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Demografia

A cura di MassimoLiviBacci,GianCarloBlangiardoeAntonioGolini
Scritti di
Gian Carlo Biangiardo, Franco Bonarini, Carlo A. Corsini, Paolo De Sandre, Gustavo De Santis, Viviana Egidi, Renato Guarirti, Massimo Livi Bacci, Enzo Lombardo, Fausta Ongaro, Dionisia Maffioli, Fiorenzo Rossi, Antonio Santini, Italo Scardovi, Giovanni B. Sgritta

Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli

Demografia / A cura di Massimo Livi Bacci, Gian Carlo Blangiardo e Antonio Golini; Scritti di Massimo Livi Bacci, Enzo Lombardo, Dionisia Maffioli... [et ai.] - XIV, 582 p., 21 cm
1. 2. I. II.

Demografia. Studi Rassegne bibliografiche. Demografia Livi Bacci, Massimo Blangiardo, Gian Carlo

Copyright ,0 1994 by Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli Via Giacosa 38, 10125 Torino tel. (011) 6500500, fax: (011) 6502777 e-mail: staff@fga.it, Internet: http://www.fga.it

ISBN 88.7860-100-4

Indice

Capitolo primo La demografia Massimo Livi Bacci 1. 2. 3. 4. 5. Popolazione e demografia Il funzionamento del sistema demografico Le componenti del sistema demografico La ricerca delle cause Teorie e paradigmi interpretativi: a) transizione demografica e teorie della fecondit 6. Teorie e paradigmi interpretativi: b) altri spunti 7. Elogio della demografia. La demografia utile? Riferimenti bibliografici Capitolo secondo Evoluzione diacronica della demografia Enzo Lombardo 1. I primi passi nello studio della popolazione 2. Laritmetica politica nel nostro paese 3. Due importanti strumenti di analisi: le tavole di mortalit e le rappresentazioni grafiche 4. La statistica si organizza nel Regno unitario: la produzione statistico-demografica dopo il 1861 e i progressi nei censimenti della popolazione 27 30 34 p. 3 4 7 11 14 18 21 24

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5. Mutamenti nellinsegnamento della statistica come sintomi del progressi della demografia 6. Verso una fioritura degli studi demografici: i primi quarantanni del nostro secolo Riferimenti bibliografici Bibliografia del padri Roberto Gaeta e Gregorio Fontana (1776) Capitolo terzo Organizzazione accademica Dionisia Maffioli 1. La collocazione accademica e la sua storia
1.1. La struttura dellinsegnamento universitario 1.2. Linsegnamento delle discipline demografiche 1.3. Possibili sviluppi dellinsegnamento 1.4. Centri di ricerca 1.5. Societ scientifiche 1.6. La demografia italiana nel contesto internazionale 1.7. La produzione scientifica

p. 40 43 50 58

2. La demografia negli studi pre-universitari 3. Conclusioni Riferimenti bibliografici

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Capitolo quarto I metodi Antonio Santini 1. Uno schema di riferimento 2. Osservazione statistica e metodi demografici 3. I metodi nellosservazione macro-trasversale 4. Dallanalisi macro-trasversale a quella macro-longitudinale 5. Ulteriori avanzamenti nella macro-analisi 6. Da macro- a micro-analisi 7. Dal macro- al micro-trasversale

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8. Dal micro-trasversale al micro-longitudinale 9. Le biografie a confronto 10.Conclusioni Riferimenti bibliografici Capitolo quinto Demografia e storia Carlo A. Corsini 1. I significati
1.1. Demografia e storia 1.2. Il posto della demografia storica

p. 124 128 130 132

2. I segni
2.1. Il quadro generale 2.2. La demografia storica in Italia

139 139 143 146 146 160 167 167 170 173

3. Esattezza e indeterminatezza
3.1. Alla conquista dellautonomia 3.2. Un pezzetto di legno liscio e vuoto

Riferimenti bibliografici Capitolo sesto Demografia e biologia Italo Scardovi 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. Interrogativi sullodierna demografia La demografia tra fenomeno ed epifenomeno La demografia tra essere e dover essere La demografia nella grande tradizione italiana Gli studi di demografia in Italia Demografia e genetica di popolazioni Unosservazione critica Riferimenti bibliografici

185 187 189 191 199 202 207 210

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Capitolo settimo Demografia e sociologia Giovanni B. Sgritta 1. Premessa p. 213 2. Lorigine comune 215 3. Popolazione e societ: le basi della scienza demografica e la nascita della sociologia 219 4. Demografia e sociologia: contenuti e metodi negli studi italiani del secondo dopoguerra 226 5. Recenti tendenze integrative negli studi demografici e sociali 229 6. Conclusioni 238 Riferimenti bibliografici 240 Capitolo ottavo Demografia ed economia Renato Guarini 1. Introduzione: il dibattito e la teoria 2. Variabili economiche e variazioni della popolazione
2.1. Fattori demografici e indicatori di reddito 2.2. Il consumo e le variazioni dinamiche e strutturali della popolazione 2.3. Risparmio, investimenti e popolazione 2.4. Il lavoro e i fattori demografici

245 247 247 250 252 255 258 258 261 264 269 271

3. Componenti della popolazione e variabili economiche


3.1. Fertilit e variabili economiche 3.2. Mortalit e variabili economiche 3.3. Conseguenze economiche del movimento migratorio

4. Conclusioni Riferimenti bibliografici

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Capitolo nono Riproduttivit Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi 1. Nuzialit, separazioni, divorzi (F. Rossi)
1.1. Introduzione 1.2. Nuzialit 1.3. Separazioni e divorzi 1.4. Commenti conclusivi

2. Fecondit (F. Ongaro) 2.1. Considerazioni preliminari 2.2. Fecondit generale e sue determinanti demografiche 2.3. Determinanti non demografiche di fecondit 2.4. Fecondit in gruppi circoscritti di popolazione 2.5. Uno sguardo dinsieme 3. Controllo e pianificazione del concepimenti (F. Bonarini) 4. Abortivit (F. Bonarini) 5. Opinioni, preferenze, atteggiamenti (F. Bonarini) Riferimenti bibliografici

p. 283 283 284 290 291 292 292 295 299 302 304 307 316 322 325

Capitolo decimo Strutture di popolazione Viviana Egidi 1. Dagli individui alla popolazione: eterogeneit e strutture 2. Analisi strutturali: finalit delle ricerche 3. Quali strutture per le analisi di popolazione 4. La struttura per sesso 5. La struttura per et
5.1. Linvecchiamento della popolazione 5.2. Gli effetti delle componenti della dinamica demografica sullinvecchiamento della popolazione 5.3. Et: intuitivit e motivi di riflessione

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6. Alcune altre strutture rilevanti per la demografia 6.1. La struttura per stato civile 6.2. Famiglie e strutture familiari

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7. Quali prospettive per la ricerca? Riferimenti bibliografici

p. 361 363

Capitolo undicesimo Mobilit e insediamenti Gustavo De Santis 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. La difficile definizione delle migrazioni La descrizione del fenomeno La ricerca delle cause Gli effetti delle migrazioni e le migrazioni internazionali verso lItalia Distribuzione territoriale della popolazione e urbanizzazione Previsioni Lapproccio microdemografico Le prospettive degli studi sulla mobilit Riferimenti bibliografici 379 381 385 389 393 396 398 400 403

Capitolo dodicesimo Tendenze, conoscenze e governo Gian Carlo Bkngiartio 1. Sensibilit e sensibilizzazione 2. Consumo e incentivo alla produzione di conoscenze demografiche da parte delloperatore pubblico 3. Le fonti istituzionali 4. Lapporto del mondo accademico 5. Due significative esperienze e alcune riflessioni 6. Le conoscenze demografiche a livello regionale per lapprofondimento delle realt locali e come strumento di governo nel decentramento delle competenze 411 413 415 419 423 427

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7. Alcuni contributi significativi 8. Osservazioni conclusive Riferimenti bibliografici Capitolo tredicesimo Demografia, politica ed etica Paolo De Sandre 1. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politiche di popolazione: a) coordinate per una lettura critica 2. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politiche di popolazione: b) sullaspetto politico
2.1. Orientamenti di welfare 2.2. Obiettivi di intervento con implicazioni demografiche e tipi di intervento 2.3. Valutazione tecnico-scientifica e valutazione politica degli interventi 2.4. Legami tra politiche e ricerca 2.5. Politiche di popolazione e riferimenti di valore

p. 430 432 435

451 454 454 455 457 457 458 459 461 468
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3. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politiche di popolazione: c) sullaspetto ideologico-etico 4. Contributo della demografia in alcuni momenti istituzionali al dibattito sulle politiche di popolazione 5. Problematiche cruciali di tipo etico nelle politiche di popolazione
5.1. Salvaguardia e promozione della libert della persona e del diritti fondamentali 5.2. Tutela della famiglia coniugale, valore sociale della prole, parit uomo-donna 5.3. Controllo sociale e politico della dinamica demografica come valore

6. Alcune opzioni di politica della popolazione da approfondire


6.1. Sulla possibilit di porre obiettivi generali definiti di crescita demografica 6.2. Politica di sostegno delle nascite alleviandone i costi correnti per i genitori e rinnovando regole di trasferimento eque tra generazioni

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6.3. Politiche immigratorie e crescita economica del paesi del Terzo Mondo 6.4. Invecchiamento demografico e risorse impiegate

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7. Conclusioni Riferimenti bibliografici Bibliografia generale Gian Carlo Blangiardo e Massimo Aglietti Indice del nomi Nota sugli autori

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DEMOGRAFIA

Capitolo primo La demografia Massimo Livi Bacci

1. Popolazione e demografia Niente risulta pi sgradito a uno studioso del determinare la propria disciplina: definire unattivit di ricerca cio disegnarne i limiti o il perimetro , in fondo, quasi una negazione di questa; il corso della ricerca spesso imprevedibile e i suoi limiti risiedono tutti nellingegno e nella curiosit di coloro che la praticano. Demografia la scienza della popolazione: lo studio del processi che determinano la formazione, la conservazione, laccrescimento o lestinzione delle popolazioni. Tali processi, nella loro forma pi aggregata, sono quelli di riproduttivit, mortalit e mobilit. Il vario combinarsi di questi fenomeni, tra loro interdipendenti, determina la velocit delle modificazioni della popolazione sia nelle sue dimensioni numeriche sia nella sua struttura. Questa definizione va completata da un approfondimento delloggetto della ricerca: potremmo definire la popolazione come un insieme di individui, stabilmente costituito, legato da vincoli di riproduzione e identificabile da modalit territoriali, politiche, giuridiche, etniche, religiose. Infatti una popolazione non tale (almeno in senso demografico) se non ha continuit nel tempo, assicurata dai processi di riproduzione che legano genitori e figli e determinano il susseguirsi delle generazioni. Inoltre una popolazione deve poter identificarsi e definirsi: il criterio pi comune quello geografico, di appartenenza a un territorio; tuttavia lappartenenza a una religione, a unetnia, a una casta e cos via costituisce criterio sufficiente a determinare quei confini essenziali per Io studio di una popolazione. Oggetto di studio della demografia possono essere, a livelli diversi ma significativi di aggregazione, tanto la popolazione di un villaggio quanto quella dellintero pianeta. Dettagliare oltre la definizione sarebbe pedante e di poca utilit. Lambito cos delimitato abbastanza ampio da poter ricondurvi gran parte delle definizioni elaborate dagli studiosi della materia, anche se non man-

Massimo Livi Bacci

cano coloro che alla demografia assegnano il compito molto riduttivo di analisi meramente descrittiva e quantitativa delle popolazioni. Se dalla forma si torna alla sostanza al contenuto, alloggetto della demografia, si potrebbe dire, in estrema sintesi, che essa cerca di dare risposta a un quesito fondamentale (non dissimile da quello analogo che si pongono i biologi): perch certe popolazioni hanno pi successo di altre, cio si riproducono, si espandono, si accrescono con ritmi diversi? Quali sono i meccanismi che determinano laccrescimento differenziale del vari gruppi? Quali le relazioni reciproche tra variazione demografica e i sistemi naturale e sociale che tale variazione assecondano o contrastano? Linsieme di indagini volte a dare risposta a tali quesiti d corpo e contenuto alla demografia; si tratta di indagini che spesso debbono dispiegarsi su lunghi archi di tempo perch i tempi e i ritmi del mutamento demografico sono sovente lenti e graduali e non si intendono bene se non si osservano nel lungo periodo: archi temporali meno lunghi, certo, di quelli considerati dalla genetica e dalla biologia evoluzionista (che hanno bisogno dellosservazione di numerosissime generazioni successive), ma normalmente assai pi estesi di quelli propri di altre scienze umane come quelle economiche e sociologiche. 2. Il funzionamento del sistema demografico Si pu rintracciare la linea evolutiva principale della demografia degli ultimi decenni nella determinazione delle regole di sviluppo delle popolazioni formalizzzabili matematicamente; in altri termini uno degli obiettivi essenziali per la demografia accertare quali sono e come funzionano i meccanismi che determinano laccrescimento di una popolazione e condizionano la sua struttura, per sesso e per et. E questo un aspetto fondamentale della demografia, perch la conoscenza del quadro generale formalizzato delle regole che determinano dimensione e struttura di una popolazione la premessa necessaria per lo studio analitico delle singole regole e del meccanismi componenti il sistema. apparso evidente gi ai primi studiosi, agli aritmetici politici, che le dimensioni di una popolazione sono determinate dallintensit relativa di nascite e immigrazioni da un lato e di morti ed emigrazioni dallaltro. Ne conseguiva intuitivamente che la velocit del ricambio (cio lintensit del flussi delle nascite e delle morti, in caso di assenza di flussi migratori o di popolazioni chiuse ) fosse connessa con la struttura per et di una popolazione: quando questa non varia di numero ( stazionaria), il peso delle classi giovani tanto maggiore (e quello delle classi

La demografia

anziane tanto minore) quanto pi alte sono la natalit e la mortalit e viceversa; ne consegue altres che, sempre in caso di stazionariet della popolazione, tanto pi alte sono natalit e mortalit, tanto pi ridotta risulta la speranza di vita (cio il tempo medio di permanenza di ogni individuo nella collettivit), cosicch esiste una relazione inversa tra velocit del ricambio (espresso dal livello di natalit e mortalit) e durata della vita. Questo insieme di considerazioni viene messo a punto e formalizzato in un percorso ideale che comprende Graunt, Halley e Eulero (Keyfitz e Smith, 1977). nel nostro secolo che la demografia matematica ha fornito ulteriori sviluppi alla conoscenza delle regole del sistema demografico, che solo eccezionalmente opera per lungo tempo in regime di stazionariet. Uno del contributi principali di Lotka alla demografia matematica quello comunemente noto come teoria della popolazione stabile: Lotka dimostr (1907; 1939) che una popolazione chiusa (cio senza movimenti migratori) e sottoposta a leggi di fecondit e mortalit invarianti nel tempo (ovvero a tassi di fecondit e di mortalit per et che non variano di generazione in generazione e da un anno allaltro) finisce per assumere una struttura per et stabile (cio fissa nel tempo) che non influenzata da quella originaria, ma unicamente determinata dalle due leggi ricordate. Qualsiasi sia la struttura per et iniziale (al momento in cui, cio, si assumono operanti e fisse le leggi di mortalit e fecondit), quella stabile sar da essa completamente indipendente e determinata unicamente dalle leggi stesse. Ci non vuol dire che la struttura iniziale non influisca sulle dimensioni della popolazione: ad essa infatti legata una forza inerziale pi o meno importante. Linerzia sar maggiore (e la popolazione crescer di pi fino al raggiungimento dello stato stabile) in una popolazione la cui struttura di partenza sia molto giovane; sar minore (e la popolazione crescer di meno) se la struttura di partenza invecchiata anche se queste due ipotetiche popolazioni sono sottoposte a identiche leggi demografiche (in questo esempio si ipotizza che la natalit sia maggiore della mortalit e che la popolazione aumenti). Il fondamentale contributo di Lotka ha poi ricevuto numerosi perfezionamenti e adattamenti. Si debbono a Coale (1963) e Bourgeois-Pichat (1990) prove che le propriet della popolazione stabile vengono approssimativamente conservate da popolazioni cosiddette quasi-stabili, ovvero da popolazioni che, mantenendo una fecondit inalterata nel tempo, sperimentano invece un declino della mortalit come quello osservato nei paesi in via di sviluppo nei due o tre decenni dopo la met del secolo. Si deve a Lopez (1961) la dimostrazione di unestensione del teorema di Lotka gi intuita da Coale: conoscendo levoluzione temporale delle

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curve di fecondit e di mortalit per et (le quali ovviamente non restano costanti, come vuole la teoria della popolazione stabile, ma nelle popolazioni concrete mutano, anche velocemente, anno dopo anno) durante un intervallo di tempo, possibile determinare la struttura per et della popolazione in un determinato istante che anche in questo caso completamente indipendente dalla struttura per et iniziale. Questo teorema (della ergodicit debole), con le sue propriet, stato successivamente perfezionato da Coale e Preston (1982). Durante questo secolo, dunque, si perfezionata e completata la costruzione di un modello demografico generale che lega laccrescimento della popolazione alle sue leggi di rinnovo e di estinzione e alla sua struttura, di cui la demografia matematica ha formalizzato le complesse relazioni, adesso ben note e comprese. Lo schema della popolazione stabile, con le sue estensioni e generalizzazioni, non fine a se stesso, ma ha permesso uno sviluppo notevole delle conoscenze demografiche in due direzioni di notevole utilit. Una prima utilizzazione dello schema permette di individuare le implicazioni di lungo periodo di determinati comportamenti demografici, consentendo di rispondere con esattezza a quesiti di questo tipo: se la popolazione italiana assumesse da oggi in poi leggi di fecondit e mortalit determinate, fisse, quali sarebbero i parametri demografici nella situazione stabile di approdo (cio: quali sarebbero natalit, mortalit, et media al parto, struttura per et, tasso di accrescimento e cos via)? La seconda direzione di utilizzo pi concreta e fornisce elementi conoscitivi sulla realt demografica non desumibili direttamente dai dati disponibili. Quando le popolazioni concrete approssimano situazioni di stabilit o di quasi stabilit, lapplicazione dello schema di Lotka (e le sue estensioni) permette di trarre da dati e conoscenze parziali gli elementi mancanti (ma necessariamente legati e dipendenti dai dati parziali), n pi n meno come la conoscenza del corpo umano permette di ricostruire lo scheletro di un individuo (e le misure antropometriche di peso, altezza e cos via) da pochi reperti ossei. Cos dalla conoscenza della struttura per et e del tasso di accrescimento di una popolazione desunti dai censimenti si potranno dedurre i livelli di fecondit o mortalit; o dalla conoscenza di queste ultime (ad esempio dedotte da inchieste particolari) si potr inferire la struttura per et e via dicendo. Ci offre vantaggi notevoli nello studio di popolazioni con dati frammentari o incompleti, come il caso delle popolazioni del passato o di molte popolazioni contemporanee in via di sviluppo, conosciute solo parzialmente attraverso censimenti o indagini episodiche (Coale e Demeny, 1966; ONU, 1955; 1981; 1983).

La demografia

I colossali problemi connessi con la crescita delle popolazioni in via di sviluppo e la necessit della loro conoscenza hanno dato un enorme impulso (come diremo poi) alle applicazioni del principi derivati dalla teoria stabile. 3. Le componenti del sistema demografico Il quadro formale del funzionamento del sistema demografico s perfezionato in parallelo con la comprensione del funzionamento delle componenti che lo integrano. Potremmo, in via esemplificativa, riconoscere una componente della fecondit nella riproduzione; una della nuzialit nella famiglia; una della morbilit nella mortalit; una della mobilit nella migrazione. Sono partizioni in parte arbitrarie e di comodo: ci che va rilevato che le componenti del sistema demografico hanno suscitato grandissima attenzione, sono state scomposte e analizzate e il loro funzionamento adesso compreso a un livello assai superiore a quello di qualche decennio fa. La fecondit-riproduzione (strettamente legate alla nuzialit che qui, per semplicit, si ignora) ha ricoperto un ruolo centrale anche per via della sua importanza politica: agendo sulla fecondit si riuscir a frenare lincremento demografico del paesi in via di sviluppo uno del problemi centrali della seconda met del secolo XX. Soprattutto la fecondit (e il suo variare nel tempo) che modella la struttura per et delle popolazioni. Il sistema fecondit-riproduzione, tuttavia, era gi ampiamente conosciuto nei suoi principali meccanismi sulla base delle statistiche aggregate raccolte dai sistemi statistici nazionali: la fecondit per et, ordine di nascita, durata del matrimonio per generazioni e per contemporanei stata oggetto di studio, approfondimenti e confronti fin dallinizio di questo secolo. Negli ultimi decenni numerosi perfezionamenti ed estensioni di un nucleo gi noto hanno notevolmente arricchito le nostre conoscenze; tuttavia le vere innovazioni sono connesse alla disponibilit di dati ad hoc (e al loro sfruttamento), sia mediante la raccolta di dati individuali operata nelle ricerche di demografia storica con i procedimenti di ricostruzione delle famiglie, praticamente inventati da Henry (Gautier e Henry, 1958), sia mediante indagini dirette su popolazioni contemporanee. Le ricerche sono cos approdate alla misura della fecondit in assenza di controllo delle nascite: gi Gini aveva elaborato il concetto di fecondabilit e proposto alcuni criteri di stima (Gini, 1924) mentre a Henry

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(1961) si devono la definizione di fecondit naturale e la prova che anche in assenza di controllo volontario delle nascite (ad esempio in popolazioni storiche) la fecondit effettiva varia notevolmente, stimolando le ricerche sui fattori di tale variazione, al di l degli effetti ben noti dellet o della durata del matrimonio. Ci si cos resi conto della notevole variabilit della fecondabilit (influenzata soprattutto dalla frequenza del rapporti sessuali) e delleterogeneit della popolazione rispetto ad essa; un posto centrale nelle ricerche lha anche avuto lo studio della lunghezza variabile del cosiddetto periodo non suscettibile (cio il periodo successivo al parto durante il quale non c ovulazione) e del suoi legami con la durata dellallattamento, cos come si studiata linfluenza della mortalit infantile sulla durata dellallattamento e sullintervallo tra i parti. Con la disponibilit di dati pi ricchi si potuto stimare il livello di infecondit e di sterilit permanente, cos come la subfertilit successiva alla pubert. Laccumulo di dati e di conoscenza circa let alla pubert e alla menopausa, la fecondabilit, il periodo non suscettibile, la mortalit intrauterina, linfertilit secondo let e cos via, ha permesso la ricostruzione di modelli della riproduzione e della nascita, strumenti adatti alla descrizione delle vicende di una generazione durante il suo periodo riproduttivo. Con gli anni cinquanta e sessanta iniziato anche lo studio (spesso guidato da finalit pratiche) della contraccezione secondo i vari metodi, della diffusione e dellincidenza degli stessi, della durata dellimpiego e dellefficacia, cosicch la conoscenza del meccanismi naturali della fecondit ha potuto accrescersi di quella del procedimenti di controllo. Questi approfondimenti continui del meccanismi del sistema fecondit-riproduzione si ricompongono e ricongiungono con le conoscenze aggregate ricordate allinizio, riuscendo a esprimere il livello di natalit di una popolazione in funzione delle variabili intermedie che la condizionano: frequenza del matrimonio, lunghezza dellintervallo tra le gravidanze, contraccezione, aborto. Si cos riusciti a creare una griglia analitica utilissima sia a fini di misura e descrizione, sia per linterpretazione causale (Bongaarts e Potter, 1983). Mi sono fermato, in particolar modo, sullesempio della componente fecondit-riproduzione (si veda il capitolo di Bonarini, Ongaro e Rossi, Riproduttivit, in questa Guida, dove il tema ripreso con ben altra ampiezza) per segnalare che il grande progresso nelle conoscenze acquisite negli ultimi decenni deriva dallintegrazione di dati aggregati (generalmente riguardanti tutta la popolazione e raccolti dai sistemi ufficiali) con dati individuali utilizzati a livello individuale (raccolti con indagini

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nominative storiche o inchieste ad hoc): i primi forniscono un indispensabile quadro di riferimento, i secondi, ne dettagliano le articolazioni. Ma anche la conoscenza delle altre componenti ha fatto notevoli progressi, forse non cos evidenti come quelli messi a segno per fecondit e riproduzione. Le statistiche ufficiali, naturalmente, avevano reso possibile lo studio dettagliato della mortalit in senso classico (tavole di mortalit globali e dettagliate per causa di morte; analisi della mortalit infantile e cos via), cosicch nellultimo dopoguerra poco restava da fare in questarea se non estendere e specificare le analisi descrittive. Tuttavia i progressi conoscitivi sono andati, ancora una volta, in due direzioni complementari. Da un lato si sono moltiplicate le analisi formali della mortalit, anche con il fine di giungere alla codifica di modelli di mortalit per et (le tavole tipo, come vengono comunemente chiamate) che variano con una certa sistematicit a seconda del livello di mortalit (espresso, ad esempio, dalla speranza di vita alla nascita), delle cause di morte prevalenti e cos via (ONU, 1955; 1981; Coale e Demeny, 1966; Petrioli, 1982). Questi studi in particolare le tavole tipo hanno fornito il quadro di riferimento essenziale per completare le informazioni lacunose e frammentarie tipiche del paesi in via di sviluppo nei quali non esistono sistemi di rilevazione capaci di fornire regolari statistiche del decessi; e poich la distribuzione per et delle popolazioni stabili o quasi stabili connessa, oltrech alla funzione di fecondit e alla sua forma, anche alla funzione di mortalit, le tavole tipo hanno permesso di procedere allelaborazione di popolazioni stabili tipo ad esse collegate e di vastissimo impiego pratico. La seconda linea di sviluppo passa, ancora una volta, per lacquisizione di dati pi dettagliati desumibili con indagini speciali o accoppiando (con notevoli difficolt) informazioni sui caratteri individuali provenienti dal sistema ufficiale (dati censuari e dati dello stato civile). Oltre che per le variabili esterne che ovviamente influenzano il livello della mortalit (livello di sviluppo, progresso medico e cos via), per quali ragioni popolazioni, o sottopopolazioni, viventi in condizioni esterne approssimativamente simili hanno mortalit diversa? Si apre qui uninterminabile serie di interrogativi sui fattori (individuali, collettivi, di contesto) che determinano i rischi di morte: la natura fisica dellambiente; le condizioni igieniche individuali e della famiglia; laccesso alle cure mediche; lambiente e il tipo di lavoro; le abitudini individuali riguardanti il cibo, il fumo, lalcool, lesercizio fisico, la guida... Si sconfina, ovviamente, nella statistica medica e nellepidemiologia, ma anche questo uno del casi in cui i confini tra discipline sono mobili e artificiosi. Un

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contributo metodologico sostanziale della demografia parte da lontano: dallabitudine del demografi a considerare gli eventi (quelli strettamente demografici o ad essi strettamente connessi) in successione cronologica nellarco della vita umana e nellanalisi statistica (dalla nascita al matrimonio, al parto del primo, del secondo, dellnesimo figlio, intrammezzata magari dal decesso del coniuge, alla vedovanza, al secondo matrimonio, fino alla morte). Queste analisi possono essere trasposte allo studio delle traiettorie biografiche degli individui attraverso situazioni (contemporanee o sequenziali) rilevanti per i rischi di morte. Siamo per ora ai primi passi, n detto che questi diano frutti a breve termine: tuttavia si capisce come i progressi in questa direzione possano aiutare ad approfondire la conoscenza del sistema mortalit (Caselli et al., 1990). Del resto, in unarea pi circoscritta quella della mortalit infantile le analisi demografiche (specialmente quelle nei paesi in via di sviluppo ad alta mortalit) hanno buon successo nellindividuarne le componenti: et della madre, numero di figli avuti, durata dellallattamento e modi di nutrizione, immunizzazione-vaccinazione e cos via. Nello studio della componente nuzialit-famiglia di cui dar solo un accenno i progressi sono stati notevoli a pi livelli: ormai la conoscenza del meccanismi di formazione e dissoluzione del nuclei familiari (nuzialit, nascita del figli, loro uscita dal nucleo familiare, scioglimento della coppia per vedovanza o divorzio e cos via) tale da permettere la costruzione di verosimili modelli di simulazione che riproducono tipologie ben individuate nella realt. Molto pi difficile perch la materia trattata assai pi sfumata e gli eventi molto eterogenei la descrizione, formalizzazione e scomposizione della componente mobilitmigrazione, anche se le innovazioni metodologiche e concettuali a questo riguardo sono state parecchie. Questi accenni possono bastare per trarre alcune conclusioni, qui schematicamente riassunte. 1) Negli ultimi decenni la conoscenza delle grandi componenti del sistema demografico ha compiuto grandi passi in avanti: esse sono state scomposte in meccanismi assai dettagliati di cui si conosce molto bene il funzionamento. Naturalmente si pu andare, e si andr, ancora pi a fondo. 2) La demografia in grado di presentare un quadro dettagliato e integrato del funzionamento di fenomeni fondamentali della societ e fornisce conoscenze portanti e imprescindibili per le altre scienze umane. 3) Un fattore essenziale di questi progressi da individuare nellintegrazione di metodi macro, connessi per il solito con lo sfruttamento delle statistiche ufficiali, e di metodi mieto che utilizzano dati individuali desumibili da indagini particolari.

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4. La ricerca delle cause Ho sostenuto nelle pagine precedenti che i maggiori progressi compiuti dalla demografia negli ultimi decenni riguardano la costruzione di unarchitettura formale del funzionamento del sistema demografico: i rapporti tra crescita e struttura, il modus operandi delle componenti della crescita e del mutamento, ovvero del sottosistemi di fecondit-riproduttivit, morbilit-mortalit, nuzialit-famiglia e mobilit-migrazioni. Lintegrazione di metodi basati su dati aggregati con metodi basati su dati individuali ha grandemente contribuito ai progressi compiuti. Costruita larchitettura principale (che, naturalmente, come la proverbiale fabbrica del Duomo, non completata e sulla quale molto lavoro va ancora fatto), i demografi si trovano di fronte altri giganteschi problemi, tipici di ogni scienza sociale. Perch mai fecondit, mortalit, nuzialit, mobilit, crescita e cos via mutano nel tempo e da popolazione a popolazione? Perch la fecondit del Kenya sei volte pi elevata di quella dellItalia o la speranza di vita del Giappone doppia di quella dellEtiopia? Sebbene le risposte a tali domande siano quasi intuitive, risultano assai meno intuitive le risposte a domande, di natura analoga, circa le ragioni delle differenze tra gruppi assai simili (popolazioni di piccole aree, ceti sociali, categorie professionali e cos via) che esibiscono, in contesti relativamente omogenei, comportamenti sensibilmente differenti. Lelaborazione di risposte a domande di questo genere il pane quotidiano delle scienze sociali. La demografia si sbizzarrita a proporre quesiti ed escogitare risposte: come spesso accade, i primi sono formulati con velocit assai superiore ai secondi. La rapidit e lintensit del dibattito, tuttavia, sono state spinte da una potente molla: dallaccumulo straordinario delle informazioni quantitative sui fenomeni demografici e dallespansione notevole delle fonti del dati. Naturalmente questo accumulo , esso stesso, la conseguenza della crescente fame di conoscenza del fenomeni demografici, di cui una delle cause stata certamente laccelerazione della crescita nei paesi in via di sviluppo. Fatto si che la descrizione del sistema demografico attraverso dati censuari, statistiche dello stato civile (in minor misura) e (soprattutto) indagini campionarie si enormemente arricchito. Il caso cinese ne un esempio: dopo ventanni di silenzio statistico, i censimenti del 1982 e del 1990 hanno messo a fuoco la demografia di oltre un miliardo di individui; nel 1987, unindagine campionaria all 1% (comprendente oltre dieci milioni di persone)

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ha conseguito dettagli notevolissimi sui livelli e la struttura della fecondit. Inoltre, non solo la produzione del dati si grandemente accresciuta, ma notevolmente migliorata anche la loro qualit, assieme alla conoscenza di errori e imperfezioni. Cito, di passaggio, oltre allestensione a tutto il mondo di regolari censimenti decennali, il moltiplicarsi di speciali indagini campionarie su questo o quellaspetto del sistema demografico: fra le tante, la serie dindagini della World Fertility Survey (WFS) negli anni settanta e nei primi anni ottanta, estesa a sessantadue paesi sviluppati e in via di sviluppo, diretta alla conoscenza del comportamenti fecondi, delle loro motivazioni, delle aspirazioni e aspettative in tema di dimensione della prole, della conoscenza e della pratica del metodi di controllo delle nascite (Cleland e Hobcraft, 1985). E, ancora, la serie delle indagini della Demographic and Health Survey (DHS), iniziate negli anni ottanta su fecondit, mortalit e salute, estesa, nella prima fase terminata nel 1990, a trentaquattro popolazioni in via di sviluppo (DHS, 1991). Laccresciuta produzione di dati si accompagnata a una maggiore capacit di trattarli con lavvento, la diffusione, la crescita di potenza e, infine, la semplificazione del calcolo elettronico. Tale capacit ha significato, tra laltro, la possibilit di utilizzare su larga scala dati individuali formulando ipotesi di lavoro ad hoc e verificandole, secondo procedimenti prima assai vincolati a precisi, rigidi e limitati piani di spoglio e di pubblicazione. Oggi il ricercatore in grado di manipolare la sua base dati secondo proprie ipotesi di lavoro. Prendiamo il caso della fecondit: evidente linteresse di analizzarla secondo certe caratteristiche socio-economiche come, ad esempio, il grado distruzione, la professione e altre variabili; quando non esistevano indagini speciali atte a collegare le variabili esplicative con quelle dipendenti si procedeva, ad esempio, con indagini di tipo cross section. Una volta classificate le varie aree geografiche secondo il livello di fecondit, il grado medio di istruzione, lincidenza delle attivit agricole o industriali e cos via, si cercava di misurare la relazione tra le variabili supponendo che le relazioni osservate nelle sottopopolazioni (ad esempio una diminuzione di fecondit al crescere del grado medio di istruzione) fossero valide anche a livello individuale. Nel caso di indagini speciali (ad esempio, in un censimento, la domanda sul numero di figli avuti dalle coniugate) era possibile raggruppare, secondo schemi prestabiliti, gli individui secondo i livelli delle variabili esplicative scelte (ad esempio secondo il grado di istruzione) e misurarne la fecondit corrispondente, gi operando un progresso conoscitivo notevole. Ma laccesso diretto, da parte del ricercatore, ai dati individuali dellindagine con la possibilit di combinare nel modo pi vario le caratteristiche del singoli individui ha arricchi-

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to ulteriormente la potenzialit delle indagini demografiche: egli pu agire con la pi grande flessibilit operando le necessarie ipotesi e verifiche. La base dati non pi un duro masso da scolpire e incidere ma molle pasta da plasmare. Naturalmente, a opportunit nuove si contrappongono problemi nuovi: da un lato la ricchezza delle banche dati, dallaltra le restrizioni allaccesso ai dati individuali per non violare i diritti alla riservatezza. Questa lunga premessa necessaria per un motivo assai semplice: laumentata produzione del dati ha accresciuto enormemente la capacit di descrivere il sistema demografico, ha moltiplicato i quesiti possibili e ha anche potenziato gli strumenti per rispondervi. Si ritorna, cos, al problema della ricerca delle cause del variare del fenomeni demografici. Potremmo immaginare tre fasi teoriche del procedere: 1) descrizione e analisi del variare del fenomeni. Ne sono cardine le successioni temporali (serie storiche) e le analisi differenziali; a livello aggregato, suddividendo il territorio, la popolazione, le famiglie e cos via in aree o in gruppi, secondo vari criteri, si pu osservare lincidenza differenziale del fenomeno in questione; 2) tentativo di spiegare (in senso statistico) le regole del variare del fenomeni, approfondendo le relazioni fra caratteri; questo procedimento pi efficiente quando si mantiene il riferimento individuale del caratteri (ad esempio mettendo in relazione il grado di istruzione di ciascun individuo con la sua fecondit) in modo tale da ricercare e individuare eventuali regolarit sistematiche, in tempi diversi in popolazioni diverse, ponendo in relazione una o pi variabili indipendenti con la variabile o le variabili dipendenti; 3) ricondurre le spiegazioni parziali di singoli fenomeni entro un modello generale, un paradigma, una teoria interpretativa. Rispetto al punto 1), le descrizioni del sistema demografico si sono moltiplicate in modo straordinario negli ultimi decenni, soprattutto per quanto riguarda la fecondit e la mortalit, meno per fenomeni pi complessi e articolati o pi sfumati, come i processi dinamici delle famiglie o mobilit e migrazioni. Ma anche le indagini di cui al punto 2) si sono sviluppate con vigore, attingendo alla massa di informazioni desumibili da indagini ad hoc (in Italia ricordiamo lindagine sulla fecondit del 1979, lindagine Istat sulle strutture e i comportamenti familiari del 1983 e lindagine multiscopo, periodica, sulle famiglie anchessa eseguita dallIstat a partire dal 1987) e sfruttabili a livello individuale. Ma si trattato di uno sviluppo avvenuto con un certo disordine, non essendo derivato da un disegno unitario, sostanzialmente per tre ragioni:

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a) la difficolt di mettere a punto variabili esplicative significative e coerenti; b) lalta proporzione di varianza di ciascun fenomeno studiato che rimane inspiegata; c) la frequente contraddittoriet del risultati, difficilmente interpretabile. Ma dove i risultati permangono paurosamente carenti lambito del punto 3). Infatti, pur dando per risolti i problemi espistemologici relativi al significato da attribuire al fatto che i fattori x, y e z spieghino una certa percentuale della varianza di un determinato fenomeno in una data popolazione, come spiegare ad un tempo il contemporaneo muoversi (sotto la spinta di fattori discordi) del diversi fenomeni che integrano il sistema demografico? Si prenda ancora una volta il caso della fecondit: semplificando al massimo, su di essa agiscono, oltre a una serie di fattori psico-sociali, culturali e economici, altri fattori demografici quali la nuzialit, la mortalit infantile, la mobilit delle coppie e cos via, i quali, a loro volta, rispondono a indicatori di volta in volta diversi... Il tentativo di immettere tutte le variabili in un grande sistema si rivela, in pratica, impossibile e incontrollabile. Ma spesso, fortunatamente, la ricerca non ha bisogno di procedere da 1) a 2) e da 2) a 3); in altri termini, sarebbe ingenuo pensare che per costruire paradigmi e teorie basti provvedersi di descrizioni dettagliate e di analisi multidimensionali e che da queste analisi a tappeto possa scaturire, induttivamente, un compiuto schema intepretativo, cos come una pietanza raffinata non uscir mai dalla combinazione sistematica degli infiniti ingredienti dellalimentazione. Avviene in effetti che lesperienza, losservazione, la cultura (e quindi la capacit di apprendere dalle altre discipline) suggeriscano ipotesi e schemi e che la ricerca ne deduca e ne verifichi le implicazioni; che, cio, si proceda da 3) a 2) e 1) ritornando, se del caso, a 3) per modificarlo, convalidarlo, negarlo. 5. Teorie e paradigmi interpretativi: a) transizione demografica e teorie della fecondit Per la loro formazione, la consuetudine con la ricerca empirica, la vicinanza con un nucleo forte metodologico, analitico, i demografi sono assai pi a loro agio alle prese con quesiti di tipo quantitativo, cui si pu rispondere attingendo allo strumentario a loro disposizione, piuttosto che di fronte a quesiti magari semplici, ma la cui risposta richiede

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una visione pi ampia della societ e delluomo. Ad esempio, a una domanda stravagante come qual la probabilit di concepire per un gruppo di donne di una certa et, primipare, conviventi con un marito di un anno maggiore, residenti in aree urbane, secondo il tempo trascorso dalla nascita precedente, la durata dellallattamento e il colore degli occhi? non impossibile rispondere, sempre che si sia capaci di convincere un ente finanziatore della sua rilevanza scientifica e sociale e si ottengano i fondi per impostare lindagine e sempre che si disponga di un numero significativo di donne cui porre questa domanda e di ricercatori allaltezza del compito. Assai pi imbarazzante il dover dare risposta a quesiti dellaltro tipo, quale ad esempio: perch siamo oggi sulla Terra cinque miliardi di individui e non cinquanta miliardi come alcuni ritengono che il nostro pianeta possa sostenere e nutrire o cinque milioni cifra che gli antropologi stimano riferita allumanit prima della rivoluzione del Neolitico?. Si tratta di una domanda assai semplice, invero, la domanda della demografia o delle scienze biologiche; una domanda che probabilmente i padri fondatori delle due discipline Malthus e Darwin sempre ebbero presente durante la loro vita. La critica pi severa rivolta alla demografia degli ultimi decenni una volta riconosciuti i grandi progressi conoscitivi che essa si dedicata allanalisi di crescente profondit del pi intimi e nascosti recessi del comportamento demografico, scavando verticalmente in quello che potremmo chiamare ignoto demografico ma, allo stesso tempo, si ritirata orizzontalmente dal compito dindagine dell ignoto sociale (e molti direbbero anche dellignoto biologico), quellimmenso territorio che pu essere studiato adeguatamente solo congiungendo le forze con le altre discipline delluomo. Il paradosso si spiega alla luce di questa tendenza, che ha certamente consolidato la disciplina ma rischia di renderla culturalmente povera. Non voglio insistere nella critica: pu ben darsi che non potesse essere diversamente, in un periodo di accumulo cos rapido delle conoscenze empiriche, e che, dopo questa fase di accumulo, ne segua unaltra di pi lenta elaborazione teorica; daltro canto, qualche segno incoraggiante in questa direzione c. Del resto, critiche analoghe si potrebbero fare per altre discipline sociali. Un superamento del limiti attuali anche insito negli sviluppi della raccolta del dati: quando si comincia ad andare oltre lanalisi del sistema demografico, estendendo lindagine alle caratteristiche di contesto o individuali (variabili ambientali o di contesto come labitazione, la residenza; di comportamento come luso del tempo, i consumi, le abitudini; qualitative, come listruzione, il red-

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dito, la professione e cos via) si raccolgono dati, si utilizzano concetti, si misurano fenomeni che interessano da vicino leconomista o il sociologo, portando inevitabilmente alla ricerca di problemi comuni. Anche certe metodologie di analisi si avvicinano: si pensi allanalisi longitudinale, messa a punto con rigore dalla metodologia demografica, e alle sue estensioni agli studi del ciclo del risparmio e del consumo, in economia, o del ciclo di vita individuale e familiare, in sociologia. Ritorniamo allargomento centrale: in quale misura la demografia ha saputo elaborare teorie o paradigmi interpretativi delle relazioni tra popolazione e societ? una domanda insidiosa, anche perch la tentazione di osservare che la disciplina non ha prodotto niente di paragonabile allambizioso modello di equilibrio popolazione-risorse elaborato da Malthus o che nel Novecento la demografia non ha elaborato lequivalente della teoria generale di Keynes. A ben guardare, invece, le elaborazioni teoriche non mancano, anche se spesso limitate a settori circoscritti della realt demografico-sociale. Interpretazioni teoriche sui meccanismi del mutamento demografico sono quelle che fanno capo alla teoria della transizione demografica (Coale, 1973): lo sforzo, cio, di comprendere i modi del passaggio da sistemi nei quali fecondit e mortalit sono elevate a sistemi in cui esse sono basse (come avvenuto a cavallo del secolo nelle popolazioni occidentali); e altres lo sforzo di comprendere in quale misura il paradigma sia riproducibile in contesti diversi e soprattutto in quale misura esso possa essere utilizzato per i paesi in via di sviluppo in cui tale processo di transizione in corso o appena allinizio. Il paradigma della transizione postula una dipendenza stretta tra evoluzione economica e sociale ed evoluzione demografica; in una prima fase la mortalit diminuisce a seguito della scomparsa delle grandi crisi di mortalit (vaccinazioni; rarefazione delle carestie) o del miglioramento del livello di igiene, di nutrizione e cos via. La diminuzione della mortalit significa maggior sopravvivenza del,figli e quindi per un numero dato di sopravviventi allet adulta una minor produzione di figli. Ma questa minore fecondit rinforzata dallaccresciuto costo e dal pi tardivo, contributo economico che i figli danno in societ che si fanno urbane e industriali, che richiedono un maggior grado di istruzione e una durata pi lunga di allevamento della prole. Daltro canto la minor fecondit significa di per se stessa maggior cura del figli e implica minor mortalit. La retroazione tra mortalit e fecondit si esaurisce quando la mortalit raggiunge un suo minimo quasi biologico e la fecondit vi si adegua. Il paradigma della transizione demografica unutile sintesi di una

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trasformazione estremamente complessa ma scarsamente riproducibile o generalizzabile. La sua debolezza non sta tanto nelle numerose deviazioni dallo schema (in non pochi casi il declino della fecondit inizia prima di quello della mortalit; la transizione della fecondit inizia nella Francia rurale un secolo prima che non nellInghilterra industriale; in molti casi valori e norme che presiedono alle scelte individuali sembrano poco permeabili ai mutamenti economici o sociali e cos via) quanto nella presunzione che prima e dopo la transizione esista uno stato di equilibrio demografico, in cui natalit e mortalit sono molto vicine e la crescita nulla o trascurabile. Se la ricerca storica ha mostrato che non era certo questa la situazione prima della transizione, lesperienza contemporanea mostra che non lo nemmeno dopo; mentre il cammino del paesi in via di sviluppo mostra unenorme variet di situazioni non facilmente codificabili. Daltro canto anche da respingere il rilassamento eccessivo delle regole del paradigma della transizione allo scopo di farvi rientrare, in qualche modo, le tante eccezioni. Il dibattito attorno al paradigma della transizione stato, per, produttivo di nuove ricerche e idee, particolarmente nellarea delle determinanti della fecondit. Si pensi, soprattutto, allo sviluppo della new home economies e ai numerosi tentativi (Leibenstein, 1974; Becker, 1981) di spiegare le scelte razionali delle coppie in funzione dellutilit e del costi della prole. Se, da un lato, con il crescere del reddito familiare il costo del figli aumenta, la loro utilit complessiva declina: non tanto la soddisfazione che si trae dallesistenza del figli, quanto la loro utilit in termini di sicurezza del genitori nella vecchiaia o la loro utilit in quanto produttori. Cos, con una funzione di utilit complessivamente decrescente e una funzione di costo crescente, le famiglie tendono ad avere meno figli al crescere del reddito e al procedere dello sviluppo (Leibenstein, 1974). Oppure si pu dire, con Becker (1981), che il costo del figli, di per s, non cresce con il crescere del reddito familiare: sono piuttosto le famiglie che scelgono di spendere (investire) di pi nei figli, ovvero chiedono figli di miglior qualit; pertanto, per una qualit data di figli (cio per figli che hanno un determinato livello di istruzione, che vengono alimentati, vestiti, alloggiati in un certo modo e cos via), le famiglie tendono ad avere pi figli al crescere del reddito. Questa relazione risulta nascosta, in ogni popolazione sufficientemente grande, per il fatto che il controllo delle nascite migliore nelle famiglie pi abbienti (che quindi non hanno figli indesiderati). Questi originali spunti (contenuti, per la verit, in embrione nelle prime formulazioni della transizione demografica) e i numerosi tentativi di generalizzazione (ad esem-

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pio, per incorporare il controllo delle nascite) di sintesi e di applicazione empirica di spiegazione della fecondit, sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo, non hanno peraltro dato i frutti sperati. Le ragioni sono tanto teoriche (la difficolt di postulare una funzione di utilit; il trascurare linfluenza esterna di norme, valori e ideali e del loro mutare nel tempo e cos via) quanto empiriche (difficolt di valutare gli elementi di costo e cosi via): pi in generale, derivano dalla difficolt di far dipendere le variazioni del flusso aggregato di nascite da meccanismi tutti interni alla famiglia e quindi di conciliare tendenze macro con comportamenti micro. In reazione alla fortuna (non uguagliata dai risultati) delle indagini microeconomiche, non pochi studiosi tendono a interpretare i mutamenti della fecondit in funzione del mutare di sistemi di valori o di impulsi (anche economici) provenienti dal sistema sociale, la cui azione non pu essere adeguatamente spiegata da meccanismi micro visti esclusivamente a livello di scelte della coppia. Specialmente nei paesi sviluppati, a bassissima fecondit, questa sembra sempre pi obbedire a mutamenti nei sistemi di valori propri di ciascuna generazione, sistemi che hanno una forte variazione temporale ma una forte omogeneit da popolazione a popolazione. Cos potrebbe spiegarsi anche lomogeneit negli ultimi decenni del cicli di fecondit del paesi occidentali (ripresa del dopoguerra, declino a partire dalla met degli anni sessanta; sostanziale stabilit su bassissimi livelli negli anni ottanta). Appaiono comunque redditizi quegli sforzi che tendono a definire e misurare i sistemi di valore nelle varie generazioni e a riferirvi i comportamenti demografici delle coppie. Sono tentativi, questi, che non dispiacciono agli storici (per unintepretazione del mutamenti storici nel valore del figli si veda Aris, 1960) n a economisti come E asterlin (1978), il quale ha sviluppato una teoria che spiega le alternanze di fecondit delle generazioni in termini di dimensioni numeriche delle generazioni stesse (quelle di minori dimensioni hanno favorevoli condizioni di vita perch la scarsa offerta di lavoro genera alti salari, e in conseguenza hanno un pi alto numero di figli; per le generazioni pi numerose invece il discorso si rovescia). 6. Teorie e paradigmi interpretativi: b) altri spunti Nel tentativo di risolvere alcuni grandi temi inerenti alle relazioni popolazione-societ, non sono mancati spunti teorici di notevole interesse in altre direzioni. Questi hanno in genere riunito due condizioni:

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1) sono stati elaborati sotto la spinta della necessit di unificare o integrare conoscenze provenienti da discipline diverse; 2) hanno cercato e trovato prove e conferme in analisi di lungo periodo. Nel campo delle relazioni tra popolazione e economia una linea di ricerca classica che faceva capo a Kuznets (1973) e orientata a spiegare gli effetti di lungo periodo della crescita demografica andata esaurendosi negli anni sessanta. Pure, i temi affrontati erano di grande interesse, poich si tentava di capire come il miglioramento delle risorse (capitale) umano per labbassarsi della mortalit e della morbilit, laumento dellistruzione e il miglioramento della formazione, i guadagni di scala conseguenti alle dimensioni demografiche e sociali accresciute avessero annullato e invertito la legge del rendimenti decrescenti: questi temi furono risuscitati negli anni ottanta non sempre con equilibrio e misura (Simon, 1986). Negli anni sessanta e settanta sono proseguiti soprattutto i tentativi, iniziati da Coale e Hoover negli anni cinquanta, di individuare le conseguenze della rapida crescita demografica (e della sua eventuale decelerazione) su risparmi, investimenti e crescita economica (Coale e Hoover, 1958); modelli e interpretazioni che, tuttavia, non hanno incontrato i successi sperati dal momento che la performance economica del paesi in via di sviluppo sembra essere stata legata in maniera assai contraddittoria alla crescita demografica, almeno a giudicare dallesperienza dellultimo trentennio (Kelley, 1988). Assai innovatore risultato il paradigma sviluppato da E. Boserup (1965) riguardante il molo della crescita demografica sullo sviluppo agrario, in cui le premesse del modello malthusiano sono rovesciate e la crescita demografica vista come la variabile determinante dello sviluppo agricolo, della crescita della produzione e della sua intensificazione. Linnovazione tecnica implica maggior input di lavoro (ad esempio quando si passa da uneconomia del taglia e brucia a una di coltivazioni annuali) e non avverrebbe se la crescita demografica non la rendesse necessaria. Lestensione alleconomia primitiva (Cohen, 1977) o alla spiegazione del successo della rivoluzione verde (Pingali e Binswanger, 1988) sono esempi della vitalit dello schema di Boserup. Demografia e storia hanno prodotto altre interpretazioni globali di notevolissimo interesse delle relazioni tra societ e demografia. La ricostruzione delle famiglie a fini demografici reinventata da Henry negli anni cinquanta ha permesso la ricostruzione dettagliata del funzionamento del sistemi demografici di antico regime almeno per la parte stabile non sommersa della popolazione (Livi Bacci, 1990). In alcuni casi fortunati come per la popolazione del Quebec (Charbonneau

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et al., 1987) stato possibile ricostruire lintero sistema di una grande regione (sia pure poco popolata) e le ragioni della sua affermazione demografica. Pi in ombra le interrelazioni con il sistema sociale ed economico, che, tuttavia, quando vengono studiate si rivelano molto produttive. il caso della ricostruzione della popolazione inglese (Wrigley e Schofield, 1981) e del tentativo di spiegare le interazioni tra crescita demografica e crescita della domanda e del prezzi e caduta del salari reali e ristabilimento di una situazione di equilibrio non con laccresciuta mortalit ma con una diminuita nuzialit e natalit. Il modello malthusiano viene confermato per lInghilterra anche se la variabile demografica sensibile alle alternanze economiche non la mortalit ma laccoppiata nuzialit-natalit. Parziali, ma non meno interessanti, sono gli studi che hanno posto in relazione le crisi di mortalit con i fattori che le determinano (carestie, epidemie), hanno valutato il loro impatto sulla crescita demografica, indagato sulle risposte demografiche e sociali alle crisi stesse (ristrutturazione delle famiglie e delle propriet; accelerazione del ritmi della nuzialit e della fecondit) mediante metodologie varie, inclusi modelli econometrici. Anche qui, pur limitatamente allo studio dellazione e della reazione connessa con uno shock esterno (la crisi), si sono costruiti modelli interpretativi. Sul piano pi stretto dellepidemiologia storica, lo studio dellunificazione biologica del mondo (Leroy Ladurie, 1975; McNeill, 1978), limpatto di infezioni nuove su popolazioni vergini (Crosby, 1986), il diverso accrescimento di gruppi nuovi che competono coni vecchi hanno accresciuto enormemente la conoscenza delle interazioni tra mortalit, morbilit e societ. Ancora, nellambito degli studi sia storici (Mc Keown, 1976; Livi Bacci, 1989) sia contemporanei, i temi della relazione tra produzione, sistema agrario, consumo, nutrizione e crescita demografica si sono rivelati densi di spunti e di promesse. Unaltra area dove paradigmi interpretativi possono svilupparsi ancorch limitati a fenomeni pi circoscritti, che non investono lintero sistema demografico quella del modelli epidemiologici. Spesso questi modelli, estremamente semplificati, interpretano le relazioni tra infezione, popolazione immune, popolazione suscettibile e mortalit prescindendo dalle caratteristiche demografiche (struttura per et, tasso di accrescimento, peculiarit insediative e sociali della popolazione). Lintervento del demografo pu notevolmente aumentare il potere esplicativo di questi modelli. Un caso oggi evidentissimo quello delle infezioni da HIV, dove struttura per et della popolazione, esposizione al rischio tramite contatti sessuali, modi del contatti sessuali e metodi di contraccezione debbono essere incorporati nei modelli esplicativi.

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7. Elogio della demografia. La demografia utile? Il titolo del paragrafo contiene una domanda retorica, ma forse non peregrina. Ci si potrebbe infatti domandare se le conoscenze che oggi abbiamo del sistema demografico si sarebbero conseguite se la demografia non si fosse sviluppata come disciplina autonoma; se non avesse reciso i legami di dipendenza dalla statistica; se fosse rimasta nellalveo della sociologia o se i suoi obiettivi di ricerca fossero rimasti esclusiva pertinenza delle varie discipline (naturali o sociali) interessate via via a fecondit, mortalit, migrazioni, famiglia. Anche cos riformulata si tratta di una domanda retorica che non consente prove o smentite, ma speculazioni. Pure limpressione netta che lo sviluppo della demografia come disciplina attiva, e non come oggetto passivo di ricerca nellalveo di altre discipline, sia stata una condizione essenziale del suo progresso, come dimostra del resto lo stato depresso degli studi demografici in un paese di grandissime tradizioni scientifiche come la Germania (dove la demografia non ha status universitario) o la sua espansione in Nordamerica dove, pur se prevalentemente legata a dipartimenti di sociologia, ha acquisito ampio riconoscimento e libert di manovra. Naturalmente c il rischio di scambiare leffetto con la causa e quanto detto non oltrepassa lambito delle opinioni personali; ma proseguendo nellesercizio delle supposizioni, si pu ben immaginare che se la demografia non fosse diventata adulta con un corpus compatto di metodi e di conoscenze, la situazione sarebbe ben diversa. La sociologia avrebbe certo approfondito gli studi su matrimonio e famiglia, sulle strutture per et o sviluppato le analisi sullurbano e il rurale; gli attuari avrebbero raffinato e moltiplicato le tavole di eliminazione; la statistica avrebbe migliorato i quadri descrittivi e perfezionato le rilevazioni; la geografia umana avrebbe affrontato da par suo lanalisi della dislocazione territoriale e degli insediamenti; gli economisti avrebbero inserito qualche componente demografica rilevante nei loro modelli di analisi del consumo e del risparmio o del mercato del lavoro; biologia, genetica ed epidemiologia avrebbero esaminato separatamente vari aspetti della riproduttivit e della sopravvivenza. Se anche immaginassimo che tutte le conoscenze parziali che oggi abbiamo si ritrovassero puntuali sparse nei vari ambiti disciplinari, non v dubbio che la nostra conoscenza del sistema demografico e delle sue relazioni con il sociale o il biologico sarebbero assai minori; mancherebbe un corpus metodologico unificante (si veda il capitolo di Santini, I metodi, in questa Guida); verrebbe me-

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no, soprattutto, la capacit di spiegare i fenomeni demografici nella loro complessit. Quanto detto serve a chiarire un altro punto spesso in discussione, cio la cosiddetta interdisciplinariet della demografia, disciplinacerniera tra il biologico e il sociale. Che cosa c, infatti, di pi interdisciplinare di una scienza i cui contenuti si trovano sparpagliati nelle varie discipline di cui sopra si detto? Una demografia cannibalizzata dalle altre scienze (sociali e naturali) delluomo il colmo dellinterdisciplinariet di cui si parla, a dritto e a rovescio. Certo vero che una demografia ripiegata sullanalisi esclusiva del sistema demografico, disinteressandosi del pi ampio sistema sociale o delle sue radici biologiche (si veda il capitolo di Scardovi, Demografia e biologia, in questa Guida), rischia disterilirsi e di diventare una tecnica, una contabilit raffinata del fatti demografici. Interdisciplinariet non significa dunque eclettismo disciplinare, ma capacit di interagire con le acquisizioni o le curiosit inappagate delle altre discipline. Significa elaborare metodologie comuni nei fondamenti logici (ad esempio le tecniche di analisi longitudinali; Io sviluppo del rapporti tra il trasversale e il longitudinale; le analisi del cicli di vita) o indagare su meccanismi di sviluppo della societ (il ricambio tra generazioni; i processi di selezione del gruppi) che hanno valenze comuni in ambiti diversi. Sotto questo profilo i contributi della demografia alla conoscenza del sociale (assai meno per il biologico) sono molto pi rilevanti di quanto comunemente non si percepisca, n giustificato il timore che la demografia risulti gregaria o portatrice dacqua di altre discipline con liniziale maiuscola, come la Storia, la Sociologia, lEconomia: il suo futuro, semmai, legato alla cultura e alla formazione di chi la pratica; alla capacit di resistere a una domanda di conoscenza orientata esclusivamente allattualit; allabitudine a interagire con altri linguaggi e altre tematiche. Prima di chiudere questo capitolo introduttivo rivolto, pi che altro, a tratteggiare le caratteristiche generali dello sviluppo della demografia e i relativi problemi, qualche parola sulla situazione italiana, cui la Guida prevalentemente dedicata. I vari capitoli tratteggiano lo stato di salute degli studi demografici, sotto vari profili, e il lettore vi trover diagnosi precise e dettagliate. Farne una dinsieme non semplice anche perch la situazione si evolve con un certo dinamismo. In alcuni capitoli (Evoluzione diacronica della demografia, Demografia e biologia) si sono tratteggiati i fasti degli studi di popolazione nella prima parte del secolo, fino allultima guerra; la personalit scientifica del maggiori cultori; la rilevanza internazionale del temi trattati e del risultati;

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la capacit di studiare il sociale non dimenticando il biologico; la crisi del dopoguerra; la rimozione delle tematiche demografiche per alcune compromissioni politiche; la faticosa ripresa negli anni sessanta, anche con il ritorno della demografia a piena dignit nellinsegnamento. Molti di questi temi appartengono a un passato che appare quasi remoto. Fissiamoci sullultimo quarto di secolo (il periodo privilegiato da questa Guida) e constatiamo, in rapidissima sintesi, tre punti principali. Innanzitutto, la rapida crescita quantitativa della demografia: nelle universit sono ormai un centinaio i demografi ufficiali nelle varie fasce; fuori delle universit non sono pochi i centri di ricerca che si occupano di demografia; abbondanti sono stati i finanziamenti, n risulta che progetti intelligenti e utili non siano stati impostati per mancanza di risorse finanziarie. Va anche aggiunto che la societ italiana sempre pi sensibile alle tematiche demografiche e che esiste una domanda crescente di conoscenza. In secondo luogo, a questa crescita quantitativa corrisponde anche una crescita della produzione scientifica e della sua qualit. Tuttavia, analizzando quanto viene fatto, occorre qualificare questo giudizio: la demografia italiana ormai- in grado di stare al passo con gli sviluppi sul piano internazionale, ma vi sta a rimorchio, in buona parte. Pochi degli sviluppi originali della disciplina negli ultimi decenni vedono contributi italiani in prima linea. Infine, le ragioni del divario tra crescita quantitativa della disciplina e della domanda di conoscenza e minore crescita qualitativa sono numerose. La pi consolatoria (ma forse la meno veritiera) che si tratta di uno sviluppo recente e che occorra dare tempo al tempo. La realt che la demografia, assai pi di altre scienze sociali, soffre ancora di un certo provincialismo, rivelato dalla scarsa mobilit del demografi; dalla forte incidenza nella loro formazione di percorsi di studio che li rendono timidi verso altre discipline; dalla quantit di studi locali poco legati a realt pi vaste; dallassenza di interesse per fenomeni che trascendono la realt nazionale; dalla quasi totale assenza di studi sui paesi in via di sviluppo; dallesitazione e timidezza nel trattare temi che esulano dal preciso ambito disciplinare. Sbarazzarsi di questo provincialismo il compito, non facile, del prossimi anni.

Riferimenti bibliografici

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Capitolo secondo Evoluzione diacronica della demografia


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1. I primi passi nello studio della popolazione Per molti popoli dellantichit si ha notizia che venissero effettuati conteggi di particolari sezioni del corpo sociale e che vi fosse una qualche forma dattenzione per la popolazione e per i fenomeni che in essa si concretano. Presso lantica Roma vi furono simili rilevazioni e Tito Livio fa risalire il pi antico di tali conteggi al periodo di Servio Tullio (587-534 a. C.), durante il cui regno furono calcolati 24.000 residenti nella citt di Roma. Dionigi di Alicarnasso racconta anche il modo in cui Servio Tullio perven a tale risultato: istitu feste dette paragonales e decret che in queste riunioni ogni abitante portasse una moneta differente a seconda che fosse maschio oppure femmina, o ancora fanciullo impubere; il conteggio delle monete raccolte diede il numero della popolazione distinta per sesso e, a grandi linee, per et. Attraverso metodi simili, Servio Tullio riusc inoltre a conoscere il numero di nati e di morti e del cittadin che vestivano la toga virile a Roma; design poi funzionari incaricati di raccogliere le stesse informazioni nelle campagne. Queste operazioni, pi tardi, durante la repubblica, vennero affidate a speciali magistrati detti censori, i quali avevano il compito di registrare le nascite e le morti e, a ogni lustro, il numero di cittadini per et e sesso, oltre alla natura e allestensione delle terre possedute, alla quantit di capitali e alla rendita di ciascuno. Daltra parte molti autori si interessarono a notizie attinenti alle cose dello stato, alla geografia e soprattutto agli effettivi militari di cui si poteva disporre, come ad esempio Polibio, scrivendo del preparativi della seconda guerra punica, o Giulio Cesare (nel libro I, cap. XXIX
1 Per chi voglia affinare il dettaglio delle notizie qui fornite e desideri maggiori informazioni anche bibliografiche, si rimanda a Gabaglio (1888) e anche, per riferimenti specifici per la Francia, a Dupquier (1985). Oltre alla bibliografia riportata al fondo di questo capitolo, unutilissima fonte integrativa si rinviene in Corsini (1989).

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del Commentarii), che d indicazioni numeriche del movimenti di popolazione a seconda degli uomini in grado di indossare le armi, degli anziani, del bambini e delle donne. Un altro lineamento importante dellattenzione del romani per gli aspetti della vita umana lo rinveniamo nella costruzione della Tavola di Ulpiano, per opera di Aemilius Macer, che rapporta la durata della vita umana a seconda delle varie et raggiunte da una data persona, inserita nel Digesto di Giustiniano. Si tratta di una tavola di certo non costruita su osservazioni scientificamente elaborate, ma basata sulla conoscenza empirica del numero approssimativo di anni che un bambino, ad esempio, sarebbe vissuto ancora; il carattere empirico di questi dati non li rende certo meno importanti e informativi anzi, alla luce delle acquisizioni e delle conoscenze successive, testimonia del realismo e dellaccuratezza delle osservazioni del romani. Si riporta (tab. 1) la Tavola di Ulpiano, dandole unorganizzazione differente dalloriginale.
Tabella 1. Lettura della Tavola di Ulpiano.
et

1-20 20 25-30 30-35 25-39 40-50 50-55 55-60 60 e pi

30 28 25 22 20 si toglie un anno ogni voltaa 9 7 5

restano da vivere anni

a Ci da intendersi nel modo seguente: per ogni anno di et superiore a 39 e sino a 49 si defalca un anno da 20, relativamente a quelli che restano da vivere. Sicch a una persona di 43 anni restano da vivere: 20 (43 39) = 20 4 = 16 anni. Si tenga conto che le classi di et risultano chiuse a sinistra e aperte a destra: ad esempio, a una persona di 55 anni ne restano da vivere 9.

Queste valutazioni non appaiono irreali e mostrano la notevole comprensione e consapevolezza del romani nellapprezzamento dellordine di grandezza della vita umana. Daltra parte gi nella Bibbia (ad esempio nel salmo 90, 0 Dio, piet della umana fratellanza) vi sono testimonianze di come nei tempi antichi vi fosse unadeguata conoscenza delleffettiva durata della vita degli esseri umani. Le vite di durata straordinaria attribuite nella Bibbia ai patriarchi appartengono a un passato mitico e rispecchiano, forse, la tendenza a esagerare le et di coloro che morivano avanti negli anni; ancora ai giorni nostri, nelle societ in cui

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manca la registrazione anagrafica le persone anziane indulgono nel vezzo di aumentare la loro et effettiva, non appena si presenta loro loccasione2. Solo a partire approssimativamente dal Tre-Quattrocento iniziarono a comparire, sia pure in forma parziale e frammentaria, rilevamenti demografici e censimenti (si vedano anche Bellettini, 1973; Fortunati, 1934). Del massimo interesse sono le prime rilevazioni effettuate nella repubblica di Venezia e in altre parti dItalia. Il motivo principale del loro diffondersi va rintracciato nellesigenza di conoscere le condizione proprie e quelle del popoli con cui Venezia intratteneva relazioni commerciali e politiche; nel 1338 venne ad esempio eseguito un conteggio del cittadini, dai venti ai sessantanni, in grado di portare le armi. Tali operazioni vennero via via perfezionandosi, le anagrafi pi volte riordinate e i rilevamenti generali intensificati, tanto che in una legge del 1624, tesa al riordino delle anagrafi, si riferiva con rammarico aver omesso i censimenti per ben diciassette anni e si disponeva affinch essi assumessero cadenza quinquennale. Parimenti a Firenze si hanno registrazioni della popolazione e tracce se ne rinvengono nella Nuova Cronica di Giovanni Villani, l ove descrive una stima indiretta della popolazione della citt (in novantamila bocche tra uomini, donne e fanciulli, nel 1338) sulla base del pane che occorreva far affluire, ma anche in altre testimonianze di Zuccagni Orlandini (1869). Molto nota almeno fra i demografi la regolarit del rapporto del sessi alla nascita, riferita da Villani (ben prima che si iniziasse a tenere i registri del battesimi e delle sepolture, a Firenze, fra il 1336 e il 1338, nel battistero di San Giovanni vi era luso di accantonare una fava nera per ogni bambino battezzato e una bianca per ogni bambina). Successivamente, come ricorda Lastri (1755), fu tentata lintroduzione della registrazione delle nascite e delle morti, che, limitata allinizio per le nascite al solo battistero di San Giovanni, venne estesa alla fine del Quattrocento alle altre diocesi. Daltra parte se il Villani diede informazioni sul numero di forestieri, viandanti e soldati, delle scuole e del bambini che le frequentavano, delle chiese, del numero di frati e monache, degli ospedali e del letti disponibili per i poveri e per gli infermi e forn molte altre notizie anche quantitative sui commerci, sulle professioni, arti e mestieri che si praticavano a Firenze e sui principali consumi alimentari, solo nel seco2Hopkins (1966) mostra come questa tendenza sia desumibile dalle lapidi del cimiteri, in cui un quarto di quelle analizzate si riferiscono a decessi di persone di pi di 70 anni; di queste il 70% del decessi riguarda persone di pi di 90 anni, il 3% decessi di centenari, un congruo numero del quali avrebbe superato i 120 anni.

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lo successivo venne tentata unoperazione catastale (iniziata nel 1427 su sollecitazione di Giovanni Averardo de Medici, ma dapprima riuscita non con la voluta precisione e ripresa, emendata e completata solo alla fine del secolo). Operazioni censuarie similari e stime della popolazione si ebbero contemporaneamente in altre parti dItalia: a Milano, a Genova, Bologna, Parma, in Sicilia e nello stato pontificio. Daltra parte registrazioni di tal genere, in modo pi o meno continuativo o lacunoso, si ebbero anche negli altri stati europei e giova ricordare che il Graunt si bas proprio su tali registrazioni che in Inghilterra allinizio del Seicento avevano assunto una notevole regolarit per le sue riflessioni che costituirono la prima organica trattazione del fenomeni demografici condotta con metodo statistico. In Italia, nei secoli XVI e XVII, fior una serie di studi, prevalentemente a carattere enciclopedico-descrittivo, che dovevano direttamente contribuire alla nascita di quella Notizia rerum publicarum, che scienza politica che attinge alla geografia, alla storia, alle scienze giuridiche quanto viene ritenuto utile a comprendere e far conoscere lordinamento e le condizioni dello stato, e che giustamente Boldrini (1942, in particolare cap. II) individua come uno del fondamenti storici della moderna statistica. Questo filone dinteressi doveva trovare sistemazione, pur fra i molti contributi che venivano a ingrossarlo, nellopera di Erman Conring alla seconda met del Seicento e, in seguito, in quella di Gottifried Achenwall che nelluniversit di Marburgo aveva iniziato a tenere, dal 1746, lezioni sulla dottrina delle cose notevoli dello stato (fra cui anche laritmetica politica, ovvero, in termini attuali, la demografia). 2. Laritmetica politica nel nostro paese Scriveva nel 1773 il piemontese Giuseppe Vernazza di Freney (richiamato da Levi, 1974) che labile calcolatore sapr da essi [dati] dedurre quelle proporzioni le quali, indicate primamente dagli inglesi, sono poi divenute in tutti i colti giovani oggetto principalissimo di nobili studi, cogliendo cos le origini e le finalit degli studi di popolazione che andavano sotto il nome di aritmetica politica: il termine demografia non apparir che verso la met dellOttocento in Francia per poi affermarsi, attraverso discussioni e alterne vicende, anche in Italia. Allorigine della riflessione sugli accadimenti che interessano la popolazione troviamo il saggio di John Graunt del 1662, seguito poi dagli scritti di Petty, Davenant, Halley, King, Price e da quelli di autori fran-

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cesi, olandesi, svedesi e tedeschi. In maniera diretta o indiretta questa corrente di pensiero e le opere degli aritmetici politici europei ebbero influenza e furono in mano agli studiosi italiani: ad esempio Cesare Beccaria (1852) fornisce informazioni sul lavoro di Deparcieux riguardo la costruzione delle tavole di mortalit in cui cita lolandese Keerseboom e riporta le opinioni di King e di Short. Ma solo con la pubblicazione della traduzione dellopera di A. De Moivre, A Treatise of Annuities on Lives (pubblicata postuma a Londra nel 1756), preceduta e arricchita da un lungo Discorso preliminare, condotta dai sacerdoti Roberto Gaeta e Gregorio Fontana (1776), che vennero diffusi in Italia i dati e le tesi sostenute da molti aritmetici politici europei, come vedremo anche in seguito3. Rammentiamo che nel libro si rinviene, come guida per gli aspetti operativi delle rilevazioni, una Norma per costruire i registri natalizi, matrimoniali, mortuari assieme alle formule per il calcolo della mortalit che verosimilmente ha costituito un modello di riferimento per consimili successivi progetti e per le pratiche applicazioni. Laltro aspetto colto dai primi aritmetici politici italiani riguarda le finalit degli studi di popolazione che come gi aveva mostrato con chiarezza Graunt sono s conoscitive del fenomeni naturali, fra i quali rientrano largamente, anche se modificati e alle volte profondamente determinati dalle condizioni ambientali e sociali, gli accadimenti demografici, ma assumono anche un aspetto di tutto rilievo nel governo dello stato per il tipo di conoscenze che forniscono e per il quadro quantitativo delleconomia che aiutano a tracciare. Questultimo aspetto fa s che linteresse per le rilevazioni demografiche, e pi in generale per la misura del fatti economici e per i fenomeni rilevabili statisticamente, si intrecci con le forme e lo sviluppo dellorganizzazione dello stato, anche nel nostro paese, agevolando e guidando, quasi costituendone laurorale base conoscitiva, gli studiosi dellOttocento.
3 Questo libro present il lavoro di Abram De Moivre, grande matematico francese nato nel 1667 e rifugiatosi in Inghilterra dopo la revoca delleditto di Nantes, per motivi religiosi. Egli aveva scritto nel 1711 il De mensura sortis seu de probabilitate eventum in ludis a casu fortuito penentibus, nelle Philosophical Transactions, London, XXV. Due anni dopo la sua morte, nel 1754, furono pubblicati assieme alla rielaborazione del precedente scritto, The Doctrine of Chances or a Method of Calculating the Probabilities of Events in Play, London, 1717 (17382) e al Treatise of Annuities on Lives. A questo fecero riferimento Gaeta e Fontana. Non appaia superfluo n pedante riprendere qui la loro bibliografia: ci serve a formarci unidea tanto del legami e del riferimenti culturali del due autori, quanto del sentieri di comunicazione europea da loro aperti nel nostro paese. Tale storia bibliografica del soggetto (essi asseriscono che i volumi sono da loro stati per la massima parte veduti e consultati) qui sistemata in appendice alla bibliografia di fine capitolo, lasciandola nella forma da loro stessi organizzata (utilizzando solo i rimandi alla bibliografia principale nei pochi casi di volumi presenti in entrambe le liste).

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Vari e disseminati nella penisola furono i centri in cui si svilupparono studi di aritmetica politica. In particolare, come ricorda Levi (1974), negli stati sabaudi linteresse per la demografia nacque allinizio del Settecento, crebbe per un cinquantennio e poi declin nella seconda met del secolo a causa della sordit dello stato nei confronti delle rilevazioni demografiche. Tale disinteresse port i singoli studiosi, come ad esempio Balbo e Morozzo, il cui lavoro fu raccolto e pubblicato da Bonino (1829), a perseguire lanalisi di particolari fenomeni, operando rilevazioni private, nel tentativo di attirare lattenzione sullimportanza dello studio scientifico e quantitativamente documentato della popolazione. Vennero cos presi in considerazione gli aspetti dellelevatissima mortalit fra le truppe e lindividuazione delle cause e del provvedimenti da assumere per contrarla; i provvedimenti per migliorare e rendere pi efficienti gli ospedali e per ridurre il numero del mendicanti e impiegarli nella vita produttiva, fino a gettare le basi per la costruzione delle tavole di mortalit (che non furono per messe a punto) da usare in tontine che potessero aiutare come era avvenuto in altri stati europei le esauste finanze dello stato. A Firenze, in relazione continuativa con gli aritmetici politici europei, oper Marco Lastr (1775; su di lui si veda Poli e Graglia, 1978), che propose la stesura di una tabella descrittiva dello stato attuale del popolo, che avrebbe permesso di individuare il numero delle case sia abitate sia vuote, delle famiglie e degli abitanti, compresi gli impuberi e gli adulti, distinti per sesso, cattolici regolari e secolari, ebrei ed eterodossi, e soprattutto mise in carte le sue ricerche sulla popolazione fiorentina per un periodo di oltre trecento anni. Nel Veneto furono attivi sia i gi citati Gaeta e Fontana, sia Zeviani e Toaldo, di cui ci occuperemo in seguito, nonch Ortes (1790) e Conti (1839). In Lombardia troviamo Gioja, Romagnosi e C attaneo (1839) e soprattutto la rivista Annali universali di viaggi, geografia, storia, economia pubblica e statistica (1824-70), che molto contribu alla diffusione delle idee e delle informazioni sulla popolazione. Nel Meridione incontriamo de Samuele Cagnazzi, impiegato sia nella ricerca sia nella didattica a Napoli e in Puglia (su di lui si vedano Carano Donvito, 1928; 1938; Lombardo, 1989a) e Ferrara in Sicilia ove a Palermo nel 1836 prese avvio il Giornale di statistica compilato dagli impiegati nella direzione centrale della statistica di Sicilia. Se vogliamo individuare un clinamen degli studi di aritmetica politica nel nostro paese, e per quanto tali periodizzazioni pi frutto di necessit semplificatrice a scala globale che strumento di approfondimento locale possano tornare utili, dobbiamo coglierlo nella pubblicazio-

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ne del saggio sulla popolazione di Malthus (1798). Da questo punto di vista ben ha ragione Costanzo (1957) nel rilevare che il lavoro di Malthus chiude unepoca e ne apre unaltra per lungo tempo dominata e suggestionata dalla sua personalit e dallopera sua, alla quale quasi tutti coloro che dopo di lui hanno trattato largomento si sono riferiti per approvarla o per combatterla. Tuttavia, gi a stemperare questo riferimento, egli stesso richiama uno scritto di Ludovico Ricci che dieci anni prima di Malthus prendeva posizione contro la legge del poveri . Si ricorda inoltre lopera di estremo interesse del sacerdote camaldolese Giammaria Ortes (1790, ma composta nel 1775), sul principio di dipendenza della popolazione dalle sussistenze, principio che sarebbe stato riconosciuto da Marx in aperta polemica con Malthus: sulle difficolt di una comparazione e di una spuria omologazione in vista di asserire la priorit di Ortes, rinviamo a Ugg (1928). Nel nostro paese, tuttavia, la transizione dal prima al dopo Malthus non fu immediata nonostante lopera fosse stata conosciuta abbastanza preso, tanto che de Samuele Cagnazzi (1820), nellaprile del 1819, aveva letto alla Regia Accademia delle Scienze la memoria Sul periodico aumento delle popolazioni (inclusa poi come incipit nel volume del 1820) in cui criticava per la prima volta le tesi malthusiane, pur in un generale riconoscimento del pregio e del valore dellopera (Lombardo, 1989a). La discussione sul saggio rnalthusiano, tradotto relativamente tardi in italiano (1868), si protrasse per molti decenni coinvolgendo studiosi come Messedaglia, Romagnosi, Ferrara e molti altri; ottime sillogi si devono a Isemburg (1977) e a Fanfani (1934). Vale la pena accennare, seppur brevemente, alla tesi di fondo di Malthus, che scriveva in un momento in cui la produzione agricola nazionale era sempre pi divenuta la base fondamentale dellalimentazione umana; egli constatava che le possibilit date a una popolazione di accrescersi non sono assolute ma risultano commisurate alle possibilit del suolo disponibile e messo a coltura di fornire mezzi di sussistenza per gli abitanti; il gioco scambievole del freni repressivi (fame, epidemie, guerre) opposti alla forza moltiplicatrice naturale della popolazione, e del freni preventivi (ritardo o rifiuto come scelta cosciente e volontaria del matrimonio) ovvero, tra comportamento incosciente e comportamento virtuoso come efficacemente sintetizza Livi Bacci (1987) condiziona lo sviluppo della popolazione stessa. In definitiva, merito di Malthus di aver precisato, non unico autore in questo compito, il quadro di riferimento del legami che in un sistema di feedback pongono in mutua relazione numero di abitanti e risorse economico-alimentari, e di aver arricchito e dato parziale sistemazione

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in verit nelle edizioni successive alla prima anonima e per parare i colpi che gli venivano dai suoi oppositori alla documentazione statistica e antropologica sul tema. 3. Due importanti strumenti di analisi: le tavole di mortalit e le rappresentazioni grafiche Verso la met del Seicento, per opera di Graunt, venne pubblicata in Inghilterra la prima tavola di mortalit di tipo moderno; successivamente lastronomo Halley, i fratelli Huygens e de Witt e Hudde (in Olanda) contribuirono in vario modo allaggiustamento e perfezionamento di questo importante strumento demografico. Tuttavia solo nel secolo successivo si ebbe in tutta Europa una vera e propria fioritura di lavori e di scritti sullargomento e nacque la controversia fra Daniel Bernoulli e Jean le Ronde dAlembert, che metteva in campo due concezioni dellanalisi della mortalit per il vaiolo, ovvero per la misura degli eventuali vantaggi derivanti dallinoculazione antivaiolosa. Le motivazioni che muovevano gli autori a occuparsi del problema della mortalit umana sono rintracciabili sia nel campo pratico della valutazione della durata della vita al fine di registrare e regolare nel miglior modo possibile i premi per le assicurazioni sulla vita, che si erano notevolmente diffuse soprattutto negli stati dellEuropa settentrionale, sia nel campo di una conoscenza pi diffusa e pi consapevole tesa al buon governo dello stato, o almeno a una pi approfondita conoscenza del suoi meccanismi di sviluppo. Nel nostro paese linteresse per questi aspetti dellanalisi demografica tard un poco a manifestarsi; comunque fra la met del Settecento e i primi anni dellOttocento Zeviani (medico a Verona), Toaldo (canonico veneto nonch astronomo e matematico nelluniversit di Padova) e de Samuele Cagnazzi (professore di statistica ed economia nelluniversit di Napoli e consigliere del governo per le questioni di economia politica) diedero alle stampe il risultato del loro studi sullargomento, cui si aggiunse lopera di Gaeta e Fontana dianzi ricordata, notevole per limportanza della diffusione delle idee e per linfluente opera di collegamento fra gli aritmetici politici del nostro paese e quelli europei. A partire dagli scritti e dalle osservazioni di questi e di pochi altri autori attivi nel nostro paese, diviene evidente la necessit di avere a disposizione dati sufficientemente accurati come gi aveva messo in luce Eulero (Sulla mortalit e la moltiplicazione del Genere Umano) oltre che una riflessione approfondita, legata alla qualit e alla specificit informativa del dati, sui metodi di costruzione e sulle loro basi logiche.

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Il lavoro di affinamento delle ricerche in Italia si protrasse per buona parte dellOttocento e ancora neI 1875, dopo i contributi di Pertile, Prampero e altri, lunica valutazione possibile della sopravvivenza era affidata a una tavola di tipo halleyano, costruita da Rameri; daltra parte le difficolt per la realizzazione di tali costruzioni erano radicate nella stessa societ italiana, nella sua organizzazione politica e nel larghissimo analfabetismo diffuso in tutto il paese con punte particolarmente alte nel Meridione (Badie, 1877). Limpegno della Direzione generale della statistica per superare le varie difficolt fu notevole e si diresse sia verso gli aspetti teorici e di comparazione con quanto veniva elaborato in Europa in particolare gli studi di Lexis in Germania ad esempio con il lavoro di Armenate (1876), sia verso quelli relativi al miglioramento del dati raccolti. Lesito di tale impresa fu la pubblicazione nel 1887 di una nuova e pi solida tavola di mortalit per la popolazione italiana, ancorata alla mortalit colta nel periodo 1876-87 e alla popolazione censita al 31 dicembre 1881; negli anni successivi vennero elaborate e pubblicate nuove tavole di mortalit nel 1901 e per il periodo 1901-12 a opera di Bagni (1919). Inoltre Mortara (1914) si applic allo studio della mortalit secondo varie cause di morte e alla costruzione della relativa tavola di eliminazione per causa che segnasse la probabilit di morte di quelle cause che sono intimamente connesse allesercizio di un dato lavoro. Lo studio e gli indirizzi conoscitivi di Mortara (1925) furono di grande importanza per lidea che ne era alla base e che avrebbe meglio fatto conoscere le condizioni del lavoratori italiani, indicando un percorso di lavoro che, verosimilmente, i successivi eventi bellici interruppero e che in Italia non ha ancora avuto realizzazione pratica nonostante molte nazioni europee abbiano accumulato una notevole massa di studi sugli aspetti differenziali della mortalit per condizione sociale e professionale. Successivamente un ampio lavoro di risistemazione delle tavole di mortalit sino allora costruite e laggiornamento per gli anni pi recenti fu compiuto da Gini e Galvani (1931); quel loro impegnativo e importante lavoro rese comparabili, unificandone almeno i criteri di costruzione, le varie tavole sino ad allora pubblicate e inoltre prese in considerazione anche la dimensione territoriale del fenomeno studiando le manifestazioni della mortalit neI nord, nel centro e nel sud del paese; nelle loro analisi introdussero anche alcuni interessanti espedienti grafici per la rappresentazione delle caratteristiche della mortalit sul territorio, mediante un particolare cartogramma. Da questa breve panoramica (si vedano al riguardo gli scritti di Boldrini e di Lombardo) emerge che nella seconda met dellOttocento lin-

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teresse e i progressi nello studio della mortalit furono notevoli e i collegamenti internazionali fitti e importanti. Il duplice interesse per questo genere di analisi sul piano demografico e su quello assicurativo doveva chiarirsi in modo sempre pi netto, sino a dar luogo a una vera e propria bipartizione del campo di applicazioni e di stdio a partire dai primi decenni del Novecento. Tale distinzione doveva radicarsi non solo nellattivit teorica e pratica del demografi e degli attuaci, ma anche manifestarsi in insegnamenti universitari completamente separati. Il problema stesso dello studio della sopravvivenza aveva dato luogo, proprio al suo sorgere, a una interessantissima rappresentazione grafica di due particolari aspetti di sintesi biometrica della mortalit. Fu dunque Christiaan Huygens (1669; si veda Lombardo, 1986) che a partire dai dati di Graunt costru la prima raffigurazione della funzione di sopravvivenza. Per lunghissimo tempo lo strumento escogitato da Huygens rimase sepolto fra le sue carte e perch vi fosse una ripresa per i metodi grafici in demografia si dovette attendere linizio dellOttocento, quando Fourier (1821) se ne serv ampiamente per illustrare un suo studio sulla popolazione di Parigi; per una periodizzazione di questi interventi si veda Caselli e Lombardo (1990). In Italia, sempre sulla base di contributi tesi alla razionalizzazione della costruzione delle tavole di mortalit, Perozzo (1880; 1883) present alcune sue elaborazioni originali che tuttavia, in alcuni casi, proprio per la loro complessit interpretativa, non trovarono seguito. Ben conosciuta anche allestero invece fu la sua rappresentazione stereogrammativa, cio tridimensionale, prospettica della popolazione della Svezia secondo il tempo (anni dal 1750 al 1875), let e il numero di individui presenti. Se si fa eccezione per lattenzione che Gini (1914), Gini e Galvani (1931) e, in vari scritti, Benini e Mortara dedicarono costantemente a partire dai primi decenni del Novecento al tema delle rappresentazioni grafiche, non si ebbero per lungo tempo applicazioni significative alla demografia. 4. La statistica si organizza nel Regno unitario: la produzione statisticodemografica dopo il 1861 e i progressi nei censimenti della popolazione Se i primi quarantanni dellOttocento possono riguardarsi salvo leccezione, pur importante, costituita da isolati studiosi come Gioi, de Samuele Cagnazzi e Zuccagni Orlandini come periodo di stasi per gli studi demografici e statistici in Italia, con labbandono quasi totale delle pratiche amministrative tese alla raccolta sistematica di documenta-

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zione e persino con la carenza e la diffidenza a pubblicare le notizie attinenti la popolazione, subito dopo inizi una serie di attivit che avrebbero portato allorganizzazione statistica dello stato unitario. Organizzazione che fu sancita con il R.D. 9-10-1861, n. 294 e che veniva allogata, con una Divisione di statistica generale che assunse subito la denominazione di Direzione della statistica generale, presso il Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Inoltre la Direzione veniva assistita da una Giunta consultiva di statistica con compiti di indirizzo e di analisi dellattivit statistica e quindi anche demografica dello stato unitario. Il nuovo organismo del nascente stato naturalmente sostituiva, inglobandoli, i preesistenti uffici statistici di Napoli, Palermo, Firenze, Modena e Parma. Lorganizzazione statistica rimase sostanzialmente immutata sino al 1926, quando fu costituito dal governo fascista lIstituto Centrale di Statistica (Istat). Pietro Maestri, primo direttore dellUfficio italiano di statistica, seppe sfruttare abilmente le competenze statistiche preesistenti allunificazione nelle varie sedi, per inserirle sinergicamente nel nuovo organismo; organizz il primo censimento unitario (al 31 dicembre 1861), lo port a compimento, ne elabor e pubblic i risultati. Per sua formazione era medico con fortissimi interessi per la statistica demografica Maestri tendeva a dar rilievo alle indagini sulla popolazione, indicando un indirizzo che rimase costante anche ne decenni successivi quando altri studiosi, come Bodio, Messedaglia e Correnti, gli subentrarono nella direzione della statistica italiana. Nelle pubblicazioni di quel periodo si pu leggere sia linteresse per i temi demografici, che assumevano un peso non indifferente rispetto alla complessiva attivit statistica nazionale, sia la testimonianza di un lavoro effettuale per superare difficolt e ritardi accumulati dai precedenti Uffici di statistica operanti negli stati preunitari. II primo numero dellAnnuario statistico italiano usc nel 1878 riportando anche informazioni numeriche corredate da estesi commenti relativi alla popolazione; negli anni successivi ne fu regolarizzata la pubblicazione rendendola annuale e ne fu arricchito il contenuto: ad esempio, nel 1911 furono per la prima volta inseriti nellAnnuario cartogrammi per province e regioni. Sin dal 1863 inizi la pubblicazione di Dizionari del comuni del regno, che contenevano tavole sinottiche delle circoscrizioni amministrativa, elettorale, giudiziaria ed ecclesiastica con lindicazione della popolazione rilevata con i vari censimenti. Il movimento della popolazione venne reso noto sin dal 1864 con i volumi periodici della Popolazione. Movimento dello stato civile, con arricchimenti e puntualizzazioni che si aggiunsero nel corso del tempo, in particolare nel 1900. I dati della

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Statistica delle cause di morte furono pubblicati a partire dal 1882, mentre quelli sulle migrazioni (Statistiche dellemigrazione allestero) iniziarono a essere pubblicati nel 1877 e in seguito vennero perfezionati e ampliati. Si cita poi la grande e importante Inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie del Comuni del Regno (1886) che rappresent, sia per lampiezza della materia trattata sia per il dettaglio territoriale che prevedeva la raccolta di svariate notizie per i singoli comuni, unacquisizione che forn una vivida rappresentazione delle condizioni economiche e sanitarie del nostro paese; si tratta di unindagine a cui il tempo non ha tolto vivacit e immediatezza di immagini e che rappresenta unutile lettura anche oggi4. Qutelet (1828), i cui scritti e le cui idee erano ben conosciute dagli statistici e dai demografi italiani, aveva raccomandato che i censimenti, ben eseguiti secondo un piano uniforme e mantenuto tale nel volger del tempo, a cadenza sufficientemente regolare e ravvicinata, dovessero essere tali da cogliere nel modo pi preciso possibile lo stato fisico e morale di un popolo, il grado della sua forza e della sua prosperit, ed enucleare le eventuali tendenze che potessero compromettere il suo sviluppo e il suo avvenire. Se pure nel passato i primi censimenti della popolazione erano stati organizzati in Italia, antesignana di tali rilevazioni, sullonda delle raccomandazioni del congressi internazionali di statistica e cogliendo lesempio delle nazioni pi progredite statisticamente (Belgio, paesi scandinavi, Inghilterra, Germania, Francia e Stati Uniti), anche nello stato unitario italiano vennero organizzati censimenti generali della popolazione di tipo moderno. Ma quale era stata la molla che aveva sollecitato in Italia, come anche negli altri stati, il passaggio allorganizzazione del censimento inteso secondo i moderni canoni? Questa transizione e il riconoscimento dellimportanza nella vita nazionale del censimenti, come laveva indicata Qutelet, derivarono in larga misura dalla creazione degli stati nazionali e dallirrobustirsi delle amministrazioni centrali e periferiche. Tuttavia, seguendo anche la corrente scientifica positivista imperante alla met dellOttocento, la documentazione statistica veniva vista come unistituzione sociale e ci si preoccupava di organizzare al meglio la raccolta e la divulgazione del dati nellesplicito convincimento che il semplice accumulo e la mera conoscenza numerica del fenomeni che si manifestano allinterno della popolazione, trovassero in se stessi la propria giusti4 Non qui possibile dar conto dettagliatamente di tutta lattivit statistica resa palese dalle pubblicazioni. Si rimanda al volume Istat Dal censimento... (s. d.) oppure agli Annali di statistica.

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ficazione. I censimenti erano stati concepiti allo stesso tempo come un arnese scientifico e come un mezzo di controllo della popolazione e di affermazione della potenza dello stato. Si pu anche rilevare che allora ci si interrogava meno sui fini delle rilevazioni statistiche che non sulla pratica delle stesse, ma ci trova giustificazione nelle forti difficolt cui si andava incontro nella normalizzazione e generalizzazione di tali pratiche. Allo stesso momento una funzione che per lunghissimo tempo era stata prerogativa della Chiesa passa alle organizzazioni statali: anche attraverso questo dislocamento di funzioni si delimitavano i campi di influenza delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche e si ribadiva linteresse dello stato per un controllo pi accentuato e spinto in profondit su costituenti la propria base vitale. Il primo censimento nazionale dItalia, i cui dati iniziali corredati da un ampio commento videro la luce nel marzo del 1864, si avvalse sia dellesperienza delle precedenti rilevazioni (come il censimento della Lombardia e del Regno Sardo del 1857), sia delle pratiche gi consolidate in altri stati europei. Il censo fu organizzato per fogli di famiglia, detti schede nominative, che prevedevano la rilevazione di pi caratteri in modo individuale per ciascun componente (anche temporaneo) del nucleo famigliare, di modo che la parte riepilogativa delloperazione censuaria risult essere: 1) nella prima parte venne dato il numero di case, di famiglie e di abitanti per comune del regno, distinguendo laggregazione comunale in centri, casali e case sparse; inoltre la popolazione veniva divisa per sesso e stato civile; vennero poi forniti i ragguagli fra popolazione e superfici (densit ecumenica) per comune; 2) nella seconda parte si distinse la popolazione per et, sesso, stato civile e istruzione; 3) nella terza parte si diede conto degli abitanti suddivisi per professione, et, sesso e relazioni domestiche; 4) nella quarta parte si considerarono gli abitanti a seconda della loro origine, mentre nella quinta si registrarono le migrazioni periodiche; 5) nella sesta, infine, la popolazione venne classificata per sesso, lingua, religione e infermit (cecit e sistema di fonazione). Citiamo un solo dato a testimonianza dellimmane difficolt in cui dovette svolgersi il censimento e che sarebbe stata superata negli anni molto lentamente: soltanto il 13% delle donne e il 28% degli uomini di et superiore ai cinque anni era in grado di leggere e scrivere! Non bisogna dimenticare, infine, il ruolo svolto dai Congressi internazionali di statistica se ne tennero nove dal 1853 al 1876 tra cui quello

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del 1867 a Firenze , in cui le questioni concernenti la formazione delle statistiche, di quelle demografiche in particolare, e la conduzione del censimenti furono ampiamente discusse anche sotto limpulso e secondo la diretta ispirazione di Qutelet. 5. Mutamenti nellinsegnamento della statistica come sintomi del progressi della demografia Nel 1806 de Samuele Cagnazzi assunse lincarico governativo di docente di economia politica alluniversit di Napoli ma, prendendo le distanze dalla definizione ufficiale della disciplina, mise subito in atto la personale idea di separare la statistica dalleconomia, almeno a livello didattico; fu quello il primo corso universitario nel nostro paese in cui apparve linsegnamento di statistica e, in modo esplicito nella sostanza se non nella titolazione accademica, della demografia. Infatti, come si desume dal manuale pubblicato nel 1808, de Samuele Cagnazzi pone al centro del suo insegnamento lo studio della popolazione: n, daltra parte, poteva andar diversamente poich le indicazioni numeriche, i correlati empirici, maggiormente disponibili forse sarebbe pi esatto dire gli unici di qualche ampiezza a sua disposizione concernevano proprio la popolazione. Come ci rammenta M. G. Ottaviani (1989), nello stesso torno di tempo apparvero a Pavia e a Padova insegnamenti consimili a quello di Napoli e solo molto pi tardi, nel 1859, nellordinamento universitario del Regno di Sardegna, introdotto dalla legge Casati, fu presente un insegnamento di statistica e geografia impartito nelle Facolt di filosofia e lettere a Torino. La prima met dellOttocento costituisce forse il periodo meno fecondo della scienza italiana e si instaura cos una fase difficile anche per gli studi di statistica e, correlativamente, per quelli di demografia; questa fase si protrae ben oltre lUnit: solo dal 1885 la statistica divenne insegnamento obbligatorio per conseguire la laurea in giurisprudenza e lo rimase sino al 1923. Parallelamente il sistema di istruzione superiore si arricchisce di un altro organismo di formazione, le Scuole superiori di commercio (la prima a Venezia nel 1868, ma gi nel 1923 se ne annoveravano nove) che, a seguito della legge Gentile di riassetto della pubblica istruzione, dovevano tramutarsi nelle attuali Facolt di Economia e Commercio. Questi altri organismi di istruzione superiore costituirono proprio per la specificit degli argomenti che erano chiamati a trattare un importante veicolo di diffusione della statistica e, contestualmente, della demografia.

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Come abbiamo gi notato, le questioni di studio delle popolazioni, quale che sia la loro estensione disciplinare, vengono presentate per un lungo periodo allinterno degli insegnamenti di statistica; sole eccezioni verosimilmente dovute alla circostanza di non dipendere dal Ministero della Pubblica istruzione si rinvengono a Firenze ove nellIstituto di scienze sociali Cesare Alfieri, a partire dai primi del 1880, viene impartito un programma completo di demografia, come ci ricorda Virgilii (1891), accanto a un insegnamento di principi di statistica e allinizio del nuovo secolo, allUniversit commerciale L. Bocconi, dove trova posto un insegnamento di statistica demografica ed economica, secondo uno schema di organizzazione dellinsegnamento simile a quello dellistituto fiorentino. Si ricorda che lultimo scorcio dellOttocento vede non solo qualche titubanza e incertezza nellaccoglimento del termine demografia, coniato e proposto in Francia alla met del secolo, per designare linsieme di tecniche e di teoria con cui osservare gli accadimenti che si verificano in seno agli aggregati umani (alcuni propendono per il termine demologia, teorizzando talvolta anche possibili distinzioni di argomenti da far rientrare sotto il dominio delluno o dellaltro termine), ma anche discussioni dottrinarie alle volte aspre tanto da far nascere il sospetto che il contendere fosse altrove (si veda Nobile, 1989). La delimitazione del campo di studio appare pi come una ricerca di status della disciplina e, forse, di autonomia dalla statistica, che non come esigenza legata a concreti problemi di analisi e di specificit degli argomenti da trattare, ch ancora troppo elevata risultava larea di sovrapposizione almeno nel nostro paese e i legami del fenomeni analizzati con la statistica nellultimo scorcio dellOttocento. Tuttavia questa ricerca di autonomia pu anche trovar ragionevole giustificazione nella ristrettezza di tempo in cui un solo corso di statistica costringe linsegnamento e, se guardiamo agli statuti della Bocconi e dellAlfieri, dianzi richiamati, riceviamo unulteriore conferma a tale motivazione. Per quanto concerne lorganizzazione generale del contenuti della materia insegnata v sufficiente accordo fra i vari autori pur con ampliamenti e sottodimensionamenti specifici nella trattazione, relativi alle scelte del singoli autori5. Ancora una volta possiamo far riferimento allArte statistica di de Samuele Cagnazzi per cercare di cogliere quella che doveva essere lorganizzazione teorica trasfusa nella pratica didattica dello scorso secolo e nei primissimi anni del successivo: egli dedica lincipit del secondo volume proprio
5 Possiamo qui rammentare, oltre al testo di Benini (1901), anche alcune altre opere che ebbero rilievo nel panorama nazionale nel periodo a cavallo del 1900: Mayr e Salvioni (1879; 18862); Majorana Calatabiano (1891); Messedaglia (1890); Colajanni (1904); Contento (1909).

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allanalisi della popolazione e specificamente, seguendo la cadenza da lui imposta, agli argomenti che seguono: Capitolo I Stato della Popolazione: 1. Sua formazione; 2. Numero degli abitanti; 3. Classificazioni. Capitolo II Stato dincremento e decremento delle Popolazioni: 1. Viste generali; 2. Matrimoni; 3. Nascite; 4. Morti. Capitolo III Durata della vita: 1. Formazione delle tavole di probabilit; 2. Uso delle dette tavole di probabilit. De Samuele Cagnazzi introduce inoltre, almeno come indicazione di studio e della necessit di raccogliere documentazione statistico-numerica, altri elementi di gran rilievo come lanalisi antropologica, in senso fisico, degli uomini, la descrizione quantitativa delle abitazioni e Io studio delle condizioni sanitarie della popolazione sino a giungere a una specifica parte dedicata alle cause di spopolamento di un territorio fra le quali annovera le crisi di mortalit, la diffusa ed esorbitante mendicit, la pratica del celibato, la sterilit del matrimoni e la poca vigilanza per le pregnanti e fanciulli (in termini moderni, la mortalit infantile); lautore non esclude dallambito degli interessi di studio osservazioni sulleducazione pubblica, ovvero sullistruzione degli abitanti delle nazioni, che egli vedeva come uno degli elementi propulsori, se non il principale, del benessere nazionale, e alla cui realizzazione e ampliamento e miglioramento si era interessato nel regno di Napoli sia con studi teorici di pedagogia sia come consigliere del governo. Questa impostazione, che trovava peraltro le sue radici nellaritmetica politica sviluppatasi in Europa, da de Samuele Cagnazzi ben conosciuta per tramite del suoi autori di maggior rilievo, oltre che nellattivit scientifica svolta nel suo soggiorno fiorentino, esercita forte influenza sui successivi autori con gli opportuni aggiustamenti e aggiornamenti dovuti anche, se non forse soprattutto, ai progressi notevolissimi avutisi nelle rilevazioni del vari fenomeni. Nel 1877 Messedaglia (1886) introduce, mutuandoli dal linguaggio della fisica, i termini di statica e dinamica delle popolazioni, di chiaro significato e in uso ancor oggi, mentre nel campo degli aspetti sociali della demografia illustra la necessit di considerare i flussi migratori. Al volger del secolo poi, come abbiamo dianzi rammentato, Benigni, dando sistemazione alla materia per fini didattici, pubblica i suoi Principii la cui organizzazione pu darci un altro punto di riferimento per cogliere lo stato dellarte nel momento. Egli riconosce come pi razionale e didatticamente pi opportuna la suddivisione degli argomenti demografici intorno a due poli costituiti dalla teoria qualitativa e dalla teoria quantitativa della popolazione. La prima considera il demos egli specificava laggregato sociale nelle sue va-

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rie forme di coesione, come una risultante delle qualit, doti o attitudini fisico-psichiche degli individui, che lo compongono, e insieme come una causa modificatrice..., onde si elaborano poi nuove foggie di aggruppamenti. La seconda studia la popolazione nelle sue condizioni di continuit e di accrescimento, massime nel contrasto che pu sorgere tra la moltiplicazione degli individui e la limitata grandezza e feracit del suolo che li deve nutrire. Coesione e continuit sono appunto i fatti salienti delle societ umane, intorno ai quali si esercita con diverso intento lindagine del sociologi e del demografi. Lasciando trascorrere un quarto di secolo, possiamo scegliere il quadro sinottico delineato da Niceforo (1924) per cogliere certo sacrificando molte distinzioni che pur sarebbero necessarie a una visione pi fine del problemi disciplinarmente accolti e delle posizioni quella che sar la tendenza nellinsegnamento e nella manualistica per gli anni futuri, a cui pur con profonde novit si ispireranno i due trattati pubblicati subito dopo la seconda guerra mondiale ma organizzati e concepiti, nella loro prima forma, avanti tale data: quelli di Boldrini (1956) e di Federici (1956). Ecco dunque il progetto del Niceforo con le sue quattro partiture in categorie, a loro volta specificate dalle sottocategorie: a) Stato della popolazione: 1. numero degli abitanti (assoluto, relativo al territorio o densit); 2. numero del comuni e delle altre ripartizioni amministrative, numero delle abitazioni (distribuzione nei comuni e degli abitanti); 3. popolazione agglomerata e sparsa, rurale e urbana. b) Composizione della popolazione per: 1. caratteri fisici e razza; 2. religione, lingua, nazionalit, luogo di origine, sesso, et; 3. stato civile, numero delle famiglie; 4. moralit e delinquenza; 5. professione, cultura, ricchezza, classi sociali, grado di civilt. c) Movimento della popolazione, A): 1. nuzialit, natalit, mortalit (biometria, morbilit, cause di morte); 2. emigrazione e immigrazione, migrazioni interne (continue e stagionali). d) Movimento della popolazione, B): 1. movimento di circolazione e rotazione (allinterno della classe, da classe a classe sociale). e) Teoria della popolazione: 1. studio statistico delle leggi, o regolarit, dordine generale che governano la struttura e la vita della popolazione. 6. Verso una fioritura degli studi demografici: i primi quarantanni del nostro secolo Dal periodo che va dallinizio del nostro secolo sino alla seconda guerra mondiale il dibattito scientifico e la definizione di linee di ricerca in campo demografico, ma potremmo asserire, pi in generale, in campo statisti-

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co (Pietra, 1939), risultano talmente ricche che non s riesce a fissare il contributo di ogni singolo studioso se non allinterno di grandi linee di orientamento della ricerca scientifica. Daltra parte questa fioritura di studi e di proposte di ricerca che era iniziata gi dal 1870 e che perviene a completa maturazione nel corso del primi decenni del Novecento, non pu non ascriversi come mette in luce Fortunati (1939) e come abbiamo gi pi volte sottolineato alla grande copia di dati e di elementi di conoscenza acquisiti allelaborazione in maniera crescente nel volger del tempo. Allingresso del nuovo secolo un grande affresco del principali progressi demografici, dalla costituzione dello stato unitario sino al primo decennio del nostro secolo, lo dobbiamo a Benini (1911) e, per quanto riguarda il dirompente fenomeno delle emigrazioni dal nostro paese, a Coletti (1911). Loccasione di un tal lavoro, che si estese a molti rami della scienza, si rinviene nellesigenza manifestata dal governo Giolitti, nel 1909, di misurare e documentare i molti progressi compiuti in vari rami della nostra organizzazione sociale e scientifica nel corso del tempo; a tale compito attesero numerosi studiosi coordinati dal presidente dellAccademia del Lincei. Benini, dunque, mise in luce e tent un raccordo tra i fatti demografici dellItalia preunitaria con quella postunitaria, ma soprattutto e in special modo per quanto qui ci interessa, si sofferm nella descrizione del principali accadimenti colti con gli ultimi quattro censimenti (1861, 1871, 1881 e 1901): la struttura per sesso e stato civile della popolazione; i mutamenti nelle professioni; i vistosi miglioramenti nel campo dellistruzione che pur rimaneva un punto di lacerazione sociale per gli alti tassi di analfabetismo che ancora allinizio del secolo XX nel sud sfioravano i tre quarti della popolazione; le condizioni di particolari nuclei linguistici presenti nel paese; la dislocazione degli stessi, sia a seconda delle origini degli abitanti, cogliendo cos almeno in parte gli effetti lasciati dalle migrazioni interne verificatesi in passato; le religioni praticate. La sua analisi si estese eriche al movimento naturale della popolazione (nascite, matrimoni, morti) e alla considerazione analitica di alcuni anni che si erano mostrati peculiari per qualche fenomeno demografico specifico come, ad esempio, il 1908 che lasci, col terremoto del 28 dicembre, nelle provincie funestate una eredit con molto passivo. Oltre ad alcuni aspetti metodologici dello studio demografico, peraltro gi presenti nel suo manuale (Benini, 1901), troviamo la segnalazione della scarsit delle pubblicazioni statistiche, che non permette se non risultati modesti comparativamente agli sforzi necessari.

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Come abbiamo rammentato nel paragrafo precedente, linsegnamento universitario della disciplina costituiva occasione per pubblicare il risultato delle personali ricerche e per diffondere le conoscenze e i differenti punti di vista sostenuti dai diversi autori. Tuttavia un momento molto importante per cogliere quanto era venuto concretandosi sia sul piano delle linee teoriche sia sul piano effettuale dellimpegno di ricerca, lo rinveniamo nel Congresso internazionale per gli studi della popolazione (Roma, 7-10 settembre 1931), che raccolse numerose comunicazioni straniere, consent il confronto dellattivit del demografi italiani e, in particolare, costitu loccasione per la presentazione di molti studi che venivano condotti dal Comitato italiano per Io studio del problemi della popolazione fondato e presieduto da C. Gini, originariamente costituitosi come membro della International Union for the Scientific Investigation of Population Problems (si veda Leti e Gastaldi, 1989). Secondo quanto ricorda lo stesso Gini (1934), che introdusse i lavori e presiedette il congresso, e considerando la vastit del settori abbracciati dalle relazioni presentate, specificamente dagli italiani, si trae limpressione da un lato di essere in presenza di un grande processo di integrazione fra la demografia e le altre scienze che con essa si trovano a studiare seppur da angoli visuali e con differenti accentuazioni fenomeni similari, dallaltro di un lavoro imponente di analisi empirica, nei dati e sui dati. Per avere unidea, seppur molto approssimativa e frettolosa, della vastit di interrelazioni scientifiche che, nel nostro paese, collegavano e fecondavano gli studi demografici, ricordiamo che al congresso gli ambiti disciplinari in cui furono presentati contributi andavano dalla biologia ed eugenica alla geografia e allantropologia; dalla medicina e igiene alla sociologia e alleconomia; erano presenti inoltre studi specifici tesi ad analizzare aspetti di metodo, come la misura dellomogamia nelle coppie e della fecondit, oppure la rappresentazione cartografica della densit di popolazione e la determinazione del baricentro della popolazione insediata su di un dato territorio. Nelle comunicazioni pi strettamente demografiche, che occupano due ponderosi volumi degli atti, vennero affrontati svariati argomenti: da Livi, Bachi e Somogyi il tema della demografia degli ebrei; da Valenziani la demografia delle popolazioni primitive; da Ugg il futuro della popolazione italiana; da Gini e da Luzzatto Fegiz la periodicit del fenomeni demografici. E ancora altri fenomeni furono oggetto di studio e trovarono occasione per una sistematica esposizione, come linfluenza dellinfanticidio e dellaborto sullo sviluppo della popolazione (Albert); i principali fattori interni dellaccrescimento naturale della popolazione e le loro relazioni (Mortara, Gini e Somogyi); la mortalit differenziale in differenti classi sociali (Castril-

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li); i celibi e i coniugati nella popolazione nativa e nella popolazione immigrata delle grandi citt (Gini); problemi particolari di demografia (De Castro, Insolera, DAddario, Antonucci e Nobile) e inoltre aspetti di demografia storica. Moltissime comunicazioni provenivano dalla collaborazione di enti diversi, il pi importante del quali appariva essere lIstat, da pochi anni costituito. Lopera di organizzazione culturale e di effettuale coordinamento delle ricerche di Gini in campo demografico prosegu intensa anche negli anni successivi e dur sino al conflitto mondiale, e loccasione per un bilancio esteso a tutte le discipline statistiche (Fortunati, 1939; Gini, 1939; Medolaghi, 1939; Paglino, 1939; Pietra, 1939) in realt si tratt di una rassegna del progressi di tutta la scienza italiana fu offerta dai lavori della Societ italiana per il progresso delle scienze. In tale occasione Gini individua un filone della demografia storica e un altro della demografia integrale, che viene a essere caratterizzato dallaver fatto convergere negli studi della popolazione non solo le ricerche di pura statistica, ma sempre con la scorta del metodo quantitativo anche quelle di Biologia, di Antropologia, di Igiene, di Medicina, di Sociologia, di Economia, di Storia... e che trova il suo massimo esponente nel Comitato italiano per lo studio del problemi della popolazione, costituito e presieduto dallo stesso Gini. Gini ci d una spiegazione importante da registrare, poich ai nostri occhi il processo, da lui auspicato e al quale si era applicato, di integrazione del vari campi del sapere potrebbe apparire piuttosto come una spontanea tendenza apparentemente in atto anche oggi di abbattimento di steccati e di rilasciamento di frontiere, che non un deliberato e fermamente perseguito progetto e forma di pensiero. Ma accanto alle posizioni di Gini coesistevano altri non meno importanti interessi e itinerari di ricerca per i quali va rilevato, come caratteristica peculiare della demografia italiana, la costante presenza dellanalisi del fattori logici nel contesto degli studi di popolazione. Mortara, che doveva diventare, oramai non pi in Italia, presidente della pi importante organizzazione mondiale del demografi (Unione internazionale per lo studio scientifico della popolazione), si era occupato, a partire dai primi del Novecento, sia di economia sia di demografia e statistica; i suoi contributi metodologici (soprattutto relativi alle tavole di mortalit) e le sue analisi circa linfluenza delle condizioni sociali sui fenomeni demografici avevano assunto un rilievo che solo il brutale allontanamento dallinsegnamento universitario doveva temporaneamente interrompere nel 1938, prima che riprendesse a occuparsi di demografia in Brasile (si veda per una meno cursoria presentazione della sua

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figura Mortara, 1985). Livi aveva iniziato la sua attivit pubblicistica e di attiva ricerca in demografia sin dal 1914: studiando (Livi, 1937) le opere di Darwin fu condotto a meditare sul fondamento naturale del fatti sociali e pervenne a una puntuale critica delle teorie dellorganicismo sociologico e ad analizzare le forme associative come permeate e informate da alcuni caratteri della nostra specie sicch egli ebbe a scrivere pure apparendomi sempre pi manifesta la convenzionale falsit delle teorie che, per amor dellevoluzionismo biologico, avevano voluto attribuire alle societ umane lessenza di un organismo animato mi confermai nellopinione che non si poteva, per lo studio delle societ stesse, tagliare ogni collegamento col mondo naturale; con naturalezza egli tuttavia non reseca dalla sua analisi limportanza di altri fattori di associazione, a rischio come egli stesso afferma di un certo dilettantismo e di arrestarsi alla mera formulazione di ipotesi di lavoro nellaffrontare la trattazione organica di problemi che spaziano nel mondo biologico, zoologico, demografico e che attengono alla sfera degli studi antropologici, storici e giuridici. Questa importante silloge del suoi studi fu completata in un successivo volume apparso tre anni pi tardi, teso allesposizione del principali aspetti e regolarit caratterizzanti gli aggregati umani (si veda anche Livi Bacci, 1974, per una completa analisi della sua opera). Boldrini nel 1946 aveva pubblicato un volume di demografia, riscritto dopo dieci anni, in cui, fedele ai suoi interessi per lantropometria e per la statistica, sosteneva il principio che esclusivamente statistico pu essere il metodo della Scienza della popolazione (corsivo mio) , e vi raccoglieva il frutto delle sue precedenti ricerche (Ugg, 1969). Non va dimenticato infine a testimonianza della vivacit culturale di un periodo che, almeno nelle manifestazioni ufficiali e nelle linee programmatiche di governo a cui forse alcuni del luoghi accademici non erano alieni, pu ritenersi chiuso al dibattito e allaccettazione di una pluralit di posizioni che alcuni del pi giovani studiosi avviatisi agli studi demografici nel periodo fascista (fra i quali Nora Federi- ci), iniziarono a porsi interrogativi e dubbi sulla coerenza e legittimit scientifica di alcune posizioni ufficiali in tema di politica della razza; dubbi che dovevano costituire il seme di una successiva critica fattasi pi matura, circostanziata e decisa, dopo la caduta del regime, quando il dibattito culturale pot riprendere senza le pastoie dellilliberalit della dittatura (si veda per alcuni riferimenti bio-bibliografici della studiosa richiamata Sonnino et al., 1987). Ci resta da accennare a un tema importante e difficile, sul quale ancora manca una compiuta analisi: quello del rapporti fra la demografia, gli studiosi di tale disciplina e le politiche di popolazione messe in atto

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dal regime fascista. Tali rapporti attraversano con una serie cospicua di rimandi incrociati il periodo considerato e di cui ciascuno pu cogliere molti aspetti parziali, ma attendono una sistemazione complessiva nel quadro pi generale della politica fascista nei confronti della scienza e delle organizzazioni scientifiche: per il caso della matematica si veda linteressantissimo saggio di Vesentini (1990), che indica una strada di ricerca da ripercorrere anche per la nostra disciplina. Se gli aspetti concreti e gli effetti della politica popolazionista del fascismo sono stati sufficientemente chiariti e sicuramente documentati nei dettagli normativi, gi da scritti del periodo (Istat, 1934; 1943) e successivamente da molti autori (Glass, 1967; Sori, 1975; Treves, 1976; Nobile, 1990, fra gli altri), gli indirizzi di ricerca demografica in senso proprio, impressi e modellati dal governo fascista e i legami, pi o meno diretti ed espliciti, fra il mondo accademico e sfera politica per quel che riguarda la demografia, attendono ancora di essere studiati e compiutamente descritti. Naturalmente tale studio acquista un suo specifico interesse soltanto se si accetta e si riconosce che il sistema delle conoscenze demografiche in generale scientifiche non si esaurisce in un accumulo lineare e non contraddittorio delle conoscenze, ma pervaso e marcato da tensioni e conflitti, da ideali e ideologie diverse, da aspettative e da interessi che si confrontano nel contesto sociale. Daltra parte cos allora come ora la nostra immagine, la nostra raffigurazione della popolazione e della natura, sia quella pi usuale, familiare e legata alle impressioni personali, sia quella che ci viene fornita dalla scienza, stata costruita e viene continuamente riassestata scegliendo quegli aspetti della realt circostante che, in determinate condizioni storiche e sociali, ci sembrano degni della nostra attenzione e ci appaiono costituire problemi aperti. Alcune osservazioni di grande rilievo sulla politica fascista e sui suoi effetti si rinvengono nei Ricordi della mia vita di G. Mortara (1985), in cui le poche pagine destinate a ricordare gli effetti delle discriminazioni razziali mostrano il dramma che doveva coinvolgere gli studiosi ebrei ma, indirettamente, anche quelli non ebrei che con i primi avevano spesso vincoli di amicizia e consuetudine di lavoro. Molto interessante anche lo scritto di Steve (1990), di carattere pi generale e sistematico, che ha esaminato nel quadro relativo a molte scienze tracciato a pi mani da vari studiosi le conseguenze culturali della politica fascista e, in particolar modo, quella dellultimo scorcio della dittatura e delle conseguenze culturali delle leggi razziali, come recitava il tema del convegno organizzato dallAccademia nazionale del Lincei in col-

Evoluzione diacronica della demografia

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laborazione con lUnione delle comunit ebraiche italiane e con lAssociazione nazionale perseguitati politici antifascisti. Non privo dinteresse, infine, rammentare come la costituzione della Societ italiana di statistica (SIS) nel 1939, con il programma di sviluppare ricerche scientifiche nel campo delle discipline statistiche sia nellambito del metodi sia in quello delle applicazioni, rappresent un forte stimolo anche per la demografia e costitu un momento privilegiato di scambio, con i periodici congressi scientifici, fra tutti i cultori di tali discipline. Analoga funzione svolsero le riviste: M etron, fondata da Gini nel 1921, a carattere internazionale, pi dedicata agli aspetti metodologici ma non aliena dal presentare anche contributi demografici; Genus, fondata nel 1934 sempre da Gini, completamente dedicata agli studi di popolazione; il Supplemento statistico ai nuovi problemi, fondata da Pietra nel 1935, per alcuni anni lorgano ufficiale della neonata SIS (si veda Leti e Gastaldi, 1989).

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Capitolo terzo Organizzazione accademica Dionisia Maffioli

1. La collocazione accademica e la sua storia La collocazione della demografia nel quadro dellinsegnamento universitario si fonda sulle vicende e sulle modalit della sua progressiva affermazione accademica. Senza volerne qui ripercorrere le tappe, che si possono cogliere nel capitolo secondo attraverso la storia dello sviluppo disciplinare, pare opportuno richiamarne i momenti essenziali, a miglior comprensione della situazione odierna. Nata contemporaneamente alla statistica come suo primo e principale oggetto, la demografia ne inizialmente considerata parte integrante e le prime tappe dellaffermazione accademica delle due discipline coincidono; sul piano didattico contenuti demografici sono dunque rinvenibili, per tutto il secolo XIX e fino ai primi decenni del XX, negli itinerari formativi delle facolt e delle scuole in cui erano impartiti corsi di statistica. Secondo la concezione dellepoca, la statistica era ritenuta elemento di formazione necessario nel quadro degli studi di economia, geografia, politica, giurisprudenza: di tutte quelle materie, cio, che riguardano lordine economico, morale e sociale degli stati (Zuradelli, 1822). La demografia rientra in questo ordine di preoccupazioni scientifiche e pratiche: viene dunque insegnata, come parte della statistica, nelle facolt di giurisprudenza e in quelle di lettere e filosofia (corsi di geografia e statistica). Di questa forte integrazione fra statistica e demografia si trova testimonianza in testi universitari, trattati e manuali dellepoca, che sono il solo riferimento rimasto del contenuti trasmessi con linsegnamento: in tali opere, a parti concernenti aspetti di statistica metodologica e applicata, si affiancano ampie trattazioni di temi demografici. Ne sono esempi illustri i testi di de Samuele Cagnazzi (1808-09), del Gioja (1839), le lezioni del Messedaglia (1877), i trattati di Mayr e Salvioni (1879, LI ediz. 1886), Tammeo (1896), Bosco (1906), Colajanni (1910), Mortara (1920). Il

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primo testo italiano dedicato interamente alla demografia sia pure intesa in accezione pi ampia di quella attualmente accolta quello di Benini (1901). Una rassegna del testi italiani di demografia e una ricognizione del loro contenuti si pu trovare in Nobile (1987). La rigidit dellordinamento universitario dellepoca (legge Casati) fa s che lintegrazione delle due discipline sul piano didattico perduri a lungo, anche dopo il riconoscimento dellautonomia scientifica della demografia, riconoscimento che si pu ritenere ormai consolidato sul piano internazionale quando, nel 1878, si tiene a Parigi il primo Congresso internazionale di demografia. Laffermazione accademica della demografia come disciplina indipendente e autonoma pu avvenire in Italia solo con il nuovo assetto delle strutture universitarie instaurato dalla legge Gentile nel 1923. Nel nuovo quadro normativo, la statistica diviene la struttura portante di scuole e facolt ad essa intitolate, in cui la demografia individuata da uno statuto disciplinare autonomo costituisce insegnamento obbligatorio. Del 1927 la fondazione delle Scuole di statistica, mentre il 1937 segna la data di nascita della prima facolt di scienze statistiche, demografiche e attuariali, creata a Roma per opera di Gini e Cantelli, in un periodo di grande fiorire degli studi demografici italiani. E di questepoca anche la nascita del Comitato italiano per lo studio della popolazione (Cisp) e delle societ scientifiche di statistica e demografia (SIS, Sieds). La nuova collocazione accademica della demografia si rispecchia nelle caratteristiche della produzione manualistica dellepoca: sono i testi di Niceforo (1924), Vinci (1927), Livi (1940-41) e il testo a pi voci curato da Gini (1935 e 1937), che circoscrive la trattazione ai soli fenomeni demografici. Fa eccezione il testo di Luzzatto Fegiz, che sviluppa, accanto alla trattazione demografica, una parte su Produzione e reddito nazionale, cogliendone peraltro le complesse interrelazioni con il tessuto sociale e non tralasciandone i fondamenti biologici. Alla vigilia della seconda guerra mondiale che chiude una fase di grande espansione degli studi demografici accanto alla facolt romana sono attive scuole di statistica a Padova, Bologna, Firenze, Milano, Palermo. Corsi complementari di demografia sono inoltre istituiti in numerose facolt di economia e commercio e di scienze politiche. Nel dopoguerra, la ricerca e linsegnamento della demografia attraversano anni di ristagno. Fra le cause molteplici della crisi, un posto rilevante spetta alla diffidenza per quanto ingiustificata verso una disciplina che era stata piegata a usi impropri, a sostegno delle politiche popolazioniste e, indirettamente, razziali del regime fascista. A met degli anni cinquanta sopravvivono nelluniversit italiana soltanto 14 corsi di demografia, a

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nessuno del quali attribuita una cattedra, nemmno nella facolt di scienze statistiche, demografiche e attuariali di Roma, i cui ordinamenti prevedono, fra i fondamentali, due insegnamenti di demografia. Sul finire degli anni cinquanta e nel decennio successivo le grandi trasformazioni socio-economiche in atto in cui un ruolo importante giocato dalle correnti migratorie interne, che modificano profondamente lassetto della popolazione sul territorio e rimescolano i comportamenti demografici regionali determinano un rinnovato interesse per la fenomenologia demografica e il rifiorire di studi e ricerche. Ne segue una ripresa anche sul piano accademico. La produzione manualistica si rinnova, con opere originali, che fanno spazio a nuovi sviluppi disciplinari o li segnano esse stesse. Sono i testi di Boldrini (1956), Federici (1956) e il trattato di Mortara sulleconomia della popolazione (1960). Nel 1957 viene creato a Roma, per iniziativa di Mortara, un Istituto di demografia, oggi divenuto lunico dipartimento di scienze demografiche esistente in Italia. Nel 1961 viene bandito il primo concorso di demografia, che d luogo a tre cattedre (Palermo, Firenze, Bologna), cui si aggiungono, quattro anni pi tardi, quelle di Padova, Roma e Bari. Da allora laffermazione accademica della demografia stata rapida: in parte perch ha seguito il movimento di espansione delluniversit italiana, ma anche per gli effettivi spazi che si sono offerti alla diffusione della disciplina, con linteresse suscitato da problematiche di grande rilievo sia scientifico sia sociale e politico per le dinamiche demografiche in atto in Italia e nel mondo. Sulle fasi storiche dellinsegnamento della demografia si vedano Federici (1969), Nobile (1985; 1989) e, per quel che concerne le parti in comune con linsegnamento della statistica, Ottaviani (1985; 1987; 1989). N. Federici si anche a pi riprese occupata della formazione demografica e del posto che essa deve occupare allinterno delle scienze sociali (1968; 1971; 1973; 1977; 1987). Attualmente linsegnamento universitario della demografia si articola in oltre ottanta corsi, di cui un cinquantina sono a livello istituzionale mentre i restanti approfondiscono particolari aspetti metodologici o tematici. Limporsi di nuove problematiche e il perfezionarsi e larricchirsi dellapparato metodologico hanno portato, infatti, a una ramificazione della disciplina. A seguito di tali sviluppi, un percorso formativo completo in demografia non pu essere pi garantito da un solo insegnamento, ma deve essere articolato in pi fasi. Ai fondamenti impartiti con un corso istituzionale devono seguire approfondimenti in diversi settori e direzioni, che non possono essere garantiti se non da una pluralit di insegnamenti a ci finalizzati. Attualmente le universit italiane offrono una serie di insegnamenti che coprono un ampio spettro di

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competenze disciplinari: demografia, che fornisce i fondamenti della disciplina sul piano sia del metodi sia del contenuti; analisi demografica, che ne illustra pi compiutamente le basi logico-formali ed esplora ed esplicita la rete di collegamenti interni fra i fenomeni demografici e i processi di ricambio della popolazione; teorie della popolazione e modelli demografici, che introduce allo studio di modelli intesi a definire le forme di processi demograficamente rilevanti, sulla base di retrostanti impostazioni teoriche; economia della popolazione, disciplina talvolta coltivata e insegnata da economisti anzich da demografi, che studia le teorie economiche della popolazione e analizza le interrelazioni fra dinamiche demografiche ed economiche; demografia investigativa, che fornisce gli strumenti metodologici per lapprofondimento di particolari problematiche; demografia sociale, che mette laccento sulla dimensione sociale del comportamenti demografici e sugli aspetti differenziali; demografia storica, che insegna luso di fonti pre-statistiche per investigare sui meccanismi evolutivi di lungo periodo. Altri settori disciplinari molto affermati allestero e coltivati anche in Italia da un numero crescente di studiosi (demografia regionale, demografia del paesi in via di sviluppo, demografia bio-sanitaria) non trovano per ora corrispettivo in un insegnamento autonomo; leventuale riconoscimento della loro autonomia didattica incontra per largo consenso nella comunit nazionale del demografi. Ancor oggi liniziale collocazione della demografia ne delimita lorganizzazione accademica, essendo gli insegnamenti di demografia impartiti essenzialmente nelle facolt di statistica, economia e commercio, scienze politiche e solo eccezionalmente in altre facolt. In questo la situazione italiana anomala nel contesto internazionale, dove gli studi demografici non sono generalmente collegati agli studi statistici ma sulla base di affinit di contenuto piuttosto che di metodo agli studi sociologici, geografici, storici, economici. Va peraltro aggiunto che, in base allordinamento didattico nazionale che detta nelle linee fondamentali il contenuto didattico degli studi universitari linsegnamento della demografia come materia complementare potrebbe essere attivato nei corsi di laurea in architettura, pianificazione territoriale e urbanistica, sociologia, giurisprudenza, sebbene finora queste possibilit siano rimaste allo stato virtuale. Oltre alla formazione finalizzata al conseguimento della laurea, luniversit italiana organizza corsi di studi a diversi livelli; nellambito del corsi di diploma, di durata inferiore a quella del corsi di laurea e preordinati al conseguimento del livello formativo richiesto da specifiche aree professionali (legge 19-11-1990, n. 341), la demografia presente co-

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me insegnamento fondamentale per il diploma in scienze statistiche, di durata biennale. I corsi di dottorato di ricerca, istituiti con decreto del ministro della Pubblica istruzione del 15-6-1982, soddisfano esigenze di approfondimento ai fini della ricerca scientifica e del reclutamento della docenza universitaria. Un corso di dottorato in demografia, di durata triennale, organizzato in consorzio dalle Universit di Roma, Firenze e Padova e tenuto alternativamente nelle tre sedi, stato istituito fin dallanno accademico 1983-84. Un corso analogo stato in funzione per un solo ciclo triennale presso lUniversit di Bologna. A completamento del quadro della presenza della demografia nelle strutture dellinsegnamento universitario vanno infine menzionate le scuole di specializzazione e i corsi di perfezionamento post-universitari, aventi un obiettivo di approfondimento ai fini della formazione professionale. Per lo pi, le specializzazioni nellarea della ricerca sociale, della pianificazione urbanistica, delligiene e della medicina preventiva, della statistica sanitaria, nelle sue articolazioni biomedica e epidemiologica, che offrono una formazione pi o meno esplicitamente orientata a finalit di programmazione e pianificazione, contemplano linsegnamento della demografia, essendo la popolazione oggetto e soggetto primario di ogni intervento programmatorio. Alcuni approfondimenti sullargomento si possono trovare in Birindelli e De Sarno Prignano (1987). 1.1. La struttura dellinsegnamento universitario Nellanno accademico 1990-91 vi erano 82 insegnamenti demografici. I dati forniti sono basati sui repertori pubblicati in Bollettino della SIS, 18, marzo 1990 e 19-20, settembre 1990, che si riferiscono al 1 novembre 1989, opportunamente aggiornati, attivati presso 37 delle 58 sedi universitarie del paese. Precisamente, trascurando variazioni minori di denominazione, si tratta di: demografia (55 corsi), demografia storica e/o storia della popolazione (7), demografia investigativa (5), economia della popolazione (5), teorie della popolazione e modelli demografici (3), analisi demografica (2), demografia sociale (2). Vi poi un piccolo numero di corsi che aggiungono alle nozioni di base alcuni approfondimenti o una trattazione di alcuni aspetti di altre discipline: demografia e teorie e modelli della popolazione (i.), demografia ed economia della popolazione (1), demografia e statistica sanitaria (1); complessivamente, quindi, si contano 58 corsi in cui vengono impartiti i fondamenti della disciplina e 24 che potremmo chiamare di approfondimento o di specializzazione. La dislocazione territoriale degli insegnamenti evidenziata nella tabella 1, che illustra anche le alterne fasi dellespansione accademica.

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Tabella 1. Insegnamenti di discipline demografiche nelle universit italiane.


Anni accademici Sede universitaria 1924.25 19)4-35 1955-56 1990-91

Ancona Bari Bologna Brescia Cagliari Camerino Campobasso Cassino Catania Ferrara Firenze Genova Macerata Messina Milanol Modena Napoli 2 Padova Palermo Parma Pavia Perugia Pescara Pisa Rende (CS) Roma Siena Teramo Torino Trento Trieste Udine Venezia Verona
Totale
1 2

1 1 1 1 1 1 2 1 4 2 1 1

2 1

1 8 8 1 1 1 1 1 1 6 4 4 1 2 4 5 1 2 2 1 2 12 2 3 1 3 1 1 1

1 1

2 1 1 1

4 1

4 1

1 1
5 23 14

82

Universit Statale, Universit cattolica del Sacro Cuore, Universit commerciale L. Bocconi. Universit di Napoli, Istituto universitario navale.

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In quali facolt e corsi di laurea sono impartiti questi insegnamenti? Abbiamo visto come, in conseguenza della storia del suo sviluppo disciplinare e della sua istituzionalizzazione, la demografia sia generalmente affiancata a studi di statistica o, in via subordinata, di economia. In Italia vi sono tre facolt di scienze statistiche, demografiche e attuariali (nelle universit di Roma La Sapienza, Padova e Bologna, in ordine di anzianit di fondazione) che, pur essendo a contenuto prevalentemente statistico, si pongono (come il nome stesso suggerisce) quali sedi pi indicate a dispensare una formazione demografica; presso queste facolt sono istituiti tre del quattro corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche (SSD) esistenti in Italia, il quarto essendo collocato presso la facolt di economia e commercio dellUniversit di Messina. Con lattuazione del piano di sviluppo delluniversit per gli anni 1986-90, stata prevista lattivazione di due nuovi corsi di laurea in scienze statistiche, demografiche e attuariali rispettivamente presso la facolt di economia e commercio dellUniversit di Firenze e presso la facolt di scienze economiche e sociali dellUniversit della Calabria, nonch di un corso di laurea in scienze statistiche e attuariali presso la facolt di scienze economiche e sociali a Benevento. Nei quattro corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche per ora esistenti sono impartiti 17 degli 82 insegnamenti di discipline demografiche complessivamente attivati. I rimanenti sono impartiti presso corsi di laurea in scienze statistiche ed economiche (SSE) o scienze statistiche e attuariali (SSA; 7 insegnamenti), in economia e commercio o affini (32), in scienze politiche e giurisprudenza (13), in materie letterarie (magistero) (1), in medicina e chirurgia (1) o presso corsi di diploma in statistica (11; tab. 2). Sono dunque meno numerosi gli insegnamenti di demografia offerti nel quadro di un complessivo progetto di formazione demografica di quelli destinati a complemento di una formazione altrimenti qualificata. Tuttavia la presenza della demografia nei quadri formativi di curricula universitari che ad essa non si richiamano espressamente non ha carattere di sistematicit. Materie demografiche sono in effetti insegnate solo in 10 del 30 corsi di laurea in scienze politiche e in 27 del 51 in economia e commercio e affini. Insieme con i corsi di laurea in economia e commercio, ne sono stati conteggiati anche diversi altri di studi economici, che si possono in qualche modo considerare assimilabili: corsi di laurea in scienze (o discipline) economiche e sociali, in economia aziendale, in economia marittima e del trasporti, in economia politica, in scienze bancarie e assicurative. Sono invece sempre presenti nei corsi di laurea in scienze statistiche, pur non configurando un itinerario formativo completo in demografia se non in alcuni del corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche.

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La posizione e il ruolo della disciplina dipendono naturalmente dal corso di laurea in cui essa inserita. Si possono distinguere quattro diversi regimi. 1) Scienze statistiche e demografiche. In quanto finalizzati a fornire una formazione anche demografica, questi corsi di laurea prevedono nel loro ordinamento diversi insegnamenti di tale area disciplinare, due del quali uno a livello istituzionale e uno a livello avanzato sono inclusi fra i fondamentali. Complessivamente, nei quattro corsi di laurea di questo tipo esistenti, vengono impartiti, oltre ai 4 corsi istituzionali, anche 13 corsi di approfondimento (sui 24 complessivamente dispensati in ItaTabella 2. Insegnamenti di discipline demografiche, secondo la denominazione e il corso di laurea (1990-91).

(*) Presso questi corsi di laurea, a Roma e Padova sono mutuati gli insegnamenti demografici impartiti al corso di laurea in SSD. 1 Le cifre fra parentesi indicano il numero di corsi di laurea o di diploma, per ciascun tipo, presso cui sono attivati insegnamenti di demografia. 2 Sono stati assimilati a economia e commercio i corsi di laurea in scienze economiche, in scienze economiche e bancarie, in scienze (o discipline) economiche e sociali, in economia del trasporti e commercio internazionale. 3 In due casi, Bari e Camerino, i corsi sono tenuti congiuntamente per il corso di laurea in scienze politiche e per quello in giurisprudenza. 4 Sono considerati fra questi anche un corso di demografia storica e storia della popolazione (Firenze, diploma di statistica) e uno di storia della popolazione (Roma, corso di laurea in Economia e commercio) 5 Si tratta di: demografia e teorie e modelli di popolazione (Milano, Bocconi), demografia e economia della popolazione (Campobasso, Scienze economiche e sociali), demografia e statistica sanitaria (Firenze, Medicina e chirurgia).

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lia): 4 di demografia investigativa, 3 di teorie della popolazione e modelli demografici, 2 di analisi demografica, 2 di economia della popolazione, 1 di demografia storica e 1 di demografia sociale. Gli insegnamenti sono affidati a professori ordinari pi frequentemente che negli altri corsi di laurea (47% del casi contro 28 di media generale; si veda la tab. 3). Non tutti i corsi di laurea in questione consentono, comunque, il perfezionamento di una formazione demografica. Si configura anzi una gamma di situazioni che va dal caso in cui sono attivi solo i corsi di demografia e di demografia investigativa, a quello che offre un ciclo di studi demografici potenzialmente completo. 2) Scienze statistiche e attuariali, scienze statistiche ed economiche, diplomi in statistica. In questi corsi, lordine degli studi prevede la demografia tra gli insegnamenti fondamentali, con la sola eccezione di due corsi di diploma (Milano, Universit Statale e Cattolica). Generalmente la formazione demografica dispensata si esaurisce nel corso istituzionale, anche se corsi di livello avanzato possono essere compresi fra i complementari ed essere talvolta fra quelli consigliati per un orientamento o indirizzo: questo avviene soprattutto dove, per la presenza nella medesima facolt di un corso di laurea in SSD, possibile mutuarne gli insegnamenti. Complessivamente i 6 corsi di laurea in SSE e SSA e gli 11 corsi di diploma forniscono, oltre ai 15 insegnamenti fondamentali di demografia, 3 soli corsi di demografie avanzate autonomamente attivate (demografia storica e economia della popolazione a Firenze, diploma di statistica; demografia investigativa a Bari, SSE), ma, per le ragioni sopra dette, numerosi corsi di livello avanzato sono disponibili a Roma, Padova e Bologna. Va comunque aggiunto che nei corsi di laurea
Tabella 3. Insegnamenti di discipline demografiche secondo il corso di laurea e la qualifica accademica del docente (1990-91).
Corso di laurea o diploma Ordinari Associati Altro1 Totale

SSD SSE, SSA, Dipl. stat. Econ. comm. Sc. polit. Altro Totale

V.A. % V.A. % V.A. % V.A. % 8 47 3 18 6 35 17 100 10 4 3 1 26 56 12 23 50 32 6 33 14 44 7 54 30 37 2 14 3 1 26 11 44 23 50 32 18 32 13 2 82 100 100 100 100 100

1 Supplenza, incarico, contratto.

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e diploma in questione, per ragioni di tradizione o per la personalit scientifica del docenti che vi operano, esistono in genere potenzialit notevoli di formazione demografica. Anche in questa sede linsegnamento impartito in larghissima misura da professori ordinari (55%). 3) Economia e commercio, scienze politiche e affini. Linsegnamento della demografia non necessariamente previsto dallordinamento di questi corsi di laurea, ma di fatto vi compare come opzionale in un numero consistente di casi: in oltre met del corsi di laurea in economia e commercio e in oltre un terzo di quelli in scienze politiche. Se in nessun caso linsegnamento della demografia considerato fondamentale, tuttavia esso pu essere assunto come caratterizzante alcuni indirizzi, in genere di tipo economico generale nelle facolt di economia e commercio, di tipo politico-sociale o politico-economico nelle facolt di scienze politiche. Il corso istituzionale, che raramente accompagnato da un corso di livello avanzato, viene generalmente inserito nei piani di studio come materia del secondo biennio. Data la diffusione sul territorio nazionale del corsi di laurea in parola, in questambito che si riscontra il maggior numero di insegnamenti di materie demografiche: in tutto 45 insegnamenti di cui 38 a livello istituzionale e 7 a livello avanzato. I corsi sono tenuti da ordinari meno frequentemente che nei casi precedenti (12% a economia e commercio e 23% a scienze politiche), essendo pi spesso affidati a docenti di seconda fascia (54% a scienze politiche, 44% a economia e commercio contro una media generale del 37%). 4) Altri corsi di laurea. In questambito la presenza della demografia del tutto eccezionale. Di fatto esistono attualmente insegnamenti della disciplina solo a Medicina e chirurgia (Firenze, corso di demografia e statistica sanitaria) e materie letterarie (Bari, corso di demografia storica). Questarea tuttavia passibile, a norma di ordinamento didattico nazionale, di considerevole espansione. Elementi di ulteriore specificazione della collocazione accademica della demografia si possono ottenere prendendo in considerazione i dipartimenti e gli istituti che coordinano i primi autonomamente e i secondi come articolazioni organizzative delle facolt la ricerca e la didattica demografica. In Italia il Dipartimento di scienze demografiche dellUniversit di Roma La Sapienza il solo interamente imperniato sugli studi demografici (tab. 4). In altri tre dipartimenti sono organizzati gli insegnamenti di almeno tre diverse discipline demografiche: s tratta del Dipartimento di scienze statistiche dellUniversit di Padova, del Dipartimento statistico dellUniversit di Firenze e del Dipartimento di scienze statistiche Paolo Fortunati dellUniversit di Bologna. I primi due, in consorzio con il predetto Dipartimento di scienze demografi-

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Tabella 4. Dipartimenti e Istituti che organizzano linsegnamento di almeno tre diverse discipline demografiche.
Denominazione Dipartimento di scienze demografiche Sede Roma4 Discipline I Corsi laurea 2 Demografia, SSD, SSA, SSE, Analisi dem., Dipl. stat. Dem. invest., Sc. pol. Dem. sociale, Teor. e mod. Demografia, Dem. invest., Teor. e mod. Demografia, Econ. popol., Dem. storica e Storia pop. Demografia, Analisi dem., Dem. invest., Dem. storica, Econ. popol., Teor. e mod. Demografia, Dem. invest., Dem. storica SSD, SSE, Dipl. stat. Dipl. stat., Ec. comm., Sc. pol. SSD, SSE, Dipl. stat., Dipl. stat., Ec. comm. N. docenti3 9

Dipartimento di scienze statistiche Dipartimento statistico Dipartimento di scienze statistiche Paolo Fortunati Istituto di scienze demografiche e sociali

Padova

Firenze

Bologna

Bari 5

SSE, Ec. comm., Dipl. stat.

1 Non si tratta di tutti gli insegnamenti organizzati dai dipartimenti e istituti, ma esclusivamente di quelli di natura strettamente demografica. Presso ciascun dipartimento o istituto possono essere organizzati pi corsi della stessa discipline, impartiti in diversi corsi di laurea, o sdoppiati a causa del numero degli studenti. 2 Si tratta del corsi di laurea presso i quali vengono impartiti gli insegnamenti organizzati da dipartimenti e istituti. 3 Sono considerati esclusivamente i docenti di discipline demografiche. 4 A Roma esistono insegnamenti di discipline dernografiche anche presso il Dipartimento di studi geoeconomici, statistici, storici per lanalisi regionale (demografia e storia della popolazione) e presso lIstituto di statistica economica della Facolt di scienze statistiche, demografiche e attuariali (economia della popolazione). 5 A Bari esistono insegnamenti di discipline demografiche anche presso il Dipartimento per lo studio delle societ mediterranee (demografia) e presso il Dipartimento di scienze storiche e geografiche (demografia storica).

che, hanno attivato il dottorato di ricerca in demografia attualmente in funzione. Vi sono poi due istituti che, pur non essendo esclusivamente intitolati alla demografia, fanno riferimento nella loro denominazione a studi demografici: a Bari lIstituto di scienze demografiche e sociali; a Palermo lIstituto di statistica sociale e scienze demografiche e biometriche.

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In conseguenza di questa situazione, gli insegnamenti di demografia sono prevalentemente inseriti in istituti e dipartimenti di statistica oppure nella cui denominazione comunque espressamente citata una componente statistica: 45 degli 82 insegnamenti di demografia (il 55%) sono attivati in 8 dipartimenti e 14 istituti di questo tipo (tab. 5). Allunico dipartimento di demografia esistente e ai due istituti che nel loro nome fanno esplicita menzione di una componente demografica fanno capo altri 19 corsi (23%); i rimanenti 18 si collocano in strutture varie a prevalente contenuto economico (22%). La collocazione delle discipline demografiche in diversi corsi di laurea dovrebbe comportare anche linsegnamento di contenuti pi o meno differenziati e variamente articolati e accentuati: solo in tal modo sarebbe garantita larmoniosa integrazione della demografia nei vari contesti didattici e il dispiegamento delle potenzialit formative degli studi demografici, sul piano sia professionale sia culturale in senso lato. Allo stesso modo, linserimento della materia in ambiti di ricerca orientati a problematiche esogene e pi ampie dovrebbe favorire lo sviluppo degli aspetti interdisciplinari. Va per valutato in quale misura tale integrazione si realizzi, sul piano didattico e su quello della ricerca, o non
Tabella 5. Insegnamenti di discipline demografiche secondo la denominazione e il dipartimento o istituto di appartenenza.
Dipartimento Istituto Anal. Dem.. Demografia dem. inv. Corsi avanzati Dem.. Dem. Teor. Econ. Tot. Tot. Altro gen. soc. stor. mod. pop. N. medio insegn.

Dip. D. (1) Dip. S. (4) Dip. S/A (4) Dip. E/A (4) Dip. A (2) Ist. D/A (2) Ist. S/A (14) Ist. E/A (3) Ist. A (2) Altro (4) NI (1) Totale (41)

5 9 5 3 1 7 17 3 1 3 1 55

1 1

1 2

1 1

2 1 1 1 1 1

1 2

4 10 1 1 1 3 4 1 1

1 1

1 2

9 19 6 4 2 10 22 3 2 4 1 82

9,0 4,7 1,5 1,0 1,0 5,0 1,3 1,0 1,0 1,0 1,0 2,0

24

* Le cifre in parentesi indicano il numero di dipartimenti o istituti di ciascun tipo, presso i quali sono attivati corsi di
discipline demografiche. D = Scienze demografiche; 5 = scienze statistiche; E = scienze economiche; A = altre discipline; D/A SIA E/A = dipartimenti o istituti che si richiamano a pi discipline; ad esempio: Dipartimento di statistica e matematica, Istituto di scienze demografiche e sociali e altri. Altro = laboratori, seminari, unit pre-dipartimentali.

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vi siano invece margini di miglioramento. Un importante momento di riflessione sul tema dellinsegnamento della demografia a livello nazionale stato rappresentato dal convegno organizzato nel febbraio 1985 dal Dipartimento di scienze demografiche dellUniversit La Sapienza di Roma, dedicato a Linsegnamento della demografia e la formazione dei demografi in Italia. Omaggio a Nora Federici, i cui atti hanno costituito il volume a cura di Sonni-no et al. (1987). In ambito internazionale si erano avute precedenti occasioni di dibattito: con la sessione speciale del Congresso internazionale dellUissp (Liegi, 1973) imperniata sui temi de Lenseignement de la dmographie e Linformation dmographique et le rle des dmographes, organizzata e introdotta da N. Federici; e, successivamente, con la Chaire Qutelet 1984, che il Dipartimento di demografia di Lovanio ha dedicato a La dmographie en perspective. Visages futurs des sciences de la population et de leur enseignement. 1.2. Linsegnamento delle discipline demografiche Una valutazione delladeguatezza dellinsegnamento rispetto ai curricula in cui inserito non pu prescindere dalla considerazione di quelli che sono, al di l delle etichette costituite dalle denominazioni del corsi, i contenuti effettivamente trasmessi. Alcune notizie in tal senso sono state raccolte mediante unindagine fra i docenti condotta nel 1985 dal Dipartimento di scienze demografiche dellUniversit La Sapienza di Roma, con lobiettivo di una riflessione globale sullinsegnamento universitario della demografia. Lindagine era stata organizzata in vista del gi menzionato convegno in omaggio a Nora Federici. La documentazione raccolta in quelloccasione, analizzando i programmi e i testi consigliati, senza peraltro entrare nel merito delleffettiva pratica didattica (Pinnelli, 1987), non evidenzia chiare diversificazioni del corso di demografia di livello istituzionale a seconda del contesto formativo, almeno per quanto concerne limpianto generale del corso e la partizione della materia. Ci che risulta maggiormente variabile la richiesta di acquisizione di specifiche abilit ad alto contenuto tecnico che fanno appello a discrete conoscenze statistico-matematiche, come la costruzione di tavole di mortalit e lelaborazione di previsioni demografiche. Questo tipo di richieste generale nei corsi di laurea in scienze statistiche, meno frequente in quelli di economia e commercio, raro negli altri, sia in ragione di differenti esigenze formative, sia per la diversa preparazione di base degli studenti. Ci che lindagine non rivela il livello di approfondimento delle singole parti in programma, il dosaggio di ciascuna nelleconomia generale della trattazione, le pro-

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porzioni tra discussione delle problematiche e presentazione del metodi, il grado di evidenziazione della rete di relazioni che legano gli accadimenti demografici al tessuto sociale. Se la riduzione del bagaglio di strumenti analitici , nei casi sopra citati, giustificata, lo per a fronte di un potenziamento di quelle parti che mettono in luce linteresse della chiave di let-tura demografica nei diversi quadri formativi; ove questo non avvenga, il rischio che si corre lestraneit della disciplina rispetto agli interessi culturali del discenti e quindi la sua marginalizzazione sul piano accademico. Lanalisi del libri di testo non contribuisce a chiarire la situazione, data la grande uniformit del panorama da questo punto di vista: ma questa stessa uniformit suggerisce una limitata differenziazione del corsi. Molto largamente usata lIntroduzione alla demografia di Livi Bacci (1981; 19902), consigliata dalla quasi totalit del docenti. Si tratta di un testo di prevalente impostazione metodologica che, senza trascurare gli aspetti sostanziali, presenta in modo compatto e con esemplare chiarezza un ampio bagaglio di strumenti di analisi anche sofisticati, inquadrandoli criticamente nel contesto problematico dal quale hanno origine. Diffuso pure Istituzioni di demografia di N. Federici (1979), che per lampio respiro, la completezza della trattazione, la ricchezza delle problematiche demografiche, sociali, economiche, biologiche dalle quali viene fatta scaturire la presentazione degli strumenti di analisi, risulta di grande validit per lapprofondimento della problematica demografica e degli orientamenti disciplinari, anche in una prospettiva storica. Altri testi, prodotti in anni recenti, hanno una diffusione pi limitata: si tratta di Petrioli (1982), che richiede da parte dello studente buone conoscenze matematiche, essendo molto incentrato sul versante dellanalisi demografica e dando largo spazio allelaborazione di modelli formali; Blangiardo (1987), corredato da una ricca serie di applicazioni ed esemplificazioni del metodi di analisi; Chiassino e Di Comite (1990), rielaborazione di precedenti stesure, che d spazio agli indicatori della transizione demografica e alla tematica del tasso nullo di incremento. Abbastanza usato infine il testo di esercizi preparato da docenti del Dipartimento di scienze demografiche di Roma (AA.VV., 19862). Molto spesso a fianco del libro di testo vengono consigliate o suggerite altre letture, destinate soprattutto alla preparazione di parti specialistiche del programma; poich si tratta in gran parte di opere monografiche di natura prevalentemente metodologica, non pare che ad esse sia affidato il compito di orientare la trattazione verso le problematiche sostanziali pi pertinenti a ciascun contesto formativo, almeno per quel che concerne i corsi di laurea in economia e commercio e in scienze po-

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litiche. Un problema di integrazione con le altre discipline emerge anche laddove i docenti lamentano una mancanza di coordinamento, di integrazione e di lavoro interdisciplinare con docenti di discipline affini. Pur non essendo certo questa una specificit del demografi ch tutta luniversit e la scuola italiana, e non solo italiana, soffrono di questa difficolt linsufficiente integrazione interdisciplinare determina un certo isolamento della demografia e specialmente nei casi in cui essa sia la sola materia del settore presente nel curriculum universitario rischia di ridurne lefficacia formativa, non consentendo lacquisizione degli strumenti conoscitivi necessari per cogliere i collegamenti tra le vicende demografiche e il tessuto delle altre discipline. Non pare condizione sufficiente a superare queste difficolt la formazione culturale del docenti di demografia, che in buona parte omologa a quella della facolt in cui svolgono la loro opera didattica: di tipo statistico per i docenti nei corsi di laurea in statistica e di tipo economico per i corsi di laurea in economia e commercio. Per quanto riguarda i corsi di livello avanzato o specialistico, il discorso variamente articolato, a seconda della disciplina. Si gi detto come la maggior parte di questi insegnamenti vengano impartiti, con lunica eccezione della demografia storica, nellambito del corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche. Ben pochi hanno diversa collocazione, n sembra che ci sia stretta attinenza tra gli approfondimenti proposti e il corso di studi nel quale sono attivati. Lesistenza di competenze disciplinari presso le varie sedi universitarie o altre contingenze locali sembrano giocare un ruolo preponderante rispetto alla definizione di un complessivo disegno formativo. I pochi corsi di analisi demografica e di teorie di popolazione e modelli demografici sembrano di contenuto abbastanza omogeneo nelle diverse sedi in cui sono impartiti e corrispondono a quanto, anche su un piano internazionale, viene associato a tali denominazioni. Per quanto riguarda il secondo di questi insegnamenti, c da osservare che le teorie di popolazione sono generalmente intese in accezione limitata e funzionale allo sviluppo di modelli formali. per diffusa lopinione che i due nuclei tematici di tale corso potrebbero dar luogo ciascuno a un insegnamento autonomo, disgiungendo lo studio del modelli demografici da quello delle teorie della popolazione. Queste ultime potrebbero cos avvantaggiarsi di una trattazione pi diffusa e collegarsi opportunamente allo studio delle politiche volte a favorire o a ostacolare determinati comportamenti demografici e alla valutazione della loro efficacia: tema questultimo che attualmente compare solo di sfuggita in diversi insegnamenti di materie demografiche (demografia sociale, econo-

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mia della popolazione e cos via), mentre se ne possono cogliere senza sforzo sia limportanza sul piano scientifico sia la valenza professionalizzante. Linsegnamento della demografia storica si presenta sostanzialmente uniforme nelle diverse sedi in cui impartito. Di solito viene articolato in una parte che illustra le fonti e le metodologie di analisi proprie della disciplina e in unaltra che, anche in ragione del risultati pi copiosi e interessanti finora ottenuti dalla ricerca nel settore, verte sulla mortalit e la fecondit dellItalia del secoli XVIII e XIX. Pi problematica la situazione della demografia investigativa. Tale insegnamento, il cui nome rimanda a unantica contrapposizione tra una demografia descrittiva , dallobiettivo circoscritto allordinata esposizione del fatti attinenti la popolazione, e una demografia invece investigativa perch destinata a indagare sulle cause del fatti e sulle leggi che li governano, era inizialmente lunico corso destinato ad approfondire Io studio del fenomeni demografici; accoglieva perci vari elementi oggi integrati nel quadro di nuove branche disciplinari. I corsi attualmente esistenti presentano contenuti vari e disomogenei, che a seconda delle altre discipline demografiche presenti nelle diverse sedi, del loro contenuti e della loro impostazione possono consistere nella presentazione di argomenti di analisi demografica, nella studio di problemi metodologici particolari (stime retrospettive, previsioni derivate, uso di dati difettosi), nellapprofondimento di particolari metodologie di ricerca (demografia differenziale, evoluzione storica). Per quanto riguarda il corso di economia della popolazione, si riscontra una difformit di contenuti e anche un diverso taglio degli argomenti, in ragione sia della vastit della materia e delle diverse prospettive in cui possibile inquadrarla, sia della diversa formazione del docenti, che pu essere prevalentemente demografica o prevalentemente economica. Vi sono corsi che privilegiano la modellizzazione del fenomeni demoeconomici, oppure lanalisi delle forze di lavoro, i rapporti fra popolazione, ambiente e risorse, la famiglia come unit di consumo, i risvolti demografici del fatti economici e le conseguenze delle dinamiche demografiche su vari aggregati di natura economica (domanda e offerta di lavoro, pensioni, risparmi, consumi, spesa pubblica e cos via). Data limportanza conoscitiva sempre maggiore assunta dalle conseguenze che gli attuali e contrapposti regimi demografici hanno determinato tanto nei paesi in via di sviluppo quanto in quelli pi progrediti, diffusamente sentita lesigenza che la disciplina dispensi unorganica e compiuta formazione sulle interrelazioni fra economia e demografia, a livello sia micro sia macro, anche allo scopo di illuminare le strategie politiche volte

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ad armonizzare le tendenze demografiche con lo sviluppo economico e sociale. In quanto alla demografia sociale, di cui non esistono che due corsi, la materia mette laccento sullo studio delle determinanti delle differenze di comportamento demografico tra i gruppi sociali, sulle conseguenze sociali delle tendenze demografiche, sulle politiche di popolazione e sulla loro efficacia, sugli aspetti culturali e psico-sociali del comportamento demografico. A sussidio dellinsegnamento vengono usati diversi manuali (De Sandre, 1974; Granelli Benini, 1974; Sonnino, 1979; Giovannetti, 1981; Natale, 1983) o dispense (De Bartolo, Appunti di analisi demografica; Pinnelli, 1985; Pinnelli e Vchi, 1989; Santini, 1988). A integrazione del testi, i docenti propongono di solito la lettura di materiale vario monografie, articoli di riviste, atti di convegni, sovente in lingua straniera. Ci consente di mantenere linsegnamento ancorato ai continui sviluppi disciplinari e alle pi recenti acquisizioni della ricerca, anche in una prospettiva internazionale. E tuttavia auspicabile un impegno per la produzione di organici e completi strumenti didattici in lingua italiana, in cui trovi compiuta sistemazione il corpo delle conoscenze disciplinari. 1.3. Possibili sviluppi dellinsegnamento I contenuti delle discipline attualmente esistenti non esauriscono linsieme delle tematiche oggetto di studi sufficientemente maturi e consolidati da meritare uno spazio adeguato nel quadro di una completa formazione demografica. Come si gi accennato, diffusa lopinione che diversi nuclei tematici, sinora coltivati in Italia da un limitato numero di studiosi ma molto affermati allestero, possano costituire lossatura di corsi dinsegnamento autonomi. Gi attualmente questi contenuti formano in genere oggetto di trasmissione didattica nei corsi di dottorato di ricerca. Fra questi, vale la pena di segnalare lo studio della demografia del paesi in via di sviluppo, che si differenzia da quello tradizionale sotto il duplice aspetto delle problematiche e delle tecniche di analisi. Queste ultime sono condizionate dal ricorso a fonti diverse da quelle pi familiari al demografo cio soprattutto di inchieste anzich di censimenti e di sistemi di registrazioni di stato civile ma soprattutto dalla necessit di trarre il massimo di informazione da dati difettosi o incompleti, mediante particolari accorgimenti metodologici. Tali esigenze hanno dato notevole impulso agli sviluppi dellanalisi demografica, fra i quali vanno

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menzionati almeno gli approfondimenti sui modelli di popolazione stabile e quasi-stabile e lestesione di concetti e relazioni al caso di non stabilit. Quanto allo studio della fenomenologia demografica del paesi in via di sviluppo, essa connotata da situazioni in gran parte inedite, specialmente riguardo le interazioni con il contesto economico e culturale, che richiedono lacquisizione di specifici quadri interpretativi. La novit delle dinamiche in atto in quelle regioni ha grande rilievo scientifico, in quanto porta a rivedere principi e concetti e a nuove formulazioni teoriche. La loro importanza sul piano politico e sociale e le loro ripercussioni a livello planetario sono elementi che ulteriormente consigliano linsegnamento di queste tematiche. Un altro argomento di rilievo che ha una collocazione marginale nei corsi attualmente impartiti riguarda il sistema informativo e la qualit del dati demografici. Lassenza di una sufficiente attenzione a questo tema pu favorire nel discente lerronea convinzione che la scelta delle informazioni necessarie per la ricerca demografica e la loro raccolta possa essere delegata ad altri senza inconvenienti o che le statistiche ufficiali soddisfino automaticamente tutte le necessit di conoscenza nel settore. Su un altro versante, la carenza di competenze nel campo della produzione del dati priva la formazione demografica di un elemento che potrebbe avere rilievo sul piano professionale. Trattandosi di un tema ovviamente cruciale, da varie parti si preconizza la creazione di un insegnamento che affronti organicamente lo studio critico delle fonti cui pu fare appello la ricerca demografica, oggi assai pi ricche e numerose che nel passato, riservando particolare riguardo alle fonti non convenzionali da cui proviene la massa delle informazioni per epoche o paesi in cui non opera il tradizionale abbinamento censimento-stato civile. Limportanza formativa del tema non risiede peraltro in una puntuale conoscenza del sistema informativo esistente, che pure necessaria: linsegnamento deve garantire la consapevolezza che il bagaglio di concetti e metodi della scienza demografica non pu essere limitato dalle specie di dati esistenti, ma che sono al contrario gli orientamenti di ricerca a dover dettare le prospettive di osservazione dei fenomeni, i criteri di analisi e di misura, la forma degli indicatori e quindi i contenuti e i modi della rilevazione del dati. Sul problema dellintegrazione tra fonti e metodi della ricerca demografica si veda De Sandre e Santini (1987), in cui gli autori tracciano la struttura sequenziale di un itinerario formativo orientato alla ricerca demografica. A conclusione di questo breve sguardo sui contenuti dellinsegnamento delle discipline demografiche, qualche osservazione va fatta riguardo lo spazio limitato riservato ai temi connessi alle interrelazioni della demografia con le altre discipline. Linterpretazione del fenomeni demogra-

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fici, lindagine sulle cause e sulle conseguenze che essi determinano nel contesto sociale coinvolgono competenze disciplinari diverse, che vanno dalla biologia alla storia, dalleconomia alla sociologia e alla psicosociologia. probabilmente dai settori di frontiera in cui la demografia si congiunge con altri campi del sapere che dovranno venire in futuro avanzamenti significativi di conoscenza. Attualmente le acquisizioni in questi settori non formano che occasionale oggetto di trasmissione didattica, se si esclude il caso gi esaminato delleconomia, nel quale comunque il corpo di conoscenze consolidate non ha ancora ricevuto sistemazione organica in un quadro unitario. Sembra senzaltro opportuno prevedere non un proliferare di corsi, ma certo una maggiore attenzione a questi aspetti che - oltre a essere fondamentali per il futuro della ricerca - sono nello stesso tempo dotati, per laderenza ai problemi che emergono dal sociale, della possibilit di inserirsi efficacemente nei profili formativi per specifici campi dazione professionale. Quanto fin qui osservato si riferisce allattuale collocazione accademica della demografia. Il discorso potrebbe essere molto pi generale se si dovesse tener conto delle potenzialit di espansione dellarea di formazione demografica e quindi del contenuti che sarebbero opportuni nelleventualit dellinserimento della disciplina in quei corsi di laurea nei quali lordinamento didattico nazionale ne prevede la possibilit (che sono, come si detto, architettura, pianificazione territoriale e urbanistica, sociologia, giurisprudenza) o nei quali, semplicemente, si ritengano utili complementi di formazione demografica (che potrebbero essere individuati, secondo le indicazioni emerse dalla citata indagine presso i docenti, nelle facolt di lettere, magistero, medicina, ingegneria, agraria). In questi casi si tratterebbe di calibrare gli argomenti classici orientandoli nelle opportune direzioni, o anche di prevederne di nuovi, in funzione della formazione culturale o professionale propria di ciascuno del corsi di studi in cui la demografia sarebbe inserita. Per alcune riflessioni in merito a questo argomento che richiederebbe una trattazione troppo ampia per lo spazio qui disponibile si rimanda a Colombo (1987). 1.4. Centri di ricerca Luniversit la sede istituzionale della ricerca demografica, che ha centri particolarmente vivaci dove laggregazione di un certo numero di studiosi dellarea favorisce la confluenza e lo sviluppo degli interessi di ricerca. Tali centri rappresentano spesso un punto di riferimento anche per demografi che svolgono la loro attivit in sedi in cui la disciplina pi isolata.

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Il finanziamento della ricerca nelle universit avviene attraverso il Consiglio universitario nazionale (CUN), che distribuisce i fondi annualmente destinati alla ricerca dal Ministero dellUniversit e della Ricerca scientifica e tecnologica. In base alla legge n. 382 del 1980, che ha provveduto al riordinamento della docenza universitaria, il 60% di tali fondi ripartito fra i vari atenei, i quali li attribuiscono a singoli ricercatori e gruppi di ricerca, mentre il restante 40% viene assegnato con decreto del ministro e su proposta del comitati consultivi del CUN a progetti di ricerca reputati dinteresse nazionale e di rilevante importanza per lo sviluppo della scienza. Mentre praticamente impossibile individuare la parte del fondi appartenenti alla quota del 60% che nei singoli atenei stata devoluta alla ricerca demografica, sono disponibili informazioni sulla destinazione del fondi appartenti alla quota del 40%, riservata a progetti di particolare rilievo. Le somme attribuite nel 1989 e nel 1990 dal Comitato consultivo per le scienze economiche e statistiche a ricerche di natura demografica si aggirano intorno ai 280 milioni di lire. Le cifre menzionate non rappresentano che un ordine di grandezza, dato che i dati pubblicati sullargomento classificano le ricerche demografiche insieme a quelle in statistica sanitaria e in statistica sociale; lattribuzione di ciascuna ricerca a una delle tre discipline stata operata esclusivamente sulla base del titolo della ricerca, che in alcuni casi non consente la certezza sulla natura del contenuti. Una sommaria analisi delle informazioni relative al periodo 1982-90 consente di individuare i temi di ricerca che sono stati maggiormente privilegiati. Spazio particolare stato dato allinvestigazione su problemi emergenti e di grande attualit sul piano sociale e politico, oltre che scientifico: le migrazioni internazionali e la presenza straniera in Italia, le condizioni demografiche del bacino del Mediterraneo e le loro ripercussioni sullo sviluppo economico dellarea. Non sembra casuale il parallelismo tra le vicende migratorie del paese e le preoccupazioni e gli interessi tanto del ricercatore quanto dellerogatore del fondi di ricerca. Altri temi molto frequentati anche in questo caso si tratta di tendenze evidentemente connesse con gli andamenti demografici in atto sono le conseguenze economico-sociali di vari fenomeni demografici, in particolare dellinvecchiamento della popolazione. Spazio ragguardevole stato poi assegnato a ricerche nel campo della demografia storica, che attraversano attualmente una fase di rigoglio, e a studi sulla mortalit, tema fra i pi coltivati dalla demografia italiana. Comparativamente meno presenti risultano altri temi classici, fra i quali la fecondit, la nuzialit e la famiglia, che hanno fruito di altri canali di finanziamento: naturalmente lassegnazione di fondi riflette le richieste del ricercatori

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prima ancora che le scelte del CUN; inoltre il quadro dipinto non pu che essere parziale, mancando la considerazione della quota del 60% erogata dai singoli atenei. Una parte consistente della ricerca e delle attivit demografiche viene poi sostenuta finanziariamente dal Consiglio nazionale delle ricerche. Risorse cospicue vengono destinate ai cosiddetti progetti finalizzati, di ampio respiro e di riconosciuto interesse interdisciplinare, fra i quali attualmente compaiono ricerche sullinvecchiamento della popolazione e le sue conseguenze, sullevoluzione della famiglia, sulle ripercussioni delle tendenze demografiche sul mercato del lavoro. Inoltre in media cinque o sei progetti di ricerca demografica lanno, per unammontare pari a circa il 35-40% della quota del fondi riservata dal Ministero a progetti di rilievo, vengono poi finanziati su proposta del Comitato per le scienze economiche, sociologiche e statistiche. Anche in questo caso temi quali gli spostamenti di popolazione, la presenza straniera in Italia, le conseguenze socio-economiche dellevoluzione demografica risultano predominanti. Rilevante la presenza di ricerche su temi a cavallo tra demografia e altre discipline, nonch gli studi di demografia storica. Non mancano del resto ricerche anche importanti sui temi classici della fecondit e della mortalit. da aggiungere che il CNR contribuisce alla ricerca demografica anche in altre forme, sovvenzionando istituzioni, coprendo le spese di congressi e convegni e i costi di stampa di opere varie. Oltre che nelle sedi universitarie, la ricerca demografica viene condotta anche da alcune altre istituzioni, tra cui va innanzitutto menzionato il Comitato italiano per lo studio del problemi della popolazione (Cisp), che ha lungamente operato neI campo della ricerca demografica, dando importanti contributi in diversi settori. La sua creazione, nel 1928, fu una ricaduta italiana della costituzione dellUnione internazionale per lo studio scientifico della popolazione (Uissp), di cui inizialmente costituiva una sezione nazionale. E impossibile menzionare tutte le iniziative portate avanti dal Cisp nel corso degli anni; fra quelle pi lontane neI tempo, si accenna, per la loro originalit, alle spedizioni scientifiche condotte negli anni 1933-40 per studiare popolazioni demograficamente isolate, presso le quali fosse pi agevole trovare verifiche di quelle influenze contemporanee di fattori biologici e sociali sui fenomeni demografici, postulate dallindirizzo di demografia integrale che caratterizza dallinizio lattivit del Cisp e che conserva tuttora la sua validit. Merita inoltre di ricordare le varie importanti operazioni di promozione della demografia storica, a partire dalla vasta opera condotta per lapprontamento di repertori delle fonti archivistiche italiane per

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gli studi demografici fino al 1848, alla creazione nel 1970 di un attivo Comitato per lo studio della demografia storica, che diede vita autonoma, sette anni pi tardi, alla Societ italiana di demografia storica. Tra le iniziative che hanno avuto rilievo in anni recenti si segnalano inoltre gli studi sulle aree di spopolamento, sulle migrazioni, sulla famiglia e sulla condizione femminile nella CEE. Negli anni settanta particolare importanza ha avuto la promozione di studi, allora allavanguardia, sullevoluzione della famiglia: dallinteresse risvegliato da tali iniziative che ha poi preso le mosse linnovativa ricerca dellIstat, sulle famiglie, di cui si parla pi avanti. Negli anni ottanta il Cisp ha dato lavvio alla ricerca sulla presenza straniera in Italia, che attualmente coinvolge studiosi di numerose universit e contribuisce in modo importante alla conoscenza di un fenomeno di enorme rilevanza sociale e politica, i cui contorni sono molto sfuggenti. Elenchi completi delle pubblicazioni del Cisp sono riportati sulla rivista Genus, edita (dal 1934) dal Comitato sotto il patrocinio del CNR; la rivista ospita lavori sia di demografia pura, sia di indagine sui legami fra fenomeni demografici e aspetti biologici e socio-economici delle popolazioni che li esprimono. Genus ha grande diffusione internazionale, in quanto viene gratuitamente distribuita a tutti i soci dellUnione internazionale per lo studio scientifico della popolazione (Uissp), insieme ad altre tre prestigiose riviste di demografia: la britannica Population Studies, la francese Population e la statunitense Population Index. Pur prefiggendosi come funzione principale la diffusione di studi e ricerche italiani, Genus accoglie anche lavori stranieri in lingua inglese o francese. Di fatto la diffusione internazionale della rivista ne fa uno spazio molto ambito e la presentazione di lavori di autori stranieri, specialmente di paesi che non dispongono di propri strumenti di comunicazione scientifica, molto frequente. Nel 1981 stato creato lIstituto di ricerche sulla popolazione (IRP), organo del CNR con il compito di portare avanti lindagine demografica su problemi di particolare rilevanza politica, economica e sociale. Nellambito della sua attivit istituzionale, lIRP collabora con luniversit e altri enti di ricerca italiani e stranieri e presta la sua consulenza a enti pubblici, organismi e commissioni governative. Dalla sua fondazione, lIstituto ha svolto unintensa attivit di ricerca e di promozione della ricerca, spesso privilegiando la dimensione sociale, economica e politica del fatti demografici, in armonia con i suoi scopi istituzionali. Migrazioni, invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro, previsioni, politiche demografiche, sono temi sovente al centro dellattenzione, senza che siano tuttavia trascurate altre problematiche sia classiche sia innovative. Un importante settore di conoscenze che lIRP ha esplorato

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mediante una serie di indagini ad hoc riguarda il grado di consapevolezza degli italiani nei confronti delle tendenze demografiche in atto nel paese nonch gli atteggiamenti dellopinione pubblica in merito a possibili azioni di politica demografica, capaci di incidere sugli andamenti della nuzialit e della fecondit. Nella sua attivit di promozione della ricerca, lIRP ha creato numerose occasioni di incontro e di dibattito, organizzando convegni, seminari, giornate di studio su temi di attualit e di interesse scientifico. Tra le numerose pubblicazioni curate dallIRP ricordiamo i Rapporti sulla situazione demografica italiana, al secondo del quali ha contribuito gran parte del demografi italiani, ciascuno per il settore di sua competenza. Tale opera rappresenta una sorta di stato dellarte della ricerca demografica in Italia, oltre che un aggiornato e completo, anche se sintetico, panorama delle tendenze demografiche in atto nel paese (IRP-CNR, 1988). LIRP ha partecipato insieme con lIstat e con gruppi di ricercatori di diverse universit, fra le quali in primo luogo quelle di Padova, Roma e Firenze alla seconda inchiesta nazionale sulla fecondit (INF2). La prima si svolta nel 1979, nel quadro del World Fertility Survey, che ha coinvolto una sessantina di paesi del cinque continenti. In Italia lindagine, portata avanti da studiosi delle Universit di Padova, Firenze e Roma, coordinati da De Sandre, si svolta nel 1992 in parallelo ad analoghe operazioni in diversi paesi europei e in un quadro di comparabilit internazionale coordinato dellEconomic Commission for Europe delle Nazioni Unite. Anche lIstat ha dato, particolarmente nellultimo decennio, importanti contributi alle ricerche di popolazione, andando oltre la consueta raccolta e pubblicazione del dati che tradizionalmente sono alla base delle analisi demografiche. Venendo incontro a precise necessit della ricerca, che tende ad allargare i suoi orizzonti per cercare in pi ampio contesto lorigine del suoi processi evolutivi, lIstat ha innovato la raccolta delle informazioni, intraprendendo indagini speciali su temi di grande interesse sociale concernenti aspetti fortemente dinamici e poco noti della vita del paese. Anche in passato lIstat ricorreva, per particolari esigenze conoscitive, allo strumento delle indagini speciali, sia occasionali (come le indagini sulla fecondit del 1931 e 1961), sia periodiche, come lindagine sulle forze di lavoro. Abbiamo cos avuto nel 1983 lindagine sulle strutture e sui comportamenti familiari, che per la prima volta ha superato lottica della famiglia di diritto per tentare di cogliere i contorni della famiglia di fatto, di individuarne la natura, di accertare la struttura del rapporti interni fra i membri nonch la rete del legami interfamiliari (Istat, 1985; 1986); vi poi stata lindagine sulla mortalit

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differenziale, intesa a verificare lesistenza, anche in Italia, di importanti differenze sociali di mortalit gi osservate in altri paesi europei (Istat, 1990), mentre dal 1987 ha preso lavvio la serie delle Indagini multiscopo sulle famiglie, che investigano su numerosi aspetti del contesto familiare (Istat, 1989): alcuni aspetti particolarmente rilevanti vengono stabilmente presi in considerazione (strutture familiari, condizioni abitative, istruzione, attivit lavorativa, fonti di reddito, caratteristiche anagrafiche e malattie acute), numerosi altri sono trattati di volta in volta in modo monografico (storia riproduttiva, malattie cronico-degenerative, condizioni dellinfanzia, condizioni degli anziani, alimentazione, uso del tempo, fatti delittuosi subiti, incidenti domestici, sport, molti altri). Da queste indagini, che sono il frutto della collaborazione, tradizionale in Italia, tra lIstituto nazionale di rilevazione e lambiente della ricerca accademica, sono venute informazioni di grande importanza per lapprofondimento di particolari fenomeni demografici, oltre che per la ricerca sociale in genere. LIstat ha partecipato, come si gi detto, allorganizzazione della seconda inchiesta nazionale sulla fecondit, non solo mettendo a disposizione le competenze del suoi ricercatori, ma anche assumendo in gran parte i costi delloperazione. 1.5. Societ scientifiche Non esiste in Italia una societ scientifica che, analogamente a quanto avviene sul piano internazionale con lUissp, abbia la finalit di promuovere e coordinare gli studi e le ricerche in tutto lambito considerato di pertinenza della demografia e che accolga nel suo seno tutti i demografi italiani. La vita associata degli studiosi della disciplina si svolge perci essenzialmente in due forme: a) con la partecipazione alle attivit di societ scientifiche a pi ampio raggio che accolgono nel loro ambito anche la tematica demografica, come la Societ italiana di statistica (SIS) e la Societ italiana di economia, demografia e statistica (Sieds) o di societ pi specializzate che si occupano di una sola branca della demografia, come la Societ italiana di demografia storica (Sides); b) con la partecipazione sul piano internazionale alle attivit dellUissp e di altre societ internazionali, tra cui lEuropean Association for Population Studies (Eaps). La Societ italiana di statistica (SIS), nata nel 1939 per volont di un eminente demografo e statistico, Corrado Gini, accoglie fra i suoi membri la maggior parte del demografi italiani. Nella societ (che ha

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un migliaio di associati) convivono, accanto alla metodologia statistica, diversi settori disciplinari accomunati dal ricorso al metodo statistico: innanzitutto la statistica economica, biometrica, sanitaria, sociale e la demografia, che sono i settori tradizionalmente coltivati in Italia nel quadro degli studi di statistica applicata; ma anche nuovi settori in via di affermazione riguardanti la statistica per le scienze fisiche e naturali, per le scienze ambientali, per la tecnologia e la produzione industriale. In questo quadro composito, lattenzione riservata alla demografia in via di principio pari a quella destinata alle altre statistiche applicate, in base alla linea di politica scientifica adottata dalla societ, che riconosce uguale interesse a ciascuna componente disciplinare presente al suo interno. Questo orientamento si esprime innanzitutto nellassicurare uguale spazio a ciascun settore disciplinare nelle riunioni scientifiche, che la societ tiene con cadenza biennale, mediante un:oculata scelta del temi intorno ai quali strutturare i lavori. In tale prospettiva si pu affermare che i principali filoni di ricerca demografica portati avanti in Italia hanno trovato uno spazio in questi ultimi anni allinterno della SIS e che una certa attenzione stata destinata anche alla promozione di tematiche nuove. Negli anni ottanta la presenza di temi demografici in apposite sessioni delle riunioni scientifiche stata costante: Problemi di esperienze di previsioni in campo demografico ed economico-sociale (1982), Componenti socioambientali della mortalit differenziale (1984), Determinanti della fecondit: progressi nei criteri di osservazione e di analisi (1986); Sviluppo demografico del paesi del Mediterraneo: conseguenze economiche e sociali e Struttura e ciclo di vita della famiglia (1988); Trattamento di dati individuali in demografia. Prospettive di nuova collaborazione fra statistici e demografi e Analisi demografiche per paesi con statistiche carenti (1990). Si pu osservare come, in armonia con le preoccupazioni scientifiche della SIS, il taglio degli argomenti sia tale da mettere in luce prevalentemente gli aspetti metodologici, oppure quelli interdisciplinari. Sul piano del contenuti, si nota lassenza della problematica relativa alle migrazioni e alla presenza straniera in Italia, che pure stata nel periodo in questione occasione di un importante dibattito in sedi esterne alla SIS, mentre allinterno non ha trovato eco che grazie alle comunicazioni spontanee. Temi demografici sono stati parimenti trattati in altre adunanze della SIS (convegni, giornate di studio, tavole rotonde, forum). In questi casi sono state per lo pi discusse problematiche generali, di cui i sin-goli settori disciplinari presentano particolari sfaccettature che vengono considerate in parallelo. Rientrano in questa categoria i convegni sulla qualit del dati, sullorganizzazione di servizi statistici, sullinformazio-

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ne statistica nei mezzi di comunicazione di massa, sui sistemi urbani,nonch quello gi ricordato sul ruolo delle discipline statistiche nella formazione nellinsegnamento pre-universitario. Tematiche demografiche sono state infine oggetto del corsi di formazione che da qualche anno la SIS affianca alle sue pi significative manifestazioni. Valutazioni pi problematiche vanno per espresse se il peso della demografia nel quadro delle attivit della SIS deve essere giudicato in base al numero globale di contributi a contenuto demografico presentati nelle varie manifestazioni della societ, tenendo conto quindi anche di quelli spontanei. In un lavoro di ricognizione su questi aspetti, preparato in occasione del cinquantenario della SIS, N. Federici (1989) sottolinea una presenza relativamente scarsa di lavori demografici fra quelli prodotti nellambito della SIS nellintero cinquantennio: i contributi specifici, uniti a quelli in cui la demografia compare come parte di un quadro interdisciplinare, rappresentano circa il 14% del totale e comunque non rispecchiano per intero la portata della ricerca demografica nel paese. Lesigenza vivamente sentita di una possibilit di espressione concernente, senza limitazioni, tutti gli aspetti e i settori delle scienze demografiche si era concretata in alcuni tentativi di mettere in funzione allinterno della SIS una struttura organizzativa esclusivamente e specificamente finalizzata a promuovere gli studi demografici. Tali tentativi non erano per stati finora coronati da successo duraturo. Da alcuni anni, tuttavia, opera allinterno della societ un Comitato di coordinamento per la demografia, che ha organizzato alcune interessanti iniziative (tra cui un forum sulle ricerche in tema di mortalit differenziale nel maggio 1990 e uno sulle interconnessioni fra tendenze demografiche e mercato del lavoro nel maggio 1991) e per il quale si auspica, dopo un periodo di rodaggio delle modalit organizzative, lo svolgimento di unorganica e complessiva attivit di promozione scientifica, tenendo conto del pi sperimentati e fruttuosi filoni di ricerca nazionali e degli orientamenti che emergono sulla scena internazionale, secondo lauspicio espresso da N. Federici (1989). Altro sodalizio entro cui si organizza la vita associata degli studiosi di demografia la pi piccola Societ italiana di economia, demografia e statistica (Sieds). Creata nel 1938 come evoluzione di un Comitato di consulenza per gli studi della popolazione nato nel 1937 per opera di un altro illustre demografo, Livio Livi, la Sieds stata fin dallinizio prevalentemente orientata verso studi applicativi piuttosto che metodologici. Organo della societ la quadrimestrale Rivista italiana di economia, demografia e statistica, fondata nel 1947, che accoglie contributi appartenenti al dominio di tutte le discipline annunciate nel titolo, ma

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tra i quali prevalgono in qualche misura quelli di indole economica. Gli sviluppi pi recenti dimostrano che la societ si assegna come area di intervento soprattutto lo studio interdisciplinare di fenomeni di particolare rilievo economico-sociale e politico. Il tema della XXX Riunione scientifica (maggio 1988), che esplorava levoluzione della popolazione e lassetto economico-sociale dellItalia sino al Duemila, un indice palese degli ormai consolidati orientamenti societari. La Societ italiana di demografia storica (Sides) di creazione pi recente (1977) delle due precedenti. Coglie i frutti di unevoluzione disciplinare maturata negli anni precedenti anche in virt dellopera del gi menzionato Comitato per lo studio della demografia storica attivo fin dal 1970 in seno al Cisp. La rapida espansione del suoi associati e la qualit delle iniziative da essa promosse, che hanno dato straordinario impulso alle ricerche nel settore, ne fanno una scuola ormai affermata, anche a livello internazionale. Occasioni importanti di dibattito e di approfondimento di diverse tematiche sono stati rappresentati da una serie di convegni nazionali (tra cui La ripresa demografica del Settecento, 1979; Demografia storica delle citt italiane, 1980; La popolazione italiana del secolo XIX, 1983; La popolazione delle campagne in Italia nel XVII e XVIII secolo, 1987) e internazionali, questi ultimi organizzati in collaborazione con enti e societ straniere, e soprattutto con le omologhe societ francese e iberica (Funzionamento demografico delle citt, 1981; Problemi di storia demografica dellItalia medievale, 1983; Strutture e rapporti familiari in epoca moderna: esperienze italiane e riferimenti europei, 1983; Infanzia abbandonata e societ in Europa, 1987; Fonti archivistiche e ricerca demografica, 1990). Il Congresso luso-ispano-italiano di demografia storica (1987), patrocinato dallUissp, ha coperto nelle sue cinque sessioni una vasta gamma di problematiche riguardanti le vicende della popolazione del Mediterraneo occidentale. La pubblicazione degli atti del convegni ha reso disponibili materiali di grande interesse. La Sides organizza anche corsi di formazione tecnica e metodologica per i giovani studiosi che si avvicinano al campo della demografia storica, consentendo loro di stabilire collegamenti con la comunit degli studiosi e di avviare o consolidare progetti scientifici. Dal 1984 viene pubblicato un Bollettino che, oltre a diffondere le notizie sullattivit della societ, ospita articoli, saggi, interventi, nonch sezioni permanenti di bibliografia e repertori di studi e ricerche. La vivace crescita del settore testimoniata anche dal numero di pubblicazioni italiane citate nella Bibliographie internationale de dmographie bistorique, che dal 1978 compone un quadro abbastanza rappresentativo, anche se non esaustivo, della produzione nel settore.

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1.6. La demografia italiana nel contesto internazionale Abbiamo menzionato, fra le forme di vita associata del demografi italiani, la partecipazione allattivit di diverse istituzioni scientifiche internazionali. Esaminare questo aspetto significa, daltra parte, introdurre il discorso pi generale del ruolo che la demografia italiana riveste sulla scena mondiale. Una ricognizione sintetica ma esauriente delle forme di partecipazione italiana alle attivit della comunit internazionale del demografi nellultimo cinquantennio si pu trovare in Cagiano de Azevedo (1988). La collaborazione italiana ai lavori dellUissp ha radici antiche e prestigiose. La costituzione di tale sodalizio fu auspicata in occasione del lavori del primo Congresso mondiale della popolazione (Ginevra, 1927). La fondazione avvenne lanno successivo grazie allopera di un comitato promotore nel quale ebbe larga parte Gini, allora presidente dellIstituto centrale di statistica. Il nuovo organismo si prefiggeva lo scopo di promuovere la conoscenza scientifica sui fattori storici, sociali, economici, culturali influenzanti la struttura e levoluzione delle popolazioni e i loro reciproci rapporti. Rifondato dopo la guerra a New York con lattivo contributo di un altro studioso italiano, Livio Livi, lUissp svolge unattivit cruciale per i demografi di tutto il mondo. Gli studiosi italiani hanno dato, attraverso gli anni, un contributo di servizio nei suoi organi direttivi con vari compiti e cariche (Gini, 1928-31, vicepresidente; Livi, 1937-47, vicepresidente; Boldrini, 1947-49, vicepresidente; Livi, 1949-50, vicepresidente; Mortara, 1954-57, presidente e in seguito presidente onorario fino al 1969; Colombo 1963-69, vicepresidente; Livi Bacci, dal 1973 dapprima segretario generale e tesoriere, poi vicepresidente e infine presidente). Anche in seno alle Commissioni e gruppi di lavoro in cui si articolano le attivit scientifiche dellUnione si riscontra una partecipazione altamente qualificata, anche se numericamente ridotta, di demografi italiani. Firenze ha ospitato, nel 1985, la riunione scientifica della societ (che si tiene con cadenza quadriennale), rinnovando il successo di analoga riunione tenutasi a Roma nel 1953. I demografi italiani sono in gran parte iscritti allUissp; in termini di numero di soci la presenza italiana nellUnione cospicua (terza in Europa e sesta nel mondo, dopo Stati Uniti, India, Canada, Francia e Regno Unito). Indipendentemente dai lavori dellUnione, lItalia ha partecipato e in varia misura contribuito a tutti i grandi appuntamenti della demografia internazionale. stata attivamente presente nelle conferenze mon-

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diali della popolazione organizzate con cadenza decennale dalle Nazioni Unite (Roma 1954, Belgrado 1965, Bucarest 1974, Citt del Messico 1984). Nelle ultime due occasioni una delegazione ufficiale, composta da accademici e guidata da esponenti governativi, ha illustrato le prese di posizione italiane in materia di politica della popolazione. Tra le due manifestazioni e proprio in base allesperienza maturata nel corso della prima, stato creato un Comitato nazionale della popolazione presso la Presidenza del Consiglio del ministri, competente in materia di iniziative di carattere demografico a livello nazionale e internazionale. Un apporto significativo e altamente qualificato, anche se espresso da un numero molto limitato di studiosi, andato nel corso degli anni anche a diverse istituzioni internazionali che riservano unattenzione alle problematiche demografiche: alla Commissione della popolazione delle Nazioni Unite, al Gruppo per la demografia sociale promosso dallo stesso organismo, al Gruppo per la demografia del Comitato internazionale di documentazione per le scienze sociali dellUnesco. Attiva la presenza sulla scena europea, che ha visto qualificati e abbastanza numerosi contributi italiani alle Conferenze demografiche europee periodicamente promosse dal Consiglio dEuropa e dal Comitato europeo della popolazione costituito al suo interno. Altri stimoli alla presenza italiana in questambito vengono dalla partecipazione ai lavori dellEuropean Association for Population Studies, di recente creazione, che ha due italiani fra i suoi soci fondatori e pubblica lEuropean Journal of Population. Un contribuito ragguardevole va inoltre ai lavori dellAidelf (Association internationale des dmographes de langue frangaise), che dal 1988 presieduta da un italiano. Tuttavia si pu osservare come la presenza italiana, costante a livelli elevati e certamente significativa per la qualit scientifica del contributi, non si sia finora manifestata con la presentazione, nelle riunioni scientifiche delle varie societ e sulle riviste internazionali, di un numero di lavori anche quantitativamente adeguato alle dimensioni della demografia italiana, che, come abbiamo visto, costituisce una presenza numericamente rilevante allinterno dellUissp. Inoltre i contributi italiani risultano in genere opera di studiosi affermati, mai di giovani ricercatori. Complessivamente la partecipazione italiana resta, com sempre stata, essenzialmente legata a iniziative di carattere individuale e alla personalit e agli interessi scientifici di pochi studiosi. Non c un coinvolgimento corale, organicamente espresso dalla comunit del demografi nazionali. In particolare, la partecipazione ai lavori dellUnione sembra costituire unoccasione di crescita e di confronto solo in parte sfruttata.

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Le ragioni di questa situazione sono senzaltro molteplici e certamente un peso rilevante da attribuirsi alle barriere linguistiche. Tuttavia non si pu ignorare il fatto che lattenzione della demografia italiana stata, dal secondo dopoguerra e fino a tempi recenti, fondamentalmente orientata sia pure con rilevanti eccezioni su temi di prevalente interesse nazionale, mentre sono stati in gran parte trascurati filoni di studio che nel frattempo si venivano imponendo sulla scena internazionale. Lesempio forse pi clamoroso riguarda la demografia del paesi in via di sviluppo che lItalia, unico fra i paesi dove sono attivi importanti centri di ricerca demografica, ha fino a tempi recenti quasi completamente ignorato; con la luminosa eccezione dellopera che Mortara ha svolto fino agli anni sessanta, non peraltro nelluniversit italiana ma in America Latina, dove lavevano condotto le vicende politiche, mentre su di essa si esercitava lattenzione del demografi di tutto il mondo, per quanto riguarda sia gli aspetti sostanziali, sia il profilo metodologico. Lassenza di un interesse italiano in questo settore, unito alla mancanza di una attivit di formazione per, e di cooperazione con, demografi del Terzo Mondo, ha certo avuto effetti deprimenti sulla partecipazione italiana al dibattito scientifico internazionale. In questo particolare settore di studi si nota per un risveglio di interessi e un fervore di iniziative che preludono a nuovi sviluppi, anche in connessione con le vicende migratorie del paese e con il rapido incremento della presenza straniera sul territorio nazionale, che hanno determinato una maggiore sensibilit per le problematiche in questione. Nel contempo lattenzione scientifica e la cooperazione italiana allo sviluppo registra un crescente impegno nel campo delle cosiddette attivit di popolazione, in armonia con il riconoscimento che la lotta contro la fame e per lo sviluppo resa pi difficile dalla continua crescita demografica (risoluzione parlamentare del 6-4-1982; si veda anche Ministero degli Affari esteri, Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo, Nuova disciplina della cooperazione dellItalia con i paesi in via di sviluppo (legge n. 49 del 26-2-1987). Finora soprattutto volta a sostenere iniziative multilaterali del Fondo delle Nazioni Unite per le attivit in materia di popolazione (Fnuap; si tratta prevalentemente del sostegno a programmi di pianificazione familiare o di salute materno-infantile; si veda Maffioli e Orviati, 1987), la cooperazione italiana ha comunque finanziato anche iniziative di ricerca e di formazione scientifica in demografia, attuate da istituti universitari in collaborazioni con studiosi e istituzioni di paesi in via di sviluppo. Tali forme di cooperazione potrebbero in futuro espandersi, in parallelo alla vieppi riconosciuta importanza delle dinamiche di popolazione ai fini dello sviluppo.

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Anche in altri settori della ricerca demografica si possono scorgere i sintomi del crescente interesse attribuito al sempre maggior coinvolgimento nella comunit scientifica internazionale e allallargamento di orizzonti che deriva dallaccesso a un pi ampio circuito di idee, informazioni, collaborazioni. Centri di ricerca, societ scientifiche, istituzioni accademiche moltiplicano, come si visto, le occasioni di incontro internazionale, promuovono attivit scientifiche con studiosi stranieri, cercano le strade di un pi fitto interscambio. Lattuale cospicua presenza di italiani ai massimi livelli di responsabilit delle principali organizzazioni internazionali del settore di buon auspicio per lo sviluppo di unazione coordinata di promozione del settore. 1.7. La produzione scientifica Esprimere un giudizio sullefficienza del sistema accademico della demografia che siamo andati illustrando non certo un compito agevole, anche perch sarebbe necessario stabilire preventivamente metri di giudizio (in termini di soddisfacimento di determinate esigenze? In termini di rapporto fra finanziamenti e risultati?) e di paragone (con altri paesi? Con altre discipline?) di non facile individuazione. Nel corso dellesposizione precedente si sono forniti molteplici elementi di valutazione, che si lasciano allapprezzamento del lettore. Qui si vogliono fornire alcune indicazioni sulla produzione scientifica italiana nel quadro internazionale, che possono costituire ulteriori elementi di giudizio. Non esistono in Italia repertori bibliografici che diano conto in modo esaustivo e aggiornato delle pubblicazioni in campo demografico. I lavori pi recenti di tale natura risalgono agli anni settanta (Golini, 1966; Golini e Caselli, 1973). Per una panoramica su questo aspetto tuttavia possibile ricorrere allausilio del repertori internazionali pubblicati sulla rivista Population Index, curata dallOffice of the Population Research della Princeton University per conto della Population Association of America. Larea geografica coperta dalla rivista si estende al mondo intero, anche se le citazioni riguardano principalmente lavori redatti in lingue europee. Per quanto riguarda le opere in lingua italiana, le citazioni apparse su Population Index, che per il periodo 1985-90 comprendono poco meno di 300 titoli, non possono certo dirsi esaustive. Restano probabilmente escluse dalla recensione pubblicazioni di interesse locale e articoli apparsi in periodici o atti di convegni che trattano tematiche prevalentemente non demografiche. Non sono inoltre segnalati i lavori di demografia che compaiono negli atti delle riunioni della SIS e del convegni della Sides. Tuttavia i repertori di Population Index forni-

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scono un quadro significativo del tipo di studi che vengono condotti in Italia, o perlomeno di quelli che arrivano alla ribalta internazionale. Vale perci la pena di esaminarli, tenendo conto di qualche distorsione, la pi importante delle quali sembra consistere in una sottovalutazione della presenza di studi di demografia storica. Per questarea di studi, un quadro pi accurato fornito dalla Bibliographie internationale de la dmographie historique, che si pubblica a partire dal 1978. In base alle segnalazioni comparse nel periodo 1985-90, la ricerca demografica italiana pare prediligere i temi della mortalit, della fecondit e delle migrazioni (tab. 6), anche se una parte consistente delle segnalazioni sul tema della mortalit riguarda lavori di carattere epidemiologico piuttosto che demografica. Una certa attenzione sembra essere stata riservata, specialmente nel primo del due trienni in cui si articola
Tabella 6. Lavori di autori italiani citati su Population Index secondo il settore disciplinare.
Settore disciplinare Lavori italiani 1985-87 Totale citaz. 1983** Totale citaz 1985*** Totale citaz. 1990****

Studi generali e teorie Studi regionali Distribuzione spaziale Tendenze e crescita popolazione Caratteristiche e strutture Mortalit Fecondit Nuzialit e famiglia Migrazioni Demografia storica Interrelazioni con leconomia Interrelazioni non economiche Politiche Metodi di analisi, modelli

4,03 3,36 1,34 0,67 8,05 31,54 18,79 2,01 17,45 2,01 4,03 2,01 2,01 2,68

1988-90* 1985-90

3,91 3,91 4,69 4,69 4,69 26,56 15,63 4,69 21,88 3,91 1,56 1,56 0,78 1,56

3,97 3,61 2,89 2,53 6,50 29,24 17,33 3,25 19,49 2,89 2,89 1,81 1,44 2,17

2,90 2,90 4,30 7,40 5,10 17,10 20,70 8,50 13,70 3,90 5,10 2,20 3,90 2,30

1,80 2,44 4,63 3,60 3,86 19,41 21,34 6,43 16,45 3,08 6,04 4,24 4,37 2,31

2,00 3,10 2,50 4,30 5,50 13,60 25,40 12,10 14,30 0,80 6,10. 3,60 5,20 1,20

Totale

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Fonte: Golini (1984). Per gli studi sui paesi sviluppati Populaion Index, XLIX (1983). Sono stati compresi nella categoria gli autori di nazionalit italiana residenti in Italia, includendo i lavori scritti in collaborazione con stranieri e/o pubblicati allestero. * Sono stati considerati solo i primi tre numeri della rivista, che trimestrale. ** Golini (1984). Per gli studi sui paesi sviluppati Population Index, XLIX (1983). *** Population Index, LI (1985). **** Population Index, LVI (1990).

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losservazione, allo studio di caratteristiche strutturali della popolazione. Larco temporale considerato troppo ridotto perch si possano discernere significative evoluzioni di tendenza; tuttavia non sembra casuale lincremento degli studi classificati sotto la voce migrazioni, tenendo presente lo sviluppo della ricerca in questo settore e la corrispondente concentrazione di finanziamenti. Gli orientamenti della ricerca italiana sono abbastanza in linea con quanto avviene sul piano internazionale, dove pure i temi della fecondit, della mortalit e delle migrazioni sono prevalenti negli anni presi in esame (1985-90) e tali risultano anche a precedenti ricognizioni (Golini, 1985). Tuttavia non mancano alcune peculiarit nazionali. Innanzitutto, contrariamente a quanto avviene allestero, in Italia gli studi sulla mortalit sembrano maggiormente coltivati di quelli sulla fecondit, e ci corrisponde a quanto osservato circa le ricerche in corso e lentit del relativi finanziamenti. Agli studi sulla nuzialit e sulla famiglia stata riservata unattenzione complessivamente minore che allestero. La progettata indagine nazionale sulla fecondit che riguarder anche la nuzialit e le nuove forme di costituzione delle coppie dovrebbe comportare un incremento di attenzione per questi aspetti della vita del paese. Alquanto trascurati appaiono nel periodo in questione gli studi sulle inter- relazioni tra demografia ed economia o altre discipline e sulle politiche di popolazione, anche rispetto a un contesto internazionale dove pure tali studi occupano spazi ridotti. Sintomi di una nuova vivacit nel settore risultano per dalla crescente attenzione che le ricerche in corso dedicano ad aspetti interdisciplinari, anche qualora non li contemplino come oggetto primo (si veda sopra il paragrafo Possibili sviluppi dellinsegnamento). 2. La demografia negli studi pre-universitari Prima di chiudere il discorso sulla collocazione accademica della demografia si ritiene opportuno gettare un breve sguardo alla presenza o assenza della componente demografica nel complessivo iter formativoscolastico dello studente italiano. La demografia non costituisce materia dinsegnamento nei corsi di studi pre-universitari: condivide in ci la condizione di altre discipline sociali, non accolte nel quadro di programmi scolastici ancora prevalentemente impostati secondo una concezione esclusivamente umanistica delle scienze sociali. Non mancherebbero tuttavia gli spazi per la trasmissione di diverse rilevanti tematiche della popolazione attraverso le strette connessioni che le legano a discipline quali storia, geografia,

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scienze biologiche di tradizionale presenza nella scuola. Limportanza delle vicende demografiche nel definire le condizioni di sviluppo delle societ umane, la molteplicit delle relazioni fra dinamica della popolazione e territorio, il rapporto dialettico fra uomo e natura non solo consentono, ma talvolta richiedono e i programmi rinnovati delle scuole medie in qualche caso pi o meno esplicitamente Io riconoscono lapprofondimento di specifici apporti conoscitivi della demografia, nelle sue articolate connessioni con la realt storica, territoriale, ambientale, biologica. La collocazione della demografia a un crocevia in cui confluiscono e si saldano i contributi di numerose discipline, appartenenti allambito delle scienze umane e delle scienze naturali, al pari dellapplicazione del metodo scientifico di indagine del fenomeni garantito anche dallo strumento statistico, conferiscono alla disciplina alte potenzialit educative e formative che andrebbero valorizzate. La forte valenza politica e sociale di alcune tematiche demografiche attuali aggiunge motivi per ritenere importante la presenza della demografia nei quadri interpretativi della realt storico-sociale che vengono forniti allo studente italiano. I limitati spazi esistenti nei programmi di alcuni ordini di scuole non sono, tuttavia, convenientemente sfruttati. I nuovi, ma ormai consolidati, orientamenti disciplinari della storia e della geografia, i programmi di scienze che sottolineano limportanza della struttura e della dinamica della popolazione in relazione alle condizioni dellambiente, avrebbero dovuto promuovere unassunzione di tematiche demografiche maggiore e pi qualificata di quella riscontrata da unindagine condotta nel 1985 (Lombardo e Maffioli, 1987) sui libri di testo. La riflessione sul tema dellinsegnamento pre-universitario della demografia stata particolarmente intensa a cavallo fra gli anni settanta e ottanta (Federici, 1973; 1975a; 1975b; Pinnelli, 1973; 1979; Lombardo e Pinnelli, 1975; Lombardo, 1979a; 1979b; Pinnelli e Sonnino, 1981; Lombardo e Maffioli, 1987). In quegli anni era attiva una commissione scientifica della SIS dedicata a Il ruolo della statistica nella scuola dellobbligo e nella scuola superiore, che estendeva la riflessione anche alla demografia e aveva organizzato significative occasioni di incontro e di dibattito sullargomento; n sono mancate in quel periodo occasioni di discussione e di confronto in sede internazionale, cui la demografia italiana ha dato contributi di rilievo (Federici, 1973; 1975a). Il dibattito ha poi perso di slancio, anche in relazione alla fase di ristagno che attraversano i lavori per la riforma degli studi secondari. Le passate discussioni avevano portato, comunque, a una sostanziale convergenza di opinioni e di posizioni sullopportunit e le modalit dellinsegnamento pre-universitario della demografia nel quadro della riforma. Lipotesi di

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unadeguata presenza nellarea delle scienze storico-sociali generalmente ritenuta preferibile e pi realistica di quella di una poco praticabile introduzione indipendente della disciplina, che dovrebbe contendere lo spazio alle altre scienze sociali. Lassenza di steccati disciplinari potrebbe rivelarsi vantaggiosa e favorire il miglior dispiegamento del potenziale formativo della demografia. Nellattesa della riforma, lopportunit altamente auspicabile di trasmettere contenuti demografici attraverso la trattazione parziale che ne possono fare altre discipline richiama un impegno per laggiornamento degli insegnanti e per la produzione di adeguati sussidi didattici; fra le non numerose iniziative in corso in questa direzione, si ricordano i corsi di aggiornamento per docenti delle scuole secondarie superiori che il Dipartimento di scienze demografiche dellUniversit La Sapienza di Roma organizza da alcuni anni, nel quadro delle attivit dellIrrsae. Un gruppo di lavoro che opera per la promozione dellinsegnamento pre-universitario della statistica e della demografia stato creato allinterno della SIS e ha dato luogo fra laltro alla nascita della rivista Induzioni, che ospita lavori di ricerca didattica. Lesigenza del riconoscimento del valore formativo della demografia nellambito delleducazione scolastica non del resto che un aspetto della pi vasta istanza di aggiornamento culturale dellopinione pubblica in genere, come fondamento di un corretto apprezzamento della risonanza sociale del comportamenti demografici individuali e come necessario presupposto di politiche di popolazione socialmente condivise e democraticamente fondate (Sonnino, 1987). La divulgazione scientifica non stata molto praticata dai demografi italiani, ma riceve attualmente maggiore attenzione, sia con un uso pi frequente e pi accorto del mass media (Golini, Palomba e Menniti, 1987; Guarna e Pazzano, 1987), sia con la pubblicazione di libri che, pur rispettando esigenze di accuratezza e di qualit scientifica, sono accessibili anche a un pubblico di non specialisti e di gradevole lettura (Sonnino, Livi Bacci, Lombardo, Volpi). 3. Conclusioni Larticolata presenza della demografia a tutti i livelli della formazione universitaria, il numero di cattedre che le sono attribuite e la loro rapida crescita negli ultimi anni testimoniano unaffermazione accademica che fa riscontro allo sviluppo e al consolidamento della disciplina. La collocazione accademica in vari contesti e livelli formativi prefigura un insegnamento flessibile, destinato al conseguimento di finalit molteplici: alla formazione del demografi, che possono essere orientati

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sia alla ricerca sia alla professione, si affianca, su un altro versante, lintegrazione della demografia in profili formativi esogeni, ai quali essa apporta i suoi specifici contributi conoscitivi. Lanalisi condotta nelle pagine precedenti ha cercato di mettere in luce il modo in cui linsegnamento soddisfa queste svariate esigenze. Motivo di soddisfazione lesistenza, presso alcune sedi universitarie, di corsi di studi che danno la possibilit di seguire un iter completo di formazione demografica: la necessit di ridefinire i profili formativi imposta dalla rapida evoluzione disciplinare, su cui si esercita unattenta riflessione (De Sandre e Santini, 1987), risponde a unesigenza di risistemazione globale della materia e fa parte di normali processi di aggiustamento. A questo riguardo soccorre del resto, per chi si orienta alla ricerca e alla docenza universitaria, la flessibile organizzazione del dottorato. Per quanto concerne gli aspetti professionali della preparazione demografica, questi non sembrano essere sempre chiaramente individuati e coerentemente perseguiti. Se la demografia non costituisce la struttura portante di un corso di laurea, corrispondentemente allassenza di una figura professionale specifica, non mancano tuttavia in diversi contesti le possibilit di utilizzazione di competenze demografiche di tipo professionale, analogamente del resto a quanto gi avviene in altri paesi, dove luso di proiezioni e dati demografici prassi costante in tutte le attivit di progettazione per costruire strutture, vendere prodotti, fornire servizi pubblici e privati: per i demografi sfornati dalle universit americane... loccupazione in questo settore costituisce uno degli sbocchi principali informa Keyfitz (1987, p. 384), riferendosi agli. Stati Uniti. Unadeguata valorizzazione delle valenze professionali della demografia, condotta precisandone le finalit e rafforzando i collegamenti con il mondo del lavoro, darebbe concretezza a quella richiesta, che i demografi sovente avanzano, di maggior considerazione per la variabile demografica in vari campi dazione: dal politico, allamministrativo, a quello delle attivit produttive. C infine da chiedersi se una riflessione adeguata sia stata destinata alla definizione del contenuti dellinsegnamento della demografia nelle facolt non statistiche quali economia e commercio, scienze politiche e altri; in questi casi lanalisi svolta suggerisce limmagine di una demografia spesso chiusa nella sua autonomia e poco collegata al contesto formativo e di ricerca in cui inserita. A questi corsi di demografia, che sono i pi numerosi nelluniversit italiana, affidato il compito cruciale di evidenziare il sovente misconosciuto ruolo del fattori demografici nelle varie manifestazioni dellattivit umana. Vale quindi la pena di dedicarvi unattenta considerazione.

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Capitolo quarto I metodi Antonio Santini

1. Uno schema di riferimento La ripartizione del sistema demografico in sotto-sistemi definiti in funzione della sue varie componenti, introdotta da Livi Bacci nel primo capitolo di questa Guida, costituisce una cornice di riferimento opportuna ed efficace nella prospettiva di definire le grandi linee del processo di maturazione subito nel tempo dalla demografia. Lobiettivo di disegnare un quadro di sintesi dei grandi progressi e delle profonde trasformazioni registrati sotto il profilo teorico e tecnico dai metodi demografici negli anni, richiede peraltro che la riflessione venga indirizzata su direttrici di fondo trasversali rispetto alle tradizionali suddivisioni tematiche della demografia. Legare la disamina degli sviluppi della metodologia demografica ai diversi oggetti che rientrano nel suo orizzonte di interessi implicherebbe, in effetti, una sua eccessiva frammentazione e il rischio di vederla sostanzialmente trasformarsi in una sterile elencazione1. Per semplificare la trattazione e per meglio comprendere i caratteri essenziali dei metodi della demografia e del processo evolutivo da que1 Anche se la demografia si caratterizza, come si dir pi precisamente in seguito, per dei fondamenti di analisi che consentono a tutti i processi da essa studiati di confluire in un quadro unitario, molte tecniche o sottocapitoli dellanalisi stessa sono legati alle specifiche e differenti entit oggetto di studio. Nessun demografo, ormai, in grado di dominare non dico tutti i settori in cui si ripartiscono gli studi di popolazione, ma neppure spesso tutti i sub-settori. Quandanche ne fosse capace, gli sarebbe comunque impossibile contenere entro dimensioni appropriate tutti i progressi nei metodi e nella modellistica registrati nella disciplina in un arco temporale sufficientemente ampio da garantire lapprezzamento del processo di maturazione teorica e tecnica che li ha prodotti. Se si guarda ad esempio lindice della rivista bibliografica Population Index che trimestralmente aggiorna su quanto in tema di popolazione si pubblica nel mondo, vediamo che esso si struttura in diciannove settori tematici; limitando lattenzione ai soli tradizionali grandi capitoli della demografia vediamo anche che il settore dedicato, poniamo, alla mortalit si articola in sette subsettori ciascuno dei quali si differenzia dagli altri non solo per loggetto (mortalit generale, infantile, perinatale, tavole di mortalit e cos via) ma anche per i metodi pertinenti: lo stesso avviene per i settori fecondit o migrazioni.

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sti subito, anzich procedere per capitoli tematici, conveniente fare riferimento a una diversa e ancor pi elementare schematizzazione: precise coordinate nella ricerca delle direttrici generali di tale processo sono di fatto riconoscibili nel rapporto che lega i criteri di analisi allosservazione dei fatti della popolazione. In tal senso, quelle si configurano come caratterizzate da due dimensioni: una riguardante la prospettiva temporale dellosservazione stessa (tempo) e una attinente al carattere delle unit di studio alluopo adottate (osservazione).

Alla base di questo schema che semplifica ma non nasconde una realt assai complessa, le cui implicazioni, niente affatto meccaniche e tanto meno ovvie, verranno in seguiti meglio chiarite sta lidea che gli eventi demografici nascite, morti, matrimoni, migrazioni osservati e rilevati nel momento in cui si manifestano (asse trasversale) sono le variabili risultato di processi che si manifestano nel tempo lungo il ciclo vitale (asse longitudinale) delle micro-unit elementari (individui) o complesse (famiglie) facenti parte delle macro-unit (coorti) che compongono laggregato demografico2. Nel contempo, e di conseguenza, lo schema prefigura anche un logico o naturale sviluppo degli approcci osservazionali e di analisi, sottintendendo cos la considerazio2 Per dare fin da adesso un senso alla contrapposizione trasversale-longitudinale che verr meglio chiarita in seguito si pu, a titolo di esempio, fare riferimento alle nascite annuali. I bambini messi al mondo in un anno di calendario provengono dalle donne in et 15-49 anni compiuti (periodo fecondo), nate pertanto in 35 anni successivi o, come si suoi dire, appartenenti a 35 generazioni successive. Il totale dei nati dellanno , dunque, il risultato della somma di tante esperienze generazionali parziali (35, quante sono le etgenerazioni considerate) che sono colte attraversando e quindi trasversalmente le generazioni contemporaneamente osservate nellanno in questione. E quanto viene di anno in anno fornito dalla statistica ufficiale e specificato nei tabulati Nati per et della madre. Una generazione di donne (le donne nate in uno stesso anno) produce invece figli a et successive e quindi in anni di calendario successivi: il totale verr ricostruito sommando nel tempo longitudinalmente le esperienze parziali vissute in et e anni successivi fino al termine del periodo fecondo.

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ne di specifiche strategie di ricerca allintersezione degli elementi delle due dimensioni: macro-trasversale, micro-trasversale, macro-longitudinale, micro-longitudinale. Inoltre, le linee direzionali dello schema non rappresentano la mera indicazione di una successione di tappe rnetodologiche che, pur con sovrapposizioni, di fatto si andata nel tempo consolidando; sono in pi lespressione della graduale, ma netta e ininterrotta tendenza dei demografi ad avvicinare la ricostruzione delle modalit reali che caratterizzano nel tempo lapparizione degli eventi demografici e i connessi cambiamenti di struttura demografica, in quanto come si appena ricordato risultato di processi di cui sono protagoniste le differenti unit riconoscibili nella popolazione; sono inoltre unindicazione del progressivo passaggio a strategie di ricerca in cui, quanto meno, losservazione e lanalisi del reale sia coerente con tali modalit. Ma queste considerazioni quasi si configurano gi come risultati cui bene, invece, pervenire con ordine. 2. Osservazione statistica e metodi demografici I metodi della demografia sono strettamente dipendenti dal particolare sistema di osservare e di rilevare le caratteristiche e i fatti della popolazione e non se ne pu capire la natura, e tanto meno levoluzione, senza prima chiarire questa relazione. La puntualizzazione non convenzionale: se vero, infatti, che in tutte le discipline quantitative tra fase di elaborazione metodologica e fase di osservazione-rilevazione dei dati esistono necessariamente legami di dipendenza o interdipendenza molto stretti, in demografia questo rapporto presenta delle connotazioni affatto singolari, tali da condizionare profondamente i metodi di analisi e di ricerca. La demografia ha di fatto una particolarit che non dato ritrovare in alcun altra scienza, salvo leconomia: losservazione dei fenomeni che costituiscono oggetto dei suoi studi le viene garantita storicamente e fino al secondo dopoguerra in maniera pressoch esclusiva da organismi amministrativi, dagli Istituti nazionali o, comunque, dai servizi ufficiali di statistica. Per certi aspetti questa prerogativa, che fino al momento in cui non si sviluppa la teoria dei campioni risponde a uno stato di necessit per le caratteristiche delloggetto studiato, ha costituito e costituisce un fatto indubbiamente positivo: la statistica ufficiale ha infatti garantito alla demografia un impianto di osservazione di cui nessunaltra delle scienze umane (salvo, appunto, leconomia) pu beneficiare e una conseguente vasta, completa e corrente informazione. Ma i servizi ufficiali di statistica sono stati creati per rispondere innanzitut-

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to alle necessit conoscitive dei poteri pubblici, piuttosto che a preoccupazioni di ordine scientifico; e se vero che lo scopo di garantire una buona amministrazione non stato perseguito indipendentemente e neppure separatamente dal progresso della scienza in particolare nel nostro paese3 , losservazione dei fatti della popolazione ha avuto e ha ancora obiettivi diversi dallo sviluppo delle conoscenze demografiche. La necessit di affidare losservazione dei fatti della popolazione a un organismo specializzato lontano dai luoghi in cui si conduce la ricerca e si insegna ha prodotto effetti pesantemente negativi. Tra demografia e servizi ufficiali di statistica si infatti creato uno stretto legame di dipendenza che, seppure ha contribuito a radicare la disciplina allosservazione, ha indotto per lungo tempo i demografi a elaborare i loro metodi condizionatamente alla natura dei dati ufficiali e ha soprattutto agito nel senso di favorire una ipertrofia dellosservazione stessa a scapito della riflessione teorica e dellanalisi. Tutto ci evidentemente legato al fatto che per ben amministrare contano soprattutto le informazioni correnti della contabilit demografica e quelle periodiche sugli stock, per le quali si richiede il massimo di dettaglio e di precisione con riferimento sia al territorio sia ai caratteri strutturali demo-socio-economici. Ma alla natura stessa della disciplina demografica che occorre risalire per individuare le ragioni di fondo del suo particolare rapporto con losservazione. Si consideri, per ben capire, quanto accaduto allaltra scienza che tradizionalmente attinge le sue informazioni dalla stessa fonte, leconomia, e insieme il caso di unaltra disciplina che da qualche tempo mostra interesse per losservazione ufficiale, la sociologia. Leconomia politica, nel consolidarsi come scienza, ha potuto fare a meno, o quasi, per molto tempo, della parte statistica perch in grado di offrire oltre al settore delle teorie un vasto campo di osservazione, di studi e di ricerche al di fuori della statistica, quello relativo ai meccanismi; analogamente la sociologia, i cui progressi sono maturati senza apporto, o quasi, di osservazione statistica. Non poteva essere cos per la demografia poich, per usare le parole di Henry (1969b), non vi sono meccanismi da descrivere se non quelli di manifestazione-osservazione: i meccanismi della malattia e della morte competono alla medicina; quelli della riproduzione allanatomia e alla fissologia; quelli del matrimonio, in quanto costume (rito), alla sociologia e alletnologia. Al di fuori dellosservazione statistica, non resta di proprio alla demografia che le dottrine e le teorie di popolazione.
3 In Italia la statistica ufficiale ha sempre visto alla sua guida figure prestigiose di studiosi che hanno promosso e sostenuto lattivit scientifica allinterno dei servizi stessi: si pensi a Gioja, a Zuccagni-Orlandini, a Bodio, a Gini.

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3. I metodi nellosservazione macro-trasversale In conformit con compiti e le attivit istituzionali dellorganismo rilevatore, la raccolta delle informazioni statistiche sulla popolazione veniva condotta, secondo losservazione classica, quasi esclusivamente attraverso due serie di operazioni: i censimenti periodici, che forniscono la consistenza e le strutture demografiche, e la registrazione continua dei fatti dello stato civile, da cui provengono i dati sugli eventi (nascite, morti, matrimoni e cosi via) variamente classificati cui si aggiungono, in particolari casi, i rilievi anagrafici per quanto riguarda le migrazioni. Peraltro, qualunque osservazione viene eseguita in vista di unanalisi dei dati raccolti: dalla nascita dei servizi di statistica fino agli anni cinquanta lanalisi trasversale o per periodo stata pressoch la sola a essere praticata. Loculata combinazione dei dati forniti dalle due fonti, censimento e stato civile, il fondamento stesso dellanalisi trasversale: la misura della mortalit attraverso la tecnica delle tavole di sopravvivenza del momento o per contemporanei ne rappresenta il prototipo4. Senza affrontare qui un puntuale esame critico di questo tipo di analisi, baster ricordarne i caratteri distintivi pi generali. In primo luogo il privilegio assegnato per lungo tempo alle misure di probabilit o ai tassi a queste assimilabili: questa sorta di tat desprit probabiliste trascende i tradizionali legami tra demografia e calcolo delle probabilit legami, peraltro, di fatto non molto stretti o, quanto meno, limitati ai suoi risultati pi elementari5 e spinge i demografi a sezionare la
4 Supponiamo il caso di una popolazione ove, in un dato anno (in un dato momento) di osservazione, coesistono circa 100 generazioni, cio gruppi di persone la cui nascita si scagliona in 100 anni diversi e successivi; durante quellanno ogni generazione corre un certo rischio di morte e, combinando in maniera opportuna le statistiche dei decessi provenienti dallo stato civile e quelle della popolazione per et provenienti da un censimento o da un suo aggiornamento, si pu ordinatamente misurare tali rischi partendo dalla generazione che ha unet compresa tra O anni compiuti e 1 anno - la pi giovane -, proseguendo poi con la generazione che ha unet tra 1 e 2 anni e cos via fino alla generazione dei centenari. Parlando tecnicamente, per ogni generazione osservata in quellanno possibile determinare una probabilit di morte qx, e le 100 generazioni forniranno la serie q0, q1, q2, q100. Se si sottopone una generazione immaginaria - o, come normalmente si dice, fittizia - di 10 neonati alle condizioni di mortalit definite da quelle probabilit, si ottiene una tavola di sopravvivenza del momento che riassume le condizioni di mortalit dellanno. Emblematico a questo riguardo il saggio di Perozzo (1883). Va comunque notato che, grazie agli schemi rigorosi del calcolo delle probabilit, i demografi hanno evitato il pesante errore - spesso commesso, invece, in altre discipline osservazionali, anche in epoche non troppo remote - consistente nello studiare soltanto gli eventi e a trascurare le popolazioni al cui interno quelli si manifestano.

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popolazione alla ricerca di categorie quanto pi possibile omogenee, per il fatto di essere caratterizzate da certi attributi comuni (la popolazione coniugabile per la nuzialit, le donne coniugate per la fecondit legittima6) e avere, quindi, un rischio meno diversificato di vivere un dato evento. La finalit di ricercare la probabilit di subire un certo evento naturale nellanalisi trasversale, dove concetti oggi pi familiari, quali quelli di intensit e cadenza di un processo demografico7, non hanno reale significato. In secondo luogo, limportanza conferita al problema della sintesi dei tassi specifici per et o durata: la preoccupazione di trovare dei corretti indici sintetici che diano misura della dimensione quantitativa dei fenomeni al netto delle strutture sembra sostituirsi e gradualmente prevalere in particolare nel periodo tra le due guerre, che ha segnato il culmine dellanalisi trasversale alltat desprit probabiliste: ai tassi espressione del rischio si preferiscono tassi che per somma conducano a quelli che oggi siamo abituati a chiamare tassi totali8. Ne sono prototipo il tasso netto di riproduzione Ro, cui avventatamente, negli anni tra le due guerre, furono assegnati poteri previsivi (Ryder, 1949), e in genere gli indicatori di fecondit: a questo riguardo vanno ricordati lindice sintetico di fecondit matrimoniale di Gini (1932), che per la prima volta utilizzava dati tutti provenienti dallo stato civile e, man mano che le informazioni statistiche divengono pi ricche, gli in numerevoli tassi di riproduzione al netto di ulteriori fattori (oltre alla mortalit, la nuzialit, la parit; si vedano ad esempio Whelpton, 1946; Del Chiaro, 1940; de Vergottini, 1960), senza dimenticare lampio lavoro di Bourgeois-Pichat (1950) sulla fecondit legittima, apparso in uno dei primi Cahier dellInstitut national des tudes dmographiques (Ined) siamo
6 sufficiente riferirsi a uno qualsiasi dei manuali di demografia in uso fino agli anni cinquanta, per trovare ancora evidenti tracce di questo modo di pensare (ad es., Boldrini, 1956). 7 Si intende per intensit di un processo demografico (fecondit, nuzialit e cos via) il numero di eventi (nascite, matrimoni ecc.) vissuto in media dagli individui appartenenti a una generazione (o coorte) effettiva (nati, dunque, nello stesso anno o periodo di tempo). Con il termine di cadenza ci si riferisce invece alle modalit temporali che caratterizzano lapparizione degli eventi nella storia della generazione, quindi alla loro distribuzione per et, che normalmente vengono sintetizzate da un indice statistico di posizione (et media, et mediana): i due concetti sono appropriati solo alle generazioni (coorti) reali. 8 Questi indici sintetici trasversali (TFTM, TNTM, R) vengono normalmente interpretati come numero medio di eventi per testa concetto appropriato a una generazione, come prima si diceva del periodo, o come intensit del fenomeno in una generazione fittizia concetto introdotto per ragioni di comodo e, di fatto, assolutamente astratto dimenticando che in realt si tratta semplicemente di indici (implicitamente) standardizzati con metodo diretto in riferimento a una popolazione rettangolare e che quindi altro non sono se non il numero di eventi osservati ricondotto a una struttura-tipo.

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gi, quindi, in epoca successiva alla seconda guerra mondiale tutto pervaso dallo sforzo di pervenire a misure di sintesi in funzione della durata del matrimonio e dellet al matrimonio. Infine la ricerca del fondamentale nei fenomeni della popolazione: attraverso lanalisi trasversale si sempre cercato di raggiungere un apprezzamento dei comportamenti di fondo estraendoli dalle fluttuazioni dellattualit tendendo, per garantire una maggior solidit a tale apprezzamento, a suddividere la popolazione seguendo nuovi criteri. Ogni volta delusi, si continuato nondimeno a introdurre nuovi fattori con la speranza di trovare, infine, linvariante, cio un indice o una serie di indici poco variabili nel tempo. Ci ha condotto logicamente a chiedere sempre di pi allosservazione statistica ufficiale (sia al censimento, sia allo stato civile), rappresentando, in questo senso, un progresso. Sono questi i caratteri pi significativi del modo classico di osservare e misurare per periodi sfruttando le due fonti fondamentali fornite dalla statistica ufficiale; sono questi i connotati che distinguono, appunto, lapproccio macro-trasversale: essi sono peculiari alla tendenza a privilegiare quello che Bourgeois-Pichat (1987) definisce come il lato egoistico dei fenomeni demografici, tendenza che ha prevalso fino al secondo dopoguerra, per la quale la popolazione intesa come un complesso di elementi autosufficienti che, pur facendo parte di un sistema di ordine superiore, tendono ad affermarsi come totalit9. in questa prima fase, comunque, che si ritrovano i contributi pi validi e originali degli studiosi italiani al metodo demografico. Nel campo degli studi di mortalit, anche se a rigore non si pu parlare di apporti innovativi10, importanti progressi e perfezionamenti nella tecnica di calcolo delle probabilit di morte e in genere nella costruzione delle tavole di sopravvivenza vengono introdotti da Vinci (1925a; 1925b), da Mortara (1914) cui si devono, tra laltro, le uniche tavole di mortalit per singole cause di morte11 da Gini (1928), da Gini e Galvani
9 Peraltro, se si guarda dal lato statistica ufficiale, a prima vista il presente non decisamente differente dal passato quanto ai modi e ai mezzi di osservazione: il censimento e le statistiche di stato civile costituiscono ancora gli elementi portanti del sistema. E radicalmente mutato, invece, lapproccio dei demografi nellanalisi e nelle strategie conoscitive dei fenomeni della popolazione, che li ha spinti a liberarsi progressivamente dai vincoli dellosservazione classica. 10 Di carattere propriamente innovativo il contributo del matematico Cantelli (1914) alla determinazione delle probabilit di eliminazione, di interesse prettamente attuariale. 11 E interessante ricordare come a Mortara (1943 e 1949) si debbano anche i primi studi - condotti durante il suo forzato esilio brasiliano - sulla mortalit di popolazioni sprovviste di rilevazioni statistiche correnti di movimento. Per quanto in seguito superati sul piano sia teorico sia tecnico, tali studi costituiscono un esempio significativo di ingegnosit e di rigore metodologici.

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(1931), da Galvani (1937). Dello stesso tenore e di analoga importanza sono i pionieristici sforzi di Mortara (1908; 1909) di costruire, nel campo degli studi di nuzialit, delle tavole di sopravvivenza e di variazione dello stato civile per celibi e nubili: un tipo di analisi mai ripreso in seguito fino alla fine degli anni trenta, quando Somogyi (1937), sfruttando il ricco materiale informativo che la statistica ufficiale italiana ormai produceva regolarmente sotto la guida di Gini, redasse delle tavole di nuzialit, di vedovanza, di eliminazione combinata per morte e matrimonio che, nellottica macrotrasversale, rappresentano quanto di pi completo e rigoroso si sia prodotto in merito nel nostro paese. nel campo degli studi di fecondit, peraltro, che i demografi italiani danno prova di pi brillante inventiva: Mortara (1933; 1934; 1935), Lenti (1935; 1937; 1939), de Vergottini (1937a; 1937b) utilizzano con criteri originali le nuove statistiche dei nati per anno di matrimonio dei genitori, o per et della madre, secondo lordine di generazione per introdurre uno schema descrittivo la tavola di fecondit per ordine di nascita che ancor oggi viene utilizzato, pur in una differente prospettiva. Savorgnan (1923; 1924; 1925) sfrutta le genealogie delle aristocrazie europee per studiarne sterilit e fecondit matrimoniale, anticipando una metodologia che poi, perfezionata, prender piede tra i demografi storici e trover una definitiva sistematizzazione nellopera di Henry (ad esempio: Henry, 1956; Henry e Fleury, 1965). Si gi detto dellindice di fecondit matrimoniale di Gini: occorre aggiungere che il metodo da lui introdotto stato poi esteso (Henry, 1953) e applicato anche nella misura di fenomeni diversi dalla fecondit legittima allo studio (trasversale) della divorzialit (Henry, 1952) o della fecondit generale (Calot 1981), ed oggi universalmente noto come standardizzazione con il metodo della cadenza-tipo . Ma i pi rilevanti contributi metodologici di Gini sono quelli che riguardano i problemi della fecondabilit: le sue ricerche in questo campo (Gini, 1924; 1925), condotte sulla base di un metodo ingegnoso che sfrutta le statistiche dei primogeniti classificati secondo il numero dei mesi trascorsi dal matrimonio, hanno costituito e costituiscono tuttora un fondamentale punto di riferimento per questa branca degli studi demografici (si vedano, ad esempio, Henry, 1961a; 1961b; Lridon, 1973). 4. Dallanalisi macro-trasversale a quella macro-longitudinale
Negli anni cinquanta si apre una fase di totale ripensamento dei metodi demografici: da allora la demografia acquista caratteri sempre pi netti di autonomia liberandosi definitivamente dalla scomoda e ridutti-

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va etichetta di statistica applicata alla popolazione, attraverso una separazione inizialmente solo teorica dal modo di osservare della statistica ufficiale. Si fa strada in alcuni demografi, e si diffonde e si consolida poi rapidamente, lidea che lanalisi e la misura dei fenomeni demografici debba adattarsi alle reali modalit di manifestazione dei fatti della popolazione, modalit che non corrispondono o comunque sono indipendenti dai criteri con cui gli organismi amministrativi li rilevano. Gli eventi che danno origine al movimento della popolazione altro non sono se non esperienze demografiche vissute dalle unit elementari che compongono laggregato gli individui, in prima istanza nel corso del loro ciclo vitale; di conseguenza, per comprendere come il movimento, e il risultante mutamento, si manifesti nel tempo della popolazione occorrerebbe ricondursi alle singole esperienze individuali e osservarne le modalit di sviluppo temporale. Poich, tuttavia, la demografia non si interessa alle vicende individuali ma a quelle collettive, si individua una macro-unit di osservazione e di studio in cui siano riprodotte a livello aggregato le caratteristiche reali delle esperienze demografiche vissute a livello individuale, e in cui si possano pertanto collocare correttamente nel tempo i fenomeni della popolazione e risalire, successivamente, agli opportuni metodi di misura. A questa macro-unit i demografi assegnano il nome di coorte, definendo, in generale, come tale linsieme di persone che hanno vissuto un certo evento durante uno stesso periodo di tempo: un anno o, pi raramente, un limitato numero di anni. Nasce cos lanalisi per coorte o analisi macro-longitudinale che si diffonder rapidamente in molte altre scienze sociali e delluomo. In realt, sul piano fattuale lapproccio macro-longitudinale nello studio dei fenomeni demografici che, in seguito ai primi studi empirici di Whelpton (1954) e Hajnal (1947; 1950) e ai successivi sviluppi teorici di Henry (1959; 1963b; 1966a) e Ryder (1964a; 1965; 1968), si sviluppa nel secondo dopoguerra dominando fino alla met degli anni settanta, non esce dal quadro dei rapporti prima delineati tra demografia e statistica ufficiale. Infatti, sono ancora i dati di movimento raccolti dallo stato civile e quelli di popolazione provenienti dai censimenti e dai loro aggiornamenti a costituire gli ingredienti dellanalisi. Losservazione classica viene semplicemente adattata sfruttando ladeguamento delle classificazioni appositamente predisposto dai servizi di statistica laddove pi facilmente e rapidamente questi sono sensibilizzati alle nuove esigenze12 oppure, pi semplicemente ma pi grossolanamen12 Ci si riferisce in primo luogo allintroduzione della doppia classificazione temporale degli eventi (durata e coorte). In Italia, per gli eventi demografici diversi dai decessi, tale classificazione stata introdotta solo negli anni ottanta.

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te, modificando i criteri di aggregazione13 o, infine, ricostruendo retrospettivamente attraverso le indagini abbinate ai censimenti14. A rigore si deve notare che lidea di studiare quello che accade in una generazione di persone nate nello stesso anno (quindi in una particolare coorte) risale, in realt, a epoche molto pi lontane. Ma i primi tentativi di applicazione per molti aspetti assai approssimativi forse perch limitati allo studio della mortalit, il processo che meno di ogni altro richiede a livello descrittivo ladozione di un approccio longitudinale15, non provocarono alcun rilevante cambiamento negli schemi teorici, nei quadri concettuali, nei metodi. Al contrario, questo nuovo approccio rappresenta un fondamentale punto di svolta per il metodo demografico. Pur nella iniziale, e in fondo riduttiva, semplice prospettiva di sfruttare diversamente losservazione classica per riprodurre a livello macro modalit di manifestazione dei fenomeni coerenti con quanto avviene a livello micro, ci sono gi palesi segni di evoluzione nei metodi di analisi demografica che si sforzano di reintrodurre laspetto globale dei fenomeni: si utilizzano vari tipi di coorti, si fa riferimento ai cicli di vita, si affaccia lidea di una demografia della famiglia. Anche nella fase macro, per il fatto stesso di passare da quadri descrittivi fittizi a quadri descrittivi reali, tutti gli sviluppi dellanalisi longitudinale tendono, contrariamente allottica dellanalisi trasversale, a inserire lindividuo in un sistema gerarchico superiore. Probabilmente proprio favoriti dal fatto che, operando su popolazioni esaustive, possono dispensarsi dal considerare gran parte dei problemi statistici che diverranno poi prevalenti quando saranno costretti a ricorrere alle indagini campionarie, i demografi dedicano inizialmente i loro maggiori sforzi soprattutto a consolidare (qualcuno direbbe: a creare) i fondamenti dellanalisi sfruttando losservazione classica. Mutano gli obiettivi conoscitivi: alla domanda qual la probabilit per un celibe trentenne di sposarsi tra 30 e 31 anni? si sostituisce laltra qual la probabilit che un celibe di una data generazione sia ancora tale a 31 anni? e, insieme, quali modalit temporali caratterizzano il comportamento nuziale dei celibi coevi?. Si comprende che gli eventi sono il
13 Un esempio di questo pi grossolano adattamento al nuovo modo di condurre lanalisi rappresentato dalle tavole di fecondit di Livi Bacci e Santini (1969). 14 E il caso, ad esempio, delle indagini sulla fecondit eseguite in Gran Bretagna (Hajnal, 1950). E interessante notare come in nessuna delle indagini censuarie - quindi neppure in quelle italiane -, insieme allet al matrimonio e al numero di figli nati nel matrimonio, sia mai stata chiesta la data di nascita dei figli, trascurando cos un elemento estremamente importante delle biografie demografiche. 15 Gli studi sui problemi di eterogeneit che si vanno conducendo da qualche tempo dovrebbero, peraltro, indurre a rivedere molte delle vecchie idee in merito.

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risultato di specifiche propensioni demografiche ma al lordo degli effetti prodotti da altri rischi cui simultaneamente sono sottoposti gli individui: conseguentemente, per i vari fenomeni si definiscono misure della dinamica allo stato puro individuando il peso dellinterferenza dei fenomeni concorrenti che perturbano le misure tratte dallosservazione. Si chiariscono e si evidenziano gli effetti selettivi connessi al modo di osservare. Nellottica della teoria degli eventi ridotti (Henry, 1966a; Wunsch, 1968) si accerta che la manifestazione dei vari fenomeni, condizionatamente alla natura degli eventi che li caratterizzano e delle sotto-popolazioni in cui si producono, possono essere ricondotti a un unico modello descrittivo e si verifica di seguito che le misure in demografia non sono, per cos dire, neutre ma indicatori la cui forma statistica imposta dalle modalit stesse di manifestazione dei fenomeni (Santini, 1974; 1990). Ponendo cos le basi per rigorose analisi longitudinali, si individuano con precisione i limiti delle tradizionali misure trasversali e si garantisce una loro conseguente sostanziale rivalutazione. Di fondamentale importanza sebbene forse non sufficientemente meditati, se non addirittura mal compresi, da buona parte della comunit scientifica sono stati a questo riguardo i modelli (Ryder, 1964b) e le tecniche (Pressat, 1969; Ryder, 1980) di traslazione, che non solo hanno favorito la corretta lettura degli indici sintetici di periodo in termini di componenti quantitative e temporali delle manifestazioni demografiche delle coorti, ma hanno fornito anche gli strumenti per una determinazione empirica della distorsione di cui tali indici sono affetti (Santini, 1990). La possibilit di riconoscere e determinare in quantit e tempo i parametri caratteristici dei processi demografici allinterno di macro-unit reali, la capacit di traslarne levoluzione nelle manifestazioni di periodo, dettero subito ai demografi la sensazione di aver finalmente trovato una soluzione definitiva e convincente al problema del fondamentale e del transitorio dei fenomeni della popolazione (Henry, 1966b; Ryder, 1964b; 1965). Sul piano descrittivo, in effetti, quella sensazione non era priva di valide giustificazioni, se si fa riferimento alla classica schematizzazione delle componenti dinamiche di un fenomeno caratteristica dei modelli statistici di scomposizione delle serie storiche cui evidentemente si deve far ricorso in un contesto osservazionale trasversale: il movimento di fondo, la congiuntura, la casualit o, se si preferisce, levoluzione di lungo, medio e breve periodo, trovano un naturale corrispettivo, almeno per i processi demografici che hanno una dimensione quantitativa, rispettivamente nellintensit finale delle coorti, nei movimenti intercoortici della cadenza, negli adattamenti transitori di

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questultima, componenti che gli schemi traslativi sono in grado di riconoscere e riprodurre (Ryder, 1980; Martelli, 1989). Ma se si esce dal contesto meramente descrittivo e ci si trasferisce su quello delle determinanti dei fenomeni demografici, le conclusioni sono diverse. Ogni misura di intensit totale (numero di figli per donna, proporzione di coniugate almeno una volta e cos via) in una coorte, che per essere una misura finale di processo ne rappresenta la tendenza di fatto, pur sempre la sintesi di un comportamento demografico raggiunta attraverso un ininterrotto integrarsi di fattori relativi al passato dei soggetti osservati e fattori del momento, per i quali rispettivamente la coorte e il periodo costituiscono proxy assai grossolane. Il ruolo giocato da questi due tipi di fattori cui normalmente si aggiunge quello costituito dallet sulle manifestazioni demografiche controverso (Hobcraft et al., 1982) e la convinzione di una prevalenza dei fattori di periodo sui fattori di coorte parso a taluno un buon motivo per regredire alle analisi di tipo trasversale o, comunque, per mettere in dubbio la preminenza dellapproccio longitudinale nellanalisi demografica. Condurre losservazione e lanalisi in prospettiva longitudinale non significa necessariamente prefigurare una gerarchia nei fattori esplicativi16: se gli eventi demografici sono esperienze biografiche, significa semplicemente rispettarne le naturali modalit di manifestazione; se gli eventi di un periodo sono la somma di risultati raggiunti in momenti diversi della loro storia dalle macro-unit elementari costituenti laggregato demografico, occorre poterli leggere e interpretare come traslazioni di quelle storie. Indiscutibilmente questa fase evolutiva del metodo demografico, che culmina (senza peraltro esaurirsi) allinizio degli anni settanta, quella in cui si raggiungono i risultati in assoluto pi rilevanti: lanalisi demografica che, secondo le modalit prima indicate, si sviluppa e si consolida fornendo, finalmente, fondamenti e princpi generali alla disciplina certamente il maggiore una delle gemme della demografia, stato detto , al punto che per qualcuno (Pressat, 1984) garantisce la specificit stessa della disciplina; ma insieme con lanalisi, unampia serie di modellizzazioni e concettualizzazioni di basilare rilevanza metodologica su vari versanti, dalla nuzialit nel rapporto di dipendenza con il mercato matrimoniale (Akers, 1967; Henry, 1968; 1969a; 1969b; 1972; 1973; Pollard, 1971), alla fecondit in particolare la fecondit natura16 Peraltro, molti sociologi e demografi (Ryder, 1965a) sostengono o hanno a lungo sostenuto la preminente importanza della coorte come aggregato sociale: Mannheim (1952) sostiene addirittura che la collocazione logica e la rilevanza sociale della coorte sono grosso modo corrispondenti a quelli propri della classe sociale.

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le nelle sue diverse componenti di fecondabilit, sterilit e cos via (Henry, 1961; 1963; Bourgeois-Pichat, 1965; Bongaarts, 1965; Lridon, 1973), sulle orme dei ricordati studi pionieristici di Gini e alla riproduzione (Henry, 1965). La demografia italiana in un primo tempo relativamente sorda ai nuovi stimoli provenienti doltralpe o doltremare salvo pochissime, anche se significative, eccezioni (Colombo, 1953; 1954); soltanto alcuni tra i ricercatori che iniziano a formarsi negli anni sessanta si avvicinano alle nuove idee e i pochi che lo fanno si limitano a fornire contributi applicativi (Istituto di statistica dellUniversit di Firenze, 1968; Livi Bacci e Santini, 1969; Ciucci, 1971; Santini, 1972; Ventisette, 1973; Natale e Bernassola, 1973) o di sistematizzazione (De Sandre, 1974; Santini, 1974). Certo questo atteggiamento di conservazione almeno sul piano della ricerca empirica fornisce convincenti giustificazioni nellevoluzione dellattivit degli organismi ufficiali di statistica che si registra nel secondo dopoguerra. La crescita continua e molto rapida dei bisogni di informazione di ogni genere sullattivit economica giunge di fatto ad assorbire la maggior parte delle risorse e del personale dei servizi di statistica, provocando una separazione tra i bisogni informativi dellamministrazione e le istanze conoscitive della ricerca demografica. Questo distacco tra demografia e statistica ufficiale si manifesta in tutto il mondo occidentale, ma nel nostro paese assume nel tempo caratteri sempre pi evidenti e dimensioni che alla fine degli anni settanta sembrano preoccupanti: rispetto a tutti gli altri paesi europei che vantano tradizioni quanto a produttori di statistiche, laggiornamento dellAnnuario di statistiche demografiche italiano registra un ritardo notevole e decisamente limitate sono poi le proposte innovative introdotte, quasi che losservazione per informare non dovesse pi essere anche informazione per conoscere. La demografia italiana, che inizia a riaffermarsi superando i contraccolpi delluso distorto che di essa aveva fatto il fascismo, privilegia lanalisi applicata individuando come principali obiettivi conoscitivi tematiche peculiari alla realt italiana e rilevanti sul piano politico-sociale le differenziazioni regionali, i movimenti migratori, lancora elevata mortalit infantile, ad esempio che affronta secondo i tradizionali approcci macro-trasversali, rinnovando peraltro la sua strumentazione attraverso limpiego di tutta le nuove tecniche che la metodologia statistica fornisce via via per lanalisi dei dati 17.
17 Non possibile fornire a riguardo specifiche indicazioni bibliografiche data la vasta e significativa letteratura esistente. Per un quadro completo fino al 1972 si veda la bibliografia curata da Golini e Caselli (1973).

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5. Ulteriori avanzamenti nella macro-analisi Lintroduzione, la diffusione e il consolidamento dei metodi dellanalisi longitudinale costituiscono peraltro soltanto una parte degli enormi progressi compiuti dalla demografia negli anni sessanta e settanta, anche se ne rappresentano il capitolo di gran lunga pi significativo. Uscendo per un momento dalla logica dello schema inizialmente proposto ed evitando cos di spingerne troppo oltre la semplificazione, va segnalato infatti che sempre in questo arco di anni che si costruisce gran parte di quel vasto capitolo della demografia da considerarsi a rigore, e in via di principio, neutro rispetto alla contrapposizione trasversale- longitudinale riguardante i modelli di popolazione, che ha avuto delle importantissime ricadute sui metodi e sugli strumenti di analisi. In primo luogo la modellistica post-lotkiana (popolazioni malthusiane, stabili, quasi-stabili, instabili; Coale, 1957; Lopez, 1961; Bourgeois-Pichat, 1966; Le Bras, 1971; Coale, 1972; Pollard, 1973): la ripresa e lestensione dei fondamentali concetti che stanno alla base del modello di popolazione stabile di Lotka trae origine, sul piano teoretico, dallesigenza di denunciare sia lillusione della popolazione stazionaria (che aveva dominato gli anni trenta e quaranta e che alla base di molte cattive, se non errate, analisi18) sia quella della stazionariet dei fenomeni demografici e apre la strada allintroduzione di nuove categorie (ad esempio la nozione di potenziale di crescita, o di decrescita) e di nuovi princpi (quello di ergodicit debole, che regola le popolazioni instabili, contrapposto a quello di ergodicit forte, proprio delle classiche popolazioni stabili), allampliamento dei vecchi concetti (ad esempio quello di popolazione malthusiana, che assume connotazioni specifiche allinterno di tre differenti famiglie H, G e F e delle connesse popolazioni quasi-malthusiane, quasi-stabili e semi-stabili), alla rivalutazione di concetti da tempo introdotti in differenti contesti (il valore riproduttivo di Fisher, ad esempio). Da un punto di vista pratico, a questa modellistica si fa riferimento per dare rigorose soluzioni ai complessi problemi di stima dei caratteri e dei parametri demografici fondamentali delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo e, pi in generale, delle popolazioni con rilevazioni demografiche carenti o parziali: sfruttando appropriatamente le relazioni del modello stabile una novit assoluta nel campo degli
18 Un esempio classico riguarda i meccanismi dellinvecchiamento della popolazione: prima delle analisi di Coale (1957), ragionando sul modello stazionario si tendeva generalmente ad attribuirne lorigine allallungamento della vita umana, essendo invece il declino della natalit il solo responsabile.

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studi storici Livi Bacci (1968) ricostruisce, ad esempio, la demografia della Spagna tra i secoli XVIII e XX; un gruppo di ricercatori dellUniversit di Princeton applica sistematicamente quegli schemi per studiare le popolazioni dellAfrica tropicale (Brass et al., 1968). i nuovi schemi teorici e lemergere dei gravi problemi demografici dei paesi in via di sviluppo favoriscono in seguito la messa a punto di una ricca strumentazione e di tecniche e metodi appropriati: si predispongono schemi-tipo (di mortalit, nuzialit, fecondit, popolazioni stabili; Coale e Demeny, 1966; Ledermann, 1969; Coale, 1971; Akers, 1965; Nazioni Unite, 1984) al riguardo vanno altres ricordati i contributi di Petrioli (1982) e di Petrioli e Berti (1979) , si amplia e si perfeziona il settore dei controlli di completezza delle informazioni e delle stime indirette dei parametri demografici fondamentali per popolazioni con statistiche carenti o insufficienti, sulla scia delle ricerche di W. Brass (1971; 1975); tutte tematiche caratterizzate da forti interconnessioni (per un quadro completo si veda Nazioni Unite, 1983) 19. Peraltro, gli apporti al metodo demografico di questo settore della ricerca appaiono in prospettiva ancora pi ricchi ed efficaci dopo che Preston e Coale (1982) hanno riformulato in forma generalizzata il modello di popolazione stabile la cui struttura non pi determinata da un tasso di incremento intrinseco r costante a tutte le et ma da tassi di incremento variabili a seconda dellet: questo sviluppo dello schema lotkiano, oltre ad avvicinare le situazioni reali alle condizioni del modello, rappresenta un progresso teoretico che va nello stesso senso del nuovo modo di concepire la popolazione proprio dellanalisi longitudinale: significa anche riaffermare che ogni generazione costitutiva dellaggregato ha una sua storia e che lanalisi di una struttura in cui semplicemente si accostano persone di et diverse quindi appartenenti a differenti generazioni per dedurne la descrizione o la proiezione di un fenomeno legato allavanzamento nelle et degli individui, pu condurre a degli errori. 6. Da macro- a micro-analisi Il raggiungimento di un alto grado di chiarezza metodologica, gi nel corso degli anni settanta, stimola la demografia a tentare una separazione dalla statistica ufficiale. La spinta a indirizzare la ricerca anche verso un accertamento autonomo degli eventi e dei caratteri demo19 importante rilevare il grande impulso che sempre in questi anni riceve la demografia matematica grazie soprattutto ai nuovi approcci formali che per gran parte della modellistica vengono suggeriti da Lesile (1948), Keyfitz (1968; 1977) e Rogers (1968).

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grafici pu essere attribuita schematizzando al massimo al bisogno di dare risposte appropriate a tre fondamentali esigenze. 1) Liniziale compromesso attraverso cui i demografi, come prima si ricordava, hanno adattato e talvolta forzato al nuovo contesto losservazione continua classica degli eventi, assicurata dalle registrazioni di stato civile, ha esaurito ben presto la sua potenzialit descrittiva, come facilmente si comprende. Il concetto di popolazione che sta alla base del meccanismo dinamico caratterizzante lapproccio longitudinale dellanalisi demografica la configura non tanto come un insieme di individui, quanto come un insieme di biografie, di vicende individuali che nel tempo ininterrottamente si formano, si accavallano, si estinguono. Poich la demografia non studia i comportamenti individuali ma quelli collettivi, si introduce in funzione di un particolare attributo qualitativo (che ha sempre una dimensione temporale) lunit di ordine superiore costituita dalla coorte, in cui si osservano simultaneamente tutte le biografie che hanno in comune quellattributo. Ma con laggregazione degli individui in coorti, si perde ovviamente la possibilit di cogliere unitariamente la sequenza delle diverse esperienze demografiche cos come si manifestano nelle singole biografie: nella coorte, pertanto, ogni categoria di eventi viene separata dalle altre e definisce un processo di popolazione. Ci che occorre, peraltro, mantenere anche allinterno dei singoli processi il carattere sequenziale della successione di tutte le esperienze demografiche che si risolvono negli eventi, insieme a quelle che ne condizionano lapparizione: ci, come ben si comprende, presuppone la possibilit di accostare luno allaltro gli eventi che riguardano una stessa persona: in altre parole ipotizza che esista una continuit dellosservazione a livello individuale e non com per le registrazioni di stato civile solo a livello di popolazione. Se non c continuit nellosservazione degli individui, diviene impossibile rilevare lultimo di una serie di eventi rinnovabili, ad esempio la maternit, il trasferimento di residenza, il mutamento di professione, che spesso di enorme importanza per lanalisi20. 2) Losservazione classica impone, salvo qualche rara eccezione, che alla misura dei fenomeni demografici si pervenga attraverso un opportuno accostamento delle informazioni provenienti dallo stato civile e quelle fornite dai censimenti. Lesperienza ha mostrato chiaramente che spesso molto difficile e talvolta impossibile ottenere attraverso operazioni di rilevazione separate numeratori e denominatori comparabili, soprattut20 Limportanza di stabilire let allapparizione dellultimo di una serie di eventi non rinnovabili nella biografia di una persona particolarmente evidente nel caso della prolificazione quando si passa da un regime di fecondit naturale a uno di fecondit controllata. Coeteris paribus labbassamento dellet alla nascita dellultimo figlio, come ha dimostrato chiaramente Henry (1956), una palese testimonianza dellassunzione di una strategia di controllo.

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to quando intervengono dei caratteri qualitativi: lesempio pi classico quello della professione che non viene mai dichiarata allo stesso modo dal censito, dal padre di un bambino, dal parente di un defunto. A ci si aggiunga limpossibilit di affrontare in maniera adeguata lanalisi di tutti quei fenomeni che si manifestano in coorti definite da attributi che il censimento non contempla (ad esempio la parit) o riferite a categorie di popolazione di cui non si riesce ad aggiornare nel tempo lentit per mancanza delle necessarie informazioni di movimento. 3) La struttura e levoluzione delle popolazioni umane e delle loro componenti sono risultanti di fenomeni complessi che devono impegnare losservazione e lanalisi di tutte le discipline comportamentali. Diviene sempre pi pressante, pertanto, lesigenza di allargare il campo di osservazione nello studio dei fenomeni della popolazione oltre i confini delle variabili risultato (nascite, matrimoni e cos via) anche a quelle di processo, inserendo dunque nellanalisi anche le variabili che per la loro natura influenzano direttamente il risultato, le cosiddette variabili intermedie (Davis e Blake, 1956), nonch quelle motivazionali e di contesto in una cornice di convergenze e intersezioni interdisciplinari sul piano sia metodologico sia contenutistico. 7. Dal macro- al macro-trasversale Non si fa fatica a comprendere che queste tre esigenze possono venire simultaneamente soddisfatte solamente attraverso unosservazione seguita, intendendo come tale nellaccezione autentica di Henry qualunque tipo di osservazione che garantisca nel tempo la continuit a livello individuale, indipendentemente dal fatto che essa provenga dal seguire il corso degli eventi man mano che si producono o piuttosto derivi da una ricostruzione a posteriori. Sono le istanze espresse al precedente punto 1) che costituiscono, dunque, il nodo centrale del problema almeno in una prima fase. Ovviamente la continuit a livello individuale potr essere ottenuta mediante procedure diverse: seguendo lindividuo a partire da una certa data, registrando tutti gli eventi che lo riguardano; interrogando a una certa data ogni soggetto sulla sua storia passata; combinando i due criteri, interrogando uno stesso individuo a intervalli regolari su quanto avvenuto nel lasso di tempo intercorso dalla precedente intervista. chiaro che il primo criterio richiede limpianto di un sistema nominativo di osservazione permanente che non appare gestibile se non

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da unistituzione pubblica; oltre a essere particolarmente complesso e tecnicamente oneroso, deve garantire il superamento degli spinosi problemi connessi alla segretezza e al rispetto della privacy dei cittadini. Peraltro esso non rappresenta unipotesi meramente teorica: gi alcuni paesi in Europa organizzano (o sono in grado di organizzare) la rilevazione dei fatti demografici (e non demografici) sfruttando un numero di codice individuale e nella provincia canadese della Columbia Britannica un sistema di questo tipo esiste da oltre trentanni (le piccole dimensioni numeriche della popolazione sembrano, coeteris paribus, rappresentare un requisito essenziale a questo riguardo). C piuttosto da rilevare la sua inadeguatezza a cogliere tutti gli eventi che si pu avere interesse a inserire in una biografia, in genere tutti i cambiamenti di status che non derivano da unesperienza demografica, se non attraverso accertamenti aggiuntivi periodici di tipo retrospettivo. Il secondo criterio rimanda alle indagini normalmente indicate come retrospettive. Come stato ricordato precedentemente, in margine allosservazione classica non sono stati rari i casi di inchieste esaustive di questo tipo condotte, in genere, in concomitanza dei censimenti sulla fecondit delle coniugate: tuttavia, fino al dopoguerra, in nessun caso quindi neppure nelle indagini inglesi insieme allet al matrimonio e al numero di figli nati nel matrimonio, mai stata chiesta la data di nascita dei figli, trascurando cos un elemento di importanza capitale per la ricostruzione delle biografie demografiche. In effetti, unindagine retrospettiva potr garantire unosservazione seguita soltanto se colloca con precisione nel tempo gli eventi rilevati. Ci non , tuttavia, ancora sufficiente allanalisi longitudinale nella prospettiva in cui ci siamo posti. Lanalisi longitudinale richiede, infatti, che venga raccolto un gran numero di dati su ciascuna persona; al limite essa richiede una biografia che sia il pi possibile completa. Non , dunque, pensabile per questo modo di osservare il ricorso a uninchiesta esaustiva che, in quanto tale, pu fornire una gamma di informazioni limitata e, di norma, pesantemente affetta da errori, essendo pressoch impossibile un controllo diretto delle risposte21. Lindagine campionaria senza peraltro escludere altri tipi di indagine parziale22 pertanto lo strumento idoneo alla ricostruzione retrospettiva delle biografie.
21 Sono a riguardo esemplari le vicende dellindagine italiana sulla fecondit della donna eseguita in occasione del censimento del 1961 e non a caso indipendentemente dalle ristrettezze di bilancio dellorgano rilevatore dal mondo della ricerca non pi affiorata la richiesta, che fu invece a quellepoca pressante, per nuove iniziative in quella direzione. 22 Ad esempio lindagine francese triple biographie condotta nel 1981 sullinsieme degli individui nati tra il 1911 e il 1935.

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Con il terzo criterio si definiscono, com evidente, le folkw-up surveys, in cui normalmente si identificano le indagini seguite e che in linea teorica prescindendo cio dalle difficolt di mantenere sotto osservazione il collettivo dellinchiesta e dai costi relativi sembra rappresentare la soluzione pi appropriata a soddisfare le esigenze dellanalisi longitudinale, per motivi facilmente riconoscibili. Il primo passo che i demografi compiono , ovviamente, quello di affidarsi alle indagini campionarie del primo tipo23: ma, come ricorda Bourgeois-Pichat (1987), gli inizi non sono incoraggianti. Realizzando inchieste ambiziose, in cui si stilano biografie quanto pi complete descrivendo la nascita, linfanzia, lentrata nella scuola, gli studi perseguiti, la scelta della professione, il matrimonio, larrivo dei figli, le loro malattie, la partenza dal focolare domestico, la morte del congiunto, la pensione, le migrazioni e cos via, i demografi riescono a organizzare una documentazione anche molto particolareggiata per poi accorgersi di non disporre di metodologie adatte ad analizzare tutti i dati raccolti. Per studiare longitudinalmente dei campioni, in particolare dei piccoli campioni, si debbono affrontare problemi statistici molto complessi. Se prima, nella fase macro, i demografi potevano svolgere analisi longitudinali disinteressandosi come si accennava allinizio ai problemi degli intervalli di fiducia, dei test di ipotesi e di altri criteri di valutazione perch operavano su popolazioni esaustive, dal momento in cui cominciano a lavorare su inchieste non possono pi ignorare i limiti dei campioni e non sanno procedere allanalisi dei dati raccolti accontentandosi il pi delle volte di analisi sommarie molto deludenti rispetto alle speranze accarezzate durante la fase di raccolta dei dati, dando limpressione di sforzi sproporzionati ai risultati. Devono cos aspettare che nuove tecnologie siano approntate dagli statistici. La storia della World Fertility Survey (WFS), la grande indagine trasversale con ricostruzione retrospettiva longitudinale delle gravidanze iniziata su scala mondiale nei primi anni settanta sotto la direzione di Sil. M. Kendall, cui ha partecipato anche un gruppo di ricerca italiano24, soprattutto la storia del progressivo inserimento nella ricer23 Occorre dire che i primi esempi di osservazione seguita si ritrovano in demografia storica: il metodo di ricostituzione delle famiglie introdotto da Henry (1956) si colloca, infatti, in questa prospettiva. Sebbene lo sfruttamento diretto delle fonti primarie, registri parrocchiali, e il conseguente accostamento nominativo degli eventi in essi registrati ai singoli individui sia stato, in certa misura, imposto dallassenza di informazioni statistiche ufficiali, lesperienza maturata in demografia storica ha avuto un ruolo non marginale nellevoluzione pi generale dei metodi della demografia. 24 .1l gruppo era formato da studiosi delle Universit di Firenze, Padova e Roma e diretto da De Sandre (1983, a cura di).

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ca demografica di tecniche e metodologie statistiche spesso gi introdotte e vagliate in altri contesti disciplinari ad esempio in biologia e in econometria la storia quindi di un grande e importante arricchimento nella strumentazione necessaria per lanalisi dei dati individuali. Senza entrare nel merito di tali acquisizioni (Coppi e Pinnelli, 1990) si devono, comunque, menzionare, sottolineandone limportanza pervasiva nella prospettiva dellanalisi longitudinale dei dati individuali, gli sviluppi che in ambito WFS ma il rilievo si estende in realt anche ai risultati di altre indagini vengono dati alla event-histoty analysis (Pullum, 1984; Keilman, 1985), nelle forme delle tavole di sopravvivenza, dei modelli markoviani e, soprattutto, dei modelli di sopravvivenza con variabili esplicative (hazard models). Peraltro, non da condividere lopinione di chi sostiene, sulla base dellesperienza WFS, che i pi importanti sviluppi del metodo demografico a partire dalla met degli anni settanta sono derivati, o almeno connessi, al passaggio da unit di analisi aggregate a unit di analisi individuali (Pullum, 1984; Hobcraft, 1984). I grandi progressi cui ha dato origine questo passaggio da macro- a micro-osservazione non riguardano, infatti, il metodo demografico quanto piuttosto la ricerca demografica, intesa come complesso di strumenti e tecniche, (alcune) acquisizioni sostantive e soprattutto come elaborazione di nuovi obiettivi e strategie conoscitivi e intensificazione di interazioni e integrazioni con altre discipline in una prospettiva che tende sempre di pi ad affermare il lato altruista della demografia. 8. Dal micro-trasversale al micro-longitudinale La fase micro-longitudinale se si prescinde dai risultati delle ricerche nominative condotte su popolazioni storiche si configura pi come una serie di aspirazioni che come un complesso di acquisizioni: se chiare acquisizioni esistono, esse sono tutte in negativo e riguardano linsufficienza di quanto finora si fatto o si tentato per comprendere la realt demografica. In effetti, si pu a buon diritto dubitare che nellapproccio macro la demografia sia ormai in grado di superare il livello descrittivo o quello della misura, indipendentemente dalla significativit e dallutilit dei metodi o dei modelli elaborati. Tutti i demografi ne sono ormai convinti e due tra i pi importanti risultati raggiunti dalla macro-analisi negli ultimi anni costituiscono comunque un buon esempio. Lestensione delle relazioni di una popolazione stabile a tutte le popolazioni proposta

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da Preston e Coale (1982) rappresenta, come gi detto in precedenza, uno dei progressi teoretici pi stimolanti e potenzialmente pi utili nel campo delle stime demografiche: il fatto di poter ritrovare in una popolazione concreta (quindi non stabile), la cui struttura dipenda dalle cumulate dei tassi di accrescimento specifici per et, relazioni analoghe a quelle che caratterizzano una stabile con tasso di accrescimento costante, ha consentito a Coale e ad altri di ottenere importanti risultati in vari campi (si veda, ad esempio, Coale e Caselli, 1990). Analogamente, tutta la modellistica nota come demografia multidimensionale , sviluppatasi allinterno dellintemational Institute for Applied Systems Analysis (Iiasa) soprattutto a opera di Rogers (1975) e in particolare quella relativa allanalisi degli stagng processes (Willekens, 1988) , pur nei limiti delle ipotesi markoviane, ha certamente rilevanti potenzialit analitiche e applicative (previsioni demografiche); ma nellun caso e nellaltro non si va al di l dellambito della descrizione e della misura. Per contro, se la demografia vuol consolidare la sua autonomia scientifica si affermava alcuni anni fa nel convegno in omaggio a N. Federici deve in qualche modo uscire dallambito descrittivo e impostare la sua metodologia verso contesti e processi causali (De Sandre e Santini, 1987). Dal canto suo, lapproccio micro-trasversale non ha risposto alle attese sia per luso unidirezionale della metodologia (Coppi e Pinnelli, 1990), sia per la povert dello schema generale di riferimento adottato nel caso della WFS, ad esempio, questo si articolava su una serie di variabili socioeconomiche esplicative, sulle variabili intermedie del modello di Bongaarts (1978) e su alcune variabili decisionali sia soprattutto perch attraverso le indagini trasversali non stato possibile ricostruire la processualit dei meccanismi che determinano il comportamento demografico. Ormai va prevalendo lidea che ogni variabile demografica, si riferisca a un singolo evento in un dato istante o sia la cumulata totale o parziale di una serie di eventi, la conseguenza di percorsi comportamentali e, nel caso di eventi che implichino una scelta, decisionali in contesti condizionati (Robinson e Harbison, 1980). In questo senso, ad esempio, la nascita di un bambino va vista secondo uno schema molto plausibile (De Sandre, 1986) come il risultato demografico di un processo decisionale condizionato (preferenze circa i figli in totale e residui e sui modi di regolare le nascite, bilancio costi-benefici e cos via) che a) si forma in funzione delle caratteristiche bio-demografiche dei partner e di una serie di fattori di contesto (ambiente; norme e preferenze, risorse e opportunit connesse con il sistema socio economico, i gruppi, la famiglia; la struttura demografica della popolazione) attraverso la me-

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diazione della percezione soggettiva di tali influenze e gli incentivi/disincentivi fattuali che ne possono modificare gli effetti e b) agisce attraverso le variabili intermedie (fecondabilit, esposizione e frequenza ai rapporti genitali, copertura anticoncezionale e cos via). Il caso della morte va, ovviamente, impostato in termini diversi: la morte un evento inevitabile che non ha una dimensione quantitativa (si verifica o non si verifica) ma solo una dimensione temporale (si verifica prima o dopo nellarco dellesistenza). Fatta questa necessaria premessa, anche il decesso va peraltro visto come il risultato, lultimo atto, di una storia di vita durante la quale lindividuo con il suo patrimonio biogenetico passa attraverso situazioni (ambienti) ed esperienze di varia natura che progressivamente lo portano a subire prima la malattia (o lincidente) e quindi la morte (Santini, 1984). Di conseguenza, unipotesi di lavoro sensata potrebbe essere quella di considerare let alla morte legata alla specificit di tali situazioni ed esperienze, allordine con cui compaiono nella storia personale e dal tempo trascorso in ognuna di esse da ciascun soggetto (Caselli et al., 1990). E superfluo sottolineare che strategie di ricerca coerenti con questi schemi concettuali richiedono la soluzione di molti e difficili problemi connessi con: a) lindividuazione delle variabili, in termini di ricostruzione degli eventi che formano una carriera e di determinanti, e la necessit di collocarle esattamente nel tempo, sempre che ci sia possibile; b) lesigenza di tener conto, oltre che dei fattori individuali, anche dei fattori di contesto; c) la disponibilit di una strumentazione statistica in tal senso appropriata; d) lintegrazione, indispensabile, dellanalisi demografica e della strumentazione statistica con le acquisizioni maturate in ambiti disciplinari differenti. Si tratta dunque di problemi relativi al modello teorico, al modello statistico, alla ricostruzione delle biografie. Dati gli enormi progressi fatti dalla statistica nella predisposizione di modelli appropriati danalisi di dati longitudinali individuali, e visto che alcune ipotesi teoriche, seppur parziali, gi esistono, si pu a buon diritto ritenere che gli ostacoli maggiori da superare siano ancora quelli relativi allosservazione. A questo riguardo vale quanto stato detto in generale nel precedente paragrafo: non conviene entrare ora nel merito delle caratteristiche tecniche e delle difficolt pratiche relative ai due tipi di approccio che sono pi praticabili, cio lindagine retrospettiva e lindagine prospettiva; baster sottolineare che la scelta in merito ve-

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de gli specialisti relativamente divisi e che quando si debbano rilevare solo variabili oggettive molti elementi farebbero propendere verso linchiesta retrospettiva (Courgeau e Lelivre, 1989). Per lanalisi della mortalit la questione presenta, peraltro, caratteristiche in parte diverse. Se, com ovvio, per questo processo non si pu pensare a unosservazione retrospettiva, anche quella prospettiva presenta problemi non indifferenti: o si conduce il follow-up per durate irragionevolmente lunghe o si integra la biografia troncata a sinistra con una massiccia indagine retrospettiva25; per lo studio della mortalit probabilmente non si potranno mai trovare soluzioni pienamente soddisfacenti. Sono per possibili soluzioni di compromesso in grado di portare comunque a risultati pi significativi di quelli consentiti dallosservazione classica. In primo luogo laccoppiamento attraverso un linkage nominativo delle osservazioni dello stato civile con i caratteri individuali rilevati ai censimenti: quanto gi da tempo fanno i paesi scandinavi. Per citare solo un caso, il record linkage della Norvegia che un gruppo di ricerca italobelga sta studiando da qualche anno (Caselli et al., 1989) attualmente copre larco venticinquennale 1961-85 e pu anche incorporare le informazioni proveniente dal registro dei tumori. Concepiti e introdotti per rimediare agli inconvenienti, che prima si ricordavano, derivanti dalla combinazione di dati provenienti da fonti di natura diversa, i record linkages possono utilmente essere sfruttati per definire non intere traiettorie di vita ma alcune non marginali carriere al loro interno (quella professionale, ad esempio, o quella scolastica) e costruire fife histories come una successione di stati ciascuno definito dallassociazione delle modalit assunte dalle caratteristiche e dalle carriere nei quali un soggetto transita o rimane per periodi pi o meno lunghi di tempo. Una seconda possibilit, di gran lunga preferibile, quella di dar vita a un sistema di registrazioni correnti e seguite su un gruppo limitato di soggetti: in sostanza realizzare non per lintera popolazione, ma per un suo campione, unosservazione corrispondente al primo dei tre criteri prefigurati nel precedente paragrafo. Il sistema che da tempo in uso in Gran Bretagna e che ha consentito allOpcs e ai suoi ricercatori di raggiungere importanti risultati nelle analisi di mortalit differenziale in grado di tener conto nelle storie individuali solo degli eventi accertabili nellambito delle attivit dei servizi ufficiali di statistica (Opcs, 1978). Particolare considerazione merita lutilizzazione delle storie individuali nello studio della mobilit spaziale, uno dei capitoli della demo25Non a caso le poche indagini follow-up condotte finora negli Stati Uniti in tema di mortalit riguardano solo individui appartenenti a particolari fasce di et.

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grafia a un tempo pi complessi e pi oscuri: al di l del fatto che nessuno dei mezzi di rilevazione utilizzati dallosservazione classica in grado di fornire precise e complete misurazioni degli spostamenti della popolazione sul territorio, che spesso impossibile distinguere tra migrazioni e migranti e che, in ogni caso, i dati o le valutazioni ottenute sono sempre al netto di altri eventi demografici concorrenti, lobiettivo conoscitivo cui deve tendere lanalisi, pi che la misura del semplice fenomeno migratorio, quello delle interrelazioni tra migrazione e altri fenomeni demografici e sociali. La ricostruzione di storie di vita attraverso indagini retrospettive, a passaggio unico o, meglio, a passaggi ripetuti ma anche attraverso un panel destinata in questo senso a risolvere sia i problemi descrittivi, con la raccolta completa e continua nel senso prima precisato di informazioni dello stesso tipo di quelle fornite dai censimenti e dallanagrafe, sia problemi esplicativi: conoscendo un certo numero di caratteristiche individuali prima e dopo la migrazione questa potr essere utilizzata alternativamente come variabile indipendente al fine di ricercarne gli effetti sullevoluzione della popolazione studiata o come variabile dipendente da porre in relazione al mutare di quelle caratteristiche. Questi obbiettivi sono di grande rilevanza conoscitiva: da una parte leffetto delle migrazioni sui comportamenti demografici, economici e sociali di una popolazione; dallaltra il ruolo giocato dagli eventi demografici, economici e sociali che modificano la struttura di una popolazione e simultaneamente influiscono sulla sua mobilit spaziale. Linchiesta triple biographie dellIned (Courgeau, 1988) un esempio estremamente significativo delle potenzialit conoscitive, pur scontando numerose e rilevanti difficolt logiche e metodologiche, di questo tipo di approccio26. 9. Le biografie a confronto Le implicazioni per gli sviluppi del metodo demografico derivanti dallanalisi delle biografie individuali vanno al di l delle problematiche prima discusse: esse toccano i fondamenti stessi dellanalisi demografica e in
26 Nei censimenti demografici, pi frequentemente a partire da quelli degli anni settanta, vengono un po dovunque inserite alcune domande di tipo retrospettivo sui mutamenti di residenza. Data la natura delle rilevazioni censuarie tali domande sono forzatamente limitate nel numero e nelle specificit delle informazioni richieste; possono quindi fornire degli elementi di conoscenza molto ridotti. Vi inoltre una diffusa tendenza da parte delle popolazioni a rifiutare il censimento come mezzo per accertare caratteristiche e fatti ritenuti appartenere esclusivamente alla sfera privata degli individui: non sono stati pochi i casi in Europa di manifestazioni pubbliche contro il carattere inquisitorio dei censimenti.

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questa prospettiva apparentemente meno ambiziosa poich si caratterizza per obiettivi essenzialmente descrittivi possono assumere grande rilevanza. In una tavola rotonda sul tema della ricerca in demografia organizzata in occasione della Chaire Qutelet 1984 (Loriaux, 1984) qualcuno pose la domanda: lanalyse dmographique au sens strict nest pas en train de sessoufler? In effetti la domanda, pur provocatoria, non era irragionevole: dopo un ventennio di importanti acquisizioni conoscitive e in virt della consapevolezza faticosamente raggiunta sulla complessit dei meccanismi e delle determinanti dei processi demografici si pu essere di fatto ancora convinti delladeguatezza dellanalisi demografica a fornire una buona e sufficiente descrizione delle manifestazioni dei processi stessi? Specificatamente a provocare queste incertezze sono due punti cardine dellanalisi classica: il presupposto di omogeneit della coorte e la necessit di ricercare misure pure dei fenomeni. Come si diceva allinizio, una popolazione pu essere pensata come un complesso di biografie e ognuno degli eventi demografici che in essa si manifestano come una particolare esperienza tra le tante, demografiche e non demografiche, che in sequenza caratterizzano unesperienza biografica. A livello macro, quando cio si utilizzano dati aggregati, lunit di analisi diventa necessariamente la singola esperienza demografica (la morte, la nascita, il matrimonio) e la biografia scompare nella sua interezza per ridursi a due (o tre) momenti significativi: quello in cui si manifesta levento studiato, quello del suo evento-origine e/o quello che segna lorigine della biografia. Questi ultimi due momenti (o almeno uno di essi) servono allanalisi classica per definire la macro unit di studio costituita dalla coorte. Tutto ci implica: che la coorte sia omogenea rispetto al rischio di subire levento studiato: solo in questo caso, infatti, la storia statistica della coorte la stessa storia statistica degli individui che la compongono. Si sa bene, tuttavia, che questa omogeneit unastrazione, una condizione che non si pu raggiungere neppure tenendo conto di tutte le differenzialit eventualmente conosciute. Per ridurre leterogeneit di una coorte potremmo, infatti, suddividerla in tante sub-coorti ciascuna definita da un differente attributo differenziale. Questo attributo rimarrebbe, peraltro, come carattere immodificabile della sub-coorte per tutto il tempo in cui gli eventi studiati si manifestano; verrebbe cos garantita soltanto unomogeneit allorigine, ma non si terrebbe conto delleterogeneit che si produce in funzione di esperienze diverse vissute nel corso del tempo;

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che ogni fenomeno venga isolato dagli altri, che sia cio misurato allo stato puro eliminando linfluenza dei fenomeni concorrenti. Tutto ci perfettamente legittimo quando il fenomeno perturbatore la mortalit che cancella ogni informazione su quello che avrebbe potuto essere il comportamento degli individui se fossero sopravvissuti. Si pu e si deve porre, in questo caso, lipotesi di indipendenza tra mortalit e fenomeno studiato. Per gli altri fenomeni perturbatori questa ipotesi, necessaria nellanalisi classica, implica una limitazione delle conoscenze: quei fenomeni agiscono, infatti, sul comportamento demografico; tra essi e il fenomeno studiato pu esistere uninterazione e pu essere estremamente importante capirla e misurarla. Courgeau e Lelivre (1989) dimostrano, sulla base dellesperienza dellinchiesta triple biographie prima ricordata e mediante una rigorosa formalizzazione e generalizzazione dei metodi in essa impiegati, che lanalisi delle biografie individuali ricostruite nella loro complessit e completezza secondo i criteri precedentemente indicati consente di superare ambedue i problemi. Considerandola, infatti, come un processo stocastico complesso, ciascuna biografia individuale pu essere adottata come unit di analisi in luogo dei singoli eventi. Ed facile intuire, anche per quanto si esposto in precedenza, che lanalisi delle biografie cos intesa non rappresenta solo un mezzo per cercare delle risposte a interrogativi rimasti finora aperti ma conduce a riformulare le basi della stessa analisi demografica. 10. Conclusioni Favorita dalla ricordata dipendenza dalla statistica ufficiale, ma soprattutto dalla cosiddetta tirannia del quantificabile e dal fatto che tra le funzioni ad essa assegnate vi quella di dar conto dei mutamenti quantitativi dellaggregato prodotti dal ricambio generazionale in termini di componenti naturali e migratorie, la demografia da sempre si mossa su un piano essenzialmente descrittivo. Con gli sviluppi di nuovi metodi di analisi e di ricerca sorretti da una pi rigorosa definizione dei meccanismi di manifestazione dei processi di popolazione, che hanno spinto sia verso la raccolta di dati a livello individuale e non solo aggregato, sia verso una sistematica integrazione, al di l delle variabili tradizionali (demografiche), dei fattori interagenti nei processi di popolazione, non si soltanto risposto allesigenza di capovolgere unottica passiva nei confronti dellosservazione e della descrizione del reale, che

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per troppo tempo aveva limitato la ricerca demografica semplicemente a elaborare tabelle di dati censuari e di stato civile gi confezionati, fornendo cos la cornice logica e tecnica per la raccolta, il controllo, la gestione, lanalisi dei dati utili allo studioso. Si sono piuttosto compiuti i primi passi verso lobiettivo, pi volte qui indicato, del superamento dellambito descrittivo e della misura, in cui tradizionalmente veniva circoscritto il compito del demografo, in favore di unimpostazione metodologica pi chiaramente e rigorosamente orientata in direzione di contesti e processi causali. Dunque, il progresso metodologico le pi recenti tendenze degli studi in tema di popolazioni umane lo indicano chiaramente strettamente connesso, se non dipendente e contestuale, allarricchimento di aspetti contenutistici e allacquisizione di conoscenze proprie delle altre scienze delluomo con conseguenti indispensabili riferimenti sia a schemi concettuali integrati (cio coerenti con approcci interdisciplinari consistenti) sia a teorie entro cui collocare le ipotesi di ricerca. Nel riconoscere in questo orientamento di ricerca decisive potenzialit verso la conoscenza del reale e nellassegnargli quindi, nonostante le enormi difficolt di interazione, un carattere di priorit per il futuro della demografia, non si intende fare tabula rasa con la vecchia tradizione: c infatti spazio per ulteriori contributi descrittivi ad esempio, sfruttando ancora losservazione classica, per tracciare nel tempo profili delle caratteristiche e dei comportamenti generazionali e modellistici, relativi sia alle componenti, sia ai processi tendenziali, sia a simulazioni su interazioni componenti-strutture e cos via, in termini pi strettamente demografici. In tal senso evidente che la maturazione della riflessione e dellelaborazione metodologica in demografia ben lungi dallessersi conclusa e impone un impegno prioritario della comunit degli studiosi della disciplina. Pur nella consapevolezza che la disponibilit di un ricco e aggiornato bagaglio strumentale non consente da solo di arrivare a capire lorigine dei fenomeni demografici n a offrire persuasive e complete linee interpretative, si deve infatti essere ben consapevoli che nella fase attuale e nelle prospettive della ricerca sempre di pi il metodo adeguato diventa una componente interna al processo di conoscenza demografica..

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Capitolo quinto Demografia e storia Carlo A. Corsini

1. I significati 1.1. Demografia e storia Stando al suo contenuto semantico, per demografia sintende comunemente lo studio della popolazione; in termini pi generali e in unaccezione pi completa, demografia la scienza della popolazione. Ma ogni definizione come un vestito: funzione del corpo che racchiude (bench, proverbialmente, labito non faccia il monaco). Nel caso specifico della demografia la metafora rende bene il senso che essa sottende. In quanto scienza sociale o, in generale, del sociale la demografia si riferisce a una popolazione, a un insieme di persone che vivono o che hanno vissuto o che, poste certe condizioni, vivranno in un certo futuro. Si tratta dunque di individui che sono collocati nel tempo. Un tempo che non necessariamente loggi, perch la demografia non ha per oggetto di studio soltanto le popolazioni contemporanee; non indaga soltanto gli eventi che condizionano oggi una qualunque popolazione le nascite, i decessi, le migrazioni, i matrimoni e allo stesso modo non ne analizza le caratteristiche strutturali cos come oggi si presentano allocchio dello studioso, fissate a un momento preciso (come avviene con il censimento). Questo tempo pu ben essere il domani, proprio perch, come ogni scienza costruita sul sociale e per padroneggiarne la conoscenza, anche la demografia tende il suo sguardo al futuro, cercando di prevedere quali saranno gli scenari che saranno raggiunti in anni a venire. In questottica del futuribile si possono collocare tutti gli ormai noti precursori della demografia (in quanto scienza pienamente autonoma), Graunt e Petty, Keerseboom e Siissmilch, Derham e Halley, Wargentin e i due Huygens, Townsend e Cantillon, Condorcet e Godwin, Malthus e Darwin ( chiaro che lelenco non esaustivo; recenti trattazioni, molto originali e interessanti, si trovano in La Vergata, 1990, e Micheli, 1991). Pur partendo dalla percezione del loro presente, tutti cercarono la sta-

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bilit negli eventi umani, qualunque forma questi eventi potessero assumere. Tutti mirarono alla ricerca dellinvariabile nella variabilit del mondo: un invariabile la cui conoscenza permettesse di prevedere il futuro, di regolare gli eventi umani, quale che fosse, in ultima fase, lEnte sovrano dominante sulle sorti dellumanit. La ricerca del prevedibile dunque parte (direi) ineliminabile dello studio del presente. evidente che questa ricerca pone le sue radici nel passato, inteso come dimensione di eventi vissuti. Un passato che segna con evidenza la storia;di ciascun essere umano, condizionandolo passo dopo passo. Un passato che non coinvolge per direttamente ciascun essere vivente in quanto tale, immediatamente, ma cumulativamente: sul destino del figlio non intervengono geneticamente soltanto i destini dei due genitori, ma anche quelli dei nonni, dei bisnonni e cos via allindietro, generazione per generazione. E appunto in questottica che lo studio dei fenomeni umani della popolazione, per intendersi, cos come lo pone la demografia si intreccia fortemente con lo studio dei fenomeni naturali, ancora una volta alla ricerca della componente costante degli eventi umani, tanto quanto si lega strettamente allindagine sul futuro. Anche a questo riguardo comune, direi, la posizione di molti dei precursori ora richiamati con quella di altri studiosi che vennero dopo: ancora da Malthus e Darwin, a Spencer e Wallace, da Bertillon e Qutelet a Westergaard e Lotka. la durata, dunque, che tiene un posto determinante nella storia della popolazione ed questa storia che bene padroneggiare per meglio conoscere il presente, per analizzare pi compiutamente la popolazione cos come si presenta oggi allosservazione dello studioso nelle sue caratteristiche attuali, in tutto lintreccio delle sue determinanti. In questo quadro lo strumento per eccellenza di questa ricerca, la statistica, che allanalisi demografica fornisce appunto linsieme di norme che ne regolano lattuazione, non solo un insieme di tecniche, un corpo di osservazioni; diagnostica ed ermeneutica allo stesso tempo. Diventa una scienza alla quale, con laiuto del calcolo delle probabilit, si vuol assegnare il ruolo di esorcista della conoscenza. Per quanto concerne la demografia, la durata ha pertanto un significato ben preciso: coinvolge direttamente ed esplicitamente lo studioso dei fatti umani perch costituisce il riferimento necessario, il senso immanente, dogni indagine sulla popolazione. Non si riferisce soltanto al modo con cui taluni fatti (nascite, decessi, matrimoni, migrazioni, strutture) si dispongono nel tempo (lungo lanno di calendario 1994, oppure nellintervallo 1764-69, oppure alla mezzanotte del 31 dicembre 1981, tanto per fare qualche esempio), perch questa la loro condizione des-

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sere, il loro farsi sostanza misurabile; ma si riferisce anche al modo con cui quei fatti vengono osservati, diventano cio oggetto di studio. E questo che rende ineliminabile la comunanza fra demografia e storia. Sia nella ricerca demografica, sia nella ricerca storica, il tempo inteso come storia umana si presenta allosservazione in tre distinti aspetti, in tre dimensioni (si veda Saraceno, 1986, per un approccio pi sociologico); ma si tratta comunque di definizioni, quindi soggettive, disposte solo per comodit di suddivisione, perch sostanzialmente, di fatto, non esiste alcuna differenziazione il tempo unico, che lo si intenda: come tempo vissuto, misurato dallet biologica, che fa riferimento alla durata di vita del singolo individuo, dalla nascita alla morte: ogni evento spezza la linearit di questo periodo in tante fasi o cicli, ciascuno dei quali ha ovviamente connotazioni diverse rispetto agli altri: il matrimonio o la migrazione, ad esempio, chiudono una fase di vita e ne aprono unaltra ben diversa; come tempo storico, che colloca ogni individuo in termini di appartenenza a una determinata generazione o coorte; il tempo storico allora la lente con la quale si legge la storia vissuta in funzione degli eventi che la costellano e che la caratterizzano di un insieme di individui: coloro, appunto, che costituiscono una generazione (i nati nellanno 1810) o una coorte (tutti coloro che si sono sposati nel corso del 1932, ad esempio); come tempo sociale: in unottica, cio, molto pi vasta, in cui lindividuo di per s scompare come specifico e singolo oggetto di studio e cede il posto a una popolazione, comunque essa possa esser definita o delimitata, cio a un collettivo pi aggregato nel quale le caratteristiche possedute da ciascun individuo assumono rilevanza in quanto riferibili allinsieme di tutte le caratteristiche possedute da tutti gli individui che costituiscono il gruppo, la popolazione, luniverso: proprio il gruppo, la popolazione e luniverso comunque definibili costituiscono loggetto specifico della ricerca in demografia. Sia il tempo sociale, sia quello storico ripeto che si tratta di definizioni di comodo colgono lindividuo in seno a un gruppo pi o meno vasto; ma mentre nellottica del tempo storico lindividuo osservato, ancora in funzione dellet biologica, come componente di un dato sottosistema demografico, o sotto-popolazione, avente caratteristiche differenziali o selettive (tutti coloro che si sono sposati in un anno di calendario, qualunque sia la loro et al matrimonio, sono seguiti, ad esempio, per misurarne la fecondit in base al numero di figli generati nel

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corso della convivenza matrimoniale; i nati in un anno di calendario, ad esempio, sono seguiti per misurarne la nuzialit, cio per studiare le modalit con cui accedono al matrimonio e cos via), nellottica del tempo sociale lindividuo considerato come appartenente a una popolazione formata da altri individui che non sono selezionati o scelti come oggetto di studio in funzione delle caratteristiche biologiche comuni di et (qualora presenti, le caratteristiche comuni sono ininfluenti per la definizione delloggetto di studio). Dal punto di vista della dimensione del tempo sociale, dunque, loggetto di studio pu essere unintera popolazione, quella di una nazione o di un gruppo religioso, di unetnia, o una qualunque sotto-popolazione, entit che sono definite in base a criteri di rilevanza soprattutto sociale, com la famiglia, ad esempio. In questa terza dimensione il criterio di appartenenza quindi indipendente dallet (cronologica o biologica) dei singoli componenti, nel senso che tutti coloro che fanno parte della sotto-popolazione vengono presi in esame. quasi banale rilevare che unulteriore, ma non diversa, prospettiva spostando i termini di riferimento potrebbe essere assunta collocando loggetto di studio (lindividuo, la coorte, il gruppo) nel tempo cronologico: ecco allora la tripartizione braudeliana del tempo individuale, del tempo congiunturale e della lunga durata1. Gli eventi possono dunque essere studiati come fa il cardiologo con le pulsazioni cardiache: analizza la disposizione dei singoli battiti per coglierne le aritmie, oppure legge per esteso il cardiogramma per individuarne le fasi dei processi fisiologici e per metterne in evidenza i fenomeni di fondo, quelli inerziali. Ciascuna delle tre dimensioni temporali degli eventi sopra riferite corrisponde evidentemente a una direzione di ricerca che ha connotazioni specifiche differenziali, perch tutte richiedono materiali di studio e metodi danalisi diversificati, ma tutte appartengono al territorio di studio sia della demografia sia della storia. Luna e laltra spaziano dal singolo individuo allintera popolazione. Perch allora esse seguitano a mantenere confini separati, paradigmi diversi? La risposta appare ovvia: il corpo s lo stesso ma diverso il vestito; e il vestito appunto fornito dai metodi di osservazione che informano di s lindagine che luna e laltra hanno come scopo luomo e la sua storia oltre che, beninteso, dalle ipotesi che sottostanno alla ricerca e dagli scopi finali di questa.
1 Molto stato scritto sulle ripartizione della durata, dallapparire degli scritti di Braudel sullargomento (1949; 1958). Si deve a Braudel lelaborazione del concetto di lunga durata e di aver messo in evidenza linterazione fra una storia quasi inerziale, formata da strutture, i suoi cicli o congiunture e gli eventi individuali.

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Questa centralit delluomo fornisce piena giustificazione dei recenti sviluppi della demografia in altri campi, si potrebbe dire dellirruzione della demografia sul territorio di altre scienze e se si vuole, da un punto di vista opposto della cattura degli interessi e dei metodi di indagine specifici della demografia da parte di altre scienze (altre anche rispetto alla storia) come lantropologia, letnografia, leconomia, la sociologia e la genetica, per fare qualche riferimento. Si tratta soprattutto di una crescente comunanza di interessi che vede scomparire progressivamente quella rigidit di orizzonti tematici che ha finora cristallizzato i rapporti fra le diverse scienze che si occupano delluomo. E proprio la nuova percezione della storicit delle vicende umane, nella loro complessit e nella loro interazione, che ha reso pi facile, per cos dire, Io smantellamento di posizioni disciplinari arroccate. Fare storia cercare messaggi e significati occultati sotto la superficie grezza dei fatti umani; investigarli per averne spiegazione. E si tratta di fatti vivi, o che comunque corrispondono a persone che sono state vive, non semplici invenzioni della fantasia, senza corpo. 1.2. Il posto della demografia storica Demografia e storia sono allo stesso modo scienze dosservazione e quindi scienze del concreto: ma le loro ipotesi di lavoro devono comunque essere verificate e controllate con i fatti. Di per s lottica demografica si oppone alla ristrettezza di una storia meramente vnementielle proprio perch porta il ricercatore a considerare le popolazioni, le societ, nelle loro strutture e nei loro modi dessere attraverso i fenomeni, gli eventi oggetto dindagine: appunto le nascite, i decessi, i matrimoni, le migrazioni, che come si detto costellano la vita individuale e la vita collettiva a diversi livelli dimportanza in termini dipotesi di ricerca, ovviamente e a diverse dimensioni temporali. Il senso della storia, il senso del cambiamento strumento dinterpretazione di fondamentale importanza ed la percezione di questo senso che d labitudine allosservazione diacronica e alla spiegazione attraverso la successione degli eventi. I fatti delle societ del passato possono essere ritrovati a beneficio della comprensione del presente mediante i procedimenti e i materiali propri della storia: documenti scritti dogni natura, vestigia archeologiche, tradizioni orali e cosi via. In questo consiste il posto che la demografia storica si costruita allinterno della demografia. E ben vero che ogni scienza e ogni disciplina non vive di per s in un ambiente sterilizzato: ciascuna tributaria delle altre e, in particolare per quanto concerne la demografia e le altre

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scienze sociali (economia, sociologia, antropologia e cos via), nessuna pu sfuggire a questa interdipendenza. Ci che appare pi interessante e per certi versi pi importante che neppure le scienze della natura sfuggono a questa reciprocit: come avviene per la genetica e per la biologia, ad esempio, verso le cui tematiche la demografia ha sempre mostrato attrazione (si ripensi, a grandi linee, allevoluzione della demografia come disciplina, come si pu leggere nel capitolo secondo di questo stesso volume) e anzi una crescente attenzione, a fronte della quale, da parte di queste scienze, si segnala un crescente interesse per le metodiche dintrospezione caratteristiche della demografia. Tutte vedono allargarsi il campo dindagine, crescere i problemi e le implicazioni dei metodi dinvestigazione. Come daltra parte tramite la genetica di popolazione che pu essere realizzata lunione tra la demografia e le altre scienze delluomo, cos tramite la demografia storica che pu essere realizzata lunione tra la demografia e la storia tout-court. Questo non significa che il singolo studioso dei fatti umani quale che sia la profondit della ricerca che lo coinvolge debba necessariamente e sempre pi comprendere questi fatti al loro massimo: non infatti immaginabile la polivalenza della conoscenza, nel senso che non si pu pensare a un singolo studioso (dei fatti umani, in particolare) che sia capace di dominare la conoscenza delloggetto di studio in tutta la sua estensione, che sia cio in grado di analizzare e interpretare nella loro complessit e nella loro compiutezza tutti i fattori che operano su un determinato fenomeno demografico. Tuttavia si pu ben legittimare una polivalenza di interessi nella ricerca. Anche se, dobbiamo ammetterlo, sul piano dellepistemologia resta aperto il dibattito a proposito della definizione e delle reciproche posizioni di ciascuna scienza, pur vero che sempre pi, in ogni ricerca sul sociale, si fa strada e si rafforza la convinzione della interdisciplinariet o come altri potrebbero definirla della multidisciplinariet di approcci. Tale convinzione tanto pi convincente nel campo delle ricerche che coinvolgono la demografia, lantropologia, la sociologia, leconomia e dunque, a diverso titolo, la storia. In questo quadro si colloca dunque in modo peculiare il ruolo o, meglio, la presenza della demografia storica che proprio perch settore (anche se questo termine non del tutto soddisfacente) della demografia tout-court rappresenta larea disciplinare che meglio si qualifica come strumento di passaggio tra scienze diverse: larea disciplinare che con maggior facilit riesce a veicolare istanze di ricerca che (epistemologicamente) appartengono a scienze differenziate. Si potrebbe dire che

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la demografia storica la terra di confine le cui frontiere hanno le difese pi fragili. Si guardi al contenuto della disciplina. Anche per effetto della rapida presa di potere della demografia e della sua conquista di autonomia nel campo delle scienze delluomo, una rapida evoluzione si prodotta in termini di corposit, o di dimensione, della stessa demografia storica, soprattutto per quanto concerne la distinzione il chiarimento, si potrebbe dire fra storia della popolazione, o storia demografica, e demografia storica. La distinzione pu apparire banale o meramente didattica, ma non del tutto cos. La demografia storica , sinteticamente, lo studio dei fatti umani deI passato: locchio indagatore del demografo sposta la sua attenzione dai fatti immediatamente percepibili del contemporaneo a quelli non pi visibili del passato, utilizzando bens le stesse metodiche dinvestigazione. il procedimento di base lo stesso: si tratta di una traslazione nel tempo di ipotesi da verificare, di problemi da risolvere. Loggetto lo stesso: una realt umana da ricostruire nellarticolazione delle sue componenti. Si tratta comunque di unindagine accorta di problemi e di fenomeni demografici in un contesto specifico, ma, questa volta, collocati allindietro nel tempo. La demografia storica pertiene comunque al gremio della demografia e possiede tutte le certezze (i metodi dindagine e di misura) e tutte le incertezze (i problemi da indagare) di questultima: analizza gli stessi fenomeni, ancorch colti nel passato. Anche la storia demografica la ricostruzione del passato di una popolazione mediante gli stessi elementi (serie di nascite, decessi, matrimoni, strutture e cos via), ma tali dati sono utilizzati in via del tutto strumentale: ci si avvale dei dati di popolazione con finalit semplicemente descrittive perch loggetto di studio tuttaltro che la popolazione considerata in demografia. Si tratta cio di indagini storiche nelle quali i dati di popolazione sono sfruttati come dati dappoggio, come dati esogeni, ausiliari di ricerche che hanno per oggetto altri argomenti, non come dati che hanno una specifica valenza di studio. Non si cercano le cause degli eventi storici (guerre, pestilenze e cos via) nei fatti demografici, n si cercano gli effetti degli eventi storici sui fenomeni demografici. Cos, ad esempio, storia demografica la ricerca dello storico della medicina sui dati di popolazione per studiare levoluzione di una data malattia, ma senza misurarne la specifica cadenza e la specifica intensit. La scomparsa (o la prima apparizione) di una nuova malattia non funzione soltanto del modo con cui essa viene rilevata statisticamente, per effetto di unaccresciuta conoscenza dovuta sia al perfezionamento degli strumenti tecnici di diagnosi, sia al successo del ricerca-

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tore nella caccia ai virus patogeni, n soltanto delle mutate condizioni igieniche, sanitarie e ambientali nelle quali vive la popolazione in oggetto; ma funzione anche del modo in cui questa stessa popolazione ha vissuto o sperimentato quella malattia nel passato (effetto di generazione, si potrebbe dire: se si tratta di una malattia immunizzante, come nel caso del vaiolo, normalmente solo le nuove generazioni ne saranno colpite) e del modo in cui, pi specificamente, questa popolazione sta vivendo o sperimentando la malattia, in funzione della sua mutevole o mutata composizione per et e sesso, per condizioni sociali ed economiche e cos via. Non vorrei risolvere sommariamente la dicotomia fra demografia storica e storia demografica con una banale trasformazione, assegnando rispettivamente alluna quello che nellaltra ha il ruolo di sostantivo. A mio avviso, la distinzione fra le due sta semplicemente nel fatto che chiunque pu fare storia demografica; solo il demografo accorto pu fare demografia storica. 2. I segni 2.1. Il quadro generale Si detto che levoluzione della demografia storica, almeno in questultimo scorcio di secolo, coincide con una sorta di specificazione dei contenuti e delle finalit della demografia: pi precisamente, si potrebbe dire che la demografia storica riflette le esigenze di specificazione (in termini di esigenze di dati e di misure, come vedremo fra poco) della demografia. Ebbene, la maggioranza delle ricerche, pur fondamentali, condotte fino agli anni cinquanta di questo secolo, a opera soprattutto di storici (e che pertanto appartengono, se vogliamo mantenere la distinzione sopra fatta, al campo della storia demografica), hanno avuto il merito indiscusso di sollecitare le ricerche sulla popolazione e di aprire la discussione, che sembrava sopita, sui problemi demografici e sulla loro rilevanza come esplicatori della storia. Si pensi allopera di Beloch (1888a; 1888b; 1889a; 1889b; 1908; 1909a; 1909b; 1909c; 1909d), che pure tanto ha apportato alla conoscenza della storia della popolazione dellItalia, in particolare, cosi come tanto ha operato con le sue pubblicazioni stimolando i ricercatori a frugare fra le carte sepolte negli archivi; certamente, a posteriori, i risultati allora conseguiti possono apparire di semplice contenuto. Ma ogni autore, ogni ricerca, si colloca in una fase specifica dellevoluzione della scienza. Cos, ad esempio, nel perio-

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do in cui Beloch conduceva ricerche negli archivi di stato in Italia per raccogliere dati statistici sulla popolazione, laffermazione del metodo quantitativo nello studio dei fenomeni di massa si estendeva alle ricerche di statistica (nel cui ambito disciplinare, allepoca, si collocava la demografia) storica proprio perch queste rappresentavano unapplicazione naturale del metodo sperimentale, allora al centro degli interessi degli studiosi. La conoscenza statistica del passato veniva a corrispondere allesperimento nel quadro delle scienze naturali e soddisfaceva lesigenza di sperimentazione anche nelle scienze umane. E nessun altro campo meglio si prestava a tale applicazione di quello concernente la popolazione, perch di essa erano facilmente reperibili dati quantitativi, seppure nascosti negli archivi. E la storia economica che fornisce i primi impulsi agli approfondimenti al irruzione, come si detto prima della demografia nella storia, prendendo la strada dello studio delle crisi economiche e, pi in generale, dello studio della produttivit e delle sue relazioni con laggregato di consumo: vale a dire, con la popolazione. Il processo di crescente richiesta di dati di popolazione non dunque, in questa fase, originato nellambito della demografia, ma un fatto esogeno: per lo storico economico la demografia una disciplina ausiliaria molto importante, che rientra per molti versi nellambito dei suoi interessi e che gli consente di studiare alcuni problemi assai pi approfonditamente di quanto non gli sarebbe stato possibile con i metodi propri della sua disciplina (Kula, 1972, p. 348). Poich la demografia si interessa alluomo e agli aggregati umani - la famiglia, i gruppi etnici e sociali - nello studio di questi aggregati che la demografia si ricollega agli interessi della storia economica. Per di pi, siccome molti problemi tipici della demografia si prestano soltanto a indagini di lungo periodo, i demografi stessi sono spesso costretti a studiare intervalli sempre pi estesi al passato. Questa ancillarit della demografia storica, intesa come disciplina del tutto strumentale, opinione peraltro condivisa ancora oggi da molti studiosi, anche fra gli stessi demografi, perch comune lopinione che il passato il periodo per il quale non esistono, o sono carenti, informazioni statistiche sulla popolazione. Ancor oggi, fra molti studiosi, demografi e non, diffusa lopinione che la demografia storica si distingua dalla demografia semplicemente per l fatto che essa spazia indietro nel tempo e che si tratti di un settore di ricerca scandagliato, in un piano nostalgico-antiquario, da studiosi che per fuggire dal rumore presente che li stordisce, incapaci di immergersi nel silenzio che c in questo rumore, si dilettano in echi e in tintinnii di suoni morti (Miguel De Unamuno, riportata da Ungari, 1974).

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Il problema delle fonti (come fra poco vedremo) peculiare della demografia storica ed quello che, ontologicamente, riesce a dare il significato pi preciso del suo divenire come settore specifico pi correttamente si potrebbe dire il settore pi specialistico, se non ci fosse pericolo di essere mal intesi della demografia; del suo essere strumento dinvestigazione autonomo basato su informazioni quantitative (questa , ovviamente, una condizione ineliminabile) ricavate da fonti che nel passato bench sia comunque un passato dai confini molto sfumati non sono state create con lo scopo preciso di studiare la popolazione (Hollingsworth, 1969; Van de Walle e Kantrow, 1974; Imhof, 1981). La demografia storica utilizza dunque fonti di dati, cio documenti di qualunque natura, che possono anche non avere preliminarmente alcuna specifica valenza demografica, nel senso oggi comunemente assegnato ai dati della demografia. Lo scopo resta quello (immanente) della demografia: ricostruire le vicende storiche di una data popolazione, o di un gruppo demografico comunque individuato, colte nella dinamica degli eventi (i flussi: nascite, decessi, matrimoni, migrazioni) e delle strutture (AA.VV., 1968; Drake, 1974; Willigan e Lynch, 1982). Cos concepita, la demografia storica si pone come la congiunzione (naturale) fra ricerca storica e ricerca demografica: in questo senso il contatto con la storia che ha contaminato la demografia creando una trasformazione (un allargamento) dei suoi confini tematici. Peraltro a partire da una generazione di studiosi, appunto quella che operava nel corso degli anni cinquanta, e da questa con crescente intensit trasmesso alle generazioni successive, che si assistito a un aumento dinteresse verso i fatti demografici, da pi fronti disciplinari; non solo dalla storia in generale, e dalla storia economica e sociale in particolare, ma anche dallantropologia, dalla genetica e dalla biologia2. Questa irruzione della demografia nella storia ha contribuito indubbiamente ad allargare le idee stesse della ricerca demografica, se non altro perch ogni societ, ogni cultura, ha una sua eredit demografica. Ma si badi bene: questa irruzione non si giustifica banalmente e soltanto come il risultato dellesigenza di trovare nuovi dati di documentazione
2 Levoluzione naturale della popolazione, la sua riproduzione, implica ovviamente lazione di fenomeni biologici: nascita, maturazione e senescenza, morte. E anche per questo che la demografia stata considerata scienza biologica, strettamente legata alla biometria e allantropologia fisica. Sarebbero veramente da tenere a portata di mano, per la loro importanza, i contributi di Lotka (1937; 1939); ma, del resto, sufficiente riflettere sul titolo della sua opera pi importante - e che tanto ha condizionato levoluzione della metodologia demografica -, la Thorie analytique des associations biologiques: I Principes; IL Analyse dmographique avec application particulire lespce humaine.

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sul passato di una popolazione, bens come rivendicazione tutta generale, come una specie di diritto a fare storia, a calarsi nel passato, pur con i problemi e le metodiche specifiche della disciplina. Il processo che ha portato allattuale fisionomia della demografia storica non stato n breve, n lineare, ma anzi piuttosto tumultuoso, a partire dalla fine degli anni cinquanta. Anche se improprio nellevoluzione delle scienze sociali cercare di rintracciare lorigine (o gli originatori) di un nuovo metodo dindagine, di un paradigma innovatore, ormai comunemente condiviso che lattuale fase della demografia storica ha una sua data di nascita, il 1956, anno in cui Fleury e Henry (non a caso un archivista e un demografo) pubblicarono un Manuel de dpouillement et dexploitation de ltat civil ancien con il quale spiegavano, con taglio didattico ma profondamente innovatore, come fosse possibile fare storia della popolazione (non meravigli che allora si parlasse di storia della popolazione e non ancora di demografia storica) partendo dai registri parrocchiali e dallo stato civile (vedremo, tra poco, qual la differenza fra le due fonti). E non fu certo un caso che questo manuale fosse tenuto a battesimo dallInstitut national dtudes dmographiques (Ined), un organismo statale nato nel 1945 per guidare e coordinare la ricerca demografica in Francia in ogni settore e, a partire appunto &l 1956, anche in quello storico, mediante la costituzione di una sezione (unit de recherche, come venne denominata) di demografia storica che venne trasformata, a partire dal 1979 (quando allIned venne dato un nuovo assetto organizzativo), in Dpartement de dmograhie historique et mdicale. Due considerazioni avevano dettato la pubblicazione di questo manuale: 1) lesistenza e labbondanza di documenti di base necessari per lo studio della popolazione in tutta la Francia continentale alla ricerca delle radici e delle motivazioni di quella che sembrava una peculiarit della Francia: lanticipato rispetto ad altri paesi avvio del controllo della fecondit e del declino delle nascite iniziato a partire grosso modo nellultimo quarto del secolo XVIII, in concomitanza (cos appariva) con la Rivoluzione; 2) la necessit di dare il via a una ricerca che prendesse la strada non della mera rilevazione aggregativa mediante semplice conta di nascite, decessi, matrimoni nel tempo ma della ricostituzione delle famiglie, lunico (a quel tempo) strumento che potesse fornire le informazioni di base necessarie per analisi approfondite delle caratteristiche e delle condizioni demografiche che avevano determinato quella che, con una metafora ripresa dagli eventi politici contemporanei, venne definita appunto rivoluzione demografica.

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Peraltro, Henry (1953), gi con un articolo pubblicato sulla rivista Population (edita dallo stesso Ined), aveva richiamato lattenzione degli studiosi sullesistenza di questa ricca documentazione, sottolineandone limportanza ai fini della conoscenza della demografia del passato; in seguito, in collaborazione con Fleury (Fleury e Henry, 1956) e con Biraben (Biraben, Fleury e Henry, 1960), venne impostando un programma dindagine nazionale coordinato appunto dallIned. Ancora Henry (1956) aveva ricostruito la storia delle Anciennes familles genevoises fra i secoli XVI e XIX, mentre due anni dopo comparve quello che da allora costituisce per la demografia storica un contributo dindiscutibile importanza e un riferimento ormai divenuto canonico, dedicato a La population de Crulai, paroisse normande (Gautier e Henry, 1958), nel quale si sperimentavano i nuovi metodi danalisi demografica o meglio, si calavano in una realt del passato metodi dindagine che solo tecnicamente erano da considerarsi nuovi: lo spirito che li dettava era ben vecchio centrati sulla ricostituzione delle genealogie familiari. Ma questa esigenza, questo desiderio innovatore di comprendere pi compiutamente una realt anche se del passato non era di unica spettanza di demografi di professione e non si originava soltanto in un ambiente comunque legato a tematiche demografiche, come lIned, o nel quale si agitavano idee e problematiche concernenti la popolazione e i suoi destini. In un orizzonte molto pi vasto una nuova storia stava negli stessi anni facendosi strada: una nuova concezione di fare storia i cui autori furono Febvre e Bloch e il nutrito gruppo che operava intorno a Les Annaks. Una nuova concezione che era, in sostanza, di natura metodologica. La (nuova) storia deve far uso di tutto ci che reca limpronta delluomo: lingua, forme del paesaggio, tecniche di coltivazione, segni dogni genere etnologici, antropologici e cos via aprendosi senza riserve ai metodi e ai risultati di altre discipline, esaltando il valore della ricerca specialistica purch questa non si esaurisca in se stessa ma metta in luce nuovi compiti e nuove vie di approccio alla storia nel suo insieme. Lo storico non pu semplicemente accumulare fatti: egli stesso deve creare loggetto del suo studio. Come scriveva acutamente Bloch (1969, p. 41), la storia vuoi cogliere gli uomini al di l delle forme sensibili del paesaggio, degli arnesi o delle macchine, degli scritti in apparenza pi freddi e delle istituzioni in apparenza pi completamente staccate da coloro che le hanno create. Chi non vi riesce non sar, nel migliore dei casi, che un manovale dellerudizione. Il buon storico somiglia allorco della fiaba: l dove fiuta carne umana, l sa che la sua preda.

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Si trattava, in definitiva, d una riaffermazione del carattere scientifico della ricerca storiografica. Una riaffermazione la cui paternit, com ovvio nel vasto orizzonte delle scienze, di tanti. Ho ricordato la cosiddetta scuola francese perch quella che, tutto sommato, ha dato il maggior impulso alla riqualificazione scientifica della disciplina, con pi forte insistenza (forse, con maggiore evidenza); non si deve peraltro dimenticare che anche da altri paesi le stesse esigenze e le stesse esperienze venivano manifestate pressoch contemporaneamente, anche se con minor enfasi, come, ad esempio, in Inghilterra (si vedano Glass e Eversley, 1965). Tale orientamento ebbe un impatto clamoroso su generazioni stanche della retorica della storia convenzionale, delle sue interpretazioni soggettive e apodittiche, delle sue controversie spurie. Linteresse per le tendenze di lungo periodo e per la dinamica della crescita economica implicava quasi di necessit laccentuazione dei fattori storici: proprio negli stessi anni cinquanta si perfeziona la new economie history, o cliometria (per un suo inquadramento generale si veda Barraclough, 1977). Erano comunque gli anni nei quali altre scienze andavano affinando i propri metodi, mettendo a fuoco altri e pi pressanti problemi, legati alla necessit di spiegazione dei fatti economici e sociali: tra queste la statistica. In ogni campo la ricerca vedeva ovunque un aumento delluso di tecniche quantitative, combinate con un pi forte apporto teorico e con una pi diffusa applicazione ai problemi storici. Le singolarit e la variet dellesperienza storica viene dunque ad assumere un rilievo del tutto particolare per quanto concerne la demografia. Sia sul fronte degli storici sia su quello dei demografi si cercano nuove spiegazioni, nuove verifiche, nuove strade da battere, connettendo insieme problemi economici e problemi demografici o, meglio, legando fra di loro dati di popolazione e dati economici. Si mira cos a spiegare la crescita economica del secondo dopoguerra riconoscendo alle circostanze demografiche tutta la loro importanza, cos come le trasformazioni nelle strutture e nella dinamica demografica di quegli anni vengono sottoposte a nuove analisi cercandone le radici nelle trasformazioni della struttura e della dinamica economica. Ma contemporaneamente vanno consolidandosi in entrambi i settori disciplinari nuove esigenze di analisi: in modo specifico nuovi metodi di analisi longitudinale (contrapposti a quelli che ormai appaiono superati dellanalisi trasversale) si generalizzano, prospettando la necessit di ampliare riferimenti temporali, per recuperare le informazioni che le statistiche correnti non possono fornire. Questi nuovi modi di pensare la realt spingono a sfruttare (meglio sarebbe dire: a ri-utilizzare) i materiali che pure gi si conoscevano e che erano disponibili in abbondanza: appunto i dati di popolazione.

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Allora: in modo specifico per quanto concerne la demografia storica, questa nuova mentalit portava a elaborare una metodologia microanalitica appropriata (su cui fra poco ci soffermeremo) nota come ricostituzione delle famiglie, descritta, appunto, in modo particolareggiato nel Manuel sopra richiamato e applicata analiticamente agli abitanti che avevano vissuto a Crulai fra i secoli XVII e XVIII. Una metodologia che trov, in seguito, la sua esemplificazione e la sua illustrazione ancora in un volume di Henry (1980) dedicato alle tecniche di analisi. Tale metodologia non era, daltro canto, di esclusiva invenzione dei demografi: ancora in Francia, ad esempio, Goubert (1960) se ne era servito indipendentemente da Henry e Fleury nel suo vasto lavoro sul Beauvaisis, e prima ancora, nel 1942, Hannes Hyrenius laveva utilizzata per uno studio sulla minoranza svedese di Estonia3. Lidea di ricostituire le famiglie non era affatto nuova: era, ed , lo strumento di base dei genealogisti. Questi studiosi erano particolarmente agguerriti in Germania gi dai primi del Novecento, perch, grazie a una legge del 1933 che rendeva obbligatoria ai cittadini del Reich la prova delle loro origini ariane e, dal 1937, alla costituzione di un servizio genealogico ufficiale, ebbero modo di perfezionare lapplicazione della tecnica di ricostituzione delle genealogie riportando le informazioni contenute nei registri parrocchiali su moduli a stampa, cos da pubblicare in forma omogenea tutte le informazioni concernenti appunto la storia genealogica di ciascun cittadino a partire dal secolo XVII o XVIII. Secondo i programmi predisposti, tutta la popolazione della Germania avrebbe dovuto essere oggetto di tali ricostituzioni, che avrebbero dovuto dare luogo a circa trentamila Ortssippenbucher (genealogie di villaggio), ma la seconda guerra mondiale blocc il lavoro iniziato; di questo enorme programma vennero pubblicati appena una trentina di volumi comprendenti tali genealogie (Imhof, 1981; Knodel, 1988). Ancora alla fine degli anni trenta, negli Stati Uniti, a cura della Societ genealogica della Chiesa dei santi dellultimo giorno (mormoni) era stata messa a punto una scheda di ricostituzione di genealogie che, seppure impostata con scopi eminentemente religiosi, permette comunque approfondite analisi demografiche (Bean, Mineau e Anderton, 1990). La strada da battere, dunque (quella della ricostituzione delle genealogie e, attraverso queste, della storia degli eventi del ciclo di vita di ciascun individuo: nascita, matrimonio, cadenza delle nascite dei figli,
3 Si tratta di una ricerca peraltro rimasta quasi del tutto sconosciuta fino a che non ne venne dato da Terrisse (1975) un resoconto in un fascicolo speciale della rivista Poputation integralmente dedicato alla demografia storica.

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decesso), esisteva gi da tempo ed era gi stata in qualche modo percorsa: il compito di Henry fu di disegnarne meglio il percorso e di renderlo pi agevole, chiarendone le tappe di percorrenza e gli sbocchi finali. Dalle schede di famiglia, in definitiva, possono trarsi informazioni dettagliate altrimenti irrecuperabili per epoche precedenti listituzione dello stato civile, ma anche per gli anni nei quali oggi noi viviamo escludendo, ovviamente, la possibilit di intervistare direttamente le persone sui loro comportamenti demografici, in termini di fecondit e di matrimonio. La caratteristica essenziale di tale metodo di ricerca era limpiego di modelli ipotetico-deduttivi, sfruttando appieno le tecniche che la demografia andava affinando, quelle appunto che si riferiscono alle persone-anno, cio alle durate di vita vissute in un certo stato, o alle durate alle quali si verificano certi eventi (come la nascita di un figlio, ad esempio), per determinare leffetto di particolari eventi sul corso di vita di una popolazione, ricostituita appunto come aggregazione di individui di cui si conoscono le tappe fondamentali di vita. Si tratta di una (nuova) strada che mette in tutta evidenza la riconciliazione fra storia e demografia, sfruttando la contemporanea riconciliazione fra storia ed economia riconciliazione perch, come accennato, si tratta in definitiva di un rafforzamento metodologico di legami antichi che percorsa da un interesse per le tendenze di lungo periodo e per la dinamica della crescita demografica ed economica: questo dunque il tessuto connettivo fra economia, storia e demografia. La via aperta da Henry e Goubert con il passare del tempo attrae un numero crescente di ricercatori: piano piano parrocchie, villaggi, borghi, citt del passato vengono ricostruite nella loro dimensione umana, nelle loro vicende vissute. La micro-demografia della famiglia si diffonde in Francia apportando indiscutibilmente un sostanziale contributo alla conoscenza della rivoluzione contraccettiva del secolo XVIII (Ganiage, 1963; Valmary, 1965; Charbonneau, 1970; Bardet, 1983; Ganiage, 1988, per citarne soltanto alcuni). Alla fine del 1980 risultano pubblicate ben 558 monografie che si riferiscono ad altrettanti comuni sparsi in tutto il paese (Dupaquier, 1984). La famiglia, come insieme di persone che condividono seppure per porzioni di durate di vita la stessa storia, viene cos a cadere al centro dellattenzione dei ricercatori. Ecco dunque, a partire dagli anni sessanta, unaltra rivoluzione nel campo delle scienze sociali: mentre in Francia la famiglia utilizzata come fase intermedia per lo studio dei fenomeni demografici in particolare per lanalisi della fecondit, proprio perch allinterno della famiglia, partendo dal matrimonio della coppia di genitori, si collocano le nascite dei figli in Inghilterra (ma anche

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per la mancanza, comparativamente ai paesi di religione cattolica, di rilevazioni di flusso nascite, decessi, matrimoni organiche e generalizzate allintera collettivit), lattenzione dei ricercatori indirizzata allo studio della struttura della famiglia e alle sue variazioni nel tempo attraverso liste di abitanti, enumerazioni nominative e censimenti. La famiglia, come insieme di persone residenti sotto lo stesso tetto, diviene oggetto specifico dindagine ai fini della misura della relazione fra processi economici e processi demografici. E unottica specifica, se vogliamo, ma caratteristica dellInghilterra, il paese di pi antica industrializzazione. Il problema delle cause e delle condizioni della rivoluzione industriale per i demografi e per gli storici inglesi (cos come il problema delle cause e delle condizioni della rivoluzione francese lo per i demografi e gli storici francesi) largomento che detta la formazione di un circolo di ricercatori, soprattutto storici, demografi, statistici: nel 1964 viene creato il Cambridge Group for the History of Population and Social Structure, diretto da Peter Laslett, poi divenuto un centro di rinomanza internazionale. Lanno seguente viene pubblicato il famoso volume The World We Have Lost (Laslett, 1965), nel quale si illustra il programma di ricerca del gruppo4. Le condizioni di fondo che hanno reso possibile lindustrializzazione possono essere spiegate appunto ricostruendo la storia della microstruttura sociale, la famiglia; lanalisi della dinamica di questa microstruttura, corroborata e sostenuta con altri dati di natura economica, lungo il tempo, pu fornire le informazioni utili a comprendere le ragioni e larticolarsi delle trasformazioni economiche dellintera societ. I ricercatori inglesi andavano definendo un progetto, ambizioso come quello dei francesi, che vedeva per specificamente nella sociologia storica la forma generale di tutta la ricerca in campo sociale, che faceva della sociologia (storica) la confluenza comparativa di scienze diverse, dalleconomia alla demografia, dalla storia allantropologia, ancora una volta legate assieme dalla statistica, cio dalla necessit di misurazioni esatte. La demografia storica inglese, in definitiva, si caratterizza piuttosto come socio-antropologica: il concetto di struttura sociale che costituisce il principio di intelligibilit della storia e che trova la sua concretezza nella famiglia. I due gruppi i due circoli o le due scuole, come vengono definite quello francese e quello inglese, testimoniano evidentemente due diversi esperimenti: diversi relativamente, perch entrambi mirano a uno
4 Oltre a Laslett (1965), tra le molteplici pubblicazioni edite a cura del Cambridge Group si vedano Laslett e Wall (1972); Wrigley (1973); Wrigley e Schofield (1981); Wall, Robin e Laslett (1983).

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scopo comune, quello di rileggere la storia attraverso le vicende umane oggetto specifico della demografia (nascite, decessi, matrimoni). Entrambi legano lo svolgersi di queste vicende alla famiglia, che ne costituisce il contenitore naturale, sul quale (o intorno al quale) si riaggregano i singoli eventi demografici: restano, comunque, due approcci di microdemografia (per il significato pi preciso di micro-demografia si veda il capitolo di Santini, I metodi, in questa Guida). AI di l dei diversi postulati di base evidente che sono le fonti dei dati a differenziare le applicazioni e i risultati; ed proprio il problema delle fonti che condiziona fortemente non tanto la definizione delle ipotesi di ricerca quanto la loro concreta attuazione. A questi due gruppi di ricerca, in effetti, se ne deve aggiungere un terzo, che ha svolto un ruolo indiscutibile nel campo della demografia storica pur muovendosi in unottica diversa: diversa nel senso che i suoi collaboratori non operano prevalentemente o in modo determinante sul terreno della micro-demografia, bens in quello della macro-demografia (ma micro e macro restano comunque le due espressioni della stessa anima della demografia). Si tratta del gruppo, coordinato da Ansley Coale, che ruota intorno allOffice of Population Research di Princeton (Stati Uniti). Nel 1965, in occasione della conferenza demografica organizzata a Belgrado dalle Nazioni Unite, Coale present alcune riflessioni preliminari su un progetto internazionale avviato due anni prima sulle cause e sulle condizioni della cosiddetta transizione demografica , cio su di uno schema interpretativo del declino della mortalit e della fecondit che, tipicamente, accompagna il processo di modernizzazione demografica di una societ, cio il suo passaggio da un regime demografico antico (con alta fecondit e alta mortalit) a un regime demografico moderno (caratterizzato da bassi livelli di fecondit e di mortalit): una teoria inizialmente impostata negli anni cinquanta da Frank Notestein, gi direttore dellOffice of Population Research e in seguito gradualmente raffinata. Il Princeton European Fertility Project, a differenza delle ricerche francesi e inglesi, si basa soprattutto su dati gi pubblicati, che hanno il crisma dellufficialit, essendo appunto editi a cura degli uffici nazionali di statistica, e che si riferiscono soprattutto a fonti di censimento; si tratta, inoltre, di dati aggregati: il livello territoriale pi analitico costituito dal comune (com nelle situazioni francesi e italiane, ad esempio) e, ovviamente, non permette di analizzare le singole biografie (anche se colte a un censimento o ad altra fonte di stato) individuali. Sfuggono, pertanto, tutte quelle peculiari (direi sofisticate) possibilit di analizzare gli eventi individuali come avviene con i cosiddetti metodi Hen-

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ry e Laslett, il cui riferimento di base lindividuo ricondotto alla famiglia. Un altro limite di questo progetto che esso pu coprire un lasso temporale piuttosto recente: quello, appunto, cui si riferiscono i censimenti, che datano, di norma, dalla met dellOttocento. Tuttavia il metodo proposto e attuato da Coale e dal suo gruppo ha il vantaggio di permettere la raccolta di dati e la loro analisi in un tempo minore di quello reso possibile dalla rilevazione, dallaccoppiamento e dallanalisi delle singole informazioni anagrafiche individuali degli altri due metodi (di Henry e di Laslett). Per far fronte allesigenza di comparabilit, il progetto Coale prevede la costruzione di alcuni indici standardizzati, facilmente calcolabili; se poi, ancora a livello aggregato, si dispone di altre informazioni su certi fenomeni o certe caratteristiche socio-economiche della stessa popolazione, i risultati possono essere ulteriormente arricchiti e fornire sostegni interpretativi notevolmente preziosi per comprendere pi compiutamente le condizioni e le implicazioni della modernizzazione demografica, cio del processo di trasformazione del comportamento demografico. Di fatto, in poco pi di ventanni il progetto stato portato a termine con la raccolta di una nutrita massa di dati statistici e con la pubblicazione di un folto gruppo di scritti5. Certo i risultati conseguiti non hanno la ricchezza e la compiutezza dei risultati delle ricerche microdemografiche conseguibili con i metodi Henry e Laslett: la corposit, lo spessore dellinterpretazione storica sono comparabilmente pi deboli, ma resta comunque rilevante il contributo apportato alla conoscenza del processo di modernizzazione demografica. Resta, dunque, il fatto che il periodo grosso modo compreso fra gli anni cinquanta e sessanta vede un generale fiorire di iniziative nel campo della demografia storica: esigenze di approfondimenti e curiosit per il passato alla ricerca delle proprie radici storiche si diffondono ovunque. In Belgio vede la luce lopera di Mols (1954-56), in tre volumi, che un bilancio rigoroso e la rassegna pi completa esistente allepoca sulle fonti e sui problemi per lo studio della demografia urbana dal secolo XIV al XVIII; e intorno a Harsin e a Hlin si aggrega, allUniversit di Liegi, un piccolo gruppo che apporter comunque risultati molto
5 In precedenza sono stati pubblicati i volumi nazionali a cura di Coale, Anderson e Harm (1979), sulla Russia; Knodel (1988), sulla Germania; Lesthaege (1977), sul Belgio; Livi Bacci (1971b), sul Portogallo e (1977), sullItalia (Livi Bacci aveva gi pubblicato un lungo saggio sulla rivista Population Studies nel 1968, sulla Spagna); Teitelbaum (1984), sullInghilterra; van de Walle (1974), sulla popolazione femminile francese. A queste pubblicazioni, riportate in bibliografia, si rimanda per ulteriori riferimenti su tutta la produzione del Princeton Project.

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interessanti . A Liegi, nel 1963, a cura di Harsin e Hlin si tiene un Colloquio internazionale di demografia storica sui problemi di studio della mortalit del passato (Harsin e Hlin, 1965). In Olanda, a Wageningen, presso il Centro di storia agraria diretto da Slicher Van Bath trova asilo questo nuovo settore di ricerche demografiche, in seguito coltivato sotto la guida di Ad Van Der Woude. Altri gruppi, pi o meno agguerriti, sono allopera in Svezia, a Umea; in Cecoslovacchia, a Praga; in Ungheria, a Budapest e in altri paesi europei. Laspetto pi rilevante di questo rapido processo, al di l degli specifici fini e contenuti di ricerca che caratterizzano studiosi e sedi, va per individuato nellespansione geografica della demografia storica, nella sua internazionalizzazione. Non c oggi quasi paese del mondo che non abbia visto sorgere iniziative, pi o meno aggregate, pi o meno importanti, dinteresse pi o meno nazionale, volte alla ricostruzione delle condizioni dellevoluzione demografica del passato. ovvio che esistono differenze dapproccio dovute appunto alle difformit di contenuto delle fonti disponibili e delle informazioni necessarie allo scopo. Di fatto, anche se le sue origini sono specificamente di radice europea, con il passare del tempo e con il diffondersi delle ricerche, la demografia storica ha perso le sue connotazioni eurocentriche: non si tratta soltanto, si badi, di un allargamento geografico dei temi della demografia storica dallEuropa ad altri paesi, ma anche di un ampliamento quantitativo in termini di produzione scientifica. A questo processo di crescita della disciplina e al di l dei risultati conseguiti singolarmente, in termini di scambi di idee e di interessi fra studiosi, hanno indubbiamente contribuito altri fattori: un primo da individuare nellorganizzazione di centri di ricerca, come quello dellIned nel 1963 e quello di Cambridge nel 1964, come il Laboratorio di demografia storica presso lEcole des hautes tudes en sciences sociales di Parigi nel 1973 e quello di Princeton, per citare solo i pi importanti o, per lo meno, quelli che pi di altri hanno funzionato come poli che hanno aggregato e formato studiosi di altri paesi che poi hanno esportato problemi, metodi e tecniche di indagine, contribuendo cos allespansione della disciplina. Uno strumento specifico del processo di espansione della disciplina quello individuato nei corsi di formazione intensiva organizzati annualmente dalla Socit: come esempio, si consideri la diffusione delle ricerche e degli studiosi di demografia storica in Svizzera, con Perrenoud (1979); in Canada con Charbonneau, Lgar e Bouchard, che pure hanno dato vita a due centri di ricerca separati (Char6 Per il taglio che il gruppo di Liegi ha dato alle proprie ricerche si vedano il lavoro iniziale di Hlin (1963) e il recente prodotto di Desama (1985).

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bonneau, 1970; Charbonneau et al, 1987); in Brasile, allinizio con Marcilio (1969) e poi quasi ovunque in America Latina7; tutti formatisi inizialmente nellofficina di Henry. Un secondo fattore va identificato nellapporto di due organizzazioni internazionali: lUnion international pour Itude scientifique de la population (Uiesp, o, se si fa riferimento alla sigla anglosassone, Iussp) e il Comit international des sciences historiques (Cish), che, rispettivamente nel 1963 e nel 1965, costituirono una propria commissione di demografia storica. Superando le difficolt iniziali, le due istituzioni sono riuscite a dare un forte apporto alla demografia storica, estendendone gli interessi nei paesi scandinavi e nellEuropa centro-orientale (in particolare in Bulgaria, Ungheria e Cecoslovacchia), in Giappone, in America Latina e in Africa, in Cina, in India e altrove, organizzando convegni, seminari, riunioni internazionali. Basti riferirsi, come esempio (per riferimenti pi precisi si rimanda a Dechesne, 1974) al fatto che gi nel Congresso dellUiesp, tenutosi a New York nel 1961, erano stati discussi alcuni dei problemi caratteristici della demografia storica, in unapposita sessione; liniziativa di dedicare alla demografia storica una specifica sessione venne poi ripresa in quasi tutti i consessi dellUnione, tra i quali vanno segnalati quello di Londra nel 1969 e quello di Liegi nel 1973. Di minor entit appare il lavoro svolto dal Cish (che pure gi nel 1928, sullonda dellallora in auge statistica storica, aveva tenuto a battesimo una commissione di demografia storica), ma non meno importante, sol che si pensi al colloquio tenutosi in collaborazione con lUiesp a Kristiansand, in Norvegia, nel 1979, sul ruolo delle seconde nozze nelle popolazioni tradizionali (Dupaquier et al., 1981), e quelli pi recenti di Madrid (Cish, Commission internationale de dmographie historique, 1990a; 1990b). Le due richiamate commissioni internazionali di demografia storica hanno anche fornito collaborazione ed egida ad altre istituzioni universitarie o di ricerca per lorganizzazione di specifici seminari e convegni su temi di demografia storica: come quello tenutosi a Firenze nel 1971 (AA. VV., 1972), quello in collaborazione con lUniversit di Montral, tenutosi a Montebello in Canada, nel 1975, sui problemi di misura dei fenomeni demografici8, quello ancora di Firenze nel 1977 (un sommario degli
7 Per esempio, molto importante il ruolo svolto dal Celade di Santiago del Cile, come promotore di ricerche in demografia storica; cos come tuttaltro che di poco rilievo il lavoro della Latin American Population History Association. Per un bilancio degli studi in America Latina e nei paesi scandinavi, si veda Annales de dmographie historique (1986). 8 Una parte dei contributi presentati al convegno, quelli relativi alle crisi di mortalit, venne raccolta nel volume di Charbonneau e Larose (1973). Un altro gruppo di contributi concernenti la nuzialit venne pubblicato negli Annales de dmographie historique (1978).

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atti in AA. VV., 1977) e, ma solo per saltare nel tempo, quello organizzato in collaborazione con lUniversit delle Baleari nel 1991 (Universidad de les Illas Balears e Iussp C omrnittee on Historical Demography, 1991). Di un terzo fattore va in verit sottolineata limportanza, ancora per quanto concerne gli strumenti di diffusione della ricerca in demografia storica (ma ci vale per qualunque campo dellindagine scientifica): il ruolo svolto dalle associazioni di studiosi e ricercatori. Ancora una volta, per questo aspetto, va rilevata loriginalit dellesperienza francese: risale infatti al 1963 la costituzione della Socit de dmographie historique che si pose come centro di coordinamento per contribuire al miglioramento delle condizioni della ricerca storica in demografia. Al primo volume di contributi apparso nel 1964 (tudes et chronique de dmographie historique) fece seguito a partire dal 1965 la serie annuale degli Annales de dmographie historique, ai quali si accompagna, dal 1970, il quadrimestrale Bulletin D. H. che, oltre alle notizie sullattivit dellassociazione, contiene anche informazioni su ricerche in corso, note metodologiche e sommari di pubblicazioni9. La Socit organizza ogni anno un incontro su tematiche specifiche di demografia storica (gli Entretiens de Malher) e, a cadenza non prefissata, convegni internazionali, tra cui si ricordano quello consacrato a Malthus hier et aujourdhui, in collaborazione con lUnesco e IUiesp (1980) e quello su Le peuplement du monde avant 1800, in collaborazione con il Cish (1987). Sulla traccia aperta dalla Socit francese si inseriscono altre due associazioni europee: la Societ italiana di demografia storica (Sides), costituita nel 1977, e la Asociacin de demografia histrica (ispano-lusitana), fondata nel 1982. In America, negli Stati Uniti, opera la Latin American Population History Association e, in Brasile, il Centro de estudos de demografia historica da Amrica Latina. A partire dal 1978, infine, di tutto questo nuovo fervore di iniziative e di ricerche uno strumento importante di diffusione delle conoscenze nel campo viene assunto dalla Bibliographie internationale de la dmographie historique, edita in collaborazione fra le Commissions de dmographie historique dellUiesp e del Cish e la Socit de dmographie historique francese e redatta a cura di un gruppo di corrispondenti nazionali. Questo preciso repertorio ben affiancato nel campo della demografia tout-court dal Population Index, edito a cura dellOffice of Population
9 Se ne veda lindice generale in Socit de dmographie historique, Annales de dmographie historigue (1964-82), Bulletin D. H. (1970-82), Tables et Index Editions de lEcole des hautes tudes en sciences sociales (Paris, 1983). Comunque sullattivit della Socit, sullorganizzazione della ricerca in Francia (in minor misura, altrove) e sulle problematiche relative alla demografia storica, si consulti Dupaquier (1984).

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Research di Princeton, ma nel quale curiosamente la sezione (bibliografica) Historical Demography and Demographic History compare per la prima volta come subject classificatimi solo dal 1978 (voi. XLIV, n. 1)10. 2.2. La demografia storica in Italia Limportanza delle ricerche storiche sullo stato e sul movimento della popolazione venne messa in luce, fin dal primo accenno alla costituzione del Comitato italiano per Io studio dei problemi della popolazione.... Cos Gini (1939) apriva una lunga recensione a una pubblicazione uscita nel 1936 in Germania, che riportava i risultati di uno studio sullevoluzione di un insieme di famiglie (effettuato tramite ricostruzione genealogica della popolazione di un villaggio, verosimilmente basata sugli Ortssippenbucher. Si trattava di risultati prettamente demografici nuzialit, mortalit, riproduttivit che, per il loro interesse e per la loro originalit, facevano concludere a Gini: E da augurarsi che studi consimili vadano facendosi sempre pi frequenti nei vari paesi di Europa, cos da squarciare le tenebre che avvolgono la demografia dei secoli passati. Era questa unopinione allora largamente condivisa. Gli anni trenta appaiono, infatti, vivaci di idee e di ricerche applicate in Italia, sul fronte della demografia e particolarmente della demografia storica; ci si muoveva tuttavia nel pi ampio quadro della statistica storica (cui ho sopra fatto cenno), restando condizionati dallassenza di una specifica metodologia demografica (nonostante lapparente banalit della considerazione si tratta di una carenza di rilevanza cruciale) ma, soprattutto, dalla particolare congiuntura politica allora imperante nel paese. Erano gli anni a ridosso della pi grande e profonda crisi economica del secolo quella del 1929 che nelle analisi di Keynes, Hansen e Losch, per limitarci ai riferimenti pi noti11, era riconducibile agli effetti delle onde di natalit (e, quindi, dei matrimoni) sul ciclo economico. Per consentire una pi completa verifica delle relazioni fra fattori demografici e fattori economici era ovvio il passaggio da unanalisi di tipo congiunturale a una di tipo storico, da una semplicemente storica a una metastorica; ci avveniva quasi contemporaneamente non solo sul fronte della scienza economica ma anche su quello delle scienze
10 Per un quadro generale delle ricerche di demografia storica negli Stati Uniti si veda Gerhan e Wells (1989). Una recente bibliografia sulla produzione francese si trova in Lunazzi (1985). Per la penisola iberica si rinvia al Boletin de la Asociacin de demografia histrica, a partire dal 1982. 11 Si vedano: Losch (1936-37); Keynes (1937); Hansen (1939). Per una prospettiva dinsieme e in particolare per quanto concerne la posizione assunta dagli studiosi italiani e i loro contributi si rimanda a Santini (1969).

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naturali, nel quadro della nuova dimensione storica che si apriva a tutte le scienze. Vanno citati in proposito, oltre allopera di Lotka, gi richiamata, i contributi di Pearl e le suggestioni di ricerca che la sua legge biosociale di sviluppo di una popolazione (la curva logistica) viene a porre. In questo stesso periodo, in Italia, sono allopera diversi gruppi e singoli studiosi che coprono molteplici settori disciplinari: dalleconomia alla storia economica, dalla medicina alla genetica, dalla biologia alla geografia, dallantropologia alla demografia (per restare alle scienze vicine alla demografia). Gli anni trenta costituiscono una fase del processo di evoluzione del pensiero scientifico italiano (si vedano Sonnino et al., 1987; Corsini, 1989) che a mio avviso merita di ricevere unattenzione pi consistente di quella finora prestatagli, ma in un approccio pi completo, globale, proprio per mettere in evidenza gli interscambi, le originalit oltre che le dipendenze da quanto si costruiva allestero. Ma restiamo alla demografia e olla demografia storica. Qui, a opera di personaggi come Benini e Niceforo prima (ma si vedano anche Corridore, 1915; Salvioni, 1885), Boldrini e Gini poi, gli studiosi di problemi della popolazione erano stati sollecitati a mutare indirizzo agli studi demografici passando da una demografia descrittiva a una investigativa mirante a spiegare i fenomeni, le loro radici e i loro effetti, a cogliere le interdipendenze tra i fenomeni demografici e linsieme di tutti gli elementi che formano lambiente in definitiva, ad affrontare un approccio interdisciplinare. Ecco che a Milano, presso lUniversit Cattolica del Sacro Cuore, si aggregano demografi, statistici e medici che fanno perno sul Laboratorio di statistica e che apportano importanti contributi sul filone della demografia costituzionalistica. Lo scopo quello di studiare i rapporti fra larchitettura morfologica dellorganismo umano la sua capacit di resistenza e di reazione, cos come pu essere colta attraverso la statura, ad esempio e linsieme dei fattori ambientali; poich evidente che lorganismo di persone oggi viventi il risultato dellinfluenza di fattori ambientali che hanno operato lungo il tempo, in precedenza, si avvia lanalisi del rapporto tra questi fattori ambientali e i fenomeni demografici studiati (sopravvivenza, fecondit e cos via) in una nuova dimensione, appunto storica12.
12 Si rimanda a Boldrini (1931); Costanzo (1936); nonch alla serie VIII: Statistica, delle pubblicazioni dellUniversit Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che raccoglie, in diversi volumi, gli studi pubblicati in Contributi del Laboratorio di statistica. La demografia costituzionalistica ha comunque il suo caposaldo nelle ricerche statistiche condotte sui militari, ad opera soprattutto di R. Livi (1896 e 1905; 1900). In questi ultimi anni ha affrontato tematiche globali siffatte Livi Bacci (1987; 1989), che pure sul fronte delle riflessioni aperto da L. Livi affronta i problemi e le spiegazioni dellevoluzione della popolazione in unottica molto pi vasta.

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A Roma, a opera di Gini, si sviluppa un nuovo settore con un taglio pi sociologico che si rif appunto alla sua teoria ciclica (Gini, 1912) sulla legge di sviluppo della popolazione e sul ricambio sociale, questultimo con particolare riferimento a gruppi demografici ristretti, come laristocrazia (si veda Savorgnan, 1942) nel quale sono coinvolti studiosi di varia formazione disciplinare: archivisti, geografi, storici, medici e genetisti, insieme con demografi e statistici facenti capo al Comitato italiano per lo studio dei problemi della popolazione (Cisp), costituito nel 1928. Il Cisp intraprende una serie di ricerche a vasto spettro, con unacutezza di prospettive veramente innovatrice nella ricerca demografica, compresa quella storica, che si presenta con tratti di indubbia originalit: si indagano le cause e le implicazioni sociali e demografiche dellevoluzione della popolazione nel passato, si ricostruisce la densit del popolamento nella storia e i motivi della decadenza delle popolazioni messicane al tempo della conquista spagnola, ma si conducono anche investigazioni antropologiche e bio-mediche su gruppi di popolazione contemporanea, per studiare lazione dei fattori demografici nella loro organizzazione sociale 13. Ma liniziativa pi rilevante ai fini della demografia storica quella concretizzatasi nella raccolta delle Fonti archivistiche per lo studio dei problemi della popolazione fino al 1848 (Cisp, 1933-41), la cui prima serie venne presentata al Congresso internazionale per gli studi sulla popolazione (Roma, settembre 1931); la prima sessione era peraltro dedicata ai lavori di storia (Cisp, 1933). La serie delle Fonti (nove volumi in oltre seimila pagine) fornisce informazioni (raccolte mediante unapposita scheda) sui documenti contenenti materiale statistico di rilievo demografico conservati negli archivi di stato di 297 citt italiane. Si tratta di un inventario certo incompleto anche perch la sensibilit del ricercatore, archivista o altro, notevolmente mutata da allora, visto che la stessa definizione di dato demografico ha assunto una valenza diversa ma resta comunque un repertorio allepoca inesistente in altri paesi e che dimostra come concretamente il problema delle fonti e dei dati di base costituisse (come costituisce tuttora) il primum movens di ogni ricerca di demografia storica. Tuttavia gli interessi di ricerca per la demografia storica non si esauriscono qui: di fatto, mentre a Milano ci si muoveva nellambito di ununiversit privata (appunto la Cattolica), a Roma Gini operava nellam13 La bibliografia completa delle pubblicazioni edite dal Cisp si trova in allegato ad ogni fascicolo della rivista Genus, organo dello stesso.

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bito dellUniversit statale e, contemporaneamente, con legida dellIstituto centrale di statistica, del quale era presidente. Il legame fra le due istituzioni non era di poco conto (soprattutto perch, almeno allinizio, mediato da Gini): basti tener conto del fatto che Gini stesso fu propugnatore di una nuova facolt universitaria, quella di scienze statistiche, e di un nuovo corso di diploma universitario, quello appunto in statistica, destinati a fornire alle strutture pubbliche funzionari specializzati in statistica ma entrambi fortemente innovatori ai fini dello sviluppo della statistica e della demografia. Altrettanto significativo, a mio avviso, il fatto che, fra gli insegnamenti che figurano negli ordinamenti del corso di laurea e del corso di diploma, compaia proprio demografia storica e storia delle popolazioni. A sottolineare ancora il ruolo dellIstituto centrale di statistica si deve peraltro osservare che gli Annali di statistica funzionano come trampolino per giovani studiosi di demografia storica, come ad esempio nel caso di de Meo (de Meo, 1962 ma 1931). Luniversit statale o convenzionata resta comunque la sede peculiare della ricerca storico-demografica. ancora nelluniversit che si trovano altri esempi di indagini demografiche applicate alla storia, come quelle di Borlandi (1942) e del suo allievo C. M. Cipolla; come quelle di Livi (1914; 1920; 1940), che pure aveva collaborato con Gini alla costituzione dellIstituto centrale di statistica (del quale era divenuto capo del servizio studi) e, sulla scia di Livi, di Parenti (1937) e di Battara (1935). Livi perfezion e diede corpo organico alle sue riflessioni sulla storia dellevoluzione demografica nel Trattato di demografia (1940-41), fondendo con indubbia originalit e innovazione rispetto agli studi demografici dellepoca una rilevante molteplicit di prove etnografiche e antropografiche, demografiche e storiche, per analizzarne le caratteristiche influenti sulle forme associative, sulla struttura e sullo sviluppo della popolazione. Parenti, a sua volta, arriva alla demografia storica da ricerche di storia economica, collocandosi cos nel novero di coloro che ritengono appunto che la demografia storica sia sussidio della storia e fonte preminente della storia economica (secondo linterpretaziOne proposta da Kula cui si fatto cenno in precedenza; ma si vedano anche Ciccotti, 1909; Corridore, 1915; Fortunati, 1935). Il crollo del regime fascista segn, non a caso, una fase di declino degli studi di demografia in generale e di demografia storica in particolare: la demografia si era segnalata appunto come strumento del regime a giustificazione dei suoi interventi di politica della popolazione, coinvolgendo anche antropologia e genetica e un po tutte le discipline che avevano a oggetto, diretto o meno, luomo. Anche la demografia stori-

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ca, che pure risultava semplicemente una disciplina di cerniera fra pi fronti, venne rimossa dal posto di tutto rilievo che si era venuta conquistando: basti rileggere gli scritti di Gini, Livi, de Meo, Parenti, Savorgnan (quelli sinora citati direttamente o quelli la cui segnalazione compare in rinvii ad altri autori o fonti richiamati; si veda anche il capitolo di Santini, I metodi, in questa Guida) per rendersi conto che molti dei problemi e molte delle metodologie che saliranno poi alla ribalta tra i demografi storici a partire dagli anni cinquanta erano gi stati individuati nel nostro paese una ventina danni prima. La ricerca dei dati di base e lanalisi dei tratti e delle condizioni della riproduttivit e della mortalit erano le motivazioni che avevano spinto Henry da una parte e Goubert dallaltra a entrare negli archivi parrocchiali, ma erano le stesse che sottostavano alle indagini del Cisp e ai lavori degli altri studiosi anche se le metodologie (com ovvio, ma solo per certi aspetti) erano ancora da perfezionare. Solo alla fine degli anni cinquanta anche in Italia si ha una ripresa delle ricerche di demografia applicata alla storia. Tuttavia la demografia di nuovo percepita come strumentale nei confronti della storia economica: i dati di popolazione si rendono necessari, in modo determinante, per comprendere gli aspetti economici e il loro divenire nel tempo. In preparazione delle celebrazioni del primo centenario dellUnit, lIRI (Istituto per la ricostruzione industriale) costituisce un comitato di saggi tra i quali Cipolla, Parenti e Demarco cui viene affidato il compito di avviare una serie di ricerche sullevoluzione demografica e socio-economica delle regioni italiane nel secolo XIX. Accanto a pubblicazioni di contenuto specificamente storico-economico (sui prezzi, sul commercio estero, sulle monete e i salari, sui bilanci economici), lArchivio economico dellunificazione italiana questo il titolo della collana cura la pubblicazione di importanti studi di taglio storico-demografico sulla Toscana (Bandettini, 1956; 1960), sulla Liguria (Felloni, 1961), sulle Marche e lUmbria (Bonelli, 1967). Il progetto, purtroppo, sinterrompe per il venir meno delle forze e degli interessi. Ma su quella traccia si muovono altri studiosi: a Pavia, dove Cipolla succeduto a Borlandi e dove lavora Aleati (1957); a Bologna, dove, sotto la guida di Fortunati che ha collaborato con Gini Bellettini comincia a pubblicare una nutrita serie di studi (Bellettini, 1961; 1965; 1971; 1973); a Venezia con Beltrami (1954); a Torino con Germana Muttini Conti (1951; 1958; 1962). Se volessimo mantenere la distinzione fatta allinizio fra demografia storica e storia demografica, si tratta in definitiva di studi che rifletto-

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no interessi di storia della popolazione: si cerca bens di cogliere le caratteristiche demografiche e la loro dinamica nel tempo; si analizzano le cause dei fattori che ostacolano o che sostengono levoluzione demografica; ma nellinsieme le nuove vie di indagine, i nuovi problemi che agitano la demografia e che cominciano a informare di s la demografia storica compresi quelli metodologici - allopera in questo lasso di tempo allestero non sembrano trovare spazio o attenzione in Italia. Si ha cio la sensazione che gli anni del dopoguerra abbiano di fatto coinciso con un vuoto di idee (idee specifiche della demografia storica, cos come lho definita allinizio) rispetto alla vivacit che aveva caratterizzato gli anni trenta. Nel 1969, in occasione di una riunione scientifica della Societ italiana di statistica (SIS), Livi Bacci forte delle sue esperienze di ricerca nel Princeton European Fertility Project14 propose a un gruppo di storici e di demografi di dar vita al Comitato italiano per lo studio della demografia storica, ottenendo una pronta adesione e il patronato del Cisp, allora presieduto da Nora Federici; lanno seguente il Comitato per la demografia storica venne costituito, seppure informalmente, e diede lavvio a una feconda opera di coordinamento degli studiosi che, da fronti disciplinari diversi, si occupavano di demografia del passato. Fra il 1971 e il 1974 venne attuato un programma organico di seminari avente per oggetto una rassegna critica delle fonti disponibili e dei loro contenuti per lo studio delle popolazioni italiane del passato, la verifica dei metodi di utilizzazione di queste stesse fonti e, infine, lanalisi di alcuni aspetti delle interrelazioni fra demografia e condizioni economico-sociali. Le discussioni di questi seminari - cui parteciparono storici delleconomia e della societ, demografi, genetisti, statistici - si realizzarono in una serie di ponderosi volumi (Comitato italiano per lo studio della demografia storica, anni vari) che rappresentano un punto di riferimento indiscutibile per chi intenda accostarsi a questa disciplina, da qualunque settore o orizzonte disciplinare provenga. Nel contempo, da pi parti, ma nel quadro di una fattiva collaborazione, numerosi gruppi portavano avanti importanti progetti di ricerca che davano luogo a preziose pubblicazioni (Assante, 1975, ma anche 1967; Delille, 1985; Del Panta, 1980; 1984; Zanetti, 1972; si vedano anche
14 Nel 1968 unapposita riunione di studiosi della nuova demografia storica, tra cui Livi Bacci, tenutasi a Bellagio a cura della American Academy of Arts and Sciences, fece un bilancio delle ricerche nel settore, mettendone in evidenza le innovazioni, sia in termini di metodo, sia in termini di risultati (AA.VV., 1968). Lanno seguente, a Firenze, vide la luce il volume collettaneo dei Saggi di demografia storica (AA.VV., 1969).

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i diversi contributi raccolti in Comitato per la demografia storica, anni vari). Nel 1977, infine, al termine di un ultimo seminario del Comitato sulle crisi di mortalit in Italia (Livi Bacci, 1978), venne decisa la sua trasformazione in Societ italiana di demografia storica (Sides), cui fu assegnato lo scopo istituzionale di favorire lo sviluppo degli studi e delle ricerche nel settore, promuovendo convegni nazionali e internazionali, curando ledizione di pubblicazioni scientifiche, organizzando seminari e corsi di formazione. Da allora sono stati organizzati svariati convegni nazionali e internazionali: sulla ripresa demografica del Settecento (Sides, 1980), sulla demografia storica delle citt italiane (Sides, 1982), sulla popolazione italiana nellOttocento (Sides, 1985), sulla popolazione delle campagne in Italia fra XVII e XIX secolo; sul funzionamento demografico delle citt (Annales de dmographie historique, 1982); sui problemi di storia demografica medievale (Comba, Piccioni e Finto, 1984); su strutture e rapporti familiari in epoca moderna; sullinfanzia abbandonata (Enfance abandonne et socit, 1991); su temi diversi di demografia del Mediterraneo (Sides, 1990); su fonti archivistiche e ricerca demografica, nel 1990; oltre a un seminario sullutilizzazione del personal computer in demografia storica e la collaborazione a un con vegno dellUniversit di Bari sulla famiglia nella storia (entrambi nel 1988). Fra gli scopi che la Sides si prefissa ha avuto un ruolo importante quello relativo alla formazione tecnica e metodologica di giovani studiosi, di diversa formazione culturale, nel campo della demografia storica, mediante lorganizzazione di corsi di formazione, cui si aggiunta una mostra su aspetti iconografici e documentaristici dellevoluzione della popolazione toscana fra i secoli XIV e XX e un seminario su Nuptiality and the Family (1988), in collaborazione con lIstituto universitario europeo di Firenze. Insieme alledizione degli atti dei convegni nazionali e internazionali, la Sides cura anche dal 1984 la pubblicazione di un Bollettino di demografia storica. Unattivit molto intensa, dunque, sostenuta da un nutrito insieme di pubblicazioni che testimoniano limportante contributo svolto dalla Sides alla diffusione in Italia della demografia storica, anche se non immune da influenze provenienti dallestero ma caratterizzata comunque da peculiari originalit di indagini (ancora una volta sono le fonti a dettare queste nuove problematiche). Si cos assestato un patrimonio culturale, per cos dire, che ha concorso al collocamento della demografia storica, in Italia, come disciplina chiave, ma fornita di una sua specifica autonomia, nellambito delle scienze umane e sociali.

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3. Esattezza e indeterminatezza 3.1. Alla conquista dellautonomia Mi sono richiamato qua e l al problema delle fonti: questa la connotazione specifica che distingue la demografia storica dalla demografia tout-court, nel senso preciso che le fonti dei dati di cui si serve oggi la demografia (per intendersi meglio: la demografia che studia le popolazioni contemporanee o che le estrapola nel futuro) sono formate con finalit che non sono individuate dal loro diretto utilizzatore, dal demografo: i dati vengono cio rilevati (di norma) per essere messi a disposizione del demografo, senza aver preliminarmente considerato le sue esigenze di studio. Solo in questi ultimi anni, proprio ai fini di una migliore comprensione della realt contemporanea (se vogliamo, da una parte per una sorta di spirito imperialistico che viene manifestando il demografo, dallaltra perch i problemi di popolazione divengono sempre pi pressanti e rilevanti e ci si rende ormai conto che soltanto il demografo professionista pu adeguatamente maneggiarli), i dati sono rilevati dietro suggerimento dello stesso demografo, per suo intervento diretto nella fase preliminare della rilevazione. I dati di cui si avvale invece la demografia storica hanno una caratteristica molto diversa, essendo stati creati in epoche passate con scopi ben diversi e, peraltro, con scopi il cui significato preciso sfugge alla comprensione dello studioso doggi. Vediamone qualche aspetto, rapidamente, ricordando che mi riferisco ai dati rilevati in epoche nelle quali non esisteva alcuna autorit costituita con lo scopo di effettuare tali rilevazioni, vale a dire che si parla di epoche pre-statistiche, ben diverse, peraltro dalle situazioni (anchesse pre-statistiche) in cui si trovano, oggi, le rilevazioni statistiche di molti paesi (ad esempio i paesi cosiddetti in via di sviluppo economico e sociale). Rifacendoci alla classica dicotomia tra fonti di stato e fonti di flusso, per quanto concerne le prime diciamo che le fonti principali per la demografia storica sono appunto quelle che forniscono informazioni (meglio sarebbe dire dati statistici, cio analizzabili con metodi quantitativi) di consistenza riguardo a una determinata popolazione: enumerazioni, censimenti, liste di individui, status animarum e cos via, fonti cio che contano le persone, che comunque diano allo studioso la possibilit di analizzare specifiche caratteristiche di questa popolazione, a un momento dato. Si badi bene questa la prima difficolt che non

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si trattava di un momento come quello cui si riferisce il censimento contemporaneo; di norma si trattava di un intervallo di tempo non facilmente individuabile, durante il quale potevano verificarsi fenomeni che disturbano lanalisi che se ne pu fare oggi: ad esempio, la redazione di uno stato delle anime (effettuato a cadenze annuali, in occasione della benedizione delle famiglie fatta per le festivit pasquali) prendeva diversi giorni, in funzione della numerosit delle anime da rilevare; se durante questo intervallo si verificavano nascite o decessi o matrimoni, o se alcune famiglie emigravano o altre arrivavano, il parroco non ne teneva conto, perch rilevava la situazione effettivamente esistente nel giorno in cui procedeva alla conta. Ma il demografo che analizza oggi quei dati deve avere la certezza della consistenza di tale popolazione, dellesattezza delle informazioni, in riferimento al tempo. Qual dunque il tempo di riferimento? La data alla quale il parroco inizia la sua conta, oppure quella terminale? Ancora una difficolt, o esigenza di esattezza, quella che si riferisce alla completezza delle informazioni: in una simile conta ci sono tutti? Il parroco aveva forse motivi per escludere alcune persone dalla lista? Trattandosi di una fonte cattolica, appare ovvio che coloro che professavano una religione diversa fossero esclusi; e le notizie sugli individui censiti (et, professione, stato civile e cos via) sono fornite indiscriminatamente per tutti? peraltro evidente che lesigenza di esattezza, relativa alla qualit dei dati (completezza, comparabilit e altri criteri), non vale solo per i registri di consistenza delle popolazioni ma si pone per qualunque fonte, religiosa o civile che fosse, di stato comera una lista fiscale, un censimento, uno status animarum oppure di flusso come i battesimi, le sepolture, i matrimoni, i quali si svolgono durante il tempo, giorno per giorno, mese per mese. Di fatto, per quanto concerne le fonti sia di stato sia di flusso occorre accertare quale autorit stava allorigine della rilevazione, se non altro perch gli scopi erano ben diversi. ben difficile che due fonti dello stesso contenuto esattamente contemporanee forniscano dati esattamente eguali. Si rifletta, ad esempio, sul fatto che le fonti religiose forniscono dati relativi a battesimi che possono essere celebrati anche qualche giorno dopo la nascita (nellintervallo il neonato pu morire e quindi non essere battezzato), mentre al contrario le fonti civili non si interessano (allepoca) dei nati-morti, che invece possono essere rilevati nei registri parrocchiali. Le discordanze attengono prevalentemente al fatto che i registri parrocchiali accertano lesistenza di un sacramento, come venne stabilito nel Concilio di Trento e richiamato nel Rituale Romanum del 1614, o mirano a controllare lortodossia dellindividuo (lo stato delle anime era dettato appunto per con-

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trollare il rispetto del precetto pasquale della confessione e della comunione almeno una volta lanno), mentre le registrazioni civili che, di fatto, risalgono alla dichiarazione dei diritti della rivoluzione francese e che, in seguito, sono state recepite dalle istituzioni nazionali mirano ad accertare la situazione di diritto/dovere che coincide con ciascuno degli eventi (nascita, decesso, matrimonio). Ecco, allora, che prima di sottoporre a qualunque analisi i dati ritrovati, occorre procedere a un attento esame critico degli stessi e della fonte che li contiene: tale esame richiede particolari cure e competenze storiche da parte del demografo, che deve essere in grado di leggere, cio di interpretare il documento avendo presente la doppia condizione in cui questa lettura pu essere effettuata; infatti il significato di ogni documento sia quello che sta dentro esso (il segnale interno) cos come stato scritto allorigine, sia quello che da esso si pu ricavare (il segnale esterno). Ma loriginalit della demografia storica sta anche nel fatto che i dati di cui essa si serve sono per cos dire ricreati dal demografo: il demografo che, poste certe ipotesi e dati certi problemi dindagine (ad esempio, perch let al matrimonio dei giovani del Settecento era diversa da quella dei giovani doggi? A quali condizioni si accedeva al matrimonio? Quali ne erano le implicazioni? Perch era il matrimonio Io strumento determinante dellevoluzione di una popolazione?) va alla ricerca del materiale necessario per portare alla luce le radici nascoste dellalbero (mi si permetta la metafora) di cui vuol studiare le componenti attuali, le fasi di sviluppo passato, le cause che lo fanno cos com ai suoi occhi. Ma tutto questo altro non significa che piena autonomia della demografia storica, molto pi, forse, della demografia tout-court: evidentemente la ricerca stessa condotta su dati storici la ragion dessere della demografia storica e viene ad assumere il ruolo di una vera e propria fondazione epistemologica per la disciplina. Lesattezza di cui ho parlato ha in effetti due significati: il primo concerne la completezza dei dati in termini di quantit, il secondo si riferisce al loro contenuto in termini di qualit; per quanto concerne lanalisi ciascun aspetto comporta ricadute specifiche, relative alle metodologie che si possono applicare per arrivare a spiegare il modo di collocarsi degli eventi oggetto di studio in quel tempo e in quella popolazione. Va richiamata in proposito lopera svolta dal Comitato italiano per lo studio della demografia storica che, nel corso dei seminari cui ho fatto cenno in precedenza, ha lavorato assiduamente con lo scopo di chiarire ai ricercatori e agli studiosi le esigenze di esattezza che devono essere considerate come condizioni preliminari di ogni ricerca: tali esigen-

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ze sono state, per cos dire, fatte proprie sia dal Cisp tuttora attivo (se non altro perch pubblica la rivista Genus) promuovendo ad esempio linventariazione di fonti demografiche o, comunque, di fonti che contengano dati suscettibili di lettura in chiave demografica15 sia dalla Sides che, attraverso le sue diverse attivit, si propone di legare pi strettamente tra loro ricercatori formati su territori diversi ma accomunati dallinteresse per la popolazione del passato. Tuttavia, come conseguenza dellinternazionalizzazione della demografia storica, proprio a opera di organismi internazionali che la verifica di metodologie avanzate ha ricevuto uno stimolo di tale importanza che non potr non far raccogliere i frutti auspicati. 3.2. Un pezzetto di legno liscio e vuoto Allora Marco Polo parl: La tua scacchiera, sire, un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccit: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tent di spuntare in un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte lobblig a desistere. Il Gran Kan non sera finallora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. Ecco un foro pi grosso: forse stato il nido duna larva; non dun tarlo, perch appena nato avrebbe continuato a scavare, ma dun bruco che rosicchi le foglie e fu la causa per cui lalbero fu scelto per essere abbattuto... Questo margine fu inciso dallebanista con la sgorbia perch aderisse al quadrato vicino, pi sporgente.... La quantit di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; gi Polo era venuto a parlare dei bo15 Cos negli ultimi anni il Cisp ha curato la pubblicazione di inventari di fonti religiose, estendendo cio a un altro settore, appunto agli archivi ecclesiastici, la raccolta originaria delle Fonti: si vedano quello relativo alla Sardegna (Anatra e Puggioni, 1983) e quello della diocesi di Perugia (Leti e Tittarelli, 1976-80)..Queste stesse esigenze di fotografare la consistenza degli archivi e preparare cos il terreno a studiosi e ricercatori comune anche ad altri: per il Veneto Agostini (1989), per il bolognese Bellettini e Tassinari (1977), per la provincia di Parma Moroni et al. (1985), per le campagne lodigiane Roveda (1985), per Milano Sala (1985), per la pianura bolognese Samoggia (1986). In precedenza oltre a Bandettini (1961), per la Toscana si vedano quelli pubblicati dal gruppo di Bari facente capo a Giuseppe Chiassino (Chiassino et al., 1965; 1971; 1973; 1978). Mi scuso con altri studiosi se non sono stato in grado di dar notizie complete sullargomento, ma, daltra parte, questo mio lavoro non ha la pretesa di fornire un bilancio completo.

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schi debano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre 16. Il tassello di legno di cui parla Marco Polo pu essere lemblema del nulla, agli orecchi di chi lo ascolta o agli occhi di chi, come il Kan, lo sta guardando, come pu essere, del resto, un documento darchivio un pezzo di carta antica con numeri ed elenchi di persone, ad esempio considerato (dal ricercatore) soltanto come il residuo frammentario dellesigenza razionalizzatrice di uno scrivano del passato intenzionato a dar conto di una realt aggrovigliata e dal quale il lettore spesso frettoloso doggi poco pu ricavare. Ma lo storico e il demografo accorto possono in realt interpretarne il contenuto, cogliere la realt viva che vi malamente, perch sinteticamente, riflessa: come fa Marco Polo, che di un semplice pezzetto di legno liscio e vuoto, anche con la forza dellimmaginazione, riesce a ricostruire le vicende; intorno a quel pezzetto di legno, che a una prima occhiata del Kan ridotto a qualcosa di insignificante, riesce a riavvolgere le fila di un vissuto, indietro nel tempo. Ecco, allora, che il binomio esattezza-indeterminatezza sopra discusso assume non solo i due significati anzidetti, ma prospetta due direzioni di lavoro: da una parte il ricorso o la riduzione dei dati a metodi danalisi rigorosi ma razionali, dallaltra anche senso storico (ma non so, in verit, quanto senso storico occorra per fare sul serio demografia storica; e, poi, che cosa significa veramente senso storico?). La prima direzione, proprio per le difficolt della ricerca in demografia storica, per la sua palese multi-disciplinarit, per il fatto che coinvolge conoscenze diversificate linguaggi e vocabolari diversi, modi diversi di esprimere e di raccontare richiede autentica collaborazione interdisciplinare (se ne parlato cos tanto che, forse, ha perso il suo vero significato). La ricerca demografica resta di fatto una struttura, unorganizzazione, sfaccettata: ogni parte potrebbe essere legata alle altre al di fuori di una consequenzialit o gerarchia e potrebbe risolversi in un insieme non organico di esperienze e congetture. Per questo, se si vuoi conseguire uninterpretazione unitaria e globale, occorre mettere insieme al lavoro lettori accorti dei diversi sintomi o segni che compaiono nei documenti darchivio. Solo il filtro di esperienze diverse pu rendere intelligibile una realt che allocchio di uno solo pu invece restare nascosta e definitivamente sepolta nel passato.
16 Calvino (1972, pp. 140-41). La spiegazione (in realt si tratta di auto-esplicazione) pi esatta di questo brano indubbiamente quella che ne d lo stesso Calvino nel suo scritto postumo Lezioni americane (1988, pp. 70-72).

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Alla base di tutto, poich la demografia storica comunque studio di masse, anche se pu passare attraverso la strada della raccolta di dati individuali come ad esempio nel caso della micro-demografia della ricostruzione delle famiglie alla base di tutto sta luso di metodologie statistiche, le uniche che possono accomunare i differenziati punti di vista. Esattezza di significati, ma insieme anche esattezza di analisi, o di significanti. Ora ben vero che pure la demografia ha un suo strumentario specifico che in parte si originato, o per lo meno si perfezionato, nelle ricerche di demografia storica e che in progressivo assestamento (Willigan e Lynch, 1982; Santini e Del Tanta, 1982; Universidad de les Illes Balears e Iussp Committee on Historical Demography, 1991; United Nations, 1983). In questo terreno lapporto delle istituzioni, quali le societ nazionali di demografia storica e lUiesp, veramente importante perch contribuisce a mettere a confronto esperienze diverse, a recuperare idee e proposte e a divulgarle. Pertanto la strada della metodologia di base, seguita passo passo con il sostegno delle problematiche specifiche della demografia (in quali modi si studia, o si deve studiare, una popolazione?) pu costituire lo strumento unificante delle diverse frontiere disciplinari. La seconda direzione, daltro canto, richiede al demografo una riflessione, non per ripiegare su se stesso ma per aprirsi verso gli altri studiosi, senza mistificazioni e reticenze: senso storico non significa disposizione solo verso la storia, ma anche verso la sociologia, la psicologia e la genetica, lantropologia, la medicina e cos via, con un po di immaginazione: come quella dalla quale, al suono delle parole di Marco Polo, si lascia trasportare lentamente il Kan (daltra parte, come si pu ricostruire il vissuto di persone di cui non restano pi tracce, se non scarni e sbiaditi riferimenti su vecchi documenti, e delle quali si pretende invece di conoscere in quale modo hanno regolato i propri comportamenti demografici?).

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Capitolo sesto Demografia e biologia Italo Scardovi

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Italo Scardovi

tazioni biologiche1. La demografia rischia dunque di scadere la conclusione sconsolata e sconsolante dal rango di scienza a quello di semplice tecnica, per effetto di questo lasciare in ombra la sua vocazione interdisciplinare..., con una implicita tendenza a delegare eventualmente ai cultori delle discipline pi direttamente coinvolte linterpretazione dei fenomeni demografici. Nora Federici si chiede allora se il demografo debba soltanto limitarsi allanalisi pi propriamente tecnica e lasciare di volta in volta ai cultori di altre discipline linterpretazione delle tendenze da lui correttamente individuate. Una demografia che preferisce delegare linterpretazione dei fenomeni che osserva, una demografia che sappaga della descrizione di superficie, non pu avere attenzione alla dimensione scientifica dei fenomeni delle popolazioni umane. La demografia losservazione di Keyfitz (1984) ... si ritirata dai suoi confini e ha lasciato una terra di nessuno in cui si sono infiltrate altre discipline. Fra queste, prima di ogni altra, la genetica di popolazioni. Ma Keyfitz non dispera: Il nostro obiettivo scrive ... sensibilizzare i demografi agli aspetti biologici. Non c dubbio osserva Livi Bacci (1981) che gran parte degli eventi e dei fenomeni demografici siano manifestazioni di processi biologici. E ovvio soggiunge che il demografo non pu essere biologo, genetista, naturalista, geografo, antropologo, economista, sociologo allo stesso tempo. Ma egli deve mantenere rapporti attivi con queste discipline. Di qui linterdisciplinariet dellindagine demografica quando essa si sposti dalla fase della enumerazione dei fenomeni... alla fase della ricerca delle cause2. La domanda se questultima fase non sia ormai sfuggita al dominio della demografia. Certo, il demografo non pu essere tutto; ma de1 Una pi attenta e approfondita analisi dei fattori biologici - spiega Nora Federici (1987) - potrebbe chiarire alcuni andamenti difficilmente spiegabili con il ricorso ai fattori sociali (ad esempio, la crescente super mortalit maschile). La supermortalit maschile - un tema classico della tradizione demografica - un tipico esempio di sovrapposizione tra variabili biologiche e variabili ambientali. La minore durata media della vita dei maschi nella specie umana, da sempre attribuita alla diversit sociale del vivere dei due sessi, ha rivelato, allesame delle tendenze storiche, una chiara origine genetica: nel tempo, la difformit nelle condizioni di vita delle compagini maschili e femminili andata sensibilmente riducendosi, e non per questo il divario tra i due sessi si attenuato. Anzi, si accresciuto. 2 Scrive Livi Bacci (1981): Nel campo delle discipline prevalentemente sociali - come la demografia - il progresso scientifico avviene sia perfezionando i procedimenti metodologici od inventandone di nuovi, sia migliorando la qualit, il dettaglio, lampiezza dellinformazione ed in particolare modo quella statistica.... Ci, evidentemente, al fine di analizzare a fondo i fenomeni demografici, mettendo possibilmente in risalto le leggi, le regolarit, le interrelazioni con altri fenomeni - biologici, economici e sociali.

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ve saper intendere gli apporti di altre scienze, cos da fare della demografia una vera disciplina di sintesi. Altrimenti come scrive Nora Federici (1987) resta inevitabilmente escluso dalla possibilit di contribuire al progresso scientifico... nel campo degli studi siila popolazione. Le opinioni appena riferite di studiosi di grande spicco concorrono a delineare Io stato dellarte e delle attese in un settore fondamentale della ricerca e le difficolt attuali di una disciplina che rischia di abdicare al suo ruolo. Se la distinzione tra le culture ha una sua ragione storica di essere, una ragione un poco dimentica dellunit profonda del sapere al di l delle necessarie specializzazioni, essa non deve costituire alibi di comodo per nessuno: tanto pi nelle scienze interdisciplinari, nelle fenomenologie di confine. Qui, lunilateralit culturale, la chiusura specialistica, lestraneit corporativa sono ancora pi immotivate e dannose. 2. La demografia tra fenomeno ed epifenomeno Forse perch luogo scientifico di confronto, la demografia soffre oggettivamente di una sua immanente stranezza. Quanto pi se ne approfondiscono i contenuti, tanto pi essi si trasformano. Se dagli epifenomeni demografici si va ai fenomeni che vi concorrono, essi perdono via via i tratti propri della demografia: diventano, per un verso, biologia, genetica, antropologia e cos via; per altro verso, sociologia, economia, etnologia ecc. Sono tutti questi contenuti a fare della demografia una virtuale koin euristica, della realt demografica un contesto naturale e sociale insieme. Ebbene, questa molteplice qualit della demografia, che tanto dovrebbe arricchirla scientificamente e nobilitarla culturalmente, resta di fatto inespressa, quando non addirittura negata. Quasi che una demografia fondata sulle popolazioni, sulla loro genesi storiconaturale, sulla loro struttura biologica profonda, debba per questo sottrarsi alle inevitabili implicazioni etico-sociali della vicenda umana. Viene dalle scienze della natura limmagine di una rinnovata sintesi di fenomeni e di metodi, sul fondamento di una nuova unit metodologica del pensiero razionale: il rigido steccato tra scienze della materia e scienze della vita ormai caduto e tante discipline un tempo lontane hanno imparato a riconoscere le proprie comuni radici logiche ed empiriche. Perch una pur parziale integrazione, sintattica e semantica, tra sapere naturale e sapere sociale non deve aver luogo nella scienza delle popolazioni umane, ove loggetto della ricerca vede incontrarsi luno e laltro mondo fenomenico?

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La risposta da ricercarsi nelle linee di pensiero donde proviene la demografia, nella sua vicenda di disciplina sempre pi dominata dal contingente, sempre meno attenta alle popolazioni in quanto popolazioni. Eppure, per aver guardato alle popolazioni come a realt divenienti attraverso il gioco della variabilit individuale uninterpretazione squisitamente statistica del fenomeno della vita che Darwin ha potuto rinnovare dal profondo la biologia portando la natura nella storia e la storia nella natura. Si vuole che demografia e statistica siano cresciute insieme, sorelle di latte (lespressione di Nora Federici), nella culla di certa pratica secentesca intesa alla descrizione numerica di popoli e di luoghi. Di l, certo, hanno tratto la loro ragion dessere, nei tempi moderni, organismi pubblici dediti alla rappresentazione quantitativa delle comunit organizzate, allo scopo, nel passato e nel presente, di offrire elementi per unazione di governo fondata sulle cose, argomentata nei dati. Ma quando savviavano quelle notitiae cominciavano ad apparire, attorno al cenacolo baconiano della nascente Royal Society, alcuni curiosi tentativi di indagine quantitativa sulle popolazioni, motivati dallistanza empirista di cercare, nei fatti del reale, negli avvenimenti del quotidiano, proporzioni, regolarit, leggi. Qui, lintento non amministrare: conoscere; non descrivere una collettivit definita e circoscritta nelle sue caratteristiche statiche e dinamiche: cogliere, in un contesto empirico assunto come espressione contingente di una pi ampia realt fenomenica, le leggi di tendenza delle popolazioni, le loro determinanti remote, le loro implicazioni collettive. Che nelle parrocchie londinesi della met del Seicento si battezzino pi maschietti che femminucce o nei sobborghi la vita si concluda in et pi giovane che nei quartieri dei privilegiati, non interessa al reggitore della cosa pubblica quanto allindagatore dei fenomeni, naturali e sociali, delle compagini demografiche. Ed costui a interrogarsi sul grado di generalit e di stabilit delle regolarit acquisite. Coraggiose induzioni, che verranno etichettate come aritmetica politica per il loro tradurre in numeri e in rapporti tra quantit dominio fino allora incontrastato delle scienze della phsis gli eventi della polis, le vicende delluomo. Quella filosofia empirista rivivr in qualche modo due secoli pi tardi, nel movimento di pensiero da cui prenderanno forma ad opera di astronomi intenti a cercare sulla Terra regolarit matematiche appena assimilabili a quelle scorte nel cielo una nuova fenomenologia e una nuova metodologia. Ne verr la statistica scientifica: un metodo universale della ricerca che riprende ed estende il canone galileiano il ca-

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none della scienza a tutti i fenomeni calati nella immanente variabilit. Ne verr, poi, una nuova intuizione della realt e il concetto di legge statistica diverr enunciato comune a tutto un sapere, a cominciare dal sapere fisico, mentre una nuova filosofia naturale, non pi rigidamente determinista, apprester i fondamenti statistici, appunto di una nuova logica. S che pare quasi impossibile riconoscere, in quei remoti e stravaganti aritmetici, i pionieri di un metodo andato ormai tanto lontano dalle loro concezioni e dai loro intendimenti. Un metodo che detta il codice interpretativo delle particelle elementari della materia, dei costituenti intimi della vita, delle leggi delle popolazioni, siano esse di molecole o di viventi. Ma senza lapporto di conoscenze e di problemi venuto dai fenomeni demografici, forse la statistica non avrebbe avuto tanto successo e la stessa demografia non avrebbe saputo proporsi senza una coerente innervatura metodologica. 3. La demografia tra essere e dover essere La scienza tale in quanto conoscenza, in quanto coglie le leggi del reale, la natura profonda dei fenomeni, le componenti intime dei processi. Cos nelle scienze naturali: scienze vere e proprie, scienze dellessere. E una sorta di sovrapposizione allessere di un dover essere quasi ignaro delle ragioni dellessere a collocare certe discipline sociali in una sorta di limbo parascientifico, tanto pi vago e sfuggente quanto pi lontano dai canoni del sapere razionale. E un poco la sorte della demografia. In essa savverte talvolta lafflato precettistico di certo sociologismo rivolto alla realt non tanto come a un contesto da cogliere nella sua genesi e nei suoi algoritmi quanto, e pi, come a un problema da risolvere in qualche modo. E pur vero che non sempre facile guardare gli aggregati umani con locchio oggettivo del naturalista, considerare le leggi demografiche come leggi scientifiche senza accompagnarvi motivazioni etiche, studiare il divenire delle popolazioni con lo stesso distacco del fisico al cospetto di un processo termodinamico nella freccia del tempo o del microbiologo davanti allaccrescersi di una coltura batterica. Si possono facilmente considerare con lindifferenza scettica della scienza sperimentale le formiche; molto pi difficile considerare allo stesso modo gli uomini ha scritto Pareto; ed ben noto linterrogativo di Skinner: Perch tanto difficile trattare scientificamente del comportamento umano?.

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Non si pu certo pretendere di rispondere proponendo di far tuttuno degli schemi concettuali costruiti sui fenomeni della natura e di quelli costruiti sui fenomeni della societ: per molte discipline dellordine non naturale un autentico assetto nomotetico semmai sia pensabile ancora assai lontano; n ci si deve illudere di giungervi attraverso superficiali forrnalizzazioni, spesso destinate a risolversi in goffe mascherature simbolistiche. Tuttavia una sintesi transdisciplinare che sia confronto critico di paradigmi, che assuma gli schemi formali come artefatti-limite, pu contribuire ad allargare lorizzonte conoscitivo. Se non lecito pensare di trapiantare, sic et simpliciter, da un campo allaltro, principi e metodi, regole e modelli, nemmeno si pu credere ammonisce Lewontin (1984) di esportare concetti dal contesto sociale, per reimportarli dopo aver ad essi fornito una rispettabilit scientifica in ambito biologico (come non pensare, un esempio fra i tanti, a Herbert Spencer, al suo rivestire di un evoluzionismo biologico male inteso tesi sociologiche incompatibili con la teoria darwiniana?). Tra demografia e scienze della natura sussistono intersezioni fenomenologiche e metodologiche: quelle fenomenologiche attengono alle determinanti genetiche dei fenomeni demografici e alle conseguenze genetiche di questi; quelle metodologiche non sono tanto e soltanto nelluso di comuni strumenti quanto e pi nellunicit del canone di lettura dei fenomeni, un canone essenzialmente statistico. Linterpretazione scientifica del fenomeno della vita ormai irriducibilmente popolazionistica, sulla falsariga di unanalisi statisticoprobabilistica dei fenomeni naturali: la linea di pensiero di tutte le scienze che hanno imparato a trattare popolazioni (di particelle, di nucleotidi, di genotipi o di viventi): dalla cinetica del calore alla biologia evoluzionistica, dalla genetica alla meccanica quantistica; e perch non anche alla demografia, il cui oggetto, la popolazione umana, in se stesso espressione di variabilit, immanente e diveniente? Che cos la termodinamica se non lo svolgersi di processi molecolari collettivi statisticamente irreversibili? Che cos la disintegrazione radioattiva se non lestinguersi nel tempo di un aggregato di atomi? Che cos la meccanica quantistica, se non codificazione delle propriet statistiche di insiemi di costituenti elementari? E che cos levoluzione biologica se non il divenire delle specie viventi attraverso il gioco combinatorio, nelle popolazioni, di quella variabilit individuale in assenza della quale la vita scomparirebbe3? Dunque, un canone statistico e demografico insieme:
3 Per eventuali approfondimenti in argomento si rinvia a Scardovi (1983a; 1988). Si pu inoltre vedere Scardovi (1977).

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lincontro di natura e storia, di gene e ambiente, di accidentalit e necessit. Nellalfabeto del caso una grande unit linguistica e concettuale s ormai affermata e coinvolge scienze della materia e scienze della vita. E Jacquard (1984) a ricordarci che la probabilit statistica pu essere lo strumento intellettuale di una nuova interdisciplinarit, di un legame gnoseologico tra demografia e biologia. Se il genetista questa, in sostanza, la tesi di Jacquard savvale delle conoscenze della demografia per definire la popolazione di riferimento, il demografo che non voglia soltanto descrivere non pu ignorare la genetica e i suoi modelli, che sono modelli statistico-probabilistici. Interrogarsi sul ruolo conoscitivo della demografia, quale luogo di incontro tra ricerca sulla natura e ricerca sulluomo, tra cultura scientifica e cultura umanistica, significa dunque ripensare il contenuto di una disciplina per molti aspetti strana. Quanto pi la si approfondisce, tanto pi essa sfugge; tanto meno, per cos dire, demografia; la sua duplice anima, del naturale e del sociale, sembra essere diventata ormai una pietra dinciampo, un principio di contraddizione. Non sempre il demografo losservatore razionale dei fenomeni delle popolazioni: , pi spesso, il portatore di visioni e di problemi contingenti, pi attento alla politica demografica che a una scienza demografica; tratta di natalit, di mortalit, di migrazioni, facendo tuttuno dellanalisi degli eventi e della preoccupazione sociale suscitata dal divenire di questi. Ancora il dover essere, quel dover essere che fa, delle scienze delluomo, scienze di tipo assai particolare. Di qui il difficile comporsi di una vera scienza delle popolazioni umane e la crisi didentit di una demografia ormai incapace di compiere la sintesi direbbe un poeta di frantumi di vari universi / che non riescono a combaciare. 4. La demografia nella grande tradizione italiana Una demografia che non voglia ridursi a semplice numerologia censuaria non pu non riandare alle radici di un passato un passato italiano ormai lontano nel tempo e ancor pi nelle scelte culturali. Dallopera dei pi illuminati demografi del primo Novecento e degli eredi di quella tradizione viene, pur tra contraddizioni e contrasti, una lezione autentica di interdisciplinarit, un esempio ancor vivo di ricerca del fenomeno oltre lepifenomeno, nonch un invito a non guardare con distacco, se non addirittura con sospetto, chi osa porre certa fenomenologia in chiave biostatistica. Nel discorso inaugurale al Congresso internazionale per gli studi sulla popolazione (Roma, settembre 1931), premesso che lo studio della

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popolazione si conduce sui fatti, ma senza le direttive di schemi teorici i fatti risulterebbero, invero, unaccozzaglia informe di materiale, un grande caposcuola, C. Gini (1931), affermava: Molte delle indagini sulle popolazioni attuali e sulle passate a poco tuttavia approderebbero se i risultati della demografia non fossero ravvicinati a quelli ottenuti dalle altre scienze.... E non solo intendo delle altre scienze sociali e in particolare delleconomia politica, con cui da Malthus in poi la teoria della popolazione rimasta indissolubilmente connessa, ma anche, e vorrei dire soprattutto, delle scienze biologiche... e delle scienze fisiche. In quellet aurea della demografia italiana Gini aveva pensato e avviato, attivissimo, nel 1931, il Comitato italiano per lo studio dei problemi della popolazione (Cisp), articolato in otto sezioni, tre delle quali dedicate ai: temi di interesse bionaturalistico, e diretto a promuovere, a condurre e a coordinare indagini autenticamente interdisciplinari sulle popolazioni: lorizzonte investigativo andava dalle scienze della natura alle scienze delluomo, dalla biologia alla demografia, per lintermediazione logica e tecnica della statistica. Quella che Gini chiamava una concezione pi larga degli studi sulla popolazione improntava tutta una serie di riflessioni sulla metodologia della ricerca e di ricerche sul campo fra le pi diverse etnie: dai danada tripolitani ai bantu rhodesiani, ai berberi del Gebel, ai samaritani di Palestina, alle comunit umane dellHimalaya e a quelle del Messico; dagli otomi dellHidalgo agli aztechi di Tuxpan, ai cora della Sierra Nayarita, ai taraschi del Michoacan e cos via. Una demografia davvero scientifica e multidisciplinare: una vera scienza delle popolazioni umane4. Esponendo, nel 1933, al Medical Building di Cleveland il programma di ricerche del Comitato, Gini (1934a) ammoniva: lo studio scientifico delle popolazioni non pu essere limitato... alla illustrazione dei dati sullo stato e sul movimento della popolazione, quali si possono desumere dalle rilevazioni dei censimenti e da quelle del movimento dello stato civile... Una conseguenza di tale situazione che lo studio della popolazione viene quasi dovunque incluso nelle scienze sociali e separato dalle scienze biologiche. Dunque, gi in quegli anni si avvertiva la tendenza a una scelta monoculturale della demografia, al seguito delle rilevazioni pubbliche sulle popolazioni. Ma non per questo la ricerca demografica di Gini e della sua scuola trascurava davvalersi dei risultati delle rilevazioni nazionali. Se io penso chiariva Gini (Gini, 1934a e Federici, 1943), a commento delle prime
4 Le inchieste del Cisp erano ispirate a una visione globale delle realt osservate: indagine demografica, indagine antropometrica e indagine biomedica si affiancavano e si integravano lun laltra. Si veda Gini e Federici (1943).

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spedizioni scientifiche da lui guidate che il metodo migliore per studiare le popolazioni rappresentato da ricerche di questo genere, non svaluto tuttavia le ricerche fatte sui dati statistici del movimento della popolazione. Di ci dava prove esemplari in saggi illuminanti per originalit di metodo e acutezza di interpretazione (basti ricordare, per un solo riferimento, una prima, parziale raccolta di scritti: Gini, 1934b). Nel 1934, Gini fondava Genus, rivista scientifica del Cisp5 e nel 1936 la Facolt di scienze statistiche, demografiche e attuariali dellUniversit di Roma. Uno dei corsi di laurea era in scienze statistiche e demografiche, e nel piano degli studi figureranno, in un breve volger danni, discipline naturalistiche; avvilente notare come tali discipline (tuttora previste negli ordinamenti universitari) siano oggi in gran parte neglette. Ancora un sintomo dellallontanarsi degli studi demografici dalla biodemografia e dalla biostatistica, ancora un effetto della scelta monoculturale a orientamento socio-economico6. Se le analisi giniane sui dati censuari e anagrafici della popolazione italiana anticipavano metodi e criteri destinati ad affermarsi, talora per riproposizioni autonome, nei decenni che verranno e ancora ai giorni nostri, le spedizioni scientifiche nei pi svariati angoli del pianeta precorrevano certe intuizioni della genetica attuale. Lo stato delle conoscenze in materia era ancora lontano dagli sviluppi delle scienze che verranno, ma quelle indagini su popolazioni isolate e sul loro divenire, sullevolversi di etnie appartate e sui processi di decadenza possono ben ritenersi davanguardia, soprattutto se si pensa al difficile incedere di una biologia evoluzionistica nella cultura scientifica dellItalia di allora. Tali erano, ad esempio, le indagini sugli effetti dellendogamia o sulla fecondit degli ibridi in popolazioni groenlandesi, neozelandesi, messicane, non meno importanti delle analogie probabilistiche tra i processi erratici che si avverano nei piccoli gruppi di viventi, nel loro divenire e scomparire, e i modelli di estrazione da urne (erano gli anni in cui Sewall Wright meditava le sue tesi sul random genetic drift); cos pure le interpretazioni della scelta matrimoniale nel raffronto con i fenomeni
5 Ora la rivista Genus diretta, con immutata apertura transdisciplinare, da Nora Federici, succeduta a Gini anche nella direzione del Cisp: un ente ricco di tradizioni, ma purtroppo non di mezzi. 6 Tant che, di tre facolt di scienze statistiche, demografiche e attuariali funzionanti in Italia soltanto una, quella dellAteneo bolognese, ha cercato di dare al piano di studi per la laurea in scienze statistiche e demografiche anche una coerente impostazione biostatistica, aprendo lo studio demografico delle popolazioni alle discipline bionaturalistiche: dallantropologia alla biologia delle popolazioni, dalla biometria alla genetica. Discipline affiancate, ovviamente, alle discipline dimpronta economica e sociale e innestate sulle discipline del metodo: matematiche, statistiche, probabilistiche, informatiche.

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di ibridazione di popolazioni non umane (gi nel 1925, Gini aveva dato rilievo su Metron, rivista internazionale di statistica da lui fondata e diretta, a una limpida indagine di Luzzatto-Fegiz, 1925, sui processi di fissazione e di sostituzione che avvengono nelle comunit isolate, attraverso il concentrarsi dei cognomi nel comune toscano di San Gimignano). Lapertura a tutte le scienze era totale e coinvolgente, nello spirito di una libera ricerca che non conosceva vincoli di sorta, e andava dallantropologia alletnologia, dalletologia alla genetica7. Ai temi generali della popolazione, ai problemi dellequilibrio, ai modelli demografici, alle teorie evolutive, Gini prester sempre una particolare attenzione critica, nellintento di una fondazione scientifica della demografia, sino agli ultimi anni della sua vita, quando, fra laltro, raccoglier in un denso volume (1963) riflessioni bio-demografiche e socio-demografiche sulla teoria delle popolazioni e sui modelli matematici, sui fattori demografici e sociali del metabolismo demografico, sulle caratteristiche dei primitivi (per tacere di altri scritti di grande respiro intellettuale, fra i quali un cospicuo numero monografico di Genus dedicato agli interrogativi intorno alluomo delle nevi). Questo orientamento multidisciplinare degli studi demografici aveva trovato suggestive premesse nel primo trattato demografico italiano moderno, apparso agli albori del secolo, i Principii di demografia di Benini (1901). Un libro arguto e colto, rivolto al naturale e al sociale: ai caratteri antropologici o alle proporzioni numeriche tra i sessi non meno che alla stratificazione socio-economica o ai fattori della coesione sociale , alle caratteristiche demografiche degli agglomerati non meno che alle teorie quantitative dello sviluppo delle popolazioni. Sapriva, quel testo, sul tema della variabilit individuale dei caratteri umani e dei modelli che la descrivono, non senza interrogarsi sui processi che vi contribuiscono. E quanto interesse alleredit dei caratteri, trattata nei termini delle regressioni galtoniane (quando Benini dava alle stampe quelle pagine la prefazione datata settembre 1900 De Vries, Correns e von Tschermack si erano appena imbattuti, ciascuno allinsaputa dellaltro, nelle leggi e sono leggi statistiche scoperte trentacinque anni prima dallabate Mendel nellorto di un convento moravo). Fra i temi di quel testo figurava anche il rapporto numerico dei sessi alla nascita, oggetto di curiosit e di dibattito da lungo tempo e ancor pi negli anni a venire: una sorta di filo rosso semantico nella storia del
7 Tutto ci nello spirito della pi assoluta indipendenza intellettuale. Il Comitato offriva, secondo le rassicuranti parole di Gini, ogni collaborazione a tutti gli organismi scientifici che intendono operare nello stesso senso, con scopi seri e senza pregiudizi di razza, che non hanno nulla a che vedere con la scienza.

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pensiero biodemografico. Sette anni dopo il libro di Benini, sar largomento di unopera magistrale di Gini (1908)8, in cui metodologia statistica, fenomenologia naturalistica e analisi biodemografica comporranno (alla luce delle scarse e contraddittorie conoscenze dellepoca) un discorso assai articolato e tuttavia unitario e coerente9. Tre anni pi tardi, Gini (1911) tratter la questione della variabilit della tendenza a produrre i sessi in una memoria10 della quale non si sa se pi ammirare la rigorosa interpretazione statistico-critica dei famosi e discussi dati di Geissler o loriginale idea metodologica che la sostiene: una generalizzazione della regola di successione di Laplace, di grande rilievo negli studi logicomatematici sullinduzione; certo si tratta di uno dei tanti fondamentali contributi di Gini alla metodologia statistica induttiva. Il rapporto numerico tra i sessi (al concepimento, alla nascita, alla pubert) fra gli argomenti maggiormente trattati e discussi ancora ai nostri giorni e copre pi di un quarto della saggistica biodemografica internazionale raccolta nei repertori: in Population Index contende il primato agli studi sul ciclo fecondo della donna e a quelli sulla durata della vita. Se nella regolarit delle proporzioni numeriche tra i sessi nelle nascite umane Arbuthnot aveva intravisto, agli inizi del Settecento, lintervento di una volont capace di domare il caso e Siissmilch il segno provvidenziale di una gdttlische Ordnung, lodierna genetica vi riconosce una conseguenza della divisione meiotica alla spermatogenesi e interpreta il lieve e sistematico soprannumero di maschi nelle nascite umane alla stregua di una risposta adattativa alla selezione, a svantaggio del sesso eterogametico, nelle prime et della vita, il cui risultato lequilibrio quantitativo tra i sessi nellet riproduttiva. Alle leggi della produzione dei sessi Gini sarebbe ritornato pi volte, sino agli ultimi anni della sua vita, anche in alcuni discorsi dapertura o di chiusura alle riunioni della Societ italiana di statistica (SIS), sorta nel 1939, di cui era presidente. Alla biometria e alla biodemografia la SIS riservava unattenzione non occasionale e non superficiale, dibat8 Sia consentito ricordare che, nel 1960, Gini volle affidare allestensore di queste note una nuova versione, reimpostata e aggiornata, di quel libro pieno di idee (alcune delle quali possono apparire, oggi,piuttosto stravaganti: ma quando Gini scriveva nulla ancora si sapeva, per tacer daltro, di cromosomi sessuali); e grande fu il dispiacere del maestro nel dover convincersi che quellopera doveva rimanere cos: cos impostata e cos datata. 9 Gini si riferiva alle altre specie viventi in una visione naturalistica comparata delle proporzioni tra i sessi per cogliere linfluenza di possibili fattori che egli identificava in: lambiente, la selezione naturale, la variabilit individuale, leredit, intuendo limportanza biogenetica della parit numerica tra i sessi ai fini riproduttivi. 10 Si noti la collocazione di questo scritto (il saggio apparve in Studi economico-giuridici dellUniversit di Cagliari). Gini era professore di statistica e, in Italia, la statistica era insegnata, a quel tempo, nelle sole facolt di giurisprudenza.

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tendo argomenti di grande interesse, sempre attuali11: ancora nelle ultime riunioni annuali da lui presiedute, Gini svolgeva ampie e profonde rassegne critiche dei problemi, delle ipotesi, dei dati12. E suggestivo veder ritornare, oggi, nel linguaggio della pi avanzata genetica, tesi e ipotesi, interrogativi e confronti che figuravano nellopera di Gini e, si pu dire, di tutti i grandi demografi della prima met del Novecento, a cominciare da Benini, dalla sua concezione naturalistica della popolazione e della societ umana: egli definiva la demografia scienza quantitativa della popolazione intesa allo studio degli aggregati sociali da un punto di vista naturale-meccanico allo scopo di stabilire leggi empiriche e di trattare... i fatti collettivi come risultati meccanici di forze; unispirazione di chiaro stampo newtonianolaplaciano, anche nellesplicito richiamo a quella phisique sociale in cui Qutelet aveva azzardato, fra tante intuizioni e illusioni, una visione metodologica unitaria dei fenomeni della natura e delluomo: una demografia certamente datata, anche nella Weltanschauung di riferimento, ma non unilaterale e non superficiale. Di questa demografia aperta e colta immagine esemplare anche lopera di Livio Livi. Figlio di Ridolfo Livi, antropometrista davanguardia, L. Livi cercava nella realt naturale i fondamenti della vita sociale, non mancando di dar rilievo, come Benini e Gini, anche ad aspetti non quantitativi. In un saggio monografico, Livi (1915) approfondiva linfluenza dei fattori biologici e delle caratteristiche organiche sulla formazione della famiglia e della societ; e, dal confronto tra i periodi di allevamento delle varie specie di mammiferi, traeva una ragione biodemografica della persistenza dei nuclei familiari umani. Livi stesso (1941) avrebbe ripreso, in un pi ampio contesto, questa suggestiva concezione nei due volumi del suo Trattato di demografia. Essi sispiravano alla biologia darwiniana prendendo lucidamente le distanze dagli stravolgimenti di certo sopraggiunto sociologismo, che aveva tradito il pensiero evoluzionistico. Livi assegnava alla demografia il compito di cercare il fondamento biologico della struttura sociale. Le forme associative scriveva nel
11 La Societ italiana di statistica, anche dopo Gini, non ha mai negato attenzione soprattutto durante la presidenza di G. Leti alle tematiche bostadstiche. Si legga in proposito Federici (1989). 12 Si citano, fra gli altri, Gini (1960a; 1960b; 1961a; 1962). Dello stesso periodo sono altri saggi biostatistici apparsi su Metron nonch Gini (1961b). Nella penultima riunione scientifica della SIS da lui presieduta, venne svolta da chi scrive, su invito, la memoria indicata in Scardovi (1963); e lultima riunione si concluse con un discorso di chiusura sulla biometria (Scardovi, 1964).

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Trattato possono considerarsi... come conseguenze di taluni caratteri della specie; e, muovendo da tali caratteri, studiava le forme dellaggregarsi umano la famiglia, il gruppo, la popolazione nellinteragire di fattori interni e di fattori esterni, soffermandosi sulla variabilit naturale dei caratteri, sui suoi riflessi nellorganizzazione sociale. Si diffondeva poi nel trarre prove dal regno animale, cui accostava le prove etnografiche e demografiche e le prove antropogeografiche: una sorta di sociobiologia ante litteram, ove era dato rilievo, come gi nellopera di Gini, agli effetti dellisolamento dei gruppi umani e della conseguente endogamia (spiace che quegli scritti di Livi non siano stati tradotti in lingua inglese: certa trattatistica, oggi in gran voga, dovrebbe riconoscervi i segni di una indubbia priorit concettuale). Prendendo a esempio le piccole comunit di talune isole dellEgeo e il decadere dei gruppi umani scesi al di sotto di un certo ordine di grandezza, Livi (1941) delineava, con bella intuizione statistica, la questione della minima dimensione demografica. La scarsit numerica scriveva compromette la normale variabilit dei caratteri e delle attitudini, base anchessa della saldezza sociale, potendo consentire al caso di porre insieme una eccessiva proporzione di individui troppo deboli: sono temi, oggi, di genetica evoluzionistica, ma non per questo estranei a una demografia che non voglia fermarsi alle descrizioni numeriche. Livio Livi rivendicava lautonomia scientifica di quella demografia. Come motivare lautonomia scientifica dellodierna demografia? Si sfogli, per unulteriore esemplificazione, il primo volume delle Lezioni di demografia di Alfredo Niceforo (1924). Pi di cento pagine sono dedicate alle differenze biologiche individuali tra gli uomini. Una concezione multidisciplinare alla quale si rifaceva, ancora, il trattato di Marcello Boldrini (1946), attraverso unanalisi delle determinanti naturali degli aggregati umani: una demografia sperimentale tesa scriveva Boldrini ad intendere i fenomeni biologici delle collettivit umane, vale a dire una demografia di ampia prospettiva, altrettanto attenta alle componenti sociali delle comunit. Cogliendo abilmente i chiaroscuri degli studi di biodemografia in Italia, tra le due guerre mondiali, Colombo (1979) ha scritto: Penso quanto felice fosse il momento per gli studi italiani di cui ora ci interessiamo tra il 1920 e il 1940. Questa la linea di pensiero della demografia italiana fin verso la met del secolo. Una demografia irripetibile, oggi, anche per laffermarsi di nuove discipline specifiche. Una demografia che precorreva, negli intenti e nei modi, tanta genetica di popolazioni e certa sociobiologia (questultima proposta da Wilson, 1975, come studio sistematico delle basi biologiche di ogni forma di comportamento: quando

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Wilson scrive che il comportamento della societ considerata nel suo complesso definito dalla sua demografia, assegna allimmagine demografica di una comunit un ruolo preciso). Si sente dire che quella demografia non era tutta statistica in quanto non trascurava i caratteri non quantitativi, gli eventi non numerabili. Ma lassetto statistico di una disciplina non necessariamente nei calcoli e nelle cifre: nel canone interpretativo dei fenomeni13. Prima e pi che un opportuno modus operandi della ricerca, il metodo statistico un autentico modus intelligendi della realt. Tale il paradigma evoluzionistico: un modo di intendere le popolazioni e di intenderne la variabilit, laccidentalit, la storicit. Senza unintuizione statistica della natura, senza riferirsi alle popolazioni e alla variabilit di cui sono espressione, le scienze naturali non avrebbero mai ottenuto la loro conquista pi importante: lidea di evoluzione. Quella demografia italiana anticipava linee di pensiero che oggi procedono, forti delle nuove conoscenze scientifiche e di nuovi strumenti metodologici, al di fuori della demografia. Eppure era ancora demografia quando Benini attribuiva alla variabilit individuale un ruolo nel divenire delle popolazioni, quando Gini coglieva le propriet stocastiche della deriva e intuiva al pari di Boldrini il valore del tasso riproduttivo di un biotipo, quando L. Livi cercava il fondamento genetico del comportamento sociale. Una demografia di ricerca, con le intuizioni, i dubbi, le ingenuit di unepoca pionieristica, in cui ancora non sera diffusa e tanto pi in Italia la consapevolezza di una nuova scienza, che quella demografia in qualche modo presagiva: anche nella scelta del contesto, anche nellinteresse alle popolazioni-limite. Come Gini e i suoi collaboratori conducevano ricerche biodemografiche nelle isole mediterranee di Carloforte e Calasetta o, nel Pacifico, nellisola di Janitzio, cos lodierno genetista sperimenta i suoi modelli di deriva nellatollo di Pingelap (oceano Pacifico), osserva leffetto del fondatore nellisola di Tristan da Cunha (oceano Atlantico), coglie le componenti evolutive delle comunit delle isole Andamane (oceano Indiano). Il retaggio di quella tradizione italiana sopravvive, forse, nellopera di qualche studioso, ma non v dubbio che negli ultimi quarantanni il panorama degli studi demografici italiani sensibilmente cambiato. Ne sono un riflesso anche i trattati: tutti, o quasi, offrono unaltra immagine della demografia. Anche quello del figlio di Livio Livi (e nipote
13 il canone che ha ispirato la grande sintesi tra genetica mendeliana ed evoluzionismo darwiniano, su di una matrice statistica e probabilistica. Baster ricordare tre opere fondamentali: Fisher (1930); Wright (1931); Haldane (1932).

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di Ridolfo Livi), Massimo Livi Bacci (1981). un fatto che, dal secondo dopoguerra ai nostri giorni, la demografia si sempre pi specializzata in senso politico-sociale. Se Gini non volle mai rinunciare alla sua matrice scientifica a largo spettro, continuando a spaziare dal metodologico al fenomenologico, dal naturale al sociale, altri preferirono invece dedicarsi a pi contingenti problemi. Si vuole vedere in questo abbandono una sorta di rifiuto verso una disciplina in qualche modo compromessa con gli imperativi di un regime proteso ad attuare una politica demografica, dapprima incoraggiando la natalit (lo si fatto, e ancora Io si fa, in molte altre nazioni) e poi affermando una sorta di demografia razziale detestabile sul piano scientifico non meno che su quello morale: si era giunti addirittura a sostenere, ma non dai demografi, lesistenza di una razza ariana; un poco di cultura sarebbe bastato a far capire che dire razza ariana come dire, altrettanto ridicolmente, lingua dolicocefala. Ma cercare la ragione dello stato presente degli studi in qualche vago cedimento ideologico della demografia prebellica appare troppo facile e comodo14. 5. Gli studi di demografia in Italia Considerando lo stato della ricerca demografica di casa nostra, Livi Bacci (1969) dava lallarme, dichiarando a tutte lettere che la demografia si trova, in Italia, ed ormai da qualche tempo, in una situazione di crisi;... gravata da un passato ricco di prestigio... conscia del rapido crescere dellinteresse internazionale verso i problemi della popolazione, ma incerta se rifarsi alle tradizioni nazionali o se seguire le tendenze degli studi quando non della moda affermatesi in altri paesi. certo... osservava che la crisi reale; che essa ha origini assai complesse, come complesso il carattere interdisciplinare della demografia. Che ne si domandava ancora, richiamandosi ai grandi statistici-demografi italiani del patrimonio di idee, di studi, di risultati da loro accumulato in oltre mezzo secolo di attivit? La risposta soggiungeva un poco penosa. La rigidit dellosservazione demografica notava poi il maggiore ostacolo contro il quale debbono lottare i demografi, in particolar modo quelli italiani. Forse non solo un problema di dati, di fonti, di rilevazioni correnti, di rigidit dellosservazione: forse incombe, anche, una sopraggiunta
14 Dopo un attento esame dei principali scritti di tre fra i maggiori studiosi italiani di biodemografia nellepoca fascista - Gin, Livi e Boldrini - Colombo (1979) ha dato questo giudizio: Ho letto varie loro opere fondamentali... e in nessuna ho mai visto il termine fascismo o laggettivo fascista. Erano persone che avevano una libert intellettuale assoluta.

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rigidit culturale. In primo luogo, la grande demografia italiana era strettamente avvinta alla metodologia statistica, che nelle popolazioni aveva trovato un immediato riferimento empirico per sperimentarvi euristicamente i propri strumenti, tecnici e logici, senza peraltro fermarsi alle fonti censuarie: savvaleva argomentatamente delle rilevazioni sistematiche pubbliche, ma andava oltre quei temi e quei dati. Il modo di pensare statistico-scientifico era essenziale alla fondazione teorica della disciplina non meno che alla determinazione oggettiva delle grandezze e delle tendenze. Un modo al quale non sembrano essersi sempre attenuti quanti, ancora pochi anni fa, estrapolando nel lungo periodo andamenti di pi breve momento, gettavano allarmi malthusiani sulle nostre popolazioni esortando a comprimere la natalit, per poi passare, di l a non molto, a deplorare la gravit dello slittare della distribuzione per et e dellaccrescersi del peso relativo degli anziani. Una poco men che attenta analisi delle tendenze storiche delle due componenti naturali del ricambio demografico avrebbe suggerito di trarre meno sbadate profezie: la natalit era da tempo in progressiva diminuzione e la mortalit era sensibilmente discesa in un breve volger danni donde laccrescersi della popolazione ma la curva era pur sempre destinata ad asintotizzarsi. Non ci voleva molto a capire ci che mostrava daver capito il capo trib bantu di un gustoso aneddoto: interrogato da una spedizione scientifica circa la mortalit dei suoi amministrati, avrebbe risposto con stupefatta malizia: Ma..., qui da noi, la mortalit di circa un decesso per persona. vero che da tempo linformazione statistica come scrive Livi Bacci rimasta quasi immutata, il che indubbiamente un ostacolo. Ma una demografia che non sia soltanto notitia rerum publiearum15, che abbia respiro scientifico, non pu andare a rimorchio delle rilevazioni ufficiali. Certo, sono necessarie indagini speciali. Cos faceva il Cisp giniano, cos fa lIned francese16 (al cui confronto Livi Bacci (1969) giudicava ancor pi grave il relativo regresso degli studi demografici nel nostro paese ); ma a patto che tali indagini non si risolvano in una semplice produzione di dati. Andare oltre la ritualit anagrafica e censuaria significa avvalersi di indagini ad hoc (ad esempio longitudinali,
15 Non che sui censimenti non si possa fare della ricerca scientifica. Ne hanno dato esempi magistrali Gini e tutta la sua scuola. E proprio dallosservazione di dati censuari (del Nuovo Galles del Sud) venne suggerita lipotesi di un nesso causale tra la rosolia contratta dalla donna in gravidanza e malformazioni congenite del neonato. 16 LIned un grande istituto pubblico di ricerca, che savvale di matematici, statistici, demografi, biologi, sociologi e di molti altri apporti scientifici. Ma quale il posto e quale la funzione del demografo in tali quipes multidisciplinari?

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come suggeriva Livi Bacci, 1969) su campioni, in significativo parallelismo con la genetica; ci che gi avviene nelle indagini intese al recupero di microstorie. Tale , ad esempio, la ricostruzione delle famiglie e quella delle genealogie: diversi per metodi, per contenuti, per finalit, i due percorsi si integrano tuttavia nella ricerca della trasmissione dei caratteri attraverso le generazioni; v, infatti, una fitness biologica e v una sorta di fitness sociale. questione, anzitutto, di finalit conoscitive. Quando si allude a indagini speciali non necessariamente obbligate alla rappresentativit nazionale (cos Livi Bacci) deve essere chiaro che i confini politici e amministrativi hanno un significato nello studio scientifico delle popolazioni umane in quanto introducano varianti fenomeniche oggettive. Il contare e il classificare le persone appartenenti a questa o a quella circoscrizione, operazione quanto mai utile e necessaria al governo della cosa pubblica, non di per s ricerca scientifica. Questa impone alla demografia di liberarsi dal ruolo di specie parassita delle fonti istituzionali. Altrimenti la si degrada davvero sono ancora parole di Livi Bacci (1981) a tecnica di indagine di fenomeni che sarebbero meglio studiati da altre discipline (la sociologia o una delle sue infinite variet, per esempio) dislocandola dalla sua naturale posizione centrale nellambito dello studio scientifico dei fenomeni sociali. Se la demografia deve tornare al centro delle scienze sociali lauspicio di Livi Bacci ci non pu non avvenire attraverso un coerente recupero di unimmagine scientifica. Ritiratasi dal versante naturale, dove s ormai affermata, con coerenza metodologica e fenomenologica, la biologia popolazionistica, essa deve potersi riaffermare, in quanto scienza, sul versante sociale. Non per questo giova alla demografia tenersi lontana, nei contenuti e nei metodi, dalla biostatistica; dai suoi paradigmi, dai suoi strumenti, dal suo linguaggio. Un illustre genetista dellIned, Albert Jacquard (1974), avverte che la demografia una scienza e non una semplice cronaca descrittiva della realt solo se va al di l della descrizione degli avvenimenti e cerca di gettare luce sui meccanismi e sui processi. Uno dei maggiori demografi dellepoca nostra, Jean Bourgeois-Pichat (1987), riconosce linsoddisfazione di molti ricercatori di altre discipline nei confronti della ricerca demografica. Lodierna situazione degli studi demografici in Italia registra, a dire il vero, un certo risveglio dinteresse verso un approfondimento delle tendenze delle popolazioni nel senso di una sostanziale interdisciplinariet. In saggi recenti non mancano argomentate aperture verso una demografia scientifica a largo spettro: una prospettiva che si intravvede, ad esempio, in Livi Bacci (1987; 1989a; si veda anche 1989b) e, pi

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specificatamente, in certe suggestive ricerche demografiche esplicitamente o implicitamente rivolte allorizzonte naturalistico dei fenomeni: cos taluni scritti apparsi su Genus, rivista diretta e ispirata da Nora Federi- ci, che non ha mai escluso dai propri interessi le componenti naturalistiche del fenomeno demografico 17; cos le rigorose analisi di Colombo (1955; 1957; 1989) sul sex ratio o sulla biometria del ciclo femminile; cos i suggestivi sviluppi logico-formali di Petrioli (1979; 1981; 1985) in tema di tavole di fertilit, di schemi di eliminazione. I modelli matematici sono essenziali allinterpretazione dei dati fenomenici, destinati a rimanere materia informe sono parole di Gini (1934b) senza le direttive di schemi teorici. Come intendere, ad esempio, il distribuirsi asintotico secondo la curva normale di molti caratteri biometrici dovuti al concorso di molteplici fattori, genetici e ambientali, senza leggerli nella grammatica del teorema fondamentale della convergenza stocastica? Scriveva Darwin: Chi vuoi essere un buon osservatore deve essere un buon teorico. 6. Demografia e genetica di popolazioni Demografia e biologia trovano la pi immediata intersezione nella parte in cui la genetica di popolazioni si rivolge alle popolazioni umane: luna attenta agli individui, laltra ai geni di cui sono portatori. Lintreccio fenomenologico dunque in re ipsa: non c evento osservato in demografia che non abbia unorigine o una ripercussione biologica. Attraverso i fenotipi, il ricambio demografico incide sulle frequenze dei genotipi modificando il pool genico della popolazione; laffermarsi di un individuo o di un gruppo, il contribuire attraverso i suoi discendenti alle generazioni successive legato ai processi demografici della collettivit. vero che la genetica non pu non passare attraverso gli eventi che attengono agli individui, mentre la demografia pu ignorare, almeno nel breve periodo, gli effetti di quegli eventi sul genoma della popolazione; ma non per questo si pu dimenticare che storia demografica, storia genetica e storia sociale si intersecano a pi livelli; che evoluzione biologica ed evoluzione sociologica, eredit genetica ed eredit culturale sono al centro di un comune interesse scientifico, ci che presuppone una visione non settoriale dei fenomeni delle popolazioni.
17 In questo senso, sono da ricordare pure le indagini sulla mortalit compiute da allievi dellinsigne studiosa; ad esempio Caselli (1989); Caselli e Vallin (1990); Caselli et al. (1990).

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Se il genetista deve fare i conti con le componenti sociali del rinnovarsi di una popolazione, il demografo non pu ignorare le determinanti naturali del divenire delle societ umane. Le variabili si intrecciano e, con esse, i corpi di dottrina. La consistenza e la composizione di una compagine demografica, cos come il suo ricambio naturale e sociale, non sono fenomeni privi di motivazioni biologiche, e ancor meno di effetti evolutivi, nella propria scala temporale, sulla specie: sul rinnovarsi degli assetti genotipici, sulla variabilit dei caratteri fenotipici. Cos, leliminazione differenziale e la migrazione differenziale (ad esempio rispetto al sesso e allet) sono importanti tanto per il genetista quanto per leconomista e per il demografo sociale: possono avere sia motivazioni biogenetiche ed economico-sociali, sia ripercussioni nelluno e nellaltro verso: un individuo che esca da una compagine demografica prima di raggiungere let riproduttiva non ne impronta il pool genico, n le attivit economiche e le strutture sociali. I movimenti migratori hanno riflessi immediati sul mercato del lavoro, ma ancor pi rilevanti, seppur meno immediati, possono essere gli effetti sulla struttura profonda della popolazione. Il migrante porta con s il proprio corredo genetico: modifica, migrando, il genoma della comunit che lascia e pu incidere su quello della comunit che trova. La mobilit delle popolazioni trasforma il volto biologico (con il cambiare delle distanze genetiche) e il volto sociale (con lintegrarsi dei comportamenti e delle scelte); la mobilit trasforma inoltre il pi immediato profilo demografico di una popolazione: la composizione per sesso ed et, socialmente ed economicamente tanto importante, prima di tutto un fattore di idoneit, di fitness: segna il destino di una popolazione in termini di sopravvivenza e di tempo di estinzione. La stessa dimensione dellaggregato ha una rilevanza biologica, una rilevanza demografica e una rilevanza sociale. Cos pure il grado di isolamento riproduttivo e la fecondit o lassortimento coniugale: fattori di evoluzione biologica delle popolazioni attraverso il modificarsi delle frequenze alleliche e genotipiche. Il genetista che delinea i processi di omogeneizzazione e di differenziamento dei gruppi, seguendo le storie dei geni attraverso gli individui, e indaga su similarit e distanze isonimiche (attraverso lanalisi dei cognomi, trasmessi di generazione in generazione come messaggi cromosomici) e ricostruisce linee familiari, fa anche della demografia. Il demografo che analizza leliminazione differenziale per cause un tema che ha raccolto e raccoglie tante attenzioni descrittive appresta, ne sia consapevole o no, qualcosa di pi di una rassegna socio-sanitaria: vi affiorano componenti biogenetiche, le quali vengono tanto pi allo sco-

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perto quanto pi si attenua la cosiddetta mortalit esogena. Il ridursi di taluni tassi di mortalit (anzitutto di quella perinatale e infantile) non senza effetti sulla fitness di una popolazione: i processi evolutivi e selettivi vi sono, per pi aspetti, coinvolti. Altrettanto vale per il ridursi secolare del tasso di natalit o dellelevarsi dellet riproduttiva media: fenomeni di grande rilevanza sia demografica sia genetica. In quanto risultante dei vincoli tra gli individui di una popolazione, la societ lespressione di complesse e profonde interazioni, anzitutto bionaturalistiche. In genetica, una popolazione omospecifica identificata in ragione di un elemento aggregante: il riprodursi degli individui per ricombinazione di un fondo genico comune. Nemmeno in demografia si pu definire popolazione un qualunque insieme di individui18. Deve sussistere un nesso non contingente, un elemento strutturale. Eppure, passando dal naturale al sociale, la definizione di popolazione sembra diventare meno oggettiva e rigorosa: andando dalla fenomenologia della natura a quella della societ si perde spesso in valore nomico, in unit metodologica, in sistematicit teorica. Ogni societ ha un suo assetto demografico, ogni assetto demografico ha una sua genesi storico-naturale e storico-sociale. Come una popolazione naturale che il soggetto dellevoluzione biologica cambia per il cambiare delle frequenze statistiche di geni e di genotipi, anche in ragione dellidoneit adattativa degli individui e dei gruppi, cos nellevoluzione sociale altri fattori, mirati e non mirati, determinano il divenire delle comunit. Certo, la socialit umana soprattutto un fatto culturale, e culturali sono le origini e i riflessi dei comportamenti demografici degli individui; ma per quella parte del comportamento sociale che ha radici biologiche (luomo pur sempre lindividuo di una specie, un unicum genetico in un contesto di tante altre unicit genetiche, reali o virtuali) il raffronto, in re statistica, alle popolazioni naturali pu avere un qualche valore euristico. E letologia ad avvertirci che nelle azioni di un vivente si manifesta anche linformazione codificata nellalfabeto degli acidi nucleici. Nelluomo a dir vero ancor pi che negli altri viventi, il dibattito tra genetisti e ambientalisti, tra chi vede le azioni del singolo tutte dipendenti dal cariotipo individuale e chi le vede determinate soltanto da condizioni e da scelte estranee a quello, qualcosa di pi di un contrasto tra teorie scientifiche. Ancora una volta le scienze biologiche
18 E forse non sufficiente definirla (come si pu leggere in una nota apparsa sul n. 3-4, 1979 di Genus) un insieme di individui, stabilmente costituito, identificato da caratteristiche che ne definiscono i limiti e i confini, perch cos diventano popolazione gli ospiti di una casa di riposo, i reclusi di un penitenziario e cos via.

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distinguendo tra genotipo e fenotipo offrono un essenziale schema di lettura e fanno intendere la sterilit delle posizioni estremiste, quali sono appunto il genetismo radicale e il radicale ambientalismo. Ma il primo elemento di connessione tra demografia e genetica nel metodo: laffinit fenomenologica non pu non tradursi in affinit metodologica. Nessuna intenzione, ovvio, di riproporre unificazioni fittizie di stampo positivistico, nessuna pretesa di ridurre lanalisi della variabilit statistica nelle popolazioni a un fisicismo di tipo queteletiano (tuttavia si deve anche a Qutelet e a Comte, come a Malthus e a Stuart Mill, lo spostarsi dellinteresse conoscitivo dallindividuo agli insiemi di individui); ma nemmeno rassegnazione di fronte a uno stato di cose che ha visto una disciplina essenzialmente statistica, la demografia, via via ritrarsi di fronte al farsi sempre pi statistiche (e sempre pi demografiche ) delle scienze naturali: un approdo coerente con il paradigma darwiniano, con gli algoritmi mendeliani, con la moderna biologia delle popolazioni; un approdo che non pu non offrire nuovi indirizzi concettuali alla demografia. In questo contesto fenomenico e logico, in questo avvicinarsi e confrontarsi, nellintreccio evoluzionistico di natura e storia, delle ricerche sullindividuo naturale e sullindividuo sociale, non forse impossibile intravvedere la premessa di una futura unit metodologica sul tema delluomo, capace di superare certa ostinata incomunicabilit tra gli addetti ai diversi settori del pensiero. Se la filosofia naturale ispirata al meccanicismo newtoniano-laplaciano e retta da leggi assolute e inderogabili escludeva dal pensiero scientifico le discipline sociali (le grafi, tuttavia, nulla lasciavano di intentato per imitare quella gnoseologia), la scienza uscita dai lacci del determinismo sembra andare metodologicamente incontro alla ricerca sui fenomeni delluomo: una scienza di aggregati di unit discrete, di cui si possono addurre le propriet statistiche dinsieme, e prevedere induttivamente non i singoli eventi bens le loro probabili risultanti collettive. Il teorema di Hardy-Weinberg il principio teorico che innerva la genetica di popolazioni ne la pi coerente espressione: una relazione formale tra frequenze statistiche, secondo gli assiomi del calcolo delle probabilit, che fissa le condizioni del formarsi e dellalterarsi dellequilibrio tra i costituenti di una popolazione19. Abbattute le tradizionali barriere tra scienze della materia e scienze della vita, il paradigma statistico sembra apprestare le basi di ununi19 Sul significato statistico del teorema si possono vedere Scardovi e Monari (1983); Mo- nari e Scardovi (1989).

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t epistemologica di tutte le scienze positive; eppure, le scienze sociali appaiono adesso pi incerte, quasi che il tramonto del determinismo classico ne abbia ridotta laspirazione scientifica, spingendole a una rinuncia in cui sembra esprimersi il rimpianto di un paradigma perduto. Ma si deve evitare ogni superficiale schematismo, respingere ogni facile analogia. Quando sorse levoluzionismo biologico, lottimismo deterministico di certi filosofi ne trasse una visione fatalistica e progressiva del divenire delle societ umane: una visione ora meccanicistica ora finalistica (quando non panglossiana) del mondo e della sua storia, che nulla aveva a che vedere con limmagine darwiniana dellevoluzione come cambiamento: delle frequenze alleliche e genotipiche, dice il genetista di popolazioni. E difficile scorgere lequazione in cui potrebbe essere formalizzato un eventuale teorema fondamentale della dinamica sociale, anche se pensare a una sorta di legge formale probabilistica del mutevole trascorrere degli elementi sociali attraverso le generazioni, la quale non potrebbe che esprimersi in termini di rapporti tra grandezze demografiche, forse meno stravagante di quanto possa a prima vista apparire. Nemmeno si debbono trascurare alcuni suggestivi spunti culturali diretti a una visione integrale di tutti i fenomeni, naturali e sociali, che si trasformano nel tempo: dalle teorie di Ilya Prigogine sui sistemi lontani dallequilibrio alle indicazioni di Ervin Laszlo per una storia sistemica generale dellevoluzione che valga tanto per gli atomi e le molecole del cosmo quanto per gli organismi viventi e le societ umane della biosfera. Nel pensiero evoluzionistico, Prigogine coglie infatti una nuova possibilit di comunicazione tra scienze della natura e scienze umane e identifica analogie strutturali tra sviluppo delle popolazioni biologiche e cinetica chimica e sistemi sociali. Analogie che trovano il loro oggetto nelle popolazioni. Lassetto statistico e probabilistico della fenomenologia genetica sancisce il definitivo abbandono del determinismo meccanicistico e sembra far posto alle scienze delluomo. Anche nel sociale la realt fatta di insiemi, di pluralit ineguali di casi: in una parola, di variabilit. Una variabilit che diviene nel tempo. Non senza significato che il concetto, essenzialmente biometrico, di deriva genetica abbia ormai suggerito e coinvolto quello di deriva sociale, in unimmagine dellevoluzione socioculturale tracciata sulla falsariga dellevoluzione biologica al punto che linsorgere, in quella, di una nuova idea viene intesa cos Feldman e Cavalli-Sforza (1975) alla stregua dellinsorgere, in questa, di una mutazione (in proposito si veda anche Bodmer e Cavalli-Sforza, 1977). Lintersezione tra genetica di popolazioni e demografia scientifica

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attiene dunque anche ai paradigmi teorici: e sono paradigmi statistico- probabilistici; come la genetica di popolazioni indaga il modificarsi delle frequenze statistiche dei geni, cos la demografia osserva il rinnovarsi e il distribuirsi dei portatori di quei geni: e sono distribuzioni statistiche. Se oggi la biologia vede levoluzione come cambiamento di frequenze relative, la selezione naturale come riproduttivit differenziale e la deriva genetica come casualit innovativa, perch ha fatto propri concetti e linguaggi essenzialmente statistici. Sono concetti e linguaggi per i fenomeni calati nella variabilit individuale: una variabilit alle origini della vita, che la vita continuamente rinnova. Perch tale variabilit non dovrebbe informare anche i concetti e i linguaggi della demografia? Se la genetica di popolazioni una scienza essenzialmente statistico- probabilistica, pu non esserlo la demografia in quanto scienza di popolazioni? 7. Unosservazione critica Il richiamo a una demografia scientifica, attenta al divenire naturale, oltre che alla storia sociale, delle popolazioni, non deve essere frainteso. Ignorare le componenti biologiche antiscientifico al pari dellignorare il contesto socio-economico, e non ha alcun senso contrapporre la storicit di questo a una presunta astoricit di quello. La genetica delle popolazioni, che ha occupato e rinnovato tutto un settore lasciato libero dalla demografia, biologia evoluzionistica e, in quanto tale, non atemporale e non deterministica. Come dimenticare che, dopo Comte, Laplace, Qutelet, venuto Darwin? Perch voler intendere la conversione sociologistica della demografia italiana del dopoguerra come una sorta di redenzione da un preteso riduzionismo naturalistico positivista, ignaro della storia? Levoluzione biologica non storia? Non forse la storia di un divenire indeterministico, non progettato e non finalizzato, che trova nella probabilit il suo linguaggio e nella statistica la sua linea di pensiero? Eppure v una certa tendenza a compiacersi, da parte sociologica, del riscatto avvenuto nella ricerca demografica italiana con il chiudersi del cosiddetto periodo naturalistico (ma quella ricerca, si noti, riservava altrettanto spazio e non minore attenzione alle componenti sociali: purtroppo non pi vero il viceversa). Il compiacimento sembra aver conquistato anche i demografi, sempre pi convinti dellassetto non naturalistico della loro disciplina. da chiedersi tuttavia se essi siano altrettanto convinti della funzione assegnata alla demografia dellInter-

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national Encyclopedia of the Social Science (1968). La voce dedicata alla demografia recita: La demografia , in certo senso, lancella (the generai servant) delle altre scienze sociali. Essa valuta e anzitutto ordina lampia riserva di dati sociali predisposti dai censimenti e dalle anagrafi. E procura materiale grezzo essenziale per lo studio dei cambiamenti economici, politici e sociali. Dunque, una demografia fedele servente, provvida vivandiera; una demografia che osserva e non spiega, che raccoglie per gli altri; che si vorrebbe occupasse, ormai, un piccolo posto, circondato da vasti ambiti disciplinari forse contrassegnati da una grande scritta: hic sunt leones, come susava nelle antiche cartografie per indicare territori sconosciuti, aree di ignoranza. Che cosa ne penserebbe A. Guillard, che, battezzando la disciplina, aveva inteso la demografia come storia naturale e sociale della specie umana? Che cosa ne penserebbero gli studiosi dellOttocento, che tanto avvertivano lesigenza di dare un assetto compiuto alla disciplina, temendo cos G. Mayr che il vocabolo demografia potesse etimologicamente evocare limmagine di una disciplina semplicemente descrittiva, pi che di una scienza protesa alla ricerca di leggi? Del compiacimento, da parte sociologica, della perduta eredit biologistica della demografia italiana non dovrebbe troppo rallegrarsi il demografo, ridotto cos sembrerebbe a uno stato di sudditanza, con il compito di dare i numeri, per il presente e per il passato. Ai numeri del passato attende, si sa (si veda il capitolo di Corsini, Demografia e storia , in questa Guida), una demografia speciale, la demografia storica. Essa acquisisce e valuta cifre importanti delle vicende dei popoli, numeri essenziali al tessuto umano di una storia che non sia soltanto storia di dinastie, di trattati, di annessioni, di eccidi. Ma quale sarebbe il ruolo di questa demografia? Offrire i dati allinterpretazione altrui, diventare una sorta di reparto antiquariato dellIstat? ovvio che la demografia storica trovi da s, nella polvere degli archivi, i propri dati; ma anche qui si deve uscire dallequivoco: una demografia storica che sia mera rilevazione e faccia dellacquisizione delle cifre il punto di arrivo (e non di partenza) dellanalisi storico-statistica dei particolari fenomeni rischia di non essere n vera scienza storica n vera scienza della popolazione. Che cosa resta allora alla demografia? Ha scritto Henry (1966): Al di fuori dellosservazione statistica, non restano di proprio alla demografia che le dottrine e le teorie della popolazione. Non poco, a dire il vero. Ma le teorie della popolazione presuppongono una visione integrata e razionale delle molteplici componenti e delle rispettive tenden-

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ze, dei modelli e degli strumenti: richiedono, insomma, una cultura scientifica capace di superare, avvalendosene, le necessarie specializzazioni disciplinari. La demografia ricorda Henry ha per oggetto lo studio delle popolazioni umane, sotto il loro profilo quantitativo e statistico Vediamo cos la demografia aver necessit: 1. nel momento dellanalisi interna, delle matematiche; 2. nel momento della spiegazione, della biologia, della medicina, dellantropologia, delletnologia e della sociologia, delleconomia e del diritto, della storia. Conclude Henry: Se impossibile che un demografo sia allo stesso tempo matematico, biologo, economista, geografo, storico, giurista, medico e sociologo, egli ha interesse tuttavia a ci che trova in queste materie di conoscenze generali e di conoscenze particolari. Laccento posto, anzitutto, sullimpianto teoretico, limpianto di una demografia che non voglia limitarsi alle pratiche enumerative e ritrovi la sua ragion dessere scientifica nella sintesi dei pi diversi apporti culturali sintende sintesi metodologica. La bella demografia matematica di Keyfitz ne costituisce un aspetto. Per quella via si risale ai grandi modelli logico-formali di Volterra, di Lotka, di Verhulst, per tacer daltri; e si possono riconoscere i tratti della rivoluzione scientifica che ha dato un nuovo paradigma a tutte le scienze positive. E il paradigma della genetica di popolazioni: essa trae da una relazione tra probabilit statistiche un fondamentale principio di equilibrio e ne fa un modello teorico di confronto alle concrete popolazioni avvalendosi di linguaggi e strumenti che sono, insieme, statistici e demografici: quando, ad esempio, misura la fitness di un genotipo, ossia la sua idoneit adattativa, in ragione dei suoi discendenti fecondi; o quando intende la deriva genetica come errore di campionamento: un errore casuale tanto pi rilevante quanto pi piccolo il gruppo. Ancora modelli e metodi essenzialmente statistici e demografici. Tra la tentazione di biologizzare le scienze sociali e quella di sociologizzare le scienze biologiche, la demografia dovrebbe evitare ogni unilateralit culturale e rendersi sempre pi consapevole del suo collocarsi nella lunga zona di confine tra settori del sapere che trovano nella realt delle popolazioni una connessione non episodica. Se un tempo erano di moda le analogie deterministiche tra macchina e organismo e tra organismo e societ, oggi il pensiero scientifico offre una nuova intuizione della natura, nella quale scienze un tempo lontane hanno imparato ormai a riconoscersi.

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Capitolo settimo Demografia e sociologia Giovanni B. Sgritta

1. Premessa A livello elementare, sul piano delle quantit numeriche che descrivono i gruppi umani, tutte le conoscenze della societ convergono in un solo obiettivo fondamentale e la demografia costituisce la base di ogni sapere sociale. Popolazione e societ appaiono a questo livello come equivalenti: entrambe definite come un insieme di individui, stabilmente costituito, legato da vincoli di riproduzione e identificabile da modalit territoriali, politiche, giuridiche, etniche e religiose. In effetti, non da escludere, come ha osservato Lvi-Strauss, che ci potrebbero essere propriet formali dei gruppi in funzione diretta e immediata della cifra assoluta della popolazione, indipendentemente da ogni altra considerazione. Sicch, in caso affermativo, bisognerebbe cominciare con il determinare queste propriet e lasciare loro un posto, prima di cercare altre interpretazioni (Lvi-Strauss, 1958, trad. it. 1966, p. 362). E tuttavia agevole presumere che i concetti di societ e di cultura e la struttura sociale, cos come intesa allinterno delle discipline sociologiche e antropologiche, non combacino con questo substrato. A misura che consideriamo, accanto agli aspetti formali della popolazione, i processi che determinano il formarsi, conservarsi, accrescersi ed estinguersi delle popolazioni, emergono divergenze sempre pi importanti. Il concetto di societ richiama aspetti e fenomeni che non sono contenuti implicitamente nel concetto di popolazione. Una stessa collezione di individui, purch sia oggettivamente data nel tempo e dislocata su un determinato territorio, dipende per le sue caratteristiche da un insieme indefinito di altri fenomeni; d luogo a un insieme di scarti significativi (Lvi-Strauss, 1958, trad. it. 1966, p. 329), a un insieme di norme e regole specifiche di quella determinata societ e dunque essenziali per comprenderne la natura e il cambiamento. A differenza della popolazione, intesa come mero aggregato di parti elementari, la societ definita e delimitata essenzialmente da processi di scambio e comu-

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nicazione: scambio e comunicazione delle persone (nella riproduzione), di beni e servizi (nella sussistenza), di messaggi (nellintegrazione e nella socializzazione delle nuove generazioni). Di modo che, a ciascuna delle funzioni essenziali per garantire nel tempo la conservazione della popolazione e il suo adattamento allambiente naturale e artificiale si associano diversi tipi di istituzioni, regole e valori, che precisano le soluzioni e le scelte sviluppate e adottate da diverse societ, in un determinato ambiente e in una determinata epoca, per rispondere alle esigenze fondamentali della vita umana e dellesistenza del gruppo (Malinowsld, 1944, trad. it. 1962, pp. 68 e segg.). Se dunque dal livello della popolazione passiamo a quello della societ, siamo costretti a tener presente un nuovo elemento, che non appartiene al piano della natura. Siamo dunque posti di fronte a unopposizione: quella tra i fatti elementari della natura umana e i simboli che danno ad essi significato e rendono possibile la comunicazione attraverso il linguaggio. Il che presuppone che tutti questi fatti attingano il loro senso solo se e in quanto siano riferiti a una data cultura. Il concetto di societ viene dunque a designare piuttosto le relazioni tra gli elementi della popolazione e le regole simboliche cui quelle relazioni soggiacciono, che non gli elementi e le loro semplici descrizioni in rapporto ai meccanismi e ai processi che riguardano la formazione e la struttura della popolazione stessa. Specifici della sociologia, in quanto scienza della societ, non sono gli oggetti suoi, che appaiono tutti anche nelle altre scienze, ma laccento che essa conferisce alloggetto, cio il rapporto tra tutti quegli oggetti e le leggi della socializzazione, che appunto la sociologia istituisce (Horkheimer e Adorno, 1956, trad. it. 1966, p. 51). Occorre tuttavia ricordare che questo concetto di societ giunge a pieno svolgimento soltanto in epoca relativamente recente, a seguito dello sviluppo della scienza sociale come disciplina autonoma della societ. Prima che ci avvenisse, alle origini della formazione del pensiero scientifico, la riflessione sui fatti relativi alla popolazione, alle cause e alle caratteristiche della sua struttura e della sua trasformazione, attingeva a un crogiolo comune, utilizzava materiali consimili e muoveva grosso modo dalle medesime premesse teoriche. Sul terreno materiale demografia, economia, antropologia e sociologia erano perci inevitabilmente destinate a incontrarsi e a confondersi. Con lo sviluppo successivo delle scienze sociali, in coincidenza con laffermazione pi moderna della ricerca sociale e con lavanzamento dei metodi statistici per il trattamento dei fenomeni collettivi, gli itinerari delle due discipline prendono a distanziarsi e iniziano a percorrere cammini sostanzialmente distinti. Il

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resto storia recente. La fase terminale alla quale riconduciamo lo stato attuale delle conoscenze che si comprendono nel corpo della demografia e della sociologia sembra caratterizzarsi soprattutto per il superamento delle tradizionali barriere disciplinari, il recupero di un ampio novero di prospettive diverse e, in definitiva, per un sostanziale riavvicinamento delle rispettive posizioni per quanto concerne sia i contenuti sia i metodi di indagine utilizzati nellanalisi dei fenomeni sociali. Nel complesso, la vicenda percorsa dai rapporti tra le due discipline pu essere raffigurata tramite il disegno geometrico di un doppio arco sovrapposto: con unorigine comune allinizio, una divaricazione sempre pi accentuata nello stadio intermedio dello sviluppo disciplinare della demografia e della sociologia e unapprossimazione verso un punto di convergenza in epoca pi recente. Questa rappresentazione risente evidentemente di tutti i limiti della schematizzazione. Un esame accurato delle stazioni intermedie ci condurrebbe a delineare un quadro pi complesso e accidentato, meno lineare e assai pi frastagliato e incoerente. Tuttavia, lanalisi che segue non intende affatto proporsi come una ricostruzione storica dello sviluppo delle due discipline: impresa, questa, che richiederebbe uno sforzo ben maggiore e un apparato assai pi complesso di riferimenti alla storia del pensiero demografico e sociologico. Pi modestamente, invece, questanalisi si propone di illustrare in modo schematico, con particolare riferimento alla situazione italiana, le principali ragioni che si pongono a fondamento di un rapporto comunque difficile e tuttora aperto a diverse soluzioni. 2. Lorigine comune Le origini della demografia e della sociologia, come peraltro quelle delleconomia e della statistica, appaiono, sotto molteplici riguardi, sostanzialmente coincidenti. In effetti, i contributi ai quali convenzionalmente si fanno risalire i fondamenti di queste discipline sono caratterizzati dalla medesima preoccupazione conoscitiva che consisteva, da un lato, nellesigenza di fornire una descrizione quantitativa dei principali caratteri della popolazione allinterno di un determinato spazio geopolitico e, dallaltro, in quella di pervenire allindividuazione di alcune regolarit nella distribuzione territoriale e nellandamento temporale di quegli stessi caratteri. Il comune intento conoscitivo e documentario al quale erano orientati questi primi contributi e la semplicit degli strumenti di osservazione e di analisi sui quali essi facevano assegnamento

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costituiscono i motivi fondamentali della loro sostanziale omogeneit dal punto di vista dei contenuti e dei metodi. Fino a oltre la met dellOttocento, le conoscenze demografiche e sociali relative alla popolazione si innestano in una comune matrice di idee e di considerazioni. Esse concernono tanto il rapporto delluomo con la natura, quanto i metodi appropriati per lindagine dei fatti sociali e naturali. Il primo riguarda la forma che caratterizza le scienze umane di questo periodo e perci il tipo di razionalit mediante il quale esse cercano di costituirsi in quanto sapere; il secondo, gli strumenti di cui esse si servono nella descrizione e nellanalisi dei fenomeni osservati. Quanto al primo aspetto, la posizione condivisa dalla gran parte delle opere alle quali possiamo far risalire i fondamenti di queste discipline in sostanza contraddistinta dal tentativo di ricondurre la conoscenza dei fatti umani alle leggi generali che governano i fenomeni naturali. Lassimilazione delle scienze sociali alle scienze della natura che, come la fisica, la chimica e la biologia, hanno ormai raggiunto lo stadio positivo, costituisce lobiettivo fondamentale e il compito comune di tali opere. La premessa da cui esse muovono si riduce alla considerazione che luomo non debba essere trattato diversamente da come si trattano, nel regno delle scienze naturali, i fenomeni della natura inanimata. Il carattere fondamentale della nuova scienza naturale della societ, cos come esso viene espresso nel Cours de philosophie positive di A. Comte (1830-42), di considerare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali invariabili, la cui precisa individuazione e riduzione al minimo numero possibile il fine di ogni nostro sforzo (Comte, 1864, p. 65). Nella trattazione datane da Comte, peraltro estensibile a larga parte del pensiero a lui contemporaneo, la storia umana e levoluzione dei fatti sociali si identificano, in ampia misura, con lo sviluppo delle scienze naturali. La nuova scienza avrebbe dovuto fornire lo schema teorico, lordine astratto, in base al quale i mutamenti pi significativi delle societ umane devono susseguirsi lun laltro in maniera necessaria. Alla base di questo modo di pensare troviamo pertanto il proposito di fornire il sistema delle idee e delle leggi scientifiche che potr permettere la comprensione e la riorganizzazione della societ; ovvero, nelle parole di Comte, quello di fornire la coordinazione razionale della serie fondamentale dei diversi eventi umani secondo un unico disegno. Ma affinch tale obiettivo possa essere raggiunto indispensabile, anzitutto, che lordine della natura sia considerato secondo i suoi aspetti fondamentali. Il che comporta, a giudizio di Comte (1864, p. 4), che si stabilisca in primo luogo il regime normale che corrisponde alla vera natura delluomo.

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Lopera di Malthus, precedente a quella di Comte, riflette in modo emblematico lapplicazione dei principi fondamentali che informano gli studi prodotti in questo periodo. Bench priva di una riflessione adeguata sulle basi della conoscenza scientifica e carente sul piano della sistematica, essa anticipa con sorprendente puntualit alcuni dei principali elementi che, in epoca successiva, troveranno posto nel quadro delle scienze positive e nella filosofia positivistica in modo particolare. La preminenza accordata a una considerazione prettamente naturalistica dei fenomeni della popolazione gioca in essa un ruolo essenziale. Il suo obiettivo fondamentale costituito dal tentativo di determinare la legge naturale della popolazione, ossia il saggio d1 incremento del genere umano quando gli ostacoli siano i minori possibili (Malthus, 1830, trad. it. 1977, p. 245). Il principio di popolazione si comprende cos nellambito di una visione scopertamente naturalistica delle popolazioni umane, alla quale possono essere contrapposte le leggi, altrettanto naturali, dello sviluppo del mondo vegetale e animale. Sicch, in definitiva, i principali fattori della popolazione le nascite, le morti e il suo incremento naturale sono sostanzialmente assunti come elementi biologicamente e perci naturalmente dati, ossia esogeni tanto al sistema economico quanto a quello sociale. Lapplicazione del metodo positivo allo studio dei fatti sociali si proponeva allora di realizzare lunicit di metodo per tutte le scienze di osservazione. A questo obiettivo si associa il secondo carattere al quale possiamo ricondurre limpostazione comune alla demografia e alla sociologia in questa prima fase del loro sviluppo; ossia, quello dei metodi a cui deve ricorrere, secondo gli autori classici, la descrizione e lanalisi scientifica dei fenomeni sociali. La volont di fondare una conoscenza spoglia di ogni altra ambizione intellettuale che non sia la scoperta delle vere leggi naturali comporta come conseguenza la necessit di subordinare le conoscenze scientifiche ai fatti di cui esse devono unicamente manifestare la connessione reale (Comte, 1864, p. 294). Il che implica, da un lato, la rinuncia a ogni vana e inaccessibile ricerca delle cause, sia primarie sia finali, per limitarsi allo studio delle relazioni invariabili che costituiscono le leggi effettive di tutti gli eventi osservabili (Comte, 1864, p. 599); dallaltro, quale indispensabile complemento della logica positiva (p. 671), lintroduzione del principio fondamentale secondo il quale loggetto delle scienze della natura, cos come di quelle della societ, debba essere non gi lindividuo o il singolo aggregato bens la popolazione nel suo insieme. Come nella biologia (lanalogia in questo caso tuttaltro che occasionale), anche qui [nella sociologia] linsieme certamente molto me-

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glio conosciuto e pi immediatamente accessibile (Comte, 1864, p. 258) che non le singole parti. In effetti, sia il presupposto secondo il quale lindagine dei fenomeni naturali debba limitarsi agli aspetti quantitativi della loro manifestazione, sia lassunto che i fenomeni di massa siano accessibili allindagine delle scienze positive, costituiscono i cardini sui quali poggia tutta la costruzione scientifica dellepoca alla quale si riferisce questo primo stadio della formazione della scienza demografica e della sociologia. Nel mondo delle cose inanimate, questo atteggiamento porta alla nascita della meccanica statistica; nel mondo degli esseri viventi, la condizione necessaria per lavvento della teoria dellevoluzione (Jacob, 1971, p. 207). Darwin, ad esempio, esprime una concezione chiaramente statistica della popolazione. I fenomeni naturali sono assunti nelle sue opere unicamente nella forma di fenomeni di massa; comunque, la speranza di poter pervenire allindividuazione di determinate regolarit nello studio dei fenomeni biologici e sociali fondata esclusivamente sullapplicazione della legge dei grandi numeri. Secondo tale impostazione, lanalisi statistica e il calcolo delle probabilit forniscono le regole basilari della stessa logica delluniverso e della natura. Queste regole, insomma, opererebbero nel modo pi rigoroso solo quando il numero degli individui considerati assai elevato. Nellindagine dei fenomeni legati al mondo naturale e a quello sociale, pertanto, questa procedura destinata a rilevarsi come particolarmente efficace. Anzich ricercare le cause di avvenimenti isolati, si osserva un gran numero di eventi appartenenti alla medesima classe, si operano scelte, si mettono insieme i risultati e se ne calcola la media per mezzo di regole empiriche: diventa possibile, allora, prevedere gli eventi futuri (Jacob, 1971, p. 238). Se si assumono come oggetto di studio i grandi numeri non perch le singole unit si sottraggano alla conoscenza, ma piuttosto perch il comportamento delle unit elementari e isolate non presenta per il ricercatore alcun interesse scientifico. Di fatto ha osservato Jacob (1971, p. 239) una delle caratteristiche del metodo statistico consiste proprio nellignorare deliberatamente e sistematicamente il caso particolare. Poco importa ottenere tutte le informazioni possibili su un singolo avvenimento e poter descrivere minuziosamente ogni circostanza; non questo il fine dellanalisi statistica, bens quello di elaborare una legge che superi i casi individuali. La sorprendente regolarit con la quale si presentano allosservazione scientifica tutti i fenomeni naturali starebbe dunque a significare che essi sono da ricondurre a un unico meccanismo comune. In effetti, a questa stessa logica si uniformano pressoch tutte le conoscenze che, dalla met dellOttocento agli inizi del Novecento e ol-

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tre, nei campi pi diversi dellastronomia, della biologia, della geografia, della demografia, della sociologia e delleconomia, si prefiggono di fornire uninterpretazione scientifica e una descrizione sistematica delle leggi che governano i fatti naturali e sociali. Il loro denominatore comune, dal punto di vista metodologico, sta nel fatto che esse non si propongono pi lobiettivo di raggiungere una spiegazione causale della realt, quanto piuttosto di darne una descrizione. Non cercano il perch, ma il come degli eventi. Non si occupano delle strutture relazionali tra i singoli elementi, ma delle frequenze con le quali nella realt fisica e sociale ricorrono talune regolarit, che per il loro carattere di stabilit sono riconducibili a leggi. 3. Popolazione e societ: le basi della scienza demografica e la nascita della sociologia Lorientamento positivistico che informa i diversi contributi scientifici prodotti nella seconda met del secolo XIX riposa su una duplice esigenza: da un lato, ricondurre i fatti reali a un ristretto numero di leggi naturali; dallaltro, impiegare un metodo di lavoro che permetta di raggiungere tale risultato mediante losservazione sistematica di un numero elevato di casi. Lappiattimento delle scienze delluomo e della societ sulle leggi che governano i fenomeni biologici e naturali rappresenta la conseguenza pi eclatante di questimpostazione. Per tutto il secolo XIX e per la prima parte del successivo, demografia e sociologia condividono appieno questimpostazione. La popolazione intesa come ununit organica formata e dominata da forze naturali e regolata nel suo sviluppo da leggi invarianti. La teoria della societ, daltro canto, si appoggia anchessa alle leggi che governano la vita degli organismi animali, come testimonia la diffusione di quadri di pensiero organizzati sulla base di sterili analogie di tipo organicistico. Loccasione di questa riflessione troppo specifica per consentirci di seguire in dettaglio la successiva evoluzione delle conoscenze. La divaricazione degli studi sociologici dalla demografia pu nondimeno, a grandi linee, essere ricondotta alla diversa influenza che sulle due discipline ebbe lo sviluppo di quella concezione storico-filosofica che derivava dalla revisione critica tanto della scuola positivistica francese quanto dellidealismo tedesco. Cos come si era venuta configurando nel quadro del cosiddetto storicismo tedesco contemporaneo, questa nuova impostazione della conoscenza era destinata a produrre un rinnovamento profondo delle prospettive metodologiche delle discipline storico-sociali,

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fornendo ad esse strumenti di comprensione storiografica e di indagine sociale che sono diventati un patrimonio permanente della cultura del Novecento (Rossi, 1971, p. XXIV). Linfluenza dello storicismo sulle scienze storico-sociali pu essere equiparata, quanto a diffusione e profondit, a quella che il positivismo esercit, nel periodo appena precedente, sulla concezione idealistico- romantica. Come il positivismo favor lassimilazione da parte delle scienze naturali e sociali di quegli strumenti di osservazione e analisi che consentivano di procedere in modo pi aderente alleffettiva realt dei fatti, cos lo storicismo contribu a introdurre unopportuna correzione nella tendenza, allora prevalente negli studi di impostazione positivistica, ad assimilare lanalisi dei fatti sociali a quella dei fenomeni naturali. La posizione di aperta polemica assunta dallo storicismo nei confronti dellapproccio positivistico si appuntava, in effetti, proprio sulla visione ricluzionistica che questa scuola di pensiero adottava nei confronti dei fenomeni sociali e, di conseguenza, anche sulla riduzione metodologica delle discipline storico-sociali al modello delle scienze naturali. In definitiva, il contributo fornito da questa filosofia allo sviluppo delle discipline storico-sociali pu essere colto precisamente nel tentativo, in gran parte coronato da successo, di stabilire la fisionomia specifica delle scienze sociali differenziandole dalle scienze naturali; ovvero, nel tentativo di definire il valore costitutivo dei rapporti sociali per lesistenza storica delluomo e della societ. Come? Interpretando lo sviluppo storico... come il processo di trasformazione dei rapporti degli uomini con la natura e delle relazioni reciproche tra gli uomini (Rossi, 1971, p. XVII). Laffermazione susseguente del pensiero sociologico avviata dalla revisione critica della filosofia hegeliana e della concezione utilitaristica compiuta dapprima da Marx e poi proseguita, non senza distinzioni di accento e di metodo, da Durkheim e da Weber rappresenta lespressione pi matura e compiuta del cammino iniziato nellambito dello storicismo tedesco. Esula dagli intenti di questo capitolo lesame analitico dei contenuti che, a seguito di questa revisione dei fondamenti della conoscenza sociale, sono poi confluiti nellarchitettura elementare del pensiero sociologico a partire dai primi anni del Novecento. In breve, tuttavia, il contributo fornito dalla riflessione sociologica allindagine dei fenomeni sociali si riassume nellintroduzione del concetto di cultura. Le teorie positivistiche hanno certamente percorso itinerari diversi allinterno delle discipline che tradizionalmente si sono divise linterpretazione delle vicende umane. Ma esse sono immancabilmente pervenute al medesimo risultato, cio allestromissione, dal quadro teorico di riferimento, della

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cultura intesa come qualit costitutiva delluomo, come oggetto di studio specifico delle scienze umane e sociali. Ovviamente, non si pu sostenere che la filosofia del positivismo escludesse totalmente il concetto di cultura dalle proprie considerazioni. Il fatto per che, in questottica, la natura veniva concepita come la (principale) modalit di adattamento delluomo allambiente, come strumento tendente a mantenere la popolazione umana allinterno dei limiti della sua capacit di riprodursi. Lartificio mediante il quale, in questo sistema di pensiero, la cultura veniva estromessa dal quadro teorico di riferimento consisteva, come ha giustamente osservato Sahlins (1982, p. 101), nel suo assorbimento, in un modo o nellaltro, nella natura . Lanello mancante in questa spiegazione dei fatti sociali difatti costituito dal carattere simbolico dei fenomeni sociali; sicch lintento della sociologia e delle altre scienze delluomo sar proprio quello di dimostrare come la cultura sovrapponga sempre un ordine simbolico dotato di significato alla natura e come essa assimili le parti di questa che hanno rilevanza per la condizione umana. La definizione del contenuto del sociale costituisce pertanto lelemento specifico e al tempo stesso differenziale delle scienze delluomo rispetto alle scienze della natura. La spiegazione fornita dal positivismo di determinate pratiche sociali e culturali come conseguenze necessarie di qualche circostanza materiale o di specifiche esigenze di adattamento delluomo rispetto allambiente naturale appare con ci superata da una posizione pi complessa e articolata, secondo la quale il rapporto natura/cultura si ribalta a tutto vantaggio delle qualit simboliche dellordine culturale. La natura degli effetti questa in sostanza la tesi sostenuta non pu essere derivata dalla natura delle forze, poich gli effetti materiali dipendono dalla loro delimitazione culturale (Sahlins, 1982, p. 203). In chiaro: i fenomeni di ordine superiore adattano i fenomeni di ordine inferiore ai loro scopi, anche se non possono cambiare le loro propriet. Cos, i fenomeni tipici dellanalisi demografica come ad esempio la nascita, la morte, il matrimonio, gli spostamenti della popolazione, risulterebbero in questo modo ricompresi in unintelaiatura simbolica che attribuisce loro un significato che va al di l della loro funzione naturale; di modo che lanalisi di questi fenomeni da parte della scienza sociale non pu arrestarsi alla descrizione delle loro quantit numeriche o del loro andamento, assunti in un determinato momento come dati. Ma dovr, oltre a ci, considerare le strutture di significato alle quali tali quantit e tali dinamiche sono irriducibilmente associate nella realt concreta della vita sociale. Tale questione trova illuminanti chiarimenti gi nellopera di Marx. La condizione naturale e materiale delle societ umane, cos come essa

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si riflette nei principali parametri numerici della popolazione, non costituisce, a giudizio di Marx (1859, trad. it. 1966, p. 713), che apparenza: Lapparenza estetica come egli scrive delle piccole e grandi robinsonate. Vale difatti anche per la popolazione ci che Marx riflette sul concetto di produzione. La questione centrale , anche a tale proposito, da ricondurre al modo in cui le condizioni storiche generali incidono sulla popolazione e al rapporto che essa ha con il movimento storico in genere (Marx, 1859, trad. it. 1966, p. 727). In altre parole, ogni fenomeno relativo alla popolazione sempre al tempo stesso un fenomeno sociale e lesistenza di un particolare tipo di popolazione o di determinate sue caratteristiche presuppone sempre un altrettanto determinato tipo di societ. Soltanto in apparenza, dunque, nello studio della societ possiamo cominciare con la popolazione. A un pi attento esame, ci si rivela falso o comunque inappropriato alla comprensione della realt sociale (Marx, 1859, trad. it. 1966, p. 730). La popolazione unastrazione prosegue Marx se tralascio ad esempio le classi di cui essa composta. A loro volta, queste classi sono una parola priva di senso, se non conosco gli elementi su cui esse si fondano. Partendo quindi dalla popolazione saremmo condotti a fornire una rappresentazione astratta della societ che non ci consentirebbe di comprendere la specificit storica degli accadimenti e dei fenomeni che in essa si esprimono. Giunti a questo punto, invece, ci troviamo nella condizione adatta per intraprendere il viaggio allindietro, per arrivare nuovamente alla popolazione: ma questa volta non come a una caotica rappresentazione di un insieme, bens a una totalit ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni (Marx, 1859, trad. it. 1966, p. 731). In base a questo modo di procedere, che Marx definisce come il metodo scientificamente corretto, il concreto concreto perch sintesi di molte determinazioni, quindi, unit del molteplice. Sicch, se per la prima via, la rappresentazione piena della realt viene volatilizzata ad astratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto (Marx, 1859, trad. it. 1966). Cos per la popolazione, cos per la famiglia, il matrimonio, la riproduzione e quantaltro si comprenda nello studio scientifico della popolazione. In generale, la pi elementare delle propriet della popolazione presuppone, secondo questa visione delle cose, una specifica determinazione sociale: una pluralit di regole e norme sociali, determinati valori, determinati tipi di famiglia, un definito sistema di relazioni sociali, un dato insieme di orientamenti culturali. Ancora, lesame analitico della natalit, della nuzialit, della mortalit, dei movimenti e della struttura delle popolazioni, laddove esso fosse improntato al presupposto astrat-

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to della loro naturalit, resterebbe irrimediabilmente privo della capacit di fornire una rappresentazione adeguata della realt sociale in cui hanno luogo. A questo esame resterebbe per sempre preclusa, altrimenti, la facolt di comprendere tali fenomeni nella loro specificit, nella loro variabilit relazionale con altri non meno rilevanti, ma anzi essenziali, aspetti della vita sociale. Linsieme di queste considerazioni, peraltro destinate a essere ulteriormente sviluppate nella riflessione sociologica e antropologica seguente anche indipendentemente dallottica marxiana, ha sortito risultati diversi nelle discipline delluomo che derivavano dalla medesima matrice epistemologica; meno sulla demografia, pi sulle restanti scienze sociali. La natura ambivalente della demografia, collocata in termini equidistanti tra i fondamenti biologici dei fenomeni vitali delle popolazioni e le loro determinazioni sociali, indubbiamente uno dei motivi a cui possiamo ricondurre leffetto relativamente debole che sulla sua evoluzione hanno avuto le conoscenze elaborate nellambito della riflessione sociologica. Ma, indipendentemente dalle ragioni che possono aver prodotto questo risultato, indubbio che sino a unepoca relativamente recente, collocabile grosso modo alla met del secolo XX, linfluenza che sulla demografia hanno esercitato le teorie naturalistiche sia stata assai pi consistente di quella della sociologia e delle scienze sociali in genere. Entro certi limiti, sarebbe finanche lecito sostenere che per un lungo tratto di tempo la demografia ha opposto pi di una resistenza alla permeabilit delle conoscenze sociali nel suo consolidato assetto di contenuti e metodi di indagine. La rassegna accurata di quelle opere che si sono proposte di riflettere sui fondamenti istituzionali della disciplina giustificherebbe di certo tale affermazione. Le stesse sistemazioni scientifiche della materia, prodotte a opera di quegli autori che pur hanno manifestato una sensibilit non comune per le problematiche sociali, consentono di evidenziare la presenza prevalente e, in definitiva, determinante di un orientamento prettamente biologico e naturalistico. A questo indirizzo possono ad esempio essere ricondotte invero con qualche forzatura, che non rende pienamente ragione del carattere complesso del pensiero degli autori che ci apprestiamo a considerare le opere di tre fra i maggiori demografi del Novecento: Rodolfo Benini, Corrado Gini e Livio Livi. Negli scritti del primo, che occorre riconoscere non manca di ampi riferimenti ad alcuni temi importanti dellanalisi sociologica di quel periodo, la popolazione intesa principalmente come ununit organica formata e dominata da naturali e intime forze di coesione e regolata nel suo sviluppo da leggi affatto specifiche. Mentre laddove lautore

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affaccia la tesi che le popolazioni soggiacciono allinfluenza congiunta di un duplice ordine di cause, orientate ad accrescerne la dissomiglianza o allopposto a moltiplicarne la coesione interna, anche in tal caso risultano in definitiva manifeste le premesse bio-organiche su cui riposa lintero discorso (Benini, 1901). Analoghe considerazioni possono essere affacciate con riferimento allopera, peraltro assai pi complessa e articolata di quanto qui si possa dar ragione, di Corrado Gini. E nota, difatti, linfluenza che la scuola organicistica esercit sulla sua concezione della popolazione e della societ. E bench la teoria neo-organicistica sviluppata da Gini si differenzi in pi punti dallingenuo organicismo che si limitava a tradurre, servendosi di analogie meramente descrittive (Castellano, 1974), i risultati degli studi anatomo-fisiologici del corpo umano, nel suo pensiero comunque evidente limportanza attribuita alle premesse biologiche nello studio della popolazione e della societ. Emblematica, a tale proposito, la spiegazione che egli d del declino della fecondit; come noto, Gini lo riconduceva a un fenomeno affatto naturale e incontrastabile di senescenza o deperimento biologico delle popolazioni, riecheggiando da presso, almeno per taluni aspetti, la teoria paretiana della circolazione delle lite (Gini, 1930; 1931). A complemento di questo breve e insufficiente quanto affrettato esame dei contributi forniti dalla demografia italiana alla costruzione delle basi della disciplina, una pi ponderata attenzione merita lanalisi della produzione scientifica di Livio Livi. Nella sua esposizione pi sistematica dei fondamenti della demografia, difatti, Livi ribadisce in pi luoghi i collegamenti che lo studio della popolazione intrattiene con le altre discipline sociali. Anche la demografia egli scrive considera infatti la popolazione non come amorfa accolta di viventi, ma come massa ordinata e quindi capace di dar vita a organizzazioni sociali. Cosicch, in questesigenza di comprendere lorganizzazione della societ nelle sue diverse manifestazioni, il contatto con la sociologia generale talmente forte che i confini tra le due scienze sono i pi incerti (Livi, 1940, II, p. 3). Tra esse, osserva ancora Livi, corrono rapporti non soltanto collaterali, ma anche verticali, dal momento che la popolazione inquadrata dalle sue leggi naturali una massa dominata da vincoli di socialit, ed quindi vero che la demografia che studia queste leggi una piattaforma della sociologia (Livi, 1940, II, p. 4). Nondimeno, accanto a riflessioni tanto lungimiranti sui rapporti tra scienza della popolazione e scienza della societ, permangono in nuce ampi legami con le concezioni esaminate in precedenza. In altre pagine della sua opera principale si sostiene che la sistemazione dei fenomeni

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demografici non possa non essere fondata su una concezione naturalistica delle cause fondamentali e primarie dellorganizzazione sociale (Livi, 1940, II, p. 15). Sicch, in definitiva, Livi dimostra di avere della popolazione una visione sostanzialmente naturalistica, secondo la quale le linee essenziali della societ umana sono dunque tracciate dalle stesse caratteristiche bio-organiche della specie, e pi lo la conformazione della popolazione su cui si basa la societ stessa (Livi, 1940, II, pp. 18-19). La distinzione dei sessi, la prolificit, la crescita, la mortalit e la variabilit dei caratteri fisico-psichici sono tutti fenomeni che dipendono, a giudizio del demografo italiano, da intime leggi biologiche e la cui distribuzione si esprime normalmente in una determinata forma naturale. Per cui, lo scopo della demografia individuato da Livi proprio nella ricerca di quelle leggi naturali dei caratteri demografici che sono come il riflesso delle caratteristiche biologiche della specie (Livi, 1940, II, p. 20). Ma se Atene piange, Sparta non ride: se cio, con il senno di poi, ci sembra evidente che la demografia non pu non annoverarsi tra le condizioni che strutturano la vita sociale, la medesima osservazione vale a riguardo della sociologia. Se la demografia nella societ, la societ a sua volta nella demografia; nel senso che ne dipende intimamente, nel senso che una qualsiasi analisi esaustiva del sociale non pu sfuggire allesame accurato delle componenti della sua popolazione, pena lincomprensione dei suoi caratteri e dei suoi processi di Stasi o di cambio fondamentali. La sociologia ha osservato icasticamente Lvi-Strauss era apparsa come il prodotto di una razzia: compiuta frettolosamente a spese della storia, della psicologia, della linguistica, della scienza economica, del diritto e delletnologia. Ai frutti di questo saccheggio, la sociologia si accontentava di aggiungere le sue ricette: qualunque problema le si ponesse, si poteva essere certi di ricevere una soluzione sociologica prefabbricata (Lvi-Strauss, 1967, pp. 53-54). La forse affrettata formazione del pensiero sociologico, congiunta allesigenza di prendere le distanze dal sistema filosofico positivistico (insieme naturalista e utilitaristico), da cui aveva pur ricevuto i natali, avevano indubbiamente concorso allo sviluppo di un atteggiamento di incomprensibile sufficienza, da parte del sociologo, nei confronti dei fatti biodemografici. Comunque stiano le cose, lestraniazione da tanta parte dellanalisi sociologica contemporanea di unattenta considerazione dei processi demografici di riproduzione e di movimento delle popolazioni rappresenta il costo pagato dalla sociologia nel tentativo di sottrarsi allinfluenza, un tempo preponderante, di orientamenti e quadri di riferimento organicistici che, in forma analogica o sostanziale, hanno dominato la scena

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degli studi sociali sino ai primi decenni di questo secolo. La consapevolezza di questa carenza da parte di non pochi dei maggiori esponenti della sociologia non bastata a evitare che si scavasse un solco profondo, non agevolmente valicabile, tra le prospettive metodologiche e i contenuti delle due discipline. Ma, soprattutto, non bastata a impedire che la formazione del sociologo e quella del demografo procedessero su itinerari distinti, tra loro scarsamente comunicanti e perci con una perdita in termini di apprendimento che indubbiamente deve essere annoverata tra i motivi fondamentali del progressivo declino professionale della figura del sociologo e della scarsa duttilit di quella del demografo. 4. Demografia e sociologia: contenuti e metodi negli studi italiani del secondo dopoguerra Almeno sino alla fine del secondo conflitto mondiale, limmagine della divaricazione tra le due discipline pu essere assunta come una rappresentazione corretta dello stato dellarte. E non occorre aggiungere che, anche in questo caso, un esame pi accurato dei contributi scientifici prodotti in questo arco di tempo ci porterebbe a delineare una divisione meno profonda tra la demografia e la sociologia. Se dunque ci risolviamo a ribadire il giudizio precedente per la semplice ragione che, tutto considerato, esso si addice assai meglio allobiettivo di fornire una descrizione generale dei loro rapporti. Cera, vero, chi verso la met del terzo decennio del secolo si adoperava per ricondurre la demografia sub specie sociologica (Coletti, 1926); o chi, come Gini (1952), non molti anni dopo, si sforzava di evidenziare i legami organici tra le due discipline. Ma si trattava, dopo tutto, di voci alquanto isolate nel panorama scientifico italiano: come basta a dimostrare una rassegna anche fugace delle raccolte bibliografiche relative agli studi e alle ricerche prodotti nellimmediato dopoguerra (Barbano e Viterbi, 1959; Golini, 1966). Il fatto che la situazione italiana presentava da questo punto di vista pi di una particolarit rispetto al contesto internazionale (Livi Bacci, 1969, p. 165). In sostanza, a differenza di altri paesi, essa si caratterizzava per una pi stretta aderenza degli studi demografici alle scienze biostatistiche, anzich alle scienze sociali. Come avverte Barbano, nel corso degli anni 20 e 30 ... vi era stato in Europa un notevole calo di interessi sociologici, cui non furono estranee le vicende e il clima politico; ma in nessuno dei paesi europei linterruzione fu cos lunga e profonda come nel nostro, ove un limitatissimo discorso sociologico rimase possibile solo nellambito di talune scienze sociali tradizionali, quali la demografia, la statistica, ecc. (Barbano, 1970, p. XXXIII).

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Le ragioni? Le stesse che convenzionalmente si avanzano per spiegare il ritardo nello sviluppo della sociologia nel nostro paese: cio la mancanza di una tradizione positiva critica, capace di stimolare la crescita e lo sviluppo della scienza sociale, spostandone subito le premesse filosofiche dai problemi eterni della conoscenza a quelli pi moderni del metodo (Garbano, 1970, p. xm); ovvero il predominio di una filosofia idealista che almeno sino alla fine del secondo conflitto mondiale avvers profondamente la stessa possibilit di esistenza di una scienza sociale, contribuendo cos a restringere lapplicazione del metodo scientifico al solo ambito delle scienze cosiddette esatte. Il che spiega, a un tempo, sia perch il terreno di coltura elettivo delle scienze sociali fosse in Italia costituito essenzialmente dalla statistica, dalleconomia e dalla demografia, sia perch la sociologia si svilupp con tanto ritardo rispetto ad altri paesi. Laddove lempirismo in Inghilterra, lo storicismo in Germania e il pragmatismo negli Stati Uniti svolsero un ruolo maieutico nei confronti della nascita della sociologia, favorendo lestensione delle metodologie delle scienze di osservazione anche al campo delle scienze umane; in Italia tale compito fu affidato, da un lato, alle forze endogene della crescita economico-industriale del dopoguerra e, dallaltro, a quel complesso di fattori esogeni che si riassumono nella sudditanza culturale del nostro paese dalla sociologia americana a partire dagli anni cinquanta (Balbo, Chiaretti e Massironi, 1975). Cos, per questo insieme di ragioni, le vicende della sociologia si legano nel nostro paese, per lungo tempo, a quelle della metodologia e dellinformazione statistica pi in generale; nel senso che esse vengono a dipendere, insieme, dalla produzione di adeguate informazioni sulla realt sociale e dallatteggiamento che la comunit scientifica manteneva nei riguardi della ricerca sociale empirica. Per quanto qui ci preme di rilevare, e limitatamente al periodo di tempo compreso tra il secondo dopoguerra e oggi, possono pertanto individuarsi tre fasi distinte di questo rapporto. Nella prima, collocabile grosso modo nel periodo della ricostruzione degli anni cinquanta, la sociologia si muove in controtendenza rispetto agli studi statistico-demografici: complici, da un lato, linsufficienza della documentazione statistica di parte sociale rispetto alla meglio corredata informazione economica e demografica, nonch una non meno esiziale insufficienza della cultura del dato statistico tra la comunit dei ricercatori sociali; e, dallaltro, gli interessi tematici sui quali si orientava giocoforza il lavoro di ricerca dal momento che, per ragioni tuttaltro che contingenti, si privilegiavano quali temi di indagine vuoi lo studio di comunit arretrate, localizzate soprattutto nel Mezzogiorno, vuoi limpatto dello sviluppo industriale sul territorio, dove la

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presenza della grande impresa esercitava pi marcate influenze sulla trasformazione dei modi di vita tradizionali delle popolazioni. Sicch, in entrambi i casi (sia per la mancanza di informazioni aggregate sulla realt sociale del paese, sia per le esigenze dettate dalla situazione economicopolitica), veniva ampiamente favorita ladozione di unimpostazione del lavoro di ricerca di tipo self-contained, ossia autosufficiente dal punto di vista della metodologia e dellapparato informativo impiegato nellindagine sociale. Anche in questo caso sufficiente scorrere le rassegne bibliografiche per rendersi conto della pertinenza di questo rilievo. Su 1624 voci listate nella Bibliografia curata da Barbano e Viterbi per il periodo 1948-58, ad esempio, circa un terzo riguarda studi e ricerche di sociologia economica, industriale, rurale e urbana o sulle interdipendenze tra citt e campagna, mentre soltanto uno sparuto 16 % si riferisce ai metodi e alle tecniche di ricerca, alla metodologia sociologica e ai rapporti tra la sociologia e le altre scienze sociali; con lavvertenza che molti degli autori citati non sono assimilabili alla figura del sociologo in senso stretto, ma appartengono piuttosto ad ambiti disciplinari diversi quali la scienza politica, il diritto, la filosofia, la storia, la statistica, la demografia e leconomia (Barbano e Viterbi, 1959). Per qualche tempo non si avvertono sostanziali cambiamenti di scena. In seguito ancora levoluzione dei temi economici, politici e sociali a sollecitare un mutamento di rotta degli studi sociali. Tra la met degli anni sessanta e la fine del decennio successivo, via lestensione dei primi grandi programmi di riforma, il ricercatore sociale venne in effetti sollecitato a porsi come interlocutore credibile e dunque preparato di fronte alle nuove domande che provenivano dai decisori politici e dalla stessa societ civile. In questo mutato panorama istituzionale prendono forma, lentamente e invero timidamente, nuovi, inusitati interessi da parte del sociologo nei riguardi dellinformazione statistica aggregata, con riferimento a una pluralit di aspetti e fenomeni della vita sociale; e si dipana, al tempo stesso, una sempre pi consistente attivit di ricerca empirica, connessa in parte ai temi tradizionali dellanalisi sociale, in parte a nuovi campi di indagine, quali il mercato del lavoro, la famiglia, la condizione femminile, i giovani, le politiche sociali, le comunicazioni di massa. Di nuovo, agevole verificare, scorrendo la produzione scientifica dellepoca, come temi assenti fino a qualche anno prima facciano in questo periodo la loro apparizione tra gli studi e le ricerche empiriche in campo sociale. Loro caratteristica comune il ricorso pressoch generalizzato alle tecniche di survey (mutuate dalla sociologia statunitense, allora imperante soprattutto allinterno dellaccademia) e lassai

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limitato impiego di dati strutturali o macrosociali provenienti da fonti statistiche ufficiali. Nel panorama generale non si avvertivano ancora i segni di un mutamento di atteggiamento del ricercatore sociale nei confronti dellinformazione e del metodo statistico: il solo terreno, come si detto, sul quale avrebbe potuto compiersi lincontro tra la sociologia e la demografia. O, se cerano, questi segni apparivano alquanto fievoli. La tendenza allora dominante pareva piuttosto procedere nel senso di un progressivo accentuarsi del divario tra le due discipline, anzich in quello della sua attenuazione. Lo sviluppo di una sempre pi complessa metodologia negli studi demografici della natalit, della mortalit e dei fenomeni migratori, da una parte; lestensione di quadri analitici contraddistinti dalla presenza di complesse architetture concettuali, ove gli aspetti teorici astratti giocavano un ruolo affatto predominante a tutto discapito delle componenti empiriche e strutturali, dallaltra: entrambe queste tendenze degli studi demografici e sociologici, rispettivamente, rendevano levento del loro possibile ricongiungimento sempre pi aleatorio e remoto. Solo in prosieguo di tempo, pi o meno allinizio degli anni settanta, si verificano finalmente condizioni pi favorevoli per lorganica integrazione delle due discipline. Solo in questi anni, come vedremo, la demografia pare aprirsi a riflessioni pi ampie sui fattori economici, sociali e culturali che intervengono nella dinamica delle popolazioni, sforzandosi di elaborare interpretazioni pi audaci e pertanto pi articolate e complesse sui meccanismi del comportamento demografico; mentre, dal canto suo, la ricerca sociale rivolge unattenzione sempre pi matura e consapevole verso il patrimonio di informazioni concernenti la struttura della popolazione e la dinamica dei fenomeni demografici. Ma la lentezza con cui si compie il processo di avvicinamento delle due sfere della conoscenza sconta evidentemente il divario alimentato da un lungo periodo di diffidenza reciproca. 5. Recenti tendenze integrative negli studi demografici e sociali In effetti, se le premesse di unineluttabile integrazione tra le due discipline erano rintracciabili nella stessa convergenza su un comune oggetto di studio, i primi passi concreti in questa direzione non furono mossi dalla demografia n dalla sociologia, intese in senso stretto. Essi derivarono piuttosto dallesigenza di tenere presenti, sul piano dellanalisi, aspetti e problemi della vita sociale che, in quanto tali, non erano curati da alcuna delle due discipline singolarmente considerate.

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Lattenzione ai problemi posti dallintegrazione tra variabili strettamente demografiche e variabili strettamente sociologiche prese avvio, infatti, dapprima nellambito degli studi storico-sociali e in un secondo momento nel quadro appena pi ristretto degli studi e delle ricerche sulle strutture e i comportamenti delle famiglie, accompagnati da non occasionali riferimenti alla problematica politico-sociale. In primo luogo, non difficile identificare nei contributi forniti dalla storia sociale i prodromi di una fruttuosa sintesi delle conoscenze e dei metodi di indagine autonomamente sviluppati sia dalla scienza demografica sia da quella sociale. Se, seguendo un suggerimento fornito in un diverso contesto da C . Tilly, identifichiamo gli obiettivi di questi studi nella possibilit di condurre simultaneamente lanalisi delle relazioni di parentela, della composizione dellaggregato domestico, del comportamento sessuale, delle opportunit economiche e dei condizionamenti desumibili dalla struttura demografica delle popolazioni, nonch nellalloggiamento di studi locali e di dettaglio entro modelli generali e analisi di ampio respiro (Tilly, 1978,.p. 7); allora, se questi sono gli obiettivi, si pu ritenere che in larga parte essi siano stati conseguiti e perfino superati dalla pubblicistica italiana; quantunque sia ancora prematuro parlare di una consolidata tradizione di ricerca nella promettente direzione in cui si sono incamminate le prime esperienze compiute in questo settore. Pi radicata e quindi pi imponente la produzione realizzata nel campo degli studi sulla famiglia. su questo versante che si affacciano i pi consistenti tentativi di integrazione tra approccio demografico e sociologico. I motivi sono ovvi. La famiglia, in effetti, si pone come unit intermedia tra individui e popolazione: sede elettiva dei comportamenti procreativi e dei processi di socializzazione delle nuove generazioni, costituisce soprattutto il contesto prevalente in cui ha luogo ladattamento degli individui allambiente sociale tramite la soddisfazione dei loro bisogni essenziali. Cosicch in essa convergono una pluralit di esperienze e aspetti dellorganizzazione sociale quali la riproduzione, la formazione, lattivit lavorativa, la salute, le pratiche politiche e religiose e cos via, cui corrispondono, nel catasto ormai secolare della tradizione scientifica e accademica, altrettante espressioni disciplinari, quali la demografia, leconomia, la psicologia, la sociologia, la scienza politica e lantropologia. Pi di altri temi di ricerca, la famiglia esprime perci una vocazione singolare ad aggregare in un quadro unitario, istituzionale, una pluralit di elementi della vita sociale. Tentare di separarli, di considerarli distintamente al di fuori della cornice in cui convergono in una nuova e diversa sintesi, equivarrebbe a perdere di vista loggetto stesso dellanalisi; significherebbe ridurre linsieme alle sue parti elementari, disper-

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dere ci che singolarmente correlato; privarsi insomma della possibilit di ricostruire e conoscere il fenomeno famiglia nella sua interezza e, ci che pi importa, nella sua specificit. In definitiva, lanalisi della famiglia rappresenta lunit di riferimento pi appropriata e un primo banco di prova per valutare la realizzabilit e la validit di una proposta di lavoro che si ponga come obiettivo prioritario la ricomposizione del sapere sociale. Dal punto di vista metodologico, il riferimento alla famiglia porta anzitutto a ridimensionare lutilit di unindagine che si muove esclusivamente o prevalentemente a livello di alcuni aspetti della popolazione o del pi limitato oggetto di indagine. Costruiamo una demografia della famiglia - ha scritto BourgeoisPichat (1987, p. 63) - ma non dobbiamo dimenticare che la stessa famiglia va collocata in un contesto di entit superiori: il villaggio, lappartenenza sociale, religiosa ecc. . Allo stesso tempo, essa sollecita lindagine ad affrontare le difficolt tecniche, di rilevazione e di analisi dei dati, che indubbiamente emergono quando dal riferimento a un numero limitato di casi (tipico dellinchiesta sociale condotta su campioni di ridotte dimensioni) si passa a un livello aggregato superiore, talvolta coincidente con lintera popolazione. Ancora: lanalisi della famiglia sollecita il ricercatore a prestare attenzione a problemi di significato e pertanto a tenere presenti aspetti e questioni specificamente attinenti al campo di studi della sociologia. Lindagine micro pone, in effetti, il ricercatore a contatto con situazioni nelle quali la similarit di forma della struttura o della composizione della famiglia si associa a una diversit talvolta inconciliabile di funzioni e di significati nel pi ampio contesto sociale. Ladozione di determinati comportamenti demografici, nel campo della riproduzione, della nuzialit, del movimento della popolazione sul territorio, ad esempio, pu essere il risultato di motivazioni o di condizioni strutturali allintorno anche assai diverse, delle quali nellanalisi occorre dar conto. Vale a dire che, percorrendo la strada dellinterdisciplinarit, ci si imbatte inevitabilmente in un problema cruciale delle scienze sociali e del comportamento: in breve, che laccumulo crescente di informazioni nellambito ristretto di un contesto disciplinare pone immediatamente il problema dei limiti e dei confini della disciplina. Aumenta considerevolmente la variabilit dei fenomeni oggetto di osservazione; ma aumenta di concerto lincapacit di un solo apparato disciplinare di spiegare la varianza totale del fenomeno ricorrendo alle sole variabili o ai soli fattori che costituiscono il corredo concettuale e strumentale di quella disciplina. Tipico, solo per esemplificare, il caso della fecondit, dove risulta oltremodo difficile ricondurre a uninterpretazione monolitica e unidi-

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sciplinare la presenza di forti variabilit nelle misure consuete della fecondit in paesi che pur presentano a tutta prima caratteristiche sostanzialmente omogenee; o, di contro, lesistenza di significative variazioni nei tassi di natalit entro contesti che, in base al sapere convenzionale, dovrebbero presentare correlazioni di segno diverso tra le caratteristiche strutturali della popolazione e del territorio e gli esiti riproduttivi. Identici risultati possono, evidentemente, essere prodotti da un diverso ordine di fattori causali. Ma, con altrettanta evidenza, non necessariamente questi diversi ordini di fattori appartengono legittimamente allo stesso ambito disciplinare. Spesso ne fuoriescono, creando connessioni affatto inusitate rispetto alle tradizionali partizioni disciplinari. Non esistono scienze umane dai confini limitati, ha giustamente osservato Braudel. Ciascuna di esse una porta aperta sullinsieme del sociale che si apre su tutte le stanze e conduce a tutti i piani delledificio, a condizione che linvestigatore non si arresti nel suo cammino, mosso da un atteggiamento di riguardo nei confronti degli altri specialisti suoi vicini, ma essendo al contrario pronto a utilizzare, quando ce ne sia la necessit, le loro porte e le loro scale (Braudel, 1984, p. 57). Di modo che ogni separazione, ogni barriera tra le scienze sociali una regressione. Ogni problematica separata dallinsieme condannata ad essere infruttuosa (Braudel, 1984, p. 58). Come dire che non esistono discipline sociali che possano pretendere unautonomia di metodi e di contenuto nello studio dei fenomeni sociali, senza perci limitare drasticamente la natura molteplice e complessa dei fatti che formano loggetto della loro indagine. Ora, sebbene lobiettivo di unintegrazione sistematica di tutte le scienze sociali non possa realisticamente essere posto se non in termini ideali, il tentativo di superare le barriere disciplinari che erano andate stratificandosi nel corso del tempo si sarebbe dimostrato pi difficile del previsto. In Italia, pi che altrove: quando si tengano presenti, dal lato della demografia, la gravosa eredit biologistica lasciata dagli studiosi dei fenomeni demografici nel nostro paese e limmagine tuttaltro che positiva associata di riflesso alla disciplina dalla politicizzazione della demografia negli ultimi anni nefasti del fascismo e dalla sua trasformazione in demografia della razza al servizio di teorie antiscientifiche e disumane (Livi Bacci, 1969, pp. 166-67); ovvero, dal lato della sociologia, la gi rilevata influenza regressiva esercitata dalla filosofia idealista sullintroduzione e sullo sviluppo dei metodi quantitativi negli studi sociali in epoca pi o meno contemporanea. Comunque sia, se due influenze di segno negativo non danno luogo di regola a un risultato favorevole, sta di fatto che, a datare dallinizio degli anni settanta, le ten-

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denze evolutive presenti negli orientamenti scientifici e culturali della demografia e della sociologia si instradarono lungo itinerari sostanzialmente convergenti. C chi ha intravisto, non senza ragione, in questa comune evoluzione della scienza demografica e della sociologia il risultato di una tendenza di pi lungo periodo delle scienze umane verso la sociologizzazione, che rappresenta forse il parallelo del fenomeno di biologizzazione delle scienze sociali che ha caratterizzato la seconda met del secolo XIX e linizio del XX (Federici, 1971, p. 182). Certo cos. Anche se in termini pi banali si potrebbe osservare che a un certo punto della loro evoluzione, raggiunto un soddisfacente grado di consolidamento e di consapevolezza scientifica, sia luna sia laltra disciplina dovevano necessariamente approdare alla conclusione che la descrizione e la spiegazione del medesimo oggetto di analisi avrebbero richiesto ladozione di concetti, metodi e strumenti di indagine sostanzialmente coincidenti. In linea di principio, nessuno dei temi classici della demografia e della sociologia poteva sottrarsi a questineluttabile conclusione: non laccrescimento naturale della popolazione, non la mortalit, n tanto meno gli spostamenti territoriali della popolazione, per quanto concerne il versante demografico; ma nemmeno lo studio delle classi e della stratificazione, lindagine sul lavoro, sulla povert, leducazione, la famiglia, gli stili di vita, per quanto attiene ad alcuni dei temi canonici della sociologia. Nella consapevolezza di quanto accaduto, non difficile comprendere che alcune tematiche si prestavano meglio di altre a favorire il salto nellinterdisciplinariet. Che il lavoro, la famiglia, la condizione femminile, i fenomeni migratori, godevano ceteris paribus di uno statuto tematico particolarmente propizio per unincursione degli studi demografici e sociologici entro i confini inveterati segnati dalle reciproche tradizioni disciplinari. Ciascuno di essi si trovava, come dire, al crocevia di fenomeni della vita sociale che solo dal punto di vista di unastratta quanto esiziale divisione sociale del sapere potevano essere considerati come una sommatoria incongruente di tratti distinti. Come separare, ad esempio, lanalisi della fecondit da quella della famiglia o dalla condizione lavorativa della donna? Che senso ha, nella prospettiva di unindagine esaustiva del reale, distinguere il movimento della popolazione dalle cause economiche e sociali che ne stanno a fondamento o prescindere dagli effetti che tali spostamenti producono tanto nei luoghi di provenienza quanto in quelli di destinazione? Idem per quanto riguarda lanalisi delle classi o lo studio di aspetti altrettanto fondamentali dellorganizzazione sociale. Ma dove inizia il processo? Su quale fronte pi agevole rompere con la tradizione e avviare un rinnovamento di quadri disciplinari con-

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solidati? Virtualmente impossibile, e forse inutile, tentare di dare risposta a queste domande. In pratica, alquanto agevole ripercorrere il cammino a ritroso e ricostruire le fasi salienti del cambiamento. A puro scopo di inventario, si potrebbe collocare lorigine del processo di avvicinamento delle due discipline nel momento in cui si avverte, da parte della demografia, la necessit di ricorrere a quelle tecniche di indagine che contraddistinguono per tradizione la ricerca sociale, ovvero di accrescere il novero delle variabili ritenute influenti sulla dinamica dei fatti demografici; e, da parte della sociologia, la necessit di disporre di unanalisi di quadro allinterno della quale situare gli studi di maggiore dettaglio, ovvero lesigenza di inglobare le caratteristiche della popolazione e le sue dinamiche nella descrizione del sistema sociale oggetto di indagine. Se teniamo presenti entrambi questi criteri, un utile punto di riferimento costituito dallindagine sulla fecondit e il lavoro della donna condotta nel 1969, a cura dellIstituto di demografia dellUniversit di Roma, su un campione di oltre duemila donne in et feconda. Anzitutto per la sua impostazione metodologica che, non a caso, muove dalla consapevolezza dei limiti delle tradizionali indagini sulla fecondit basate quasi esclusivamente sullanalisi demografica di dati desunti dalle statistiche correnti (Federici, 1973, pp. 1-2); a proposito delle quali, in quello studio si rilevava in effetti lopportunit di introdurre profonde innovazioni sul piano degli strumenti di indagine, in particolare nel passaggio dalle rilevazioni sui grandi aggregati censimentari a quelle su piccoli campioni condotte sulla base di interviste individuali dirette che devono secondo le autrici essere articolate su una pluralit di quesiti, tanto pi numerosi e complessi quanto pi completo il quadro che si vuol tracciare (Federici, 1973, p. 5). Nel complesso, la scelta adottata conduce da un lato a effettuare lindagine non gi sulla totalit della popolazione ma su un campione, pi o meno ristretto, di essa e dallaltro a centrare lindagine su un aspetto, che viene di volta in volta scelto come obiettivo principale di analisi, impostando, cos, i quesiti in funzione soprattutto dellapprofondimento di tale aspetto, rispetto al quale gli altri vengono a costituire il necessario quadro di riferimento (Federici, 1973). Quanto ai contenuti, si evidenziava che una valida analisi delle relazioni tra lavoro della donna e fecondit richiedeva da un lato di formulare ipotesi circa le altre variabili che si poteva presumere intervenissero a modificare tali relazioni e si proponeva, dallaltro, lopportunit di considerare la fecondit non gi esclusivamente in termini quantitativi di numero di figli avuti, ma anche in termini di comportamento nei confronti dei tempi

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e dei modi di formazione della famiglia (Federici, 1973, pp. 6-7). Cosicch anche un aspetto specifico quale quello affrontato nello studio veniva a investire unampia problematica. E le variabili che si riteneva dovessero essere considerate comprendevano aspetti solitamente trascurati dalle indagini tradizionali sulla fecondit quali, ad esempio, la zona geografica di residenza, lambiente rurale o urbano di dimora, la collocazione socio-economica della famiglia, il lavoro eventualmente svolto dalla donna, il tipo di lavoro e la sua continuit nel corso del ciclo di vita della donna (Federici, 1973, p. 7). Se questa e altre indagini che ad essa seguirono valsero ad attenuare quella sostanziale rigidit dellosservazione dei fatti demografici pi volte lamentata dagli stessi demografi (Livi Bacci, 1969, pp. 171 e segg.; Federici, 1969), un effettivo punto di svolta nel processo di avvicinamento della demografia e della sociologia coincise con lavvio di una serie pluriennale di incontri seminariali promossi dal Comitato per le Scienze economiche, sociologiche e statistiche del CNR tra il 1975 e il 1980. Tali incontri a cui furono invitati a partecipare sociologi, demografi, biologi, statistici, economisti, psicologi, storici sociali e antropologi avevano lo scopo di favorire la comunicazione e lo scambio di informazioni e di metodologie tra studiosi che, pur appartenendo a diversi ambiti disciplinari, erano legati da un comune interesse scientifico per lo studio della famiglia. Per la prima volta, a studiosi di diversa formazione veniva offerta lopportunit di un confronto incrociato dei risultati delle loro ricerche; ma soprattutto veniva data loro la possibilit di valutare i limiti di un approccio al tema della famiglia fondato su un unico impianto disciplinare, e con ci di venire a conoscenza di esperienze di lavoro e fonti di dati che usualmente sfuggivano allattenzione di ogni singolo specialista. Al di l dei risultati apprezzabili tramite i consueti criteri di produzione scientifica (Cisp, 1982-83; Centro studi e ricerche sulla famiglia, 1983; Sgritta, 1984), il dato positivo di questi incontri fu indubbiamente la redazione di un progetto di indagine, poi inoltrato allIstat, sulle strutture e le caratteristiche delle famiglie italiane. Il progetto, che costituiva la sintesi di un lavoro interdisciplinare condotto nellarco di circa un quinquennio, diede luogo a sua volta alla prima indagine nazionale sulle Strutture e i comportamenti delle famiglie italiane, alla cui predisposizione collaborarono, nellapposita commissione istituita presso lIstat, alcuni dei partecipanti ai seminari di studio del CNR. Di fatto, si apriva cos un orizzonte affatto nuovo sul terreno dellincontro tra demografia e sociologia; non tanto e non solo per la particolare vocazione dellanalisi della famiglia a porsi come punto di incontro tra orientamenti disciplinari diversi, n perch a quella prima indagine segu dappresso il va-

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ro della ben pi impegnativa Indagine multiscopo sulle famiglie (dicembre 1987). E nemmeno a motivo del fatto che questultima indagine si sia proposta come obiettivo di massima di migliorare qualitativamente il livello delle rilevazioni gi esistenti tramite significative innovazioni sul piano metodologico. Ma piuttosto perch, su un terreno cos importante per la tradizione scientifica italiana, si tentava per la prima volta di inglobare lapporto specifico della conoscenza sociale nel processo di produzione del dato statistico-demografico: per tutta la lunghezza ideale del percorso che si snoda dalla fase di formulazione del progetto a quella della predisposizione del modello di raccolta, dallesecuzione di preliminari esperienze pilota al controllo di qualit del dato, dal piano di spoglio e incrocio delle variabili al quadro di elaborazione tecnica, sino alla sua utilizzazione operativa nella pratica sociale. Non a caso nellambito delle commissioni scientifiche incaricate di predisporre le suddette indagini operano studiosi di formazione diversa; ossia convergono sensibilit nuove, rispetto al passato, nellindividuazione delle esigenze e degli aspetti della vita sociale che si reputano meritevoli di approfondimento. Gi la selezione dei temi introdotti nellIndagine multiscopo tra gli altri luso del tempo, la struttura delle reti di relazione familiare, la condizione dellinfanzia, leconomia familiare e cos via denota un salto di qualit rispetto al ventaglio di temi tradizionalmente tenuto presente dallindagine demografica. Di pi. Lintroduzione di questi temi comporta a sua volta la necessit di trovare altrettante soluzioni sul piano della metodologia. Obbliga il produttore del dato ad affrontare problemi nuovi, che nascono dal fatto di trovarsi di fronte a fenomeni di non agevole misurazione, o dalle difficolt po ste dallimpiego delle pi incerte misure di atteggiamento rispetto alle (pi o meno oggettive) misure di comportamento. Ma in primo luogo costringe la ricerca statistica e demografica a spingersi al di l dei confini ristretti delle rispettive competenze disciplinari e ad abbeverarsi alla fonte, ormai copiosa, delle tante indagini sociali su piccoli campioni, che vengono cos a costituire un serbatoio prezioso di idee e metodi di rilevazione e trattamento del dato che possono risultare assai utili nella preparazione e nellesecuzione delle indagini. Da allora, il percorso dellintegrazione tra sociologia e demografia, se non in discesa, stato certamente pianeggiante. Gli eventi che lhanno accompagnato, almeno sul terreno degli studi e delle ricerche sulla famiglia, non possono che essere giudicati positivamente. Studiosi e ricercatori che, secondo le convenzioni tradizionali, trovano tuttora collocazione in un fronte disciplinare, tendono sempre pi a muoversi con inusitata disinvoltura anche nellaltro fronte. In effetti, se nella

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prima met degli anni ottanta, sulla scia delle esperienze pilota di cui si detto, gi consueto imbattersi in pubblicazioni che raccolgono sotto la medesima veste grafica contributi di demografi e sociologi (Centro studi e ricerche sulla famiglia, 1983b; 1984), a partire dal 1985 con la pubblicazione degli atti del convegno organizzato dallIstat e dal Comitato nazionale della popolazione in occasione della presentazione dei risultati dellindagine sulle Strutture e i comportamenti familiari (Istat, 1986) tali occasioni non solo si fanno pi frequenti ma si assiste da allora a un fenomeno alquanto singolare nel panorama scientifico italiano. Quasi il prodursi di una sorta di mutazione genetica nellatteggiamento del sociologo e del demografo nellapproccio al tema della famiglia. Un cambiamento che si esprime nellestensione degli interessi di ricerca delluno e dellaltro al di l dei confini stabiliti dalla tradizione; uno scambio dei ruoli, che porta non solo allinterscambiabilit dei contenuti, ma spesso addirittura alladozione di consimili metodologie nellimpostazione del lavoro e nel trattamento delle informazioni. Un rapido sguardo alla letteratura demografica e sociologica della fine degli anni ottanta-inizio anni novanta gi sufficiente a cogliere i segni del cambiamento, specie se rapportata alla produzione scientifica degli anni immediatamente precedenti; ma non se ne trae che una pallida idea. Ben pi esteso, profondo e radicato il mutamento intervenuto nel frattempo nel modo di far ricerca sui due versanti della demografia e della sociologia. Per poterne apprezzare appieno la portata dovremmo, tuttavia, gettare lo sguardo nella mole considerevole di lavori in gestazione allinterno delle universit, nelle tesi di laurea; ovvero, attendere la conclusione di quella cospicua massa di ricerche destinata a essere alimentata dalla periodica pubblicazione dei risultati dei sei cicli tematici dellIndagine multiscopo sulle famiglie, tuttora in fase di svolgimento presso lIstat. Perch qui, in effetti, che si appuntano le maggiori possibilit di collaborazione tra le due discipline. Deriva da qui, come sempre del resto, la possibilit di alimentare lo sviluppo della teoria, delle metodologie e delle tecniche di rilevazione, indagine e analisi dei dati con riferimenti desunti dallosservazione dei fenomeni reali, a partire dallesperienza concreta della ricerca e dai problemi che essa pone con continuit al ricercatore. Ampliandosi Io spettro dei fenomeni oggetto di osservazione, man mano che ci si addentra su inesplorati campi di indagine, si produce necessariamente un rimescolamento dei punti di vista. Si avverte lesigenza di estendere i propri orizzonti conoscitivi e di rivalutare aspetti e caratteristiche della realt che in una visuale tradizionale delle specifiche competenze disciplinari potevano pi agevolmente essere tralasciati.

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6. Conclusioni Non servono dunque doti divinatorie per prevedere che il terreno di lavoro comune tra demografia e sociologia destinato, in un futuro nemmeno troppo lontano, ad ampliarsi ulteriormente. N si pecca di eccessivo ottimismo se si ritiene probabile il costituirsi di unarea sempre pi ampia di interessi scientifici comuni alle due discipline, sia sotto il profilo dei contenuti sia sotto quello dei metodi di ricerca; area dalla quale residueranno le sintesi pi astratte della teoria sociologica e i tecnicismi pi esasperati dellanalisi demografica, che andranno per conto loro a costituire nicchie di sapere a un tempo esoteriche e limitate. Gi ora, del resto, le considerazioni sulle quali ci siamo precedentemente soffermati bastano a dimostrare lesistenza di spinte centripete che, grazie alle innovazioni introdotte sul piano della rilevazione e della registrazione magnetica delle informazioni, consentono di passare progressivamente dal dato aggregato (tipico della scienza demografica del passato) al dato individuale e quindi di mantenere a questo livello anche il taglio della successiva analisi interpretativa. Il che non significa disconoscere limportanza dellanalisi aggregata, ma solo apprezzamento per nuove opportunit di approfondimento (De Sandre, 1990, p. 55). In effetti, la possibilit di utilizzare i dati relativi ai singoli individui osservati, mantenendo il riferimento individualizzato, ha consentito nel tempo lapertura di nuovi orizzonti di lavoro interdisciplinare. Da un lato, come riassume De Sandre (1986, p. 48), essa ha aperto spazi enormi allanalisi statistica multivariata dei dati, alla ricerca di modelli strutturali di rappresentazione dei fenomeni, e alla micro-simulazione, ampliando in tal modo i punti di contatto tra le metodologie di lavoro tipiche della sociologia e quelle demografiche. Dallaltro, ha spinto ad aumentare i caratteri osservati per meglio conoscere le dinamiche dei comportamenti: tipica stata la diffusione di indagini a obiettivi plurimi (in senso estensivo) e di quesiti retrospettivi (in senso intensivo), anche nei censimenti, e la promozione di indagini campionarie sia da parte di organismi ufficiali sia da parte di privati ricercatori (De Sandre, 1986). Con riferimento agli orientamenti metodologici che investono direttamente, anche se non unicamente, la realt familiare, un ulteriore spazio di lavoro congiunto tra demografia e sociologia andato inoltre formandosi recentemente intorno al tema della natura temporale dellindagine; specificamente, intorno al confronto tra indagini di tipo trasversale (cross-sectional) e indagini longitudinali. Anche in questo caso, lesigenza del cambiamento deriva dalla percezione di una carenza.

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Il ricorso a metodologie di lavoro di tipo trasversale congiunto alla trattazione aggregata dei dati risulta, come noto, gravato da tali distorsioni da non consentire di seguire levoluzione dinamica dei gruppi oggetto di osservazione, n di comprendere linsieme dei fattori dai quali dipende la variabilit dei comportamenti sociali e demografici; laddove, invece, ladozione di una pi sofisticata metodologia di lavoro che consenta di fondere lapproccio longitudinale con il livello di analisi individuale offre lopportunit di ovviare ai limiti delle analisi tradizionali, pur affacciando problemi di rilevazione e trattazione dei dati non sempre di agevole soluzione (De Sandre, 1985; Sgritta, 1990). Tenuto conto che lanalisi longitudinale non che unapprossimazione alle vere modalit di svolgimento della vita sociale, che in essa si ricapitola anche lo studio per biografie, per cicli di vita individuali e/o familiari e per generazioni; e che analisi di questa natura sollecitano fortemente il demografo e il sociologo a ricorrere a tecniche di trattamento dei dati di tipo multivariato, segue da tutto ci che, anche su questo piano, le possibilit di convergenza tra studi sociologici e studi demografici siano sempre pi consistenti. Purtroppo in Italia non si dispone ancora di esperienze di lavoro e di risultati di ricerca che consentano di stilare un bilancio della collaborazione tra demografi e sociologi. Esistono le condizioni per lavvio di questa collaborazione, ma prematuro esprimere un giudizio sulla qualit degli esiti che ne deriveranno. In linea di principio, indubbio che la confluenza di metodi e di contenuti non possa che essere ritenuta positiva da entrambi i versanti disciplinari. Quanto Livi Bacci, ormai ventanni fa, diceva a proposito dello stato e degli orientamenti della demografia, si applica agevolmente anche alla sociologia. A entrambe offerta oggi la possibilit di arricchirsi, di rinnovarsi, inserendosi ... in un vasto campo di ricerche che mai come oggi sembrano importanti e necessarie per la corretta conoscenza della societ (Livi Bacci, 1969, p. 180). Cos come, di contro, per entrambe si presenta il rischio di non cogliere appieno questa possibilit. Non certo per ragioni epistemologiche (che anzi, come abbiamo visto, risultano da ogni punto di vista assolutamente congeniali allobiettivo della loro integrazione), quanto piuttosto per motivi di ordine pratico, che risiedono nella struttura delle istituzioni accademiche, nei percorsi formativi del sociologo e del demografo, nei modi in cui tuttora impartito linsegnamento delle due discipline, nei mezzi che saranno messi a disposizione della ricerca e nella sensibilit dei pubblici poteri. Difficile fare previsioni. Ma si pu formulare una speranza: che, una volta tanto, allottimismo della ragione non sia dostacolo il pessimismo della volont.

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Capitolo ottavo Demografia ed economia Renato Guarini

1. Introduzione: il dibattito e la teoria La popolazione, la sua dimensione e la sua composizione interna svolgono un ruolo centrale nella dinamica del processo economico, chiaramente riconosciuto gi nelle opere dei primi grandi economisti, che fiorirono a cavallo tra Settecento e Ottocento. I fondatori delleconomia classica, da Smith a Ricardo, riconobbero la centralit della popolazione sia come soggetto di bisogni da soddisfare in condizioni di scarsit di risorse, sia come forza produttiva da cui si origina la crescita economica. Il processo economico viene infatti visto in termini di svolgimento e cambiamenti nel tempo, e non, come pi tardi fecero Walras, Pareto e altri, in termini di equilibrio astratto, essenzialmente statico. Tra gli italiani, anche senza risalire a Galiani, basta ricordare Genovesi, Verri e De Sismondi, per i quali ricchezza e popolazione costituiscono un binomio inscindibile. In realt, anche nelle opere dei grandi economisti dellOttocento e del primo Novecento, da Marshall a Pareto, si trova un capitolo dedicato alla popolazione. Ma, come ammette lo stesso Pareto, in molti casi si tratta pi di un tributo pagato alla tradizione che di una trattazione organica delle interdipendenze tra dinamiche demografiche e fenomeni economici. Bisogner arrivare a Keynes per trovare di nuovo la popolazione non solo come parte integrante, ma come fattore esplicativo del fenomeno economico, con il riconoscimento del problema centrale dellequilibrio tra disponibilit di risorse e crescita della popolazione, che ha determinato la distribuzione degli insediamenti stessi e la crescita delle popolazioni interessate. A Malthus va il merito di aver concepito fra i primi linterazione tra fenomeni economici e variabili demografiche non in senso astratto, ma avendo riguardo alle concrete manifestazioni della realt, sia in atto sia in divenire. Ma nella sua opera, come osserva Pareto, occorre distinguere le parti scientifiche da quelle precettive. Le due celebri ipotesi malthusiane di crescita della popolazione e delle sussistenze hanno dato origine, nel cor-

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so del tempo, a numerose polemiche, non limitate alla sfera scientificoaccademica, ma estese a coinvolgere aspetti etici, ideologici e religiosi. Secondo Amoroso (1929), Malthus avrebbe commesso lerrore, comune a tutti gli economisti della scuola classica, di interpretare una relazione di interdipendenza in termini di relazione di causalit. Quando Malthus afferma che la popolazione in ogni istante limitata dalle risorse di sussistenza, dovrebbe aggiungere, reciprocamente, che a sua volta la popolazione determina lammontare di risorse, s che in sostanza le due incognite (popolazione e sussistenza) sono determinate da due equazioni simultanee. Ci esclude a priori che possa presupporsi per una di esse un movimento arbitrariamente prefissato. Tuttavia Amoroso, nota Barberi (1969), alla denuncia dellerrore logico di Malthus non fa seguire un apporto costruttivo per la specificazione delle interdipendenze tra popolazioni e risorse, in termini di un modello teorico che colleghi in un sistema lequazione differenziale del movimento della popolazione con quella del movimento delle sussistenze. Ancora secondo Barberi, Amoroso, preso dallanalisi logistica di Verhulst, rimane a un passo dallequazione rappresentativa della dinamica della popolazione, costituita dalla derivata seconda della popolazione, da mettere a sistema con lequazione della dinamica delle sussistenze espressa dal principio dellazione smithiana. Con lavvento della rivoluzione industriale, osserva Livi Bacci (1989), i termini dellequazione popolazione-economia cambiano rapidamente: crescita demografica e crescita economica anzich essere antagoniste si sostengono lun laltra. Ma questo non che il quadro generale e si intuisce che precisare i contorni e il senso delle relazioni tra economia e popolazione diventa impresa ancor pi difficile. Compito del ricercatore non quello di discutere se le variazioni demografiche determinino o no lo sviluppo economico ma piuttosto quello di individuare in quale modo o in quale misura lo condizionino. Anche se il problema della relazione causale tra popolazione ed economia non teoricamente risolvibile, Livi Bacci osserva che, esaminando lunghe serie di variabili demografiche ed economiche, si possono compiutamente individuare alcuni fattori che possono aver contribuito nel corso dei secoli ad accelerare piuttosto che a ritardare lo sviluppo. In particolare individua tre gruppi di fattori: a) fattori puramente demografici; b) fattori di scala e dimensionali; c) stock delle conoscenze e processo tecnico. Lanalisi empirica da lui effettuata considerando un lungo periodo, pur nellincertezza circa le forze e il senso delle relazioni tra economia

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e popolazione, consente di affermare che la crescita demografica stata pi un incentivo che un ostacolo alla crescita economica soprattutto per effetto dellaccresciuta efficienza media della popolazione nellarco del tempo considerato. Nel seguito, verranno esaminati i principali meccanismi attraverso i quali le componenti demografiche sono in relazione con gli aggregati economici. In particolare, nel paragrafo 2 vengono analizzati gli impatti dello stato e dellevoluzione della popolazione, considerata in termini di dimensione quantitativa e di struttura per et, sulle principali macrovariabili economiche (consumi, risparmio e cos via). Nel paragrafo successivo vengono invece prese in esame le interrelazioni tra i fenomeni economici e i parametri strutturali che definiscono la dinamica di una popolazione, sia come movimento naturale sia come movimento migratorio. 2. Variabili economiche e variazioni della popolazione 2.1. Fattori demografici e indicatori di reddito quasi intuitivo affrontare il complesso argomento dei legami tra demografia ed economia, esaminando in primo luogo le relazioni tra i principali indicatori che gli statistici cercano di quantificare per misurare lo stato e levoluzione dei due fenomeni: il reddito e lammontare della popolazione in una data unit territoriale. Anche a questo riguardo le posizioni sono contrastanti. Alcuni autori ritengono che il reddito pro capite sia una funzione crescente della densit demografica, poich allaumentare di questa in una unit territoriale si incrementer il mercato delle risorse e quindi la possibilit di sfruttare i vantaggi della divisione del lavoro e le economie di scala. Inoltre, la crescita della popolazione stimolerebbe la diffusione e ladozione delle innovazioni tecnologiche. Altri invece considerano le risorse materiali, rinnovabili e non rinnovabili, come un vincolo quantitativo fisso; quindi, allaumentare della popolazione in una data unit territoriale diminuisce la quota delle risorse pro capite disponibili. Entrambe queste posizioni risultano concettualmente deboli e si prestano a osservazioni critiche; alcune intuitive, altre che possono formalizzarsi. I primi studi a sostegno di un impatto favorevole della crescita della popolazione possono essere fatti risalire a Child (1693) e Davenant (1698), mentre in epoca pi recente Kelley e Williamson (1974),

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sulla base dellesperienza giapponese, sottolineano gli effetti positivi dellincremento demografico sullo sviluppo economico attraverso limpulso alla formazione di capitale. La seconda impostazione teorica, iniziata da Ortes (1774) e Turgot (1766), appare attualmente la pi seguita nel dibattito economico, con la diffusione delle preoccupazioni ambientalistiche per una crescita sostenuta, che ha dato vita a una letteratura di notevole ampiezza, a partire dallo studio precursore di Meadows et al. (1972) sui limiti allo sviluppo. Con linizio del Novecento, Wicksell (1910; 1913) e Cannan (1914) operano un tentativo di sintesi: il reddito pro capite funzione dellammontare della popolazione, ma questa funzione in un primo tratto crescente e successivamente decrescente. Nella storia economico-demografica di ciascuna unit territoriale esiste un periodo in cui, a parit di tutti gli altri fenomeni e soprattutto in assenza di interrelazioni con altre unit territoriali, si raggiunge il pi alto reddito pro capite. Si tratta quindi di individuare quale sia questo valore ottimale e quali le condizioni o i fattori che lo hanno determinato. Anche nelle analisi dello sviluppo economico non ci si pu limitare a considerare il solo reddito pro capite, ma invece necessario, come afferma Kuznets, esaminare comparativamente lincremento del reddito e quello della popolazione. Questa affermazione sottende lipotesi implicita che sul piano storico la relazione tra sviluppo demografico e sviluppo economico sia di mutua dipendenza e che luno tenda a favorire laltro, bench non possano escludersi effetti di segno diverso. Lesperienza empirica sembra avvalorare queste tesi; tra le varie ricerche si ricorda Io studio comparativo per sedici paesi sviluppati, effettuato da Maddison (1982) riferito al periodo 1870-1979. Le conclusioni desumibili dalle analisi comparative delle variabili popolazione e reddito anche se, come osserva Livi Bacci, abbastanza deboli dimostrano se non altro che, nel corso degli ultimi secoli, la crescita demografica non ha intralciato Io sviluppo economico; esiste anzi qualche prova che labbia favorito. Livi Bacci, pur sottoscrivendo lipotesi di neutralit osserva che tra i paesi sviluppati, quelli che hanno avuto maggiore sviluppo demografico hanno anche assunto posizioni di preminenza. E per da osservare che il confronto tra la dinamica del reddito e quella della popolazione non soddisfa tutte le esigenze conoscitive e non permette rigorose analisi interpretative. infatti da rilevare che in tale confronto si considera, da un lato, la risultante dellattivit produttiva di una parte della collettivit e dallaltro il numero complessivo delle persone che esprimono sia i bisogni individuali sia quelli collettivi.

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Mentre per il grado di soddisfazione dei bisogni dellintera collettivit dipende dallefficienza produttiva di una parte soltanto della popolazione (popolazione attiva), il benessere dipende dalla popolazione complessiva. A questo riguardo, il rapporto tra la popolazione attiva e lintera popolazione pu essere letto (Fu, 1986) come rapporto tra la capacit produttiva di una collettivit e il volume dei bisogni che questa deve soddisfare. Inoltre da tenere presente che la stessa efficienza produttiva dipende da vari fattori quali: il capitale per addetto, il numero delle ore di lavoro effettuate da ciascun lavoratore, la composizione qualitativa degli occupati e cos via. Al fine di procedere a corrette misure dello sviluppo economico occorre dunque isolare i diversi fattori che influenzano il reddito pro capite, tenendo conto che il giudizio sullo sviluppo va espresso in termini sia di grado di efficienza produttiva, sia di grado di diffusione del benessere economico. Tra questi fattori un ruolo importante, talora trascurato dalle analisi economiche, viene occupato da quelli di natura demografica che caratterizzano le varie unit territoriali. Ad esempio, lammontare della popolazione in et lavorativa tende, a parit di circostanze, ad accrescere le forze di lavoro, quando aumenta la sua consistenza totale, e viceversa incide negativamente sulle stesse, quando se ne osservi un decremento. Anche la struttura per et della popolazione influenza lentit delle forze di lavoro, perch le diverse classi di et nelle quali si distribuisce la popolazione sono contraddistinte da diverse quote di partecipazione alle forze di lavoro, o tassi di attivit. Il problema dellindividuazione delle determinanti demografiche e sociali sulle variazioni del reddito tra le regioni italiane stato affrontato da Guarini (1975), che tra i fattori demografici e sociali ritenuti esplicativi del reddito pro capite ha considerato: la quota della popolazione in et lavorativa sul totale della popolazione, il tasso generico di attivit, il tasso specifico di attivit, la produttivit del lavoro, il tasso di occupazione. I risultati della ricerca hanno messo in evidenza, con riferimento ai dati del censimento 1971, che i differenziali di reddito pro capite nelle regioni italiane sono significativamente legati alla popolazione in et di lavoro e alla produttivit del lavoro, mentre sono trascurabili le relazioni con le altre variabili. Le variazioni del reddito pro capite non dipendono ovviamente soltanto dalla dinamica di alcune variabili demografiche e sociali, ma sono legate anche alle trasformazioni di alcune caratteristiche dei fattori strutturali del sistema produttivo, verificatesi in un determinato intervallo

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di tempo. Questo problema stato affrontato da Denison (1967) che ha cercato di determinare, prima per gli Stati Uniti e successivamente per gli altri paesi industrializzati, i diversi contributi che le variazioni dei singoli fattori possono fornire al tasso medio annuo di incremento del reddito. Denison, com noto, considera come determinanti dello sviluppo del reddito i tre fattori primari della produzione: lavoro, capitale e terra, ma la sua attenzione si concentra soprattutto sullanalisi del fattore lavoro, la cui quota sul reddito, in tutti i paesi, si notevolmente accresciuta con la conseguente diminuzione delle quote spettanti al capitale e alla terra. Laumento di tale quota pu essere spiegato da una creazione di capitale umano legato non soltanto a fattori economico-sociali (orario di lavoro, grado di istruzione dei lavoratori, migliore utilizzazione dei lavoratori), ma anche a variazioni nella composizione per sesso e per et della popolazione totale e di quella occupata. Il nostro paese stato particolarmente interessato al fenomeno delle variazioni della quota del reddito spettante al fattore lavoro (de Meo, 1973); una interpretazione dello sviluppo economico italiano nel periodo 1961-71 stata effettuata da Guarini (1975), applicando uno schema del tipo Denison alle regioni italiane. 2.2. Il consumo e le variazioni dinamiche e strutturali della popolazione Le relazioni tra economia e popolazione possono analizzarsi considerando, in luogo del reddito, le varie componenti in cui esso pu essere suddiviso se analizzato dal lato degli impieghi. In questa prospettiva, particolare rilevanza assume laggregato dei consumi. Le teorie dello sviluppo economico richiedono la costruzione di una specifica teoria dei consumi, che mostri lutilizzo della produzione. Dal punto di vista dinamico i problemi di una teoria dei consumi si articolano perci in problemi di crescita quantitativa e di articolazioni qualitative, in relazione a un livello di vita che configuri un miglioramento delle condizioni esistenti nel dato stadio di sviluppo della popolazione presa in considerazione. Vaste sono, in particolare, le interdipendenze tra laggregato dei consumi e la dinamica e la struttura della popolazione. Laumento della popolazione determina in primo luogo un aumento del consumo aggregato, giacch si ammette che non esistano vincoli di offerta tali da impedire un aumento della produzione complessiva proporzionale, o pi che proporzionale, allincremento demografico. Laumento della produzione, inoltre, avviene a costi minori in termini di distruzione di risorse, con gli incrementi della produttivit del lavoro e

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del progresso tecnico derivanti dallo sviluppo economico. Tuttavia tale aumento comporta necessariamente, oltre che un aumento della dimensione dei consumi, un mutamento nella loro composizione. Modifiche nella composizione dei consumi derivano anche dalle variazioni nella struttura per et della popolazione, ovvero dal ringiovanimento della popolazione che si determina quando alto il saggio di aumento della stessa, e dallinvecchiamento che conseguenza della stazionariet o del declino demografico. Anche leffetto della dimensione demografica sullammontare dei consumi tuttavia controverso. Infatti, se la popolazione declina non detto che i consumi aggregati debbano diminuire; essi possono anche aumentare se il decremento non riguarda la popolazione attiva e se il progresso tecnico tale da indurre un incremento della produttivit del lavoro pi rapido della flessione del numero assoluto dei lavoratori. Di conseguenza emergono i nessi tra popolazione e consumo da un lato e quelli tra popolazione e forze di lavoro dallaltro. Nel dibattito internazionale sulle relazioni tra laumentare della popolazione e la dinamica del reddito e delle altre variabili macroeconomiche, gli studiosi italiani si sono inseriti sia con apporti di tipo concettuale-metodologico, sia con numerose e interessanti verifiche empiriche. In questo filone vanno inquadrati quei lavori che, partendo dai coefficienti di spesa introdotti da Mortara, riferiti a una popolazione avente caratteristiche medie, cercano di utilizzarli per misurare gli effetti della composizione per et sui consumi. Livi Bacci (1969) osserva che i livelli di consumo variano non solo secondo let ma anche secondo il tipo di residenza (urbana e rurale) e di attivit (agricola ed extragricola), anche quando siano eliminati gli effetti della disuguaglianza sociale. Le diversit nel tipo di vita produrranno, infatti, livelli differenti di bisogni e quindi di consumi. I risultati delle sue analisi portano ad affermare che lo spostamento della popolazione dalle attivit agricole a quelle secondarie e terziarie tenderebbe ad aumentare la massa dei consumatori pi che proporzionalmente allincremento demografico. Egli pertanto afferma che, nella realt italiana del primo secolo dopo lunit, due sono i fattori di natura demografica che pi hanno influito sullo sviluppo dei consumi: linvecchiamento della popolazione e gli spostamenti territoriali. Linvecchiamento si concretizzato in un aumento della quota di popolazione in et adulta, che presenta consumi pro capite generalmente pi elevati rispetto ai giovani. Gli spostamenti di popolazione hanno dal canto loro prodotto certamente un mutamento nei gusti e nella struttura dei consumi e una notevole diminuzione dei beni prodotti e destinati allautoconsumo nellambito dellunit familiare.

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Il problema dellintroduzione degli effetti demografici sulla domanda di beni di consumo viene affrontato da alcuni autori (Bollino e Rossi, 1989) seguendo la teoria della produzione familiare, proposta da Gorman (1976) e formalizzata da Lewbel (1985). Questa teoria inquadra il problema dal punto di vista della caratterizzazione tecnologica dellunit di consumo. Infatti, si ipotizza che le famiglie ottimizzino una funzione obiettivo espressa in termini di beni trasformati o intermedi che generalmente non sono disponibili sul mercato. Questi beni intermedi vengono prodotti dal nucleo familiare combinando beni elementari acquistati sul mercato. Pi chiaramente, unit familiari con caratteristiche socio-demografiche diverse presentano la stessa struttura di preferenza rispetto ai beni intermedi ma differiscono nella tecnologia produttiva che permette loro di passare dai beni elementari a quelli intermedi. Le funzioni modificatrici (modifyingfunction) di Lewbel applicate in Italia da Bollino e Rossi permettono la pi ampia interazione fra caratteristica demografica, spesa totale e prezzi, e comprendono come casi particolari tutte le principali metodologie di introduzione degli effetti demografici in sistemi di domanda (Engel, 1895; Prais e Houtahakker, 1955; Barten, 1964; Gorman, 1976). 2.3. Risparmio, investimenti e popolazione La dinamica della popolazione influenza la formazione del risparmio considerato nellambito sia delleconomia familiare, ci che implica decisioni e comportamenti dei singoli individui, sia del sistema economico nel suo complesso, implicando quindi il comportamento e lazione dei governi. Le motivazioni del risparmio delle famiglie legate principalmente alla necessit di distribuire i propri consumi nel tempo, al desiderio di premunirsi contro rischi di cadute del livello di vita, allaspirazione a elevare quegli stessi livelli, sono determinate dalla variazione della popolazione e nello stesso tempo influenzano le variazioni stesse (McNicoll, 1984). Uninterpretazione di tali relazioni pu essere ricollegata alla teoria basata sullipotesi del ciclo vitale. In sintesi si ipotizza che le persone mirino, nellarco della loro vita lavorativa, a distribuire il proprio reddito tra consumo e risparmio in modo da assicurarsi un adeguato tenore di vita nelle et improduttive. Nel caso pi semplice (in cui non si considerano trasferimenti di ricchezza intergenerazionali) si accumula per poi consumare, quindi la vita di ognuno si chiude con un risparmio netto pari a zero. Questo non vuol dire che il paese complessivamente non

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possa realizzare in ogni momento un risparmio positivo. Ci si verifica, come accaduto nei paesi occidentali, se le varie generazioni che si succedono producono sempre pi reddito rispetto alle precedenti, mantenendo la stessa logica di comportamento nei confronti del risparmio. Saremmo allora portati a concludere che, coeteris paribus, lincremento della popolazione agisce in senso positivo sulla formazione del risparmio. Ma bisogna considerare che questi risultati acquistano validit empirica solo se riferiti a realt stabili dal punto di vista dei fenomeni demografici. Ad esempio, un baby boom che si protragga per molti anni incider negativamente sulla formazione del risparmio, fino a quando quei bambini non raggiungeranno let produttiva, e la riduzione del risparmio e quindi dellaccumulazione di capitale comprometter il progresso economico anche nel futuro. Oltre che il comportamento delle famiglie anche quello delle imprese pu spiegare il livello aggregato del risparmio, e di conseguenza lammontare degli investimenti sia pubblici sia privati. Ci porta a considerare leconomia nel suo complesso e ad analizzare a livello aggregato le relazioni tra variazioni della popolazione, risparmio e investimenti. Anche per le implicazioni di sentieri alternativi di crescita della popolazione si contrappongono due distinti filoni di pensiero. Il primo, che parte dagli studi di Coale e Hoover (1958), vede in una crescita rapida un fattore di ritardo sul risparmio e sullinvestimento. Nel secondo, a cui si riconduce ad esempio lanalisi di Kelley e Williamson (1974) gi citata, una rapida crescita contribuisce alla formazione del capitale. La possibilit della coesistenza di punti di vista cos divergenti, legata a evidenze empiriche a conforto di entrambe le posizioni, pu essere collegata a diversi fattori. In primo luogo le scelte di politica economica sono in grado di influire se non di determinare in toto sulla propensione al risparmio, sul livello degli investimenti pubblici, ma anche privati, e in generale sul modello di allocazione delle risorse. Diversi orientamenti governativi, quindi, determinano diverse traiettorie di sviluppo a parit di condizioni demografiche. Ancora, come gi osservato da Wicksell a proposito della relazione tra popolazione e reddito, una via di conciliazione interpretativa pu individuarsi tenendo conto dello specifico stadio dello sviluppo della popolazione caratterizzante lunit territoriale che si esamina, e quindi presupporre impatti diversi nelle differenti fasi di sviluppo, connessi alla distanza dalloptimum, ovvero dallipotetico livello di equilibrio tra risorse e popolazione. In generale, la crescita della popolazione pericolosa per lequilibrio se lorganizzazione produttiva statica. Un aumento della popolazione ha infatti un riflesso negativo sulla distribuzione del reddito qualora

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non si verifichi un processo di accumulazione che, anche attraverso il progresso tecnico incorporato, renda maggiormente produttive le risorse disponibili. Se invece sono valide le condizioni alla base delle teorie della crescita di stampo keynesiano, laumento della popolazione determina un aumento di investimenti e un maggiore impiego di lavoro e di capitale. Tali condizioni presuppongono buone prospettive di profitto, ovvero aspettative degli operatori in termini di una espansione del mercato. In definitiva, quindi, limpatto positivo della crescita della popolazione sul processo di accumulazione ha luogo solo sotto favorevoli condizioni del sistema produttivo e del mercato. Nelle realt cronicamente sottosviluppate una crescita della popolazione, in una situazione di mancanza di stimoli allo sviluppo della domanda, certamente dannosa. Anche linfluenza positiva della crescita della popolazione sullaccumulazione del capitale in termini di accelerazione del tasso di diffusione dellinnovazione tecnologica e di maggiori rendimenti di scala viene meno se il sistema produttivo statico. In uneconomia stazionaria, nota Solow (1970), la crescita della popolazione sottrae risorse allaccumulazione del capitale, che quindi pu procedere a un ritmo pi veloce se lincremento demografico pi lento. E inoltre da tener presente che la crescita della popolazione influisce sul livello e composizione degli investimenti delle imprese attraverso la sua influenza sulla dimensione e struttura del mercato, sui prezzi dei fattori e sullambiente imprenditoriale attuale e futuro. Nella loro analisi degli effetti della crescita della popolazione sul processo di accumulazione Coale e Hoover considerano, oltre alla dimensione e al tasso &crescita, anche la distribuzione per et della popolazione. A questo proposito, particolarmente rilevante (Fu, 1986) il rapporto tra popolazione in et improduttiva e in et produttiva. Variazioni della distribuzione per et determinano un cambiamento nello stato di dipendenza, ovvero nel numero delle persone che non partecipano al processo produttivo, e modificano la distribuzione del reddito tra consumo e risparmio. Che cosa pu essere detto, in conclusione, dellimpatto sui risparmi e investimenti di una rapida crescita della popolazione? In generale bisogna essere molto cauti. La generalizzazione della teoria neoclassica della crescita, le analisi dei trasferimenti intergenerazionali e le argomentazioni neoricardiane puntano su un impatto netto negativo. Tuttavia, anche se la relazione tra crescita della popolazione e tassi di risparmio al momento non determinabile (Leibenstein, 1976), da tener presente lesperienza degli ultimi anni che ha visto notevolmente crescere il tasso di risparmio in tutti i paesi. Ci induce a ritenere che nel complesso processo di

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interazione tra le variabili demografiche ed economiche occorre considerare le dimensioni qualitative dei fattori produttivi, le determinanti delle innovazioni, le questioni dellorganizzazione e dellefficienza. 2.4. Il lavoro e i fattori demografici Tra i meccanismi tramite i quali lo stato e levoluzione della popolazione sono in grado di incidere sullandamento delleconomia, il pi immediatamente intuitivo appare senzaltro quello che passa attraverso leffetto sulla partecipazione allattivit lavorativa. Anche in questo caso, tuttavia, la regolazione del rapporto tra fattori demografici e fenomeno economico pi complessa di quanto non appaia a prima vista. Il volume e la composizione delle forze di lavoro, e la loro evoluzione nel tempo, possono essere ricondotti (DellAringa, Faustini e Gros Pietro, 1986) sia alla struttura demografica sia a comportamenti individuali, soggetti a vincoli economici e istituzionali. Semplificando, si potrebbe riconoscere nei fattori demografici i determinanti dellofferta di lavoro, mentre i vincoli economici definirebbero la domanda di lavoro. In realt, come si vedr in seguito, offerta e domanda di lavoro, e quindi componenti demografiche ed economiche, sono tra loro interdipendenti. Le variazioni nel tempo delle forze di lavoro possono essere scomposte in due effetti principali: un effetto variazione della struttura demografica e un effetto variazione dei tassi di attivit1.
1 Il tasso di attivit esprime il rapporto tra la popolazione attiva e quella totale. Si distingue tra tasso generico, se riferito al complesso della popolazione, e tasso specifico, se riferito a determinate classi di et e sesso. La scomposizione della variazione delle forze di lavoro dal tempo 0 al tempo t pu essere chiarita da una notazione algebrica (Pilloton, 1991). Indicando con axs e Pxs, rispettivamente, il tasso di attivit specifico e la popolazione di et x e sesso s, lammontare delle forze di lavoro al tempo 0 e al tempo t pu essere espresso da:

dove a xs, = O per x< 14. Introducendo lammontare teorico delle forze di lavoro che si sarebbe avuto al tempo t mantenendo costanti i tassi di attivit del tempo 0, FL*ts la variazione delle forze di lavoro dal tempo 0 al tempo t pari a:

Il primo termine di questa espressione rappresenta leffetto delle modifiche nella dimensione e nella composizione per classi di et e sesso della popolazione, il secondo la variazione dei tassi di attivit, che risente dei comportamenti e dei vincoli citati in precedenza.

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Esaminando dapprima leffetto struttura demografica immediato osservare che, a parit di condizioni, la crescita della popolazione ha un impatto positivo sulla dimensione delle forze di lavoro, impatto tanto maggiore se la crescita si produce nelle classi di et caratterizzate dai maggiori tassi di attivit di partenza. A questo proposito si pu ricordare lesperienza avutasi nei maggiori paesi industrializzati con il baby boom della fine degli anni cinquanta e dellinizio anni sessanta (Flaim, 1990). Per tutto il periodo 1959-79, la struttura per et della popolazione determinata dallincremento demografico allinizio del periodo, ha frenato lo sviluppo quantitativo dellofferta di lavoro. Negli anni ottanta, con lingresso nellet adulta dei baby-boomers, leffetto sulle forze di lavoro diventa invece chiaramente positivo. Sullammontare delle forze di lavoro esercita inoltre un effetto importante il saldo del movimento migratorio. Poich, come si vedr pi in dettaglio nel sottoparagrafo 3.3, le correnti migratorie interessano soprattutto la popolazione in et attiva, e in particolare i giovani e gli adulti di sesso maschile, quindi le classi caratterizzate dai maggiori tassi di attivit, nei paesi di emigrazione si riduce la dimensione delle forze di lavoro, mentre avviene il contrario in quelli di immigrazione. importante osservare che le variabili demografiche interagiscono con le variabili economiche non solo direttamente, come si appena visto, ma anche con riferimento al secondo fattore che determina la variazione delle forze di lavoro, ovvero le variazioni dei tassi di attivit specifici. Tra i modelli interpretativi delle interrelazioni tra offerta e domanda di lavoro, particolare rilevanza assumono lipotesi del lavoratore scoraggiato e del lavoratore addizionale. In entrambi i casi, lofferta di lavoro complessiva viene scomposta in due componenti, primaria e secondaria. Nellipotesi del lavoratore scoraggiato, lofferta si adegua alla domanda, nel senso che mentre per le forze di lavoro primarie il lavoro una necessit, per quelle secondarie (donne, giovani, anziani) esso una opportunit, che viene incentivata da contingenze favorevoli e depressa dalla carenza di occasioni (Faustini, 1984). Un meccanismo contrario alla base della seconda ipotesi, in cui lofferta varia in senso inverso alla domanda. In questo caso, infatti, le forze di lavoro secondarie sono stimolate allingresso sul mercato del lavoro dalla necessit di integrare i redditi familiari in periodi di diffusa disoccupazione. Sullofferta di lavoro, inoltre, agiscono anche le caratteristiche strutturali del sistema economico e istituzionale. Esempio tipico la parteci-

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pazione femminile, vincolata dalla diffusione dellindustria pesante, dalla disponibilit di servizi sociali e cos via, mentre la partecipazione nelle et giovanili funzione della normativa sullobbligo scolastico. Nella direzione opposta, leffetto dellofferta di lavoro sulla domanda assume connotazioni diverse a seconda delle condizioni al contorno in cui il sistema si trova a operare. Cos, lincremento dellofferta pu stimolare la domanda se, in presenza di flessibilit dellorganizzazione del lavoro, si traduce in riduzione del costo del lavoro e/o in economie di scala derivanti da una migliore organizzazione del lavoro. Ancora, un aumento delle forze di lavoro in et giovanile potrebbe stimolare la domanda se lorganizzazione aziendale in grado di sfruttare il maggior potenziale di innovazione, mobilit e, in molti casi, istruzione che proprio delle classi pi giovani. Pi articolato limpatto netto dei fattori di natura demografica sulle componenti della forza lavoro, in particolar su occupazione e disoccupazione. Ad esempio, un aumento dellincremento naturale della popolazione ha effetti differenziati a seconda dellorizzonte temporale che si considera. Nel breve-medio periodo, come dimostra lesperienza degli anni sessanta e settanta, esso genera una maggiore disoccupazione, visto che le classi di et giovanili sono caratterizzate dai maggiori tassi di disoccupazione. Nel lungo periodo, traducendosi in un rafforzamento delle classi di et centrali, d invece luogo a riduzioni notevoli della disoccupazione. Anche le migrazioni possono dar luogo a risultati controintuitivi. Se la migrazione territoriale implica come nella generalit dei casi anche una modifica nel settore di attivit (un abbandono dellagricoltura) e nella condizione professionale (da autonomo a dipendente), leffetto netto pu essere una riduzione del tasso di attivit e/o un incremento del tasso di disoccupazione, connesso allabbandono dellattivit lavorativa da parte dei familiari. Nota Faustini (1984) che, nellanalisi del mercato del lavoro, la frammentazione e leterogeneit dei fattori spiegano perch movimenti di segno opposto anzich compensarsi, si cumulano: ad esempio, un aumento della domanda di lavoro, stimolando lincremento dei tassi di attivit, pu creare maggiore disoccupazione. In definitiva, quindi, non si dispone di regole certe e/o applicabili alla generalit delle situazioni concrete. Lo sforzo dello studioso allora quello di cercare di classificare le diverse esperienze nel rispetto dellosservazione empirica, evitando di forzarne linterpretazione in base a spiegazioni preconcette.

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3. Componenti della popolazione e variabili economiche 3.1. Fertilit e variabili economiche Negli ultimi anni, dalla letteratura demografica emerge sempre pi chiaro lorientamento a considerare landamento della fecondit non soltanto determinato da modelli di comportamento individuale, ma anche da variabili economico-sociali. In questo ambito si sono sviluppate diverse teorie interpretative, suffragate da altrettante analisi empiriche, tendenti a interpretare le relazioni tra fecondit e fenomeni economici. Le divergenze tra i diversi studiosi riguardano inoltre il giudizio su quali siano le cause e quali gli effetti dellattuale situazione demo-economica. Una prima relazione riguarda i legami tra fecondit e reddito, allo scopo soprattutto di capire perch, nei paesi maggiormente sviluppati, una data variazione di reddito pu avere effetti diversi e spesso contrastanti sulla fecondit. Tale relazione si deve affrontare in due sensi. Considerando laspetto relativo alleffetto della fertilit sulla distribuzione del reddito, come chiarito da Kuznets e Paglin, diminuzioni della fertilit, che determinano cambiamenti nella struttura per et della popolazione, facendo variare la proporzione della popolazione attiva, influenzano la distribuzione del reddito. Inoltre il minore ricambio generazionale, allungando la piramide per et della popolazione, ripropone in tutta la sua gravit il problema degli anziani, con evidenti implicazioni economiche. Per quanto concerne laltro aspetto relativo alleffetto della distribuzione del reddito sulla fertilit (Repetto, 1978), si rileva che i miglioramenti delle condizioni di vita sono fattori di declino della fertilit. Ma la relazione tra reddito e fertilit non lineare, in quanto nella determinazione dei tassi di fecondit interagiscono altri fattori dipendenti dalle aspettative e dai desideri delle famiglie. Infatti, considerando famiglie con differenti livelli di reddito, ci si dovrebbero aspettare comportamenti differenziali nellofferta di figli cio nei livelli di fecondit, in relazione a incrementi del reddito. In realt, ci non avviene e il tasso di fecondit rappresenta il mezzo per ladeguamento della dimensione delle famiglie allobiettivo di raggiungere lequilibrio tra numero di figli avuti e numero di figli desiderati. Le relazioni tra fecondit e variabili economiche sono state per molti anni esaminate in unottica macro ricollegandosi prevalentemente alle teorie della crescita economica. Negli anni pi recenti alcuni economisti, soprattutto americani (Bec-

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ker, 1964; 1981), hanno cercato di spiegare le strategie familiari in termini di analisi economiche tradizionali nellambito della macro-economia. Il pioniere di questa new household economica ha ispirato molti autori facendo leva e dando particolare enfasi ai problemi della fecondit in relazione alla forza di lavoro femminile e al matrimonio. Egli assume che ogni famiglia massimizzi una funzione di utilit costituita dalla quantit e qualit dei figli e degli altri beni propriamente materiali. Considerando i figli come beni particolari prodotti con limpiego del tempo dei genitori e delle merci acquistate sul mercato, Becker sostiene che la domanda di figli dipende dal loro costo relativo. Pertanto, un aumento del prezzo dei figli, rispetto a quello di altri beni, a parit di condizioni, riduce la domanda di figli e aumenta quella di altri beni. Nellapplicare il termine produzione a quei beni particolari rappresentati dai figli, evidente che il concetto di produzione adottato molto pi ampio rispetto alla pura trasformazione di beni in altri beni. Si tratta cio di un processo o di una trasformazione, secondo Becker, che non pu essere valutato in termini esclusivamente monetari, ma che comunque si cerca di inquadrare in unanalisi economica, pur ammettendo i limiti che da tale approccio possono derivare. da tener presente in questa analisi economica della fecondit leffetto dellinterazione tra quantit e qualit dei figli, che pu giustificare sia il calo della natalit nei paesi pi progrediti sia il contestuale aumento della qualit dei figli (in termini di investimenti o per istruzione e formazione professionale). Un incremento di qualit, raggiunto ad esempio con una maggiore spesa in istruzione, innalza il costo marginale delle quantit dei figli, causando una diminuzione della domanda di quantit fino ad arrivare a un nuovo punto di equilibrio. La relazione tra fecondit e grado di istruzione pu essere esaminata considerando la fecondit differenziale per titolo di studio. Interessanti i risultati dellanalisi empirica di Castiglioni e Dalla Zuanna (1988) che, ricostruendo la serie della fecondit totale delle generazioni di donne venete nate tra il 1880 e il 1944, rilevano che le differenze di fecondit si riducono progressivamente fino a raggiungere la massima omogeneit nel 1934 (anno di alta fecondit); successivamente la forbice si allarga di nuovo. I livelli di fecondit, in funzione del livello di istruzione e dellattivit lavorativa, sono anche esaminati applicando il metodo dei figli propri (own children); tale metodo pu essere applicato per contemporanei e per generazioni. Lanalisi per contemporanei presenta forti limiti derivanti in particolare dallaggregazione dei gruppi non necessariamente omogenei rilevati in momenti diversi della loro carriera riproduttiva: ini-

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ziale, scolastica e lavorativa; limiti superati dallanalisi per generazioni. Lanalisi della fecondit in Italia per il periodo 1967-81, effettuata con tale metodo da De Santis (1989), mostra che la fecondit varia inversamente al grado di istruzione raggiunto ed minore per le donne che lavorano ma non tra le donne attive in agricoltura, che risultano anche pi feconde delle casalinghe. Nel caso dellItalia, caratterizzata da diversi comportamenti riproduttivi nelle varie zone geografiche, Grussu (1984), analizzando il mo dello riproduttivo a bassa natalit della popolazione italiana complessiva, ritiene che un vincolo importante sia dovuto ai mutamenti socioculturali, mentre considera poco significativi gli effetti diretti dei fattori prevalentemente economici, quali industrializzazione e urbanizzazione. Tali fattori provocherebbero effetti indiretti, in quanto indicatori dei cambiamenti culturali. Il comportamento riproduttivo pu esaminarsi considerando (Pinnelli, 1984) alternativamente due variabili dipendenti: il numero dei figli viventi e il numero dei figli attesi. La verifica effettuata da Pinnelli (1984) applicando la path analysis mette in evidenza che i condizionamenti socioeconomici e culturali collettivi sono i fattori pi rilevanti considerando il numero dei figli attesi. Unanalisi dellandamento della fecondit in Italia nellultimo quarantennio basata su un approccio micro quella effettuata da Cigno (1988), che formula due ipotesi: una statica (fecondit completa) e una dinamica (calendario nascite), costruendo uno schema di relazioni tra variabili economiche e demografiche. In base a tale schema interpretativo il calo della fecondit completa verificatosi in Italia sarebbe spiegato dal miglioramento del livello medio di istruzione della donna, che avrebbe fatto aumentare sia let al matrimonio sia il valore del capitale umano delle donne. Per quanto riguarda il calendario delle nascite, la tendenza allanticipo osservata negli anni cinquanta e sessanta sarebbe attribuibile allaumento del reddito medio e allaumento dellet al matrimonio, mentre la tendenza al ritardo osservata negli anni settanta sarebbe attribuibile alle opportunit di carriera delle donne e a un aumento del salario. Le relazioni tra il fenomeno della natalit e i fattori economico-sociali risultano pi significative se analizzate con riferimento a dati territoriali disaggregati. Livi Bacci (1980), per valutare i fattori delle differenze di livello e di tendenza della fecondit nelle diverse province dellItalia, effettua unanalisi di correlazione territoriale ponendo in relazione lindice di fecondit legittima con alcune variabili, tra le quali lindicatore della porzione delle coniugate, la ruralit, lindustrializzazione, lurbanizzazione. Interessanti i risultati, dai quali si evince che gli indicatori

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di carattere pi dichiaratamente economico sono anche quei fattori meno strettamente legati alla fecondit o ad essa legati in modo contraddittorio. La definizione di questi indicatori, in generale citati dai sostenitori della teoria della transizione demografica come i fattori principali del declino della fecondit, si rivelata poco precisa e ambigua. Le relazioni tra il fenomeno della natalit e fattori economico-sociali risultano pi significative se analizzate con riferimento a dati territoriali disaggregati. La disponibilit in Italia di dati relativi a unit territoriali di limitate dimensioni (i comuni) ha permesso di effettuare ulteriori verifiche empiriche sui dati. Bellettini (1966), analizzando la natalit (oltre che la mortalit) della popolazione dei comuni della provincia di Bologna in relazione ad alcuni indicatori del livello di agiatezza e delle caratteristiche socio-professionali della popolazione, osserva che la natalit e la fecondit generale aumentano con laumentare della proporzione della popolazione operaia, mentre un trend inverso si osserva quando si considera la fecondit legittima. La relazione fra natalit e sviluppo economico molto stretta anche quando si considerano periodi molto lunghi. Ci emerge dalle analisi di Santini (1971), che considera la natalit e le fluttuazioni economiche in ordine ciclico sulla base dellanalisi di concordanza tra una serie demografica e una economica, previa individuazione delle rispettive componenti cicliche. Suddividendo il periodo 1863-1964 in ventuno cicli, per ognuno dei quali viene studiata la concordanza tra i profili dei flussi demografici e di quelli economici, lanalisi empirica conduce a verificare per la natalit una conformit positiva molto elevata con le fluttuazioni economiche di natura ciclica almeno per i primi settantacinque anni dellunit dItalia. Per gli anni successivi alla seconda guerra mondiale si osserva invece unattenuazione delle concordanze. Questa attenuazione secondo Santini non invalida per il legame positivo tra fluttuazioni economiche e natalit; essa deve ricondurci allelevato tasso di sviluppo del sistema economico italiano nel periodo considerato, che ha reso meno incisivi gli impulsi ciclici, e allattenuazione dei movimenti ciclici dovuti sia alle politiche anticongiunturali sia al processo di industrializzazione della struttura produttiva. 3.2. Mortalit e variabili economiche La riduzione della mortalit negli ultimi cento anni in tutti i paesi e anche in Italia ha rappresentato il fenomeno pi caratteristico della cosiddetta rivoluzione demografica. Levoluzione della mortalit, co-

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m noto, pu analizzarsi sia considerando misure basate sui quozienti di mortalit (generici o specifici), sia considerando la misura della durata media della vita di una generazione. Anche se i demografi considerano la seconda misura pi idonea a cogliere il fenomeno, si ritiene che per analizzare le relazioni tra mortalit e aggregati economici sia interessante riferirsi a entrambe le misure. La riduzione della mortalit indubbiamente da attribuire alla diffusione delle conoscenze scientifiche ma, entro certi limiti, anche allaumento del reddito pro capite (soprattutto per la mortalit perinatale e infantile, da malattie infettive, da malnutrizione). Si produrranno effetti diversi a seconda di quale classe di et interessata a una minore mortalit; ad esempio, una riduzione nelle et infantili ha come effetto di breve periodo un aumento delle presenze nelle et pre-lavorative con un abbassamento del rapporto tra popolazione in et da lavoro e popolazione complessiva. Dal punto di vista economico, in queste condizioni la produzione di lavoratori viene a costare meno perch stato ridotto lo spreco derivante da una elevata mortalit infantile. Una riduzione della mortalit nelle et post-lavorative, a lungo andare, tende ad abbassare il rapporto tra popolazione in et lavorativa e popolazione totale proponendo il problema di come sopportare il carico di una quota accresciuta di improduttivi. La riduzione della mortalit nelle classi di et lavorative provoca un miglioramento del rapporto fra produttivi e popolazione totale. Come afferma Tapinos (1985), la relazione tra il livello di mortalit e il grado di sviluppo economico esprime lincidenza dei fattori socio-economici sulla mortalit e ribadisce lesistenza di una forte correlazione negativa tra la mortalit infantile e il reddito pro capite. La correlazione resta elevata anche per la speranza di vita. Egli inoltre sostiene, come si desume dai lavori di Preston (1975), che la speranza di vita si allungata nel tempo pur considerando uno stesso livello di reddito pro capite; il che fa presumere che operano fattori esogeni indipendenti dalle variabili economiche. I fattori socioeconomici della mortalit sono messi in luce con pi evidenza considerando la mortalit differenziale secondo i gruppi sociali. Non mancano interessanti contributi italiani su questi aspetti. Sylos Labini (1990) osserva che per analizzare correttamente i legami tra mortalit ed evoluzione economica in un dato paese occorre riferirsi alla sequenza della transizione sanitaria che corrisponde ai diversi stadi dello sviluppo economico. Infatti le malattie socialmente rilevanti non restano le stesse nel tempo e negli ultimi secoli possono distinguersi tre periodi: periodo delle grandi epidemie (peste, vaiolo e cos via); periodo del predominio delle malattie infettive e di quelle

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degli apparati respiratorio e digerente; periodo delle tre c (cancro, cuore, cervello). Tra i molteplici fattori che condizionano le diverse cause di morte sono rilevanti quelli economici (alimentazione, disponibilit di infrastrutture e di servizi sociali) e quelli culturali (livello medio di istruzione, professioni e cos via) e tra di essi esiste una forte interrelazione. Sarebbe un errore ritenere che tra livello del reddito e saggio di mortalit sussista una stretta relazione. Secondo Sylos Labini la relazione esiste ma non stretta; ci sono paesi che, pur avendo un reddito basso o molto basso, hanno un saggio di mortalit relativamente basso e una vita media relativamente alta. Sono i paesi in cui i governi hanno compiuto notevoli sforzi nel campo degli investimenti per infrastrutture igienico-sanitarie e nel sistema educativo. Inoltre Sylos Labini concorda con Livi Bacci nel ritenere che la disponibilit di alimenti non ha quel ruolo decisivo, attribuito dagli economisti del passato, sulla mortalit in generale e su quella imputabile alle malattie infettive. Se si mettono da parte le situazioni di carestie e di malnutrizione acute, altri fattori quali acqua, fognature, conoscenze mediche e conoscenze igieniche-alimentari, hanno svolto e svolgono nei paesi economicamente arretrati un ruolo ben pi importante. Sylos Labini inoltre afferma che non deve sembrare strano che un economista attribuisca tanta importanza ai fattori culturali a scapito di quelli propriamente economici. Esiste uninterazione tra questi due fattori e tra questi e quelli ambientali. Ma come nel tempo non restano invariate le cause di morte, non resta neppure invariato il peso relativo dei fattori economici in diversi stadi di sviluppo. I primi economisti, i quali attribuivano la massima importanza ai fattori economici, facevano riferimento a uno degli stadi dello sviluppo. Nello stadio delle tre c il peso dei fattori economici si riduce fortemente a vantaggio dei fattori culturali. Un tentativo di analisi della mortalit differenziale secondo le categorie professionali di appartenenza quello compiuto da Caselli ed Egidi (1984), collegando le caratteristiche delle mortalit alla struttura socioeconomica prevalente in aree territoriali di limitate dimensioni demografiche. Dalla ricerca emerso che dove maggiore la presenza di mano dopera occupata nellindustria pi alta la probabilit di morte, mentre dove pi alta la proporzione di occupati in agricoltura o di quadri intermedi e superiori si registrano livelli di mortalit pi vantaggiosi, soprattutto nelle et lavorative e post-lavorative. Sicuramente una stratificazione territoriale della mortalit conduce a risultati per la cui interpretazione necessario far ricorso a concetti pi ampi e diversi della sola composizione per categorie socio-professionali. Risiedere stabilmente in una certa area comporta infatti lappartenenza dellindividuo a una

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comunit umana caratterizzata da livelli di comportamento e culturali che possono essere anche molto diversi da zona a zona. Condizionamenti dellambiente in cui si vive e in particolare effetti del reddito sulla mortalit emergono dalle varie analisi effettuate, ma per cogliere meglio il fenomeno e isolare i diversi fattori di influenza occorre operare su dati il pi possibile disaggregati, tenendo conto del maggior numero possibile di informazioni. Pertanto, analizzare i tassi di mortalit distinti per causa di morte pu aiutarci nellinterpretazione dei dati. Coale e Hoover (1958), considerando le interrelazioni tra fenomeni economici e demografici, fanno riferimento allo sviluppo economico e alla crescita della popolazione seguendo lapproccio della transizione demografica. Secondo questa teoria la storia delluomo stata caratterizzata da periodi di equilibrio demografico intervallati da fasi irregolari che preludevano a nuovi momenti di stabilit. Cronologicamente, si passati da una crescita modesta, determinata dalla reciproca compensazione di alta natalit e alta mortalit, a un equilibrio di crescita moderata basato sulla combinazione di una bassa natalit con una bassa mortalit. Il passaggio dalluna allaltra situazione avverrebbe attraverso una fase intermedia caratterizzata da un forte e netto incremento della popolazione; in questa fase, alla forte riduzione della mortalit, conseguita attraverso i progressi tecnico-scientifici, non si accompagna unaltrettanto decisa riduzione della fecondit (riduzione che si verifica con ritardo e lentamente, giacch richiede un mutamento delle abitudini e dei costumi del passato). Secondo questi autori la riduzione dei tassi di mortalit registrata nellOccidente europeo legata, nel Settecento e nella prima met dellOttocento, agli effetti generati da miglioramenti economici, mentre nella seconda met dellOttocento e specialmente nel Novecento beneficia dei progressi medico-terapeutici e della maggiore attenzione dei governi in tema di salute pubblica. 3.3. Conseguenze economiche del movimento migratorio Il movimento migratorio influenza fortemente il comportamento economico e sociale delle collettivit interessate e di conseguenza lo sviluppo economico dei paesi, Inoltre, essendo un fenomeno di accumulazione i cui effetti si manifestano nel corso del tempo, esso va esaminato in una prospettiva dinamica. Le conseguenze economiche del fenomeno sono differenti a seconda della realt territoriale che si considera. In generale, le migrazioni tendono a modificare il rapporto tra produttori (individui in et giovanile e centrale) e consumatori (individui in et infantile e senile); in partico-

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lare il rapporto si abbassa nei paesi di emigrazione e si alza in quelli di immigrazione. Se lemigrazione fa diminuire la pressione demografica del paese di origine e stimola lo sviluppo economico, leffetto finale sar positivo. Ma tale effetto dipende dalla struttura per et della popolazione stessa; se questa caratterizzata da una elevata proporzione di classi di et senili, la perdita di forze di lavoro in et produttiva rappresenter un fattore negativo per lespansione economica. Il paese di immigrazione pu invece fruire di vantaggi derivanti dallacquisizione di energie lavorative tanto pi utili quanto pi qualificate. Tuttavia, se i flussi di immigrazione sono troppo elevati rispetto alla potenzialit di sviluppo economico del paese, lingresso di nuove forze di lavoro pu comprimere il livello medio salariale e creare solo disoccupazione. La valutazione di questi fenomeni in termini economici pu essere effettuata ricorrendo al concetto di capitale umano e ai conseguenti criteri di misura statistica. Fecondi e non privi di originalit sono stati i contributi degli studiosi italiani su questo argomento. Nella valutazione del capitale umano implicita uninterpretazione degli effetti economici delle migrazioni di tipo strutturale. In questa ipotesi possono svilupparsi due linee interpretative che suggeriscono rispettivamente un bilancio negativo e un bilancio positivo. La tesi secondo cui il movimento migratorio (immigrazione) si caratterizza per un bilancio negativo pu essere sintetizzata nel seguente schema logico: il ricorso a manodopera immigrata con bassa qualificazione esercita pressione sul livello generale dei salari e abbassa artificialmente il prezzo del fattore lavoro. Ci spinge limpresa a modificare il rapporto dei fattori capitale/lavoro e a una specializzazione basata su tecniche labour intensive. Fin quando possibile il ricorso a manodopera straniera si determina un aumento dello stock degli stranieri presenti sul territorio di immigrazione e gli effetti di cui sopra potranno anche determinare distorsioni nel sistema produttivo. Nellutilizzazione della manodopera straniera devono considerarsi anche gli aspetti settoriali, in quanto essa determinata da carenza di offerta interna dovuta a una disaffezione dei lavoratori nazionali per alcune mansioni o qualifiche professionali; ci conduce nel tempo a un accentuato ricorso a lavoratori stranieri. In assenza di immigrazione la penuria di manodopera potrebbe condurre a una trasformazione delle condizioni di lavoro, a variazioni delle retribuzioni e allintroduzione di nuove tecnologie; in altre parole limmigrazione potrebbe rappresentare nel lungo periodo un freno ai cambiamenti. Nella storia recente del movimento migratorio in Europa si sono verificate situazioni di questo tipo; sufficiente riferirsi a quanto

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accaduto nella Repubblica federale tedesca negli anni settanta o a quanto sta avvenendo in Italia negli ultimi anni. Unaltra tesi attribuisce, invece, allimmigrazione un effetto positivo sui fattori determinanti le modifiche del sistema industriale e le politiche industriali. Gli effetti riguardano la formazione del capitale e la flessibilit del sistema produttivo. In una situazione di sovraimpiego limmigrazione, considerando la contrazione della manodopera nel contesto di offerta limitata di lavoro, favorisce una crescita alla Lewis con accumulazione di capitale che esercita una pressione sui salari. Inoltre limmigrazione accresce la flessibilit del sistema produttivo nella misura in cui si rende possibile la messa in moto di progressi di produttivit a certi stadi di sviluppo industriale. Effetti positivi di tipo strutturale associati alle immigrazioni si verificano nei paesi dorigine in dipendenza sia delle rimesse degli emigranti sia del loro ritorno con un pi avanzato livello di qualificazione professionale. La partenza degli emigranti ha inoltre conseguenze sul livello delloccupazione, sulla produzione e sui salari delle unit territoriali di origine, mentre linvio dei risparmi agisce sul livello di vita delle famiglie, modifica la ripartizione dei redditi, il livello dei prezzi, il processo di accumulazione e la crescita. Il ritorno degli emigrati modifica molto, come gi prima considerato, lo stock di capitale umano. Unaltra interpretazione delle conseguenze economiche delle migrazioni considera il significato congiunturale del fenomeno; tali interpretazioni hanno avuto origine analizzando la recessione economica della Repubblica federale tedesca del 1967 o pi generalmente le recessioni verificatesi in quasi tutti i paesi europei negli anni 1974-76. Al fenomeno migratorio stato attribuito il ruolo di ammortizzatore della congiuntura che si esplica in una flessibilit allattrazione nei periodi di espansione economica e in una flessibilit alla repulsione nei periodi di recessione. In entrambe le situazioni il fenomeno migratorio ha i suoi effetti sul livello dei salari, sullorganizzazione del sistema produttivo, sul funzionamento del mercato di lavoro, sul ritmo di accumulazione, sulla specializzazione produttiva. I flussi migratori possono interpretarsi anche attraverso la costruzione di modelli analitici statistico-matematici che nella letteratura vengono distinti a seconda che riguardino flussi interregionali o flussi internazionali (Garonna, 1977). I modelli relativi ai flussi interregionali sono di tipo gravitazionale o catene di Markov. I flussi internazionali si basano sullincidenza che i flussi di manodopera in entrata o in uscita hanno sulla crescita, sui tassi di inflazione e dei salari, sulla struttura produttiva. Queste variazioni rappresentano

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variabili esplicative dei flussi migratori e vengono considerate sia per i paesi di origine sia per quelli di destinazione. Lesperienza italiana delle migrazioni, tanto interregionali quanto internazionali, pone in discussione queste distinzioni fatte in letteratura. Le caratteristiche delle migrazioni dal sud al nord dellItalia corrispondono infatti a quelle che la letteratura analizza nellambito delle migrazioni internazionali. Al riguardo, Salvatore (1987), nellambito dei modelli delle migrazioni interne, riformula i lavori di Todaro2 (1969) migliorando limpostazione dei precedenti modelli di Schultz (1961) e Becker (1964) basati sullapproccio del capitale umano. Nel caso italiano il fenomeno delle migrazioni interne non pu essere considerato separatamente dallo sviluppo economico del paese. Anzi si pu asserire che, nel processo di evoluzione e trasformazione del sistema economico del paese, la migrazione ha avuto un ruolo di fattore attivo delle stesse tendenze evolutive. Le influenze dei movimenti migratori interni sono molteplici e si esplicano nei pi diversi campi. In Italia, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, la non uniforme localizzazione delle attivit produttive e il diverso ritmo di sviluppo delle singole zone hanno determinato notevoli flussi migratori (prevalentemente forze di lavoro) diretti verso quelle aree che (per la loro accertata esuberanza di risorse disponibili) hanno offerto ai migranti maggiori disponibilit di diminuire lesistente dislivello del tenore di vita. Nel breve periodo gli effetti delle migrazioni hanno contribuito allincremento del reddito complessivo e a un impiego pi efficiente delle risorse disponibili. Ma considerando un arco di tempo pi lungo, si nota che i flussi migratori influiscono anche negativamente in quanto, favorendo lo sviluppo economico delle cosiddette aree ad alto livello a discapito delle aree a basso livello, hanno contribuito ad accentuare gli squilibri demografici, sociali ed economici tra di esse esistenti; n a migliorare le situazioni hanno contribuito i trasferimenti di una parte dei redditi percepiti dagli emigrati nelle loro nuove sedi. Per analizzare gli effetti del movimento migratorio e costruire modelli interpretativi occorre disporre di numerosi dati statistici a livello territoriale molto disaggregato. Come per tutti i fenomeni, infatti, modelli aggregati possono nascondere gli effetti di importanti variabili.
2 Secondo Todaro la migrazione riflette la differenza positiva tra i guadagni attesi (forniti dai guadagni reali ponderati per la probabilit di trovare un lavoro) nelle campagne e nelle citt. Se la migrazione verso la citt pi veloce della creazione di posti di lavoro la probabilit di trovare occupazione diminuisce riducendo i guadagni reali attesi nelle citt a livello di quelli agricoli facendo crescere lo stimolo a emigrare.

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Natale e Guarini (1975) hanno costruito una dettagliata matrice origine-destinazione, per regione e provincia, dellItalia nel periodo 1955-70. Oltre a unanalisi empirica del fenomeno stato quantificato un modello gravitazionale a correnti interdipendenti di tipo moltiplicativo in cui sono state considerate ventotto variabili raggruppate in quattro gruppi: variabili demografiche, economiche, livelli di occupazione, indicatori sociali. I risultati hanno messo in evidenza la significativa influenza sul fenomeno migratorio interno degli indicatori economici e sociali. La complessit del fenomeno migratorio e le difficolt di individuare adeguati modelli interpretativi emergono riflettendo su quanto si verificato negli ultimi anni, nel corso dei quali alcuni paesi di tradizionale emigrazione come Italia, Spagna, Grecia si sono trasformati in paesi di immigrazione, a causa dei flussi immigratori di ritorno o di flussi provenienti dai paesi in via di sviluppo. In passato la Repubblica federale tedesca e la Francia erano stati i soli paesi di destinazione di consistenti flussi migratori, peraltro sensibilmente ridotti nellultimo decennio dall azione frenante di alcuni provvedimenti governativi (Tassinari e Tassinari, 1990). Quanto allimpatto dei flussi di immigrati sulla situazione economica, demografica e sociale di questi paesi e particolarmente dellItalia, occorre distinguere tra effetti di lungo e di breve periodo. Nel breve periodo i flussi di immigrazione hanno svolto una funzione di aggiustamento degli squilibri qualitativi tra domanda e offerta di lavoro che caratterizzano i paesi europei e che hanno originato, soprattutto in Italia, Spagna e Grecia, paradossali situazioni di disoccupazione strutturale (Malinvaud, 1986). In questi paesi si infatti creata una vera e propria domanda esplicita di lavoratori stranieri per i quali si rendono disponibili posti di lavoro in attivit poco qualificate a pi bassi salari e con scarse garanzie. Nel lungo periodo le conseguenze, anche se non ancora completamente valutabili, sono diverse e molto pi complesse. Tali effetti dipendono anche dallintroduzione di politiche di regolamentazione dei flussi migratori. Lintegrazione economica e culturale degli immigrati ripropone in termini nuovi, rispetto alle esperienze storiche passate, le contraddizioni, i problemi del mercato del lavoro, delle abitazioni, dellistruzione e della sicurezza sociale con il rischio di unattenuazione, nel periodo lungo, di alcune spinte che hanno tradizionalmente sostenuto la crescita economica di questi paesi e il profilarsi di prospettive che solleciterebbero cambiamenti negli indirizzi politici (Fu, 1986). Inoltre, in mancanza di incisive politiche nazionali del lavoro tendenti a equilibrare qualitativamente la domanda e lofferta del lavoro dei paesi euro-

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pei, prevedibile che sar ancora molto sostenuta la domanda di lavoro per occupazioni poco protette e a bassa rimunerazione, attualmente soddisfatta in larga misura dai lavoratori dei paesi in via di sviluppo. Nellanalisi di flussi migratori, oltre alle determinanti socio-economiche, devono essere considerate variabili strutturali quali la rallentata dinamica demografica e lelevato processo di invecchiamento; fenomeni questi che sono particolarmente rilevanti in una fase di terziarizzazione del sistema economico quale quella attualmente presente in Italia (Tapinos e Turci, 1986). Il processo di invecchiamento in atto nella popolazione italiana, oltre ad avere effetti sulleconomia italiana in quanto muta la disponibilit del fattore lavoro nel processo produttivo, ha effetti indotti nel quadro internazionale allinterno del quale si contrappongono paesi industrializzati caratterizzati da unelevata quota di popolazione anziana e paesi in via di sviluppo con popolazioni giovani e numerose. In queste due realt si maturano differenziali di condizioni economico-sociali che costituiscono le determinanti dei flussi migratori. Il comportamento migratorio rilevato in Italia negli ultimi anni avvalora questa interpretazione. Lipotesi su cui si fonda la lettura del fenomeno che nella seconda met degli anni settanta siano maturate condizioni naturali e sociali internazionali, oltre a quelle economiche e politiche, che hanno determinato i flussi migratori verso paesi come lItalia, tradizionalmente di emigrazione. Tali flussi traggono origine da condizioni pi complesse di quelle che hanno determinato le grandi migrazioni della prima met del secolo. Fra queste appunto il crescente divario nei saldi demografici: infatti negli anni settanta, mentre i saldi naturali di molti paesi industrializzati presentano valori bassi o negativi, quelli dei paesi in via di sviluppo risultano sempre molto elevati. In Italia, in particolare, limmigrazione da questi paesi, che alcuni inizialmente avevano considerato un fenomeno transitorio, trova invece nel processo di invecchiamento della popolazione italiana un alveo strutturale che ne permette lassestamento e ne favorisce la dinamica (Tapinos e Turci, 1986). 4. Conclusioni Dalla rassegna delle diverse posizioni teoriche e dei contributi italiani sul tema delle interrelazioni tra economia e demografia, svolta nelle pagine precedenti, emerge in primo luogo che, anche se a livello internazionale, problemi, osservazioni e dispute intorno al problema sono sempre vivi e attuali, linteresse per largomento, considerato di frontiera

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tra economia, demografia e statistica, non testimoniato con continuit nelle ricerche degli studiosi italiani. Lattenzione degli economisti italiani sulla materia delle relazioni tra popolazione ed economia, come osserva Fu (1986), dopo aver suscitato unimportante letteratura fino a mezzo secolo fa, appare oggi notevolmente ridotta. La stessa osservazione pu formularsi nei riguardi dei demografi e degli statistici economici italiani: pochi sono e sono stati gli studiosi che hanno sviluppato e approfondito questi temi in relazione ai numerosi e valenti cultori di demografia e di statistica che esistono nel nostro paese. Non risultato, di conseguenza, sempre agevole individuare i contributi qualitativi e quantitativi degli studiosi italiani sullargomento nel contesto del dibattito internazionale, che stato ed , invece, molto ampio e approfondito. La disponibilit di dati statistici storici e territoriali sui fenomeni economici e demografici avrebbe dovuto invece incoraggiare lo sviluppo di tali filoni di ricerca. In secondo luogo emerge che nellesame della letteratura economicodemografica non si individuano posizioni univoche sulle relazioni che operano tra popolazione ed economia; le controversie riguardano non solo lintensit ma addirittura il segno degli impatti dei fattori demografici sulle variabili economiche. Inoltre vengono prevalentemente effettuate analisi di singole relazioni, mentre si evita il ricorso a modelli globali e a processi di sintesi, anche per le difficolt obiettive che sorgono a questo livello di analisi. Non soltanto, infatti, la storia dello sviluppo o del mancato sviluppo dei diversi paesi mostra evidenze contrastanti in merito al rapporto fra struttura ed evoluzione della popolazione e crescita economica. Ci che pi evidenzia, nel complicare lo sforzo di sintesi, labbondanza di ipotesi interpretative dei meccanismi di regolazione del rapporto fra caratteristiche demografiche e condizioni economiche, ciascuna confortata da un adeguato supporto intuitivo, le cui diverse combinazioni danno luogo a risultati completamente differenti. In questa situazione, rimane scoperto un ampio spazio di ricerca specificamente rivolto alla sensibilit delleconomista quantitativo, del demografo e dello statistico economico. Lutilizzazione delle informazioni dei dati statistici consente infatti di verificare la teoria dellinterdipendenza tra popolazione ed economia, affinch questa non resti allo stato di semplice ipotesi astratta, giustificata, come scrive Polja, solo da un ragionamento plausibile in assenza di evidenze empiriche.

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Capitolo nono Riproduttivit Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi

Il presente capitolo raggruppa vari argomenti, dalla nuzialit alle rotture dellunione matrimoniale, dalla fecondit al controllo dei concepimenti, dallabortivit alle opinioni su vari temi, ma principalmente ancora su fecondit, contraccezione, aborto. Tutti questi fenomeni occupano indubbiamente un posto centrale nella scienza che studia la sostituzione delle generazioni e i processi, di ordine sia biologico sia sociale, che la regolano; inoltre essi, proprio negli ultimi ventanni, hanno subito variazioni di grande rilievo, hanno visto modificazioni del quadro giuridico entro cui si esplicano e sono stati oggetto di particolare attenzione, mai prima manifestata, da parte della pubblica opinione. Nonostante le evidenti connessioni con i temi del presente capitolo, saranno trascurati, con poche e motivate eccezioni, sia lavori che riguardano nuzialit e fecondit dei tempi passati sia lavori in tema di politiche demografiche. La nuzialit, come si vedr nel paragrafo 1, stata considerata spesso solo come fattore importante ai fini dello studio della fecondit, ma una parte non trascurabile degli studi sullargomento riguarda invece la nuzialit come variabile sociale, di per se stessa degna di considerazione. I principali lavori concernenti questo tema saranno esaminati vedendo dapprima i contributi sui livelli di nuzialit in Italia e in aree pi circoscritte, evidenziando leventuale uso di modelli particolari, tra cui le simulazioni e il ciclo di vita; seguiranno i lavori concernenti alcuni caratteri specifici della nuzialit. A questo paragrafo stata aggregata la parte concernente le rotture dellunione matrimoniale per separazione o divorzio, la cui produzione, meno numerosa, rende pi difficile la distinzione tra studi su livelli e tendenze e studi su aspetti particolari. La fecondit, quale determinante, assieme alla mortalit, della dinamica naturale della popolazione, ha da sempre rappresentato uno dei temi centrali della ricerca demografica. Da quando, tuttavia, si constatato che essa sta diventando il pi importante regolatore dello sviluppo delle popolazioni contemporanee, linteresse nei suoi confronti ha subi-

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to un ulteriore incremento. Esaurita la transizione demografica classica, i paesi sviluppati stanno vivendo quella che stata chiamata la seconda transizione (Van de Kaa, 1987), a sottolinearne limportanza nello sviluppo delle societ avanzate. In questa seconda transizione, laccento posto sulla diminuzione della fecondit e sulle sue possibili cause: conoscenza e diffusione di metodi contraccettivi, abortivit, cambiamenti nel modo di vivere la famiglia e nel ruolo dei suoi componenti e cos via. I livelli di fecondit, le tendenze e le loro determinanti, le differenze tra i vari gruppi sociali e cos via sono pertanto di estremo interesse nella demografia delle societ sviluppate. Il paragrafo 2, concernente lesame dei contributi in tema di fecondit, si occuper solo dei lavori in cui il fenomeno collocato al centro della riflessione, le eventuali altre variabili essendo solo esplicative. La successione degli argomenti segue un ordine logico, che distingue: a) studi sulla fecondit e sulle sue determinanti demografiche; b) studi sulle determinanti non demografiche (socio-culturali, economiche, biologiche e cos via); c) studio della fecondit di gruppi circoscritti di popolazione. La distinzione presenta ovviamente elementi di arbitrariet e non priva di sovrapposizioni, ma consente una trattazione per grandi aree omogenee, che aiuta a comprendere meglio larticolazione dei temi affrontati dagli anni settanta. Il raggiungimento degli attuali bassi livelli di fecondit in Italia passa necessariamente attraverso il controllo dei concepimenti e il ricorso allaborto. Queste due variabili intermedie contraccezione e aborto sono le pi strettamente correlate con la fecondit, mentre altre variabili come labortivit spontanea, linfertilit e la durata dellallattamento nel nostro paese non hanno certo un peso molto significativo. Nel paragrafo 3, dedicato al controllo dei concepimenti, e nel successivo paragrafo 4 sullabortivit, viene documentata la produzione scientifica sui rispettivi temi, che usa dati tratti essenzialmente da indagini speciali su campioni della popolazione. Infine, il capitolo si chiude con un breve paragrafo su opinioni, preferenze, atteggiamenti. Questo argomento ha una storia pi recente, ma sta assumendo tuttavia piena cittadinanza in demografia. In Italia ha avuto inizio praticamente con alcuni specifici quesiti, inseriti nella prima Indagine sulla fecondit, condotta nel 1979. Il campo si tuttavia rapidamente arricchito con ulteriori inchieste, e la stessa Seconda indagine nazionale sulla fecondit prevede alcuni sviluppi in questa direzione.

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1. Nuzialit, separazioni e divorzi 1.1. Introduzione Tradizionalmente la nuzialit era ritenuta, tra le variabili di cui si occupa la demografia, quella pi stabile. I manuali usati fino a pochi anni fa dicevano che essa si manteneva a un livello quasi costante, dal quale si allontanava solo in occasione di eventi del tutto eccezionali, quali guerre prolungate, o epidemie particolarmente gravi. In ogni caso, passati il periodo di forzata diminuzione di matrimoni e la ripresa che normalmente ne consegue, il livello della nuzialit tornerebbe ai valori normali (Boldrini, 1956; Federici, 1979). Se questa lettura fosse dovuta anche alle scarse capacit descrittive e investigative degli indicatori usati lo vedremo tra breve: sta di fatto che la gran parte degli studi in tema di nuzialit si concentrava sullattrazione matrimoniale, ossia sulla vicinanza (di et, di luogo di nascita o di residenza, di attivit economica, di istruzione e cos via) tra i caratteri dei coniugi. Piuttosto rari erano invece gli studi su altri aspetti legati alla nuzialit, quali la frequenza e le caratteristiche dei matrimoni successivi al primo o le rotture di matrimonio (per separazione legale, essendo non rilevabile quella di fatto, e non ancora consentito dalla legge italiana il divorzio), o ancora gli effetti dello scioglimento del matrimonio per la causa che era ed tuttora la pi frequente, cio la morte di un coniuge. I motivi che inducevano a privilegiare quelle aree di interesse e non altre e quelli che hanno portato allo sviluppo odierno degli studi in tale settore, sono probabilmente molteplici. Tra i primi a essere elencati va senzaltro menzionato il mutato atteggiamento della societ (italiana) nel dopoguerra la collocazione precisa sembra pi difficile, trattandosi peraltro di un processo che si evoluto progressivamente e non improvvisamente nei confronti del matrimonio come istituzione. Esso era vissuto nel passato come una tappa imprescindibile nella vita della maggior parte della gente (come peraltro il fatto di avere nel matrimonio un certo numero di figli), a cui si arrivava, prima o poi, secondo le attitudini individuali; ed era guardato con estrema considerazione anche da parte di chi non poteva o non voleva accedervi. La frequenza dei matrimoni rifletteva pertanto questa propensione generale, che era turbata nel ritmo, non nellintensit soltanto da circostanze eccezionali: lattenzione si concentrava su altre cose, come appunto lattrazione matrimoniale.

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Il fatto che non esistesse un unico modello di nuzialit valido per tutte le popolazioni risult evidente dopo larticolo, ormai famoso, di Hajnal (1965, trad. it. 1977), che, usando due indici sintetici (et media alle prime nozze e intensit finale dei matrimoni), descriveva le differenze di comportamento tra due grandi aree: Europa occidentale (a ovest dellideale demarcazione data dalla linea Leningrado-Trieste), con matrimonio relativamente raro e tardivo; Europa orientale e Asia, con matrimonio pressoch universale e a et precoce. LItalia si situava nel contesto sud-europeo, con una proporzione di nubili attorno al 15% e unet media alle prime nozze vicina, per le donne, ai 25 anni. Allinterno del nostro paese, le differenze, con gli stessi indicatori, verranno mostrate da De Sandre (1969) e successivamente, ma in una prospettiva pi storica, da Barbagli (1990). Il matrimonio, tra laltro, veniva individuato sempre pi come uno dei principali fattori di manovra capaci di influenzare la fecondit. Laffinamento delle misure di nuzialit, la possibilit di costruire misure sia con dati di censimento sia con dati correnti ma non troppo difficili da ottenere, e luso sempre pi esteso di misure per coorti insieme con misure trasversali, hanno mostrato che in realt luniformit di comportamento non poi cos monolitica n nel tempo n nello spazio. Levoluzione recente della nuzialit e i nuovi fenomeni delle convivenze senza matrimonio, della divorzialit e della possibilit, per questo motivo, di nozze successive hanno fatto il resto, con una necessit di analisi dei livelli e delle tendenze, prima ancora che delle somiglianze tra i coniugi, per capire eventuali mutate propensioni nei confronti del matrimonio, o dei tempi delle nozze, anche nelle possibili relazioni con i tempi della prolificazione. 1.2. Nuzialit innegabile che dagli anni settanta a oggi il lavoro pi completo sulla nuzialit, sotto entrambi i punti di vista (metodologico e sostanziale), sia quello di Santini (1974b). La cosa forse pi curiosa che egli esamina la nuzialit (femminile) in quanto variabile essenziale bench non unica per lo studio della fecondit (femminile), anzi pi precisamente, per riprendere il titolo del suo lavoro, della fecondit delle coorti. Il volume continua la serie di pubblicazioni che sullargomento il Dipartimento statistico di Firenze ha prodotto a partire dal 1968 (Istituto di statistica dellUniversit di Firenze, 1968; Livi Bacci e Santini, 1969). La metodologia con cui egli affronta il problema quella degli eventi ridotti, usata sia per la nuzialit sia, successivamente, per la fecondit generale e per quella legittima. Non questo, in realt, il primo studio

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in Italia in cui viene usato tale approccio metodologico, tuttavia esso vi trova una certa sistematicit di trattazione, forse non ancora superata. del tutto nuovo, invece, lo studio (non certo lidea) della nuzialit dei contemporanei associato a quello delle coorti. Gli anni interessati vanno dal 1920 al 1967; le generazioni di donne dalla 1895 alla 1941, con problemi, evidentemente, di stima prospettiva per la nuzialit delle coorti pi giovani, che non avevano completato la loro storia matrimoniale entro il 1967. Un aspetto importante di questo lavoro proprio la relazione, anche ma non soltanto formale, che egli esamina con insistenza, tra il comportamento delle coorti e quello trasversale, con fini interpretativi delle tendenze recenti e anche previsivi per il futuro. Un suo lavoro, che pu essere considerato preliminare al volume (Santini, 1974b), fu quello riguardante la nuzialit delle coorti femminili 1900-1941 (Santini, 1972), mentre un aggiornamento costituito dalla relazione al convegno La famiglia in Italia, organizzato dallIstat nel 1985 per presentare alcuni risultati della prima Indagine sulle famiglie (Santini, 1986b). In questultimo si trova uno sviluppo delle tendenze congiunturali fino al 1981 e dei comportamenti delle coorti fino a quella nata nel 1956. Viene tra laltro ridimensionato lincremento di nuzialit finale che le generazioni pi giovani sembravano mostrare con i dati del precedente lavoro: anzi, quelle nate dopo il 1946 mostrerebbero una nuzialit in declino. Curioso, dicevamo, il fatto che uno studio cos massiccio come quello di Santini sia stato svolto in funzione delle conseguenze sulla fecondit. Non inconsueto, per la verit, dal momento che si tratta di unimpostazione classica in demografia e che anche nella modellistica pi recente la nuzialit ritenuta, tra le variabili intermedie, quella forse pi importante per il controllo della fecondit. Tuttavia, opinione diffusa che essa possa costituire oggetto di interesse anche di per se stessa, in quanto variabile che rispecchia unevoluzione di costumi, di pensiero, di modo di vivere. Sotto questo aspetto, essa spesso associata, anche e specialmente nei lavori di carattere pi storico, alla forme familiari e ancora al ricambio intergenerazionale. Su questo punto sono di un certo rilievo i lavori di De Sandre (1974, 1976), in cui il matrimonio osservato in quanto variabile non solo demografica ma anche sociale, e ancora De Sandre (1983b), in cui nuzialit e divorzialit sono viste nei loro legami con le forme familiari. Barbagli (1990), usando ancora misure classiche come la nuzialit finale e let media alle prime nozze, ricavate per lo pi da dati censuari, studia le differenze tra le regioni italiane dallUnit in poi (anche per i periodi precedenti, con dati pi dispersi), mostrando modelli diversi

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da zona a zona, con conseguenze sulla formazione delle famiglie. Ancora su dati di censimento (fino al 1961), a livello regionale, aveva lavorato De Sandre (1969), con un taglio pi nettamente demografico. Il valore innovativo dei lavori di Santini si pu cogliere osservando gli studi sulla nuzialit inseriti in rassegne di carattere generale, editi negli stessi anni, come quello di Visco (1974) nel volume italiano della serie del Cicred dedicata alla situazione demografica dei vari paesi del mondo. In esso Io studio si limitava allesame del quoziente generico e dellet media al matrimonio (nei contemporanei) dei celibi e delle nubili (entrambi estesi allultimo secolo e alle ripartizioni geografiche italiane). In lavori dello stesso tipo (rassegne della problematica connessa allo sviluppo della popolazione, o quadro generale della situazione demografica) apparsi successivamente (ad esempio, Comitato nazionale per i problemi della popolazione, 1980; De Sandre, 1982a; Golini, 1987 e altri ancora), i cenni alla nuzialit, per quanto rapidi, comprendono il numero di prime nozze nelle generazioni (reali o fittizie), oltre al o talvolta proprio in luogo del tasso generico. Per non parlare di studi appositamente dedicati alla nuzialit (o a nuzialit e fecondit: la prima, ancora, in quanto variabile importante per questultima), in cui il linguaggio e la metodologia degli eventi ridotti sono largamente usati (Santini, 1986b; De Sandre, 1983a) o sottintesi (Rossi, 1982) o anche... abusati, come in Santini (1986b), dove vengono usate diverse denominazioni per lo stesso concetto di intensit finale o comunque fino ai cinquantanni della nuzialit in generazioni, reali o fittizie! I lavori pi recenti (ad esempio De Sandre, 1988b) evidenziano i livelli molto bassi della nuzialit degli ultimi anni (sui 700 primi matrimoni per una generazione fittizia di 1000 donne) e una tendenza, da verificare con dati pi completi, delle generazioni pi giovani ad anticipare nei tempi e a ridurre nellintensit i comportamenti nuziali. Non numerosi, ma stimolanti, gli studi di carattere regionale. Oltre a quelli gi citati, effettuati sui dati delle regioni italiane (De Sandre, 1969; Barbagli, 1990), cui si pu aggiungere quello di Di Comite (1974), sono di un certo interesse alcuni lavori su popolazioni locali: Di Staso (1974) su Bari, Di Nicola (1989) sullEmilia-Romagna, Riva (1982) su Vercelli, Lauro et al. (1986) sulla Lombardia, Ires (s. d.) sul Piemonte. In particolare, Riva lavora su un campione di famiglie, entro cui raccoglie i dati sulla nuzialit e sulla fecondit femminile (751 donne di ogni et, il 3,5% del totale). Vengono esaminati, per la nuzialit, la frequenza del matrimonio, let alle nozze, nonch una tavola di eliminazione per matrimonio di un gruppo di mille nubili quindicenni, il tutto considerando come variabili di differenziazione alcuni gruppi

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di generazioni di nascita, il titolo di studio, il luogo di nascita, lattivit lavorativa. Lo studio sulla nuzialit in Lombardia, invece, interessante per lo strumento impiegato, la tavola di eliminazione, in disuso ormai da parecchi anni in Italia. Infatti, dopo le tavole di nuzialit elaborate in passato da singoli ricercatori o dallIstat (le ultime riferite al periodo 1960-62, edite nel 1971), nessunaltra tavola di nuzialit stata pi prodotta. Occorre aggiungere che tavole per zone ristrette (quelle della Lombardia sono costruite anche per provincia) presentano indubbiamente, rispetto a quelle nazionali, problemi metodologici ulteriori; ad esempio, quali matrimoni considerare: quelli celebrati nella zona considerata o quelli dei residenti?, o, ancora, quelli che vi andranno ad abitare? Gli stessi interrogativi si pongono per i denominatori; inoltre una certa coerenza tra numeratori e denominatori delle probabilit di matrimonio pu essere ostacolata dallindisponibilit dei dati territoriali necessari. Lo studio sul Piemonte non sembra altrettanto interessante, almeno per il capitolo sulla nuzialit, in quanto si basa sui dati ottenibili dalle schede di nascita: si tratta quindi dellesame di alcuni caratteri riferiti ai soli matrimoni fecondi negli anni osservati (1971 e 1978). Luso di modelli di nuzialit non appare molto esteso negli studi italiani. Forse lampia documentazione statistica di base, tradizionalmente disponibile nel nostro paese, non rende necessaria lutilizzazione di modelli empirici per et, quali lormai famoso modello di Coale (1971) e successive elaborazioni: ad esempio, Coale e McNeill (1972). N sono presenti altri contributi concettuali sul tipo dei cerchi matrimoniali, o comunque che tentino di descrivere o interpretare i meccanismi che portano al matrimonio, o, con processi pi complicati, alle combinazioni nellassortimento dei caratteri della coppia nel matrimonio. Su questo piano, da rilevare lassenza di studi su un aspetto che, bench di complessa definizione, ha pi volte attirato lattenzione di demografi stranieri, cio il cosiddetto marriage squeeze, il turbamento della nuzialit dovuto a cause strutturali che fanno variare il mercato matrimoniale in modo diverso tra i due sessi. Per il nostro paese il fenomeno, richiamato in passato da Colombo (lultimo accenno in Colombo, 1975) come conseguenza dellandamento delle nascite negli anni della prima guerra mondiale, pu tornare alla ribalta oggi e nei prossimi anni, a causa della prolungata diminuzione delle nascite che si protrae ormai da pi di venticinque anni: tenendo conto della differenza usuale di et alle nozze, le generazioni maschili sono, ormai sistematicamente, pi numerose di quelle femminili pi giovani di tre o quattro anni. E questo potrebbe avere conseguenze sulla frequenza alle nozze (pi alta tra gli

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uomini che non tra le donne) e sul celibato-nubilato definitivo (pi basso tra i maschi e pi alto tra le femmine). Ma, pi in generale, un filone di studi, di carattere anche metodologico, assente negli studi italiani il tentativo di arrivare a misure di nuzialit costruite non a sessi distinti, ma che tengano conto della disponibilit sul mercato matrimoniale di entrambi i sessi. I modelli di nuzialit, dunque, in particolare quello di Coale (1971), hanno trovato poche applicazioni: tra queste, Santini (1974b) ha stimato, sfruttando appunto tale modello, la parte finale della nuzialit per et delle generazioni di donne pi giovani. Amodeo (1980) ha esaminato il modello di Coale, confrontandone i parametri con quelli del modello di Keely (1979) e applicando questultimo, con intenti anche previsivi, ai dati ricavati dai censimenti italiani del 1961 e 1971. Gli altri casi (Bonarini, 1978 e De Sandre, 1975; 1978) non si limitano ad applicazioni del modello di Coale, ma ne traggono spunti per una discussione critica, rilevandone ora la non buona approssimazione alla storia delle generazioni quando queste siano perturbate da eventi eccezionali, ora la mancanza del tempo storico di riferimento, ora la difficolt di includervi nuove forme di convivenze non sancite da un matrimonio, che vanno sempre pi diffondendosi, anche nel nostro paese. Un particolare settore di studi, in cui matrimonio e nuzialit costituiscono un elemento portante, ha avuto invece una certa espansione: si tratta dellapproccio cosiddetto del ciclo di vita, riferito inizialmente alla famiglia, successivamente alla persona (con lespressione preferita di. corso di vita). Conviene farne ora un breve cenno, anche perch spesso nei lavori sul ciclo di vita si fatto ricorso a modelli particolari, le simulazioni. Il ciclo di vita un modo di avvicinarsi agli eventi demografici che associa eventi tipici nella vita di persone (o, nel caso pi complesso, di famiglie) e ne osserva i tempi di accadimento nella storia individuale o familiare, e le distanze tra di essi. In questo quadro, il matrimonio assume unimportanza basilare, essendo un evento che separa nettamente diverse fasi del ciclo: il passaggio dal celibato-nubilato alla fase demograficamente strategica della convivenza e della riproduzione, nel ciclo individuale; linizio del ciclo in quello familiare. Inoltre, esso serve anche a definire, in mancanza di variabili meglio qualificate, la fase delluscita di un figlio dalla famiglia (su questo tema, ulteriori sviluppi sono in De Sandre, 1988a). Dopo la definizione di alcune fasi tipiche del ciclo di vita della famiglia e un esame dellevoluzione con dati trasversali (Rossi, 1975a), apparve sullo stesso tema un modello di microsimulazione (Rossi, 1975b) che mostrava, sempre con dati trasversali,

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levoluzione delle fasi familiari anche in momenti della storia familiare solitamente trascurati dalle rilevazioni consuete (ad esempio, la fase precedente la nascita del primo figlio o luscita dei figli dalla famiglia). La simulazione consentiva inoltre linput di varie combinazioni di dati, cosicch si poteva valutare leffetto della variazione di una sola delle variabili di input, ad esempio la nuzialit. Un intervento di Santini (1977) chiariva, dal punto di vista concettuale, i legami tra variabili demografiche individuali, tra cui matrimoni e divorzi, e ciclo familiare. Successivamente, Rossi (1983) riprendeva il tema del ciclo di vita familiare, avanzando alcune ipotesi di lavoro, quali la necessit di seguire non un unico percorso (quello maggioritario), ma eventualmente anche altri di importanza emergente (ad esempio le convivenze familiari senza matrimonio), o comunque di accompagnare la descrizione di ogni percorso con lindicazione della frequenza di casi (persone, famiglie) che lo seguono; oppure il suggerimento di ricostruire cicli di vita longitudinali (difficilmente realizzabile con i dati ufficiali disponibili), o quello di approfondire singole fasi, rinunciando a voler dare una visione completa dellintero ciclo familiare. Sempre in tema di modelli di microsimulazione, Blangiardo (1984) usava questa via per la proiezione di famiglie, mentre, alcuni anni dopo, Bertino riprendeva luso di modelli per la demografia della famiglia, con alcune applicazioni (Bertino et al., 1988). Da notare che tra i primi approcci del 1975 e questi ultimi del 1988 c stata la grande espansione, qualitativa e quantitativa, ossia di prestazioni ma anche di diffusione, dei personal computer. Hanno continuato intanto ad apparire studi su singoli aspetti della nuzialit. Tra i pi tradizionali, sono da citare quelli di De Candia (1974) sullattrazione per stato civile, di Di Staso (1974) sulla stagionalit dei matrimoni, di Cusimano (1978) sullevoluzione delle et al matrimonio. La nuzialit per rito, che pu essere assunta come un indice delle mutazioni in corso sul significato del matrimonio, fu oggetto di studio da parte di Cagiano de Azevedo (1972) e di Ventisette (1975), ma largomento non fu pi ripreso successivamente, quando forse sarebbe risultato ancora pi interessante, se non di passaggio in lavori pi ampi. Clerici (1985) esamina la nuzialit maschile e la confronta con quella delle donne; Manese (1986) studia la nuzialit di cittadini stranieri come indicatore della loro presenza. Zei et al. (1981) trovano una correlazione tra et del marito ed et del padre, ma lo studio pi antropologico che demografico. Infine, una curiosit: Marzocchi e Masi (1983) ricercano relazioni tra nuzialit (insieme con altre variabili demografiche) e segno zodiacale.

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1.3. Separazioni e divorzi del dicembre 1970 la legge che introduce il divorzio in Italia: ma strano che prima di quella data (e in realt anche per alcuni anni dopo) non ci fossero grandi interessi specifici sulle rotture (per separazione) o comunque sullo scioglimento (per morte) del matrimonio, e questo nonostante il fatto che le separazioni legali fossero raddoppiate tra il 1961 e il 1970. E da rilevare soltanto qualche articolo (ad esempio Di Cotriite, 1969) che, usando la tecnica delle tavole di eliminazione, misurava lestinzione, per la morte di uno dei coniugi, di un gruppo di matrimoni in cui gli sposi avessero una data combinazione di et: effetti della sola mortalit, dunque. Pi recentemente, Breschi (1984) stimava invece, relativamente ai matrimoni delle coorti 1954-79, quelli sopravviventi alle varie durate (sfuggiti a morte, ma anche a divorzio e separazione), per ai fini di un pi accurato calcolo della fecondit matrimoniale. Dopo lintroduzione della legge sul divorzio, arriva nei tribunali un gran numero di istanze relative a rotture gi verificatesi in passato, provocando uneccezionale frequenza dei divorzi negli anni dal 1971 al 1974, e specialmente nel 1972. In questi anni iniziano a comparire studi sullargomento: Sgritta e Tufari (1977) esaminano i primi dati sui divorzi, insieme con quelli sulle separazioni: essi studiano, arrivando fino al 1973-74, let dei coniugi, la loro professione, la durata della convivenza, laffidamento dei figli e cos via. Anche Brunetta (1976) esamina i primi effetti della legge sul divorzio. Si tratta per di studi di carattere prevalentemente sociale o sociologico. I demografi iniziano a occuparsi di questo tema pi avanti nel tempo, quando la situazione si abbastanza stabilizzata. Essi sembrano interessati a osservare la tendenza gi normalizzata pi che il boom dei primi anni, la divorzialit delle coorti pi che quella trasversale. Cos, solo dopo alcuni anni compaiono i primi studi con taglio prevalentemente demografico sulla divorzialit. De Sandre (1980), esaminando i dati fino al 1976, ricostruisce la divorzialit delle coorti di matrimoni e definisce un quadro dellincidenza combinata di separazioni e divorzi su unipotetica coorte di matrimoni (alle condizioni correnti registrate negli ultimi anni disponibili). Un aggiornamento di tale schema, insieme con una rassegna dei problemi connessi, appare in De Sancire (1983b): linteresse di un quadro di riferimento per descrivere il destino di una coorte di matrimoni nasce dalloriginalit del quadro giuridico italiano, in cui divorzio, separazione legale, separazione di fatto si intrecciano, costituendo in certi casi luna la premessa dellaltro, ma con una normativa che fa diminuire limportanza delle separazioni di fatto. Pertanto, per un matrimonio che si interrompe sono possibili diversi

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corsi, ciascuno con un particolare esito: le frequenze relative di tali percorsi variano nel tempo, in modo tale che appare estremamente interessante seguirne levoluzione, nonch prevederne alcuni possibili cambiamenti. Greco e Carannante (1981), con dati che arrivano fino al 1978, studiano separazioni e divorzi per et dei coniugi, durata della convivenza, et al matrimonio, anno del matrimonio; gli stessi in Istat (1982a) si occupano di alcune caratteristiche dei divorzi avvenuti nei primi dieci anni di applicazione della legge (1971-80): ripartizioni geografiche, istruzione e stato professionale dei coniugi, figli minorenni e cos via, con una ricca documentazione statistica. Ancora Maggioni (1990) esamina la divorzialit delle coorti di matrimoni, oltre che quella trasversale, mettendo in rilievo sia leccezionale divorzialit dei matrimoni formatisi negli anni dellultima guerra, peraltro gi notata negli studi precedenti, sia laumento della divorzialit finale o anche attuale, per le coorti pi giovani nei matrimoni pi recenti: egli attribuisce entrambi i rialzi alle condizioni del momento di formazione delle coppie, pi che a quelle degli anni in cui si verifica la rottura. In ogni caso, i livelli di rotture di matrimonio sono per lItalia notevolmente bassi (nove separazioni legali e quattro divorzi secondo i dati degli anni pi recenti per ogni cento matrimoni di una coorte fittizia), se confrontati con quelli di altri paesi (20, 30, 40%, con punte che si avvicinano al 50% negli Stati Uniti. dAmerica e in Svezia; Corsini e Ventisette, 1988). E da attendersi tuttavia un lieve rialzo nella divorzialit trasversale degli ultimi anni, per effetto delle variazioni introdotte dalla legge del 1987, che riduce da cinque a tre gli anni di separazione necessari per ottenere il divorzio; ma questo non dovrebbe avere effetti di rilievo sulla divorzialit delle coorti di matrimoni. Ancora, recentemente Barbagli (1990) esaminava, con taglio sociologico, molteplici aspetti della divorzialit, nonch delle nozze successive, argomento, questultimo, piuttosto trascurato invece dai demografi. Sulle separazioni tra i coniugi cera stato anche un lavoro di Ventisette (1981) che, osservando i separati per et, ragionava sulle possibili conseguenze delle separazioni a et giovani sullandamento futuro dei divorzi. Ma negli ultimi anni il tema non pi stato ripreso, nonostante gli accresciuti livelli e il fatto che la separazione costituisca il passo preliminare per arrivare al divorzio. 1.4. Commenti conclusivi Non si pu chiudere largomento senza citare la necessit di studi sulla nuzialit secondo unottica di indagine largamente utilizzata altrove e in misura pi limitata anche nel nostro paese, per altri temi

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come la fecondit, ma non ancora diffusa per i matrimoni (e le rotture). Indagini retrospettive, di tipo campionario, per la necessit di esami in profondit di molte variabili, e su dati individuali, consentirebbero di cogliere aspetti differenziali della nuzialit tra categorie di persone, tra percorsi con cui si arriva al matrimonio ecc. In particolare, sarebbe di estremo interesse la conoscenza di informazioni sul marito, da abbinare alle consuete notizie rilevate per la donna: questo possibile, in casi limitati, per indagini effettuate in passato (De Sandre, 1982a), ma le disponibilit di dati sia per la donna sia per il marito sembrano oggi aumentate, con buone prospettive per il futuro (ad esempio Istat, Indagine multiscopo sulle famiglie; Seconda indagine sulla fecondit in Italia; Castiglioni, 1990-91). Alcuni argomenti rimangono largamente, se non del tutto, inesplorati: si tratta di aspetti che le rilevazioni statistiche basate su eventi amministrativi non possono cogliere. Tra questi vanno nominate, ad esempio, le separazioni di fatto, che vengono alla luce solo in quanto esse (ma solo una parte) sfociano nel divorzio. Ma un altro esempio costituito dalle coabitazioni, le unioni di fatto da parte di coppie non legate da matrimonio. Su queste, alcuni tentativi in realt sono stati effettuati, e da parte del principale produttore italiano di statistiche ufficiali. Alcuni dati in proposito sono stati rilevati dallIndagine sulle strutture e i comportamenti familiari (Istat, 1985), che ha rilevato non solo la situazione allintervista, ma anche alcune informazioni retrospettive, con risultati soddisfacenti, se non nel numero di casi (ritenuti forse sottostimati), quanto su alcune caratteristiche delle persone. Alla stima delle convivenze e di alcuni caratteri delle coppie dovrebbero giungere anche i dati dellIndagine multiscopo sulle famiglie.
2. Fecondit

2.1. Considerazioni preliminari La maggiore disponibilit di nuovi e pi accessibili mezzi di limitazione delle nascite e lallentamento di molte norme sociali hanno contribuito a sganciare il processo riproduttivo delle popolazioni contemporanee dai fattori di ordine biologico e dai modelli comportamentali relativamente stabili (costume matrimoniale, allattamento, astinenza postpartum, ricorso allaborto procurato) che regolavano la fecondit del passato. Il passaggio sotto il controllo della volont individuale e laumento di mutevolezza e imprevedibilit che ne derivano acquistano un si-

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gnificato particolare nel momento in cui laltra componente della dinamica naturale (la mortalit) si evolve secondo una direzione imposta dai progressi della scienza e della tecnologia. Linteresse non orientato solo nei confronti dei paesi in via di sviluppo che, a causa degli alti livelli di fecondit (in relazione alla mortalit), stanno sperimentando tassi di crescita naturale cos elevati (nel continente africano anche del 2-3% annuo) da far temere unesplosione demografica difficilmente gestibile sul piano sociale ed economico. Di estremo interesse sono anche la dinamica e la struttura della fecondit dei paesi economicamente pi avanzati. Ci che ci si chiede : i bassi livelli di fecondit (in particolare quelli che configurano uno sviluppo della popolazione al di sotto del livello di sostituzione delle generazioni) sono espressione di un aggiustamento nella cadenza dei fenomeni o di una situazione contingente, o non piuttosto di tendenze di fondo acquisite dalle generazioni pi giovani? Il fatto che la riproduzione si sia sganciata dalla nuzialit e a questultima si siano affiancate alternative un tempo inesistenti (come in effetti avvenuto in numerosi paesi europei del centro-nord) ha qualche peso sullevoluzione dei comportamenti riproduttivi? E pi in generale: quali fattori determinano il numero di figli e la cadenza della loro nascita, oggi che la riproduzione subordinata alla volont degli individui? La discussione, negli ultimi venti anni, stata particolarmente stimolante, sul fronte sia del dibattito teorico, sia degli approcci tecnicometodologici relativi allo studio della fecondit. Con la riduzione a uno schema descrittivo della teoria della transizione demografica avanzata negli anni sessanta (Freedman, 1961-62) si sviluppano nuove ipotesi interpretative che cercano di spiegare la dinamica della fecondit non solo integrando il pensiero precedente (Coale, 1973) ma anche introducendo chiavi alternative di lettura che di volta in volta sottolineano limportanza dei fattori di ordine economico (Easterlin, 1973; Butz e Ward, 1979), le modificazioni di natura culturale e in particolare il cambiamento di valore attribuito ai figli (Bulatao e Lee, 1983), i cambiamenti nei trasferimenti intergenerazionali (Caldwell, 1982; Ryder, 1984). Particolarmente ricco il panorama delle proposte emerse sul fronte dellanalisi dei dati. Seguendo una traccia utilizzata da De Sandre (1986), possiamo distinguere due aree di sviluppo, luna legata al tentativo di identificare misure al netto di interferenze di varia natura e di articolare i singoli indicatori dellanalisi demografica tradizionale in relazioni formalizzate (Tuma e Hannan, 1984; Page, 1977; Hobcraft et al., 1982; Coale e Watkins, 1985; Berent e Festy, 1973), laltra orientata alluti-

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lizzazione di veri e propri modelli di analisi, siano essi tentativi di analizzare levoluzione della fecondit come deviazione da intensit e struttura per et in equilibrio (Coale e Trussel, 1974; 1978; Bongaarts, 1978; Gaslonde e Carrasco, 1982) o modelli che, in forma multivariata, descrivono leffetto di un set di regressori sulle variabili dipendenti che esprimono il processo riproduttivo (Bulatao, 1980; Rindfuss, 1987; Rodriguez et al., 1984; Courgeau, 1985). Un passo avanti nella riflessione rappresentato dal fondamentale concetto di variabile intermedia (Henry, 1953; Davis e Blake, 1956), intendendo con ci qualsiasi fattore che inibisca la fecondit potenziale (fecondabilit/sterilit, esposizione ai rapporti sessuali e frequenza, uso della contraccezione, abortivit spontanea e indotta, natimortalit). Le riflessioni a livello di interpretazione e analisi interagiscono anche con gli avanzamenti della ricerca sul piano della rilevazione e dellosservazione dei fenomeni. Nonostante le critiche di Ryder (1984), che sottolinea come la rilevazione micro-demografica sia insufficiente a cogliere leffetto delle norme sociali sul comportamento riproduttivo, dagli anni settanta sono state varate numerose indagini campionarie con lintento di sondare aspetti ritenuti rilevanti per lo studio della fecondit, non osservabili con le rilevazioni ufficiali censuarie e correnti (Unece, 1976; Bulatao, 1980; Fisher e Way, 1988). Caratteristiche comuni di queste rilevazioni sono: il riferimento individuale; un approccio allo studio dei fenomeni di tipo longitudinale che permetta di collocare gli eventi nel tempo; una rilevazione delle variabili che tenga conto di unottica multidisciplinare. Lindagine mondiale sulla fecondit (WFS), che ha preso il via a cavallo degli anni ottanta, rappresenta Io sforzo pi significativo in questa direzione (De Sandre, 1980; 1985). Avviata nel quadro di un programma internazionale patrocinato dallISI con la cooperazione della Iussp su 42 paesi in via di sviluppo e 20 sviluppati (tra cui anche lItalia), essa costituisce sia una inestimabile fonte di informazioni per lo studio delle variabili intermedie e delle condizioni contestuali che influenzano i comportamenti riproduttivi (con qualche attenzione anche agli aspetti che influenzano le decisioni), sia unoccasione di accelerazione della discussione sulla fecondit nei suoi diversi aspetti teorico e tecnico-metodologico. In questo contesto si colloca il dibattito sulla fecondit da parte dei ricercatori italiani. Nel 1986 si tiene a Napoli un forum sulle ricerche in tema di famiglie e fecondit concluse e in corso negli anni 1984-86

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(CNR, Gruppo nazionale di coordinamento degli studi demografici, 1987) e, a conferma del forte interesse nel nostro paese per la fecondit, si osserva che essa costituisce uno dei temi dominanti della ricerca demografica. 2.2. Fecondit generale e sue determinanti demografiche Numerosi lavori esaminano evoluzione e struttura della fecondit italiana in relazione a variabili di natura strettamente demografica (coorte di nascita della madre, et della donna al parto, anno di matrimonio, durata dello stesso al momento della nascita e cos via) e/o territoriale (consideriamo in questo gruppo anche i lavori che fanno riferimento a studi a carattere differenziale dove la delimitazione territoriale di natura politico-amministrativa). Gi negli anni settanta analisi demografiche di ordine generale (Santini, 1974a; Pinnelli, 1975; Federici et al., 1976) e studi centrati sullapprofondimento delle caratteristiche di fecondit in periodi temporali circoscritti (Chiassino e Di Cornite, 1975; Meccariello, 1975; Del Panta, 1975) individuano per gli anni 1950-70 un andamento congiunturale del comportamento riproduttivo (crescita moderata degli indici di natalit e fecondit del momento fino alla met degli anni sessanta e successivo declino nel periodo pi recente) che, pur con differenze regionali, colloca lItalia a pieno titolo tra i paesi europei a fecondit bassa e controllata. Gli stessi studi approfondiscono anche alcuni aspetti del fenomeno che costituiranno materia di riflessione per tutto il periodo successivo. Essi suggeriscono in particolare lipotesi che: a) allorigine della diminuzione della fecondit generale registrata a partire dalla seconda met degli anni sessanta ci sia una diminuzione della fecondit legittima (Del Panta, 1975; Pinnelli, 1975); b) la fecondit per contemporanei, soprattutto nella fase calante, presenti andamenti pi accentuati di quella misurata per generazioni di donne (Del Panta, 1975); c) pur permanendo una sensibile differenziazione nei comportamenti riproduttivi tra centro-nord e sud del paese (Del Panta, 1975), le differenze regionali vanno attenuandosi nel tempo (Chiassino e Di Cornite, 1975; Meccariello, 1975). Una trattazione organica di questi temi trova spazio in due lavori che, in forma diversa, approfondiscono le caratteristiche di struttura di un lungo periodo della fecondit italiana. Il lavoro di Santini (1974b) costituisce un riferimento importante nello studio della fecondit, sia per gli aspetti di metodo sia per quelli

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contenutistici. Esso ricostruisce con dati provenienti dalle statistiche ufficiali le caratteristiche della fecondit delle generazioni italiane nate dalla fine del secolo scorso fino ai primi anni quaranta dando conto dei mutamenti di struttura avvenuti nei processi di costituzione della discendenza familiare con la transizione dallalta alla bassa fecondit. Da questo impegno, che si estende a considerare anche levoluzione della nuzialit e della fecondit congiunturali, lintensit e la cadenza di nuzialit e fecondit e i processi di formazione della famiglia, emerge, tra laltro, che levoluzione degli indici del momento registrata dopo il secondo conflitto mondiale in gran parte frutto di variazioni di cadenza dei matrimoni e delle nascite che riguardano le coorti pi giovani. Il lavoro di Livi Bacci (1977; trad. it., 1980) rientra nel pi ampio European Fertility Project dellOffice of Population Research dellUniversit di Princeton diretto da Coale (Coale e Watkins, 1985) e si estende a considerare poco pi di un secolo di storia della fecondit italiana (1861-1971). Limpiego degli indici di Coale che, con dati anche relativamente poveri, consentono di scomporre lintensit della fecondit generale negli effetti della fecondit legittima, della fecondit illegittima e della propensione al matrimonio, contribuisce a chiarire la dinamica della fecondit del momento per periodi e ripartizioni territoriali italiane per i quali poco era noto in termini di determinanti demografiche della fecondit. Lo spettacolare calo della fecondit del momento che si registra nel nostro paese soprattutto a partire dalla met degli anni settanta (e che nel primo scorcio degli anni novanta non accenna ancora a sensibili inversioni di tendenza) costituisce il principale tema di discussione degli anni ottanta. I rapporti dellIstituto di ricerche sulla popolazione sulla situazione demografica del paese (IRP, 1985 e 1988) documentano con regolarit questo fenomeno: dopo laumento degli indici annuali culminato attorno al 1965 con 2,66 figli per donna (peraltro concentrato soprattutto nelle regioni settentrionali), la fecondit del momento inizia un calo progressivo che, dopo il 1974, particolarmente brusco e porta lItalia nel 1987 su livelli di 1,30 figli per donna. La preoccupazione per questo stato di cose ben espressa da Golini, il quale osserva (IRP, 1988) che: a) tale valore simile a quello della Repubblica federale di Germania, che rappresenta probabilmente il livello di fecondit pi basso del mondo; b) nello stesso anno la Francia sperimenta un indice pari a 1,82 e la Svezia un indice pari a 1,87, superiore cio a quello di tutte le regioni italiane compresa la Campania che rappresenta il massimo italiano con 1,80 figli per donna.

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Ci che ci si chiede : levoluzione osservata riflette un calo altrettanto drammatico anche nelle tendenze di fondo, o non si tratta ancora una volta di effetti perturbatori della cadenza dei matrimoni e/o delle nascite? E in questultimo caso, quali sono le variabili maggiormente influenti? possibile che la fecondit delle coorti italiane sia scesa al di sotto di quella dei livelli della maggior parte dei paesi europei, dove tra laltro in atto una disaffezione per listituto del matrimonio che non paragonabile con quella dellItalia? Come si differenziano questi fenomeni a livello regionale? Nel 1979, nellambito della World Fertility Survey, si realizza in Italia la prima Indagine nazionale sulla fecondit (INF/1), condotta da ricercatori delle Universit di Firenze, Padova e Roma e riguardante un campione di 5499 donne non nubili in et 18-44 anni e 845 mariti. Essa costituisce unoccasione unica per lo studio del comportamento riproduttivo delle generazioni pi recenti, che i due volumi del Rapporto generale (De Sandre, 1982a; Rossi, 1982) e la serie di monografie successivamente pubblicata, comunque ponderosi, solo in parte riescono a esprimere. Il dettaglio fornito sulla storia delle gravidanze (data di esito, durata, tipo di esito, notizie sul parto e cos via) e dei matrimoni (data di inizio e conclusione, tipo di conclusione) consente a diversi autori (Bonarini, 1982; 1984a; De Sanno Prignano e Natale, 1984) di approfondire alcuni aspetti della dinamica della fecondit legittima e di confrontarla con quella ricavabile dalle statistiche ufficiali. Bonarini (1984a) in particolare evidenzia come, in assenza di prove definitive di distorsione dei risultati dovuti alla sostituzione delle donne del campione, si possa ipotizzare che tra le coniugate sia in atto un calo nel tempo dellinfecondit. I pi interessanti tentativi di interpretazione della dinamica corrente delle fecondit italiana, specialmente degli anni a cavallo del 1980, sono per ancora una volta espressione di riflessioni su dati rilevati dalle statistiche ufficiali. Linteresse per le tavole di fecondit non nuovo. Gi prima del 1970 lIstat aveva provveduto a costruire misure di fecondit per et della donna al matrimonio e durata dello stesso basandosi su informazioni raccolte in occasione del censimento del 1931 (Istat, 1936) e lIstituto di statistica di Firenze aveva prodotto tavole di fecondit dei matrimoni per lItalia (Istituto di statistica di Firenze, 1968). Negli anni settanta tavole di fecondit per matrimoni e per coorti vengono messe a punto rispettivamente dellIstat (1974) e da Santini (1974b). Del secondo lavoro si gi detto. Di quello dellIstat opportuno ricordare che, sfruttando informazioni presenti nel foglio di censi-

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mento del 1961, per la prima volta vengono presentate tavole di fecondit matrimoniale che analizzano il fenomeno congiuntamente per generazione di matrimonio (1906-61), et al matrimonio e durata di matrimonio, introducendo anche elementi di differenziazione legati a variabili socio-economiche. Dopo gli anni ottanta sono ben cinque i tipi di tavole di fecondit che vengono proposte da diversi autori. Le tavole pubblicate dallIstat (1982b) si caratterizzano per la capacit di offrire un quadro dettagliato a livello territoriale della fecondit per contemporanei tra il 1952 e il 1979 (per la prima volta sono stati eleborati quozienti per singola et della madre a livello di regione). Quelle di Ventisette (1985 e 1986) e Breschi (1984) analizzano in dettaglio la fecondit matrimoniale: il primo autore con riferimento alle coorti di matrimoni celebrati tra il 1930 e il 1981; il secondo con riferimento a quelli celebrati tra il 1954 e il 1979, tenendo conto anche degli effetti delle dissoluzioni civili e naturali dei matrimoni. Le tavole costruite da De Simoni (1989 e 1990), invece, approfondiscono la fecondit per contemporanei di due periodi (1980-82 e 1985-87), congiuntamente per ordine di nascita ed et della madre al parto, evidenziando anche caratteristiche differenziali tra centronord e meridione dItalia. Il lavoro di De Santis (1989) si differenzia dai precedenti perch, a seguito delladozione del metodo own-children (Cho e Feeney, 1978), fa uso esclusivo di dati di censimento (in questo caso un campione del 2% del censimento del 1981). Il metodo, la cui applicazione stata pi volte sollecitata da Colombo (1982) e che aveva gi trovato impiego per lo studio di popolazioni territorialmente circoscritte (si veda anche iL paragrafo 2.4), consente allautore di costruire indicatori di fecondit con dati ricavati da indagini trasversali in cui sia possibile attribuire i giovani con meno di quindici anni alle loro madri e di pervenire alla costruzione di tavole di fecondit per contemporanei e per generazioni, differenziabili, tra laltro, secondo caratteristiche socioeconomiche rilevate nel censimento. Lapplicazione del metodo porta inoltre alla costruzione di misure di fecondit anche maschile, di cui nei ventanni considerati si trova traccia precedente in un solo contributo (Pennino e Pennino, 1975). Dallinsieme di questi lavori emerge un quadro piuttosto articolato, anche se per certi aspetti non definitivo, delle caratteristiche e delle tendenze di struttura della fecondit italiana nella seconda met del secolo. Lanalisi del comportamento riproduttivo per contemporanei (De Simoni, 1990) chiarisce che, pur con differenze regionali, la riduzione della fecondit dellultimo decennio si esprime con uno slittamento verso gli ordini di nascita pi bassi e un innalzamento dellet media al parto che

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interessa un po tutti gli ordini, ma particolarmente accentuato in coincidenza del primo. Due lavori di Santini (1986b; 1988) descrivono bene le restanti caratteristiche della fecondit italiana di questo periodo. Nel secondo, in particolare, esse sono cos riassunte: a) il declino della fecondit non si mai interrotto lungo tutte le generazioni nate dal 1917 alla met degli armi cinquanta; b) il calo di tale fecondit dovuto in un primo tempo alla sola flessione della fecondit legittima e successivamente al combinarsi di questa con una ridotta e ritardata propensione a sposarsi; c) le (talora forti) oscillazioni degli indici di fecondit annuali sono il risultato di anticipazioni (prima) e di ritardi (poi) nella cadenza della fecondit legittima e della nuzialit. 2.3. Determinanti non demografiche di fecondit In Italia lassenza di una tradizione di indagini campionarie sulla fecondit ha per lungo tempo rallentato lo sviluppo di ricerche intese ad approfondire la dinamica del comportamento riproduttivo in funzione di variabili di natura sociale, economica e culturale. La maggior parte dei lavori degli anni settanta analizza i differenziali di fecondit su dati delle statistiche ufficiali e come tale si limita ad approfondire le relazioni del fenomeno con approssimazioni relativamente semplici dello stato socio-economico della popolazione (livello di istruzione, condizione professionale, posizione nella professione). Salvo qualche eccezione (Galli Parenti nel 1974 analizza la relazione tra fecondit e condizione occupazionale della donna con dati delle schede di nascita del 1961), le riflessioni sul tema sono alimentate da dati censuari. Quesiti sulla storia procreativa delle donne sono inseriti nei censimenti del 1931, 1961 e 1971. Lindagine Istat sulla fecondit della donna abbinata al censimento del 1961 costituisce la principale fonte ufficiale per Io studio di aspetti differenziali della fecondit matrimoniale. Da questi dati si ricava che i livelli pi alti di fecondit si registrano presso le donne analfabete, presso le non occupate e, tra le occupate, presso quelle impegnate in agricoltura, che comunque esprimono i livelli di fecondit pi alti (Istat, 1974; Livi Bacci, 1977; Ciucci e De Sarno Prignano, 1974). Pi recentemente, anche i dati del censimento del 1981 hanno trovato modo di essere utilizzati per analisi differenziali di fecondit. Del lavoro di De Santis abbiamo gi accennato nel paragrafo precedente. Qui

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preme sottolinare che, pur con alcune perplessit dovute allimpossibilit di standardizzare per durata del matrimonio e di conoscere lesatta dimensione della variabile socio-economica al momento della prolificazione, lautore individua alcune relazioni per la generazione di nate nel 1947: a) la fecondit continua a mantenersi massima per le attive in agricoltura, seguita nellordine da quella delle casalinghe e delle lavoratrici in altri settori; b) la fecondit decresce al crescere del titolo di studio della donna; c) una fecondit pi elevata caratterizza le donne che tra il 1977 e il 1981 (periodo preso in considerazione dal quesito censuario) hanno abbandonato lattivit lavorativa o cambiato residenza. Il lavoro di Brunetta e Rotondi (1989) va invece ricordato per il metodo utilizzato (analisi a livello macro dei valori dellindice di fecondit legittima di Coale per le diverse regioni italiane in funzione di indicatori di natura socio-economica e politica) e per le differenze rilevate nei comportamenti regionali, che confermano lipotesi gi avanzata da Liv. Bacci (1977) per cui le ripartizioni italiane si differenziano anche quando vengono controllate variabili ritenute usualmente discriminanti delle caratteristiche sociali, economiche e culturali di una popolazione. Agli inizi degli anni settanta lIstituto di demografia di Roma conduce tre indagini campionarie che rappresentano per il nostro paese il primo tentativo del secondo dopoguerra di approfondimento organico delle relazioni tra fecondit e alcune variabili socio-economiche (del primo dopoguerra ricordiamo le ricerche sulla natalit differenziale delle varie categorie sociali di Gini, 1922 e di Livi, 1927; pi recentemente, una ricerca di Bruno, 1965, analizza il comportamento differenziale osservato nei comuni secondo il grado di urbanit-ruralit). La prima indagine, del 1969, viene effettuata su un campione casuale di 2236 donne in et 18-45 anni residenti in sei comuni tipici del nord e del sud dItalia (un comune urbano e due comuni rurali del Piemonte e altrettanti della Calabria); la seconda, condotta nel 1972, si riferisce a un campione di 2994 coniugate in et 21-45 anni residenti in tre grandi centri urbani (Milano, Napoli, Palermo); la terza, realizzata nel 1973, riguarda invece 3893 donne ricoverate per parto nelle cliniche ostetrico-ginecologiche dei tre maggiori ospedali di Roma. Le indagini, che considerano numerosi elementi di contesto, difficilmente esaminabili con dati provenienti da statistiche ufficiali (atteggiamenti delle donne nei confronti di procreazione, contraccezione e lavoro; conoscenza e pratica del controllo delle nascite; condizioni economiche e lavorative e cos via), offrono anche interessanti spunti di ricerca

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circa le relazioni tra fecondit e condizione socio-economica (Bielli et al., 1973), fecondit e migrazione (Pinnelli, 1972), fecondit e inurbamento (Bielli et al., 1975). Sul fronte della relazione tra fecondit e lavoro della donna le indagini consentono approfondimenti pi mirati. In un articolato saggio su procreazione, famiglia e lavoro di qualche anno pi tardi, Federici (1984b), svolgendo una rassegna critica delle principali teorie interpretative del declino della fecondit (Easterlin, new home economics, teoria dei sette ruoli e altre ancora), osserva che nella maggior parte dei casi si chiama in causa il ruolo della donna e la sua condizione di lavoratrice extradomestica. Ma in che misura lattivit lavorativa della donna si lega al processo riproduttivo? possibile cogliere il fenomeno senza farsi fuorviare da altri fattori quali il livello di istruzione o la condizione economica? E come si pu controllare il fatto che esiste uninterazione tra fecondit e attivit extradomestica? Le indagini consentono di approfondire alcuni di questi aspetti. In linea di massima (fanno eccezione particolari tipi di lavoro pesante e situazioni in cui loccupazione si innesta in condizioni di precario equilibrio psico-fisico della donna), il lavoro extradomestico della donna, se svolto nel rispetto delle norme legislative in materia di tutela della maternit, non comporta effetti negativi sullo svolgimento e sullesito della gravidanza e del parto (Maffioli, 1980). Il lavoro della donna ha per conseguenze sulle decisioni riproduttive. Coerentemente con i risultati di un precedente studio condotto da Federici (1967), sulla base di statistiche ufficiali, possibile trovare conferme allipotesi che la correlazione inversa tra lavoro femminile e fecondit ha origine nel momento in cui il primo entra in conflitto con il ruolo tradizionale della donna (Bielli et al., 1973). Nel 1979 lINF/1 (si veda anche il paragrafo precedente) costituisce un progresso in tema di rilevazione di dati per lo studio della fecondit. Con lindagine, oltre alla storia delle gravidanze e dei matrimoni, si pongono alle donne anche quesiti retrospettivi sulla storia contraccettiva (in alcuni intervalli tra gravidanze) e sulla partecipazione allattivit lavorativa (nei primi tre intervalli fra nati vivi) e quesiti di contesto e di opinione, che tentano di tradurre in coerente fabbisogno informativo una serie di riflessioni maturate fino a quel momento circa le modalit di approccio allo studio empirico delle determinanti di fecondit. I dati dellINF/1 riaprono il dibattito sulla relazione tra fecondit e lavoro della donna: Federici (1984a) discute delle implicazioni concettuali che un tale studio comporta e presenta uno schema in cui vengono

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evidenziate le connessioni tra le molteplici variabili in gioco; Salvini (1984) individua invece, con unanalisi di tipo descrittivo, una (relativamente debole) relazione negativa tra dimensione familiare e impegno extradomestico della donna anche quando si standardizza per durata del matrimonio e livello di istruzione. La numerosit e la natura delle informazioni rese disponibili dallINF/1 costituiscono per anche uno stimolo alladozione di nuovi, pi complessi strumenti di analisi dei fenomeni. Negli ultimi dieci anni i dati dellIndagine sulla fecondit hanno costituito materiale insostituibile per una serie di lavori tendenti ad approfondire con strumenti di analisi alternativi linsieme delle relazioni tra fecondit e sue determinanti non demografiche. Tra questi, ricordiamo in particolare le tecniche di path analysis e i modelli per lanalisi di dati di sopravvivenza (hazard models) con variabili esplicative. La path analysis, in combinazione con analisi delle corrispondenze multiple, viene applicata da Pinnelli (1984) con lintento di verificare lipotesi che la fecondit dipenda dallinfluenza di norme riguardanti la riproduzione prevalenti nellambiente e dalla condizione socio-economica individuale. Tecniche di path analysis vengono utilizzate da Salvini (1985 e 1986) anche per studiare pi in dettaglio la reciprocit dei legami che sussistono tra fecondit e lavoro della donna. La dinamica di fecondit per intervalli tra le nascite viene approfondita con metodi per lanalisi di dati di sopravvivenza. Applicando un modello di Cox con variabili esplicative ai primi tre intervalli fra le nascite, De Rose (1988) e Ongaro (1991) analizzano come varia il rischio relativo di avere un nato vivo rispettivamente di primo, secondo o terzo ordine in funzione di una serie di caratteristiche demografiche e socioeconomiche delle intervistate. Un approfondimento dello studio con riferimento al primo intervallo (Ongaro, 1991), mentre precisa ulteriormente le relazioni tra variabili di background socio-economico, variabili intermedie (in particolare contraccezione) e rischio di avere un primo nato vivo, discute la validit dei risultati e propone soluzioni pi articolate di analisi del fenomeno. 2.4. Fecondit in gruppi circoscritti di popolazione Lo studio del comportamento riproduttivo di gruppi particolari di popolazione importante non solo di per se stesso. Lesame della fecondit di tali popolazioni pu costituire anche uno strumento utile per avere conferma o per lo sviluppo di nuove ipotesi di ricerca, soprattutto se i gruppi considerati sono sospettabili di esprimere elementi di natura

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etnico-culturale e/o politico-organizzativa non facilmente rilevabili in forma diretta. Questa interpretazione, pur con le debite precauzioni, pu essere allargata anche alle popolazioni individuate con criteri geograficoamministrativi. Lo studio dei fenomeni demografici presso popolazioni particolari trova tuttavia un limite nella disponibilit di dati. Lassenza di indagini campionarie ad hoc condiziona lo studio allanalisi delle popolazioni individuabili con i dati raccolti nel corso di rilevazioni ufficiali, con la conseguenza che la maggior parte di esse sono identificate sulla base di criteri geografico-amministrativi. Eccezioni a questa regola sono, per motivi diversi, i lavori di Della Pergola (1970; 1980; 1983) su alcune comunit ebraiche della diaspora e il lavoro di Manese (1986) che, utilizzando dati delle schede di nascita Istat del 1984, analizza alcune caratteristiche della fecondit dei cittadini stranieri del comune di Roma. Numerose sono le ricerche che approfondiscono il comportamento riproduttivo di popolazioni locali con dati di provenienza statisticoamministrativa: Bellettini (1972; 1975) studia con dati del censimento 1961 la fecondit differenziale (per generazioni di matrimonio, luogo di nascita, titolo di studio, condizione socio-professionale) delle donne coniugate con pi di 45 anni residenti nel comune di Bologna; Orviati (1976) approfondisce la fecondit legittima (in particolare la durata dellintervallo protogenesico) delle residenti nel comune di Trieste in vari periodi che vanno dal 1930 al 1971; Riva (1982) analizza la fecondit differenziale (durata di matrimonio, titolo di studio, luogo di nascita, attivit lavorativa) della popolazione di Vercelli; Schiaffino (1974) studia la fecondit differenziale su dati del censimento del 1961 delle donne coniugate di Carpi che hanno compiuto 45 anni; Lauro et al. (1986) ricostruiscono la fecondit per contemporanei della popolazione della Lombardia per gli anni 1972-80 su dati correnti e di censimento. Questa produzione si arricchisce negli anni ottanta con limpiego del metodo own-children negli studi a carattere locale. La prima applicazione del metodo a dati italiani relativa alla popolazione dellAlto Adige. Sfruttando il quesito sullappartenenza al gruppo linguistico inserito nel censimento del 1971 per i residenti in provincia di Bolzano, Colombo, Maffenini e Rossi (Colombo et aL, 1983; Maffenini e Rossi, 1984) studiano la fecondit differenziale dei tre gruppi etnici (italiano, tedesco e ladino) ed evidenziano le sensibili (seppure in via di attenuazione) differenze nella cadenza e nei livelli di fecondit esistenti tra la popolazione di lingua italiana, da un lato, e quelle di lingua tedesca e ladina, dallaltro. In seguito, numerosi altri lavori applicano il metodo con la doppia finalit di valutare le potenzialit dello strumento e di cogliere ulteriori

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elementi informativi su fenomeni poco noti. Tra essi ricordiamo i lavori di Rossi e Calovi, Dalla Zuanna e Clerici. Lapplicazione del metodo alla popolazione del comune di Trento (Rossi e Calovi, 1987) non permette solo di confermare con dati di censimento del 1971 e del 1981 linfluenza sul comportamento riproduttivo di variabili quali il titolo di studio, la condizione occupazionale, la mobilit territoriale e quella professionale. Con essa gli autori pervengono anche a una serie di considerazioni di ordine tecnico circa la validit del metodo. Unanaloga ricerca su dati di censimento del 1981 della provincia di Milano (Clerici, 1987; 1988; 1989) permette di indagare con maggiore dettaglio sullevoluzione degli indici di fecondit congiunturali tra donne lavoratrici e non e, pur con alcune cautele legate alla mancata temporalizzazione di alcune variabili esplicative, di avanzare interessanti ipotesi interpretative circa le componenti di tale trend. Su questa stessa linea, Dalla Zuanna (1989) propone di studiare la fecondit femminile in popolazioni circoscritte territorialmente (nel lavoro si considerano alcune realt del Veneto), sia applicando il metodo own-children agli archivi anagrafici, sia ripartendo gli iscritti per nascita alle anagrafi secondo la distribuzione delle partorienti in ospedale per et e stato civile ricavata dai dati di dimissione ospedaliera. 2.5. Uno sguardo dinsieme Lesame della produzione del ventennio 1970-90 in tema di fecondit configura un contesto estremamente fluido in cui, a fianco di una consistente riflessione ispirata alla tradizione degli studi demografici italiani, si fanno strada nuovi approcci allapprofondimento della fecondit sollecitati dai pi articolati bisogni conoscitivi maturati di recente sul fenomeno. La tradizione (magari aperta a elementi di innovazione come nel caso del metodo own-children o alluso di fonti alternative di natura amministrativa) ben rappresentata dalla robusta produzione di studi a carattere descrittivo condotti spesso a livello macro con dati di provenienza statistico-amministrativa (si veda analisi sulla struttura e sulle determinanti demografiche del comportamento riproduttivo e, in particolare, la ricca produzione di tavole di fecondit). Con essa si approfondiscono anche aspetti particolari della fecondit, come nel caso dei concepimenti prenuziali (Bonarini, 1981; Natale e Pasquali, 1975a; De Sarno Prignano, 1985). Elementi di tradizione si esprimono nel perdurante interesse per la ricerca di soluzioni tecniche volte a rendere sempre pi utilizzabili sul

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piano scientifico i dati provenienti dalle rilevazioni ufficiali. Lo sforzo non volto solo in direzione del miglioramento delle procedure di raccolta, spoglio e pubblicazione dei dati (si ricorda che lIstat stesso, a partire dallinizio degli anni ottanta, ha avviato alcuni tentativi di modificazione delle modalit di pubblicazione e di presentazione dei dati delle statistiche demografiche, con lintento di renderle pi compatibili con le esigenze dei ricercatori). Un forte investimento stato prodotto anche sul piano della valutazione della qualit dei dati e dellindividuazione critica di soluzioni tecnico-metodologiche che consentano un uso sempre pi efficiente delle fonti statistico-amministrative. Numerosi sono i lavori che presentano riflessioni di questa natura. Tra questi ricordiamo quelli di Natale e Pasquali (1974; 1975b), Lenzi (1980), Lombardo (1980), De Bartolo (1982), De Simoni (1982), Breschi et al. (1982), De Sarno Prignano (1985), Bonarini (1987). In qualche misura espressione della tradizione anche il precipuo interesse per Io studio della fecondit nazionale. Di numero relativamente contenuto, e per la stragrande maggioranza relativi a circoscrizioni sovrannazionali, sono infatti i lavori che analizzano il fenomeno con riferimento a paesi a bassa fecondit. Tra questi, ricordiamo quelli di Papa (1978) e Chiassino (1978) sulla fecondit dei paesi europei, quello di Livi Bacci e Ventisette (1980) sul comportamento riproduttivo delle adolescenti, quello di Santini (1986a) sulle aree problematiche di fecondit in Europa e quello (peraltro con incursioni storiche) di Petrioli (1984) sulla fecondit della Finlandia. Recente invece linteresse per la fecondit nei paesi in via di sviluppo. I problemi di ordine tecnico che comporta la rilevazione di dati sulla fecondit in quei paesi sono discussi da Maffioli e Giunti (1990). Riflessioni nel merito del fenomeno riguardano invece paesi dellarea mediterranea. Un primo lavoro di Livi Bacci (1988) analizza il problema della crescita demografica sotto molteplici aspetti, compreso quello della fecondit. I due lavori di Salvini (1988 e 1990) sono invece centrati sulla fecondit: il primo riguarda il comportamento riproduttivo della Tunisia, il secondo quello dei paesi del Mediterraneo sud-orientale. Meno organica nei contenuti e nelle linee evolutive invece la riflessione ispirata alle pi complesse esigenze di studio della fecondit emerse in questi ultimi decenni. Larticolazione delle problematiche e degli sviluppi teorici e metodologici oggetto di ampia e approfondita discussione (De Sandre, 1986 e 1987). Limpegno pi consistente in questo senso si ha probabilmente sul fronte delle strategie di rilevazione dei dati. LINF/1 rappresenta, a tale proposito, unoccasione importante di aggancio al dibattito interna-

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zionale, per quanto riguarda sia laspetto della complicazione degli schemi concettuali necessari a spiegare la fecondit dei paesi sviluppati, sia le modalit di osservazione della realt. Elementi qualificanti dellindagine sono: a) la possibilit di mantenere il riferimento individuale; b) lattenzione per la rilevazione delle variabili intermedie (abortivit, contraccezione, sterilit, nuzialit); c) il tentativo di individuare percorsi evolutivi nellottica di una osservazione dinamica degli eventi; d) la rilevazione di nuove variabili tradizionalmente trascurate quali il contesto delle risorse organizzative della donna (servizi pubblici, aiuti non strutturati, distibuzione dei compiti familiari e cos via) e i suoi riferimenti culturali e di valore. Da questa esperienza trae beneficio, fra laltro, lintero sistema delle statistiche nazionali, se vero che di l a poco tempo lo stesso Istat varer un nuovo programma di indagini campionarie sulle famiglie (si veda Indagine sulle strutture e i comportamenti familiari, 1983 e successive Indagini multiscopo), ispirato a una logica di osservazione adottata per la prima volta nellambito dellINF/1. Pi eterogeneo , invece, il dibattito sullinterpretazione e analisi dei dati. Rispetto alle ipotesi interpretative della dinamica calante della fecondit, emerge soprattutto il bisogno di valutare in termini critici quelle avanzate a livello internazionale (Bielli, 1983; Federici, 1984b). Sul fronte delle metodologie di analisi la riflessione pi articolata, ma anche pi eterogenea. Alcuni temi (peraltro di estremo interesse per la ricerca del settore) sono ancora legati pi a specifici interessi dei singoli ricercatori che a un dibattito vero e proprio. Tra questi, ricordiamo i lavori sui modelli instabili per tener conto dei possibili cambiamenti di fecondit sviluppati da Micheli (1985 e 1988); quelli di Petrioli (1975 e 1978) e di Petrioli e Menchiari (1986) sui modelli e sulle tavole di fertilit per la popolazione italiana costruite mediante una funzione di Gompertz; quello di Tonini (1988), sullanalisi e previsione delle nascite mensili con modelli usati per lanalisi delle serie temporali. Lapplicazione di metodi di analisi pi complessi, in particolare di tipo regressivo (hazard models, path analysis) sui dati dellINF/l ha dato il via, peraltro, a un dibattito estremamente stimolante non solo per quanto riguarda la possibilit di conferme o di precisazioni di ipotesi avanzate con tecniche di analisi demografica pi semplice. Essa ha alimentato anche la riflessione a livello di approfondimento delle potenzialit degli strumenti tecnici e a livello di qualit e natura dei dati ne-

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cessari per lo studio della fecondit nel nostro paese e, pi in generale, nei paesi a bassa fecondit. Il tema delleffetto delle variabili intermedie, in particolare, oggetto di unarticolata discussione. Lavori che organizzano variabili di questo tipo allinterno di modelli complessi si trovano in Palloni (1984) e in Palloni e Kephart (1989). Ma su questo fronte ancora carente la disponibilit di informazioni. Lassenza di dati pi precisi sulla contraccezione, la sostanziale mancanza di controllo e di conoscenze degli aspetti biometrici della fecondit (a questo argomento attribuibile un numero esiguo e molto eterogeneo di lavori, tra cui ricordiamo quelli di Pinnelli, 1973, e di Marchesi e Cittadini, 1976), sono elementi richiamati pi volte nella discussione di risultati di incerta interpretazione emersi con lapplicazione di modelli di varia natura (Rindfuss et al., 1987; Palloni, 1984; Ongaro, 1991). La prossima Indagine nazionale sulla fecondit (INF/2) raccoglier sicuramente i frutti di questo lavoro. I criteri che stanno guidando la scelta della popolazione di riferimento (campionamento di donne, uomini e mariti; estensione dellindagine anche alle nubili) e la natura dei quesiti previsti per il questionario (rilevazione di informazioni relativamente dettagliate sulla storia delle convivenze, dei matrimoni, delle gravidanze, della contraccezione, della formazione scolastica e lavorativa della donna; attenzione particolare agli aspetti di formazione delle decisioni e di valore che sorreggono tali decisioni e cos via) ne rappresentano gi una conferma. 3. Controllo e pianificazione dei concepimenti Per affrontare il tema della contraccezione in Italia nel corso dellultimo ventennio, conviene prendere le mosse da un articolo di Lombardo (1966) che, ancora a met degli anni sessanta, constatava la scarsa documentazione statistica su tale argomento. In effetti, nel suo tentativo di analisi statistica del fenomeno parafrasandone il titolo egli non trovava informazioni pi esaurienti di quelle relative a un gruppo di 277 donne coniugate (immigrate dalle regioni del centro-nord) e che avevano frequentato il consultorio dellAied di Roma. Tre quarti delle donne riferivano di controllare sistematicamente le nascite e quasi nove su dieci di queste ultime ricorrevano al coito interrotto. Tale tipo di documentazione relativo a gruppi particolari di donne avvicinate pur con approcci diversi, ma tali da non dare garanzia di rappresentativit statistica si incontra frequentemente, anche in anni pi recenti: se ne possono trarre quadri difficilmente generalizzabili, ma

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pur utili per avere indicazioni da sviluppare successivamente. Alcuni esempi pi significativi sono: lo studio di Palmieri (1966), il quale riferiva delle pratiche contraccettive di 300 coppie napoletane avvicinate in occasione di consultazioni mediche specifiche; quello di Montanari (1967), che esponeva i risultati di unindagine effettuata tra gli operai e le operaie di unazienda di Faenza; le due indagini, di pi ampio raggio, condotte dallIstituto di demografia di Roma nel 1969 (Bielli et al., 1973) e nel 1972 (Bielli et al., 1975), con campioni probabilistici della popolazione di alcune zone tipiche dellItalia settentrionale e meridionale; la ricerca realizzata nel 1976-77 da Fabris e Davis (1978) sul comportamento sessuale degli italiani, con un campione per quote di duemila interviste somministrate a uomini e donne tra i 18 e i 64 anni di et; e infine, unindagine pi recente attuata nel 1979-80 tra le donne frequentanti i consultori o i centri di pianificazione familiare ventisei in tutto di sette regioni italiane (Landucci Tosi et al., 1981). In ogni caso, solo lindagine nazionale sulla fecondit (INF/1) effettuata nel 1979 (De Sandre, 1982a) la prima vera occasione e unica fino a ora che consente di fornire un quadro pi preciso e meno approssimato sulla contraccezione in Italia. Pur con alcune limitazioni che possono derivare dallalto tasso di non risposte e dal fatto che sono state intervistate solo le donne coniugate, questa inchiesta costituisce un punto di riferimento dal quale non si potr prescindere anche in futuro. In tale ambito viene esplorata la conoscenza sulla contraccezione e luso effettuato sia in passato con riferimento a intervalli definiti tra gravidanze sia nellintervallo aperto tra lultima gravidanza (o il matrimonio, se nulligravida) e lintervista. Inoltre, limitatamente a un gruppo di donne, sono stati intervistati anche i relativi mariti (con un altro questionario distinto), pervenendo a un sottogruppo di unit caratterizzato dalle risposte di entrambi i coniugi. Nella tabella 1 sono riportati sinteticamente alcuni dei risultati salienti derivanti da questa indagine. Essi evidenziano come luso dei vari metodi contraccettivi in Italia sia fortemente consolidato nel tempo e in armonia con quanto veniva suggerito dai risultati gi emersi dalle precedenti ricerche. Decisamente prevalente il coito interrotto: il 67% delle intervistate lo ha usato e quasi il 60% delle donne non incinte al momento dellintervista continua a farne uso. Frequente limpiego combinato di pi metodi che riguarda quasi un quarto delle donne non incinte. Modesto luso della spirale e anche quello della pillola, la cui quota di uso del 7% quando non la si considera in associazione con altri metodi e risulta pressoch doppia in caso di uso congiunto. I metodi naturali hanno una diffusione pi o meno analoga a quella della pillola ma, da soli senza altri contraccet-

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tivi riguardano il 4% delle donne non incinte al momento dellintervista. Pressoch assente la sterilizzazione volontaria. Si vede dunque che luso dei metodi che comunemente vengono definiti moderni (come sinonimo di pi efficaci) pillola, IUD, sterilizzazione riguarda appena il 10% delle donne esposte al concepimento o poco pi del 15%, quando si considerano anche nel loro uso misto con altri metodi. La diffusione di questi ultimi tre contraccettivi ha realizzato quella che viene definita la seconda rivoluzione contraccettiva la prima sarebbe quella che ha fatto perno sul coito interrotto e che ha portato dagli alti livelli di fecondit del secolo scorso ai bassi livelli degli anni sessanta o comunque la rivoluzione contraccettiva tout-court (Westoff e Ryder, 1977). Con questa specificazione si vuole indicare un cambiamento radicale da una contraccezione di arresto della fecondit cui si ricorre quando si realizzata la dimensione voluta della prole a una contraccezione di copertura continua dalle gravidanze, indipendentemente dal rapporto sessuale in s, dalla quale ci si sottrae quando si deciso di intraprendere una gravidanza. Lazione positiva spostata dal controllo della fecondit allinterruzione della contraccezione per realizzare la fecondit. La diffusione di questi metodi contraccettivi efficaci metodi femminili, peraltro avrebbe consentito la realizzazione della seconda transizione demografica (Van de Kaa, 1987), caratterizzata dallattuale bassa fecondit, inferiore a quella di sostituzione, che contraddistingue gi tutti i paesi del mondo occidentale. Tuttavia, si fa fatica a conciliare il basso livello di fecondit a tuttoggi raggiunto dallItalia tra i pi bassi mai osservati nel mondo con il quadro di una contraccezione, come quello presentato, che cos lontano dal modello che dovrebbe caratterizzare tale seconda rivoluzione. La deduzione pi immediata che debba necessariamente esserci stato un massiccio ricorso allaborto provocato. N, daltra parte, dopo lINF/1 del 1979 dovrebbero esserci stati radicali cambiamenti nel nostro paese, come suggeriscono risultati riportati nella seconda parte della tabella 1. Si possono caratterizzare meglio i comportamenti contraccettivi sottolineandone i cambiamenti negli intervalli tra gravidanze successive o comunque in fasi diverse della vita fertile delle donne. C continuit nelluso di uno stesso metodo contraccettivo tra prima e dopo una gravidanza sopravvenuta. Con i dati della INF/1 (Bonarini, 1989) si vede che in media sei donne su dieci continuano a usare lo stesso metodo dopo le gravidanze. Tale frequenza pi alta tra coloro che usano il coito interrotto o pi metodi congiuntamente, anche quando la gravidanza si verificata a seguito di fallimento del metodo. Anzi, in questultimo caso la perseveranza la pi elevata. Coloro che abbandonano luso di un

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metodo fosse anche la pillola o lo IUD prevalentemente si orientano o verso nessun uso della contraccezione o verso luso di metodi misti. Conformi a questi sono altri risultati ottenuti procedendo, attraverso lanalisi dei clusters, allindividuazione di profili riproduttivi tipici di gruppi di donne nel corso della loro intera vita matrimoniale. Almeno per i percorsi pi diffusi definiti rispetto alla frequenza duso della contraccezione e alla sua efficacia le differenze di comportamento tra i vari gruppi di donne si delineano fin dallinizio della vita riproduttiva e si mantengono nel seguito, nonostante le gravidanze avvenute. Per di pi questi comportamenti contraccettivi non sono riconducibili a variabili ben individuabili, ma sembrano legati a differenti intrecci di pi fattori (Maset, 1985-86). Non immediata la comprensione dei motivi delle scelte contraccettive, soprattutto quando c continuit nelluso di metodi poco efficaci in presenza di fallimenti e pur avendo accertata una diffusa conoscenza di metodi pi efficaci. Un pregiudiziale criterio di razionalit efficientistica che dovrebbe governare le scelte contraccettive delle donne, approdando allopzione per il metodo pi efficiente, porta ad analisi inconcludenti. Ci stato ben sottolineato dallindagine effettuata in Emilia-Romagna dal gruppo Lenove (1986). Utilizzando le interviste biografiche, raccolte nellindagine, vengono individuate delle strategie contraccettive nellambito pi ampio di strategie riproduttive, con unanalisi della successione temporale dei vari comportamenti, visti rispetto alle varie condizioni biografiche, agli aspetti relazionali e agli orientamenti culturali e psicologici. I profili emersi (Giacobazzi et al., 1989) vanno da un tipo tradizionale centrato su una concezione materno-familiare della stessa identit sessuale femminile (nellambito del quale si trova un uso massiccio dei contraccettivi non strumentali o farmacologici) a uno caratterizzato (allestremo opposto) da uninibizione della maternit poich linteresse della donna su di s prevalente e nellambito del quale si utilizzano pressoch tutti i metodi contraccettivi. Ce n un altro caratterizzato da elementi di mobilit e segnato da momenti pi o meno marcati di cambiamento si ha un prima e un poi spesso coincidenti con il clima sociale del femminismo degli anni settanta. Le scelte contraccettive di queste donne passano dai metodi tradizionali usati prima ai metodi femminili usati dopo. Infine, c un ultimo profilo nel quale la collocazione di tali eventi cruciali allinizio del ciclo di vita: qui la contraccezione orientata a provare tutti i metodi, scegliendo quelli che appaiono pi adatti al momento. Al di l del significato pi o meno generale di questi percorsi, si vuole sottolineare che i comportamenti contraccettivi difficilmente si com-

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prendono attraverso classificazioni tipologiche delle donne, ma che il mutare o meno delle strategie contraccettive si comprende se inquadrato nellambito del modificarsi di scelte di vita. Ritornando allindagine INF/1 del 1979, i risultati ottenuti mostrano che il livello complessivo della contraccezione (77% delle donne la usano) non inferiore a quello di molti paesi occidentali n, del resto, lontano dalla soglia massima che si ritiene osservabile. Le potenziali utenti della contraccezione togliendo le incinte, le sterili, quelle che sono alla ricerca di una gravidanza... sono stimate nellordine dell80% delle donne sposate e in et riproduttiva. Le differenze emergono,rispetto ai metodi usati. Per gli anni successivi al 1979 le informazioni frammentarie che possiamo ricavare dalle varie indagini effettuate su popolazioni particolari alcune delle quali sono riportate nella seconda parte della tabella ci danno indicazioni che, pur prese con le cautele gi evidenziate in precedenza, possono essere interessanti. Laumentato uso della pillola, che risulterebbe dalle statistiche delle vendite, non riguarderebbe le donne coniugate, ma eventualmente le non coniugate, almeno in Emilia-Romagna. La stessa percentuale duso (14%) dellEmilia-Romagna si trova in Puglia (anche qui calcolata tra le donne coniugate e non) mentre pi bassa nellindagine effettuata dallIHF (International Health Foundation, 1986). In questultima indagine c un eccesso di donne in et pi elevata e si registra unalta frequenza duso della spirale, cos come tra le coniugate dellEmilia-Romagna. Ci potrebbe indicare dei cambiamenti sopravvenuti, rispetto alla INF/1 del 1979, nella direzione di una contraccezione darresto spostata verso la spirale, cio verso un quadro analogo a quello che si verificato in Francia nel 1988. Naturalmente questo va verificato. La sterilizzazione anche dopo molti anni dallabrogazione della sua punibilit non pare abbia assunto livelli significativi, sulla base delle indicazioni che emergono dal campione della Puglia e da quello dellAied, anche se potrebbe essere la natura stessa dei collettivi analizzati a determinare questo risultato. Si pu segnalare per che unindagine promossa dai ricercatori della Terza Clinica ostetrico-ginecologica di Bologna ed estesa a tutti i centri ospedalieri e case di cura italiani non ha fatto registrare grosse frequenze di interventi effettuati in quelle sedi, anche se la frazione di non risposte stata elevata (Guerresi et al., 1987). Dalla tabella che stiamo analizzando si nota infine che luso di metodi misti continua a essere elevato e i metodi naturali sono pi impiegati in Emilia-Romagna che in Puglia. Un accresciuto interesse sul piano della ricerca hanno riscosso in questi ultimi anni i metodi naturali di controllo delle nascite, come testimonia

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fra laltro lattenzione che vi dedicata anche dalle riviste tradizionalmente orientate verso una pianificazione familiare basata su metodi moderni. Un breve riscontro pu essere la lettera di Hanna Klaus a Family Planning Perspectives (1989). Evidentemente le preoccupazioni per gli effetti collaterali legati alluso di contraccettivi ormonali - compresi quelli pi recenti tipo il Norplant - agiscono da spinta in questa direzione, a parte ogni altra considerazione di tipo etico. Per lItalia, di particolare significato larchivio di dati formato da Colombo con i dati raccolti da Marshall su un gruppo di donne londinesi. Queste ultime hanno annotato giornalmente, per pi cicli consecutivi, variabili importanti relative al ciclo mestruale. Tali dati possono essere utilizzati, ad esempio, per valutare lapplicabilit e laffidabilit delle varie regole che definiscono i metodi di pianificazione (Masarotto, 1989). E prima ancora si possono definire aspetti biometrici del ciclo, anche ai fini di una loro prevedibilit (Colombo, 1989; Masarotto, 1988). Su queste linee si sono articolate le prime ricerche, ancora in corso, coordinate da Colombo. Lindagine nazionale sulla fecondit del 1979 ha riguardato le sole donne coniugate e non furono intervistate n le divorziate n le nubili. Per queste ultime le informazioni di cui disponiamo sono frammentarie, ottenute dalle varie indagini su popolazioni circoscritte. Cos, ad esempio, nellinchiesta effettuata in Emilia-Romagna da Lenove si vede che tra le non coniugate di et tra 21 e i 40 anni la pillola usata pi frequentemente che tra le coniugate, ma non la spirale e il preservativo. Frequente anche tra queste il ricorso a metodi misti. Le altre indagini riportate nel prospetto, pur riferite a tutte le donne - non solo a quelle coniugate - non specificano i risultati rispetto allo stato civile delle intervistate. Linteresse particolarmente vivo sul comportamento delle adolescenti, le quali in certi paesi fanno registrare una frequenza annua elevata di gravidanze, fino a una ogni dieci donne (tra i 15 e i 19 anni di et), come negli Stati Uniti e in Ungheria. In Olanda e in Giappone ove si hanno i valori minimi - si ha un tasso di dieci volte inferiore (United Nations, 1988). Negli anni settanta in molti paesi si osserva una diminuzione dei tassi di gravidanza tra le adolescenti, nonostante laccresciuta percentuale di chi tra esse riferisce di aver avuto rapporti sessuali completi. per probabile che questi rapporti abbiano in genere un carattere di sporadicit e non siano molto frequenti - anche perch la coabitazione non certo una condizione prevalente tra queste donne - cos come pensabile che siano aumentate la contraccezione e luso di metodi pi efficaci

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(United Nations, 1988). In ogni modo la percentuale di primi rapporti sessuali completi non protetti pare elevata. Per lItalia, nella tabella 2 sono riportate le percentuali di giovani donne con rapporti sessuali completi, calcolate in alcune indagini pi significative. Non agevole combinare tra loro questi risultati, sia per le diverse classi di et di riferimento considerate nei vari casi, sia per la diversa natura dei collettivi analizzati. Le indicazioni sarebbero coTabella 2. Percentuali di adolescenti intervistati(e) che hanno riferito di avere avuto rapporti sessuali completi

(*) Tra parentesi il valore centrale della classe di et. (**) Stime ricavate sulla base delle distribuzioni percentuali per et e per sesso. (***) Stime riferite alle nubili.

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munque per una discreta variabilit territoriale e sembra anche di cogliere un aumento temporale di tali frequenze. Inoltre, la maggioranza delle donne che hanno avuto rapporti li ha iniziati prevalentemente prima dei 18 anni. Sono comunque tutte considerazioni fragili, come ben si comprende dal tipo di materiale presentato, tanto pi che le due indagini a carattere nazionale riportate nel prospetto - quella dellAied (1986) e quella dellAsper (Caf aro, 1988) - danno risultati troppo differenti per essere affidabili. 4. Abortivit Si detto in precedenza che una contraccezione qual quella praticata in Italia - cio basata essenzialmente sul coito interrotto - lascerebbe supporre che gli attuali bassi livelli della fecondit non avrebbero potuto essere raggiunti senza un ricorso allaborto provocato, fenomeno che gi prima del 1978 (quando ancora non era consentito dalla legislazione) doveva essere di dimensioni considerevoli. Negli anni che hanno preceduto lentrata in vigore della nuova normativa c stato un vivace dibattito sul numero degli aborti clandestini: furono avanzate stime che oscillavano da qualche milione a qualche centinaio di migliaia di aborti clandestini allanno (Fig Talamanca, 1976; Livi Bacci, 1975). Unanalisi critica delle varie valutazioni e della documentazione allora esistente contenuta in un saggio, ormai classico, sulla diffusione degli aborti illegali in Italia prima della liberalizzazione dellaborto (Colombo, 1976). In questo lavoro veniva mostrata la fragilit dei fondamenti di molte delle stime che circolavano e si sottolineava lesistenza in Italia di situazioni territorialmente e settorialmente cos diverse da rendere azzardata lestensione allintero paese di visuali ristrette. Il saggio si concludeva non tanto con una stima della diffusione degli aborti illegali quanto con lespressione di uno scetticismo maggiore verso cifre superiori ai centomila aborti allanno, piuttosto che verso cifre inferiori. Oltre a questa, ci sono altre occasioni significative - anche per il riferimento territoriale pi ampio - che possono aiutare a caratterizzare gli aspetti salienti dellabortivit negli anni precedenti la liberalizzazione dellaborto. La documentazione ufficiale sui casi di denuncia di aborto (ovunque avvenuto e accompagnato o meno da ricovero) prodotta daIlIstat e quella sulle prestazioni ostetriche domiciliari e ospedaliere, realizzata dallInam fino al 1975, costituiscono una fonte che, pur con le lacune derivanti dallomissione dei casi non denunciati e dalla qualifica di spontaneo attribuita agli aborti in realt comunque avvenuti, con-

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sente di seguire levoluzione temporale del fenomeno dal 1955 fino a ridosso del 1978. Tali statistiche sono state scarsamente utilizzate perch ritenute inattendibili. Analisi sono state effettuate, ad esempio, da Angerame e Barbieri (1979), Beggiato (1977-78) e Bonarini (1991). Da questa documentazione si ricava una generale stabilit della frequenza dellaborto nel corso del tempo (con alcune eccezioni) e inoltre una presenza pi elevata di aborti nelle regioni meridionali. La zona nord- orientale registra i valori minimi di abortivit (in particolare il Veneto e il Trentino-Alto Adige); i massimi valori si hanno in Puglia, in Umbria e in Sicilia. Gli stessi risultati delle INF/1 ribadiscono come la frequenza di aborti fosse pi elevata nel Mezzogiorno e come in tale area siano state pi numerose anche le donne che hanno avuto una o pi esperienze abortive. I valori pi bassi sono invece ancora nella zona nord-orientale. In media, si ha quasi un aborto ogni due donne nel corso dellintera loro vita riproduttiva. Questo risultato molto vicino a quello che si ottiene con i dati di unindagine multicentrica effettuata nei reparti ostetricoginecologici di otto tra citt e centri minori dellItalia centro-settentrionale e di uno del sud (Bari). Si tratta di una rilevazione di ricoveri avvenuti in questi reparti in periodi compresi tra il 1973 e il 1980 (Bonarini, 1984b e contributi di vari autori in IRP, 1985). I quattro momenti sopra richiamati il saggio e le tre indagini costituiscono i riferimenti principali per unanalisi dellepidemiologia dellaborto in Italia prima della normativa sullinterruzione volontaria della gravidanza (IVG). Sostanzialmente si trae un quadro coerente di un fenomeno abbastanza stabile nel tempo, di dimensioni non notevoli, con accentuati caratteri di differenziazione territoriale. Con la liberalizzazione dellaborto, avvenuta nel 1978, prende avvio un sistema informativo che trae origine dagli obblighi fissati nella stessa legge e si articola su due canali distinti che fanno capo, rispettivamente, allIstat e allIstituto superiore di Sanit. Questultimo produce uninformazione tempestiva sulle principali caratteristiche dellabortivit legale. Le elaborazioni dellIstat, invece, pi analitiche e ottenute dallo spoglio dei modelli individuali, sono aggiornate con tempi pi lunghi. Inoltre, molte regioni hanno curato con pi attenzione la rilevazione e hanno elaborato i dati di propria competenza. Si pu studiare una rassegna di tali iniziative nel volume curato da Sanna (1989). Lanalisi di questo materiale, ampiamente sviluppata, ha consentito di mettere a fuoco questioni importanti, a cominciare dalla dimensione del fenomeno. Il numero annuo di IVG stato nellordine delle duecentomila; dapprima aumentato fino al 1982, quando ha superato quota

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230.000, successivamente diminuito fino alle attuali 160.000 circa. Con tale ultimo numero di IVG si ottiene un livello di abortivit che, tra i paesi occidentali, tra i pi alti, inferiore solo a quelli di Svezia, Norvegia e Stati Uniti. Si comunque lontano dallordine di grandezza delle precedenti stime sullabortivit clandestina. Di fronte a questi risultati si sono delineate due posizioni. Da una parte stato osservato che la dimensione dellabortivit legale registrata dopo la liberalizzazione dellaborto non pu essere assunta come espressione dellabortivit clandestina realizzata prima del mutamento legislativo, poich nel frattempo cambiato il contesto entro cui le coppie possono agire (ad esempio Colombo, 1983). La disponibilit di un rimedio facilmente accessibile per i concepimenti non desiderati modifica le circostanze che influiscono sulla frequenza dei rapporti sessuali non protetti e costituisce una sollecitazione verso una sostituzione dei metodi contraccettivi attualmente usati. Ci sarebbe vero ancor pi per lItalia, ove la contraccezione basata soprattutto sul coito interrotto. Dunque, le circa duecentomila IVG annue non possono dimensionare labortivit clandestina degli anni anteriori al 1978, ma ne sarebbero una sovrastima. Da unaltra parte si osserva, invece, che il contenuto ricorso allaborto da parte della popolazione pi giovane e lesistenza di zone con bassi livelli di abortivit (concentrate soprattutto nel Meridione) insieme con altre zone a livelli elevati (Italia centrale e Puglia) sarebbero chiari indici della permanenza di unabortivit clandestina residua. La legge del 1978 avrebbe rimosso solo una parte dellabortivit illegale precedentemente realizzata. Si cercato anche di dare una valutazione del numero di aborti ancora praticati nellillegalit (Fig Talamanca e Spinelli, 1986), ma le cifre diffuse anche nelle Relazioni annuali del Ministero della Sanit sono ottenute con procedimenti basati su presupposti fragili e arbitrari. In realt, se pur le differenze territoriali mal si spiegano compiutamente senza supporre un certo ricorso alla clandestinit e le stesse denunce allautorit giudiziaria del resto testimoniano dellesistenza di tale fenomeno , queste differenze non si possono cancellare riconducendo a omogeneit i comportamenti in materia di aborto nelle varie regioni. Differenze regionali marcate esistono anche rispetto ad altri fenomeni demografici, come la fecondit e la nuzialit (Santini, 1986a). Indici di abortivit clandestina potrebbero essere cercati tra i ricoveri ospedalieri ove potrebbero confluire i casi seguiti da complicazioni o tra i decessi per aborto. Forse anche a causa dei ritardi accumulati nella disponibilit dei dati non si avuta unadeguata esplorazione in questa direzione. Quel poco che stato fatto non ha dato comunque indicazioni di unabortivit clandestina consistente. Daltra parte que-

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sta pista pu rivelarsi infruttuosa se gli aborti illegali sono ormai praticati in condizioni di massima sicurezza (Bielli, 1987). Per le scarne informazioni che abbiamo (ad esempio Aied, 1988) lascerebbero pensare, pur con cautela, che, almeno in alcune zone, questi aborti sarebbero ancora praticati in condizioni di fortuna e da personale non qualificato. Non mi risulta che in Italia si siano tentati approcci di stima degli aborti clandestini basati su tecniche di intervista che assicurino la non individuazione delle risposte, tecniche del tipo risposte randomizzate. Un altro aspetto che emerso dallanalisi dellabortivit legale e sul quale si rivolta lattenzione dei ricercatori la presenza di unelevata quota di casi di recidiva. Questa raggiunge quasi il 30% delle IVG annue. Ha sorpreso anche la rapidit della crescita di tale percentuale in tre anni, tra il 1981 e il 1984, raddoppiata e il fatto che i valori massimi si trovano nel Meridione, cio nelle zone ove registrato il livello di abortivit pi basso. Una crescita temporale della quota di recidive nelle attese, poich pi tempo passa dallentrata in vigore della legge, pi cresce la popolazione a rischio di una gravidanza ripetuta. Numerose sono state le applicazioni di modelli matematici quello di Tietze e jain (1978) o quelli pi generali di Tietze e Bongaarts (1982) e Blangiardo (1983) per giustificare la sorprendente evoluzione della situazione italiana: ad esempio, si vedano i Rapporti Istisan. Questi modelli possono fornirci un notevole aiuto per comprendere le caratteristiche del fenomeno delle recidive, poich ci mostrano che sia la loro alta percentuale, sia la loro rapida crescita temporale si spiegano plausibilmente solo nellipotesi di una elevata variabilit della propensione di ricorrere allaborto nelle varie categorie di donne. Alcune avrebbero una probabilit alta di abortire e lo farebbero con una certa sistematicit (Blangiardo, 1993; Bonarini, 1993). Uno studio specifico sullaborto ripetuto, effettuato analizzando le IVG di donne residenti in Emilia-Romagna, confermerebbe tale risultato anche in questa regione ove, peraltro, si ha una quota di recidive un po pi bassa della media nazionale (Pasquini, 1990). Lindagine stata condotta con un linkage sulle IVG praticate in Emilia-Romagna nel periodo 1979-85 e consente anche di ricavare una misura della distanza temporale tra aborti successivi di una stessa donna. Viene cos recuperata uninformazione che manca nella scheda Istat. In media lintervallo tra IVG di 22 mesi tra le donne con due IVG nel periodo considerato o anche pi breve tra le altre donne con un numero di aborti superiore. Oltre il 14 % delle IVG sono ripetute a meno di sei mesi dalla precedente. Di fronte a una tale spiccata ripetitivit dellaborto non sono mancati interrogativi sul motivo e sulle categorie di donne che ne fanno uso.

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Valga ad esempio il convegno di studi organizzato dalla Regione EmiliaRomagna nel 1986 i cui atti sono poi stati curati da Quintavalla e Raimondi (1989). Ancora con sorpresa ma in linea con quanto verificato anche in altri paesi occidentali si visto che laborto diffuso anche tra quelle donne che per condizione sociale o per grado di istruzione si ritenevano sufficientemente capaci di prevenire i concepimenti non voluti con una contraccezione adeguata. Inoltre, proprio nelle regioni ove pi diffusi sono i metodi contraccettivi pi efficaci, laborto stato pi frequente. Una connessione netta tra indicatori di benessere socioeconomico e livello di abortivit emersa da unanalisi di tipo ecologico effettuata da Blangiardo sul complesso delle province italiane (Movimento per la vita italiano, 1987). Alla luce di questi risultati, salta lo schema interpretativo che vede laborto come rimedio ai fallimenti di una contraccezione poco efficace come quella basata sul coito interrotto che praticata soprattutto dalle donne in condizioni socio-economiche pi disagiate. In primo luogo si cos cercato di conoscere le motivazioni che hanno spinto le donne ad abortire. Anche questa informazione non contenuta nel modello Istat, ma numerose sono le indagini effettuate nelle singole unit ospedaliere che hanno esplorato questo campo con domande dirette alle donne che hanno abortito. Si tratta di lavori che hanno una rappresentativit territoriale ristretta e di solito riguardano qualche centinaio di casi. Unampia rassegna di questi si pu vedere in Blangiardo (1993), ma due indagini hanno una dimensione pi ampia e maggior ricchezza di risultati, pur mantenendo una rappresentativit territoriale circoscritta. Una relativa allarea fiorentina (Marchiarmi et al., 1988) e unaltra stata effettuata in alcuni ospedali della citt di Napoli (Pane, 1988). Da questi due lavori e dagli altri si vede che le motivazioni pi spesso indicate per laborto sono di tipo socio-economico, affiancate da quelle legate a problemi familiari e di coppia. Scarse sono le motivazioni che si riallacciano alla tutela della salute fisica o psichica della donna. Si cercato anche di capire quale tipo di contraccezione stato usato dalle donne che abortiscono e in particolare al momento del concepimento. Coloro che non conoscono la contraccezione o non hanno mai usato alcun metodo sono una percentuale modesta. Molte donne hanno usato i metodi tradizionali (in armonia con quanto si gi visto dalle indagini sulla contraccezione), ma numerose sono coloro che in passato hanno comunque fatto uso di metodi efficaci. N mancano esperienze che riferiscono di abbandoni di una contraccezione pi efficace per una meno efficace nel periodo immediatamente precedente laborto. Insomma appare ben evidente che il problema dellaborto non riconducibile sem-

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plicemente a una questione di conoscenza della contraccezione e di scelta di un metodo pi efficace, ma investe luso della contraccezione in una realt personale complessa. Le gravidanze non volute sono legate anche alluso di una contraccezione non efficace, ma derivano anche da abbandoni della contraccezione e da situazioni di risk-taking. Difficilmente le analisi descrittive e anche linvestigazione delle cause dellIVG, come negli studi sopra ricordati, consentono di far luce sulle cause dellaborto e in particolare dellaborto ripetuto. Si pu escludere, in generale, che lIVG venga richiesta per motivi legati alla salute della madre e del nascituro, ma le cause riferite tutto sommato poco differenziate e ripetitive nelle varie situazioni esplorano solo le conseguenze di una situazione causale precedente che ha portato alla gravidanza. su queste situazioni che occorre indagare se si vuole comprendere il perch dellaborto. Questi punti sono stati ben evidenziati da Carini e Finzi (1987) in uno studio effettuato sui consultori milanesi. Da quanto precede segue esplicitamente che la relazione tra contraccezione e aborto difficilmente si pu porre in termini di un automatico legame inverso tra diffusione dei mezzi contraccettivi moderni e diminuzione del numero di aborti. A tal riguardo si pu aggiungere che laumento dellefficacia della contraccezione si accompagna a una diminuzione del numero delle gravidanze non desiderate ma di solito anche a un aumento del grado di determinazione ad abortire una eventuale gravidanza ci nonostante sopravvenuta. Per lItalia, una documentazione di questa diversit delle propensioni allaborto, condizionate al metodo contraccettico impiegato, si trova anche nei dati della INF/1 del 1979 (Rossi, 1982). Con tale meccanismo (pi uso della contraccezione, meno gravidanze accidentali, ma pi ricorso allaborto se queste sopravvengono) si pu giungere al paradosso di un aumento di aborti a seguito di un aumento della diffusione dei metodi contraccettivi pi efficaci. Un altro filone di studio pi abbozzato che avanzato riguarda le ripercussioni della liberalizzazione dellaborto sui vari fenomeni demografici del nostro paese. Ci possiamo chiedere se si registrano, in Italia, variazioni sulla dinamica temporale di questi fenomeni concomitanti con il mutamento legislativo in tema di aborto, in modo da poter pensare a una possibile conseguenza diretta di questultima. In realt non si vede granch, almeno dalle poche analisi che sono state effettuate su questo argomento (Cazzola, 1985-86; Bonarini, 1993). La fecondit ha continuato la sua dinamica discendente gi avviata in precedenza, senza mostrare accelerazioni dopo il 1978. La stessa frequenza dei concepimenti prenuziali correlata con la dinamica della nuzialit ma non sembra scalfita dalla disponibilit dellaborto. Qualche effetto si registra tra le na-

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scite avvenute a distanza molto breve da una precedente, le quali diminuirebbero in modo pi accentuato, e tra le nascite fuori dal matrimonio nelle et pi giovani, che subirebbero un arresto. Si tratta comunque di effetti di entit modesta. Lunica variazione sensibile si osserva nel numero di aborti spontanei rilevati, che nellattuale indagine effettuata dallIstat si riducono a meno della met rispetto a quanto risultava nella precedente rilevazione delle denunce di aborto. Una differenza che in parte per legata alle diverse caratteristiche delle due rilevazioni. In tema di aborto spontaneo conviene fare due segnalazioni. LIstituto superiore di Sanit ha iniziato dal 1985 la raccolta sistematica dei dati sugli aborti spontanei direttamente dalle regioni in analogia a quanto gi operava per le IVG nellambito di un annunciato sistema di sorveglianza nazionale (Istisan, 1989). Inoltre una ricca documentazione sulle conseguenze dellinquinamento da piombo nellabortivit spontanea stata raccolta e analizzata dalla Pahrinieri (1993) relativamente al comprensorio delle ceramiche nelle province di Modena e Reggio Emilia. Non risultano altri studi significativi sullargomento. 5. Opinioni, preferenze, atteggiamenti Lindagine sulla fecondit del 1979 fu orientata soprattutto a conoscere i comportamenti delle donne coniugate e solo marginalmente furono incluse nel questionario alcune domande di opinione (sulleducazione dei figli, sulle condizioni e situazioni favorevoli o meno allaver figli e sullaborto provocato). Fu anche chiesto a ciascuna donna intervistata di indicare il numero ideale, desiderato e atteso di figli. Successivamente, tra la fine del 1983 e linizio del 1984, fu effettuata dallIRP una prima indagine nazionale sullopinione degli italiani in merito alla vita di coppia e ai figli (Palomba, 1987), seguita da una seconda sempre a cura dellIRP realizzata sullo stesso argomento quattro anni dopo, fra la fine del 1987 e linizio del 1988 (Palomba et al., 1989; Palomba, 1990). Un altro sondaggio a carattere nazionale fu realizzato dalla Doxa nel 1986 nellambito dellinchiesta Omnibus per conto del Movimento per la vita italiano (1987) sullopinione degli italiani in merito allaborto provocato. Anche questultimo faceva seguito a due precedenti sondaggi analoghi, effettuati dalla Doxa nel 1975 e nel 1980. La percezione dei principali mutamenti demografici avvenuti negli ultimi decenni sembra abbastanza diffusa tra la popolazione italiana. Nellindagine IRP del 1984 le percentuali di risposte corrette a quesiti sulla dinamica temporale delle nascite e dei matrimoni nel nostro paese

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sono state pi elevate di quelle riportate, ad esempio, dai francesi in indagini analoghe. Tale informazione non generica come stato sottolineato (Piperno, 1987) ma articolata (ad esempio, si sa che il calo dei matrimoni riguarda quelli religiosi piuttosto che quelli civili) e si direbbe che si tratti di uninformazione legata allesperienza personale e dellambiente vicino, o comunque che le risposte fornite riflettano le circostanze che le attuali tendenze demografiche rispondono alle pi comuni aspettative del cittadino medio. E in effetti i meno informati sono proprio i pi giovani, i quali non hanno unesperienza diretta di matrimonio e di procreazione; inoltre, generalmente, linformazione si fa meno precisa su aspetti che vanno al di l della percezione personale immediata. Sempre nellindagine IRP del 1984, la valutazione del calo delle nascite era stata positiva nella maggioranza delle risposte, mentre quella sul calo dei matrimoni era prevalentemente negativa. Nella successiva indagine questultimo giudizio risultava rafforzato, in quanto si dimezzava la percentuale dei consensi e aumentava quella degli indifferenti ma, sorprendentemente, veniva ribaltata la valutazione positiva sul calo delle nascite. Il 50% delle risposte adesso dava un giudizio negativo e il 49% si dichiarava daccordo per un intervento di politica demografica che incoraggiasse un aumento delle nascite. I motivi pi frequentemente addotti a sostegno di tale posizione riguardavano problemi di invecchiamento della popolazione e di mancanza del ricambio generazionale, cio due temi sui quali c stata una certa attenzione da parte dei mass media. Quanto abbia inciso questultima circostanza nel modificare lopinione sullattuale tendenza della natalit e quanto possano aver pesato altre circostanze, come un possibile ringiovanimento della popolazione italiana attraverso limmigrazione dal Terzo Mondo, una questione aperta. Anche in materia di aborto sono diminuite nel tempo le percentuali di assenso sui motivi che ne legittirnano il ricorso. Pur restando maggioritari, sono comunque calati i consensi allaborto anche per pericolo di vita della donna, per violenza e per malformazione del feto. Si sono dimezzati, scendendo al 31%, i consensi che si richiamano ai motivi economici, mentre sono rimasti invariati (25%) quelli legati alla pura decisisone della donna. forse nella ridotta conflittualit sociale sullargomento, dopo la legge di liberalizzazione, il motivo di tale diminuzione di consensi. Infine, il giudizio sulle convivenze peraltro non molto diffuse in Italia, come si visto in precedenza positivo solo per un quarto degli intervistati; per un terzo c una posizione di indifferenza e per il 40% il giudizio negativo.

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Le indagini dellIRP consentono anche di conoscere le aspirazioni future e le preferenze degli italiani rispetto ai vari modelli riproduttivi. Quello di famiglia con figli nel quale la coppia legata da un vincolo matrimoniale resta dominante. Tra la concezione tradizionale di una unione indissolubile e quella basata su un rapporto di tipo puramente consensualistico, la maggioranza si situa su una posizione intermedia che subordina lo scioglimento del matrimonio al verificarsi di situazioni gravi. Nei rapporti di coppia poi prevale una visione di tipo simmetrico caratterizzata dallassunzione di ruoli professionali e familiari da pare di entrambi i coniugi. I figli sono ritenuti molto importanti, tant che pi di un terzo degli intervistati ritiene che quello senza figli non un vero matrimonio. Nei figli viene apprezzata soprattutto la visione affettiva continuativa (il legame pi stretto che si pu avere quello con i figli), mentre meno apprezzato il loro valore sociale, rispetto al quale si ha il pi basso livello di accordo delle risposte. Lesperienza di diventare genitori valutata positivamente, soprattutto da parte dei giovani e degli anziani. Un po meno lo da parte degli intervistati nelle classi det centrali. La decisione di avere un secondo figlio viene legata soprattutto allimportanza attribuita allindipendenza della coppia; quella di avere un terzo figlio associata soprattutto alle condizioni economiche della famiglia. La dimensione ideale della famiglia, quella desiderata e quella realisticamente attesa, sono concetti comunemente utilizzati nelle indagini per conoscere le aspettative di fecondit. Si hanno differenti articolazioni di questi concetti. Il numero ideale di figli pu essere riferito alla generica famiglia italiana o a quella che si trovi nelle stesse condizioni socio-economiche del rispondente; il numero ideale di figli pu essere riferito al momento attuale o al momento del matrimonio. N sono mancate critiche (Ryder, 1984) rispetto alla capacit di questi concetti di esprimere i reali desideri delle coppie in che misura le risposte sono influenzate dalla dimensione gi acquisita della prole? o comunque di anticipare le difficolt che si sovrappongono al raggiungimento della prole effettiva. Tuttavia sia lindagine sulla fecondit del 1979 sia le indagini successive dellIRP danno una dimensione ideale della famiglia che costantemente si pone su valori di poco superiori ai due figli (2,1). Le differenze tra i valori medi relativi ai vari concetti (numero ideale, desiderato e atteso), cos come tra le varie articolazioni di questi, sono modeste, come si vede con i dati della INF/1 del 1979. Quindi, non solo i figli continuano a essere un valore per gli italiani, ma le preferenze sono decisamente orientate per una famiglia composta da due figli.

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Capitolo decimo Strutture di popolazione Viviana Egidi

1. Dagli individui alla popolazione: eterogeneit e strutture Una delle pi rilevanti propriet di una popolazione la sua eterogeneit. Gli individui che la compongono sono uomini o donne, hanno et diversa, diversi gradi di istruzione, svolgono lavori diversi, vivono in diversi contesti familiari, sociali e ambientali e cos via. E questi modi e condizioni in cui lindividuo vive, cos come le modalit biologiche che lo contraddistinguono, esercitano uninfluenza importante sul suo comportamento demografico (fecondit, mortalit, migrazioni), sociale ed economico (rete di relazioni interpersonali e di parentela, lavoro, consumi, risparmio e cos via). Delineare le caratteristiche strutturali di una popolazione in primo luogo ricercare un ordine allinterno di questa eterogeneit, suddividendo gli individui in gruppi omogenei rispetto alle modalit di uno o pi caratteri utilizzati come ordinatori: unoperazione che consente di studiare i rapporti numerici tra i gruppi o il loro peso rispetto al complesso della popolazione, di analizzare i meccanismi demografici che determinano e modificano la struttura nel corso del tempo e di disporre di elementi per valutare limpatto delle sue caratteristiche e delle sue trasformazioni sui comportamenti di natura demografica, economica e sociale. Il processo che porta a disegnare e a studiare le strutture di popolazione pu, quindi, essere identificato come il primo passo degli studi demografici, quello che consente di trasformare linsieme delle informazioni disponibili sui singoli individui in caratteristiche della popolazione di cui fanno parte, attraverso un processo di aggregazione che consenta di giungere a identificare gruppi omogenei le cui differenze offrano unimmagine quanto pi corretta possibile delloriginaria eterogeneit; gruppi suscettibili di essere trattati come una sorta di unit collettive alle quali attribuire attitudini e comportamenti e che possono essere utilizzate per descrivere la composizione interna della popolazione o come elementi di base per gli studi di demografia differenziale.

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evidente che il raggiungimento della perfetta omogeneit interna dei gruppi un obiettivo del tutto teorico in quanto, se si volesse controllare linfinito numero di caratteri (di ordine biologico, sociale, culturale, economico, ambientale e cos via) che rendono ciascun individuo diverso dallaltro, si giungerebbe a identificare gruppi numericamente troppo esigui per essere trattati con metodi statistici. Quando poi la stratificazione della popolazione rappresenti il primo passo per la predisposizione di materiale idoneo ad analisi di tipo esplicativo, soprattutto nellapproccio metodologico pi attuale, la procedura di identificazione dei gruppi omogenei si complica ulteriormente. A questo fine, infatti, non solo la presenza di un certo attributo (o di una combinazione di attributi) in un particolare momento riveste importanza per il comportamento individuale, ma anche la fase della storia di vita in cui si acquisito, il percorso seguito dallindividuo prima e dopo la sua acquisizione, nonch i periodi di tempo in cui lindividuo stato caratterizzato da una certa combinazione di modalit dei diversi caratteri (Bertaux, 1980; Tuma e Hannan, 1984; Courgeau e Lelivre, 1984; 1989; Caselli et al., 1989; 1990; Davies e Crouchley, 1985). In altri termini, perch i gruppi possano considerarsi realmente omogenei al loro interno e adeguati alle analisi di tipo esplicativo, dovrebbe riscontrarsi una similitudine tra le biografie degli individui che ne fanno parte e questo accresce enormemente i problemi del trattamento statistico dei dati. I vincoli teorici e operativi che si incontrano nel processo di stratificazione della popolazione sono, quindi, numerosi e di non facile superamento. Molto spesso essi rimangono sullo sfondo delle analisi demografiche e non vengono trattati esplicitamente. Ciononostante, utile iscrivere lampio corpo degli studi e delle ricerche sulle caratteristiche strutturali della popolazione allinterno di questo quadro concettuale e di questa generale necessit di ordinamento. Varia, in relazione alle finalit della ricerca e alle informazioni statistiche disponibili, il grado di omogeneit interna richiesta ai gruppi o laccento maggiore o minore dato ai diversi aspetti, ma lelemento caratterizzante, anche se non necessariamente lobiettivo principale, delle analisi strutturali che vengono condotte in demografia espresso da questa esigenza di sintetizzare, senza distorsione, leterogeneit interna della popolazione. 2. Analisi strutturali: finalit delle ricerche Sono almeno due le finalit con le quali si pu intraprendere lo studio delle caratteristiche strutturali di una popolazione, sebbene la distinzione risponda molto pi a unesigenza di chiarezza espositiva che

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a una reale dicotomia: una finalit descrittiva e una investigativa o interpretativa. Nel primo caso, lanalisi d conto della dimensione demografica (in senso assoluto e/o relativo) dei gruppi di individui accomunati, in un dato momento, dalla stessa modalit (o combinazione di modalit) di una variabile (o di pi variabili), qualitativa o quantitativa, assunta come variabile di stratificazione. Il confronto con situazioni precedenti o con altre popolazioni reali o teoriche viene utilizzato per formulare giudizi comparativi sulla maggiore o minore presenza dei diversi gruppi omogenei, eventualmente valutandone le cause e le possibili conseguenze. La differenza tra questi studi e quelli che vengono condotti con finalit interpretative spesso molto sfumata. La distinzione pu farsi e comunque sempre in modo molto approssimativo solo a posteriori, basandosi sul peso relativo della parte descrittiva e di quella interpretativa, sulla maggiore o minore importanza che lo studioso tende a dare ai due aspetti, sullesplicitazione di un quadro concettuale che consenta di interpretare i risultati, sulla congruenza tra tale quadro concettuale e i dati statistici di base. C inoltre un altro aspetto che conviene tener presente per meglio orizzontarsi nellampio insieme degli studi che trattano, in modo diretto o indiretto, delle strutture di popolazione. Queste, infatti, sono oggetto di analisi in almeno due modi diversi: da un lato, esse vengono assunte come variabili dipendenti, cio in quanto caratteristiche da spiegare sulla base della dinamica demografica passata (Preston e Code, 1982; Caselli e Vallin, 1989; Wunsch, 1988; Horiuchi, 1988; Horiuchi e Preston, 1988; solo per fare alcuni esempi relativi allanalisi della struttura per et della popolazione alla quale viene dedicato, comunque, un paragrafo specifico); dallaltro, vengono assunte come importanti presupposti della dinamica futura della popolazione. E infatti la combinazione delle differenze di comportamento dei diversi gruppi e del loro peso differenziale a produrre la dinamica complessiva della popolazione e, molto spesso, una piccola differenza applicata a gruppi di consistenza demografica diversa, e variabile nel tempo, produce effetti consistenti sul comportamento medio della popolazione. Cos, ad esempio, il rischio medio della popolazione di subire un determinato evento (pensiamo, ad esempio, alla morte) pu diminuire a seguito di due fenomeni: la riduzione del maggior rischio specifico che colpisce particolari gruppi di popolazione e/o la riduzione della dimensione demografica del gruppo o dei gruppi esposti al maggior rischio. Entrambi questi fattori hanno avuto una rilevanza notevole nel determinare levoluzione positiva della mortalit che si verificata in tutti i paesi sviluppati nel corso del tempo;

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unattenta valutazione del ruolo specifico giocato da ognuno di essi fornisce elementi sia per costruire un quadro teorico di riferimento pi adeguato allinterpretazione, sia per finalizzare meglio gli interventi di politica sociale (ad esempio, per il ruolo giocato sulla dinamica della mortalit infantile dalle variazioni della struttura delle nascite: Pinnelli, 1983; 1984; Dinh, 1990; sulla supermortalit maschile dalla struttura per causa della mortalit nei due sessi: Vallin, 1983; Egidi, 1984). Gli studi che si basano sulla conoscenza e utilizzazione delle strutture demografiche come elemento di valutazione della dinamica sono molto numerosi. Una categoria importante rappresentata da quelli che si fondano su unottica di scissione degli effetti della componente dinamica e della componente strutturale secondo una logica di standardizzazione (per indicazioni sui metodi di scissione si vedano Kitagawa, 1955; Das Gupta, 1978; Zannella, 1984; Hoem, 1987; Coppi e Raccioppi, 1989). Un altro filone si basa, per contro, su un concetto pi ampio e meno definito di eterogeneit tra gli individui, che non prevede necessariamente la conoscenza della composizione della popolazione rispetto al carattere che si ritiene determini le differenziazioni. In realt, si tratta del proseguimento, che negli ultimi anni ha trovato un nuovo slancio, di un filone di studi che ha da sempre caratterizzato la demografia: lanalisi degli effetti dei processi di selezione e contro-selezione che modificano nel tempo il grado di eterogeneit della popolazione, o di un suo gruppo costituente (soprattutto una generazione di individui nati nello stesso anno di calendario), condizionandone la dinamica (Mortara, 1912; Gini, 1914; Livi Bacci, 1962; Keyfitz, 1968; Heckman e Singer, 1982; Caselli, 1988). Nellanalisi della mortalit, lintroduzione delleterogeneit tra individui, indotta da una fragilit differenziale che condizionerebbe il rischio di morte individuale (ma anche di insorgenza di una malattia e cos via), ha consentito di evidenziare alcuni interessanti risultati e ha fornito una chiave di lettura di alcuni andamenti e di alcuni differenziali che apparirebbero altrimenti paradossali: come pu la speranza di vita di una popolazione diminuire a seguito delleliminazione di una causa di morte? Com possibile che una popolazione accusi un livello di mortalit maggiore di unaltra sebbene i suoi rischi individuali di morte siano minori? (Vaupel et al., 1979; Manton et al., 1981; Vaupel e Yashin, 1985; Yashin et al., 1985; Caselli e Capocaccia, 1989; Wilmuth e Caselli, 1987). Sempre in presenza di uneterogeneit non direttamente misurabile e, quindi, di una stratificazione non nota della popolazione rispetto a uno o pi caratteri che si ritengono rilevanti (e per i quali si dispone soltanto di variabili-indicatore), merita una particolare attenzione una

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proposta metodologica nuova, grazie alle possibili applicazioni allo studio dei comportamenti demografici. Si tratta dei modelli strutturali con variabili latenti (ad esempio, Lisrel-Linear Structural Relationships), che vanta gi concrete e incoraggianti applicazioni soprattutto nelle scienze economiche (per unintroduzione a questi modelli si veda Trivellato, 1990). Senza addentrarsi nella complessit degli aspetti analitici, forse opportuno richiamare lattenzione su alcune idee portanti e su alcune possibilit di applicazione di questi modelli. Nati nellambito delle problematiche del trattamento degli errori che affettano le variabili sottoposte a rilevazione (errori nelle variabili, variabili latenti, variabili di aspettativa), i modelli strutturali con variabili latenti riconoscono esplicitamente la necessit di superare lottica deterministica che fino a pochi anni fa ha monopolizzato la ricerca empirica, integrando al loro interno delle componenti stocastiche. Essi possono distinguersi in due grandi classi, ciascuna delle quali passibile di avere interessanti potenzialit di utilizzazione nel campo demografico. Una prima classe prevede modelli che al loro interno combinano un modello di comportamento, che pone in relazione un insieme di variabili latenti (generalmente con sistemi di equazioni simultanee, o comunque di tipo regressivo), con un modello di osservazione, che esprime le stesse variabili latenti in relazione a un insieme di variabili osservate che si riconoscono affette da errore (variabili-indicatore). Gran parte dei modelli che sono stati proposti e utilizzati (per unampia rassegna critica si veda ancora Trivellato, 1990) presenta un indubbio interesse per le analisi demografiche: si pensi, ad esempio, allanalisi fattoriale confermativa per la valutazione della qualit e della pertinenza delle misure tratte da indagini; o al modello Mimic (Multiple Indicators and Multiple Causes), utilizzato per studiare le relazioni tra comportamenti sociali e status socio-economico dellindividuo e che potrebbe costituire uno strumento metodologico utile allinterpretazione del comportamento riproduttivo in relazione alla condizione socio-economica della donna (per fare un esempio tra i pi intuitivi); o al sistema ricorsivo con variabili latenti e molteplici indicatori che vanta interessanti applicazioni nellambito del trattamento dei dati longitudinali. Anche la seconda classe di modelli strutturali stocastici, quella cui appartengono i modelli che si basano sullutilizzazione di serie temporali multivariate e si caratterizzano per la loro struttura dinamica, riveste un potenziale interesse per la demografia in quanto consente di controllare i problemi derivanti dalla dipendenza temporale del processo generatore dei dati. Alcuni modelli (ad esempio il sistema di equazioni

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simultanee dinamiche con errori nei dati provvisori) possono essere utilmente applicati in ambito previsivo e consentono con diversi metodi di filtraggio (ad esempio il filtro di Kalman) di stimare con sufficiente precisione i valori futuri delle serie. Molto si sta lavorando in questi anni per migliorare tali modelli e renderli sempre pi adatti allanalisi sociale. Importanti sviluppi si possono prevedere con la rimozione di quella che rappresenta una delle loro limitazioni maggiori: la necessit che, almeno approssimativamente, le variabili considerate nel modello siano continue e le relazioni lineari. Significativi progressi si stanno compiendo sia nella direzione di elaborare modelli a scelte discrete (e sono discrete scelte quali il matrimonio, la nascita di un figlio, il cambio di residenza), sia in quella di considerare scelte discrete e tempi continui (e sono di questo tipo le funzioni di rischio utilizzate per analizzare i dati di durata, utili soprattutto per gli studi della sopravvivenza). Ma ritorniamo allimpatto delle strutture di popolazione (supposte note) sulla dinamica demografica. C un ultimo aspetto sul quale bene soffermarsi ancora un momento: il fatto che tali strutture possono esercitare, oltre a quella diretta, anche uninfluenza di natura indiretta sul comportamento demografico. Le caratteristiche strutturali della popolazione, costituendo uno degli elementi del contesto nel quale lindividuo vive e prende le sue decisioni, possono infatti rappresentare un elemento condizionante delle scelte individuali anche demografiche nientaffatto trascurabile. E questo un approccio allo studio dellinfluenza della struttura sulla dinamica demografica (ma anche sociale ed economica) che ha dato luogo a interessanti ipotesi di lavoro. Un esempio tra i pi rilevanti costituito dalla teoria avanzata da Easterlin per interpretare la dinamica della fecondit e il baby-boom degli anni sessanta (Easterlin, 1969; Bielli, 1983). Pi recentemente, questi aspetti stanno imponendosi allattenzione nellambito degli studi sulle conseguenze dirette e indirette dellinvecchiamento della popolazione (Muscetta, 1988; Hoffman-Nowotny, 1982; Manton, 1982). Le due finalit, quella che spiega le caratteristiche strutturali come risultanti della dinamica e quella che le assume tra le determinanti di questa, vengono spesso ricomposte allinterno di modelli di interrelazione che, avvalendosi degli strumenti messi a disposizione dal calcolo automatico, simulano (in modo determistico o stocastico, micro o macro) il comportamento demografico di una popolazione e le modificazioni strutturali che questa subisce nel corso del tempo (Land e Rogers, 1982; Keilman et aL, 1988; Bertino et al., 1988; Egidi e Tomassetti,1988).

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3. Quali strutture per le analisi di popolazione Essendo luomo e il suo comportamento una sintesi di elementi biologici e sociali, negli studi demografici entra in gioco una gamma vastissima di caratteri di stratificazione: caratteri biologici (quali let), genetici (quali il sesso o il gruppo sanguigno), antropometrici (quali laltezza, il peso e il loro rapporto), sociali (quali il livello di istruzione, la condizione familiare e abitativa), economici (quali la professione e la condizione economica), sanitari (quali la condizione di salute e la presenza di particolari handicap); solo per menzionarne alcuni tra i pi ricorrenti. Per avere unidea del tipo di variabili che vengono pi spesso utilizzate, si pu fare riferimento ai censimenti, che costituiscono la fonte classica delle informazioni sulle caratteristiche degli individui in un dato momento. Ormai lungamente selezionate dallesperienza, le informazioni che si richiedono sono relative a sesso, et, stato civile, luogo di nascita, residenza, istruzione, condizione lavorativa, condizione abitativa, relazione di parentela con gli altri componenti dellunit familiare e cos via. Tutte informazioni che lindividuo pu fornire autonomamente, rispondendo a un questionario relativamente semplice, senza che la sua sensibilit ne venga urtata. Tra i vantaggi pi importanti dellutilizzazione di queste variabili per la stratificazione della popolazione e che spesso bilanciano i notevoli inconvenienti rappresentati dalla genericit delle informazioni richieste da considerare che gli eventi demografici sono spesso specificati proprio in relazione a tali variabili. Questo rende possibile la costruzione di misure relative e, eventualmente, il collegamento tra i dati delle statistiche di stato e quelle di flusso (linkage; Pinnelli, 1984; Cariani, 1989; Cislaghi, 1990). Inoltre, molte di queste variabili (soprattutto il sesso, let, lo stato civile, il livello di istruzione) sono sistematicamente rilevate anche nelle indagini campionarie che, con cadenza diversa e pi ravvicinata rispetto ai censimenti, vengono condotte su vari fenomeni rilevanti (ad esempio, lindagine trimestrale sulle forze di lavoro). Un pi deciso sforzo di integrazione delle diverse, e ormai molto numerose, indagini condotte in Italia consentirebbe (Kish e Verma, 1986; Colombo, 1987) di disporre anche per il nostro paese di un pi razionale ed efficiente sistema di monitoraggio delle principali caratteristiche della popolazione. In questa direzione si mosso lIstat, che ha predisposto per il censimento del 1991 un insieme di procedure e modelli di integrazione (Masselli e Venturi, 1990).

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Lindagine multiscopo sulle famiglie che, a partire dal 1987, ha raccolto diverse indagini campionarie settoriali condotte precedentemente (letture, vacanze, salute, strutture e comportamenti familiari), costituisce un esempio delle potenzialit offerte da una rilevazione che, pur mirata a raccogliere informazioni approfondite su temi particolari, riesce a collocarle in un quadro di riferimento generale che ne arricchisce notevolmente il significato. La complessa procedura di rilevazione, che si articola su sei cicli ciascuno dedicato a uno specifico argomento e con una durata di rilevazione di sei mesi (un particolare ciclo viene quindi riproposto ogni tre anni; Roveri, 1990) , prevede un gruppo di quesiti comuni di notevolissima importanza per gli studi demografici: sesso, et, stato civile, istruzione, condizione professionale, struttura familiare (secondo la pi attuale definizione di famiglia di fatto), condizione abitativa, condizione di salute, eventuale presenza di condizioni di incapacit fisica. Un insieme di caratteri che consentono di ricostruire le caratteristiche demografiche salienti della popolazione e seguirne le modificazioni in modo tempestivo. Alcuni cicli specifici, inoltre, e in particolare quello dedicato alle condizioni di salute della popolazione e al ricorso ai servizi sanitari (quarto ciclo) e alle strutture familiari (secondo ciclo), offrono informazioni e delineano strutture non altrimenti disponibili. Ad esempio, la composizione della popolazione secondo Io stato di salute percepito, la diffusione di malattie croniche e degenerative o di particolari handicap (Istat, 1986; Egidi, 1988); la condizione degli anziani (stato di salute, condizione familiare e reti di solidariet); struttura delle famiglie di fatto (Istat, 1985; Roveri, 1986); struttura delle donne secondo il numero di figli e cos via. Unaltra necessit che si imporr con crescente forza negli anni a venire sar quella di un coordinamento teso a rendere comparabili e integrabili le informazioni demografiche relative ai diversi paesi europei e soprattutto a quelli appartenenti alla Comunit europea. Un esempio che dovrebbe essere seguito con determinazione rappresentato dallindagine armonizzata sulle forze di lavoro coordinata annualmente dallUfficio statistico delle Comunit europee. Altre caratteristiche della popolazione, e particolarmente quelle relative alle strutture familiari e allo stato di salute, meriterebbero un analogo impegno. Un importante lavoro di omogeneizzazione delle definizioni e dei metodi di rilevazione sarebbe senzaltro necessario per rendere comparabili le indagini che vengono attualmente condotte su questi temi in molti paesi; larricchimento conoscitivo che se ne avrebbe sarebbe di tale spessore da ripagare ampiamente gli sforzi.

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4. La struttura per sesso Linsieme dei caratteri che, separatamente o congiuntamente, vengono assunti come ordinatori o stratificatoci della popolazione negli studi demografici , come si visto, molto ampio ed estremamente diversificato. Almeno due caratteri ricorrono per in qualsiasi trattazione. Si tratta del sesso e dellet (si vedano ad esempio Shryock et al., 1976; Federici, 1979; Livi Bacci, 1990; IRP, 1988). Il sesso uno degli elementi fondamentali di differenziazione del comportamento umano; si tratti di comportamenti che affondano le loro radici nella biologia, per i quali il sesso svolge un ruolo determinante (pensiamo al processo riproduttivo), o che si tratti di comportamenti sociali (per i quali esso diviene indicatore di un diverso retaggio culturale ed educativo e di un diverso stile di vita), lessere uomo o donna rappresenta un marcatore che informa di s gran parte dellesperienza e del comportamento individuale. Lequilibrio strutturale tra le due componenti del genere umano il necessario presupposto dello sviluppo demografico e la sua mancanza pu essere tanto negativa da pregiudicare la stessa esistenza del gruppo; un presupposto tanto importante che la stessa biologia sembra scendere in campo per cercare di garantirlo. noto lo squilibrio dei sessi alla nascita, che porta a un rapporto di circa 106/100 tra le nascite di sesso maschile e quelle di sesso femminile e che consente di bilanciare, almeno nella prima fase della vita e fino alle et riproduttive, la maggiore mortalit del primo rispetto al secondo. In condizioni normali (in assenza, cio, di eventi straordinari quali potrebbero essere guerre, imponenti flussi migratori fortemente selezionati per sesso e cos via), la struttura per sesso si presenta abbastanza equilibrata e relativamente poco variabile. Sono queste probabilmente le ragioni che hanno fatto trascurare, almeno come oggetto autonomo di studio, questa struttura, sebbene linformazione sul sesso costituisca un elemento di differenziazione sempre presente negli studi demografici. Uneccezione importante rappresentata dagli studi sulla nuzialit, che assumono gli eventuali squilibri tra la componente maschile e femminile della popolazione tra le cause rilevanti, non solo dellintensit della nuzialit (Henry, 1969a; de Saboulin, 1985) ma anche, e soprattutto, delle sue caratteristiche per et (Henry, 1969b; Schoen, 1983) e che ne valutano gli effetti nellambito della costruzione di modelli di nuzialit a due sessi (Pollard, 1977; Keilman, 1985).

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Pi distanziati nel tempo, essendo soprattutto collocati nel periodo in cui lItalia era attraversata da intensi movimenti di popolazione, gli studi che centrano il loro interesse sulle conseguenze strutturali (la composizione per sesso sempre trattata in congiunzione con la struttura per et) delle migrazioni (Golini, 1964; Ciucci, 1971; Santini, 1974; Caselli, 1975); un tema sul quale si torner senzaltro a discutere a seguito della recente inversione di tendenza delle correnti migratorie che vede il nostro paese meta di un notevole afflusso di popolazione proveniente dai paesi meno sviluppati. Le notizie riguardanti gli immigrati sono per nei primi anni novanta troppo scarse per consentire approfondite analisi. Un elemento di novit negli ultimi anni rappresentato invece dalle conseguenze, proprio sulla struttura per sesso, del fenomeno dellinvecchiamento demografico delle popolazioni sviluppate. La crescente presenza di anziani e il persistente svantaggio maschile nei confronti della mortalit hanno infatti determinato un processo di femminilizzazione della popolazione che non manca, e non mancher nel futuro, di condizionare notevolmente lo stile di vita (si pensi agli effetti sulle strutture familiari) e i comportamenti, cos come imporr specifici interventi di politica sociale ed economica. Un insieme di problemi che hanno ridato vigore agli studi sulla struttura per sesso della popolazione, spesso arricchita con altri elementi relativi, ad esempio, alla condizione familiare e/o abitativa, alla rete di relazioni di parentela, alla condizione di salute e cos via (Pinnelli, 1986; Wolf e Pinnelli, 1989; Egidi, 1990; Oberg, 1990). 5. La struttura per et Let costituisce una variabile-cardine degli studi demografici. Essa influenza infatti tutti quei comportamenti che hanno un fondamento biologico (il processo riproduttivo, linvecchiamento, la malattia, la morte) e, in modo pi mediato ma sempre rilevante, i comportamenti sociali (tra quelli pi rilevanti per la demografia: nuzialit, divorzialit, migratoriet) ed economici (appartenenza alle forze di lavoro, consumi, risparmio e cos via). E quindi ovvio che essa rappresenti, accanto al sesso, la principale variabile di stratificazione della popolazione. A seconda della finalit della ricerca e della disponibilit dei dati statistici, viene specificato un dettaglio delle et adeguato; si costruiscono tabelle che riportano la dimensione demografica (assoluta o percentuale) dei gruppi di individui accomunati dalla stessa et; si disegnano grafici adatti a evidenziare dimensioni e profili (ad esempio la piramide delle
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et) e si elaborano indici in grado di sintetizzare le caratteristiche salienti della composizione per et della popolazione (composizione percentuale, indice di vecchiaia, indice di dipendenza strutturale e cos via); eventualmente, si studiano i comportamenti differenziali per et rispetto ad alcuni fenomeni demografici (mortalit per et, fecondit per et, nuzialit per et e cos via). Sono quasi sempre questi i primi passi della conoscenza di una popolazione e gli elementi che entrano in gioco per caratterizzarne gli aspetti statici e dinamici rispetto ad altre popolazioni. Senza soffermarsi sulle procedure standard seguite nello studio della struttura per et, ampiamente illustrate in ogni manuale di demografia (Federici, 1979; Blangiardo, 1987; Livi Bacci, 1990; Di Comite e Chiassino, 1990; Santini, 1990; per citarne alcuni recenti), sembra utile piuttosto concentrare lattenzione su un corpo di ricerche che si stanno sviluppando, soprattutto negli ultimi anni, sullonda delle importanti implicazioni sociali, economiche e demografiche dellinvecchiamento delle popolazioni delle societ sviluppate, e attirare lattenzione su alcuni problemi di definizione della variabile et che spesso non vengono posti sufficientemente in luce e che, al contrario, condizionano pesantemente i risultati e le valutazioni. 5.1. Linvecchiamento della popolazione senzaltro linvecchiamento demografico il fenomeno strutturale pi importante verificatosi, in Italia come negli altri paesi sviluppati, in questultimo scorcio di millennio. Una trasformazione che non si esitato a definire con incisive e fantasiose espressioni: rivoluzione grigia, si detto, a significare il rapido aumento, carico di conseguenze economiche, sociali e culturali (oltre che demografiche), della quota di popolazione anziana (di et superiore ai 60, 65 o 75 anni, a seconda degli studi). Non c dubbio che questa sia stata una trasformazione tra le pi annunciate. I suoi presupposti erano gi da lunghi anni inscritti nella dinamica demografica e tutte le previsioni di popolazione effettuate nel dopoguerra, con toni sempre pi preoccupati con il passare del tempo e il radicalizzarsi di alcune tendenze (il crollo senza precedenti della fecondit, soprattutto), ne preannunciavano lavvento, mentre gli organismi internazionali promuovevano studi, formulavano raccomandazioni e incoraggiavano la predisposizione di misure adeguate a fronteggiare i nuovi problemi (Nazioni Unite, 1956; 1985; 1988; Consiglio dEuropa, 1982; World Health Organization, 1984). I demografi hanno dedicato alla descrizione delle dimensioni quantitative e qualitative dellinvecchiamento, allindividuazione delle sue determinanti demogra-

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fiche e alla valutazione del suo impatto, un gran numero di studi (in Italia Livi Bacci, 1980a; 1980b; Somogyi, 1980; 1985; per segnalarne alcuni tra i primi) i cui risultati avrebbero potuto costituire un punto di partenza prezioso per predisporre per tempo strutture (socio-sanitarie, abitative e cos via) e interventi di politica sociale e previdenziale che avrebbero permesso di assorbire meno traumaticamente le trasformazioni. Nel 1986 lIstituto di ricerche sulla popolazione (IRP), del CNR, organizz a Roma la prima giornata di studio sui problemi dellinvecchiamento, che consent unutile riflessione comune sulle tendenze in atto, sulle loro prospettive future e sul loro impatto sociale ed economico (IRP, 1987). Solo pochi mesi prima, in occasione della Chaire Qutelet 1986, un analogo confronto di problematiche e metodi di analisi aveva raccolto i demografi provenienti da vari paesi europei e aveva toccato tutti gli aspetti pi importanti del problema (da quelli demografici a quelli biologici e sanitari, da quelli sociali a quelli economici, culturali e politici, con unimportante sessione dedicata ai problemi metodologici). Ciononostante, poco o nulla di questo contributo si trasferito dallambito scientifico ai settori decisionali della societ e limmagine attuale, non solo in Italia del resto, quella di una rincorsa alla soluzione di problemi che rischiano ormai di divenire ingovernabili: si pensi alle strutture sanitarie, al sistema di solidariet sociale rappresentato dalle pensioni di vecchiaia, ai problemi dellassistenza agli anziani e cos via. Un filone molto promettente di studi, ispirato soprattutto dai crescenti problemi che il fenomeno pone in termini di costi e di possibilit di sopravvivenza del welfare-state, si concentra sulla valutazione dellimpatto economico dellinvecchiamento demografico. Esso viene sviluppato sia dai demografi (Blanchet, 1986; 1988; van Poppel e van des Wijst, 1987; Tapinos, 1988; Blanchet e Kessler, 1990; in Italia: Livi Bacci, 1980b; Golini e Ascolani, 1982; Vitali, 1982; 1987a; 1988; Petrioli, 1988; Righi, 1989; 1990; de Sarno Prignano e Natale, 1990) sia dagli economisti (International Monetary Found, 1986; Clark, 1987; von Wezsacker, 1988; Ermish, 1989; in Italia: Bruni, 1984; Fu, 1986; Cigno, 1989; Alvaro et al., 1989; e per gli aspetti di economia sanitaria, Hanau et al., 1987), e spesso in proficua collaborazione. Alcuni aspetti, soprattutto inerenti alle conseguenze dellinvecchiamento sul sistema pensionistico e sul sistema della sicurezza sociale, vedono anche un notevole e molto positivo impegno degli attuari (Coppini, 1978; 1988; Inps, 1987; 1989). Sono questi i campi di ricerca che necessitano senzaltro di ulteriori approfondimenti e di una pi stretta collaborazione tra gli studiosi delle diverse aree implicate. Non di rado, infatti, la mancata integrazione tra esperienze e competenze diverse porta a risultati scarsamente utili sul

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piano operativo: i demografi e gli economisti tendono, ad esempio, a sottovalutare il ruolo di mediazione giocato dal sistema normativo sui costi previdenziali, giungendo a valutazioni che portano a esaltare limportanza della componente demografica (Gonnot, 1990); gli attuaci tendono, per contro, ad assumere la componente demografica, soprattutto per la parte riguardante i contribuenti dei fondi pensione, indipendente dalla dinamica demografica ed economica prevista per i prossimi anni e, quindi, a svalutarne il ruolo. certo comunque che in Italia la sensibilit rispetto a questi problemi enormemente cresciuta negli ultimi anni, tanto da riconoscere la provocatoriet di alcune proposte che sono state avanzate per tentare di risolvere il deficit del sistema della sicurezza sociale ristabilendo un legame diretto tra diritto alla pensione e comportamento riproduttivo. Unipotesi che, prevedendo la penalizzazione, fino alla privazione del diritto alla pensione degli individui che non avessero assolto in giovent al debito sociale di aver fatto un numero adeguato di figli, consentirebbe, almeno nella mente dei proponenti, di alleggerire nel breve periodo i costi previdenziali e di incentivare, nel medio e lungo periodo, la fecondit (Demeny, 1987). 5.2. Gli effetti delle componenti della dinamica demografica sullinvecchiamento della popolazione Per molti anni i demografi si sono sforzati di spiegare che la responsabilit principale dellinvecchiamento demografico era da attribuire allabbassamento della fecondit. Ci sono riusciti cos bene che oggi i discorsi sulle conseguenze della ripresa della diminuzione della natalit tendono a nascondere il ruolo, ormai molto reale e crescente, dellevoluzione della mortalit. Queste parole, tratte da uno studio di Caselli e Vallin (1989), riassumono in modo molto incisivo il senso dei pi recenti risultati sulla dipendenza della struttura per et della popolazione, e quindi dellinvecchiamento demografico, dalla dinamica pregressa. La riduzione della mortalit, che negli ultimi anni stata forte soprattutto nelle et adulte e senili, e i livelli ormai molto contenuti della mortalit nelle et infantili e giovanili (che, come si sa, agiva nelle prime fasi della transizione demografica come fattore di ringiovanimento della popolazione), stanno facendo emergere il ruolo centrale dellallungamento della sopravvivenza come fattore esplicativo dellinvecchiamento della popolazione (linvecchiamento dallalto della piramide delle et, come viene chiamato; Brouard, 1986). Un ruolo che, sulla base delle previsioni effettuate, tender a divenire sempre pi esclusivo nel futuro, qualunque

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sia levoluzione della fecondit e anche adottando ipotesi molto prudenti sullevoluzione futura della mortalit. Gli scenari demografici che si possono disegnare per il futuro concordano quindi nel denunciare la sostanziale irreversibilit dellinvecchiamento demografico. Nessuna panacea potr invertire le tendenze che si sono affermate: n una ripresa della fecondit, quanto mai improbabile allo stato attuale, almeno nelle dimensioni che sarebbero necessarie (Keyfitz, 1986), n e questo un aspetto che far molto discutere nei prossimi anni e al quale sar necessario dedicare pi accurate ricerche lapporto di flussi migratori provenienti da altri paesi che consentirebbero, anche qualora assumessero proporzioni ben pi rilevanti di quelle attuali, di alleggerire solo per qualche lustro la pressione demografica esercitata dalla quota crescente di anziani sulla sempre pi esigua popolazione in et lavorativa (Holm, 1988). 5.3. Et: intuitivit e motivi di riflessione Le valutazioni che correntemente vengono effettuate sul fenomeno dellinvecchiamento poggiano su un concetto di et che, se ha il grande vantaggio dellestrema semplicit e intuitivit, rischia ormai di non rispondere pi allesigenza di una corretta valutazione delle caratteristiche strutturali della popolazione e delle implicazioni delle modificazioni in corso. A prima vista, estremamente semplice dare una definizione univoca di et; in effetti, almeno nelle societ sviluppate, abituate ormai da tempo a mantenere memoria delle date salienti che punteggiano le storie di vita individuale, la data di nascita costituisce, oltre al sesso, un altro importante marcatore individuale. Diviene quindi automatico assumendo levento nascita come evento origine della linea di vita determinare let dellindividuo eguagliandola alla lunghezza dellintervallo di tempo che separa il momento della nascita da quello della rilevazione. Fatti salvi eventuali errori di rilevazione, che su questo fenomeno divengono tuttavia sempre meno importanti, sembrerebbe questa una variabile certa e tale da non dare luogo ad alcuna complicazione. Ed sicuramente cos quando let venga definita e assunta nel suo significato strettamente cronologico. I problemi sorgono quando si utilizza let per segmentare le storie di vita individuali, fatto che avviene normalmente negli studi sullinvecchiamento e sulle sue conseguenze sociali ed economiche. Si attribuisce in questi casi allet, anche se spesso implicitamente e, quel che peggio, inconsciamente, un significato di indicatore indiretto di una serie di condizioni (problematiche, nel caso degli anziani) che dovreb-

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bero accomunare tutti gli individui della stessa fascia di et: precarie condizioni di salute fino alla mancanza di autonomia, precarie condizioni economiche, frequente isolamento sociale, sono le caratteristiche che vengono automaticamente evocate dal termine anziano. evidente che, affinch let cronologica possa essere correttamente assunta a rappresentare queste potenziali situazioni, dovrebbe essere accettabile lipotesi su cui implicitamente si basa: che il trascorrere del tempo abbia lo stesso significato e comporti le stesse conseguenze sulle storie di vita in senso di sviluppo e, eventualmente, regresso delle potenzialit bio-fisiologiche e mentali degli individui in qualsiasi epoca, in ogni contesto e per tutti gli individui. In altri termini, che linvecchiamento individuale segua modalit e cadenze universali e costanti nel tempo. Unipotesi estremamente rigida che si dimostra del tutto inadeguata soprattutto in periodi storici segnati da profondi cambiamenti e da una notevolissima variet di contesti e condizioni individuali come quelli che caratterizzano le moderne societ sviluppate (Livi Bacci, 1982; 1987; Egidi, 1987). Dalla seconda met degli anni ottanta sono stati dedicati numerosi studi allo sviluppo della relativit del concetto di et in conseguenza della diverse velocit e modalit dellinvecchiamento individuale. Ponendo in ciascun ambito disciplinare laccento su aspetti specifici, si stanno infatti svolgendo approfondite ricerche tese a spiegare i meccanismi dellinvecchiamento e i loro possibili legami con let cronologica. Cos, i biologi sono alla ricerca dei processi fisici che determinano linvecchiamento dellorganismo e perfezionano il concetto di et bio-fisiologica; gli psicologi esplorano il modo in cui le capacit individuali variano nel corso della vita e tra generazioni successive, studiando le relazioni bidirezionali tra le modificazioni di tali capacit e le reazioni psicologiche ad esse, sviluppando il concetto di et psico-emotiva; i sociologi studiano i meccanismi e i processi che modificano il modo in cui ciascun individuo percepito dalla societ in cui vive (come un giovane, un adulto, un anziano) e come questi diversi modi di essere riconosciuti, che determinano levoluzione dell et sociale dellindividuo, producano effetti sulla sua integrazione sociale e sul suo modo di percepirsi e rapportarsi agli altri. I demografi si stanno interessando alla possibilit di identificare degli indicatori dinamici di invecchiamento che tengano conto delle mutate condizioni di sopravvivenza delle popolazioni (il potenziale di vita) in grado di sostituire adeguatamente le soglie fisse attualmente utilizzate per classificare la popolazione secondo let (Ryder, 1975; Manton, 1982, Bourgeois-Pichat, 1985; Livi Bacci, 1987; Egidi, 1987; 1990; Laslett, 1987; Maisano, 1989).

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In tutti, e certamente non solo in ambito scientifico, ormai ben chiara la necessit del superamento della visione statica suggerita dallet cronologica. Il bilancio delle conoscenze sul processo di invecchiamento per ancora insoddisfacente e mancano indicazioni operative che trascendano i limiti degli specifici approcci settoriali; manca cio unindicazione chiara e universalmente accettata di come compendiare in un unico indicatore le diverse et che caratterizzano lindividuo (biologica, psico-emotica, sociale e cos via). Un indicatore che, in pi, possa agevolmente essere sottoposto a una rilevazione statistica ed essere utilizzato per stratificare la popolazione. Solo su un aspetto, comunque, sembrano al momento tutti concordare e si potrebbe partire da questo per limitare gli inconvenienti di una visione statica dellinvecchiamento: qualsiasi sia il meccanismo biologico (o genetico) alla radice del processo, le condizioni esterne in cui inserito, le sue esperienze di vita e il modo in cui queste vengono da lui elaborate, non sono indifferenti per le modalit e i ritmi del suo invecchiamento. Seppure nel rispetto della traiettoria che prevede luniversalit dellesperienza, linvecchiamento non segue quindi tempi e ritmi assoluti, ma relativi e variabili in funzione della situazione sociale, economica, culturale e sanitaria in cui lindividuo ha trascorso la sua vita e in funzione del modo in cui si rapportato a questa. Una corretta valutazione dellintensit dellinvecchiamento demografico, soprattutto quando se ne voglia quantificare limpatto sociale ed economico, non dovrebbe quindi prescindere dalla considerazione delle profonde trasformazioni che si sono determinate in questi anni e che hanno completamente modificato i modi e i contenuti dellessere anziano oggi. In pi, la crescente complessit sociale ha fatto perdere significato allindicatore et-cronologica anche come elemento di classificazione della popolazione. Le indagini mirate ad approfondire gli aspetti qualitativi denunciano, infatti, la crescente impossibilit di considerare simili degli individui solo per il fatto di essere coetanei, data lestrema variet di situazioni che possono caratterizzarli. E proprio nella valutazione di queste diversit e delle loro implicazioni che la ricerca dovrebbe spingersi maggiormente nel prossimo futuro. Negli studi sugli anziani e sullinvecchiamento un tale indirizzo consentirebbe anche, oltre allindubbio progresso conoscitivo, di mettere a disposizione gli strumenti necessari per finalizzare meglio gli interventi di politica sociale, economica e sanitaria alle reali necessit individuali. Sarebbe questo un prezioso contributo in vista dei crescenti vincoli finanziari che incontra la nostra societ che invecchia.

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6. Alcune altre strutture rilevanti per la demografia 6.1. La struttura per stato civile La composizione della popolazione secondo lo stato civile costituisce uninformazione importante per le analisi del comportamento demografico in quanto numerosi fenomeni presentano sensibili differenziali in relazione al fatto che lindividuo sia celibe (o nubile), coniugato, vedovo, separato o divorziato. Si pensi allimpatto che questa struttura esercita sulla fecondit, sulla mortalit, sulla migratoriet e, ancor pi direttamente, su altre strutture di popolazione come, ad esempio, laggregazione degli individui in famiglie della quale la struttura per stato civile viene spesso assunta come indicatore indiretto. Inoltre, vedendo la struttura per stato civile non come una causa ma come un effetto, essa dipende strettamente da altre modificazioni strutturali, in particolare dallinvecchiamento della popolazione e, di conseguenza, sta subendo in questi anni modificazioni che meritano unattenta considerazione. Un ostacolo che si tradizionalmente opposto alla piena utilizzazione negli studi demografici di questa variabile strutturale costituito dalla disponibilit dellinformazione analitica sullo stato civile della popolazione solo in coincidenza dei censimenti; un ostacolo che si tentato di superare mediante diversi tentativi di stima e seguendo due approcci diversi. Da un lato, utilizzando metodologie analoghe a quelle seguite nella periodica ricostruzione della popolazione per sesso ed et, si proceduto a valutazioni della struttura per stato civile partendo dai dati censuari e aggiornandoli con i dati correnti relativi alle nascite, alle morti, ai matrimoni e a stime dei saldi migratori (Rossi, 1984; Castiglioni, 1989; Giorgi, 1990). Dallaltro, elaborando modelli (deterministici o stocastici, micro o macro) in grado di ricostruire la struttura per stato civile sulla base di probabilit di transizione tra stati diversi (Espenshade e Braun, 1982; Espenshade, 1985; Keilman, 1985). Questultimo approccio in particolare, pur essendo stato adattato anche a trattare finalit di tipo operativo (ricostruzione, previsione), si presta molto bene a finalit di tipo analitico, quali quella di evidenziare le strutture implicite a particolari regimi di nuzialit, mortalit e divorzialit attraverso la simulazione della storia di vita matrimoniale di una generazione fittizia di donne (e/o di uomini) sottoposte a prefissate probabilit di subire gli eventi e ricostruendo la struttura per stato civile della corrispondente popolazione stazionaria (che sar di conseguenza caratterizzata non so-

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lo dalla costanza della struttura per et, ma anche di quella per stato civile). 6.2. Famiglie e strutture familiari La famiglia rappresenta il luogo privilegiato in cui lindividuo assume le sue decisioni, siano queste di natura demografica (la nascita di un figlio, ad esempio), economica (entrare o meno nel mercato del lavoro, stabilire uno standard di consumi, risparmiare ed, eventualmente, investire e cos via) o sociale (mantenere o cambiare la propria residenza, ampliare o restringere la rete di relazioni interpersonali, impiegare il tempo libero in un modo piuttosto che in un altro, indirizzare i figli verso particolari iter formativi e cos via). Sempre pi si riconosce al micro-ambiente famiglia un ruolo centrale nel condizionare stili di vita, condizioni e comportamenti. In pi, la famiglia costituisce da sempre un ambiente che garantisce la mediazione tra lindividuo e la societ e una sorta di camera di compensazione delle pi fondamentali esigenze, soggettive e oggettive, degli individui e, soprattutto, di quelli pi deboli. Un ulteriore aspetto, non certo il meno importante, rappresentato dal fatto che il tipo di struttura familiare in cui lindividuo inserito rappresenta esso stesso il risultato di una scelta (forzata, si ironizza a volte, facendo riferimento soprattutto alla crescente incidenza di persone anziane che vivono sole) e pu quindi essere assunto come indicatore degli atteggiamenti culturali prevalenti e delle loro modificazioni. Sono quindi molteplici le ragioni che spingono verso una sempre pi approfondita conoscenza dei meccanismi di aggregazione degli individui in famiglie e delle modificazioni che questa unit associativa elementare subisce nel corso del tempo. Linteresse che la demografia dedica al tema delle famiglie vanta una lunga tradizione (per unampia rassegna si veda Federici, 1984). Gran parte dei comportamenti demografici trae infatti la sua origine, e spesso la sua giustificazione, da questo contesto e ben difficilmente si possono interpretare tali comportamenti se non facendovi espresso riferimento. Si pensi, a questo proposito, alle pi recenti teorie interpretative della fecondit come, ad esempio, la new home economics e quella del contratto intergenerazionale di Ryder (1984). Problemi di definizione. Numerosissimi e complessi sono i problemi, di ordine sia concettuale sia operativo, che si debbono affrontare nello studio delle famiglie e delle loro caratteristiche strutturali; ciascuno di questi stato oggetto in Italia di numerosi contributi. In primo luogo

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c il problema di definire che cosa debba intendersi per famiglia. Le possibilit sono molteplici e variano in funzione dei criteri che vengono adottati per definire il contorno (spaziale e/o funzionale) della famiglia e le relazioni interne tra i membri (De Sandre, 1986). Le due fondamentali rilevazioni dalle quali sono tratte le informazioni riguardanti le famiglie in Italia, il censimento e lindagine Istat sulle strutture e i comportamenti familiari (condotta per la prima volta nel settembre 1983 e poi confluita nellindagine multiscopo di cui si detto precedentemente), adottano definizioni formalmente molto simili ma che portano a disegnare immagini della realt significativamente diverse (per una puntuale illustrazione delle definizioni di famiglia adottate nellambito dei successivi censimenti condotti dal 1861 al 1981 si veda Cortese, 1986; relativamente alla definizione e alla procedura di rilevazione adottati dallindagine Istat, si veda Roveri, 1986). Molto sinteticamente, le differenze di definizione possono essere ricondotte alla preminenza che nellindagine viene attribuita al criterio della coabitazione, e quindi allidentificazione della famiglia come unit residenziale, prescindendo dallaltro criterio adottato dal censimento di unicit della funzione di consumo. Tali differenze, comunque, non sarebbero in grado di giustificare da sole la diversa valutazione che le due fonti danno delluniverso-famiglie. Per questo, si deve piuttosto fare riferimento alla particolare procedura di rilevazione adottata dallindagine che prevede la mediazione e laccertamento dei requisiti, da parte di un rilevatore che conduce attivamente lintervista figura del tutto assente nel censimento e che valuta la situazione di fatto piuttosto che quella risultante in anagrafe (la famiglia di carta) alla quale il censimento continua a mantenersi pi legato. Una volta adottata una definizione di famiglia, si procede alla considerazione delle relazioni tra i membri e allidentificazione di una tipologia strutturale che le descriva il pi compiutamente possibile. Le raccomandazioni che vengono formulate attualmente si orientano verso la necessit di pervenire allindividuazione delle unit familiari minime famiglie composte da una sola persona, coppie senza figli, nuclei familiari o biologici, nuclei monogenitore che possano, con la loro successiva aggregazione, dare conto, eventualmente, di tipologie pi complesse. Unindicazione che consente anche di rendere pi agevole lindividuazione di unit familiari omogeneamente definite in ambito internazionale e, quindi, comparabili. C poi un ultimo aspetto che, seppure limitatamente ad alcuni tipi particolari di ricerca che seguono un approccio longitudinale, riveste unimportanza non trascurabile. Si tratta dellintroduzione dellelemento

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dinamico del ciclo familiare (Bongaarts, 1983; De Sandre, 1985) che consente di ricostruire la storia di vita dellunit familiare attraverso le fasi della sua costituzione, del suo sviluppo, della sua recessione fino alla sua trasformazione o alla sua estinzione. Lindividuazione di una definizione dinamica di famiglia pone problemi ancor pi complessi di quelli visti per la definizione statica (sulla quale si basa), dovendo individuare anche gli eventi che possono rappresentare i momenti di passaggio da una fase allaltra e le regole di continuit che consentono di seguire una famiglia nonostante le trasformazioni che essa subisce nel corso del tempo (Rossi, 1983). Superati i problemi di definizione, e prima ancora di procedere alla stratificazione della popolazione secondo i diversi tipi di famiglia, c ancora da stabilire in che modo la famiglia e la sua struttura rientrino nellanalisi: se in qualit di contesto nel quale viene a collocarsi lindividuo, che rimane comunque lunit di riferimento dello studio, o se in qualit di unit di riferimento e di analisi essa stessa. I due approcci si presentano nettamente diversi, relativamente sia ai risultati che ne derivano sia alle metodologie utilizzabili, ed essendo il secondo molto pi complesso del primo, da un punto di vista tanto concettuale quanto operativo, appena si esca da unottica puramente descrittiva gli studi che mantengono la centralit dellindividuo sono molto pi numerosi. Gli studi demografici sulle famiglie. naturale che le profonde trasformazioni culturali che si sono determinate in questi anni abbiano stimolato un interesse conoscitivo sulle caratteristiche delle famiglie e sulle modificazioni dei loro profili demografici. Un interesse che si manifestato in un gran numero di studi a carattere prevalentemente descrittivo in ambito sia nazionale (Cortese, 1978; 1986; de Sarno Prignano, 1978; De Sandre, 1980; Cisp, 1982; Blangiardo, 1984a; Palomba e Menniti, 1986; Golini, 1986; 1987; Roveri, 1986; 1988), sia internazionale (Roussel e Festy, 1979; Roussel, 1983; 1986; Glick, 1984; Festy, 1985; Prioux, 1987; Keilman, 1988a; Hopflinger, 1990). Per lItalia, questo sforzo conoscitivo ha trovato un valido supporto nellimpegno dedicato dallIstat allacquisizione di informazioni sempre pi adeguate a cogliere gli aspetti rilevanti del fenomeno e sempre pi tempestive (Roveri e Russo, 1984; Istat, 1985). Questo impegno ha permesso di delineare le modalit delle profonde trasformazioni che si sono prodotte e, al tempo stesso, di confutare alcuni stereotipi pessimistici sulla sopravvivenza della famiglia che erano andati diffondendosi nellopinione pubblica sullonda di comportamenti affermatisi in altri paesi sviluppati. Indubbiamente il crollo della fecondit, lallungamento della

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durata media della vita, linvecchiamento demografico, hanno modellato la tipologia familiare esaltando il peso dei tipi di dimensione pi ridotta. Al tempo stesso, il modo di vita urbano ha prodotto una nettissima contrazione del numero e dellimportanza relativa delle famiglie estese e polinucleari, contribuendo anchesso alla riduzione della dimensione media delle famiglie (Golini, 1986). Ma la situazione ancora ben lontana dal mostrare gli elementi di quella crisi generalizzata che viene denunciata in altri paesi europei (De Sandre, 1981; Hoffman-Nowotny, 1987; Roussel, 1989; Hopflinger, 1990). La tipologia familiare pi diffusa resta, oggi come ieri, la famiglia nucleare (composta da entrambi i genitori e dai figli), seguono, con pesi pressoch analoghi, le persone sole e le coppie senza figli, mentre le famiglie monoparentali, che costituiscono una preoccupazione maggiore in paesi dove il divorzio ha una notevole incidenza (in Italia si valuta che sciolga circa il 5 % dei matrimoni, contro proporzioni del 35-45 % nei paesi dellEuropa settentrionale e negli Stati Uniti), sono ancora unesigua minoranza (Roveri, 1988) e comunque caratterizzate da unet media dei componenti piuttosto elevata (tipicamente si tratta di vedovi o vedove conviventi con figli gi grandi). Un interesse del tutto particolare, non scevro da elementi di preoccupazione, ha suscitato il rapido affermarsi del tipo familiare persone sole, confermato anche se lievemente ridimensionato, dallindagine Istat che coglie, come si diceva, le famiglie di fatto. La preoccupazione fondata sulla considerazione che pi della met delle persone che vivono sole rappresentata da anziani (Roveri, 1987), un fenomeno che evoca immagini di solitudine ed emarginazione. Se si aggiunge la tipologia coppia senza figli, anchessa in aumento e formata per la grande maggioranza di anziani (la fase del ciclo familiare che gli anglosassoni chiamano del nido vuoto, susseguente alluscita dei figli dalla famiglia di origine), il quadro diviene ancora pi preoccupante. Abituati culturalmente a delegare alla famiglia gran parte dei problemi di assistenza e solidariet, lemergere della figura dellanziano solo, o in coppia, crea indubbiamente disagio. E possibile comunque che questa sensazione sia, almeno in parte, ingiustificata e gli studi, sempre pi approfonditi, che si vanno conducendo sulle condizioni di vita degli anziani incoraggiano a una visione pi ottimistica (Pinnelli, 1986; Roveri, 1987). Esiste una notevolissima variabilit di contesti, situazioni e motivazioni che possono portare lanziano a vivere da solo: se per alcuni la scelta forzata e vissuta in modo negativo, soprattutto quando si accompagna a precarie condizioni economiche o di salute, per altri essa una scelta di autonomia e indipendenza alla quale ben difficilmente saprebbero rinuncia-

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re. Non di rado, ad esempio, lautonomia residenziale resa possibile nelle societ moderne dalle migliorate condizioni economiche dellanziano rafforza piuttosto che indebolire i legami di solidariet intergenerazionale (Roussel e Bourguignon, 1976; Laslett, 1985). auspicabile che gli sviluppi futuri della ricerca demografica nel campo dellanalisi conoscitiva delle famiglie tengano maggiormente conto di questi aspetti differenziali e dei profili qualitativi accanto a quelli quantitativi. A questo fine sarebbe quanto mai auspicabile una stretta collaborazione tra i demografi e i sociologi, per i quali il tema della famiglia costituisce da Durkheim in poi un campo privilegiato di analisi (Sgritta, 1984; 1986). Sempre in tema di studi che prendono come oggetto le famiglie, c poi da segnalare limportante capitolo rappresentato da quelli che mirano a individuare i meccanismi demografici di formazione, sviluppo ed estinzione delle unit familiari. E questo un campo in cui la metodologia demografica trova la pi ampia possibilit di applicazione e sviluppo e, al contempo, le maggiori difficolt. Rappresentare analiticamente la formazione di una famiglia e seguirne levoluzione nel tempo costituisce infatti una delle maggiori sfide metodologiche: tutti i pi importanti fenomeni demografici (nuzialit, fecondit, mortalit, migrazioni, divorzialit) intervengono a modellare lunit-famiglia e ogni fenomeno necessita di essere riferito a ciascuno dei componenti del gruppo familiare. In pi, esiste il problema di dover considerare simultaneamente le componenti maschile e femminile della popolazione, fatto che comporta, come si detto parlando di strutture per stato civile, notevoli problemi di compatibilit e congruenza. Gli approcci che vengono seguiti sono dei pi vari: ci sono esempi di modelli deterministici e stocastici, di modelli statici e dinamici (per unampia rassegna si vedano Bongaarts, 1983; Holmberg, 1987; Keilman, 1988b). Nella versione statica, essi consentono una valutazione dellimpatto sulle famiglie (sul loro numero e sulla loro composizione interna) dei comportamenti demografici, in unottica di simulazione di storie di vita familiare cos come queste verrebbero conformandosi qualora gli individui fossero sottoposti a prefissati rischi di subire i diversi eventi (Rossi, 1975; Bertino et al., 1988; Egidi e Tomassetti, 1988). Nella versione dinamica, essi costituiscono uno strumento potenzialmente molto efficace di previsione del futuro andamento del numero di famiglie e della loro composizione interna (Blangiardo, 1984b; Keilman, 1988b; Richards et al., 1985). Uno strumento che consentirebbe di superare il discusso metodo dei tassi di capifamiliarit seguendo il quale le previsioni delle famiglie (e solo del loro numero) vengono ottenute come

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proiezione derivata di quella della popolazione, sulla base di ipotetici andamenti delle proporzioni di capi-famiglia in ciascuna classe di et (Istat, 1990; Sorvillo, 1990a; 1990b). E certamente proprio la demografia formale della famiglia (Bongaarts, 1983) il campo di ricerca che merita di concentrare lattenzione dei demografi nei prossimi anni. La potenzialit analitica e operativa che la modellistica pu mettere a disposizione dello studio delle famiglie notevolissima. Si pensi, ad esempio, alla possibilit di separare allinterno del complesso meccanismo di formazione e sopravvivenza della famiglia quanto derivi dal comportamento demografico e quanto dal comportamento sociale ed economico. Non un caso che gli economisti pi sensibili ai problemi della popolazione stiano riflettendo sulla possibilit di rappresentare il processo di aggregazione in famiglie come un processo a due stadi: il primo, regolato prevalentemente dal comportamento demografico, che porta alla formazione delle unit familiari minime, in cui dominano i legami biologici o di coppia; il secondo, dovuto allaggregazione delle unit minime in famiglie in funzione di motivazioni di ordine economico, sociale e culturale (Ermisch, 1988). Ma si pensi anche allutilizzazione che di questi modelli si pu fare per affrontare problemi specifici come, ad esempio, quello rappresentato dalla valutazione di dellimpatto sulle pensioni di reversibilit di particolari regimi demografici (Tomassetti, 1979) o quello della stima del fabbisogno abitativo in funzione non solo del numero, ma anche della dimensione e della struttura delle famiglie (Ricci, 1984; Chelli et al., 1987; Vitali, 1987b). 7. Quali prospettive per la ricerca? Tra le indicazioni che pi frequentemente si sono viste emergere, quella relativa allaccresciuta eterogeneit tra gli individui che appartengono alla stessa popolazione senzaltro una delle pi ricorrenti. Da un lato, questo sicuramente un fenomeno reale indotto dalla maggiore complessit delle societ moderne rispetto a quelle tradizionali; dallaltro, pu essere un artefatto statistico prodotto dalla maggiore disponibilit di informazioni e dai pi potenti strumenti metodologici e di calcolo che consentono analisi sempre pi approfondite. Questa nuova ricchezza di informazioni e di strumenti merita di essere sfruttata meglio. Cos, ad esempio, da un punto di vista descrittivo, la considerazione congiunta di pi caratteri e lutilizzazione di opportuni metodi di classificazione potrebbe consentire di aggregare gli individui in gruppi che minimizzino leterogeneit interna. Lo studio

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delle caratteristiche strutturali si avvantaggerebbe da un simile approccio dal fatto di poter operare sulla popolazione senza eccessiva perdita di informazione e senza penalizzare troppo la variabilit dei caratteri rilevanti. In questa direzione, anche lIstat si sta orientando gi nella fase di presentazione dei risultati delle sue indagini in modo da offrire agli utilizzatori la possibilit di lavorare su popolazioni con una ricchezza informativa non minore di quella che avrebbero se lavorassero su individui (Di C iaccio e Sabbadini, 1990). Del resto, la necessit di contare su classificazioni della popolazione per gruppi omogenei non limitata ai soli studi di struttura. Anzi, gli inconvenienti maggiori delleterogeneit interna dei gruppi utilizzati come base delle analisi si manifestano soprattutto negli studi di demografia differenziale e, in particolare, in quelli finalizzati allinterpretazione del comportamento demografico attraverso lanalisi delle differenze tra gruppi. Un altro aspetto sul quale forse utile attirare lattenzione fa riferimento a un meccanismo ben noto ai demografi ma che spesso rimane talmente sullo sfondo delle analisi da sfuggire alla percezione del lettore meno attento. Si tratta del processo che porta alla modificazione delle strutture di popolazione attraverso il susseguirsi e il sostituirsi delle diverse generazioni che ne fanno parte. Una lettura delle modificazioni strutturali in questottica illuminante, ad esempio, quando si tratti di problemi relativi allinvecchiamento della popolazione e alla valutazione delle sue conseguenze. Essa consente di valorizzare, infatti, tutta una serie di informazioni di cui gi disponiamo sulla popolazione che sar anziana domani, la cui storia di vita per la gran parte gi disegnata, e di avere una percezione, anche intuitiva, delle modificazioni qualitative che ci si possono attendere per il futuro. Unultima indicazione, che emerge da tutti gli studi e sulla quale si giocher molto della possibilit di sviluppo futuro della conoscenza, rappresentata dalla necessit di una maggiore integrazione disciplinare. Tutti i fenomeni che riguardano il comportamento demografico, e chi modellano le strutture di popolazione, rappresentano una sintesi di caratteri e atteggiamenti che hanno le loro radici nelle diverse dimensioni umane (biologica, psicologica, sociale, culturale, economica). Solo una corrispondente sintesi di competenze potr offrire gli strumenti concettuali e metodologici per progredire ulteriormente (Federici, 1987).

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Capitolo undicesimo Mobilit e insediamenti Gustavo De Santis

1. La difficile definizione delle migrazioni La mobilit territoriale costituisce, insieme con la fecondit e la mortalit, uno dei processi fondamentali di mutamento numerico e strutturale delle popolazioni umane. Daltra parte si discosta dagli altri due processi per tre aspetti fondamentali: 1) lintroduzione di una variabile aggiuntiva (lo spazio) di difficile trattazione; 2) la mancanza di basi biologiche e, quindi, 3) la necessit di adottare una definizione convenzionale del fenomeno. Unitamente alla tradizionale mancanza di dati adeguati, un limite oggi parzialmente superato, queste tre circostanze hanno comportato due motivi di rallentamento nei progressi epistemologici. In primo luogo, i tentativi di approfondimento si sono indirizzati principalmente verso le cause delle migrazioni e, in un secondo momento, verso i loro effetti; ma solo successivamente, in tempi relativamente recenti, si giunti a riflettere sulle caratteristiche intrinseche del fenomeno. In secondo luogo, emersa la difficolt di trovare una definizione universalmente valida di che cosa siano le migrazioni, in che cosa si distinguano dalla mobilit di altro tipo e quali dei loro aspetti meritino di essere approfonditi. Si tratta quindi, a ben riflettere, di difficolt che derivano dal problema pi generale di assenza di un quadro teorico consolidato per lo studio dei fenomeni demografici (si veda il capitolo di Livi Bacci, La demografia, in questa Guida), al cui interno inserire anche i movimenti migratori. Una migrazione lo spostamento della residenza abituale di un individuo tra due punti del territorio, significativamente diversi tra loro. Questa definizione classica stata attaccata sotto molti profili. In primo luogo, immaginare concentrato in un solo punto il baricentro della vita di una persona costituisce una semplificazione eccessiva. Da qui la proposta di sostituire il concetto di dimora abituale con quello, molto pi

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ampio, di spazio di vita, cio linsieme dei luoghi in cui lindividuo svolge le proprie attivit (Courgeau, 1988); oppure con quello di spazio vissuto, linsieme dei luoghi che una persona percepisce come propri (Micheli, 1990). In entrambi i casi, il concetto potrebbe essere operazionalizzato chiedendo direttamente a un campione di intervistati se, sotto uno o laltro dei due profili, c stata o meno una rottura , cio una discontinuit, rispetto alla situazione precedente, condizione necessaria per lindividuazione di una migrazione (Rosental, 1990). In secondo luogo, e nella stessa logica, si fa osservare che il problema non solo spaziale, ma anche temporale: per quanto tempo deve protrarsi una fuoriuscita da un dato territorio per essere considerata unemigrazione e non, ad esempio, unassenza temporanea o un fenomeno di pendolarismo (Micheli, 1990)? Infine, vi la difficolt di stabilire che cosa sia significativo e che cosa non lo sia nel cambiamento di residenza; il problema non ha soluzione se non si stabilisce rispetto a che cosa misurare la significativit. Se si privilegia un punto di vista micro, in cui la mobilit posta in relazione con le altre tappe del ciclo individuale e familiare (si veda il par. 7), sar probabilmente opportuno considerare tra le migrazioni qualsiasi cambio di alloggio, anche il passaggio nella casa di fronte; se invece si opera a un livello di aggregazione maggiore, in cui interessano gli effetti di ridistribuzione territoriale della popolazione, la maglia territoriale dovr essere pi larga ma, e questo uno dei problemi nello studio delle migrazioni, n la scelta in se stessa, n i suoi criteri appaiono oggi valutabili rispetto a qualche parametro oggettivo. Tale scelta, inoltre, salvo poche eccezioni (si veda il par. 5), ha uninfluenza rilevante sui risultati dellanalisi. Quello delle migrazioni dunque un terreno in cui non c perfetto accordo neppure sui caratteri fondamentali dellanalisi, quali lo spazio, il tempo e lo stesso oggetto di studio. Ma la distinzione oggi forse pi importante tra chi guarda al fenomeno dal punto di vista aggregato e tenendo presente le sue relazioni con altre macrovariabili (lapproccio tradizionale) e chi tende piuttosto ad analizzarlo in una prospettiva individuale (lapproccio moderno ): anche se in linea di principio i due approcci, macro e micro, sono complementari e non antagonisti (Livi Bacci, 1990), la loro riconciliazione appare ancora difficile. Questa considerazione, valida in generale, assume particolare rilevanza nel caso delle migrazioni perch, come si accennato e come si ripeter, il fenomeno sembra assumere caratteristiche anche profondamente diverse a seconda del livello al quale si conduce lanalisi. Nel frattempo, Federici (1991) ha riproposto con forza una visione

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classica dello studio delle migrazioni che, pur avvalendosi dei progressi ottenuti anche a livello micro, non cede per alla tentazione di cercare di comprendere un po tutto sotto letichetta di mobilit (quella geografica, sociale, di spazio vissuto e cos via) con il rischio, concreto, di non riuscire a approfondire nulla. 2. La descrizione del fenomeno Soprattutto in un paese di tradizionale emigrazione come lItalia, i grandi flussi migratori internazionali, spesso addirittura intercontinentali, accompagnati, poco pi tardi, da altrettanto imponenti flussi ridistributivi interni (da sud a nord, dalle montagne e dalle colline alle pianure, dalle campagne alle citt e cos via), sono stati i processi che pi hanno attirato lattenzione dei demografi e degli studiosi di numerose altre discipline (economia, sociologia e cos via). La prima esigenza stata quella di descrivere e quantificare il fenomeno: ne sono derivati numerosi studi, centrati su epoche storiche e aree geografiche diverse, che sarebbe troppo lungo elencare in questa sede1. Parallelamente, in Italia si sviluppato un dibattito sulle fonti, che ha comportato lintroduzione, a partire dal censimento del 1971, di una domanda retrospettiva sulla residenza cinque anni prima2. Con questa operazione, seguendo lesperienza di altri paesi industrializzati3, lItalia ha fatto del censimento una fonte utilizzabile anche per lo studio della mobilit, interna e dallestero, con qualche limite ma con il vantaggio, peculiare a questa fonte, di avere, associata allinformazione sulla mobilit, una rilevante massa di indicazioni sulle altre caratteristiche demografiche e socio-economiche correnti (e, in alcuni casi, passate), sia dei migranti sia dei non migranti. Questo filone di studi, nonostante una recente accelerazione della produzione da parte dei demografi italiani (Clerici, 1988; 1990; Rossi e Clerici, 1988; Rossi, 1990), sembra avere ancora molte prospettive di approfondimento, a livello sia macro sia micro (si veda il par. 7).
1 Va per ricordato il lavoro di ricostruzione di un secolo di esperienza migratoria italiana curato da Rosoli (1978). Si veda anche la rivista Studi emigrazionelEtudes migrations, in particolare nei suoi numeri 100 (1990), che contiene una bibliografia completa e guidata di tutti i contributi dei primi 99 numeri, e 96 (1989), dal titolo Rassegna bibliografica sullemigrazione e sulle comunit italiane allestero, dal 1975 ad oggi. 2 Nel 1971 anche su dieci anni prima, ma il quesito stato poi abbandonato nei censimenti successivi. 3 Alcuni dei quali chiedono per di indicare la residenza un solo anno prima, o, pi raramente, altre cose ancora (Courgeau, 1980; 1988; Clerici, 1988).

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LItalia, per, insieme con pochi altri paesi al mondo, dispone anche, fin dal 1929, dei dati sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche per trasferimento di residenza: una fonte di studio preziosa, che tuttavia stata a lungo sottoutilizzata, in parte perch ritenuta di scarsa affidabilit, soprattutto per ci che riguarda le migrazioni allestero (si veda ad esempio Courgeau, 1980). Questa sfiducia nella fonte, che non appare ingiustificata come hanno evidenziato anche alcuni risultati del censimento 1991 sembrata per eccessiva a chi riteneva che, con opportuni accorgimenti, la ricchezza delle informazioni ne compensasse i limiti Questa rivalutazione della fonte anagrafica si deve a un gruppo di studiosi facente capo allUniversit di Pisa (Bonaguidi, 1985; Termote, 1988); essa si concretizzata in particolare in due metodologie di studio: 1) i modelli di migratoriet per et; 2) i modelli di popolazione stabile multiregionale. Occorre qui aprire una parentesi su questi modelli. Cominciamo dai secondi, che derivano da unestensione del modello stabile a-spaziale di Lotka (1939), in particolare nella sua forma discreta, matriciale (Leslie, 1945). Lintento originario era lo studio su una popolazione degli effetti strutturali generati dal mantenimento (quindi dalla costanza nel tempo e per et) di certe leggi di fecondit e di mortalit. A queste due condizioni se ne pu aggiungere una terza: la costanza (nel tempo e per et) della propensione a spostarsi da una regione i a una regione j, allinterno di un dato territorio. Si dimostra che, in questo caso, lo stato stabile finale (cio la costanza di struttura per et e di tasso di crescita) raggiunto non solo sul territorio nel suo complesso, ma anche allinterno di ogni singola regione: tutte finiscono con il crescere allo stesso tasso, ma ognuna raggiunge e mantiene costante una sua peculiare struttura per et. Entrambe queste caratteristiche risultano indipendenti dalle condizioni di partenza (numerosit e struttura per et della popolazione) e si dimostrano essere determinate esclusivamente dai flussi demografici (Rogers, 1968; 1975; Rogers e Willekens, 1986). Daltra parte, lipotesi dellapplicabilit delle catene di Markov (costanza nel tempo e per et dei tassi di migratoriet da i a j) si dimostra empiricamente poco adeguata, giacch i flussi migratori sono invece soggetti a mutamenti anche radicali e repentini che si riflettono nello stato stabile finale cui porta il modello. Proprio per questa loro caratteristica instabilit, tali modelli sono utilizzati non a fini previsivi (e neanche di semplice estrapolazione), ma solo per descrivere il presente con una strumentazione diversa da quella consueta, cio in termini di stock e non di flussi.

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Lapplicazione di questo metodo alle regioni italiane, con propensioni migratorie calcolate sulla base dei dati anagrafici, porta quindi a valutare gli effetti del mantenimento di certe leggi in termini, ad esempio, di peso finale raggiunto dalle varie regioni sul totale della popolazione italiana, quota di vita passata nelle varie regioni in funzione della regione di nascita, contributo regionale al tasso di crescita nazionale, struttura per et regionale limite e cos via (Termote, 1985; Termote e Bonaguidi, 1990). Laltro sviluppo teorico di cui si diceva i modelli di migratoriet per et nato ancor pi recentemente (Rogers e Castro, 1981). Lo scopo in questo caso approssimare la curva empirica dei tassi di migratoriet specifici per et con una curva modello, parametrizzata, concettualmente analoga a quelle proposte per altri fenomeni demografici, quali la fecondit naturale, la mortalit, la nuzialit e cos via (United Nations, 1983). In questo caso, per, loperazione si presenta pi complessa, a causa della forma bi- e talvolta trimodale della curva dei tassi migratori per et4, la cui sintesi pu richiedere fino a 11 parametri. Lapplicazione di queste curve al caso italiano (Bonaguidi, 1985; 1987) consente di evidenziare la persistenza di alcuni squilibri migratori tra regioni che fanno riemergere, ancora agli inizi degli anni ottanta, quindi in un contesto totalmente diverso, aspetti del vecchio modello migratorio interno degli anni sessanta (si veda il par. 3). Si pu aprire qui una parentesi per segnalare che la compresenza, in Italia e in altri paesi industrializzati, di due fonti diverse per lo studio delle migrazioni (anagrafe e censimento) ha anche portato a interrogarsi sulla loro comparabilit. Il problema non di facile soluzione, dato che esse si concentrano su oggetti diversi (le migrazioni in un caso, i migranti sopravviventi nellaltro), le relazioni tra i quali possono variare in funzione di numerose circostanze (mortalit, migrazioni ripetute, migrazioni di ritorno e cos via; Courgeau, 1973; Maffenini, 1986; 1988). Tuttavia il problema pu in parte essere aggirato confrontando le due fonti non sul volume delle migrazioni, ma solo sulle tendenze della mobilit che esse esprimono: le differenze, in questo caso, pur non scomparendo del tutto, risultano considerevolmente attenuate (De Santis, 1987).
4 Con massimi relativi nelle et della prima infanzia (figli che si muovono con i genitori), adulta (con un punto di massimo assoluto intorno ai 20-30 anni) e, talvolta, anziana, in corrispondenza dellet al pensionamento e della migrazione che talvolta ne consegue. Va qui segnalato, tuttavia, che il valore dei parametri e degli indicatori sintetici che da essi si possono derivare muta anche sensibilmente al variare della scala dellanalisi (ad esempio, in Italia, nel passaggio da livello comunale a provinciale a regionale e cos via), come si era accennato nel paragrafo 1.

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La vita di una coorte di individui pu essere schematicamente descritta in termini di permanenza, per periodi di tempo variabili, in una serie di stadi (essere celibe, sposato, o non pi sposato; aver migrato 0, 1,, x volte e cos via), il passaggio tra i quali determinato da eventi (matrimonio e suo scioglimento; migrazione di ordine n e cos via; Willekens, 1990). In questo caso, si pu sintetizzare un insieme di corsi di vita, o biografie, attraverso una tavola multistato su cui possibile seguire le varie carriere (nuziale, migratoria e cos via), che possono essere tra loro indipendenti, complementari (ad esempio, dopo il matrimonio la fecondit aumenta) o concorrenti (ad esempio, la fecondit limita la carriera lavorativa della donna). In fase interpretativa, il riferimento a biografie avvicina questo tipo di analisi alla prospettiva individuale (si veda il par. 7), ma i dati utilizzati sono normalmente aggregati e di tipo trasversale e come tali risentono sia della congiuntura del momento, sia della difficolt di indagare e trattare analiticamente tutti i fenomeni di interazione tra carriere, che solo con un approccio individuale, di ricostruzione biografica, possono essere adeguatamente approfonditi. A dati longitudinali, nellinterpretazione e nella costruzione, si riferisce invece il tentativo di stima dei saldi migratori con lestero per generazioni di appartenenza (Ventisette, 1990a; 1990b). Lidea qui di natura quasi contabile: per le generazioni gi estinte, il saldo migratorio pu essere stimato come differenza tra i nati e i morti in Italia di quella particolare generazione; per le generazioni non ancora estinte, questo calcolo va integrato considerando anche il numero di membri di quella generazione ancora in vita allultima data certa disponibile (il censimento). Vi sono qui difficolt di ordine sia tecnico (occorre stimare i decessi per generazione di appartenenza, valutare criticamente la qualit dei dati e cos via) sia concettuale, perch il saldo migratorio stimato dopo che la generazione si estinta pu celare forti flussi di emigrazione in et lavorativa annullati (parzialmente) da rientri in et anziana. Daltra parte, il saldo non risulta comparabile tra le generazioni non ancora estinte, quindi censite in et diverse, a causa del diverso periodo di esposizione al rischio di emigrare e immigrare cui ognuna stata sottoposta. Tuttaltro che scontata poi lopportunit di usare il saldo migratorio come variabile di analisi, una scelta che alcuni autori osteggiano apertamente (Rogers, 1990), che appare priva di senso nel contesto degli studi centrati sullesperienza individuale (il migrante netto non esiste) e che non rientra neppure nellambito dei tre modelli macro di cui si detto (popolazione stabile multiregionale, modelli migratori per et e tavole multistato), i quali descrivono i flussi (cosiddetti lordi) di popolazio-

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ne tra un luogo di origine i e un luogo di destinazione 5. Eppure, luso del saldo migratorio, soprattutto come variabile dipendente nei modelli di regressione, pu essere giustificato e trova ancora oggi frequente applicazione (si veda il par. 3). Una parola va spesa infine per ricordare la proposta di stima indiretta dei flussi di emigrazione, anche in assenza di dati affidabili, interrogando un campione di persone sul numero di parenti stretti (figli, fratelli e sorelle) che si trovano allestero in un dato momento e riconvertendo opportunamente tale informazione in termini di tassi riferiti al complesso della popolazione (Zaba, 1986). Si tratta, come si pu capire, di un metodo indiretto che, in parallelo con tecniche analoghe nate per la stima di altri fenomeni demografici Mal documentati (ad esempio fecondit, mortalit e cos via; United Nations, 1983), specificamente rivolto allo studio di contesti poco sviluppati6. 3. La ricerca delle cause La prima interpretazione che viene alla mente riflettendo sulle cause dei movimenti migratori che il migrante ottenga (o pensi di ottenere) un miglioramento nella propria condizione a seguito dello spostamento. La scelta di migrare rientrerebbe dunque in una logica di ottimizzazione della condizione individuale, sotto certi vincoli (di tempo, informazione, bilancio e cos via), tipica della teoria rnicroeconomica del consumatore. A questo livello, lo strumento di analisi, non sempre esplicitato, allora la piace utility matrix (matrice di utilit delle localit), in cui ogni elemento u v, fornisce una misura dellutilit della variabile v alla localit i. Questa matrice, che contiene informazioni di tipo oggettivo, moltiplicata per un vettore di pesi, che varia da soggetto a soggetto e che misura limportanza di quella variabile nellambito della valutazione individuale di scelta della destinazione, fornisce una nuova matrice, questa volta soggettiva, in cui la somma degli elementiLsulla colonna rappresenta sinteticamente il valore che ogni individuo attribuisce a ciascuna localit, com-presa quella in cui si trova. E questa, in linea per puramente teorica, la base sulla quale vengono poi prese le decisioni di migrare (Bonaguidi, 1984).
5 Nelle tavole multistato si pu anche abbandonare la dimensione spaziale: lo stadio in cui si trova un individuo allora determinato non da dove o dove andato, ma semplicemente dal numero di migrazioni effettuate (Willekens, 1990; Santini, 1992). 6 Per la stima, invece, di immigrazioni dai paesi in via di sviluppo e presenza straniera in paesi sviluppati, in particolare in Italia, si vedano i paragrafi 4 e 8.

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A livello aggregato, a questo approccio, detto comportamentale (behavioral), corrisponde la stima dei flussi migratori tra larea i e larea j come variabile dipendente influenzata dalla differenza tra i e j in termini di un complesso di variabili, di attrazione (pull) o di repulsione (push)7, nonch dalla distanza tra i e j, misurata, non alternativamente, in chilometri, in lire e/o sulla base dei precedenti flussi migratori, una proxy della distanza affettiva e culturale. Tipicamente, in questa fase, si ipotizzano modelli di relazione lineari (o log-lineari) e si ricorre a tecniche di regressione multipla (Harris e Todaro, 1970; Barsotti, 1984; Bonaguidi, 1984). Manca qui Io spazio per presentare tutti i modelli riconducibili a questo tipo di approccio sinora proposti, in Italia e allestero, da demografi, economisti, geografi e cos via8. Tre aspetti meritano tuttavia di essere sottolineati. 1-1 primo che, per qualsiasi area geografica, la capacit esplicativa dei modelli (cio la percentuale spiegata della varianza dei flussi migratori) generalmente bassa e comunque peggiora nel corso del tempo. In particolare, diminuisce, fino a diventare spesso statisticamente irrilevante, il contributo delle variabili pi strettamente economiche (reddito, tassi di disoccupazione e cos via). Questa circostanza viene generalmente interpretata come rilevatrice della fine dellepoca dei grandi squilibri e dei conseguenti grandi travasi di popolazione, prima verso lestero e poi dalla montagna alla pianura, dalla campagna alla citt e, in particolare in Italia, da sud a nord. Secondo questa interpretazione, con gli anni settanta sarebbe finita lepoca delle migrazioni strutturali e ad essa sarebbe seguita la fase attuale di migrazioni ridotte per numero e per distanza percorsa, territorialmente pi equilibrate e determinate non pi dai fattori economici del vecchio modello, bens da variabili di tipo soft, tra le quali, in particolare, quelle legate al ciclo di vita familiare e alla carriera professionale (si veda il par. 7). Una visione dunque sostanzialmente ottimistica, che non per condivisa da tutti perch ignora la possibilit che lattuale scarsa mobilit territoriale costituisca un ulteriore elemento di rigidit del sistema (Livi Bacci, 1980) e che sia artificiosamente sostenuta e resa possibile dalla politica dei trasferimenti assistenziali (Agei, 1983; Fu, 1991).
7 Esempi possono essere il reddito pro-capite, il tasso di disoccupazione, la densit, laltitudine su livello del mare e cos via. 8 Si vedano per Barsotti (1985) e alcuni lavori condotti nellambito del progetto finalizzato CNR Struttura ed evoluzione delleconomia italiana, tra cui De Santis (1986); Ghilardi (1986); Saraceno (1987); Termote, Golini e Cantarmi (1987); CNR (1989); Musu (1989); Fu (1991).

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Il terzo aspetto che, alla base di questi modelli, vi lidea, spesso solo implicita, che ci che attrae nella localit i (bassa disoccupazione, reddito elevato, buona qualit della vita e cos via) non si trova in j e quindi che, se forte il flusso migratorio da i a j, dovrebbe essere debole il flusso contrario, da j a i. Si verifica invece esattamente lopposto, per due motivi: 1) chi ha gi effettuato una prima migrazione selezionato e ha una probabilit relativamente elevata di effettuarne altre, tra cui spesso anche migrazioni di ritorno (motivo comportamentale); 2) le aree geografiche pi piccole, di forma allungata9, sono anche quelle per le quali pi probabile che uno spostamento anche di breve raggio finisca per attraversare i confini, sia in ingresso sia in uscita (motivo statistico-definitorio). Statisticamente, questo fa s che vi sia una correlazione positiva tra ingressi e uscite di una determinata area geografica e che le variabili esplicative che funzionano per gli ingressi risultino valide anche per le uscite. Questa circostanza aiuta a comprendere alcuni dei motivi di insuccesso dei modelli di regressione di cui si detto e giustifica il ricorso alle due variabili derivate, saldo e flusso migratorio (rispettivamente differenza e somma di ingressi e uscite), come variabili dipendenti: nel primo caso i motivi che inducono un livello generale elevato di mobilit tra le localit i e j tenderanno ad annullarsi, lasciando in evidenza leffetto delle sole variabili di attrazione e repulsione; nel secondo, viceversa, saranno gli aspetti differenziali a essere messi in sordina, per lasciare spazio ai motivi che inducono una mobilit generale pi o meno elevata (De Santis, 1985). La nuova fase di mobilit territoriale ridotta e complessivamente equilibrata, in cui sono entrati, prima dellItalia, tutti i paesi industrializzati, ha rafforzato linterpretazione che la vedeva legata alle grandi trasformazioni demografiche della fase della transizione. Le aree soggette a una forte crescita di popolazione (per la riduzione della mortalit, in un periodo di natalit ancora elevata) si liberano degli eccedenti di popolazione mandandoli oltre confine, verso terre pi vuote, allo scopo di riequilibrare il rapporto tra popolazione e risorse (Chesnais, 1986; Livi Bacci, 1989). Ci si domanda per se questo schema, proposto per la storia demografica e migratoria dei paesi ora sviluppati, possa valere anche per i paesi in via di sviluppo (Pvs). La conclusione apparentemente pi ovvia (e poli9 Per meglio dire, quelle per cui pi elevato il rapporto tra lunghezza dei confini e superficie territoriale.

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ticamente pi temuta) che la storia si ripeter e che i paesi sviluppati di oggi saranno presto invasi da immigrati provenienti da quelle aree che oggi attraversano una turbolenta fase di transizione demografica, con tassi di crescita naturale molto elevati (3% e oltre) e con economie deboli, incapaci di assorbire la prossima dirompente offerta di forza lavoro. Eppure, vi sono anche elementi per ritenere che la storia seguir in questo caso un corso diverso. I paesi industrializzati hanno posto restrizioni nellaccesso alle loro frontiere e, pi in generale, hanno influenzato la fase della transizione demografica nei Pvs: la storia recente delle migrazioni internazionali, anche nelle aree pi calde, come il confine tra Messico e Stati Uniti (Massey, 1988) o il bacino mediterraneo (Rettaroli, 1990), indica che tali flussi sono stati sinora molto inferiori a quelli che ci si sarebbero dovuti attendere sulla base di una semplice ripetizione del passato (Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1991). Tali flussi, daltro canto, in parte interessano e in parte preoccupano i paesi industrializzati, che ancora non sanno valutare il bilancio dei pro e dei contro delle migrazioni dallestero (si veda il par. 4). Nel dubbio, come si detto, prevalsa lopinione di cercare di rallentare il flusso degli arrivi non solo con controlli di polizia ai confini, ma anche promuovendo una politica di sviluppo economico nei paesi di origine. Tuttavia, esperienza empirica e riflessioni teoriche hanno mostrato che promuovere lo sviluppo nei Pvs porta, nel breve e nel medio periodo, alleffetto opposto, di crescita dei flussi migratori internazionali (United Nations, 1990). La spiegazione di questo apparente paradosso fa leva, in sintesi, sul differente tasso di crescita delle aspettative rispetto alle condizioni di vita correnti e ragionevolmente prevedibili per il prossimo futuro: non sarebbe quindi il livello di vita in assoluto a contare, per quanto misero esso possa essere, ma quello relativo a ci che si ritiene di poter raggiungere, eventualmente anche con la migrazione (Massey, 1988; 1990). Questo processo si svilupperebbe per in pi tappe: in un primo momento si ha la rottura dei tradizionali equilibri economici e demografici della societ contadina, con creazione di disuguaglianze sociali e territoriali e con circolazione di informazioni riguardo a tali disuguaglianze. Si determina cos linizio del fenomeno migratorio che, una volta nato, tende ad autoalimentarsi, perch il processo decisionale ha luogo a livello familiare e non solo individuale: la presenza di qualche membro della famiglia gi allestero diminuisce il costo di ulteriori emigrazioni (dato che si hanno informazioni e punti di appoggio nel luogo di destinazione) e daltra parte, grazie alle rimesse, contribuisce significativamente al benessere della famiglia, che viene cose a costituire, per chi era rimasto, un esempio da imitare.

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Tale processo pu proseguire anche per un certo periodo di tempo dopo che le differenze di opportunit (di reddito, di lavoro e cos via) tra i luoghi di origine e di destinazione si sono ormai attenuate: sia perch la catena migratoria, come si detto, si autoalimenta, sia perch la strategia familiare, soprattutto in contesti di tenore di vita basso, vicino alla sussistenza, pu portare a preferire, anche a parit di retribuzione, una differenziazione delle fonti di reddito familiare (quindi anche un allontanamento dei luoghi di lavoro dei suoi membri, dislocati in aree non soggette agli stessi cicli economici) come forma di assicurazione contro i periodi di crisi. Si noti quindi il cambio (anche se non il rovesciamento) di prospettiva rispetto allimpostazione precedente, che ricorda molto da vicino analoghi sviluppi osservati nella teoria microeconomica (Zamagni, 1984; Phelps, 1985). Vi per ancora una scelta razionale tra una serie di alternative: 1) il soggetto che prende le decisioni non pi un singolo individuo, ma ununit pi complessa, la famiglia (o limpresa); 2) lobiettivo non pi solo quello di massimizzare il reddito (o il profitto): prioritario diventa ora garantire la sopravvivenza dellunit nel pi lungo periodo, in un contesto di incertezza e di imperfetta conoscenza del presente e, soprattutto, del futuro; 3) linformazione non un bene libero, cio disponibile sul mercato a costo nullo10, ma deve essere ottenuta con un processo che richiede tempo e investimenti; 4) la migrazione non risponde solo e necessariamente a un processo assimilabile a quello economico di allocazione ottima dei fattori produttivi: ha una vita in parte autonoma (perch si autoalimenta), pu essere causata anche da ragioni diverse (il desiderio di diversificazione delle entrate familiari) e varia in funzione della disponibilit di informazioni. 4. Gli effetti delle migrazioni e le migrazioni internazionali verso lItalia In parallelo con levoluzione del modo di intendere le cause del movimento migratorio, si mossa anche linterpretazione degli effetti (Cappellin, 1983; Barsotti, 1984). Come si detto, in un primo tempo si pensava, con logica neoclassica, che lo spostamento dei migranti/lavora10 In economia, si fa riferimento a questo concetto con lespressione banditre walrasiano, per designare lesistenza di un processo gratuito e immediato di diffusione dellinformazione, che consente di ottimizzare sia lallocazione dei fattori di produzione sia:le scelte di consumo.

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tori fosse assimilabile al processo di allocazione ottima dei fattori nel processo produttivo, che la loro retribuzione (salari e stipendi) fosse direttamente proporzionale alla loro produttivit e, in breve, che la mano invisibile smithiana avrebbe agito per il benessere di tutti e di ciascuno, a patto che non fosse intralciata da interventi esterni alla logica di mercato, in primo luogo interventi governativi. A questa visione ottimistica si contrappone quella pessimistica dello sviluppo polarizzato o cumulativo (Myrdal, 1957): la fuoriuscita di migranti da unarea non riduce solo lofferta di lavoro, ma anche lattivit economica nel suo complesso e quindi la domanda di lavoro. Perci non necessariamente vero che lemigrazione contribuisce ad alleggerire la pressione e migliorare le condizioni di chi resta: anzi, potrebbe essere vero lopposto, come suggeriscono numerosi studi a carattere locale. Infine, si sviluppata una linea di pensiero che tende a privilegiare gli aspetti positivi della mobilit a breve raggio, caratterizzata da circolarit e non da polarizzazione (Fu e Zacchia, 1983; Fu, 1991); questo fatto contribuisce alla formazione di una vera e propria regione in senso funzionale (Tinacci Mossello, 1984). Si ha inoltre una miglior informazione dei migranti sulle reali condizioni nelle aree di arrivo (si veda il par. 3) e una maggior vicinanza culturale tra queste e le zone di partenza (Buzzetti, 1978). Questultimo punto di vista si inserisce nel dibattito, cui manca per ancora un punto di approdo, sullinterpretazione da dare alle nuove tendenze migratorie, ovvero sugli effetti che queste producono. Il problema pu essere scisso in due parti, collegate tra loro. Da un lato vi la forte diminuzione della mobilit interna nel nostro paese, passata da pi di un milione e mezzo di trasferimenti annui di residenza negli anni sessanta a poco pi di un milione allinizio degli anni novanta. A questo si accompagna inoltre la diminuzione della cosiddetta efficacia delle migrazioni, che misura, in sostanza, quanto muta la distribuzione territoriale della popolazione in seguito alle migrazioni avvenute in un certo periodo in rapporto all energia spesa, ovvero al volume degli scambi migratori (Golini, 1987; Bonifazi e Cantalini, 1988). Come accennato nel paragrafo 3, ci documenta lormai avvenuto riequilibrio tra la distribuzione territoriale delle risorse, da una parte, e quella della popolazione, dallaltra, con conseguente esaurimento della necessit dei grandi travasi migratori (Golini, 1977; 1978; 1979a; 1979b), bench interpretazioni meno benevole vi vedano anche un nuovo elemento di rigidit del sistema (Livi Bacci, 1980). Su questo argomento si potrebbe dire qualcosa di pi se si disponesse di qualche strumento per valutare la congruit tra la distribuzione

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e la mobilit territoriale della popolazione da una parte e le caratteristiche del sistema socio-economico dallaltra. Si tratta per di unoperazione estremamente difficile, a causa anche dei diversi tempi che caratterizzano la sfera economica, con variabili molto reattive agli stimoli esterni, e la sfera demografica, le cui grandezze di solito si modificano invece solo lentamente. Emblematico, a questo proposito, il caso dei flussi migratori internazionali. LItalia si trovata a dover affrontare, nellordine, tre problemi diversi: 1) lemigrazione allestero dei propri residenti fino ai primi anni settanta (Rosoli, 1978); 2) il reinserimento degli ex-emigrati rientrati in Italia ancora in et lavorativa, soprattutto dopo la prima crisi petrolifera; 3) a partire dagli anni ottanta, laccoglimento degli immigrati extracomunitari. Queste problematiche, con il connesso e radicale cambio di prospettiva che hanno comportato, sono ben riflesse anche nella produzione di lavori di taglio demografico. La fase 1 appartiene a unepoca storica che sembra ormai conclusa11 e la fase 2 ha avuto complessivamente breve durata12. Ci troviamo quindi nella fase 3 che, sulla scorta dellesperienza degli altri paesi industrializzati, si pu prevedere destinata a durare ancora a lungo. Si discusso, e si discute tuttora, della possibilit che limmigrazione dai Pvs possa costituire, per i paesi sviluppati, afflitti da una forte denatalit, un efficace rimedio contro linvecchiamento demografico e il ridimensionamento numerico (Lestaeghe, 1988; Oecd, 1991). La risposta senzaltro negativa nel lungo periodo, perch i due processi possono essere contrastati efficacemente solo da un livello sufficientemente elevato della fecondit. Gli immigrati invece assimilano presto i comportamenti demografici (in particolare quelli nuziali e riproduttivi) delle popolazioni ospitanti, per cui il loro inserimento, per essere efficace sotto i due profili sopra detti, dovrebbe essere continuo e tendenzialmente crescente13. Nel breve periodo, invece, tale politica potrebbe
11 Per la produzione scientifica su questo tema, che stata ed tuttora molto considerevole, si veda la nota 1. 12 Tra i non molti lavori di questo periodo, che risentono tutti delle preoccupazioni congiunturali del riassorbimento senza traumi dei rientri, in una fase economicamente difficile anche Rer in nostro paese, si vedano Valussi (1978) e Gentileschi e Simoncelli (1983). 13 E stato anche osservato (Oecd, 1991) che il conseguimento di obiettivi rigidi di breve periodo (ad esempio il mantenimento di un certo tasso di crescita costante in tutti gli anni), richiederebbe luso dellimmigrazione come una sorta di valvola di riserva, da aprire e chiudere in funzione dei comportamenti e della struttura demografica (distorta) delle popolazioni ospitanti.

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avere effetto, ma a condizione che il flusso di immigrazione sia molto consistente, fatto che appare politicamente poco perseguibile. La questione, vecchia ma mai risolta, degli effetti delle migrazioni, viene ora affrontata dallItalia dal punto di vista, per essa nuovo, dei paesi di afflusso. La maggior parte degli studiosi concorda sulla prevalenza degli effetti positivi (anche) per le aree di immigrazione, sulla base sia dellesperienza storica sia di riflessioni teoriche. La posizione pi estrema, sotto questo profilo14, quella di Sirnon (1989; 1991), che propugna un totale abbattimento della barriere allentrata e segnala come lopinione pubblica sia sempre stata contraria allimmigrazione, in tutti i paesi e in tutte le epoche, nonostante le evidenti prove storiche dei vantaggi da essa derivanti e a dispetto delle stesse origini di molte popolazioni, nate e a lungo alimentate da flussi di immigrazione. Altri, invece, sono su posizioni pi moderate e suggeriscono unapertura solo parziale delle frontiere, ma sempre evidenziando che tale prudenza pi suggerita da considerazioni di opportunit politica che basata su solidi fondamenti scientifici riguardo al numero massimo compatibile di stranieri in un dato paese (Livi Bacci e Martuzzi Veronesi, 1990). In Italia, il dibattito su questo punto reso pi difficile oltre che dalla tradizione di flussi migratori nella direzione opposta, anche dalla mancanza di cifre attendibili su numerosit e caratteristiche della presenza straniera, un problema che in paesi di pi lunga tradizione migratoria stato in parte superato (per la Francia, ad esempio, si veda Tribalat, 1991). Anche in Italia, tuttavia, qualcosa ha cominciato a muoversi su questo fronte. Per quanto riguarda la valutazione quantitativa della presenza, gli strumenti conoscitivi sono essenzialmente tre: 1) le stime indirette, basate sul metodo dei tassi (o degli eventi): se si riuscisse a determinare con quale frequenza gli stranieri presenti in Italia danno vita a certi eventi (una nascita, un matrimonio, un arresto, uniscrizione allInps e cos via), dal numero (noto) di questi eventi si potrebbe risalire alla popolazione che li ha generati, cio, appunto, alla stima del numero degli stranieri in Italia (Aidelf, 1988); 2) indagini ad hoc, come quelle effettuate dal Censis (1991) e dallIstat (1991), che hanno portato a stimare in un milione gli stranieri presenti in Italia nel 1990; 3) i censimenti demografici, che tuttavia hanno sempre prodotto risultati15 ritenuti largamente inferiori alla realt.
14 Si tratta peraltro di una posizione coerente con la sua interpretazione favorevole anche della crescita demografica in generale. 15 Gli stranieri residenti sono risultati 211.000 nel 1981 e 231.000 nel 1991; quelli presenti, 110.000 nel 1981 e 271.000 nel 1991 (i dati del 1991 sono provvisori).

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La presenza straniera in Italia solleva, oltre ai problemi di stima quantitativa, anche interrogativi sulle caratteristiche qualitative degli immigrati: chi sono, da dove vengono, che cosa fanno, quali rapporti hanno con gli italiani e con le famiglie di origine e cos via. Su questo fronte si impegnato particolarmente il Cisp (Comitato italiano per lo studio dei problemi di popolazione), che ha promosso una vasta indagine curata da numerose universit in diverse regioni italiane (AA. VV., 1988; 1990 ; Barsotti, 1989; Brunelli et al., 1989; DellAtti e Di Comite, 1990; Moretti e Cortese, 1990; Reginato, 1990). Con una tecnica di indagine concordata tra i vari gruppi di ricerca16, si sono studiate la numerosit ma soprattutto le caratteristiche degli stranieri presenti in varie regioni dItalia. I risultati hanno evidenziato, tra laltro, una fortissima variabilit di gradi di istruzione, di attivit economica, di conoscenza della lingua italiana, di integrazione e di progetti per il futuro a seconda del paese di origine, del sesso e della durata della permanenza in Italia. Una grande eterogeneit di situazioni, dunque, che, come si pu comprendere, rende pi difficile pervenire a una valutazione sintetica delle conseguenze sociali ed economiche della presenza straniera in Italia. 5. Distribuzione territoriale della popolazione e urbanizzazione Le migrazioni modificano, tra le altre cose, la distribuzione territoriale della popolazione, in particolare attraverso il processo di inurbamento, cio il trasferimento di un considerevole numero di persone dalla campagna alla citt. Pi che sullinurbamento, tuttavia, il dibattito si concentrato sul grado di urbanizzazione (percentuale di popolazione che vive in ambiente urbano) e sulle sue variazioni, che possono essere indotte, oltre che dai movimenti migratori, anche da un diverso tasso naturale di crescita delle citt rispetto alle campagne e dalla trasformazione in senso urbano di zone in precedenza classificate come rurali. Queste distinzioni non sono sempre evidenti nei dibattiti, ma hanno una loro rilevanza: in particolare lultimo caso, di diffusione dellarea urbana, qualitativamente diverso dai precedenti, perch non comporta necessariamente un aumento del grado di concentrazione della popolazione sul territorio. Gli Stati Uniti sono il paese nel quale si sono avvertiti prima i problemi legati al processo di urbanizzazione: qui, negli anni sessanta, do16 A valanga o palla di neve, dallinglese mowball: si parte da pochi extracomunitari e, dopo averli intervistati, si chiedono loro nomi e indirizzi di altri extracomunitari di loro conoscenza, fino al raggiungimento di un campione di sufficiente ampiezza.

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po decenni di crescita urbana, ha cominciato a manifestarsi ci che in Europa sarebbe emerso con forza solo nel decennio successivo, cio la riduzione dellattrazione dei centri forti, tradizionalmente meta di migrazioni, a vantaggio prima delle immediate periferie ma, in seguito, anche di aree lontane e qualitativamente diverse. Si discusso a lungo se questo processo fosse meglio descritto dai termini controurbanizzazione (rifiuto dellambiente urbano e ritorno alla campagna) o riurbanizzazione (diffusione del fenomeno urbano anche a aree nuove, prive per delle diseconomie di scala tipiche delle vecchie citt, quali congestione, inquinamento, microdelinquenza e cos. via). Il tutto stato poi ulteriormente complicato dal fatto che in anni recenti le tendenze sembrano essersi nuovamente invertite, con una ripresa della concentrazione nelle aree forti (Dini, 1986; Long e De Are, 1988; Champion, 1989). N questi fenomeni (che non erano stati previsti), n, tantomeno, le loro cause sono stati ben compresi dagli studiosi, che, comunque, non sono neanche daccordo sulla loro rilevanza17. Ci dipende anche, in misura non marginale, dalla difficolt di reperire dati dettagliati, di buona qualit e, soprattutto, confrontabili internazionalmente. Questo della comparabilit uno dei pi grandi problemi delle organizzazioni internazionali, in particolare delle Nazioni Unite che periodicamente aggiornano, insieme alle stime e previsioni della popolazione mondiale, anche i dati riguardanti la popolazione urbana e quella degli agglomerati urbani (con oltre un milione di abitanti) e delle megalopoli (con oltre otto milioni di abitanti). Nellappendice della relativa pubblicazione delle Nazioni Unite (United Nations, 1991b), si legge che il Diesa (Department of International Economie and Social Affairs), che cura questa e le altre pubblicazioni demografiche dellONU, si limita a recepire le definizioni nazionali. In conseguenza di ci, ad esempio, per lItalia viene considerata urbana ununit amministrativa (un comune) con almeno diecimila abitanti, ma per la Nigeria ce ne vogliono ventimila e per la Norvegia solo duecento! In queste condizioni evidente che i confronti vadano condotti con estrema cautela, anche se probabile che i diversi criteri definitori, purch mantenuti costanti, non impediscano confronti corretti sulle linee di tendenza, che appaiono essere verso unulteriore crescita della quota di popolazione residente in citt, sia nei paesi sviluppati, sia, soprattutto, in quelli in via di sviluppo. In Italia, il dibattito sulla distribuzione territoriale della popolazione ha riguardato, oltre al problema dellurbanizzazione e della crescita
17 Si veda, a titolo di esempio, il dibattito tra Cochrane e Vining (1988), Berry (1988), Champion (1988), Frey (1988) e Mera (1988).

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delle citt (Bonaguidi, 1988), anche, pi in generale, lindividuazione di aree forti, contrapposte a zone periferiche e/o marginali (Dematteis, 1983; Golini, 1987). Nel corso del tempo sono state proposte numerose tipologie comunali, non agevolmente confrontabili tra loro, che possono forse sinteticamente classificarsi in due gruppi, in funzione del criterio adottato. Questo pu essere basato su: 1) le sole prestazioni demografiche, o 2) un complesso di variabili economiche e demografiche. Nel caso 1) le classi sono costruite sulla base dei tassi di crescita della popolazione (sono quindi influenzate, oltre che dal saldo migratorio, anche dal saldo naturale). Allorigine di questa tipologia si trova un lavoro dellAgei (1983), che prevedeva sei classi di comuni, a seconda che, nel passaggio dal primo al secondo sottoperiodo a confronto, i tassi di incremento fossero passati da positivi a negativi, da negativi a positivi, fossero rimasti negativi (con valori assoluti crescenti o decrescenti) o, infine, fossero rimasti positivi (anche in questo caso, con valori assoluti crescenti o decrescenti). Questa metodologia stata poi ulteriormente articolata per consentirne lapplicazione anche con periodizzazioni pi lunghe (Barsotti e Bonaguidi, 1981a; 1981b; Bottai e Costa, 1981). Nel caso 2), invece, prima si classificano i comuni sulla base di un complesso di variabili economiche e demografiche, poi se ne analizza levoluzione demografica (Bottai, Costa e Formentini, 1978), cercando nel contempo di stabilire un legame di causa-effetto tra questa e la classe di appartenenza del comune allinterno della tipologia creata. Rientrano in questo tipo di applicazione anche i lavori di Vitali (1983; 1989; 1990) e Del Colle (1987), che si distinguono dagli altri di analoga ispirazione per: a) la logica con cui sono creati i quattro gruppi di comuni, caratterizzati da diverso grado di urbanit (urbani, semiurbani, semirurali e rurali); b) la sistematicit dellapplicazione su serie lunghe storiche (dal 1951) e su tutto il territorio nazionale; c) lapprofondimento dellanalisi, con distinzione delle componenti della crescita (naturale e migratoria), delle aree geografiche studiate (per circoscrizione, per zona altimetrica, per distanza dalla costa e cos via), della traiettoria urbana percorsa nel tempo dai vari comuni18 e altre. Di questi lavori, la conclusione forse pi importante che i tassi di crescita demografica pi significativi hanno caratterizzato quei comuni
18 Un comune classificato come rurale nel 1951 pu essersi trasformato fino ad assumere qualche caratteristica urbana, fatto che porta a riclassificarlo, in date successive, in uno dei restanti tre gruppi. Il passaggio da una tipologia allaltra costituisce la traiettoria urbana seguita da quel comune nel corso del tempo.

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che hanno saputo evolversi in senso urbano19. Resta per il dubbio sulla direzione della relazione causale: sono le caratteristiche urbane che hanno attirato la popolazione, come Vitali suggerisce, o stato limponente tasso di crescita, determinato da altri fattori, a portare poi a una trasformazione di quelle aree in senso urbano? E se anche vera la prima ipotesi, qual il punto fino al quale si dimostra valida e oltre il quale, invece, i vantaggi della citt cedono il passo a diseconomie di scala? Per la risposta a questi interrogativi, che escono peraltro dallo stretto ambito demografico, la strada da percorrere sembra ancora lunga. Una logica diversa ha seguito invece Bachi (1963; 1976; 1984), che ha proposto metodi di analisi territoriale, quali lindividuazione del baricentro territoriale di una distribuzione e dei due assi principali della dispersione20, (quasi) indipendenti dalla maglia territoriale prescelta. Nello stesso senso va la proposta di costruire un reticolo esagonale che ricopra completamente il territorio sotto studio, in modo da conciliare i vantaggi dellesaustivit dellanalisi e dellomogeneit delle aree a confronto, in senso sia sincronico sia diacronico21. Questi e altri suggerimenti, adottati anche dallIstat (1988) per un atlante, si prestano alla descrizione non solo dei dati di stock (relativi alla distribuzione), ma anche di quelli di flusso: con riferimento alle migrazioni interne di un dato anno, ad esempio, si pu confrontare il baricentro dei luoghi di origine con il baricentro dei luoghi di destinazione e vedere di quanto questi spostamenti hanno contribuito a modificare il baricentro delle residenze. 6. Previsioni Privo di basi biologiche e legato, ma in maniera complessa, al contesto socio-economico, il movimento migratorio risulta estremamente difficile da prevedere. Tale difficolt particolarmente pronunciata per le
19 Anche se occorrequi stare attenti al rischio di circolarit del ragionamento, perch la numerosit della popolazione uno dei criteri che concorrono a determinare il grado di urbanit di un comune. 20 Nel caso di un territorio di forma allungata come quello italiano, tuttavia, il primo asse di dispersione coincide quasi sempre con lasse di allungamento del territorio stesso e risulta quindi di limitata utilit. In effetti, questa rappresentazione raggiunge il massimo dellefficacia nel caso di territori di forma perfettamente circolare. 21 Gli esagoni che ricadono completamente dentro a un territorio comune (se il comune lunit territoriale per cui si dispone dei dati originali) prendono il valore medio del comune, nellipotesi che il fenomeno sia equidistribuito al suo interno. Per gli esagoni che si trovano invece a cavallo tra due o pi comuni, i valori si calcolano come medie ponderate (alle quote di superficie interessate) dei valori comunali originali, sempre nellipotesi di equidistribuzione territoriale allinterno di ogni comune.

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piccole aree, non isolate dal territorio circostante e soggette quindi ad afflussi e deflussi di popolazione importanti e repentini (De Sirnoni, 1984; Termote, 1984a). Ma il problema riguarda anche aree pi ampie. A livello regionale, ad esempio, lIRP (lIstituto di ricerche sulla popolazione) ha sempre preferito non abbandonare lipotesi di migrazioni nulle nelle sue previsioni e lo stesso ha fatto lIstat, tranne che in unoccasione peraltro recente (1989) in cui per la prima volta ha prodotto previsioni demografiche regionali con considerazioni anche dei movimenti migratori22. Neppure a livello internazionale si abbandona volentieri lipotesi di migrazioni nulle: le previsioni demografiche dellONU (United Nations, 1991a) e quelle della Banca mondiale (World Bank, 1988), per limitarsi ai due esempi pi noti, non sono quindi, in senso stretto, che delle proiezioni. La giustificazione , in questo caso, che i diversi tassi di incremento naturale, tenuto implicitamente conto dei diversi ritmi di sviluppo economico, determineranno una certa pressione migratoria dalle aree a pi forte crescita verso quelle meno dinamiche. Si esprime quindi, per questa via, una sorta di potenziale migratorio che potr, in circostanze peraltro non precisate, tradursi in flussi migratori effettivi (Golini e Bonifazi, 1987). Proiezioni sono anche (come si detto nel par. 2) i risultati dei modelli di popolazione multiregionali, che comunque proprio per linverosimiglianza delle ipotesi e in particolare di quella di costanza dei tassi migratori per et e per area di origine e di destinazione non vengono neppure presentate come tali, ma solo come un diverso modo di misurare (in termini di stock e non di flussi) le tendenze correnti. Questi limiti possono essere superati in vario modo. Tra i pi semplici vi quello di immaginare una progressiva riduzione, sino eventualmente alla scomparsa, dei flussi migratori. Questa ipotesi ha il vantaggio di garantire una certa continuit con la situazione corrente, che costituisce il punto di partenza, ma sconta anchessa, come quella precedente (migrazioni costanti), il limite di un ridotto grado di verosimiglianza. Un tentativo di miglior aderenza alla realt passa attraverso lintroduzione di ipotesi di adattabilit dei flussi migratori alle condizioni demografiche e/o socio-economiche prevalenti. Nel primo caso (dipendenza dei flussi dalle condizioni demografiche) rientra la proposta di tenere conto delle interazioni tra le popolazioni delle due aree, rispettivamente di origine e di destinazione delle migrazioni (Courgeau, 1991). Si su22 In una versione delle previsioni, i movimenti migratoti interregionali sono ipotizzati costanti sui livelli osservati verso la met degli anni ottanta.

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pera cos il limite di considerare solo una delle due popolazioni (tipicamente quella di origine), ma si introducono ipotesi sul tipo di legame funzionale tra migrazioni e consistenza demografica delle due popolazioni che andrebbero meglio verificate. Un ulteriore svantaggio di questo approccio che il modello che ne risulta estremamente complesso. Nel secondo caso (dipendenza delle migrazioni dalle condizioni socioeconomiche), oltre alle difficolt di determinare correttamente la forma della relazione e il valore dei parametri, oltre al limite di dover considerare costanti nel tempo luna e gli altri, ci si scontra anche con lostacolo, che appare insormontabile, di dover prevedere quali valori assumeranno in futuro le variabili esplicative (Termote, 1984a). In conclusione, anche se a livello nazionale le previsioni demografiche sono tradizionalmente state smentite pi nelle ipotesi di fecondit e di mortalit che in quelle migratorie e anche se, nella fase attuale dei paesi sviluppati, i flussi migratori interni sono molto ridotti mentre quelli dallestero vengono rallentati da controlli alle frontiere, dal punto di vista teorico, in fase di previsione, lanello pi debole della catena sembra oggi costituito proprio dalla variabile migratoria. 7. Lapproccio microdemografico
Radicalmente diverso dal tipo di prospettiva di cui si parlato sin qui, ma con diversi punti di contatto con essa, lo studio delle migrazioni dal punto di vista microdemografico, cio con prospettiva individuale. Si tratta di uno sviluppo recente, che ha interessato quasi contemporaneamente tutti i campi della demografia (si veda il capitolo di Santini, I metodi, in questa Guida) e che anche nello studio delle migrazioni ha fornito contribuiti conoscitivi molto rilevanti. La base teorica generale costituita dallo studio delle biografie e si informa al principio di non considerare pi un solo fenomeno per volta, o allo stato puro, comera tipico della tradizione classica dellanalisi demografica, ma, al contrario, di tenere esplicitamente conto di come il passato di un individuo (la sua biografia, appunto) modifica la sua probabilit di subire un certo evento e anchesso, insieme con tutto il resto, influenzer poi il suo futuro (Courgeau e Lelivre, 1989). In questo modo, potenzialmente, ogni singola modificazione di status, associata a un qualsiasi evento subito (matrimonio, migrazione di ordine k, nascita di un figlio di ordine n e cos via), trova almeno parte della sua spiegazione nel passato dellindividuo (altri eventi subiti in pre-

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cedenza, per ognuno dei quali conta il tempo trascorso, lordine di successione e cos via). In campo migratorio, ma non solo, lapplicazione empirica sinora pi importante di questa nuova impostazione rappresentata dallindagine francese tripla biografia (familiare, professionale e migratoria), condotta nel 1981 (Riandey, 1983; Courgeau, 1984; 1987; Bonlavet e Lelivre, 1989; 1991). A un campione di circa quattromila individui stato chiesto di ricostruire le tappe fondamentali delle loro carriere con particolare riferimento alle tre sfere sopra indicate, ponendo molta attenzione alle date e, forse pi ancora, alla successione degli avvenimenti (Courgeau, 1990). In seguito, tra il 1985 e il 1987, uninchiesta simile stata condotta anche in Italia23 (Bottai, 1990). I risultati delle due inchieste hanno permesso di evidenziare sia aspetti poco noti, sia altri, intuitivamente evidenti, ma mai verificati e misurati empiricamente in maniera corretta. In particolare emerso lo stretto legame esistente tra le tre sfere analizzate: ad esempio, alla costituzione della famiglia e al suo progressivo allargamento per nascita dei figli si accompagna una probabilit di migrazione comparativamente elevata (anche subordinatamente al titolo di godimento dellalloggio e alla sua adeguatezza rispetto alle dimensioni familiari); la fecondit aumenta dopo una migrazione dalla citt verso la campagna, mentre quasi non si riduce (perch era gi bassa in precedenza) dopo una migrazione nella direzione opposta; le migrazioni sono pi rare tra le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano; e cos via. In questi studi va tuttavia considerato che, data la contenuta dimensione del campione e la relativa rarit delle migrazioni a lungo raggio, i migranti su grandi distanze risultano poco numerosi e le loro caratteristiche restano un po nellombra. Si tratta di un aspetto importante, perch quelle a lungo raggio sono spesso, anche se non sempre, le migrazioni pi legate alla vecchia immagine di deflussi causati da squilibri e povert. Del resto, anche se le caratteristiche individuali di questi migranti fossero sufficientemente ben documentate, resterebbero ancora fuori dal quadro le circostanze esterne e le costrizioni ambientali che pure, soprattutto nel vecchio modello migratorio, possono giocare un ruolo importante. Ci suggerisce che, almeno in questa forma, questo tipo di indagini pi adatto a descrivere e interpretare le migrazioni come parte di un quadro generale di equilibrio che non come segnale (e forse, a sua volta, causa) di disequilibri territoriali e sociali.
23 Il campione era per pi piccolo, geograficamente non rappresentativo e formato sulla base di famiglie (circa duemila) anzich di individui.

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possibile che questa immagine appartenga ormai al passato e che il contesto sia ormai sufficientemente favorevole e territorialmente indifferenziato da giustificare la scelta di concentrare lattenzione sulle motivazioni a livello familiare e individuale. Questa per non che unipotesi, che sarebbe opportuno sottoporre a verifica. Concettualmente ci significa formulare una teoria sufficientemente ampia da comprendere contemporaneamente pi livelli di spiegazione, organicamente legati tra loro. Tecnicamente, poi, la soluzione dovrebbe passare attraverso la costruzione di un macromodello, che comprenda al suo interno, come casi particolari, sia situazioni in cui agiscono quasi esdusivamente variabili generali, di contesto (il vecchio modello di migrazioni come sintomo di squilibri territoriali), sia situazioni in cui agiscono invece quasi esclusivamente variabili individuali (i piccoli spostamenti determinati non dalle avverse condizioni esterne, ma solo dalle fasi del ciclo di vita). Lestensiva applicazione del modello ad aree geografiche e periodi diversi potrebbe chiarire se i due sottolivelli interpretativi, macro e micro, adottati sin qui separatamente, si sono solo susseguiti (il secondo ha ormai preso il posto del primo), o se invece coesistono, o hanno coesistito per qualche tempo. Si potrebbe inoltre, dopo aver stabilito opportuni valori-soglia di importanza relativa delluno e dellaltro, dar corpo e tempi alla teoria della transizione migratoria come parte del processo di transizione demografica (si veda il par. 3). Obiettivi ambiziosi che non sono ancora a portata di mano: tuttavia, grazie ai progressi conseguiti con la prospettiva microdemografica e lo studio delle biografie, una risposta ad alcuni degli interrogativi sollevati appare oggi pi vicina. 8. Le prospettive degli studi sulla mobilit forse opportuno concludere queste riflessioni circa lo stato degli studi sulla mobilit con qualche accenno alle prospettive e ai filoni di ricerca che oggi si possono individuare. I due filoni probabilmente pi importanti sono Io studio delle migrazioni dai Pvs e lapproccio micro-demografico, con i connessi problemi di collegamento tra le due prospettive, macro e micro, di cui si gi detto. Vi sono poi gli approcci eterodossi al problema delle migrazioni, un insieme molto eterogeneo e con proposte che attendono ancora di essere corroborate da convincenti prove empiriche della loro validit. In questo gruppo si potrebbe classificare, ad esempio, la proposta di far

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riferimento al concetto di migrabilit (migrability; Rajulton, 1991): la propensione a migrare vista come una sorta di malattia infettiva, che si propaga tra la popolazione con velocit diversa in funzione sia delle caratteristiche della popolazione stessa sia degli stimoli esterni, e che non sembra incompatibile con linterpretazione familiare cumulativa di Massey (1988; 1990) di cui si detto sopra. Eterodosso anche lindice di intensit migratoria (Courgeau, 1991) che come si ricordato nel paragrafo 6 si sforza di far intervenire nei calcoli non soltanto una delle due popolazioni interessate da un flusso (quella di origine o quella di destinazione), ma entrambe: un radicale cambio di punto di riferimento, suggerito dallosservazione empirica, ma causa di formidabili difficolt di trattamento statistico-matematico dei relativi modelli. In considerazione della difficolt di concettualizzare in maniera unitaria e soddisfacente le migrazioni nel loro complesso, unaltra via percorsa in tempi recenti stata quella di concentrarsi sulla mobilit di segmenti particolari della popolazione. Del resto, gli stessi modelli migratori per et proposti da Rogers e Castro (1981) di cui si detto nel paragrafo 2 altro non sono che la sovrapposizione di due o tre curve migratorie diverse per le diverse classi di et. Poich la prima curva si riferisce a migrazioni di bambini, di tipo dipendente e caratterizzate da assenza di autonomia decisionale24, e la seconda alle migrazioni degli adulti in et da lavoro, di cui in pratica si sempre trattato a proposito della mobilit, lattenzione si concentrata sulla terza curva, quella relativa alle migrazioni della popolazione anziana (Bartiaux, 1988; 1990; Rogers, Watkins e Woodward, 1990; Serow e Sly, 1991). Nonostante il frequente ricorso a fonti ufficiali (primo fra tutti il censimento), lapproccio qui piuttosto simile a quello degli studi riferiti al livello individuale: ci si interroga sullo stato di salute degli anziani che migrano, sul loro stato civile (coniugati, vedovi e cos via), sulle destinazioni e sul motivo della migrazione (verso luoghi pi ameni, o nelle famiglie dei figli che hanno bisogno di aiuto per la custodia di bambini piccoli, o ancora verso i figli, ma per ricevere assistenza) e via dicendo. La migrazione, del resto, quasi sempre a breve raggio e talvolta interna alla stessa citt, cos che solo una maglia territoriale estremamente fine25 in grado di coglierla. Anche in questo caso gli appro24 stato anche proposto, a questo riguardo, di cominciare lo studio delle migrazioni a partire da unet convenzionale (ad esempio 15 anni), oltre la quale si possa pensare alla migrazione come a una scelta cosciente, assimilabile a quella di sposarsi, fare figli e cos via (Santini, 1992). 25 O lesistenza di quesiti censuari di mobilit centrati sullabitazione, e non sul comune di residenza a una prefissata data antecedente (come avviene, ad esempio, negli Stati Uniti).

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fondimenti risultano di grande interesse, ma soffrono del limite di non essere ben inquadrati in un contesto teorico pi ampio, analogamente a quanto si osservato nel paragrafo precedente a proposito dellapproccio micro. Vi infine un modo completamente diverso di affrontare il problema, che ha tratto notevoli spunti dalla ricerca degli ultimi anni. Si detto che le migrazioni possono provocare sulle popolazioni sia di origine sia di destinazione effetti anche profondi in termini di struttura demografica, crescita economica e cos via. Ma questi effetti possono essere anche di altra natura e in particolare riguardare la distribuzione di caratteri geneticamente determinati (ad esempio il gruppo sanguigno), o ad essi assimilabili (ad esempio il cognome, che segue la linea di discendenza maschile). Da qui lidea di ribaltare la prospettiva: osservare la distribuzione di frequenza di questi marcatori genetici per inferirne qualcosa sui movimenti migratori che li hanno determinati (Menozzi, Piazza e Cavalli-Sforza, 1978; Arnmerman e Cavalli-Sforza, 1984; Termote, 1984b; Martuzzi Veronesi e Gueresi, 1990; Piazza, 1990). Si tratta per di uno strumento che consente di cogliere, peraltro imperfettamente, solo effetti macroscopici, realizzatisi a seguito di flussi migratori forti e prolungati. Esempi possono essere il popolamento dellEuropa durante la rivoluzione agricola dell8000 a. C., o la diffusione delle colonie greche in Italia intorno al secolo VI a. C., o, in tempi pi recenti, ma gi con minor grado di precisione, le grandi correnti migratorie interne in Italia del secondo dopoguerra, prima dal nord-est verso il nord-ovest, e poi dal sud verso il Lazio e verso il nord. Uno strumento, quindi, che porta a focalizzare lattenzione sulle migrazioni come fenomeno di massa e che riapre, per altra via, il problema di come collegare in maniera funzionale e organica, dal punto di vista sia dellinterpretazione sia della strumentazione di ricerca, un passato di grandi travasi migratori con un presente di mobilit interna ridotta, compensata forse in parte dagli arrivi dallestero. La speranza quella di riuscire un giorno non solo a fornire giustificazioni a posteriori su quello che gi avvenuto, ma anche a anticipare e prevedere il futuro.

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Capitolo dodicesimo Tendenze, conoscenze e governo Gian Carlo Blangiardo

1. Sensibilit e sensibilizzazione Pu un Paese ignorare le dimensioni e le implicazioni delle variazioni demografiche? Possono politici, programmatori, responsabili della cosa pubblica in genere, continuare a considerare la popolazione come variabile naturale, di cui bene tenere conto, ma sulla quale impossibile intervenire? E gli individui, le coppie, le famiglie, che con il loro personale comportamento determinano la dinamica demografica del Paese, debbono forse rimanere alloscuro delle conseguenze che le loro scelte moltiplicate per milioni di volte hanno sulla collettivit nazionale? . Con queste parole si apriva il Rapporto sulla popolazione italiana (CNP, 1980), documento ufficiale di un organismo, il Comitato nazionale per i problemi della popolazione, istituito nel 1976 presso la Presidenza del Consiglio dei ministri al fine di studiare il problema della popolazione nei suoi molteplici aspetti e di coordinare le iniziative, anche allo scopo di consentire una migliore partecipazione italiana alle riunioni promosse dalle organizzazioni internazionali (art. 1 D. M. 10-12-1976). Tale rapporto, articolato in due parti, luna dedicata alla valutazione delle tendenze in termini di conseguenze sociali ed economiche e di implicazioni per lazione pubblica, laltra alla documentazione e alla riflessione sullintensit e i tempi delle trasformazioni in atto (CNP, 1980, p. 11), si pu dire abbia avuto leffetto di un vero e proprio sasso lanciato nello stagno, in quanto denso di messaggi e di avvertimenti indirizzati ai responsabili della gestione pubblica e alle forze sociali di un paese che per tradizione, e con la sola eccezione di una fase storica ben circoscritta, ha sempre dimostrato un atteggiamento agnostico nei confronti delle problematiche demografiche. Si trattato dunque di un evento importante e innovativo. Non solo per il valore scientifico e limpatto divulgativo del contenuto del Rapporto ma, soprattutto, in quanto primo vero segnale, nellItalia repub-

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blicana, della disponibilit da parte della classe politica (o almeno di una sua parte) ad attribuire alle conoscenze in tema di popolazione un ruolo di orientamento nelle scelte che concorrono a determinare la gestione del paese. Riflettendo oggi sugli avvenimenti succedutisi dalla met degli anni settanta, si pu affermare che, pur senza provvedimenti espliciti di politica demografica, listituzione del Comitato, prima, e la diffusione del Rapporto, poi, hanno contraddistinto un po per scelta e un po perch i tempi erano maturi lavvio di una fase di promozione e valorizzazione delle conoscenze demografiche da parte delle autorit di governo. Un nuovo corso, tuttora in atto, la cui conferma si gi avuta nel 1981 con la costituzione dellIstituto di ricerche sulla popolazione (IRP), un organo del CNR delegato a svolgere ricerche in campo demografico su problemi di particolare rilevanza politica, economica e sociale e che ha curato, nel quadro di una vasta attivit di approfondimento e divulgazione di temi demografici, i successivi aggiornamenti del primo Rapporto sulla popolazione in Italia (IRP-CNR, 1985; 1988). Daltra parte, se da un lato innegabile che le importanti aperture alla demografia di questi ultimi anni siano indizio di crescente sensibilit da parte di una classe politica interessata a saperne di pi, va anche sottolineato come tale processo, inizialmente inteso a fornire elementi per sostenere il dibattito nelle sedi internazionali e questo stato, per lappunto, uno dei principali motivi allorigine della creazione del CNP abbia trovato, proprio in presenza delle recenti rapide trasformazioni ricollegabili a tematiche di indubbia rilevanza per lorganizzazione economica e sociale del paese, forti spinte per unulteriore sensibilizzazione, sia dei politici e degli amministratori sia dellopinione pubblica. In tale contesto, il costante apporto della comunit scientifica, arricchito dai numerosi contributi dellIRP, nonch da una maggiore disponibilit di statistiche a livello nazionale e internazionale, non ha mancato di sviluppare, accanto al quadro delle tendenze e allidentificazione delle relative problematiche, unampia gamma di suggerimenti e di proposte anche nellottica di un possibile intervento pubblico. Ma fino a che punto scenari, problemi e ipotetiche soluzioni sono stati recepiti, se non proprio richiesti, dalla classe politica nella predisposizione delle linee di governo e dalla pubblica amministrazione nellattuazione degli atti esecutivi? una domanda cui possibile rispondere solo attraverso indizi e presunzioni. E forse, prima ancora di lasciarsi andare a valutazioni circa lesistenza o meno dellauspicato salto di qualit tra conoscenza e con-

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seguente azione, conviene interrogarsi su quale sia stato, a partire dal secondo dopoguerra, il tradizionale ruolo dellinformazione demografica nellattivit di governo e verificare quali siano, oggi, i meccanismi con cui essa viene concretamente richiesta e resa disponibile per tali finalit. 2. Consumo e incentivo alla produzione di conoscenze demografiche da parte delloperatore pubblico Al fine di comprendere in che misura esista una domanda esplicita di informazioni demografiche da parte delloperatore pubblico e quanto sia legittimo azzardare che la stessa offerta di dati e di analisi demografiche risenta di esigenze e interessi provenienti da tali ipotetici utilizzatori, opportuno distinguere i diversi livelli funzionali con cui si pone il rapporto tra la demografia, da un lato, e lattivit politica e di governo, dallaltro. In proposito, utile anzitutto distinguere un uso delle conoscenze demografiche per finalit che potremmo dire di tipo strategico nella gestione del paese. Ci accade, ad esempio, quando si tratta di identificare, attraverso lapprofondimento dei fenomeni e delle tendenze, linsorgere o levolversi dei problemi che nascono tanto dalla gestione delle risorse (lapparato produttivo, lambiente e cos via), quanto dalla predisposizione dei servizi (la sanit, la scuola, i trasporti e cos via) e, non ultimo, dalla necessit di adeguare il quadro normativo e lorganizzazione sociale alle istanze che provengono da nuovi orientamenti ideologici e culturali: si pensi ai temi del divorzio, dellaborto, al fenomeno delle unioni di fatto, sino alle pi attuali esigenze di regolamentazione delle immigrazioni extracomunitarie e dei rapporti con popolazioni ed etnie tanto diverse ed eterogenee. In tale ambito si ha a che fare, come facile rendersi conto, con temi di particolare importanza; si tratta di aspetti della vita sociale che vengono generalmente affrontati con unimpostazione prevalentemente, se non esclusivamente, di natura politica e in cui lapporto demografico, anche se generalmente limitato alla definizione del quadro di riferimento, non certamente trascurabile. Una seconda modalit di impiego delle conoscenze demografiche nellattivit di governo assai pi circoscritta e strumentale. Essa riguarda la richiesta di informazioni mirate al varo di provvedimenti specifici che per loro natura, per la presenza di vincoli istituzionali, ovvero per il tipo di effetti che sono destinati a produrre, contengono, spesso in

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termini di veri e propri parametri operativi, riferimenti diretti alla consistenza della popolazione o ad alcune sue caratteristiche strutturali: sesso, et, istruzione, attivit professionale, area di residenza e cos via. In questo senso la legislazione e gli atti della pubblica amministrazione offrono numerosi esempi di impiego strumentale delle conoscenze demografiche: si va dai richiami alla popolazione legale (censuaria) contenuti nella stessa Costituzione in tema di rappresentanza politica (art. 57), alla definizione di ambiti e competenze territoriali di enti e nuove istituzioni si veda, ad esempio, lart. 14 della legge n. 833 del 2312-1978 che ha dato vita al Servizio sanitario nazionale , allemanazione di norme finanziarie si veda il richiamo alla consistenza della popolazione e al tasso di emigrazione nelle norme sulla ripartizione del fondo comune a favore delle regioni a statuto speciale (art. 8 legge n. 281 del 16-5-1970) , alle innumerevoli disposizioni, spesso nellarea delle competenze degli enti locali, in materia di sanit, assistenza, istruzione e formazione professionale, viabilit e trasporti, uso dei suoli e cos via. Sembra che anche i canali di acquisizione delle conoscenze demografiche possano ricondursi ai due precedenti livelli funzionali. Mentre la pubblica amministrazione in senso stretto si avvale delle fonti istituzionali ed largamente ancorata alle cosiddette statistiche ufficiali - lIstat in primo luogo, ma anche quelle prodotte da organi e servizi interni allapparato pubblico -, lingerenza della demografia nelle valutazioni e nelle scelte che dettano gli orientamenti strategici avviene generalmente attraverso mediazioni e interventi che provengono dallesterno. E se vero che raramente il politico che commissiona di sua iniziativa uno studio a carattere demografico1 anche vero che, oggi pi che in passato, egli cerca lumi o conforto nellesistente, in una produzione che, tuttavia, nasce spesso in ambito accademico e sviluppa solo in parte, anche se via via con maggior frequenza, interessi riconducibili a impieghi operativi. Ci premesso, si pu comunque affermare che un collegamento tra attivit di governo e ricerca demografica esista, anche se di fatto esso
1 Golini ricorda liniziativa del Ministero del Bilancio che aveva incaricato nel 1983 una Commissione di esperti di varie discipline di predisporre uno studio su Italia 2000, ma la Commissione, che pure aveva iniziato i suoi lavori scientifici, non mai stata insediata formalmente e liniziativa quindi malamente abortita (Golini, in AA.VV, 1987). Daltra parte, gi nel 1980, lo stesso Ministero aveva preso uniniziativa analoga incaricando un Comitato di esperti (tra cui Livi Bacci) di studiare le conseguenze economiche dellevoluzione demografica, ma anche quella esperienza, bench la Commissione fosse giunta alla stesura di un rapporto, non sembra abbia prodotto apprezzabili ricadute in termini di azione politica.

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sembra identificabile solo in via indiretta: il mondo scientifico alimenta il dibattito sui temi della popolazione e il governo reagisce, compatibilmente con gli orientamenti politici e i vincoli tecnici e istituzionali, alle esigenze sollevate dalla societ. Una prassi normale consiste nella sequenza sensibilizzazionecommissione di studio-provvedimento legislativo; una procedura, troppo spesso interrotta proprio nella fase operativa, ove il legame tra demografia e attivit di governo risulta generalmente mediato dalla consulenza della comunit scientifica e supportato dalla letteratura in materia. La realt dei fatti dunque quella di una classe politica e di una pubblica amministrazione che, per quanto sensibili, raramente stimolano una conoscenza diretta dei fatti demografici ma, nel migliore dei casi, favoriscono e si avvalgono di un competente esame dellesistente. Sembra dunque particolarmente opportuno riflettere sulla produzione demografica di questi ultimi anni, nel tentativo di coglierne gli orientamenti operativi e di valutare se, e in quale misura, essa si sia adeguata alle necessit di una gestione consapevole dei problemi che hanno via via accompagnato la vita del paese nel processo di transizione dal secondo dopoguerra alle soglie del secolo XXI. 3. Le fonti istituzionali La produzione di conoscenze demografiche riconducibili allarea di interesse delloperatore pubblico pu classificarsi, a grandi linee, in due gruppi. Nel primo rientrano i cosiddetti dati di base, relativi sia alla consistenza e alla struttura della popolazione sia ai principali fenomeni demografici, opportunamente specificati rispetto alle caratteristiche dei soggetti che ne sono coinvolti o del contesto in cui si manifestano. Al secondo afferiscono tutti quegli studi che, con lausilio di appropriate metodologie, mirano a evidenziare le tendenze in atto, a spiegarne le cause, a identificarne gli effetti e a segnalare, ove necessario, eventuali correttivi e modalit di intervento. Per quanto riguarda i dati di base, si pu senzaltro affermare che loperatore pubblico abbia potuto disporre di un complesso di informazioni largamente soddisfacente. Certo non sono mancate carenze, specie in termini di specificazione per aree regionali e sub-regionali, ma nel complesso vi da ritenere che a partire dagli anni sessanta lofferta di statistiche di base per la popolazione italiana sia stata al passo con quanto disponibile nellambito dei paesi pi avanzati.

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Limitando lattenzione al secondo dopoguerra, si potuto contare su cinque rilevazioni censuarie assai dettagliate (lultima del 1991) e su unampia serie di statistiche correnti relative ai pi importanti fenomeni demografici, con unarticolazione territoriale che andata via via recependo, anche se con qualche ritardo, le trasformazioni del sistema delle autonomie locali. A tale proposito IIstat principale, se non esclusivo, fornitore di dati demografici fino agli anni settanta ha messo a disposizione un abbondante materiale che, tuttavia, valso forse pi a informare gli addetti ai lavori sulle trasformazioni in atto e a stimolare la ricerca accademica, che ad agire direttamente da input nelle scelte di governo (si veda la tabella 1).
Tabella 1. Istat: principali statistiche della popolazione dal secondo dopoguerra al 1990 I) Censimenti

b) Movimento naturale e sociale. Nati, morti e

a) Censimento generale della popolazione:

1951, 1961, 1971, 1981 e 1991. Consistenza della popolazione residente e presente, caratteristiche strutturali: sesso, et, stato civile, luogo di nascita, professione, istruzione. Famiglie e convivenze: numerosit, composizione, caratteristiche del capo famiglia e dei singoli membri. Abitazioni, struttura. Alcuni aspetti particolari (1971 e 1981): pendolarismo, mobilit professionale, presenza straniera (1991).

matrimoni secondo gli atti dello stato civile: frequenza annua e caratteristiche strutturali 1951-85. Dati nazionali e territoriali (regione e provincia). (Cfr. Annuario di statistiche demografiche). trasferimenti di residenza per movimento interno: frequenza annua, origine/destinazione dei flussi, alcune caratteristiche strutturali dei migranti. [Cfr.: Annuario statistico dellemigrazione, 1955 (fino al 1953); Annuario statistico italiano (1954-57); Annuario di statistiche del lavoro e Annuario di statistic h e del lav oro e dellemigraz ione (1958.69); Annuario di statistiche demografiche (1969.86); Popolazione e movimento anagrafico dei comuni (fino al 1979); Statistica degli espatriati e rimpatriati 1980, 1981, 1982, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 6, 1982; 15, 1982; 14, 1983; Movimento migratorio interno dal 1962 al 1969, Notiziario Istat, f. 36, n. 6, 1970]. mografica nellarea sociale e sanitaria. Statistiche sanitarie e cause di morte. (Cfr.: Annuario di statistiche demografiche, 1951-54; Annuario di statistiche sa-

c) Movimento migratorio. Espatri e rimpatri,

b) Censimento della popolazione italiana e


straniera della Somalia, 1953. II) Dati di base e indicatori elementari

a) Popolazione residente a livello comunale al 31

dicembre dal 1952 al 1989. Frequenza annua di nascite, morti, iscrizioni e cancellazioni anagrafiche (movimento interno e con lestero): 1958-89. [Cfr. Popolazione e circoscrizioni amministrative dei comuni, fino al 1963; Popolazione e movimento anagrafico dei comuni, 1964-80 e 1988-89; Supplemento Bollettino mensile di statistica, 17, 1982 (1981) e 9, 1983 (1982); Annuario di statistiche demografiche, 1983-87].

d) Altri aspetti o fenomeni di rilevanza de-

Tendenze, conoscenze e governo nitarie, 1955-81; Statistiche sanitarie, 1982-84; Cause di morte, 1949-50, 1985-87; Mortalit per causa e unit sanitaria locale - anni 1980-82). Abortivit spontanea e interruzioni volontarie della gravidanza. (Cfr.: Annuario di statistiche sanitarie; Annuario statistico italiano; Rilevazione statistica sulle interruzioni volontarie della gravidanza - anni 1979-82, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 29, 1983; Statistiche della Sanit, 1985-87). Separazioni e divorzi. (Cfr.: Annuario di statistiche giudiziarie, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 23, 1982; Annuario di statistiche demografiche, 1984-85). III) Elaborazioni per approfondimenti particolari e sviluppi di alcune aree di ricerca a) Mortalit. Tavole di mortalit a livello nazionale: 1950.53, 1954-57, 196062, 1964-67, 1970-72, 1977-79, 1980,1981, 1982, 1983, 1984, 1985. (Cfr.: Tavole di mortalit della popolazione italiana, 1950-53 e 1954-57, Annali, serie VIII, X, 1959; Tavole di mortalit della popolazione residente italiana, 1960-62, Notiziario Istat, f. 35, n. 1, 1965; Tavole di mortalit per stato civile, 1960-62, Note e relazioni, 37, 1968; Tavole di mortalit della popolazione italiana, 1964-67, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 8, 1970 e Annali, serie VIII, XXV, 1971; Tavole di mortalit della popolazione italiana, 1970-72, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 7, 1975; Tavole di mortalit della popolazione italiana secondo la causa di morte, 1975-79, Bollettino mensile di statistica, 10, 1985; Bollettino mensile di statistica per 1980 e 1981, 2, febbraio 1987; 11, novembre 1989).

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b)

c)

d)

livello regionale: 1960-62, 197072, 1977-79, 1979-83. (CE.: Tavole di mortalit per regioni e cause di morte della popolazione italiana, 1960-62, Annali, serie VIII, XIX, 1966; Tavole di mortalit della popolazione italiana per regione, 1970.72, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 6, 1976; Tavole di mortalit della popolazione italiana per regione, 1977-79, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 16, 1983; Tavole di mortalit della popolazione italiana per regione, 1979-83, Note e relazioni, 1, 1987). Nuzialit: Tavole di nuzialit: 1960-62. Cfr.: Tavole di nuzialit della popolazione italiana, 1960.62, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 2, 1971 e Annali, serie VIII, XXV, 1971). Fecondit. Serie storica dei tassi specifici di fecondit. (Cfr.: Misure della fecondit italiana negli ultimi trenta anni, Collana di informazioni, 5, 1982). Struttura per sesso ed et della popolazione: Ricostruzione e aggiornamento di dati intercensuari. (Cfr.: Popolazione residente per sesso et e regione, 1972-75, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 10, 1976; Popolazione residente per sesso e provincia al 1 gennaio, 1952-78, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 4, 1978; Popolazione residente per sesso et e regione, 1979-81, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 11, 1981; Ricostruzione della popolazione residente per sesso et e regione: anni 1952-72, Istat-Universit degli studi di Roma La Sapienza, Dipartimento di Scienze demografiche, 1983; Popolazione residente per sesso e comune, 1981-83, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 3, 1985; Popolazione e bilancio demografico per sesso et e regione. Ricostruzio-

Tavole di mortalit con dettaglio a

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Gian Carlo Blangiardo mensile di statistica, 12, 1982; Indagine statistica sulla condizione di salute e sul ricorso ai servizi sanitari, novembre 1983, Note e relazioni, 1, 1986; Indagine statistica sulla condizione di salute e sul ricorso ai servizi sanitari, novembre 1986-aprile 1987, Notiziario Istat, f. 41, n. 17, 1987; La mortalit differenziale secondo alcuni fattori socioeconomici. Anni 1981-82, Note e relazioni, 2, 1990). Fecondit e nuzialit. (Cfr.: Indagine speciale sulla con sanguineit dei matrimoni, Note e relazioni, 11, 1960; Indagine sulla fecondit della donna, Note e relazioni, 50, 1974). Popolazione. (Cfr.: Indagine speciale su alcuni aspetti delle condizioni di vita della popolazione, Note e relazioni, 2, 1958; Indagine speciale su alcune caratteristiche genetiche della popolazione italiana, Note e relazioni, 17, 1962; Sviluppo della popolazione italiana dal 1861 al 1961, Annali, serie VIII, XVII, 1965; Immagini della societ italiana, 1988; Statistiche sui minorenni 1984-86, Note e relazioni, 5, 1989; Sintesi della vita sociale italiana, 1990). Famiglie. (Cfr.: Indagine sui nuclei familiari, Collana di informazioni, 6, 1982; Indagini sulla struttura e i comportamenti familiari, 1985; Atti del convegno La famiglia in Italia, Annali, serie X, VI, 1985; Indagine multiscopo sulle famiglie. Primi risultati, Notiziario Istat, f. 41, n. 1, 1989; Caratteristiche strutturali delle famiglie nel 1983 e nel 1988, Notiziario Istat, f. 41, n. 13, 1989). Immigrazione straniera. (Cfr.: Analisi delle fonti statistiche per la misura dellimmigrazione straniera in Italia: esame e proposte, Note e relazioni, 6, 1989. Gli immigrati presenti in Italia: una stima per lanno 1989, Roma, 1990).

ne 1972-81, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 14, 1985; Popolazione residente per sesso et e regione, 1982-85, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 21, 1985; Popolazione residente per sesso et e regione, in: Popolazione e movimento anagrafico dei comuni e Annuario di statistiche demografiche, 1989, Sommario storico di statistiche della popolazione anni 1951-87, 1990). e) Prospettive demografiche. Popolazione. (Cfr.: Tendenze evolutive della popolazione delle regioni italiane fino al 1981, Note e relazioni, 41, 1969; Proiezioni della popolazione residente italiana al 1981, 1986 e 1991, Supplemento Bollettino mensile di Statistica, 12, 1978; Previsioni della popolazione residente dal 1986 al 2001 per sesso, et e regione, Annali, serie X, II, 1982; Previsioni della popolazione residente per sesso et e regione - Base 1-1-1988, Note e relazioni, 4, 1989). Famiglie. (Cfr.: Previsione del numero di famiglie italiane dai 1995 al 2020, Notiziario Istat, f. 41, n. 19, 1989). IV) Indagini speciali, studi e ricerche a) Mortalit e salute. (Cfr.: Cause di morte 1877-1955, 1958; Indagine statistica sulle concause di morte, 1951-54, 1958; Indagine speciale su alcuni aspetti delle condizioni igieniche e sanitarie della popolazione, Note e relazioni, 10, 1960; Tendenze evolutive della mortalit infantile in Italia, Annali, serie VIII, XXIX, 1975; Indagine sulla mortalit infantile nellanno 1974, Supplemento Bollettino mensile di statistica, 15, 1976; Recenti livelli e caratteristiche della mortalit infantile in Italia, Collana di informazioni, 4, 1983; Indagine statistica sulla condizione di salute e sul ricorso ai servizi sanitari, novembre 1980, Supplemento Bollettino

b)

c)

d)

e)

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Solo in questi ultimi anni lorientamento della produzione Istat risente di un indirizzo pi operativo-divulgativo. Significativi in tal senso sono i primi contributi, via via aggiornati negli anni successivi, in tema di ricostruzione della struttura della popolazione negli intervalli intercensuali (Istat, 1983; 1985b; 1985c), quelli relativi alle previsioni demografiche svolte anche a livello regionale (Istat, 1982; 1989a) e, pi di recente, lattivit di approfondimento delle nuove tendenze, sia attraverso la valorizzazione e lintegrazione dei dati correnti, sia mediante lavvio di indagini ad hoc (Istat, 1985a; 1988; 1989c; 1990a)2. 4. Lapporto del mondo accademico La produzione pi stimolante e forse anche pi utilizzata a fini operativi proviene soprattutto dal mondo accademico: una produzione indirizzata tanto a integrare e ampliare la portata dei dati di base, quanto ad approfondire la conoscenza di singoli fenomeni secondo piani di ricerca che, bench svincolati da specifici interessi di governo, hanno contribuito a delineare gli scenari in cui si sono inserite le scelte e lattivit di una classe politica che, almeno sino agli anni settanta, si limitata a prendere atto della realt demografica e delle sue prospettive. Daltra parte, latteggiamento di osservatore passivo dei fatti demografici da parte del governo nel primi due decenni del secondo dopoguerra appare coerente con una realt, quella degli anni cinquanta e sessanta, in cui, in assenza di chiari obiettivi e senza la necessaria maturazione su opportunit e modalit di intervento, la dinamica dei tre fondamentali fenomeni che regolano levoluzione demografica meritava attenta considerazione, pi che orientamenti specifici. Se, da un lato, la fecondit, dopo limmediata ripresa post-bellica, aveva subito una nuova impennata negli anni sessanta e non ispirava
2 I nuovi orientamenti avvertiti in ambito Istat nel corso degli anni ottanta sembrano comunque destinati a persistere. In particolare, nel 1991e stata effettuata una rilevazione sperimentale della popolazione residente al 31-12-1990 (per anno di nascita, sesso e stato civile) nei comuni con anagrafe automatizzata che - stando alle previsioni - divenuta corrente a partite dal 1991. Va inoltre ricordata la ricostruzione della fecondit per generazioni nelle regioni italiane - condotta in collaborazione con il Dipartimento statistico dellUniversit di Firenze - i cui risultati sono stati diffusi nel corso del 1992. Va infine segnalato il crescente impegno dellIstat nellattivit di scambio e di cooperazione sulle tematiche demografiche con istituzioni e centri di ricerca nazionali e internazionali: la partecipazione alle iniziative Eurostat, i contributi a pubblicazioni ufficiali delle Nazioni Unite e la collaborazione bilaterale con il Bureau of the Census degli Stati Uniti, lo studio sulle migrazioni interne in cooperazione con il Dipartimento statistico dellUniversit di Pisa e il Population Program dellUniversit del Colorado.

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certo propositi di intervento, dallaltro lallungamento della sopravvivenza, puntualmente documentato dalle fonti ufficiali, esprimeva il crescente miglioramento delle condizioni di vita in un paese che, ancora incapace di darsi un sistema sanitario generalizzato, non poteva realisticamente concepire gli osservatori epidemiologici o le fini analisi che sarebbero venute nel corso degli anni successivi; il tutto, mentre il persistere dellesodo migratorio verso lestero e lesplosione della mobilit interna lungo le direttrici sud-nord e est-ovest, anchessi oggetto di ampi studi e documentazioni (Livi Bacci, 1972; Golini, 1974; AA. VV., 1977a; Birindelli e Nobile, 1987; Bacchetta e Cagiano de Azevedo, 1990), richiedevano un approccio al problema del Mezzogiorno che andava ben oltre il raggio dazione della demografia e dei suoi pur utili strumenti. Di fatto, solo verso la fine degli anni sessanta, con il mito della programmazione, che maturava lesigenza di integrare le conoscenze demografiche sulle tendenze in atto con gli scenari ipotizzati per il futuro sul piano dello sviluppo economico e nellarea dellorganizzazione sociale. Ed , per lappunto, nel corso di quegli anni che la domanda di conoscenze da parte degli organi di governo attivava iniziative demografiche direttamente finalizzate. Listituzione del Cipe (legge n. 48 del 27-2-1967) e dellIspe (D. P. R. n. 505 del 30-6-1972) creavano, infatti, le premesse per valorizzare, nellambito dellattivit di governo, un prodotto tanto affascinanate quanto discusso: le previsioni demografiche (Federici, 1967; De Rita e Ruberto, 1968; De Meo, 1969; Golini, 1969; Micheli, 1979a). Un precursore di questi nuovi orientamenti si pu ritenere sia stato, gi nella prima met degli anni sessanta, il lavoro richiesto dalla Commissione di studio degli schemi regionali di sviluppo nellambito del Ministero dellIndustria e commercio a un sottocomitato formato da De Meo, Molinari e Tagliacarne e affidato alla Svimez. Ci ha dato vita a un contributo innovativo in tema di previsioni demografiche a livello regionale, curato da Livi Bacci (1964), che ha poi avuto seguito in altri due studi dello stesso autore (Livi Bacci e Pilloton, 1968; 1970) su popolazione e forza di lavoro a livello regionale, svolti nel quadro della collaborazione Svimez-Ministero del Bilancio e della programmazione. Limportanza di questi apporti stata duplice: essi non solo hanno fornito unadeguata risposta alle esigenze di conoscenza che provenivano dalle autorit di governo, ma hanno anche offerto la dimostrazione pratica di come una domanda a fini operativi potesse agire da veicolo per lo sviluppo e la divulgazione di metodologie demografiche.
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Il primo dei suddetti contributi rappresenta, infatti, una delle pi conosciute e apprezzate opere di diffusione delle tecniche di proiezioni analitiche in ambiti sub-nazionali ed stato per lungo tempo il fondamentale punto di riferimento per tutti quei lavori previsivi che hanno arricchito la produzione demografica dallinizio degli anni settanta, stimolati da una crescente domanda spesso a livello locale di informazioni concernenti la struttura per sesso ed et della popolazione e favoriti dalla disponibilit di strumenti di calcolo via via pi potenti. Daltra parte, nellultimo ventennio, proprio il settore delle previsioni quello in cui sembra pi visibile un ruolo della demografia al servizio dellattivit di governo. Il desiderio, talvolta la necessit, di anticipare le conoscenze e almeno nelle intenzioni di controllare gli equilibri nel sistema economico nellarea dei servizi sociali hanno, infatti, largamente favorito sia lo sviluppo delle previsioni derivate, sia lapprofondimento degli scenari che ad esse andavano via via collegandosi. Lambito previsivo pi ricorrente, soprattutto nel decennio centrato sulla fine degli anni settanta, stato indubbiamente quello del mercato del lavoro, analizzato tanto a livello nazionale o di grandi ripartizioni (Bonaguidi, 1975; Golini, Ciucci e Caselli, 1978; Golini e Ciucci, 1979; Natale, 1979; Micheli, 1979b; AA. VV., 1982b; Del Boca, Ortona e Santagata, 1983; Bruni e Franciosi, 1984; Giannini, 1985; Franciosi e Bruni, 1985; Franciosi, in Fu, 1986; Bruni, 1988), quanto sul piano regionale o sub-regionale (si vedano, in proposito, i successivi paragrafi 6 e 7). Non sono tuttavia mancati interessanti sviluppi anche in altre due aree, quella dellistruzione (Annali Pubblica istruzione, 1982; AA. VV., 1977b; 1982a; Zuliani e Trivellato, 1981; Rossi e Bernardi, in IRPCNR, 1988) e dellassistenza (Somogyi, 1967; Faustini, 1981; Spallacci, 1981; Giacomello, 1984; Banca dItalia, IMI e INA, 1985; Vitali, 1982b; 1987a; Alvaro, Pedull e Ricci, 1987; Ministero del Tesoro, 1988, 1991; Inps, 1989), certo non meno importanti in unottica di programmazione della spesa e di pianificazione dei servizi. Ma in quale misura si pu affermare che una produzione varia e abbondante, come quella che si susseguita dagli anni settanta, abbia efficacemente anticipato gli scenari e i problemi cos da meritare, o da recriminare, unadeguata valorizzazione nelle scelte e negli indirizzi di governo? Il tema della qualit delle previsioni demografiche, intesa come capacit di vedere il futuro, stata ed tuttora fonte di critiche e di incomprensioni, tanto pi ricorrenti quanto pi ci si allontana dalla comunit degli addetti ai lavori. E se gi negli anni cinquanta un autorevole studioso come Boldrini (1956) affermava che non si finirebbe a elencare gli scritti critici che

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non attaccano il fondamento logico ma gli insuccessi pratici delle previsioni demografiche, a distanza di tre decenni pur caratterizzati da importanti affinamenti metodologici Livi Bacci (1982) non esitava a definirle uno strumento arrugginito. In realt, lerrore sta in chi si arroga di trasformare la scienza in profezia (Boldrini, 1956) aspettandosi indicazioni puntuali l dove non si possono che fornire tendenze e valutazioni strettamente correlate alle ipotesi che fanno da supporto ai calcoli previsivi. N, daltra parte, controlli e verifiche a posteriori offrono elementi risolutivi per guidicare la bont degli scenari previsivi (Natale e Righi, 1988). Bisogna infatti tener presente che, se pur vero che linerzia spesso caratterizza levoluzione temporale dei fenomeni demografici ma agisce su di essi in misura diversa, anche vero che una convincente prospettiva di risultati non desiderabili pu indurre interventi e comportamenti capaci di generare cambiamenti di rotta e tali da falsare, paradossalmente, proprio le previsioni pi corrette. Cos, ad esempio, se come ci si augura i problemi previdenziali conseguenti al fenomeno dellinvecchiamento demografico non si manifesteranno con la drammaticit con cui vengono da tempo prospettati (Castellno, 1976; 1985; 1990; Coppini, 1978; Vitali, 1982a; 1985; 1986; 1987b; Golini, 1988; De Leo e Gronchi, 1990), ci non sar certo per un errore di previsione, ma per effetto di quegli interventi oggi auspicati che vanno via via maturando allinterno del dibattito, tuttora in corso, sugli scenari futuri. Come si vede, il valore del lavoro dei demografi in questo campo non si misura dalleffettivo realizzarsi di quanto essi anticipano, ma si concretizza nel fatto stesso di averlo anticipato. Il merito l dove esiste un corretto uso dei dati e delle metodologie sta, per lappunto, nella capacit di fornire alle forze sociali e alle autorit di governo un quadro di riferimento, generalmente a medio-lungo termine, ottenuto con il supporto di un approppriato insieme di conoscenze e di ipotesi; tutto ci con la piena consapevolezza che, in una visione politica spesso di breve periodo, tale quadro potr anche venir contraddetto da scelte che riflettono istanze o pressioni dettate da situazioni congiunturali. Pertanto, i provvedimenti che incrementano il personale insegnante anche quando chiaramente documentabile un tendenziale calo della popolazione scolastica, o le misure di prepensionamento varate mentre imperversa il dibattito sullinvecchiamento e le relative problematiche previdenziali, non indeboliscono affatto il contributo della demografia; semmai esse offrono un ulteriore esempio delle ben note difficolt e incomprensioni tra il mondo dei tecnici e quello dei politici. In effetti, anche se la comunit dei demografi risulta oggi pi che

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in passato sensibile ai problemi e alle esigenze di governo come testimoniano i temi delle riunioni scientifiche e i materiali che esse producono (Sieds, 1968; 1976; 1978; 1987; 1989; SIS, 1981; 1982; 1987) la demografia offre pur sempre solo un contributo tecnico e resta al servizio di un concetto ampio di fare politica: alimenta il dibattito fornendo alle diverse componenti della societ punti di riferimento e argomentazioni documentate e si limita a indicare, per quanto di sua competenza e lasciando a chi di dovere il compito di decidere, le specifiche azioni di intervento nel guidare, senza traumi, il processo di cambiamento sociale ed economico. 5. Due significative esperienze e alcune riflessioni Un eloquente esempio dellimportante ruolo delle conoscenze demografiche ma anche un segnale del loro scarso livello di diffusione (e talvolta del loro spegiudicato utilizzo) nellambito della classe politica nel corso della prima met degli anni settanta si avuto in occasione del lungo dibattito che ha portato allapprovazione della legge 194 sullinterruzione volontaria della gravidanza. Le vicende di quegli anni sono ben note: in un contesto di vivace discussione sorretta da forti motivazioni ideologiche si diffusa la ricerca di argomentazioni e dati statistici a sostegno di due tesi contrapposte: chi vedeva nella legalizzazione dellinterruzione di gravidanza un mezzo per arginare un fenomeno, quello dellabortivit clandestina, tanto drammatico quanto dilagante e chi, viceversa, contestava le affermazioni sul ricorso generalizzato alla pratica abortiva e, ridimensionandone la frequenza, sottraeva argomentazioni ai fautori della legalizzazione come doverosa scelta del male minore in risposta alle istanze e ai bisogni di gran parte della popolazione. Nel continuo susseguirsi dei progetti di legge si consolidavano, e rimbalzavano nellopinione pubblica, stime sulla consistenza degli aborti clandestini del tutto infondate e fuorvianti (da ottocentomila a tre milioni di casi annui), corredate da valutazioni sulla mortalit materna (conseguente a pratiche abortive) ancor pi insensate (venti-venticinquemila decessi annui). In tale contesto, un contributo di chiarezza, ma anche una denuncia delle frequenti situazioni di disinformazione e di malafede, stato offerto dal lavoro di Colombo (1976) che, dopo un paziente esame critico delle fonti e dei dati disponibili, ridimensionava drasticamente con il vaglio di un approccio scientifico la stima dellabortivit clandesti-

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na a cento-duecentomila casi annui. Un ridimensionamento che, daltra parte, era gi presente in altre autorevoli stime svolte in quegli stessi anni (Livi Bacci, 1975) e che avrebbe poi trovato legittimazione anche alla luce delle successive valutazioni in regime di abortivit legale (Istisan, 1985; Fig Talamanca e Spinelli, 1986; Blangiardo e Bonarini, in IRP-CNR, 1988; Ministero della Sanit, 1979-90). Non si sa quanto il confuso quadro delle conoscenze demografiche abbia favorito o ostacolato liter di una legge che era ormai troppo spinta dal clima del tempo per venire ulteriormente ritardata (Berlinguer, 1978), certo che lesperienza di un acceso dibattito con dati dubbi e discutibili pu aver contribuito, tra laltro, alla decisione di inserire nel testo legislativo (art. 16 legge n. 194 del 22-5-1978) unattivit di monitoraggio del fenomeno a opera del Ministero della Sanit. Una decisione, questultima, che ha avuto un seguito non senza una travagliata fase di avvio nella presentazione delle Relazioni annuali al Parlamento sullattuazione della legge 194 (Ministero della Sanit, 1979-90) e nei numerosi contributi dellIstituto superiore di Sanit, sia in termini di documentazione e analisi delle tendenze (Istisan, 1982; 1983a; 1983b; 1985; 1987; 1989; 1991), sia nellapprofondimento di alcuni importanti aspetti connessi allinterruzione di gravidanza e al controllo della fecondit (De Blasio, 1988; Grandolf o e Spinelli, 1988; Spinelli e Grandolfo, 1988; Carnevale, 1989). A distanza di circa un decennio dalle accese discussioni in tema di aborto, una situazione analoga si ripetuta in corrispondenza di una realt di natura ben diversa, ma caratterizzata da un quadro di conoscenze altrettanto confuso e strumentalizzato. Ci si riferisce allimmigrazione straniera: la grande novit degli anni ottanta, un fenomeno che, almeno nelle problematiche, sembra destinato ad assumere un ruolo sempre pi importante negli scenari evolutivi di questa fine secolo. Lampio dibattito sulla presenza straniera di origine extracomunitaria sul territorio italiano, gi segnalata e quantificata anche se con risultati parziali e ben poco convincenti in studi e ricerche che risalgono a pi di dieci-quindici anni fa (Censis, 1979; Sala, 1980; Monguzzi, 1981; Caldo, 1981; Merella, 1981; Neri, 1982; De Rita, 1983), ha contribuito, tra laltro, a mettere in evidenza due importanti verit. Ha ribadito come una corretta conoscenza dei fenomeni demografici sia, l dove richiesta, una premessa irrinunciabile per svolgere unefficace e consapevole azione di governo. E ha mostrato che, nonostante il miglioramento del sistema delle statistiche ufficiali, esso deve ritenersi ancora insufficiente per cogliere con chiarezza e tempestivit le manifestazioni di fenomeni e aspetti della realt soggetti a rapido cambiamento.

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Ancora una volta, ne uscito rafforzato il ruolo della comunit scientifica. Infatti, in assenza di fonti interne allapparato della pubblica amministrazione che fossero in grado di fornire adeguati riferimenti, gli orientamenti politici e le decisioni sul fenomeno della presenza straniera cos come le argomentazioni nel dibattito che ha interessato il paese sono maturate, pressoch esclusivamente, attorno ai risultati di studi provenienti dallarea della ricerca universitaria o da enti e organismi privati (AA. VV., 1983; 1986; 1988; 1989a; 1990b; 1990c; Melotti, Aimi e Zigli, 1985; Barsotti, 1989; Brunelli et al., 1989; DellAtti e Di Comite, 1990; Moretti, 1990; Moretti e Cortese, 1990; Reginato, 1990; Natale, 1990). Con un tale bagaglio di conoscenze stata varato un primo importante provvedimento legislativo Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni dandestine (legge n. 943 del 30-12-1986 e successive proroghe) al fine di sanare le situazioni di illegalit e, con propositi di regolamentazione dei flussi, di istituire un blocco allingresso indiscriminato di stranieri in Italia. In realt tale iniziativa, se da un lato ha espresso per la prima volta la volont politica di contenere il fenomeno entro limiti accettabili per il mantenimento degli equilibri economici e sociali del paese, dallaltro non ha dimostrato lefficacia che ci si attendeva: le circa centomila regolarizzazioni emerse dallapplicazione del suddetto provvedimento non hanno certo chiarito i termini quantitativi e Io status giuridico di una presenza che, al termine della sanatoria, era ancora oggetto di stime incerte e discordanti (Natale, in IRP-CNR, 1988; Cagiano de Azevedo, in AA. VV., 1988; Melotti, in AA. VV., 1988; Blangiardo e Terzera, in AA. VV., 1989; Blangiardo, 1990b). Qualche progresso sul piano delle conoscenze del fenomeno e un significativo sforzo di attivare in tal senso le strutture statistiche istituzionali stato compiuto quasi contemporaneamente al dibattito che ha accompagnato lemanazione di un secondo provvedimento legislativo: il D. L. n. 416 del 30-12-1989 poi convertito dopo ampia discussione in sede parlamentare nella legge n. 39 del 28-2-1990. In tale circostanza stato compiuto da parte dellIstat (1990) un tentativo di stima della presenza straniera sul territorio italiano; uno studio i cui risultati hanno avuto diffusione in occasione della Conferenza nazionale dellimmigrazione organizzata a Roma nel giugno 1990 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (Tassello, 1990). Il coinvolgimento dellIstat, gi sensibile ai problemi di rilevazione del fenomeno (Natale, in Istat, 1989b) per altro contemplata anche nel-

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lambito del censimento demografico del 1991 , e un parziale riassetto della struttura informativa del Ministero dellInterno (per quanto riguarda i dati sui permessi di soggiorno) e del Ministero del Lavoro (per le iscrizioni al collocamento e gli avviamenti al lavoro di cittadini extracomunitari), sembra facciano sperare anche per la presenza straniera, come gi accaduto a proposito dellaborto, lavvio di unattivit di monito- raggio. Uniniziativa che, se da un lato si impone come premessa per dare efficace esecuzione alla programmazione dei flussi, prevista dalle pi recenti disposizioni di legge (art. 2 legge n. 39 del 28-2-1990), dallaltro offre unulteriore significativa conferma dellutilit del consolidamento del legame tra conoscenze demografiche e attivit di governo. Come si visto, due temi tanto diversi aborto e immigrazione straniera hanno in comune la prerogativa di aver offerto alla classe politica e alle forze sociali loccasione per toccare con mano limportante ruolo di una corretta informazione demografica nei processi decisionali. Si dunque trattato di due esperienze importanti che dovrebbero indurre una riflessione pi ampia e articolata anche su altri temi e che possono additarsi come casi esemplari allorch ci si auspica di spingere il rapporto tra demografia e governo al di l della pura sensibilizzazione. In effetti, i problemi posti dalla dinamica demografica sul piano dei futuri equilibri economici e sociali del paese sono ormai numerosi e largamente messi in risalto dai continui apporti dellIRP (AA. VV., 1987; Golini, De Simoni e Heins, 1989; Righi, 1989; 1990; Golini, 1989; Palomba, 1990a; 1990b; Golini e Bonifazi, 1990), dai frequenti seminari e convegni (Sieds, 1987; 1989; IRP, 1991), dai contributi che hanno arricchito la letteratura e la saggistica demografica in questi ultimi anni (Fu, 1986; Todisco, 1987; Sonnino, 1989; AA. VV., 1984; 1990a; Blangiardo, 1990a; Livi Bacci e Martuzzi Veronesi, 1990; Natale, 1990). E se il calo della fecondit, linvecchiamento della popolazione, la trasformazione dei modelli familiari, limmigrazione straniera, per citare i fenomeni pi rilevanti, impongono un maggiore e pi diretto convolgimento della classe politica, i segnali che provengono da questultima, pur testimoniando che qualcosa sta muovendosi, sono tuttora deboli e discontinui. A tale proposito, risultano interessanti, anche se ancora allo stato embrionale, le iniziative sul fronte delle famiglie, un aspetto gi affrontato nel decennio passato (Ministero del Lavoro, 1983) e che sembra rivitalizzato dal crescente dibattito sulla fecondit; si vedano i contributi al seminario Demografia e politiche sociali della famiglia (Firenze 8-10 novembre 1990) e alcune importanti iniziative legislative, ad esempio

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la legge n. 208/89 della Regione Emilia-Romagna, la proposta di legge n. 2867 avanzata alla Camera dei deputati per lattribuzione di un assegno a favore dei figli a carico e listituzione di un fondo per la famiglia (Camera dei deputati, 1988), sino ai progetti in discussione presso la Regione Lombardia Norme per la promozione e il sostegno sociale della famiglia (Sindacato delle famiglie, 1990) e presso la Regione Trentino-Alto Adige (1990) Interventi in materia di previdenza integrativa. Pu essere questo lo spunto per favorire lavvio di quella politica della popolazione sempre pi spesso indicata come possibile e opportuna (Colombo, 1988)? Una risposta oggi prematura. Ma, se fosse affermativa, essa legittimerebbe lassegnazione alla demografia di quel ruolo di consulenza, in corrispondenza di alcune importanti scelte di governo, che oggi le viene accordato, ma solo occasionalmente, pi per la sensibilit di singoli esponenti della classe politica e della pubblica amministrazione e, forse, anche per la tenacia e lautorevolezza di alcune voci che si levano dalla comunit scientifica, che per un auspicabile e doveroso patto di collaborazione tra conoscenza e governo del paese. 6. Le conoscenze demografiche a livello regionale per lapprofondimento delle realt locali e come strumento di governo nel decentramento delle competenze innegabile che la domanda di informazioni demografiche per finalit di governo abbia avuto impulso con la legge n. 1084 del 23-12-1970, relativa alla costituzione e al funzionamento degli organi delle regioni a statuto ordinario, e con il D. P. R. n. 616 del 24-7-1977, in tema di trasferimenti e deleghe delle funzioni amministrative dello stato. Lente Regione, pi di ogni altro organismo pubblico a carattere locale, si subito prospettato come potenziale utilizzatore di conoscenze demografiche; unutenza che si largamente concretizzata soprattutto dopo lacquisizione di compiti specifici previsti dallart. 3 del D. P. R. n. 616 nellarea dei servizi sociali (assistenza sanitaria e ospedaliera, istruzione artigiana e professionale, polizia locale urbana e rurale, beneficienza pubblica, assistenza scolastica), dello sviluppo economico (anche se con attribuzioni pi circoscritte e limitate), dellassetto e utilizzazione del territorio (urbanistica, viabilit, acquedotti, lavori pubblici, edilizia residenziale pubblica). La vasta portata di un insieme di competenze che impone interventi direttamente finalizzati e misurabili negli effetti, unitamente allesigenza

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di rispettare gli impegni della programmazione regionale cui viene altres riconosciuto un contributo alla determinazione degli obiettivi del programma economico nazionale (art. 11 D. P. R. n. 616) hanno stimolato la ricerca di documentazione e di analisi statistiche da parte di una classe politica generalmente sensibile nellidentificare linteressamento ai problemi degli amministrati come un efficace mezzo per mantenere il consenso. E anche se ci non ha dato vita, almeno nella fase iniziale, a grandi contributi sul piano dellapprofondimento delle realt locali e dellimpiego delle conoscenze demografiche nei processi decisionali e nei meccanismi di controllo (Curatolo, 1981; Bianchi, in SIS, 1981), si pu ritenere che progressivamente anche se con tempi e intensit non uniformi in tutto il paese ci si sia mossi nella giusta direzione. In sintesi, levoluzione del rapporto tra demografia e governo regionale a partire dai primi anni settanta pu essere ricondotto a una visione articolata in tre fasi. La prima, sviluppatasi allincirca negli anni settanta, caratterizzata dalla costituzione e dallorganizzazione delle strutture per la raccolta e lelaborazione dei dati statistici, nel cui ambito gli aspetti demografici occupano una posizione di grande rilievo. Nascono in questo periodo gli Istituti regionali di ricerca, a volte come organismi dotati di autonomia finanziaria e amministrativa in alcuni casi per trasformazione di enti preesistenti , altre volte come veri e propri servizi interni alla struttura regionale (Baglioni, 1981; 1984). Inizialmente, la loro attivit si concentra sulla raccolta e ladattamento delle statistiche di base, curando, in particolare: 1) la realizzazione di archivi anche informatizzati contenenti la struttura e la dinamica della popolazione; 2) la disaggregazione territoriale di dati ufficiali usualmente disponibili solo a livello nazionale o regionale; 3) la costruzione di indicatori per confronti spaziali e temporali della struttura e dei principali fenomeni di movimento della popolazione. Tale,attivit, che ha dato luogo in molti casi a contributi autonomi (IReR, 1976; 1977; 1981; Blangiardo e Carvelli, 1981; Gario, 1981; Carvelli e Zajczyk, 1984), resta comunque in gran parte finalizzata alla predisposizione di materiale di supporto per gli adempimenti istituzionali derivanti dalla programmazione: il cosiddetto Piano o Programma regionale di sviluppo (Panem, 1969; Regione Lombardia, 1978; Natale, 1980; IReR, 1981-89; Ires-Piemonte, 1981-90; Irspel, 1985-90). Nel corso di una seconda fase, generalmente sviluppatasi attorno alla met degli anni ottanta, linteresse dei politici e degli amministratori

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locali tende a polarizzarsi attorno ai problemi del mercato del lavoro, prima, e della sanit, poi. Si progettano, e in molte regioni si realizzano, sistemi di monitoraggio e analisi delle tendenze occupazionali i cosiddetti Osservatori del mercato del lavoro nel cui ambito lapporto demografico appare determinante tanto nella fase di costruzione, quanto nella successiva attivit di gestione (Migliorini e Bernardi, 1978; IReR, 1982-90). In tale contesto trovano larga diffusione le previsioni della popolazione residente classificata per sesso ed et; un prodotto che spesso funge da premessa per la stima dellofferta potenziale di lavoro (Regione Marche, 1987; Moretti, 1989). Tutto ci si realizza passando ad ambiti territoriali via via pi dettagliati: dalle prime esperienze di elaborazioni previsive a livello regionale ci si spinge a quelle relative a unit amministrative pi circoscritte province, comuni e ad altre aree subregionali che rappresentano un autonomo riferimento per la programmazione o che identificano nuovi centri di interesse (De Bartolo e Lombardo, 1981; Migliorini, 1982; 1986; Blangiardo e Carvelli, 1982; Pane, 1983; Rabino, 1984; Provincia autonoma di Bolzano, 1986b; Blangiardo et al., 1986c; 1990b; Chiari, 1988; Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, 1989). quanto accade, ad esempio, per le Unit sanitarie locali, rispetto alle quali si osserva frequentemente il tentativo di combinare aspetti demografico-sanitari, anche in funzione dellavvio e della gestione di altre importanti istituzioni destinate a compiti di analisi e di monitoraggio: gli osservatori epidemiologici (Regione Lazio, 1982; Regione Lombardia, 1985; 1988b; Regione Lombardia-Servizio Statistica, 1989; Dalla Zuanna, 1986; 1988; Provincia autonoma di Bolzano, 1986a; Vian e Bolzan, 1987; Regione Toscana, 1988; Regione Veneto, 1988; Micheli, 1991). Con la seconda met degli anni ottanta la visione dei rapporti tra demografia e governo locale sembra essere entrata in una terza fase, nel corso della quale, pur persistendo gli interessi nellarea occupazionale con una crescente attenzione agli aspetti professionali (Martini, 1988) e sanitaria, trovano sviluppo due tematiche ancora oggi di grande attualit: lambiente e le risorse, da un lato, e i problemi dellassistenza, dallaltro, con specifico riguardo alle modalit con cui affrontare spesso in condizioni di emergenza il nuovo fenomeno dellimmigrazione straniera. E se, relativamente al primo tema, il ruolo della demografia ancora in gran parte quello di predisporre gli scenari e le analisi a livello locale, generalmente col ricorso a previsioni demografiche anche a completamento di iniziative gi avviate in epoche precedenti (Regione Lombar-

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dia, 1977; Regione Emilia-Romagna, 1978; Blangiardo et al., 1984; IReR e Enel, 1986; 1987) , sul secondo aspetto lattivit di ricerca proveniente dalle regioni offre risultati che vanno anche al di l di finalizzazioni specifiche e assumono valore al di fuori dei confini amministrativi cui fanno riferimento. Si pu infatti affermare che molte iniziative di ricerca originariamente pensate per interessi di gestione locale del fenomeno della presenza straniera (predisposizione dei servizi, inserimento nel mercato del lavoro, condizioni abitative, integrazione e cos via) abbiano di fatto contribuito, data la scarsa e frammentaria disponibilit di informazioni, ad arricchire con preziosi dettagli quel quadro di conoscenze che andato formandosi a livello nazionale pi per somma di singole realt locali che come effetto di dati e rilevazioni estese a tutto il territorio italiano (Ecap, Cgil, Emim, 1981; Regione Toscana, 1985; Tassinari, 1985; Montanari, 1987; Blangiardo e Campus, 1988; Blangiardo et al., 1991; Ilres, 1992). 7. Alcuni contributi significativi Le linee evolutive descritte nelle pagine precedenti offrono una visione globale del rapporto tra demografia e attivit di governo locale che, come gi ricordato, non pu certamente ritenersi valida per la generalit delle regioni italiane. indubbio che detto rapporto si sia sviluppato con modalit e interessi a volte diversi da regione a regione, cos come diversi sono risultati i tempi di maturazione nel passaggio alle successive fasi. In genere, la aree del centro-nord in primo luogo Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana hanno mostrato una maggiore vivacit e un pi ampio interesse nello sviluppare, ai diversi livelli, la raccolta e lelaborazione di informazioni demografiche. Alcune regioni hanno poi privilegiato ambiti di ricerca che sconfinano, aggiungendosi o sostituendosi, dai temi classici delle previsioni demografiche, degli studi di mortalit e, pi di recente, dellimmigrazione straniera. Si tratta di contributi che sono in parte riconducibili a interessi e problematiche specifiche, a una diversa sensibilit su alcuni argomenti e, non ultimo, al sistema delle relazioni che si instaurano tra centri regionali di ricerca ed esponenti di enti e istituzioni (universit, istituti pubblici e privati) o ricercatori che operano in ambito locale. Cos accaduto per i lavori di documentazione e approfondimento sui temi dellabortivit legale (Regione Lombardia, 1981; 1988; Re-

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gione Veneto 1979-89; Regione Toscana, 1983-86; Di Cillo, 1984; 1985; Grandolfo, 1990; Regione Emilia-Romagna, 1991b; Dalla Zuanna e Giorio, 1991), del pendolarismo (Irpet, 1978; Gallino, 1985; De Angelini e Doro, 1987; Caperdoni e Lauro, 1988), delle dinamiche familiari (Pesso, 1982; Provincia autonoma di Bolzano, 1987; Blangiardo et al., 1988) e della domanda di abitazioni (Predetti e Peccati, 1979; Regione LombardiaProvincia di Brescia, 1985; Emanuele et al., 1983; Provincia autonoma di Trento, 1988) della popolazione scolastica (Masiero, 1987; Bolognini, 1989), degli anziani e dei relativi bisogni (Bellandi e Pozza, 1986; Micheli, 1987); ci per limitarci agli argomenti pi importanti o pi ricorrenti. Non resta a questo punto che qualche breve riflessione conclusiva. La prima osservazione che una produzione cos abbondante, anche se fortemente concentrata in alcune aree del paese, non pu non aver avuto origine, almeno in parte, da adeguate motivazioni nel quadro delle scelte di politica regionale. Se ne ha conferma dai significativi esempi degli studi preparatori per interventi legislativi, cos come dai lavori concepiti nel quadro di una documentata attivit di controllo e di correzione delle dinamiche regionali in alcuni settori (si pensi agli osservatori del mercato del lavoro). Tutto questo senza dimenticare lapporto di quelle analisi e ricerche demografiche a livello locale finalizzate alla diffusione, anche nellopinione pubblica, di un clima di sensibilit ai problemi della popolazione destinato ad anticipare e a favorire le successive azioni di intervento. Tuttavia, ci che emerge con chiarezza, anche in questo campo, la ricorrente immagine di unItalia a pi velocit: come spiegare, ad esempio, lenorme divario tra la consistente offerta di conoscenze demografiche per gli amministratori lombardi o piemontesi e quella, ben pi ridotta, resa disponibile ai loro colleghi liguri o campani? La risposta non certo legata allidea che la validit e limportanza delle conoscenze demografiche possa venire circoscritta ad alcuni ambiti territoriali; evidente che i fattori che determinano leterogeneit quantitativa e qualitativa dei contributi sono di tipo strutturale, di ambiente e di cultura dellinformazione: il gi ricordato diverso grado di attenzione ai problemi, la presenza di realt sociali ed economiche pi o meno complesse, una distribuzione di risorse finanziarie e umane non uniforme, la disponibilit in loco di adeguati centri di ricerca. indubbio che sia possibile fare politica e amministrare la popolazione anche senza la demografia, ma non sarebbe auspicabile una forma di coordinamento tendente a riequilibrare le disparit nella produzione regionale di studi demografici e a favorire attraverso lintegra-

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zione e lo scambio di esperienze un pi ampio e corretto impiego di dati e metodologie che aiutino ad amministrare meglio?. Per la verit qualche tentativo in tal senso esiste gi (ci si riferisce al Gruppo interregionale per le statistiche demografiche, avviato nel 1983, cui formalmente aderiscono esponenti di tutte le regioni: Irsev, 1983-90), ma questa unesperienza ancora poco valorizzata e affidata alliniziativa personale dei membri e dei coordinatori. In ultima analisi, ci di cui oggi si sente la mancanza una presenza efficiente e generalizzata proprio di quei sistemi informativi regionali che sono stati tanto esaltati in fase di teorizzazione allinizio degli anni ottanta (Colle, 1981), quanto poi dimenticati o comunque realizzati fuori da ogni forma di coordinamento e integrazione negli, anni successivi, scontando come spesso accade in queste cose le difficolt del passaggio dalla teoria alla pratica. 8. Osservazioni conclusive Volendo ora tradurre il contenuto delle pagine precedenti in un bilancio sintetico circa il ruolo delle conoscenze demografiche nel quadro delle attivit di governo, un punto che resta problematico nonostante il progressivo affermarsi di un clima di crescente interesse e di sensibilizzazione attorno ai temi della popolazione sembra essere proprio il persistente squilibrio tra una produzione di dati e di ricerche generalmente qualificata e abbondante (talvolta persino sovrabbondante in corrispondenza di alcune tematiche e/o di alcuni ambiti locali) e il suo concreto utilizzo da parte di politici e amministratori spesso pi disposti a commissionare studi demografici che a consumarne i contenuti avvalendosene in occasione delle scelte di governo. Cos, se innegabile che lattivit di ricerca si sta rivelando, oggi pi che in passato, attenta e aggiornata alle problematiche emergenti nella realt sociale ed economica del paese (lesempio dellimmigrazione straniera offre una valida conferma in tal senso), non si pu dire che essa riceva adeguate gratificazioni negli ambiti della pubblica amministrazione, al cui interno anche per motivi di formazione professionale e culturale non sempre si riscontrano le necessarie competenze per distinguere la qualit dei contributi e per interpretare in chiave operativa le indicazioni che da essi provengono. Daltra parte, neppure gli stessi demografi sono del tutto esenti da responsabilit nel quadro dei rapporti di incomprensione che portano ai fenomeni di sottoutilizzo delle conoscenze demografiche nellattivit

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di governo; un indubbio limite deriva da un loro frequente atteggiamento culturale di distacco nei riguardi della ricerca su commissione, un atteggiamento che si concretizza nel mantenere chiaramente distinta, da un lato, lattivit ispirata da interessi scientifici personali (il sacro) e dallaltro gli approfondimenti di specifiche problematiche indotti dalla richiesta di contributi da parte di istituzioni esterne al mondo accademico (il profano). Ma si tratta solo di una temporanea incomprensione o ci si trova in presenza di una vera e propria incomunicabilit strutturale tra le parti in causa? Le riflessioni contenute nelle pagine precedenti indurrebbero a propendere per la prima alternativa. In tal senso, bench persista la convinzione che la maturazione e lacculturamento demografico dei responsabili di governo e degli amministratori siano ancora largamente inadeguati, non vanno ignorati alcuni recenti segnali di cambiamento che, per quanto non uniformi sotto il profilo territoriale, risentono degli effetti del ricambio generazionale nella pubblica amministrazione e del progressivo affermarsi, al suo interno, di una maggior consapevolezza del ruolo che dovrebbe competere alle conoscenze demografiche nellorientare alcuni settori dellazione di governo. Al tempo stesso, anche la reazione degli studiosi tende a offrire minori resistenze nel rispondere a specifiche richieste di collaborazione sia nel campo della ricerca, sia nella stessa formazione di quei quadri della pubblica amministrazione che dovrebbero poi avvalersene a fini operativi. In ultima analisi, limpressione che se oggi vi sono ulteriori sforzi da compiere per consolidare i legami tra conoscenze demografiche e attivit di governo, essi non vanno certo spesi nel ribadire limportanza di un tale obiettivo (ormai largamente condivisa), bens nel definire le modalit per renderlo concretamente realizzabile e nel chiarire il ruolo dei soggetti che ne sono coinvolti. Lidea di fondo che si debba arrivare alla situazione in cui a un vasto insieme di tecnici e politici ben formati sui contenuti della disciplina possa affiancarsi un ampio gruppo di demografi che, pur senza rinunciare al rigore scientifico, siano disposti ad affrontare lanalisi e la descrizione degli scenari e delle relative problematiche con metodi e linguaggi adatti anche a interlocutori esterni al mondo accademico. Indubbiamente utile a tale scopo potr risultare lappoggio di un organismo o di unistituzione che svolga compiti di mediazione, favorendo lincontroconfronto tra le due parti e la loro convergenza sui temi di ricerca. A tale proposito, se vero che lIRP si prospetta oggi come il referente pi naturale per uniniziativa di questo tipo, non tuttavia esclu-

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so che tale compito potrebbe trovare unaltrettanto valida e qualificata accoglienza anche entro nuove e diverse forme organizzative. Non ultima, quello stesso Gruppo di coordinamento per la demografia, costituitosi nellambito della SIS (Societ italiana di statistica) alla fine degli anni ottanta, tra le cui finalit (armonizzare gli interessi e le esigenze di tutti coloro che si interessano a vario titolo ai problemi della popolazione ) rientrerebbero a pieno diritto sia le necessit di chi richiede adeguate conoscenze per governare con consapevolezza, sia lattivit di chi pronto a rispondere a tale richiesta offrendo disponibilit e competenze scientifiche.

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Capitolo tredicesimo Demografia, politica ed etica Paolo De Sandre

1. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politiche di popolazione: a) coordinate per una lettura critica La dinamica della popolazione, nei paesi economicamente sviluppati e in via di sviluppo, in epoca remota e contemporanea, continua a porre la ricerca demografica di fronte a problemi e sollecitazioni riguardanti le tendenze da favorire o da scoraggiare e i modi di intervento pi efficaci e accettabili. Naturalmente la spinta a porsi problemi di questo tipo tanto pi pressante quanto pi critica la dinamica considerata: linvecchiamento e il declino tendenziale delle popolazioni occidentali e una crescita ancora straordinariamente veloce di molti paesi in via di sviluppo (Pvs) rappresentano grandi temi attualissimi di fondata preoccupazione. Prima di soffermarmi sui modi in cui i demografi hanno affrontato in Italia questioni di tale natura, ritengo conveniente schematizzare la posizione della demografia rispetto alle politiche intese a modificare quantitativamente la popolazione e alle loro implicazioni, dal versante etico a quello operativo: si tratta di qualche cenno epistemologico che la figura 1 dovrebbe contribuire a chiarire. Anzitutto ormai acquisito che il termine popolazione, oggetto della disciplina demografica, va inteso in senso molto ampio e articolato. Lo studio delle caratteristiche strutturali di una popolazione e delle regole del suo ricambio quantitativo nel tempo e nello spazio impegno peculiare della demografia rinvia necessariamente allapprofondimento di variabili esplicative (dirette e indirette) di tale processo di ricambio e dei suoi esiti. In questo senso le variazioni nel numero di individui e di famiglie vanno collegate con le loro rispettive caratteristiche, con il ciclo vitale che ne specifica le regole di crescita, estinzione, sostituzione. Tali regole di evoluzione e di trasferimento (di vita e di beni) si consolidano o mutano attraverso linterazione, entro le biografie indi-

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viduali, con le pressioni legate al contesto biologico-sanitario, sociale, economico, culturale, normativo (si veda la fig. 1, quadro S). In altre parole, linteresse ai cambiamenti quantitativi della popolazione non pu essere separato dai fattori anche qualitativi che possono generarlo e che ne possono conseguire. Lampiezza dellarea studiata dalla demografia e le sovrapposizioni tra discipline contigue risultano da una divisione accademica del lavoro scientifico, che pu anche essere discutibile, e dalla capacit di ricerca degli studiosi, che pu conoscere epoche pi o meno feconde: ci che non deve essere perso di vista sono comunque lobiettivo conoscitivo generale e la subordinazione ad esso del processo di ricerca. Le politiche di popolazione si attuano attraverso interventi pubblici adottati deliberatamente (pu trattarsi anche di voluta assenza di interventi) per ottenere, in via diretta o indiretta, effetti di mantenimento o di modifica quantitativa della struttura e della dinamica della popolazione considerata. Si parla restrittivamente di politiche demografiche quando si pongono tali modifiche quantitative come obiettivi primari degli interventi, predisponendo per lo pi vie dirette per raggiungerli (ad esempio: diffusione di anticoncezionali, incentivazione alla sterilizzazione e allaborto
Figura 1. Ricerca demografica e politiche di popolazione.

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indotto per ridurre il numero delle nascite; chiusura delle frontiere per bloccare i flussi di immigrazioni) e considerando come subordinati o separati altri possibili obiettivi. Con una terminologia pi comprensiva e diffusa si parla di politica di popolazione (si veda la fig. 1, quadro P) che si richiama di norma a finalit pi generali e complesse quando essa si ispira a obiettivi primari di natura socio-economica, cui si ritengono associati effetti demografici quantitativamente rilevanti. Il primato assegnato a mete di bene comune pu cos, di fatto, far convivere, nello stesso contesto e contemporaneamente, interventi di effetto demografico contraddittorio: ad esempio sostegno al diritto al controllo dei concepimenti e delle nascite (con effetto potenzialmente depressivo sulle nascite) e sostegno, in denaro e servizi, ai costi marginali crescenti delle nascite di figli (effetto potenziale di rialzo). Una politica demografica in senso restrittivo invece pi attenta agli obiettivi quantitativi e, conseguentemente, alla coerenza degli strumenti attivati per raggiungerli. Un essenziale punto in comune di entrambi gli approcci rappresentato dal presunto o desiderato effetto quantitativo delle politiche sulla struttura e sulla dinamica della popolazione. La necessaria finalizzazione di ogni politica volta a incidere sul sistema popolazione risente, in modo pi o meno forte, di una duplice lettura delle vicende sociali, precedente il disegno politico: una valutazione su basi empiriche della situazione e degli sviluppi della dinamica di popolazione (si veda la fig. 1, quadro R); una valutazione su basi ideologiche ed etiche del migliore assetto della societ e dei diritti-doveri su cui meriti fondare i rapporti sociali (si veda la fig. 1, quadro Q). Circa il primo tipo di lettura, la ricerca demografica pu fornire un suo contributo allelaborazione e al controllo delle politiche di popolazione rimanendo rigorosamente allinterno dei suoi obiettivi e del suo metodo scientifico (si veda la fig. 1, quadro R): in tale direzione si collocano descrizioni e interpretazioni delle dinamiche di popolazione; studio delle condizioni per effettuare interventi, con relative simulazioni; valutazione tecnica di efficienza ed efficacia degli interventi. In taluni casi i ricercatori-demografi contribuiscono alla riflessione o allattuazione di politiche demografiche anche intervenendo nel merito dei principi di riferimento ideologici ed etici, oppure degli orientamenti politici generali: importante, in tali casi, la consapevolezza della extra-scientificit dei contributi e la vigilanza affinch non si abbia unintrusione surrettizia di principi di preferenza ideologico-politica nellambito scientifico o, viceversa, non si dia valenza scientifica indebita

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ai principi di preferenza. Commistioni scorrette in campo demografico tra ideologie, ricerca e politiche hanno lasciato segni profondi, dolorosi e inquietanti (Teitelbaum e Winter, 1985, trad. it. 1987). Il secondo tipo di lettura, fondamentale per fondare la filosofia dellintervento politico in termini di benessere sociale, fa ricorso ai quadri di riferimento ideologico e antropologico e agli orientamenti per lazione (etica individuale e sociale): punto strategico di connessione tra antropologia ed etica costituito dalla sfera dei diritti (e connessi doveri) umani, individuali e sociali (fig. 1, quadro Q). 2. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politiche di popolazione: b) sullaspetto politico Conviene dedicare ancora qualche osservazione introduttiva sia al tema delle politiche di popolazione, sia allo sviluppo delle riflessioni di natura ideologica ed etica, con qualche riguardo al contesto italiano. In tal modo verranno ulteriormente esplicitati alcuni concetti contenuti nella figura 1. 2.1 Orientamenti di welfare Le politiche di popolazione, come qualunque altro tipo di intervento atto a interferire intenzionalmente con la realt, suppongono degli orientamenti di valore finalistici. Nel passato o in altri contesti sociali possono risultare invocate finalit prevalentemente economiche (che considerano gli uomini come braccia che producono o bocche da sfamare), di potenza (gli uomini come spade o moschetti), eugenetiche (gli uomini come diversamente portatori di caratteristiche biologiche, mentali, sanitarie, da favorire o da contrastare), pi raramente religiose (gli uomini come anime). Negli odierni paesi sviluppati tali orientamenti sono complessi e allinsegna del cosiddetto bene comune o sociale, che include una crescente accentuazione degli aspetti sociali nelle politiche di welfare (Paci, 1989), poggiando sostanzialmente su due cardini: 1) salvaguardia e sviluppo dei diritti umani individuali, nel rispetto della collettivit e, secondo una pi recente sensibilit, nel rispetto anche dellambiente naturale; 2) miglioramento dellequit distributiva delle risorse: questo orientamento trova particolari sviluppi nellattenzione sia alla creazione di

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condizioni favorevoli per lo sviluppo delle risorse individuali, sia allefficienza con cui vengono gestite le risorse pubbliche. Per quanto riguarda il nostro paese, nella tradizione fino ad anni recenti, la salvaguardia dei diritti individuali appare usualmente subordinata a quella dei diritti relativi alle istituzioni gerarchzzate (con riferimento, ad esempio, al diritto di famiglia si vedano Ungari, 1974; Vincenzi Amato, 1988). Alle radici remote delle politiche per il benessere della popolazione prevale, nel nostro paese, un orientamento definibile, in termini chiaramente allusivi, particolaristico e meritocratico, con varianti assistenziali ma anche clientelari, in contrapposizione a un orientamento universalistico ed egualitario, esemplificato dalle politiche sociali svedesi e inglesi degli anni trenta e quaranta (Paci, 1989). I pi recenti impegni in questa seconda direzione sembrano innestarsi con difficolt e vistose incoerenze nel tradizionale indirizzo (la riforma sanitaria del 1978 ne un chiaro esempio); essi inoltre non sembrano abbastanza capaci di incidere a vantaggio dei gruppi pi deboli (Ranci Ortigosa, 1989) e di lasciare correttamente spazio a risorse volontaristiche private, mobilitandole (Rossi e Donati, 1982; nel 1991 vengono tuttavia predisposti strumenti legislativi a favore del volontariato). La discussione sulle ragioni delle contraddizioni in atto assai articolata: sul fronte familiare, ad esempio, si contesta linsufficiente considerazione della famiglia come soggetto sociale e linvadenza del settore pubblico nella vita privata (Donati, 1981; 1991) o, viceversa, linefficienza di tale presenza con effetti di sovraccarico sullo stesso tessuto familiare (Saraceno, 1988). 2.2. Obiettivi di intervento con implicazioni demografiche e tipi di intervento Con riferimento esplicito o implicito a definiti orientamenti di benessere sociale ed economico possono porsi specifici obiettivi di intervento demografico (riduzione o aumento della fecondit; riduzione della mortalit infantile o per gruppi a maggiore rischio di morte; variazione del tasso di aumento complessivo della popolazione; aumento o meno degli spostamenti migratori interni o esterni rispetto al paese; decentramento o accentramento delle collettivit urbane e cos via). Il sistema pubblico pu proporsi di intervenire in modo diretto, ossia attraverso ladozione di provvedimenti che si ritiene siano causalmente collegati con la modifica desiderata degli obiettivi stessi (ad esempio premiando in denaro e sostenendo con assegni chi mette al mondo figli si

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persegue un obiettivo di aumento della fecondit, supponendo che il costo dei figli sia causa di rinuncia alla prolificazione; incentivando la sterilizzazione si pensa di ridurre le nascite; contingentando gli ingressi migratori si persegue un obiettivo di controllo della migratoriet); oppure pu intervenire per vie indirette, considerando gli obiettivi demografici come dipendenti da altri finali di benessere socio-economico (ad esempio introducendo meccanismi di flessibilit nella politica dei rapporti di lavoro si pu facilitare, indirettamente, per madri e padri, la riproduzione con connessa cura dei figli piccoli a casa; imponendo la preesistenza di un contratto di lavoro per gli immigrati con lobiettivo dichiarato di favorire una loro integrazione, si tende a ridurne anche il numero). Al riguardo si possono sottolineare tre annotazioni: 1) non sembra pi conveniente distinguere obiettivi demografici finali e intermedi, non potendosi immaginare obiettivi demografici, ossia di modifica quantitativa della popolazione e della sua dinamica, che non siano subordinati a obiettivi finali di benessere sociale; anche per questo, come si gi detto, si preferisce ormai parlare di politiche di popolazione piuttosto che di politiche demografiche, apparendo la prima dizione pi comprensiva e tale da sottolineare il fatto che le politiche demografiche spingono verso modifiche quantitative in vista di obiettivi qualitativi; 2) pertanto anche gli interventi diretti a ottenere effetti demografici debbono contemporaneamente essere giustificati dal punto di vista della salvaguardia dei diritti umani e della riduzione degli squilibri socioeconomici (Colombo, 1978; De Sandre, 1978): in tal senso non esistono interventi unidimensionali; 3) la natura multidimensionale di qualunque intervento e lincertezza, usualmente riconosciuta, circa legami causa-effetto dei processi politici, tale da rendere spesso congetturale leffetto diretto : pi facilmente mostrano un loro effetto diretto, bench spesso di breve periodo, interventi di divieto, soprattutto se attuati coercitivamente (ad esempio blocco delle migrazioni; revoca dellautorizzazione legale ad abortire). Resta da ricordare ancora che il perseguimento di obiettivi politicodemografici, nel quadro di obiettivi di benessere della popolazione, pu essere effettuato in modo passivo o attivo, ossia senza o con interventi specifici. Se si effettuano interventi, questi possono essere sviluppati sul piano normativo (legislazione, regolamentazione, costumi e cultura), su quello strumentale (creazione di servizi, predisposizione di incentivi e disincentivi) o su entrambi i piani.

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2.3. Valutazione tecnico-scientifica e valutazione politica degli interventi Buona norma vorrebbe, sotto un profilo sia scientifico sia politico, che il perseguimento operativo di obiettivi politici venisse sottoposto a valutazione specifica, per verificarne lefficienza (coerenza e adeguatezza di norme e strumenti al loro interno e tra loro, rispetto agli obiettivi) e lefficacia (capacit di raggiungimento degli obiettivi), con lintento di migliorare successivamente lazione. Purtroppo si tratta di operazioni non semplici dal punto di vista scientifico: problemi di metodo (legati per lo pi alla violazione dei criteri dellanalisi sperimentale o quasisperimentale) e frequente indisponibilit dei dati osservazionali necessari, anche per la natura e gli intrecci delle variabili normalmente in gioco, possono costringere ad approssimazioni anche pesanti. E possibile costruire valutazioni plausibili circa un dato intervento; quasi impossibile verificarne incontrovertibilmente la validit (De Sandre, in Conseil de lEurope, 1978, trad. it. 1982). E tuttavia tali operazioni sono doverose anche perch unulteriore, necessaria valutazione politica complessiva non pu prescindere da riscontri fattuali. Tuttavia, gli studi valutativi sono raramente desiderati dai (nostri) politici, che preferiscono di fatto altri metri di giudizio, limitandosi nel migliore dei casi a un rendiconto amministrativo o finanziario dellintervento stesso. Altrove, per esemplificare, ricca lesperienza di valutazione di politiche di family planning, bench spesso adottata in un quadro limitativo di tipo clinico; come pure tradizionale per altre amministrazioni occidentali il rendiconto critico sullattuazione di politiche, avendo riguardo al momento sia normativo sia strumentale dellintervento. 2.4. Legami tra politiche e ricerca Le politiche di popolazione possono beneficiare correttamente dellapporto della ricerca empirica sia per i suggerimenti che provengono dai suoi risultati conoscitivi (e predittivi) perseguiti con finalit non legate a interessi politici; sia per risultati parziali ottenuti assumendo come ipotesi la possibilit di interventi (simulazione di percorsi e identificazione di condizioni per interventi efficaci ed efficienti) ovvero lattuazione di interventi (ricerche valutative su attuazioni politiche). Vedremo come in Italia si sia manifestata qualche timida domanda da parte del sistema politico di contributi del primo tipo e come si stiano sviluppando, da parte dei demografi, proposte, per lo pi da esso non richieste, sullo stesso versante.

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2.5. Politiche di popolazione e riferimenti di valore Certamente un legame pi forte, almeno in Italia, si registra tra politiche di popolazione e riferimenti di valore e per lazione (etici). Dallinizio degli anni sessanta si sono sviluppate con clamorosi risultati fratture nelle tradizionali sub-culture ideologico-etiche e ricomposizioni intorno a vecchie e nuove filosofie teoriche e pratiche; baster ricordare, come espressioni parziali ma cruciali, alcune importanti innovazioni legislative a partire dagli anni settanta, che in parte hanno avuto anche la verifica di referendum popolari: nel 1971 viene abrogato lart. 553 del codice penale che vietava la propaganda anticoncezionale (nel frattempo si diffonde luso della pillola ormonale e della spirale intrauterina); nel 1970 viene disciplinato lo scioglimento dei matrimoni e nel 1974 un referendum popolare respinge labrogazione del divorzio; nel 1975 la maggiore et viene abbassata a 18 anni, viene riformato il diritto di famiglia (che anche nei suoi sviluppi oscilla fra il tradizionale orientamento naturalistico-istituzionale e una rinnovata attenzione sociologico-privatistica; Vincenzi Amato, 1988; Fumagalli Carulli, in Donati, 1989b) e vengono istituiti i consultori familiari; nel 1977 viene disciplinata luguaglianza di trattamento lavorativo tra uomo e donna; nel 1978 viene istituito il Servizio sanitario nazionale (su basi ugualitarie, globali, territoriali); nello stesso anno, con la legge sulla tutela sociale della maternit, viene consentita linterruzione volontaria della gravidanza e nel 1981 un referendum popolare respinge labrogazione di tale legge. Nel 1983 viene riformata la materia delladozione dei minori, con attenzione ai loro diritti. Viceversa, le tematiche sul riconoscimento dei diritti degli immigrati si sviluppano soprattutto negli anni ottanta, in un contesto di politiche restrittive allaccesso rispetto a nuove pressioni migratorie (Statuto europeo dei lavoratori migranti del Consiglio dEuropa, 1984; Orientamenti per una politica comunitaria delle migrazioni, 1985; Cagiano de Azevedo, in AA. VV., 1986; legge italiana 943/1986: Adinolfi, in AA. VV., 1990c). In realt ogni intervento legislativo che in questi anni intenda normare materie riguardanti comportamenti e strutture coniugali, riproduttive, familiari, sanitarie, migratorie, e che risultano pertanto profondamente legate a stili di vita, diritti individuali, esigenze di equit, necessita di ampio consenso sociale e implica di norma una composizione tra orientamenti di valore ed etici diversi (pi frequentemente che una prevalenza di un orientamento sugli altri). In particolare, se questi orientamenti normativi possono lasciare in secondo piano organiche espressio-

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ni ideologiche, rappresentano almeno alcune esplicite opzioni etiche specifiche (a titolo di esempio: sono convenuti sul divorzio opzione etico- politica anche i comunisti, in occasione del referendum del 1974, cercando di differenziare di fronte allopinione pubblica la propria ispirazione libertaria riferimento ideologico-antropologico rispetto a una concezione borghese della famiglia: Castellina, 1974). 3. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politiche di popolazione: c) sullaspetto ideologico-etico Ritornando specificamente sul versante ideologico ed etico, conviene brevemente ricordare la profonda trasformazione delle ideologie e antropologie in questi ultimi decenni: da met degli anni sessanta emerge nei paesi occidentali la svolta della seconda transizione demografica (Van de Kaa, 1988), verso equilibri demografici incerti, sullonda di unintensa modernizzazione post-industriale, di una silent revolution culturale (democrazia, egualitarismo e rispetto di diversit di genere, libert individuale, pluralismo di valori, universalismo, individualismo, secolarizzazione, ecologismo), di unulteriore rivoluzione tecnologica a tutti i livelli (dalla bio-medicina della riproduzione e della salute al sistema dei mezzi di comunicazione). Anche nel nostro paese il tessuto culturale si trasforma, sia pure con esiti per molti versi pi attenuati, almeno fino ad oggi, rispetto alla maggior parte dei paesi occidentali: le generazioni si succedono con corredi di istruzione, di esperienza lavorativa, di stili di vita, di aspettative marcatamente diversi (Rusconi, 1969; Milanesi, 1973; Calvi, 1977 e in Donati, 1989b; Fabris e Mortara, 1986; De Sandre, in Donati, 1991), tanto da rimettere in discussione le regole di trasferimento della vita, di beni e cultura tra genitori e figli (sulla scorta di C aldwell e Demeny: De Sandre, 1990). In particolare diventa critico un effetto, trascurato, dellimportanza crescente della regolazione pubblica delle vicende private: per molti aspetti essenziali della vita individuale (istruzione, lavoro, salute, previdenza e assistenza) linterlocutore di ciascuno, a mano a mano che si svolgono le vicende individuali, il sistema istituzionale che opera mediante norme di rilevanza pubblica; la prevalenza di tale rapporto, che si sostituito in varia misura alle reti di relazioni di sostegno interpersonali, tale da poter oscurare, nella percezione soggettiva, il vantaggio che tali reti di persone possono meritare in varie fasi del ciclo di vita, specie quando sono costituite da persone appartenenti a generazioni successive. Cos, lapparente garanzia di sostenere la vecchiaia, data dal sistema, pu avere

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un effetto indiretto di tipo antinatalista, contribuendo a far ritenere la prole (di per s sempre pi costosa in termini diretti e di opportunit) non pi utile al medesimo scopo. In ogni caso la riduzione volontaria del numero dei propri figli, qualunque sia la motivazione seguita, pu significare che i potenziali genitori non percepiscono o negano il vantaggio (netto) di averli come parte importante delle proprie reti di solidariet. Per converso, la riduzione del numero di nati, riducendo il numero di nuovi membri produttivi della societ, modifica lequilibrio dei rapporti non solo interpersonali ma anche con il sistema istituzionale: per questo la riduzione delle nascite, nei termini in cui la conosciamo oggi, pu mettere circolarmente in crisi la capacit del sistema istituzionale stesso di fronteggiare lonerosa domanda di sostegno da parte degli individui (salvo acquisire nuove unit produttive dallesterno). Cos un orientamento ideologico-politico teso a privilegiare il momento pubblico di regolazione delle mete di benessere pu scontrarsi con gli effetti indesiderati di un emergente orientamento a isolare da esso la sfera del privato. E chiaro che le regole di trasferimento della vita, della cultura, dei beni tra le generazioni, filo conduttore dello sviluppo del sistema popolazione, nel loro pi o meno mutevole configurarsi si richiamano a universi di valori (ideologie), sono esse stesse orientamenti per lazione (etiche) e si concretizzano in norme di legge o, meno formalmente, in usi e costumi. Con riferimento, pi in generale, alle questioni etiche, va sottolineato un profondo recupero di interesse al riguardo: gli anni settanta vedono moltiplicarsi i soggetti di diritti e i diritti reclamati (Viano, 1990), anche come frutto di malessere morale di minoranze e gruppi che aspirano a migliori rapporti sociali. I diritti (primariamente alla libert e al benessere) appaiono come condizioni necessarie per lagire, per la moralit stessa (Fagiani, in Viano, 1990). Emergono tensioni tra le ragioni del benessere, dei diritti individuali (e dei connessi doveri), dellequit, che meritano impegno per una loro composizione progressiva (Veca, 1989); si discute su quali siano i diritti fondamentali da proteggere e i conseguenti doveri (Colombo, 1978); si chiariscono approcci radicalmente diversi (non sempre negli esiti): in particolare tra una fondazione della morale interna alle stesse relazioni interpersonali e con la realt (con ampie possibilit di espressioni pluralistiche) e una esterna ad esse, ancorata prevalentemente a istanze e dettami religiosi (ad esempio, nellambito delletica cattolica la sacralit della vita e della sua trasmissione funge da imperativo condizionante nel campo bioetico: si veda la relazione Schotte

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della Santa Sede alla Conferenza delle Nazioni Unite sulla popolazione del 1984, cit. da Mattai, in De Marchi, 1987; Viafora, 1990; si veda anche, su posizioni diverse, Mori, in Viano, 1990). Le controversie circa la fondazione, la definizione concreta, lambito e le forme di tutela dei diritti come condizioni per una vita pi pienamente umana, sembrano momenti interni e fisiologici rispetto a una via maestra oramai decisamente imboccata e irrinunciabile da percorrere politicamente: essa ha gi dato frutti importantissimi e altri pu e deve dare, come punto di incontro di ideologie diverse. Naturalmente lincontro ideologico non equivale a verifica storica: come insegna il fatto che le enunciazioni sono spesso pi avanzate delle applicazioni nella realt. 4. Contributo della demografia in alcuni momenti istituzionali al dibattito sulle politiche di popolazione Nello sviluppo della demografia italiana di questi ultimi decenni vi stata una fortissima cura nellevitare intromissioni indebite del momento ideologico nella ricerca e una grande parsimonia nelloccupare terreni politici. Certamente non si voluto dare il minimo adito a sospetti di confusione di campo, come avvenne in taluni casi durante il periodo fascista (Teitelbaum e Winter, 1985, trad. it. 1987, cap. 3). Inoltre il dibattito scientifico stato appena sfiorato, negli anni cinquanta, dal drammatico squilibrio tra sviluppo economico ed esplosione demografica dei paesi del Terzo Mondo: altrove, negli Stati Uniti, esso ha avuto la forza di generare radicali revisioni teoriche. I proponenti la teoria della transizione demografica (fondata sullidea che la modernizzazione economica avvii il declino sia della mortalit sia della fecondit), studiando la dinamica dei paesi in via di sviluppo con una preoccupazione marcatamente politica, si convinsero che landamento della fecondit potesse essere indipendente dal processo di modernizzazione e, pertanto, che ne potesse essere incentivata la riduzione con interventi diretti (le discontinuit del pensiero di F. Notestein e K. Davis sono lucidamente illustrate da Hodgson, 1983). E proprio dagli anni settanta che diventa percepibile nellarea demografica un progressivo pi visibile impegno per tematiche attinenti alle politiche della popolazione (Cagiano de Azevedo, in IRP-CNR, 1988), con una connessa pi articolata riflessione secondo le coordinate richiamate pi sopra. Da unattenzione centrata sullanalisi demografica dei risultati dei comportamenti (con particolare accento sugli aspetti biodemografici) si sviluppano contributi che ne approfondiscono aspetti dif-

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ferenziali, di contesto, esplicativi (anche su dati individualizzati e non solo aggregati); allo studio dei fattori determinanti i comportamenti si associa lanalisi delle conseguenze ipotetiche dei comportamenti studiati (non solo in termini di proiezioni); contemporaneamente si favoriscono discussioni, anche a pi voci, sugli insegnamenti dellanalisi a fini di prospettive e di politiche di popolazione. Alcuni punti di riferimento possono essere cronologicamente individuati: anzitutto il seminario del 1973 della Federazione delle associazioni scientifiche e tecniche, in vista dellanno mondiale della popolazione e della Conferenza prevista dalle Nazioni Unite a Bucarest per il 1974. A un rapporto curato dallIstituto di demografia di Roma, seguivano interventi di intonazione anche contrapposta (Federici, 1976). Nel rapporto prevale unimpronta descrittiva della dinamica internazionale e nazionale recente e delle ipotesi teoriche di analisi della demografica; di fronte allesplosione demografica dei paesi del Terzo Mondo si contesta linterpretazione della variabile demografica come variabile indipendente generatrice del sottosviluppo (anticipando le contestazioni che sarebbero sorte a Bucarest) e s rivendica la priorit di interventi economici e di emancipazione della donna per accelerare la transizione, ravvisando legami solidali tra aspetti demografici e socio-economici dei comportamenti (la politica demografica deve risultare interna alla politica di popolazione e mirare al suo sviluppo); per lItalia si ipotizza la convenienza di un sostegno concreto della fecondit (con obiettivo 2,3-2,5 figli per donna, per garantire una conveniente struttura per et, non troppo vecchia), pur in presenza di unauspicata maggiore informazione demografica, di una liberalizzazione anche per quanto riguarda laborto, da accompagnare con facilitazioni allaccesso ai contraccettivi, preferibili allaborto indotto; si sostiene la necessit di rimuovere le cause dellesodo della popolazione meridionale verso il nord e di arginare lo spopolamento di molti comuni. Un criterio guida utilizzato appare quello di garantire il massimo possibile di libert di scelta delle persone, specie nelle vicende riproduttive e familiari, da rendere compatibile con le mete collettive. Voci dissenzienti sottolineano limportanza di ridurre dinamica e densit della popolazione anche in Italia, richiamando lattualit di Malthus e sostenendo la necessit di uneducazione demografica liberatrice (De Marchi, in Federici, 1976): a loro volta tali posizioni vengono accusate di biologismo ecologico. I modelli globali di sviluppo, pure nella loro superficiale approssimazione, ricevono controversa valutazione. Nel rapporto presentato nella citata occasione compare, sia pure in modo schematico, una linea di pensiero che, con varie accentuazioni

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anche in relazione al mutare degli eventi e alle diversit di orientamenti individuali, verr sviluppata negli anni seguenti. La Conferenza di Bucarest delle Nazioni Unite (1974), con il suo Piano dazione mondiale della popolazione, ampiamente rimaneggiato dallassemblea per fare posto alla rivendicata priorit dello sviluppo economicosociale sulle politiche di pianificazione delle nascite (contro le posizioni di paesi capitalisti; Colombo, 1975), ha lasciato qualche segno importante anche nel nostro paese. In particolare, a seguito della Conferenza, nasce finalmente nel 1976 il Comitato nazionale per i problemi della popolazione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Martini, in Comitato nazionale per i problemi della popolazione, 1980), sia pure vincolato a un impegno di studio e a unazione di coordinamento nella partecipazione a convegni internazionali. Il rapporto con il mondo politico resta in realt inconsistente e precario, dato che i primi tentativi di avviare un discorso, ad esempio su evoluzione demografica e sistema scolastico (Annali Pubblica istruzione, 1982), in presenza di un calo sperimentato e ulteriormente prevedibile della popolazione nella scuola dellobbligo, si scontrano con politiche di reclutamento degli insegnanti sostanzialmente sorde alla dinamica della popolazione e fondate su altre preoccupazioni e pressioni. Inoltre prende lavvio la pubblicazione di un Rapporto sulla popolazione in Italia che, uscito sotto legida del Comitato nel 1980, trover unideale continuazione nel primo e soprattutto nel secondo Rapporto sulla situazione demografica italiana, pubblicati a cura dellIstituto di ricerche sulla popolazione (IRP) del CNR nel 1985 e nel 1988 (IRP-CNR, 1985; 1988): tale Istituto, sorto nel 1981, con poche forze e lento avvio, si irrobustito e sta trovando una sua collocazione precisa anche come punto di riferimento per politici sensibili alle interazioni politico- demografiche (per orientamenti significativi si vedano Golini, in IRPCNR, 1988; Golini e Bonifazi, 1990; Palomba, 1990b; Golini, Righi e Bonifazi, 1991). Dal punto di vista istituzionale il Comitato nazionale per i problemi della popolazione entra in letargo dopo la Conferenza sulla popolazione delle Nazioni Unite (Citt del Messico, 1984): in quella sede si concorda ormai su un duplice e integrato orientamento dazione per contenere la dinamica demografica dei paesi in via di sviluppo e per favorire la crescita socio-economica (Livi Bacci, 1987); ci, nonostante liniziale posizione degli Stati Uniti, capovolta rispetto al 1974 e ora propensa a dare un primato alle iniziative per lo sviluppo economico, supponendo la dinamica demografica di per s neutrale (Teitelbaum e Win-

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ter, 1985, trad. it. 1987; per le reazioni prevalentemente negative in ambiente demografico si veda Menken, 1986). LIRP invece si consolida e cerca di sviluppare linee di ricerca e di rilanciare un ponte tra ricercatati e politici. E interessante sottolineare il taglio con cui redatto il Rapporto sulla popolazione in Italia del 1980 (curato operativamente da demografi quali Livi Bacci e Colombo e coordinato, per le elaborazioni dellIstat, da Natale): sono evidenziati i principali dati demografici e le problematiche emergenti dallinterdipendenza tra sviluppo demografico e societ italiana; il Rapporto non esprime giudizi, n fa proposte sui modi di affrontare i problemi che la situazione pone . In particolare non ne approfondisce risvolti di natura culturale e morale, n esplicita (cosa che ci si sarebbe potuto attendere) possibili orientamenti espliciti per lazione pubblica o privata. Pu sembrare un atteggiamento eccessivamente prudenziale, provenendo da un organo consultivo del governo, e forse in parte lo ; quasi si fosse voluto limitare a dichiarazioni per le quali c consenso unanime. Ma tale atteggiamento sostenuto da ragioni fondate: 1) laccrescimento demografico, visto come fonte di molti mali o, al contrario, come insostituibile sostegno allo sviluppo, risente di valutazioni extra-scientifiche e questo rapporto le vuole evitare; 2) nel dibattito scientifico in atto e da unesplicita opinione pubblica non emergono chiari indirizzi sulle tendenze demografiche desiderabili; 3) orientamenti e scelte in ogni caso dovrebbero basarsi sul chiarimento di implicazioni e conseguenze (sempre assai complesse) di ipotesi alternative di aumento o diminuzione della popolazione. La lista delle problematiche di potenziale interesse sia etico sia politico invece accurata e sostanziosa: 1) invecchiamento della popolazione legato alla caduta della natalit (senza approfondire i differenziali in et senile); 2) squilibri nella formazione e rottura delle coppie coniugali; 3) conseguenze del declino delle nascite, aspetti della loro regolazione, prime valutazioni sullimpatto della legge sullaborto; 4) cambiamenti dimensionali e di tipo economico delle famiglie; 5) problemi delladolescenza; 6) rallentamento del declino della mortalit e suoi aspetti differenziali; 7) necessit di conoscenza dello stato di salute della popolazione; 8) interferenze demografiche nellevoluzione del mercato del lavoro 9) modifiche nelle migrazioni interne e tensioni potenziali Sud-Nord, rientri di emigrati dallestero, consistenza dei fenomeni immigratori.

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In sintesi il rapporto descrive e interpreta la dinamica della popolazione (fermandosi al livello di ipotesi pi neutrale indicato nella figura 1 e commentato allinizio del capitolo) e rinvia una discussione sistematica su implicazioni e conseguenze di ipotesi di aumento o diminuzione della popolazione (che risulta ripresa in seguito solo per approcci parziali), anche se mostra di propendere per un orientamento a lungo termine di stazionariet o invarianza della popolazione. Lapproccio muta abbastanza sostanzialmente con il secondo Rapporto dellIRP (IRP-CNR, 1988) sulla situazione demografica italiana (il primo, del 1985, marginale dal nostro punto di vista trattando essenzialmente di profili demografici regionali). Si tratta di unarticolata puntualizzazione delle problematiche demografiche con tutte le loro connessioni di tipo territoriale, economico, sociale, sanitario nonch di promozione e diffusione della ricerca (vi collabora una quarantina di autori, con responsabilit autonoma). Ampio spazio viene dato alle implicazioni politiche nella ponderosa visione dassieme (Golini) e in un capitolo finale su politica demografica e politica sociale (Colombo). Soprattutto nel primo intervento vengono discusse con sistematicit le principali tematiche che hanno dirette implicazioni politiche (fin qui niente di metodologicamente nuovo), portando spesso decisamente le argomentazioni anche su un terreno di auspicate opzioni politiche, di obiettivi di intervento, di indicazione di strumenti normativi. Nel secondo intervento si analizzano alcune implicazioni, anche sul piano etico e culturale, dei movimenti immigratori e di politiche di sostegno della fecondit. In altre parole le prudenze del Rapporto collettivo del 1980 vengono abbandonate, integrando una descrizioneinterpretazione problematica di natura scientifica (costituita prevalentemente da schede su specifici aspetti della realt) con valutazioni e proposte di politica della popolazione, sia pure avanzate a titolo personale (probabilmente proprio questa attribuzione di paternit delle opinioni, sul filo di argomentazioni scientifiche, che tranquillizza circa la loro esternazione anche in una sede istituzionale quale quella di un rapporto sulla situazione demografica del paese a cura dellIRP). Le principali tematiche demografiche segnalate con implicazioni politiche possono essere schematizzate nel modo seguente. 1) Enorme divario nellincremento delle popolazioni del nord del mondo (stagnante o declinante) e del sud (ancora a ritmi positivi eccezionalmente elevati) e, in particolare, squilibri demografici del medesimo tipo tra le aree nord e sud del Mediterraneo: per fissare un riferimento numerico eloquente si pu ricordare che, secondo le previsioni, la popolazione italiana in et lavorativa (15-64 anni) passer, tra il 1988 e il 2018,

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da 39,3 a 35,2 milioni, contro un raddoppio, da 108,4 a 214,7 milioni, della corrispondente popolazione dei paesi della riva sud del Mediterraneo nel medesimo arco temporale di una generazione. La soluzione dei problemi dei paesi del sud non potr ovviamente scaricarsi meramente in un deflusso migratorio; daltra parte tale pressione a emigrare dipender essenzialmente dallo sviluppo economico-sociale locale e potr essere frenata, ma non bloccata, da necessarie regolamentazioni dei paesi ospitanti: si impongono enormi esigenze di cooperazione allo sviluppo; di regolamentazione delle immigrazioni concertata internazionalmente; di soluzione dei problemi sociali legati alle immigrazioni (approfondimenti sugli squilibri internazionali si possono trovare soprattutto in Golini, 1987; Livi Bacci, 1989; Livi Bacci e Martuzzi Veronesi, 1990). 2) Modifica della struttura per et e invecchiamento della popolazione originato dalla riduzione delle nascite: un obiettivo di fecondit di 1,71,8 figli per donna (misurata trasversalmente) sembra da perseguire per rallentare linvecchiamento demografico, mentre appare poco realistica e certamente ancora pi costosa da promuovere una meta di 2,1 figli per donna, necessaria per una tendenza alla stazionariet della popolazione (sui costi si veda anche Blangiardo, in AA. VV., 1989b). Una via percorribile potrebbe essere quella, equitativa, di favorire la realizzazione delle condizioni che consentano, alle coppie che desiderano un numero superiore di figli rispetto a quelli effettivamente attesi, di colmare tale divario (un divario di questo genere, per sottogruppi di popolazione, sembra desumersi da indagini di opinione: Ciucci, in IRPCNR, 1988; si veda Colombo, in IRP-CNR, 1988). Pi in generale si ipotizzano interventi, coerenti e globali per quanto possibile: per rendere compatibile lavoro-maternit-carriera, incidendo sulla struttura lavorativa sia per luomo sia per la donna; per eliminare le forti penalizzazioni economiche per le coppie che hanno figli rispetto a quelle che non ne hanno, incidendo sulla struttura dei salari e sullimposizione fiscale; per contribuire a sottolineare il valore sociale della prolificazione. 3) Vecchiaia, sicurezza sociale e occupazione: la difficolt di prelevare dalla popolazione attualmente occupata le risorse per la sicurezza sociale di contingenti crescenti di anziani induce a proporre un elevamento dellet pensionabile (con modalit flessibili sia di lavoro sia di et al pensionamento) cos da allargare la base produttiva, contrastando per altra via i fenomeni di disoccupazione specie giovanile (non viene esaminata specificamente la possibilit di allargamento del lavoro extradomestico della donna, che in altri paesi, con opportuno contesto, non sembra patire necessariamente una correlazione inversa con la fecondit); induce altres a suggerire, sotto il profilo economico-finanziario,

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lideazione di soluzioni tecniche di prelievo dei contributi diverse dalla ripartizione pura, introducendo meccanismi parziali di capitalizzazione, per evitare trasferimenti non equi tra generazioni successive. 4) Differenziali di salute: la crescita in termini relativi e assoluti soprattutto delle persone in et molto anziana (dopo i 75-80 anni) crea nuove esigenze di luoghi di lungodegenza (con adeguati standard ospedalieri), di servizi di cura prolungata non istituzionalizzata, di un adeguato mix pubblico-privato (ivi incluse le famiglie) da sostenere finanziariamente per attivit di cura, di formazione del personale medico e paramedico. Questi nuovi aspetti differenziali legati alla salute, da fronteggiare, si aggiungono ai vecchi: ineguaglianze secondo il sesso, secondo le condizioni socio-professionali, secondo il territorio di appartenenza e le condizioni ambientali (Pinna, in Sonnino, 1989; Caselli ed Egidi, in Sonnino, 1989; Geddes, 1990; Golini, in Micheli e Tulumello, 1990). 5) Riequilibri interni al paese: le famiglie coresidenti continueranno a diminuire di dimensione media e ad aumentare di numero (specialmente le famiglie costituite da una sola persona, in particolare donne anziane) anche in questa fase di relativa costanza della popolazione complessiva; la domanda di beni e servizi (alloggi inclusi) cui far fronte continuer a essere segnata da questa dinamica. I processi di accentramento urbano del dopoguerra si sono invece invertiti a partire dagli anni settanta (si veda anche Vitali, in Barsotti e Bonaguidi, 1985). La regionalizzazione del tessuto urbano, articolato sul territorio (gi operante di fatto specie dallarea padana a quella medioadriatica), manca di strumenti di governo che consentano di gestirne le nuove pressanti esigenze e opportunit. Grandi divari di dinamica demografica tra il Mezzogiorno e il resto del paese, pure in un quadro di valori medi di ricambio naturale sotto il livello di sostituzione, continuano, per la loro parte, a mantenere irrisolta la questione meridionale: sembrano prioritarie, senza menzionare profonde esigenze di risanamento sociale, modifiche della politica delloccupazione (flessibilit del mercato del lavoro, ripartizione del lavoro disponibile con orari ridotti su una base pi ampia di lavoratori), cos da poter consentire solo migrazioni fisiologiche compatibili con la pi elevata domanda relativa del centro-nord. 6) Lo spostamento del baricentro dellet in una popolazione invecchiata tende a spostare in modo correlato anche il baricentro della spesa sociale. I problemi di equilibrio, con criteri di globalit, coerenza, continuit (tuttaltro che facilmente individuabili e perseguibili), in presenza di risorse limitate, meriterebbero una maggiore attenzione del Cnel e forse la costituzione di un Comitato interministeriale per la politica sociale (in analogia con quanto viene fatto per la politica economica).

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Questa breve rivisitazione di alcuni momenti recenti in cui, in sedi variamente istituzionali, i demografi hanno avviato unattenzione ravvicinata alle implicazioni politiche delle dinamiche demografiche, non stata certamente esaustiva n rispetto alle occasioni di discussione n ai contenuti. Uno degli intenti era quello di mostrare come il campo del dibattito si focalizzi ma anche si allarghi: poste le problematiche, intrinsecamente pluridimensionali e rilevanti sotto profili diversi, e per di pi con ottica di intervento politico, sono esse a dettare progressivamente la natura delle conoscenze previe utili (mai monodisciplinari in senso accademico). Lapprofondimento delle tematiche evocate, che si sta sviluppando anche allinterno di discipline contigue, meriterebbe una lettura proprio in relazione ai contributi empirici convergenti che stanno provenendo da varie parti: non questo il luogo, ma doverosa la citazione dellinteresse della questione, in particolare per le ricerche sociali che studiano premesse e implicazioni delle politiche familiari (ad esempio: AA. VV., 1983; Saraceno, 1988; Donati, 1981; 1989b; 1991) e delle politiche sanitarie (ad esempio Antonini e Maciocco, 1983; AA. VV., 1987a; 1987b; Geddes, 1990). In questa sede sembra invece utile esplicitare ulteriormente alcuni nodi problematici, alcuni punti nevralgici, cui la precedente rassegna rinvia talora solo implicitamente, mettendone in evidenza distintamente (a costo di semplificazione) gli aspetti ideologico-etici e quelli politici, cos come emergono dalla riflessione demografica. 5. Problematiche cruciali di tipo etico nelle politiche di popolazione 5.1. Salvaguardia e promozione della libert della persona e dei diritti fondamentali Si tratta di un cardine di riferimento di ogni proposta politicodemografica. Per convenzione di lavoro possiamo distinguere gli aspetti ideologico-etici (o antropologico-etici) riguardanti: 1) la vita e la morte personali, nonch la trasmissione della vita (si usa ora comunemente il termine di bioetica per individuare questarea di applicazione); 2) lo sviluppo della persona in tutte le direzioni possibili, di espressione, di relazione, di scambio. Le discussioni e le divergenze maggiori riguardano le diverse opzioni bioetiche, in particolare quelle attinenti al processo riproduttivo (AA. VV., 1975a; 1975b; 1989a; Aied, 1989).

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Il dibattito internazionale ancora vivissimo sulle implicazioni etiche delle politiche di sostegno alla regolazione delle nascite (family planning), con particolare riguardo alle leggi che consentono laborto indotto, avendo perduto solo in parte le asprezze degli anni settanta. Riferimenti diversi, specie di natura religiosa, variamente diffusi entro i paesi, condizionano le scelte e lefficacia delle politiche (sulla situazione nei paesi del Terzo Mondo: Caldwell e Larson, 1989; Mauldin, 1989; su posizioni religiosamente orientate: De Marchi, 1987; AA. VV., 1990a; Sachedima, 1990). E tuttavia anche in se stessa la problematica rivela nodi di non agevole soluzione, soprattutto per quanto riguarda unauspicabile gerarchizzazione dei diritti umani in ipotesi di concorrenza o conflitto tra di loro, e il grado ammissibile di pressione (pi o meno propositiva o coercitiva) sugli individui da parte del sistema pubblico che adotti una politica finalizzata di controllo dei concepimenti e delle nascite (Unesco, 1977; Bankowski, Barzelatto e Capron, 1989); senza dimenticare che esiste anche un problema etico legato alla pressione tra stati con riguardo alle politiche demografiche adottabili o adottate. Soprattutto Colombo (1975; 1978) ha dato contributi, anche in sede internazionale, su questo versante, sottolineando tra laltro la necessit di definire dei diritti fondamentali negativi assolutamente inalienabili; gli effetti perversi che incentivi e disincentivi rispetto alla prolificazione possono produrre, sul piano dei diritti individuali; limportanza di collegare diritti e doveri secondo unetica della responsabilit che sola potrebbe fronteggiare giganteschi problemi demografico-sociali del nostro tempo. Le controversie su questi temi, che in Italia si sono evidenziate soprattutto in occasione della legge costitutiva dei consultori familiari (1975 e relativa attuazione) e della legge che ha consentito linterruzione volontaria della gravidanza (1978, con successiva proposta referendaria di abrogazione), non hanno peraltro registrato echi di rilievo in ambito scientifico demografico. Sembra prevalere, al di l dei riferimenti ideologici personali a unetica fondata internamente o esternamente alle relazioni interpersonali, unaccettazione delle regole della democrazia politica che ammette, di fatto, la cittadinanza di una pluralit di etiche tra loro anche in radicale conflitto. Entro questo quadro, e con le contraddizioni che esso sopporta, va anche interpretata la convergenza tra ricercatori nel ritenere un obiettivo da perseguire il rispetto della libert di scelta individuale nel campo della riproduzione; mentre non chiaro quale grado di pressione si sarebbe disposti ad accettare sui cittadini da parte del sistema pubblico per sostenere, ad esempio, una maggiore fecondit (anche perch leffettiva ipotesi di intervento in tale senso solo evocata).

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5.2. Tutela della famiglia coniugale, valore sociale della prole, parit uomo-donna La vivace discussione tuttora in corso tra sociologi, tra giuristi, tra operatori, sul tipo di famiglia che una politica sociale dovrebbe privilegiare, ammesso che ne debba privilegiare qualcuno, sembra ugualmente non facilmente componibile a livello teorico; da un punto di vista operativo possono conseguentemente realizzarsi solo compromessi, che impediscono politiche coerenti e unitarie. Infatti le controversie riguardano aspetti fondamentali quali il diverso riconoscimento istituzionale della famiglia coniugale (legittima o anche consensuale?) e delle sue funzioni; il diverso spazio riconosciuto alla famiglia come luogo di servizi primari, estendendo pi o meno lintervento del sistema pubblico; il privilegio da accordare ai comportamenti solidaristici (che il collettivo familiare pu esprimere) o a quelli individualistici (Saraceno, 1988; Donati, 1989b). Questa problematica, pure rilevante per il futuro delle famiglie, non sembra tocchi sostanzialmente i demografi. Viceversa essi sono molto sensibili al progressivo scadimento del valore sociale della prolificazione, implicito nella contrazione delle nascite, proprio mentre emergono inquietudini sulle conseguenze sociali ed economiche di tale dinamica, e reso esplicito nelle indagini di opinione (Palomba, 1990a). I diritti e le virtualit attribuibili alle nuove generazioni sembra vengano poste dalla gente in subordine rispetto a diritti e opportunit delle presenti generazioni. Non tanto in questione la convenienza (individuale, di coppia, sociale) di avere in media pochi figli per coppia; occorre al riguardo ricordare che la consapevolezza domestica della opportunit di ridurre le nascite, investendo contemporaneamente di pi sulla qualit dei figli, ha prevenuto e contrastato la cultura politica pro-natalista ufficiale durante la lunga transizione conclusasi negli anni sessanta (De Sandre, 1982). Si ha piuttosto limpressione che la percezione del crescente costo marginale attuale dei figli (tanto da preferirne per s anche uno solo o nessuno, dato il saldo rapidamente negativo dei trasferimenti genitore-figli), maturi in presenza di una difficile ricomposizione di ruoli in corso allinterno della triade coniugi-genitori-figli; in tale laboriosa ricomposizione, in cui gli interessi e le opportunit di scelta individuali vengono in primo piano, il figlio sentito attualmente importante emozionalmente per il genitore, mentre ne appare oscurato il vantaggio intergenerazionale obiettivo nel lungo periodo, ad esempio in termini di mutuo aiuto (si veda una conferma al riguardo nei risultati dellindagine IRP su intervistati di 18-49 anni

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nel 1987-88, in Palomba, 1990a; i pi anziani, di 60 anni e oltre, nel 1986, manifestano viceversa unalta aspettativa di cura dai familiari, in particolare le madri dalle figlie: De Sandre, in Micheli e Tulumello, 1990). Inoltre il coinvolgimento in scelte vincolanti di lungo periodo, rispetto alla maggiore flessibilit (e virtuale molteplicit) di scelte di breve respiro, pu essere accettato con riluttanza (Birg, 1991; Micheli, 1991, parla di decisione di non decidere). La crisi della riproduzione nei nostri paesi risente certamente anche del processo di emancipazione della donna, di cui i crescenti livelli di istruzione e un maggiore e prolungato accesso al mercato del lavoro rappresentano caratteri strutturali (De Sandre, in Donati, 1991). Mentre, da un lato, si vuole progressivamente sottrarre la donna da discriminazioni sessuali e di ruolo, viene alimentata da un altro lato una connessa crisi di identit maschile. Il consenso sullesigenza di superare le discriminazioni secondo il sesso non manca (con differenze antropologico-etiche che non appaiono cos rilevanti come in campo bioetico), ma il problema sta principalmente nella ricerca delle vie culturali e politiche per rendere effettiva la parit uomo-donna, nel rispetto delle differenze di genere; e per consentire che nuovi equilibri non incrinino in profondit fondamentali funzioni come quella riproduttiva. Lattenzione per le condizioni sociali e politiche di paesi europei a noi vicini, caratterizzati da una pi elevata fecondit, e delle forme da loro adottate di regolazione specifica delle interazioni tra ruoli familiari, lavorativi, di tempo libero, appare importante per congetturare su modifiche di politica sociale anche in casa nostra (AA. VV., 1990b; Livi Bacci, in AA. VV., 1990b): limpressione netta che gli interventi diretti a sostegno delle nascite possano avere un senso (soprattutto se in denaro e di rilevante ammontare); che i servizi per la maternit e linfanzia possano essere importanti (soprattutto se si integrano bene con i tempi di vita quotidiana dei genitori); ma che occorra principalmente uno stile di vita diffuso in cui il figlio non sia pi di competenza esclusiva della madre, ma sia gestito anche dal padre e interessi alla societ; e ancora un visibile interesse e riconoscimento della societ per la funzione riproduttiva della coppia. 5.3. Controllo sociale e politico della dinamica demografica come valore Nonostante le difficolt teoriche e pratiche di orientare e di attuare le esigenze di controllo (sostanzialmente restrittivo, sia pure con importanti qualificazioni) da parte delluomo sulla fecondit, sulla morta-

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lit, sulla mobilit, sembra che sempre pi diffusamente tale opzione costituisca un valore in s di fronte a un ambiente finito, anche se ulteriormente dilatabile (Livi Bacci, 1989). Naturalmente se tale controllo, orientativamente e mediamente restrittivo per quanto riguarda le nascite, impedisce una variabilit di comportamenti che includano anche una fecondit elevata per chi lo desidera, diventa un disvalore; analogamente, se il controllo sulla mortalit giunge allaccanimento terapeutico per garantire la sopravvivenza, ci pu attentare alla dignit della persona. E tuttavia sembra che queste incongruenze siano interne a un percorso sul quale, in linea di principio, si pu convenire. I problemi e le incertezze pi pesanti riguardano la logica del controllo della mobilit territoriale, soprattutto tra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Mentre le migrazioni (in attuazione al diritto di spostamento della dimora) hanno rappresentato una positiva valvola di regolazione della crescita transizionale dei paesi sviluppati, in presenza di specifiche opportunit (territori aperti di accoglienza), oggi sembrano intrinsecamente inceppate, in preda a contraddizioni insolubili; si fronteggiano su sponde opposte, e con buone ragioni, i paesi ricchi a sviluppo demografico debole, che intendono chiudersi, completamente o quasi, allimmigrazione per proseguire il loro sviluppo nonch per poter integrare meglio gli stranieri presenti, e paesi poveri a incremento demografico forte, con esuberanza certa di popolazione rispetto allo sviluppo interno. Non sfugge anche la connessione che sta assumendo, dal punto di vista del significato etico di un controllo complessivo della dinamica demografica, la contrazione delle nascite con conseguente forte invecchiamento delle popolazioni dei paesi sviluppati, contrapposta alla straordinaria pressione migratoria potenziale delle popolazioni in veloce espansione demografica (perch le mancate nascite non possono trasformarsi nellaccoglienza di immigrati sostitutivi?). Le due tendenze, che potrebbero per alcuni versi risultare complementari, non lo sono certo dal punto di vista sociale, come innumerevoli esperienze di cattiva integrazione confermano. N lemigrazione potr essere certo, per ragioni strutturali e conti alla mano, uno strumento risolutivo per levoluzione di questi paesi eccedentari. Ma una chiusura assoluta allimmigrazione da parte dei paesi dagli elevati livelli di vita pu difficilmente giustificarsi eticamente in un quadro di bilanciamento di interessi nazionali e internazionali; anche se il maggiore impegno morale resta quello della cooperazione per lo sviluppo locale dei paesi del Terzo Mondo.

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6. Alcune opzioni di politica della popolazione da approfondire Un obiettivo importante e prioritario, specie in un contesto politico come il nostro, poco attento ai risvolti demografici, pu essere rappresentato proprio dal fare emergere le implicazioni demografiche delle politiche fiscali, del lavoro, sociali per tenerne conto. Un obiettivo pi ambizioso pu essere indicato nella disponibilit ad adottare tali politiche per modificare la dinamica demografica. In entrambe le ipotesi significa convenire che, a priori, politiche che incidano direttamente o meno sui comportamenti umani non possono considerarsi neutrali rispetto alla dinamica demografica (e viceversa). Inoltre, se si accetta di tenere in conto le variabili demografiche, si disposti ad accordare unattenzione a processi e interazioni di lungo periodo, cui spesso politici sono poco sensibili, avendo come unit di misura il mandato elettorale (per esemplificare: la caduta delle nascite degli anni settanta e ottanta comincer a rendere gravi i problemi di gestione delle pensioni e della salute in et anziana, fra qualche decina danni, quando ne diventeranno fruitrici le abbondanti generazioni nate intorno al 1960; e tuttavia anche le soluzioni vanno preparate con riferimenti temporali di questo tipo). Proporsi di adottare politiche della popolazione che ne modifichino la struttura e la dinamica (demografiche) un passo possibile, logico, su cui va cercato il necessario largo consenso dei cittadini, quando si ritenga ragionevolmente che ci possa evitare conseguenze anche a lungo termine indesiderabili e prepari un presente pi responsabile e un futuro migliore (quanto alle opinioni delle persone in et compresa tra 18 e 49 anni, si sa che politiche specifiche di sostegno delle nascite sarebbero attualmente approvate da poco meno della met degli italiani secondo lindagine dellIRP, 1987-88: Palomba, 1990b). In entrambe le direzioni evocate siamo alle battute preliminari. Si ha limpressione che in questi anni gli interventi pubblici in materia di popolazione abbiano risentito pi delle spinte a riconoscere spazi di autonomia individuale o a cercare condizioni di maggiore equit oppure abbiano risposto a situazioni di emergenza (in terga di immigrazioni clandestine e, pi recentemente, di carico pensionistico per il bilancio statale); e che, viceversa, si sia ancora lontani dallimmaginare, specie nel campo della riproduzione, di poter intervenire anche con obiettivi demografici. Se ci vero, lopera di sensibilizzazione avviata in questi anni soprattutto per far cogliere implicazioni e conseguenze dei problemi demografici, solo iniziale. Uno sviluppo della ricerca per la politica

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di popolazione in questo contesto sembra necessario, venendo incontro allinteresse politico che matura lentamente (un esempio pionieristico al riguardo appare costituito dalla legge della Regione Emilia-Romagna 208/89 che prevede politiche di sostegno alle scelte di procreazione e agli impegni di cura verso i figli e prevede altres che vengano convocate conferenze periodiche la prima, svoltasi nel 1990, su famiglie e politiche sociali con il coinvolgimento di ricercatori e operatori). 6.1. Sulla possibilit di porre obiettivi generali definiti di crescita demografica Dopo lapprofondita discussione avvenuta negli Stati Uniti negli anni sessanta sullipotesi di popolazione stazionaria, e pi sommariamente in un apposito seminario del Consiglio dEuropa (1976), continuano a essere plausibili sia le ragioni per un incremento tendente allo zero della popolazione (con una fecondit di poco pi di 2 figli per donna), perch pi facilmente sostenibile dal punto di vista della gestione politica, sia le ragioni di un pur laborioso adattamento politico anche a un modesto declino demografico, se questo, nonostante adeguata informazione su significato e conseguenze dei comportamenti, risponde alla scelta dei cittadini. Poich le tendenze in corso sono verso un certo declino tendenziale della popolazione, sembra che, al fine di rendere consapevoli la popolazione e gli operatori pubblici delle implicazioni delle proprie scelte, dovrebbero essere approfondite le conseguenze, ipotetiche e su vari fronti, non solo della recente dinamica demografica naturale, ma anche di mix di fecondit (che permanga molto sotto il livello di rimpiazzo delle generazioni o si muova verso il livello di equilibrio) e di immigratoriet, discutendole e informandone i cittadini (annoto come punto elementare di riferimento che, allinizio del 1991, poco meno di 782.000 stranieri risultavano soggiornare regolarmente in Italia: 149.000 cittadini Cee, 633.000 extracomunitari, clandestini esclusi; questo dato appare in difetto rispetto alla stima Istat, 1990). 6.2. Politica di sostegno delle nascite alleviandone i costi correnti per i genitori e rinnovando regole di trasferimento eque tra generazioni Gli interventi pi significativi a sostegno delle nascite cercano di incentivare il matrimonio, di alleviare la fase della gestazione e di ridurre il costo dei figli e della loro cura (assegni, sgravi fiscali, servizi) supponendo che queste siano le cause principali della disaffezione a riprodurre. Ma, riprendendo osservazioni precedenti, il disinteresse a ripro-

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durre potrebbe dipendere anche da un calcolo in perdita tra costi e benefici effettuato dai potenziali genitori rispetto allimpatto della prole lungo tutto il loro arco futuro di vita (nelle reti di parentela tradizionali con numerosa prole ci sono regole di trasferimento di beni e servizi a vantaggio netto dei membri in et avanzata: i giovani piuttosto ne godranno leredit; queste regole sembra stiano svanendo nelle societ occidentali pi avanzate, essendo per di pi affidata al sistema sociale la responsabilit per gli anziani che non possano provvedere autonomamente). Nella misura in cui la percezione di questi trasferimenti intergenerazionali negativi sia di qualche importanza e se si volesse rimuoverne la causa, occorrerebbe esaminare attentamente le proposte di Demeny (Unece, 1987), che mirano a ridare consistenza ai vantaggi relativi in et avanzata per coloro che hanno figli in et produttiva (e che sono pertanto fonte di sostegno dei trasferimenti sociali complessivi) rispetto a quelli che non ne hanno: si tratterebbe di destinare, attraverso il sistema di sicurezza sociale, una specifica frazione dei contributi previdenziali pagati dai lavoratori, direttamente ai genitori (Colombo, in IRP, 1988, suggerisce invece un contributo previdenziale minore per chi ha figli: la proposta mira a evitare differenziali di prestazioni in tarda et indipendentemente dalla condizione di bisogno, per occorre riconoscere che il significato psicologico del trasferimento cambia). Anche lassemblea del Consiglio dEuropa (1988) suggerisce di studiare la possibilit di sommare i periodi dedicati alleducazione dei figli (o alle cure a familiari a carico) ai periodi contributivi al fine di acquisire il diritto alla pensione e per il calcolo del suo importo. Si tratta di ipotesi solo in parte provocatorie, che potrebbero realizzarsi come elemento segnaletico di un recupero culturale e sociale del significato della prolificazione, restaurando peraltro unequit distributiva tra chi riproduce, anche per la societ, e chi non riproduce. 6.3. Politiche immigratorie e crescita economica dei paesi del Terzo Mondo Una politica immigratoria che consenta laccoglienza di culture ed etnie profondamente diverse, sia pure con flussi controllati, non pu compensare meccanicamente gli effetti delle mancate nascite interne senza prevedere ladozione di importanti trasformazioni istituzionali e culturali. Lesperienza mostra una sostanziale irriducibilit delle differenze etniche e una difficile convivenza sia quando si tenda a unassimilazione passiva nel contesto ricevente sia quando si mantenga lo status di straniero per limmigrato.

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Si deve pensare, di fronte allevenienza certa di flussi immigratori, sia dal sud sia dallest (che occorre certamente cercare di controllare), a un aggiornamento delle tradizionali modalit di accoglienza regolamentata, evitando sia tentativi di assimilazione sia lisolamento di minoranze etniche e riconsiderando anche le presenze temporanee in vista di un rientro, tanto pi fruttuoso quanto pi preparato e assistito (si vedano, come esempio di tali dibattiti, le proposte, riferite dalla stampa, avanzate dai nove saggi al governo francese nel febbraio 1991, basate sullaccettazione da parte dellimmigrato di regole e di un minimo di valori comuni come condizione di presenza e cittadinanza; sulle gravi contraddizioni da risolvere per una societ multietnica si vedano Balbo, in AA. VV., 1990c; Furcht, in Maccheroni e Mauri, 1989 e in Cocchi, 1990; Mauri, in Maccheroni e Mauri, 1989). Importanti saranno anche le intese (e auspicabilmente le revisioni di esse) nellambito della Comunit europea (Nascimbene, in AA. VV., 1990c). Il maggiore impegno politico resta tuttavia quello di promuovere e favorire forme nuove e massicce di intervento per rivitalizzare il processo, interno e autonomo, di crescita economica del Terzo Mondo e dei paesi economicamente depressi dellest europeo (United Nations, 1990: essenziale e benvenuto questo rinnovato impegno delle Nazioni Unite che hanno organizzato, oltre alla Conferenza sui paesi meno sviluppati, un summit sullinfanzia, due conferenze su commercio e sviluppo, nel 1991, e su ambiente e sviluppo, nel 1992, e il convegno mondiale sulla popolazione, nel 1994). 6.4. Invecchiamento demografico e risorse impiegate Il baricentro delle risorse impiegate per il benessere della popolazione, con linvecchiamento demografico, si sposta verso le classi di et pi anziane nella misura in cui si spostano e mutano i bisogni ma anche il potere di gestione delle risorse (Preston, 1984): come garantire attivamente rispetto dei diritti, vecchi e nuovi, ed equit distributiva in un contesto di risorse limitate e di aspettative crescenti? Una visione dassieme e forme di coordinamento dellazione politica sono, a evidenza, necessarie per fronteggiare non settorialmente le nuove emergenze, per prevenire o compensare possibili effetti indesiderati di interventi, per scegliere oculatamente tra esigenze talora divergenti (maggiori finanziamenti per una migliore assistenza di lungodegenti vecchi e incurabili o per miglioramento delle opportunit di istruzione giovanile o di accesso al mercato del lavoro, sono esempi concreti di possibili opzioni antitetiche al margine).

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Ma preliminarmente occorre valutare la questione di uno spostamento demografico del potere, che indurrebbe proporzionalmente sempre minore spazio alla rappresentanza degli interessi delle nuove generazioni: se la questione fondata, vanno trovate soluzioni riequilibratrici (a titolo di esempio Demeny, in Davis et al., 1986, suggerisce di dare il diritto di voto per i figli minorenni ai genitori, in combinazione con altri interventi che stabiliscano maggiore equit nei rapporti tra sessi e tra le generazioni). 7. Conclusioni Litinerario seguito nel presente capitolo, rivisitando sommariamente Io sviluppo della discussione sulle politiche demografiche in Italia negli ultimi decenni, ha cercato di evidenziare punti di vista (antrolopogicoetico, descrittivo-interpretativo, politico) e problemi salienti. La griglia di lettura concettuale (prima parte: paragrafi 1-3) ha cercato di distinguere alcune caratteristiche logiche e di merito (rispetto allo stato della situazione in Italia) in funzione dellapproccio che si vuole privilegiare studiando il tema delle politiche di popolazione. Ha fatto seguito una ricognizione di alcuni momenti istituzionali recenti in cui i demografi hanno mostrato una crescente attenzione politica (seconda parte: par. 4). Un richiamo schematico di problematiche etiche che riemergono nelle discussioni (terza parte: par. 5) e di opzioni politico-demografiche da approfondire (quarta parte: par. 6) ha chiuso la riflessione. Pi che cercare esaustivit nella rivisitazione, converr valutarne lutilit rispetto a unagenda di lavoro che si presenta aperta e impegnativa. Con lauspicio che crescano gli interlocutori sia sul versante conoscitivo sia su quello operativo.

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Indice dei nomi

Accinelli G., 315 Achenwall G., 30 Adinolfi, 458 Adorno T. W., 214 Aemilius Macet, 28 Agostini F., 170n Aimi A., 425 Akers D. S., 116, 119 Alberti, 45 Aleati G., 164 Alfieri C., 41 Alvaro G., 350, 421 Amodeo, 288 Amoroso L., 246 Anatra B., 170n Anderson B. A., 156n Anderton D. L., 152 Angerame P. F., 317 Antonini F. M., 468 Antonucci, 46-47 Arbuthnot, 195 Aris P., 18 Armenate A., 35 Ascolani A., 350 Assante F., 165 Bacchetta P., 420 Bachi R., 45, 396 Baglioni P., 428 Bagni T., 35 Balbo L., 227 Balbo P., 32 Balbo, 476 Bandettini P., 164, 170n Bankowski Z., 469 Barbagli M., 284-86, 291 Barbano F., 226-28 Barberi B., 246 Barbieri M., 317

Bardet J.-P., 153 Barraclough G., 151 Barsotti 0., 386 e n, 389, 393, 395, 425, 467 Barten A. P., 252 Bartiaux F., 401 Barzelatto J., 469 Battara P., 163 Bean L. L., 152 Beccaria C., 31 Becker G. S., 17, 258-59, 267 Beggiato R, 317 Bellandi L., 431 Bellettini A., 29, 164, 170n, 261, 303 Beloch G., 146-47 Beltrami ID., 164 Bellini R., 36, 41n, 42, 44, 64, 161, 194-96, 198, 223-24 Berent J., 293 Berlinguer G., 424 Bernardi L., 421, 429 Bernassola A., 117 Bernoulli D., 34 Berry B. J. L., 394n Bertaux D., 340 Berti, 119 Bertillon, 140 Bertino S., 289, 344, 360 Bianchi, 428 Bielli C., 301, 306, 308, 319, 344 Binswanger H. P., 19 Biraben J.-N., 150 Birg H., 471 Birindelli A. M., 67, 420 Blake J., 121, 294 Blanchet D., 350 BIangiardo G. C., 76, 289, 319-20, 349, 358, 360, 424-26, 428-31, 466 Bloch M., 150 Bodio L., 35, 37, 108n

572

Indice dei nomi


Cappellin R., 389 Capron A. M., 469 Carannante, 291 Carano Donvito C., 32 Cariani G., 345 Carini R., 321 Carnevale T., 424 Carrasco E., 294 Carvelli A., 428-29 Casati, 40, 64 Caselli G., 10, 36, 93, 117n, 125-27, 202n, 263, 340-42, 348, 351, 421, 467 Castellano V., 224 Castellina L., 459 Castellino 0., 422 Castiglioni M., 259, 292, 355 Castrilli, 45-46 Castro L., 383, 401 Cattaneo C., 32 Cavalli-Sforza L. L., 206 Cazzola A., 321 Champion A. G., 394 e n Charbonneau H., 19, 153, 157, 158 e n Chelli F., 361 Chesnais J.-C., 387 Chiaretti G., 227 Chiari G., 429 Chiassino G., 76, 170n, 295, 305, 349 Child J., 247 Ciccotti E., 163 Cigno A., 260, 350 Cipolla C. M., 163-64 Cislaghi C., 345 Cittadini, 307 Ciucci L., 117, 299, 348, 421, 466 Clark R. L, 350 Cleland J., 12 Clerici R., 289, 304, 381 e n Coale A. J., 5-6, 9, 16, 19, 118 e n, 119, 125, 155,

Bodmer W. F., 206 Boldrini M., 30, 35, 43, 47, 65, 90, 110n, 161 e n, 197-98, 199n, 283, 421-22 Bollino C. A., 252 Bolognini M., 431 Bolzan M., 429 Bonaguidi A., 382-83, 385-86, 395, 421, 467 Bonarini F., 8, 288, 297, 304-5, 309, 317, 319, 321, 424 Bonelli F., 164 Bongaarts J., 8, 117, 125, 294, 319, 358, 360-61 Bonifazi C., 390, 397, 426, 463 Bonino J., 32 Bonlavet C., 399 Borlandi F., 163-64 Bosco A., 63 Boserup E., 19 Bottai M., 395, 399 Bouchard, 157 Bourgeois-Pichat J., 5, 110-11, 117-18, 123, 201, 231, 353 Bourguignon 0., 360 Brass W., 119 Braudel F., 142n, 232 Braun R. E., 355 Breschi, 290, 298, 305 Brouard N., 351 Brunelli L., 393, 425 Brunetta G., 290, 300 Bruni M., 350, 421 Bruno V., 300 Bulatao R. A., 293-94 Butz W. P., 293 Buzzetti L., 390 Cafaro D., 316 Cagiano de Azevedo R., 90, 289, 420, 425, 458, 461 Caldo C., 424 Caldwell J. C., 293, 459, 469 Calot G., 112 Calovi C., 304 Calvi G., 459 Calvino L, 171n Campus A., 430 Cannan, 248 Cantalini B., 386n, 390 Cantelli F. P., 64, 111n Cantillon 139 Caperdoni E., 431 Capocaccia R., 342

156 e n, 253-54, 264, 287-88, 293-94, 296, 300, 341 Cocchi, 476

Cochrane S. G., 394n Cohen M. N., 19 Colajanni N., 41n, 63 Coletti F., 44, 226 Colle B., 432 Colombo E., 81, 90, 117, 197, 199n, 202, 287, 298, 303, 314, 316, 318, 345, 423, 427, 456, 460, 463-66, 469, 475 Comba R., 166 Comte A., 205, 207, 216-18

Indice dei nomi


Condorcet, 139 Conring E., 30 Contento A., 41n Conti C., 32 Coppi R., 124-25, 342 Coppini M. A., 350, 422 Correns, 194 Correnti, 37 Corridore F., 161, 163 Corsini C. A., 27n, 161, 208, 291 Cortese A., 357-58, 393, 425 Costa M., 395 Costanzo A., 33, 161n Courgeau D., 127.28, 130, 294, 340, 380, 381n, 382-83, 397-99, 401 Cox, 302 Croce P., 315 Crosby W., 20 Crouchley R., 340 Curatolo R., 428 Cusimano, 289 DAddario, 46 Dalla Zuanna G., 259, 304, 429, 431 Darwin C., 15, 47, 139-40, 188, 202, 207, 218 Das Gupta P., 342 Davenant Ch., 30, 247 Davies R. B., 340 Davis K., 121, 294, 308, 315, 461, 477 De Angelini A., 431 De Are D., 394 De Bartolo G., 79, 305, 429 De Blasio R., 424 De Candia, 289 De Castro, 46 Dechesne H., 158 Del Buca D., 421 Del Chiaro, 110 Del Colle E., 395 De Leo B., 422 Delle G., 165 DellAringa C., 255 DellAtti A., 393, 425 Della Pergola S., 303 Del Panta L., 165, 172, 295 De Marchi F., 461-62, 469 Demarco, 164 Dematteis G., 395 De Medici G. A., 30 Demeny P., 6, 9, 119, 351, 459, 475, 477 De Meo G., 163-64, 250, 420

573

De Moivre A., 31 e n Denison E. F., 250 Deparcieux, 31 Derham, 139 De Rita G., 420, 424 De Rose, 302 De Saboulin M., 347 Desama C., 157n De Samuele Cagnazzi L., 32-34, 36, 40-42, 63 De Sandre P., 79-80, 85, 98,117, 123n, 125, 238-39, 284-86, 288, 290, 292-94, 297, 305, 308, 311, 357-59, 456-57, 459, 470-71 De Santis G., 260, 298-99, 383, 386n, 387 De Sarno Prignano A., 67, 297, 299, 304-5, 350, 358 De Simoni A., 298, 305, 397, 426 De Sismondi, 245 De Unamuno M., 147 De Vergottini M., 110, 112 De Vries, 194 De Witt, 34 Di Ciaccio A., 362 Di Cillo C., 431 Di Comite L., 76, 286, 290, 295, 349, 393, 425 Di Nicola, 286 Dinh Q. C., 342 Dini F., 394 Dionigi di Alicarnasso, 27 Di Staso, 286, 289 Donati P. P., 455, 458-59, 468, 470-71 Doro S., 431 Drake M., 148 Dupquier J., 27n, 153, 158, 159n Dupquier M., 27n Durkheim E, 220, 360 Easterlin R. A., 18, 293, 301, 344 Egidi V., 263, 342, 344, 346, 348, 353, 360, 467 Emanuele L., 431 Engel E., 252 Ermisch J., 350, 361 Espenshade T. J., 355 Eulero, 5, 34 Eversley D. E., 151 Fabris G., 308, 315, 459 Fagiani, 460 Fanfani A., 33

574

Indice dei nomi


Gioi, 36 Gioja M., 32, 63, 108n Giolitti G., 44 Giorgi P., 355 Giorio P., 431 Giovannetti A., 79 Giulio Cesare, 27 Giunti G., 305 Giustiniano, 28 Glass D. V., 48, 151 Glick P., 358 Godwin W., 139 Golini A., 93, 95, 97, 117n, 226, 286, 296, 348, 350, 358-59, 386n, 390, 395, 397, 414n, 42022, 426, 463, 465-67 Gompertz, 306 Gonnot J. P., 351 Gorman W. M., 252 Goubert P., 152.53, 164 Graglia R., 32 Grandolfo M. E., 424 Granelli Benmi L., 79 Graunt J., 5, 30-31, 34, 36, 139 Greco M., 291 Gronchi S., 422 Gros Pietro G. M., 255 Grussu S., 260 Guatini R., 249-50, 268 Guarna F., 97 Guerresi E., 313 Guillard A., 208 Hajnal J., 113, 114n, 284 Haldane J. B. S., 198n Halley E., 5, 30, 34, 139 Hanau C., 350 Hannan M. T., 293, 340 Hansen A. H., 160 e n Harbison S. F., 125 Hardy-Weinberg, 205 Harm E., 156n Harris J., 386 Harsin P., 156-57 Heckman J., 342 Heins E., 426 Hlin E., 156, 157 e n Henry L., 7, 19, 108, 112-13, 115-17, 120n, 121, 123n, 149-50, 152-53, 155-56, 158, 164, 2089, 294, 347 Hobcraft J., 12, 116, 124, 293 Hodgson D., 461 Hoem J., 342

Faustini G., 255-57, 421 Febvre, 150 Federici N., 43, 47, 65, 75-76, 88, 96, 125, 165, 185, 186 e n, 187.88, 192 e n, 193n, 196n, 202, 233-35, 283, 295, 301, 306, 347, 349, 356, 362, 380, 420, 462 Felloni G., 164 Ferrara, 32-33 Festy P., 293, 358 Fig Talamanca I., 316, 318, 424 Finzi 1., 321 Fisher A. A., 294 Fisher R. A., 118, 198n Flaim P. 0., 256 Fleury M., 112, 149-50, 152 Fontana G., 31 e n, 32, 34, 58 Formentini U., 395 Fortunati P., 29, 44, 46, 72, 163-64 Fourier J. B., 36 Franciosi F. B., 421 Freedman R., 293 Frey W. H., 394n Fu G., 249, 254, 268, 270, 350, 386 e n, 390, 421, 426 Fumagalli Carulli, 458 Furcht, 476 Gabaglio A., 27n Gaeta Roberto, 31 e n, 32, 34, 58 Galiani, 245 Galli Parenti G., 299 Gallino T., 431 Galvani L., 35-36, 111-12 Ganiage J., 153 Gario G., 428 Garonna P., 266 Gaslonde S., 294 Gastaldi T., 45, 49 Gautier E., 7, 150 Geddes M., 467-68 Geissler, 195 Genovesi, 245 Gentile G., 40, 64 Gentileschi M. L., 391n Gerhan D. R., 160n. Ghilardi G., 386n Giacobazzi D., 312 Giacomello P., 421 Giannini C., 421 Gni C., 7, 35-36, 45-46, 49, 64, 86, 90, 108n, 11012, 117, 160-64, 192 e n, 193 e n, 194 e n, 195 e n, 196 e n, 197-98, 199 e n, 200n, 202, 22324, 226, 300, 342

Indice dei nomi


Hoffman-Nowotny H. J., 344, 359 Hohn C., 352 Hollingsworth T. H., 148 Holmberg I., 360 Hoover E. M., 19, 253-54, 264 Hopflinger F., 358-59 Hopkins K., 29n Horiuchi S., 341 Horkheimer M., 214 Houtahakker, 252 Hudde, 34 Huygens C., 36 Huygens, fratelli, 34, 139 Hyrenius H., 152 Imhof A. E., 148, 152 Insolera, 46 Isemburg T., 33 Jacob F., 218 Jacquard A., 191, 201 Jain A. K., 319 Katman, 344 Kantrow L., 148 Keely, 288 Keilman N., 124, 344, 347, 355, 358, 360 Kelley A. C., 19, 247, 253 Kendall M., 123 Kephart G., 307 Keerseboom, 31, 139 Kessler D., 350 Keyfitz N., 5, 98, 119, 185-86, 209, 342, 352 Keynes J. M., 16, 160 e n, 245 King, 30-31 Kish L., 345 Kitagawa J., 342 Klaus H., 314 Knodel J. E., 152, 156n Kublai Kan, 170-72 Kula W., 147, 163 Kuznets S., 19, 248, 258 Land K. C., 344 Landucci Tosi S., 308 Laplace, 207 Larose A., 158n Larson A., 469 Laslett P., 154 e n, 156, 353, 360 Lastri M., 29, 32 Laszlo E., 206 Lauro S., 286, 303, 431

575

La Vergata A., 139 Le Bras H., 118 Ledermann S., 119 Lee R. A., 293 Lgar, 157 Leibenstein H., 17, 254 LeUvre E., 127, 130, 340, 398-99 Lenti L., 112 Lenzi R., 305 Lridon H., 112, 117 Le Ronda dAlembert J., 34 Leroy Ladurie E., 20 Leslie P. H., 119n, 382 Lesthaeghe R. J., 156n, 391 Leti G., 45, 49, 170n, 196n Levi G., 30, 32 Lvi-Strauss C., 213, 225 Lewbel A., 252 Lewis, 266 Lewontin, 190 Lexis, 35 Livi Bacci M., 19-20, 33, 47, 76, 90, 97, 105, 114n, 117, 119, 156n, 161n, 165 e n, 166, 186 e n, 199, 200-1, 226, 232, 235, 239, 246, 248, 251, 260, 263, 284, 296, 299-300, 305, 316, 342, 347, 349-50, 353, 379-80, 386-87, 390, 392, 414n, 420, 422, 424, 426, 463.64, 466, 471-72 Livi L., 45, 47, 64, 88, 90, 161n, 163-64, 196-98, 199n, 223-25, 300 Livi R., 161n, 196, 199 Lombardo. E., 32-33, 35-36, 96-97, 305, 307, 429 Long L., 394 Lopez A., 5, 118 Losch A., 160 e n Lotka A. J., 5, 6, 118, 140, 148n, 161, 209, 382 Luzzatto Fegiz P., 45, 64, 194 Lynch K. A., 148, 172 Maccheroni C., 476 Maciocco G., 468 Maddison A., 248 Maestri P., 37 Maffenini W., 303, 383 Maffioli D., 92, 96, 301, 305 Maggioni G., 291 Malsano S., 353 Majorana Calatabiano G., 41n Malinowski B., 214 Malinvaud E., 268

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Indice dei nomi


Moroni A., 170n Morozzo, 32 Mortara G., 35-36, 45-48, 63, 65, 90, 92, 111 e n, 112, 251, 342 Mortara V., 459 Muscetta S., 344 Musu I., 386n Muttini Conti G., 164 Myrdal G., 390 Nascimbene, 476 Natale M., 79, 117, 268, 297, 304-5, 350, 421-22, 425-26, 428, 464 Neri F., 424 Niceforo A., 43, 64, 161, 197 Nobile A., 41, 46, 48, 64-65, 420 Notestein F., 155, 461 Oberg S., 348 Ongaro F., 8, 302, 307 Ortes G., 32-33, 248 Ortona G., 421 Orviati S., 92, 303 Ottaviani M. G., 40, 65 Paci M., 454-55 Page H., 293 Paglin, 258 Paglino F., 46 Palloni A., 307 Palmieri L., 308 Palomba R., 97, 322, 358, 426, 463, 470-71, 473 Paltrinieri R., 321 Pane A., 320, 429 Panero M., 428 Papa 0., 305 Parenti G., 163-64 Pareto, 189, 245 Pasquali P., 304-5 Pasquini L., 319 Pazzano M., 97 Pearl, 161 Peccati L., 431 Pedull G., 421 Pennino A., 298 Pennino C., 298 Perozzo L., 36, 109n Perrenoud, 157 Pertile G., 35 Pesso S., 431 Petrioli L., 9, 76, 119, 202, 305-6, 350

Malthus T. R., 15-16, 33, 139-40, 192, 205, 217, 245-46, 462 Manese G., 289, 303 Mannheim K., 116n Manton K. G., 342, 344, 353 Marchesi F., 307 Marchionni M., 320 Marcilio M. L., 158 Markov, 266, 382 Marshall, 245, 314 Martelli C., 116 Martini M., 429, 463 Martuzzi Veronesi F., 392, 426, 466 Marx K., 33, 220-22 Marzocchi, 289 Masarotto G., 314 Maset S., 312 Masi A., 289 Masiero C., 431 Masselli M., 345 Massey D. S., 388, 401 Massironi G., 227 Mattai, 461 Mauldin W. P., 469 Mauri A., 476 Mayr G., 41n, 63, 208 Mc Keown T., 20 McNeill W. H., 20, 287 McNicoll G., 252 Meadows D. H., 248 Meccariello L, 295 Medolaghi P., 46 Melotti 12., 425 Menchiari A., 306 Mendel, 194 Menken j., 464 Menniti A., 97, 358 Mera K., 394n Merella P., 424 Messedaglia A., 33, 37, 41n, 42, 63 Micheli G. A., 139, 306, 380, 420-21, 429, 431, 467, 471 Migliorini E., 429 Milanesi G., 459 Mineau G. P., 152 Molinari, 420 Mols R., 156 Monari P., 205n Monguzzi F., 424 Montanari A., 308, 430 Moretti E., 393, 425, 429 Mori, 461

Indice dei nomi


Petty W., 30, 139 Phelps E., 389 Piccinni G., 166 Pietra G., 44, 46, 49 Pilloton F., 255n, 420 Pingali P., 19 Pinnai A., 75, 79, 96, 124-25, 260, 295, 301-2, 307, 342, 345, 348, 359, 467 Pinto G., 166 Piperno A., 323 Poli M. P., 32 Polibio, 27 Pollard J. H., 116, 118, 347 Polo M., 170-72 Potter R. G., 8 Pozza D., 431 Prais, 252 Prampero A., 35 Predetti A., 431 Pressat R., 115-16 Preston S. H., 6, 119, 125, 262, 341, 476 Price, 30 Prigogine I., 206 Prioux F., 358 Puggioni G., 170n Pullurn T. W., 124 Qutelet A., 38, 40, 140, 196, 205, 207 Quintavalla E., 320 Rabino G. A., 429 Raccioppi F., 342 Raimondi E., 320 Rajulton F., 401 Rameri L., 35 Ranci Ortigosa E., 455 Reginato M., 393, 425 Repetto R., 258 Rettaroli R., 388 Riandey B., 399 Ricardo, 245 Ricci L., 33, 421 Ricci R., 361 Richards T., 360 Righi A., 350, 422, 426, 463 Rindfuss R. R., 294, 307 Riphagen F. E., 311 Riva, 286, 303 Robin, 154n Robinson W. C., 125 Rodriguez G., 294 Rogers A., 119n, 125, 344, 382-84, 401

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Romagnosi, 32-33 Rosental P. A., 380 Rosoli G. F., 381n, 391 Rossi F., 8, 286, 288-89, 297, 303-4, 321, 355, 358, 360, 381 Rossi G., 455 Rossi N., 252 Rossi P., 220 Rossi, 421 Rotondi, 300 Roussel L., 358.60 Roveda, 170n Roveri L., 345, 357-59 Ruberto A., 420 Rusconi G. E., 459 Russo A., 358 Ryder N. B., 110, 113, 115, 116 e n, 293-94, 309, 324, 353, 356 Sabbadini L. L., 362 Sachedima Z., 469 Sahlins M., 221 Sala A., 424 Sala P., 170n Salvatore D., 267 Salvini, 302, 305 Salvioni G. B., 41n, 63, 161 Samoggia A., 170n Sanna, 317 Santagata W., 421 Santini A., 21, 79-80, 98, 114n, 115, 117, 125-26, 155, 160n, 164, 172, 261, 28486, 288-89, 295, 297, 299, 305, 318, 348-49, 385n, 398, 401n Saraceno C., 141, 455, 468, 470 Saraceno E., 386n Savorgnan F., 112, 162, 164 Scardovi I., 22, 190n, 196n, 205n Schiaffino, 303 Schoen R., 347 Schofield R. S., 20, 154n Schultz T. P., 267 Serow W. J., 401 Servio Tullio, 27 Sgritta G. B., 235, 239, 290 Short, 31 Shryock H. S., 347 Simon J. L., 19, 392 Simoncelli R., 391n Singer B., 342 Skinner, 189 Sly D., 401

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Indice dei nomi


Valussi G., 391n Van Bath S., 157 Van de Kaa D., 282, 309, 459 Van de Walle E., 148, 156n Van Der Woude A., 157 Van des Wijst T., 350 Van Poppe! F., 350 Vaupel J. W., 342 Veca S., 460 Ventisette M., 117, 289, 291, 298, 305, 384 Venturi M., 345 Verhulst, 209, 246 Verma L., 345 Vernazza di Freney G., 30 Verri, 245 Vesentini E., 48 Viafora C., 461 Vian F., 429 Viano C. A., 460-61 Vichi, 79 Villani G., 29 Vincenzi Amato D., 455, 458 Vinci F., 64, 111 Vining, 394n Virgilli F., 41 Visco, 286 Vitali 0., 350, 361, 395-96, 421-22, 467 Viterbi M., 226, 228 Volpi R., 97 Volterra, 209 Von Tschermack, 194 Von Weuzsacker R. K., 350 Wall R., 154n Wallace, 140 Walras, 245 Ward M. P., 293 Wargentin, 139 Watkins J. F., 293, 296, 401 Way A. A., 294 Weber M., 220 Wells R. V., 160n Westergaard, 140 Westoff C., 309 Whelpton P. K., 110, 113 Wicksell K., 248, 253 Willekens F. J., 125, 382, 384, 385n Williamson J. G., 247, 253 Willigan J. D., 148, 172 Wilmuth J., 342 Wilson E. 0., 197-98 Winter J. M., 454, 461, 463-64 Wolf D. A., 348

Smith A., 245 Smith D., 5 Solow, 254 Somogyi S., 45, 112, 421 Sonnino E., 47, 75, 79, 96-97, 161, 426, 467 Sori E., 48 Sorvillo M. P., 361 Spallucci R., 421 Spencer H., 140, 190 Spinelli A., 318, 424 Steve S., 48 Stuart Mill. J., 205 Sussmilch, 139 Sussmilch, 195 Sylos Labini P., 262-63 Tagliacarne, 420 Tammeo G., 63 Tapinos G., 262, 269, 350, 425 Tassello G., 425 Tassinari F., 170n, 268, 430 Tassinari G., 268 Teitelbaum M. S., 156n, 454, 461, 463 Termote M., 382-83, 386n, 397-98 Terrisse M., 152n Terzera, 425 Tietze, 319 Tilly C., 230 Tinacci Mossello M., 390 Tito Livio, 27 Tittarelli L., 170n Toaldo, 32, 34 Todaro M. P., 267 e n, 386 Todisco E., 426 Tomassetti A., 344, 360-61 Tonini, 306 Townsend, 139 Treves A., 48 Tribalat M., 392 Trivellato U., 343, 421 Trussel, 294 Tufari P., 290 Tulumello A., 467, 471 Tuma N. B., 293, 340 Turci M. C., 269 Turgot A. R. J., 248 Ugg A., 33, 45, 47 Ulpiano, 28 Ungari P., 147 Valenziani, 45 Vallin J., 202n, 341-42, 351 Valmary P., 153

Indice dei nomi


Woodward J. A., 401 Wright S., 193, 198n Wrigley E. A., 154n Wrigley R. A., 20 Wunsch G., 115, 341 Yashin A., 342 Zaba B., 385 Zacchia G., 390 Zajczyk F., 428 Zamagni S., 389 Zanetti D., 165 Zannella F., 342 Zei, 289 Zeviani E., 32, 34 Zigli L., 425 Zuccagni Orlandini A., 29, 36, I08n Zuliani A., 421 Zuradelli G., 63

579

Nota sugli autori

Gian Carlo Blangiardo professore straordinario di demografia della Facolt di scienze politiche presso lUniversit statale di Milano. Franco Ponarini professore ordinario di teoria della popolazione e modelli demografici della Facolt di scienze statistiche presso lUniversit di Padova. Carlo A. Corsini professore ordinario di demografia storica della Facolt di economia e commercio presso lUniversit di Firenze. Paolo De Sancire professore ordinario di demografia della Facolt di scienze statistiche presso lUniversit di Padova. Gustavo De Santis professore associato di demografia della Facolt di statistica presso lUniversit di Messina. Viviana Egidi professore ordinario di demografia della Facolt di economia e commercio presso lUniversit di Trieste. Renato Guarini professore ordinario di statistica economica della Facolt di scienze statistiche, demografiche ed attuariali presso lUniversit La Sapienza di Roma. Massimo Livi Bacc professore ordinario di demografia della Facolt di scienze politiche presso lUniversit di Firenze. Enzo Lombardo professore ordinario di demografia della Facolt di economia e commercio presso lUniversit La Sapienza di Roma. Fausta Ongaro professore associato di demografia della Facolt di scienze statistiche presso lUniversit di Padova. Dionisia Maffioli professore straordinario di demografia della Facolt di scienze statistiche e demografiche presso lUniversit La Sapienza di Roma. Fiorenzo Rossi professore ordinario di demografia della Facolt di scienze statistiche presso lUniversit di Padova.

582

Nota sugli autori

Antonio Santini professore ordinario di demografia della Facolt di economia presso lUniversit di Firenze. Italo Scardovi professore ordinario di statistica della Facolt di scienze statistiche presso lUniversit di Bologna. inoltre docente di biometria presso la stessa Universit. Giovanni B. Sgritta professore ordinario di Sociologia della Facolt di scienze statistiche e demografiche presso lUniversit La Sapienza di Roma.

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Finito di stampare il 28 aprile 1994 dalla Tipolito Subalpina s.r.l. in Torino Grafica copertina Promoteam, Torino

Guide agli studi di scienze sociali in Italia


Volumi gi pubblicati:

Leonardo Morlino (a cura di), Scienza politica. Luigi Bonanate (a cura di), Studi internazionali. Pasquale Coppola, Berardo Cori, Giacomo Corna Pellegrini et al., Geografia. Massimo Livi Bacci, Gian Carlo Blangiardo e Antonio Galli (a cura di), Demografia.

Studi e ricerche
Volumi gi pubblicati:

Abitare il pianeta. Futuro demografico, migrazioni e tensioni etniche. Volume I, Marcello Pacini, Aristide R. Zolberg, Antonio Golini et al., Il Mondo Arabo, lItalia e lEuropa. Volume II, Thomas Espenshade, S. Philip Morgan, Gian Carlo Blangiardo et al. , Usa, Urss e aree asiatica e australe. Vincenzo Cesareo (a cura di), Licona tecnologica. Immagini del progresso, struttura sociale e diffusione delle innovazioni in Italia. Valori, scienza e trascendenza. Volume I, Achille Ardig e Franco Garelli, Una ricerca empirica sulla dimensione etica e religiosa fra gli scienziati italiani. Volume II, Evandro Agazzi, Sebastiano Maffettone, Gerard Radnitzky et al., Un dibattito sulla dimensione etica e religiosa nella comunit scientifica internazionale. Fondazione Giovanni Agnelli, Il futuro degli italiani. Demografia, economia e societ verso il nuovo secolo. Claus-Dieter Rath, Howard Davis, Fran9ois Gargon, Gianfranco Bettetini e Aldo Grasso (a cura di), Le televisioni in Europa. Volume I, Storia e prospettive della televisione in Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia. Volume II, I programmi di quarantanni di televisione in Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia. Fondazione Giovanni Agnelli, Manuale per la difesa del mare e della costa. Institute of Southeast Asian Studies (a cura di), Il Sud-est asiatico nellanno del serpente. Rapporto 1989 sulla situazione sociale, politica ed economica dellarea. Sergio Conti e Giorgio Spriano (a cura di), Effetto citt. Sistemi urbani e innovazione: prospettive per lEuropa degli anni novanta.

Albert Bastenier e Felice Dassetto, John Rex et al., Italia, Europa e nuove immigrazioni. Erminio Borlenghi (a cura di), Citt e industria verso gli anni novanta. Sistemi urbani e impresa a Torino, Genova, Verona, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Catania, Milano e Roma. Isaiah Berlin, Amartya Sen, Vittorio Mathieu, Gianni Vattimo e Salvatore Veca, La dimensione etica nelle societ contemporanee. Vincenzo Cesareo (a cura di), La cultura dellItalia contemporanea. Trasformazione dei modelli di comportamento e identit sociale. Maria Luisa Bianco, Federico DAgostino e Marco Lombardi, Il sapere tecnologico. Diffusione delle nuove tecnologie e atteggiamenti verso linnovazione a Torino, Napoli e Milano. Giancarlo Rovati, Un ritratto dei dirigenti italiani. Giuliano Urbani, Norberto Bobbio, Gian Maria Capuani e Giannino Piana et al., Lanziano attivo. Proposte e riflessioni per la terza e la quarta et. Vklav Blohradsky, Pierre Kende e Jacques Rupnick (a cura di), Democrazie da inventare. Cultura politica e stato in Ungheria e Cecoslovacchia. Antonio Golini, Alain Monnier, Olivia Ekert-Jaff et al., Famiglia, figli e societ in Europa. Crisi della natalit e politiche per la popolazione. Giorgio Brosio e Walter Santagata, Rapporto sulleconomia delle arti e dello spettacolo in Italia. Daniele Hervieu-Lger, Franco Garelli, Salvador Giner e SebastiAn Sarasa et al., La religione degli europei. Fede, cultura religiosa e modernit in Francia, Italia, Spagna, Gran Bretagna, Germania e Ungheria. Pier Francesco Ghetti, Manuale per la difesa dei fiumi. Maurizio Ferrera (a cura di), Stato sociale e mercato mondiale. Il welfare state sopravviver alla globalizzazione delleconomia? Ole Riis, Marek Tarnowski, Alexander Tsipko et al., La religione dei europei II. Un dibattito su religione e modernit nellEuropa di fine secolo. Gian Carlo Blangiardo e Antonio Golini, Paolo De Sandre, Rossella Palomba et al., Politiche per la popolazione in Italia. Jacques Waardenburg, Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Mohammed Salhi et al., I musulmani nella societ europea.

Cosmopolis
Volumi gi pubblicati:

Masao Maruyama, Le radici dellespansionismo. Ideologie del Giappone moderno. Prefazione di Shuichi Kat. Ashis Nandy, Ravinder Kumar, Rajni Kothary et al., Cultura e societ in India. Shuichi Kat, Arte e societ in Giappone. Institute of Southeast Asian Studies (a cura di), Islam e _finanza. Religione musulmana e sistema bancario nel Sud-est asiatico.

Popolazioni e culture italiane nel mondo


Volumi gi pubblicati:

Euroamericani. Volume I, Marcello Pacini, Introduzione a Euroamericani, Betty Boyd Caroli, Piero Gastaldo, Francis A. J. Zanni et al., La popolazione di origine italiana negli Stati Uniti. Volume II, Francis Korn, Isidoro J. Ruiz Moreno, Ezequiel Gallo et al., La popolazione di origine italiana in Argentina. Volume III, Luis A. De Boni e Rovflio Costa, Lucy Maffei Hutter et al., La popolazione di origine italiana in Brasile. Graziano Battistella (a cura di), Gli italoamericani negli anni ottanta. Un profilo sociodemografico. Rovlio Costa e Luis A. De Boni (a cura di), La presenza italiana nella storia e nella cultura del Brasile. Jean-Jacques Marchand (a cura di), La letteratura dellemigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo. Stephen Castles, Caroline Alcorso, Gaetano Rando ed Ellie Vasta (a cura di), Italo-australiani. La popolazione di origine italiana in Australia. Fernando J. Devoto, Maria Magdalena Camou e Adela Pellegrino et al., Lemigrazione italiana e la formazione dellUruguay moderno. Inoltre la Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli pubblica la rivista semestrale ALTREITALIE. Rivista internazionale di studi sulle popolazioni di origine italiana nel mondo.

Quaderni della Fondazione


Volumi gi pubblicati:

Vicente Giancotti (a cura di), La bibliografia della letteratura italiana in America Latina. Alice Kelikian, Pierre Milza, Falk Pingel, Limmagine dellItalia nei manuali di storia negli Stati Uniti, in Francia e in Germania. Adelin Fiorato, Laura Lepschy, Hermann Neumeister et al., Linsegnamento della lingua italiana allestero. Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Canada, Stati Uniti, Argentina, Brasile e Australia. Francesco Silva, Marco Gambaro, Giovanni Cesare Bianco, Indagine sulleditoria. Il libro come bene economico e culturale. Mariano DAntonio (a cura di), Lavoro e disoccupazione nel Mezzogiorno. Maria Pia Bertolucci e Ivo Colozzi (a cura di), Il volontariato per i beni culturali in Italia. Alberto Bramanti e Lanfranco Senn, Sergio Alessandrini et al., La Padania, una regione italiana in Europa. Mahmoud Abdel-Fadil, Nazih Ayubi, Fathallah Oualalou, Abdelbaki Hermassi, Stato ed economia nel mondo arabo. Marcello Pacini, Klaus R. Kunzmann, J. Neill Marshall et al., La capitale reticolare. Il decentramento delle funzioni nazionali: unesperienza europea e una proposta per lItalia.

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