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Il denaro e la filosofia

Cari studenti della terza e quinta A, vi propongo qualche considerazione sull’argomento che ho scelto di
trattare con voi quest’anno.
Vi confesso che il lavoro è più difficile di quanto si possa credere, e i materiali a cui appoggiarsi non sono
poi molti né molto soddisfacenti.
Cerco prima di tutto di chiarirvi il senso della proposta. Essa è certamente collegata alla necessità di
conoscere alcuni concetti e dinamiche fondamentali dell’economia, su cui riproponiamo al Copernico un
breve corso integrativo. Tuttavia, si tratta anche di un percorso diverso e autonomo rispetto al corso; un
percorso che si può soltanto avviare ed è alquanto sperimentale, su una nozione specifica, il denaro, alla
quale vorrei prestare un’attenzione non tanto e non soltanto economica, ma specificamente filosofica.
Porre domande filosofiche non significa necessariamente aspirare a definire in modo completo ed esaustivo
il denaro, cioè a dire una volta per tutte “che cos’è” il denaro, alla maniera socratico-platonica, come se
l’economia, in quanto scienza specifica, non esistesse, e come se le sue definizioni fossero insufficienti per il
filosofo.
Vuol dire semmai portare la questione del denaro anche fuori dall’ambito dell’economia, cercare di
comprenderne le valenze simboliche più generali e il senso che assume in rapporto all’esistenza umana.
Aggiungo che una riflessione sul denaro non può essere fatta astoricamente, ma deve essere contestualizzata,
in modo da aiutarci a cogliere i mutamenti fondamentali di prospettiva verificatisi nel corso del tempo. La
svolta principale, lo avrete capito da soli, corrisponde all’avvento e all’affermazione del capitalismo
moderno, il sistema economico-sociale fondato sull’investimento delle risorse finalizzato al profitto, e sulle
sue trasformazioni negli ultimi decenni.

Nel momento presente, probabilmente la sensibilità e l’interesse per un’interrogazione filosofica sul denaro
hanno qualcosa a che fare con la crisi finanziaria di cui si parla costantemente e sulla quale si concentra
l’attenzione dei media e dei discorsi politici, in Italia come altrove. È come se fossimo affascinati da un
potere misterioso, per quanto inquietante, dei mercati, dove in pochi secondi si decidono le sorti di soggetti
economici privati e pubblici. La crisi finanziaria tuttavia non cela alcun mistero: essa rappresenta lo sbocco
della finanziarizzazione dell’economia, compiutasi a partire dagli anni Ottanta del Novecento, in un contesto
in cui scomparvero, o meglio vennero aboliti, i controlli legali e politici sulle attività speculative e in cui il
capitale finanziario prese a muoversi a velocità inaudita, pressoché in tempo reale, nello spazio del mercato
globale.
Il denaro, seppure in una forma molto smaterializzata, il denaro digitale, sembra dunque essere diventato
davvero il soggetto dominante. Un denaro che si può creare dal nulla, dato che non esiste più ancoraggio a
una base, metallica, cartacea o di qualche altro tipo, un denaro che può con i suoi movimenti decretare fasi di
crescita o di crisi repentina per individui, aziende piccole e grandi, private e pubbliche, persino stati
nazionali.

Il denaro sembra così esserci veramente sganciato dalle sue funzioni di mediazione in funzione di
qualcos’altro, i bisogni umani, riconosciute già dai primi autori che se ne occuparono, a cominciare da
Aristotele.
Nella Politica, come abbiamo visto, Aristotele prende in esame la moneta nel quadro più ampio
dell’economia, a sua volta non del tutto isolabile da quello generale della politica. Se mettiamo a confronto la
sua analisi con la prospettiva platonica notiamo già qualcosa di interessante: in particolare è evidente la
distanza della realistica analisi aristotelica dalla diffidenza di Platone, fatta esprimere al suo maestro-
personaggio Socrate, verso i Sofisti prezzolati e il sapere trasmesso dietro pagamento. Per Aristotele la
moneta mostra una natura ambivalente, in rapporto con una tendenza all’infinito, alla dismisura, presenti
nell’attività economica umana quando quest’ultima travalica la finalità della buona amministrazione
familiare, cioè, in senso stretto, di quella che per Aristotele è la sola autentica e legittima oikonomia.
Il testo di Aristotele fa emergere già con chiarezza due delle funzioni della moneta: 1. Mezzo di scambio 2.
Misura del valore. Le altre, ricordiamolo, sono : 3. Riserva di valore 4. Bene in sé. Funzioni collegabili, non
in modo perfettamente biunivoco, ai diversi motivi per i quali si desidera la moneta: 1. Motivi transazionali
(scambio) 2. Motivi precauzionali (Riserva) 3. Motivi speculativi (Bene in sé).
Come nasce la moneta? Moneta e denaro hanno un significato equivalente?
Non sempre: per esempio, una moneta fuori corso non è più denaro, anche se dotata di cospicuo valore
intrinseco e museale. Si possono concepire forme di denaro non monetarie? C’è chi lo sostiene (cfr. per
esempio M. Turri, La differenza tra moneta e denaro), ma la distinzione è difficile da cogliere, e comunque
nel nostro discorso possiamo tralasciarla.

Che cosa determina il valore della moneta? Finché si tratta di moneta metallica, si può distinguere il valore
intrinseco – la proporzione di metallo pregiato nella lega in cui la moneta è coniata - dal valore nominale – il
valore numerico che porta impresso. Di qui tutti i problemi concernenti la svalutazione dovuta alle pratiche
di limatura delle monete, operate dai sovrani, o all’usura determinata alla lunga dalla consumazione del
metallo nel suo passare innumerevoli volte di mano in mano.
Quando si tratta di banconote, moneta cartacea, rappresentativa, cosa determina il loro valore? Cosa
significano le cifre stampate su questi biglietti di carta? Finché perdurò il sistema del Gold-Standard, il loro
significato consisteva nel fatto che che il possessore di cartamoneta avrebbe potuto, almeno in teoria,
presentarsi alla Banca centrale del suo stato a richiederne la conversione in oro, sulla base di un tasso di
cambio stabilito. In certi periodi storici è stato effettivamente così: in particolare durante il XIX secolo, fino
alla Prima Guerra Mondiale.
Nel corso del XX secolo, non essendo più possibile mantenere il Gold-Standard, si cercò di sostituirlo con
una sorta di compromesso, ancorando i cambi monetari a una moneta forte: per un periodo, tra la fine della
prima guerra mondiale e il 1931questo ruolo di moneta di riferimento per i cambi internazionali fu affidato
alla sterlina; dopo gli sconvolgimenti politici ed economici seguiti alla crisi del 1929, dopo l’avvento dei
Fascismi e dopo la seconda guerra mondiale, passò al dollaro, simbolo della nuova superpotenza mondiale.
Ma, dopo la crisi manifestatasi nei primi anni Settanta, anche gli USA dovettero rinunciare al Gold-Exchange
Standard e da allora un sistema monetario con una base di riferimento per i valori delle diverse monete non
esiste più. Chi decide allora il valore delle monete?
In effetti c’è chi lo decide: sono le Banche centrali, legate alle autorità statali o sovrastatali (come nel caso
della BCE), che immettono una determinata quantità di moneta in circolazione, e ne regolano così il valore,
in modo da evitare fenomeni di inflazione incontrollata. Dall’altra parte ci sono però le attività speculative
che si svolgono sui mercati globali, al di fuori del controllo di qualsiasi autorità, dove è possibile, e infatti è
accaduto, “attaccare” uno stato provocando il deprezzamento della rispettiva moneta.
Si potrebbe dire che però, se una moneta perde valore è perché lo stato di salute dell’economia di quel paese
appare precario, o il suo debito pubblico è fuori controllo a causa di sprechi, clientelismi e incompetenze
amministrative. È però una spiegazione non del tutto condivisa.

Gli economisti classici, e come loro Marx, che pure elaborò una critica dell’economia politica classica,
tengono ferma una fondamentale distinzione relativa al concetto di valore di un bene. Si tratta della
distinzione tra valore d’uso e valore di scambio. Il valore d’uso è l’utilità del bene in questione, ed è in
rapporto con i bisogni soggettivi e legati alle circostanze, di chi appunto ne fa uso. È qualcosa di concreto e
qualitativo, non è misurabile e non monetizzabile. Il valore di scambio è invece un’astrazione: per poter
scambiare un bene con un altro occorre astrarre dalle singolari caratteristiche di quei beni e stabilire tra essi
un rapporto di equivalenza, renderli quantificabili e misurabili. La teoria matura di Marx assegna alla
quantità di lavoro incorporato in ciascun bene il ruolo di misuratore del valore di scambio. Il lavoro però, per
poter svolgere tale funzione, deve a sua volta essere spogliato di ogni concretezza, di ogni rapporto con le
abilità peculiari dei singoli lavoratori ed essere stato trasformato in “lavoro astratto”, o “forza lavoro”, che si
può infatti vendere e comperare a un prezzo di mercato, corrispondente al suo valore di scambio. In altre
parole, per fungere da equivalente generale dell’attribuzione di valore alle merci, il lavoro stesso deve venir
mercificato.

Il testo di Karl Marx letto in classe è tratto da un’opera giovanile, i Manoscritti economico-filosofici del
1844, dove l’analisi dell’economia politica ancora non ha spazio, mentre al centro del discorso critico si
trova il fenomeno dell’alienazione. Il capitolo sul denaro deve essere dunque messo in rapporto non tanto
con la nozione di valore, in termini economici, quanto con i significati antropologici del concetto.
L’analisi del denaro fotografa precisamente, seppure con uno sguardo profondamente critico, la situazione di
un’epoca in cui denaro equivale a oro. Le citazioni di Shakespeare e di Goethe avvalorano questa
impressione, e conferiscono al passo anche un deciso tono morale. Tuttavia, mentre nelle citazioni emerge
anche il feticismo dell’oro, la passione sfrenata che il metallo suscita in quanto tale, Marx pare più
interessato a una diversa caratteristica del denaro. Tale caratteristica consiste nella potenza di astrazione che
il denaro possiede. Esso è mediatore universale, anzi “mezzano”: essendo mezzo per scambiare qualsiasi
bene, rendendo così tutti i beni qualitativamente equivalenti, differenti solo per quantità, esso “scambia”
anche nel senso che rovescia di segno alternativamente i valori, estetici ed etici, degli altri beni che si
scambiano con esso. Il denaro scinde la quantità dalle qualità. La concretezza della vita, che nei beni prodotti
si è trasferita e si potrebbe ancora riconoscere se li si considerasse come tali, si dilegua. Il valore monetario si
separa da essa e la cancella.

L’ultimo passaggio della nostra rapida carrellata è segnato dalla pagina di Simmel, tratta dalla Filosofia del
denaro. Simmel prende le mosse non dal lavoro, come Marx, ma dallo scambio, considerato categoria
fondamentale per leggere il comportamento umano nella sua complessità. È perché lo scambio ha questo
primato che il denaro deve assumere un cruciale rilievo filosofico. In accordo con Marx, e in sintonia con
Shakespeare, Simmel lo definisce come il mezzo per eccellenza, ciò che non è altro che mezzo. Nei termini
marxiani, dovremmo dire “ciò il cui valore d’uso consiste nell’essere mezzo di scambio”, in cui valore d’uso
e di scambio non possono essere distinti.

...continua

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