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La prospettiva actor-network

Gian Marco Campagnolo

1. Introduzione

Actor-network theory non è mai stata codificata pienamente come teoria. E’ stata piuttosto
descritta come un genere letterario (Czarniawska & Jorges, 2005). Le sue due fonti di
ispirazione teorica sono la ‘actant theory’ (Greimas e Courtes, 1982) e la nozione di
traslazione (Callon, 1975). La ‘actant theory’ è una versione dell’analisi strutturalista
introdotta dal semiologo francese Algirdas Greimas, che ha proposto la nozione di
‘programmi narrativi’: un cambio di stato prodotto da qualsiasi soggetto che abbia effetti su
qualsiasi altro soggetto. Greimas parla di soggetti grammaticali, che possono rivelarsi o
non rivelarsi come persone. Concordemente, egli rimpiazza il termine ‘attore’ con quello di
‘attante’: “that which accomplish or undergoes an act” (Greimas e Courtes, 1982), perchè il
termine ‘attante’ si può applicare non solo agli esseri umani ma anche agli animali, agli
oggetti e ai concetti. Gli attanti non sono né soggetti né oggetti né possono essere
ricondotti ad una interazione fra i due elementi. Gli attanti sono eventi: attori-rete. Ogni
attore rete è completamente specifico e non riducibile a nessun’altro attore rete. I
programmi narrativi sono concatenati fra loro in una sequenza logica che da forma ad una
traiettoria narrativa. Tale traiettoria narrativa è una forma di enunciazione specifica che
Callon (1980) definisce “traslazione”. Il lavoro di traslazione è quindi l’oggetto di studio
della teoria actor-network. Nessuna traslazione avviene alla velocità della luce, come puro
calcolo, o induzione. Nessun mezzo funge da trasparente intermediario. Ogni mediazione
è sottoposta a negoziazione. La negoziazione avviene tramite la formazione e la
distruzione di alleanze, processo isomorfo tramite il quale prendono rispettivamente forma,
elementi sociali e elementi materiali, organizzazioni e tecnologie.

Le domande a cui il presente capitolo cercherà di dare una risposta sono: quale
spiegazione possono dare gli studi sociali sui sistemi informativi (Avgerou et. al 2004)
della variabilità strutturale e in particolare quale spiegazione può dare la prospettiva actor-
network? Come rispondere, in prospettiva actor-network, al dilemma se sia la struttura che
costringe l’organizzazione, o se sia l’attore che impone se stesso sulla struttura, oppure,
ancora, se si tratti di un processo di evoluzione iterativa fra i due aspetti? Quale metodo di
ricerca organizzativa utilizzare per rispondere a queste domande e quali principi?

Il riferimento agli studi sociali dei sistemi informativi come ambito dal quale potere trarre
nozioni di teoria organizzativa deriva dalla centralità teorica assegnata, in questo campo di
indagine, alla tecnologia. Essa, negli studi sociali dei sistemi informativi, non risulta una
delle dimensioni analitiche dell’organizzazione. La tecnologia è dispositivo (temporaneo,
contingente, locale) di fissazione delle relazioni sociali (Latour 1994). All’interno di questo
ambito di studi si possono però ravvisare diverse posizioni epistemologiche sul tema della
variabilità strutturale. Qui di seguito ne saranno presentate alcune che, articolando il
dualismo tecnology production/technology use, ricoprono alcune posizioni dominanti
all’interno del dibattito fra accounts razionali e accounts sociali della variabilità strutturale
nel campo dei sistemi informativi. Esse sono gli studi di localizzazione, gli approcci
decostruttivisti e strutturazionisti

Mentre tali studi pongono la problematica della variabilità strutturale in una visione
fratturata tra una tecnologia come monolitica, da una parte, e organizzazione dall’altra,

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secondo il ‘genere’ actor-network, la variabilità strutturale delle organizzazioni non si
riduce nè al fatto che sia la struttura a costringere l’organizzazione (come invece negli
approcci decostruzionisti) nè al fatto che sia l’attore che impone se stesso sulla struttura
(come invece negli studi di localizzazione), e nemmeno al fatto che si tratti di un processo
di evoluzione iterativa fra i due aspetti (come invece negli approcci strutturazionisti).

Ogni occorrenza di variazione strutturale è assolutamente irriducibile a qualsiasi altra o a


fattori esplicativi generali, siano essi di natura soggettiva, oggettiva o derivanti da una
interazione dei due fattori. Ciò nondimeno, la variabilità (tramite il suo opposto:
l’invariabilità, la creazione dell’ordine cfr. Latour & Woolgar, 1979: cap.6) è l’oggetto stesso
di studio della teoria actor-network e la reticenza a produrre fattori esplicativi generali non
impedisce a questa teoria di fornire analisi estese e creare connessioni fra eventi disparati.

Alcuni autori hanno usato la teoria actor-network negli studi organizzativi (Cooper & Law,
1995; Cooper, 1992). Nessuno di loro si è avventurato però a produrre un preciso metodo
di intervento. Latour, fondatore insieme a Michel Callon della teoria actor-network, ha
sostenuto in diversi punti la diversità del suo approccio rispetto ad approcci derivanti da
una visione della tecnologia contemporanea come im-posizione (Latour, 1994). In queste
pagine si intende estendere tale diversità in capo alla teoria actor-network, anche alla
possibilità, non contemplata invece negli approcci menzionati, di poter scegliere un piano
di azione di natura progettuale, facendo riferimento alla proposta del Social Practice
Design (Jacucci, 2007).

Il duplice scopo di questo contributo è chiarire la diversità della teoria actor-network non
solo rispetto a teorie derivanti da approcci relativisti allo studio sociale dei sistemi
informativi (Avgerou et alii, 2004), ma anche rispetto a teorie organizzative derivanti
dall’approccio razionalista della razionalità limitata.

Il metodo seguito per raggiungere il primo scopo sarà quello di problematizzare la nozione
di oggettività (Parte 2), generatrice di visioni della tecnologia nelle organizzazioni come im-
posizione, sostenendo che le tecnologie - chiamate dalla teoria actor-network attanti non-
umani - rifuggono lo statuto di oggettività due volte: non sono oggetti conosciuti da un
soggetto; non sono oggetti manipolati da un dominatore (né sono essi stessi dominatori),
con questo riconfigurando la narrativa prevalente di considerare la tecnologia come
(progettabile ma) ‘singolare’ e ‘monolitica’ da una parte, e l’organizzazione come contesto
locale sempre individualmente diverso, unico (e non progettabile) dall’altra.

Il metodo seguito per raggiungere il secondo scopo – chiarire la diversità della teoria actor-
network rispetto a teorie organizzative derivanti dall’approccio razionalista della razionalità
limitata - sarà quello di problematizzare la nozione di informazione (Parte 3) come base
per il coordinamento della struttura organizzativa, sostenendo che a monte di ogni
informazione c’è una rappresentazione, e suggerendo di considerare la nozione di
rappresentazione al posto della nozione di informazione, come fondamento della teoria
organizzativa. Sotto questo profilo, l’interesse sarà quello di focalizzare l’attenzione sulla
necessità di una sofisticata concettualizzazione dell’ordinarsi processuale della
molteplicità di rendicontazioni competitive e alternative dell’evoluzione dei sistemi
informativi all’interno delle organizzazioni e della loro irriducibile e concreta specificità.

Il Social Practice Design (Jacucci, 2007) come metodo di intervento organizzativo si pone
come obiettivo di ristabilire la simmetria fra l’attenzione al come fare le cose rispetto al
cosa, fra il discorso architetturale della progettazione dei sistemi informativi informatici e

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dei processi di business e un discorso similmente impegnato e intenzionale sull’analisi
etnografica dell’organizzazione e del cambiamento organizzativo, fra il discorso
tecnologico ed economico sull’innovazione organizzativa e quello politico. IlSocial Practice
Design (SPD) crea uno spazio organizzato per la progettazione della pratica sociale e per
la progettazione sociale delle pratiche nelle organizzazioni, per ‘fare posto’ alla tecnologia,
superando la visione che vi sia una tecnologia progettabile ma singolare e monolitica da
una parte, e un contesto di pratiche unico, idiosincratico e non progettabile dall’altra. SPD
è una forma di ricerca intervento o ricerca azione. Riconosce il postulato epistemologico
che si può apprendere qualcosa del mondo solo provando a cambiarlo (Lewin, 1946). Il
Social Practice design fa riferimento alla teoria actor-network per proporre una visione
della tecnologia come ‘iscrizione’ (Latour, 1986), cioè come dispositivo di fissazione di
relazioni sociali e di alleanze. Per ‘fare posto’ alla tecnologia, nel Social Practice Design, si
progettano quindi pratiche sociali, relazioni e alleanze.

2. Problematizzare la nozione di oggettività

Gli studi applicativi sui processi di implementazione, adozione ed uso dei sistemi
informativi, nell maggioranza dei casi, propongono la visione di una tecnologia monolitica
da una parte e quella di un’organizzazione che ha solo la scelta binaria di cambiare se
stessa o cambiare il sistema dall’altra. In alcuni esiti, si mette in luce come le
organizzazioni utente spesso optino per adattarsi al sistema invece che il contrario.
Davenport (1998) discute come i sistemi informativi tipicamente forzino gli utenti a
rimpiazzare modi di lavoro informali con un ‘business process template’ più formale
incorporato nel software.
Altri studi più ispirati a metodi etnografici, mettono in evidenza come anche i sistemi più
prescrittivi vengano poi ‘localizzati’ dagli utenti. Wagner e altri (2006) descrivono come i
formati standard dei sistemi vengono ‘compromessi’ attraverso ‘schermaglie’ e resistenze
da parte degli utenti e come questo induca l’emergere di un sistema maggiormente
localizzato.
Una terza posizione è infine rappresentata dagli approcci strutturazionisti che, cercando di
riconciliare le due precedenti posizioni, enfatizzano come tecnologia e organizzazione
siano spesso condotte ad un allineamento attraverso una combinazione di complicati
cambiamenti organizzativi da una parte e ri-configurazioni del software dall’altra. Tale
processo viene definito ‘mutuo adattamento’ (Orlikowski, 1992; De Sactis e Poole, 1994).
Emerge in questi risultati la mancanza di una sofisticata concettualizzazione dell’ordinarsi
processuale della molteplicità di rendicontazioni competitive e alternative dell’evoluzione
del sistema informativo all’interno delle organizzazioni. Molta della ricerca corrente sui
sistemi informativi é limitata dall’utilizzo di risultati di breve termine e si basa su ‘fotografie’
della realtà che enfatizzano solo singole fasi o aspetti del ciclo di vita dei pacchetti
software (il più spesso la fase dell’implementazione). Gli studi derivanti da queste posizioni
non affrontano adeguatamente la co-evoluzione di lungo termine di artefatti,
rappresentazioni e del loro contesto d’uso. L’obiettivo di tali studi è di dimostrare che la
possibilità che questi sistemi possano funzionare è un ‘compimento’ degli utenti, i quali
riconciliano il golfo fra sistema e pratiche di lavoro. Se i sistemi informativi possono
funzionare in diversi contesti ciò è dovuto, secondo questi studi, ad un sostanziale sforzo
locale di ri-progettazione intorno alle pratiche e la cultura delle organizzazioni utente.

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La maggior parte di questa letteratura tende ad enfatizzare la collisione fra specifici
processi organizzativi e presupposti generici del sistema nel corso dell’implementazione.
Questo riflette la presenza di alcune narrative prevalenti negli approcci che presentiamo
qui di seguito: che il contesto sia sempre individualmente diverso, unico e contraddistinto
da pratiche altamente idiosincratiche mentre la tecnologia sia ‘singolare’ e ‘monolitica’.

2.1 Tecnologia come im-posizione

Per poter procedere con ordine, occorre riconoscere il posizionamento filosofico del
dibattito sulla variabilità strutturale, facendolo risalirealla discussione heideggeriana
sull’essenza della tecnologia. La domanda sulla base della quale confronteremo gli
aprrocci qui di seguito presentati è se siano le strutture a vincolare in modo prevalente
l’evoluzione delle organizzazioni oppure se siano gli attori con le loro iniziative ad imporsi
oppure ancora se l’evoluzione venga prodotta in un processo esplorativo e interattivo.

La lettura heideggeriana (De Paoli, 2007) si basa sul ritenere che la ratio latina, il
calcolare, abbia soppiantato il pensiero, l’essere dei presocratici (di Parmenide soprattutto)
nel considerare il mondo. Questa trasformazione consiste nel passare dall’impiego di
astrazioni geometriche, in quanto utili approssimazioni della realtà, alla pretesa che esse
costituiscano effettive espressioni della realtà.
Heidegger giunge a considerare la filosofia come dispersa nel suo frammentarsi nelle
singole scienze e tecniche, in un mondo dominato dal calcolo. La filosofia dunque si
dissolve nel pensiero calcolante, nella cibernetica, e la tecnica segna la fine della filosofia.
Nella Questione sulla Tecnica (1993a), Heidegger inizia col dire che ritenere la tecnologia
uno strumento non consente di scoprirne l’essenza. Certamente la tecnologia è un mezzo
rispetto a un fine, ma non è sufficiente. Per sviluppare il suo pensiero, Heidegger comincia
con l’esplorare il concetto di causa per i greci: la causa è ciò che è responsabile di
qualcosa, ciò che rende manifesto, che porta avanti, che fa comparire. La parola ‘poiesis’,
che significa ‘il fare’, viene interpretata da Heidegger come portare avanti: la natura porta
avanti, per esempio, lo sbocciare di una gemma in un bocciolo, la natura fa questo di per
se’. Se invece prendiamo un calice d’argento (per utilizzare l’esempio fatto da Heidegger),
questo è portato avanti, è fatto comparire, da un artigiano che usa degli strumenti per
trasformare il minerale d’argento e per produrre un contenitore, cioè il calice.
Anche la tecnologia moderna rivela qualcosa, ma in un modo diverso: questa modalità può
essere considerata una sfida, una forzatura (a challenge in inglese), una im-posizione.
Nelle parole di Heidegger, da qualche parte un pezzo di terra viene “forzato” a produrre
carbone e minerale, la terra si rivela adesso come un distretto carbonifero, il suolo come
un deposito di minerali. Il lavoro del contadino non forzava il suolo e il campo del quale
aveva cura, mentre la tecnologia contemporanea è profondamente diversa da ciò: la
stessa agricoltura deve essere considerata un’industria alimentare meccanizzata. E’ l’atto
di ordinare e di forzare questa riserva che caratterizza la tecnologia moderna. Essa è stata
chiamata da Heidegger ge-stell che viene tradotto come enframing (inquadramento) e in
italiano come im-posizione. Si tratta di uno stato generale del mondo, del trionfo della ratio
latina che ha soppiantato l’essere greco. In questa situazione vi sono due pericoli che
Heidegger scorge: il primo è che l’uomo non veda e non faccia null’altro oltre a quanto è
consentito da questo “ordinamento” e il secondo è che la natura si presenti solo come un
insieme complesso calcolabile di forze e, in quanto tale, rimanga conoscibile solo ciò che
è razionalmente corretto piuttosto che vero.

2.1.1 Gli studi di localizzazione

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La trasformazione che consiste nel passare dall’impiego di astrazioni geometriche, in
quanto utili approssimazioni della realtà, alla pretesa che esse costituiscano effettive
espressioni della realtà è stato confermato, in anni più recenti, dagli studi condotti da Lucy
Suchman. In un articolo intitolato “Representing Practice in Cognitive Science” (1990),
Suchman affronta il nesso fra rappresentazioni dell’azione contenute in una cultura
(interpretate dalla sociologia tradizionale come guida dell’azione umana) e i metodi tramite
i quali i membri costruiscono localmente la realtà. Nel suo studio delle pratiche delle
scienze cognitive, Suchman elabora una critica al planning model. Nel planning model una
rappresentazione viene concepita come capace di controllare l’azione umana. Il piano,
ridotto a un set di dettagliate istruzioni, funge da programma capace di controllare l’azione.
L’azione viene vista come derivata da un piano, e il piano di conseguenza diventa a tutti gli
effetti sostituibile all’azione. Una volta che questa sostituzione viene accettata, il problema
dell’azione viene considerato come risolto. Il compito che rimane da svolgere è quello di
rifinire il modello. La prospettiva di Suchman è invece quella di distinguere chiaramente fra
pratica situata e pianificazione, descrivendo le rappresentazioni nel loro uso. Nella
concezione di Suchman, il piano è uno strumento utile per parlare e discutere dell’azione
ma la sua relazione con l’azione non è di sostituzione ma di risorsa come parte della
pratica situata. La funzione del piano, in questa prospettiva, non è quella di fornire una
specificazione o una struttura di controllo delle interazioni locali, ma quella di orientarci
precedentemente all’avvento del corso di azione. I piani specificano l’azione fino al livello
in cui la specificazione è utile, ma sono vaghi rispetto ai dettagli dell’azione precisamente
al livello in cui è sensato lasciare le specificazioni e affidarsi alla disponibilità di risposte
contingenti e ad hoc. Il compito di raccogliere la disponibilità di risposte contingenti e ad
hoc è, in questa prospettiva - che chiameremo con Pollock (Pollock e alii, 2007: 256),
prospettiva degli studi di localizzazione - un ‘compimento’ degli utenti i quali riconciliano il
golfo fra sistema e pratiche di lavoro. Se i sistemi informativi possono funzionare in diversi
contesti ciò è dovuto, secondo questi studi, ad un sostanziale sforzo locale di ri-
progettazione intorno alle pratiche e la cultura delle organizzazioni utente.

2.1.2 Gli approcci decostruttivisti

Nel suo studio del concetto di ‘allineamento’ fra strategie di business e infrastrutture
informatiche, Ciborra (2001) ritorna sul concetto di ge-stell, e si interroga sullo status delle
astrazioni – i modelli, i principi nella loro funzione normativa e prescrittiva – che si trovano
frequentemente nella letteratura di scienze manageriali, e su quale sia la loro relazione
con quello che accade sul campo. La domanda è la seguente: cosa succede quando le
varie aree di strategia, organizzazione e tecnologia sono connesse in una stessa
rappresentazione geometrica? Abbiamo una nuova e migliore performance organizzativa?
La risposta è no. Queste rappresentazioni geometriche hanno un impatto limitato sulla
‘anonima zuppa primordiale di pratiche ed eventi’ (De Certeau, 1998). Questo è perchè la
conoscenza e l’esposizione alle teorie non sono sufficienti ad apprendere nuovi
comportamenti (Argyris and Schon, 1996). Secondo Ciborra, una rappresentazione che
non funziona, come quelle appartenenti all’allineamento strategico, causa un breakdown.
E il breakdown è un’opportunità per adottare una diversa visione del vissuto organizzativo,
una visione più strettamente connessa all’evidenza, all’intuizione e all’empatia di quanto lo
siano i modelli geometrici.
L’idea heideggeriana che la tecnologia moderna costituisca una forzatura, una im-
posizione si ritrova nelle parole del filosofo Lagdon Winner che in un articolo del 1980,
intitolato “Do Artifacts have Politics?” (Winner, 1980), sostiene che le tecnologie non sono
neutrali ma incorporano irreversibilmente forme di oppressione. L’argomento dell’autore è
che gli artefatti tangibili (inclusi gli spazi architettonici e altri dispositivi materiali e spaziali)

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incorporano relazioni sociali (e quindi, forme di potere). L’esempio riportato è quello della
progettazione dei ponti autostradali di New York da parte dell’urbanista Robert Moses.
Winner fa notare che i ponti erano stati disegnati di bassa altezza per non consentire il
passaggio degli autobus – e quindi di chi fra gli anni ’20 e gli anni ’70 non poteva
permettersi un’auto – verso le spiagge di Long Island.
L’analisi di questo esempio si conclude con l’affermazione che non solo gli artefatti hanno
una politica, ma la loro politica è delle più perverse perchè è nascosta dietro una facciata
di obiettività, efficacia e funzionalità. Nella medesima prospettiva, lo studio di Susan Leigh
Star (1999) sulle infrastrutture informatiche conclude con la constatazione che “[T]here are
million of tiny bridges built into large-scale information infrastructures, and millions of
(literal and metaphoric) public buses that cannot pass through them”1. Da prospettiva
analoga Kallinikos (2004) studia la diffusione su larga scala dei pacchetti informatici per la
gestione aziendale integrata (cosiddetti ERP) con l’intento di svelare l’insieme di premesse
organizzative e comportamentali, implicite ma cruciali, che informano la loro costruzione.
Quale che sia la vicenda implementativa di tali sistemi, conclude l’autore, le premesse
organizzative e comportamentali che essi incorporano non possono venire del tutto meno;
tra queste, di particolare rilievo è la visione segmentata dell’organizzazione, che si
manifesta nella modularità architetturale dei pacchetti che, a sua volta, risponde più ai
vincoli tecnici dettati dalla tecnologia informatica che alle esigenze concrete
dell’organizzazione. Infatti, la frammentazione dell’organizzazione in segmenti operativi ne
riduce l’integrazione interna e il presunto approccio processuale si risolve in un’imponente
opera di standardizzazione, nel disegno di procedure esaustive (comprehensiveness) e
assai particolareggiate (depth).
Gli studi sui processi di implementazione, adozione ed uso dei sistemi informativi derivanti
dalla prospettiva della tecnologia moderna come im-posizione pongono la problematica
della variabilità strutturale in una visione fratturata tra una tecnologia monolitica, da una
parte, e l’organizzazione dall’altra. Conseguentemente, ciò a cui si potrà assistere è al
cambiamento dell’organizzazione per conformarla alla tecnologia o, viceversa, al
cambiamento della tecnologia per adattarla all’organizzazione. La maggior parte di questa
letteratura tende ad enfatizzare la collisione fra specifici processi organizzativi e
presupposti generici del sistema nel corso dell’implementazione. Questo riflette la
presenza di alcune narrative prevalenti negli approcci fino ad ora presentati: che il
contesto sia sempre individualmente diverso, unico e contraddistinto da pratiche altamente
idiosincratiche mentre la tecnologia sia ‘singolare’ e ‘monolitica’.

2.1.3 Gli approcci strutturazionisti

Mentre per gli approcci decostruzionisti sono le strutture a vincolare in modo prevalente
l’evoluzione delle organizzazioni e per gli studi di localizzazione sono gli attori con le loro
iniziative ad imporsi, gli approcci strutturazionisti, cercando di riconciliare le due precedenti
posizioni, enfatizzano come tecnologia e organizzazione siano spesso condotte ad un
allineamento attraverso una combinazione di complicati cambiamenti organizzativi da una
parte e ri-configurazioni del software dall’altra. Tale processo viene definito ‘mutuo
adattamento’ (Orlikowski, 1992; De Sactis e Poole, 1994). Proprio nel loro essere un
tentativo di riconciliazione (e non di superamento) delle posizioni precedenti, non
dualistico ma comunque duale (Giddens, 1984), gli approcci strutturazionisti rientrano
nello schema concettuale per cui, sebbene con gradazioni diverse, gli elementi usati per
l’analisi sono i due poli della tecnologia e dell’organizzazione, di cui poter studiare
l’interazione. Sebbene in questo ultimo caso le distinzioni si assottigliano, è utile
ricomprendere qui l’approccio strutturazionista per sottolinearne una differenza specifica
1
Susan Leigh Star, “The Ethnography of Infrastructure, in American Behavioural Scientist 43(1999) 377-391.

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rispetto al ‘genere’ dell’actor-network. L’approccio strutturazionista, per come è stato
tradotto nel campo dello studio sociale dei sistemi informativi da Orlikowski (1992), si
propone come meta-teoria che ricomprende, sotto di sè, senza problematizzarli, elementi
della concezione oggettivista e della concezione soggettivista, descrivendone le relazioni
bidirezionali. Ogni entità, nell’approccio strutturazionista, ha sia elementi soggettivi che
elementi oggettivi. Nel genere actor-network, come vedremo di seguito, questa
disposizione viene interamente soppiantata a vantaggio di un unico piano: quello in cui si
muove, tramite alleanze e negoziazioni, l’attore-rete.

2.2 Tecnologia come black-box

In questa sezione arriverò, attraverso le critiche di Latour a Heiddeger, a presentare alcuni


aspetti del genere actor-network come alternativa rispetto agli esiti derivanti dall’approccio
alla tecnologia contemporanea come im-posizione. Tramite la problematizzazione della
nozione di oggettività argomenterò come, entro il genere actor-network, si possa proporre
una analisi della variabilità strutturale che non proceda dal considerare la tecnologia come
(progettabile ma) ‘singolare’ e ‘monolitica’ da una parte, e l’organizzazione come contesto
locale sempre individualmente diverso, unico (e non progettabile) dall’altra. Si descriverà il
genere actor-network come un andare oltre la determinazione della variabilità strutturale
come risultato di fattori organizzativi e/o tecnologici.

Nella trattazione della definizione di tecnologia, Latour sostiene che per un principio di
simmetria, l’azione non sia una proprietà solo umana, ma, qui distinguendosi
dall’approccio strutturazionista, di una associazione di ‘attanti’ umani-e-non-umani. E che
questa simmetria sia rispettata sia nei contesti di produzione che nei contesti d’uso della
tecnologia. Simmetria significa per Latour (Latour, 1999: 182) ciò che si conserva nella
trasformazione. Nelle associazioni fra umani e non umani (gli attori-rete), le costanti sono
la serie di competenze, le proprietà, e la possibilità di modificazione dei ruoli attanziali.
Disponendosi ad un livello precedente rispetto al momento in cui proprietà e competenze
siano chiaramente osservabili e interpretabili, ed emerga la distinzione fra umani e non
umani, Latour si distingue dalle filosofie per cui l’uomo è fatto dai propri strumenti (Marx,
Bergson, Leroi-Gourhan, 1993). Allo stesso modo, prende le distanze dalla posizione di
Heidegger sull’essenza della tecnologia e dalle concezioni da essa derivate, criticando il
mito rilevante di Heidegger per cui l’essenza della tecnologia sia quella di dominare la
natura. Procedendo con la descrizione della nozione di ‘black-box’ (Latour 1999: 185) - per
cui ogni dato assemblaggio di artefatti può essere descritto in modo reversibile, a seconda
della crisi che lo attraversa – Latour propone un peculiare statuto ontologico per le
tecnologie nelle organizzazioni, per cui di esse non si può dire che non agiscano, che non
medino l’azione. Detto questo, Latour precisa che, sebbene le tecnologie siano costruite,
di loro non si può dire che siano nostre schiave o strumenti o evidenze della Gestell, in
quanto non si può stabilire se esse esistano come oggetti, come assemblaggi o come
sequenze di azioni esperte da parte di un gruppo di progettisti disperso nello spazio e nel
tempo. Lo statuto di oggettività va quindi problematizzato. I non-umani rifuggono lo statuto
di oggettività due volte: non sono oggetti conosciuti da un soggetto; non sono oggetti
manipolati da un dominatore (ne sono essi stessi dominatori).
Rispetto alla prospettiva temporale, la linea heideggeriana del destino, Latour ha infine un
argomento specifico: non siamo mai stati moderni (Latour, 1995). C’è cioè una continuità
fra la tecnica degli antichi (la poiesis) e la tecnologia moderna (di larga scala, dominatrice).
Contrariamente a quanto affermato da Heidegger, la distinzione fra tecnica degli antichi e
tecnologia moderna non è che, mentre la prima esibiva una mistura di elementi tecnici e di
elementi sociali, la seconda esibisca una maggiore autonomia dall’ordine sociale. La

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differenza è solo che quest’ultima trasla, arruola e mobilita molti più elementi, molto più
strettamente connessi che la prima. La relazione fra la scala del collettivo e il numero di
non-umani coinvolti è cruciale. Nei ‘moderni’ collettivi si trovano catene di azioni più
lunghe, più non-umani connessi. Chi ha cercato di distinguere fra antiche e moderne
tecnologie attribuendo a queste ultime oggettività ed efficienza mentre alle prime maggiore
umanità, è profondamente in errore. L’aggettivo moderno non descrive una maggiore
distanza fra società e tecnologia, ma una maggiore intimità.

2.2.1 Il superamento del dualismo soggetto/oggetto

Latour (1999) descrive un aspetto dell’andare oltre la determinazione della pratica


scientifica come fattore puramente sociale o puramente tecnico che può essere applicato
anche alla teoria organizzativa:

We do not have, on the one hand, a history of contingent human events and, on the
other, a science of necessary laws, but a common history of societies and things.
Pasteur’s microbes are neither timeless entities discovered by Pasteur, nor political
domination imposed onto the laboratory by the Second Empire social structure, nor
are they a careful mixture of “purely” social elements and “strictly” natural forces.
They are a new social link that redefines at once what nature is made of and what
society is made of.

Latour rimpiazza sia il sociale che il naturale con una singola categoria: quella di attante
(un termine proveniente dalla semiotica), e facendo questo, sorpassa la dicotomia
attivo/passivo. La visione tradizionale prevede infatti un umano attivo (sia esso individuale
o sociale) che agisce su una natura passiva. La categoria di attanti proposta da Latour
include entità che tradizionalmente sarebbero state considerate agenti ma anche entità
che sarebbero state considerate oggetti passivi. La proposta di Latour consiste in un
notevole avanzamento nel superamento della dicotomia attivo/passivo, dal momento che il
dibattito fra realismo e costruzione sociale può essere pensato anche in termini di
conoscenza passivamente scoperta o attivamente creata dallo scienziato. Il superamento
della dicotomia attivo/passivo porta con sè anche una ridiscussione della nozione di
tecnologia che sta alla radice della dicotomia fra approcci razionali e approcci sociali della
variabilità strutturale. Negli approcci razionali, è considerata valida quella conoscenza che
è fondata su qualcosa di esterno alla pratica (qualcosa di reale nel mondo). La negazione
di questo fondamento, d’altra parte, rende la conoscenza una mera costruzione. La
posizione di Latour è invece quella di respingere la domanda su quale sia il fattore
determinante nel costruire un fatto (sociologia, tecnologia, politica o economia).
L’argomento che possiamo trarre da Latour è quello di studiare la pratica organizzativa
senza attribuire né agli argomenti dell’approccio razionale né agli argomenti dell’approccio
sociale uno statuto privilegiato.
Latour dimostra che la suddivisione sociale/razionale è il risultato di un processo di
negoziazione fra attanti. Una nuova procedura scientifica emerge con attori umani-e-non-
umani incorporati in essa, e produce come risultato la definizione di elementi sociali ed
elementi materiali. Mentre la metafisica organizzativa tradizionale richiede classificazioni in
categorie a-prioristiche e statiche (naturale o sociale, materiale o mentale) che rendono
conseguentemente assai difficile tematizzare il cambiamento storico, Latour nega che vi
sia una a-prioristica, a-temporale distinzione fra natura e mente/società e, in questo senso,
rifiuta la domanda su cosa stabilizzi una pratica scientifica allo stesso modo in cui,
rielaborando il paradigma razionalista, rifiuta di rispondere alla domanda su cosa renda
vera una rappresentazione.

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Può sembrare che la posizione di Latour, per cui le classificazioni avvengono solo dopo il
fatto, sia una razionalizzazione assoluta a posteriori.Ma questa critica deve essere
respinta, in quanto la produzione di fattori sociali e materiali, sebbene venga a posteriori
rispetto all’evento, all’attore rete, che di questi fattori è il produttore e non il prodotto, non è
per Latour frutto di un lavoro di razionalizzazione (produzione di categorie astratte e a-
prioristiche, induttive) ma il prodotto di una negoziazione frutto di alleanze instabili, di
prove di forza. Da ciò deriva infine che lo statuto di tali prodotti categoriali (sociale,
materiale) non è assoluto ma temporaneo e modificabile alla velocità in cui si modificano
le alleanze che lo hanno sancito. Questa posizione ha il vantaggio di superare la
convenzionale suddivisione a-prioristica fra il sociale e il naturale. La lezione metodologica
della prospettiva actor-network è dunque che tale distinzione avviene solamente in seguito
alla costruzione di un fatto e che questa distinzione ha una durata limitata.

3. Problematizzare la nozione di informazione

Da quanto precedentemente affermato, derivano alcune implicazioni riguardanti anche


concetti tradizionali di teoria organizzativa come informazione, razionalità limitata e
ambiente esterno.
La problematizzazione del concetto di oggettività consiste nel concepire che vi sia una
sola disposizione, che connette problemi ontologici con problemi epistemologici, etici e
politici. Non hanno più senso, in questa disposizione, domande del tipo: “Come può la
mente conoscere il mondo esterno?”, “Come può un’organizzazione reagire alle variabili
esterne?”, “Come si possono prendere decisioni riguardanti la strutturazione in base alle
informazioni disponibili?”.
Molto rapidamente queste domande si esauriscono in contraddizioni, perchè la definizione
di mente, società, organizzazione e informazione sono prodotte contemporaneamente e si
coimplicano. Spostando l’attenzione dalla teoria organizzativa alla pratica dell’organizzare,
da una visione distale ad una prossimale dell’organizzazione (Cooper & Law, 1995), dalla
teoria dell’informazione alle tecniche di rappresentazione (Cooper, 1992), succede che
domande che sembravano essere, a livello della teoria, indipendenti e sconnesse, sono
invece, a livello della pratica, profondamente interconnesse.
Il movimento principale che permette di comprendere questa disposizione deriva dalla
non-accettazione della dicotomia soggetto-oggetto e dalla conseguente rinuncia a
percorrere il dibattito che tenta di superare questa dicotomia tramite ricomposizioni
sintetiche o analitiche (Albano, in questo volume). Oggetto e soggetto sono concetti
correlativi, che si pongono vicendevolmente, in una relazione di complicità e antagonismo.
Al posto di questa dicotomia si sostituisce il concetto di attore-rete nella pratica
dell’organizzare. Questo movimento implica una rimozione della nozione di epistemologia
tout-court, a vantaggio del concetto di ‘connessioni concrete’. L’idea che una mente-nel-
vuoto, singola e isolata, guardando il mondo esterno, tenti di estrarre certezza dalla
relazione fra parola e cosa, rappresentato e rappresentazione è da abbandonare. Non c’è
un mondo esterno, non perchè il mondo sia una costruzione sociale, ma perchè non c’è
una mente interna, prigioniera del linguaggio, con l’informazione come unica risorsa.
Informazione è un concetto che deriva dal paradigma della razionalità limitata nello studio
delle organizzazioni (Schotter, 1981; Williamson, 1975). Secondo questo approccio, il
coordinamento tramite il quale si realizza la struttura organizzativa si compie attraverso
informazioni e scelte concernenti informazioni (Maggi, 1990). Questo utilizzo della nozione
di informazione - proveniente dalla famosa critica di Simon (1978) alla teoria della scelta
razionale, per cui la razionalità umana è severamente limitata e l’organizzazione formale
sarebbe uno strumento per risolvere problemi specificamente derivanti dalla razionalità
limitata – sottovaluta un aspetto fondamentale del processamento dell’informazione: la

9
rappresentazione. La teoria dell’informazione (Atlan, 1974) comincia con la costruzione di
una rappresentazione (pattern, immagine, modello) di qualche aspetto del mondo. La
rappresentazione deve esistere prima di cominciare a parlare di informazione e scelte
concernenti. La rappresentazione viene per prima; informazione è ciò che aumenta o
riduce il potere della rappresentazione. Nell’uso della teoria actor-network nella teoria
organizzativa fatto da Cooper (1992), le organizzazioni non sono solo organizzatrici di
informazioni. In esse si costruiscono le forme in cui appare l’informazione, cioè le
rappresentazioni. Tale concetto è originale, e si distingue per esempio da quello di sense-
making di Weick (1993) in quanto, quando si dice che le organizzazioni costruiscono le
forme in cui appare l’informazione, nel ‘genere’ actor-network si fa esplicito riferimento al
sostrato materiale della rappresentazione (schema, diagramma, artefatto: l’”iscrizione”),
mentre parlando di sense-making Weick non veicola una accezione di tale processo
altrettanto necessariamente attenta al suo sostrato materiale. L’uso del ‘genere’ actor-
network negli studi organizzativi suggerisce di considerare la nozione di rappresentazione
(rappresentazione materiale, non mentale) al posto della nozione di informazione, come
fondamento concreto della pratica organizzativa. Qui di seguito, la nozione di
rappresentazione verrà descritta nelle sue caratteristiche fisiche concrete e incorporate
(3.1), nel suo svolgersi nello spazio attraverso la circolazione di artefatti (3.2), attraverso
processi di negoziazioni e alleanze (3.3).

3.1 Rappresentazione come attributo del processo d’azione

Vedremo ora come la rielaborazione del dualismo soggetto/oggetto contribuisca a


comprendere la relazione fra razionalità limitata e organizzazioni. La letteratura sulla
razionalità limitata dà l’impressione che la razionalità sia un processo cognitivo che abbia
luogo ‘nella mente’ e che la sua limitatezza sia funzione della limitatezza della mente
umana:

The capacity of the human mind for formulating and solving complex problems is
very small compared with the size fo the problems whose solution is required for
objectively rational behaviour in the real world – or even for a reasonable
approximation to such objective rationality (Simon, 1957: 198).

Quando vediamo il problema della razionalità limitata focalizzandoci sul livello della
rappresentazione invece che su quello dell’informazione, entrambi i concetti di razionalità
e di limitatezza acquistano un nuovo significato. Per illustrare questa differenza,
prendiamo due noti esempi di tecnologia: la sedia e il guanto (Cooper, 1992). La sedia e il
guanto rappresentano (rimpiazzano, stanno al posto di) specifici aspetti del corpo e della
sua interazione con il mondo. La sedia rappresenta la forma generale dello scheletro
umano e compensa la tendenza del corpo alla stanchezza. Allo stesso modo, il guanto
(prendiamo ad esempio un guanto industriale) rappresenta la mano. Ove la mano naturale
è fragile (si pò facilmente scottare), il guanto industriale è robusto e refrattario. Ove il
corpo e le sue parti sono limitate da una naturale fragilità, è precisamente questa
condizione limitante che abilita e promuove il processo di rappresentazione. In questi
esempi, vediamo che la razionalità umana non è specificamente cognitiva ma è intrinseca
al campo di azione generale del corpo e delle sue parti, e che la limitatezza, lungi
dall’essere una restrizione, è uno stimolo necessario alla rappresentazione.
Rappresentazioni, tecniche e artefatti sono processi incorporati che non solo rimediano e
compensano le deficienze di ciò che viene rappresentato ma allo stesso tempo estendono,
magnificano e rendono durevole il suo potere.

10
3.2 Rappresentazione come correlato topologico

L’analisi organizzativa convenzionale tipicamente vede il suo oggetto di analisi in termini di


categorie separate, che si presuppone occupino uno spazio singolare e isolato. La
divisione tradizionale fra organizzazione e ambiente esterno è uno degli esempi di questo
modo di analisi. Il concetto di razionalità limitata di Simon (1947) è un ulteriore esempio di
spazio singolo e isolato: la ‘razionalità’ è contenuta all’interno delle limitate capacità
cognitive del singolo decisore. Serres (1982) chiama ‘euclideo’ questo modo di pensare:
sistemare ogni cosa all’interno di spazi singolari, movimenti senza cambiamenti di stato,
morfologie sconnesse. Serres, nel proporre la nozione di traslazione, raccolta poi dalla
teoria actor-network e in particolare da Callon (1986), suggerisce come necessaria una
topologia del movimento che riconosce che le azioni umane avvengono non negli spazi
ma fra di essi. E questo è ciò che offre la logica enunciativa della traslazione, propria del
‘genere’ actor-network. Traslazione è il processo di creare connessioni, forgiare passaggi
fra due diversi domini (Serres, 1982). Traslazione è l’atto di invenzione che combina e
unisce vari elementi. Michel Callon, uno dei fondatori di actor-network, riprende questa
versione della nozione di traslazione nella seguente forma:

Considered from a very general point of view, this notion [translation] postulates
the existence of a single field of significations, concerns and interests, the
expression of a shared desire to arrive at the same result...Translation involves
creating convergences and homologies by relating things that were previously
different. (Callon 1980: 211)

Callon enfatizza che la traslazione ha luogo nel sito comune i cui vari ‘significati,
preoccupazioni e interessi’ si incontrano. L’organizzazione è il luogo della traslazione,
luogo di contraddizioni generative di innovazione: valore di scambio e valore d’uso, profitto
e salario, singolo e collettivo, autonomia e discrezionalità sono solo alcuni esempi di
concetti correlativi, dotati di precise relazioni topologiche, che vengono invece intesi come
spazi singoli, morfologie sconnesse. La teoria organizzativa convenzionale è ancora
generata in uno spazio euclideo che le previene la comprensione del suo oggetto, che
invece è denso di queste contraddizioni. La razionalità limitata, come singolarità, rimane
infatti sempre una risorsa interna che agisce su un problema esterno; è alleata di concetti
come intenzioni e obiettivi, anch’essi presunti elementi del decision-making organizzativo
diretto dall’interno dell’individuo; riproducente dualismi soggetto/oggetto, attivo/passivo. In
quali forme convivono autonomia e discrezionalità? Quando e dove l’una si trasla
nell’altra? Attraverso quali passaggi? Questi sono alcuni esempi di domande che
emergono dallo studio dell’organizzazione nel genere actor-network. Seguire le
rappresentazioni materiali, gli artefatti, orientarsi agli oggetti, è il suggerimento
metodologico in base al quale poter perseguire tali interrogativi. Lo spazio di analisi si
estenderà ad una dimensione interorganizzativa, multi-locale (Markus, 1995). Non
combaciando il tempo degli oggetti e il tempo delle organizzazioni, una biografia della
tecnologia, della produzione, prenderà il posto di una biografia della singola
organizzazione (Hyssalo, 2005). Lo spazio di ricerca verrà definito dalla traccia della
circolazione attraverso diversi contesti di un oggetto manifestamente materiale: la
rappresentazione è costruita, e tale costruzione minimalmente coinvolge altre materie

11
prime, altri elaboratori e forza lavoro; tali materie prime e tali elaboratori saranno a loro
volta prodotti o manufatti; e la forza lavoro avrà una sua specifica provenienza.

3.3 Rappresentazione come portavoce condiviso

Una elaborazione della nozione di rappresentazione particolarmente efficace per


distinguerla dal concetto di informazione consiste infine nel considerare ‘rappresentazione’
(induzione) e ‘rappresentatività’ (elezione) come aspetti entrambi appartenenti al concetto
di rappresentazione nel ‘genere’ actor-network (Callon, 1986). Quando un oggetto è
rappresentato da un’altro oggetto, modello o diagramma, gli epistemologi parlano di
induzione. Mentre quando una persona è rappresentata da un’altra persona, gli scienziati
politici usano la nozione di portavoce. Nella genere actor-network, i due termini si
interpretano come uno stesso processo di traslazione, basato su un comune doppio
movimento. Il primo è il displacement di una entità da un luogo all’altro: siano essi dati
empirici o elettori. Il secondo è la selezione degli intermediari che permettono di pervenire
alla selezione di un portavoce: siano esse formule matematiche o votazioni. Si propone
quindi di usare in entrambi i casi la nozione di portavoce per tutti gli attori coinvolti nei
differenti livelli del processo di rappresentazione, indipendentemente dal fatto se esso
coinvolga umani e non-umani. Parlare in nome di altri significa in entrambi in casi per
prima cosa ridurre al silenzio, alla inazione, coloro per cui si parla.
Tale logica negoziale e controversa, pertinente alla nozione di rappresentazione nel
genere actor-network, non viene conservata all’interno delle analisi di organizzazioni come
organizzatrici di informazione in base ad una intenzionalità limitatamente razionale. La
ragione di questo sembra essere il postulato che ci sia una entità ‘naturale’ chiamata
‘informazione’ che, come la razionalità limitata, è già costituita di fronte a noi. L’argomento,
nel genere actor-network, è invece che la nozione di rappresentazione non necessita di
questo postulato a-prioristico. E che l’informazione si basi su delle rappresentazioni la cui
natura di ‘portavoce condiviso’ è tutt’altro che scontata.

4. Il metodo di ricerca e l’intervento nel genere actor-network

Presentando in introduzione il ‘genere’ actor-network, è stato detto che gli attanti sono
eventi: attori-rete, e che ogni attore-rete è completamente specifico e non riducibile a
nessun’altro attore rete. Dopo aver definito lo spazio di ricerca come multi-locale,
interorganizzativo ed orientato agli oggetti (nel loro senso non univoco di oggettività, vedi
sezione 2), questa sezione ritornerà sull’aspetto di unicità dell’attore rete. Tale
affermazione di irriducibile unicità porta le analisi che rientrano nel genere actor-network a
prediligere il metodo dei casi di studio. Questa sezione è dedicata a specificare
l’accezione in base alla quale si intende la nozione di caso di studio all’interno del genere
actor-network. Si è detto infatti che, sebbene per il ‘genere’ actor-network, ogni occorrenza
di variazione strutturale è assolutamente irriducibile a qualsiasi altra o a fattori esplicativi
generali, ciò non impedisce a questo ‘genere’ di fornire analisi estese e creare connessioni
fra eventi disparati.

Ci sono due modelli tipici attraverso cui il procedere per casi di studio si relaziona con gli
approcci orientati a produrre argomenti generali dell’organizzazione.
Il primo modello è quello della procedura dal basso. Da questa procedura, tipica degli studi
prodotti all’interno dell’approccio alla tecnologia come im-posizione, non sembrano

12
derivare argomenti generali. Ciò che ne deriva, al massimo, è la negazione di principi
generali proposti in altri studi.
Nel secondo modello, diffuso all’interno degli studi afferenti alla prospettiva della
razionalità limitata, si adotta un programma a-prioristico e i casi di studio vengono
sviluppati all’interno di tale programma. Il problema di questo secondo modello è che, a
meno che non si argomenti una intuizione metodologica privilegiata, non c’è modo di
giustificare la posizione a-prioristica adottata.

Nella presente proposta avanziamo invece due diversi modi, collegati al ‘genere’ actor-
network, per affrontare il problema del grounding di ‘argomenti generali’ per l’analisi
dell’organizzazione attraverso la procedura per casi di studio.

Il primo è quello di adottare un ‘modello di interesse’, che può essere il marxismo, il


femminismo, o altro. Tali posizioni vengono anche definite etnocentriche. Sebbene il
‘modello di interesse’ etnocentrico sia riconducibile ad una procedura top-down, e privilegi
il punto di vista di una comunità specifica, può essere visto come non-assolutistico proprio
nella sua cosciente adozione di posizioni value-laden. Punti di vista temporanei, invece
che posizioni assolutistiche, possono infatti essere compresi fra gli strumenti metodologici
dell’analisi organizzativa in genere actor-network.

Un secondo approccio, connesso al primo, è quello di usare i casi di studio come evidenza
di quale metodologia funzioni meglio, senza adottare coscientemente alcun punto di vista
dall’inizio2. Secondo questo approccio, possiamo apprendere come apprendere.
L’evidenza di una scelta metodologica deriva, secondo questo approccio, dal successo dei
casi di studio svolti e tale evidenza non deve essere stabilita prima dell’uso. Il punto di
vista attraverso il quale viene adoperata la metodologia sarà pragmatico e temporaneo.

Non c’è ragione per pensare che la contestualizzazione dell’approccio ai casi di studio
come dai due esempi proposti sia da considerarsi al pari di una delegittimazione
scientifica: pratiche locali, fallibili e storiche non sono da considerarsi scientificamente
illegittime. La posizione anti-essenzialistica portata avanti da una teoria organizzativa
basata su casi di studio non corrisponde a sostenere che tutti gli argomenti universali
siano falsi. Ciò che rigetta è che vi sia un metodo scientifico universale per la teoria
organizzativa.

Il restringimento del punto di vista ad una comunità di riferimento sembra mettere fuori
gioco la possibilità di qualsiasi generalizzazione. Ma questo non è automaticamente vero.
Normatività dell’approccio e generalizzabilità della conoscenza prodotta non sono
necessariamente collegate (vedi ad esempio il diritto). Si è inoltre spesso pensato che una
analisi locale, non-teoretica, sia inadeguata a sostenere una posizione normativa, che la
conoscenza locale possa essere soltanto descrittiva. Queste preoccupazioni, basate su un
modello di grounding fondazionalista, non tengono conto del fatto concreto che le analisi
locali saranno tanto estese a seconda di quanto vorrà estenderle il ricercatore (Callon &
Latour, 1981) Se si trovano modalità per creare connessioni fra eventi disparati, il risultato
sarà quello di avere una analisi estesa Non c’è nessun limite teorico alla grandezza del
network analitico che si può creare. Infine, ricordiamo che nel genere actor-network,
perché una posizione abbia un effetto, è necessario che abbia alleati, che sia letta e citata,
2
Tale concezione si distingue dalla Grounded Theory (Martin & Turner, 1986) per il suo carattere utilitaristico. Non si
propone, come nella Grounded Theory, di procedere dalla raccolta dati alla generazione di concetti fino alla elaborazione
di una teoria locale ed originale. Quello che si propone nel genere actor-network è l’acquisizione e la sperimentazione
sul campo di una varietà di metodologie già disponibili, siano esse quantitative o qualitative (grounded theory fra le altre),
in una prospettiva di molteplicità metodologica.

13
e che faccia la differenza nella pratica; non si può dire in anticipo quale argomento possa
funzionare in una data comunità.

4.1 Il Social Practice Design

Dopo aver specificato alcuni aspetti metodologici della nozione di ‘caso di studio’ nel
genere actor-network, questa sezione riferisce di un preciso metodo di intervento
organizzativo ritenendo che esso possa esemplificare una logica di intervento di genere
actor-network. Alcuni autori hanno ‘usato’ la teoria actor-network negli studi organizzativi
(Czarniawska & Jorges 2005, Cooper & Law 1995, Cooper 1992). Nessuno di loro si è
avventurato però a produrre un preciso metodo di intervento. Latour, fondatore insieme a
Michel Callon della teoria actor-network, ha sostenuto in diversi punti la diversità del suo
approccio rispetto ad approcci derivanti da una visione della tecnologia contemporanea
come im-posizione (Latour 1994). In queste pagine si intende estendere tale diversità in
capo alla teoria actor-network, anche alla possibilità, non contemplata invece negli
approcci menzionati, di poter scegliere un piano di azione di natura progettuale. Tale
intenzione prende forma nel riferimento ad un preciso metodo di intervento (il Social
Practice Design), riferimento che intende esemplificare, ma non esaurire, il ventaglio dei
piani di azione di natura progettuale che possono discendere dal genere actor-network.

Il Social Practice Design (Jacucci 2007) è un metodo di intervento organizzativo


partecipativo che riconosce l’unicità di ogni di caso di studio (Ciborra 2002) e adotta il
punto di vista person-centred (Rogers 1951). L’unicità di ogni caso di studio si fonda sulle
differenti relazioni che si creano in situazione in ogni contesto (Ciborra 2002), mentre
l’approccio centrato sulla persona riconosce la necessità di pensare che le relazioni,
sebbene uniche, possano essere progettate almeno allo stesso modo in cui si ritiene si
possano progettare le tecnologie che tali relazioni supportano. Il Social Practice Design è
un metodo di intervento organizzativo che, pur ispirandosi a risorse teoriche precise
(Ciborra 2001, 2002; Rogers 1959, 1969, 1980), può essere accostato al genere actor-
network in quanto considera la tecnologia nelle organizzazioni come ‘iscrizione’ (Jacucci et
alii 2007,p. 143), dispositivo di fissazione delle relazioni sociali, la cui progettazione – se si
ammette vi possa essere una progettazione della tecnologia – passa necessariamente
attraverso la progettazione di relazioni sociali.
L’espressione Social Practice Design è provocatoria rispetto all’idea che le pratiche sociali
emergano per costruzione sociale, piuttosto che per design. La ragione per mantenere il
termine design nella definizione di un metodo di intervento orientato alle pratiche sociali
nelle organizzazioni è quello di ristabilire una simmetria nella produzione di aspetti sociali
e aspetti materiali, tecnologia e organizzazioni. I concetti ai quali il Social Practice Design
fa riferimento rispetto alla progettazione dei sistemi informativi informatici – termini come
cura, ospitalità, coltivazione (Ciborra 2001) – fanno pensare alla tecnologia come
elemento attivo, con facoltà di agenzia estese ad un registro considerato proprio del
sociale. Simmetricamente, una precisa “intentionality, proactive-ness and explicitly
declared initiative, creativity and planning, determination and persistence” (Jacucci 2007,
p. 93) è predicata rispetto alla progettazione della comunicazione efficace e alla
costruzione di relazioni interpersonali (di leadership, di cooperazione). Per queste ragioni,
il Social Practice Design propone una rigorosa procedura di intervento che verrà descritta
nella parte seconda, capitoloXXX.

5. Conclusioni

14
Utilizzando la prospettiva actor-network, la problematizzazione della nozione di oggettività
prima e di quella di informazione poi, hanno permesso di elaborare un metodo di ricerca
organizzativa e dei principi dai quali derivare nozioni di teoria. Per quanto riguarda la
nozione di oggettività, è stato ricordato come Latour propone un peculiare statuto
ontologico per le tecnologie nelle organizzazioni. Di esse non si può dire infatti che siano
im-posizioni3 o che incorporino irreversibilmente forme di oppressione e nemmeno che
siano monolitiche, in quanto non si può stabilire se esse esistano come oggetti, come
assemblaggi o come sequenze di azioni esperte da parte di un gruppo di progettisti
disperso nello spazio e nel tempo: ogni dato assemblaggio di artefatti può essere descritto
in modo reversibile, a seconda della crisi che lo attraversa. La nozione di tecnologia così
intesa produce uno spazio organizzato per la progettazione di tecnologie come pratica
sociale e per la progettazione sociale delle pratiche nelle organizzazioni, per ‘fare posto’
alla tecnologia, superando la visione tipica degli studi sociali dei sistemi informativi che vi
sia una tecnologia progettabile ma singolare e monolitica da una parte, e un contesto di
pratiche unico, idiosincratico e non progettabile dall’altra.
Allo stesso modo, la problematizzazione della nozione di informazione, permette di
osservare le organizzazioni non solo organizzatrici di informazioni, ma anche come luoghi
in cui si costruiscono le forme in cui appare l’informazione, cioè le rappresentazioni. Ciò
implica la selezione di un particolare sguardo sull’organizzazione, attento alle
caratteristiche fisiche concrete e incorporate dell’organizzare, al suo svolgersi nello spazio
attraverso la circolazione di artefatti, attraverso processi di negoziazioni e alleanze.
Abbiamo riconosciuto infine nella proposta del Social Practice Design una forma di ricerca
intervento o ricerca azione che, progettando pratiche sociali, relazioni e alleanze per ‘fare
posto’ alla tecnologia, sia capace di colmare lo spazio di natura progettuale creato dalle
riflessioni teoriche sopra esposte.

3
La distinzione della teoria actor-network rispetto agli approcci alla tecnologia come im-posizione-, presenta i limiti della
tassonomia localmente prodotta. Sebbene la lettura di Heidegger della tecnologia sia stata presentata in questo
contributo come contrastante rispetto a quella di Latouril rapporto tra la filosofia di Heidegger e quella di Latour è ben più
complesso di una mera contrapposizione. In conclusione vorrei offrire alcuni spunti di riflessione riguardanti una
continuità fra le due metafisiche. Con l’esempio del calice d’argento come vaso sacrificale, fatto da Heidegger e già
considerato in precedenza in questo contributo, il filosofo invita a rendersi conto che se certamente esso può contenere
un liquido, per esempio del vino, vi é qualcosa in più di un contenitore che viene presentato. A pensarci bene infatti
(ancora secondo l’esempio del filosofo), possiamo avvertire come il vino venga prodotto dall’uva che cresce nella terra,
come questa sia innaffiata dalla pioggia e irradiata dal sole; si tratta di un vino che, in quanto é stato prodotto un calice
sacrificale, gli uomini offriranno in dono alle divinità. Vi sono così quattro elementi che vengono collegati tra loro: la terra,
il cielo, i mortali e le divinità. Questo é ciò che viene, i suoi strumenti. Tale quadripartizione heideggeriana (terra, cielo,
mortali e divinità), rivelata o svelata attraverso la produzione dell’artigiano che ha utilizzato la sua propria tecnologia, è
stata considerata, da alcuni interpreti del pensiero del filosofo (Harman, 2002), come avente due assi (terra e divinità;
cielo e mortali) ognuno dei quali derivante dai due differenti concetti di oggettività che si ritrovano in Heidegger:
zuhanden, oggetto reale, e vorhanden, oggetto apparente. Senza rinunciare alle obiezioni già presentate in sezione 2, in
scritti più recenti (Latour 2005; 2000), Latour sembra tornare sulle sue idee per quanto riguarda la “sola disposizione,
che connette problemi ontologici con problemi epistemologici, etici e politici”. In “Politiche della Natura” (2000), Latour
propone di superare il dualismo fra fatti e valori, aspetti materiali e aspetti sociali, raddoppiandolo in una quadripartizione
bicamerale, che evidenzi maggiormente il lavoro di traslazione necessario alla loro produzione. Le camere sono due:
“presa in considerazione”, che rassomiglia alla sede Heideggeriana dell’”essere gettati”,del “passato”, di “ciò che è
velato”; e “ordinamento” che rassomiglia alla nozione Heideggeriana di “proiezione”, “futuro”, “svelamento”. Allo stesso
modo di Heidegger, le due camere si suddividono ulteriormente in due aspetti: “presa in considerazione” comprende due
movimenti: perplessità (fatti) e consultazione (valori); la seconda camera “ordinamento” è popolata da istituzioni (fatti) e
gerarchizzazioni (valori).

15
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