
dal titolo “The role of water in Zn(II)-Aβ1−16 complexes”.

Negli ultimi anni, è stato dimostrato che numerose malattie dipendono dall’al-
terazione del folding proteico. Tali malattie, raggruppate sotto il nome di Protein
Conformational Disorders (PCD), comprendono la malattia di Alzheimer (AD),
le encefalopatie spongiformi, la corea di Huntington, il morbo di Parkinson, il dia-
bete di tipo II, l’amiloidosi da dialisi, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) e più
di altre quindici malattie meno note. L’evento chiave per lo scatenarsi delle PCD
è un cambiamento nella struttura secondaria e/o terziaria di una proteina o di un
suo frammento, non accompagnato da alterazioni della struttura primaria. In tutti
i casi, c’è una progressiva transizione dalla proteina correttamente avvolta verso
uno stato aggregato, ricco di conformazioni beta.

Il processo dettagliato attraverso il quale proteine solubili (o loro frammen-


ti) subiscono un parziale svolgimento e un riavvolgimento scorretto (che por-
ta ad oligomeri altamente stabili e a polimeri con nuove proprietà) costituisce

I
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la principale e irrisolta questione. Tre differenti ipotesi sono state proposte per
descrivere le relazioni tra stati conformazionali e aggregazione. L’ipotesi del-
la polimerizzazione (A) afferma che è l’aggregazione ad indurre cambiamen-
ti nella conformazione proteica; quella conformazionale (B) che il misfolding
proteico è indipendente dall’aggregazione, che non rappresenta un necessario
punto d’arrivo del cambiamento conformazionale; infine l’ipotesi conformazio-
ne / oligomerizzazione (C), rappresenta una visione intermedia, nella quale pic-
coli cambiamenti conformazionali innescano l’oligomerizzazione che è essenziale
per la stabilizzazione del misfolding proteico.

Una questione centrale nella ipotesi conformazionale è l’identificazione dei


fattori che inducono i cambiamenti del folding proteico. Alcune variazioni delle
condizioni ambientali sono state individuate essere fattori determinanti, fra questi
il pH, la presenza di ioni metallici, lo stress ossidativo, l’influenza di alcune pro-
teine (metallopeptidasi, apolipoproteina E, proteina X) e l’interazione con mem-
brane cellulari.

Il folding (o il misfolding) proteico assistito dai metalli è una tematica di


grande interesse. E’ stato dimostrato che il folding proteico è un processo a più
stadi, caratterizzato dalla formazione di stati intermedi senza una specifica ste-
chiometria dello stato nativo ed in cui gli ioni metallici svolgono una funzione di
grande rilevanza. Dati sperimentali sempre più numerosi mostrano che l’intera-
zione di alcuni ioni metallici del gruppo d (Fe, Cu, Zn, Mn e Al) con le proteine
potrebbe essere il denominatore comune delle PCD.

L’AD è una sindrome complessa caratterizzata da disturbi cognitivi, psico-


logici, funzionali e comportamentali. Il correlato neuropatologico dell’AD è rap-
presentato da una degenerazione del tessuto cerebrale, a livello del quale si rileva
la presenza di placche senili il cui principale componente è il peptide β -amiloide
(Aβ ). L’Aβ è costituito da 39-43 amminoacidi (le specie più abbondanti sono

II
INDICE

quelle costituite da 40 e 42 amminoacidi) e risulta dal taglio proteolitico della


glicoproteina transmembrana nota come Amyloid Precursor Protein (APP).

Nell’Aβ si possono osservare due regioni: (i) la regione compresa tra i residui
29 e 40, corrispondente alla regione transmembrana dell’APP, altamente idrofo-
bica, scarsamente solubile, e tendente ad aggregare in strutture dissimili da quelle
viste nei pazienti di AD e differenti a seconda del pH, del solvente e della tempe-
ratura; (ii) il frammento 1-28, che occupa la regione extracellulare dell’APP e può
produrre sia strutture ad α-elica che oligomeri β -sheet simili a quelli caratteristici
delle placche amiloidee e quindi responsabile della variabilità conformazionale
dell’Aβ . E’ stato osservato che le placche contengono quantità superiori alla
media di ioni metallici appartenenti al gruppo d, come lo zinco (Zn2+ ), il rame
(Cu2+ ) e il ferro (Fe3+ ).

Si è osservato che lo Zn2+ più degli altri ioni metallici favorisce l’aggregazione
di Aβ . Tuttavia il ruolo dello Zn2+ è soggetto a continui dibattiti: (i) alcune
osservazioni sperimentali sembrano indicare un possibile ruolo dello Zn2+ nel-
la formazione degli aggregati iniziali, in cui lo ione metallico fa da “ponte” fra
due o più peptidi differenti formando dei legami cosiddetti “inter-molecolari”; (ii)
mentre altri ipotizzano un ruolo centrale dello Zn2+ nel processo del misfolding.

Per quanto riguarda la coordinazione del metallo, alcuni studi hanno mostrato
che la regione che lega il metallo è compresa tra gli amminoacidi 6 e 28 del pep-
tide Aβ ed è stato suggerito il coinvolgimento dei due amminoacidi istidina-13 e
istidina-14. In recenti studi NMR sono stati proposti vari modi di coordinazione
intra-peptide in cui lo ione metallico si lega con tre istidine (6-13-14) e con la
regione ammino-terminale oppure con l’acido glutammico-11. Inoltre un recente
lavoro ha suggerito che il frammento peptidico minimo coinvolto nell’interazione
con il metallo sia Aβ1−16 .

Per tentare di contribuire a chiarire il possibile ruolo svolto dallo Zn2+ è sta-

III
INDICE

to condotto uno studio in silico, mediante simulazioni di dinamica molecolare


classica e QM/MM-ONIOM, sul sistema Zn2+ -Aβ1−16 in assenza ed in presenza
d’acqua, ponendo l’attenzione sulla coordinazione del metallo.

La scelta delle metodologie computazionali utilizzate deriva dall’osservazione


che: da un lato i metodi quantomeccanici permettono la stima di numerose pro-
prietà e la modellizazzione di reazioni chimiche, ma i tempi di calcolo crescono
rapidamente all’aumentare del sistema in studio; mentre i metodi classici, come
la dinamica molecolare, possono fornire un numero molto più limitato di infor-
mazioni e non possono essere impiegati per la simulazione di rotture o formazioni
di legami, ma permettono di effettuare veloci ottimizzazioni geometriche anche su
sistemi di grandi dimensioni. I metodi ibridi, noti come QM/MM, cercano di com-
binare le caratteristiche più utili dei due diversi approcci in un singolo calcolo. Il
caso più semplice di metodo ibrido prevede l’impiego di un metodo quantomec-
canico solo per una regione limitata della molecola, per la quale sia importante
modellare accuratamente la struttura elettronica, mentre il resto del sistema viene
simulato con un metodo di meccanica molecolare classica.

I risultati del nostro lavoro, derivati dalle simulazioni di dinamica molecolare


classica, mostrano che la coordinazione dello ione metallico è fortemente influen-
zata dalle interazioni elettrostatiche e, come vedremo, la cattiva parametrizzazione
delle cariche dello ione metallico e dei liganti conduce a numeri di coordinazio-
ne più alti di 4. Mentre i risultati derivati dalle simulazioni QM/MM-ONIOM a
partire dalle configurazioni ottenute con la dinamica molecolare classica mostra-
no sia in presenza che in assenza di solvente un numero di coordinazione eguale a
quattro per il metallo. Particolarmente interessante il risultato ottenuto in presenza
dell’acqua, dove una molecola d’acqua “scalza” uno degli amminoacidi che lega-
vano il metallo. Questo risultato suggerisce, essendo l’acqua un legante debole
del metallo, la possibilità di avere modi di coordinazione inter-peptidici, simili a

IV
INDICE

quelli visti sperimentalmente.


La tesi si articola in sei capitoli, nei quali si vuole mostrare quali sono i motivi
che rendono interessante lo studio del problema in esame, quali sono le carat-
teristiche principali del sistema studiato e della tecnica utilizzata, ed infine quali
risultati sono stati ottenuti e che conclusioni si possono trarre da essi.
Nel primo capitolo saranno dunque fornite alcune informazioni di carattere
generale sulle proteine, sul ruolo svolto dai metalli negli organismi biologici e
sulle PCD.
Nel secondo capitolo viene fatta una panoramica generale su una delle più co-
muni malattie appartenenti a questo gruppo, la malattia di Alzheimer. Ad un breve
excursus storico fa seguito la descrizione delle caratteristiche fisiologiche e pato-
logiche della malattia, con particolare attenzione al fenomeno dell’aggregazione
dei peptidi amiloidi, e si fa infine un cenno alle strategie curative attualmente
considerate più promettenti.
Nel terzo capitolo descriviamo in modo riassuntivo la tecnica della dinamica
molecolare classica, focalizzando l’attenzione sugli aspetti computazionali.
Il quarto capitolo è dedicato interamente alla presentazione del problema a
molti corpi quantistico. Descriveremo le varie approssimazioni e i metodi adottati.
Il quinto capitolo contiene la descrizione completa dei risultati ottenuti at-
traverso le simulazioni di dinamica molecolare classica, la spiegazione delle pro-
cedure di analisi dei dati ed i commenti ai risultati ottenuti.
Nel sesto capitolo sono illustrati e commentati i risultati ottenuti attraverso le
simulazioni QM/MM-ONIOM e sono spiegate le procedure di analisi dei dati.
Nelle conclusioni sono riassunti i punti salienti del lavoro, con particolare at-
tenzione al significato biologico dei risultati ottenuti, sono evidenziate le prob-
lematiche ancora aperte e indicate le prospettive future.

V
Capitolo 1

Le proteine

1.1 La struttura delle proteine

Le proteine sono le macromolecole più versatili dei sistemi viventi e hanno


un ruolo fondamentale in tutti i processi biologici. Le proteine possono agire
da catalizzatori, trasportare o conservare altre molecole come l’ossigeno, fornire
un supporto meccanico o una protezione immunitaria, generare un movimento,
trasmettere impulsi nervosi e controllare la crescita e il differenziamento.
Le proteine sono polimeri lineari costituiti da unità monomeriche dette ammi-
noacidi, legati tra di loro attraverso un legame covalente, che prende il nome di
legame peptidico, per questo le proteine sono note come polipeptidi.

Figura 1.1: Struttura generica di un amminoacido

2
1.1 La struttura delle proteine

Un α-amminoacido (Fig.1.1) è costituito da un atomo di carbonio centrale,


detto carbonio α (Cα ) a cui sono legati un gruppo amminico, un gruppo carbos-
silico, un atomo di idrogeno e un gruppo R, spesso indicato con il nome di catena
laterale, specifico per ognuno di essi. Gli α-amminoacidi sono molecole chirali.
Le due forme, che sono immagini speculari l’una dell’altra, sono dette isomero L
e isomero D. Le proteine sintetizzate dagli organismi viventi sono costituite quasi
esclusivamente dagli isomeri L.

Gli amminoacidi in soluzione a pH neutro sono ioni dipolari o zwitterioni.


Nella forma dipolare il gruppo amminico di un amminoacido è protonato -NH+
3
e il gruppo carbossilico è dissociato -COO− . Lo stato di ionizzazione di un
amminoacido varia con il pH.

Nelle proteine sono presenti 20 tipi di catene laterali che variano per dimen-
sioni, carica, capacità di formare legami idrogeno e reattività chimica. Tutte le
proteine in tutte le specie - batteri, archeobatteri ed eucarioti - vengono costruite a
partire dagli stessi 20 amminoacidi [1]. Le catene laterali degli amminoacidi han-
no differenti tendenze a partecipare alle interazioni l’una con l’altra e con l’acqua.
Queste differenze influenzano profondamente i loro contributi alla stabilità e alle
funzioni delle proteine.

Gli amminoacidi idrofobici (fondo rosa in Fig.1.2) tendono ad evitare il con-


tatto con l’acqua, e sono coinvolti solo in legami di Van der Waals. Vedremo in
seguito come questo effetto sia fondamentale in un processo che porta il nome di
folding.

Gli amminoacidi idrofilici (fondo azzurro in Fig.1.2) sono capaci di legarsi


tra loro, allo scheletro peptidico, alle molecole polari organiche e all’acqua, at-
traverso la formazione di legami idrogeno. Questa tendenza domina le interazioni
alle quali partecipano. Alcuni di questi possono cambiare il loro stato di carica a
seconda del pH o del microambiente da cui sono circondati.

3
Le proteine

Figura 1.2: Struttura e caratteristiche chimiche delle catene laterali degli amminoacidi

4
1.1 La struttura delle proteine

Gli amminoacidi anfipatici (fondo viola in Fig.1.2) possono essere sia idrofo-
bici sia idrofilici a seconda delle condizioni del microambiente in cui si trovano.
Questa loro caratteristica è ideale per la formazione delle interfacce [2].

Nella Fig.1.2 manca l’amminoacido con la struttura più semplice, la glicina


(Gly, G), la cui catena laterale è formata esclusivamente da un atomo di idrogeno.
Nella Fig.1.2 sono indicati in grigio chiaro gli atomi di idrogeno, in grigio scuro
gli atomi di carbonio, in rosso gli atomi di ossigeno, in giallo gli atomi di zolfo, e
infine in azzurro gli atomi di azoto.

Le proteine sono formate dall’unione del gruppo carbossilico di un ammi-


noacido con il gruppo amminico dell’amminoacido successivo attraverso un le-
game covalente, che prende il nome di legame peptidico [3]. Nella Fig.1.3 è

Figura 1.3: Formazione del legame peptidico e idrolisi

mostrata la formazione di un dipeptide a partire da due amminoacidi con rila-


scio di una molecola d’acqua. L’equilibrio di questa reazione è spostato verso
l’idrolisi piuttosto che verso la sintesi, perciò la biosintesi dei legami peptidici
richiede l’immissione di energia libera. Tuttavia i legami peptidici sono cinetica-

5
Le proteine

mente stabili: in assenza di eventi di catalisi l’emivita di un legame peptidico in


soluzione acquosa è di circa 1000 anni.

Il legame peptidico ha caratteristiche di parziale doppio legame, che impe-


discono la rotazione intorno ad esso. L’impossibilità di ruotare del legame ne
determina la planarità e restringe le conformazioni possibili dello scheletro cova-
lente. Al contrario i legami tra l’atomo di Cα e il carbonio carbonilico (C0 ), e tra il
Cα e l’atomo di azoto del gruppo amminico sono legami semplici. Di conseguen-
za due unità peptidiche rigide adiacenti possono avere un certo grado di libertà di
rotazione intorno a questi legami. La libertà di rotazione su ciascun lato dell’unità
peptidica permette alle proteine di ripiegarsi in modi diversi. Le rotazioni di questi
legami sono definite da angoli diedrici o torsionali. Nella Fig.1.4 sono mostrati
questi angoli e i piani che li definiscono [4]. L’angolo di rotazione intorno al lega-
me tra l’azoto e l’atomo Cα è detto φ , mentre quello tra il Cα e l’atomo C0 è detto
ψ.
Non tutte le combinazioni di φ e ψ sono possibili. Ramachandran [5] osservò

Figura 1.4: Catena polipeptidica estesa in cui sono mostrate le tipiche lunghezze di legame, gli
angoli di legame e i diedri

6
1.1 La struttura delle proteine

che molte combinazioni sono proibite a causa di impedimenti sterici tra gli atomi.
I valori permessi possono essere visualizzati attraverso un grafico bidimensionale
detto appunto grafico di Ramachandran. Nella Fig.1.5 è mostrato un grafico di
Ramachandran in cui con il colore rosso indichiamo quelle combinazioni degli
angoli torsionali che sono “permesse”, nelle quali cioè non ci sono impedimenti
sterici, con il rosa le regioni permesse solo se alcuni impedimenti sterici sono ri-
lassati. Come si vede dal grafico, circa tre quarti delle possibili combinazioni tra
gli angoli torsionali vengono escluse da impedimenti sterici.

Figura 1.5: Plot di Ramachandran

Nella struttura di una proteina si distinguono quattro livelli di organizzazione.


La struttura primaria della proteina è rappresentata dalla sequenza dei suoi am-
minoacidi, che a sua volta determina i vari modi in cui essa può ripiegarsi nelle
strutture di livello superiore.
La struttura secondaria rappresenta la struttura tridimensionale locale di una
proteina, in cui possono essere presenti tratti di catena polipeptidica che formano
α-eliche e foglietti β (β -sheet). L’α-elica è una struttura a forma di bastoncino,
la cui parte interna è formata dalla catena principale polipeptidica strettamente
avvolta; le catene laterali si estendono verso l’esterno con un andamento a spirale.
L’α-elica è stabilizzata da legami idrogeno tra gruppi N-H e C=O della catena

7
Le proteine

principale. Il gruppo C=O di ciascun amminoacido è unito da un legame idrogeno


al gruppo N-H dell’amminoacido che si trova quattro residui più avanti nella se-
quenza lineare (Fig.1.6). Ciascun residuo è spostato rispetto al precedente di

Figura 1.6: Alfa elica

Figura 1.7: Foglietti β

1.5Å lungo l’asse dell’elica e forma con esso un angolo di 100◦ il che significa
che vi sono 3.6 residui amminoacidici per ogni giro di elica. Il passo dell’α-elica,

8
1.1 La struttura delle proteine

che corrisponde al prodotto dello spostamento (1.5Å) per il numero di residui per
giro (3.6Å), è di 5.4Å. Le α-eliche sono una struttura compatta [6], con valori
approssimativi degli angoli φ e ψ di -60◦ e -50◦ rispettivamente (vedi Fig.1.5).

Il foglietto β ha una struttura diversa da quella a bastoncello dell’α-elica. Una


catena polipeptidica a foglietto β è quasi completamente estesa invece di essere
strettamente avvolta e coinvolge legami idrogeno tra gruppi N-H e C=O apparte-
nenti a residui anche molto distanti tra loro nella sequenza lineare. Nei foglietti
β , due o più strati che possono essere molto distanti nella struttura primaria sono
tenuti fianco a fianco da legami idrogeno. Gli strati (Fig.1.7) possono scorrere lun-
go la stessa direzione, allora parleremo di foglietto β parallelo, oppure in direzioni
opposte, foglietto beta antiparallelo [7]. La distanza tra due residui consecutivi è
3.3Å e gli angoli φ e ψ sono approssimativamente -130◦ e 125◦ (vedi Fig.1.5).

L’organizzazione tridimensionale completa di una catena poliptedica prende


il nome di struttura terziaria. Vedremo nel §1.2 quali sono le interazioni che
permettono ad una proteina di assumere una determinata struttura terziaria.

Per buona parte delle proteine, la struttura terziaria rappresenta l’ultimo livello
di organizzazione strutturale. E’ il caso delle proteine cosiddette monomeriche,
costituite cioè da un’unica unità funzionale, biologicamente attiva. Molte altre
proteine (ad esempio, un gran numero di enzimi), nella loro forma attiva sono
invece costituite dall’associazione di due o più unità di struttura terziaria (dette
monomeri o subunità), uguali (proteine omo-oligomeriche) o diverse (proteine
etero-oligomeriche). Si parla in tal caso di struttura quaternaria, per riferirsi all’or-
ganizzazione multimerica della proteina. Nella struttura quaternaria, le subunità
sono tenute insieme da interazioni generalmente non covalenti. Raramente, più
catene peptidiche sono unite da legami covalenti, come accade ad esempio nelle
immunoglobuline, in cui le catene leggere e pesanti sono tenute insieme da ponti
disolfuro [8].

9
Le proteine

1.2 Folding vs Misfolding

Il folding è il processo attraverso il quale le proteine acquisiscono la loro strut-


tura tridimensionale. Il folding può aver luogo sia contemporaneamente alla sin-
tesi proteica sia dopo che questa è stata completata. Soltanto una volta terminato
il folding, le proteine sono in grado di svolgere la loro funzione fisiologica [9].
La prima teoria del folding proteico è stata proposta negli anni ’20 del XX se-
colo dallo scienziato cinese Hsien Wu [10]. In Europa e negli Stati Uniti le prime
importanti ricerche sono state quelle negli anni sessanta di Christian B. Anfinsen,
il quale formulò un dogma della biologia molecolare che porta il suo nome. Il
dogma afferma che, almeno per le piccole proteine globulari, la struttura nativa è
determinata unicamente dalla sequenza di amminoacidi che costituiscono la pro-
teina [11]. Come la proteina raggiunga questa struttura rientra nel campo di stu-
dio del folding proteico, che si basa su un dogma correlato chiamato paradosso di
Levinthal [12]. Il paradosso di Levinthal afferma che il numero di conformazioni
possibili per una data proteina è astronomicamente grande. Effettivamente, questo
rende la predizione computazionale della struttura proteica tramite la valutazione
di tutte le possibili configurazioni irrealizzabile persino per proteine relativamente
piccole.
Inoltre, alcune proteine necessitano dell’assistenza di altre proteine chiamate
chaperonine per realizzare un folding corretto. E’ stato suggerito che ciò contrad-
direbbe il dogma di Anfinsen. In realtà le chaperonine non sembrano avere effetto
sullo stato finale della proteina, ma bensı̀ avere il ruolo di prevenire l’eventuale
aggregazione delle molecole proteiche prima che la proteina abbia raggiunto la
struttura di folding corretta [10].
La funzione fisiologica di una proteina, sia essa un’enzima, un trasportatore,
un recettore o una proteina strutturale, è condizionata dalla sua struttura terziaria.
Questo è il motivo per cui il folding ha una notevole importanza ed è oggetto di

10
1.2 Folding vs Misfolding

ricerca. La capacità delle proteine di ripiegarsi in strutture ben definite à gov-

Figura 1.8: Ripiegamento proteico

ernata dalle leggi della termodinamica. Consideriamo un sistema costituito da


una soluzione acquosa di molecole proteiche tutte identiche (Fig.1.8) ma ripie-
gate in modo diverso. La conformazione nativa unica corrisponde ad un minimo
dell’energia libera. Durante il processo di sintesi proteica il sistema, costituito
dalla proteina nascente più l’ambiente circostante, è disordinato e l’entropia del-
l’insieme delle molecole è relativamente alta. In determinate condizioni il ripie-
gamento delle proteine può avvenire spontaneamente. Quindi l’entropia del solo
sistema proteico deve diminuire a scapito di un aumento dell’entropia del resto
dell’Universo.
Al processo spontaneo di folding contribuisce anche la presenza delle forze
idrofobiche. In una soluzione acquosa le molecole di soluto possono intera-
gire con le molecole d’acqua attraverso la formazione di legami ionici e lega-
mi idrogeno. Nel caso di soluti non ionizzabili, che non possono dare origine a
questo tipo di legami, le molecole d’acqua formano loro intorno una “gabbia”.
Lo stato delle molecole d’acqua che formano la “gabbia” è più ordinato (a mi-
nore entropia) di quello delle molecole libere in soluzione. Quando due molecole
non polari si avvicinano, alcune molecole d’acqua vengono rilasciate e ritornano
libere nel mezzo (Fig.1.9). Il termine entropico favorisce cosı̀ l’aggregazione di
molecole idrofobiche.

11
Le proteine

Figura 1.9: Effetto idrofobico

Le catene laterali di alcuni amminoacidi che costituiscono le proteine sono


costituite da gruppi non polari che tendono ad escludere l’acqua costituendo esse
stesse il mezzo idrofobico in cui risiedere. Al contrario gli amminoacidi con
catene laterali polari possono tranquillamente formare legami idrogeno con l’ac-
qua. Queste proprietà fanno sı̀ che, generalmente, la parte proteica a contatto con
l’acqua sia formata da amminoacidi idrofilici, mentre gli amminoacidi idrofobici
rivolgono le loro catene laterali all’interno.
Nel processo di ripiegamento delle proteine si formano legami idrogeno. La
variazione di energia libera, data da ∆G = ∆H − T ∆S, è una misura della spon-
taneita della reazione. Quando si ha una variazione di energia libera negativa
dovuta alla combinazione delle variazioni di entropia associata agli effetti idrofo-
bici e di entalpia associata alla formazione di legami, il processo di ripiegamento
proteico può avvenire spontaneamente [1].
L’ipotesi di Anfinsen è legata all’assunzione che lo stato nativo di una proteina
rappresenta un minimo assoluto dell’energia libera. Il minimo può essere rag-
giunto percorrendo strade diverse e passando attraverso stati intermedi metasta-
bili. Questo schema è rappresentato in Fig.1.10 dove la struttura nativa di una
proteina è localizzata in un minimo assoluto dell’energia libera. Può accadere
però che, nel corso del processo di folding, lo stato della proteina corrisponda ad
un minimo locale, vicino sia energeticamente che strutturalmente a quello asso-
luto separati attraverso una barriera di potenziale. Questo è quello che accade

12
1.2 Folding vs Misfolding

Figura 1.10: Andamento dell’energia libera

ad alcune proteine che, probabilmente a causa di fattori esterni, modificano la


propria struttura tridimensionale in maniera tale da essere in un minimo locale
dell’energia libera che si trova nelle vicinanze del minimo globale, ma con una
struttura tridimensionale (misfolded) non più in grado si svolgere la propria fun-
zione. Naturalmente la struttura primaria della proteina non si modifica durante
questa trasformazione [13]. Il non corretto folding proteico è all’origine di una
grande varieta di patologie raggruppate sotto il nome di Protein Conformational
Diseases (PCD) [14]. Questo gruppo di patologie include il morbo di Alzheimer
(AD), l’encefalopatia spongiforme trasmissibile, il morbo di Huntington, il mor-
bo di Parkinson, il diabete di tipo 2, l’amiloidosi da dialisi, la sclerosi amiotrofica
laterale, e più di 15 altre, meno note, patologie. Notiamo che non c’è omologia
tra la sequenza primaria delle proteine coinvolte nelle diverse PCD.

Nella maggioranza dei casi nella proteina misfolded la struttura secondaria è


prevalentemente β [15] (Fig.1.11). Con questa struttura possono formarsi legami
idrogeno tra amminoacidi appartenenti alla stessa molecola proteica o a molecole
diverse favorendo, in quest’ultimo caso, i processi di oligomerizzazione e di ag-
gregazione. In molte PCD sono infatti presenti aggregati che depositandosi nei

13
Le proteine

Figura 1.11: Cambiamenti conformazionali di una proteina

tessuti di diversi organi li danneggiano. La presenza di depositi amiloidi è spes-


so usata per la diagnosi di queste malattie, che sono pertanto note anche come
amiloidosi [16]. Non è chiaro tuttavia se i depositi proteici siano la causa delle
PCD o se ne siano soltanto un epifenomeno.

Dal punto di vista microscopico, il processo dettagliato attraverso il quale pro-


teine solubili subiscono un parziale svolgimento (unfolding) e un riavvolgimento
scorretto (misfolding) costituisce la principale e irrisolta questione. Sono state
avanzate tre differenti ipotesi per descrivere le relazioni tra stati conformazionali
e aggregazione. Nella ipotesi cosiddetta della polimerizzazione (Fig.1.12A), l’ag-
gregazione induce cambiamenti nella conformazione proteica; nell’ipotesi confor-
mazionale (Fig.1.12B) il misfolding proteico è considerato indipendente dall’ag-
gregazione, e questa non rappresenta necessariamente il punto d’arrivo del cam-
biamento conformazionale; il terzo modello, detto di conformazione/oligomerizza-
zione (Fig.1.12C), rappresenta una visione intermedia, nella quale piccoli cam-
biamenti conformazionali innescano l’oligomerizzazione che è essenziale per la
stabilizzazione del misfolding proteico. Una questione centrale nella ipotesi con-

14
1.3 Ruolo biologico dei metalli

Figura 1.12: Ipotesi di aggregazione

formazionale è l’identificazione dei fattori che inducono il misfolding. Alcune


variazioni delle condizioni ambientali, fra le quali il pH, la presenza di ioni metal-
lici [17], l’influenza di certe proteine e l’interazione con membrane cellulari, o
semplicemente un aumento della concentrazione della proteina stessa, sono state
individuate come fattori determinanti per questo processo.
La comprensione dei meccanismi molecolari che sono alla base dei processi
di aggregazione è un passo indispensabile per una terapia efficace delle patologie
che ne derivano.

1.3 Ruolo biologico dei metalli

Gli ioni metallici svolgono funzioni fondamentali all’interno degli organismi


viventi. La maggior parte di essi viene utilizzata come cofattore da parte delle

15
Le proteine

proteine, che li inglobano all’interno della loro struttura.


I tre metalli sui quali vogliamo concentrare la nostra attenzione sono il Fe,
il Cu e lo Zn. I principali amminoacidi che li coordinano, tramite un legame di
tipo dativo, sono: l’istidina, la metionina, la cisteina, la selenocisteina1 , e talvolta
anche la tirosina, l’acido aspartico e l’acido glutammico. Gli ioni metallici ap-
partenenti al cosidetto gruppo d partecipano ai processi catalitici essenzialmente
in tre modi:

• orientano il substrato nel sito catalitico;

• stabilizzano elettrostaticamente e/o proteggono le cariche negative;

• partecipano a reazioni redox.

Quest’ultimo processo è particolarmente pericoloso per l’organismo, infatti se la


reazione avviene senza controlli esterni possono generarsi delle molecole alta-
mente reagenti, che prendono il nome di radicali liberi, in grado di alterare lo sta-
to d’ossidazione delle cellule. Per questo motivo gli ioni metallici non vengono
mai lasciati liberi di circolare nell’organismo, ma sono sempre legati a proteine di
trasporto che hanno il compito di trasportarli e depositarli nel luogo in cui devono
partecipare ai processi in cui sono coinvolti.
Lo ione Fe è il metallo di transizione più abbondante negli esseri umani, la
quantità media in un uomo adulto del peso di 70kg è di circa 4g. Viene digerito
a livello del duodeno, dove subisce varie reazioni di ossidazione e riduzione per
poter essere assorbito e poi immagazzinato dall’organismo.
Nel nostro organismo lo ione Fe si trova principalmente in due stati redox
Fe2+ e Fe3+ . Generalmente tetracoordinato, lo si può trovare anche con numeri
1 La selenocisteina (Sec) è il 21◦ amminoacido conosciuto e il suo nome è associato al fatto che
contiene un atomo di Se. Esso non è un derivato della cisteina, ma deriva dalla serina. È codifi-
cato dal codone UGA, normalmente un codone di stop, che tuttavia in presenza di un particolare
segmento di mRNA viene interpretato come elemento costitutivo.

16
1.3 Ruolo biologico dei metalli

di coordinazione più alti, ad esempio 5 e 6. Questo ione è componente essen-


ziale del gruppo prostetico eme, presente nelle proteine di trasporto delle molecole
d’ossigeno (emoglobina, mioglobina) ed è indispensabile per alcuni enzimi coin-
volti nella respirazione cellulare (citocromo c ossidasi). In alcuni enzimi, come la
catalasi, è proprio lo ione Fe ad agire da catalizzatore delle reazioni redox.

Esistono tutta una serie di patologie legate al metabolismo di questo metallo,


fra le quali citiamo: l’atassia di Friedrich in cui vi è un accumulo di Fe nei mito-
condri delle cellule del sistema nervoso, e le anemie legate al Fe in cui vi è una
carenza dello ione nell’organismo, che causa una diminuizione nella produzione
dell’emoglobina.

Il secondo metallo di transizione per abbondanza è lo ione Zn, la quantità


media in un uomo di 70kg è di circa 3g. Lo ione Zn nel nostro organismo si
trova solo nello stato redox Zn2+ . Questo ione non partecipa a reazioni redox,
ma ha funzioni strutturali e/o catalitiche. Nelle cosiddette proteine a dita di zinco
(zinc finger), che si legano al DNA, esso constringe la proteina in una particolare
forma. Lo Zn è presente anche nelle RNA polimerasi, coinvolte nella sintesi pro-
teica, e nella superossido dismutasi che è una proteina antiossidante presente nel
mitocondrio.

Lo Zn è normalmente esacoordinato, anche se in molti casi lo troviamo con


numeri di coordinazione minori, come 5 o 4. Gli amminoacidi con cui lo troviamo
più spesso legato sono la cisteina e l’istidina.

Non esistono patologie gravi legate alla carenza di Zn nell’organismo, però


una carenza che si manifesta in giovane età, dovuta a difetto di assorbimento in-
testinale, può causare ritardo dell’accrescimento [18]. Si ritiene che un eccesso
di Zn possa essere legato allo sviluppo delle PCD, favorendo il misfolding anche
se ancora non ci sono prove certe, come vedremo in seguito, circa il suo effettivo
coinvolgimento ed il suo ruolo.

17
Le proteine

Il Cu è fra i tre metalli di transizione il meno abbondante nel nostro organi-


smo con una quantità media di 110mg. E’ presente in solo due stati d’ossidazione
Cu1+ e Cu2+ . Partecipa a reazioni redox e, in alcuni animali, prende il posto del
Fe come trasportatore di ossigeno. Nonostante la sua bassa concentrazione il Cu
è fondamentale, basti pensare che fa parte del gruppo prostetico di moltissime
proteine, come la citocromo c ossidasi, la superossido dismutasi e la cerulopla-
smina, che è fondamentale per l’assorbimento del Fe. Lega preferenzialmente gli
amminoacidi istidina e cisteina, ed è generalmente tetracoordinato.
L’importanza di questo metallo è legata anche alle patologie che possono sor-
gere a causa di una sua eccessiva o insufficiente concentrazione nell’organismo,
in particolare, un eccesso di Cu può provocare la malattia di Wilson [19], nella
quale il metallo si accumula a livello del fegato che, se non adeguatamente tratta-
ta, porta alla morte intorno ai 30 anni. Una carenza di Cu può provocare il morbo
di Menkes [19], per il quale non si conoscono terapie efficaci e che può provocare
la morte intorno ai 10 anni di età.
In ogni caso quando vi è un accumulo di un metallo di transizione le terapie da
adottare sono quelle legate ai farmaci chelanti, che possiedono gruppi che legano
i metalli e poi vengono espulsi dall’organismo attraverso le feci e la bile.
Tutti e tre i metalli di transizione sono possibili protagonisti delle PCD e si
ritiene che possano giocare un ruolo sia nel misfolding, sia nella formazione delle
placche presenti in tali malattie e di cui parleremo successivamente.

18
Capitolo 2

La malattia di Alzheimer

2.1 Fisiologia e patologia

La demenza è una sindrome caratterizzata da disturbi cognitivi acquisiti aventi


eziologia organica. Le funzioni cognitive colpite devono comprendere la memoria
ed almeno una delle seguenti funzioni: pensiero astratto, funzione critica, linguag-
gio, orientamento spazio-temporale [20]. Le cause della demenza possono essere
molteplici e perciò la sua diagnosi non indica di per sè la presenza di una malattia
specifica. Nel complesso è affetto da demenza oggi circa il 5% della popolazione
sopra i 65 anni, ed addirittura il 30% della popolazione sopra gli 85. Il fattore di
rischio principale pare dunque essere l’età, seguita dal sesso (le donne sembrereb-
bero più colpite da demenza rispetto agli uomini, ma questo dato è considerato
controverso, stante la maggiore attesa di vita per le donne); non sembrano in-
vece implicate l’etnia o le condizioni socioeconomiche. Esiste una classificazione
eziopatogenetica delle demenze, cioè:

• Demenze primarie tra cui la malattia di Alzheimer, la malattia di Pick,


l’afasia progressiva primaria, e altre forme più rare.

20
2.1 Fisiologia e patologia

• Demenze associate a degenerazione neuronale primitiva: malattia di Parkin-


son, corea di Huntington, altre forme di sindromi extrapiramidali.

• Demenza vascolare.

• Demenze da prioni.

• Demenza da disturbi endocrino-metabolici (patologie tiroidee, epatiche, da


insufficienza renale).

• Demenza carenziale (sindrome di Korsakoff-Wernicke, pellagra, deficit di


B12 e folati).

• Demenza da encefalopatie tossiche.

• Demenza da malattie organiche di varia natura (tumori, traumi, sclerosi


multipla).

• Demenza da infezioni (AIDS, meningiti, malattia di Whipple) [21].

Si stima che circa il 50-60% dei casi di demenza sia dovuto alla malattia di
Alzheimer (Alzheimer’s disease - AD), il 20% sia associato a demenze vascolari e
a corpi di Lewy, il 15% a malattie neurodegenerative quali la corea di Huntington
e alla malattia di Parkinson ed il restante sia dovuto ad altre cause.
L’AD è un disordine neurodegenerativo eterogeneo con progressione irreversi-
bile che interessa primariamente le regioni ippocampali e neocorticali del cervello
[22]. Questa malattia fu descritta per la prima volta nel 1907 dal neuropsichiatra
tedesco Alois Alzheimer. L’AD è la quarta causa di morte in età adulta - dopo le
malattie cardiovascolari, il cancro e l’ictus - e colpisce circa 20 milioni di persone
nel mondo (oltre 450,000 in Italia). Per ragioni facilmente intuibili, legate alla
crescente aspettativa di vita, le previsioni per il futuro sono catastrofiche. Questa
patologia è destinata ad aumentare e il numero di pazienti tra vent’anni potrebbe

21
La malattia di Alzheimer

più che raddoppiare. I costi per lo Stato sono già enormi e la scoperta di farmaci in
grado di ritardare anche soltanto di cinque anni l’esordio della malattia potrebbe
far risparmiare al servizio sanitario nazionale un numero cospicuo di milioni di
euro e/o dollari.
Al momento non esiste alcuna cura efficace contro di essa e la patogenesi della
malattia resta ancora oggetto di molte teorie che coinvolgono fattori genetici ed
epigenetici (come fattori metabolici od ambientali).

2.2 La diagnosi della malattia

La diagnosi della malattia

I primi sintomi sono sempre lievissimi, difficilmente individuabili e confondi-


bili con comportamenti comuni. Essendo una malattia degenerativa, con il passare
del tempo, i sintomi aumentano e diventano sempre più gravi.
La diagnosi è molto incerta e cauta. Non esiste infatti un esame oggettivo che
indichi con certezza la presenza della malattia. Una buona diagnosi può essere
presa in considerazione dopo una valutazione clinica che deve tenere conto di
quattro aspetti importanti:

• accurata anamnesi che includa sintomi e cambiamenti osservati;

• esame biofisico completo con esami di sangue e urine;

• visita neurologica accompagnata da: radiografia del capo, elettroencefalo-


gramma, TAC, risonanza magnetica encefalica e PET; consulto psichiatrico
accurato che metta in evidenza i deficit dell’emotività, dell’affettività, oltre
a quelli cognitivi con l’ausilio anche di test mentali appropriati, soprattutto
MMSE (Mini Mental State Examination) (vedi Appendice A).

22
2.2 La diagnosi della malattia

La diagnosi avviene solo con la congiuntura dei suddetti esiti, non è mai sicura e
certa, ma solo possibile e probabile. La diagnosi sicura avviene solo dall’autopsia
e dalle analisi istologiche del tessuto cerebrale.
Dall’esame autoptico emerge una riduzione nelle dimensioni delle regioni del-
l’encefalo coinvolte nei processi implicati nella memorizzazione, nell’apprendi-
mento e nei comportamenti emotivi. Queste zone comprendono la corteccia en-
torinale, l’ippocampo, il prosencefalo e l’amigdala (Fig.2.1).

Figura 2.1: Cervello estratto da un malato di Alzheimer

La patologia

Nei soggetti affetti dall’AD si osservano due tipi di depositi caratteristici, le


placche amiloidi extracellulari e gli aggregati intracellulari neurofibrillari. Questi
due marcatori neuropatologici derivano entrambi dall’accumulo aberrante di nor-
mali proteine cellulari, con conseguente deposito di materiale insolubile, che in-
terferisce con le normali funzioni neuronali e con la plasticità sinaptica.
Gli aggregati neurofibrillari (Fig.2.2) sono ammassi intracellulari consistenti
di filamenti elicoidali appaiati (PHF) di 10nm di spessore. Il maggior componente
di questi filamenti è la forma iperfosforilata della proteina Tau, una proteina che
lega i microtubuli. Quando Tau è iperfosforilata, diminuisce la sua capaci- tà di

23
La malattia di Alzheimer

legare i microtubuli e aggrega quindi in maniera anomala determinando la for-


mazione dei PHF [23, 24]. L’aggregazione di Tau in filamenti porta al collasso
dei microtubuli ad una riduzione del trasporto assonale, fondamentale nel trasfer-
imento di sostanze di natura trofica ed energetica tra corpo cellulare e sinapsi.
L’efficienza di questo trasporto è necessaria per mantenere buone connessioni neu-
ronali; quando il trasporto viene alterato i neuroni degenerano e la rete neuronale
coinvolta nelle varie funzioni cognitive e vitali viene interrotta, provocando i sin-
tomi tipici dell’AD. Il maggior costituente delle placche amiloidi è stato purificato

Figura 2.2: Neurofibrille Figura 2.3: Placche amiloidi

e sequenziato nel 1984 da George Glenner. E’ un polipeptide di 40 o 42 ammino-


acidi chiamato da Glenner stesso β -amiloide o Aβ , derivante dalla proteolisi della
proteina di membrana conosciuta come proteina precursore dell’amiloide (APP -
Amyloid precursor protein). Il peptide Aβ nelle placche (Fig.2.3) è organizza-
to in fibrille di 7 − 10nm di spessore intramezzate con forme non fibrillari. Le
placche mature inoltre contengono assoni e dendriti degenerati e sono circondate
da astrociti reattivi e cellule della microglia, indicando quindi la presenza di una
componente infiammatoria nel processo neurodegenerativo.

24
2.2 La diagnosi della malattia

La spiegazione delle cause del processo di degenerazione neurofibrillare e del-


la perdita di sinapsi tipica dell’AD è la variante neuroinfiammatoria dell’ipotesi
della cascata amiloide (Fig.2.4a). Secondo questa ipotesi Aβ è responsabile in-
direttamente della fosforilazione di Tau e della conseguente degenerazione neu-
rofibrillare attraverso l’attivazione della microglia. L’Aβ depositato nelle plac-
che funge da stimolo infiammatorio cronico attivando le cellule della microglia
e determinando la produzione di sostanze neurotossiche, come radicali liberi,
citochine proinfiammatorie, mediatori dell’infiammazione e proteine del comple-
mento, responsabili in ultima analisi della morte neuronale e della demenza [25].
Accanto a questa ipotesi, ne è stata formulata recentemente una nuova in cui i
due eventi, la formazione delle placche e la formazione delle neurofibrille, sono
paralleli e sono guidati da un meccanismo comune (Fig.2.4b) [26].

Figura 2.4: Placche amiloidi

Il fattore genetico

La patogenesi dell’AD è complessa e dipende sia da fattori genetici che am-


bientali. La maggior parte dei casi sporadici della malattia ha eziologia ignota,

25
La malattia di Alzheimer

mentre le FAD (Tabella 2.1) possono essere chiaramente e direttamente collegate


a 3 mutazioni in loci genetici: il locus dell’APP ed i loci di due geni che codificano
per le preseniline, PS1 e PS2, che fanno parte del complesso enzimatico che porta
alla generazione del peptide amiloide. Tutte le mutazioni a carico di APP finora
conosciute portano ad un aumento nella produzione del peptide β -amilode, in par-
ticolare della sua isoforma più lunga, quella costituita da 42 aminoacidi (Aβ1−42 )
e che, rispetto alla variante di 40 residui, è più neurotossica per la sua maggiore
tendenza ad aggregare [27]. E’ stato dimostrato che anche le mutazioni a carico
delle preseniline portano ad un aumento della produzione di Aβ1−42 [28]. Anche
i casi di AD sporadici sono a volte associati a polimorfismi genici che si compor-
tano come fattori di rischio. Tra questi un ruolo chiave è svolto dal locus del gene
dell’Apolipoproteina E (APOE), ed in particolare dall’allele e-4. L’APOE, di cui
si conoscono tre isoforme codificate dagli alleli ε-2, ε-3, ε-4, è una molecola coin-
volta nel trasporto del colesterolo. E’ stato dimostrato che chi eredita l’allele ε-4
ha una maggiore predisposizione a sviluppare l’AD, e che l’età dell’insorgenza
della malattia è anticipata rispetto ai soggetti che presentano gli altri alleli [29].

CROMOSOMA GENE MUTAZIONI/ALLELI CONSEGUENZE


Mutazioni di base singola FAD a insorgenza precoce
21 APP Mutazioni di base doppia Trisomia 21 Aumentata produzione di Aβ
Mutazioni per sostituzioni di basi FAD a insorgenza precoce
14 PS1 Mutazioni del sito di splicing Aumentata produzione di Aβ
FAD a insorgenza precoce
1 PS2 Mutazioni per sostituzioni di basi Aumentata produzione di Aβ
Aumento del rischio di insorgenza di AD
19 APOE Allele ε-4 Età più precoce di insorgenza di AD

Tabella 2.1: Caratteri genetici della malattia di Alzheimer

26
2.2 La diagnosi della malattia

La terapia

Al momento non esiste cura capace di contenere la malattia conclamata. Circa


20 anni fa è stato scoperto che nel cervello dei malati di AD vi è un deficit di acetil-
colina, e da allora sono stati mossi numerosi passi allo scopo di introdurre una
terapia di sostituzione efficace. La perdita di neuroni colinergici nel nucleo basale
di Meynert e la diminuita funzionalità nell’ippocampo dell’acetiltransferasi, en-
zima che provvede alla sintesi di acetilcolina, hanno costituito il razionale per
vari tentativi farmacologici intesi a correggere la carenza della neurotrasmissione
colinergica (Fig.2.5). Finora con farmaci che prevengono la demolizione del-

Figura 2.5: Sinapsi colinergica con i principali siti d’azione delle molecole attive sulla
trasmissione mediata dall’acetilcolina

l’acetilcolina mediante inibizione dell’acetilcolinesterasi si sono ottenuti risultati


apprezzabili, anche se in una percentuale ridotta di pazienti responders in circa il
30% dei casi e per un periodo relativamente breve che và dai 6 ai 12 mesi e li-
mitatamente alle forme di malattia lievi e moderate. L’attivazione colinergica non
arresta la perdita neuronale, non corregge il deficit di altri neurotrasmettitori e non
modifica l’accumulo delle placche senili e dei grovigli neurofibrillari nel cervello

27
La malattia di Alzheimer

dei pazienti. Tre studi longitudinali1 hanno evidenziato un effetto protettivo della
terapia di sostituzione con estrogeni sul rischio di Alzheimer [30]. Gli estrogeni
modulano il metabolismo secretorio dell’APP e un polimorfismo del gene alfa
del recettore degli estrogeni sembra interagire con l’Apo ε-4 nel determinismo di
forme sporadiche di Alzheimer.
Inoltre ai malati di AD vengono somministrati anche farmaci antidepressivi,
antipsicotici, ansiolitici e sedativi, soprattutto nelle fasi terminali della malattia.
Negli ultimi anni numerosi studi sono stati indirizzati alla ricerca di molecole
naturali o di nuova sintesi in grado di inibire l’aggregazione dell’Aβ e ridurne
gli effetti citotossici. Ricerche di questo tipo potrebbero rappresentare il punto di
partenza per la progettazione di terapie farmacologiche di prevenzione e/o cura
e, inoltre, contribuire alla comprensione dei dettagli molecolari che regolano il
processo di fibrillogenesi.
Molti studi dimostrano che piccole molecole con anelli aromatici sono in gra-
do di influenzare significativamente la cinetica di aggregazione dei peptidi Aβ .
Queste includono la curcumina, l’acido rosmarinico, il fullerene, le tetracicline,
la melatonina, i polifenoli del vino, ecc.
In prospettiva, le strategie più promettenti per il trattamento dell’AD sembrano
essere tre:

1. La somministrazione di inibitori della produzione del peptide Aβ in grado


di penetrare nella membrana cerebrale e di diminuire, ma non bloccare del
tutto, l’attività della β - e della γ-secretasi (vedi §2.2). Questo trattamento
sembra essere efficace soprattutto nelle prime fasi dello sviluppo del morbo,
e particolarmente nei soggetti con disturbi cognitivi minimi o nulli.
1 Sono studi in cui una serie di individui viene seguita per un certo periodo di tempo. Si contrap-
pongono agli studi trasversali che sono studi limitati all’analisi di un quadro clinico in un istante
ben definito nel tempo.

28
2.2 La diagnosi della malattia

2. Un approccio alternativo prevede la somministrazione di molecole in grado


di legarsi ai monomeri del peptide Aβ in modo tale da prevenire la loro ag-
gregazione in multimeri potenzialmente tossici. Tuttavia, per rendere que-
sta strada percorribile è necessario comprendere bene il comportamento di
Aβ in associazione con tali molecole, per evitare che, pur bloccando la
formazione delle fibrille, tali molecole causino la formazione di oligomeri
metastabili eventualmente ancora più dannosi. Il vantaggio di questa strate-
gia sta invece nel fatto che ha come bersaglio un evento specificamente
patologico, e non dovrebbe interferire, come fa ad esempio quella prece-
dente, in normali reazioni metaboliche quali sono quelle catalizzate dalla
β - e dalla γ-secretasi.

3. Si possono infine somministrare molecole che proteggano i neuroni dagli ef-


fetti degli accumuli del peptide Aβ . Il problema in questo caso è che i mec-
canismi mediante i quali Aβ influenza le cellule cerebrali sono molteplici e
nel complesso poco chiari, e si rischia quindi di intervenire su alcuni aspetti
marginali senza diminuire significativamente i danni causati ai neuroni.

Per ultimo vogliamo citare il Progetto NAD (Nanoparticles for therapy and
diagnosis of Alzheimer Disease), partito nel settembre 2008. Un progetto di ricer-
ca multidisciplinare con l’obiettivo di diagnosticare precocemente e contrastare
la malattia di Alzheimer. L’obiettivo è quello di realizzare nanoparticelle (NPs)
in grado di attraversare la barriera emato-encefalica per raggiungere il cervello,
sede principale della malattia di Alzheimer. Alle nanoparticelle verranno legate
molecole in grado di riconoscere e distruggere le placche amiloidi che si deposi-
tano nel cervello in tale malattia. Il progetto NAD coinvolge diciannove partner
tra centri di ricerca e piccole e medie imprese provenienti da Italia, Spagna, Por-
togallo, Francia, Slovacchia, Svezia, Olanda, Ungheria, Finlandia, Grecia, Belgio
e Inghilterra, impegnati in un connubio multidisciplinare

29
La malattia di Alzheimer

2.3 Il peptide β -amiloide

Le placche amiloidi sono costituite principalmente da peptidi lunghi 40 ammi-


noacidi, il peptide β -amiloide 1-40 (Aβ1−40 ), Una frazione minore è costituita dal
peptide β -amiloide più lungo di due aminoacidi (Iso e Ala), il peptide β -amiloide
1-42 (Aβ1−42 ). Questi peptidi più “lunghi” sono più idrofobici e particolarmente
propensi all’aggregazione. In condizioni fisiologiche, il rapporto tra il peptide
Aβ1−42 ed Aβ1−40 è di circa una molecola di Aβ1−42 ogni dieci molecole di
Aβ1−42 . La presenza di Aβ1−42 sembra accelerare il processo di aggregazione
di Aβ1−40 (ipotesi della cascata di amiloidi). In casi rari sono state osservate
anche le catene Aβ1−39 ed Aβ1−43 .
I peptidi Aβ derivano dal taglio sequenziale di una proteina trans membrana,
nota come APP (Amyloid Precursor Protein), da parte di due enzimi: la β - e la
γ-secretasi.
Il gene di APP è localizzato sul cromosoma 21, che coincide con la localiz-
zazione dei geni responsabili della sindrome di Down, e ciò dà ragione del fatto
che nella sindrome di Down, caratterizzata dalla trisomia di questo cromosoma,
l’eccessivo dosaggio genico porta all’aumentata espressione della proteina APP,
che da solo è capace di indurre l’accumulo di Aβ e la comparsa, dopo i 40 anni,
dei segni anatomo-patologici della malattia di Alzheimer [31]. Le APP sono pro-
teine integrali di membrana con un grosso dominio extracellulare N-terminale ed
un corto dominio citosolico C-terminale. Nei mammiferi sono ubiquitariamente
espresse. Il gene di APP contiene 19 esoni, e tra questi gli esoni 7, 8 e 15 possono
subire splicing alternativo, dando vita a tre diverse isoforme: APP695, APP751,
APP770. L’isoforma più corta (APP695) è espressa esclusivamente nei neuroni,
mentre le altre sono ubiquitarie.
Il dominio extracellulare di APP è sede di modificazioni post-traduzionali che
ne aumentano notevolmente la complessità e che avvengono durante la sua ma-

30
2.3 Il peptide β -amiloide

turazione nel reticolo endoplasmatico (ER) e nel Golgi; il dominio extracellulare


presenta siti di O- ed N-glicosilazione, di sulfatazione, di fosforilazione, di legame
di metalli (Cu2+ ) e di legame dell’eparina.

Le funzioni di APP sono ancora sconosciute. Capire il meccanismo che ne


regola la maturazione potrebbe far luce sulle basi molecolari della malattia di
Alzheimer e potrebbe portare allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche per la
cura della malattia. Alcuni esperimenti effettuati su topi hanno permesso di ipotiz-
zare una funzione per l’APP nel trasporto assonale, nell’assogenesi e nel processo
di arborizzazione dendritica [32, 33]. Diversi sottodomini funzionali sono stati
identificati nel dominio extracellulare di APP: la sequenza RERMS, che sembra
essere responsabile della funzione neurotrofica attribuita ai prodotti extracellulari
della maturazione proteolitica di APP; i due siti di legame per l’eparina, respons-
abili del legame delle molecole di glipicano; ed infine i siti di legame per i metalli
come Cu2+ e Zn2+ , che però sembrano avere principalmente una funzione strut-
turale (anche se è stato dimostrato che APP è in grado di catalizzare la riduzione
del Cu2+ a Cu1+ ) [34].

APP è substrato dell’attività proteolitica di tre differenti proteasi, denominate


α, β e γ secretasi, in conseguenza della fatto loro azione vengono liberate tre
forme di peptidi (Fig.2.6). Il taglio dell’α-secretasi avviene tra la Lys-16 e la Leu-
17 della sequenza del peptide β -amiloide, impedendo in tal modo la generazione
dello stesso. Per questo motivo la maturazione di APP promossa dall’α-secretasi è
stata denominata non-amiloidogenica. In seguito al taglio α-secretasico, avviene
il rilascio di un grande frammento ammino-terminale che include tutto il do-
minio extracellulare di APP (sAPPα), solubile, ed un corto frammento carbossi-
terminale (C83) legato alla membrana, che include tutto il tratto trasmembrana ed
il corto dominio citosolico. C83 è substrato della γ-secretasi, che genera il peptide
p3, non aggregante e non neurotossico, ed un frammento AICD (APP intracellu-

31
La malattia di Alzheimer

lar domain), di 57 residui. Il pathway amiloidogenico prevede che la β -secretasi


tagli APP all’estremità ammino-terminale del peptide Aβ , generando una forma
solubile di APP più corta, sAPPβ ed un frammento di 99 residui (C99). Tale
frammento diviene substrato della γ-secretasi liberando il peptide β -amiloide ed
il frammento AICD. Il taglio operato dalla γ-secretasi che produce l’Aβ1−40 , l’iso-
forma di Aβ più abbondante, avviene a livello della Val-40. Un altro taglio due
amminoacidi più a valle, sempre operato dalla γ-secretasi, produce un frammento
Aβ di 42 residui, detto Aβ1−42 . Inizialmente si credeva che il taglio α-secretasico
fosse quello fisiologico in quanto era in grado di prevenire l’amiloidogenesi del-
l’AD. Questa però è risultata essere una semplificazione del problema, in quanto

Figura 2.6: Schema della struttura di APP e della sua maturazione proteolitica

è stato dimostrato che il peptide β -amiloide viene normalmente prodotto anche


in condizioni fisiologiche. Esso è stato, infatti, ritrovato nel fluido cerebrospinale
e nel plasma di soggetti sani. Diversi studi hanno mostrato un potenziale ruolo

32
2.3 Il peptide β -amiloide

fisiologico dell’Aβ , quando la sua concentrazione è dell’ordine del picomolare o


del nanomolare, correlato alla plasticità e alla sopravvivenza neuronale [35]. La
sequenza del peptide Aβ è:

DAEFRHDSGY EVHHQKLVFF AEDVGSNKGA IIGLMVGGVV IA

Notiamo che il peptide contiene 3 istidine (residui 6, 13 e 14), che sono am-
minoacidi spesso coinvolti nel legame con i metalli, come evidenziato nel §1.3.
Il metallo si lega generalmente all’istidina attraverso uno dei due atomi di azoto
che fanno parte dell’anello imidazolico. Studiando il profilo di idropaticità del

Figura 2.7: Profilo di idropaticità del β -amiloide

peptide (Fig.2.7)2 si nota la presenza di due regioni idrofiliche, una nell’ammino-


terminale (residui 1-16) ed una nella parte centrale del peptide (residui 22-28),
e di una regione altamente idrofobica nella parte carbossi-terminale del peptide
(residui 29-42).
2 La scala utilizzata è quella di Doolittle & Kyte. Valori negativi indicano amminoacidi idrofilici
e valori positivi amminoacidi idrofobici [36].

33
La malattia di Alzheimer

Come abbiamo detto in precedenza Aβ è il componente fondamentale delle


fibrille amiloidi. Attraverso studi effettuati usando tecniche NMR [37], è sta-
to visto che le proteine all’interno delle fibrille assumono struttura secondaria a
β -foglietto (Fig.2.8), in cui lo scheletro di ciascun polipeptide disposto perpendi-
colarmente all’asse maggiore della fibrilla stessa (struttura β -cross).

Figura 2.8: Struttura 3D delle fibrille amiloidi

Alcuni autori sostengono che la capacità di formare fibrille sia, in opportune


condizione, una caratteristica comune alla maggior parte delle proteine (proba-
bilmente tutte) e non solo propria di quelle ritrovate negli aggregati amiloidi. E’
stato ipotizzato che l’aggregazione proteica sia una via alternativa al ripiegamento
fisiologico delle proteine, in cui sono favorite le interazioni intermolecolari tra gli
scheletri di proteine diverse, piuttosto che quelle intramolecolari [38].
I processi molecolari e termodinamici alla base del processo di fibrillogen-
esi sono ancora molto dibattuti. Una tappa fondamentale del processo sembra
essere rappresentata dalla destabilizzazione della struttura nativa della proteina
(misfolding), con conseguente raggiungimento di una conformazione parzialmente
denaturata (intermedio amiloidogenico). Una conformazione di questo tipo è più
flessibile e, probabilmente, rende possibili specifiche interazioni intermolecolari,
come le interazioni idrofobiche ed elettrostatiche o i legami idrogeno, che sono
necessari per l’oligomerizzazione e la fibrillogenesi (Fig.2.9). I peptidi Aβ non
possiedono una conformazione nativa strutturata e, quindi, presentano un’alta per-

34
2.3 Il peptide β -amiloide

centuale di random coil. Il primo passo verso la fibrillogenesi, in questo caso, è


rappresentato da un parziale folding durante il quale la struttura secondaria passa
da una struttura prevalentemente random coil a prevalentemente β -sheet.

Figura 2.9: Oligomerizzazione e fibrillogenesi

Studi cinetici e strutturali hanno dimostrato l’esistenza di un intermedio re-


lativamente stabile che si origina dai “nuclei”3 : la protofibrilla. Le protofibrille
appaiono leggermente ricurve quando vengono osservate al microscopio elettro-
nico, hanno un diametro di 4-10 nm e una lunghezza che raggiunge i 200 nm circa
[39].
Alcune misure hanno permesso di rivelare che il processo di aggregazione
dell’Aβ avvenga attraverso la formazione di una serie di intermedi oligomerici
a breve tempo di vita che si formano nel periodo in cui il livello dei monomeri
decresce parallelamente alla comparsa delle protofibrille. Queste agiscono poi da
fulcro per la formazione delle fibrille mature caratteristiche delle placche senili
(Fig.2.10).
3I “nuclei” sono delle forme oligomeriche pre-fibrillari che, una volta formati, favoriscono il
processo di aggregazione.

35
La malattia di Alzheimer

Figura 2.10: Processo di formazione delle fibrille

2.4 Ioni metallici e Aβ peptide


Il processo di fibrillogenesi dell’Aβ è modulato da diversi fattori tra cui la
presenza di ioni metallici, il pH, la presenza di radicali liberi e anche da modifi-
cazioni chimiche del peptide stesso (per esempio ossidazioni) (Fig.2.11). E’ noto

Figura 2.11: Schema del processo che porta alla formazione delle fibrille

che metalli come zinco, rame e ferro sono presenti nei depositi amiloidi della
malattia di Alzheimer, e che essi sono in grado di indurre l’aggregazione in vitro
del peptide Aβ e la conseguente formazione di fibrille.
Vi sono almeno due generiche reazioni con i metalli che devono essere prese
in considerazione. La prima è relativa all’associazione di un metallo ad una pro-
teina che porta a misfolding e/o ad aggregazione proteica. Questa reazione può
coinvolgere ioni metallici non redox come lo Zn2+ , o metallo redox attivi come il
Cu2+ e il Fe3+ [40]. La seconda è relativa all’ossidazione proteica che, catalizza-
ta dai metalli, può dar luogo ad un danno proteico o alla denaturazione. Questa
reazione coinvolge solo metalli redox.

36
2.4 Ioni metallici e Aβ peptide

Sono stati riportati risultati contradditori su: i) speciazione, ii) costanti di sta-
bilità, iii) siti di legame e ambienti di coordinazione, iv) strutture conformazionali
di metalli del gruppo d con le proteine o con loro frammenti peptidici coinvolti
nell’AD.
Si suppone che l’aggregazione del peptide Aβ sia mediata dall’interazione
con i metalli, e tale ipotesi è avvalorata dal fatto che il peptide ha dei siti con alta
affinità per gli ioni Zn2+ e Cu2+ , ed in misura minore per Fe3+ .
E’ stato mostrato che lo Zn2+ ha una capacità di promuovere l’aggregazione
maggiore rispetto a tutti gli altri metalli [41]. Sono stati condotti numerosi stu-
di usando varie tecniche sperimentali. Alcuni di essi hanno mostrato un possi-
bile coinvolgimento dello ione Zn2+ nel processo di polimerizzazione. I model-
li proposti hanno mostrato che lo Zn2+ è alternativamente coinvolto in legami
intermolecolari [42] e intramolecolari [43].
Studi recenti [43] hanno identificato il frammento minimo coinvolto nel lega-
me col metallo, che risulta essere il frammento Aβ1−16 , la cui sequenza è:

DAEF RHDS GYEV HHQL

Studi NMR [44] hanno permesso di costruire un possibile modello strutturale


per il complesso Zn2+ -Aβ1−16 (Fig.2.12), in cui lo ione metallico è tetracoordi-
nato da quattro atomi appartenenti a quattro amminoacidi differenti: Nδ1 (His-6),
Nε2 (His-13), Nδ1 (His-14), ed Oε1 (Glu-11). Questo motivo strutturale è stato già
identificato precedentemente su piccoli peptidi, in cui si vede come lo ione metal-
lico assume un ruolo fondamentale per la struttura proteica. Alcuni studi hanno
suggerito come possibile ligando dello ione metallico l’amminoacido Tyr-10.
Alcuni risultati sperimentali, effettuati monitorando il grado di avanzamento
della malattia utilizzando come indicatore il MMSE, hanno evidenziato (Fig.2.13)
una significativa correlazione tra il livello di zinco nel sangue e il ritmo di peggio-

37
La malattia di Alzheimer

Figura 2.12: Struttura del complesso Zn2+ -Aβ1−16

ramento dell’AD, che ha trovato corrispondenza, e spiegazione, nella facilità con


cui questo metallo induce in vitro l’aggregazione del peptide amiloide.
Studi recenti [45], effettuati confrontando il peptide umano e quello di ratto,
hanno portato alla luce il fatto che quest’ultimo, pur presentando una sequenza
identica tranne che per tre amminoacidi (Arg-5→ Gly, Tyr-10→ Phe, His-13→
Arg) mostra proprietà diverse. Infatti l’Aβ del ratto lega lo zinco con affinità
molto minore di quello umano ed è meno soggetto ad aggregazione, inoltre nel
ratto non si sviluppano depositi amiloidi cerebrali.

Figura 2.13: Andamento temporale dello stato cognitivo di 33 pazienti con diagnosi di probabile
AD

38
Capitolo 3

Dinamica molecolare

Anche il più complesso dei sistemi biologici non è altro che un sistema fisi-
co, composto da atomi, e deve pertanto poter essere analizzato con gli strumen-
ti della fisica. In particolare, il sistema deve essere descritto da una Hamilto-
niana, che a rigore dovrebbe essere trattata in modo quantistico che permetta di
determinarne tutte le proprietà chimico-fisiche. Tuttavia la soluzione esatta del-
l’equazione di Schröedinger è impensabile già per sistemi molto semplici come
le piccole molecole e in genere è sempre necessario adottare approssimazioni
empiriche, giustificate a posteriori solo dalla bontà dei risultati raggiunti. Tutto
questo è a maggior ragione vero per un sistema biologico come una proteina, che
è un insieme di decine di migliaia di atomi. Quindi nel caso in cui si abbia a che
fare con sistemi composti da un numero elevato di atomi, l’approccio quantistico
non è più computazionalmente praticabile, e si ricorre a tecniche alternative, come
la dinamica molecolare classica. Questa tecnica permette di esplorare lo spazio
delle fasi di un sistema nell’ensemble microcanonico.

40
3.1 Teoria

3.1 Teoria
Lo stato all’istante tn di un sistema composto da N atomi può essere rappre-
sentata da un vettore dello spazio delle fasi a 6N dimensioni:

Γ(~r1 (tn ),~r2 (tn ), . . . , r~N (tn ); ~p1 (tn ), ~p2 (tn ), . . . , p~N (tn )) (3.1)

Il sistema sarà descritto dalla Hamiltoniana:


N  2 
pi
H({~ri } , {~pi }) = ∑ +V (~ri ) (3.2)
i=1 2mi

e la sua evoluzione sarà governata dalle equazioni di Hamilton per i vettori po-
sizione e momento:

d ∂ H({~ri } , {~pi }) d ∂ H({~ri } , {~pi })


~ri = , ~pi = ;i = 1...N (3.3)
dt ~pi dt ~ri

Le 3.3 sono 2N equazioni differenziali che, fissate le posizioni e le velocità iniziali


possono essere integrate per ottenere le posizioni e le velocità del sistema per ogni
tempo t.
Per poter simulare il moto del sistema su un computer è inevitabile discretiz-
zare la variabile temporale, pertanto è necessario decidere a priori un passo ∆t
(timestep) che scandisce la simulazione. E’ chiaro che per avere una dinamica
accettabile il timestep deve essere inferiore al più piccolo tempo caratteristico del
sistema. Durante l’evoluzione temporale, il sistema è soggetto a moti periodici
che si svolgono con frequenze differenti, per esempio i moti vibrazionali degli
atomi nelle molecole, i moti rotazionali nelle molecole, ecc. Le frequenze più ve-
loci sono quelle dovute alle oscillazioni di un legame tra atomi leggeri (per esem-
pio l’idrogeno), ed i tempi di oscillazione sono dell’ordine di ∆t1 ∼ 10−15 sec.
Per ottenere risposte ragionevoli, per esempio nel caso delle proteine osservare
possibili cambiamenti conformazionali, dobbiamo anche poter integrare sulle fre-
quenze più lente, che sono quelle inter-molecolari, il cui tempo caratteristico è

41
Dinamica molecolare

dell’ordine di ∆t0 ∼ 10−9 sec. Supponiamo di avere a disposizione un algoritmo


che ad ogni passo integri le equazioni di Hamilton per un intervallo temporale ∆t1 .
Per poter integrare ragionevolmente bene i moti lenti, è necessario considerare un
tempo totale d’evoluzione almeno dell’ordine di ∆t ∼ 102 ∆t0 = 108 ∆t1 . Questo
richiederebbe lo svolgimento di 108 passi e ciascun passo richiede circa 102 ope-
razioni in doppia precisione per ogni atomo. Inoltre il numero totale di operazioni
cresce come il quadrato del numero di atomi a causa della presenza del potenziale
inter-molecolare. Considerando un sistema composto da 104 atomi, otteniamo
che il budget computazionale richiesto per ottenere una soluzione del problema su
tempi dell’ordine di t è:

budget computazionale = 102 · (104 )2 · 108 = 1018 operazioni (3.4)

E’ chiaro che non è possibile procedere in questo modo, poiché il numero di ope-
razioni richiesto è eccessivo per qualunque calcolatore. Esistono vari approcci
alla risoluzione di tale problema, il più raffinato è l’algoritmo di Multiple Time
Step [46], che permette di disaccoppiare i moti veloci da quelli lenti, consentendo
di integrare, con passi differenti, gradi di libertà che corrispondono a frequenze
differenti, permettendoci cosı̀ di velocizzare i tempi di calcolo integrando in modo
appropriato le varie componenti del potenziale. Per prima cosa osserviamo che,
formalmente, la soluzione delle equazioni di Hamilton può scriversi nella forma:

Γ(t) = U(t)Γ(0) (3.5)

dove U(t) è l’ operatore di evoluzione temporale, definito dall’equazione:



1
U(t) = eiL t ≡ ∑ k! (iL t)k (3.6)
k=0

e dove:
N  
d ∂ ∂V ∂
iL = ∑ ~ri − (3.7)
i=1 dt ∂~ri ∂~ri ∂ ~pi

42
3.1 Teoria

Introduciamo il propagatore elementare:

G(∆t0 ) = eiL ∆t0 (3.8)

in termini del quale possiamo riscrivere l’operatore di evoluzione temporale come:

U(t) = [G(∆t0 )] p0 (3.9)

dove abbiamo posto t = p0 ∆t0 . Dunque p0 è il numero totale dei passi che si
devono effettuare per integrare le equazioni del moto, se ciascun passo evolve
la dinamica per il tempo caratteristico dei moti lenti. A questo punto conviene
suddividere l’operatore differenziale 3.7 in una parte lenta ed una veloce:

iL = iLF + iLs (3.10)

Utilizzando la formula di Campbell-Baker-Hausdorff (C.B.H.) nella versione di


Trotter [48], possiamo sviluppare il propagatore elementare nel seguente modo:
∆t0 ∆t0
G(∆t0 ) = ei(LF +Ls )∆t0 = ei 2 LS eiLF ∆t0 ei 2 LS + O(∆t03 ) (3.11)

Nel termine veloce possiamo separare la parte cinetica da quella potenziale, ed


utilizzando nuovamente la formula di Trotter, otteniamo, trascurando i termini di
ordini superiore al secondo, la seguente equazione per Γ(t):

∆t  ∆t1 ∆t  p1 ∆t0  p0
i 20 LS
p
Γ(t) = [G(∆t0 )]0 Γ(0) ' e ei 2 VF iKc ∆t1 i 21 VF
e e ei 2 LS Γ(0) (3.12)

dove abbiamo posto ∆t0 = p1 ∆t1 . La formula 3.11 consente di effettuare l’ag-
giornamento dei gradi di libertà che corrispondono ai moti veloci tenendo fissi
quelli che invece corrispondono ai moti lenti. Inoltre si vede che per ogni passo
che viene effettuato sui moti lenti, se ne effettuano p1 su quelli veloci. In questo
modo è possibile realizzare concretamente e rigorosamente la separazione tra i
moti lenti e quelli veloci ed integrare meno frequentemente quelli che richedono
un maggior costo computazionale.

43
Dinamica molecolare

Sebbene la 3.12 definisca in modo chiaro la procedura di aggiornamento delle


coordinate e dei momenti delle particelle del sistema, essa risulta poco utile dal
punto di vista computazionale. Consideriamo l’operatore d’evoluzione sı̀ fatto:

ei(L1 +L2 )∆t = ei 2 L1 eiL2 ∆t ei 2 L1 + O(∆t 3 )


∆t ∆t
(3.13)

dove:
∂ ~p ∂
iL1 = ~F(~q) , iL2 = (3.14)
∂~p m ∂~q
ed in cui abbiamo definito:
~F(~q) = −∇V (~q) (3.15)

Applichiamo tale operatore su una funzione generica f (q(t), p(t)) servendoci


della formula elementare:
d
ec dx f (x) = f (x + c) (3.16)

Applichiamo adesso in successione i tre operatori che compaiono nell’ultimo


membro della 3.12, partendo da quello più a destra. Otteniamo:
 
i ∆t L ∆t ~
e 2 f (~q(t),~p(t)) = f ~q(t),~p(t) + F(~q(t))
1 (3.17)
2
 
iL2 ∆ i ∆t L ∆t ∆t ~  ∆t
e e 2 f (~q(t),~p(t)) = f ~q(t) + ,~p(t) + F ~q(t) + ~p(t)
1 (3.18)
m 2 m
i ∆t L1 iL2 ∆ i ∆t L1
n ∆t h ∆t ~ i
e 2 e e 2 f (~q(t),~p(t)) = f ~q(t) + ~p(t) + F(~q(t)) ,~p(t)+
m 2
∆t ~ ∆t ~ h ∆t 
+ F(~q(t)) + F ~q(t) + ~p(t)+ (3.19)
2 2 m
∆t io
+ ~F(~q(t))
2
Se effettuiamo l’aggiornamento delle coordinate e degli impulsi secondo le re-
lazioni:
 
∆t ∆t ~
~q(t) → ~q(t + ∆t) = ~q(t) + ~p(t) + F(~q(t)) (3.20)
m 2
∆t ~
h i
~p(t) → ~p(t + ∆t) = ~p(t) + F(~q(t)) + ~F(~q(t + ∆t)) (3.21)
m

44
3.2 Force field

possiamo rendere la 3.16 in una forma assai più semplice.


Le leggi di trasformazione 3.19 e 3.20 definiscono l’algoritmo di Verlet [49],
che non coincidono con le soluzioni delle equazioni di Hamilton, poiché nell’e-
spansione C.B.H. si trascurano i termini di ordine superiore al secondo. Quindi
l’evoluzione dinamica del sistema fatta secondo l’algoritmo di Verlet è diversa
dall’evoluzione newtoniana. Nonostante ciò le formule 3.19 e 3.20 definiscono
una trasformazione canonica, che come tale conserva l’energia e quindi consente
l’esplorazione dello spazio delle fasi nell’ensemble microcanonico [50].

3.2 Force field

Nella 3.2 abbiamo assunto che il potenziale non dipenda dagli impulsi, cioè
che non ci sia attrito tra i vari componenti del sistema. L’approccio della dinamica
molecolare consiste nello studiare sistemi di atomi immaginati come punti mate-
riali soggetti ad un potenziale efficace di interazione da determinare fenomeno-
logicamente. A partire da questo si costruisce il campo di forze che determina
il moto degli atomi (force field (ff)). Per rendere questo processo più semplice
si considerano come gradi di libertà quei parametri fisici che sappiamo essere
particolarmente importanti nei legami molecolari, e la cui variazione influisce in
maniera consistente sull’energia del sistema: come per esempio le lunghezze di
legame, gli angoli di legame e gli angoli di torsione. Il potenziale effettivo espres-
so in queste variabili ha una forma semplice e i vari termini che lo compongono
possono essere facilmente confrontati con gli esperimenti. Limitarsi ai gradi di
libertà detti e considerare la struttura interna delle molecole rigida (legami), per-
mette di descrivere comunque una larga parte dello spazio delle configurazioni, e
poiché i termini coinvolgono solo pochi atomi, e non strutture più complesse, pos-
sono essere utilizzati per tutti i tipi di molecole che coinvolgano lo stesso tipo di

45
Dinamica molecolare

atomi. Questo è particolarmente vantaggioso nel caso delle molecole biologiche,


che coinvolgono un numero limitato di atomi, essenzialmente solo H, C, N, O,
S. Bisogna però tenere conto che un atomo di ossigeno in un gruppo carbossile
si comporta in modo differente da un atomo di ossigeno di un gruppo idrossile
e perciò ai fini della parametrizzazione vanno considerati come specie differenti
[49]. Inoltre bisogna considerare che le molecole biologiche sono composte da un
numero elevato di atomi ed inoltre bisogna studiarle in presenza dell’acqua, e ciò
le rende un sistema non banale da studiare.
Vediamo ora brevemente quali sono gli aspetti importanti nel parametrizzare
l’interazione tra gli atomi delle molecole biologiche, sia nel caso di bonded inter-
actions, ovvero di interazioni covalenti, sia nel caso di non bonded interactions,
interazioni non covalenti.

Parametrizzazione delle interazioni covalenti

Nell’approccio classico caso i legami chimici sono parametrizzati con i seguen-


ti potenziali empirici. Nella Fig.3.1 è rappresentato il primo dei gradi di libertà
preso in considerazione dall’approccio classico alla dinamica molecolare, il lega-
me chimico;

Figura 3.1: Lunghezza di legame

• Se la simulazione non coinvolge reazioni chimiche ed è effettuata vicino


alla temperatura ambiente allora la distanza interatomica sarà vicina al suo
valore di equilibrio e si potrà approssimare l’energia di stretching di un
legame bi come:

Ebi (ri ) = k(2) (ri − b0 )2 + k(3) (ri − b0 ) + . . . (3.22)

46
3.2 Force field

dove b0 è la lunghezza di legame, cioè la distanza di equilibrio tra due atomi


legati da un legame covalente. Nella maggior parte dei programmi di dina-
mica molecolare si tronca la serie all’ordine più basso (armonico), in quanto
le oscillazioni con alte frequenze (τ ' 1 f s) sono sostanzialmente disaccop-
piate dai movimenti più lenti che si vogliono studiare (folding, cambiamenti
conformazionali, ecc.), per i quali le distanze di legame restano sostanzial-
mente vicino ai valori di equilibrio. Sotto queste ipotesi il potenziale speri-
mentato da un atomo che si sposta lungo la direzione di un legame chimico
è dato da:
1
Vb (ri j ) = kb,i j (ri j − b0,i j ) (3.23)
2
I parametri kb,i j e b0,i j rappresentano, rispettivamente, una costante elastica
fenomenologica che è un indice della forza del legame, e la lunghezza a
riposo del legame stesso. Questi parametri possono essere calcolati in vari
modi, per esempio utilizzando simulazioni ab initio. Qualora si volessero
considerare oscillazioni di ampiezza particolarmente elevata si possono uti-
lizzare anche i termini anarmonici, tuttavia si hanno migliori risultati con
forme funzionali differenti, come ad esempio il potenziale di Morse:
n o2
VMorse (ri j ) = Di j 1 − exp[−βi j (ri j − b0,i j )] (3.24)

• Un altro grado di libertà di cui si tiene generalmente conto nei program-


mi di dinamica molecolare è l’angolo di legame che parametrizza (Fig.3.2)
parte della direzionalità del legame covalente; nelle stesse ipotesi di sopra

Figura 3.2: Angolo di legame

47
Dinamica molecolare

si può pensare che anche l’angolo di legame resterà vicino al suo valore di
equilibrio, ed è pertanto possibile sviluppare anche questo termine in serie.
Fermandosi nuovamente all’ordine più basso si ha un contributo:

1  2
Vθ (θi jk ) = kθ ,i jk θi jk − θ0,i jk (3.25)
2

Questo è il potenziale sperimentato da un atomo che, muovendosi, deforma


l’angolo tra due legami, dove il parametro kθ ,i jk rappresenta una costante
fenomenologica che esprime la resistenza che la molecola oppone alla de-
formazione dell’angolo θ0,i jk che rappresenta il valore a riposo dell’angolo.

• Infine si tiene conto anche dell’angolo torsionale (Fig.3.3) ovvero della tor-

Figura 3.3: Angolo dietro torsionale

sione attorno ad un legame rispetto alla posizione d’equilibrio. In questo


caso le energie in gioco sono molto più piccole. D’altra parte per inda-
gare i cambiamenti conformazionali è necessario consentire piena libertà di
rotazione intorno ai legami essenziali per consentire ad esempio il ripiega-
mento del backbone o il movimento delle catene laterali. Non è pertanto
più possibile troncare l’espansione al primo ordine rilevante nella serie di
Taylor, come fatto in precedenza, ed è necessario trovare un’altra forma
funzionale. Il potenziale deve essere periodico nell’angolo di torsione Φ
con periodo 2π e inoltre deve essere simmetrico intorno ai punti Φ = 0, π in
quanto per tali valori dell’angolo di torsione i quattro atomi sono coplanari.
Si procede pertanto con una espansione in coseni:
h i
(1) (2)
EΦ ({Φi }) = ∑ kΦ,i (1 − cos Φi ) + kΦ,i (1 − cos 2Φi ) + . . . (3.26)
dietri

48
3.2 Force field

Force field differenti troncano la serie 3.25 ad ordini differenti; un buon


compromesso tra accuratezza e pesantezza computazionale è il terzo ordine.
La forma di potenziale più usata è nota come Ryckaert-Bellemans ed è la
seguente:
5
VRB (Φi jkl ) = ∑ Cn[cos(Ψ)]n dove Ψ = Φ − 180 (3.27)
n=0

Questo potenziale descrive la resistenza della molecola a possibili torsioni,


dove Cn è una costante fenomenologica che esprime la resistenza della
molecola alla torsione.

Parametrizzazione delle interazioni non covalenti

Tra le interazioni che coinvolgono coppie di atomi a distanza maggiore di tre


legami covalenti, vengono in genere distinte le interazioni coulombiane tra
cariche puntiformi e le rimanenti, che vengono epresse, siano esse di natu-
ra elettrostatica o provenienti da fenomeni quantomeccanici, da un unico
termine.

L’interazione non bonded può essere semplicisticamente schematizzata co-


me la somma di forze attrattive dipolo indotto-dipolo indotto (che scala
come 1/r6 ) e di repulsione delle nuvole elettroniche; per semplicità com-
putazionale si assume per tutti gli atomi un’interazione di tipo Van der
Waals, ovvero la stessa che ha luogo tra due atomi di un gas nobile, e si
parametrizza in genere tramite il potenziale di Lennard-Jones (LJ) (Fig.3.4):
" 12  6 #
σi j σi j
VLJ (ri j ) = 4εi j − (3.28)
ri j ri j
ove σi j e εi j sono parametri fisici dipendenti dalla coppia di atomi che de-
terminano rispettivamente la distanza di equilibrio tra i due atomi e la pro-

49
Dinamica molecolare

Figura 3.4: Potenziale di Lennard-Jones

fondità della buca di potenziale. Essendo questo un potenziale empirico


sono possibili altre espressioni del termine che scala come 1/r12 . Il poten-
ziale alla LJ è però il più usato, accurato e computazionalmente non molto
pesante.

L’interazione coulombiana è invece molto più difficile da trattare: le forze


elettrostatiche sono infatti a lungo raggio (∝ 1/r), il che richiederebbe di
far interagire tutte le possibili coppie di atomi. La natura diffusa della nu-
vola elettronica rende difficile una trattazione esaustiva della componente
coulombiana. Ciò che si fa in genere è mettere una carica puntiforme su
ciascun atomo, riscalata in modo da tenere conto della presenza della nuvola
elettronica. Il potenziale di interazione è allora:
1 qi q j
VC (ri j ) = (3.29)
4πε0 εr ri j
Come si vede il computo delle interazioni coulombiane scala come N 2 , con
N numero di atomi del sistema, ed è perciò computazionalmente molto pe-
sante. Questo problema può essere affrontato aggiungendo un cut-off sferi-
co, cioè trascurando le interazioni al di sopra di una certa distanza. Questo
genera situazioni non fisiche, e pertanto si preferisce adottare soluzioni più
raffinate; una in particolare è la somma di Ewald [51]. Si parte da un insieme

50
3.2 Force field

di cariche puntiformi in una scatola di lato L, con condizioni periodiche al


contorno (vedi Appendice B). La somma và dunque riscritta tenendo conto
delle cariche ripetute:
N N qq
1 1 i j
V= ∑ ∑ ∑ (3.30)
4πε0 2 ~n∗ i j ~ri j,~n

dove~n = (nx , ny , nz ) e il simbolo ∗ indica che il termine con i = j deve essere


omesso quando ~n = 0. Tuttavia non è facile valutare questa somma, a causa
del lungo range delle interazioni coulombiane tra cariche puntiformi.

La situazione sarebbe molto più semplice se invece di cariche puntifor-


mi avessimo cariche schermate, ovvero circondate da una nuvola di carica
di segno opposto che riduce il range delle interazioni (ad esempio scher-
mando il contributo di monopolo). E’ possibile simulare questa situazione
riscrivendo:
1 er f c(β r) 1 − er f c(β r)
= + (3.31)
r r r
La funzione er f c(β r) (complementare dell’integrale di una gaussiana) for-
nisce un taglio al potenziale sulla lunga distanza determinato dal parametro
β e permette cosı̀ di separare la parte a corto range del potenziale da quella
a lungo range (Fig.3.5). Il potenziale a questo punto è scritto come somma
di due parti, e il secondo addendo, che rappresenta il contributo della nuvola

Figura 3.5: Decadimento esponenziale della er f c(β r)

51
Dinamica molecolare

elettronica con cui abbiamo schermato le cariche, contiene la componente


a lungo range del potenziale. Si potrebbe pensare che il problema è stato
solo spostato su questo secondo addendo; tuttavia la nuvola di carica che è
stata aggiunta è una funzione liscia (al contrario della distribuzione inizia-
le di cariche puntiformi) e periodica, e può essere sommata facilmente in
trasformata di Fourier. L’efficienza del metodo è O(N 3/2 ); esistono metodi
più efficienti, come il Particle Mesh Ewald (PME) [52, 53] che discretiz-
za le cariche su una griglia e sfrutta la Fast Fourier Transform (FFT), che
raggiungono un’efficienza O(N log N).

3.3 Gli ensemble statistici


Un ensemble statistico è determinato una volta che sia stata assegnata una
densità di probabilità ρ(q, p) nello spazio delle fasi. La media di ensemble di
una osservabile A({q} , {p}) è calcolata integrando su tutto lo spazio delle fasi
accessibile Ω:
Z
hAi = A({q} , {p})ρ({q} , {p})dt (3.32)

e corrisponde al valor medio calcolato su un numero molto grande di sistemi


estratti con probabilità ρ [54]. Lo scopo dell’algoritmo di dinamica molecolare è
ottenere una sequenza temporale di configurazioni q(t), p(t) su cui misurare una
media temporale:
Z T
1
Ā ≡ lim A({q(t)} , {p(t)})dt (3.33)
T →∞ T 0

dove T è il tempo totale della simulazione. Ovviamente con tempo infinito si


intende un tempo molto maggiore dei tempi di rilassamento tipici del fenomeno
che si sta studiando.
A priori non è assicurato che le due medie (3.32) e (3.33) siano uguali. Si
può però verificare che la media temporale (3.33) converge asintoticamente alla

52
3.3 Gli ensemble statistici

(3.32) per t → ∞. Perchè ciò avvenga è necessario che siano verificate due ipotesi
fondamentali:

1. Le distribuzioni di equilibrio sono corrette e stazionarie, cioè deve valere il


teorema di Liouville:
N
∂ ({q(t)} , {p(t)}) ∂ (q̇i ρ({q, p}))
=−∑ =0 (3.34)
∂t i=1 ∂ qi

Questo significa che la dinamica va costruita ad hoc per riprodurre le giuste


probabilità.

2. La dinamica del sistema è ergodica, ovvero c’è una probabilità non nulla di
raggiungere qualunque configurazione accessibile dello spazio delle confi-
gurazioni in un tempo finito. Questa condizione va verificata caso per caso
ed è in genere molto difficile da dimostrare.

Una volta soddisfatte queste due condizioni possiamo simulare un sistema tramite
una opportuna dinamica e misurare le proprietà medie lungo la simulazione. Ve-
diamo ora quali dinamiche sono state sviluppate per riprodurre ensemble di parti-
colare interesse.

L’ensemble microcanonico

L’ensemble microcanonico è definito da:


 
ρ({q} , {p}) ∝ δ H({q} , {p}) −E (3.35)

che corrisponde a un sistema in cui l’energia E è costante e tutte le configurazioni


con tale energia sono equiprobabili. Il numero delle particelle N è fisso e il volume
V è costante, perciò questo ensemble è detto anche NV E. La temperatura e la
pressione sono invece libere di variare, e costituiscono due osservabili del sistema.
Integrare le equazioni del moto con l’algoritmo di Verlet, visto in precedenza,

53
Dinamica molecolare

consente di conservare (approssimativamente, come si è visto) l’energia e può


dunque essere utilizzato per campionare questo insieme statistico.
L’ensemble microcanonico descrive solo sistemi isolati e non è perciò molto
interessante, se non come base per altri ensemble.

L’ensemble canonico

L’ensemble canonico riproduce la condizione di temperatura costante ed è


definito dalla densità di probabilità:
h i
ρ(q, p) ∝ exp − β H(q, p) ove β = (kB T )−1 (3.36)

Il numero delle particelle e il volume sono mantenuti costanti, e l’insieme è anche


detto NV T . Questo insieme statistico è per noi di fondamentale importanza in
quanto nei sistemi biologici la temperatura è nella maggior parte dei casi la varia-
bile principale su cui si ha un controllo, e se si vuole studiare il funzionamento di
una molecola biologica in un organismo si avrà temperatura circa costante. Come
visto, integrando le equazioni del moto tramite l’algoritmo di Verlet si ottiene un
ensemble microcanonico, e dunque è necessario sviluppare una nuova dinamica
che descriva l’interazione del sistema con il reservoir termodinamico. Vedremo
qui di seguito alcuni degli algoritmi che sono stati sviluppati a tal scopo.

I termostati

I termostati in dinamica molecolare sono tecniche che cercano di imporre


correttamente le condizioni termodinamiche al sistema simulato.
Nel primo metodo, introdotto da Woodcock [55], le velocità scalano in accor-
do alla seguente formula: r
T0
~pi → ~pi (3.37)
T

54
3.3 Gli ensemble statistici

dove T0 è la temperatura di riferimento e T la temperatura effettiva, calcolata


per mezzo delle velocità delle particelle. Questo tipo di termostati prendono il
nome di termostati differenziali. Questo metodo porta a discontinuità nella parte
legata al momento della traiettoria nello spazio delle fasi dovuta alla procedura di
riscalamento.
Un altro tipo di termostati sono quelli proporzionali, che provano a correggere
le deviazioni della temperatura reale T dalla temperatura di riferimento T0 molti-
plicando le velocità per un fattore λ allo scopo di muovere il sistema dinamico
verso la corrispondente T0 . La differenza rispetto a quelli differenziali è che il
metodo tiene conto delle fluttuazioni della temperatura, che non viene quindi fis-
sata ad un valore costante. In ogni step di integrazione è assicurato che la T viene
corretta ad un valore più vicino a T0 . Un termostato di questo tipo è stato proposto
da Berendsen et al. [56], che hanno introdotto il metodo del debole accoppiamento
ad una riserva esterna. Il termostato a debole accoppiamento minimizza i disturbi
locali di un termostato stocastico, che vedremo tra poco, mantenendo invariati gli
effetti globali. Questo porta ad una modifica del momento:

~pi → λ~pi (3.38)

dove:
   1
δt T0 2
λ = 1+ −1 (3.39)
τT T
La costante τT è la costante di accoppiamento temporale che determina la scala
temporale entro la quale la temperatura desiderata è raggiunta. E’ semplice mo-
strare che il termostato proporzionale ha una distribuzione maxwelliana.
Un’altra categoria di termostati sono quelli stocastici, in cui tutti o un sottoin-
sieme di gradi di libertà del sistema sono soggetti a collisioni con particelle vir-
tuali. Questo metodo può essere simulato per mezzo di un equazione differenziale
stocastica di Langevin che descrive il moto di una particella dovuto all’agitazione

55
Dinamica molecolare

termica di un bagno termico, cioè:

∂~pi ∂U
=− − γ~pi + ~F + (3.40)
∂t ∂~qi

dove γ è una costante d’attrito ed ~F + una forza gaussiana random. L’ampiezza di


~F + è determinata dal teorema di fluttuazione e dissipazione:

h~Fi+ (t1 )~Fj+ (t2 )i = 2γkB T δi j δ (t1 − t2 ) (3.41)

Un valore più grande di γ incrementerà le fluttuazioni termiche, mentre γ = 0


porta all’ensemble microcanonico. E’ stato dimostrato che il termostato stocastico
genera una funzione di distribuzione canonica.
Infine, i termostati integrali, che sono spesso chiamati metodo dei sistemi este-
si, che introducono un grado di libertà aggiuntivo nei sistemi di Hamilton che
deriviamo per ricavare la dinamica del sistema. Queste nuove equazioni sono in-
tegrate in linea con le equazioni per le coordinate spaziali e i momenti. L’idea di
questo metodo, proposto da Nosé [57], è di ridurre l’effetto di un sistema esterno,
che agisce come bagno termico per mantenere la temperatura del sistema costante,
ad aggiungere un grado di libertà. Le interazioni termiche tra un bagno termico
e il sistema risultano in un cambiamento dell’energia cinetica, cioè, delle velocità
delle particelle nel sistema. Nosé introdusse due set di variabili: reali e virtuali. Le
variabili virtuali sono derivate in modo consistente attraverso una trasformazione
di Sundman dτ/dt = s, dove τ è un tempo virtuale e s è un fattore di scala, che
è trattato come una variabile dinamica. La trasformazione da variabili virtuali a
reali è allora effettuata cosı̀:

~pi = ~πi s , ~qi = ~ρi (3.42)

L’introduzione della massa effettiva, Ms , connette anche un momento all’addizio-


nale grado di libertà, πs . L’Hamiltoniana risultante, espressa in coordinate virtuali

56
3.3 Gli ensemble statistici

è:
N ~πi2 πs2
H∗ = ∑ 2
+U(~
ρ ) + + gkB T ln s (3.43)
i=1 2mi s 2Ms

dove g = 3N + 1 è il numero di gradi di libertà (sistema di N particelle libere).


L’Hamiltoniana su scritta conduce ad una densità di probabilità nello spazio delle
fasi, corrispondente all’ensemble canonico.
Le equazioni del moto estratte da questa hamiltoniana sono:

∂ ~ρi ~πi
= 2 (3.44)
∂τ s

∂ ~πi ∂U(~ρ )
= (3.45)
∂τ ∂ ~ρi

∂s πs
= (3.46)
∂τ Ms

∂ πs 1 N ~πi2 gkB T
= 3∑ − (3.47)
∂τ s i=1 mi s

Se si trasformano queste equazioni in variabili reali, si trova [58] che possono


essere semplificate introducendo la nuova variabile ζ = ∂ s/∂t = sps /Ms (dove ps
è il momento reale connesso alla riserva di calore), ottenendo:

∂~qi ~pi
= (3.48)
∂t mi

∂~pi ∂U(~q)
=− − ζ~pi (3.49)
∂t ∂~qi

∂ ln s
=ζ (3.50)
∂t
!
N
∂ζ 1 ~p2i
= ∑ − gkB T (3.51)
∂t Ms i=1 mi

Queste equazioni descrivono i cosiddetti termostati di Nosé-Hoover.

57
Dinamica molecolare

I barostati

In una simulazione di dinamica molecolare per mantenere sotto controllo la


pressione è necessario che siano consentite variazioni di volume. Un semplice
modello per un sistema a pressione costante potrebbe essere rappresentato da un
box le cui pareti sono accoppiate ad un pistone che controlla la pressione.
Come già visto per i termostati, anche per i barostati esistono quattro tipologie:
differenziali, stocastici, proporzionali e integrali. Il metodo differenziale, tuttavia,
non sarà discusso perché il suo utilizzo è impedito da problemi legati alla corretta
definizione della pressione iniziale.
Il barostato proporzionale, che è associato alla cinetica delle particelle, è stato
introdotto come un estensione per l’equazione sui momenti. Poiché il barosta-
to agisce sui cambiamenti di volume, che possono essere espressi attraverso un
riscalamento delle posizioni delle particelle, un’estensione fenomenologica per
l’equazione dell’evoluzione delle coordinate può essere formulata in questo modo
[56]:
∂~qi ~pi
= + α~qi (3.52)
∂t mi
Mentre il cambiamento in volume è postulato come:

V̇ = 3αV (3.53)

Un cambiamento nella pressione è legato alla compressibilità isoterma κT :


dP 1 ∂V 3α
=− =− (3.54)
dt κT V ∂t κT
espressione che può essere approssimata dalla:
(P − P0 ) 3α
=− (3.55)
τP κT
e l’eq.3.52 può essere scritta:
∂~qi ~pi κT
= − (P0 − P) (3.56)
∂t mi 3τP

58
3.3 Gli ensemble statistici

che corrisponde ad un riscalamento della lunghezza del box L → sL e delle coor-


dinate ~q → s~q con:
κT δt
s = 1− (P0 − P) (3.57)
3τP
La costante di tempo τP è un tempo di scala caratteristico legato al modo con il
quale la pressione del sistema si avvicina alla pressione imposta P0 . Esso con-
trolla anche l’intensità dell’accoppiamento al barostato e quindi l’ampiezza delle
fluttuazioni volume/pressione.
Per i barostati stocastici il metodo e le equazioni ottenute sono del tutto simili
a quelle già viste nel caso dei termostati stocastici.
I barostati integrali come nel caso dei termostati, introducono un nuovo grado
di libertà nel sistema di Hamilton che controlla le fluttuazioni associate al volume.
Quest’ultimo metodo fu proposto per la prima volta da Andersen [59]. L’idea è
quella di considerare il volume come un grado di libertà aggiuntivo e scrivere
l’Hamiltoniana in una forma scalata, dove le lunghezze sono espresse in unità di
lunghezza del box, quindi:
1
L = V 3 cioè ~qi = L~ρi e ~pi = L~πi (3.58)

Poiché L è una quantità dinamica, il momento non è legato in modo semplice alla
derivata temporale delle coordinate ma
∂~qi ∂ ~ρi ∂L
=L + ~ρi (3.59)
∂t ∂t ∂t
L’Hamiltoniana estesa del sistema sarà allora data da:
N ~πi ~πV2
1
H∗ = ∑ +U(V 1/3~
ρ ) + PexV + (3.60)
V 2/3 i=1 2mi 2MV
dove Pex è la pressione esterna imposta e πV ed MV sono un momento ed una
massa associate alle fluttuazioni del volume. Le equazioni del moto derivate dalla
Hamiltoniana (3.60) sono
∂ ~ρi 1 ~πi
= 2/3 (3.61)
∂t V mi

59
Dinamica molecolare

∂ ~πi ∂U(V 1/3~ρi )


= (3.62)
∂t ∂ ~ρi
∂V πV
= (3.63)
∂t MV
!
N ~πi
∂ πV 1 1 ∂U(~q)
= 2/3 ∑ −V 1/3~ρi (3.64)
∂t 3V V i=1 mi ∂~qi
Una trasformazione a variabili reali darà

∂~qi ~pi 1 ∂V
= + ~qi (3.65)
∂t mi 3V ∂t
∂~pi ∂U(~q) 1 ∂V
= − ~pi (3.66)
∂t ∂~qi 3V ∂t
∂V pV
= (3.67)
∂t MV
!
N
∂ pV 1 1 ~p2i ∂U(~q)
= 2/3 ∑ −~qi − Pex (3.68)
∂t 3v V i=1 mi ∂~qi
Queste ultime equazioni sono state ricavate utilizzando il metodo di Parrinello-
Rahman [60], che assicura che il sistema esplori un ensemble canonico.

3.4 Schematizzazione dell’algoritmo di dinamica


molecolare classica
Concludiamo questo capitolo proponendo uno schema dell’algoritmo di dina-
mica molecolare, considerando anche i possibili vincoli o “constraint” geometrici
(vedi Appendice C) presenti.
Come si vede dalla Fig.3.6 prima di tutto vengono lette le condizioni iniziali
ovvero il ff e le posizioni di tutti gli atomi del sistema. Quindi vengono generate
le velocità iniziali per ogni atomo utilizzando una distribuzione di tipo gaussiana
in modo che l’energia cinetica corrisponda ad una data temperatura. Vengono poi
calcolate l’energia cinetica media (quindi la temperatura) e la pressione. Una volta

60
3.4 Schematizzazione dell’algoritmo di dinamica
molecolare classica
noti temperatura e pressione iniziale vengono calcolati i fattori di riscalamento
e/o di attrito associati al termostato e al barostato. A questo punto l’algoritmo
calcola le forze su ogni atomo del sistema risolvendo le equazioni del moto ed
aggiorna prima le velocità e poi le coordinate del sistema. Se abbiamo applicato
vincoli geometrici, vengono a questo punto calcolati, e prima le coordinate e poi
le velocità vengono corrette e salvate. L’algoritmo termina dopo che ha compiuto
un certo numero di passi.

Figura 3.6: Schema globale dell’algoritmo di dinamica molecolare

61
Capitolo 4

Studio quantistico dei sistemi a molti


corpi

Una proteina è composta da un grandissimo numero di particelle, nuclei ed


elettroni, e conseguentemente un suo studio teorico a partire da principi primi,
ossia, senza alcuna parametrizzazione delle equazioni, non può evitare l’utiliz-
zo di approssimazioni. Infatti, in linea di principio, dovremmo risolvere l’e-
quazione di Schrödinger per nuclei ed elettroni simultaneamente. Questo mo-
do esatto di procedere è però impraticabile. A partire dall’approssimazione di
Born-Oppenheimer, secondo la quale possiamo assumere i nuclei fissi in una da-
ta configurazione (generalmente quella di equilibrio) per poi focalizzare la nostra
attenzione al problema elettronico, esploreremo alcuni approcci utili allo studio
dell’evoluzione dinamica di sistemi a molti corpi.

4.1 Approssimazione di Born-Oppenheimer

Per un sistema costituito da M nuclei e da n elettroni mutuamente interagen-


ti l’Hamiltoniana totale del sistema include: termini di energia cinetica dovuti

63
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

ai nuclei (TN ) e agli elettroni (Te ), tutte le interazioni elettrone-elettrone (Vee ),


elettrone-nucleo (VeN ) e infine nucleo-nucleo (VNN ). Se consideriamo solo forze
coulombiane l’espressione dell’Hhamiltoniana (nel limite non relativistico) sarà:

Htot = TN + Te +Vee +VeN +VNN =


h̄∇2I h̄∇2 1 e2
= −∑ −∑ I + ∑ +
I 2MI I 2m 2 i6= j |~ri −~r j | (4.1)
zI e2 zI zJ e2
−∑ +∑
i,I |~ri − ~Ri | I6=J |~Ri − ~R j |

dove gli indici i, j si riferiscono agli elettroni e gli indici I, J ai nuclei. E’


conveniente separare l’Hamiltoniana nei seguenti termini

Htot (~r, ~R) = TN (~R) + Te (~r) +V (~r, ~R) (4.2)

dove il termine V (~r, ~R) rappresenta tutte le possibili interazioni tra le particelle del
sistema. Le variabili che compaiono nell’equazione (4.2) sono variabili multidi-
mensionali: ~R è una notazione abbreviata per le 3M coordinate nucleari e simil-
mente ~r è una notazione abbreviata per tutte le coordinate spaziali e di spin degli
elettroni. L’equazione di Schrödinger del sistema è:
h i
TN (~R) + Te (~r)V (~r, ~R) Ψ(~r, ~R) = W Ψ(~r, ~R) (4.3)

Gli autovalori W e le autofunzioni Ψ(~r, ~R) della (4.3) del sistema combinato
elettroni-nuclei sono detti rispettivamente “energie vibroniche” e “funzioni d’on-
da vibroniche” [61]. Classicamente possiamo visualizzare, nella nostra immagi-
nazione, gli elettroni come minuscole particelle leggere che si muovono rapida-
mente attorno ai pesanti nuclei. Questa visione pittoresca della fisica atomica ci
permette di poter fare intuitivamente un’assunzione molto importante. Sapendo
che la massa nucleare è molto più grande di quella elettronica possiamo trattar-
la come infinita. Cosı̀ facendo, l’operatore cinetico nucleare, TN nella (4.2), può

64
4.1 Approssimazione di Born-Oppenheimer

essere trascurato e i nuclei possono essere pensati come “congelati” in qualche


assegnata configurazione ~R. Possiamo dare una stima dell’errore commesso aven-
do trascurato il termine cinetico nucleare. Consideriamo il caso di una funzione
vibronica costruita a partire da funzioni del tipo φ (~r − ~R) che rappresentano un
elettrone legato ad un nucleo posto in ~R.
Il valore di aspettazione degli operatori ∇2R e ∇2r è ovviamente identico, quin-
di, l’energia cinetica media dei nuclei è dell’ordine m/M ≈ 10−3 più piccola che
l’energia cinetica media degli elettroni. Nell’approssimazione di reticolo “fisso”
arriviamo a scrivere la cosiddetta Hamiltoniana elettronica adiabatica He (~r; ~R).
In questo caso la dipendenza dalle coordinate nucleari è solo parametrica. L’e-
quazione agli autovalori per i soli elettroni è:

He (~r : ~R)φn (~r; ~R) = En (~R)ψn (~r; ~R) (4.4)

qui sia le funzioni φn (~r; ~R) che gli autovalori En (~R) dipendono parametricamente
dalle posizioni nucleari. Al variare di ~R gli autovalori En (~R) definiscono la cosı̀
chiamata superficie potenziale adiabatica ed i set φn (~r; ~R) le funzioni d’onda adi-
abatiche elettroniche. Con la presente approssimazione, che va sotto il nome di
approssimazione di Born-Oppenheimer [61], siamo riusciti a separare il problema
elettronico da quello nucleare, cioè, una volta “congelati” i gradi di libertà nucle-
ari possiamo risolvere il problema elettronico come se i nuclei fossero fermi. In
un secondo momento si riconsidera il problema nucleare e si vede l’evoluzione
del sistema in base alle nuove energie elettroniche. Il moto nucleare, a seconda
dei casi, può essere trattato sia classicamente che quantisticamente. Supponendo
una superficie adiabatica En (~R) non degenere (ben separata in energia da tutte le
altre), il sistema esplora il fondamentale foglio adiabatico E0 (~R) e l’equazione
classica del moto nucleare può essere scritta come:

d 2~RI ∂VN ∂ E0
MI 2
=− − (4.5)
dt ∂ ~RI ∂ ~RI

65
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

Nella (4.5) la forza agente su ciascun nucleo risulta costituita da due termini, uno
proveniente dal potenziale inter-ionico, l’altro legato alla variazione del contri-
buto adiabatico elettronico con le posizioni nucleari, cioè se si vuole, la forza di
“trascinamento” attraverso la quale agisce la “colla elettronica”. La derivazione
rigorosa della (4.5) nel limite classico costituisce il contenuto del teorema della
forza o di Hellmann-Feynmann [62]. Nel caso in cui si è obbligati a fare una
trattazione quantistica del moto nucleare otteniamo:
" #
2
h̄ ∂2
− + En (~R) χ(~R) = W χ(~R) (4.6)
2M ∂ ~R2

L’approssimazione di Born-Oppenheimer ci permette di ridurre notevolmente lo


sforzo computazionale per risolvere un problema a molti corpi. Come possiamo
apprezzare, l’originario problema accoppiato aveva dimensioni 3(M + n), invece,
separando il moto elettronico da quello nucleare si riduce a due problemi indipen-
denti di dimensione 3n e 3M, rispettivamente per gli elettroni e per i nuclei. Da
questo momento, trascureremo i nuclei che supporremo in una configurazione di
equilibrio, e faremo uno studio dettagliato del solo sistema elettronico:

He (~r)ψn (~r) = En ψn (~r) (4.7)

Trovare e descrivere soluzioni approssimate all’equazione di Schrödinger per gli


elettroni è un problema molto complesso. Ci troviamo di fronte ad un nuovo
problema a molti corpi: n fermioni interagenti.

4.2 Problema elettronico

Prima di considerare la forma dell’esatta funzione d’onda per un sistema di


elettroni completamente interagenti, guardiamo al caso più semplice di N elettroni

66
4.2 Problema elettronico

non interagenti aventi un’Hamiltoniana:


N
H = ∑ h(i) (4.8)
i=1

dove l’operatore h(i) rappresenta l’energia cinetica e l’energia potenziale dell’i-e-


simo elettrone. Qualora trascurassimo l’interazione elettrone-elettrone, l’Hamil-
toniana dell’intero sistema avrebbe esattamente la forma (4.8). In caso contrario,
l’operatore h(i) potrebbe rappresentare un’Hamiltoniana effettiva one-electron
che, in qualche modo, tenga conto dell’effetto di repulsione tra elettroni.
In questo modo l’operatore h(i) avrà un set ortonormale di autofunzioni che

potremmo considerare un set ortonormale di spin orbitali χ j (~xi ) , dove la va-
riabile ~xi indica in modo abbreviato le coordinate spaziali e di spin dell’i-esimo
elettrone, soluzione dell’equazione agli autovalori:

h(i)χ j (~xi ) = ε j χ j (~xi ) (4.9)

Poiché H è la somma di hamiltoniane one-electron, la funzione d’onda è il risul-


tato di un semplice prodotto di spin orbitali dei singoli elettroni, cioè:

Φ(~x1 ,~x2 , . . . ,~xN ) = χi (~x1 ), χ j (~x2 ), . . . , χk (~xN ) (4.10)

La (4.10) è un’autofunzione dell’Hamiltoniana H, associata all’autovalore E, che


è la somma delle energie dei singoli spin orbitali che compaiono in Φ, cioè:

HΦ = EΦ (4.11)

dove
E = εi + ε j + . . . + εk (4.12)

Una tale funzione d’onda many-electron per la descrizione di un sistema di elet-


troni non interagenti è chiamata prodotto di Hartree, in cui il primo elettrone è
descritto dallo spin orbitale χi , il secondo elettrone da χ j e cosı̀ via.

67
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

L’Hamiltoniana elettronica dipende esclusivamente dalle coordinate spaziali


degli elettroni ma, come è noto, una giusta descrizione di sistemi fermionici im-
plica una corretta descrizione anche dello spin. La funzione d’onda di un sistema
di fermioni deve obbedire al principio di antisimmetria, ossia, la funzione d’onda
deve essere antisimmetrica rispetto ad uno scambio delle coordinate spaziali e di
spin di due elettroni, cioè:

Φ(~x1 , . . . ,~xi , . . . ,~x j , . . . ,~xN ) = −Φ(~x1 , . . . ,~x j , . . . ,~xi , . . . ,~xN ) (4.13)

questo principio è l’espressione più generale del familiare principio di esclusione


di Pauli.
Il prodotto di Hartree non soddisfa il principio di antisimmetria. Il modo cor-
retto, per descrivere la funzione d’onda di un sistema di N fermioni usando gli
spin orbitali χ j , è di scrivere il prodotto di Hartree in una forma correttamente
antisimmetrizzata:
N!
1/2
Φ(~x1 ,~x2 , . . . ,~xN ) = (N!) ∑ (−1) pn Pn{χi(~x1), χ j (~x2), . . . , χk (~xN )} (4.14)
n=1

dove N! è un fattore di normalizzazione, Pn è un operatore che genera l’n-esima


permutazione degli elettroni indicizzati con 1, 2, . . . , N e pn il numero di semplici
scambi richiesto per ottenere tale permutazione. Una maniera formalmente più
elegante di scrivere la (4.13), suggerita da Slater, è quella di usare una notazione
sotto forma di determinante, ottenendo:

χi (~x1 ) χ j (~x1 ) ... χk (~x1 )



χi (~x2 ) χ j (~x2 ) ... χk (~x2 )
Φ(~x1 ,~x2 , . . . ,~xN ) = (N!)−1/2 . .. .. ..
(4.15)
.. . . .


χi (~xN ) χ j (~xN ) ... χk (~xN )

Come si può facilmente verificare, viene rispettato il principio di indistinguibilità


per gli elettroni ed, inoltre, uno scambio di coordinate spaziali e di spin tra due

68
4.3 L’approssimazione di Hartree-Fock

elettroni corrisponde a scambiare due righe del determinante di Slater, ossia, cam-
biare il segno del determinante. Ovviamente, un determinante di Slater è una
soluzione esatta dell’equazione di Schrödinger per un sistema di elettroni non in-
teragenti. Ciò nonostante, data l’ortonormalità degli spin orbitali, i determinanti
di Slater formano una base completa anche per lo spazio di Hilbert per un sistema
di elettroni interagenti, per cui l’esatta funzione d’onda può essere descritta da
una loro combinazione lineare. Il formalismo fin qui descritto è relativo ad una
formulazione di tipo one-electron per il sistema elettronico.
Adesso descriveremo quali sono le approssimazioni e i metodi usati per la
determinazione dell’operatore h(i), con il quale sia possibile scrivere l’equazione
agli autovalori (4.9).

4.3 L’approssimazione di Hartree-Fock

Un primo esempio per la risoluzione del problema many-electron è l’approssi-


mazione di Hartree-Fock. Oltre alla sua importanza storica, questa approssi-
mazione rappresenta, tutt’oggi, sia per i fisici che per i chimici un primo passo ver-
so più accurate approssimazioni. Si consideri un sistema di N elettroni interagenti
descritti dall’Hamiltoniana:

N
1 N e2
H = ∑ hi (~ri ) + (4.16)
i=1 2 i6∑
= j ri j

dove hi rappresenta l’energia cinetica e l’energia potenziale dovuta all’interazione


con i nuclei dell’i-esimo elettrone. Lo scopo è quello di descrivere lo stato fon-
damentale del sistema many-electron con un singolo determinante di Slater. La
migliore scelta possibile per gli spin orbitali, per formare questo stato, è ottenuta
minimizzando l’energia elettronica sfruttando il principio variazionale. Infatti, se

69
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

Ψ0 è l’esatta funzione d’onda di stato fondamentale per il sistema si ha:

hΨ0 |H|Ψ0 i hΦ|H|Φi


E0 = ≤ E[Φ] = (4.17)
hΨ0 |Ψ0 i hΦ|Φi

dove Φ è una funzione di prova, descritta attraverso un determinante di Slater, che


assumiamo essere normalizzata ad uno. La condizione di ortonormalità sugli spin
orbitali presenti nella (4.15) si esprime in tal modo:

hχi |χ j i = δi j (4.18)

dove gli indici i, j rappresentano un insieme di quattro numeri quantici (n, l, ml ,


ms ). Riscriviamo il determinante di Slater in una forma più compatta, cioè:

Φ(q1 , q2 , . . . , qN ) = (N!)1/2 AΦH (4.19)

dove ΦH è il prodotto degli orbitali elettronici:

ΦH (q1 , q2 , . . . , qN ) = χi (q1 )χ j (q2 ), . . . , χk (qN ) (4.20)

L’operatore A che appare nella (4.19) è l’operatore di antisimmetrizzazione:

1 N
A= ∑ (−1) pn Pn
N! n=1
(4.21)

Scegliamo quest’operatore in modo tale che esso sia hermitiano per cui vale A = A2
(operatore proiettivo), ed inoltre che commuti con l’Hamiltoniana.
Calcolando adesso E[Φ] utilizzando le (4.17), (4.19), (4.20), (4.21) e sfruttan-
do le proprietà dell’operatore A, otteniamo:

1
E[Φ] = ∑ Ii +
2∑ ∑[ℑi j − Ki j ] (4.22)
i i j

dove Ii rappresenta il valor medio dell’Hamiltoniana h(~ri ) sull’orbitale elettroni-


co χi . Il primo termine all’interno della parentesi quadra, che prende il nome
di termine diretto, rappresenta il valor medio dell’interazione e2 /ri j nello stato

70
4.3 L’approssimazione di Hartree-Fock

χi (q)χ j (q0 ), dove l’elettrone i-esimo si trova nell’orbitale χi e l’elettrone j-esimo


si trova nell’orbitale χ j . Infine il secondo termine in parentesi quadra, che prende
il nome di termine di scambio, rappresenta l’elemento di matrice dell’interazione
e2 /ri j tra due stati χi (q)χ j (q0 ) e χi (q0 )χ j (q), ottenuti l’uno dall’altro scambiando
gli elettroni i e j. Sia il termine diretto che di scambio sono reali e simmetrici in i
e j.
Applichiamo adesso il principio variazionale, che consiste nell’imporre che
E[Φ] sia stazionario rispetto a variazioni degli orbitali elettronici χi , quando siano
imposti gli N 2 vincoli di ortonormalità (4.18) sugli orbitali elettronici. Per vinco-
lare il funzionale (4.22) introduciamo N 2 moltiplicatori di Lagrange che denoti-
amo con εi j , imponiamo cioè:

δ E − ∑ ∑ εi j δ hχi |χ j i = 0 (4.23)
i j

Osservando la (4.23) si vede che i moltiplicatori di Lagrange possono essere con-


siderati come gli elementi di una matrice Hermitiana. Effettuiamo una trasfor-
mazione unitaria sugli orbitali elettronici:

χi = ∑ Ui j χ j (4.24)
j

dove Ui j sono gli elementi di una matrice unitaria N × N. Il nuovo determinate


di Slater Φ0 formato con gli orbitali (4.24) differirà da quello precedente per un
fattore di fase:
Φ0 = (det U)Φ (4.25)

e poiché U è unitaria, |det U| = 1. Inoltre, il funzionale (4.22) è chiaramente


lasciato invariato da questa trasformazione unitaria. Quindi, poiché ogni matrice
Hermitiana può essere diagonalizzata da una trasformazione unitaria, possiamo
scegliere U in maniera tale che la matrice degli εi j moltiplicatori di Lagrange
diventi diagonale in seguito alla trasformazione unitaria sugli orbitali elettronici.

71
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

Effettuata la diagonalizzazione, l’equazione (4.23) si trasforma:

δ E − ∑ Ei δ hχi |χi i = 0 (4.26)


i

Effettuando esplicitamente la variazione rispetto agli orbitali elettronici, otteni-


amo un sistema di equazioni integro-differenziali per gli orbitali elettronici:
" # " Z #
1 2 Ze2 e 2
− ∇r − χi (q) + ∑ χi∗ (q0 ) 0 2
χ j (q0 )dq0 χi (q)+
2 r j |r − r |
"Z # (4.27)
∗ 0 e2 0 0
−∑ χ j (q ) χi (q )dq = Ei χi (q)
j |r − r0 |2
R
Dove il simbolo di dq implica una integrazione sulle coordinate spaziali r e una
somma sulla coordinata di spin. Le equazioni (4.27) sono note come equazioni di
Hartree-Fock (HF), e possiamo definirle in maniera più compatta, se introduciamo
l’operatore diretto, che è semplicemente il potenziale di repulsione elettrostatica
dovuto al j-esimo elettrone, quando la posizione di questo elettrone sia mediata
nell’orbitale χ j , la cui espressione è:

e2
Z
V jd (q) = χ ∗j (q0 ) χ j (q0 )dq0 (4.28)
|r − r0 |2

Definiamo inoltre l’operatore di scambio in modo tale che quando agisce sugli
orbitali elettronici, si ottenga:
"Z #
e2
V jex (q)χi (q) = χ ∗j (q0 ) χ j (q0 )dq0 χ j (q) (4.29)
|r − r0 |2

Definendo infine il potenziale di HF, come:

Ze2
V (q) = − + ∑ V jd (q) + ∑ V jex (q) (4.30)
r j j

Le equazioni di HF (4.27) assumono la forma:


" #
1 2
− ∇r + V (q) χ(q) = Ei χi (q) (4.31)
2

72
4.3 L’approssimazione di Hartree-Fock

Le (4.31) non sono semplici equazioni agli autovalori, una per ogni orbitale elet-
tronico, poiché lo stesso potenziale di HF dipende dagli orbitali elettronici.
Per risolvere il sistema di equazioni integro-differenziali di HF, si procede per
iterazione. Si parte da orbitali elettronici approssimati (scelta del “basis set” -
vedi Appendice D) e si calcola il potenziale di HF corrispondente. Si risolvono
numericamente le equazioni di HF ottenendo nuovi orbitali che a loro volta deter-
minano un nuovo potenziale di HF. La procedura viene ripetuta finché gli orbitali
elettronici producono un potenziale di HF che è identico (nell’approssimazione
desiderata) al potenziale ottenuto nel passo precedente. Il potenziale di HF ot-
tenuto in questo modo è noto come il campo self-consistent dell’atomo (dello
ione) [50].
Osservando la (4.31) verrebbe spontaneo interpretare Ei come l’autovalore
dell’energia del singolo elettrone, però prendendo il prodotto scalare della (4.28)
con χi , usando le definizioni di Ii , del termine di scambio e del termine diretto,
sommando su i e considerando la (4.22) otteniamo:

1 e2
E[Φ] = ∑ Ei − hΦ| |Φi (4.32)
i 2 i6∑
= j ri j

Si vede dunque che l’energia totale dell’atomo non è la somma delle singole ener-
gie. Ciò è dovuto al fatto che, sommando le energie dei singoli elettroni, ciascuna
energia cinetica e ciascuna energia di interazione con il nucleo viene contata una
volta, mentre l’energia d’interazione mutua, che ha come valor medio il secondo
membro della parte destra della (4.32), è contata due volte. Supponiamo adesso
di rimuovere l’i-esimo elettrone dal sistema, ed assumiamo che gli orbitali del si-
stema con N − 1 elettroni rimangano invariati dopo la rimozione, vediamo che la
differenza tra l’energia totale dei due sistemi è:

EN − EN−1 = Ei (4.33)

73
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

Quindi la quantità Ei rappresenta approssimativamente l’energia richiesta per rimuo-


vere un elettrone dall’orbitale χi , o, in altre parole, l’energia di ionizzazione
dell’elettrone i-esimo. Questo risultato è noto come teorema di Koopman [63].

4.4 Teoria del funzionale densità

La Density Functional Theory (DFT) introduce una importante semplificazio-


ne al problema quanto-meccanico, cosı̀ come presentato nell’equazione di Schrö-
dinger, pur non compromettendo una descrizione da principi primi. Nella DFT
i calcoli delle proprietà atomiche e molecolari sono basati esclusivamente sulla
densità elettronica. Ciò è completamente innovativo e in contrasto con altri meto-
di quanto-meccanici, i quali usano la complicata funzione d’onda ad N elettroni
con la sua dipendenza da 3N coordinate spaziali più N variabili di spin. La DFT è
un potente strumento per descrivere le proprietà strutturali ed elettroniche di una
vasta classe di materiali, atomi, molecole, cristalli semplici e sistemi complessi
(inclusi vetri e liquidi).
Già dalla prima metà del 20-esimo secolo Thomas e Fermi posero le basi per
metodi di calcoli quanto-chimici formulando una teoria basata sulla sola densità
elettronica. In particolare, derivarono un’espressione per l’energia cinetica di un
gas uniforme di elettroni e per l’energia di un atomo. Queste rappresentano le
prime forme di funzionale densità. La novità concettuale di questo lavoro stava
nel fatto che l’energia era data esclusivamente in termini della densità elettronica,
primo passo verso la DFT. Nel 1930 il modello di Thomas-Fermi veniva ulte-
riormente migliorato da quello di Thomas-Fermi-Dirac che rappresentava una sua
naturale estensione includendo un contributo di scambio. Seguirono ulteriori con-
tributi in questo ambito, tra i quali, uno dei più importanti, fu quello di Slater che
presentò un’approssimazione locale dell’energia di scambio. La consacrazione

74
4.4 Teoria del funzionale densità

della DFT arriva nel 1964 con i teoremi di Hohenberg e Kohn [64] i quali posero
le basi per una rigorosa formulazione della DFT come oggi è conosciuta.

4.4.1 Teorema di Hohenberg e Kohn

Consideriamo un sistema di N fermioni interagenti, a cui è associato l’opera-


tore Hamiltoniana:
H = T +Vee +W (4.34)

dove T è la somma dei termini cinetici, Vee è dato da


N N
Vee = ∑ ∑ v(~ri,~r j ) (4.35)
i=1 j=1

ed è un termine relativo all’interazione fra i fermioni, che supporremmo coin-


cidere con il potenziale coulombiano e W è il potenziale esterno, cioè:
N
W = ∑ w(~ri ) (4.36)
i=1

Nel nostro caso l’Hamiltoniana (4.34) coincide con la (4.4), vista nel §4.1 ed il
termine di potenziale esterno non è altro che il potenziale di interazione elettroni-
nuclei, questi ultimi considerati “congelati” in una configurazione assegnata. Il
teorema di Hohenberg e Kohn dà accesso ad alcuni risultati esatti che riguardano
lo stato fondamentale di un sistema di molti elettroni interagenti.

Teorema.

In un sistema costituito da molti elettroni interagenti il valore di aspettazione


nello stato fondamentale di qualunque osservabile fisica è un funzionale unico
della densità elettronica. In particolare l’energia totale del sistema definisce un
funzionale universale che assume il suo valore minimo, pari all’energia dello stato
fondamentale, in corrispondenza del valore della densità elettronica nello stato
fondamentale.

75
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

Dimostrazione.

La soluzione dell’equazione di Schrödinger associata all’Hamiltoniana (4.34)


conduce ad uno stato fondamentale non degenere per un sistema di N elettroni:

H|φs f i = Es f |φs f i (4.37)

Se consideriamo l’insieme W di tutti i possibili potenziali esterni e l’insieme Ψ di


tutte le possibili funzioni d’onda nello stato fondamentale, essendo il potenziale
elettrone-elettrone assegnato, l’equazione di Schrödinger stabilisce una relazione:

C :W →Ψ (4.38)

che, per costruzione, è suriettiva1 , in quanto non esiste alcun elemento di Ψ che
non sia associato ad un elemento di W .
Se adesso consideriamo le densità elettroniche corrispondenti allo stato fon-
damentale:
n(~r) = hφs f |φs f i = φs∗f (~r)φs f (~r) (4.39)

questa definisce una nuova relazione, per definizione ancora suriettiva, tra Φ e
l’insieme di tutte le densità elettroniche N:

C :W →Ψ (4.40)

Dimostriamo adesso che le relazioni C e D sono anche iniettive2 (purché si con-


siderino equivalenti potenziali che differiscano solo per una costante additiva) e,
quindi, biunivoche. Questo ci consentirà di definire una relazione pienamente
invertibile:
(C ◦ D) : W → N, (C ◦ D)−1 : N → W (4.41)
1 Un’applicazione si dice suriettiva (o surgettiva, o una suriezione) quando l’immagine coincide

con il codominio, ovvero quando ogni elemento del codominio è immagine di almeno un punto
del dominio.
2 Un’applicazione si dice iniettiva se associa ad un elemento del codominio un solo elemento

del dominio.

76
4.4 Teoria del funzionale densità

In particolare la relazione (C ◦ D)−1 ci consente di associare a ciascuna densità


di carica n(~r) uno e un solo potenziale esterno. Poiché inoltre il termine cinetico
ed il potenziale di interazione tra gli elettroni sono specificati, questo ci consente
di determinare, essendo nota la densità di carica, l’intera Hamiltoniana e quindi il
valore di aspettazione sullo stato fondamentale di qualunque osservabile, ovvero
di asserire:
hφs f |O|φs f i = O[n] (4.42)

cioè che a qualunque osservabile fisica corrisponde un funzionale unico della


densità, dimostrando cosı̀ la prima parte del teorema.
Cominciamo con il dimostrare che la relazione C è iniettiva. Consideriamo,
per lo stato fondamentale, le equazioni di Schrödinger corrispondenti a due diversi
potenziali esterni, cioè:

(T +W +V )|φs f i = Es f |φs f i
(4.43)
0
(T +W +V )|φs0 f i = Es0 f |φs0 f i

Adesso immaginiamo che, per assurdo, le 4.43 siano soddisfatte dalla stessa fun-
zione d’onda, cioè che:
|φs f i = |φs0 f i (4.44)

In questo caso, sottraendo membro a membro le (4.43), otterremmo:

(W −W 0 )|φs f i = (Es f − Es0 f )|φs f i (4.45)

e quindi, poiché gli operatori W e W 0 sono puramente moltiplicativi, otteniamo:

(W −W 0 ) = (Es f − Es0 f ) = costante (4.46)

I due potenziali esterni differirebbero quindi soltanto per una costante additiva,
e, di conseguenza, sarebbero equivalenti contro l’ipotesi che avevamo assunto.
Abbiamo quindi dimostrato che C associa funzioni d’onda differenti a potenziali
esterni differenti ed è pertanto iniettiva, oltre che suriettiva, e quindi biunivoca.

77
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

Dimostriamo adesso che anche D è iniettiva. Analogamente a quanto fatto so-


pra, immaginiamo che due funzioni d’onda differenti conducano ad una identica
densità di carica. In questo caso, poiché come abbiamo già dimostrato C è biuni-
voca, le due funzioni d’onda devono corrispondere a due potenziali esterni diversi
e quindi a due hamiltoniane differenti, H e H 0 , con:

H = H 0 +W −W 0 (4.47)

Dall’equazione di Schrödinger e dalla (4.45) ricaviamo:

hφs0 f |H|φs0 f i = hφs0 f |H 0 |φs0 f i + hφs0 f |(W −W 0 )|φs0 f i


(4.48)
0 0
hφs f |H|φs f i = hφs f |H |φs f i + hφs f |(W −W )|φs f i

dove:
Z
hφs f |(W −W 0 )|φs f i = d~rφs∗f [w(~r) − w0 (~r)]φs f (~r) =
Z (4.49)
= d~r[w(~r − w0 (~r))]n(~r) = hφs0 f |(W −W 0 )|φs0 f i

quindi i secondi addendi delle equazioni (4.48) sono identici se le due funzioni
d’onda conducono ad uguali densità elettroniche. Allora, sottraendo membro a
membro le due equazioni (4.48) otteniamo l’uguaglianza:

hφs0 f |H|φs0 f i − hφs f |H|φs f i = −[hφs f |H 0 |φs f i − hφs0 f |H 0 |φs0 f i] (4.50)

Sfruttando il principio di Ritz (vedi Appendice E), il quale afferma che il valore
d’aspettazione dell’Hamiltoniana sullo stato fondamentale è minore di quello su
qualunque altro stato appartenente allo stesso spazio di Hilbert, ed avendo suppo-
sto che le funzioni d’onda di stato fondamentale sono differenti, dovremmo avere
contemporaneamente:

hφs0 f |H|φs0 f i − hφs f |H|φs f i > 0 (4.51)

e
hφs f |H 0 |φs f i − hφs0 f |H 0 |φs0 f i > 0 (4.52)

78
4.4 Teoria del funzionale densità

rispettivamente perché |φs f i è lo stato fondamentale di H e |φs0 f i quello di H 0 . E’


evidente come l’equazione (4.50) sia incompatibile con le disequazioni (4.51) e
(4.52) ed è quindi dimostrato che funzioni d’onda differenti debbano comportare
differenti densità di carica, ossia la relazione D è iniettiva e quindi invertibile. In
questo modo abbiamo dimostrato la prima parte del teorema che schematizziamo
in Fig.4.1. A questo punto dimostriamo la seconda parte del teorema. Conside-

Figura 4.1: Illustrazione grafica di alcuni aspetti del teorema di Hohenberg e Kohn. Si dimostra
che le relazioni C e D, definite in maniera da garantirne la suriettività (in alto) sono
anche iniettive e quindi biettive e pienamente invertibili.

riamo il valore d’aspettazione dell’Hamiltoniana, questo definisce un funzionale


della densità di carica elettronica:

EW [n] = hψ|H|ψi (4.53)

essendo specificata n(~r) l’invertibilità della relazione D ci consente di individuare


la funzione d’onda corrispondente. Il funzionale definito nella (4.53) è, per la

79
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

prima parte del teorema, un funzionale unico della densità elettronica. D’altra
parte il principio di Ritz garantisce che:

min hψ|H|ψi = hφs f |H|φs f i = Es f (4.54)


ψ∈Ψ

dunque, per la (4.53), il funzionale E[n] assumerà il suo valore minimo in cor-
rispondenza della densità di carica ns f (~r) e tale valore sarà appunto l’energia dello
stato fondamentale. Riscritto in formule otteniamo:

min EW [n] = Es f (4.55)


n∈N

Una conseguenza immediata del teorema di Hohenberg e Kohn è che il funzionale


corrispondente a campo esterno nullo, W = 0, è un funzionale universale della
densità elettronica, nel senso che è indipendente dal potenziale esterno, cioè:

FHK [n] = hψ|(T +V )|ψi (4.56)

Analizziamo alcune conseguenze di questo teorema:

1. Il teorema di Hohenberg e Kohn si limita ad asserire l’esistenza di un fun-


zionale universale della densità elettronica ma non lo determina affatto. In
linea di principio occorrerebbe conoscere la soluzione generale (ovvero per
qualunque campo di densità elettronica n(~r)) di almeno un problema mo-
dello per determinare completamente il funzionale (4.56) e quindi costruire
il funzionale (4.55) attraverso la relazione:
Z
EW [n] = FHK [n] + hψ|W |ψi = FHK [n] + d~rw(~r)n(~r) (4.57)

Purtroppo non si conosce la soluzione generale se non nel limite in cui la


densità elettronica è costante.

2. Il teorema di Hohenberg e Kohn riguarda soltanto le proprietà di stato fon-


damentale di sistemi stazionari: non è possibile quindi trarre da esso in-
formazioni su stati eccitati o su transizioni dipendenti dal tempo. Questo

80
4.4 Teoria del funzionale densità

genere di problemi può essere trattato con successo in maniera perturbativa


a partire dai risultati della teoria di Hohenberg e Kohn [65].

3. Il risultato centrale della teoria di Hohenberg e Kohn richiederebbe la mini-


mizzazione diretta di un funzionale (4.54). Una simile formulazione è spes-
so poco conveniente dal punto di vista numerico e, nella pratica, è stata
raramente implementata [66].

4.4.2 Lo schema di Kohn e Sham

Lo schema di calcolo suggerito dal teorema di Hohenberg e Kohn richiede la


minimizzazione diretta di un funzionale ed è quindi computazionalmente difficile.
La riformulazione variazionale del problema proposta da Kohn e Sham [67], oltre
a consentire una più semplice implementazione numerica della teoria, permette
anche di chiarire ulteriormente il contenuto fisico. Inoltre la ricerca della densità
di carica che minimizza il funzionale dell’energia, implica, anche, la conoscenza
del funzionale dell’energia cinetica, per il quale però non si conosce una semplice
approssimazione in termini della sola densità elettronica. Lo schema di Kohn e
Sham reintroducendo qualche informazione sulla funzione d’onda elettronica ci
permette di approssimare questo termine.
Consideriamo un sistema, che per semplicità chiamiamo reale, costituito da N
fermioni interagenti e descritto dall’Hamiltoniana (4.34), ed un sistema ausiliario
di N particelle non interagenti in un campo esterno, descritto quindi dall’Hamil-
toniana:
H 0 = T +W 0 (4.58)

Lo schema di Kohn e Sham è basato sull’assunzione che, per ciascun sistema di


fermioni interagenti, esista un opportuno potenziale esterno locale W 0 tale che la
densità elettronica del sistema interagente, n(~r), sia uguale a quella del sistema

81
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

non interagente, cioè:


n(~r) = n0 (~r) (4.59)

in particolare l’equazione di Kohn e Sham consente di determinate W 0 . E’ ora


chiaro che se esiste un sistema non interagente con le caratteristiche richieste,
dal teorema di Hohenberg e Kohn segue che esso debba anche essere unico (al-
trimenti, esisterebbero più di un funzionale per il sistema reale). Assumiamo
che tale sistema non interagente esista, ed inoltre assumiamo che tanto il sistema
reale quanto quello ausiliario posseggano uno stato fondamentale non degenere,
quest’ultima condizione non è necessaria, ma ci permette di rendere più semplice
la discussione.
La validità della (4.59) comporta che la densità di carica di entrambi i sistemi
possa essere espressa come la somma di densità di carica a particella singola, cioè:
N
n(~r) = n0 (~r) = ∑ |φi (~r)|2 (4.60)
i=1

dove la somma comprende le autofunzioni corrispondenti agli N autovalori più


bassi ottenuti risolvendo l’equazione di Schrödinger a particella singola:
" #
h̄ ∂ 2 0
− + w (~r) φi (~r) = εi φi (~r) (4.61)
2m ∂~r2

dove (ε1 < ε2 < . . . < εN ) (4.62)

Il funzionale di Hohenberg e Kohn associato al sistema ausiliario è:


Z
0 0
E [n] = T [n] + d~rw0 (~r)n(~r) (4.63)

dove T 0 [n] è il funzionale associato all’energia cinetica. Per costruzione E 0 [n]


assume valori identici al funzionale di Hohenberg e Kohn associato al sistema
reale:
Z
E[n] = FHK [n] + d~rw(~r)n(~r) (4.64)

82
4.4 Teoria del funzionale densità

Poiché il sistema “non interagente” deve essere unico, ciascuna autofunzione


soluzione della (4.61) dovrà, a sua volta, essere un funzionale unico della densità
n(~r), cioè:
φi (~r) = φi ([n],~r) (4.65)

ed in conseguenza della (4.63) anche l’energia cinetica “non interagente” sarà un


funzionale unico della densità:
" #
N 2 2

Z

T 0 [n] = ∑ d~rφi∗ (~r) − φi (~r) (4.66)
i=1 2m ∂~r2

Adesso riscriviamo il funzionale di Hohenberg e Kohn per il sistema reale, ag-


giungendo e sottraendo opportune quantità, come segue:
Z
0
E[n] = T [n] + d~rw(~r)n(~r)+
(4.67)
1
Z Z
0 0 0
+ d~r d~r n(~r)v(~r,~r )n(~r ) + EXC [n]
2
L’equazione (4.64) insieme alla (4.67) definiscono il funzionale di scambio e
correlazione:

1
Z
EXC [n] = FHK [n] − d~r0 n(~r)v(~r,~r0 )n(~r0 ) − T 0 [n] (4.68)
2

Da questa definizione possiamo evincere che, come il funzionale di Hohenberg e


Kohn, anche il funzionale di scambio e correlazione è un funzionale unico della
densità di carica.
Allo scopo di trovare il potenziale esterno cercato per il sistema ausiliario,
W 0 , imponiamo che (come deve essere in prossimità di un minimo) la variazione
prima di E[n] sia nulla:
δ E[n] = 0 (4.69)

usando la (4.67) otteniamo:


Z  Z 
0 0 0 0
δ T [n] + d~rδ n(~r) w(~r) + d~r n(~r )v(~r,~r ) + vXC ([n],~r) = 0 (4.70)

83
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

dove abbiamo introdotto il potenziale di scambio e correlazione definito come:

δ EXC [n]
vXC ([n],~r) = (4.71)
δ (~r)

Calcoliamo la variazione prima del termine cinetico:


" !#
h̄2 N 2 φ (~r) 2 δ φ (~r)
Z
∂ i ∂
δ T 0 [n] = − ∑ d~r δ φ ∗ (~r) + φ ∗ ~r =
2m i=1 ∂~r2 ∂~r2
" !#
h̄2 N
Z
∂ 2 φ (~r) ∂ 2 φ ∗ (~r)
i
=− ∑ d~r δ φ ∗(~r) ∂~r2 + δ φ (~r) ∂~r2
2m i=1
=
" #
NZ
=∑ d~r δ φ ∗ (~r)(εi − w0 (~r))φi (~r) + δ φi (~r)(εi − w0 (~r))φi∗ (~r) =
i=1
N Z
d~r εi − w0 (~r) δ |φi (~r)|2 =
 
=∑
i=1
N Z N Z
= ∑ εi δ 2
d~r|φi (~r)| − ∑ d~rw0 (~r)δ |φi (~r)|2
i=1 i=1
(4.72)

Per la prima uguaglianza nella (4.72) abbiamo fatto uso del secondo teorema
di Green e nella sceonda abbiamo sostituito l’equazione (4.61) e la sua com-
plessa coniugata. Osserviamo che, in conseguenza della normalizzazione delle
funzioni d’onda di particella singola, il primo termine dell’ultima uguaglianza è
nullo. Cosı̀, utilizzando la (4.60), troviamo che la variazione del termine cinetico
si riduce a:
N Z
δ T 0 [n] = − ∑ d~rw0 (~r)δ n(~r) (4.73)
i=1

Inserendo quest’ultima relazione nella (4.69) o nella (4.70) e tenendo conto del
fatto che le variazioni δ n(~r) sono arbitrarie, otteniamo finalmente l’equazione che
ci fornisce il potenziale esterno cercato per il sistema non interagente:
Z
0
w (~r) = w(~r) + d~r v(~r,~r0 )n(~r0 ) + vXC ([n],~r) (4.74)

84
4.4 Teoria del funzionale densità

in termini del potenziale esterno e del potenziale colombiano per il sistema reale
oltre che del potenziale di scambio e correlazione. Dalla (4.74) risulta evidente
che il potenziale w0 è esso stesso un funzionale della densità elettronica.
Lo schema di Kohn e Sham consiste nel risolvere l’equazione (4.61) per una
particella singola con la prescrizione (4.74) per w0 . Questa quantità può quindi es-
sere interpretata come un potenziale efficace a particella singola, in quanto ci con-
sente di ottenere le proprietà di un sistema interagente attraverso un’equazione di
Schrödinger a particella singola. In altre parole w0 contiene, risommata, tutta l’in-
formazione relativa alle complicate interazioni a molti corpi presenti nel sistema
reale. Il risultato di questa risomma è che il potenziale w relativo all’interazione
di un elettrone con i nuclei viene indebolito, schermato, dalla presenza della ca-
rica negativa di tutti gli altri elettroni del sistema. Per questa ragione w0 , che
pure dipende localmente da ~r, deve possedere anche una dipendenza funzionale
dal campo della densità, in modo da poter incorporare l’effetto delle interazioni
con tutti gli altri fermioni del sistema. Inoltre l’energia di scambio e correlazione
(4.68) contiene la differenza tra l’energia cinetica del sistema vero e quella del
sistema non interagente (presumibilmente piccola) [66].
Dalla minimizzazione del funzionale dell’energia, tenendo conto del vincolo
sulla densità (4.60), e imponendo che la densità sia ottenuta attraverso un sistema
associato di elettroni non interagenti, otteniamo un’equazione one-electron per gli
orbitali a singola particella detta equazione di Kohn e Sham [68]:
" #
1 2
− ∇i + w0 (~r) φi (~r) = εi φi (~r) (4.75)
2

L’equazione (4.75) è un’equazione agli autovalori per un operatore non lineare.


Infatti, come si può vedere dalle espressioni (4.71) e (4.74), l’operatore Schrödin-
ger-like dipende esso stesso dalle soluzioni. Quindi in modo analogo all’ap-
prossimazione di Hartree-Fock, si ha nuovamente un problema self-consistent agli

85
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

autovalori risolto con la seguente procedura:

1. Si parte da una densità di carica iniziale o, equivalentemente, da un poten-


ziale efficace di Kohn e Sham w00 .

2. Si determina il set degli N singoli orbitali elettronici che soddisfano l’e-


quazione (4.75).

3. Si costruisce la nuova densità a partire dall’equazione (4.60).

4. Si costruisce il nuovo potenziale efficace w01 .

5. Se |w01 − w00 | è più grande di un pre-assegnato (piccolo) valore si torna al


secondo passo e cosı̀ via fino alla convergenza.

Bisogna evidenziare un aspetto molto importante. Gli stati di Kohn e Sham che
si ottengono risolvendo l’equazione (4.75) sono quegli stati che serviranno per la
costruzione del determinante di Slater relativo alla descrizione dello stato fonda-
mentale del sistema di riferimento. Quest’ultimo condivide con il sistema vero
soltanto la densità di carica dello stato fondamentale e nient’altro. Tutto ciò
ci impedisce di dare un significato fisico ai singoli stati di Kohn e Sham che
possono essere visti esclusivamente come uno strumento matematico di ausilio
per la risoluzione del problema originario. Ciò premesso a volte essi vengono
interpretati come stati a singola particella in un campo medio.

4.4.3 Il funzionale di scambio e correlazione

Come abbiamo visto nella precedente sezione lo schema di Kohn e Sham non
introduce alcuna approssimazione in quanto, l’errore commesso nella valutazione
del funzionale dell’energia cinetica, viene trasferito e risommato nella grandezza
EXC . Cosı̀ facendo, la teoria del funzionale densità continua ad essere una teoria
esatta.

86
4.4 Teoria del funzionale densità

Adesso è possibile distinguere due casi: un primo caso in cui viene fatta
l’ipotesi che il funzionale di scambio e correlazione sia esatto e corrispondente
alla situazione reale in cui si dispone soltanto di un’approssimazione di tale fun-
zione. Il risultato ottenuto con il funzionale esatto, EXC , coinciderebbe con la
corretta soluzione per lo stato fondamentale dell’equazione di Schrödinger per il
sistema di elettroni interagenti. L’esatta forma del funzionale di scambio e cor-
relazione, però, non è nota ma, anche se lo fosse, probabilmente sarebbe molto
complessa e soprattutto avremmo una dipendenza non-locale dalla densità. La
qualità dei calcoli DFT dipende esclusivamente dalla qualità dell’approssimazione
del funzionale di scambio e correlazione e la risultante energia di scambio e
correlazione.
Sfortunatamente non esistono delle strategie da seguire per ottenere e miglio-
rare la forma del funzionale EXC , comunque, ci sono alcuni vincoli fisici che un
funzionale della densità deve rispettare. Queste regole possono essere usate come
linee guida per lo sviluppo del funzionale di scambio e correlazione. Tra queste ri-
cordiamo, ad esempio, le regole di somma per le buche di scambio e correlazione
(una buca di scambio e correlazione descrive lo svuotamento rinormalizzato del-
la densità elettronica nello spazio quando, piuttosto che elettroni indipendenti, si
considerano elettroni interagenti).
Una delle approssimazioni più usate per il potenziale di scambio e correlazione
è la Local Density Approximation (LDA) [68]. Qui il funzionale EXC viene calco-
lato assumendo che, l’energia di scambio e correlazione di un punto dello spazio
con una data densità elettronica è uguale all’energia di scambio e correlazione,
εXC [n(~r)], di un gas omogeneo di elettroni alla stessa densità. Integrando nello
spazio si ha
Z
EXC = εXC [n(~r)]n(~r)d~r =
Z Z (4.76)
= εX [n(~r)]n(~r)d~r + εc [n(~r)]n(~r)d~r

87
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

La parte di scambio εX [n(~r)] viene espressa sulla base del risultato teorico di Bloch
e Dirac:
r
3 3 3n(~r)
εX [n(~r)] = (4.77)
4 π

e viene chiamato scambio di Slater data la somiglianza con l’approssimazione


di Slater per lo scambio in Hartree-Fock. Per il termine di correlazione, invece,
non esistono espressioni esplicite, ma il suo valore viene ricavato di volta in volta
fittando i risultati di calcoli energetici per gas omogenei di elettroni.
Calcoli DFT, usando LDA per il funzionale di scambio e correlazione, por-
tano a risultati in buon accordo con gli esperimenti. In particolare, le proprietà
strutturali e vibrazionali dei solidi sono accuratamente descritte: si trova che la
corretta struttura cristallina è quella con la più bassa energia. La lunghezza di
legame, il modulo di bulk e le frequenze fononiche sono in accordo con gli espe-
rimenti con un errore di pochi punti percentuali. Nonostante ciò, LDA presenta
anche degli svantaggi. Si sovrastima (di ∼ 20% e anche più) l’energia di coesione
e conseguentemente si ha una sottostima della lunghezza di legame rispetto al va-
lore sperimentale. In alcuni sistemi (covalenti, metallici e ionici ad esempio) tali
errori risultano poco importanti per cui, angoli e lunghezze sono calcolati con un
errore di pochi punti percentuali. In altri sistemi (sistemi debolmente legati in cui
si hanno legami ad idrogeno e/o di Van der Waals) questi errori sono molto impor-
tanti. Per i semiconduttori si sottostima il gap energetico tra la banda di valenza e
la banda di conduzione. Infine, la densità elettronica del sistema risulta essere più
omogenea rispetto a quella effettiva.
Sono state sviluppate nuove approssimazioni per EXC che migliorano l’infor-
mazione sulla densità locale contenuta in LDA con una misura dell’inomogeneità
locale del sistema data da
|∇n(~r)|
s(~r) = (4.78)
n(~r)4/3

88
4.5 Dinamica molecolare ab initio

Queste nuove approssimazioni dette Gradient Corrected (GC) hanno la forma


generale:
Z
GC LDA
EXC = EXC + f (n(~r), s(~r))d~r (4.79)

Funzionali GC portano ad una migliore valutazione per le energie atomiche ed


energie di legame rispetto a LDA con un modesto addizionale sforzo computazio-
nale. In particolare portano ad una buona descrizione dei legami deboli come, ad
esempio, il legame idrogeno.
Uno dei primi funzionali di scambio, appartenente alla famiglia dei GC, fu
proposto da Becke [69] e prende il nome di B88. Della stessa famiglia fa parte
il funzionale di correlazione proposto da Lee, Yang e Parr [70], noto come LYP,
che viene spesso utilizzato in combinazione con il funzionale B88, dando luogo
al funzionale BLYP. Un ulteriore perfezionamento del BLYP è il B3LYP [71] (o
BLYP a 3 parametri), un funzionale ibrido di scambio e correlazione costruito
come una combinazione di più termini:

B3LY P
EXC = (1 − a)ExLDA + aEXexact + b∆EXB88 + (1 − c)ECLDA + cECLY P (4.80)

I tre parametri, a, b e c, vengono ottenuti fittando dati sperimentali di gas nobili e


sono a = 0.20, b = 0.72, c = 0.81.
Analisi comparative hanno mostrato che per sistemi di media-piccola grandez-
za il funzionale B3LYP è il più efficiente nel descrivere le proprietà fisiche e
chimiche quali entalpia di formazione, energia di ionizzazione, energia di pro-
tonazione e geometrie ottimizzate [51].

4.5 Dinamica molecolare ab initio

Nel 1985 Car e Parrinello [72] proposero un approccio radicalmente innovati-


vo, detto dinamica molecolare ab initio, per lo studio di sistemi composti da ioni

89
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

ed elettroni e fondato tanto sulla teoria del funzionale della densità (DFT), quanto
sulla dinamica molecolare classica (MD).
Abbiamo già visto che la MD richiede un modello per il potenziale relativo al-
l’interazione efficace classica tra gli atomi. Il metodo di Car e Parrinello (CP) è, al
contrario, in grado di determinare ab initio, ovvero a partire da una descrizione mi-
croscopica in termini di interazioni fondamentali, le interazioni atomiche efficaci.
Nella CP vengono assunte la validità dell’approssimazione di Born-Oppenheimer
e la possibilità di descrivere in maniera classica i gradi di libertà relativi ai nu-
clei. Di conseguenza si ottengono equazioni classiche per il moto dei nuclei che
contengono l’accoppiamento con gli elettroni attraverso un termine di forza di
Hellmann-Feynmann. Gli elettroni, invece, vengono descritti nello schema di
Kohn e Sham in termini di funzioni d’onda a particella singola, ψi , con la densità
di carica fornita dalla 4.60:
N
n(~r) = ∑ |ψi (~r)|2 (4.81)
i=1

La descrizione del sistema ioni ed elettroni interagenti è fatta introducendo una


pseudodinamica generata dalla lagrangiana fittizia:
1 1 1
Z
L= µ∑ |ψ̇i |2 d 3~r + ∑ MI Ṙ2I + ∑ µv α̇v2 − E[{ψi } , {RI } , {αv }] (4.82)
2 i 2 I 2 v
dove µ è una massa fittizia associata ai gradi di libertà elettronici, MI sono le
masse ioniche, mentre E è uguale a:
" #
h̄2 2
Z
∗ 3
E[{ψi }, {RI }, {αv }] = ∑ ψ (~r)d ~r − ∇ ψi (~r)+
i 2m (4.83)
+U[n(~r), {RI }, {αv })]

con {RI } sono indicate le coordinate nucleari e {αv } sono tutti i possibili vincoli
esterni imposti sul sistema, come il volume, etc. Il funzionale U contiene la re-
pulsione internucleare coulombiana e l’energia potenziale elettronica efficace, che
include i nuclei esterni e i contributi di scambio e correlazione.

90
4.5 Dinamica molecolare ab initio

Le ψi sono soggette ai vincoli olonomi (cioè indipendenti dal tempo):


Z
ψi∗ (~r,t)ψ j (~r,t)d 3~r = δi j (4.84)

La lagrangiana (4.82) genera una dinamica per {ψi }, {RI } e {αv } le cui equazioni
del moto sono
δE
µ ψ̈(~r,t) = − + Λik ψk (~r,t) (4.85)
δ ψi∗ (~r,t) ∑
k

MI R̈I = −∇RI E (4.86)


∂E
µv α̈v = − (4.87)
∂ αv
dove Λik sono moltiplicatori di Lagrange introdotti per soddisfare i vincoli (4.84).
La dinamica ionica (4.86) descrive realmente il moto ionico nell’approssimazione
di Born-Oppenheimer, mentre le dinamiche associate con le (4.85) e (4.87) sono
fittizie e non hanno nulla a che vedere con la dinamica reale dei gradi di libertà
elettronici e dei vincoli. La lagrangiana CP definisce un’energia potenziale E e un
energia cinetica classica K data da:

1 1 1
Z
K = Kel + Kion = µ ∑ |ψ̇i |2 d 3~r + ∑ MI Ṙ2I + ∑ µv α̇v2 (4.88)
2 i 2 I 2 v

Possiamo calcolare il valore d’equilibrio dell’energia cinetica classica come una


media temporale sulle traiettorie generate dall’equazioni del moto (4.85-4.87) e
collegarle alla temperatura del sistema attraverso un’adatta normalizzazione. E’
allora possibile fissare un temperatura fittizia iniziale T > 0 e assegnare le po-
sizioni iniziali degli ioni; a questo punto integriamo passo dopo passo le equazioni
(4.85) e (4.86) e “raffreddiamo” progressivamente il sistema, cioè variamo le ve-
locità del sistema, e facciamo tendere a zero la temperatura fittizia. Una volta
raggiunta T = 0, l’energia cinetica sarà nulla e si avrà contemporaneamente:

ψ̈i = 0 e R̈I = 0 (4.89)

91
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

cosı̀ che le equazioni (4.85) e (4.86) garantiranno il raggiungimento del minimo


per il funzionale elettronico e il raggiungimento delle posizioni di equilibrio per
gli ioni. All’equilibrio la (4.85) è identica, entro una trasformazione unitaria, al-
l’equazione di Kohn e Sham (4.75), e gli autovalori della matrice Λ coincidono
con gli autovalori di Kohn e Sham degli orbitali occupati. Solo quando queste
condizioni sono soddisfatte la lagrangiana CP descrive un sistema fisico reale. In
pratica il sistema viene condotto per mezzo di una tecnica detta di Dynamical
Simuleated Annealing (DSA) verso il minimo assoluto dell’energia totale, ioni-
ca ed elettronica, del sistema, consentendo la determinazione simultanea delle
posizioni di equilibrio per gli ioni e delle proprietà elettroniche a T = 0.

La DSA è una delle possibili realizzazioni del cosidetto metodo del Simuleated
Annealing che serve per risolvere problemi complessi di minimizzazione, in cui
una funzione oggetto O({β }) è minimizzata rispetto al parametro {β }, generando
una successione di configurazioni {β } con una distribuzione di probabilità con
peso alla Boltzmann attraverso una procedura Monte Carlo. Per T → 0 lo stato
con il più basso O({β }) viene raggiunto senza che il sistema resti intrappolato
all’interno di uno stato metastabile.

Nel caso della CP la funzione O è il funzionale energia totale e i parametri


variazionali sono i coefficienti dell’espansione di Kohn e Sham sugli orbitali,
scelta una base conveniente, e le posizioni ioniche e/o le {αv }. Car e Parrinel-
lo hanno visto che il Simulated Annealing basato su MD, piuttosto che sul metodo
Monte Carlo, esplora lo spazio delle fasi in modo più efficiente nel caso del fun-
zionale di Kohn e Sham. Inoltre quest’approccio permette di studiare le proprietà
del sistema anche ad una temperatura finita.

Un’ulteriore evoluzione del metodo CP prevede l’accoppiamento di elettroni


e ioni a due differenti termostati di Nosé-Hoover, che mantengono i due sotto-
sistemi a due temperature differenti, Tel e Tion . Poiché l’accoppiamento tra i due

92
4.6 Metodi ibridi QM/MM

sottosistemi è adiabatico, è possibile mantenere Tel sempre piccola, pur lasciando


finita Tion . Questo consente, in pratica, di simulare l’evoluzione dinamica degli
ioni a temperatura finita, mantenendo, ad ogni istante di tempo nel corso della
simulazione, il sottosistema elettronico in prossimità del minimo del funzionale
della densità corrispondente alla posizione degli ioni allo stesso tempo.

4.6 Metodi ibridi QM/MM

Spesso quando il sistema che vogliamo studiare è una molecola biologica co-
me un peptide è necessario tener conto anche dell’interazione con il solvente o
con altre molecole biologiche. In questo caso il sistema è troppo grande perchè
si possa trattare con un approccio quantomeccanico. Spesso si tenta di simulare
il sistema, adoperando un modello ridotto dello stesso, per esempio simulando
esclusivamente il sito catalitico o di legame ad un metallo, ed escludendo il resto.
Ciò però non tiene in considerazione le interazioni con il resto del sistema che
possono determinare cambiamenti strutturali importanti, per esempio quando c’è
una interazione con il substrato, o tra proteine e solvente. Potremmo pensare di
utilizzare la dinamica molecolare classica per studiare tali sistemi nella loro in-
terezza, ma, come abbiamo visto, questi metodi si basano sulla conoscenza e sulla
giusta parametrizzazione del ff. Inoltre con i metodi classici non siamo in grado di
descrivere neppure in maniera approssimata la rottura e la formazione di un lega-
me chimico. Per questo motivo negli ultimi anni sono stati sviluppati metodi ibridi
detti QM/MM (Quantum Mechanics/Molecular Mechanics) che suddividono il si-
stema in due parti trattando una parte mediante metodi QM e una parte mediante
una metodologia classica MM.
Lo sviluppo dei metodi ibridi QM/MM, che ha inizio con gli studi di Warshel e
Levitt [73] e di Singh e Kollman [74], segue come linea generale l’idea che un si-

93
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

stema composto da centinaia o migliaia di atomi possa essere suddiviso (Fig.4.2)


in una regione elettronicamente “importante” che richiede un trattamento quan-
tomeccanico e che la parte rimanente agisce sulla prima in modo perturbativo e
ammetta una descrizione classica. La perturbazione può essere sia meccanica, ad

Figura 4.2: Schematizzazione della partizione

esempio quando le forze della regione classica costringono la regione quantisti-


ca in una particolare geometria, e includere effetti elettronici come interazione
elettrostatica e polarizzazione. In teoria la divisione tra le due regioni potrebbe
sembrare piuttosto semplice e netta ma raramente è possibile scrivere l’Hamil-
toniana totale del sistema in termini di due sottosistemi non interagenti. Molto
spesso infatti le interazioni tra i due sottosistemi sono abbastanza forti da rendere
necessari dei trattamenti particolari nella zona di confine tra la QM e la MM. For-
malmente, la partizione può essere fatta dividendo l’Hamiltoniana e le risultanti
energie in tre parti:
Htot = HQM + HMM + HQM/MM (4.90)

Etot = EQM + EMM + EQM/MM (4.91)

Il problema principale con lo schema QM/MM deriva dal termine d’interazione


fra le due regioni (HQM/MM ). La situazione più semplice è quando le due regioni

94
4.6 Metodi ibridi QM/MM

non sono connesse da legami covalenti; mentre nel caso in cui le due regioni siano
connesse da legami covalenti la situazione si complica notevolmente.
Il livello più basso d’interazione è detto mechanical embedding. In questo
caso, solo le energie steriche e di bond delle due regioni sono incluse nei termini
d’interazione, cioè, gli atomi QM sentono forze aggiuntive generate dalla struttura
MM, e vice versa, ma non c’è nessuna interazione tra le parti elettroniche delle
due regioni. Ad ogni atomo QM sono associati dei parametri di Van der Waals che
sono utilizzati in un’espressione simile a quella già vista nel caso della dinamica
molecolare classica, (modellizzata attraverso un potenziale di tipo LJ), cioè:
" !12 !6 #
N M σi j σi j
HQM/MM = ∑ ∑ 4εi j − (4.92)
i j |~Ri −~r j | |~Ri −~r j |

dove l’indice i è associato ai nuclei della regione QM, j agli atomi della regione
MM, ~Ri è il vettore posizione associato all’i-esimo nucleo QM ed ~r j è il vettore
posizione associato al j-esimo atomo MM. Se le due regioni sono unite da legami
chimici ci sono dei termini aggiuntivi corrispondenti alle interazioni di stretching
e bending. Il modello di accoppiamento meccanico è un utile livello di approssi-
mazione quando le funzioni d’onda della regione QM non sono modificate dai
cambiamenti nella regione MM.
Il livello successivo di approssimazione è detto electronic embedding, dove gli
atomi nella regione MM possono polarizzare la regione QM. Le cariche parziali
sugli atomi MM possono essere inserite nell’Hamiltoniana QM e gli atomi QM
sentono il potenziale elettrico dovuto a tutti gli atomi MM, cioè:
n M qj N M Zi q j
HQM/MM = − ∑ ∑ +∑∑ (4.93)
l j |~xl −~r j |
~
i j |Ri −~r j |

dove q j è la carica parziale associata agli atomi MM, ~xl è il vettore posizione as-
sociato all’l-esimo elettrone QM e Zi è la carica associata all’i-esimo nucleo QM.
Questo livello di approssimazione tiene conto di quei cambiamenti geometrici nel-

95
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

la regione MM che hanno effetto sulla regione QM, cioè accoppiano la funzione
d’onda QM alla geometria MM.
Un ulteriore termine può essere incluso assumendo che gli atomi QM polar-
izzano anche la regione MM, cioè il campo elettrico generato dalla regione QM
influenzi il momento elettrico MM. Questo termine prende il nome di polarizable
embedding, e richiede naturalmente uno sforzo computazionale aggiuntivo, dato
che necessita di una procedura doppiamente iterativa dovuta al fatto che tanto il
campo elettrico della regione QM quanto quello MM devono essere determinati
in maniera auto consistente.
La maggior parte dei metodi QM/MM implementati a tutt’oggi utilizzano l’ap-
prossimazione electronic embedding; l’unica eccezione è il metodo dei frammenti
effettivi, dove sia il momento di quadrupolo che le polarizzabilità sono incluse per
gli atomi MM [51].

Figura 4.3: Schema delle regioni QM e MM divise da un legame covalente

La Fig.4.3 presenta schematicamente la situazione in cui è presente un legame


ad esempio di tipo covalente tra gli atomi delle regione QM e quelli nella regione
MM. In generale deve essere conservata sia la valenza della regione QM che la

96
4.6 Metodi ibridi QM/MM

geometria del sistema MM. In generale si tenterà di scegliere la regione di con-


nessione in modo che non ci siano legami covalenti tra i due sottosistemi, ma è
facile immaginare che la maggior parte dei sistemi organici non siano riducibili a
questa categoria. Nei casi in cui ci sono legami o forti interazioni ioniche tra i sot-
tosistemi è necessario introdurre particolari accorgimenti per i calcoli QM come
ad esempio i link atoms o particolari condizioni per la boundary region (regione
di confine). Oltre a queste metodologie più comunemente utilizzate sono stati
sviluppati altri metodi come il metodo EVB [75], il metodo EFP [76] e il metodo
GHO [77].

La prima descrizione della rappresentazione di legame covalente tra un atomo


nella regione QM e uno nella regione MM venne effettuata da Warshel e Levitt
che utilizzarono degli orbitali ibridi sull’atomo MM [73].

L’approccio più comunemente utilizzato per trattare la terminazione di siti che


presentano legami covalenti è il metodo dei link atoms [73] schematizzato nella
Fig.4.4. In questo metodo vengono introdotti atomi fittizi che formano un legame

Figura 4.4: Schema del link atoms

covalente interno alla regione QM in modo da mimare il legame con la regione


MM. Questi atomi legati soddisfano la valenza degli atomi QM.

97
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

L’atomo di idrogeno è il più utilizzato a questo scopo che viene inserito lungo
il legame QM/MM che è stato rotto. Possono essere utilizzati anche altri atomi
o gruppi funzionali come gli alogeni o i gruppi metile. I link atoms sono trattati
in maniera esatta nei calcoli QM ma non è permesso loro di interagire con gli
atomi MM (è come se risultassero invisibili agli atomi MM), l’energia e le forze
risultano dai termini energetici di legame. I termini elettrostatici e di Van der
Waals che si considerano di non-legame sono trattati separatamente:

1. le interazioni di Van der Waals nella regione tra QM e MM sono determinati


come se l’intero sistema fosse classico;

2. l’energia di interazione elettrostatica è ottenuta da calcoli quantomeccanici


sugli atomi QM insieme ai link atoms in presenza di tutte le cariche parziali
MM escluse quelle prodotte dai link atoms.

Chiaramente il metodo rappresenta solo un approccio approssimato perché


viene introdotta una perturbazione nel sistema, ma si dimostra particolarmente
utile quando i link atoms sono relativamente lontani rispetto agli atomi che parte-
cipano a reazioni chimiche e/o a legami con substrati.
Un altro tipo di approccio molto utilizzato tratta i legami costringendo la
soluzione a tener conto dei legami che precedentemente sono stati omessi. Un
primo metodo di questo tipo è il cosiddetto local self-consistent field (LSCF)
[78] che utilizza orbitali di legame localizzati o (frozen orbital) ottenuti attraverso
un’adeguata parametrizzazione degli orbitali lungo il legame QM/MM (Fig.4.5).
Il metodo LSCF è un modo piuttosto elegante per terminare la distribuzione di ca-
rica nella regione QM senza introdurre atomi aggiuntivi nel sistema, ma i calcoli
[79] sull’energia dimostrano che questo metodo è meno robusto rispetto a quello
degli atomi legati. L’energia con LSCF è più sensibile a fattori come le dimen-
sioni della parte QM, il valore delle cariche MM sull’atomo di frontiera MM e la

98
4.6 Metodi ibridi QM/MM

Figura 4.5: Schematizzazione del frozen orbital

scelta della popolazione elettronica sugli orbitali di legame localizzati. Il metodo


permette però la delocalizzazione elettronica su un numero più piccolo di orbitali
molecolari. Se il frammento quantico è piccolo o se la densità di carica sull’atomo
di frontiera è alta conviene utilizzare il metodo degli atomi legati, se il legame di
frontiera è lontano dal sito che subisce modificazioni chimiche i due metodi sono
equivalenti, ma l’LSCF è più semplice perché non è necessario introdurre vincoli
negli orbitali di frontiera per mantenere le proprietà geometriche.
Nel metodo generalized hybrid orbital (GHO) gli orbitali ibridi sugli atomi tra
le regione QM e la regione MM vengono divisi in orbitali attivi e orbitali ausiliari.
Gli orbitali ibridi attivi sono ottimizzati con calcoli quantomeccanici mentre la
densità di carica degli orbitali ausiliari è definita dal potenziale MM. Rispetto al
metodo LSCF non è necessario riparametrizzare ogni volta il sistema.

4.6.1 Il metodo a “strati di cipolla” ONIOM

Una formulazione alternativa della QM/MM è il metodo di estrapolazione o


sottrazione dell’energia. In questo caso i calcoli fatti su varie regioni della moleco-
la sono trattati con vari livelli di approssimazione. I vari contributi energetici
vengono calcolati per mezzo di appropriate correzioni ottenute semplicemente
aggiungendo e sottraendo alcuni termini.

99
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

Figura 4.6: Rappresentazione schematica di un partizionamento ONIOM

Su questa linea sono stati proposti vari metodi il primo dei quali combina
una tecnica basata su un approccio orbitale (quantistico) con una tecnica MM
(IMOMM) [80]. In un secondo metodo sono combinate due tecniche differen-
ti basate su un approccio quantistico a vari livelli (IMOMO) [81]. La tecnica
ONIOM (Our OwN n-layered Integrated MO and MM) [82] è una combinazione
di queste tecniche in cui il sistema è suddiviso in due o più strati trattati a vari
livelli di approssimazione (Fig.4.6). L’idea base [83] di questa tecnica può essere
spiegata in modo semplice considerando il caso in cui il sistema viene diviso in
due e tre regioni. La Fig.4.7 fornisce uno schema del metodo di estrapolazione
dell’energia. Lo scopo è quello di descrivere il sistema reale al livello più alto

Figura 4.7: Schema di estrapolazione per un sistema partizionato in due e tre strati

100
4.6 Metodi ibridi QM/MM

della teoria (quantistico), cioè il punto 4 nel caso che il sistema sia suddiviso in
due strati oppure il punto 9 se il sistema è suddiviso in tre strati. Nel caso di due
strati, l’energia totale estrapolata EONIOM è definita come:

EONIOM = E3 − E1 + E2 = Elow,real − Elow,model + Ehigh,model (4.94)

dove E3 è l’energia dell’intero sistema (real) calcolata al livello più basso (MM)
ed E1 e E2 sono le energie del sistema modello determinate al livello basso (MM)
e al livello alto (QM), rispettivamente. Per un sistema suddiviso in tre strati,
l’espressione per l’energia EONIOM è data da:

EONIOM =E6 − E3 + E5 − E2 + E4 = Elow,real − Elow,intermediate +


(4.95)
+ Emedium,intermediate − Emedium,small + Ehigh,small

Una caratteristica importante di questo schema è legata al trattamento dei link


atoms (Fig.4.8). Gli atomi presenti sia nel sistema modello che nel sistema reale
costituiscono il set 1 e le loro coordinate sono rappresentate attraverso il vettore
~R1 . Il set 2 include gli atomi che vengono introdotti artificialmente attraverso i

link atoms. Questi ultimi sono presenti solo nel sistema modello e le loro coor-
dinate sono descritte dal vettore ~R2 . Nel sistema reale sono sostituiti dagli atomi
descritti dal vettore ~R3 . Gli atomi che appartengono allo strato esterno e non sono
sostituiti dai link atoms sono contenuti nel set 4 e sono descritti dal vettore ~R4 .
La geometria del sistema reale è quindi descritta dai vettori ~R1 , ~R3 , ~R4 che sono
variabili indipendenti per l’energia ONIOM:

EONIOM = EONIOM (~R1 , ~R3 , ~R4 ) (4.96)

Per generare il sistema modello, descritto da ~R1 e dai link atoms ~R2 , si definisce
~R2 in funzione di ~R1 ed ~R3 :
~R2 = f (~R1 , ~R3 ) (4.97)

101
Studio quantistico dei sistemi a molti corpi

Figura 4.8: Definizione dei differenti set di atomi

La forma funzionale esplicita della dipendenza di ~R2 può essere scelta in maniera
del tutto arbitraria. Tuttavia, considerando il fatto che i link atoms vengono in-
trodotti per mimare i corrispondenti legami covalenti del sistema reale, dobbiamo
in qualche modo simulare i movimenti degli atomi che vengono sostituiti. Lo
schema d’accoppiamento è il seguente: sia A un atomo appartenente al set 1 e B
un atomo appartenente al set 3, ed H un atomo appartenente al set 2 (Fig.4.8) posto
lungo l’asse di legame A-B. In termini delle coordinate interne scegliamo le stesse
coordinate di bond e gli stessi angoli e diedri per gli atomi del set 2 equivalenti a
quelli del set 3. Quindi, nel sistema modello i link atoms sono sempre allineati al
vettore di bond del sistema reale. Per l’esatta posizione~r2 di un singolo atomo H
lungo un bond A-B (~r3 −~r1 ), si introduce un fattore di scala fisso g, ottenendo:

~r2 =~r1 + g(~r3 −~r1 ) (4.98)

In questo modo se la distanza di legame A-B |~r3 −~r1 | cambia durante la simula-
zione, anche la distanza di legame A-H |~r2 −~r1 | cambierà. La scelta del parametro
g dipende in maniera cruciale dalla natura del legame spezzato, e può dipendere
anche dal livello di teoria usato per descrivere i due strati che sono connessi dal
legame tagliato.

102
Capitolo 5

Simulazioni di dinamica molecolare


classica

Come abbiamo visto nel Cap.2 le placche, presenti nelle cellule dei malati
di AD, sembrano essere un “serbatoio metallico”, viste le alte concentrazioni di
Cu2+ , Zn2+ , e Fe3+ . Nel caso dell’Aβ gli ioni Zn2+ e Cu2+ sembrano avere un
ruolo nel processo di misfolding e nella formazione delle fibrille.
Focalizzeremo la nostra attenzione esclusivamente sull’interazione tra Zn2+
e Aβ , in quanto i dati sperimentali attualmente disponibili non forniscono una
chiara interpretazione del suo ruolo. Alcuni sembrano indicare un possibile ruolo
dello ione Zn2+ nella formazione degli aggregati iniziali [42, 43], mentre altri nel
processo del misfolding [44].
L’obiettivo è quello di analizzare la coordinazione dello ione Zn2+ , in partico-
lare, l’interazione con il frammento peptidico Aβ1−16 , identificato come il minimo
frammento coinvolto nel legame con il metallo [43], la cui sequenza è:

NH3+ -DAEFRHDSGYEVHHQL-COO−

Lo studio in silico di questo sistema è stato suddiviso in due fasi:

104
5.1 Operazioni preliminari

1. Simulazioni di dinamica molecolare classica nell’ensemble NVT.

2. Simulazioni ONIOM in cui la regione quantistica è trattata con DFT.

In questo capitolo mostriamo i risultati sperimentali ottenuti attraverso simulazioni


di dinamica molecolare classica.

5.1 Operazioni preliminari

Sistema Zn2+ -Aβ1−16

Il nostro primo passo è stato quello di simulare il sistema Zn2+ -Aβ1−16 sen-
za solvatare il sistema utilizzando l’algoritmo di dinamica molecolare classica
implementato nel programma open source Gromacs 3.3.3 [84]. Per la modelliz-
zazione del sistema è stata usata la struttura NMR [44], disponibile sul Protein
Data Bank (PDB) (ID: 1ZE9). Inoltre, sulla base di dati precedentemente ottenuti
attraverso un ottimizzazione geometrica DFT, abbiamo modificato il sito di coor-
dinazione metallico, servendoci del programma GaussView, generando la sfera di

Atomi ri (Å)

Nδ (His-6) 2.11
O1(Glu-11) 2.10
O2(Glu-11) 2.10
Nε(His-13) 2.15
Nδ (His-14) 2.29

Tabella 5.1: Distanza dallo Zn2+ degli atomi che si trovano inizialmente nella sfera di
coordinazione del metallo

105
Simulazioni di dinamica molecolare classica

coordinazione1 iniziale del metallo riassunta nella Tabella 5.12 .


A questo punto abbiamo testato vari force field, alcuni già presenti nel pacchet-
to di Gromacs 3.3.3, come OPLS [85] e Gromos96 [86] oltre a CHARMM27 [87]
che non è presente nel pacchetto, per verificare quali di questi meglio simulasse
l’interazione ione-peptide. Per ogni force field abbiamo inserito gradualmente le
interazioni tra ione metallico e leganti:

• Nel primo set di simulazioni non abbiamo inserito i legami chimici dello
ione metallico con i liganti quindi l’unica interazione tra lo Zn2+ e il peptide
è data dalle interazioni nonbonded (Van der Walls ed elettrostatiche).

• Nel secondo set abbiamo inserito invece i legami chimici (nel file di topolo-
gia (.top)). I parametri di bond (Tabella 5.2) ed angles (Tabella 5.3) per
gli atomi che noi riteniamo “legati” allo ione metallico, suggeriti da calcoli
quantomeccanici DFT, effettuati in precedenza dalla dott.ssa Marino presso
l’Università della Calabria, e dalla referenza [88].

• Infine, oltre ad aggiungere i parametri di bond ed angle, abbiamo modificato


i parametri di LJ (Tabella 5.4) per lo ione metallico, basandoci su dati sug-
geriti dalla referenza [89]. Il calcolo dei parametri di LJ è stato effettuato
utilizzando la regola di Lorentz-Bertelot [90]3 .

In tutti i casi in studio, prima di effettuare la dinamica, il sistema è stato


sottoposto ad una minimizzazione classica usando la tecnica del Conjugate Gra-
dient (CG) (Appendice F). A questo punto il sistema è stato termalizzato, aumen-
tando in modo graduale la temperatura, accoppiandolo ad termostato di Nosé-
1 Con sfera di coordinazione si intende una sfera di raggio 2.5Åal cui centro è posto lo Zn2+ .
2 I numeri accanto al nome dell’amminoacido cui l’atomo appartiene indicano la posizione

lungo la sequenza di Aβ .
3 σ si ottiene attraverso una media aritmetica dei σ dei singoli atomi, ed ε si ottiene
ij ii ij

attraverso una media geometrica degli εii .

106
5.1 Operazioni preliminari

Atomi b0 (nm) Kb (kJ · mol −1 · nm−2 )

Nδ (His-6) 0.205 41402


O1(Glu-11) 0.196 55202
Nε(His-13) 0.205 41402
Nδ (His-14) 0.205 41402

Tabella 5.2: Valori della distanza d’equilibrio e costante elastica per gli atomi legati allo Zn2+

Atomi ϑ0 (deg) Kϑ (kJ · mol −1 · rad −2 )

Nδ (His-6)-Zn2+ -Nε(His-13) 110.0 414.0


Nδ (His-6)-Zn2+ -Nδ (His-14) 110.0 414.0
Nε(His-13)-Zn2+ -Nδ (His-14) 110.0 414.0
Cε(His-6)-Nδ (His-6)-Zn2+ 126.0 110.8.0
Cγ(His-6)-Nε(His-6)-Zn2+ 126.0 110.8.0
Cε(His-13)-Nδ (His-13)-Zn2+ 126.0 110.8.0
Cδ (His-13)-Nε(His-13)-Zn2+ 126.0 110.8.0
Cγ(His-14)-Nδ (His-14)-Zn2+ 126.0 110.8.0
Cε(His-14)-Nδ (His-6)-Zn2+ 126.0 110.8.0
O1(Glu-11)-Zn2+ -Nδ (His-6) 112.0 48.3
O1(Glu-11)-Zn2+ -Nε(His-13) 112.0 48.3
O1(Glu-11)-Zn2+ -Nδ (His-14) 112.0 48.3

Tabella 5.3: Valori dell’angolo d’equilibrio e costante di forza angolare per gli atomi legati allo
Zn2+

σ (nm) ε(kJ · mol −1 )

Zn2+ 0.157 0.766

Tabella 5.4: Parametri di LJ per lo Zn2+

107
Simulazioni di dinamica molecolare classica

Hoover. Inoltre abbiamo applicato restrizioni geometriche esclusivamente sui


legami idrogeno presenti nel sistema utilizzando l’algoritmo di LINCS. Le intera-
zioni di LJ a lungo range sono state trattate imponendo un raggio di cutoff, che è
minore del lato del box4 . Per quanto riguarda le interazioni elettrostatiche a lungo
range abbiamo utilizzato il metodo di Particle-mesh Ewald (PME), imponendo lo
stesso raggio di cutoff dei LJ.
In tutte le prove, una dinamica molecolare nell’ensemble NVT di 750ps del
complesso Zn2+ -Aβ1−16 è stata effettuata ed i parametri di simulazione sono
riassunti nella Tabella 5.5.

N.◦ atomi 257


Passo di integrazione (dt) 0.0015ps
Numero di passi 500000
Long Range Coulomb PME (r = 2.9nm; Fourierspacing = 0.12nm)
Long Range VdW Cut-Off (r = 2.9nm)
Termostato Nosé-Hoover (τ = 0.2ps)
Constraint LINCS (h-bonds)
Dimensioni Box (6.18 × 6.18 × 6.18)nm3

Tabella 5.5: Condizioni simulative utilizzate per la dinamica molecolare in assenza di solvente

Sistema Zn2+ -Aβ1−16 + H2 O

Il secondo passo è stato quello di simulare, sulla base dei dati raccolti in prece-
denza, il sistema Zn2+ -Aβ1−16 in presenza di acqua, utilizzando il force field
CHARMM27. Inoltre abbiamo modificato il force field aggiungendo i potenziali
di bond (Tabella 5.2), angle (Tabella 5.3) ed i parametri di LJ (Tabella 5.4). Il
sistema è stato solvatato in un box cubico con 2517 molecole d’acqua TIP3P [91].
4I box utilizzati sono di forma cubica.

108
5.1 Operazioni preliminari

Prima di effettuare la dinamica, il sistema è stato sottoposto ad una minimiz-


zazione usando la tecnica dello Steepest Descent (SD) scelto per la sua maggior
efficienza di calcolo in presenza di solvente (Appendice 6).

Il sistema è stato termalizzato, aumentando in modo graduale la temperatura,


accoppiando separatamente il peptide, lo ione metallico e il solvente ad un ter-
mostato di Nosé-Hoover. Per le rimanenti condizioni simulative (constraint, LJ a
lungo range e interazione elettrostatica) abbiamo usato le stesse parametrizzazioni
viste in precedenza.

A questo punto una dinamica molecolare di 9ns è stata effettuata e le con-


dizioni simulative sono riassunte nella Tabella 5.6.

N.◦ atomi 7808


N.◦ atomi solvente 7551
N.◦ molecole solvente 2517
Passo di integrazione (dt) 0.0020ps
Numero di passi 4500000
Long Range Coulomb PME (r = 2.0nm; Fourierspacing = 0.12nm)
Long Range VdW Cut-Off (r = 2.0nm)
Termostato Nosé-Hoover (τ = 0.2ps)
Constraint LINCS (h-bonds)
Solvente TIP3P
Dimensioni Box (4.27 × 4.27 × 4.27)nm3

Tabella 5.6: Condizioni simulative utilizzate per la dinamica molecolare in presenza di solvente

109
Simulazioni di dinamica molecolare classica

5.2 Risultati

Sistema Zn2+ -Aβ1−16

Come già visto abbiamo provato a simulare il sistema, oltre che con vari force
field, con tecniche differenti.
Prova 1: Nella prima serie di prove abbiamo escluso legami chimici con lo
ione metallico considerando solo interazioni elettrostatiche e LJ fra lo ione metal-
lico e atomi del peptide. Abbiamo testato i tre force field: Gromos96, OPLS e
CHARMM27.
Gromos96: Abbiamo monitorato gli atomi presenti nella sfera di coordina-
zione del metallo (Fig.5.1), durante tutta la fase di termalizzazione e durante la
dinamica a 300K. Si vede che lo ione metallico rimane nella coordinazione ini-
ziale (Tabella 5.1), per quasi tutta la durata della simulazione a 200K. Verso la

Figura 5.1: Grafico delle distanze di vari Figura 5.2: Grafico dell’energia totale in
atomi dallo Zn2+ in funzione funzione del tempo (Prova 1 -
del tempo (Prova 1 - Gro- Gromos96)
mos96)

a La linea orizzontale, di colore rosa,


delimita la sfera di coordinazione dello
Zn2+

110
5.2 Risultati

fine di quest’intervallo l’atomo di O appartenente allo scheletro peptidico (back-


bone) dell’amminoacido His-6 entra dentro la sfera di coordinazione del metallo.
Contemporaneamente si osserva (Fig.5.2) una diminuzione dell’energia totale del
sistema. Questa situazione si stabilizza a 300K dove la distanza tra l’atomo di O
(His-6) e lo ione metallico assume un valore compatibile con una distanza di lega-
me e la deviazione standard, calcolata dalle oscillazioni attorno al valore medio,
diminuisce sensibilmente. In conclusione lo ione metallico diventa stabilmente
esa-coordinato essendo partito da una coordinazione penta.
OPLS: Identica procedura è stata attuata per il force field OPLS. Durante la
dinamica a 200K, a ∼ 1090ps l’amminoacido Lys-16 si avvicina allo Zn2+ , por-
tando l’atomo O1, facente parte della coda carbossilica, dentro la sfera di co-
ordinazione del metallo (Fig.5.3), e, contemporaneamente, l’amminoacido His-
13 si allontana dallo Zn2+ . Inoltre a ∼1220ps anche l’altro atomo di ossigeno

Figura 5.3: Grafico delle distanze di vari Figura 5.4: Grafico dell’energia totale in
atomi dallo Zn2+ in funzione funzione del tempo (Prova 1 -
del tempo (Prova 1 - OPLS) OPLS)

O2 (Fig.5.3), appartenente alla coda carbossilica (Lys-16) si porta ad una distan-


za inferiore di 2.5Ådallo ione metallico. Questi cambiamenti si riflettono anche
sull’andamento dell’energia totale del sistema (Fig.5.4), che diminuisce in cor-
rispondenza di questi eventi. A 300K lo Zn2+ diventa stabilmente esa-coordinato

111
Simulazioni di dinamica molecolare classica

essendo partito da una coordinazione penta. Si noti che i due atomi Nδ apparte-
nenti agli amminoacidi His-6 e His-14 si allontanano dallo ione metallico, e in
certi momenti sono (Fig.5.3) al di là della sfera di coordinazione.
CHARMM27: Prendendo spunto dal lavoro di Sakharov et al. [87] abbiamo
provato a simulare classicamente il sistema Zn2+ -Aβ1−16 usando il programma
Gromacs 3.3.3 abbinato al force field CHARMM27. CHARMM27 non è pre-
sente nel pacchetto del programma Gromacs 3.3.3. La versione da noi utilizza-
ta è stata scaricata dal sito di uno degli autori. Per prima cosa abbiamo dovu-
to modificare CHARMM27 in modo da renderlo consistente con il program-
ma Gromacs 3.3.3. Utilizzando uno script scritto in PERL, abbiamo genera-
to, a partire da un file di parametri di CHARMM (par all27 lipid.prm), i due
file ffcharmmbon.itp e ffcharmmnb.itp che verrano utilizzati dal programma Gro-
macs come nuovi force field. Una volta generato il file.top attraverso il comando
pdb2gmx, e dopo aver scelto come force field CHARMM27, bisogna utilizzare
un programma che modifica il file.top ottenuto in precedenza, aggiungendo alcuni
parametri. Ottenuto un nuovo file.top, siamo pronti a lanciare la nostra simula-

Figura 5.5: Grafico delle distanze di Figura 5.6: Grafico dell’energia totale in
vari atomi dallo Zn2+ in funzione del tempo (Prova 1 -
funzione del tempo (Prova 1 - CHARMM27)
CHARMM27)

112
5.2 Risultati

zione. Notiamo (Fig.5.5) come in questo caso lo ione metallico tenda a rimanere
penta-coordinato e l’energia totale oscilli attorno ad un valore costante alle varie
temperature (Fig.5.6).
Si fa notare che in tutti e tre i casi, nonostante non siano imposti legami chimici
per lo ione metallico, la coordinazione del metallo non tende mai a diminuire,
anzi in due casi aumenta. E’ possibile che questo sia dovuto ad una sovrastima
della carica netta “classica” (+2) dello ione. Inoltre in tutti e tre i force field la
parametrizzazione dello ione metallico (nonbonded) viene effettuata su modelli
Zn2+ -H2 O dove lo ione metallico è sempre esacoordinato.
La Fig.5.7 mostra le deviazioni quadratiche medie (RMSD) [92] del com-
plesso Zn2+ -Aβ1−16 rispetto alla struttura di partenza. Notiamo nella Fig.5.7b
due brusche variazioni fra i 1000ps e i 1200ps, in coincidenza dell’avvicinamen-
to della coda carbossilica (Lys-16). Questo repentino avvicinamento provoca un
profondo mutamento di tutta la struttura del complesso, messo in evidenza dalle
RMSD. Anche la Fig.5.7a mostra un cambiamento, meno brusco del precedente,
in coincidenza dell’entrata all’interno della sfera di coordinazione dell’atomo di
O (His-6), che avviene a ∼ 1400ps. Notiamo che CHARMM27 ha una RMSD

Figura 5.7: RMSD del sistema Zn2+ -Aβ1−16 rispetto alla struttura di partenza, dove con il simbo-
lo h i indichiamo la media e con σ la sua deviazione standard. Prova 1: (a) Gromos96;
(b) OPLS; (c) CHARMM27

113
Simulazioni di dinamica molecolare classica

più bassa rispetto agli altri force field. Ciò potrebbe indicarci che la parametriz-
zazione di CHARMM27 sia più idonea rispetto agli altri, almeno nel caso preso
in esame (metallo-proteina).

Infine, nella Tabella 5.7, riportiamo le distanze medie hri lungo la traiettoria
e le deviazioni standard σ degli atomi che si trovano all’interno della sfera di
coordinazione dello Zn2+ al termine della simulazione.



Atomi r(Å) σ (Å)
Gromos96
Nδ (His-6) 2.09 0.06
O1(Glu-11) 2.10 0.05
O2(Glu-11) 2.10 0.05
Nε(His-13) 2.10 0.06
Nδ (His-14) 2.08 0.06
O(His-6) 2.08 0.08
OPLS
Nδ (His-6) 2.27 0.10
O1(Glu-11) 1.97 0.05
O2(Glu-11) 1.97 0.04
Nδ (His-14) 2.34 0.15
O1(Lys-16) 1.96 0.04
O2(Lys-16) 1.98 0.05
CHARMM27
Nδ (His-6) 2.17 0.05
O1(Glu-11) 1.97 0.04
O2(Glu-11) 1.99 0.04
Nε(His-13) 2.17 0.06
Nδ (His-14) 2.15 0.05

Tabella 5.7: Distanze medie e deviazioni standard degli atomi che si trovano all’interno della sfera
di coordinazione dello Zn2+ al termine della Prova 1

114
5.2 Risultati

Prova 2: In questa serie di prove abbiamo inserito i potenziali di bond ed


angles per lo Zn2+ (vedi Tabelle 5.2-5.3).
Gromos96: Fin dai primi ps di evoluzione l’atomo O1 (Glu-3) entra nella
sfera di coordinazione dello Zn2+ e a ∼250ps anche l’atomo O2 (Glu-3) si por-
ta all’interno di tale sfera (Fig.5.8). In corrispondenza di quest’ultimo evento
l’energia totale (Fig.5.9) del sistema diminuisce. Inoltre l’O2 (Glu-11), che era
nella sfera di coordinazione nella configurazione di partenza e vi rimaneva du-
rante tutte la prima serie di prove, esce durante la fase di minimizzazione5 dalla
sfera di coordinazione. A 300K il sito di legame metallico tende a stabilizzarsi at-
torno ad una coordinazione esa, e le posizioni di tutti gli atomi che legano lo ione
metallico non variano in maniera apprezzabile. Anche in questo caso, come già
accaduto nella Prova 1, lo ione metallico passa stabilmente ad una coordinazione
esa, nonostante l’inserimento dei potenziali di bond ed angles per i quattro atomi
indicati nella Tabella 5.2.

Figura 5.8: Grafico delle distanze di Figura 5.9: Grafico dell’energia totale in
vari atomi dallo Zn2+ in funzione del tempo (Prova 2 -
funzione del tempo (Prova 2 - Gromos96)
Gromos96)

5 Nei grafici delle distanze non è mostrata la fase di minimizzazione.

115
Simulazioni di dinamica molecolare classica

Figura 5.10: Grafico delle distanze di vari Figura 5.11: Grafico dell’energia totale in
atomi dallo Zn2+ in funzione funzione del tempo (Prova 2 -
del tempo (Prova 2 - OPLS) OPLS)

OPLS: Si vede (Fig.5.10) che nei primi ps di dinamica gli atomi O1 e O2,
che fanno parte della coda carbossilica (Lys-16), si portano all’interno della sfera
di coordinazione. Contemporaneamente i quattro amminoacidi legati inizialmente
allo ione metallico si allontanano, in particolare gli atomi Nδ appartenenti all’His-
6 e His-14. Inoltre l’atomo O2 (Glu-11) esce durante la fase di minimizzazione
dalla sfera di coordinazione, contrariamente a quanto visto nella Prova 1. Il sito di
legame metallico raggiunge la coordinazione esa già a 200K e la mantiene anche
a 300K. L’energia totale ha un regolare andamento (Fig.5.11).
CHARMM27: Già durante la fase di minimizzazione l’atomo O appartenente
al backbone dell’amminoacido Gly-9 entra dentro la sfera di coordinazione dello
Zn2+ . Inoltre, le oscillazioni di quest’atomo attorno alla distanza media sono più
grandi degli altri atomi, aumentando in maniera progressiva all’aumentare della
temperatura (Tabella 5.8). Anche in questo caso l’atomo O2 (Glu-11) presente
nella configurazione iniziale all’interno della sfera di coordinazione dello ione
metallico, si allontana durante la minimizzazione. Lo ione metallico resta stabil-
mente penta-coordinato (Fig.5.12) durante tutta la simulazione. L’energia totale
ha un regolare andamento (Fig.5.13).

116
5.2 Risultati

Figura 5.12: Grafico delle distanze di vari Figura 5.13: Grafico dell’energia totale in
atomi dallo Zn2+ in fun- funzione del tempo (Prova 2 -
zione del tempo (Prova 2 - CHARMM27)
CHARMM27)

Notiamo che, nonostante l’inserimento esplicito dei potenziali di bond ed an-


gles per lo ione metallico, in nessun caso siamo riusciti ad ottenere una configu-
razione in cui lo Zn2+ fosse tetra-coordinato. Inoltre notiamo che, a parte la prova
con CHARMM27, i “nuovi” atomi, cioè quegli atomi non presenti nella configu-
razione di partenza dello ione metallico e per cui non sono stati inseriti potenziali
di bond ed angle esplicitamente, si portano a distanze inferiori rispetto agli atomi
presenti nella configurazione iniziale ed anche la loro deviazione standard è mi-
nore. Probabilmente, ciò è dovuto alla concomitanza di due fattori: il primo è che
i potenziali di bond ed angle inseriti danno origine a interazioni deboli, che non
sono in grado di parametrizzare in maniera corretta la forza di legame fra lo ione
metallico e gli atomi del peptide; il secondo, come già detto in precedenza, è che
la carica dello ione metallico e i parametri di LJ ad esso associati sono molto alti,
favorendo l’interazione nonbonded.

La Fig.5.14 mostra l’RMSD per tutti i force field utilizzati. Notiamo che i
valori medi sono più alti rispetto alla prima prova. La Fig.5.14a mostra l’RMSD
relativo a Gromos96. Questo ha un andamento particolarmente oscillante ed inol-

117
Simulazioni di dinamica molecolare classica

Figura 5.14: RMSD del sistema Zn2+ -Aβ1−16 rispetto alla struttura di partenza, dove con il sim-
bolo h i indichiamo la media e con σ la sua deviazione standard. Prova 2: (a)
Gromos96; (b) OPLS; (c) CHARMM27

tre a ∼250ps subisce un aumento improvviso in coincidenza dell’entrata dell’ato-


mo O2 all’interno della sfera di coordinazione dello ione metallico. Nel caso di
OPLS (Fig.5.14b) notiamo un incremento nelle prime fasi della simulazione, pro-
prio in coincidenza dell’ingresso dell’amminoacido Lys-16 all’interno della sfera
di coordinazione. Più stabile l’andamento dell’RMSD nel caso di CHARMM27,
anche se a 300K tende ad aumentare in maniera progressiva. Infine notiamo, an-
cora una volta, che CHARMM27 mostra un valor medio dell’RMSD più basso
rispetto agli altri due force field, confermando quanto già detto.
La Tabella 5.8, in cui sono mostrate le distanze medie hri e le deviazioni stan-
dard σ degli atomi che si trovano all’interno della sfera di coordinazione dello
ione metallico al termine della simulazione, mostrano alcune peculiarità. Notiamo
che nel caso di OPLS la carica parziale negativa molto alta della coda carbossilica
(Lys-16) favorisce l’avvicinamento dei due atomi di O, che si portano ad una di-
stanza molto inferiore rispetto a tutti gli altri atomi. Simile situazione nel caso di
Gromos96, anche se meno evidente, dove i due atomi O1 e O2 (Glu-3) sono a
distanza inferiore rispetto agli altri. Situazione differente con CHARMM27, dove
l’ingresso del “nuovo” atomo O (Gly-9) non altera in modo evidente la distan-

118
5.2 Risultati

za degli atomi, già presenti nella configurazione iniziale. Concludendo anche in


questo caso nessun force field è riuscito a riprodurre una coordinazione tetra per
lo ione metallico.


Atomi r(Å) σ (Å)
Gromos96
Nδ (His-6) 2.22 0.06
O1(Glu-11) 2.23 0.05
Nε(His-13) 2.20 0.07
Nδ (His-14) 2.23 0.06
O1(Glu-3) 2.13 0.05
O2(Glu-3) 2.13 0.06
OPLS
Nδ (His-6) 2.42 0.07
O1(Glu-11) 2.33 0.06
Nε(His-14) 2.23 0.07
Nδ (His-14) 2.47 0.07
O1(Lys-16) 1.95 0.04
O2(Lys-16) 1.94 0.04
CHARMM27
Nδ (His-6) 2.20 0.05
O1(Glu-11) 2.14 0.05
Nε(His-13) 2.13 0.06
Nδ (His-14) 2.19 0.05
O(Gly-9) 2.14 0.08

Tabella 5.8: Distanze medie e deviazioni standard degli atomi che si trovano all’interno della sfera
di coordinazione dello Zn2+ al termine della Prova 2

Prova 3: In questa serie di prove, oltre ad inserire esplicitamente i poten-


ziali di bond (Tabella 5.2) ed angles (Tabella 5.3) per lo Zn2+ , sono stati modifi-
cati i parametri delle interazioni nonbonded per lo ione metallico, in particolare i

119
Simulazioni di dinamica molecolare classica

parametri del termine di LJ (Tabella 5.4).


Gromos96: Notiamo che nei primi picosecondi della simulazione gli atomi
O1 e O2 dell’amminoacido Glu-3 si avvicinano allo Zn2+ , portandosi all’interno
della sfera di coordinazione del metallo (Fig.5.15). Come già visto nella Prova
2, anche in questo caso l’atomo O2 (Glu-11), che era nella sfera di coordinazio-
ne nella configurazione di partenza e vi rimaneva durante tutta la Prova 1, esce
durante la fase di minimizzazione da tale sfera. Il sito di legame metallico sia a
200K che a 300K tende a stabilizzarsi attorno ad una configurazione esa, in cui lo
Zn2+ , oltre ad essere legato agli atomi presenti nella configurazione iniziale, lega
i due atomi O1 e O2 (Glu-3). Nella Fig.5.16 è mostrato l’andamento dell’energia
alle varie temperature.

Figura 5.15: Grafico delle distanze di vari Figura 5.16: Grafico dell’energia totale in
atomi dallo Zn2+ in fun- funzione del tempo (Prova 3 -
zione del tempo (Prova 3 - Gromos96)
Gromos96)

OPLS: Osserviamo che fin dalle prime fasi della simulazione (Fig.5.17) tutti
gli atomi che nella configurazione iniziale si trovavano all’interno della sfera di
coordinazione si allontanano sensibilmente. In particolare i due atomi Nδ delle
(His-6 e -14) oscillano attorno ad una distanza media maggiore di 2.5Å. All’au-
mentare della temperatura le oscillazioni attorno al valore medio di questi due

120
5.2 Risultati

atomi aumentano progressivamente, ma i valori medi delle distanze non varia-


no di molto. Anche in questo caso l’atomo O2 si porta nella fase di minimiz-
zazione fuori dalla sfera di coordinazione. Al termine della simulazione sola-
mente due atomi, O1 (Glu-11) ed Nε (His-13), si trovano all’interno della sfera di
coordinazione dello Zn2+ . L’energia totale ha un andamento regolare (Fig.5.18).

Figura 5.17: Grafico delle distanze di vari Figura 5.18: Grafico dell’energia totale in
atomi dallo Zn2+ in funzione funzione del tempo (Prova 3 -
del tempo (Prova 3 - OPLS) OPLS)

CHARMM27: Notiamo che dopo ∼1ps di simulazione (Fig.5.19) l’atomo O


appartenente al backbone dell’amminoacido Gly-9 si porta a distanza molto breve
dallo ione metallico. Contemporaneamente l’energia totale del sistema (Fig.5.20)
subisce una lieve diminuzione. Ancora una volta l’atomo O2 (Glu-11) esce fuori
dalla sfera di coordinazione durante la fase di minimizzazione, come nella Prova
2 e a differenza di quanto avviene nella Prova 1. Come nelle altre prove lo ione
metallico è alla fine penta-coordinato.
Nella Fig.5.21 mostriamo l’RMSD per tutti i force field. Solo Gromos96
(Fig.5.21a) mostra delle oscillazioni più evidenti. In particolare notiamo che al
passaggio fra i 100K e i 200K l’RMSD subisce un repentino aumento. Ad ogni
modo notiamo che sia la media che le oscillazioni dell’RMSD in questa Prova
sono inferiori in tutti e tre i casi rispetto alla Prova 2. Questo potrebbe essere un ul-

121
Simulazioni di dinamica molecolare classica

Figura 5.19: Grafico delle distanze di vari Figura 5.20: Grafico dell’energia totale in
atomi dallo Zn2+ in fun- funzione del tempo (Prova 3 -
zione del tempo (Prova 3 - CHARMM27)
CHARMM27)

teriore segnale che la direzione seguita, cioè la modifica dei parametri nonbonded,
possa essere quella giusta.

Nella Tabella 5.8 riportiamo le distanze medie hri e le deviazioni standard


σ degli atomi che si trovano all’interno della sfera di coordinazione dello ione
metallico al termine della simulazione. Vediamo prima il caso di OPLS dove

Figura 5.21: RMSD del sistema Zn2+ -Aβ1−16 rispetto alla struttura di partenza, dove con il sim-
bolo h i indichiamo la media e con σ la sua deviazione standard. Prova 3: (a)
Gromos96; (b) OPLS; (c) CHARMM27

122
5.2 Risultati

possiamo notare che le distanze medie sono molto grandi e gli atomi Nδ degli
amminoacidi His-6 e His-14 sono fuori dalla sfera di coordinazione. Questo ci


Atomi r(Å) σ (Å)
Gromos96
Nδ (His-6) 2.31 0.06
O1(Glu-11) 2.26 0.05
Nε(His-13) 2.28 0.06
Nδ (His-14) 2.33 0.06
O1(Glu-3) 1.69 0.04
O2(Glu-3) 1.69 0.04
OPLS
Nδ (His-6) 2.55 0.07
O1(Glu-11) 2.32 0.06
Nε(His-14) 2.33 0.07
Nδ (His-14) 2.54 0.07
CHARMM27
Nδ (His-6) 2.24 0.05
O1(Glu-11) 2.15 0.05
Nε(His-13) 2.14 0.05
Nδ (His-14) 2.20 0.05
O(Gly-9) 1.74 0.08

Tabella 5.9: Distanze medie e deviazioni standard degli atomi che si trovano all’interno della sfera
di coordinazione dello Zn2+ al termine della Prova 3

induce a pensare che i nuovi parametri di LJ da noi inseriti siano troppo piccoli,
rispetto a quelli presenti nel force field OPLS. Questo da un lato impedisce ad altri
atomi di entrare nella sfera di coordinazione dello Zn2+ , ma probabilmente tiene
lontani quelli presenti nella configurazione di partenza. Possiamo ipotizzare che
OPLS sia costruito in maniera fortemente consistente ed un cambiamento in uno
dei parametri altera in modo evidente la dinamica generata con questo force field.

123
Simulazioni di dinamica molecolare classica

Osservando i risultati relativi a Gromos96 notiamo che O1 e O2 (Glu-3), non


presenti nella sfera di coordinazione iniziale, sono notevolmente più vicini degli
altri atomi. Questa situazione è riprodotta anche nel caso di CHARMM27, dove
questa volta è l’O della Gly-9 a trovarsi ad una distanza molto inferiore rispetto
agli altri atomi. Nonostante la modifica dei parametri di LJ nessun force field
mostra una coordinazione tetra. Questi test hanno confermato il fatto che la carica
netta “+2” dello ione metallico è troppo alta. Per questo motivo potrebbe essere
interessante eseguire dei calcoli quantomeccanici per definire le cariche parziali
di tutti gli atomi coinvolti nel legame con il metallo e del metallo stesso.

Lo step successivo è stato quello di selezionare alcune configurazioni, a 300K,


ad energia più bassa. Queste configurazioni sono state estratte dalla dinami-
ca effettuata nella Prova 1 e nella Prova 3 con CHARMM27. Con un algori-
tmo CG è stata quindi trovata la configurazione di minima energia per ognuna
delle configurazioni selezionate e quest’ultima è stata utilizzata come partenza
per ONIOM.

Sistema Zn2+ -Aβ1−16 + H2 O

Abbiamo simulato il sistema Zn2+ -Aβ1−16 in presenza di acqua, utilizzando


il ff CHARMM27 (i parametri della simulazione sono riassunti nella Tabella 5.5).
Abbiamo inserito i potenziali di bond (Tabella5.2) ed angle (Tabella5.3) per lo
ione metallico ed abbiamo modificato i parametri di LJ (Tabella5.4).

Possiamo notare che dopo pochi picosecondi di simulazione a 100K l’atomo


O (Fig.5.22) appartenente al backbone dell’amminoacido Gly-9 entra nella sfera
di coordinazione. Fra ∼16 e ∼17ps anche una molecola di solvente (Sol-774)
entra nella sfera di coordinazione. Nella Fig.5.23 mostriamo l’andamento delle
distanze durante tutta la dinamica a 100K. Dalla Fig.5.24 si vede come l’energia

124
5.2 Risultati

totale del sistema a 100K lentamente tenda a stabilizzarsi. Per questo motivo la
dinamica è stata leggermente allungata.

Figura 5.22: Grafico delle distanze durante Figura 5.23: Grafico delle distanze di vari
i primi 20ps di vari atomi dal- atomi dallo Zn2+ in funzione
lo Zn2+ in funzione del tempo del tempo a 100K
a 100K

Figura 5.24: Grafico dell’energia totale in funzione del tempo a 100K

Il sistema non subisce cambiamenti rilevanti a 200K (Figg.5.25 e 5.26).


Infine a 300K abbiamo lasciato evolvere il sistema per 9000ps, e come pos-
siamo notare dalle Figg.5.27 e 5.28 la coordinazione dello ione metallico subisce
un cambiamento a ∼4125ps dove una nuova molecola di solvente (Sol 661) en-
tra dalla sfera di coordinazione, provocando l’allontanamento dell’atomo Nδ del-

125
Simulazioni di dinamica molecolare classica

Figura 5.25: Grafico delle distanze di vari Figura 5.26: Grafico dell’energia totale in
atomi dallo Zn2+ in funzione funzione del tempo a 200K
del tempo a 200K

l’amminoacido His-6 che si porta leggermente al di là della sfera di coordinazione.


Anche gli altri atomi si allontanano leggermente mentre la molecola di solvente
(Sol 774) rimane stabile. L’energia ha un andamento regolare (Fig.5.30).

La Fig.5.30 mostra l’RMSD del sistema Zn2+ -Aβ1−16 durante tutta la dina-
mica di 9ns a 300K. Il valore molto alto evidenzia i notevoli cambiamenti che la

Figura 5.27: Grafico delle distanze fra Figura 5.28: Grafico delle distanze di vari
4120 e 4140ps di vari ato- atomi dallo Zn2+ in funzione
mi dallo Zn2+ in funzione del del tempo a 300K
tempo a 300K

126
5.2 Risultati

Figura 5.29: Grafico dell’energia totale in Figura 5.30: RMSD del sistema Zn2+ -
funzione del tempo a 300K Aβ1−16 rispetto alla strut-
tura di partenza durante la
dinamica a 300K

struttura peptidica subisce a causa dell’influenza del solvente, evidenziati anche


dal cambiamento sia del numero di coordinazione dello ione metallico che dal
cambiamento dei partecipanti al legame.

Nella Tabella 5.10 riportiamo le distanze medie hri e le deviazioni standard


σ degli atomi che si trovano all’interno della sfera di coordinazione al termine
della simulazione. In questo caso le distanze medie sono state calcolate a partire
dall’istante in cui la seconda molecola di solvente (Sol 661) entra all’interno della
sfera di coordinazione dello ione metallico. Si nota il progressivo allontanamento
di tutti gli atomi che si trovavano inizialmente nella sfera di coordinazione. Inoltre
l’allontanamento della His-6 potrebbe essere un indizio del possibile ruolo svolto
dallo Zn2+ , che approfondiremo nel prossimo capitolo. Ancora una volta non
siamo riusciti ad ottenere una configurazione in cui lo Zn2+ sia tetra-coordinato.

Lo step successivo è stato quello di selezionare alcune configurazioni, a 300K,


ad energia più bassa. Con un algoritmo SD è stata quindi trovata la configurazione
di minima energia per ognuna delle configurazioni selezionate e quest’ultima è
stata utilizzata come partenza per ONIOM.

127
Simulazioni di dinamica molecolare classica



Atomi r(Å) σ (Å)

Nδ (His-6) 2.53 0.05


O1(Glu-11) 2.26 0.04
Nε(His-13) 2.42 0.05
Nδ (His-14) 2.41 0.05
O(Gly-9) 1.86 0.09
O(Sol-774) 1.79 0.05
O(Sol-661) 1.79 0.05

Tabella 5.10: Distanze medie e deviazioni standard degli atomi che si trovano all’interno della
sfera di coordinazione dello Zn2+ al termine della simulazione

5.3 Conclusioni
Le simulazioni di dinamica molecolare classica descritte in questo capitolo
sono state necessarie alla costruzione di modelli da sottoporre all’ottimizzazione
geometrica ONIOM e, in un lavoro successivo a quello presente in questa tesi di
laurea, a simulazioni CP.
Abbiamo confrontato tre force field ma non ci siamo preoccupati di fornire
dei parametri più realistici per le cariche parziali presenti sullo ione metallico
e sui suoi leganti. Analizzando i dati classici abbiamo però notato che le inte-
razioni elettrostatiche sono quelle che hanno maggiormente contribuito a deter-
minare le configurazioni finali dei nostri modelli, fatto che determina un bias per
le simulazioni quantistiche successive.

128
Capitolo 6

Simulazioni QM/MM-ONIOM

Ciascun metodo computazionale ha sia punti di forza sia di debolezza: i meto-


di quantomeccanici (QM) permettono la stima di numerose proprietà molecolari
e di modellare reazioni chimiche, ma i tempi di calcolo crescono rapidamente al-
l’aumentare delle dimensioni del sistema in studio. I metodi molecular mechanics
(MM) possono fornire un numero molto più limitato di informazioni e non pos-
sono essere impiegati per la simulazione di rotture o formazioni di legami, ma
permettono di effettuare veloci ottimizzazioni geometriche anche su sistemi di
grandi dimensioni nel loro stato fondamentale. I metodi ibridi QM/MM cercano
di combinare le caratteristiche più utili dei due diversi approcci in un singolo
calcolo.
Il caso più semplice di metodo ibrido prevede l’impiego di un metodo QM (HF,
DFT, ecc.) solo per una regione limitata della molecola, per la quale sia importante
avere un modello accurato della struttura elettronica. Il resto del sistema viene
invece simulato con un metodo MM. Frequentemente la regione QM è interna al
sistema (inner), mentre la regione MM è esterna (outer). Esempi di schemi di
questo tipo possono essere:

• macromolecole biologiche come gli enzimi, il cui sito attivo viene studiato

130
6.1 Operazioni preliminari

a livello QM e la restante struttura proteica a livello MM;

• soluti immersi in un solvente considerato tramite un modello esplicito, in


cui il soluto viene simulato tramite un metodo QM e le numerose molecole
di solvente con un metodo MM;

• setacci molecolari, in cui la specie inserita in una cavità è studiata a livello


QM mentre la gabbia circostante è simulata mediante MM.

Sfruttando le caratteristiche dei metodi QM/MM abbiamo simulato il sistema


Zn2+ -Aβ1−16 con e senza solvente dividendo il sistema in due regioni.

6.1 Operazioni preliminari

Sistema Zn2+ -Aβ1−16

Come già detto nel Cap.5, prima di effettuare un’ottimizzazione ONIOM ab-
biamo estratto alla temperatura di 300K alcune configurazioni a bassa energia
ottenute dalle simulazioni di dinamica molecolare classica svolte utilizzando il ff

N.◦ atomi 257


Passo di integrazione (dt) 0.0015ps
Numero di passi 5000
Dimensioni Box (6.18 × 6.18 × 6.18)nm3
Valore di convergenza delle forze (emtol) 10.0 kJ · mol −1 · nm−1
Grandezza massima dello step (emstep) 0.01 nm
Frequenza con la quale viene effettuato
un passo di SD durante 100
la minimizzazione CG (nstcgsteep)

Tabella 6.1: Condizioni simulative utilizzate per la minimizzazione in assenza di solvente

131
Simulazioni QM/MM-ONIOM

Atomi ri (Å)

Nδ (His-6) 2.26
O(Gly-9) 1.77
O1(Glu-11) 2.16
Nε(His-13) 2.16
Nδ (His-14) 2.23

Tabella 6.2: Distanza dallo Zn2+ degli atomi che si trovano nella sfera di coordinazione del
metallo dopo la fase di minimizzazione classica

CHARMM27 con l’inserimento dei parametri di bond ed angle per lo ione metal-
lico e la modifica dei parametri di LJ. Queste configurazioni sono state minimiz-
zate classicamente utilizzando l’algoritmo CG, i cui parametri simulativi sono
riassunti nella Tabella 6.1.

A questo punto la configurazione ad energia minore (Tabella 6.2) è stata ot-


timizzata geometricamente utilizzando il metodo ONIOM presente nel software
Gaussian03 [93]. La regione quantistica è stata trattata utilizzando la DFT con
il funzionale di scambio e correlazione B3LYP [69]. Abbiamo usato funzioni di
base differenziate, nel senso che per il metallo è stato usato uno pseudopotenziale
(Appendice G) di tipo SDD [94] ottimale per la descrizione dello ione Zn2+ e, per
i restanti atomi C, N, H, O, un set di funzioni di base di tipo 6-31G+(d,p)(DZ). Il
numero di primitive utilizzate per una singola contrazione cambia a seconda che
gli orbitali atomici siano di core o di valenza. G sta per Gaussian e si riferisce
naturalmente alla forma funzionale della primitiva. La base 6-31G sta ad indicare
una singola ζ (vedi Appendice D) di quattro primitive per gli orbitali interni ed
una doppia ζ con due distinte contrazioni di tre ed una primitiva, rispettivamente
per gli orbitali di valenza. Con il simbolo + indichiamo il fatto che vengono scelte
funzioni primitive diffuse nello spazio, mentre il termine (d,p) indica che stiamo
usando orbitali atomici che non sono occupati negli atomi isolati (per esempio gli

132
6.1 Operazioni preliminari

orbitali di tipo d dell’ossigeno e dell’azoto o gli orbitali di tipo p dell’idrogeno).


Infine il termine (DZ) indica che usiamo 2 funzioni per ogni orbitale atomico
occupato: una più raccolta e una più espansa. La regione MM è stata simulata
utilizzando il ff Universal Force Field (UFF) [95] presente nel programma Gaus-
sian03. L’algoritmo d’ottimizzazione geometrica utilizzato è quello di Berny (Ap-
pendice H). I criteri di convergenza utilizzati, in generale, dall’algoritmo di Berny
ed implementati in Gaussian sono:

• la componente massima delle forze deve essere inferiore ad un valore di


soglia di 0.00045;

• lo scarto quadratico medio (RMS) delle forze inferiore ad un valore di


tolleranza pari a 0.0003;

• lo spostamento spaziale fra uno step e quello successivo deve essere più
piccolo di un valore di soglia di 0.0018.

• l’RMS di questo spostamento deve essere al di sotto di un valore di soglia


di 0.0012.

Come si vede la differenza di energia tra due step successivi non è un esplici-
to criterio di convergenza. La presenza di quattro distinti criteri di convergenza
previene un’identificazione prematura del minimo. Nel caso dell’ottimizzazione
ONIOM oltre ai quattro criteri di convergenza appena citati si possono aggiun-
gere due nuovi criteri, relativi alle forze, legati alla convergenza della regione
MM. I valori di soglia sono identici a quelli già visti in precedenza. Il termine
d’interazione HQM/MM è calcolato al livello mechanical embedding.
Prima di procedere all’ottimizzazione geometrica abbiamo separato le due re-
gioni utilizzando il software GaussView [93] ed inserito dei link atoms nelle re-
gioni di confine in cui sono stati spezzati dei legami covalenti. Come link atoms

133
Simulazioni QM/MM-ONIOM

abbiamo utilizzato degli atomi di idrogeno. La regione QM contiene lo Zn2+ , le


catene laterali degli amminoacidi Glu-11, His-6, His-13, His-14 e l’intero ammi-
noacido Gly-9. Tutto il resto viene trattato a livello MM. Nella Fig.6.1 possiamo
osservare le due regioni, la regione QM è rappresentata attraverso un modello
“ball and stick”, mentre la regione MM è rappresentata attraverso un modello
“wireframe”.

Figura 6.1: Regioni QM (“ball and stick”) e MM (“wireframe”)

Sistema Zn2+ -Aβ1−16 + H2 O

Come nel caso precedente prima di effettuare un ottimizzazione ONIOM ab-


biamo estratto alcune configurazioni ad energia più bassa ottenute attraverso le
simulazioni di dinamica molecolare classica in presenza del solvente, utilizzando
il ff CHARMM27 con l’inserimento dei parametri di bond ed angle per lo ione
metallico e la modifica dei parametri di LJ. Su queste è stata effettuata una mini-
mizzazione classica usando l’algoritmo SD, maggiormente efficiente in presenza
d’acqua, i cui parametri simulativi sono riassunti nella Tabella 6.3.

134
6.1 Operazioni preliminari

N.◦ atomi 7808


N.◦ atomi solvente 7551
N.◦ molecole solvente 2517
Solvente TIP3P
Passo di integrazione (dt) 0.0020ps
Numero di passi 30000
Dimensioni Box (4.27 × 4.27 × 4.27)nm3
Valore di convergenza delle forze (emtol) 10.0 kJ · mol −1 · nm−1
Grandezza massima dello step (emstep) 0.01 nm

Tabella 6.3: Condizioni simulative utilizzate per la minimizzazione in presenza del solvente

Atomi ri (Å)

Nδ (His-6) 2.521
O(Gly-9) 1.82
O1(Glu-11) 2.26
Nε(His-13) 2.40
Nδ (His-14) 2.43
O(Sol-661) 1.78
O(Sol-774) 1.75

Tabella 6.4: Distanza dallo Zn2+ degli atomi che si trovano nella sfera di coordinazione del
metallo dopo la fase di minimizzazione classica

A questo punto sulla configurazione ad energia inferiore (Tabella 6.4) un’ot-


timizzazione geometrica ONIOM è stata effettuata usando il software Gaussian03
con parametri simulativi identici a quelli già visti in precedenza. Le differenze fra
i due sistemi riguardano la scelta delle regioni (Fig.6.2). Oltre allo Zn, alle catene
laterali degli amminoacidi Glu-11, His-6, His-13, His-14 e l’intero amminoaci-
do Gly-9, abbiamo considerato nella regione QM le due molecole di acqua che
1 Nonostante l’atomo Nδ si trovi inizialmente al di fuori della sfera di coordinazione del metallo
lo indichiamo esplicitamente perchè incluso da noi nella regione quantistica.

135
Simulazioni QM/MM-ONIOM

si trovano nella sfera di coordinazione del metallo alla fine del calcolo classico.
Abbiamo escluso dal sistema le restanti molecole di solvente per due motivi; (i) la
maggior parte di esse al termine delle simulazioni di dinamica molecolare classi-
ca e della fase di minimizzazione si trovavano molto distanti dal sito metallico e,
quindi, possiamo supporre non influenzino la coordinazione dello ione metallico;
(ii) i tempi di calcolo ONIOM si dilatano notevolmente in presenza di acqua.

Figura 6.2: Regioni QM (“ball and stick”) e MM (“wireframe”)

6.2 Risultati

Sistema Zn2+ -Aβ1−16

Come già detto per prima cosa abbiamo ottimizzato il sistema Zn2+ -Aβ1−16 in
assenza d’acqua. Il calcolo, dopo 125 cicli, ha soddisfatto tutti e sei i criteri di con-
vergenza. L’energia del sistema ottimizzato è uguale a -1461.167a.u.. Abbiamo

136
6.2 Risultati

Figura 6.3: Grafico delle distanze di vari atomi dallo Zn2+ durante la fase d’ottimizzazione
ONIOM

monitorato durante la fase d’ottimizzazione l’andamento delle distanze (Fig.6.3)


degli atomi che si trovavano inizialmente nella sfera di coordinazione del metallo
(Tabella 6.2). Come possiamo notare durante l’ottimizzazione l’atomo O apparte-
nente all’amminoacido Gly-9 si allontana dallo ione metallico fino a portarsi fuori
dalla sfera di coordinazione e l’O2 della catena laterale dell’amminoacido Glu-11

Figura 6.4: Configurazione finale del siste- Figura 6.5: Ingrandimento del sito metalli-
ma Zn2+ -Aβ1−16 co

137
Simulazioni QM/MM-ONIOM

entra nella sfera di coordinazione mentre l’O1 ne esce.


Possiamo osservare le struttura finale ottenuta (Fig.6.4) e un ingrandimento del
sito metallico (Fig.6.5). La Fig.6.5 mostra che la coordinazione dello Zn2+ non
è perfettamente tetraedrica come si può apprezzare meglio osservando gli angoli
riportati nella Tabella 6.5.

Atomi ϑ (deg)

Nδ (His-6)-Zn2+ -O2(Glu-11) 111.20


Nε(His-13)-Zn2+ -O2(Glu-11) 97.82
Nδ (His-14)-Zn2+ -O2(Glu-11) 121.57

Tabella 6.5: Angoli di legame al termine dell’ottimizzazione ONIOM

La Fig.6.6 mostra l’RMSD del complesso Zn2+ -Aβ1−16 rispetto alla strut-
tura di partenza. La Fig.6.6a rappresenta l’RMSD dell’intero sistema, mentre le
Figg.6.5b-c rappresentano l’RMSD delle regioni QM ed MM rispettivamente. Si
osserva che l’andamento dell’RMSD nelle due regioni è sostanzialmente identico.

Figura 6.6: RMSD del sistema Zn2+ -Aβ1−16 rispetto alla struttura di partenza. (a) Sistema
ONIOM; (b) Regione QM; (c) Regione MM

Abbiamo effettuato un analisi delle cariche parziali usando la tecnica del Natu-
ral Bond Orbital (NBO) (Appendice I) per vedere come queste si sono distribuite

138
6.2 Risultati

Atomi q(e)

Zn2+ 1.306
Nδ (His-6) -0.644
O1(Glu-11) -0.745
O2(Glu-11) -0.822
Nε(His-13) -0.630
Nδ (His-14) -0.655

Tabella 6.6: Cariche parziali dello ione metallico e dei suoi liganti

tra i vari atomi presenti nel sito metallico. Come si vede nella Tabella 6.6 lo Zn,
che inizialmente aveva una carica pari a +2, ha ceduto parte della sua carica agli
atomi circostanti.
In conclusione possiamo osservare che lo ione metallico, inizialmente penta-
coordinato, dopo l’ottimizzazione ONIOM ha una struttura di tetraedro distor-
to. Nella Tabella 6.7 riportiamo le distanze finali dallo Zn2+ degli atomi che si
trovano all’interno della sfera di coordinazione.

Atomi r(Å)

Nδ (His-6) 2.09
O2(Glu-11) 1.97
Nε(His-13) 2.15
Nδ (His-14) 2.09

Tabella 6.7: Distanze degli atomi che si trovano nella sfera di coordinazione dello Zn2+ al termine
dell’ottimizzazione ONIOM

Sistema Zn2+ -Aβ1−16 + H2 O

Il secondo step è stato quello di ottimizzare il sistema Zn2+ -Aβ1−16 + H2 O,


dove nella regione QM abbiamo incluso solo le due molecole d’acqua più vicine

139
Simulazioni QM/MM-ONIOM

al metallo. Solo due criteri di convergenza (relativi alla parte MM) dei sei sono
stati soddisfatti. Nonostante ciò possiamo supporre che il sistema, dopo 287 cicli,
sia ottimizzato a pieno. Infatti osservando le variazioni dell’energia totale noti-
amo che, negli ultimi dieci cicli, sono molto piccole e modificano l’energia alla
quarta cifra decimale. Inoltre l’algoritmo implementato in Gaussian03 predice
quali saranno le variazioni in energia fra un ciclo e l’altro, e questo mostra che da
un certo ciclo in poi le variazioni sono molto piccole. Per questo motivo possia-
mo pensare che il sistema si trova in un minimo globale sulla superficie d’ener-
gia potenziale (PES). L’energia del sistema ottimizzato è uguale a -1614.141a.u..
Come nel caso precedente abbiamo monitorato le distanze degli atomi dallo ione
metallico. Osservando la Fig.6.7 notiamo che l’amminoacido His-6 si allontana
immediatamente dallo ione metallico e si porta a distanze superiori ai 5Å. Ricor-
diamo (Tabella 6.4) che l’atomo Nδ (His-6) già dopo la fase di minimizzazione
classica oscillava attorno a distanze lievemente superiori a quella della sfera di co-
ordinazione dello Zn2+ . Vediamo, inoltre, che dopo ∼140 cicli una delle molecole
di solvente (Sol-661) esce fuori dalla sfera di coordinazione dello ione metalli-
co portandosi progressivamente ad una distanza di ∼4Å. Stesso destino per l’O
(Gly-9) che dopo ∼150 cicli si porta leggermente fuori dalla sfera di coordinazio-

Figura 6.7: Grafico delle distanze di vari atomi dallo Zn2+ durante la fase d’ottimizzazione
ONIOM

140
6.2 Risultati

Atomi ϑ (deg)

O1(Glu-11)-Zn2+ -Nε(His-13) 101.43


O1(Glu-11)-Zn2+ -Nδ (His-14) 119.52
O1(Glu-11)-Zn2+ -O(Sol-774) 101.53

Tabella 6.8: Angoli di legame al termine dell’ottimizzazione ONIOM

ne per poi allontanarse progressivamente. In contrapposizione notiamo che tutti


gli altri atomi, e cioè O1 (Glu-11), Nε (His-13), Nδ (His-14), O (Sol-774), si
avvicinano lentamente allo ione metallico portandosi a distanze di ∼2Å.

Osservando la struttura ottenuta al termine dell’ottimizzazione (Fig.6.8) noti-


amo che lo Zn2+ rimane in parte esposto all’ambiente esterno. Inoltre osservando
la Fig.6.9 vediamo che la struttura del sito metallico è un tetraedro più regolare di
quello visto nel caso precedente e come si evince dalla Tabella 6.8.

Figura 6.8: Struttura finale del sistema Figura 6.9: Ingrandimento del sito metalli-
Zn2+ -Aβ1−16 + H2 O co

141
Simulazioni QM/MM-ONIOM

La Fig.6.10 mostra l’RMSD del complesso Zn2+ -Aβ1−16 + H2 O rispetto al-


la struttura di partenza. La Fig.6.10a rappresenta l’RMSD dell’intero sistema,
mentre le Figg.6.10b-c rappresentano l’RMSD delle regioni QM ed MM rispetti-
vamente. Possiamo immediatamente osservare un aumento repentino dell’RMSD
del sistema (Fig.6.10a) in concomitanza con l’aumento dell’RMSD della sola re-
gione MM (Fig.6.10c). Questo aumento improvviso è dovuto probabilmente al
fatto che l’amminoacido His-6, considerato facente parte della regione QM, si
porta all’interno della regione MM, influenzandone la struttura in maniera evi-
dente. Infatti, notiamo che dopo questo repentino aumento l’RMSD della regione
MM tende a stabilizzarsi. La Fig.6.10b mostra invece un progressivo aumento del-
l’RMSD della regione QM, evidenziando i cambiamenti strutturali che avvengono
in questa regione in concomitanza con il progressivo allontamento della molecola
di solvente (Sol-774) e dell’amminoacido Gly-9.

Figura 6.10: RMSD del sistema Zn2+ -Aβ1−16 + H2 O rispetto alla struttura di partenza. (a)
Sistema ONIOM; (b) Regione QM; (c) Regione MM

Anche in questo caso abbiamo tentato di effettuare un analisi sulle cariche


parziali usando la tecnica dell’NBO. Putroppo dopo 250 cicli il sistema non è
giunto a convergenza e quindi non siamo stati in grado di ricavare le cariche
parziali. Possiamo comunque supporre, sulla base di calcoli già precedentemente

142
6.3 Conclusioni

effettuati su modelli piccoli, che l’introduzione del solvente non modifichi notevol-
mente le cariche degli atomi coinvolti nel legame con lo ione metallico [ref].
Conludendo osserviamo che ottimizzando con ONIOM il nostro sistema pas-
sa da una struttura esa-coordinata ad una tetra-coordinata. Nella Tabella 6.9 ri-
portiamo le distanze finali degli atomi che si trovano all’interno della sfera di
coordinazione del metallo.

Atomi r(Å)

O2(Glu-11) 1.96
Nε(His-13) 2.05
Nδ (His-14) 2.03
O(Sol-774) 1.98

Tabella 6.9: Distanze degli atomi che si trovano nella sfera di coordinazione dello Zn2+ al termine
dell’ottimizzazione ONIOM

6.3 Conclusioni
Le simulazioni ONIOM descritte in questo capitolo mostrano delle notevoli
differenze nella coordinazione dello ione metallico in presenza o in assenza di
acqua. Si osserva infatti che in assenza di solvente tutte e tre le istidine presenti
nel peptide Aβ1−16 restano nella sfera di coordinazione del metallo mentre in pre-
senza del solvente una di loro viene sostituita da una molecola d’acqua. Quest’ul-
tima struttura è particolarmente interessante in quanto lo ione metallico potrebbe
legare un secondo peptide perdendo la molecola d’acqua. Ciò supporterebbe alcu-
ni risultati sperimentali discussi nei capitoli precedenti [96] nei quali veniva evi-
denziato come lo Zn fosse maggiormente disponibile di altri ioni metallici (Cu)
a legami “inter-molecolari” che potrebbero rappresentare l’inizio di processi di
aggregazione.

143
Simulazioni QM/MM-ONIOM

Ciò che ci proponiamo di fare nel futuro sono delle simulazioni sia classiche
sia quantistiche di un sistema composto da due peptidi entrambi legati al metal-
lo attraverso le due istidine (His-13 e His-14) per verificare la stabilità di tale
modello.

144
Conclusioni

Riassumiamo in breve i principali risultati ottenuti.


In questa tesi di laurea abbiamo studiato, tramite simulazioni di dinamica
molecolare classica e ottimizzazioni strutturali quanto-classiche svolte utilizzan-
do il metodo ONIOM, la coordinazione dello ione Zn con il peptide Aβ1−16 in
presenza e in assenza di solvente.
I risultati delle simulazioni di dinamica molecolare classica mostrano, sia in
presenza sia in assenza di solvente, che lo Zn non è mai tetracoordinato come in-
vece si osserva sperimentalmente [44]. Ciò non è del tutto imprevisto in quanto i
valori attribuiti ai parametri di LJ dello Zn2+ e alla sua carica nei vari ff utilizzati
provengono da calcoli quantistici su sistemi in cui lo Zn2+ è immerso in acqua
e risulta essere, anche sperimentalmente, esacoordinato. Ciò che si osserva nelle
simulazioni classiche è che le interazioni elettrostatiche piuttosto che il particolare
ff scelto sono quelle che hanno maggiormente contribuito a determinare le config-
urazioni finali dei due sistemi studiati. Non pensiamo che questo abbia invalidato
i nostri risultati in quanto lo scopo della dinamica molecolare classica era per
noi solo quello di generare delle configurazioni ragionevoli per l’ottimizzazione
ONIOM.
I risultati delle simulazioni classiche ci hanno fornito due strutture, una, in as-
senza di solvente, in cui lo ione Zn2+ è coordinato a 5 atomi, le tre istidine, l’O del
Glu-11 e l’O della Gly-9, l’altra, in presenza di solvente, in cui lo Zn2+ è esaco-

146
6.3 Conclusioni

ordinato ed una delle tre istidine entra ed esce dalla sfera di coordinazione dello
ione metallico. Entrambe queste strutture sono state sottoposte ad ottimizzazione
strutturale ONIOM.

Per il sistema in assenza di solvente otteniamo, dopo l’ottimizzazione QM/MM


ONIOM, una struttura in cui lo ione Zn2+ è coordinato alle tre istidine e all’O del
Glu-11 in una struttura di tetraedro fortemente distorto. Dall’analisi NBO della
distribuzione delle cariche sul sito metallico si osserva che lo Zn2+ cede parte
della sua carica agli azoti delle istidine e forma con loro un legame ionico. In pre-
senza di solvente la situazione muta notevolmente, infatti uno degli amminoacidi
(His-6), che legava il metallo in assenza d’acqua e che dalle simulazioni clas-
siche si trovava al confine della sfera di coordinazione del metallo, si allontana
enormemente dallo Zn2+ . Al termine dell’ottimizzazione osserviamo che lo ione
metallico è coordinato alle due istidine contigue (His-13 e His-14), all’ossigeno
del Glu-11 e ad una molecola d’acqua in una struttura tetraedrica solo legger-
mente distorta. Questo ci induce a supporre che questa struttura sia più stabile di
quella in assenza di solvente oltre che più vicina alla realtà biologica, dobbiamo
infatti ricordare che l’ambiente cellulare è ricco d’acqua quindi qualsiasi proces-
so biologico è fortemente influenzato dalla sua presenza. Quest’ultima struttura,
inoltre, potrebbe indicarci un possibile ruolo svolto dallo ione Zn2+ nel proces-
so di aggregazione. Essendo lo ione metallico in tale struttura piuttosto esposto
all’ambiente esterno (non racchiuso all’interno della struttura peptidica) potrebbe
facilmente, quando in soluzione con altri peptidi, perdere il volatile legame con
la molecola d’acqua ed accettare istidine provenienti da peptidi circostanti. Tale
supposizione si basa su alcuni dati sperimentali [42, 43, 97] in cui si osserva che
lo ione Zn2+ assume, più frequentemente di altri ioni metallici, strutture diverse
tra loro e generalmente in cui si trova a ponte tra più peptidi e molto dipendenti
dall’ambiente che lo circonda.

147
Simulazioni QM/MM-ONIOM

I nostri risultati, oltre a mostrare l’importanza dell’acqua nello studio dei sis-
temi biologici, costituiscono una base per intraprendere nuovi studi di dinamica
molecolare classica e calcoli quantomeccanici su sistemi in cui uno ione Zn2+
sia a ponte tra due peptidi. Per lo studio di questo modello ciò che riteniamo
interessante è confrontare i risultati che si ottengono con tecniche computazio-
nali quali la dinamica molecolare Car-Parrinello, per la quale è però necessario
ridurre il numero di atomi in studio, con tecniche ibride, quali ONIOM o una tec-
nica QM/MM in cui la parte QM sia dinamica (Car-Parrinello) invece che statica
(ottimizzazione ONIOM), con le quali è possibile studiare il sistema completo
immerso nel solvente.

148
Appendice A

Mini Mental State Examination

Il Mini Mental State Examination (MMSE) [98, 99] è un test di screening


ideato per rilevare il deterioramento cognitivo, valutarne quantitativamente la sever-
ità e documentarne le modificazioni nel tempo. E’ costituito da 12 item tramite i
quali vengono esplorate, con 22 prove in parte verbali e in parte di performance,
7 funzioni cognitive:

• Orientamento temporale;

• Orientamento spaziale;

• Memoria immediata (registrazione di tre parole);

• Attenzione e calcolo (serie di “7”, scansione di parola al contrario);

• Memoria di richiamo (rievocazione delle tre parole);

• Linguaggio (denominazione, ripetizione, comprensione e esecuzione di co-


mandi orali e scritti, capacitá di scrivere una frase);

• Prassia visuocostruttiva (copia di pentagoni).

150
Il MMSE è una scala largamente diffusa in ambito clinico, è utilizzabile da
medici o da altro personale dopo breve addestramento ed è di rapido impiego; la
sua somministrazione richiede un tempo variabile da 5 a 15 minuti e tale brevità
lo rende meno impegnativo per le risorse attentive del soggetto, rispetto ad una
batteria completa di test neuropsicologici, cosı̀ da poter essere utilizzato anche
nelle fasi avanzate della demenza.
I punteggi ai test comunque, non permettono da soli di stabilire una diagnosi
di demenza nè di determinarne l’eziologia; pertanto il MMSE dovrebbe essere uti-
lizzato come strumento in grado di suggerire, in caso di punteggi bassi, il ricorso
a ulteriori approfondimenti. Inoltre, non consentendo una valutazione completa
delle funzioni cognitive, non è sufficientemente sensibile alle fasi iniziali della
demenza (specificità del 96% e sensibilità del 63%) ovvero tende a sottostimare
tali casi.
Il punteggio totale, dato dalla somma delle risposte corrette che il soggetto ha
ottenuto in ciascun item, può andare da un minimo di 0 (massimo deficit cognitivo)
ad un massimo di 30 (assenza di deficit cognitivo).
Il punteggio soglia ai fini della diagnosi di disturbi dell’efficienza intellettiva è
23 e la maggior parte delle persone anziane non dementi ottiene punteggi superiori
a tale soglia. In un ampio studio di revisione del MMSE sono stati proposti tre
cut-score:

• Assenza di decadimento cognitivo (24-30) (80%-100% capacità cognitive


integre).

• Decadimento cognitivo da lieve a moderato (18-23) (60%-80% capacità


cognitive integre).

• Decadimento cognitivo grave (0-17) (0%-60% capacità cognitive integre).

151
Mini Mental State Examination

Studi longitudinali, che hanno utilizzato intervalli test-retest variabili da un


mese a tre anni, mostrano che i punteggi al MMSE di soggetti dementi, la maggior
parte dei quali affetti da Malattia di Alzheimer, declinano in modo significativo nel
tempo, presentando un tasso di decremento annuo medio che varia generalmente
tra 1.8 e 4.2 punti, espressione di elevata variabilità interindividuale. Questo dato
è un utile indice del decorso della malattia e dell’eventuale risposta al trattamento.
Fattori come l’età, il grado di scolarità e il livello culturale del soggetto, con-
tribuiscono significativamente alle variazioni dei punteggi attesi nella popolazione
normale.
Nella pagina seguente alleghiamo una copia di un MMSE.

152
153
Appendice B

Condizioni periodiche al contorno

I sistemi molecolari simulati nel campo biologico constano in genere di un


numero di particelle dell’ordine 103 ÷ 105 atomi. Immaginiamo di costruire un
box cubico, all’interno del quale siano uniformemente distribuiti N atomi, posta
come unità di misura la distanza media tra le particelle, le dimensioni del box
saranno:

3

3

3
N× N× N (B.1)

Su ognuna delle facce del cubo verranno a trovarsi in media N 2/3 atomi e in totale
la frazione di particelle che si trovano sulla superficie del cubo è pari a 6N 1/3 ,
ovvero nel caso N = 103 il 60% si trova sulla superficie, nel caso di N = 106 il
6%. Questo determina un non trascurabile effetto di superficie che viene curato
utilizzando una topologia toroidale, ovvero circondando il box di simulazione con
delle copie del box stesso. Questo artificio impone però di prestare attenzione
nella trattazione delle interazioni a lungo raggio quali quelle di Coulomb e di
Van der Waals, mediante le quali le particelle interagiranno con le proprie copie
contenute nei box confinanti. Per questo motivo, le interazioni di non legame
vengono calcolate solo per gli atomi contenuti entro un certo raggio, detto di cut-
off, il cui valore non deve superare la metà della dimensione minima del box. Al di

155
Condizioni periodiche al contorno

fuori del raggio di cut-off, il potenziale è calcolato effettuando uno “shift” che lo
porta a zero entro un secondo raggio (detto appunto di “shift”), oppure con metodi
di somme su reticolo, o non viene calcolato affatto.

156
Appendice C

Vincoli geometrici

Utilizzando l’algoritmo di Verlet, si continua ad usare un unico passo di in-


tegrazione; per risolvere il problema dei moti oscillatori rapidi, alcune imple-
mentazioni (come AMBER o GROMACS) applicano dei vincoli geometrici sulla
lunghezza o sugli angoli di alcuni legami, in genere quelli in cui sono coinvolti gli
idrogeni. Se le K equazioni dei vincoli geometrici sono scritte come:

σk (~r) = 0 dove k = 1, . . . , K (C.1)

Le forze di reazione vincolare sono ottenute risolvendo il sistema lineare:


!

fi = − V − ∑ λ k σk (C.2)
∂ ri k

definiamo la matrice
∂ σh
Bhl = (C.3)
∂ rl
se i vincoli sono olonomi:
dσ dr
= B̂ = 0 (C.4)
dt dt
d2σ d 2 r d B̂ dr
= B̂ + =0 (C.5)
dt 2 dt 2 dt dt

158
il sistema può essere scritto in maniera compatta:
d 2~r
− M̂ 2 − B̂T λ + ~f = 0 (C.6)
dt
moltiplicando a sinistra per B̂M̂ −1 si ottiene:
d B̂ d~r
+ B̂M̂ −1 B̂T λ + B̂M̂ −1 ~f = 0 (C.7)
dt dt
da cui si ricava:
d B̂ d~r
B̂T λ = −B̂T (B̂M̂ −1 B̂T )−1 B̂M̂ −1 ~f − B̂T (B̂M̂ −1 B̂T )−1 (C.8)
dt dt
che sostituito nel sistema lineare (C.6):
d 2~r d B̂ d~r
2
= (1 − T̂ B̂)M̂ −1 ~f − T̂ (C.9)
dt dt dt
T̂ = M̂ −1 B̂T (B̂M̂ −1 B̂T )−1 B̂ (C.10)

L’algoritmo noto come LINCS [100], applica le formule (C.9) e (C.10), ma per
evitare di dover calcolare la matrice inversa tra parentesi, usa un piccolo trucco.
Viene costruita la matrice diagonale Ŝ tale che:
s !−1
1 1
S i j = δi j + (C.11)
mi m j

in questo modo

(B̂M̂ −1 B̂T )−1 = ŜŜ−1 (B̂M̂ −1 B̂T )−1 Ŝ−1 Ŝ (C.12)

= S(SBM −1 BT S)−1 S

= Ŝ(1̂ − Â)−1 Ŝ

Nel caso in cui i constraint siano solo sulle distanze di legame, la matrice  è
simmetrica, e ha tutti gli autovalori minori di 1, quindi è possibile espandere:

(1̂ − Â)−1 = ∑ Ai (C.13)
i=0

Nelle implementazioni pratiche vengono usati i primi 4-8 termini della somma.

159
Appendice D

Basis set

Un elemento decisivo nella implementazione dei metodi ab initio è la scelta


dell’insieme di funzioni (basis set) nel quale sviluppare le funzioni d’onda elet-
troniche. Idealmente il miglior set di funzioni è quello che richiede il minor nu-
mero di funzioni di base per ottenere un fissato livello di accuratezza. Più precisa-
mente poiché lo sforzo computazionale scala formalmente come la quarta potenza
del numero di basi, è di primaria importanza che il numero di vettori di base nec-
essario per avere una fissata accuratezza sia il più piccolo possibile. Un altro ele-
mento fondamentale nella scelta del set di basi è il livello di difficolta del calcolo
degli integrali quantomeccanici sulle funzioni di base.
Ci sono due tipi di funzioni d’onda di base (dette anche Atomic Orbitals (AO),
nonostante in generale esse non siano soluzione dell’equazione di Schröedinger
atomica) comunemente usate nei calcoli di struttura elettronica: le Slater Type
Orbitals (STO) e le Gaussian Type Orbitals (GTO). Gli orbitali di Slater [101]
hanno la seguente forma funzionale:

χζ ,n,l,m (r, θ , φ ) = NYl,m (θ , φ )rn−1 e−ζ r (D.1)

dove N è una costante di normalizzazione ed Yl,m sono le armoniche sferiche. La


dipendenza esponenziale dalla distanza tra i nuclei e gli elettroni riflette gli orbitali

161
Basis set

esatti per l’atomo d’idrogeno. Tuttavia, le STO non posseggono tutti i nodi radiali;
i nodi nella parte radiale sono introdotti attraverso una combinazione lineare delle
STO stesse. La dipendenza esponenziale assicura una rapida convergenza all’au-
mentare del numero di funzioni, tuttavia i calcoli degli integrali a due elettroni
non possono essere svolti analiticamente.
Gli orbitali di tipo Gaussian [102] possono essere scritti sia in termini di
coordinate polari che in termini di coordinate cartesiane, cioè:

2
χζ ,n,l,m (r, θ , φ ) = NYl,m (θ , φ )r2n−2−l e−ζ r (D.2)

2
χζ ,n,l,m (x, y, z) = Nxlx yly zlz e−ζ r (D.3)

La somma di lx , ly e lz determina il tipo di orbitale (per esempio lx + ly + lz = 1


è un orbitale p). Sebbene le GTO appaiano simili nelle due rappresentazioni, ci
sono delle sottili differenze. Una GTO di tipo d scritta in termini delle funzioni
sferiche possiede cinque componenti (Y2,2 ,Y2,1 ,Y2,0 ,Y2,−1 ,Y2,−2 ), ma in coordinate
cartesiane possiede sei componenti (x2 , y2 , z2 , xy, xz, yz), tuttavia quest’ultime pos-
sono essere trasformate in cinque funzioni sferiche d ed un’aggiuntiva funzione
s (x2 + y2 + z2 ). I moderni programmi di calcolo per gli integrali a due elettroni
sono forniti di coordinate cartesiane e generano funzioni d sferiche trasformando
le sei componenti cartesiane in cinque funzioni sferiche. Questo vuol dire che
quando nel sistema sono presenti più funzioni d per atomo o anche funzioni con
momento angolare superiore (f, g, h, etc.) si ottiene un sostanziale risparmio nei
tempi di calcolo.
La dipendenza da r2 nell’esponenziale rende le GTO inferiori alle STO in
almeno due aspetti. Sul nucleo una GTO ha pendenza nulla, in contrasto con le
STO che invece hanno una “cuspide” (derivata discontinua), e conseguentemente
le GTO hanno proprio dei problemi nel rappresentare il comportamento vicino al
nucleo. L’altro problema è che le GTO diminuiscono troppo rapidamente lontano

162
dal nucleo rispetto alle STO, e la “coda” della funzione d’onda è rappresentata in
modo scarso. Sia le GTO che le STO possono essere scelte per formare un set
completo di basi, ma per quello che abbiamo appena detto le GTO necessitano
di più funzioni di base per ottenere la stessa accuratezza ottenuta dalle STO con
un numero inferiore di basi. Delle linee guida generali indicano che ci vogliono
circa il triplo di basi GTO per ottenere il medesimo livello di accuratezza ottenuto
con le STO. L’incremento nel numero delle funzioni di base GTO, tuttavia, è più
che compensato dalla facilità con la quale si riesce a calcolare gli integrali. In
termini di efficienza computazionale, le GTO sono quindi preferite e sono usate
quasi universalmente come funzioni di base nei calcoli di struttura elettroniche.
In realtà come componenti del basis set non si prendono direttamente le fun-
zioni (D.2-D.3), bensı̀ delle combinazioni lineari di esse, dette “contrazioni”:
K
χcon = ∑ ai χi (D.4)
i=1
Esistono vari schemi di contrazione. Nella contrazione segmentata ogni primitiva
χi viene utilizzata nell’espansione di una sola funzione di base χcon ; mentre nella
contrazione generale non vi sono limiti all’utilizzo delle primitive. Questo schema
permette di modulare l’accuratezza con cui i singoli orbitali vengono costruiti.
Gli elettroni di core, in genere hanno un maggior peso energetico, per questo
vengono usate delle contrazioni maggiori per riprodurne gli orbitali molecolari,
usare lo stesso numero per gli elettroni più esterni appesantirebbe il calcolo non
apportando migliorie apprezzabili. Tuttavia gli elettroni di valenza sono quelli che
determinano la chimica della molecola in esame, per questo in alcuni casi possono
essere aggiunte delle funzioni diffuse (con esponente ζ piccolo), o dei termini di
momento angolare più alto detti termini di polarizzazione.
Piuttosto che partire con funzioni di base mirate a modellare gli orbitali ato-
mici (STO oppure GTO), ed usare una combinazione lineare di queste per de-
scrivere gli orbitali per l’intero sistema, si possono usare funzioni che mirano

163
Basis set

direttamente a descrivere l’intero sistema. Per modellare sistemi estesi (infiniti),


per esempio una cella unitaria con condizioni al contorno periodiche, potrem-
mo usare delle funzioni con un range “infinito”. Gli elettroni di valenza esterni
nei metalli si comportano quasi come elettroni liberi, il che suggerisce l’idea di
usare le soluzioni per gli elettroni liberi come funzioni di base. Le soluzioni del-
l’equazione di Schröedinger per un elettrone libero in una dimensione può essere
scritta sia in termini di un esponenziale complesso che in funzione di seni e coseni,
cioè:
φ (x) = Aeikx + Be−ikx (D.5)

φ (x) = A cos(kx) + B sin(kx) (D.6)


1
E = k2 (D.7)
2
Si vede come l’energia dipende in modo quadratico dal fattore k. Per sistemi
infiniti, gli orbitali molecolari si fondono in bande, poichè la spaziatura tra i livelli
energetici diventa via via sempre più piccola, fino ad annullarsi. Gli elettroni in
una banda possono essere descritti da orbitali espansi in un basis set di onde piane,
che nelle tre dimensioni possono essere scritte attraverso una funzione complessa:

~
χk (~r) = eik·~r (D.8)

Il vettore d’onda ~k gioca lo stesso ruolo dell’esponente ζ in una GTO (D.2) ed è


relato all’energia attraverso la (D.7). Come si vede dalla (D.7) ~k può anche essere
pensato come una frequenza, ciò vorrebbe dire che alti valori di ~k indicano rapide
oscillazioni. I valori permessi di~k sono dati attraverso il vettore traslazionale della
cella unitaria~t, cioè: ~k ·~t = 2πm, dove m è un intero positivo. La grandezza del set
di base è unicamente caratterizzata dalla più alta energia inclusa nel vettore ~k. Un
tipico cutoff energetico di 200eV corrisponde ad un basis set di ∼20000 funzioni,
cioè le onde piane tendono ad essere di gran lunga in numero maggiore rispetto
alle tipiche Gaussiane. Notiamo, tuttavia, che il numero di onde piane dipende

164
solo dalla grandezza della cella periodica, non dal sistema che si trova realmente
all’interno della cella. Mentre nel caso delle Gaussiane centrate sul nucleo queste
crescono linearmente con le dimensioni del sistema, cioè le onde piane sono più
efficienti per sistemi di grandi dimensioni.
Inizialmente le onde piane furono usate per descrivere esclusivamente siste-
mi periodici, ma negli ultimi anni sono state usate per descrivere specie moleco-
lari senza alcuna periodicità, utilizzando l’approccio a supercella [103], dove la
molecola è posta in una cella unitaria sufficientemente grande perchè non inte-
ragisca con la sua immagine. Le onde piane sono ideali per descrivere densità
elettroniche delocalizzate lentamente variabili, come le bande di valenza

165
Appendice E

Il principio di Ritz

Sia H un operatore hermitiano, con autovalori ed autovettori (ortonormalizza-


ti) definiti da:

H | φn i = En | φn i (E.1)

e il cui stato fondamentale corrisponde all’autovalore E0 ed all’autovettore | φ0 i


sia inoltre | ψi 6=| φ0 i un vettore di norma unitaria appartenente allo spazio di
Hilbert definito dagli autovettori di H. Si dimostra che vale la disuguaglianza di
Ritz-Rayleigh:

hφ0 | H | φ0 i < hψ | H | ψi (E.2)

Dimostrazione

Poiché | ψi appartiene allo spazio di Hilbert descritto dagli autovalori di H,


per la proprietà di completezza, esso può essere scritto come una combinazione
lineare degli autovettori di H, cioè:

| ψi = ∑ cn | φ i (E.3)
n

167
Il principio di Ritz

dove i coefficienti cn sono complessi. Inoltre, poichè | ψi normalizzato, si ha:

1 = hψ | ψi = ∑ c∗m cn hφm | φn i = ∑ c∗m cn δn,m = ∑ |cn |2 (E.4)


n,m n,m n

Usando la (E.3) si ricava:

hψ | H|ψi = ∑ c∗m cn hφm | H|φn i = ∑ c∗m cn En δn,m = ∑ |cn |2 En (E.5)


n,m n,m n

e quindi:
 
2
hψ | H|ψi − hφ0 | H|φ0 i = ∑ |cn| En − E0 = ∑ |cn |2 (En − E0 ) (E.6)
n n

Nell’ultimo passaggio si è fatto uso della (E.4). Nella (E.6) è chiaro che tutti
i termini della sommatoria con n 6= 0 sono positivi (infatti En > E0 ), mentre il
termine con n = 0 è evidentemente nullo. Di conseguenza l’espressione (E.6) avrà
il suo minimo assoluto quando tutti i cn con n 6= 0 sono nulli, in tal caso c0 = 1,
ovvero |φ i = |φ0 i e l’espressione (E.6) vale zero. Pertanto risulta dimostrato che
la (E.6) è maggiore di zero per tutti gli |φ i 6= |φ0 i

168
Appendice F

Algoritmi di ottimizzazione

L’ottimizzazione è una branca della matematica che studia teoria e metodi per
la ricerca dei punti stazionari di un modello che traduce in termini matematici
un dato problema (non occupandosi quindi direttamente di come tale modello sia
stato costruito). L’ambito di ricerca privilegiato dell’ottimizzazione è quello dei
modelli esprimibili in termini di funzioni a più variabili, nei quali i punti stazionari
vengono ricercati ponendo anche vincoli qualitativi espressi in termini di derivate
successive.
Un qualsiasi problema di ottimizzazione può essere espresso nella seguente
forma: 
 min f (x)
x
(F.1)
 ~x ∈ X ⊆ ℜ

dove ~x è il vettore delle variabili decisionali a n componenti e X è il sottoinsieme


dello spazio vettoriale definito dai vincoli. L’obiettivo è quindi quello di indi-
viduare il vettore ~x (cioè i valori da assegnare alle n variabili decisionali) che,
rispettando i vincoli, minimizza il valore della funzione obiettivo.
Nei problemi di ottimizzazione, generalmente, si prova a localizzare un va-
lore stazionario, per esempio dell’energia, in funzione di una qualche variabile.

170
Generalmente la ricerca è indirizzata sui minimi o sui punti di sella, sia globali
che locali. Potremmo pensare che per calcolare il minimo di una funzione a più
variabili, basti derivare in successione rispetto ad ognuna delle variabili lasciando
le altre fisse, e cosı̀ facendo raggiungere il minimo dopo un certo numero di passi.
Quest’approccio però suppone che le variabili siano indipendenti fra di loro, ed
inoltre diviene impraticabile per funzioni con un numero di variabili relativamente
piccole, da cinque a dieci.
Il problema può essere schematizzato in questo modo. Supponiamo di avere
una funzione f (~x), dove x è una variabile sconosciuta, e di voler trovare un mini-
mo di f . Naturalmente la prima cosa da fare sarà scegliere il punto di partenza ~x
da cui iniziare la ricerca, che ipotizziamo essere un certo x~0 in cui la f è nota. Na-
turalmente la scelta di tale punto può influenzare la ricerca del minimo, per questo
motivo si cerca sempre questo punto sulla base della conoscenza dell’andamento
di f (~x), in maniera tale da trovare un valore che non sia troppo distante dal mi-
nimo ricercato. A questo punto dobbiamo decidere due cose: (i) la direzione da
seguire nella ricerca del minimo, cioè dobbiamo scegliere la direzione da seguire
nel cammino dal punto x~0 a quello successivo; (ii) quanto grande deve essere
lo spostamento lungo quella direzione. Avremmo la seguente rappresentazione
iterativa:

xk+1 = xk + λk îk k = 0, 1, . . . , (F.2)

dove îk rappresenta la direzione e |λk îk | la grandezza dello spostamento (step).
La differenza tra i vari metodi di ottimizzazione è determinata dalla scelta della
direzione e dello step. Possiamo classificare i metodi approssimativamente in
questo modo:

1. Metodi che usano le derivate prime della funzione nel punto (metodi a
gradiente).

171
Algoritmi di ottimizzazione

2. Metodi che richiedono anche la conoscenza delle derivate seconde.

Naturalmente la scelta del metodo dipende dall’accuratezza e soprattutto dal co-


sto computazionale richiesto. I metodi (2) hanno il vantaggio di generare punti
che sono sufficientemente vicini al minimo in un numero di step inferiore, ma ciò
non significa necessariamente con un minor costo computazionale. I costi compu-
tazionali maggiori derivano dal calcolo e dal trattamento delle derivate seconde.
Per questo motivo i metodi (1) sono una scelta preferibile in molte situazioni. Al-
lo scopo di illustrare in modo più dettagliato questi metodi, supponiamo di voler
ottimizzare una funzione quadratica, della forma:
1
f (~x) = ~xT · Ŵ ·~x +~b ·~x + c (F.3)
2
dove Ŵ è una matrice definita positiva, ~x e ~b sono due vettori e c è una costante
scalare.

Il metodo dello Steepest Descent (SD)

Il metodo SD è il più semplice dei metodi a gradiente. La scelta della direzione


è quella secondo cui f diminuisce più rapidamente, e cioè nella direzione opposta
al gradiente di f calcolato in quel punto. La ricerca parte da un punto arbitrario
~x0 e scorre lungo il gradiente finchè non si è abbastanza vicini alla soluzione. In
formule, la procedura iterativa è:

~xk+1 =~xk − λk ∇ f (~xk ) =~xk − λk~g(~xk ) (F.4)

Adesso la domanda è: quanto grande dovrebbe essere lo step λk ? Ovviamente


vogliamo muoverci verso punti in cui la funzione produce un valore minimo,
che è la direzione lungo la quale la derivata direzionale si annulla. La derivata
direzionale sarà allora data da
d d
f (~xk+1 ) = ∇ f (~xk+1 )T · ~xk+1 = −∇ f (~xk+1 ) · g(~xk ) (F.5)
dλk dλk

172
dove T sta per trasposto. Ponendo quest’espressione uguale a zero, vediamo quali
direzioni scegliere via via e notiamo che sono ortogonali tra loro. Il prossimo pas-
so è allora spostarci nel punto che si trova nella direzione negativa del gradiente e
dopo n step otterremo un cammino a zig-zag (Fig.F.1). Quest’iterazione continua
fino ad un estremo che viene determinato in base all’accuratezza da noi scelta.
Questo è un problema di minimizzazione lungo una linea, dove la linea è data
dalla (F.4) per differenti valori di λk . Quindi la ricerca del minimo si riduce ad
una sequenza di ricerche lineari.

Figura F.1: Illustrazione bidimensionale del metodo SD. Si vede proprio come l’approccio al
minimo avviene attraverso una traiettoria a zig-zag.

Un modo alternativo di implementare questo metodo è quello di partire da una


dato valore di λk , che, se necessario, viene modificato durante le iterazioni, assi-
curandoci che la funzione diminuisca ad ogni step. Questo sistema porta dei van-
taggi nei casi in cui il calcolo usando la ricerca lineare è laborioso, infatti richiede
un numero di step maggiore per raggiungere il minimo, ma ad ogni iterazione
impiegherà un tempo minore per spostarsi da un punto ad un altro.
Come visto, il metodo SD è semplice, facile da applicare ed ogni iterazione
è rapida. E’ anche molto stabile, cioè se il minimo esiste, il metodo garantisce

173
Algoritmi di ottimizzazione

di localizzarlo dopo un certo numero di step. Nonostante tutte queste proprietà


positive, il metodo SD ha un importante svantaggio legato alla sua lenta conver-
genza. Nel caso in cui gli autovalori dell’Hessiano Ĥ calcolate lungo i punti sono

Figura F.2: Convergenza del metodo SD.

differenti di alcuni ordini di grandezza, il metodo può richiedere anche un numero


infinito di step prima di raggiungere il minimo. Quello che accade è che si avvia
con una convergenza ragionevole, ma la velocità d’avvicinamento al minimo via
via si abbassa fino quasi a fermarsi. Questa situazione è illustrata in Fig.F.2 nel
caso di una funzione quadratica.

Il metodo del Conjugate Gradient (CG)

Come visto in precedenza, la ragione della lenta convergenza del meotdo SD


è legata al fatto che ad ogni step cambia la direzione lungo la quale ci muoviamo.
Il metodo CG cerca di risolvere questo problema attraverso un metodo di “ap-
prendimento” dall’esperienza. Conjugacy significa che due vettori differenti, d~i e
d~ j , sono ortogonali rispetto ad una qualsiasi matrice simmetrica definita positiva,
per esempio la matrice Ŵ della (F.3), cioè:

d~iT · Ŵ · d~ j = 0 (F.6)

174
L’ idea è quella di prendere la direzione ~di dipendente da tutte le altre direzioni
possibili per localizzare il minimo di f attraverso l’equazione (F.6). Un insieme
di tali direzioni di ricerca è detto Ŵ -ortogonale o coniugato. Il modo migliore di
visualizzare il metodo CG è il seguente: supponiamo di avere lo spazio in cui sti-
amo lavorando e uno spazio “allungato” (Fig.F.3). La Fig.F.3a mostra la forma del
contorno di una funzione quadratica nello spazio reale, che è ellittica per ~b 6= 0.

Figura F.3: Schema d’ottimizzazione del CG (a). Tutte le direzioni presenti sono ortogonali. (b)
Lo stesso problema visto nello spazio “allungato”, dove le linee sono Ŵ -ortogonali.

Qualsiasi coppia di vettori che appare perpendicolare in questo spazio deve essere
ortogonale. La Fig.F.3b mostra lo stesso contorno in uno spazio che è allunga-
to lungo gli assi delimitati dagli autovettori della matrice Ŵ in modo tale che il
contorno ellittico diventi circolare. Una qualsiasi coppia di vettori che è perpen-
dicolare in questo spazio è, infatti, Ŵ -ortogonale. La ricerca del minimo nel caso
di una funzione quadratica parte dal punto x~0 (Fig.F.3a) ed effettua uno step lungo
la direzione d~0 e si ferma nel punto x~1 . Questo è un punto di minimo lungo quella
direzione, determinato con lo stesso metodo dello SD, cioè il minimo che si trova
nella direzione dove la derivata direzionale è nulla (F.5). La differenza essenziale

175
Algoritmi di ottimizzazione

tra il CG e lo SD è legata alla scelta della direzione da seguire dopo il primo pas-
so. Mentre il metodo SD dovrebbe seguire la direzione delimitata dal vettore ~r1
(Fig.F.3a), il metodo CG dovrebbe scegliere come direzione quella delimitata dal
vettore d~1 . Come riesce il CG a trovare la giusta direzione che porta al minimo ~x?
La risposta si trova nella Fig.F.3b; nello spazio allungato, la direzione d~0 sembra
essere tangente al contorno circolare nel punto x~1 . Poichè la direzione successiva
d~1 è costretta ad essere Ŵ -ortogonale alla precedente, essa apparirà perpendico-
lare in questo spazio modificato. Quindi, d~1 ci porterà direttamente al minimo
della funzione quadratica f (~x). Per evitare di ricercare lungo direzioni già esplo-
rate, il CG garantisce che la minimizzazione di f lungo una direzione non “rovini”
la minimizzazione lungo le altre; cioè che dopo i step, la f sarà minimizzata lungo
tutte le direzioni esplorate.
La F.6 afferma che una ricerca lungo d~i mostra dove il gradiente di f è ortogo-
nale a d~i e come muoverci adesso lungo la nuova direzione d~ j . Il gradiente subisce
una variazione:
δ (∇ f ) = Ŵ · d~ j (F.7)

Per non interferire con la minimizzazione lungo d~i , si richiede che il gradiente
resti perpendicolare a d~i ; cioè che il cambiamento nel gradiente sia esso stesso
ortogonale a d~i , come si vede dalla F.6. Per una funzione quadratica, come nella
F.3, la procedura è la seguente. Lo step iniziale è nella direzione dello SD:

d~0 = −~g(~x0 ) = −~g0 (F.8)

Successivamente, la direzione mutualmente coniugata è scelta in questo modo:

d~k+1 = −~gk+1 + βk d~k (F.9)

dove i coefficienti βk sono dati, per esempio, dalla formula di Flecther-Reeves:


~gTk+1 ·~gk+1
βk = (F.10)
~gTk ·~gk

176
La lunghezza dello step lungo ogni direzione è data da:

d~kT ·~gk
λk = (F.11)
d~T · (Ŵ · d~k )
k

Quando la matrice Ŵ non è nota, o la spesa computazionale è troppa per de-


terminarla, la lunghezza dello step può essere ricavata attraverso una ricerca li-
neare. Affinchè il metodo CG converga in n iterazioni, queste ricerche lineari
devono essere accurate. Anche piccole deviazioni possono causare la perdita del-
la Ŵ -ortogonalità ai vettori, che genera un aumento nel numero di iterazioni che
bisogna effettuare prima che converga al minimo. In pratica, una ricerca linea-
re accurata è impossibile, a causa sia dell’accuratezza numerica sia del limitato
tempo computazionale. Nel tentativo di risolvere tali problemi è stata introdot-
ta una formula alternativa a quella di Flechter-Reeves, la cosidetta formula di
Polak-Ribière:
~gTk+1 · (~gk+1 −~gk )
βk = (F.12)
~gTk ·~gk
Non c’è una grossa differenza di performance tra le due formule, ma quest’ultima
è sicuramente vantaggiosa nel caso di funzioni non quadratiche.
Il metodo CG oltre ad essere un ottimo metodo di ottimizzazzione, è un meto-
do largamente usato per il calcolo in modo iterativo dei sistemi di equazioni li-
neari. I suoi vantaggi sono la velocità e la scarsa quantita di memoria volatile
utilizzata per l’aggiornamento delle derivate seconde. Naturalmente al crescere di
n cresce anche la memoria utilizzata, ma in generale il metodo CG è preferito al
metodo SD.

Il metodo di Newton-Raphson (NR)

Il metodo NR differisce dai metodi appena visti nel fatto che il minimo viene
localizzato utilizzando l’informazione relativa alle derivate seconde della funzione

177
Algoritmi di ottimizzazione

f (x). Questo porta ad una più rapida convergenza, ma non ad un tempo compu-
tazionale necessariamente inferiore. Infatti, il calcolo delle derivate seconde e
la gestione della matrice Ĥ può richiedere uno sforzo computazionale enorme,
specialmente per sistemi molto grandi.
L’idea del metodo NR è approssimare la f (~x) in ogni iterazione attraverso una
funzione quadratica (F.3) e muovere questa funzione verso il minimo. La funzione
quadratica su un punto ~x in un adatto intorno del punto ~xk è data da una serie di
Taylor troncata:

1
f (~x) ≈ f (~xk ) + (~x −~xk )T ·~gk + (~x −~xk )T · Ĥk · (~x −~xk ) (F.13)
2

dove sia il gradiente g~k che la matrice Ĥk sono valutate in ~xk . Le derivate della
F.13 sono:
1 1
∇ f (~x) = ~gk + Ĥk · (~x −~xk ) + ĤkT · (~x −~xk ) (F.14)
2 2
La matrice Hessiana Ĥ è sempre simmetrica se la funzione ~xk è continua, dif-
ferenziabile due volte e con derivate continue su ogni punto. Quindi quest’ultima
equazione si riduce a:
∇ f (~x) = ~gk + Ĥk · (~x −~xk ) (F.15)

Se assumiamo che f (~x) possiede il suo minimo in ~x = ~x∗ , allora il gradiente in


quel punto sarà nullo, cioè:

Ĥk · (~x∗ −~xk ) +~gk = 0 (F.16)

che è un sistema lineare di equazioni. Il metodo NR usa il punto ~x∗ come punto
successivo presente nella formula iterativa:

~xk+1 =~xk − Ĥk−1 ·~gk (F.17)

dove il termine −Ĥk−1 ·~gk è detto direzione di Newton. Se l’approssimazione F.13


è valida, il metodo convergerà in poche iterazioni.

178
Benchè la convergenza possa sembrare molto rapida, osservando il numero di
step, ogni iterazione include il calcolo delle derivate seconde e la gestione della
matrice Ĥ. Le performance del metodo sono quindi dipendenti da alcune qualità di
questa matrice. Una di queste qualità è che la matrice deve essere definita positiva.
Infatti, affinchè il metodo converga verso il minimo, la direzione di Newton deve
essere una direzione in discesa. Perciò, si richiede che:

∇ f (~xk ) · d~k = ~gTk · (~xk+1 −~xk ) < 0 (F.18)

che usando la (F.17) diviene:

− (~xk+1 −~xk )T · Ĥk · (~xk+1 −~xk ) < 0 (F.19)

Questa disuguaglianza è soddisfatta in tutti i punti ~xk+1 −~xk 6= 0 se Ĥk è definita


positiva. Più lontano ~xk si trova dal minimo, peggiore è l’approssimazione (F.13),
che può generare un Ĥ non definito positivo. In questo caso non è garantito che
la procedura conduca ad un minimo; infatti potremmo anche trovare altri punti
critici, sia un punto di sella che un massimo. Ci sono alcuni modi per assicu-
ˆ dove Iˆ
rare che Ĥ sia definito positivo, ad esempio aggiungendo la quantità λ I,
è la matrice unitaria e λ è uno scalare positivo, oppure diagonalizzando la ma-
trice usando i suoi autovalori. La grandezza dell’Hessiano gioca un ruolo cruciale
sulla fattibilità del metodo NR. Per sistemi con un gran numero di dimensioni,
cioè sistemi dove f (~x) dipende da un gran numero di variabili il calcolo della
matrice genera un grosso sforzo computazionale. Approssimativamente possiamo
affermare che lo sforzo computazionale nel calcolo di Ĥ và come N 2 , dove N è
il numero di atomi. Questo vasto sforzo può essere abbassato usando solamente
i termini diagonali dell’Hessiano, cioè ignorando i termini incrociati, oppure non
ricalcolando l’Hessiano ad ogni step (può essere effettuato a causa delle lente
variazioni delle derivate seconde).

179
Algoritmi di ottimizzazione

Un altro serio svantaggio del metodo NR è che non necessariamente converge


globalmente, cioè che la convergenza dipende dal punto da cui si parte. Un modo
per risolvere questo problema è migliorare la grandezza dello step nella direzione
di Newton, assicurando che il valore della funzione diminuisca. In questo caso la
F.17 diviene:
~xk+1 =~xk − λk Ĥk−1 ·~gk (F.20)

Nonostante tutti i problemi menzionati, il metodo NR ha riscosso un certo suc-


cesso a causa della sua veloce convergenza in un intorno sufficientemente vicino
al valore stazionario. Il metodo NR ha la qualità opposta al metodo SD, cioè
converge inizialmente lentamente e finisce con una rapida convergenza [104].

180
Appendice G

Pseudopotenziali

Gli elementi chimici che si trovano nella parte più bassa della tavola periodica
hanno un elevato numero di elettroni di core. Questi elettroni non sono impor-
tanti dal punto di vista dello studio del legame chimico, poichè non partecipano
direttamente alla sua formazione o rottura ed inoltre poiché è necessario usare un
gran numero di funzioni di base per espandere i corrispondenti orbitali si potrebbe
pensare ad una via alternativa per la loro rappresentazione attraverso le funzioni di
base. Bisogna però tenere a mente che gli orbitali di valenza per essere descritti in
maniera adeguata necessitano di una buona rappresentazione degli orbitali di core,
a causa degli effetti di repulsione elettrone-elettrone. Inoltre negli elementi ap-
partenenti alla parte più bassa della tavola periodica gli effetti relativistici giocano
un ruolo essenziale complicando notevolmente i calcoli. Questi problemi pos-
sono essere “risolti” simultaneamente modellando gli elettroni di core attraverso
un’adatta funzione, e trattando solamente gli elettroni di valenza esplicitamente.

Le funzioni che modellano gli elettroni di core sono generalmente chiamate


Effective Core Potential (ECP) [105] oppure Pseudopotential (PP) [106]. I siste-
mi molecolari vengono descritti generalmente attraverso un set di basi Gaussiane,
mentre sono più frequentemente utilizzate le onde piane nei sistemi periodici este-

182
si (cristalli), e questa differenza è rispecchiata anche nei corrispondenti PP. Quan-
do usiamo funzioni Gaussiane per descrivere gli orbitali di valenza, è ovvio usare
le stesse funzioni per descrivere lo PP. Poichè le funzioni Gaussiane sono conti-
nue, non c’è una distanza fissa che caratterizza l’estensione del potenziale di core
e la qualità dell’ECP è determinata dal numero di elettroni che attraverso esse si
voglione rappresentare. Per i metalli di transizione, è chiaro che gli orbitali più
esterni, cioè (n + 1)s, (n + 1)p ed (n)d, costituiscono lo spazio di valenza. Se
scegliamo di modellizzare il resto degli orbitali attraverso uno PP, otterremo dalle
geometrie ragionevoli, ma troveremo che in alcuni casi le energie del sistema non
sono soddisfacenti. Il risultato migliore si ottiene includendo nel modello anche
gli orbitali che sono prossimi a quelli di valenza. In questo modo aumentano i
costi computazionali, ma si è certi che le energie derivate sono soddisfacenti. Per
esempio, nel caso dell’argento che ha numero atomico 47, possiamo considera-
re due differenti scelte per gli elettroni di core, oltre quella di cosiderarli tutti
esplicitamente, da simulare con un PP:

• Core “grande” ECP + 11 elettroni considerati esplicitamente:


(1s)2 (2s)2 (2p)6 (3p)6 (4s)2 (3d)10 (4p)6 + (4d)10 (5s)1 ;

• Core “piccolo” ECP + 19 elettroni considerati esplicitamente:


(1s)2 (2s)2 (2p)6 (3p)6 (3d)10 + (4s)2 (4p)6 (4d)10 (5s)1 ;

• Tutti gli elettroni considerati esplicitamente:


(1s)2 (2s)2 (2p)6 (3p)6 (4s)2 (4p)6 (3d)10 (4d)10 (5s)1 ;

Il guadagno nell’usare l’ECP è maggiore per atomi che appartengono alla parte
bassa della tavola periodica, specialmente per quelli dove gli effetti relativistici
sono importanti.
Il numero di onde piane da usare per rappresentare i nostri orbitali dipende
direttamente dal vettore d’onda, associato all’energia più grande, che è inversa-

183
Pseudopotenziali

mente proporzionale alla più piccola variazione della funzione d’onda che può
essere descritta. La singolarità del potenziale nucleare (Vne ) e i corrispettivi elet-
troni di core fortemente localizzati sono essenzialmente impossibili da descrivere
attraverso un numero ragionevole di onde piane. Gli PP sono quindi utilizzati per
“spalmare” la carica nucleare e modellare gli elettroni di core. Questi potenziali
sono caratterizzati tipicamente da un “raggio di core” rc . Cioè gli PP usati in
connessione con le onde piane hanno un estensione fisica finita. Il potenziale per
distanze più piccole di rc è descritto da un’adatta funzione analitica, tipicamente
un polinomio oppure una funzione sferica di Bessel. E’ chiaro che uno PP “duro”
(piccolo rc ) richiederà un numero maggiore di onde piane per descrivere la re-
gione al di sotto di rc rispetto ad uno “soffice” (grande rc ), ma quando rc diviene
troppo grande la qualità dei risultati calcolati si deteriora ed anche la trasferibilità
dello PP si perde.

Gli PP norm-conserving proposti da Hamann, Schlüter e Chiang richiedono,


in aggiunta alle condizioni viste su rc , che si conservi la norma della funzione
d’onda [107]. Per gli ultimi elementi della prima riga (C-F) e per i metalli di
transizione 3d (Sc-Zn), questi PP sono piuttosto “duri” e quindi richiedono un
cutoff d’energia relativamente grande per le onde piane. Vanderbilt propose di
rilassare la richiesta della conservazione della norma per generare i cosidetti PP
ultrasoft [108], riducendo in questo modo il numero di onde piane necessarie per
espandere gli orbitali di valenza di un fattore approssimativamente uguale a 2.

Mentre non genera nessun errore l’uso delle onde piane come funzioni di base
per espandere gli orbitali, l’uso dello PP per descrivere la regione di core comporta
un limite fondamentale all’accuratezza con cui possiamo svolgere i nostri calcoli.
Per sistemi composti da elementi delle prime due righe della tavola periodica, l’er-
rore nei calcoli DFT è approssimativamente equivalente a quello che si otterrebbe
usando basi Gaussiane per descrivere tutti gli elettroni [109]. Una limitazione im-

184
plicita al metodo degli PP è l’incapacità di descrivere le proprietà molecolari che
dipendono direttamente dagli elettroni di core (come nella X-ray photoelectron
spectroscopy (XPS)) o dalla densità elettronica vicino ai nuclei (come nell’NMR)
[51].

185
Appendice H

Algoritmo di Berny

Consideriamo una funzione E, dipendente da n variabili xi , e il gradiente ad


n dimensioni di questa funzione gi = dE/dxi . Desideriamo costruire una serie
di passi che ci portino ad un punto stazionario di E, cioè, un punto dove ~g = 0.
Assumiamo che tali passi p siano già stati fatti.
Perciò nello step p + 1 conosciamo il valore della funzione, E a , e del suo gra-
diente, ~ga , sui punti m + 1 (0 ≤ a ≤ m ≤ p). Indichiamo con ~x0 il punto corrente,
~x1 quello che lo precede, e cosı̀ via, con ~xm quello più vecchio. Attraverso lo step
precedente noi conosciamo anche una matrice F (n × n) che è un approssimazione
della vera matrice delle derivate seconde, cioè, Fi j = d 2 E/dxi dx j .
Un singolo step d’ottimizzazione può essere diviso in tre parti: (a) ottenere
le correzioni alla matrice approssimata delle derivate seconde; (b) ricercare un
minimo lungo la linea tra il punto corrente e il punto precedente; (c) stimare la
posizione del punto stazionario nell’intero spazio n-dimensionale usando il gra-
diente e la matrice approssimata delle derivate seconde. All’inizio del processo
d’ottimizzazione è richiesta un’adatta stima della matrice delle derivate seconde.
Punto a. Costruiamo un set di vettori di base ortonormali ~ra per lo spazio
attraversato dai vettori (~xa −~x0 ) tramite una procedura d’ortogonalizzazione di

187
Algoritmo di Berny

Gram-Schmidt.
a−1
r̃ia = (xia − xi0 ) − ∑ rib ∑(xia − xi0)rbj (H.1)
b=1 j

ria = r̃ia |r̃ia |

In determinate circostanze, potrebbe essere necessario eliminare alcuni punti pre-



cedenti. Se un punto è troppo lontano dal punto corrente ( ~xa −~x0 > rmax ) oppure
se i punti sono quasi collineari (|x̃a | < rsoglia ), allora il punto è scartato. Perciò
nello step p + 1, un totale di m + 1 valutazioni sull’energia e sul gradiente sono
disponibili per il calcolo delle correzioni da effettuare sulla matrice approssimata
delle costanti di forza.
Nello spazio attraversato dai vettori~ra , otteniamo la nuova e la vecchia stima
delle derivate seconde, knab e k0ab , rispettivamente:

a−1
∑ (gai − g0i )rib − ∑ kcb ∑(xia − xi0)ric
i c=1 i
knab = a 0 a
6= knba
∑ (xi − xi )ri
i

k0ab = k0ba = ∑ ria Fi j rbj (H.2)


ij

Questi valori vengono utilizzati per ottenere la stima di F,


m  h i
ij ij
Fnew = Fold + ∑ knab − k0ab ria rib + (1 − δab ) raj rib (H.3)
b≥a

Nell’eq.H.2 i valori di knab e knba saranno, in generale, differenti se E non è una


funzione quadratica. Tuttavia, noi vogliamo che F sia una matrice simmetrica.
Possiamo assumere che l’ampiezza dei contributi non quadratici a ~ga −~g0 in-


crementi con la distanza ~xa −~x0 . Se facciamo l’ulteriore assunzione che ogni
step produce un punto sempre più vicino al minimo, oppure riordiniamo ~xa in
modo da verificare quest’assunzione, allora ~ga −~g0 sono ordinati approssimati-


vamene in termini del decremento dei contributi non quadratici. Quindi, per b > a,

188
ci aspettiamo che knab abbia una componente non quadratica più piccola rispetto a
knba .
Se l’ampiezza del vettore gradiente è molto grande, possiamo migliorare la
situazione evitando di calcolare la matrice delle derivate seconde fino a che i gra-
dienti non assumono un valore al di sotto di una certo cutoff. Questo comporta
che negli ultimi step dell’ottimizzazione non spenderemo tempo nel correggere le
derivate seconde ottenute nei primi step. L’effetto netto di questo approccio è uti-
lizzare nei primi step un algoritmo SD, fino a che i gradienti non scendono sotto
un valore ragionevole.
Punto b. Bisogna ricercare un minimo per E nella direzione ~xa −~xb attraver-


so un fit polinomiale E 0 , ~g0 , E 1 e ~g1 . Nelle applicazioni è generalmente usato per


il fit un polinomio di quarto grado . Questa funzione è fittata su due diverse ener-
gie e due gradienti direzionali con in aggiunta il constraint d 2 E/dx2 ≥ 0, in cui
l’uguaglianza vale solo su un punto. Una tale funzione ha il vantaggio di possedere
un singolo minimo locale che è anche il minimo globale. Indichiamo con x̃i le co-
ordinate del minimo nello spazio monodimensionale. Le derivate g̃i su x̃i possono
allora essere ottenute da ~g0 e ~g1 attraverso un’interpolazione.
Punto c. Usando la nuova stima della matrice delle derivate seconde F ottenuta
attraverso il punto a ed ottenute le coordinate monodimensionali dal punto b, la
prossima stima della posizione del punto stazionario è data da:

xinew = x̃i − ∑ Fi−1


j g̃ j (H.4)
j

L’inverso della matrice delle derivate seconde è calcolato attraverso una diago-
nalizzazione della matrice. Gli autovalori possono allora essere testati in maniera
tale da assicurare che la matrice sia definita positiva e perciò che lo step d’ottimiz-
zazione proceda realmente verso un minimo. Se troviamo un autovalore negativo,
invertiamo il suo segno. L’effetto netto è quello di forzare una procedura di SD
lungo la direzione degli autovettori associati agli autovalori negativi. La matrice

189
Algoritmo di Berny

inversa può allora essere costruita attraverso gli autovalori e gli autovettori. Inoltre
si richiede che la variazione totale su un qualsiasi xi deve essere al dı̀ sotto di una
certa soglia. Se il cambiamento in ~c è troppo grande, allora la variazione prevista
è scalata in modo tale che i limiti non siano eccedenti.
Lo step successivo è simile a quelli già visti, in cui si utilizzano le informazioni
che vengono dagli n step precedenti e si eliminano le informazioni derivanti dagli
step più “vecchi”. Ad ogni step il gradiente e i vettori spostamento sono testati
per vedere se l’ottimizzazione è giunta a convergenza. Lo scarto quadratico medio
(RMS) del gradiente e del valore assoluto della più grande componente del gra-
diente devono essere al di sotto del loro rispettivo valore di soglia. Lo spostamento
spaziale stimato deve superare un test simile sull’RMS e sul valore assoluto della
componente più grande. Se queste quattro condizioni sono soddisfatte, l’ottimiz-
zazione è completata. Se le condizioni non sono soddisfatte, il processo continua
a meno che non superi il numero massimo di step imposti [110].

190
Appendice I

Natural Bond Orbital (NBO)

La densità elettronica è uguale al modulo quadro della funzione d’onda,


|Ψ|2 = Ψ∗ Ψ. La matrice densità ridotta di ordine k, γk , è definita come [68]:
 Z
0 0 Nelec
γk (~r1 , . . .~rk ,~r1 , . . .~rk ) = Ψ∗ (~r10 , . . .~rk0 ,~rk+1 , . . .~rNelec )×
k (I.1)
Z
× Ψ(~r1 , . . .~rk ,~rk+1 , . . .~rNelec )d~rk+1 . . . d~rNelec

Notiamo che le coordinate per Ψ∗ e Ψ sono differenti. Di speciale impor-


tanza nella teoria dei sistemi a molti elettroni sono le matrici densità ridotta del
primo e del secondo ordine, γ1 (~r1 ,~r10 ) e γ2 (~r1 ,~r2 ,~r10 ,~r20 ), poichè l’operatore Ĥ con-
tiene solamente operatori ad uno e due elettroni. Integrando la matrice densità
del primo ordine sulle coordinate 1 otteniamo il numero di elettroni, Nelec , mentre
l’integrale della matrice densità del secondo ordine sulle coordinate uno e due è:
Nelec (Nelec − 1) (cioè il numero di elettroni accoppiati). La matrice densità può
essere diagonalizzata, ed i corrispondenti autovettori ed autovalori sono detti Na-
tural Orbitals (NO) e Occupation Numbers. Le corrispondenti autofunzioni per
la matrice densità del secondo ordine sono dette Natural Geminals.
Il concetto di NO può essere usato per calcolare la distribuzione elettronica
negli atomi e negli orbitali molecolari, e quindi derivare le cariche atomiche ed i

192
legami molecolari. L’idea del Natural Atomic Orbital (NAO) e dell’analisi NBO
[111] è quello di usare la matrice densità one-electron per definire la forma degli
orbitali atomici nell’ambiente molecolare e derivare i legami molecolari tra gli
atomi attraverso la densità elettronica.
Assumiamo che le funzioni di base siano distribuite in maniera tale che tutti
gli orbitali localizzati sul centro A vengono prima di quelli localizzati sul centro
B, che sono prima di quelli localizzati sul centro C, ecc.

χ1A , χ2A , χ3A , . . . , χkB , χk+1


B B
, χk+2 , . . . , χnC , χn+1
C C
, χn+2 ,... (I.2)

La matrice densità può essere scritta in termini di blocchi di funzioni di base


appartenenti ad uno specifico centro:
..
 
DAA DAB DAC .
.. 
 
 AB
D DBB DBC . 
D=  AC .. 
 (I.3)
D DBC DCC . 
 
...
... ... ...
L’orbitale atomico naturale per l’atomo A nell’ambiente molecolare può es-
sere definito come quell’orbitale che diagonalizza il blocco DAA , per l’atomo B
quello che diagonalizza il blocco DBB , etc. Questi NAO non saranno in generale
ortogonali, e i numeri d’occupazione degli orbitali non saranno quindi la somma
del numero totale degli elettroni. Per ottenere una buona divisione degli elettroni,
gli orbitali devono essere ortogonalizzati.
I NAO normalmente somigliano ai semplici orbitali atomici (come calcolati
per un atomo isolato) e possono essere divisi, sulla base della grandezza dei nu-
meri di occupazione in: “basi minime naturali” (corrispondenti agli orbitali atomi-
ci occupati per l’atomo isolato) e un rimanente set di orbitali naturali “Rydberg”.
Il set minimo di NAO normalmente è fortemente occupato (cioè hanno numero
d’occupazione maggiore di zero), mentre i NAO-Rydberg generalmente sono oc-
cupati debolmente (cioè numero d’occupazione vicino allo zero). Il numero di

193
Natural Bond Orbital (NBO)

NAO dipende dalla grandezza del set di base atomico, in particolare, il numero
di NAO-Rydberg incrementa all’aumentare del set di basi. Quindi è desiderabile
che la procedura d’ortogonalizzazione preservi la forma degli orbitali fortemente
occupati quanto più possibile. La procedura è la seguente (Fig.I.1):

1. Ognuno dei blocchi atomici nella matrice densità è diagonalizzato e produce


un set di NAO non ortogonali, spesso denotati “pre-NAO”.

2. Ogni “pre-NAO” fortemente occupato associato ad un centro è reso ortogo-


nale a tutti gli altri “pre-NAO” fortemente occupati associati agli altri centri
attraverso una procedura di diagonalizzazione pesata attraverso il numero
d’occupazione.

3. Ogni “pre-NAO” debolmente occupato associato ad un centro è reso orto-


gonale a tutti i “pre-NAO” fortemente occupati associati allo stesso centro
attraverso una procedura d’ortogonalizzazione di Gram-Schmidt.

4. Ogni NAO debolmente occupato è reso ortogonale a tutti gli altri NAO
debolmente occupati associati a centri diversi attraverso una procedura di
diagonalizzazione pesata attraverso il numero d’occupazione.

Figura I.1: Illustrazione della procedura di ortogonalizzazione nell’analisi NAO

194
Il set finale di orbitali ortogonali sono semplicemente denotati NAO, e gli
elementi diagonali della matrice densità in queste basi sono le popolazioni degli
orbitali. Sommando tutti i contributi degli orbitali appartenenti ad uno specifico
centro si ottiene la carica atomica. Generalmente si trova che i “natural mini-
mal” NAO contribuiscono a più del 99% della densità elettronica, e formano una
rappresentazione molto compatta della funzione d’onda in termini degli orbitali
atomici. L’ulteriore vantaggio dei NAO è che sono definiti dalla matrice densità,
garantendo in questo modo che il numero d’occupazione associato agli elettroni
sia compreso tra 0 e 2, e che convergono ad un ben definito valore all’aumentare
del basis set. Inoltre, l’analisi può essere effettuata anche per funzioni d’onda
correlate. Lo svantaggio delle NAO è che la loro estensione può superare di gran
lunga le dimensioni dell’atomo a cui sono associate e, quindi, possono descrivere
densità elettroniche che si trovano vicine ad un nucleo differente da quello per cui
sono state create e su cui sono centrate.
Quindi la matrice densità è stata trasformata nelle basi NAO ed i legami tra
gli atomi possono essere identificati attraverso i blocchi che si trovano fuori dalla
diagonale. La procedura coinvolge i seguenti step:

1. I NAO per un blocco atomico nella matrice densità che hanno numero d’oc-
cupazione molto vicino a 2 (diciamo >1.999) sono identificati come orbitali
di core. Il loro contributo dalla matrice densità è rimosso.

2. I NAO per un blocco atomico nella matrice densità che hanno un grande
numero d’occupazione (diciamo >1.90) sono identificati come orbitali con
un doppietto elettronico. Il loro contributo dalla matrice densità è rimosso.

3. Ogni coppia di atomi (AB, AC, BC, . . .) viene adesso considerata, ed i sot-
toblocchi a coppie di due della matrice densità sono diagonalizzati (senza i
contributi di core e dei doppietti elettronici). Gli NBO sono identificati co-

195
Natural Bond Orbital (NBO)

me gli autovettori con grandi autovalori (numeri d’occupazione più grandi


di 1.90).

4. Se vengono generati un numero insufficiente di NBO tramite la procedura


appena vista (cioè la somma del numero d’occupazione per il core, per i
doppietti elettronici e per gli orbitali di legame è più piccola del numero
di elettroni), il criterio di accettazione di un NBO viene gradualmente ab-
bassato finché ad un numero sufficiente di elettroni non viene assegnato un
legame.

Una volta ricavati gli NBO questi possono essere scritti come una combinazione
lineare dei NAO, generando un modello localizzato degli “orbitali” atomici che
sono coinvolti nei legami.

196
Ringraziamenti

Il mio primo pensiero va alla mia famiglia. Non esiste un modo per ripagare
appieno i sacrifici che avete fatto per me. A mia madre che non si è mai stancata
e con forza mi ha sostenuto nei momenti bui. A mio padre che mi fa sentire or-
goglioso di essere suo figlio quando vedo quello che ha fatto e come lo ha fatto. A
mio fratello perché è il mio “miracolo”, un mio punto di riferimento e mi è sempre
stato accanto anche da lontano. A mia sorella che riesce a sorprendermi sempre
e che per troppo tempo non ha avuto un “buon” fratello ma che col tempo, spero,
riuscirà ad apprezzare. Alla mia famiglia allargata Rossana e Fabrizio. Infine ai
miei due nipotini che riescono a farmi piangere come un bambino. Grazie.

Desidero ringraziare la Dott.ssa Velia Minicozzi per la disponibilità, per la


pazienza e per la guida che mi fornito durante tutto questo lavoro di Tesi. Ringrazio
la Prof.ssa Silvia Morante per avermi accordato la sua fiducia e permesso di la-
vorare nel suo gruppo di ricerca. Inoltre ringrazio il Prof. Giancarlo Rossi per
i suggerimenti e le correzioni. Un grazie alla disponibilità e al lavoro dei ricer-
catori del gruppo dell’Università della Calabria, in particolare la Dott.ssa Tiziana
Marino e il Prof. Nino Russo. Un ringraziamento particolare al Dott. Francesco
Stellato che, quasi quotidianamente, ha sopportato in quest’ultimo anno le mie
lamentele e mi ha fornito continui suggerimenti.

Un grazie a Cristina per avermi sopportato, per aver curato tutte le mie ferite

198
e per avermi fatto ridere nei momenti peggiori.

Vorrei ringraziare con sincero affetto Filippo per tutto quello che ha fatto, per
l’aiuto nella stesura della tesi e per avermi dato forza in un momento di sconforto.
Un grazie a tutti i miei amici. Non me ne vogliano se non li cito uno per uno, ma
“sta tesi adda fernı̀”.

Infine il più importante dei ringraziamenti lo riservo per Dio che mi ha da-
to la forza di superare dei momenti molto bui, mi ha protetto e non mi ha mai
abbandonato lungo questo cammino. Grazie Signore.

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