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male
1. Concezione oggettiva:
a) il male è uno dei poli di un dualismo interno all’essere, diviso tra i due principi opposti
del bene e del male;
b) il male è l’antitesi dell’essere, e identificato quindi con il non essere.
2. Concezione soggettivistica: il male perde ogni connotazione ontologica, configurandosi
come l’oggetto di un giudizio negativo di valore e come tale relativo al sistema di norme e
valori su cui si fonda tale giudizio.
1. La concezione dualistica:
Zoroastrismo ( o mazdeismo): il male è un principio ontologico-metafisico
antitetico al bene; lo zoroastrismo (o mazdeismo) è caratterizzato da una concezione
dualistica che contrappone alla divinità (Ahura Mazda), quale Spirito Benefico
(Spanta Mainyu), uno spirito malefico (Angra Mainyu, Arimane).
Manicheismo: concepisce tutto l’esistente come espressione di una lotta perenne tra
due principi opposti: il Bene (la Luce, lo Spirito, Dio nel senso proprio della parola)
e il Male (le Tenebre, la Materia, lo Spirito demoniaco).
Bayle (XVII sec.): riafferma l’esistenza positiva del male; riprende in polemica con
Leibniz le argomentazioni epicuree contro gli stoici (de gli dei volessero togliere il
male dal mondo, ma non potessero farlo, non sarebbero onnipotenti; se lo potessero
ma non lo volessero, sarebbero malvagi); sostiene la superiorità dal punto di vista
razionale del manicheismo, al fine di sottolineare l’incompatibilità del male, in tutte
le sue forme, con l’onnipotenza divina e con la perfezione dell’Universo. Per Bayle
il male esiste.
Malebranche: il male è altrettanto reale quanto il bene; risolve il problema del male
e della responsabilità divina asserendo che la bontà di Dio, con la quale egli vorrebbe
impedire il male, è subordinata alla sua saggezza, che gli comanda di non
moltiplicare le leggi di natura con una serie di decreti ad hoc, di violazioni delle
leggi generali che, sole, sarebbero in grado di impedirlo.
In alcune interpretazioni della dottrina dualistica i due principi antitetici del bene e
del male non vengono intesi come realtà separate, ma ricompresi in Dio stesso; così
il mistico Böhme, nel XVII sec., sottolineando la presenza in tutti gli aspetti della
realtà di due principi in lotta, ossia il bene e il male, ne attribuisce la causa alla
compresenza in Dio dei due principi antagonisti identificati con luce e tenebre,
amore e odio, bene e male.
Idee analoghe saranno riprese da Schelling nelle Ricerche filosofiche sull’essenza
della libertà umana, 1809, in cui, richiamandosi alla distinzione da lui operata tra
essenza in quanto esiste ed essenza quale semplice fondamento dell’esistenza,
postula una «natura di Dio», una brama, un volere cieco e sregolato di uscire
dall’oscurità, in tensione costante con il principio luminoso dell’intelletto. Essendo
però in Dio questi due principi intrinsecamente uniti, non vi è in lui distinzione tra
bene e male, laddove con la separazione di tali principi nell’uomo nasce la possibilità
del male.
L’idea che il male sia contenuto in Dio stesso, sia pure in forma di possibilità vinta e
superata, ritorna nella filosofia contemporanea con Pareyson, secondo il quale
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l’onnipotenza divina, in quanto assoluta, deve essere intesa anche come libertà di
volere il male.
Un altro filosofo contemporaneo, Jonas, nega invece l’assoluta onnipotenza divina e
sceglie di risolvere il problema della realtà del male optando per la prima delle
alternative che erano state indicate da Epicuro: Dio è buono, ma non onnipotente, e
quindi non è in grado di eliminare il male.
3. La concezione soggettivistica:
Nella concezione soggettivistica il male è inteso non come realtà o irrealtà, ma come
disvalore, ossia come oggetto di un giudizio negativo di valore, e implica pertanto il
riferimento alle norme e ai valori sui quali si fonda tale giudizio. Eventi e
comportamenti sono definiti male non per un loro particolare status ontologico o
metafisico, bensì perché entrano in contrasto con tali sistemi normativi e assiologici.
Questa concezione soggettivistica si afferma soprattutto a partire dalla filosofia
moderna. «L’uomo chiama buono l’oggetto del suo desiderio, cattivo l’oggetto del
suo odio o della sua avversione, vile l’oggetto del suo disprezzo. Le parole ‘buono’,
‘cattivo’, ‘vile’ si intendono sempre in rapporto a chi le adopera; perché non c’è
nulla di assolutamente e semplicemente tale e non c’è nessuna norma comune per il
bene e per il male, che derivi dalla natura delle cose», scrive Hobbes (Leviatano, I,
6). Hobbes sostiene quindi il relativismo.
Locke dal canto suo afferma: «Ciò che è atto a produrre piacere in noi è quello che
chiamiamo bene e ciò che è atto a produrre dolore è ciò che chiamiamo male; e per
nessun’altra ragione tranne la sua attitudine a produrre in noi piacere o dolore, nelle
quali cose consiste la nostra felicità o infelicità» (Saggio sull’intelletto umano, II, 21,
43).
L’interpretazione del male in termini soggettivistici verrà poi riproposta e sviluppata
da Kant, secondo il quale bene e male non possono essere determinati
indipendentemente dalla facoltà di desiderare dell’uomo, e quindi non sono realtà o
irrealtà autonome. E in questi termini Kant interpreta anche l’ineliminabile
inclinazione al bene, testimoniata dalla presenza della legge morale. Il «male
radicale» è la tendenza ad adottare una massima di comportamento contraria alla
legge morale; pur nella consapevolezza di questa, e dunque la possibilità di
contravvenire alle norme morali proprie dell’uomo La ‘cattiveria’, in questa visione,
è pertanto una scelta che dipende dalla libertà, è una «inversione dell’ordine morale
dei moventi» consistente nel subordinare la legge morale all’amore di sé.
Sarà questa, variamente declinata, la linea di pensiero dominante nella riflessione
filosofica sul tema del male sino all’epoca contemporanea.
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