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NUCLEUS – WE’LL TALK ABOUT IT LATER (Marzo 1971)

Certa musica solletica il cervello, lo punta verso una direzione che non possiamo
nemmeno identificare, lo tuffa in una vertigine che, ben lungi dall'essere caotica, è in realtà
una costruzione architettata al millimetro. Qualcosa che ci arricchisce.
"We'll Talk About It Later" è un esempio di quella certa musica. Musica per i neuroni. Un
album che l'ensemble riunito intorno a Carr registra in una manciata di giorni sotto
l'influsso della vittoria al Festival Jazz di Montreaux. In quell'occasione i Nucleus
avevano suonato un set di venti minuti trascinato da vari temi tutti diversi e concatenati,
qualcosa che già era nelle loro corde già dal disco di esordio. E infatti nel loro secondo
lavoro (presentato da un'altra bellissima cover, stavolta targata Roger Dean) le
composizioni si dilatano, assumono una dinamicità e una spinta nuova e del tutto
inaspettata, molto più colorata rispetto alla sobrietà e ai toni dimessi di "Elastic Rock".
Cosa più importante, i nostri qui sono una vera band, un gruppo solido (e purtroppo
effimero) che ruota soprattutto intorno al pirotecnico asse Jenkins - Spedding. Prendiamo
"Song For The Bearded Lady": un inizio che già mette le sinapsi sull'attenti, un pezzo
unico, partorito dall'oboista ma partecipato da tutti con un'energia quasi estatica. E'
trascinante, riflessivo, metodico, vivo in tutto e per tutto.
La caratteristica di "We'll Talk" è proprio questa sua vitalità cangiante, cerebrale eppure
diretta, complessa eppure perfettamente equilibrata: in questo senso i solismi non
sono mai fine a sé stessi, ma sono cullati, motivati, come nella solidissima "Sun Child",
guidata dall'oboe, che tra l'altro fa emergere la polipesca e raffinata abilità di John
Marshall, uno che dietro alle pelli fa quello che vuole. A conferma del fatto che nella
categoria del jazz-rock i Nucleus ci stanno proprio stretti c'è il tocco esotico e delicato di
"Lullaby For a Lonely Child": retto dai fiati di Carr e Brian Smith, ciò che lo caratterizza
maggiormente è però il sorprendente bouzouki (una specie di banjo alla greca) suonato da
Spedding, che ci accarezza la coscienza con ficcante gentilezza. E poi ancora energia
pulsante nelle title track, dove in prima linea è ancora Spedding, che non ha l'esplosività
tecnica di Allan Holdsworth ma ha un gusto per le cesellature e le finezza ritmiche che ci
fa crollare in ginocchio inebriati. I poderosi botta e risposta tra lui e Jenkins cementati da
Marshall sono vera manna per le orecchie e per ciò che ci sta in mezzo, e manna sono gli
sperimentalismi ritmici e atmosferici di "Oasis", quasi dieci minuti di racconto mentale,
ipnosi in cui il suono rotondo della tromba si incrocia con lo strillo dell'oboe. Ma abbiamo
anche la freschezza, l'agilità e l'apparente cialtroneria di "Ballad Of Joe Pimp", uno dei
pochissimi brani cantati della band, sbalorditivo omaggio e "giù il cappello" per il baffo
Frank e il suo pappone di "Hot Rats". Credo che la voce sia di Spedding (già cantante su
"Mantle Piece" del progetto Battered Ornaments) che si esibisce anche in "controcanti"
con chitarre sovraincise e wah-wah.
Il finale è corale, figlio maggiore di "Battle of Boogaloo", rutilante e poderoso. "Easter
1916", ispirata ai moti irlandesi di quell'anno, è una vera e propria maratona, e come tale
ha la sua vita e la sua progressione: tutti in pista al via, lanciati in un'improvvisazione
all'inizio guidata, poi sciolta e fiammante,c'è anche una voce roca e particolare che
diviene strumento essa stessa. Poi pian piano si delineano le posizioni, e gli strumenti
scivolano lontano; prima lascia la voce, poi la chitarra, il basso, alla fine i duellanti
rimangono in due, sax e batteria, a rincorrersi, cercarsi, sfidarsi ed evitarsi. La spunta
Marshall, suo il proscenio, quaranta secondi di lucida foga batteristica, rullata e stop.
Questo liquido sonoro è linfa per i cervelli attenti; un disco unico che si riscopre, e vi
riscopre, ogni volta.

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