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Capitolo 2. Il processo di globalizzazione: geografie della complessità.

2.1 La costruzione di un'idea → La parola 'globalizzazione' è una traduzione del termine inglese globalization,la cui
prima apparizione,registrata dall'Oxford English Dictionary,sulla cui scorta la parola globalization deriva dal termine
mondialisation,già diffuso in Francia. Sotto il profilo concettuale,un primo importante contributo si deve a Marshall
McLuhan (1968),probabilmente il primo,già negli anni '60,ad usare il termine 'globale' in senso moderno. Per
lui,infatti,sono i mezzi di comunicazione in sé,e non le informazioni o le idee che essi disseminano,a plasmare la società.
I nuovi sviluppi tecnologici erano destinati a trasformare il mondo in un 'villaggio globale',ovvero un luogo culturalmente
interattivo e sostanzialmente e sostanzialmente coeso sotto una molteplicità di aspetti. Si coglie quindi l'evoluzione del
termine 'globale' che da un originario significato di complessivo o totale va via via connotandosi sempre più con i concetti
di interattività e interdipendenza.
La seconda radice del concetto di globalizzazione,ossia l'analisi dell'interazione tra sistemi economici,si può individuare
nell'opera della scuola storica francese della rivista 'Les Annales',in particolare in Fernand Braudel. Egli mise in luce il
carattere strutturale delle interdipendenze che il commercio internazionale portava con sé dei legami che così si
venivano a creare tra differenti nazioni e aree geografiche. Introdusse il concetto di 'economia mondo',ovvero
un'economia non necessariamente caratterizzata da un'estensione a livello planetario ma definita da uno spazio
geografico interdipendente,strutturata al su interno con un centro dominante,zone intermedie ed aree periferiche. Un suo
allievo,Wallerstain,ha sostenuto l'unicità dell' 'economia-mondo' identificandola con quella europea a partire dal XVI
secolo ed ha introdotto in questa analisi anche l'elemento politico,d cui il concetto 'impero-mondo'.
La terza radice del concetto di globalizzazione è legata all'interazione delle imprese in un mercato mondiale di tipo
concorrenziale. Si fa qui riferimento ad una serie di lavori di alcuni economisti d'impresa,come gli statunitensi Levitt e
Porter e il giapponese Ohmae. Questi furono probabilmente i primi ad usare il termine 'globalizzazione' per indicare
l'essenza del cambiamento che venivano osservando nelle strategie delle grandi imprese multinazionali. Queste imprese
riservavano alle sedi centrali le attività finanziarie,di ricerca scientifica e la politica delle acquisizioni e delle
cessioni,mentre concepivano come semidipendente l'operato delle singole controllate nazionali. A partire dalla seconda
metà degli anni '80,per contro,a seguito della riforma dei mercati finanziari,le multinazionali mostrano la tendenza a
concentrare l'attività in uno o pochi settori in cui raggiungono dimensioni ragguardevoli,e ad abbandonare così la
struttura a conglomerato.
Porter indica come global competition la sfida che hanno di fronte le imprese nel mercato concorrenziale in un contesto
in cui il mercato globale sembra diventare la forma moderna della libera concorrenza. Ohmae,dal canto suo,parla di
borderless economy,ossia di un'economia senza confini,in cui vengono meno le distinzioni tra interno ed internazionale e
sussistono,al massimo,aggregazioni di tipo regionale,determinate soprattutto da contiguità geografiche. Risulta più
difficile invece identificare una 'teoria generale' della globalizzazione.
I principi ispiratori della globalizzazione si possono vedere da un insieme di linee guida comuni a tre istituzioni chiave
della politica economica mondiale con sede a Washington,vale a dire la Banca Mondiale,in Fondo Monetario
Internazionale e il Tesoro degli Stati Uniti. Tali principi sono conosciuti con la formula divenuta oggi famosa di Wahsinton
Consensus.
L'espressione si deve all'economista John Williamson,che descrive il consenso come un insieme di dieci aree sulla cui
riforma si registrava un sostanziale consenso tra responsabili delle politiche e studiosi di Washington . Un consenso
condiviso sia dalla Washigton politica,rappresentata dal Congresso e dai membri dell'amministrazione,sia dalla
Washington tecnolocratica delle istituzioni finanziare internazionali,delle agenzie economiche del governo
statunitense,del consiglio di amministrazione della Federal Reserve e dei cosiddetti think tanks,. I dieci punti della
Washington Consensus erano: disciplina fiscale (eliminazione di disavanzi); priorità della spesa pubblica (riduzione della
spesa sociale); riforma fiscale (abbattimento delle aliquote di imposta); liberalizzazione finanziaria (eliminazione dei
controlli sui flussi); tassi di cambio competitivi (svalutazione); liberalizzazione degli scambi commerciali (barriere
tariffarie); investimenti diretti esteri (liberalizzazione); privatizzazione; deregolamentazione; diritti di proprietà. → Si tratta
a ben vedere di nuove libertà per i privati e soprattutto per le imprese e di nuovi obblighi per i governi,di regola associati
ad un quadro di diritti civili e politici e a sistemi istituzionali di tipo democratico occidentale. Tutto ciò è stato pensato
soprattutto per accelerare le dinamiche dei Paesi in Via di Sviluppo (PVS).
La globalizzazione come ideologia rappresenta l'estensione all'intero mondo di queste ricette con quella che si potrebbe
definire una mondializzazione del Washington Consensus. La differenza più significativa è consistita nella nuova
connotazione che ha spostato l'enfasi dal rigore e dall'austerità impliciti nel concetto di aggiustamento strutturale,alle
opportunità e ai vantaggi offerti da una nuova dello sviluppo. Lo sviluppo continua ad essere inteso esclusivamente in
termini di crescita economica e l'ideologia della globalizzazione identifica gli impedimenti allo sviluppo in fattori interni
alle nazioni imponendo,però,soluzioni basate sull'orientamento delle economie nazionali.
Sul fronte opposto,le agenzie dell'ONU hanno acquistato negli anni '90 nuova vitalità e hanno preso forma due importanti
sfide al Washington Consensus. La prima è stata quella dell'elaborazione di un approccio per lo sviluppo umano portata
avanti dall'UNDP ed esplicitata nei suoi annuali 'rapporti sullo sviluppo umano'. La seconda si è basata su analisi
prodotte nella prospettiva dei Paesi cosiddetti late comers e si può considerare il risultato della convergenza tra le
posizioni dell'ECLAC (United Nations Economic and Social Commission for Asia and the Pacific),convergenza che è
stata ripresa e più compiutamente articolata negli annuali rapporti dell'UNCTAD (United Nations Commission on Trade
and Development).
Lo svilippo,negli anni '90 è diventato il campo di battaglia ideologico di uno scontro tra le istituzioni influenzate dai Paesi
centrali dell'economia mondiale e quelle che tendono a dar voce alle istanze dei Paesi della periferia. Negli ultimi anni si
sono moltiplicate le resistenze all'ideologia della globalizzazione. Lo stesso Washington Consensus,non gode più di un
sostegno monolitico. Molte istituzioni che avevano sostenuto il credo globalizzatore hanno attenuato le loro posizioni
dedicando una maggiore attenzione alla dimensione sociale ed istituzionale dello sviluppo economico. Ad esempio,la
Banca Mondiale ha introdotto fattori come la good governance e il capitale sociale.
In tempi più recenti,ci sono state voci critiche volte a mettere in luce come per quanto la globalizzazione sia un processo
inevitabile,è possibile farla funzionare in direzione del benessere dei paesi più arretrati dei cittadini dei paesi avanzati
attraverso un mix di politiche di solidarietà e di intervento delle istituzioni internazionali. Il consenso delle principali
organizzazioni multilaterali verte su una serie di principi quali ad esempio: la centralità di
amministrazione,legalità,istruzione,altre forma di assistenza allo sviluppo dei Paesi più poveri,la necessità della
collaborazione tra organizzazioni nazionali ed internazionali,ecc. Però queste iniziative non sembrano aver
costituito,finora,niente di più che un'elaborata operazioni di cosmesi istituzionale nata dalla necessità delle istituzioni di
Bretton Woods di rifarsi un'immagine e delle Nazioni Unite di uscire dall'impasse di una critica che non riesce ad essere
costruttiva.
2.2 Problemi e contraddizioni del capitalismo 'sovralimentato'. Dai primi mesi del 2008,la globalizzazione sta
attraversando una fase 'difficile' e per molti è la causa del collasso finanziario,della crescente ineguaglianza dei redditi.
Per altri,invece,la globalizzazione è la soluzione di tutti i problemi.
Chi critica oggi la globalizzazione come causa di tutti i mali,sembra dimenticare che,a partire dall'inizio degli anni '80,è
avvenuto un cambiamento fondamentale nel capitalismo,dapprima anglosassone e poi europeo e mondiale. Il
capitalismo,infatti,ha trionfato poiché la struttura dell'economia di gran parte del mondo si è spostata verso mercati meno
regolati e controllati,facendo sì che il potere passasse dalle mani dei produttori a quelle dei consumatori e degli
investitori. Il capitalismo è divenuto meno 'controllato',anche i suoi aspetti democratici sono diminuiti. C'è stato un
indebolimento della democrazia e il capitalismo democratico è stato sostituito dal capitalismo sovralimentato o
'turbocapitalismo',secondo la definizione di Edward Luttwak.
La progressiva affermazione del turbocapitalismo ha prodotto politiche economiche imperniate sui dogmi della
liberalizzazione e della privatizzazione,ignorando le specificità sociali,culturali ed in generale nazionali. Il capitalismo
controllato,viceversa,era gestito in modo molto diverso negli Stati Uniti,in Europa occidentale e in Giappone,nonostante
in ognuna di queste versioni si prefiggesse comunque di porre alcuni limiti alla libera concorrenza,sacrificandone una
parte sull'altare della stabilizzazione delle industrie e,di riflesso,dell'esistenza di chi ne dipendeva economicamente.
Secondo il credo turbocapitalista,il capitalismo controllato aveva alimentato perniciose interferenze
governative,dimenticando che il Mondo occidentale negli anni '50,'60 e '70 ha avuto una crescita economica molto più
elevata di quanto non sia accaduto successivamente. Ciò vuol dire che o non c'era tutta quella inefficienza,oppure
esisteva,ma era controbilanciata dal vantaggio non manifesto della stabilità. Nell'eclissi del capitalismo
controllato,l'ideologia e le mode intellettuali hanno svolto un ruolo essenziale. Le varie ondate di liberalizzazioni e
privatizzazioni che si sono succedute,sono state decise,però,senza che gli interrogativi più 'scomodi' venissero neppure
posti. Robert Raich è tornato con un'analisi ex post sulle dinamiche consolidatesi negli ultimi vent'anni nel 'nuovo'
capitalismo,sostituendo il prefisso 'super' al 'turbo' usato da Luttwak. L'analisi del supercapitalismo è incentrata
sull'affievolimento dei diritti garantiti dalla democrazia,progressivamente indeboliti proprio dalle pressioni esercitate dal
nuovo sistema economico. Secondo Reich,negli ultimi decenni si è assistito ad un progressivo svuotamento del potere
esercitato in quanto cittadini,in favore di un maggiore potere in quanto consumatori e investitori. I mercati sono diventati
incredibilmente sensibili alle richieste individuali dei consumatori e degli investitori,senza però essere in grado di
soddisfare le richieste della collettività. Diciamo che le istituzioni che un tempo aggregavano le volontà dei cittadini si
sono progressivamente indebolite; il cittadino 'politico' è divenuto estremamente più vulnerabile. L'unico modo affinché il
'politico' abbia la meglio sul consumatore/investitore è attraverso leggi e norme capaci di trasformare le scelte di acquisto
ed investimento in scelte sociali che vadano oltre quelle meramente ed utilitaristicamente personali.
Molti dei problemi interni alle economie dei singoli Paesi,nascono dall'assenza di regole di governo e di mercati globali.
Vi è quindi la necessità di costruire ed adottare un insieme di regole condivise. Il premio nobel Joseph Stiglitz suggeriva
la creazione di una struttura legale internazionale,con efficacia garantita da una corte internazionale,ma sino ad ora
l'unico tentativo di costruire un quadro regolatorio articolato e completo è stato quello fatto dall'OCSE,che ha definito un
nuovo Global Legal Standars per l'economia e la finanza mondiale,mirante ad una convergenza condivisa al massimo
livello da strutture legali internazionali. Tutto ciò lascia intendere che la globalizzazione continuerà ad avere una propria
vitalità e a caratterizzare in modo marcato il futuro dell'economia,nonostante i venti di crisi che imperversano dal 2008. in
sostanza,la globalizzazione non cadrà sotto i colpi della crisi economica.
La globalizzazione in senso ampio non è altro che l'allargamento,l'approfondimento e l'accelerazione della
interconnessione,a livello mondiale,tra tutti gli aspetti della vita sociale contemporanea. In tale contesto è possibile che
alcuni governi possano essere tentati di rispondere alla crisi adottando politiche protezionistiche,imponendo regole che
possano inibire l'integrazione finanziaria,o prendendo misure che tengano a freno l'immigrazione. La globalizzazione è
una forza così potente e diversificata che neanche la gigantesca crisi economica in atto la rallenterà o le farà fare marcia
indietro.
Molti analisti,hanno sostenuto che l'ondata di globalizzazione emersa negli anni '90 è solo il proseguimento di un
processo di lungo periodo iniziato già nell'ottocento,quando l'introduzione del battello a vapore ha rivoluzionato i
trasporti,la stampa,il telegrafo,ecc. Tuttavia,l'ondata attuale di globalizzazione ha un insieme di caratteristiche senza
precedenti: la diffusione dell'accesso a internet,il ritmo del cambiamento che accelera ecc. Per alcuni,la globalizzazione
è stato niente più che un progetto americano teso ad espandere il dominio economico,militare e culturale degli Stati
Uniti. A tal proposito è arduo difendere l'idea che la globalizzazione sia una strada a senso unico,realizzata per
diffondere gli interessi americani nel mondo. Tali cambiamenti hanno avuto nuovi ed improponibili rivali nel contendere
l'egemonia americana. I fondi sovrani dell'Asia e del medio oriente,infatti,hanno spiazzato le banche americane; il
successo delle aziende cinesi o dei produttori di software e di film indiani,ecc. Volendo estremizzare,si può dire persino
che Al Qaeda è la figlia della globalizzazione. Infatti,la mobilità internazionale dei suoi membri,la raccolta di fondi e
risorse finanziarie,sono enormemente avvantaggiate dalle forze che guidano la globalizzazione: la facilità di viaggi e
spostamenti,di trasporti e comunicazioni ecc. Gli Stati Uniti hanno beneficiato molto della globalizzazione,ma non si può
certo dire che siano stati i soli.
Tra i maggiori limiti c'è quello che si tratti di un 'affare dei ricchi per i ricchi'. Questo trend tenderà inevitabilmente a
rallentare e,in alcuni paesi,sarà tragicamente ribaltato,poiché la crisi tende a respingere nuovamente verso il basso un
ampio numero di individui che faticosamente avevano scalato la piramide del reddito. Resta però il fatto che un numero
di paesi poveri ha avuto successo. La Cina e l'India sono esempi paradigmatici di questa tendenza. Ma sono anche
l'esempio di paesi dove una povertà degradante,coesiste con una ricchezza estrema. Va tuttavia rilevato che,tanto nei
paesi ricchi quanto in quelli poveri,l'ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza è diventata una delle principali
preoccupazioni e la globalizzazione viene additata come una delle cause all'origine di tale disuguaglianza.
2.3 GLOBALIZZAZIONE: UN PROCESSO E TRE FASI
2.3.1 MORTE DELLA DISTANZA? → Ciò che oggi troviamo più spesso nelle definizioni di globalizzazione è
sicuramente come oggi il mondo sia più piccolo e come ciò che prima era lontano ora lo sia meno. La globalizzazione è
fondamentalmente un fenomeno geoeconomico,ovvero la tendenza dell'economia ad assumere una dimensione
mondiale,anche se,poi,il fenomeno della crescente integrazione dei mercati dei beni,dei servizi e dei fattori produttivi può
dar luogo a implicazioni politiche,culturali e ambientali. Se guardiamo ai pesi industrializzati e quelli in via di
sviluppo,negli ultimi decenni il commercio internazionale ha avuto un peso rilevante ed è cresciuto ad un ritmo più
sostenuto di quello dei redditi nazionali. Accanto a ciò il paniere dei beni acquistati dei dai cittadini di un Paese è in parte
composto da beni prodotti in altri Paesi; oppure le imprese possono scegliere di localizzare fasi diverse della produzione
in luoghi geograficamente distanti,ecc. Tuttavia,la visione d'insieme generalmente proposta dai mass media tende ad
essere esagerata. Da ciò deriva che il 'globale' e il 'locale' sono ancora dimensioni ben distinte e il mondo non è poi così
tanto piccolo da rendere irrilevante la differenza tra nazionale e internazionale. Su quest'ultimo punto ci sono due filoni. Il
primo filone viene indicato con l'espressione home bias,con la quale si identifica la tendenza,sottostante l'evidente
preferenza della produzione,nel consumo e nell'allocazione del risparmio,per ciò che è locale; il secondo riguarda
l'utilizzazione di una 'equazione gravitazionale',in cui la distanza è esplicitamente considerata come variabile
esplicativa,nella stima dei flussi commerciali bilaterali.
2.3.2 UNA PERIODIZZAZIONE DELLA GLOBALIZZAZIONE → Se si considerano tre variabili chiave – flussi
migratori,esportazioni e investimenti diretti all'estero nei paesi in via di sviluppo – è possibile identificare il succedersi di
tre distinte fasi di globalizzazione. La prima coincidente con la fine del XIX secolo,la seconda con gli anni dal 1945 al
1980 e la terza con la fine del XX secolo. (In base alla figura pag 30) possiamo vedere come la globalizzazione non sia
irreversibile. Nel periodo tra il 1914 e il 1950 si può notare come il peggioramento nelle relazioni internazionali si sia
tradotto in un annullamento dell'effetto della prima ondata di globalizzazione. L'errore di percezione che identifica la
globalizzazione con la fine del XX secolo è invece dovuto al periodo storico cui si fa riferimento. Il confronto con il 2000 e
il secondo dopoguerra tende a rafforzare l'idea che la globalizzazione sia un fenomeno esclusivo della fine del XX secolo
ma,andando indietro nel tempo fino al 1870,tale affermazione perde forza. La globalizzazione della fine del XX secolo
non è,dunque,né un fenomeno interamente nuovo né la replica di quella del secolo precedente. Nella ricerca delle origini
storiche si potrebbe essere tentati di continuare a ritroso. È solo intorno al 1870 che si verificarono una serie di
innovazioni tecnologiche cruciali per la diffusione internazionale del processo di industrializzazione: la costruzione di navi
più robuste e veloci,con lo scafo in ferro e l'elica immersa,ridusse enormemente i tempi di navigazione; l'apertura del
canale di Suez,nel 1869,dimezzò la durata del viaggio da Londra a Bombay; ma,soprattutto,l'inaugurazione del servizio
telegrafico transatlantico,tra Londra e New York,Melbourne e Buenos Aires. Tutto ciò determinò quella accelerazione nel
flussi commerciali internazionali,nei movimenti di capitale e nei flussi migratori.
2.3.3 FLUSSI DI TECNOLOGIA E POLITICHE COMMERCIALI → E' dunque la tecnologia il motore fondamentale della
globalizzazione. Lo sviluppo della ferrovia e della navigazione hanno influenzato tutta la seconda metà del XX secolo.
Ma se la rivoluzione tecnologica dei trasporti era stata il catalizzatore della prima fase di globalizzazione,le fasi
successive furono il frutto di una diversa rivoluzione tecnologica,quella della trasmissione e dell'elaborazione
dell'informazione. La diffusione del computer da una parte e il progresso nella tecnologia della comunicazione
dall'altra,costituiscono l'equivalente della seconda e la terza fase della globalizzazione. In sintesi,la prima,la seconda e la
terza fase sono simili nel nesso che lega la tecnologia all'apertura dei mercati,ma tale somiglianza si riduce quando si
tiene conto delle caratteristiche proprie della tecnologia nelle diverse fasi: soprattutto trasporti nella prima
fase,prevalentemente comunicazioni nelle ultime due. La situazione attuale,corrispondente alla terza fase,è
caratterizzata da una generale tendenza alla liberalizzazione ma rimangono ancora secche consistenti di protezionismo.
Sul fronte dei dazi doganali,attualmente,i PVS sono in media più protezionisti dei Paesi industrializzati. Questi ultimi
mantengono un livello elevato di protezionismo in settori come l'agricoltura ed il tessile-abbigliamento.
2.3.4 FLUSSI DI MERCI → L'indicatore con cui viene generalmente misurata la globalizzazione è il grado di apertura
reale di un'economia,calcolato come la somma delle esportazioni e delle importazioni rapportata al prodotto nazionale.
Dal 1870 ad oggi,il risultato sarebbe una curva a forma di J ad indicarne un aumento quasi esponenziale.
La seconda e la terza fase hanno quattro aspetti fondamentali che intervengono a rendere la globalizzazione del XIX e
XX secolo profondamente diverse dal punto di vista degli scambi commerciali. Il primo è il deciso aumento nel grado di
apertura commerciale degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Questo,infatti,dopo aver oscillato intorno al 10% tra la
fine dell'800 e il 1950 è passato al 25% negli anni '90. il secondo aspetto riguarda l'aumentato peso della spesa pubblica
nella formazione del prodotto nazionale all'indomani del secondo dopoguerra. Il terzo aspetto riguarda i processi di
integrazioni regionale o trade blocs,che riguardano una serie di accordi di integrazione regionale a partire dall'Istituzione
della Comunità Economica Europea nel marzo 1957.
in merito si può notare come negli anni '90 il numero degli accordi di integrazione regionale è notevolmente aumentato e
il fenomeno ha mutato le sue caratteristiche passando dalla prevalenza di accordi Nord-Nord o Sud-Sud ad accordi
Nord-Sud. Le motivazioni devono essere cercate quindi altrove,probabilmente nella dimensione economica dei mercati
regionali o al ruolo strategico che un club di Paesi può svolgere anche al tavolo delle trattative multilaterali.
Attualmente,la sempre maggior rilevanza dei Paesi cosiddetti Globalizers rettifica la direzione Nord-Nord del commercio
mondiale,inserendo una componente Sud all'interno dei flussi di interscambio manifatturiero. I Paesi di nuova
industrializzazione,infatti,forniscono i mercati mondiali di prodotti intensivi di lavoro e sottraggono quote di mercato ai
produttori occidentali i quali,da una parte,differenziano le proprie produzioni soprattutto dal punto di vista qualitativo e si
specializzano nella fornitura internazionale di servizi,dall'altra,tendono ad arroccarsi,utilizzando nuovi strumenti di
protezioni,quali il ricorso strategico alla normativa antidumping del GATT.
2.3.5 FLUSSI DI CAPITALI → La percezione che la globalizzazione sia un fenomeno altamente distintivo dell'attuale
fase del capitalismo internazionale è sicuramente legata agli sviluppi dei mercati finanziari internazionali negli ultimi anni.
Le numerose opportunità d'investimento nei Globalizers hanno certamente rafforzato le connessioni internazionali dei
mercati finanziari,moltiplicando le opportunità di crescita nonché,come dimostra la crisi finanziaria del 2007,la possibile
diffusione internazionale degli shock,distinguendo in questo modo la terza fase di globalizzazione da quella delle
precedenti. Oggi, l'elemento cruciale è la trasmissione dell'informazione,alla quale è associata la possibilità di separare
spazialmente le attività di una impresa,non rinunciando al contempo all'accentramento e al controllo del processo
decisionale. Durante la terza fase,i dati sugli IDE,mostrano un ulteriore mutamento nelle caratteristiche della
distribuzione geografica dei flussi sia in entrata che in uscita. Lo schema Nord-Nord si stempera e alcuni Globalizrs
diventano non solo ricettori ma anche fornitori di IDE. Tutto ciò rivoluziona solo in parte il ruolo preponderante dei Paesi
Industrializzati.
I dati UNCTAD ci dicono che nella graduatoria delle 200 maggiori imprese multinazionali il 93% appartiene a Paesi
OCSE e tutte le maggiori operazioni di acquisizione e fusione di imprese multinazionali avvenute negli ultimi anni
riguardano imprese dei Paesi OCSE. Il mutamento più evidente è nella composizione settoriale degli IDE. Alla fine del
XIX secolo gli IDE si concentravano nel settore agricolo,in quello estrattivo e in quello ferroviario,alle manifatture e ai
servizi spettava una minima quota. Un ulteriore elemento di differenza sta nel volume di transazioni valutarie effettuate
quotidianamente sui mercati internazionali. Il turnover giornaliero nel 2007 era di una cifra di gran lunga superiore
rispetto a quanto necessario per finanziare l'insieme di flussi commerciali,IDE e squilibri mondiali delle bilance dei
pagamenti. In generale,aumenta l'instabilità potenziale del sistema economico.
2.3.6 FLUSSI DI GENTI → Probabilmente le grandi migrazioni internazionali sono state il principale fattore che ha
concorso alla formazione dell'attuale sistema mondiale. Va sottolineato,però,che,per quattro secoli e mezzo,dal 1492 alla
seconda guerra mondiale,i flussi migratori andarono essenzialmente dal centro del sistema mondiale in
formazione,allora costituito dalla vecchia Europa,alle sue periferie ovvero le Americhe,l'Africa,l'Asia e la lontana Oceania.
Si ebbe anche l'inversione della direzione fondamentale dei flussi migratori,che cominciarono a scorrere,per lo più,dalle
periferie del sistema mondiale al suo centro,comprendente ormai,come sua parte integrante,gli Stati Uniti
d'America,divenuti anzi,il centro del centro. Il fattore di fondo è stato però il diverso andamento dei trends demografici nel
centro e nella periferia,fattore che ha indotto alcuni autori ad individuare in questi movimenti di popolazione,l'inizio di un
nuovo grande processo destinato a ridisegnare sul lungo periodo la stessa mappa etnografica dei continenti.
2.4 IL RUOLO DEGLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI → Il fenomeno della globalizzazione come oggi la conosciamo
(terza fase) è strettamente connesso all'intensificarsi degli Investimenti Diretti Esteri (IDE). Questi vengono favoriti sia
dall'ampliamento delle relazioni commerciali internazionali,sia dall'attenuarsi del tradizionale approccio protezionista dei
singoli Paesi.
Gli sviluppi tecnologici e la progressiva riduzione delle barriere al commercio e alla circolazione dei capitali spingono
molte imprese a delocalizzare parte della produzione in Paesi esteri attraverso il flusso di IDE volti all'acquisizione,alla
costituzione o alla partecipazione al controllo di aziende straniere. Un numero crescente di imprese di medie e piccole
dimensioni e di varia nazionalità inizia ad espandersi oltre i confini nazionali. Le politiche di liberalizzazione e
privatizzazione condotte in molti Paesi tende a favorire l'afflusso di IDE e a favorire gli spostamenti internazionali dei
capitali.
L'alto numero di interventi legislativi e amministrativi nel settore degli IDE può essere collegato sia ai numerosi accorsi
bilaterali e regionali volti ad aumentare il flusso di capitale a ridurre la tassazione sugli IDE,sia agli interventi compresi
negli accordi regionali di libero scambio. Anche a seguito di questi accordi,i flussi di IDE sono cresciuti notevolmente in
tutto il periodo compreso tra il 1985 e il 2000 e hanno ripreso a crescere dal 2003. Non è solo il volume degli IDE a
cambiare nel corso dei decenni,ma anche la loro destinazione e composizione. In passato,gli IDE vengono scambiati
quasi esclusivamente tra Paesi sviluppati o da questi ultimi verso il PVS al solo scopo di finanziare le attività estrattive ed
agricole,con l'intensificarsi del processo di globalizzazione la maggior parte dei flussi di IDE si concentra oggi in settori
manifatturieri e dei servizi con una particolare attenzione ai servizi bancari ed a quelli legati alle telecomunicazioni. A
partire dagli anni '90 una quota sempre più rilevante degli IDE tende a dirigersi verso il Sud del mondo e anche
l'ammontare totale dei flussi annui cresce.
Nonostante l'aumento del peso relativo dei PVS, i Paesi di origine e di destinazione degli IDE rimangono poco numerosi.
I PVS che attraggono i maggiori capitali esteri sono quelli di maggiori dimensioni,collocati geograficamente in modo
strategico,dotati di infrastrutture e istituzioni adeguate o,come già accadeva in passato,di materie prime abbondanti.
Diciamo che si approfondisce sempre di più il divario tra PVS competitivi e in via di globalizzazione,da un lato,e Paesi
poveri e marginalizzati,dall'altro.
Un effetto è l'aumento della produzione delle imprese multinazionali su scala globale. Il fenomeno dell'offshoring tende a
creare una matrice produttiva che coinvolge e lega assieme i Paesi sviluppati ad alcuni PVS. La percentuale di prodotti
realizzati su scala mondiale rispetto al prodotto mondiale passa dal 7% del 1990 al 13% del 2007 e circa un terzo del
commercio mondiale prende la forma di scambi intra-aziendali. Inoltre,i Paesi di nuova e rapida industrializzazione sono
destinati a vedere il loro vantaggio di costo ridursi in seguito allo sviluppo interno,mentre i Paesi emergenti di maggior
successo tendono a sviluppare e usare tecnologie e conoscenze avanzate. Ciò permette loro di guadagnare
competitività. Il processo dello sviluppo industriale dei grandi PVS e dell'intensificarsi dell'attività di
offshoring,quindi,tende a mettere sotto pressione i modelli di specializzazione produttiva dei Paesi industrializzati.
Se lo sviluppo tecnologico contribuirà si ad estendere il numero di servizi delocalizzabili,sia a frammentare ulteriormente
la catena produttiva,a tutti i Paesi industrializzati sarà richiesta una grandissima flessibilità per rimanere competitivi a
livello internazionale e ciò si ripercuoterà,presumibilmente,anche sui flussi di IDE globali. Vi è poi un certo consenso sul
fatto che i flussi di IDE verso i PVS possano portare considerevoli benefici,soprattutto in termini di crescita,per
aumentare la capacità produttiva dei Paesi. Essi creano un tessuto produttivo più avanzato i cui benefici ricadono sulle
imprese locali e tendono ad innalzare la professionalità e la produttività del lavoro. Ed è proprio questo effetto indiretto
dei flussi di capitale estero sulle condizioni industriali,istituzionali,lavorative,tecnologiche e di istruzione a favorire la
crescita,più dell'accumulazione del capitale dovuta all'ingresso di IDE.
2.5 UNO SCENARIO GLOBALE DI ACCORDI REGIONALI → Rifacendoci ad Allen Scott (2001),si può affermare che la
riorganizzazione politico-economica mondiale,la cui struttura si è delineata tra la fine del XX secolo e l'inizio del XII,può
essere illustrata nei termini di una gerarchia delle relazioni di governo strutturata su quattro livelli: globale,regionale,degli
Stati sovrani e delle unità amministrative subordinate a questi ultimi.
Subito sotto il regime globale,si trova uno strato di unità economico-politiche che consistono di blocchi cui partecipano
molte nazioni quali l'UE,il North American Free Trade Agreement (NAFTA) e l'Asia-Pacific Economic Cooperation
(APEC). Queste possono essere viste soprattutto come una risposta alla richiesta di crescita accelerata attraverso il
libero scambio fra Paesi appartenenti ai diversi blocchi. In più,il numero relativamente limitato di nazioni partecipanti in
ognuno di questi esempi assicura a tali blocchi la possibilità complessiva di agevole gestione.
Probabilmente la clausola della nazione più favorita,secondo la quale qualsiasi concessione commerciale offerta da un
Paese membro del GATT ad un altro paese deve essere estesa anche agli altri membri,è stata,più di altri fattori,alla
base del processo di liberalizzazione multilaterale del commercio internazionale nel secondo dopoguerra.
A partire dagli anni '50,si è assistito ad almeno due fasi di regionalismo,ovvero di formazione e di crescita di accordi
commerciali a livello regionale. La prima fase avviene negli anni '60,stimolata dal successo ottenuto dalla CEE. Il
desiderio di emulare i risultati positivi ottenuti in Europa convinse,infatti,molti paesi dell'Africa,dell'America Latina e
dell'Asia a sviluppare analoghe forme di accordo commerciale. La seconda fase di regionalismo è iniziata intorno alla
metà degli anni '80,partendo sempre dai Paesi industrializzati,con una particolare accentuazione nell'America del Nord.
Ora,secondo le analisi svolte da Jagdish Bhagwati,le ragioni all'origine del regionalismo attuale sono le seguenti: 1) il
regionalismo è considerato come un sostituito del multilateralismo ed acquista importanza politica,specie negli Stati
Uniti,soprattutto quando il secondo è presentato come sinonimo di 'altruismo',mentre il primo soddisfa la necessità di
'guardare finalmente ai propri interessi'; 2) il regionalismo è invece,per altri,un utile supplemento del multilateralismo,non
un'alternativa,perché rafforza la tendenza alle aperture commerciali; 3) il regionalismo può addirittura far accelerare il
processo di liberalizzazione multilaterale in quanto sollecita,per timore d'involuzioni politico-commerciali,il
raggiungimento di accordi multilaterali che altrimenti resterebbero fermi; 3) il completamento del mercato interno
comunitario e la sottoscrizione degli 'accordi europei' con i Paesi dell'Europa Centro Orientale,ha prodotto la stessa
reazione che si ebbe nei primi anni '60 dopo la costruzione del mercato comune europeo,vale a dire lo stimolo,per
contrapposizione,alla formazione di blocchi rivali; 4) la tendenza all'integrazione Nord-Sud,specie nel caso del NAFTA,è
anche spiegabile in termini politico-culturali con l'attrazione che il modello statunitense ha nei confronti del Messico e
soprattutto delle sue élites politico-economiche,in gran parte formatesi nelle Università degli USA; 5) infine,la
concomitanza dell'approfondimento e dell'allargamento del processo di integrazione europea e la creazione nel NAFTA
in America ha creato anche in altri Paesi,in particolare dell'Asia,la convinzione che i blocchi commerciali regionali sono
ormai ineluttabili nel sistema economico attuale e che è quindi necessario adeguarvisi.
Diciamo che la maggior parte dei tentativi di integrazione a livello regionale,durante i primi venticinque anni dopo la
seconda guerra mondiale,che coinvolsero prevalentemente i Paesi in via di sviluppo,ebbero scarso successo e,oltre a
ciò,il loro effetto sul commercio mondiale fu minimo. Tra gli anni '80 e '90 la situazione è sostanzialmente cambiata.
Importante fu la conversione degli USA alla causa del regionalismo. Dall'accordo di libero scambio con Israele a quello
col Canada,alla nascita dell'Area di Libero Scambio Nord-Americana comprendente gli Stati Uniti,il Canada e il Messico,
gli Stati Uniti confermavano sempre più l'idea che si potesse ottenere un maggiore successo attraverso negoziazioni
bilaterali con i Paesi partner che l'avessero voluto,piuttosto che ricercare accorsi globali con tutti i Paesi membri del
GATT. Inoltre,gli USA videro gli accordi commerciali regionali come un'interessante soluzione per spingere i loro maggior
partner commerciali nel sistema mondiale verso negoziazioni multilaterali.
La possibilità di una polarizzazione del mondo in tre blocchi regionali fu incrementata dai paralleli sviluppi nella regione
dell'Asia-Pacifico. Negli ultimi anni si è realizzata una miriade di accordi commerciali regionali anche in altre regioni del
mondo. In realtà,quindi,i blocchi commerciali regionali possono addirittura contribuire ad accelerare il processo di
liberalizzazione del commercio mondiale,pur dovendo affrontare numerosi problemi. Tra questi il principale è certamente
quello del free rider. Dato che il GATT/WTO è basato sul principio della non condizionalità della clausola della nazione
più favorita (MFN),l'Accordo Generale impone ai membri la reciprocità delle concessioni commerciali, al fine di evitare
che uno o più membri si limitino a godere delle concessioni offerte dagli altri e non siano disposti a farne a loro volta.
Tuttavia,anche quando i Paesi sono disposti ad agire reciprocamente,possono ancora essere trattenuti dal fare
concessioni importanti se ritengono che altri Paesi stiano cercando,in qualche misura,di agire secondo la logica del free
rider. Ciò comporta che il ritmo dei negoziati per la liberalizzazione sia imposto dal Paese meno disposto a fare
concessioni. Il regionalismo può offrire una via alternativa per ovviare a questo problema. I paesi che hanno maggiore
disponibilità a fare importanti riduzioni delle loro barriere commerciali possono farlo senza il bisogno di estenderle a tutti i
partners commerciali. Un secondo problema degli accordi multilaterali è che possono richiedere molto tempo per
concludere un negoziato,sia a causa del numero di Paesi coinvolti,sia a causa della complessità degli accordi da
raggiungere. Bisogna trovare ora il motivo per il quale si sono formati così tanti blocchi. La risposta può essere trovata
nei vantaggi che i negozianti regionali hanno sulle negoziazioni multilaterali come modo di liberalizzazione del
commercio. Il numero di partecipanti ai negozianti regionali è minore,cosa che riduce il rischio di free riding e rende gli
accordi più facili da raggiungere. Inoltre,la fedeltà ad un accordo è più facile da monitorare quando la sua applicazione
concreta avviene a livello regionale piuttosto che multilaterale. C'è anche una somiglianza istituzionale tra i paesi
coinvolti,il che accresce il senso di fiducia. Per dare spiegazione al fenomeno del regionalismo è stata altresì proposta la
convincente teoria del 'domino',secondo la quale la formazione di un'area di commercio preferenziale causa una
distorsione,sia del commercio che degli investimenti,la quale porta,successivamente,ad una 'pressione per l'inclusione'
all'interno del blocco regionale da parte dei Paesi non partecipanti. Più grande è il blocco commerciale,maggiore è la
pressione per assicurarsi l'entrata. Maggiore è il numero di Paesi che vi partecipano,maggiore è la pressione di chi sta
fuori a evitare di esserne escluso. Dove la membership è aperta,essa aumenterà rapidamente,dove,per contro,la
membership è fortemente ostacolata,i Paesi esclusi possono decidere di negoziare accordi commerciali preferenziali tra
loro. Secondo questa teoria,gli Stati percorrono le vie dell'accordo multilaterale e regionale in parallelo. Se la teoria del
domino è corretta,c'è sempre motivo di aspettarsi che la membership dei gruppi commerciali regionali cresca nel tempo.
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2.6 I RISVOLTI AMBIENTALI DELLA GLOBALIZZAZIONE → Il risultato della ristrutturazione di larga parte
dell'economia mondiale conseguente al processo di globalizzazione si è tradotto in ulteriore crescita
economica,attraverso l'espansione e la ricerca di nuovi mercati all'estero. Infatti l'economia mondiale è più che
raddoppiata negli ultimi 25 anni. Possiamo ora partire dalla considerazione del ruolo giocato dagli investimenti diretti
esteri.
Con la migrazione dei capitali d'investimento dai Paesi più sviluppati,il modello di sviluppo basato sull'uso delle fonti
fossili di energia si è diffuso nei Paesi di nuova industrializzazione. I paesi del Sud sono in larga parte entrati nell'ampio
fronte dello stadio dello sviluppo economico basato sulle risorse fossili. Questo modello economico,consolidato in
Europa verso la fine del XIX secolo e basato largamente sulla trasformazione di valori privi di prezzo in valori
commerciali,si sta espandendo oggi in più parti del mondo. Sembra prevalere ovunque una tendenza a copiare modi di
produzione e di consumo che,rispetto alla crisi della natura,si possono considerare già obsoleti. Questo perché,nel corso
dello sviluppo convenzionale,la crescita monetaria si accompagna sempre a quella materiale. Gli obbiettivi preferiti per
gli investimenti sono proprio l'estrazione di materie prime o l'energia e le infrastrutture di trasporto,che unitamente
spingono sempre più in alto l'uso delle risorse naturali.
La rimozione delle barriere nazionali all'attività di investimento contribuisce a un rapporto sempre più difficile con le
limitazioni biofisiche della terra. I PVS hanno registrato un aumento notevole delle loro emissioni di CO2 mentre le
nazioni industrializzate hanno registrato un incremento delle emissioni assai più lieve,riducendo la quota percentuale del
loro contributo al totale delle emissioni.
Un altro aspetto è quello relativo alle modificazioni realizzatesi nell'impronta ecologica. In effetti,l'allargamento della
catena dell'offerta è riuscito a modificare la divisione ecologica del lavoro fra i Paesi del Sud e dell'Est e quelli del
Nord.Quando un processo di produzione si divide fra Paesi e regioni diverse compare subito una tendenza a separare
costi e benefici,redistribuendoli un po' ovunque lungo la catena. Generalmente la diversificazione delle attività
economiche porta alla concentrazione del controllo e del profitto verso i punti nodali della rete economica. Il flusso degli
investimenti nei Paesi lontani è controbilanciato da un riflusso di profitti e di potere verso i Paesi d'origine o,più
precisamente,verso le città 'globali' del nord. I cambiamenti nella distribuzione del potere economico si accompagnano a
una modifica su come la pressione sull'ambiente si distribuisce negli spazi geografici. Si può affermare che l'estensione
geografica dei cicli economici sta avviando un processo che concentra i vantaggi verso l'alto e gli svantaggi verso il
basso. In altre parole,i costi ambientali connessi alle catene transnazionali di creazione di valore diventano
particolarmente alti nei Paesi del Sud e dell'Est mentre le economie post-industriali diventeranno sempre più favorevoli
all'ambiente. In sostanza,più è piccola l'aerea di un Paese industrializzato,più è grande la separazione geografica fra i
luoghi in cui l'ambiente subisce pressioni e quelli in cui si riscontrano i benefici del consumo. In agricoltura,le regioni del
Sud del mondo non forniscono più soltanto prodotti agricoli di massa,come ai tempi del colonialismo,ma forniscono
anche prodotti per i ricchi consumatori del Nord ad alto valore aggiunto per unità di peso. Naturalmente,l'espansione del
modello di sviluppo basato sull'energia fossile ha dato il maggiore contributo al cambiamento della geografia degli impatti
ambientali in numerose economie emergenti del Sud e dell'Est. Ciò che sta accadendo adesso non è tanto una
migrazione per ragioni ambientali quanto una redistribuzione delle funzioni all'interno dell'economia mondiale. Le
economie software del Nord potranno vantarsi dei loro piani per avere un ambiente più pulito; le economie di più recente
industrializzazione si occuperanno della produzione e dovranno affrontare il classico inquinamento di acqua,aria e
suolo,mentre le economie più povere si occuperanno dell'estrazione delle risorse e metteranno a repentaglio le stesse
basi della sopravvivenza per quel terzo dell'umanità che vive direttamente della natura.

*** 7.5.3 I PORTI MEDITERRANEI DI TRANSHIPMENT → Negli ultimi decenni il Mediterraneo ha visto crescere
rapidamente le sue funzioni nodali nel contesto delle direttrici marittime transcontinentali che collegano
l'Australia,l'Oriente Asiatico e il Golfo Persico all'Europa e alle coste orientali del continente americano. Un ruolo legato
alla crescita delle capacità di transito del Canale di Suez che,permettendo sostanziali risparmi di percorso,alimenta un
traffico mediterraneo in continua ascesa. Attraverso di esso,via d'acqua di oltre 193 km,connette il Mar Rosso al
Mediterraneo,transita il 7,5% del traffico marittimo mondiale,il 4,7% dell'intera produzione mondiale di petrolio,il 22% del
traffico delle petroliere ed il 44% delle containership,un traffico che è divenuto fonte essenziale di valuta pregiata
dell'economia egiziana. Ad accentuare tutto ciò ha contribuito anche la competizione vincente delle rotte transoceaniche
pendulum nei confronti di quelle round the world (che utilizzano la circumnavigazione del Globo utilizzando i canali di
Panama e di Suez). Le rotte pendulum dall'Oriente Asiatico attraverso il Pacifico confluiscono ai porti nordamericani più
importanti,tra cui quello di Los Angeles ecc. Tuttavia,ancora più rilevante si mostrano le rotte pendulum che hanno come
baricentro il Mediterraneo,connettendosi all'evoluzione della domanda delle grandi aree di produzione e di consumo del
Mondo.L'esplosione del traffico attraverso il Canale di Suez ha incentivato i traffici marittimi dei porti mediterranei e del
Mar Nero che sembrano destinati nel medio e lungo periodo a crescere ulteriormente. È aumentato in questi porti
soprattutto il traffico di container,che si avvale in larga misura del transhipment. Una tecnica che consente anche ai porti
medi e piccoli di inserirsi nel circuito dei grandi traffici internazionali,permettendo di servire mercati e destinazioni a
domanda debole,che altrimenti sarebbero stati emarginati dai grandi flussi del traffico intercontinentale. Le prospettive
vedono prosperare soprattutto due settori chiave del traffico merci marittimo,tra di loro interagenti,ma caratterizzati da
tendenza di sviluppo ed esigenze infrastrutturali abbastanza differenti,vale a dire: - i servizi di linea container
internazionali,che riguardano i carrier globali a lunghissimo raggio,che operano sulle rotto transoceaniche,a cui si
collegano direttamente i servizi feeder intermediterranei; - lo Short Sea Shipping e le Autostrade del Mare,che
comprendono tanto i collegamenti nazionali,quanto quelli internazionali che interessano le sponde settentrionali e
meridionali del Mediterraneo.Tra i maggiori hub mediterranei di transhipment si annoverano quelli di Algeçiras,alle porte
di Gibilterra,e di Gioia Tauro in Calabria,entrambi sulle coste del Mediterraneo occidentale. Tuttavia i più dinamici sono
ormai da alcuni anni quelli sulla sponda Sud,tra i quali si contraddistingue Porto Said,allo sbocco del canale di Suez. Lo
scenario mediterraneo del transhipment dimostra quindi una profonda trasformazione,poiché alle gravi difficoltà di quasi
tutti gli hub euromediterranei,ridimensionati in maniera più o meno rilevante dalla crisi del 2008,con la sola eccezione di
Malta,si contrappone l'avanzata dei nuovi hub nordafricani,ai quali si è aggiunto ultimamente quello di Tangeri Med,in
Marocco. A subire la concorrenze dei porti nordafricani sono in particolar modo gli scali italiani che sempre più spesso
vengono abbandonati dalle principali compagnie che gestiscono i terminali ed il traffico di transhipment.

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