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Aristotele: la felicità nell’Etica Nicomachea

• identità di bene e fine. (bene: tutto ciò cui tende).


• felicità: bene supremo, ossia fine supremo.
• felicità: bene perfetto e soddisfacente.
• La felicità è un fine che tutti perseguono per se stesso, non in vista di qualcos’altro, e costituisce così lo scopo più
elevato da realizzare per ogni singolo individuo.
• Il bene e la perfezione di un ente consistono nell’opera più conforme alla sua natura, proprio come nel caso di un
qualsiasi artigiano la cui perfezione si trova sempre nel compimento della sua opera specifica.
• Inoltre la virtù di qualcosa consiste nella capacità di quest’ultimo di realizzare il proprio compito specifico nel modo
migliore possibile. Qualunque cosa esistente trova quindi la sua virtù nello svolgere la propria funzione specifica al
livello più alto raggiungibile.
• Aristotele ricerca poi se esista l’opera propria dell’uomo in quanto tale e non in quanto specifico artigiano, cioè se vi sia
un agire caratteristico dell’essere umano come tale, realizzabile da tutti. Aristotele ritiene di poter riconoscere l’attività
peculiare degli esseri umani per mezzo del confronto con gli altri esseri viventi: infatti, una volta escluso tutto ciò che
appartiene anche alle piante o agli altri animali (come il nutrirsi, la crescita o la mera sensazione), egli afferma che
l’opera propria dell’uomo può consistere soltanto nell’attività dell’anima secondo ragione. Ma anche questa attività
può essere praticata a diversi livelli e perciò bisogna aggiungere che essa dev’essere condotta nel miglior modo
possibile. Abbiamo visto che la capacità di portare avanti il proprio compito nel modo migliore possibile coincide con la
virtù di chi agisce; per questo motivo si può dire che l’opera propria dell’uomo consiste nell’attività dell’anima
secondo ragione e secondo virtù.
Aristotele: la felicità nell’Etica Nicomachea

• Il bene dell’uomo deriva quindi da questa attività e maggiore sarà la perfezione dell’attività più elevato sarà il bene raggiunto da chi agisce.
• Da tutto questo ragionamento incalzante è possibile ricavare la prima approssimativa definizione aristotelica della felicità: la felicità
corrisponde all’attività dell’anima secondo virtù, e più precisamente (dato che per Aristotele le virtù sono più di una) secondo la virtù
migliore propria dell’uomo. (Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1098, a 7-18).
• Bisogna anche aggiungere un’altra condizione necessaria per la realizzazione della felicità: la durata di questo stato. Infatti, Aristotele
precisa che tale attività dovrebbe durare per tutta una vita intera, perché una sola giornata o un breve periodo di attività non producono la
felicità, così come una sola rondine in cielo o un solo giorno di bel tempo non bastano per poter dire di essere in primavera.
• Aristotele fa poi delle precisazioni importanti su alcuni aspetti di questa definizione. Prima di tutto afferma che non basta possedere la virtù
per essere felici, ma è necessario anche esercitarla: poiché la felicità consiste in un’attività dell’anima, il solo possesso di qualcosa non può
essere sufficiente a realizzarla. (Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1098 b 31 – 1099 a 3).
• Un altro tema interessante affrontato molto acutamente da Aristotele riguarda il rapporto della felicità con i beni esteriori; il filosofo
sostiene fermamente che per ottenere la felicità sono necessari anche alcuni beni esteriori, perché altrimenti verrebbe meno la possibilità
stessa di compiere belle azioni. (Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1099 a 31-33).
• Infine Aristotele prende in considerazione la questione riguardante la durata della felicità ed il suo conseguimento all’interno della vita
umana. Un uomo con un comportamento conforme a virtù e con tutti i beni esteriori necessari sarà senza dubbio felice e secondo Aristotele
potrà con molta probabilità rimanere tale: infatti, per un uomo virtuoso un atteggiamento conforme a virtù è facile da mantenere, è il più
sicuro per quanto riguarda i risultati e può essere considerato il modo di comportarsi più stabile, nonostante gli eventi esterni che possono
verificarsi. Per questo motivo secondo lo Stagirita non dobbiamo aspettare la fine della vita di un uomo per stabilire che esso è felice, ma un
qualsiasi essere umano in grado di vivere nel modo adeguato e fornito sufficientemente dei beni necessari può essere detto felice. (Cfr.
Aristotele, Etica Nicomachea, 1100 a 10 – 1101 a 21).
Aristotele: la felicità nell’Etica Nicomachea
• Dopo aver chiarito questi presupposti generali Aristotele passa ad esaminare il concetto di virtù in generale e poi le singole virtù etiche e
dianoetiche, ritornando sul tema della felicità soltanto nel decimo libro dell’Etica.
• Infatti, per determinare meglio la definizione fornita all’inizio è necessario stabilire quale sia la virtù suprema che gli esseri umani possono
coltivare. Aristotele aveva detto che la felicità corrisponde all’attività dell’anima secondo virtù e più precisamente secondo la virtù migliore di
tutte. Ma qual è la virtù suprema? A questa domanda rispondono i libri precedenti dell’Etica Nicomachea, e forte di questa risposta Aristotele
ritorna a chiarire la sua precedente definizione. Prima, però, sgombra il campo da possibili malintesi, chiarendo che la felicità non può identificarsi
con il divertimento piacevole. Quest’ultimo è qualcosa di adeguato a uomini da poco e al massimo può andare bene per i tiranni o per i ragazzi.
Invece, il bene supremo è soltanto ciò che sembra tale all’uomo virtuoso: così l’uomo buono diventa per Aristotele il criterio di misura per mezzo
del quale si giudicano il bene e il male. Secondo Aristotele per l’uomo virtuoso il piacere non può mai coincidere con la felicità e perciò questa
identificazione dev’essere necessariamente scartata. Anche uno schiavo, egli dice, può godere dei piaceri del corpo, eppure nessuno potrebbe
affermare che uno schiavo possa essere felice, mancandogli la libertà; questo fatto testimonia che i piaceri del corpo non sono la cosa più elevata.
(Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1176 b 6 – 1177 a 10).
• Eliminati questi fraintendimenti, Aristotele ritorna alla definizione abbozzata nel primo libro e la completa per mezzo dei risultati ottenuti
dall’analisi delle diverse virtù umane. Dal suo esame risulta che la virtù più elevata in assoluto è la sapienza (sophìa), e perciò essa dovrà essere la
virtù guida per il raggiungimento della felicità, ovvero dello stato più alto concesso agli uomini. Poiché la felicità è l’attività conforme alla virtù
migliore dell’uomo, essa corrisponderà necessariamente alla contemplazione: secondo Aristotele, infatti, quest’ultima è l’attività conforme alla
sapienza, l’attività in cui la sapienza esplica al massimo grado le sue potenzialità. Così, la felicità rappresenta per gli uomini il bene supremo e viene
a coincidere con la pura contemplazione, lontana dalle contaminazioni mondane e rivolta verso gli oggetti più elevati a cui possiamo giungere con la
sapienza umana. Realizzando tale attività contemplativa gli esseri umani realizzano il loro stato massimo di beatitudine, cioè la felicità, perché la
felicità è l’attività perfetta conseguente alla virtù perfetta. (Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1177 a 12 – b 26, dove si trova uno degli elogi più
belli della vita conoscitiva e contemplativa, di cui il filosofo era un grande sostenitore).
• Aristotele è tanto convinto della superiorità di un tale modo di vivere che attribuisce agli dei questa sola attività: gli dei praticano continuamente ed
esclusivamente la contemplazione e perciò sono sommamente beati. Gli uomini invece devono anche pensare a soddisfare i loro bisogni materiali e
per questo motivo hanno necessità di possedere alcuni beni esteriori, la cui importanza Aristotele aveva già messo in evidenza. La necessità di questi
beni esteriori è comunque notevolmente maggiore per chi vuole realizzare una vita secondo le altre virtù, a causa delle loro implicazioni mondane e
sociali, mentre i beni esteriori sono ridotti al minimo proprio per quanto riguarda la pratica della contemplazione.
Aristotele: la felicità nell’Etica Nicomachea
• La contemplazione risulta così essere anche più indipendente delle altre attività dal mondo esterno e quindi sarà più facile metterla in atto e
continuare a praticarla anche se le condizioni materiali cambiassero. Per tale motivo il sapiente sarà più autonomo dagli altri e più svincolato
dai cambiamenti esterni rispetto a chiunque altro, e la sua felicità sarà perciò più costante e più sicura.
• Con le sue analisi Aristotele ci ha fornito contemporaneamente una precisa ed accurata definizione della felicità ed un’indicazione della vita
per conseguire quella condizione privilegiata costituita da uno stato di piena felicità, quella stessa via teoretica e contemplativa che lui ha
cercato di percorrere durante tutta la sua esistenza.

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