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SMARRIMENTI DEL SE’

Perché smarrimenti del sé. Nel corso del XX secolo, appena concluso, abbiamo potuto assistere a
due grandi conflitti mondiali, a totalitarismi, stermini di massa e una grande percentuale di morti
civili. La paura, sostanzialmente, è diventata l’emozione dominante della nostra esistenza. Lo
smarrimento è considerato dunque umano ed accettabile in una società come quella odierna: non
si tratta però solamente di condizione di malessere o patologia, ma anche di smarrimento come
spinta per l’autonomia e la meraviglia legata al nuovo. Il testo ha a che fare con la tematica della
perdita, della nostalgia, dei ricordi e del tempo impietoso.

CAPITOLO 1. SMARRIMENTO E SOFFERENZE DI IDENTITA’.

- Smarrimento e oblio. L’oblio è un ampio mantello scuro che copre sia ferite, che ricordi di gioia,
dunque da non connotare solamente dal punto di vista negativo. Non si tratta dell’opposto della
memoria, nonostante via sia interconnesso. La memoria, infatti, consiste nel prelevare dal vasto
archivio del passato cose necessarie per procedere oltre. Saper dimenticare è dunque una
competenza non meno importante del saper ricordare ed aiuta a elaborare una perdita
distaccandoci dal passato per trasformarlo in qualcosa d’altro. Accettare l’oblio non è affatto
semplice in quanto prevede la rinuncia ad esercitare il controllo totale sulla vita, l’accettazione di
un limite. Dobbiamo tenere a mente che non si tratta di cancellazioni, ma di occultamenti. E’
dunque una parte della memoria che mantiene nascondimenti permanenti di esprienze di vida,
affidando questo materiale a un ALTROVE.

L’oblio spaventa perché evoca l’esistenza di ombre con le quali non sappiamo più dialogare, in
quanto, nella società moderna, la malinconia, che è l’arte di dare voce a risonanze, ombre e ricordi,
viene respinta nella patologia depressiva. L’oblio non è solamente questo, è anche la necessaria
difesa che si instaura contro ciò che non riusciamo a integrare ed elaborare. L’oblio è inoltre un
segno potente del fatto che non siamo robot/cose/macchine. Non siamo padroni di noi stessi in
tutto e per tutto. L’oblio è connesso anche alla coscienza, che è resa possibile appunto tramite la
selezione di frammenti estrapolati dallo scorrere del tempo. Nonostante però l’oblio esista, ci
conviviamo tranquillamente nel quotidiano.

L’oblio aiuta la nascita della psicanalisi, che si fa coincidere con il 1900, anno di pubblicazione
dell’opera di Freud, “ L’interpretazione dei sogni “, secondo la quale i sogni stessi sono l’espressione
dell’oblio. La prova di ciò è il fatto che al risveglio ricordiamo poco o niente. La questione del sogno
ci fa rendere conto di quanto sia grande il territorio dell’oblio, in quanto ogni notte i sogni ci
visitano indipendentemente dalla nostra volontà. In questo senso possiamo dire che, sia sonno,
che naturalmente sogno, sono uno smarrimento di sé, che non è affatto patologico, ma fisiologico
e che aiuta il corpo umano nel riposo. In questo senso possiamo inoltre dire che l’insonnia sia
resistenza all’oblio, alla perdita di sé, al vuoto. Secondo Bion le allucinazioni sono elementi beta
inelaborati nel sogno.

Questa difesa attuata contro l’oblio ci viene anche dal mito di Melampo e delle vergini di Argo,
donne isteriche perché soffrono di reminescenze, che si sovrappongono al ricordo e si esprimono
attraverso il linguaggio muto del corpo. Nella corrispondenza tra Freud e Fliess troviamo alcune
teorie sulla memoria, come la sua molteplicità, oppure la relazione dei ricordi al presente, che ne
fa conseguire una diversa narrazione e interpretazione. Nel suo ultimo saggio, invece, Freud lascia
la speranza che ci sia un luogo all’interno della nostra mente, dove tutto ciò che viene oscurato
dall’oblio si conservi e che esista un modo per regredire e dissotterrare tutto ciò. (Dimostrano
questo suo pensiero le statuette che teneva allineate nello studio, che simboleggiavano proprio il
riemergere di ciò che era stato precedentemente sottratto alla luce). Per Freud la psiche è come la
città di Roma, caratterizzata da creazioni, distruzioni, evoluzioni. Il risultato non è la città presente e
neanche quella passata, è la somma di tutte le evoluzioni, creazioni e distruzioni. Ciò non accade
per Freud dal punto di vista biologico, in quanto le ossa dell’embrione non esistono più nell’adulto.

In tutto ciò dobbiamo ben definire cosa sono i ricordi: non documenti d’archivio, neanche
fotografie esatte della realtà che estraiamo dai recessi della memoria in maniera fredda e tecnica,
ma rappresentano l’esperienza soggettiva del passato. La memoria non esiste dunque come realtà,
ma è una funzione del qui e ora, che ricerca il tempo passato in una ricerca attiva, ossia legata al
presente. Dobbiamo tenere inoltre a mente che, oltre alla memoria esplicita, esiste anche la
memoria inconsapevole, implicita. Bisogna però ricordare che in tutto ciò la memoria non copre un
ruolo accurato, ma può distorcere la realtà.

- Smarrimento, formazione e ciclo di vita. Lo smarrimento è una condizione, a prima vita, di


eccezionalità, che fa riferimento all’errare e al confondersi. In ogni caso il termine si riferisce a una
condizione momentanea e transitoria. Compare anche in letteratura, come irrompere dell’inusuale
nella quotidianità e creare angoscia e paura: è il caso della selva oscura trovata nel mezzo del
cammin di nostra vita da Dante. Non smarrirsi mai è una condizione che porta solamente stabilità e
sicurezza, non spinge a esplorare situazioni nuove né ad osservare meglio. Lo smarrimento è una
condizione legata inoltre ad alcune fasi del ciclo di vita: per la donna può incombere nel passaggio
all’età fertile, nella gravidanza o nella menopausa. Il più significativo è però l’adolescenza: in questo
periodo è uno smarrimento causato dalla velocità delle trasformazioni, sia fisiche che psichiche. Gli
adolescenti mostrano smarrimento dibattendosi tra regressione all’età dei giochi infantili e
maggiore dipendenza dai genitori, oltre che tensione per il cambiamento. Possono assumere
anche comportamenti limite a carattere disadattivo e potrà aggiungere ai cambiamenti già visibili
altre trasformazioni: come tatuaggi, piercing.

Si avrà uno smarrimento simile a quello adolescenziale anche nel momento della vita in cui ci si
trova di fronte all’innamoramento. Nella fase iniziale ci si smarrisce infatti nell’altro e si lascia che
l’altro si smarrisca in noi. Si confondono le identità e il bisogno di vedere l’altra persona è talmente
alto che nel momento in cui lo si raggiunge si hanno tremito, impallidimento, si arrossisce, si sente
freddo, si suda e il cuore batte all’impazzata. Tutti i segni neurovegetativi vengono ritrovati
nell’Ultimo canto di Saffo, di Giacomo Leopardi (:D).

Nella gravidanza invece lo smarrimento è dato dal corpo che cambia, dalla postura che cambia,
dall’ospitare un’altra vita all’interno di sé e dal conseguente cambio delle percezioni, dal passare
dall’essere “figli di..” al “genitori di..”.

In generale qualsiasi rapporto con un altro essere vivente genera una perdita, in quanto tra i due
individui si crea una fusionalità, dunque una perdita dei propri confini. Si nota chiaramente nel
rapporto coi bambini piccoli, coi quali utilizziamo una voce in falsetto, spalanchiamo la bocca
quando il bambino sta per prendere il cucchiaio etc. Anche il “ci, ci, ci” con il quale ci rivolgiamo a
loro (seguito poi dal “cicci, ciccino, ciccina” con cui si chiamano a volte gli innamorati) rimanda
all’iniziale balbettare che esprime gioia. Dal punto di vista formativo si rischia che questa perdita
diventi annullamento, causando non pochi problemi ai soggetti coinvolti.
Anche il ruolo della madre può essere sottoposto a rischi di questo tipo: secondo Winnicott, infatti,
la madre adeguata è sufficientemente buona: non è perfetta, disponibile a tutto, anche
all’annullamento di sé in nome di un amore stereotipato con la simbiosi, ma una madre capace di
dosare la sua attenzione e di non trasformarla in controllo possessivo. Bettelheim estende questo
concetto di madre sufficientemente buona ad entrambe le figure genitoriali. Winnicott utilizza
questo concetto in contrapposizione alla propria maestra e analista, Melanie Klein, che aveva
utilizzato due categorie: madre buona e madre cattiva. La madre buona finisce per essere irreale,
perfetta, capace di distruggersi per il figlio e trasformarsi dunque in madre cattiva e rancorosa.
Tornando a Bettelheim, il genitore perfetto accetta la propria limitatezza e la possibilità dell’errore
senza ansia. La madre sufficientemente buona esprime anche le parti aggressive o il suo limite di
disponibilità, spinge il figlio a smarrirsi e gli permette di sperimentare la sua capacità di ritrovarsi e
di comprendere che viviamo in un ritmo incessante di smarrimento e ritrovamento, di disillusioni.
Lo smarrimento fa parte infatti dell’esistenza come motore necessario per la trasformazione. E’
diventato così basilare nel XX secolo perché è incrementata la possibilità di scegliere, la libertà dei
comportamenti, dunque anche la possibilità di sbagliare.

- Crisi della centralità del soggetto alle soglie del XX secolo e nuove incertezze. Questa crisi della
centralità del soggetto e dell’idea tradizionale di coscienza ha come portavoce Freud, con la teoria
dell’inconscio, anche se questa idea era già nell’aria prima delle sue pubblicazioni. E’ un concetto
molto innovativo, che scalza radicalmente le teorie filosofiche tradizionali in relazione al problema
della coscienza e del coscienzialismo. Secondo Freud i filosofi parlano di coscienza in modo
riduttivo ed astratto, anziché come lo “psichico reale”. Non si riferisce inoltre a tutto quanto risulta
inaccessibile, ma a ciò che non vogliamo lo sia. Utilizziamo dunque il meccanismo della rimozione
censurando affetti, fantasie, desideri e ricordi. E’ infine legato alla dimensione istintuale, dunque
corporeo. Lo stesso Freud ammette che l’idea di inconscio era già vagamente presente nelle opere
di Schopenhauer, il quale parla di una volontà inconscia. Per il filosofo l’inconscio non si identifica
con alcun oggetto e si presenta come è, un impulso misterioso, che si sostanzia di desiderio.
Purtroppo il desiderio è mancanza di qualcosa, dunque la vita dell’essere umano è condannata a
portare sofferenza. Entrambi gli studiosi riconoscono però una certa nobiltà alla ragione. La
sostanziale differenza tra il pensiero di Freud e Schop rispetto a Nietzsche si pone nella questione
dell’utilità: per Freud la psicoanalisi consiste nel portare a coscienza quanto più possibile per poter
direzionare e controllare il loro possibile portato distruttivo. Per Nietzsche invece non bisogna
portare alla coscienza l’inconscio, ma lasciare i segreti nell’Ade. Si rischia semmai che si trasformino
nei nostri demoni padroni e pretendano il nostro sangue. Con Nietzsche siamo di fronte alla
disfatta della coscienza. Non può, per Nietzsche, la coscienza ordinare l’inconscio, come accade
invece secondo Freud e Schopenhauer. Nonostante queste divergenze con Nietzsche, è proprio a
questo filosofo che Freud deve il termine che designa l’inconscio, o meglio, una parte del territorio
psichico inconscio, l’ES.

- La notte e il giorno, il sonno e la veglia, il sogno. La vita di un essere umano è scandita


dall’alternanza tra veglia e sonno ed è la luce del sole che evidenzia il confine dell’Io Pelle. Tutto il
contrario della condizione intrauterina, in cui il feto non subisce la discontinuità d’esistenza, non vi
sono vuoto, mancanza, attesa, sospensione, passato, nostalgia. Accade però che non possiamo
desiderare alcuna felicità non avendola mai provata. Nella condizione intrauterina si sperimenta
una fusionalità che, una volta nati, si mantiene se non fisicamente almeno metaforica. Durante il
corso dell’esistenza sperimentiamo di nuovo frammenti della fusionalità perduta: con gli altri esseri
umani, con la bellezza o con la natura, nonostante quest’ultima crei un sentimento ambiguo. E’
Leopardi ad esprime lo stato di fusione e angoscia che ci genera la natura, descrivendo nell’Infinito
interminati spazi e sovrumani silenzi, per i quali il cor si spaura e il pensiero si disfa nell’immensità.
Questo spiega il bisogno fisiologico di una ricerca di fusionalità, che deve essere ben regolata e non
cadere nell’ossessione. Il venir meno della centralità del soggetto si coniuga strettamente con la
riflessione del sogno: dato che la coscienza mostra ora tutta la propria impotenza, acquistano
particolare importanza le dimensioni altre, tese a esprimere l’inconscio e il sogno. Nel 1900 Freud
pubblica “L’interpretazione dei sogni”, in cui tratta anche dell’inconscio come motore dei sogni. Il
sogno è ambiguo, poiché da un certo punto di vista lascia che si esprima il desiderio o la passione
recondita, da un altro lo maschera e lo censura. Questo pensiero freudiano è condiviso anche da
Nietzsche, il quale considera i sogni l’appagamento illusorio di istanze istintuali rimaste inappagate.
E’ in quest’ottica che parliamo della fine della centralità della razionalità, grazie all’affermazione
delle teorie sull’inconscio e gli istinti.

- Lo smarrimento di fronte a sé: Alice e lo specchio. Il personaggio di Alice nel paese delle
meraviglie, oltre che essere favolistico, alberga in ognuno di noi. Rappresenta quella particolare età
transitoria che è l’adolescenza. Alice è assennatamente filosofa in quanto ragiona sulle esperienze
dando loro un senso ed è scienziata perché ipotizza e poi sperimenta. L’imprevisto la stimola, la
eccita e non ha paura di smarrirsi. Rappresenta l’alter ego e lo specchio rovesciato di Lewis Carrol
(il quale, tra le altre cose, era stato accusato di pedofilia). Il tipo di smarrimento proposto è
pertinente rispetto al testo. In “Attraverso lo specchio” le persone e le parole sono schegge mutanti
a ogni mossa di una qualsiasi pedina della grande e caleidoscopica scacchiera che è la realtà. Il
registro è quello dei sogni, dei giochi e della poesia ed è fatto di legami senza nessi logici, spaziali o
temporali. Inoltre le durate hanno valori soggettivi. La tematica implicita dello smarrimento di Alice
è quella del tempo, della perdita, della nostalgia, dei ricordi e della possibilità o meno di
recuperarli. Può capitarci, come ad Alice, mentre ci dedichiamo ad un’attività di completo relax
(concerti, libri, cinema, teatro) di ritrovare intatto il passato all’improvviso e senza averlo voluto
cercare. Infine troviamo il tema della paura e della capacità di tollerarla ed elaborarla, per arrivare
a ciò dobbiamo essere educati a comprendere tutti i punti di vista diversi dal proprio, capirne le
motivazioni, le origini e il senso.

CAPITOLO 2. TEMPO, OBLIO E SCRITTURA COME RISCATTO.

- Paura di perdersi. Come abbiamo detto il termine smarrimento è collegato per lo più a una
situazione indesiderabile di perdita delle coordinate spazio temporali. Capita di smarrirsi sia di
fronte a se stessi a causa di trasformazioni psicofisiche, che di fronte ad altri e alla loro diversità,
poiché queste rendono vive e palpitanti le nostre parti interne più segrete. In generale possiamo
dire che lo smarrimento ci incute paura come l’esperienza della regressione (degli adulti nei
confronti dei bambini) perché temiamo la possibilità del non ritorno. La regressione genera
angoscia perché ci costringe ad abbassare le difese consuete allentando momentaneamente le
linee di confine, che garantiscono la nostra sicurezza. E’ per questo che abbiamo paura delle
trasformazioni: questa paura è legata alla perdita, vorremmo, da un certo punto di vista, tornare
alla situazione prenatale: il feto infatti si trova in una condizione di pienezza e sicurezza, non
avverte alcuno stimolo angoscioso come la fame, la sete o il caldo. Questo ritmo è lo stesso
dell’essere cullato da piccolo o del muovere freneticamente la gamba in un momento di ansia. I
bambini autistici tentano di riprodurlo dondolandosi avanti e indietro (questo fenomeno si chiama
ROCKING). Il bambino successivamente conoscerà l’alternanza tra sicurezza e terrore in questa fase
della vita priva di modulazioni e sfumature: in questo senso sperimenta anche lo smarrimento
dell’esistenza, ma sono i ricordi a garantirci il senso di continuità d’esistenza. L’inevitabile
alternanza tra perdita e ritrovamento rende possibile strutturare la dialettica tra distanza e
vicinanza spazio temporale, tra fusionalità e ritrovamento di sé. Per alcuni autori questo ritmo di
alternanza e mancanza d’essere stimola la capacità di crearsi da sé la propria consolazione rispetto
all’esperienza della perdita e della mancanza. In questo è racchiuso il segreto della madre: una
madre buona, ma non totalmente, sufficientemente buona, che modula la propria disponibilità,
che non regala al figlio fusionalità permanente. In generale, oltre questo periodo di infanzia,
l’essere umano attraverso il gioco prima e la dimensione artistica poi, sperimenta la possibilità di
elaborare tutti i lutti e le perdite, può consolare l’ansia, che altrimenti si trasformerebbe in
angoscia. Nonostante questo bisogna che il bambino passi attraverso l’ansia e la paura per
formarsi, evitando che queste diventino malate. Si ha paura inoltre dello smarrimento perché ci
porta sofferenza anche dal punto di vista fisico, quando ad esempio in una relazione si soffre la
distanza relazionale. La capacità di attraversare il dolore della perdita per potersi affrancare
dall’aspetto di inesorabile distruzione che porta, rappresenta il discrimine tra normalità e
patologia. Per i soggetti affetti assume un valore traumatico ogni cambiamento e ogni transizione
tra una situazione e un’altra. I bambini autistici infatti soffrono anche il cambiamento di posizione
di un oggetto in una stanza o eventi di per sé insignificanti che interrompono il clima emotivo (il
passaggio di un aereo). In generale dovremmo essere capaci, in età adulta, a formare un rapporto
maturo, ad affrontare la solitudine in modo positivo e non come sinonimo di emarginazione. In un
rapporto maturo rimane anche il diritto di non voler essere del tutto capiti, il diritto-piacere di
nascondersi, esattamente quello che spinge i bambini a giocare a nascondino.

Infine la solitudine dovrebbe essere intesa anche come competenza, poiché non ci può essere
razionalità se non c’è capacità di essere soli, se c’è adesività. Per insegnare ad un bambino
l’autonomia bisogna sottoporlo anche all’esperienza della separazione, senza diventare genitori
adesivi, troppo ansiosi.

- Memoria e oblio: tempo, ricordi, nostalgia. Nell’immaginario collettivo la memoria è un


contenitore del nostro passato, una cassaforte che custodisce la nostra identità. Ad alcuni è stata
donata in misura maggiore o minore, può essere integra o danneggiata e, di solito, viene
contrapposta all’oblio, anziché resa come possibile dalla dialettica come selezione e vivificazione di
alcune esperienze passate. Ciò che è sicuro è che la perdita della memoria angoscia, perché
significherebbe una perdita di sé, dunque non avere una storia, non esistere.

Esistono diversi tipi di memoria:

1) MEMORIA DI LAVORO. Si tratta di una memoria che riguarda la capacità di ritenere e utilizzare
dati immediati come quelli necessari per risolvere un problema matematico.
2) MEMORIA NARRATIVA. Si tratta di una memoria che riguarda esperienze pregresse anche
lontane nel tempo e la capacità di evocarle.
3) MEMORIA RIFLESSIVA. Si tratta di una memoria legata alla capacità razionale di evocare
determinati ricordi e circostanze.
4) MEMORIA INVOLONTARIA. Si tratta di una memoria che si attiva all’improvviso e anche nostro
malgrado e ci catapulta nel passato rompendo le coordinate spazio temporali consuete. E’ legata
alle percezioni più arcaiche, quelle originate dai recettori di contatto (gusto, tatto e olfatto). E’ più
attendibile di quella riflessiva perché non abbiamo alcun interesse ad attivarla e non serve per
dimostrare qualcosa.
5) MEMORIA UDITIVA. Si tratta della memoria legata all’udito.
6) MEMORIA VISIVA. Altrimenti detta memoria fotografica, è la memoria che si occupa di registrare
i fatti legandosi alle immagini, ai fotogrammi.
7) MEMORIA VERBALE. Si tratta della memoria delle parole.
8) MEMORIA NUMERICA. Si tratta della memoria riguardo cifre.
9) MEMORIA SPAZIALE. Si tratta della memoria riguardante gli spazi.

Contrariamente a quanto si possa pensare, coloro che sono affetti da demenze senili non perdono
la memoria narrativa, bensì quella di lavoro.

L’oblio non è dunque l’opposto della memoria, ma ciò che permette alla memoria di esistere.
L’oblio non è espressione di mancanza, ma rappresenta una difesa resa necessaria dal disordine.
Per dare un senso e un ordine alla memoria dobbiamo selezionare, volontariamente o no,
immagini, odori e sensazioni. Anche la mitologia supporta questa idea positiva dell’oblio, come un
dono offerto agli esseri umani da Prometeo. Per Eschilo è “la speranza che non vede”, per Lurija è
una nebbia della memoria.

Una patologia è rappresentata dal caso dello mnemonista, che si presenta da Freud, ancora
giovane, chiedendo di aiutarlo e di studiare il funzionamento della sua memoria. Nonostante egli
non prenda appunti passa immediatamente tutti i test sulla memoria, ricorda catene di sequenze
molto lunghe ed traduce subito il linguaggio verbale e quello musicale in colori. Ha però un difetto:
resta ancorato al bisogno di concretezza che solo le immagini e i colori possono garantirgli: fa fatica
a comprendere metafore e più in generale il mondo astratto. Si tratta dunque di una disabilità
mentale, che ostacola l’esistenza. Per questo l’oblio è necessario.

Dal punto di vista contrario abbiamo invece la sindrome di Alzheimer, che esordisce con
l’alterazione della memoria recente rispetto alla quale si mantiene a lungo una certa
consapevolezza che si manifesta, a tratti, come una pena acuta, altre volte come un sottofondo
inquietante, che toglie senso. In questa fase di passaggio, quando ancora la perdita delle capacità è
sopportabile, il soggetto tenta di dissimularla invano, ritardando solo la diagnosi.

Negli anni 60 del XX secolo nasce la terapia della reminescenza: si stimola la memoria tramite i
ricordi evocati anche da oggetti, da foto, da libri o canzoni. Nelle demenze senili la memoria
remota tende a dilatarsi, mentre si restringe quella immediata e quella di lavoro.

Nella fase più avanzata della sindrome di Alzheimer viene compromessa anche la memoria
remota, le reminescenze sono ancora facili da evocare, ma si dimentica subito cosa si è mangiato a
pranzo/cena. Per un certo periodo si è pensato che la terapia della reminescenza, nonostante
tenesse alto il livello di autostima in un paziente, favorisse lo smarrimento, considerato da un
punto di vista negativo. Di recente si sono invece ripresi gli elementi positivi di questa terapia,
poiché attraverso le reminescenze la persona più riprendere in mano gli aspetti irrisolti del suo
passato, soprattutto i conflitti rimasti aperti, ed elaborarli. Può anche essere utilizzata in gruppo la
terapia, favorendo la socializzazione attraverso la condivisione delle esperienze. Può aiutare inoltre
i familiari, che, sentendosi inadeguati, inesistenti dal punto di vista del loro caro, aiutandolo a
ricostruire si inseriscono in una rete creativa e distendono ansie e paure, creando energia positiva,
favorevole al loro caro e a loro stessi.

- Memoria del sapere e memoria del sentire. La memoria deve essere selettiva anche per poter
redimere i conflitti tra quella corporea e arcaica. Durante il corso della nostra vita elaboriamo
anche una memoria del sapere. E’ possibile pensare l’arte come una specie di alternativa alla follia,
oppure il contrario. La differenza consiste nella capacità di modulare la propria collocazione nelle
diverse dimensioni di esistenza. Da quella intermedia e da quella artistica si può entrare e uscire a
piacimento, ma nella follia no. Un ragionamento analogo vale per la poesia nel suo rapporto con la
follia. La poesia è però un linguaggio metaforico e si tratta di metafore vive, soggettive. Nella follia
invece le metafore diventano idiosincratiche, cioè incomprensibili. La perdita attiene alla
trasformazione, dunque una difesa dal timore di subirla si basa sulla ricerca del sempre uguale, di
un ambiente uniforme che garantisca continuità. Ci si aggrappa alle cose e si vuole riprodurle
ugualmente, vorremmo riprodurre le persone, replicarle, renderle equivalenti a cose e tendiamo a
pietrificarle volgendo su di loro uno sguardo terribile come quello di Medusa. La narrazione, in
questo senso, può essere interpretata anche come una pratica di riproducibilità del reale e delle
esperienze che il tempo ci ha sottratto. Ricorda allora è ricostruire e reinterpretare per l’altro
attraverso la parola.

- Marcel Proust e la camera di boulevard Haussmann. Il percorso formativo che si snoda lungo
l’intero arco di vita può essere inteso anche come il progressivo acquisire la capacità di abitare il
tempo senza esserne travolti, mettendo in comunicazione dialettica passato e futuro. Al centro di
questo punto di vista si pone l’arte, motore e mezzo di formazione. Questo si può notare attraverso
la scrittura di Marcel Proust: in lui la scrittura è una metodologia di ricerca di conoscenza: può
fermare l’attimo dilatandolo all’infinito oppure lasciarlo scorrere senza tentare di afferrarlo, ossia
applicare il flusso di coscienza, introdotto da James e utilizzato poi da Joyce e da Virginia Woolf. La
scrittura di Proust non è spontanea, ma richiede lavoro di pazienza all’interno del quale troviamo
l’irrompere del passato, pensieri, futuro. Si tratta di una scrittura notturna, che non solo ricorda o
sottolinea ciò che avveniva di notte, ma racconta della dimensione notturna, ossia di quella che più
si avvicina all’illusione, al disfacimento di sé nelle cose, alla perdita delle certezze diurne e dei
propri confini. E’ semplice immaginarsi Proust chiuso nella sua casa di Boulevard Haussmann, nella
stanza foderata di sughero per non lasciar penetrare nessuna afferenza percettiva. La lotta contro il
tempo, per dissezionare e selezionare ogni percezione, diviene lotta contro la morte e narrare
sembra la salvezza dalla morte stessa. Si avvicina metaforicamente a Le mille e una notte,
identificandosi con Sherazade, che racconta di notte per non morire di giorno. Lo immaginiamo
dunque nella sua stanza chiuso e avvolto e protetto dalla notte, nel silenzio delle immagini e tra gli
odori che si fanno più intensi, quando ogni piccolo o sussurro o rumore diventa impercettibile. La
notte, momento in cui scrive, allude alla perdita e al lutto perché è il venire meno dell’illusione di
realtà che ci è data dalla visione di persone e di cose, in maniera non così diversa dalla morte se
non per la durata. La notte è una sorte di piccola morte illusoria. La notte allude alla nostalgia per il
familiare divenuto estraneo, allude all’oblio e alla possibilità del riscatto attraverso la narrazione.
Così, se il bacio della buonanotte segna la separazione, la narrazione segna la riparazione, il
ritrovarsi e il recupero.

Grazie a Proust ci accorgiamo che l’unità di tempo è definitivamente spezzata, esattamente come
per Virginia Woolf: la successione cronologica del tempo non può più costituire il contesto della
narrazione, ma si dissolve nella sua illusorietà. Proust si interrompe di continuo per seguire
percorsi diversi, sentieri nella grande strada del tempo. il romanzo ha dunque una struttura a
mosaico complessa, perché i diversi punti di vista sono affidati non solo a diversi personaggi, ma
anche a diverse dimensioni temporali di ogni personaggio. Proust si dedica così tanto al punto di
vista da cambiare anche registro linguistico a seconda del personaggio, rallentando o accelerando
la narrazione.

Nello Ulysses di Joyve abbiamo invece la contrapposizione tra lentezza dello scorrere del tempo
esteriore e ricorsività del flusso di coscienza nel quale gli attimi si dilatano e si sovrappongono. In
Joyce questa molteplicità dei punti di vista è espressa tramite una sola voce e la compresenza tra le
dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro. In Proust assistiamo invece
all’irrompere del passato nel presente, non più una compresenza, ma uno sgretolamento. Per
Proust esiste in ogni uomo una dimensione di permanenza rispetto alla quale lo scorrere del tempo
non ha alcun potere, teoria che si avvicina all’atemporalità di Freud, attribuita all’inconscio. Per
Proust il tempo è la cornice di esistenza che minaccia costantemente l’Io superficiale e tende ad
annullarlo. Il tempo perduto che ricerca Proust è sia interiore che esteriore. Proust tratta inoltre di
temi molto vicini alla psicoanalisi come la perdita, il lutto e la relativa elaborazione.

CAPITOLO 3. LO SMARRIMENTO DI FRONTE ALL’ALTRO: PERDITA E CREATIVITA’.

- Inquietudine, smarrimento e disincanto nel ‘900. Il disincanto è stato collegato da molti studiosi
a diverse materie: da alcuni al nichilismo, alla crisi del soggetto, all’io multiplo, alla condizione di
pluralismo delle fedi o delle culture, al fascino della tecnica. Sta di fatto che contiene in se stesso
una parte distruttiva e una costruttiva, in quest’ultimo caso da origine a un nichilismo costruttivo:
si coniuga con la perdita di certezze, sicurezze, attese, speranze, utopie, fiducia, oltre che a perdite
positive, come la rottura di vecchie catene. Il primo esempio che si possa fare della questione è la
crisi della famiglia, che si attua negli ultimi decenni perché viene sostituito al patto e al contratto
istituzionale dei rapporti familiari la scelta affettiva. La famiglia sembra tendere sempre più a
perdere il connotato di istituzione basata su un contratto: la separazione e il divorzio, ma anche
una situazione tra i coniugi fortemente tesa, legata a un conflitto che si presenta con l caratteri
della non-mediazione, procurano sofferenza e disagio a tutti i membri della famiglia. Nel bambino
si hanno sentimenti di angoscia legati alla paura di perdere i propri diritti e una situazione spazio
temporale stabile. I bambini tendono a scaricare su loro stessi la conflittualità genitoriale.
Bisognerebbe non coinvolgere i figli in ciò, perlomeno non nelle conflittualità distruttive, ma in
quelle costruttive. Il problema, una volta effettuata la separazione, non dovrebbe porsi, anzi. Ciò
che paradossalmente accade è che anche dopo la separazione questi conflitti continuato, per un
motivo o per l’altro e dal punto di vista sociale si passa all’affidamento: il figlio viene affidato al
genitore che gli è più vicino psicologicamente e che può garantirgli in maniera migliore un’esistenza
anche dal punto di vista economico. Nel XX secolo è sì subentrata una maggiore libertà, ma
collegata all’incremento della paura e dell’ansia, paura dell’ignoto e ansia per il ventaglio di
possibilità. Per questo e per la ricerca di veri rapporti famigliari, e non solo istituzionalmente, ma
dal punto di vista affettivo, la famiglia è oggi in crisi e il matrimonio è considerato la tomba
dell’amore.

Vivere nell’epoca del disincanto significa vivere nell’ambiguità e considerarla elemento chiave
della condizione di esistenza. Fa compiere un viaggio dentro di sé come fa la perdita di sé e lo
smarrimento, è un viaggio a ritroso tra passato e ricordi. Nonostante questo dobbiamo essere
capaci di affrontarlo e di non lasciarci abbattere, considerando che viviamo in un mondo ritmato da
opposti, come il giorno e la notte, la felicità e la tristezza.

L’identità sempre più incerta e multipla, soggetta a derive patologiche rende necessario un
percorso formativo testo a salvaguardarla o a recuperarla rifondandone il senso. Uno dei modi
possibile per compiere ciò è la scrittura, come autoterapia: si scrive per altri e per se stessi.
L’angoscia viene in questo modo colmata con una nuova sicurezza.
La malinconia pervade di sé tutte le produzioni culturali che precedono l’ingresso nel XX secolo. Ed
è proprio dalla perdita che la malinconia si genera, generando a sua volta creatività, che può
spingere ad azioni consolatorie o sostitutive di tipo artistico, tra cui la scrittura.

- Paura dell’alterità: identità e differenze. La tematica dell’identità e delle differenze è al centro


delle tematiche relazionali. La formazione avviene al’interno di una comunità di appartenenza o di
più comunità, ma questo non vuol dire che si debba identificarla con l’adesione conformativa alle
aspettative ambientali. La diversità spaventa perché viene vissuta, in genere come una disconferma
e la paura che ne discende può presentare diversi volti, molti dei quali nascosti. Si può avere paura
delle persone per diversità culturali, anagrafiche, di origine, di abitudini e mentalità. Si può avere
paura anche biologicamente dell’altro sesso o della persona che si ama. Oppure si può avere paura
di persone vicine ma con diversa salute fisica o psichica.

La tematica del conflitto può essere affrontata secondo diverse dimensioni, opposte e
complementari insieme a in particolare quella storico politica e quella formativa, legata ai
microcosmi nei quali la prima si traduce in pratiche contrastanti rispetto a ideali e valori professati
altrove. Attraversare il conflitto significa accogliere il dubbio critico e avere il coraggio di
interrogarsi. Grazie al femminismo ci possiamo rendere conto che il conflitto di genere attraversa il
conflitto di classe, individuando un conflitto tra eguali, tra compagni di strada. In questo modo
riusciamo a spiegare l’inevitabilità del conflitto e il suo necessario esistere per la crescita. Paura,
conflitto e diversità sono tematiche strettamente correlate: si teme la diversità esteriore e
interpersonale, ma soprattutto quella interiore. La paura è un elemento fisiologico dell’esistenza e
ha un volto utile, è necessaria per trasformarci in relazione all’adattamento all’ambiente, ma ne
possiene anche uno distruttivo che ostacola tale adattamento. La paura non deve mai essere
esagerata.

Il conflitto che più intimorisce nell’epoca delle grandi migrazioni è legato alla paura dell’alterità
culturale. Vedere l’altro come una figura in carne e ossa, come un volto: è questo l’obiettivo al
quale dovremmo tendere, questa la strada per contrastare l’emergere di nuovi razzismi. E’
attraverso i ricordi personali che possiamo immedesimarci nell’altro e comprendere la sua
differenza reperendo nel nostro passato un’esperienza in qualche modo analoga alla sua. La paura
dell’altro, specialmente di chi viene da altrove, è legata alla certezza identitaria. E? un sentimento
non consapevole e per questo si traduce a livello di superficie in timore di subire una sora di
sottrazione: di oggetti, lavoro, luoghi. Abbiamo paura della diversità perché, in fondo, la
identifichiamo con una disconferma di noi stessi e non riusciamo a coglierne gli aspetti di ricchezza,
a viverla come una risorsa formativa. Essendo però tutti gli esseri umani simili per certi aspetti e
diversi per altri, diventa una questione di volontà: alcuni individui si focalizzano sulle somiglianze
perché sono tipi relazionali, che cercano l’empatia, altri individui si focalizzano sulle diversità
perché cercano la difesa.

Educare alla relazione con l’altro diverso non può che realizzarsi in termini di prevenzione uscendo
da modalità comunicative che assomigliano a prediche moraleggianti e ponendosi come un’azione
processuale per tutti i soggetti coinvolti.

La paura dell’altro si verifica anche quando di fronte abbiamo qualcuno che non gode di benessere
psichico e abbiamo paura che questo ci contagi. Temiamo di essere risucchiati, fagocitati. Vogliamo
porre una distanza per evitare di diventare con il soggetto in questione, abbiamo paura.
Abbiamo infine paura della pazzia, nonostante sia riconosciuto che, in periodi di particolare
difficoltà, per una perdita o un lutto, questa si attivi in noi, anche se in maniera transitoria. Non
contiamo che alcuni momenti del ciclo di vita sono segnati da una pazzia fisiologica e anche che, in
qualche modo, la creatività e l’arte assomigliano alla follia. Il folle, in generale, mette sempre in
scena anche i fantasmi e i conflitti irrisolti di un’epoca.

- Mito, narrazione e scrittura come fattori di protezione rispetto alla perdita. La perdita fa parte
della nostra vita più di quanto riusciamo a immaginare: basti pensare che anche l’apprendimento
prevede la perdita di un equilibrio per introdurre informazioni che potrebbero cambiarci nel
profondo. Per fronteggiare la perdita, da sempre, si utilizzano due modalità: narrazione orale e
scritta, per lasciare, in ogni caso, tracce. Narrazione e scrittura escono fuori dalla dimensione della
necessità e ci lasciano addentrare in quella del possibile permettendoci anche di guardarci dal di
fuori, da una qualche distanza che ci lasci comprendere meglio noi stessi e il mondo. Narrazione e
scrittura si pongono inoltre come filtro emozionale, permettendo una dialettica tra dentro e fuori,
si pongono come stimoli rispetto all’apprendimento.

Vale lo stesso discorso per il mito, che può essere di due tipi. Il primo è il caso dei miti arcaici che in
qualche modo sono capaci di travalicare lo spazio e il tempo, il secondo è il caso dei miti come
modelli dell’agire, costruiti in fretta e utilizzati per incoraggiare azioni, ma che hanno come
sottofondo solo un bisogno di stabilità: come nel caso del mito della razza. Un esempio eclatante
della questione del secondo mito è quello del mito del progresso, oltre che del mito del consumo.
In generale i miti sono basati su un bisogno di sicurezza.

In generale la narrazione è diventata il mezzo adatto a farci capire simbolicamente una realtà
difficile da accettare ed elaborare. Si lega allo smarrimento perché per generare conoscenza
richiedere proprio la sospensione che vi si accompagna. Proprio attraverso il mito possiamo
contattare l’indicibile e l’inconfessabile. Non esprime simbolicamente solo gli aspetti difficile
dell’esistenza, ma anche quelli gioiosi, i sentimenti positivi.

Esistono miti che alludono al percorso formativo e miti che alludono all’origine.
1) I MITI LEGATI ALL’ORIGINE sono legati alla condizione indicata con l’espressione “indifferenziato
originario”, una sorta di terra di nessuno. Si tratta dell’esperienze di morti e resurrezioni simboliche
che modificano radicalmente il soggetto. Questo indifferenziato ci fa paura ed è a questo che
alludono le tante figure divoranti e gigantesche di miti, fiabe e leggende.
2) I MITI LEGATI AL PERCORSO FORMATIVO sono legati appunto al percorso formativo: esempi di
questi miti sono quelli legati al regressum ad uterum, ossia la regressione a prima della nascita, le
discese negli inferi, il possibile raggiungimento dell’immortalità corporale, oppure i misteri.
3) I MITI CHE ALLUDONO AL PERCORSO DI VITA FACENDO RIFERIMENTO ALLA REGRESSIONE. Si
tratta di miti come il viaggio di Ulisse, in cui conta il percorso e non il fine o la meta, né che la si
raggiunga o meno. Il processo di regressione fino al farsi simbolicamente “nessuno” è alla base
della capacità empatica, l’unica che permette di contattare l’altro dal di dentro.

Il mito può essere usato ancora oggi in ambito terapeutico in quanto capace di esprimere in
modalità narrativa qualcosa che è difficile o impossibile comunicare direttamente. E’ un aspetto
essenziale, anche secondo Freud, che ne fece uso ad esempio con quello di Edipo, nella storia della
psicanalisi. E’ attraverso il mito, inteso come elemento narrativo vivo, che, secondo Freud,
possiamo aggirare la censura che l’Io mette in atto nei confronti dei contenuti inconsci.
Anche Bion sostiene l’importanza del mito nella psicoanalisi, ma propone una vera e propria
rottura: il percorso proposto prende avvio dall’inconscio per arrivare a una visione diversa del
conscio. Il mito diventa una sorta di mappa con la quale monitorare il viaggio inteso come
metafora della vita. Non a caso Omero è cieco, non vede le cose del mondo, ma considera passato,
presente o futuro compresenti.

Il tipo di narrazione che prevede il presentarsi al mondo coerenziando frammenti di ricordo in


un’unica storia o a se stessi tramite il flusso ininterrotto di coscienza, corrisponde a quanto William
James aveva pensato e a quanto Virginia Woolf ha poi fatto nella sua produzione letteraria (La
signora Dalloway, Le onde) e allo stesso modo James Joyce con lo Ulysses.

Quasi sempre nel mito è presente il tema dell’ingresso e dell’iniziazione: i passaggi di


trasformazione psicofisica segnano i momenti più complessi del ciclo di vita. Per questo si utilizza
l’immagine del viaggio, con una partenza, delle difficoltà e pericoli da attraversare e una
metamorfosi o la scoperta della propria identità. Il viaggio comprende in sé una spinta in avanti,
verso un nuovo approdo, un luogo non ancora visitato, dunque l’abbandono di quelli noti e un
conseguente smarrimento. Ci si sposta fisicamente nello spazio, ma metaforicamente nel tempo.
Per questo il mito è importante per lo smarrimento, perché, prima ancora, ce l’hanno rispetto al
tempo, all’ansia e alla paura della perdita, reale o immaginaria.

Troviamo inoltre il tema del rituale, che può essere accompagnato da paura e ansia in termini di
adattamento, ma c’è un percorso che ci aiuta a combattere questa paura, che diventa il problema
fondamentale. La paura generalmente è di tipo regressivo in questi casi: si ha paura di non tornare
più indietro e si trova per lo più negli adulti. Ma regredire è necessario, anche quando si compie un
viaggio al proprio interno. Bisogna prendere coscienza del fatto che noi siamo tutti i nostri Io
passati fusi insieme e che questi Io passati vivano dentro di noi.

Da un punto di vista psicologico la scrittura incoraggia l’illusione positiva di poter lasciare un segno
e che i propri pensieri sopravvivano. Attraverso la narrazione, dimostrano alcuni studi,
organizziamo mentalmente una nostra specifica biografia. Possediamo inoltre, tutti quanti,
un’antica propensione narrativa legata al bisogno di conoscere e alla necessità di significare il
mondo per abitarlo. Lo scrittore nel creare una storia seleziona alcuni aspetti e li lega nella
costruzione della trama, esattamente come il terapeuta riscrive la storia del paziente insieme a lui.
Non è la condivisione che in fondo ci interessa, ma il significato, il senso. Vogliamo credere che sia
servito a qualcosa aver amato chi non amiamo più o avere odiato chi ora ci è indifferente. NOI
SIAMO CIO’ CHE RACCONTIAMO DI NOI e lo smarrimento senza ritorno è smarrimento della trama
della nostra biografia o del suo senso.

In definitiva si può scrivere per curare le proprie ferite, per lasciare tracce durature, per nostalgia di
qualche gioia provata, per ricreare, per la sensazione di pienezza, per lamento, per dare uno
sguardo profondo e complesso sul mondo. Si scrive di sé per attraversare il vuoto senza negarlo,
per afferrare noi stessi e la nostra storia e non essere fatti prigionieri di quella scritta da altri. Si
scrive di sé contro il tempo, per salvare dall’oblio ricordi che si rarefanno dolorosamente, volti,
voci, profumi. Si scrive di sé perché la vita si rifranga come l’onda sullo scoglio, in moto continuo,
che assomiglia a quello del cullare e sia possibile rendere più sfumato il dolore e più lieve il fardello
delle perdite.

CAPITOLO 4. LA SCRITTURA DI SE’ COME FATTORE DI PROTEZIONE E CURA: VIRGINIA WOOLF.


- La scrittura, il mito e l’illusione. Di fronte alla perdita e alla dialettica vuoto-pieno, illusione-
disillusione, l’uomo può reagire tramite la scritta come lamentazione. Soprattutto nella dimensione
autobiografica troviamo spesso la malinconia e la nostalgia, come dolore del passato. E’ per questo
che la scrittura rappresenta un appiglio al quale tenersi: per colmare quella dialettica illusione-
disillusione del XX secolo. Si tratta di una dialettica nata sia per la centralità dell’identità fragile, sia
per la scissione tra depressione e malinconia, che ha portato ad una socializzazione forzata, più
apparente che sostanziale. Scrittura e narrazione possono dunque essere letti come significativi
fattori di protezione, cura e recupero. Ci permettono di vedere noi stessi dal di fuori, con occhi
estranei, per poi riconoscerci di nuovo.

Anche la letteratura assolve una funzione analoga e lo testimonia la psicoanalisi con Freud: tutta la
sua produzione è densa di riferimenti all’arte e alla letteratura, in primis “L’interpretazione dei
sogni”, in cui afferma che lo psichico è una drammatizzazione figurativa e immaginifica del reale. Il
registro della narrazione di sé è dato da legami analogici privi di nessi di natura spaziale o
temporale nel quale le dimensioni hanno ragioni affettive e non geometriche mentre le durate
hanno valori soggettivi. E’ un registro analogo a quello dei sogni, dei giochi e della follia, della
poesia etc. L’illusione psichica legata alla scrittura è quella di poter lasciare tracce di sé, orme
d’esistenza capaci di sopravvivere al limite fisico della propria vita. Ricordiamo che per le donne
isteriche nel periodo in cui la psicoanalisi nasce, la cura è la narrazione, non solo ad opera della
paziente, ma anche dello psicoanalista, che prende appunti, scrive e riscrive.

- Virginia Woolf: il rarefarsi del soggetto. Un esempio di scrittura in relazione alla follia può essere
quello di Virginia Woolf, che insieme a Joyce, ha rivoluzionato il modo di scrivere. Nel 1922
vengono pubblicati infatti lo Ulysses e La stanza di Jacob, un testo che segna una svolta, in quanto il
soggetto non è più il personaggio, Jacob, in questo caso, ma la sua stanza. Quando Jacob è assente
la stanza prende vita, parla attraverso il silenzio di parole, si racconta al lettore tramite i rumori o i
movimenti. Di Jacob non sappiamo nulla di più di quello che riguarda la sua stanza e il lettore,
insieme al narratore, deduce, fa ipotesi, dubita, teme, crede che qualcosa stia accadendo, ma non
ha mai certezze. Il narratore è infinitamente distante dal protagonista e ci descrive la stanza vuota
di lui che proprio e solo se vuota di lui può essere penetrata e raccontata. Il narratore spia e più
che chiarire e illuminare, ci mette di fronte ai propri dubbi e assenza di certezze.

E’ colmo, il libro, di tratti descrittivi e immagini fugaci e impressionistiche. Il tempo si frammenta,


non è più lineare e lascia che il presente e il passato si esprimano nella simultaneità del senso.
Protagoniste sono le onde che si rifrangono sugli scogli, le masse compatte degli oggetti, delle
cose, delle costruzioni, il British Museum e la cattedrale di S. Paul. Vengono evocati
volontariamente ricordi, emozioni e affetti e non si tratta più di un semplice monologo interiore
dello scrittore, ma è qualcosa che riguarda la psiche e il suo fluire, mentre futuro e passato
scorrono senza fine l’uno nell’altro e non esiste più il presente.

Lo stile ricalca molto il concetto del flusso di coscienza proposto da James. Un nuovo elemento
inoltre viene introdotto, l’epifania, un momento rapido e improvviso a connotazione fortemente
emozionale (momenti d’essere), nei quali i personaggi sono in grado di rompere con il quotidiano e
spingersi nella dimensione interiore e scorgere una nuova realtà, diversa da quella che può essere
colta con la sola vita.

Secondo la scrittrice, infine, l’unico appiglio contro il tempo che rapisce le esperienze è la cultura,
per salvarsi dalla frammentazione e dalla nullità. Lo conferma anche la stanza di Jacob, in quanto
piena di libri. In particolare la cultura greca è ancora di salvezza, un topo ricorrente nella Woolf. Per
la Woolf la cultura greca è affascinante perché ci è pervenuta solamente in parte, incompleta. I
personaggio della antica Greca è come se fossero prototipi dell’essere umano. Si aggrappa alla
solidità del passato del quale conserviamo solo frammenti. In questa metafora riconosciamo
qualcosa di simile a quanto lo stesso Freud provava quando pensava se stesso come archeologo
della mente e per questo amava conservare i suoi reperti archeologici, come le statuette. L’analista,
come archeologo della psiche, scava nelle sue profondità alla ricerca di tesori perduti.

- Virginia Woolf: la scrittura come ancora di salvezza. Virginia Woolf costituisce un esempio di
intreccio inquietante tra depressione, malinconia e follia vera e propria. La sua altalenante pazzia si
esprime per opposizioni e iperboli nell’impossibilità di modulare il trascorrere dei soliloqui, risate
stridule, iperattività maniacale dell’anoressia, mutacismo e interzia dell’esperienza stuporosa. Nei
periodi invece di benessere psichico emergono invece la sua intelligenza, l’ironia e la spinta
creativa. Solo nella scrittura trova quella che Winnicott avrebbe definito LUOGO DI PACE. Ogni
tipologia di scrittura le è congeniale e praticata quotidianamente, utilizzata come scrittura
autobiografica. Sono importanti il FLUSSO DI COSCIENZA, L’ATEMPORALITA’ E LA MANCANZA DI UN
PUNTO DI VISTA UNICO.

Virginia Woolf ha vissuto come sospesa tra due abissi, quelli delle due guerre mondiali e
dell’innominabile tenebra della distruzione che fa cedere senso e certezze. Muore suicidandosi ed
è considerato un suicidio da angoscia di guerra poiché furono tanti i letterati e gli artisti che in
quegli anni si tolsero la vita. E’ rivoluzionaria in letteratura non solo per il rovesciamento della
soggettività del narrare, come nella Stanza di Jacob, ma per una particolare accezione del rapporto
tra realtà psichica e narrazione, simile a quella di Joyce.

Virginia Woolf costituisce un esempio di intreccio complesso tra depressione, malinconia e follia.
Questo è caratteristico di molti artisti, folli e fragili. La stessa Virginia sostiene che esista una
tristezza sana e inevitabile, necessaria non solo per trasformarsi, ma anche per elaborare le
perdite. Ammette che ci vuole coraggio per affacciarsi a precipizi perché se non lo facessimo mai
certamente non saremmo mai depressi, magari appassiti.

Oltre ai romanzi e ai racconti scrive ben 26 quaderni di diario che vanno dal 1915 fino al 1941
(morte). Scrive inoltre volumi di saggi e, da tutta questa produzione, può venire fuori una doppia
immagine della scrittrice. Esiste una Virginia triste, depressa, malinconica e timida fino alla fobia
sociale, autolesionista e preda di tensioni suicidarie. Esiste poi anche la Virginia allegra, ironica,
intelligente e scanzonata, creativa e culturalmente produttiva. La sua pazzia forse ha davvero
origine uin questa duplicità, che significa probabilmente incapacità di modulare il bene e il male, la
forza e la fragilità. Fin da adolescente si sente ostacolata perché tenuta a studiare in casa come le
sorelle, mentre i fratelli possono frequentare l’università. A causa delle ingiustizie di genere
spedisce molte volte manoscritti a case editrici e si vede rifiutata: il marito decide dunque di aprire
una casa editrice, l’Hogart Press, che pubblica anche Freud ed Elliot.

E’ contraddittoria e ambivalente, appare forte e fragile, determinata, libera e autonoma, ma


bisognosa di essere accudita nei periodi di malessere psichico. Alterna la predilezione per le case di
Londra alla mania di scoprire, comprare e ristrutturare i cottage di campagna. Ama la città
brulicante e rumorosa e con la stessa intensità ama la quiete, la lentezza e la vaghezza. Si mostra
moderna nel vestire e nell’arredare, ma allo stesso tempo appare ancorata al passato, perché
solido e radicato. Proprio accanto al British vorrà la sua casa londinese, il British è luogo di custodia
di una cultura e di una lingua, il greco antico, dalla quale è affascinata. Prenderà poi lezioni di greco
antico da un istruttore privato. Ci parla di questo suo amore per il greco antico in un’opera: del non
sapere il greco. Infine possiamo dire che dentro di sé non riesca a conciliare maschie e femminile.
Le donne esercitano su di lei fascino ed è convinta che siano più interessanti e più complesse degli
uomini.

Virginia mostra una certa consapevolezza rispetto alla propria fragilità psichica e ne va fiera: è una
prova di salute mentale, ma può essere vista anche come bella indifferenza, cioè quell’attitudine
distaccata e fredda, secondo Charcot, dei gravi casi di isteria. Si cimenta nel tentativo di definire la
patologia come il male che le impedisce di vivere, un bombardamento sensoriale. Trasmette
questa pazzia anche in alcuni personaggi, come Septimus, l’alter ego presente in La signora
Dalloway, che si suiciderà gettandosi dalla finestra per sfuggire al manicomio. Parla infine della
depressione, della malinconia e della tristezza, dicendo che se non fossimo depressi, saremmo
appassiti, vecchi e rassegnati.

La prima crisi di Virginia si ha a solo 13 anni, dopo la morte della madre, e un’altra dopo la morte
del padre. La più grave accade dopo la morte della sorellastra Stella. Entra in questa dimensione
della pazzia non solo dopo una perdita, ma anche al termine di un nuovo libro, nella fase di attesa
della critica delle case editrici. Ha una malattia fisica di poco conto, come l’influenza, che innesta
una dinamica di disinteresse per il cibo, indebolimento fisico, insonnia e allucinazioni. Atti violenti,
aggressivi e distruttivi, idee persecutorie, maniacalità eccitata, soliloqui egocentrici. Bizzarrie, fobia
per una mensola, abitudine di sputare nei piatti. Infine, le urla. Sente voci, ha allucinazioni,
accumula tentativi di suicidio dalla finestra o di annegamento. Il suicidio è preceduto da un annoi
di paranoie dolorose e proiezioni inconsapevoli e incontrollabili. E’ stata catalogata con una
patologia, NEVRASTENIA. Il medico le impedisce di scrivere e le prescrive riposo e nutrimento a
base di burro e latte, che rimanda al gavage delle pazienti isteriche. Per farla stare tranquilla viene
portata via contro il suo parere da Londra e rinchiusa in campagna.

In definitiva la scrittura rappresenta per Virginia un tentativo di recupero di una propria unità, di
armonia tra le due identità. Nella sua produzione abbiamo uno spazio estraniato e surreale, nel
quale gli oggetti rubano il posto alle persone. Lo spazio dà maggiore stabilità rispetto al tempo e si
presenta come cornice di solidità. La scrittura la aiuta ad attraversare i propri luoghi d’oscurità.
Racconta ciò che sente e crea una diversa vita quando non riesce del tutto a sentirsi viva nella
parte che le è stata assegnata.

CAPITOLO 5. LO SMARRIMENTO COME CONQUISTA EDUCATIVA.

- Smarrirsi nell’isola che non c’è: il gioco, l’esperienza artistica e la cultura. Come abbiamo già
detto lo smarrimento non è sintomo di patologia, ma una condizione normale e necessari, che
rende possibile la trasformazione. Nel caso in cui sia considerato come positivo allude ad un
viaggio che si compie all’interno di se stessi. Lo smarrimento è la base di partenza del viaggio di
introspezione, è legato alla scoperta e al nuovo, ai ricordi, al passato. Ni negativo rappresenta
invece le sofferenze di identità e le paure legate alla fragilità. E’ dunque ambivalente. La sola
possibilità di smarrirci nel viaggio introspettivo verso la nostra vita passata ci sgomenta, perché
mette in discussione delle certezze, riapre ferite e desideri insoddisfatti. Interagire con un bambino
porta a questo ed è per questo motivo che ce li immaginiamo deboli e indifesi. Ci si può smarrire
dunque nel tentativo di contattare l’altro e nel pretendere di conoscerlo. Ci confrontiamo con i
nostri interlocutori come se potessero fornirci un’immagine certa di sé, mentre non sono e non
siamo che il prodotto di reciproche proiezioni. Ne deriva dunque che è necessaria umiltà quando ci
proponiamo di conoscere l’altro e può spaventarci perché ci fa capire quanto ampio possa essere il
margine di errore. Lo smarrimento riguarda anche le esperienze culturali più significative e in
particolare il nostro rapporto con l’arte, la musica, il teatro o il cinema, oltre, ovviamente ai
rapporti con altri esseri umani. L’arte in generale è considerata come l’equivalente adulto del gioco
di finzione. Per Winnicott esiste infatti una continuità di senso tra l’attività ludica dei bambini e il
nostro avvolgerci di cultura da adulti. Sia nel gioco infantile che in quello degli adulti (attività
culturale) viene utilizzato il registro analogico basato su nessi soggettivi e sovvertite le coordinate
spazio temporali che si colorano di affettività ed emozioni. Si pongono entrambe come ponte tra
mondo interno e mondo esterno ed aiutano entrambe ad adattarsi alle regole di convivenza che
disciplinano i rapporti, ma anche a contattare la propria dimensione interna elaborando allo stesso
tempo la paura della cattiveria altrui e quella della propria. Attraverso queste attività possiamo
interiorizzare, stabilizzare e ordinare le esperienze.

- Alle origini del desiderio di lasciare tracce di sé: l’attività grafica nei primi anni di vita. La
scrittura si origina dal desiderio di lasciare tracce di sé: questo viene dimostrato anche dalle
esperienze grafiche del bambino, che già da piccolo sente il bisogno di disegnare e colorare. Fin dal
suo sorgere, tale attività è dipendente cognitivo generale, dall’intenzionalità comunicativa e dalla
disponibilità a raccontarsi. Disegnare è un’azione dai molti aspetti e significati, ma è un modo per
lasciare una traccia di sé. Generalmente si tende a considerare l’attività grafica del bambino dal
momento in cui appare possibile decifrare le rappresentazioni, quindi non prima del terzo anno di
vita. I disegni relativi al secondo anno di vita saranno considerati solo scarabocchi. Quello risalenti
invece al primo anno di vita sono solamente tracce colorate. Questa ultima attività grafica è legata
alla dimensione cinetica e consiste, perlomeno in questa fase, in uno sfogo motorio. Non vi sono
infatti forme particolari, ma segni e cromatismi casuali. Successivamente acquisisce la capacitò di
staccare la penna dal foglio, cose che si sviluppano parallelamente alle capacità motorie. E’ simile
alla produzione verbale nella fase in cui vede i primi gorgheggi. Successivamente abbiamo la
conquista della presa a pinza, ossia della capacità di impugnare lo strumento grafico opponendo il
pollice all’indice e al medio tenuti vicini. Il disegno si differenzia ora e si articola. Si procede con la
ricerca dell’emulazione della scrittura degli adulti e ci se ne accorge quando compaiono sul foglio
piccoli segni distanziati e allineati a imitazione di quelli alfanumerici.

Il disegno del bambino è importante infine perché ci dà una rappresentazione della realtà secondo
il suo occhio, il suo punto di vista, non ci dà una rappresentazione oggettiva e fotografica. Possono
anche emergere omissioni, reazioni difensive al conflitto, per creare una realtà meno paurosa e più
addomesticabile. Possono mancare gli occhi, in quanto osservano e spiano, la bocca e i denti, in
quanto sono simboli di aggressività mordace e fagocitante, la mano, che può ritirarsi e colpire
crudelmente la carne. Anche la scrittura e la narrazione funzionano in questo modo: per omissioni
e ricostruzioni che tendono ad affidarsi all’illusione.

Si tratta di modi (disegno, scrittura, narrazione) di difesa dallo smarrimento, per questo bisogna
essere molto cauti e attenti nel valutare prodotti grafici dei bambini piccoli.

- Adulti che giocano. Se dal punto di vista infantile abbiamo il gioco e l’attività grafica come
strumento di difesa, dal punto di vista degli adulti abbiamo la cultura come fattore di protezione.
Cinema, teatro, libri e musica ci permettono di uscire da noi stessi, dalla nostra storia e dal nostro
corpo e di immedesimarci in un altro. E’ uno smarrimento benefico. Con il teatro si abbandonano i
confini spazio temporali e, anche grazie alle maschere, ci si immerge in una vicenda esterna. Lo
spettatore a teatro, apparentemente passivo, intraprende un vero e proprio viaggio di
trasformazione: il teatro è metafora della vita e vita stessa, proprio mentre la sostituisce. Con
l’identificarsi in una storia che altri hanno immaginato ed altri ancora mettono in scena,
permettiamo che emergano dinamiche e processi molto profondi e nascosti.

Creare una realtà fatta di illusione, attraverso una situazione inventata da altri, permette percorsi
educativi che diversamente non sarebbero praticabili; in questo modo possiamo infatti servirci di
modalità indirette di conoscenza e ciò ci spaventa meno. In questo confluiscono diversi linguaggi:
quello narrativo delle voci, quello corporeo e cinetico e quello cromatico. E’ questo l’aspetto
rilevante: il dialogo tra diversi linguaggi senza la pretesa di ricomporli riducendoli a coerenza.

La musica è poi un linguaggio molto particolare perché possiamo definirlo come settoriale o anche
trasversale, come arcaico e profondo, come evoluto e raffinato. Siamo immersi in un universo
prevalentemente atipico e sonoro. La nostra dichiarazione di esistenza al mondo è infatti di tipo
sonoro, sollecitata dagli adulti che ci aiutano a nascere. Il grido, il vagito che si associa all’inizio
della respirazione annuncia che ci siano.

Con il teatro e la letteratura il gioco di finzione ha in comune il poter assumere una valenza
narrativo-catartica. Sono attività paragonabili a quella ludica per i bambini, capaci di consolare, di
riempire il vuoto della separazione.

Lo schermo e il palcoscenico sono lo scenario di una serie di proiezioni, di sentimenti e di emozioni


da parte dello spettatore invitato e aiutato dal buio che avvolge la platea ad allentare le difese
razionali e lasciarsi andare.

Si tratta di dispositivi formativi poiché generando una sospensione della realtà o dell’attenzione
razionale rispetto alla realtà lasciano affiorare contenuti inconsci e permettono di tollerarli come
veri. Si realizza, allora, una sorta di identificazione che genera mimesi intesa come atto di
soggettivazione. Si tratta di qualcosa di diverso dalla semplice imitazione che volendo ingannare,
sostituirsi alla realtà anziché ricrearla, richiede estreme accuratezze e precisione. La mimesi,
invece, si basa sulla metafora, sulla riproduzione soggettiva del significato ed è perciò
approssimativa.

- Tra pedagogia e psicoanalisi: il valore formativo dello smarrimento. La psicoanalisi la si può


considerare secondo tre dimensioni: quella ermeneutica, perché è un potente strumento di
interpretazione dei comportamenti umani e anche del mondo interno e del suo divenire, quella
meta psicologica, perché è una disciplina che studia la struttura della psiche e quella terapeutica,
perché studia tipologie di cure. Grazie agli autori postfreudiani possiamo parlare di una psicoanalisi
del sé, ossia dell’analisi del soggetto non come singolo, ma come inserito in una rete di relazioni. E’
grazie alle riflessioni della psicoanalisi più recente che è stato possibile definire una concezione
meno circoscritta dell’educazione, nell’ottica del lifelong learning. Grazie a queste considerazioni ci
si muove in un continuo andirivieni di movimenti psichici in avanti e all’indietro. Certamente l’idea
di fasi che si attraversano in un percorso in avanti, verso una meta, dona sicurezza, perché si fonda
proprio sul non lasciare spazio allo smarrimento. Il fatto che lo smarrimento sia necessario per la
trasformazione, la crescita e la creatività infligge una ferita all’idea dello sviluppo articolato in fasi
gerarchicamente ordinate. Al concetto di stadio, ormai obsoleto, possiamo sostituire il concetto di
“posizione psichica”. La regressione diventa quindi una modalità importante di conoscenza di sé e
degli altri. E’ infatti questo movimento che permette il realizzarsi della conoscenza empatica
dell’altro, che si consegue per analogia rispetto a esperienze consimili alle sue reperite nel nostro
passato.

- Smarrimento e solitudine: una lettura in positivo. Nonostante l’accezione con cui si giudica
mediamente il termine solitudine, questa è in realtà una condizione ambivalente, complessa. Ha
anche una connotazione positiva, in quanto in solitudine possiamo ripensare, ricomporre,
progettare e desiderare. Ma nell’epoca della socializzazione è vita in negativo: essere soli significa
essere insignificanti, senza valore e fuori dal coro. Per questo ci creiamo compagnie che non
desideriamo pur di non essere considerati emarginati, ci omologhiamo perché temiamo il conflitto
tra punti di vita diversi e dunque lo ignoriamo, lo neghiamo. Negare il conflitto si lega alla
negazione della differenza, cerchiamo di dimostrarci più forti, essendo in realtà ancora più deboli di
quanto non vogliamo mostrare. La capacità di essere soli è strettamente legata alla consapevolezza
e all’accettazione della distanza psicofisica che ci separa gli uni dagli altri e certo per tollerare e
attraversare tale distanza bisogna aver sperimentato prima una sicurezza di abse. Non bisogna
trovarsi in situazioni in cui la relazione è basata sulla vicinanza fisica come vicinanza morale. La
solitudine è una condizione che desta sospetto e diffidenza eppure serve perché possiamo lasciare
ali alla mente e legare i pensieri con gli affetti. E’ in solitudine che nasce il pensiero. Dal punto di
vista educativo occorrerebbe considerare una competenza importante quella legata alla solitudine
e insegnarla ai bambini fin dalla più tenera età.

- Smarrirsi nella relazione: i compiti della pedagogia. La formazione ci coinvolge nella nostra
interezza, mostrandoci due volti, entrambi legati allo stesso filo: assimilazione e accomodamento.
Ogni essere umano dovrebbe tendere verso l’equilibrio tra questi due poli, mentre la patologia
compare esattamente quando tende verso l’uno o latro polo in maniera evidente e abbiamo
iperassimilazione o iperaccomodamento. Anche Winnicott distingue tra Vero Sé, definito
dall’interno, e Falso Sé, definito dall’esterno. Per un giusto apprendimento è necessario il
confronto tra soggetti diversi. In questo regno delle separatezze che fa da cornice alla formazione e
all’apprendimento si cerca rassicurazione frammentando ulteriormente la realtà anziche costruire
legami complessi tra i suoi aspetti. Il determinismo rassicura, deresponsabilizza. E’ la sicurezza di
una prigione metaforica che per molti è preferibile all’angoscia della libertà. Ci liberiamo in tutti
questi modi della necessità di attraversare il vuoto, la mancanza, il non esserci più di qualcosa,
senza pensare che l’esperienza della regressione intesa come viaggio introspettivo nel passato è
necessaria. Questo bisogno però mette in crisi la gerarchia stadiale dello sviluppo: a questa
gerarchia possiamo sostituire infatti le posizioni psichiche. Lo smarrimento è l’inevitabile
esperienza che si situa nel crinale tra le epoche delle quali non serbiamo tracce mnestiche
consapevoli e quelle che di rendono possibile attivare il ricordo e ricostruire un filo rosso che
colleghi i frammenti della storia. La relazionalità non è una semplice cornice della formazione o
uno sfondo, ma è la base sulla quale si realizza.

- Lo smarrimento, il vuoto e la reverie. La trasformazione spaventa perché porta con sé


l’esperienza dello smarrimento. L’attività di reverie è forse la più importante tra quelle esercitate
dalla madre in relazione al formarsi della vita psichica del figlio. La madre trasforma le sensazioni in
elaborate in pensieri al posto suo e cos’ì facendo le rende comunicabili. Il pensiero, dunque, la
capacità di pensare, nasce dall’incontro tra menti diverse, cioè nella relazione. Per aiutare il bimbo
e svolgere la funzione di reverie, la madre deve smarrirsi per entrare nella dimensione interna del
figlio. In questo nucleo difficile del nostro essere al mondo si colloca il compito dell’educazione. La
prima relazione nella quale si può imparare a modulare e mettere in dialogo queste opposte
tensioni è quella originaria con la madre. Perché nasca il pensiero occorre che il bambino
sperimenti intermittentemente la frustrazione di un’assenza, di un venir meno e la gratificazione di
una presenza, del ritorno. Imparerà ad elaborare il vuoto attraverso l’attività ludica da bambino e
attraverso la cultura da grande. Occorre dunque imparare a tollerare il vuoto e a trasformarlo in
un’opportunità, perché il pensiero stesso nasce dalla mancanza e dal ritmo dell’alternarsi di vuoto
e pieno. L’incapacità di affrontare il vuoto, l’incertezza e la mancanza genera ansia in eccesso,
perciò educare all’ansia significa educare a sopravvivere psichicamente alal frustrazione.

Parlare di smarrimenti significa parlare della relazionalità. La relazionalità relativa ai processi di


formazione pone in primo piano la problematica, cara alla filosofia, ma anche alla riflessione
psicoanalitica, del tempo e delle sue articolazioni. C’è il tempo della successione e quello della
simultaneità, il tempo esteriore e quello interiore. Il primo è spazializzato e misurabile, il secondo,
invece, assomiglia a un eterno presente ed è un attimo dilatato all’infinito.

- Il fascino ambiguo delle sirene. Tra le tante immagini del mito che parlano di perdita a
ritrovamento quello che rimane più impresso è il caso di Ulisse alle prese con le sirene nel viaggio
di ritorno a Itaca. Si parla di un viaggio, della perdita, del dolore della separazione. Nel 1917 Kafka
scrive una rivisitazione personale di questo mito, intitolata “Il silenzio delle sirene”. Secondo lo
scrittore Ulisse non sentì il silenzio delle sirene, egli credeva che cantassero. Vide le loro gole che si
sollevavano e ricadevano, le bocche semiaperte nel canto. Ulisse non comprende ciò che vede e
piomba nell’inconsapevole e scura ignoranza. Le seduttrici sono sedotte da Ulisse. Kafka ci fa
inoltre sprofondare in un altro enigma: sapeva forse Ulisse del silenzio delle sirene? In questo
modo avrebbe recitato la parte prevista utilizzando la menzogna drammatica come una difesa.
Kafka attraverso il rovesciamento mette in scena la rappresentazione della pena e della tenerezza
insieme per l’insensata presunzione dell’Io, così fiero della propria ragione riflessiva.

Possiamo leggere questo mito come una sorta di metafora dell’incontro tra saperi che dà luogo ai
processi di apprendimento: non la trasmissione, la riproduzione fedele, la trasfigurazione che
falsifica, permette l’apprendimento autentico, dunque perdurante.

E’ meglio, forse, rischiare di perdersi avendo ascoltato quel canto così bello che non salvarsi la vita
ma non averlo mai udito, per paura di attraversare il dolore o il desiderio.

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