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Alessandro Marzo Magno

(a cura di)

LA GUERRA DEI DIECI ANNI

Jugoslavia 1991-2001:
i fatti, i personaggi, le ragioni dei conflitti

Copyright 2001 il Saggiatore, Milano


Presentazione
Il 26 giugno 1991 la guerra di Slovenia dava inizio alla dissoluzione della Jugoslavia e inaugurava
il decennio di conflitti sanguinosi che hanno sconvolto i Balcani. Da questo primo focolaio gli scontri
si sono diffusi, come un'epidemia, anche in Croazia, con i primi massacri e il bombardamento di
Dubrovnik, in Bosnia, con le pulizie etniche, gli stupri, le stragi, in Kosovo, con la repressione serba
e i bombardamenti della Nato, fino ai recenti e anomali episodi in Macedonia: scenari diversi,
diverse etnie, diverse religioni, diverse cause di tensioni, ma sempre la stessa figura sullo sfondo: il
burattinaio Slobodan MiloSevic, l'uomo che nel 1991 diede l'ordine ai carri armati federali di
marciare sulla Slovenia. L'uomo che il primo aprile 2001, dieci anni dopo, è finito in una cella del
carcere di Belgrado.
Questo libro è una ricostruzione minuziosa e completa, l'unica esistente, delle cinque guerre che
tanto da vicino hanno riguardato l'Italia, sia per la prossimità fisica dei luoghi dei combattimenti
(Sarajevo dista soltanto poche ore d'auto dal confine italiano), sia per le ondate di profughi che si
sono riversate al di qua dell'Adriatico.
Attraverso la bruciante attualità dell'arresto di «Slobo», risalendo alle radici antichissime dei
rancori etnici che hanno fatto dei Balcani una polveriera sempre più minacciosa, questo volume è a
un tempo reportage e rigorosa ricostruzione storica arricchita dalle schede biografiche dei grandi
protagonisti. Un libro scritto «in presa diretta», una testimonianza a più voci di cinque giornalisti
italiani, uno sloveno e uno bosniaco completata dall'appendice di uno storico che hanno assistito di
persona agli eventi raccontati; un valore aggiunto impareggiabile, che soltanto la Storia vista con i
propri occhi può conferire.

Questo libro raccoglie scritti di: Adriano Sofri, giornalista, per oltre un anno a Sarajevo durante la
guerra; Ervin Hladnik Milharčič, inviato del quotidiano sloveno «Delo»; Barbara Gruden, giornalista
Rai; Marco Ventura, inviato del «Giornale»; Zlatko Dizdarevic, già direttore del quotidiano di
Sarajevo «Oslobodjenje»; Gigi Riva, già inviato del «Giorno», direttore del «Giornale di Vicenza»;
Alessandro Marzo Magno, giornalista del settimanale «Diario»; Toni Fontana, già inviato
dell'«Unità», conduttore di Radio3mondo; Marco Cuzzi, collaboratore della cattedra di Storia
contemporanea, facoltà di Scienze politiche, Università degli studi di Milano.
La purezza etnica porta inevitabilmente al gozzo e al rachitismo.

Claudio Magris, Microcosmi


La prima e l'ultima volta (di Adriano Sofri)
Succede alle grandi comunità come alla persona che abbia sofferto di una malattia o abbia corso
un rischio che le ha fatto guardare la morte in faccia, e ne sia guarita o scampata, più o meno illesa,
più o meno mutilata: immaginare davanti a sé una nuova vita, piena di senso e di saggezza quanto la
prima era stata sventata e quasi cieca.
Il Novecento ci aveva provato dopo la carneficina orripilante della Prima guerra dichiarata
«mondiale», rassegnandosi presto alla ricaduta: sicché la Seconda guerra apparve come
un'ineluttabile ripresa e compimento della Prima, solo interrotta. E insieme la Seconda guerra
apparve così immane, così devastante da aver colmato ogni misura immaginabile. Le atomiche su
Hiroshima e Nagasaki non la suggellarono e neanche le appartennero: piuttosto, la presero a pretesto
per dare avviso del tempo nuovo e davvero ultimo. D'ora in poi, la pace o la distruzione totale. Il
mondo, con la voce stentorea delle Potenze e con quella sfinita dei popoli, proclamò: Mai più. Mai
più guerra. Mai più Hiroshima. E mai più Auschwitz. Non si pensava ancora che un «mai più»
potesse entrare in concorrenza con l'altro, e tanto meno in contrasto. L'atomica riassumeva tutto. Era
la fine del mondo per mano umana, la distruzione inaudita. (Ad Auschwitz si era «solo» perseguita
con metodo la fine di un mondo...)
Il mondo uscito dal 1945 volle credere di essersi lasciato alle spalle un'intera eredità di orrori,
per esaurimento e spavento più che per idealismo. Ciò che era appena, per un'ennesima e mostruosa
volta, avvenuto, era dichiarato solennemente avvenuto per l'ultima volta. Ma già si era intravista
un'ambigua mescolanza di ultime e prime volte. Perché la Seconda guerra fosse l'ultima, non si era
forse fatto ricorso alla prima volta dell'atomica? L'atto micidiale che metteva la parola fine sulla
Seconda guerra non era stato insieme un atto inaugurale?
Ci volle poco per abituarsi a sentire che la nuova vita si sarebbe tenuta sul filo della lama della
vecchia, ma con un'enorme differenza di potenza. Che la Guerra si sarebbe dilazionata e sventata al
costo di una moltiplicazione di guerre locali e periferiche. Che la Pace sarebbe stata il frutto via via
aggiornato di una bilancia del terrore. Anche quell'altro fenomeno così novecentesco, inaugurato
contro gli armeni in Turchia e perfezionato contro gli ebrei in mezzo all'Europa, per il quale era stato
appena coniato per la prima volta il neologismo «genocidio», diventò endemico in gran parte della
terra. Anno dopo anno, e salva qualche reviviscenza d'occasione, lo slogan (all'inizio era stato una
specie di giuramento sacro) «mai più» veniva pronunciato meno, e con qualche imbarazzo. Nei
cartelli delle manifestazioni e delle proteste si leggeva piuttosto «Basta»: «Basta» è la versione
mortificata di «mai più», ammette subito la propria intenzione di esclamazione e di sfogo senza
pretese. Tuttavia, in una parte minore del mondo, nel suo settentrione ricco e governato secondo
regole elettive, guerre e stermini di massa sono stati esclusi. Gli abitanti di questa parte benedetta si
sono persuasi che per loro il «mai più» del 1945 avesse vigore definitivo. L'Europa, il Nord
America conoscevano violenze politiche, o sociali, o nazionalistiche, anche ampie e brutali: ma
niente che potesse paragonarsi alle guerre e ai massacri etnici e religiosi del mondo povero. Questo
privilegio è durato quasi mezzo secolo. Moltissimo, rispetto alla storia umana, di cui i moralisti non
sanno se dire che è una lunga pace inframmezzata da guerre, o una perenne guerra con qualche
parentesi di pace. Pochissimo, rispetto al «mai più» e alle nostre nuove abitudini. Avevamo spostato
in là i confini delle cose impossibili nel nostro tempo e nel nostro spazio. Avevamo dato per
«acquisito» nella nostra parte di mondo il ripudio della guerra e del massacro nazionalista ed
etnicista, sessista e religioso. Avevamo ritenuto che si trattasse ormai della nostra seconda natura, di
una mutazione culturale dalla quale non si sarebbe più tornati indietro.
Oltretutto, i nostri disegni politici partivano da lì per andare oltre, dando per certo, esplicitamente
o no, che regressioni non fossero possibili. A posteriori, bisogna riconoscere che questo segna una
differenza radicale nei modi di misurarsi con la politica, con il governo delle cose e i modi del suo
cambiamento: se la civiltà corrente sia una seconda natura, profondamente radicata nella nostra
costituzione biologica e sociale, o una pellicola sottile e pronta a strapparsi, solo che la si carichi di
troppo peso e troppo bruscamente.
Forse anche la nostra esperienza personale della vita è in buona parte questa: uno scoprire e
ammettere con noi stessi che ciò che ci era sembrato impensabile, o impossibile per noi, avviene, e
avviene proprio a noi. Un'ammissione ripetuta tante volte, perdendo anche il ricordo delle prime
volte, la confidenza nelle ultime: ogni volta retrocedendo di un po', abbassando un po' il tono del
«mai più», fino a vergognarsi di pronunciarlo. Io sono nato durante l'ultima guerra.
Ho dunque avuto una vita lunga e del resto non priva di avvenimenti.
Ma davvero di tutte le esperienze che ho fatto della storia del mio tempo nessuna mi ha colpito
come le guerre che hanno accompagnato la dissoluzione della ex Jugoslavia. Per spiegarmi questa
impressione trovo ragioni varie, anche famigliari e personali. Le più importanti sono però comuni
alla mia generazione, e a quelle venute dopo. Mai, prima, a una generazione umana era stata
risparmiata l'esperienza della guerra, dell'arruolamento forzato, del combattimento, forse della morte,
delle mutilazioni, della prigionia, della fuga. Qualcuno dei nostri vecchi l'aveva fatta due, tre, quattro
volte nell'arco di una vita: sul Carso, in Africa, in Spagna, sui campi e i mari della Seconda guerra...
Quelli come me, che non si contentavano di farsi i fatti propri, erano andati magari a conoscerle, le
guerre, nei posti lontani cui erano riservate come una condanna fatale: a conoscere le guerre, cioè le
persone, il proprio prossimo. Ora la guerra era qui, «alle porte di casa», con il suo corteggio, il
sistema degli stupri, le stragi e le mortificazioni dei civili, le fosse comuni gli assedi i rastrellamenti
i lager i cecchini. Non era esattamente, si poteva obiettare, l'Europa democratica, ma il suo bordo:
condizionato dal recente socialismo reale e dal preteso atavismo balcanico. Ma era qui. I suoi
ragazzi erano come i nostri, stessi concerti, stessi jeans. Noi ci mettevamo cinquanta minuti ad
arrivare a Sarajevo da Falconara, con gli aerei militari dell'Onu, e cinquanta a tornare.
Lasciando lì ogni volta un popolo spettrale di persone affamate, bombardate, sparate e soprattutto
umiliate, a cui era impedito di evadere dalla città; neanche cinquanta minuti. Era inevitabile, prima di
ogni più meditato raffronto storico, figurarsi che qualcuno a suo tempo volasse, andata e ritorno, al
ghetto di Varsavia, o al campo di Auschwitz-Birkenau, e raccontasse che cosa aveva visto, anzi lo
mostrasse con le foto e i filmati, e tutto continuasse lo stesso.
Mai più, allora?
Chi legga questo libro faccia attenzione, qua e là, all'espressione «per la prima volta». Quante
cose sono successe «per la prima volta» nella ex Jugoslavia: «per la prima volta» in Europa, e dopo
la fine della guerra. Dunque non era stata, allora, l'ultima volta. Nel febbraio del 1994 per la prima
volta, dalla sua nascita, la Nato compie un'azione di guerra. Nel novembre del 1994 si svolge la
prima azione aerea massiccia in Europa dalla Seconda guerra mondiale.
Nell'aprile del 1995 per la prima volta il Tribunale internazionale dell'Aja indaga per genocidio:
fra gli imputati sono KaradŽic e Mladic. Nel giugno, per la prima volta dalla Seconda guerra
mondiale, militari dell'esercito tedesco vengono destinati a una missione all'estero. A Srebrenica, nel
luglio del 1995, viene consumato il massacro più grande che l'Europa abbia conosciuto dopo la
Seconda guerra: almeno ottomila assassinati e gettati in fosse comuni.
L'elenco dei record è ancora lungo. (Qualche volta succede che siano addirittura battuti i record
della Seconda guerra mondiale: così per la durata dell'assedio di una città, che era di Leningrado, ed
è diventato di Sarajevo.) Voi sapete che cosa succede anche nelle nostre vite personali con le prime
volte: che vengono seguite da una innumerevole, e sempre più rassegnata e inavvertita, sequela di
altre volte. Uno dei frutti più amari, nel rileggere gli anni della Croazia e della Bosnia Erzegovina,
sta nel riconoscimento puntuale, fin nei dettagli, della vicenda serbokosovara.
Guardate che l'Europa di questi anni ha mostrato un idealismo straordinario. Lo dico senza troppa
ironia: gli stati europei hanno messo in comune ciò cui più sentitamente e intimamente tengono, le
banconote. Intanto, erano tenuti in scacco e sbeffeggiati e usati come complici in affari e diplomazia
da bande di scannatori nazionalisti fino al razzismo. Questo è durato per molti anni. Tutti sapevano:
no, meglio, vedevano. A ogni telegiornale. Srebrenica è diventato un nome della memoria europea, a
titolo doppio: perché è in Europa e perché erano europei dei più onorati, francesi, inglesi, olandesi, i
militari che ne avevano garantito l'intangibilità, che l'abbandonarono al suo destino, che tennero
vilmente bordone ai macellai.
Noi abbiamo un nome per le azioni o le parole che vengono escluse dalla nostra vita civile, senza
che più ci interroghiamo sulla ragione dell'esclusione, per un ripudio che coincide con il nostro
essere più profondo: lo chiamiamo tabù. Sappiamo com'è difficile impossibile, in realtà descrivere i
caratteri essenziali che distinguono un paese o una popolazione da un'altra. Tuttavia sentiamo che
esistono. Io, per provare a definire un europeo, ricorrerei prima di tutto ai suoi tabù. L'europeo è uno
che ha reso tabù la violazione dell'incolumità personale, la pena di morte, il razzismo e l'odio per lo
straniero, la soggezione delle donne. Piuttosto, poiché si tratta di guadagni incubati per secoli, ma
stabiliti da poco, l'europeo è uno che si illude di quei suoi tabù, perché tiene loro supremamente.
Nella ex Jugoslavia l'Europa ha rotto, o visto rompersi, alcuni dei suoi tabù, e dunque è stata
costretta riluttante, pronta piuttosto alla rimozione a diffidare della solidità di tutti. Temo che anche
per questo la riflessione e la discussione sulla tragedia ex jugoslava dopo Dayton siano state così
rarefatte e appartate, perfino quando era evidente e incombente la replica kosovara della tragedia (e
lo è di nuovo, alla frontiera serbokosovara o in Macedonia: il nome omerico di «guerra dei dieci
anni» potrà mostrarsi ottimista).
Da un lato, un'insipienza dei poteri comunitari e statali combinata o mascherata di volta in volta da
realismo geopolitico o da affarismo vorace dissuadeva dagli esami troppo scrupolosi. Dal lato delle
persone, spettatrici o partecipi più o meno attive fino alla ingente novità di un volontariato civile e
disarmato, erede pratico e simbolico, e insieme rinnegatore, del volontariato militante e miliziano
che in Europa si era modellato sulla guerra civile spagnola , hanno giocato pregiudizi ideologici
eccezionalmente tenaci. Il carattere inaudito di quegli eventi spiega un po' la fuga nelle ideologie:
non ce li aspettavamo, non eravamo preparati. Più peculiarmente, quegli eventi colpivano alcune
posizioni nel punto di trapasso e conversione da vecchie fedeltà e illusioni a nuovi ideali congelati in
scolastica: così per il mito della Serbia antifascista e di sinistra da una parte, e del pacifismo di
principio dall'altra.
L'Europa democratica e liberale, e con lei l'intera comunità occidentale, ha, nei dieci anni,
conosciuto l'omissione di soccorso verso il proprio prossimo, sulla sua strada, alle porte della sua
casa. Ha visto le persone perseguitate, uccise e cacciate con il pretesto della nazionalità e della
religione. Ha visto le donne violate con il pretesto della tribù. Ha stretto mani di mandanti e autori di
queste imprese, e per perdonare a se stessa un cinismo troppo grande lo ha camuffato con un'ipocrisia
troppo grande. Quando le stragi erano troppo vistose per consentire l'inerzia, si è fatta schermo della
presunta impossibilità di accertarne gli autori.
Quando ha deciso di intervenire, ha manipolato se non falsificato la verità su una strage per avere
l'occasione che cercava (così sembra che sia successo a Račak). Ha commisurato il suo intervento
militare alla comprensibile premura per la vita dei propri uomini, ma spingendola fino a
un'oltraggiosa differenza fra il suo pregio e il disprezzo per le vite degli altri, anche quando si
trattava di persone non belligeranti. Non ha saputo cercare i criteri e i mezzi materiali di un'azione di
polizia internazionale, sostituendole l'azione di guerra più unilaterale e pressoché ridotta al
bombardamento dall'alto e da lontano. Ha offerto, con il cinismo affarista dei contratti privati con il
nemico pubblico o del ricorso alle armi più redditizie, come per l'uranio «impoverito», motivi di
disgusto e di scandalo alle persone da ogni parte delle frontiere, e pretesti a un pacifismo rassegnato
all'omissione di soccorso e al feticcio della sovranità nazionale e statale. L'Europa e la più vasta
comunità occidentale non sono le responsabili né prime né ultime della violenza scatenata nei
Balcani, e ne hanno subìto alla lunga una risacca: ricevendone i profughi indesiderati e mal amati,
sentendo minacciata la propria sicurezza, vedendo frustrata la propria autorevolezza. Come
nell'amarissima vicenda del Kosovo, che ha visto trapassare la discriminazione e la persecuzione
della popolazione albanese-kosovara nella vendetta contro la minoranza serba. Ma l'insipienza, la
dilazione, la viltà (e l'interesse pratico e il pregiudizio fazioso) della comunità internazionale hanno
una parte nell'esplosione delle tragedie e nella sua portata. L'Europa è per definizione il Vecchio
Mondo. L'esperienza dei Balcani ha segnato un ulteriore e precipitoso gradino nella sua vecchiezza,
un'esitazione quasi insuperabile a dire «mai più». Che sia almeno in parte compensata da una cura
più tempestiva e attenta per la prevenzione, la costruzione degli argini, e la riparazione, nei punti in
cui la piena ha già rotto. Mi piacerebbe dire che la storia serve a questo, dunque anche il bel libro
che avete in mano. Ma non ci credo, oppure sì: come un secchiello da bambini in mezzo a
un'alluvione del bel Danubio blu.
INTRODUZIONE
Una guerra decennale (di Ervin Hladnik Milharčič)

Lo spettacolo che si parava davanti ai nostri occhi aveva cessato di essere una novità da almeno
un decennio. Eppure stavolta, là sulle montagne al confine albanese, stava assumendo le dimensioni
bibliche dell'esodo: in una sterminata colonna, ecco un trattore Fergusson, una Zastava 101, un
trattore Imt 558, un trattore Labinprogres Lux, di nuovo un Imt 558, una Zastava 750, un
motocoltivatore con rimorchio, un secondo Labinprogres Lux, un trattore senza targa, un trattore, un
altro trattore, una Yugo Koral con il vetro posteriore sfondato, un trattore, un motocoltivatore, un
trattore, un altro trattore. Tutti incolonnati a formare una sorta di linea che, dipartendosi dalla
bandiera albanese al valico confinario di Morini presso Kukes, nell'Albania settentrionale, lambiva
prima le due aste da cui sventolavano le bandiere jugoslava e serba, poi delle barriere anticarro, e
infine si snodava a perdita d'occhio nel Kosovo per una lunghezza di tre chilometri.
Era l'aprile dell'anno 1999. Me ne stavo appoggiato alla sbarra dove i poliziotti albanesi stilavano
l'infinito elenco dei nomi e cognomi dei profughi che senza sosta affluivano da PriStina, Prizren e
Mitrovica. Un medico dell'organizzazione Medici senza frontiere, che li sottoponeva a una frettolosa
visita per accertare che non fossero feriti o malati, mi disse che in base al suo conteggio ne era
passato già mezzo milione. «Oggi ne ho contati seimila.» Chiesi a Blerim Shala come mai fosse finito
su quel trattore. Le persone intrappolate in quella tremenda colonna avevano tutte l'aspetto di
contadini sfiancati e abbruttiti dall'ignoranza, eppure tra loro c'erano attori del teatro di PriStina,
medici, docenti universitari. C'era per esempio Migjen Kelmendi, che negli anni ottanta a PriStina
aveva raggiunto la notorietà in veste di cantante rock, e che in seguito aveva girato in Albania un
lungo documentario, La maledizione dell'utopia, sulle carceri e i campi di concentramento di Enver
Hoxha. Anche lui era giunto da PriStina a bordo di un trattore. Se ne era andato in fretta e furia,
infilandosi in tasca solo due tavolette di cioccolato, di cui si era poi nutrito per ben dieci giorni.
Shala è uno dei giornalisti più apprezzati del Kosovo. Qualche settimana prima di montare sul
trattore per raggiungere il confine, aveva partecipato ai negoziati tra gli albanesi del Kosovo e
Slobodan MiloSevic a Rambouillet. Nella sua rubrica figuravano i numeri telefonici personali
dell'ambasciatore americano Richard Holbrooke, del ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer e
del generale Wesley Clark, comandante supremo delle forze militari della Nato.
Come era potuto accadere che le operazioni di espulsione degli albanesi dal Kosovo avessero
colto di sorpresa proprio tutti, che tutti, dai vertici politici nazionali all'infimo pastore della
Sarplanina, avessero reagito con la stessa passività, lasciandosi cacciare, uccidere o incarcerare
senza batter ciglio? Non si erano resi conto di ciò che stava per abbattersi su di loro? E a Shala, che
era stato nientemeno che uno dei negoziatori del destino del proprio popolo, com'era mai potuto
capitare di ritrovarsi ad attendere là, per quattro lunghi giorni, in quella fangosa colonna di profughi
al confine con l'Albania?
«Sono cose assai difficili da spiegare» mi rispose con tono stanco e pacato, dando voce a milioni
di persone che in dieci anni di guerra erano stati costretti a fuggire da paesi e città. «La parte politica
del mio cervello mi esortava a fuggire prima che iniziasse l'attacco della Nato. Sapevo ciò che
avrebbero fatto i serbi. Avevo cooperato a quel processo politico che aveva portato all'intervento. I
diplomatici occidentali mi ripetevano in continuazione che l'attacco avrebbe scatenato l'inferno, che
il regime serbo si sarebbe vendicato e che la Nato non sarebbe stata in grado di offrirci alcuna
protezione. Ci venne detto chiaramente di badare a salvarci la pelle, perché nessuno sarebbe venuto a
tirarci fuori dall'inferno. Se fossi capace di un ragionamento meramente politico, avrei fatto le
valigie e me ne sarei andato almeno una settimana prima che l'attacco avesse inizio. Ma l'altra parte
del mio cervello è uguale a quella di qualsiasi altro albanese. Sono assai riluttante a credere che
possa davvero accadere qualcosa di brutto. Continuavo a rimuginare su Kafka e sul suo Processo. Un
tale si ritrova imputato in un processo, al termine del quale viene scannato come un cane. Lui però
non cessa nemmeno per un istante di cercare una giustizia che naturalmente non può in alcun modo
ottenere, dal momento che contro di lui non è stata formulata alcuna accusa. E se non sai di cosa sei
accusato, non hai alcuna possibilità di dimostrare la tua innocenza. Sapevo che sarebbe successa una
tragedia, eppure mi rifiutavo di crederci.» Come gli abitanti di ViSegrad, Foča, Bratunac e altre città
ormai fantasma, anche gli albanesi si sono rifiutati fino all'ultimo di accettare il fatto di trovarsi
coinvolti in un conflitto che sarebbe stato la loro rovina. «Venerdì ero a Bruxelles, seduto allo stesso
tavolo con Wesley Clark, ad ascoltare il resoconto delle analisi geopolitiche della situazione nei
Balcani, il mercoledì successivo invece mi ritrovai rannicchiato in un appartamento non mio, al buio,
a chiedermi come tanti altri abitanti di PriStina quando sarebbero venuti a prelevarmi. Due giorni
dopo ero seduto su un trattore a verificare le conseguenze di quelle strategie geopolitiche. In fondo,
dopo tanto girare a vuoto, è giusto che alla fine sia stato il rimorchio di un trattore a condurci alla
libertà.» Il penultimo atto della guerra in Jugoslavia si svolse nel 1999 nel Kosovo, poiché il Kosovo
era l'ultimo lembo di terra dell'ex Jugoslavia per il quale Belgrado potesse ancora combattere. Nel
1989 visitai Podujevo, in territorio kosovaro, dove vidi per la prima volta dei carri armati jugoslavi
percorrere le vie di una città. Allo scoppio della guerra vera e propria mancavano ancora tre anni,
eppure il Kosovo, che godeva dello status di regione autonoma, sembrava un territorio occupato. Il
portello di uno dei carri armati che pattugliavano la città si aprì. Ne sbucò un ufficiale che esplose un
colpo di pistola verso la casa più vicina. L'uomo che stava sull'uscio si accasciò. Il giorno seguente
andai al suo funerale. Si chiamava Fadil Talla. Fu il primo jugoslavo a essere ucciso da un colpo
esploso da un carro armato dopo il 1945. Gli albanesi del Kosovo dimostrarono per le vie delle
città. La loro fu un'insurrezione di natura politica. Rivendicavano il diritto all'uguaglianza con gli
altri popoli costitutivi della Jugoslavia e dunque a una propria repubblica. Pur essendo infatti più
numerosi dei montenegrini e poco meno numerosi degli sloveni, erano trattati alla stregua di una
minoranza dall'autonomia limitata e dai diritti culturali piuttosto incerti. La loro richiesta di metter
fine all'egemonia serba sulle loro istituzioni trovò espressione in uno slogan di perentoria chiarezza:
Kosovo repubblica. Invece della repubblica si ritrovarono i carri armati per le strade. Un anno più
tardi persero anche l'autonomia di cui godevano dal 1974. E nei dieci anni seguenti si ritrovarono a
vivere in uno stato di polizia che era di fatto un'occupazione militare.
Sono sempre stato tentato di collocare l'inizio del conflitto jugoslavo in quel freddo febbraio del
1989, quando Fadil Talla fu sepolto sulla collina alle spalle di Podujevo. La disgregazione politica
del sistema vigente per un cinquantennio in Jugoslavia incominciò infatti proprio nel Kosovo, e
precisamente nel momento in cui lo stato federale manifestò la propria incapacità di tutelare i diritti
costituzionali dei cittadini. Allora divenne chiaro che ogni singolo popolo avrebbe combattuto da
solo contro tutti, e che a decidere il destino della Jugoslavia sarebbero stati i carri armati e i cannoni.
Eppure, in seguito, mi è sempre parso che l'immagine più tragicamente emblematica della guerra in
Jugoslavia non fosse rappresentata dalle numerose fotografie di carri armati, di cannoni e di soldati
dalle improbabili divise. La guerra non iniziò con lo sparo quella mattina di febbraio, né nell'estate
del 1989, con l'imponente adunata di Gazimestan, presso PriStina, durante la quale, da un palco alto
trenta metri, Slobodan MiloSevic arringò un milione di serbi, impegnandosi a salvaguardare a ogni
costo, foss'anche con il ricorso alla forza, i loro diritti. E neppure iniziò nel giugno del 1991, quando
i carri armati dell'esercito jugoslavo avanzavano verso l'aeroporto di Lubiana e l'allora ministro
della Difesa sloveno, Janez JanSa, rispose laconico a chi gli domandava cosa stesse succedendo: «E'
la guerra».
La guerra che mi si è davvero impressa nella memoria è quella cui diede l'avvio, nell'estate del
1991, il primo trattore partito da una fattoria dell'entroterra dalmata e diretto verso il mare. Per me,
l'immagine emblematica di questo decennale conflitto è quella di un trattore dotato di rimorchio e
guidato da un uomo logorato dagli anni, con una sigaretta tra le labbra e circondato da una
moltitudine di familiari. Chi volle restare, firmò con ogni probabilità la propria condanna a morte. A
confermare queste ipotesi sono i 250 mila morti sepolti lungo le rotte dei trattori. Quasi tutti civili,
persone per nulla diverse da coloro che invece riuscirono a salvarsi.
La prima volta che vidi dei trattori di fuggiaschi fu a Zara (Zadar), sulla costa adriatica, nell'estate
del 1991. Erano stati parcheggiati dinanzi a un complesso alberghiero dismesso e provvisoriamente
adibito a ricovero sotto l'egida della Croce rossa.
I profughi erano giunti da Knin. Gironzolavano smarriti per i cortili degli alberghi fatiscenti, nella
calura estiva, eppure la loro condizione pareva derivare da un momentaneo errore piuttosto che
preludere a una duratura tragedia. La Slovenia era riuscita a ritirarsi dallo stato jugoslavo in così
breve tempo, che in seguito quei dieci giorni di scontri a fuoco si sono impressi nella memoria
collettiva come una breve parentesi. Ben diversa era invece la situazione nell'area compresa tra
Karlovac, presso il confine croato, e PriStina: là tutto il resto del paese scivolava lentamente, ma
inesorabilmente, in una devastante guerra di carri armati contro città i cui abitanti continuavano a
nutrire la convinzione che fosse tutto soltanto un malinteso. «E' probabile che tra una o due settimane
al massimo si possa tornare a casa» mi disse a Zara un contadino intento a sorvegliare il proprio
trattore. «Questa follia non può certo durare. La gente ha cominciato a litigare, ma prima o poi si
calmerà.» E tuttavia sulle montagne alle spalle di Zara risultava evidente che la provvisorietà
sarebbe stata di lunga durata e che la gente non era fuggita a causa di dissapori occasionali o per il
sorgere improvviso di rivalità tra vicini. Allora l'indipendenza della neonata Repubblica slovena non
era stata ancora sancita: pertanto, durante il tragitto che ogni estate mi conduceva da Lubiana al mare,
fui un uomo privo di una precisa identità. Ma d'altronde, a essere in preda a una crisi d'identità non
ero solo io, bensì un intero territorio. In tasca tenevo due passaporti: quello sloveno, considerato
valido solo dalla Slovenia e dalla Croazia, e quello jugoslavo, che la Slovenia non riconosceva più.
In Serbia si rifiutarono di controllare il mio passaporto sloveno, ma nel contempo dichiararono che
non avevo diritto al possesso di quello jugoslavo.
Lungo la strada m'imbattei in posti di blocco sia degli agenti di pubblica sicurezza croati sia della
polizia militare jugoslava sia della polizia serba di Knin (quest'ultima dotata di divise raffazzonate,
ma ben armata). La polizia confinaria croata indossava ancora la divisa con i distintivi della polizia
stradale, su cui erano stati però frettolosamente applicati i simboli del nuovo e ufficialmente non
ancora riconosciuto stato croato indipendente. I poliziotti mi assicurarono che la strada non era
affatto bloccata e che anzi il traffico poteva scorrervi liberamente, ma nonostante ciò mi
sconsigliarono di proseguire. Dissero che il loro posto di blocco segnava l'inizio del territorio
croato, eppure loro stessi si dimostrarono poco disposti a varcarlo. Poco più avanti, a nemmeno un
chilometro di distanza, l'accesso ai ponti era sbarrato da carri armati dell'esercito jugoslavo, mentre
le strade erano percorse da jeep della polizia dell'autoproclamata Repubblica serba di Knin.
Alcune case erano già state bruciate. Pareva che ogni casa celasse un arsenale. L'unico mio
documento di cui tutti fossero concordi a riconoscere la validità, era la patente di guida. Ma in realtà
a regnare sovrana era una sempre più evidente diffidenza reciproca.
Nei pressi di Titova Korenica, una stessa linea di confine divideva quattro stati: una linea di cui
non c'era traccia su alcuna carta geografica che tuttavia separava tra loro la Croazia, la Serbia, la
Jugoslavia e la Kninska Krajina. La Krajina era uno stato nello stato, benché, a dire il vero, non fosse
affatto chiaro quale di preciso fosse lo stato in cui si trovava. Di certo, e da parecchio tempo, non era
più Croazia, ma non era nemmeno ancora Serbia. In mezzo, da qualche parte, si trovava la
Jugoslavia, che diventava a turno il punto di riferimento di tutte e tre. Insomma, i rapporti tra i vari
stati in via di disgregazione e di formazione erano oscuri e confusi. Knin, enclave serba, si era
separata dalla Croazia che aveva da poco proclamato la propria indipendenza dalla Jugoslavia. Da
una parte l'esercito jugoslavo nell'entroterra di Zara impediva alla polizia croata di raggiungere
Knin; dall'altra parte invece una delegazione del segretariato federale jugoslavo per gli Affari interni
in visita d'ispezione nella Krajina, ritenne opportuno rivolgere alla sentinella di una stazione di
polizia il regolamentare saluto. Almeno due delle istituzioni federali jugoslave mantennero nei
confronti della polizia di Knin un atteggiamento di amichevole corporativismo. I rari stranieri che
all'epoca sbirciavano con scarso interesse verso questa parte del mondo, rimanevano disorientati. A
essere disorientate erano però anche le popolazioni locali. Un tale caos non sarebbe certo potuto
durare a lungo.
E infatti ben presto quel caos degenerò in una guerra finalizzata a una nuova demarcazione dei
confini nazionali. A posteriori, il conflitto tra i popoli dell'ex Jugoslavia è stato spesso interpretato
come un'irrazionale esplosione di aggressività tra popoli convissuti in un odio plurisecolare, come
una guerra religiosa o come un ritorno alla barbarie medioevale. Nell'inverno del 1993, a Sarajevo,
chiesi al comandante delle truppe francesi dell'Unprofor, Philippe Morillon, a quali cause fosse
riconducibile la guerra in mezzo alla quale egli era chiamato all'arduo compito di salvaguardare la
pace. La risposta di quest'ufficiale che aveva partecipato anche alla guerra franco-algerina mi
sbalordì per la sua grossolanità: «Questo è un paese che ha alle spalle più di 563 anni di convivenza
tra popoli diversi. In passato è riuscito a superare crisi ben peggiori di quella attuale. Su questo
suolo sono morte centinaia di migliaia di individui. Pare che ogni cinquant'anni questo paese debba
inevitabilmente ripetere la stessa esperienza drammatica, in cui confluiscono contemporaneamente
una strenua aspirazione all'eroismo e una strenua aspirazione alla distruzione totale. Eppure, dopo
ogni crisi torna la pace. La storia di queste terre c'insegna che ogni massacro è stato seguito con
sorprendente rapidità dalla pace. Certi paesi hanno bisogno dell'orgiastica follia carnevalesca. Qui,
allo scadere di ogni terza generazione, hanno bisogno di un massacro dopo il quale torna la pace».
Per Morillon, dunque, la Bosnia, l'Erzegovina e i loro vicini erano paesi che non conoscevano la
politica, ma erano vittime solo di una terribile e cruenta frenesia carnevalesca. Del resto il giudizio
di Morillon concordava pienamente con quello di tanti altri: innumerevoli diplomatici impegnati
nelle trattative di pace, comandanti militari inglesi, egiziani e turchi, centinaia di membri delle più
svariate organizzazioni umanitarie che si erano riversati su quelle terre. Tutti loro intendevano la
guerra come un'irrazionale esplosione di pulsioni ancestrali.
Vista da Lubiana, invece, già nel 1991 la guerra si profilava come qualcosa di fondamentalmente
logico e di natura palesemente politica: in sostanza, un moderno fenomeno politico dell'Europa del
XX secolo.
Non necessariamente inevitabile, eppure molto probabile. Quando verso la fine degli anni ottanta
apparve chiaro che la Jugoslavia di Tito si sarebbe disgregata, i serbi della Serbia, del Montenegro,
del Kosovo, della Croazia e della Bosnia iniziarono a manifestare la volontà di delineare i confini di
un proprio stato nazionale. Essendo i serbi il popolo maggioritario della Jugoslavia, in un primo
tempo essi concepirono il progetto di procedere a una semplice trasformazione dello stato federale
jugoslavo in uno stato nazionale serbo. Per fare ciò, le istituzioni politiche serbe dovevano garantirsi
il controllo su quelle federali. Dapprima fu il turno del Partito comunista. Al congresso straordinario
di Belgrado, i comunisti sloveni si opposero quando compresero che Slobodan MiloSevic stava
assumendo il potere all'interno del partito federale. E con un gesto altamente simbolico
abbandonarono il congresso. Un anno più tardi la Slovenia si separò dallo stato federale, seguita
dall'alquanto esitante Croazia. Quando la reazione degli sloveni e croati al Nord, e in seguito quella
dei bosniaci e macedoni al Sud, vanificò il progetto serbo di coincidenza tra confini federali e
confini dello stato nazionale serbo, a Belgrado cominciarono a tracciare le carte geografiche del
territorio nazionale serbo sul quale sarebbe dovuto nascere il nuovo stato. Ma le cartine belgradesi
entrarono in conflitto con le carte geografiche nazionali di tutti gli altri popoli della Jugoslavia. Nel
volgere di qualche anno, la polemica politica evolse in guerra di conquista territoriale. Tutto il
folclore nazionale, le magniloquenti orazioni politiche, gli appelli al passato storico, la mistificatrice
identificazione di campagne eminentemente militari con presunte crociate religiose, la mescolanza
postmodernista d'iconografia medioevale e di terminologia politica moderna, tutto ciò non fu dunque
altro che uno strumento per camuffare una banale operazione politico-militare. Come in ogni altra
guerra europea, gli eserciti e le milizie ebbero il compito di delimitare i confini degli stati nazionali
e di conquistare il territorio sul quale tali stati potessero sorgere o espandersi.
Nel 1990 chiesi al brutale comandante della milizia di Knin, Milan Martic, cosa mai stessero
combinando le sue improvvisate truppe volontarie, responsabili di sempre più efferati incendi di
villaggi croati e persecuzioni ai danni dei loro abitanti. I miliziani di Martic indossavano uniformi
della Seconda guerra mondiale, decorate con simboli religiosi medioevali. Martic era un individuo
assai rozzo che da fabbro era riuscito a diventare capo della polizia, per autopromuoversi poi
addirittura generale. La sua filosofia politica era primitiva, la sua interpretazione della storia era
elementare e basata su cognizioni lacunose. Eppure, alla mia domanda sui confini del suo paese,
quest'uomo ottuso, che comandava i suoi sottoposti come fossero stati una banda di gangster, si
trasformò in men che non si dica nel più esperto dei cartografi. Giratosi verso la carta geografica
appesa nel suo ufficio, m'indicò con precisione i confini della Krajina.
«Si tratta di una regione piuttosto vasta. Essa comprende sei comuni che controlliamo noi, e cioè
Knin, Obrovac, Benkovac, Gračac, Donji Lapac e Titova Korenica. Siamo però in fase di annessione
di altri cinque ovvero sei comuni: cinque dell'area di Kordun e Banija, più Pakrac della Slavonia.»
Poi mi indicò il territorio di sua competenza, su cui aveva segnato gli impianti industriali, le vie di
comunicazione e i centri abitati. «Questo è il nostro territorio» mi disse, e quindi mi spiegò come
presto esso sarebbe stato congiunto sia con la Bosnia («quando la situazione laggiù si sarà un po'
chiarita») sia con l'area serba della Slavonia, nella Croazia sudorientale. Insieme alla Serbia e al
Montenegro, avrebbe così formato uno stato di tutto rispetto al centro dei Balcani. Proprio a Knin fu
per la prima volta enunciato quel principio che peraltro solo in seguito, in Bosnia e infine nel
Kosovo, avrebbe dimostrato tutta la propria nefandezza: vale a dire il principio secondo cui sul
«nostro» territorio non ha il diritto di vivere nessun altro. Martic mi assicurò che il territorio abitato
esclusivamente dai suoi connazionali era un eden di pace e ordine.
Dove invece viveva anche qualcun altro, c'era la guerra.
La popolazione civile, che nessuno era in grado di proteggere, intuì immediatamente che era una
questione di principio territoriale. Con l'aumento della tensione e con i primi incendi notturni di
qualche abitazione vicina, i contadini caricavano le proprie famiglie sui trattori e se ne andavano.
Chi non lo faceva, veniva ucciso. Questo processo venne poi definito «pulizia etnica», termine
eufemistico con cui si suole indicare il genocidio degli abitanti di interi villaggi, città e regioni.
Quando nel 1991 mi aggregai ai profughi di Vukovar, la guerra appariva già come un fenomeno
duraturo. I loro trattori stazionavano sulle rive del Danubio, a Osijek, cittadina molto orgogliosa
della propria antica identità austroungarica. I profughi, che provenivano dai paesi intorno a Vukovar,
narravano gli orrori che stavano accadendo a una ventina di minuti di strada da là. Eppure Osijek si
rifiutava di credere che la guerra fosse già alle sue porte. In una pasticceria ungherese i proprietari
continuavano imperterriti a vendere raffinate torte della tradizione mitteleuropea e a mescere tè,
mentre gli avventori erano immersi in affabili conversazioni sulla politica mondiale. Alla mia
domanda se la loro città stesse per essere attaccata, rimanevano stupefatti dalla mia scortesia. «La
guerra?» dicevano corrugando la fronte, sorpresi. «No. A
Osijek non c'è alcuna guerra. Sono stupide questioni tra paesani.» Alla gente in divisa, che sempre
più numerosa scorrazzava per la città, rivolgevano sguardi carichi di biasimo, come se si fosse
trattato di individui indegni del lindore delle vie cittadine. A portare la guerra nella città incredula,
furono alfine i trattori e i camion del villaggio di Bilje, che fecero il loro ingresso a Osijek nel bel
mezzo di un assolato mattino. I carri armati, invece, si erano fermati a Vukovar.
Vukovar fu sottoposta a un bombardamento incessante, giorno e notte, quasi che le unità corazzate
speciali di Belgrado fossero risolute a cancellare ogni traccia della città che era stata uno dei più
importanti centri amministrativi della Slavonia. I bersagli vennero accuratamente selezionati: la
scuola intitolata al «Secondo congresso del Pcj» fu abbattuta, la fabbrica Vuteks e la cooperativa
agricola furono bruciate, il ricovero per anziani, il museo e la chiesa furono anch'essi bombardati.
Inoltre gli shrapnel scheggiarono quasi ogni edificio. Vukovar non era un bersaglio casuale. La
violenza inferta alla città aveva un senso. Vukovar era strategicamente importante per la sua
posizione di porto sul Danubio, di polo industriale e di centro nevralgico per il controllo delle
comunicazioni fluviali. probabile peraltro che il suo circondario fosse davvero saturo di quell'odio
ancestrale in cui due anni più tardi il generale Morillon avrebbe individuato la causa del conflitto,
eppure è innegabile che il bombardamento della città rispondesse a razionali criteri di strategia
militare. E' logico infatti che ogni offensiva cominci con il tentativo di prendere i principali nodi di
comunicazione. Ma a Vukovar, gli abitanti di nazionalità croata si comportavano come se non
potessero credere che le granate erano destinate a loro. «Scelga lei: posso darle una camera con vista
sul Danubio, da dove sparano i cecchini, o una camera con vista sulla città, da dove provengono gli
shrapnel» mi disse il receptionist dell'unico albergo cittadino, mostrandomi una camera priva di vetri
in un edificio ormai completamente crivellato.
Al cadere delle prime granate, gli abitanti cercarono riparo nei rifugi antiaereo, e poiché la
«pioggia» di granate era più fitta di notte che di giorno, si adattarono a dormire nelle cantine. Di
giorno invece riparavano le linee telefoniche e l'acquedotto e ripulivano le strade.
Il priore del monastero francescano osservava l'orditura del tetto della chiesa, sfondato da una
granata. Lui e due ingegneri stavano cercando il modo più semplice di coprire il buco con dei teloni
di plastica. «Il danno in fondo non è di grande entità. Ci vorrebbe solo qualche trave e un po' di
copertura, al massimo due giorni di lavoro. Ma di là ci sono i cecchini, e gli operai non ne vogliono
sapere di lavorare allo scoperto. Del resto, se a espormi fossi io, con il mio saio, i cecchini ci
proverebbero ancora più gusto a farmi fuori.» Infine decisero che per il momento si sarebbero
accontentati di tappezzare il tetto con della lamiera, casomai dovesse piovere. «Altrimenti l'acqua
potrebbe rovinare gli affreschi.
E pensare che il tetto l'abbiamo rifatto la scorsa primavera. Quante spese, con questa guerra»
diceva tranquillo il buon frate, come se la pioggia fosse la peggior cosa che potesse cadergli in testa.
Ma era estate e la pioggia era ancora lontana.
La guerra aveva ormai acquisito una logica militare. Le linee tracciate sulla carta geografica nel
bunker sottostante alla strada principale, da dove gli abitanti di Vukovar coordinavano la difesa della
loro città, avevano in realtà cessato di essere soltanto le linee della difesa cittadina. Esse segnavano
ora il fronte tra due eserciti nemici. Giunto l'inverno, l'esercito jugoslavo entrò a Vukovar e gli
abitanti sopravvissuti ai bombardamenti lasciarono la loro città, diretti in lunghe colonne verso
ovest. L'ennesima città era stata cancellata dalle carte geografiche.
Con l'estensione del conflitto alla Bosnia Erzegovina, cadde ogni residua barriera psicologica, si
dissolse ogni indugio derivante dal passato storico, ogni remora di natura etica. A essere
completamente abbandonati dagli abitanti non furono più solo villaggi o paesi, ma anche
innumerevoli città. Sarajevo fu assediata per quattro anni, e per quattro anni attese la propria fine.
Nel 1993, Nerzuk čurak, responsabile, in uno scantinato, dell'ufficio stampa di un'unità
pomposamente definita «corpo», mi spiegò concisamente che cosa era successo: «Nell'aprile
dell'anno scorso, l'esercito popolare jugoslavo ha rafforzato al massimo le proprie potenzialità
strategico-operative e ha occupato tutta la Bosnia Erzegovina. Da una situazione di attività militare
latente è passato all'azione vera e propria cominciando a devastare il paese, con il preciso scopo di
inglobare la Bosnia Erzegovina nella "cornice" costituita dai confini jugoslavi. Per questo
l'operazione è conosciuta con il nome di Ram, cornice appunto».
A fuggire da questa cornice non sono state solo migliaia o decine di migliaia di individui, bensì il
primo milione di profughi europei dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi. La Bosnia era un
coacervo inestricabile di popoli, che solo una guerra totale avrebbe potuto dividere. Le linee di
confine tra questi popoli correvano attraverso il centro di paesi e di singole case, e non di rado
segnavano anche i più intimi tra i rapporti interpersonali. «Ho ucciso il mio migliore amico» mi
confessò un soldato musulmano a Bosanski Brod, nella parte settentrionale del paese. Tutte le
illusioni sulla convivenza dei diversi popoli e su un accordo politico di divisione del paese
sfumarono nella brutalità dello scontro armato. «Ci incontrammo, a due metri l'uno dall'altro. Lui alzò
le braccia in segno di resa. Lo riconobbi subito. Prima lasciai che se ne andasse. Lui cominciò a
correre, poi però si voltò verso di me con la pistola in pugno, e io gli scaricai addosso tutto il
caricatore.» Ebbi il pudore di non chiedergli perché.
Traduzione di Daria Betocchi
Prima parte (Slovenia)
Una morte annunciata (di Barbara Gruden)

Le 2,40 del 27 giugno 1991: a Lubiana, capannelli di persone si attardano per le strade a
prolungare la festa. Il capo del governo, il democristiano Lojze Peterle, primo non comunista a
guidare la piccola repubblica subalpina, non è ancora tornato a casa dalla serenata improvvisata con
un gruppo di amici sotto le finestre dell'arcivescovo SuStar. La sua passione per il canto, su cui si
appuntano le facili ironie degli oppositori, lo terrà al riparo per alcune ore dalla drammatica notizia
che sta rimbalzando da un palazzo del potere all'altro: l'Armata federale jugoslava ha messo in atto le
sue minacce; i carri armati stanno uscendo dalle caserme e si stanno dirigendo su Lubiana. Il giorno
«in cui è lecito sognare» - solo poche ore prima, il presidente della Repubblica, l'ex comunista Milan
Kučan, aveva definito così quel mercoledì in cui gli sloveni dichiaravano la propria indipendenza
dalla Jugoslavia - è giunto al termine. Dopo più di vent'anni, i carri armati sono tornati nel cuore
d'Europa a distruggere ciò che trovano sulla propria strada.
Gli avvertimenti e gli ultimatum non sono mancati. Da mesi, l'Armata va ripetendo che non
tollererà una secessione unilaterale della Slovenia. Per questo ha tentato di disarmarla e di occupare
alcune sedi del nascente esercito nazionale. Ma vere azioni di forza non ci sono state. Finché, il 26
giugno 1991 il giorno dopo l'approvazione da parte del Parlamento sloveno degli atti costitutivi
della Slovenia indipendente e sovrana, il giorno in cui è prevista la cerimonia pubblica per la
proclamazione d'indipendenza i carri armati con la stella rossa a cinque punte si posizionano sulle
frontiere esterne della Jugoslavia, dove i miliziani fedeli a Lubiana tentano di issare le bandiere con
il nuovo stemma sloveno. Ciò nonostante, la leadership slovena decide di proseguire per la propria
strada; il programma non viene bloccato neanche quando poco prima che il presidente faccia il suo
discorso solenne nella piazza davanti al Parlamento due Mig sorvolano a bassa quota la capitale.
Per la Slovenia, che non ha mai avuto uno stato indipendente, è una giornata storica. E nonostante i
timori, la popolazione festeggia. Nelle stradine dell'asburgica Lubiana, tirata a lucido per l'occasione
in cui deve dimostrare al mondo di appartenere alla cultura mitteleuropea piuttosto che a quella
balcanica, scorrono fiumi di spumante Independent.
Anche i vertici politici brindano nelle sale del grande centro culturale Cankarjev dom, simbolo di
una Slovenia ricca e moderna che emula le capitali europee e che si sente lontana anni luce dal Sud
del paese. Ma per loro, il resto della notte trascorrerà quasi senza sonno. Alle tre sono tutti in piedi:
Kučan ha avuto appena il tempo di farsi una doccia dopo aver preparato il discorso per il congresso
mondiale degli sloveni previsto in mattinata a Lubiana, quando riceve l'allarme. Nel centro operativo
allestito per l'eventualità di un conflitto con l'Armata, i titolari della Difesa, Janez JanSa, e degli
Interni, Igor Bavčar, stanno monitorando la situazione.
Risulta subito evidente che l'obiettivo dei carri armati restano le frontiere e gli aeroporti e che se i
blindati hanno lambito la periferia della capitale è solo per raggiungere il principale scalo aereo
sloveno, quello di Brnik, a nord di Lubiana. Le previste azioni di difesa sembrano efficaci: il nuovo
esercito sloveno formato dalla Difesa territoriale ha eretto barricate nei punti sensibili riuscendo a
rallentare, se non a fermare, l'avanzata dei tank. Quando alle 7,20 arriva il telegramma con cui il
generale Konrad KolSek, comandante della V regione militare di cui fa parte la Slovenia, chiarisce
che l'esercito ha l'ordine di spezzare qualsiasi tipo di resistenza con tutti i mezzi, la leadership
slovena decide di resistere. Comincia così la cosiddetta «guerra dei dieci giorni» in realtà si tratta
di una settantina di scaramucce con cui Lubiana si conquista sul campo il diritto alla sovranità.
E' un rischio calcolato o un salto nel buio? Chi segue gli avvenimenti nei dieci giorni successivi
non ottiene risposta. Almeno due dati certi, però, ci sono: i ragazzi della Difesa territoriale slovena,
addestrati in fretta e con poche armi a disposizione, sono riusciti a umiliare un'armata che solo fino a
qualche anno prima era considerata tra le più efficienti d'Europa; i vertici sloveni hanno saputo
sfruttare a meraviglia i riflettori accesisi sul loro paese dopo l'uscita del primo carro armato federale
nelle strade slovene, conquistando la solidarietà internazionale.
Il conflitto miete fortunatamente un numero esiguo di vittime: una settantina, tra soldati federali,
militi sloveni, agenti di polizia e civili (ma le perdite maggiori, 44, le subisce proprio la Jna,
l'Armata federale jugoslava). E pochi si aspettano, probabilmente, che questo sia solo il prologo a
una guerra vera che, in forme diverse, durerà otto anni e causerà centinaia di migliaia di morti,
soprattutto tra la popolazione civile.
Il primo conflitto armato nel cuore dell'Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale esplode
cogliendo apparentemente tutti di sorpresa. Alle prese con la crisi del Golfo e distratto dalle
preoccupazioni per il gigante sovietico, l'Occidente sottovaluta i segnali della crisi che si va
preparando in un paese, fino a pochi anni prima elemento di stabilità nei rapporti tra Est e Ovest. E'
tuttavia proprio la fine della Guerra fredda a consentire alle spinte centripete di venire alla luce in
tutta la loro violenza, portando alla disgregazione di uno stato che sotto Tito - si vantava di aver
creato un modello di «fratellanza e unità» tra gli slavi del Sud. La dissoluzione della Repubblica
federativa socialista di Jugoslavia comincia, infatti, molto prima di quel fatale 27 giugno 1991, in cui
i tank federali tentano di prendere possesso degli obiettivi strategici sloveni: essa inizia con la morte
di Tito nel maggio 1980 e viene accelerata alcuni anni dopo dall'ascesa al potere, in Serbia, di
Slobodan MiloSevic. Sarà lui a dare il primo calcio alla federazione, squassando la delicata
architettura costituzionale voluta da Tito, e versando benzina sugli spiriti separatisti delle altre
repubbliche, a cominciare dalla Slovenia (Djukic, Kraj srpske bajke). Sarà lui a dare forma a un
conflitto che si estrinsecherà inizialmente come confronto tra i difensori dell'ortodossia comunista,
conquistati alla causa grandeserba, e i propugnatori della democratizzazione e liberalizzazione della
Jugoslavia.
A regolare i rapporti tra le sei repubbliche jugoslave Serbia, Croazia, Bosnia Erzegovina,
Slovenia, Macedonia e Montenegro e le due regioni autonome della Vojvodina e del Kosovo è nel
1991 ancora la Costituzione del 1974, messa a punto dall'ideologo sloveno Edvard Kardelj. Essa
prevede un complesso meccanismo di rotazione ai vertici degli organismi federali, il cui obiettivo è
di tenere a bada le rivendicazioni delle singole repubbliche: la Jugoslavia viene guidata da una
presidenza composta di otto membri (uno per repubblica o regione), il cui presidente è solo un
primus inter pares; i provvedimenti vengono assunti a maggioranza e lo stesso esercito dipende da
questo «capo dello stato collettivo» che ha sostituito il padre della Jugoslavia e presidente a vita,
Josip Broz Tito.
La Costituzione in cui lo stesso Kardelj intravede una possibile fonte di attriti confessando, prima
della propria morte nel 1979, che andrebbe riscritta affida inoltre maggiori poteri alle repubbliche
che hanno banca centrale, polizia e magistratura proprie. E, soprattutto, eleva a regioni autonome la
Vojvodina, caratterizzata dalla presenza di almeno una decina di gruppi etnici diversi (con una forte
presenza di ungheresi), e il Kosovo a maggioranza albanese. Ma se l'obiettivo è di calmierare i
rapporti interetnici, il risultato sarà completamente diverso: i serbi si sentiranno mutilati di quella
che considerano la culla della loro nazione, il Kosovo, dove si trovano i più importanti monumenti
della chiesa ortodossa; viceversa, gli albanesi del Kosovo, che hanno dovuto subire lunghi anni di
feroce repressione anche nella Jugoslavia di Tito, chiederanno per la propria regione lo status di
Repubblica; gli sloveni saranno incoraggiati a contrastare il centralismo politico, militare ed
economico di Belgrado; i croati riscopriranno il vecchio sogno, calpestato nel 1971 dai carri armati
di Tito, di creare un proprio stato.
A queste rivendicazioni non è estranea una situazione economica sull'orlo del collasso, che nella
seconda metà degli anni ottanta riporterà la Jugoslavia ai livelli degli anni sessanta (Repe, «Slovenci
v osemdeSetih letih», in Delo, 25 marzo 2000). I metodi usati dal Maresciallo per ripianare i deficit
dell'economia «autogestita» sfruttando in modo parassitario il ruolo strategico tra i due blocchi e
cioè l'assunzione di sempre nuovi debiti con l'estero hanno già ampiamente mostrato la corda. Nel
1980, l'indebitamento supera il 40 per cento delle entrate di valuta estera e nelle regioni più povere
del Sud si arriva al punto di introdurre il razionamento per far fronte alla mancanza di generi di
prima necessità. Malgrado i programmi di stabilizzazione e le iniezioni del Fondo monetario
internazionale (Fmi), nell'estate del 1982, i soli tassi di interesse sui debiti contratti nei decenni
precedenti ammontano a cinque miliardi di dollari, mentre le riserve in valuta sono di soli due
miliardi; la disoccupazione è al 14 per cento; il deficit della bilancia commerciale cancella i redditi
dovuti ai trasporti marittimi, al turismo e alle rimesse in valuta estera delle centinaia di migliaia di
emigranti jugoslavi che lavorano nella Repubblica federale tedesca, in Austria e in Svizzera.
L'anno successivo, la croata Milka Planinc, premier federale, tenta una nuova politica di austerità
con l'aiuto del Fmi che, nonostante l'insolvenza del paese, lancia l'ennesimo piano di salvataggio con
la concessione di un ulteriore credito di sei miliardi e mezzo di dollari. Anche questo programma,
che prevede misure fortemente impopolari come una tassa sull'espatrio per bloccare l'emorragia di
valuta (due miliardi di dollari all'anno), verrà sacrificato sull'altare delle singole economie
repubblicane. Ma Slovenia e Croazia, i cui scambi sono diretti in buona parte verso occidente,
cominciano a ribellarsi a un meccanismo (la cosiddetta socializzazione dei debiti) che dal 1983
impone loro di ripianare i buchi prodotti dagli investimenti fallimentari delle repubbliche
meridionali, invece di rendere più competitive le proprie economie. A
Lubiana è ormai un luogo comune affermare che nonostante gli sloveni rappresentino solo l'8,3 per
cento della popolazione jugoslava e il 14,4 per cento di quella attiva, essi producono il 18 per cento
del prodotto interno lordo, il 25 per cento dell'export e il 33 per cento dell'export verso l'Occidente
(Prunk, Osamosvojitev Slovenije, pag.
147). E' così che la Slovenia comincia a discutere di logiche di mercato. Già da qualche anno, la
leadership comunista di Lubiana si dimostra disponibile a rendere più pluralista la società jugoslava
(nel 1982, l'Alleanza della gioventù socialista slovena chiede l'introduzione dell'obiezione di
coscienza al servizio militare). E le proposte di liberalizzare l'economia, dando spazio all'iniziativa
privata, vanno di pari passo.
Le divergenze tra conservatori e liberali si manifestano a metà degli anni ottanta con l'inflazione
all'80 per cento, quasi un milione di disoccupati (su 23 milioni e mezzo di abitanti), il potere
d'acquisto in caduta libera. E con un governo federale incapace di imporre alcuna forma di austerità.
Anche la legge che prevede un drastico taglio di aiuti statali alle imprese in passivo concentrate nel
Sud del paese viene bocciata dal Parlamento federale (Pirjevec, Il Giorno di San Vito). Sarà il
Kosovo la regione più povera della Jugoslavia, il cui prodotto nazionale lordo è di 1 a 7 rispetto
alla Slovenia a svolgere tuttavia la funzione di detonatore, facendo emergere i diversi indirizzi
politici che si vanno formando nel paese e che porteranno al conflitto serbo-sloveno. nella Piana dei
Merli (Kosovo Polje) che Slobodan MiloSevic, giovane capo della Lega dei comunisti serbi, scopre
lo strumento che gli consentirà di diventare l'uomo più potente e temuto e forse anche il più ricco di
tutta la Jugoslavia; lo strumento con cui conquistare il potere e piegare ai propri interessi le crescenti
richieste di riformare la politica jugoslava; lo strumento con cui evitare di saldare i conti di
un'economia devastata: il nazionalismo.
D'altra parte, è proprio sotto il vessillo dei diritti umani degli albanesi del Kosovo che si vanno
formando in Slovenia una nuova coscienza nazionale e la nuova classe politica che condizionerà la
stessa Lega dei comunisti e prenderà il potere alle prime elezioni pluraliste.
Già un anno dopo la morte di Tito, gli albanesi che grazie alla propria impetuosa crescita
demografica costituiscono ormai il 90 per cento della popolazione del Kosovo chiedono infatti che
alla loro regione sia riconosciuto lo status di repubblica. Le manifestazioni vengono represse da
polizia ed esercito e nella Lega dei comunisti del Kosovo viene messa in atto una radicale purga con
duemila arresti. Tuttavia, la popolazione serba continua a denunciare le «sopraffazioni» albanesi e
chiede che Belgrado accorpi nuovamente il Kosovo alla Serbia, per fare in modo che i serbi non
siano più minoranza a casa propria. C'è chi soffia sul fuoco: con un copione che si ripeterà
drammaticamente uguale a ogni successiva crisi dalla Croazia alla Bosnia cominciano a circolare le
voci su presunte violenze perpetrate dagli albanesi a danno dei serbi, con stupri «politici» sulle
donne serbe, violazioni di cimiteri e luoghi sacri ortodossi (in realtà, le statistiche indicano che il
numero degli stupri è molto più basso che altrove in Jugoslavia, Silber e Little, The death of
Yugoslavia, pag. 35). A Belgrado inizia una violentissima campagna stampa contro gli albanesi.
Ad accendere la miccia sarà, tuttavia, il 24 settembre 1986, il più diffuso quotidiano serbo
Večernje novosti che pubblicherà gli estratti di un testo noto come «Memorandum dell'Accademia
serba delle scienze e delle arti»; un testo anonimo, il cui autore viene inizialmente individuato nel
presidente dell'Accademia, Dobrica čosic, che diventerà la base ideologica per tutte le
rivendicazioni serbe e che quattro anni prima che comincino a parlare le armi elenca con funesta
precisione tutti i futuri conflitti. Esso spiega che la causa della grave crisi economica che attanaglia
la Serbia va ricercata in un'ingiusta ripartizione dei fondi federali; che l'obiettivo delle più ricche
Slovenia e Croazia è di umiliare Belgrado; che a danno delle comunità serbe del Kosovo si sta
attuando un vero e proprio genocidio; che i connazionali serbi in Croazia sono soggetti
all'assimilazione forzata. In sostanza, si accusa il potere comunista di aver continuato ad applicare il
precetto del Komintern, secondo il quale la Jugoslavia può essere grande solo se la Serbia è debole
(Limes, 3ì98, pag. 40). Il documento crea scalpore: in un paese in cui, formalmente, valgono ancora
gli ormai consunti miti della fratellanza e dell'unità tra i popoli, il Memorandum dice chiaro e tondo
che il nazionalismo è risorto. E che il suo virus verrà sapientemente inoculato alla società serba che,
orfana della corrente liberale liquidata da Tito agli inizi degli anni settanta, non ha gli anticorpi per
combattere la malattia. il 24 aprile 1987 quando MiloSevic viene mandato a visitare il Kosovo dal
suo padrino politico, il presidente serbo Ivan Stambolic (che scomparirà misteriosamente a Belgrado
il 25 agosto 2000, un mese prima della liquidazione politica di MiloSevic). Dovrebbe essere una
visita di routine. Si trasforma invece nel trampolino di lancio del futuro dittatore. MiloSevic viene
accolto da una folla urlante che protesta contro l'oppressione albanese e che per attirare l'attenzione
del rappresentante di Belgrado comincia a tirare sassi.
Nel tentativo di ristabilire la calma, il capo della locale Lega dei comunisti, l'albanese Azem
Vllasi (più tardi verrà imprigionato dallo stesso MiloSevic), chiede all'ospite serbo di parlare alla
gente: sarà uno dei discorsi più importanti della carriera di MiloSevic.
«Nessuno ha il diritto di picchiarvi» urla il dirigente serbo per fermare le cariche della polizia nei
confronti dei manifestanti. E questi lo premiano cominciando a scandire: «Slobo, Slobo».
A Kosovo Polje, in quel fatidico 24 aprile 1987, la «sopraffazione» albanese diventa una verità
storica e i serbi vengono incitati all'azione: «Non dovete abbandonare la vostra terra solo perché è
difficile viverci o perché siete oppressi dall'ingiustizia e dal degrado. Non vi sto consigliando di
tollerare una situazione che non vi soddisfa. Al contrario, dovete cambiarla con la collaborazione
degli altri popoli progressisti qua, in Serbia e in Jugoslavia».
La reazione della folla è una grande lezione per MiloSevic, che tornerà trasformato dal Kosovo e
che con l'aiuto del migliore dei suoi mentori la moglie Mirjana Markovic farà dei raduni di massa il
grimaldello per la conquista del potere. «E' così che iniziò tutto. I nazionalisti corsero nell'abbraccio
di MiloSevic. Non che a lui piacesse veramente. Ma aveva capito che il nazionalismo poteva essere
politicamente fruttuoso» conferma un decennio dopo l'ex padrino di MiloSevic, Ivan Stambolic
(Silber e Little, op. cit., pag. 39).
Presidente della Serbia, Stambolic cercherà di impedire a MiloSevic di dar fuoco alle polveri. Ma
il nuovo uomo forte di Belgrado non avrà alcuna pietà con gli esponenti del partito più propensi alla
moderazione: li farà destituire, a cominciare proprio dal ventennale amico Stambolic, che verrà
accusato di cospirare contro la gerarchia del partito e di minacciarne l'unità. Messo in minoranza
durante l'ottava sessione della Lega dei comunisti serbi, nel settembre 1987, Stambolic sarà costretto
a lasciare la presidenza della Repubblica serba il successivo 14 dicembre.
Intanto, la situazione economica continua a precipitare. Un'ondata di scioperi scuote il paese: sono
699 nel 1985, 851 nel 1986, 1570 l'anno seguente. Da soli danno la misura dello scontento e delle
sempre peggiori condizioni di vita, che raggiungeranno il fondo nel 1989 con l'iperinflazione al 2700
per cento. Neanche il governo di tecnocrati formato nel maggio 1986 dal croato di Bosnia Branko
Mikulic riesce a invertire la tendenza. Il momento è tra i più propizi per sfruttare il malcontento della
popolazione.
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Slobodan MiloSevic Classe 1941, Slobodan MiloSevic nasce nella cittadina serba di PoŽarevac
da una famiglia montenegrina, che secondo leggenda sarebbe scappata dal Kosovo nel 1389, dopo la
sconfitta a opera dei turchi.
Fin da giovane deve fare i conti con una serie di tragici eventi familiari. Entrambi i genitori prima
il padre Svetozar, catechista, e poi la madre Stanislava, insegnante si tolgono la vita: circostanze che
lo legano morbosamente alla moglie Mirjana Markovic, di influente famiglia comunista e partigiana,
che sarà la sua più importante consigliera. Nel 1964 si laurea in giurisprudenza a Belgrado.
All'università conosce colui che diventerà il suo padrino politico, Ivan Stambolic, che lo aiuterà a
scalare il potere: da direttore della compagnia statale Tehnogas a presidente della potente Beobanka
e membro del Comitato centrale serbo. Nel 1987, MiloSevic diventa presidente dei comunisti serbi,
posizione da cui assassina politicamente l'amico e mentore asservendosi il partito e i mezzi
d'informazione. Nel 1989 si fa eleggere presidente della Serbia con il 65 per cento dei voti, carica
che ricoprirà fino al 1997, quando verrà eletto presidente della Jugoslavia. Alla proclamazione
dell'indipendenza slovena, MiloSevic si tiene formalmente in disparte, mentre l'Armata tenta di
normalizzare Lubiana. Ma è in realtà proprio MiloSevic a dettare i tempi dei conflitti, armando i
serbi di Krajina e di Bosnia. Ciò non impedisce alla comunità internazionale di incoronarlo come
grande pacificatore, quando nel novembre 1995 firma gli accordi di pace di Dayton. La sanguinosa
repressione in Kosovo, che provoca l'intervento della Nato, gli procura tuttavia anche
un'incriminazione per crimini contro l'umanità (27 maggio 1999) da parte del Tribunale
internazionale dell'Aja.
L'era MiloSevic finisce il 5 ottobre 2000, quando l'opposizione occupa il Parlamento per
protestare contro la truffa ordita per modificare i risultati delle elezioni presidenziali, vinte da
Vojislav KoStunica. Il primo aprile 2001 viene arrestato dalle nuove autorità serbe.

La Primavera slovena Mladina ovvero «gioventù»: è il nome della testata edita dalla Lega della
gioventù socialista di Lubiana, che galvanizzerà l'opinione pubblica slovena avviandola sulla strada
della secessione. Di fronte alla necessità di introdurre riforme politiche ed economiche, i vertici
federali propongono anche con l'appoggio degli organismi economici internazionali di rafforzare le
istituzioni centrali; una proposta che rafforza indirettamente anche i fautori della più trita ortodossia
comunista. In Slovenia, al contrario, la voglia di libertà (e di consumi) è sempre più grande e i
giovani sloveni si fanno più audaci nelle loro richieste di pluralismo; richieste che i vertici comunisti
locali non possono più trascurare. Grazie all'elezione del riformista Milan Kučan, nell'aprile del
1986, alla presidenza del partito, la Slovenia diventerà anzi un'isola di libertà nel mondo comunista.
Dopo aver offerto il proprio patrocinio ai nuovi movimenti della società civile associazioni
pacifiste e per i diritti umani, ecologisti e, per la prima volta in un paese socialista, anche ai circoli
gay e lesbici la Lega della gioventù socialista irride agli stessi simboli della Jugoslavia titina. Nel
1987 spetta ai giovani sloveni l'organizzazione della staffetta per la Giornata della gioventù che
ancora si celebra nel segno del culto di Tito. E i ragazzi di Lubiana propongono un poster celebrativo
che suscita grande scandalo, quando si scopre la provocazione: l'immagine proposta è in realtà una
copia di un manifesto nazionalsocialista. I giovani non sono isolati: l'Alleanza socialista del popolo
lavoratore prende sotto tutela gli scrittori e gli intellettuali che da qualche tempo, sulla Nova revija,
si stanno misurando con l'idea di una Slovenia pluralista e indipendente. E sempre nel 1987, in
risposta a una nuova proposta di revisione costituzionale di stampo centralistico circolante a
Belgrado, che propone di uniformare anche i programmi scolastici, esce il famoso numero 57 che
pone le basi del programma nazionale sloveno (non è un caso che l'Associazione degli scrittori
jugoslavi sia stata, l'anno precedente, la prima organizzazione federale a sciogliersi). La presidenza
federale chiede a Lubiana di prendere provvedimenti contro la propaganda ostile, antijugoslava e
antisocialista. Ma dopo l'esperienza del Memorandum serbo, le autorità slovene rimangono sorde a
questi inviti.
Sarà tuttavia il settimanale Mladina a segnare il punto di non ritorno. Dopo aver divulgato
privilegi e storture del regime, il giornale attacca frontalmente l'esercito federale. Denuncia le
enormi spese per mantenere in vita un'organizzazione di 180 mila effettivi che assorbe quasi la metà
del bilancio federale cui, secondo i calcoli dell'opposizione, la Slovenia contribuisce per un quarto
(JanSa, Premiki, pag. 37) e l'esportazione di armi verso l'Etiopia devastata dalla fame. Insomma, una
campagna di stampa mai vista prima in Jugoslavia nei confronti delle forze armate che dopo la morte
di Tito e vista l'avanzata decomposizione della Lega dei comunisti jugoslava sono considerate la
spina dorsale del paese, l'unico elemento unificante tra popoli molto diversi per storia, lingua,
cultura e religione.
L'esuberanza dei giovani giornalisti, capeggiati dal trentenne politologo esperto di faccende
militari Janez JanSa, convince i vertici dell'Armata che è giunta l'ora di dare una lezione alla
Slovenia. L'occasione arriva il 13 maggio, quando Mladina pubblica un documento militare segreto
del gennaio 1988 sull'instaurazione della legge marziale. Non solo: sotto il titolo «La notte dei lunghi
coltelli» riassume anche il contenuto di una riunione del Comitato centrale in cui il presidente dei
comunisti sloveni, Milan Kučan, chiede spiegazioni del piano dell'esercito per la normalizzazione
della sua repubblica. La Slovenia è sotto choc per quello che sembra l'annuncio di un colpo di stato.
E mentre i vertici sloveni tentano una mediazione, l'esercito manda a Lubiana il famigerato
colonnello del controspionaggio militare Kos, Aleksandar Vasilijevic già protagonista della brutale
repressione degli albanesi nel 1981 in Kosovo con il compito di portare JanSa e i suoi davanti a un
tribunale militare con l'accusa di violazione di segreto militare. così che il 31 maggio 1988 JanSa, il
giornalista di Mladina David Tasic e il sergente Ivan BorStner, che aveva consegnato al giornale il
documento militare, finiscono in carcere. Due settimane dopo, il redattore capo (carica
corrispondente a quella di direttore) di Mladina, Franci Zavrl, sarà anch'egli arrestato, ma poi
rimesso in libertà; a differenza degli altri, potrà difendersi a piede libero.
Tutto è pronto per dare inizio alla Primavera slovena.
Nei suoi interrogatori dei Quattro di Lubiana come vengono ben presto battezzati Vasilijevic fa lo
sbruffone, dicendo che l'Armata è pronta ad arrestare tutti gli sloveni, se necessario, per salvare la
Jugoslavia. Vasilijevic non immagina quanto sia vicino alla realtà: ben centomila dei due milioni di
abitanti e più di mille associazioni aderiscono al Comitato per la difesa dei diritti umani, sorto subito
dopo l'arresto dei Quattro. Tutta la Slovenia segue con il fiato sospeso l'inchiesta e il successivo
processo. E tutti gli aspetti della vicenda assumono significato politico: agli incriminati vengono
imposti avvocati militari; il processo si svolge a porte chiuse e, soprattutto, in lingua serbocroata.
Una prassi normale, ma che in questa situazione assume il sapore della provocazione. Alla fine,
JanSa e Zavrl vengono condannati a un anno e mezzo di carcere, Tasic a cinque mesi e BorStner a
quattro anni.
La sentenza crea una nuova frattura tra Slovenia e Jugoslavia, rafforza la diffusa diffidenza nei
confronti dell'esercito e del resto del paese; i pregiudizi nei confronti dei «fratelli meridionali»,
come vengono chiamati sarcasticamente gli altri popoli, si radicano sempre più. Tutta la vicenda
convince infine i vertici sloveni della Lega comunista, in cui si sta verificando un cambio
generazionale, a opporsi con maggiore audacia ai disegni centralistici degli organismi federali e ai
propositi di MiloSevic di creare quella che viene comunemente chiamata «Serboslavia»; del resto,
comprendono che solo assecondando le nuove istanze hanno qualche possibilità di conservare il
potere.
Intanto, l'esperienza del Comitato per i diritti umani, che durante il processo riesce a portare in
piazza 50 mila persone, diventerà il punto di partenza per la fondazione del primo partito politico
non comunista in Jugoslavia: la Lega democratica slovena (Sdz), che vedrà la luce nel gennaio del
1989, poco prima che la Lega dei comunisti sloveni decida primo Partito comunista del blocco
orientale di rinunciare al monopolio politico aprendo così la strada al multipartitismo.
La primavera politica di Lubiana suscita un'ondata di indignazione in Serbia, dove l'odio per gli
sloveni è ormai pari a quello per gli albanesi del Kosovo, tanto più che le associazioni slovene per i
diritti umani si schierano a favore degli albanesi.
MiloSevic sfrutta e rinfocola sia l'uno sia l'altro per rinsaldare il suo potere, mettendo a segno una
serie di vittorie. La più importante riguarderà il controllo della presidenza federale: il vodja (duce)
serbo l'ottiene con quella che chiamerà la «rivoluzione antiburocratica», una serie di raduni oceanici
che gli permetteranno di mettere uomini fidati alla guida di Montenegro, Vojvodina e Kosovo e di
azzerare infine l'autonomia delle ultime due. Una volta ottenuto il controllo delle due ormai ex
province autonome, MiloSevic si sarà asservito ben quattro degli otto membri del Presidium e potrà
così condizionarne il lavoro e tentare la scalata ai vertici della Lega dei comunisti. Il momento è
quanto mai favorevole: lo scandalo della holding alimentare bosniaca Agrokomerc, che ha emesso
cambiali scoperte per 900 milioni di dollari, rivela infatti l'intreccio tra mafia, capitale, industria e
potere, che governa l'economia jugoslava. E la sfiducia dei cittadini nei confronti della classe
dirigente è sempre più grande.
La «rivoluzione antiburocratica» comincia dalla ricca e multiforme Vojvodina. Il 5 ottobre 1988,
15 mila serbi mettono sotto assedio l'Assemblea regionale, a Novi Sad. La folla reclutata nelle
fabbriche dagli agitatori di MiloSevic, che non a caso prenderanno il posto dei vertici spodestati
contesta ai leader locali di non tutelare gli interessi serbi; interessi che vengono ormai identificati
con la necessità di riunire tutti i serbi in Serbia, abbattendo le barriere tra Serbia, Vojvodina e
Kosovo. Terrorizzati, i vertici del partito implorano l'intervento dell'esercito perché venga a salvarli,
ma la presidenza federale nega qualsiasi aiuto.
Quando ormai tutto sembra perduto, MiloSevic offre una via d'uscita al capo del partito della
Vojvodina, Milovan Sogorov: per salvarsi la vita, dia le dimissioni.
La rivoluzione avanza in Montenegro, diviso tra la fazione pro serba e quella indipendentista, dove
la disastrosa situazione economica provoca una serie di scioperi. Quando la polizia carica i
manifestanti, la fazione pro serba sfrutta l'incidente per denunciare la repressione della volontà
popolare. E organizza a sua volta raduni inneggianti a MiloSevic in cui chiede la normalizzazione
del Kosovo. Basteranno tre mesi perché il vertice del partito venga occupato da Momir Bulatovic
(34 anni), che sarà negli anni uno dei più fedeli alleati di MiloSevic e diventerà prima presidente del
Montenegro e poi, spodestato da Milo Djukanovic, premier jugoslavo.
La neutralizzazione dei partiti della Vojvodina e del Montenegro mette in allarme il Comitato
centrale della Lega dei comunisti jugoslavi, che il 17 ottobre 1988 propone di votare la fiducia
individuale per ognuno dei membri. L'obiettivo del capo del partito, il croato Stipe Suvar, è di
fermare MiloSevic. Ma questi si sottrae al giudizio dicendo di essere membro di diritto del Comitato
centrale in quanto capo del partito serbo: nei suoi confronti, quindi, non può essere votata la mozione
di sfiducia. Per la prima volta, MiloSevic illustra la sua regola di condotta, che gli permetterà di
piegare alla propria volontà le istituzioni: invocherà alternativamente la supremazia delle istituzioni
federali o l'interesse nazionale serbo, a seconda dei suoi vantaggi (Silber e Little, op. cit., pag. 64).
Per la Lega dei comunisti è l'inizio della fine. Lo sloveno Vinko Hafner resterà negli annali per aver
alzato il dito contro MiloSevic dicendo: «Compagno, rifletti bene sulla strada che stai per
imboccare».
Sulla scacchiera di MiloSevic manca tuttavia il Kosovo, dove la tensione torna a salire. Il nuovo
padrone della Serbia accusa la leadership comunista della provincia, tutta albanese, di non riuscire a
placare i disordini e la allontana in blocco. Gli albanesi mettono in atto una protesta clamorosa,
l'ultima a non sfociare nel sangue: i minatori di Trepča, vicino all'allora Titova (oggi Kosovska)
Mitrovica, abbandonano la miniera e marciano sul capoluogo PriStina, lontano una quarantina di
chilometri. Per cinque giorni restano accampati davanti al quartier generale della Lega dei comunisti.
In risposta, il 19 novembre 1988 MiloSevic raduna a Belgrado 350 mila serbi, che arrivano da tutta
la repubblica: si tratta in molti casi di lavoratori che vengono caricati sui pullman direttamente nelle
fabbriche, provvisti di cibo e soldi per partecipare al più grande meeting «della verità» mai tenuto
dai serbi. La folla reclama una nuova Costituzione per la Serbia, l'abolizione dell'autonomia del
Kosovo e chiede armi per marciare contro gli albanesi e gli sloveni.
E' il 4 febbraio 1989 quando il Parlamento serbo approva gli emendamenti costituzionali con cui
annulla l'autonomia della Vojvodina e del Kosovo, mettendo di fatto fine all'ordine costituzionale
jugoslavo. Per protesta, 1300 minatori albanesi si rinchiudono nella miniera di Stari Trg. In segno di
solidarietà, la popolazione albanese indice lo sciopero generale e MiloSevic coglie l'opportunità per
chiedere lo stato d'emergenza. Il Comitato centrale del partito si spacca. Lo sloveno Kučan accusa
MiloSevic di aver provocato i disordini; MiloSevic risponde che la Serbia userà tutti i mezzi per
tutelare i propri interessi. Non ottenendo l'appoggio del Comitato centrale, MiloSevic è costretto a
fare momentaneamente marcia indietro, destituendo i fedelissimi insediatisi al vertice della Lega del
Kosovo. I minatori abbandonano la lotta. Ma una manifestazione di solidarietà a favore degli
albanesi, organizzata a Lubiana da governo e opposizione, offre a Belgrado l'alibi per usare
nuovamente il pugno di ferro.
La tv di Belgrado, asservita a MiloSevic e sempre pronta a riscaldare gli animi, trasmette in
diretta l'assemblea in cui si denuncia la politica serba. E a dimostrazione che il training di MiloSevic
ha funzionato a meraviglia, la gente comincia a radunarsi spontaneamente davanti al Parlamento
federale di Belgrado: grazie ai soliti pullman organizzati dai tirapiedi del duce, poi, il giorno
seguente si riuniscono nella capitale centinaia di migliaia di persone. MiloSevic promette di
arrestare e punire i responsabili dei disordini in Kosovo: promessa mantenuta già il giorno seguente,
quando Azem Vllasi viene rinchiuso in carcere. La presidenza federale e della Lega dei comunisti si
spaventano e, anche grazie ai voti sloveni, acconsentono a proclamare lo stato d'emergenza nella
provincia «ribelle».
Il 23 marzo 1989, i blindati serbi circondano l'Assemblea regionale del Kosovo per vegliare sui
suoi lavori. Dopo un opportuno lavoro di preparazione da parte dei servizi segreti, che non lesinano
minacce, i deputati regionali votano a maggioranza la propria decapitazione politica. A PriStina
scoppiano violenti disordini con 22 morti ma secondo i giornali sloveni i morti sono 140 e 370 i
feriti che preludono alla chiusura delle scuole e dell'università, al coprifuoco, all'internamento di
centinaia di persone e, infine, all'introduzione della legge marziale. Cinque giorni dopo, viene
proclamata a Belgrado la nuova Costituzione serba: il 28 marzo viene dichiarato festa nazionale. La
fragile architettura jugoslava è un cumulo di macerie.
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Milan Kučan Incontestato fondatore dello stato sloveno negli anni 1995 e 1998 è stato indicato
come la terza personalità più importante di tutti i tempi, dopo il fondatore dello sloveno scritto,
Primus Trubar, e il poeta romantico France PreSeren, autore dell'inno nazionale Milan Kučan è nato
nel 1941 da una famiglia di insegnanti protestanti della regione del Prekmurje, vicino ai confini con
l'Ungheria. All'età di tre anni rimane orfano del padre, ucciso dagli occupatori nazionalsocialisti per
la sua partecipazione alla Resistenza. A soli 23 anni si laurea in giurisprudenza all'Università di
Lubiana inaugurando una folgorante carriera politica. Nel 1964 si iscrive all'Alleanza della gioventù
socialista, di cui diventerà presidente quattro anni più tardi. Dopo due anni al vertice
dell'organizzazione giovanile, entra nel Comitato centrale della Lega dei comunisti sloveni: da qui
scalerà tutti i gradini del potere comunista fino a entrare nel Comitato centrale jugoslavo (dove si
occuperà di questioni costituzionali e in particolare dei rapporti tra le regioni autonome della
Vojvodina e del Kosovo con la Serbia e la federazione) e a diventare, nel 1986, presidente del
Comitato centrale sloveno.
Ricoprirà questa carica fino al 1989, quando sotto la sua guida i comunisti sloveni abdicheranno al
ruolo di partito-stato e apriranno primi nel blocco orientale la strada al multipartitismo. Il suo
impegno a favore della democratizzazione e dell'indipendenza della Slovenia gli fa vincere le prime
elezioni multipartitiche del 1990, quando viene eletto (con un sistema indiretto) presidente della
presidenza slovena dell'ancora Repubblica jugoslava. Dopo l'indipendenza vengono introdotte le
elezioni presidenziali dirette.
E per due volte nel 1992 e nel 1997 gli elettori confermano la fiducia a Kučan, considerato ormai
anche garante della stabilità e della pace per aver privilegiato, durante il conflitto con l'Armata
jugoslava, la soluzione negoziata.

La nascita del popolo celeste Ungheria, Polonia, Germania, Cecoslovacchia: nel 1989, i regimi
comunisti cominciano a cadere in rapida successione. In Jugoslavia che agli occhi del mondo è il
campione di un socialismo dal volto umano e che dovrebbe quindi garantire la transizione più
morbida si sta preparando invece altrettanto rapidamente la resa dei conti tra la corrente liberale
votata alla democratizzazione del paese e quella comunista ortodossa che si va vieppiù consacrando
al nazionalismo. La prima è rappresentata dallo sloveno Janez DrnovSek che ad appena 38 anni
diventa, a sorpresa, presidente federale: esperto di analisi finanziaria, è il primo capo di stato
jugoslavo non comunista del secondo dopoguerra. La Slovenia decide infatti di ammettere alla
competizione elettorale anche candidati esterni al partito. E i candidati comunisti vengono battuti da
un giovane estraneo all'apparato, che parla di diritti umani e di integrazione europea e secondo cui
«la Jugoslavia o sarà europea o non sarà» (DrnovSek, Moja resnica, pag. 175).
La corrente conservatrice è sempre più in mano a MiloSevic che nel maggio 1989 viene eletto
presidente della Serbia e riuscirà a piegare ai propri interessi anche il moderato riformismo del
nuovo premier, il croato Ante Markovic, che approda a Belgrado il 16 marzo portandosi dietro una
squadra di ministri, per la prima volta a maggioranza non serba: MiloSevic acconsente alla sua
elezione nella speranza che sloveni e croati chiudano un occhio su quello che sta succedendo in
Kosovo.
Manager di successo, Markovic ha fornito ottima prova come presidente del Consiglio croato.
Alla guida del governo federale dovrebbe porre rimedio a una situazione disperata, che nel corso
dell'anno provocherà ben duemila scioperi, portando l'inflazione mensile al 50 per cento. Markovic
punta sulla convertibilità della valuta nazionale, il dinaro, che viene agganciato al marco tedesco (al
tasso di 7 a 1); sulla liberalizzazione delle importazioni e sull'introduzione dell'impresa privata. La
ricetta avrà successo nella lotta all'inflazione, rilancerà l'export e infliggerà un duro colpo al mercato
nero. Ma spingerà sloveni e croati a pretendere una liberalizzazione più accentuata delle loro
economie e a rivendicare il controllo sul proprio gettito fiscale, oltre a un maggior pluralismo nella
vita politica. La Serbia comincerà a boicottarlo per le ragioni opposte: la maggior parte delle
imprese serbe sono destinate a soccombere sul libero mercato. Ma l'accentramento dei poteri a
livello federale, richiesto anche dal Fondo monetario internazionale per far fronte alla disperata crisi
economica, gioverà proprio ai disegni di MiloSevic.
Votato al risanamento economico, Markovic non affronterà i sempre più minacciosi conflitti
nazionali: si lascerà guidare dalla convinzione che il benessere può disinnescare le passioni
nazionaliste; che la possibilità di possedere un televisore a colori è più allettante dello scontro
etnico. E una volta disgregato il partito-stato della Lega dei comunisti, fonderà un'alleanza di
riformisti, basata su un programma jugoslavo. Markovic potrà contare fino alla fine su un unico
alleato, l'esercito, legato al premier federale per i generosi finanziamenti destinati ad ammodernare
l'apparato militare nel nome di una fede comune: l'unità jugoslava.
Definito «la fucina della fratellanza e dell'unità dei popoli jugoslavi», l'esercito rappresenta in
realtà la vera settima repubblica jugoslava con una propria Lega dei comunisti (vi aderisce il 96 per
cento degli ufficiali) e che non deve rendere conto né al Parlamento né all'opinione pubblica; è
l'istituzione più dispendiosa dello stato e le sue richieste di finanziamento vengono accolte
automaticamente; controllando direttamente il grande complesso militar-industriale, l'esercito ha una
grande influenza sulla politica economica delle singole repubbliche. E pur avendo ancora una
struttura multietnica, alla fine degli anni ottanta l'armata è in gran parte già serbizzata: se i serbi e i
montenegrini sono il 40 per cento della popolazione jugoslava, essi rappresentano più del 70 per
cento degli ufficiali (in violazione di un'altra delle molteplici regole sulla suddivisione etnica delle
cariche). Sarà proprio la struttura nazionale dell'Armata a permettere ai militari di passare dalla
parte di MiloSevic di aderire cioè al progetto grandeserbo senza troppi imbarazzi.
Ma intanto, la parola d'ordine è: preservare l'unità jugoslava. in questa ottica, tra l'altro, che nel
novembre del 1990, di fronte alla disgregazione della Lega dei comunisti e alla vittoria dei partiti
nazionalisti alle prime elezioni multipartitiche, i militari fonderanno la Lega comunista-Movimento
per la Jugoslavia.
Affidare il proprio destino e quello della Jugoslavia ai soli risultati economici: per Markovic, è un
errore fatale. In Slovenia, la classe dirigente agita vieppiù il fantasma del Kosovo e l'opinione
pubblica è sempre più stanca di dover pagare per gli orrori economici delle altre repubbliche: ormai,
si parla apertamente della possibilità di staccarsi dal resto della Jugoslavia. In occasione del
secondo arresto, il 5 maggio 1989, dei Quattro di Mladina che devono scontare ancora parte della
pena si tiene a Lubiana una manifestazione con diecimila persone, in cui si chiede una Slovenia
sovrana.
Ma la manifestazione che deciderà le sorti della Jugoslavia è quella del 28 giugno, in Kosovo: in
occasione del seicentesimo anniversario della sconfitta subita dai serbi a opera dei turchi, MiloSevic
darà il via definitivo all'assalto delle istituzioni jugoslave. Davanti a un milione di persone raccoltesi
a Gazimestan, il duce crea il mito del «popolo celeste». Invita i serbi a comportarsi come il principe
Lazzaro che nel 1389 aveva preferito morire piuttosto che accettare il dominio straniero: rifiutando la
ricompensa che i turchi gli offrivano per la sua resa, Lazzaro si era guadagnato il paradiso. Oggi
come allora, i serbi sono chiamati a non dare ascolto alle sirene del benessere (di Markovic) e a
sacrificarsi per la libertà. «Sei secoli dopo siamo di nuovo in guerra. Non si tratta di una guerra
d'armi, anche se questo non può essere ancora escluso» sono le chiarissime parole di MiloSevic, che
assieme alla chiesa ortodossa procede a una decisiva manipolazione della storia.
Il comportamento del principe Lazar, infatti, fu tutt'altro che eroico. Con la complicità della chiesa
ortodossa, tuttavia, il novello vodja MiloSevic decide di riesumare le spoglie del principe: il
sarcofago girerà tutto il paese preparando «i serbi all'affermazione della loro leadership in
Jugoslavia e alla trasfigurazione in duce del loro capo supremo MiloSevic» (Rumiz, Maschere per un
massacro, pag. 55).
L'euforia necrofila viene accompagnata ed esaltata in Serbia da una campagna stampa senza
precedenti nell'Europa del secondo dopoguerra (Thompson, Proizvodnja rata, pag. 57), il cui
obiettivo è «la costruzione della paura e, attraverso la paura, dell'aggressività» per «far sì che il
futuro aggressore si ritenga aggredito» (Rumiz, op. cit., pag. 60). I mass media radio, tv, giornali
diventano quasi monocordi nella denuncia di violenze e sopraffazioni a danno dei serbi, in Kosovo,
Croazia, Bosnia, gonfiando normali episodi di cronaca nera, ma inventando anche di sana pianta
storie di privilegi e discriminazioni. Poiché c'è un altro importante obiettivo: convincere i serbi che
«la Serbia è in ginocchio non perché è stata guidata da politici scellerati, ma perché croati, albanesi,
bosniaci e sloveni l'hanno sfruttata e umiliata» (Rumiz, op. cit., pag. 61). Concetti come «spazio
vitale» e «purezza etnica» entrano nel linguaggio quotidiano in attesa che si creino le condizioni
migliori per andare alla conquista di tutti i territori serbi.
Mentre in Serbia ci si sta preparando alla guerra, la Slovenia inizia a mettersi al riparo. In luglio,
il Parlamento comincia a discutere un pacchetto di emendamenti alla Costituzione slovena che
sancisce la superiorità degli interessi repubblicani su quelli federali. Nonostante gli appelli a
Lubiana affinché faccia marcia indietro, la presidenza federale prende tempo, dimostrando una volta
per tutte di non essere più in grado di gestire i conflitti. Il 27 settembre, l'Assemblea di Lubiana
approva alla presenza dello stesso presidente federale, lo sloveno DrnovSek che presenzia ai lavori
per sventare un eventuale e temuto intervento dell'Armata federale (Moja resnica, pag. 104) gli
emendamenti che sanciscono il diritto di Lubiana di determinare da sola la misura dei propri
contributi alle casse federali e che le affidano il diritto di veto all'introduzione dello stato
d'emergenza o di altre misure speciali in Slovenia (il pretesto sono gli eventi in Kosovo). Viene
inoltre cancellato il ruolo guida della Lega dei comunisti e si ribadisce il diritto della Slovenia alla
sovranità e addirittura alla secessione. questo il punto più controverso anche per gli osservatori
occidentali, ai quali gli sloveni replicano grazie all'ambiguità della Costituzione jugoslava che se
hanno volontariamente deciso di far parte della federazione, possono liberamente decidere di
separarsene.
La Serbia proclama il boicottaggio economico della Slovenia, ma ciò non impedisce a Lubiana di
andare dritta per la propria strada: tre mesi più tardi, il 27 dicembre 1989, quando tutto il mondo
comunista sta cadendo, il Parlamento sloveno sancisce anche l'esistenza di partiti diversi da quello
comunista. E l'8 gennaio 1990 indice le prime libere elezioni. Ci vorranno altre due settimane perché
gli sloveni consumino un ulteriore strappo decisivo: al XIV Congresso straordinario della Lega
comunista jugoslava, decidono di abbandonare il partito, seguiti dai croati.
Al congresso, i delegati sloveni chiedono il rispetto dei diritti umani, libere elezioni, la
separazione del partito dallo stato, l'abolizione della proprietà statale, il ripristino della Costituzione
del 1974 per il Kosovo, l'abolizione del reato di attività controrivoluzionaria e del delitto verbale,
l'amnistia per i prigionieri politici e la riforma in senso confederale del paese. La Lega in mano a
MiloSevic che controlla i voti di Serbia, Montenegro, Kosovo e Vojvodina respinge tutte le
richieste, anche le più innocue. In un'atmosfera tesissima in cui i delegati sloveni vengono fischiati e
dileggiati apertamente, il capo della Lega slovena, Kučan, abbandona i lavori. MiloSevic dichiara
che i fatti di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia non avranno alcuna influenza sulla Jugoslavia e che
la Lega vivrà anche senza gli sloveni. Ma per una volta, il duce serbo ha fatto male i conti: croati,
bosniaci e gli stessi rappresentanti dell'esercito lo contestano. Di più: la delegazione croata, guidata
da Ivica Račan, futuro premier croato, e composta per un terzo da rappresentanti serbi, abbandona
anch'essa i lavori. La Lega dei comunisti jugoslavi è morta.

Le prime elezioni pluraliste Benvenuti nella Repubblica di Slovenia: il 3 febbraio sono passate
appena due settimane dallo strappo interno alla Lega jugoslava i comunisti sloveni decidono di
cambiar nome al partito, che diventerà il Partito del rinnovamento democratico. Un mese più tardi,
un'altra tornata di emendamenti costituzionali abolirà l'aggettivo «socialista» dal nome della
repubblica. E, fatto ancora più importante, sancirà l'autonomia economica della Slovenia e il suo
diritto a regolare da sola i rapporti con il resto della Jugoslavia. Gli ex comunisti sono decisi a
presentarsi all'appuntamento con le urne come i campioni dell'autonomia e della sovranità, dal volto
magari più moderato del cartello dell'Opposizione democratica slovena (Demos), ma proprio per
questo più affidabile. E, infatti, mentre uno dei rappresentanti più carismatici di Demos Janez JanSa,
già carcerato per l'affaire Mladina presenta la prima proposta per un esercito nazionale, il
Parlamento ancora dominato dalla vecchia guardia comunista decide di non mandare più i militari di
leva in Kosovo.
I risultati delle prime elezioni democratiche tenutesi tra l'8 e il 12 aprile premiano entrambi:
presidente della Repubblica viene eletto l'ex comunista Milan Kučan. La maggioranza dei seggi in
parlamento, distribuiti su base proporzionale, viene conquistata invece con il 55 per cento dal Demos
che conta sette partiti. Il suo programma parla chiaro: la Slovenia ha diritto all'autodeterminazione, la
Jugoslavia va riformata in una confederazione di stati sovrani.
Il terremoto elettorale si ripete, anche più potente, il mese successivo in Croazia, dove gli ex
comunisti di Ivica Račan si illudono di vincere le elezioni, anche grazie ai voti delle comunità serbe,
ai quali si presentano come unici tutori possibili. A conquistare il maggior numero di seggi del Sabor
(Parlamento) è invece la Comunità democratica croata (Hdz), di Franjo Tudjman, che grazie a
un'offerta politica a dir poco nazionalista ottiene quasi il 40 per cento dei voti traendo il maggior
vantaggio dal nuovo sistema maggioritario. Lo stesso Tudjman viene eletto presidente della
Repubblica, carica cui a differenza della Slovenia vengono attribuiti ampi poteri esecutivi.
Dallo strappo comunista di gennaio, sono sorti in Croazia ben trenta partiti. Ma nessuno riesce a
fungere da diga all'Hdz, generosamente finanziata dall'emigrazione croata più conservatrice, spesso
di tradizione ustascia (che si rifà cioè alla dittatura fascista di Ante Pavelic durante la Seconda
guerra mondiale): la sola campagna elettorale del 1990 sembra abbia ingoiato quattro milioni di
dollari. Tudjman ex generale di Tito, ex dissidente di Tito, già rinchiuso per due volte nelle galere
jugoslave per le sue idee nazionaliste acquista consensi grazie ai proclami sull'unità dei croati in
patria e in esilio, sulla necessità di assicurare alla Croazia le sue «frontiere storiche» a danno della
Bosnia Erzegovina, sul diritto alla secessione. Ma la propaganda migliore gli viene assicurata
proprio dal grande nemico serbo, MiloSevic, che dopo aver normalizzato i suoi «satelliti» naturali
(Vojvodina, Kosovo, Montenegro) comincia ad alimentare il fuoco anche nelle altre repubbliche
jugoslave in cui vivono i serbi.
In Bosnia e Croazia cominciano a comparire le bande che inneggiano all'orgoglio serbo e all'unità
dei serbi. Il combustibile è pronto a prendere fuoco. Al suo insediamento da presidente della
Repubblica, Tudjman inaugurerà il nuovo stemma croato, la Sahovnica, la scacchiera bianco-rossa
già in uso durante il regime ustascia, che sterminò centinaia di migliaia di serbi. Per le comunità
serbe cui il nuovo governo, almeno all'inizio, si guarda bene di garantire protezione comincia la
grande paura: è pur vero che Tudjman corteggia il leader dei serbi, Jovan RaSkovic, offrendogli
incarichi di governo, ma nel contempo allontana i suoi connazionali dall'amministrazione pubblica e
dalla polizia, riporta sotto il controllo centrale le loro imprese e rifiuta di riconoscere qualsiasi
autonomia ai territori abitati dai serbi. La nuova Costituzione definisce la Croazia come «stato
sovrano della nazione croata», senza nominare nessuna delle minoranze che vivono sul suo territorio
(nemmeno quella italiana).
Per i leader nazionalisti serbi, il gioco è facile: l'ultima volta che ci fu uno stato nazionale croato,
quello ustascia di Pavelic cominciano a dire in giro per le Krajine croate popolate dai serbi il nostro
popolo si salvò dall'estinzione solo impugnando le armi.
L'invito alla resistenza armata si salda con i nuovi progetti di MiloSevic. Dopo il fallito tentativo
di conquistare il partito, ormai defunto, e la federazione, in preda alla paralisi, MiloSevic dichiara
per la prima volta che la Jugoslavia non è l'unica opzione per i serbi e che bisogna cominciare a
pensare a una Serbia autonoma.
Così, dopo un'accurata preparazione da parte degli uomini di MiloSevic e ingenti consegne di armi
da parte dell'esercito federale, come ammetteranno qualche anno più tardi alti ufficiali dell'Armata
(Vreme, n. 349, 28-6-1997), i serbi della Krajina croata annunciano un referendum unilaterale
sull'autonomia delle aree da loro abitate. Sarà il preludio alla prima prova di forza: il 17 agosto, due
giorni prima della consultazione, il governo croato invia la polizia a prevenire il referendum. I serbi
accolgono la polizia di Zagabria armati e con le barricate. Neanche un colpo viene sparato in questo
giorno di agosto del 1990: la prima vittima cadrà alla fine di novembre. Ma in tale data nasce il
primo nucleo dello stato serbo entro i confini croati che presto combatterà al fianco dei ribelli serbi
della Slavonia croata e dell'Erzegovina bosniaca. La guerra di Croazia è iniziata.
Anche nel resto della Jugoslavia, le prime elezioni multipartitiche equivalgono alla rottura di una
diga. Entro la fine del 1990, tutte le repubbliche sono chiamate a votare e i risultati delle urne
stravolgono completamente l'immagine di uno stato che ancora si chiama Repubblica federativa
socialista jugoslava. Ovunque trionfano i partiti nazionalisti. Nella Macedonia divisa tra una
popolazione di origine slava e una consistente minoranza albanese, vince il Vmro, il partito degli
oltranzisti macedoni-slavi che non amano le minoranze etniche. La Bosnia vede la vittoria dei tre
partiti etnici serbo, croato e musulmano: è quest'ultima comunità a esprimere il presidente, Alija
Izetbegovic, già prigioniero politico di Tito per le sue tesi sullo stato confessionale islamico (Limes,
1-2ì93). In Serbia, MiloSevic prende il 65 per cento dei voti alle presidenziali. Nel Kosovo, che ha
visto un nuovo flebile tentativo di ribellione il 7 settembre, i delegati dell'Assemblea regionale
messa al bando da MiloSevic si riuniscono per proclamare l'indipendenza del Kosovo e vengono
arrestati in massa qualsiasi forma di attività politica non serba è ormai impraticabile.

La Slovenia si arma La leadership slovena è la prima a preparare concretamente la via alla


secessione, un'ipotesi che si fa sempre più strada nell'opinione pubblica anche a colpi di sondaggi (in
settembre, il 59 per cento degli sloveni si dice favorevole a una confederazione tra le sole Slovenia e
Croazia). I piani su cui si discute a Belgrado e nelle capitali delle singole repubbliche riguardano
ancora la possibilità di conservare una qualche forma di federazione, anche asimmetrica, con
Lubiana e Zagabria solo confederate. Il nuovo presidente federale, rappresentante serbo e uomo di
fiducia di MiloSevic, Borisav Jovic, sembra prendere in esame varie ipotesi, dimostrando che
MiloSevic ha bisogno di tempo per organizzare i suoi in Croazia e Bosnia. Jovic propone prima un
referendum; poi decide che si può discutere solo sulla forma di federazione; infine, sostiene che solo
Slovenia e Croazia possono indire un referendum per decidere se restare in Jugoslavia. E solo
quando Slovenia e Croazia, il 4 ottobre, presentano una proposta comune di confederazione ispirata
alla Comunità europea, basata sul rispetto dei diritti umani, sull'economia di mercato e sul pluralismo
politico, Jovic risponde con quella di una federazione governata da un forte potere centrale,
inaccettabile per Lubiana e Zagabria. proprio con l'inizio della presidenza Jovic che lo scontro tra
Lubiana e Belgrado assume tuttavia una dimensione militare e che la Slovenia comincia ad attrezzarsi
per diventare indipendente sul piano bellico. Jovic si insedia il 15 maggio 1990. Due giorni più
tardi, proprio mentre il Parlamento sloveno vota la fiducia al nuovo governo eletto
democraticamente, reparti dell'esercito federale in Slovenia cominciano a disarmare la cosiddetta
Difesa territoriale, fondata all'indomani dell'invasione della Cecoslovacchia da parte dell'Armata
rossa, con l'obiettivo di creare una rete difensiva il più capillare possibile. Le Difese territoriali, che
possono mettere in campo in caso di necessità due milioni di uomini in tutta la Jugoslavia, dipendono
dalle autorità repubblicane, ma vengono armate dall'esercito federale. All'indomani delle elezioni
che vedono la vittoria di partiti non comunisti e che propugnano programmi nazionali non jugoslavi,
l'Armata decide come già all'inizio degli anni ottanta in Kosovo di svuotare i depositi di armi
accessibili alle truppe che da «alleate» possono trasformarsi in pericolosi avversari.
Il 17 maggio, in Slovenia, Croazia e Bosnia, i militari federali si mettono al lavoro. Riescono a
sottrarre ai depositi sloveni il 70 per cento delle armi destinate alla Difesa territoriale. Ma se in
Croazia e Bosnia l'Armata raggiungerà il risultato voluto, e cioè impedire che la Difesa territoriale
diventi il perno dei nuovi eserciti repubblicani, in Slovenia otterrà l'effetto opposto: Janez JanSa,
nemico giurato dell'Armata che due anni prima lo aveva condannato alla galera, diventa ministro
della Difesa della Slovenia. E in un anno sarà in grado di organizzare 70 mila uomini.
Sommariamente addestrati forse, con a disposizione poche armi, ma sicuramente più motivati dei
militari federali.
JanSa si mette subito all'opera. E in gran segreto i progetti sono noti solo al presidente della
Repubblica, al capo del governo e a pochi altri costituisce già entro settembre un corpo armato di 20
mila uomini, che in autunno si salderà con la Difesa territoriale, tornata nel frattempo sotto l'effettivo
controllo della Slovenia. In qualche mese, questo corpo segreto riuscirà a mettere insieme cinquemila
pezzi di artiglieria leggera, in parte rubandoli dai depositi dell'esercito federale, in parte
importandoli di contrabbando dall'estero (ordinativi partono anche per l'Italia, ma secondo fonti
diplomatiche slovene vengono accolti solo dopo la proclamazione d'indipendenza). Per far fronte ai
32 mila uomini dell'esercito federale di stanza in Slovenia o a ridosso dei suoi confini, che hanno a
disposizione tutta l'artiglieria pesante e sono coperti dall'aviazione, ci vuole tuttavia ben altro.
La leadership slovena inaugura un braccio di ferro con le autorità centrali per evitare di mandare i
giovani a svolgere il servizio militare nelle altre repubbliche (originariamente per non inviarli in
Kosovo). Lubiana ricorda nelle sue memorie JanSa giunge fino al punto di nascondere i documenti
anagrafici dei ragazzi in età di leva, che vengono inquadrati nella Difesa territoriale. Nel marzo
1991, il Parlamento sloveno abolisce infine l'obbligo per i giovani sloveni di effettuare il servizio
militare nell'esercito federale (prevedendo la possibilità di farlo su base volontaria). Con il pretesto
di dover sostenere i costi del loro addestramento, Lubiana diminuisce i trasferimenti all'esercito
federale. Sono solo 300 milioni di dinari (circa 43 miliardi di lire dell'epoca), che assieme ad aiuti
provenienti dall'estero vengono destinati all'acquisto di armamenti.
Alla vigilia dello scontro con l'esercito federale, ricorda puntigliosamente JanSa, la Slovenia
disporrà di 23 mila pezzi di artiglieria leggera, poco più di duemila razzi anticarro, cinquemila fucili
automatici, cinque milioni di munizioni, alcuni lanciarazzi Fagot, qualche decina di missile terra-aria
2M (JanSa, op. cit., pag. 149). Anche l'industria bellica di base in Slovenia fa modestamente la sua
parte, mentre una consistente parte delle armi, compresi gli equipaggiamenti per le comunicazioni
radio, viene consegnata a Lubiana appena dieci giorni prima della proclamazione dell'indipendenza,
il 17 giugno 1991. E la non conoscenza di alcune attrezzature causerà più d'una difficoltà nelle
comunicazioni.
Belgrado non vede o fa finta di non vedere. Un atteggiamento curioso, se non si spiegasse con la
decisione di MiloSevic di lasciare andare la Slovenia per la sua strada e di concentrarsi piuttosto
sulla Croazia. Il ministro della Difesa federale Kadijevic minaccia ritorsioni di ogni genere;
nell'ambito dell'esercito circolano piani per neutralizzare, anche con l'arresto dei presidenti Kučan e
Tudjman, le spinte separatiste slovene e croate. Ma alla prova dei fatti, non viene messa in atto
nessuna contromisura reale, essendo i servizi segreti impegnati a impedire la nascita della milizia
croata.
Quando nel settembre 1990, gli sloveni sostituiranno il comandante della Difesa territoriale di
tendenze filojugoslave con un uomo fedele al nuovo governo, l'Armata attenderà qualche giorno e poi
occuperà la sede della Difesa territoriale di Lubiana. Ma si tratta di un edificio ormai vuoto. E
l'unico risultato è di irritare ulteriormente la popolazione slovena, che forse ritiene ancora utile una
convivenza dalle forme magari allentate con le altre repubbliche jugoslave, ma che è sempre meno
disponibile a subire i diktat di Belgrado. in questo clima che si fa strada la proposta del cartello di
governo Demos di indire una consultazione sul destino della Slovenia; consultazione che si trasforma
in un plebiscito sulla Jugoslavia. Il 23 dicembre 1990, l'88,2 per cento degli elettori dice sì al
tentativo di creare una Slovenia sovrana e indipendente, da proclamare entro sei mesi, nell'ambito
della confederazione jugoslava o al di fuori di essa. Kučan e il governo tutto continuano ad agitare la
foglia di fico della confederazione: sostengono che non si tratta del via libera alla secessione
unilaterale e che la Slovenia cercherà di regolare i rapporti con ognuna delle repubbliche jugoslave.
Ma in realtà, Lubiana si sta già preparando a dire addio alla Jugoslavia. Tutti presagiscono che il
braccio di ferro sulla forma da dare alla Jugoslavia è destinato al fallimento. Solo l'Occidente riesce
ancora a far finta di nulla: non più tardi del 30 ottobre 1990, la Comunità europea decide di stanziare
35 milioni di ecu dal programma Phare per consolidare e ricostruire il sistema finanziario jugoslavo.
E' un nuovo tentativo di dar fiducia a Markovic, che in realtà non controlla più niente, ma che
ottimisticamente proclama: «Il 1991 sarà l'anno decisivo per la Jugoslavia e il suo risanamento
economico».
Lubiana accusa il premier federale di aver indebolito l'economia slovena con una valutazione
troppo alta del dinaro nei confronti del marco tedesco che ha depresso l'export. Comincia quindi ad
aumentare le riserve di valuta estera: in ottobre acquista 900 milioni di dollari. E quando si tratta di
finanziare il budget federale per l'anno 1991, decide di trasferire a Belgrado solo quattro miliardi di
dinari, un terzo rispetto l'anno precedente. Del resto, dicono a Lubiana, non si può continuare a
finanziare un pozzo senza fondo in cui non esiste alcuna regola. All'inizio di gennaio scoppia infatti
lo scandalo sull'irruzione serba nel sistema monetario federale: per vincere le elezioni presidenziali,
MiloSevic ha fatto emettere, all'insaputa delle autorità federali, banconote per un miliardo e 403
milioni di dollari; cifra che equivale alla metà dell'emissione di denaro prevista per il 1991. Il
giorno dopo la pubblicazione della notizia sulla «rapina del secolo», il parlamento sloveno decide
di estendere il proprio controllo all'amministrazione fiscale e doganale della repubblica. Si inaugura
così, l'8 gennaio 1991, e cioè ben prima che attorno ai posti di blocco si cominci a sparare
veramente, la guerra delle dogane.
Alla sindrome da primo della classe, di cui soffre la Slovenia, contribuisce anche un altro
avvenimento singolare per il resto della Jugoslavia. Incalzata dal nuovo potere a guida democristiana
(ispirato quindi anche dai circoli degli esuli politici, dall'emigrazione anticomunista e dalla chiesa
cattolica), Lubiana inaugura il tentativo di riconciliarsi con il proprio passato. E riconosce
formalmente i crimini perpetrati dai partigiani di Tito, che nell'immediato dopoguerra sterminarono
migliaia di avversari politici, oppositori e collaborazionisti veri e propri. La simbolica celebrazione
nel bosco del Kočevski rog dove avvenne uno degli eccidi più spaventosi viene presieduta dall'ex
comunista, il presidente della repubblica Milan Kučan, e dall'arcivescovo di Lubiana, Alojzij SuStar.
Timidamente si comincia a cercare la verità storica anche sulle foibe del Carso triestino.
Le prove che la Slovenia non sia destinata a subire gravi ritorsioni in caso di secessione sono
ormai molteplici. «Già nell'agosto 1990, in occasione di alcuni colloqui informali, Jovic e
MiloSevic avevano dichiarato di non avere nulla contro l'indipendenza slovena. Al contrario,
sostenevano che gli sloveni dovevano decidere con un referendum» scrive l'ex presidente federale
DrnovSek nelle sue memorie (DrnovSek, op. cit., pag. 209). Ma la conferma definitiva arriva il 24
gennaio 1991, durante una riunione della presidenza federale. I vertici istituzionali della Jugoslavia
sono di nuovo a Belgrado per l'ultimatum ai croati sul disarmo della nuova Guardia repubblicana che
per la leadership federale altro non è che una formazione paramilitare illegale. In un incontro
separato, racconterà qualche anno più tardi Kučan alla Bbc, MiloSevic delinea chiaramente la
propria posizione: «Durante quell'incontro ci fu chiaro che i serbi non avrebbero insistito a tenere la
Slovenia in Jugoslavia. Noi sloveni dicemmo che volevamo avere il diritto a un nostro stato.
MiloSevic replicò che i serbi volevano che venisse loro riconosciuto lo stesso diritto: tutti i serbi in
Jugoslavia in uno stato. Io replicai che naturalmente anche i serbi avevano questo diritto, ma nello
stesso modo in cui cercavano di realizzarlo gli sloveni, e cioè senza calpestare i diritti delle altre
nazioni.
MiloSevic allora rispose: "Sì, certamente, questo è chiaro". Dopo queste parole volammo a casa a
Lubiana» (Silber e Little, op. cit., pag. 122).
MiloSevic ha quindi deciso: la Serbia non ostacolerà il disfacimento della Jugoslavia, perché ne
può trarre il massimo vantaggio. «Dove c'è una tomba serba, là è Serbia» è lo slogan che risuonerà in
Jugoslavia nei successivi otto anni. E in Slovenia non ci sono tombe serbe. Con la propria uscita di
scena, tuttavia, Lubiana offre alla Serbia l'alibi per proteggere con le armi le pietre tombali
disseminate per le altre repubbliche. Gli interessi di Lubiana e Belgrado, ormai, sono pienamente
coincidenti.
L'incognita vera, per la Slovenia, è rappresentata dall'esercito, ancora convinto della possibilità e
della necessità di salvare le sorti della Jugoslavia e del comunismo, anche attraverso un golpe. In una
informativa di gennaio, i generali manifestano soddisfazione per il crollo delle riforme nell'Unione
sovietica e per le difficoltà occidentali nel Golfo e rilevano che nei paesi dove ha vinto l'autentica
rivoluzione, la Jugoslavia e l'Urss, gli imperialisti non sono in grado di distruggere il socialismo.
«La Jugoslavia può esistere solo come stato. Se non è uno stato, non è Jugoslavia, ma qualcos'altro.
Ciò che alcuni in Jugoslavia propongono come confederazione non è uno stato né può esserlo» è la
conclusione, che lascia intendere intenzioni golpiste.
I militari hanno tuttavia ancora qualche scrupolo legalista e attendono ordini dalla presidenza
federale. Il blocco serbo sarebbe pronto alla resa dei conti, ma la Bosnia Erzegovina e la
Macedonia, che dai conflitti tra le nazionalità jugoslave hanno tutto da perdere, diventano prudenti
riguardo all'impiego dell'esercito e si schierano con Slovenia e Croazia. In Bosnia, i fermenti
nazionalisti hanno già dato vita a «consigli nazionali», mentre i serbi accusano Skopje di
discriminare i loro connazionali. Così, il 12 marzo 1991, si oppongono alla proposta dei militari che,
con il pretesto delle manifestazioni di protesta a Belgrado, chiedono l'introduzione dello stato
d'emergenza in tutto il paese. A dispetto della promessa fatta quattro anni prima in Kosovo «Nessuno
oserà mai picchiare un serbo» MiloSevic infatti non esita a mandare i carri armati contro
opposizione e studenti che il 9 marzo marciano su Belgrado chiedendo libertà di stampa e di
espressione, contestando il monopolio del regime sui media e la disastrosa situazione economica: il
bilancio è di due morti e numerosi arresti.
I militari fanno di tutto per intimorire i membri della presidenza, facendoli riunire in un gelido
bunker e scortare da soldati, mente i carri armati stanno già scaldando i motori, pronti a sparpagliarsi
nelle repubbliche. Ma non riescono a ottenere il via libera al loro intervento. A questo punto, il
presidente Jovic tenta di dare una spallata alla situazione di stallo. Con il pretesto che la presidenza
federale non è più in grado di gestire il paese, si dimette. Con lui se ne vanno i rappresentanti di
Montenegro e Vojvodina. La presidenza non è più operativa e il vuoto di potere può essere
agevolmente sfruttato dall'esercito. Ma l'Armata, ancora una volta non interviene. Il 14 marzo, infatti,
il ministro della Difesa, generale Kadijevic, vola a Mosca per incontrare il suo omologo russo Jazov
e chiedere aiuto. Ma al ritorno, racconterà sei anni più tardi il generale Vuk Obradovic (Vreme, n.
349, 28-6-1997), riferirà che «i russi hanno il fango alle ginocchia; non sono in grado di aiutare
neanche se stessi».
Il progettato colpo di stato militare, che pure potrebbe venire tollerato da un Occidente
preoccupato per la disintegrazione della Jugoslavia, rientra. MiloSevic costringe Jovic a coprirsi di
ridicolo e a riprendere il suo posto. Ma coglie l'occasione per fare una dichiarazione che è, di fatto,
la sua dichiarazione di indipendenza (Silber e Little, op. cit., pag. 139): «La Jugoslavia è entrata
nella sua fase finale di agonia. In queste circostanze, la Repubblica serba non riconoscerà più alcuna
decisione della presidenza, perché illegale».
La Jugoslavia è ormai un simulacro, che continua a esistere per forza d'inerzia e soprattutto per
paura. Si spiega così il grottesco balletto di incontri tra presidenti delle repubbliche in pochi mesi se
ne tengono ben sei convocati per tentare di trovare una soluzione alla crisi jugoslava, ma in cui
spesso non ci si riesce a mettere d'accordo neanche sull'ordine del giorno. L'unico risultato sembra
quello ottenuto da sloveni e croati che, nonostante le reciproche diffidenze, decidono di coordinare i
preparativi per proclamare insieme l'indipendenza dalla Jugoslavia e gettare le basi per un'eventuale
confederazione a due che in realtà non vedrà mai la luce. Anche l'accordo di difesa comune raggiunto
in aprile tra Zagabria e Lubiana verrà disconosciuto già alla prima occasione, quando cioè i carri
armati federali, provenienti dalla Croazia, entreranno in Slovenia per prendere possesso dei confini.
Niente di strano, quindi, se il 15 maggio, alla scadenza naturale del mandato di Jovic, il
meccanismo previsto da Tito si rompe. Il successore dell'uomo di MiloSevic dovrebbe essere,
secondo un rituale consolidato, Stipe Mesic, l'esponente croato, nominato qualche tempo prima da
Tudjman. Il blocco serbo gli rifiuta i propri voti sostenendo di non potere eleggere presidente della
Jugoslavia un uomo che intende disgregarla. E' il trionfo dell'ipocrisia, ma il piano funziona: la
presidenza e di conseguenza l'esercito resteranno senza vertice in uno dei momenti più delicati,
durante la proclamazione di indipendenza di Slovenia e Croazia. Solo il primo luglio, in seguito
all'intervento dell'Armata in Slovenia, l'Europa imporrà l'elezione di Mesic.
Passa solo una settimana dall'uscita di scena di Jovic, infatti, e l'esercito posto in stato di allerta
già agli inizi di maggio mette in atto la prima prova di forza in Slovenia: il 23 maggio, i carri armati
circondano un centro di addestramento della Difesa territoriale slovena a Maribor sequestrando il
comandante provinciale che, ironia della sorte, si chiama Vladimir MiloSevic. E' una provocazione.
Ma gli abitanti di Maribor reagiscono con manifestazioni pacifiche che non consentono l'introduzione
dello stato d'emergenza. E' proprio in questa occasione, tuttavia, che la Slovenia piange la prima
vittima: il cinquantenne Josef Simčik viene travolto da un mezzo blindato federale.
Se all'inizio dell'anno solo il 7 per cento degli sloveni riteneva probabile un intervento da parte
dell'Armata federale, questi avvenimenti ribaltano l'opinione corrente. A rafforzare i timori della
popolazione ci sono anche le notizie provenienti dalla Krajina croata, dove è cominciato a scorrere il
sangue. Il 2 maggio, a Borovo Selo, dodici agenti croati vengono uccisi dai ribelli serbi che già da un
mese hanno eretto barricate isolando i loro territori dal resto della Croazia e interrompendo le più
importanti vie di comunicazione della Dalmazia. La presidenza federale manda l'esercito nella
regione con il compito di «separare i contendenti». Ma nei loro reportage, i giornalisti sloveni
dipingono una situazione completamente diversa: i carri armati federali sono arrivati per appoggiare
i ribelli serbi contro le legittime istituzioni croate.
Quando, il 12 giugno, il Parlamento sloveno decide di proclamare la sovranità, due settimane più
tardi il 26 giugno sono poche le critiche che si levano contro questa decisione. Semmai, la
preoccupazione è che il governo non abbia fatto abbastanza per prepararsi all'evento: i ministri
ammettono infatti che il confine con la Croazia non è definito; che i passaporti non esistono; che
bisognerà tollerare la presenza dell'Armata federale almeno per altri due o tre anni; che non ci sono
sufficienti riserve in valuta e che l'introduzione della nuova moneta potrà avvenire solo con il
riconoscimento internazionale. La Croazia, che ha annunciato di voler dichiarare l'indipendenza
contestualmente con la Slovenia, è tuttavia in condizioni ben peggiori (il referendum si è tenuto
appena il 19 maggio).
La scelta della data cui ci si prepara con l'installazione di otto posti di blocco sulla frontiera, fino
a quel momento solo amministrativa, con la Croazia provoca un terremoto nelle cancellerie
occidentali. Gli Stati Uniti hanno tenuto finora un atteggiamento ambiguo sostenendo ufficialmente la
necessità di conservare la Jugoslavia unita, ma dicendosi contrari all'uso della forza; appoggiando le
aspirazioni slovene e croate all'autodeterminazione, ma condannando ogni tentativo di secessione
unilaterale. Sono gli stessi concetti che il segretario di stato americano, James Baker, ribadisce
ufficialmente il 21 giugno, quando arriva in Jugoslavia per un estremo tentativo di fermare le due
repubbliche ribelli. Secondo un consigliere del ministro della Difesa Kadijevic, Baker andrebbe in
realtà un po' più in là, consigliando il premier federale Markovic di usare la forza, ma in modo
limitato. Di dare cioè, per citare la fonte jugoslava, «una gentile bacchettata agli sloveni» (Silber e
Little, op. cit., pag. 166).
Anche in Europa la parola d'ordine è «unità»: attraverso il ministro degli Esteri, Gianni De
Michelis, l'Italia fa mostra di un approccio rigorosamente negativo alla prospettiva della secessione
slovena. In realtà, gli ambienti cattolici e democristiani del vecchio continente (con, in prima fila, la
Cdu tedesca) incoraggiano Slovenia e Croazia. E il primo ambasciatore sloveno in Italia, Marko
Kosin, descriverà così le sensazioni alla fine della visita a Roma, nei giorni immediatamente
precedenti la dichiarazione di indipendenza: «La politica ufficiale italiana si opponeva ai nostri
progetti, ma molte personalità avevano tacitamente accettato la nostra decisione: il fronte politico
italiano, insomma, non avrebbe contrastato in modo unitario i nostri sforzi» (Kosin, Diplomacija z
Italijo, pag. 33).
Tutto ciò non impedirà alla Comunità europea di stanziare, il 24 giugno, e cioè due giorni prima
delle cerimonie per l'indipendenza, un miliardo di dollari (per la precisione, 807 milioni di Eecu)
per il miglioramento delle infrastrutture jugoslave.
******
Janez JanSa Da pacifista a sostenitore della linea dura contro l'Armata jugoslava: è questo il
singolare percorso di Janez JanSa. Nato nel 1958 a Lubiana, si laurea a 24 anni in scienze della
difesa e nello stesso anno viene nominato presidente della Commissione per la difesa popolare
dell'Alleanza della gioventù socialista slovena. da questa posizione che comincerà a contestare la
struttura e il ruolo dell'Armata jugoslava, attirandosi le critiche del regime. Nel 1983, una sua
relazione sulle forze armate viene sequestrata e tutte le copie distrutte. Comincia così la dissidenza di
JanSa che per anni viene tenuto sotto controllo dai servizi segreti e al quale viene praticamente
interdetto l'accesso a qualsiasi posto di lavoro pubblico. JanSa entra a far parte dei movimenti
ecologisti e pacifisti che chiedono l'introduzione dell'obiezione di coscienza al servizio di leva e la
modifica dello status dell'Armata. Si guadagna da vivere realizzando programmi per computer. Nel
1987, il settimanale dell'Alleanza della gioventù socialista, Mladina, apre le porte ai nuovi
movimenti della società civile e JanSa comincia a scrivere sui temi della democrazia e della
sovranità nazionale, fino a procurare al giornale lo scoop sui piani dell'Armata per introdurre in
Slovenia lo stato d'emergenza. Arrestato il 31 maggio 1988, verrà condannato a 18 mesi di reclusione
per violazione di segreto militare. Il processo darà vita alla Primavera slovena. Una volta uscito di
carcere, in cui sconta solo un terzo della pena, JanSa diventa caporedattore del giornale
dell'Opposizione democratica (Demos) che dopo la vittoria alle prime elezioni multipartitiche del
1990 lo nomina ministro della Difesa, carica che conserverà fino al marzo 1994. La sua fama
raggiunge l'apice durante la resistenza all'intervento dell'Armata jugoslava, periodo in cui si
guadagna l'appellativo di «falco»: con i suoi 70 mila uomini umilia quello che solo fino a qualche
anno prima era considerato il quarto esercito d'Europa.

Lubiana dichiara l'indipendenza «La Germania riunita si sta preparando alla proclamazione del Iv
Reich, che ingloberà l'Austria, l'Ungheria e i traditori sloveni e croati»: è con questi argomenti non
molto dissimili da quanto si va sostenendo in alcune cancellerie europee, dove si guarda con sospetto
all'appoggio offerto dalla Germania a Lubiana e Zagabria che nella prima metà di giugno 1991 il
ministro della Difesa federale Kadijevic cerca di indottrinare i propri generali e prepararli allo
scontro. Ai soldati che a bordo dei carri armati vengono inviati nelle strade slovene e ai quali per
giorni viene impedito di leggere i giornali e di ascoltare i notiziari radiotelevisivi, viene propinata
una verità ancora più semplice: la patria è stata aggredita da un nemico esterno e bisogna difenderla.
L'insuccesso dell'intervento dell'Armata federale in Slovenia è dovuto in parte anche a questa
menzogna: quando i giovani di leva si renderanno conto che stanno combattendo gli sloveni,
diserteranno a migliaia, vanificando l'operazione.
Ma intanto, tra il 26 e il 27 giugno, si mettono in moto. Anche stavolta, l'esercito ha atteso l'ordine
legittimo per intervenire. Il 25 giugno, mentre il Parlamento sloveno vara gli atti costitutivi della
Slovenia sovrana, il governo federale (a causa del vacuum nella presidenza federale) approva un
decreto con cui affida ai ministri della Difesa e degli Interni l'incarico di dispiegare unità
dell'esercito sulle frontiere per salvaguardare l'integrità territoriale jugoslava. A firmare il
provvedimento, che il giorno dopo viene pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e di cui Lubiana viene
subito a conoscenza, è il premier federale Markovic. Secondo la legge, il decreto è destinato a
entrare in vigore ventiquattr'ore dopo la sua pubblicazione. Ma l'Armata disattende gli ordini: i primi
carri armati escono dalle caserme il giorno stesso della pubblicazione.
Un'operazione di polizia in cui vengano impiegati solo tre o quattromila uomini dei trentamila di
stanza in Slovenia: questo è ciò che chiede Markovic e che l'Armata mette inizialmente in atto. Anche
se le interpretazioni degli ordini in seguito divergeranno. Markovic sosterrà che il decreto prevedeva
solo l'impiego di armi leggere, mentre secondo l'esercito consentiva anche l'invio di carri armati.
Solo il 30 giugno, quando l'uomo di MiloSevic nella presidenza federale, Borisav Jovic, pone il
veto all'esecuzione del piano B - e cioè a un'invasione vera e propria della repubblica, con
conseguente arresto della leadership slovena e l'introduzione della legge marziale i generali si
ribellano. MiloSevic ha formalmente annunciato, attraverso Jovic, che non ha intenzione di
combattere per l'integrità jugoslava e che il suo obiettivo è cambiato: ormai si tratta di impedire la
secessione della Croazia per difendere i serbi che vivono in questa repubblica. L'esercito non ci sta e
tenta un ultimo colpo di coda per piegare gli sloveni. Ma basteranno pochi giorni per ricondurre gli
ufficiali sotto l'ala protettiva del grande duce serbo che sfrutterà il loro senso di frustrazione contro
la Croazia.
L'operazione di polizia comincia dunque il 26 giugno, il giorno della cerimonia ufficiale per
l'indipendenza. Dalle sedi Nato per l'Europa meridionale in Italia si seguono con preoccupazione gli
avvenimenti oltreconfine e le brigate dell'esercito italiano dislocate nelle regioni del Nordest alzano
il livello di allarme.
Alle 14 giunge l'ultimatum di Belgrado, che gli sloveni non accolgono: sulle frontiere, i militi della
Difesa territoriale procedono alla posa dei nuovi simboli nazionali. Gli organi federali jugoslavi
rispondono chiudendo gli aeroporti e lo spazio aereo sloveno e mandando unità dell'Armata ai
confini: per la prima volta da decenni, i tank con la stella rossa compaiono alla frontiera con l'Italia e
l'Austria. La loro minacciosa presenza e le scaramucce dei giorni successivi, che faranno
«sconfinare» la guerra di Slovenia anche in Italia e Austria, apporteranno un grosso vantaggio
mediatico a Lubiana che denuncerà la vile «aggressione e occupazione».
Ma il piano vero e proprio scatta nella notte, quando gli sloveni sono già a letto a smaltire i
postumi dei festeggiamenti o a riflettere sulle parole del loro presidente Kučan: «Oggi è ancora lecito
sognare, ma non vogliamo farci illusioni. Domani è un altro giorno, un giorno difficile in cui dovremo
affrontare la realtà. Dio ci assista».
Qualche minuto prima dell'una, arriva il primo avvertimento da Zagabria: da VaraŽdin nella
Croazia orientale si sta muovendo verso il confine sloveno una trentina di mezzi corazzati
appartenenti alla V regione militare. Nel gabinetto di crisi del governo sloveno la tensione è
altissima, tuttavia il ministro della Difesa JanSa si dice tranquillo: la Difesa territoriale ha previsto i
possibili spostamenti erigendo barricate sulle strade principali. Ma alle 2,40 i servizi sloveni
trasmettono un notizia allarmante: a Vrhnika, alle porte di Lubiana, qualcosa non ha funzionato e due
colonne di carri armati del temuto Xiv corpo si stanno dirigendo verso l'aeroporto della capitale,
Brnik. La Difesa territoriale corre ai ripari improvvisando nuove barricate e obbligando le due
colonne a fare un percorso diverso da quello previsto. il primo successo degli sloveni: le unità del
Xiv corpo perdono un terzo dei mezzi senza riuscire a prendere l'aeroporto e assaggiano così per
prime quella che sarà una delle armi vincenti della Slovenia, la resistenza globale di Difesa
territoriale e popolazione, cui i federali non sono preparati. «Un esercito addestrato da vent'anni a
una guerra difensiva a fianco della Difesa territoriale e della popolazione civile si trova a
combattere una guerra offensiva finendo per impigliarsi in una sorta totale di guerriglia» (Molinari,
Jugoslavia dentro la guerra, pag. 152).
Nelle stesse ore, diventa chiaro che l'alleanza sloveno-croata è fittizia. ancora notte quando JanSa
chiama il ministro della Difesa croato, Martin Spegelj, ricordandogli che secondo gli accordi
Zagabria sarebbe tenuta a fermare i mezzi dell'Armata. E sostenendo che un'azione preventiva
sarebbe utile agli stessi croati. «Gli ricordai che la Croazia non avrebbe potuto evitare un conflitto
con l'esercito federale e che questo sarebbe stato il momento migliore per reagire: più tardi avrebbe
dovuto fare i conti non solo con le unità regolari, ma anche con i riservisti della Serbia e del
Montenegro. Spegelj era d'accordo, ma era chiaro che Tudjman frenava: Spegelj mi disse che un
terzo del territorio croato era in mano ai cetnici e che non potevano rischiare anche uno scontro con
l'Armata. Ottenni solo un impegno a comunicare gli spostamenti dei federali» ricorda JanSa (JanSa,
op. cit., pag. 164). Sarà grazie al mancato intervento croato che successivamente Lubiana si sentirà
legittimata a non difendere l'ex presunto alleato.
E' con queste premesse che la presidenza allargata slovena decide, verso le otto del mattino del 27
giugno 1991, di resistere. Il decreto con cui la presidenza ordina di mettere in atto i piani di difesa,
definisce l'intervento dell'Armata come «un tentativo di occupazione permanente della Slovenia».
Mentre ribadisce che la difesa deve consistere essenzialmente «nell'ostacolare le unità dell'Armata e
nel blocco delle sue infrastrutture». L'ordine è di sparare solo in caso di minaccia diretta a obiettivi
sensibili guardati dalla Difesa territoriale, di aggressione a istituzioni politiche, di pericolo di vita
dei soldati sloveni (Slivnik, Sto osamosvojitvenih dni, pag. 142); un ordine che JanSa interpreterà in
modo molto flessibile ordinando di attaccare, anche in situazioni in cui le intenzioni offensive
dell'Armata sono perlomeno dubbie.
La tattica delle barricate dà i suoi frutti nelle regioni orientali, dove i carri armati faticano a
raggiungere la frontiera, mentre nella parte occidentale, ai confini con l'Italia, l'Armata riesce a
occupare subito gli obiettivi (Rumiz in seguito ipotizzerà che gli sloveni abbiano volutamente
consentito ai federali di raggiungere la frontiera con l'Italia perché le telecamere di tutta Europa
potessero riprendere la brutalità dell'aggressione; Il Piccolo, 4 agosto 1991). Contemporaneamente,
unità della Difesa territoriale bloccano le caserme, cui vengono tagliati i rifornimenti, incluse l'acqua
e la corrente elettrica.
Verso sera, la maggior parte dei posti di blocco è in mano ai federali. E l'ammiraglio Brovet
annuncia l'avvio della seconda parte del piano: l'invio di poliziotti federali in elicottero alle frontiere
per reinsediare l'autorità federale nei posti di blocco. E a questo punto che JanSa va
consapevolmente allo scontro ordinando di abbattere o danneggiare il maggior numero possibile di
elicotteri (JanSa, op. cit., pag. 169). La decisione viene motivata con la necessità di fermare l'invio
di soldati federali. Ma non è escluso, come riterranno più tardi molti analisti, che JanSa voglia
provocare una reazione più decisa da parte delle forze di Belgrado e ottenere quindi la solidarietà
internazionale. Lo stesso JanSa ammetterà in seguito di aver voluto dare la carica ai soldati sloveni
che faticavano a sparare sui propri coetanei, fino al giorno prima «fratelli». Ne è riprova ciò che
accade nel pomeriggio a Trzin, nelle vicinanze di Lubiana, dove scoppia una violenta scaramuccia:
quattro federali, due militi sloveni e alcuni civili perdono la vita. Ma prima di rispondere agli
attacchi federali, gli ufficiali sloveni cercano più volte conferma da parte della centrale operativa di
Lubiana (Slivnik, op. cit., pag. 149). così che verso le 19 di questo primo giorno di guerra, nel cielo
di Lubiana viene abbattuto un elicottero che precipita in pieno centro, nelle vicinanze della sede del
governo. I due componenti dell'equipaggio muoiono. E mentre nella sala operativa slovena la
reazione è di sollievo «Finalmente» è il grido generale, ricordato da JanSa (op. cit., pag. 171) la
notizia che il velivolo trasportava pane per le caserme circondate suscita grande indignazione (dopo
la fine del conflitto il generale RaSeta ammetterà tuttavia che il velivolo stava effettuando un giro di
ricognizione; Silber e Little, op. cit., pag. 185). L'abbattimento è uno choc per l'Armata federale che
comprende forse solo in quel momento che gli sloveni stanno facendo sul serio.
E' proprio in questa occasione che le autorità di Lubiana dimostrano di conoscere bene i
meccanismi della propaganda. In serata, il ministro dell'Informazione sloveno Kacin, con la pistola
alla cintola, e quello della Difesa JanSa, che veste ormai solo la divisa militare, comunicano ai
mezzi d'informazione che il conflitto ha provocato già «un centinaio tra morti e feriti».
L'orario è ormai proibitivo per i giornalisti che non possono più verificare la notizia, tutto
sommato corretta nella sua vaghezza. Ma il giorno dopo, sulle prime pagine dei quotidiani
quell'informazione verrà semplificata in «più di cento morti» e l'abbattimento dell'elicottero passerà
in secondo piano. Nelle sue memorie, JanSa non avrà alcuna difficoltà a scrivere che si trattava quasi
esclusivamente di feriti, «per fortuna, solo in modo lieve» (JanSa, op. cit., pag. 172). Alla fine del
primo giorno di guerra, insomma, Lubiana ha già posto le basi per un totale successo mediatico,
bellico e diplomatico, anche se gli scontri sono appena incominciati.
Il 28 giugno, infatti, sarà un giorno ben più difficile: l'Armata risponde alla dichiarazione di guerra
che è in sostanza l'abbattimento dell'elicottero bombardando l'aeroporto di Brnik, dove muoiono due
reporter austriaci, i primi della lunga lista nera di giornalisti uccisi nell'ex Jugoslavia; i valichi di
confine con l'Austria; i ripetitori televisivi; il tunnel delle Caravanche; le unità slovene che vicino a
Medvedjek, sulla strada tra Lubiana e Zagabria, stanno bloccando una colonna di carri armati. Gli
sloveni contrattaccano riprendendosi sette valichi. Tra gli scontri più violenti, quello al valico della
Casa rossa, a Gorizia: una dozzina di uomini della Difesa territoriale riprende con un blitz il confine,
occupato da una cinquantina di federali, e lascia sul campo tre «nemici» morti mentre ne ferisce una
quindicina. Uno dei cinque carri armati prende fuoco e le esplosioni delle munizioni in esso
contenute rischiareranno per ore la notte goriziana; un federale ferito, di nazionalità croata, cercherà
riparo negli ospedali italiani.
Ma il 28 giugno è anche il giorno in cui si mobilita la diplomazia internazionale e in cui gli sloveni
danno il primo consenso a un cessate il fuoco e a un negoziato sul possibile congelamento
dell'indipendenza. La trojka europea incaricata di sbrogliare la matassa si dirige prima a Belgrado
per tenere colloqui con i vertici federali e successivamente a Zagabria, dove incontra i leader delle
due repubbliche separatiste. Il compito del ministro degli Esteri lussemburghese, Jacques Poos, di
quello italiano, Gianni De Michelis, e dell'olandese, Hans van den Broek, è di preservare lo status
quo: fare in modo che la Slovenia revochi l'indipendenza, che le truppe federali rientrino nelle
caserme e che la Serbia accetti di ristabilire la legalità ai vertici federali consentendo l'elezione del
nuovo presidente federale, il croato Stipe Mesic.
«La trojka si comportava come se tutto ciò che dovesse fare era convincere i belligeranti della
follia della guerra. Non riuscivano a riconoscere che, in alcune circostanze, il ricorso alla guerra è
tutt'altro che irrazionale. E in quella notte fatale, per il governo del presidente Kučan, la guerra era
profondamente razionale, anzi era l'unico modo per ottenere ciò che voleva» scriveranno in seguito
Silber e Little in The death of Yugoslavia (pag. 175). Tanto più che la situazione bellica è ancora
favorevole agli sloveni, che riescono a impossessarsi di notevoli quantità di armi. E infatti, JanSa
tenta di opporsi al cessate il fuoco proposto dall'ammiraglio dell'Armata, Brovet: «Avevamo appena
pareggiato la pressione e ottenuto i primi successi. Molti ritenevano che l'immediato cessate il fuoco
ci sarebbe stato più dannoso che utile» (JanSa, op. cit., pag. 187). Ciò nonostante, Lubiana accetta il
cessate il fuoco a partire dalle 21. Nella notte, il presidente Kučan accetterà anche di sottoporre al
Parlamento sloveno una prima bozza di compromesso nei termini voluti dalla trojka. Ma non firmerà
alcun pezzo di carta.
I ministri degli Esteri europei se ne vanno convinti di aver imposto la pace, mentre tutto resta
ambiguo. Sopra tutti, un punto, certamente non trascurabile: in caso di accordo, a chi spetta il
controllo dei confini?
La notte e il giorno successivi trascorrono abbastanza tranquilli dal punto di vista militare, anche
se si combatte ancora per il controllo dei confini: stavolta, è sul valico di frontiera di Rabuiese, in
provincia di Trieste, che bisogna contare le vittime, altri tre soldati federali. L'Armata riuscirà
tuttavia a mantenere la posizione e Trieste si trasformerà in una curiosa retrovia. Il primo luglio, il
comandante dell'unità a cui sono state tagliate le linee di comunicazione entrerà in Italia per recarsi
al consolato jugoslavo e, da lì, telefonare ai suoi superiori.
Il 29 giugno è tuttavia il giorno in cui la Slovenia decide non senza difficoltà di prendere in
esame la proposta di congelare l'indipendenza. Quando Kučan illustra i termini dell'accordo proposto
dall'Europa, e in particolare il punto sulla moratoria di tre mesi sull'indipendenza, molti lo accusano
di tradimento (Slivnik, op. cit., pag. 161). A fatica, il parlamento esprime fiducia al «negoziatore»
Kučan: la credibilità diplomatica conquistata nei giorni precedenti non va sperperata; la Slovenia è
diventata un interlocutore della diplomazia internazionale e il problema jugoslavo è stato
internazionalizzato. Kučan riceve luce verde per continuare il confronto con l'Europa.
Più estenuante è invece il negoziato con l'Armata, con cui la Difesa territoriale dovrebbe
concordare i termini del cessate il fuoco. Gli sloveni pongono condizioni che l'Armata ritiene
inaccettabili: JanSa chiede al comandante della V regione militare, generale RaSeta, giunto a
Lubiana, che i soldati federali tornino nelle caserme senza le armi e i mezzi da combattimento.
RaSeta insiste che i suoi uomini hanno il diritto di spostarsi con i mezzi militari e armati per potersi
difendere. JanSa accusa la Jna di bluffare, non avendo richiamato nelle caserme nemmeno le unità
che non hanno mai subito alcun blocco.
La risposta di Belgrado a firma del ministro federale della Difesa, generale Veljko Kadijevic,
giungerà verso le 22: è un ultimatum che Lubiana è invitata a rispettare entro le nove del mattino
seguente, 30 giugno. In realtà è il vero e unico annuncio di guerra. A leggerlo alla televisione è il
generale colonnello Negovanovic, un personaggio tutto sommato minore: «Siamo sull'orlo della
guerra civile. Lubiana deve togliere l'assedio alle caserme e consentire il rientro delle unità, senza
alcuna condizione. Altrimenti, lo stato maggiore è pronto a mettere in atto tutte le misure necessarie».
La Slovenia non si piega. La situazione sembra ormai fuori controllo e lo stesso premier federale
Markovic ammette che non ha più alcuna influenza sui generali. Intanto, anche il primo tentativo di
eleggere Mesic alla presidenza federale fallisce. Sulla Jugoslavia si allunga l'ombra di un golpe
militare, che alcuni generali tenteranno di mettere a segno due giorni dopo.
Il 30 giugno, domenica, la Slovenia si sveglia nel terrore. Sono appena passate le nove che
comincia a risuonare l'allarme aereo: dalle basi dell'aviazione militare federale di Bihač in Bosnia,
Pola (Pula) e Spalato (Split) in Croazia aerei si sono levati in volo in direzione della Slovenia. Non
si tratta di aerei da combattimento, ammetterà più tardi lo stesso JanSa (op. cit., pag. 195), ma da
trasporto con cui l'Armata sta dislocando nuove unità. Ma gli allarmi sono utili per tenere sotto
pressione la popolazione, costretta a passare molte ore nei rifugi, e la diplomazia internazionale, che
sembra maturare una nuova opinione: «Sono passati i tempi in cui si poteva tenere insieme uno stato
sparando sui suoi cittadini» dichiara il ministro degli Esteri inglese, Douglas Hurd. E il New York
Times scrive: «Bush e Baker (il presidente e il segretario di stato degli Usa) hanno scommesso sul
cavallo perdente. Come può una società liberale come quella statunitense difendere un regime come
quello jugoslavo? Difenderemo i burocrati marxisti e i banchieri internazionali o la Croazia e la
Slovenia? Solo i banchieri temono la disgregazione della Jugoslavia: se la Slovenia e la Croazia,
stanche di venir munte da comunisti incompetenti se ne vanno, sarà impossibile riscuotere i debiti di
Belgrado».
In serata, il premier federale Markovic arriva a Lubiana e con Kučan riesce a raggiungere un
accordo: le unità federali potranno conservare le armi e i mezzi durante gli spostamenti per tornare
nelle caserme, come chiede l'Armata, ma sotto il monitoraggio di osservatori stranieri. I dettagli
andranno definiti da una Commissione bilaterale sloveno-jugoslava: ormai, anche Markovic
riconosce indirettamente la sovranità slovena. MiloSevic lo fa apertamente attraverso il suo uomo
nella presidenza federale, Borisav Jovic, che pone il veto a operazioni militari più cruente. La trojka
della Ce può tornare a Belgrado, dove ottiene il placet del presidente serbo all'elezione di Mesic a
presidente federale di una Jugoslavia che non esiste più.
L'esponente croato, appena preso possesso dei suoi uffici, ordina all'Armata e alla Difesa
territoriale slovena di cessare le ostilità, di ripiegare nelle caserme e di rilasciare i reciproci
prigionieri, in attesa di mandare ai confini i poliziotti federali, che dovranno controllare la frontiera
insieme agli sloveni. il primo luglio: l'unico ordine a essere rispettato è quello del cessate il fuoco.
Per il resto, l'Armata non si fida di Mesic, gli sloveni non si fidano dell'Armata: nessuno si muove
dalle proprie posizioni. E per rifornire le proprie caserme, rimaste senza acqua e forse senza cibo, i
federali usano anche gli elicotteri con il contrassegno della Croce rossa. Ciò non ferma le diserzioni,
sempre più numerose tra i federali. Una situazione sempre più umiliante per l'Armata, tanto umiliante
che alle 18,30 il generale Blagoje AdŽic appare alla televisione di Belgrado per dettare le sue
condizioni e annunciare quello che sembra a tutti gli effetti il tentativo dello stato maggiore di
assumere in prima persona il controllo della situazione.
AdŽic accusa gli sloveni di non permettere neanche la cura dei feriti e il trasporto dei morti; di
minacciare, arrestare e prendere in ostaggio i membri dell'Armata o i loro familiari; di non rispettare
la tregua, come dimostrerebbe il fatto che il maggior numero di vittime l'Armata lo ha subito proprio
durante la tregua.
«Se ci verranno impediti i rifornimenti, risponderemo in modo adeguato. Ogni tradimento dura
poco e lo dimostreremo ben presto» conclude pateticamente AdŽic. in questo modo che l'Armata
annuncia quello che sarà il giorno più lungo della guerra di Slovenia. Il 2 luglio, l'esercito rompe la
tregua. All'alba, la colonna bloccata nella foresta del Krakovski gozd (era stata la prima a entrare in
Slovenia dalla Croazia) tenta di forzare il blocco. Gli sloveni rispondono e il comandante federale
chiama in appoggio l'aviazione che effettua ripetuti bombardamenti.
Gli aerei colpiscono anche i ripetitori televisivi sui monti del Krvavec, Pohorje e Nanos. Alle 14,
due missili demoliscono il ripetitore del castello di Lubiana. Colonne di carri armati si rimettono in
marcia verso i valichi, di cui gli sloveni sono nel frattempo riusciti a riprendere il controllo: dopo
essere rimasto nelle caserme per giorni, l'esercito comincia a dispiegare il suo vero potenziale,
provocando gli scontri più duri dall'inizio del conflitto.
In assenza di Kučan, che si trova in Austria per un incontro con il suo maggiore sostenitore, il
ministro degli Esteri tedesco, Hans Dietrich Genscher, la presidenza slovena si riunisce e propone
una tregua unilaterale. JanSa tenta di opporsi dicendo che l'esercito aveva già avuto l'opportunità di
cessare il fuoco, ma che non aveva rispettato alcun accordo (JanSa, op. cit., pag. 209), ma alla fine
capitola. il ministro dell'Informazione Kacin a leggere alla televisione la proposta di tregua con cui
Lubiana si impegna ad agevolare i rifornimenti delle caserme e accoglie la richiesta dei federali di
muovere i propri carri armati che però devono essere trasportati su camion. L'esercito rifiuta. Non
solo: alle 19,20, alla televisione serba riappare torvo il generale AdŽic, che aggrava le minacce nei
confronti di Lubiana e per la prima volta punta il dito anche contro la presidenza federale: scegliendo
la trattativa, quest'ultima avrebbe consentito alla Slovenia di aggredire l'Armata federale. «Gli
sloveni sono ipocriti e senza scrupoli, usano i trucchi più vili», sono le piagnucolose accuse di
AdŽic, che non risparmia neanche le autorità austriache, colpevoli di aver «aiutato gli sloveni a
prendere il controllo dei valichi di confine.» Ma è il canto del cigno di un esercito che non può più
avanzare alcuna pretesa su Lubiana.
Mesic, che si trova in Slovenia, consiglia agli sloveni di moderare le proprie richieste. Lubiana
accetta di proclamare la tregua unilaterale a partire dalle 21 e di congelare per tre mesi
l'indipendenza; si impegna a rilasciare i prigionieri e a consentire il ritorno dei federali nelle
caserme; acconsente a negoziare con la federazione. Da Belgrado non arriva alcuna risposta. Anche
le armi tacciono. E il silenzio fa temere il peggio.

Gli accordi di Brioni La Slovenia incassa intanto la solidarietà del mondo che si schiera con «la
piccola repubblica democratica, costretta a battersi contro il gigante comunista che sa esprimersi
solo con i carri armati». Il ministro degli Esteri tedesco Genscher denuncia il tentativo dell'Armata di
voler conservare il proprio potere con la violenza. Il britannico Hurd sostiene in parlamento che è
stato l'esercito federale ad affrettare la disintegrazione della Jugoslavia. Negli Stati Uniti si
moltiplicano gli appelli a fermare gli attacchi dell'Armata alla democrazia e ai diritti umani. In Italia,
è il confinante Friuli-Venezia Giulia a chiedere tout court il riconoscimento della repubblica
secessionista.
Da parte sua, l'esercito federale tace moltiplicando dubbi e sospetti. Finché il 6 luglio, il ministro
della Difesa Kadijevic spazza i dubbi: l'esercito è pronto a rispettare la volontà della presidenza
federale e a rientrare nelle caserme. I generali, che si sono presi una piccola rivincita sul piano
militare, ma sono ormai impresentabili agli occhi del mondo, hanno aderito al progetto grandeserbo
di MiloSevic che già due giorni prima ha riconosciuto il diritto della Slovenia alla secessione,
tacendo significativamente sulla Croazia.
La pace in Slovenia viene ratificata il 7 luglio sull'isola di Brioni (Briuni),splendida residenza di
Tito al largo della penisola istriana. Gli accordi, che formalmente prevedono solo una moratoria di
tre mesi sull'indipendenza slovena, sono in realtà il riconoscimento dell'avvenuta secessione della
repubblica subalpina dalla Jugoslavia. E sanciscono l'inizio della guerra in Croazia.
E' significativo che il solo a opporsi alle proposte dei mediatori europei sia il premier federale
Markovic, l'unico a non aver accettato la fine della Jugoslavia. Mentre l'indifferenza del membro
serbo della presidenza federale, Jovic, scambiata dai giornalisti sloveni per arroganza, è in realtà
disinteresse per il successivo destino della Slovenia fuori dalla Jugoslavia.
I ministri degli Esteri lussemburghese, Jacques Poos, olandese, Hans van den Broek, e portoghese,
Joao de Deus Pinheiro, che in base ai principi di rotazione comunitari ha sostituito l'italiano Gianni
De Michelis, sono convinti di aver ottenuto un grande successo diplomatico facendo sottoscrivere
una dichiarazione in cui le parti si impegnano ad avviare, entro il primo agosto, colloqui sul futuro
assetto della Jugoslavia; colloqui che devono soddisfare una precisa condizione: il rispetto dei
principi di Helsinki sui diritti umani e il diritto all'autodeterminazione dei popoli. Negli allegati si
statuisce che i confini verranno controllati dalla Slovenia, che sarà tuttavia tenuta a versare le entrate
doganali alla federazione, che lo spazio aereo sarà controllato dagli organi federali, e si definisce nei
dettagli lo sblocco delle caserme federali e il ripiego di tutte le unità militari.
Solo quest'ultima parte verrà effettivamente rispettata, mentre la moratoria di tre mesi
sull'indipendenza slovena che da parte dell'opinione pubblica di Lubiana, ma anche da alcuni partiti
del governo democratico, viene accolta come una capitolazione (Slivnik, op. cit., pag. 208) sarà in
realtà poco meno di una farsa. Già il 18 luglio, la presidenza federale decide di ritirare entro tre mesi
l'esercito federale dalla Slovenia. Nella risoluzione si dice ipocritamente che il ritiro sarà
temporaneo. Così tutti possono votare a favore. Tutti tranne il presidente, il croato Mesic che si rende
perfettamente conto cosa significhi ratificare l'indipendenza slovena e negare quella croata.
Il 25 ottobre 1991, anche gli ultimi soldati federali si imbarcano sul traghetto Svijeti Stjepan che
da Capodistria (Koper) li porterà verso i campi di battaglia croati. Il 13 gennaio 1992, il Vaticano,
grande sostenitore delle cattoliche Slovenia e Croazia, riconosce la sovranità delle due repubbliche
ex jugoslave. Due giorni dopo è la volta della Comunità europea. La Slovenia diventa membro
dell'Organizzazione delle nazioni unite il 22 maggio 1992.
Seconda parte (Croazia 1991)
Jugoslavia, un omicidio perfetto (di Marco Ventura)

La campagna di Slovenia dura dieci giorni. una guerricciola, un assaggio della guerra vera, un
anticipo del conflitto che infiammerà l'ex Jugoslavia per un decennio. La «guerra dei dieci anni»
scaturisce essenzialmente dalla rivalità tra le maggiori repubbliche, Serbia e Croazia. La Slovenia,
battipista ideologico della dissoluzione jugoslava alla morte di Tito, esce di scena al primo atto della
tragedia. La guerricciola di Slovenia si conclude dopo l'inquietante proclama televisivo con il quale
(3 luglio 1991) il capo di stato maggiore della Difesa, il serbissimo Blagoje AdŽic, punta l'indice
contro i «nemici della Jugoslavia» e sembra voler annunciare l'invasione, l'intervento risolutore
dell'invincibile Armata. Le sue parole, in realtà, sono l'inutile sussulto finale d'orgoglio della casta
militare: la Slovenia è andata.
E' un addio lungamente preparato. Il colpo di grazia alla Jugoslavia l'hanno inferto MiloSevic e
Kučan, avversari sul campo di battaglia, ma alleati nel disgregare la federazione, assieme a Tudjman
che, dal 25 marzo 1991, tiene colloqui segreti con MiloSevic per la spartizione della Bosnia
Erzegovina. Ciascuno porta le proprie responsabilità. Kučan ha rotto la Lega dei comunisti e lavorato
con tenace astuzia per affrancarsi dal giogo di Belgrado. MiloSevic ha fomentato e cavalcato il
nazionalismo serbo dopo la morte di Tito per restare al potere, respingendo qualsiasi compromesso
per attenuare e addolcire il legame federativo; ha boicottato gli sforzi di riforma e pacificazione del
premier federale jugoslavista sostenuto anche dall'Occidente, il croato Ante Markovic; ha avallato
«il colpo del secolo» con il quale la Serbia si è appropriata di un miliardo e ottocento milioni di
dollari federali; ha provocato la crisi istituzionale e lo stallo nel Presidium prima inducendo (marzo
1991) il serbo Borisav Jovic alle dimissioni da presidente, poi bloccando (15 maggio 1991) la
rotazione e la nomina a presidente del croato Stipe Mesic, come la prassi costituzionale imponeva.
Tudjman, infine, si è investito del compito storico di restaurare la Croazia sovrana e indipendente
(tardo emulo di re Tomislav che elevò il principato croato a regno nel 925), trascurando o
sottovalutando il piccolo particolare della presenza serba in Croazia, sopravvalutando l'ardore
occidentale per la causa croata, e lavorando in segreto per annettersi l'Erzegovina occidentale.
La sera prima dell'apparizione televisiva di AdŽic, una colonna di 180 carri armati è partita dalla
Serbia, ha raggiunto la frontiera croata e si è divisa in tre tronconi che invece di proseguire la marcia
verso Lubiana, si sono fermati in Croazia e in Bosnia. Croati e sloveni sanno perfettamente che cosa
significhi, che la guerra si sposta, e vivono la proclamata indipendenza con emozioni dissonanti: con
euforia e ottimismo gli sloveni, con timore e tremore i croati.
Esattamente come la colonna dell'Armata, il percorso delle repubbliche secessioniste si biforca. I
croati, ancora impreparati al confronto armato, si sentono traditi dalla fretta con cui Lubiana ha rotto
gli indugi emancipandosi da Belgrado, anche se proprio Tudjman, il 2 aprile, ha dichiarato che se la
Slovenia si fosse staccata dalla Jugoslavia, lo stesso avrebbe fatto la Croazia. Stipe Mesic, il
membro croato del Presidium che sarà l'ultimo presidente jugoslavo e il primo presidente della
Croazia dopo Tudjman, tenterà non a caso, in extremis, di bloccare il ritiro della Jna dalla Slovenia,
condizionandolo al simultaneo ritiro anche dalla Croazia: sa, Mesic, che sulla via del ritorno i carri
armati si fermeranno in Croazia puntando l'artiglieria sulle fragili postazioni della Guardia nelle aree
contese dalla minoranza serba.
Il 30 giugno, è già chiaro il fallimento della strategia jugoslava.
Il ministro della Difesa federale, Veljko Kadijevic, illustra ai dirigenti serbi i possibili sbocchi
militari della crisi. Dice che l'Armata deve lasciare la Slovenia, o invaderla. Jovic rivendicherà la
decisione di risparmiare a Lubiana l'ultimo castigo. «Fu allora che annunciai la nostra nuova linea
politica» scriverà. «Mi era chiaro che la Slovenia se n'era andata ed era inutile scatenare una guerra.
Ci restava soltanto una cosa da fare: difendere i territori abitati dai serbi di Croazia, che volevano
restare in Jugoslavia.» Kadijevic ammette che non aveva senso spedire uomini in Slovenia per
consentirle poi di staccarsi. «Capii subito che questa era davvero la fine della Jugoslavia. Da allora
ci siamo mossi sul secondo obiettivo, creare la nuova Jugoslavia. Quando i croati cominciarono ad
attaccare la popolazione serba in Croazia, collaborammo con le milizie in quelle aree, distribuimmo
armi e così via. Quanto ai confini, l'idea era semplice: stavano dove c'era la maggioranza serba. Se
la Croazia voleva andarsene, facesse pure, ma non poteva portarsi dietro anche i serbi» (Silber e
Little, op. cit.; Judah, The Serbs). E' questo il passaggio che segna l'avvenuta convergenza d'interessi
tra leadership serba e vertici dell'Armata.
L'ambasciatore degli Stati Uniti in Jugoslavia dal 1989 al 1992, Warren Zimmermann, riferisce nel
suo illuminante libro-testimonianza, Origins of a catastrophe, una confidenza dello sloveno Kučan:
«MiloSevic mi ha ripetuto più volte dopo le elezioni in Slovenia che noi eravamo liberi di lasciare
la Jugoslavia, ma ha sempre aggiunto che la Croazia, con la sua minoranza serba, non poteva farlo».
Interrompendo i programmi della tv di stato a Belgrado, il generale AdŽic dispensa alla platea di
spettatori serbi un ultimo sfogo dai toni golpisti, un grido di dolore per «i 36 mila uomini della
Difesa territoriale slovena che ci hanno aggredito con brutalità», per i «traditori che sono tra le
nostre stesse file», per chi «non capisce che siamo in guerra con gente che odia la Jugoslavia, mentre
noi la amiamo». Chi sono i «traditori»? I militari sloveni leali non verso la Jugoslavia e l'Armata
popolare, ma verso i governanti secessionisti della Slovenia. Con loro, i croati e i musulmani
bosniaci, poi i macedoni e gli albanesi kosovari. «Noi li costringeremo alla resa» dice AdŽic. «Noi
staneremo dai loro nascondigli quelli che spingono la Slovenia contro la Jugoslavia.» Circola tra gli
sloveni il nome in codice dell'atteso contrattacco federale: Pogorela zemlja, Terra bruciata. Un
messaggio da «fine della ricreazione». In realtà, l'esercito federale sta combattendo, e perdendo, una
guerra per la quale non è pronto: da esercito popolare forgiato sul mito della resistenza partigiana, è
diventato esercito d'occupazione nel suo stesso paese, contro il suo stesso popolo. La Jugoslavia che
AdŽic dice di amare non è più quella di Tito. in controluce, una terza Jugoslavia, la Jugoslavia o
Jugoserbia delle carte geografiche distribuite dagli attivisti cetnici nelle enclave serbe di Croazia,
macchia scura dai contorni minacciosi di cancro dilagante attraverso i confini repubblicani. E' la
Grande Serbia che va da Knin alla Bulgaria, e alla quale la Slovenia, grazie alla sua omogeneità
etnica e all'assenza d'una rilevante minoranza serba, è estranea. Speculare alla Grande Serbia è,
invece, il sogno di Tudjman della Grande Croazia. Nel duplice miraggio di MiloSevic e Tudjman sta
la radice anche del successivo conflitto bosniaco. Racconta Zimmermann che Tudjman, un giorno che
gli mostrava il palazzo presidenziale a Zagabria, si fermò davanti a un antico arazzo che raffigurava
la Croazia e la Bosnia insieme. «Vede, signor ambasciatore, la storia stessa dimostra che la Bosnia
Erzegovina è nostra...» Nella primavera-autunno 1991, Alija Izetbegovic e Kiro Gligorov, presidenti
di Bosnia e Macedonia, insistono perché l'Occidente preservi la Jugoslavia. «La Bosnia non può
sopravvivere alla morte della Jugoslavia» dice Izetbegovic a Zimmermann. Come la Bosnia, la
Macedonia è una repubblica multietnica, quindi potenzialmente vittima dei furori nazionalistici. Con
stupefacente, cinica lucidità, Jovic si confida pure lui con l'uomo di Washington. «La Bosnia» gli
dice «dovrà essere divisa tra Serbia e Croazia, naturalmente i musulmani potranno scegliere in quale
parte vivere.» Contemporaneamente, nei media di Zagabria e in quelli di Belgrado spadroneggia la
deriva nazionalista che contribuisce in modo decisivo alla costruzione dell'odio, con la rievocazione
delle stragi sepolte dalla retorica jugoslava di Tito, e in definitiva alla preparazione psicologica
della guerra. I serbi diventano tutti «cetnici», per la tv di Zagabria, e i croati tutti «ustascia» per
quella di Belgrado. MiloS Vasic, giornalista serbo che per anni sarà interpellato da colleghi e
diplomatici occidentali per capire come vanno le cose a Belgrado, regala a Zimmermann una frase a
effetto con la quale l'ambasciatore apre un intero capitolo delle sue memorie. «Pure voi americani»
gli dice Vasic «diventereste nazionalisti e razzisti se i vostri media fossero totalmente in mano al Ku
Klux Klan.» La composizione etno-demografica segna il destino della Croazia, che conta l'11,6 per
cento di serbi sul totale della popolazione, circa 600 mila, dispersi nelle città o concentrati nelle
sacche corrispondenti agli antichi confini militari asburgici (in Slavonia, i serbi sono meno d'un
quarto). Nell'entroterra dalmata di Knin, e nella Banija a sud di Zagabria, i serbi costituiscono una
componente battagliera, contadina, molto poco «urbana», segnata dal ricorrere storico-psicologico di
scontri e massacri interetnici. Il punto è che mentre nella Jugoslavia di Tito i serbi di Croazia si
possono considerare parte integrante d'una maggioranza, un frammento della nazione serba che
predomina per quantità e assunzione di ruoli nella gestione del potere, ora invece, nella prospettiva
dell'indipendenza croata, subiscono l'inattesa e odiosa metamorfosi in minoranza, all'interno di una
repubblica che mentre si dissocia dal patto federale, riscrive la propria Costituzione definendosi
«stato nazionale dei croati».
Con la vittoria dell'Hdz di Tudjman nelle elezioni croate del 1990, tornano in auge i vecchi,
lugubri simboli della Croazia filonazista di Ante Pavelic del 1941. Il moderato Mesic dissente sia sui
tempi del processo secessionista, troppo brusco, sia sull'atteggiamento che ritiene si debba riservare
alla minoranza serba: vorrebbe una maggiore attenzione e sensibilità da parte di Zagabria, in fondo
chiede solo un po' di diplomazia per non urtare la suscettibilità serba. Milan Babic, leader della
sedicente provincia autonoma serba della Krajina (Sao Krajina) si rivolge direttamente, il 12 agosto
1990, al presidente e al ministro dell'Interno federali, Jovic e Petar Gračanin, e invoca garanzie: che
la nuova bandiera della Croazia non sventoli mai su Knin, «perché sotto quella bandiera i nostri
padri, i nostri nonni e la nostra nazione sono stati assassinati» (Silber e Little, op. cit.); che la polizia
croata non abbia accesso alla provincia; che i poliziotti serbi in Croazia non siano mai costretti a
indossare le nuove uniformi con la Sahovnica (scacchiera bianco-rossa) negli stemmi.
Vale qui la pena di sfatare un mito, uno dei tanti che la disinformazione ha prodotto nella ex
Jugoslavia: la Krajina, in quanto nozione politica e geografica, non esiste. La parola krajina significa
«marca». Si trattava di una fascia di territorio che corrispondeva agli antichi confini militari
asburgici, cuscinetto tra i due imperi, quello ottomano e quello austroungarico, abitata da popolazioni
serbe incaricate, di generazione in generazione, di difendere i confini e spinte verso nord
dall'avanzata degli «infedeli». Ora diviene un'entità geopolitica, in virtù della composizione etnica
della sua popolazione e della dissoluzione della Jugoslavia socialista.
Quando la Slovenia proclama l'indipendenza, il 27 giugno 1991, in Croazia la questione delle
nazionalità, o minoranze, è una ferita aperta e dolente. Non sempre è facile distinguere le svolte della
storia. La maggioranza degli osservatori occidentali a Lubiana accoglie con stupore la notizia
rimandata dai tg della colonna corazzata del 2 luglio, ferma in Croazia e in Bosnia. Sia le autorità
slovene, sia i vertici della Jna, tengono accesi i riflettori dei media sulla guerricciola ormai
virtualmente conclusa. In realtà, le forze federali si schierano sui campi delle future battaglie. Non si
tratta più di preservare l'integrità jugoslava, ma di appoggiare le rivendicazioni territoriali dei serbi
di Croazia e Bosnia. La Jna subisce intanto un processo chimico di disgregazione e ricomposizione,
l'inevitabile trasmutazione da Armata popolare socialista in esercito nazionale serbo. I disertori
croati confluiscono nel nuovo esercito di Zagabria, la Guardia nazionale. Il generale Anton TuS,
croato, comandante dell'aviazione federale, lascia Belgrado e diventa capo di stato maggiore della
Difesa in Croazia. Con istruttori e fondi del ministero federale dell'Interno e con armi provenienti
dagli arsenali di Belgrado, nascono contemporaneamente le milizie «cetniche», le formazioni
paramilitari serbe che faranno il lavoro sporco in Croazia e in Bosnia, specializzandosi nella
bonifica etnica preceduta da uno stillicidio d'azioni terroristiche.
Sono così gettate le premesse di quel «misto di guerra civile e guerra tra stati, con un forte
ingrediente di violenza interetnica di massa» (Anton Belbler), che sarà il carattere precipuo della
guerra di Croazia.
Il 2 luglio 1991, decine di migliaia di soldati federali vengono accompagnati e salutati dal giubilo
della popolazione serba. Scene epiche di contadine che offrono acqua e caffè ai militari, di ragazze
che mandano baci, di bambini che giocano tra i cingoli. Dopo la frontiera croata, 40 tank tagliano
verso Osijek, verso il Nord, installandosi a ridosso dell'Ungheria con base a Beli Manastir, in
Baranja. Un altro troncone attraversa la Sava e scende in Bosnia. Il terzo, il più grosso, s'insedia
nella Slavonia sconvolta dai fermenti della rivolta serba.
Misha Glenny (The fall of Yugoslavia) riporta lo sfogo dell'ammiraglio Branko Mamula, ex
ministro federale della Difesa e fondatore del Movimento per la Jugoslavia all'interno della Jna.
«Kadijevic ha commesso un grande errore» confida Mamula. «Consentendo che la Slovenia se ne
andasse, perdeva la Jugoslavia. Io protestai, lui insistette.» Kadijevic non si potrà più differenziare
da AdŽic, né a entrambi sarà più possibile giustificare l'attacco alla Croazia come difesa
dell'integrità jugoslava. La finzione federalista potrà essere usata solo come pretesto da Belgrado, e
come alibi dalla comunità internazionale incapace di fronteggiare gli avvenimenti, preoccupata
soltanto di tenere insieme i cocci della vecchia Jugoslavia. Si comprende oggi perché si sia potuta
svolgere nel mezzo dei combattimenti, e di una guerra che dilagava, la missione delle «madri
coraggio» da Belgrado a Lubiana il 4 luglio 1991: quella gita in pullman di papà e mamme delle
reclute assediate nelle caserme slovene, missione «dolci e biscotti» che in apparenza è servita agli
sloveni per raffreddare il conflitto, ma che rientrava in realtà nella strategia di Belgrado. E' più
facile capire quando scoppia una guerra, che la pace. Ogni pullman è affidato a un ufficiale
dell'esercito: l'Armata avalla l'iniziativa per allentare la stretta umiliante della Difesa territoriale
slovena e rompere l'isolamento. E' la controprova della sconfitta. La Slovenia si è staccata e la
Jugoslavia di fatto non esiste più. Adesso, finalmente, MiloSevic può accettare il cambio al vertice
del Presidium. Il 15 maggio, il blocco dei quattro voti «serbi» ha impedito a Mesic di subentrare a
Jovic secondo la prassi della rotazione fra le repubbliche (nonostante l'esplicita assicurazione di
MiloSevic a Zimmermann). La presidenza Mesic sarebbe stata il presupposto d'una trattativa
autentica per la riforma costituzionale della Jugoslavia e la dissociazione pacifica di Slovenia e
Croazia. Ma ora che la Jugoslavia è morta e la dissociazione ha lasciato il posto alla secessione, la
trattativa non ha più senso e Mesic può quindi diventare il presidente. I ministri degli Esteri della
trojka Ce (l'italiano Gianni De Michelis, il lussemburghese Jacques Poos e l'olandese Hans van den
Broek) celebrano il passaggio formale di consegne della presidenza europea dal Lussemburgo
all'Olanda mentre partecipano alla sessione notturna del Presidium che «incorona» Mesic. Una beffa
architettata da MiloSevic.
Il leader serbo appare raggiante il 12 luglio, incontrando Zimmermann e l'ambasciatore britannico,
Peter Hall. «La Serbia» dice «non ostacolerà il distacco della Slovenia. Markovic si è comportato in
modo stupido con le sue mezze misure. Avrebbe dovuto inviare centomila uomini, in Slovenia, o
nessuno. Io sarei stato per non mandarne nessuno: la Slovenia non vale la vita d'un solo soldato
serbo. A chi può importare se la Jugoslavia si dissolve? Serbia e Montenegro esisteranno come stato
federale, erede legale della Jugoslavia. Saremmo felici di valutare l'eventuale confederazione con
altri: la Serbia è sempre stata un'oasi di tolleranza etnica. La Macedonia è una non-entità, un
dettaglio, così insignificante che non c'è neppure da preoccuparsene. Si disintegrerà. I nazionalisti
macedoni si orienteranno verso la Bulgaria, gli albanesi si uniranno all'Albania.» E ancora:
«Izetbegovic è un islamico fanatico. La Serbia non aspira a un solo ettaro di terra fuori della Serbia,
ma i confini attuali sono artificiali, amministrativi, illegali, quindi soggetti a cambiare». Parole che
per qualsiasi orecchio addestrato ai Balcani suonano come una profezia o promessa di sangue.
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Stipe Mesic Ultimo presidente della Jugoslavia socialista nel 1991 e primo presidente della
Croazia del dopo-Tudjman nelle elezioni del 7 febbraio 2000, Stjepan (Stipe) Mesic ama
paragonarsi a Vaclav Havel, ultimo presidente cecoslovacco nel 1989 e primo presidente della
Repubblica ceca. Nasce il 24 dicembre 1934 a Orahovica, in Slavonia.
Sposato con due figli, nel 1966 è deputato al Parlamento della Repubblica socialista di Croazia,
sindaco della sua città nel 1968.
Nel 1971, durante la Primavera di Zagabria finisce in carcere per un anno. Fondatore, con
Tudjman, della Comunità democratica croata, è primo ministro dopo la vittoria dell'Hdz nelle
elezioni del 1990. Le doti maggiori: l'ironia e la capacità di comunicare con tutti. Nel 2000, vince le
presidenziali pur non essendo favorito, grazie a una campagna condotta nei caffè e con un'immagine
di «presidente che sorride» che è l'opposto del suo predecessore («La sua bocca» dice di Tudjman
l'ambasciatore Usa, Warren Zimmermann «a volte si raggrinza in un sorrisino nervoso o in una risata
priva di allegria»). Anche per questo, Mesic incarnerà un'emancipazione collettiva dall'età
tudjmaniana.
Pur appoggiando il progetto di Croazia sovrana e indipendente, Mesic non condivide il distacco
troppo veloce dalla Jugoslavia e le discriminazioni contro i serbi. Presto viene allontanato dalla
cerchia dei fedelissimi. Tra il 1992 e il 1994 presiede il Parlamento di Zagabria. Nel 1994, esce
dall'Hdz. Muove condanne pubbliche alla politica guerrafondaia di Tudjman, rivelando gli accordi
sottobanco con MiloSevic per la spartizione della Bosnia, e sfida il regime accettando nel maggio
1997 di deporre come testimone al Tribunale dell'Aja sui crimini di guerra nell'ex Jugoslavia.
Accusa di razzismo gli ex compagni di partito in interviste alla Radio indipendente 101.
Nel 2000, vince con oltre il 56 per cento dei voti. Promette il bilinguismo in Istria e il ritorno dei
profughi croati in Slavonia.
Nomina come consigliere per i diritti umani Zvonimir Cičak, grande accusatore del regime di
Tudjman.

La prima secessione: Knin La conquista di almeno un quarto della Croazia avviene in modo
subdolo, a partire dal febbraio 1991. A fine giugno, Zagabria si ritrova con il territorio amputato dal
«popolo delle barricate», spezzato nelle vie di comunicazione principali dai posti di blocco delle
«province autonome serbe» costituiti spesso solo da un paio di tronchi, un bidone di benzina, una
bandiera jugoslava accanto alla croce cetnica con le quattro esse cirilliche («C») che stanno per
Samo sloga Srbina spasava (Solo l'unità salverà i serbi).
La Guardia e le unità speciali del ministero dell'Interno di Zagabria (Mup) saprebbero come
intervenire. Ma dietro le barricate, c'è l'artiglieria della Jna. I posti di blocco si spostano con la
rapidità del fulmine, rendendo insicura una strada, una regione... Aree sempre più vaste sfuggono al
controllo di Zagabria e passano ai ribelli.
Dalla Lika alla Krajina, dalla Banija al Kordun fino alla Slavonia, lo schema è ovunque lo stesso.
Laddove i serbi sono la maggioranza, o una consistente minoranza, soprattutto nell'entroterra dalmata,
nella Banija a sud di Zagabria e in settori della Slavonia orientale e occidentale, l'espulsione dai
ranghi dei poliziotti e funzionari croati (subentrati di recente a quelli serbi) avviene in una notte.
Mine e bombe fanno saltare negozi e case croati. A fine aprile, la Krajina è in mano agli insorti.
Più tardi, a guerra conclamata, in molti villaggi con le percentuali demografiche bilanciate o a favore
dei croati, c'è «bisogno» di seminare il terrore tra i croati rimasti, con stragi e bombardamenti. I
profughi nei centri d'accoglienza raccontano d'un giorno in cui i vicini serbi sono spariti
all'improvviso, quasi che sapessero: dopo la loro partenza sono cominciati gli attacchi, a volte con
raid a colpi di mitra, altre con martellamenti di mortaio. Lo schema prevede che se scatta la
controffensiva croata, piombino i tank federali: sulla carta dovrebbero separare i contendenti, nella
realtà permettono alle milizie serbe di mantenere le posizioni e piazzare qualche altra bandierina
jugoslava.
I vessilli cetnici marcano la frontiera della Grande Serbia.
L'Armata popolare è un VII cavalleggeri che accorre sempre e solo in favore dell'aggressore.
Jovic ricorda nel suo diario una conversazione con MiloSevic e Kadijevic del 13 febbraio 1990. «Ci
sarà la guerra, per Dio» dice MiloSevic. «Non lo permetteremo, per Dio» ribatte Jovic «ne abbiamo
avuto abbastanza di guerra e morte in due guerre mondiali. Dobbiamo scongiurare la guerra con ogni
mezzo!» «Non ci sarà il tipo di guerra che vogliono loro» conclude Kadijevic «ma il tipo di guerra
che dev'esserci, quella in cui non gli permetteremo di sconfiggerci.» Judah (op. cit.) ipotizza un nesso
tra quel colloquio, ammesso che sia vero, e la nascita, quattro giorni dopo, del Partito dei serbi di
Croazia (Sds) sotto la guida dello psichiatra Jovan RaSkovic. Il contesto è la progressiva
dissociazione croata, il rifiuto serbo di mitigare il centralismo federale, e il risorto nazionalismo
granserbo cavalcato da MiloSevic. Quest'ultimo si comporta come un astuto e spregiudicato
opportunista che coniuga i vecchi metodi comunisti con le suggestioni del populismo sciovinista di
Vuk DraSkovic, il leader dissidente monarchico. la linea della concretezza e demagogia: per
neutralizzare DraSkovic, MiloSevic si allea con un personaggio ancora più inquietante, Vojislav
SeSelj, e gli mette a disposizione i media di regime grazie ai quali il Partito radicale serbo di SeSelj
(Srs), otterrà nelle elezioni del dicembre 1992 il 30 per cento dei suffragi.
Nato nel 1954 a Sarajevo, professore di diritto, condannato e incarcerato nei primi anni ottanta per
aver manifestato idee granserbe, SeSelj teorizza la riduzione della Croazia a quanto si può vedere
dalla guglia della cattedrale di Zagabria, dal campanile dal quale il cardinale e arcivescovo Franjo
Kuharic guarda verso sud con lo spirito del pastore-condottiero, del difensore del cattolicesimo
dall'ortodossia (la chiesa croata si è contrapposta nei secoli, come antemurale christianitatis, a
bizantini e ottomani). In un'intervista allo Spiegel, SeSelj si vanta d'essere il vojvoda, il duce della
milizia granserba per volere del «più anziano leader cetnico in vita, Momčilo Djujic di California»,
ex pope di Knin.
SeSelj confessa di aver organizzato lui gli interventi «della nostra organizzazione di guerriglia, io
ho designato gli obiettivi d'attacco e i punti da prendere». Suo alleato e correligionario è Mirko
Jovic, del Partito del rinnovamento serbo, che sfoggia in piazza una divisa ricamata a mano, stivaloni
e gradi cetnici, e nega a macedoni, musulmani e montenegrini il diritto a dichiararsi tali nella «futura
Serbia, perché potranno pure considerarsi extraterrestri, tanto noi sappiamo che sono serbi».
Nell'aprile 1991, SeSelj batte la Slavonia per arringare i connazionali e incitarli alla rivolta
armata.
Jovan RaSkovic, fondatore del Partito dei serbi di Croazia, lavora invece all'ospedale psichiatrico
di Sebenico (Sibenik). Fa suo lo slogan: «Là dove ci sono i serbi, c'è la Serbia». Il compagno di
partito Jovan Opačic spiega (luglio 1990) che RaSkovic intende con quella formula un solo stato dei
serbi, dalla Lika-Kordun fino a Dubrovnik (Ragusa). Eppure, RaSkovic non è un ultra, è un
pragmatico, e manifesta a Tudjman la disponibilità a riconoscere la Repubblica di Croazia purché
garantisca autonomia politica e culturale alle enclave serbe. Il 22 aprile 1990, nelle elezioni del
dopo-Tito in Croazia, l'Hdz vince con oltre il 40 per cento dei voti.
Il secondo turno regala al partito di Tudjman la maggioranza assoluta nei due rami del Parlamento
(il Sabor), con il 60 e 70 per cento.
Dopo il voto, Tudjman e RaSkovic avviano colloqui riservati, ma per screditare i serbi il leader
croato li renderà pubblici. RaSkovic spiega tra l'altro che i serbi sono «un popolo di pazzi, se lo
faccia dire da uno psichiatra». Gérard Badou, dell'Express, scrive che «con RaSkovic è la
psichiatria che tesse la trama dell'ideologia e interviene direttamente sugli eventi». Un precedente
forse non casuale, se è vero che psichiatra e poeta sarà pure il leader dei serbi di Bosnia e imputato
di crimini di guerra, Radovan KaradŽic.
Scrive RaSkovic nel suo libro, Il Paese matto: «I croati, femminizzati dalla religione cattolica,
soffrono d'un complesso di castrazione che li porta a una totale incapacità di esercitare la minima
autorità. Umiliazione che compensano con la loro grande cultura. Quanto ai musulmani di Bosnia
Erzegovina e delle regioni vicine, sono vittime, direbbe Freud, di frustrazioni rettali che li inducono
ad ammassare ricchezze e a rifugiarsi in comportamenti fanatici. Infine i serbi, ortodossi: popolo
edipico che tende a liberarsi dell'autorità del padre. Risiede in questa capacità di resistenza il loro
coraggio di guerrieri, sono i soli in grado di esercitare una reale autorità sugli altri popoli della
Jugoslavia.
Non deve stupire che si sviluppi in questi paesi una situazione di odio totale e paranoia».
In Serbia, la propaganda di regime equipara la Croazia di Tudjman a quella di Pavelic, con
conseguente attribuzione dell'epiteto di «ustascia» non agli estremisti del partito di Dobroslav Paraga
(Hos), ma ai croati in quanto tali. Tudjman è determinato da parte sua a perseguire l'indipendenza, e
svolge tutti i passi referendari, politici e amministrativi per conseguirla. La propaganda serba ha
gioco facile. E a renderglielo così facile è la stessa Hdz di Tudjman. Vale la pena, anche qui, di
leggere le pagine dedicate da Zimmermann ai primi colloqui con Tudjman. L'ambasciatore Usa
chiede conto al leader croato d'essersi dichiarato «felice di non avere una moglie né serba, né
ebrea». Tudjman replica a fatica. Molto sulla difensiva, si lancia in dieci minuti di giustificazione
della sua umanità etnica, spiegando che alcuni dei suoi migliori amici sono serbi. «Eppure» aggiunge
Tudjman «lei deve capire il mio problema come nuovo leader del popolo croato. I serbi sono l'11 per
cento della popolazione della Croazia, ma fanno il 40 per cento degli impiegati di governo. Nella
polizia e nei media la situazione è anche peggiore. Il 75 per cento dei poliziotti sono serbi, così come
sei editori e mezzo su sette.» Zimmermann non si trattiene dal chiedergli chi sia quel «mezzo
editore». E Tudjman: «Il padre è serbo, la madre è croata».
La differenza tra Tudjman e MiloSevic è che il primo è autenticamente nazionalista, in un modo
anche rigido, limitato e pittoresco, tale da farlo somigliare anche negli orpelli, costumi e scenografie
del regime a un dittatore latinoamericano. Il secondo è un opportunista, guidato da sogni di grandezza
e ambizioni di potere.
Zimmermann ricorda i riferimenti «razzisti» ai serbi da parte dei ministri e collaboratori di
Tudjman, «senza che lui li bloccasse».
Mesic stesso rivelerà che dopo le prime rivolte in Krajina, nelle riunioni a Zagabria la sistematica
rassicurazione di Tudjman ai suoi era che solo dal 3 al 5 per cento di serbi sarebbe rimasto in
Croazia. Nei discorsi alla nazione, Tudjman si rivolge ai «croati» e poi anche agli altri «cittadini»
della Croazia. Memorabile la sua censura di un oratore importante dell'Hdz a un congresso di partito,
Ante Bakovic, che non riesce a concludere il discorso iniziato con le azzardate parole: «Fratelli
serbi, non dovete avere paura».
Il risultato è che, ai primi di luglio 1990 esplode la rivolta dei poliziotti serbi di Knin. Una
delegazione ministeriale inviata da Tudjman con il compito di riportare gli ammutinati sotto
controllo, riesce a stento a portare se stessa in salvo: la Krajina è perduta.
I serbi di Knin annunciano per il 19 agosto il referendum sull'annessione della Krajina alla Serbia.
Zagabria lo considera illegale e il 17, due giorni prima, su ordine di Tudjman tre convogli di lealisti
partono da Zara (Zadar), Sebenico e Karlovac con il 70 per cento dei carri armati in dotazione alla
Croazia: sette su dieci.
Barricate vengono alzate a Obrovac, Gračac, Benkovac. Il blitz fallisce perché i Mig della Difesa
federale costringono all'atterraggio i tre elicotteri croati con i rinforzi. Stipe Mesic, all'epoca
premier croato, protesta con il generale AdŽic, che per tutta risposta minaccia d'intervenire «se
morirà un solo serbo». Un confronto burrascoso. Mesic ribatte che se la Croazia non può più
esercitare la propria sovranità e ristabilire l'ordine pubblico dentro i propri confini, dichiarerà
immediatamente l'indipendenza.
Borisav Jovic telefona a Mesic dicendogli d'ignorare le parole di AdŽic.
Martic impartisce l'ordine di saccheggiare gli arsenali della polizia in tutta la Krajina. Le armi
vengono distribuite alla popolazione. In settembre, la regione è già governata da un'Assemblea
nazionale serba, e con le buone o le cattive la «banda di Knin» ha piazzato propri uomini nelle varie
amministrazioni (come a Titova Korenica, nel Parco di Plitvice, dove la municipalità serba ha
avviato il negoziato con Zagabria e si deve ora piegare ai diktat dei martičevci, gli uomini di Milan
Martic). I ribelli godono dell'appoggio discreto, ma sicuro, della guarnigione di Knin comandata dal
colonnello Ratko Mladic, reduce dal Kosovo. Mladic instaura ottime relazioni con i leader della Sao
Krajina. I riservisti serbi cominciano ad arruolarsi nell'esercito invece che aderire alle milizie di
Martic. La Jna, a Knin, assume una configurazione anomala anche rispetto alla Serbia, e qui prima
che altrove subisce una mutazione genetica. E' piena la collaborazione militare tra i martičevci e i
federali lungo l'asse che porta da Zagabria-Karlovac a Knin-Spalato.
A RaSkovic, screditato dagl'incontri ravvicinati con Tudjman, è subentrato Babic, l'uomo che
passerà dalle parole ai fatti, dalla diagnosi alla terapia. Martic diventa ministro degli Interni della
Sao Krajina. La complicità di MiloSevic e Mladic è garanzia di armi, soldi e vettovaglie. A Martic
si unirà il piccolo esercito di Kapetan Dragan, serbo della diaspora proveniente dall'Australia, unico
capo guerrigliero che rifiuti gli appellativi sia di cetnico, sia di partigiano perché, dice, «cetnici e
partigiani comunisti hanno ucciso più serbi di qualsiasi nemico». Dragan è un professionista, ma è
molto popolare tra i serbi della Krajina. Inevitabile la rivalità con Babic, il quale gli dà in
televisione del mercenario. Dragan, affettuosamente ribattezzato Kninja (Knin più Ninja, le tartarughe
guerriere dei cartoni animati allora di moda), gli risponde per le rime: «Babic? Un vigliacco, uno che
mette al sicuro la famiglia e scappa alla prima fucilata». In Slavonia, l'omologo di Babic è Goran
HadŽic, segretario regionale dell'Sds. In Slavonia, appare Željko RaŽnjatovic detto «Arkan», il duce
dei «tigrotti» di Vukovar e poi Bijeljina, indicato nelle biografie come un ex sicario dei servizi
segreti ed ex capo della tifoseria della Stella Rossa di Belgrado. Tra i sobillatori, Milan Paroski,
deputato del Partito popolare serbo, che il 21 aprile 1991, a Beli Manastir, auspica che Baranja,
Srem occidentale, Slavonia e Moslavina entrino a far parte d'un solo spazio serbo: «Qui è terra
serba, e dev'esser chiaro che i nuovi arrivati saranno costretti a fare le valigie, non è possibile che
vengano i croati a dirci: qui è mio. Credetemi, è dal IX secolo che qui abbiamo il nostro stato, la
nostra chiesa, i nostri cimiteri, i nostri confini... Chiunque venga qui a dire che questa è la sua
frontiera, è un usurpatore, è venuto a conquistare, e voi avete il diritto di ucciderlo come un cane alla
palizzata». Paroski conciona anche a Borovo Selo, il «paese dei pini» nel quale undici giorni dopo si
consumerà il primo massacro. Il discorso a Beli Manastir lo riporta il Vjesnik, quotidiano di
Zagabria. Sei mesi dopo, da Belgrado arriva la notizia che Paroski ha discusso con i generali serbo-
federali la distribuzione di armi alle milizie. E nel giugno 1992, sei mesi dopo che Vukovar è stata
rasa al suolo, ancora Paroski, direttore dell'Istituto per la protezione dei monumenti storici della
Vojvodina, organizza la contestatissima mostra al Centro culturale jugoslavo di Parigi, Vukovar 1991,
genocidio dell'eredità culturale serba.
Determinanti nella pianificazione della rivolta in Slavonia, dove i serbi non costituiscono la
maggioranza se non in pochi villaggi, sono il ministro federale degli Interni, Radmilo Bogdanovic, il
titolare del dicastero per i «serbi fuori della Serbia», Stojan Cvijan, il capo della polizia segreta
(Sdb), Jovica StaniSic, il ministro senza portafoglio Mihalj KerteS, ideologo della bonifica etnica
molto vicino a MiloSevic, poi viceministro degli Interni destituito nel 1993 dal premier Milan Panic.
Un gradino sotto, come «ufficiali di collegamento», i dirigenti dei servizi Frano Simatovic e Radovan
Stojičic, detti Frenki e BadŽa (Judah, op. cit.). Se questa è la base della piramide granserba, al
vertice è assiso sempre lui, MiloSevic: lucido, tempestivo, spregiudicato, efficiente...
Jovic riporta le argomentazioni del leader di Belgrado, nel giugno 1990, su come strappare alla
Croazia le enclave serbe. «I comuni della Lika, della Banija e del Kordun, che hanno già creato
un'associazione tra loro, dovrebbero decidere in un referendum se restare o andarsene» spiega
MiloSevic. «In secondo luogo, i membri sloveno e croato dentro il Presidium dovrebbero essere
esclusi dal voto su questo argomento, perché non rappresentano quella parte di Jugoslavia.» A sentire
Jovic, sembra che MiloSevic già teorizzi il primo plebiscito dei serbi delle Krajine e anticipi il
blocco del Presidium e la mancata elezione di Mesic il 15 maggio 1991.
Anche nell'esercito si forma una fazione che ha di fatto abiurato alla vecchia Jugoslavia e persegue
il progetto della Grande Serbia.
Tra gli altri, i comandanti delle guarnigioni di Novi Sad e Knin, Andrija Bjorčevic e il già citato
Mladic. E tuttavia, la Jna impiega più tempo di MiloSevic ad abbandonare la seconda Jugoslavia e
sposare il progetto granserbo. Al 1990 risalgono piani segreti in difesa della Jugoslavia titina, svelati
solo dopo la guerricciola di Lubiana. Le fonti sono essenzialmente slovene. Il 4 luglio 1991, il
giornalista francese Alexandre Boussageon scrive del piano Bedem 91, «strettamente confidenziale»
e mirato contro i «nemici interni» delle repubbliche secessioniste, ma anche contro un possibile
intervento della Nato al fianco di Croazia e Slovenia. Nel settembre 1991 il premier Markovic,
jugoslavista, rende pubblico un altro piano, nome in codice Ram, che per il settimanale di Belgrado,
Vreme, riguarda la «definizione delle frontiere occidentali della Grande Serbia e la creazione d'una
cornice per una nuova Jugoslavia nella quale i serbi, con i loro territori, avrebbero vissuto tutti in
uno stato» (Fayard, Le nettoyage ethnique). Altri dettagli si trovano sul quotidiano di Sarajevo,
Oslobodjenje, riferiti da un ufficiale dello stato maggiore federale. Il piano Ram è datato febbraio
1991. Ai disordini di Pakrac dello stesso mese si può far risalire l'inizio convenzionale della «guerra
dei dieci anni».
Una guerra, anzi più guerre, mai dichiarate, mai ufficialmente cominciate, in un quadro mutevole
che non ha ancora raggiunto un punto di stabilità ed equilibrio.
La guerra senza fine è anche una guerra senza inizio. La sua indeterminazione è scritta nella natura
illusionistica e ambigua di guerra pianificata a tavolino, eppure alimentata dall'irrazionalità di odî
antichi; guerra interna alla Jugoslavia, ma inserita in un groviglio globale di interessi; guerra scaturita
dalla disperazione e frustrazione delle élite comuniste ansiose di sopravvivere politicamente al
crollo del comunismo, ma radicata nel risorgere di nazionalismi refrattari alle vecchie ideologie.
Guerra nata dal corto circuito tra il dinamismo dell'economia croata e slovena, e l'indolenza delle
repubbliche meridionali beneficiarie del drenaggio fiscale nord-sud. Guerra, anche, mediatica, che
mentre espone pubblicamente il Male dei massacri, dei lager e degli stupri, bombarda l'Occidente
con immagini televisive troppo crude, finendo con l'annullare la capacità stessa di indignarsi e
distinguere tra colpevoli e innocenti. E' una guerra, la «guerra dei dieci anni», che tecnicamente
spiazza gli analisti militari, unendo tratti caratteristici di forme tra loro diverse di conflitto
(interetnico, civile, resistenza, secessione, imperialismo nazionale), con una mescolanza di moderni
mezzi convenzionali e di vecchi sistemi basati sul terrore e sulla bonifica etnica. una guerra che
colpisce i civili, le case, le chiese, gli ospedali, e che anche dai civili è condotta, da un esercito
popolare che non è la Jna, ma un popolo senza uniforme né gradi, senza dignità militare. Guerra forse
inevitabile, sicuramente inutile.
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Franjo Tudjman Franjo Tudjman nasce il 14 maggio 1922 nello Zagorje, Croazia occidentale, non
lontano dalla Kumrovec che ha dato i natali a Tito.
Presidente della Croazia dal 30 maggio 1990 al 10 dicembre 2000, giorno della morte per un
cancro all'intestino che gli ha procurato un'agonia finale di 41 giorni, ha sempre avuto l'ambizione di
passare alla storia come «padre della patria». Ci è riuscito, ma a costo della guerra.
Giovanissimo, segue il padre Stjepan nella lotta partigiana contro lo stato indipendente di Croazia
(Ndh) di Ante Pavelic. A diciott'anni, viene arrestato per aver celebrato la Rivoluzione d'Ottobre.
Nel 1943 muore in battaglia il fratello, Stjepan, anche lui partigiano. Nel 1945, Franjo si trasferisce
con la moglie Ankica a Belgrado, percorrendo tutti i gradi dell'Armata fino a diventare nel 1960 il
più giovane generale di Tito. Occupa posti chiave nell'amministrazione del personale della Difesa,
depositario dell'ortodossia socialista tra i quadri della Jna. Nel 1946, è rimasto orfano dopo che il
padre ha ucciso la seconda moglie e si è tolto la vita (questa la versione ufficiale, poi Tudjman
incolperà la polizia politica di Tito). Coltiva studi storici e dirige l'Enciclopedia militare jugoslava.
Nel 1967 viene espulso dalla Lega dei comunisti per «deviazioni nazionaliste».
Durante la Primavera croata del 1969-72, finisce in carcere con una condanna a due anni. Il «cuore
debole» gli consente di scontare solo pochi mesi. La leggenda vuole che lo scrittore Miroslav KrleŽa
interceda per lui e Tito dica: «Con Tudjman, non andate troppo sul pesante». Altra condanna a tre
anni, e pochi mesi scontati, nel 1981.
Le sue ricerche s'inseriscono nel filone revisionista e in una rivalutazione della Croazia di
Pavelic. Nel 1987, fa un tour nella diaspora e stringe rapporti con i croati del Canada. Nel 1989,
fonda la Comunità democratica croata, l'anno successivo stravince le elezioni. Reprime la libera
stampa e crea un sistema autoritario. Il figlio Stjepan sarà la sua ombra come capo dei servizi segreti.
Il resto è cronaca.
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Željko RaŽnjatovic, detto Arkan Željko RaŽnjatovic, alias comandante Arkan, nasce nell'agosto
1952 a BreSice, Slovenia, da padre montenegrino ufficiale dell'aeronautica. Due matrimoni, sette
figli, formazione da bandito internazionale e sicario all'estero del segretariato federale jugoslavo per
gli Affari interni, ricercato dall'interpol per rapine e omicidi in Svezia, Belgio, Olanda, Germania e
Italia (capeggia una rivolta nel carcere di San Vittore, a Milano), autore di rocambolesche evasioni.
Il compare Goran Vukovic, ucciso a Belgrado nel dicembre 1994, lo descrive come un campione
nelle rapine.
«Entrava nelle banche come si entra in un supermercato. Io non ci capisco di politica, ma quanto a
rapine, nessuno lo superava. quel che ha fatto per tutta la vita.» Nel 1986, Arkan apre a Belgrado una
pasticceria e diventa capo dei tifosi della Stella Rossa, tra i quali ingaggia le prime reclute della sua
Guardia di volontari serbi (maggio 1990). «Faccia d'angelo», come viene chiamato per il volto
liscio, imberbe, che s'accorda con il nome della sua gelateria (Mali Prine, Piccolo principe), impone
una disciplina rigida al suo migliaio di criminali: capelli rasati, tute nere, frequenti lavaggi.
Tutto il contrario dei cetnici tradizionali con barbe lunghe e bandoliere incrociate. Unica
concessione al pittoresco, ma funzionale: un cucchiaio dai bordi affilati, per cavare gli occhi.
Nel 1991, Arkan va in guerra. «Non siamo milizie paramilitari» dirà «siamo sempre stati al fianco
dell'Armata.» Fa il lavoro sporco in Croazia e Bosnia, d'accordo con i generali. Deputato del
Kosovo nel 1992, non viene rieletto nel 1996. Crea intanto una sua squadra di calcio, l'Obilic, che
affida all'amico imprenditore italiano Giovanni Di Stefano. Nel 1995 sposa la cantante turbo-folk
Svetlana Ceca Veličkovic: il matrimonio, a Belgrado, fa epoca. Anni dopo rompe con MiloSevic e
offre i propri servigi al leader montenegrino Milo Djukanovic. Il 15 gennaio 2000, viene ucciso nella
hall dell'hotel Intercontinental, a Belgrado.

Pakrac e Plitvice: il peccato originale Il peccato originale viene commesso nell'Eden croato, tra i
laghi e le cascate di Plitvice e nella fascinosa regione di Pakrac, nella Slavonia occidentale a metà
strada tra Zagabria e Vukovar, a quattro chilometri dalla gemella più piccola Lipik distesa alle
pendici del monte Psunj. Una sequenza d'episodi che si ripeterà e moltiplicherà all'infinito. A Pakrac,
ribelli armati circondano la stazione di polizia e il municipio a fine febbraio 1991, catturano i
poliziotti fedeli a Zagabria e dichiarano di rispondere solo all'amministrazione serba della Sao
Krajina. Il ministro degli Interni croato invia rinforzi per il contrattacco che riesce alla perfezione:
200 uomini distribuiti in piccoli commando per non dare nell'occhio raggiungono Pakrac e danno
l'assalto agli edifici occupati dai ribelli, li espugnano e arrestano 180 insorti. Nessuna vittima, né da
una parte né dall'altra. L'esercito federale decide d'intervenire ugualmente per «dividere i
contendenti e prevenire nuovi scontri». Stampa e telegiornali di Belgrado raccontano l'operazione di
polizia croata come una deliberata aggressione, come un atto di guerra. Sulle frequenze di Radio
Belgrado, il giornalista montenegrino Dragan Pavičevic annuncia il falso dell'uccisione di sei serbi,
che diventano undici sui giornali. Tra le vittime viene indicato un pope, che sul quotidiano Večernje
novosti muore in prima pagina, viene ferito a pagina 2, e si fa intervistare a pagina 3.
Pakrac si trova al centro d'una sacca a maggioranza relativa di serbi che sale verticalmente dalla
riva bosniaca della Sava e s'incunea fra zone a forte maggioranza croata, dove vivono anche
minoranze slovacche, ungheresi e italiane. Il braccio di ferro tra etnie, qui e nei villaggi attorno, è
numericamente quasi alla pari.
Molti i matrimoni misti. I paesini, le manciate di case abitate da contadini che vivono in un
ambiente bucolico, fuori dal mondo, appaiono sulla carta come punte di spillo idealmente segnate da
bandiere croate o vessilli jugoslavi e cetnici (la stella rossa, o la croce con le quattro «C»).
L'esplosione dell'odio tra etnie si poteva immaginare, qui, devastante. E da Pakrac, in effetti, partono
devastazione e contagio.
Il 9 marzo, si tiene a Belgrado la manifestazione monarchico-nazionalista di Vuk DraSkovic contro
il regime. I fatti di Pakrac spostano l'attenzione dal confronto democrazia-dittatura a quello
patriottico, determinando la vittoria non del migliore, ma del più rozzamente sciovinista fra
DraSkovic e MiloSevic. Quest'ultimo fa appello all'unità e critica le spinte alla disgregazione. «La
Serbia e il popolo serbo» dice in Parlamento «si trovano di fronte uno dei peggiori demoni della loro
storia: la sfida della disunione e del conflitto interno. Tutti coloro che amano la Serbia non devono
ignorare questo fatto, soprattutto nel momento in cui ci confrontiamo con le forze vampiroidi,
fascistoidi degli ustascia, dei secessionisti albanesi e tutte le forze che nella coalizione antiserba
minacciano i diritti e la libertà del nostro popolo» (Glenny, op. cit.). A Zagabria e a Belgrado, la
notizia degli scontri di Pakrac suscita grande allarme. Si riunisce il Presidium federale.
Tudjman è costretto ad accettare l'interposizione federale, ma intensifica i preparativi per la
difesa.
MiloSevic si mostra lucido e determinato. Sa cosa vuole e lo spiega il 16 marzo 1991 ai sindaci
serbi (il resoconto appare sulla rivista Nin): «Siamo noi la repubblica più grande e popolosa, ma
dobbiamo restare uniti se vogliamo dettare il corso ulteriore degli eventi. Sono in gioco frontiere e
stati, e sono sempre i potenti, mai i deboli, quelli che fissano i confini. Perciò è essenziale essere
forti, e per esserlo dobbiamo restare uniti sugli interessi nazionali che sono nostri. Ieri ho ordinato la
mobilitazione dei riservisti della milizia e, anche, la mobilitazione e la creazione di forze nuove. Il
governo ha ricevuto istruzioni per preparare formazioni appropriate, che garantiranno la nostra
sicurezza in qualsiasi circostanza, ossia mettendoci in grado di difendere gli interessi della nostra
repubblica, ma anche quelli dei serbi fuori della Serbia. Ho avuto contatti con i nostri a Knin, in
Bosnia, le pressioni sono enormi. A nessun prezzo rinunceremo alla nostra formula: referendum
popolare, e uso del diritto all'autodeterminazione. E' questa l'unica soluzione, l'alternativa è la
violenza». MiloSevic esclude di dire pubblicamente «come la pensiamo». Conclude: «Se c'è da
combattere, bene, combatteremo! Ma spero che non siano così stupidi da battersi con noi. Forse non
siamo così bravi a gestire l'economia, però sappiamo combattere bene». Quest'ultima frase verrà
smentita.
In marzo, MiloSevic e Kadijevic sollecitano invano il Presidium jugoslavo a proclamare lo stato
d'emergenza. Jovic, d'accordo con loro, si dimette e la mancata ratifica del Parlamento federale
posticipa le dimissioni al passaggio di consegne con Mesic. Il 16 marzo, MiloSevic recita alla tv il
de profundis della federazione: «La Jugoslavia è entrata nella fase finale della sua agonia.
A lungo la presidenza non ha funzionato, e l'illusione del funzionamento suo e dei suoi poteri, che
in realtà non esistono, si è spenta ieri. La Repubblica di Serbia non riconoscerà più alcuna decisione
della presidenza nel contesto attuale. Sarebbe illegale».
Il cuore dell'economia croata era ed è rappresentato dal turismo.
Alla fine di marzo, i ribelli puntano sulla principale attrazione naturalistica dell'entroterra, gli
spettacolari laghi di Plitvice.
Causa scatenante è la decisione di Tudjman di istituire nel cuore del parco una stazione di polizia
lealista, cioè etnicamente pura, ovviamente croata. Da Knin arrivano dimostranti in armi che
cacciano via il direttore e una parte dei dipendenti. All'alba del 31 marzo, dopo infruttuosi negoziati
del viceministro degli Interni di Zagabria, Slavko Degoricija, con il sindaco di Titova Korenica,
BoSko BoŽanic, una colonna di gardisti penetra nel parco, ma cade in un'imboscata. Un razzo piomba
senza esplodere sul bus croato.
Nella successiva battaglia per l'ufficio postale si registrano le prime vittime della guerra di
Croazia: il ventenne croato Josip Jovic, poliziotto, e il serbo Rajko Vukadinovic, ribelle, macellaio a
Titova Korenica. Il suo negozio dista pochi minuti dalle mura della chiesa ortodossa distrutta nella
Seconda guerra mondiale. Tra la Lika e l'entroterra dalmata si sono combattute mezzo secolo prima
faide crudeli, e compiuti massacri e commessi stupri. Troppo facile osservare che la storia balcanica
torna ciclicamente sui luoghi del delitto. Un valore simbolico e premonitore assume anche lo stupore
dei duecento turisti italiani che si svegliano in guerra. Dorme, come loro, la diplomazia occidentale,
compresa quella italiana, che prolunga la sua «vacanza» dalla realtà.
Le avvisaglie della crisi jugoslava precedono la morte di Tito nel 1980. Carl Gustav Stroehm,
corrispondente tedesco dai Balcani, si chiede in un libro del 1977 se alla morte del Maresciallo la
Jugoslavia potrà sopravvivere. La domanda è retorica, la risposta è «no». Dal febbraio 1990, i
segnali vanno tutti in direzione della guerra. Le cancellerie occidentali sono sorde, cieche, mute. La
catastrofe è imminente, eppure ancora nel giugno 1991, quando finalmente la trojka europea si
precipita al capezzale della Jugoslavia, il ministro italiano Gianni De Michelis, si ostina a negare il
conflitto in atto. L'ambasciatore Sergio Vento, da parte sua, rifiuta di vedere che la Jna è schierata al
fianco delle milizie della Krajina. Le analisi dei diplomatici occidentali sono viziate dalla
convinzione che la guerra si può evitare, anzi si eviterà, e che per evitarla basta ribadire che
l'integrità territoriale della Jugoslavia è sacra e intangibile, perché guai se la Jugoslavia,
disfacendosi, darà il brutto esempio alle repubbliche sovietiche, alla Corsica in Francia, all'Irlanda
del Nord in Gran Bretagna, ai Paesi Baschi in Spagna.
Congiura contro la pace MiloSevic, che fa riesumare ossa e teschi delle vittime del terrore
ustascia nella Seconda guerra mondiale e ispira il tour serbo delle spoglie del principe Lazar, l'eroe
della battaglia di Kosovo Polje del 1389. Non aiuta la pace la speculare rivendicazione croata della
sovranità e indipendenza attesa da secoli. I croati, affrancatisi dal comunismo, compiono addirittura
un'opera di restaurazione linguistica, riesumano non le ossa, ma le parole, i vocaboli croati in uso
fino al 1918 o al 1945-50 e poi «uccisi» dal centralismo socio-linguistico jugoslavo o se ne
inventano di nuovi. Così, per esempio, dai cartelli indicatori degli aeroporti scompare la parola
aerodrom, sostituita da zracna luka («porto dell'aria»). Tutto ciò non fa che azzerare il tempo che
passa tra i massacri di ieri e quelli di oggi e, insieme, cancellare l'esperienza multietnica della
Jugoslavia, riattizzare i nazionalismi compressi e negati da Tito, resuscitare da un lato la paura,
dall'altro il desiderio di vendetta.
Quando Tudjman, già depositario dell'ortodossia comunista nell'Armata, poi storico revisionista
politicamente scorretto e incarcerato da Tito, torna alla ribalta portando alla vittoria nelle elezioni
dell'aprile 1990 l'Hdz, Comunità democratica croata (Hrvatska demotratska Zajednica), negli undici
distretti croati a maggioranza serba, i serbi sono già pronti a insorgere. I confini della Grande Serbia
si allargano a dismisura. In Slavonia, per esempio, i serbi non sono la maggioranza, ma la minoranza
relativa, e le città sotto minaccia della costa dalmata mai sono state serbe.
Eppure, Zara dovrà diventare lo sbocco al mare della Serboslavia o Jugoserbia.
E' possibile evitare il bagno di sangue? Il 4 ottobre 1990, Croazia e Slovenia propongono la
metamorfosi della federazione in confederazione. MiloSevic, invece, punta a rafforzarla, e la
controproposta affidata a Jovic è una «efficace federazione». Il 9 dicembre, il Partito socialista di
MiloSevic ottiene alle elezioni in Serbia il 64 per cento dei voti contro il 17 per cento di DraSkovic
e il magro 8 per cento di Markovic. Basterebbe questo dato per capire quanto sia di corto respiro la
politica della Comunità europea e degli Stati Uniti, che invece d'ammettere il disfacimento jugoslavo
per meglio gestirlo, continuano a scommettere su Markovic e sulla fazione jugoslavista dell'Armata.
Tudjman, a sua volta, non mostra la minima sensibilità o magnanimità verso la minoranza serba. Tenta
di ristabilire un equilibrio fra le etnie nell'amministrazione e nella polizia, dominate in effetti dai
serbi, dando così l'impressione di discriminare la componente serba e di volerla estromettere
all'improvviso da uffici che ricopre da decenni.
Ordina inoltre la rimozione della segnaletica stradale in cirillico a Knin, anche se il 90 per cento
della popolazione è serba, e stravolge la toponomastica con esiti a volte comici. Lo stesso fa con la
storia. L'errore non è il revisionismo in sé, ma il tono e il linguaggio. Del resto, in campagna
elettorale ha dichiarato d'esser contento di non avere una moglie serba, né ebrea. Non c'è da stupirsi
che la nuova Costituzione croata, nella versione originaria bocciata dalla Commissione europea
presieduta da Badinter, non tuteli a sufficienza i diritti delle minoranze. Tudjman deve promettere che
sarà modificata.
La non collaborazione dei serbi in centri come Glina, a sud di Zagabria, o Pakrac, o Knin, o
Borovo in Slavonia, comporta la paralisi dell'amministrazione e la perdita del controllo
repubblicano in quelle zone. Quando spuntano mitra e pistole, mine e bombe a mano, gipponi e
blindati, è chiaro che saranno messi in discussione anche i confini. I fautori della Grande Serbia
conquistano territorio con il terrore, con uno stillicidio di azioni terroristiche: attacchi alle stazioni
ferroviare, sabotaggio di binari, case e negozi fatti saltare. I croati contano, tra l'8 agosto 1990 e
l'aprile 1991, 89 attacchi armati e 154 attentati dinamitardi (43 dei quali contro abitazioni private).
Alla fine di aprile, gli attentati agli acquedotti sono diventati un'autentica piaga. Tra le città più
bersagliate, Zara.
A mano a mano, i distretti serbi si costituiscono in province autonome e si collegano tra loro
tramite un corridoio nella Bosnia settentrionale. Le entità votate all'annessione a Belgrado hanno
scarsa o scarsissima densità di popolazione, eppure sono vaste e strategiche per le comunicazioni. La
Slavonia, inoltre, rispetto a Lika, Kordun e Knin, è ricca, è il granaio della Croazia, vanta una
tradizione culturale di primo piano e una borghesia autoctona mitteleuropea tendenzialmente estranea
alla brutalità delle faide interetniche. I serbi qui rappresentano meno d'un quarto della popolazione,
ma dalla Serbia di MiloSevic arrivano armi, paramilitari e propaganda. A Zagabria, l'atteggiamento
antiserbo viene alimentato dalla lobby della diaspora finanziatrice della campagna elettorale di
Tudjman. Una nuova classe di potere di 150 mila persone prende piede a Zagabria, ma è idealmente
radicata nella comunità della diaspora e, in ultima istanza, nell'Erzegovina occidentale.
La legna è pronta. La scintilla scocca in Slavonia orientale, a Borovo Selo, il 2 maggio 1991.
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Vuk DraSkovic Vuk DraSkovic, personaggio controverso e inafferrabile, amato dai giornalisti
televisivi per la sua figura longilinea, barbuta e legnosa, il tono vaticinante e ispirato, lo sguardo
infuocato e le battute incisive, nasce nel 1946 a Medja, Vojvodina, da famiglia erzegovese. Origini
miste, quindi: antico e moderno, tradizione e progresso, Serbia profonda e Mitteleuropa. Vuk (Lupo)
è monarchico ma democratico; granserbo, ma pacifista; tradizionalista, ma liberista; oppositore
tenace, ma organico al potere (al governo su invito di MiloSevic, vicepremier alla vigilia del
bombardamento della Nato nel 1999). Corrispondente all'estero dell'agenzia Tanjug, nel 1982
pubblica un racconto sui cetnici in Bosnia Erzegovina durante la Seconda guerra mondiale (Il
coltello) e nel 1994 L'ultima notte del generale, sull'esecuzione del generale DraŽa Mihajlovic. Nel
marzo 1990 fonda il Movimento del rinnovamento serbo (Spo), per «edificare» la Grande Serbia a
partire dalla Serbia, «Piemonte» del suo popolo. A lui fa riferimento una milizia attiva in Croazia, da
cui prenderà le distanze e i cui comandanti, Djordje BoŽovic (Giska) e Branislav Lainovic, saranno
assassinati (settembre 1991 e marzo 2000). Vuk stesso subirà sei attentati. «Terrorismo di stato» dice
lui. Nel marzo 1990, diventa il «re delle piazze» a Belgrado, arringando gli studenti. Viene arrestato
e picchiato. L'ambasciatore degli Usa, Warren Zimmermann, lo consulta spesso, suscitando il
sarcasmo di MiloSevic: «Come sta il suo amico DraSkovic?». Nel 1991-92, Vuk si fa «pacifista» e
promotore del negoziato in Croazia e Bosnia.
Rafforza i legami con la chiesa ortodossa, che gradualmente li allenta con MiloSevic. Nel giugno
1993, nuovo arresto. Libero per intercessione di greci, inglesi e di Danielle Mitterrand, nel 1996-97
partecipa alla coalizione delle opposizioni Zajedno (Insieme) con Zoran Djindjic. Senza fortuna.
Entra (gennaio 1999) ed esce (aprile 1999) dal governo di Belgrado. Breve esperienza, che gli
sbarrerà la strada della successione a MiloSevic.

Borovo Selo: agguato alla pace Ricostruire la battaglia di Borovo Selo e indagare su come
scoppia, perché, chi vi partecipa, quali ne sono le implicazioni, le conseguenze e i lati oscuri,
significa andare al cuore del problema.
Oggi è più facile. Sia i croati, sia i serbi, hanno avuto interesse a nascondere o deformare la
verità. Due le premesse: il governo croato ha fissato per il 19 maggio 1991 il referendum sulla
confederazione che dovrebbe sancire il desiderio dei croati di trasformare la federazione jugoslava
in confederazione e, nel caso quest'ultima si rivelasse impraticabile, per la Croazia sovrana e
indipendente.
Le minoranze serbe si sentono minacciate di «genocidio» (la prosecuzione di quello ustascia dei
primi anni quaranta). In secondo luogo, l'insurrezione serba dura dal febbraio 1990, e ha già sottratto
al controllo delle autorità centrali di Zagabria città e regioni intere senza che l'Armata federale sia
mai intervenuta per restaurare i legittimi organi repubblicani, amministrativi e di polizia.
Borovo Selo è un villaggio di cinquemila anime con prevalenza di serbi, a 15 chilometri da
Vinkovci sulla strada che porta a Vukovar, a 5 chilometri, e ai ponti sul Danubio, confine naturale tra
Croazia e Serbia. Lo scenario è uguale a quello di decine d'altri villaggi della Slavonia orientale,
con l'abitato che si concentra lungo la via principale. La popolazione è composta da falegnami,
operai, impiegati delle ferrovie, agricoltori. Per le strade, contadini in bicicletta, bambini con la
cartella a tracolla, trattori diretti ai biondi campi di mais che lambiscono il paese. La Slavonia è
ricca, non Borovo Selo. Molte famiglie sono immigrate dopo la Seconda guerra mondiale, facevano
parte del popolo di doSljaci o «nuovi arrivati» dal profondo della Bosnia o della Serbia, avvinti alle
proprie radici come tutti gli sradicati. Pagine intere sono state scritte sulla differenza, generatrice di
tensioni etniche e sociali, tra loro e gli starosedioci della vecchia Vukovar, gli autoctoni borghesi,
urbani e non inurbati, abituati alla mescolanza e tolleranza interetnica, aperti allo spazio
mitteleuropeo e alla sua cultura (Janigro, L'esplosione delle nazioni; Rumiz, Maschere per un
massacro; Silber e Little, op. cit.). Ma non è solo la struttura sociale a fare di Borovo Selo il terreno
ideale per il germogliare del nazionalismo granserbo, lo sono anche l'afflusso di armi e agenti esterni
dalla Serbia, nonché l'affermarsi tra gli stessi croati della fazione ultranazionalista.
Un ricco emigrato di origine erzegovese, Gojko SuSak, che ha finanziato la campagna elettorale di
Tudjman con i soldi guadagnati in Canada dove possedeva alcune pizzerie, capeggia gli estremisti
locali dell'Hdz. Con lui un altro emigrato, Branimir GlavaS, comandante della Guardia nazionale e
proconsole di Osijek, un fautore della bonifica etnica che s'è macchiato, secondo testimonianze
concordanti di storici, giornalisti e diplomatici, della liquidazione di molti serbi. Ma il fronte croato
è diviso. Al duo SuSak-GlavaS si contrappone il blocco moderato del sindaco di Osijek, Zlatko
Kramarič, del direttore del quotidiano Glas Slavonje, Drago Hedl, e del capo della polizia, Josip
Reichl-Kir, trentacinquenne di origini slovene e tedesche il quale da mesi, disarmato, tiene a bada gli
estremisti delle due parti facendo la spola tra un villaggio e l'altro, placando gli animi, convincendo i
serbi a togliere le barricate e a fidarsi dei croati, o almeno di lui, e i croati a non reagire (Glenny, op.
cit.). Un giorno, però, si piega per carità di patria all'insistenza di SuSak e lo guida attraverso i
campi di mais alle porte di Borovo Selo. Il futuro ministro della Difesa croato, SuSak, assieme ad
altri militanti dell'Hdz, spara tre razzi anticarro con l'Rpg da spalla. Uno colpisce una casa. Un altro
si conficca in un campo di pomodori, senza esplodere. Il ministro federale, Petar Gračanin, si può
togliere la soddisfazione di mostrare il reperto a Mesic, a Belgrado, durante una riunione del
Presidium. Reichl-Kir si sfogherà con Kramarič: «Sono dei pazzi» (Silber e Little, op. cit.). Se nel
Kosovo basta tirare la barba a un pope ortodosso per scatenare l'odio, in Slavonia tre razzi anticarro
sparati su un abitato saranno più che sufficienti a catalizzare una guerra decennale. Il ministro degli
Interni croato, Boljkovac, ha incontrato al di là del confine, a Bačka Palanka, in Vojvodina, il suo
omologo federale, Bogdanovic, e con lui ha concordato una sorta di «statuto speciale» per quelli di
Borovo Selo (Glenny, op. cit.): i poliziotti croati non entreranno in paese senza il preavviso e
l'esplicito assenso degli abitanti. Ma Reichl-Kir non ha più il controllo totale delle sue forze, se la
notte di mercoledì primo maggio, festa del lavoro, quattro poliziotti in automobile superano una
barricata rimasta incustodita nel clima di festa e tentano d'ammainare la bandiera jugoslava che
sventola al centro del villaggio, alzando al suo posto il tricolore croato con la Sahovnica. Una
bravata, un gesto disperato. I ribelli vigilano, fanno fuoco, feriscono e catturano due poliziotti. Gli
altri due scappano. Il giorno dopo, il capo della polizia di Vinkovci entra con venti uomini a Borovo
Selo. I capi della rivolta hanno accettato di rilasciare gli ostaggi. «Venite a riprenderveli» avrebbero
detto. Ma la delegazione croata somiglia troppo a una spedizione di polizia. E' il massacro. Il
contingente si dirige verso il centro. Gli insorti lasciano che avanzi. Sulla destra appare una schiera
di case con abbaini. A sinistra la pizzeria Stella Rossa (l'insegna è in italiano), poi una birreria. I
serbi si vanteranno con i giornalisti d'aver concepito un agguato perfido, e perfetto. D'un tratto si
scatena sui croati una tempesta di fuoco da tetti, cancelli, finestre, negozi. Le automobili con i sedili
insanguinati e le portiere sforacchiate saranno esposte come trofei nel cortile della stazione di
polizia. Bilancio ufficiale secondo Zagabria: dodici morti fra i croati, tre fra i serbi.
Immediato il rimpallo d'accuse. Zagabria ricorda le visite a Borovo Selo di Milan Paroski e
Stojan Cvijan, e quella di SeSelj nella vicina Jagodnjak. Lo stesso SeSelj, in un dibattito televisivo
successivo alla polemica sulle torture e lo scempio dei cadaveri di Borovo Selo, ammette che i suoi
miliziani hanno partecipato alla battaglia e s'improvvisa medico legale sostenendo che gli occhi di
una delle vittime risultano fuoriusciti dalle orbite non per torture subite, ma per la pressione
esercitata dal proiettile d'un mitra Thompson penetrato nel cervello. E scherza: «I miei ragazzi non
usano il coltello come i cetnici d'un tempo, si sono diplomati nell'uso di calzascarpe per cavare gli
occhi dalle orbite ai croati» (Judah, op. cit.). Verrà il giorno in cui il ministro Bogdanovic chiederà
all'opposizione serba, a guerra conclamata, che cosa mai sarebbe successo a Borovo Selo, se «noi
non avessimo armato i nostri serbi». I mitra Thompson usati dai serbi fanno parte d'uno stock inviato
dagli Stati Uniti a Tito dopo la rottura con Mosca nel 1948, passati in dotazione alla Difesa
territoriale. Forte indizio, anche questo, del coinvolgimento dei vertici militari nel riarmo della «Sao
Slavonia». Per contro, Belgrado accusa i croati d'aver gestito la crisi di Borovo Selo con imperizia e
aggressività, e aver scatenato un «deliberato attacco alla nazione serba». Posizioni, come si vede,
distanti anni luce.
Alla tv della Vojvodina, un capo guerrigliero si vanta d'aver ucciso con le proprie mani sei croati.
I fatti di Borovo Selo sono decisivi anche dal punto di vista mediatico. I serbi restituiscono a
Zagabria i due ostaggi e le dodici salme il 4 maggio, si scopre allora che uno dei corpi è senza testa,
mentre un altro ha la gola squarciata, gli manca un avambraccio, il cranio è sfondato e gli occhi
penzolano in fuori. «Ci sono segni di tortura» sentenzia Vladimir Luetic, chirurgo capo del comitato
militare croato di Sanità, «hanno calpestato le ferite, schiacciato le mani, i piedi.» Si pone il
problema se diffondere le fotografie della mattanza. Il governo croato ci riflette per due giorni, prima
di dare l'assenso.
Ma lo dà. Le immagini, molto crude, vanno in onda nell'edizione serale del tg di Zagabria. Dopo
averle viste, nessuno potrà più perdonare. Soprattutto, nessuno potrà illudersi sulla natura vera del
conflitto, anche se Tudjman rifiuterà fino all'ultimo di dichiarare la guerra per non compromettere il
riconoscimento internazionale.
L'Europa, paralizzata dalle divisioni interne, sta a guardare, e gli Stati Uniti stanno a guardare
l'Europa. Solo la Germania, l'Austria e il Vaticano premono per riconoscere l'indipendenza di
Croazia e Slovenia. Gran Bretagna, Francia e Italia si schierano con Belgrado, a favore del
mantenimento della Jugoslavia: temono che le due repubbliche secessioniste ricadano nella sfera
d'influenza tedesca in Europa (senza capire che la destabilizzazione dei Balcani è un rischio più
grave e concreto, per la sicurezza e stabilità del continente, che non lo spettro fumoso della Grande
Germania). Ma le ragioni sono tante: la preoccupazione di non creare un precedente, un cattivo
esempio per le minoranze presenti in quasi tutti i paesi europei; moventi sentimentali come la
considerazione che la Jugoslavia in se stessa è una creatura della diplomazia francese e britannica, o
gli stretti legami culturali tra Parigi e Belgrado e la tradizionale alleanza tra Serbia-Montenegro e
Italia, o l'astio italiano per sloveni e croati a causa delle foibe. Ancora, ragioni geo-strategiche: la
distrazione statunitense per la crisi del Golfo, contemporanea alla rivolta della Krajina, e la
preoccupazione occidentale per le sorti non solo della moribonda Urss, ma dell'Europa dell'Est, per
l'evoluzione politica di paesi come la Cecoslovacchia e la Romania. Infine, last but not least, la
pigrizia delle diplomazie e delle classi politiche nel riconoscere e interpretare i cambiamenti epocali
in politica internazionale.
Dopo il massacro di Borovo Selo, i croati scendono in piazza a urlare la loro rabbia. Tudjman va
a Spalato a incontrare i sindaci delle città costiere, inaugurando la Croatian Airlines. La vita continua
a scorrere. Anche nei giorni più cupi della guerra, la polizia municipale croata sarà inflessibile nel
far osservare il codice della strada. Cadono le bombe, ma si viene multati se non si ha la cintura di
sicurezza allacciata o se si superano i limiti di velocità. Lo stesso vale in Serbia. a Spalato che si
scatena il 7 maggio 1991 la protesta croata, sull'onda emotiva del massacro di Borovo Selo, ma
soprattutto in risposta all'assedio di Kijevo, paese dell'entroterra dalmata lungo la strada fra Knin e
Spalato, punta di spillo bianco-rossa circondata da federali e cetnici: un'enclave nell'enclave. La
folla manifesta davanti alla regione marittima, blocca i mezzi dell'esercito e negli scontri perde la
vita il primo soldato federale, una recluta macedone che viene strozzata davanti alle telecamere.
L'Armata adesso è il nemico. Invece di neutralizzare i ribelli, i carri armati federali hanno creato
attorno a Borovo Selo un anello di protezione, e consentito l'assedio di Kijevo.
Inutilmente, gli uomini delle forze speciali di Zagabria bivaccano a Sinj, avamposto croato
nell'entroterra dalmata, o davanti alla stazione di polizia di Vinkovci, in Slavonia. La realtà è che non
possono far nulla, hanno le mani legate. Alla fine di aprile, Kijevo è bloccata. La strada l'attraversa,
a un capo e all'altro i posti di blocco federali cooperano con quelli dei martičevci che
sistematicamente, e del tutto indisturbati, rendono difficile se non impossibile il passaggio dei
camion con rifornimenti essenziali di viveri e medicine. Knin si trova a dieci chilometri.
Una sera sono scesi i carri armati, dicono a Kijevo, e i militari si sono fatti consegnare i registri
dell'anagrafe, del catasto, dei matrimoni: un classico della bonifica etnica, che passa attraverso la
metodica cancellazione della memoria anagrafica e catastale. Manca la luce, se non poche ore al
giorno per via di un piccolo generatore autonomo. L'acqua viene attinta da un pozzo. E' a Kijevo che
si salda sul campo, definitivamente, la collaborazione tra le milizie e l'Armata. Il 19 agosto, Martic
lancerà un ultimatum: «O la resa, o la morte». Una settimana dopo, il paese subirà dodici ore di
bombardamento. Racconterà Martic: «C'è stata un'azione congiunta della polizia e della Jna, e in due
giorni abbiamo liberato Kijevo.
L'Armata ha fornito le armi pesanti, io la fanteria. Quando a Knin è arrivato il colonnello Mladic,
abbiamo capito che potevamo credere nella Jna» (Silber e Little, op. cit.).
Dopo la prima vittima federale, Kadijevic invia al Presidium un proclama in cinque punti per
reclamare misure d'ordine e minaccia, se non saranno applicate, di provvedere autonomamente.
Promette di rispondere con il fuoco al fuoco, e di impedire con la forza, in futuro, gli scontri
fomentati da «estremisti di entrambe le parti».
Al tempo stesso, ordina lo stato d'allerta e la mobilitazione dei riservisti. Il proclama è solo in
apparenza al di sopra delle parti.
Il governo croato sostiene che «estremisti» sono i ribelli, e che polizia e Guardia croata sono forze
legittime. Kadijevic vorrebbe disarmare anche quelle. Tudjman punta al riconoscimento
internazionale dopo il 19 maggio, data del referendum di Zagabria, e insiste che quella in corso è una
guerra tra stati, non civile o etnica. Il riconoscimento diverrebbe la base legale per eventuali
interventi internazionali a difesa della Croazia (e non semplicemente dei croati). Ante Markovic, il
premier federale coccolato dall'Occidente, insiste che l'odio si scioglierà come neve al sole con le
riforme economiche, ma più che la sua cieca persuasione del prevalere dell'economia sulla politica,
appare tragicomica l'ostinazione con la quale i governi occidentali continuano ad attribuirgli ancora
forza e credibilità. Markovic ha fiducia nell'esercito («Ha scelto la democrazia»), ed esorcizza i
demoni jugoslavi con lunghe risate a un convegno sul turismo a Makarska, sulla costa dalmata. I
giornalisti sono esterrefatti. Non così i diplomatici. La Farnesina può contare su due osservatori
d'eccezione: l'ambasciatore Sergio Vento e il console Salvatore Cilento. Peccato che i dossier
preparati dal primo a Belgrado riferiscano l'esatto opposto di quelli redatti a Zagabria dal secondo.
Cilento a godere della visuale migliore. Vento addirittura nega la realtà, esclude il coinvolgimento
dell'Armata, e verrà premiato: ambasciatore a Parigi, e all'Onu quando l'Italia, ottobre 2000, sarà
umiliata nella corsa a un seggio nel Consiglio di sicurezza, si distinguerà per interviste imbarazzanti
e gaffe sul Medio Oriente, ma anche allora non verrà ridotto a più miti consigli.
Il 21 giugno 1991, pochi giorni prima della proclamazione dell'indipendenza slovena e croata,
vola a Belgrado il segretario di stato statunitense, James Baker, che mette in guardia contro «azioni
unilaterali», invoca il negoziato e caldeggia la linea dell'unità, senza però indicare un percorso
concreto per uscire dalla crisi.
Viktor Meier, nell'ultimo capitolo del suo ottimo Yugoslavia, a history of its demise, illustra le
incertezze e gli errori della diplomazia occidentale. Corrispondente per trent'anni dai Balcani, prima
per la Neue Zürcher Zeitung, poi per la Frankfurter Allemeine Zeitung, Meier lancia un duro atto
d'accusa: «I diplomatici occidentali, molti dei quali uscivano dalla capitale solo con grande
riluttanza, e i cui partner abituali nella conversazione erano soprattutto Markovic, Lončar (ministro
degli Esteri federale, ndr) e il loro entourage, sembravano, praticamente senza eccezione negli ultimi
due anni di esistenza della Jugoslavia, non aver capito la realtà del paese. Negli ultimi sei mesi della
Jugoslavia, la loro ostilità verso la realtà assunse dimensioni grottesche. Devo ammettere purtroppo
che le analisi che ascoltai dal circolo dei diplomatici occidentali in quel periodo facevano
un'impressione quasi sconvolgente, e che mai prima avevo incontrato un simile garbuglio di errori
politici, pigrizia di pensiero e superficialità. Questa gente ha la sua parte di responsabilità nei
catastrofici errori della politica occidentale in Jugoslavia. Tra di loro, i più importanti erano Warren
Zimmermann (Usa), Sergio Vento (Italia), Hansjorg von Eiff (Germania), Michel Chatelais (Francia)
e Peter Hall (Gran Bretagna)». Si potrà obiettare che tutti questi ambasciatori seguivano l'istruzione
di lavorare per la continuità della Jugoslavia, «ma allora si sarebbe dovuto pretendere da loro, come
minimo, che separassero le loro analisi dalla loro politica.
Invece, era il contrario». Zimmermann, almeno, nel già citato libro-testimonianza abbozza qualche
critica, e qualche autocritica.

Referendum in Krajina, battaglia in Slavonia Il 12 maggio 1991, Milan Babic depone la scheda
nell'urna di cartone del referendum indetto dai serbi della Krajina. Il quesito: «Sei pro o contro
l'unificazione fra Krajina e Serbia, per restare in Jugoslavia con gli abitanti di Serbia, Montenegro e
con gli altri popoli che vogliono restare in Jugoslavia?». «La Serbia» dice Babic «va da Knin alla
Bulgaria, e noi oggi siamo in Serbia.» La Jugoslavia di Knin è la Grande Serbia. Zdravko Žečevic,
sindaco di Benkovac, presidia le urne contemplando i vetri infranti dei negozi croati fatti saltare dai
serbi. Sostiene che sono stati gli stessi croati a distruggerli, «per screditarci», e sghignazza parlando
dell'omicidio d'un poliziotto croato nella vicina Opača: «Chi è stato? Chi lo sa.
Lo avrà fulminato Dio!». Il 19, con un'affluenza di oltre l'80 per cento e una percentuale di «sì»
superiore al 90, i croati votano nel loro referendum il cui esito è scontato: «Croazia sovrana e
indipendente», tra bandiere e slogan nazionalisti. Dietro le urne, nelle scuole, gli striscioni colorati
dai bambini con la scritta: «Croazia, ti portiamo nel cuore». Tudjman proclama: «Sia fatta la volontà
del popolo». E' l'ultimo passo verso la dichiarazione d'indipendenza, il 26 giugno. E verso la guerra
totale.
Anche l'illusione della pace viene seppellita con le battaglie di Glina, nella Banija, a meno di 60
chilometri da Zagabria verso sud, e di Tenja, Slavonia orientale. Il 26 giugno, quando gli occhi
dell'Occidente sono puntati su Lubiana, le milizie cetniche attaccano la stazione di polizia di Glina,
per la prima volta con mortai dell'esercito, e completano l'opera con la fanteria. Un salto di qualità
che inaugura una fase nuova del conflitto. Prima che i croati possano abbozzare un contrattacco, si
muovono dalle caserme di Petrinja i carri armati federali al comando del colonnello Tarbuk (lo
ritroveremo in Erzegovina), e creano a tempo di record, attraverso una manovra palesemente
concordata con i martičevci, un cuscinetto di protezione attorno a Glina. Il pretesto è quello di
prevenire nuovi scontri. L'obiettivo: assicurare la conquista serba d'una cittadina strategica nella
Banija. Ma il bersaglio grosso resta Petrinja. Un pugno di uomini delle forze speciali di Zagabria
tiene la posizione, a Glina, facendo sventolare una sbrindellata bandiera con la scacchiera bianco-
rossa sul commissariato. I serbi la fissano con odio, considerano quei giovanotti personalmente
responsabili del massacro di centinaia di serbi nel 1941 a opera degli ustascia di Ante Pavelic che,
complici i parroci, si distinsero per le conversioni forzate al cattolicesimo dall'ortodossia, pena lo
sgozzamento.
A Osijek cambia lo scenario, non la dinamica. Per alcuni osservatori, la prova che la guerra si
poteva evitare è l'opera mediatrice e pacificatrice di Josip Reichl-Kir, il coraggioso capo della
polizia che usa la parola invece delle armi. Ma proprio l'omicidio di Reichl-Kir dimostra, purtroppo,
che non c'è alternativa alla guerra. A ucciderlo non è un commando cetnico, è invece un croato
dell'Hdz. Dopo la battaglia di Borovo Selo, Reichl-Kir ha capito che la sua vita è in pericolo.
Chiede d'esser trasferito a Zagabria. Il ministro Boljkovac, suo amico, prima gli dice di non essere
«infantile», poi accoglie la richiesta. Reichl-Kir continua a viaggiare tra Osijek e i paesi in rivolta. I
più battaglieri sono i serbi della Vecchia Tenja, e i croati di Nuova Tenja. Lui va, carica
sull'automobile i portavoce degli insorti, li scorta a Osijek per negoziare con Kramarič, il sindaco di
Osijek, li riporta a casa.
Tutti i giorni. Tra poco questa vita finirà, Josip tornerà a Zagabria. Ma il primo luglio 1991, Ante
Gudelj, croato, attivista della fazione ultranazionalista di GlavaS-SuSak, scarica su Reichl-Kir,
sull'attendente e sui due serbi che viaggiano con loro a Nuova Tenja, 28 proiettili di kalashnikov. Si
salva un serbo. Gudelj viene arrestato, condannato a vent'anni di prigione e rilasciato una settimana
dopo la visita a Zagabria del segretario di stato americano Madeleine Albright nel 1997, perché
assolto dalla Corte suprema croata che ha applicato la prescrizione. E' probabile che Gudelj abbia
agito per conto di Gojko SuSak. Con Reichl-Kir viene sepolta anche la pace.
La battaglia per Tenja esplode all'alba del 7 luglio. Esattamente come a Glina, il tempestivo
intervento dell'Armata a fianco dei ribelli marca il passaggio a una fase nuova del conflitto. Per ore e
ore infuria la sparatoria tra gardisti croati e ribelli nel cuscinetto tra la Vecchia e la Nuova Tenja.
Una pattuglia croata resta intrappolata in un edificio: una dozzina di poliziotti, senza scampo.
Nessuno sarà fatto prigioniero. Nei giorni successivi, in una saletta per le conferenze, nel Municipio,
un giovanotto di Belgrado, guerrigliero e videoamatore dilettante, mostra ai giornalisti di passaggio
una cassetta girata durante gli scontri. Le immagini traballano, si sentono sventagliate di mitra e colpi
isolati, un cetnico ride nervosamente, ricarica il kalashnikov e alza la canna sopra un muretto. In un
giardino s'intravede un corpo nero raggomitolato. C'è qualcuno ancora vivo. Un urlo: «Lo senti...?
Spara, è vicino. Becchiamolo, presto!». Un altro: «Muovetevi! Non lo fate scappare». la strage. Il
resto è nelle parole dei testimoni: un blindato della Jna attraversa il campo di battaglia alla massima
velocità, i croati lo fanno passare, dentro ci sarebbe un ferito, dopo due ore piombano i carri armati.
I serbi smettono di sparare. I croati insistono. I gardisti sono ancora là che si difendono.
Smettere significherebbe abbandonarli. La cannonata di un tank colpisce un palazzo di sette piani
alle spalle dei croati. La battaglia è finita. Tenja ora è serba. All'interno, lo spettacolo è quello tipico
della Sao Slavonia o Sao Krajina: trattori con la croce rossa dipinta a mano sulla fiancata, studenti di
medicina che s'improvvisano medici dell'«ospedale partigiano», contadini armati di vecchi fucili
Mauser a tracolla e la pistola nella fondina. Gli ufficiali della Jna dicono che resteranno «tutto il
tempo che sarà necessario».
L'offensiva congiunta dei ribelli e della Jna «bonifica» le sacche serbe della Banija. battaglia a
Dragotinci, Kraljevčani e in altri villaggi. Resiste solo Petrinja e, a sud, al confine con la Bosnia,
Kostajnica. Tra l'una e l'altra ci sono due strade. Una è in mano ai ribelli. L'altra è sotto il tiro dei
cecchini. Invece di contrattaccare, Tudjman si appella all'Europa, invoca l'invio di caschi blu e
osservatori. Si affida alla diplomazia tedesca, austriaca, vaticana. Il primo ministro, Franjo Gregurič,
è un moderato, esponente dell'ala liberale dell'Hdz.
La Croazia bussa all'Europa. L'Europa non risponde.

Un esercito da inventare: il caso Spegelj Il 21 giugno 1991, quando il segretario di stato americano
James Baker fa tappa a Belgrado per incontrare tutti i protagonisti della tragedia jugoslava, quello
che gli fa scuotere davvero la testa è (a sentire l'ambasciatore Zimmermann che descrive la
passerella con efficacia quasi letteraria) Franjo Tudjman. Il motivo è che Tudjman si dice convinto
che l'Armata non muoverà un dito contro la sua amata Croazia. «I timori di guerra civile sono
esagerati» assicura «da coloro che non hanno radici politiche nella nazione croata, una delle più
antiche d'Europa. I comunisti dogmatici e gli unitaristi vorrebbero far schierare l'Armata contro la
Croazia, ma l'ideologia della Jna non le permetterà di agire contro di noi.» A parlare con Baker non è
in quel momento il leader della nuova Croazia, ma l'ex generale depositario dell'ideologia comunista
dell'esercito popolare jugoslavo. Così si spiega, in parte, la commovente impreparazione militare
croata allo scoppio del conflitto, inferiore solo a quella nella quale verserà la Bosnia di Alija
Izetbegovic.
Al contrario, l'Armata si muove in anticipo. Nei primi sei mesi del 1990, avvia in gran silenzio il
trasferimento di circa 200 mila armi leggere della Difesa territoriale croata nei propri arsenali. I
croati corrono ai ripari acquistando in Ungheria 30 mila kalashnikov.
Secondo David C. Isby («Jugoslavia 1991-Armed forces in Conflict», in Jane's Intelligence
Review, citato dallo storico militare Antonio Sema nell'ottimo Guerra in Jugoslavia: analisi di un
conflitto), la secessione della Krajina serba viene condotta con l'appoggio di 18-20 mila uomini ben
addestrati e inquadrati in gruppi di fuoco. Lo sloveno Bebler descrive le fasi della guerra come
un'escalation nella quale si raggiunge presto «un grado molto elevato di intensità e ferocia», con
l'aggiunta di attività criminali di massa e attività terroristiche fino alla guerra conclamata, a fine
agosto 1991. Tammy Arbuckle adotta invece la chiave interpretativa della guerra etnica: la
distribuzione etno-demografica spiegherebbe tattica e strategia di tutto il conflitto.
Anche se si può dire che la Croazia dispone di un proprio esercito già alla fine del 1990, la
presentazione ufficiale della nuova Guardia nazionale croata risale al 28 maggio 1991, quindi dopo
l'episodio discriminante di Borovo Selo. Si tratta d'una forza armata vera e propria: non dipende dal
ministero degli Interni, ma dalla Difesa, anche se le 9 brigate (5 operative e 4 di riserva, totale 26
mila uomini, «ossatura della Guardia nazionale», come la definisce il ministro Martin Spegelj),
discendono dalle unità speciali del ministero degli Interni, o Mup.
Nell'estate 1990, la polizia o ex milicija conta 15 mila uomini in servizio attivo e 23 mila di
riserva. Le armi a disposizione dei croati sono leggere, ma la polizia ha elicotteri, blindati e una
cinquantina di carri armati T-55 della Difesa territoriale. Fra le unità scelte, spiccano quelle
antiterrorismo (i «berretti blu») e quelle per la lotta fluviale, nel Danubio che è frontiera tra Serbia e
Croazia. Nella Guardia dovrebbero confluire le milizie di partito, anche se gli Hos di Paraga
conserveranno a lungo la loro autonomia e questo comporterà, come vedremo, il rischio di guerra
civile nella stessa Croazia dopo la caduta di Vukovar.
Difficoltà attraversano, nei rapporti con i paramilitari, anche gli ufficiali dell'Armata federale. La
battaglia di Vukovar finisce il 18 novembre 1991, dopo che il generale Života Panic, numero due
dell'Armata e futuro capo di stato maggiore federale, deciderà di ridurre alla disciplina, a un'unica
catena di comando, brigate federali, formazioni di riservisti e commando cetnici. I serbi della
Krajina, dal canto loro, usufruiscono sin dall'inizio dell'appoggio militare e logistico della Jna. Sono
strutturati a più livelli, dalla milizia di villaggio composta dagli abitanti ai quali vengono distribuite
armi (vecchi fucili, pistole e kalashnikov), che agiscono in un raggio di pochi chilometri e non più di
30, fino ai martičevci organizzati nei momenti migliori in battaglioni dotati d'armi pesanti e di
elicotteri.
Tammy Arbuckle (Sema, op. cit.) indica in Karlovac, Sisak, Pakrac e Osijek i punti cardinali sui
quali l'Armata scatena l'offensiva nella prima fase della guerra, lungo le strade principali. Il lavoro
sporco spetta ai paramilitari che prima terrorizzano, poi «ripuliscono» i villaggi croati. Ma la
differenza vera, nel conflitto, la fa l'Armata con i tank, l'artiglieria e, nel prosieguo della guerra, i
raid aerei. I tre salienti decisivi del fronte sono la zona di Vukovar a nordest (il triangolo Vukovar-
Osijek-Vinkovci), il fiume Sava al centro (parallelamente all'autostrada Zagabria-Belgrado, con
sviluppo verticale lungo la direttrice Pakrac-Lipik-Novska), il settore adriatico (direttrici di Zara e
Spalato) e l'estensione, caso a parte, delle operazioni a Dubrovnik.
Un libello tradotto in italiano dall'università di Zagabria, intitolato La Croazia tra la guerra e
l'indipendenza, elenca cinque fasi della «escalation politica e militare del conflitto». La prima si
apre con l'insediamento del parlamento croato, dopo le elezioni del maggio 1990. La rivolta dei serbi
si esprime come non-collaborazione di sei comuni che coprono l'8,84 per cento del territorio
repubblicano ai confini tra Lika e Dalmazia, dove la popolazione serba costituisce la maggioranza
assoluta (dal 57,4 al 97,4 per cento). E' la fase che corrisponde, agosto 1990, alla secessione della
Krajina, al saccheggio dei depositi della difesa territoriale croata, al passaggio di poteri alla milizia
di Martic, e al referendum per la permanenza della Krajina nella Jugoslavia, al fianco della
madrepatria serba. Nella seconda fase, la rivolta si propaga a cinque comuni di Kordun, Banija e
Posavina con percentuali di serbi tra il 60,5 e il 90,6, corrispondenti al 3,71 per cento del territorio.
Nascono adesso le province autonome e la prospettiva è dichiaratamente l'annessione alla Serbia.
Comincia l'esodo dei profughi croati, che costituiscono il 21,6 per cento della popolazione in queste
aree. Terza fase: interviene l'Armata con la scusa di separare i belligeranti, ma di fatto per assicurare
le conquiste territoriali serbe. Il conflitto si estende a zone dove i croati sono maggioranza relativa o
assoluta. Nella quarta fase, la Jna è ormai un'armata serbomontenegrina, distillata dalle diserzioni e
dall'evoluzione del conflitto, e lotta contro il regime «fascista» di Zagabria. Quinta fase: la Slavonia
si unisce alla Krajina nella Sao Krajina-Slavonia, portando nella nuova entità quattro comuni in cui i
serbi sono appena il 22,6 per cento. La Croazia denuncia l'imperialismo di Belgrado. Non è più una
guerra etnica neanche in apparenza, ma guerra d'espansione interstatale qual è stata, sostengono i
croati, sin dall'inizio.
All'interno della Jna, l'originaria distinzione tra jugoslavisti e granserbi si riduce sempre di più a
favore dei secondi. La suddivisione ricalca spesso i gradi. I generali sono per lo più jugoslavisti,
alcuni anche di etnia mista come Kadijevic (serbocroato). I colonnelli, destinati nel corso della
guerra a esser promossi «sul campo» generali, già si mostrano più sensibili alle sirene del
nazionalismo serbo. Un esempio per tutti: il colonnello Ratko Mladic, comandante a Knin, poi
comandante in capo delle forze serbobosniache. Certo, la Croazia si presenta all'appuntamento con
l'indipendenza, e inevitabilmente con la guerra, in condizioni di assoluta inferiorità. Bebler, forse il
più attento analista delle forze in campo, osserva che in Jugoslavia i serbi e i montenegrini
rappresentano poco più del 40 per cento della popolazione, ma forniscono il 70 per cento dei
generali, l'81 per cento dei colonnelli e il 77 per cento dei tenenti-colonnello.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, la Jna è il terzo esercito europeo. L'ingresso dei carri
armati sovietici a Praga il 21 agosto 1968 fa riflettere Tito e impone una ristrutturazione e il
potenziamento delle Difese territoriali (dalle quali sorgeranno gli eserciti nazionali delle repubbliche
secessioniste). Intanto, però, crollano le spese militari e diminuisce progressivamente il numero dei
coscritti: 150 mila previsti per il 1992. Nel giugno 1991 sono 170 mila, e mezzo milione i riservisti.
L'esercito è composto da 130 mila militari, per due terzi di leva: divisioni di fanteria, brigate
corazzate, alpini, una brigata aviotrasportata, una di fanteria da sbarco, più reggimenti d'artiglieria da
campagna, anticarro, antiaerea e missili Sam (Sa6). I carri armati nuovi sono 300, quelli vecchi un
migliaio, duemila gli obici. Gli avieri sono 33 mila, 300 i velivoli: dodici gli squadroni di
cacciabombardieri, compresi Jastreb, Super Galeb e Orao, 112 i Mig21 e una ventina di sofisticati
Mig29. I marinai sono diecimila, anche su fregate e sottomarini (la flotta servirà a bloccare i porti
quando i croati, a metà settembre, bloccheranno le caserme). La gamma dei tank va dalla serie M di
fabbricazione jugoslava (M54, M55 e M84) fino agli originali sovietici. Il più sofisticato è il T72. A
Mostar si produce il cacciabombardiere Super Galeb.
Ecco, invece, come descrive la situazione della Guardia nazionale croata alla fine di agosto 1991
il ministro Luka Bebic, successore di Spegelj: «Ci sono 250 aerei pronti ad attaccarci, ma anche i
nostri ragazzi sono pronti. Non abbiamo armi, siamo costretti a importarle a condizioni sfavorevoli.
L'Europa non ci aiuta, perciò dovremo fabbricarcele da noi. Abbiamo cominciato la produzione in
serie di mortai, bombe a mano, mine, granate. Siamo deboli nella contraerea: qualche uccellaccio
riusciremo a buttarlo giù, ma pochi. Se ci sarà un'offensiva aerea su larga scala, le vittime tra i civili
e i danni materiali saranno di proporzioni enormi. Contro le unità corazzate, invece, siamo più o
meno in grado di confrontarci. Il guaio è in pianura, dove i carri armati si muovono facilmente: ci
dovremo affidare ai nostri ottimi reparti di genieri». L'arma fondamentale dei croati è l'Rpg
Armbrust, di fabbricazione germanica, che farà miracoli a Vukovar. Qualche carro armato sarà
sottratto alle caserme, e un Mig atterrato a Zagabria grazie a un pilota disertore scatenerà il panico
tra la popolazione nei primi voli d'esercitazione sulla capitale.
Accanto all'aspetto militare, questa guerra presenta una speciale ferocia: gli obiettivi sono prima
civili che militari, vengono usate bombe a frammentazione, mine antiuomo in sovrappiù, i profughi
come scudi umani, batterie antiaeree ad alzo zero, il coltello nella macelleria della bonifica etnica, lo
stupro etnico (fattispecie nuova di reato nel diritto internazionale) come strumento di terrore, e la
sistematica violazione delle convenzioni di Ginevra. «E' una guerra in cui non si fanno prigionieri»
dicono sottovoce nella sede della Croce rossa internazionale a Ginevra. Semmai, ostaggi civili. A
volte, interi villaggi. Anche i simboli generano orrore, come il taglio delle dita da parte di serbi e
croati per lasciarne tre o due a seconda che si voglia far salutare la vittima alla serba o alla croata, al
modo ortodosso o a quello cattolico. Uomini crocefissi, occhi strappati dalle orbite, inseminazione
etnica delle donne, rapimenti e separazione delle famiglie sono quasi la norma. A Sarvas sono i
croati a liquidare i serbi nella notte. Alle falde del monte Papuk, sono i serbi ad accerchiare e
massacrare i contadini croati nel villaggio di četekovac. Al primo massacro (Dalj) ne seguiranno
innumerevoli, dalla Slavonia alla Dalmazia.
Ci si può chiedere se poteva andare diversamente. Domandarselo è legittimo, specie se si
considera il confronto che ha opposto all'inizio il ministro della Difesa, Spegelj, a Tudjman.
L'embargo sulle armi risale alla primavera 1991. In precedenza, però, Spegelj ha rastrellato
kalashnikov a basso prezzo (280 marchi, rispetto ai 700 che è il prezzo corrente durante la guerra)
nell'Ungheria governata dai conservatori. In un solo viaggio a Budapest, il 5 ottobre 1990, ha speso
11 milioni di marchi, e alla fine dell'anno pensa di poter sfidare militarmente gl'insorti della Krajina
e tamponare la prevedibile reazione della Serbia. Nel gennaio 1991, però, si trova al centro d'uno
scandalo spionistico. Aleksandar Vasilijevic, capo del Kos (controspionaggio militare federale), ha
ingaggiato un ufficiale di Virovitica amico d'infanzia di Spegelj, tale Vladimir Jagar, per carpire
piani e confidenze del ministro croato. Jagar produce ore e ore di registrazione relative per lo più
all'intensa attività di acquisto «illegale» di armi all'estero per la Guardia nazionale. In gennaio va in
onda alla tv di Belgrado un videotape nel quale si vede Spegelj di spalle, che teorizza l'uccisione di
ufficiali dell'Armata e il rapimento delle mogli. Un giudice federale ne chiede l'arresto. La vicenda è
parallela a quella che ha coinvolto Janez JanSa a Lubiana, difeso a oltranza dal governo sloveno. Il
governo croato si limita a offrire a Spegelj un rifugio sicuro. Nei giorni della guerricciola slovena,
Spegelj dichiara che bisogna imitare Lubiana prima che l'Armata possa riorganizzarsi. In una
drammatica riunione di gabinetto a Zagabria, davanti a Tudjman, spiega che in Croazia ci sono non
più di 27 mila soldati federali, per lo più reclute, contro 60 mila croati in armi, suggerisce di
assediare le caserme, ed essendo queste scollegate le une dalle altre e da Belgrado, giura che
cadranno come pere mature.
Messa alle strette, la Jna non sarebbe pronta a dar corpo alle sue minacce. «La mia idea»
spiegherà Spegelj in un'intervista «era quella di mettere la Jna contro il muro e dirle: "Se vuoi tenerti
le nostre armi, sarà guerra adesso, subito". Se avessimo disarmato la Jna allora, avremmo guadagnato
tremila pezzi d'artiglieria, mille carri armati, munizioni per due anni di guerra, e 700 mila armi
leggere. Con questo riequilibrio militare, probabilmente non ci sarebbe stata la guerra.» Spegelj ha
un passato di partigiano e comunista, di alto ufficiale nell'Armata come capo del V distretto militare
che comprende la Slovenia e il grosso della Croazia. Ma si è scagliato contro l'Armata all'epoca
della «rapina» delle armi alla Difesa territoriale. Suo nemico è SuSak, figlio della diaspora croata
erzegovese, che non lo sopporta perché ex comunista. SuSak è un ultras, uno dei capi di quella «tribù
di 150 mila erzegovesi», per dirla con Rumiz (op. cit.) che alla fine sposa la linea attendista di
Tudjman. «La proposta di Spegelj è pericolosissima» dice il presidente croato «è un'avventura dalle
conseguenze inimmaginabili. Che cosa significherebbe? La fine del dialogo politico. E chi si può
prendere la responsabilità di interrompere il negoziato? Io, poi, sono convinto che Kadijevic non
attaccherà la Croazia.» Quindi, rivolto a Spegelj: «Ti rendi conto che se seguiamo il tuo piano le
nostre città saranno distrutte e avremo 30 mila o 130 mila morti, e non tremila come pensi tu? Con
tutti i tuoi piani dal dicembre 1990 a oggi, ci avresti portato alla catastrofe e al completo isolamento
internazionale. Pare quasi che tu voglia questo!». Spegelj è costretto a lasciare il paese (Tanner, op.
cit.). Tornerà in veste di consigliere militare. E resterà sempre convinto che se Tudjman avesse dato
ascolto ai suoi suggerimenti, la Croazia si sarebbe risparmiata una guerra impari e sanguinosa.

Missili su Zagabria Nella prima metà dell'agosto 1991 è guerra vera, con i serbi all'attacco non
solo in Slavonia, non solo a Pakrac, Lipik e nella Banija, ma anche lungo l'autostrada che collega
Zagabria a Belgrado.
L'autostrada Bratstvo i Jedinstvo (della fratellanza e dell'unità) doveva essere il simbolo
dell'unione che fa la forza, nella federazione titoista. Invece, prima è stata l'epicentro di dispute
finanziarie tra la Serbia e la Croazia su chi dovesse (e quanto) spendere di più per completarla. Poi,
allo scoppio della guerra, è diventata campo di battaglia: simbolo di disgregazione, dissoluzione,
impossibilità di dialogo. Il contrario della fratellanza e dell'unità.
I serbi convergono da sud, dalla Bosnia Erzegovina, marciando sui ponti della Sava su ordine del
comandante dell'Armata in Bosnia, Nikola UŽelac, poi dalle zone già conquistate della Slavonia
orientale, infine da nord, dal monte Papuk, dove le milizie cetniche consumano i loro massacri al
riparo dei sudari di nebbia che scorrono sui costoni boscosi, con la scena all'alba di fattorie in
cenere che fumano e nel fumo che si dirada prendono forma i contadini, per lo più anziani, ammazzati
sulla soglia di casa o nella stalla, accanto agli animali sgozzati anche loro. Alla fine di luglio 1991, i
croati si devono ritirare da Kostajnica, nella Banija. Negli stessi giorni si consuma il primo
massacro di massa a Dalj, sulla sponda del Danubio: decine di gardisti sono asserragliati nella
stazione di polizia, l'esercito attacca, i paramilitari in avanscoperta. Vengono trucidati i poliziotti, e
uccisi senza pietà i civili. Rimarrà un immenso punto interrogativo sul numero effettivo delle vittime.
Nessun dubbio, invece, che l'esercito jugoslavo si sia macchiato, a Dalj, di crimini di guerra. La
televisione di Novi Sad, in Serbia, annuncia: «Dalj è stata ripulita». La pulizia etnica non è più un
progetto, è una realtà. Sono caduti i freni inibitori. La guerra si rivela la vecchia storia di conquista
di terra e di bonifica del territorio che è quasi sempre stata nei Balcani. Comincia anche la fuga, il
flusso di profughi che fanno la loro apparizione nella ex Jugoslavia: lunghe teorie di trattori con i
bimbi sul predellino, anziani a cassetta, qualche bestia al seguito, le vettovaglie nelle buste di
plastica, le donne con i capelli appiccicosi e negli occhi il terrore o l'umiliazione dello stupro. Gli
uomini sono rimasti a combattere, si son dati alla macchia o si sono arruolati nella Guardia
repubblicana. Molti vecchi decidono di rimanere nelle loro case ad accudire le mucche e presidiare
il focolare. Proprio non ce la fanno a staccarsi dal loro ambiente, che significa ricordi e guadagni
d'una vita. In una parola: le radici. Ma un vecchio dell'etnia sbagliata che resta al suo posto può esser
più insidioso, in una guerra basata concettualmente sulla bonifica etnica, di un giovane che se ne va
imbracciando il fucile. Mesic, che da presidente jugoslavo è il comandante supremo dell'Armata,
lancia invano le sue accuse ai fautori della Grande Serbia: «I comandi locali dell'Armata forniscono
armi, viveri e munizioni ai ribelli, l'esercito deve rientrare nelle caserme». Di contro, MiloSevic
argomenta: «Se i croati vogliono formare un loro stato nazionale, noi non abbiamo ragione di
opporci.
Ma se vogliono andarsene dalla Jugoslavia, non possono portarsi dietro parte del popolo serbo,
che ha gli stessi diritti all'autodeterminazione».
Inconciliabili anche le posizioni dei militari. Kadijevic lamenta la penuria di reclute perché i
croati «rifiutano di arruolarsi nell'esercito, e bosniaci e macedoni vogliono fare la leva solo in
Bosnia e Macedonia». Ivan Bobetko, comandante croato nella Banija, aspetta l'offensiva federale
contro Petrinja: «Ci difenderemo con tutto ciò che abbiamo». I croati della diaspora rastrellano armi
sul mercato internazionale. In Florida finisce in carcere un gruppo di militanti nel movimento Otpor,
Resistenza: in ballo una commessa da 16 miliardi di lire in carabine, razzi anticarro, Stinger e visori
per il combattimento notturno. Altri canali: Canada, Svizzera, Italia, Ungheria, Germania, Austria e la
Slovenia, che vende a Zagabria le armi che non le servono più.
Il 3 agosto 1991, finalmente la trojka europea pensa che sia giunto il momento d'agire, e vola a
Belgrado per due giorni di frustranti colloqui di pace. L'infaticabile mediatore macedone, Vasil
Tupurkovski, riesce a strappare il sì alla tregua non solo ai ribelli della Sao Krajina, che la loro
guerra l'hanno già conclusa, ma anche a quelli della Sao Slavonia. Ma all'alba del 7 agosto, l'entrata
in vigore del cessate il fuoco è salutata dalle cannonate dei serbi a Saborsko, sudovest di Zagabria.
Sarà solo l'inizio d'una serie interminabile di tregue violate. MiloSevic tesse con gli europei una tela
di Penelope, sfruttando abilmente gli interessi contraddittori dei singoli paesi e usando lo spettro di
nazionalisti se possibile ancora più feroci di lui che fanno capolino alle sue spalle.
Marionette del suo gioco, ma gli europei non capiscono.
A Ferragosto, i 30 chilometri d'autostrada fra Novska e Nova GradiSka cadono in mano ai ribelli.
La morsa serba si chiude a Okučani, 130 chilometri da Zagabria e 260 da Belgrado. Una banda
paramilitare comincia a sparare sui camion che ancora transitano in quella che è una vitale arteria di
comunicazione continentale fra la Germania e la Turchia. Alle spalle dei cetnici giungono i tank
federali che sono gli angeli custodi (o vendicatori) della rivolta. A nord si va a Pakrac e a Lipik, a
sud invece a Stara GradiSka. I gardisti sono ammassati a Kutina e Novska, lungo l'autostrada, e
tentano spedizioni. Ma vengono respinti. Fanno saltare i ponticelli sul canale Struga. I genieri
federali li rimpiazzano gettando pontoni di ferro. A Nova GradiSka, sacchetti di sabbia vengono
distribuiti ai paesani da volontari su trattori agricoli che percorrono sbuffando il paese, mentre le
campane della chiesa suonano l'allarme. I profughi sono migliaia. Colonne di gardisti attraversano i
campi di mais: alcuni sono chiaramente imbottiti di anfetamine e cantano vecchi inni ustascia, si
esaltano per dimenticare che combattono con lanciarazzi da spalla, camion e autobus adattati con
lastre di metallo, contro un vero esercito, aerei, blindati e carri armati.
Obiettivo dei serbi: consolidare e render sicuro (bonificare) il corridoio tra le province autonome
della Krajina e della Slavonia centrale e orientale.
Il 19 agosto 1991 è la data convenzionale dell'inizio dell'attacco a Vukovar. A Mosca si consuma il
dramma del golpe contro Gorbaciov.
«Finalmente» dichiara Mesic «il mondo potrà occuparsi della Jugoslavia.» Invece di temere che il
cattivo esempio jugoslavo conduca alla disintegrazione dell'Urss, l'Occidente potrà ammettere
adesso che la disgregazione jugoslava e quella sovietica non viaggiano sullo stesso binario, e che
perciò non ha senso negare il riconoscimento di Slovenia e Croazia. Il 24 agosto, il ministro degli
Esteri tedesco, Hans Dietrich Genscher, annuncia che se Belgrado non metterà fine alle ostilità, Bonn
prenderà «seriamente in esame» l'eventualità di un riconoscimento unilaterale di Slovenia e Croazia.
Il messaggio è diretto a MiloSevic, ma ancora di più a Londra, Washington, Parigi e Roma. Mentre
in Serbia prosegue il negoziato e si sfornano tregue firmate, controfirmate e tradite sul campo, le
granate serbe continuano a piovere su Osijek. Arkan lancia persino un ultimatum al sindaco
Kramarič, e i vertici della Jna mettono in guardia Macedonia e Bosnia perché non cerchino d'imitare
le repubbliche nordiche. La battaglia intanto infuria a Pakrac e a Lipik, dove gli italiani costituiscono
una minoranza del 3,1 per cento. A PloStine, sono 300 le famiglie italiane, tutte di origine bellunese:
cittadini croati che però si sentono, in cuor loro, italiani, e conservano la lingua e la cultura degli avi
che si trasferirono nella Slavonia centrale ai tempi dell'imperatrice Maria Teresa, nel Settecento, e
poi ai primi del Novecento. Bepi Stragà, ex camionista classe 1960, passaporto croato e sangue
bellunese, s'è messo a capo di 120 uomini multinazionali, venti sono gli italiani e Bepi ha comprato
per loro altrettanti berretti verdi: «Così li riconosco». PloStine è occupata. Gli italiani si battono tra
le foreste del monte Psunj. Tra i villaggi, uno si chiama Campo del Capitano, così, in italiano. A
Pakrac, i serbi salutano con allegre sventagliate di mitra l'annuncio del golpe a Mosca. A Belgrado
sperano nella istituzione d'un comitato militare in Urss. Kadijevic ha un filo diretto con i generali
golpisti: Gorbaciov è il simbolo del centralismo sovietico, ma è anche l'uomo che firmando il trattato
sull'Unione avrebbe incoraggiato l'autonomismo baltico. E la sconfitta dei golpisti è una sconfitta
anche per la dirigenza di Belgrado, più isolata dopo la liquefazione sovietica. C'è chi attribuisce allo
stato confusionale dei dirigenti serbi, dopo il fallimento del putsch russo, l'irrazionalità e la ferocia
dell'assedio di Vukovar.
Verso la fine di agosto si fa preoccupante anche la situazione in Dalmazia. chiara l'intenzione
dell'Armata d'aprire un nuovo fronte.
Martic dichiara guerra a Zara perché «la Serbia ha bisogno d'uno sbocco al mare». Il 26 agosto,
l'intensità delle operazioni induce il Consiglio supremo di Zagabria a dare poteri di guerra a
Tudjman.
Colonne di carri armati puntano su Zara, Dubrovnik e Spalato.
«L'Italia» pomposamente proclama il ministro De Michelis «non resterà con le mani in mano a
contemplare l'esplosione della guerra civile in Jugoslavia.» Secondo le stime ufficiali della Croazia,
i morti sono in questo momento 256, escluse le vittime di Dalj e quelle di Kijevo, appena caduta. Il
30 agosto, il Presidium federale proclama un nuovo armistizio. I Dodici ammoniscono Belgrado e
preparano la Conferenza internazionale di pace sull'ex Jugoslavia da tenersi a inizio settembre.
Tudjman vola a Parigi, da Mitterrand. Le vittime ufficiali superano quota 300. Washington denuncia
la complicità tra miliziani serbi e Jna, e invoca il «cessate il fuoco immediato». Al piano di pace
europeo manca solo il «sì» di MiloSevic. La Serbia attribuisce la responsabilità degli scontri al
«regime fascista» di Zagabria, ma non vuole gli osservatori internazionali in loco.
Tudjman minaccia la mobilitazione generale e la proclamazione dello stato di guerra. Il 31,
MiloSevic accetta l'arbitrato europeo e gli osservatori. Bluffa: il primo settembre, giorno in cui si
scoprono le carte, l'Armata in Croazia organizza per i giornalisti una gita al fronte, destinazione
Petrinja. Ed è, guarda caso, il giorno in cui la cittadina della Banija è sottoposta al bombardamento
più pesante dall'inizio della guerra. «La guerra vera» come scriverà Arturo Pérez-Reverte nel
racconto-verità Territorio Comanche, che proprio da Petrinja prende le mosse. da poco passato
mezzogiorno. La popolazione ha fiducia nella tregua, per questo i ragazzi sorseggiano bibite nei bar
all'aperto e le donne fanno la spesa. Poi, l'attacco. Le caserme federali di Petrinja sono due, una un
po' fuori, l'altra in pieno centro. I giornalisti ospiti dell'Armata si trovano nella caserma esterna,
esposti alla reazione croata. Altri non hanno trovato posto sul pullman, oppure hanno preferito
viaggiare per conto proprio, e sono ora intrappolati nella cittadina, dentro i rifugi. I serbi usano
mortai e lanciarazzi. Segue, due ore dopo, il passaggio intimidatorio dei Mig. Nel pomeriggio escono
i carri armati, spazzano le ultime barricate dei gardisti. Petrinja cade. Sisak è la nuova linea di
resistenza, a poche decine di chilometri a sud di Zagabria. Tra il 24 e 25 agosto, l'Armata e le milizie
cetniche hanno letteralmente «occupato», senza colpo ferire, la Baranja, l'antica Pannonia dei romani
a nordest di Osijek. I serbi, qui, sono il 25 per cento, i croati il 44, e c'è una forte minoranza
ungherese pacifica e intimorita, come nella confinante Vojvodina.
Anche la Baranja fa parte adesso della Grande Serbia. Soltanto la Ce non si scoraggia. Il 7
settembre, all'Aja, apre i battenti la Conferenza di pace. Il giorno prima l'ambasciatore olandese,
Henri Windjaendts, ha dichiarato a Osijek: «Questo non sembra proprio un cessate il fuoco. Sono
sbalordito». L'Europa vegeta ancora nella fase della «diplomazia dello stupore». Gli Stati Uniti
pensano a Mosca e al Golfo, non si lasciano distrarre dai Balcani. Tudjman persegue ancora la linea
della moderazione e dell'internazionalizzazione del conflitto.
L'Europa temporeggia, l'America si disinteressa, l'Armata avanza, la Croazia prega. Il 14
settembre, Tudjman rompe gli indugi e sfida le ire penose della comunità mondiale ordinando
l'assedio alle caserme federali nel territorio repubblicano ancora in mano croata.
Uno dei paradossi della guerra è che la Jna usa contro la Croazia armi pagate per lo più da croati e
sloveni. Un altro è che nel pieno dell'offensiva federale, i militari di stanza nelle caserme croate
continuano a vivere una vita normale, riforniti e nutriti. Adesso, però, Zagabria dice basta e tenta la
carta estrema, la mossa disperata e consapevolmente rischiosa che Spegelj ha teorizzato all'inizio. I
croati staccano la luce, tolgono l'acqua, impediscono i rifornimenti alimentari a partire dalle caserme
di Zagabria. In un caso, danno in pasto ai soldati affamati scatolette per cani. A
Gospic, centro strategico della Lika a lungo conteso perché oltre il massiccio del Velebit è l'ultimo
ostacolo alla trionfale avanzata serba verso la costa, in direzione Karlobag (Carlopago), la Guardia
attacca ed espugna la caserma della Jna. La prima vittoria croata dà fiato a chi voleva un contrattacco
più tempestivo. Un mese dopo, nella notte tra il 16 e il 17 ottobre, viene compiuto a Gospic un
massacro, una spedizione di polizia che finisce con il rapimento dei 150 serbi locali più in vista: 64
verranno uccisi o risulteranno dispersi. Le indagini porteranno a estremisti dell'Hdz, dalle fosse
comuni verranno riesumati 40 corpi. La procura di Fiume, il 7 febbraio 2001, emetterà un mandato di
cattura contro il generale Mirko Norac, 33 anni, al tempo comandante della zona di Gospic, accusato
di aver ordinato, e in alcuni casi personalmente eseguito, la strage di civili serbi. Il generale fuggirà,
forse in Erzegovina, ma l'11 febbraio scenderanno in piazza a Spalato decine di migliaia di persone
per difendere quello che chiamano «un patriota». A Pola si ritroveranno solo in 500. A Zagabria, il
15 febbraio, tra i 5 e i 10 mila. Norac si costituirà il 21 febbraio, dopo che il premier croato, Ivica
Račan, gli avrà garantito il processo in Croazia e non all'Aja.
Il 17 settembre 1991, la guarnigione federale di Osijek si ritira verso sudest, per partecipare poi
attivamente al bombardamento e all'assedio di Vukovar. Lo stesso fa il contingente di Vinkovci. A
Jastrebarsko, vicino a Zagabria, il comandante della caserma, Radovan Tasic, negozia l'abbandono
della posizione con 600 uomini, 160 carri armati e decine di blindati, missili terra-aria, anticarro e
batterie antiaeree, e punta verso la Bosnia (un déjà vu in salsa slovena, quando i federali lasciarono
la Repubblica secessionista di Lubiana per ridispiegarsi in Croazia). Il comandante di VaraŽdin,
Vlado Trifunovic, è costretto ad arrendersi con i suoi duecento uomini, e a lasciare ai croati armi,
tank e blindati. A Belgrado sarà processato e condannato a quindici anni di galera. Scarcerato e
riabilitato nel 1996, confiderà alla rivista Vreme che gli è stato rimproverato di non conoscere la
storia serba, altrimenti sarebbe morto («La Serbia, caro Trifunovic, ha bisogno d'eroi morti di cui
essere orgogliosa»). A Bjelovar, il comandante fa una sortita in armi e scatena un'inutile battaglia,
molto spettacolare e pirotecnica, che dura dodici ore. L'intera operazione costa alla Croazia la
condanna dell'Europa, che accusa Tudjman d'aver provocato «un'escalation del conflitto», e una
maggiore determinazione di Belgrado nel chiudere i giochi.
Il 19 settembre, due colonne corazzate d'una decina di chilometri puntano su Vukovar, forti di
centinaia di carri armati T55 e M84, mentre all'inizio di ottobre viene inaugurata la campagna di
Dubrovnik, con attacchi dal territorio montenegrino. Mesic scrive appelli per la salvezza della
«Perla dell'Adriatico» al segretario generale dell'Onu, Javier Pérez de Cuéllar, a George Bush e a re
e regine di mezza Europa. Il 20 ottobre, la maggioranza filoserba nel Presidium federale destituisce
Mesic in absentia. L'ultimo presidente della Jugoslavia non s'è potuto muovere da Zagabria per i
troppi raid aerei e le intense operazioni attorno a Vukovar. Belgrado considera l'assenza
ingiustificata. L'altro pedaggio pagato dai croati pur di liberarsi delle caserme «nemiche» e
recuperare un po' d'armi è la decisione della Jna di utilizzare l'aviazione che finora ha avuto un ruolo
marginale. Da adesso in poi, i raid saranno all'ordine del giorno. I Mig parteciperanno alle battaglie,
i bombardieri scaricheranno le bombe-maiale su ponti, case, commissariati, ospedali. La guerra,
sulle ali dei Mig, arriva a Zagabria. Prima con voli bassi intimidatori, durante la «crisi delle
caserme». Poi, con attacchi diretti. Il 6 ottobre viene colpito il ripetitore tv sulla collina Sljeme. La
prima vittima in città la fa il successivo raid sull'aeroporto turistico di Lutsko. La sera è battaglia
attorno alla caserma di Samobor, accerchiata dai croati. L'aviazione interviene con bombe-maiale,
terribili e imprecise, che cadono sul paese di Bestovje, a sette chilometri di distanza. Sandra
Molnar, ventiquattrenne incinta riparata in casa della zia da Vukovar, non fa in tempo a raggiungere il
rifugio antiaereo e muoiono in due, lei e la vita che porta in grembo. In via Vukovar. Le coincidenze
parlano un linguaggio speciale. Come quella del 4 maggio 1992, quando una bomba a LjubuSki, in
Erzegovina, ucciderà un bimbo di nove mesi e la sorella di undici anni, Filip e Ivana. In via
dell'Armata.
All'alba del 7 ottobre 1991, si arrende la caserma di Samobor. la vigilia della scadenza della
moratoria di Brioni concordata il 7 luglio dalla trojka Ce, e della definitiva proclamazione
dell'indipendenza e sovranità croata. Ma alle 15,04, un Mig spara sul Palazzo presidenziale di
Zagabria rovinando il pranzo ai commensali: Tudjman, Mesic e Markovic. Un missile devasta il
cortile-giardino interno, un altro scoperchia il tetto secentesco, il terzo finisce sulla città alta, Gornji
Grad, e sfregia sei case barocche. Sette i feriti. Nuovo raid subito dopo, sulla collina di TuSkanac
dove si trova la residenza privata di Tudjman. Che viene mancata. Centrate le ville vicine. I serbi
negano ogni responsabilità. Kadijevic parla di «messinscena o della iniziativa d'un singolo». Il
generale Andrija RaSeta, comandante del V distretto militare, insinua con il colonnello croato Imra
Agotic: «Mi sa che i razzi ve li siete lanciati da soli».
Il 12 ottobre, a Belgrado, l'ambasciatore Zimmermann incontra Markovic e lo trova depresso. Il
premier d'una Jugoslavia che non esiste più ha perso la battaglia per le dimissioni di Kadijevic e
AdŽic, e tenta ora inutilmente di ritagliarsi un ruolo alla Conferenza dell'Aja. Dialogo surreale. «Mi
disse» racconta Zimmermann «che soltanto lui avrebbe potuto negoziare un accordo all'Aja, e che
aveva un piano per tenere gli sloveni in Jugoslavia. Era convinto che il razzo della Jna era stato
lanciato sul palazzo presidenziale contro di lui, non contro Tudjman.» L'ossessione a favore di
Markovic è stata una delle cause (o forse l'effetto) dell'incapacità occidentale di capire chi e cosa
fosse utile coltivare nella crisi jugoslava. Racconta, Zimmermann, che in un colloquio con Tudjman
quest'ultimo gli ha detto di conoscere il nome del pilota autore del raid. «La stampa serba era giunta
a una conclusione affatto diversa» scrive l'ambasciatore «cioè che Tudjman avesse ordinato di
bombardare il palazzo per poter poi incolpare i serbi e l'Armata. Io avevo le mie ragioni per ritenere
che l'accusa fosse falsa.» Ragioni psicologiche. «Tudjman mi aveva mostrato più volte il suo
palazzo. Mi aveva detto d'avere scelto di persona ogni pezzo d'arredamento, ogni tenda, ogni quadro.
Per lui il palazzo era il simbolo della grandezza del suo ruolo, era la sua Versailles. Era assurdo
pensare che avesse voluto danneggiare la sua adorata creatura» (Zimmermann, op. cit.).
L'8 ottobre 1991, il Sabor riunito in una località segreta a scanso d'imprevisti «balistici», certifica
il distacco formale della Croazia dalla Jugoslavia. La moratoria di tre mesi è scaduta, il presidente
del Parlamento recita: «Il Sabor ha deciso che la Repubblica croata è stato indipendente e sovrano, e
rompe tutti i legami statali e giuridici con la Repubblica socialista jugoslava. L'assetto giuridico
della federazione da oggi non è più in vigore su tutto il territorio della Croazia». Meglio avrebbe
detto: «Su tutto il territorio che ci è rimasto». C'è poco da festeggiare. I Mig incombono, la città è
buia per il coprifuoco. RaSeta e Agotic concordano dopo molte ore l'ottava tregua, nessuno però ci
crede davvero. Il dinaro jugoslavo va fuori corso, subentra il dinaro croato che, dopo qualche anno,
iperinflazionato, sarà sostituito dalla kuna. Intanto la guerra continua.
C'è l'indipendenza, manca la sovranità.

Vukovar: assedio e mattanza La guerra è cominciata a Borovo Selo, e comincia a finire a pochi
chilometri dal «villaggio dei pini», a Vukovar. Chiunque l'abbia vista prima dell'assedio, non può
non essersi innamorato di Vukovar, provincia di 83.275 abitanti per il 43,9 per cento croati, il 37,2
serbi, e il 18,9 di nazionalità varie: ungheresi tedeschi, russini, anche italiani. A simboleggiarla,
l'antica colomba di Vučedol, reperto archeologico e involontario emblema di pace per quella che il
18 novembre 1991, dopo 91 giorni di assedio, «2184 ore in cui l'Europa è rimasta a guardare»,
passerà alla storia come la Guernica o Stalingrado croata, la nuova Cartagine: oltre 1700 morti
ufficiali da parte croata, forse il quadruplo quelli reali, uno spaventoso numero di vittime mai
precisato da parte degli attaccanti serbi.
Vukovar significa la prima città rasa al suolo in Europa dopo la Seconda guerra mondiale,
significa bombardamenti a tappeto su case, scuole e ospedali, e significa un gigantesco senso di
colpa negli aggressori che produrrà nei reduci un malanno specifico, la «sindrome di Vukovar».
A Vukovar, la Croazia subisce la più pesante sconfitta, la più orribile tragedia di tutta la guerra,
rischia addirittura la disfatta totale perché dopo la presa della città il generale Panic capisce che
l'esercito croato è liquefatto e basta proseguire la marcia verso Osijek e Zagabria per conquistare la
Croazia e «preservare la Jugoslavia». Ma è appunto allora, dopo la vittoria strappata a un prezzo
enorme (i profughi ricordano vividamente la teoria di busti carbonizzati dei soldati serbi saltati sulle
mine lungo strade e sentieri verso il centro cittadino), che si rivela il senso autentico, etnico, del
conflitto. MiloSevic impone al generale Panic, che obbedisce, di non avanzare. Di fermarsi. Di
accettare il fatto che l'obiettivo è raggiunto: impedire a Zagabria di trascinare con sé nel nuovo stato
sovrano e indipendente le aree della Slavonia abitate da serbi, fossero pure una minoranza. E dire
che la Jna aveva già messo piede alla periferia di Osijek. Lo testimonia Panic.
«Caduta Vukovar, la Croazia aveva perso la guerra, avremmo potuto marciare su Zagabria senza
problemi. Osijek era abbandonata, noi c'eravamo già dentro. Ci era stato ordinato di prendere Osijek
e Županja nel momento in cui fosse caduta Vukovar, e di marciare su Zagabria in due colonne, lungo i
fiumi Drava e Sava. E noi ce l'avremmo potuta fare in due giorni. Ma fu allora che ci fu ordinato di
ritirarci. Parlai con Jovic, e Kostic (il rappresentante montenegrino nel Presidium, ndr). Parlai anche
con il presidente MiloSevic. Fu una sua decisione, una decisione di MiloSevic, approvata dal
Presidium. Semplicemente, lui disse: «Non abbiamo nulla da fare, noi, nelle aree popolate da croati.
Noi dobbiamo difendere le aree serbe», questa fu la linea. Io gli dissi che se l'idea era quella di
difendere la Jugoslavia, avremmo dovuto avanzare, sarebbe stato facile. I croati erano fuggiti da
Vinkovci, Županja, e Osijek.» Niente da fare, l'ordine di Kadijevic, ministro della Difesa, fu quello
di fermarsi. «E noi obbedimmo.» La distruzione di Vukovar significa la distruzione della sua
borghesia abituata da secoli alla convivenza interetnica, la dispersione della cifra mitteleuropea
della sua mescolanza culturale.
A Vukovar è nato il primo Nobel jugoslavo, Leopold RuŽička. A
Vukovar il Partito socialista è stato ribattezzato «Partito comunista jugoslavo». Nei secoli,
Vukovar ha dimostrato d'essere una città ribelle, prima contro il latifondo, poi contro la
collettivizzazione forzata delle terre. Vukovar ha una sua fierezza, una sua vocazione alla resistenza,
una sua forza che si nutre della ricchezza pannonica delle sue messi e della florida confluenza di
energie inscritta nella specificità stessa della Vuka, unico affluente a entrare nel Danubio
controcorrente, come annota Rumiz (op. cit.). Ma soprattutto, Vukovar allo scoppio della guerra è
quel che si direbbe una città restia allo scontro, aliena alla conta delle percentuali etniche, immune
all'odio tra culture diverse. Nei sobborghi, gli immigrati dell'ultimo conflitto mondiale hanno sì
importato, con i ricordi familiari dei massacri da cui venivano, anche un buio ardore e desiderio di
rivalsa. Ma è piuttosto la posizione strategica della «fortezza del lupo» (da vuk, lupo, e var,
fortezza), porta della Slavonia, a segnare il destino della città, è quel suo trovarsi al centro d'un
reticolato di villaggi a maggioranza serba, abitati da operai e contadini facile preda della propaganda
che viene dalla Vojvodina, dall'altra sponda del Danubio. Sociologia e demografia spiegano fino a un
certo punto, ma non possono esaurire le cause della sventura che s'abbatte su Vukovar. Stiamo
parlando d'una città che s'affaccia al martirio nel pieno della sua serenità bucolica.
Presto gli Hos la chiameranno Pakao, «inferno». Adesso, versa nell'incoscienza della fiducia in se
stessa e della propria storia di tolleranza, e troppo tardi s'accorge della china degli eventi (come
succederà ai borghesi croati, serbi, musulmani e sefarditi di Sarajevo, e come sempre è successo alle
comunità innocenti), e che ne esce stuprata, cancellata, resa il morto simbolo della malvagità degli
uomini e della mortale cecità della Guerra in Sé, quasi invisibile agli occhi dei suoi stessi aguzzini,
se il comando della Jna ha il coraggio d'invitare tre giorni dopo la capitolazione, il 21 novembre
1991, i giornalisti di stanza a Belgrado a un tour organizzato tra cadaveri e macerie. «Tacevamo»
scrive Rumiz «perché sentivamo di avvicinarci a qualcosa di inconcepibile, che avevamo visto solo
nei manuali di storia. Capimmo prima ancora di vedere: e fu quando il vento d'autunno ci portò
quell'odore dolciastro. Allora ci affacciammo ai finestrini e dalle retrovie vedemmo, lontano, i
lugubri corvi della Slavonia formare una nuvola, quasi un vortice nero e soprannaturale, su
quell'unico punto della pianura.» Dal campo della morte esalava l'essenza dolciastra della
decomposizione.
Questo, da lontano. Una volta dentro, l'immagine illuminante è il dramma del soldato
diciannovenne Aleksandar che «trova in un sotterraneo un uomo inchiodato a un tavolo e una
bambina sgozzata, i cui occhi erano stati messi in un bicchiere: poi impazzisce». Marc Champion,
dell'Independent, vede trentatré cadaveri in un cortile, poi altri cinquanta allineati all'aperto sotto la
pioggia. «Sono serbi massacrati nelle strade» dice il colonnello Miodrag Starčevic.
Champion fissa le targhette di plastica che li identificano come pazienti morti nell'ospedale.
«Quando gli fu chiesto come facesse a sapere che erano serbi, il colonnello» ricorda Champion
«scrollò le spalle.» Ancora due testimonianze: una è quella di Fulvio Paolini, dirigente Ce, che il 20
ottobre entra a Vukovar accompagnando l'unico convoglio umanitario ammesso dai serbi nell'arco di
tre mesi: «Ho i capelli bianchi, ma quello che ho provato a Vukovar è un'emozione troppo forte. Non
potrò mai dimenticare quei ragazzi disperati che ci gridavano please, save Vukovar, e quei soldati,
quelle donne, quei bambini con le gambe maciullate, il petto squarciato, che non si lamentavano, oh
no, soffrivano in silenzio. E l'ospedale bombardato, mitragliato, senza finestre, senza scale, senza
plasma». Quando ormai gli appartamenti delle case in centro sono tutti ridotti in macerie, un piano
dopo l'altro, e i 15 mila che sono rimasti sono tappati nei rifugi, fino a 700 in una cantina, si deve per
forza cucinare nei cortili: un bambino corre per buttare nella pentola, sul fuoco, quel po' di fagioli
che è rimasto, un altro corre dopo qualche minuto per prenderli e portarli giù, in cantina. Lo fanno i
bambini, perché sono i più veloci e hanno maggiori probabilità di sopravvivere schivando le granate.
Portavoce degli assediati sono SiniSa GlavaSevic, giovane corrispondente della Radio croata che
Tomislav Vlahovic, medico pediatra dell'ospedale, ricorda mentre suona la chitarra in corsia, e
Vesna Bosanac, l'eroica direttrice del cosiddetto «ospedale cantinario» (per via che da quando è
diventato uno dei bersagli preferiti dagli artiglieri, s'è trasferito negli scantinati).
GlavaSevic, dopo il 18 novembre, verrà fatto prigioniero e ucciso; la Bosanac incarcerata e
rilasciata dopo un mese (e dopo pressanti appelli della Croce rossa internazionale). Vlahovic è
tornato a Zagabria e ricorda soprattutto i bambini massacrati dalle granate, la mano ferma d'una
collega chirurgo oculista che estrae le schegge dagli occhi dei feriti mentre al piano di sopra cadono
le bombe, e il flagello della cancrena infettiva nella quale si affonda con un dito come fosse neve.
Vlahovic è croato, ma due terzi dei medici durante l'assedio sono serbi. Interi rifugi sono occupati
da serbi bersagliati da bombe serbe, come i vicini e amici croati. Anche a Sarajevo, i serbi che
resteranno in città saranno vittime della guerra etnica che li vorrebbe «liberare».
Dopo il primo vero attacco, il 19 agosto 1991, il cerchio si stringe attorno a Vukovar il 14
settembre, quando i croati bloccano le caserme federali, con un assalto alla periferia sudovest che fa
almeno 80 morti fra i civili. Il 4 ottobre, oltre agli obici e ai mortai, cominciano a «parlare» i Mig.
Viene distrutto il reparto di chirurgia dell'ospedale e si chiude il passaggio stradale verso
Bogdanovci. Adesso, per entrare e uscire da Vukovar bisogna attraversare i campi di mais, i canali
d'irrigazione e di scolo, i boschi. La cittadinanza si organizza. In ogni rifugio sono presenti un medico
e un presidio militare. Viveri, acqua e medicine vengono razionati. Vukovar resiste grazie a circa 700
tra gardisti e poliziotti, e a più d'un migliaio di volontari, gente del posto ma anche miliziani del
Partito di Paraga arrivati da ogni parte della Croazia e dall'Erzegovina. Il comandante della Guardia,
e della piazza, è Mile Dedakovic detto Jastreb (Falco). Secondo Franco Maria Puddu («Dal fronte di
Vukovar», in Panorama Difesa, 1o gennaio 1992), i croati hanno preparato già dal 1990 bunker e
depositi, trasformando «innocue case di campagna» dotate ora di «cantine di cemento armato spesse
oltre un metro, e collegate con altri analoghi scantinati di costruzioni adiacenti tramite gallerie
blindate».
L'Armata, a Vukovar, mostra tutti i suoi limiti. Le forze sono numerose, ma i soldati spesso
arrivano da regioni lontane come la Macedonia e neanche sanno dove si trovano, vengono trasferiti
nel giro d'una notte e si ritrovano sul fronte più caldo a rischiare la vita in una guerra che non è la
loro guerra. Sono demotivati, depressi e frastornati, malamente inseriti in una catena di comando che
appare sfilacciata. Per di più, il tipo di combattimento scelto dai comandanti è quello da campo
aperto, mentre qui il conflitto si è frammentato nella guerriglia urbana nella quale i piccoli gruppi di
battaglia croati, armati di anticarro Armbrust da spalla, possono mettere in difficoltà anche i tank più
sofisticati. I soldati devono vedersela con le mine, un flagello. I serbi s'intestardiscono nell'assedio e
nell'assalto frontale, forse senza neppure considerare la possibilità di tirar dritto sull'autostrada
Belgrado-Zagabria e piegare a nord verso Osijek-Vinkovci, manovra che taglierebbe fuori Vukovar
dal resto della Slavonia. I federali impegnati sarebbero 20 mila, con 300 carri armati. Con il passare
dei giorni, la difesa si assottiglia, decimata dalle bombe. Inutilmente il colonnello Karlo GorinSek,
dalla Slavonia chiede rinforzi a Zagabria. Il ministro della Difesa, Anton TuS, spiegherà che la forza
d'urto risolutiva dei federali è di 800 tra tank e blindati, obici e lanciarazzi, e brigate del corpo della
Jna di Novi Sad e della Difesa territoriale serba per un totale di 30 mila uomini.
Quando l'ambasciatore Zimmermann gli esprimerà il dispiacere suo e degli Stati Uniti per la
caduta di Vukovar, TuS crollerà, starà per lunghi secondi con la testa sul tavolo, la fronte sulla mappa
della Croazia. Immagine dello sconforto, forse della paura.
La svolta nell'assedio risale a ottobre, quando AdŽic e Panic, preoccupati dalla lentezza e
inefficacia delle operazioni, piombano personalmente a Vukovar. Panic, in particolare, prende in
mano la situazione e mette fine al caos: restaura la disciplina, inquadra i paramilitari nel comando
federale, fa dare il cambio ai riservisti.
Il 3 novembre 1991, parte «l'operazione finale». Il giorno dopo, si contano 65 raid aerei. I croati
tentano un contrattacco lanciando una quindicina di granate oltre il Danubio, su Sid, in Vojvodina.
Una ritorsione che non fa feriti. Il ministro serbo della Difesa, Tomislav Simovic, ha la faccia tosta
d'appellarsi al Parlamento di Belgrado e alla comunità internazionale perché condanni «l'attacco
fascista». Nella prima metà di novembre succede un fatto strano. Il comandante Jastreb sfida la sorte,
esce da Vukovar e tiene a Vinkovci, a dodici chilometri dalla «fortezza del lupo», una clamorosa
conferenza stampa nella quale elogia pubblicamente gli Hos e accusa Tudjman di non voler difendere
la città, di lesinare le munizioni, insomma di sacrificare la Stalingrado croata pur di conquistare la
simpatia internazionale nelle trattative di pace.
Dedakovic non riuscirà a rientrare a Vukovar, dove ormai si combatte attorno a pochi edifici del
centro. Il 10 novembre i serbi espugnano il rione di Milovo Brdo. Il 16 cade l'ultimo «bastione»,
Borovo Naselje, che assicurava, sebbene a rischio della vita, un minimo di collegamenti con il
mondo esterno. Il 17, la popolazione terrorizzata aspetta solo che arrivino i militari, barricata nei
rifugi o ammassata (in 700) nell'ospedale. Poliziotti, gardisti e Hos approfittano del buio per tuffarsi
nei campi e trovare fra le pannocchie la via della salvezza. Molti trovano invece la morte, sotto il
fuoco dei cecchini. Altri restano in città, bloccati, e non avranno sorte diversa.
Il 18 novembre è il giorno della capitolazione. La mattina dopo gli ufficiali dell'Armata, senza
aspettare i responsabili della Croce rossa internazionale come avrebbero dovuto in base agli
accordi, danno il via all'evacuazione dell'ospedale. La città è preda dei cetnici ubriachi e invasati
che percorrono le strade saccheggiando e uccidendo, cantando bit če mesa, bit če mesa, klati čemo
hrvate (carne ci sarà, carne ci sarà, macelleremo i croati). La canzone, nella quale a un certo punto
s'invita lo stesso MiloSevic a «portare l'insalata» per il banchetto, è registrata in un documentario
della Bbc. Gli ufficiali della Jna provvedono al rito della separazione, che troppo spesso significa
fucilazione dei maschi: separano i gruppi di civili che vogliono andare in Serbia da quelli che
preferiscono la Croazia, e tra questi ultimi dividono gli uomini dalle donne e dai bambini. Altra
suddivisione, tra chi si dichiara serbo, jugoslavo e croato. Racconterà il dottor Vlahovic: «Abbiamo
saputo di quale nazionalità fossimo solo sull'ambulanza jugoslava, quando hanno chiesto a ciascuno
di noi nome, professione e nazionalità». I «maschi croati» saranno per lo più uccisi, gettati in fosse
comuni in una fattoria per l'allevamento dei maiali, a Ovčara, dove i medici e investigatori del
Tribunale dell'Aja cominceranno a scavare nel 1993, subito fermati dal divieto federale di
proseguire le ricerche. Altri saranno portati a Sremska Mitrovica, nella confinante Vojvodina, e
internati, picchiati e torturati prima d'essere rilasciati, gennaio 1992, grazie alla pace trattata
dall'inviato dell'Onu, Cyrus Vance.
Cinquecento feriti vengono consegnati alla Croce rossa croata, dopo una lunga attesa tra sofferenze
e orrore, e un viaggio con fermate ogni cento metri, con i civili serbi della Slavonia occupata e della
Vojvodina che terrorizzano i superstiti. Quattro ufficiali della Jna saranno incriminati dal Tribunale
penale internazionale sui crimini di guerra nell'ex Jugoslavia per la scomparsa di 261 persone
ricoverate nell'ospedale. Dice Vlahovic: «Dopo tutto, mi dispiace, ma io non riesco a odiare gli
aggressori». E spiega: «Colpevoli sono sempre gli individui, non la razza».
Il bilancio dell'attività ospedaliera di Vukovar è impressionante: 1850 feriti gravi sono stati trattati
nelle cantine, i feriti leggeri venivano curati direttamente nei rifugi. Delle 520 salme ufficialmente
registrate dalla polizia di Vukovar e inviate al cimitero, 156 erano di gardisti, 24 di poliziotti, 340 di
civili, ma numerosi sono anche i cadaveri abbandonati nelle strade, o sepolti nei giardini. Un
centinaio nel cortile dell'ospedale. Su internet si possono rintracciare le testimonianze radiofoniche
da Vukovar del 14 novembre 1991, quattro giorni prima della caduta.
Alenka Mirkovic parla dall'ospedale, intervistata da Radio Croazia Libera che trasmette da
Chicago, Illinois. Alla domanda: «Qual è la vostra paura principale adesso?», Alenka risponde: «La
paura che Vukovar cada, perché tutti noi sappiamo che cosa potrà succedere. Io non ho paura per me
stessa, la mia decisione l'ho presa quando sono rimasta qui. Ma ho paura per tutta questa gente: i
feriti, i bambini.
Ci saranno vendette, questa città è il simbolo della Croazia, della resistenza. Ci aspettiamo di
tutto». Segue uno strano appello agli Stati Uniti: «Siete l'autorità più grande del mondo, vi chiediamo
perciò di intervenire sul governo croato perché faccia arrivare gli aiuti a Vukovar. C'è del marcio se
sentiamo per radio che ci mandano rifornimenti ogni giorno e poi qui non si vede nulla». Il conduttore
augura buona fortuna a Alenka. «Siamo tutti orgogliosi di voi, difensori di Vukovar.» Alenka:
«Grazie a voi per la sensibilità che mostrate verso questa piccola città che sta da qualche parte in
Europa».
Non tutti hanno la stessa sensibilità per gli eroi di Vukovar. Mile Dedakovic, che ha denunciato il
boicottaggio di Zagabria, viene arrestato per «abbandono del campo di battaglia», il suo avvocato
riferisce che è stato pestato e torturato. Tudjman insinua che Dedakovic non ha mai rotto il suo
legame con il Kos (il controspionaggio federale di cui era ufficiale) e che le accuse al governo di
svendere Vukovar rientrano in una strategia politica e di comunicazione serba, che mira a provocare
una rivolta interna in Croazia. Insomma, Dedakovic sarebbe una pedina del nemico. I giorni sono
contati anche per Paraga, che il 22 novembre finisce in manette pochi minuti prima di tenere nella
sede dell'ex Caffè delle Arti, davanti all'hotel Esplanade di Zagabria, una conferenza stampa nella
quale, presumibilmente, avrebbe rimproverato anche lui a Tudjman la caduta di Vukovar. Paraga,
trentunenne, nel 1990 ha rifondato il Partito croato del diritto creato nel lontano 1861 da Ante
Starčevic e sciolto nel 1929 da re Alessandro Karadjordjevic quando a guidarlo era Ante Pavelic.
«Hos» sta per Organizzazione per la difesa della patria. Il motto cucito sulle divise dei miliziani è
Za dom spremni, pronti per la patria. Sulla scrivania di Paraga nella sede di Zagabria, spicca una
mappa della Grande Croazia che si estende fino a Bosnia, Montenegro e Serbia. a lui che si
rivolgono i mercenari di mezzo mondo, e la diaspora croata che riprende le armi per difendere la
patria in questa che, dice Paraga, «è una guerra totale tra noi e i serbi». Paraga, però, è diventato un
problema troppo grave per Tudjman, sia perché accredita all'estero una visione «distorta» della
Croazia come paese fascista, sia perché gli Hos agiscono al di fuori della catena di comando della
Guardia. Il che si è visto soprattutto a Vukovar. «Se dico che vi dovete fermare, non dovete muovervi
d'un millimetro» avrebbe urlato Tudjman al riottoso Dedakovic. E' il momento peggiore per
Zagabria, che si trova sull'orlo d'una guerra civile tra Hos e poliziotti fedeli a Tudjman, ed esposta
alla vittoriosa offensiva serba. «Negli ultimi giorni» dice il comandante della Guardia in Slavonia,
GorinSek «sono caduti a Osijek più di tremila granate, è in atto un'azione coordinata. A venti
chilometri da qui, cercano di sfondare le linee e raggiungere NaSice ricongiungendosi ai cetnici del
monte Papuk. Così, l'accerchiamento di Osijek sarebbe completo. Ci stanno preparando la stessa fine
di Vukovar». Il giorno dopo, Tudjman lancia un appello alla tv che è quasi l'annuncio della
mobilitazione generale. «I serbi» dice «sono furbi, accettano gli osservatori dell'Onu perché sanno
che ci vorrà almeno un mese prima che arrivino. Nel frattempo, ci dobbiamo aspettare un'offensiva
durissima della Jna. Siamo all'atto finale della guerra. Come presidente della Repubblica e
comandante supremo delle forze armate, vi dico che nessun croato in grado di tenere un fucile può
limitarsi a difendere la soglia di casa, tutti devono partecipare alla difesa della patria, su tutti i
fronti.» Gli Hos, aggiunge Tudjman, fanno il gioco del nemico.
Intanto si è aperto un nuovo fronte. La Dalmazia.

Fuoco sulla Dalmazia Il 19 novembre 1991, mentre a Vukovar i paramilitari e gli ufficiali della
Jna si vendicano sui civili e militari croati che non si sono arresi, i media internazionali non si
soffermano sulla «fortezza del lupo», né sulla barbara uccisione di 35 civili nel villaggio di
Skabrnja, a 10 chilometri da Zara. Televisioni, radio e giornali riportano invece con enfasi un'altra
strage: 41 bambini serbi sgozzati nel villaggio di Borovo Naselje, periferia di Vukovar.
Un fotografo serbo che lavora per la sede belgradese della Reuter ha riferito di quei 41 corpi che
fanno tre volte notizia: perché sono 41, perché sono bambini, e perché sono serbi.
Ma è un falso. Soltanto il giorno dopo, torchiato dai superiori a Belgrado, il fotografo ammetterà
d'aver visto le sacche di plastica chiuse con la lampo, e d'aver creduto a quanto gli raccontava un
ufficiale federale. Persino il comando della Jna smentisce.
Verissimo, purtroppo, è invece il massacro di Skabrnja, relegato negli articoli di piede come
notizia meno importante. I superstiti arrivano a gruppetti, di notte, a Zara: sconvolti, parlano di
esecuzioni a freddo, d'intere famiglie trucidate, di un'auto che scappa centrata da un carro armato, di
un novantacinquenne travolto da un tank, e di Marko Pavečic, 75 anni, davanti al quale i paramilitari
serbi uccidono la moglie, i figli e un paio di nipoti, lui stacca il fucile da caccia dal muro e si mette a
sparare, lo immobilizzano, lo trascinano in piazza e lo impiccano al campanile della chiesa. Le salme
verranno restituite quattro giorni dopo, in 35 buste di cellophane grigioverde.
Il bombardamento di Zara comincia il 21 settembre 1991, qualche giorno dopo il blocco delle
caserme federali per il quale, stando a Kadijevic, i militari della Jna sotto minaccia sarebbero 30
mila con le loro famiglie. Gli abitanti della Grande Zara sono 134 mila. I profughi dai villaggi
dell'entroterra, dove le milizie di Martic della vicina Benkovac «ripuliscono» anche le fattorie
isolate, sono più di 12 mila già alla metà d'ottobre. Il 4 cominciano tre giorni d'un bombardamento
così pesante che il sindaco Ivo Livljanic, professore di francese e italiano e futuro ambasciatore
presso il Vaticano, è costretto a recarsi all'aeroporto di Zemunik controllato dai serbi, per trattare la
sopravvivenza della città e dei suoi concittadini: la resa. Riuscirà, un po' bluffando, a strappare una
tregua che rientra nell'intesa fra Croazia e Jna per lo sblocco delle caserme. Anche quest'accordo,
però, come tutti gli altri, ha vita breve. Il 10 novembre, data d'inizio del ritiro federale,
dall'aeroporto di Zemunik l'esercito spara ancora. Le granate colpiscono la Vecchia Zara, la
cattedrale di Sant'Anastasia forgiata nella pietra fra il IX e il XIV secolo, e trenta fra chiese ed
edifici sacri. Il 21 novembre, la situazione di Zara ricorda gli assedi medioevali da terra, con
simultaneo blocco del porto dal mare.
Il ponte di Maslenica, già intransitabile a causa dei fitti bombardamenti, viene distrutto. Si arriva
nella città che conserva vestigia veneziane, e che italiana è stata fino alla Seconda guerra mondiale,
attraverso strade tortuose, con una sosta obbligata nella vicina isola di Pago per la quale bisogna
prendere il traghetto, e poi su tratti battuti da cecchini e mortai. Dice il sindaco: «Purtroppo,
contiamo più morti che feriti».
All'alba del 15 novembre, il cacciatorpediniere Split (Spalato) spara anche su Spalato, sulla città
in onore della quale è stato varato e battezzato. Ora la guerra lambisce la città più grande della
Dalmazia che per un giorno non è solo la retrovia dalmata, il caposaldo inespugnabile della Croazia
adriatica, ma un obiettivo proprio come Zara o Sebenico. Nelle stesse ore, il parlamento federale
toglie la fiducia «per alto tradimento» al premier, Markovic, e al ministro degli Esteri, Lončar,
croati. C'è qualcuno che si ricordi di loro, se non i diplomatici occidentali ostinatamente retrò, dalle
ingessate analisi politiche? I serbi da un lato intensificano l'offensiva, dall'altro trattano per ottenere
la «liberazione» delle caserme. Il generale RaSeta assicura da Zagabria di esser pronto a completare
il ritiro federale in un mese (quanto basta per spazzar via le resistenze croate), «purché i croati
accettino di sbloccare le caserme e non muovere un dito, insomma di lasciarci passare». Aggiunge,
persino: «Siamo tutti disgustati di questa guerra». L'Occidente no, non riesce a essere ancora
disgustato abbastanza per reagire con l'unico linguaggio comprensibile a Belgrado: la forza. Migliaia
di morti, città e villaggi rasi al suolo, il calvario dei profughi, Vukovar, il trionfo del principio
abominevole della bonifica etnica, il bombardamento e l'assedio di Zara, la comparsa di una nuova
«fattispecie di reato» sotto il titolo dei crimini di guerra e cioè lo «stupro etnico», non riescono a
commuovere le opinioni pubbliche più di tanto. A dispetto, va detto, dell'ampia copertura
giornalistica quotidiana.
L'attacco a Dubrovnik cambia le cose: la Perla dell'Adriatico, la città che sui giornali croati viene
indicata semplicemente come Grad, l'Urbe, commuove più di Vukovar. Attaccare Dubrovnik è peggio
d'una bestemmia, uno sfregio, un atto d'imperdonabile vandalismo verso il patrimonio della cultura
mondiale, una sfida alla storia che ha sempre risparmiato e rispettato l'autonomia dell'Urbe e della
sua gente. Basti dire che i cittadini di Dubrovnik si chiamano fra loro non Gospodine, «signore», ma
Gospar, traducibile solo con «messere».
A Vukovar i federali sono ostentatamente complici del massacro, al contrario il generale Kadijevic
nega sdegnosamente il coinvolgimento dei comandi dell'Armata nel bombardamento dello Stradun,
dei suoi palazzotti, delle mura, delle chiese, degli alberghi storici, dei musei, delle fontane, dei
conventi e dei monasteri. Zimmermann: «Questa città medioevale, che brillava nell'Adriatico come
una scheggia di marmo rosa, aveva sfruttato la sua celebre finezza diplomatica per allontanare la
minaccia dei turchi, dei veneziani e di molti altri possibili aggressori. Adesso si trovava sotto il
fuoco di un'Armata il cui compito istituzionale doveva essere quello di difenderla. Dubrovnik non è
stata distrutta, ma i danni inflitti dall'Armata jugoslava hanno superato i migliori sforzi di qualsiasi
altro predatore del passato. Solo MiloSevic pretendeva che ci fosse un qualche obiettivo militare in
Dubrovnik.
Ebbe la faccia tosta di dirmi che i mercenari stranieri erano nascosti in questa città che per
decenni non aveva conosciuto altro che turisti. Il generale Kadijevic non pretendeva neppure che
fosse un obiettivo militare. "Le do la mia parola" disse "che il bombardamento non è stato
autorizzato, e quelli che l'hanno fatto saranno puniti." Le mie ripetute richieste di particolari sulla
punizione dei responsabili sono rimaste senza risposta». E' a proposito di Dubrovnik, non di
Vukovar, che s'inizia a ipotizzare l'intervento dell'Occidente. Il generale John Galvin, comandante
supremo della Nato, ha preparato dei piani, ma nessuna capitale in Europa o America li ha presi
finora in considerazione. Lo stesso Zimmermann riconoscerà a distanza di anni che lui stesso avrebbe
dovuto caldeggiare l'intervento militare per metter fine all'attacco a Dubrovnik (ottobre 1991): i
mortai e obici sulle colline attorno alla città e il blocco di piccole unità da guerra davanti al porto
sarebbero stati «facili bersagli». Non solo si sarebbe evitato il bombardamento del patrimonio
artistico e architettonico di Dubrovnik, ma i serbi avrebbero imparato una lezione per il futuro.
Le immagini delle mura di Dubrovnik sbriciolate dalle granate, e dei palazzi lungo lo Stradun
avvolti nel fumo, insieme a quelle degli osservatori europei che piegano la testa correndo sotto le
bombe nelle bianche divise per le quali sono stati soprannominati in Croazia sladoledari, gelatai, con
una sfumatura sprezzante, fanno il giro del mondo, hanno un impatto maggiore di quello dei troppi
massacri di anziani contadini in villaggi sconosciuti, dal monte Papuk all'entroterra dalmata dinarico.
L'attacco a Dubrovnik comincia il 2 ottobre. Nel ricco distretto di Konavle, la guerra si rivela
essenzialmente come pirateria e saccheggio: si distinguono nel sacco della provincia ragusea i
riservisti e i paramilitari montenegrini. Il 15, l'Armata federale entra a Cavtat, a sud della città. Il 27,
la bandiera jugoslava sventola sulla collina di Žarkovic, a ridosso dell'hotel Argentina che ospita gli
osservatori europei. Il generale federale Pavle Strugar può finalmente lanciare un ultimatum ai
«difensori croati». E' allora che Stipe Mesic, formalmente presidente jugoslavo e comandante
supremo delle Forze armate federali, si mette alla testa d'una flottiglia. Lui sta sul traghetto Slavija I,
con l'intento di rompere il blocco navale e focalizzare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale
sulla Perla dell'Adriatico. Per inciso, a differenza di altre città croate, a Dubrovnik, per la struttura
stessa, medioevale, della rocca, le case raramente hanno rifugi. Le bombe sono più insidiose. Con
Mesic viaggiano i vip: il premier croato, Gregurič, la moglie del ministro degli Esteri, personaggi
noti dello spettacolo. La delegazione riesce a entrare a Dubrovnik per dodici ore, dopo trenta ore di
attesa, perquisizioni, colloqui surreali tra Mesic e gli ufficiali della Jna e della Marina che
teoricamente dovrebbero obbedirgli senza fiatare. La missione consegue il fine che si riprometteva.
Dubrovnik è salva, anche se resta sotto tiro e continuerà a essere bombardata. Il 15 novembre, un
aliscafo con le insegne dell'Unicef e con a bordo i ministri francese, Bernard Kouchner (che sarà tra
il 1999 e il 2000 amministratore civile del Kosovo), e italiano, Margherita Boniver, viene accolto da
quattro cannonate d'avvertimento mentre punta su Dubrovnik. «Questi signori li vedo un po' ottimisti»
ha bofonchiato alla partenza da Fiume (Rijeka) il comandante del Krila Dubrovnika (Le ali di
Dubrovnik), Ivan Franičevic, «invece mi sa che ci spareranno.» Infatti.
Il 6 dicembre piovono ancora granate sul centro storico, sulle cittadelle di Ston e Piccola Ston,
sulle pinete e sui monasteri benedettini dell'isoletta di Lokrum, sul palazzo dei dogi, su palazzo
Sponza, sul palazzo dell'Unesco, sulla fortezza di Srdj e sull'alta croce in pietra bianca simbolo della
città. Miodrag Jokic, vice ammiraglio della flotta federale, invia un fonogramma di scuse al ministro
croato della Marina, Davorin Rudolf: «Ci dispiace. Nessuno di noi ha dato l'ordine, né mai
l'avremmo fatto». Conventi, scuole, librerie, ancora lo Stradun, vengono bersagliati il giorno dopo.
«Se volete il paradiso, andate a Dubrovnik» scriveva George Bernard Shaw, e la frase viene
mestamente ripetuta alla radio croata che riferisce del 30 per cento di patrimonio architettonico
raguseo danneggiato o distrutto. «Ricostruiremo Dubrovnik più bella e più antica» assicura Stojan
Vučurevic, capo dei serbi dell'Erzegovina orientale e sindaco di Trebinje, che si proclamerà
beffardamente «ministro del Turismo croato», spiegando che il numero dei turisti in Croazia dipende
dal capriccio delle sue artiglierie. In Slavonia, si insedia un'amministrazione provvisoria dei
secessionisti serbi e resta, sulla carta, l'obiettivo d'inglobare Osijek e Vinkovci. Ilok è stata
conquistata con le minacce: la popolazione (compresa un'alta percentuale di slovacchi) se n'è andata
in cambio della vita. Scene da deportazione, con gli osservatori europei a far da garanti.
Belgrado comincia a valutare la prospettiva della pace, e dell'invio dei caschi blu che potrebbero
significare l'avallo della comunità internazionale alle conquiste territoriali e alla vittoriosa rivolta di
Krajina, Banija e Slavonia «serbe». I croati, si vedrà, vorranno anche loro la pace, ma la
intenderanno in modo opposto. Come un trampolino per la rivincita.
La firma di MiloSevic sull'armistizio I croati, a Dubrovnik, hanno piazzato nidi di mitragliatrici
sulle antiche mura sormontate dalle bandiere dell'Unicef, questo nel disperato tentativo di richiamare,
insieme con il fuoco serbo, l'attenzione della comunità internazionale. A Dubrovnik ci sono anche gli
osservatori europei, i «gelatai», ma la lasceranno presto. Sono arrivati il 15 luglio 1991 in Croazia,
sulla scia degli accordi di Brioni, e agli occhi dei croati sono l'emblema dell'impotenza europea,
l'incarnazione delle divisioni che ancora impediscono all'Europa di riconoscere Croazia e Slovenia,
di dichiarare apertamente che la responsabilità dell'aggressione è di Belgrado, e d'intervenire
militarmente. I monitor hanno la loro base all'hotel I di Zagabria, e non pochi sono quelli che al
riparo dell'anonimato esprimono il loro disgusto, la loro indignazione per la guerra sporca che si
combatte e per le «mani legate» dell'Occidente. Stanno là per osservare, nulla di più, a volte corrono
gli stessi rischi dei civili. Alle loro spalle, la Comunità europea continua a bisticciare.
La Germania da un lato preme per il riconoscimento, la Francia dall'altro insiste per una garanzia
totale dei diritti delle minoranze serbe in Croazia, prima di concedere a Tudjman quel regalo che gli
consentirebbe, primo, di ricevere legalmente le armi per difendersi, e secondo, di chiedere alle
Nazioni unite e alla Nato di fermare con la forza la Jna. I «gelatai», spesso per iniziativa personale,
partecipano anche ai negoziati locali di tregua, o per salvare singoli villaggi o singole situazioni. Lo
spagnolo José Hergueta, che si dimetterà per protesta contro l'ignavia europea e diventerà
eurodeputato, è il capo del nucleo umanitario della missione, estesa presto alla Bosnia Erzegovina, e
riesce fra l'altro, con il suo attivismo, a farsi consegnare quaranta bambini ciechi intrappolati sotto le
bombe a Derventa. Il rischio a volte è troppo.
Bertrand Barrey, osservatore belga, sarà ucciso dai serbi vicino a Mostar con raffiche di
mitragliatore antiaereo ad alzo zero, il 3 maggio 1992.
Fra il 7 settembre e il 15 dicembre 1991 si tiene anche, all'Aja, la Conferenza di pace guidata da
Lord Peter Carrington, che però coincide esattamente con il periodo di «guerra aperta» tra Serbia e
Croazia. Tutte le volte che l'Europa esclude a priori, come all'Aja il 19 settembre, l'intervento
armato, i signori della guerra continuano a far finta di trattare nei consessi internazionali, e insieme a
combattere nel fango della Slavonia o sugli scogli della Dalmazia. L'8 novembre, pochi giorni prima
che cada Vukovar, l'Europa impone le sanzioni economiche alla Serbia. L'opinione pubblica
occidentale assiste in diretta tv all'agonia della «fortezza del lupo» e allo scempio di Dubrovnik. La
Germania caldeggia con più forza il riconoscimento preventivo, in grado cioè di servire da
deterrente dell'aggressività serba. In un incontro fra i ministri degli Esteri europei che dura l'intera
notte fra 15 e 16 dicembre 1991, a Bruxelles, il cancelliere tedesco Helmut Kohl riesce finalmente a
strappare ai partner l'impegno al riconoscimento delle due repubbliche secessioniste entro il 15
gennaio 1992. La Germania stessa comunica il riconoscimento il 23 dicembre. Il Vaticano riconosce
Zagabria e Lubiana il 13 gennaio. Gli altri seguono a ruota. Radio e tv di Zagabria mandano in onda
Danke Deutschland, interpretata da una cantante avvolta nella bandiera tedesca. Il 17 gennaio,
Francesco Cossiga è il primo capo di Stato non jugoslavo a visitare Zagabria appena «riconosciuta».
Non ha mai nascosto le sue simpatie. In uno dei giorni più drammatici del conflitto, ha alzato la
cornetta e detto al ministro De Michelis: «Puoi per favore dire ai tuoi amici serbi di smetterla di
sparare su Dubrovnik?». Ma anche De Michelis, che ha creato la Pentagonale filojugoslava per
bilanciare l'iniziativa Alpe-Adria filoslovena e filocroata, viene ora ringraziato sui giornali di
Zagabria per essersi ravveduto, almeno per aver rinunciato a creare ulteriori ostacoli.
Anche le Nazioni unite hanno cominciato a muoversi. Il 23 settembre 1991, con la risoluzione 713
del Consiglio di sicurezza hanno imposto l'embargo generale sulle armi alla ex Jugoslavia, misura
che di fatto danneggia solo i bosniaci, e hanno aperto la serie di sessantasette risoluzioni dei
successivi quaranta mesi. L'8 novembre, Javier Pérez de Cuéllar, il segretario generale, nomina l'ex
segretario di stato statunitense, Cyrus Vance, suo inviato personale nell'area per trattare una tregua e,
possibilmente, la pace. Nomina decisiva, perché significa la ripresa di interesse verso i Balcani da
parte degli Stati Uniti. Vance affronta il compito con ardore. Visita Osijek, bilancia le accuse a
Belgrado con l'invito a Zagabria a venire incontro alle richieste dell'Europa di maggiori garanzie per
la minoranza serba. E mentre esclude l'invio di caschi blu se prima non saranno rispettate le
innumerevoli firme in calce a intese di tregua, riesce tuttavia a far progredire la situazione fino al
punto di consentire all'Onu d'inviare una missione preparatoria dell'operazione di «mantenimento
della pace». La commissione d'arbitraggio della Conferenza dell'Aja conclude, alla vigilia del
vertice di Bruxelles del 15 dicembre, che la federazione jugoslava «è in piena disintegrazione». Si
legge nel documento che le repubbliche potranno liberamente formare nuove associazioni,
staccandosi dalla federazione, a patto che rispettino il diritto internazionale, i diritti umani e quelli
delle minoranze. Negli stessi giorni compare sui giornali il rapporto degli osservatori europei del 26
novembre 1991 (poco dopo la caduta di Vukovar). «L'esercito» si legge «spara senza esitazione su
obiettivi inequivocabilmente civili, sia a casaccio, sia puntando deliberatamente su scuole, musei e
soprattutto ospedali. L'offensiva è in pieno svolgimento. Nelle zone di confine, in innumerevoli
piccoli villaggi i croati vengono uccisi o costretti ad andarsene, e i paesi rasi al suolo. Non si tenta
neppure di occuparli, semplicemente vengono cancellati dalla faccia della terra.» Gli interessi di
tutte le parti, interne ed esterne alla moribonda Jugoslavia, convergono verso la fine delle ostilità.
Restano solo i serbi della Krajina, guidati ancora da Milan Babic, a non volere i caschi blu. La
forza del piano Vance consiste nell'idea, quasi banale, di congelare lo status quo. Saranno create tre
Aree protette delle Nazioni unite (Unpa) coincidenti con le regioni occupate dalla Jna e dai
paramilitari serbi entro i confini della Croazia. Coincideranno di fatto con i territori sotto controllo
serbo, tranne la Slavonia occidentale, dove il controllo sarà misto.
I federali si ritireranno in Serbia, mentre i paramilitari consegneranno tutte le armi, o alla Jna o, se
preferiscono, agli ufficiali dell'Onu che le conserveranno in depositi da individuare all'interno delle
Unpa. Ovviamente, le parti saranno tenute a osservare il cessate il fuoco generale. I caschi blu si
schiereranno lungo una linea blu che di fatto coinciderà con i nuovi confini disegnati dalla guerra, e
tutte le parti s'impegneranno a favorire il ritorno dei circa 250 mila profughi nelle loro case.
Quest'ultimo impegno non potrà essere mantenuto. Il cessate il fuoco reggerà a stento, ma in definitiva
reggerà. Babic, però, correttamente individua il problema della sua gente: il ritiro dell'Armata
federale non può che allontanare la Krajina, la Slavonia e la Banija serbe dalla madrepatria serba, da
Belgrado, e rendere difficoltoso il collegamento vitale, il cordone ombelicale che dovrà tenere le
province autonome serbe in contatto con i fratelli serbi di Bosnia e di Serbia. Il problema risulterà
evidente con la guerra di Bosnia Erzegovina, quando i serbi si troveranno a lottare disperatamente
per mantenere la continuità territoriale, e la possibilità di approvvigionamento, fra Pale e Banja Luka
nel corridoio di Brčko.
Babic non si fida dei caschi blu, teme la controffensiva croata, vuole che la Krajina resti in mano
alla Jna. Ma MiloSevic ha deciso, e per convincere Babic usa pure gli astri nascenti dei serbi di
Bosnia, sue creature: Radovan KaradŽic è Biljana PlavSic. Che garantiscono a Babic di non
abbandonarlo mai. La Jna e il Presidium federale assumono analoghi impegni. Ma Babic non è
ancora convinto.
Nell'incontro finale a Belgrado tra tutti i leader serbi, settanta ore consecutive di discussioni a
tratti anche furibonde, il capo di stato maggiore dell'Armata, generale AdŽic, arriva a minacciare
fisicamente la delegazione della Krajina. Il racconto del montenegrino Branko Kostic è riportato da
Silber e Little (op. cit.).
Babic prende tempo per decidere. «Il ministro per gli Affari religiosi di Babic, non ricordo il suo
nome ma aveva una lunghissima barba, disse ad AdŽic, che per qualche ragione lo detestava: "Stia
zitto, Babic è un presidente e sceglierà quando lo vorrà". AdŽic, che è alto due metri e pesa un
quintale, si alzò» racconta Kostic «e si mise di fronte a questo piccolo ministro della religione che
era soltanto una barba, e disse: "Zitto, o ti strangolo". Il ministro rispose: "Va bene, vieni a
strangolarmi". AdŽic cominciò a muoversi verso di lui, poi si fermò. A quel punto pensai che fosse
saggio chiamare il time out.» Quando alla fine riappare Babic con tutte le sue perplessità, è Jovic a
dirgli: «E va bene, saremo costretti a liberarci di te». Babic impallidisce, pensando a una
liquidazione stile servizi segreti. «Che cosa vuoi dire?» «Oh, non preoccuparti» replica Jovic «lo
faremo legalmente, in Parlamento.» Infatti, a metà febbraio 1992 sono Milan Martic e altri politici
vicini a Belgrado a liquidare Babic: il Parlamento dei serbi di Croazia si riunisce a Glina, e non a
Knin, sotto protezione della Jna, e Goran HadŽic, leader della Sao Slavonia, viene eletto al posto di
Babic. Subito dopo, viene approvato il piano Vance firmato a Sarajevo il 2 gennaio 1992 e
coincidente con la quindicesima tregua. Adesso, però, è la volta buona. Ci saranno altre giornate,
sparse, di combattimento, perché la guerra, una volta cominciata, è una tentazione troppo forte e
diventa un'abitudine. Ma nel complesso, la tregua regge.
Un'eccezione, un episodio, va comunque ricordato. Il 7 gennaio 1992, il sergente maggiore Marco
Matta, di Torino, compie ventotto anni, ma è anche il giorno in cui viene ucciso mentre vola su un
elicottero Ab-205 bianco con le insegne della missione europea, insieme con altri tre militari italiani
e uno francese: Silvano Natale, Fiorenzo Ramacci, Enzo Venturini e Jean-Luc Ejchenne. A colpirli,
un missile aria-aria sparato da un Mig federale nei cieli di VaraŽdin. «Un tragico errore» ammette
l'Armata. Kadijevic è costretto a dimettersi.
Il testimone passa ad AdŽic, il duro. E la guerra passa da Zagabria a Sarajevo. Nel maggio 1992,
le zone franche della Croazia vengono prese in consegna dai caschi blu. Tornano a casa i «gelatai»,
senza infamia e senza lode: 335 tra militari e diplomatici, e 96 autisti.
Il Consiglio di sicurezza invia in Croazia, non anche in Bosnia come avrebbe preferito
l'ambasciatore Zimmermann, 14 mila soldati Unprofor (United Nations Protection Forces) di 31
paesi. Il comandante, l'indiano Satish Nambiar, vede giusto quando decide di stabilire il quartier
generale a Sarajevo. Per una guerra che s'interrompe, un'altra sta per cominciare.
Terza parte (Bosnia)
Bosnia Erzegovina 1992-1993
(di Zlatko Dizdarevic)

Il 1992
Inizia il caos La guerra che imperversa in Croazia si avvicina sempre più rapidamente alla Bosnia
Erzegovina. Sono ogni giorno più evidenti e riconoscibili le intenzioni di Belgrado nei confronti di
questa repubblica: provocare la totale dissoluzione dello stato disintegrando, nel nome della tesi
secondo cui «non si può vivere insieme», tutte le istituzioni pubbliche e politiche e quindi (con i
meccanismi dello «stato d'emergenza» e con l'impiego della Jna) prendere il potere in Bosnia.
A Sarajevo il dramma imminente è pronosticabile già nell'ottobre del 1991 quando il Parlamento,
in una burrascosa seduta durata quattro giorni con diverse sospensioni, approva un memorandum che
definisce la Bosnia Erzegovina «uno stato democratico e sovrano di cittadini di pari diritti popoli
della Bosnia Erzegovina musulmani, serbi e croati e appartenenti ad altri popoli e nazionalità che in
essa vivono». Il memorandum, proposto dall'Sda (Partito di azione democratica) con il sostegno
dell'Hdz (Comunità democratica croata), è destinato a essere presentato come una dichiarazione di
intenti delle autorità bosniache alla Conferenza di pace all'Aja. Ma è, di fatto, una dichiarazione di
indipendenza nei confronti di una federazione jugoslava ormai mutilata di una delle sue repubbliche
costituenti la Slovenia e intenta a trattenere con la forza un'altra repubblica, la Croazia.
Radovan KaradŽic, che non è un parlamentare né ricopre una qualche carica pubblica, ma assiste
regolarmente a tutte le sedute del Parlamento, prende il microfono la sera del 14 ottobre e alzando il
tono dichiara: «Abbiamo il modo per impedire che la Bosnia Erzegovina segua la strada della
Slovenia e della Croazia. Non pensiate di non portare così la Bosnia all'inferno e il popolo
musulmano forse a scomparire, perché i musulmani non potranno difendersi se faranno la guerra». Il
presidente della Repubblica Alija Izetbegovic replica: «I musulmani non aggrediranno nessuno, ma si
difenderanno con grande energia e non scompariranno».
A questo punto, il presidente del Parlamento bosniaco, il serbo Momčilo KrajiSnik (dell'Sds,
Partito democratico serbo), in violazione del regolamento, dichiara chiusa la seduta e i parlamentari
della sua formazione politica abbandonano dimostrativamente l'aula. Continua a presiedere il
vicepresidente Mariofil Ljubic (Hdz). Constatato il numero legale, all'alba del 15 ottobre i deputati
approvano il memorandum che riconferma l'emendamento alla Costituzione della Bosnia Erzegovina
e la piattaforma della presidenza (collegiale) bosniaca sullo status del paese e sul futuro assetto della
comunità. Secondo le disposizioni fondamentali dei due documenti, la Bosnia Erzegovina è «uno
stato sovrano e indivisibile» che ha la stessa posizione nei confronti sia della Serbia sia della
Croazia, che non resterà a far parte della Jugoslavia ridotta (senza, cioè, la Slovenia e in particolare
la Croazia) e che non riconoscerà le decisioni degli organi federali parziali (della Jugoslavia).
questo documento che offre il destro all'Sds, autoproclamatosi «rappresentante di tutti i serbi di
Bosnia Erzegovina», di organizzare il 9 e il 10 novembre il cosiddetto «plebiscito» con cui i serbi
sono chiamati a scegliere tra l'indipendenza della Bosnia Erzegovina e lo status quo (ma senza che
venga precisato l'assetto della Repubblica all'interno della Jugoslavia). I risultati del plebiscito
verranno resi noti con un comunicato che annuncia semplicemente: «La seconda variante ha ottenuto
la maggioranza». In base a ciò, il gruppo parlamentare dell'Sds il 21 novembre si proclama
«Parlamento del popolo serbo in Bosnia Erzegovina» e da quel giorno cessa di operare all'interno
del sistema legale della Bosnia Erzegovina per seguire soltanto le direttive di KaradŽic e di
Belgrado. Ormai, i serbi sono alla mercé di questi ultimi. Radovan KaradŽic, il pressoché
sconosciuto psicologo della squadra di calcio Sarajevo e poeta dilettante, nativo del Montenegro,
entra così sulla scena politica bosniaca, determinandone il futuro di sangue.
Altri avvenimenti importanti segnano le ultime settimane del 1991: il 9 dicembre, la commissione
di arbitraggio della Comunità europea presieduta da Robert Badinter presenta il suo rapporto alla
Conferenza di pace dell'Aja, con la conclusione che la Rfsj (Repubblica federativa socialista di
Jugoslavia) è in dissoluzione.
Quattro giorni dopo, i genitori dei giovani bosniaci che prestano il servizio militare nella Jna si
radunano nel parlamento di Sarajevo e, arrabbiati e amareggiati, chiedono alle autorità di far tornare
i loro figli dai campi di battaglia in Croazia. Tuttavia, le autorità di Sarajevo sono, di fatto, impotenti
e non hanno alcuna influenza sulla Jna. Vista la dissoluzione definitiva della Jugoslavia, la Ce getta
benzina sul fuoco: il 17 dicembre, tutte le repubbliche «che lo desiderano» sono invitate a presentare
entro una settimana la richiesta di riconoscimento internazionale, che sarà poi esaminata dalla
commissione di arbitraggio.
L'invito viene accolto da Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina e Macedonia così come dal
Kosovo. La Serbia e il Montenegro rigettano la posizione della commissione secondo cui la
Jugoslavia si sta dissolvendo, e affermando che si tratta di secessione di alcune repubbliche,
chiedono per sé il diritto esclusivo di successione.
Anche sulla scena internazionale il quadro formale e legale comincia a chiudersi. La Germania
annuncia il riconoscimento della Croazia e della Slovenia che entrerà in vigore il 15 gennaio 1992.
Negli scontri tra l'esercito croato e la Jna si cominciano a individuare i primi segni degli accordi
politici tra Belgrado e Zagabria a favore di una nuova divisione della Jugoslavia.
Contrariamente a ogni logica militare, e in una situazione in cui l'esercito croato (Hv) può
respingere la Jna dalla Slavonia occidentale e interrompere il corridoio tra Belgrado e Banja Luka, il
presidente croato Franjo Tudjman ferma l'efficace controffensiva dell'Hv in Slavonia. E alla vigilia
del nuovo anno 1992, nel corso di un ricevimento a Zagabria per i giornalisti, Tudjman dichiara che
una tripartizione della Bosnia (annessione di una parte del territorio alla Croazia, di una alla Serbia e
la costituzione di un piccolo stato bosniaco in mezzo) «sarebbe nel miglior interesse a lungo termine
di tutti e tre i popoli e della stabilità regionale». quasi un annuncio ufficiale delle mire serbe e croate
sulla repubblica. Tudjman pianifica questa divisione in base alla «situazione reale sul campo» che,
dopo la costituzione di tutte le «province autonome serbe» (Sao) e la definizione delle «province
autonome croate» con il nome comune di Hrvatska Zajednica Herceg Bosna (Hzhb «Comunità croata
dell'Erzeg-Bosnia»), è la seguente: la superficie della Bosnia Erzegovina sotto il controllo serbo
all'inizio del 1992 è di 32.222 chilometri quadri ossia il 62,94 per cento del territorio del paese,
mentre la Hzhb si estende su 10.689 chilometri quadrati o il 20,88 per cento del territorio. Se si
considera che altri 6468 chilometri quadrati del territorio si sovrappongono tra le varie Sao e la
Hzhb, restano «non assegnati» solo 1818 chilometri quadrati, ovvero il 3,52 per cento del territorio
bosniaco. Riferendosi a questi conti, il presidente della Hzhb, Mate Boban, cinicamente osserva:
«Dobbiamo pur lasciare un po' di terra anche ai musulmani perché abbiano un luogo di sepoltura».
Peccato che la situazione etnica in Bosnia sia leggermente più complicata. Secondo il censimento
del 1991, i serbobosniaci sono presenti sul 94,5 per cento del territorio, i bosniaci musulmani sul 94
per cento e i croatobosniaci sul 70 per cento del territorio.
Evidentemente, tutti sono stati per secoli così strettamente intrecciati che una «territorializzazione»
(come si usava dire agli inizi degli anni novanta) può essere realizzata solo con massicci
trasferimenti della popolazione e l'uso della forza. E usare la forza significa guerra.
All'inizio del 1992, insomma, sono ormai compiuti quasi tutti i preparativi per avviare un
sanguinoso conflitto e aggredire la Bosnia Erzegovina. Fuori della Bosnia sembra che tutti si rendano
conto del pericolo; l'unica a non voler prendere atto della realtà è la popolazione locale, a stragrande
maggioranza sinceramente ed erroneamente convinta che la guerra non sia possibile, nonostante tutto.

LA dISSOLUZIONE dELLA BOSNIA


Gli eventi che portano alla guerra in Bosnia Erzegovina prendono un ritmo sempre più veloce a
iniziare dal gennaio 1992. La maggior parte di tali avvenimenti riguarda i territori circostanti la
capitale bosniaca. Il 2 gennaio, proprio a Sarajevo, il ministro della Difesa croato, Gojko SuSak, e
il negoziatore della Jna, generale Andrija RaSeta, firmano l'accordo sull'incondizionato cessate il
fuoco e sul ritiro delle unità della Jna dal territorio sotto il controllo dell'Hv. Disimpegnate in quelle
zone, le forze della Jna, con tutti gli armamenti ed equipaggiamenti, si ritirano.
Una piccola parte si schiera nel territorio della Krajina serba, mentre il grosso degli effettivi passa
in Bosnia Erzegovina, dove le truppe sono collocate nei più importanti punti strategici, lungo le
principali vie di comunicazione e intorno alle città.
La documentazione della Jna, in seguito caduta nelle mani dei difensori di Sarajevo, dimostrerà
chiaramente che tutta l'operazione di dispiegamento di queste unità dell'esercito federale nella
Repubblica bosniaca è stata pianificata in anticipo, allo scopo di impedire la separazione della
Bosnia dalla Jugoslavia o almeno di quei territori che dovevano restare a farne parte, secondo i piani
di MiloSevic e Tudjman per la divisione del paese. La comunità internazionale, e in particolare
l'Onu, con le sue decisioni tardive, sostiene di fatto il piano di spartizione della Bosnia.
L'8 gennaio, il Consiglio di sicurezza approva l'impiego di una forza di pace Onu di diecimila
uomini nel quadro del cosiddetto piano Vance per la Croazia. Nessuno prende ancora in
considerazione gli inviti che, in preda al panico, vengono lanciati dalla Bosnia Erzegovina affinché
queste forze siano dispiegate, a scopo preventivo, anche lungo i confini bosniaci con la Croazia e con
la Serbia. Ma l'Onu, così come ha fatto fin dall'inizio nell'ex Jugoslavia, continua ad agire con ritardo
e inefficacia.
Chi si prepara per tempo sono invece coloro che vogliono la guerra in Bosnia. Il 9 gennaio, il
Partito democratico serbo (Sds) di Radovan KaradŽic proclama la «sovrana Repubblica del popolo
serbo in Bosnia Erzegovina», costituita da cinque «province autonome serbe» (Sao) e alcune altre
circoscrizioni, compresa la maggior parte di Sarajevo. Le «province autonome serbe», proclamate in
precedenza, sono: Sao Erzegovina, Sao Krajina bosniaca, Sao Romanija, Sao Semberija e Sao Ozren
e Posavina. Il presidente della neoproclamata «Repubblica» è Radovan KaradŽic che dichiara: «La
Bosnia Erzegovina unita non esiste più». Due mesi dopo, il 27 marzo, il sedicente Parlamento del
popolo serbo in Bosnia Erzegovina proclamerà persino la costituzione della «Srpska Republika u
Bosni i Hercegovini» che in seguito sarà chiamata più brevemente «Republika Srpska», eliminando
la dizione «Bosnia Erzegovina».
Nello stesso periodo, a Belgrado, Slobodan MiloSevic ordina in segreto che tutti gli ufficiali
originari di quella repubblica ritornino in Bosnia e si mettano a disposizione dell'«esercito della
Republika Srpska». In maggio sarà nominato ufficialmente comandante di questo esercito Ratko
Mladic, fino ad allora comandante del corpo d'armata della Jna di Knin. La nuova dirigenza
dell'autoproclamata Repubblica serba dichiara che né la presidenza collegiale della Bosnia
(legalmente eletta due anni prima e della quale fanno parte anche Nikola Koljevic e Biljana PlavSic,
dell'Sds) né il ministro degli Esteri bosniaco, rappresentano più gli interessi dei serbi di Bosnia
nelle organizzazioni e conferenze internazionali.
A una tavola rotonda su «La guerra in Croazia e in Bosnia Erzegovina» tenutosi a Budapest dal 25
al 27 settembre 1998, il generale di brigata in pensione, il serbo Jovan Divjak (che ha scelto di
rimanere fedele al governo di Sarajevo), racconterà: «Il massimo del cinismo stava nel fatto che tutto
questo si svolgeva a Sarajevo, nelle sale del Parlamento della Bosnia Erzegovina e che le sedute
erano presiedute da Momčilo KrajiSnik che continuava a essere formalmente il presidente del
Parlamento comune bosniaco».
Intanto a Sarajevo c'è molta agitazione, si viene a sapere che l'Sds e la Jna stanno armando la
popolazione serba e in particolare gli iscritti al partito, mentre la dirigenza politica dei bosniaci
musulmani, con a capo Alija Izetbegovic, tergiversa, incredula che tutto ciò stia davvero portando
alla guerra. Dai documenti del «secondo Distretto militare» (cioè quello di Sarajevo) sequestrati in
seguito, risulterà che prima del 19 marzo 1992 l'Armata ha distribuito alle «unità di volontari serbi»
e a singoli ben 51.900 armi da fuoco. In un registro a parte sono segnati i membri dell'Sds che hanno
ricevuto armi: si tratta di 23.298 persone. Dai documenti risulta anche che la Jna ha iniziato già nel
1990 ad armare i serbi di Foča, città al confine con la Serbia, mentre la distribuzione di armi dai
depositi militari negli abitati intorno a Sarajevo VogoSča, IlijaS, HadŽici e Breza così come a
Visoko, Doboj, Brčko e Bihac è incominciata un anno prima della guerra, ossia nel 1991. Il tutto in
base alla motivazione che «bisogna proteggere il popolo serbo».
Nel corso dei primi due mesi del 1992, si svolgono estenuanti discussioni nei circoli politici e si
tentano trattative con la Jna, i cui rappresentanti falsamente promettono pace e sicurezza, mentre nel
contempo le unità dell'esercito si fortificano intorno a Sarajevo con la giustificazione di «normali
esercitazioni militari». Il primo dispiegamento in postazioni attorno a Sarajevo, poi intensificato, è
iniziato in effetti già nel 1991, con il pretesto di esercitazioni delle unità d'artiglieria e missilistiche,
al fine di addestrarsi per la difesa della città in caso di attacchi dall'Occidente. Il fatto, a dir poco
strano, che queste esercitazioni si svolgano con le armi puntate sulla città, e non in direzione di un
immaginario nemico proveniente dall'esterno, è denunciato senza effetto alcuno solo da qualche
giornale di Sarajevo e da pochi gruppi di persone.
Chi ha capito per tempo di cosa si tratta, incomincia in segreto i preparativi per la difesa.
Ma l'esercito non è all'opera solo nell'area intorno alla capitale.
Siamo ancora all'inizio del 1992 e ingenti forze vengono dispiegate velocemente anche sul
territorio della Krajina bosniaca, nella zona di Tuzla, Derventa e Brčko, così come sulle vie
strategico-operative che dal fiume Drina portano in Bosnia centrale, in modo da tenere sotto
controllo tutti i movimenti dalla Serbia in direzione di Sarajevo e Tuzla. Si formano nuovi corpi
d'armata laddove non c'erano mai stati. Il nuovo spiegamento degli effettivi Jna sul territorio avviene
senza l'autorizzazione della presidenza della Bosnia Erzegovina. Così, nel secondo e nel quarto
Distretto militare, la cui area di competenza coincide con la Bosnia Erzegovina, vengono inquadrati
il IV, il V, il XIII e il XVII corpo d'armata e, a Bihac, il V corpo dell'Aeronautica. La scuola
d'artiglieria di Zara si trasferisce a Sarajevo e una parte del corpo d'armata di Knin va a Bihac. La
forza totale delle unità trasferite in Bosnia è di 90-100 mila uomini (cadetti e ufficiali bene armati),
750-800 carri armati, circa mille blindati, più di 4000 mortai e pezzi d'artiglieria, e infine 100 aerei
e 50 elicotteri. Nel contempo, è in corso l'epurazione dai comandi Jna degli ufficiali bosniaci e
croati.
All'inizio del 1992, su 15 posti di comando a livello di generale nel secondo Distretto militare si
trovano 12 serbi, un montenegrino, un croato e un bosniaco musulmano. A metà anno tutti e 15
saranno serbi.
Un'accelerazione sul piano politico internazionale anche se in programma da tempo arriva il 15
gennaio dalla Ce che, come aveva promesso, riconosce Croazia e Slovenia. A Zagabria e a Lubiana
si tengono festeggiamenti mai visti in precedenza. La canzone più eseguita in Croazia è Danke
Deutschland. Il riconoscimento dell'indipendenza della Macedonia è rinviato per opposizione della
Grecia secondo la quale il nome Macedonia corrisponde alle pretese territoriali dell'ex Repubblica
meridionale jugoslava nei confronti della Grecia. La Ce prende anche una decisione che oggi molti
ritengono il principale detonatore della guerra: chiede alla Bosnia di svolgere un referendum, al
quale deve partecipare almeno il 50 per cento degli aventi diritto e perché l'indipendenza possa
essere sancita deve ottenere una maggioranza dei due terzi.
Le opzioni politiche sul futuro del paese sono già abbastanza definite. Per gli abitanti di
orientamento non nazionale, ma civico, in prevalenza bosniaci musulmani, è chiaro che la Repubblica
non può rimanere nella federazione se non ne fanno parte sia la Serbia sia la Croazia. I bosniaci non
vogliono la dissoluzione della Jugoslavia, ma visto che l'hanno decisa le repubbliche maggiori,
decidono di seguire quelli che hanno scelto la strada dell'indipendenza. Il presidente Izetbegovic e il
presidente macedone Kiro Gligorov propongono più soluzioni per conservare la Jugoslavia come una
«federazione flessibile» o una confederazione in cui Bosnia Erzegovina e Macedonia possono
assumere un ruolo mediano tra la Serbia e il Montenegro «unitaristi» e la Slovenia e la Croazia
«separatiste». A bloccare qualsiasi proposta interviene ancora una volta MiloSevic che formalmente
e pubblicamente si dichiara non disponibile a nessuna forma di «indebolimento dello stato federale»:
come gli avvenimenti a venire dimostreranno, si tratta solo di un pretesto per distruggere la Rfsj e
avviare il progetto di costituzione della Grande Serbia con il consenso di Tudjman, che pure sogna
l'annessione di una parte della Bosnia e la creazione della Grande Croazia.

IL rEFERENDUM e lA gUERRA
Un significativo numero di serbi di Bosnia, sotto la pressione dell'Sds e sommersi dalla
propaganda dei media di Belgrado, ma anche intimoriti dalle azioni del nuovo governo Tudjman in
Croazia e dalla riaffermazione dell'ideologia ustascia della Seconda guerra mondiale, vedono solo in
Belgrado e nell'Armata i garanti della propria sicurezza e di conseguenza non accettano la secessione
dalla Jugoslavia. La relativamente moderata Hdz in Bosnia Erzegovina, guidata dal sarajevese
Stjepan Kljujic, affezionato alla secolare patria di Bosnia, è piuttosto indecisa sul referendum, ma
alla fine, sotto l'influenza della chiesa cattolica bosniaca e in particolare dei francescani, acconsente
al voto, rappresentando il decisivo ago della bilancia. il 25 gennaio quando il parlamento bosniaco,
nel quale non siedono più i deputati dell'Sds di KaradŽic né quelli del Movimento per il
rinnovamento serbo (il partito di Vuk DraSkovic in Bosnia), decide di indire il referendum
sull'indipendenza per il 29 febbraio e il primo marzo 1992. Solo sette giorni dopo, per diretta
decisione di Tudjman, la dirigenza dell'Hdz a Siroki Brijeg destituisce il presidente Stjepan Kljujic e
al suo posto nomina Mate Boban, una marionetta di Zagabria.
Le persone che in Bosnia, e soprattutto a Sarajevo, hanno incominciato a radunarsi e ad armarsi
segretamente per la difesa, sotto la bandiera della Lega patriottica, organizzano a Mehuriči, presso
Travnik, in Bosnia centrale, un incontro dei comandi provinciali della suddetta Lega. La relazione
introduttiva letta nell'occasione da Sefer Halilovic, ex ufficiale della Jna che sarà poi il comandante
dell'esercito della Bosnia Erzegovina, rappresenterà la base delle direttive ufficiali per la difesa
della sovranità del paese. Il comando centrale della Lega patriottica approva queste direttive a
Hrasnica, presso Sarajevo, il 25 febbraio.
Prima che si tenga il referendum, la comunità internazionale cerca di proporre una soluzione per la
Bosnia Erzegovina; soluzione che si basa tuttavia sempre e rigorosamente sulla divisione etnica,
senza rendersi conto che questo significa guerra e divisione del paese. Su queste basi, il 14 febbraio
a Sarajevo, inizia la Conferenza internazionale sulla Bosnia Erzegovina sotto l'egida della Ce. La
presiede il portoghese José Cuthilhieiro, inviato speciale di Bruxelles per la Bosnia. La Conferenza
preannuncia «l'accordo di Lisbona» che sarà definito poco tempo dopo. Nel frattempo, nella
Repubblica serba di Krajina viene destituito Milan Babic, che ha rifiutato il piano Vance. Inoltre,
solo due giorni prima del referendum in Bosnia, si incontrano segretamente a Graz, in Austria, i
rappresentanti del governo di Zagabria (il consigliere di Tudjman, Zvonko Lerotic, e il capo
dell'ufficio per la sicurezza nazionale, Josip Manolic), Radovan KaradŽic e l'esponente serbo della
presidenza collegiale bosniaca, Nikola Koljevic. Non saranno mai resi noti tutti i dettagli di
quell'incontro, ma è certo che si sia parlato della spartizione della Bosnia e delle linee di divisione.
Il referendum sull'indipendenza si svolge in un'atmosfera piena di tensione. Vojislav SeSelj,
radicale serbo, ammonisce i musulmani a «non essere nuovamente un'arma nelle mani criminali
croate». Non riuscendo più a impedire il referendum, KaradŽic e i suoi cercano di confondere gli
elettori polemizzando con la formulazione della domanda sulla scheda. Sarajevo è affollata di
giornalisti stranieri, molti dei quali in seguito diranno che «si sentiva nell'aria l'inesorabile
avvicinarsi della guerra». Nel giorno delle votazioni, tuttavia, l'unica incognita sembra sia solo il
raggiungimento del quorum. L'ultimo tentativo di ostruzione avviene immediatamente dopo la
chiusura dei seggi, nella notte tra l'1 e il 2 marzo. Militanti dell'Sds, seguendo un piano
evidentemente preordinato, erigono barricate con presidi armati sulle principali vie di
comunicazione di Sarajevo e tagliano praticamente la città in due, il centro da una parte e le zone
verso la periferia e l'aeroporto dall'altra. In seguito diventerà chiaro che si tratta solo di una prova
del tentativo di spaccare la città lungo la linea strategica prevista dai piani di guerra. Ma l'obiettivo
delle barricate è anche quello di impedire la raccolta delle schede elettorali, una volta chiusi i seggi.
Nonostante le promesse fatte, l'Armata non si adopera per sbloccare la città.
I risultati del referendum vengono pubblicati il 3 marzo, due giorni dopo le votazioni, e sono più
che chiari: ha votato il 63,4 per cento degli aventi diritto, di cui il 92,68 per cento a favore
dell'indipendenza, con lo 0,19 per cento di voti contrari.
Quello stesso giorno, il 3 marzo 1992, il governo della Repubblica di Bosnia Erzegovina
proclama l'indipendenza. Ma già nei giorni successivi, si arriva all'aggressione aperta. Il 7 marzo
vengono attaccati i villaggi nei dintorni di čapljina, l'8 marzo i reparti d'artiglieria della Jna partono
da Tuzla verso il fiume Sava, e qualche giorno dopo le unità paramilitari serbe attaccano la periferia
di Bosanski Brod e la locale raffineria. Si spara nei villaggi bosniaci intorno a GoraŽde e
l'artiglieria colpisce anche Neum, sul mare. Solo ora, il governo prende la decisione sollecitata
molto tempo prima dai genitori dei giovani in età di leva: il 13 marzo decide di rinviare sine die
l'obbligo di prestare servizio militare per le reclute della Bosnia Erzegovina.
La Ce non rinuncia alle sue idee sull'assetto della Bosnia e il 18 marzo, a Sarajevo, si apre
nuovamente la conferenza internazionale che propone «l'accordo di Lisbona», più noto come Piano di
Cuthilhieiro, dove si prevede il rispetto dei confini della Bosnia Erzegovina e un assetto interno
decentrato. Comunque, tra i criteri di decentramento si introduce per la prima volta esplicitamente
quello della «maggioranza etnica» quale fattore determinante nella definizione delle unità
amministrative. Questo criterio rimarrà una costante in tutti i seguenti piani internazionali per la
Bosnia Erzegovina.
Radovan KaradŽic, Mate Boban e Alija Izetbegovic ottengono dalla comunità internazionale, e in
particolare dalla Ce, una formale legittimazione come rappresentanti di serbi, croati e musulmani in
Bosnia Erzegovina, benché nessuno, tranne Izetbegovic, sia all'epoca legittimato dalle urne. KaradŽic
e Boban sono solo presidenti di due degli oltre cinquanta partiti politici in Bosnia.
Tuttavia, alla conclusione della Conferenza, il 18 marzo, i tre approvano una «Dichiarazione sui
principi del nuovo assetto costituzionale della Bosnia Erzegovina». Secondo la dichiarazione, la
Bosnia dovrà essere uno stato indipendente composto da «tre unità costituenti, basate sul principio
nazionale e prendendo in considerazione criteri economici, geografici e altri». Tutti questi «altri
criteri», però, vengono praticamente rigettati nella frase che segue e in cui si dice che il gruppo di
lavoro per definire quanto indicato si baserà su una «mappa fondata sulla maggioranza assoluta o
relativa in ciascun comune». Secondo questo criterio, la Ce ha già fatto «una mappa quadro dei
comuni» quale «base di partenza» per i negoziati sull'assetto costituzionale che dovranno proseguire
il 30 e il 31 marzo a Bruxelles.
In base a questi calcoli, all'unità bosniaca spettano 52 comuni (44 per cento del territorio), a
quella serba 35 comuni (44 per cento) e a quella croata 20 comuni (12 per cento). L'assurdità di
questa idea consiste nel fatto che, se realizzata, una simile divisione lascerebbe fuori dal «territorio
serbo» il 50 per cento della popolazione serba in Bosnia Erzegovina, e fuori da quello «croato»
addirittura il 59 per cento dei croati. Fuori del «territorio bosniaco» rimarrebbe il 18 per cento dei
bosniaci.
Nel testo conclusivo della Conferenza si dice che la dichiarazione è stata «approvata» ma non
«firmata». Anche se dopo una decina di giorni sarà rigettato da Izetbegovic, il piano legittima le linee
etniche di divisione e così facendo, che lo si voglia o no, rappresenta un invito ai trasferimenti in
massa e al genocidio al fine di raggiungere l'omogeneità etnica. Il piano, evidentemente, non conviene
a nessuno, nonostante «l'approvazione» nel corso della Conferenza. I bosniaci temono le divisioni
etniche perché quasi certamente segnerebbero l'inizio della definitiva disgregazione della Bosnia.
Per quanto Izetbegovic intimamente creda che la creazione di un «piccolo staterello bosniaco» sia
una buona soluzione, le forze patriottiche all'interno della Bosnia Erzegovina sono ancora troppo
influenti perché lui possa accettare quel piano. KaradŽic è insoddisfatto perché la dichiarazione
parla di stato indipendente e perché gli sembra di aver ottenuto troppo poco nella spartizione. Una
valutazione simile viene fatta da Mate Boban, ossia da Zagabria.
La cosiddetta «Assemblea del popolo serbo in Bosnia Erzegovina», che si tiene a Pale il 24
marzo, si esprime contro una Bosnia Erzegovina indipendente e sovrana. Il giorno dopo, il 25 marzo,
l'artiglieria serba spara su Bosanski Brod circa duemila granate.
A Sarajevo, nell'albergo Holiday Inn, in cui è sistemato il quartier generale dell'Sds e di KaradŽic,
il 28 marzo l'Sds organizza un «Congresso di intellettuali serbi». Vi partecipano circa 500 invitati
provenienti dalla Bosnia, ma anche da altre parti dell'ormai ex Jugoslavia. All'incontro si parla
apertamente di mappe etniche per la divisione della Bosnia e viene letta una lettera di Dobrica čosic,
famoso scrittore serbo e padrino ideologico di Slobodan MiloSevic. Neanche due mesi dopo la
riunione di Sarajevo, čosic diventerà presidente della nuova «piccola Jugoslavia».
Nella sua lettera agli intellettuali serbi, čosic propone che serbi, bosniaci e croati «si dividano e
distinguano affinché possiamo rimuovere i motivi che ci portano a odiarci e ucciderci». čosic è colui
che proponendosi come leader ideologico e modello da seguire alle forze che vogliono realizzare il
vecchio sogno della Grande Serbia molto tempo prima, il 29 marzo 1978, quando era entrato a far
parte dell'Accademia serba delle scienze e delle arti, nel suo discorso inaugurale aveva posto ai
serbi una domanda patetica, ma molto «stimolante» per il futuro: «Che razza di popolo siamo, che
gente siamo se nelle guerre moriamo in tanti per la libertà e ne rimaniamo privi dopo averle vinte?
Com'è che qualcuno tra noi, in casa nostra, ci strappa sempre dalle mani quello che sul campo di
battaglia un nemico ben più forte non è riuscito a prenderci?... è tragico essere discendenti di coloro
che hanno più forza per la guerra che per la pace, che anche dopo la più grande e difficile vittoria di
guerra nella storia serba non hanno avuto la forza di confermare quella vittoria in tempo di pace».
Per «la più grande e difficile vittoria» non confermata in tempo di pace čosic intendeva la
costituzione, dopo la Prima guerra mondiale, della Jugoslavia al posto dello stato nazionale ossia
della Grande Serbia.
Mentre a Sarajevo gli «intellettuali serbi» applaudono con euforia ai messaggi del loro idolo,
Dobrica čosic, i carri armati della Jna di due corpi d'armata, quelli di UŽice e di Podgorica, dei
quali fanno parte anche «volontari» provenienti dalla Serbia e dal Montenegro, partono all'attacco
contro la Bosnia Erzegovina. Bisogna ricordare che alla fine del 1991 la cosiddetta presidenza
jugoslava, di cui non fanno più parte i rappresentanti di Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia
Erzegovina, ha deciso che i «volontari» non vanno considerati tali, ma che devono entrare nelle file
regolari della Jna. La loro penetrazione in Erzegovina orientale, fino a Mostar, si giustifica con la
necessità di proteggere l'aeroporto militare (gli aerei e le attrezzature sono già state trasferite a
Podgorica, Zemun e PriStina) e di difendere la popolazione serba dell'Erzegovina dai «turchi».
l'espressione che Mladic, KaradŽic, KrajiSnik e altri useranno spesso in seguito per motivare al
combattimento quelli che senza riserve rispettano i miti della storia della Serbia, conquistata e
sottomessa dai turchi nel lontano XIV secolo.
Nonostante siano passati sei secoli, l'odio atavico contro i turchi e i musulmani in generale è
presente ancora oggi tra i nazionalisti e gli sciovinisti serbi.

IL dOPPIO gIOCO dELLA JNA


Alla vigilia del totale e definitivo accerchiamento e assedio di Sarajevo, l'aggressione contro la
Bosnia Erzegovina comincia ad acquistare contorni chiari nonostante il comando della Jna di
Sarajevo, con a capo il generale comandante del corpo d'armata, Milutin Kukanjac, insista
nell'affermare che «l'esercito proteggerà il popolo indipendentemente dall'appartenenza etnica» e che
«l'esercito non farà male a una mosca». Nelle retrovie si conclude il trasferimento accelerato delle
forze dalla Slovenia in Croazia e in Bosnia, così come la distribuzione di armi ai membri dell'Sds in
tutto il paese. Il Servizio di controspionaggio militare (Kos) e il Servizio per la sicurezza dello stato
sono sotto stretto controllo e pressione da parte di Belgrado. Una parte dei quadri serbi nel ministero
degli Interni (Mup) bosniaco tenta di costituire ufficialmente un «Mup serbo», ma il colpo non riesce
benché nelle zone controllate dall'Sds il Mup funzioni già con questa impostazione. Per giustificare le
proprie attività vengono usate asserzioni propagandistiche secondo cui «i musulmani si stanno
rapidamente armando per attaccare i serbi in tutte le parti della Bosnia». Così, anche il comando Jna
di Sarajevo invita a colloquio funzionari di polizia e uomini politici «per avvertirli dell'accelerato
armamento dei musulmani». Il tutto è solo un pretesto per camuffare le operazioni di aggressione alla
Bosnia, nome in codice Ram (Cornice), che ha come scopo quello di assoggettare in pieno il paese e
di trattenerlo nella «nuova Jugoslavia» sotto il controllo di Belgrado.
I documenti militari e operativi sull'operazione Ram erano stati scoperti ancora alla fine dell'anno
precedente dai servizi di sicurezza che ne avevano informato i membri della presidenza collegiale
bosniaca, che a loro volta ne avevano informato i leader di alcuni partiti politici impegnati per la
salvaguardia di una Bosnia Erzegovina autonoma, integra e democratica. Il presidente della
presidenza, Alija Izetbegovic, aveva informato a suo tempo anche Ante Markovic, primo ministro
della Rsfj, che decise definitivamente di dimettersi.
Radovan KaradŽic, tuttavia, nega l'esistenza del piano Ram e sposta il discorso su un altro
binario: con insistenza chiede che si accerti chi, e in quale modo, possa avere accesso a importanti
informazioni militari, chiedendo pene rigorose. KaradŽic riesce così a mettere in secondo piano la
questione essenziale dell'esistenza stessa del piano. I giorni che seguono, all'inizio di aprile, danno
ragione al leggendario premier britannico Winston Churchill che una volta ha detto: «I Balcani
producono più storia di quanta ne possano consumare». Oltre alle unità paramilitari serbe e
montenegrine all'opera nei villaggi dell'Erzegovina orientale e nei dintorni di Dubrovnik si tratta
nella maggior parte dei casi di predatori che saccheggiano case e paesi i paramilitari irrompono
anche in Bosnia, nel Nord. Il più noto e il più brutale è Željko RaŽnjatovic detto «Arkan». Ed è
proprio lui a inaugurare la stagione delle stragi.
Con la sua «guardia serba di volontari» nota con il nome di «Tigri», devasta per tre giorni
Bijeljina, città della Posavina bosniaca. Con il supporto logistico della Jna occupa la città che
ricopre un'importanza strategica non solo per la Bosnia, ma anche per la Croazia; uccide ed espelle i
bosniaci musulmani e croati e terrorizza la cittadinanza. In tre giorni, le Tigri massacrano almeno 500
civili musulmani e la maggioranza della rimanente popolazione musulmana, autoctona e da sempre
maggioritaria in questa città, viene espulsa. Nella memoria resta una fotografia che fa il giro del
mondo e che sarà acquisita anche dal Tribunale dell'Aja per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia. Si
vede un soldato di Arkan che prende a calci il corpo di una donna uccisa riverso su una strada di
Bijeljina.
Dopo i fatti di Bijeljina, si tenta di negoziare con Arkan che riceve una delegazione tripartita
composta dai membri della presidenza collegiale Biljana PlavSic (serba) e Fikret Abdic
(musulmano) e dal ministro della Difesa Jerko Doko. Le telecamere registrano il momento in cui la
PlavSic abbraccia e bacia Arkan, esprimendo la massima ammirazione personale per questo «eroe
serbo». E' molto probabile che questo episodio abbia contribuito all'incriminazione della PlavSic da
parte del Tribunale internazionale dell'Aja. L'atto d'accusa è stato formulato dal procuratore generale
Carla Del Ponte il 7 aprile 2000 e mantenuto segreto. Biljana PlavSic si è costituita all'Aja il 10
gennaio 2001 ed è stata immediatamente arrestata.
Ma ai tempi di Bijeljina la signora indirizza ad Arkan «un particolare ringraziamento per aver
protetto il popolo serbo». E', in effetti, l'inizio del massacro e dell'espulsione dei bosniaci musulmani
da tutta la regione lungo il fiume Drina, quella cioè lungo il confine con la Serbia: Zvornik viene
occupata il 10 aprile; tre giorni dopo cade anche ViSegrad, la città del ponte sulla Drina
dell'omonimo romanzo del premio Nobel, Ivo Andric. Il tre aprile la Jna e le unità armate dell'Sds
prendono il potere a Banja Luka e, su ordine del generale Momčilo PeriSic (il futuro capo dello stato
maggiore della Difesa rimosso da MiloSevic alla vigilia dell'intervento Nato in Kosovo) cominciano
a cadere le prime granate su Mostar. Il bombardamento della città erzegovese si intensificherà di
giorno in giorno finché gli aggressori non riusciranno a raggiungere la sponda est della Neretva.
Nel frattempo, la guerra è incominciata anche tra i giornalisti delle televisioni, delle radio e dei
giornali bosniaci. Quello che i militanti dell'Sds vogliono sia chiamato «liberazione del paese» dalle
«forze antijugoslave» è per gli altri giornalisti sempre più chiaramente un'aggressione
serbomontenegrina contro la Bosnia Erzegovina. E mentre alla televisione pubblica bosniaca e alla
radio centrale sono visibili tentennamenti e confusione, e anche aperte pressioni, Oslobodjenje, il più
importante quotidiano bosniaco, nonostante le grosse difficoltà, conduce con decisione e senza
scendere a compromessi la lotta per la giusta informazione del pubblico su quello che sta realmente
accadendo in Bosnia Erzegovina.
Così, tra le prime vittime dell'aggressione alla Bosnia c'è anche il corrispondente di Oslobodjenje
da Zvornik, Kjasif Smajlovic, che fino all'ultimo rimane nel suo ufficio a lavorare e a inviare
corrispondenze alla redazione di Sarajevo. Finché gli occupatori della città non lo trovano seduto
alla sua scrivania e lo uccidono.
Secondo il parere di molti, la guerra a Sarajevo inizia sabato 4 aprile quando le unità militari
serbe, formalmente la milizia dell'Sds, attaccano la scuola di polizia del ministero degli Interni di
Vrača, nel quartiere di Grbavica. L'azione viene condotta con il sostegno di diversi carri armati
dimostrando così il diretto coinvolgimento della Jna nell'attacco. Dopo l'occupazione di Vrača e del
centro in cui si trovano i giovani aspiranti poliziotti, gli appartenenti delle unità paramilitari dell'Sds
iniziano il saccheggio e le violenze nel quartiere di Grbavica. Nello stesso tempo incomincia ad
arrivare in città, con autobus, automobili e ogni mezzo a disposizione, gente da varie parti della
Bosnia per partecipare alla grande manifestazione contro la guerra e per chiedere a tutte le forze
politiche e militari del paese di fermare le violenze e di impedire altri versamenti di sangue. Decine
di migliaia di persone giungono a Sarajevo per dire chiaramente che non vogliono la guerra.
Molti anni dopo si comprenderà che i manifestanti non ebbero alcun sostegno organizzato dalle
autorità, dal momento che la manifestazione veniva percepita come antigovernativa, critica cioè nei
confronti delle istituzioni ritenute responsabili della situazione.
In risposta, la presidenza della Bosnia ordina la mobilitazione generale e i due esponenti serbi,
Biljana PlavSic e Nikola Koljevic, si dimettono. Domenica mattina, 5 aprile, gli incroci lungo la
principale via di comunicazione che attraversa la città, sono presidiati dalle barricate erette dalla
milizia armata dell'Sds. La maggioranza dei miliziani ha il viso mascherato per non essere
riconosciuta. La città è praticamente tagliata in due così che il centro cittadino rimane circondato,
mentre le zone «esterne», secondo il piano di divisone della città, devono essere annesse alla
«Sarajevo serba». In città ci sono ancora diverse caserme dell'Armata, ma gli avvenimenti che
seguiranno dimostreranno che tutte le armi pesanti, carri armati compresi, sono già state portate via.
Per mesi, adducendo pretesti tra i più diversi, l'esercito ha continuato a far uscire da Sarajevo
macchinari, impianti e materie prime, in particolare dalle fabbriche di armi, e attrezzature militari. Il
Kos e l'Sdb federale (Servizi di sicurezza dello stato) hanno sottratto i fascicoli più importanti e
compromettenti dagli archivi del ministero degli Interni della Repubblica e da quello municipale. I
depositi dove si trovano le attrezzature militari più moderne e i veicoli dell'unità speciale di polizia,
alla periferia di Sarajevo, vengono svuotati. Solo molto tempo dopo quel primo week end di aprile,
coloro che sono rimasti in città capiranno il vero significato di un episodio all'apparenza innocente:
molti serbi, fino al giorno prima amici, vicini di casa o colleghi di lavoro, il venerdì pomeriggio
lasciano la città con le auto piene di cibo e portano la famiglia «in gita». La verità è un'altra: molti
sanno dei preparativi in corso per alzare le barricate e cominciare l'attacco contro Sarajevo, perché
sono stati informati per tempo dall'Sds o dai militari della Jna.
Il 6 aprile, nonostante tutto, la Ce riconosce la Bosnia Erzegovina. A Sarajevo, tra i manifestanti
per la pace che da due giorni non abbandonano i locali del Parlamento e la piazza antistante, si odono
esplosioni di entusiasmo. Si succedono oratori che chiedono la fine delle operazioni di guerra
dell'Armata e dell'Sds e una soluzione politica, della quale Belgrado non vuole neanche sentire
parlare. I cittadini di Sarajevo radunati nel Parlamento riservano grandi ovazioni agli uomini
dell'unità speciale di polizia (antiterrorismo) comandata da Dragan Vikic, un croato sarajevese, i
quali in diversi punti della città impediscono ai miliziani dell'Sds di prendere il controllo della
capitale. Anche il presidente della presidenza bosniaca, Alija Izetbegovic, viene in Parlamento, ma
riesce a fare solo un discorso breve, senza ottenere il sostegno dei manifestanti, ed è più volte
interrotto da grida di protesta. Nel momento di maggiore tensione, mentre si esorta sempre più
esplicitamente a serrare le fila e a muoversi in massa contro coloro che hanno provocato gli scontri,
si odono i primi colpi di fucile: gli spari diretti sui manifestanti provengono dalle finestre
dell'Holiday Inn, che si trova di fronte al palazzo del Parlamento, dalle stanze in cui c'è la sede
dell'Sds. Si crea il panico e una grande massa di persone fugge verso il fiume Miljačka e il ponte di
Vrbanja, alle spalle del palazzo del Parlamento. Ma ora arrivano nuovi spari dalla parte opposta. Sul
ponte cade una studentessa di Dubrovnik, Suada Dilberovic, che viene convenzionalmente indicata
come la prima vittima della guerra di Bosnia. Il ponte di Vrbanja prenderà in seguito proprio il suo
nome ed entrerà nella storia di Sarajevo anche per molti altri tragici avvenimenti: esso rappresenterà
infatti il confine tra la parte di Sarajevo controllata dall'esercito bosniaco e il quartiere di Grbavica
occupato all'inizio della guerra dagli assedianti.
Dragan Vikic e i suoi reparti speciali scoprono in città molti cecchini e in varie case trovano armi,
munizioni, radio. Arrestano anche uno dei tre cecchini che per primi hanno sparato sulla folla di
manifestanti dalle finestre dell'Holiday Inn: è Branko Kovačevic, sottosegretario alla Difesa
popolare di Sarajevo ed ex segretario personale di KaradŽic. Alle operazioni per snidare i cecchini
e la «quinta colonna» in città partecipano anche uomini di alcune pseudo milizie locali. Tra di essi si
trovano anche delinquenti comuni che irrompono e perquisiscono le case di serbi sospetti, per motivi
tutt'altro che difensivi e patriottici.

ACCORDO dI MiloSevic e TUDJMAN


Il 7 aprile la Croazia riconosce la Bosnia Erzegovina nei suoi confini, offrendo nello stesso tempo
ai croati la doppia cittadinanza. Continua così il doppio gioco di Tudjman. Da una parte, per
mostrarsi democratico e disposto a collaborare con l'Occidente, Tudjman segue le risoluzioni
internazionali relative alla Bosnia, mentre dall'altra parte fa di tutto per ridurre la Bosnia a quello
che era stata sotto il dominio di Ante Pavelic, durante la Seconda guerra mondiale, e cioè una
provincia della Croazia. Sono già pronti tutti i piani per la costituzione della struttura parastatale
della Herceg Bosna, in modo da creare una «cornice statale e legale» per incorporare nella Croazia
gli abitanti della Bosnia di etnia croata.
A questo punto è necessario spiegare brevemente la logica comune che seguono MiloSevic e
Tudjman riguardo alla Bosnia, nonché i motivi della spartizione del nuovo stato che conserva ancora
i confini che aveva come repubblica costituente della Rsfj. La già menzionata logica di Slobodan
MiloSevic, secondo cui tutti i serbi devono vivere in un unico stato, può essere accettata da Tudjman
solo se significa anche «tutti i croati in un unico stato». In altre parole, la costituzione della Grande
Serbia richiede la costituzione della Grande Croazia, e questo alle spese del territorio bosniaco, in
modo da superare anche il problema dell'aspetto geografico della Croazia, da sempre inaccettabile
per Tudjman. Il defunto presidente diceva che quel «cornetto è innaturale» e sognava che la Bosnia
Erzegovina riempisse «la pancia» della Croazia. Sia per MiloSevic sia per Tudjman la spartizione
della Bosnia è un imperativo. Fin dall'inizio MiloSevic decide di ottenerla con la forza, sostenendo
in tutti i modi KaradŽic e il suo esercito, e disintegrando lo stato dall'interno. Tudjman all'inizio
pensa di arrivarci con la costituzione della Herceg Bosna che dovrebbe poi semplicemente portare la
propria popolazione in Croazia. In seguito, quando capisce che ciò non basta, anche lui incomincia la
sanguinosa guerra contro l'esercito bosniaco.
L'incontro chiave tra Tudjman e MiloSevic, nel corso del quale si parla con estrema precisione
della divisione della Bosnia, risale tuttavia a prima ancora della proclamazione di indipendenza
della Slovenia e della Croazia, e cioè al 25 marzo 1991, e si tiene a Karadjordjevo, una riserva di
caccia sul confine tra la Serbia e la Croazia. Il giorno dopo i colloqui, il quotidiano governativo
croato Vjesnik scrive che i due presidenti si sono incontrati «per cercare di eliminare quelle opzioni
che minacciano gli interessi sia del popolo croato sia di quello serbo nella sua totalità, e per cercare
soluzioni durature nel rispetto degli interessi storici dei due popoli». In sostanza, la sottolineatura
della categoria «nella sua totalità» significa che i confini esistenti in Jugoslavia devono essere
modificati e che quindi la Serbia deve estendersi su quella parte della Bosnia in cui vivono i serbi,
mentre la Croazia si deve estendere sul territorio bosniaco a maggioranza croata. Poiché la Bosnia
Erzegovina esiste nella stessa cornice legale e con le stesse fondamenta statuali della Croazia e della
Serbia, Tudjman e MiloSevic devono subito convenire che senza la dissoluzione e la distruzione
della Bosnia non potranno realizzare le loro idee di fondo. Ecco perché nell'incontro di
Karadjordjevo, e anche in quello seguente di TikveS (Macedonia), la questione più importante è «la
questione musulmana», a causa della quale la Bosnia Erzegovina dovrà essere divisa in tre unità, da
creare con il sangue.
Partendo dai pregiudizi dell'Occidente relativi all'islam, ai musulmani e alla questione musulmana,
i due prevedono, giustamente, che l'Europa leggerà il problema della Bosnia come il problema
dell'islam e della minaccia musulmana. I musulmani, inoltre, vengono sollecitati a pensare di fondare
un proprio stato, il che affievolisce la lotta per uno stato unitario, fondato sulle sue peculiarità
etniche. Da una parte, dunque, ci sono MiloSevic e Tudjman uniti dall'impegno comune di
disintegrare la Bosnia aiutandosi l'un l'altro. Dall'altra sta una parte della dirigenza bosniaca
musulmana che non comprende il gioco e accarezza l'idea di costituire un proprio stato, nonostante
ciò significhi la scomparsa della Bosnia Erzegovina (Izetbegovic dirà spesso in seguito: «Non siamo
riusciti a salvare lo stato, ma dobbiamo salvare il popolo»). A tutto ciò si aggiunga una parte
dell'opinione pubblica europea e mondiale che, influenzata dai propri politici, ma anche da vari
«teorici» e «liberi pensatori», è favorevole alla teoria della divisione.
Un esempio tipico è la storia del politologo americano, diventato improvvisamente famoso,
Samuel Huntington, che sostiene una teoria tutta sua sulle origini del conflitto, teoria che piace molto
al presidente croato Franjo Tudjman. Huntington afferma che, dopo la caduta del comunismo, i
principali motivi dei conflitti nel mondo non saranno più ideologici o economici, ma in presenza di
profonde divisioni dell'umanità di «natura culturale», tra appartenenti a diverse civiltà. Secondo
Huntington il prossimo grande conflitto sarà quello tra le civiltà cristiana e islamica. Nonostante ci
siano serie e autorevoli reazioni critiche alle sue posizioni, i media croati controllati dal regime
incominciano a promuovere insistentemente Huntington e le sue teorie, tanto che un rispettabile
commentatore della tv di stato croata e del quotidiano governativo Vjesnik afferma che «il
riconoscimento di Huntington dei rapporti globali corrisponde alle vedute del presidente Tudjman».
Lo stesso Tudjman si richiama a questa teoria, poiché gli fa comodo per definire la guerra in Bosnia
come l'inevitabile conflitto tra l'islam e il cristianesimo, e per rafforzare su basi pseudoscientifiche
la sua vecchia concezione sulla necessità di dividere il paese.
A seguito di tutti gli avvenimenti dell'inizio di aprile 1992 e pressata dalla realtà in cui si trova il
paese, la presidenza della Bosnia Erzegovina proclama l'8 aprile l'imminente pericolo di guerra e
costituisce il comando della Difesa territoriale della Repubblica di Bosnia Erzegovina. Viene
nominato comandante l'ex colonnello della Jna Hasan Efendic (bosniaco-musulmano), il capo di stato
maggiore è Stjepan Siber, colonnello, croato; il suo vice è Jovan Divjak, colonnello, serbo;
diventano membri del comando Abdulah Kajevic (per le comunicazioni e il sistema di
mobilitazione), Franjo Plečko (logistica) e Kerim Lučarevic (comandante della polizia militare).
La costituzione del comando della Difesa territoriale in questo modo è certamente indispensabile,
ma rappresenta anche un avvenimento straordinario nella storia delle guerre: è difficile trovare uno
stato che si sia costituito e abbia ottenuto il riconoscimento internazionale senza avere un esercito
organizzato e incaricato di difendere la Costituzione e l'integrità territoriale. La Bosnia infatti è
rimasta orfana della sua Difesa territoriale, disarmata nel 1990 e abbandonata dalla maggioranza dei
suoi ufficiali, che hanno aderito al disegno della Grande Serbia. Prima che scoppiasse il conflitto
nel 1992 i comandanti della Difesa territoriale hanno consegnato alla Jna più di 300 mila armi, fucili,
mortai leggeri e pezzi d'artiglieria, e anche un certo numero di blindati. Quella bosniaca è infatti
l'unica Difesa territoriale delle repubbliche federate che ha pienamente rispettato l'ordine dello stato
maggiore dell'Armata del maggio 1990, secondo cui tutti gli armamenti in dotazione ai territoriali
dovevano essere consegnati ai depositi dell'esercito. Secondo stime autorevoli, anche con la sola
metà di quelle armi nelle mani dei difensori bosniaci la storia della guerra in Bosnia avrebbe avuto
tutt'altro corso.
Alla gravità della situazione contribuisce in buona misura anche l'indecisione dei vertici politici
della Bosnia: i leader del paese, con a capo il presidente Alija Izetbegovic, sperano a lungo di poter
arrivare a un compromesso con la Jna e quindi di evitare la guerra.
Lo stesso Izetbegovic, per esempio, non riesce a risolversi ad autorizzare gli appartenenti alla
Lega patriottica a recuperare tempestivamente dal deposito di Faletiči, nei pressi di Sarajevo, 30
mila armi moderne ed efficienti «per non inimicarsi il generale Kukanjac e la Jna». Quelle armi
verranno recuperate e impiegate più tardi proprio dall'Armata. A Tuzla, invece, non stanno a sentire
troppo le istruzioni di Sarajevo e i difensori locali riescono a impedire che venga fatto uscire dalla
città un grosso convoglio di armi e munizioni e questo, per molto tempo, renderà la difesa della
regione qualitativamente migliore di quella di Sarajevo.

L'oRGANIZZAZIONE dELLA dIFESA


La decisione della presidenza dell'8 aprile sull'organizzazione della Difesa territoriale viene
messa in atto molto rapidamente. In due giorni la lealtà al nuovo comando territoriale è confermata
per iscritto da 40 dei 48 appartenenti del comando precedente. Pochi giorni dopo, in Bosnia
Erzegovina ci sono ormai sette comandi distrettuali. Dei 109 comandi municipali, 73 accettano la
nuova organizzazione basata sulla decisione della presidenza del paese.
Solo quattro giorni dopo quella decisione, il comando dispone di una lista di 75 mila uomini di
tutte le etnie che si presentano volontari per la difesa del paese. La decisione prevede, inoltre, che
tutte le unità della Lega patriottica, dei berretti verdi e altre, entrino a far parte della Difesa
territoriale entro il 15 aprile. In tal modo la struttura unisce tutte le forze di difesa e diventa
resistenza organizzata. Il comando della Lega patriottica, con a capo Kemo KariSik, si unisce al
comando della Difesa territoriale della Bosnia Erzegovina. Quello stesso giorno viene comunicato
che nelle fila dei territoriali sono già passati 187 ufficiali dell'Armata, in gran parte bosniaci
musulmani e croati, così come un gruppo di albanesi. Il 12 aprile, il comando elabora la «Direttiva
per la difesa della sovranità e dell'indipendenza della repubblica di Bosnia Erzegovina» e la invia a
tutti i comandi subordinati. Ma la protezione delle informazioni riservate è insufficiente e la direttiva
arriva nel medesimo giorno anche sulla scrivania di Radovan KaradŽic. Questi la utilizza subito per
affermare pubblicamente che «i musulmani incominciano la guerra contro i serbi».
Jovan Divjak, il colonnello dell'Armata diventato presto generale e vice comandante dell'esercito
bosniaco, testimonia che nell'aprile del 1992 la popolazione comincia a organizzarsi spontaneamente
nelle circoscrizioni e nei quartieri e che la guidano autoproclamati e autoimpostisi comandanti locali
che hanno messo sentinelle di guardia alle postazioni allestite in precedenza dalle unità paramilitari
serbobosniache. Poi, nei mesi di maggio e giugno si organizzano i comandi e i reparti della Difesa
territoriale (pattuglie, reparti e battaglioni), in luglio e in agosto si formano le brigate e da settembre
alla fine del 1992 si costituiscono anche i corpi d'armata.
Divjak racconta inoltre che in questa fase iniziale di difesa della Bosnia Erzegovina gli agenti di
polizia, all'epoca i meglio organizzati e armati, svolgono un ruolo molto significativo. Nei centri a
maggioranza bosniaco-musulmana sono i poliziotti a sostenere il primo urto militare, in particolare a
Sarajevo. E con la difesa di città come Sarajevo, Tuzla, Mostar, GoraŽde, Bihac, Maglaj, Kalesija,
riescono a far guadagnare tempo e a impegnare ingenti forze serbe: la loro opera permette
un'accelerazione nell'organizzazione della difesa del paese e nella costituzione dell'esercito
bosniaco.
Parallelamente all'inizio degli attacchi armati aperti contro le città della Bosnia centrale e
orientale, l'8 aprile a Grude, nell'Erzegovina occidentale, si costituisce il Consiglio di difesa croato
(Hvo) quale «unica forma istituzionale di difesa» dei croati di Bosnia. In queste formazioni, nelle
località dove non è ancora iniziata la costituzione dei reparti della Difesa territoriale, entrano anche
numerosi bosniaci-musulmani i quali, tuttavia, nell'Hvo restano in forte minoranza rispetto ai croati.
In poco tempo i bosniaci-musulmani scompariranno del tutto dalle unità dell'Hvo.
Invece, nelle unità dell'Hos (Forze armate croate) che si costituiscono sotto l'egida del Partito
croato del diritto, i bosniaci-musulmani rappresentano una componente significativa e paritaria. Nel
corso della guerra saranno proprio le unità Hvo a imporsi in modo decisivo sulle forze Hos, e il
comandante dell'Hos BlaŽ Kraljevic e alcuni suoi più stretti collaboratori saranno uccisi in un
agguato teso dall'Hvo.
Il presidente della presidenza della Bosnia Erzegovina, Alija Izetbegovic, nel corso del mese di
aprile si rivolge più volte alla popolazione esprimendo la sua personale convinzione che la guerra
non ci sarà. A un certo punto invita persino il maggior numero possibile di cittadini a uscire e
passeggiare pacificamente per le strade di Sarajevo per dimostrare di non temere il pericolo di una
guerra e per far vedere che non c'è motivo alcuno di avere paura. Izetbegovic afferma apertamente
che «la guerra in Croazia non è la nostra guerra e non è detto che debba trasferirsi anche in Bosnia
Erzegovina».
Tutte le analisi ragionevoli, locali e straniere, così come gli avvenimenti in Croazia e nella stessa
Bosnia, però, fanno prevedere il contrario. Molti sarajevesi, in particolare le donne con figli piccoli,
incominciano a lasciare la città, convinti, nonostante tutto, che si tratterà solo di un'assenza
temporanea. Per molti, invece, in quei giorni inizia un lungo e difficile calvario alla fine del quale
non torneranno mai più a casa. Anche la Jna organizza, con aerei militari, l'evacuazione dei propri
ufficiali e delle loro famiglie. Gli accessi all'aeroporto sono controllati sì dall'esercito, ma anche dai
paramilitari dell'Sds. I tentativi di accaparrarsi un posto negli ultimi aerei che da Sarajevo, con il
consenso dell'esercito, decollano verso l'estero, si trasformano in un vero dramma che sempre più
assomiglia alle scene di evacuazione da Saigon alla fine della guerra del Vietnam.
Dal neocostituito comando delle forze di monitoraggio dell'Onu, situato nella casa di riposo di
Sarajevo, gli alti ufficiali e comandanti, con a capo il generale indiano Satish Nambiar, si ritirano a
Stojčevac, nei pressi di Sarajevo, provocando così inquietudine nella cittadinanza. Tuttavia,
continuando a credere che con l'Armata si possano stipulare accordi efficaci, il 26 aprile Alija
Izetbegovic firma con Branko Kostic «l'accordo sul ritiro della Jna dalla Bosnia Erzegovina». Kostic
in questa occasione agisce a nome della illegittima presidenza jugoslava, abbandonata ormai dai
rappresentanti di Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina e Macedonia. Solo un giorno dopo, il 26
aprile, a Belgrado viene proclamata la Repubblica federale di Jugoslavia (Rfj) costituita dalla
Serbia, che comprende la Vojvodina e il Kosovo, e dal Montenegro.
L'Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) comunica che in Bosnia Erzegovina gli sfollati sono
già oltre 400 mila (il 10 per cento della popolazione), di cui 122 mila nella stessa Bosnia, 201 mila
in Croazia, 61 mila in Serbia, 12 mila in Montenegro, 10 mila in Slovenia. importante sottolineare
che solo una minima parte di questa prima ondata di profughi se ne va all'estero, lontano dalle
proprie case, nella convinzione che i problemi siano passeggeri e nella speranza di tornare presto a
casa.
All'inizio di maggio, all'aeroporto di Sarajevo, controllato dalla Jna, Alija Izetbegovic, di ritorno
dai negoziati di Lisbona, assieme al resto della delegazione, viene praticamente fatto prigioniero e
portato alla caserma di Lukavica, alla periferia di Sarajevo. E' con lui anche la figlia Sabina,
segretaria e consigliere nel gabinetto del padre. Dopo due giorni di confusione, durante i quali i
generali della Jna affermano che «Izetbegovic è trattenuto per motivi di sicurezza» e nello stesso
tempo a Sarajevo si prepara una sorta di golpe che dovrebbe portare a capo della presidenza
collegiale Fikret Abdic, «cooperativo» con l'esercito federale, Alija Izetbegovic viene scambiato
con il generale Milutin Kukanjac, comandante del corpo d'armata della Jna con sede a Sarajevo. Nel
corso di questa operazione, i difensori della capitale bosniaca sequestrano una grande quantità di
importanti documenti dall'archivio del corpo d'armata sarajevese che permettono di comprendere
appieno gli obiettivi dell'operazione Ram: la destabilizzazione e la disintegrazione delle istituzioni
bosniache.
Sono i giorni in cui per le strade della città si scatenano violenti combattimenti in cui i difensori
riescono a impedire alla Jna di tagliare Sarajevo in due (l'obiettivo è di isolare totalmente il centro
storico). In città, nel quartiere di Pofaliči, si combatte la prima grande e diretta battaglia tra i
bosniaci e i soldati dell'Armata, battaglia che i difensori sarajevesi vincono secondo tutte le regole
di una «guerra d'accademia» e sebbene abbiano un solo cannone e un blindato grazie alla grande
motivazione dei combattenti e anche alla conduzione esatta della battaglia da parte di giovani
ufficiali della Jna che fin dall'inizio erano passati nelle file dei difensori di Sarajevo.
Nella Krajina bosniaca, intanto, in particolare nella zona di Banja Luka e di Prijedor, i primi
giorni di maggio sono segnati da eccidi in massa e da espulsioni della popolazione non serba, mentre
arrivano le prime informazioni sui «centri di accoglienza», in verità veri e propri campi di
concentramento (il poligono militare della Jna a Manjača, la fabbrica Keraterm, il villaggio di
Trnopolje, la miniera di Omarska) per i quali entro la fine dell'estate passeranno circa 50 mila
bosniaci-musulmani e croati. Il numero esatto degli uccisi in quei lager, che è certamente molto alto,
non si potrà stabilire con precisione nemmeno cinque anni dopo la guerra perché numerose fosse
comuni resteranno ancora da scoprire. I villaggi musulmani (Kozarac, Hambarine) e croati (Ivanjska,
Trn) sono saccheggiati e totalmente distrutti e incendiati, così come i luoghi di culto islamici e
cattolici. Si apre anche uno dei più famigerati lager della guerra bosniaca, Luka, a Brčko, dove per
diversi giorni si continua a massacrare un numero imprecisato di bosniaci-musulmani e croati.
Nel Sud della Jugoslavia, senza incidenti di rilievo, inizia il ritiro della Jna dalla Macedonia,
mentre gli ufficiali originari della Bosnia vengono inviati nell'esercito di Mladic.
Il 4 maggio, la Bosnia Erzegovina dichiara finalmente la Repubblica jugoslava aggressore e chiede
l'intervento internazionale. Le persistenti e, come si dimostrerà, non realistiche attese dell'intervento,
basate su una piuttosto ingenua fiducia nella «giustizia internazionale», diventano una costante della
politica di Sarajevo. L'intervento, indispensabile per il popolo bosniaco, invece non arriva per vari
motivi, politici e pseudo politici. Giungerà molto tempo dopo, nel 1995, quando diventerà
indispensabile all'Occidente e molto importante per la Nato, ma per la Bosnia Erzegovina e per molti
dei suoi abitanti sarà troppo tardi. Solo due giorni dopo che la Bosnia denuncia l'aggressione
jugoslava, il 6 maggio a Graz, in Austria, si incontrano Mate Boban, presidente dell'Hdz bosniaca e
Radovan KaradŽic, presidente dell'Sds, «intenzionati a far cessare le ragioni del conflitto armato tra
serbi e croati in tutto il territorio della Bosnia Erzegovina». Tuttavia, non riescono a trovare un
accordo per una «concordante definizione dei confini tra i popoli serbo e croato in Bosnia
Erzegovina», in primo luogo perché KaradŽic in Erzegovina vuole il confine lungo la Neretva e l'Hdz
vuole per intero la città di Mostar e Stolac. Accordi occasionali e trattative continueranno anche in
seguito.
Ratko Mladic, promosso generale, viene nominato comandante dell'esercito dei serbi di Bosnia
(Vrs, Vojska Republika Srpska).
Questo esercito viene formato con i resti della Jna, dai reparti della Difesa territoriale e dalle
formazioni paramilitari del Sds.
Intanto, nel maggio del 1992 sul piano internazionale incomincia una lunga, burocratica, tragica e
controproducente partita per la Bosnia, nel tentativo di trovare una via d'uscita dalla crisi. E gli
organismi internazionali si dimostreranno tutt'altro che all'altezza di una simile situazione. Lo stesso
giorno in cui Mladic diventa comandante dell'esercito aggressore, il Consiglio di sicurezza dell'Onu
approva una delle circa 60 risoluzioni relative alla Bosnia, che questa volta porta il numero 752, in
cui si chiede che le «unità della Jna e gli elementi dell'esercito della Croazia» si ritirino dalla Bosnia
Erzegovina o si sottomettano alle autorità di Sarajevo.
Quanto deve essere stata scarsa la conoscenza e grande l'incomprensione della situazione sul
campo per approvare questa risoluzione e per credere nella sua efficacia. Nello stesso tempo
Washington ritira il proprio ambasciatore da Belgrado, suscitando null'altro che soddisfazione nei
circoli della capitale jugoslava.
In Bosnia Erzegovina comincia a emergere la consapevolezza che la soluzione per la drammatica
situazione e la via verso un futuro migliore devono essere cercate affidandosi in primo luogo alle
proprie forze. Il 20 maggio, la presidenza collegiale decide di formare le forze armate della
Repubblica di Bosnia Erzegovina. Il comando della Difesa territoriale diventa lo stato maggiore
delle forze armate della Repubblica di Bosnia Erzegovina. Tre giorni dopo è nominato capo di stato
maggiore Sefer Halilovic (musulmano), ex ufficiale della Jna. I suoi vice sono Stjepan Siber (croato)
e Jovan Divjak (serbo).

DAVIDE e GOLIA
I sarajevesi si rendono conto, forse per la prima volta, che è iniziata una guerra sanguinosa e senza
esclusione di colpi, intorno a mezzogiorno del 27 maggio, quando tre granate da mortaio, sparate una
dopo l'altra da postazioni serbe intorno alla città, colpiscono una fila di persone davanti al mercato
coperto di Markale in via Vase MiSkina, nel centro di Sarajevo. Le conseguenze sono tragiche:
venticinque morti e un centinaio di feriti, tutti civili, che facevano la fila per comprare il pane. Le
immagini del massacro fanno subito il giro del mondo, perché a Sarajevo già si trovano decine di
troupe televisive europee e americane. Sugli schermi di molti paesi, però, queste immagini non
arrivano perché «troppo crude per il pubblico».
Il Consiglio di sicurezza dell'Onu continua a votare risoluzioni che non hanno alcuna efficacia. Il
30 maggio approva la risoluzione numero 757 che introduce le sanzioni contro la Jugoslavia per il
«mancato rispetto» della risoluzione 752. Nella nuova risoluzione non si menzionano più gli
«elementi dell'esercito della Croazia» perché l'esercito croato (Hv) si trova nella Bosnia (in
Posavina e in Erzegovina) in base all'accordo tra Tudjman e Izetbegovic. Questo accordo sarà poi
più volte messo in discussione con il conseguente dilemma se l'Hv fosse o meno un «esercito
aggressore».
Cercando di evitare le discussioni sul tema vero l'aggressione contro la Bosnia Erzegovina come
paese sovrano e internazionalmente riconosciuto i centri politici internazionali, attraverso le Nazioni
unite, spostano la discussione sugli «aspetti umanitari della crisi in Bosnia». Russia, Cina, Francia e
Gran Bretagna oppongono, direttamente o indirettamente, particolare resistenza a riconoscere
l'aggressione e nello stesso tempo tutti insieme cercano di tenere il più possibile lontani da questa
regione gli Stati Uniti, con il pretesto che è «un problema interno dell'Europa». Per questo, l'8
maggio, il Consiglio di sicurezza dell'Onu decide che le forze di pace prendano il controllo
dell'aeroporto di Sarajevo per istituire il ponte aereo e far arrivare gli aiuti umanitari. Fino ad allora
lo scalo aereo era stato nelle mani dell'esercito della Repubblica serba. Con il tempo si dimostrerà
che le forze di pace potranno controllare solo l'edificio semidistrutto dell'aerostazione, la pista e un
piccolo pezzo di terreno intorno a essa. In verità, l'esercito serbobosniaco continuerà a controllare
strettamente tutti gli accessi allo scalo e a fare il bello e il cattivo tempo lasciando passare solo chi
gli aggrada. Molti bosniaci-musulmani saranno portati via dal posto di controllo istituito presso
l'aeroporto e il vice presidente del governo di Sarajevo, Hakija Turajlic, l'8 gennaio 1993 sarà
ucciso a bordo del blindato del contingente militare francese dell'Unprofor.
La politica e la strategia di Belgrado nella regione vengono confermate e rafforzate in modo
particolare il 15 giugno con l'elezione di Dobrica čosic alla presidenza della Rfj. In Bosnia si
intensifica la battaglia contro l'Armata e l'esercito dei serbobosniaci; i primi successi militari si
registrano in Erzegovina.
Il 16 giugno, le forze congiunte croato-musulmane partono al contrattacco a Mostar e in pochi
giorni liberano la città sospingendo il nemico in Erzegovina orientale, verso Trebinje. Nel quadro di
questa operazione, i reparti dell'Hos raggiungono le porte di Trebinje (una ventina di chilometri a
nord di Dubrovnik), abbandonata sia dalle forze militari sia dalla popolazione, ma le pressioni
politiche dell'Hdz e dell'Hvo li bloccano. chiaro fin da subito che la liberazione di Trebinje potrebbe
significare l'inizio della liberazione di più vaste zone della Bosnia Erzegovina e minare l'accordo
MiloSevic-Tudjman sulla dissoluzione della Bosnia e la spartizione del suo territorio tra la Croazia e
la Serbia.
La presidenza collegiale bosniaca, che spesso reagisce in ritardo, solo il 20 giugno si riunisce a
Sarajevo per proclamare lo stato di guerra, ordinare la mobilitazione generale e approvare la
«Piattaforma per l'attività della presidenza in tempo di guerra». In questo momento la situazione
militare, in particolare l'armamento dei difensori, è scoraggiante in confronto a quello di cui
dispongono la Jna e il Vrs. In un'analisi della situazione relativa all'assedio e alla difesa di Sarajevo,
pubblicata nel libro La guerra in Croazia e in Bosnia Erzegovina 1991-1995 (The Bosnian Institute,
London; NaKlada Jesenski i Turk, Zagreb; Dani, Sarajevo 1999), il generale Jovan Divjak illustra il
rapporto di forze durante la guerra sull'esempio del primo corpo d'armata (di Sarajevo) dell'esercito
della Bosnia Erzegovina e del primo corpo d'armata (di Sarajevo e Romanija) del Vrs: «Noi come
Difesa territoriale della Bosnia Erzegovina, ossia l'esercito della repubblica di Bosnia Erzegovina al
completo, non abbiamo mai avuto carenza di uomini e già nel maggio del 1992 avevamo 75 mila
volontari. L'anno dopo, in tutto il paese avevamo registrato 200 mila uomini, sebbene non tutti
fossero armati, e nel 1994 abbiamo raggiunto la cifra di 250 mila. Il problema fondamentale è che
non avevamo neanche abbastanza fucili per tutti i soldati. Sarajevo, con 350 mila abitanti rimasti in
città, forniva 30-35 mila uomini, e con un'organizzazione migliore ne avremmo potuto avere anche di
più. Però, all'epoca, avevamo in tutto solo sei fucili di precisione semiautomatici e gli assedianti ne
avevano 285.
Eravamo inferiori rispetto agli aggressori in tutte le altre categorie di armamenti. Per quanto
riguarda i corazzati, avevamo solo un carro armato T55, un blindato da trasporto e un veicolo
militare da combattimento per fanteria (Bvp). Nello stesso tempo, il corpo d'armata (serbo, ndr) di
Romanija disponeva di 13 carri armati T34, 73 carri armati T55 e 5 più sofisticati carri armati T-84.
Avevano anche 42 blindati da trasporto, 56 obici da oltre 100 millimetri, mentre noi non ne avevamo
neanche uno. Se parliamo di carri armati, anche alla fine della guerra, alla vigilia dell'accordo di
pace di Dayton, l'esercito bosniaco ne aveva in tutto 80, mentre il Vrs quasi 300. In poche parole, il
corpo d'armata Vrs di Romanija aveva un enorme vantaggio in fatto di armi leggere, anticarro e
d'artiglieria.
L'esercito bosniaco all'inizio della guerra aveva poco meno di 4000 fucili automatici e
semiautomatici mentre il corpo d'armata Romanija ne aveva 17 mila. Per fare un esempio, il Vrs nel
1994 puntava su Sarajevo 35 pezzi d'artiglieria di calibro superiore a 12,7 millimetri per ogni
chilometro di fronte, cosa che è stata confermata anche dall'Unprofor quando queste armi sono state
messe sotto controllo. Nella Seconda guerra mondiale il maggior concentramento di artiglieria
conosciuto è stato quello dell'Armata rossa alle porte di Berlino: 25 canne per un chilometro del
fronte».
Con tale superiorità di armamenti, i serbobosniaci potrebbero muovere alla conquista di Sarajevo,
ma non lo fanno. Il generale Divjak spiega in questi termini la mancata azione: «Le ragioni sono
varie. Primo, intorno a Sarajevo avevano poco meno di 29 mila uomini dispiegati su una linea del
fronte lunga 64 chilometri, poco spessore quindi per un valido attacco di fanteria; mentre i mezzi
corazzati non potevano essere usati in misura significativa in città dove non possono manovrare, e
poi perché, naturalmente, non glielo permettevano le forze di difesa bosniache. Terzo, se fossero
entrati sarebbero stati responsabili per gas, elettricità, acqua e cibo.
Restando fuori invece potevano controllare tutto ciò e permettere che in città arrivassero i
rifornimenti che loro volevano. Quarto, per quanto possa sembrare folle, anche la comunità
internazionale ha in qualche modo "dosato" il conflitto; l'Unprofor aveva le proprie postazioni dalle
quali poteva intervenire in caso di una nostra offensiva per liberare la città o di un attacco serbo per
entrare in qualche zona nuova. Tuttavia, il nemico non ha avuto la possibilità di penetrare in città».

CHE cOSA vUOLE Mitterrand La visita del presidente francese François Mitterrand è
un'occasione perduta per porre fine in modo giusto al dramma della Bosnia. Arrivando il 28 giugno
1992 a Sarajevo, Mitterrand «in modo simbolico» apre l'aeroporto della capitale ai voli umanitari,
ma in effetti ridimensiona al solo problema umanitario l'aggressione contro la Bosnia, la violenza e il
terrore contro civili e popolazione inerme. Da quel momento, pochi nel mondo si chiederanno perché
mai a Sarajevo, una città che ha sempre avuto una sua economia, generi alimentari, medicinali e tutto
quanto le serviva, sia necessario portare rifornimenti con aerei e convogli, invece di fare quello che
serve per sbloccare la città e permetterle di funzionare normalmente.
Molti continueranno, anni dopo, a considerare la visita di Mitterrand come un grosso regalo fatto
ai serbi, che ha impedito l'intervento militare al quale, in alcuni centri politici e militari
dell'Occidente, si stava già pensando seriamente. Oltre a questo, l'intera operazione assume una
particolare simbologia per il fatto che Mitterrand arriva a Sarajevo il giorno di San Vito, la festa
ortodossa che i serbi vivono in maniera mitologica legandola alla «intramontabile gloria del
Kosovo» e alla battaglia contro i turchi del 1389.
Finché Mitterrand rimarrà alla presidenza della Francia, sulla missione francese in Bosnia peserà
l'ombra dei sentimenti che il presidente apertamente nutriva per la «tradizionale amicizia franco-
serba», nata ai tempi della Grande guerra. D'altro canto, Mitterrand e i francesi, a causa della forte
tradizione centralista del loro stato, giudicheranno a priori croati, sloveni e bosniaci come
secessionisti e separatisti, senza un minimo di comprensione.
Inoltre, numerosi uomini politici, ufficiali e soldati francesi dimostreranno di non capire e di non
accettare i musulmani e la presenza dell'islam in Bosnia Erzegovina in quanto realtà storica, religiosa
e culturale, identificandola con l'islam del mondo arabo che, per le loro esperienze, vedono in
maniera estremamente negativa.
Vedranno non di rado il presunto «integralismo» in Bosnia e il pericolo che si possa diffondere
nell'«Europa civilizzata», come giustificazione sufficiente per le malefatte di MiloSevic, KaradŽic,
Mladic e altri. Infine, basandosi sulle vecchie amicizie e i legami con quella che una volta era la
potente Jna, agli ufficiali francesi non sembrerà possibile trattare alla pari gli ufficiali e i soldati del
neocostituito esercito bosniaco, spesso con uniformi disuguali, senza contrassegni formali, stellette, e
così via. I
«regolari» ufficiali di Mladic, con tutte le stellette e i nastrini, gradi e uniformi, saranno di regola
per i loro interlocutori più piacevoli e più «naturali» rispetto agli sbrindellati ufficiali bosniaci.
Il ponte aereo con Sarajevo, istituito con la venuta di Mitterrand in città, è più che altro una grande
illusione, ma anche un affare propagandistico a effetto per le televisioni di mezzo mondo. Tutto
somiglia in qualche modo alla spettacolare operazione di salvataggio di Berlino ovest, dopo la
Seconda guerra mondiale, anche se gli aerei, carichi soprattutto di farina, riso e pasta, riusciranno, in
condizioni ottimali, a trasportare il 20 per cento del fabbisogno cittadino giornaliero. Una storia a
parte è rappresentata dal fatto che un solo colpo di fucile in direzione degli aerei è sufficiente per
fermare i voli per più giorni, a volte per mesi. Parallelamente, sono quotidiani gli ostacoli posti al
passaggio di convogli terrestri che invece potrebbero essere di gran lunga più efficaci per la
popolazione della capitale e di altre città bosniache assediate.
Nessuno pensa mai a rimettere in funzione la ferrovia che dal mare va a Sarajevo e che non è
eccessivamente danneggiata. Mitterrand semplicemente ritiene l'assedio di Sarajevo un «problema
umanitario» e un fatto compiuto, e considera l'esercito serbo come una forza intoccabile. Le azioni e
le operazioni politiche, innanzitutto quelle che passano per le Nazioni unite resteranno soggette a
questa concezione per molto tempo, finché gli Stati Uniti e la Nato non decideranno con più energia
di intromettersi, con l'intervento militare, in questa «questione europea». E lo faranno proprio su
continua insistenza di Francia, Gran Bretagna e anche di altri paesi del vecchio continente.
Contemporaneamente a questa sorta di legittimazione politica dell'aggressione serba contro la
Bosnia Erzegovina, Franjo Tudjman, il presidente croato, comincia a dare a KaradŽic le prime
visibili concessioni politico-militari. Tra la fine di maggio e l'inizio di giugno, nonostante la
posizione militare più vantaggiosa, Tudjman, seguendo linee di comando parallele e spesso lasciando
all'oscuro il comando generale dell'esercito croato, ordina il ritiro dei suoi uomini da alcune zone
della Posavina bosniaca, il che permette alle forze serbe provenienti da Banja Luka di congiungersi
con quelle di Bijeljina e di istituire un corridoio di comunicazione di vitale importanza tra la Serbia
e le zone della Croazia e della Bosnia sotto controllo serbo. Quasi tutti i comandanti dell'Hv e
dell'esercito bosniaco in quella zona vengono colti di sorpresa dall'ordine di ritirarsi venuto da
Zagabria. Proprio in quel momento esistono infatti tutte le condizioni operative, tattiche e strategiche
per prevalere nella zona infliggendo significative sconfitte al Vrs e per interrompere la strategica
linea di comunicazione tra Belgrado e Banja Luka. Le truppe serbe, allora, senza troppo sforzo
entrano a Derventa, Modrica, OdŽak e Bosanski Samac, località che saranno si vedrà poi importanti
per «equilibrare» a Dayton la divisione della Bosnia. In questo schema di spartizione si inserisce, il
3 luglio, anche la decisione della Hrvatska Zajednica Herceg-Bosna (Hzhb) di istituire «il potere
esecutivo provvisorio nelle zone liberate e difese», e ciò con il pretesto della «dissoluzione
dell'amministrazione statale in Bosnia Erzegovina». La parte croata comincia, insomma, a porre le
fondamenta della futura autoproclamata repubblica croata di Bosnia. Nel testo, a dire il vero, si legge
che con ciò «non si pone in alcun modo in questione la sovranità e l'integrità della Bosnia
Erzegovina» e che «l'Hvo si considera parte integrante delle forze difensive sottomesse alla
presidenza della Bosnia Erzegovina». Ma con il tempo sarà chiaro che tali precisazioni sono solo
fumo per l'opinione pubblica e per quei circoli internazionali che ancora credono che la Bosnia
Erzegovina debba restare uno stato unito e indipendente. Nella realtà, Hzhb e Hvo avranno un
comportamento completamente diverso.
Tra le decisioni della presidenza bosniaca con cui si cerca di intensificare la difesa del paese, è
importante quella del 4 luglio: con un decreto presidenziale la Difesa territoriale della Bosnia si
trasforma ufficialmente in «Armata della Repubblica di Bosnia Erzegovina» (ArBiH).

INIZIA iL cONFLITTO tRA bOSNIACI mUSULMANI e cROATI


Due giorni più tardi, il 6 luglio, le delegazioni di Hdz e Sda, autoproclamandosi «rappresentanti
legittimi del popolo croato e bosniaco» negoziano a Medjugorje, in Erzegovina, le forme di
decentramento del paese. Risulta evidente che sussistono profonde differenze di concezione e un
grave disaccordo sull'importanza che dovrebbe avere l'appartenenza etnica in un'eventuale
formazione di «cantoni» in uno specifico territorio. Il giorno seguente, 7 luglio, è un giorno
importante sul fronte in Croazia: l'esercito croato (Hv) dopo quattro giorni di sanguinose battaglie,
rompe l'assedio di Dubrovnik.
Come risultato della sempre maggiore sfiducia tra i partner politici Hdz e Sda, la presidenza della
Bosnia Erzegovina decide il 12 luglio formalmente a causa dello stato di guerra di avocare a sé,
trasferendola dal ministero della Difesa, l'autorità sullo stato maggiore della ArBiH. Ministro della
Difesa è un membro dell'Hdz.
Nonostante tutto, il 21 luglio Izetbegovic e Tudjman firmano a Zagabria l'accordo che riconosce
all'Hvo lo status di legale forza militare che, assieme all'ArBiH, costituisce le forze armate della
Repubblica di Bosnia Erzegovina. I due presidenti annunciano ufficialmente la cooperazione militare
tra i due paesi. Tutto questo intreccio di relazioni, dall'inizio alla fine, è caratterizzato da positive
dichiarazioni ufficiali e promesse da una parte, e da una realtà ben diversa e contraddittoria
dall'altra. Qualche giorno dopo la firma dell'accordo di Zagabria, il 2 agosto, in circostanze molto
oscure, in seguito chiarite come la resa dei conti tra Hvo e Hos, la polizia militare dell'Hvo, nei
pressi di Mostar tende un agguato e uccide BlaŽ Kraljevic, comandante dell'Hos e fautore di
un'alleanza tra croati e bosniaci-musulmani. La diretta conseguenza dell'assassinio è la dissoluzione
dell'Hos. I croati di quelle formazioni entrano per lo più nell'Hvo e i musulmani nell'ArBiH.
A metà agosto, i media statunitensi e britannici annunciano l'esistenza dei campi di concentramento
serbi in Bosnia per bosniaci e croati. Il reportage che svela questi orrori all'opinione pubblica
mondiale è del giornalista americano Roy Gutman che, in seguito, per le sue indagini sui lager in
Bosnia pubblicate nel libro Witness to Genocide, vincerà il premio Pulitzer.
All'inizio del mese, il 3 agosto, con la richiesta del presidente della presidenza bosniaca, Alija
Izetbegovic, al Consiglio di sicurezza dell'Onu perché sia permessa alla Bosnia Erzegovina
l'importazione di armi in base all'articolo 51 della Carta delle Nazioni unite che garantisce il diritto
all'autodifesa agli stati membri aggrediti, il vertice politico della Bosnia inizia una lunga battaglia
senza successo per far togliere l'embargo sulle armi che grava su tutta l'ex Jugoslavia. L'embargo, in
effetti, colpisce direttamente solo la Bosnia Erzegovina perché il Vrs ha incominciato la guerra con
una quantità quasi illimitata di armi e munizioni ottenute dalla Jna (che continuerà a rifornirlo), così
come Hv e Hvo sono riusciti per tempo ad assicurarsi significative quantità di armi e munizioni. La
risposta negativa, che puntualmente arriva a ogni richiesta di questo tipo da parte bosniaca, è perciò
cinica e senza alcun senso della realtà se non quello di impedire all'ArBiH di ottenere per vie
militari i diritti della Bosnia negati con la forza e la violenza. Si dice che togliere l'embargo
significherebbe solo un aumento del numero delle armi in circolazione, un maggiore versamento di
sangue e più distruzioni. Naturalmente, non viene per nulla preso in considerazione il fatto
storicamente incontrovertibile che solo un equilibrio militare può assicurare una pace stabile e
duratura nelle regioni soggette a conflitti. Senza le armi, soltanto i bosniaci risultano a lungo andare
condannati al genocidio. La Bosnia Erzegovina sarà così costretta ad armarsi clandestinamente e ad
accettare aiuti da chi è interessato a instaurare in Bosnia una strategica influenza politica e religiosa.
La disponibilità a fornire aiuti, quindi, viene quasi esclusivamente dai paesi islamici. Questo, come
si vedrà con il tempo, influirà in buona misura sull'orientamento politico interno della dirigenza di
Sarajevo e cambierà l'iniziale stato di cose.
In questa situazione, anche i vertici politici serbi realizzano rapidamente i loro piani: il 12 agosto,
la cosiddetta Repubblica serba di Bosnia Erzegovina cambia nome in Republika Srpska, cancellando
così un qualsiasi richiamo alla Bosnia Erzegovina. La dirigenza della Rs spera davvero che il
«proprio pezzo» di Bosnia non appartenga mai più a questo stato.
Alla fine di agosto la comunità internazionale cerca, con la Conferenza di Londra, di tratteggiare
un quadro definitivo per la soluzione del problema e per porre fine alla guerra. La dichiarazione
finale della Conferenza, che si tiene il 26 e 27 agosto, formula in modo seguente le condizioni per la
soluzione politica: tutte le ex repubbliche jugoslave devono riconoscere la Bosnia Erzegovina nei
suoi confini attuali che possono eventualmente essere modificati solo con il consenso di tutte le parti
interessate; le comunità etniche e le minoranze devono avere garantiti tutti i diritti e tutti i profughi
hanno il diritto di ritornare alle loro case. Si prevede la creazione di una forza di pace internazionale
sotto l'egida del Consiglio di sicurezza dell'Onu per mantenere il cessate il fuoco e controllare i
movimenti delle forze militari. Lo scopo sarebbe quello di «intraprendere tutte le misure necessarie
per l'instaurazione della fiducia reciproca». Ancora una conferenza alle cui conclusioni non si atterrà
praticamente nessuno. Un lucidissimo giornalista scrive il giorno seguente: «La comunità
internazionale non è disposta a intraprendere nulla di concreto contro MiloSevic e KaradŽic, il che
non costituisce il massimo della tragedia. Tragico è che i due lo sanno perfettamente».
Subito dopo la Conferenza di Londra, il 3 settembre, iniziano i lavori di una nuova conferenza
permanente sulla Jugoslavia, sotto la presidenza di David Owen (per la Ce) e Cyrus Vance (per
l'Onu). Il giocatore numero uno della partita è Owen, un tipico, freddo, pragmatico, diplomatico
britannico di vecchia scuola; quella che aveva per motto: in politica non esistono né gli amici, né la
giustizia, solo gli interessi. Owen si attiene alla tesi che tutto ciò che succede nei Balcani è il
risultato della follia di tribù primitive che bisogna dividere per sempre. Fin dall'inizio la sua
concezione è quella di smembrare la Bosnia e di soddisfare gli appetiti del «più grande e forte» nella
regione: MiloSevic.
Sul piano militare c'è una novità importante in Bosnia: con la decisione della presidenza del 3
settembre si costituiscono cinque corpi d'armata dell'ArBiH. Dieci giorni dopo, il 14 settembre 1992
con la risoluzione numero 776 il Consiglio di sicurezza dell'Onu approva l'invio delle forze di pace
in Bosnia. La decisione viene intesa in modo totalmente differente a New York e a Sarajevo. In
Bosnia, la gente crede sinceramente che queste forze avranno i mezzi e il mandato per imporre la
pace nel paese, a New York, invece, nessuno ci ha mai pensato. La forza dell'Onu ha un diverso nome
e mandato: Unprofor (United Nations Protection Forces), con il compito di proteggere i convogli
umanitari e di evitare in tutti i modi i conflitti di qualsiasi tipo, senza il permesso di usare le armi se
non in caso di autodifesa.
Molti anni dopo, sir Marack Goulding, assistente del segretario generale dell'Onu per le
operazioni militari, in un'intervista a un settimanale di Sarajevo, dirà: «Mi dispiace sinceramente di
aver votato per l'invio di questa forza e, in seguito, per le sei aree protette in Bosnia, perché sapevo
già allora che noi non avremmo avuto né forza, né equipaggiamenti, né possibilità, mentre la gente
avrebbe creduto sinceramente che noi fossimo in grado di proteggerli. Da questo doveva nascere
quella disgrazia per la quale proprio noi saremmo stati responsabili».
Intanto, Franjo Tudjman continua la sua politica. Tra il 6 e l'8 ottobre, Hv e Hvo si ritirano da
Bosanski Brod e il Vrs così arriva a controllare tutta la sponda bosniaca del fiume Sava, a eccezione
di OraSje. Ma le zone a sud del comune di Brčko e la città di Gradačac riescono a difendersi, quindi
il corridoio che collega la Serbia ai territori controllati dal Vrs, nella sua parte più stretta, sarà di
soli cinque chilometri. Si manterrà tale fino alla fine della guerra e sarà per anni oggetto, in quanto
punto chiave per il mantenimento delle conquiste di guerra serbe, di varie partite politico-
diplomatiche dietro le quinte. convinzione diffusa che altrimenti ArBiH, Hvo e Hv avrebbero potuto
tagliare quel corridoio in ogni fase della guerra.
Per compensare in qualche modo la mancata revoca dell'embargo sulle armi destinate ai bosniaci,
il Consiglio di sicurezza dell'Onu approva una nuova risoluzione, questa volta con il numero 781, che
vieta i voli nello spazio aereo bosniaco. Tuttavia, a metà ottobre arriva dalla Bosnia una sorta di
risposta all'embargo. Nel quadro del terzo corpo d'armata di Zenica si costituisce la settima brigata
musulmana che incorpora le «forze musulmane» di Travnik. la prima formazione militare dell'ArBiH
che indica esplicitamente tra i suoi obiettivi la «lotta per la fede». In questa zona, dopo poco tempo
ed evidentemente con il consenso di uomini influenti dei vertici politici e militari di Sarajevo,
appaiono i «volontari» provenienti dai paesi del Medio Oriente. Questi sono portatori di estrema
intolleranza e maltrattano la locale popolazione serba e croata e, in seguito, anche quella musulmana.
Molti volontari resteranno in Bosnia anche dopo la guerra, sposando ragazze bosniache e ottenendo
con tale scorciatoia cittadinanza e passaporto bosniaci.
Le crescenti tensioni tra Hdz e Sda a causa di appetiti territoriali che si fondano rigorosamente
sulla struttura etnica della popolazione, esplodono per la prima volta a Prozor, in Erzegovina, il 25
ottobre, dove le unità dell'Hvo attaccano l'ArBiH e cacciano dalla cittadina i bosniaci-musulmani,
uccidendone parecchi.
L'impostazione della soluzione politica proposta da David Owen scatena le ambizioni dei
maggiori partiti nazionalisti croati e musulmani. Il 28 ottobre a Ginevra, i negoziatori rigettano
formalmente il concetto della divisione della Bosnia in tre repubbliche etniche e si dichiarano a
favore di un sistema costituzionale decentrato all'interno dei confini esterni riconosciuti. Viene
avanzata la proposta di un nuovo assetto della Bosnia Erzegovina costituita da un numero di province
(cantoni) variabile da sette a dieci, con un alto livello di autonomia amministrativa. Le delimitazioni
interne devono ancora essere tracciate, ma è chiaro a tutti che si fonderanno sulla struttura etnica
della popolazione. Il governo centrale di Sarajevo, secondo il piano, avrebbe la competenza sulla
difesa, la politica e il commercio esteri. La presidenza, costituita in base al principio dei
rappresentanti dei tre popoli, avrebbe una funzione protocollare.
Sfruttando evidentemente il sempre più profondo disaccordo tra ArBiH e Hvo, il 29 ottobre i
serbobosniaci conquistano Jajce, una città di grande importanza strategica in Bosnia centrale, da cui
fuggono verso Travnik circa 25 mila bosniaci e croati. Alla disfatta della difesa congiunta
croatobosniaca contribuiscono in misura decisiva gli intrighi politici dell'Hdz. La sfiducia reciproca
e la tensione nei rapporti tra croati e bosniaci si avvicinano al culmine.
L'Hvo getta benzina sul fuoco decidendo, il 18 dicembre, di prendere tutto il potere nelle zone che
controlla. Scioglie i consigli comunali legalmente eletti, destituisce i sindaci che non sono leali
membri dell'Hdz, ma anche amministratori locali croati contrari allo scontro con i bosniaco-
musulmani. In alcune località, come Kiseljak, gli estremisti croati uccidono persino alcuni croati che
rifiutano di andare in guerra contro i bosniaci. L'Hvo quindi disarma i restanti soldati musulmani (a
eccezione che nella Posavina). L'ArBiH e l'Hvo si aggregano su base fortemente etnica e si scontrano
sempre più sul piano politico. I serbi che all'inizio hanno voluto partecipare alla difesa comune della
Bosnia Erzegovina, abbandonano l'ArBiH, sollecitati e stimolati in vari modi ad andarsene dai
comandi di molti reparti e anche dai più alti livelli militari. Gli ufficiali della Jna, all'inizio molto
ben voluti per la loro formazione professionale, vengono messi da parte e demotivati; subiscono
persino vessazioni a vantaggio dei «quadri di partito» e dei bosniaci «leali». Il presidente
Izetbegovic dichiara in un'intervista che tra i «leali» e i «capaci» preferisce i primi.
Lo stesso accade all'interno delle istituzioni politiche. Alla fine di dicembre 1992 scade il
secondo mandato annuale di Alija Izetbegovic come presidente della presidenza collegiale e,
secondo la Costituzione, dovrebbe lasciare il posto di primus inter pares all'esponente croato della
presidenza. L'Sda rifiuta il cambio e, con macchinazioni procedurali e il pretesto della guerra, riesce
a fare in modo che sia Izetbegovic a ricoprire questa carica fino alla fine del conflitto.
Così termina l'anno probabilmente più difficile della storia della Bosnia Erzegovina, nella totale
incertezza riguardo al futuro.
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Radovan KaradŽic Fondatore e presidente del Partito democratico serbo (Sds), presidente
dell'autoproclamata Repubblica serba di Bosnia, Radovan KaradŽic è stato incriminato il 25 luglio
1995 per i crimini contro l'umanità dal Tribunale internazionale dell'Aja. Nato il 19 giugno 1945 nel
villaggio di Petnjica, comune di Savnik, sulla montagna montenegrina di Durmitor, arriva a Sarajevo
quindicenne. Si laurea in medicina, si specializza in psichiatria, diviene noto come lo psicologo della
squadra di calcio Sarajevo.
Durante gli anni di scuola scrive poesie, negli anni sessanta ne compone una in cui parla del suo
profondo odio verso la grande città e di come sia necessario distruggerla. sposato con Ljiljana Zelen,
anche lei psichiatra, sua consigliera politica. Hanno due figli, SaSa e Sonja.
Nel 1984 finisce in carcere per undici mesi, accusato di malversazione nel costruire la sua casa a
Pale, la stazione sciistica vicino a Sarajevo che diventerà la capitale dei secessionisti serbobosniaci.
All'inizio del 1990 sostiene pubblicamente la costituzione del Partito dei verdi, ma qualche mese
dopo, all'inizio dell'estate, fonda l'Sds. Dichiara che la sigla significa Partito socialdemocratico,
senza alcun prefisso nazionale. Altra giravolta e poco tempo dopo dichiara che si tratta di una
formazione nazionalista, il Partito democratico serbo.
Nonostante il mandato di cattura del Tribunale dell'Aja, KaradŽic continua la sua attività politica e
soltanto nel maggio 1996, sotto la pressione internazionale, trasferisce parte dei suoi poteri a Biljana
PlavSic, uno dei suoi più stretti collaboratori prima e durante la guerra. Solo nel luglio 1996 l'alto
rappresentante della comunità internazionale, Carl Bildt, riesce a impedire ogni attività pubblica di
KaradŽic. Come rivela Maggie O'Kane sul Guardian nel febbraio 2001, KaradŽic si nasconde in vari
monasteri ortodossi in una zona montagnosa e semi inaccessible della Bosnia, tra le località di
ViSegrad, Rudo, Cajnice e Foča.
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Alija Izetbegovic Leader carismatico dei musulmani bosniaci, Alija Izetbegovic è uno dei
personaggi più controversi della recente storia balcanica. Per gli uni è «il padre della nazione» che
ha «salvato il popolo bosniaco e gli ha permesso la creazione di un proprio stato», per gli altri è «la
maledizione del popolo bosniaco» e «l'uomo che fa tornare i musulmani bosniaci al medioevo».
Nelle sue funzioni di presidente della presidenza della Bosnia Erzegovina, si è sempre presentato in
pubblico come l'uomo il cui obiettivo era il mantenimento di uno stato multietnico e territorialmente
integro, mentre invece aderiva in privato a numerosi progetti politici il cui scopo era lo
smembramento della Bosnia e la conseguente formazione di uno stato a schiacciante maggioranza
musulmana, grande anche solo come una «tazzina da caffè».
La sua biografia ufficiale dice che è nato a Bosanski Samac nel 1925, che è sposato e ha tre figli.
Vive a Sarajevo da quando aveva tre anni, vi ha frequentato le scuole dell'obbligo, il liceo e
l'università, laureandosi in giurisprudenza. Ha lavorato come consulente legale in diverse aziende
bosniache. Nel 1946 va in carcere tre anni perché appartenente ai Giovani musulmani. Nel 1970
scrive la Dichiarazione islamica. Nell'introduzione si legge: «Il nostro obiettivo è l'islamizzazione
dei musulmani e il nostro motto è: credere e lottare». Per questo viene processato nel 1983 e
condannato a 14 anni. Ne sconterà solo 5 e 8 mesi.
E' un signore sessantacinquenne quando, alla fine degli anni ottanta, torna alla politica fondando il
Partito di azione democratica (Sda). Nel 1990 vince le prime elezioni pluripartitiche in Bosnia, in
compagnia dei partiti nazionalisti serbo (Sds) e croato (Hdz). L'uomo d'affari Fikret Abdic ottiene
molti più voti di lui, ma, in quanto presidente del partito, è Izetbegovic a diventare il primo
presidente della Bosnia Erzegovina. Ci rimarrà anche a mandato scaduto, adducendo come motivo lo
stato di guerra. Nel 1998 viene eletto membro musulmano della presidenza tripartita, nel 2000 si
dimette.

1993. Il piano Vance-Owen L'anno che verrà contrassegnato da una nuova guerra, quella tra croati
e musulmani, comincia con le «trattative di pace» a Ginevra, dove viene ulteriormente rafforzata
l'idea della comunità internazionale secondo cui la pace in Bosnia può essere raggiunta solo con i
piani di divisione. Alla Conferenza di Ginevra, che si svolge il 2 e 3 gennaio 1993, i mediatori Cyrus
Vance e David Owen presentano il loro piano di pace che ben presto si dimostrerà essere il
detonatore del conflitto tra croati e musulmani. Secondo i due diplomatici, la Bosnia Erzegovina
dovrebbe essere costituita da dieci province. Il governo centrale dovrebbe avere nove membri (tre
bosniaci musulmani, tre serbi e tre croati), che dovrebbero prendere le decisioni consensualmente.
La composizione dei governi provinciali dovrebbe rispecchiare la struttura etnica della popolazione,
secondo il censimento fatto alla vigilia della guerra, nel 1991.
Il piano viene considerato uno strumento per annullare i risultati delle persecuzioni già compiute.
In realtà, con la sua implicita definizione etnica delle province, ottiene l'effetto opposto, invitando a
completare le omogeneizzazioni etniche. La presentazione del piano è percepita dai leader
nazionalisti come una sollecitazione ad affrettarsi a conquistare quello che non è ancora conquistato e
a «ripulire etnicamente» quanto prima i territori dove c'è ancora una popolazione multietnica, per
definire in tal modo i confini delle future province (cantoni). Il primo a leggere proprio in questo
modo il piano Vance-Owen è il ministro della Difesa, BoŽo Rajic (Hdz), il quale ordina il 15
gennaio che nelle zone di operazione nel territorio delle province 3, 8 e 10 (Posavina, Erzegovina
con la zona di Livno-Duvno e parte della Bosnia centrale compresa Travnik, e la valle della Lasva)
le unità ArBiH si sottomettano al comando generale dell'Hvo, ma l'ArBiH rifiuta. Su questa base si
sviluppa il sanguinoso conflitto tra i musulmano-bosniaci dell'ArBiH e i croatobosniaci dell'Hvo.
Nel corso di gennaio gli scontri più intensi si accendono intorno a Travnik e l'Hvo prende infine la
zona sotto il proprio controllo. Si tratta di un'area che non è importante solo per la presenza della
locale popolazione croata, ma soprattutto perché ci sono importanti e non danneggiate fabbriche di
armi, munizioni e materiali militari che risalgono all'anteguerra. Il 20 gennaio, il Parlamento
dell'autoproclamata Republika Srpska approva i principi costituzionali del piano Vance-Owen, ma
non le mappe di delimitazione, ritenendo che ai serbi, in base all'attuale situazione militare e alle
antiche ambizioni, spetti addirittura il 70 per cento del territorio.
All'inizio dell'anno, nei pressi dell'aeroporto di Sarajevo, avviene un assassinio che lascerà una
profonda traccia nel rapporto con le Nazioni unite e creerà nei bosniaci il senso di estrema sfiducia e
rassegnazione nei confronti di questa organizzazione.
Diventa opinione comune che «l'Onu è morta a Sarajevo». Hakija Turajlic, vicepresidente del
governo della Bosnia Erzegovina, uno dei più apprezzati economisti del paese, l'uomo che prima
della guerra costituiva il perno dell'Energoinvest, la principale impresa nazionale nel campo
dell'energia, delle attrezzature e degli impianti del settore, viene ammazzato vicino all'aeroporto
della capitale l'8 gennaio 1993. A ucciderlo sono alcuni appartenenti all'esercito di KaradŽic mentre
l'uomo, in un mezzo di trasporto dell'Unprofor, accompagnato e protetto da un contingente del
battaglione francese dei caschi blu, ritorna in città dopo un incontro con una delegazione straniera. Il
mezzo di trasporto blindato viene fermato a un incrocio, dove si trova un posto di blocco
dell'esercito serbo. Dopo una lunga contesa fra i soldati serbi, appoggiati dai carri armati, e il
colonnello Sartre, comandante dell'unità francese destinata alla sicurezza dell'aeroporto, la porta del
mezzo blindato in cui si trova il vicepresidente viene aperta e un soldato serbo, con otto proiettili
sparati da un fucile automatico, uccide Turajlic all'interno del mezzo stesso. La vicenda non sarà mai
chiarita del tutto. Il soldato serbo che dopo la guerra sarà accusato dell'uccisione e processato più
volte, verrà alla fine rilasciato dal tribunale di Sarajevo per mancanza di prove. Il colonnello Sartre,
ritornato in patria, otterrà nel suo paese un'alta onorificenza militare e l'amministrazione dell'Onu
archivierà il caso.
Il primo febbraio viene pubblicato il rapporto della Comunità europea che denuncia stupri e
violenze compiuti su 20 mila donne in Croazia e in Bosnia. Il Tribunale dell'Aja condannerà il 22
febbraio 2001 tre serbobosniaci per gli stupri etnici avvenuti a Foča nel 1992. Si tratta di Dragoljub
Kunarac (40 anni), condannato a 28 anni; Radomir Kovac (39), condannato a 20; e Zoran Vukovic
(39), che dovrà scontare 12 anni di carcere. Tuttavia, secondo altre fonti il numero delle vittime è
molto maggiore. Dieci giorni dopo la pubblicazione del rapporto, Tadeusz Mazowiecki, inviato
speciale della Commissione Onu per i diritti umani, rende noti dati terrificanti sull'esodo della
popolazione della Bosnia Erzegovina. Secondo il suo rapporto, i profughi, cioè coloro che hanno
lasciato la Bosnia, sono 700 mila; mentre gli sfollati, cioè chi ha cercato rifugio all'interno del paese,
sono 800 mila.
Il 10 febbraio, il governo americano esprime le proprie riserve sul piano Vance-Owen soprattutto
per quei suoi aspetti che premiano di fatto la politica della «pulizia etnica». La posizione degli Usa è
che un qualsiasi piano di pace, per essere valido, debba essere accettato da tutte le parti in conflitto,
che le sanzioni contro la Repubblica federale di Jugoslavia devono essere intensificate per fermare
le aspirazioni belliche di MiloSevic nei confronti della Macedonia e del Kosovo, che il divieto di
volo nello spazio aereo bosniaco debba essere applicato con più rigore e che, infine, Stati Uniti, Onu
e Nato, qualora venga raggiunto un accordo di pace, partecipino alla sua attuazione anche se ciò
dovesse comportare l'uso della forza.
In Bosnia centrale si infiamma il conflitto tra ArBiH e Hvo. Anche in questa guerra dentro la
guerra avvengono espulsioni in massa, si incendiano villaggi e uccidono civili. In Erzegovina
cominciano a spuntare i cosiddetti «centri di raccolta», di fatto dei campi di concentramento per
civili, dove l'Hvo rinchiude uomini in età militare con la motivazione che bisogna «impedire loro di
unirsi all'ArBiH». In seguito verrà dimostrato che si tratta di veri e propri lager in cui i detenuti
vengono maltrattati, torturati e anche uccisi. Molti guardiani e comandanti di questi campi si
troveranno poi incriminati e ricercati dal Tribunale dell'Aja per i crimini di guerra.

MORILLON: eROISMO o aUTOPROMOZIONE


Con la risoluzione numero 808, il Consiglio di sicurezza dell'Onu decide la creazione di un
Tribunale internazionale, sarà quello dell'Aja, per giudicare i responsabili dei crimini di guerra
commessi nell'ex Jugoslavia. Tre giorni prima, parte il primo convoglio di aiuti internazionali per
GoraŽde, nell'Est della Bosnia, città molto vicina al confine con la Serbia che fino a quel momento è
stata completamente isolata dai territori sotto controllo bosniaco. Il giorno stesso della partenza del
convoglio, come per caso, il Consiglio di sicurezza vara la risoluzione numero 807 che permette ai
caschi blu in Bosnia di usare le armi per assicurare la propria sicurezza. Il convoglio viaggia a
lungo, tra la miriade di ostacoli posti dalle autorità militari e civili di KaradŽic, e solo una parte
degli aiuti riesce ad arrivare nella città circondata ed esposta a continui attacchi. A questa operazione
di scarsissimo successo segue un'altra iniziativa di grande impatto mediatico, quella delle nazioni
che partecipano alla missione Onu in Bosnia, i cui aerei il primo marzo lanciano sopra Cerska,
sempre in Bosnia orientale, pacchi di viveri. Molti di essi cadono in luoghi assolutamente
inaccessibili alle persone a cui erano destinati. Tuttavia, l'effetto è raggiunto e tutto il mondo ammira
il coraggio dei piloti che hanno partecipato a questa operazione più spettacolare che realmente utile.
Sotto il peso della vicenda Turajlic e dell'impossibilità di chiarirne la dinamica, esposto alle
sempre più aperte critiche dei bosniaci di non fare abbastanza perché l'Unprofor adempia ai suoi
compiti, il controverso comandante delle forze Onu in Bosnia, generale francese Philippe Morillon,
il 5 marzo prende una decisione abbastanza clamorosa: «Andrò personalmente a Cerska, nonostante
l'assedio, per accertarmi che cosa stia succedendo, per aiutare la popolazione ed evacuare i feriti». Il
generale serbo Mladic commenta che l'iniziativa di Morillon è «rischiosa e sotto la sua
responsabilità». Morillon va a Cerska e al ritorno dichiara alla folla di giornalisti che là «non ci
sono stati massacri». A chi gli domanda, come fa a saperlo, risponde: «Non si sentiva l'odore della
morte». I serbi di KaradŽic sono molto soddisfatti di questa «dichiarazione imparziale» del generale
francese che ora ha tutte le carte per compiere un viaggio ancora più spettacolare in un'altra città
isolata: Srebrenica.
Morillon arriva nella cittadina martoriata l'11 marzo, accolto come l'uomo dell'ultima speranza,
come un eroe. I serbi si rendono conto della direzione che sta prendendo la vicenda e lo proclamano
«prigioniero dei musulmani». Morillon, con un megafono in mano, dall'alto di un blindato Onu urla:
«Io, generale Morillon, ho deciso di restare qui per rassicurare la popolazione, per salvarla».
Il 19 marzo entra a Srebrenica un convoglio composto da 17 camion di aiuti umanitari. Morillon
riesce a far uscire dalla città ormai in agonia 600 persone, donne, bambini e ammalati. A migliaia,
però, restano in città. Mentre il furbo Slobodan MiloSevic lo appoggia, dichiarando che non solo «lo
aiuterà a salvare la popolazione di Srebrenica, ma anche la pace», i comandanti militari bosniaci
invece lo accusano: «Svuotando la città aiuta l'esercito serbo a portare al termine la pulizia etnica».
Si discuterà a lungo su quanto in tutta la vicenda ci fosse di programmato, quanto di autopromozione,
quanto di decisione personale sincera, quanto di buono e di cattivo.
Continueranno a restare nell'aria risposte molto diverse tra loro anche molti anni dopo la guerra.
Resta il fatto che Srebrenica è poi caduta nel luglio del 1995 e che i soldati di Mladic vi hanno
compiuto il peggiore massacro della guerra: circa ottomila persone passate per le armi. Morillon,
comunque, al ritorno in patria otterrà la tanto agognata quarta stelletta da generale e il 14 luglio 1993
riceverà la Legion d'onore «per aver interpretato tutte le virtù del soldato francese». Ai bosniaci
resterà un interrogativo: il generale Philippe Morillon è stato il grande eroe di Srebrenica e il
sincero difensore delle vittime bosniache? O è un semplice demagogo intento solo
all'autopromozione che è riuscito a ottenere quello di cui più gli premeva nella sua carriera?
Nel frattempo, continua la partita che si gioca sul piano di pace Vance-Owen. Formalmente
controvoglia, e con non poche frustrazioni, Alija Izetbegovic il 25 marzo firma il piano che di fatto
sancisce la definitiva divisione della Bosnia su base etnica. In diverse occasioni ribadirà: «Non
siamo riusciti a salvare lo stato, ma abbiamo salvato il nostro popolo». E' già chiaro tuttavia che il
vertice della dirigenza musulmana cerca una soluzione atta a formare uno «stato musulmano» stretto
tra la Grande Serbia e la Grande Croazia, nella convinzione che uno stato così sia possibile,
sostenibile e necessario per «evitare la totale scomparsa dei bosniaci musulmani». L'ArBiH si
«ripulisce» sempre più visibilmente della significativa presenza di croati e serbi; dai comandi
scompaiono ufficiali professionisti della Jna che volontariamente erano passati alla nuova forza
armata bosniaca. Si parla sempre meno della piattaforma della presidenza della Bosnia Erzegovina
approvata all'inizio della guerra. L'opinione pubblica internazionale è spiacevolmente sorpresa dalle
immagini della settima brigata musulmana di Zenica i cui soldati, per aspetto e bandiere che
sventolano, sembrano confermare che il loro obiettivo sia innanzitutto «la difesa dell'islam in
Bosnia», ancora prima della difesa dello stato. Nel contempo aumentano le resistenze a tale politica
da parte di quei bosniaci che, a ragione, ritengono che la difesa dello stato unito e multietnico nei
suoi confini internazionalmente riconosciuti sia l'unico modo per salvare tutti i suoi cittadini,
musulmani compresi.
Il 28 marzo il segretario di stato americano, Warren Christopher, dichiara che un eventuale rifiuto
del piano Vance-Owen da parte dei serbi costringerà gli Stati Uniti a prendere un'altra volta in
considerazione la revoca dell'embargo sulle armi per l'ArBiH.
Tuttavia, solo tre giorni dopo, il 31 marzo, risulta chiaro che quello di Christopher è solo un bluff.
Invece di revocare l'embargo sulle armi, il Consiglio di sicurezza dell'Onu approva la risoluzione
numero 816 con la quale si autorizza l'Alleanza atlantica a usare la forza per proteggere lo spazio
aereo sopra la Bosnia dichiarato no-fly-zone. L'operazione viene chiamata Deny flight (Negare il
volo).
Alla fine del mese avviene il cambio nel tandem di mediatori per la Bosnia: al posto del
diplomatico americano Cyrus Vance è nominato mediatore dell'Onu il norvegese Thorvald
Stoltenberg che assumerà l'incarico ai primi di maggio.

LA gUERRA tra cROATI e mUSULMANI


I rapporti tra ArBiH e Hvo sono sempre più conflittuali. L'Hvo viola l'accordo vigente con
l'Armata che gli assicura il 25 per cento di ogni carico di armi e blocca a Grude, in Erzegovina, 25
camion di armi destinate a Tuzla e alla difesa di Srebrenica, dove la situazione è ormai critica.
Questo episodio inciderà in modo molto grave sui rapporti tra musulmani e croati in Bosnia.
Il mese di aprile inizia con un ulteriore aggravarsi dei rapporti, anche per l'aperto invito di Mate
Boban rivolto ad Alija Izetbegovic ad «applicare rigorosamente e immediatamente il principio di
delimitazione in base al piano Vance-Owen». Izetbegovic rigetta la richiesta, aiutato indirettamente
anche dalla lunga e burrascosa riunione del Parlamento dell'autoproclamata Repubblica serba che si
svolge a Pale il 2 e 3 aprile e nel corso della quale il piano Vance-Owen viene rigettato
definitivamente. A Pale decidono per il rifiuto del piano nonostante le forti pressioni della Ce e le
minacce di totale isolamento economico della Serbia e del Montenegro qualora KaradŽic non lo
accetti. Lo stesso MiloSevic sembra darsi da fare, o almeno così dà a vedere, per convincere i serbi
di Pale ad accettare il piano. La Ce gli ha promesso, nel caso di accettazione del piano, un graduale
rientro della Jugoslavia nelle organizzazioni internazionali.
Con il rifiuto serbo si ritorna alle armi e si intensificano le attività di guerra. Il 16 aprile scade
anche l'ultimatum posto dall'Hvo all'ArBiH relativo al cosiddetto inquadramento nello schema di
divisione secondo il piano Vance-Owen. Anche su questo fronte, quindi, si intensificano gli scontri,
in particolare in Bosnia centrale, dove avverrà uno dei massacri destinato a entrare nella storia dei
crimini di guerra. quello nel villaggio di Ahmiči a opera dei reparti dell'Hvo. Il bilancio di sangue è
di 116 morti, tra cui donne, bambini e vecchi, e di 24 feriti. Sono incendiate e distrutte 169 case e 2
moschee. Tutte le vittime sono civili musulmani.
Il 16 aprile, il Consiglio di sicurezza dell'Onu approva la risoluzione numero 819 con la quale
dichiara Srebrenica e i suoi sobborghi «area protetta» e chiede l'immediata fine degli attacchi serbi
alla città. Molti anni dopo, in un'intervista al settimanale di Sarajevo Svijet, il diplomatico britannico
sir Marack Goulding, inviato dell'Onu nel 1993 per le operazioni militari, dirà a proposito
dell'introduzione di aree protette: «Ho avuto incubi a causa di queste decisioni. Dovevamo dire al
Consiglio di sicurezza con più energia e più esplicitamente che la cosa non poteva funzionare, che
all'epoca non c'erano le possibilità perché Srebrenica o GoraŽde fossero aree di sicurezza, che l'Onu
non aveva la capacità di proteggere Srebrenica e che se non avevamo la possibilità di portare là
carburante, munizioni e viveri alle nostre forze, insomma tutto era falso, una finzione. Credo che sia
il segretario generale sia io avremmo dovuto rischiare di diventare impopolari dicendo questo non
solo al Consiglio di sicurezza, ma anche ai media. Ero andato in Bosnia e ho fatto un rapporto sulla
situazione a Boutros Ghali. In sostanza, il mio rapporto conteneva un messaggio: all'Unprofor non
bisogna dare un mandato in Bosnia perché la situazione non è adeguata per salvaguardare la pace». Il
pentimento di Marack Goulding, però, è arrivato troppo tardi e lui, purtroppo, aveva ragione.
Nonostante la consapevolezza di non avere né la volontà né il mandato per difendere la Bosnia
Erzegovina dall'aggressione, i governi dei paesi che partecipano alla missione Unprofor decidono
all'unanimità il 25 aprile di non revocare l'embargo sulle armi per l'Arbih. La motivazione è che «più
armi aggraverebbero la situazione in Bosnia e provocherebbero più vittime». Questa posizione in
teoria è logica, ma nella pratica è paradossale e immorale: alla vittima viene negato il diritto
all'autodifesa mentre l'aggressore è armato fino ai denti. Aspettandosi maggiori conquiste, il
Parlamento dei serbi di Pale nel corso della riunione del 25 e 26 aprile rigetta un'altra volta il piano
Vance-Owen, nonostante esso sia già stato accettato dai dirigenti di Hdz e Sda. Incomincia una forte
offensiva delle forze serbe, attraverso i territori occupati in Croazia, contro Bihac e la zona
circostante. Il quinto corpo d'armata bosniaco, comandato dal generale Atif Dudakovic, respinge con
successo gli attacchi dell'esercito di Mladic.
Dopo il rifiuto di Pale del piano di pace Vance-Owen, il 27 aprile entrano in vigore nuove e più
rigorose sanzioni del Consiglio di sicurezza contro la Jugoslavia, stabilite dalla risoluzione numero
820. Sotto le pressioni di MiloSevic e della Grecia, KaradŽic sigla ad Atene, il 2 maggio, il piano
Vance-Owen, ma a condizione che sia ratificato dal Parlamento di Pale che, però, il 6 maggio rifiuta
la ratifica e indice un «referendum del popolo serbo» sul piano. In risposta, Serbia e Montenegro
annunciano l'introduzione di sanzioni contro il parastato serbo in Bosnia. Si blocca, in effetti, la
fornitura di «aiuti umanitari» alla popolazione dei territori sotto controllo serbobosniaco. Lo stesso
giorno, il 6 maggio, il Consiglio di sicurezza, con la risoluzione numero 824, dichiara «aree protette»
altre cinque zone oltre Srebrenica. Sono Tuzla, Sarajevo, Žepa, GoraŽde e Bihac. Si chiede
l'immediato ritiro di tutte le forze serbe da queste zone, ma KaradŽic e Mladic non pensano proprio
di rispettare la risoluzione che quindi rimane solo l'ennesimo pezzo di carta. L'improvvisato
«referendum del popolo serbo» del 15 maggio rigetta definitivamente il piano Vance-Owen.
Sette giorni dopo, a croati e bosniaci-musulmani viene proposto l'accordo di Washington che,
praticamente, significa l'abbandono del piano precedente. Esso prevede la costituzione di una
confederazione tra la Croazia e le parti della Bosnia sotto il controllo di Hvo e ArBiH, cosa che
Izetbegovic, di fatto, rifiuta, dando inizio a un lungo processo di astuzie politiche e tatticismi.
Zagabria vuole una rapida e scrupolosa applicazione dell'accordo di Washington, mentre Sarajevo lo
evita in tutti i modi e lo relativizza. E mentre il mondo intero si occupa della sorte del piano Vance-
Owen e delle «aree protette», a Mostar si moltiplicano, quasi inosservati, gli incidenti e cresce una
terribile tensione che esplode all'alba del 9 maggio 1993. L'Hvo, con il sostegno dell'Hv e sotto il
comando di Zagabria, incomincia un intensissimo attacco contro la parte est di Mostar, che è sotto
controllo dell'ArBiH. Predominanti in fatto di armi pesanti, i croati distruggono sistematicamente la
parte della città sulla Neretva, soprattutto quel centro storico di eccezionale valore culturale posto
sotto la protezione dell'Unesco. Esattamente sei mesi dopo, il 9 novembre, distruggeranno anche lo
Stari Most (ponte vecchio) costruito dall'impero ottomano nel Cinquecento. I bosniaci-musulmani che
abitano nella parte ovest della città sono espulsi in massa o deportati nei campi di concentramento
dove vengono affamati, torturati e uccisi. Nei campi Heliodrom nei pressi di Mostar, Dretelj presso
čapljina, Gabela e LjubuSki si compieranno i più grandi orrori.
Ma anche appartenenti all'ArBiH compiono crimini simili: a Grabovica presso Mostar, a Uzdol
presso Prozor, mentre numerosi civili vengono maltrattati anche nel Museo della rivoluzione di
Jablanica, trasformato in campo di concentramento. Nel contempo, l'Hvo resta completamente
passivo su tutti i fronti dove è contrapposto allo Vrs, o addirittura collabora con i serbi, a eccezione
delle zone di OraSje, Usora e Bihac dove viene conservata l'alleanza con l'ArBiH. Il paese
sprofonda nel caos più totale.
Intanto a Zagabria, il presidente Tudjman manda in pensione prima del tempo una serie di alti
ufficiali, tra i più capaci e preparati, perché contrari al conflitto con l'ArBiH e nomina il generale
Janko Bobetko comandante generale dell'Hv.
Nel mese di giugno è completato il piano di MiloSevic e Tudjman per la spartizione della Bosnia.
Sull'origine di questi piani testimonierà dopo la guerra Hrvoje Sarinic, il collaboratore più stretto di
Tudjman presente ai colloqui sulla Bosnia tra i due presidenti nella primavera del 1991, prima a
Karadjordjevo (Serbia) e poi a TikveS (Macedonia): «MiloSevic usava chiedere "Quale Bosnia?
La Bosnia di chi?". Nella Bosnia, dunque, non credeva per nulla.
Tudjman, invece, vedeva la Bosnia come il risultato della politica imperialista turca. Lui e
MiloSevic ritenevano necessaria la spartizione della Bosnia perché, secondo loro, sarebbe stata un
intralcio in tutta la regione. La Bosnia era un grandissimo problema per MiloSevic e Tudjman».
L'accordo definitivo sulla spartizione del paese in «tre unità nazionali costituenti con un debole
legame confederale» è presentato alla Conferenza di Ginevra, a metà giugno 1993. Con esso si
approva, e persino si stimola, il compimento della pulizia etnica e la fine di un duraturo amalgama di
popoli che per secoli hanno vissuto in una comunità mista. L'idea viene chiamata cinicamente
«trasferimento umano». Bisogna dire che anche la comunità internazionale all'epoca esercita forti
pressioni per la «soluzione del problema» in questa direzione. Uno dei mediatori internazionali, lord
Owen, consiglia a Izetbegovic (Owen, Balkan Odyssey) «di cominciare a negoziare con Boban e
KaradŽic, non appena comprenderà che l'opinione pubblica del suo paese è pronta ad accettarlo».
Izetbegovic risponde di «temere» che l'opinione pubblica in Bosnia sia contraria alla divisione
etnica mentre lui stesso «accetta la realtà del volto cambiato della Bosnia» poiché «la divisione è già
stata fatta sul campo». Poco tempo dopo, racconta Owen, Izetbegovic accetterà di trattare,
dimostrando «che si è orientato verso una repubblica musulmana e che la retorica realista sulla
salvaguardia di una Bosnia multietnica stava volgendo al termine». Alcuni esponenti dell'allora
vertice politico della Bosnia Erzegovina, come il vicepresidente del governo, Rusmir
Mahmutčehajic, e l'ambasciatore bosniaco a Londra, Muhamed Filipovic, confermeranno in più
occasioni dopo la guerra l'esistenza, all'epoca, di un piano dell'Sda e di Izetbegovic per accettare la
divisione definitiva del paese e la costituzione di uno «stato bosniaco-musulmano», piano minato
però dagli stessi musulmani consapevoli della pericolosità di un progetto del genere.
Con il pretesto di «salvare il popolo», Izetbegovic continua con le destituzioni nell'esercito e ai
vertici politici, rimuovendo le persone che insistono sulla concezione dello stato unitario e comune
per tutti. Così l'8 giugno, senza alcun preavviso, destituisce il comandante Sefer Halilovic e nomina
al suo posto il poco conosciuto, ma più vicino all'Sda Rasim Delic, maggiore della Jna.
Formalmente, Halilovic dovrebbe restare capo di stato maggiore, ma è chiaro per tutti che è una
rimozione dal comando e dalla scena politica di un ufficiale che appartiene alla schiera di coloro che
combattono per una Bosnia unita e non divisa. Il generale Stjepan Siber, croato, uno dei capi dei
territoriali e vice comandante dell'ArBiH fin dai primi giorni della resistenza, viene mandato da
Izetbegovic all'estero come addetto militare, e il generale Jovan Divjak, serbo ed ex colonnello della
Jna, uno dei comandanti più popolari dell'ArBiH durante la guerra, viene formalmente nominato
aiutante del comandante dell'ArBiH, ma senza poter esercitare alcuna influenza sul funzionamento del
comando generale. Lo stesso Divjak dirà più volte di essersi spesso sentito come «l'ikebana da
mostrare agli stranieri per poter affermare che la struttura dell'ArBiH continua a essere multietnica».
Verso la fine della guerra, Divjak sarà mandato in pensione assieme a un gruppo di eccellenti
generali, e apprenderà questa decisione «dalla radio, sebbene quel giorno avessi incontrato il
comandante Delic che non mi ha detto una sola parola in proposito». Poco dopo il pensionamento,
Divjak invierà a Izetbegovic una lettera per informarlo che gli restituisce i gradi di generale avuti
nell'ArBiH. Sia Divjak, che guida una Ong che si occupa di orfani di guerra, sia Siber vivono ancora
a Sarajevo.
Dopo la definizione del piano per la divisione della Bosnia da parte di Tudjman e MiloSevic, i
ministri degli Esteri della Ce dichiarano, il 20 giugno 1993, che «deve essere rispettata l'integrità
territoriale della Bosnia Erzegovina» (la Ce ha riconosciuto la Bosnia nei suoi confini il 6 aprile
1992), ma continuano a discutere con David Owen la creazione di tre «entità» nel quadro bosniaco.
Pressato da reazioni negative all'interno, Izetbegovic rifiuta di partecipare alle trattative condotte
da Serbia e Croazia, «finché il Vrs non cesserà di assediare le aree protette».
Alla fine del mese, il 29 giugno, gli Stati Uniti votano a favore di un progetto di risoluzione del
Consiglio di sicurezza dell'Onu presentato dai paesi non allineati sulla fine dell'embargo all'esercito
bosniaco. Il progetto raccoglie solo sei voti a favore.
Nove le astensioni, tra cui quelle dei paesi europei.
Le pressioni su Izetbegovic e la presidenza perché accettino il piano di MiloSevic e Tudjman
continuano. Nello stesso tempo, i serbobosniaci iniziano una grande offensiva contro Sarajevo, si
registrano scontri particolarmente intensi sul monte Igman nei pressi della capitale. L'8 luglio
Izetbegovic dichiara: «La divisione etnica può essere accettata solo se imposta, solo qualora non ci
siano altre scelte. O qualora l'alternativa sia tra l'accettare una tale divisione o cominciare una guerra
senza fine». Il giorno dopo, 9 luglio, la presidenza collegiale rigetta la proposta serbocroata sulla
costituzione della Bosnia come confederazione delle repubbliche serba, croata e musulmana.
Contemporaneamente, la presidenza prepara, un progetto di federazione secondo i propri criteri.
Sotto la pressione internazionale, a Ginevra si svolge dal 27 al 30 luglio la Conferenza sulla Bosnia
alla quale partecipano Owen, Stoltenberg, MiloSevic, Tudjman, Izetbegovic, Bulatovic, Boban e
KaradŽic. la prima volta dall'inizio della guerra che Izetbegovic siede allo stesso tavolo con
KaradŽic: sia all'estero sia in Bosnia, questo viene interpretato come una tacita accettazione di
KaradŽic come controparte legittima nei negoziati. Gli avversari rimproverano a Izetbegovic anche il
conseguente riconoscimento della Republika Srpska, considerato la prova cruciale della sua rinuncia
a lottare per una Bosnia unita e della sua disponibilità ad aprire la strada alla creazione di uno «stato
musulmano».
All'ordine del giorno della Conferenza di Ginevra c'è solo un punto: definire la Bosnia come
unione di tre repubbliche con un governo centrale dai poteri limitati. I negoziati si interrompono il 9
agosto perché Izetbegovic rifiuta di partecipare finché il Vrs non si sarà ritirato dai monti Igman e
BjelaSnica, nei pressi di Sarajevo. La Nato approva «in linea di principio» eventuali azioni militari
in Bosnia sotto forma di attacchi aerei per la protezione dell'Unprofor e per allentare l'assedio serbo
di Sarajevo. Tuttavia, l'ultima parola spetta al Consiglio di sicurezza dell'Onu che non è ancora
pronto ad approvare una tale decisione. La bloccano soprattutto Russia, Cina e paesi europei,
cercando di esercitare così pressioni sulla presidenza della Bosnia per costringerla ad accettare il
piano di divisione proposto a Ginevra. E in parte ci riescono.
Sotto la minaccia della Nato, l'esercito serbobosniaco, a metà mese, si ritira dall'Igman e dalla
BjelaSnica. Il 18 agosto, KaradŽic, Boban e Izetbegovic raggiungono un accordo sulla proposta
Owen-Stoltenberg di assegnare a Sarajevo uno status provvisorio come città smilitarizzata e per due
anni amministrata dall'Onu, ma da far entrare in vigore solo dopo il raggiungimento di un completo
accordo di pace. Finalmente, due giorni dopo, il 20 agosto, Owen e Stoltenberg presentano un
progetto costituzionale e di suddivisione territoriale: un piano-pacchetto di spartizione della Bosnia
in tre repubbliche, che prevede il 52 per cento del territorio ai serbi, il 30 per cento ai bosniaci (a
maggioranza musulmana), il 18 per cento ai croati. Sarajevo, come visto, viene affidata all'Onu,
Mostar all'amministrazione Ce. L'Sds (serbi) accetta questo piano, l'Hdz dichiara che lo accetterà
solo se lo accetteranno entrambe le controparti, mentre il Parlamento della Bosnia Erzegovina, che
ormai è costituito in prevalenza da bosniaci musulmani, non lo approva, ma decide di continuare i
negoziati.
Intanto, continua il conflitto tra ArBiH e Hvo. A Zenica, il comando generale dell'ArBiH e i suoi
più importanti comandanti stabiliscono il piano d'azione «Neretva 93» con l'obiettivo di penetrare
lungo la valle della Neretva nel profondo Sud per sconfiggere l'Hvo in Erzegovina. Izetbegovic
chiede al Consiglio di sicurezza dell'Onu di far arrivare gli aiuti umanitari a Mostar «dove i croati
hanno avviato un'operazione di pulizia etnica». Il 24 agosto, il Consiglio di sicurezza approva la
risoluzione numero 859.
Richiama le precedenti risoluzioni chiedendo un cessate il fuoco immediato in Bosnia Erzegovina.
Ribadisce che è inaccettabile la conquista di territori mediante la pratica della «pulizia etnica».
Esprime l'auspicio che Sarajevo possa continuare a essere una città multietnica, multiculturale e
multireligiosa.
Per tutta risposta agli avvenimenti dell'Erzegovina, il 28 agosto a Grude, secondo le direttive di
Zagabria, la Comunità croata della Herceg Bosna viene ribattezzata Repubblica croata della Herceg
Bosna (Hrhb): nasce così l'autoproclamato «stato croato in Bosnia Erzegovina», con capitale Mostar.
Mate Boban, presidente dell'Hdz, viene eletto presidente dell'Hrhb.
A fine mese esce il nuovo rapporto Mazowiecki. Constata che rispetto al suo precedente rapporto
dell'ottobre 1992, le condizioni di vita si sono «drammaticamente deteriorate» a Sarajevo. Pochi
giorni dopo, la Croce rossa dichiara che in tutta l'ex Jugoslavia i profughi sono 3 milioni e 600 mila.
Di questi, 2 milioni e 200 mila sono bosniaci.
Il presidente Izetbegovic continua a chiedere all'Occidente di reagire o con l'intervento militare in
Bosnia o revocando l'embargo sulle armi all'ArBiH. Ai primi di settembre è a Washington, ma non
riesce a ottenere dal presidente americano Clinton la disponibilità degli Stati Uniti a intervenire
militarmente in Bosnia. Il 14 settembre, Izetbegovic e Tudjman firmano a Ginevra un accordo per il
cessate il fuoco tra l'ArBiH e l'Hvo, con il quale, di fatto, si conferma il pieno coinvolgimento della
Croazia nel conflitto tra croati e bosniaci. L'accordo viene immediatamente sconfessato sul campo,
dove gli scontri continuano violenti. Una delle prove più atroci della violazione di tali accordi è il
massacro dei civili croati perpetrato quello stesso 14 settembre da parte di soldati dell'ArBiH a
Uzdol e Grabovica, in Erzegovina, a una trentina di chilometri a nord di Mostar.
Di fronte al rifiuto del precedente piano di pace, la comunità internazionale organizza il 20
settembre una nuova conferenza sulla portaerei britannica Invincible, nell'Adriatico, in acque
internazionali, e con il consenso di Tudjman e MiloSevic presenta un nuovo piano di divisione della
Bosnia. Simile a quello precedente, il piano prevede il 53 per cento del territorio ai serbi, il 17 per
cento ai croati e il 30 per cento ai bosniaci. Una delle novità è che ai serbi e ai croati con il
consenso di tutti gli altri si garantisce il diritto al referendum sulla secessione due anni dopo la firma
del piano di pace.
Nei giorni in cui la presidenza della Bosnia Erzegovina subisce nuove pressioni con quest'ultima
proposta, arriva un ulteriore duro colpo dall'interno. Il membro della presidenza Fikret Abdic, che
alle elezioni del 1990 aveva prevalso per voti su tutti gli altri (ne aveva avuti più dello stesso
Izetbegovic), dapprima accusa in una lettera aperta Izetbegovic di aver rinunciato alla concezione
della Bosnia definita prima della guerra e poi, il 27 settembre, pubblicamente revoca la sua lealtà
alla presidenza. A Velika KladuSa e in una parte del territorio comunale di čazin (Bosnia
nordoccidentale), Abdic proclama la Regione autonoma Bosnia occidentale (Apzb) e crea la Difesa
popolare della Bosnia occidentale, formazione militare che agisce contro il quinto corpo d'armata
dell'ArBiH.
Così, in Bosnia si apre una quarta guerra: musulmani contro musulmani. Fikret Abdic collabora
strettamente in affari con i serbi di Knin, con l'esercito della Repubblica serba e infine anche con le
autorità della Croazia alle quali fa comodo un «dissidente forte» nelle fila dei bosniaci musulmani. Il
culmine di questa collaborazione si avrà in ottobre, con la firma di un accordo tra Abdic e Boban a
Zagabria. Un analogo accordo Abdic, lo firmerà il giorno seguente a Belgrado con KaradŽic.
L'intera regione è al collasso economico. In Bosnia Erzegovina, nella tipografia di Oslobodjenje,
al posto della carta moneta si stampano dei buoni con i quali è possibile comprare solo giornali e
pane, mentre a Belgrado, la zecca della Banca nazionale stampa la banconota di dieci miliardi di
dinari, del valore effettivo di 300 lire. Dopo due mesi, sarà in circolazione anche la banconota con
undici zeri, cioè da 500 miliardi di dinari. Il suo valore è pari a 15 mila lire. L'unica buona notizia
arriva dall'Erzegovina. Dal campo di Dretelj vengono rilasciati i bosniaci-musulmani. Il penultimo
giorno di settembre, il parlamento bosniaco rigetta il piano presentato sulla portaerei Invincibile per
il giusto timore che «il diritto al referendum sulla secessione» possa significare la definitiva
annessione della Repubblica serba alla Serbia e della Herceg-Bosna alla Croazia, ossia possa
rappresentare la fine della Bosnia Erzegovina e la creazione della Grande Serbia e della Grande
Croazia. Il parlamento non approva nemmeno la suddivisione territoriale, ma serbi e croati non sono
disposti a scendere a ulteriori compromessi.
Come sempre, la fine di un piano politico «di pace» porta all'intensificarsi degli scontri, in
particolare tra ArBiH e Hvo. Il 7 ottobre, un rapporto dell'Unprofor accusa l'esercito croato di aver
deliberatamente ucciso civili e compiuto distruzioni durante la ritirata da villaggi popolati da serbi.
Benché a livello politico si compiano grossi sforzi a favore della pacificazione tra croati e
bosniaci e il 19 ottobre si effettui un grande scambio di prigionieri, il nuovo crimine perpetrato il 23
ottobre a Stupni Do porta il conflitto a livelli incandescenti. Quel giorno i soldati croati compiono un
altro massacro di civili musulmani, prevalentemente donne e bambini, su diretto ordine di alti
ufficiali dell'Hvo.
Due settimane più tardi, il 9 novembre, dopo sistematici colpi dei carri armati dell'Hvo, si
sgretola il ponte di Mostar, il più importante monumento medioevale e simbolo stesso della città. Il
comando dell'Hvo lo aveva dichiarato «obiettivo militare». Tutto il mondo civilizzato inorridisce,
ma uno dei comandanti dell'Hvo commenta con freddezza: «più importante il dito mignolo di uno dei
miei soldati che tutti i ponti di questo mondo». Qualche giorno dopo, una dichiarazione del ministro
degli Esteri francese fa il giro del mondo: «Non cesso di chiedermi perché l'Onu non utilizzi la forza
a Sarajevo. Ha tutti i mezzi per farlo».
Alla vigilia di Natale 1993, l'assemblea generale dell'Onu adotta una risoluzione con cui chiede la
fine dell'embargo sulle armi per il governo bosniaco. Gli Stati Uniti votano a favore, gli europei si
astengono. Forse come compensazione e a causa della coscienza poco tranquilla, l'ultimo giorno
dell'anno l'Unione europea presenta il suo «piano d'azione» per la Bosnia Erzegovina, una via di
mezzo tra il piano che prevede la Bosnia come unione di tre repubbliche e quello varato sulla
Invincibile.
Traduzione di Nadira Sehovic
Bosnia Erzegovina 1994-1995
(di Gigi Riva)

Bomba sul mercato Il 1994 sembrava voler correre verso il suo 5 febbraio, incontro all'evento
memorabile, acme dell'orrore e dell'impotenza.
Un inverno di neve abbondante aveva fatto sperare nella tregua metereologica, tipica delle guerre
tradizionali, di cannoni e di trincea. I fanti battevano i denti e i mortai erano stati avvolti nelle
coperte perché si ritrovasse intatta, a primavera, la loro potenza distruttrice. Ma celebrate le feste,
cattoliche e ortodosse, altri erano i progetti di chi aveva fretta di chiudere la partita, forte di una
supremazia militare schiacciante.
Sarajevo sembrava un presepe quel 22 di gennaio in cui il generale belga Francis Briquemont, 59
anni, comandante dell'Unprofor in Bosnia, passava le consegne al generale inglese Michael Rose, 54
anni. Briquemont lasciava («Sono stanco») dopo non pochi contrasti con i politici suoi diretti
superiori. La sua miglior dote, la franchezza, lo aveva reso impopolare al Palazzo di vetro. Si era
permesso di accusare il Consiglio di sicurezza di essere «troppo parsimonioso» nell'invio di truppe,
di «adottare non so più quante risoluzioni senza poi darci la maniera di porle in atto». Aveva parlato
di «mandato inadeguato». E aggiunto: «Abbiamo un dispositivo di mantenimento della pace e non
esiste nemmeno un trattato di pace».
Contrario ai bombardamenti («Mirano solo a distruggere tutte le installazioni strategiche di un
paese. E poi si parla sempre di punire i serbi: perché non i croati? Hanno cannoneggiato Mostar
come mai i serbi hanno fatto con Sarajevo»), aveva spesso invano chiesto l'appoggio aereo
ravvicinato in funzione dissuasiva e in aiuto alle truppe sul terreno. In quel suo ultimo giorno aveva
anche avuto il tempo per un proclama politico: «Chiedo la sostituzione di David Owen e Thorvald
Stoltenberg, i mediatori internazionali. Se sono stanco io, lo sono sicuramente anche loro, all'opera
da troppo tempo. un po' come per le squadre di calcio: di tanto in tanto bisogna sostituire
l'allenatore». Questo stava dicendo, nella sede dell'Unprofor sulla strada verso l'aeroporto, quando si
sentono delle deflagrazioni.
A poche centinaia di metri di distanza, nel quartiere di AlipaSino Polje, davanti alla sede della
radiotelevisione, quattro granate uccidono sei bambini che, con gli slittini, stanno giocando nella
neve. Gli specialisti dell'Unprofor si recano sul posto solo per rilevare che «i crateri sono troppo
bassi, l'analisi non può essere completata. Le granate sono venute da ovest, ma non si sa chi le ha
lanciate perché in quella direzione si intersecano le posizioni di entrambe le parti in guerra». Il
premier bosniaco, Haris SilajdŽic, scrive una lettera al segretario dell'Onu, Boutros Ghali: «Il
sangue di AlipaSino Polje è schizzato anche sulla faccia della missione Unprofor che non è in grado
di proteggere neppure bambini innocenti.
Stavano giocando in una «zona protetta». Che cosa deve ancora succedere a Sarajevo perché
vengano messi in atto i meccanismi per realizzare la risoluzione dell'Onu?». Ghali non risponde e
sembra diretto anche a lui l'appello che papa Giovanni Paolo II lancia l'indomani, durante la giornata
di preghiera per l'ex Jugoslavia: «Non possiamo rassegnarci, le autorità competenti hanno la
responsabilità di tentare tutto ciò che è umanamente possibile per disarmare l'aggressore».
L'equivalenza tra aggressore e aggredito è invece l'operazione matematica più cara alla
diplomazia. Serve, anzitutto, a giustificare l'inerzia, quando non la connivenza. Il generale Michael
Rose è l'espressione di un paese, la Gran Bretagna, dove ancora si sentono gli influssi della storica
alleanza con Belgrado. Non sembra un caso quando, a pochi giorni dall'insediamento, se ne esce con
una dichiarazione clamorosa: «Sarajevo non si trova sotto assedio». E, nonostante i mille patti
violati, Yasushi Akashi, l'inviato di Ghali, mostra di credere ancora alle parole: «Radovan KaradŽic
e il suo vice Nikola Koljevic mi hanno dato ampie assicurazioni sul rispetto del libero uso
dell'aeroporto di Sarajevo». Quasi a smentirlo, è proprio nel quartiere di Dobrinja (costruito per le
Olimpiadi invernali del 1984) nei pressi dello scalo che il 4 febbraio, poco dopo mezzogiorno,
alcune granate provocano 10 morti e 18 feriti. Stavolta l'inchiesta internazionale è rapida e conclude:
«Sono stati i serbi». la vigilia del 5 febbraio, giorno verso il quale sembra correre il 1994.
Il 5 febbraio è un sabato e, nella tarda mattinata, il mercato centrale di Sarajevo, Markale, sulla
via Maresciallo Tito, l'arteria principale del centro città, è come al solito pieno di gente che cerca,
tra le semispoglie bancarelle di metallo, qualcosa da comprare prima di affrontare, rigorosamente a
piedi, la strada del ritorno a casa. L'area del mercato misura 30 per 50 metri ed è fiancheggiata da
edifici di sette e otto piani sui lati nord e ovest. Mezzogiorno è trascorso da pochi minuti quando una
granata di 120 millimetri cade sul mercato ed esplode al contatto con il terreno (ancora oggi il
cratere provocato è visibile ed è stato colorato di rosso): 68 morti e 197 feriti. Granate come questa
pesano circa 13 chili e contengono 2,5 chili di potente esplosivo. La loro peculiarità sta nel fatto che
si trasformano in numerosi proiettili che si spargono nella direzione di partenza. Determinando il
caratteristico «ventaglio» di dispersione dei proiettili, si può tracciare la linea fondamentale della
parabola descritta dal volo. Se su questa linea si traccia una perpendicolare che passa per il centro
del cratere interno, si può stabilire la direzione dalla quale è stata lanciata. Di più: se il cratere
provocato dalla granata in rapporto alla posizione dei resti della coda viene misurato esattamente, è
possibile stabilire l'angolo descritto dalla granata in caduta.
KaradŽic, da Pale, la sua roccaforte tra le montagne, «capitale» dell'autoproclamata Repubblica
serba di Bosnia Erzegovina, respinge ogni responsabilità: «Sono stati i musulmani». Che avrebbero
organizzato l'auto-massacro per provocare l'intervento internazionale. Usando come prova
un'immagine televisiva in cui si vede chiaramente una persona con una protesi, arriva al punto di
dubitare che ci siano state davvero delle vittime e adombra l'ipotesi che si tratti di manichini.
Qualche giorno dopo Tf1, la tv francese, rilancia le accuse ai musulmani attribuendole addirittura a
lord David Owen. Seguirà una smentita, ma ormai i dubbi sono stati seminati. David Beinder,
corrispondente del New York Times da Washington, condurrà la più seria e approfondita inchiesta
sulla strage e i risultati verranno pubblicati sulla rivista Foreign policy. Sostiene Beinder che cinque
minuti dopo l'esplosione compare a Markale un tenente francese con il suo aiutante. Rimane sulla
piazza fino all'arrivo degli specialisti artiglieri (un altro tenente francese e un maresciallo) verso le
due del pomeriggio.
Questi procedono al controllo con il metodo della bussola, basato sulla traccia che lascia dietro di
sé l'ordigno dopo la deflagrazione. Riferiscono, nel loro rapporto, che la posizione della granata era
«sui 0620 millesimi», cioè in direzione nord (6400 è il cerchio completo, lo zero è il Nord), e
portano con sé la coda del proiettile.
Poco più tardi, alle tre del pomeriggio, un capitano francese incaricato di verificare il punto di
caduta, traccia le linee formate dal caratteristico «ventaglio» di dispersione della mina e valuta che
la posizione è sugli 0800-1000 millesimi, cioè molto più a est (l'Est è esattamente a 1600 millesimi).
Considerata questa direzione, è necessario un angolo descritto in caduta di 1400 millesimi, pari a 79
gradi, per consentire alla granata di superare un edificio di 20 metri. Se si tengono per buoni questi
dati, la base di lancio sta all'interno delle linee musulmane.
Alle 16 terza misurazione, del tutto autonoma, di un maggiore canadese, con risultati vicini alla
prima: secondo lui la granata è arrivata da nord-nordest ed è caduta con un'angolatura di 70 gradi:
impossibile stabilire la postazione di partenza. Nonostante questo, Akashi manda un rapporto cifrato
a Ghali in cui gli comunica che, pur in assenza di prove sicure, è altamente probabile che gli autori
siano musulmani. Ghali riferisce il contenuto del messaggio al segretario di stato americano Warren
Christopher, il quale ha informazioni diametralmente opposte.
L'Unprofor decide allora di nominare una commissione d'inchiesta comandata dal tenente
colonnello Michel Gautier, francese, e di cui fanno parte anche un maggiore pakistano, un capitano
francese, uno spagnolo, un colonnello russo, con l'assistenza di due tecnici di Francia e Irlanda.
Questi compiono altre sette analisi del cratere e interrogano 13 testimoni oculari. Conclusioni:
respinto il rapporto del tenente francese perché sospetto il suo metodo d'analisi; respinta anche
l'analisi del capitano francese a causa di un «serio errore matematico». L'ordigno è partito «da
qualunque posizione collocabile due volte un chilometro e mezzo nord-nordest dalla piazza, dove
passa la linea di separazione tra l'esercito serbo e quello musulmano». L'angolo di caduta è
«impossibile da stabilire con maggior precisione di quella compresa tra 45º e 90º. Sulla base della
gittata della granata da 120 millimetri, la distanza del lanciatore può essere collocata in un punto
qualsiasi nell'arco spaziale compreso tra 300 e 5.551 metri». E comunque: «La neve caduta ha reso
impossibile stabilire la posizione del lanciagranate. Sia i serbi sia i musulmani, infine, hanno posto
ostacoli all'inchiesta».
A sette anni di distanza, ancora nessuna certezza, tantomeno è stato individuato l'artigliere che ha
sparato l'ordigno né i suoi superiori che, tramite la catena di comando, hanno impartito l'ordine. Se è
senza dubbio storicamente importante stabilirlo, la disputa non ha mai appassionato chi si trovava, in
quei tempi, nei Balcani. Intanto, perché era comunque chiaro chi stava assediando chi. E poi perché,
anche nel caso della bomba musulmana, l'atto diceva semmai della disperazione di un popolo che
doveva arrivare al punto di ammazzare i suoi stessi connazionali pur di far sentire il suo grido
d'aiuto.
L'effetto pratico, immediato, è lo scoramento profondo che prende gli abitanti di Sarajevo, sotto
assedio ormai da quasi due anni. La loro capacità di resistenza (un esempio e un simbolo per la
Bosnia tutta) si sta esaurendo: proprio in quei giorni molti pianificano la fuga dalla capitale
attraverso la pericolosa via che passa dalla pista dell'aeroporto e si inerpica sui sentieri del monte
Igman, sotto il tiro delle armi nemiche. In ben altro modo avevano pensato di celebrare, di lì a tre
giorni, l'8 febbraio, il decimo anniversario dell'inizio delle Olimpiadi invernali, un evento-mito in
cui Sarajevo si era sentita «il centro del mondo». Tutte le strutture costruite per le gare o per
l'alloggio degli atleti sono rase al suolo o quotidianamente colpite. Le piste di fondo e discesa
minate, quando non in territorio della Repubblica serba, come quelle sul monte Jahorina. Il 12
febbraio, poi, si devono aprire le nuove Olimpiadi a Lillehammer in Norvegia e invano il presidente
del Cio, il catalano Juan Antonio Samaranch, ha chiesto la tregua olimpica come nell'antica Grecia.
Lo sport potrà dare, al massimo, un minuto di raccoglimento per una delle città da dove è passata la
sua carovana.

Ultimatum La bomba del mercato riesce comunque a scuotere (per poco, come vedremo) anche le
coscienze e la diplomazia internazionale. Boutros Ghali trasferisce dall'Onu alla Nato la
«responsabilità» di eventuali operazioni aeree punitive, mentre il 9 febbraio a Bruxelles si riunisce il
Consiglio generale del Patto atlantico che lancia il famoso ultimatum. Si tratta di un documento in 13
punti di cui il sesto è quello decisivo. Si chiede «il ritiro o il concentramento e la messa sotto il
controllo dell'Unprofor, nel termine di 10 giorni, di tutti gli armamenti pesanti (compresi i carri
armati, l'artiglieria, i mortai, i lanciamissili a più canne, i missili e la contraerea) appartenenti alle
forze dei serbi di Bosnia che si trovano su un territorio compreso nel raggio di 20 chilometri dal
centro di Sarajevo». Al punto otto si dichiara che il termine «non sarà prolungato». Al punto dieci, la
minaccia di raid: «Il Consiglio delibera che dieci giorni dopo la mezzanotte del 10 febbraio tutte le
armi pesanti che verranno trovate all'interno della zona di Sarajevo, salvo non siano sotto il controllo
dell'Unprofor, comprese le attrezzature essenzialmente necessarie per il diretto sostegno militare,
saranno esposte agli attacchi aerei Nato che verranno compiuti in stretto coordinamento con il
segretario generale delle Nazioni unite e saranno in accordo con le deliberazioni del Consiglio
atlantico». Il presidente americano Bill Clinton rafforza la serietà degli intenti con una dichiarazione:
«Non possiamo più cavarcela con delle vuote minacce».
Radovan KaradŽic e il suo generale Ratko Mladic non gradiscono.
Forti anche degli espliciti appoggi che arrivano da oltre la Drina, dai fratelli separati della Serbia
propriamente detta. Vojislav SeSelj, il capo del Partito radicale di Belgrado e il portavoce
dell'esercito di Serbia e Montenegro, Ljubodrag Stojadinovic, reagiscono: «Se attaccati,
risponderemo, considereremo i caschi blu nemici e sarà guerra in tutta Europa. Stia attenta soprattutto
l'Italia». Che fornisce alla Nato la base di Aviano e che ha almeno due regioni, la Puglia e il Friuli-
Venezia Giulia, a tiro delle armi serbe. Ad acuire la tensione contribuisce il primo arresto di un
ricercato per crimini di guerra. A Monaco di Baviera finisce in manette il serbo DuSko Tadic, 28
anni, detto «il macellaio» e considerato uno degli aguzzini del lager di Omarska. Il Tribunale
internazionale dell'Aja lo accusa di omicidio, concorso in omicidio, strage e sevizie. Una delle sue
vittime lo ha riconosciuto per strada.
L'intervento è annunciato come imminente, il dado è stato lanciato e tuttavia nessuno sembra
disposto a giocare la partita nonostante le roboanti prese di posizione di questo o quel leader. I giorni
passano senza che succeda sostanzialmente nulla, la scadenza si avvicina e calano in Bosnia tutti gli
inviati dei media internazionali in attesa della «tempesta nei Balcani». KaradŽic chiede, al minimo,
che ad analogo disarmo proceda anche l'esercito bosniaco. Ottiene da Akashi che il punto sei sia
elasticamente interpretato sino a prevedere il «controllo delle armi sul posto».
Eppure, tutte le concessioni non sarebbero sufficienti se non entrasse in scena un nuovo
protagonista: Boris Eltsin, il presidente russo. Da consumato attore sceglie il momento migliore per
calarsi sul palcoscenico. Da tempo Mosca, in profonda crisi finanziaria e alle prese con il post-
comunismo e il faticoso avvio della democrazia, è ai margini della diplomazia internazionale, ha
subito l'affronto del Golfo e fatica a ritagliarsi i panni di sorella povera dopo essere stata una
superpotenza. Con i serbi vanta un'antica consuetudine di fratellanza etnica (il panslavismo) e
religiosa (l'ortodossia), appena offuscate dalla rottura di Tito con Stalin (1948) e dalla conseguente
uscita della Jugoslavia dall'orbita del Patto di Varsavia a favore della terza via e del movimento dei
non allineati.
Boris Eltsin propone dunque a KaradŽic di ritirare l'artiglieria pesante in cambio del
distaccamento nell'area di Sarajevo, parte serba, di 400 caschi blu russi: saranno i garanti del
rispetto degli accordi e potranno arrivare in tempo utile perché non è lungo il tragitto dalla Slavonia,
dove stanno svolgendo la loro missione, a Sarajevo. KaradŽic tergiversa prima di accettare (18
febbraio) e permette all'amico Boris di cogliere un lusinghiero successo e di rilanciare minaccioso:
«In caso di attacchi aerei Nato contro i serbi di Bosnia, la successione degli avvenimenti in Europa
diventerà imprevedibile. Mosca non potrà più partecipare alle azioni delle Nazioni unite e si creerà
un clima nuovo e diverso in Europa e nel mondo».
La neve caduta in abbondanza diventa il miglior pretesto logistico per scusare eventuali ritardi.
Benché tutte le armi non siano in realtà «sotto controllo» ci si accontenta del risultato. Già alle 19,25,
qualche ora prima della scadenza dell'ultimatum, il generale Rose annuncia che andrà «a letto a
dormire». Clinton e Eltsin in una dichiarazione congiunta confermano che «i raid non servono più».
Lo stesso fa Manfred Woerner, il comandante della Nato. I soldati russi arrivano a Pale in un tripudio
di baci, applausi, fiori lanciati contro i tank e le tre dita alzate (pollice, indice, medio) nel saluto
serbo (sono le tre dita usate nel segno della croce ortodosso). Mai erano arrivati così vicino
all'Adriatico, il tanto agognato mare caldo.
A Sarajevo comincia una precoce primavera. Si riparano i semafori, il tram riprende a circolare,
si taglia l'erba nel campo di calcio per un match tra una squadra locale e il team dell'Unprofor (per la
cronaca finì 4-0). Viene propagandata come un grande successo la riapertura del ponte che collega il
centro della città con Grbavica, il quartiere in mano serba. In realtà, chi va a trovare i parenti
separati deve inoltrare una domanda, aspettare il permesso e, quando arriva, può passare la linea
solo se accompagnato da un poliziotto, presente anche alle conversazioni familiari, e dopo poche ore
deve fare dietrofront.

Il patto croato-musulmano Il parziale successo a Sarajevo induce la diplomazia a forzare i tempi.


Passano solo ventiquattro ore e l'Onu lancia un nuovo ultimatum ai serbi: devono lasciare l'aeroporto
di Tuzla entro il 7 marzo, lo scalo è indispensabile per portare aiuti umanitari alle città assediate
della Bosnia centrale. In prima linea, per questo nuovo passo, gli americani. Come mai? Per ragioni
che saranno chiare solo due anni dopo e con gli accordi di Dayton: costituiranno proprio a Tuzla la
loro più grande base logistica nell'Europa centroorientale.
Ricalcando lo schema già usato, Radovan KaradŽic dà l'assenso, a patto che siano coinvolti i
caschi blu russi. Lo dice da Mosca, dove è gradito ospite, dopo un incontro con Kozyrev. Il primo
volo su Tuzla partirà il 22 febbraio, ma continuerà l'assedio della città, la più importante della
Bosnia nordorientale.
Ma facciamo un passo indietro. Febbraio porta, prima di finire, un'altra eclatante novità destinata a
segnare, dopo altre decine di migliaia di morti e un tortuosissimo percorso, il destino del conflitto. I
fatti. Dietro la fortissima pressione del segretario di stato americano, Warren Christopher, il 22
febbraio viene siglato un accordo per il cessate il fuoco (che entrerà in vigore tre giorni dopo) tra
musulmani e croati in Erzegovina. KreSimir Zubak, successore di Mate Boban alla guida dell'Herceg
Bosna, il mini-stato autoproclamato dai croati, spende parole importanti: «Noi pensiamo che
nell'interesse dei nostri due popoli sia possibile, e forse anche preferibile, organizzare la Bosnia
Erzegovina sulla base dell'unione tra il popolo musulmano e quello croatobosniaco». A siglare nei
fatti l'intesa sono i due generali comandanti Rasim Delic (musulmano) e Ante RoSo (croato). Arriva
anche l'autorevole imprimatur di Franjo Tudjman da Zagabria: «Puntiamo a una confederazione». Il
suo ministro degli Esteri, Mate Granic, accenna a una configurazione giuridica che, guarda caso, un
anno e mezzo dopo, sarà adottata a Dayton: «Il piano Ue che prevede tre repubbliche etniche è morto,
anche se non lo si dice ufficialmente.
La Bosnia potrebbe essere divisa in due, una serba e l'altra croato-musulmana con il 51 per cento
del territorio. Noi siamo obbligati a mantenere l'alleanza con Usa, Germania, Turchia e Santa Sede».
Il 25 febbraio si apre a Washington una trattativa tra Granic, Zubak e il premier bosniaco Haris
SilajdŽic, dopo che si è arrivati a un accordo sul mutuo scambio di prigionieri. Di fatto nasce la
confederazione, considerata dall'ex ambasciatore Usa a Belgrado, Warren Zimmermann (vedi il suo
libro Origins of a catastrophe), uno dei grandi successi diplomatici di quell'anno. E' il punto di
svolta.
Gli Stati Uniti, con il loro presidente Clinton che aveva dedicato buona parte della campagna
elettorale alle promesse di pace nei Balcani, tornano da protagonisti in Europa, rubando la scena
all'Unione europea che sarà anche un gigante economico, ma è ancora, con tutta evidenza, un nano
politico. Si ripete lo schema della Guerra fredda con la divisione della regione in zone d'influenza: i
russi con i serbi e gli americani sostenitori della parte avversa.
Certo non deve essere stato facile ridurre alla ragione il presidente Tudjman, nei sogni del quale
(cfr. sempre il libro di Zimmermann) c'è una spartizione della Bosnia con MiloSevic e a danno dei
musulmani, da confinare nella ridotta di Sarajevo e dintorni. Il presidente nazionalista è inoltre salito
al potere grazie all'appoggio della potente lobby degli erzegovesi, che puntano al ricongiungimento
con la madrepatria e alla formazione della Grande Croazia. I soldati croati hanno cominciato la
guerra a Mostar e dintorni un anno prima con il crocefisso al petto, convinti dai loro leader che era
necessario fermare la penetrazione dell'islam in Europa. Ma questo è tempo di realpolitik e gli Stati
Uniti sono disposti a favorire una Croazia uscita a pezzi dalla guerra e sospettata, non a torto, di
gravi violazioni dei diritti umani delle minoranze, solo in cambio di questa confederazione. Clinton
ha anche un altro interesse: quello di appoggiare l'islam laico, europeo, prima che l'isolamento e la
disperazione lo spingano nelle braccia dei correligionari fondamentalisti dei paesi arabi.
E Izetbegovic? Aveva più di un motivo per gioire. Come confesserà anni dopo all'intellettuale
francese Bernard-Henri Lévy, il suo esercito era stremato, per nulla in grado di gestire due fronti.
Solo con un bluff, l'anno prima, in seguito a un velleitario attacco sulla parte croata di Vitez, aveva
convinto Tudjman di avere un'armata ben equipaggiata. a partire da questa fine febbraio che il
quadro comincia a diventare chiaro. Ci vorrà del tempo per tradurre le volontà in fatti concreti. I
serbi occupano pur sempre più del 70 per cento del territorio e altro dimostrano di volerne
conquistare.
******
Mate Boban Se mai la storia si occuperà di Mate Boban, lo collocherà nella schiera dei servi
fedeli e un po' sciocchi da usare e sacrificare secondo i voleri del loro padrone. Che in questo caso
si chiama Franjo Tudjman. Boban è morto di morte naturale (e già nei Balcani non è poco) al
momento giusto, l'8 luglio del 1997, quando il suo nome veniva pronunciato con sempre più
insistenza al Tribunale dell'Aia e si pronosticava come imminente una sua convocazione.
Nacque a Sovic, in Erzegovina, nel 1940, in una delle poche famiglie di quella zona che non si
erano compromesse con il regime ustascia di Ante Pavelic. Fu questo il motivo per cui non ebbe
difficoltà a essere accettato, appena diciottenne, nella Lega dei comunisti. Nel 1966 è direttore di una
casa editrice a Imotski, mentre procede, sino al grado di segretario di sezione, la sua carriera nel
partito.
Nel 1990, fiutando il vento che tira, scende dal cavallo comunista per iscriversi all'Hdz, il partito
di Tudjman. Presidente in Erzegovina è quello Stjepan Kljujic che si segnala per moderazione e che
crede in una Bosnia unita e multietnica. Per questo viene detronizzato dal padre-padrone di Zagabria.
A Kljujic succede Boban, pronto ad assecondare quel sogno e convinto che i croati debbano fermare
l'«avanzata dell'islam nel cuore dell'Europa».
Quando la guerra è già scoppiata, Boban incontra nell'aprile del 1992, a Graz, KaradŽic per
concordare la spartizione del paese a spese dei musulmani. Nel luglio dello stesso anno proclama la
nascita della comunità croata dell'Herceg-Bosna. Intanto muta il quadro internazionale, Tudjman
viene convinto dagli americani ad accettare la federazione croato-musulmana e Boban non serve più.
Così viene costretto a dimettersi l'8 febbraio del 1994.
Si trasferisce a Zagabria dove vive all'hotel Intercontinental.
Trova lavoro (è il prezzo per l'uscita di scena) come direttore dell'Ina, l'ex azienda energetica di
stato e si occupa di alcune squadre di calcio e pallavolo. I tranquilli hobby di un pensionato della
politica.
Quando muore due sole televisioni gli tributano un servizio definendolo un grande politico: una a
Zagabria e l'altra a Pale.

La prima volta della Nato La politica della pazienza e della trattativa sinora non ha pagato.
Gli americani si rendono conto che, una volta scesi in campo, non possono commettere gli stessi
errori degli europei, pronti a sedere al tavolo delle trattative dopo ogni impegno preso e non
rispettato.
E se Sarajevo è un banco di prova ancora troppo alto per la fermezza (i russi, soprattutto, non
gradirebbero), ci sono altri luoghi dove può essere esercitata. C'è, anzitutto, da ridare credibilità a un
organismo, la Nato, cui troppe volte sono state legate le mani perché risulti, davvero, uno strumento
dissuasivo. La risoluzione delle Nazioni unite numero 816 del 31 marzo 1993 che vieta i voli sullo
spazio aereo della Bosnia, per esempio, è già stata violata più di 800 volte. I radar registravano, i
comandanti vedevano, la reazione non partiva. Uno scandalo è tale quando è raro. Ma sono routine,
nei Balcani, le violazioni della volontà dell'Onu. Immaginiamo dunque lo stupore dei serbi (gli unici
che possedevano velivoli) quando invece del cielo sgombro si trovano davanti due F16 americani
che danno loro la caccia. Succede all'alba del 27 febbraio per quella che sarà ricordata come la
prima azione di guerra compiuta dalla Nato dalla sua nascita. Quando esisteva ancora la «ragione
sociale» del suo concepimento, cioè il blocco comunista, non aveva avuto bisogno di sparare
nemmeno un colpo. Lo deve fare adesso, in qualità di «forza regionale» incaricata dall'Onu di far
rispettare i patti.
L'episodio ha un prologo comico. L'aereoporto di Banja Luka, città del Nord della Bosnia in mano
ai serbi, anticamente capitale, dovrebbe essere sotto il controllo di quattro militari dell'Unprofor
incaricati di impedire i decolli. Dormono a 30 chilometri di distanza dalla pista e qualcuno,
nottetempo, ruba loro l'automobile. Ecco perché non sono presenti quando sei aerei Jastreb J1,
versione monoposto da attacco al suolo del Galeb (primo aereo prodotto dalla ex Jugoslavia), si
alzano in volo alla volta di Vitez dove bombardano una fabbrica di armi. Hanno già compiuto la
missione quando, alle 5,31 del mattino, compaiono sugli schermi di un aereo radar Awacs, che
segnala la loro presenza nella no-fly-zone. Alle 5,34, due caccia F16 Nato decollati dalla base di
Aviano intercettano gli Jastreb. Alle 5,35 intimano loro di atterrare o lasciare la no-fly-zone. Ore
5,43: il comando a terra autorizza l'attacco dopo la segnalazione di azioni di bombardamento da parte
dei serbi. Ore 5,45: il caposquadriglia spara tre missili e abbatte altrettanti Jastreb sopra Novi
Travnik. Quasi contemporaneamente arrivano in appoggio altri due F16. Ore 5,50: il comandante
della seconda squadriglia abbatte un quarto aereo. Ore 5,59: i due velivoli superstiti lasciano lo
spazio aereo della Bosnia.
Se nei cieli qualcosa è cambiato, l'assedio di GoraŽde dimostrerà, di lì a poco, che ancora molto
cammino è da percorrere, per far tacere i cannoni a terra. Gli Stati Uniti sono disposti a esercitare la
loro pressione dall'alto, grazie all'assoluta supremazia dell'aviazione, ma non hanno la minima
intenzione di impantanarsi in una guerra di terra (il Kosovo confermerà questa strategia).
L'opinione pubblica non capirebbe il coinvolgimento di truppe per un conflitto in un lontano lembo
d'Europa: per mantenere il consenso la Casa Bianca deve evitare bare con la bandiera a stelle e
strisce. E' la versione contemporanea della famosa frase di Bismarck: «I Balcani non valgono le ossa
di un granatiere di Pomerania». Siano francesi e inglesi, soprattutto, a sbrigarsela, dato che
costituiscono la spina dorsale della forza Onu.

L'agonia di GoraŽde Dov'è finita l'artiglieria che stava attorno a Sarajevo? La risposta arriva nei
primi giorni di aprile: a GoraŽde. Non bisogna essere particolarmente versati in strategia e tattica
militare per capire l'importanza della città a ridosso della Drina. il più ampio territorio in mano
bosniaca verso i confini con la Serbia, caposaldo irrinunciabile per la costituzione di una Grande
Serbia senza soluzione di continuità. La città si è gonfiata dall'inizio del conflitto per l'arrivo di
profughi delle aree vicine, fino a contare 70 mila abitanti. Lì si trova la fabbrica Pobjeda (Vittoria)
con il suo alto livello di produzione di materiale per le forniture militari. Da lì passa il corridoio
che collega la Bosnia con il Sangiaccato, zona della Serbia abitata da musulmani, molti dei quali si
sono arruolati sotto la bandiera di Sarajevo. Le stesse Nazioni unite l'hanno dichiarata «zona
protetta» con la risoluzione numero 824 del 6 maggio 1993. I serbi la circondano totalmente da una
decina di mesi, ma senza lusinghieri risultati. Anzi, è proprio in quella zona che subiscono le prime
serie sconfitte militari dall'inizio del conflitto. I rinforzi che arrivano in gran copia agli assedianti
convincono il sindaco Ismet Briga (memore di quanto successe a Srebrenica con Morillon) a invitare
a GoraŽde il generale Rose.
Questi parte, ma a Pale è fermato, gli viene impedito di proseguire.
Per minimizzare l'episodio si sbilancia in una previsione: «GoraŽde non cadrà». A che prezzo, lo
vedremo.
A GoraŽde sono rimasti solo rappresentanti della Croce rossa internazionale, di Medici senza
frontiere, tre osservatori e otto ufficiali di collegamento delle Nazioni unite. Grazie ai radioamatori
inviano dei bollettini sconfortanti: il centro della città, l'ospedale e la sede Onu sono bombardati in
continuazione. Eppure, durante i briefing quotidiani dell'Unprofor si parla di «conquiste inferiori a
quanto si suppone». Il governo bosniaco il 5 aprile accusa l'Onu di minimizzare quanto sta
succedendo.
Il numero delle vittime cresce, si teme una catastrofe sanitaria e umanitaria quando, il 10 aprile, si
muovono nuovamente gli aerei Nato per un'operazione di «sostegno ravvicinato dal cielo al
personale dell'Onu». A 12 chilometri a sudovest della città due F16 americani sganciano quattro
bombe. Di queste, una non si stacca nemmeno dalla struttura del caccia, due non esplodono e solo
una, del tipo Mark82 e del peso di 200 chili, colpisce un blindato abbandonato e un camion.
Il giorno successivo, un'analoga operazione porta alla distruzione di tre carri armati.
L'inefficacia delle operazioni convince KaradŽic e Mladic che possono osare. I soldati serbi
cercano di impossessarsi delle armi che si trovano sotto il controllo dei caschi blu e in molti casi ci
riescono. Nascono incidenti a Krivoglavica, presso Sarajevo, a HadŽici, a Lukavica. Almeno 200
soldati dell'Onu si trovano nella condizione di prigionieri, assediati nelle loro caserme e senza
possibilità di uscire se non con il permesso dei serbi. La situazione precipita anche a Sarajevo, dove
cecchini appostati nel cimitero ebraico feriscono quattro passeggeri del tram, la cui circolazione era
stata uno dei segni visibili di un faticoso ritorno alla normalità. E il 15 aprile comincia quella che ha
tutta l'aria di essere l'offensiva finale su GoraŽde. Un osservatore britannico muore. Rose chiede
l'immediato intervento aereo ad Akashi che si trova a Pale. Rimarrà traccia parziale della loro
conversazione radio. Eccola.
Rose: «Sparano sui nostri uomini. Abbiamo vittime. E' necessario adoperare la Spada Azzurra (la
Nato, ndr) per salvare i nostri uomini. Diversamente potrebbero morire tutti...».
In attesa di parlare con Akashi, Rose spiega a un ufficiale di nome Tarun lo stato delle cose.
Rose: «La situazione sta rapidamente peggiorando rispetto a quando avete cominciato a parlare
con KaradŽic. I Bh (esercito della Bosnia Erzegovina) sono al collasso e cominciano a ritirarsi
verso nord e non al sud come ci aspettavamo. I BsaA (serbi) tirano sulle nostre postazioni. Un nostro
uomo è ferito a morte, un altro è ferito. Gli altri sono accerchiati. Non ce la faranno a cavarsela senza
un sostegno aereo. Ora abbiamo bisogno di un sostegno aereo».
Akashi: «E se KaradŽic ordinasse una temporanea cessazione del fuoco? Così potreste tirarli fuori
con l'elicottero».
Rose: «Nel tempo che ci vuole per trasmettere il comando alle unità che sono sul campo,
moriranno tutti o saranno fatti prigionieri.
Siamo in trappola. Io ho il permesso del generale de Lapresle, adesso dobbiamo attaccare...».
Ufficiale Tarun: «Questo significa che non le servono gli elicotteri? Perché le due cose, il sostegno
aereo e l'evacuazione, si escludono a vicenda».
Rose: «No, non si escludono. Prima dobbiamo fermare il rischio del massacro, poi far evacuare i
nostri».
La conversazione è l'anticamera dell'invio degli aerei Nato. Il comandante della squadriglia dei
bombardieri, che si trovava su un Sea Harrier britannico, è colpito da un missile terra-aria «proprio
nel momento in cui stava indirizzando i suoi proiettili sull'obiettivo a terra». Viene organizzato un
successivo raid che fallisce a causa del maltempo. Spiegazione ufficiale della Nato: «C'era troppa
nebbia, impossibile individuare gli obiettivi».
A GoraŽde si scatena l'inferno. Il 17 aprile il presidente Izetbegovic scrive a Boutros Ghali una
lettera che così si conclude: «Signor segretario generale, il mio popolo la ritiene responsabile di
questa situazione. Sono tempi difficili per noi, il mio popolo è dissanguato e resta davvero poco
spazio per le vuote frasi diplomatiche. Se GoraŽde cadrà, ritengo che il senso di responsabilità
morale dovrebbe indurla a dimettersi dalla carica di segretario generale delle Nazioni unite».
Aviazione e marina statunitensi scattano in quei giorni fotografie agghiaccianti dell'enclave di
GoraŽde che non verranno mai rese pubbliche né consegnate ai diplomatici. Lo scoprirà il giornalista
Roy Gutman, di News Day, premio Pulitzer per i servizi sulla Bosnia.
Le vedrà, a quanto pare, solo Frank Mekloski, membro della Commissione affari esteri Usa che
così le commenterà: «Tutto ciò che si può vedere sono enormi crateri. Praticamente ogni edificio è
stato colpito più volte. Anche i cortili sono pieni di buchi. L'immagine più commovente è quella del
cimitero. Che sembra essersi ingrandito di dieci volte in due mesi». Essendo Akashi lo stratega del
rinvio di ogni seria azione contro i serbi, Izetbegovic riprende carta e penna per dire a Boutros Ghali
che non ha più nessuna intenzione di collaborare con il suo inviato.
Le stime ufficiali parlano di 500 morti a GoraŽde, quelle ufficiose di 700. Il polacco Tadeusz
Mazowiecki, inviato speciale della Commissione per i diritti dell'uomo dell'Onu, nel suo rapporto
scriverà che i serbi hanno «puntato scientemente i loro cannoni sugli ospedali» e si sono resi
responsabili di «esecuzioni sommarie di civili, molti dei quali sono stati decapitati».
Gli uomini di Ratko Mladic tengono ormai in pugno la città, sono vicini al centro quando un
ultimatum sul modello Sarajevo (23 aprile) li costringe a ritirarsi per un raggio di venti chilometri.
Indietreggiano, ma facendo dietro di loro terra bruciata. chiaro che non è stato lo spauracchio
agitato dal Palazzo di vetro a convincerli. Altro è successo. Per capirlo, bisogna interpretare le
parole di Vitali čurkin, inviato speciale nella ex Jugoslavia per quella Russia appena rientrata nel
grande gioco internazionale. La stampa aveva cominciato a prenderlo come bersaglio, insinuando che
fosse scarso il peso che Mosca poteva esercitare sull'ingombrante protetto Radovan KaradŽic. Lui
aveva reagito: «I serbi devono capire che hanno a che fare con una grande potenza e non con una
repubblica delle banane. A Pale c'è un piccolo gruppo di persone che si è fatto prendere dalla
frenesia della guerra. La Russia deve decidere se consentire a un pugno di estremisti di nascondersi
dietro alle spalle politiche del nostro paese per raggiungere i loro obiettivi». Questa sfuriata e il
timore dei serbi di trovarsi senza copertura era stata decisiva nell'accettazione dell'ultimatum.

Piano di pace Il lungo lavoro per riequilibrare le forze sul terreno, premessa per una possibile
accettazione di qualunque piano di pace, inizia nel successivo mese di maggio, quando l'Armata
croata e quella bosniaca, facendo seguire i fatti alle parole, attaccano congiuntamente i serbi nel
cosiddetto «corridoio» di Brčko. E', questa, una cittadina strategica fondamentale nel Nordest della
Bosnia. situata nelle vicinanze del fiume Sava, a ridosso sia del confine con la Croazia, a nord, sia
della Serbia, a est. Passa da qui l'unica strada in grado di collegare Belgrado con Banja Luka.
Bloccarla, significa per i nuovi alleati tagliare i rifornimenti al nemico. A Brčko e dintorni erano
entrati in azione, agli esordi del conflitto, gli uomini di Arkan. Più tardi, nemmeno Dayton riuscirà a
sciogliere il contenzioso sul corridoio dove invece prolifererà un mercato spontaneo, chiamato
«TrŽnica Arizona» (dal nome dato alla strada che lo interseca dagli americani della vicina base di
Tuzla), in cui faranno affari esentasse persone di tutte le etnie. Tanto da far pensare che la Jugoslavia
uccisa dai cannoni sia risorta fra quelle bancarelle sotto la comune bandiera del marco tedesco.
L'attacco non dà un esito totalmente positivo, un lembo del corridoio resta in mano serba, ma il
segnale politico di un'alleanza che può funzionare arriva forte e chiaro. Il senato americano il 12
maggio, spinge ulteriormente sull'acceleratore deliberando a favore della fine unilaterale
dell'embargo sulle armi alla Bosnia Erzegovina (altrettanto farà la camera dei rappresentanti il 9
giugno successivo). Poco dopo, il 15 maggio, croati e musulmani creano un comando congiunto e il
21 maggio il croato KreSimir Zubak diventa presidente della federazione. Il suggello più autorevole
arriva infine il 14 giugno con la prima visita ufficiale di Franjo Tudjman a Sarajevo. Il presidente si
è piegato alla volontà dei nuovi partner internazionali e deve benedire (non credendoci, se ancora un
anno dopo a Londra disegnerà su un tavolo di ristorante una Bosnia divisa in due tra serbi e croati) la
sua svolta politica con un atto eclatante. Denuncia, davanti al presidente Izetbegovic, il «comune
nemico» serbo.
Il quadro mutato dà vigore ai bosniaci i quali lanciano un'offensiva nella zona di Ozren che con
troppa precipitazione il generale Delic definisce come «l'inizio della guerra di liberazione del nostro
popolo».
A cosa serva l'attacco sarà chiaro il 5 luglio. il giorno in cui il gruppo di contatto (composto allora
da Stati Uniti, Russia, Germania, Francia e Gran Bretagna, più avanti sarà cooptata l'Italia) elabora il
suo piano, base fondamentale per qualunque trattativa futura.
Prevede l'attribuzione del 51 per cento del territorio dello stato alla federazione croato-musulmana
e del 49 per cento alla Repubblica serba che dovrebbe dunque cedere il 22 per cento di territorio
sotto il suo controllo. L'Unione europea è ormai definitivamente fuori gioco, dopo aver mostrato la
sua incapacità di elaborare una strategia unitaria e credibile. D'ora in poi saranno gli americani a
guidare la politica internazionale nei Balcani.
Il G7 di Napoli (10 luglio) serve per rilanciare un ultimatum a tutte le parti in conflitto: il piano va
accettato entro il 19 luglio. La federazione croato-musulmana lo sottoscrive «a condizione che la
Bosnia resti un unico stato nelle sue frontiere internazionalmente riconosciute». E il 20 porta a
Ginevra il suo sì incondizionato. I serbi dilazionano il loro parere. Prima un no secco. Poi KaradŽic
pone tre condizioni: che il suo territorio sia collegato alla Serbia tramite un corridoio serbo; che
vengano revocate tutte le sanzioni; che i serbobosniaci possano far parte di una Grande Serbia o
comunque godano di una totale autonomia. La richiesta è inacettabile per i musulmani che ritirano il
loro okay.
Gli americani danno altri otto giorni di tempo ai serbi (non saranno gli ultimi). Come è ormai
costume fin dalla guerra di Croazia, in presenza di carte geografiche sulle quali dire sì o no, la
tensione cresce e la guerra sembra riattivarsi su tutti i fronti.
A Sarajevo le violazioni nella zona di rispetto si calcolano nell'ordine delle centinaia al giorno,
tanto che Ghali, con una lettera al Consiglio di sicurezza, si esprime a favore del ritiro dei 36 mila
caschi blu. in questo clima che i serbi respingono il 27 luglio il piano di pace, le strade d'accesso
alla capitale vengono tutte bloccate, i convogli Onu attaccati e KaradŽic minaccia: «Se non saranno
liberati i prigionieri taglieremo acqua, luce e gas a Sarajevo». Ne hanno il potere: sono loro che
possono azionare gli interruttori. Il 30 luglio, il gruppo di contatto vara sanzioni economiche contro
la Serbia e il Montenegro. L'obiettivo è chiaro: ci pensi Slobodan MiloSevic a fermare la mano del
burattino che ha creato a Pale.
Il padre-padrone di Belgrado ha, fin dall'inizio, cercato di scindere il suo destino da quello dei
«fratelli separati». Nei suoi colloqui con l'ambasciatore Zimmermann (op. cit.) ha addirittura
sostenuto di conoscere KaradŽic a malapena e giurato (contro l'evidenza) che nessun soldato della
Serbia è impegnato oltre la Drina (solo dopo l'arresto, confesserà di aver usato fondi statali per
finanziare le guerre di Croazia e Bosnia). Si vuole accreditare come «uomo di pace» e punta
all'abolizione delle sanzioni che gravano sul suo popolo dal 30 maggio 1992 e che hanno
drasticamente peggiorato le condizioni di vita per tutti, tranne che per la lobby al potere e per le
mafie che sulla guerra prosperano. MiloSevic, dunque, esorta i serbi di Bosnia ad accettare il piano,
definisce KaradŽic «un traditore da destituire». Il 4 di agosto chiude le frontiere ai serbi di Bosnia e
rompe con loro ogni rapporto politico-economico. Il rischio di isolamento spinge KaradŽic a indire
un referendum sul piano di pace per il 27 e 28 agosto.
Restituendo la sovranità agli elettori cerca di porsi al riparo da scomuniche e nascondersi dietro il
dito del «volere popolare». il presidente del «Parlamento» dei serbi di Bosnia (81 membri) Momčilo
KrajiSnik a rilanciare gli impossibili desideri: «Vogliamo il 64 per cento del territorio e la
possibilità di autodeterminarci». Su analoghe posizioni si collocano pressoché tutti gli elementi di
spicco della repubblichetta di Pale. Le urne sono aperte quando KaradŽic riappare sulla scena per
rilanciare l'antico progetto già caro a Tudjman: «Cacceremo i musulmani e divideremo la Bosnia
solo con i croati». Il risultato dei seggi è ovviamente un plebiscito contro il piano: oltre il 90 per
cento di no. Come in un gioco dell'oca perenne, la Bosnia si ritrova al punto di partenza. Il quadro si
è di nuovo complicato sia per il riaccendersi dei fronti, sia per una faida tra i musulmani per
raccontare la quale c'è bisogno di una premessa.
La Bosnia termina a nordovest in una sacca dove sorge la città di Bihac, a due passi dalla Krajina
croata, 153 chilometri in linea d'aria da Trieste. Il capo locale, un musulmano di nome Fikret Abdic,
detto Babo, era stato in epoca titoista direttore dell'Agrokomerc di Velika KladuSa, una delle
maggiori imprese di import-export. Finito in carcere con l'accusa di bancarotta fraudolenta, la sua
popolarità non ne aveva risentito, se durante le prime libere elezioni (1990) aveva ottenuto il
maggior numero di consensi come rappresentante dell'Sda, il partito musulmano. Benché ne avesse il
diritto, aveva però ceduto il posto al più navigato Izetbegovic (il quale in carcere c'era stato invece
due volte per ragioni politiche) ed era rimasto nella sua Velika KladuSa a fare ciò che gli riusciva
meglio: combinare affari.
Iniziato il conflitto, essendo la sacca di Bihac completamente attorniata da nemici, Abdic aveva
concluso che era assai più ragionevole trattare che contrapporsi. Erano così continuati i rapporti di
scambio commerciale sia con i croati sia con i serbi.
Risultato: la sacca era stata appena sfiorata dagli sconvolgimenti epocali degli anni novanta e
Abdic, con l'appoggio dei «nemici», era riuscito a organizzare un piccolo esercito personale. Per
segnare la distanza da quanto avveniva altrove aveva addirittura proclamato la «regione autonoma
della Bosnia occidentale». Una ribellione in piena regola al potere centrale che non poteva essere
sopportata a lungo. E che infatti Izetbegovic decide di affrontare non appena può liberare soldati dal
fronte erzegovese ormai freddo. il 9 di agosto quando il generale Atif Dudakovic muove con il suo
quinto corpo d'armata contro i ribelli. Conquista quasi subito il villaggio di Pečigrad e da lì si lancia
su Bihac che cade nelle mani dei lealisti il 21 agosto. I musulmani di Abdic fuggono verso la Krajina
croata e diventano profughi nella terra di nessuno di Turanj. E' solo il prologo di una lunga contesa
sull'area che durerà sino alla fine delle ostilità.

Niente papa a Sarajevo Papa Giovanni Paolo II aveva da tempo Sarajevo nel cuore. Era stato il
primo, nell'agosto del 1992, a sostenere il «diritto-dovere dell'ingerenza umanitaria degli stati
europei e delle Nazioni unite in Bosnia Erzegovina per disarmare chi vuole uccidere. Questo non è
favorire la guerra, ma impedirla». Da uomo di fede e da uomo dell'Est aveva chiaro quanto fosse
decisiva la partita che si stava giocando nei Balcani. Coltivava anche la speranza di atterrare, un
giorno, nella capitale-martire e ne aveva fatto esplicito accenno il 7 marzo 1994 al presidente ceco
Vaclav Havel: «Vorrei tanto andare a Sarajevo entro settembre».
Il 2 agosto il gesuita Roberto Tucci, organizzatore dei suoi viaggi, arriva in missione esplorativa
per verificare se il desiderio di Sua Santità sia esaudibile. I responsabili dell'Onu cercano di
dissuaderlo: «Non ci sono le necessarie garanzie di sicurezza».
Wojtyla non tiene in gran conto queste raccomandazioni se tre giorni dopo annuncia quella che è la
sua ferma volontà: a Sarajevo l'8 settembre. Adesso c'è una data. E c'è l'aspettativa di cittadini che,
se non sono di fede cattolica nella grande maggioranza, riconoscono all'erede di Pietro l'enorme
statura morale. Ciò che riveste più importanza, nell'ottica di Sarajevo, è il risvolto psicologico
dell'annunciata visita: sarebbe la dimostrazione che gli abitanti non sono soli, che si può rompere
l'assedio anche attraverso un avvenimento che sarà, per forza, di massa. Dalla baita valdostana delle
sue vacanze, il papa ribadisce il 17 agosto: «Se Dio vorrà, andrò a pregare in Bosnia». Ormai
fervono i preparativi e la risposta di Radovan KaradŽic non si fa attendere: «E' meglio che il papa
non venga perché potrebbe essere pericoloso e noi non possiamo garantire la sua sicurezza.
L'esercito bosniaco cercherà di abbattere l'aereo sul quale viaggerà per poi gettare la colpa addosso
ai serbi. Sarebbe terribile, per il mondo cattolico sarebbe una tragedia. Non abbiamo dato il nostro
consenso per ragioni di sicurezza. Non consiglierei il viaggio senza piene garanzie da parte di tutti».
A Pale è attiva un'agenzia di stampa, la Srna, che getta altre ombre: «Seri indizi fanno temere che le
forze musulmane cercheranno di colpire l'aereo del papa». Il Vaticano ignora tutto e, certo che
prevarrà la ragione, il 19 agosto diffonde il programma della visita: «Akashi e il generale Rose
accoglieranno Sua Santità all'aeroporto di Butmir (in realtà saranno "in vacanza" alla fatidica data
della visita mancata, ndr)».
A dispetto di quanto sancito nell'ultimatum di febbraio, i serbi dalle loro postazioni di IlidŽa
tengono sotto tiro ogni aereo in partenza o in arrivo all'aeroporto. L'Unprofor lo sa bene e il suo
portavoce a Zagabria, Paul Risley, lo sottolinea il 22 agosto: «Abbiamo forti preoccupazioni per
l'apparente mancanza di assicurazioni da parte dei serbi sullo svolgimento normale della visita». E il
maggiore Dacre Holloway: «Le fasi più delicate e potenzialmente pericolose sono l'arrivo e la
partenza. L'aeroporto è terra di nessuno collocata tra due linee di fronte. Inoltre è impossibile
promulgare una legge che vieti a qualche idiota di agire per conto proprio contro le direttive dei
rispettivi comandi. Sia i serbi sia i musulmani potrebbero agire per addossare la colpa al nemico.
C'è una tale falsità, una tale doppiezza da rendere tutto possibile».
In questa fase in cui volano parole, è il premier Haris SilajdŽic a cercare di rompere il muro di
scetticismo: «Vogliamo che il capo spirituale dei cattolici venga a Sarajevo. Sul piano simbolico è
molto importante. Metteremo in atto tutti i dispositivi necessari per evitare qualsiasi intoppo al
soggiorno. Non consentiremo che la città diventi emblema di caos e anarchia. Una banda di fascisti
non deve impedire al papa di giungere tra di noi». E ancora il 30 agosto, ottimista: «Wojtyla verrà a
Sarajevo, abbiamo la conferma. E' un riconoscimento per tutti coloro che non hanno risposto al
richiamo del sangue e del fuoco, per coloro che ancora credono in ciò che la Bosnia simboleggia.
Questo è un posto dove si possono costruire ponti o scavare abissi. La visita del papa aiuta a
ricostruire i ponti».
Akashi ammette che KaradŽic continua a essere restio a prendere accordi e siccome il Vaticano
conosce perfettamente la situazione «il papa e i suoi consiglieri devono prendere una decisione
sapendo che nessuno può garantire. Ovunque possono avvenire incidenti».
Il 31 agosto due aerei dell'Onu sono costretti a cambiare rotta quando sono già in fase di
atterraggio. In ventiquattro ore si registrano 573 violazioni del cessate il fuoco. Il colonnello francese
Bertrand Labarsouque non ha dubbi: «L'accanimento dei serbi contro l'aeroporto ha lo scopo di
sabotare la visita del papa». Nei pressi della pista compare addirittura un mortaio e gli uomini di
Pale danno un ulteriore giro di vite: «Impediremo l'atterraggio ai velivoli che abbiano anche solo
cinque minuti di ritardo sui piani di volo». Le fusoliere dei C130 vengono bersagliate dai cecchini. in
questo quadro che il nunzio apostolico, Francesco Monterisi, si inerpica sui tortuosi tornanti della
strada per Pale dove incontra KaradŽic. Sui contenuti del colloquio trapelerà un'indiscrezione:
KaradŽic avrebbe chiesto a Monterisi il riconoscimento della sua repubblica, cosa che il nunzio non
può ovviamente concedere.
Su tutti i muri di Sarajevo compaiono i manifesti che annunciano la visita di Giovanni Paolo II e
sotto la scritta: «Non siete soli».
Alla popolazione vengono distribuite bandierine gialle e bianche, colori del Vaticano, oltre che
migliaia di candele. Dopo interminabili discussioni e polemiche si decide di pulire le strade dove
passerà il corteo. Non sembri un'annotazione da poco. Era folto, ben rappresentato e aveva qualche
buona argomentazione il partito del «lasciamo la città così com'è», con l'immondizia non più
raccolta da mesi. L'orafo Fahrudin Sofic stabilisce turni di lavoro anche di notte per arrivare a
confezionare in tempo i regali ufficiali: due gemelli in diamanti e smeraldi con lo stemma della
Bosnia, 28 croci d'oro e argento con uniti dei gigli in oro. Lo spaesato autista della papamobile
(spaesato nonostante tante ne dovesse avere già viste) parcheggia l'auto speciale a Butmir assieme a
casse di rosari. I paracadutisti francesi simulano la visita per mettere a punto gli ultimi dettagli sulla
sicurezza.
Alle 16 del 6 settembre una conferenza stampa in arcivescovado serve per ribadire
l'appuntamento. Ma è più o meno a quell'ora che i volti da sereni si fanno corrucciati, che dalla
presidenza della Repubblica parte una telefonata all'orafo: «Fai pure riposare i tuoi uomini, Fahro, il
papa non viene più».
Nell'edizione serale del Radiogiornale la notizia clamorosa diventa ufficiale. Izetbegovic,
sconsolato: «Io ero pronto ad accompagnarlo passo dopo passo». Ma cosa è successo? Il Vaticano ha
gettato la spugna dopo che il nunzio Monterisi ha ricevuto questa lettera: onterisi, l'Unprofor avrà il
piacere di fornire assistenza alla visita del papa a Sarajevo. Nel frattempo il Vaticano deve essere
cosciente del pericolo legato alla visita, come dei limiti dell'Unprofor per quanto riguarda il
dispiegamento dei servizi di sicurezza. La nostra valutazione dei rischi, che continueremo a fornirvi
tutti i giorni, è quella che segue: attaccare direttamente il papa non sarà nell'interesse di alcun
partecipante al conflitto. Esiste però una preoccupante possibilità di attacco mascherato, dopo il
quale l'aggressore potrebbe accusare i suoi nemici. Questa minaccia proviene da singoli o da piccoli
gruppi non collegati direttamente ad alcuna delle parti in lotta.
I problemi di Sarajevo sono evidenti soprattutto a causa dell'elevato livello di tensione, della
vicinanza tra le linee di demarcazione, dell'agevole collocazione di armi nascoste che potrebbero
essere molto efficaci nell'attacco a velivoli o all'automobile nella quale viaggiasse il papa.
Infine sapete bene che velivoli dell'Onu e l'aeroporto di Sarajevo sono stati attaccati ed è
impossibile fornire garanzie adeguate per la sicurezza del papa e del seguito.
Anche se la decisione del viaggio a Sarajevo continua a competere a Sua Santità, vogliamo
sottolinearvi la serietà dei rischi per il papa e per quanti si trovassero nelle sue vicinanze.
Se il papa deciderà di compiere la visita nonostante le preoccupazioni per la sicurezza e la
mancanza di supporto da parte serba, l'Unprofor garantirà la sicurezza all'aeroporto e sulla strada
dall'aeroporto verso il primo punto di controllo bosniaco in città, oltre che nel tragitto di ritorno. Il
governo bosniaco sarà unico responsabile della sicurezza in città.
Le altre attività di supporto da parte dell'Unprofor includono il trasporto aereo verso e da
Sarajevo, la fornitura di acqua potabile sul posto per la Messa, un servizio medico per gli interventi
urgenti e gli accrediti stampa. Qualsiasi ulteriore aiuto richiederebbe la mia autorizzazione.
In conclusione, daremo volentieri ogni nostro aiuto se Sua Santità deciderà di compiere la visita,
anche se siamo profondamente preoccupati per i rischi.
5 settembre 1994.
Yasushi Akashi (rappresentante speciale del segretario generale dell'Onu) Il papa andrà dunque
solo a Zagabria, la cattolicissima Croazia del presidente Tudjman potrà ascrivere a proprio
esclusivo vantaggio propagandistico un viaggio monco della tappa più significativa, quella di
Sarajevo.
Lo scoramento, tra i musulmani, è grande. Akashi è la stessa persona che, pochi giorni prima,
sfiorando il ridicolo, aveva giurato: «Sarajevo è tra le città più sicure del mondo». Doveva sostenere
il buon lavoro fatto dai caschi blu dopo l'ultimatum di febbraio. Ora dice l'esatto contrario per
scongiurare l'arrivo di Wojtyla. I serbi colgono questo come un segno di vittoria. Di lì a poco la
guerra riprende a divampare su tutti i fronti.
L'ultimo inverno di guerra Non è solo lo stop a un papa, ma il segno di un'indisponibilità ad
accettare parole di pace. Nessuno dei contendenti ha ancora raggiunto il suo scopo. I bosniaci (a
maggioranza musulmana) vivono in «aree» pretese protette e non hanno uno stato; i serbi non hanno
ancora ultimato la creazione della Grande Serbia; i croati di Erzegovina soffrono come
un'imposizione dall'esterno la federazione con l'ex nemico musulmano. Non è un caso se, proprio l'11
settembre, nel giorno in cui Giovanni Paolo II è in visita a Zagabria, a Mostar un proiettile anticarro
(croato) viene esploso contro il tedesco Hans Koschnik, già primo cittadino di Brema, e dal 23 luglio
nominato sindaco di Mostar per conto dell'Unione europea. Il suo mandato prevede l'avvio della
ricostruzione del capoluogo e, ovviamente, il dialogo tra due amici particolarmente riottosi.
Koschnik sfugge all'attentato per miracolo, ma è chiaro che i falchi della fazione croata hanno ripreso
fiato. Vogliono l'intera Mostar «la più bella città croata», nel giudizio di Dobroslav Paraga, il leader
del neoustascia «partito del diritto». La città è ora divisa in due.
A ovest i croati hanno ricreato una parvenza di vita: locali notturni, bancarelle dei mercati ricolme
di cibo. A est i musulmani sopravvivono in condizioni disperate. Scampato il pericolo Koschnik
mostra la sua faccia più dura per ammonire: non ha nessuna intenzione di farsi intimidire, continuerà.
Ha il pieno appoggio dell'Occidente, che non ha alternative a quell'unione forzata almeno tra due
delle tre etnie in lotta.
Passano pochi giorni e il 22 di settembre l'attenzione si sposta di nuovo a Sarajevo dove la Nato si
decide al quinto attacco per bombardare un residuato bellico serbo riapparso sulle colline in palese
violazione dei venti chilometri di rispetto.
L'azione è poco più che dimostrativa e sembra preludere alla strategia di isolamento di Pale che
l'Onu vara due giorni dopo: alleggerite le sanzioni alla volenterosa Serbia (che però reclama la
revoca totale dell'embargo), inasprimento, invece, per la repubblica di KaradŽic e Mladic. I quali
replicano con il solito ritornello: bombe su Sarajevo, minacce di guerra totale.
Inaspettatamente, però, l'iniziativa sul terreno un mese dopo la prendono i musulmani con
l'appoggio croato. Scatenano un'offensiva che porta a un risultato immediato: conquistano la città di
Kupres e larga parte del territorio attorno alla sacca di Bihac. In totale, trecento chilometri quadrati
di territorio.
KaradŽic, preso in contropiede, il 4 novembre ordina la mobilitazione generale, chiama cioè in
armi tutti gli uomini sopra i sedici anni, promette vendetta: «Riconquisteremo ogni metro». E il suo
generale Mladic fa seguire i fatti alle parole.
Il 13 novembre inizia la sanguinosa campagna della sacca di Bihac, dove da poco sventola la
bandiera delle forze leali al presidente Izetbegovic. In aiuto ai fratelli separati accorrono i serbi
della Krajina croata che mettono a disposizione, soprattutto, il piccolo aeroporto di Udbina, da dove
decollano aerei ed elicotteri: appoggiano le truppe sul terreno e sganciano bombe al napalm per
fiaccare una popolazione allo stremo. Velika KladuSa, la città di Fikret Abdic, cade il 17 di
novembre. Il 20 il Consiglio di sicurezza dell'Onu vara in fretta e furia la risoluzione numero 958 che
estende al territorio della Croazia il mandato per l'uso della forza aerea. E' l'espediente giuridico che
permette, il giorno dopo, la prima azione aerea massiccia in Europa dalla Seconda guerra mondiale.
Una quarantina di aerei della Nato bombardano la pista dell'aeroporto di Udbina per renderla
inutilizzabile.
KaradŽic è troppo vicino al cuore di Bihac per intimorirsi e fermarsi. La sua aperta sfida si
esplicita con i radar dei missili che «illuminano» due jet inglesi in sorvolo. La rappresaglia non si fa
attendere. La Nato lancia due attacchi nel medesimo giorno, il 23 novembre. Al mattino vengono
bombardati i radar delle postazioni missilistiche serbe nella zona tra Otoka, Bosanska Krupa e Dvor.
Nel pomeriggio di nuovo la base di Otoka. Tra serbi e comunità internazionale mai lo scontro era
stato così aperto. Lo testimonia una conversazione radio tra il generale sir Michael Rose e il
portavoce di Radovan KaradŽic, Jovan Zametica.
Rose (dal telefono da campo): «...Lei si rende conto. Possiamo parlarci francamente. I vostri sono
entrati nella zona di Bihac da tre punti. Ho i rapporti dei miei. Questo è totalmente inaccettabile.
Bihac è zona protetta. Non perdiamo altro tempo...
Altrimenti sarà tardi. Guardi, io i militari li capisco. I vostri là, per eccesso di zelo, sono andati
oltre il segno... Per favore, adesso voi fate in modo che tornino indietro e sistemiamo tutto. Ma
bisogna fare presto. La prego di passare il mio messaggio con assoluta urgenza...».
Zametica (interrompendo seccamente): «No. Sono io, comunque vada, che devo passare subito a
lei questo messaggio. State bene attenti. Il nostro presidente è furibondo. Non ci fate scherzi!
Se ci attaccate dall'aria, o in qualunque altra maniera, sarà guerra totale».
Rose: «Messaggio ricevuto. Ma io le sto spiegando che, se voi continuate a spingere le truppe
verso Bihac, questa crisi sale a tutt'altro livello. O ci muoviamo subito e blocchiamo o la faccenda
diventa internazionale. Non è più nelle mie mani».
Zametica: «Io ho già detto quello che dovevo. Se ci fate un altro scherzo sarà guerra. Totale.
Parola del capo dello stato, presidente KaradŽic».
Rose: «Ma insomma, voi a Bihac dove pensate di arrivare?».
Zametica: «Vogliamo la smilitarizzazione della zona, dal momento che voi siete assolutamente
incapaci di farlo. Vogliamo disarmare ogni singolo musulmano. Ecco cosa vogliamo. E se ci
attaccate, per voi saranno cattive, anzi, pessime notizie. Lei, con il suo superiore intelletto e la sua
grande autorità lo mandi a dire a chi di dovere». (Sbatte il telefono in faccia al generale.)
Le pessime notizie non tardano ad arrivare. Oltre ai 1200 caschi blu del Bangladesh intrappolati
nella sacca di Bihac, altri 500 vengono presi in ostaggio dai serbi attorno a Sarajevo e nella Bosnia
orientale, bloccati mentre sono di scorta a quattro convogli di aiuti umanitari.
Ratko Mladic e KaradŽic si possono permettere il guanto di sfida perché seguono il copione già
usato in precedenza a Srebrenica (marzo 1993) e GoraŽde (aprile 1994). Stringono la morsa su
un'enclave musulmana, in questo caso Bihac, partono un paio di raid aerei Nato quando l'irreparabile
è già compiuto e gli attaccanti sono ormai così ravvicinati ai difensori che nessun ruolo incisivo dal
cielo è più giocabile. Nel terrore della popolazione, avanzano i carri che si fermano, però, a poche
centinaia di metri dal cuore della città affinché non si dica che è stata violata un'area protetta delle
Nazioni unite; e, se serve, qualche soldato blu viene preso in ostaggio così da calmare i bollenti
propositi di reazione. Infine, una proposta di smilitarizzazione che fotografi lo status quo ed ecco
realizzata un'altra fetta di Grande Serbia.
La tattica è esattamente questa, con una variante. I serbi concedono agli sconfitti di consegnarsi,
anziché a loro, nelle mani dei loro fratelli, cioè dei ribelli di Abdic. Le televisioni mostrano soldati
catturati e costretti a cantare: «La Bosnia è serba». Mai come in questa fase è in discussione il ruolo
dell'Unprofor, ma Boutros Ghali, per difendersi attacca: «La colpa di quanto succede a Bihac è di voi
musulmani. E' infatti stata la risposta alla vostra offensiva».
Il 10 dicembre Rose cerca di raggiungere l'enclave, ma gli viene impedito dai serbi che lo
bloccano e poi gli negano l'atterraggio durante il ritorno a Sarajevo. Lui si ricorda di essere un
soldato britannico e plana ugualmente. con sorpresa di tutti, dunque, che KaradŽic, vestendo con un
gioco di prestigio i panni della colomba, e dopo aver liberato gli ostaggi Onu, propone il 15
dicembre un piano di pace in sei punti che dovrebbe essere mediato da Jimmy Carter.
L'ex presidente americano, 70 anni, vola nei Balcani assieme alla moglie Rosalyn, per una
missione accompagnata da molto scetticismo. E' reduce dai successi ottenuti in Corea del Nord e
Haiti, ma di questo lembo d'Europa poco conosce se sbaglierà, a più riprese, persino i nomi dei suoi
interlocutori. Gli americani temono, inoltre, un successo di una «diplomazia parallela» a quella
ufficiale e sospettano che KaradŽic sia all'ennesimo bluff e voglia incassare soltanto il dividendo
politico di un'iniziativa in cui è riuscito a imporre il nome del mediatore e a metterlo in alternativa al
«gruppo di contatto». Dopo Zagabria e Sarajevo, Carter va a Pale e imbarazza il mondo esordendo:
«Quella d'oggi è forse una delle rare occasioni per far conoscere al mondo la verità e per spiegare
l'impegno dei serbi per un accordo di pace». KaradŽic, coglie la palla al balzo: «Noi non siamo gli
aggressori». E Carter: «Non posso contestare la sua dichiarazione secondo la quale gli americani
hanno finora sentito una parte della storia». La Casa Bianca è costretta a replicare seccamente: «I
serbobosniaci sono gli aggressori in questa guerra. Tutti gli americani hanno potuto vedere cosa è
successo». Dopo una serie vertiginosa di smentite, distinguo, parole date e ritirate, il 20 dicembre
l'ex presidente riesce comunque a siglare un'intesa in sette punti: 1, cessate il fuoco in tutta la Bosnia
dal 23 dicembre e per quattro mesi; 2, interposizione dei caschi blu lungo la linea del fronte; 3, avvio
di negoziati di pace in base al piano del gruppo di contatto; 4, nessun intralcio al traffico
all'aeroporto di Sarajevo; 5, libero passaggio dei convogli umanitari verso le enclave musulmane; 6,
liberazione dei prigionieri di guerra da entrambe le parti; 7, solenne rispetto dei diritti umani.
E' ancora sull'aereo che lo riporta negli Stati Uniti quando già scoppia un giallo. Musulmani e
serbi hanno firmato due documenti diversi. Izetbegovic ha siglato un foglio dove sta scritto che «i
colloqui cominceranno con l'accettazione della proposta del gruppo di contatto come punto di
partenza»; KaradŽic un altro dove si legge che si tratterà «con la proposta del gruppo di contatto
come base del negoziato di tutti i punti». Evidente la differenza che lo stesso psichiatra accentua con
un'intervista al New York Times. Lui il piano del gruppo di contatto non lo vuole proprio. Nella parte
destinata si serbi «c'è solo il 30 per cento delle ricchezze bosniache» e ne esige almeno la metà con
una «ripartizione equa» delle risorse naturali e delle infrastrutture. Tradotto, significa il controllo di
alcune città dei musulmani. Reclama anche la divisione di Sarajevo in due municipalità e uno sbocco
al mare per i serbi oltre a un corridoio che unisca il loro territorio.
La tregua entra comunque in vigore, destinata, come vedremo, a fallire ben presto. Capodanno è
per Sarajevo il giorno mille dall'inizio dell'assedio.
******
Ratko Mladic Più volte l'hanno dato per morto, ma il generale Ratko Mladic, 58 anni, ricercato dal
Tribunale dell'Aja per genocidio, conosciuto nel mondo con l'appellativo di «boia di Srebrenica», si
gode la pensione a Belgrado, dove un giornalista che tentava di intervistarlo lo ha visto affacciarsi a
un balcone della sua casa nel sobborgo di Banovo Brdo, dove non disdegna i luoghi pubblici,
compreso lo stadio quando gioca la Stella Rossa, anche se, dopo la vittoria di KoStunica, sembra
preferire luoghi più sicuri, come rivela la Neue Zürcher Zeitung.
Nasce il 12 marzo del 1943 a Bozinovici, un paese dell'Erzegovina occidentale, e gli viene
imposto quel nome, Ratko, cioè Guerriero, che sembra una predestinazione. Ha solo due anni quando
il padre, partigiano titino, è ucciso dagli ustascia. Nonostante qualche carenza nella lingua russa
(esame fondamentale), entra nell'Accademia militare di Zemun, dove si diploma nel 1965, il migliore
del suo corso. Si iscrive alla Lega dei comunisti.
Dopo il servizio militare in Macedonia, frequenta l'Accademia di comando tattico dove ancora si
rivela il migliore. La sua carriera procede però lentamente e nel 1991 è ancora uno dei tanti ufficiali
del corpo «PriStina», incaricato di controllare la frontiera tra Albania e Jugoslavia. Ma l'esplodere
della guerra segnerà anche la sua ascesa. Nel giugno di quell'anno viene infatti trasferito a Knin.
Mladic appoggia le rivendicazioni secessioniste dei serbi della Krajina e pianifica le prime azioni
militari contro la Croazia. Nel gennaio del 1992 lo spostano in Macedonia per coordinare il ritiro
dell'esercito jugoslavo da quella repubblica meridionale. Nella primavera dello stesso anno è
nominato comandante dell'esercito della Repubblica serba di Bosnia. Nel 1994 la figlia Ana, 23
anni, studentessa in medicina, si suicida a Belgrado in circostanze mai chiarite.
Secondo alcuni amici si sarebbe decisa al gesto perché si vergognava del padre. Ratko Mladic
viene destituito dalle sue funzioni di capo di stato maggiore dell'esercito serbobosniaco nel
novembre 1996 dall'allora presidente della Repubblica serba Biljana PlavSic.

Mille giorni d'assedio Si conta mille, al capodanno del 1995, se si parte dal 6 aprile 1992, giorno
del riconoscimento internazionale della Bosnia, degli spari dei cecchini dall'hotel Holiday Inn, della
morte di Suada Dilberovic, diciannovenne studentessa di Dubrovnik, convenzionalmente la prima
vittima a Sarajevo.
Si sarebbe già contato mille da 37 giorni se si fosse preso per buono il primo marzo e il
referendum sull'indipendenza, le barricate in città, con un'altra vittima, il serbo Nikola Gardovic,
padre di uno sposo, ammazzato davanti alla chiesa da provocatori musulmani. O si conterà mille il
successivo 27 gennaio, come faranno le «autorità», a far data dal 2 maggio, il giorno in cui Alija
Izetbegovic, di ritorno dalle trattative di Lisbona, venne fermato all'aeroporto da soldati federali che
lo rilasceranno il giorno dopo.
Comunque sia, Sarajevo supera abbondantemente il triste primato del secolo, che era di
Leningrado, e nella disperazione, trova confronti solo con l'epica: i dieci anni di Troia. La notte che
segna il passaggio dell'anno, tuttavia, in città solo spari di gioia. la tregua di Carter che tutti hanno
firmato tranne i serbi della Krajina croata e la truppa personale di Fikret Abdic.
Dunque c'era l'ennesimo trucco balcanico dietro alle buone intenzioni: nella sacca di Bihac può
tuonare il cannone senza che Pale possa essere accusata dell'ennesimo tradimento. Là, nella sacca, i
resistenti sono alla fame, da tempo immemore non vedono un convoglio di aiuti. Nel resto del paese,
nonostante una granata sull'Holiday Inn e sporadiche violazioni della tregua, si deve ammettere che
l'intensità delle battaglie e il numero dei morti diminuiscono.
Senza l'urgenza del pronto soccorso, è il momento di riflettere. Dopo i buoni propositi non è
decollata, per manifesta idiosincrasia, l'alleanza croato-musulmana. I serbi, dal canto loro,
potrebbero anche sedersi a un tavolo di trattative, ma soltanto con il coltello dalla parte del manico e
a condizione di aver completato la conquista di tutti gli obiettivi: una parte di Sarajevo, le enclave
musulmane a ridosso della Drina (Srebrenica, Žepa, GoraŽde, la stessa Tuzla), il corridoio di Brčko,
la sacca di Bihac. La guerra sarà anche cieca e irrazionale, ma i generali ci vedono benissimo. Sono
tutti obiettivi strategici a un disegno: un territorio serbo senza soluzione di continuità per la creazione
di una patria comune, monoetnica che diventerebbe lo stato più potente dei Balcani.
L'Onu si è dimostrata incapace di gestire una crisi tanto complicata, per mancanza di un disegno
politico e dell'appoggio degli stati che la compongono. Gli americani vorrebbero spendersi in prima
persona e sostituire la Nato all'Onu nella gestione del conflitto, ma sono frenati dai governi che hanno
loro uomini sul terreno. L'equilibrio militare nell'area è mutato e la Croazia, con un esercito ormai
forte e ben equipaggiato, chiede il ritiro dei caschi blu ritenendosi in grado di liberare da sola il
territorio perso nel 1991. Lo stesso esercito bosniaco, pur se non ha raggiunto punte di eccellenza, è
in grado di condurre vittoriosamente qualche battaglia.
Regge ancora la tregua, sostenuta dall'inverno jugoslavo, quando l'attenzione si sposta su un evento
criminal-mondano. Il 19 febbraio, con lo sfarzo degno di un principe, a Belgrado si sposa Željko
RaŽnjatovic, più noto come Arkan, 42 anni, sette figli, una solida fama di sanguinario assassino
guadagnata nelle campagne di Croazia e di Bosnia. La sua ennesima moglie è Svetlana Veličkovic, 21
anni, detta Ceca, cantante folk bella e popolare. Gli sarà a fianco anche quando, molto tempo dopo, il
15 gennaio del 2000, dei sicari lo ammazzeranno all'interno dell'hotel Intercontinental di Belgrado.
Arkan in finta divisa da ufficiale monarchico, lo sguardo sorridente dell'impunito, il lusso ostentato, è
lo schiaffo più doloroso per chi passa il terzo inverno senza gas, luce, acqua, telefono.
Ai primi annunci di primavera la tensione sale sino a esplodere il 20 marzo a Tuzla, sottoposta a
un bombardamento pesante che causa 50 morti. Tuzla è diventata, a poco a poco, «imbarazzante»,
oltre che per i serbi anche per lo stesso governo di Sarajevo. La sua difesa è politicamente
organizzata da un sindaco, Selim Beslagic, rappresentante del Partito socialdemocratico (erede della
Lega dei comunisti), molto amato dalla popolazione e strenuo oppositore della logica della divisione
etnica. E' il contraltare dello stesso Alija Izetbegovic, il presidente ormai votato alla creazione di
uno stato dei musulmani.
Cinque giorni dopo sono i bosniaci a scatenare un'offensiva che ha successo. Piantano la bandiera
dei gigli sulla vetta del monte Vlasic dove si trova il trasmettitore televisivo che copre tutta la
repubblica; il controllo di quella cima permette di proteggere la città della Bosnia centrale, seconda
per importanza solo a Sarajevo, e dove hanno alzato un accampamento i mujaheddin volontari
accorsi da tutto il Medio Oriente per sostenere i correligionari europei: Zenica. E può essere la base
per futuri attacchi sulla strada che conduce a Banja Luka, unica città di una certa consistenza in mano
ai serbi. Mladic bombarda Tuzla e GoraŽde, ma si trova presto e per la prima volta, in contrasto con
il suo alter ego politico, Radovan KaradŽic, il quale non gli perdona la sconfitta e reclama pieni
poteri anche sulle forze armate.
Come temeva lo psichiatra di Pale, la tregua è servita ai bosniaci per riorganizzarsi. Il 14 aprile il
Washington Post rivela che l'Iran arma i musulmani con il consenso della stessa amministrazione
Clinton. La Casa Bianca è costretta, seppur a denti stretti, a confermare. Nell'euforia del successo è
Sarajevo ora a opporsi al prolungamento della tregua di Carter, peraltro fallita prima della sua
naturale conclusione. Un rovesciamento degli equilibri? I fatti smentiranno questa interpretazione.
Fatti che, da ora in poi, correranno concatenati verso il culmine della guerra e la rapida discesa
verso l'accordo di pace.
Il 24 aprile il Tribunale internazionale dell'Aja rende nota l'accusa per cui sono indagati KaradŽic
e Mladic: genocidio. La parola, che non si sarebbe più voluta pronunciare dopo la Shoah, non solo è
già fiorita da tempo sui media, ma viene adesso utilizzata da un organismo giuridico che è diretta
emanazione delle Nazioni unite. Se doveva servire da ammonimento e da deterrente, fallirà
completamente il suo scopo perché l'estate che si annuncia risulterà la più calda della guerra e non
solo dal punto di vista meteorologico. L'offensiva lampo con cui la Croazia il primo maggio si
riprende parte della Slavonia occidentale con il tacito consenso di MiloSevic è il segno evidente
della volontà di regolare tutti i conti aperti per arrivare alla definizione di confini, se non immutabili,
almeno accettati per un congruo periodo. Anche i precedenti confortano la sensazione che si sia
prossimi a una qualche fine: mai, nella storia recente dei Balcani, si era combattuto per più di quattro
anni senza soluzione di continuità.
Dalla Slavonia scendono verso la Bosnia i trattori dei profughi e, visione inedita per gli anni
novanta, sono trattori serbi.
Un'onta insopportabile per i nuovi campioni dell'estremismo panserbo, per i falchi insediati nella
roccaforte di Pale. Se dalla madre patria non giungono segnali di solidarietà verso i fratelli separati
delle fertili pianure del Danubio, sono i cannoni del generale Mladic a suonare la musica della
vendetta.
Una chiesa cattolica viene rasa al suolo a Banja Luka, sono sottoposti a vessazioni, quando non a
espulsioni o esecuzioni, i croati che abitano ancora nel Nord della Bosnia a ridosso del fiume Sava.
Parallelamente si stringe ancora di più la morsa su Bihac, i cui abitanti, stremati, arrivano a lanciare
un appello straziante ai caschi blu: «Se non potete darci cibo, dateci veleno. Meglio morire subito
che prolungare questa agonia».

Ostaggi La partita si sposta presto a Sarajevo dove più potenti sono i riflettori, più forte la cassa
di risonanza. Il 16 maggio sarà ricordato come la data peggiore da oltre un anno, cioè dal famoso
ultimatum. La fredda contabilità fa ammontare a mille le granate che cadono sulla capitale. Prima
periodicamente e in modo strisciante, ora palesemente, si è tornati a un assedio capillare e feroce,
davanti al quale Boutros Ghali altro non può se non adombrare il ritiro di soldati blu dimostratisi per
l'ennesima volta inadatti allo scopo. Ce ne fosse bisogno, una conferma arriva il 22 maggio quando i
serbi, convinti dell'impunità, si impossessano degli armamenti pesanti che erano stati presi in
custodia dall'Unprofor e due giorni dopo bombardano anche con il fosforo. Nello stesso giorno
falliscono le trattative tra l'inviato americano Robert Frasure e MiloSevic sul riconoscimento delle
frontiere della Bosnia Erzegovina.
Davanti alla situazione senza sbocco la Nato lancia un ultimatum agli uomini di KaradŽic:
restituiscano, entro le 12 del giorno successivo, i quattro pezzi d'artiglieria. Quando arriva l'ora
fatidica, Yasushi Akashi non può che constatare l'inutilità delle parole. Dopo un breve consulto con il
generale Rupert Smith, informa New York. La scena si sposta a Napoli dove, al comando generale
Nato, l'ammiraglio Leighton Smith riceve l'ordine di avviare l'attacco. Da Aviano si levano in volo
quattro F16 americani e due F18 spagnoli. Sono appoggiati da due jet per la guerra elettronica Ef111
e tre elicotteri Hb130 e Mh53. Evidente la scelta di non coinvolgere mezzi francesi e inglesi, cioè
dei due paesi che hanno più uomini sul terreno.
Alle 16 i cacciabombardieri sono sull'obiettivo: un deposito d'armi di Jahorinski Potok, sobborgo
a due chilometri da Pale.
Vengono sganciate undici bombe a guida laser da mille e duemila libbre che centrano il bersaglio.
Per la prima volta si sfidano apertamente i generali serbi con l'attacco a una base militare: in
precedenza la Nato si era limitata ad azioni circoscritte al singolo cannone o al singolo tank. Si
alzano colonne di fumo che avvolgono la capitale dell'autoproclamata repubblica dando all'offensiva
un evidente valore simbolico. L'agenzia dei serbi, Srna, ammette «danni ingenti, ma non ci sono
perdite umane». L'edificio si trova in una valle lontana da zone popolate. La Nato chiarisce:
«L'obiettivo era volutamente limitato. Non possiamo escludere altri raid». Un nuovo ultimatum,
infatti, incombe per il giorno successivo se i serbi non si ritireranno dalla «zona di esclusione» che
comprende un raggio di 20 chilometri attorno a Sarajevo.
KaradŽic e i suoi collaboratori sono raggiunti dal «messaggio» mentre rientrano da Banja Luka
dove si è appena conclusa una sessione straordinaria del loro Parlamento. Non perdono tempo: poco
dopo, suona l'allarme generale a Sarajevo. Sono in fiamme GoraŽde, Bihac, Srebrenica, mentre una
granata cade tra i tavoli dei bar del Korzo di Tuzla uccidendo 71 giovani avventori.
KaradŽic ha scelto il rilancio, l'escalation: la mossa disperata di chi si sente isolato e chiama a
raccolta, contro il comune nemico, non solo i fratelli serbi, ma gli slavi tutti. Se da Mosca ottiene la
condanna dei raid Nato, è invece sonoro ed eloquente il silenzio assoluto di Belgrado.
Che lo psichiatra sia entrato in una partita dove è previsto solo il gioco al rialzo lo si capisce il 26
maggio, in quella che sarà destinata a diventare una delle giornate più lunghe dei dieci anni delle
guerre jugoslave. Di notte ci sono stati morti in quasi tutte le aree protette delle Nazioni unite e non è
ancora giorno (non sono neanche le sei) quando tutti i punti di raccolta delle armi sotto controllo Onu
si ritrovano circondati dai serbi: 200 soldati occidentali sono praticamente ostaggi.
Alle 10,29 i cacciabombardieri dell'Alleanza sono ancora sull'arsenale nei pressi di Pale. In tre
ondate successive vengono distrutti sei bunker del vasto complesso militare. La tv di KaradŽic
sostiene che stavolta ci sono vittime civili, che sono stati colpiti anche una scuola e un ospedale.
Azioni e reazioni si susseguono senza sosta, sempre più ravvicinate. Ore 12,07: i serbobosniaci
prendono in ostaggio e minacciano di morte 48 osservatori dell'Onu che, a differenza dei caschi blu,
non portano armi; 13 di loro sono incatenati come scudi umani a Pale «per prevenire un nuovo
bombardamento della Nato». Ore 13: eccoli, gli scudi umani incatenati ad alcuni pali lungo una
strada in collina, vicino al deposito distrutto. Li mostra la tv di Belgrado. L'immagine del capitano
canadese Patrick Rechner con le manette ai polsi, lo sguardo perso nel vuoto, fa il giro dei network
di tutto il mondo. Un generale dichiara: «Per ogni nuova bomba che cadrà sul nostro territorio verrà
ucciso un soldato dell'Unprofor». L'ultimo messaggio al quartier generale di uno degli ostaggi è
concitato: «Siamo bloccati al cancello principale. Ci sono molti civili. Uno ha tirato fuori la pistola e
ha cercato di ucciderci. Ci stanno ammanettando e ci hanno messo dentro un'automobile. Ora siamo
immobilizzati qui dentro. Potete confermare che non ci saranno altri bombardamenti oggi? Vi prego,
rispondete. Siamo stati avvertiti che, se verranno lanciate altre bombe, noi moriremo».
Il collegamento è interrotto da un uomo che si qualifica come soldato serbo di Bosnia e che, in
inglese, aggiunge: «I tre osservatori Onu sono nel magazzino. Ancora un bombardamento e saranno i
primi ad andarsene. Chiaro?».
Ore 16. la tv dei serbi di Bosnia che mostra altri due osservatori ammanettati alla balaustra di un
ponte. Uno di loro, un nero ghanese, lo sguardo spaventato dichiara: «Ho visto i caccia della Nato
bombardare bersagli civili. Molti civili sono stati uccisi. E' una cosa molto brutta, si tratta di un
crimine contro l'umanità». E' evidente propaganda e la memoria va ai giorni del Golfo, a Saddam
Hussein che usò la stessa tattica, per esempio, con il pilota italiano Maurizio Cocciolone.
L'ultimo diaframma che separa la missione di pace dell'Onu dallo scontro a fuoco, armi in pugno,
cade la mattina di sabato 27 maggio sul ponte di Vrbanja, a Sarajevo; lo stesso sul quale si è versato
il sangue della prima vittima della guerra; dove sono rimasti per giorni i cadaveri di BoSko e
Admira, i Romeo e Giulietta di Sarajevo, lui serbo, lei bosniaca, che assieme volevano fuggire
dall'assedio; dove passa la linea del fronte più vicina al centro della capitale.
Dopo un serrato conflitto a fuoco i soldati francesi riconquistano un posto di osservazione
occupato nella notte dai serbi. Bilancio della battaglia: un morto per parte, cinque feriti tra gli
occidentali, tre serbi prigionieri. Sale il numero dei caschi blu in ostaggio, ne vengono segnalati un
po' dappertutto nella Bosnia serba. Su richiesta di Parigi si riunisce il Consiglio atlantico che si dice
pronto a nuovi raid, ma li sospende per una settimana al chiaro scopo di favorire l'iniziativa
diplomatica partita da Mosca. Eltsin ha mandato nei Balcani i suoi ministri degli Esteri, Andrej
Kozyrev, e della Difesa, Pavel Graciov. Da Pale continuano tuttavia ad arrivare segnali di
indisponibilità. Il colonnello Milovan Milutinovic: «Non è più possibile tollerare l'atteggiamento
dell'Onu, ormai chiaramente schierato con i musulmani». E Jovan Zametica: «Abbiamo pieno diritto
di considerare i membri dell'Onu come nemici e di trattarli come tali».
Non fosse sufficientemente complicato il quadro, la domenica, alle 6,30 del mattino, in un attentato
che non è azzardato definire terroristico, muore il ministro degli Esteri di Sarajevo, Irfan Ljubijankic,
43 anni, in carica dal 23 giugno 1994. L'elicottero Mi8 sul quale si trova con altri funzionari e
decollato da Bihac con direzione Zagabria, viene abbattuto da un razzo nel cielo sopra Cetingrad,
nella Krajina croata occupata dai serbi. I quali rivendicheranno la paternità dell'azione con un
comunicato dell'agenzia Iskra nel quale si legge: «L'elicottero è stato abbattuto con un missile dopo
che aveva violato lo spazio aereo della Krajina e dopo che l'equipaggio aveva rifiutato
l'identificazione».
Tutta l'attenzione, e non solo quella politico-diplomatica, è concentrata sui Balcani. Nello stesso
giorno, a Cannes, il sarajevese Emir Kusturica vince tra le polemiche la sua seconda Palma d'oro per
il film Underground. I suoi concittadini non gli perdonano la fuga dalla città e la scelta di farsi
finanziare il film anche da Belgrado (dov'era già diventato direttore del Festival del cinema). Fanno
discutere anche alcune sue dichiarazioni in conferenza stampa in cui sottolinea che «MiloSevic non è
il solo responsabile» della dissoluzione della ex Jugoslavia. Il Gran premio della giuria va al greco
Theo Anghelopoulos (che si arrabbia, voleva la Palma) per Lo sguardo di Ulisse, pure ambientato in
parte nelle zone teatro di guerra.
Francesi, inglesi e olandesi varano la «forza di reazione rapida», 12.500 uomini pronti a
rispondere al fuoco se aggrediti e, nei voti, anche a favorire la fine dell'assedio di Sarajevo.
L'arrivo di questi uomini «decisi a tutto» è salutato come una svolta, un vero sbarco. Mosca media,
ma in cambio vorrebbe fossero tolte le sanzioni contro Belgrado. Dove MiloSevic continua a tacere e
i suoi fedelissimi si espongono solo per prendere le distanze da KaradŽic e dalla sua folle sfida.
KaradŽic, dal canto suo, fa incetta di caschi blu (saranno oltre 400) e pensa che siano il
lasciapassare per il riconoscimento internazionale, conditio sine qua non per una trattativa che, in
segreto, deve pur continuare se vuole uscire dallo stallo. Giunge fino allo sfregio di mandare propri
uomini a spasso per Sarajevo con un blindato bianco sottratto all'Onu.
Come «gesto di buona volontà», il 2 giugno, rilascia 126 ostaggi, ma lo fa proprio nel giorno in cui
un aereo, un F16 americano, viene abbattuto da un missile serbo Sam6 nel cielo di nordest, tra Bihac
e Banja Luka.
Il pilota che volava accanto al mezzo precipitato, Bob Wright, sostiene di non aver visto il collega
proiettarsi fuori dall'abitacolo (sarà una tesi utile per disorientare il nemico, dirà in seguito:
«L'abitacolo era intatto, ho intuito che si fosse salvato»). Morto o vivo? E se vivo, catturato dai
serbi? Il generale Mladic organizza una gigantesca caccia all'uomo nel tentativo di prendersi il più
prezioso degli ostaggi: un americano. Senza successo. Sei giorni dopo il capitano Scott O'Grady
(questo il suo nome) detto «Zulu», 29 anni, verrà recuperato con un'operazione degna di Hollywood.
Questa la ricostruzione della sua odissea oltre le linee. Una volta colpito, O'Grady atterra con il
paracadute a circa 32 chilometri a sudest di Bihac, pieno territorio serbo, area pressoché disabitata e
fitta di boschi. Non si perde d'animo. Ha con sé il kit di sopravivvenza: cibi energetici (come la
cioccolata), una piccola scorta di acqua potabile, materiale di pronto soccorso, farmaci (tra cui
pillole antidolorifiche), leggeri eccitanti (caffeina) per restare sveglio in caso di necessità. E poi
altri strumenti come bussola, ago, filo, fiammiferi, una piccola, ma potente torcia elettrica, un
eliografo (particolare specchio per segnalazioni con il sole), razzi di segnalazione diurni e notturni,
carte della regione.
Infine una pistola e munizioni di riserva. Rimane dapprima ben nascosto, nell'attesa del momento
propizio per il recupero. Si muove in un'area circoscritta. Terminato il kit, si ciba di formiche e
grilli, beve acqua piovana. Le mucche che pascolano attorno gli danno un'idea: «Se l'erba è buona
per loro, lo sarà anche per me».
Una volta avuta confidenza con il terreno, attiva il dispositivo Pls (Precision Locator System)
prima risparmiato per economizzare sulle batterie. Il Pls è una piccola radiotrasmittente che non
funziona via satellite, ma sulla banda Uhf-Vhf che può essere intercettata da aerei di guerra
elettronica (come gli Awacs). Il piccolo trasmettitore invia un segnale che comprende sia il nome del
pilota, sia la posizione, rilevata attraverso il sistema satellitare Gps (Global Positioning System) con
una precisione nell'ordine dei 10-20 metri. Per evitare che la trasmissione possa essere localizzata
da apparecchiature nemiche, il segnale viene codificato con un algoritmo matematico e «compresso»
per essere trasmesso in uno-due secondi. Le particolari caratteristiche del segnale servono anche a
distinguere il segnale vero da eventuali falsi, inviati per far cadere in trappola i soccorritori, come
spesso accaduto in Vietnam.
Thomas Hanford è il capitano-pilota che per primo capta i segnali di «Zulu». Dopo due altre notti
di sorvolo è il marine Chuck Ehlert che lo invidua con esattezza. Scott urla quasi nell'apparecchio:
«Sono io, sono io, mi state passando sopra». Ed Ehlert: «Give me a mark». Detto, fatto.
Così alle 2,30 dell'8 giugno il capitano Scott O'Grady viene localizzato. Un'ora dopo si riuniscono
i comandi operativi Nato a Napoli e Aviano. Non c'è tempo da perdere, l'azione è per le prime luci
dell'alba. Alle 4 viene messa in stato d'allerta la nave statunitense Kearsarge che incrocia in
Adriatico e sulla quale si trovano mezzi da sbarco anfibi, elicotteri d'attacco e un contingente di
marines addestrati per il recupero tattico di aerei e aviatori. Alle 5, da Aviano si levano in volo
caccia statunitensi F15, F16, F18, F111 e un A6 equipaggiato per il disturbo elettronico. Di
copertura, un numero imprecisato di aerei italiani, britannici e tedeschi. Dalla Kearsarge alle 5,30
decollano due elicotteri Ch43 Sea Stallion con 40 marines. Gli elicotteri atterrano alle 6,45 a 50
metri dal punto in cui è stata localizzata l'emissione del segnale radio, su una radura al limitare di un
bosco. La prima unità, con 20 marines scende a terra per perlustrare il terreno, la seconda rimane
bloccata perché non si apre il portellone del velivolo. Il capitano esce correndo dal bosco e va
proprio verso questo secondo elicottero su cui si trova il generale di brigata Marty Berndt che si
sporge dalla parte anteriore, afferra il pilota e lo trascina all'interno. In un quarto d'ora, l'operazione
è conclusa. Gli elicotteri stanno lasciando la Bosnia quando i serbobosniaci li individuano, sparano
un missile terra-aria e colpi di artiglieria leggera. Alle 7,20 «Zulu» è sulla portaerei: divora in un
baleno una razione di cibo in scatola. Clinton si complimenta e, congiuntamente (sarà un caso?),
Washington annuncia che non fornirà i 1500 soldati promessi alla task force europea.
Per un soldato che torna a casa, altre centinaia rimangono nelle mani dei serbi sino a una svolta
improvvisa, datata 13 giugno. Radovan KaradŽic in persona che, alle 11 del mattino, convoca le
telecamere per annunciare: «Abbiamo deciso di liberare tutti gli ostaggi». Lascia intendere che c'è
stata una trattativa, che ha ottenuto la promessa della fine dei raid.
Pronte le smentite dell'Onu che ha sempre ribadito, almeno ufficialmente, la linea della fermezza.
La vicenda si è comunque trasformata in un successo diplomatico per Slobodan MiloSevic: a
scaglioni, i rampolli dell'Occidente vengono liberati, e sempre in seguito a una visita a Pale di
Jovica StaniSic, temutissimo capo della sua polizia segreta, pianificatore dapprima della
sollevazione nazionalista in Bosnia e poi della pulizia etnica. A posteriori verranno provati i
colloqui diretti durante la crisi tra il generale Mladic e due suoi pari grado francesi: Bertrand de
Lapresle, ex ufficiale delle Nazioni unite e ora consigliere tecnico del rappresentante europeo nel
negoziato sulla ex Jugoslavia, Carl Bildt (che il 9 giugno ha sostituito lord David Owen), e Bernard
Janvier, comandante in campo dei caschi blu nella regione. Oltre alla fine dei raid, cos'altro hanno
potuto promettere alla controparte? Basta leggere le cronache di quei giorni: l'ufficio legale dell'Onu
scopre velocemente che non sono punibili i quattro miliziani catturati dopo la sparatoria con i
francesi sul ponte di Vrbanja; gli stessi avvocati stabiliscono che l'Alleanza atlantica non è
autorizzata a colpire aeroporti militari serbi in caso di incursioni sopra la Bosnia; infine, rimangono
pur sempre nelle mani di Mladic una ventina di mezzi, inclusi cinque tank, rapinati alle forze di pace,
e subito utilizzati per una battaglia imprevista attorno a Sarajevo, dove il 16 giugno i musulmani
scatenano la più grande offensiva mai tentata per la deblokada, per cercare cioè di togliere l'assedio
alla città.
I primi segni si sono avuti quando l'attenzione era concentrata sulla vicenda degli ostaggi. Da più
parti si segnalava una straordinaria e inedita concentrazione di truppe (addirittura 20-30 mila
persone) attorno alla città. Non soldati ben equipaggiati e addestrati, ma contadini senza terra,
sfuggiti ai lager, sfollati. Tanti, comunque, e decisi a combattere, motivati.
Nel ping-pong tra serbi e Nato, Izetbegovic non è disposto a giocare la parte del perdente che
assiste. E se l'esplosione della crisi sfocerà nel negoziato, vuole sedersi al tavolo con qualche
risultato concreto, con la possibilità di fare la voce, se non grossa, almeno non mesta. Alle 5 del
mattino, dunque, giunge l'ora della battaglia: ecco l'offensiva, sferrata in più punti. Sul Trebevic,
monte dal quale l'artiglieria nemica da tre anni cannoneggia la città; sulla Collina Grassa, ovvero
Debelo Brdo, quasi raggiunta sino alla cima. E poi sulla strada per IlidŽa, con lo scopo di isolare la
roccaforte serba da cui si controlla l'ingresso a Sarajevo. Ejup Ganic, vicepresidente bosniaco: «Ci
siamo decisi perché siamo stanchi di una diplomazia senza muscoli che significa solo altri bosniaci
morti». Tre sono i corpi d'armata mandati contemporaneamente all'attacco, il Terzo, il Quarto e il
Settimo, sotto il personale comando del capo di stato maggiore generale, Rasim Delic.
Il personale Onu stavolta osserva scettico. La differenza delle forze in campo è clamorosa, tanto
che qualcuno bolla l'attacco come velleitario. L'Onu individua addirittura 15 fronti. Sabato 17 giugno
succede qualcosa che, se non ha un valore pratico, è psicologicamente importante. Gli assediati
riescono a lanciare due granate su Pale, il borgo di montagna diventato «capitale». E' la prima volta.
Esplodono, le granate, proprio mentre si stanno celebrando le nozze di Sonja KaradŽic, figlia del
leader e del trentenne Branislav Jovičevic. Cerimonia in una cappella ortodossa, banchetto con 250
invitati nella mensa di un ex stabilimento industriale che ora ospita gli uffici del governo, del
parlamento e della presidenza dell'autoproclamata repubblica.
KaradŽic, rilassato e in elegante completo nero, la moglie in tailleur prugna, sposa (con un ruolo
al ministero dell'Informazione e nota per gli eccessi mondani belgradesi) in tradizionale bianco e
sposo in verde bottiglia. Nessuna delle parti offre cifre sulle perdite che si deducono comunque
ingenti.
Il ministro degli Esteri bosniaco, in visita a New York, rende note le condizioni per fermare
l'offensiva: fine dell'assedio di Sarajevo, riapertura di tutte le strade possibili ai convogli umanitari,
blocco dei bombardamenti in tutto il paese.
KaradŽic decide la mobilitazione dei civili dai 15 ai 70 anni, ma ha in mano la solita carta da
giocare per ridurre a miti consigli la controparte. Il 18 giugno, una bomba fa una strage tra la gente in
coda per l'acqua. Qualche giorno dopo, un altro ordigno cade sulla sede della televisione, nel
sobborgo periferico di AlipaSino Polje, causando un morto e 36 feriti, tra cui diversi giornalisti
occidentali.
Il tentativo bosniaco perde lentamente d'efficacia. Al prezzo di un numero impressionante di vite
umane, l'Armija ha liberato 15 chilometri quadrati di territorio; troppo pochi per togliere l'assedio. E
pensare che adesso sul monte Igman a ridosso della città c'è anche la forza di reazione rapida che
avrà in appoggio truppe e jet tedeschi, come decreta il Bundestag il 30 giugno. E' una decisione
storica: è la prima volta dalla Seconda guerra mondiale che soldati di Bonn vengono utilizzati in
missioni all'estero.

Srebrenica e Žepa Ratko Mladic che accarezza un bambino musulmano mentre promette alla
popolazione di Srebrenica che sarà risparmiata (Potočari, 12 luglio). Ratko Mladic che fa ginnastica
con un bilanciere (dintorni di Žepa, 20 luglio). Ratko Mladic che offre da bere a due malcapitati
«rappresentanti civili» venuti a trattare la resa della città (Žepa, sempre 20 luglio). Ratko Mladic che
legge un comunicato in cui rifiuta di dimettersi dalla carica di capo dell'esercito come vorrebbe un
decreto del presidente Radovan KaradŽic (Bosnia serba, luogo imprecisato, forse Drvar, 5 agosto).
l'estate di Mladic quella che segue il velleitario attacco bosniaco attorno a Sarajevo. O forse Mladic
ha solo offerto la faccia truce dalla larga mascella e la vocazione alla macelleria quando altri hanno
tirato le fila, sapendo già come sarebbe andata a finire. In mezzo, tuttavia, ci sono volute altre decine
di migliaia di morti per arrivare alla «situazione delineata dal terreno» e in realtà già disegnata sulle
carte geografiche. Se il frenetico concatenarsi degli eventi impediva di capirli mentre avvenivano,
tutto sarebbe stato invece più chiaro a posteriori, quando le bocche avrebbero cominciato a scucirsi,
i documenti a parlare.
L'offensiva bosniaca attorno a Sarajevo non deve essere poi così irresistibile se il 3 luglio Alija
Izetbegovic riprende a suonare i tasti della disperazione. «Rischiamo di morire di fame» fa sapere
con un video al Forum internazionale di Crans Montana. I serbi bombardano di gioia la capitale per
festeggiare la vittoria della loro squadra di basket (lo sport nazionale) al campionato europeo. Anche
sul podio di Atene si è consumato l'odio, con i croati che hanno ritirato la loro medaglia di bronzo
per poi andarsene in fretta e non ascoltare lo Hej Slaveni, inno di una nazione che non è più la loro,
che sostengono non esiste nemmeno più.
La gente muore, i politici trattano e la sorte di Srebrenica deve essere stata segnata molto prima
del momento in cui il generale Mladic muove non più di duemila uomini per conquistarla con un blitz
di due giorni. Era, Srebrenica, poco più di un piccolo borgo di 15 mila anime dove si era consumata
l'epopea del generale Morillon nel 1993. L'Onu l'aveva dichiarata zona protetta e smilitarizzata, i
difensori avevano consegnato le armi. Deve il nome alla miniera d'argento (srebro) già sfruttata dai
romani. In due anni è lievitata sino a 60 mila persone, sfollati dei villaggi vicini. La sua «colpa» è
quella di trovarsi a 10 chilometri dalla Drina, il fiume che segna il confine tra la Bosnia e la Serbia,
in zona serba. Un'enclave, insomma. Muove dunque Mladic verso Srebrenica l'8 di luglio e, more
solito, applicando uno schema collaudato, cattura 30 soldati olandesi dopo aver attaccato tre posti
d'osservazione delle Nazioni unite.
Vengono trasferiti a Bratunac, «ospiti» e non «ostaggi» per usare un eufemismo.
I tank degli aggressori scorrazzano a poca distanza dal centro quando ancora, per l'Onu, «la città
non è in pericolo». Anche se il Consiglio di sicurezza «condanna». Ma stavolta, a guardare resta
anche Sarajevo. Dirà in seguito Sefer Halilovic, ex comandante (rimosso) dell'Armija: «Srebrenica è
stata venduta».
Lo sosterrà nel corso di una rovente polemica con il presidente Alija Izetbegovic a cui non ha mai
perdonato di averlo destituito a favore del generale Delic. Non può portare prove certe a conferma
della sua deduzione, solo pesanti indizi. Finché c'era lui ai vertici, l'esercito era davvero composto,
fino ai ranghi alti, da persone di tutte le etnie. Le epurazioni di serbi e croati cominceranno in
seguito. Così come prenderà piede una struttura coperta (nome «Sheva») incaricata del lavoro
sporco, sospettata anche dell'attentato a casa Halilovic nel quartiere Ciglane di Sarajevo in cui
morirà la moglie.
Vale comunque la pena di citare un episodio. Il giorno in cui i carri armati di Mladic entrano a
Srebrenica si tiene, a Sarajevo, una riunione dei vertici dell'Sda (il partito musulmano al potere).
Dopo un ordine del giorno in cui si dibatte accanitamente, tra l'altro, della «situazione religiosa
all'interno dell'Armata», all'ultimo punto Rasim Delic tratta della situazione nell'enclave di
Srebrenica. Una relazione di cinque minuti in cui rassicura che è tutto sotto controllo e che la XXVIII
brigata aiuterà la popolazione civile respingendo i serbi. Non ore, ma alcuni minuti basteranno per
smentirlo.
In men che non si dica, alle 17 dell'11 luglio Srebrenica cade. Quando i serbi entrano in città non
trovano nemmeno i 320 caschi blu olandesi che la dovevano difendere e che guadagnano velocemente
la loro base di Potočari, sei chilometri più a nord, letteralmente inseguiti dall'intera popolazione.
Poco prima, alle 14,40, la Nato aveva lanciato un tardivo attacco con F16 e A10 (aviogetti con un
armamento di missili e bombe a guida laser impiegati nella guerra anticarro) che avevano colpito due
tank in marcia. Il muscoloso Chirac che ha appena annunciato la ripresa degli esperimenti atomici a
Mururoa annuncia: «Siamo pronti a riprendere la città». Boutros Ghali ribatte: «una missione
impossibile».
La base dei caschi blu di Potočari si ritrova letteralmente invasa da una massa enorme di gente
dolente e disperata che cerca rifugio tra le braccia di coloro che l'avrebbero dovuta difendere. Il
prato davanti alla caserma trabocca di persone che ancora si illudono di essere in una zona franca
dove non potrà succedere loro nulla di male. Ma Mladic ha perso anche gli ultimi freni inibitori: i
caschi blu olandesi sono un fuscello da spazzare per eliminare il «problema» musulmano alla radice.
Si presenta, il generale, davanti a quelle migliaia di cui può disporre vita e morte. Ordina che siano
separati gli uomini (compresi gli adolescenti sopra i 12 anni, giudicati in grado di combattere) dalle
donne e dai bambini. Avvia i primi allo stadio di Bratunac che da campo di calcio diventa campo di
concentramento. Lì sono interrogati per scoprire se ci siano «criminali di guerra». Sistema gli altri su
autobus con destinazione Kladanj, da dove saranno liberi di raggiungere, attraverso la terra di
nessuno, le postazioni bosniache. Non prima però di essersi fatto riprendere mentre accarezza un
biondino in prima fila e ripete: «Non preoccupatevi, andrà tutto bene». Alla tv di Pale dichiara: «Il
nostro bersaglio non sono la popolazione civile, né i caschi blu. A Srebrenica i musulmani, aiutati
dalla Nato, si sono impossessati delle armi dell'Unprofor e le hanno abbondantemente usate contro i
serbi. Il nostro è un tentativo di riportare alla ragione i terroristi musulmani».
Le torture sugli uomini, le sevizie sulle donne a Potočari sono documentate da un video girato
dagli olandesi che non sarà mai più trovato. Distrutto dagli stessi soldati-autori, secondo il capo di
stato maggiore di Amsterdam, Hans Couzy. Cancellato dai comandanti, secondo un'inchiesta della
Bbc.
Per fuggire a una sorte segnata, almeno tremila uomini decidono una disperata fuga attraverso i
boschi. Cinquanta chilometri di cammino fino a Tuzla, passando tra le linee serbe.
Quell'odissea durata giorni è descritta dal soldato Himza Palic: «Durante il tragitto molti si sono
suicidati. Io ne avrò contati almeno cento. Alcuni si sono sparati un colpo di rivoltella in fronte. Altri
si sono fatti esplodere una bomba a mano sul petto, ammazzando anche chi gli camminava a fianco.
Tutto questo per non finire nelle mani dei serbi».
L'immagine-simbolo dell'esodo delle donne è invece quella di una ventenne che, giunta in zona di
sicurezza, si impicca al ramo di un albero. Indossa un maglioncino rosso e una gonna bianca. I
profughi vengono ammassati in una tendopoli a ridosso dell'aeroporto di Tuzla.
Fosse o meno concordata la fine di Srebrenica, di certo nessuno poteva prevedere le conseguenze:
il massacro più grande dalla Seconda guerra mondiale. Almeno ottomila persone uccise e ammassate
in fosse comuni. Persone di cui rimangono solo ossa accatastate in un tunnel, sorta di obitorio
provvisorio nei pressi di Tuzla. Ossa a cui gli anatomopatologi (basandosi sull'esperienza maturata
con i desaparecidos argentini) stanno ancora cercando di dare un nome. Per questa strage, il
Tribunale dell'Aja ha incriminato i latitanti KaradŽic e Mladic, oltre a due loro sottoposti che si
trovano già in cella in Olanda. Il generale Radislav Krstic è accusato di aver impartito, via telefono
un ordine perentorio di cui esiste intercettazione telefonica: «Uccidili tutti, uno per uno». Dall'altro
capo del filo il tenente colonnello Dragan Obrenovic, arrestato dai soldati della Sfor (Forza di
stabilizzazione della Nato in Bosnia) il giorno di Pasqua del 2001 mentre si preparava al pranzo
nella casa del suocero a Kozluk, nella Repubblica serba.
Obrenovic comandava la brigata «Zvornik». Tre giorni dopo è comparso davanti alla corte e si è
dichiarato «non colpevole» dei reati dei quali è accusato: concorso in genocidio, in crimini contro
l'umanità e in violazioni delle norme di guerra. Il processo per Srebrenica non dovrebbe cominciare
prima del 2002.
Altri comandanti e soldati serbobosniaci che parteciparono alle esecuzioni sommarie dovrebbero
trovarsi sulla cosiddetta lista segreta del Tribunale internazionale.
Mentre Mladic è «attivo» nella zona di guerra, KaradŽic non si muove da Pale. Qui, il 15 luglio
concede un'intervista all'inviato del Paìs Angel Santa Cruz. Attacca: «La condizione minima per la
pace è che il nostro stato sia riconosciuto da tutto il mondo. La nostra priorità numero uno è quella di
far parte della Serbia. La seconda, fare parte della Jugoslavia come una unità federale. Se queste
possibilità sono inaccettabili per la comunità internazionale, otterremo il nostro stato con la forza e
allora saremo meno flessibili sui territori. I nostri contadini possiedono il 64 per cento del territorio
e noi controlliamo militarmente il 70 per cento. Il piano del gruppo di contatto è morto, eccetto per
quel che riguarda l'idea di base di dividere la Bosnia. Può servire dunque come base di
discussione».
A patto che non si parli più di enclave musulmane: «Siamo padroni di questo paese da molti
secoli, non abbiamo cominciato noi la guerra. Le enclave non sono accettabili e le faremo sparire, se
necessario, con la forza. Non accetteremo mai di essere una provincia dello stato bosniaco, non
accetteremo mai lo stato bosniaco». Su Srebrenica: «E' stata liberata. I serbi che ci vivevano stanno
cominciando a tornare nelle loro case. Dei musulmani, chiunque vuole rimanere, può farlo. Però
sappiamo che musulmani e serbi non vogliono stare vicini». Su Sarajevo: «Si sdoppierà. Ci saranno
due Sarajevo, se i musulmani lo vorranno, oppure una città serba, perché la città fu costruita in zona
serba». Su Žepa e GoraŽde: «Dipende dai musulmani. Se si disarmano, in queste due aree possono
vivere accanto a noi senza problemi. Se continueranno a essere un santuario per terroristi, allora li
neutralizzeremo».
Al momento dell'intervista, l'offensiva (da sud e da ovest) su Žepa, altra enclave di 17 mila
abitanti a ridosso della Drina, 50 chilometri a sud di Srebrenica, è già cominciata da 48 ore.
«difesa» da 79 caschi blu ucraini ai quali gli abitanti cercano invano di sottrarre gli armamenti
pesanti ammucchiati in un deposito. Il borgo è chiuso in una valle impervia e sovrastato da un monte
nel ventre del quale si apre un reticolo di caverne.
«Nemmeno i tedeschi» sostengono gli abitanti con vanto «riuscirono a prenderla durante la
Seconda guerra mondiale». I precedenti storici e la perfetta conoscenza del territorio inducono un
leggendario comandante, Avdo Palic (di cui ancora oggi si ignora la sorte, sarebbe stato visto in una
prigione serba e poi più nessuna traccia), a organizzare un'intrepida difesa. I rappresentanti civili
della città già il 20 luglio accettano la resa nelle mani di Mladic, ritratto mentre con loro e davanti a
una bottiglia di grappa finge la magnanimità del vincitore e alza i calici per un brindisi. Secondo
copione, arrivano gli autobus della deportazione di donne e bambini; secondo copione gli uomini
vengono divisi dalle donne. Ma non ce ne sono molti, stavolta, di uomini. Quasi tutti hanno preferito
rimanere lassù, nelle caverne, accanto ad Avdo Palic. Tanto che da Sarajevo, il governo emette un
comunicato: «Žepa resiste eroicamente».
Per stanare la resistenza, la città viene messa a ferro e fuoco e solo il 25 luglio finirà saldamente
in mano serba. Proprio quel giorno, il Tribunale internazionale dell'Aja emette 24 ordini di cattura
internazionali. Nella lista i nomi di KaradŽic, Mladic e del leader della Krajina, Milan Martic.
Lo strapotere serbo sembra inarrestabile. Ma Žepa sarà l'ultima conquista. I piani militari di
Mladic prevedevano l'attacco a GoraŽde, a sudest, e a Bihac a nordovest. Ma Bihac è strategica,
oltre che per i bosniaci, anche per la Croazia.
Zagabria non ha rinunciato all'idea di riprendere le Krajine perse nel 1991. E la sacca è un ideale
ponte di lancio per chiunque voglia controllarle. Ecco perché spinge i suoi uomini in aiuto dei
musulmani e, contemporaneamente, il 26 luglio, lancia un'offensiva da sud, dall'Erzegovina, per
tagliare i possibili rifornimenti ai serbi. In tre giorni, la bandiera a scacchi sventola su 700
chilometri di territorio, comprese le città di Glamoč e Bosansko Grahovo.
La rinnovata, e stavolta funzionante, alleanza tra Sarajevo e Zagabria viene suggellata il 31 luglio
durante un incontro a Spalato tra i rispettivi ministri degli Esteri Muhamed Sačirbej e Mate Granic,
alla presenza interessata del capo della diplomazia iraniana, Ali Akbar Velayati. Con il consenso
degli Stati Uniti, il paese islamico fornirà cooperazione militare ai correligionari europei. Sono gli
ultimi dettagli diplomatici in vista della resa dei conti. La Croazia scatenerà il 4 agosto l'operazione
Oluja (Tempesta). In 36 ore i suoi uomini arriveranno a Knin e si ricongiungeranno, a Bihac, con il
quinto corpo d'armata bosniaco del generale Atif Dudakovic rompendo l'assedio (vedi capitolo
successivo).
I rovesci sul campo spezzano anche un asse che sembrava indissolubile: quello tra KaradŽic e
Mladic. Non che non si fossero avvertiti i primi scricchiolii anche in precedenza, ma le vittorie
avevano sanato i contrasti inducendoli a proseguire nella mutua collaborazione. KaradŽic aveva
giudicato un affronto una lettera che Slobodan MiloSevic aveva spedito a Izetbegovic e a Mladic
(accreditandolo dunque come interlocutore) per esortarli alla pace. Aveva capito che, non fosse
ancora chiaro, Belgrado lo aveva scaricato a favore del generale. La riunione del comando supremo
a Pale dopo la perdita di Glamoč e Bosansko Grahovo è già stata teatro di un acceso diverbio tra i
due. E Bihac, ora, allarga il fossato dell'incomprensione. Usando il pretesto delle sconfitte, quel 5
agosto KaradŽic destituisce Mladic e lo confina al ruolo di responsabile del coordinamento tra le
forze di Pale e dei serbi di Krajina. Mladic dal suo quartier generale di Drvar rifiuta la promozione-
rimozione all'«inesistente» incarico. E ben 18 generali (tra cui Manojlo Milovanovic, suo aggiunto
allo stato maggiore, Milan Gvero, Zdravko Tolimir e Momir Talic) lo appoggiano scrivendo una
lettera al «Parlamento» in cui dichiarano fedeltà al «comandante supremo». La decisione di KaradŽic
è «inaccettabile ed errata, avrà conseguenze imprevedibili per il nostro popolo, la nostra lotta, il
nostro esercito. Abbiamo bisogno di tutti e, in particolare di un comandante come il generale Ratko
Mladic».
Pronunciamento per pronunciamento, il governo serbobosniaco ribadisce a stretto giro di posta la
propria lealtà a KaradŽic, e sostiene la piena legalità costituzionale della sua decisione.
Lo stesso KaradŽic rincara: «Mladic è un emotivo, il suo è uno sfogo. Ma lui è tenuto a eseguire
gli ordini». Risultato: le posizioni rimarranno inalterate sino alla fine. Mladic, seppur destituito,
continuerà a ricoprire il suo ruolo.
Come a Pale, anche a Sarajevo è in corso un duello tra il presidente Alija Izetbegovic e il suo
delfino, il giovane premier Haris SilajdŽic. Il vecchio «padre della patria» è sempre più schierato
con coloro che vedono di buon occhio la creazione di uno stato musulmano. SilajdŽic, benché figlio
di un religioso e per anni segretario del reis ul ulema, difende tenacemente la realtà multietnica della
Bosnia. Casus belli, una questione di potere e denaro. Cioè il controllo delle donazioni estere alla
Bosnia (voce decisiva del bilancio dello stato) che il presidente vorrebbe assicurare al partito e il
premier al governo. A ciò si aggiunge, inoltre, una forzatura costituzionale dell'ala integralista
dell'Sda, che vorrebbe la presidenza della Repubblica in esclusiva a un esponente del partito
musulmano.
SilajdŽic, isolato, si dimette, ma ottiene l'appoggio di molti parlamentari e altrettanti militari tra
cui quello, decisivo, del generale Dudakovic, ormai una leggenda dopo la strenua resistenza a Bihac.
Anche in questo caso, tutto resta congelato: gli eventi incalzano e di tutto c'è bisogno tranne che di
una crisi politica e di un vuoto di potere.

Seconda strage al mercato La corta estate bosniaca volge quasi al termine quando, il 19 agosto, un
lutto colpisce la comunità internazionale. Stavolta non sono bombe, ma un incidente stradale. Robert
Frasure, rappresentante americano nel gruppo di contatto, e altri due diplomatici, Joseph Kruzel e
Nelson Drew (a loro Richard Holbrooke dedicherà il suo libro To End a War) muoiono in un
blindato mentre scendono la pista del monte Igman, unica strada d'accesso a Sarajevo che continua a
essere assediata e ora di nuovo quotidianamente bersagliata dai cannoni di un Mladic tornato
bellicoso (circolano addirittura voci, smentite, di una destituzione di KaradŽic in seguito a un suo
colpo di stato).
Riprende la quotidiana contabilità delle vittime: 6 il 22 agosto a causa di un missile. Ben 37 (e 86
feriti) il 28 agosto per quella che sarà chiamata «seconda strage del mercato» e che avviene proprio
alla vigilia della ripresa delle trattative di pace a Parigi. In realtà, da quel 5 febbraio 1994 le
bancarelle si sono spostate dalla piazza all'interno delle solide mura di un mercato coperto, a poche
decine di metri di distanza e sul lato opposto della stessa via Maresciallo Tito, l'arteria principale
della capitale.
E' proprio all'ingresso del nuovo mercato che poco dopo le 11 di una mattina di sole (che segue
diversi giorni di pioggia) cade una granata da 120 millimetri. Si rivedono scene e si risentono frasi
tristemente note. Il ministro dell'Informazione di Pale, Miroslav Toholj: «Non siamo stati noi. E' stato
l'esercito bosniaco a sparare sulla sua gente per bloccare l'iniziativa di pace. Mandiamo le nostre
condoglianze alle famiglie di Sarajevo».
Stavolta l'Onu stabilisce nel breve spazio di poche ore che la granata è stata lanciata «contro ogni
ragionevole dubbio» dai serbi. La perentoria conclusione lascia intendere che la misura è colma, è un
monito ai serbi circa la finalmente trovata unità d'intenti della comunità internazionale. L'anno
successivo si voterà negli Stati Uniti e Clinton non vuole dare argomenti all'avversario, visto che nel
1992, nella sua campagna, aveva promesso la fine della guerra nei Balcani. KaradŽic teme i raid e
si dice pronto ad accettare il nuovo piano di pace americano, mutuato da quello del gruppo di
contatto. Le tardive intenzioni non salvano il suo popolo dalle bombe. Il 30 agosto si scatena, e
stavolta per davvero, una sorta di «tempesta nei Balcani» (in varie fasi i raid continueranno sino al
15 di settembre e con l'utilizzo, come si saprà con certezza verso la fine del 2000, di proiettili
anticarro di uranio impoverito); 60 jet dell'Alleanza atlantica martellano a più ondate postazioni
d'artiglieria, depositi di munizioni e centri di comunicazione serbi nelle aree di Sarajevo, GoraŽde,
Tuzla e Mostar. E' la più massiccia operazione militare dall'inizio della guerra e il suo risultato
immediato è la distruzione di buona parte delle 300 bocche di fuoco aperte sulla capitale bosniaca.
Oltre ai caccia, entrano in azione anche i cannoni della «forza di reazione rapida» anglo-franco-
olandese di stanza sul monte Igman. I serbi, unica contromossa riuscita, riescono ad abbattere un
Mirage francese nei dintorni di Pale. I due piloti saranno successivamente catturati da un vecchio
contadino che impugna una pistola della Seconda guerra mondiale.
Izetbegovic interpreta nel modo corretto la svolta: «l'inizio della fine della guerra». Il Cremlino
tuona contro la «crudele rappresaglia», ma invece di invocare la fine dei raid, Boris Eltsin stavolta
chiede la convocazione di una conferenza di pace.
Lo stesso Slobodan MiloSevic ritiene giunto il tempo di «sedersi attorno a un tavolo per discutere
il piano di pace che noi giudichiamo positivamente».
Siccome di buone intenzioni tradite sono lastricate le vie dei Balcani, i raid continuano il 31
agosto. I jet in azione significano più o meno: «Stavolta basta davvero». I serbi di Bosnia accettano
di formare una delegazione congiunta con i serbi di Serbia per le trattative di pace. La delegazione
sarà guidata da Slobodan MiloSevic, che avrà anche diritto di veto, e composta da tre rappresentanti
di Belgrado e tre di Pale. Sul nome di questi ultimi si scatena la bagarre. Spiegherà Holbrooke nel
libro di memorie (op. cit.) delle difficoltà incontrate nel convincere MiloSevic che la comunità
internazionale non aveva nessuna intenzione di sedersi allo stesso tavolo con KaradŽic e Mladic,
accusati di genocidio dal Tribunale dell'Aja. Alla fine, per i secessionisti tratteranno il presidente
del Parlamento, Momčilo KrajiSnik (che in ogni caso finirà all'Aja, arrestato, nel 2000), il
vicepresidente Nikola Koljevic (già docente di letteratura ed esperto di Shakespeare,
successivamente morto suicida) e il generale Zdravko Tolimir, uno dei vice di Mladic.
MiloSevic, in questa fase, sembra una garanzia per l'Occidente anche se l'inviato Usa, Richard
Holbrooke, è prudente: «Evitiamo l'euforia. I negoziati saranno duri». Ora sono croati e bosniaci a
fare la voce grossa. Tudjman in particolare, viste le difficoltà del nemico, chiede di rientrare subito
in possesso della Slavonia orientale.
Mentre nel cielo continuano a volare i caccia (anche i Tornado tedeschi si alzano in volo per una
missione), i ministri degli Esteri di Bosnia, Croazia e Serbia fissano un incontro a Ginevra per l'8
settembre come primo passo verso una conferenza di pace internazionale. Il primo settembre la Nato
sospende i raid dopo l'assicurazione di Mladic: «Siamo disposti ad arretrare le artiglierie dalle
colline attorno a Sarajevo». l'ennesimo bluff, ma stavolta, davanti alla retromarcia, ripartono gli
aerei. Il 7 settembre, due Tornado italiani vengono impegnati per la prima volta in un'azione di
guerra.
Arriva l'8 settembre e davvero i ministri degli Esteri siedono congiuntamente allo stesso tavolo.
Approvano un documento che prevede il mutuo riconoscimento. Quanto alla Bosnia, secondo l'intesa
«continuerà la sua esistenza legale con i confini internazionalmente riconosciuti» e sarà formata da
due «entità»: la Federazione croato-musulmana (51 per cento di territorio) e la Repubblica serba (49
per cento). In pratica, è il piano americano.
La diplomazia non ferma il cannone. Il 10 settembre missili a lunga gittata Tomahawk, lanciati
dall'incrociatore statunitense Normandy che incrocia in Adriatico, annientano le batterie contraeree
serbobosniache nei pressi di Banja Luka. Il 15 settembre riapre l'aeroporto di Sarajevo, chiuso dall'8
aprile. I serbi promettono di ritirare l'artiglieria pesante. I raid si fermano. E' la volta buona.
Nel frattempo, approfittando dei guai altrui, gli eserciti musulmano e croato lanciano un'offensiva
in Bosnia centrale che li porterà il 18 settembre alle porte di Banja Luka. Non incontrano nessuna
particolare resistenza. Quando l'Onu intima loro di fermarsi, hanno pressoché conquistato sul campo
quel 51 per cento di territorio previsto dal piano di pace. In queste condizioni può cominciare la
maratona a Dayton, Ohio.

Dayton Non c'è trattativa, recita una parola d'ordine del buon diplomatico, con una pistola
(metaforica o reale) puntata alla tempia. La precondizione perché i protagonisti di quattro anni di
guerra si guardino finalmente negli occhi viene rispettata il 5 di ottobre quando, mediatore
Holbrooke, le tre parti firmano l'intesa per un cessate il fuoco. Da allora si alza il tono delle minacce
verbali. E', stavolta, solo una «guerra di posizione» per giustificare possibili durezze alla conferenza
di pace. Slobodan MiloSevic avrebbe voluto si tenesse a New York, dove ha vissuto all'inizio degli
anni ottanta quando era presidente della Beobanka. Della Grande Mela ricorda «i meravigliosi
odori» e il fascino del Drake hotel, l'albergo di Midtown dove alloggiava. Ma negli Usa è adesso
«persona non grata». Per questo, lo obbligano a sbarcare con il suo seguito, il 31 ottobre,
direttamente a Dayton, Ohio, nella base dell'Us Air force Wright-Patterson. Il luogo è deprimente e
senza confort, da starci il meno possibile.
Più che il «vertice dei tre presidenti» come viene giornalisticamente battezzato, sembra un ritiro
per penitenti.
Proprio per questo gli americani lo hanno scelto. Le tre delegazioni (ciascuna composta da una
settantina di persone) vengono alloggiate in tre caseggiati ciascuno di 18 stanze. Solo MiloSevic,
Tudjman e Izetbegovic potranno dormire da soli.
Appena fuori dalla base, l'Hope hotel («Hope» non da «speranza», ma dal nome del celebre attore
Bob Hope, quello incaricato di tenere alto il morale delle truppe americane al fronte), con la sua sala
conferenze per gli incontri diretti tra capi di stato.
Clinton manda un messaggio televisivo alla nazione: «E' la miglior occasione per la pace. Se
fallirà, tornerà la guerra forse per molti anni ancora». La camera vota contro l'autorizzazione all'invio
di truppe in Bosnia, ma il parere non è vincolante e Bill Clinton è deciso a tirare dritto per la sua
strada. una gara nel pronunciare frasi da consegnare alla storia. Il primo novembre, il segretario di
stato Warren Christopher aprendo ufficialmente i lavori: «Siamo venuti qui, nel cuore dell'America,
per cercare di portare la pace nel cuore dell'Europa». Il pragmatico Holbrooke: «Se non firmeranno
si sarà persa un'occasione per la pace. L'ultima». I diretti interessati cercano di diffondere ottimismo.
SilajdŽic: «Non possiamo resuscitare i morti, ma possiamo avere giustizia, uno stato della Bosnia
integro e sovrano». Tudjman: «Se non avessi fiducia nel buon esito, non sarei qui». MiloSevic:
«Siamo qui per portare la pace nei Balcani».
Per gli entusiasti sarà questione di una settimana. Avranno presto modo di ricredersi. La noiosa e
inospitale base militare della città che diede i natali ai fratelli Wright non è un incentivo sufficiente a
conciliare la fretta e l'armonia tra persone che difendono interessi così diversi. Holbrooke testimonia
di una certa confidenza tra Tudjman e MiloSevic («si salutavano con i nomignoli "Ciao Franjo",
"Ciao Slobo"») e della distanza palpabile con Izetbegovic, dell'assoluto isolamento dei tre serbi di
Pale («vennero da me a lamentarsi perché non venivano consultati su nulla, risposi che dovevano far
riferimento a MiloSevic, il loro capodelegazione»), della diffidenza reciproca, delle parole date e
ritirate nello spazio di una notte o di un mattino. Solo il 10 novembre Christopher è in grado di
presentarsi davanti alle telecamere avendo ai lati Tudjman e Izetbegovic con una penna in mano.
Devono sottoscrivere il patto sulla federazione croato-musulmana, definito «una pietra miliare verso
il trattato finale». I punti salienti: unificazione di Mostar divisa in due settori (Mostar est sotto
controllo musulmano e Mostar ovest sotto quello croato); riconoscimento da parte della Croazia
dell'autorità della Bosnia sulla minoranza croata nel suo territorio; unione politica ed economica;
trasferimento di alcuni poteri dal governo di Sarajevo alla nuova federazione.
Non si può gioire per il parziale risultato. Intanto perché era il più facile da raggiungere e poi
perché lo stesso Tudjman aveva dato ordine, due giorni prima, a 750 soldati della Brigata tigre, la
sua truppa d'élite, di marciare verso la Slavonia orientale. E contemporaneamente aveva lanciato un
ultimatum: «O la contesa sulla Slavonia verrà risolta diplomaticamente entro novembre, o la
riprenderemo con la forza».
Doveva essere una manovra tattica e provocatoria se il 12 novembre, quasi all'improvviso, da
Erdut, cittadina nell'area contesa, arriva la notizia di un'intesa raggiunta e sottoscritta da Milan
Milanovic per i serbi e da Hrvoje Sarinic per i croati.
La regione sarà pacificamente reintegrata nel sistema costituzionale croato. Questo dopo un
periodo transitorio di un anno (e prolungabile di altri dodici mesi) durante il quale verrà istituita
un'amministrazione internazionale con il compito di riportare alla normalità la situazione. L'area sarà
smilitarizzata e verrà garantito il ritorno dei profughi.
Resta il nodo più duro da sciogliere: la Bosnia. Dal 15 novembre, il tam tam che si diffonde
attorno alla base dà per imminente la conclusione. In realtà gli scogli da superare sono ancora molti.
Izetbegovic deve far digerire alla sua gente la perdita, anche negoziale, di Srebrenica e Žepa. Il
ministro degli Esteri di Sarajevo, Sačirbej, incontra per caso i giornalisti in uno dei mediocri fast
food di Dayton e afferma sibillino: «Una cattiva pace è meglio della guerra». I serbi dal canto loro
premono perché siano meglio definite le mappe dei corridoi di collegamento del loro territorio e del
ventilato sbocco al mare.
Dopo molto tergiversare, il dipartimento di stato americano fissa un'ora limite: le 10 del 20
novembre, prendere o lasciare: «Hanno avuto abbastanza tempo per discutere. Ora basta. O si
mettono d'accordo per quell'ora oppure si romperà la trattativa».
Tudjman, che era tornato a Zagabria, rientra in fretta e furia nell'Ohio: «Se non ci fossero alte
probabilità di un accordo non mi avrebbero richiamato».
Alle 10 la base, almeno vista dall'esterno, sembra deserta.
Alle 11, i giornalisti che bivaccano sulla collina di fronte, scorgono Izetbegovic e SilajdŽic che
passeggiano avanti e indietro su un vialetto scuotendo la testa. Christopher e Holbrooke decidono di
proseguire oltre il tempo limite e di andare ai supplementari: non vogliono ammettere un fallimento
difficile da digerire dall'America e soprattutto dal suo presidente. Per tre volte si annuncia un
accordo e per tre volte slitta. Un diplomatico: «allucinante. Appena si mettono d'accordo su qualcosa
e si passa a un altro problema sospeso, arriva qualcuno che dice di non essere più d'accordo su
quanto accettato cinque minuti prima». Il sassolino che rischia di far saltare l'ingranaggio riguarda il
cosiddetto corridoio della Posavina o corridoio di Brčko. Accodandosi a Izetbegovic, anche
Tudjman s'impunta: lo vuole sotto il controllo della federazione croato-musulmana. Per i serbi quel
passaggio è vitale: collega i loro territori. E' mezzanotte quando uno stremato Christopher telefona a
Bill Clinton pregandolo di far pressioni su Tudjman. E' la svolta. O meglio, Tudjman accetta
(unitamente a MiloSevic) che la questione venga demandata a un arbitrato internazionale tripartito
(serbi, musulmani ed europei). A questo punto finisce sulle spalle di Izetbegovic il peso di far fallire
ventun giorni di estenuanti negoziati. Le spalle del vecchio musulmano sono troppo gracili per
sopportare tanto carico e capitola.
La mattina del 22 novembre, quando nessuno ci sperava più, un raggiante Bill Clinton annuncia al
mondo: «E' la pace. I popoli della Bosnia hanno finalmente la possibilità di passare dagli orrori
della guerra alle speranze della pace».
Quattro ore e mezzo dopo, nella sala conferenze dell'Hope hotel, i tre presidenti siglano un trattato
che sarà ratificato a Parigi il successivo 14 dicembre (anche gli europei vogliono la loro fetta di
gloria). Si stringono una volta sola la mano senza mai rivolgersi la parola. Izetbegovic al suo popolo:
«Questa non è una pace giusta, ma è meglio della continuazione della guerra. In queste condizioni
internazionali non era possibile ottenere di più». MiloSevic: «Nessuno deve rimpiangere le
concessioni, anche penose, che ha dovuto fare». Tudjman: «Siamo riusciti laddove tutti pensavano
che avremmo fallito».
I punti salienti dell'accordo (165 pagine, 12 annessi e 102 carte topografiche). La Bosnia sarà uno
stato unitario nei suoi confini riconosciuti, tuttavia sarà costituita da due «entità»: la Federazione
croato-musulmana (51 per cento del territorio) e la Repubblica serba (49 per cento): entrambe le
«entità» avranno diritto a formare un loro esercito. La Bosnia avrà un governo centrale, una
presidenza collegiale, un parlamento (con due camere), una banca centrale, una moneta unica e una
Corte costituzionale. La capitale, Sarajevo, sarà riunificata dopo la rimozione di tutti gli ostacoli che
bloccano l'accesso. Anche i quartieri serbi e l'aeroporto rientreranno sotto l'autorità del governo
centrale. Nessun criminale di guerra (leggi KaradŽic e Mladic) sarà autorizzato a svolgere una
funzione pubblica, né civile, né nell'esercito. I profughi potranno tornare nelle loro case e spostarsi
liberamente. Un corridoio terrestre collegherà l'enclave musulmana di GoraŽde con il resto della
federazione.
Una forza internazionale (Ifor) di 60 mila uomini (20 mila americani) garantirà il rispetto degli
impegni.
In Bosnia arrivano i soldati dell'Occidente. Almeno in una prima fase gli abitanti traslocano per
andare ad abitare nella zona in cui la loro etnia è maggioritaria (la tendenza si sta lentamente
invertendo solo ora, dopo cinque anni). Nelle successive libere elezioni i partiti etnici continueranno
ad avere la maggioranza.
Quarta parte (Croazia 1995)
La riconquista della Krajina (di Alessandro Marzo Magno)

Lampo Quando, venerdì 4 agosto 1995, alle cinque del mattino, le artiglierie croate aprono il
fuoco lungo i 700 chilometri di confine tra la Croazia e la Republika Srpska Krajina, ormai i giochi
sono fatti. I croati sanno che la riconquista di quel 27 per cento di territorio sottratto al controllo di
Zagabria nel 1991 (in realtà si tratta ormai del 22 per cento, 10 mila chilometri quadrati, perché una
fetta di Slavonia orientale è stata riconquistata in maggio, mentre Vukovar tornerà alla Croazia nel
gennaio 1998 in modo pacifico) si risolverà in poco più di una passeggiata militare (anche se
descritta dai media di Zagabria come una delle più perfette imprese d'armi mai avvenute nella
storia). Così è: le attività di quella che diventerà nota come operazione Oluja (Tempesta) durano tre
giorni. Il 7 sera, alle 18, il ministro della Difesa croato, Gojko SuSak, dichiara conclusa Oluja. I
croati tornano a Knin, la capitale, e a Petrinja; l'autoproclamata Repubblica dei serbi di Krajina non
esiste più; il suo presidente, Milan Martic, è scomparso. Si mormora che si sia suicidato o che sia
stato ammazzato dai suoi stessi uomini mentre stava per imbarcarsi in un elicottero per fuggire.
Invece, ricomparirà per mezzo di un appello radiofonico alcuni giorni dopo. Oggi, pare, vive a
Belgrado dimenticato da tutti. Decine di migliaia di profughi serbi, che nei giorni successivi
diventeranno 180 mila, fuggono dai territori che abitano da secoli, lasciandoli così vuoti e pronti per
la ricolonizzazione croata.
I croati sanno che Slobodan MiloSevic non interverrà. La Serbia non si muove, vuoi perché Franjo
Tudjman e il suo dirimpettaio belgradese si sono messi d'accordo, come molti sospettano e come
molti indizi lasciano supporre, anche se manca una conferma decisiva; vuoi perché MiloSevic
intende giocare fino in fondo la parte che si è ritagliata in questo periodo, quella di colomba dei
Balcani, per far sì che vengano ritirate le sanzioni internazionali contro la federazione
serbomontenegrina, in scadenza un paio di mesi più tardi, a ottobre. Ma una cosa è sicura: se
Belgrado fosse intervenuta con quel che restava dell'Armata popolare jugoslava in soccorso dei
«fratelli serbi» di Krajina, le cose sarebbero andate diversamente. Invece, Belgrado manda soltanto
ingenti forze a presidiare Vukovar che i croati, al momento, non mostrano di voler conquistare.
E già in questo si possono leggere alcune tracce del supposto accordo tra i due satrapi balcanici:
MiloSevic fa sfilare i carri armati per Belgrado e li manda platealmente in Slavonia orientale, in una
manifestazione di forza tanto ostentata quanto sostanzialmente inutile; Tudjman tuona a parole su
Vukovar, ma nessuna concreta forza croata viene mandata in direzione del capoluogo slavone.
MiloSevic sacrifica la Krajina per tenersi Vukovar. quanto lo si sarebbe saputo qualche giorno più
tardi lascia intendere Tudjman con uno schizzo eseguito sul menu di un pranzo ufficiale a Londra, il 6
maggio, ovvero qualche giorno dopo l'operazione Bljesak (Lampo) con la quale i croati hanno
riconquistato Pakrac e parte della Slavonia orientale.
A Londra si festeggia il «V Day», ovvero il cinquantesimo anniversario della vittoria degli Alleati
nella Seconda guerra mondiale. Tudjman siede accanto al leader dei liberali britannici, Paddy
Ashdown. Prende una penna e disegna sul menu con tanto di stemma reale una specie di patata (la
Bosnia) divisa da una grande esse: il nuovo confine. La parte a nord, con Srebrenica e Žepa, è
destinata alla Serbia; quella a sud, con l'Erzegovina, Sarajevo e la popolazione musulmana, alla
Croazia.
Vukovar viene assegnata alla Serbia. Se questa partizione sia un'idea di Tudjman o il frutto di un
accordo segreto con Belgrado, non lo si saprà mai. L'unica cosa certa è che Zagabria non ne ha mai
smentito i contenuti. A posteriori, Hrvoje Sarinic, braccio destro e capo di gabinetto di Tudjman,
scriverà: «Il menu su cui Tudjman ha fatto uno schizzo per spiegare a dei diplomatici dilettanti la
frontiera sui cui si confrontano due civilizzazioni, è stata interpretata in malafede come la prova delle
teorie sulla spartizione della Bosnia» (H. Sarinic, Svi moji tajni pregovori sa Slobodanom
MiloSevicem). In ogni caso, Paddy Ashdown si porta a casa il menu e lo tira fuori e rende pubblico
solo il 7 agosto, quando ciò che sta accadendo in Krajina sembra corrispondere del tutto a quanto
disegnato da Tudjman tre mesi prima.
Gli indizi, tuttavia, sono anche altri. Quando, il Primo maggio, i croati lanciano l'offensiva
«Lampo» in Slavonia, la tv di Belgrado manda in onda un programma in cui si vedono allegri
contadini che ballano il kolo (tipica danza serba) e cuociono carne allo spiedo. Il patriarca Pavle va
da MiloSevic a chiedergli che cosa stia succedendo e se la Serbia non abbia intenzione di aiutare i
suoi fratelli. «Tutto sta andando secondo i piani» risponde il presidente serbo. In agosto Martic si
lamenterà che Belgrado non l'ha avvisato dell'inizio dell'attacco croato, tanto che per poco le truppe
di Zagabria non lo sorprendevano nel sonno. «Si tratta evidentemente» dichiara a NaSa Borba «di
una vergognosa regia, pianificata a Belgrado, secondo la quale il territorio viene semplicemente
abbandonato alla Croazia» (Djukic, Kraj srpske bajke). Una dichiarazione di segno contrario è quella
dell'ambasciatore jugoslavo all'Onu che l'8 agosto afferma: «Posso assicurare che il mio governo non
ha fatto alcun patto con Zagabria e non ne farà». Patto o non patto, è certo che Sarinic, tra il 1993 e il
1995 è stato tredici volte a Belgrado. Secondo quanto da lui testimoniato, MiloSevic gli avrebbe
detto, a proposito della Krajina: «Alla fine riceverete tutto. Ma avete troppa fretta!».
Ma per capire bene cosa accade nell'agosto 1995, bisogna andare un po' indietro nel tempo.
Alcune limitate operazioni militari croate in Krajina (nell'entroterra dalmata) c'erano state già nel
gennaio e settembre 1993: i croati avevano avuto la meglio, ma non si trattava di guadagni
sostanziali. In effetti, come i vertici di Zagabria avrebbero rivelato dopo l'operazione Oluja, è nel
1994 che si comincia seriamente a pensare e a preparare un'azione militare per riprendersi la Krajina
con la forza.
L'incarico di redigere i piani è affidato a colonnelli e generali quarantenni, meno incrostati di
vecchie tattiche militari del Patto di Varsavia.
Alcuni fatti creano le precondizioni ideali. Per esempio nella Slavonia orientale, nella zona di
Osijek, gli erzegovesi (la potente lobby proveniente dall'Erzegovina il cui massimo esponente è il
ministro della Difesa, Gojko SuSak) hanno messo in piedi un fiorente e redditizio contrabbando di
carburante con i serbi di Bosnia. Il che lascia supporre che gli uomini di Radovan KaradŽic non si
danneranno troppo per aiutare i loro «fratelli serbi» di Croazia (e infatti così sarà).
Inoltre, sul fronte interno, la primavera del 1994 vede la spaccatura dell'Hdz: l'ala moderata se ne
va. Lasciano il presidente della camera delle contee, Josip Manolic, e il presidente del Parlamento
nonché cofondatore dell'Hdz, quello Stipe Mesic, l'ultimo presidente federale jugoslavo che
succederà, cinque anni dopo, a Franjo Tudjman. Ma a quest'ultimo, in questa fase, l'episodio fa solo
gioco: può condurre il paese alla guerra senza fastidiosi moderati tra i piedi.
Il 24 maggio 1994 si verifica un primo, significativo, irrigidimento di Zagabria. Già nel 1992 sono
stati aperti un ufficio di rappresentanza serbo a Zagabria e uno croato a Belgrado, uffici che
funzionano regolarmente nonostante la tensione tra i due paesi e che sono profeticamente stati istituiti
anche per «permettere il volontario trasferimento delle popolazioni dei rispettivi territori». Il
trasferimento non sarà volontario, ma ci sarà. In ogni caso, quel giorno di maggio Veljko KneŽevic,
rappresentante serbo a Zagabria, invita a Belgrado il ministro degli Esteri croato, Mate Granic. Ma
questi gli risponde a muso duro, replicando che prima la Serbia deve riconoscere la Krajina come
parte integrante dello stato croato.
Il presidente Tudjman rincara la dose lanciando un ultimatum: via dalla Krajina entro quattro mesi
altrimenti la Croazia intraprenderà «tutte le iniziative che le competono in quanto stato sovrano». Il
29 marzo è stata firmata una tregua tra Zagabria e Knin, capitale dell'autoproclamata Republika
Srpska Krajina, per un disimpegno delle reciproche forze: croati e serbi sarebbero dovuti arretrare
di due chilometri dalla linea di confine, già presidiata dai caschi blu dell'Onu. Arretramento che
invece non avverrà mai; anche i serbi di Krajina si irrigidiscono affermando che non tratteranno più,
a meno che Zagabria non riconosca Knin.
A luglio scatta una nuova fase della preparazione del paese al confronto militare. Il quotidiano
Slobodna Dalmacija, ormai tudjmanizzato, pubblica un sondaggio dal quale risulta che il 25,7 per
cento dei croati è favorevole alla guerra per la riconquista della Krajina, che il 38,1 vuole una
soluzione politica, mentre il 28 per cento opta per un mix tra le due soluzioni (e quindi non esclude il
ricorso alle armi). Inoltre, il 46 per cento si dice convinto di una vittoria croata, mentre il 33,6
vaticina una sconfitta dell'esercito della scacchiera.
In quegli stessi giorni, Ivica Račan, leader socialdemocratico e futuro premier del dopo Tudjman,
denuncia la preparazione di una campagna anti-Unprofor. L'affermazione di Račan diventa realtà
nella notte tra il 19 e il 20 luglio quando, alle due, un gruppo di civili assale alcuni caschi blu nei
pressi di Traù (Trogir), in Dalmazia. Rimangono gravemente feriti tre soldati Onu e un civile,
quest'ultimo colpito da un poliziotto croato intervenuto sparando per difendere un casco blu finito a
terra.
Intanto, le associazioni dei profughi croati della Krajina organizzano il blocco dei 21 posti di
controllo dell'Onu tra la Croazia e la Krajina secessionista. Il 22 luglio il premier croato, Nikita
Valentic, lancia un appello perché siano tolti i blocchi. Il 26 gli replica, da Osijek, l'Associazione dei
rifugiati: i blocchi rimarranno almeno fino ai primi d'agosto.
L'azione ispira i serbi, che fanno lo stesso attorno a Bihac. A fine mese solo nove blocchi
risulteranno tolti.
Sempre il 26, il presidente Tudjman è sull'isola di Puntadura (Vir), al largo di Zara, per assistere a
delle esercitazioni militari. Da là lancia un proclama: «L'esercito croato è pronto a ristabilire
l'autorità di Zagabria fino all'ultimo fazzoletto di terra croata. Oggi la Croazia non è più sola: ha
alleati e amici». I più importanti sono la Germania e gli Usa: da loro, o grazie alla loro benevolenza,
affluiscono le armi necessarie a rendere credibili i soldati della scacchiera (ma non solo: tanto per
fare un esempio, le nuove kune, che il 30 maggio 1993 sostituiscono l'inflazionato dinaro croato
entrato in vigore nel dicembre 1991, sono interamente stampate e coniate in Germania).
In agosto si muove il Consiglio di sicurezza dell'Onu. Il giorno 11 accusa il governo croato di
sostenere i blocchi, minaccia di ritirare il contingente Unprofor, dichiara inammissibile il blocco e
inaccettabile la richiesta di Zagabria all'Onu di pagare per l'utilizzo delle strade e dell'aeroporto di
Zagabria. Valentic si limita a rammaricarsi per la dichiarazione inopportuna del Consiglio di
sicurezza (e non per i blocchi).
L'estate passa e si avvicina il 31 marzo 1995, data in cui scade il mandato dell'Unprofor. A metà
dicembre 1994 un segnale in apparenza distensivo: viene riaperto un tratto dell'autostrada della
«fratellanza e dell'unità» tra Zagabria e Belgrado. Ora si può andare da Popovac a Lipovac (dai
cartelli stradali croati è scomparsa la parola «Belgrado», in quelli della Serbia è rimasto
«Zagabria»). E proprio quella strada percorre Tudjman il 23 dicembre per andare a Osijek, ma il
discorso tenuto nella città che esattamente tre anni prima è stata semidistrutta dai serbi, non è per
nulla distensivo: «Se non riusciremo a riportare i territori occupati della Krajina sotto la sovranità
croata, porremo termine al mandato Unprofor e dovremo affrontare una guerra di liberazione».
Verso metà gennaio il settimanale Globus dà la notizia di due arresti avvenuti a New York
all'incirca un mese prima. I poliziotti americani hanno messo le manette a Jadranko Sinkovic, 41 anni,
giornalista, ex consigliere di Tudjman per i mass media e a SaSa Oric, 31, sospettato di aver
partecipato due anni prima al furto di libri antichi e di manoscritti nella biblioteca di Zagabria. Ma
non è per contrabbando di opere d'arte che vanno in galera: l'accusa parla di riciclaggio di denaro e
acquisto di armi. I due hanno la disponibilità di due milioni e mezzo di dollari per acquistare missili
antiaereo portatili Stinger e missili anticarro filoguidati Tow2. E, secondo quanto dichiarato dai
faccendieri, i quattrini sarebbero arrivati da una banca irlandese in contanti e in una valigia.
Probabilmente diplomatica. Ma non si tratta che di un incidente sulla via del rifornimento d'armi. In
realtà, arriva di tutto e da diverse direzioni. Sulla pista dell'aeroporto di Veglia (Krk) si vedono
spesso Antonov da carico ucraini: che portino armi non è un mistero per nessuno. Il blocco navale
viene aggirato grazie ai numerosi e discreti piccoli porti della Dalmazia e a triangolazioni con l'Italia
e l'Albania. Il quotidiano Le Figaro il 15 marzo scrive che per tutto l'inverno, ogni giorno, sono
entrati dall'Ungheria dai 50 ai 60 missili Neva e Luna di fabbricazione russa. Dalla Germania, via
Austria e Ungheria; da Singapore, via Albania, arrivano componenti elettroniche in grado di
attrezzare per la visione notturna i carri armati fabbricati a Djure Djakovic, a est di Zagabria. Un
mercantile ucraino fa la spola tra Odessa e l'Adriatico, dalle sue stive vengono scaricati elicotteri
d'attacco Mi24 Hint: otto per i croati e quattro per i serbi. Gli ultimi rifornimenti di armi datano 10
aprile, quando mancano venti giorni all'operazione Bljesak: si tratta di diecimila pistole Beretta che
arrivano da Malta, mentre dall'Austria giungono fucili d'assalto Heckler und Koch e pistole Glock.
Ma le forniture che segnano l'inizio della campagna militare non riguardano le armi, bensì il
materiale sanitario, soprattutto i flaconi di plasma, difficili da conservare. Alla fine d'aprile questo
materiale arriva da Germania e Russia.
Nel frattempo, però, non cessa l'offensiva diplomatica contro la presenza e l'azione dell'Onu. Il
vicesegretario di stato americano, Richard Holbrooke, dichiara, tanto perché Zagabria abbia le idee
chiare, che il mancato rinnovo del mandato ai caschi blu è «una minaccia agli interessi americani».
La dichiarazione arriva proprio mentre si prepara in segreto la riconquista della Krajina, con l'avallo
Usa e con la partecipazione diretta di un gruppo di alti ufficiali statunitensi in pensione i quali,
benché si trovino ufficialmente a Zagabria come privati cittadini, non potrebbero mai essere là senza
l'okay del dipartimento di stato. Si tratta di appartenenti a una delle cosiddette Pmc (Private Military
Company), per la precisione la più importante e articolata, ovvero la Mpri (Military Professional
Resources Inc.) di Alexandria, Virginia.
La Mpri negherà con insistenza ogni suo coinvolgimento in Croazia (e anche in Bosnia), ma è
proprio grazie all'addestramento impartito dagli ex ufficiali dell'Us Army che i militari croati
passano dalle tattiche sovietiche dello scontro frontale (ancora presenti nei manuali serbi) a quelle
Nato di attacchi ai fianchi e aggiramenti per tagliare le comunicazioni tra le varie postazioni. Inoltre
viene sempre, deliberatamente, lasciata aperta una via di fuga. I tiri intensi di artiglierie vengono
usati solo per supportare gli attacchi a Petrinja e Knin, nelle altre zone gli obici giocano un ruolo
minore. Sono anche queste tattiche che contribuiscono alle facili e veloci vittorie delle truppe di
Zagabria in maggio e, soprattutto, in agosto. I
«consiglieri militari» americani non intervengono mai personalmente in battaglia e non sono mai
armati. «Nessuno ha mai portato un'arma mentre era nel Mpri» afferma al Christian Science Monitor
Harry Soyster, tenente generale della riserva, ex capo della Dia (Defence Intelligence Agency),
nonché portavoce della società di consulenza militare. Resta il fatto che l'addestramento avanzato
permesso dal patrimonio di conoscenze di questi ex ufficiali è più importante di un treno di
artiglierie.
Intanto, il 22 marzo è a Zagabria il ministro degli Esteri italiano, Susanna Agnelli, che ribadisce il
punto di vista di Holbrooke. Tudjman sembra cedere e accetta il ridispiegamento delle truppe Onu: il
contingente diminuisce a dodicimila uomini e cambia nome: da Unprofor (United Nations Protection
Force) diventa Uncro (United Nations Confidence Restoration in Croatia). Il mandato ha un termine
ravvicinato: il 15 gennaio 1996, ma l'Economist può scrivere: «La buona notizia è che la nuova
guerra di Croazia che avrebbe dovuto cominciare il primo aprile è stata cancellata». In realtà è stata
solo rimandata. Di un mese.
La Croazia, per la verità, ha le sue buone ragioni per contestare la presenza dell'Onu. I caschi blu
erano stati schierati nel 1991 come forza d'interposizione tra i croati e i secessionisti serbi, ma il
dispiegamento era avvenuto all'interno della Croazia stessa, come una sorta di suggello
all'autoproclamata, e non riconosciuta da nessuno, Repubblica serba di Krajina. Invano nei
successivi quattro anni Zagabria aveva chiesto che vi fosse una qualche forma di dispiegamento di
truppe Onu ai confini internazionali della Croazia affinché non venisse sancita con questa presenza
quella che appariva, e di fatto era, la divisione del paese. Il timore era che si creasse una replica
della situazione cipriota, dove la secessione della Repubblica turco-cipriota nel Nord dell'isola è
riconosciuta solo dalla Turchia, ma è suggellata dalla presenza di soldati Onu ai confini tra la parte
greca e quella turca dell'isola.
L'offensiva Bljesak comincia lunedì primo maggio: aerei e carri armati di Zagabria vengono
lanciati contro l'autostrada E 70 tra Nova GradiSka e Okučani: l'attacco ha successo e l'importante
arteria stradale viene ripresa. Le truppe croate si dirigono anche verso Jasenovac, la località sede
del famigerato lager ustascia durante la Seconda guerra mondiale, e Stara GradiSka.
Anche in questi casi gli obiettivi sono raggiunti. La reazione serba è limitata e scomposta: la
contraerea abbatte un aereo e un elicottero croati, mentre le artiglierie serbe bombardano Karlovac,
la raffineria di Sisak e i dintorni di Dubrovnik.
Inoltre, un centinaio di caschi blu viene preso in ostaggio.
Ancora una volta il prezzo più pesante è quello pagato dalle popolazioni civili: almeno cinquemila
serbi di Croazia abbandonano subito la zona delle operazioni militari e si riversano come profughi in
Bosnia (il numero è destinato a crescere nei giorni successivi). lo stesso esercito di Belgrado a
spingere la gente ad andarsene, a lasciare vuota la sacca che i croati stanno riconquistando. Martedì
2 maggio tornano in mani croate le città di Jasenovac, Pakrac e Okučani e quest'ultimo è l'obiettivo
strategico più importante: Okučani è la porta di Vukovar e fu uno dei primi centri a cadere nel 1991.
La sua riconquista significa che la Croazia non è più divisa in tre parti, ma solo in due. Pakrac passa
di mano incruentemente: Stefan HarambaSic, comandante della LI brigata dell'esercito serbo si
arrende con 600 uomini, le armi vengono consegnate in ventiquattr'ore. Il sindaco Orad Ivanovic e il
vice sindaco Željko DŽakula, si consegnano ai croati dichiarando che il governo di Zagabria avrebbe
garantito la loro incolumità.
Il 3 maggio è il giorno della reazione dei serbi di Krajina, ma l'azione si rivelerà del tutto inutile
dal punto di vista militare e dannosa dal punto di vista dell'immagine: fornirà infatti a Zagabria un
inatteso e utilissimo strumento di propaganda. mezzogiorno e dieci quando una pioggia di undici
missili Orkan si abbatte sulla capitale croata. Il bilancio delle vittime sarà di un morto e 43 feriti. Il
morto è un artificiere che tenta di disinnescare un ordigno a frammentazione (cluster bomb) rilasciato
da un missile. Tra i feriti ci sono anche alcuni militari russi e ucraini del contingente Onu: si
trovavano nell'aeroporto di PleSo, alle porte di Zagabria, che funge da base per i caschi blu, colpito
da un missile. Un altro missile centra l'Accademia delle arti e vi ferisce 21 persone.
Altri missili cadono vicino alle ambasciate di Stati Uniti e Italia e all'ospedale militare. Le
immagini di Zagabria bombardata fanno il giro del mondo e suscitano scalpore nell'opinione
pubblica. Da una parte c'è un'offensiva condotta in località scarsamente popolate, già devastate dalla
guerra quattro anni prima e che dal punto di vista del diritto internazionale appartengono
indubitabilmente alla Croazia; dall'altra c'è una città indifesa bombardata all'ora di pranzo. Da una
parte non ci sono telecamere e le notizie delle efferatezze commesse filtreranno solo mesi dopo,
dall'altra tutto rimbalza sui media internazionali. Facile quindi capire da che parte si schieri
l'opinione pubblica, magari anche aiutata da dichiarazioni tipo quelle rilasciate dall'ambasciatore
degli Stati Uniti a Zagabria, Peter Galbraith: «Il bombardamento aveva il solo scopo di uccidere
quante più persone possibile». Il ministro della Difesa, Gojko SuSak, tuona: «Se un solo proiettile
tornerà a colpire Zagabria sarà anche l'ultimo». Il lancio di questi missili di fatto si risolve come un
favore a Tudjman che può con maggiore facilità accreditare l'idea di una Croazia con i barbari alle
porte. E mentre i serbi maneggiano la propria immagine come un boomerang, i croati si rivelano
molto più accorti. Per scatenare l'offensiva hanno scelto il momento giusto: hanno rinnovato il
mandato dell'Onu assumendo credibilità sul piano internazionale e hanno aspettato la fine della tregua
in Bosnia in modo che tutta l'attenzione fosse puntata su Sarajevo.
I serbi di Krajina appaiono dilaniati da lotte intestine e in uno stato di estrema confusione
sottolineata proprio dall'episodio del bombardamento di Zagabria. Borislav Mikelic, il premier,
vicino alla colomba MiloSevic, dice di non sapere nulla dell'attacco missilistico. Milan Martic, il
presidente, vicino al falco KaradŽic, si felicita per il bombardamento e più tardi dirà a Yasushi
Akashi, inviato speciale nei Balcani del segretario generale dell'Onu, di esser stato egli stesso a dare
l'ordine. Da registrare un'ulteriore posizione, quella di Slobodan Jarčevic, ministro per
l'Informazione della Repubblica serba di Krajina: dai microfoni della belgradese Radio B92 afferma
che i croati si sono bombardati da soli. Mikelic e Martic, in ogni caso, si vedono recapitare una
lettera di Galbraith il quale scrive che se gli interessi americani verranno di nuovo presi di mira, ci
saranno gravi conseguenze.
Quale sia l'atteggiamento di Belgrado nei confronti dei «fratelli serbi» di Krajina lo si capisce dal
fatto che radio e tv danno solo in seconda serata e per pochi secondi la notizia dell'offensiva che
invece è in apertura dei media di mezzo mondo.
La notizia del bombardamento di Zagabria viene fornita, ma senza specificare da dove
provenissero i missili. Slobodan MiloSevic continua a fare il moderato, mentre Zoran Djindjic, che
dal 1997 sarà uno dei capi dell'opposizione democratica (e nel 2001 diventerà presidente del primo
governo democratico serbo), in questo periodo punta sul nazionalismo più acceso rivolgendo un
appello «a tutti i patrioti serbi del mondo» perché prendano le armi per difendere le Krajine. Il 4
maggio Radovan KaradŽic va a Knin e dichiara che è pronto a usare «tutti i mezzi possibili» per
riconquistare i territori a nord della Sava. Ma alle parole non corrispondono i fatti: i serbi di Bosnia
non coprono i «fratelli» di Krajina in ritirata su un ponte sulla Sava; inoltre lungo i 200 chilometri di
confine tra la Croazia e la Bosnia sotto controllo serbo non c'è alcuna reazione, se si escludono i
pochi colpi di mortaio caduti vicino a Dubrovnik.
Il 4 maggio, alle 14, i 200 serbi che non si sono arresi nella zona di Pakrac lanciano una
controffensiva: sparano 30 granate in 15 minuti, ma in serata lo slancio sembra essersi esaurito.
Intanto i croati danno l'impressione di voler scatenare un'offensiva generale anche nella Krajina
meridionale: un migliaio di soldati penetra nella zona di Gospic, 180 chilometri a sud di Zagabria, e
altrettanti si dirigono verso Knin. In questo momento sembra solo una manovra diversiva, ma quei
soldati si installano nelle teste di ponte da cui sarà lanciata l'offensiva del successivo agosto. Attorno
a Knin serbi e croati si scambiano colpi di artiglieria e il giorno dopo, il 5, l'inviato dell'Onu Akashi
va nella capitale dell'autoproclamata repubblica dei serbi di Krajina per incontrarsi con il premier
Mikelic, ma la sua visita si risolve con un nulla di fatto. E qualche tempo dopo Martic sconfesserà
Mikelic dicendo che non ha alcun mandato per trattare. I croati hanno sul campo poco più di 4000
uomini: 1000 vanno verso Knin, 1200 penetrano nella zona cuscinetto vicino a Osijek, 900 entrano
nella zona di Glina, da cui sono partiti i missili che hanno colpito Zagabria, e infine 1000 vanno
verso Gospic. Il 5 i croati attaccano in direzione di Brčko. La Francia, che detiene la presidenza
dell'Unione europea, non perde l'occasione per manifestare la sua vicinanza ai serbi invocando
un'azione punitiva internazionale verso la Croazia; in assenza di una punizione, Parigi minaccia il
ritiro del proprio contingente di caschi blu.
L'azione croata si rivela un successo anche sul fronte interno: un sondaggio rivela che il 96,5 per
cento della popolazione è d'accordo con l'offensiva e a far prendere questa posizione contribuisce il
basso costo umano. Le fonti ufficiali croate parlano di 33 morti e 28 feriti propri, contro 350-400
morti e 1200 feriti serbi. Da parte serba non verranno fornite cifre ufficiali.
I serbi di Knin decidono di firmare un accordo di cessate il fuoco, dopo ventiquattr'ore viene meno
ogni resistenza, le armi vengono consegnate ai caschi blu argentini e le truppe Onu in ostaggio
liberate. Cominciano ad arrivare le prime notizie di gravi violazioni dei diritti umani. Il 5 maggio
Chris Guinnes, il portavoce Onu a Zagabria, esprime «disappunto e rabbia» perché le truppe croate
«violano il cessate il fuoco», eseguono «operazioni di pulizia etnica», trasferiscono prigionieri senza
la supervisione dei caschi blu, operano in stato di «manifesta ubriachezza». L'ambasciatore
britannico all'Onu denuncia «sistematici saccheggi», il Consiglio di sicurezza esprime «profonda
preoccupazione per le notizie di violazione dei diritti umani delle popolazioni serbe». Ma come i
serbi di Knin, anche le istituzioni internazionali appaiono divise. Nel pomeriggio dello stesso giorno
il francese George Reaumont, portavoce della missione di monitoraggio dell'Unione europea,
smentisce l'Onu e dice che tutto si svolge nel rispetto dei diritti umani. Il colonnello croato Mate
LauSic fornisce i numeri dei prigionieri serbi: 520 sono detenuti a Bjelovar, 400 a VaraŽdin, 110 a
PoŽega e in serata (siamo sempre al 5 maggio) 70 serbi sono liberati vicino a Pakrac sotto la
supervisione della Croce rossa.
Akashi si incontra con il ministro degli Interni croato, Ivan Jarnjak, e si dichiara «soddisfatto».
I profughi serbi dalle zone riconquistate dalle truppe di Zagabria sono tra i 7 e i 10 mila; oltre
3000, provenienti dalla Baranja e dalla Slavonia orientale sono evacuati con i camion dopo esser
stati concentrati a est di Osijek. L'esodo non è privo di difficoltà e difatti di sangue: si contano 30
morti fra le colonne di serbi in fuga. L'Onu accusa i croati di aver fatto il tiro al bersaglio, questi
ribattono dicendo che si è trattato di vittime del tiro incrociato in battaglia. Yasushi Akashi ottiene
dal governo croato l'impegno a ritirare le proprie truppe dalla fascia di interposizione con la Krajina,
in teoria controllata dai caschi blu. L'annuncio viene dato a Zagabria l'8 maggio e a Pakrac il capo di
stato maggiore dell'esercito croato, Zvonimir červenko, afferma che i militari saranno ritirati e
sostituiti con forze di polizia. Ma, più o meno nelle stesse ore a Ogulin, 70 chilometri a sud di
Zagabria, un centinaio di militari croati entra nella zona di interposizione. L'offensiva di maggio
infiamma il nazionalismo croato che Tudjman e la sua Hdz cavalcano con successo. Mentre suscitano
scarso interesse gli scioperi e le dimostrazioni programmati contro le normative sul lavoro, secondo
un sondaggio del settimanale Globus, il consenso a Tudjman, che prima delle operazioni militari era
al 36,5 per cento, passa al 60 per cento. L'intenzione di voto per l'Hdz schizza dal 32 per cento al
48,1 per cento. Gli spazi per l'opposizione, già in precedenza non molto vasti, ora si riducono assai
di più. Chiunque osi dissentire dalla linea ufficiale di un Tudjman sempre più «presidentissimo»
viene tacciato di essere un traditore della patria e uno «jugonostalgico».
Maggio non è ancora finito quando si cominciano a porre le basi dell'offensiva del successivo
agosto: nuove truppe croate vengono spostate verso Gospic e sui monti Dinara, a sudest di Knin; in
agosto le truppe di Zagabria si troveranno a soli 20 chilometri dalla capitale della Repubblica serba
di Krajina. Un'altra mossa, politica questa volta, sarà quella del 23 luglio, quando Tudjman e
Izetbegovic si incontrano a Spalato e suggellano un'alleanza, stabilendo che truppe croate aiuteranno i
bosniaci a contrastare l'incalzante offensiva serba su Bihac.
******
Richard Holbrooke Non è affatto d'accordo con la concezione kissingeriana, secondo cui la
diplomazia è una partita a scacchi. Per Richard Holbrooke, la diplomazia è come il jazz,
«improvvisazioni sul tema», ha dichiarato una volta. L'Economist, recensendo il suo To End a War,
ha definito Holbrooke «il Quentin Tarantino della diplomazia». In effetti, nel palcoscenico dei
Balcani, ha sempre avuto un ruolo da protagonista.
Forse era destino. Nato a New York il 24 aprile 1941, Richard Holbrooke si ritrovò a Sarajevo
nell'estate del 1960, in uno di quei viaggi da globetrotter che i giovani americani compiono prima di
affrontare la vita lavorativa. Andò sul luogo dove fu assassinato l'erede al trono d'Austria-Ungheria,
Francesco Ferdinando, il 28 giugno 1914. Qualcuno gli tradusse una lapide: «Qui Gavrilo Prinčip
tirò il primo colpo per la libertà della Serbia». «Come?» si domandò il giovane americano «non c'è
studente di college che non sappia che da qui è cominciato il precipitare dell'Europa in due guerre
mondiali con le conseguenti ascese di comunismo e fascismo. E poi, cos'è la "libertà della Serbia",
uno stato che nemmeno esiste più?» Benevenuto nei Balcani, Richard.
Holbrooke entrò nel dipartimento di stato nel 1962, dopo essersi laureato alla Brown University.
Si ritrovò immediatamente in Vietnam. Alternò la diplomazia attiva agli studi, nel 1970 fu direttore
del Corpo di pace in Marocco e nel 1977, fu nominato dal presidente Jimmy Carter assistente
segretario di stato per l'Asia orientale e il Pacifico. Ambasciatore in Germania nel 1993, nel 1994 il
presidente Bill Clinton lo nominò assistente segretario di stato per l'Europa e il Canada. In quella
posizione, fu il capo negoziatore degli accordi di Dayton, nel novembre 1995. Dopo Dayton e prima
del Kosovo, Holbrooke si dedicò soprattutto alla sua attività di vice presidente della Credit Suisse
First Boston, una banca d'affari di New York. Clinton lo richiamò e lo nominò inviato speciale in
Bosnia e Kosovo.
Holbrooke negoziò con MiloSevic l'accordo dell'ottobre 1988 sul Kosovo e fu lui a portare a
Belgrado l'ultimatum del 23 marzo 1999, prima dell'inizio dei bombardamenti Nato. Dal 5 agosto
1999
è stato ambasciatore Usa all'Onu.

Tempesta Il prologo delle operazioni di Oluja avviene quattro giorni prima dell'inizio vero e
proprio dell'offensiva, ovvero il 30 luglio, domenica, quando, i croati, aiutati dall'Hvo, l'esercito dei
croati di Bosnia Erzegovina, conquistano due centri abitati bosniaci dai quali è possibile colpire
Knin con le artiglierie.
Si tratta di Bosansko Grahovo e Glamoč; inoltre, da qui, i croati sono in grado di chiudere la
strada che unisce Knin agli altri territori controllati dai serbi. Una piccola conquista la cui
fondamentale importanza strategica non sfugge a KaradŽic e Mladic che chiedono subito aiuto a
Belgrado. Ma MiloSevic fa finta di niente, limitandosi a parole di circostanza. KaradŽic capisce
l'antifona e ritira 1300 uomini da Bihac per tentare la riconquista di Grahovo e Glamoč. Il
comandante dell'esercito serbobosniaco, il generale Mladic, afferma che «Zagabria ha commesso un
grave errore impadronendosi di Grahovo e Glamoč e la pagherà molto cara». La rinconquista non
avverrà, ma intanto si allenta la tensione su Bihac da dove, secondo una dichiarazione di Akashi, i
serbi di Krajina si sono impegnati a ritirarsi, accettando il controllo di osservatori schierati tra
Croazia e Bosnia. Akashi, dopo esser stato a Knin, vola a Brioni dove il presidente croato Tudjman
si trova in vacanza, per poi annunciare un accordo. Un annuncio che sembra un azzardo alla luce
delle condizioni poste da Zagabria: trattative al massimo livello e alle proprie condizioni, altrimenti
«è possibile qualsiasi altra opzione». Sostanzialmente Zagabria chiede il ripristino della sovranità
croata sulla Krajina. Anche il mediatore europeo, Thorvald Stoltenberg si sente dare una risposta a
muso duro da Sarinic, il capo della delegazione croata alla conferenza di pace, che incontra a
Zagabria. «Noi siamo disposti a trattare, ma dobbiamo avere garanzie che non si negozierà solo per
guadagnare tempo» afferma Sarinic. Intanto in Krajina vengono decretati il coprifuoco dalle 20 alle 3
e la mobilitazione generale anche per gli uomini sopra i 55 anni. Il portavoce dell'Onu conferma che
sia i serbi sia i croati stanno ammassando uomini lungo la zona cuscinetto controllata dai caschi blu.
A Brela si incontrano il ministro degli Esteri croato, Mate Granic, e quello bosniaco, Muhamed
Sačirbej. «La nostra attività nella zona di Bihac» dichiara «dipenderà dalla situazione. Non
permetteremo che vengano colpiti gli interessi vitali della Croazia, ma nemmeno quelli della Bosnia
Erzegovina.» Il giorno successivo, lunedì 31 luglio, l'ambasciatore russo a Zagabria mette in guardia
Tudjman dalle «possibili pesanti conseguenze» di un intervento croato. Intanto 10 mila croati sono
ammassati tra Grahovo e Glamoč (da dove sono fuggiti 20 mila profughi) e le loro artiglierie aprono
il fuoco, bombardano il villaggio di Strmica, a dieci chilometri da Knin.
Tudjman tronca qualsiasi tentativo di far riallacciare il dialogo. Afferma di non voler trattare con
Martic «che è nella lista dei ricercati dell'Aja» e chiede ai serbi di accettare l'immediata
applicazione della costituzione croata e di riaprire l'oleodotto adriatico. Solo a questa condizione si
possono intavolare trattative per la riapertura di strade e ferrovie. Gli Stati Uniti approvano quello
che definiscono «appoggio croato alla Bosnia», mentre a Spalato si incontrano Granic, Sačirbej e il
loro omologo iraniano, Alì Akbar Velayati.
Il ministro degli Esteri di Teheran si vede sottoporre una «lista della spesa» di armi e rifornimenti.
Il pessimismo regna sovrano martedì primo agosto. Akashi, dopo aver annunciato tanti accordi mai
rispettati, stavolta proclama che la Croazia è pronta ad attaccare. Due giorni dopo è previsto un
incontro a Ginevra tra i croati, i serbi di Krajina e Stoltenberg, ma non è definita neanche l'agenda e
non si sa a che livello saranno le delegazioni. «Sta aumentando il pericolo di una guerra totale»
dichiara Akashi. Sul fronte militare si registra un intenso bombardamento di Gospic da parte delle
artiglierie serbe (molti danni, ma nessuna vittima), mentre tre cacciabombardieri Jastreb decollano
da Udbina, nella Krajina serba e bombardano Grahovo e Glamoč. Si tratta di una palese violazione
della no-fly-zone, ma nessun aereo Nato interviene. Ci sono alcuni movimenti di generali: a Knin
arrivano Slobodan Tarbuk, già conquistatore di Petrinja, e BoSko Kelečevic, già comandante di una
sezione del controspionaggio militare della Jna. Lo stesso giorno, nel sultanato del Brunei, si tiene il
vertice dell'Asean, l'Associazione dei paesi del Sudest asiatico.
Anche là si parla di ex Jugoslavia. Il segretario di stato americano, Warren Christopher, si dichiara
scettico sul piano del mediatore europeo Carl Bildt, mentre il ministro degli Esteri russo, Andrej
Kozyrev, si dichiara favorevole. «C'è il rischio di iniziative unilaterali che possono portare al
fallimento della mediazione internazionale» dice il capo della diplomazia del Cremlino.
Il 2 agosto l'ambasciatore degli Stati Uniti a Zagabria, Peter Galbraith, incontra Milan Babic, gli
esprime la preoccupazione di Washington e lo invita a firmare un accordo in cinque punti per fermare
i croati. Gli americani non convincono Babic che non si è del resto lasciato convincere nemmeno da
MiloSevic, il quale ormai da un anno invita i serbi di Krajina a trovare un accordo con Zagabria che
si dice pronta a concedere loro l'autonomia in cambio del ristabilimento della propria sovranità.
Martic si è rifiutato di negoziare, ritenendo che, al momento del dunque, MiloSevic non abbandonerà
i «fratelli» di Krajina.
Calcolo sbagliato: MiloSevic non si muoverà. Intanto appare sempre più chiaro cosa vogliono fare
i croati: «Il vostro tempo sta per finire» dice Petar PaSic, il responsabile per la Krajina del governo
croato, rivolgendosi ai serbi. L'Onu comunica che 20 mila soldati croati sono concentrati a Sunja (80
chilometri a sudest di Zagabria), dove allestiscono piazzole per gli elicotteri. Continuano i tiri delle
artiglierie. Nella notte si muove un convoglio di ben 700 camion. Intanto la mobilitazione diventa uno
strumento politico: si diffonde la notizia che la sera precedente si è presentato in caserma Damir
Kajin, vice presidente della Dieta democratica istriana e presidente del Consiglio regionale
dell'Istria, la sola regione dove il partito di Tudjman non ha la maggioranza. stato l'unico politico
croato di spicco a vedersi recapitare la cartolina precetto. Uguale onore tocca a Rodolfo Segnan,
caporedattore (carica che equivale a direttore) del quotidiano della minoranza italiana che si stampa
a Fiume, La voce del popolo. Segnan, invece, non è l'unico giornalista mobilitato: due anni prima era
arrivata la cartolina a Viktor Ivančic, capo redattore del giornale satirico di Spalato Feral Tribune
che aveva pubblicato in prima pagina un fotomontaggio con Tudjman e MiloSevic nudi che si
abbracciavano in un letto. In ogni caso in tutta la Croazia si susseguono i rastrellamenti di uomini in
età di leva: la polizia perquisisce case, locali pubblici, alberghi; ai posti di frontiera gli uomini
vengono rimandati indietro.
Il 3 agosto, un giovedì, è il giorno dell'incontro di Ginevra.
L'unico che sembra crederci è il mediatore Stoltenberg. «Siamo vicini a un accordo» osserva «non
è ancora formalizzato, ma è a portata di mano.» Il ministro degli Esteri della Rsk, Milivoj Vojnovic,
dice di accettare il piano della comunità internazionale, mentre i croati minimizzano definendo i passi
fatti «insignificanti». Il segretario generale delle Nazioni unite, Boutros Boutros Ghali, dice che la
guerra è «imminente».
Lufthansa, Swissair e Austrian Airways sospendono i voli su Zagabria.
I croati non vogliono cedere su nulla, sanno che la Krajina tornerà sotto la sovranità di Zagabria.
Sono sicuri di vincere perché sanno di avere una sostanziale superiorità negli armamenti e nella
tattica; dai satelliti Usa arrivano significative immagini delle posizioni serbe; Echelon, il «grande
orecchio», fornisce le intercettazioni delle comunicazioni; piccoli aerei Usa da ricognizione
radiocomandati decollano da una base sull'isola di Brazza (Brač).
Dai tempi di Lampo, in maggio, sono affluiti nuovi armamenti: provengono dagli arsenali
dell'Armata rossa nell'ex Germania Est; proprio da pochi giorni sono arrivati alcuni aerei con le
mimetizzazioni usate dalla defunta Ddr. Le forze in campo, insomma, danno ragione a Zagabria. Ma
c'è di più. Il 15 maggio, all'indomani dell'operazione Lampo, il generale comandante dei serbi di
Krajina, Milan čeleketic, protesta per il mancato soccorso ai serbi di Slavonia e si dimette.
Immediatamente da Belgrado arriva il secondo generale più anziano dell'Armata jugoslava, Mile
MrkSic, che si insedia a Knin portando con sé alti ufficiali dell'esercito jugoslavo che sostituiscono i
vari comandanti di settore. L'ordine di Belgrado è di rendere la difesa «più flessibile». A Glina e
Petrova ci sono le basi missilistiche, ma i codici d'accesso li hanno soltanto gli uomini mandati da
MiloSevic e li fanno sparire. Un solo comandante non viene sostituito, quello di Glina e forse non è
del tutto casuale che i croati proprio a Glina trovino l'unica seria sacca di resistenza serba. Altri
generali scappano prima dell'offensiva, come Milan Stupar, comandante dei reparti speciali a Slunj,
o Slobodan Tarbuk, capo del settore della Banja. Da parte dei caschi blu non c'è da attendersi alcun
intervento. All'indomani di Lampo un alto responsabile dell'Onu aveva dichiarato: «Certamente noi
non fermeremo i croati. Non è quello che ci è richiesto di fare, così come non fermeremo i serbi con
la forza».
A Ginevra si capisce che deve essere guerra. Un altro segnale significativo è il rientro a Zagabria,
la sera del 3 agosto, di Franjo Tudjman che si trovava in vacanza sull'isola di Brioni, nell'ex
residenza di Tito. I croati mettono in campo 25 brigate, per un totale di 200 mila uomini. Di questi,
80 mila sono soldati e ufficiali già alle armi, mentre 120 mila vengono mobilitati nei giorni
precedenti. I serbi di Knin non arrivano nemmeno alla metà di quelle forze. Il generale MrkSic,
infatti, ritiene che 37 mila uomini siano sufficienti per tenere le posizioni. All'ultimo momento
vengono mobilitati altri 50 mila uomini, ma solo dai 5 ai 10 mila sono nella fascia d'età più adatta al
combattimento ben 20 mila sono o troppo giovani o troppo vecchi. Sarinic dirà di aver
personalmente avvisato i diplomatici stranieri il giorno prima dell'inizio delle operazioni precisando
che sarebbero durate pochi giorni (H. Sarinic, op. cit.).
Nella notte tra il 3 e il 4 agosto interi plotoni di commando vengono infiltrati alle spalle dei serbi
nei diversi settori della Krajina. Il loro primo compito è quello di neutralizzare le artiglierie
nemiche: all'alba, quando Oluja prenderà il via in grande stile, dovranno assalire i serbi alle spalle,
in modo da disorientarli e rendere meno efficace la loro difesa. Il gruppo che agisce a Plitvice è
comandato da Ivica Sanka, originario di Novalja, capoluogo dell'isola dalmata di Pago (Pag). Di lui
probabilmente non si sarebbe saputo mai nulla se i giornali, il 14 settembre, non avessero pubblicato
la notizia del suo funerale, celebrato sull'isola, al quale partecipa una folla di cinquemila persone.
Nessun giornale aveva dato la notizia della sua scomparsa: solo attraverso le centinaia di necrologi
si sarebbe capita l'importanza del personaggio. Sanka muore in un incidente, del quale mai saranno
ufficialmente chiarite le cause, lungo l'autostrada Zagabria-Karlovac. Al polso porta un orologio
regalo personale di Franjo Tudjman. Con lui in auto c'è una misteriosa Irena O. che poi si saprà
essere gravemente ferita, ma che non risulta ricoverata in alcun ospedale.
Ma torniamo alla notte di venerdì 4 agosto. Alle tre duemila pezzi d'artiglieria sono pronti a far
fuoco lungo i 700 chilometri di confine tra la Croazia e la Repubblica serba di Krajina. Alle quattro
le forze di pace Onu vengono avvisate che sta per iniziare un'operazione militare e di polizia per
«ristabilire la costituzione, la legge e l'ordine». Per un'ora non accade nulla. Alle cinque comincia
l'operazione Oluja. Il bombardamento dura 40 minuti; i carri armati e le mitragliatrici sparano sui
campi minati per far saltare gli ordigni e contro le barriere di filo spinato per spezzarle. I croati
penetrano in 30 punti diversi. Un attacco aereo mette fuori uso i ripetitori radio e tv serbi a čelavac.
Il primo giorno la profondità della penetrazione croata varia dai 5 ai 15 chilometri, Sveti Rok è
liberata e Knin circondata. Un funzionario Onu riferisce che nella capitale dei serbi di Krajina cade
una granata ogni 15 secondi. Claus Gamborg, militare danese di 23 anni in forza al contingente
Uncro, è ucciso da un tank croato dalle parti di Petrinja. Il generale Bernard Janvier, comandante dei
caschi blu in Croazia, afferma che il soldato è stato ammazzato «dopo che si era rifiutato di cedere
una posizione controllata dall'Onu». Due militari polacchi dell'Uncro restano feriti. In effetti le
postazioni delle truppe Onu, bianche, e circondate da sacchetti di sabbia bianchi, appariranno
bucherellate e del tutto travolte dalla furia delle armi. Verso sera il portavoce del ministero della
Difesa croato, Ivo Toljč, annuncia che «la prima giornata dell'offensiva si è conclusa come previsto»
e che sono stati presi 750 prigionieri serbi. Il ministro degli Esteri, Mate Granic, invita i turisti
stranieri a restare in Dalmazia e a non intasare le strade. Appello inascoltato: sull'isola di Pago si
forma una coda lunga 15 chilometri di turisti in attesa di prendere il traghetto (il ponte di Maslenica,
alle spalle di Zara, è ancora interrotto).

Dalle sei del mattino la radio croata manda in onda ogni quarto d'ora un proclama del presidente
Tudjman. «Siamo stati costretti ad attaccare dato che gli estremisti serbi, fin dall'inizio della rivolta e
ancora oggi, chiedono aiuto a quello che è rimasto del fascismo italiano, offrendo la spartizione del
territorio croato tra imperialismo italiano e serbo». Le agenzie internazionali diffondono una foto che
ritrae lo stesso Tudjman con addosso una ridicola divisa bianca da cartoni animati, piena di cordoni
dorati, di decorazioni, di simboli croati, in un atteggiamento che l'Economist, pubblicando
l'immagine, suggellerà con la didascalia: «Napoleon Tudjman». La frase sull'imperialismo italiano
andata in onda 96 volte in un solo giorno suscita immediate reazioni in Istria, dove getta nella
costernazione gli appartenenti alla minoranza italiana, e a Roma.
L'ambasciatore italiano a Zagabria, Paolo Pensa, è incaricato di chiedere spiegazioni al governo
croato. Ma il presidente del Consiglio, Lamberto Dini, getta acqua su fuoco: «Sono eccessi verbali e
non dobbiamo dare eccessivo peso a tali dichiarazioni». E DuSko Paravic, ministro consigliere
dell'ambasciata croata, si affretta a precisare che Tudjman non si riferiva alla Repubblica italiana e
alla sua politica ufficiale. In effetti, si erano verificati in precedenza alcuni episodi inquietanti:
l'ideologo del nazionalismo serbo, Dobrica čosic, aveva parlato di Dalmazia italiana, i serbi di Knin
avevano dichiarato che avrebbero dato l'Istria all'Italia, una volta conquistatala ai croati; un ex
parlamentare socialista, il senatore Arduino Agnelli, docente di storia all'Università di Trieste, ed
esponente di punta della lobby filoserba, era stato in visita a Knin dove aveva ricevuto
un'onorificenza, esponenti del governo di Knin erano stati invitati a Trieste dai dirigenti locali di
Alleanza nazionale, in quel momento partito di governo. Il viaggio era stato bloccato dal presidente
di An, Gianfranco Fini, su pressione del ministro degli Esteri, Antonio Martino. Nei giorni
precedenti Tempesta, Milan Martic aveva dichiarato a Fausto Biloslavo, del Giornale, che il confine
tra l'Italia e la Repubblica di Krajina sarebbe passato per Zara «città troppo bella per essere
lasciata ai croati» e che sarebbe stata metà serba e metà italiana.
Le reazioni internazionali all'attacco croato sono diversificate.
William Perry, segretario alla Difesa americano, se ne esce con un sincero: «Speriamo che abbia
successo». Da Bonn giunge una condanna blanda e generica. Akashi esprime «rincrescimento». Le
reazioni più dure vengono dal mediatore europeo, Carl Bildt, e da Mosca. Il primo parla di
deferimento di Tudjman al Tribunale internazionale dell'Aja, così come era stato incriminato Milan
Martic all'indomani dell'attacco missilistico di maggio su Zagabria; il governo croato dichiarerà
Bildt persona non grata. Una nota del ministero degli Esteri russo afferma che «Zagabria è incline a
una soluzione militare e non politica e in tal modo viola una serie di risoluzioni del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni unite». MiloSevic, da Belgrado, fa il pompiere: «In questo momento bisogna
innanzi tutto prevenire l'escalation dei combattimenti». Il leader ultranazionalista serbo Vojislav
SeSelj, da poco uscito dal carcere, chiede invece «l'occupazione di Osijek e il bombardamento di
Zagabria».
A giudizio di David Owen, Milan Martic ci ha messo del suo, e molto, per trovarsi con i carri
armati croati sulla porta di casa: ha bloccato l'accordo economico con la Croazia, ha messo da parte
Mikelic e quindi si è allontanato da MiloSevic, ha mollato Pakrac senza reagire, ha attaccato Bihac
in luglio senza accordarsi con i serbi di Bosnia, quando era chiaro che Tudjman aspettava solo un
pretesto per scaraventare le sue forze in Krajina. Il quotidiano Washington Times rivela che gli Stati
Uniti avrebbero premuto su Tudjman perché scatenasse l'offensiva quanto prima, in modo da
alleggerire la pressione serba sulla Bosnia.
Intanto la situazione sul campo volge sempre di più a favore dei croati. Sabato 5 agosto mattina
Petrinja è accerchiata. A mezzogiorno Radio Zagabria annuncia la resa di Knin. L'Onu conferma.
Alan Balfour, maggiore dei caschi blu, comunica: «Qui sono rimasti solo i morti e i moribondi. I
croati ci hanno garantito che non entreranno nella nostra sede». Ma poi 200 soldati dell'Onu verranno
catturati. I croati occupano anche Benkovac e l'entroterra dalmata e ormai hanno il pieno controllo
delle tre direttrici viarie più importanti della regione: l'80 per cento del piano è già realizzato. Alle
15, i croati si ricongiungono ai bosniaci del V corpo d'armata: su un ponte sul fiume Korana il
comandante del V, Atif Dudakovic, e il generale croato Ante Markovic, si stringono la mano. I soldati
della scacchiera aprono il fuoco contro una posizione Onu tenuta da militari cechi, ne feriscono
cinque e due moriranno dissanguati perché i croati ne impediscono l'evacuazione.
Dai serbi di Bosnia non giunge nessun aiuto ai «fratelli» di Krajina. Radovan KaradŽic destituisce
Ratko Mladic, che solo un mese prima aveva personalmente diretto il massacro di Srebrenica, e
assume il comando delle forze armate. Franjo Tudjman, invece, alla sera si concede un bagno di folla
in piazza Jelačic, a Zagabria. Il presidente Usa, Bill Clinton, non sembra preoccuparsi più di tanto.
«L'offensiva croata può essere utile per la risoluzione del conflitto e può contribuire a rendere più
malleabili i serbobosniaci.» Una nota del ministero degli Esteri russo si scaglia contro «la pratica
barbara adottata da ambo le parti di prendere in ostaggio militari delle Nazioni unite». L'agenzia
serbobosniaca Srna parla di un colonna di profughi lunga 20 chilometri che si dirige dalla Krajina
verso la Bosnia.
Il 6 agosto, domenica, al mattino presto cade Petrinja, cadono anche Plitvice e Udbina, con il suo
aeroporto militare, mentre c'è ancora resistenza attorno a Glina e TopuSko. Tudjman e il ministro
della Difesa, SuSak, nel pomeriggio vanno a Knin in elicottero, mentre il ministro degli Esteri, Mate
Granic, incontra a Ginevra il ministro degli Esteri spagnolo, Javier Solana, presidente di turno
dell'Unione europea. Granic esclude ogni ripresa delle trattative con i leader della Krajina sconfitti. I
serbi catturano e tengono in ostaggio 17 caschi blu (7 indonesiani, 5 danesi, 3 giordani e 3 ucraini)
nella zona di TopuSko. L'Onu accusa Zagabria di essersi servita dei caschi blu come scudi umani e il
governo danese protesta con Zagabria per l'uccisione del proprio soldato. E i militari Onu presenti a
Knin denunciano il saccheggio da parte dei croati: «Cinque zone della città sono in fiamme. Abbiamo
informazioni su cadaveri che giacciono in mezzo alla strada e gli edifici sono molto danneggiati».
Truppe jugoslave cominciano a muoversi da Belgrado in direzione della Slavonia.
Un fiume di profughi sta abbandonando la Krajina. Alla guerra guerreggiata si affianca la solita
guerra delle cifre: i croati parlano di 80 mila profughi, David Owen di 150 mila, Giacomo Scotti nel
suo libro di 200-300 mila, Sonja Biserko, del Comitato di Helsinki per i diritti umani di Belgrado, di
250 mila. A parere di Pierre Jambor, responsabile per la Croazia dell'Unhcr, i profughi sono 200
mila; secondo Amnesty International 180 mila e 9000 i serbi rimasti nella Krajina riconquistata dai
croati. Alcune centinaia di questi 9000 (5000, secondo Scotti), tutti anziani o molto anziani, saranno
ammazzate nei mesi successivi da gruppi di croati, in divisa o in borghese. Il Comitato croato di
Helsinki parla di 3000 serbi morti durante e dopo Oluja, in massima parte civili. Sulla strada che da
Banja Luka va verso Jajce i profughi formano una colonna lunga 40 chilometri. Si ammassano sul
ponte di Sremska Bača, sulla Sava, dove i petulanti controlli della polizia serba sono di una lentezza
esasperante. Il punto è che Belgrado non li vuol far vedere ai propri cittadini; già a maggio i profughi
di Pakrac erano stati trasferiti di notte in modo da non essere notati da troppi occhi. Un'ulteriore
sacca di profughi è ammassata nell'area di TopuSko, l'ultima a cadere in mano croata. «E' una
situazione seria, ci sono 15 mila persone per le quali non abbiamo né riparo né alimenti» fa sapere
James Kanu, portavoce Onu a TopuSko.
L'ambasciatore americano a Zagabria, Galbraith, espone una tesi quantomeno ardita: non si
tratterebbe di pulizia etnica, ma di fuga.
Nessuno, secondo lui, avrebbe obbligato i serbi ad andarsene, anzi Tudjman nel discorso diffuso
dalla radio, li invitava a restare.
Diverso il parere dell'editorialista Charles Krauthammer che scrive sul Washington Post: «O c'è un
solo criterio morale per definire la pulizia etnica o non ce n'è nessuno. Non ce ne possono essere
due».
A Belgrado SeSelj ulula che MiloSevic e la «strega rossa» (la moglie Mira Markovic) dovrebbero
essere impiccati per il tradimento dei «fratelli serbi» della Krajina (il che non impedirà, che poi
SeSelj diventi vice di MiloSevic). I media ufficiali jugoslavi, invece, mettono la sordina: Radio
Serbia e tv Belgrado per ventiquattr'ore non danno la notizia della caduta di Knin, ma parlano
soltanto di «attacco croato» e di «abbandono della città da parte di militari e civili». Il che, più di
ogni altra indicazione, la dice lunga sul basso profilo che MiloSevic ha deciso di tenere sulla
vicenda. Intanto a Zagabria il cardinale Franjo Kuharic tuona che «l'operazione Oluja riveste i
caratteri di una guerra giusta».
Giovanni Paolo II, nell'Angelus pronunciato dalla residenza estiva di Castel Gandolfo, si riferisce
così agli eventi bellici: «Devo, purtroppo, condividere anche oggi con voi la mia profonda
preoccupazione di fronte ai tragici sviluppi della situazione in Croazia e in Bosnia Erzegovina. Si
sperava che gli ultimi negoziati di Ginevra avrebbero consentito di costruire dei ponti sul cammino
della pace. Purtroppo la parola è tornata alle armi». Il giorno successivo solo il Večernji List
riprende l'Angelus, mentre gli altri giornali censurano il papa, a cominciare dal Glas Concilia,
organo della chiesa cattolica croata. Significativo sarà, in settembre, un articolo di fondo firmato da
don Živko Kustic: «Se i nostri nemici sono peggiori di noi, perché pretendete da noi di essere
migliori di loro?».
Lunedì 7 sera, Gojko SuSak annuncia la fine di Oluja e fornisce anche le cifre ufficiali delle
perdite croate: 118 morti e 620 feriti. Cifre che saranno corrette in alto: un sito internet ufficioso
«Dossier Storm», non più aggiornato dall'agosto 1995, parla di 174 morti e 1430 feriti, cifra che
collima con quella che sarà fornita dal ministro degli Esteri, Mate Granic (174 morti e 1400 feriti).
In realtà, i combattimenti non cessano del tutto la sera del 7 agosto. La mattina di quel giorno era
stata violata la tregua in precedenza concordata tra serbi e croati. Alcuni aerei serbi, partiti forse da
Banja Luka, visto che l'aeroporto militare di Udbina è stato conquistato dai croati, bombardano le
raffinerie di Kutina e Nova GradiSka provocando danni di non grande portata. Zagabria quindi
dichiara nullo l'accordo di resa tra Croazia e Republika Srpska Krajina mediato dall'Onu. E
l'imminenza della fine delle operazioni belliche non impedisce a reparti della polizia croata di
aggredire e disarmare i caschi blu kenyoti di stanza a Gračac e di cercare di trascinarli a Sebenico
(Sibenik), salvo poi lasciar perdere.
Nella stessa conferenza stampa in cui annuncia la fine delle operazioni militari, il ministro SuSak
smentisce la presenza di ufficiali stranieri sul campo, ma conferma che le truppe della scacchiera si
sono avvalse della presenza di consiglieri militari in pensione dell'esercito americano. E poi
dichiara: «Se non ci fosse stata l'offensiva di Bihac, la Croazia avrebbe pazientato ancora.
L'azione su Knin è stata decisa dieci giorni fa. Dopo la caduta di Srebrenica e Žepa, non potevamo
permettere anche la disfatta di Bihac». Anche il segretario di stato Usa, Warren Christopher, lega
l'offensiva croata alla pressione serbobosniaca su Bihac. «Noi non volevamo» sostiene con la Abc
«che succedesse quello che è successo. Ma forse i fatti nuovi possono creare una nuova situazione
strategica che potrebbe dimostrarsi positiva.» E SuSak rivela che in novembre Usa e Croazia hanno
sottoscritto un accordo di cooperazione militare. «Non ci hanno dato via libera (gli Usa), ma hanno
offerto la loro comprensione alla nostra preoccupazione di aiutare Bihac.» Nello stesso momento in
cui il ministro della Difesa croato pronuncia queste parole, centomila persone sono accampate fuori
Banja Luka. Una colonna di profughi viene bersagliata da colpi di artiglieria.
Il 9 agosto, mercoledì, c'è da registrare un tentativo di mediazione da parte del presidente russo
Boris Eltsin che convoca un vertice a Mosca. Ma non invita il presidente bosniaco, Alija
Izetbegovic, e Tudjman, che probabilmente non ha alcuna voglia di scendere a patti dopo la vittoria e
tantomeno con la mediazione dei russi amici dei serbi, coglie la palla al balzo e dice che nemmeno
lui ci andrà. Così, a Mosca arriva il solo Slobodan MiloSevic.
Intanto le truppe di Belgrado portano a termine lo schieramento in Slavonia orientale attorno a
Vukovar e Vinkovci, stabilendo un comando comune tra l'Armata e i secessionisti serbi della regione.
Da New York, Mario Nobilio, ambasciatore croato all'Onu, dichiara che Zagabria non attaccherà la
Slavonia orientale. Ormai da un paio di giorni è stata resa pubblica la famosa «piantina della
spartizione» disegnata in maggio da Tudjman a Londra sul menu di Ashdown, dove la Slavonia
orientale è assegnata alla Serbia. Tutto corrisponde. solo un caso?
Mercoledì è anche il giorno dell'accordo tra Akashi e Sarinic per far transitare i profughi lungo
l'autostrada. Anche qui, ancora una volta, si registra una comunità d'intenti tra Tudjman e MiloSevic e
ancora una volta non si sa se sia casuale o frutto di un accordo.
Qualche giorno prima Paolo Rumiz aveva scritto sul Piccolo: «Questa non è una guerra, serve a
"ripulire" i territori, non a conquistarli.
E allora anche annunciare le offensive serve a far fuggire la gente».
Giovedì 10 agosto gli ultimi seimila serbi del XXI corpo d'armata si arrendono attorno a Glina e
TopuSko. Resta solo una sacca di resistenza a Banija. Anche l'informazione esige la sua vittima: è
John Scoefield, giornalista della Bbc, ucciso dai croati mentre con tre colleghi riprende un villaggio
in fiamme tra Karlovac e Bihac. I croati dichiarano di aver scambiato la telecamera per un'arma. Il
risultato è che la Krajina viene sigillata ai giornalisti stranieri (facilitando il lavoro di chi commette
efferatezze) e da quel giorno ci possono andare solo con pullman organizzati dall'esercito che
partono dall'hotel Intercontinental di Zagabria, che si fermano a Karlovac per il pranzo e dove un
ufficiale prende il microfono e dà il benvenuto a bordo. Nonostante i giornalisti vengano scarrozzati
in questa sorta di gite ufficiali, possono però rendersi conto di alcune cose. Per esempio che la fuga
dei serbi benché improvvisa (nelle case abbandonate ci sono le tazzine mezzo piene e le tavole
apparecchiate con i piatti con la minestra dentro) non sembra essere avvenuta sotto l'incalzare
dell'offensiva croata (non ci sono segni di colpi d'arma da fuoco sui muri). La netta impressione è che
qualcuno sia passato per le case incitando ad andarsene. E infatti, più tardi, arriveranno le conferme.
Un ufficiale della Difesa territoriale serba, intervistato da Paolo Rumiz sul Piccolo, dichiara che la
gente ha cominciato a scappare già giovedì sera, prima, cioè dell'inizio dell'offensiva croata.
Dichiara che i croati hanno lasciato aperte vie di fuga e che al loro arrivo hanno trovato i villaggi già
vuoti. Ci sono anche altre testimonianze dalle quali risulta che in alcuni posti i serbi hanno lasciato le
trincee e sono andati alle loro case per portare via i familiari. In alcune località i militari avrebbero
invitato la popolazione a fuggire, dicendo di non essere in grado di difenderla.
Lo stesso ufficiale afferma anche che, a suo parere, Knin è stata cannoneggiata a salve perché è
impossibile che le duemila granate ufficialmente cadute abbiano provocato così pochi danni: solo
alcuni edifici di importanza militare o strategica sono stati demoliti, il resto di Knin è
sostanzialmente intatto. Gli osservatori militari Onu stilano un rapporto preciso: a Knin i
bombardamenti hanno gravemente danneggiato solo 21 edifici e provocato danni minori ad altri 23.
Dopo l'entrata dei croati in città, gli edifici gravemente danneggiati saliranno a 24 (quelli
lievemente danneggiati resteranno 23).
I giornalisti che entrano in Krajina tre, quattro, cinque giorni dopo la fine dell'offensiva, vedono
ancora le case bruciare.
L'avanzata ha lasciato quasi intonso il patrimonio abitativo, a dare fuoco alle abitazioni,
evidentemente, non sono state le azioni militari, ma le bande di saccheggiatori, in divisa o meno, che
commetteranno anche un gran numero di omicidi. Qualche tempo dopo, il presidente (croato) della
provincia di Zara-Knin dirà: «Nelle aree rurali, purtroppo, l'intero patrimonio abitativo è andato
distrutto e non è mia intenzione esaminare modalità e cause di queste distruzioni». Il rapporto stilato
da Amnesty due anni più tardi parla di cinquemila edifici bruciati, del 73 per cento degli edifici del
settore sud totalmente o parzialmente distrutto, segno che la maggior parte dei danni non è stata
causata durante Tempesta, ma dopo. I responsabili dei primi saccheggi sono alcuni militari della
quarta e settima brigata dell'esercito croato, seguiti nei giorni successivi dalla polizia e dalle forze
speciali di polizia. In parecchie occasioni gli osservatori internazionali vedono soldati al volante di
auto senza targhe stracariche di beni saccheggiati nelle case e nei negozi. Talvolta sono gli stessi
profughi croati a denunciare la situazione: tornano alle loro case abbandonate quattro anni prima e le
trovano la prima volta intatte, la seconda saccheggiate, la terza incendiate. E' accaduto che i
saccheggiatori (croati) non si siano fermati neppure davanti alla presenza fisica dei proprietari
(croati). Le uniche case che si salvano almeno dalla distruzione completa sono quelle dove qualcuno
scrive con la vernice Hrvatska kuča (casa croata) o che sono state confiscate dai militari (che la
confisca sia poi legale è tutt'altra questione).
Prima della guerra nell'ex jugoslavia, la Krajina aveva 400 mila abitanti. Circa la metà, ovvero i
croati, ne era stata scacciata nel 1991; nel 1995 se ne vanno anche gli altri. Prima della guerra il 12
per cento della popolazione della Croazia era costituita da serbi.
Per Tudjman è accettabile una proporzione pari al 6 per cento, la metà: con Oluja quel risultato è
raggiunto. Secondo Amnesty International, come già detto, i profughi assommano a 180 mila, i serbi
rimasti sono circa 9000. Il peggio, per loro, arriverà nei mesi successivi, con sparizioni, torture,
stupri, sistematici incendi delle case, che sembrano far parte di un preciso programma. La conferma
arriva da un'intervista rilasciata nel dicembre 2000 al quotidiano zagabrese Politika da Martin
Spegelj, già ministro della Difesa croato ai tempi dell'indipendenza. Spegelj afferma che il suo
successore SuSak spesso diceva che «se si bruciano le case dei serbi, questi non sapranno più dove
tornare».
Nel novembre 1995 il personale Onu documenta la morte di 200 persone, per la maggior parte
civili. Žarko Puhovski, del Comitato croato di Helsinki, alla fine del 2000 parla di 267 serbi uccisi o
dispersi durante Oluja (Limes, «I Balcani senza MiloSevic»).
A parere di Amnesty queste cifre sono troppo basse, l'organizzazione per la tutela dei diritti umani
documenta dei casi non registrati dalle Nazioni unite. Per esempio quello delle sorelle Andja e
Droginja DrogaS, presumibilmente uccise nel settembre 1995 nel villaggio di Dronjci, vicino a Knin,
che non risultano negli elenchi Onu. Per questo omicidio è finito sotto processo un ufficiale di polizia
croato. Il Comitato internazionale della Croce rossa, all'inizio del 1998, ha un elenco di 700 serbi di
cui le famiglie chiedono informazioni perché scomparsi durante e dopo Tempesta. Il Comitato croato
di Helsinki per i diritti umani ha pubblicato un elenco di 141 persone di cui non si hanno più notizie,
alcune delle quali viste per l'ultima volta nelle mani delle autorità croate. I processi, nei rari casi in
cui si sono tenuti, si sono risolti in farsa. Uno dei casi più clamorosi è quello di una donna di
Korenica violentata, il cui stupratore è stato assolto in primo grado con la motivazione che un atto di
sodomia non poteva, secondo il giudice, considerarsi stupro. L'uomo è stato poi condannato in
secondo grado a Zara. Alla fine del 1998 le autorità croate hanno fornito la cifra di 2349 imputati per
reati commessi nella Krajina dopo la riconquista. Ma solo il 2 per cento era chiamato a rispondere di
omicidio: 22 indagati, 33 già sotto processo e un solo condannato.
Gli organismi per la tutela dei diritti umani chiedevano che il reato ascritto fosse omicidio
semplice e non «crimini di guerra contro la popolazione civile» anche perché si stava sviluppando
una giurisprudenza quantomeno originale: Milan Vukovic, presidente della Corte suprema, aveva
stabilito che i croati non potevano per definizione aver commesso crimini di guerra perché stavano
difendendo la loro patria. Secondo la Commissione Onu per i diritti umani erano stati intentati 5580
procedimenti legali per fatti avvenuti in Krajina. Milorad Pupovac, presidente del Forum
democratico serbo, l'organizzazione dei serbi di Croazia, fornisce, alla fine del 2000, le seguenti
cifre: indagini in corso su duemila casi (su episodi relativi al 1992, 1993, 1995), 120 detenuti in
attesa di giudizio o con procedimento in corso, 62 condanne di primo grado, 15 condanne confermate
dalla Corte suprema, ma passibili di impugnazione davanti alla Corte costituzionale.
In ogni caso, con il passare dei giorni, le notizie di abusi, stupri, saccheggi, assassini, incendi
dolosi, cominciano a filtrare sulla stampa internazionale: gli osservatori dell'Onu rilevano che a
Roknica, dove non c'è stato alcun combattimento, il 90 per cento delle case è bruciato.
Il 18 agosto il portavoce del comando Onu di Zagabria, Chris Guinnes, tiene una conferenza
stampa in cui parla di atrocità commesse dai croati in Krajina, di fosse comuni, esecuzioni sommarie,
mutilazioni, saccheggi; denuncia che agli osservatori Onu è stato impedito l'accesso in alcune zone,
che attorno a loro si è instaurato un clima di aperta ostilità e che sono stati fatti segno di diversi
attacchi. Accadono fatti al limite del ridicolo, come quando, il 16 agosto, il comando dell'esercito
croato accusa gli osservatori Onu e una squadra di operatori dell'agenzia Wtn di aver incendiato un
casa di Joviči. In realtà stanno riprendendo il rogo quando sette soldati croati si avvicinano, li
arrestano, sequestrano le videocassette e anche mille marchi tedeschi, tanto per gradire. Sarà il
ministro degli Esteri tedesco, Klaus Kinkel, il primo esponente politico occidentale di alto livello a
denunciare le violazioni dei diritti umani in una lettera che arriva a Zagabria il 25 agosto e che
nessun giornale pubblica. In compenso, il 26, tutti pubblicano la risposta di Granic. Il ministro degli
Esteri croato giudica «assurda e tendenziosa» la reazione del suo omologo tedesco e respinge «la
preoccupazione per i presunti crimini compiuti dall'esercito croato nei confronti dei serbi e dei loro
beni». Reazione comprensibile, se è vero quanto affermato dall'ex ministro Spegelj nell'intervista a
Republika, cioè che la pulizia etnica era direttamente controllata da Tudjman e SuSak, che l'avevano
affidata alla polizia militare e a «corpi speciali non inquadrati nell'esercito regolare».
La conquista croata porta ad alcune modifiche geografiche, così per esempio la località di Srpsko
Polje (campo serbo), nella zona di Plitvice, viene ribattezzata Hrvatsko Polje (campo croato). C'è
anche da registrare un surreale e farsesco tentativo di ricolonizzazione con 240 profughi
bosniacocroati della zona di Banja Luka caricati a forza in cinque autobus e portati in giro per la
Croazia per tre giorni senza una meta precisa. Oltretutto, alcune famiglie sono separate al momento
dell'imbarco forzato per cui questi pullman vengono inseguiti da un corteo d'auto con a bordo i
familiari dei passeggeri coatti. Il tutto si conclude a Sebenico con un ammutinamento, non appena i
profughi apprendono di essere destinati a ripopolare la piana di Grahovo-Glamoč.
Il suggello della riconquista avviene con il cosiddetto «Treno della libertà» sul quale il presidente
Tudjman e un migliaio di gerarchi del suo regime viaggiano da Zagabria a Spalato, passando per
Knin, lungo la linea ferroviaria interrotta dal 1991. Per fare più in fretta, vengono mandati gli operai
addetti a rimettere in sesto i binari prima degli artificieri incaricati di sminare. Il risultato è che tre
operai muoiono. Il giorno del trionfo è il 27 agosto e Tudjman pronuncia un discorso dai toni
durissimi. Augura ai serbi di Krajina «buon viaggio», un viaggio di sola andata, naturalmente. Per la
verità non li nomina neanche, non li chiama «serbi», ma «quelli».
«Quelli sono spariti in tre-quattro giorni, senza neanche avere il tempo di raccogliere i loro
sporchi soldi e le loro mutande.» Li definisce: «Un carcinoma, un tumore maligno che, nel cuore
della Croazia distruggeva l'essere nazionale croato». E poi ancora: «L'avvenire dello stato croato
non poteva dirsi sicuro fino a quando i serbi si trovavano a Knin». E infatti di serbi, a Knin e nella
Krajina, non ce ne sono più.
Resta in sospeso la questione di Vukovar che verrà risolta pacificamente con due anni di
amministrazione Onu temporanea che, forte di cinquemila caschi blu, smilitarizzerà la zona,
organizzerà elezioni amministrative e curerà il passaggio dalla sovranità serba a quella croata. L'80
per cento dei serbi di Vukovar resta anche quando, il 15 gennaio 1998, la bandiera croata torna a
sventolare sulla città danubiana. L'ultimo combattente serbo di Krajina si ucciderà il 14 gennaio 2001
non lontano da Petrinja. Živko Korač, 43 anni al momento della morte, all'indomani di Oluja si
rintana nei boschi della Zrinka, a sud di Sisak. Rimane nascosto per cinque anni e mezzo, vivendo in
rifugi di fortuna, per lo più tende militari. sospettato di aver ucciso quattro persone: un poliziotto in
pensione, un cacciatore e una coppia di coniugi, probabilmente perché lo avevano scoperto per caso.
Individuato da un gruppo di cacciatori, viene seguito da un elicottero e circondato dai poliziotti, ma
piuttosto che arrendersi, Korač scaglia cinque bombe a mano contro gli agenti e la sesta se la fa
esplodere addosso uccidendosi.
Quinta parte (Kosovo)
Come nasce una guerra (di Marco Ventura)

Le radici del conflitto La guerra non comincia il 24 marzo 1999 con il primo missile sparato dalla
Nato, e non finisce 78 giorni dopo con l'annuncio della sospensione dei bombardamenti, il 10 giugno.
La guerra, nel Kosovo, diluita nel tempo, è cominciata molti anni prima e poi è diventata guerra vera,
guerreggiata, con tutto lo strascico di sofferenze per la popolazione civile, quando la strategia della
nonviolenza albanese ha ceduto il posto al confronto militare tra l'armata serba e i guerriglieri
dell'Esercito di liberazione del Kosovo, l'Uçk, e al tempo ha svelato la strategia di Belgrado della
bonifica etnica e della deportazione di massa.
Mentre scriviamo (primavera 2001), le prospettive non sono ancora quelle di una pace duratura.
Lo scenario si caratterizza piuttosto come tregua armata in un clima di terrore che non degenera
irrimediabilmente, ma solo grazie all'amministrazione e al presidio internazionale, alla presenza del
contingente multinazionale di mantenimento della pace sotto il comando Nato e l'egida Onu. Le
vendette continuano, le famiglie e gli insediamenti serbi vivono un apartheid speculare a quello
imposto agli albanesi negli anni novanta, così come proseguono i colloqui più o meno segreti sui
progetti di spartizione. Come prima della guerra.
Ma la guerra nel Kosovo c'è sempre stata. Generazioni di serbi e albanesi si sono avvicendate
duellando attraverso i secoli, rivendicando ciascuna l'appartenenza esclusiva a quella terra di
frontiera, spettatrice innocente delle lotte per la supremazia e la sopravvivenza. L'arma più efficace
s'è rivelata quella demografica: la natalità, la densità etnica di popolazione. La strategia che
intellettuali e politici in Serbia hanno suggerito, e i generali perseguito fino al 1999, finché hanno
potuto, è stata un misto di bonifica etnica soft e terrore, un terrore pianificato e finalizzato alla
bonifica etnica, e poi il divorzio, la separazione consensuale, la spartizione con trasferimento di
popolazioni. La deportazione di massa. Apartheid, isolamento culturale, guerriglia, esodo,
repressione, operazioni di polizia-pulizia, carneficine, rapimenti ed esecuzioni contraddistinguono il
Kosovo di fine millennio: un cancro nel cuore dell'Europa, che l'Europa non è in grado di sradicare
da sola. Un anacronismo: l'Unione europea si allarga e le macerie del Muro si vendono come
souvenir nelle bancarelle domenicali a Berlino.
A PriStina il Muro c'è, ed è palpabile.
Nell'autunno 1990 gli osservatori occidentali, compresi gli esperti della Cia, preconizzano che il
terremoto jugoslavo avrà in PriStina l'epicentro, l'inizio, e che la prima delle guerre jugoslave
contrapporrà gli irredentisti albanesi a Belgrado. Le cose andranno diversamente, ma solo per i
tempi. Soltanto la paura, per dieci lunghi anni, impedirà nel Kosovo l'esplosione del conflitto.
Eppure è guerra, strisciante, subdola e tenace, anche la cappa di piombo del regime dopo la revoca
dell'autonomia nel 1989.
Nel 1999, il pendolo del potere da un decennio ha smesso di oscillare. I serbi, meno del 10 per
cento della popolazione del Kosovo contro più dell'80 per cento di albanesi (comunemente si assume
che siano il 90 per cento), detengono tutte le leve del comando: politico, economico, sociale,
culturale, militare. Gli albanesi, privati degli elementari diritti delle minoranze, percepiscono il
Kosovo come il loro stato, come una «repubblica indipendente», provvisoriamente occupata. A
conferma del distacco dalle istituzioni federali, non partecipano neppure alle elezioni jugoslave,
diserzione che a lungo i diplomatici occidentali e i movimenti d'opposizione serbi rimproverano ai
dirigenti politici albanesi. Hanno sostituito le strutture principali dello stato, dal sistema sanitario a
quello scolastico, con istituzioni parallele: un complesso e molto concreto meccanismo di
sopravvivenza istituzionale tenuto in vita, anche se a fatica, dalla tassazione degli introiti degli
albanesi all'estero. La diaspora finanzia ospedali e scuole autogestite, ma nel 1998-99 convoglia le
sue rimesse per lo più sulle armi per l'Uçk. La nonviolenza ha ancora il suo campione nello scrittore
Ibrahim Rugova, ma l'incantesimo della pace a ogni costo è spezzato.
Formalmente, il Kosovo è ancora una provincia serba alla quale il Parlamento di Belgrado, su
istigazione di MiloSevic, ha tolto nel 1989 l'autonomia sostanziale che Tito aveva incrementato e poi
garantito con la Costituzione del 1974. Per i serbi, il pendolo che ha oscillato dalla loro parte nella
Jugoslavia sotto la tutela del ministro federale degli Interni, il serbo Aleksandar Rankovic, si è
spostato a vantaggio degli albanesi dopo il siluramento, voluto da Tito, di Rankovic nel 1966. Il
progressivo decentramento ha condotto alla nuova carta costituzionale, all'autogoverno di un Kosovo
a stragrande maggioranza albanese e con diritto di voto nel Presidium al pari delle sei repubbliche e
della Vojvodina. Purtroppo, la dirigenza comunista schipetara non è riuscita ad approfittarne per
cauterizzare le ferite rimaste aperte della convivenza interetnica. I serbi sono stati vittime a loro
volta di discriminazioni e persecuzioni, seppure esagerate e deformate dalla propaganda
nazionalistica di Belgrado fino alla paradossale denuncia di «genocidio» nel Memorandum del 1986
dell'Accademia serba delle scienze e delle arti. Gli albanesi, dal canto loro, sentendo sul collo il
fiato persistente dei nazionalisti che lavoravano per la restaurazione del centralismo serbo, sono
scesi periodicamente in piazza contro la disoccupazione e la povertà, ma anche per l'indipendenza.
La tendenza dei serbi kosovari a emigrare verso la Serbia centrale (o interna) e il resto della
Jugoslavia fra il 1966 e il 1989 è stata accompagnata all'inverso dal boom demografico albanese,
percepito dall'Accademia di Belgrado non come effetto del sottosviluppo economico (il Kosovo è di
gran lunga, economicamente, il fanalino di coda della federazione a dispetto delle sue grandi risorse
naturali), ma come arma nella «guerra genocida» che l'autogoverno albanese avrebbe condotto contro
la «nazione» serba.
Chiunque abbia visitato PriStina dopo la restaurazione del 1989, e nei sette anni di «volontario»
apartheid e miracolosa nonviolenza promossa da Ibrahim Rugova (vuoi per calcolo politico, vuoi per
il ragionevole timore del bagno di sangue), può testimoniare il clima di segregazione, repressione e
violenza a cui gli albanesi sono stati costretti. Il grigiore polveroso del capoluogo kosovaro è un
grigiore dell'anima. Colpisce la tristezza dei «corsi» paralleli: i serbi lungo la strada e nei bar
accanto all'hotel Grand provocatoriamente trasformato in quartier generale delle tigri di Arkan, il
criminale di guerra nonché deputato del Kosovo, Željko RaŽnjatovic; e gli albanesi, fitti come
formiche, lungo la parallela. Gli ospedali serbi da un lato, le cliniche dell'albanese Madre Teresa
dall'altro.
Le scuole statali serbe da una parte, le classi schipetare stipate in appartamentini gelidi dall'altra.
E le banche, i giornali, le aziende, le associazioni professionali... Le antenne paraboliche sono il
cordone ombelicale tra le famiglie kosovare e la materna tv di Tirana. L'amministrazione serba
occupa i palazzi del potere. Rugova, il «presidente» eletto con numeri da plebiscito in consultazioni
parallele, «governa» dal Pen Club, l'associazione degli scrittori di cui è il leader: una casupola sulla
stradina sterrata vicina allo stadio, l'Audi «presidenziale» parcheggiata di fronte, l'immancabile
piccola folla tra la casa e la strada, sono gli unici segnali della sua presenza.
I serbi della Krajina sono insorti nel 1990 temendo di diventare minoranza in Croazia, mentre in
Jugoslavia rappresentavano la maggioranza numerica ed erano una «nazione» costituente. Ma in
Jugoslavia i due milioni circa di albanesi non hanno mai raggiunto, neppure durante l'autogoverno, lo
status riconosciuto di nazionalità come i musulmani bosniaci o i 600 mila montenegrini, o i macedoni
che convivono con circa il 25 per cento di albanesi (in Macedonia). Tra Kosovo, Macedonia,
Montenegro e Grecia, vivono più albanesi che in Albania, e la questione albanese non preoccupa
soltanto la Serbia, ma l'Occidente. E' un elemento potenzialmente destabilizzante dell'area dei
Balcani. Indipendentemente dalle buone ragioni degli uni o degli altri, le valutazioni di Stati Uniti ed
Europa sull'intervento o non intervento, rispecchiano il desiderio di conservare la stabilità dei
Balcani e preservare la credibilità della Nato come organizzazione garante della sicurezza regionale.
Con il risultato che anche e soprattutto nel Kosovo, le dinamiche del secolare conflitto interetnico
s'intrecciano con gli interessi e i delicati equilibri geopolitici internazionali.
Nel cuore di ogni albanese vive la fiammella dell'indipendenza, così come nel cuore di ogni serbo
l'attaccamento alla culla etnica della «nazione» che gli storici localizzano proprio qui, nella
provincia che i serbi chiamano «Kòsovo e Metohija» o Kosmet (dal greco metoh, bene ecclesiastico,
riferito ai possedimenti dei monasteri serboortodossi) e gli albanesi invece «Kosòva». una superficie
di 10.877 chilometri quadrati, pari al 12,3 per cento della Repubblica serba. La popolazione di
stirpe albanese si è quasi triplicata dal 1945, quella serba è sostanzialmente invariata. Gli albanesi
rappresentano probabilmente circa il 90 per cento, ma stando alle valutazioni demografiche per il
censimento del 1991, che gli albanesi hanno boicottato, sarebbero «solo» l''81,6 per cento rispetto
all'11 per cento di serbi e all'8 per cento di «altri» (slavi musulmani o goranci, turchi, zingari). Come
prova del loro «diritto storico» sul Kosovo, i serbi portano il numero dei monumenti serbi del
Medioevo: 1800 tra chiese, monasteri, romitori e fortezze, che valgono quasi più della presenza
umana a delineare i progetti di spartizione (21 sono i monumenti di prima categoria e 43 quelli di
seconda). Le miniere di carbone, zinco e piombo, specie a Trepča, e i giacimenti di magnesite,
cromo, nichel, cobalto, asbesto, oltre alla supposta esistenza di giacimenti petroliferi nel sottosuolo
tutti da sfruttare, fanno del Kosovo una terra importante per l'economia serba. Un'eventuale sua
amputazione potrebbe condannare la Serbia a un ruolo quasi defilato, marginale rispetto ai corridoi
europei che attraversano i Balcani.
Per dirla con MiloSevic, il Kosovo scalderà in eterno il cuore dei serbi, anche se l'ultimo a
crederci è forse proprio MiloSevic in virtù della sua fredda caratteristica di politico opportunista e
calcolatore. La nazione serba è avvinta al ricordo perenne e perennemente rinnovato della battaglia
di Kosovo Polje (Campo dei Merli) il giorno di San Vito, 28 giugno 1389, nella conca del monastero
di Gračanica che ancora oggi incarna l'identità nazionale serba insieme con la sede del patriarcato
ortodosso a Pec (Peja, in albanese). Le fasi alterne del conflitto con gli ottomani hanno segnato i
corsi migratori. Nel 1690, un anno dopo che i turchi erano arrivati a Belgrado, fra 30 e 100 mila
serbi guidati dal patriarca ortodosso Arsenije III črnojevic e incoraggiati dall'imperatore austriaco
Leopoldo I, lasciarono la «Vecchia Serbia» per insediarsi tra Vojvodina e Ungheria. Tra il 1735 e il
1739 un'altra ondata.
Nel 1948, i serbi costituiscono il 27,5 per cento della popolazione del Kosovo. Tra il 1971 e l''81,
decennio delimitato da due censimenti e comprensivo della fase di autogoverno albanese, la
percentuale serba del Kosovo scende dal 18,4 al 13,2 per cento. Nello stesso periodo, 140 mila serbi
lasciano la Vojvodina, e 300 mila albanesi del Kosovo emigrano in Europa e negli Stati Uniti
(Benedikter, Il dramma del Kosovo). Questo per dire che l'emigrazione non è solo serba, e non è solo
«etnica». Gli albanesi dal canto loro sostengono di essere i primi abitatori del Kosovo, come
discendenti degli Illiri. Nel 1389, a Kosovo Polje combatterono anche loro, divisi come i serbi tra i
due campi (condottieri sia albanesi, sia serbi, secondo la tradizione del variabile vassallaggio
feudale si schierarono contro il principe serbo Lazar e al fianco del sultano Murad I). E se il finto
disertore ed eroe serbo MiloS Obilic riuscì a intrufolarsi nella tenda del sultano e ucciderlo,
cavalieri come Marko Kraljevic, un protagonista dei poemi serbi, cambiarono casacca passando da
un esercito all'altro. La storia, e le storie che la riempiono, qui forse più che altrove nella ex
Jugoslavia non abitano il passato, ma un eterno presente, e sono parte integrante della politica. Adem
Demaqi, noto come il Mandela del Kosovo, uscito dalle carceri jugoslave dopo tre condanne e
ventisei anni di reclusione, nel 1991 indottrina i giornalisti stranieri, dal suo ufficio semiclandestino
di PriStina, con fervorini e lezioni di storia del Kosovo in chiave albanese. E lo stesso fanno i
politici serbi, in chiave serba. Il problema dei Balcani, per dirla con Winston Churchill, è che
«producono più storia di quanta ne consumino», in ogni senso.
Gli osservatori stranieri sono anch'essi divisi in fazioni, sono pro serbi o pro albanesi. Così,
almeno, vengono percepiti dalle due parti. Esemplare il caso di due viaggiatrici britanniche,
entrambe di grande fama, che s'immersero nel conflitto e si appassionarono alle vicende della
«Vecchia Serbia» nella prima metà del Novecento: Edith Durham e Rebecca West. La prima denunciò
il genocidio di albanesi a opera dei greci e serbi nelle prime guerre balcaniche. La seconda
interpretò con rispetto e sensibilità storica lo spirito delle rivendicazioni serbe sul Kosovo. «La terra
non è il ventre di nostra madre» scrive la West nello sterminato L'Agnello nero e il falcone grigio.
«Non mostra alcun riguardo particolare nei nostri confronti.
Non possiamo essere certi che parteggerà per noi. E' colei che ci forma, la sua erba è la nostra
carne, ci permette di calpestarla, ma questo è tutto quel che fa per noi; e poiché la terra è ciò che noi
non siamo, e quindi un simbolo del destino e di Dio, noi ci sentiamo soli e spauriti. Kosovo Polje,
più di qualsiasi altro luogo storico che io conosca, suscita questo senso di desolazione.» Il Campo
dei Merli si stende «pacifico nelle sue vaste e dolci distanze, lustrato da venti leggeri che passano
come un panno su uno specchio, che voltano le cime delle spighe verso la luce. Ha un'aria
d'innocenza che è la sua massima colpa. Qui infatti si accalcano i morti, uomini che non morirono
soltanto nella carne, poiché nelle tombe assieme a loro fu gettata anche la loro civiltà». Ma se è vero
che per i serbi l'ortodossia coincide con la nazionalità, con l'identità etnica, l'islam invece non
contraddistingue affatto gli albanesi, perché tra gli albanesi sono rappresentate anche altre religioni
(compresa quella ortodossa), e perché l'osservanza religiosa dei kosovaro albanesi musulmani è
fragile, subordinata alle leggi del clan, al Kanun, e a un laicismo forgiato sotto la Jugoslavia
comunista, se possibile potenziato dall'apertura crescente verso l'Ovest. Nessuno trova strana, nel
Kosovo, la presenza d'un Partito democratico cristiano composto per lo più da musulmani.
Nel Kosovo la guerra non è religiosa, ma nazionale, e i due attributi non si sovrappongono. Fra le
peculiarità rispetto ai conflitti in Croazia e Bosnia, spicca l'incomunicabilità linguistica tra serbi e
albanesi che denota la natura nazionalistica del conflitto, molto diversa dalla guerra civile tra gruppi
che parlano più o meno la stessa lingua. Gli inviati occidentali in Kosovo devono ingaggiare
interpreti albanesi e serbi. Warren Zimmermann, in Origins of a catastrophe, racconta l'inaugurazione
a PriStina di un evento culturale davanti a un uditorio di serbi e albanesi. «L'interprete tradusse le
mie parole prima in albanese, poi in serbo. Davanti a quell'imperdonabile disattenzione, metà dei
serbi s'alzarono e uscirono. La stampa di Belgrado scatenò una campagna di una settimana, contro
l'irrefutabile evidenza della mia serbofobia.» E dire che i serbi erano pochissimi, e gli albanesi
centinaia. Nel 1989, Zimmermann arrivò come ambasciatore americano nella capitale serba e trovò
che «nella testa di ognuno c'era il Kosovo». Discusse pure con il ministro federale degli Esteri, il
croato Budimir Lončar, delle violazioni dei diritti umani e Lončar gli parlò da amico. «Devi capire
che cos'è successo in Jugoslavia dall'ultima volta che ci sei stato. Dopo la scomparsa di Tito, il
paese si è totalmente decentralizzato. Il governo federale non ha alcuna influenza o controllo sulle
repubbliche. Qualsiasi cosa dica la Costituzione, nessuno impedirà a MiloSevic di fare quel che
vuole nel Kosovo. Il tuo compito, e il mio, è fare in modo che questo non avveleni le nostre relazioni
bilaterali.» MiloSevic, in seguito, ne parlò con Zimmermann. «Veda, Mr Zimmermann, soltanto noi
serbi crediamo veramente nella Jugoslavia. Noi non stiamo cercando di staccarci come i croati e gli
sloveni, non siamo legati a paesi stranieri come gli albanesi del Kosovo, e non stiamo cercando di
creare uno stato islamico come i musulmani in Bosnia. Tutti questi hanno combattuto contro di voi
nella Seconda guerra mondiale. Noi eravamo vostri alleati. Il Kosovo è sempre stato serbo, tranne un
breve periodo durante la Seconda guerra mondiale.» Zimmermann annota, qui, che per 523 anni il
Kosovo è vissuto sotto il dominio turco.
«Ciononostante» prosegue MiloSevic «abbiamo dato agli albanesi un loro governo, un loro
Parlamento, una loro biblioteca nazionale, loro scuole. Gli abbiamo dato perfino la loro Accademia
delle scienze. Voi americani date ai vostri neri accademie tutte loro?» E ancora: «Voi criticate noi
serbi per il modo in cui trattiamo gli albanesi nel Kosovo, ma non capite che stanno cercando di
staccare la nostra patria serba dalla Jugoslavia per unirla all'Albania? Come vi aspettate che
rispondiamo ad atti illegali di secessione? Non sa che 80 mila di loro vivono a Belgrado come
medici, professori, operai e commercianti? Vada a parlare con loro, scoprirà che non hanno
lamentele da fare riguardo alla democrazia serba». Zimmermann inquadra il problema nel contesto
jugoslavo. «Rispetto alle altre diverse facce del nazionalismo in Jugoslavia, chiuso in se stesso in
Slovenia, aggressivo ed espansionista in Serbia e Croazia, se ne aggiunge nel Kosovo una terza. Il
modello del nazionalismo albanese in Kosovo non è balcanico» conclude. «la lotta delle nazioni
dell'Africa e Asia per l'indipendenza dal colonialismo negli anni cinquanta e sessanta. La strategia
albanese di resistenza passiva contro la dominazione serba è ispirata al Mahatma Gandhi.» Ma la
guerra di marzo-giugno 1999 non porterà alla emancipazione dal gioco mentale del colonialismo.
Dalla feroce tutela serba, gli albanesi passeranno alla «compassionevole» tutela internazionale.
L'autonomia, quella vera, resterà lontana.
******
Ibrahim Rugova Un giorno, l'ambasciatore Zimmermann chiese a Ibrahim Rugova perché mai
portasse sempre, anche nei mesi caldi, la sua famosa sciarpa. La risposta fu che «tutti hanno bisogno
di un contrassegno». Sempre calmo, sorridente e prodigo di saggezza, Rugova è un leader
carismatico. La sua forza deriva dalla sua apparente remissività, lui stesso, con il suo sorriso caldo e
i modi affabili, è l'inevitabile incarnazione della silenziosa tenacia, dell'irriducibile passiva
resistenza della popolazione albanese del Kosovo sotto il tacco del regime serbo. Dal fallimento
della strategia gandhiana della nonviolenza che Rugova sa essere perdente a breve termine, ma che
ritiene vincente sui lunghi tempi, scaturirà alla fine la violenza terroristica e guerrigliera, irredentista,
dell'Esercito di liberazione del Kosovo. La violenza repressa e scatenata da Hasim Thaci è speculare
alla pacatezza sofferta di Ibrahim Rugova.
Ibrahim Rugova nasce nel 1945 nel circondario di Pec. Radici familiari in un clan legato ai ribelli
nazionalisti di Balli kombetar che nel 1944-45 combatterono contro i partigiani di Tito per la Grande
Albania disegnata dall'Asse. Poeta, critico e storico della letteratura, Rugova guida il Pen Club di
PriStina, l'Associazione degli scrittori, e viene designato presidente della Lega democratica del
Kosovo rifondata negli incontri politici tra intellettuali, giornalisti e scrittori all'Elida Café di
PriStina. Ricorda Bujar Bukoshi, poi premier in esilio, che «ognuno di noi poteva esser fatto
presidente, fu scelto lui perché era calmo, colto e non aveva mai avuto scontri con i colleghi». Nel
maggio 1992, un plebiscito incorona Rugova alla presidenza virtuale del Kosovo, successo ripetuto
nel marzo 1998, in piena campagna militare dell'Uçk. Durante la guerra, Rugova finisce a Belgrado, a
stringere la mano a MiloSevic davanti alle telecamere. Un colpo durissimo alla sua immagine. In
maggio vola in Italia, per «concessione» di MiloSevic.
Il suo carisma resiste a tutto, e al rientro in Kosovo vince le prime elezioni libere del
«dopoguerra».

Fine dell'autonomia Torniamo al 1966, anno in cui Tito «licenzia» il ministro federale degli
Interni, il serbo Aleksandar Rankovic. Niente più rastrellamenti polizieschi in cerca di armi. Gli
albanesi acquistavano apposta fucili e pistole per poterli consegnare ai poliziotti durante le
perquisizioni, ed evitare maltrattamenti e interrogatori. Tramontano anche le schedature di massa
sulla base di normalissimi comportamenti come l'acquisto di giornali in lingua albanese. Riprende a
oscillare il famoso pendolo.
Nel 1968, i carri armati sovietici a Praga inducono parecchi cambiamenti nella Jugoslavia di Tito.
Il decentramento dell'organizzazione militare, per esempio, già affrontato in questo libro. Un altro
mutamento è la distensione con l'Albania, stato confinante con il quale Tito intende restaurare un
rapporto di buon vicinato per meglio contrapporsi alla minaccia dell'imperialismo russo. Come
risultato, nel 1969 gli albanesi del Kosovo vengono autorizzati a esporre la bandiera albanese.
L'anno successivo viene firmata una convenzione tra i due paesi, che spalanca le porte delle facoltà
universitarie del Kosovo ai docenti dell'università di Tirana: in 200 fanno la spola per cinque anni
tra l'Albania e PriStina. Prendono vita i corsi di lingua albanese, prospera l'Istituto di albanologia, il
bilinguismo viene riconosciuto e promosso, su testi albanesi si forma una nuova classe dirigente
albano kosovara. Tra il 1968 e il 1978, la percentuale di studenti albanesi del Kosovo passa dal 38
al 72 per cento.
L'avanzamento sociale attraversa le istituzioni, producendo una più equilibrata ripartizione etnica
all'interno dell'amministrazione, in particolare della polizia. Nel 1981, le forze di sicurezza sono
composte per tre quarti da albanesi (Malcolm, Storia del Kosovo). La Costituzione del 1974 non fa
che sancire il nuovo corso con l'attribuzione al Kosovo di potestà autonome legislative e un peso
negli organismi federali in principio equivalente a quello delle repubbliche. I serbi si lamentano che
sia stato «conferito al Kosovo, ad absurdum, un diritto di controllo e di veto sul resto della Serbia»
(Batakovic, «Progetti serbi di spartizione», Limes, marzo 1998). Per esempio, la Corte costituzionale
del Kosovo può negare alla Serbia il diritto di possedere una corte omologa, e il governo autonomo
può impedire alla polizia serba l'accesso nel Kosovo (Piziali, Jugoslavia tra nazionalismo e
autodeterminazione). Lo stesso Rugova confessa a Zimmermann che «purtroppo in quel periodo
furono commessi molti crimini contro i serbi». E purtroppo, durante l'autogoverno il progresso
economico non procede veloce come quello politico, sociale e culturale. Le rivolte studentesche del
1968 si colorano nell'università di PriStina di rivendicazioni economiche, ma anche nazionalistiche.
Gli studenti non si contentano dell'autonomia: invocano il diritto all'autodeterminazione.
Nel 1980 muore Tito, e con lui la Jugoslavia interetnica. L'anno successivo è cruciale per il
Kosovo. L'11 marzo 1981, un manipolo di studenti inizia a PriStina una rivolta contro le cattive
condizioni igieniche della mensa universitaria e contro la disoccupazione, ma il passo dall'economia
alla politica è breve, e negli slogan per le strade risuonano le tipiche invocazioni «Kosòva
Repubblica» e «Siamo albanesi, non jugoslavi». Hydajet Hyseni, studente e fondatore d'un gruppo
marxista-leninista, diventa famoso quell'anno come «il Che Guevara del Kosovo» per la sua arringa
arrampicato a un albero davanti alla sede del Partito comunista. Ricorderà, negli anni successivi, che
mentre in paesi come la Polonia l'opposizione aveva un carattere anticomunista, in Kosovo «il
movimento era anticolonialista e nazionalista».
Ai primi arresti seguono nuove manifestazioni per la liberazione degli arrestati. La situazione si fa
critica il 26 marzo, ricorrenza della nascita di Tito. Compaiono le unità speciali della polizia, e i
carri armati. Cariche e pestaggi lasciano sull'asfalto, alla fine, ufficialmente 11 morti compresi i
poliziotti, secondo gli albanesi addirittura un migliaio, probabilmente invece qualche centinaio
(Judah, Kosovo War and Revenge). Di quelle giornate, nei serbi rimarrà il ricordo dell'«incendio
della sede del patriarca serbo a Pec» (Batakovic, op. cit.). L'insurrezione viene bollata dalle autorità
del Kosovo, in primis da quelle albanesi, come controrivoluzionaria e irredentista. La denuncia delle
trame di Tirana non basta però a Mahmut Bakalli, il leader comunista locale, a evitare l'espulsione
dal partito in luglio: un mese dopo, gli espulsi sono già 500. La stagione delle purghe, denominate
«differenziazioni» con eufemismo da regime, investe l'università identificata come il fulcro
dell'irredentismo kosovaro: i professori più impegnati sono costretti a lasciare la cattedra e il duello
interetnico mette l'un contro l'altro storici, sociologi e scrittori delle due etnie.
Nel Memorandum del 1986 dell'Accademia serba delle scienze e delle arti, il 1981 viene indicato
come anno discriminante. «L'espulsione del popolo serbo dal Kosovo» si legge «è la testimonianza
spettacolare della sua sconfitta storica. Nella primavera del 1981 è stata dichiarata al popolo serbo
una guerra tutta speciale, mai esplosa apertamente, preparata nelle diverse fasi dei cambiamenti
amministrativi, politici e costituzionali. Condotta abilmente seguendo metodi e tattiche diverse, con
ruoli ben ripartiti, con il sostegno attivo e abbastanza palese di certi centri politici del paese, un
sostegno più nefasto dell'appoggio offerto dai paesi vicini, questa guerra aperta che non si riesce a
guardare in faccia e che non viene chiamata con il suo vero nome dura all'incirca da cinque anni.
Essa si trascina dunque da molto più tempo di quanto non sia durata la guerra di liberazione in questo
paese, dal 6 aprile 1941 al 9 maggio '45. L'insurrezione in Kosovo e Metohija poco prima della fine
della guerra, organizzata con la cooperazione delle unità naziste, è stata militarmente schiacciata nel
1944-45, ma dobbiamo constatare che non è stata sconfitta politicamente. Nella sua forma attuale,
mascherata con nuovi contenuti, si sviluppa con maggiore successo ed è prossima alla vittoria.»
Illuminante e traumatico per la Jugoslavia un altro passo. «Il genocidio fisico, politico, giuridico,
culturale della popolazione serba del Kosovo e Metohija è la sconfitta più grave subita dalla Serbia
nelle sue lotte di liberazione. Il destino del Kosovo resta una questione vitale per il popolo serbo
tutto intero. Se non viene risolta nell'unico modo effettivo, se un'autentica sicurezza e uguaglianza di
diritti per tutti i popoli che vivono nel Kosovo e in Metohija non vengono instaurate, se non vengono
create condizioni salde e durature per il ritorno della popolazione scacciata, questa parte della
Repubblica di Serbia diventerà un problema europeo con conseguenze assai pesanti.» Parole
profetiche, ma la profezia era in realtà alla portata di chiunque conoscesse i termini del problema e
vi fosse coinvolto, a Belgrado come a PriStina. E i tornitori della «profezia» dell'Accademia serba
sono gli stessi che da anni lavorano perché la profezia diventi realtà. Una dura realtà.
Il «grande vecchio» ispiratore del risorgente nazionalismo serbo è lo scrittore Dobrica čosic,
classe 1921, autore della saga della famiglia Katic in più volumi, che copre oltre un secolo di storia
dei serbi e ha come oggetto l'eroismo e il martirio di tutto un popolo.
La filosofia di fondo della sua opera è che i serbi «perdono in pace quel che hanno guadagnato in
guerra». Primo presidente della nuova Jugoslavia (15 giugno 1992), čosic si ritaglia un ruolo da
«padre della patria», giocando d'equilibrio tra MiloSevic e l'opposizione, pur sempre nazionalista.
čosic è l'incarnazione della ideologia granserba che infiamma la Serbia dopo Tito e offre al
burocrate comunista MiloSevic l'opportunità di conquistare il potere coniugando la forza evocatrice
del nazionalismo serbo con il meccanismo sperimentato del regime comunista.
L'epica di Kosovo Polje narra che alla vigilia della battaglia il Falcone Grigio voli da
Gerusalemme al principe Lazzaro, e che gli prospetti la scelta tra il Regno in Terra e il Regno dei
Cieli. La sconfitta del Campo dei Merli sarebbe l'esito deliberato di una riflessione spirituale. Il
glorioso sacrificio, il trionfale vittimismo, è l'atteggiamento mentale che non abbandona la coscienza
del popolo serbo, così come la convinzione storica d'aver difeso, sul Campo dei Merli, l'Europa
dagli infedeli. Una convinzione riecheggiata nelle parole che Dobrica čosic detta da Belgrado nel
1999, alla soglia degli ottant'anni, sotto le bombe dell'Alleanza.
«In questa guerra impari, di assurdo genocidio, il solo vincitore non può essere che la sua stessa
vittima: il popolo serbo. Ma per provare o negare ciò, è proprio necessario annientare tutta intera una
nazione? E l'Europa vuole davvero concludere il suo crudele XX secolo con la guerra contro il
popolo serbo che più di tanti altri popoli del continente si è sacrificato per la libertà e la civiltà
europee?» (La Serbia, la guerra e l'Europa, a cura di NikSa Stipčevic). čosic dà voce
all'avventurismo degli intellettuali da scrivania. «Tra venti o trent'anni tutti saremo in possesso di
missili a testata nucleare, e le buone ragioni per usarli le stiamo acquisendo proprio sotto i missili e
le bombe dell'aviazione della Nato.» Meno influente di čosic, Milorad Pavic ha costruito anche lui
con il Dizionario dei Chazari l'insidiosa metafora d'un popolo «piccolo, ma grande», un popolo alla
cui grandezza spirituale non corrisponde quella temporale, le cui sconfitte sono poca cosa rispetto ai
sogni di grandezza, che è accerchiato da un'alleanza di nemici troppo più forti, e il cui vittimismo è la
sua massima affermazione d'orgoglio. Intervistato dalla Stampa il 3 febbraio 2001, dopo la sconfitta,
MiloSevic significativamente dirà di non sentirsi tradito dal suo popolo. «Considero il popolo serbo
come eroe e vittima assieme. Si potrebbe anche considerare l'ipotesi del sacrificio d'un leader
divenuto metafora dell'opposizione alla politica americana. Vorrei che non esistesse mai più una
politica in cui chi la pensa diversamente e guida un piccolo popolo debba essere sanzionato per
disubbidienza.» Il Memorandum del 1986, ispirato da čosic, affronta la fondamentale questione
demografica. «A meno che le cose non cambino radicalmente, in meno di dieci anni non ci saranno
più serbi in Kosovo» e si arriverà a «un Kosovo "etnicamente puro", proprio quello
inequivocabilmente dichiarato come obiettivo dai razzisti della Grande Albania.» La riprova sarebbe
l'esodo di massa del popolo serbo come effetto d'una campagna di terrore promossa dagli albanesi
fin dai tempi dell'autogoverno. Ancora una volta, le campagne di stampa catalizzano il conflitto: lo
esasperano e lo montano. I giornalisti dividono con i dirigenti politici la complicità nell'abituare le
coscienze alla ineluttabilità della violenza e della guerra.
Il primo maggio 1985, l'agricoltore serbo Djordje Martinovic finisce all'ospedale e dichiara
d'aver subito l'aggressione di due albanesi incappucciati che lo volevano terrorizzare per
costringerlo ad abbandonare la sua terra. I medici gli estraggono una bottiglia di birra dall'ano.
Nasce così il «caso Martinovic», cavalcato dalla rivista belgradese Nin come versione moderna
della pratica turca dell'impalamento. Le fonti albanesi sostengono che Martinovic era un omosessuale
incorso in un incidente. Il giornalista di Nin pubblica nel 1986 un volume di 485 pagine sull'intera
vicenda, e l'editore fa stampare per la prima edizione cinquantamila copie.
Segno della «presa» del tema. Un'altra accusa montata contro gli albanesi è quella di stupro
sistematico delle donne serbe, in quanto serbe. La forma più vile di genocidio. Va forse ricercata in
questa campagna della seconda metà degli anni ottanta la radice dello stupro etnico, un crimine che
diverrà effettivo in Croazia e Bosnia Erzegovina come arma peculiare dei paramilitari serbi. Nel
1984, esce a Belgrado un libro dell'archimandrita Atanasije Jevtic che enumera gli «stupri di ragazze
e vecchie nei villaggi e nei conventi» a opera degli albanesi. L'accusa diventa luogo comune. Ancora
nel 1999, durante il bombardamento della Nato, ai giornalisti occidentali in Macedonia succede che
le interpreti serbe, intellettualmente e culturalmente progredite, teorizzino la «fame» di donne serbe
nel dna degli albanesi e invece la repulsione dei giovani serbi verso le «puzzolenti» ragazze
albanesi. Ma basta indagare nei monasteri che ospitano le suore «stuprate», per capire che episodi di
tutt'altra natura sono stati deformati e ingigantiti, poi moltiplicati e caricati di simboli nazionali. Pope
serbi raccontano come affronto imperdonabile, come un vero e proprio atto di guerra, l'aggressione
di giovanotti albanesi che hanno osato «tirarci la barba». Il 3 settembre 1987 una tragedia della
follia, l'uccisione di quattro commilitoni (uno solo serbo) da parte del soldato di leva Aziz
Kelmendi, subito diventa il pretesto di un'altra campagna antialbanese.
La realtà è molto diversa. Noel Malcolm (op. cit.) cita la ricerca condotta da avvocati e sociologi
serbi esperti di diritti umani, che nel 1990 fa strage dei luoghi comuni analizzando le statistiche di
stupri e tentati stupri negli anni ottanta. Risulta fra l'altro che la percentuale di violenze sessuali nel
Kosovo è inferiore a quella di altre parti dell'ex Jugoslavia, due volte e mezzo meno che in Serbia
(0,96 casi per diecimila, invece di 2,43), che sette volte su dieci lo stupratore è, nel Kosovo, della
stessa etnia della donna stuprata, che la media di violenze o tentate violenze su donne serbe da parte
di albanesi è inferiore a cinque l'anno fra il 1982 e l''89.
Alle petizioni popolari di serbi del Kosovo che chiedono protezione si aggiunge nel 1986 una
petizione di 216 intellettuali nella quale si dice che «il caso Martinovic è diventato quello di tutta la
nazione serba in Kosovo». E' su questo terreno che Slobodan MiloSevic trova la scorciatoia verso il
potere. Questo libro se n'è già occupato nel capitolo iniziale sulla Slovenia, e incidentalmente nei
successivi, a dimostrazione che il cerchio aperto nel Kosovo è nel Kosovo che si chiude. La storia
delle quattro guerre jugoslave ha il suo perno nella controversa figura del leader serbo, MiloSevic,
l'ex tecnocrate del regime che comizia il 24 aprile 1987 a Kosovo Polje prendendo il posto del suo
mentore Ivan Stambolic, allora presidente serbo, e scopre così la potenzialità politica ed elettorale
dei richiami nazionalistici. Quel giorno i serbi inscenano una manifestazione per la difesa dei loro
«diritti» davanti alla Casa della cultura a Kosovo Polje, seguono lanci di pietre e scontri con la
polizia a maggioranza albanese. MiloSevic si rivolge direttamente ai serbi con frasi che lo
consacrano leader. Le telecamere lo riprendono mentre dice: «Nessuno dovrà più picchiarvi». E nel
successivo discorso all'interno dell'edificio: «Voi dovete restare qui. Questo è il vostro paese, queste
sono le vostre case, i vostri campi e giardini, la vostra memoria. Non lascerete le vostre terre solo
perché avete la vita dura e siete oppressi dall'ingiustizia e umiliati. Non è stata mai una caratteristica
del popolo serbo e montenegrino quella di ritirarsi davanti agli ostacoli, di smobilitare quand'è il
momento di combattere, di demoralizzarsi se le cose si mettono male. Voi dovete restare, sia per i
vostri antenati che per i vostri discendenti. In caso contrario, fareste vergognare gli avi e deludereste
i figli. Non vi sto dando il suggerimento di restare qui a soffrire e sopportare. Al contrario! Bisogna
che le cose cambino. Senza il Kosovo la Jugoslavia si disintegrerà, la Jugoslavia e la Serbia non lo
cederanno mai!». Da quel momento in poi, MiloSevic organizza innumerevoli mitinsi, raduni, in tutta
la Serbia, promovendo, lui burocrate comunista, la cosiddetta «rivoluzione antiburocratica». Forte
del consenso popolare e del crescente carisma nel partito, l'ex banchiere liquida Stambolic (fine
1987) e ottiene il rovesciamento dei governi di Vojvodina e Montenegro, riuscendo anche a piazzare
nel Montenegro il suo protetto Momir Bulatovic (ottobre 1988). Obiettivo: togliere al Kosovo
l'autonomia del 1974.
Prime vittime del nuovo corso sono i leader albanesi della Lega dei comunisti kosovari, Azem
Vllasi e Kaqusha Jashari. Le voci della loro imminente sostituzione scatenano la protesta dei
minatori di Trepča, che il 17 novembre 1988 marciano su PriStina. Il giorno dopo si ritrovano in 100
mila in piazza, tra studenti e operai, senza riuscire a evitare il siluramento dei due e la nomina del
«collaborazionista» Rrahman Morina, già capo della polizia, a nuovo presidente del partito. A
Belgrado, MiloSevic arringa 350 mila dimostranti il 19 novembre. «Ogni nazione» dice «ha un
amore che in eterno ne riscalda il cuore. Per la Serbia è il Kosovo.» I costituzionalisti preparano
intanto il nuovo testo della carta costituzionale che dovrà restaurare la supremazia serba nella
provincia. Il 20 febbraio 1989, incrociano le braccia 1350 minatori di Trepča nei loro pozzi, contro
l'odiato Morina e per il mantenimento dell'autonomia. Morina finge di dimettersi, poi però fa
arrestare Azem Vllasi e proclama lo stato d'emergenza chiamando rinforzi e mezzi pesanti da
Belgrado.
Il 23 marzo, l'Assemblea del Kosovo circondata dai carri armati e infiltrata da agenti dei servizi
segreti di Belgrado approva a maggioranza (ma non di due terzi come previsto dalla legge) gli
emendamenti costituzionali. Cinque giorni dopo, l'Assemblea serba li ratifica. Tutti questi passi
vengono significativamente ripercorsi come background nell'atto d'accusa per crimini di guerra e
contro l'umanità del 22 maggio 1999, in piena campagna aerea della Nato sul Kosovo, da Louise
Arbour, procuratore capo del Tribunale penale internazionale sull'ex Jugoslavia con sede all'Aja,
contro MiloSevic, il presidente serbo Milan Milutinovic, il vice premier jugoslavo Nikola Sainovic,
il capo di stato maggiore della Difesa della Serbia, Dragoljub Ojdanic, e il ministro degli Interni
serbo, Vlajko Stojiljkovic.
Le ricorrenze nella ex Jugoslavia si caricano sempre di simboli, al punto che il giorno di San Vito,
il 28 giugno, è diventato il filo conduttore dei manuali di storia balcanica. Si può ipotizzare che sia
presente alla coscienza storica di MiloSevic la scadenza dei seicento anni dalla gloriosa sconfitta di
Kosovo Polje, e che il leader serbo abbia condotto la campagna di «riconquista costituzionale» del
Kosovo per potersi degnamente presentare all'appuntamento come il vendicatore dello spirito
nazionale serbo.
Tutte le ambasciate a Belgrado ricevono alla fine di giugno del 1989 una «nota perentoria» del
ministero degli Esteri serbo, un invito formale alla commemorazione alla quale presenzieranno le
massime autorità jugoslave. Il discorso più importante lo terrà MiloSevic.
L'ambasciatore Zimmermann racconta di aver chiamato a raccolta i suoi collaboratori e di aver
impiegato «pochi minuti» per decidere che non era il caso di andare. «La partecipazione mia e degli
altri ambasciatori avrebbe conferito credibilità e approvazione a qualsiasi cosa MiloSevic avesse
detto sul Kosovo e sulla sua popolazione albanese.» Gli europei disertano anche loro la cerimonia.
Soltanto l'ambasciatore turco, in quanto «parte in causa», ritiene di avere un buon motivo per
esserci. MiloSevic punirà Zimmermann rifiutando d'incontrarlo per mesi e mesi. E se ne pentirà
(«Non avrei dovuto farlo aspettare tanto»).
Il racconto di Zimmermann esemplifica il paradosso di doversi confrontare con problemi che nella
ex Jugoslavia affondano le radici in eventi storici di secoli prima. Il discorso di Kosovo Polje viene
ascoltato da funzionari delle cancellerie occidentali che prendono nota. MiloSevic afferma tra l'altro:
«Dopo sei secoli, ci troviamo ancora in mezzo a battaglie e conflitti. Non si tratta di battaglie da
combattere con le armi, anche se cose del genere non andrebbero escluse».

Gandhi a PriStina Nella primavera del 1989, dopo la revoca dell'autonomia, esplode nel Kosovo
un'ondata di manifestazioni, affrontate con il pugno di ferro dalle autorità. Il bilancio di marzo è già
di 23 morti (due fra i poliziotti). A fine aprile il numero sale. Stime albanesi parlano di 200. Scattano
gli arresti di politici, intellettuali, giornalisti, medici, dirigenti d'azienda, funzionari. Centinaia
d'operai che hanno scioperato si ritrovano dalla sera alla mattina senza lavoro. Nelle carceri tornano
di moda torture, pestaggi, interrogatori di giorni interi senza un'accusa formale, l'isolamento per mesi
e mesi. Altre manifestazioni sono soffocate nel sangue in vista del processo contro Vllasi il 30
ottobre 1989. Al marzo-aprile 1990 risale una vicenda che Malcolm (op. cit.) espone nei suoi
inquietanti contorni.
«Migliaia di bambini furono portati in ospedale con dolori di stomaco, mal di testa e nausea; si
diffuse la voce che erano stati deliberatamente avvelenati a scuola, dov'erano state introdotte sessioni
d'insegnamento separate per i serbi e gli albanesi. La maggior parte degli osservatori dell'epoca era
convinta che si trattasse semplicemente di un caso d'isteria di massa. In seguito, però, un tossicologo
delle Nazioni unite, attraverso le analisi di campioni di sangue e urina, concluse che erano presenti
tracce di sarin o tabun, utilizzati nelle armi chimiche, e nel 1995 fu accertato che l'esercito jugoslavo
aveva fabbricato il sarin.» Gli albanesi, esasperati, attaccano le case serbe, Belgrado risponde
inviando altri 25 mila poliziotti.
Tra marzo e giugno del 1990, i parlamenti serbo e federale producono tutta una legislazione
fortemente discriminatoria verso gli albanesi e palesemente finalizzata a incentivare e premiare la
colonizzazione serba: premi per l'emigrazione e misure di pianificazione familiare per gli albanesi,
la chiusura del quotidiano in lingua albanese Rilindja, la soppressione dell'Accademia delle arti e
scienze del Kosovo, espulsioni e licenziamenti a catena di albanesi nelle varie branche
dell'amministrazione anche per l'imposizione (pena il licenziamento) della firma a una «lettera di
fedeltà» alla Serbia. Vengono dichiarate nulle, retroattivamente, le vendite ad albanesi di proprietà di
serbi emigrati. Al contrario, i serbi beneficiano di sostegni finanziari, di case e terre gratis a chi
decide di rientrare nel Kosovo, di regolamenti che impongono l'assunzione di un serbo per ogni
albanese assunto nelle aziende.
Altri provvedimenti tra il 1990 e il 1992 portano alla defenestrazione dei dirigenti d'azienda
albanesi, e all'allontanamento di 1855 medici e 1550 giornalisti (Judah, op. cit.). Il sistema
scolastico viene blindato: niente stipendi agli insegnanti albanesi, e serbizzazione dell'università
convenzionata con Tirana. «La nostra università di PriStina» dichiara il neorettore serbo, Radivoje
Papovic, «si pone il traguardo di restaurare il pensiero serbo in Kosovo e Metohija.» Gli studenti
albanesi dovranno studiare su manuali di storia che affermano la loro discendenza dagli slavi.
Seimila insegnanti albanesi perdono il posto nel 1990, il resto lascia dopo il rifiuto di seguire i
programmi di storia scritti a Belgrado. Poche le eccezioni. Qualche classe albanese rimane, ma in un
regime di segregazione fisica che riguarda persino l'uso dei bagni.
Resta ormai solo una sacca di resistenza «istituzionale», l'Assemblea provinciale presieduta da un
serbo, ma composta anche da rappresentanti albanesi che propongono una loro riforma costituzionale.
Il 2 luglio, giorno fissato per la votazione, i delegati albanesi trovano i cancelli sprangati: in 114 su
123, riuniti per strada, approvano la risoluzione a favore d'un Kosovo definito «entità paritaria e
indipendente nell'ambito della federazione jugoslava». Il parlamento serbo, per tutta risposta,
scioglie Assemblea e governo del Kosovo, e mantiene solo il rappresentante-fantoccio nel Presidium
jugoslavo che, insieme con il rappresentante della Vojvodina, consente a MiloSevic di controllare
quattro voti su otto nell'organismo più alto della federazione. Il 7 settembre 1990, i deputati albanesi
riuniti a Kačanik approvano la nuova Costituzione del Kosovo, ma solo il 22 settembre dell'anno
dopo, sull'onda dell'indipendenza slovena e croata, fanno il passo decisivo votando la risoluzione
per l'indipendenza e la sovranità del Kosovo (confermata in un referendum dal 99,87 per cento dei
votanti).
Il 19 ottobre 1991, il Parlamento dichiara infine la Repubblica del Kosovo. Il 24 maggio 1992, si
tengono le elezioni per il Parlamento e il presidente della Repubblica. Ormai la separazione
istituzionale è netta, e tutti questi passaggi illegali, clandestini, virtuali tranne che nella prospettiva
della secessione, vengono tollerati dalle autorità che preferiscono avallare il «gioco»
dell'indipendenza e però conservare saldamente le redini del potere.
Rugova e il suo staff riescono a far passare la filosofia della nonviolenza, della resistenza passiva,
del «come se» politico. I kosovari albanesi si organizzarono «come se» il Kosovo fosse
indipendente, per mettere alla lunga la comunità internazionale di fronte alla realtà di un governo e
una società alternativi, e guadagnare il consenso e l'attenzione dell'Occidente.
Il giro di vite serbo investe non solo l'amministrazione, le forze dell'ordine, le istituzioni culturali,
ma anche il tessuto sociale e cittadino, la toponomastica in città come Djakovica che, pur essendo per
il 97 per cento abitata da albanesi, si vede da un giorno all'altro cambiare i nomi delle strade in
modo che per esempio via della Lega di Prizren (dal nome del movimento costituito nel 1878 a
Prizren, sud del Kosovo, per «difendere i diritti degli albanesi» alla vigilia del congresso di Berlino)
diventa via Re Pietro il Liberatore. La ricolonizzazione serba avviata già nell'estate del 1991 ha un
forte impulso quattro anni dopo, con il tentativo di trasferire in Kosovo 20 mila profughi serbi della
Krajina. Il programma non ha successo, i profughi sono gli ultimi a volersi spostare in un territorio
conteso e a stragrande maggioranza albanese (in un caso, l'autobus dei rifugiati torna indietro perché
uno dei passeggeri, conosciuta la destinazione, fa rientrare a Belgrado l'autista puntandogli una
pistola alla tempia).
Il poeta, critico e giornalista americano Christopher Merrill, nel suo Only the Nails Remain.
Scenes from the Balkan Wars, scomoda George Orwell per descrivere l'aria che si respira a PriStina
nel 1991-92, «l'atmosfera demoniaca della guerra». Una guerra non guerreggiata, mentre nel resto
della Jugoslavia si combatte apertamente e si commettono i primi massacri, dalla Croazia alla Bosnia
Erzegovina. Il Kosovo, che può esplodere da un momento all'altro, non esplode. Vegeta in un clima di
terrore, in uno stillicidio di uccisioni, discriminazioni, violenze diluito giorno per giorno, ma non per
questo meno umiliante. A PriStina, Merrill incontra Hydajet Hyseni, che dopo l'arringa «arborea» del
marzo 1981 ha finito di trascorrere dieci anni in carcere. «La polizia mi ha torturato in tutti i modi
possibili», confida Hydajet all'ospite americano, e così dicendo apre un album di orripilanti
fotografie.
Migliaia di albanesi vengono imprigionati nel corso degli anni e torturati senza uno straccio
d'accusa. Rastrellamenti, perquisizioni a tappeto, maltrattamenti ai posti di blocco, ricatti e
ritorsioni, in qualche caso uccisioni, tornarono a essere una pratica quotidiana più che ai tempi di
Rankovic. Gli organismi e le associazioni per la difesa dei diritti umani hanno le biblioteche piene di
dossier sul Kosovo nel decennio 1989-99. A PriStina operano in semiclandestinità il Comitato
Helsinki del Kosovo guidato da Gazmend Pula e il Consiglio per la difesa dei diritti umani e delle
libertà, di Adem Demaqi. I visitatori stranieri sono invitati a studiare i fascicoli negli schedari, con
le fotografie e i reperti medici che li corredano. Volendo, si possono interpellare anche le vittime dei
pestaggi più recenti, che mostrano le ferite non ancora cicatrizzate.
Gli albanesi rispondono alla repressione chiudendosi in se stessi, organizzando le proprie
istituzioni parallele e la propria vita politica nell'ombra. Arjan Konomi («Kosovo, l'Italia in guerra»,
Limes, aprile 1999) nega la nozione di «stato parallelo clandestino» che gli albanesi avrebbero
costituito in Kosovo. «Parlamento, governo, scuole, università, circoli sportivi, istituti culturali,
media in lingua albanese esistevano già dagli anni settanta come legittime istituzioni. Nessuna è stata
creata dopo il 1970. Anche il principale partito albanese, la Lega democratica del Kosovo (Ldk),
esisteva sin dai tempi di Tito come Lega socialista del Kosovo.» Pesantissima è la repressione
culturale, che cancella 207 biblioteche in lingua albanese e 110 istituti culturali compresi l'Istituto di
albanologia e l'Istituto di storia. Solo nel settore delle finanze nasce una struttura inedita, che
dovrebbe raccogliere e convogliare i fondi raccolti tra gli emigrati.
Il nuovo atto di fondazione della Ldk porta la data del 23 dicembre 1989. Due le associazioni
promotrici: gli scrittori del Pen Club e i filosofi. I componenti serbi si sono dimessi per costituire
loro associazioni esclusive. Gli albanesi hanno elaborato progetti politici in lunghe conversazioni
all'Elida Café di PriStina. Il nucleo è formato da personaggi come Rexhep Qosja, professore e
scrittore, Ibrahim Rugova, poeta e professore di letteratura, il sociologo Fehmi Agani e il chirurgo
Bujar Bukoshi, che diventa il primo ministro del governo kosovaro in esilio. Rugova viene scelto
come leader per il carattere pacato e pacifico, che gli ha risparmiato inimicizie e gelosie.
Nelle elezioni del 24 maggio 1992, la Ldk ottiene il 76,44 per cento dei voti, e Rugova un
consenso plebiscitario come presidente della Repubblica del Kosovo. Le autorità chiudono un
occhio. Lo riaprono il 24 giugno, impedendo al Parlamento di riunirsi. Un esecutivo di sei ministri è
stato creato il 19 ottobre 1991, fino al maggio 1992 risiede a Lubiana, quindi si trasferisce a Bad
Godesberg (Bonn): comprende Istruzione, Finanze, Sanità e Informazione, ma non Difesa e Interno. Il
mantenimento dello stato parallelo implica un sistema scolastico e un sistema sanitario autogestiti.
L'organizzazione di assistenza intitolata a Madre Teresa può contare alla fine degli anni novanta
(Judah, op. cit.) su 239 medici generici, 140 specialisti e 423 infermieri in cliniche insediate in 86
case private in tutto il Kosovo, e fornisce cibo e medicine a circa 350 mila persone.
Il 24 dicembre 1992, il segretario di stato americano Lawrence Eagleburger invia un telex per
MiloSevic, il famoso «avvertimento di Natale», che recita: «In caso di conflitto nel Kosovo
provocato dall'azione serba, gli Stati Uniti saranno pronti a impiegare la forza militare contro i serbi
nel Kosovo e contro la stessa Serbia».
Viene telegrafata all'incaricato d'affari l'istruzione di leggere il testo in faccia a MiloSevic, senza
circonlocuzioni. Due anni prima, Eagleburger ha visitato Belgrado sollevando la questione dei diritti
umani nel Kosovo e rivendicando la legittimità da parte degli Stati Uniti d'interessarsi al problema.
MiloSevic gli ha risposto che i serbi si stanno solo difendendo dal fondamentalismo islamico e dalla
narcomafia, e che gli albanesi stanno conducendo una campagna di uccisioni e violenze sessuali nei
confronti delle donne e dei bambini serbi, «e questo senza contare l'assassinio mentale dei 200 mila
serbi che vivono nel Kosovo». Alla fine del 1992 si pone seriamente anche il problema del
boicottaggio albanese delle elezioni jugoslave, quando il premier Milan Panic, che ha vissuto e
lavorato a lungo negli Stati Uniti, si contrappone a MiloSevic e spera di convincere i kosovari
albanesi ad appoggiarlo. Per questo va a PriStina. Rugova e gli altri dirigenti respingono qualsiasi
patto, vuoi perché perderebbero il consenso della loro gente, vuoi perché paradossalmente la
permanenza di MiloSevic è l'argomento politicamente più forte a favore dell'indipendentismo
kosovaro.
Ufficialmente, MiloSevic vince con il 56 per cento. Arkan strappa 5 dei 21 seggi del Kosovo (ma
non sarà rieletto nel 1998). Per chiunque viaggi da Belgrado a PriStina, l'ingresso nel Kosovo è
indicato dalla scritta «Arkan» sulla murata d'un ponte. Fra il 1993 e il 1995, vengono processati
centinaia di ex poliziotti e ufficiali dell'esercito jugoslavo, di nazionalità albanese, in due distinti
procedimenti. L'ex capo di stato maggiore della Difesa territoriale kosovara, Hajzer Hajzeraj, è
accusato di comandare una forza armata al servizio del «presidente» Rugova. Si vocifera anche
dell'esistenza di un Movimento popolare per la Repubblica del Kosovo (Lprk) vicino a Bukoshi, che
insieme con il suo ministro della Difesa, Ahmet Krasniqi, darà vita alle forze armate della
Repubblica del Kosovo, Fark, in concorrenza con l'Uçk. Sotto processo altri gruppi armati che si
preparavano a eventuali insurrezioni, addestrandosi e raccogliendo armi da distribuire ai rivoltosi.
Ma nonostante singoli episodi e reazioni «terroristiche» che pure vengono denunciate dalle autorità
di polizia serbe, il popolo albanese mantiene fede per lunghi anni alla filosofia della nonviolenza.
La sconfitta della strategia nonviolenta di Rugova si profila in modo evidente con gli accordi di
Dayton. L'intesa del novembre 1995 che mette fine alla guerra in Bosnia Erzegovina, fa di MiloSevic
il leader pacificatore al quale l'Occidente deve rendere grazie per aver ottenuto l'assenso dei
recalcitranti serbobosniaci. Nell'agosto dello stesso anno, la Croazia ha ripreso la Krajina con un
attacco che dimostra la vulnerabilità della nazione serba e ancora una volta premia, nella Jugoslavia
ormai dissolta, la legge del più forte. La rivincita croata, e la consacrazione internazionale di
MiloSevic a Dayton, persuadono gli albanesi che non ci sono più margini per scelte difficili, eroiche:
la «disobbedienza civile» e la «resistenza passiva» teorizzate da Rugova finiscono gradualmente
nella soffitta della storia.
Dopo Dayton, gli Stati Uniti mantengono il veto al rientro della Jugoslavia in organismi come la
Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Viene però tolto l'embargo dell'Onu, e
riconosciuta la nuova Jugoslavia di MiloSevic, che ha consentito lo scempio di Srebrenica e delle
«aree protette» in Bosnia così come il martirio di Vukovar, il bombardamento di Dubrovnik e
l'assedio di Sarajevo. la Jugoslavia composta di Serbia e Montenegro e, all'interno dei confini serbi,
dal Kosovo con la sua stremata e frustrata maggioranza albanese. I kosovari albanesi provano una
delusione cocente. Il tema del Kosovo non è stato posto da nessuno a Dayton, perché la sua sola
evocazione come oggetto di dibattito avrebbe comportato l'abbandono del tavolo da parte di
MiloSevic, e perché l'attenzione per i diritti umani nel Kosovo non è un argomento d'interesse per la
Croazia di Tudjman che lo liquida come «problema interno» della Serbia, o per la stessa Bosnia di
Alija Izetbegovic. In definitiva, durante la guerra in Croazia e in Bosnia gli albanesi si sono astenuti
dal ribellarsi e aprire un secondo o terzo fronte che avrebbe potuto indebolire Belgrado. In più,
attorno al Kosovo s'intrecciano e scontrano altri, più vasti interessi macedoni, greci, albanesi, turchi,
russi, tedeschi, americani. Meglio non smuovere le acque. Infine, Dayton conclude una fase nella
quale le armi hanno già parlato, gli eserciti hanno combattuto, la guerra ha modificato i confini. Al
contrario, il Kosovo è ancora un «massacro che aspetta di succedere». Il confronto armato è latente,
di là da venire. Gli albanesi non hanno, per così dire, sofferto abbastanza per attirare l'attenzione dei
paesi politicamente evoluti. L'Occidente insiste con Rugova per la reintegrazione nelle istituzioni
federali, ignorando il fatto che il «parallelismo» istituzionale albanese è una costrizione, prima
ancora che una scelta. L'ostinata nonviolenza di Rugova non può superare la soglia del suicidio
politico.
Se gli albanesi piangono, i serbi non ridono. Dopo dieci anni di regime d'occupazione e di leggi
discriminatorie ai danni dell'etnia albanese, i serbi non hanno compiuto un solo passo avanti verso la
«riconquista» del Kosovo. Per dirla con Malcolm, «la debolezza più importante e più a lungo
termine di tutte sta dalla parte serba». Semplicemente «la Serbia aveva già perso il Kosovo, e cioè
nei termini più profondamente umani e demografici». Se è vero, infatti, che MiloSevic non mostra di
cedere d'un millimetro, la solita Accademia serba delle scienze e delle arti lancia pubblicamente un
appello nel 1996, per bocca del suo presidente Aleksandar Despic, a favore della spartizione della
provincia. «Siamo di fronte a una incontestabile spinta demografica (albanese) che non è possibile
supporre d'arginare in un avvenire più o meno prossimo. Tra venti o trent'anni la Serbia diverrà un
paese con due popoli di pari importanza numerica, un paese con due lingue di origine diversa.»
L'incubo dell'albanizzazione della Serbia scaturisce dal fallimento della politica di serbizzazione del
Kosovo. A dispetto di persecuzioni, licenziamenti e di un intero repertorio di violazioni dei diritti
umani, la popolazione albanese sta là, con il suo carico umano e numerico, l'ostinata sopravvivenza e
presenza sul territorio, la sua sopportazione, la sua sofferta tenacia, la sua fecondità inarrestabile. La
tragedia dei serbi sta tutta qui. Una sessantina d'anni prima, nel 1937, Vaso čubrilovic, socio del
«Club culturale serbo di Belgrado» e uno dei complici di Gavrilo Prinčip nell'assassinio
dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo nel 1918, teorizzava l'espulsione dal Kosovo di
centinaia di migliaia di albanesi «in un momento in cui la Germania riesce a espellere decine di
migliaia di ebrei». Propone di applicare «alla lettera, per rendere la permanenza intollerabile agli
albanesi, le leggi sulla punizione del contrabbando, il taglio delle foreste, i danni all'agricoltura, i
cani senza catena... qualsiasi altra misura che un'esperta forza di polizia sa escogitare». Ulteriori
passi sarebbero stati la requisizione dei pascoli e i licenziamenti di massa, senza escludere un
sistema come quello usato dai serbi nel 1878: «Bruciare di nascosto i villaggi e i quartieri cittadini
albanesi». E' in base a questa filosofia che viene concordato tra Belgrado e Ankara il trasferimento in
Turchia di 200 mila albanesi del Kosovo, progetto abortito solo per lo scoppio della Seconda guerra
mondiale.
«Ritengo» ammonisce Despic nel 1996 «che sia oggi nostro dovere esporre al nostro popolo il
difficile dilemma davanti al quale sarà posto in modo sempre più drammatico, soprattutto se gli
albanesi decidessero di fare un massiccio ingresso nella vita politica del paese.» Due anni dopo, nel
1998, con il patrocinio dell'università di Atene e la guida scientifica dei professori greci Thanos
Veremis e Evangelos Kofos (fautore di una cantonizzazione del Kosovo) viene pubblicato un libro
dal titolo Kosovo: Avoiding Another Balkan War, che metterà insieme i contributi di studiosi e
politici serbi e albanesi. Da parte albanese vi figura l'editore e direttore di Koha Ditore, Veton
Surroi, cofondatore del Partito parlamentare, e il filosofo Shkelzen Maliqi, popolare ex leader del
Partito socialdemocratico, poi esponenti della cosiddetta Alternativa albanese democratica, e da
parte serba la sociologa femminista Marina Blagojevic, membro dell'opposizione accademica
belgradese a MiloSevic. Surroi è figlio d'un diplomato jugoslavo, Maliqi di un esponente comunista
che è stato segretario agli Affari interni per il Kosovo: sono entrambi cresciuti all'ombra del Partito
comunista kosovaro nella Jugoslavia di Tito. Il 15 maggio 1998, Rugova va a Belgrado con Surroi e
Fehmi Agani, per incontrare MiloSevic. Una risatina d'imbarazzo di Rugova durante i colloqui viene
rimandata dalle televisioni e intacca l'immagine del leader. Il 22 maggio, a PriStina, s'incontrano le
delegazioni guidate da Agani e Ratko Markovic (per i serbi). Una settimana dopo, Rugova vola a
Washington da Bill Clinton, ma la notizia dell'offensiva serba a Dečani mette prematuramente fine ai
colloqui. il de profundis del negoziato. A rimetterci non sono solo gli albanesi, ma soprattutto, e alla
lunga, i serbi. A ben leggere l'intervento della Blagojevic, s'intende la preoccupazione degli ambienti
intellettuali di Belgrado, i più lucidi nel capire che la guerra è persa in partenza. La sociologa spiega
che «le élite nazionali nell'ex Jugoslavia, compresa quella albanese, avevano lavorato per creare
stati etnici e per lo più c'erano riuscite», la qual cosa «non andrebbe trattata come una questione di
etica secondo il prevalente approccio occidentale, ma più come un fenomeno sociale che
difficilmente si può ignorare, o impedire».
Determinanti le rilevazioni demografiche. «Nel periodo 1948-91, la popolazione nella Serbia
centrale è aumentata del 40 per cento, nella Vojvodina del 23 per cento, e nel Kosovo del 167 per
cento. Questo ha cambiato la proporzione tra le diverse aree. La percentuale di popolazione della
Serbia centrale è crollata dal 64 al 59 per cento, e quella della Vojvodina dal 25 al 21, mentre quella
del Kosovo è passata dall'11 al 20 per cento.» La Blagojevic ammette che la separazione dei sistemi
scolastici ha fatto precipitare, fra il 1989 e il 1994, i 300 mila allievi elementari e i 70 mila degli
istituti secondari, giù fino a quota 17 mila. Emerge da una ricerca di ottobre-novembre 1993 anche
una separazione sostanziale nei punti di vista delle due componenti etniche su tutti i temi politici
discriminanti. Per esempio, alla domanda: «In quale paese vivi?», gli albanesi rispondono per il 71,5
per cento «Kosovo», per l'1,8 per cento «Serbia», e per il 17,7 «Jugoslavia». Gli albanesi sono di
gran lunga più scettici dei serbi sull'eventualità che scoppi la guerra.
La Blagojevic sottolinea la segregazione sentimentale, familiare e sessuale, ben rappresentata
dall'inesistenza di fatto dei matrimoni misti. Uno studio del 1997 del Forum per i rapporti etnici di
Belgrado e dell'Istituto (serbo) di filosofia e sociologia di PriStina ha fatto emergere che tutti e due i
gruppi etnici escludono i matrimoni misti (il 95 per cento degli albanesi e il 74 dei serbi), ma anche
l'amicizia (82 per cento e 44), l'accettazione d'una relazione di lavoro (76 e 61), addirittura la
convivenza nella stessa città o quartiere (sebbene con percentuali inferiori). Gli albanesi non
riconoscono alcuna istituzione serba o federale, e per quasi tutti non c'è alternativa all'indipendenza
(Benedikter, op. cit.).
Tra le etnie vige uno stato di separazione sotto lo stesso tetto, una condizione di matrimonio
impossibile tenuto insieme soltanto dal terrore e dalla disperazione, e che si trascina tra
incomprensioni e violenze.

Guerra di liberazione Le origini dell'Ushtria çlirimtare e Kosoves (Uçk), Esercito di liberazione


del Kosovo, sono confuse, variegate, misteriose. La sua comparsa ufficiale risale al 1996, ma solo
nel 1997 s'impone come vera forza di guerriglia, come quello che promette il suo nome.
Rugova ne nega l'esistenza sino al febbraio 1998, attribuendo i sempre più numerosi atti di
guerriglia e terrorismo ai servizi segreti serbi che tenterebbero così di screditare la Ldk fedele alla
nonviolenza.
Rugova, in realtà, ha già perso credibilità agli occhi della sua gente con la pace di Dayton, e un po'
anche si scredita da solo tutte le volte che tenta d'intavolare con MiloSevic un dialogo impossibile,
come nel 1996 sul sistema scolastico e universitario attraverso la mediazione della comunità di
Sant'Egidio. All'inizio, per l'Occidente e gli stessi albanesi, l'Uçk è quasi un ufo, un'entità misteriosa
che ha fatto irruzione sulla scena politica e militare venendo da chissà dove e la cui forza e il cui
seguito non si possono valutare esattamente. Quest'elemento di mistero rimane peculiare del
movimento, che arriva a controllare nella primavera 1998 quasi metà del territorio del Kosovo,
viene poi dato per spacciato dopo la controffensiva serba nell'estate dello stesso anno, e affronta i
mesi di bombardamento della Nato consapevole dei propri limiti in confronto all'armata jugoslava,
ma con orgoglio e con fortune alterne. C'è chi ritiene che la pressione da terra dell'Uçk abbia una
parte forse determinante nella decisione di MiloSevic di scendere a patti (Judah, op. cit.), e chi
invece ridimensiona il peso del piccolo esercito di Hasim Thaci, di fatto assimilandolo a una
creatura dei servizi segreti americani e tedeschi con il fine di catalizzare il conflitto. Un'invenzione
della Cia o poco più.
A dispetto dei suoi connotati enigmatici, il modello ideologico dell'Uçk ha una storia che affonda
negli anni settanta e nella tradizione ancora più antica del brigantaggio politico albanese della
Drenica, il triangolo centrale compreso tra Klina, Glogovac e Srbica: vallata in parte collinosa,
abitata in stragrande maggioranza da albanesi, con villaggi chiusi in se stessi e ligi alla legge del
Kanun. La Drenica sarà il teatro della guerra di liberazione, come in passato di altre stagioni di
rivolta popolare e resistenza armata, per esempio nel 1878 contro gli ottomani. Invece di stupirsi
dell'apparizione sulla scena jugoslava dell'Uçk, c'è da stupirsi della durata della stagione nonviolenta
nel Kosovo: miracolo d'incerta interpretazione, effetto controverso del pragmatismo di una
leadership che ha indicato alla propria gente una liberazione indolore, quasi passiva, affidata alla
magnanimità di un Occidente che continua invece a considerare il Kosovo un insulso puntino sulle
carte geografiche jugoslave, tale da non meritare compassione.
L'Uçk nasce nel 1993 come braccio armato dell'Lpk, il Movimento popolare del Kosovo. Si
differenzia dall'Ldk per la percezione geopolitica di un Kosovo che comprende, rispetto alla
Repubblica del Kosovo votata a Kačanik, anche i territori a maggioranza albanese di Montenegro
(Dulcigno, Plav e Rozaj), Serbia (PreSevo, Bujanovac e Medvedja) e Macedonia (Tetovo e
Gostivar): una sorta di Grande Kosovo da annettere all'Albania o mantenere nella Jugoslavia con una
sostanziale indipendenza, o inserire in una futuribile confederazione balcanica, comunque da
emancipare dal mortale abbraccio della Jugoserbia di MiloSevic. Non a caso l'Lpk discende
dall'Lprk (Movimento popolare per la Repubblica del Kosovo), che perde quel riferimento alla
Repubblica e quindi la «r» nella sigla dopo che il Parlamento del Kosovo approva la nuova
Costituzione il 7 settembre 1990 definendo una repubblica dai confini «troppo limitati».
Una delle prime uscite pubbliche di personaggi dell'Uçk, il 5 luglio 1998 a Londra, viene
raccontata da Judah (op. cit.). Jashar Salihu, Agim Fagu e Pleurat Sejdiu chiedono armi per la lotta di
liberazione a poche centinaia d'albanesi raccolti in piazza. Salihu dice d'essere stato in carcere nel
1981 per aver distribuito volantini, nel 1979 era già impegnato nella preparazione della rivolta con
«altri amici» che sono stati uccisi, dice, in Germania.
La sua idea di Kosovo comincia a Bar, Montenegro, e finisce a Bitola, Macedonia (in albanese,
rispettivamente, Tivar e Manastir).
Quanto agli amici morti, si tratta del gruppo di Jusuf Gervalla e del fratello Bardhosh, leader del
piccolo Mnlk, il Movimento per la liberazione nazionale del Kosovo, marxista-leninista ed enverista
(si richiama al dittatore albanese, Enver Hoxha). Gervalla è poeta, musicista, giornalista. Vicini al
movimento sono inizialmente Xhafer Shatri, poi ministro dell'Informazione di Bukoshi con base a
Ginevra, e il «Che Guevara del Kosovo», Hyseni, che aderisce alla Ldk. Figura di riferimento di
questo arcipelago nazionalista d'estrema sinistra è il perseguitato per eccellenza, Demaqi, primatista
della detenzione nelle carceri serbe. Il 17 gennaio 1982, i fratelli Gervalla incontrano vicino a
Stoccarda Kadri Zeka, capo del Gruppo dei marxisti-leninisti del Kosovo. Dalla fusione dei due
movimenti nascerà l'Lprk. A uccidere i convitati, la sera stessa, agenti jugoslavi o forse albanesi. Il
progetto di fusione viene realizzato l'anno dopo.
Secondo Bardhyl Mahmuti, portavoce all'estero dell'Uçk negli anni della «guerra di liberazione»,
non è tanto l'ideologia il nocciolo dell'enverismo kosovaro, quanto la teorizzazione leninista delle
organizzazioni clandestine. Per Shatri, i gruppi enveristi erano sostanzialmente nazionalisti, ma
consapevoli che l'unico aiuto poteva arrivare dall'Albania di Hoxha. L'enverismo guadagna seguaci
all'università di PriStina, ma dopo il 1981 parecchi studenti conoscono le galere jugoslave. Shatri
per undici anni, Mahmuti per sette. Il loro destino è quello di uscir di prigione, rilasciati o evasi che
siano, e partire subito per lidi stranieri unendosi alla folta diaspora. Qualcuno entra nella Ldk, come
Shatri e Hyseni, costituendone l'ala dura. Altri proseguono l'attività nel buio. La frammentazione
evidente tra gli albanesi presenti ai colloqui di pace di Rambouillet del 1998 è la conseguenza d'una
storia tormentata e di rapporti anche umani che si sono sfilacciati e guastati sotto il peso
dell'oppressione serba.
Attivo fin dai primi anni dell'Lpk è Shaban Shala, che sceglie una copertura da attivista dei diritti
umani. Legami vengono stretti nella Drenica con il clan di Adem Jashari, del padre Shaban e del
fratello Hamza, boss del villaggio di Donji Prekaz. Nel 1990, Adem e i suoi uomini vanno in Albania
per un periodo di tirocinio militare nel campo di Labinot, vicino a Elbasan. Tra il 1991 e il 1992, un
centinaio di militanti vengono addestrati a Labinot come frutto d'un accordo tra Lprk e governo di
Bukoshi in esilio. Molti finiscono in carcere al rientro nel Kosovo. Con lo scoppio della guerra in
Croazia, reclute e ufficiali si uniscono all'esercito di Zagabria, formando persino speciali unità
kosovare. Tra gli ufficiali, Tom Berisha e Agim çeku. Ma il «secondo fronte» che potrebbe
impegnare i serbi in Kosovo non viene aperto, anzitutto perché la Croazia di Franjo Tudjman vede, e
teme, le somiglianze tra le rivendicazioni dei kosovari in Serbia e quelle dei serbi in Croazia, poi
perché gli albanesi kosovari sono ancora militarmente troppo impreparati.
Nell'agosto 1993, un centinaio di capi dell'Lprk si riuniscono in una località segreta della Drenica
per cambiar nome al partito in Lpk, cancellare il richiamo all'ideologia marxista-leninista, e formare
un piccolo esercito guerrigliero. Una parte dell'Lprk, favorevole a una Intifada ma contrario alla
guerriglia, si stacca creando il Movimento nazionale per la liberazione del Kosovo (Lkck).
Quattro uomini vengono incaricati di mettere in piedi il braccio armato, l'Uçk: Kadri Veseli, il
ventiseienne ex leader studentesco Hasim Thaci, l'albanese d'Albania emigrato in Svizzera Xhavit
Haliti detto «Zeka» (zecca, tafano), e un albanese di Macedonia che si fa chiamare Abaz Xhuka. I
comunicati dell'Lpk usciranno su Zeri i Kosoves, foglio stampato nella Svizzera che ospita circa 200
mila albanesi, quelli dell'Lkck su Clirimi, diffuso clandestinamente in Kosovo. Convergono così,
nella nascita dell'Uçk, le esperienze dei vecchi enveristi, degli studenti, della diaspora e degli eredi
locali dei kačanik, i ribelli di feudale memoria. In Europa e America aprono centri di raccolta fondi
non più legati solo a Bukoshi, che vanno sotto il nome di Homeland Calls o Homeland Calling («la
patria chiama»). A parte i rapporti con l'Albania, che dopo Enver Hoxha ha «incoronato» Ramiz Alia
ai tempi del campo di Elbasan e finalmente Sali Berisha originario di Tropoje vicino a Bajram Curri
e alle basi logistiche degli irredentisti kosovari, crescono pure gli «scambi d'informazioni» con i
servizi segreti occidentali. Shaban Shala e lo zio di Thaci, Azem Syla, incontrano in Albania, nel
1996, membri dell'intelligence britannica, americana e svizzera (Judah, op. cit.).
Shala assicura che contatti analoghi durano tra Lprk e «amici» occidentali fin dal 1991. forte
l'impegno della lobby albanese a Washington, che ha nel potente repubblicano Bob Dole e
nell'albano-statunitense Joe Dioguardi, democratico di New York, i più agguerriti sostenitori.
Nella primavera 1997, in Albania crollano le piramidi finanziarie che hanno costruito una fortuna
sul giochino di massa che somiglia alle ben note (in Italia) catene di sant'Antonio. Il leader ex
comunista dell'opposizione, Fatos Nano, all'epoca in carcere, ne approfitta per suscitare la rivolta di
Valona, in combutta con i clan mafiosi del Sud. Berisha cade, l'Albania si disintegra e dalle ceneri
riemerge un paese forse peggiore, con Fatos Nano di nuovo in sella.
La rivoluzione produce a sua volta cambiamenti importanti nel Kosovo.
Berisha era un elemento di stabilità. Il suo appoggio alla causa kosovara era fuor di dubbio, ma i
suoi legami con l'Occidente lo avevano indotto a sostenere la linea della nonviolenza di Rugova. In
secondo luogo, enormi quantità di armi vengono trafugate nei giorni dell'anarchia dai depositi rimasti
incustoditi dell'esercito albanese. Armi che finiscono pure nelle mani dei guerriglieri dell'Uçk. I
kosovari albanesi si preparano a sistemare da soli, e a modo loro, i conti con l'oppressore serbo.
Siamo ancora lontani dalla sera del 24 marzo 1999, dal primo missile sparato dalla Nato sulla
Serbia, eppure quante cose sono già successe... Più che una pace in bilico, questa è una guerra
latente.
Qualche avvisaglia diretta si ha nel maggio 1993 con l'uccisione di due poliziotti a Glogovac. Il
primo maggio, il documento conclusivo dell'Assemblea consultiva dell'Lprk suggerisce di «preparare
e sviluppare azioni per la liberazione del nostro paese occupato», avvertendo che i militanti sono
«pronti a combattere fino alla morte» e che sarà inevitabile «lo scontro armato col nemico».
Nel febbraio 1996, pochi mesi dopo che gli accordi di Dayton hanno messo la pietra tombale sulle
aspirazioni albanesi di internazionalizzazione della crisi e sulle illusioni dei nonviolenti, l'Uçk
scatena la prima vera campagna. l'11, quasi notte. Più automobili con a bordo commando mascherati
lanciano bombe a mano e sparano raffiche di kalashnikov su sei insediamenti di profughi serbi in
Kosovo, a PriStina, Vučitrn, Kosovska Mitrovica, Pec, Suva Reka e Podujevo. Nessuna vittima. Tre
giorni dopo, un comunicato dell'Uçk rivendica l'azione contro «campi dei coloni serbi arrivati dalla
Krajina». Seguono la precisazione che finora si è trattato solo di azioni dimostrative, l'invito al
dialogo per far finire il regime d'occupazione serbo nella «Repubblica del Kosovo», e l'appello agli
organismi internazionali e agli Stati Uniti per il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo. Con
un monito, infine, ai collaborazionisti. «Faranno la fine di Esat Pasha», ucciso nel 1919 come
traditore del popolo per essersi accordato con Belgrado. La parola d'ordine dei leader albanesi del
Kosovo, compreso Hyseni che ancora milita nella Ldk, è negare, negare, negare. Anzi, accusare i
servizi serbi. In maggio, l'incursione in un bar serbo di Pec fa sei morti. Da quel momento
s'intensificano gli attacchi a stazioni di polizia e a caserme (a quella di Vučitrn il 27 ottobre), ma
anche esecuzioni di albanesi collaborazionisti. Puntuali le rivendicazioni. Il 16 gennaio 1997,
esplode un'autobomba al passaggio del rettore dell'università di PriStina, Papovic. L'Uçk si assume
la responsabilità dell'attentato, ma non sono in molti a crederci. Judah (op. cit.) osserva che un
livello tecnologico-militare così sofisticato fa pensare a una matrice serba. L'Uçk cresce
militarmente, e politicamente. Conquista il consenso d'una popolazione delusa dalla filosofia
dell'attesa. Nell'agosto 1997, gli studenti di PriStina iniziano una protesta contro la mancata
applicazione dell'intesa concordata da Rugova a Belgrado sulla restituzione degli istituti scolastici e
universitari agli albanesi, e non smettono di protestare il mese dopo, quando Rugova chiede loro di
tornare a casa. Uno smacco, per il leader. Uno smacco più grave è la scissione della Ldk, favorita
senza dubbio dai progressi sul campo dell'Uçk. L'ala dura abbandona Rugova nel febbraio 1998 per
formare con Hyseni il Movimento democratico albanese (Ldsh), sotto la guida spirituale di Rexhep
Qosja, già favorevole alla lotta armata. Tra gli emergenti, l'ex detenuto politico e insegnante di storia
a čirez, Jakup Krasniqi, transfuga dalla Ldk e vicino per ragioni familiari a Thaci tanto che nel giugno
1998 diventa il portavoce dell'Uçk in Kosovo. Fuori dell'Albania, in Svizzera, parla Bardhyl
Mahmuti, laureato a Losanna.
Un'altra data importante è il 28 novembre 1997. Tra le migliaia di persone che seguono a Lhausa,
nella Drenica vicino al monastero ortodosso di Devic, il funerale di Halit Gecaj, insegnante e
militante dell'Uçk ucciso dalla polizia, si presentano a sorpresa tre guerriglieri in uniforme. Uno si
sfila il passamontagna e tiene un breve comizio. «La Serbia sta massacrando gli albanesi. L'Uçk è
l'unica forza che combatte per la liberazione e l'unità nazionale del Kosovo. Continueremo a
combattere!» Poi, il trio salta su un'automobile e scompare. La tv di Tirana rimanda le immagini,
Koha Ditore pubblica servizio e foto dei tre. Altre azioni sono portate a segno nel dicembre 1997 in
Macedonia, contro il tribunale di Gostivar e le stazioni di polizia di Kumanovo e Prilep. Un filo
conduttore che in linea con la visione geopolitica dell'Uçk, porterà alla ripresa del terrorismo, sotto
nuove spoglie e sigle, nei territori abitati da albanesi in Serbia dopo la guerra, a PreSevo. In questo
clima d'irredentismo grandalbanese, il sindaco albanese di Gostivar in Macedonia, Rufi Osmani,
viene arrestato e torturato per aver consentito d'innalzare la bandiera albanese sul municipio della
cittadina macedone. Si aggrava pure il braccio di ferro tra il rettore schipetaro dell'università
autogestita albanese di Tetovo, Fadil Sulejmani, e le autorità di Skopje. Una storia che ricorda la
travagliata vicenda dell'università di PriStina.
L'Uçk non porta scompiglio solo nel Kosovo, ma inquieta i vicini serbi e macedoni nei territori a
forte densità albanese e, quindi, l'Occidente, preoccupato della stabilità a rischio della regione
balcanica. La prima vera battaglia tra Uçk e pattuglie della polizia serba appoggiate da elicotteri da
combattimento si consuma in due battute, il 28 febbraio e il 5 marzo 1998. Vinta militarmente dai
serbi, segna però anche l'inizio della disfatta di Belgrado, perché fa il primo martire guerrigliero e
porta all'internazionalizzazione del conflitto. La mattina del 28, una macchina con a bordo quattro
uomini dell'Uçk viene attaccata dalla polizia serba a LikoSane, vicino a čirez. Accorrono cinque
automobili dell'Uçk con a bordo Adem Jashari e Sulejman Selimi, nipote di Rexhep Selimi che era
uno dei tre ribelli apparsi a Lhausa e che avrebbe comandato l'Uçk con il nome di battaglia «Sultan»
da febbraio ad aprile del 1999, durante il bombardamento della Nato. Nello scontro, nel quale è
coinvolto un elicottero, quattro poliziotti vengono uccisi. La polizia muove allora contro LikoSane, il
villaggio colpevole d'aver dato appoggio logistico ai guerriglieri, ed entra nelle case con i blindati.
Dieci componenti della famiglia Ahmeti e un ospite, trascinati fuori casa, vengono fatti stendere per
terra, quindi trucidati. In un'altra casa, i morti sono due. Elicotteri e blindati si concentrano poi su
čirez, uccidendo tra gli altri una donna incinta di 27 anni. Il bilancio del 28 febbraio è di 26 vittime
civili, ma la battaglia non è finita. Il 3 marzo, in 15 mila partecipano ai funerali. Due giorni dopo, la
polizia punta direttamente su Donji Prekaz, il villaggio dei clan Jashari e Lushtaku. Le forze serbe
s'installano in una vecchia fabbrica di munizioni, e da lì cominciano a bombardare. Il 6 marzo, i
blindati circondano le quattro case degli jashari, che per sette ore rispondono al fuoco con tutto ciò
che hanno: mitragliatori, Rpg, fucili e bombe a mano. Vengono uccisi in 58, comprese 18 donne e 10
bambini sotto i sedici anni, ma anche Adem Jashari e il padre settantenne, Shaban. Besarta Jashari,
nipote di Adem, racconterà quei momenti frenetici, la morte rapida e la distruzione della famiglia.
«Potevamo sentire il rumore dei colpi di fucile e dei carri armati. Zio Adem ci disse di non
preoccuparci, andammo nello scantinato. Ci stendemmo sul pavimento e ci nascondemmo sotto le
coperte. Lanciarono all'interno una granata. L'esplosione uccise mia nonna nella camera accanto.
Quasi tutti furono uccisi. Mia sorella cominciò a implorare acqua e a chiamare a voce alta: "Mamma,
mamma!".» Il commento di Adem Demaqi è quasi sprezzante: «Jashari non ha mai capito i fondamenti
della guerriglia. Non è voluto restare sulle colline con il resto dei separatisti. La maggior parte dei
guerriglieri aveva scelto di rifugiarsi sui monti nei giorni precedenti l'attacco delle forze serbe.
Jashari è rimasto a casa sua, e così è diventato un obiettivo fin troppo facile». (Provvisionato, Uçk,
l'Armata dell'ombra). Va pur detto che i serbi avevano tentato di «bonificare» Donji Prekaz in
passato, ma la reazione del clan Jashari li aveva costretti al ritiro, e il 23 febbraio, pochi giorni
prima dell'offensiva serba, l'inviato speciale degli Stati Uniti nei Balcani, Robert Gelbard, aveva
dichiarato a PriStina che «la violenza crescente è estremamente pericolosa», quella serba ma anche
quella dell'Uçk. «Noi condanniamo con molta forza le azioni terroristiche nel Kosovo. L'Uçk è, senza
dubbio, un gruppo terroristico.» In seguito, Washington si è corretta, quattro mesi dopo lo stesso
Gelbard incontra pubblicamente a Ginevra due esponenti di spicco dell'Uçk, Thaci e Mahmuti. L'Uçk
non compare tra le organizzazioni terroristiche elencate dal Dipartimento di stato.
Tuttavia, in quel momento le parole di Gelbard hanno avuto un «effetto Baker», interpretate in
Serbia come luce verde per la repressione, come nel giugno 1991 il monito antisecessionista del
segretario di stato James Baker nella missione lampo a Belgrado era servito agli jugoslavisti per
ordinare l'intervento della Jna in Slovenia.
Le immagini di LikoSane e Donji Prekaz fanno il giro del mondo.
Nelle stesse ore in cui viene perpetrata la strage, MiloSevic a Belgrado assicura il segretario agli
Esteri di Sua Maestà, Robin Cook, che in Kosovo regna la calma. La figuraccia alla quale MiloSevic
espone Cook induce forse Londra (Judah, op. cit.) a un irrigidimento che si manifesterà appieno
durante la campagna della Nato, un anno dopo. I Grandi non dimenticano. «Dopo quel massacro,
grande fu la nostra preoccupazione», dirà il segretario di stato degli Usa, Madeleine Albright, al
network Pbs. «Ci andai giù dura, dissi che avevamo appreso bene la lezione della Bosnia, dove
avevamo aspettato troppo prima di agire, e che saremmo stati giudicati in modo implacabile se
avessimo consentito che capitasse di nuovo quel che era successo in Bosnia.» Nella mente della
Albright ci sono la tragedia e la vergogna di Srebrenica, e l'efficacia dei pochi raid della Nato che
dopo anni di attendismo occidentale hanno ridotto MiloSevic, in Bosnia, a più miti consigli. La
Albright, inoltre, appartiene al filone dei democratici idealisti, ha teorizzato il concetto di virtuous
power, la virtuosa potenza americana che per esser tale non può certo chiudere gli occhi davanti a un
genocidio consumato nel cuore dell'Europa, sotto gli occhi della Nato che sta faticosamente
ridisegnando un proprio ruolo dopo il crollo del Muro.
Il 22 marzo 1998 si tengono le elezioni del Parlamento parallelo albanese, boicottate dall'ala dura
dei kosovari che perseguono la strada della lotta armata. Vince, ancora una volta, Rugova. Ma la
popolazione vive ormai una doppia affiliazione, confermata nel 1999 dai profughi in Macedonia: tutti
con l'Uçk, ma tutti anche con Rugova. lui il leader carismatico, eppure non ci si può non dire
dell'Uçk. A Belgrado, MiloSevic allarga il governo al Partito radicale dell'estremista Vojislav
SeSelj, che coltiva la criminale idea di espellere «i 360 mila immigrati del dopoguerra e i loro
discendenti» dal Kosovo e riportare la struttura etnica della popolazione a quella del 6 aprile 1941.
SeSelj è SeSelj, quale negoziato sarà mai possibile con lui? Una sola voce moderata pubblicamente
si leva da parte serba, quella del vescovo di Prizren e RaSka, Artemije, e del suo consigliere e
portavoce, padre Sava.
«Dopo il massacro di Drenica» dice Artemije «sono finite le possibilità di un dialogo come
soluzione del problema, quel che rimane è ciò che i signori di Belgrado hanno scelto, la perdita del
Kosovo, come quella della Krajina, in guerra. La guerra, qui, significherebbe la rinuncia definitiva al
Kosovo.» Artemije è isolato, subisce minacce per queste sue prese di posizione dagli stessi serbi.
Più tardi, a fine giugno, diventano operative le formazioni d'autodifesa della comunità ortodossa, le
Guardie di difesa serba (Sos) di Miroslav Solevic.
La diplomazia europea arranca nelle solite sottovalutazioni, nei soliti ritardi, nelle solite divisioni
che vedono, fra l'altro, l'Italia amica di Belgrado e la Gran Bretagna sempre più distante.
Gli Stati Uniti impiegano qualche tempo a rimettere in pista l'ambasciatore Richard Holbrooke,
malvisto dal segretario di stato, Albright, che vorrebbe forse la sua Dayton kosovara. Abortisce il
tentativo europeo di affidare le redini della trattativa a Felipe Gonzales, l'ex premier socialista
spagnolo che viene ricusato da MiloSevic. Il punto è, semplicemente, che con il leader serbo si deve
dialogare, se si vuole il dialogo, e MiloSevic vuole scegliersi lui i suoi interlocutori. In attesa di
Holbrooke, il 23 aprile MiloSevic fa votare un referendum sulla legittimità della mediazione
internazionale in Kosovo, che fa registrare un prevedibile (e da lui auspicato) 94,7 per cento di «no».
Per la Serbia, il Kosovo restava un affare interno. Grande attivismo diplomatico in questa fase
mostra l'uomo di fiducia di Holbrooke nell'area, l'ambasciatore degli Usa in Macedonia, Cristopher
Hill, che inizia la spola tra Belgrado e PriStina, tenendo e tessendo contatti tra le parti in conflitto,
compreso l'Uçk. Uno dei pochi diplomatici a lavorare davvero sul campo. Quando MiloSevic chiede
di trattare solo con Holbrooke, il fido Hill non tarderà a soppiantare Gelbard, ufficialmente in
maggio.
L'Uçk, nonostante la sua struttura militare poco gerarchica, poco disciplinata, e male armata
rispetto all'esercito serbo, riesce nei mesi successivi al massacro del clan Jashari a ottenere il
controllo di fette di territorio sempre più grandi tra una città e l'altra, e di alcune importanti vie di
comunicazione fino a rivendicare la liberazione avvenuta di oltre il 40 per cento del Kosovo. Per
usare le parole dell'esperto militare Andrea Nativi («Kosovo, l'Italia in guerra», op. cit.), all'Uçk
«mancavano addirittura veri comandi regionali la cui autorità fosse riconosciuta almeno in un teatro
limitato. La logica dei clan ha portato inoltre a uno stretto collegamento dei reparti operativi a un
villaggio o a un gruppo di insediamenti specifici. La maggior parte delle forze combattenti infatti era
poco più che una milizia di autodifesa che agiva «a braccio corto» sul territorio di casa, continuando
a usare le proprie case come base stanziale». Il nucleo permanente di professionisti non supererebbe
le 1500 unità, a cui però si devono aggiungere migliaia di guerriglieri locali e decine di migliaia di
simpatizzanti o combattenti part-time, molti dei quali provenienti dall'estero. L'Uçk può contare
sull'appoggio della popolazione locale e sulle basi d'addestramento e logistiche nel Nord
dell'Albania, fra Tropoje e Kukes. Le armi devono filtrare di là, dal confine con l'Albania, e le
colonne percorrere sentieri poco battuti finendo spesso con il diventare il bersaglio delle imboscate
serbe. L'Esercito di liberazione del Kosovo è finanziato anzitutto dalla diaspora e dal narcotraffico, e
beneficia della cessione di armi e attrezzature da paesi amici (basti pensare alle divise nere della
Stasi, la polizia politica dell'ex Germania dell'Est, che arrivano senza fregi e sulle quali viene cucito
lo stemma dell'aquila nera albanese in campo rosso). Un rapporto dell'americana Drug Enforcement
Administration (Dea) avverte che a partire «dal 1992 un'enorme massa di informazioni ha rivelato
che gruppi di albanesi del Kosovo accettano armi in pagamento della vendita di eroina», mentre
rapporti della Cia descrivono l'Uçk come «un'organizzazione marxista radicale, infiltrata dalla mafia,
implicata nel traffico della droga che utilizza i profitti così realizzati per acquistare armi al mercato
nero» (Provvisionato, op. cit.). Ma l'atteggiamento americano presto cambia.
Uno studio della Heritage Foundation sull'Uçk «e il futuro del Kosovo» (13 maggio 1999), ricorda
le «eclettiche radici ideologiche» d'una formazione militare e politica che combina «elementi di
estrema destra e di estrema sinistra, tenuti insieme dal desiderio di un Kosovo indipendente».
Secondo James Anderson e James Philips, autori dello studio, l'Uçk ha sviluppato «una struttura
organizzativa molto sofistica in breve tempo... Militarmente è organizzata per linee geografiche, con
sette zone operazionali... Ha istituito direttorati, servizi e dipartimenti che con il tempo e con l'aiuto
esterno possono maturare in agenzie civili necessarie per l'autogoverno kosovaro». A metà maggio
del 1999 siamo in piena campagna aerea della Nato, e l'Uçk viene accreditato di 12 mila regolari, 25
mila irregolari e 15 mila emigrati pronti a rientrare in Kosovo (compresi 400 albano-americani della
cosiddetta Brigata Atlantica). Il rapporto conclude che invece di disarmare l'Uçk, conviene
proteggerlo e rafforzarlo. Fra l'altro, questo avrebbe il positivo effetto secondario di rendere inutile
il finanziamento illegale, quindi il traffico di droga. un'ipotesi che si sposa con le critiche della
Heritage (vicina ai repubblicani) all'intervento della Nato, e a favore invece d'una politica di
armamento e rifornimento dell'Uçk. Un dilemma che l'Occidente si era posto in Bosnia, quando era
stato deciso l'embargo sulle armi anche per i bosniaci: armare le vittime o colpire gli aggressori?
Nell'incertezza, in Bosnia si decise di temporeggiare.
L'armamento dell'Uçk migliora con il tempo. La base è rappresentata da fucili d'assalto
Ak47/Akm, carabine Sks di fabbricazione cinese e provenienza albanese, mitragliatrici leggere,
lanciarazzi anticarro Rpg2/7 e copie cecoslovacche dell'Ak47, ma pian piano cominciano ad arrivare
i G3 tedeschi, gli Stayer Aug austriaci, i Sig svizzeri e i Cis di Singapore, oltre a fuciloni da
cecchinaggio 12,7 millimetri americani. Infine, armi pesanti come le mitragliatrici da 12,7, i mortai
fino al calibro di 82 millimetri, e i lanciarazzi controcarro Armbrust, come quelli usati dai croati
contro i carri armati serbi a Vukovar. Più bombe a mano e granate da fucile. Poche le mine (Nativi,
op. cit.). Sul versante serbo, il problema è sempre l'inadeguatezza numerica, che non consente di
mantenere il controllo di tutto il territorio del Kosovo abitato per lo più da una popolazione ostile
che costituisce l'arma più efficace della guerriglia. I reparti di fanteria serbi appoggiati da artiglieria,
mezzi blindati, carri armati usati come cannoni semoventi, ed elicotteri (Mi24 Hind e Mi8), spianano
i villaggi spazzando via, uno per uno, i capisaldi della guerriglia, poi con operazioni di bonifica
bellica ed etnica spingono gli abitanti dei villaggi «colpevoli» all'esodo. Nel tentativo di mantenere
il controllo anche in seguito, inevitabilmente i serbi si espongono però ad attacchi mordi-e-fuggi,
imboscate in cui cadono pattuglie isolate, finché le perdite non inducono i comandanti al ritiro dalle
strade. Contro questo tipo di guerriglia, i serbi adottano il sistema della «terra bruciata», come nella
distruzione di Dečani, villaggio caposaldo dell'Uçk. in un simile contesto che gli americani riescono
a far incontrare MiloSevic e Rugova, in maggio. I serbi non si fermano. Stringono il cerchio attorno
all'Uçk a suon di cannonate, provocando un movimento interno di centinaia di migliaia di profughi
che preoccupa e indigna l'Occidente, imponendo il Kosovo all'attenzione degli organismi
internazionali e dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati. Per la prima volta si parla, riguardo al
Kosovo, di emergenza umanitaria e non più solo di apartheid e violazione dei diritti umani. Tra
giugno e settembre, fra i 3 e i 400 mila kosovari si ritrovano a vagare sulle colline aspettando un
inverno che si profila terribile.
Unica nota positiva per l'Occidente, il ridimensionamento dell'influenza di MiloSevic nel
Montenegro. Nelle elezioni generali del maggio 1998, l'uomo di fiducia di MiloSevic, Momir
Bulatovic, viene sconfitto e rimpiazzato alla presidenza dal filooccidentale Milo Djukanovic, che
sogna un Montenegro sovrano associato a una federazione jugoslava finalmente democratica. Tra i
primi atti, l'invito di un albanese nel governo, e un accordo con la minoranza albanese della
Repubblica, circa il 10 per cento. Nella primavera 1998, l'Uçk tocca l'acme dei successi. Il 24
giugno, a Ginevra, avviene l'incontro non più segreto tra Gelbard, Thaci e Mahmuti.
Appena il giorno prima, un comandante locale dell'Uçk ha accerchiato la miniera di Belačevac. Il
15 luglio viene attaccata quella di Trepča, azione simbolica che rende incandescente la situazione. Il
18, i serbi si prendono la rivincita. Una colonna di 700 guerriglieri cade in un'imboscata mentre
rientra dall'Albania. Sempre il 18, l'iniziativa individuale di un comandante dell'Uçk porta alla
conquista di Orahovac, che dura solo tre giorni. La controffensiva serba è implacabile, sostenuta
oltre che da arrivi freschi dalla Serbia, da migliaia di paramilitari e riservisti. Interi villaggi vengono
rasi al suolo. Esemplare la punizione di Maličevo, vicino a Orahovac. Il sistema è ormai brevettato:
artiglieria, artiglieria, artiglieria. Quindi, bonifica congiunta di esercito e paramilitari. I capisaldi
dell'Uçk vengono chiusi e «cinturati» uno per uno. Le unità intrappolate all'interno non possono
sganciarsi, né ricevere rinforzi. La popolazione civile «di supporto» è costretta a lasciare le case e i
«sospetti guerriglieri» (nozione larga, che dipende quasi soltanto dall'età e dal sesso dei prigionieri)
passati per le armi.
Abile l'impiego da parte serba degli elicotteri: l'uso dell'aviazione non supera mai la soglia oltre
la quale probabilmente scatterebbe un'operazione di no-fly-zone stile Iraq. Obiettivo della strategia
serba è anche quello di creare una fascia di sicurezza compresa fra 500 metri e 10 chilometri al
confine con l'Albania, per stroncare il flusso di armi e reclute da Kukes e Bajram Curri.
Il 16 giugno, Holbrooke vola a Mosca e strappa a Eltsin il «sì» alla presenza nel Kosovo di
osservatori diplomatici internazionali.
Il 23 è a Belgrado da MiloSevic, e il giorno dopo incontra i comandanti dell'Uçk nel villaggio
kosovaro di Junik.
Il 6 luglio, l'incaricato d'affari a Belgrado, Richard Miles, e il suo omologo russo lanciano la
Kosovo Diplomatic Observer Mission (Kdom), un monitoraggio internazionale degli avvenimenti. Il
29, Hill incontra Shaban Shala a Likovac, il giorno dopo un diplomatico britannico vede Jakup
Krasniqi a Klečka, primi contatti organizzati sul campo tra diplomatici americani inglesi ed esponenti
di primo piano dell'Uçk. Presto si creerà una confidenza e frequentazione, quasi un'alleanza, ben
rappresentata da Michael Ignatieff in Virtual War con la descrizione precisa degli incarichi speciali e
delicati affidati ai singoli personaggi dello staff di Hill. La politica americana nei Balcani è decisa
da una cerchia ristretta che comprende Madeleine Albright, il consigliere per la sicurezza nazionale
Sandy Berger, il vicesegretario di stato Strobe Talbott, uomo delle missioni impossibili e grande
conoscitore della Russia, e ovviamente Holbrooke. Sul campo, Hill è affiancato dall'inviato speciale
dell'Unione europea, l'austriaco Wolfgang Petritsch, dal vicecapo della Kvm, il britannico John
Drewenkiewicz, e dall'uomo che per gli Stati Uniti tiene concretamente i contatti con l'Uçk, Shaun
Byrnes.
I cittadini e i politici americani, però, sono al momento distratti da altri e più gravi argomenti.
Clinton è impegnato a difendersi dall'accusa di rapporti sessuali con la stagista Monica Lewinsky.
L'opinione pubblica statunitense ed europea non ha passioni da provare, né tempo da perdere, e
neppure interesse o curiosità per le faide etniche in quella remota provincia dei Balcani dalla
pronuncia incerta... Kòsovo o Kosòvo? Si combatterà, e morirà, anche per pronunciarlo nel modo
giusto, alla serba o all'albanese, e la posizione dell'accento diventerà questione di vita o di morte.
******
Hasim Thaci Hasim Thaci è quasi uno sconosciuto quando nel febbraio 1999 si ritrova a guidare la
delegazione albanese ai negoziati di Rambouillet. Ha appena 31 anni, nel 1991 è stato il leader del
sindacato degli studenti, lui stesso studente di storia, poi è emigrato in Svizzera. Nel Kosovo l'età
media è 24 anni, il 52 per cento della popolazione ha meno di 19 anni e molti emigrano. Il curriculum
vitae di Thaci è quindi rappresentativo dei giovani delusi dalla nonviolenza di Rugova. Nel 1996,
Thaci è uno dei quattro uomini che mettono in piedi l'Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk). Il suo
nome di battaglia: Serpente. Nel 1998, Rugova continua a dire che è una creatura dei servizi segreti
serbi, ma intanto Thaci gli ha strappato il posto nel cuore degli americani. Per quanto l'Uçk non
riesca durante il bombardamento Nato a impegnare seriamente i serbi, né a difendere le masse di
profughi «bonificati», all'indomani della pace è Hasim Thaci il premier dell'autoproclamato governo
del Kosovo, e come tale ricevuto il 10 giugno 1999, mentre le truppe serbe cominciano il ritiro, dal
ministro degli Esteri italiano, Dini. Uno dei principali sostenitori di Thaci è il portavoce del
Dipartimento di stato, James Rubin, del quale si dirà che per scherzo gli ha promesso di presentarlo
ai suoi amici di Hollywood per trovargli una parte in un film. Ma la parabola di Thaci è segnata. Su
di lui il sospetto di sanguinose purghe interne e di legami con il traffico di droga (vedi le interviste
raccolte presso la Kfor da Stars and stripes). Il fratello di Thaci, Gani, controlla il business dei
materiali da costruzione e viene arrestato nel gennaio 2000 per aver sparato dal suo appartamento.
Durante la perquisizione, i poliziotti Kfor hanno trovato 791 mila dollari in contanti. Ma sarà
rilasciato.
Altri legami tra criminalità ed ex comandanti dell'Uçk passano per la Kosovo Protection Force
guidata da Agim çeku. Nell'autunno 2000, Thaci e il suo Partito democratico del Kosovo (Pdk)
perdono le elezioni. Rugova, l'avversario di sempre, riprende il sopravvento.

Vigilia di fuoco La missione internazionale non mette fine alla guerra. Il 2 settembre, la polizia
serba denuncia il ritrovamento a Glodjane di 34 corpi per lo più serbi, ma anche 11 albanesi che
sarebbero stati trucidati dallo stesso Uçk. Non si ferma l'offensiva serba e il giorno dopo il
segretario generale della Nato, lo spagnolo Javier Solana, annuncia che sono pronti i piani
d'intervento dell'Alleanza.
L'annuncio è un atto politico che serve a forzare una soluzione pacifica. Il 24 settembre, i ministri
della Difesa della Nato autorizzano un'esercitazione di 85 velivoli mandati a «ronzare» ai confini del
Kosovo. Un atto dimostrativo. «Non avevamo alcun motivo per considerare questa minaccia
credibile» rivelerà il capo di stato maggiore della Difesa serbo, NebojSa Pavkovic. «Non avevano
motivo di proteggere i terroristi e di farsi coinvolgere nella politica interna di un altro paese.
Semplicemente, non gli credemmo.» Quanto agli Stati Uniti, la preoccupazione principale in quel
momento era di non apparire alleati dell'Uçk. «Per parecchi mesi» dirà il segretario di stato alla
Difesa degli Usa, William Cohen, «non ho fatto altro che ripetere che non saremmo stati l'aviazione
dell'Uçk.» I giuristi internazionali si mettono al lavoro per scovare nelle pieghe del diritto
internazionale l'avallo formale a un eventuale attacco della Nato senza il via libera esplicito del
Consiglio di sicurezza dell'Onu (certamente bloccato dal veto di Mosca e Pechino).
E prende gradualmente forma il concetto di «nuovo umanitarismo militare», secondo la felice
formulazione del tedesco Ulrich Beck analizzata in un graffiante saggio sulle ipocrisie dell'intervento
dal linguista Noam Chomsky (The New Military Humanism. Lessons from Kosovo).
Chomsky ricorda che l'America, così sensibile alla causa dei kosovari (salvo ritrovarsi dopo
l'intervento di fronte a una catastrofe umanitaria peggiore di quella che voleva impedire), non mostra
la stessa sensibilità nei confronti dei curdi in Iraq, e in passato non l'ha mostrata nelle aree in cui i
mercenari e la polizia dei regimi non comunisti in America Latina hanno usato il terrorismo «di
stato» contro oppositori, dissidenti e ribelli. Un giornalista chiede una volta a Madeleine Albright
perché mai si usino due pesi e due misure nei confronti di Belgrado e Pechino, e il segretario di stato
Usa, fautrice dell'intervento umanitario e in difesa dei valori dell'Occidente, replica che gli Stati
Uniti hanno «princìpi solidi e tattiche flessibili». Si ripropone in altri termini, a PriStina, il dibattito
sull'ingerenza umanitaria nella crisi somala, poi sfociata in un fallimento. Il timore di ripetere la
brutta esperienza di Mogadiscio ha contribuito a tenere a lungo l'Europa e gli Stati Uniti lontani
dall'idea d'intervenire nella ex Jugoslavia, provocando soltanto un inasprimento del conflitto e dei
problemi che questo poneva a livello internazionale. Tutto un filone di ex «nuovi filosofi» francesi,
da Bernard-Henri Lévy ad André Glucksmann, ha teorizzato invece la coincidenza tra gli interessi
umanitari e quelli politici per la comunità internazionale. Il dibattito, negli Stati Uniti, è più giuridico
che filosofico. «La crisi del Kosovo illustra la nuova volontà dell'America di fare ciò che è giusto,
nonostante il diritto internazionale» (Glennon, «The New Interventionism», Foreign Affaires,
maggio/giugno 1999, citato da Chomsky). L'ostacolo maggiore, per Washington, è politico. Non c'è
spazio per un intervento unilaterale degli Stati Uniti nel Kosovo, occorre l'accordo dell'Europa. La
Gran Bretagna si rivela, ancora una volta, l'alleato più affidabile, e nelle ultime settimane di
bombardamento scavalcherà anche l'America sostenendo l'intervento di terra. Ma per ottenere il
consenso dei partner della Nato, è necessario che il nuovo interventismo appaia neutrale, e che risulti
chiarissimo dall'evoluzione sul campo da che parte stia il bene e da che parte il male. Il
comportamento di MiloSevic e della sua Armata nel Kosovo contribuisce in modo determinante al
prevalere della posizione americana e britannica.
In settembre si combatte furiosamente. Il 23, il Consiglio di sicurezza dell'Onu approva (con
l'astensione della Cina) la risoluzione 1199 che chiede la cessazione delle ostilità e avverte che nel
caso in cui non fossero adottate le misure richieste, verrebbero prese in considerazione ulteriori
misure per mantenere o restaurare la pace e la stabilità nella regione. Nulla da fare.
Intensi combattimenti attorno a Gornje Obrinje fanno 14 morti tra i poliziotti serbi (va sempre
ricordato che la polizia, nel Kosovo, è un piccolo esercito con blindati ed elicotteri). Durissima la
ritorsione serba. Scrivono gli osservatori di Human Rights Watch: «Le forze speciali della polizia si
sono vendicate uccidendo 21 membri della famiglia Delijai, tutti civili, nel pomeriggio di sabato, 26
settembre; 14 sono stati uccisi nel bosco vicino, dove si erano nascosti per sfuggire al
bombardamento governativo, tra di loro sei donne tra i 25 e i 62 anni. Cinque erano bambini tra i 18
mesi e i 5 anni. Due dei tre uomini uccisi nel bosco avevano più di 60 anni». Lo stesso giorno, da un
gruppo di diverse migliaia di abitanti di Golubovac che avevano ugualmente cercato riparo dalle
granate, vengono scelti 14 uomini e interrogati, torturati per molte ore, uccisi. «Tra di noi non c'era
l'Uçk, quindi non sapevamo cosa fare» racconta Selman Morina. «Credo che un solo poliziotto abbia
sparato contro tutti. Poi ne è arrivato un altro. Uno alla volta, siamo stati colpiti da due raffiche di
kalashnikov. Non avevamo alcuna possibilità di scappare. Qualcuno implorava di esser lasciato
libero. Nessuno ha cercato di alzarsi e fuggire. Uno è stato colpito da una terza raffica. Ho sentito la
polizia dire: «Ce n'è uno ancora vivo». Gli hanno dato un calcio e gli hanno sparato di nuovo. Hanno
scalciato anche me, ma io non mi sono mosso e allora non mi hanno più toccato. Sono sopravvissuto
perché sono rimasto assolutamente immobile come un morto.» Un altro testimone viene intervistato
dalle tv. E' un padre. «Il più grande dei miei figli, Yetll, aveva 9 anni.
Valmir, 18 mesi, aveva ancora il ciuccio in bocca. Minda aveva 4 anni, Genziana 5, Donyetta 6. E
ogni corpo che trovavo era ridotto peggio del precedente.» Il premier serbo, Mirko Marjanovic,
assicura a Belgrado che il terrorismo secessionista è stato stroncato e in Kosovo Metohija regna la
pace. Ma le immagini del massacro di Gornje Obrinje vengono diffuse dalle tv, su internet, se ne
scrive sui giornali di tutto il mondo. «Quel giorno» ricorda l'ambasciatore Holbrooke in uno speciale
del network Pbs sulla guerra in Europa in due puntate, il 22 e il 29 febbraio 2000, «partecipavo a
Washington a un'importante riunione sul Kosovo. Il New York Times stava in mezzo al tavolo di
quercia al centro della situation room, testimone silenzioso di ciò che stava avvenendo.» «Le
fotografie facevano vedere i massacri e c'era una sensazione» dirà la Albright «che avevo provato
già all'inizio dell'anno ed era quella di tutti, che faceva rivivere le storie di Srebrenica e le terribili
cose successe in Bosnia, e adesso sapevamo che non si sarebbe dovuto permettere che succedessero
cose di quel genere.» «E fu uno di quei rari momenti» aggiunge Holbrooke «in cui una fotografia,
proprio la terribile fotografia di quella persona morta in quel villaggio, riporta alla realtà, e questo
influenzò in modo molto concreto la discussione.» Le foto di Gornje Obrinje campeggiavano in cima
alla prima pagina del Times, e la collocazione non era stata decisa a cuor leggero. Un altro allarmato
dossier sulla bonifica etnica in corso risulta dalla visita fra il 5 e il 7 settembre del senatore
repubblicano Bob Dole in Kosovo.
L'8 ottobre, l'incontro decisivo tra i ministri degli Esteri europei, degli Usa e della Russia,
presente Holbrooke, si tiene nell'affollatissima sala vip dell'aeroporto di Londra Heathrow, davanti a
tazzine di tè e biscotti. Igor Ivanov, il ministro degli Esteri di Mosca, ribadisce che la Russia porrà il
veto a un intervento militare Onu in Kosovo se la questione sarà portata al Consiglio di sicurezza:
«Se non la porterete, noi faremo molto rumore». Solo rumore. Commenterà Holbrooke: «Era tutto
chiaro, i russi non potevano fare nulla. Il potere è la Nato». Qualche illusione, a Belgrado, su un più
forte appoggio dei fratelli slavi ortodossi MiloSevic forse la coltiva. Ma è improbabile che sia
questo il motivo della sua intransigenza. La Albright dice pubblicamente che gli Stati Uniti non
intendono riconoscere l'indipendenza del Kosovo, ma vogliono che cessi la pulizia etnica e sia
consentito a una forza di mantenimento della pace di interporsi fra polizia serba e Uçk. «Noi
vogliamo la Serbia fuori dal Kosovo, non il Kosovo fuori dalla Serbia.» Ora i piani d'attacco della
Nato sono pronti e approvati. Holbrooke vola a Belgrado con il generale dell'aviazione americana
Michael Short, l'uomo che in caso d'intervento guiderà la campagna aerea della Nato. Short:
«Arriviamo al palazzo ed eccoci là, c'è il presidente MiloSevic, strette di mano, contatto di occhi, il
cuore batte un po' più velocemente, a esser sinceri». Si capisce. la prima volta che il generale
incontra il «nemico». «Entrammo nella stanza» ricorda Holbrooke «le prime parole di MiloSevic a
Short furono: "E così, generale, sarà lei a bombardarci?".» «Rimasi di sasso» confessa Short. «Non
era esattamente quel che m'aspettavo. Non risposi per un tempo che mi sembrò un'eternità, credo
cinque o dieci secondi. Holbrooke aveva l'aria di uno che pensa: "Ragazzi, questo giovanotto che mi
sono portato mi sta abbandonando"...» Ma è allora che il generale torna in sé. «Be', signor
presidente, spero che non succederà, spero di avere un piano da proporre ai suoi generali che
impedisca che il suo paese venga bombardato. Ma nella sostanza, lei ha ragione. Io ho gli U2 in una
mano e i B52 nell'altra. La scelta spetta a lei.» Scelta tra gli aerei spia per verificare il ritiro delle
forze serbe, e i bombardieri. «A un certo punto» racconta Holbrooke «MiloSevic mi disse: "Sarete
così pazzi da bombardarci per i problemi di quel pidocchioso, piccolo Kosovo?". Replicai: "Ci può
scommettere. Siamo abbastanza pazzi da farlo".» I negoziati durano dieci giorni. A trattare sono in
dieci-dodici attorno a un tavolo. Quando c'è uno scoglio, MiloSevic e Holbrooke si appartano in una
stanza. Da dietro la porta si sentono voci concitate, «a volte anche un pugno che batte sul tavolo» dirà
Short.
Il 13 ottobre, l'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite conta 298.100 sfollati e
profughi dell'ex Jugoslavia, suddivisi per lo più tra Kosovo (200 mila), Montenegro (42 mila), resto
della Serbia (20 mila) e Albania (20.500), ma anche Bosnia Erzegovina (8600), Turchia (2000),
Slovenia (2000) e Macedonia (3000). Lo stesso giorno, l'ambasciatore Holbrooke scrive alla Nato
che sono stati compiuti progressi nei negoziati, ma chiede di mantenere alta la pressione militare
perché l'intesa sia portata realmente a termine. La Nato approva un ordine d'attivazione (Actord), e
affida la responsabilità di eseguirlo al segretario generale, Solana, entro 96 ore. L'accordo consiste
nel ritiro delle forze serbe fino ai livelli di prima delle ostilità, nell'invio in Kosovo di duemila
osservatori sotto l'egida della Nato e dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in
Europa (Osce), con la possibilità di sorvolare il Kosovo per monitorare la situazione, e nell'avvio di
un negoziato con gli albanesi sul futuro della regione. Il 20 ottobre, la Nato invia il suo comandante
militare, Wesley Clark, a Belgrado.
Dopo un ulteriore monito, il 24-25 ottobre, a poche ore dalla scadenza dell'ultimatum della Nato
(il 27), quattromila uomini delle unità speciali della polizia serba lasciano PriStina. In novembre
comincia a funzionare la Kosovo Verification Mission (Kvm), sotto la guida del diplomatico
americano William Walker, già ambasciatore degli Stati Uniti nel Salvador ai tempi delle purghe dei
dissidenti salvadoregni e della lotta guerrigliera contro il regime sandinista del Nicaragua.
Formalmente, la Kvm è una struttura che risponde all'Organizzazione per la sicurezza e la
cooperazione in Europa (Osce), un organismo di 54 nazioni.
Altri aneddoti e amenità vengono riferiti dai protagonisti della trattativa con MiloSevic. Il
generale Short, per esempio, racconterà di come MiloSevic abbia cercato di mantenere nel Kosovo i
missili terra-aria Sa6 e Sa3, con la scusa che sarebbero stati inamovibili.
«Avevo osservato i Sa6 nelle ultime sei settimane, si muovevano ogni giorno. Perciò gli dissi che
mi stava prendendo per i fondelli. E lui mi diede ragione e accettò di spostarli.» La morale di Short è
la seguente: «Se colpisci duro quell'uomo e gli dai un bel ceffone sulla testa, ti starà a sentire». Sono
i giorni in cui il Saceur, Wes Clark, comandante delle forze Nato, ha il primo di tre incontri con
MiloSevic. Affianca Solana, e la sua testimonianza è ancora più significativa. Anche con Clark,
MiloSevic tenta mille sotterfugi per mantenere in Kosovo il massimo di forze disponibili, compresa
la CCXI brigata corazzata che MiloSevic nega ci sia. Clark gli domanda: «Ha mai sentito parlare
della Ccxi?». E lui: «No». Poi guarda il generale Momčilo PeriSic, il capo di stato maggiore della
Difesa, e si corregge. «Oh sì, è là. Sarà ritirata.» In un momento di pausa, MiloSevic dice a Clark:
«Generale, lei sa che noi sappiamo come trattare con questi albanesi, l'abbiamo già fatto in passato.
Nella Drenica, nel 1946. Erano assassini e banditi, e si ammazzavano tra di loro. Be' li abbiamo
uccisi. Li abbiamo uccisi tutti. Ci sono voluti diversi anni, ma li abbiamo uccisi tutti».
L'inverno è alle porte, e la tregua porta sollievo alla popolazione costretta a riparare nei boschi,
sulle colline. Il cessate il fuoco non è totale, ma è abbastanza per tornare a discutere. Per non
assistere a una catastrofe umanitaria. E tuttavia, proprio in questo momento si delinea la cornice della
guerra che sta per scoppiare di nuovo e l'Occidente perde forse un'occasione d'oro per dare il colpo
di grazia al potere di MiloSevic. Tra pochi mesi, il 24 marzo 1999, partirà il primo missile della
Nato. L'ambasciatore Zimmermann commenta nel suo saggio-diario sull'ex Jugoslavia: «Il negoziato
non produsse che un accordo e strette di mano sulla presenza di osservatori esterni, che si rivelò poi
inutile, e sul ritiro parziale delle truppe serbe, che non fu applicato. Se la Nato avesse bombardato in
ottobre, come aveva minacciato, avrebbe sorpreso i serbi prima dei loro preparativi per realizzare la
gigantesca operazione di bonifica etnica di MiloSevic. L'opportunità fu sprecata e gli sforzi
occidentali si concentrarono sul negoziato per l'autonomia del Kosovo dentro la Jugoslavia, con la
garanzia di un forte contingente della Nato». Ed è questa, infatti, la base d'intesa che l'Occidente
vorrebbe imporre non soltanto a MiloSevic, ma anche agli albanesi e all'Uçk, al tavolo negoziale di
Rambouillet, in Francia, nel febbraio successivo. Il patto tra MiloSevic e Holbrooke presenta almeno
due lati deboli, che ricordano altre fallimentari iniziative diplomatiche dell'Occidente. Il primo, la
Kvm è una missione disarmata. Ne fanno parte per lo più militari legati ai servizi segreti dei vari
paesi. La Nato è costretta a creare nella confinante Macedonia un contingente di «estrazione rapida»,
nell'eventualità che la crisi precipiti e sia necessario mettere in salvo gli osservatori anche per
evitare che diventino ostaggi nelle mani dei serbi. Il secondo punto debole è l'assenza, al tavolo
negoziale, del terzo incomodo: l'Uçk.
L'Esercito di liberazione del Kosovo è sempre più attivo e presente. Persegue chiaramente
l'obiettivo dell'indipendenza, non si accontenta dell'autonomia, e cerca di approfittare del parziale
disimpegno serbo per riconquistare spazi perduti e riprendere il controllo di strade importanti.
S'intensificano anche le azioni terroristiche, dai rapimenti alle esecuzioni. E al solito, l'esercito serbo
esagera nella risposta. Invece di «limitarsi» a sterminare un gruppo terroristico, fa terra bruciata
seminando morte, distruzione e terrore nel villaggio che gli ha offerto appoggio logistico.
L'ambasciatore Walker, capo della missione Kvm, è una figura controversa per il suo passato al
fianco di regimi e guerriglie sudamericani sostenuti dagli Stati Uniti e dalla Cia. I detrattori lo
definiscono «il Richard Butler del Kosovo», paragonandolo all'australiano capo degli ispettori
dell'Onu in Iraq, espulso a sua volta da Saddam Hussein e autore di dossier e dichiarazioni che hanno
portato ai raid aerei statunitensi. MiloSevic sa bene con chi ha a che fare, e Walker sa di trovarsi in
una situazione per lui estremamente scomoda. «Incontrando la prima volta MiloSevic, gli dissi che in
base agli accordi avremmo fatto cose che non gli sarebbero piaciute» racconterà «e da quel momento
il tono del colloquio cambiò radicalmente. E' un uomo che può anche essere molto arrogante, alzare
la voce, imprecare, per farti vedere che è un duro.» L'intesa Holbrooke-MiloSevic non regge alla
prova dei fatti. I combattimenti continuano. L'Uçk insiste nella sua azione terroristica e guerrigliera.
La missione Kvm è impegnata non solo a guardare quel che succede, ma soprattutto a negoziare i
cessate il fuoco dopo gli scontri e il rilascio di prigionieri e ostaggi, ma anche a fare la scorta agli
elettricisti serbi per ridare la luce ai villaggi albanesi rimasti al buio. In dicembre si registrano
rapimenti, uccisioni, l'attentato al caffè Panda di Pec che fa sei morti tra i giovanissimi avventori
serbi, e l'offensiva serba per la riconquista dell'ultimo caposaldo dell'Uçk, il territorio di Podujevo.
L'incursione al Panda da parte di un commando con le uniformi dell'Uçk sembra inizialmente un
atto di ritorsione per un incidente di frontiera nel quale sono stati uccisi trentun guerriglieri. I monitor
inglesi ritengono invece che si tratti di una vendetta per l'uccisione di una guerrigliera Uçk che da
sola ha tentato di far evadere il suo uomo dall'ospedale nel quale, ferito, era piantonato.
Uno dei momenti di crisi è l'8 gennaio, quando Otto militari serbi vengono rapiti dall'Uçk e solo
grazie alla mediazione della Kvm vengono rilasciati. Proseguono i combattimenti alla frontiera con
l'Albania e le ritorsioni della polizia serba. Ma la data cruciale è il 15 gennaio, quando si consuma
quello che l'ambasciatore Walker osa chiamare pubblicamente, il giorno dopo in una conferenza
stampa, «un massacro opera dei servizi di sicurezza serbi» che le autorità serbe di Belgrado e
PriStina attribuiscono invece a una «messa in scena» dell'Uçk, e che la dottoressa finlandese Helena
Ranta, capo del gruppo di medici legali finlandesi che ha finalmente la possibilità di eseguire le
autopsie dei corpi una settimana dopo il ritrovamento, definirà «un crimine contro l'umanità», senza
però puntare l'indice su serbi o albanesi. «Non spetta a me dire chi è stato». Frase subito sfruttata da
chi già aveva dubbi sull'autenticità del massacro, per insinuare che l'inchiesta non porta ad alcuna
conclusione certa e i dubbi restano in piedi. «L'episodio di Račak» riferiscono i medici finlandesi «è
stato descritto come un massacro, tuttavia una conclusione del genere non ricade nella competenza
della squadra di medici legali della Ue, né di chiunque altro abbia partecipato all'esame dei corpi. Il
termine "massacro" è una descrizione legale delle circostanze che accompagnano la morte di persone
in base a un'analisi complessiva di tutte le informazioni disponibili.» Nessuno degli elementi raccolti
dal team europeo autorizza però a sostenere che quei corpi appartengano a guerriglieri dell'Uçk
uccisi in battaglia, successivamente spogliati, rivestiti per farli somigliare a innocui contadini, e
ammonticchiati nel canalone vicino al villaggio. Non c'è alcuna prova che prima di essere uccise,
quelle persone abbiano sparato. Allo stesso modo, però, non c'è l'evidenza definitiva di
un'esecuzione sommaria di massa per tutti e 40 i corpi sottoposti ad autopsia, né una conclusione
certa sul numero delle persone uccise e ritrovate. Phil Reeker, addetto stampa dell'ambasciatore Hill,
ancora nel novembre 2000, nella più comoda veste di viceportavoce del dipartimento di stato a
Washington, non sarà in grado di dire con precisione che cosa è avvenuto a Račak. «Non lo so, posso
dire però che è assurdo e immorale paragonare Račak con quanto è successo per esempio a
Srebrenica durante la guerra in Bosnia Erzegovina.» Il fastidio di Reeker dev'essere stato il fastidio
di Hill, la cui shuttle diplomacy, la diplomazia dell'andirivieni tra Belgrado e PriStina nel tentativo
di arrangiare un'intesa stabile sul futuro assetto del Kosovo, è naufragata una volta per sempre dopo
le accuse di Walker alla Serbia, il 16 gennaio 1999. Il piano di Hill prevedeva istituzioni parallele
nel Kosovo. Quelle albanesi avrebbero costituito un sistema di autogoverno. Sarebbero rimaste
anche quelle serbe, e il governo federale avrebbe conservato la sovranità sui confini e la politica
estera. Ma per realizzarlo, occorreva comunque una forza internazionale d'interposizione.
A prescindere dall'autenticità del massacro di Račak (dubbio ripetitivo nelle guerre jugoslave, se è
vero che si nutrono ancora perplessità sui massacri del mercato a Sarajevo e i serbi di Pale li
attribuiscono all'abilità scenografica dei servizi segreti bosniaci), resta il fatto politico del capo di
una missione al di sopra delle parti, che pubblicamente accusa una delle due parti d'aver compiuto
una strage. Ma sentiamo il suo racconto. Walker premette che il suo vice inglese lo informa il 15
gennaio stesso sui combattimenti attorno a Račak tra le forze serbe e una colonna dell'Uçk; 15
sarebbero i morti tra questi ultimi, più un morto e tre feriti nel villaggio. Sul posto arriva uno degli
inconfondibili gipponi della Kvm con le insegne arancioni. Un altro viene inviato in appoggio.
Cala il buio. La mattina dopo, il vice di Walker gli suggerisce di andare di persona a vedere che
cosa è successo. «Questa storia di Račak puzza.» Si forma una colonna della Kvm, seguita dai soliti
giornalisti. «Račak si trova a circa due ore da PriStina» racconta Walker. «C'era molta neve,
ghiaccio, gelo. Entrammo a Račak, c'erano molte donne in lacrime. Uscimmo dal villaggio che si
trova sotto due colline. C'era un canalone, una specie di letto di un fiume, che saliva su una delle due
a partire dal villaggio. Era coperto di sassi, detriti, ghiaccio e neve. Dopo 4-500 metri, incontrammo
il primo corpo. C'erano un paio di giornalisti, e un cameraman che stava prendendo delle immagini.
Era il corpo di un uomo. C'era una piccola coperta dove avrebbe dovuto esserci la sua testa. Fecero
scivolare la coperta per farmi vedere che la testa non c'era. Bastava guardare quel corpo per capire
che i suoi abiti erano quelli di un contadino.
Era chiaramente un vecchio. C'erano fori di proiettile per tutto il corpo, e sangue tutt'intorno. Fui
abbastanza colpito da questa cosa senza testa.» Ma è solo l'inizio. «Riprendemmo a salire e ogni 13-
18 metri c'era un altro corpo, tutti in posizioni grottesche. Tutti quelli che ho visto erano anziani, e
tutti chiaramente contadini. Non c'era traccia di uniformi o di armi. Erano stati uccisi là dove
giacevano, si capiva dal modo in cui i proiettili si erano conficcati nei corpi, negli occhi, sopra la
testa... Era impossibile che tutto questo fosse un imbroglio. I corpi che vedemmo salendo erano una
decina, alla fine raggiungemmo un cumulo di corpi, forse 17, 18, 19, appoggiati alla rinfusa in una
grande pila, tutti con orribili ferite alla testa. Avevano tutti gli indumenti che i contadini usano da
quelle parti per lavorare fuori, nei campi. Una buona parte aveva perso il controllo delle funzioni
corporali, sicché i vestiti erano macchiati.» Walker parla con il responsabile locale dell'Uçk, con la
gente del villaggio, e conclude che dopo il bombardamento, i serbi hanno chiuso nella moschea
donne e bambini e portato via gli uomini, secondo la prassi. Invece di interrogarli, li avrebbero poi
uccisi, com'era successo altre volte in Kosovo. «Dissi ai giornalisti che altre volte nella mia vita
avevo visto gente uccisa, mai però una cosa del genere. Le mie dichiarazioni» ammetterà Walker
«non erano propriamente equilibrate. Dissi: "Questo è ciò che ho visto, senza dubbio un massacro e
la mia opinione è che i responsabili siano le forze di sicurezza. Bisogna andare fino in fondo a questa
storia. Il Tribunale penale internazionale dell'Aja dovrebbe essere invitato a venir qui e investigare.
Spero che il governo punisca i responsabili".» Un duro e inequivocabile atto d'accusa contro le
autorità politiche e militari serbe, che da parte loro reagiscono dando l'impressione di volere
effettivamente nascondere qualcosa. Il procuratore capo del Tpi, Louise Arbour, piomba alla
frontiera serba con l'intenzione dichiarata di raggiungere Račak. Sarà costretta, nonostante due giorni
di estenuante attesa e di lavorio diplomatico a ogni livello, a tornarsene all'Aja con le pive nel sacco.
Cominciano subito, invece, le autopsie di 16 corpi da parte dei medici legali serbi a PriStina, alla
presenza di due colleghi bielorussi, e ventiquattro ore dopo il team afferma che le vittime presentano
tracce di polvere da sparo, quindi hanno usato le armi e probabilmente erano guerriglieri dell'Uçk.
Solo una settimana dopo, vengono ammessi anche i medici finlandesi per le autopsie su altri 24
corpi, e per un riesame dei precedenti. Si avranno solo indiscrezioni sul rapporto finale. Chi dirà che
sono stati costretti a moderare le conclusioni per evitare incidenti diplomatici con Belgrado, chi
invece che dagli esami sarebbe escluso lo scenario dell'esecuzione a distanza ravvicinata e chi
afferma che alcuni corpi erano in stato di putrefazione non compatibile con l'uccisione il giorno
prima. Le mutilazioni viste da Walker e dai suoi collaboratori sono ascrivibili all'opera notturna
degli animali, almeno a leggere quel poco che di pubblico è uscito.
Le parole stesse di Helena Ranta ai giornalisti, dopo la consegna del dossier, vengono interpretate
in modo contraddittorio, e alla fine non soddisfano nessuno. Il direttore del Media Center serbo di
PriStina, Radovan UroSevic, ne giudica il lavoro «insoddisfacente e non professionale». Ma il
massimo che può osservare Walker è la compatibilità tra le conclusioni dell'inchiesta e la sua
denuncia dei fatti. In una sintesi stampata della relazione conclusiva si legge a ogni modo che non ci
sono indizi del fatto che le vittime fossero altro che gente disarmata, e che è «altamente improbabile»
che i vestiti siano stati tolti o sostituiti. Aggiunge a braccio la Ranta: «Quasi certamente non c'è stata
battaglia». Per dirla con un gioco di parole coniato, pare, da un diplomatico serbo, Belgrado credeva
che Račak fosse solo un altro villaggio nella lunga teoria di villaggi conquistati e bonificati: «A
village a day takes Nato away». Come dire che basta non superare la soglia del sopportabile dal
punto di vista della Nato, per condurre a termine la bonifica del territorio. Proprio per questo,
paradossalmente poco importa che a Račak, il 15 gennaio 1999, ci sia stato un vero massacro.
Le speculazioni non cambiano la sostanza dei fatti. L'accordo tra Holbrooke e MiloSevic è fallito.
La missione Kvm non può condurre il suo lavoro e, soprattutto, non costituisce un deterrente né per la
prosecuzione della guerriglia, né tanto meno per la bonifica etnica da parte serba dei villaggi nei
territori contesi. E non ha messo fine ai «crimini contro l'umanità». Walker viene dichiarato persona
non grata, e invitato a lasciare la Serbia entro 48 ore. L'espulsione viene poi sospesa. La crisi si
trascina. Prossima tappa: Castello di Rambouillet, alle porte di Parigi, per il negoziato finale. Nei
primi quattro giorni di febbraio, tutte le parti accettano di partecipare: il gruppo di Rugova (Ldk),
quello di Hasim Thaci (Uçk) e i serbi di Belgrado. Il 6 cominciano i colloqui sotto la presidenza
congiunta dei ministri degli Esteri di Francia e Gran Bretagna, Hubert Vedrine e Robin Cook. Sono
presenti i mediatori di Stati Uniti, Unione europea e Russia. La delegazione albanese è composta da
sedici persone (compresi Rugova, Bukoshi e Agani per la Ldk, Thachi e Xhavit Haliti per l'Uçk, ma
anche Rexhep Qosja, Veton Surroi e Blerim Shala). Ci sono praticamente tutti i leader, in
rappresentanza di tutte le anime dell'irrendentismo kosovaro. Manca solo Adem Demaqi, per scelta
politica. Da parte serba, MiloSevic ha selezionato una delegazione di basso livello, guidata da Ratko
Markovic e il cui esponente di rango più alto è un vicepremier, e che comprende esponenti delle
svariate etnie presenti in Kosovo, dagli zingari agli stessi albanesi collaborazionisti, dagli slavi
musulmani ai turchi, a dimostrazione di quanto va ripetendo da mesi ai mediatori internazionali di
passaggio a Belgrado, e cioè che il 50 per cento della popolazione kosovara è tutto tranne che
albanese.
Come in ogni conferenza di pace che si rispetti, gli aspetti pittoreschi, di colore, meriterebbero un
capitolo a parte, vedi il risentimento verso i diplomatici italiani che s'appropriano delle chiavi dei
bagni, ma anche gli aneddoti sul cibo o, più seriamente, sull'apparato dei consulenti, soprattutto
avvocati internazionalisti, che assistono le parti. Non mancano ricostruzioni particolareggiate delle
fasi negoziali (Judah, op. cit.). La strategia statunitense è di portare gli albanesi alla firma di
un'intesa, i serbi al prevedibile rifiuto, e prenderne quindi atto per poter finalmente cominciare a
bombardare i serbi. In questo modo, anche MiloSevic potrebbe presentarsi al tavolo vero della pace
dopo avere sfidato le potenze mondiali e non apparire alla sua gente come colui che ha svenduto
l'amato Kosovo. Gli intoppi però sono molti, il più grave è rappresentato dalla difficoltà dei delegati
dell'Uçk a sottoscrivere un accordo che non preveda l'indipendenza del Kosovo, o almeno un
referendum entro un congruo lasso di tempo finalizzato all'indipendenza. Racconta uno dei consulenti
albanesi che «stavamo in bagno perché era uno dei pochi luoghi sicuri in cui parlare liberamente, e
Thaci disse: "Dovete capire che se io riporto a casa qualcosa che la mia gente non vuole, mi può
arrivare una pallottola in testa"». Il documento proposto dai mediatori internazionali a Rambouillet è
in realtà composto di due parti, una definita «dei principi non negoziabili», che sancisce fra l'altro la
sovranità serba nel Kosovo. Un'altra, sull'applicazione dei principi stessi. I serbi rifiutano
categoricamente l'idea di una presenza militare internazionale, tanto meno guidata dalla Nato. Il
Kosovo, per Belgrado, resta un affare interno. Al contrario, negli annessi è previsto che la forza
multinazionale abbia accesso pressoché illimitato al territorio non solo del Kosovo, ma di tutta la
Serbia, compreso lo spazio aereo e le vie d'acqua. Cristopher Hill vola a Belgrado il 16 febbraio, un
giorno prima della fine del negoziato, ma le correzioni serbe al testo scontentano gli albanesi. Il
termine dei colloqui viene prorogato. Madeleine Albright piomba a Rambouillet.
«Apparve sulla porta» racconta uno dei membri del gruppo albanese «e uno di noi che non aveva
capito chi fosse, prendendola forse per la donna delle pulizie visto che era passata la mezzanotte, le
disse semplicemente: "Ci dia ancora cinque minuti, e per favore se ne vada".» Stando al ricordo di
Rugova, la Albright pose la questione in termini molto chiari: «O quest'accordo, o sarete lasciati
nelle mani dei serbi». A Thaci, il segretario di stato americano spiega che senza la firma albanese al
documento la Nato non potrà intervenire in Kosovo, e che l'America bloccherà i conti dell'Uçk
all'estero e farà di tutto per stroncare i traffici d'armi alle frontiere. Interminabili discussioni vengono
imbastite sulla formulazione del referendum da tenere dopo tre anni. Il testo che sarà firmato dagli
albanesi (non a Rambouillet, ma a Parigi un paio di settimane dopo) afferma che «tre anni dopo
l'entrata in vigore dell'accordo, sarà convocato un incontro internazionale per fissare un meccanismo
per un assetto finale del Kosovo, sulla base della volontà della popolazione, delle opinioni delle
autorità competenti, degli sforzi di ogni partito circa l'applicazione del presente accordo, e dell'Atto
finale di Helsinki». Il quale Atto sancisce l'intangibilità dei confini. Il 22 febbraio, la Albright tenta
l'ultima carta, una lettera da allegare all'accordo, nella quale si chiarisce che il testo implica la
conferma di un diritto del popolo kosovaro a tenere un referendum sullo status finale del Kosovo
dopo tre anni. La poderosa reazione russa rende nulla la mossa. A nulla servono gli appelli alla firma
da parte dello scrittore albanese Ismail Kadaré e del ministro degli Esteri dell'Albania, Paskal Milo.
Veton Surroi, alla fine, per evitare una spaccatura nella delegazione albanese (l'Uçk resta contrario
alla firma, Rugova è pronto a firmare) scrive un documento nel quale la delegazione all'unanimità si
riserva di firmare l'intesa dopo due settimane per avere il tempo di consultare la popolazione e le
«istituzioni» nel Kosovo. La delegazione serba, invece, alla quale si è unito anche il presidente serbo
Milan Milutinovic, rifiuta di firmare, e dà solo l'impressione di voler sottoscrivere il cosiddetto
«preambolo» politico. La conferenza viene aggiornata al 15 marzo.
Thaci firma il 18. L'avrebbe fatto anche prima, gli è stato chiesto di aspettare che i serbi decidano.
Il che avviene, puntualmente.
Belgrado dice «no». Comincia ormai il conto alla rovescia per il lancio del primo missile della
Nato su Belgrado.

La «doppia» guerra del Kosovo Il 19 marzo 1999, i gipponi con le insegne arancioni della Kosovo
Verification Mission lasciano PriStina. L'ambasciatore Walker ricorda d'aver salutato tra i pianti e la
disperazione gli oltre 1500 albanesi che avevano collaborato con lui: interpreti, autisti, consulenti.
Molti altri lavorano al fianco dei giornalisti occidentali, che in pochi giorni abbandoneranno anche
loro il Kosovo con l'eccezione dell'inviato di Radio Radicale, Antonio Russo. A Belgrado,
MiloSevic ha portato a compimento le purghe ai vertici dell'esercito e dei servizi segreti,
chiaramente in vista della guerra. Via il capo di stato maggiore della Difesa, Momčilo PeriSic,
sostituito da Dragoljub Ojdanic. Via i capi dell'intelligence e del controspionaggio militare, Jovica
SaniSic e Aleksandar Dimitrijevic. Il comandante della divisione di PriStina, NebojSa Pavkovic,
viene promosso a comandante del III corpo d'armata, che include il Kosovo.
Dopo il fallimento di Rambouillet, Belgrado dispiega nel Kosovo altre decine di migliaia di
uomini, fino a un totale di forze in campo stimate in 40 mila uomini con 300 carri armati. Come in
Croazia e in Bosnia, si prepara un'offensiva congiunta dell'Armata, delle unità speciali del ministero
dell'Interno (Mup) e dei paramilitari che calano a PriStina a caccia di bottino. Questi ultimi avranno
il compito, al solito, di diffondere il terrore nei villaggi con qualche strage, qualche uccisione,
qualche rapina e qualche stupro, che costringerà il resto della popolazione a fuggire. I rastrellamenti
e la conquista dei villaggi avvengono secondo le linee di un piano d'accerchiamento che il ministro
degli Esteri tedesco, Rudolf Sharping, rende di dominio pubblico e che va sotto il nome di Potkova o
«Ferro di cavallo». Sarebbe in pratica la pianificazione della bonifica etnica, già da tempo studiata a
tavolino dagli strateghi di Belgrado. Il capo dei consiglieri militari tedeschi all'Osce, Heinz Loquaci,
dopo la guerra metterà in dubbio l'esistenza stessa di un simile piano, raccolto e diffuso dagli
austriaci («I Balcani senza MiloSevic», Limes, 5ì2000), ma la polemica in fondo è irrilevante: per
dieci anni, Belgrado non ha perseguito altro che la bonifica etnica. La filosofia e la pratica della
«pulizia» del territorio a vantaggio della componente serba è molto più che un piano dell'ultima ora.
E' una prospettiva storica, una strategia a lungo termine. Lo scoppio della guerra con la Nato, il 24
marzo, serve a MiloSevic per dare il via a quell'altra guerra preparata da mesi, forse da anni, che si
svolgerà a terra, parallela alla guerra «virtuale», elettronica, tecnologica, della cavalleria aerea
dell'Alleanza. Una conferma dell'esistenza del piano verrà, dopo la caduta di MiloSevic, dal
colonnello Dragan Vuksic, aiutante del generale PeriSic: «Non sapremo mai cosa voleva veramente
MiloSevic quando ha esposto il suo paese e il suo popolo alla spada della Nato. Di fatto è entrato in
conflitto con la Nato e ha dato l'ordine di eseguire l'operazione "Ferro di cavallo"» (Rüb,
Frankfurter Allgemeine Zeitung, 2 marzo 2001).
Quella di MiloSevic sarà una guerra fatta di bombardamenti sistematici sui villaggi, deportazioni
di massa, raccolta ed espulsione di greggi umane, svuotamento di paesi e città, e in definitiva del
Kosovo, e allestimento di treni stipati fino all'inverosimile, diretti verso la terra di nessuno al
confine con la Macedonia, con il loro carico di fuggiaschi. Le case serbe risultano contrassegnate con
la vernice per evitare che vengano depredate e fatte saltare in aria. Gli zingari scrivono «rom» sopra
le loro, per la stessa ragione. La tecnica per distruggere le case albanesi è sperimentata: aprire le
bocchette del gas e lanciare dentro una bomba. La conseguenza immediata è che salta il tetto, come un
tappo.
Il 21 marzo, Holbrooke vola a Belgrado per l'ultimo avvertimento, l'ultimo tentativo di evitare la
guerra. Il giorno dopo, incontra MiloSevic. «Mi sedetti davanti a lui e gli dissi: "Capisce che se io
me ne vado senza un'intesa oggi, il bombardamento avrà inizio praticamente subito?".» «Lo capisco»
risponde MiloSevic.
«Lei comprende che sarà rapido, severo e intenso.» MiloSevic: «Voi siete un grande paese, un
paese potente. Potete fare quello che volete. Non possiamo fermarvi». Holbrooke: «Ha del tutto
chiaro quel che accadrà quando me n'andrò?». MiloSevic: «Sì, ci bombarderete. Io non ho più nulla
da dire». Oggi non usa più dichiarare le guerre. Non c'è stata, in dieci anni di conflitti per la
spartizione della ex Jugoslavia, una sola dichiarazione di guerra. Ma certe frasi suonano più
eloquenti di qualsiasi dichiarazione di guerra. Una guerra virtuale non può che avere una
dichiarazione virtuale. E «virtuale» è definita da un osservatore acuto come Michael Ignatieff la
guerra che comincia alle 19,45 ora locale del 24 marzo 1999, una guerra «combattuta da 1500
membri degli equipaggi degli aerei Nato e 30 mila tecnici, staff di supporto e impiegati nei quartier
generali».
Dall'altra parte della «trincea», meno d'un migliaio di specialisti della contraerea, e alcune decine
di migliaia di soldati nascosti nei bunker, nelle case, nei seminterrati. Naturalmente, la guerra sarà
tutt'altro che virtuale per quelli che moriranno sotto le bombe della Nato o saranno vittime della
bonifica etnica serba (da sottolineare che i morti, prima dell'inizio delle ostilità il 24 marzo, sono già
secondo stime ufficiali duemila tra i serbi e duemila tra gli albanesi). E tuttavia, in questa guerra la
Nato non avrà un solo caduto in combattimento. Ignatieff si chiede se non sia una guerra troppo facile,
tanto da rendere drammaticamente più facile che ne scoppino altre in occasioni anche meno
giustificate.
Al tempo stesso, però, la guerra è molto più complessa e insidiosa di quanto si sia immaginato.
Sono in molti a ritenere, all'inizio, che il bombardamento durerà solo pochi giorni, che MiloSevic si
arrenderà quasi subito e che la «guerricciola» gli sarà servita a tornare al tavolo dei negoziati nella
veste di novello eroe-vittima di Kosovo Polje. Nelle cancellerie occidentali continuano a circolare
le mappe della futuribile spartizione come risultato della resa di Belgrado. C'è chi ritiene, non senza
motivo, che vi sia addirittura una tacita, se non espressa, intesa tra MiloSevic e la Nato per una
guerra rapida, pressoché indolore. La guerra servirebbe al leader serbo per far digerire al suo
popolo la perdita d'una provincia vista a Belgrado come la culla della storia, della cultura,
dell'identità nazionale dei serbi.
Il 24 marzo 1999 comincia la guerra aerea della Nato, che ha campo libero e che limita le
incursioni solo in base alla scelta «politica» del numero e della qualità dei bersagli. A terra,
MiloSevic fa esplodere invece la bomba profughi. La bonifica etnica dovrebbe avere, nei suoi piani,
conseguenze destabilizzanti sulla Macedonia e sull'Albania, e provocare in ultimo la rottura del
fronte alleato. La guerra che la Nato comincia per portare MiloSevic al negoziato si trasforma
rapidamente nella guerra per far tornare i profughi albanesi nelle loro case. Quella che era
l'Extraction force, diventa un pronto soccorso internazionale per tutto un popolo che si riversa fuori
dei propri confini.
Ad annunciare con puntualità burocratica l'avvio dei bombardamenti, la sera del 24 marzo, è il
segretario generale della Nato, Solana.
«Sono stato informato dal comandante militare supremo in Europa, il generale Wesley Clark, che
sono iniziate in questo momento le operazioni aeree della Nato contro obiettivi nella Repubblica
federale di Jugoslavia.» La gran parte degli aerei fa base in Italia e Germania, ma i bombardieri a
lungo raggio partono dalla Gran Bretagna, addirittura dagli Stati Uniti. I velivoli di rinforzo rispetto
al normale schieramento della Nato nel Sud Europa sono 176 e comprendono i cacciabombardieri
F15, F16, e i cacciacarri A10 da attacco al suolo, oltre agli aerei-cisterna. Ad Aviano, la Nato lancia
a ondate i suoi F117 Stealth, gli aerei invisibili, i cacciabombardieri F15 e F16. Dalle basi inglesi di
Fairford e Mildenhall decollano i bombardieri B52 provenienti da Barksdale (Los Angeles), dotati
di lanciamissili Cruise con raggio d'un migliaio di chilometri, e i bombardieri B1B. Da Whiteman,
Missouri, si alzano i superbombardieri B2 Stealth, anche questi invisibili, imprendibili boomerang
scuri che volano senza scalo, no-stop. Gli inglesi schierano Harrier e Tornado, la Francia i Jaguar e
Mirage 2000, Germania e Italia i Tornado, la Spagna gli F18. Il parco delle altre nazioni
dell'Alleanza è per lo più composto da cacciabombardieri F16.
Tre le portaerei in dotazione alla Nato, ma non subito disponibili: l'Uss Theodore Roosvelt, la
francese Foch e la britannica Hms Invincible. Le unità della Marina lanciano missili Tomahawk a
guida radar. In tutto, l'Alleanza impiega oltre 400 aerei e una squadra navale di più di 25 unità da
guerra. Ogni giorno decollano dalle basi italiane dai 200 ai 250 velivoli.
L'esercito serbo schiera alcune centinaia di carri armati M84 di fabbricazione sovietica, e un
migliaio di altri carri di vecchio modello. L'Armata conta 120 mila organici, e 30 mila sono i
poliziotti. L'aviazione è di fatto inesistente, rispetto alla Nato: quindici Mig29 e 185 altri velivoli,
molti dei quali Mig21 anni settanta. La Nato deve tenere sotto controllo soprattutto i missili SA10 e i
lanciamissili mobili SA6 terra-aria, dislocati attorno alle grandi città. In Kosovo, l'Uçk è ridotto a
difendere in qualche caso la propria gente e poche isolate postazioni, con meno di 10 mila uomini. Il
capo è Sulejman Selimi, detto «Sultan», un giovanotto di 29 anni.
Sette le città colpite nella prima ondata. Obiettivo, le difese aeree jugoslave. I missili ad ampio
raggio devono neutralizzare postazioni radar, contraerea e centrali di comunicazione, e creare un
ambiente il più possibile sicuro per le successive ondate di bombardieri e cacciabombardieri.
L'attacco è pesante, i bersagli però limitati. Una quarantina vengono colpiti, sui 51 inizialmente
previsti. Eppure, fin dall'inizio della Deliberate force sono in azione due superbombardieri B2 con
bombe da 900 chili a guida satellitare. La prima fase si conclude alle 5,20, per riprendere alle 10.
Tra i bersagli più colpiti, l'aeroporto di Belgrado. Il ministro della Difesa italiano, Sergio
Mattarella, dirà in Parlamento che gli aerei italiani si alzano soltanto per «misure di difesa». A lungo
il governo italiano cercherà di tenere nascosta la partecipazione dei Tornado all'offensiva. Il
presidente Clinton si rivolge direttamente alla nazione, con un messaggio televisivo. «Concittadini
americani, oggi le nostre forze armate si sono unite ai nostri alleati della Nato nell'attacco aereo
contro le forze serbe responsabili delle brutalità nel Kosovo.» Seguono le ragioni della scelta.
«Agiamo per difendere migliaia di persone innocenti in Kosovo da una crescente offensiva militare.
Agiamo per impedire una guerra più ampia...
Agiamo per mantenere l'unità con i nostri alleati a favore della pace.» Tre ragioni, quindi. Primo:
impedire la bonifica etnica.
Secondo: evitare che la guerra diventi non più solo jugoslava, coinvolgendo Albania, Grecia,
Turchia e Bulgaria. Terzo: preservare il ruolo e la credibilità della Nato in vista del cinquantesimo
anniversario dell'Alleanza (aprile 2001). Segue una sintesi degli avvenimenti, fino alla vivida
descrizione degli attacchi serbi e dei massacri di civili. «Metter fine a questa tragedia è un
imperativo morale. anche importante per gli interessi nazionali dell'America.» Clinton indica una
mappa alle sue spalle, fa il maestro. «Ci sono, qui, tutti gli ingredienti per una guerra più grande.»
Rievoca il genocidio in Bosnia nel 1995. «L'America ha la responsabilità di stare al fianco dei suoi
alleati quando questi cercano di salvare vite innocenti e preservare pace, libertà e stabilità in
Europa. Ed è questo che stiamo facendo in Kosovo... I nostri pensieri e le nostre preghiere questa
notte devono essere con gli uomini e le donne delle nostre forze armate, stiamo intraprendendo questa
missione per preservare i nostri valori e il futuro dei nostri figli. Dio li benedica, e Dio benedica
l'America.» Ma nel messaggio televisivo Clinton commette anche un errore. Dice: «Non intendo
mettere le nostre truppe nel Kosovo per combattere una guerra». No, quindi, a un intervento di terra.
La guerra si combatterà dall'alto. Un errore, perché significa scoprire uno dei cardini di tutto il
conflitto, l'incapacità o la non volontà politica dell'America di arrivare fino all'intervento di terra per
piegare l'eventuale resistenza serba. Questo probabilmente contribuisce a rafforzare nel leader serbo
la convinzione che sia giunto il momento di liberarsi della stragrande maggioranza della popolazione
del Kosovo. Quell'80-90 per cento di albanesi dagli spaventosi tassi di fertilità e crescita
demografica. Dirà Klaus Naumann, il generale tedesco a capo del comitato militare della Nato: «Non
esito a dire che tutti i politici che hanno escluso pubblicamente l'uso delle truppe di terra hanno reso
più facile a MiloSevic calcolare i suoi rischi, e questo può averlo incoraggiato a tentare di farcela, e
in questo modo hanno prolungato la guerra».
Fin dall'inizio, la campagna aerea si rivela tecnicamente governabile, vista la soverchiante
superiorità tecnologico-militare dell'Alleanza, ma anche politicamente un incubo per i generali
costretti ad aspettare che i vari comitati e i leader politici dei paesi Nato concordino sui bersagli o
gruppi di bersagli da bombardare volta per volta. Con il risultato che una vera pianificazione è
pressoché impossibile e che la gigantesca macchina da guerra dell'Alleanza resta in qualche caso
senza bersagli «politicamente corretti». Confesserà il comandante delle forze aeree, il sanguigno
generale Short, lo stesso che davanti a MiloSevic teneva in una mano i B52 e nell'altra gli U2: «Non
posso dirvi quante volte l'istruzione che avevo era: "Mike, sei autorizzato a bombardare due, forse
tre notti. E' tutto ciò che Washington può sostenere. Questo è tutto ciò che alcuni membri
dell'Alleanza possono sostenere. Ed è per questo che hai solo novanta bersagli. Ci vorranno tre
notti"».
Dopo le prime tre notti, Solana e Clark in una conferenza stampa spiegano che i raid continueranno
«progressivamente, sistematicamente, sempre più intensamente». MiloSevic non si è arreso. La
guerra continua. I militari, però, sono nervosi. Dirà il maggiore David Sullivan, pilota di uno Stealth:
«Continuammo a volare. Arrivò il giorno tre, le missioni andavano bene. Avevamo ancora una serie
di bersagli, ma in realtà non avevamo un buon piano per la notte quattro, e la notte cinque. E il terzo
giorno cominciammo a chiederci: "Okay, che cosa facciamo adesso? Abbiamo colpito praticamente
tutti i nostri bersagli"». Il terzo giorno, la seconda ondata di 117 Stealth viene cancellata. Short:
«Non avevamo più bersagli. Li avevamo colpiti tutti e 91». A terra, intanto, MiloSevic fa scoppiare
la «bomba umana», l'esodo più imponente di una popolazione europea dalla fine della Seconda
guerra mondiale. Gli albanesi del Kosovo, incalzati dal terrore serbo, vengono cacciati verso la
Macedonia e l'Albania. E con le immagini delle prime teorie di profughi, le donne che allattano i
bambini in testa alle colonne, arrivano anche quelle dei rottami dell'«aereo invisibile» centrato dalla
contraerea serba. L'F117 cade nella boscaglia di Budjanovci, a una quarantina di chilometri da
Belgrado. Poco prima d'essere colpito, il capitano Ken Dwelle si è lanciato con il paracadute.
Raccontano che una volta a terra, non la smetteva di parlare per esser sicuro che i compagni
incaricati del salvataggio, la Combat Search, con gli elicotteri lo potessero localizzare. Finalmente
l'aereo-radar, l'Awacs, capta i segnali satellitari del capitano Dwelle, si alzano da Brindisi due
Cobra da combattimento che scortano un Superstallion da trasporto con i marines a bordo. Ken
rimarrà in territorio nemico solo otto ore. Ma l'abbattimento di un aereo invisibile esalta le fantasie
di eroismo serbo, il cliché storico del piccolo popolo serbo, Davide, che vende cara la pelle nella
lotta con il bruto gigante Golia.
Nel Kosovo, però, è diverso. Il Davide albanese non ha neppure la fionda per difendersi dal Golia
serbo. Le forze di sicurezza di Belgrado possono decidere la vita o la morte anche dei notabili, anche
di quelli che hanno partecipato alla delegazione di Rambouillet. Così, fanno passare Blerim Shala
alla frontiera dopo una telefonata a Belgrado, mentre l'avvocato e difensore dei diritti umani che sta
preparando per il Tribunale dell'Aja un dossier sui crimini commessi da MiloSevic, Bajram
Kelmendi, viene ucciso con i due figli. Filtrano dal Kosovo in Macedonia notizie terribili: stragi,
esecuzioni sommarie, rapine, villaggi rasi al suolo... Per il momento, sono solo urla dal silenzio. La
Nato è passata alla fase due, che estende gli attacchi alle truppe serbe a terra e non più solo alle
attrezzature, ai mezzi e alle postazioni. Il portavoce David Wilby dichiara da Bruxelles: «Stiamo
cominciando a fargli male». Significa che la guerra durerà ancora. Il guaio è che per colpire le
colonne militari, non si può restare in alto, a diecimila metri d'altezza, bisogna incalzare il nemico
vedendolo da più in basso. Ma se si scende, i rischi d'essere abbattuti dalla contraerea diventano
dieci volte più alti, come ha dimostrato la guerra del Golfo dove i mezzi militari erano
tecnologicamente inferiori, ma il terreno sicuramente più favorevole. Al contrario, restando in alto
aumenta paurosamente il rischio di errori e «danni collaterali».
Dopo neanche una settimana, filtrano indiscrezioni sul fallimento sostanziale degli attacchi. Gli
aerei volano troppo lontano dal campo di battaglia, tra maltempo e problemi tecnici capita che i
velivoli tornino con le bombe attaccate alle ali, e solo una piccola percentuale dei bersagli sarebbe
stata davvero colpita (c'è chi dice 50 sui 400 selezionati). Comincia a insinuarsi nella testa dei
comandanti e dei leader della Nato la paura di non vincerla, questa guerra, e di dover celebrare il
cinquantesimo anniversario della nascita della Nato con una sconfitta storica. Se l'Alleanza che ha
gloriosamente attraversato gli anni difficili della Guerra fredda e vinto il confronto con la (ex)
superpotenza sovietica non è in grado adesso di vincere la guerra per il Kosovo, che cosa ne sarà
degli altri teatri di guerre prossime venture ed eventuali in paesi più vasti e complessi? Il generale
Wesley Clark, il comandante in capo, il Saceur, l'ex addetto militare di Holbrooke ai tempi di
Dayton, assicura che «nessuno conosce il nemico meglio di me e perciò ho una sensazione precisa di
che cosa potrebbe fare e come potrebbe farlo», e definisce la guerra una missione che per la Nato è
do or die, compierla o morire.
Solo che non s'è mai vista una guerra vinta esclusivamente con gli aerei, senza un ingaggio a terra.
Non s'è mai visto un paese occupato e invaso dagli aerei. E qui, per di più, il fine umanitario
dell'intervento imporrebbe di calarsi sul terreno per non permettere ai serbi di realizzare quel piano
«Ferro di cavallo» che, vero o falso che sia, è sotto gli occhi degli aerei spia e nei racconti delle
avanguardie di profughi che si presentano alla frontiera albanese e macedone. Il generale Naumann
ricorda che «in due o tre occasioni davvero ho pensato che ci stessero chiedendo l'impossibile, come
fermare il singolo assassino che andava di villaggio in villaggio a sgozzare i kosovari con il suo
coltello, cosa che non puoi fare standotene lassù in aria ma devi scendere ad affrontarlo».
Peggio: «Eravamo preparati per un'operazione che riportasse MiloSevic al tavolo delle trattative,
quasi a un'operazione di persuasione con la forza, non c'era un piano per sconfiggere un paese».
Spiega Clark: «Tutti i bersagli erano approvati da gente più in alto di me, c'era un accordo all'inizio
su 51 bersagli in due giorni, forse tre a seconda delle condizioni del tempo. Ed era già tanto per
un'Alleanza che aveva discusso dell'eventualità di colpire uno o due bersagli». Più diretto il generale
Short: «Ci sono state limitazioni politiche durante tutta la guerra. Ci sono stati bersagli che singole
nazioni non ci hanno permesso di colpire con aerei lanciati dal loro territorio. Oppure bersagli che
singole nazioni non avrebbero colpito con i propri mezzi, ma che andava bene se a colpirli erano
altri». Short si lamenta che considerata la potenza e il peso delle forze aeree americane,
preponderanti nell'Alleanza anche più che nel caso di un intervento da terra per il quale nazioni come
Gran Bretagna e Francia sarebbero egualmente preparate, l'America non può esser trattata
semplicemente «un voto su 19». I comandanti militari pensavano forse che dopo l'inizio del
bombardamento, le porte delle stanze operative, quelle in cui si conduce la guerra, sarebbero rimaste
chiuse, impermeabili alle divisioni che per troppo tempo hanno ingessato l'iniziativa internazionale
in Kosovo. Ma così non è. Il veto su singoli bersagli arriva da diversi governi, che rispondono ai
rispettivi parlamenti e a opinioni pubbliche pronte anche (in Grecia e Italia, per esempio) a scendere
in piazza «per la pace». Solana osserva che questa non è una guerra qualunque, ma una guerra nel
cuore dell'Europa, che ha tra i bersagli una capitale europea, Belgrado, in un continente nel quale
sono ancora vivi i ricordi dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Qualcuno ribattezza la
strana guerra della Nato nel Kosovo «la guerra per comitati». I comitati politici che discutono su ogni
bersaglio.
Sin dall'inizio, la piega scivolosa degli avvenimenti fa prospettare quelle che Ivo Daalder,
responsabile per l'Europa nel Consiglio per la sicurezza nazionale degli Usa dal 1992 al 1996,
chiama «le tre opzioni». La prima viene da lui stesso denominata «l'opzione greco-italiana». Il
ministro degli Esteri italiano, Lamberto Dini, lo stesso che a Rambouillet ha tentato inutilmente di
appoggiare la posizione serba del voto separato sulle due parti del documento d'intesa, già agli
albori del bombardamento cerca una sponda diplomatica a Mosca per ottenere la sospensione degli
attacchi. E il primo aprile, nel giorno in cui esplode in tutta la sua drammaticità la bomba umana
degli oltre 60 mila profughi albanesi intrappolati nella terra di nessuno tra Kosovo e Macedonia, e in
tutta la sua evidenza la catastrofe umanitaria brandita come arma da MiloSevic per incrinare l'unità
della Nato, compare sul Corriere della Sera una intervista nella quale Dini denuncia gli scarsi
risultati del bombardamento per via del maltempo. «Non si può bombardare senza pensare» avverte.
«L'intensificazione dei bombardamenti non offre una garanzia di successo.» Anzi, rischia di
trasformarsi in un boomerang per l'Alleanza. «Non si potrà bombardare all'infinito.» Il ministro
italiano avanza una sua proposta, alternativa alle bombe: il blocco della Serbia. «Un blocco totale,
un completo isolamento di Belgrado dal resto del mondo, che impedisca il passaggio di uomini e
cose tagliando tutti i rifornimenti a eccezione dei generi alimentari e delle medicine.» Una proposta
chiaramente velleitaria, sia per la capacità di resistenza dimostrata da Belgrado in tanti anni
d'embargo, sia per la inefficacia di un embargo «totale» contro un paese dai troppi confini colabrodo.
Il governo britannico, nelle stesse ore, prende in seria considerazione l'intervento delle truppe di
terra. E premerà sempre di più sull'alleato americano perché, a dispetto di quanto ha dichiarato
Clinton nel suo messaggio alla nazione del 24 marzo («Io non intendo mettere le nostre truppe nel
Kosovo»), si convinca che non c'è un altro modo dignitoso di vincere la guerra. Anzi, che un altro
modo di vincere non c'è.
Il 30 marzo, sono migliaia ormai i profughi che in fila, immobili, silenziosi, già affamati, sazi
dell'orrore che hanno visto e sofferto scappando dal Kosovo, aspettano nella terra di nessuno tra
Djeneral Jankovic e Blace, tra il posto di frontiera serbokosovaro e quello macedone, il
lasciapassare per raggiungere gli amici, i familiari, i connazionali albanesi di Macedonia. Ci sono
bambini di pochi mesi, donne incinte, anziani e disabili. Non hanno documenti, non hanno soldi. Alle
loro spalle, hanno lasciato PriStina e l'anagrafe in fumo, bruciata per cancellare la memoria della
loro presenza. E' la bonifica etnica, la stessa che era cominciata nel villaggio croato di Kijevo, nella
Krajina, con le carte del catasto date alle fiamme.
Il passaggio lungo la strada che porta da PriStina a Skopje era bloccato da due carri armati serbi
piazzati in mezzo a una galleria.
Ora i tank non ci sono più e il flusso di disperati può scorrere. Ci sono giovani salvati dalla
colletta dei familiari che hanno pagato per farli partire. Solo una ragazza, un ragazzo... I soldi non
bastavano a «liberare» tutti. Le collette si fanno anche per riscattare una donna destinata allo stupro.
Collette di condominio, o di quartiere. Filtrano i primi racconti delle violenze. Villaggi interi
ostaggio di gruppi paramilitari che hanno usato gli abitanti come schiavi, per scavare trincee e
servire i nuovi padroni.
Rastrellamenti nei paesi, e il racconto più comune: «Sono arrivati e ci hanno dato dieci minuti per
partire». Poche buste di stracci e ricordi, e una fotografia per ricordare la casa quand'era in piedi.
Tutti sul trattore, e dietro la colonna a piedi. Memorabile la fotografia con una donna che allatta, e
dietro a lei che dà la vita al figlio appena nato, il serpente di profughi che paiono tutti morti viventi.
Il 31 marzo, nella notte di Blace salgono da un vallone i profughi appena arrivati con il treno da
PriStina. Diventerà il treno dei deportati, ricorderà immagini penose di altre deportazioni, dei treni
piombati che conducevano ai binari morti nei cortili dei lager. Si proietta negli stessi giorni, nei
cinema italiani, La vita è bella, di Roberto Benigni. L'associazione d'immagini è immediata. La fa il
commissario europeo agli aiuti umanitari, Emma Bonino. Il ministro della Difesa tedesco, Scharping,
paragona il regime serbo a quello nazista. E il Kosovo alla Polonia. Il ministro degli Esteri, Joschka
Fischer, parla di «strategia primitiva», che consiste in «un uomo che viene ucciso, un altro sgozzato,
la moglie stuprata, e al resto della famiglia non resta che fuggire».
Il 31 marzo Clinton preannuncia l'attacco a Belgrado città, finora risparmiata, e la Nato avverte
che non ci sarà pausa nei bombardamenti neppure per Pasqua. il via alla fase tre, con azioni contro le
forze armate serbe in tutta la Jugoslavia. Il primo aprile, lungo la strada fra Kumanovo e Staro
Nagoričane, in una zona in cui la frontiera tra Macedonia e Serbia non è definita, cadono in mano a
una pattuglia serba i sergenti James Stone e Andrew Ramirez, e il soldato scelto Stephen Gonzales.
Sono americani, forse hanno oltrepassato la frontiera, forse a catturarli o tradirli sono stati i
contadini serbi che abitano in maggioranza da queste parti, avvinti da legami familiari e d'amicizia
con i serbi della dirimpettaia PreSevo. I volti degli yankee appaiono alla tv di Belgrado, i network
internazionali li rimandano alla noia. Il giorno dopo, il 2 aprile, si materializzano quasi
all'improvviso, a Blace, altri 45 mila profughi, per un totale di 60 mila ammassati senza soccorso
davanti ai cordoni della polizia macedone che sigilla il confine. Una scena apocalittica, ruandese, in
piena Europa. La marea umana non accenna a esaurirsi, e mette a repentaglio i fragili equilibri etnici
di un paese, la Macedonia, che vedeva nella presenza della Nato una garanzia di stabilità e di
protezione dall'espansionismo di Belgrado, mentre ora guarda i militari americani, inglesi, francesi,
italiani come una forza d'occupazione, un esercito filoalbanese che si prepara a far la guerra da terra
ai cugini ortodossi serbi. I racconti dei profughi non riescono a commuovere altro che i giornalisti
occidentali, mentre ai macedoni fa paura questa pressione fisica, questa invasione, questa bomba
demografica.
Raccontano i profughi che alla stazione di PriStina la folla era così fitta, che alle mamme cadevano
di braccio i neonati, schiacciati senza pietà dalla massa di gente in fuga. Raccontano dell'esodo dai
propri villaggi cominciato molti mesi prima del 24 marzo, soprattutto in certe zone, nella Drenica.
Raccontano degli anziani uccisi nel loro letto perché non avevano la forza o la voglia di alzarsi e
scappare. Raccontano di disabili in carrozzella, fucilati alle spalle e gettati al bordo della strada,
perché non ce la facevano a stare al passo degli altri. E sono racconti che si ripetono identici a Blace
come negli altri posti di confine tra Kosovo e Macedonia, e tra Kosovo e Albania. Gruppi di
fuggiaschi sono stati spostati da un posto all'altro, da un villaggio all'altro, da un bosco all'altro,
secondo un'apparente illogicità e inspiegabile fretta, un itinerario della follia, che fa pensare a un
loro uso come scudi umani. Loro stessi lo sanno, se ne rendono conto. Sanno che le operazioni di
pulizia etnica hanno avuto un'accelerazione dopo il 24 marzo, eppure non c'è uno che chieda la
sospensione dei bombardamenti. Nei primi dieci giorni di guerra della Nato, l'Alto commissariato
per i rifugiati dell'Onu stima gli sfollati all'interno del Kosovo 260 mila, e 200 mila tra Albania e
Macedonia. Ed è solo l'inizio.
Piove e un po' anche nevica, a Blace. Le famiglie vegetano e defecano nello stesso posto, sotto
teloni di plastica distribuiti da volontari albanesi. Circolano i primi video amatoriali delle stragi
serbe. Si compila la lista dei villaggi nei quali sarebbero avvenuti i massacri. Tutto materiale che
finisce al Tribunale dell'Aja. A guerra conclusa, una campagna negazionista sui giornali metterà in
dubbio, insieme con il numero delle vittime dei massacri, la veridicità della stessa bonifica etnica.
Polemica irrilevante, come certe forme di revisionismo, di ridimensionamento quantitativo dei
crimini commessi, che appartengono a una sorta di storiografia medico-legale. I massacri ci sono, le
fosse comuni anche. E ci sono le esecuzioni sommarie, l'incendio alle case, gli stupri e le rapine.
Ci sono i profughi, c'è il Kosovo che si sposta in Macedonia e Albania. Il blocco della frontiera da
parte macedone diventa un caso internazionale, finché la Nato non si organizza e il contingente di
ottomila uomini mette in piedi i campi per accogliere i profughi. In una notte, Blace viene svuotata,
teorie di pullman trasferiscono i kosovari nei punti di raccolta sparsi per la Macedonia. Il vuoto nel
campo di Blace, laddove fino a poche ore prima marcivano 100 mila esseri umani allo sbando, è
quasi più impressionante, angoscioso e inquietante della massa di disperati che c'era prima. Le
famiglie sono state separate, molti fuggiaschi sono finiti in paesi lontani come la Turchia o la Svezia,
senza neanche sapere dov'erano diretti.
Il primo aprile, è successo anche l'impensabile. Un incontro a Belgrado tra Rugova e MiloSevic,
autori d'una dichiarazione congiunta che chiede la fine dei bombardamenti della Nato. Dopo la
guerra, Rugova spiegherà che era ostaggio di MiloSevic. Lo stesso MiloSevic favorirà la sua
partenza per Roma quando il leader albano-kosovaro non gli sarà più di alcun aiuto. Dini si distingue
anche in questa fase, giustificando in parte i serbi per aver respinto «l'accordo di Rambouillet, per
loro inaccettabile». Il 3 aprile, vengono finalmente colpiti il quartier generale della polizia e il
ministero degli Interni serbi. A 600 metri da quest'ultimo c'è un ospedale. «Se lo colpiamo, la guerra
è finita» dice ai colleghi il generale Naumann. L'attacco, stavolta, è perfetto. Chirurgicamente
perfetto. Ma la paura scuote i governi. «Nessun bersaglio, nessuna serie di bersagli, nessun ciclo di
bombardamenti» commenterà il generale Clark «era più importante del consenso all'interno della
Nato.» Un consenso messo a dura prova dagli errori che aumentano.
Secondo stime del dopoguerra, gli incidenti con danni collaterali ammontano in tutta la guerra a
30-90, e avrebbero fatto fra 150 e 500 morti. Le bombe «intelligenti» hanno rappresentato solo il 35
per cento del munizionamento (23 mila pezzi tra intelligenti e stupidi e 329 missili da crociera). Il
margine d'errore dichiarato, lo 0,6 per cento, è pura disinformazione, inferiore ai dati degli
addestramenti.
Il 12 aprile, un missile che doveva centrare un ponte colpisce il treno che ci passa sopra, vicino al
villaggio di Grdelica, e sono 17 morti. Due giorni dopo, i missili degli F16 centrano una colonna di
profughi dietro a un trattore, scambiata per un convoglio militare serbo: 75 i morti. Uno dei profughi
racconta: «A 200 metri dal ponte di Bistrazin, il trattore fu attaccato. Vedevamo le bombe arrivare
sulla gente ammassata, finché il rumore non mi ha colpito scaraventandomi per aria a 15 metri». Una
profuga: «Quando siamo andati a vedere, le donne dietro al trattore erano schiacciate sull'asfalto.
Fiamme dappertutto. Mia nipote per terra, agonizzante. morta in ospedale la sera stessa. Mia figlia
più piccola non aveva più la testa. Solo il corpo, capisce? Non sapevo neppure se fosse lei. Lo capii
dai vestiti. Poi mi misi a cercare la famiglia di mio cognato.
Alcuni non avevano più le gambe. Mio cognato, lo stesso. Mio marito, solo gli indumenti».
L'Alleanza intensifica i bombardamenti, gli aerei impegnati sono già diventati 500, da 400 che erano,
presto raggiungeranno quota 700. Sono sempre più numerose, anche in America, le voci critiche. La
Gran Bretagna di Tony Blair vuole l'intervento di terra, Washington bombardamenti più intensi ed
efficaci, l'Italia la tregua (il ministro Dini arriva a dire che «io non sono filoserbo, ma non si può
neanche sempre dipendere dagli Stati Uniti»). Il 22 aprile i missili colpiscono il «grattacielo di
MiloSevic», la torre di 24 metri che ospita il Partito socialista al potere, alcuni uffici del partito Jul
della signora MiloSevic, Mirjana, e alcune tv, compresa quella diretta dalla figlia del leader, Marija.
Viene devastata anche la stanza da letto di MiloSevic in una delle due residenze conosciute sulla
collina dei vip, Dedinje. Il giorno dopo, la Nato colpisce con i Cruise la sede della televisione di
stato, quella che in tutti questi anni ha contribuito organicamente e in modo decisivo alla diffusione
della politica estremista e razzista di MiloSevic: 16 i morti. Ma stavolta il regime era perfettamente
a conoscenza dell'obiettivo. Gli era stato quasi suggerito dalla Nato stessa. I corrispondenti stranieri
a Belgrado avevano ricevuto telefonate d'avvertimento: «Non andate alla sede della tv». I morti sono
stati letteralmente uccisi dalle bombe della Nato, ma anche sacrificati dal regime sull'altare della
comunicazione. Belgrado, in fondo, non ha subito bombardamenti davvero pesanti. Un giornalista
americano, ricordando quei giorni, dirà che si è trattato di un gentle bombing. Molto chirurgico,
molto mirato ai palazzi del potere e ai centri militari, colpiti più volte, fino alla noia. Nessun ponte
colpito, per volontà precisa dei francesi. Scriverà Toni Capuozzo, inviato del Tg5: «Belgrado non è
la città in macerie e disperata che qualcuno voleva accreditare. E questo panorama, a lungo andare,
generava inevitabilmente una sorta di impaurita gratitudine verso un nemico invisibile, che poteva
fare tutto (dov'erano finite le contraeree?) ma sceglieva con cura dove colpire... I bombardamenti
nella capitale non hanno fatto più di 25 vittime tra la popolazione civile. Altro che città allo stremo:
io ricordo, e dolorosamente, il nome dell'unica bambina uccisa da una scheggia a Belgrado. Per nome
e cognome. Dire che a Belgrado i bambini morivano sotto le bombe, è un po' anche dimenticare la
vita e la morte di quella bambina, che si chiamava Milica Rakic e che viveva a Batajnica, accanto
all'aeroporto militare di Belgrado». Ovvio che tra i bersagli ci siano i ponti, le raffinerie, i ripetitori
televisivi. La Zastava non produce solo automobili, ma anche mitra.
La Nato ha scelto come nemico MiloSevic e il suo apparato di potere e militare, non il popolo
serbo. Questo si sente di testimoniare, smascherando la retorica prevalente anche in Italia, Toni
Capuozzo.
Che cita una frase di Marko VeSovic, lo scrittore montenegrino tenacemente rimasto a Sarajevo
sotto l'assedio, ai belgradesi: «Siete fortunati, voi, a essere bombardati dalla Nato». Il 29 aprile, il
premier francese Lionel Jospin dice di «non escludere» una spartizione del Kosovo, e boccia invece
l'idea di un intervento di terra della Nato. Il 2 maggio, il reverendo democratico americano Jesse
Jackson, che durante la guerra del Golfo era stato a Kuwait City occupata dagli iracheni, vola a
Belgrado e davanti ai fotografi prega tenendosi per la mano a MiloSevic. E' una missione che
nasconde forse il desiderio-tentativo di avviare una trattativa che potrebbe condurre alla spartizione
del Kosovo. MiloSevic ricambia liberando i tre soldati americani catturati all'inizio della guerra.
Ma è anche il giorno in cui vengono bersagliate le centrali elettriche e la Serbia si ritrova al buio. Il
3 maggio, le bombe a frammentazione e a grappolo fanno 17 morti in una corriera di profughi in
viaggio da Pec a Podgorica, centrata in pieno. Il 7, grande notte per la Nato: pioggia di missili su
Belgrado. Uno, però, colpisce un bersaglio-tabù, l'ambasciata cinese. C'è chi ritiene ancora oggi che
non si sia trattato d'un errore, visti gli stretti legami tra Belgrado e Pechino, e personalmente tra il
leader serbo e la dirigenza cinese. I generali della Nato diranno che l'errore è stato causato da
un'inesattezza nelle mappe della Cia. L'ambasciata cinese (i cinesi uccisi sono quattro)
semplicemente «non doveva trovarsi là». Nel centro di NiS, le bombe a grappolo fanno 15 morti e 70
feriti. Un altro errore. A Bruxelles, la Nato rivela che gli aerei sono armati con munizioni all'uranio
impoverito. Tra gli sbagli della Nato, un centinaio di morti nel villaggio kosovaro di KoriSa (erano
scudi umani?), e 20 anziani profughi serbi sotto le bombe in un sanatorio a Surdulica, il 31 maggio.
Ma la guerra ormai è agli sgoccioli. La Nato ha usato anche, per tre volte, le speciali armi
elettroniche per provocare il blackout elettrico in Serbia. Una decisione al limite del lecito, per il
diritto internazionale. Una forma di pressione estrema per rendere più produttivo il negoziato in
corso. Il dibattito sull'uso eventuale delle forze di terra ha portato il 18 maggio anche il presidente
Clinton a non escluderlo.
Ai primi di maggio l'ex premier russo Vyktor černomyrdin sviluppa su incarico di Eltsin
un'iniziativa diplomatica mirata a metter fine ai bombardamenti. Mosca è sempre più preoccupata del
solco che i missili della Nato su Belgrado stanno scavando anche tra l'Occidente e Mosca. Il russo è
affiancato dall'americano Strobe Talbott e dall'ex presidente finlandese Martti Ahtisaari. La
mediazione avviene tutta prima che i tre vadano da MiloSevic a leggere il documento dell'accordo,
un testo «non negoziabile». Si è discusso soprattutto sull'imposizione da parte della Nato del totale
ritiro delle forze serbe dal Kosovo, con la previsione (concessa in extremis) di un limitato ritorno
non prima di un anno. MiloSevic accetta di riportare in Serbia 47 mila uomini e 800 mezzi pesanti e
cannoni in cambio del riconoscimento della sovranità serba sul Kosovo e della personale
permanenza al potere a dispetto della formale incriminazione del Tribunale penale internazionale
dell'Aja per crimini di guerra e contro l'umanità (atto d'accusa reso pubblico nel pieno della guerra e
della mediazione internazionale).
La Nato ottiene quel che non aveva ottenuto a Rambouillet: l'ingresso nel Kosovo e l'incarico di
presidiarlo. Sia MiloSevic, sia Clinton, cantano vittoria. Un interessante rapporto del centro per gli
studi strategici di Belgrado, diretto da Vatroslav Vekaric, analizza le ragioni che hanno indotto il
leader serbo a volere la guerra, a trascurare le numerose opportunità che aveva di evitare il
bombardamento della Nato senza perdere il Kosovo. Ancora una volta, a guidarlo sarebbe stata
l'ambizione, il miraggio di perpetuare un potere sempre più radicato nella miseria e nella sofferenza
del suo popolo. Dopo quasi 38 mila sortite, 23 mila bombe e missili lanciati, oltre 1000 aerei
impiegati, 30 navi e 200 mila uomini in tutto, tra 5 e 10 mila militari uccisi secondo la Nato (più
probabilmente 1500), 524 militari e 114 poliziotti secondo Belgrado, e 650 bersagli fissi colpiti,
compresi 24 ponti, 12 centri ferroviari, 37 fabbriche e 7 aeroporti, più di 1200 bersagli mobili tra
cui un centinaio di aerei (compreso l'85 per cento dei Mig29), un centinaio di carri armati, 150
trasporti truppe corazzati, non più di 500 morti per errore secondo la Nato e 2500 morti innocenti
sotto le bombe per Belgrado, ma neanche una vittima Nato in combattimento (solo due aerei abbattuti
e i piloti recuperati in operazioni di ricerca e soccorso dietro le linee nemiche, o Csar), dopo tutto
questo, alle 15,23 di giovedì 10 giugno il segretario generale della Nato annuncia la sospensione
delle azioni militari. Finisce così la prima guerra europea dopo cinquant'anni. Presto la chiesa
ortodossa serba si dissocerà dall'operato del regime e il 28 giugno (giorno di San Vito)
Pavle, il patriarca, invocherà le dimissioni di MiloSevic. La caduta di MiloSevic tra poco più d'un
anno avrà però un'altra, più banale spiegazione: il popolo è esausto, stanco di subire standard di vita
sociale ed economica sempre più da Terzo Mondo. C'era stato un tempo che i serbi sapevano vincere
le guerre anche se alla fine perdevano le paci. MiloSevic è riuscito a perdere entrambe. La guerra e
la pace. Quanto all'Occidente, è troppo presto per dirlo. La guerra, in Kosovo, non è finita. Si è solo
addormentata, e dorme sonni agitati.
******
William Walker La carriera dell'ambasciatore William Walker parte da lontano ed è una storia
controversa. Parte dal Perù, nel 1961, ed è intrecciata con la politica americana sotto Ronald Reagan
in America Latina. Una politica forte e spregiudicata. Walker è stato ambasciatore degli Stati Uniti a
El Salvador che offriva basi e mercenari (addestrati negli Usa) per la lotta guerrigliera al governo
del Nicaragua. I detrattori della politica Usa nei Balcani stabiliscono un nesso immediato di
silenziosa complicità tra Walker e le esecuzioni dei dissidenti gesuiti del Nicaragua. Lui smentisce
tutto. Il fatto che il segretario di stato americano, Madeleine Albright, imponga Walker come capo
della delicatissima missione di osservatori dell'Osce in Kosovo (Kvm) è un segnale che a Belgrado
viene subito avvertito come foriero di guai. MiloSevic non lo sopporta, e gli incontri fra i due
saranno sempre molto tesi. Affiancato da sei vicecapi di differenti nazionalità, Walker, amico del
generale Wesley Clark, stringe un rapporto forte con il vice britannico, ed è con lui che «gestisce»
l'episodio decisivo di Račak, il massacro di 40, o 42, o 45 albanesi che innescherà nella vicenda
diplomatica del Kosovo il pilota automatico verso l'intervento. La gran parte dei 1400 osservatori
(sui 2000 previsti come tetto) sono militari, ed è di pubblico dominio che la loro missione di
«guardoni» è di fatto una missione di spionaggio autorizzata dalle parti sulla base di un accordo
internazionale. C'è poco da scandalizzarsi per questo. La denuncia di Račak come «crimine contro
l'umanità a opera delle forze di sicurezza serbe» induce Belgrado a dichiarare Walker persona non
grata, e a chiedergli di lasciare il paese entro quarantotto ore. Ne passano altre ventiquattro e Walker
rimane, ma solo per andarsene alla vigilia del bombardamento. Prima di PriStina, ha guidato
l'amministrazione provvisoria dell'Onu nella Slavonia orientale croata. Difenderà sempre la sua
scelta di puntare l'indice su quelli che per lui erano senza dubbio i principali responsabili del
conflitto. I serbi.

Entrano le truppe (di Toni Fontana)

Alla fine del maggio 1999, dopo ormai quasi due mesi di raid aerei, la conclusione della guerra
del Kosovo appare lontana, MiloSevic sembra sordo a ogni appello, a ogni ultimatum mentre gli
intensi bombardamenti su Belgrado e le città serbe (i più violenti dall'inizio del conflitto) segnalano
soprattutto l'impasse di americani ed europei.
In Macedonia, dove sono schierate da mesi le truppe della Nato, si avverte un certo nervosismo. I
soldati si addestrano nella bonifica di campi minati, il generale Michael Jackson, comandante delle
truppe Nato, tiene lunghe e riservatissime riunioni con i suoi collaboratori e, soprattutto, dal porto
greco di Salonicco giungono altri uomini, cannoni e mezzi corazzati.
Il comando generale di Bruxelles fa filtrare ad arte notizie su un possibile attacco da terra, ma
pochi credono che stia realmente per arrivare l'ordine.
Dunque quella grande folla di soldati, cannoni e carri armati che trasforma la piccola e instabile
Macedonia in una piazza d'armi, segnala prima di tutto l'affannoso tentativo della diplomazia
americana ed europea di trovare una via d'uscita. Ma MiloSevic non dà segni di cedimento, gli
attacchi aerei non si rivelano efficaci, molte bombe cadono su carri armati di legno costruiti per
ingannare i piloti e la pulizia etnica semina il terrore e la morte nelle città e nei villaggi del Kosovo.
L'idea vincente e risolutiva viene al vicesegretario di stato americano, Strobe Talbott, che ai primi
di maggio contatta l'ex presidente finlandese, Martti Ahtisaari, un europeo considerato abile
mediatore, «neutrale» e non legato alle cancellerie del vecchio continente.
Talbott cerca un inviato da mandare a Belgrado per convincere MiloSevic a cedere e vuole
affiancare un uomo nuovo all'emissario di Mosca, Viktor Cernomyrdin, che non ha ottenuto granché
fino a quel momento e dal quale lo dividono profonde divergenze. Lo scoglio è rappresentato dal
ritiro serbo. Mosca pretende che almeno ai funzionari di Belgrado venga concesso di rimanere, ma
gli americani non sono di questo avviso.
Il pessimismo circonda il lavoro dei negoziatori. Ai primi di giugno, su iniziativa del cancelliere
tedesco Schröder, la trattativa si sposta nel castello di Petersberg, nei pressi di Bonn, dove comincia
un'estenuante maratona diplomatica.
Il via libera di Eltsin arriva solo la mattina del 4 giugno.
Ahtissari, forte del successo ottenuto, si reca a Belgrado per incontrare MiloSevic, indebolito dai
bombardamenti, isolato come non mai sul piano internazionale, ricercato dal Tribunale dell'Aja per
crimini di guerra, ma ancora in sella e deciso a restarci.
Il documento che l'ex presidente finlandese gli sottopone prevede «una sostanziale autonomia per
il Kosovo», affidato per un anno (con un mandato rinnovabile) a un'inedita amministrazione delle
Nazioni unite. E tuttavia la provincia contesa rimane «parte integrante della Federazione jugoslava».
Il leader di Belgrado accetta il compromesso a denti stretti.
La Nato piega MiloSevic, ma la soluzione prospettata e contenuta nel documento non scioglie
molti nodi e le ambiguità non tardano a manifestarsi. Non viene per esempio specificata la posizione
dei russi nella forza di pace; Mosca aveva avuto un ruolo di primo piano nella trattativa ed è decisa a
recuperare una parte da protagonista sulla scena internazionale. Il punto 4 del documento accenna a
un «ruolo sostanziale» della Nato nella forza di pace che avrebbe sostituito le milizie serbe in
Kosovo, ma non specifica la posizione dei russi.
Pochi giorni più tardi, il 10 giugno, dopo sole sette ore di discussione, il Consiglio di sicurezza
dell'Onu approva all'unanimità la risoluzione 1244 destinata a diventare una sorta di «costituzione»
del Kosovo postbellico. Il documento, nella sostanza, ricalca le linee del piano messo a punto dai
mediatori: il Kosovo diventa una regione «sostanzialmente» autonoma, affidata all'amministrazione
dell'Onu, i serbi si sarebbero ritirati, ma viene lasciata aperta la strada a un loro ritorno per
garantire la sicurezza dei monasteri (Pec è sede del patriarcato della chiesa ortodossa serba) e per
vigilare alle frontiere.
Quest'ultimo punto non è mai stato attuato ed è fonte di continue polemiche tra i dirigenti serbi
(anche dopo l'uscita di scena di MiloSevic e l'affermazione di Vojislav KoStunica) e la Nato.
In quegli stessi giorni cominciano i colloqui tra i militari serbi e quelli della Nato. I primi incontri
si tengono in uno sgangherato albergo a pochi metri dalla frontiera di Blace (Kosovo-Macedonia), da
dove nei mesi precedenti erano transitati 300 mila profughi in fuga dagli orrori della pulizia etnica.
Il generale Jackson, che guida la delegazione della Nato, si scontra con l'ostinazione dei serbi
decisi a lasciare alcuni reparti in Kosovo; ciò non è previsto dagli accordi e inevitabilmente
innescherebbe un confronto armato con i guerriglieri dell'Uçk che stanno scendendo dalle montagne.
Il negoziato si sposta sotto una tenda allestita nei pressi della città macedone di Kumanovo, ai
confini con la Serbia; l'accordo viene raggiunto alle 21,05 del 9 giugno; prevede il «progressivo
ritiro» delle milizie di MiloSevic e il «contestuale ingresso» delle truppe Nato. Ancora una volta non
viene definito il ruolo dei russi, che in quelle ore già stanno preparando un blitz. Alle quattro del
mattino dell'11 giugno reparti britannici composti prevalentemente dai piccoli e temibili fucilieri
nepalesi, i Gurkha, attraversano il posto di blocco di Blace e iniziano l'avanzata verso PriStina,
seguiti da una grande folla di giornalisti e reporter che creano un vero e proprio ingorgo, con la
strada bloccata per ore. Ma i reali ostacoli sono rappresentati dalle mine e dai lunghi tratti dissestati.
La marcia si svolge lentamente e ciò è fatale per l'esordio delle truppe Nato (è la prima volta dalla
fine della Seconda guerra mondiale che intraprendono un'azione così massiccia).
Poche ore prima, circondato dagli applausi dei serbi del Kosovo, un contingente di paracadutisti
russi è arrivato a PriStina dalla vicina Bosnia (dove Mosca schiera i propri soldati nell'ambito della
forza internazionale) e ha occupato l'aeroporto. Per la Nato si tratta di uno smacco e non appare
credibile la tesi di alcuni osservatori, secondo i quali Washington era al corrente delle intenzioni di
Mosca. Quando i britannici giungono a PriStina, i russi sono già padroni dell'aeroporto, ma il
generale Jackson preferisce evitare un confronto che avrebbe potuto degenerare anche in scontro
armato, innescando così una crisi internazionale gravissima e senza precedenti. Jackson, come egli
stesso svelerà nei mesi successivi, entra così in rotta di collisione con il comando Nato e il capo
supremo, l'americano Wesley Clark, che premono per una risposta più energica, forse per un blitz
all'aeroporto di PriStina con gli elicotteri.
Le ambiguità della risoluzione dell'Onu e dei piani di pace emergono così drammaticamente. Nei
giorni successivi, anche gli altri contingenti della Nato fanno il loro ingresso in Kosovo. Gli italiani
entrano dalla frontiera di Blace alla mezzanotte del 12 giugno e iniziano una lunga marcia
attraversando le città di Prizren, Djakovica, Dečani e quindi Pec dove incrociano una colonna di
serbi in ritirata. Il generale Mauro Del Vecchio guida i bersaglieri della brigata Garibaldi, l'unico
reparto delle forze armate italiane composto esclusivamente da soldati professionisti. La colonna
militare italiana è lunga dieci chilometri e composta da oltre 700 mezzi. Non si verifica alcun
incidente anche se in molte occasioni i serbi che si ritirano armati e urlanti provocano i soldati
italiani insultandoli. Il viaggio dura ventiquattr'ore, vengono attraversate città e villaggi deserti,
devastati, saccheggiati. «A Pec trovammo una città fantasma» ricorda il generale Del Vecchio
«dovunque c'erano distruzione e odore di cadaveri. Non avevo mai visto nulla di simile, neppure
quando ho guidato i soldati a Sarajevo.» Nelle stesse ore, preceduto da un reparto delle truppe scelte
britanniche, entra in Kosovo il primo convoglio dell'Onu guidato da Staffan de Mistura,
rappresentante delle Nazioni unite a Roma e, in quei mesi, inviato dell'Unhcr (Alto commissariato
Onu per i rifugiati): 52 camion con cibo e coperte raggiungono PriStina e quindi alcuni gruppi di
profughi isolati e terrorizzati nascosti sulle colline. «Incontrammo persone provate dalla fame e dagli
stenti, sembravano morti viventi. Scoprimmo le prime fosse comuni e gli orrori della pulizia etnica»
ricorda de Mistura che in quella occasione era accompagnato da Paola Biocca, portavoce a Roma
del Wfp (World Food Programme) scomparsa con altri operatori umanitari nel novembre del 1999 in
un incidente aereo avvenuto a PriStina.
I soldati della Nato che entrano in Kosovo per primi, aprendo la strada al grosso della Kfor (nelle
settimane successive la Nato schiererà oltre 50 mila militari) si trovano davanti a uno scenario
raccapricciante.
Le milizie serbe (oltre ai reparti regolari operavano in Kosovo cinquemila paramilitari addestrati
alle peggiori efferatezze) avevano saccheggiato e distrutto, stuprato e ucciso.
L'odore dei cadaveri impregna l'aria, interi villaggi sono stati letteralmente cancellati, le città che
hanno subito le maggiori devastazioni sono quelle del Kosovo orientale, Pec, Djakovica, Dečani,
Prizren, affidate al controllo dei militari italiani.
Un rapporto dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) pubblicato
nel gennaio del 2000 ricorda innanzitutto che le devastazioni e le violenze erano cominciate ben
prima dell'inizio dei bombardamenti. Nel primo volume (Kosovo as seen as told) si legge tra l'altro
che «tra le 200 mila e le 300 mila persone erano già state cacciate tra il mese di aprile e il mese di
settembre del 1998». Si tratta purtroppo della tragica anticipazione di quanto accade nei mesi del
conflitto, quando «un milione e 450 mila persone vengono allontanate con la forza dai villaggi e dalle
città». «Tra marzo e giugno del 1999» spiega il rapporto dell'Osce realizzato attraverso migliaia di
interviste raccolte in Kosovo e nei campi profughi «vengono sistematicamente espulsi con la forza
863 mila kosovari albanesi, 783 mila dei quali sono rimasti durante il conflitto in Macedonia,
Albania e Montenegro.» L'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu spiega in un rapporto che la
fine del conflitto ha restituito un Kosovo nel quale un terzo del patrimonio abitativo è stato totalmente
o parzialmente distrutto.
Le abitazioni danneggiate sono 120 mila e almeno 50 mila case sono del tutto inabitabili. Ciò
costringe 350 mila albanesi a trascorrere l'inverno del 1999 senza un riparo e obbliga l'Unhcr a
inviare 50 mila stufe e 37 mila metri cubi di legna.
Ma i dati non descrivono le esatte dimensioni della tragedia che si è consumata in Kosovo tra il 24
marzo e il 10 giugno del 1999, cioè gli orribili crimini dei quali si sono macchiate le bande
paramilitari cui MiloSevic aveva dato l'ordine di uccidere, stuprare, bruciare, distruggere. Sul
numero delle vittime albanesi della repressione serba si è innescata una macabra polemica che ha
contrapposto, sia in Italia sia in altri paesi, tra i quali gli Stati Uniti, chi si era schierato contro
l'intervento della Nato a chi invece lo aveva ritenuto necessario per porre fine alla pulizia etnica che,
come si è visto, era iniziata ben prima degli attacchi dei cacciabombardieri sulla Serbia. Alcuni
commentatori si sono spinti incautamente a negare le violenze e ad affermare che le vittime erano «in
totale 200». L'ampiezza delle violenze commesse dai miliziani serbi non giustifica tuttavia in alcun
modo quanto è poi accaduto nei mesi successivi, quando i guerriglieri dell'Uçk e molti albanesi si
sono abbandonati alla vendetta commettendo inaudite violenze ai danni della comunità serba che,
come vedremo, vive tuttora confinata entro alcune enclave presidiate dai militari della Kfor.
Dopo la fine del conflitto ben 15 paesi inviano in Kosovo équipe di esperti per aiutare la paziente
opera di riesumazione e identificazione delle vittime compiuta dagli investigatori del Tribunale
internazionale dell'Aja.
Allo scopo di porre fine alla disgustosa diatriba sui morti sepolti nelle fosse comuni, il
procuratore capo del Tribunale internazionale dell'Aja, Carla Del Ponte, invia nel novembre del
1999 un dettagliato rapporto al Consiglio di sicurezza dell'Onu a New York. La relazione spiega che,
fino a quella data (ma le riesumazioni sono riprese dopo l'inverno e proseguono ancora), erano stati
estratti da 159 delle 529 fosse comuni individuate 2018 corpi di persone trucidate. «Sono state
trovate prove di manomissioni» dice Carla Del Ponte illustrando il suo rapporto, «in un consistente
numero di siti non è stato possibile contare il numero dei corpi perché erano stati bruciati.» In Bosnia
gli assassini alle dipendenze del generale Ratko Mladic e di Radovan KaradŽic avevano compiuto
spaventosi massacri e nascosto le vittime in gigantesche fosse comuni. La loro scoperta, come nel
caso di Srebrenica, aveva provocato grande emozione nell'opinione pubblica internazionale; per
questo le bande paramilitari che operavano in Kosovo, spiate dai satelliti americani, non avevano
utilizzato grandi fosse comuni e in molti casi avevano bruciato i corpi degli uccisi.
«Alcuni siti» dice ancora Carla Del Ponte «contengono resti di un centinaio di persone, ma molti
sono più piccoli e in alcuni casi i corpi segnalati sono stati portati via e il riconoscimento è stato
spesso impossibile.» Le ricerche vengono sospese con l'approssimarsi dell'inverno del 1999 e quindi
riprese nei mesi primaverili; nel dicembre 2000 gli investigatori del Tribunale dell'Aja non hanno
ancora fornito un bilancio esatto delle vittime della repressione serba in Kosovo e molti osservatori,
a seconda delle loro convinzioni sulla necessità dell'intervento, continuano a fornire bilanci poco
credibili (in molti casi falsi); tali appaiono anche alcune stime fatte dalla Nato a fini propagandistici
durante il conflitto. I dati forniti dal procuratore Carla Del Ponte sono invece il risultato di un
paziente e scientifico lavoro svolto dagli investigatori del Tribunale dell'Aja.
Nel settore italiano, per esempio, operava un'équipe di investigatori guidata dal canadese Barry
Hogan, ufficiale della Rcmp (Royal Canadian Mounted Police, ovvero le Giubbe rosse), che si
avvaleva della collaborazione di un ufficiale spagnolo, il capitano Ortega, e di un sottufficiale
italiano, il maresciallo Giuseppe Rapisarda, di Catania, che ha confermato due episodi sui quali
alcuni giornalisti, tra i quali chi scrive, avevano raccolto testimonianze nella città di Pec tra il 13 e il
24 giugno del 1999. La sera del 13 giugno (la guerra era dunque formalmente conclusa) una banda di
paramilitari serbi penetra in un'abitazione alla periferia di Pec (Peja in albanese), abitata dalla
famiglia Bala. Ubriachi e drogati, i miliziani dapprima rapinano quattromila marchi, poi violentano e
uccidono la cognata del capofamiglia, Isa Bala, quindi sparano a quattro dei suoi figli e a un nipote e
si allontanano portando in ostaggio il cognato diventato uno dei tanti «desaparecidos» del Kosovo.
Isa Bala riesce a fuggire portando con sé il più piccolo dei figli, mentre la moglie, sfuggita
miracolosamente alle raffiche e alle granate dei serbi, riesce a salvarsi. Hogan annota ogni
particolare e riporta le deposizioni dei testimoni nella memoria del suo computer. Tra i suoi appunti
si trova notizia del ritrovamento di otto cadaveri in un pozzo nella città di Istok. Un altro rapporto
degli investigatori spiega nei dettagli quanto accadde nel villaggio di Qjshk, a circa tre chilometri
dalla fabbrica della Zastava, di Pec. I paramilitari vi arrivano alle 9,30 del 14 maggio e, dopo aver
rastrellato i contadini nascosti nelle abitazioni, decretano la sentenza di morte per 44 di loro «in
nome del popolo serbo». I carabinieri del contingente italiano redigono un rapporto sulla strage di
Qjshk sulla base delle testimonianze di due contadini, Rexhe Kelmendin e Isa Gashi, che sono
sopravvissuti gettandosi sotto i cadaveri mentre era in corso il massacro. L'arrivo delle truppe Kfor e
degli investigatori permette anche di chiarire alcuni episodi accaduti durante il conflitto come, per
esempio, il bombardamento di un penitenziario non lontano dalla città di Istok, compresa nel settore
italiano.
I caccia della Nato colpiscono la prigione di Dubrava in due occasioni, il 19 e il 21 maggio, e
molti detenuti muoiono tra le macerie del carcere. Secondo Belgrado (i serbi portano in visita alcuni
giornalisti, tra i quali Toni Capuozzo che su Diario dubita della versione ufficiale), la strage era stata
causata dai bombardamenti e MiloSevic accusa la Nato di «crimini di guerra». Ma alcuni testimoni
interpellati dopo la fine del conflitto, come Taf Kurtaj, smentiscono la versione delle autorità serbe,
confermando tuttavia che parecchi reclusi sono morti anche durante gli attacchi dei caccia della Nato.
«Eravamo indeboliti dopo molte settimane di detenzione e di mancanza di cibo» dice il testimone, «i
carcerieri serbi ci dissero: "Vi abbiamo salvati dalla Nato e ora vi porteremo in Serbia". Entrarono
nelle nostre celle alle 5 del 22 maggio, il giorno successivo al bombardamento, ci ordinarono di
formare una colonna e ci dirigemmo verso i campi. A un tratto cominciarono a sparare all'impazzata,
ci buttammo a terra; vedevo morti e feriti ovunque. Io stesso sono stato colpito a una gamba. Penso
che i bombardamenti della Nato abbiano causato la morte di 25 detenuti, i serbi ne hanno abbattuti
almeno 44.» In quei giorni di giugno avvengono le violenze più efferate, le milizie serbe si ritirano
dal Kosovo lasciando una lunga scia di sangue e portando con sé migliaia di ostaggi dei quali si sono
tuttora perse le tracce.
Nel mese di giugno del 2000 il Comitato internazionale della Croce rossa presenta a PriStina un
libro bianco che elenca i nomi di 3368 persone scomparse in Kosovo. La lista comprende anche i
nomi di 400 serbi e di un centinaio di rom spariti dopo la fine del conflitto nel periodo della vendetta
albanese. Secondo l'illustrazione fatta da Alain Kolly, responsabile della Croce rossa per il Kosovo,
il 16 per cento di queste persone è scomparso prima dell'inizio dei bombardamenti della Nato,
mentre il 10 per cento è sparito dopo la firma degli accordi di Kumanovo. La parte restante dei
«desaparecidos» riguarda gli albanesi dei quali si sono perse le tracce tra il 24 marzo e il 9 giugno,
cioè durante il conflitto. «Nonostante le speranze nutrite dai loro familiari» afferma Kolly «riteniamo
che gran parte degli scomparsi siano morti.» Certamente molti sono stati portati in Serbia, come
prova il fatto che nei mesi successivi alla fine della guerra sono stati celebrati molti processi a
carico di «terroristi» albanesi. Nel mese di aprile del 2000 a NiS (Serbia) comincia, per esempio, un
processo a carico di 144 albanesi arrestati a Djakovica (Kosovo orientale) e accusati di aver preso
parte ad attacchi compiuti da milizie dell'Uçk contro poliziotti serbi. I prigionieri albanesi in Serbia
potrebbero essere almeno duemila, ma nessuna organizzazione internazionale è in grado di fornire
una cifra esatta. Belgrado del resto nega che si tratti di prigionieri di guerra, anche se periodicamente
e segretamente alcuni albanesi vengono liberati dalle prigioni serbe, magari dietro il pagamento di un
riscatto in marchi tedeschi da parte dei loro parenti rimasti in Kosovo.
Un giornalista serbo, Milanko VaSovic (un suo articolo è stato tradotto e pubblicato sul quotidiano
francese Le Monde), sostiene che la Convenzione di Ginevra prevede che tutti i prigionieri debbano
essere liberati dopo la fine del conflitto, ma «il principale problema consiste nello stabilire se si
tratta di una questione internazionale o di un conflitto interno». Belgrado, in sostanza, continua a
considerare il Kosovo «parte integrante della Federazione jugoslava» e quindi si ritiene in diritto di
giudicare gli albanesi accusati di «terrorismo». In effetti gli accordi di Kumanovo non accennano al
problema della liberazione dei prigionieri di guerra che rimane tuttora irrisolto e affidato alla
diplomazia sotterranea che contratta la scarcerazione di prigionieri in cambio di misteriose
concessioni. Con l'uscita di scena di MiloSevic e l'affermazione del nuovo leader KoStunica, i serbi
hanno cominciato ad ammettere l'esistenza di prigionieri albanesi e a scarcerarne alcuni.
La ritirata dei serbi, l'arrivo delle truppe Nato e la discesa dei guerriglieri dell'Uçk dalle
montagne avvengono nello spazio di poche ore, e senza incidenti di rilievo. A Pec i tank di
MiloSevic abbandonano la città deserta e devastata mentre entrano in città i carri armati Leopard
dell'esercito italiano.
Poche ore dopo, guidati dal comandante Agim çeku (l'ex alto ufficiale dell'esercito croato accusato
di «crimini di guerra» dai serbi), arrivano i guerriglieri albanesi che immediatamente istituiscono
posti di blocco armati e iniziano la caccia ai serbi. Le stesse scene si ripetono a Prizren, PriStina e in
tutto il Kosovo.
In breve tempo l'Uçk diventa padrone del campo e iniziano i contrasti con la Kfor. Vendette,
uccisioni, rapimenti, sparizioni, incendi di abitazioni di presunti «collaborazionisti» e appartenenti
all'etnia avversaria si susseguono. A Pec in pochi giorni spariscono 40 serbi (ne erano rimasti in città
non più di 300), e i sopravvissuti ai rastrellamenti trovano rifugio nello stupendo monastero che
ospita il patriarcato, presidiato dai bersaglieri italiani. Altri tentano la fuga verso il vicino
Montenegro, ma spesso vengono intercettati dalle pattuglie dell'Uçk e assassinati.
Ogni mattina i soldati italiani trovano i corpi delle vittime delle esecuzioni sommarie nelle case
date alle fiamme. Le stesse scene si ripetono a Prizren, a PriStina e nelle altre città della regione.
Il comando della Kfor corre ai ripari nel tentativo di fermare la nuova pulizia etnica, questa volta
ai danni della minoranza serba.
Messo alle strette dal generale Jackson, il capo politico dell'Uçk, Hasim Thaci, uno dei
negoziatori di Rambouillet, firma il 19 giugno un accordo che prevede la progressiva
smilitarizzazione dell'Uçk. Nei successivi tre mesi i guerriglieri albanesi dovranno consegnare le
armi; in effetti, nei giorni che seguono reparti di ex ribelli si recano disciplinatamente ai centri di
raccolta istituiti dalla Nato e consegnano mitra e pistole. Ma si tratta di una sceneggiata, gran parte
delle armi vengono nascoste e le spedizioni punitive non solo non si fermano, ma si intensificano.
Secondo un rapporto dell'Osce, tra giugno e ottobre vengono date alle fiamme 280 abitazioni di serbi
e di rom (l'altra minoranza kosovara, accusata dagli albanesi di aver collaborato con i serbi). Si
tratta di un dato parziale. La maggior parte dei serbi sceglie la via dell'esilio verso Belgrado, dove
vivrà ai margini della società che vede in questi profughi la testimonianza della sconfitta. In
occasione del primo anniversario della fine del conflitto, la Nato ammette che la comunità serba è
dimezzata. Oltre 250 mila serbi hanno scelto la fuga, e ne restano non più di 100 mila, costretti a
vivere entro «riserve» protette dai militari occidentali. Dei circa 600 omicidi che avvengono nel
primo anno del dopoguerra, almeno la metà colpisce la minoranza serba (ma anche i rom) mentre gli
altri vengono catalogati come vendette e regolamenti di conti all'interno delle bande albanesi che in
breve tempo si assicurano il controllo delle fiorenti attività illegali (droga, armi, prostituzione). Il
tentativo di ricreare una parvenza di convivenza etnica fallisce.
Nel settore italiano viene creata una enclave nel villaggio di GoraŽdevac, a una decina di
chilometri da Pec. Ci vivono 800-900 serbi protetti da carri armati e mezzi blindati italiani. Due
volte alla settimana un ufficiale compila la lista della spesa e va al mercato di Pec a comprare le
provviste per i serbi che non escono, se non sotto scorta, dalla «riserva». I bambini di un vicino
villaggio albanese compiono ogni mattina un lungo cammino tra i campi per non incrociare i loro
coetanei serbi. A Kosovo Polje, pochi chilometri da PriStina (la località evoca nell'immaginario
collettivo serbo il luogo dove si svolse la battaglia della Piana dei Merli), per iniziativa
dell'amministratore municipale dell'Unmik (United Nations Interim Administration Mission in
Kosovo), l'italiano Ugo Trojano, viene sperimentato un tentativo di convivenza tra le due etnie. La
bandiera dell'Onu sventola per esempio sulla pompa di benzina «multietnica» che viene ripristinata
grazie all'investimento di un imprenditore albanese e con l'assunzione di personale misto; vengono
invece esclusi interventi e progetti del Kpc (Kosovo Protection Force), l'organizzazione,
ufficialmente con compiti di protezione civile, nella quale è stata ricollocata una parte dei miliziani
dell'Uçk.
Il coraggioso esperimento dell'amministratore italiano si scontra tuttavia con gli odi e le vendette
che covano a Kosovo Polje come nel resto della regione; il 28 settembre del 1999 una granata fa
strage nel mercato uccidendo quattro persone e ferendone 35, ma Trojano non si perde d'animo e
poche settimane dopo, alla vigilia di Natale, organizza il «Millennium Dinner», uno scambio di
auguri tra le due comunità alla presenza di decine di invitati.
Nel complesso, tuttavia, i mesi successivi alla fine del conflitto sono caratterizzati dalla violenza e
dalla sopraffazione ai danni della comunità serba. I capi della Nato comunque non ne ricavano la
convinzione che il dopoguerra sia stato un fallimento. Un anno dopo la fine dei bombardamenti Lord
Robertson, segretario generale della Nato, sostiene che occorre «concentrarsi sulla ricostruzione di
una società tollerante e multietnica»; gli fa eco il generale Wesley Clark, comandante generale della
Nato, secondo il quale «il livello di violenza si è notevolmente abbassato».
Clark, a chi sostiene che il Kosovo del dopoguerra è peggiore di quello precedente al conflitto
(questa l'opinione di molti osservatori occidentali), risponde che «niente potrebbe essere più lontano
dalla verità» giacché «più di un milione di profughi è tornato nelle proprie case. Stiamo lavorando
per ricostruire un'economia e per stabilire valori democratici e occidentali». In quanto alle violenze
che impediscono la convivenza in particolare nella città settentrionale di Kosovska Mitrovica
(spaccata in due distinti campi etnici), Clark se la cava dicendo che in quel centro, e negli altri del
Kosovo, «il tasso di criminalità è più basso di quello di Mosca».
A queste ottimistiche e, per la verità, forzate valutazioni dei capi della Nato fa da contrappeso la
rabbia e la protesta, in larga misura giustificate, della minoranza serba. Padre Sava Janjic, il pope
portavoce del Consiglio nazionale serbo del Kosovo (l'organizzazione controllata dal clero
ortodosso che rappresenta la minoranza), si rivolge alle Nazioni unite per chiedere un intervento del
Consiglio di sicurezza per tutelare i serbi dalle violenze degli albanesi. «In Kosovo» dice il
religioso «è stato instaurato un sistema di apartheid simile a quello che vigeva in Sudafrica; la gente
viene ammazzata solo perché parla una lingua diversa.» Un funzionario dell'Onu bulgaro viene per
esempio assassinato a PriStina solo perché alcuni albanesi lo sentono pronunciare alcune parole
nella sua lingua, molto simile al serbocroato. I serbi vivono nel terrore, non si fidano dei militari
Nato e contano solo sulla presenza dei militari russi che nei mesi successivi alla fine del conflitto e
al blitz all'aeroporto di PriStina diventano 3600. «La nostra presenza è indispensabile» commenta il
generale Gheorghi Shpak, comandante dei paracadutisti di Mosca, «sia perché si tratta di un punto
caldo dell'Europa, sia per evitare prevaricazioni da parte della comunità albanese su quella serba.
Inoltre il terrorismo contro cui combattiamo in Cecenia ha legami proprio con il Kosovo.» Instabilità,
violenze, odi profondi. questo il Kosovo nel quale arriva Bernard Kouchner, già fondatore di Medici
senza frontiere e ministro della Sanità a Parigi. La sua candidatura viene imposta da Chirac e Kofi
Annan lo pone alla guida dell'Unmik con la qualifica di suo «rappresentante speciale». Il suo vice è
lo statunitense James P.
Covey. Alle loro dipendenze i capi delle quattro organizzazioni e strutture internazionali cui è
affidata la ricostruzione del Kosovo.
Al vertice dell'Unmik il tedesco Tom Koenings dirige l'amministrazione civile dell'Onu, il
neozelandese Dennis McNamara rappresenta l'Alto commissariato per i rifugiati, l'olandese Daan
Everts è l'inviato dell'Osce, il britannico Joly Dixon è il delegato dell'Unione europea. Secondo la
risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza (10 giugno 1999) l'amministrazione provvisoria che
inizialmente riceve un mandato annuale (rinnovato allo scadere nel giugno 2000) e che nei primi mesi
comprende circa 2500 persone, poggia su quattro «pilastri» alla cui guida si trova appunto Kouchner.
All'Osce è stato affidato il compito di «costruire le istituzioni democratiche»; l'Unhcr si occupa
degli «affari umanitari», l'Unione europea della «ricostruzione», l'Onu dell'«amministrazione civile».
Vengono nominati cinque superprefetti dotati di poteri ampissimi (esecutivo, giudiziario, legislativo e
diritto di supervisione sui media). Il Kosovo viene suddiviso in cinque distretti: PriStina, Pec,
Mitrovica, Prizren e Gnjilane. Si tratta dunque di un'architettura complessa e assolutamente inedita
che tuttavia non è il «mostro» imposto dagli accordi di Dayton in Bosnia. L'ambiguità di fondo è
rappresentata dal fatto che il Kosovo resta in teoria «parte della Repubblica federale di Jugoslavia»,
come nota Kofi Annan ricordando che «gli amministratori (albanesi) chiedono quotidianamente
l'indipendenza». L'Onu risponde offrendo un surrogato e cioè «l'autonomia sostanziale» che
scatenerà tensioni e contrapposizioni tuttora irrisolte.
E tuttavia, pur tra ostacoli, tensioni e violenze comincia il difficile dopoguerra del Kosovo. I
profughi tornano in massa fin dalla fine di giugno. Lunghe colonne di mezzi raggiungono le città
kosovare dalla vicina Macedonia (250 mila sfollati), dall'Albania (450 mila), dal Montenegro (70
mila) e dalla Bosnia (22 mila). Molti trovano le case distrutte, incendiate, saccheggiate. Anche in
questo caso i due «partiti», quello dei favorevoli e quello dei contrari all'intervento della Nato, si
danno battaglia a colpi di dati e di interpretazioni di rapporti. In luglio, per esempio, il quotidiano
statunitense Washington Post pubblica un'analisi che suona come una critica alle esagerazioni della
Nato durante i mesi della guerra. «Le forze Nato entrate in Kosovo alla fine del conflitto» sostiene il
giornale americano «hanno trovato danni materiali meno diffusi di quanto si pensasse.» Le maggiori
distruzioni si trovano nelle città di Pec e Djakova (nel settore italiano) e, complessivamente,
secondo i dati pubblicati dal Washington Post e ripresi da un rapporto Onu i danni alle case e alle
risorse idriche sono stati definiti «gravi» in 141 villaggi su duemila e in tutto il Kosovo il 25-35 per
cento delle case ha subito danneggiamenti e «solo una piccola percentuale» è stata distrutta.
Gli stessi dati possono però essere letti anche con un'altra ottica. In un rapporto del dicembre 1999
l'Alto commissariato Onu per i rifugiati spiega, per esempio, che «sono circa 120 mila, dislocate in 2
mila villaggi e città, le case danneggiate; di queste 50 mila sono inabitabili o rase al suolo». Per
alleviare le sofferenze degli sfollati rimasti senza riparo, l'Alto commissariato porta in Kosovo 51
mila «kit», cioè attrezzature per riparare le abitazioni e per affrontare l'inverno, allestisce 117 centri
di accoglienza collettivi temporanei, trasporta nella regione 750 mila coperte, 30 mila stufe.
Nei mesi del conflitto le milizie serbe hanno costretto con la forza e deportato gran parte della
popolazione kosovara (il 64 per cento) e solamente il 12 per cento è rimasto nei villaggi.
Il terrore, la morte e le distruzioni non hanno però fiaccato il morale della popolazione kosovara e,
secondo un sondaggio realizzato a PriStina intervistando 3500 famiglie, «nella gente c'è un forte
grado di ottimismo». Gli albanesi vogliono insomma ricominciare a vivere e ricostruire il loro
paese. Ma la situazione economica è disastrosa. Prima della guerra il reddito medio pro capite in
Kosovo era stimato in 400 dollari. Secondo l'analisi dell'Institute for Development Research di
PriStina, dopo la guerra il reddito medio si è ridotto del 70 per cento. Le organizzazioni
internazionali concedono microcrediti (da mille a 20 mila marchi) a 10 mila famiglie, ma ciò non
basta. L'aiuto umanitario copre l'80 per cento dei finanziamenti necessari alla ricostruzione che pesa
per il restante 20 per cento sulle famiglie, sostenute in massima parte dalle rimesse degli emigranti
sparsi nel mondo e in particolare in Germania. In questa situazione è facile per le bande criminali,
rafforzate dall'arrivo di pericolosi banditi albanesi, estendere il controllo su molte attività
economiche e sviluppare i traffici illeciti.
Il dilagare delle attività criminali provoca effetti devastanti non solo in Kosovo, ma anche nella
vicina Macedonia che durante i mesi del conflitto ha rischiato seriamente di essere travolta dagli
avvenimenti. E' l'anziano ex presidente Kiro Gligorov, l'ultimo «grande vecchio» dei Balcani, a
lanciare in molte occasioni l'allarme. «Le attività criminali si stanno sviluppando» dice Gligorov «le
mafie stanno rafforzando i collegamenti, tutta la regione è a rischio e potrebbe cadere nelle mani
delle bande.» Secondo le autorità di Skopje, solamente tra giugno e settembre, 1300 camion carichi
di sigarette di contrabbando hanno attraversato la frontiera tra la Macedonia e il Kosovo. I trafficanti,
per assicurarsi l'impunità, pagano forti somme ai capi macedoni e la corruzione è diventata la regola.
L'eroina arriva dalla Turchia e raggiunge l'Europa occidentale attraverso l'Albania, la Macedonia e
soprattutto il Kosovo, mentre dall'Albania arriva la marijuana.
Secondo il governo macedone negli ultimi tempi le bande mafiose hanno trasportato anche armi,
sistemi di comunicazione e sofisticate attrezzature logistiche destinate alle nuove aggregazioni
guerrigliere albanesi che hanno ripreso l'attività armata nella valle del Presevo.
Nel corso di un seminario che si è svolto a Venezia nel 1999 per iniziativa del ministero degli
Esteri italiano e di quello francese, Xavier Raufer, direttore della ricerca sulle minacce criminali
dell'università di Parigi dice: «Un triangolo criminale sta per instaurarsi ai confini tra Macedonia,
Kosovo e Albania. Ci sono già le prime coltivazioni di cannabis». Mentre proprio in Macedonia si
coltiva estesamente il papavero da oppio, come rivelato da Luca Rastello su Diario. E Pino Arlacchi,
segretario generale aggiunto dell'Onu, aggiunge che «la cosa più importante per i Balcani è stabilire
le regole del gioco dello sviluppo. Non abbiamo bisogno di pompare risorse colossali che poi
possono provocare fenomeni perversi finendo nelle mani sbagliate».
Secondo Franco Bernabé, coordinatore italiano della task force per la ricostruzione, si tratta di
avviare «un meccanismo di sviluppo autosostenuto» canalizzando il flusso finanziario a livello
locale, pagando i dipendenti delle amministrazioni con fondi internazionali, abolendo i dazi che
provocano corruzione, accelerando privatizzazioni e investimenti occidentali.
L'impegno delle potenze che avevano partecipato o sostenuto l'intervento Nato contro MiloSevic
era stato definito nei giorni che precedettero la fine della guerra. Nel corso del summit del G8 del 10
giugno 1999 europei, americani e russi, d'intesa con le grandi istituzioni economiche internazionali,
lanciano il Patto di stabilità per l'Europa sudorientale. Articolato su tre tavoli (democratizzazione,
sicurezza ed economia) lo Stability Pact for South Eastern Europe è la cornice organizzativa
all'interno della quale si è successivamente articolata la politica degli aiuti e degli investimenti
dell'Unione europea e delle istituzioni finanziarie (Banca mondiale, Banca europea per gli
investimenti, Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo). Il programma di ricostruzione del
Kosovo è stato elaborato congiuntamente dalla Commissione europea e dalla Banca mondiale che si
sono avvalse largamente della collaborazione offerta dall'International Management Group, una
struttura fortemente tecnica già collaudata in Bosnia.
Il Patto opera su tutta l'area, e se ne avvantaggiano anche paesi come la Romania e la Slovenia,
mentre, per assurdo, il Kosovo riceve solo una minima parte degli aiuti. Degli 85 progetti finanziati
fino al marzo del 2000 (per la considerevole cifra di 3 miliardi e 866 milioni di euro, cui si
aggiungerà nei mesi successivi un altro miliardo e 870 milioni) solamente tre interessano la regione
del Kosovo: l'ammodernamento della rete delle grandi arterie, la costruzione della superstrada
Blace-PriStina, e il raddoppio di 42 chilometri di elettrodotti. Non va tuttavia dimenticato che alle
iniziative internazionali concordate tra i paesi che aderiscono al Patto vanno aggiunti gli interventi
diretti dell'amministrazione dell'Onu e coordinati dall'Agenzia per la Ricostruzione.
Il 15 luglio del 1999 termina l'esilio di Ibrahim Rugova per ben due volte eletto «presidente» della
comunità albanese nel corso di elezioni clandestine (e poi vincitore delle prime elezioni libere, il 24
ottobre 2000). Il capo della Lega democratica del Kosovo torna in patria dopo i mesi del conflitto
trascorsi prevalentemente in Italia e Germania (con la sua numerosa famiglia al seguito) e non
rinuncia al titolo che si è conquistato. La stretta di mano con Slobodan MiloSevic, che in Occidente
aveva sollevato dubbi e sospetti, non lo ha indebolito. In maggio Rugova si era recato nei campi
profughi di Stankovec, in Macedonia, dove era stato accolto trionfalmente dalla sua gente.
In quei mesi gli sfollati inneggiavano a Rugova e all'Uçk, senza distinzioni, ben conoscendo le
profonde divisioni che separavano e separano il leader moderato e pacifista e non violento dal
radicale e bellicoso Hasim Thaci, capo dei guerriglieri albano-kosovari. Questi ultimi, dopo essersi
abbandonati a vendette, distruzioni e sequestri comprendono che la Nato e la sua forza militare, la
Kfor non possono tollerare a lungo le leggi imposte con i mitra. Fin dal giugno del 1999 viene
raggiunto un accordo tra l'Uçk e il generale Jackson per la smilitarizzazione delle bande dei ribelli
che nei tre mesi successivi dovranno consegnare tutte le armi. In effetti, subito dopo, i reparti
dell'Uçk dapprima abbandonano i posti di blocco, istituiti in particolare nella zona di Pec dove vi
erano stati i combattimenti più sanguinosi e impegnativi, e quindi, come già detto, fingono di
consegnare le armi. La Nato è consapevole che gran parte delle armi è stata nascosta, ma preferisce
il compromesso per evitare contrapposizioni e scontri che avrebbero fatto saltare i fragili equilibri
raggiunti e i tentativi di ricostruzione del Kosovo.
Così, il 18 settembre del 1999, di fronte a migliaia di kosovari di PriStina in lacrime, centinaia di
guerriglieri dell'Uçk sfilano per l'ultima volta con le bandiere e le divise che avevano utilizzato nella
lotta partigiana contro i serbi. Pochi giorni dopo nasce il Kosovo Protection Corps, una sorta di
protezione civile che, nelle intenzioni di Kouchner e dei capi militari della Kfor, dovrebbe
«riciclare» i combattenti destinandoli ad attività socialmente utili.
In breve si tratta di una riconversione promossa nella speranza di porre fine alle vendette. Ciò non
accadrà, e anzi le armi torneranno a essere usate ben presto. Agim čeku, dopo aver guidato la parata
dell'Uçk per le strade di PriStina, si trasforma in «pacifico» capo della protezione civile. Non è raro
vedere i suoi uomini, reduci dai sanguinosi combattimenti sulle montagne, pulire i viali di Pec con
grandi ramazze. Ma, al calar delle tenebre, i tranquilli operatori ecologici riprendono i mitra nascosti
e partono per le spedizioni punitive che mietono decine di vittime tra i serbi «rei» di appartenere
all'etnia avversaria.
Il Kpf organizza cinquemila uomini, tremila dei quali in servizio permanente (gli altri sono
riservisti). Il quartiere generale viene fissato a PriStina, ma il Corpo viene suddiviso in sei task
groups nelle varie province (Mitrovica, UroSevac, Prizren, Pec, Srbica).
Solo pochi ex guerriglieri possono portare armi leggere su autorizzazione dell'amministrazione
Onu ed esclusivamente per difesa personale. Si occupano di trasporti, manutenzione delle strade,
inquinamento, di realizzare strutture civili; inoltre sono pronti a intervenire in caso di disastro, a
cercare e a salvare persone in difficoltà.
In un documento diffuso dalla Nato, in occasione dell'incontro dei ministri della Difesa e degli
Esteri di Firenze (23 maggio 2000), si sottolinea con soddisfazione che «quando la Kfor è giunta in
Kosovo la media degli omicidi era di 50 alla settimana, mentre oggi la media è scesa a 7 delitti alla
settimana, un dato comparabile con quello di molte città europee. Per quella data 3800 armi leggere
sono state distrutte, su un totale di 8500 consegnate spontaneamente dai guerriglieri dell'Uçk. In
aprile la Nato diffonde un nuovo elenco di armi sequestrate o consegnate dall'Uçk. La Kfor spiega
che nei depositi della forza di pace sono custoditi 1100 tra mitragliatrici e mortai, 13 mila fucili,
2500 pistole, 7 milioni di munizioni, sistemi antiaereo, razzi anticarro. Grandi quantitativi di armi
vengono distrutti in altiforni e diventano metallo grezzo che viene riutilizzato per scopi civili.
Ma secondo gli esperti militari occidentali, tra il 1988 e il 1999 l'Uçk ha acquistato ben 100 mila
armi e la gran parte rimane nascosta. Nei primi mesi del 2000 i ritrovamenti di armi si moltiplicano e
la scelta dell'Uçk di mantenere una struttura armata clandestina viene alla luce. Nel giugno del 2000 i
militari della Kfor scoprono un gigantesco arsenale dell'Uçk nella zona di Drenica, dove il
movimento guerrigliero è nato e ha sempre mantenuto le sue basi più importanti. Vengono sequestrate
500 mila munizioni, 20 mila granate, 855 obici, 1156 razzi anticarro, 900 metri di miccia, detonatori,
75 chilogrammi di tritolo, cannoni anticarro da 105 millimetri, mitragliatrici. Le armi erano state
nascoste dentro due bunker situati in una zona di frontiera a cavallo tra le regioni controllate dai
militari russi, austriaci, norvegesi e finlandesi. Bernard Kouchner deve incassare un colpo molto
duro: Thaci è uno dei principali interlocutori del capo dell'amministratore dell'Onu e anche
all'interno della Kfor molte voci accusano l'Uçk di fare il doppio gioco. Il ritrovamento avviene a un
chilometro di distanza dall'ex quartiere generale e attuale residenza estiva di Agim çeku. Kouchner,
che aveva presentato la smilitarizzazione dell'Uçk come un «grande successo», deve ammettere di
aver sbagliato.
Messo alle strette dalla scoperta delle armi e dalle critiche che piovono da Washington, Kouchner
punta a creare nuove e più solide istituzioni in grado di coinvolgere sia gli albanesi che i serbi
nell'amministrazione della provincia. Dopo faticose trattative con le diverse comunità e tra le diverse
anime della componente albanese, il capo dell'Unmik riesce a raggiungere un accordo per la
formazione del governo transitorio del Kosovo. Il 14 dicembre del 1999 Kouchner annuncia che
dell'organismo, previsto dalla risoluzione 1244 dell'Onu, faranno parte sette membri, uno dei quali
serbo: vi saranno 14 ministeri (affidati congiuntamente a un esponente locale e a un rappresentante
dell'Onu), e saranno esclusi i dicasteri della Difesa e degli Esteri per non aggravare il contrasto con
Belgrado che rivendica la sovranità sul Kosovo. Sia Thaci che Rugova accettano di far parte del
nuovo organismo concepito appunto con due «teste», una kosovara e una internazionale. I due tuttavia
polemizzano fino a pochi minuti prima di firmare l'intesa. La ragione della contrapposizione tra i due
leader, che si scontrano anche pubblicamente, è ancora il titolo di «presidente» che, a detta dei capi
dell'Uçk, Rugova continua a usare abusivamente.
Per l'occasione, cioè alla firma dell'accordo, il radicale Thaci offre una sospetta prova di
moderatismo affermando che «dopo la vittoria della guerra è ora tempo di riportare la pace». Ma
queste rassicuranti dichiarazioni pubbliche sono bilanciate dai comportamenti reali degli ex membri
dell'Uçk. Pochi giorni prima della nascita del «governo provvisorio» Thaci aveva approvato un
«decreto legge» che lo autorizzava a firmare passaporti kosovari, e l'amministrazione dell'Onu aveva
lanciato un appello alla popolazione invitando a boicottare l'iniziativa, precisando che i documenti
non sarebbero stati ritenuti validi.
Per una giornata comunque (è il 15 dicembre) i capi albanesi mettono da parte le contrapposizioni
e le polemiche e si stringono la mano sorridenti, fingendo concordia tra loro e pieno appoggio
all'iniziativa dell'Onu. Rugova anzi ringrazia Kouchner «per aver voluto condividere il potere» con
la comunità albanese aggiungendo comunque che «si tratta solamente di una fase di passaggio
nell'ambito di un processo che deve portare all'indipendenza». In un'intervista al quotidiano francese
Le Monde, il capo della Lega democratica del Kosovo traccia un bilancio estremamente positivo del
dopoguerra. «I kosovari ora vivono liberi» dice Rugova «la Kfor ha fatto un lavoro enorme per
quanto riguarda la ricostruzione e la sicurezza. Molte organizzazioni ci stanno aiutando. L'Unmik sta
affrontando il problema della moneta, delle dogane e dell'amministrazione della cosa pubblica. E'
tempo ormai di riconoscere l'indipendenza del Kosovo prevedendo una presenza internazionale. Sarà
un Kosovo aperto, democratico e integrato con l'Europa, avrà un ruolo di pacificazione in tutta la
regione. Occorre fare presto.» Ma, ancora una volta, prevale l'ambiguità. La nascita del governo
provvisorio non significa, nei programmi dell'Onu, riconoscere l'indipendenza della provincia.
Kouchner diventa il presidente del Consiglio transitorio e dispone di un diritto di veto assoluto su
ogni atto del nuovo governo; anche i suoi vice vengono «lottizzati», uno è kosovaro (con un
meccanismo di rotazione semestrale), mentre l'altro è delegato dall'Onu. Le questioni della sicurezza
restano di esclusiva competenza delle organizzazioni internazionali e in particolare dell'Onu.
Kouchner spiega che «i dirigenti serbi finiranno per accettare di partecipare e occuperanno ben
presto i posti che sono stati loro riservati». Ma l'appello cade nel vuoto. I capi della comunità serba,
che si assottiglia di giorno in giorno, disertano la firma dell'accordo e anzi accentuano i toni polemici
contro l'Onu e i dirigenti albanesi. Uno degli esponenti dei serbi del Kosovo, Zoran Andjelkovic,
accusa l'amministratore dell'Onu di aver consegnato il potere nelle mani di un «terrorista» (Thaci) e
di voler proseguire la «cooperazione con l'Uçk che ha portato all'esodo di 350 mila serbi».
Il dato è certamente esagerato, ma è vero che migliaia di serbi hanno trovato rifugio in Montenegro
e a Belgrado per sfuggire alle vendette e ai sequestri.
Il rifiuto dei serbi non è per la verità definitivo. All'interno della comunità vi è chi ha deciso di
collaborare e chi, come Andjelkovic, non intende scendere a patti. La discussione tra i serbi dura tre
mesi e alla fine prevalgono i moderati. In aprile l'organismo rappresentativo della minoranza (Snv,
Consiglio nazionale serbo) decide di inviare alcuni «osservatori» alle riunioni del governo
provvisorio per un periodo di prova di tre mesi. La decisione spacca la comunità serba; i
rappresentanti infatti della città di Kosovska Mitrovica, sconvolta da violenti scontri tra serbi e
albanesi, disertano la riunione del comitato presieduto dal vescovo ortodosso Artemije.
Fra tensioni e violente contrapposizioni tra le comunità e dentro le stesse componenti etniche il 31
gennaio del 2000 si insedia formalmente la nuova amministrazione provvisoria del Kosovo. Sulla
nascita dell'«esecutivo» kosovaro pesano problemi politici e finanziari. In quegli stessi giorni il
commissario europeo per i rapporti esterni Chris Patten propone all'Unione di destinare al Kosovo
altri 35 milioni di euro. «Senza soldi» dice «non ci saranno fiducia e ripresa nella vita quotidiana.»
Il vero nodo resta tuttavia quello della presenza delle diverse comunità nel nuovo organismo. I serbi
vi rimarranno per poche settimane e manterranno anche nei mesi successivi un atteggiamento sempre
più polemico nei confronti del nuovo organismo. Kouchner dispone di un diritto di veto assoluto su
ogni iniziativa del nuovo governo kosovaro. Ma gli ampissimi poteri che gli vengono conferiti non gli
permettono di bloccare le violenze e i disordini che hanno il loro epicentro nella città di Kosovska
Mitrovica.
Qui si concentrano la rabbia dei serbi fuggiti dagli altri centri del Kosovo per non incappare nelle
vendette, le mire degli albanesi decisi a conquistare la parte della città a nord del fiume Ibar per
affermare il dominio sull'intera provincia e spingere in direzione dell'indipendenza. MiloSevic non
perde occasione per soffiare sul fuoco e invia dalla vicina Serbia provocatori e paramilitari con il
compito di fomentare disordini e violenze e con l'obiettivo di mantenere alta la tensione. Nei primi
mesi del 2000 le notizie da Kosovska Mitrovica assomigliano a un bollettino di guerra. Si
susseguono attentati, uccisioni da parte dei cecchini, sparatorie e violenti scontri sul ponte che
spacca in due la città. I soldati francesi e danesi (affiancati nel mese di marzo del 2000 da fanti di
marina italiani del battaglione San Marco) intervengono in molte occasioni uccidendo cecchini (12
febbraio) e chiudendo il bar «La dolce vita» che, a dispetto del nome tratto da un film di Fellini, è
invece un pericoloso covo di estremisti serbi.
L'intervento delle truppe Kfor, che sigillano il ritrovo, provoca la violenta reazione dei gruppi
armati serbi che scatenano violenti disordini uccidendo una decina di albanesi. Uno dei capi della
comunità serba, Oliver Ivanovic, definisce «assolutamente inaccettabile» la chiusura del bar e aizza i
suoi contro i soldati e gli albanesi. I raid serbi provocano immancabilmente la reazione degli
albanesi. Un cecchino viene ucciso dalle truppe Nato. La tensione è alle stelle e gli amministratori
dell'Onu temono che le violenze a Kosovska Mitrovica possano estendersi a tutto il Kosovo,
mandando così in frantumi i fragili equilibri raggiunti e la difficile opera di ricostruzione.
Kouchner, alle prese con crescenti difficoltà, si reca il 7 marzo del 2000 al Consiglio di sicurezza
dell'Onu per un'audizione. Per la prima volta parla di «rischi di fallimento» della missione, della
necessità di definire ulteriormente gli scopi e gli obiettivi, e di nuovi aiuti indispensabili per
accelerare la ricostruzione. «Dobbiamo intavolare una discussione chiara sul futuro di tutte le
comunità» dice il capo dell'Unmik «non possiamo tollerare avventurismi che portino ad altre
violenze.» Il capo dell'amministrazione Onu chiede anche il rafforzamento della forza di polizia
internazionale alle dipendenze del Kosovo Transnational Council. Ma molti nutrono seri dubbi sul
fatto che questa sia la strada da seguire. I poliziotti dell'Onu, mal assortiti e provenienti da vari paesi
del mondo dove si parlano lingue diverse, non hanno dimostrato alcuna efficienza. Se si esclude
l'opera svolta dai carabinieri italiani particolarmente attivi nella repressione dei traffici illeciti e
nella chiusura di locali dove si prostituiscono ragazze dell'Est europeo schiavizzate da bande
criminali albanesi, la polizia internazionale non riesce a scalfire il potere dilagante dei boss mafiosi.
L'estremismo criminale è spesso legato a doppio filo con i gruppi più radicali della comunità
albanese. Di fatto si tratta di un vero «contro potere» che si contrappone a quello legittimo
dell'Unmik-Kfor. Ma nelle sedi diplomatiche internazionali (europee e americana) si fa strada la
convinzione che sia più opportuno rafforzare il legame tra i leader locali e l'amministrazione
dell'Onu, favorendo le componenti moderate in campo albanese. Non si parla di elezioni politiche,
che equivarrebbero alla concessione dell'indipendenza e all'annullamento di ogni dialogo con la
comunità serba, ma si punta invece sulla consultazione amministrativa che viene convocata, dopo
molte discussioni, per il 28 ottobre del 2000.
Ma prima di giungere a questo cruciale appuntamento che si terrà senza incidenti di rilievo alla
data prefissata e che vedrà la vittoria dei moderati di Ibrahim Rugova sui radicali di Hasim Thaci, la
cronaca del Kosovo registra nuove violenze. Sono ancora gli ex capi dell'Uçk ad alimentare la
tensione e a far temere che gli sforzi della comunità internazionale possano naufragare.
Gli estremisti albanesi alimentano una strisciante guerriglia nella Serbia sudorientale e nelle
province occidentali della Macedonia. Nel territorio compreso tra i comuni serbi di PreSevo,
Bujanovac e Medvedja, di importanza strategica per i collegamenti tra il Nord e il Sud della regione
balcanica, operano gruppi armati formati da ex guerriglieri dell'Uçk. opinione comune che il grande
regista della ripresa delle azioni armate sia ancora una volta l'ex capo politico dell'Uçk, Hasim
Thaci. Per la prima volta compare la sigla «Ucpmb» (Esercito di liberazione di PreSevo, Medvedja
e Bujanovac), sotto la quale si nasconde la nuova guerriglia che punta ad alzare la tensione nella zona
a maggioranza albanese nella Serbia meridionale, attività che si è intensificata soprattutto nel
gennaio-febbraio 2001. Nella prima riunione Nato a cui ha partecipato Colin Powell, segretario di
stato dell'amministrazione di George W. Bush, si è deciso di procedere a una graduale riduzione
della zona smilitarizzata a ridosso del confine del Kosovo in cui la polizia jugoslava non è
autorizzata a portare armi, con l'eccezione delle pistole.
Prima di trattare le elezioni amministrative, è necessario riferire altri episodi che spiegano il
clima nel quale si vive nel Kosovo del dopoguerra e preelettorale. Nel mese di luglio del 2000, per
esempio, l'amministrazione dell'Onu condanna il giornale albanese Dita al pagamento di una multa di
25 milioni di marchi (circa 25 milioni di lire) per aver pubblicato «informazioni personali» su alcuni
serbi accusati di crimini di guerra (le accuse sono sostenute da alcune fonti albanesi). Poche
settimane prima il quotidiano aveva dovuto sospendere le pubblicazioni per dieci giorni in seguito a
una condanna dell'Onu per «incitamento all'odio etnico».
Nei mesi successivi la violenza non si attenua, colpisce ancora una volta i serbi che si oppongono
alla nuova pulizia etnica pianificata dai gruppi clandestini manovrati dai leader estremisti, ma tra i
nuovi obiettivi delle vendette vi sono anche albanesi vicini alla Ldk (Lega democratica del Kosovo)
di Rugova.
Il 10 settembre cade, in un agguato mortale nella città di Vučitrn, Shefki Popova, giornalista molto
noto del quotidiano albanese Rilindija. Pochi giorni prima era misteriosamente sparito Mirjan
Melonasi, reporter proveniente da una famiglia mista e conosciuto per le sue apparizioni alla
radiotelevisione in lingua serba. Il 20 giugno era stata ferita la giornalista Valentina čikic, autrice di
un programma in serbo per un'emittente multietnica, Radio Kontakt.
La paura si diffonde nelle campagne e nelle città, i membri del partito di Rugova e, più in
generale, gli intellettuali che si oppongono alle intimidazioni mafiose dei boss ex guerriglieri spesso
legati a organizzazioni criminali albanesi, diventano obiettivi delle spedizioni punitive. Il quotidiano
Koha Ditore e il suo direttore, Veton Surroi, voce libera e indipendente ben conosciuta da tutti gli
albanesi raccolti nei campi profughi durante i mesi del conflitto, subiscono violenti attacchi verbali e
intimidazioni da parte degli estremisti.
Ma Kouchner non si arrende e convoca le elezioni che rappresentano una grande scommessa e la
prova del nove per il nuovo Kosovo amministrato dall'Onu. Il censimento e la registrazione alle liste
elettorali avvengono in poco tempo; gli albanesi accolgono con entusiasmo l'opportunità di votare
per la prima volta senza il ricatto e le violenze delle milizie di MiloSevic.
Proprio dalla Serbia arrivano in ottobre notizie che cambiano radicalmente lo scenario balcanico e
quindi anche le prospettive per il Kosovo. Alle elezioni politiche il candidato dell'opposizione
Vojislav KoStunica riporta una schiacciante vittoria su MiloSevic.
Il dittatore non accetta l'esito del voto e comincia un drammatico braccio di ferro che sfocia
nell'occupazione del Parlamento da parte dei manifestanti dell'opposizione. Messo alle strette dalle
pressioni della comunità internazionale, abbandonato da Putin e dal Cremlino e soprattutto circondato
da una grande massa di serbi assetati di libertà e stanchi del regime e delle guerre, MiloSevic fa un
passo indietro. Non fugge in Russia o in Cina come molti si aspettano, ma resta a Belgrado
ufficialmente per curare le sorti del suo Partito socialista. Per KoStunica è il trionfo, per la Serbia la
fine di un lungo incubo e l'inizio dello «sdoganamento».
Pochi giorni dopo l'uscita di scena di MiloSevic, si reca a Belgrado il ministro degli Esteri
francese Hubert Vedrine (la Francia detiene la presidenza dell'Unione europea) e successivamente il
presidente del Consiglio italiano, Giuliano Amato. Poi il nuovo leader di Belgrado vola a Biarritz
dove si tiene il vertice europeo, a Skopje dove si svolge l'incontro tra i dirigenti dei paesi balcanici
e a Mosca dove viene accolto da Putin. Per la Serbia è la fine dell'isolamento che dura da un
decennio. KoStunica, intervistato da una catena televisiva americana, ammette che i serbi si sono
macchiati di orrendi crimini in Kosovo che, nel corso della visita a Mosca, paragona a quelli
compiuti dalla Nato con i bombardamenti. Ricordare, seppur sinteticamente, la svolta di Belgrado è
necessario anche per comprendere i cambiamenti che avvengono in Kosovo prima e dopo il voto
amministrativo del 28 ottobre.
A PriStina e in tutti i centri della provincia gli albanesi si organizzano in partiti politici e scelgono
i candidati, mentre i serbi rimasti e sfuggiti alle vendette disertano gli uffici dove si raccolgono le
iscrizioni alle liste elettorali. In tutto il Kosovo sono restati non più di 100 mila serbi (erano 250
mila nel giugno del 1999 all'arrivo dei soldati della Kfor); la metà circa è concentrata nelle città di
Kosovska Mitrovica, l'altra metà nelle piccole enclave presidiate dai militari della Kfor (800 serbi
vivono a GoraŽdevac, nei pressi di Pec, protetti dai soldati italiani). Nessun leader della minoranza,
neppure il moderato padre Sava, si schiera per la partecipazione al voto giacché, dice il religioso
ortodosso, non esistono le «condizioni minimali» per prendere parte alla consultazione
amministrativa.
Pochi giorni prima del voto, il 22 ottobre, una delegazione del Consiglio nazionale dei serbi (Snv)
di Mitrovica guidata dal «sindaco» serbo e capo degli estremisti, Oliver Ivanovic, si reca a Belgrado
per un colloquio con KoStunica. Al termine dell'incontro la presidenza jugoslava diffonde un
comunicato nel quale si lamenta la «grave situazione di insicurezza, gli attacchi quotidiani degli
albanesi».
I capi serbi di Mitrovica trovano conforto a Belgrado dove il nuovo leader riafferma la necessità
di applicare la risoluzione 1244 e di favorire il ritorno dei profughi. KoStunica afferma che le
elezioni del 28 ottobre «non rappresentano un contributo alla stabilizzazione della regione» e cita un
rapporto dell'organizzazione Human Rights Watch nel quale vengono elencati molti episodi di
violenza ai danni dei serbi del Kosovo e di esponenti del partito di Rugova oltre che 95 casi di
stupro.
Kouchner risponde indirettamente a queste accuse in un'intervista al quotidiano spagnolo El Paìs:
«Non bisogna dimenticare» afferma il capo dell'amministrazione dell'Onu «che MiloSevic ha
impartito una consegna politica ai serbi del Kosovo affinché rifiutassero la registrazione alle liste
elettorali. Vi sono persone che volevano partecipare e sono state intimidite».
Nonostante le violente polemiche della vigilia e l'irrisolto problema della convivenza multietnica,
il 28 ottobre migliaia di kosovari si recano festanti alle urne. Davanti ai seggi si formano grandi
code; è la prima volta che gli albanesi votano liberamente. La campagna elettorale si è svolta in
modo relativamente tranquillo; vi sono stati alcuni episodi di violenza (sempre dovuti alle
intimidazioni degli estremisti di Thaci) e Rugova ha dovuto rinunciare a un comizio nella città di
Djakovica. Ma, nel complesso, come confermano numerosi osservatori internazionali (le elezioni
sono state organizzate dall'Osce) le operazioni di voto si svolgono senza eccessive irregolarità. Il
Kosovo viene suddiviso in 30 comuni, la Lega democratica del Kosovo del moderato pacifista
Ibrahim Rugova (universalmente chiamato il Gandhi dei Balcani) si presenta in 29 municipalità così
come l'Aak (Alleanza per il futuro del Kosovo) di Ramush Haradinaj e il partito di centro di Naim
Maloku. Entrambi sono ex dirigenti dell'Uçk, ma dopo la guerra hanno preso le distanze dal Partito
democratico del Kosovo del capo estremista Hasim Thaci. Tutti i leader si presentano con la parola
d'ordine «indipendenza», ma la gente sa che Rugova rappresenta l'anima moderata e gradualista e
soprattutto si oppone alle violenze, alle intimidazioni e ai ricatti delle bande criminali e dei gruppi
estremisti che, pubblicamente o clandestinamente, sono legati all'irriducibile Thaci. Quest'ultimo
rivendica la vittoria militare dell'Uçk sui serbi. «Siamo stati noi» grida Thaci nei suoi comizi «a
combattere la guerra di liberazione e noi chiediamo la restituzione dei prigionieri rimasti nelle
carceri del regime jugoslavo. Noi del Pdk e non Rugova, la sua politica è stata per anni un
fallimento.» Ma la popolazione è stufa delle angherie e dell'arroganza con la quale gli uomini di
Thaci hanno occupato tutti i posti di lavoro più redditizi. Così si compie il miracolo elettorale:
Rugova vince a PriStina e in tutti i principali centri del Kosovo, da UroSevac a Pec. Solamente nei
luoghi che hanno visto la nascita del movimento guerrigliero, come Drenica, il partito di Thaci riesce
ad affermarsi.
L'Osce assegna a Rugova il 58,13 per cento dei voti contro il modesto 26,95 del partito di Thaci
che, mosso dall'invidia e dalla rabbia, contesta i risultati e parla di brogli affermando che in alcune
realtà ha potuto votare solo il 30 per cento degli elettori.
La vittoria del leader moderato inaugura un nuovo scenario nella regione. La guerra ha scavato un
solco incolmabile tra serbi e albanesi e la detenzione di almeno 800 prigionieri nelle carceri
jugoslave rappresenta un grave ostacolo all'avvio di un seppur timido dialogo. un fatto tuttavia che
dopo pochi giorni dal voto si comincia a parlare di un possibile incontro tra Rugova a KoStunica. La
diplomazia della Francia e dell'Italia (che ospitò il leader moderato del Kosovo durante la guerra)
lavora per raggiungere questo obiettivo. Rugova ripete che può discutere con il presidente jugoslavo
solamente di un argomento: «l'indipendenza del Kosovo». Ma KoStunica, ancora circondato dai
dignitari del regime di MiloSevic, esclude questa eventualità e anzi prospetta un ritorno dei serbi a
PriStina. Il timido disgelo è tuttavia iniziato, con l'uscita di scena di MiloSevic, tutto è cambiato, la
Serbia è allo stremo e aspira a ricevere una fetta considerevole degli aiuti internazionali.
Rugova chiede elezioni politiche e l'ambasciatore americano all'Onu Richard Holbrooke lascia
intendere che questa prospettiva è percorribile. In ogni caso, molti indizi fanno ritenere che la strada
dell'indipendenza per il popolo di Rugova sia ormai stata imboccata in modo irreversibile.
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Bernard Kouchner «Vi parlo da amico e mi rivolgo ad amici. E' necessario avvertirvi che siete in
pericolo, davanti agli occhi del mondo le vittime si sono tramutate in oppressori.» Il discorso di
addio di Bernard Kouchner viene trasmesso la sera del 14 gennaio 2001 dalla televisione albanese
(che propone anche una stentata traduzione in serbo). Sulla poltrona di capo della missione Onu in
Kosovo siede il danese Hans Haekkup. Bernard Kouchner, 61 anni, originario di Avignone, padre di
quattro figli, l'ha occupata per oltre un anno e mezzo, dai tragici giorni dell'arrivo della Kfor e della
partenza dei serbi (giugno-luglio 1999) fin dopo le elezioni amministrative dell'ottobre 2000 che
hanno visto la sconfitta degli estremisti di Tachi e la schiacciante vittoria dei moderati di Rugova, ma
non la fine delle violenze. Kouchner comincia a occuparsi dei Balcani da ministro francese per
l'azione umanitaria (1988-1991) che compie numerose missioni a rischio, soccorrendo per esempio i
profughi di Dubrovink (Ragusa) assediati dalle milizie serbe. Fondatore dell'organizzazione
Médecins sans frontières, Kouchner diventa un acceso sostenitore del «diritto d'ingerenza» e
conquista le simpatie dei capi albanesi di PriStina.
Riesce a guidare la ricostruzione nel Kosovo del dopoguerra, a organizzare le elezioni
amministrative che, anche a detta degli osservatori internazionali, si svolgono in un clima di relativa
calma. Ma ripone eccessiva fiducia nei capi della comunità albanese e media con i leader estremisti
che nascondono armi e foraggiano la nuova guerriglia nella Serbia meridionale. Nel gennaio del
2000 registra il successo più significativo della sua gestione, diventa presidente del «governo
provvisorio del Kosovo», affiancato da due vice (uno di nomina Onu, l'altro esponente delle
comunità del Kosovo). La comunità serba accetterà di esservi rappresentata solamente in rare
occasioni. «Non ci ha difesi, spero che dopo la sua partenza l'Onu adotti un'altra politica» dichiara
Oliver Ivanovic, esponente della comunità serba di Mitrovica vicino al neopresidente KoStunica.
Sesta parte. (Macedonia)
Macedonia, l'ultimo atto?
(di Alessandro Marzo Magno)

Neanche un colpo di fucile: la Macedonia era stata l'unica repubblica ex jugoslava a diventare
indipendente senza che fosse versato del sangue. Un'indipendenza definita «un regalo della storia»
(Rüb, Frankfurter Allgemeine Zeitung). Ma tra la fine di febbraio e la seconda metà di marzo 2001 il
silenzio delle armi si rompe. Nel villaggio di TanuSevci prima, e attorno alla città di Tetovo poi, si
fronteggiano la polizia e l'esercito macedone da una parte e una nuova formazione guerrigliera
albanese dall'altra. Nuova, ma con un nome vecchio: Uçk. Solo che, anziché Esercito di liberazione
del Kosovo (Ushtria çlirimtare Kosovës) la sigla sta ora a significare Esercito di liberazione
nazionale (Ushtria çlirimtare Kombëtare). Gli albanesi chiedono la modifica del preambolo della
Costituzione, in modo da essere riconosciuti come etnia cofondatrice della Macedonia, chiedono il
bilinguismo nelle zone del paese dove vivono, chiedono il riconoscimento dell'autofondata,
autofinanziata e autogestita università di Tetovo, chiedono l'autonomia amministrativa nonché di
essere maggiormente rappresentati nella pubblica amministrazione e nei corpi dello stato macedone.
La comunità internazionale si schiera senza indugio a fianco del governo di Skopje: non c'è più
tolleranza nei confronti di azioni armate albanesi, tenendo anche conto del precedente della guerriglia
nella valle di PreSevo, la zona di Serbia a ridosso del confine con il Kosovo dove gli schipetari
costituiscono la schiacciante maggioranza della popolazione. E non c'è nessuna comprensione per il
tentativo di conseguire obiettivi squisitamente politici con l'insurrezione armata. La reazione militare
macedone è molto dura, nei limiti concessi dalle scarsamente addestrate ed equipaggiate forze armate
di Skopje. Le perdite degli albanesi, tuttavia, appaiono abbastanza limitate: di fronte all'incalzare
delle truppe macedoni (polizia militare e reparti speciali perché tra i soldati di leva ci sono numerosi
albanesi) l'Uçk sembra come liquefarsi. In effetti in molti casi i guerriglieri svestono la divisa e
tornano a casa, confermando la tesi albanese, secondo cui i quadri dell'Uçk sono formati da gente del
luogo, e smentendo invece l'opinione del governo di Skopje, che vuole l'Uçk formata da albanesi del
Kosovo «disoccupati» dopo lo scioglimento della loro formazione armata. Anche l'ipotesi di Skopje,
secondo cui gli schipetari si battono per la Grande Albania, è costantemente smentita dagli albano-
macedoni: dicono di voler sì l'autonomia, ma nessuna modifica dei confini.
Questa di Macedonia, in ogni caso, appare come una guerra anomala, se confrontata con gli altri
conflitti dell'ex Jugoslavia: breve, limitata, con uno scarso tributo di sangue e dagli obiettivi non ben
definiti, soprattutto se confrontati con i mezzi usati per ottenerli.
Non si è mai visto nessuno chiedere l'autonomia con le mitragliatrici e i mortai. Per questo molti
osservatori occidentali ritengono che dietro all'insurrezione ci sia anche, seppur non solo, l'azione
delle organizzazioni criminali albanesi che intendono mantenere in Macedonia dei corridoi franchi
dove far transitare i traffici di droga e di ragazze da avviare alla prostituzione. Guerra strana anche
perché i fucili attorno a Tetovo hanno appena taciuto che l'attenzione dell'opinione pubblica viene
attirata su Belgrado dove avviene un fatto epocale: alle 4,38 del mattino del primo aprile Slobodan
MiloSevic viene arrestato sotto le telecamere delle tv di mezzo mondo, dopo una goffa operazione di
polizia durata trentasei ore. L'uomo che aveva detto ai serbi: «Nessuno più oserà toccarvi», l'uomo
che era stato la causa diretta o indiretta di dieci anni di conflitti balcanici, è portato a bordo di una
Bmw scura nella cella che già da qualche tempo, debitamente restaurata, gli è stata riservata nella
prigione di Belgrado. Finisce, anche simbolicamente, un ciclo: quello del nazionalismo serbo
aggressivo. Un ciclo che si era già di fatto chiuso con le elezioni di settembre, la sconfitta di
MiloSevic, la rivoluzione di ottobre e l'insediamento a presidente federale jugoslavo di Vojislav
KoStunica, il nazionalista moderato, il grigio docente che promette ai serbi tranquillità. Finisce un
ciclo, ma il testimone del nazionalismo passa dalle mani dei serbi a quelle degli albanesi. Già nel
dopoguerra del Kosovo si è visto che la convivenza non è nei programmi di almeno una parte dei
dirigenti politici albanesi, la pulizia etnica si rovescia e a essere ammazzati e cacciati sono ora i
serbi. La vittoria elettorale dei moderati di Rugova accende qualche speranza, ma la violenza diventa
guerriglia vera e propria prima nella valle di PreSevo e poi in Macedonia. E nulla lascia ritenere che
questo ciclo sia vicino alla fine.
La tregua dichiarata dall'Uçk il 21 marzo 2001 e l'offensiva macedone del 25 mettono fine ai
combattimenti aperti, ma non fanno cessare le tensioni tra le due principali componenti della
Macedonia, la maggioranza di macedoni di etnia slava e la minoranza albanese che conta il 23 per
cento della popolazione, in base ai dati del censimento del 1994. Dati che però, come vedremo,
vengono contestati dagli albanesi stessi che sostengono di essere il 40-45 per cento della
popolazione macedone.
Fin dall'inizio della sua esistenza come stato sovrano, la Macedonia è sempre stata sull'orlo della
guerra. Nei primi anni, tuttavia, pur essendoci gravi tensioni tra albanesi e macedoni, i pericoli erano
soprattutto esterni. E l'8 settembre 1991 quando l'Assemblea parlamentare macedone dichiara
l'indipendenza da Belgrado: poco meno di due milioni di persone si ritrovano a vivere nei confini di
quella che diventa la Repubblica di Macedonia. Già da gennaio, per la precisione dal 27, è eletto
presidente Kiro Gligorov, nato nel 1917, un ex collaboratore di Tito, membro per quattro anni della
presidenza federale jugoslava e poi presidente del Parlamento federale. Non passano che pochi mesi
e si vedono le prime avvisaglie delle tensioni che separano macedoni e albanesi: l'11 e 12 gennaio
1992 poco meno di 277 mila schipetari votano in un referendum autogestito che chiede l'autonomia
delle regioni macedoni abitate da albanesi. L'esito è scontato: il 99,9 per cento di sì, ma il
parlamento di Skopje si rifiuta di riconoscere il risultato. In gennaio la Bulgaria è la prima a
riconoscere l'indipendenza della Macedonia (ma solo lo stato, perché per Sofia lingua ed etnia
macedoni non possono essere distinte da quelle bulgare), seguita in febbraio dalla Turchia; il 26
marzo gli ultimi soldati della Jna lasciano il territorio macedone. I primi scontri interetnici non
tardano ad arrivare: il 6 novembre, a Skopje, muoiono tre albanesi e un poliziotto macedone. L'11
dicembre 1992 il Consiglio di sicurezza dell'Onu autorizza il dispiegamento dei caschi blu
dell'Unprofor nella neonata repubblica. Il 1993 trascorre relativamente tranquillo, con il susseguirsi
dei riconoscimenti diplomatici: in aprile arriva quello dell'Onu, anomalo, perché il nuovo stato viene
denominato con una sigla, Fyrom (Former Yugoslavian Republic of Macedonia) e la bandiera non è
ammessa per l'opposizione della Grecia. Il ministro degli Esteri ellenico, Carolas Papoulias,
definisce la Germania (principale sponsor di Skopje) «un gigante con il cervello da bambino». Atene
contesta l'uso del nome Macedonia, sostenendo che indica una regione della Grecia (la Macedonia
storica comprendeva i territori dell'attuale regione ellenica, della repubblica ex jugoslava e una fetta
di Bulgaria, il Pirin), e la bandiera con il «sole di Verghina», ovvero la stella a sedici punte
rinvenuta nella tomba di Filippo il Macedone, padre di Alessandro Magno. In dicembre sono i
maggiori paesi Ue a riconoscere la repubblica con capitale Skopje. In novembre vengono arrestati
otto albanesi (tra i quali un viceministro) e confiscate armi. L'accusa è di preparare un'insurrezione
per proclamare un'autonoma Repubblica d'Illiria, due mesi dopo ci saranno altri dieci arresti e finirà
in manette pure l'ex ministro della Difesa, Husein Haskaj. Nel 1994 cominciano intanto le prime
scissioni dal Ppd (Partito per la prosperità democratica), il partito etnico degli albanesi che ha per
leader Abdurraham Haliti. Il Ppd ha cinque ministri nel governo guidato dal socialdemocratico (ex
comunista) Branko Crvenkovski, ma la maggior parte degli albano-macedoni considera questi
ministri dei traditori dediti solo all'arricchimento personale. Escono dal Ppd anche alcuni
parlamentari radicali che formano il Ppda (Partito per la prosperità democratica albanese). Lo guida
Arben Xhaferi che, per una strana sorta di contrappasso alla macedone, sei anni più tardi diventerà
moderato (mentre il Ppd si radicalizzerà), andrà al governo e sarà a sua volta considerato un
traditore degli albanesi che bada solo ai propri interessi.
Il 9 febbraio 1994 accade un fatto destinato a incidere pesantemente sul destino della Macedonia:
è riconosciuta dagli Stati Uniti, seppur solamente come Fyrom. Questo scatena il malcontento che già
serpeggiava in Grecia e decine di migliaia di persone si radunano per protesta davanti al consolato
Usa di Salonicco, capoluogo della Macedonia ellenica. Il vescovo ortodosso di San Panteleimon
tuona accusando gli Stati Uniti di «comportamento indegno per aver riconosciuto questo
pseudostato». Il 16 febbraio è il giorno dell'embargo greco. Il governo di Andreas Papandreu, che ha
deciso di giocare la carta nazionalista, chiude il consolato greco a Skopje, sigilla i valichi di
frontiera terrestri tra Macedonia e Grecia, impedisce alla Macedonia di usare il porto di Salonicco,
storico e naturale scalo marittimo di Skopje. Papandreu giustifica la decisione con «l'intransigenza» e
«l'atteggiamento aggressivo» dei dirigenti macedoni nei confronti della Grecia. La trojka Ue,
presieduta proprio dal ministro degli Esteri ellenico, Carolas Papoulias, si riunisce ad Atene. Ne
fanno parte il belga Willy Claes, in rappresentanza della presidenza uscita, e il tedesco Klaus Kinkel,
rappresentante della presidenza entrante. Claes dice che la decisione greca «è in contraddizione»
con il trattato di Maastricht; per Kinkel le misure decise da Atene «sono inusuali e non costituiscono
un modo per risolvere i problemi». Ma intanto al valico confinario di Gevgelija si formano colonne
di tir che resteranno immobili per settimane.
Inizia la lunga stagione delle mediazioni (quella dell'Onu era stata sospesa nel 1993 dopo la salita
al potere di Papandreu). Fanno la spola tra Atene e Skopje il commissario europeo per gli Esteri,
Hans van der Broek e l'americano Matthew Nimetz, già braccio destro di Cyrus Vance. Ma i risultati
non arrivano e, anzi, i greci si irrigidiscono: il 31 marzo, a Salonicco, un milione di persone scende
in piazza per manifestare contro la Macedonia. I giornali greci sostengono che la famiglia di
Gligorov è coinvolta nel traffico di droga. Solo più avanti la mediazione di Richard Holbrooke avrà
successo.
Già dal luglio 1993 si trovano in Macedonia truppe americane inquadrate nel contingente
Unprofor, fino ad allora formato solo da scandinavi. Il presidente Usa, Bill Clinton, offre al
segretario dell'Onu, Boutros Ghali, 300 uomini, subito accettati. la prima volta che soldati americani
vengono impegnati nei Balcani. Non è un caso che avvenga in Macedonia, dove si scontrano gli
interessi di due paesi Nato (Grecia e Turchia, con quest'ultima a sostenere la propria minoranza e,
più in generale, i musulmani) e quelli di Bulgaria, Serbia e Albania. Nel 1994 gli americani
schierano altri 200 uomini che si sistemano nell'ex base jugoslava di Krivolak, il poligono militare
più grande d'Europa con i suoi 40 chilometri di lunghezza e 30 di larghezza. Doveva servire a
proteggere la Jugoslavia da un'invasione da sud, ora proteggerà la Macedonia dalle incursioni da
nord. I caschi blu contano 1156 uomini, metà americani, metà del battaglione nordico (Danimarca,
Svezia, Norvegia, Finlandia). Il 31 marzo 1995 sarà cambiato il nome del contingente da Unprofor a
Unpredep (United Nations Preventive Deployment). I caschi blu saranno ritirati nel febbraio 1999 a
causa del veto della Cina in Consiglio di sicurezza. Pechino vuole in tal modo punire la Macedonia
che ha stabilito relazioni diplomatiche con Taiwan. Al momento del ritiro il contingente è forte di
1050 uomini: 500 americani, 500 scandinavi e 50 genieri indonesiani.
Nella primavera 1994 alle tensioni con la Grecia si aggiungono quelle con la Serbia. La
Macedonia sfiora la guerra e se non si arriva al conflitto aperto lo si deve probabilmente alla
presenza di militari Usa, alla sapiente moderazione del presidente Kiro Gligorov e al fatto che per la
Macedonia transiti un intensissimo contrabbando di merci dirette in Serbia. Chiudere quel rubinetto
sarebbe insensato e dannoso. Ma qualcuno, probabilmente, la pensa in modo diverso. L'8 aprile i
serbi arrestano tre militari Onu che hanno sconfinato e i macedoni colgono l'occasione per
denunciare sconfinamenti giornalieri di poliziotti serbi. L'11-12 maggio la Jugoslavia ammassa
truppe alla frontiera macedone, gli sconfinamenti si moltiplicano (aiutati dal fatto che l'80 per cento
dei 270 chilometri di frontiera serbomacedone non è definito, essendosi trattato in passato di una
semplice divisione amministrativa). Il comandante dell'Unprofor, il generale norvegese Tryggve
Tellefsen, conferma le «ripetute violazioni del confine» e afferma di non essere in grado di formare
una forza d'interposizione. Le pattuglie serbe passano da 4 a 10-15 uomini, molti dei quali sono
irregolari appartenenti alle milizie territoriali. Il 17 giugno truppe jugoslave entrano in territorio
macedone per 250 metri. Il 21 giugno, dopo le proteste di Skopje con Belgrado, un ufficiale
macedone viene sequestrato in territorio macedone, portato in Serbia e interrogato per ore. Il 26
giugno dodici soldati serbi scavano trincee e piantano delle tende sulla collina di Straza. «Per quel
che ne sappiamo noi è territorio macedone» dice Elisabeth Baldwin, portavoce Onu a Skopje.
D'altra parte lo stesso Gligorov sottolinea, in un'intervista concessa qualche tempo prima, come
stiano le cose. «Il pericolo viene da nord» afferma.
In questo clima si svolge il nuovo censimento. Dal 21 giugno al 10 luglio i macedoni si contano, il
censimento è finanziato e monitorato dall'Osce che lo dichiara regolare. Erano stati gli albanesi a
chiederlo e a ottenerlo, perché si ritenevano sottostimati, ma ora, almeno una parte di loro, lo
boicotta sostenendo che la metà dei propri connazionali non ha ricevuto il certificato di cittadinanza e
quindi non può essere censita. Alla fine gli albanesi risulteranno il 22,9 per cento della popolazione
(e i macedoni il 66,6 per cento) un po' di più di quel 21 per cento che risultavano essere prima, ma
meno di quanto essi stessi ritengano di essere. Forse è veritiera la stima che gli albanesi
costituiscano circa il 30 per cento della popolazione. D'altra parte anche il presidente Gligorov
sembra sposare questa tesi. Infatti, discutendo di una partecipazione russa al contingente Unpredep, si
dice contrario in base al fatto che «un terzo della popolazione subirebbe un'eccessiva influenza
slava» (Bozzo, Simon-Belli, Macedonia. La nazione che non c'è). In ottobre, verso la metà, si vota.
Anche in questo caso le organizzazioni internazionali sostengono che le elezioni sono «libere e
regolari», ma ciononostante le opposizioni denunciano brogli. Kiro Gligorov è rieletto presidente, la
coalizione di governo, capeggiata dai socialdemocratici, esce rafforzata, gli albanesi del Ppd
conquistano dieci seggi, Branko Crvenkovski è confermato primo ministro. Il partito ultranazionalista
Vmro-Dpmne dell'ex poeta e regista Ljubco Georgievski scende dal 22 al 12 per cento. Si rifarà con
le elezioni successive, vincendole.
Il 13 dicembre 1994 l'università di Tetovo è dichiarata illegale dalle autorità macedoni e il 1995 si
apre all'insegna delle rinnovate tensioni etniche. La risposta albanese non si fa attendere: il 15
febbraio l'ateneo clandestino viene inaugurato con una cerimonia solenne. Due giorni dopo la polizia
fa irruzione in uno degli edifici universitari (le lezioni spesso si svolgono in case private e
scantinati) e ne distrugge una parte. Negli scontri che ne seguono uno studente viene ucciso e 15
feriti. Il cofondatore dell'università (assieme ad Arben Xhaferi) nonché rettore, Fadil Sulejmani,
finisce in carcere. Viene condannato a 12 mesi, e ne sconta dieci, uscendo di prigione nel febbraio
1997.
Sono le 9,45 del mattino del 3 ottobre 1995 quando un'auto carica di 20 chili di tritolo viene fatta
esplodere con un telecomando davanti all'hotel Bristol, mentre sta passando la Mercedes di Kiro
Gligorov. Il presidente macedone resta gravemente ferito (perderà l'occhio destro e rimarrà
sfigurato), il suo autista, Aleksandar Spirovski, muore e vengono feriti il capo dei servizi di
sicurezza e tre passanti. Su richiesta di Skopje, arriva immediatamente da Parigi un'équipe
chirurgica. Richard Holbrooke, che aveva fatto da mediatore tra Atene e Skopje, chiede a Washington
di mandare un'équipe medica d'emergenza (Holbrooke, op. cit.). Due giorni dopo, il 5, il parlamento
macedone vota con 110 voti a favore, 4 astenuti e 1 contrario il cambio della bandiera: il sole di
Verghina è sostituito con un sole d'oro stilizzato in campo rosso. Si tratta dell'ufficializzazione
dell'accordo raggiunto il 14 settembre grazie alla mediazione di Matthew Nimetz e Richard
Holbrooke: la Grecia toglie l'embargo contro la Macedonia in cambio della creazione di una nuova
bandiera. Per quanto riguarda il nome, vengono intavolate nuove trattative che, a tutt'oggi, non sono
ancora concluse.
Le indagini sull'attentato a Gligorov vanno avanti con la collaborazione dei servizi segreti di venti
paesi stranieri, ma non si arriva a nulla di concreto (solo nel 2001, con l'arresto, il 23 febbraio, di
Rade Markovic, già capo della polizia segreta di MiloSevic, si saprà che dietro all'attentato a
Gligorov c'erano i servizi serbi). A fine ottobre si dimette il ministro degli Interni, Ljubomir
Frckovski, travolto dalle polemiche perché il giorno dell'attentato si trovava in Bulgaria con una
Mercedes blindata, mentre quella di Gligorov non lo era. Frckovski, in ogni caso, fa presente che la
polizia ha interrogato 600 persone e che gli attentatori sono probabilmente macedoni, ma l'attentato è
stato preparato da «un gruppo economico di un paese vicino». Kiro Gligorov torna al lavoro nel
gennaio 1996, con una ripresa fisica sensazionale per una persona che ha, all'epoca, 79 anni.
Nell'autunno 1996 si tengono le elezioni amministrative. A Gostivar e Tetovo stravincono i
radicali del Ppda; nella prima città diventa sindaco Rufi Osmani, nella seconda Alajdin Demiri. Sui
muri delle città a maggioranza schipetara compaiono scritte del tono: «Qui è Albania, via i
macedoni». Il Ppd è al governo, ma l'integrazione non appare migliorata. «La situazione si
radicalizza perché i problemi non vengono risolti» dichiarerà Demiri a Le Monde nel marzo del
1997.
Intanto anche il Ppd si radicalizza, rincorrendo il Ppda sul terreno del nazionalismo, continuando
però a perdere consenso.
Uno dei punti qualificanti del Ppda è il riconoscimento dell'università di Tetovo. La questione sta
ormai diventando un'esigenza intangibile degli albanesi. Nel 1997 l'università ha 200 docenti, 2500
studenti e un bilancio di 3 miliardi e mezzo di lire, ufficialmente provenienti dai contributi
dell'emigrazione albanese (nel marzo 2001 i docenti sono 400, gli studenti 10 mila e il bilancio è di
quasi 10 miliardi di lire). A Skopje considerano l'università di Tetovo come «una conchiglia vuota» e
«un organismo di riciclaggio per docenti disoccupati». Il riferimento è agli ex insegnanti dell'ateneo
di PriStina, cacciati dalla serbizzazione di MiloSevic. Nel marzo del 1997 il governo macedone
decide di autorizzare l'insegnamento in albanese nella facoltà di pedagogia dell'università di Skopje.
L'effetto è disastroso: gli albanesi giudicano la misura timida e insufficiente, mentre gli studenti
macedoni si infuriano e organizzano manifestazioni. Il nazionalismo si radicalizza anche tra gli
universitari macedoni che coniano slogan come «albanesi nelle camere a gas», in dodici cominciano
uno sciopero della fame contro quello che ritengono un intollerabile privilegio e raccolgono 20 mila
firme a sostegno della richiesta di dimissioni del ministro della Pubblica istruzione, Sofija Todorova,
e dell'abrogazione della legge contestata.
Il 1997 è anche l'anno del crollo delle piramidi finanziarie in Albania che, talvolta, hanno
filiazioni in Macedonia. Nella prima metà di marzo, infatti, a Bitola, chiude la Tat, con un buco di
300 miliardi di lire e 30 mila risparmiatori coinvolti. Tanto per avere un ordine di grandezza, i
depositi delle principali banche, Stopanska e Komerčalna, ammontano alla metà dei fondi gestiti
dalla Tat.
L'Albania attraversa un periodo di anarchia politica che favorisce un massiccio contrabbando di
armamenti dall'Albania stessa al Kosovo e alla Macedonia. Il quotidiano Dnevnik scriverà che nel
1997 la polizia sequestra tremila armi in entrata dall'Albania; i processi per possesso di armi
passano dai due del 1990 ai 1200 del 2000. Le vere premesse, militari e politiche, della nascita
dell'Uçk macedone sono poste in questo periodo. E nessuno se lo nasconde. «Le cose potranno
prendere una cattiva piega e potranno comparire gruppi terroristici» dichiara Menduh Thaci,
dirigente del Ppda a Le Monde il 21 marzo 1997. Un diplomatico occidentale mostra una visione
realistica degli avvenimenti. «Ci vuole una rapida presa di coscienza della comunità internazionale
perché più noi aspetteremo ad aiutare la ricerca di un compromesso tra le comunità, più la situazione
peggiorerà.» Sempre Le Monde, il 30-31 marzo 1997 riporta un'intervista a Petar Goshev, presidente
del Partito democratico, una formazione centrista all'opposizione. «Le manifestazioni degli studenti
macedoni» osserva «mostrano che c'è stata una frattura nelle relazioni tra le due comunità, anche se è
difficile misurarne l'ampiezza. Parallelamente, nell'elettorato albanese, è il Partito radicale ad
aumentare la propria influenza, cosa che non costituisce buon segno.» Il quotidiano francese lo stesso
giorno intervista anche il presidente macedone. «Gli albanesi più radicali» sostiene Kiro Gligorov
«hanno come scopo finale la creazione della Grande Albania e i più moderati sono sotto la loro
costante pressione: se non si rifanno alle medesime aspirazioni, vengono considerati dei traditori.»
Rufi Osmani, però, in parte lo smentirà: «A differenza del Kosovo, noi non vogliano l'indipendenza,
ma più autonomia. Noi siamo macedoni».
Il crollo delle finanziarie è grave, ma sta profilandosi una crisi che avrà delle conseguenze ben
peggiori. Dall'autunno dell'anno precedente, da quando cioè sono stati eletti sindaco, Alajdin Demiri
e Rufi Osmani espongono, ogni giorno, fuori dai municipi di Tetovo e Gostivar, le bandiere
macedone, albanese e turca. Il 7 luglio 1997 il Parlamento approva una legge che permette
l'esposizione delle bandiere, ma solo durante alcune feste nazionali. I sindaci, invece, respingono il
provvedimento e continuano a innalzare i vessilli. Due giorni dopo, il 9 luglio, le forze speciali della
polizia intervengono a Gostivar per ammainarli. Ne segue un'imponente manifestazione alla quale
molti schipetari si presentano armati. I poliziotti macedoni uccidono due giovani albanesi e un terzo
morirà in seguito per le botte ricevute dagli agenti. Ci sono 312 arresti (il doppio, secondo fonti
albanesi), tra cui quello di Rufi Osmani.
Il sindaco di Gostivar nel settembre 1997 è condannato a quattordici anni di carcere. Anche in
seguito agli appelli e alle proteste delle organizzazioni internazionali, nell'appello del febbraio 1998
la pena è ridotta a sette anni. Osmani uscirà di prigione nella seconda metà dell'aprile 1998. Alajdin
Demiri è condannato a due anni. In seguito alle condanne si dimettono per protesta 7 deputati
albanesi, 9 sindaci e 240 consiglieri comunali. I risultati di una commissione parlamentare incaricata
di indagare sui fatti di luglio vengono insabbiati.
Gli albanesi formulano la richiesta di essere riconosciuti «nazione fondatrice» della Macedonia.
Gli slavomacedoni affermano che sarebbe il primo passo per la secessione. Il crescere della tensione
nel Kosovo non è privo di conseguenze nella vicina repubblica. «Come sale la pressione in Kosovo
così sale la volontà degli albano-macedoni di aiutare i loro fratelli» dice Arben Xhaferi. In effetti
parecchi albanesi di Macedonia combatteranno in Kosovo tra le fila dell'Uçk e saranno loro a
costituire il nerbo del nuovo Uçk macedone. L'ondata di profughi che si abbatte sulla Macedonia è
vista con terrore a Skopje perché rischia di modificare radicalmente i già fragili equilibri etnici del
paese.
Il 18 ottobre 1998 si tiene il primo turno delle elezioni che determineranno il cambio del governo
a Skopje. Le urne danno la vittoria, confermata nel ballottaggio del primo novembre, al Vmro dell'ex
poeta e regista teatrale Ljubco Georgievski (che nel frattempo dice di aver abbandonato il
nazionalismo, di non voler più l'annessione di parti di Grecia e Bulgaria e di volere gli albanesi nel
governo) che si è alleato con Alternativa democratica di Vasil Tupurkovski, un emigrato negli Usa,
docente di diritto, più volte inviato americano in Macedonia. Le due formazioni macedoni sono a
loro volta alleate del Partito democratico albanese, nato dalla fusione del Ppda con un altro partito
schipetaro. Il leader è sempre Arben Xhaferi, nel frattempo anch'egli folgorato sulla via della
moderazione, tanto che il suo ex sodale Fadil Sulejmani lo bollerà come traditore. Nel dicembre
1999 si tengono le elezioni presidenziali. Kiro Gligorov, 82 anni, esce di scena. Viene eletto Boris
Trajkovski, protestante metodista, appoggiato dagli albanesi, contro Tito Petkovski, considerato
filoserbo. Nel maggio del 2000 l'opposizione socialdemocratica porta in piazza 40 mila persone a
Skopje per protestare contro il governo e le elezioni amministrative del novembre 2000 sono
macchiate, secondo l'Osce, da «seri incidenti, irregolarità, intimidazioni». questo il periodo in cui i
Balcani sono contrassegnati dagli avvenimenti che si alternano in Serbia e in Macedonia (con sullo
sfondo il referendum per l'indipendenza del Montenegro che dovrebbe seguire le elezioni del 22
aprile 2001). Quanto accade nell'autunno 2000 e nell'inverno 2001 segna un cambiamento epocale: la
definitiva uscita di scena di Slobodan MiloSevic. Domenica 24 settembre in Jugoslavia si tengono le
elezioni presidenziali. I serbi votano, i montenegrini no, decidono di boicottare le urne perché,
dicono, la presidenza federale non li riguarda più: il loro paese si avvia all'indipendenza. Non
votano neanche i kosovari che, di fatto anche se non di diritto, si trovano in un altro stato. Sia
MiloSevic, sia il suo principale avversario, Vojislav KoStunica, rivendicano la vittoria. Un paio di
giorni più tardi la commissione elettorale dichiara che KoStunica ha avuto il 48 per cento, MiloSevic
il 42, quindi si deve andare al ballottaggio. Ma l'opposizione non ci sta, scende in piazza, animata
soprattutto dagli studenti di Otpor (Resistenza). Compaiono gli striscioni con scritto Gotov je (finito)
che punteggeranno le manifestazioni. La situazione si sblocca il 5 ottobre, con la «conquista» del
parlamento e MiloSevic che va in televisione ad ammettere di essere stato sconfitto.
La scena si sposta nella valle di PreSevo dove l'Ucpmb (Esercito di liberazione di PreSevo,
Medvedja e Bujanovac) instaura il controllo di fatto nella fascia smilitarizzata di cinque chilometri
che la Nato ha imposto lungo il confine tra la Serbia e il Kosovo. Le violenze si intensificano
all'inizio del 2001, tanto che la Nato permette l'ingresso della polizia militare serba affinché controlli
il territorio. Ma gli scontri sembrano filtrare nella vicina Macedonia. Il 26 febbraio c'è un conflitto a
fuoco con poliziotti macedoni vicino al villaggio di TanuSevci: è la prima azione di guerra dell'Uçk
macedone. Il governo di Skopje chiude i confini con il Kosovo e chiede alla Kfor di intensificare i
pattugliamenti dall'altra parte della frontiera. Gli scontri continuano e il 14 marzo si comincia a
sparare fuori Tetovo, 50 mila abitanti per l'80 per cento albanesi. L'Uçk sta sulle colline circostanti
la città, sulla vecchia fortezza ottomana di Kale sventola la bandiera rossa con l'aquila bicipite nera
degli albanesi. Da lì sparacchiano verso il centro, ma senza fare troppi danni. Le forze armate
macedoni si schierano in forze a Tetovo e martellano le colline con artiglieria e mitragliatrici pesanti.
Carl Bildt, inviato speciale Onu nei Balcani, il 16 marzo dichiara: «Qui in gioco non c'è solo la
Macedonia. Qui in gioco c'è tutto quello che abbiamo provato a fare nei Balcani: democrazia,
convivenza, cooperazione interetnica». A Tetovo si continua a sparare, il 20 marzo il governo di
Skopje dà l'ultimatum agli albanesi: un giorno per arrendersi, poi ci sarà l'offensiva. E poche ore
prima che scada il termine, Ali Ahmeti, portavoce dell'Uçk annuncia che gli albanesi preferiscono
deporre le armi e trattare. E' la sera del 21 marzo. Giovedì 22 due albanesi, padre e figlio, Rasim e
Ramadan Koraci, 66 e 38 anni, vengono uccisi a un posto di blocco a Tetovo. Il più giovane ha in
mano un oggetto e fa il gesto di tirarlo. I poliziotti li falciano entrambi, davanti a telecamere e
fotografi di mezzo mondo. Non si saprà se quell'oggetto sia davvero una bomba a mano. In ogni caso
le truppe macedoni non rinunceranno alla loro offensiva che prende il via alle sei del mattino di
domenica 25 marzo. Carri armati e soldati vanno verso le montagne: Kale è riconquistata, ma non c'è
resistenza. Le postazioni albanesi sono vuote, l'Uçk si è come liquefatto: i guerriglieri hanno smesso
la divisa e sono tornati a casa loro, qualche chilometro più in là.
Non passano che pochi giorni e l'attenzione dei media mondiali è attirata da Belgrado. Il 31 marzo
scade l'ultimatum di Washington: o le autorità serbe arrestano MiloSevic, o gli Stati Uniti
bloccheranno gli aiuti economici: 100 milioni di dollari in due rate: MiloSevic, dai giorni
dell'«ottobre serbo» non ha messo più il naso fuori dalla sua villa sulla collina di Dedinje, vicino
alla tomba di Tito, se non per una breve apparizione al congresso del suo partito.
Resta in ogni caso il presidente dei socialisti serbi e ribadisce di non avere intenzione di lasciare
la politica attiva. Ma il suo mondo, il mondo di complici che si è creato nei dieci anni di dominio
assoluto della Serbia si sta sfaldando: molti passano armi e bagagli con il nuovo potere, qualcuno
finisce ammazzato in misteriosi regolamenti di conti, qualcuno finisce arrestato. Il caso più
clamoroso è quello di Rade Markovic, di cui si è già detto. Quando l'ex capo della polizia segreta
finisce in carcere, si capisce che la rete di protezione attorno a MiloSevic si è dissolta. Ormai è un
prigioniero a casa sua. Nel frattempo il figlio Marko, controllore del contrabbando delle sigarette, è
scappato. volato in Russia, con moglie e figlio, accolto dall'ambasciatore jugoslavo a Mosca che,
guarda caso, è suo zio Borislav, il fratello di Slobo. Poi prova ad andare in Cina, ma Pechino non lo
vuole. Carla Del Ponte, il procuratore del Tribunale internazionale dell'Aja, arriva a Belgrado
chiedendo inutilmente l'arresto di MiloSevic. Qualcosa, però, si sta muovendo nel potere serbo:
Zoran Djindjic, il premier, è favorevole alle manette e forse anche all'estradizione all'Aja. In
febbraio si diffonde la notizia che nel carcere di Belgrado si stanno facendo febbrili lavori di
restauro: la cella riservata a MiloSevic. E i giornalisti che dalla Macedonia si erano spostati a
Belgrado in attesa dell'ultimatum non restano delusi: la sera di venerdì 30 marzo si sparge la voce
che MiloSevic sta per essere arrestato. Centinaia di fan si riuniscono sotto la sua casa di via Uzicka,
la tv di stato annuncia che MiloSevic è agli arresti, ma l'ex presidente si affaccia a salutare i
supporter: chiaramente un uomo libero. C'è un'incursione di forze speciali che finisce malamente, con
due poliziotti e un fotografo feriti dalle guardie del corpo di MiloSevic. Slobo concede una surreale
intervista a un network televisivo americano che lo raggiunge al telefono. «Sono qui seduto nella mia
casa, sto bevendo il caffè con degli amici. Arresto? Non ne so niente» dice in inglese. La vicenda
procede, come detto, fino a domenica mattina, quando Slobodan MiloSevic accetta di arrendersi e di
essere portato in carcere. A convincerlo sono stati il suo avvocato Toma Fila, uno dei principi del
foro serbi, e un giovane di 29 anni, čedomir Jovanovic, uno degli studenti a capo di Otpor, poi
entrato nel partito di Djindjic, che per ore bevono rakia (grappa), caffè e fumano sigarette assieme
all'ex presidente. All'alba di domenica per l'ex satrapo di Belgrado è davvero finita. Se siano finite
anche le sofferenze dei Balcani è presto per dirlo.
******
Kiro Gligorov Moderato prima come comunista poi come leader del suo paese, Kiro Gligorov è il
padre dell'indipendenza macedone. E proprio questo simbolo volevano colpire gli attentatori che
quasi l'hanno ammazzato il 3 ottobre 1995. Ma Gligorov, nonostante i suoi 78 anni, si è reso
protagonista di una seconda resurrezione; fisica, questa volta, dopo quella politica di qualche anno
prima.
Nato nel 1917 a Stip, nella Macedonia meridionale, fa parte di una famiglia attivamente coinvolta
nel movimento di liberazione nazionale macedone all'inizio del secolo. Si laurea a Belgrado nel
1938 e, durante la Seconda guerra mondiale, entra a far parte del movimento partigiano diventando
uno dei collaboratori di Tito. La sua carriera politica nella Jugoslavia titina comincia nel 1945 come
assistente segretario generale del governo e culmina come membro della presidenza federale dal
1974 al 1978 e quindi come presidente del Parlamento. Ma, uscito da questa carica, viene
praticamente estromesso dalla vita politica. Si era occupato di economia e aveva teorizzato una
transizione della Jugoslavia verso il mercato: questo è uno dei motivi che hanno portato alla sua
rimozione, ma è anche il motivo per cui, quindici anni più tardi, Ante Markovic lo ripesca e lo porta
nel suo governo con il fine di promuovere l'economia di mercato. Ma ormai la Jugoslavia è al
lumicino e Gligorov decide di dedicarsi alla Macedonia e di portarla in modo indolore
all'indipendenza. Ci riesce e il 27 gennaio 1991 viene eletto primo presidente della Macedonia.
Rieletto nel 1994, è il protagonista dei principali avvenimenti politici di questi anni finché l'attentato
non ne interrompe l'attività. Salvato grazie anche all'intervento di team medici di mezzo mondo, torna
al lavoro tre mesi più tardi. Ormai la Macedonia ha pienamente compiuto la transizione a paese
democratico e la figura di padre della patria perde d'importanza. L'uscita dalla scena politica di
Gligorov, terminato il secondo mandato presidenziale, nel 1999, avviene senza alcun trauma e non
crea ripercussioni particolari. Kiro Gligorov oggi vive a Skopje, un po' pensionato di lusso, un po'
supremo consigliere della politica macedone.
Epilogo
Una chiave di lettura (di Ervin Hladnik Milharčič)

Un pomeriggio di settembre del 2000 la rappresentanza croata presso l'Onu era in subbuglio. Il
neoeletto presidente Stjepan Mesic attendeva degli ospiti. Ed ecco infatti uscire dal Palazzo di vetro
e attraversare la strada il presidente sloveno Milan Kučan, il presidente macedone Boris Trajkovski
e il presidente della Bosnia Erzegovina Alija Izetbegovic. Mancavano ancora il presidente
montenegrino Milo Djukanovic e l'ex premier della Repubblica federale jugoslava Milan Panic. Il
capo del protocollo croato aveva adottato ogni contromisura necessaria per evitare che l'incontro
finisse con l'assomigliare a una seduta della defunta presidenza collettiva jugoslava, che verso la fine
degli anni ottanta aveva dimostrato la propria impotenza peregrinando a vuoto da una città all'altra
dell'ex Jugoslavia ed estenuandosi in sterili diatribe. Per gli ospiti era stato preparato un vassoio con
quattro bicchieri di succo di mele e quattro tazzine di caffè e, casomai ce ne fosse bisogno, c'erano
anche due bicchieri e due tazzine di riserva. Milan Panic si trovava là casualmente: in Serbia egli era
del tutto privo di peso politico, e la sua presenza era dovuta esclusivamente al fatto che mancavano
solo quattordici giorni alle elezioni in cui Vojislav KoStunica avrebbe battuto Slobodan MiloSevic.
Gli altri quattro ospiti erano invece i presidenti, eletti democraticamente, degli altrettanti stati sorti
dalla disgregazione dell'ex Repubblica federativa socialista di Jugoslavia. Il quinto, il montenegrino
Djukanovic, proveniva da uno stato in fieri, le cui sorti sarebbero state determinate dalle elezioni in
Serbia. A dieci anni dall'inizio della guerra, era la prima volta che i cinque presidenti partecipavano
insieme a una riunione senza la mediazione dell'Ue o degli Usa e senza avere come scopo trattative di
pace. Per i cinque presidenti seduti nella sala d'aspetto della rappresentanza croata, la guerra in
Jugoslavia era finita. Essi si erano riuniti per risolvere la spinosa questione della sua successione.
Usciti dal Palazzo di vetro, dove si stava svolgendo il summit del millennio, essi erano passati
accanto alle aste con le bandiere dei 189 stati membri dell'Onu. Tra di esse c'erano anche le bandiere
della Slovenia, della Croazia, della Macedonia e della Bosnia, che dal 1991 erano state accolte
nell'Onu come stati neonati. Sull'ultima asta, ecco infine sventolare nella leggera brezza primaverile
la bandiera della Jugoslavia di Tito, con al centro la stella rossa bordata d'oro. Ma la Rfs di
Jugoslavia, di cui quella bandiera era il simbolo, non si era disgregata nel 1991? A testimoniarlo in
modo inconfutabile era stata del resto anche una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che
nel 1992 aveva sancito che «lo stato noto con il nome di Rfs di Jugoslavia aveva cessato di esistere»
e che al suo posto stava sorgendo un numero sempre crescente di nuovi stati.
Tale risoluzione era stata ben più che un atto simbolico, e avrebbe perciò dovuto senz'altro
garantire la rimozione sia della disgraziata bandiera sia del cartellino che nella sala di riunione
dell'Assemblea generale segnava il posto della delegazione jugoslava. Questa stessa risoluzione
prevedeva inoltre che tutti i nuovi stati da essa legittimati, dovessero chiedere l'ammissione all'Onu e
dare avvio ex novo ai propri rapporti con gli altri stati della comunità internazionale. Tutto ciò era la
conferma formale che la Jugoslavia di Tito era finita. E proprio questa era infatti la somma
aspirazione di almeno quattro stati. Di tutt'altra opinione era invece la Jugoslavia di MiloSevic, che
si è opposta a questa interpretazione rifiutandosi di chiedere l'ammissione all'Onu. L'ambasciatore di
MiloSevic, Vladislav Jovanovic, sosteneva infatti che la Jugoslavia continuava a esistere e che
pertanto lui, là a New York, continuava a rappresentare lo stesso stato (benché privato di quattro
quinti del territorio originario) che era stato tra i membri fondatori dell'organizzazione. Nel 1992,
l'Assemblea generale risolse la questione con un bizzarro compromesso. La Slovenia, la Croazia, la
Macedonia e la Bosnia ricevettero ognuna il proprio tavolo e la propria bandiera; il tavolo jugoslavo
rimase là, ma vuoto; la rappresentanza di MiloSevic ottenne il permesso di assistere alle sedute
dell'Assemblea generale dalla galleria, ma venne privata del diritto di voto; la bandiera di Tito
continuò a garrire indisturbata sull'East River anche all'inizio di questo nuovo millennio. A regnare
era dunque una confusione totale, indice delle evidenti difficoltà che l'organizzazione la quale aveva
pur dislocato i suoi caschi blu in Croazia, in Bosnia, in Macedonia e nel Kosovo aveva nel
comprendere a fondo la situazione. E quella bandiera e quel segnaposto condizionavano la
possibilità di risolvere la questione della successione della federazione, che era naturalmente cosa
ben più complessa della semplice suddivisione del patrimonio materiale o dell'appartenenza alle
varie organizzazioni internazionali.
Già all'inizio degli anni novanta, la Commissione Badinter dell'Ue era stata chiamata a esprimersi
in merito al fatto se la Slovenia, la Croazia, la Bosnia Erzegovina e la Macedonia si fossero separate
dalla Jugoslavia, che in tal caso sarebbe dunque semplicemente succeduta a se stessa, senza
soluzione di continuità; o se invece la Jugoslavia si fosse smembrata in vari stati, tutti paritari. La
Commissione decretò che si era trattato di smembramento, ma tale giudizio rimase privo di qualsiasi
effetto. Eppure si trattava di una questione di enorme importanza, cui si sarebbero dovuti ricondurre
tra l'altro anche numerosi interrogativi sulle responsabilità della guerra, sui massacri della
popolazione civile, sulla distruzione di tante città e sull'incendio di tanti villaggi: tutti crimini
commessi sotto l'egida della bandiera jugoslava o di bandiere di alcuni degli stati succeduti alla
Jugoslavia. La polemica relativa alla bandiera, dunque, altro non era che una sintesi delle polemiche
sull'interpretazione del conflitto.
A questo proposito l'opinione dell'Ue e degli Usa ha continuato a divergere per parecchio tempo
da quella dei popoli della Jugoslavia.
Per l'Onu, la Jugoslavia continuava a esistere ancora dieci anni dopo la sua fine. Senz'altro più
singolare era però il fatto che tale questione rimanesse irrisolta anche per l'Ue. Nel dicembre del
1999 gli stati membri dell'Ue si opposero alla risoluzione che imponeva la rimozione della bandiera
jugoslava e ingiungeva alla Jugoslavia di MiloSevic di chiedere l'ammissione all'Onu in qualità di
stato neonato. Pareva insomma che l'Europa stentasse ad accettare l'idea che la Jugoslavia avesse
davvero cessato di esistere e che Belgrado fosse ormai la capitale di uno stato nuovo e privo di
continuità con la Jugoslavia di Tito. Nel decennio successivo alla proclamazione dell'indipendenza
della Slovenia e della Croazia, la guerra e il processo politico in atto in Jugoslavia hanno offerto lo
spunto a una miriade di libri pubblicati in Europa e negli Usa. Libri dai titoli sorprendentemente
affini. Sembrava che ogni giornalista che avesse trascorso un anno in Bosnia dovesse scrivere il
resoconto della propria esperienza, e che ogni politico che vi avesse svolto un qualsiasi incarico per
qualche mese o anno dovesse redigere le proprie memorie. «Fine della Jugoslavia», «La caduta della
Jugoslavia», «Lo sfacelo della Jugoslavia», «La frantumazione della Jugoslavia», ecco gli
approssimativi titoli delle opere che si susseguivano con ritmo incalzante. Titoli che esprimono non
tanto un'elaborazione in senso letterario della concisa terminologia giornalistica, quanto soprattutto
un preciso schema interpretativo del conflitto.
Dal punto di vista europeo e americano, il processo politico in corso nei Balcani negli anni ottanta
non poteva essere definito altrimenti che come disgregazione di uno stato in una serie di unità minori.
Uno degli stati fondatori dell'Onu aveva smesso di esistere e la sua disgregazione era un fatto
doloroso da accettare. All'inizio di questo processo, anzi, l'Onu investì molte più energie nel
tentativo di mantenere integra l'unità statale piuttosto che in quello di prevenire lo scoppio della
guerra. Di tutt'altro avviso erano invece i cittadini jugoslavi, che già nel 1989 avevano compreso
perfettamente che se non si fosse raggiunto un compromesso politico sulla divisione della
federazione in stati indipendenti, solo la guerra avrebbe potuto risolvere la situazione. Agli
osservatori esterni tale processo parve a lungo insensato e anacronistico, soprattutto considerando
che proprio in quello stesso periodo la politica europea stava sviluppandosi nel senso di una sempre
maggiore integrazione. Mentre a Bruxelles si discuteva di una comune valuta europea, nei Balcani
stavano preparando le matrici per l'emissione di nuove valute nazionali. Ma sulle carte geografiche
delle varie istituzioni che si occupavano della guerra in Jugoslavia, quest'ultima continuava a essere
rappresentata come uno stato unitario. Essendo dunque piuttosto diffusa la convinzione che Belgrado
fosse ancora il centro di uno stato che aveva difficoltà con alcune province ribelli, prevaleva la
tendenza a cercare di risolvere il conflitto per mezzo di un accordo con il centro, e non invece
rafforzando i rapporti con le province ribelli ovvero i nuovi stati.
Le decisioni prese in base a quest'erronea convinzione, risultarono spesso fatali. Nel 1992 chiesi
al generale MacKenzie, comandante in capo delle truppe Onu, in base a quale analisi politica proprio
Sarajevo era stata scelta come quartier generale delle forze di pace per la Croazia. Infatti, a chiunque
negli anni ottanta avesse seguito sia pur superficialmente gli sviluppi della situazione politica, non
poteva non essere chiaro che in Bosnia sarebbero sorti dei conflitti. Ma MacKenzie mi guardò
stupito.
«Rispondere a questa domanda è difficile» disse dopo avere riflettuto. «Credo che questa
decisione sia stata presa in conformità a un accordo tra il Consiglio di sicurezza e Vance. stato Vance
a proporre l'intervento delle forze di pace. Insomma, si tratta di una decisione maturata da qualche
parte in seno all'Onu.» Io allora m'informai se qualcuno avesse analizzato la situazione politica della
Bosnia Erzegovina.
«Non lo chieda a me» sbottò contrariato il generale. «Io sono un soldato. Penso però che non sia
stato un militare a decidere.» Gli domandai se lui personalmente avesse mai avuto tra le mani il
resoconto di una qualsivoglia analisi politica. «No» rispose.
Aggiunse anche che era stato inviato in una delle più rischiose operazioni di pace dell'Onu senza
nemmeno una carta politica del paese.
Fino al termine del proprio mandato MacKenzie si rifiutò di riconoscere alle varie «parti in
conflitto» lo status di forze politiche legittime, militarmente impegnate nella costituzione di nuovi
stati, ostinandosi invece a considerarle delle bande di gangster cui bisognava mandare contro un
compatto esercito federale per metterle in riga. Per questo egli non faceva differenza alcuna tra la
presidenza di Izetbegovic a Sarajevo e il governo di KaradŽic sulle montagne. Anche gli
innumerevoli comandanti militari e negoziatori politici che succedettero a MacKenzie la pensarono a
lungo come lui, mutando infine parere solo dopo il massacro di Srebrenica. Ma allora era già troppo
tardi, e di parecchi anni.
Ben diverso era invece il punto di vista dei popoli coinvolti nella guerra. Prima in Slovenia e in
Croazia, poi in Bosnia Erzegovina, più tardi in Macedonia e nel Kosovo, infine in Montenegro: per
questi popoli la guerra era scoppiata non a causa della disgregazione di un vecchio stato, ma per la
nascita di nuovi stati. Questi nuovi stati sorgevano sì entro i confini delle sei ex repubbliche
jugoslave, eppure andavano scoprendo che l'inizio della loro esistenza risaliva a un'epoca ben
antecedente alla nascita della Jugoslavia, che ognuno di essi aveva una storia e una cultura ben
differenziata rispetto a quella della Jugoslavia e che tali diverse storie e culture erano una base più
che sufficiente per la costituzione di altrettanti nuovi stati. Anche la Bosnia Erzegovina, che nel 1993
era stata completamente smembrata, mentre la sua gente era stata dispersa per tutti e cinque i
continenti, alla nostalgia per il passato tendeva ad anteporre l'interesse per la propria nuova identità.
Durante l'inverno di quello stesso anno incontrai il poeta Abdulah Sidran, autore, prima della
guerra, delle sceneggiature dei film di Emir Kusturica. In un appartamento freddo, privo di acqua
corrente e illuminato dalla fioca luce di una candela, gli chiesi cosa intendesse parlando di Bosnia.
«Bosnia è il nome storico di uno stato oggi chiamato Bosnia Erzegovina» rispose conciso,
disapprovando che dopo la Seconda guerra mondiale al nome della Bosnia fosse stato aggiunto anche
quello dell'Erzegovina, sua provincia. Poi, andando a ritroso nel tempo di un intero millennio,
soggiunse: «Qui esisteva uno stato già mille anni fa. Uno stato i cui confini hanno subito nel corso
della storia relativamente poche variazioni, al contrario di quanto è invece accaduto agli stati
limitrofi. Solo nel XV secolo la Bosnia, governata dalla dinastia dei Kotromanic, si espanse lungo
tutto il litorale adriatico, occupando le isole di Curzola (Korčula) e di Lesina (Hvar). Ma questo fu
un episodio piuttosto irrilevante.
Complessivamente possiamo dire che essa ha sempre mantenuto grosso modo i confini attuali.
L'unica differenza è che oggi si chiama Bosnia Erzegovina. Nei mesi della disgregazione della
Jugoslavia non abbiamo rivendicato nessun altro diritto che quello, concesso a tutti gli altri soggetti
della federazione, di ricominciare daccapo». Molti jugoslavi dovettero udire lo strepito dei carri
armati per rammentare che in fondo loro erano «un'altra cosa».
«Non so se ci crederete, ma personalmente ho scoperto l'esistenza del maggiore scrittore e
cronachista bosniaco, Mustafa BaseSki del XVII secolo, quando avevo ormai alle spalle la
pubblicazione di ben tre dei miei libri. Il che significa che paradossalmente ho scoperto i valori
fondamentali sottesi alla mia produzione letteraria da adulto, quando la mia formazione era già
compiuta. E non è tutto. Nel XVI secolo visse il filosofo Hasan PuSčak, equiparabile a Machiavelli:
neanche di lui fino a poco tempo fa si sapeva nulla. Ora per fortuna stiamo recuperando. E non
intendiamo rinunciare più a niente.» Infine Sidran aggiunse che i programmi scolastici della
Jugoslavia erano impostati in modo da sabotare l'identità bosniaca, occultando proprio quegli aspetti
della storia che avrebbero potuto rafforzarla.
Anche in Slovenia, Croazia e Macedonia erano frequenti dichiarazioni di tenore analogo. In quanto
alla Serbia, pur essendosi essa autoinvestita del ruolo di difensore della Jugoslavia e pur
pretendendo di esserne la legittima erede, era in realtà anch'essa uno stato nuovo, che con la
Jugoslavia di Tito nulla aveva da spartire se non metà del nome. Al suo interno gli albanesi, come già
nel 1981 e nel 1988, reclamavano una propria repubblica, al posto della quale nel 1999 fu loro
imposto un protettorato internazionale.
Dalla dissoluzione della federazione sono sorti dei nuovi stati nazionali, fermamente intenzionati
ad affrancarsi dal ricordo di ciò che evidentemente giudicano essere stata una dominazione o
addirittura una sorta di prigionia. Il nuovo approccio all'attualità ha generato interpretazioni nuove
del passato. Oggi, nelle varie aree dei Balcani sono in voga cinque o sei diverse letture storiche che
ben poco hanno a che fare con il comune passato storico delle due Jugoslavie. Sidran, in quanto
bosniaco, ha ribadito varie volte che la sua concezione dello stato nazionale è del tutto aliena da ogni
tentazione nazionalistica. «Come potremmo mai rinunciare allo scrittore ebreo di Sarajevo Isak
Samokovlija? Se coprissimo le copertine delle raccolte di novelle dello scrittore realista serbo
Svetozar čorovic, dell'inizio del Novecento, penseremmo senz'altro che siano opere di un autore
musulmano. Lo stesso vale per Samokovlija e tanti altri nostri scrittori sia del passato che
contemporanei. L'organismo bosniaco è inscindibile. Chi catalogasse gli scrittori bosniaci,
collocando ognuno di loro in un preciso ambito etnico, contribuirebbe alla distruzione dello stato
bosniaco non meno dei cannoni.» Tutte le repubbliche jugoslave hanno attraversato una fase di
profondi cambiamenti, spesso drastici e tragici, ma che comunque hanno portato alla nascita di nuovi
stati. Solo la Serbia sembrò rimanere inalterata per un intero decennio. Nella primavera del 1994 a
Belgrado ebbi l'occasione d'incontrare lo sceneggiatore cinematografico Branko Vučičevic, al quale
domandai come mai in città nessuno protestasse contro la guerra. In città infatti l'acme della protesta
pareva essere rappresentato da un gruppo di cinquecento donne le quali, candele accese in pugno, si
riunivano nella piazza principale; nel circolo studentesco, invece, un manipolo d'intellettuali cittadini
disquisiva con Adam Michnik sul senso della vita. La situazione era assurda. Venivo da una Sarajevo
semidistrutta dai cannoneggiamenti ormai quotidiani; sul fiume Neretva, che scorre sul confine tra la
Bosnia e la Serbia, galleggiavano cadaveri, le città e i paesi della Bosnia orientale e occidentale
erano in preda alle fiamme; eppure Belgrado continuava a essere una città immersa in una piacevole
indolenza, lontana dagli orrori della guerra. D'altronde, Vučičevic era dotato di un solido senso
dell'assurdo. Egli era stato il principale promotore dell'onda nera della cinematografia jugoslava
degli anni sessanta, il cinico ispiratore dei progetti surrealistici del regista DuSan Makavejev,
l'autore delle sceneggiature dei film La zattera della medusa e Il paradiso artificiale, che negli anni
settanta avevano preannunciato il prossimo avvento di tempi assai balordi. Mi chiese cosa mai
suscitasse tanta meraviglia in me. Gli risposi che ricordavo come nel 1989 mi fossi trovato a cento
metri dal caffè nel quale stavamo chiacchierando in quel momento. Le strade erano straripanti di una
folla di un milione di persone che reclamava l'integrazione della Bosnia, delle enclave serbe in
territorio croato e del Kosovo in uno stato serbo unitario e con a capo un unico leader politico. E le
migliaia di manifesti recanti l'effigie di MiloSevic non lasciavano alcun dubbio su chi dovesse essere
questo leader. Il movimento politico di massa creato da MiloSevic si era propagato in tutta la Serbia
e nelle sue regioni, trasformando le manifestazioni di piazza in una guerra che aveva travolto l'intera
Jugoslavia. Da allora erano passati quattro anni, eppure a Belgrado non riuscivo a trovare neanche un
solo individuo che si sentisse almeno in parte coinvolto nella carneficina che era in atto in Bosnia.
«Lei sta facendo il mio stesso errore» disse lo sceneggiatore. «Ero persuaso che MiloSevic fosse
solo un manipolatore impegnato in una specie di sceneggiata politica, mentre in realtà erano in gioco
dei sentimenti autentici. desolante doverlo ammettere, ma è così. Certo, i meeting organizzati da
MiloSevic erano teatro, ma erano un teatro basato su sentimenti schietti e sinceri. E' un fenomeno
analogo a quello verificatosi nella Germania nazista. Sono d'accordo con il mio amico DuSan
Makavejev: si tratta di un movimento dotato di straordinario vigore e di un'enorme carica emotiva.
L'obiettivo non era buono, ma i sentimenti erano genuini.» Sorseggiando la seconda tazzina di un forte
caffè turco sulla terrazza dell'hotel Moskva, il mio interlocutore si lasciò andare a qualche previsione
sul futuro. A Belgrado il buon andamento della guerra aveva suscitato un'atmosfera trionfalistica.
Perché le cose in Serbia cambiassero, sarebbe stato necessario attendere che MiloSevic iniziasse a
perdere sia in Bosnia che in Croazia. Per il momento invece un buon terzo della Croazia era
occupato, in più di metà Bosnia sventolava la bandiera serba, mentre nel Kosovo il regime di totale
repressione poliziesca e militare fungeva da eccellente deterrente nei confronti di ogni velleità di
rivolta da parte degli albanesi. «Anche la Germania nazista crollò non già per volontà del popolo
tedesco, bensì in virtù della dinamica del conflitto. Le immagini della rivoluzione francese e di
quella sovietica che conosciamo sono dei falsi storici. La folla che corre all'attacco per deporre il re,
l'assalto alla Bastiglia e quello al Palazzo d'inverno. Falsi storici, nient'altro. Se uno si prende la
briga di dare una sbirciata un po' meno superficiale ai documenti, ne scopre delle belle: e cioè che la
Bastiglia era praticamente vuota e che di assalti al Palazzo d'inverno non ce n'è stata neanche
l'ombra.
L'assalto al Palazzo d'inverno se l'è inventato di sana pianta EjzenStejn, e a ragione, perché infatti
nel suo film fa un vero figurone. Le rivoluzioni non si fanno così. Anche a me piacerebbe che la falce
e la zappa insorgessero contro la tirannia, ma non credo che qualcosa del genere possa accadere
davvero.» A Sarajevo e a Zagabria intanto sembrava che una svolta sarebbe stata possibile solo se a
Belgrado fosse salita al potere qualche altra forza politica. Purtroppo però le possibili alternative a
MiloSevic non davano certo adito a grandi speranze. Vojislav SeSelj e le sue milizie avevano preso
parte attiva ai massacri perpetrati in Bosnia, Vuk DraSkovic invece era alleato di MiloSevic.
Entrambi erano ipernazionalisti che a MiloSevic rimproveravano più i metodi usati che il programma
politico in sé. In quanto all'opposizione democratica indipendente, essa era costituita da una specie
di club di intellettuali isolati cui nessuno dava davvero credito politico. I serbi, insoddisfatti della
politica di regime, avevano espresso il loro voto contro MiloSevic andandosene: alcuni negli Usa,
altri invece in Canada, in Europa occidentale o in Australia.
«La gente comunque ha la corretta impressione che in campo militare la Serbia stia mietendo
notevoli successi. Da un recente sondaggio risulta che quasi il settanta per cento dei serbi è contrario
all'avvio di trattative di pace.» Nonostante la guerra durasse già da tre anni, il programma di
MiloSevic continuava dunque a godere di un vasto consenso popolare.
Mi diressi verso uno stabile situato dietro al parlamento. Si trattava di un condominio in cui ai
tempi di Tito avevano abitato parecchi funzionari di partito. Trovai Milovan Djilas nell'immenso
appartamento che gli era stato assegnato negli anni cinquanta, quando era presidente del Parlamento
di Tito. Il vecchio comunista nonché primo dissidente jugoslavo mi aprì la porta di persona.
«Le offrirei un caffè, ma la padrona di casa non c'è. a messa. Sa, è Pasqua.» Era così vecchio che
il massiccio mobilio degli anni trenta con cui era arredato il suo studio, produceva quasi
un'impressione di eccessiva modernità. Avanzava a passi lenti per i lunghi corridoi strapieni di libri;
era anziano già nel 1953, all'epoca dei suoi dissapori con Tito. Ora era un vecchietto in ciabatte, ma
vispo e lucido, benché ricorresse nientemeno che il quarantesimo anniversario della pubblicazione,
sul quotidiano Borba, degli articoli che gli erano costati la carriera e qualche anno di carcere. Era
stato dissidente ai tempi in cui la Jugoslavia era un giovane paese comunista. Ora, alla fine del
millennio, lui continuava a essere dissidente, ma il suo paese invece com'era mutato?
«Ero dissidente e continuo a esserlo. Ma da quando al potere c'è MiloSevic, posso scrivere e
pubblicare senza che nessuno m'infastidisca. Anche se il mio giudizio su questo regime è uguale a
quello sul regime precedente.» «Si può dire che MiloSevic sia fascista?» «No. Credo che MiloSevic
sia il politico più abile di tutta la Serbia.» «Bolscevico?» «No. Neanche bolscevico.» E allora cosa?
La gente con cui parlavo per strada insultava MiloSevic ricorrendo al linguaggio crudo e colorito dei
Balcani, eppure pareva che nonostante le sanzioni economiche, l'isolamento del paese e le
devastazioni prodotte dalla guerra, egli continuasse a essere l'incontrastato padrone del paese e
l'unico leader del popolo serbo. Nessun altro aveva neanche la metà della sua influenza o almeno una
pallida idea delle tecniche di governo. Lessi a Djilas qualcuno degli insulti più miti che avevo
sentito per strada. La pelle del suo vetusto viso si corrugò in un sorriso enigmatico, come a dire che
tutto ciò era vero e nel contempo falso.
Secondo lui avevo parlato con la gente sbagliata, con un'irrilevante minoranza. E si sa quale peso
abbiano le minoranze in Serbia, anche quando non sono irrilevanti.
«MiloSevic puoi insultarlo quanto vuoi, tanto lui se ne infischia. il più forte ed è sostenuto dalla
maggioranza del popolo. Puoi accusarlo di essere nazionalista, ma in realtà non lo è. A essere
nazionalista è la sua politica, lui invece si limita a usare il nazionalismo come strumento di governo.»
Poi si sedette di fronte allo scaffale su cui erano riposte le traduzioni in inglese delle sue opere su
Stalin, Tito e la Seconda guerra mondiale. Gli feci notare che aveva visto da vicino un fascismo e
sarebbe morto in un secondo fascismo, ma lui sembrò non essere affatto d'accordo con me. Era vero,
ammise, che nel popolo serbo era attiva una forte, e anzi eccessiva tendenza allo sciovinismo
estremo. «Se però parliamo di fascismo, è necessario fare delle distinzioni» aggiunse agitando
l'indice come a voler ribadire la propria inesauribile vitalità. Non è possibile, infatti,
un'equiparazione meccanica tra lo sciovinismo radicale serbo e la tradizione del fascismo europeo. Il
fascismo europeo è un'ideologia omogenea, un'organizzazione regolamentata, un chiaro programma
politico e sociale. Tutto ciò in Serbia è assente.
«No. Quello che ora vige in Serbia non è fascismo, bensì la tipica forma balcanica di dittatura
autocratica.» La cosa più singolare di questa singolare città era proprio questa.
Non era affatto improbabile incontrare gente che lamentasse a gran voce, in luoghi pubblici e con
qualche noncurante poliziotto a due passi, di essere governata da una dittatura fascista. I quotidiani
solevano protestare liberamente contro la mancanza di libertà di stampa, e perfino i più livorosi
detrattori del regime menavano vanto del fatto che la Serbia fosse l'ultimo paese nei Balcani in cui si
potesse impunemente dire qualsiasi cosa. L'unico problema era che comunque le parole parevano del
tutto svuotate di significato. In qualsiasi democrazia del mondo, il profluvio di ingiurie che ogni
giorno Radio B92 riversava sul dittatore, sarebbe costato al direttore un milione di dollari di
risarcimento. Il caporedattore Veran Matic invece riuniva i più feroci motti e facezie in una serie di
telegrammi che poi si premurava di inviare al presidente il giorno del suo compleanno. Non meno
stupefacente il caso della moglie del politico Vuk DraSkovic che il venerdì santo era apparsa sugli
schermi del canale televisivo Politika e aveva affermato che KaradŽic era uno psicopatico e che i
serbi in Bosnia avevano agito in modo molto più brutale dei turchi in Serbia. E via di questo passo.
Gli esempi che avrei potuto citare erano innumerevoli, ma a un certo punto il vecchio dissidente
m'interruppe. Egli confermò che era tutto vero: in Serbia si godeva di una grande libertà, e non solo
intellettuale, ma di ogni genere. D'altronde, perché mai non avrebbe dovuto essere così, se in fondo
nessuno minacciava il regime in ciò che davvero ne costituiva il fondamento? «Nelle file
dell'opposizione militano alcuni uomini di grande levatura intellettuale e di encomiabile rigore
morale, manca però un leader politico forte e dotato di chiarezza d'idee. Anzi, la mancanza di
chiarezza, e anche di accortezza, è riscontrabile soprattutto nelle questioni fondamentali. La forza di
MiloSevic deriva dalla questione della guerra e dall'idea dell'unificazione di tutto il popolo serbo in
un unico stato. Ed è proprio riguardo a ciò che l'opposizione tergiversa, dimostrandosi incapace di
dire chiaro e tondo: "Questo è irrealistico, siamo contrari a quest'idea perché essa significa guerra".
La verità è che l'opposizione condivide l'idea della Grande Serbia, e disapprova soltanto i metodi
usati da MiloSevic. Non capisce che è stata proprio quest'idea a generare la guerra. Che non si tratta
di una questione di metodo, ma di idee.» Domandai se sarebbe stata possibile, a suo avviso, la
nascita di un movimento politico capace di scalzare il regime, modificare le regole del gioco, far
cessare la guerra. In fondo la Jugoslavia di MiloSevic era ancora tra i pochi paesi al mondo che, pur
essendo divisi in regime e opposizione, erano fieri di permettere ai dissidenti di passeggiare
tranquillamente per strada. «Lo escludo. Qui non può nascere nulla del genere.» Lo stato jugoslavo
era dunque conforme alla volontà dei propri cittadini. E tale è rimasto fino alle elezioni presidenziali
del settembre 2000, quando Vojislav KoStunica ha inaspettatamente sconfitto MiloSevic. indubitabile
che l'esito di quelle elezioni abbia rappresentato l'inizio della fine di questa storia.
Traduzione di Daria Betocchi
Appendice
Il sogno e l'incubo.
Breve storia della Jugoslavia (di Marco Cuzzi)

Ricostruire per sommi capi la storia della Jugoslavia significa evocare un'evanescente figura
fantasmagorica, quasi uno spettro di un passato lontanissimo: la «Jugoslavia» oggi è tornata a essere
ciò che era stata per tanto tempo, e cioè una mera espressione geografica indicante quell'insieme di
nazioni che compongono la regione occidentale della penisola balcanica, delimitata a nord dalla
catena delle Caravanche, a sud dalla valle macedone del Vardar e da quella albanese del Drjn, a
ovest dall'Adriatico e a est dalla sponda sinistra del Danubio. Già la citazione dei quattro vertici del
quadrilatero jugoslavo permette di comprenderne la complessità: le massicce e incombenti Alpi
slovene, continuazione della catena carnica e anticipanti gli alti massicci austriaci; l'Adriatico, il
mare di Bisanzio, di Venezia e degli Asburgo, che, insieme alle sue coste istro-dalmate è stato
condiviso e conteso per anni con l'Italia; i fertili distretti transdanubiani intrisi di cultura magiara; i
pascoli e i boschi della Macedonia, un unico nome per indicare due regioni, la slava e la greca,
strappate dopo sanguinose battaglie al secolare controllo ottomano. Per non parlare del confine con
l'Albania, sul quale vigilano, silenti guardie di frontiera naturali, le vette dello Stogovo e del
Rudoka, che pare vogliano confermare in eterno l'appartenenza del Kosovo alla storia e alla cultura
slava del Sud. Austria, Italia, Grecia, Ungheria, Albania e, almeno come ricordo indelebile, la
Turchia ottomana: la Jugoslavia è un riluttante ospite che accoglie a casa propria, obtorto collo, tutti
questi convitati. E la storia di questa mera espressione geografica, questo onirico sogno di grandi
menti e questo prosaico calcolo politico delle menti dei grandi, è anche la storia dei suoi famelici
vicini, sin dall'antichità.

Le origini dei popoli e delle nazioni jugoslave Il popolamento della regione jugoslava risale a
epoche assai remote, e le notizie a noi giunte circa la cultura e le usanze dei proto jugoslavi sono
molto frammentarie: essendo rimaste isolate rispetto alle grandi civiltà mediterranee pre-elleniche, le
prime popolazioni jugoslave organizzate non hanno lasciato per esempio attraverso fonti egizie,
fenicie o assiro-babilonesi alcun ricordo della loro esistenza. Sappiamo che intorno al terzo
millennio avanti Cristo giunsero nella regione due popolazioni d'origine indoeuropea: gli illiri, che si
collocarono all'incirca nell'attuale Croazia e i traci, che si spinsero più a sud, tra Macedonia,
Bulgaria e Grecia.
Nonostante i successivi avvicendamenti tra le popolazioni, questa spartizione dei territori
balcanico-adriatici tra «Illiria» e «Tracia» avrebbe determinato e delineato i futuri scenari della
regione.
Le popolazioni proto jugoslave iniziarono a instaurare rapporti con la vicina civiltà ellenica
intorno al primo millennio avanti Cristo: sono stati gli storici greci a narrare per primi di quei popoli
settentrionali, e in modo particolare dei traci, i quali, dopo il IV secolo avanti Cristo, si erano
mescolati con tribù celtiche provenienti dall'Oriente. Il timore della presenza di un minaccioso
vicino sui confini settentrionali spinse i greci a estendere la loro influenza politica e militare oltre
l'Epiro, sottomettendo la Tracia.
Roma, subentrata alla Grecia, avrebbe ereditato dalla potenza ellenica quei territori, costituendo la
prima vera colonia romana nella futura Jugoslavia: la Macedonia. La grande epopea latina della terra
degli slavi del Sud coincise con il massimo sviluppo dell'impero, sotto Augusto e Tiberio, i quali
sottomisero tutti i territori jugoslavi, creando le province di Pannonia (una parte di Slovenia e una
parte di Ungheria) e di Dalmazia (comprendente sia il litorale adriatico che la Croazia storica). Sotto
la dinastia dei Flavi a queste province si aggiunsero la Mesia superiore (Serbia storica) e la Mesia
inferiore (Bulgaria): il Danubio era quindi diventato il limes settentrionale dell'impero.
Tuttavia, la civiltà latina non riuscì mai a dominare illiri e traci e dal punto di vista territoriale il
controllo di Roma si arrestò sostanzialmente ai porti affacciati sull'Adriatico: l'entroterra, quella
steppa dagli inverni gelidi popolata da barbari più o meno sconosciuti e che separava l'Adriatico dal
limes danubiano, era di fatto fuori dalla giurisdizione romana. La debolezza del confine sudorientale
dell'impero fu una delle cause che spinse in quelle terre le prime grandi migrazioni gotiche del II
secolo dopo Cristo (visigoti in Illiria, ostrogoti in Pannonia). Ai goti seguirono nel IV secolo gli unni
e quindi, intorno al 400 dopo Cristo i longobardi, che si stanziarono in Pannonia. Dal V secolo iniziò
la seconda ondata di invasioni, che culminò con la caduta dell'impero romano d'Occidente. Sulla
media valle del Danubio giunsero gli àvari, popolo imparentato con gli unni che sostituì i longobardi,
ormai interessati all'Italia. La dominazione àvara ebbe una notevole importanza sullo sviluppo delle
popolazioni della futura Jugoslavia, cancellò definitivamente gli ultimi residui illiri e traci, e ridusse
le tracce lasciate dalle precedenti migrazioni barbariche dando all'intera regione una certa
omogeneità etnico-culturale. Il rafforzamento della civiltà àvara nelle regioni danubiano-adriatiche
irritò Bisanzio e le ripetute velleità espansioniste della popolazione barbarica verso sud portarono al
confronto militare diretto tra àvari e bizantini. La sconfitta dei primi presso Costantinopoli nel 626
segnò la fine della «fase àvara» e il declino dell'influenza di quella popolazione sulla storia dei
territori danubiano-adriatici. Il vuoto prodottosi dall'indebolimento della potenza àvara spinse verso
occidente un'altra popolazione, originaria dei territori tra la Vistola e il Don: gli slavi.
Distinti in numerose tribù, gli slavi si potevano raggruppare in settentrionali (polacchi, cechi,
slovacchi, sloveni) e meridionali (serbi, croati, e seppur con molte eccezioni, bulgari). Distribuitisi
verso la fine del VII secolo in tutto l'Est europeo, gli slavi meridionali estesero la loro influenza
anche su Dalmazia (dove giunsero i croati) e Mesia (che vide l'arrivo dei serbi), schiacciando gli
ultimi residui àvari verso la Pannonia, dove già da un secolo si trovavano insediamenti di slavi
settentrionali (sloveni). Nel 623 gli sloveni, dopo una sanguinosa lotta contro gli ultimi àvari,
proclamarono il Regno di Carantania, prima entità statale della regione raggruppante alcuni distretti
attorno a Klagenfurt. Le ultime sacche àvare furono definitivamente annientate dalle milizie franco-
carolinge provenienti da nord e da ovest, le quali si stanziarono nell'attuale regione slovena,
cancellando l'effimero regno alpino. I successivi tentativi della nobiltà slovena di strappare ai
franchi l'indipendenza furono repressi duramente dalle nuove autorità, fino all'eliminazione pressoché
totale dell'aristocrazia slovena e la distribuzione della di lei terra ai vassalli dei carolingi (bavaresi,
friulani, istriani e croati).
Mentre il destino dei territori settentrionali era ormai inscindibilmente legato al nascente Sacro
romano impero, nel Centro e nel Sud della regione le popolazioni slave radicarono il loro dominio
annullando di fatto tutte le precedenti influenze etniche e culturali. In particolare, la regione della
Mesia godette di un particolare sviluppo a causa dell'arrivo nell'VIII secolo del popolo bulgaro, il
quale si mescolò con alcuni insediamenti slavi dando origine a uno stato autonomo composto oltre
che dalla Mesia, da una parte meridionale della provincia dalmata, da alcuni territori a est del
Danubio e da distretti sino ad allora controllati da Bisanzio. Le tribù serbe che non accettarono la
dominazione bulgara si rivolsero all'impero d'Oriente, ottenendo la tutela di Costantinopoli contro
l'espansionismo del pericoloso vicino. Nuovamente si assistette nella regione a una divisione
radicale, con un Nord sotto una dominazione carolingia e un Sud sotto un indiretto controllo
bizantino: i due imperi, quello «sacro e romano» e quello «romano e orientale» ebbero nella penisola
adriatico-balcanica un luogo dove confrontarsi. I croati, stanziati nella media valle del Danubio e in
Dalmazia, si ritrovarono quindi schiacciati tra le due «potenze regionali» ante litteram: anche dal
punto di vista culturale essi rischiavano di essere assimilati o dagli sloveni, che esercitavano
influenze a nord e nel centro del territorio croato, o dai serbi, la cui presenza si notava soprattutto a
sud e sulla costa. Fu soprattutto il timore di perdere le proprie specificità etniche e culturali, invero
ancora vaghe, a spingere i croati a ottenere con il consenso di entrambi gli imperi una sorta di
indipendenza: nel 925 re Tomislav venne proclamato primo sovrano del Regno di Croazia.
Il sistema bipolare dei due imperi nei Balcani adriatici ebbe un suo importante corollario nella
cristianizzazione delle popolazioni slave, condotta tra il IX e il X secolo. Roma e Bisanzio inviarono
monaci e missioni religiose in ogni villaggio, convinte della propedeuticità della penetrazione
religiosa all'espansione politica e territoriale. La «bipolarizzazione» della regione venne così
rafforzata. L'arcivescovado di Salisburgo e il patriarcato di Aquileia cristianizzarono sloveni e
croati, mentre Costantinopoli operò grazie ai due fratelli monaci Cirillo e Metodio sia sullo stato
slavo-bulgaro che sui territori serbi inglobati nella comunità imperiale bizantina. Tuttavia, nonostante
l'evangelizzazione, i rapporti tra Bisanzio e lo stato slavo-bulgaro non migliorarono e anzi subirono
un peggioramento con la proclamazione dell'impero bulgaro e soprattutto con l'ascesa al trono dello
zar Simeone (IX secolo). Ciò che inizialmente era apparsa come una presenza forse fastidiosa, ma
senz'altro innocua, di una piccola tribù slava, si stava rivelando agli occhi di Bisanzio come un
temibile concorrente.
L'imperatore Basilio II decise dunque di intervenire militarmente operando una brutale reconquista
dei territori balcanici a spese dei bulgari. I bizantini assoggettarono quindi gran parte dell'ex impero
bulgaro e i principati serbi. Soltanto la Macedonia venne lasciata formalmente indipendente, e tale
indipendenza perdurò fino al XII secolo, quando la regione venne rioccupata dai bulgari. Ma la breve
stagione dell'indipendenza macedone avrebbe dato origine a una vertenza storica che si è protratta
sino ai nostri giorni circa la natura di quell'entità statale: si trattava di uno stato bulgaro occidentale,
come si sostiene a Sofia, oppure di uno stato slavo-macedone distinto, come dichiarato a Belgrado?
In ogni caso, la temporanea uscita di scena della potenza bulgara e la ricomparsa di Bisanzio aveva
concluso definitivamente la lunga e confusa stagione delle invasioni e migrazioni barbariche.
Al volgere del millennio la situazione etnica e culturale nella regione si era dunque stabilizzata e
giunse al suo perfezionamento con l'arrivo degli ultimi flussi migratori provenienti da est: gli ungari,
che si collocarono a oriente del piccolo regno croato, e i nomadi valacchi, i futuri romeni, che si
stanziarono nei Balcani meridionali e in alcuni territori serbi. Tuttavia la stabilizzazione politica era
ancora lontana, in modo particolare in Croazia. Se la presenza degli ungari appariva minacciosa, al
punto da spingere i croati a compiere una serie di campagne militari preventive contro il temibile
vicino, altrettanto preoccupante appariva la stabilità istituzionale del piccolo regno. Il successore di
Tomislav, re DrŽilav, regnava ormai su un regno chiamato «di Croazia e Dalmazia» ingrandito a
spese degli ungari. Tuttavia alla di lui morte, nel 995, i suoi eredi scatenarono una lotta di
successione che attirò i famelici interessi della giovane e aggressiva Repubblica veneziana, che da
allora iniziò un lento, ma inesorabile, lavorìo di penetrazione nella costa dalmata e istriana. La
stabilità istituzionale fu faticosamente raggiunta con re Zvonimir, il quale riuscì ad allearsi con gli
ungari, o ungheresi, per contrastare sull'Adriatico la Serenissima. Sotto il suo regno i confini croati si
espansero fino alla Dalmazia settentrionale, strappata al margraviato di Carinzia e Istria (1075). Alla
morte di Zvonimir, figura leggendaria ancor oggi celebrata come il fondatore della Croazia, si ebbe
un breve periodo di torbidi dei quali nuovamente approfittarono Venezia nella sua lenta erosione del
litorale adriatico e un'Ungheria desiderosa di rivincita. Il sovrano magiaro Ladislao, difatti, invase
nel 1091 la Slavonia e parte della Croazia storica. Dinanzi alla crescente anarchia, alla temibile
penetrazione politico-commerciale veneziana e persino a una infiltrazione bizantina nella Dalmazia
meridionale, i nobili croati videro nell'Ungheria il male minore e pertanto decisero di affidare la
«Corona di Zvonimir» al re d'Ungheria. Il regno di Croazia, Slavonia e Dalmazia sarebbe rimasto
legato all'Ungheria fino al 1918.
Quasi contestualmente alla perdita dell'indipendenza croata si ebbe l'affrancamento della Serbia
dal controllo bizantino e la nascita del primo stato serbo indipendente. I quattro principati patriarcati
in cui sino ad allora si erano articolati i territori della vecchia provincia della Mesia superiore si
erano riclassificati intorno a due entità: il governatorato di Zeta, l'attuale Montenegro, e quello di
Raka, l'attuale Serbia storica. Nel 1159 il «gran supano» (all'incirca un governatore godente di ampi
e quasi regali privilegi) di Raka, Stefano Nemanja, unificò i due territori e nel 1190 ottenne
l'indipendenza da Bisanzio. Negli anni successivi i due figli di Nemanja, Stevan e Sava, governarono
il principato rispettivamente dal punto di vista politico e religioso: mentre il primo allargò i confini
di Raka e Zeta con l'accorpamento di Kosovo, Metohija e di una parte della Macedonia, il secondo
ottenne dal patriarca di Nicea l'autorizzazione a fondare una chiesa serba autocefala, della quale fu
proclamato nel 1219 primo metropolita. Forte di tale carica, nello stesso anno Sava incoronò il
fratello sovrano di Serbia. Stevan I
Prvovenčani («primo incoronato») e san Sava furono quindi i fondatori di quella civiltà serbo-
ortodossa che avrebbe lungamente gravitato in una sorta di perenne compenetrazione tra politica e
religione sulla capitale laica, Belgrado, e su quella religiosa, stabilita da san Sava nel villaggio di
Pec, in Kosovo, regione che da allora avrebbe assunto nella cosmogonia serba il ruolo di
«Gerusalemme» ortodossa. Negli anni seguenti il regno serbo si ampliò sia dal punto di vista
territoriale che politico: Stevan si avvicinò a Venezia, anche attraverso un matrimonio con una
Dandolo, concludendo con la Serenissima patti di collaborazione commerciale a discapito della
Dalmazia croato-ungherese.
Infatti, in seguito alla rapida ma funesta calata dell'Orda d'oro di Gengis Kahn del 1241, la Croazia
si era notevolmente indebolita e di questo aveva approfittato nuovamente Venezia, aggiungendo al
possedimento di Veglia (Krk), i fondaci di Zara (Zadar), Sebenico (Sibenik), Traù (Trogir), Spalato
(Split) e Aenona (Nin), mentre la Serbia aveva iniziato una penetrazione commerciale nel Sud
dell'Adriatico. La situazione non mutò fino al XIV secolo, quando l'ungherese Ludovico I riuscì a
strappare alla Serenissima l'intera Dalmazia. Mentre le truppe magiaro-croate procedevano
all'occupazione delle basi veneziane, nell'entroterra bosniaco un vassallo di Buda, il principe Tvrtko,
si proclamò re di Croazia, Dalmazia e Bosnia (1390), dando origine a un effimero staterello che
sarebbe stato ricordato nei secoli successivi e fino a tutto il Novecento come una discutibile
prefigurazione della Jugoslavia. Dovendo scegliere tra il controllo dalmata e quello dell'intero
entroterra croato, i sovrani ungheresi optarono per quest'ultimo e, abbandonato nuovamente il litorale
a Venezia, scatenarono sul piccolo regno bosniaco un'offensiva che ebbe quasi le caratteristiche, sia
per intensità sia per ferocia, di una crociata.
Agli inizi del XV secolo, mentre la Bosnia e la Croazia interna erano di nuovo sotto il fermo
controllo di Buda, la Repubblica di San Marco occupava, oltre a tutta la Dalmazia da Arbe (Rab) a
Ragusa (Dubrovnik), anche l'intera costa istriana in condominio con gli Asburgo, di stanza a Pisino
(Pazin) e nell'entroterra sloveno. La casa d'Austria difatti aveva operato sui principati eredi
dell'antica Carantania (Carniola, Carinzia, Storia, Gorizia, Trieste e Istria) con un modus operandi
non dissimile da quello della Serenissima sulla costa: penetrazione commerciale, astuto utilizzo a
proprio vantaggio di torbidi dinastici e politici e quindi inserimento dei territori nella propria orbita.
Nel 1456, con la morte in combattimento dell'ultimo conte di Celje, sarebbe scomparsa anche
l'ultima speranza di una Slovenia indipendente e l'intera regione alpina si trasformò in un
governatorato asburgico.

L'età moderna prodromo della Jugoslavia contemporanea.


La SERBIA
Tra il XIV e il XV secolo il regno serbo conobbe un'epoca di notevole sviluppo culturale-religioso
e politico. Mentre la chiesa autocefala radicava la sua presenza nel Kosovo e in Metohija con la
fondazione di splendidi monasteri e chiese, i successori di re Stevan ampliarono ulteriormente le
dimensioni della nazione. Lo sviluppo serbo giunse all'apice con re DuSan il quale nel 1346, dopo
avere occupato parte della Macedonia, si proclamò «zar dei serbi e dei greci» e fondò un impero
serbo con velleità espansioniste verso la decrepita Bisanzio. L'improvvisa morte di DuSan tuttavia
segnò la fine dei sogni di grandezza serbi e l'inizio di una decadenza che condusse la piccola nazione
slava alla catastrofe.
La pressione ottomana infatti stava raggiungendo livelli insopportabili e, dopo l'ascesa al trono del
sultano Murad, incontenibili. Il confronto tra slavi meridionali e ottomani durò circa vent'anni, con
scontri limitati ma sempre rovinosi per i primi e si risolse con l'epica battaglia del Kosovo Polje o
«Piana dei Merli» del 28 giugno 1389. Gli eserciti serbobosniaci del principe serbo Lazar e
dell'effimero sovrano bosniaco Tvrtko si scontrarono con le truppe del sultano subendo una
sanguinosa e definitiva sconfitta. Da quella data significativamente citata e celebrata ancora oggi,
iniziò al contempo la schiavitù e la riscossa della Serbia. La dominazione ottomana si può
suddividere in cinque periodi.
Anzitutto il «secolo d'oro», compreso tra la battaglia di Kosovo Polje e la sconfitta turca di
Lepanto del 1571, caratterizzato da una rapida estensione del controllo della Sublime Porta sul
principato di Zeta, cioè il Montenegro (che comunque non riuscì mai a essere completamente
soggiogato), e sulla Bosnia. Durante questo periodo le autorità ottomane mantennero un atteggiamento
sostanzialmente tollerante con le popolazioni a esse sottomesse, utilizzando per le gestioni
amministrative sui territori conquistati elementi locali di lingua slava e religione maomettana: tra
costoro vale la pena ricordare i musulmani di Bosnia, già appartenenti a una chiesa cristiana eretica
d'ispirazione manichea (i bogomili) e convertitisi all'islam all'arrivo delle truppe della Sublime
Porta.
La seconda fase del dominio ottomano fu caratterizzata invece da una gestione violenta e feudale
da parte delle caste politico-religiose turche e slavo-musulmane (gli uléma e i giannizzeri) che da un
lato scatenò le prime ribellioni dei contadini serbi, un fenomeno a metà tra la guerriglia e il
brigantaggio (le hajdučije), e che dall'altro spinse altri a migrare in particolare verso nord, oltre il
confine asburgico. Giunti nei distretti meridionali della Croazia, questi emigranti serbi vennero
accolti favorevolmente dalle autorità imperiali le quali concessero a essi numerose terre comprese
tra la Dalmazia e la Slavonia e a ridosso della frontiera con la Bosnia ottomana (la Krajina, o
frontiera). In questo modo i contadini serbi si sarebbero trasformati in graničari, cioè in guardie di
frontiera rurali che avrebbero difeso con la vita le loro proprietà e di conseguenza i confini
dell'impero asburgico. Si tenga presente che i discendenti di quelle genti avrebbero costituito la
principale componente della tormentata minoranza etnica serbo-ortodossa nella Croazia moderna.
Intorno alla metà del XVII secolo si ebbe una effimera stagione di rilancio del dominio turco sui
Balcani meridionali, soprattutto a opera di una casta di vizir di origine albanese. Il tentativo di
estendere il controllo territoriale ottomano sino alla capitale dell'impero d'Austria tuttavia fallì e con
la sconfitta di Vienna del 1683 iniziò la lunga fase di confronto tra l'impero turco e quello asburgico,
con i popoli serbi, montenegrini e bosniaco-ortodossi schierati con quest'ultimo. A causa delle
continue rappresaglie condotte dai vizir ottomani dopo ogni riconquista dei territori, si ebbe
dall'inizio del XVIII secolo il fenomeno delle migrazioni di massa degli slavi dalle terre di
Montenegro, Serbia occidentale e Kosovo verso le regioni serbe orientali (Belgrado) e
transdanubiane (Vojvodina). Lo spopolamento serbo del Kosovo spinse colà numerosi albanesi di
religione musulmana che inaugurarono la stagione, non ancora conclusa, del duro confronto con le
locali popolazioni serbe rimaste. Al termine del lungo conflitto politico o militare tra Austria e
Turchia, gli uléma della Serbia ottomana lanciarono una poderosa e feroce offensiva verso la regione
orientale, occupando Belgrado e scatenando violente rappresaglie sulla popolazione serbo-
ortodossa.
Gli slavi del Sud erano ormai animati da un sempre più radicato odio verso i dominatori e
soprattutto verso quelle genti che, come i discendenti dei bogomili bosniaci o come gli albanesi del
Kosovo, ne avevano sposato la religione e talvolta ne sostenevano le rappresaglie. Delusi
dall'Austria, che nelle trattative con la Turchia aveva sempre scambiato la libertà degli slavi del Sud
con altri tornaconti, i serbi e i montenegrini si rivolsero allo zar di Russia, considerato al contempo
erede dell'impero di Bisanzio e difensore della fede cristiano-ortodossa. Il sostegno di San
Pietroburgo e la violenta repressione ottomana fecero rapidamente precipitare la situazione. Dagli
inizi del XIX secolo il fenomeno dei gruppi di predoni che aveva caratterizzato il XVI e XVII secolo
si trasformò in movimento insurrezionale organizzato in bande o compagnie (čete) di contadini
guerriglieri (i četnici). Iniziò quindi l'ultima, e forse la più violenta fase della dominazione ottomana,
quella della lunga guerra di liberazione della Serbia e del Montenegro dal giogo della Sublime Porta.
La guerriglia, fidandosi poco degli antichi patriziati serbi ormai compromessi con l'occupatore turco,
scelse quali leader capipopolo di origini umili o umilissime, tra i quali spiccavano i nomi rivali
dell'estremista Karadjordje («Giorgio il Nero») Petrovic e del più prudente MiloS Obrenovic.
L'intervento russo aiutò gli insorti a strappare alla Turchia ampie autonomie politiche, ma il
mantenimento delle guarnigioni ottomane nelle principali piazzeforti del paese spinse Karadjordje a
rifiutare l'accordo. Ne conseguì una violenta repressione da parte della Sublime Porta sino al 1815,
quando la leadership del movimento insurrezionale venne raccolta da MiloS Obrenovic. Aiutato
dalla definitiva sconfitta di Napoleone, che era alleato della Turchia, e dal conseguente
rafforzamento della potenza zarista, MiloS ottenne dai turchi ampie autonomie e la costituzione di un
principato con diritto ereditario. In cambio egli fece eliminare il Karadjordje, inviso tanto a lui
quanto alla Porta.
L'assassinio del rivale avrebbe inaugurato una lunga faida tra le due famiglie che sarebbe durata
per quasi un secolo.
Sotto il principe MiloS la Serbia vide fiorire la propria cultura, soprattutto per merito del grande
intellettuale Vuk Stefanovic-KaradŽic, che per primo ipotizzò un'unificazione di tutti gli slavi del Sud
(esclusi gli sloveni) in nome dell'affinità linguistica. All'epopea di MiloS seguì un ventennio di
torbidi che vide le due famiglie degli Obrenovic e dei Karadjordjevic, cioè degli eredi di
Karadjordje, scontrarsi e alternarsi al vertice del paese, sovente alleandosi persino con l'odiato
dominatore ottomano pur di vedere soccombere il rivale. Con il ritorno di MiloS Obrenovic e di suo
figlio Mihajlo sul trono di Belgrado, nel 1858 si concluse, almeno temporaneamente, la faida e la
Serbia poté attrezzarsi per affrontare la sua prova più difficile. Sempre più vicina all'indomito
Montenegro, il quale sotto la dinastia dei principi-vescovi Petrovic-NjegoS aveva mantenuto
un'indipendenza de facto dalla Sublime Porta, la Serbia intervenne nel 1877 al fianco delle
popolazioni cristiano-bosniache insorte due anni prima contro le locali autorità ottomane. Il massacro
ordinato dal sultano che ne seguì fece inorridire l'opinione pubblica europea e diede il pretesto allo
zar per intervenire. La guerra russo-turca del 1877-78 si risolse con la definitiva sconfitta del
moribondo impero turco e con la proclamazione riconosciuta dal concerto delle potenze europee
dell'indipendenza di Serbia e Montenegro, trasformatisi in regni. La Bosnia Erzegovina, nel
bilanciamento regionale voluto dal Bismarck, passò invece sotto l'amministrazione austroungarica.

La CROAZIA
L'avanzata ottomana ebbe le sue conseguenze anche in Croazia. Dal Xv secolo la regione venne
flagellata da una ripetuta serie di sanguinose e devastanti razzie condotte da unità irregolari turche e
slavo-musulmane. Il tentativo della nobilità croata di arrestare la violenta penetrazione della Porta
fallì nella celebre battaglia di Krbava, presso Zagabria, dove l'8 novembre 1493 le milizie croato-
slavone vennero sbaragliate dalle unità ottomane. Con la sconfitta di quella che sarebbe stata
celebrata come la «Kosovo Polje croata» iniziò la lunga epoca del condominio turco-ungherese dei
territori croati: la Lika e parte del litorale dalmata vennero occupati dai turchi i quali vi trasferirono,
a guisa di coloni, contadini valacco-ortodossi provenienti dai territori meridionali: i discendenti di
costoro, così come quelli dei graničari serbi della Krajina di cui si è scritto prima, avrebbero
costituito la minoranza cristiano-ortodossa della Croazia attuale. La dèbacle di Krbava inaugurò
anche la stagione delle grandi migrazioni croate verso terre più sicure, quali per esempio il Molise,
dove ancora oggi vive una piccola minoranza etnica discendente da quei fuggitivi, e la Puglia. Il
dominio ottomano si protrasse per circa due secoli e fu caratterizzato da una lunga guerra di
posizione contro austriaci e ungheresi, al fianco dei quali si erano naturalmente schierati i nobili
croati vassalli della Corona di Santo Stefano. La sconfitta ungherese di Mohacs del 1526 obbligò i
croati a cercare altri protettori negli Asburgo i quali tuttavia non gli poterono garantire un'adeguata
protezione dai flagelli ottomani. La nobiltà della Croazia «libera» riuscì ad armare un esercito e, al
fianco degli austro-sloveni, a sconfiggere finalmente gli ottomani a Sisak, sempre nei pressi di
Zagabria (1593). Arrestata l'avanzata turca, la Croazia dovette occuparsi dell'altra famelica vicina:
la Repubblica di Venezia. Quest'ultima aveva ulteriormente radicato la propria presenza in Dalmazia
senza incontrare particolari ostacoli, se si escludono le incursioni dei pirati uscocchi, una piccola
tribù di religione ortodossa al soldo di Vienna, e la rivalità della piccola, ma fiorente repubblica di
Ragusa. Modellato negli statuti cittadini sulle repubbliche marinare italiane, il piccolo stato dalmata
rappresenta uno dei rari casi di rinascimento jugoslavo: mentre gran parte dei territori balcanico-
adriatici erano stati isolati a causa delle dominazioni ottomane dai grandi movimenti culturali legati
all'umanesimo, Ragusa, o Dubrovnik secondo la dizione croata, era riuscita a recepirne in pieno lo
spirito e ad applicarlo nelle arti, nelle scienze e nelle tecniche. Naturalmente una rivale siffatta non
poteva che irritare la Repubblica di San Marco.
Nel corso del XVII secolo, raggiunta una precaria stabilità in seguito alla sconfitta turca di Sisak,
la nobiltà croata tentò attraverso la sua famiglia più illustre, gli Zrinski, di affrancarsi dal dominio
asburgico. Paradossalmente tale tentativo spinse i seguaci degli Zrinski ad allearsi con l'antico
nemico ottomano. In seguito alla sconfitta turca di Vienna, gli Asburgo operarono dunque una radicale
opera di reconquista di tutti i territori croati controllati dai turchi o sottoposti al dominio feudale
delle caste nobiliari croate. All'alba del XVIII secolo la Croazia era nuovamente sotto il rigido
controllo asburgico. La fine della Serenissima nel 1797 e l'arrivo di Napoleone segnò l'inizio di una
nuova era nella storia della Croazia. Questa, insieme alla Slovenia, all'Istria e alla Dalmazia
(compresa l'abolita Repubblica di Ragusa) vennero accorpate dalle autorità francesi nelle nuove
province illiriche, evocando per la prima volta nei sentimenti dei popoli jugoslavi settentrionali la
percezione di uno stato unitario degli slavi del Sud.
La restaurazione asburgica e soprattutto il ritorno dell'Ungheria, alla quale l'impero bicipite aveva
nuovamente affidato il destino di Zagabria, contribuirono a rafforzare tali sentimenti: l'energica
volontà denazionalizzante magiara rappresentò l'elemento scatenante di una scoperta, o riscoperta,
della «croaticità» o meglio dell'«illiricità» e del suo inserimento nel più ampio movimento politico-
culturale del «rinascimento slavo». Accanto all'iniziativa letteraria e linguistica di alcuni intellettuali
croati iniziò a prendere piede l'idea di dare agli slavi del Sud intesi come croati, sloveni ed
eventualmente bosniaco-erzegovesi liberati dai turchi un'entità statale autonoma inserita nell'impero
degli Asburgo con le stesse prerogative dell'Ungheria: e fu proprio con Budapest, restia a dividere il
potere con un terzo elemento, che il «partito illirico» dalla seconda metà del XIX secolo si scontrò
maggiormente. Il mancato appoggio alle istanze illiriche da parte della corte di Vienna e la delusione
successiva all'ascesa al trono del giovane Francesco Giuseppe trasformò parte dell'illirismo e alcuni
esponenti croati abbandonarono le velleità autonomiste per abbracciare più decisamente
l'indipendentismo: tra costoro, vale la pena ricordare Ante Starčevic ed Evgen Kvaternik, due nomi
che sarebbero ricorsi nella storia della Croazia contemporanea. L'estremizzazione del confronto
politico tuttavia non giovò alle istanze autonomiste o indipendentiste. Con il cosiddetto Ausgleich del
1867 e quindi con la suddivisione dell'Impero tra Austria e Ungheria le velleità croate furono
definitivamente annichilite e ben poco sarebbe servita l'ampia autonomia concessa da Budapest a
Zagabria. Gli indipendentisti, organizzati nel Partito del diritto croato, si divisero quindi tra una
componente estremista guidata da Kvaternik e una più possibilista capeggiata da Starčevic. Mentre il
primo tentò nel 1871 di organizzare una rivolta contadina antiasburgica finendo impiccato, il secondo
ridusse astutamente la polemica con Budapest o Vienna concentrandosi sugli obiettivi etnico-politici
del movimento: non più Grande Illiria ma Grande Croazia; non più apertura verso altri popoli
jugoslavi, ma drastica chiusura verso i serbi considerati da Starčevic una «razza adatta al macello».
L'obiettivo era duplice. Da un lato, «liberare» la Krajina e quindi i distretti di frontiera popolati dai
serbi; dall'altro, la Bosnia Erzegovina, terra popolata da cospicue minoranze serbe che per
l'esponente nazionalista croato era storicamente parte integrante della Croazia. In questa azione
antiortodossa Starčevic avrebbe ottenuto il sostegno della terza componente etnico-religiosa della
regione, quella musulmana. Il seme della futura, folle violenza ustascia era stato gettato.

LA SLOVENIA
La storia della Slovenia nei quattro secoli dell'era moderna è principalmente caratterizzata da tre
fenomeni, tra essi collegati.
Anzitutto le scorrerie ottomane che soprattutto tra la metà del XV e la metà del XVI secolo
flagellarono con durezza la Carniola, la regione carsolina e il goriziano. Terrorizzati, i contadini
sloveni edificarono alte e imprendibili fortezze strappandole letteralmente alle impervie montagne e
dotandole di sistemi difensivi di prim'ordine. Ma la resistenza ai turchi costava e i nobili, dovendo
pagare i mercenari e le armi necessari alle controffensive e in seguito anche alle azioni militari
contro la sempre pericolosa Venezia, aumentarono le gabelle con vere e proprie «leve fiscali» che
avevano come uniche vittime proprio le più umili classi rurali. La conseguenza fu una serie di
jacqueries che nel XVI secolo assunsero caratteristiche di vere e proprie insurrezioni popolari, come
quella della «Lega dell'antico diritto» del 1515 o quella di «re» Matija Gubec nel 1572. Al di là
delle implicazioni politiche e sociali di ribellioni così estese (si trattava di iniziative che
coinvolgevano decine di migliaia di insorti), una conseguenza di questo fenomeno fu la sua
«slovenità»: un popolo che sino ad allora, a differenza di quanto avveniva più a sud, non aveva ancor
trovato una sua chiara identità culturale iniziò a «prendere coscienza» di se stesso attraverso queste
rivolte, non a caso coincidenti con l'epopea della Riforma protestante che ebbe in Slovenia una
notevole diffusione.
L'attività dei missionari riformati si caratterizzò infatti nella stampa dei primi testi, religiosi ed
ecclesiastici, in una lingua slovena arcaica. La coscienza politica e sociale dettata dalle rivolte e la
pubblicistica protestante, che superò la fortuna, temporalmente limitata, della parola di Lutero nella
regione, consentirono all'alba del XVIII secolo l'affermarsi di un'identità nazionale slovena che si
rafforzò naturalmente con l'arrivo di Napoleone. Tuttavia in Slovenia non si ebbe la difficile e
sofferta dialettica presente nello stesso periodo in Croazia: il dominio austriaco, assai più tollerante
e meno denazionalizzante dell'ungherese e i segni lasciati dal riformismo teresiano e giuseppino
contribuirono a fare sorgere a Lubiana l'«austroslavismo», inteso come sostituzione della Russia con
l'Austria come nazione-guida dei popoli slavi. Il principio, sostenuto dal filologo Jernej Kopitar,
avrebbe caratterizzato la storia della piccola regione alpina in tutto il XX secolo.

La nascita della prima Jugoslavia La «prima Jugoslavia», o Jugoslavia monarchica, nacque dalla
sinergia di tre differenti iniziative. In primo luogo il progetto espansionista del regno di Serbia che
soprattutto dopo il drammatico avvicendamento dinastico del 1903 avrebbe individuato negli altri
territori slavi del Sud asburgici o ottomani il suo naturale sviluppo territoriale. La seconda iniziativa
fu quella dei popoli slavi soggetti alla dominazione austroungarica, i quali durante la Prima guerra
mondiale si convinsero del definitivo tramonto di ogni speranza autonomistica all'interno del
decrepito impero. Sloveni, croati e bosniaci si avvicinarono quindi all'idea jugoslava talvolta
accettandola come male minore, altre volte con maggiore entusiasmo ma sempre con l'obiettivo di
tutelarsi attraverso l'unità dalle fameliche mire espansioniste delle potenze regionali vicine. Infine la
Jugoslavia nacque anche dalla volontà delle potenze vincitrici il conflitto mondiale e ansiose di
salvaguardare i confini emersi dal trattato di pace e di cingere la Russia bolscevica in una sorta di
cordone sanitario fatto di stati e staterelli creati ad hoc.
La prima fase della Serbia indipendente, sotto la guida della dinastia degli Obrenovic, fu
caratterizzata da una politica estera tendenzialmente proasburgica e priva di particolari volontà
espansionistiche. Assai più interessati alla politica interna e perseguenti ideali autocratici, i regnanti
incontrarono la ferma opposizione della borghesia nazionalistica animata viceversa da velleità
espansionistiche e imperialiste, e rappresentata dal combattivo Partito radicale di Nikola PaSic.
Ancora più temibile dell'azione «legale» dei radicali fu l'iniziativa segreta della «Mano nera»,
un'organizzazione cospirativa collegata alla Francia e alla Russia zarista che nel 1903 risolse
definitivamente il secolare confronto dinastico trucidando re Alessandro Obrenovic insieme alla sua
famiglia e ponendo sul trono Pietro Karadjordjevic.
Con il sanguinoso avvicendamento, che si perfezionò con la nomina di PaSic a primo ministro, la
politica estera serba mutò drasticamente.
L'obiettivo del nuovo sovrano e del suo premier si articolava in due fasi: anzitutto la creazione
della Grande Serbia, attraverso la conquista della Macedonia ancora sotto la dominazione turca e
popolata da una variopinta moltitudine etnica, e l'accorpamento del piccolo regno montenegrino, nel
quale coesistevano componenti favorevoli all'unione con Belgrado e altre fautrici di una più marcata
indipendenza dall'irrequieto vicino. La seconda fase prevedeva l'espansione verso nord e l'unione
della Serbia con Bosnia, Erzegovina, Croazia e Slovenia in un unico regno, naturalmente sotto la
dinastia Karadjordjevic. Il primo obiettivo venne parzialmente raggiunto con le guerre balcaniche del
1912-13, che videro la Serbia battere prima il decrepito impero ottomano e poi la Bulgaria per
occupare quindi gran parte della Macedonia, alle cui popolazioni venne negata l'autonomia non
soltanto politico-amministrativa, ma persino culturale. Per il secondo fine era necessario fomentare
l'azione dei gruppi nazionalisti serbi presenti in Bosnia, che dal 1907 era definitivamente diventata
provincia austroungarica.
Dall'iniziativa di uno di questi gruppi si ebbe il 28 giugno 1914 l'attentato di Sarajevo, scintilla
del Primo conflitto mondiale.
Nel frattempo la situazione politica si era evoluta anche a Zagabria. Al Partito del diritto di
Starčevic si erano affiancati altri due movimenti: il Partito contadino dei fratelli Anton e Stjepan
Radic, di vaga ispirazione socialdemocratica e propugnante una federazione sloveno-croato-bosniaca
all'interno dell'impero asburgico; e il Movimento corso nuovo del dalmata Ante Trumbic, che
considerava ormai inutile la carta autonomista e respingeva parimenti l'opzione indipendentista e
antiserba degli «starceviciani», propugnando invece un'idea «jugoslava», e cioè una più ampia
aggregazione territoriale che doveva necessariamente comprendere anche Serbia e Montenegro.
Anche in Slovenia dalla fine del XIX secolo prolificarono i partiti, tra i quali, oltre alla
socialdemocrazia, una notevole importanza venne ricoperta dai liberali e dai popolari. Questi ultimi,
soprattutto, di netta ispirazione cattolico-sociale e guidati dall'abate Anton KoroSec, caratterizzarono
la loro iniziativa sulla falsariga dell'austroslavismo. Tuttavia, allorché l'irrigidimento dei circoli di
corte più arretrati dimostrò l'impossibilità di raggiungere un'equiparazione nell'impero tra austriaci,
magiari e slavi, KoroSec iniziò a studiare l'eventuale alternativa jugoslava.
L'elemento di rottura fu rappresentato dall'uccisione di Francesco Ferdinando a Sarajevo: se
l'assassinio dell'erede al trono imperiale venne accolto in tutte le cancellerie europee come l'inizio di
una crisi internazionale dagli sviluppi incerti e drammatici, a Zagabria e Lubiana significò anche
l'uscita di scena violenta del principale sostenitore di un'opzione trialistica all'interno dell'impero.
Tramontata anche l'ultima chance di salvare sia l'impero che la propria autonomia, i croati e gli
sloveni sposarono l'idea jugoslava.
Per gli sloveni essa rappresentava un male minore, soprattutto rispetto ai malcelati interessi
italiani sul litorale e l'entroterra nordadriatici, mentre per i croati si trattava di una scelta quasi
obbligata rispetto all'insopportabile arroganza ungherese. Per quanto concerne la Bosnia Erzegovina,
recentemente unita alla Duplice monarchia, le locali classi dirigenti etno-religiose serbo-ortodosse e
croato-cattoliche seguirono le scelte delle loro nazioni di riferimento, mentre la componente
musulmana, visto il tramonto ormai definitivo e ineluttabile tanto degli Asburgo quanto della Sublime
Porta, accettò con rassegnazione la scelta jugoslava come unica strada percorribile.
Quello che fu chiamato «jugoslavismo» fu quindi un'idea sorta nei territori slavi dell'impero
asburgico, secondo la quale sarebbe stato possibile creare un grande stato degli slavi del Sud nel
quale le singole realtà territoriali e quindi le differenti etnie e religioni avrebbero potuto convivere
nella più ampia autonomia. Gli slavi asburgici, dissoltesi le speranze di maggiori autonomie dentro il
peraltro decadente impero, troppo deboli se soli, si sarebbero dovuti unire per difendersi dalle
grandi potenze che li circondavano. Lo «jugoslavismo» ebbe un certo successo in Slovenia, Croazia
e Bosnia soprattutto con l'approssimarsi del collasso degli imperi centrali durante la guerra:
all'indebolimento dell'impero asburgico corrispose un analogo indebolimento delle fazioni
proaustriache tanto a Lubiana quanto a Zagabria: fu dunque giocoforza, soprattutto dopo la crisi
politico-militare austroungarica del 1917, il rafforzamento delle posizioni antiasburgiche nei territori
slavi del Sud, con un conseguente avvicinamento ulteriore alla Serbia dei Karadjordjevic.
L'imminente sconfitta spinse le élite slavo-asburgiche a considerare l'opzione jugoslava anche
come una rassicurante alternativa al caos politico-sociale che si sarebbe senz'altro sviluppato
immediatamente dopo il crollo dei vecchi imperi: l'esempio della Russia bolscevica veniva additato
come un'eventualità nient'affatto remota e l'esercito e la gendarmeria serba venivano visti come
l'unico deterrente possibile a probabili locali emulazioni di Lenin e Trotzky.
Si può facilmente intuire la grande e dirompente contraddizione negli obiettivi: da un lato una
Serbia che malcelava il suo disegno egemone diretto a estendere il controllo di Belgrado all'intera
Balcania slava, applicando sui nuovi territori una politica centralizzatrice atta a stroncare ogni
localismo e diretta allo sfruttamento delle potenzialità economiche e industriali dei territori slavo-
asburgici; dall'altro Slovenia, Croazia e Bosnia Erzegovina, le quali si illudevano di poter edificare
una patria degli jugoslavi dove non fossero minimamente pregiudicate le particolarità etniche,
religiose e culturali dei loro popoli.
A tutto questo bisognerebbe aggiungere la volontà delle potenze vincitrici di creare uno stato
amico che contribuisse sia al blocco dell'ondata bolscevica da oriente che al riequilibrio dell'intero
teatro balcanico-danubiano: se Parigi vedeva nella Jugoslavia un valido ostacolo all'espansionismo
italiano in tutta la regione, e un trampolino per la creazione di un «sistema francese» di alleanze,
Londra la considerava un antemurale al revisionismo degli sconfitti, e cioè Austria, Ungheria,
Bulgaria e Turchia.
I passaggi verso l'unificazione seguirono l'andamento del conflitto. Nel dicembre 1914, cinque
mesi dopo lo scoppio della guerra, il governo di Belgrado dichiarò che il suo obiettivo era la
liberazione dei serbi, croati e sloveni «irredenti», e cioè sottomessi all'autorità austroungarica. Nel
maggio 1915 nacque in esilio un «Comitato jugoslavo» guidato da Trumbic e KoroSec in
rappresentanza degli emigrati jugoslavi dell'impero asburgico e fautore della nascita, a guerra finita,
di un generico «Stato jugoslavo libero» senza specificare se insieme o no alla Serbia. In ottobre le
truppe degli imperi centrali invadevano la Serbia, alla quale seguì il piccolo Montenegro: la
liberazione dal giogo straniero era divenuto l'obiettivo unificante tutti i popoli jugoslavi, da Lubiana
a Belgrado. Il 20 luglio 1917 si ebbe lo storico incontro di Corfù tra Trumbic e il primo ministro
serbo, in esilio, PaSic, e i due esponenti politici concordarono il progetto di uno stato di tutti gli
slavi del Sud da creare a guerra finita attorno alla dinastia dei Karadjordjevic e su base federalista.
Un mese dopo l'armistizio austriaco, il 5 ottobre 1918, il Comitato jugoslavo riunì a Zagabria
un'assemblea di notabili e amministratori pubblici e tutti gli esponenti dei partiti politici sloveni,
croati e bosniaci. Sotto la guida di KoroSec, Trumbic e Svetozar Pribičevic, leader dei
serbobosniaci, venne dichiarata sciolta l'unione dei territori slavi del Sud con l'Austria-Ungheria e
quindi fu costituito uno stato indipendente comprendente la Slovenia, la Croazia (inclusa la
Dalmazia), la Bosnia e l'Erzegovina. Per un breve momento si affermò l'idea sostenuta dai più accesi
antiserbi del Partito del diritto croato di rimarcare l'indipendenza del nuovo stato da Belgrado: i
timori sopra descritti circa la voracità dei potenti vicini e le notizie relative a moti insurrezionali di
ispirazione bolscevica che si stavano diffondendo in tutti i territori ex asburgici, convinsero
l'assemblea a respingere tale progetto. Pertanto durante il mese di novembre le delegazioni dello
stato nato a Zagabria incontrarono i rappresentanti del governo serbo per concordare le modalità
dell'unificazione secondo quanto deciso a Corfù. Le trattative si dimostrarono tuttavia lunghe,
soprattutto a causa del disaccordo quasi totale tra serbi e croati circa l'ordinamento del futuro regno
jugoslavo unificato e la composizione del governo provvisorio. Il governo di Belgrado decise quindi
di accelerare i tempi mettendo gli slavi ex asburgici dinanzi al fatto compiuto: alla fine di novembre
una serie di assemblee «pilotate» dalla Serbia dichiaravano l'unificazione della Vojvodina e del
Montenegro al regno dei Karadjordjevic. Lo stato di Zagabria inviò quindi a Belgrado una
delegazione assai più bendisposta ad accettare i dettami serbi: si tenga conto che la situazione
politica interna, soprattutto in Slovenia, stava precipitando e diversi distretti erano controllati da
milizie insorte di chiara matrice bolscevica e rivoluzionaria.
Alle 20,00 del primo dicembre 1918, mentre la delegazione di Zagabria stava proseguendo con
difficoltà le trattative con Nikola PaSic, il principe reggente Alessandro Karadjordjevic proclamò,
con un vero e proprio colpo di scena, la nascita del regno «dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni»
(Srba, Hrvata i Slovenca in serbocroato, oppure in sloveno Srbov, Hrvatov in Slovencev, da cui
l'acronimo «Shs»).

Tra centralismo e localismo: il regno Shs La situazione politica del nuovo regno era caratterizzata
in pratica da tre blocchi partitici che si sarebbero confrontati nel decennio 1919-1929: i partiti serbi
«storici», le forze «localiste» e le sinistre di classe. Nel primo gruppo primeggiava naturalmente il
Partito radicale serbo, egemone su tutto il territorio serbo e diffuso anche in alcuni distretti bosniaci
e croati. Vera e propria «balena elettorale» sostenuta da una capillare rete clientelare e da una
disinvolta politica affaristica di alcuni suoi esponenti, il partito di PaSic rappresentava gli interessi
della borghesia nazionalista cresciuta all'ombra della Casa reale ed era diviso al suo interno in
numerose correnti spesso duramente contrapposte. In politica interna i radicali si ispiravano a un
programma centralista e conservatore. Concorrente diretto dei radicali era il Partito democratico,
formazione populista e moderatamente riformista: legati a un concetto tipicamente balcanico della
democrazia rurale, i democratici rappresentavano in Serbia la sinistra non marxista, sostenitrice
degli interessi delle province più arretrate contro le oligarchie belgradesi, favorevole a un
ordinamento sociale avanzato e alla moderata concessione di maggiori autonomie locali. Il blocco
serbo si completava con il piccolo ma agguerrito Partito contadino, collocato ancora più a sinistra
dei democratici e tutelante quasi esclusivamente gli interessi delle classi rurali più deboli.
Tra le forze localiste, ma con grande rilevanza nazionale, si inseriva in pieno il Partito contadino
croato di Stjepan Radic. Egli fu probabilmente l'unico esponente politico di una nazionalità jugoslava
che riuscì a unire la difesa degli interessi del popolo croato, intesa come ricerca di una soluzione
autonoma nel contesto jugoslavo e mai come lotta per l'indipendenza, con un programma di avanzata
riforma agraria, cercando di creare una sorta di coscienza di classe tra le masse contadine del paese
contro gli interessi dei grandi proprietari terrieri. Il problema risiedeva soprattutto nella storia della
Croazia che, a differenza della Serbia, non si era mai liberata dell'egemonia dei ceti dominanti di
derivazione feudale ed era giunta all'appuntamento jugoslavo con le sue classi rurali subalterne
ancora in lotta per il possesso della terra. Si spiega così il seguito e la forza che il Partito contadino
ebbe in Croazia rispetto per esempio ad altri raggruppamenti sciovinisti attestati soprattutto nelle
grandi città e nella piccola e media borghesia croata. Tra questi un ruolo sempre più importante lo
avrebbe ricoperto il già citato Partito croato del diritto, il movimento ultranazionalista fondato da
Starčevic che perseguiva un programma «massimalista»: la nascita di uno stato croato indipendente
comprendente oltre alla Croazia storica, la Slavonia, la Dalmazia e la Bosnia Erzegovina. Dilaniato
da scissioni prima del conflitto, il partito si dissolse insieme all'Austria-Ungheria per riapparire
rinnovato nei quadri più che nelle finalità dopo la proclamazione del nuovo regno. Contrapposto
all'atteggiamento più possibilista del gruppo di Radic, il Partito del diritto rinacque con un
programma autonomista radicale che malcelava in realtà una chiara vocazione indipendentista. Al
vertice di tale partito giunse rapidamente un giovane avvocato originario dell'Erzegovina e già
militante dell'organizzazione illegale indipendentista «Giovane Croazia»: Ante Pavelic. Estremista
antiserbo, sciovinista e profondamente razzista nei confronti di ebrei e zingari, Pavelic collocò la
formazione politica all'estrema destra del panorama politico croato. Nei progetti dell'aggressivo
esponente politico erzegovese si collocava in primo piano l'edificazione di un'entità statale
puramente croata, cioè «ripulita» da tutte le etnie che la potessero contaminare, dalla serba, alla
zingara, all'ebraica. Alla questione religiosa, che veniva interpretata dal leader del Partito del diritto
con il primato assoluto della chiesa cattolica su tutte le altre «eresie» cristiane, in primo luogo su
quella ortodossa, Ante Pavelic univa, richiamandosi alle fanatiche teorie di Starčevic, la questione
razziale. In Bosnia Erzegovina e in Croazia esisteva come si è visto una massiccia presenza serba, il
cui punto di riferimento era il già citato Svetozar Pribičevic. Massone legato al Grande oriente di
Francia, egli era fautore dell'unità di tutti i serbi attorno alla dinastia dei Karadjordjevic: l'eccessivo
centralismo operato dal governo di Belgrado, che al di là delle questioni etniche e religiose
danneggiava gli interessi delle popolazioni serbe di Bosnia e Croazia non meno di quelle delle altre
etnie, avrebbe spinto Pribičevic a fondare un Partito democratico indipendente che sarebbe divenuto
il rappresentante degli interessi dei serbi «d'oltre Drina». Il panorama politico «localista» si
complicava con i già citati partiti sloveni: il liberale e soprattutto il popolare dell'abate KoroSec,
caratterizzato oltre che da una notevole ispirazione autonomista da un programma conservatore e
ruralista. Su posizioni parimenti conservatrici si collocavano infine l'Unione popolare musulmana
dell'anziano latifondista d'origine turca Mehemed Spaho, che rappresentava i tradizionali interessi
dell'oligarchia mercantile e dei proprietari terrieri di religione musulmana in Bosnia, nel Kosovo e in
Macedonia, e il Partito federalista montenegrino di Sekula Drljevic, che propugnava l'autonomia
dell'ex regno del Montenegro dalla Serbia, la quale viceversa considerava tale regione come una
provincia direttamente controllata da Belgrado.
Il terzo blocco politico era quello della sinistra di classe. La sinistra jugoslava era rappresentata
nel primo dopoguerra da un arcipelago di partiti socialdemocratici, tutti su base regionale e assai
distinti tra loro: si andava dai riformisti di impostazione austromarxista (sloveni e croati) ai
massimalisti o populisti-rivoluzionari serbi, montenegrini e bosniaco-erzegovesi; ovunque, inoltre,
ma soprattutto nei bacini industriali e minerari del Nord, era presente una forte componente
bolscevica, alimentata dagli ex prigionieri di guerra del disciolto esercito asburgico di ritorno dalla
Russia rivoluzionaria. Nell'aprile 1919, di fronte a una difficile situazione sociale ed economica, si
tenne a Belgrado un congresso che tentò di riunificare i sei partiti in un unico raggruppamento
politico operante su scala nazionale. La maggioranza dei delegati votò tuttavia l'adesione alla Terza
internazionale e fondò in seguito un Partito comunista di Jugoslavia. La minoranza riformista si
costituì per contro in un Partito socialista moderato, ostile ai bolscevichi e favorevole a una
collaborazione con i partiti borghesi progressisti, come i democratici serbi o i contadini croati.
Nonostante i buoni propositi dei giorni delle trattative, i seguaci di PaSic intensificarono sin da
subito la politica accentratrice di Belgrado. Oltre ai motivi legati al «primato serbo», assai sentito
dagli ambienti vicini alla Corona, non bisogna dimenticare che, soprattutto negli anni dell'immediato
dopoguerra, il regno Shs era circondato da nazioni ostili: dalla Bulgaria revisionista sulla questione
della Macedonia; all'Ungheria comunista di Bela Kun; all'Italia, impaziente di ottenere quella
Dalmazia che le era stata promessa dall'Intesa; all'Austria, che rivendicava i territori dell'Alta
Slovenia e uno sbocco sull'Adriatico; all'Albania che tentava di ottenere il Kosovo. Un'eccessiva
autonomia interna avrebbe significato per il governo di Belgrado debolezza e vulnerabilità
all'esterno. In effetti si ebbero, nei giorni immediatamente successivi alla proclamazione del regno
Shs, numerosi casi di insurrezioni o scontri locali: in Montenegro la componente indipendentista
legata alla deposta dinastia dei Petrovic-NjegoS insorse obbligando l'esercito di Belgrado a una dura
controguerriglia che si concluse con la sconfitta degli insorti; a Zagabria si ebbero scontri tra ex
combattenti croati dell'esercito austroungarico e gendarmi che immediatamente assunsero le
caratteristiche di un duro confronto tra accentratori serbi e autonomisti o indipendentisti croati; nel
Kosovo le autorità centrali repressero numerose rivolte dell'elemento d'etnia albanese. Da non
sottovalutare inoltre fu la drastica denazionalizzazione della Slovenia del Nord condotta dalle nuove
autorità a danno della cospicua minoranza austriaca che in parte reagì con violente quanto inutili
proteste. A tali tensioni «etniche» si aggiungevano moti sociali che assunsero nel 1919 caratteristiche
insurrezionali, motivati dalla crisi agricola e dalla difficile congiuntura economica. Alle occupazioni
di terre e fabbriche si affiancò inoltre il movimento dei cosiddetti «quadri verdi», ex combattenti
austroungarici rimasti allo sbando dopo l'armistizio e astutamente organizzati da agenti bolscevichi.
Il tentativo di costituire un governo riformista basato su un accordo tra democratici serbi e
socialisti fallì e il paese giunse alla Conferenza di pace di Parigi con un governo assolutamente non
rappresentativo. La lunga ed estenuante vertenza sui confini con l'Italia fu caratterizzata dai continui
scontri tra i due capi delegazione del regno Shs, il serbo PaSic e il croato Trumbic, quest'ultimo
sempre più deluso dall'involuzione centralistica del progetto jugoslavo. Della debolezza del nuovo
stato approfittarono gli italiani, con l'iniziativa fiumana di D'Annunzio e con il trattato di Rapallo del
1920, che sarebbe stato perfezionato quattro anni dopo a Roma, con la definitiva cessione di Fiume
all'Italia. La perdita dell'Istria, di Fiume, di Zara e di alcune isole strategicamente importanti della
Dalmazia a favore dell'Italia, unite all'arretramento su altri confini imposto dalla Pace di Parigi,
rappresentarono senz'altro delle cocenti sconfitte per la diplomazia del nuovo regno. In modo
particolare gli sloveni e i croati, principali vittime delle mutilazioni territoriali, sentivano di essere
stati sacrificati sull'altare della ragion di stato dal governo di Belgrado. In seguito alle elezioni
costituenti del 1920 e all'affermazione dei contadini croati e dei comunisti, il principe Alessandro,
che sostituiva il vecchio e malato re Pietro in qualità di reggente, nominò nuovamente PaSic primo
ministro. Il nuovo governo inaugurò una prassi che si ripeté più volte nel corso del decennio di vita
del regno Shs, scatenando da un lato una violenta repressione anticomunista e dall'altro dividendo il
blocco localista alleandosi con alcuni partiti quali i popolari sloveni e l'Unione musulmana e
isolando i croati. In questa fase, infatti, il governo di Belgrado concentrò la sua attività contro le
ultime iniziative legittimiste montenegrine e soprattutto operando un violento processo di
denazionalizzazione in Macedonia attraverso l'iniziativa di formazioni politiche e paramilitari
filogovernative quali la «Difesa nazionale», l'«Organizzazione degli jugoslavi nazionalisti» (Orjuna)
e l'Associazione dei cetnici, raggruppante i veterani delle formazioni d'élite che avevano operato
durante la guerra e richiamatesi alla tradizione guerrigliera serba dei secoli precedenti.
La decisa volontà accentratrice di PaSic si esplicitò definitivamente il 28 giugno 1921, giorno di
San Vito e anniversario della battaglia di Kosovo Polje, quando all'Assemblea costituente un'esigua
maggioranza guidata dai radicali approvò una costituzione (la «Costituzione di San Vito») che
limitava le prerogative parlamentari, attribuendo ampi poteri all'esecutivo e alla Corona. Le poche
garanzie di autonomia locale furono di fatto eliminate da articoli che sancivano l'accentramento e il
potere delle classi dirigenti serbe. Al fianco della camera bassa (SkupSčina) la carta costituzionale
prevedeva una camera alta di nomina regia con diritto di veto sulle leggi approvate dal Parlamento.
Per protesta, oltre ai comunisti, tutti i deputati del Partito contadino croato erano assenti. In seguito a
un attentato contro Alessandro, nel frattempo proclamato re alla morte del padre, il Partito comunista
venne infine dichiarato fuori legge. Le repressioni si trasformarono ben presto da anticomuniste ad
antisindacali e al contempo colpirono il Partito contadino croato. Il suo leader Radic si alleò con il
serbobosniaco Pribičevic in una lotta contro il governo che presto si trasformò in una battaglia per
l'abbattimento della monarchia e la proclamazione della Repubblica. Lo scontro tra i «radiciani» e il
governo durò con fasi alterne fino al 1925 in un susseguirsi di clamorose iniziative prese da entrambi
i contendenti: dall'adesione di Radic all'Internazionale contadina organizzata da Mosca (1923) al suo
arresto sotto l'accusa di essere un agente comunista (1924).
Fu proprio la breve carcerazione che ne seguì a convincere Radic dell'inutilità dello scontro
diretto con Belgrado: la gendarmeria ormai interveniva a Zagabria per reprimere non soltanto le
manifestazioni dei partiti localisti, ma persino le innocue processioni cattoliche. Fu pertanto ancora
più clamorosa la notizia delle trattative che repentinamente la dirigenza del Partito contadino croato
aveva iniziato a intessere con i radicali serbi: accusato dagli altri oppositori, primo fra tutti
l'estremista Pavelic, di tradimento e di opportunismo, il leader croato non soltanto venne liberato, ma
nel luglio 1925 fu nominato ministro in un governo presieduto nuovamente dal vecchio PaSic.
L'alleanza «contronatura» tra i due antichi avversari, significativa degli intrighi squisitamente
balcanici che ormai caratterizzavano la caotica vita del regno Shs, spinse all'opposizione della nuova
maggioranza l'intero panorama politico jugoslavo, dai socialisti ai democratici, dai popolari sloveni
ai musulmani fino ai democratici indipendenti di Pribičevic.
Tuttavia la coalizione PaSic-Radic non poteva durare a lungo.
Troppe erano le differenze politiche e culturali tra i due uomini: serbo, ortodosso, militarista,
monarchico, accentratore e conservatore il primo; croato, cattolico, pacifista, tendenzialmente
repubblicano, federalista e riformista il secondo. Persino in politica estera, di fronte a una posizione
personale filoitaliana e favorevole a una «Piccola intesa» con Cecoslovacchia e Romania in funzioni
antirevisioniste dell'anziano radicale serbo, si contrapponevano le idee drasticamente antiitaliane e
vicine al leader socialcontadino bulgaro Stambolijski dell'esponente croato. Oltre a ciò la base e
molti esponenti del Partito contadino croato respingevano l'accordo. Per polemica il «padre della
Patria» Trumbic, ormai in definitiva rotta di collisione con Belgrado dopo la sconfitta diplomatica
del 1919-20, aveva fondato un nuovo partito ufficiosamente indipendentista e repubblicano, l'Unione
croata, drasticamente antiradiciano. Del malcontento che serpeggiava tra l'opinione pubblica croata
approfittò Pavelic, che riuscì a indirizzarne gran parte verso il suo Partito del diritto. Al contempo
anche a Belgrado l'alleanza «contronatura» non era stata accolta con unanime consenso: all'interno
del Partito radicale si ebbe l'iniziativa di alcuni esponenti dell'estremismo grande-serbo che
vedevano nell'azione di PaSic un cedimento verso i croati.
Approfittando della disinvolta politica affaristico-clientelare dell'anziano leader serbo gli
oppositori interni al suo partito ne chiesero quindi le dimissioni. Sebbene il sostituto di PaSic avesse
ribadito la validità dell'alleanza con il Partito contadino croato, l'avvicendamento indebolì
ulteriormente la già fragile coalizione che ebbe il suo colpo mortale con l'alleanza tra Italia e
Albania, accolta da Belgrado come un totale fallimento in politica estera.
Radic, ormai convinto del fallimento dell'esperienza governativa e in rotta di collisione con i
successori di PaSic (l'anziano esponente radicale era nel frattempo deceduto), abbandonò
clamorosamente la coalizione dopo le elezioni politiche del 1927. Si concludeva il primo sfortunato
tentativo di accordo serbocroato, mentre la situazione politica appariva agli occhi del sovrano
sempre più ingovernabile. Mentre Radic tornava all'opposizione costituendo una Coalizione
«democratico-rurale» insieme ad altri oppositori tra cui il serbobosniaco Pribičevic, ma senza
Trumbic ormai definitivamente attestato con Pavelic su posizioni indipendentiste, si costituiva un
nuovo governo a guida radicale. Oltre ai tradizionali partiti del «blocco serbo» il nuovo esecutivo
godeva nuovamente dell'appoggio di sloveni e musulmani, esclusi sino ad allora e sedotti da
concessioni di ampie autonomie ai danni della Croazia: la politica del regno Shs si stava
trasformando in un melodrammatico teatrino delle marionette, sostituite alla bisogna dalla dirigenza
serba secondo la migliore tradizione, mutuata dalle passate dominazioni straniere, del divide et
impera.
Il lungo braccio di ferro tra localismi e centralismi aveva frattanto esacerbato gli animi delle
componenti locali più estremiste. In Macedonia la violenta denazionalizzazione aveva scatenato
l'attività dell'«Organizzazione interna rivoluzionaria macedone» (Vmro),una temibile associazione
terroristica collegata con la Bulgaria; nel Kosovo operavano illegalmente milizie separatiste
appoggiate da Tirana; in Croazia il Partito del diritto di Pavelic stava assumendo sempre più
caratteristiche cospirative e insurrezionali; persino nella moderata Slovenia e nella Bosnia
musulmana cominciavano a proliferare sigle di organizzazioni contrarie alla collaborazione
governativa e favorevoli all'indipendenza. Organizzazioni e gruppi separatisti sorgevano anche in
Montenegro, in Dalmazia, tra le minoranze magiare della Vojvodina, romene e tedesche del Banato e
austriache della Slovenia settentrionale. In tutto questo arcipelago nazionalista ebbe buon gioco
l'Italia, e con essa le altre potenze revisioniste, le quali sostennero con finanziamenti occulti le
disparate attività separatiste allo scopo di dissolvere il regno Shs, definito da Mussolini «un'orribile
creatura» generata a Versailles.
Il punto di svolta della caotica situazione si ebbe il 20 giugno 1928 con il cosiddetto episodio
della «SkupSčina insanguinata».
Durante un dibattito su un ennesimo caso di corruzione un deputato radicale, presidente di
un'Associazione cetnica ultranazionalista, estrasse una rivoltella e sparò sul gruppo parlamentare del
Partito contadino croato. Due deputati furono uccisi sul colpo, altri tre esponenti del partito vennero
feriti gravemente: tra questi, lo stesso Stjepan Radic che, dopo una lunga agonia, morì. L'assassinio
dell'esponente croato sancì il tramonto definitivo della speranza di vedere uniti tutti i popoli
jugoslavi, e al contempo era scomparsa anche l'utopistica idea di poterli riunire attorno a un
simulacro di sistema liberaldemocratico e parlamentare. In pratica, il 20 giugno 1928 si spegneva
dopo quasi dieci anni il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni.
La notizia dell'attentato e soprattutto della successiva morte di Radic scatenò tutte le opposizioni.
In Croazia il nuovo leader contadino Vladko Maček strinse un accordo con tutti gli altri partiti
localisti, compresi quelli di Pavelic e di Trumbic; alla coalizione croata si aggiunsero anche i
democratici indipendenti di Pribičevic e persino il Partito contadino serbo. Il blocco delle
opposizioni abbandonò il Parlamento e si costituì in antiparlamento nella sede dell'antica Dieta di
Zagabria. La città era in pieno clima insurrezionale, mentre gravi tumulti esplodevano ovunque, in
parte organizzati dal Partito comunista clandestino che cercava di approfittare dell'occasione.
Dinanzi al caos in cui il suo regno stava precipitando, re Alessandro tentò di giocare una carta tanto
clamorosa quanto inutile nominando nuovo primo ministro il leader sloveno KoroSec: si sarebbe
trattato dell'unico capo del governo della Jugoslavia monarchica non serbo e per giunta cattolico. Ma
l'astuto esponente politico non riuscì nell'intento, peraltro impossibile, di pacificare la situazione e fu
costretto a decretare la legge marziale a Zagabria. La coalizione d'opposizione guidata da Maček
insieme allo stesso KoroSec proposero al re di modificare la Costituzione di San Vito in senso
federalista, concedendo alle singole nazionalità ampie autonomie. In questo modo si sarebbe evitato
il rischio di una disintegrazione dello stato, come volevano gli esponenti più estremisti: questa
eventualità preoccupava anche i leader delle opposizioni, i quali temevano che le diverse regioni,
divenute indipendenti, sarebbero cadute sotto il controllo italiano, ungherese, austriaco, bulgaro e
albanese.
Alessandro sottopose il progetto delle opposizioni agli esponenti serbi, che lo respinsero con
fermezza: la Costituzione di San Vito non si toccava, e neppure il ruolo guida della Serbia sull'intero
regno. Il 31 dicembre 1928 KoroSec, ventitreesimo presidente del consiglio del regno Shs (in soli
dieci anni!), dinanzi al fallimento ormai palese del suo tentativo non ebbe altra alternativa che
rassegnare le dimissioni, in un clima sociale e politico assolutamente insostenibile.
Ora l'ultima parola spettava alla Corona.

Vita e morte della «Jugoslavia integrale» Alessandro Karadjordjevic, la cui formazione culturale
di origine zarista lo portava a disprezzare il parlamentarismo e tutti i partiti politici (compresi quelli
serbi), era ormai l'unico punto fermo di una situazione tanto fluida quanto frammentata: da un lato le
varie nazionalità non serbe, esasperate da undici anni di centralismo, premevano affinché fosse loro
concessa l'autonomia che era stata promessa nel 1918; dall'altro le attività antistatali delle
organizzazioni separatiste clandestine stavano seminando tensione e paura in tutto il paese; dall'altro
ancora, la classe dirigente serba, particolarmente quella radicale, non riusciva a compiere un salto
qualitativo restando ancorata al vecchio progetto pasiciano del primato serbo e di uno stato
assoggettato a Belgrado; infine, le crescenti tensioni sociali, dietro alle quali si celava sovente il
potente Partito comunista clandestino. A questa situazione si aggiungeva infatti una congiuntura
economica sociale in apparenza senza soluzione. L'aumento della popolazione avveniva a tassi di
crescita diversi a seconda delle etnie e dei gruppi religiosi: gli incrementi più incisivi si
riscontravano nelle regioni più povere.
L'economia fondamentalmente rurale del paese (nel 1931 i contadini sarebbero stati ancora più dei
tre quarti della popolazione complessiva) era incapace di sostenere l'incremento demografico,
mentre la bassa produttività, determinata dagli scarsi fattori di produzione e dalla povertà delle
risorse naturali, creava un reddito pro capite tra i più infimi d'Europa e con differenze enormi e
sconcertanti: il reddito di un operaio di Lubiana era per esempio quasi il doppio della media
nazionale. Inoltre alla miseria si aggiungeva una tasso di analfabetismo elevatissimo: nel 1921 più
della metà della popolazione non sapeva né leggere né scrivere. Da notare che contro il 9 per cento
di analfabeti in Slovenia se ne aveva più dell'80 per cento in Macedonia.
Fu in questa situazione che si affermò il nuovo progetto del sovrano: la drastica modernizzazione
del paese. Bisognava moralizzare la vita pubblica, rendere la burocrazia più efficiente ed elastica,
porre lo stato in grado di mediare i conflitti sociali, lasciare spazio all'iniziativa privata, favorire gli
investimenti nell'industria (anche per evitare l'eccessivo afflusso di capitali stranieri), attuare una
seria politica creditizia per eliminare la piaga dell'usura e fare ottenere nuovamente alle istituzioni la
fiducia dei cittadini; bisognava eliminare o almeno sospendere temporaneamente dalla loro attività i
partiti e congelare gli organi costituzionali per potere intervenire con una terapia d'urto contro
l'arretratezza del paese e per impedire lo sgretolamento del regno; bisognava reprimere con forza i
localismi e difendersi dal pericolo comunista.
Lo stato che sarebbe scaturito da una simile terapia «rivoluzionaria» avrebbe dovuto essere
riconosciuto dal popolo jugoslavo come una nuova entità superiore e distante da tutte le vicende del
passato remoto o recente. Alessandro voleva in ultima analisi educare il suo popolo a rispettare un
unico vessillo, la bandiera blu-bianca-rossa del regno con la coronata aquila bicipite della stirpe dei
Karadjordjevic. Il sovrano voleva creare dal nulla un patriottismo, un sentimento nazionale jugoslavo
che non fosse la sommatoria delle singole culture, ma un prodotto assolutamente nuovo e inedito. Per
farlo si dovevano vietare tutti i simboli e i nomi che potevano ricordare le peculiarità territoriali che
avevano sino ad allora dilaniato il regno Shs.
Il 6 gennaio 1929 Alessandro si appellò al paese: per gli interessi di tutti, egli si accingeva a
creare uno stato più moderno e efficiente. Venne immediatamente abolita la Costituzione di San Vito.
Il re si poneva come unico garante dello stato e come tale nominava d'imperio un esecutivo che
avrebbe risposto esclusivamente alla sua persona. Come nuovo capo del governo e ministro degli
Interni venne nominato il generale Petar Živkovic, comandante della Guardia reale, e leader della
«Mano bianca», una società segreta composta quasi esclusivamente da alti ufficiali serbi vicinissimi
alla dinastia che aveva sostituito la disciolta «Mano nera». Tutti i poteri furono concentrati nelle
mani del sovrano e del suo primo ministro. Il Parlamento, le amministrazioni locali e tutti i partiti,
compresi quelli serbi, vennero sciolti. Le uniche organizzazioni riconosciute furono l'Associazione
dei cetnici, la «Difesa nazionale» e i movimenti dalmati antiitaliani. Furono proibiti tutti i diritti
d'associazione e d'assemblea, la libertà di sciopero e di stampa. Si istituiva un tribunale speciale per
la sicurezza dello stato, mutuato direttamente dall'Italia fascista, per reprimere rapidamente ogni
forma di dissenso.
Živkovic costituì un esecutivo composto da elementi per lo più estranei ai vecchi partiti: tra le
poche eccezioni, KoroSec, che accettò il dicastero dei Trasporti allo scopo di preservare gli sloveni
da possibili repressioni. Infatti il nuovo primo ministro operò su due fronti tradizionali: quello
comunista e quello croato.
Furono emanate dal consiglio supremo legislativo, organo di nomina regia che sostituiva il
disciolto Parlamento, diverse leggi draconiane di pubblica sicurezza contro i comunisti e i
separatisti, soprattutto croati e macedoni. Il 14 gennaio Ante Pavelic fuggiva all'estero mentre molti
suoi seguaci passavano alla clandestinità. Si instaurò così in tutto il paese una dittatura monarchico-
militare che aveva i suoi perni in Alessandro e nel generale Živkovic, analogamente a quanto avutosi
in Spagna nel 1923 con Alfonso XIII e il generale Miguél Primo De Rivera. Uno stato integrale retto
da una monarchia praticamente assoluta e appoggiato principalmente dalle caste militari: pareva di
essere ritornati ai tempi dei regimi assolutisti gestiti personalmente dai principi serbi durante la
dominazione ottomana.
Parallelamente alle repressioni il nuovo governo iniziò una totale riorganizzazione statale ed
economica, introducendo nel paese elementi di statalismo ispirato al totalitarismo fascista, il cui
modello era dichiaratamente evocato dal sovrano e dal suo primo ministro. Si ebbe quindi una
notevole influenza fascista, più nella forma tuttavia che nella sostanza. Mancava una vera e propria
dottrina politica, mancava un partito unico, ma esistevano nella «dittatura di re Alessandro» elementi
fascisti o fascistoidi. La ricerca del «consenso» tra le masse, per esempio, come testimoniano gli
slogan creati per sostenere la dittatura: «il re e il popolo», «il re contadino» ecc.; oppure alcune
suggestioni corporative, presenti soprattutto nei progetti di taluni collaboratori di Živkovic. Il
drastico cambiamento fu giocoforza salutato con entusiasmo dai circoli economici, che non soltanto
speravano in un rinvigorimento dell'economia nazionale ma apprezzavano l'energica repressione
anticomunista e antisindacale condotta dalle nuove autorità. A tale appoggio si deve sommare
l'assenso entusiastico dato al regime dal potente alto clero serbo-ortodosso, che apprezzava l'azione
anticroata e anticattolica del governo, impegnato financo contro gli stessi prelati di Zagabria.
Fu anche questo ulteriore «giro di vite» contro i seguaci della chiesa di Roma, considerati nemici
del governo, a spingere lo sloveno e cattolico KoroSec a dimettersi e a passare all'opposizione
(agosto 1929): di conseguenza l'esponente politico fu inviato al confino in Dalmazia, sull'isola di
Lésina (Hvar). Alle proteste dei cattolici si unirono alla fine del 1929 anche quelle dei musulmani,
allorquando il re si arrogò il diritto di nominare il loro Reel uléma scavalcando le autorità religiose
di Sarajevo.
Definito il problema dello stato, restava infatti la questione della nazione che il progetto
alessandrino voleva creare. Vennero adottati un unico alfabeto, quello latino, e un'unica lingua
nazionale, il serbocroato. Le singole bandiere serba, croata e slovena furono proibite. Infine, il 3
ottobre 1929 il regno Shs veniva solennemente ribattezzato «Regno di Jugoslavia». Con questa
decisione Alessandro voleva ribadire che non esistevano più i popoli separati dei serbi, dei croati e
degli sloveni (tantomeno le minoranze etniche, letteralmente ridotte al silenzio dall'energico
Živkovic), ma solo il popolo jugoslavo. Bisognava quindi eliminare ogni ostacolo localistico al
progetto di «jugoslavismo integrale», come venne battezzato: non soltanto le organizzazioni croate,
slovene o delle minoranze etniche dovevano essere proibite, ma anche quei partiti e quelle
associazioni che avevano difeso sino ad allora l'autonomia culturale e la supremazia politica del
popolo serbo.
Quindi, lo «jugoslavismo» del sovrano si sarebbe presto scontrato con la vecchia e potente classe
dirigente radical-pasiciana. Nel 1930 tutte le antiche organizzazioni culturali delle singole
nazionalità vennero soppresse e convogliate in un unico contenitore, l'«Azione jugoslava»,
organizzazione di sostegno propagandistico all'azione del governo. I gruppi ginnici dei Sokol
(Falchi), organizzazioni giovanili su base regionale, ribattezzati Jugosokol, sarebbero divenuti l'unità
di manovra del nuovo movimento. Dall'Azione jugoslava sarebbero nate in seguito diverse filiazioni
(«Giovane Jugoslavia», «Guardia di ferro», «Nuovo movimento» ecc.) operanti capillarmente
sull'intero territorio nazionale nell'intento di diffondere lo «jugoslavismo» e al contempo di
combattere ogni recrudescenza localista.
La reazione a un simile progetto non si fece attendere. Già dal gennaio 1929 i seguaci di Ante
Pavelic e del disciolto Partito croato del diritto avevano costituito in clandestinità il «Movimento
croato degli insorti» (Hrvatski ustaSki pokret) che nel 1931 sarebbe stato ribattezzato dallo stesso
Pavelic in esilio «Organizzazione rivoluzionaria croata insorta» (UstaSka hrvatska revolucionarna
organizacija). Nasceva così ufficialmente il Movimento ustascia (da ustaSi, insorti), con un
programma molto scarno, ma altrettanto radicale: organizzare l'insurrezione armata della Croazia e
liberarla dal giogo straniero, ossia dal dominio di Belgrado. Due furono i piani su cui si mossero gli
ustascia. Da un lato il piano politico e propagandistico, e cioè incontri, interviste, conferenze,
manifestazioni, raccolta di petizioni da presentare alla Lega dei diritti dell'uomo o alla Società delle
nazioni, il tutto per sensibilizzare l'opinione pubblica internazionale. Dall'altro lato, il piano
terroristico, ispirato dal Sinn Fein irlandese e dalla sua concezione del terrorismo come strumento
capace di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale sulla causa, e suggestionato
dall'iconografia quasi folkloristica delle vecchie società segrete ottocentesche europee (rituali di
iniziazione, vincolo del segreto, vocazione al sacrificio, lugubri simboli come il pugnale o il teschio,
sentenze di morte per i traditori o i titubanti ecc.). Ante Pavelic aveva dichiarato già nell'agosto 1929
che «il coltello, il revolver, il mitra e la bomba sono le trombe che annunceranno l'aurora della
resurrezione di uno stato croato indipendente». Con il peggioramento dei rapporti tra la Jugoslavia e
gli altri potenti vicini il terrorismo ustascia avrebbe trovato numerosi alleati e finanziatori: tra il
1929 e il 1932 sorsero campi di addestramento ustascia sia in Ungheria sia in Italia, organizzati dalle
locali autorità con lo scopo di lanciare sull'odiata Jugoslavia nuclei di sabotatori e cospiratori,
affiancandoli ad altre realtà già operanti sul territorio, come il Vmro macedone o le milizie pro
albanesi del Kosovo.
Il regime di re Alessandro tuttavia scatenò le reazioni delle democrazie occidentali e in modo
particolare del suo potente alleato francese, preoccupato sia dall'impopolarità che le misure
draconiane in atto a Belgrado stavano riscuotendo nell'opinione pubblica mondiale sia dalle
suggestioni mussoliniane del regime «jugoslavista». A ciò si aggiunga la presa di coscienza del
sostanziale fallimento nel fare accettare il sovrano come una sorta di tribuno del popolo, nel creare
una solida base di massa al regime e nell'eliminare definitivamente le organizzazioni politiche del
vecchio regno Shs: dal 1930 infatti erano rinate, formalmente in clandestinità, ma di fatto alla luce
del sole, sia la Coalizione democratico-rurale (ovvero il cartello d'opposizione guidato dal Partito
contadino croato) sia un «comitato di coordinamento» tra i due partiti serbi storici, il radicale e il
democratico. All'inizio del 1931, Alessandro decise quindi di reintrodurre nel paese la legalità,
suscitando alcuni dissensi tra i suoi collaboratori più stretti ormai votati all'antiparlamentarismo e
all'autoritarismo: tra costoro deve essere ricordato, anche per il ruolo non secondario che avrebbe
giocato in seguito, il ministro della Giustizia Dimitrije Ljotic, già sostenitore senza successo
dell'introduzione del corporativismo, il quale per protesta contro le decisioni del sovrano si dimise
dall'esecutivo. Il 3 settembre 1931, dopo più di due anni di regime autoritario, venne varata una
nuova carta costituzionale che modificava le caratteristiche più spiccatamente fascistoidi del regime,
mantenendo tuttavia le principali prerogative saldamente nelle mani della Corona. Furono legalizzati
nuovamente i partiti, a eccezione del Partito comunista, con la pregiudiziale tuttavia che si
riorganizzassero su scala jugoslava anziché locale, etnica o religiosa. Il Parlamento venne riaperto,
anche se poteva essere convocato e disciolto esclusivamente dal re, al quale inoltre il governo
avrebbe continuato a rispondere in modo esclusivo. Infine la nuova legge elettorale contemplava un
premio di maggioranza dei due terzi per la lista che avesse raccolto almeno il 40 per cento dei
suffragi, i quali tra l'altro avrebbero dovuto essere espressi pubblicamente e oralmente.
Il ritorno alla legalità passò attraverso nuovi confronti tra la maggioranza, riorganizzata in un
partito unico in seguito battezzato «Partito nazionale jugoslavo», e l'opposizione che ormai
riconosceva al successore di Radic, Maček, il ruolo di leader affiancato da Trumbic, Pribičevic e dal
musulmano Spaho. Parallelamente alla ripresa dell'iniziativa delle opposizioni «istituzionali»
riapparve anche il separatismo estremista e terrorista. Nel luglio 1932 un commando ustascia sbarcò
sulla costa dalmata con l'ordine di fomentare una rivolta tra la popolazione della regione croata della
Lika. Al fallimento dell'operazione seguì una durissima repressione da parte delle forze di polizia
jugoslave. Poco tempo dopo venne scoperto un complotto golpista di alcuni ufficiali dell'esercito
d'origine slovena. Il governo iniziò a sospettare che dietro alle iniziative insurrezionali operasse il
vertice delle opposizioni e il sospetto divenne certezza quando la Coalizione democratico-rurale
stilò nel novembre 1932 il «Manifesto di Zagabria», dove si richiedeva l'autonomia per la Slovenia,
la Croazia e la Bosnia Erzegovina. Per tutta risposta il nuovo governo (Živkovic era stato sostituito
in aprile) intervenne facendo arrestare Maček, inviando Trumbic al confino a Lésina (dove già si
trovava lo sloveno KoroSec) e obbligando Pribičevic alla fuga in Cecoslovacchia, dove sarebbe
morto alcuni anni dopo: le opposizioni erano state nuovamente decapitate.
Le bombe ustascia, macedoni e kosovare tuttavia continuarono a seminare il terrore: era ormai
chiaro il ruolo italiano nelle iniziative di Pavelic e degli altri capi terroristi. La Jugoslavia doveva
quindi cercare potenti alleati che la aiutassero ad arginare il pericoloso e famelico vicino. Vennero
presi contatti con la Francia, che accettò con entusiasmo di rafforzare i rapporti con Belgrado. Parigi
era infatti preoccupata del «nuovo corso» tedesco inaugurato dal neocancelliere Hitler e stava
rinsaldando i contatti con diverse nazioni per limitare la Germania nazista. Il ministro degli Esteri
Barthou stava lavorando su un progetto di intesa franco-greco-jugoslava che avrebbe dovuto
coinvolgere anche l'Italia, in quel frangente ostile alla Germania. Si rendeva quindi necessaria una
distensione tra Roma e Belgrado e Barthou si pose come garante di tale ravvicinamento.
Il sovrano jugoslavo fu invitato in Francia per discutere l'eventuale disgelo con Mussolini. A
Marsiglia, il 9 ottobre 1934, l'automobile con Alessandro e Barthou venne assalita da un uomo
travestito da fotografo che sparando all'impazzata uccise il monarca.
Ucciso a sua volta a colpi di sciabola da un ufficiale (che per fatale errore colpì mortalmente
anche Barthou) l'attentatore fu identificato come un noto terrorista macedone del Vmro. Vennero
arrestati altri tre complici, tutti appartenenti all'organizzazione ustascia di Pavelic.
L'assassinio di Alessandro Karadjordjevic concluse drammaticamente un periodo iniziato il 6
gennaio 1934. Con il «sovrano-dittatore» scompariva un metodo di affrontare la questione jugoslava
molto diverso da quelli adottati in precedenza: egli aveva cercato di superare tutti i particolarismi,
compreso quello serbo, sacrificandoli per l'unità del paese. In un certo senso, il progetto dello
«jugoslavismo integrale» si scontrava con l'idea della Grande Serbia di Nikola PaSic e dei suoi
successori, i quali non a caso furono critici verso le scelte del sovrano. Alessandro ebbe il torto di
non aprire un rapporto preferenziale con quei croati e quegli sloveni che pur opponendosi al
centralismo belgradese non avrebbero respinto a priori l'idea di una «Grande Jugoslavia».
Abbandonato da parte della vecchia classe dirigente serba, rifiutando un dialogo con le altre
nazionalità, e trovando interlocutori soltanto all'interno delle caste militari ed economiche, il sovrano
eresse un ideale muro attorno a sé, isolandosi nel suo progetto jugoslavista.
Fu anche per questo che il regicidio non scatenò in Jugoslavia nessuna reazione violenta,
nonostante le speranze di esecutori e mandanti. I vecchi esponenti serbi accolsero con un sospiro di
sollievo la morte del sogno jugoslavista, le opposizioni interpretarono i fatti di Marsiglia come la
fine del lungo periodo dittatoriale. Tutti speravano di potere fare ritornare la situazione allo status
quo ante. Ma troppi erano stati gli elementi nuovi inseriti nel processo politico jugoslavo dalla
dittatura di re Alessandro, a cominciare dall'ispirazione fascista che sarebbe divenuta una costante
negli anni successivi. L'esperimento di una Jugoslavia senza più confini interni era finito con un
sostanziale fallimento. Le divisioni tra etnie e religioni persistevano, anzi si acuivano soprattutto
attraverso il gioco delle grandi potenze revisioniste. Inoltre, si era in qualche modo inserito un
ulteriore elemento di complicazione. Per la prima volta il «sogno jugoslavo» era stato evocato non
più come astruso dondolamento di pochi intellettuali, ma come concetto diffuso tra la popolazione,
forse non condiviso, ma senz'altro percepito. Per la prima volta, durante i censimenti, una sparuta
minoranza di cittadini anziché definirsi «croati» o «serbi» aveva iniziato a definirsi semplicemente
«jugoslavi»: in un certo senso, anziché eliminare tutte le etnie, lo scomparso monarca ne aveva creata
una nuova.

L'ultima fase del Regno jugoslavo In attesa che il figlio del sovrano assassinato, Pietro,
raggiungesse il diciottesimo anno d'età, le funzioni di capo dello stato furono attribuite al principe
Paolo, cugino di Alessandro.
Costui non aveva mai condiviso il sogno jugoslavista del suo predecessore, ritenendo più saggio
ritornare a quell'accordo serbo-croato-sloveno sancito con il patto di Corfù e mai applicato.
L'inversione di tendenza che ne derivò si risolse in un allentamento della pressione poliziesca su
tutte le nazionalità del regno: Maček, Trumbic e KoroSec furono liberati e quest'ultimo venne
addirittura nominato presidente del Senato. Nel maggio 1935 si tennero le nuove elezioni politiche:
la Coalizione democratico-rurale delle opposizioni sfiorò il quorum necessario per ottenere i due
terzi, senza tuttavia raggiungerlo. La lista governativa collegata al Partito nazionale jugoslavo incassò
una solida maggioranza parlamentare, nonostante la presenza alla sua destra di una formazione
dichiaratamente fascista guidata dall'ex ministro Ljotic.
Il reggente chiamò alla guida del nuovo esecutivo un giovane e aggressivo politico serbo di
estrazione radicale, Milan Stojadinovic.
Corporativo in politica economica, autoritario, militarista, anticomunista quasi viscerale,
Stojadinovic condivideva le idee del principe Paolo, andando però oltre un generico richiamo allo
«spirito di Corfù». Per il nuovo premier la crisi jugoslava nasceva dalla «questione croata»: le altre
nazionalità erano difatti facilmente controllabili, tant'è che rappresentanti sloveni e musulmani erano
entrati senza eccessivi problemi nel suo governo. Per risolvere la «questione croata» necessitava
un'azione su due fronti: da un lato operare per mettere in pratica l'accordo di Corfù, concedendo a
Zagabria ampie autonomie e al contempo interrompendo la repressione sulle forze politiche croate
legali; dall'altro, togliere ai movimenti separatisti (ustascia, Vmro, albanesi-kosovari ecc.)
l'appoggio delle potenze revisioniste eliminando la causa originaria di tale appoggio e cioè l'ostilità
che Berlino, Roma, Budapest, Sofia e Tirana nutrivano verso il regime di Belgrado.
La decisione di ravvicinare la Jugoslavia alle potenze fasciste fu presa da Stojadinovic con
estrema facilità, date le sue note simpatie verso Mussolini e il corporativismo e la sua profonda
avversione nei confronti della Francia. Il nuovo primo ministro tentò quindi di «fascistizzare» la
Jugoslavia fondando un nuovo partito (l'Unione radicale jugoslava) insieme ai suoi seguaci, ai
popolari sloveni, ai musulmani e organizzandolo sulla falsariga del partito unico italiano; introdusse
elementi di economia corporativa e favorì l'interventismo statale nelle grandi opere pubbliche,
facendo diminuire la disoccupazione; scatenò una delle più violente repressioni anticomuniste della
storia del regno, istituendo financo campi di concentramento per gli attivisti del Partito comunista
clandestino incappati nelle maglie di una polizia riformata ed efficiente. I suoi sostenitori
cominciarono a chiamarlo vodja (duce) e Stojadinovic iniziò, come Mussolini, a farsi fotografare e
filmare mentre trebbiava il grano, lavorava in fabbrica o in miniera, posava le prime pietre di nuovi
edifici. Ma al di là di questi elementi parafascisti, che dimostravano quanto l'esperimento del defunto
sovrano avesse modificato la cultura politica della classe dirigente jugoslava, ciò che principalmente
caratterizzò il governo di Stojadinovic fu la nuova politica estera. Abbandonata la tradizionale
strategia filofrancese, Belgrado si avvicinò a Berlino, Sofia e Roma.
Stojadinovic riconobbe l'Anschlué dell'Austria e siglò importanti accordi economici con il Reich,
firmò un patto d'amicizia con la Bulgaria e strinse una serie di rapporti economici con l'Italia che si
conclusero nel marzo 1938 con lo storico «patto adriatico» di non aggressione e di consultazione in
cui l'Italia si impegnava a rispettare l'integrità territoriale jugoslava (e questo significava
l'abbandono della causa croata) mentre Belgrado, riconoscendo l'impero etiope di Mussolini,
riconosceva implicitamente alla potenza fascista il ruolo guida nel Mediterraneo. I campi
d'addestramento ustascia in Italia furono chiusi, in cambio di un'amnistia che Stojadinovic concesse a
tutti i seguaci di Pavelic non direttamente responsabili di omicidi.
Forte dei successi ottenuti, il premier si presentò alle elezioni politiche anticipate nel dicembre
1938 con una lista governativa contrapposta a un'inedita alleanza tra la Coalizione democratico-
rurale di Maček e la cosiddetta «Opposizione unita» raggruppante gli jugoslavisti del Partito
nazionale e gli esponenti dei vecchi partiti radicale e democratico che non condividevano né la
politica interna né l'iniziativa internazionale di Stojadinovic. Lo scontro tra i due blocchi fu epico e
si concluse con la vittoria risicata del primo ministro, nonostante la solita presenza del
«disturbatore» Ljotic con il suo piccolo raggruppamento fascista «puro» (il movimento Zbor,
Raduno). Il paese appariva ormai spaccato in due, con grave preoccupazione del reggente. Il
principe Paolo era oltretutto diventato assai diffidente nei confronti del primo ministro, il cui disegno
mussoliniano era ormai chiaro a tutti: l'instaurazione di un'aperta dittatura nel paese, non gestita dalla
Corona come la precedente, avrebbe significato relegare i Karadjordjevic a un ruolo di comprimari,
se non di subalterni, come si riteneva stesse accadendo in Italia con i Savoia. A ciò si dovrebbero
aggiungere le pressioni che la Francia stava esercitando sui circoli tradizionali serbi di estrazione
pasiciana e financo l'attività della diplomazia tedesca che non apprezzava le posizioni troppo
sbilanciate verso l'Italia del «piccolo duce» di Belgrado.
Pertanto nel febbraio 1939, con un colpo di mano degno della dinastia, il reggente approfittando di
una crisi ministeriale (naturalmente pilotata) congedò bruscamente Stojadinovic, il quale venne in
seguito accusato di volere ordire un colpo di stato e quindi espulso dalla Jugoslavia.
Il nuovo primo ministro, DragiSa Cvetkovic, era un uomo di fiducia del reggente e rappresentava
la fazione governativa più favorevole alla Germania. Pertanto la politica estera jugoslava subì una
correzione di rotta, pur mantenendosi sempre in direzione dell'Asse.
In politica interna il nuovo esecutivo mantenne la linea tracciata dall'ex primo ministro e anzi la
perfezionò nell'agosto 1939 con lo storico Sporazum (Accordo) con il quale, dopo vent'anni di
centralismo serbo alternato allo jugoslavismo integrale, si concedevano finalmente alla Croazia le
ampie autonomie del patto di Corfù. Vennero riconosciuti a Zagabria una Dieta locale e un governo
con prerogative su agricoltura, commercio, industrie, foreste, miniere, giustizia, polizia civile,
educazione pubblica, sanità, lavori pubblici, benessere sociale e parte della politica finanziaria. Il
Bano (governatore) avrebbe rappresentato la Corona e doveva controfirmare tutti i decreti nazionali
d'interesse croato dopo averli sottoposti al Sabor (Dieta) di Zagabria. Il paragrafo introduttivo
dell'accordo proclamava solennemente che la Jugoslavia era la migliore garante per l'indipendenza
dei serbi, dei croati e degli sloveni: Maček accettava dunque lo stato jugoslavo ed è indubbio che
uno dei motivi di questo risiedesse nell'aumentata pressione sulle frontiere esercitata dall'Italia e
dall'Ungheria dopo la defenestrazione politica di Stojadinovic. D'altra parte, anche i serbi e la
Corona accettarono l'accordo visto come un rafforzamento della nazione dinanzi ai cupi scenari che
stavano delineandosi in Europa.
Non tutti accolsero l'accordo con favore. I serbi più oltranzisti, i fascisti di Ljotic e le oligarchie
aristocratiche e religiose ortodosse consideravano tradito il popolo serbo ritenendo impossibile che i
popoli non serbi potessero essere trasformati in leali sudditi jugoslavi. D'altra parte, anche tra le
altre nazionalità l'accordo non fu accolto con unanime entusiasmo: i democratici indipendenti della
Bosnia Erzegovina ruppero l'alleanza con il Partito contadino croato, accusando Maček di avere
sacrificato la battaglia per la democratizzazione del paese sull'altare dell'interesse croato; gli sloveni
e i musulmani, pur riorganizzati in banovine (governatorati) autonome, non godevano delle ampie
concessioni ottenute dai croati e quindi ritenevano l'accordo ingiusto; i macedoni e le minoranze
etniche infine, completamente esclusi, accolsero la notizia con delusione e rabbia. In ogni caso
l'accordo venne sancito dall'ingresso di Maček al governo in qualità di vicepresidente del Consiglio
dei ministri.
Lo scoppio della Seconda guerra mondiale e le rapide vittorie di Hitler spinsero il governo
Cvetkovic-Maček a una maggiore azione pro tedesca, favorita naturalmente dal Reich che vedeva
definitivamente tramontata la concorrenza italiana nella regione balcanica. L'attacco italiano alla
Grecia dell'ottobre 1940 fece precipitare la situazione. Gli insuccessi in Epiro dell'esercito italiano
obbligarono Hitler a modificare la strategia: temendo che la Grecia potesse trasformarsi in una
temibile «portaerei naturale» dell'aviazione britannica, la Germania intervenne al fianco dell'Italia.
Per la riuscita dell'operazione era però necessario il sostegno logistico delle nazioni presenti nella
regione: se il problema non sussisteva per Ungheria, Bulgaria e Romania, già nell'orbita del
Tripartito, era necessario spingere la Jugoslavia a fare altrettanto. Dinanzi a quello che sembrava più
che una proposta un ultimatum e con la speranza di salvaguardare l'integrità territoriale del paese
dalle mire italiane e ungheresi, il principe Paolo si convinse della giustezza della scelta. Si giunse
così ai colloqui di Vienna del 25 marzo 1941 che si conclusero con l'adesione del regno jugoslavo al
patto tripartito.
Le reazioni nel paese furono però alquanto ostili. Diversi ministri si dimisero per protesta; l'alta
finanza ebraica, la potente massoneria, la chiesa ortodossa, i circoli intellettuali progressisti e tutte le
tradizionali forze politiche serbe d'ispirazione filo francese si schierarono contro il governo; la
piazza venne mobilitata dai circoli nazionalisti d'ispirazione radicale (come la «Difesa nazionale») e
persino il Partito comunista, nonostante fosse ancora in vigore l'alleanza germano-sovietica,
organizzò alcune manifestazioni. Soprattutto si ricompose il vecchio fronte politico centralista-
conservatore di derivazione pasiciana che si era battuto prima contro lo jugoslavismo di re
Alessandro e poi contro i successivi governi filo-Asse: l'attacco sulle scelte di politica estera
sottendeva una netta avversione alla politica interna di accordo con i croati e in generale favorevole
alle autonomie locali.
In pratica, il paese si divise tra decentratori filotedeschi e centralisti filobritannici. Questi ultimi
infatti furono immediatamente sostenuti da Londra che aiutò un gruppo di ufficiali a organizzare un
putsch.
Il 27 marzo 1941 un colpo di stato ribaltò sia il governo che la reggenza: Paolo abdicò a favore
del giovanissimo nipote Pietro, che venne proclamato nuovo sovrano di Jugoslavia. I golpisti
arrestarono Cvetkovic, mentre Maček si ritirò a Zagabria per sfuggire a eventuali rappresaglie, sotto
la protezione della sua «Milizia contadina». Pietro II nominò nuovo primo ministro il generale
d'aviazione Simovic: il popolo jugoslavo, disse Churchill, aveva ritrovato «la sua anima».
Hitler non volle perdere ulteriore tempo: la situazione in Grecia stava precipitando ed era
necessario un intervento che la risolvesse.
La Jugoslavia aveva dimostrato di essere ormai controllata dalla Gran Bretagna, pertanto il 6
aprile 1941 venne sferrato l'attacco simultaneo alla Grecia e al regno dei Karadjordjevic. Le truppe
tedesche, italiane, ungheresi e bulgare schiacciarono la Jugoslavia in una morsa. Mentre la Luftwaffe
bombardava violentemente Belgrado, l'esercito tedesco occupava, attraverso la Bulgaria, sia la
Macedonia sia parte della Serbia. L'Ungheria attaccò i distretti orientali di Slovenia e Croazia. Il
settentrione sloveno venne occupato dalle truppe tedesche, mentre Lubiana, tutta la costa dalmata e il
Montenegro furono invasi dall'esercito italiano. Dall'Albania altre truppe italiane occuparono il
Kosovo. L'esercito jugoslavo si dissolse in pochi giorni e non soltanto a causa dell'impreparazione o
della scarsità dei mezzi. Agenti ustascia, del Vmro macedone o di altre organizzazioni separatiste
avevano operato tra le fila jugoslave organizzando durante l'attacco vere e proprie insurrezioni e
ammutinamenti ai danni degli ufficiali serbi. Interi reggimenti croati o sloveni dopo avere disarmato
i loro commilitoni serbi avevano fraternizzato con le truppe dell'Asse, accolte come liberatrici. Il 10
aprile Zagabria cadeva: Slavko Kvaternik, figlio del combattente indipendentista del XIX secolo, già
ufficiale asburgico ed esponente ustascia, proclamò a nome di Ante Pavelic la nascita dello «stato
indipendente croato». Il 16 aprile, con l'occupazione dell'Erzegovina si concludeva la rapida e
pressoché indolore operazione militare. Mentre il governo Simovic e il sovrano abbandonavano il
paese alla volta dell'Egitto britannico, una delegazione di militari e politici di secondo rango si
incontrò con il comando della seconda armata tedesca accettando la resa incondizionata della
Jugoslavia.
Era il 17 aprile 1941: dopo ventitré anni di difficile sopravvivenza scompariva per sempre il
Regno di Jugoslavia.

La negazione della Jugoslavia Più che spartita, la Jugoslavia venne letteralmente dilaniata dalle
potenze dell'Asse. La Slovenia settentrionale, cioè i territori della Stiria, della Carniola e della
Carinzia inglobati nel regno Shs dopo il 1918, fu annessa al Reich tedesco. L'Italia incorporò i
distretti meridionali e Lubiana concedendogli lo status di «provincia autonoma». Gran parte della
Vojvodina e le valli slovene e croate del fiume Mura furono annesse dall'Ungheria. Il Banato serbo,
dove viveva una minoranza etnica svevo-tedesca trasferita ai tempi di Maria Teresa, fu posto sotto la
diretta amministrazione militare germanica, la quale inoltre garantiva a Bucarest la tutela dell'altra
minoranza etnica locale, la valacco-romena. Mentre la Macedonia, insieme a otto distretti serbi e a
parte del Kosovo passavano alla Bulgaria, la Serbia storica venne reintegrata nei confini precedenti
il 1912 e posta sotto amministrazione militare tedesca. Il resto del Kosovo e la Metohija furono
spartite tra Albania (cioè Italia) e zona d'occupazione tedesca. Il Montenegro venne ricostituito nei
suoi antichi confini e posto sotto l'amministrazione italiana. La Croazia storica, parte della Slavonia,
della Bosnia Erzegovina e della Vojvodina costituirono lo «stato indipendente di Croazia» sotto la
guida del poglavnik (duce) ustascia Ante Pavelic e in seguito trasformato in effimero regno legato
dinasticamente a casa Savoia attraverso il riluttante duca di Spoleto, Aimone. Il litorale dalmata,
infine, occupato dagli italiani fu oggetto di contenzioso con il neoinsediato governo di Zagabria.
La Croazia ustascia Sin dal 1939 sia Roma sia Berlino avevano operato prevedendo,
nell'eventualità di un attacco alla Jugoslavia, la creazione di uno stato croato indipendente. Fondato
sulla soddisfazione delle sino ad allora frustrate istanze autonomiste e separatiste della popolazione
croata e quindi su un potenziale consenso popolare, il futuro stato sarebbe divenuto un comodo mezzo
di penetrazione politico-economica dell'Asse in una regione europea di importanza strategica. Questo
era in particolare il ragionamento tedesco. Per l'Italia la Croazia indipendente e sottomessa avrebbe
soddisfatto due esigenze principali: da un lato avrebbe contribuito a perfezionare il disegno
mussoliniano di un «nuovo ordine mediterraneo» attorno alla «comunità imperiale di Roma»;
dall'altro avrebbe facilmente ceduto la Dalmazia, concludendo la ventennale attesa e trasformando
l'Adriatico in un vero e proprio «lago italiano». Le differenti motivazioni spinsero i due alleati a una
concorrenza che raggiunse momenti di notevole tensione diplomatica. Sia l'Italia sia la Germania
avevano i loro rispettivi interlocutori e, se Roma dopo alcuni tentennamenti puntò definitivamente
sull'estremista Pavelic trasformandolo da piccolo cospiratore a capo di stato in pectore, il Terzo
Reich giocò inizialmente la carta Maček, notoriamente ostile al disegno egemonico italiano sulla
Dalmazia. Ma i tentennamenti del leader contadino croato obbligarono la Germania ad accettare con
riluttanza la soluzione ustascia. Ciononostante, per tutto il corso del conflitto le due potenze
proseguirono la loro silenziosa e ufficiosa guerra diplomatica per estendere il rispettivo e totale
controllo sul piccolo stato fantoccio, giocando di volta in volta sulle ostilità personali presenti nella
compagine governativa.
Pavelic e i suoi ustascia, alleati con i musulmani bosniaci (che avrebbero in seguito costituito due
divisioni di Waffen-Ss), trasformarono lo stato indipendente croato in una dittatura fascista, razzista e
violenta. Lo stato ustascia integrale basò la sua politica sui cosiddetti «Punti fondamentali», una sorta
di carta ideologico-costituzionale ispirata alle elaborazioni compiute nel periodo dell'esilio. Il
monopolio della direzione politica dello stato era attribuito esclusivamente ai «puri croati».
Ribadendo la profonda differenza etnico-religiosa con i serbo ortodossi, gli ustascia proclamavano il
fiume Drina prima che un confine politico, come una linea di divisione tra due civiltà, l'europea e
l'asiatica.
Lo stato croato era quindi una necessità internazionale che avrebbe contribuito a difendere la
civiltà occidentale dalla minaccia orientale; riferendosi allo storico ruolo della Croazia di
«antemurale» della cristianità contro le incursioni turche, lo stato ustascia avrebbe difeso la «Nuova
Europa» di Hitler dagli assalti bolscevichi e slavi. Ma per dargli i mezzi e le potenzialità utili ad
assolvere lo storico compito, si rendeva necessario in primo luogo ripulire i territori «liberati» dalle
presenze aliene: i serbi, gli ebrei, gli zingari, considerati appartenenti a razze inferiori rispetto a
quella croata d'origine «gotico-persiana» e quindi ariana.
Il programma ustascia si perfezionava dando al nuovo stato tre colonne portanti: la religione
cattolica, la tradizione contadina (soprattutto per estendere il consenso sui seguaci di Maček) e
l'ordinamento corporativo. Per applicare questo programma Pavelic istituì una milizia ustascia, un
esercito (i cosiddetti Domobrani, «difensori della patria») e una gendarmeria.
Gli ustascia scatenarono, soprattutto nell'estate 1941, veri e propri pogrom antiserbi, aiutati in
questo da molti musulmani bosniaci, in un'inedita alleanza tra cattolici e islamici. Si aprì una lunga e
sanguinosa stagione di vendette e le popolazioni serbo-ortodosse di Bosnia e Krajina vennero
perseguitate al pari degli ebrei e degli zingari. Evacuati dalle grandi città, limitati negli spostamenti,
licenziati dai luoghi di lavoro pubblici, gli appartenenti alle tre etnie vennero obbligati a indossare
bracciali di riconoscimento colorati (bianchi per gli zingari, azzurri per i serbi) e stelle di Davide.
Nelle province più lontane bande di ustascia, tra i quali si distingueva per agghiacciante efferatezza
la Legione Nera, scatenarono una violenza quasi paranoica. Semplice e terribile al contempo fu il
destino che lo stato ustascia riservò a ebrei e zingari: lo sterminio, che venne eseguito con tale
meticolosità da sorprendere le stesse autorità naziste. Più articolata invece fu l'iniziativa contro i
serboortodossi, un terzo dei quali venne deportato in Serbia, un terzo venne convertito forzatamente
al cattolicesimo e un terzo venne semplicemente massacrato. Sovente anche coloro che erano stati
convertiti forzatamente venivano soppressi con metodi a dir poco terribili ed efferati. Un programma
così «ambizioso» non poteva tuttavia essere eseguito soltanto con i pogrom. Ispirandosi nuovamente
alla Germania nazista (che appariva sempre più il modello di riferimento dello stato ustascia)
Pavelic aprì campi «d'internamento» (logor) su tutto il territorio nazionale. Tra essi meritano triste
memoria i campi di Stara GradiSka, in cui persero la vita 80 mila persone, e soprattutto Jasenovac,
«l'Auschwitz croata», dove non ebbero scampo circa 150 mila tra ebrei, zingari, serbi e oppositori al
regime.
Nella lunga e buia notte del regime ustascia un ruolo non secondario venne ricoperto dalla chiesa
cattolica, la quale assunse all'inizio una posizione favorevole al nuovo stato. Non pochi furono i
prelati, anche di alto livello, che aderirono con entusiasmo alla politica del nuovo regime,
interpretandola come una crociata contro eretici ortodossi, deicidi israeliti e atei comunisti.
L'arcivescovo Stepinac ebbe una posizione più sfumata che, iniziata con un entusiasta abbraccio a
Pavelic, si trasformò via via che le notizie dei massacri e degli stermini giungevano alla capitale,
sino a farlo intervenire, invero tardivamente, per tentare di bloccare gli eccessi. Analogo fu per molti
aspetti l'atteggiamento di Maček, che prese gradatamente le distanze dal regime fino a essere
arrestato dalla polizia di Pavelic e condannato agli arresti domiciliari.
Lo stato ustascia integrale di Ante Pavelic proseguì il suo violento e fanatico cammino sino agli
ultimi giorni del conflitto, approfittando del crollo italiano del 1943 per rioccupare le coste dalmate
e premere sulla mai dimenticata Istria. Soprattutto, proseguì con energica determinazione la pulizia
etnica del suo territorio.
Difficile stabilire un numero delle vittime del fanatismo paveliciano, anche se la più recente
storiografia croata le computa tra le 200 e le 300 mila. Di certo, come ha scritto lo storico Josip
Krulic, la Croazia degli ustascia fu lo stato dell'Europa occupata che ha massacrato o lasciato
massacrare la più elevata percentuale della propria popolazione.

La Serbia tra Polonia e Vichy Hitler, permeato suo malgrado da una formazione politico-culturale
asburgica, considerava la Serbia come un incorreggibile nemico da ridurre all'impotenza attraverso il
pugno di ferro di una diretta amministrazione militare. Pertanto Belgrado e l'intera valle del Danubio
vennero trasformate in una fortezza germanica, mentre i principali fattori produttivi del paese furono
gestiti direttamente da uno speciale quartier generale per lo sfruttamento economico del territorio,
similmente a quanto stava avvenendo in Polonia. A guardia degli interessi germanici vennero posti i
cosiddetti Volksdeutsche, gli appartenenti alla minoranza svevo-tedesca del Banato che furono
dapprima inquadrati in una milizia locale e dall'estate 1942 nella famigerata divisione Waffen-Ss
«Prinz Eugen», responsabile di orrendi crimini contro la popolazione civile serba e israelita.
Come in altri territori europei occupati, le autorità germaniche avevano la necessità di affiancare
all'amministrazione militare una struttura civile composta da funzionari locali che potesse occuparsi
della gestione burocratica. Dopo una fase iniziale in cui un «consiglio dei commissari» presieduto
dall'ex ministro degli Interni dei tempi di Stojadinovic, Milan Ačimovic, aveva gestito l'ordinaria
amministrazione della Serbia occupata, dal settembre 1941 i tedeschi acconsentirono alla
costituzione di un «governo nazionale serbo» con a capo l'ex ministro della Guerra, generale Milan
Nedic. Questi, similmente a quanto stava facendo il maresciallo Pétain nella Francia di Vichy,
raccolse attorno a sé esponenti politici della vecchia nomenklatura serba, legati ai tradizionali partiti
che avevano gestito i ventitré anni di regno (radicali pasiciani, democratici, jugoslavisti di varia
tendenza, ex seguaci di Stojadinovic), accomunati da un lato dalla convinzione che l'occupazione
fosse il minore dei mali rispetto al pericolo comunista, dall'altro che un governo serbo, seppur
limitato nelle prerogative, avrebbe mitigato gli effetti della draconiana occupazione nazista. Dopo
estenuanti trattative Nedic ottenne persino la costituzione di una truppa, la «Guardia di stato»,
composta da ex prigionieri appositamente liberati, la quale avrebbe dovuto rappresentare nel
progetto del quisling di Belgrado il nucleo di un futuro esercito nazionale e quindi il primo passo
verso l'istituzione di uno stato indipendente sulla falsariga della Croazia. Nulla di questo avvenne, e i
cosiddetti «guardisti» di Nedic restarono una scalcinata milizia civile utilizzata dai tedeschi
soprattutto quale truppa di vigilanza alle frontiere, guardati con diffidenza dalle autorità germaniche
che temevano, non sbagliando, il loro doppiogiochismo. Assai più fedeli si dimostrarono i seguaci
del redivivo Ljotic, il leader fascista prebellico, che organizzò un «Corpo di volontari» di alcune
migliaia di unità, caratterizzato dal fanatico antisemitismo e dall'integralismo religioso. Le unità
ljoticiane affiancarono i tedeschi in numerose azioni antipartigiane, partecipando come nel tragico
episodio di Kragujevac, ai massacri di rappresaglia contro le popolazioni civili.
La Serbia di Nedic e dei suoi collaboratori fu quindi una realtà assai più limitata politicamente
rispetto alla Croazia e, se si esclude il gruppo di Ljotic, essa non ebbe neppure la dignità di
cobelligerante, restando nient'altro che una riserva agroalimentare e mineraria da depredare o tutt'al
più un centro di raccolta delle migliaia di deportati serboortodossi o sloveni provenienti dalle
regioni del Nord.

La spartizione della Slovenia I tedeschi occuparono, come è stato detto, i distretti settentrionali
della Slovenia e li annessero al Reich. Appoggiandosi sulla cospicua minoranza di lingua germanica,
gli occupatori condussero una violenta politica di denazionalizzazione (Macht mir dieses Land
wieder deutsch, fu l'ordine impartito personalmente da Hitler), pianificando la deportazione in
Germania, in Croazia o in Serbia di più di un quarto di milione di sloveni: si assisteva a un tragico,
allucinante contrappasso rispetto a quanto avvenuto dopo il 1918. L'obiettivo era quello di rendere la
«Marca imperiale stiriana», come i nostalgici degli Asburgo amavano chiamare la regione, territorio
etnicamente puro, e cioè tedesco. L'obiettivo non venne raggiunto e i deportati reali furono «soltanto»
60 mila: chi non venne deportato tuttavia subì una persecuzione che, come scrive lo storico triestino
sloveno JoŽe Pirjevec, fu senza pari nel resto d'Europa. Il risultato delle violenze, nelle quali si
distinsero soprattutto i soliti Volksdeutsche di vocazione nazista, fu una continua tracimazione verso
le regioni meridionali, controllate dalle autorità italiane.
In un clima relativamente meno violento, il distretto di Lubiana era controllato da un alto
commissariato, sorta di prefettura speciale, affiancato dal comando dell'XI corpo d'armata del regio
esercito italiano. Mussolini aveva infatti optato per annettere anch'egli i territori sloveni entro i
confini metropolitani ma, rispetto ai tedeschi, mantenendo una sorta di «distacco» da essi attraverso
l'istituzione di una «provincia autonoma». In realtà, nonostante tutti i tentativi dell'alto commissario
di Lubiana, il governo di Roma non soltanto non applicò una legislazione ad hoc, come ci si sarebbe
dovuto attendere in un caso del genere, ma in diversi casi evitò persino di estendere la legislazione
ordinaria in vigore nel resto del regno: Lubiana restò dunque un territorio occupato militarmente, e
soprattutto dopo l'insurrezione partigiana, fu trasformata prima de facto e quindi de iure in «zona
d'operazioni». L'intero corpo d'armata, che negli intendimenti iniziali del comando supremo avrebbe
dovuto avere compiti presidiali, si trasformò in una grande unità di controguerriglia che si impegnò,
soprattutto nel 1942, in azioni aventi le caratteristiche di vere e proprie campagne militari tanto
energiche quanto sanguinarie. Al loro fianco, facendo leva sulla cultura cattolico-conservatrice
dell'elemento contadino, le autorità italiane schierarono una milizia volontaria «anticomunista»,
d'ispirazione cattolica e pertanto ribattezzata «Guardia bianca» (Bela garda). I belogardisti trovarono
nell'ancora ramificato e operativo Partito popolare (con a capo l'ex bano Marko Natlačen) e in molti
ambienti della curia (a cominciare dal vescovo RoŽman) notevoli sostegni. Anche l'area liberale e
monarchica si schierò su posizioni filoitaliane, sempre sulla base del ragionamento che l'occupazione
era il male minore rispetto al comunismo, favorendo la nascita di una «Guardia azzurra». Il
collaborazionismo sloveno fu un fenomeno assai più diffuso di quello serbo, al punto che si può
calcolare che per ogni partigiano originario di Lubiana vi erano quasi quattro quisling (bianchi o
azzurri) schierati al fianco degli italiani.
Con il crollo italiano del settembre 1943, i tedeschi occuparono anche i distretti meridionali,
istituendo anch'essi una «provincia autonoma» con a capo l'ex generale Lev Rupnik e riunificando
tutte le forze collaborazioniste in un «esercito nazionale sloveno» (Slovensko domobranstvo). La
scelta delle autorità tedesche lasciava ventilare l'ipotesi della futura concessione di una totale
indipendenza della Slovenia, nuovamente sulla falsariga dello stato croato: anche in tal caso non se
ne fece nulla, ma tanto bastò per dare a Rupnik quel consenso necessario nella lotta contro il sempre
più forte movimento partigiano.

Le altre regioni occupate Le autorità ungheresi e bulgare condussero rispettivamente nei distretti
orientali e in quelli macedoni una drastica e violenta politica di denazionalizzazione contro
l'elemento sloveno e serbo: anche in questi casi, come nella Slovenia tedesca o nella Croazia degli
ustascia, l'obiettivo era la creazione di territori etnicamente puri. Violentissima fu l'occupazione
magiara, che si avvalse di milizie organizzate dalla locale minoranza ungherese o da volontari inviati
da Budapest appartenenti al movimento crocefrecciato, e che si scatenò contro i serbi, gli ebrei e gli
zingari. I bulgari compirono un'operazione più simile a quella tedesca e deportarono forzatamente
migliaia di serbi a Belgrado, ribattezzando le popolazioni macedoni rimaste «bulgari di Macedonia».
L'occupazione italiana del Montenegro inizialmente avrebbe dovuto trasformarsi nella concessione
di un'indipendenza formale attraverso la ricostituzione del vecchio regno dentro la comunità
imperiale di Roma e legato ai Savoia attraverso la regina Elena, figlia dell'ultimo Petrovic-NjegoS.
Il tentativo, sostenuto soprattutto dal locale partito legittimista, fallì a causa della doppia insurrezione
nazionalista e comunista del luglio 1941. Da quel momento le autorità italiane dovettero condurre una
lunga e sanguinosa lotta antiguerriglia fino a che, nel luglio 1942, il governatore militare italiano
Pirzio Biroli riuscì a concludere un «accordo onnicomprensivo» con tutte le forze d'ispirazione
nazionalista allo scopo di condurre un'azione comune contro i partigiani. Anche in questo caso,
l'intero sistema d'occupazione italiano si disfece l'8 settembre e a esso subentrarono le autorità
tedesche mantenendo peraltro analoghi rapporti con i locali nazionalisti di diverse tendenze. Si noti
che le forze nazionaliste e cetniche operanti in Montenegro oltre a scontrarsi spesso con successo
contro i partigiani, scatenarono terribili pogrom contro le minoranze musulmane e d'origine turca del
vicino Sangiaccato e persino, sconfinando, contro villaggi abitati da croati cattolici.
Analoghi problemi etnico-religiosi vennero gestiti dagli italiani sia in Kosovo che in Dalmazia. La
maggior parte del Kosovo e della Metohija fu annessa alla «Grande Albania» e divisa in tre
prefetture controllate da esponenti dell'etnia albanese. Al fianco delle truppe italiane furono
organizzate milizie schipetare che si distinsero in modo particolare per i loro comportamenti
visceralmente antiserbi obbligando più volte le autorità d'occupazione a intervenire. Analoghi
interventi si ebbero nella Dalmazia occupata dall'esercito italiano, dove le etnie serbe e croate si
scontravano sin dall'aprile 1941. In diversi casi i presidi italiani si trasformarono in centri di
raccolta delle popolazioni serbo-ortodosse in fuga dai pogrom condotti dagli ustascia. Diversi serbi
abili al combattimento si organizzarono quindi in bande armate ispirate alla secolare tradizione
cetnica con lo scopo iniziale di autodifesa. In seguito, tuttavia, anche le milizie cetniche si
scatenarono, a titolo di rappresaglia, contro le locali popolazioni croato-cattoliche e musulmane in un
vortice di violenza che trascinò la regione in un bellum omnium contra omnes che superò in violenza
le iniziative degli stessi occupatori italiani.

Cetnici e partigiani L'elemento di maggiore complicazione della Jugoslavia occupata fu la


resistenza, la quale si mosse con criteri tutti balcanici e che, a differenza di altri luoghi (Olanda,
Francia, Italia) non ebbe una direzione unitaria, anzi, si trasformò ben presto in un'ulteriore guerra
civile interjugoslava. Due furono i focolai di resistenza: da un lato, attorno a un gruppo di ufficiali
del disciolto regio esercito, per lo più d'origine serba o montenegrina, si formò il movimento di
resistenza nazionalista e monarchica detto dei «cetnici»; dall'altro, il Partito comunista costituì
l'ossatura del movimento partigiano.
La vicenda storica e ideologica dei cetnici, che si richiamavano nel nome all'antica e più volte
citata tradizione resistenziale antiturca, fu caratterizzata da un'ispirazione grande-serba. Riuniti da
DraŽa Mihajlovic, un colonnello serbo con un passato nei servizi segreti, i cetnici avrebbero dovuto
rappresentare sulla falsariga dell'esperienza gollista la prosecuzione della resistenza anti-Asse e il
rifiuto della capitolazione. Le unità di Mihajlovic, composte per lo più da ex soldati jugoslavi allo
sbando, si rafforzarono nel corso dell'estate del 1941 e, seguendo la strategia diffusa più o meno in
tutto il continente occupato, attesero l'offensiva alleata per scatenare la rivolta contro gli occupatori e
i loro collaboratori locali. Tuttavia, la principale debolezza del movimento cetnico fu, almeno nella
prima fase, il suo programma sciovinista e grande-serbo. Convinto, e non completamente a torto, che
il crollo repentino del regno jugoslavo avesse trovato origine nel separatismo croato e sloveno,
tenace sostenitore del tradizionale centralismo di Belgrado e della Corona contro ogni forma di
localismo, Mihajlovic diede al suo movimento un iniziale programma che non lasciava dubbi sul
futuro assetto della Jugoslavia liberata: la «Nuova Jugoslavia» non sarebbe stata nient'altro che la
riedizione della vecchia, di quella prima del 1929, ovvero il trionfo del primato serbo su tutte le
altre nazionalità. Ricollegandosi agli antichi «patti di Corfù» del 1917 si riesumava quella curiosa
formula di «federalismo controllato» tra i diversi popoli jugoslavi che sottointendeva, e in modo
neppure troppo implicito, il ruolo guida del popolo, della nazione e della Corona serba su tutto e
tutti. Con un programma del genere, non a caso approvato nel giugno 1941 da esponenti dei
tradizionali partiti serbi e monarchici alla macchia, il movimento di Mihajlovic perse l'occasione di
trasformarsi sin da subito in un fenomeno resistenziale jugoslavo per limitarsi a sostenere l'istanza di
una sola parte, la serba, e soprattutto un progetto meramente restaurativo.
Il tradizionale anticomunismo, che permeava sia Mihajlovic che i suoi principali collaboratori,
pose i cetnici in rotta di collisione con il movimento partigiano organizzato attorno al Partito
comunista che dal 1937 era guidato dal croato Josip Broz, detto «Tito».
Utilizzando una rete clandestina collaudata (il partito era fuorilegge da vent'anni) Tito organizzò
immediatamente, dall'aprile 1941, un organismo disciplinato e pronto a reagire che, dopo l'attacco
tedesco all'Unione Sovietica, scatenò una rivolta soprattutto in Serbia e Montenegro. I tentativi di
unificare le due resistenze, orditi tanto da Mihajlovic quanto da Tito, non diedero alcun risultato:
entrambi volevano assoggettare l'altro e assimilarne il rispettivo movimento; all'anticomunismo
dell'uno replicava l'ostilità antimonarchica e antiborghese dell'altro. Ma l'elemento che ancora
maggioramente spinse cetnici e partigiani a dividersi definitivamente fu il programma. Tito rispose al
programma grande-serbo di Mihajlovic con l'elaborazione, sin dal 1942, di un progetto che
riconosceva in pieno il pluralismo etnico religioso jugoslavo. Veniva addirittura riconosciuta, ed era
la prima volta che ciò accadeva, una propria identità nazionale agli storici «paria» della vecchia
Jugoslavia, gli albanesi, i macedoni, i montenegrini, e si giungeva a riconoscere clamorosamente ai
musulmani una propria dignità etnica. La futura Jugoslavia sarebbe stata per Tito forse socialista
(l'opportunità di allearsi con la Corona e il governo borghese in esilio a Londra non gli permetteva di
essere troppo esplicito), ma senz'altro federale. Grande-serbi contro jugo-federalisti: nuovamente le
due scuole di pensiero si confrontavano, ma stavolta il confronto pareva aggravarsi a causa
dell'abisso ideologico che divideva l'ufficiale monarchico dall'uomo del Comintern.
Il risultato di tale scontro fu una riedizione delle antiche rivalità tra i principi serbi nel periodo
della dominazione ottomana, quando i capiguerriglieri giungevano ad allearsi temporaneamente con
gli odiati occupatori pur di debellare i loro concorrenti interni.
Mihajlovic e i suoi collaboratori strinsero accordi non soltanto con i quisling serbi, ma financo
con italiani e tedeschi pur di distruggere i partigiani d'ispirazione comunista; analogamente anche
Tito giunse a stringere patti, soprattutto con le autorità germaniche, per eliminare il temibile
avversario interno. La sanguinosa guerra civile che ne scaturì devastò principalmente la Serbia, il
Montenegro e la Bosnia, dove ai due contendenti e agli occupatori si aggiunsero gli ustascia di
Pavelic, facendo inghiottire la sciagurata terra in una sorta di allucinante mälstrom di rappresaglie e
massacri. I cetnici, soprattutto, più o meno legati direttamente a Mihajlovic, si scagliarono
parallelamente alla loro battaglia anticomunista sulle popolazioni cattoliche e musulmane per
vendicare i serboortodossi trucidati nello stato indipendente di Croazia.
Gli Alleati avevano inizialmente intessuto i rapporti soltanto con Mihajlovic, convinti del
consenso e della forza militare dell'ufficiale. Il governo in esilio giunse a nominare Mihajlovic prima
generale e quindi ministro della Guerra, dando alle sue milizie la denominazione forse un po'
pretenziosa visti gli organici (alcune decine di migliaia di unità) di «Esercito jugoslavo in patria».
Tuttavia, allorquando quella che sembrava fosse un'ambiguità limitata nel tempo e nello spazio si
trasformò in sempre più esplicita collaborazione con i tedeschi, gli angloamericani abbandonarono
Mihajlovic per sostenere Tito e i suoi partigiani, ritenuti più affidabili. Il leader cetnico, che non
aveva mai concluso personalmente accordi di collaborazione aperta con gli occupatori, limitandosi a
collegamenti con il governo fantoccio di Nedic a Belgrado, pagò soprattutto l'ambiguità dei suoi
luogotenenti regionali. Costoro giunsero, come nel caso bosniaco, a stringere accordi persino con gli
odiatissimi ustascia o, come in Dalmazia, a farsi inquadrare nell'esercito italiano. Il declino del
movimento cetnico, inoltre, fu determinato dall'anacronistico programma grande-serbo, al quale Tito
rispose dalla cittadina bosniaca di Jajce (novembre 1943) con l'assemblea del «Consiglio
antifascista dei popoli della Jugoslavia» (Avnoj) che approvò la futura struttura federale dello stato
attraverso la creazione di repubbliche «nazionali» con pari dignità. Il tentativo dei cetnici di
adeguare il loro programma alla «moda federalista», messo in atto nel villaggio serbo di Ba, nel
gennaio 1944, fu inutile e tardivo. Mihajlovic, abbandonato dagli Alleati e politicamente sconfitto
(Tito divenne nuovo ministro della Guerra del governo in esilio nel luglio 1944), non poté far altro
che intensificare la collaborazione con i quisling serbi e, dopo il crollo italiano, con i tedeschi. Le
sue truppe, fusesi con le «guardie» di Nedic, si ritrovarono al fianco dei fascisti di Ljotic e delle
ultime unità germaniche a difendere Belgrado dall'offensiva finale titoista. Con la liberazione della
capitale iniziò la fase finale della guerra (o meglio, delle guerre) di Jugoslavia.

La Jugoslavia socialista e federale Dinanzi all'avanzata delle truppe di Tito, ormai trasformatesi
da milizia partigiana in efficiente esercito di liberazione nazionale, si ebbe la rovinosa rotta di tutte
le unità collaborazioniste le quali, dopo anni di odio e di massacri interetnici in alcuni casi si
strinsero in inedite e sconcertanti alleanze di fronte al nemico comune. Si ebbero così nazionalisti
macedoni, albanesi-kosovari e serbi incolonnati insieme verso le regioni del Nord, cetnici e ustascia
schierati sulle ultime, deboli linee difensive in Bosnia e Croazia, sloveni indipendentisti e
filojugoslavi uniti soltanto dall'anticomunismo e affiancati dagli odiati musulmani. Ma anche in quei
frangenti neppure il terrore delle vendette titoiste riuscì a estendere tali alleanze a tutti i nazionalisti e
i fascisti jugoslavi: in diversi casi la rotta dei cetnici si risolse negli ultimi, sanguinosi pogrom ai
danni delle popolazioni cattoliche e musulmane, così come i ripiegamenti disordinati degli ustascia
lasciavano alle loro spalle interi villaggi serbi distrutti.
La ritirata dei vari nazionalisti jugoslavi si concluse sul confine con Austria e Italia nel maggio
1945. Una parte dei collaborazionisti e dei cetnici riuscì a espatriare, dileguandosi in una vera e
propria diaspora planetaria. Una parte consistente di fuggiaschi, insieme alle loro famiglie, fu
respinta dalle autorità alleate che si trovavano oltre frontiera e quindi venne catturata dai titoisti. Si
trattava per lo più di croati e sloveni: tra costoro vi erano esponenti dei regimi quisling locali, noti
autori di efferatezze, convinti anticomunisti e anche profughi senza idee, ma semplicemente
terrorizzati. Tutti, colpevoli e innocenti, familiari compresi, vennero letteralmente inghiottiti nelle
foibe del Carso sloveno, fucilati sommariamente in luoghi ancora oggi sconosciuti, deportati in campi
di raccolta che presto si sarebbero trasformati in campi di sterminio. La «punizione» di Tito contro le
«guardie bianche» slovene, gli ustascia croati e i cetnici o i nazionalisti serbi si estese ai civili
inermi che ebbero l'unica colpa di fuggire: è assai difficile stabilire quanti furono i fuggiaschi che
furono uccisi nei giorni della liberazione, anche se la storiografia occidentale ha quantificato tra le
150 e le 200 mila vittime. In ogni caso, il bagno di sangue, che si aggiunse alla tragedia istriano-
triestina ai danni della popolazione italiana, suggellò la fine di un conflitto che era costato alla
Jugoslavia circa un milione di morti. Di questi, quasi 700 mila erano stati uccisi da altri jugoslavi.
All'eliminazione fisica degli oppositori, seguì quella politica. Il Partito comunista, applicando una
metodologia che si stava rapidamente diffondendo in altri paesi, estese l'accusa di collaborazionismo
e di fascismo ai principali concorrenti (come per esempio il vecchio Partito contadino croato di
Maček): in breve, tra il 1945 e il 1946 i titoisti egemonizzarono la conduzione del nuovo stato,
relegando le organizzazioni politiche a essi alleate a ruoli secondari e ininfluenti; di fatto, il
cosiddetto «Fronte nazionale», alleanza tra i comunisti, socialisti, e altre forze d'ispirazione social-
cristiana e democratico-rurale, altro non fu che una nuova denominazione del Partito egemone e, di
fatto, unico. Le elezioni dell'11 novembre 1945 sancirono l'egemonia comunista sul martoriato paese
e la leadership di Tito rispetto a tutte le altre alternative, deboli o screditate. Il 29 novembre 1945,
l'Assemblea costituente, proclamando la nascita della «Repubblica socialista federativa di
Jugoslavia», sanciva la definitiva caduta della dinastia dei Karadjordjevic.
La costituzione della nuova Jugoslavia repubblicana ribadì la natura stalinista del regime. Per
scelta, più che per imposizione, i comunisti jugoslavi si ispiravano al modello sovietico nella sua
accezione dottrinalmente più rigorosa: la Costituzione del 1946 appariva profondamente influenzata
da quella voluta dieci anni prima da Stalin per l'Urss, dall'organizzazione economica collettivista
attraverso il ruolo guida dello stato in tutte le attività sia industriali che agricole, all'indivisibilità dei
poteri istituzionali di fatto sottoposti al partito. La successiva introduzione del sistema pianificato
avrebbe perfezionato e sancito definitivamente l'appartenenza dello stato al blocco ideologico
stalinista, in una posizione tuttavia diversa rispetto alle altre succubi democrazie popolari in via di
formazione: la nuova Jugoslavia manteneva una sua «indipendente lealtà» verso Mosca che ben
presto l'avrebbe posta in rotta di collisione con il potente alleato. Tuttavia, oltre a essere socialista,
la «nuova Jugoslavia» era anche «federativa». Il federalismo di Tito fu un tentativo di soluzione
dell'eterno problema nazionale, o meglio delle nazionalità. Come s'è visto, l'opzione federale era
stata percepita ed evocata in diverse occasioni sia durante le dominazioni straniere che nelle varie
fasi della Jugoslavia monarchica. Ma tali progetti si basavano principalmente sul confronto tra serbi
e croati, escludendo parzialmente o in toto le altre nazionalità. Tito basò il suo federalismo su un
ridimensionamento pressoché equivalente dei due contendenti principali. Oltre alle purghe contro i
collaborazionisti e gli anticomunisti (che decapitarono tanto a Zagabria quanto a Belgrado gran parte
dei vecchi ceti dirigenti) si ebbe una drastica iniziativa territoriale. La vecchia Serbia venne
smantellata in cinque territori: la Repubblica serba, con le due regioni autonome di Kosovo e
Vojvodina, la Repubblica montenegrina e quella macedone. La Croazia fu separata dalla Bosnia
Erzegovina, e ulteriormente ridotta rispetto ai suoi confini precedenti la guerra. La nuova struttura
federale potenziò viceversa le nazionalità fino a quel momento escluse: i macedoni, che ottennero
finalmente una loro identità e una loro repubblica; i montenegrini, che si videro ripristinare gli
antichi confini; i bosniaci e tra essi soprattutto i musulmani, trasformati, caso unico nella storia
dell'ateismo di stato, in una nazionalità definita da un termine puramente religioso; le minoranze
etniche (a eccezione degli italiani e dei tedeschi, che furono duramente colpiti dalle vendette
titoiste), ottennero per la prima volta il diritto di sviluppare le loro culture e le loro lingue.
La Jugoslavia sorse quindi come «comunità di nazioni» cementata dall'ortodossia marxista-
leninista, ma non solo. In un certo senso Tito volle raggiungere l'apparentemente inconciliabile
connubio tra il federalismo e lo jugoslavismo di re Alessandro. Diede ai popoli jugoslavi le ampie
autonomie che richiedevano a discapito delle volontà egemoniche serbe o croate, ma al contempo ne
trasformò le tradizionali rivendicazioni territoriali in rivendicazioni di tutta la federazione: nei
concitati anni del dopoguerra, durante le fasi di ridefinizione delle frontiere, le «classiche»
rivendicazioni slovene su Gorizia, Trieste e la Carinzia, croate sulla Dalmazia e l'Istria, macedoni
sulla Macedonia egea e serbe sul Kosovo divennero rivendicazioni semplicemente «jugoslave» o
meglio «dei popoli jugoslavi», in un'accezione fortunata che sarebbe perdurata per più di
cinquant'anni.
Tali rivendicazioni si sarebbero presto riclassificate attorno a un tentativo di politica estera
autonoma di Tito il quale, anche in questo caso attento osservatore della politica dei Karadjordjevic,
volle rilanciare l'idea di un'intesa balcanica che coinvolgesse prima un'eventuale e possibile Grecia
comunista e poi almeno la vicina Bulgaria. L'unità della Jugoslavia, dunque, non poteva essere
garantita soltanto dal tipo di federalismo applicato o dal cemento marxista-leninista: la Jugoslavia
sarebbe stata tale anche e soprattutto se avesse finalmente avuto quel ruolo nel contesto
internazionale che sino ad allora le era stato negato. Ma l'iniziativa di Tito avrebbe colliso
rovinosamente con la volontà egemonica di Stalin, il quale non poteva permettere la costituzione
all'interno del «suo» blocco di un'alleanza regionale che prescindesse da Mosca.

La Jugoslavia dell'autogestione politica ed economica I rapporti tra Stalin e Tito avevano subito un
lungo e silente deterioramento a partire dal maggio 1945 allorquando i partigiani jugoslavi avevano
occupato Trieste. Le autorità angloamericane si erano energicamente opposte all'iniziativa e Tito
aveva confidato su un sostegno sovietico che non ci fu; anzi, nel giugno successivo Stalin ordinò al
governo di Belgrado il ritiro immediato delle truppe dalla capitale giuliana («Non vogliamo essere
immischiati in una Terza guerra mondiale per la questione triestina» avrebbe dichiarato il dittatore
sovietico). Da quel momento, i rapporti tra i due esponenti comunisti iniziarono a incrinarsi.
L'iniziativa sud balcanica con la Bulgaria fu l'ultimo e il più importante atto di tale processo
degenerativo. Il 28 giugno 1948, i paesi membri del Cominform condannarono Tito e la Jugoslavia
con un vero e proprio atto di scomunica, espellendola dall'organizzazione quale nazione imperialista
legata alle passate ideologie nazionaliste e fasciste. Stalin confidava che quell'atto avrebbe sollevato
una rivolta all'interno del Partito comunista jugoslavo con conseguente defenestrazione di Tito e del
suo gruppo dirigente e un nuovo allineamento ortodosso e fedele alle direttive di Mosca dello stato
balcanico. Tutto ciò non si ebbe, anche se una cospicua minoranza della dirigenza e dei quadri
intermedi del partito si schierò con Mosca. Il presidente jugoslavo giocando con astuzia la carta del
federalismo indicò negli «stalinisti», peraltro non a torto, gli alfieri di un redivivo centralismo: se i
sostenitori del dittatore sovietico avessero vinto, la «nuova Jugoslavia» sarebbe divenuta uno stato
fantoccio di Mosca, perdendo la sua «indipendente lealtà», e i singoli popoli jugoslavi sarebbero
ritornati a obbedire a Belgrado come ai tempi dei Karadjordjevic. In breve la maggioranza del paese,
compresi i vecchi nazionalisti sopravvissuti a guerra e dopoguerra, si schierarono con Tito sancendo
la sconfitta dei cominformisti che andarono incontro a una purga condotta dal leader di Belgrado con
metodi radicali, violenti e spietati. Molti di loro furono deportati nel terribile campo di lavoro
dell'Isola Calva (Goli Otok). Tra questi, c'era anche buona parte dei «monfalconesi»; un gruppo di
circa cinquemila operai comunisti italiani, provenienti soprattutto dai cantieri navali di Monfalcone,
che erano emigrati nella Jugoslavia di Tito per costruire il comunismo e per dare una propagandistica
risposta politica all'esodo degli italiani dell'Istria.
Dopo la rottura con il Cominform, Tito e il suo partito dovettero rinunciare agli aiuti economici
sovietici. I paesi comunisti imposero sull'ex alleato un blocco economico che ebbe come
conseguenza diretta l'interruzione del commercio, del credito e dell'importazione di materie prime
necessarie per l'industria pesante. Verso la fine del 1949 le relazioni commerciali con tutto l'Est
europeo erano definitivamente terminate. La Jugoslavia si trovò dunque sola a dovere affrontare la
difficile fase della ricostruzione e l'attuazione del nuovo piano quinquennale. Fu giocoforza
l'avvicinamento con l'Occidente. Per l'Alleanza atlantica l'eresia jugoslava tornava assai utile nel
contesto geopolitico europeo: l'Urss perdeva lo sbocco diretto sull'Adriatico e un confronto diretto
con il blocco occidentale nello scacchiere mediterraneo attraverso il confine di Trieste. Per Tito il
sostegno economico e politico occidentale avrebbe garantito sia lo sviluppo che l'indipendenza. La
natura comunista dello stato escludeva naturalmente un inserimento organico nel blocco occidentale
che sarebbe stato accolto perlomeno con imbarazzo tanto a Washington quanto a Belgrado. La
collocazione ottimale sarebbe stata quella formalmente equidistante e neutrale dai due blocchi.
L'equidistanza si sarebbe trasferita financo nella struttura economico-sociale del paese, che venne
lentamente trasformata da collettivista ad autogestita, con la proprietà di alcuni fattori produttivi
trasferita dallo stato a consigli di gestione composti dagli stessi lavoratori delle imprese.
Dopo una prima fase caratterizzata da reciproci sospetti, il definitivo fallimento del piano
quinquennale e lo scoppio della guerra di Corea, convinsero Tito a rompere gli indugi e ad accettare
il sostegno occidentale attraverso l'invio di cospicui aiuti economici. La «seconda Jugoslavia
socialista» nacque ufficialmente nel 1952-53, allorché il Partito comunista di Jugoslavia mutò il
nome in «Lega dei comunisti jugoslavi» e il Fronte nazionale si trasformò nell'«Alleanza socialista
del popolo lavoratore»: la vecchia concezione del partito ispirato dal modello sovietico, centralista
e monolitico, venne così abbandonata e sostituita con un principio federalista che prevedeva la
coalizione dei partiti comunisti delle singole repubbliche. Sotto la guida della Lega, la Jugoslavia
rafforzò nel corso degli anni cinquanta il principio dell'autogestione economica e politica. Si trattava
invero di un'autogestione più teorica e propagandistica che altro: dietro agli slogan del non
allineamento e della via nazionale al socialismo erano malcelati gli aiuti occidentali che sostenevano
le ardite sperimentazioni economiche e sociali di Tito in cambio di una collocazione de facto nello
schieramento antisovietico o, per lo meno, fuori dalla sfera d'influenza di Mosca.

L'ultima Jugoslavia La grande stagione della Jugoslavia autogestita fu tuttavia inaugurata solo tra il
1963 e il 1965, mediante un'operazione politico-istituzionale ed economica atta a smantellare l'intero
impianto ideologico residuo e dando al paese una nuova carta costituzionale (1963) che sanciva
l'autogestione quale modello economico e il decentramento economico e politico quale modello
istituzionale. La riforma economica conseguente (1965), fortemente voluta dal numero due del
regime, lo sloveno Edvard Kardelj, si propose la drastica modernizzazione del paese attraverso la
revisione dei prezzi, il corso unico del dinaro, l'alleggerimento della pressione fiscale, l'apertura
delle frontiere ai commerci e ai capitali stranieri, la sottrazione del sistema bancario dal modello
autogestito per facilitarne l'attività. Si accentuò il decentramento economico dando sempre maggiore
spazio agli organi di gestione dei lavoratori, dai quali emerse con decisione una nuova classe
dirigente di giovani e capaci tecnocrati.
Ma la riforma non diede i risultati sperati. Si ebbero aumenti dei prezzi, svalutazione della moneta,
inflazione, aumento del debito estero, rallentamento della crescita e della produttività, aumento della
disoccupazione e del fenomeno, sempre più marcato, dell'emigrazione all'estero. In tale clima, la
concessione di ancora più ampie autonomie alle singole repubbliche fu per certi versi dirompente. Le
repubbliche del Nord (Slovenia e Croazia), che avevano goduto di un notevole sviluppo economico,
richiedevano sempre maggiori prerogative per staccarsi dal destino di miseria che sembrava essere
riservato al resto della Jugoslavia. D'altra parte, la Serbia richiedeva un ritorno alla vecchia
Costituzione, assai più centralista di quella del 1963, proprio per evitare un indebolimento politico
di Belgrado a scapito di Zagabria e Lubiana. Le istanze serbe si trasferirono dal piano istituzionale a
quello economico e persino politico-ideologico e vennero raccolte dal vicepresidente della
repubblica, Aleksandar Rankovic, esponente di punta del Partito comunista serbo, distintosi in
passato nella repressione dei movimenti nazionalisti albanesi in Kosovo, in teoria in nome
dell'«internazionalismo» socialista e di fatto per rafforzare il controllo di Belgrado sulla regione. In
una compenetrazione fino ad allora inedita di ortodossia marxista-leninista antiliberale e di
centralismo grande-serbo, la fazione serba di Rankovic si scontrò con quella slovena di Kardelj,
sempre più ispirata alle socialdemocrazie occidentali, al liberalismo economico e al decentramento
politico. Il risultato del confronto venne naturalmente deciso da Tito il quale, sostenendo le posizioni
degli sloveni si liberò al contempo di Rankovic e di tutta la corrente marxista-leninista ortodossa che
aveva prolificato soprattutto nel partito serbo.
L'«affare Rankovic» ebbe tuttavia conseguenze dirompenti sulla situazione già di per sé non facile.
In Croazia, soprattutto, si formò un movimento riformista e nazionalista animato da due esponenti di
primo piano del Partito comunista locale, Savka Dabčevic-Kučar e Mika Tripalo. Sostenuti da
associazioni studentesche d'ispirazione cattolica, i due leader locali accusavano la burocrazia
belgradese di soffocare il naturale sviluppo economico croato a favore delle repubbliche
meridionali: la Croazia per i due esponenti comunisti aveva il diritto di trattenere al proprio interno
le valute straniere provenienti dal turismo e dalle sue esportazioni, e di disporre di un sistema
bancario più autonomo dell'attuale. Le istanze della Dabčevic-Kučar e di Tripalo, da economiche si
trasformarono in breve in istituzionali, richiedendo una trasformazione della federazione in una sorta
di confederazione che desse alle singole repubbliche, e quindi anche alla Croazia, il massimo grado
di autonomia. Da istituzionali divennero politiche, giungendo alla contestazione del sistema
comunista anche sull'onda di quanto era appena avvenuto in Cecoslovacchia con la Primavera di
Praga. La cosiddetta «Primavera di Zagabria» del 1971 fu un vero e proprio moto di piazza dai
contorni confusi che valicò l'ispirazione riformista del Partito comunista croato per approdare agli
ambienti cattolici conservatori e borghesi sopravvissuti a vent'anni di socialismo reale e per lambire
i fuoriusciti ustascia e nazionalisti.
Dopo una fase di comprensibile sbandamento, il movimento ustascia si era infatti ricostituito
soprattutto in Argentina attorno a Pavelic che era riuscito rocambolescamente a fuggire nel maggio
1945.
Vittima di un attentato organizzato dalla polizia segreta di Tito, il Poglavnik della Croazia ustascia
sarebbe morto per le conseguenze delle ferite in un monastero francescano alla periferia di Madrid,
nel 1959. Ma i suoi seguaci gli sopravvissero. Trasformatasi in «Movimento di liberazione croato»
l'organizzazione ustascia ebbe un ruolo di primo piano nel terrorismo antijugoslavo degli anni
sessanta e settanta. Dotato di diffuse ramificazioni in Usa e in Europa e di appoggi soprattutto tra il
neofascismo internazionale e tra l'emigrazione dalla Jugoslavia, il movimento operò al fianco di altre
organizzazioni d'ispirazione ustascia quali la «Resistenza nazionale croata», con sede nella Spagna
franchista o la «Fratellanza rivoluzionaria croata». Quest'ultima associazione terroristica appariva
attivissima dall'inizio degli anni sessanta in Germania occidentale, Scandinavia, Francia e Italia e fu
responsabile di numerosi e sanguinosi attentati contro le ambasciate e le linee aeree jugoslave,
giungendo nel 1962 a tentare un fallimentare sbarco di alcuni attivisti sulle coste dalmate. La
Primavera di Zagabria spinse tutte queste organizzazioni all'unità, che venne raggiunta a Chicago nel
1972, inaugurando una nuova e violenta stagione di atti terroristici. Alle attività ustascia vanno
aggiunte inoltre le iniziative dell'emigrazione anticomunista serba e cetnica, distinta tra un livello
politico culturale e un altro terrorista, e quelle dei gruppi nazionalisti kosovaro-albanesi,
musulmano-bosniaci e macedoni.
Il rigurgito ultranazionalista che si affiancò alle istanze croate, spinse Tito a muoversi con drastica
determinazione, facendo intervenire a Zagabria l'armata federale e reprimendo duramente il
movimento della Dabčevic-Kučar e di Tripalo: l'intera dirigenza croata venne decapitata con un
criterio simile a quello adottato cinque anni prima con i serbi di Rankovic. In seguito, i croati
ottennero alcune soddisfazioni alle loro rivendicazioni economiche, ma il ceto dirigente di Zagabria
non si sarebbe mai più risollevato dal «cono d'ombra» nel quale Tito lo aveva collocato. Se a ciò si
aggiungono le conseguenti repressioni che colpirono altre realtà locali (dal Kosovo alla Bosnia), il
quadro della situazione politica nella Jugoslavia della metà degli anni settanta appariva assai
desolante, con una dirigenza della Lega dei comunisti ridotta all'impotenza e una gestione del potere
nelle mani dell'ormai anziana diarchia Tito-Kardelj.
A seguito di tali eventi, comunque, sia Tito che Kardelj compresero che le istanze delle singole
repubbliche non riuscivano a essere soddisfatte dalla carta costituzionale in vigore. Dopo una serie
di emendamenti alla Costituzione del 1963, si giunse così, nel 1974, alla redazione di una nuova
legge fondamentale dello stato. Essa garantì i diritti dei popoli, delle minoranze e la libertà di culto;
sancì una struttura istituzionale che di fatto poteva ricordare quella di una confederazione, attraverso
l'attribuzione di ampi poteri e l'implicita sovranità sia alle repubbliche che alle due regioni autonome
di Serbia (Kosovo e Vojvodina). Il governo federale sarebbe stato sottoposto, in fase decisionale,
alla concertazione e al consenso dei singoli governi locali e gli organismi federali sarebbero stati
composti da delegazioni delle singole repubbliche: la presidenza federale, per esempio, una volta
defunto il «presidente a vita» Tito, si sarebbe trasformata in un organo collegiale costituito da un
rappresentante di ogni repubblica e regione autonoma, più il presidente della Lega dei comunisti. Il
«presidente del collegio di presidenza», cioè il capo dello stato, sarebbe stato nominato a rotazione
annuale e la carica avrebbe dovuto essere ricoperta, uno dopo l'altro, dai rappresentanti di tutte le
repubbliche. Tutto il complicato impianto istituzionale avrebbe trovato i suoi naturali garanti nella
Lega dei comunisti e nell'esercito federale. La riforma istituzionale del 1974 si perfezionò due anni
dopo con la cosiddetta «legge sul lavoro associato» che tentò di migliorare le storture del sistema
autogestito riducendo ulteriormente il ruolo dello stato nelle singole imprese.
Nel frattempo Tito, anziano e malato, lasciò gradualmente la leadership nelle mani dei nuovi ceti
che, sia in Serbia sia in Slovenia (la Croazia era ancora sofferente delle purghe del 1971-72) stavano
soppiantando la «partigianocrazia» sopravvissuta alle repressioni e alle scomparse naturali. Si
trattava principalmente di quelle classi dominanti formatesi negli anni sessanta intorno alle grandi
imprese autogestite: le «tecnocrazie» che, approfittando dell'assenza del padre-padrone ormai
interessato soltanto alla politica estera, iniziavano a ravvicinarsi alle istanze delle singole
repubbliche e dei singoli popoli assumendo sempre di più atteggiamenti «etnocratici».
Il 4 maggio 1980, dopo un'agonia durata cinque mesi, più di sessant'anni di attività politica e
trentacinque di potere incontrastato sulla Jugoslavia, moriva Josip Broz detto «Tito». La nazione,
prostrata dalla crisi economica che faceva presagire cupi scenari futuri, si fermò in parte commossa
ma soprattutto inquieta.
«Dopo Tito sarà sempre Tito» recitava un famoso slogan di quegli anni. Invece, non ci sarebbero
stati più né Tito né la Jugoslavia.
CRONOLOGIA
1990
22 dicembre, la Croazia adotta una nuova costituzione che ne fa uno stato sovrano in seno alla
Jugoslavia.
23 dicembre, plebiscito in Slovenia a favore dell'indipendenza.

1991
9 gennaio, la presidenza federale ordina di sciogliere tutti i «reparti illegalmente armati»; Slovenia
e Croazia rifiutano di obbedire.
25 gennaio, la Macedonia dichiara la propria sovranità.
22 febbraio, il Parlamento croato adotta la risoluzione sulla dissociazione dalla federazione
jugoslava proposta dalla vicina Slovenia.
3 marzo, i serbi di Pakrac, in Croazia, occupano alcuni edifici pubblici, si impossessano di armi e
ingaggiano i territoriali croati.
9-10 marzo, manifestazioni di massa a Belgrado, la polizia spara: 2 morti.
16 marzo, i rappresentanti di Serbia, Montenegro e Vojvodina nella presidenza federale si
dimettono. MiloSevic dichiara inesistente la presidenza e la Serbia indipendente dalla federazione.
25 marzo, incontro tra Tudjman e MiloSevic a Karadjordjevo, il presidente serbo e quello croato
probabilmente si accordano sulla spartizione della Bosnia Erzegovina. Il tema dell'incontro non è
mai stato rivelato.
30 marzo, a Plitvice scontri tra la polizia croata e i serbi di Krajina davanti a centinaia di turisti.
16-17 aprile, sciopero in Serbia, aderiscono 700 mila lavoratori.
2 maggio, massacro di 12 poliziotti croati a Borovo Selo.
6 maggio, prima vittima militare: un soldato (macedone) è ucciso davanti al quartier generale della
Jna, a Spalato.
10 maggio, l'Assemblea federale si scioglie.
12 maggio, un referendum autogestito sancisce l'autonomia della Krajina serba dalla Croazia.
15 maggio, la Serbia rifiuta il presidente federale di turno, il croato Stipe Mesic.
19 maggio, un referendum sancisce l'indipendenza della Croazia.
10 giugno, Izetbegovic forma in Bosnia il Consiglio nazionale di difesa.
25 giugno, la Croazia si dichiara indipendente e la Slovenia si stacca dalla Jugoslavia.
26 giugno, dichiarazione d'indipendenza slovena, la Jna prende possesso dei posti di frontiera che
dividono la Slovenia dall'Austria e dall'Italia.
1o luglio, Stipe Mesic è eletto presidente della federazione di Jugoslavia, grazie alla mediazione
Ce.
2 luglio, genitori di coscritti irrompono nell'Assemblea parlamentare serba chiedendo il ritorno
dei loro figli che fanno il servizio militare in Slovenia. Il generale AdŽic, capo di stato maggiore
federale, dichiara lo stato di guerra.
5 luglio, la Comunità europea decide sanzioni contro la Jugoslavia per un miliardo di dollari.
8 luglio, compromesso di Brioni, si firmano un cessate il fuoco e una moratoria di tre mesi
sull'indipendenza di Slovenia e Croazia e sul ritiro dell'Armata federale dalla Slovenia, l'Osce
schiera dai 30 ai 50 osservatori.
10 luglio, Alija Izetbegovic dichiara che la Bosnia Erzegovina non resterà in una Jugoslavia che
comprenda solo Serbia e Croazia.
11 luglio, a Sarajevo in 50 mila manifestano per l'unità della Jugoslavia.
2 agosto, massacro a Dali, in Slavonia orientale, le vittime sono soprattutto croate.
4 agosto, MiloSevic rifiuta i colloqui con la Comunità europea.
6 agosto, la presidenza federale dichiara il cessate il fuoco.
14 agosto, osservatori della Comunità europea vengono inviati in Slovenia e Croazia.
16 agosto, comincia la «battaglia dell'autostrada». L'arteria tra Zagabria e Belgrado rimarrà
interrotta.
19 agosto, la Jna comincia a bombardare Vukovar.
22 agosto, Tudjman intima alla Jna di andarsene dalla Croazia, altrimenti sarà guerra.
25 agosto, comincia l'assedio di Vukovar.
7 settembre, iniziano i colloqui di pace all'Aja, sotto la presidenza di Lord Carrington.
8 settembre, referendum e proclamazione dell'indipendenza della Macedonia.
12 settembre, Stipe Mesic ordina alla Jna di lasciare le caserme in Croazia, ma l'ordine non viene
eseguito.
16 settembre, Stipe Mesic dichiara che la Jugoslavia ha cessato di esistere.
25 settembre, il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota l'embargo sulle armi.
2 ottobre, violenti combattimenti attorno a Dubrovnik, comincia l'assedio.
7 ottobre, due Mig federali bombardano il palazzo di Tudjman, a Zagabria.
8 ottobre, scade la moratoria di tre mesi firmata a Brioni, Slovenia e Croazia si dichiarano
indipendenti. Il Parlamento croato decide di rompere tutti i legami con la Jugoslavia.
14 ottobre, KaradŽic fa uscire i serbi dal Parlamento della Bosnia Erzegovina che vota a favore
della sovranità.
25 ottobre, gli ultimi soldati della Jna lasciano la Slovenia.
8 novembre, la Comunità europea vara sanzioni contro la federazione. Il segretario generale
dell'Onu, Javier Pérez de Cuéllar, nomina l'ex segretario di Stato Usa, Cyrus Vance, suo inviato
personale nei Balcani.
9-10 novembre, referendum tra i serbi di Bosnia Erzegovina.
17 novembre, i serbi prendono Vukovar.
21 novembre, i serbi fanno saltare il ponte di Maslenica, Zara è isolata, la dorsale adriatica
tagliata in due. Il Partito democratico serbo si autoproclama Parlamento del popolo serbo di Bosnia
Erzegovina.
24 novembre, Cyrus Vance fa firmare a MiloSevic, Tudjman e Kadijevic un cessate il fuoco e
l'impegno a ritirare l'Armata dalla Croazia.
27 novembre, il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota la risoluzione 721 sull'invio di caschi blu in
Croazia.
2 dicembre, la Comunità europea ritira le sanzioni a eccezione di quelle contro Serbia e
Montenegro.
5 dicembre, Mesic si dimette: «La Jugoslavia non esiste più».
16 dicembre, la Ce decide di riconoscere, dal 15 gennaio 1992, le repubbliche ex jugoslave che ne
abbiano fatto domanda; la Grecia mette il veto sul nome della Macedonia.
19 dicembre, la Krajina si proclama indipendente come «Repubblica serba di Krajina», con
capitale Knin.
20 dicembre, il premier jugoslavo, Ante Markovic, si dimette rifiutandosi di accettare un bilancio
che «finanzia la guerra, la morte e la distruzione».
21 dicembre, i serbi di Bosnia proclamano la Republika Srpska.
29 dicembre, sei missili cadono alle porte di Zagabria.

1992
7 gennaio, un Mig federale abbatte un elicottero italiano della missione europea, muoiono quattro
italiani e un francese. Il 30 settembre 1992 il tribunale di VaraŽdin condannerà il pilota, tenente Emir
Sesic, e il comandante della base di Bihac, tenente colonnello Dobrivoje Opačic, a 20 anni di
reclusione. I due vivono liberamente a Belgrado.
9 gennaio, i deputati serbi del Parlamento bosniaco dichiarano la «Repubblica serba di Bosnia
Erzegovina».
15 gennaio, la Ce riconosce l'indipendenza della Slovenia e della Croazia, due giorni dopo il
Vaticano, e chiede alla Bosnia Erzegovina di organizzare un referendum sull'autodeterminazione.
21 febbraio, il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota la risoluzione 743 con la quale viene creata
l'Unprofor.
29 febbraio-1 marzo, referendum in Bosnia Erzegovina, il 99 per cento dei votanti è favorevole
all'indipendenza; i serbi non partecipano al voto e organizzano blocchi stradali.
3 marzo, la Bosnia Erzegovina è dichiarata indipendente, i serbi organizzano barricate a Sarajevo,
ancora non ci sono violenze.
8 marzo, le prime truppe dell'Unprofor arrivano in Croazia.
9 marzo, fallisce a Belgrado una manifestazione anti-MiloSevic: si ritrovano in piazza 40 mila
persone, contro il pronosticato milione.
13 marzo, arriva a Sarajevo il generale indiano Satish Nambiar, comandante di 14 mila caschi blu.
26 marzo, gli ultimi soldati della Jna lasciano la Macedonia.
4 aprile, le milizie serbe di Sarajevo attaccano la scuola di polizia di Vraca, nel quartiere di
Grbavica.
6 aprile, bombardamenti su Sarajevo, dopo che Ce e Usa hanno riconosciuto l'indipendenza
bosniaca. Izetbegovic ordina la mobilitazione generale.
7 aprile, a Banja Luka proclamazione della Repubblica serba di Bosnia Erzegovina. Gli Stati Uniti
riconoscono le repubbliche ex jugoslave. Comunità europea e Stati Uniti riconoscono la Bosnia
Erzegovina.
8-15 aprile, la Jna bombarda Zvornik, quindi le Tigri di Arkan muovono contro i civili.
17 aprile, offensiva serba nella regione di Srebrenica.
24 aprile, i deputati serbi del Parlamento bosniaco dichiarano l'indipendenza della Repubblica
serba di Bosnia Erzegovina.
25 aprile, Srebrenica è liberata da Naser Oric e dai musulmano-bosniaci della polizia militare.
13 maggio, si forma l'esercito dei serbi di Bosnia, Ratko Mladic ne diventa comandante.
14 maggio, intensissimi bombardamenti a Sarajevo.
15 maggio, una colonna di 7 mila donne, vecchi e bambini lascia Sarajevo. I serbi li tratterranno
due giorni a IlidŽa prima di lasciarli proseguire dopo estenuanti trattative.
16 maggio, gran parte dei funzionari Onu lascia Sarajevo.
27 maggio, tre granate da mortaio da 82 millimetri ammazzano 20 persone e ne feriscono altre 150
in coda per il pane nella centrale Vase MiSkina, a Sarajevo.
16 giugno, Tudjman e Izetbegovic firmano un'alleanza militare.
28 giugno, il presidente francese Mitterrand va a Sarajevo e passeggia sotto le bombe.
2 luglio, i croati di Bosnia dichiarano la «Comunità croata di Herceg-Bosna».
10 luglio, a Helsinki deciso l'invio di navi Ue e Nato in Adriatico per far rispettare l'embargo
contro Belgrado.
Agosto, esplode lo scandalo dei lager serbi in Bosnia.
12 agosto, la Republika Srpska Bosna cambia il nome in Republika Srpska, eliminando qualsiasi
riferimento alla Bosnia Erzegovina.
26-27 agosto, a Londra si tengono i lavori della Icfy, International Conference on Former
Yugoslavia, con un presidente di nomina Ce, David Owen (successore del dimissionario Lord
Carrington), e uno di nomina Onu, Cyrus Vance.
3 settembre, un missile terra-aria Stinger abbatte un G222 italiano che porta aiuti umanitari da
Spalato a Sarajevo. Muoiono i quattro membri dell'equipaggio. I sospetti si appuntano su croati e
musulmani.
4 settembre, i serbi di Bosnia chiedono l'intervento della Jna.
14 settembre, il Consiglio di sicurezza dell'Onu con la risoluzione 776 approva l'invio di forze di
pace in Bosnia.
20 settembre, la Jna schiera truppe in Bosnia Erzegovina, i civili musulmani organizzano blocchi
stradali.
22 settembre, l'Assemblea dell'Onu vota l'espulsione della Jugoslavia. un atto senza precedenti. La
federazione serbo-montenegrina dovrà inoltrare una nuova domanda.
25 ottobre, si chiude l'alleanza militare croato-musulmana, combattimenti tra croati e musulmano-
bosniaci a Travnik e Prozor.
6 novembre, scontri a Skopje tra albanesi e polizia, muoiono tre albanesi e un agente.
9 dicembre, il segretario generale dell'Onu afferma che l'Unprofor si schiererà lungo i confini
della Macedonia con Serbia e Albania.
11 dicembre, il Consiglio di sicurezza dell'Onu autorizza il dispiegamento dell'Unprofor in
Macedonia.

1993
22 gennaio, offensiva croata, in Krajina decretato lo stato di guerra, si contano 3500 morti.
Febbraio, i croati attaccano i musulmani a Gorni Vakuf.
Marzo, offensiva su Srebrenica delle truppe del generale Ratko Mladic.
11 marzo, il comandante dell'Unprofor, Philippe Morillon, arriva a Srebrenica.
12 marzo, gli abitanti impediscono a Morillon di andarsene. Questi pronuncia il famoso discorso:
«Voi siete sotto la protezione delle Nazioni unite. Io non vi lascerò mai».
28 marzo, Morillon lascia Srebrenica.
31 marzo, il Consiglio di sicurezza dell'Onu delibera una «zona di non volo» in Bosnia
Erzegovina.
8 aprile, la Macedonia è ammessa all'Onu come Fyrom (Former Yugoslavian Republic of
Macedonia) e non può esporre la propria bandiera, per l'opposizione della Grecia.
12 aprile, la Nato dà il via all'operazione Deny Flight.
16 aprile, il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota la risoluzione 819 con la quale dichiara Sarajevo
e Srebrenica zone di sicurezza.
1-2 maggio, Vance e Owen incontrano ad Atene le leadership di Serbia, Croazia, Bosnia
Erzegovina. Vance lascia, gli subentra il norvegese Thorvald Stoltenberg.
4 maggio, il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota la risoluzione 824 con la quale dichiara Tuzla,
Žepa, GoraŽde e Bihac zone di sicurezza.
6 maggio, il Parlamento serbobosniaco rigetta il piano di pace Vance-Owen, sottoscritto da
KaradŽic, e indice un referendum sull'accettazione.
9 maggio, i croati di Mostar Ovest attaccano i musulmani a Mostar Est.
11 maggio, KaradŽic incontra MiloSevic a Belgrado.
15-16 maggio, con un referendum i serbobosniaci bocciano il piano Vance-Owen.
25 maggio, il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota la risoluzione 827 con la quale costituisce il
Tribunale internazionale per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia, con sede all'Aja.
Giugno, cominciano le discussioni per il piano Owen-Stoltenberg.
27-30 luglio, conferenza di Ginevra sulla Bosnia, con Owen, Stoltenberg, MiloSevic, Tudjman,
Izetbegovic, KaradŽic, Bulatovic, Boban.
28 agosto, la «Comunità croata dell'Erzeg-Bosnia» viene ribattezzata «Repubblica croata
dell'Erzeg-Bosnia», con capitale Mostar.
20 settembre, il piano Owen-Stoltenberg, modificato a bordo dell'Hms Invincible, abbandona il
concetto di smilitarizzazione.
27 settembre, Fikret Abdic proclama a Velika KladuSa la Regione autonoma Bosnia occidentale
(Apzb).
1o novembre, la Comunità europea (Ce) diventa ufficialmente Unione europea (Ue), come stabilito
nel trattato di Maastricht del 1991.
9 novembre, i croati distruggono il ponte di Mostar.
16 dicembre, i principali paesi Ue riconoscono la Macedonia.

1994
15 gennaio, scade la tregua di Natale in Bosnia Erzegovina.
19 gennaio, Tudjman e MiloSevic normalizzano le relazioni.
5 febbraio, prima strage del mercato a Sarajevo: 68 morti e oltre 200 feriti; a Srebrenica il
battaglione Onu canadese è avvicendato da uno olandese.
9 febbraio, gli Stati Uniti riconoscono la Macedonia, con la denominazione Fyrom.
16 febbraio, la Grecia impone l'embargo alla Macedonia.
30 marzo, Zagabria e Knin firmano una tregua.
10-11 aprile, bombardamenti Nato su artiglierie e carri armati serbi attorno a GoraŽde.
14 aprile, 150 caschi blu sono presi in ostaggio dai serbi.
10 maggio, accordi di Washington e creazione della federazione croato-musulmana in Bosnia
Erzegovina.
11-12 maggio, la Serbia ammassa truppe alla frontiera macedone.
21 giugno, comincia il censimento della popolazione macedone, boicottaggio albanese.
26 giugno, militari serbi conquistano una collina in territorio macedone.
4 agosto, il gruppo di contatto incontra MiloSevic vicino al confine con la Bosnia Erzegovina.
14 ottobre, Kiro Gligorov è rieletto presidente della Macedonia.
13 dicembre, il governo di Skopje dichiara illegale l'università albanese di Tetovo.

1995
17 febbraio, la polizia fa irruzione nell'università albanese di Tetovo: uno studente morto e 15
feriti.
7 marzo, Rupert Smith incontra Ratko Mladic a Vlasenica, questi gli annuncia l'intenzione di
conquistare le zone protette della Bosnia.
12 marzo, dopo tre mesi di rinvii, Tudjman accetta che i caschi blu dell'Onu restino sul territorio
croato, seppur in numero ridotto.
16 aprile, i dirigenti della Krajina dicono a Stoltenberg che il nuovo mandato Onu in Croazia è
inaccettabile.
1o maggio, scatta l'operazione «Lampo», i croati vanno alla riconquista di parte della Slavonia
orientale.
2 maggio, i serbi di Krajina bombardano Zagabria.
4 maggio, l'esercito serbo di Krajina si arrende ai croati vicino a Pakrac.
22 maggio, i serbi di Bosnia si prendono gli armamenti pesanti sotto controllo Onu.
25 maggio, il generale Janvier raccomanda al Consiglio di sicurezza dell'Onu, in un'audizione a
porte chiuse, di ritirare i caschi blu da Srebrenica, Žepa e GoraŽde perché, a suo dire, le forze
bosniache presenti sono «sufficienti». Raid aerei Nato su Pale.
26 maggio, tiri di artiglieria serbi su Tuzla centrano gruppi di giovani: 73 morti dai 3 ai 31 anni. I
serbi di Bosnia catturano militari Onu per tenerli in ostaggio, ne prenderanno 400.
28 maggio, i serbi di Krajina abbattono l'elicottero dove si trova il ministro degli Esteri bosniaco,
Irfan Ljujiančik, e lo uccidono.
31 maggio, diffusione delle immagini di caschi blu ostaggio dei serbi e utilizzati come scudi
umani. Il generale Janvier scrive al generale Smith: «Il ricorso alla forza deve essere evitato».
3 giugno, la Nato decide di schierare una «Forza d'intervento rapido».
4 giugno, incontro a Mali Zvornik tra il comandante Unprofor, il generale Ratko Mladic e il
generale Momčilo PeriSic, dell'Armata jugoslava. Si stabilisce un accordo in base al quale i raid
Nato cesseranno e i caschi blu saranno liberati.
15 giugno, offensiva bosniaca per rompere l'assedio di Sarajevo.
6 luglio, inizio dell'attacco serbo su Srebrenica. La prima richiesta di appoggio aereo viene
rifiutata. Nei giorni precedenti oltre tremila persone hanno cercato rifugio nella «zona protetta».
11 luglio, i serbi di Bosnia cominciano l'offensiva su Žepa. Alle 7,45 del mattino quinta richiesta
di appoggio aereo su Srebrenica, due F16 olandesi intervengono alle 14,30. Alle 16 i serbi
controllano tutta la zona protetta. I civili bosniaci cercano rifugio nella base dei caschi blu olandesi a
Potočari, sei chilometri a nord di Srebrenica. Dentro e attorno alla base si affolleranno 30 mila
persone.
16 luglio, il tribunale dell'Aja accusa Radovan KaradŽic e Ratko Mladic per l'assedio di
Sarajevo. I caschi blu olandesi sono autorizzati a lasciare Potočari.
17 luglio, 4-5 mila sopravvissuti di Srebrenica arrivano in territorio bosniaco.
19 luglio, nuova offensiva serba su Bihac, si intensifica l'offensiva su Žepa.
23 luglio, incontro a Spalato tra Franjo Tudjman a Alija Izetbegovic, accordo di difesa comune.
25 luglio, i serbi di Bosnia conquistano Žepa. Il Tribunale internazionale dell'Aja incrimina
Radovan KaradŽic e Ratko Mladic.
26 luglio, il senato Usa vota la revoca dell'embargo sulle forniture di armi al governo bosniaco.
27 luglio, dimissioni di Tadeusz Mazowiecki, inviato speciale della Commissione diritti umani
dell'Onu.
4 agosto, scatta l'operazione «Tempesta» con la quale i croati riconquisteranno la Krajina.
7 agosto, il ministro della Difesa croato, Gojko SuSak, dichiara conclusa l'operazione «Tempesta».
8 agosto, Yasushi Akashi, Slobodan MiloSevic e Bernard Janvier si incontrano per discutere delle
sorti della Slavonia.
10 agosto, il Dipartimento di stato americano, con l'intermediazione del suo ambasciatore all'Onu,
presenta, a porte chiuse, al Consiglio di sicurezza sette fotografie satellitari della zona di Srebrenica
che comprovano l'esistenza di fosse comuni.
19 agosto, muore in un incidente stradale sul monte Igman, alle porte di Sarajevo, Robert Frasure,
rappresentante di Bill Clinton in Bosnia.
28 agosto, seconda strage del mercato a Sarajevo: 37 morti e 48 feriti.
30 agosto, la Nato dà il via all'operazione Deliberate Force bombardando posizioni serbe.
8 settembre, riconoscimento ufficiale della Republika Srpska, a Ginevra, nel quadro della firma di
un accordo.
13 settembre, i musulmano-bosniaci prendono Donji Vakuf ai serbi, i croatobosniaci rientrano a
Jajce.
14 settembre, terminano i bombardamenti Nato.
3 ottobre, attentato con un'autobomba a Kiro Gligorov, presidente della Macedonia. Muore
l'autista, il presidente è gravemente ferito.
5 ottobre, il Parlamento macedone approva la nuova bandiera. Fine della controffensiva
croatobosniaca. MiloSevic chiede agli americani di far fermare le operazioni belliche, Holbrooke
impone un cessate il fuoco. Akashi lascia.
15 ottobre, la Grecia toglie l'embargo alla Macedonia.
Novembre, incontri a Dayton tra Alija Izetbegovic, Slobodan MiloSevic, Franjo Tudjman, con la
mediazione di Bill Clinton.
16 novembre, il Tribunale dell'Aja incrimina Radovan KaradŽic e Ratko Mladic per crimini di
guerra, genocidio e crimini contro l'umanità.
Dicembre, Rupert Smith lascia.
14 dicembre, firma degli accordi di Dayton, a Parigi.
15 dicembre, il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota la risoluzione 1031 per il passaggio dei
poteri tra Unprofor e Ifor (Nato).

1996
Gennaio, Bernard Janvier lascia. I primi investigatori del Tribunale dell'Aja arrivano in Bosnia.
Aprile, i serbi rilasciano 211 sopravvissuti del massacro di Srebrenica. A PriStina un serbo
uccide un giovane albanese, qualche giorno dopo diecimila persone scendono in piazza nella più
imponente manifestazione albanese tenuta fino ad allora. In diversi luoghi del Kosovo sconosciuti
ammazzano cinque serbi, tra cui un poliziotto. Le azioni sono rivendicate da un'organizzazione fino a
questo momento ignota: l'Uçk, l'Esercito per la liberazione del Kosovo.
31 dicembre, scade il mandato del segretario generale Onu, Boutros Boutros Ghali.

1997
Gennaio, grandi manifestazioni anti-MiloSevic a Belgrado, guidate da Zoran Djindjic, Vuk
DraSkovic e Vesna Pesic.
7 luglio, il Parlamento macedone vieta l'esposizione della bandiera albanese, se non durante
determinate festività.
9 luglio, forze speciali macedoni intervengono a Gostivar per ammainare la bandiera albanese.
Negli scontri ci saranno tre morti, un centinaio di feriti e 312 arrestati, tra cui il sindaco Rufi Osmani.
Ottobre a PriStina e in altre città del Kosovo scendono in piazza 30 mila studenti per protestare
contro la repressione. L'Ldk prende le distanze dalla protesta aperta.
28 novembre, ai funerali di Halit Gecaj, insegnante ucciso dai serbi, si mostrano uomini in
uniforme e con i visi coperti: è la prima uscita pubblica dell'Uçk.

1998
28 febbraio, scontri fra dimostranti e polizia nei villaggi di LikoSani e čirez, in Kosovo, muoiono
16 persone.
5-6 marzo, operazione della polizia serba nella valle della Drenica, uccisi 58 albanesi, fra loro
anche Adem Jashari, leader dell'Uçk.
22 marzo, le «elezioni parallele» rieleggono Ibrahim Rugova presidente del Kosovo.
23 aprile, con il 95 per cento di no i serbi respingono in un referendum una mediazione
internazionale per il Kosovo.
15 maggio, MiloSevic e Rugova si incontrano a Belgrado.
16 luglio, a PriStina gli albanesi costituiscono un Parlamento di 90 membri.
16 agosto, i serbi riprendono il controllo di Junik, roccaforte dell'Uçk.
1o settembre, MiloSevic, incalzato dagli Usa, propone un accordo che garantirebbe al Kosovo «un
certo grado di autonomia».
23 settembre, il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota la risoluzione 1199 che chiede l'immediato
cessate il fuoco in Kosovo.
28 settembre, a Gornje Obrinje scoperto un massacro di 20 albanesi.
8 ottobre, l'Uçk, pesantemente battuta dai serbi, annuncia una tregua unilaterale.
13 ottobre, la Nato emette l'Activation Order e concede ai serbi quattro giorni per conformarsi alle
decisioni. A Belgrado, dopo nove giorni di colloqui con MiloSevic, il mediatore Richard Holbrooke
annuncia che in Kosovo entreranno duemila osservatori dell'Osce, disarmati.
18 ottobre, primo turno delle elezioni in Macedonia che portano al governo i nazionalisti del
Vmro-Dpmne e gli albanesi del Pda.

1999
15 gennaio, massacro di Račak, mostrati 45 cadaveri.
18 gennaio, il procuratore del Tribunale internazionale dell'Aja, Louise Arbour, intende indagare
sull'episodio, ma viene respinta alla frontiera serba. Belgrado espelle William Walker, capo dei
verificatori Osce, che ha addossato ai serbi la responsabilità del massacro.
20 gennaio, la Nato rafforza la presenza in Adriatico.
22 gennaio, Belgrado congela l'espulsione di Walker.
29 gennaio, i ministri degli Esteri del gruppo di contatto intimano a serbi e albanesi di trovare un
accordo sulla «sostanziale autonomia» del Kosovo. Il gruppo di contatto convoca una conferenza
internazionale per il 6 febbraio nel castello di Rambouillet, vicino a Parigi.
30 gennaio, gli ambasciatori Nato autorizzano il segretario Javier Solana a ordinare interventi
aerei.
6 febbraio, Jacques Chirac apre la Conferenza di Rambouillet.
11 febbraio, la delegazione serba firma i dieci principi base che fanno da premessa all'accordo,
Belgrado chiede che il preambolo sia firmato anche dagli albanesi.
14 febbraio, il gruppo di contatto prolunga di una settimana i lavori.
20 febbraio, scadenza dell'ultimatum: il gruppo di contatto si riunisce a Rambouillet per tentare di
salvare la conferenza.
L'ultimatum viene rinviato di tre giorni.
22 febbraio, Madeleine Albright incontra la delegazione albanese.
23 febbraio, scade senza accordo il nuovo ultimatum, i ministri del gruppo di contatto stilano la
lista dei punti su cui c'è accordo che dovrebbe costituire la base di una nuova conferenza a Parigi, il
15 marzo.
25 febbraio, la Cina mette il veto in Consiglio di sicurezza dell'Onu al rinnovo del mandato della
missione Unpredep perché la Macedonia ha instaurato rapporti diplomatici con Taiwan.
11 marzo, fallisce la missione a Belgrado di Richard Holbrooke.
12 marzo, fallisce la missione a Belgrado di Igor Ivanov, ministro degli Esteri russo.
13 marzo, esplodono due bombe nei mercati di Kosovska Mitrovica e Podujevo, 6 morti.
15 marzo, si apre a Parigi la conferenza bis.
18 marzo, la delegazione albanese firma l'accordo, quella serba no.
Il gruppo di contatto concede ai serbi altri due giorni.
23 marzo, fallite tutte le trattative.
24 marzo, alle ore 20 iniziano gli attacchi aerei Nato in Kosovo, Serbia e Montenegro.
27 marzo, inizia l'operazione «Ferro di cavallo» che prevede l'espulsione dei kosovari.
30 marzo, il primo ministro russo Evgenj Primakov incontra MiloSevic a Belgrado, questi chiede
la sospensione dei raid come precondizione per trattare, la Nato rifiuta.
31 marzo, tre soldati americani catturati dai serbi.
1o aprile, MiloSevic obbliga Rugova a incontrarlo a Belgrado.
3 aprile, primo bombardamento del centro di Belgrado.
5 aprile, un missile Nato provoca 17 morti ad Aleksinac, il primo «danno collaterale».
7 aprile, un missile manca una centrale telefonica a PriStina e colpisce un'area residenziale, 12
morti.
9 aprile, il segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, propone un piano in cinque punti appoggiato
dalla Nato, ma respinto da Belgrado.
12 aprile, un aereo Nato colpisce un treno a Grdelica, 55 morti.
14 aprile, aerei Nato colpiscono un convoglio di profughi kosovari a Djakovica, 75 morti. Boris
Eltsin nomina Viktor černomyrdin suo speciale rappresentante nei Balcani.
17 aprile, operazione Allied Harbour in Albania.
22 aprile, colpita la residenza di MiloSevic.
23 aprile, bombardata la sede della tv a Belgrado, 10 morti.
26 aprile, il reverendo Jesse Jackson incontra MiloSevic a Belgrado.
27 aprile, bombe Nato colpiscono delle case a Surdulica, 20 morti.
28 aprile, il vicepremier Vuk DraSkovic è destituito dopo essersi detto favorevole all'invio di
truppe Onu in Kosovo.
1o maggio, bombe Nato colpiscono una corriera sul ponte di LuŽane, a venti chilometri da
PriStina, 47 morti.
2 maggio, i serbi consegnano i tre soldati Usa prigionieri alla delegazione di Jackson.
5 maggio, Belgrado autorizza il trasferimento di Rugova a Roma.
6 maggio, il G8 stabilisce un piano da far adottare dal Consiglio di sicurezza dell'Onu.
7 maggio, la Nato bombarda l'ospedale e il mercato di NiS, 20 morti. Kofi Annan nomina Bildt e
Kukan suoi inviati.
8 maggio, colpita l'ambasciata cinese a Belgrado, 3 morti.
13 maggio, la Nato bombarda un accampamento di profughi kosovari nel villaggio di KoSari, 87
morti.
17 maggio, il presidente finlandese Martti Ahtisaari diviene il mediatore dell'Unione europea per
il Kosovo.
19 maggio, due missili colpiscono un ospedale a Belgrado, 3 morti.
černomyrdin ottiene da MiloSevic l'assenso «in linea generale» ai principi del G8.
20 maggio, colpita la caserma di KoSari, vicino al confine albanese. La Nato afferma che credeva
fosse in mano serba, l'Uçk l'aveva conquistata all'inizio di aprile. Ci sono alcuni morti (il bilancio è
incerto).
27 maggio, il Tribunale internazionale dell'Aja accusa MiloSevic di crimini contro l'umanità.
28 maggio, Belgrado accetta le proposte del G8.
30 maggio, colpito il ponte di Varvarin, 150 chilometri a sud di Belgrado, 11 morti.
31 maggio, la Nato colpisce l'ospedale di Surdulica, 20 morti.
Colpita una zona residenziale a Novi Pazar, 23 morti.
3 giugno, missione positiva di černomyrdin e Ahtisaari a Belgrado.
Il parlamento serbo approva la proposta di pace.
9 giugno, firma dell'accordo di pace tecnico-militare a Kumanovo, in Macedonia.
10 giugno, alle 15,23 il segretario generale della Nato, Javier Solana, ordina al generale Wesley
Clark di sospendere le azioni aeree sulla Jugoslavia.
12 giugno, nella notte i militari russi, giunti dalla Bosnia, si impossessano dell'aeroporto di
PriStina. All'alba militari americani, francesi e britannici della Kfor entrano in Kosovo.
13 giugno, entrano in Kosovo il contingente italiano e tedesco.
21 giugno, Bernard Kouchner, ministro della Sanità francese, tra i fondatori di Médecins sans
Frontières, viene nominato rappresentante speciale dell'Onu in Kosovo.
15 dicembre, si insedia il nuovo presidente della Macedonia, Boris Trajkovski.

2000
24 settembre, elezioni presidenziali in Jugoslavia, sia Slobodan MiloSevic che Vojislav KoStunica
si dichiarano vincitori.
5 ottobre, la folla a Belgrado conquista il Parlamento; MiloSevic riconosce la sconfitta. KoStunica
è il nuovo presidente federale.

2001
26 febbraio, scontri a TanuSevci tra l'Uçk di Macedonia e poliziotti macedoni.
14 marzo, si comincia a sparare nei dintorni di Tetovo.
20 marzo, il governo di Skopje dà l'ultimatum all'Uçk: gli albanesi hanno ventiquattr'ore per
deporre le armi.
21 marzo, l'Uçk annuncia una tregua.
22 marzo, due albanesi, padre e figlio, vengono uccisi a Tetovo a un posto di blocco dai poliziotti
macedoni.
25 marzo, offensiva dell'esercito macedone sulle montagne circostanti Tetovo.
30 marzo, si sparge la voce dell'imminente arresto di Slobodan MiloSevic.
1o aprile, alle 4,38 del mattino MiloSevic viene portato nel carcere di Belgrado.

Dramatis personae dŽic, Blagoje; generale, capo di stato maggiore della Jna, 1991; ministro della
Difesa jugoslavo, 1992.
AHTISSARI, Martti; ex presidente finlandese, inviato a Belgrado durante il conflitto del Kosovo.
AKASHI, Yasushi; inviato personale nei Balcani di Boutros Boutros Ghali, segretario generale
dell'Onu, 1993-95.
ALBRIGHT, Madeleine; ambasciatore Usa all'Onu, 1993-97; segretario di stato, 1997-2000.
ANNAN, Kofi; sottosegretario generale dell'Onu per il peacekeeping, 1993-97; segretario
generale dell'Onu dal 1o gennaio 1997.
ARBOUR, Louise; procuratore del Tribunale internazionale dell'Aja, 1996-99.
ARKAN (vedi RAŽNJATOVIC, Željko).
BABIC, Milan; ministro degli Esteri dei serbi di Krajina, 1991-95.
BAKER, James; segretario di stato Usa durante la presidenza di George Bush senior.
BAVčAR, Igor; dissidente sloveno, ministro degli Interni del primo governo sloveno
democraticamente eletto.
BERGER, Samuel (Sandy); viceconsigliere Usa per la sicurezza nazionale, 1993-96; consigliere
per la sicurezza nazionale, 1996-2000.
BILDT, Carl; inviato dell'Unione europea, 1995-97.
BLAIR, Tony; primo ministro britannico dal 1997.
BLoT, Jacques; rappresentante francese nel gruppo di contatto (1995-98).
BOBAN, Mate; leader dei croati di Bosnia.
BORSTNER, Ivan; ufficiale sloveno della Jna, condannato nel 1988 per aver rivelato segreti
militari al settimanale Mladina.
Boutros Ghali, Boutros; segretario generale dell'Onu dal 1o gennaio 1992 al 31 dicembre 1996.
BROEK, Hans van der; commissario agli Esteri Ue, dal gennaio 1993 al settembre 1999.
BUDISA, DraŽen; leader del Partito liberale di Croazia.
BUHA, Aleksij; ministro degli Esteri della Repubblica serba di Bosnia.
BULATOVIC, Momir; presidente della Repubblica del Montenegro, 1992-97; premier della
Repubblica federale di Jugoslavia, 1997-2000.
CARRINGTON, Lord Peter; mediatore europeo.
CARTER, Jimmy; presidente americano, 1977-81.
CASSESE, Sabino; presidente del Tribunale internazionale dell'Aja, 1993-99.
çEKU, Agim; kosovaro, generale dell'esercito croato comandante dell'Uçk fino alla trasformazione
in Kpf.
čELEKETIC, Milan; comandante dei serbi di Krajina fino al 15 maggio 1995.
čERNOMYRDIN, Viktor; ex primo ministro russo, inviato a Belgrado durante il conflitto nel
Kosovo.
čERvENKo, Zvonimir; capo di stato maggiore della Croazia, 1995.
CHARETTE, Hervé de; ministro degli Esteri francese, 1995-97.
CHIRAc, Jacques; presidente francese dal 1995.
CLARK, Wesley; comandante supremo della Nato dal luglio 1997 al maggio 2000.
CLINTON, William Jefferson; presidente degli Stati Uniti, 1993-2000.
čosIC, Dobrica; scrittore serbo, già presidente dell'Accademia serba delle scienze e delle arti,
presidente della Jugoslavia 1992-93.
CRISTOPHER, Warren; segretario di stato americano, 1993-97.
CRVENKOVSKI, Branko; socialdemocratico, primo ministro macedone fino alle elezioni
dell'ottobre-novembre 1998.
DE MICHELIS, Gianni, ministro degli Esteri italiano, dal luglio 1989 al luglio 1992.
DEL PONTE, Carla; procuratore del Tribunale internazionale dell'Aja dal 1999.
DEmiri, Alajdin; del Ppda, sindaco di Tetovo dopo le elezioni dell'autunno 1996, condannato a
due anni di carcere dopo gli incidenti del luglio 1997.
DEus PINHEIRO, Joao de; ministro degli Esteri portoghese.
Djukic, Mile; presidente del Partito popolare serbo in Croazia.
DODIK, Milorad; premier della Repubblica serba di Bosnia, 1998-2000.
DRNOVSEK, Janez; presidente della presidenza federale jugoslava 1989-90, premier sloveno
dopo l'indipendenza.
EAGELBURGER, Lawrence; segretario di stato Usa, 1989-93.
ELTSIN, Boris; presidente russo, 1991-99.
FRAsuRE, Robert; viceassistente segretario di stato Usa per Europa e Canada, 1994-95.
GALBRAITH, Peter; ambasciatore Usa in Croazia, 1993-97.
GANic, Ejup; vicepresidente della Bosnia Erzegovina, 1992-97; presidente della Federazione di
Bosnia Erzegovina, 1998-2000.
GELBARD, Robert; rappresentante speciale Usa per il soddisfacimento degli accordi di Dayton,
1997-99.
GENSCHER, Hans Dietrich; ministro degli Esteri tedesco, 1974-92.
GEORGIEVSKI, Ljubco; ex poeta e regista teatrale, leader del Partito nazionalista macedone
Vmro-Dpmne, primo ministro dopo la vittoria elettorale dell'ottobre-novembre 1998.
GLIGOROV, Kiro; presidente macedone, 1991-99.
Gore, Albert; vicepresidente americano, 1993-2000.
Graciov, Pavel; ministro della Difesa russo, 1992-97.
Granic, Mate; ministro degli Esteri croato, 1993-99.
HUNTER, Robert; ambasciatore Usa alla Nato, 1993-97.
Hurd, Douglas; ministro degli Esteri britannico.
ISCHINGER, Wolfgang; rappresentante tedesco nel gruppo di contatto.
IVANOv, Ivan; viceministro degli Esteri russo, rappresentante russo nel gruppo di contatto.
IZETBEGOVic, Alija; presidente della Bosnia Erzegovina, 1992-2000.
JACKSON, Michael; comandante delle truppe Nato in Kosovo fino all'ottobre 1999, rimpiazzato
da Klaus Reinhardt.
JANSA, Janez; dissidente sloveno, ministro della Difesa nel primo governo indipendente sloveno.
JANVIER, Bernard; comandante in capo dell'Unprofor nell'ex Jugoslavia, 1995-96.
JOULWAN, George; comandante supremo della Nato, 1993-97.
Jovic, Borisav; presidente della presidenza federale jugoslava, 1990-91, alleato di MiloSevic, si
allontana nel 1995 quando il presidente serbo decide di governare con il neonato partito della moglie
Mirjana Markovic.
KADIJEVIc, Veljko; generale della Jna, ministro della Difesa jugoslavo, 1988-92.
KaradŽic, Radovan; presidente della Repubblica serba di Bosnia, 1992-96.
KARREMANS, Tom; comandante dei caschi blu olandesi a Srebrenica.
KINKEL, Klaus; ministro degli Esteri tedesco, 1992-98.
KOMARICA, Franjo; arcivescovo di Banja Luka.
KORNBLUM, John; viceassistente segretario di stato Usa per l'Europa e il Canada, poi assistente
segretario di stato, 1994-97.
KoStuNicA, Vojislav; presidente della Repubblica federale di Jugoslavia dal 2000.
KOUCHNER, Bernard; capo della missione Onu in Kosovo, 1999-2001.
Kozyrev, Andrej; ministro degli Esteri russo, 1992-96.
KRAJISNIK, Momčilo; presidente del Parlamento serbobosniaco, quindi copresidente della
Bosnia Erzegovina, 1996-98, incriminato dal Tribunale internazionale dell'Aja nel 2000.
KrALJEVic, BlaŽ; comandante dell'Hos (croato), ucciso il 2 agosto 1992 vicino a Mostar, dalla
polizia militare dell'Hvo (croati anch'essi).
KučAN, Milan; presidente della Lega dei comunisti sloveni, presidente della Repubblica di
Slovenia dal 1991.
KUHARic, Franjo; cardinale, arcivescovo di Zagabria.
MAJOR, John; primo ministro britannico, 1990-97.
MANOLIc, JOsiP; presidente della camera delle contee della Croazia, esce dall'Hdz nel 1994.
MArKovic, Ante; ultimo primo ministro federale jugoslavo, 1989-91.
MArkovic, Mirjana; moglie e consigliera di Slobodan MiloSevic, nel 1995 fonda il Partito della
sinistra jugoslava (Jul) che governerà con il Partito socialista di MiloSevic fino al 2000.
MARTIc, Milan; presidente della Republika Srpska Krajina, 1991-95.
MAZOWIECKI, Tadeusz; inviato speciale della commissione Onu per i diritti umani, fino al luglio
1995.
MEsic, Stipe; ultimo presidente della presidenza federale jugoslava, cofondatore dell'Hdz e stretto
collaboratore di Tudjman fino al 1994, presidente della Croazia dal 2000.
MiLOSEVIc, Slobodan; presidente della Repubblica di Serbia, 1989-97; presidente della
Repubblica federale di Jugoslavia, 1997-2000, incriminato per crimini contro l'umanità nel 1999.
Arrestato il 1o aprile 2001.
MIKELic, Borislav; premier della Republika Srpska Krajina, 1991-95.
MILOVANOVIc, Manojlo; capo di stato maggiore dell'esercito serbobosniaco.
MILUTINOVic, Milan; ministro degli Esteri della Repubblica federale di Jugoslavia, 1989-97; poi
presidente della Repubblica di Serbia.
MLADic, Ratko; comandante dell'esercito serbobosniaco, 1992-96.
MORILLON, Philippe; comandante dell'Unprofor in Bosnia Erzegovina, fino al luglio 1993.
MrkSic, Mile; incriminato dal Tribunale dell'Aja come responsabile dell'eccidio seguito alla presa
di Vukovar (1991); comandante dei serbi di Krajina dal 15 maggio 1995.
NEvILLE-JONES, Pauline; rappresentante britannico nel gruppo di contatto, 1993-96.
OSMANI, Rufi; sindaco di Gostivar, condannato a quattordici anni di carcere nel settembre 1997,
ridotti a sette nel febbraio 1998, uscito di prigione nell'aprile 1998.
OwEN, David; negoziatore, copresidente dell'Icfy.
PAPANDREU, Andreas; ex primo ministro della Grecia.
PARAGA, Dobroslav; leader dell'estrema destra croata, comandante dell'Hos.
PAVELIc, Ante; fondatore del movimento ustascia e presidente dello stato indipendente croato di
ispirazione nazista, 1941-45.
PeriSic, Momčilo; capo di stato maggiore della Difesa jugoslava, rimosso da MiloSevic alla
vigilia dell'intervento Nato in Kosovo.
PErry, William; segretario alla Difesa Usa, 1993-97.
PETERLE, Lojze; primo premier sloveno non comunista, 1990.
PLAVSic, Biljana; vicepresidente della Repubblica serba di Bosnia; copresidente della
Repubblica serba della Federazione di Bosnia Erzegovina (1996-98); arrestata dal Tribunale
internazionale dell'Aja nel gennaio 2001.
Poos, Jacques; ministro degli Esteri belga.
PUPOvAc, Milorad; presidente del Forum democratico serbo, organizzazione dei serbi di Croazia.
RAčAN, Ivica; ex comunista, leader socialdemocratico, attuale premier della Croazia.
RAŽNJATOVic, Željko, «Arkan»; leader delle «Tigri», formazione paramilitare serba. Ucciso a
Belgrado nel gennaio 2000.
RIFKIND, Malcolm; ministro della Difesa britannico, quindi ministro degli Esteri, 1992-97.
ROSE, Michael; generale britannico, comandante dei caschi blu in Bosnia, 1994-95.
SAčIRBEJ, Muhamed; ministro degli Esteri della Bosnia Erzegovina, quindi ambasciatore della
BiH all'Onu, 1992-97.
SArInic, Hrvoje; capo di gabinetto di Franjo Tudjman.
SHALIKASHVILI, John; capo dello stato maggiore riunito Usa, 1993-97.
SILAJDŽic, Haris; primo ministro della Bosnia Erzegovina.
SLJIVANčANIN, Veselin; alto ufficiale Jna, ricercato dal Tribunale internazionale dell'Aja per gli
eccidi seguiti alla presa di Vukovar (1991).
SMith, Rupert; comandante dell'Unprofor in Bosnia Erzegovina, 1994-96.
SPEGELJ, Martin; ex alto ufficiale Jna, ministro della Difesa croato dopo le prime elezioni
multipartitiche del 1990.
STAMBoLic, Ivan; presidente della Serbia fino al 1987 quando viene emarginato dal suo delfino,
Slobodan MiloSevic.
STOLTENBERG, Thorvald; negoziatore, copresidente dell'Icfy, 1993-95.
SULEJMANI, Fadil; rettore dell'università albanese di Tetovo.
Arrestato dopo gli scontri del febbraio 1995, condannato a dodici mesi di carcere, uscito di
prigione nel febbraio 1997.
SUSAK, Gojko; ministro della Difesa della Croazia, 1991-1998 (morto in carica il 3 maggio
1998).
TASic, David; giornalista del settimanale sloveno Mladina, condannato nel 1988 per aver rivelato
segreti militari.
Thaci, Hasim; comandante dell'Uçk.
TOMAc, Zdravko; esponente socialdemocratico croato.
TRAJKOVSKI, Boris; presidente della Macedonia dal dicembre 1999.
TROJANO, Ugo; «sindaco» Onu di Kosovo Polje.
TUDJMAN, Franjo; presidente croato, 1991-1999.
TURAJLic, Hakija; vicepresidente del governo bosniaco ucciso dai serbobosniaci l'8 gennaio
1993 mentre era a bordo di un blindato francese dell'Unprofor.
VALENTic, Nikica; premier della Croazia fino al 1999.
VANCE, Cyrus; inviato personale in Jugoslavia del segretario generale dell'Onu, Javiér Pérez de
Cuéllar.
VASILIJEVic, Aleksandar; capo dei servizi segreti jugoslavi nel 1991.
VLLASI, Azem; presidente della Lega dei comunisti del Kosovo, imprigionato da MiloSevic nel
1989-1990.
WALKER, William; capo della missione di verifica Osce in Kosovo, dall'ottobre 1998 al marzo
1999.
XHAFERI, Arben; leader del Ppda prima e del Pda poi, cofondatore dell'università albanese di
Tetovo, membro del governo macedone dopo le elezioni dell'ottobre-novembre 1998.
ZAvRL, Franci; caporedattore del settimanale sloveno Mladina, condannato nel 1988 per aver
rivelato segreti militari.
ZIMMERMANN, Warren; ambasciatore Usa nella Repubblica federale di Jugoslavia, 1989-92.
ZUBAK, KreSimir; presidente della Federazione musulmano-croata in Bosnia Erzegovina; quindi
copresidente della Federazione di Bosnia Erzegovina, 1996-98.par SIGLE

APZB: Autonomna Pokrajina Zapadna Bosna, regione autonoma della Bosnia occidentale, dal 27
settembre 1993.
Armija BiH: l'esercito bosniaco a prevalenza musulmana.
CCCC: vedi SSSS.
DS: Democratska Stranka, Partito democratico (Serbia).
FYROM: Former Yugoslavian Republic of Macedonia, denominazione ufficiale della Macedonia.
FARK: Forca Armata Republika Kosovës, Forze armate della repubblica del Kosovo.
HDZ: Hrvatska Demokratska Zajednica, Comunità democratica croata.
HNS: Hrvatska Narodna Stranka, Partito nazionale croato.
HOS: Hrvatske Odbrambene Snage, Forza di difesa croata (ala militare dell'Hsp).
HRHB: Hrvatska Republika Herceg-Bosna, Repubblica croata dell'Erzeg-Bosnia, dal 28 agosto
1993.
HSP: Hrvatska Stranka Prava, Partito croato dei diritti.
HV: Hrvatska Vojska, Esercito croato.
HVO: Hrvatsko Viječe Odbrane, Consiglio di difesa croato, l'esercito dell'Erzegovina.
HZHB: Hrvatska Zajednica Herceg-Bosna, Comunità croata dell'Erzeg-Bosnia, fino al 28 agosto
1993.
HZP: Hrvatska Zajednica Posavine, Comunità croata della Posavina.
ICFY: International Conference on Former Yugoslavia, di cui sono presidenti David Owen e Cyrus
Vance prima e Thorvald Stoltenberg poi.
JNA: Jugoslovenska Narodna Armija, Armata popolare jugoslava.
KFOR: Kosovo Force, corpo multinazionale in Kosovo.
KPC: Kosovo Protection Force, l'organizzazione, ufficialmente con compiti di protezione civile,
succeduta all'Uçk.
KVM: Kosovo Verification Mission, missione internazionale sotto l'ombrello Osce per verificare
la tregua tra serbi e albanesi, ottobre 1998-marzo 1999.
LDK: Ledhia Democratike Kosovës, Lega democratica del Kosovo.
MBO: Muslimanska Bosnjačka Organizacija, Organizzazione musulmano-bosniaca.
MUP: Ministarstvo UnutraSnjih Poslova, ministero degli Affari interni.
NDH: Nezavisna DrŽava Hrvatska, stato indipendente della Croazia, lo stato-fantoccio di
ispirazione nazista creato durante la Seconda guerra mondiale.
OS BIH: Odbrambene Snage Bosne i Hercegovine, Forza di difesa della Bosnia Erzegovina
(precede l'Armija).
PDA: Partia Demokratike Shqiptare, Partito democratico albanese; formazione politica della
Macedonia, nata dalla fusione del Ppda con un altro partito albano-macedone.
PPD: Partito per la prosperità democratica, formazione politica albanese della Macedonia,
dapprima moderata.
PPDA: Partito per la prosperità democratica albanese, formazione politica della Macedonia, nata
da una scissione dell'ala radicale del Ppd nel 1994.
RSK: Republika Srpska Krajina, Repubblica serba di Kraijna.
SABOR: il Parlamento croato.
SAO: Srpska Autonomna Oblast, regione autonoma serba, autodichiarate aree di autogoverno
serbo in Croazia e Bosnia.
SCP: Srpski četnički Pokret, Movimento cetnico serbo.
SDA: Stranka Demokratske Akcije, Partito di azione democratica, il partito a prevalenza
musulmana della Bosnia Erzegovina.
SDP: Stranka Demokratskih Promena, Partito dei cambiamenti democratici (Croazia), ex
comunisti.
SDS: Srpska Demokratska Stranka, Partito democratico serbo (partito dei serbi di Croazia e di
Bosnia Erzegovina).
SFRJ: Socialistička Federativna Republika Jugoslavija, Repubblica federativa socialista di
Jugoslavia.
SKJ: Savez Komunista Jugoslavije, Lega dei comunisti di Jugoslavia.
SNV: Srpsko Narodno Veče, Consiglio nazionale serbo, organismo di rappresentanza dei serbi del
Kosovo.
SPO: Srpski Pokret Obnove, Movimento di rinnovamento serbo.
SPS: Socialistička Partija Srbije, Partito socialista serbo.
SRS: Srpska Radikalna Stranka, Partito radicale serbo.
SSSS: le quattro esse cirilliche («C») stanno per Samo Sloga Srbina Spasava, ma questa è
un'interpretazione nazionalista tardo ottocentesca. In realtà sono entrate nello stemma serbo nel
medioevo, mutuate da un simbolo bizantino e significano più o meno che il re dei re regnerà, in
greco antico re si dice basileus che in greco bizantino diventa vasilefs e la «B» greca (ovvero la «V»
latina) diviene poi «C» (cioè «S» latina).
TMK: Trupat e Mbrojtjes se Kosovo, truppe di difesa del Kosovo, il corpo di protezione civile
succeduto all'Uçk.
TO: Teritorijalna Odbrana, Difesa territoriale, creata in periodo comunista.
UçK: Ushtria çlirimtare Kombëtare, Esercito di liberazione nazionale (in Macedonia).
UçK: Ushtria çlirimtare Kosovës, Esercito di Liberazione del Kosovo.
UCPMB: Ushtria çlirimtare e Presheve, Medvegje, Buianc, Esercito di liberazione di PreSevo,
Medvedja e Bujanovac, organizzazione di guerriglia albanese nata sulle ceneri dell'Uçk.
UDBA: Uprava DrŽavne Bezbednosti, amministrazione per la sicurezza dello stato (la polizia
segreta comunista).
UNHCR: United Nations High Commission for Refugees, Alto commissariato Onu per i rifugiati.
UNMIK: United Nations Interim Administration Mission in Kosovo, amministrazione civile Onu in
Kosovo.
UNPA: United Nations Protected Areas (in Croazia).
UNPF: United Nations Peace Force, dall'aprile 1995 nome comprensivo delle tre differenti
missioni di pace Onu in Bosnia, Croazia e Macedonia.
UNPREDEP: United Nations Preventive Deployment, missione di pace Onu in Macedonia, dal
1995 sostituisce l'Unprofor, termina nel 1999.
UNPROFOR: United Nations Protection Force, nome della missione di pace Onu nell'ex
Jugoslavia dal febbraio 1992 all'aprile 1995, dopo quest'ultima data, Unprofor si riferisce solo alla
missione Onu in Bosnia.
VJ: Vojska Jugoslavije, esercito di Jugoslavia (successore della Jna).
VMRO-DPMNE: Vnatrashna Makedonska Revolutsionera Organizatsija-Demokratska Partija za
Makedonsko Natsionalno Edinstvo, Organizzazione rivoluzionaria interna macedone-Partito
democratico per l'unità nazionale.
VOPP: Vance-Owen Peace Plan, piano di pace Vance-Owen.
VRS: Vojska Srpska Republika, esercito dei serbi di Bosnia.
ZNG: Zbor Narodne Garde, corpo della Guardia nazionale (predecessore dell'esercito croato).par
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ROHDE, David, A Safe Area. Srebrenica: Europe's Worst Massacre Since the Second World War,
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RüB, Matthias, Kosovo. Ursachen und Folgen eines Krieges in Europa, Deutscher Taschenbuch
Verlag, München 1999, pagg. 192.
RUMIZ, Paolo, Maschere per un massacro. Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in
Jugoslavia, Editori Riuniti, Roma 1996, pagg. 167.
La linea dei mirtilli. Storie dentro la storia di un paese che non c'è più, Editori Riuniti, Roma
1997, pagg. 201.
SARINic, Hrvoje, Svi moji tajni pregovori sa Slobodanom MiloSevicem 1993-95 (98), Globus,
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ScoTTo, Giovanni, ARIELLI, Emanuele, La guerra del Kosovo. Anatomia di un'escalation, Editori
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SILBER, Laura, LITTLE, Allan, The Death of Yugoslavia, Penguin Books/Bbc Books, London
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SLIVNIK, Danilo, Sto osamosvojitvenih dni, ZaloŽba Delo, Ljubljana 1991, pagg. 230.
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ZAVRSNIK, Alojz, Taktika delovanja enot teritorialne obrambe v vojni za obrambo samostojne
Slovenje, tesi di laurea, Facoltà di Sociologia, Lubiana 1997.
ZIMMERMANN, Warren, Origins of a Catastrophe, Times Book/Random House, New York 1996,
pagg. 269.par
Testi letterari Per capire i Balcani e le genti che li abitano può risultare molto utile la lettura di
alcune fondamentali opere letterarie.
NDRIc, Ivo, Il ponte sulla Drina, Mondadori, Milano 1960, ristampa 2000, pagg. 404.
BETTIZA, Enzo, Esilio, Mondadori, Milano 1995, pagg. 470.
CRNJANSKI, MiloS, Migrazioni, Adelphi, Milano 1992, 1998, 2 voll., pagg. 278, 870. Tit. or.
Seove.
JERGOvic, Miljenko, I Karivan, Einaudi, Torino 1997, pagg. 192. Tit. or. Karivani, 1995.
Le Marlboro di Sarajevo, Quodlibet, Macerata 1995, pagg. 138. Tit. or. Sarajevski Marlboro,
Durieux, Zagreb 1994.
KAdarIsmail, I tamburi della pioggia, Corbaccio, Milano 1997, pagg.
236. Tit. or. Les tambours de la pluie, Hachette, Paris 1972.
Tre canti funebri per il Kosovo, Longanesi, Milano 1999, pagg. 108.
Tit. or. Trois chants funèbres pour le Kosovo, Librairie Arthème Fayard, 1998.
Karahasan, DŽevad, Il centro del mondo, il Saggiatore, Milano 1993, pagg. 141.
KiS, Danilo, Enciclopedia dei morti, Adelphi, Milano 1988, pagg.
194. Tit. or. Enciklopedija mrtvih, Globus, Zagreb 1983.
Mori, Anna Maria, Milani, Nelida, Bora, Frassinelli, Milano 1998, pagg. 240.
REED, John, La guerra nell'Europa Orientale 1915, Pantarei, Milano 1997, pagg. 279. Tit. or. The
War in Eastern Europe, Described by John Reed, Designed by Boardman Robinson, Charles
Scribner's Sons, New York 1916.
WEST, Rebecca, Black Lamb and Grey Falcon, Canongate Classics, Edinburgh 1997, pagg. 1181.
Prima ed. The Viking Press, Usa 1941.
Parzialmente tradotto con: Viaggio in Jugoslavia. La Croazia, Edt, Torino 1994, pagg. 121; Viaggio
in Jugoslavia. La Bosnia e l'Erzegovina, Edt, Torino 1994, pagg. 216; Viaggio in Jugoslavia. La
vecchia Serbia, Edt, Torino 2000, pagg. 187.
Indice dei nomi
Abdic, Fikret, 158, 161, 168, 195-196, 215-216, 222, 224, 226
Ačimovic, Milan, 459
AdŽic, Blagoje, 68-69, 75-77, 81, 88, 121, 127, 138-139
Agani, Fehmi, 305, 309, 335
Agnelli, Arduino, 271
Agnelli, Susanna, 259
Agotic, Imra, 121-122
Ahmeti, Ali, 397
Ahtisaari, Martti, 353, 355
Aimone, duca, 456
Akashi, Yasushi, 199, 201, 204, 211-212, 217-218, 220, 229, 262-267, 272, 276
Albright, Madeleine, 106, 319-320, 324-325, 327-328, 336-337, 339
Alessandro Magno, 388
Alessandro, re, 129, 433, 437-438, 441-450, 454, 469
Alfonso XIII, 444
Alia, Ramiz, 314
Amato, Giuliano, 379
Anderson, James, 321
Andjelkovic, Zoran, 374-375
Andric, Ivo, 158
Anghelopoulos, Theo, 232
Annan, Kofi, 366-367
Arbour, Louise, 300, 334
Arbuckle, Tammy, 108-109
Arkan vedi RaŽnjatovic, Željko Arlacchi, Pino, 369
Artemije, vescovo, 319, 375
Ashdown, Paddy, 254-255, 276
Augusto, imperatore, 416

Babic, Milan, 80, 88, 105, 137-139, 152, 267


Badinter, Robert, 97, 145
Badou, Gérard, 85
Bakalli, Mahmut, 295
Baker, James, 60, 67, 104, 107, 318
Bakovic, Ante, 86
Bala, Isa, 361
Baldwin, Elisabeth, 391
Balfour, Slan, 272
Barrey, Bertrand, 136
BaseSki, Mustafa, 406
Basilio II, 419
Batakovic, DuSan T., 294-295
Bavčar, Igor, 30
Bebic, Luka, 111
Bebler, Anton, 108, 110
Beck, Ulrich, 325
Beinder, David, 200
Benedikter, Thomas, 290, 310
Benigni, Roberto, 348
Berger, Sandy, 324
Berisha, Sali, 314-315
Berisha, Tom, 314
Bernabé, Franco, 370
Berndt, Marty, 234
Beslagic, Selim, 227
Bildt, Carl, 148, 235, 267, 272, 397
Biloslavo, Fausto, 271
Biocca, Paola, 358
Biroli, Pirzio, 462
Biserko, Sonja, 273
Bismarck, Otto von, 209, 425
Bjorčevic, Andrija, 90
Blagojevic, Marina, 309-310
Blair, Tony, 351
Boban, Mate, 146, 152-155, 169, 188, 191, 193-194, 196, 205, *206
Bobetko, Ivan, 115
Bobetko, Janko, 190
Bogdanovic, Radmilo, 89, 100-101
Bonino, Emma, 348
Boniver, Margherita, 134
BorStner, Ivan, 39-40
Bosanac, Vesna, 125
Boussageon, Alexandre, 91
Boutros Ghali, Boutros, 189, 199, 201-202, 211-212, 214, 224, 229, 239, 268, 390
BoŽanic, BoSko, 95
BoŽovic, Djordje, 94
Bozzo, Luciano, 392
Briga, Ismet, 210
Briquemont, Francis, 198
Broek, Hans van den, 65, 71, 82, 390
Bukoshi, Bujar, 288, 305-306, 313-314, 335
Bulatovic, Momir, 42, 193, 299, 323
Bush, George, 67, 120, 377
Butler, Richard, 331
Byrnes, Shaun, 324

Capuozzo, Toni, 352, 362


Carrington, Peter, 136
Carter, Jimmy, 224-226, 228, 260
Carter, Rosalyn, 224
çeku, Agim, 311, 314, 363, 371, 373
čeleketic, Milan, 269
červenko, Zvonimir, 265
Champion, Marc, 125
Chatelais, Michel, 104
černomyrdin, Vyktor, 353, 356
Chirac, Jacques, 239, 366
Chomsky, Noam, 325-326
Christopher, Warren, 187, 201, 205, 247-249, 267, 275
Churchill, Winston, 157, 291, 454
čičak, Zvonimir, 79
¬ikic, Valentina, 378
Cilento, Salvatore, 104
Cirillo, santo, 419
Claes, Willy, 389
Clark, Wesley, 16-17, 329, 339, 341, 344-346, 350, 358, 365
Clinton, Bill, 195, 203-204, 207, 228, 234, 244, 247, 249-250, 260, 273, 309, 324, 342-343, 347-
348, 353-354, 390
Cocciolone, Maurizio, 231
Cohen, William, 325
Cook, Robin, 318, 335
čorovic, Svetozar, 407
čosic, Dobrica, 35, 155, 172, 271, 296-297
Cossiga, Francesco, 136
Couzy, Hans, 239
Covey, James P., 366
črnojevic, Arsenije III, 290
Crvenkovski, Branko, 388, 392
čubrilovic, Vaso, 308
čurak, Nerzuk, 25
čurkin, Vitali, 212
Cuthilhieiro, José, 152-153
Cvetkovic, DragiSa, 452-454
Cvijan, Stojan, 89, 100

D'Annunzio, Gabriele, 437


Daalder, Ivo, 347
Dabčevic-Kučar, Savka, 473-474
De Michelis, Gianni, 60, 65, 71, 82, 95, 117, 136
De Rivera, Miguél Primo, 444
Dedakovic, Mile, 126-127, 129-130
Degoricija, Slavko, 95
Del Ponte, Carla, 158, 360-361, 398
Del Vecchio, Mauro, 358
Delic, RaSim, 192, 206, 214, 236, 238
Demaqi, Adem, 290, 304, 313, 318, 335
Demiri, Alajdin, 393, 395
Despic, Aleksandar, 308
Di Stefano, Giovanni, 90
Dilberovic, Suada, 160, 225-226
Dimitrijevic, Aleksandar, 338
Dini, Lamberto, 271, 311, 347, 350-351
Dioguardi, Joe, 314
Divjak, Jovan, 149, 164, 166, 170, 172-173, 192
Dixon, Joly, 366
Djilas, Milovan, 410
Djindjic, Zoran, 94, 263, 398
Djujic, Momčilo, 84
Djukanovic, Milo, 42, 90, 323, 401
Djukic, Slavoljub, 31, 255
Doko, Jerko, 158
Dole, Bob, 314, 327
Dragan, Kapetan, 88
DraSkovic, Vuk, 84, 93, *94, 96, 151, 409, 412
Drew, Nelson, 244
Drewenkiewicz, John, 324
Drljevic, Sekula, 436
DrnovSek, Janez, 44, 47, 56
DrogaS, Andja, 279
DrogaS, Droginja, 279
DrŽilav, re, 419
Dudakovic, Atif, 189, 216, 242-243, 273
Durham, Edith, 291
DuSan, re, 422
Dwelle, Ken, 344
DŽakula, Željko, 261

Eagleburger, Lawrence, 305


Efendic, Hasan, 164
Ehlert, Chuck, 234
Eiff, Hansjorg von, 104
EjzenStejn, Sergej Michajlovič, 409
Ejchenne, Jean-Luc, 139
Elena, regina, 462
Eltsin, Boris, 204, 231, 245, 276, 323, 353, 356
Everts, Daan, 366
Fagu, Agim, 312
Fellini, Federico, 376
Fila, Toma, 398
Filipovic, Muhamed, 191
Filippo il Macedone, 388
Fini, Gianfranco, 271
Fischer, Joschka, 16, 348
Francesco Ferdinando, 260, 308, 431
Francesco Giuseppe, 427
Franičevic, Ivan, 134
Frasure, Robert, 229, 244
Frckovski, Ljubomir, 393
Freud, Sigmund, 85

Galbraith, Peter, 262-263, 267, 274


Galvin, John, 133
Gamborg, Claus, 270
Ganic, Ejup, 236
Gardovic, Nikola, 226
Gashi, Isa, 361
Gautier, Michel, 201
Gecaj, Halit, 316
Gelbard, Robert, 318, 320, 323
Gengis, Kahn, 421
Genscher, Hans Dietrich, 69-70, 116
Georgievski, Ljubco, 392, 395
Gervalla, Bardhosh, 313
Gervalla, Jusuf, 313
Giovanni Paolo Ii, papa, 199, 216-218, 220, 274
GlavaS, Branimir, 99, 106
GlavaSevic, SiniSa, 125
Glennon, Michael, 325
Glenny, Misha, 81, 93, 99
Gligorov, Kiro, 78, 151, 369, 387, *389, 390-394, 396
Glucksmann, André, 325
Gonzales, Felipe, 320
Gonzales, Stephen, 349
Gorbaciov, Michail, 116-117
GorinSek, Karlo, 127, 130
Goshev, Petar, 394
Goulding, Marack, 179, 188-189
Gračanin, Petar, 80, 99
Graciov, Pavel, 232
Granic, Mate, 206-207, 242, 256, 266, 267, 271, 273, 275, 280
Gregurič, Franjo, 107, 134
Gubec, Matija, 428
Gudelj, Ante, 106
Guinnes, Chris, 264, 280
Gutman, Roy, 177, 212
Gvero, Milan, 243

HadŽic, Goran, 89, 139


Haekkup, Hans, 367
Hafner, Vinko, 42
Hajzeraj, Hajzer, 306
Halilovic, Sefer, 152, 170, 192, 238
Haliti, Xhavit, 314, 335
Hall, Peter, 82, 104
Hanford, Thomas, 234
Haradinaj, Ramush, 380
HarambaSic, Stevan, 261
Haskaj, Husein, 388
Havel, Vaclav, 79, 216
Hedl, Drago, 99
Hergueta, José, 136
Hill, Cristopher, 320, 323-324, 332, 336
Hitler, Adolf, 448, 453-454, 457-458, 460
Hogan, Barry, 361
Holbrooke, Richard, 16, 244-249, 259, *260, 320, 323-324, 327-328, 330-331, 335, 340, 345,
381, 390, 392
Holloway, Dacre, 217
Hope, Bob, 247
Hoxha, Enver, 16, 313-314
Huntington, Samuel, 164
Hurd, Douglas, 67, 70
Hussein, Saddam, 231, 331
Hyseni, Hydajet, 294, 304, 313, 316

Ignatieff, Michael, 324, 340


Isby, David C., 108
Ivančic, Viktor, 268
Ivanov, Igor, 327
Ivanovic, Oliver, 367, 376, 379
Ivanovic, Orad, 261
Izetbegovic, Alija, 51, 78, 82, 108, 144, 149, 151, 153-154, 157, 160, *161, 163, 165, 167-168,
171, 177, 181-182, 186, 188, 190-195, 207, 211-213, 216, 219, 221, 225-227, 235, 237-238, 243,
245, 247-250, 265, 276, 307, 401, 405
Izetbegovic, Sabina, 168

Jackson, Jesse, 352


Jackson, Michael, 355, 357-358, 364, 371
Jagar, Vladimir, 111
Jambor, Pierre, 274
Janigro, Nicole, 99
Janjic, Sava, 319, 366, 379
JanSa, Janez, 18, 30, 38-40, 48, 52-53, *55, 62-67, 69, 113
Janvier, Bernard, 235, 270
Jarčevic, Slobodan, 262
Jarnjak, Ivan, 264
Jashari, Adem, 313, 317-318
Jashari, Besarta, 318
Jashari, Hamza, 313
Jashari, Kaqusha, 299
Jashari, Shaban, 313, 318
Jastreb vedi Dedakovic, Mile Jazov, 57
Jevtic, Atanasije, 298
Jokic, Miodrag, 134
Jospin, Lionel, 352
Jovanovic, čedomir, 398
Jovanovic, Vladislav, 402
Jovic, Borisav, 51-52, 56-58, 61, 68, 70, 76, 78, 80, 82, 84, 88-90, 94, 96, 123, 139
Jovic, Josip, 95
Jovic, Mirko, 85
Jovičevic, Branislav, 236
Judah, Tim, 77, 84, 89, 101, 295, 302, 305, 311-312, 314, 316, 318, 336

Kacin, Jelko, 64, 69


Kadaré, Ismail, 337
Kadijevic, Veljko, 53, 57, 60, 67, 70, 76-77, 81, 84, 94, 103, 110, 113, 115, 117, 121, 123, 131-
133, 139
Kafka, Franz, 17
Kajevic, Abdulah, 164
Kajin, Damir, 268
Karadjordjevic, Alessandro vedi Alessandro, re Karadjordjevic, Pietro, vedi Pietro I, re
KaradŽic, Radovan, 12, 85, 138, 144, 147, *148, 151-157, 162, 166, 169-170, 175, 179, 183, 185,
188-189, 191, 193, 196, 199-200, 203-206, 210-212, 214-215, 217-218, 221-225, 228-230, 232,
235-237, 240, 242-245, 250, 256, 262-263, 266, 273, 360, 405, 412
KaradŽic, SaSa, 148
KaradŽic, Sonja, 148, 236
Kardelj, Edvard, 32, 472-474
KariSik, Kemo, 166
Kelečevic, BoSko, 267
Kelmendi, Aziz, 298
Kelmendi, Bajram, 345
Kelmendi, Migjen, 16
Kelmendin, Rexhe, 361
KerteS, Mihalj, 89
Kinkel, Klaus, 280, 389-390
Kljujic, Stjepan, 151-152, 206
KneŽevic, Veljko, 256
Koenings, Tom, 366
Kofos, Evangelos, 309
Kohl, Helmut, 136
Koljevic, Nikola, 148, 152, 159, 199, 245-246
Kolly, Alain, 362
KolSek, Konrad, 30
Konomi, Arjan, 304
Kopitar, Jernej, 429
Korac, Živko, 281
Koraci, Ramadan, 397
Koraci, Rasim, 397
KoroSec, Anton, 430-433, 435, 441-442, 444-445, 448, 450
Koschnik, Hans, 221
Kosin, Marko, 60
Kostic, Branko, 123, 138-139, 167-168
KoStunica, Vojislav, 35, 222, 357, 363, 367, 378-379, 381, 385, 396, 401, 412
Kouchner, Bernard, 134, 366, *367, 371, 373-376, 378, 380
Kovac, Radomir, 184
Kovačevic, Branko, 161
Kozyrev, Andrej, 205, 231-232, 267
KrajiSnik, Momčilo, 144, 149, 156, 215, 245
Kraljevic, BlaŽ, 167, 177
Kraljevic, Marko, 290
Kramaric, Zlatko, 99-100, 106, 117
Krasniqi, Ahmet, 306
Krasniqi, Jakup, 316, 324
Krauthammer, Charles, 274
Krleza, Miroslav, 87
Krstic, Radislav, 240
Krulic, Josip, 458
Kruzel, Joseph, 244
Kučan, Milan, 29-30, 37, *39, 43, 48-49, 53-54, 56, 62, 66-69, 75, 77, 401
Kuharic, Franjo, 84, 274
Kukanjac, Milutin, 156, 168
Kun, Bela, 436
Kunarac, Dragoljub, 184
Kustic, Živko, 275
Kusturica, Emir, 232, 406
Kvaternik, Evgen, 427
Kvaternik, Slavko, 455
Labarsouque, Bertrand, 218
Ladislao, re, 420
Lainovic, Branislav, 94
Lapresle, Bertrand de, 211, 235
LauSic, Mate, 264
Lazar, principe, 46, 96, 290, 296, 422
Lazzaro, vedi Lazar Lenin, 432
Leopoldo I, 290
Lerotic, Zvonko, 152
Lévy, Bernard-Henri, 207, 325
Lewinsky, Monica, 324
Little, Allan, 34, 37, 42, 56, 58, 60, 64, 66, 77, 80, 99-100, 103, 138
Livljanic, Ivo, 131
Ljotic, Dimitrije, 447, 450-451, 453, 460, 466
Ljubic, Mariofil, 144
Ljubijankic, Irfan, 232
Lončar, Budimir, 104, 132, 292
Loquaci, Heinz, 338
Lučarevic, Kerim, 164
Ludovico I, 421
Luetic, Vladimir, 101
Lutero, Martino, 428

Maček, Vladko, 441, 447-448, 450-454, 456-458, 467


Machiavelli, Niccolò, 406
Mackenzie, Lewis, 405
Mahmutčehajic, Rusmir, 191
Mahmuti, Bardhyl, 313, 316, 318, 323
Makavejev, DuSan, 408
Malcolm, Noel, 294, 298, 301, 307
Maliqi, Shkelzen, 309
Maloku, Naim, 380
Mamula, Branko, 81
Manolic, Josip, 152, 256
Maria Teresa, imperatrice, 117, 455
Marjanovic, Mirko, 327
Markovic, Ante, 44-46, 54, 60-61, 67-68, 70, 75, 82, 91, 97, 103-104, 121, 132, 157, 273, 389
Markovic, Marko, 398
Markovic, Mirjana, 35-36, 274, 351
Markovic, Rade, 393, 398
Markovic, Ratko, 309, 335
Martic, Milan, 22-23, 88, 103, 110, 117, 131, 139, 242, 253, 255, 262-263, 266-267, 271-272
Martino, Antonio, 271
Martinovic, Djordje, 297-299
Matic, Veran, 411
Matta, Marco, 139
Mattarella, Sergio, 342
Mazowiecki, Tadeusz, 184, 194, 212
Mcnamara, Dennis, 366
Meier, Victor, 104
Mekloski, Frank, 212
Melonasi, Mirjan, 378
Merril, Christopher, 304
Mesic, Stjepan, 58, 65, 67-69, 71, 76, *79, 80, 82, 86, 88, 94, 99, 115-116, 120-121, 134, 256,
401
Metodio, santo, 419
Michnik, Adam, 408
Mihajlovic, DraŽa, 94, 463-466
Mikelic, Borislav, 262-263, 272
Mikulic, Branko, 37
Milanovic, Milan, 248
Miles, Richard, 323
Milo, Paskal, 337
MiloSevic, Borislav, 398
MiloSevic, Marija, 351
MiloSevic, Mirjana vedi Markovic, Mirjana MiloSevic, Slobodan, 16, 18, 22, 31, 34, *35, 36, 37,
40-46, 48-51, 53-54, 56-58, 61, 68, 70, 75, 77-79, 82, 84, 86, 88-91, 93-94, 96, 98, 115-116, 118,
123, 128, 133, 138, 147-148, 151, 155, 158, 163, 172, 175, 179, 184, 186, 188-189, 191-193, 195,
207, 215, 228-229, 232, 235, 243, 245-250, 253-255, 260, 262-263, 266-269, 272, 274, 276, 287-
288, 290, 292, 296-297, 299-301, 303, 305-312, 318-320, 322-323, 326-331, 335-336, 338-341,
343-347, 350-357, 359, 362-363, 370-371, 375, 378-381, 385, 393, 396-398, 401-403, 408-412
MiloSevic, Stanislava, 35
MiloSevic, Svetozar, 35
MiloSevic, Vladimir, 59
Milovanovic, Manojlo, 243
Milutinovic, Milan, 300, 337
Milutinovic, Milovan, 232
Mirkovic, Alenka, 129
Mistura, Staffan de, 358
Mitterrand, Danielle, 94
Mitterrand, François, 118, 174-175
Mladic, Ana, 222
Mladic, Ratko, 12, 88, 90, 103, 110, 148, 156, 169-170, 175, 185-186, 189, 203, 210, 212, 221,
*222, 223, 227-228, 233, 235, 237-246, 250, 266, 273, 360
Molinari, Fulvio, 63
Molnar, Sandra, 120-121
Monterisi, Francesco, 218-219
Morillon, Philippe, 21, 24, 186, 210, 238
Morina, Rrahman, 300
Morina, Selman, 326
MrkSic, Mile, 269
Murad I, 290, 422
Mussolini, Benito, 441, 448, 450-451, 460

Nambiar, Satish, 139, 167


Nano, Fatos, 315
Napoleone, 424, 428
Natale, Silvano, 139
Nativi, Andrea, 320, 322
Natlačen, Marko, 461
Naumann, Klauss, 343, 346, 350
Nedic, Milan, 459-460, 465-466
Negovanovic, 67
Nemanja, Sava, 420-421
Nemanja, Stefano, 420
Nemanja, Stevan, 420-422
Nimetz, Matthew, 390, 392
Nobilio, Mario, 276
Norac, Mirko, 119

O'Grady, Scott, 233-234


O'Kane, Maggie, 148
Obilic, MiloS, 290
Obradovic, Vuk, 57
Obrenovic, Alessandro, 430
Obrenovic, Dragan, 240
Obrenovic, Mihajlo, 425
Obrenovic, MiloS, 424-425
Ojdanic, Dragoljub, 300, 338
Opačic, Jovan, 85
Oric, SaSa, 258
Ortega, 361
Orwell, George, 304
Osmani, Rufi, 317, 393-395
Owen, David, 179-180, 183-184, 186-194, 199-200, 235, 272-273

Palic, Avdo, 241-242


Palic, Himza, 240
Panic, Milan, 89, 306, 401
Panic, Života, 109, 123, 127
Paolini, Fulvio, 125
Paolo, principe, 450, 452-453, 454
Papandreu, Andreas, 389
Papoulias, Carolas, 388-389
Papovic, Radivoje, 302, 316
Paraga, Dobroslav, 86, 109, 129-130
Paravic, DuSko, 271
Paroski, Milan, 89, 100
Pasha, Esat, 315
PaSic, Nikola, 429-430, 433-434, 436-440, 449
PaSic, Petar, 268
Patten, Chris, 375
Pavečic, Marko, 131
Pavelic, Ante, 49-50, 80, 86-87, 106, 129, 162, 206, 435, 439-441, 444, 446, 448, 451, 455-458,
465, 473
Pavic, Milorad, 297
Pavičevic, Dragan, 92
Pavkovic, NebojSa, 325, 338
Pavle, patriarca, 255, 354
Pensa, Paolo, 271
Pérez de Cuéllar, Javier, 120, 137
Pérez-Reverte, Arturo, 118
PeriSic, Momčilo, 158, 329, 338
Perry, William, 272
Petàin, maresciallo, 459
Peterle, Lojze, 29
Petkovski, Tito, 396
Petritsch, Wolfgang, 324
Petrovic, Karadjordje, 424-425
Philips, James, 321
Pietro I, re, 430, 438, 450
Pietro II, re, 454
Pinheiro, Joao de Deus, 71
Pirjevec, JoŽe, 34, 460
Piziali, Stefano, 294
Planinc, Milka, 33
PlavSic, Biljana, 138, 148, 158-159, 222
Plečko, Franjo, 164
Poos, Jacques, 65, 71, 82
Popova, Shefki, 378
Powell, Colin, 377
Preseren, France, 39
Pribičevic, Svetozar, 433, 435, 438-441, 447-448
Prinčip, Gavrilo, 260, 308
Provvisionato, Sandro, 318, 321
Prunk, Janko, 33
Puddu, Franco Maria, 126
Puhovski, Žarko, 278
Pula, Gazmend, 304
Pupovac, Milorad, 279
PuSčak, Hasan, 406
Putin, Vladimir, 378-379

Qosja, Rexhep, 305, 316, 335

Račan, Ivica, 48-49, 119, 257


Radic, Anton, 430
Radic, Stjepan, 430, 434-435, 438-439, 441, 447
Rajic, BoŽo, 182
Rakic, Milica, 352
Ramacci, Fiorenzo, 139
Ramirez, Andrew, 349
Rankovic, Aleksandar, 287, 293, 304, 472-474
Ranta, Helena, 332, 334-335
Rapisarda, Giuseppe, 361
RaSeta, Andrija, 64, 67, 121-122, 132, 147
RaSkovic, Jovan, 50, 84-85, 88
Rastello, Luca, 369
Raufer, Xavier, 369
RaŽnjatovic, Željko, 89, *90, 117, 157, 158, 213, 227, 287-288, 306
Reagan, Ronald, 339
Reaumont, George, 264
Rechner, Patrick, 230-231
Reeker, Phil, 332
Reichl-Kir, Josip, 99-100, 106
Repe, 32
Risley, Paul, 217
Robertson, Lord, 365
Rose, Michael, 198-199, 204, 210-211, 217, 223-224
RoSo, Ante, 206
RoŽman, vescovo, 461
Rüb, Matthias, 339, 385
Rubin, James, 311
Rudolf, Davorin, 134
Rugova, Ibrahim, 287, *288, 294, 303, 305-307, 309-310, 316, 319, 322, 335-337, 350, 367, 370-
371, 373-374, 377-378, 380-381, 387
Rumiz, Paolo, 46-47, 63, 99, 113, 124, 276-277
Rupnik, Lev, 461
Russo, Antonio, 338
RuŽička, Leopold, 123

Sačirbej, Muhamed, 242, 249, 266-267


Sainovic, Nikola, 300
Salihu, Jashar, 312
Samaranch, Juan Antonio, 202
Samokovlija, Isak, 407
SaniSic, Jovica, 338
Sanka, Ivica, 270
Santa Cruz, Angel, 241
Sarinic, Hrvoje, 191, 248, 254-255, 266, 269, 276
Sartre, Patrice, 183-184
Scharping, Rudolf, 348
Schröder, Gerhard, 356
Scoefield, John, 276
Scotti, Giacomo, 273-274
Segnan, Rodolfo, 268
Sejdiu, Pleurat, 312
Selimi, Rexhep, 317
Selimi, Sulejman, 317, 342
Sema, Antonio, 108
SeSelj, Vojislav, 84-85, 100, 152, 203, 272, 274, 319, 409
Shala, Blerim, 15-16, 335, 344
Shala, Shaban, 313-314, 323
Sharping, Rudolf, 338
Shatri, Xhafer, 313
Shaw, George Bernard, 134
Short, Michael, 328-329, 343-344, 346
Shpak, Gheorghi, 366
Siber, Stjepan, 164, 170, 192
Sidran, Abdulah, 406-407
SilajdŽic, Haris, 199, 207, 218, 243, 247, 249
Silber, Laura, 34, 37, 42, 56, 58, 60, 64, 66, 77, 80, 99-100, 103, 138
Simatovic, Frano, 89
Simčik, Josef, 59
Simeone, zar, 419
Simon-Belli, Carlo, 392
Simovic, Tomislav, 127, 454-455
Sinkovic, Jadranko, 258
Slivnik, Danilo, 63-64, 66, 71
Smajlovic, Kjasif, 159
Smith, Leighton, 229
Smith, Rupert, 229
Sofic, Fahrudin, 219
Sogorov, Milovan, 41
Solana, Javier, 273, 324, 329, 341, 344
Solevic, Miroslav, 319
Soyster, Harry, 259
Spaho, Mehemed, 436, 447
Spegelj, Martin, 63, 108, 111-113, 119, 278, 280
Spirovski, Aleksandar, 392
Stalin, 204, 411, 468-470
Stambolic, Ivan, 35-37, 299
StaniSic, Jovica, 89, 235
Starčevic, Ante, 129, 427, 430, 435
Starčevic, Miodrag, 125
Stepinac, arcivescovo, 458
Stevanovic-KaradŽic, Vuk, 424
Stipčevic, NikSa, 297
Stojadinovic, Ljubodrag, 203
Stojadinovic, Milan, 450-452, 459
Stojičic, Radovan, 89
Stojiljkovic, Vlajko, 300
Stoltenberg, Thorvald, 187, 193-194, 199, 266, 268
Stone, James, 349
Stragà, Bepi, 117
Stroehm, Carl Gustav, 95
Strugar, Pavle, 134
Stupar, Milan, 269
Sulejmani, Fadil, 317, 392, 396
Sullivan, David, 344
Surroi, Veton, 309, 335, 337, 378
SuSak, Gojko, 99, 106, 113, 147, 253, 255, 262, 273, 275-276, 278, 280
SuStar, Alojzij, 29, 56
Suvar, Stipe, 42
Syla, Azem, 314

Tadic, DuSko, 203


Talbott, Strobe, 324, 353, 355-356
Talic, Momir, 243
Talla, Fadil, 17-18
Tanner, Marcus, 113-114
Tarbuk, Slobodan, 105, 267, 269
Tarun, 211
Tasic, David, 39-40
Tasic, Radovan, 119
Tellefsen, Tryggve, 391
Thaci, Gani, 311
Thaci, Hasim, 288, *311, 314, 316, 318, 323, 335-337, 364, 367, 371, 373-374, 377, 380-381
Thaci, Menduh, 394
Thompson, 46
Tiberio, imperatore, 416
Tito, pseud. di Josip Broz, 21, 31-32, 34, 36, 38, 49, 51, 55, 58, 70, 75, 78-79, 85, 87, 95-96, 101,
111, 204, 269, 287-288, 292-296, 304, 309, 387, 389, 397, 402-403, 407, 410-411, 464-471, 473-
475
Todorova, Sofija, 394
Toholj, Miroslav, 244
Tolimir, Zdravko, 243, 246
Toljč, Ivo, 271
Tomislav, re, 76, 418-419
Trajkovski, Boris, 396, 401
Trifunovic, Vlado, 120
Tripalo, Mika, 473-474
Trojano, Ugo, 365
Trotzky, 432
Trubar, Primus, 39
Trumbic, Ante, 430, 432-433, 437, 439-441, 447-448, 450
Tucci, Roberto, 216
Tudjman, Ankica, 87
Tudjman, Franjo, 49-50, 53, 58, 63, 75-76, 78-80, 85, 86, *87, 88, 93, 95-99, 101-103, 105, 107-
108, 112-114, 117-121, 127, 129-130, 135, 145-147, 151-152, 163-164, 171-172, 175, 177, 180,
190-193, 195, 206-207, 213, 215, 220, 246-250, 254-259, 262, 265-266, 268-273, 276, 278, 280-
281, 307, 314
Tudjman, Stjepan (figlio di Franjo), 87
Tudjman, Stjepan (fratello di Franjo), 87
Tudjman, Stjepan (padre di Franjo), 87
Tupurkovski, Vasil, 115, 395-396
Turajlic, Hakija, 171, 183, 185
TuS, Anton, 81, 127
Tvrtko, re, 421-422

UroSevic, Radovan, 334


UŽelac, Nikola, 114

Valentic, Nikita, 257


Vance, Cyrus, 128, 137, 139, 152, 179, 183-184, 186-190, 390, 405
Vasic, MiloS, 78
Vasilijevic, Aleksandar, 39-40, 112
VaSovic, Milanko, 363
Vedrine, Hubert, 335, 379
Vekaric, Vatroslav, 354
Velayati, Ali Akbar, 242, 267
Veličkovic, Svetlana, 90, 227
Vento, Sergio, 95, 104
Venturini, Lorenzo, 139
Veremis, Thanos, 308-309
Veseli, Kadri, 314
VeSovic, Marko, 352
Vikic, Dragan, 160-161
Vlahovic, Tomislav, 125, 128
Vllasi, Azem, 36, 43, 299-301
Vojnovic, Milivoj, 268
Vučičevic, Branko, 407-408
Vučurevic, Stojan, 135
Vukadinovic, Rajko, 95
Vukovic, Goran, 90
Vukovic, Milan, 279
Vukovic, Zoran, 184
Vuksic, Dragan, 338

Walker, William, 329, 331-335, 337, *339


West, Rebecca, 291
Wilby, David, 345
Windjaendts, Henri, 118
Woerner, Manfred, 204
Wojtyla, Karol vedi Giovanni Paolo II
Wright, Bob, 233

Xhaferi, Arben, 388, 392, 395-396


Xhuka, Abaz, 314

Zametica, Jovan, 223, 232


Zavrl, Franci, 40
Žečevic, Zdravko, 105
Zeka, Kadri, 313
Zelen, Ljiljana, 148
Zimmermann, Warren, 77-79, 82, 86, 104-105, 108, 121-122, 127, 133, 139, 207, 215, 288, 292-
294, 301, 330
Živkovic, Petar, 443-445, 448
Zubak, KreSimir, 205, 207, 213
Zvonimir, re, 420par

Fine

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