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Maurizio Ferraris

e La bo r at or i o d i O n t o lo g ia

PENSIERO
IN
MOVIMENTO C O N T E M P L A Z I O N E

1B la filosofia dall’ellenismo a Ockham


Maurizio Ferraris
e L a b or a t or i o d i O n t o l o g i a

PENSIERO
IN
MOVIMENTO C O N T E M P L A Z I O N E

1B la filosofia dall’ellenismo a Ockham


Coordinamento editoriale: Chiara Sottile
Revisione del testo e redazione: Maria Cristina Bertola
Redazione e revisione del testo dei Temi: Chiara Fenoglio
Redazione dei Laboratori delle competenze: Stefania Bessone
Progetto grafico: Cinzia Marchetti
Copertina: Alessandro Damin
Coordinamento grafico: Cinzia Marchetti
Ricerca iconografica: Stefania Bessone, Alessandra Montagnani
Preparazione delle carte e delle linee del tempo: Stefania Bessone
Impaginazione elettronica e cartografia: Essegi, Torino
Controllo qualità: Andrea Mensio
Segreteria di redazione: Enza Menel

L’opera è stata ideata e realizzata da Maurizio Ferraris, insieme con Alessandra Saccon ed Enrico Terrone, con contributi
di Franco Chiarle.
Franco Chiarle e Alessandra Saccon hanno curato la revisione didattica di tutti i capitoli.
Enrico Terrone è autore della Geografia della sezione 3, e dei profili storici dei capitoli da 10 a 13.
Alessandra Saccon è autrice delle Geografie delle sezioni 4 e 5; dei profili storici dei capitoli da 14 a 22; degli Esperimenti
filosofici; del progetto didattico dei Testi, della selezione antologica e degli apparati dei testi relativi ai capitoli 15, 17, 18,
19, e della selezione antologica dei capitoli 21 e 22; dei Concetti L’interiorità e La dialettica; ha inoltre curato il progetto
didattico, la supervisione e parte della realizzazione dei Fare per capire.
Franco Chiarle è autore dei seguenti apparati didattici: Lessico filosofico; Sintesi di fine capitolo; L’officina della filosofia.
Maria Cristina Bertola è autrice dei seguenti materiali: Il ritratto; Il punto di vista dell’arte; Il pensiero si fa immagine; Espe-
rimenti filosofici pp. 17, 83; Fare per capire; Ricorda che; schede Filosofia e letteratura - Agostino e Petrarca p. 152, Per ap-
profondire - Boezio: tra antichità classica e Medioevo latino p. 267, Per approfondire - Gli ordini mendicanti p. 307; Mappe
concettuali, schemi visivi e Idee a confronto; Concetto La cura; ha inoltre curato la selezione dei Testi e la realizzazione
dei relativi apparati didattici per i capitoli da 10 a 13, e la realizzazione degli apparati didattici dei testi dei capitoli 21 e 22.
Vera Tripodi è autrice dei Temi.
Giulia Fresco ha contribuito alla realizzazione dei Laboratori delle competenze.
Maria Battaglia ha realizzato gli elementi illustrativi del progetto grafico e i disegni che corredano le rubriche Esperimento
filosofico, Il pensiero si fa immagine e Argomentare e dibattere.
Jacopo De Santis ha realizzato l’elaborazione grafica del ritratto di Plotino (p. 95) e delle carte alle pp. 213, 235, 261 e 295.

Si ringrazia Tiziana Pers per la gentile concessione del ritratto nella rubrica A tu per tu con Maurizio Ferraris.
Si ringrazia Alessandra Montagnani per il prezioso contributo al progetto iconografico dell’opera.

In copertina:
Anonimo romano, Ritratto di San Tommaso d’Aquino, part., olio su tela, XVII secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana,
elaborazione grafica © DEA/Veneranda biblioteca Ambrosiana/De Agostini/Getty Images
© Gino Severini, by SIAE 2019

Tutti i diritti riservati


© 2019, Pearson Italia, Milano - Torino
978 88 395 23877 B - 978 88 395 34996 B

Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti
alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire
nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti.
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Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso
diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi,
Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail autorizzazioni@clearedi.org e sito web www.clearedi.org

Stampato per conto della casa editrice presso


Arti Grafiche DIAL, Mondovì (CN), Italia

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III

Indice generale
sezione 3
L’ELLENISMO
E L’EPOCA ROMANA
Geografia La diffusione della cultura greca 2
il QUADRO STORICO 2
l ’ INTRECCIO CULTURALE 4
gli SCENARI FILOSOFICI 6

capitolo 10
L’epicureismo 8

1 Epicuro: la vita e le opere 8


La figura di Epicuro e la sua scuola 8
Gli scritti 9

2 La fisica 9
Materia, atomi e vuoto 9
Il clinàmen 11
lessico filosofico inclinazione 11
Uomini e dei 11
lessico filosofico intermundia 11

3 La logica 12
La priorità del sensibile 12
lessico filosofico canonica 12
lessico filosofico simulacri, sensazione 13
L’evidenza delle sensazioni 13
Memoria, immaginazione, anticipazione 14
lessico filosofico anticipazione 14

4 L’etica 15
Libertà e felicità 15
lessico filosofico páthos 16
IV INDICE GENERALE

Piaceri e desideri 16
lessico filosofico piaceri cinetici, piaceri catastematici 16
lessico filosofico edonismo 17
ESPERIMENTO filos ofico La selezione di piaceri e desideri 17

Dolori e timori 18
lessico filosofico quadruplice farmaco 18
L’approdo alla felicità 20
lessico filosofico aponía, ataraxía 20
Nascondimento e amicizia 20
lessico filosofico vivi nascostamente 20

TESTI 22
t1 La sensazione
da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 22
t2 Come ottenere la felicità
da Epicuro, Lettera a Menèceo 23

SINTESI 26
MAPPE CONCETTUALI 27
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 28

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


L’ELLENISMO E L’EPOCA ROMANA Geografia: Video - Classe capovolta • Carta interattiva • Linea
del tempo interattiva
Esercizi interattivi: La fisica epicurea; La logica epicurea; L’etica epicurea • Audiosintesi
• Ripasso

capitolo 11
Lo stoicismo 30

1 La nascita e gli sviluppi dello stoicismo 30


La fondazione della scuola 30
Le tre fasi dello stoicismo 31

2 La fisica 31
I due principi fondamentali dell’universo 31
lessico filosofico lógos spermatikós 31
lessico filosofico panteismo 32
L’ordine razionale 32
V

Le cose che esistono e la concezione dell’anima 32


lessico filosofico palingenesi 32
lessico filosofico heghemonicón 33

3 La logica 33
Il criterio di verità 33
lessico filosofico rappresentazione catalettica 34
I concetti 35
I termini 36
lessico filosofico significato 36
Le proposizioni 37
Il ragionamento e le sue figure fondamentali 37
lessico filosofico anapodittico 37
PER APPROFONDIRE I paradossi stoici 38

Validità e verità dei ragionamenti 39


ESPERIMENTO filos ofico Il paradosso di Protagora 40

4 L’etica 41
Il male 41
La libertà 41
lessico filosofico causa interna 41
La virtù 42
lessico filosofico oikéiosis, dovere, rigorismo 43
La felicità 43
lessico filosofico valori 43
L’istinto e le passioni 44
lessico filosofico passione, apatìa 44
Dall’etica alla politica: il cosmopolitismo 45
lessico filosofico cosmopolitismo 45

IL PUNTO DI VISTA DELL’ arte


L’opera come espressione delle passioni ed enfatizzazione della realtà 46

5 Lo stoicismo di epoca romana 48


Stoicismo ed eclettismo nella Roma repubblicana: Cicerone 48
lessico filosofico eclettismo 48
Lo stoicismo in epoca imperiale: Seneca 49
Epitteto 51
Gli “imperatori buoni” e Marco Aurelio 51

TESTI 54
t1 La concezione del dovere
da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 54
VI INDICE GENERALE

t2 I viaggi portano giovamento all’animo?


da Seneca, Lettere a Lucilio 55

SINTESI 58
MAPPE CONCETTUALI 60
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 62

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


Esercizi interattivi: La fisica stoica; La logica stoica; L’etica stoica • Audiosintesi
• Test - Allena la logica

capitolo 12
Lo scetticismo 64

1 Le origini dello scetticismo 64


Pirrone 64
lessico filosofico afasìa 64
lessico filosofico atarassìa 65
La peculiarità dello scetticismo 65
lessico filosofico scetticismo 65

2 Lo scetticismo accademico 66

ARCESILAO 66
La svolta scettica dell’Accademia di Atene 66
lessico filosofico epoché 66
La polemica contro i dogmatici 66

CARNEADE 67
Dalla ragionevolezza alla persuasività 67
PER APPROFONDIRE Carneade, un illustre “sconosciuto” 67

Da Atene a Roma 68

3 Lo scetticismo neopirroniano 69
Enesidemo e Agrippa 69
lessico filosofico tropi 69
Sesto Empirico 69

Filosofia & SCIENZA


Matematica, astronomia e medicina nell’età ellenistica 72
VII

TESTI 74
t1 La pratica dell’afasìa
da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 74
t2 La critica al dogmatismo
da Sesto Empirico, Schizzi pirroniani 75

SINTESI 76
MAPPE CONCETTUALI 77
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 78

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


Esercizi interattivi: Le origini e lo scetticismo accademico; Lo scetticismo neopirroniano
• Audiosintesi • Ripasso

capitolo 13
Il neoplatonismo e Plotino 79

1 La scuola neoplatonica: vicende e fonti 79


Origini e sviluppo del neoplatonismo 79
Le fonti di ispirazione 80
il ritratto
PLOTINO: la vita come ricerca spirituale 81

2 Dall ’Uno alla molteplicità 82


L’Uno 82
PER APPROFONDIRE La nozione di “teologia negativa” 82
ESPERIMENTO filos ofico L’oggetto misterioso 83

La derivazione delle cose dall’Uno: l’emanazione 83


lessico filosofico Uno, emanazione 83
lessico filosofico ipòstasi 84
il PENSIERO si fa IMMAGINE L’emanazione dall’Uno come irradiamento o effusione 84

L’Intelletto 85
L’Anima 85
Il legame dell’Anima con lo spazio e il tempo 86
La materia 86
Il male 88
VIII INDICE GENERALE

3 La via del ritorno all ’Uno 88


L’obiettivo dell’etica: il ritorno dell’anima individuale all’Uno 88
Il ricongiungimento con l’Anima del mondo 89
Il ritorno all’Intelletto 90
Il ritorno all’Uno 92
L’esperienza mistica 92
lessico filosofico estasi 92
lessico filosofico sublime 93

a tu per tu con Maurizio Ferraris


Plotino: il riconoscimento del limite della ragione 94

TESTI 96
t1 I caratteri dell’Uno dalle Enneadi 96
t2 La materia e il male dalle Enneadi 97
t3 Il ritorno dell’anima alla sua origine dalle Enneadi 99

SINTESI 101
MAPPE CONCETTUALI 102
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 103

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


Esercizi interattivi: Dall’Uno alla molteplicità; La via di ritorno all’Uno • Audiosintesi
• Ripasso

Concetto La cura 104

tema L’AMICIZIA È UN FATTO PERSONALE O SOCIALE? 106


1. Aristotele e la dimensione etico-politica dell’amicizia 108
2. L’epicureismo e lo stoicismo: la dimensione privata dell’amicizia 109
ARGOMENTARE E DIBATTERE
Prospettive sul presente • Amicizia e integrazione sociale 113

LABORATORIO delle competenze 114


IX

sezione 4
IL CRISTIANESIMO
E LA PATRISTICA
Geografia La formazione di una koiné cristiana 118
iL QUADRO STORICO 118
l ’ INTRECCIO CULTURALE 120
gli SCENARI FILOSOFICI 121

capitolo 14
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede 122

1 Il cristianesimo nell ’Impero romano 122


Le radici storico-culturali 122
Il rapporto con l’autorità politica 123
La diffusione e lo sviluppo del cristianesimo 123
lessico monoteismo 124

2 I testi sacri e le origini ebraiche del cristianesimo 124


La Bibbia 124
lessico canone, libri apòcrifi 125
L’Antico Testamento 125
Il Nuovo Testamento 126
Il rapporto del cristianesimo con la tradizione ebraica 127
lessico ermeneutica 127

3 La figura di Gesù di Nazareth e la novità del cristianesimo 128


Il carattere innovativo della predicazione di Gesù 128
PER APPROFONDIRE Rivelazione, ispirazione, interpretazione 128

Il Messia 130
Il Figlio di Dio 131
PER APPROFONDIRE La parola e il nome di Dio 131

4 Cristianesimo e filosofia 132


La condanna della filosofia 132
L’apertura alla filosofia 133
X INDICE GENERALE

Il prologo di Giovanni 133


lessico Verbo 133

5 La letteratura cristiana: patristica greca e latina 135


La periodizzazione 135
lessico apologeti 135
lessico eresia, padri della Chiesa 136
La patristica greca 136
La patristica latina 137

SINTESI 138
MAPPE CONCETTUALI 139
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 140

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA Geografia: Video - Classe capovolta • Carta interattiva • Linea
del tempo interattiva
Video: La novità del messaggio di Gesù di Nazareth • Esercizi interattivi: Il cristianesimo e
la patristica • Audiosintesi • Ripasso

capitolo 15 figura
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca,
la certezza della scoperta 142

Gli interrogativi filosofici 142

1 La vita e le opere 144

STORIA DI UN ’ESISTENZA INQUIETA 144


L’ambiente di origine 144
La formazione e l’insegnamento 144
il ritratto
AGOSTINO nella rappresentazione di Botticelli 145
lessico filosofico manicheismo 146
Il viaggio in Italia e la conversione 146
Il ritorno a Tagaste e la vita religiosa 147
Vescovo di Ippona 147

GLI SCRITTI 148


La scrittura e le fasi del pensiero 148
XI

2 Esistenza e riflessione: le Confessioni 150


Il valore dell’autobiografia 150
La confessione 150
lessico filosofico confessione 150
Verità e testimonianza 151

Filosofia & LETTERATURA


Agostino e Petrarca 152

3 La ricerca della verità e la scoperta di Dio nell ’anima 153


Il ritorno in sé stessi 153
L’interiorità senza limiti 154
La confutazione dello scetticismo 154
ESPERIMENTO filos ofico I modelli del mondo interiore 155

Dal dubbio alla certezza 156


La conoscenza come illuminazione 157
il PENSIERO si fa IMMAGINE La verità come luce interiore 157
lessico filosofico illuminazione 158

4 La creazione e il tempo 159


L’eternità di Dio e la temporalità delle creature 159

IL PUNTO DI VISTA DELL’ arte


Il fondo dorato nei mosaici paleocristiani 160

La misura del tempo 162


Il tempo come distensione dell’animo 162
lessico filosofico eternità, distensione dell’animo 163

5 L’origine del male 164


La lotta tra bene e male 164
Il male dal punto di vista metafisico 165
lessico filosofico male 165
Male fisico e male morale 165
lessico filosofico peccato 165

6 La teoria della grazia e le controversie con donatisti e pelagiani 166


Il peccato e la salvezza 166
lessico filosofico grazia 166
La ritrattazione della filosofia 166
Contro il donatismo e il pelagianesimo 167

7 La città di Dio e la città dell ’uomo 168


Il sacco di Roma e La città di Dio 168
lessico filosofico città di Dio 168
XII INDICE GENERALE

Le due città 168


lessico filosofico teocrazia 168
Una nuova concezione della storia 169
lessico filosofico
teologia della storia, visione ciclica del tempo,
visione lineare del tempo 169

a tu per tu con Maurizio Ferraris


Agostino, nostro “contemporaneo” 170

TESTI 172
t1 La confessione a Dio e agli uomini
dalle Confessioni 172
t2 Interiorità e verità
da La vera religione 174
t3 La presenza del tempo nello spirito umano
dalle Confessioni 176
t4 La natura del male
da La natura del bene 178

SINTESI 180
MAPPE CONCETTUALI 182
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 184

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


Videolezione: Maurizio Ferraris presenta Agostino • Carta interattiva: I luoghi di Agostino
• Linea del tempo interattiva: La vita di Agostino • Video: Il primo incontro fra Agostino e
Ambrogio • Laboratorio sui testi: La creazione fuori dal tempo (Agostino, Confessioni)
• Esercizi interattivi: L’interiorità e il tempo; Il male, la grazia, le due città • Audiosintesi
• Ripasso

Concetto L’ interiorità 188

LABORATORIO delle competenze 190


XIII

sezione 5
L’ETÀ MEDIEVALE

Geografia Un mondo plurale 192


iL QUADRO STORICO 192
l ’ INTRECCIO CULTURALE 194
gli SCENARI FILOSOFICI 196

capitolo 16
Il Medioevo e la filosofia 198

1 Secoli bui o conoscenza oscura? 198


Le condizioni della vita materiale 198
La produzione intellettuale 199
lessico oscurantismo 199
L’“oscurità” del Medioevo 199
lessico codice 200
ESPERIMENTO filos ofico I “secoli bui” 200

2 Il Medioevo come “età di mezzo” 201


Una definizione svalutativa 201
L’inadeguatezza della denominazione “Medioevo” 201

3 Pluralità di lingue, religioni e tempi 202


La pluralità di lingue 202
L’assenza di unità religiosa 203
La pluralità di tempi 204

4 Che cos’ è la filosofia nel Medioevo? 205


Il patrimonio culturale 205
L’integrazione di religione e filosofia 206
La filosofia e i filosofi 207

SINTESI 208
MAPPE CONCETTUALI 209
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 210

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


L’ETÀ MEDIEVALE Geografia: Video - Classe capovolta • Carta interattiva • Linea del tempo interattiva
Esercizi interattivi: La filosofia nel Medioevo • Audiosintesi • Ripasso
XIV INDICE GENERALE

capitolo 17
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena,
al-Kindi e al-Farabi 212

1 Lo “spostamento” della cultura: dal centro alla periferia 212

2 La rinascita carolingia e Giovanni Scoto Eriugena 214

LA CORTE DI CARLO MAGNO 214


Sapienza e potere 214
La riorganizzazione delle scuole 214
lessico arti liberali 214

GIOVANNI SCOTO ERIUGENA 215


Un irlandese che legge il greco 215
PER APPROFONDIRE Dionigi pseudo-Areopagita 216

La natura come l’insieme delle cose che sono e che non sono 217
lessico filosofico natura 218
La derivazione dal primo principio e le divisioni della natura 218
lessico filosofico dialettica, teologia negativa, teofania 219
Una visione positiva della realtà e dell’uomo 220

3 Filosofia in arabo: la “ Casa della sapienza” di Baghdad 221


La trasmissione della filosofia greca nel mondo arabo 221
lessico filosofico concordismo 222
ESPERIMENTO filos ofico Che cos’è un testo? 223

al-Kindi 223
al-Farabi 224
lessico filosofico intelletto agente 224
PER APPROFONDIRE Il Liber de pomo: una particolare interpretazione
della filosofia aristotelica 225

TESTI 226
SCOTO ERIUGENA
t1 La sublime natura divina
dall’Omelia sul prologo al Vangelo di Giovanni 226

AL-FARABI
t2 La filosofia madre di tutte le scienze
da Il conseguimento della felicità 228
XV

SINTESI 230
MAPPE CONCETTUALI 231
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 232

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


Video: La rinascita carolingia • Esercizi interattivi: Giovanni Scoto Eriugena; al-Kindi e
al-Farabi • Audiosintesi • Ripasso

capitolo 18
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta 234

1 Forme di filosofia tra Oriente e Occidente 234


L’ambiente culturale arabo 235
L’ambiente culturale latino 235

2 Avicenna, un medico e filosofo ai confini con l ’India 236


La vita e le opere 236

LA METAFISICA COME SCIENZA DELL’ESSERE 237


Il senso della metafisica 237
L’essere possibile e l’essere necessario 238
La distinzione tra essenza ed esistenza 238
lessico filosofico esistenza, essenza 238

LA COSMOLOGIA 240
lessico filosofico decima intelligenza 241

LA TEORIA DELLA CONOSCENZA 241


L’intelligenza agente 241
lessico filosofico intelletto agente 241
La conoscenza come divinizzazione 241
L’anima come sostanza intellettuale 242
lessico filosofico anima 242

3 Anselmo d ’Aosta, l ’abate: credere e comprendere 243


La burrascosa esistenza di un monaco 243
XVI INDICE GENERALE

IL MONOLOGION: UNA RIFLESSIONE SULLA RAZIONALITÀ DELLA FEDE 244


L’indagine razionale al servizio della fede 244
Le motivazioni della dimostrazione 245
La dimostrazione dell’esistenza di Dio 245

IL PROSLOGION: LA FEDE CHE CERCA L’INTELLIGENZA 245


Il tormentato processo che porta all’intuizione 245
lessico filosofico argomento ontologico o a priori 246
L’argomento ontologico 246
La struttura del ragionamento di Anselmo 248
Gaunilone: la difesa dell’ateo 248

TESTI 250
AVICENNA
t1 L’uomo volante
dal Liber de anima 250

ANSELMO
t2 L’argomento a priori
dal Proslogion 252

SINTESI 254
MAPPE CONCETTUALI 256
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 258

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


Esercizi interattivi: Avicenna; Anselmo d’Aosta • Audiosintesi • Test - Allena la logica

capitolo 19
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo:
Abelardo, Averroè e Maimonide 260

1 Culture diverse in un mondo comune 260


La fioritura culturale a Occidente 260
Una nuova prossimità culturale tra mondo arabo e latino 261
La vita cittadina tra innovazione e censura 262
XVII

2 Pietro Abelardo, il dialettico 263

LA VITA E LE OPERE 263


Un’esistenza irrequieta 263
L’incontro con Eloisa 263
La vita monastica, le condanne e la morte 264
La composizione delle opere 265

LA DISPUTA SUGLI UNIVERSALI 266


I termini generali della questione 266
lessico filosofico dialettica, universale 266
La posizione realista 266
lessico filosofico realismo 267
PER APPROFONDIRE Boezio: tra antichità classica e Medioevo latino 267

La critica al realismo e il concettualismo di Abelardo 268


ESPERIMENTO filos ofico Gli universali e la loro percezione 268
lessico filosofico nominalismo, concettualismo 269

IL METODO DIALETTICO IN TEOLOGIA 269


La teoria trinitaria 269
lessico filosofico theològia 270
L’opposizione come metodo: il Sic et non 270
L’interpretazione dei testi 271

L’ETICA 272
La morale dell’intenzione 272
lessico filosofico inclinazione 273
Peccato e danno pubblico 274

3 L’ islam occidentale: Averroè 275

LA VITA E LE OPERE 275


Un aristotelico a Cordova 275
Gli scritti 276

IL RAPPORTO TRA FILOSOFIA E RELIGIONE 277


La necessità della filosofia 277
La filosofia e la fede 277
lessico filosofico teoria della doppia verità 278

LA TEORIA DELLA CONOSCENZA 279


Il problema dell’universalità del sapere e la fonte aristotelica 279
La dimensione oggettiva e universale del sapere 280
lessico filosofico intelletto agente, intelletto potenziale 280
XVIII INDICE GENERALE

La dimensione individuale della conoscenza 281


La felicità intellettuale 282

4 La filosofia ebraica: Maimonide 282


Una figura di riferimento per la comunità ebraica 282
Il primato del razionalismo filosofico 283

TESTI 284
ABELARDO
t1 La ragione e le autorità
dal Sic et non 284
t2 L’etica dell’intenzione
dall’Etica 285

AVERROÈ
t3 La filosofia di fronte alla religione
dal Trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia 286

SINTESI 288
MAPPE CONCETTUALI 290
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 292

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


Esercizi interattivi: Pietro Abelardo; Averroè • Audiosintesi • Ripasso

capitolo 20
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino 294

1 Il secolo delle università 294


I nuovi centri del sapere 294
lessico filosofico scolastica 295
La nascita dell’università nel mondo cittadino 295
lessico università 296
Professionalità e libertà dell’insegnamento 296
PER APPROFONDIRE Scioperi e proteste per la libertà di insegnamento 298

2 I metodi di insegnamento e il dibattito come ricerca della verità 299


La lectio 299
lessico lectio 299
XIX

La quaestio 299
lessico quaestio 299
lessico autorità 300
La disputatio 300
lessico disputatio 300
ESPERIMENTO filos ofico Una disputa sulla guerra giusta 301
lessico summa 302
Autorità e ragione 302

3 La riscoperta di Aristotele 303


Le traduzioni latine dell’opera aristotelica 303
Il confronto con la cultura cristiana 304

4 Il rapporto tra filosofia e teologia 306


Che cosa sono la filosofia e la teologia nel Medioevo? 306
Le diverse forme del rapporto tra filosofia e teologia 306
PER APPROFONDIRE Gli ordini mendicanti 307

SINTESI 309
MAPPE CONCETTUALI 310
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 311

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


Audiosintesi • Ripasso

capitolo 21 figura
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano 312

Gli interrogativi filosofici 312

1 La vita e le opere 314

UNA VITA PER L’UNIVERSITÀ 314


Il conflitto con la famiglia 314
il ritratto
TOMMASO nel dipinto di Benozzo Gozzoli 315

Da Parigi a Colonia 316


La carriera universitaria 316
XX INDICE GENERALE

La conclusione di un’esistenza itinerante 316


Il significato storico della figura di Tommaso 317

LE OPERE E LA SCRITTURA 318


Le sintesi teologiche 318
Le questioni disputate, le opere filosofiche, i commenti
e le altre opere minori 319
Lo stile della scrittura 319

2 La metafisica: una nuova visione dell ’essere 320


La distinzione tra essere reale ed essere logico 320
La gerarchia dell’essere 320
La distinzione tra essenza ed essere 321
lessico filosofico essenza, essere/esistenza 321
Il superamento della metafisica aristotelica 322
PER APPROFONDIRE Il principio di individuazione 323

La distinzione tra atto e potenza 323


lessico filosofico partecipazione 324

3 La teologia come scienza 325


La definizione della teologia 325
La critica all’argomento di Anselmo 326
lessico filosofico dimostrazione a posteriori 326
Le cinque vie 326
il PENSIERO si fa IMMAGINE L’intelligenza ordinatrice come un arciere 327

Argomentazione razionale e fede 328


ESPERIMENTO filos ofico Una lettera a un ateo: dimostrare l’esistenza di Dio 328

4 La concezione della natura, la visione dell ’uomo


e la conoscenza 329
La creazione, il tempo e l’eternità 329
L’autonomia della natura 329
lessico filosofico cause seconde 330
Il posto dell’uomo nella natura 330
L’immortalità dell’anima 331

IL PUNTO DI VISTA DELL’ arte


La valorizzazione del mondo concreto 332

La conoscenza intellettuale 334


XXI

5 L’etica e la politica 335


Il desiderio naturale dell’uomo 335
lessico filosofico appetitus 335
Natura e grazia 335
Il fondamento del potere politico 336
L’ordinamento delle leggi 336
La degenerazione dello Stato 337

a tu per tu con Maurizio Ferraris


Tommaso: l’autonomia della ragione e la rilevanza del mondo sensibile 338

TESTI 340
t1 La tripartizione delle sostanze
da L’ente e l’essenza 340
t2 La scientificità della teologia
dalla Somma di teologia 342
t3 La felicità intellettuale
dalla Somma contro i Gentili 343
t4 La natura politica e sociale dell’uomo
da Il governo dei prìncipi 345

SINTESI 348
MAPPE CONCETTUALI 350
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 352

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


Videolezione: Maurizio Ferraris presenta Tommaso • Carta interattiva: I luoghi di Tommaso •
Linea del tempo interattiva: La vita di Tommaso • Laboratorio sui testi: Libertà e volontà
(Tommaso, De malo) • Esercizi interattivi: Metafisica e teologia; Natura, conoscenza, etica e
politica • Audiosintesi • Ripasso

capitolo 22
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni 355

1 La crisi del Trecento 355


Il punto di vista economico 355
Il punto di vista politico 356
Il punto di vista culturale 356
XXII INDICE GENERALE

2 Giovanni Duns Scoto: dall ’essere infinito all ’ individuo 358


Una carriera in movimento 358
Teologia rivelata e metafisica dell’essere 358
Conoscenza intuitiva e astrattiva 359
lessico filosofico conoscenza intuitiva, conoscenza astrattiva 359
La natura dell’universale 360
lessico filosofico specie 360

3 Guglielmo di Ockham: il primato dell ’ individuale 361

LA VITA E GLI SCRITTI 361


Un’esistenza al centro dei conflitti politici 361
Le opere 362
L’impostazione filosofica 363

LOGICA E FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 363


La funzione della logica nella costruzione del sapere 363
Linguaggio mentale e linguaggio espresso 364
lessico filosofico termini orali e scritti, termine mentale 364
La teoria del segno 365
lessico filosofico segno 365
Significato e supposizione 365
lessico filosofico supposizione 365

LA CONOSCENZA DELLA REALTÀ 366


Il rifiuto degli universali 366
Il rasoio di Ockham 367
lessico filosofico rasoio di Ockham 367
Conoscenza intuitiva e astrattiva 367

METAFISICA E TEOLOGIA 368


La realtà degli individui 368
La realtà contingente 368
lessico filosofico contingenza 369
Il fondamento teologico dell’empirismo 369
PER APPROFONDIRE Fisica e teologia 370

L’idea dell’infinito 371


Il nuovo valore della libertà 372

LA POLITICA: ELOGIO DELLA LIBERTÀ E DELLA LAICITÀ 372


La disputa sulla povertà 372
Potere spirituale e potere temporale 373
La libertà del cristiano 374
XXIII

TESTI 375
OCKHAM
t1 Che cos’è l’universale?
dalla Somma logica 375
t2 L’autorità dell’imperatore non deriva dal papa
dal Breve discorso sul governo tirannico 377

SINTESI 379
MAPPE CONCETTUALI 380
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 381

CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI


Esercizi interattivi: Giovanni Duns Scoto; Guglielmo di Ockham • Audiosintesi • Test - Allena
la logica

Concetto La dialettica 382

tema SIAMO LIBERI O CI ILLUDIAMO DI ESSERLO? 384


1. Agostino: la libertà di “poter non peccare” 386
2. Anselmo: la libertà di conservare la rettitudine della volontà 388
3. Tommaso: la libertà di scegliere 390
4. Una riflessione conclusiva 392
ARGOMENTARE E DIBATTERE
Prospettive sul presente • Neuroscienze e libero arbitrio 393

LABORATORIO delle competenze 394

INDICE DEI NOMI 398


INDICE DEI LESSICI FILOSOFICI 402
INDICE DELLE RUBRICHE 404
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI 406
sezione 3

L’ELLENISMO
E L’EPOCA
ROMANA
VIDEO
Classe capovolta

Geograia
La diffusione della cultura greca
il QUADRO Dalla pólis all ’ impero
STORICO La filosofia era sorta e si era affermata nel mondo greco in un arco di tempo di circa tre
secoli, dal VI al IV secolo a.C., nel quadro di una struttura politica peculiare, quella del-
la pólis: la città-Stato i cui cittadini partecipavano attivamente alle decisioni rilevanti per
la vita pubblica. Il sistema delle póleis tramonta in corrispondenza con la fase espansiva
del regno di Macedonia. Dopo che Filippo II (che governa dal 359 al 336 a.C.) ha im-
posto il dominio macedone sulle principali città greche, suo figlio Alessandro (che
regna dal 336 al 323 a.C.) crea un impero di dimensioni inaudite, esteso dall’Egitto
fino all’India. Alla morte di Alessandro, nel 323 a.C., l’impero è spartito fra i suoi ge-
nerali, che prendono il nome di “diàdochi” (dal greco diádochoi, “successori”). Questi
trasmettono la sovranità ai propri discendenti, dando così origine a una pluralità di
nuovi regni: in Egitto si instaura la dinastia dei Tolomei, in Macedonia e in Grecia re-
gnano gli Antigònidi, in Persia e in Siria i Selèucidi, a Pergamo gli Attàlidi.
Lo storico Johann Gustav Droysen (1808-1884) ha definito “ellenismo” il periodo
di circa due secoli che inizia con il costituirsi dei regni dei diàdochi dopo la morte di Ales-
sandro e termina con la sottomissione di questi regni ai Romani. La struttura politica
che caratterizza l’ellenismo non è più la pólis, la città-Stato propensa alla democrazia e
sensibile all’opinione pubblica, bensì il grande regno governato su base dinastica
mediante la forza dell’esercito e l’efficacia di un imponente apparato burocratico.
In epoca ellenistica la cultura e la lingua greca si impongono come fattori di uni-
ficazione (da qui la denominazione “ellenismo” scelta per indicare questa fase storica)
sia all’interno dei singoli regni sia nelle comunicazioni e negli scambi tra regni diffe-
renti. D’altra parte, nell’espandersi in una varietà di territori, la cultura greca si conta-
mina con le culture locali, in particolare con quelle medio-orientali e asiatiche, e viene
meno la netta distinzione tra Greci e barbari che era stata uno dei tratti caratterizzanti
dell’epoca delle póleis.

Le nuove capitali
Il mondo ellenistico è un mondo significativamente cosmopolita, che usa il greco come
lingua condivisa (koiné diálektos, in greco appunto “lingua comune”), ma in cui la Gre-
cia non è più il centro della vita politica e culturale. Atene resta uno snodo importante, ma
deve far fronte alla crescente influenza delle capitali dei regni dei diàdochi: Antiochia,
Pergamo e soprattutto Alessandria, capitale del regno d’Egitto, così chiamata in onore di
Alessandro che l’aveva fondata nel 322 a.C. Ad Alessandria viene creata la più grande
biblioteca dell’antichità, con oltre settecentomila volumi, nel quadro di un’istituzione de-
nominata Museo, un centro di ricerca scientifica e culturale, finanziato dal sovrano.
Vi è tuttavia un’altra città, al di fuori del mondo ellenistico, che di lì a poco sovrasterà
in potenza Atene, Alessandria e tutte le altre capitali dei regni dei diàdochi; questa città
è Roma. La conquista romana dei regni ellenistici avviene gradualmente nel corso del
II e del I secolo a.C.: prende avvio con l’occupazione della Macedonia nel 168 a.C. e
giunge a compimento con l’annessione dell’Egitto nel 30 a.C., dopo la battaglia di Azio.
L’egemonia romana cambia nettamente gli equilibri politici senza tuttavia sconvolgere
l’assetto culturale complessivo. I grandi regni che si erano formati dallo smembramento
dell’impero di Alessandro sono nuovamente incorporati all’interno di un’unica struttu-
ra imperiale; Roma si affianca ad Atene e ad Alessandria come punto di riferimento
della vita culturale, e il latino inizia a competere con il greco per il ruolo di lingua condivisa
4 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

nei dibattiti filosofici e scientifici. L’esistenza dell’Impero romano si estende lungo una
durata di circa cinque secoli. La sua data di inizio è fissata convenzionalmente nel 27 a.C.,
anno in cui Ottaviano ottiene il titolo di Augusto, e quella della fine nel 476 d.C., con la
deposizione di Romolo Augusto; questo riguarda il solo Impero romano d’Occidente,
mentre l’Impero romano d’Oriente sopravvive fino al 1453.

l ’INTRECCIO Dai cittadini ai sudditi


CULTURALE La vita nelle póleis greche comportava un confronto vivace e proficuo tra varie categorie
di cittadini; in epoca ellenistica si assiste invece a una scissione delle differenti compo-
nenti della realtà sociale e culturale.
Il potere politico è monopolizzato dai sovrani, dalle loro corti e dai loro apparati
burocratici, con una drastica riduzione degli spazi di partecipazione democratica e
di discussione critica. Il ricorso massiccio alla schiavitù (reso possibile dalle conquiste
macedoni e dalla sottomissione dei popoli conquistati) ha per effetto una riduzione
delle possibilità di lavoro e quindi di benessere per i liberi cittadini; la ricchezza si con-
centra così nelle mani di pochi privilegiati (i sovrani e le loro corti, i grandi mercanti,
l’aristocrazia terriera), di contro a una situazione di impoverimento e di incertezza
che affligge i ceti medi e il popolo. Più in generale, a differenza di quanto accadeva al
tempo delle póleis, gli individui non sono più parte attiva di una comunità capace di
dare un senso alla loro esistenza: non più cittadini, ma sudditi, si limitano a obbedire a
decisioni prese in centri di potere distanti e inaccessibili. Così, nell’epoca dei grandi
regni e del vasto impero, l’individuo si ritrova solo con sé stesso.

I LUOGHI DELLA FILOSOFIA E DELLA STORIA

Confini dell’Impero Regno del Ponto


di Alessandro Magno
nel 323 a.C. Regno dei Seleucidi

Regni ellenistici (IV-I secolo a.C.) Regno dei Tolomei

Regno degli Antigonidi Confini dell’Impero


romano alla fine
Regno di Pergamo del III secolo d.C.
Geograia La diffusione della cultura greca 5

Filosofia, scienza e religione


Nel sistema delle póleis la filosofia era cresciuta a stretto contatto con la ricerca scientifica
e con la vita politica; in epoca ellenistica si trova invece scissa sia dalla gestione del potere,
che ormai dipende interamente dal complesso sistema burocratico e militare che fa capo
al sovrano, sia dai progressi delle scienze, ormai troppo settoriali e specializzate per la-
sciarsi inquadrare dalla generalità del discorso filosofico. La scienza si articola in discipline
autonome, come la matematica, l’astronomia, la medicina; la ricerca in questi settori si
concentra su problemi specifici, giungendo a formidabili risultati (❯ Filosofia e scienza, p. 72).
D’altra parte la filosofia deve fare i conti con l’affermazione delle nuove religioni che si
diffondono in seguito alla contaminazione culturale tra il mondo greco e l’Oriente, of-
frendo conforto e sostegno agli abitanti di un mondo percepito ormai come sterminato e
indecifrabile. Se ai tempi delle póleis il culto degli dei era un momento della vita politica
della città, le religioni di epoca ellenistica, in particolare i cosiddetti culti misterici, tendo-
no a rivolgersi direttamente ai singoli individui, offrendo loro prospettive di salvezza. Le
nuove religioni – la cui diffusione giungerà al suo culmine con l’affermazione del cristia-
nesimo in epoca romana – sono “salvifiche” in quanto aiutano i loro adepti a sopportare
le avversità della vita terrena e promettono la beatitudine in una vita ultraterrena.
Nonostante la filosofia sia “insidiata” dal progresso delle scienze e dal diffondersi delle
nuove religioni, trova modo di riposizionarsi nel nuovo sistema culturale. In opposizione al
carattere specialistico delle scienze, la filosofia ellenistica propone visioni unitarie che
ambiscono a spiegare la totalità di ciò che esiste; in opposizione alle nuove religioni, perse-
gue una via verso la felicità e la salvezza individuale che conferisce centralità all’uso
6 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

della ragione e all’acquisizione del sapere. Insomma, pur avendo rinunciato all’obiettivo di
plasmare la vita politica della comunità, la filosofia ellenistica si mantiene in sostanziale
continuità con la storia della disciplina, di cui riprende il metodo e le motivazioni fonda-
mentali della ricerca cercando di adattarli alle esigenze del nuovo contesto storico.

gli Mentre Alessandria diviene il polo dominante della ricerca scientifica e Roma si impo-
SCENARI ne progressivamente come il centro del potere politico, Atene rimane il principale punto
di riferimento per la filosofia. Le scuole filosofiche con la tradizione più illustre restano
FILOSOFICI l’Accademia, fondata da Platone, e il Liceo, fondato da Aristotele, ma nuove scuole si
impongono all’attenzione, costituendo i principali scenari filosofici di questa fase storica.
Giardino, Atene, a partire dalla fine del IV secolo a.C.
Epicuro stabilisce ad Atene la sua
scuola chiamata “Giardino”; lì si insegna la dottrina filosofica che prende il nome dal
fondatore, l’epicureismo. Nei secoli successivi tale orientamento si diffonde anche nel
mondo romano, soprattutto per opera di Lucrezio. ❯ CAPITOLO 10 L’epicureismo

Stoà, Atene, a partire dalla fine del IV secolo a.C.


Ad Atene Zenone di Cizio fonda la
sua scuola, la Stoà (termine greco che significa “portico”), in cui si insegna la dottrina
che prende il nome dalla scuola stessa, lo stoicismo. Questa dottrina penetra in seguito
nel mondo romano, evolvendosi per merito dei contributi di pensatori quali Cicerone,
Seneca, Epittèto e l’imperatore Marco Aurelio. ❯ CAPITOLO 11 Lo stoicismo

Accademia scettica, Atene, a partire dal III secolo a.C. Lo scetticismo si impone come
orientamento dominante dell’Accademia platonica sotto la direzione di Arcesilao e, in
seguito al viaggio di Carneade da Atene a Roma, inizia a penetrare anche nella cultura
romana. ❯ CAPITOLO 12 Lo scetticismo

la fine IV 263
FILOSOFIA secolo muore Zenone 106 43
nasce nasce Cicerone muore
Zenone 214 129 Cicerone
nasce muore
Carneade Carneade
341 270
nasce muore
Epicuro Epicuro

400 a.C. 200 a.C. 0 a.C/d.C.

336-323 a.C. 146 a.C.


regno di 168 a.C. i Romani
Alessandro Magno i Romani conquistano 31 a.C.
la conquistano
la Macedonia
la Grecia battaglia
di Azio
STORIA
Geograia La diffusione della cultura greca 7

Scuola neoplatonica, Alessandria e Roma, a partire dal III secolo d.C. Dalla riflessione
sulla filosofia di Platone, scaturisce l’ultima grande dottrina filosofica dell’antichità, il
neoplatonismo, che prende avvio con gli insegnamenti di Ammonio Sacca ad Alessan-
dria e raggiunge il suo pieno sviluppo con Plotino, che stabilisce la sua scuola a
Roma. ❯ CAPITOLO 13 Il neoplatonismo e Plotino

CONCETTO A fronte di circostanze storiche che creano instabilità e un diffuso senso di inquietudine,
le filosofie ellenistiche offrono agli individui strumenti razionali per fronteggiare la
paura (gli epicurei), per accettare il corso del destino (gli stoici), per assumere un atteg-
giamento di sereno distacco dal mondo (gli scettici), per guardare oltre la molteplicità e
precarietà del mondo sensibile (i neoplatonici). In questo senso uno dei concetti che
emergono come centrali è quello di “cura”, intesa come cura della propria anima e
della propria vita, ricerca della pace interiore, della libertà dalle passioni, dai timori e
dalla sofferenza. ❯ CONCETTO La cura

TEMA Nella prospettiva della ricerca di una vita felice, un aspetto che molti filosofi ellenistici
indicano come fondamentale e che coltivano essi stessi nelle proprie comunità filoso-
fiche è quello dell’amicizia. Le relazioni di amicizia sostituiscono in parte il legame
sociale che vincolava i cittadini della pólis: ripropongono, nella sfera privata, quella di-
mensione di collaborazione e solidarietà che è indispensabile all’essere umano,
risultando fonte di serenità e di sicurezza.
Nell’ambito del dibattito contemporaneo alcuni studiosi di sociologia pongono i le-
gami di amicizia alla base della concordia sociale e della convivenza civile. La discus-
sione sul tema dell’amicizia tra popoli viene affrontata perlopiù in riferimento al feno-
meno dell’immigrazione e all’importanza del dialogo e del confronto tra persone che
appartengono a culture diverse. ❯ TEMA L’amicizia è un fatto personale o sociale?

121 180
nasce Marco muore Marco
Aurelio Aurelio
4 65
nasce muore 205 270
Seneca Seneca nasce muore
Plotino Plotino

0 a.C/d.C. 200 d.C. 400 d.C.


14 161-180
morte di 96 regno di
Augusto assassinio di Marco Aurelio 253-268
Domiziano; regno
inizio dell’epoca dell’imperatore
degli imperatori buoni Gallieno
8 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 10 L’epicureismo

Quando dunque diciamo che il bene è il piacere non intendiamo
il semplice piacere dei goderecci, ma quanto aiuta il corpo a non
soffrire e l’animo a essere sereno.
(Epicuro, Lettera a Menèceo, 131)

1 Epicuro: la vita e le opere


La figura di Epicuro e la sua scuola


La vita umana sotto gli occhi di tutti turpemente giaceva sulla terra, oppressa sotto il peso
della religione, che affacciava il capo dalle plaghe del cielo con volto spaventoso incom-
bendo dall’alto sugli uomini, quando un uomo greco per primo osò alzare contro di lei gli
occhi mortali e primo le si drizzò contro.

In questi versi scritti nel I secolo a.C., il poeta latino Lucrezio celebra un filosofo greco
vissuto più di duecento anni prima, Epicuro, il fondatore dell’epicureismo, la scuola filo-
sofica di cui Lucrezio stesso è convinto seguace.
Epicuro era nato a Samo, in Asia Minore, nel 341 a.C., e si era formato alla scuola di
Nausìfane, dove si insegnava la dottrina atomistica di Democrito. All’età di circa trent’an-
ni, Epicuro fonda una sua scuola filosofica, che ha inizialmente sede a Mitilene, in Asia
Minore. Giunto ad Atene intorno al 306 a.C., accoglie i suoi discepoli (tra i quali vi sono
anche donne e schiavi, il che indica il carattere aperto e innovativo dell’iniziativa) in un
giardino attiguo alla sua casa; da questo luogo deriva il nome Képos (“Giardino”) con cui
viene spesso designata la scuola epicurea. Alla morte di Epicuro, avvenuta intorno al 270
a.C., alla direzione del Giardino gli succede il suo allievo Ermarco, seguito a sua volta da
Polistrato. Nella scuola epicurea si pratica una vita frugale e semplice dedita alla lettura
e allo studio, in cui il fondatore è celebrato come una figura dotata di un’aura quasi leggen-
daria. In tal senso, né Ermarco né Polistrato né gli altri eredi del pensiero di Epicuro introdu-
cono modifiche sostanziali alla dottrina del maestro, che prende il nome di “epicureismo”.
L’epicureismo capitolo 10 9

I membri della scuola si limitano perlopiù a spiegare e diffondere tale dottrina, difenden-
dola dalle critiche e dalle obiezioni dei filosofi delle scuole rivali, in particolare gli stoici
e gli scettici.
Agli inizi del I secolo a.C. l’epicureismo inizia ad affermarsi nel mondo latino,
soprattutto per iniziativa di Filodèmo di Gàdara, fondatore del gruppo epicureo di Na-
poli. Da lì l’epicureismo giunge a Roma, influenzando poeti come Virgilio, Orazio e
soprattutto Lucrezio, il cui poema De rerum natura (“Sulla natura delle cose”) – uno dei
capolavori della letteratura latina – è un’appassionata illustrazione e una vibrante dife-
sa della filosofia di Epicuro. Testi come il De rerum natura o i cosiddetti papiri di Erco-
lano (scoperti intorno al 1750 e contenenti perlopiù opere di Filodèmo) ci permettono
di avere una visione più completa dell’epicureismo, compensando la perdita della mag-
gior parte delle opere di Epicuro.

Gli scritti
Tra gli scritti del fondatore della scuola, che secondo Diogene Laerzio ammontavano a
circa trecento volumi, ci sono state tramandate in forma integrale soltanto tre lettere
filosofiche (o “epistole dottrinali”): una sull’atomismo (Lettera a Erodoto), una sulla
❯ QUADERNO PER
meteorologia (Lettera a Pìtocle) e una sulla felicità (Lettera a Menèceo). Del principale
LE COMPETENZE E
trattato filosofico di Epicuro, il monumentale Sulla natura delle cose in 37 libri, resta- IL NUOVO ESAME
no soltanto alcuni frammenti. p. 12
La dottrina epicurea consta fondamentalmente di tre parti: una teoria della natura
(tradizionalmente denominata “fisica”), una teoria della conoscenza (“logica” o “ca-
nonica”) e una teoria del giusto agire e della felicità (“etica”). Le prime due parti del
sistema filosofico sono in funzione della terza: lo scopo ultimo dell’epicureismo è libe-
rare gli esseri umani dalle false credenze e dai falsi timori, fornendo loro il sapere che
permette di raggiungere la felicità.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo le caratteristiche della scuola epicurea.

2 La fisica
Materia, atomi e vuoto
La teoria epicurea della natura è uno sviluppo della dottrina atomistica e meccani-
cista di Democrito, che era rimasta ai margini del dibattito filosofico ateniese, mono-
polizzato dalle visioni finalistiche di Platone e Aristotele. L’epicureismo si contrappone
nettamente sia alla concezione platonica per cui la natura imita modelli ideali, sia alla
concezione aristotelica per cui la natura tende verso la perfezione divina del motore
immobile. Contro queste prospettive finalistiche, Epicuro riprende da Democrito la tesi
per cui tutto quello che esiste è semplicemente materia nello spazio vuoto, senza alcun
progetto, senza alcuna finalità: questa è la verità fondamentale a partire dalla quale è
possibile raggiungere il sapere e la felicità.
10 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Nella loro esperienza, gli esseri umani assistono alla formazione di alcuni corpi
materiali e al disfacimento di altri, e si formano l’idea erronea che la materia si crei dal
nulla e ritorni al nulla. Ma – osserva Epicuro – nulla si può creare dal nulla; dunque, se
la materia avesse davvero dovuto sorgere dal nulla, l’universo non sarebbe mai sorto; e
se la materia finisse davvero nel nulla, allora l’universo avrebbe già cessato di esistere
da molto tempo. I fenomeni di formazione e disfacimento ai quali assistiamo riguarda-
no, a ben vedere, soltanto i corpi materiali percepibili. Tuttavia – come aveva intuito
Democrito – questi corpi sono costituiti a loro volta da minuscoli corpi materiali imper-
cettibili, gli atomi, che sono assolutamente compatti, indivisibili, indistruttibili ed eter-
ni. La formazione o il disfacimento di un certo corpo percepibile deriva dai movimen-
ti degli atomi, che variano la loro posizione reciproca all’interno dello spazio vuoto,
senza che nessun’altra loro proprietà risulti mutata. L’esistenza transitoria dei corpi
materiali percepibili, che ci viene testimoniata dall’esperienza, si può dunque spiegare
in base ai movimenti degli atomi: un corpo inizia a esistere quando certi atomi si muo-
vono aggregandosi per formarlo, e cessa di esistere quando i suoi atomi si muovono
allontanandosi in modo tale da disgregare il corpo che formavano. Tuttavia, affinché
questi movimenti siano possibili, occorre uno spazio vuoto in grado di ospitarli: gli
atomi e il vuoto sono dunque i due principi fondamentali mediante i quali si può spie-
gare tutto ciò che esiste. Il vuoto è lo spazio immateriale che funziona come contenito-
re degli atomi: è all’interno del vuoto che gli atomi si muovono ed eventualmente si
aggregano per formare un corpo materiale oppure si allontano gli uni dagli altri di-
sgregandolo.
L’aggregazione e la disgregazione degli atomi è all’origine degli infiniti mondi che
secondo gli epicurei costituiscono l’universo. Al pari dei singoli corpi, questi mondi sono
soggetti a nascita e distruzione, anche se in tempi molto più lunghi.

❯ Mosaico pavimentale di epoca romana, copia di un originale ellenistico, Città del Vaticano, Museo Gregoriano
Profano. Il disegno raffigura gli avanzi di un banchetto.
L’epicureismo capitolo 10 11

Il clinàmen
Democrito aveva sostenuto che le uniche proprietà degli atomi sono la loro forma geome-
trica, il loro orientamento e il loro ordine nello spazio. A queste proprietà Epicuro ag-
giunge il peso, concependo gli atomi come gocce di pioggia che cadono verticalmente
nel vuoto in ragione del loro peso. Per spiegare come dagli atomi si possano formare
tutti gli altri corpi, Epicuro introduce l’ipotesi dell’inclinazione (in latino clinàmen), per
cui gli atomi tenderebbero per puro caso a deviare leggermente dal loro moto verticale di
caduta, finendo così per urtarsi, combinarsi e aggregarsi. In assenza del clinàmen, il mon-
do sarebbe costituito soltanto da linee di atomi che cadono verticalmente nel vuoto senza
entrare in contatto fra loro; il clinàmen è come una brezza che devia fortuitamente gli
atomi dalle loro traiettorie verticali facendo sì che essi possano aggregarsi per costituire
i corpi materiali. La teoria del clinàmen introduce un elemento di indeterminazione e di
casualità in un universo altrimenti regolato esclusivamente da una rigida necessità.

FARE per CAPIRE • Elabora una mappa concettuale in cui emergano le caratteristiche degli atomi e il
modo in cui danno origine a tutte le cose.

Uomini e dei
A Epicuro preme evidenziare l’effetto di serenità d’animo che deriva dal riconoscere che
tutto quello che esiste non è altro che un precipitare di particelle nel vuoto. Egli trae dal-
la teoria atomistica conseguenze significative per l’esistenza umana: c’è qualcosa di pro-
fondamente rasserenante nel rendersi conto che l’universo è molto più semplice e unifor-
me di quanto possa apparire in prima battuta; è in ultima analisi un motivo di conforto
ritenere che la sterminata estensione dei luoghi e l’immensa varietà delle cose esistenti
non è altro che la manifestazione di un’unica struttura elementare. Tutto quello che esi-
ste è composto di materia ed è localizzato nello spazio vuoto.
Epicuro concepisce le divinità stesse come creature materiali, che abitano luoghi
lontanissimi – gli intermundia – e restano completamente indifferenti alle vicende
umane. Gli esseri umani sono a loro volta concepiti da Epicuro come creature mate-
riali; in tal senso, egli argomenta vigorosamente contro la tesi che l’anima sia una
sostanza speciale, immateriale e immortale: essa è a sua volta formata di atomi, sep-
pure «oltremodo torniti e sottili», ed è inestricabilmente unita al corpo. Come non vi
può essere corpo animato senza un’anima, così non vi può essere un’anima in assenza
di un corpo animato: l’idea che l’anima possa esistere separatamente dal corpo – sia
prima della nascita sia dopo la morte – appare ai filosofi epicurei come una superstizio-
ne puerile.
L’epicureismo critica la tesi della separabilità dell’anima dal corpo richiamandosi al
ruolo cruciale della sensibilità. La credenza nell’esistenza dell’anima si fonda su pro-
cessi elementari come il vedere, l’ascoltare, il toccare, il sentire caldo o freddo, il provare

inclinazione (in greco parénklisis, in latino clinàm- intermundia gli spazi tra gli infiniti mondi che co- lessico
en) la deviazione casuale che gli atomi compiono ri- stituiscono l’universo. In questi, gli dei vivono senza filosofico
spetto alla traiettoria verticale di caduta e che per- occuparsi delle vicende umane.
mette loro di scontrarsi e aggregarsi. Questa
deviazione infrange il rigido determinismo che regola
l’universo.
12 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

❯ Agesandro, Atanodoro
e Polidoro di Rodi, Gruppo
del Laocoonte, scultura in
marmo, seconda metà
del I secolo a.C., Città del
Vaticano, Musei vaticani.
Il capolavoro dell’età
ellenistica raffigura
il sacerdote troiano
Laocoonte e i suoi due figli
uccisi da due grossi
serpenti marini. L’opera
esprime la drammaticità
del momento e
la sofferenza estrema
del protagonista.

piacere o dolore; le attività superiori di ragionamento e giudizio si sviluppano sulla base


di questi processi elementari, ma in assenza di un corpo e dei suoi organi di senso questi
processi non sarebbero possibili; dunque l’anima non può esistere separatamente dal corpo.
Insomma, l’anima ha come componente essenziale la sensibilità, che necessita degli or-
gani di senso, che fanno parte del corpo; dunque l’anima necessita del corpo. La dipen-
denza dell’anima dal corpo è rivelata anche dalle alterazioni che l’anima subisce in cor-
rispondenza di stati alterati del corpo come la malattia o l’ubriachezza.
Nella prospettiva epicurea, il nesso inestricabile tra anima e corpo è una verità fisi-
ca (o, per meglio dire, ontologica) che porta con sé preziosi insegnamenti sia per la teoria
logica della conoscenza sia per la teoria etica del giusto agire e della felicità. Per sapere
chi siamo, che cosa possiamo conoscere e come dobbiamo agire, non dobbiamo cercare
di spingerci al di là dell’esistenza corporea; dobbiamo invece prendere in considerazione
ESERCIZI il legame di dipendenza reciproca che unisce l’anima al corpo vivente.

FARE per CAPIRE • Elenca, numerandole, le argomentazioni di Epicuro a sostegno dell’inseparabilità


dell’anima dal corpo.

3 La logica
La priorità del sensibile
La logica epicurea è essenzialmente una teoria della conoscenza, che viene detta anche
canonica perché si basa sull’individuazione del “canone”, ossia il criterio di verità che ci
permette di distinguere i pensieri veri da quelli falsi.
Per Epicuro il canone è fissato dalla sensibilità, che è la nostra facoltà cognitiva
fondamentale. Perché vi sia conoscenza, occorre che le cose esistenti nel mondo entrino
in contatto con l’anima; tuttavia, in un mondo in cui tutto ciò che esiste è materia nello

lessico canonica così viene chiamata la logica epicurea, in quanto stabilisce la regola o “canone” del corret-
filosofico to procedere del pensiero, fornendo il criterio di verità, cioè la sensazione.
L’epicureismo capitolo 10 13

spazio vuoto, il contatto tra le cose e l’anima può avvenire soltanto mediante flussi di
materia che dalle cose procedono verso gli organi di senso. I flussi di materia che stimo-
lano la vista prendono il nome di simulacri, ma vi sono anche flussi di materia di altro
tipo che stimolano gli altri sensi. In ogni caso, il flusso di atomi conserva la struttura
dell’oggetto da cui si origina.
A fondamento della conoscenza vi è dunque la sensazione, intesa come contatto fra
un certo organo di senso e il flusso di atomi emanato da un certo corpo. Una sensa-
zione, essendo la diretta conseguenza di un contatto che avviene nel mondo fisico, è
sempre vera, ovvero rappresenta sempre correttamente il contatto che la genera: in que-
sta prospettiva, la sensibilità è infallibile. Se vediamo rosso, sicuramente c’è del rosso; se
sentiamo caldo, sicuramente c’è del caldo; se sentiamo sibilare, sicuramente c’è un sibilo.
Il fatto che talvolta ci sbagliamo nei nostri pensieri e nei nostri giudizi non dipende dalla
sensibilità, ma piuttosto dal modo in cui l’intelletto – la facoltà cognitiva superiore – in-
terpreta le sensazioni fornitegli dalla sensibilità. Ad esempio, la vista rappresenta corret-
tamente l’apparenza storta di un bastone immerso nell’acqua: è l’intelletto che si sbaglia
ad attribuire la proprietà dell’essere storto al bastone invece che all’effetto della rifrazione
della luce nell’acqua. Di fronte a tali illusioni percettive, l’epicureismo risponde con la
massima «agli occhi non ascrivere la colpa della mente». ❯ testo 1 p. 22

L’ evidenza delle sensazioni


Per Epicuro le illusioni percettive sono l’eccezione piuttosto che la regola: soltanto di rado
l’intelletto interpreta erroneamente i dati della sensibilità; normalmente, è in grado di
inferire dalle sensazioni come stanno effettivamente le cose nel mondo. In tal senso Epi-
curo distingue una categoria dominante di sensazioni, quelle “evidenti”, che non ten-
dono a trarre in inganno l’intelletto e rappresentano quindi fonti affidabili di conoscenze
ulteriori. La verità delle sensazioni è innanzitutto un fondamento imprescindibile della
vita quotidiana: è il fondamento della nostra capacità di stare al mondo. Mettere in di-
scussione la verità delle sensazioni significa, dunque, mettere in discussione la possibili-
tà stessa della nostra esistenza.
Le sensazioni ci permettono di orientarci nella vita di tutti i giorni, al pari di quanto
fanno gli altri animali, ma c’è dell’altro: gli esseri umani hanno il privilegio di poter usa-
re le sensazioni anche come punti di partenza per ragionamenti in grado di estendere
la conoscenza al di là dei limiti della percezione diretta, giungendo a conclusioni di
carattere generale. Ad esempio, la verità generale per cui tutte le cose esistenti sono cor-
pi materiali costituiti da aggregati di atomi – la tesi fondamentale della fisica epicurea – è
ricavabile mediante una serie di ragionamenti a partire dai dati forniti dalle sensazioni.

FARE per CAPIRE • Spiega, dal punto di vista di un epicureo, che cosa avviene quando crediamo di vede-
re un essere umano mentre ci troviamo di fronte all’ombra di un mobile sulla parete.

simulacri (in greco éidola) sono le immagini de- sensazione (in greco áisthesis) ciò che si pro- lessico
gli oggetti che si formano nell’organo della vista, va quando un flusso di atomi, staccandosi da un filosofico
nel momento in cui flussi di atomi, che si staccano oggetto di cui conserva la conformazione, colpi-
dall’oggetto conservandone la conformazione, sce un organo di senso.
colpiscono l’occhio e generano la sensazione.
14 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Memoria, immaginazione, anticipazione


La sensibilità è il fondamento della vita mentale, che consiste essenzialmente in elabo-
razioni, manipolazioni e integrazioni dei dati forniti dalle sensazioni: le altre facoltà
mentali si possono definire pertanto in base alle loro relazioni con la sensibilità.
Da una parte, la facoltà della memoria permette di immagazzinare le tracce dei si-
mulacri e degli altri flussi di atomi che emanano dai corpi suscitando le sensazioni.
Dall’altra, la facoltà dell’immaginazione permette di riattivare le tracce memorizzate
e, all’occorrenza, di ricombinarle in nuove immagini, capaci di rappresentare perfino
creature inesistenti: ad esempio, l’immagine fantasiosa del centauro si crea combinando
le immagini veridiche dell’uomo e del cavallo. L’attività dell’immaginazione si dispiega
con particolare efficacia nel corso dei sogni, quando, in seguito all’assopirsi degli organi
di senso, i simulacri delle esperienze passate conquistano il centro della scena nel teatro
della mente.
I concetti su cui si basano i giudizi e i ragionamenti dell’intelletto sono a loro volta
elaborazioni di sensazioni depositatesi nella memoria. Più precisamente, per Epicuro
il concetto è una anticipazione, cioè un’immagine schematica che è ricavata da sen-
sazioni passate, delle quali preserva alcune caratteristiche strutturali, e che permette

lessico anticipazione (in greco prólepsis) l’immagine schematica di un oggetto che la mente costruisce a
filosofico partire dal ricordo di sensazioni passate, e che permette di anticipare nel pensiero la rappresenta-
zione dell’oggetto.

❯ Mosaico pavimentale romano (copia dell’originale proveniente dalle terme di Otricoli, in Umbria) con
la raffigurazione dei centauri. Secondo Epicuro l’immaginazione consente di ricombinare le tracce fornite
dai sensi in nuove immagini che possono anche essere inesistenti, come il centauro, creatura mitologica metà
uomo e metà cavallo.
L’epicureismo capitolo 10 15

pertanto di anticipare sensazioni future. Se ad esempio in passato abbiamo avuto occa-


sione di vedere un leone, allora, nel momento in cui scorgiamo in lontananza qualcosa
di indeterminato che assomiglia vagamente a un leone, anticipiamo l’apparizione che
sta per palesarsi, applicando alle nostre sensazioni iniziali, che di per sé sarebbero va-
ghe e indeterminate, il concetto di leone. Più in generale, i concetti, in quanto anticipa-
zioni, permettono di avere aspettative ed eventualmente prevedere quello che accadrà.
La facoltà di desiderare e di agire si basa a sua volta su immagini suscitate dalle sen-
sazioni, archiviate dalla memoria e riattivate o elaborate dall’immaginazione. Desideri e
timori sono immagini mentali connesse a – o derivanti da – una sensazione piacevole
(nel qual caso si ha desiderio) oppure spiacevole (nel qual caso si ha timore); le sensazio-
ni di piacere e dolore da cui dipendono desideri e timori prendono anche il nome di
“emozioni”. Il desiderio e il timore possono tramutarsi in azioni volte a far sì che lo sce-
nario immaginato accada (se desiderato) o non accada (se temuto); ma il desiderio e il
timore si tramutano effettivamente in azione soltanto se l’anima decide di mettere in
movimento il corpo mediante un flusso di atomi che si propaga lungo le membra. A cau-
sare il movimento del corpo è dunque l’effetto congiunto della decisione presa nell’anima
e del flusso di atomi che innerva le membra: «così avviene che il corpo sia spinto da due
cause con duplice azione, come la nave è spinta dalle vele e dal vento» (Lucrezio, De rerum
natura, IV). I desideri, i timori e le decisioni che li possono tramutare in azioni sono il
tema della parte più importante e originale della filosofia epicurea: l’etica. ESERCIZI

FARE per CAPIRE • Sottolinea con colori diversi qual è la funzione rispettivamente di: memoria, im-
maginazione, anticipazione, emozioni (piacere e dolore).

4 L’etica
Libertà e felicità
Per Epicuro gli esseri umani sono liberi di agire e quindi responsabili delle proprie azio-
ni. La libertà è resa possibile dal fatto che gli atomi, come abbiamo visto trattando della
fisica, possono scostarsi dalla traiettoria verticale prestabilita secondo una certa inclina-
zione, il clinàmen, che introduce una componente aleatoria nel funzionamento dell’uni-
verso. Il deviare (microscopico) degli atomi dalle loro traiettorie prestabilite rende possi-
bile il deviare (macroscopico) dell’anima – anch’essa costituita di atomi – dalla rigida
necessità che governa il mondo fisico. Se il clinàmen non producesse «un inizio di movi-
mento che spezzi i decreti del fato», nel mondo non ci sarebbe la possibilità di una «vo-
lontà avulsa dai fati, per cui procediamo ciascuno dove il piacere ci guida» (Lucrezio, De
rerum natura, II). Il clinàmen fa sì che l’anima non sia determinata dalle leggi del moto
degli atomi che la compongono, e nemmeno dalle leggi del moto degli atomi che com-
pongono gli altri corpi; esso rende invece possibili azioni libere, cioè decise dall’anima
stessa, anziché prestabilite dalle leggi del movimento degli atomi. Gli esseri viventi sono
dunque, in una certa misura, padroni del proprio destino. L’etica epicurea si propone di
spiegare come possiamo sfruttare la libertà di cui disponiamo per raggiungere la felicità.
16 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Per poter andare in cerca della felicità occorre innanzitutto sapere in che cosa essa
consiste. Epicuro identifica la felicità con il piacere:


Noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto
bene primo a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e sce-
gliamo ogni bene in base alla sensazione del piacere o del dolore.
(Lettera a Menèceo, 129)

Il primato del piacere in campo etico è una conseguenza del primato della sensibilità
in campo cognitivo: se l’anima è indissolubilmente legata al corpo, e se l’intera attività
mentale si basa sulle sensazioni provenienti dal corpo, allora anche gli stati di felicità e
infelicità, in quanto stati mentali, dovranno dipendere in maniera decisiva dalle sensa-
zioni che giungono dal corpo. Nella fattispecie, le sensazioni decisive per suscitare la
felicità e l’infelicità sono rispettivamente quelle di piacere e dolore, due varianti di
uno stesso tipo di stato mentale designato dal termine greco páthos. In un brano
dello scritto Sul fine (che ci è pervenuto tramite una citazione di Cicerone), Epicuro spie-
ga in che senso il piacere sia essenziale alla felicità:


Io non so concepire che cosa è il bene, se prescindo dai piaceri del gusto, dai piaceri d’a-
more, dai piaceri dell’udito, da quelli che derivano dalle belle immagini percepite dagli
occhi e in generale da tutti i piaceri che gli uomini hanno dai sensi. Non è vero che solo la
gioia della mente è un bene; giacché la mente si rallegra nella speranza dei piaceri sensi-
bili, nel cui godimento la natura umana può liberarsi dal dolore.
(Sul fine, in Cicerone, Tusculanae disputationes, III, 18, 42)

FARE • Sottolinea nel testo le risposte alle seguenti domande:


per - perché la libertà umana dipende dal clinàmen?
CAPIRE - in che cosa consiste la felicità?

Piaceri e desideri
Epicuro distingue due tipi di piaceri: i piaceri cinetici o instabili, che sono essenzial-
mente mescolati con turbamento o dolore (ad esempio il piacere fisico, intenso ma tran-
sitorio e fuggevole); e i piaceri catastematici o stabili, che invece consistono nell’assen-
za di dolore. Sebbene i piaceri instabili diano spesso una parvenza di maggiore felicità,
sono ingannevoli, perché, essendo mescolati con turbamento o dolore, non permettono
mai di raggiungere una piena soddisfazione. Nella sua esposizione della filosofia epicu-
rea, Lucrezio paragona il perseguimento dei piaceri instabili al tentativo di riempire
d’acqua un contenitore bucato.

lessico páthos la “passione”, intesa come ciò che il nuove sensazioni piacevoli, e non riesce a liberar-
filosofico corpo e la mente “provano”, “patiscono”. Le pas- si definitivamente dal dolore e dal turbamento.
sioni sono le sensazioni piacevoli o dolorose che
l’individuo prova in conseguenza dei flussi di ato- piaceri catastematici (dal greco katastematikós,
mi che colpiscono gli organi di senso, e che sono derivato da kathístemi, “placo”, “stabilizzo”) piaceri
all’origine della felicità o dell’infelicità. che comportano stabilità e immutabilità; non di-
pendono dal fatto di moltiplicare le soddisfazioni
piaceri cinetici (dal greco kinetikós, derivato da sensibili, ma consistono nell’assenza di dolore, per-
kinéo, “muovo”) piaceri che comportano muta- seguita grazie all’appagamento dei desideri natu-
mento e instabilità: l’anima brama continuamente rali.
L’epicureismo capitolo 10 17

Alla distinzione tra due tipi di piaceri Epicuro fa corrispondere una distinzione tra
due tipi di desideri. Da una parte ci sono i desideri naturali, che sono suscitati da biso-
gni naturali del corpo e il cui soddisfacimento può effettivamente condurre a un piacere
stabile; essi sono a loro volta distinti in desideri naturali necessari, come la fame e la
sete, e desideri naturali non necessari, come la voglia di cibi raffinati e costosi. Dall’altra
ci sono i desideri vani o superflui, ad esempio il desiderio di celebrità o ricchezza, che
non corrispondono a bisogni naturali del corpo e tendono a generare principalmente
piaceri instabili, fonte di perenne insoddisfazione in quanto mai pienamente appaganti.
L’etica epicurea è dunque una forma di edonismo, dal momento che pone il piacere
come costituente essenziale della felicità. Si tratta tuttavia di un edonismo in un sen-
so peculiare, per cui quello che conta veramente non è il piacere qualunque esso sia, ma
soltanto una famiglia ristretta di piaceri, per l’appunto quelli stabili, che dunque devono
essere scelti in base a una valutazione razionale. Scrive Epicuro:


Quando dunque diciamo che il bene è il piacere non intendiamo il semplice piacere dei
goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo inter-
pretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno.
(Lettera a Menèceo, 131)

FARE • Indica, per ciascuno degli esempi riportati di seguito, se si tratta di desideri naturali necessa-
per ri, desideri naturali non necessari o desideri superflui: ambizione politica - desiderio sessuale
CAPIRE - fame - sete - desiderio smodato di cibi dolci - ambizione di gloria - aspirazione alla ricchezza
- propensione all’ozio.

edonismo (dal greco hedoné, piacere) dottrina filosofica che pone come fine dell’azione umana il lessico
piacere. filosofico

ESPERIMENTO filosofico La selezione di piaceri e desideri


Disponete sulla cattedra quattro contenitori, contrassegnati dalle scritte “piaceri cataste-
matici”, “piaceri cinetici”, “desideri naturali”, “desideri vani o superflui”. Quindi, sotto la
guida dell’insegnante, dividetevi in tre gruppi: i primi due devono scrivere 5 piaceri e 5
desideri su altrettanti foglietti che verranno consegnati all’insegnan-
te; il terzo, costituito dal resto della classe, svolgerà la funzione di giu-
dice nel prosieguo dell’attività.
• L’insegnante legge uno per volta i foglietti, e, consultando gli stu-
denti e valutandone l’opinione prevalente per alzata di mano, li ripone
nel contenitore che risulta il più adatto, dal punto di vista epicureo, a
quanto indicato in ciascun foglietto.
• Al termine si fa lo spoglio dei foglietti e il gruppo dei “giudici” valuta,
con la mediazione dell’insegnante, se sono catalogati correttamente o
meno secondo la teoria epicurea: le voci che vengono considerate dub-
bie possono essere oggetto di discussione per confermare o riconsi-
derare la loro collocazione.
18 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Dolori e timori
Sulla via che porta gli esseri umani alla felicità si frappongono come ostacoli apparente-
mente insormontabili i dolori e i timori. Epicuro ritiene tuttavia che molti di questi osta-
coli siano ingannevoli e che possano essere agevolmente superati mediante l’acquisizio-
ne del sapere. In particolare, Epicuro ritiene che il sapere filosofico possa funzionare
come un quadruplice farmaco (o “tetrafarmaco”) capace di liberare gli esseri umani dai
quattro grandi timori che li attanagliano:
• il timore degli dei;
• il timore della morte;
• il timore dell’infelicità;
• il timore della sofferenza.
Il timore degli dei si supera riconoscendo la loro indifferenza alle vicende umane,
dimostrata dalla presenza del male nel mondo. Se gli dei non potessero eliminare il male
dal mondo, sarebbero impotenti; se non lo volessero, sarebbero malevoli; dal momento
che impotenza e malevolenza sono caratteristiche che non possono essere attribuite alle
divinità, l’unica spiegazione plausibile è che gli dei, se esistono, siano del tutto indiffe-
renti alle vicende umane.
Il timore della morte si supera riconoscendo che l’anima è inseparabile dal corpo, e che
quindi, alla morte di quest’ultimo, termina anch’essa di esistere. Lo stato in cui saremo

lessico quadruplice farmaco le quattro vie del sapere filosofico che l’epicureismo propone per liberare
filosofico l’animo umano dalle quattro grandi paure che rendono impossibile la felicità: la paura degli dei, del-
la morte, dell’infelicità e della sofferenza.

❯ Galata morente
(copia romana da
originale greco
del III secolo a.C.),
scultura in marmo,
Roma, Musei
Capitolini.
L’epicureismo capitolo 10 19

dopo essere morti è lo stesso in cui eravamo prima di essere nati. Come non provavamo
nessun dolore prima di nascere, così non proveremo nessun dolore dopo essere morti, e
quindi non c’è nulla da temere:


la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entram-
bi nel sentire, e la morte non è altro che la sua assenza. […] Quando noi viviamo, la mor-
te non c’è. Quando c’è lei, non ci siamo noi.
(Lettera a Menèceo, 124-125)

I timori più motivati e difficili da estirpare sono quelli che hanno per oggetto l’infe-
licità e la sofferenza. In una certa misura questi timori hanno una funzione proficua,
perché ci spingono alla ricerca della felicità proprio per evitarli, ma si trasformano in
ostacoli nocivi quando fanno apparire la felicità più ardua da raggiungere di quanto in
realtà sia, e la sofferenza più temibile di quanto in realtà sia. Per contrastare questi ti-
mori infondati, Epicuro mostra che, da una parte, la felicità è qualcosa di facilmente
accessibile, dal momento che consiste nell’assenza di dolore e nella serenità d’animo;
d’altra parte, che l’unica forma reale di dolore, quello fisico, comporta normalmente tre
alternative le quali, a ben vedere, non sono poi così temibili: o il dolore passa rapida-
mente; oppure è tale da far sì che vi ci si abitui senza più soffrire; o può arrivare a con-
durre alla morte, che come si è visto pone fine a qualsiasi sofferenza.
In ultima analisi, la funzione principale della mente umana consiste nel cercare di
massimizzare il piacere e minimizzare il dolore. A questo scopo la mente deve fare
affidamento innanzitutto sulla sensibilità, che va tuttavia integrata dalla capacità di an-
ticipazione, di ragionamento e di calcolo che è propria dell’intelletto: i piaceri devono
infatti essere valutati con attenzione in modo da prevederne le conseguenze, i vantaggi
e gli svantaggi. Questo perché, come spiega Epicuro:


talvolta conviene tralasciare alcuni piaceri da cui può venire più male che bene, e giudica-
re alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare
dopo averle sopportate a lungo.
(Lettera a Menèceo, 129)

LA FILOSOFIA COME CURA DELL ’ ANIMA


LE PAURE FONDAMENTALI LE CONSIDERAZIONI FILOSOFICHE CHE PERMETTONO DI SUPERARLE
DEGLI ESSERI UMANI
la paura degli dei gli dei sono indifferenti alle vicende umane

la paura della morte quando siamo vivi, la morte non c’è; quando c’è la morte, non ci siamo noi

la paura dell’infelicità la felicità è facilmente raggiungibile (consiste nell’assenza di dolore


e nella serenità dell’animo)

la paura della soferenza il dolore passa rapidamente; oppure è tale da far sì che ci si abitui ad esso
senza più soffrire; o al limite conduce alla morte, che non è nulla
20 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

L’ approdo alla felicità


Per descrivere la forma di felicità genuina che si può acquisire mediante il sapere filoso-
fico, i filosofi epicurei ricorrono ai termini greci aponía (che indica l’“assenza di dolore
fisico”) e ataraxía (che indica l’“assenza di turbamento”). La felicità non è data tanto
dalla presenza di qualcosa di prezioso, quanto piuttosto dall’assenza di dolori, turba-
❯ testo 2 p. 23 menti, preoccupazioni e affanni.
In tal senso, Lucrezio paragona la condizione di chi approda alla felicità alla condizio-
ne dello spettatore che contempla da lontano le vicende angoscianti alle quali è riuscito a
sottrarsi:


Dolce, quando nel mare immenso i venti sconvolgono le acque, contemplare dalla riva
l’affanno grande di altri, non perché l’angoscia di un uomo dia gioia e sollievo, ma perché
è dolce vedere da che mali tu stesso sei libero. Dolce anche guardare grandi battaglie
spiegarsi nel piano, senza essere tu nel pericolo. Ma nulla è più consolante che occupare i
forti templi sereni elevati dalla dottrina dei saggi, donde tu possa abbassare lo sguardo
sugli altri e vederli errare smarriti e alla ventura cercare la via della vita, e far gara d’inge-
gno, competere di nobiltà, notte e giorno sforzarsi con assillante fatica di emergere a som-
ma potenza e impadronirsi dello Stato.
(De rerum natura, II)

Come la fisica epicurea rivelava che la natura è in realtà molto più semplice di quanto
appaia – soltanto atomi in movimento nel vuoto –, così l’etica epicurea rivela che la feli-
❯ QUADERNO PER
cità è in realtà qualcosa di molto più semplice e accessibile di quanto possa sembrare di
LE COMPETENZE E
IL NUOVO ESAME primo acchito. Si tratta principalmente di evitare sia di inseguire falsi obiettivi sia di
p. 72 sfuggire a falsi timori, imparando a sottrarsi all’inutile trambusto dell’esistenza.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo dei due paragrafi precedenti le frasi che sintetizzano in modo
significativo la concezione epicurea della felicità.

Nascondimento e amicizia
Sia la vita tumultuosa nelle grandi città sia la vita lussuosa alla corte dei potenti o dei
sovrani sono costellate di falsi desideri e falsi timori che ostacolano inutilmente la ri-
cerca della felicità. La vita pubblica, in generale, ha fattezze di tempesta e di battaglia,
ed Epicuro ha mostrato che la vera felicità si può raggiungere soltanto osservando la
tema tempesta e la battaglia dall’esterno. In tal senso l’etica epicurea è sintetizzata dalla
L’AMICIZIA È UN FATTO
PERSONALE O SOCIALE? massima vivi nascostamente, cioè “conduci un’esistenza il più possibile appartata
p. 106 e semplice”.

lessico aponía (termine greco composto da a- privativo, piaceri e si è liberato delle paure grazie al qua-
filosofico “senza”, e pónos, “dolore”) l’“assenza di dolore” druplice farmaco.
fisico, dipendente dalla soddisfazione dei desi-
deri necessari, concernenti il corpo. vivi nascostamente (in greco láthe biósas) è
l’invito epicureo a vivere lontano dal tumulto e
ataraxía (termine greco composto da a- pri- dai desideri falsi e smodati alimentati dall’ambi-
vativo, “senza”, e táraxis, “turbamento”) l’“assen- zione del potere e della ricchezza, scegliendo
za di turbamento” e la perfetta pace dell’anima. invece piccole e frugali comunità dove condurre
È tipica del saggio epicureo che sa valutare i una vita semplice e serena insieme con gli amici.
L’epicureismo capitolo 10 21

D’altra parte, è importante notare che Epicuro non concepisce la felicità in termini di
totale rifiuto della vita sociale. Il saggio epicureo non è un eremita che vive completa-
mente isolato dalla società, né un individualista che persegue esclusivamente la propria
felicità nella totale indifferenza per gli altri. Anzi, Epicuro riconosce l’importanza della
socialità nella costruzione della vita felice. Innanzitutto c’è una ragione utilitaristica:
associandosi tra loro, gli esseri umani sono in grado di soddisfare meglio quei deside-
ri naturali – ad esempio il nutrimento o il riparo dalle intemperie e dai pericoli – da cui
dipendono il piacere e la felicità. Il sorgere delle prime forme di vita associata si spiega
dunque come un processo di collaborazione finalizzata al soddisfacimento di alcuni
desideri condivisi. Un ruolo cruciale nello sviluppo della vita sociale è svolto dal
linguaggio, che per Epicuro ha anch’esso – come la conoscenza – origine dalla sensibi-
lità: il linguaggio primitivo è formato da suoni emessi in corrispondenza di particolari
percezioni o sensazioni:


i nomi, in principio, non venivano attribuiti secondo convenzione, ma le stesse nature
degli esseri umani, per ciascun popolo, provando determinate sensazioni e ricevendo de-
terminate immagini, emettevano dalla bocca in determinati modi l’aria inviata da ciascu-
na sensazione e immagine.
(Lettera a Erodoto, 75-76) ESERCIZI

I problemi iniziano a manifestarsi quando le comunità umane si ampliano e si svi-


luppano, fino a raggiungere dimensioni ipertrofiche. A questo punto i desideri naturali
RICORDA CHE...
Secondo Platone, per
si confondono con un numero sempre maggiore di desideri superflui – ad esempio quel- soddisfare i bisogni
li suscitati dall’ambizione e dalla volontà di prevalere sugli altri –, che alimentano la primari gli uomini
smodatezza e l’egoismo degli individui; per far fronte a questi eccessi e tutelare l’inte- si riuniscono
originariamente in
resse della collettività, si impone il ricorso alla forza e alle leggi, ma il prezzo da pagare
comunità molto
è una condizione sempre più diffusa di paura e timore. semplici e frugali,
Stando così le cose, il motto epicureo “vivi nascostamente” non è da intendersi tanto i cui membri si
suddividono i compiti
come un elogio della solitudine e dell’individualismo, quanto come un invito a sottrarsi in modo da garantire
a contesti sociali turbolenti e affollati per privilegiare invece piccole comunità che con- tre attività
ducono una vita semplice, orientata al soddisfacimento dei desideri necessari, e basata fondamentali:
l’agricoltura, la
sull’amicizia, la quale è a sua volta fonte di piaceri stabili e di felicità duratura. In tal manifattura e il
senso la comunità degli amici ipotizzata da Epicuro assomiglia alla comunità frugale commercio. L’ingrandirsi
di cui parla Platone nella Repubblica, ma con una differenza significativa. Per Platone la della comunità fa
emergere esigenze più
comunità frugale era un ideale irrealizzabile, che doveva lasciare spazio all’ideale rea- complesse, come quelle
lizzabile della repubblica articolata in una pluralità di classi sociali e governata dai filo- legate al bisogno di
sofi. Per Epicuro, invece, la comunità frugale non è un ideale astratto, ma qualcosa che creare strutture di
governo e di controllo,
si può realizzare anche al tempo presente, tenendosi lontani dagli eccessi e dalle smo- che pongano un argine
datezze della società – come dimostra il caso paradigmatico del giardino alla periferia di agli egoismi individuali
Atene in cui Epicuro e i suoi amici trascorsero felici i loro giorni. e alle conflittualità.
❯ vol. 1A, p. 225
FARE per CAPIRE • Evidenzia nel testo le frasi in cui si enuncia e si precisa il significato del motto “vivi
nascostamente”.
22 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

TESTI del capitolo 10


L’epicureismo

t1 La sensazione da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi


Per Epicuro la sensibilità è la nostra facoltà cognitiva fondamentale: su essa si fonda il canone, ovvero
il “criterio” o la “regola” del conoscere.

[L’origine della sensazione] Occorre aver ben chiaro che noi vediamo le forme delle cose e
ne facciamo oggetto del pensiero per il fatto che qualcosa sopravviene a noi dall’esterno.
Non sarebbe possibile che le cose esterne imprimessero in noi la loro natura, la loro forma
o il loro colore soltanto per mezzo dell’aria che c’è tra loro e noi, né per mezzo di raggi o
5 correnti di qualsiasi specie che si dipartissero da noi verso di loro, mentre invece tutto ciò
è ben possibile per mezzo di immagini che giungano a noi dagli oggetti esterni, di colore
e di forma simile a quelli, e di grandezza proporzionata alla nostra vista e alla nostra mente.
Tali immagini si muovono con velocità; per questa ragione danno la visione dell’oggetto
nella sua unità e nella sua contiguità, e conservano la corrispondenza con l’oggetto da cui
10 provengono per via del loro stesso appoggiarsi a quello con contiguità commisurata, che
ha le sue radici nella vibrazione degli atomi che avviene nella profondità del corpo solido.
La visione che in tal modo otteniamo, sia della forma sia delle sue affezioni, per un atto di
apprensione della mente o dei sensi, è la forma stessa del solido, risultante dalla presenza
compatta del simulacro o dai residui di esso.
15 [Il fondamento dell’errore] L’inganno e l’errore consistono sempre nel nostro aggiungere
alcunché, con l’opinione, [a ciò che attende di] esser confermato [o di non essere smentito],
e nel fatto che poi questo qualcosa non sia confermato [o riceva prova contraria].
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 48-50, in Epicuro, Opere, a cura di M. Isnardi Parente,
UTET, Torino 1983, pp. 154-155)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea nel testo le espressioni che indicano le caratteristiche proprie delle immagini o simulacri.
2. Evidenzia la definizione dell’errore.
L’epicureismo capitolo 10 23

TESTI
COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO
righe 1-7 La conoscenza dipende dal fatto che con grande velocità, consentono una percezione
qualcosa proviene in noi dall’«esterno»; in altre pa- istantanea e precisa dell’oggetto nella sua unità e
role, qualcosa si stacca dalle cose e colpisce i nostri collocazione. Le immagini si formano a seguito
sensi. Non sarebbe infatti possibile che le cose agis- della vibrazione degli atomi all’interno del corpo
sero su di noi direttamente, attraverso l’aria, o che percepito: la visione che ne deriva è perfettamente
noi agissimo sulle cose mediante «raggi» o «cor- adeguata all’oggetto e quindi veritiera.
renti» che le raggiungessero partendo dal nostro
righe 15-17 L’errore non risiede dunque nella
corpo. Dagli oggetti, invece, provengono «imma-
sensazione, bensì nell’«opinione», cioè nel giudizio
gini» che ne mantengono la forma, il colore e la
su di essa, nella sua valutazione (che appunto “ag-
struttura e vanno a sollecitare gli organi di senso.
giunge” qualcosa a ciò che attestano i sensi): tale
righe 8-14 Tali immagini sono assolutamente giudizio può essere confermato o smentito da ul-
fedeli alle cose da cui si originano e, muovendosi teriori sensazioni.

RIFLETTI
Nel brano l’autore propone una spiegazione meccanicistica del fenomeno della sensazione. Spie-
ga quali elementi supportano tale affermazione ed esponi il tuo punto di vista in proposito.

t2 Come ottenere la felicità da Epicuro, Lettera a Menèceo


La Lettera a Menèceo è nota anche come “lettera sulla felicità”. In essa Epicuro esorta il suo discepolo,
destinatario dell’epistola, ad assumere un atteggiamento razionale, indispensabile per fugare le paure
e i turbamenti che impediscono di condurre un’esistenza serena.

Epicuro a Meneceo: salve. Né quando uno è giovane esiti a filosofare, né quando è vec-
chio si stanchi di filosofare. Infatti, per nessuno, non è ancora il momento o non è più il
momento di acquistare la salute dell’anima. Perché chi afferma che non è ancora il tempo
opportuno per filosofare, o che questo tempo è ormai passato, assomiglia a chi dicesse
5 che non è giunto ancora il momento per la felicità, o che non lo è più. Cosicché, deve
occuparsi di filosofia sia un giovane sia un vecchio, il primo perché, invecchiando, possa
essere giovane nei beni, in grazia di ciò che è stato, l’altro per essere, al contempo, gio-
vane e anziano, in virtù della mancanza di paura verso quanto deve ancora avvenire nel
futuro. Occorre, dunque, avere cura di tutto quanto produce felicità, se è vero, come è
10 vero, che, quando essa è presente, abbiamo tutto, mentre, quando è assente, agiamo al
fine di potere averla. E quelle cose che ho continuato a raccomandarti, compile e àbbine
cura, ritenendo che queste sono i fondamenti del vivere bene.
[La considerazione degli dei] In primo luogo, nella convinzione che Dio è un vivente
incorruttibile e beato – ed è questa la concezione comune di Dio –, non attribuirgli nulla
15 che esuli da questa incorruttibilità e neppure che esuli dalla beatitudine, bensì pensa di
lui tutto ciò che è in grado di conservare questa sua beatitudine insieme con l’incorrutti-
bilità. Infatti, gli dèi esistono, in quanto la cognizione che ne abbiamo è evidente: ma essi
non sono come i più li considerano; infatti, non sanno mantenerli quali li concepiscono.
24 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Ed è empio non chi nega gli dèi venerati dai più, ma chi ascrive agli dèi le opinioni dei più.
TESTI

20 Infatti, le asserzioni dei più riguardo agli dèi non sono prolessi, bensì assunzioni false. In
conseguenza a ciò, sono attribuite agli dèi le maggiori sciagure per i malvagi e le maggio-
ri fortune per i buoni. Infatti, essendo in tutto intimamente uniti con le loro virtù proprie,
[gli dei]1 accolgono quelli simili a loro, considerando invece come estraneo tutto ciò che
non è tale.
25 [La paura della morte] Abìtuati a pensare che la morte non è nulla per noi, poiché ogni
bene e ogni male risiede nella sensazione: ebbene, la morte è privazione di sensazione.
Perciò, la retta cognizione che la morte non è nulla per noi rende bene accetto anche il
fatto che la vita finisce con la morte, […] liberandoci dalla brama di immortalità. […]
Cosicché, è stolto chi sostiene di temere la morte non perché porterà pena quando sarà
30 presente, bensì perché porta pena mentre deve ancora venire. Infatti, ciò che non addo-
lora quando è presente, non ha senso che addolori mentre lo si attende. Dunque, il più
orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, poiché, per tutto il tempo in cui noi siamo,
la morte non è presente; e invece, per tutto il tempo in cui la morte è presente, noi non
siamo. Dunque, essa non riguarda né i vivi né i morti, poiché per i primi non c’è, e gli
35 altri non sono più. Ma la maggior parte delle persone talora fugge la morte come il più
grande dei mali, talaltra, invece, la sceglie come mezzo per fare cessare i mali della vita.
Il saggio, invece, né ricusa di vivere, né teme il non-vivere: infatti, non gli dà noia il vi-
vere, e neppure ritiene che il non-vivere sia un male. E, come del cibo egli si sceglie non
la porzione maggiore in assoluto, ma la più gustosa, così anche del tempo coglie non la
40 parte più lunga, ma la più piacevole.
[L’obiettivo dell’imperturbabilità] Analogamente, bisogna considerare che, tra i desideri,
alcuni sono naturali; altri, invece, vacui; e, tra i naturali, alcuni sono necessari, altri sem-
plicemente naturali; e tra i necessari, a loro volta, alcuni lo sono in vista della felicità,
altri, invece, in vista dell’assenza di dolore del corpo, altri ancora in vista della vita stes-
45 sa. Infatti, una infallibile considerazione di questi principi sa indirizzare ogni atto di
scelta e di repulsa verso la salute del corpo e l’imperturbabilità dell’anima, poiché questo
è il fine del vivere beatamente. È per questo scopo, infatti, che noi facciamo ogni cosa:
appunto, al fine di non soffrire e non essere turbati dalla paura.
(Epicuro, Lettera a Menèceo, in Epicurea, nell’edizione di Hermann Usener,
a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2002, pp. 171-184)

1. Il soggetto non è esplicitato, ma sembra che si voglia qui alludere all’imperturbabilità degli dei, i quali stanno tra
i propri simili disinteressandosi di quanto accade agli altri esseri.
L’epicureismo capitolo 10 25

TESTI
ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Individua gli elementi da cui si deduce che il testo è in forma epistolare.
2. Sottolinea nel testo la descrizione del saggio e la similitudine con cui è spiegata la sua considerazio-
ne del tempo.
3. Sintetizza a margine, numerandoli, i consigli elargiti da Epicuro a Menèceo.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-24 Il fine dell’uomo è la felicità: ciò è di- tilmente, per qualcosa che non c’è. E in effetti la
mostrato dal fatto che, quando essa è presente, è morte è nulla sia quando siamo vivi, non essendo
fonte di appagamento, mentre quando manca fac- presente, sia quando sopraggiunge, perché a quel
ciamo di tutto per ottenerla. A questo scopo mirano punto non ci siamo più noi (non siamo infatti più
i consigli che l’autore si accinge a dispensare al suo in grado di avere sensazioni, fondamento della
allievo. Il primo è che non bisogna avere paura degli consapevolezza e della conoscenza). Rispetto a co-
dei: questi vivono beati e felici, imperturbabili e in- loro che vivono male temendo la morte, o addirit-
differenti alle vicende terrene. Agli dei l’opinione tura la cercano come mezzo per far cessare il dolo-
della maggioranza attribuisce sentimenti e atteg- re dell’esistenza, l’atteggiamento corretto è quello
giamenti umani, in contrasto con la loro natura, ad del saggio, che cerca di vivere meglio possibile il
esempio ritenendo che essi infliggano punizioni ai tempo che gli è concesso nella vita.
malvagi ed elargiscano premi ai buoni. Tali opinioni
righe 41-48 Per ottenere la felicità occorre an-
sono però infondate: gli dei vivono in un perfetto
che operare un’attenta selezione tra i desideri, in
isolamento, e non c’è motivo per cui dovrebbero oc-
modo da individuare quelli che concorrono davve-
cuparsi di ciò che risulta estraneo al loro mondo.
ro alla serenità dell’animo. Epicuro fa qui una sotti-
righe 25-40 Un altro timore di cui l’autore vuole le distinzione tra i desideri naturali e quelli super-
dimostrare l’infondatezza è quello della morte: flui; all’interno di quelli naturali distingue i
con il suo sopraggiungere, infatti, viene meno la necessari da quelli che non lo sono. L’obiettivo,
possibilità di provare sensazioni, le quali sono all’o- nella scelta, è quello di mirare alla salute del corpo
rigine del dolore e del piacere. Se si estingue la sen- (appagando i bisogni fondamentali) e all’imper-
sazione, non percepiamo più nulla e quindi non turbabilità dell’anima (eliminando le paure infon-
abbiamo nulla da temere. Chi poi sostiene che è la date e i motivi di turbamento): l’assenza di soffe-
prospettiva della morte a provocare sofferenza, ri- renza fisica e psicologica è infatti per Epicuro il
sulta «stolto», perché rischia di rovinarsi la vita inu- fine di una vita felice.

RIFLETTI
Nel brano, a proposito del saggio si legge: «anche del tempo coglie non la parte più lunga, ma la più
piacevole». Epicuro invita a concentrarsi sulla qualità della vita, ad attribuire valore a ogni istante,
cercando di non “perderlo” in preoccupazioni inutili e opprimenti. Esprimi il tuo punto di vista sul
valore del tempo, facendo riferimento alla visione che la società attuale mostra di averne e
all’impiego che ne fa.
26 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 10
SINTESI L’epicureismo
AUDIOSINTESI

1 Epicuro: la vita e le opere


Che cos’è l’epicureismo e qual è il suo obiettivo sica, logica ed etica, e il suo principale obiettivo è
fondamentale? L’epicureismo è la corrente di pen- liberare gli esseri umani dalle false credenze e
siero fondata da Epicuro ad Atene, nella prima dai falsi timori, affinché possano raggiungere la
metà del III secolo a.C., in un giardino attiguo alla felicità. In questa prospettiva la fisica e la logica
sua casa. La teoria epicurea si divide in tre parti: fi- sono finalizzate all’etica.

2 La fisica
Quali sono i principi della fisica epicurea? Epicuro to di atomi in eterno movimento, non vi è alcuna
afferma che tutta la realtà è costituita da atomi che finalità.
si muovono nel vuoto aggregandosi e separandosi. Come vengono concepiti l’anima e gli dei? Anche gli
Gli atomi si differenziano per forma geometrica, dei e l’anima sono costituiti da atomi: gli dei vivono
orientamento, ordine nello spazio e peso. Per spie- beati negli spazi tra i mondi; l’anima è costituita da
gare come possano scontrarsi, Epicuro introduce atomi leggeri e lisci ed è inscindibilmente legata al
l’ipotesi del clinàmen, una deviazione degli atomi corpo, alla morte del quale subisce la medesima sorte.
dal moto verticale di caduta. Nell’universo, costitui-

3 La logica
Che cos’è la “canonica”? La canonica è la logica epi- Come viene spiegata l’attività della mente? I ragio-
curea, così denominata in quanto individua il “cano- namenti dipendono dalle sensazioni: i concetti
ne”, cioè la regola della verità. Secondo la canonica sono anticipazioni di sensazioni future e sono costruiti
fondamento della conoscenza è la sensazione, la qua- dalla mente a partire da sensazioni passate. Il deside-
le si genera quando flussi di atomi, partendo dagli og- rio e il timore si basano su sensazioni passate piacevo-
getti, colpiscono gli organi di senso, provocando in noi li o spiacevoli, custodite nella memoria: si tramutano in
immagini delle cose. Le sensazioni sono sempre vere; azioni se l’anima mette in movimento il corpo, tramite
è l’intelletto che può errare pronunciando i giudizi. un flusso di atomi che attraversa le membra.

4 L’etica
In che senso l’epicureismo è una teoria edonistica? presenta come un quadruplice farmaco, offrendo
L’obiettivo dell’etica epicurea è quello di indicare la quattro vie che servono proprio a tale scopo: 1. la
via verso la felicità. Essa, per Epicuro, consiste nel prima riconosce che gli dei non sono da temere per-
piacere, il quale dipende dalle sensazioni che dal ché sono indifferenti alle vicende umane; 2. la se-
corpo raggiungono l’anima. I piaceri, però, devono conda sostiene che la morte non è nulla perché
essere attentamente catalogati e valutati: i piaceri quando siamo vivi, la morte non c’è, e quando c’è la
instabili o cinetici comportano turbamento e dolo- morte, non ci siamo noi; 3. la terza ammette che la
re; inoltre non danno mai piena soddisfazione per- felicità è raggiungibile se sappiamo opportuna-
ché sono legati a una ricerca di piacere infinita e mai mente valutare i desideri e calcolare i piaceri; 4. la
sazia. I piaceri stabili o catastematici, invece, con- quarta afferma che il dolore fisico o è sopportabile
sistono nella totale assenza di dolore e sono legati al oppure ci conduce rapidamente alla morte. La feli-
soddisfacimento dei desideri necessari. cità consiste nell’assenza di dolore fisico (aponía) e
Quali sono le condizioni fondamentali per rag- di turbamento dell’anima (ataraxía).
giungere la felicità? Oltre che selezionare i piace- Quale valore attribuisce Epicuro alla vita pubblica?
ri, preferendo quelli stabili, per raggiungere la feli- La vita pubblica, con i suoi eccessi, può risultare dan-
cità è necessario liberarsi dai quattro timori nosa per la felicità, per cui il saggio è invitato a vivere
fondamentali: degli dei, della morte, dell’infelicità “nascostamente”, cioè in piccole comunità di amici
e della sofferenza. In questo senso la filosofia si in cui condurre un’esistenza moderata e serena.
27

capitolo 10
MAPPE CONCETTUALI L’epicureismo

LA FISICA
LA FISICA EPICUREA
sostiene che

gli atomi sono soggetti al


atomi e vuoto
tutto è materia clinàmen (la deviazione casuale
sono i due principi fondamentali
della loro traiettoria)

infatti infatti il quale

sono materiali le cose, gli esseri tutti i corpi derivano introduce un elemento
viventi e anche l’anima e gli dei dall’aggregazione degli atomi nel di casualità in un universo
loro movimento di caduta governato dalla necessità
nel vuoto, e si dissolvono per
la loro disgregazione

LA LOGICA
LA LOGICA EPICUREA
afferma che

il criterio di verità la conoscenza la vita mentale

risiede nella infatti si fonda sulla consiste nella

sensazione
sensibilità (contatto tra flussi di atomi elaborazione delle sensazioni
delle cose e organi di senso)

da cui derivano

i concetti o anticipazioni

L ’ ETICA
LA FELICITÀ

si identifica con comporta una selezione tra si raggiunge attraverso

l’assenza di il piacere piaceri cinetici piaceri il sapere filosofico


dolore e di (edonismo) (instabili) catastematici
turbamento (stabili) che agisce come

quadruplice farmaco

permette di sconfiggere le quattro


paure fondamentali degli esseri
umani (paura degli dei, della morte,
dell’infelicità, della sofferenza)
28 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 10
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA L’epicureismo
RIPASSO

1 Epicuro: la vita e le opere Quindi individua, tra le seguenti, la


giustificazione per la risposta scelta:
riconoscere le nozioni a perché è l’essenza immutabile dell’uomo
1. I membri della scuola epicurea: b perché così vogliono gli dei, che vivono negli
(segna la risposta esatta) spazi tra i mondi
a spiegano e diffondono l’epicureismo senza c perché gli atomi dell’anima si attraggono
apportarvi sostanziali modifiche più fortemente
b sviluppano un pensiero autonomo rispetto a d perché alla morte del corpo gli atomi dell’anima
Epicuro si disaggregano
c criticano le dottrine fisiche del maestro 6. L’ordine della natura: (segna la risposta esatta)
d condividono la prospettiva fisica di Epicuro ma a non esiste perché il moto degli atomi è disordinato
dissentono dai suoi principi etici
b non è comprensibile dagli uomini, perché molti
sono i principi della natura
c è semplice perché i principi sono atomi,

2 La fisica vuoto e movimento


d è comprensibile perché imita modelli ideali
riconoscere le nozioni e il significato
delle parole esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
2. A quale teoria si ispira la fisica di Epicuro? 7. Qual è il rapporto fra le tre parti della dottrina
(segna la risposta esatta) epicurea?
a alla teoria dei semi di Anassagora la cui 8. In che senso nella natura non vi è passaggio
combinazione spiega l’origine delle cose dall’essere al nulla?
b a quella di Democrito che spiega come tutto
nasca dal nulla e finisca nel nulla 9. Quale concezione degli dei ha Epicuro?
c a quella di Lucrezio, che pone l’origine delle cose 10. Perché l’anima non può essere separata dal corpo?
nel clinàmen 11. Perché il clinàmen è indispensabile affinché il
d a quella di Democrito che riconduce tutto a mondo fisico esista?
combinazioni di atomi nel vuoto
scrivere e rielaborare (15-20 righe)
3. Il clinàmen: (segna la risposta esatta)
a è la forza che fa muovere gli atomi 12. Spiega perché la visione fisica dell’epicureismo
b è la deviazione dalla traiettoria di caduta verticale
ha un effetto rasserenante sull’esistenza umana.
degli atomi ad alta voce
c è la razionalità che governa il movimento degli
atomi 13. Chiarisci in 5 minuti la differenza tra il
determinismo epicureo e la visione finalistica
d è il peso che fa cadere gli atomi
di Aristotele.
4. Gli atomi: (segna la risposta esatta)
a sono diversi per natura l’uno dall’altro
b hanno identica forma perché sono corpuscoli
rotondi 3 La logica
c si distinguono per forma geometrica, ordine, riconoscere le nozioni e il significato
orientamento e peso delle parole
d si distinguono per il tipo di materia di cui sono fatti
14. Il fondamento della conoscenza è costituito:
5. Indica se l’anima è: (segna la risposta esatta) (segna la risposta esatta)
x mortale a dalle anticipazioni c dalle idee dell’intelletto
y immortale b dalle sensazioni d dal ricordo
L’epicureismo capitolo 10 29

15. Le illusioni percettive: (segna la risposta esatta)


a ci confermano che i sensi non sono affidabili
4 L ’ etica
b non dipendono dai sensi, ma dal giudizio riconoscere le nozioni e il significato
dell’intelletto delle parole
c non dipendono dall’intelletto, ma dai limiti 25. Individua le quattro paure da cui secondo
dei sensi l’epicureismo occorre liberare l’animo:
d dipendono da flussi errati di atomi a la paura del fato e la paura della
b la paura della malattia
16. Le anticipazioni: (segna la risposta esatta)
a dipendono dalla fretta del giudizio e quindi
morte f la paura degli dei
c la paura degli altri g la paura della
devono essere evitate
uomini libertà
b sono frutto dell’immaginazione e quindi non
rispecchiano sensazioni d la paura delle forze h la paura della
c sono costruite dall’intelletto, prima di qualsiasi
naturali sofferenza fisica
sensazione 26. L’assenza di turbamenti dell’anima in cui consiste
d sono immagini schematiche degli oggetti, la felicità dipende: (segna la risposta esatta)
ricavate da sensazioni passate a dall’indifferenza verso tutti i desideri, perché
17. La formazione dei concetti: (segna la risposta esatta) sono tutti vani
a richiede la presenza nella memoria di tracce di b dalla scelta oculata tra i desideri
sensazioni passate c dall’appagamento dei desideri del corpo,

b si basa sulla capacità dell’intelletto di


perché procurano godimento
contemplare le forme universali d dal distacco rispetto a ciò che le immagini
c è possibile grazie alle essenze insite nei singoli individui sensibili presentano alla nostra anima
d non è possibile, perché la conoscenza si limita alle 27. L’invito a “vivere nascostamente” significa:
sensazioni (segna la risposta esatta)
a ricercare piaceri che si possono godere in isolamento
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
b rifiutare la società umana, perché gli uomini
18. Perché la logica è chiamata anche “canonica”? sono stolti
19. Come si genera la sensazione e quale aspetto c vivere separatamente dagli altri,
ne garantisce la verità? perché la saggezza è un fatto individuale
d vivere in piccole comunità, in cui coltivare
20. Perché la sensazione è fondamentale
la saggezza
per il ragionamento?
21. Spiega la differenza tra Platone ed Epicuro esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
in relazione al concetto. 28. Perché è possibile la libertà, nell’ambito
22. Qual è il rapporto tra sensazione e desiderio? dell’atomismo epicureo?
29. Qual è lo scopo dell’etica epicurea?
scrivere e rielaborare (15-20 righe)
23. Spiega l’origine e la funzione del concetto. 30. Spiega il rapporto tra bene e piacere.
31. Che cos’è il piacere catastematico e con quali
ad alta voce desideri è in relazione?
24. Chiarisci in 3 minuti in che cosa consiste 32. Perché non bisogna avere paura della morte?
la canonica epicurea e quali sono i suoi principi
fondamentali. scrivere e rielaborare (15-20 righe)
33. Spiega in che senso per Epicuro la filosofia
è terapia dell’anima.

ad alta voce
34. Chiarisci in 3 minuti la concezione del piacere
in Epicuro.
30 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 11 Lo stoicismo

Quando ha attuato la piena razionalità della vita, l’uomo ha
compiuto il suo bene e toccato la meta segnata alla sua natura.
(Seneca, Lettere a Lucilio, 76)

1 La nascita e gli sviluppi dello stoicismo


La fondazione della scuola
Originario della città di Cizio, un importante centro mercantile nell’isola di Cipro, Zeno-
ne (da non confondersi con il presocratico Zenone di Elea, vissuto nel V secolo a.C.)
giunge ad Atene sul finire del IV secolo a.C. Dopo una fase di formazione presso il filo-
sofo cinico Cratete e poi presso l’Accademia platonica, intorno al 300 a.C., all’età di circa
trent’anni, Zenone fonda una nuova scuola filosofica. Dal momento che le lezioni si te-
nevano presso un portico (in greco stoà) situato nell’agorà, la piazza principale di Atene,
la dottrina insegnata da Zenone prende il nome di stoicismo. Nel giro di pochi anni, lo
stoicismo si afferma come una delle principali correnti filosofiche del nuovo secolo.
Zenone dirige la scuola per circa quarant’anni, fino alla sua morte avvenuta nel 263
a.C. A differenza della scuola epicurea, che si caratterizza per una stretta aderenza dei
seguaci alla dottrina del fondatore, la scuola stoica favorisce il dibattito e una certa plu-
ralità di vedute. Sotto la direzione di Cleante, il successore di Zenone, il dibattito è
talmente animato che la scuola rischia di dissolversi a causa delle controversie. A Clean-
te succede Crisippo, che dà forma pienamente sistematica alla dottrina stoica, articolata
in una teoria della natura (tradizionalmente chiamata “fisica”), in una teoria della cono-
scenza e del linguaggio (“logica”), e in una teoria del giusto agire e della felicità (“etica”).
Crisippo dirige la scuola stoica per circa un trentennio, fino alla morte avvenuta intorno
al 200 a.C., e in questi anni la scuola ritrova unità e compattezza, accrescendo al tempo
stesso la sua influenza e la sua diffusione nelle varie aree del mondo ellenistico.
Lo stoicismo capitolo 11 31

Le tre fasi dello stoicismo


Lo stoicismo originario, che ha come centro principale Atene e come maggiori esponen-
ti Zenone, Cleante e Crisippo, viene tradizionalmente definito “Antica Stoà”. Con l’e-
spressione “Media Stoà” si designa invece l’evoluzione dello stoicismo nei secoli II e I
a.C. In questa fase acquisiscono notevole importanza le sedi asiatiche della scuola, in
particolare quelle in Siria; inoltre, inizia la penetrazione dello stoicismo nel mondo ro-
mano; un importante contributo in tal senso viene da Cicerone, cui si devono le prime
opere sulla filosofia stoica scritte in latino. Il legame tra la filosofia stoica e il mondo
romano si consolida nell’ultima fase della scuola, denominata “Nuova Stoà”, che si svi-
luppa tra il I e il III secolo d.C., e ha per principali protagonisti Seneca, Epitteto e l’im-
peratore Marco Aurelio.
Le opere di filosofia stoica che ci sono state tramandate appartengono quasi tutte
all’epoca romana; possediamo gli scritti di Cicerone, Seneca, Epitteto e Marco Aurelio,
ma non quelli dei filosofi greci fondatori della scuola, fatta eccezione per una quarantina
di versi di un Inno a Zeus in cui Cleante presenta in forma poetica la concezione stoica
della divinità. Poiché i filosofi stoici di epoca romana di cui ci sono giunti gli scritti si
soffermano principalmente su questioni legate all’etica e all’interiorità, per una rico-
struzione della dottrina stoica nel suo complesso occorre rivolgersi ad altre fonti: da una
parte, gli storici e i dossografi, come Diogene Laerzio, la cui opera Vite dei filosofi contie-
ne un volume dedicato alla scuola stoica (purtroppo giuntoci mutilo); dall’altra, i filoso-
fi delle scuole rivali, in particolare scettici ed epicurei, che presentano le principali tesi
dello stoicismo al fine di criticarle o confutarle.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo i caratteri della scuola stoica e le articolazioni della sua dottrina.

2 La fisica
I due principi fondamentali dell ’ universo
Gli stoici concepiscono il mondo come un enorme organismo vivente che consiste nell’unio-
ne indissolubile di due principi, uno attivo (poióun, “principio che agisce”) e uno pas-
sivo (páschon, “principio che subisce”). Il principio passivo è pura materia pervasa e
animata dal principio attivo, il quale è caratterizzato dagli stoici in vari modi: come ra-
gione e come seme (lógos spermatikós), ma anche come spirito o soffio vitale (pnéuma),
e poi anche come anima del mondo, come fuoco e come divinità. Quando Cleante com-
pone il suo poema Inno a Zeus, la divinità a cui egli di fatto si rivolge non è il sovrano

lógos spermatikós (letteralmente, “ragione semi- tutto il cosmo. Per estensione indica quindi il princi- lessico
nale”) il principio generativo o attivo, che dà vita alla pio razionale e divino che conferisce ordine all’uni- filosofico
materia, intesa come principio passivo, e permea verso.
32 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

dell’Olimpo bensì il principio attivo che infonde vita nel mondo: «la ragione comune che
in tutti penetra […] la ragione unica di tutto, che si svolge e vive per l’eternità». La con-
cezione stoica della divinità come un principio razionale che pervade il mondo nella sua
totalità viene tipicamente indicata con il termine panteismo. Il politeismo tradizionale
viene comunque preservato considerando gli dei come aspetti peculiari dell’ordine razio-
nale che governa l’universo.
A differenza del demiurgo di Platone, che dava origine al mondo modellando la ma-
teria dall’esterno, la divinità di cui parlano gli stoici – il principio attivo – plasma il
mondo dall’interno, essendo indissolubilmente congiunta con la materia stessa. In tal
senso la relazione tra principio attivo e principio passivo nella fisica degli stoici rimanda
piuttosto alla combinazione di forma e materia nella fisica aristotelica. Tuttavia per Ari-
stotele la combinazione di forma e materia riguardava soltanto l’esistenza delle singole
sostanze; invece per gli stoici è il mondo nella sua totalità a essere concepito come una
“sostanza” vivente che ha una sua “forma” (il principio attivo) e una sua “materia” (il
principio passivo) indissolubilmente interconnesse.

L’ ordine razionale
Il principio attivo, pervadendo la materia, conferisce razionalità, finalità e necessità a
tutto ciò che accade: in questo senso gli stoici affermano che il mondo evolve nel tempo
secondo una legge necessaria, chiamata “fato” o “provvidenza”, che realizza un progetto
razionale prestabilito, in base a un concatenarsi sistematico di cause ed effetti. Si parla a
tal proposito di finalismo e anche di ottimismo della concezione stoica, essendo il mon-
do concepito come il dispiegarsi di una razionalità orientata verso ciò che è bene che sia.
Secondo gli stoici la finalità o legge interna all’universo prevede infinite ripetizioni
della stessa serie di eventi. Questa serie inizia con una grande conflagrazione, una vio-
lenta esplosione da cui si origina il cosmo, e termina con un’altra conflagrazione in cui il
cosmo si distrugge in modo da avviarsi verso un nuovo inizio, processo che gli stoici
chiamano palingenesi. Si parla a tal proposito di “cicli cosmici”, tali per cui tra una con-
flagrazione e l’altra gli eventi si ripetono sempre identici. In virtù dell’ordine razionale
universale, ogni evento è l’effetto prestabilito e inevitabile di cause necessarie; gli stoici
ritengono dunque possibile la divinazione o “mantica”, cioè l’arte di prevedere il futuro
in base a ciò che sappiamo del passato e del presente.

Le cose che esistono e la concezione dell ’anima


A differenza degli epicurei, che pensavano che il mondo fosse costituito da materia nello
spazio vuoto, gli stoici concepiscono il mondo come un intero completamente pieno,
un’enorme sfera compatta, senza nessun interstizio. Gli spazi vuoti che ci sembrano se-
parare gli oggetti materiali gli uni dagli altri sono in realtà occupati dal soffio vitale
emanato dal principio attivo.

lessico panteismo (dal greco pán, “tutto”, e theós, “dio”) la palingenesi il nuovo inizio (dal greco pálin, “di
filosofico concezione per cui il divino non è separato dal mondo, nuovo”) a cui è soggetto il cosmo dopo ogni ciclo.
ma è presente in tutta la realtà come principio interno
e immanente: dio e il mondo sono la stessa cosa.
Lo stoicismo capitolo 11 33

Sebbene il mondo sia un unico immenso organismo, al suo interno si possono distin-
guere varie entità munite di un certo grado di autonomia. Per gli stoici, soltanto le entità
dotate di un corpo, cioè di una localizzazione e di un’estensione nello spazio, esistono in
senso proprio. Le cose esistenti all’interno del mondo sono individui particolari costituiti
dall’azione del principio attivo sul principio passivo, e si possono classificare in base al
modo in cui il primo pervade e plasma il secondo. Nel caso degli oggetti inanimati, il
principio attivo si limita a munire la materia di un certo aspetto, mentre nel caso degli
organismi vegetali alla materia viene conferita una certa natura, da cui deriva la vita in
senso biologico. Nel caso degli animali, la natura è potenziata dall’anima, la cui funzione
primaria consiste nel permettere movimenti autonomi. Nel caso degli esseri umani, infi-
ne, l’anima è governata dalla facoltà razionale, che gli stoici chiamano heghemonicón
(“egemonico”).
Al pari degli epicurei, gli stoici trattano l’anima umana come un’entità corporea uni-
taria, ma a differenza degli epicurei essi non la considerano costituita da materia inerte,
bensì dal fuoco divino, il soffio vitale, la medesima materia del principio attivo di cui è
parte; pertanto ritengono che, in linea di principio, l’anima potrebbe sopravvivere alla
morte del corpo. La capacità dell’anima umana di conoscere e ragionare è il tema dell’in-
dagine filosofica che gli stoici chiamano “logica”, mentre la capacità di deliberare e agire
è il tema dell’etica. ESERCIZI

FARE per CAPIRE • Evidenzia con colori diversi le categorie di enti che esistono nel mondo e i modi
in cui il principio attivo costituisce gli individui che ne fanno parte.

3 La logica
Il criterio di verità RICORDA CHE...
Per gli epicurei il
Gli stoici concordano con gli epicurei sul fatto che la conoscenza derivi dalla sensibilità,
criterio di verità
cioè dall’azione dei corpi esterni sugli organi di senso. Tuttavia, lo stoicismo rifiuta la tesi coincide con la
epicurea per cui il criterio di verità consiste nella sensazione stessa: la sensazione pro- sensazione, intesa come
duce soltanto una modificazione dell’anima determinata dalle caratteristiche di un certo contatto tra un organo
di senso e il flusso di
oggetto. I sensi forniscono le impressioni, che si fissano nell’anima come su un foglio atomi prodotto da
bianco: questa è la fase passiva della conoscenza, in cui non si può ancora parlare di un certo corpo. Una
verità o falsità. Il criterio di verità, in base al quale è possibile stabilire con certezza che sensazione, essendo
la diretta conseguenza
cosa è vero e che cosa è falso, ossia come stanno realmente le cose, si dà soltanto quando dell’azione di un oggetto
l’intelletto dà il suo assenso alla sensazione; è a questo punto che il soggetto conoscen- concreto, è sempre vera,
te afferra con il pensiero l’oggetto che ha causato la sensazione. L’assenso dell’intelletto ovvero rappresenta
sempre correttamente
alla sensazione è l’inizio del momento attivo della conoscenza, attraverso cui il sogget- il contatto che la genera.
to riconosce le impressioni. ❯ p. 13

heghemonicón la facoltà razionale che esercita il ruolo “egemonico” di guida all’interno dell’anima lessico
umana e, tramite i ragionamenti e le decisioni, guida le azioni. filosofico
34 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Per illustrare questo punto, Zenone si richiama al paragone tra il pensiero e la


mano. Nella sensazione il pensiero assomiglia a una mano aperta, che si limita a rice-
vere ciò che proviene dall’esterno. Quando interviene l’intelletto, il pensiero assomiglia
a una mano che tende a piegare le dita per afferrare l’oggetto, e questa fase corrisponde
all’atto mentale che gli stoici chiamano appunto “assenso”. Infine, quando il pensiero
assomiglia a una mano che tiene stretto in pugno l’oggetto, si ha l’atto mentale che gli
stoici chiamano rappresentazione catalettica, e che viene denominata anche “impres-
sione cognitiva” (essendo un’impressione sensoriale che ha valore cognitivo). Insomma, la
sensazione è il dato di partenza, l’assenso il processo di elaborazione di questo dato e
la rappresentazione catalettica il risultato finale. La rappresentazione catalettica è dun-
que la sintesi dei due aspetti della conoscenza: da una parte, l’oggetto imprime la sen-
sazione sull’intelletto e, dall’altra, l’intelletto afferra o comprende l’oggetto dopo aver
dato il suo assenso.
Gli stoici paragonano il formarsi della conoscenza all’effetto di un anello che imprime
il proprio sigillo nella cera:


Come gli anelli imprimono sempre nella cera, con estrema precisione, tutte le caratteristi-
che del loro sigillo, così coloro che hanno un’impressione cognitiva degli oggetti devono
notarne tutte le peculiarità.
(Sesto Empirico, Contro i dogmatici, 7.247-252)

L’atto con cui l’intelletto concede l’assenso a una sensazione è un atto libero che gli
stoici chiamano giudizio. Il giudizio identifica un certo oggetto attribuendogli certe pro-
prietà: ad esempio, nell’identificare una cosa che vedo muoversi in lontananza posso
giudicare che si tratta di un cavallo che sta correndo. Quando l’intelletto non è sicuro di
aver davvero afferrato un certo oggetto, il giudizio è soltanto credenza o opinione (dóxa).
Perché il giudizio conti come conoscenza genuina o scienza (epistéme), è necessario che
l’impressione di aver afferrato un certo particolare oggetto con il pensiero sia accompa-
gnata da certezza infallibile. Per enfatizzare questo punto, Zenone introduce un’ulte-
riore similitudine tra il pensiero e le mani, paragonando la scienza a due mani che si
stringono una sull’altra: una mano afferra l’oggetto, e l’altra dà conferma che l’oggetto
afferrato è proprio quello che si crede di aver afferrato. Gli stoici affermano che la mag-
gior parte dei giudizi delle persone comuni sono opinioni, mentre è privilegio dei soli
sapienti afferrare mentalmente gli oggetti con piena certezza, e quindi avere giudizi che
valgano come conoscenze genuine.
Tuttavia resta il problema di stabilire se, perfino per i massimi sapienti, sia davvero
possibile avere certezze infallibili. Al tal proposito, Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, VII,
177-178) racconta la vicenda di Sfero di Boristene, un filosofo stoico unanimemente rite-
nuto un grande sapiente, che un giorno si disse certo di avere di fronte a sé una melagra-
na, mentre si trattava di una scultura in cera. Dopo aver scoperto la verità, Sfero fu co-
stretto ad ammettere che il contenuto della sua certezza infallibile non consisteva
nell’avere di fronte a sé una melagrana, ma soltanto nel ritenere ragionevole l’ipotesi che
di fronte a sé ci fosse una melagrana.

lessico rappresentazione catalettica (dal greco katalambánein, “prendere”, “afferrare”) l’impressione certa e
filosofico vera, corrispondente a un oggetto conosciuto chiaramente, che l’intelletto afferra o comprende.
Lo stoicismo capitolo 11 35

IL PROCESSO CONOSCITIVO PER GLI STOICI


FASI DELLA CONOSCENZA DESCRIZIONE CARATTERISTICHE METAFORA DELLA MANO
sensazione i sensi forniscono fase passiva della la mano aperta
le impressioni che si conoscenza
fissano nell’anima

assenso il soggetto conoscente inizio del momento la mano che tende a


afferra con il pensiero attivo della conoscenza chiudersi
l’oggetto che ha
causato la sensazione

rappresentazione l’intelletto afferra o sintesi dei due aspetti la mano stretta a pugno
catalettica comprende l’oggetto della conoscenza:
dopo aver dato il suo quello passivo della
assenso sensazione e quello
attivo dell’assenso

scienza l’impressione di aver conoscenza genuina o le due mani chiuse


afferrato un certo scienza (epistéme) una sull’altra
particolare oggetto con
il pensiero è
accompagnata da
certezza infallibile

I concetti
Per gli stoici la conoscenza deriva dalla sensibilità e quindi riguarda in primo luogo gli
oggetti che possiamo conoscere mediante gli organi di senso: gli oggetti esistenti, ovve-
ro gli individui particolari muniti di un corpo situato nello spazio. Le rappresentazioni
fondamentali sono dunque le percezioni dei singoli individui esistenti; queste percezioni
vengono immagazzinate nella memoria, da dove possono essere riattivate ed elaborate
da facoltà cognitive superiori come l’immaginazione e l’intelletto. In questo modo si for-
mano i concetti, che gli stoici concepiscono come strumenti mentali che permettono di
raggruppare vari individui in base a certe caratteristiche comuni. Ad esempio il
concetto “giallo” permette di raggruppare le varie cose gialle, e il concetto “leone” per-
mette di raggruppare i vari singoli leoni. Dalla funzione di raggruppamento deriva la
funzione di anticipazione: se ho già percepito dei leoni e mi sono formato il concetto di
leone, quando vedrò un nuovo leone sarò in grado di riconoscerlo come tale sulla base di
determinati indizi percettivi. Su questo gli stoici concordano con gli epicurei nel caratte-
rizzare il concetto come un’anticipazione (prólepsis).
Un punto di cruciale importanza per la logica stoica è il ruolo subordinato dei con-
cetti in rapporto alle rappresentazioni che riguardano singoli individui. Nozioni come
“giallo” o “leone” non afferrano nulla di realmente esistente: sono soltanto costrutti
mentali che utilizziamo per raggruppare le uniche cose che esistono realmente, ossia gli
individui. Questa teoria dei concetti svolge un ruolo decisivo nella costruzione delle teo-
rie stoiche concernenti il linguaggio e il ragionamento.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la definizione dei concetti e le loro due funzioni principali.
36 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

❯ Strumenti per la
scrittura, affresco,
I secolo d.C.,
Pompei, Museo
Archeologico
Nazionale.

I termini
Per gli stoici i termini linguistici hanno normalmente tre componenti: il segno, l’oggetto
e il significato. Il segno è la sostanza fisica del termine stesso: il particolare suono profe-
rito oppure la particolare iscrizione tracciata su una superficie; ad esempio la parola
“luna” scritta o proferita. L’oggetto è a sua volta un’entità corporea: il particolare indivi-
duo cui il termine si riferisce; ad esempio l’oggetto della parola “luna” è la luna in tutta
la sua concretezza. Il significato si differenzia invece sia dal segno sia dall’oggetto in
ragione della sua natura incorporea. Esso non è un’entità esistente, ma una struttura di
pensiero, che permette di collegare il segno con il suo oggetto: il significato del nome
“luna” è ciò che si attiva nella nostra mente quando udiamo il nome “luna”, e che ci fa
pensare proprio alla luna e non al sole o alla terra.
Il significato è di fondamentale importanza per quei termini come “giallo” o “leone”
che corrispondono a concetti, e che dunque – nella prospettiva degli stoici – non hanno un
singolo oggetto reale come corrispettivo. Per termini di questo tipo, i significati stabiliscono
le caratteristiche condivise che permettono di raggruppare i singoli individui: è soltanto
conoscendo il significato di parole come “giallo” e “leone” che possiamo stabilire se una
certa cosa è gialla oppure no, o se una certa creatura è un leone oppure no.

FARE • Indica se i seguenti sono esempi di “segni”, “oggetti” o “significati”: a. il cavallo che vedo nel
per prato; b. il concetto di albero; c. la parola “albero”; d. il nome “Roberto”; e. mio fratello;
CAPIRE f. l’immagine di Maria fissata nella mia memoria; g. il cane Charlie che gratta alla porta.

lessico significato (in greco lektón, letteralmente “il e permette di collegare un segno con il suo og-
filosofico dicibile, l’esprimibile”) la rappresentazione con- getto o con un insieme di oggetti che condivido-
cettuale che il segno suscita nella mente. Questa no caratteristiche comuni.
rappresentazione è una costruzione della mente
Lo stoicismo capitolo 11 37

Le proposizioni
Sia i termini come “luna” o “Socrate”, che si riferiscono a un singolo individuo, sia i termini
come “giallo” e “leone”, che corrispondono a un certo concetto, hanno un significato che gli
stoici definiscono “incompleto”, nel senso che di per sé non ci fornisce nessuna informazio-
ne su come stanno le cose nel mondo. Non basta dire “luna” o “giallo” per dire qualcosa sul
mondo: soltanto combinando i due termini in una proposizione, come “la luna è gialla”, si
esprime un significato “compiuto”, che può essere valutato come vero oppure come falso.
Per gli stoici le proposizioni sono fondamentalmente attribuzioni di proprietà a indi-
vidui: dunque, “la luna è gialla” è una proposizione (vera), così come “Socrate è un leone”
è una proposizione (falsa). Invece “l’uomo è un animale” per gli stoici non è una proposi-
zione in senso stretto perché non fa riferimento a nessun individuo particolare, e si limita
a connettere tra loro due concetti (“uomo” e “animale”). Una frase come “l’uomo è un
animale” sintetizza implicitamente due proposizioni sotto l’apparenza di una sola frase:
quando diciamo “l’uomo è un animale”, in realtà il significato che esprimiamo è “se un
certo individuo è un uomo, allora quell’individuo è un animale.”
Da queste considerazioni deriva la differenza principale tra la logica stoica e la logica
aristotelica. Per Aristotele “l’uomo è un animale” è una proposizione che connette i concet-
ti “uomo” e “animale”, e che si può generalizzare nella forma “A è B”, dove i simboli A e B
rappresentano due concetti generici. Invece per gli stoici “l’uomo è un animale” è una propo-
sizione composta che connette la proposizione “un certo individuo è un uomo” con la propo-
sizione “quell’individuo è un animale”; dunque, la generalizzazione sarà “se p, allora q”, dove
i simboli p e q non rappresentano più dei nomi o dei concetti bensì delle proposizioni.
In conclusione, la logica aristotelica si basa su un calcolo (il sillogismo) i cui simboli
rappresentano singoli termini come nomi e concetti; la logica stoica – molto più simile in
questo alla logica moderna – è invece un calcolo i cui simboli rappresentano proposizioni,
ed è per questo definita “logica proposizionale”.

FARE per CAPIRE • Esplicita le proposizioni di cui è composta l’asserzione “l’albero è un vegetale”,
secondo la logica stoica.

Il ragionamento e le sue figure fondamentali


Il ragionamento è una connessione di proposizioni che permette di ricavare una propo-
sizione finale (la conclusione) a partire da una serie di proposizioni iniziali (le premesse).
Gli stoici individuano cinque figure fondamentali del ragionamento, che chiamano
anapodittici (“indimostrabili”). Questi non si possono dimostrare mediante ragiona-
mento: vanno accettati come evidenze intuitive che rappresentano il fondamento logico
su cui si basano tutte le dimostrazioni.
Le due figure principali sono le prime due, che si avvalgono di proposizioni condi-
zionali schematizzabili nella forma “se p, allora q”, dove p e q sono a loro volta proposi-
zioni; la proposizione p viene definita antecedente e la proposizione q conseguente.

anapodittico (dal greco anapódeiktos, “non di- le cinque forme fondamentali del ragionamento, lessico
mostrabile”) ciò che non è dimostrabile, perché è perché sono intuitivamente evidenti. Su queste si filosofico
evidente di per sé. Per gli stoici sono anapodittiche basano tutte le altre forme di ragionamento.
38 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Una proposizione condizionale è tale per cui essa risulta falsa se l’antecedente è vero e
il conseguente è falso, mentre risulta vera in tutti gli altri casi (p vera e q vera; p falsa e
q vera; p falsa e q falsa). Ad esempio la proposizione condizionale “se la luna è un satel-
lite, allora ruota attorno a un pianeta” è vera (avendo antecedente e conseguente veri),
mentre la proposizione condizionale “se la luna è un satellite, allora è al centro dell’uni-
verso” è falsa (avendo antecedente vero e conseguente falso).
La prima figura, tradizionalmente designata dall’espressione latina modus ponens
(“modo che afferma”), ha la forma:
• “se p allora q” (premessa);
• “p” (premessa);
• dunque “q” (conclusione).
Un esempio di prima figura è il ragionamento:
• “se la luna è un satellite, allora la luna ruota attorno a un pianeta”;
• “la luna è un satellite”;
• dunque “la luna ruota attorno a un pianeta”.
La seconda figura, tradizionalmente designata dall’espressione latina modus tollens
(“modo che nega”), ha la forma:
• “se p allora q” (premessa);
• “non q” (premessa);
• dunque “non p” (conclusione).

I paradossi stoici
S econdo la testimonianza di Diogene Laerzio nelle
Vite dei filosofi, gli stoici si occuparono anche di
proposizioni problematiche, come i paradossi, stu-
verità di questa affermazione: se il cretese dice il vero,
allora, in virtù della verità del contenuto della sua af-
fermazione, proprio in quanto cretese mente, dice il
diando quelli antichi e proponendone di nuovi. Pro- falso; se invece dice il falso, allora, in virtù della falsità
babilmente, tale interesse derivò dal fatto che Zeno- del contenuto della sua affermazione, dice il vero.
ne fu allievo di due importanti esponenti della scuola Nell’esaminare questo paradosso, Crisippo giunge
megarica (caratterizzata dall’attenzione per i para- alla conclusione che l’affermazione del cretese è insen-
dossi, ❯ vol. 1A, p. 173): Stilpone e Diodoro Crono. sata, perché non ha un valore di verità univoco, cioè
Sempre in base a quanto afferma Diogene Laerzio, il non è possibile stabilire se sia vera o meno. Agli stoici
filosofo stoico che più si occupò di paradossi fu Crisip- viene attribuita l’intuizione che la natura paradossale
po, che dedicò ben sei libri all’argomento. Purtroppo dell’affermazione deriva dalla sua autoriflessività,
di queste opere ci è rimasto ben poco, come anche cioè dal fatto che finisce per parlare anche di sé stes-
della maggior parte degli altri scritti stoici sui para- sa, poiché tra gli oggetti che cadono sotto la sua por-
dossi; è possibile tuttavia soffermarci sui paradossi tata vi è anche ciò che il cretese sta dicendo.
che la scuola stoica condivide con quella megarica.
Il paradosso del coccodrillo
Il paradosso del mentitore
F ra questi vi è innanzitutto il paradosso del mentito-
re, che si può formulare considerando il caso di un
U na variante del paradosso del mentitore su cui si
appunta l’interesse degli stoici è quella del cocco-
drillo. Nella situazione prospettata, il famelico rettile
cretese che afferma «I cretesi mentono sempre». Il rapisce un bambino e promette alla madre che glie-
paradosso sta nel fatto che non è possibile stabilire la lo restituirà soltanto se lei avrà indovinato ciò che
Lo stoicismo capitolo 11 39

Un esempio di seconda figura è il ragionamento:


• “se la luna fosse fatta di vetro, allora sarebbe trasparente”;
• “la luna non è trasparente”;
• dunque “la luna non è fatta di vetro”.
Le tre figure rimanenti si avvalgono invece di due forme di proposizioni composte
che prendono i nomi di “congiunzione” e “disgiunzione esclusiva”. Una congiunzione è
una proposizione composta avente forma “p e q” (ad esempio “il sole è giallo e lumino-
so”), e risulta vera soltanto se p e q sono entrambe vere. Una disgiunzione esclusiva è
una proposizione composta avente forma “o p o q” (ad esempio “la luna o è un satellite o
un pianeta”), e risulta vera soltanto se una sola proposizione tra p e q è vera mentre l’altra
è falsa.

Validità e verità dei ragionamenti


Pur differendo dalla sillogistica aristotelica per l’uso delle proposizioni – anziché dei
termini – come unità basilari del ragionamento, la logica stoica condivide con la sillogi-
stica una distinzione cruciale: quella tra ragionamenti validi e ragionamenti veri. Un
ragionamento è valido se segue correttamente le figure del ragionamento, che per gli
stoici sono le cinque figure anapodittiche. Un ragionamento vero è invece un ragiona-
mento valido che ha anche tutte le premesse vere, e che dunque garantisce di ricavare
conclusioni vere (in tal senso gli stoici ribattezzano il ragionamento vero “ragionamen-
to concludente”).

lui ne vorrà fare. Se la madre rispondesse «Lo man- cui non è possibile stabilire se sono veri o falsi. Tali
gerai», il coccodrillo si troverebbe nell’impossibilità di sono gli enunciati “questo è un mucchio” e “questa
stabilire che cosa fare: se mangiasse il bambino, viole- persona è calva” pronunciati nella fase di transizione
rebbe la promessa (non potrebbe restituirlo alla ma- in cui il mucchio passa da tanti a pochi granelli e la
dre); ma se lo restituisse, entrerebbe ugualmente in testa dell’uomo da tanti a pochi capelli. Analoga-
contraddizione con quanto dichiarato, perché in quel mente, il paradosso del mentitore mostra che non è
caso la madre non avrebbe indovinato il destino del possibile stabilire la verità o falsità dell’affermazione
figlio e dunque non dovrebbe vederselo restituire. «I cretesi mentono sempre» quando questa è pro-
nunciata da un cretese, e il paradosso del coccodrillo
Il paradosso del sorìte e del calvo mostra che non è possibile stabilire la verità o falsità

L’ altro importante paradosso che gli stoici eredita-


no dei megarici è quello del sorìte (“mucchio”),
per cui, sottraendo da un mucchio di sabbia un gra-
dell’affermazione del coccodrillo «per essere coeren-
te con me stesso devo mangiare il bambino».

nello alla volta, non è possibile stabilire quando il


mucchio smette di essere un mucchio. Una variante
L a logica stoica, con la centralità che accorda alla
nozione di proposizione, è considerata una genia-
le anticipazione della logica del Novecento. Con le
di questo paradosso riguarda la calvizie: se dalla testa loro analisi dei paradossi, però, gli stoici anticipano
di un uomo i capelli cadono uno alla volta, non è pos- anche quella che sarà una delle scoperte più sconvol-
sibile individuare in quale istante quell’uomo diviene genti della logica novecentesca: l’esistenza, all’inter-
calvo. Sia il paradosso del mucchio sia quello della no di un sistema logico, di proposizioni di cui non è
calvizie mettono in luce l’esistenza di enunciati di possibile stabilire il valore di verità.
40 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Ad esempio,
• “la luna è o un satellite o un pianeta”;
• “la luna è un pianeta”;
• dunque “la luna non è un satellite”
costituisce un ragionamento valido ma non vero, perché ha una premessa falsa.
Invece
• “la luna è o un satellite o un pianeta”;
• “la luna è un satellite”;
• dunque “la luna non è un pianeta”
costituisce un ragionamento vero, perché oltre a essere valido ha anche tutte le pre-
ESERCIZI messe vere.

FARE per CAPIRE • Fai un esempio, diverso da quelli riportati nel testo, di proposizione condizionale
vera e uno di proposizione condizionale falsa.

ESPERIMENTO filosofico Il paradosso di Protagora


• Ti invitiamo a riflettere sul cosiddetto “paradosso di Protagora”, formulato probabilmente in am-
bito stoico e citato dallo scrittore latino Aulo Gellio (Notti attiche, V, 10), vissuto nel II secolo d.C.
Il testo narra che Evatlo, un giovane benestante, chiede a Protagora di istruirlo nella retorica e
nell’argomentazione giuridica. La somma di denaro chiesta da Protagora come compenso è però
piuttosto elevata, così Evatlo pattuisce con lui di pagarne la metà prima dell’inizio del corso e il
resto dopo aver discusso e vinto la sua prima causa in tribunale.
Pur avendo seguito tutto il corso di Protagora e avendo appreso i rudimenti dell’eloquenza, Evatlo
non va a discutere alcuna causa in tribunale. Dopo un certo tempo, Protagora, pensando che il
comportamento del suo discepolo sia un espediente per non pagarlo, lo cita in tribunale per otte-
nere il compenso dovuto. Entrambi sono sicuri di uscire vittoriosi, qualunque sia la sentenza dei
giudici: Protagora è convinto che Evatlo lo pagherà, mentre Evatlo ritiene che non dovrà farlo.
Il ragionamento di Protagora è che Evatlo dovrà pagarlo in ogni caso, qualunque sia la sentenza del
tribunale: se il giudice si pronuncerà in favore di Protagora, Evatlo dovrà pagarlo in virtù della sen-
tenza; se il giudice si pronuncerà in favore di Evatlo, quest’ultimo avrà vinto la sua prima causa e
sarà tenuto a rispettare il contratto.
Evatlo però, con un ragionamento analogo, risponde a Protagora che, in verità, non
sarà obbligato a versargli nulla: se i giudici gli daranno ragione, non sarà dovuto
nulla a Protagora in virtù della sentenza dei giudici; se i giudici invece gli daran-
no torto, avendo perduto la causa Evatlo non dovrà versare nulla in base al
patto stipulato con Protagora.
• Immagina di essere uno dei giudici chiamati a pronunciarsi in merito
alla causa intentata da Protagora. Dal tuo punto di vista, sarebbe
possibile giungere a un verdetto? In caso di risposta affermativa,
quale sarebbe il tuo giudizio? In caso di risposta negativa, quali
sarebbero le tue motivazioni? Esponi la tua posizione in un bre-
ve testo (max 15-20 righe).
• Confronta quindi la tua “sentenza” con quella dei tuoi compa-
gni, dando avvio a una discussione in classe sotto la guida
dell’insegnante. Al termine dovrà essere elaborato un breve te-
sto (max 20 righe) in cui esporrete una valutazione comune re-
lativamente al paradosso e alla possibilità o meno di risolverlo.
Lo stoicismo capitolo 11 41

4 L’etica
Il male
L’etica si occupa tipicamente di stabilire che cosa è bene e che è cosa male, e dunque
quali sono le giuste scelte e le giuste azioni da compiere. Tuttavia, nel mondo descritto
dalla fisica stoica, in cui la divinità è un principio attivo di perfezione e provvidenza che
pervade ogni cosa, non sembra esserci posto né per il male né per la libertà umana di
scegliere e di agire. Se dio pervade ogni cosa ed è sommo bene, allora non ci può essere
il male; e se dio prestabilisce ogni evento in base a una legge necessaria di concatenazio-
ne causale, allora gli esseri umani non possono essere liberi nelle loro scelte e nelle loro
azioni. I filosofi stoici affrontano esplicitamente la questione di come siano possibili il
bene, il male e la libertà in un mondo perfettamente razionale.
La distinzione tra bene e male viene giustificata dallo stoicismo sulla base della
considerazione per cui il male è necessario per far risaltare il bene, e quindi nel mon-
do, che la divinità plasma in vista del bene, deve esserci posto anche per il male, altri-
menti non ci sarebbe posto nemmeno per il bene. Secondo quanto riporta lo scrittore di
epoca romana Aulo Gellio:


Crisippo, nel libro IV della sua opera Della provvidenza, disse: nessuno è più stolto di colo-
ro i quali ritengono che possano esservi dei beni senza che vi siano anche dei mali. Essen-
do infatti il bene contrario al male, è necessario che l’uno e l’altro sussistano in opposizio-
ne reciproca e quasi sostenendosi a vicenda con sforzo insieme scambievole e contrario:
non vi è alcun contrario senza che sussista anche il suo contrario.
(Notti attiche, VII, I, 1)

La libertà
Per quanto riguarda la libertà umana, gli stoici ritengono che tutto ciò che accade obbe-
disce a una connessione causale necessaria prestabilita dalla divinità intesa come princi-
pio attivo; dunque il singolo essere umano non può sottrarsi alla catena di eventi che
costituiscono il suo destino. Se essere liberi vuol dire essere gli artefici del proprio desti-
no, allora gli esseri umani non sono liberi. Tuttavia, gli stoici non negano del tutto la
possibilità della libertà umana; le danno piuttosto un significato peculiare, introducendo
le nozioni di “causa interna” e di “assenso”.
Una palla rotola lungo un piano perché è stata spinta da una causa esterna (ad esem-
pio il vento), ma rotola anche perché ha una forma tale che le permette di rotolare, e
questa forma conta come causa interna, che insieme alla causa esterna contribuisce a
determinare il movimento. Allo stesso modo un certo uomo compie le azioni che compie
perché così ha previsto il progetto divino (causa esterna), ma anche perché quell’uomo è
fatto in un certo modo (causa interna).

causa interna è la causa che rimanda alla natura propria dell’individuo o delle cose, e che li porta lessico
ad agire o a muoversi in modi che discendono direttamente e necessariamente da tale intrinseca filosofico
natura.
42 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

❯ Bighe in corsa,
affresco,
VI secolo a.C.,
Chiusi, Tomba
del Colle.

Inoltre, sebbene quell’uomo sia obbligato a compiere le azioni che compie da un proget-
to che va ben al di là della sua volontà individuale, egli ha comunque la libertà di dare il
proprio assenso a quello che è stato previsto per lui nel piano divino – quindi di accet-
tarlo e di assecondarlo –, oppure negarglielo. Quale che sia la sua scelta, il corso degli
eventi della vita di quell’uomo non cambia, ma cambia la sua condizione morale. Come
nella logica stoica il sapere consiste nel dare il nostro assenso a quello che percepiamo, così
FARE per CAPIRE nell’etica stoica la libertà consiste nel dare il nostro assenso a quello che ci accade.
• Individua la Lo stoico Cleante paragonava l’uomo a un cane legato a un carro, che è obbligato ad
causa esterna e andare dove va il carro. Come il cane è comunque libero di seguire l’andamento del carro
la causa interna oppure opporvisi facendosi trascinare, così l’uomo è libero di seguire il destino prestabilito
negli eventi
seguenti: dal piano divino oppure opporvisi facendosi trascinare; in ogni caso, il cane andrà dove lo
a. il crollo di un porta il carro e l’uomo andrà dove lo porta il destino. Tuttavia, l’atteggiamento di un cane
edificio durante che si oppone al carro è diverso da quello di un cane che segue il carro; e l’atteggiamento
un sisma;
b. il successo di di una persona che si oppone al destino è diverso da quello di una persona che asseconda
un film. il destino. Per Cleante la libertà consiste proprio nella scelta di quest’ultimo atteggiamento.

La virtù
Per gli stoici la libertà consiste nella scelta di adeguarsi o meno al destino prestabilito dal piano
divino, ossia all’ordine razionale dell’universo di cui fanno parte anche gli esseri umani: l’idea
centrale dell’etica stoica è proprio quella secondo cui gli uomini devono vivere in armonia con
tale ordine, e quindi anche con sé stessi e con la propria essenza. A questo proposito svolge un
ruolo cruciale il concetto di oikéiosis, che indica lo sforzo di “far ritorno alla propria abitazio-
ne”, lo sforzo di “adattamento”, cioè di riconciliazione con la propria natura profonda.
Dato che il piano divino è finalizzato al bene – anzi, è di per sé il bene –, la scelta di ade-
guarvisi conta come scelta virtuosa, e produce azioni giuste, mentre la scelta di opporvisi
conta come scelta viziosa, e produce azioni ingiuste.
La persona virtuosa è dunque colei che scorge il dipanarsi del proprio destino all’interno del
piano divino, e che sceglie di assecondarlo, vivendo secondo natura, ossia secondo l’ordine ra-
zionale che governa il mondo. Come osserva Diogene Laerzio, nella prospettiva dell’etica stoica


il fine è costituito dal vivere secondo natura, cioè secondo la natura singola e la natura dell’uni-
verso, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta
ragione diffusa per tutto l’universo, ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo.
(Vite dei filosofi, VII, 85-89)
Lo stoicismo capitolo 11 43

Da una parte, per gli stoici la virtù è sapere, in quanto essere virtuosi richiede di ricono-
scere il proprio ruolo nel fluire della natura in base al piano divino. Dall’altra, per gli stoici la
virtù è anche dovere, perché quello che si richiede all’uomo virtuoso è di scegliere di ade-
guarsi a un piano che non dipende dalla sua volontà. Se a un certo punto dell’esistenza l’e-
vento più appropriato in funzione del piano divino è la morte, l’uomo virtuoso non deve
esitare a porre fine alla propria vita mediante il suicidio, come fece ad esempio il fondatore
della scuola stoica, Zenone di Cizio, quando ormai anziano e gravemente malato riconobbe
di non essere più in grado di condurre una vita degna della sua natura di essere umano.
In quanto atteggiamento di fermo assenso al proprio destino considerato nella sua inte-
rezza, la virtù non può essere qualcosa che si possiede soltanto in un certo grado o in una
certa parte: o la si possiede nella sua interezza o non la si possiede affatto. L’unica azione
virtuosa degna di questo nome è dunque quella del saggio, che agisce sempre e infallibil-
mente in modo virtuoso: non si può essere virtuosi in alcune occasioni e non esserlo in altre.
Questa posizione prende tradizionalmente il nome di rigorismo, ed è il corrispettivo in
campo etico della tesi – caratteristica della logica stoica – per cui l’unica conoscenza degna
di questo nome è quella del saggio che afferra mentalmente, con certezza infallibile, gli og-
getti dei suoi pensieri. ❯ testo 1 p. 54

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la risposta alla seguente domanda: in che senso per gli stoici
la virtù è sapere?

La felicità
Soltanto la virtù può condurre alla felicità, che per gli stoici consiste nel vivere in armonia
con il corso degli eventi prestabilito dalla legge razionale universale, accettando l’ordine
che ne deriva. La felicità non dipende dunque dalle cose che una persona possiede e nem-
meno dalle cose che le accadono: dipende soltanto dalla capacità di assumere il giusto atteg-
giamento nei confronti di quello che si ha e di quello che accade, fornendo il proprio assen-
so al realizzarsi del grande progetto divino del quale si ha il privilegio di essere parte.
Dato che la virtù e la felicità dipendono soltanto dall’atteggiamento che si ha verso le
cose, non dalle cose in quanto tali, gli stoici definiscono “indifferenti” beni come la salute,
l’onore, il benessere. D’altra parte, gli stoici ammettono che la salute è preferibile alla ma-
lattia, l’onore al disonore, il benessere alla miseria, poiché queste cose, a differenza dei
loro opposti, normalmente contribuiscono alla vita secondo natura; in tal senso gli stoici
definiscono questi beni valori (áxia), ovvero “cose degne di scelta”, sebbene non indispen-
sabili per la felicità.

oikéiosis (dal greco oikía, “casa”) indica lo sforzo necessità di seguire in qualunque situazione il lessico
con cui l’uomo deve adattarsi alla propria natura dovere al fine di realizzare la pienezza della vir- filosofico
(cioè appunto, in senso metaforico, tornare alla tù, la quale non può essere esercitata soltanto in
propria “abitazione”), la quale coincide con l’ordine parte. Il rigorismo morale stoico rende lecito an-
razionale che governa l’universo. che il suicidio, quando le circostanze impedisco-
no il compimento delle azioni doverose.
dovere per gli stoici consiste nell’adeguare con
piena consapevolezza le proprie azioni alla legge valori (in greco áxia) sono le cose e le azioni de-
divina che regge l’universo e l’individuo stesso, gne di essere scelte da parte del saggio, perché pre-
parte integrante dell’ordine cosmico. feribili al loro opposto (ad esempio la salute, l’onore,
il benessere); non sono però determinanti per la
rigorismo concezione etica che afferma la realizzazione della virtù e della conseguente felicità.
44 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Per quanto i valori siano importanti, la virtù e la felicità possono sussistere anche in loro
assenza. Il saggio stoico gode di una condizione di autosufficienza o autarchia, che fa sì
che la sua felicità perduri qualunque cosa gli succeda, poiché la sua virtù è inalterabile. Il
filosofo stoico Stilpone di Mègara, dopo che la sua città fu distrutta dai nemici e tutta la sua
famiglia sterminata, uscì imperturbabile da quello scenario di devastazione affermando:
«Tutti i miei beni li ho con me». Pur avendo perduto le persone che più gli erano care, Stil-
pone aveva infatti preservato «senso di giustizia, virtù, saggezza, e soprattutto l’intelligen-
za di non ritenere un bene ciò che può essere tolto» (Seneca, Lettere a Lucilio, 9, 8-22). Per i
filosofi stoici, la felicità e la virtù appartengono al saggio e soltanto a lui: esse sono comple-
tamente indipendenti da ciò che egli può avere o perdere in base alle circostanze esteriori.

L’ istinto e le passioni
Abbiamo visto che per gli stoici la virtù coincide con il vivere secondo natura, cioè con il
vivere secondo necessità, assecondando l’ordine razionale dell’universo. A questo obiet-
tivo l’uomo perviene mediante la ragione: il virtuoso è il sapiente. La ragione è preroga-
tiva esclusiva degli esseri umani, i quali, però, sono anche muniti di istinto; occorre dun-
que spiegare quale sia il ruolo dell’istinto e in che rapporto stia con la ragione.
L’istinto spinge l’uomo a prendersi cura della sua sopravvivenza e possibilmente anche
della prosecuzione della sua specie, mentre la ragione gli permette di governare gli impul-
si che provengono dall’istinto. Nella prospettiva dello stoicismo «la ragione si aggiunge
come plasmatrice ed educatrice dell’istinto» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 85-89).
Tra gli impulsi che derivano dall’istinto, gli stoici definiscono passione quell’impulso
che eccede la giusta misura e che deve pertanto essere governato dalla ragione affinché
l’azione sia virtuosa. Le passioni fondamentali sono quattro: la letizia intesa come ecces-
sivo piacere per una condizione passata o presente; l’afflizione, intesa come eccessivo
dolore per una condizione passata o presente; la brama, intesa come eccessivo desiderio
per una situazione futura; la paura, intesa come eccessivo timore per una situazione futu-
ra. Per gli stoici, impulsi basilari come il piacere, il dolore, il desiderio e il timore non sono
mali di per sé, anzi, hanno una loro ragion d’essere, nella misura in cui contribuiscono al
funzionamento dell’istinto in vista dell’autoconservazione; quello che gli stoici condanna-
no come male da evitare sono le passioni intese come eccessi di questi impulsi basilari.
FARE per CAPIRE Riprendendo un’immagine di Galeno – il grande medico di epoca romana (130-200 d.C.
• Elenca tre circa) cui dobbiamo anche preziose riflessioni filosofiche (❯ Filosofia e scienza, p. 72) –, possiamo
attività motivate paragonare l’impulso a una corsa in pianura che siamo in grado di fermare quando voglia-
rispettivamente mo, e la passione a una corsa lungo una discesa talmente ripida che ci impedisce di fermarci.
dal perseguimen-
to di un “valore”, Mentre lo stolto si lascia dominare dalle passioni gettandosi a capofitto nelle discese della vita,
dall’accondiscen- il saggio – che sa vivere in conformità con l’ordine razionale che governa il mondo, esercitando
denza verso un la virtù e godendo di una felicità che sa bastare a sé stessa – controlla magistralmente i propri
“impulso”, dalla
spinta di una impulsi impedendo loro di degenerare in passioni; in tal senso la condizione del saggio
“passione”. viene definita dagli stoici apatìa (“assenza di passioni”). ❯ Il punto di vista dell ’arte, p. 46

lessico passione (in greco páthos) un impulso che ec- apatìa (in greco apátheia, “assenza di passioni”)
filosofico cede la giusta misura e che quindi deve essere l’assenza di passioni tipica del saggio, il quale, pur
governato dalla ragione per realizzare la virtù. non essendo privo di impulsi, non eccede mai la
giusta misura, non è mai preda dell’impulso sre-
golato, perché sa tenerlo a freno con la ragione.
Lo stoicismo capitolo 11 45

❯ Schiavi romani
in una bottega di
falegnameria,
I secolo d.C.,
affresco da Pompei.
Secondo gli stoici
la distinzione tra
persone libere e
schiavi è priva di
fondamento.

Dall’ etica alla politica: il cosmopolitismo


La legge a cui le persone virtuose devono obbedire con convinzione è la legge divina che
regola il corso di tutto ciò che accade. Questa è per gli stoici l’unica legge che conta real-
mente, la Legge in confronto alla quale le leggi umane che governano il funzionamento
dei regni e delle città non hanno nessuna rilevanza. In tal senso l’etica stoica conduce alla
prospettiva politica del cosmopolitismo, in base alla quale ogni essere umano è innan-
zitutto cittadino del mondo:


quanto al mondo, gli stoici ritengono che esso sia retto dalla volontà divina, e costituisca
per così dire la città e la patria comune degli uomini e degli dei, e ciascuno di noi sia una
parte di tale mondo.
(Cicerone, Sui termini estremi dei bene e dei mali, III, 62-65)

L’indifferenza alle leggi stabilite dagli uomini fa sì che gli stoici rifiutino la distinzione
– così importante sia nel mondo greco sia in quello romano – tra persone libere e schiavi.
Per gli stoici la sola schiavitù è quella dello stolto che soccombe alle passioni, e simmetri-
camente la sola libertà è quella del saggio che le domina. Ciò che conta è unicamente
l’atteggiamento nei confronti della legge divina che governa il mondo – un atteggiamen-
to in base al quale l’ultimo degli schiavi secondo le leggi degli uomini può rivelarsi più
libero del più potente dei sovrani. Dunque, in linea di principio, l’etica stoica si pone a
una netta distanza dalla sfera politica, che concerne la formulazione delle leggi che rego-
lano la vita nelle varie comunità umane. Di fatto, però, nello stoicismo di epoca romana
la sfera etica e la sfera politica tendono ad avvicinarsi considerevolmente. ESERCIZI

cosmopolitismo (dal greco kósmos, “mondo”, politico bisogna assecondare le leggi della natu- lessico
e polítes, “cittadino”) teoria che afferma che il ra umana nella sua dimensione universale, più filosofico
singolo è cittadino del mondo. Se la legge razio- che quelle delle singole entità statali stabilite
nale del cosmo è universale, anche nel campo dagli uomini.
IL PUNTO DI VISTA
arte
DELL’

L’OPERA COME
ESPRESSIONE
DELLE PASSIONI ED
ENFATIZZAZIONE
DELLA REALTÀ
47

simmetria e proporzionalità vengono


sovvertiti, e si modificano i soggetti e lo stile:
l’attenzione va agli individui minuziosamente
caratterizzati, ai moti dell’animo affioranti
IL CONTESTO: DIVERSE RISPOSTE nelle espressioni dei volti e nelle posture
ALL’INQUIETUDINE DELL’EPOCA drammatiche dei corpi; lo stile diviene
L’ellenismo è un’epoca caratterizzata dal teatrale, scenografico, spesso grandioso
dinamismo, dalla mobilità, dal cambiamento: nelle dimensioni, ad esempio quando mirato
si frantuma il contesto rassicurante e a celebrare la potenza dei nuovi regni formatisi
circoscritto della pólis, la società diventa più dopo la morte di Alessandro Magno.
differenziata ed estesa, gli orizzonti si
dilatano, determinando la possibilità di scambi
e di contatti tra civiltà diverse ma anche un
profondo senso di smarrimento. L’OPERA: LA NIKE DI SAMOTRACIA
Un’opera esemplare in questo senso è la Nike
Il mondo dell’arte, come quello della filosofia, o Vittoria di Samotracia, attribuita ad artisti
si fa interprete originale di queste nuove di Rodi del II secolo a.C. La statua ha
circostanze. I filosofi cercano soluzioni dimensioni notevoli (misura infatti più di due
razionali all’inquietudine che deriva da una metri e mezzo) e raffigura l’istante in cui la
realtà in rapida trasformazione: esortano ad dea si posa sulla prua di una nave da guerra
atteggiamenti di sereno distacco di fronte alle portando l’annuncio della vittoria militare.
cose, all’apatìa, al controllo della vita L’effetto scenografico è ottenuto, oltre che
emozionale, all’esercizio della ragione come mediante le dimensioni, attraverso l’impeto
obiettivo principale dell’esistenza. della figura, con le imponenti ali dispiegate e
gonfiate dal vento che avvolge la dea nel
Gli artisti ellenistici, invece, accolgono nelle
momento in cui arresta il suo volo: con un
loro opere l’irrequietezza e la dinamicità che
realismo straordinario la veste di Nike appare
caratterizzano il periodo: sfruttano pertanto
schiacciata e assottigliata sulle parti del corpo
le abilità tecniche acquisite nell’età classica nel
che si tendono in avanti, evidenziandone le
tentativo di ottenere una rappresentazione
forme, mentre sui lati e sul retro si libera nel
realistica, vivida e quasi “potenziata”
vortice irruente dell’aria. Ad essere centrale
dell’esperienza: una rappresentazione in cui
non è più il soggetto mitologico, ma l’energia
risultano esaltate e ricercate proprio quelle
vitale stessa che pulsa attraverso la materia
passioni che gli stoici contrastano, e dichiarano
rompendo ogni argine. L’immagine offerta
estranee all’uomo saggio. Di fronte alle forti
dalla statua è potente, capace di incidere negli
tensioni destabilizzanti che attraversano
animi tormentati dei sudditi ellenistici,
la società, essi non si rifugiano nelle forme
intercettando le loro passioni più profonde:
idealizzate del passato; anzi, divenuti ormai
collocata molto in alto rispetto alla strada che
esperti nei più arditi virtuosismi compositivi,
i fedeli percorrevano per accedere al “Santuario
sembrano voler penetrare tutti gli aspetti della
dei grandi dei”, nell’isola di Samotracia, la Nike
realtà, cogliendone i particolari minuti,
doveva apparire loro maestosa, trionfante,
enfatizzando i fatti, amplificando il pathos
ma al tempo stesso precaria nella sua posa
delle scene, con l’obiettivo esplicito di
instabile. In questo senso l’opera risulta
emozionare. I canoni classici di equilibrio,
paradigmatica della nuova sensibilità
dell’epoca, oscillante tra opposti e ambivalenti
sentimenti che gli artisti interpretano e
Nike di Samotracia, statua in marmo, 190 a.C., h 3,28 m, Parigi, Museo del Louvre. riflettono nelle loro creazioni.
48 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

5 Lo stoicismo di epoca romana


Stoicismo ed eclettismo nella Roma repubblicana: Cicerone
Atene in epoca ellenistica è una città ormai marginale rispetto ai principali processi po-
litici, che hanno luogo nelle capitali dei regni dei diàdochi (❯ p. 2). La situazione di Roma
è ben diversa: nel II e I secolo a.C. – l’epoca in cui vi approda e si diffonde lo stoicismo – è
una repubblica in cui il dibattito politico è vissuto come un momento cruciale della vita
cittadina. Questa circostanza influisce significativamente sullo stoicismo romano, e più
in generale sull’intera cultura romana, che si caratterizza per una sostanziale subordina-
zione della filosofia alla politica.
Uno dei protagonisti della vita romana del I secolo a.C. è Marco Tullio Cicerone
(106 a.C. - 43 a.C.), uomo politico, avvocato, oratore ma anche filosofo. Egli condivide la
concezione stoica del mondo come un sistema razionalmente organizzato, ma trova inac-
cettabile la riduzione, operata dall’etica stoica, della libertà umana a un mero atto di as-
senso a ciò che ci accade: per lui la libertà è essenzialmente legata alla volontà, intesa
come capacità umana di determinare il corso degli eventi.
In tal senso il pensiero di Cicerone è una forma di eclettismo filosofico: egli non ade-
risce alla dottrina stoica nella sua interezza, ma ne seleziona soltanto alcuni elementi,
combinandoli con elementi di altre tradizioni filosofiche. Nella prospettiva ciceroniana,
il principio che orienta la scelta eclettica tra le varie tesi filosofiche non è un criterio as-
soluto di verità, bensì la maggiore o minore condivisibilità di una certa tesi da parte
delle varie comunità umane, quali che siano le loro peculiarità storiche e geografiche.
Questo criterio in latino prende il nome di consensus gentium (“consenso dei popoli”):
una tesi filosofica è tanto più plausibile quanto più i vari popoli risultano inclini ad ade-
rirvi indipendentemente delle loro peculiari tradizioni e dai loro costumi.
Per Cicerone gli esseri umani sono chiamati a realizzare di propria iniziativa l’ordine
razionale del mondo di cui parla lo stoicismo, anziché limitarsi a dare il proprio assenso
a un’iniziativa esterna, come fa il cane che corre legato al carro (❯ p. 42): il posto dell’uo-
mo virtuoso è alla guida del carro, non al suo traino. Cicerone vede nelle virtù civiche e
nella potenza militare della Roma repubblicana una realizzazione del piano razionale che
gli stoici attribuiscono al principio attivo: per lui è Roma stessa il “principio attivo”
che anima il mondo del I secolo a.C., e soltanto nell’azione politica la filosofia giunge al
suo pieno compimento. Il pensiero ciceroniano esemplifica dunque in maniera emblema-
tica quella subordinazione della filosofia alla politica che, come abbiamo detto, è un trat-
to caratteristico della cultura romana nel suo complesso.
Quando nel 46 a.C. Cesare è nominato dittatore con carica decennale, Cicerone è
tema costretto a ritirarsi dalla vita politica, e si dedica intensamente alla filosofia. Ma in segui-
L’AMICIZIA È UN FATTO
PERSONALE O SOCIALE? to all’assassinio di Cesare, avvenuto nel 44 a.C., non esita a lasciare la filosofia per torna-
p. 106 re alla vita politica.

lessico eclettismo (dal greco ekléghein, “scegliere”, diverse tradizioni filosofiche, senza che venga av-
filosofico “selezionare”) indirizzo filosofico che consiste nel- vertita l’esigenza di armonizzarli in una nuova e
lo scegliere elementi ritenuti validi provenienti da originale visione.
Lo stoicismo capitolo 11 49


Ora, poiché si ricomincia a chiedere il mio parere su questioni politiche, è doveroso occu-
parsi di politica, anzi, ad essa bisogna rivolgere ogni pensiero e ogni attività, riservando
allo studio della filosofia solo il tempo che rimarrà libero dai compiti e dai doveri pubblici.
(Sulla divinazione, II, 1-7)

In nome della partecipazione alla politica Cicerone sacrificherà non soltanto lo studio
della filosofia ma anche la propria vita, finendo assassinato brutalmente, nel 43 a.C., dai
sicari di Marco Antonio.

FARE per CAPIRE • Sottolinea la risposta alla domanda seguente: qual è la differenza tra la concezio-
ne della libertà degli stoici greci e quella di Cicerone?

Lo stoicismo in epoca imperiale: Seneca


Opponendosi a una tendenza dominante sia tra gli stoici sia tra gli epicurei, Cicerone aveva
messo in discussione l’indifferenza della filosofia nei confronti della politica, e aveva ri-
dato vigore alla convinzione di Platone per cui la filosofia si realizza al massimo grado
proprio nella vita politica. Questa convinzione si ritrova, nel secolo successivo, nel pen-
siero di Lucio Anneo Seneca, il principale esponente dello stoicismo in lingua latina.
Nato a Cordova, in Spagna, intorno al 4 a.C., Seneca giunge a Roma da bambino al se-
guito del padre, uno scrittore che si occupa di retorica e di storia, e che vede nelle orazio-
ni di Cicerone un modello di eccellenza. Il giovane Seneca studia a sua volta retorica, ma
si appassiona soprattutto alla filosofia, in particolare allo stoicismo, di cui condivide la
concezione di un ordine razionale del mondo, ma di cui critica la tesi del rigorismo, per
cui o si è saggi sempre o non lo si è mai. Per Seneca la saggezza è qualcosa che va con-
quistato faticosamente giorno dopo giorno, in un alternarsi di successi e fallimenti,
in un continuo conflitto tra la consapevolezza del dovere e la debolezza della volontà.

❯ La statua di
un soldato romano,
particolare delle
sculture di un ponte
sul fiume Tevere,
a Roma.
50 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

In questa lotta continua per il perfezionamento morale, svolge un ruolo fondamentale lo


❯ testo 2 p. 55 sguardo rivolto verso la propria interiorità, il quale prende il nome di introspezione:


Ogni giorno sostengo la mia causa davanti a me stesso […] vedo scrutando tutta la mia
giornata e riesamino i miei fatti e i miei detti: nulla nascondo a me stesso, nulla tralascio.
(De ira, III, 34)

Parallelamente alla ricerca e alla scrittura filosofica, Seneca partecipa attivamente


alla vita politica, opponendosi, in qualità di senatore, al dispotismo dell’imperatore Ca-
ligola. Dopo la morte di Caligola, avvenuta nel 41 d.C., Seneca entra in conflitto con
Messalina, la moglie del nuovo imperatore Claudio, e viene esiliato in Corsica. Nel
48 d.C., però, Messalina è condannata a morte per adulterio e l’anno successivo Claudio
si risposa con Agrippina, che convince l’imperatore a far tornare Seneca a Roma, affi-
dandogli il ruolo di tutore del giovane Nerone – figlio di primo matrimonio di Agrip-
pina, adottato e designato come successore da Claudio. Nel 54 d.C., alla morte di Clau-
dio, Nerone è nominato imperatore. Con Seneca e Nerone si realizza nuovamente la
situazione per cui il filosofo è chiamato a educare il sovrano, come era avvenuto con
Platone e Dionigi, e poi con Aristotele e Alessandro. L’obiettivo di Seneca è di indurre il
giovane imperatore a governare il mondo in base ai principi di razionalità e di saggezza
propugnati dalla filosofia stoica, che Seneca sintetizza in opere come il De clementia
(“Sulla clemenza”) e il De ira (“Sull’ira”). Di fatto, però, l’esito conclusivo del sodalizio
tra Seneca e Nerone è catastrofico. Dopo un primo quinquennio piuttosto promettente,
Nerone inizia ad agire in modo dispotico e sanguinario: sempre meno propenso alla
clemenza, sempre più incline all’ira. Intorno al 60 d.C. Seneca rinuncia al suo ruolo di

❯ Eduardo Barron Gonzalez, Nerone e Seneca, 1907, Cordova, Palazzo del Comune.
Lo stoicismo capitolo 11 51

consigliere e si ritira a vita privata, ma nel 65 d.C. è accusato di aver partecipato a una
congiura contro Nerone e, di fronte alla prospettiva di essere giustiziato per ordine
dell’imperatore, in conformità con la pratica stoica decide di suicidarsi. Per lo stoicismo,
infatti, la vita risulta sacra soltanto se vissuta degnamente; quando così non è, il
saggio può legittimamente decidere di porvi termine. D’altra parte, la fine della vita non
significa la fine dell’anima, che è per Seneca un’entità spirituale soltanto temporanea- tema
L’AMICIZIA È UN FATTO
mente imprigionata nel corpo, e destinata, dopo la morte, a ritornare alla dimensione PERSONALE O SOCIALE?
divina da cui proviene. p. 106

Epitteto
Lo stoicismo sostiene che il mondo è governato da un ordine razionale e da un principio
di saggezza, ma di fatto il mondo è governato dall’Impero romano; dunque se l’Impero
romano governasse il mondo in base a un ordine razionale e a un principio di saggezza,
la tesi stoica troverebbe una convincente realizzazione. Nei fatti però, come dimostra la
vicenda di Seneca e Nerone, si assiste piuttosto a un conflitto tra filosofia e politica,
che prosegue negli anni successivi e si acuisce nel 74 d.C., quando l’imperatore Vespa-
siano emana un decreto di espulsione di tutti i filosofi da Roma e dall’Italia, non tolle-
randone l’indipendenza di giudizio e lo spirito critico. Un secondo decreto di analogo
contenuto, e per analoghe motivazioni, viene emanato dall’imperatore Domiziano
nell’89 d.C. Tra i filosofi espulsi da Domiziano vi è anche Epittèto, un ex schiavo cui era
stata concessa la libertà dal suo padrone, Epafrodìto, potentissimo segretario di Nerone.
In seguito all’espulsione, Epittèto si rifugia a Nicòpoli, in Epiro, dove fonda una sua
scuola che si richiama allo stoicismo delle origini, e dove trascorre il resto della sua vita,
fino alla morte avvenuta nel 138 d.C. all’età di quasi novant’anni. Le sue lezioni vengo-
no trascritte dal discepolo Arriano mediante un metodo stenografico; ce ne restano
quattro libri, in greco, intitolati Le diatribe, cui si aggiunge un Manuale che contiene una
raccolta di precetti.
Uno dei temi centrali nella riflessione di Epittèto è la libertà, che per lui non dipende
dalla condizione esteriore in cui una certa persona si trova, bensì esclusivamente dalla
sua coscienza, dalla sua interiorità. Per l’ex schiavo Epittèto la vera differenza tra libertà
e schiavitù non dipende dallo status giuridico bensì dal profilo morale. Nel primo libro
delle Diatribe questa tesi è efficacemente esemplificata da un dialogo immaginario tra un
potente e un filosofo: «Rivelami i segreti»; «Non te li rivelo perché questo dipende da
me»; «Ma io ti metterò in catene»; «Uomo, che intendi? Me? Le mie gambe metterai in
catene, ché la mia persona morale non può vincerla neppure Zeus» (I, 1).

Gli “ imperatori buoni” e Marco Aurelio


La tensione tra filosofia e politica, che aveva raggiunto il suo culmine con i decreti di
espulsione dei filosofi emanati da Vespasiano e Domiziano, si allenta e si risolve sul fini-
re del secolo. Nel 96 d.C. Domiziano è assassinato in una congiura di palazzo e il senato
proclama imperatore Marco Cocceio Nerva. Con Nerva ha inizio la fase storica che viene
detta “epoca degli imperatori adottivi”, caratterizzata dal fatto che l’erede al trono non
è determinato in base alla nascita bensì “adottato” dall’imperatore regnante che lo iden-
tifica come la persona più adatta a succedergli.
52 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Lo storico e letterato fiorentino Niccolò Machiavelli (1469-1527) ha definito Nerva e i


suoi successori – Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio Antonino – «i cinque
imperatori buoni». Riprendendo il pensiero di Machiavelli, lo storico inglese Edward
Gibbon (1737-1794) ha scritto:


Nel felice corso di più di ottant’anni, la pubblica amministrazione fu regolata dalla virtù
e dalla abilità di Nerva, di Traiano, di Adriano, e dei due Antonini […]. Se si avesse da
stabilire nella storia del Mondo il periodo, nel quale la condizione degli uomini sia stata
più prospera e felice, si dovrebbe subito nominare quello che corse dalla morte di Domi-
ziano all’avvenimento di Commodo. La vasta estensione del romano Impero venne rego-
lata da un assoluto potere sotto la scorta della virtù e della prudenza. Gli eserciti furono
contenuti dalla mano forte ma moderata di quattro successivi imperatori, il carattere e
l’autorità dei quali esigevano involontario rispetto. Il sistema dell’amministrazione civile
fu gelosamente conservato da Nerva, da Traiano, da Adriano e dagli Antonini, i quali si
dilettavano della immagine della libertà, e si riguardavano con compiacenza come i mini-
stri e i custodi delle leggi. (Declino e caduta dell’impero romano, I)

Nella prospettiva di Machiavelli e Gibbon, in questa breve parentesi della storia


dell’umanità – all’incirca i primi ottant’anni del II secolo d.C. – la concezione stoica di
un mondo governato da un principio di razionalità e giustizia sembra davvero realiz-
zarsi attraverso l’azione politica dell’Impero romano. Gli “imperatori buoni” guardano
effettivamente alla filosofia stoica come a un importante punto di riferimento per la loro
attività di governo. Traiano sceglie come consigliere il retore Dione di Prusa, che nei
suoi discorsi assegnava alla figura dell’imperatore il compito di incarnare quel “princi-
pio attivo” che gli stoici descrivevano come governo razionale del mondo. Il successore
di Traiano, Adriano, si fa crescere la barba, in controtendenza rispetto alla tradizione
romana, per omaggiare simbolicamente i filosofi greci, e stringe personale amicizia con
l’anziano maestro stoico Epittèto e con il suo allievo Arriano. La scrittrice Marguerite
Yourcenar (1903-1987), nella sua opera Memorie di Adriano, attribuisce all’imperatore
un’impressione di profonda ammirazione al momento dell’incontro con Epitteto: «L’an-
tico schiavo, al quale un padrone brutale anni prima aveva spezzato una gamba senza
riuscire a strappargli un lamento, il fragile vecchio che sopportava paziente i lunghi
tormenti dei calcoli renali, m’era sembrato in possesso d’una libertà quasi sovrumana».

❯Marco Aurelio,
circondato da soldati e
attendenti, assiste a un
sacrificio animale,
bassorilievo in marmo,
III secolo d.C., Roma,
Arco di Costantino.
Lo stoicismo capitolo 11 53

Il massimo esito del connubio tra stoicismo e impero è rappresentato dall’ultimo dei
“cinque imperatori buoni”, Marco Aurelio (121-180). Egli non soltanto si interessa alla
filosofia stoica come guida per la pratica di governo, ma si dedica in prima persona alla
scrittura filosofica, raccogliendo i propri pensieri in un’opera in dodici volumi, in greco,
intitolata A se stesso. L’imperatore si rivolge a sé stesso utilizzando la seconda persona, il
“tu”, ed esplora la sua interiorità, riconoscendo la propria subordinazione a un principio
di razionalità universale, che paragona allo scorrere inesorabile di un fiume:


Pensa spesso alla velocità con la quale passano e si dileguano le cose che esistono. Il mondo
è come un fiume che scorre perennemente, le attività sono soggette a continue trasformazio-
ni, le cause assumono innumerevoli forme e quasi nulla è stabile, anche ciò che è vicino e a
portata di mano. E pensa anche all’abisso infinito del passato e del futuro nel quale tutto si
dilegua. […] Pensa alla totalità del mondo, di cui tu non sei che una piccolissima parte, alla
totalità del tempo, del quale ti è stato assegnato un tratto breve e insignificante, e al destino,
nell’ambito del quale quanto è limitata la parte che occupi tu? […] Tutte le cose sono conca-
tenate fra loro e il loro legame è sacro, e si può ben dire che nessuna sia estranea alle altre,
perché formano un solo complesso e contribuiscono tutte insieme all’ordine del cosmo.
(A se stesso, V)

Con Marco Aurelio lo stoicismo è giunto a occupare il trono imperiale, ma proprio in


corrispondenza del suo massimo successo politico la filosofia stoica tocca con mano l’ir-
riducibilità del principio razionale che governa il mondo al potere del più potente degli
uomini. L’Impero romano, sebbene governato secondo razionalità e saggezza dall’im-
peratore filosofo, non è comunque in grado di incarnare pienamente il principio attivo,
che per gli stoici è l’anima della natura nella sua interezza: l’impero, in tutto il suo appa-
rente splendore, è soltanto un momento transitorio di un piano divino molto più vasto
che pervade la storia del mondo.
Marco Aurelio muore di malattia nel 180, durante una campagna militare, nei pressi
di Vienna. Gli succede il figlio Commodo, che pone fine all’epoca degli imperatori adot-
tivi, imprimendo una svolta autoritaria che segnerà le fasi successive della storia imperia-
le. Con la morte di Marco Aurelio, non si chiude soltanto l’epoca degli imperatori adotti-
vi, ma un’era storica più estesa, che corrisponde all’arco di vita dello stoicismo romano, e
che lo scrittore francese Gustave Flaubert ha sintetizzato nei termini seguenti: «Quando
gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un
momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».

LO STOICISMO IN EPOCA IMPERIALE


SENECA EPITTETO MARCO AURELIO
- il mondo è retto da un ordine - la libertà non dipende dallo - la filosofia stoica è un’utile
razionale status giuridico bensì dal profilo guida per la pratica di governo
- la saggezza va conquistata morale della persona - il mondo è come un fiume che
faticosamente giorno dopo scorre perennemente
giorno - l’essere umano non è che una
- l’anima è un’entità spirituale piccolissima parte del mondo
imprigionata nel corpo, - tutte le cose sono tra loro
destinata a tornare, dopo la concatenate e nessuna è
morte, alla dimensione divina estranea alle altre
da cui proviene
54 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

TESTI del capitolo 11


Lo stoicismo

t1 La concezione del dovere


da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi
Obiettivo del saggio stoico è vivere in conformità con l’ordine razionale insito nella natura; in questa
prospettiva, il “dovere” consiste nell’assecondare consapevolmente il proprio destino.

[La definizione del dovere] Dicono che dovere è l’azione che, una volta compiuta, ha in sé
una giustificazione razionale: così per esempio ciò ch’è coerente nella vita; questo si esten-
de anche alle piante e agli animali; anche fra di essi si possono riconoscere dei doveri. Per
primo da Zenone il dovere fu così denominato, prendendo questa denominazione in base
5 al suo «convenire a qualcuno».
[I vari tipi di atti] Esso è un atto proprio della costituzione secondo natura. Gli atti che si
compiono in base a impulso sono alcuni doveri, altri contro il dovere, altri ancora né dove-
ri né contro il dovere. Doveri sono quegli atti che la ragione sceglie di fare: per esempio
venerare i genitori, i fratelli, la patria, venire in aiuto agli amici; contro il dovere ciò che non
10 sceglie la ragione, cioè cose come non aver cura dei genitori, non preoccuparsi dei fratelli,
non soccorrere gli amici, disprezzare la patria e altre simili. Né doveri né contro il dovere
sono tutte quelle cose che la ragione né sceglie né respinge: raccogliere sterpi, tenere uno
stilo o uno strigìle1 e altre simili a queste.
[I doveri incondizionati] E vi sono poi doveri indipendenti dalle circostanze e altri soggetti
15 a queste. Indipendenti da ogni circostanza sono cose come aver cura della salute, dell’inte-
grità dei propri sensi e simili; soggetti a particolari circostanze cose come mutilarsi o gettar
via il proprio patrimonio. Analogamente si può dire delle cose che sono contro il dovere.
Inoltre di ciò ch’è secondo il dovere parte lo è sempre e parte non sempre. Sempre dovero-
so è il vivere secondo virtù; non sempre interrogare e rispondere, o passeggiare, e simili; e
20 lo stesso discorso si deve fare circa le cose che sono contro il dovere.
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 107-109, in Stoici antichi,
a cura di M. Isnardi Parente, UTET, Torino 1989, pp. 1152-1153)

1. Strumento metallico usato anticamente per detergere il corpo dopo il bagno o l’attività fisica.
Lo stoicismo capitolo 11 55

TESTI
ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Individua e sottolinea nel testo le espressioni che richiamano i seguenti campi semantici:
• dovere, doveroso;
• ragione, razionale.
2. Evidenzia nel testo la definizione del dovere.
3. Individua e riporta in una tabella i tre principali tipi di azioni che vengono indicati nel testo e i
corrispondenti esempi.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-5 Dovere per gli stoici è l’azione confor- rie al dovere, e in particolare quelle che la ragione
me all’ordine razionale della natura, cui l’uomo non sceglie; altre ancora sono indifferenti, cioè
virtuoso deve adeguarsi. Anche i vegetali e gli ani- non sono né vietate né prescritte dalla ragione.
mali hanno un dovere, che però coincide con l’i-
righe 14-20 Vengono individuati anche doveri
stinto (è ciò che spinge a fare ciò che “conviene”
incondizionati (cioè che sono sempre tali, come oc-
all’individuo, ad esempio in vista della sua sopra-
cuparsi della propria salute) e doveri che dipendo-
vivvenza).
no invece dalle circostanze (come mutilarsi, azione
righe 6-13 Tra le azioni compiute per istinto drastica che, dal punto di vista stoico, può risultare
(l’«impulso»), alcune sono doveri, e precisamente un dovere se qualcosa impedisce al soggetto di
quelle prescritte dalla ragione; altre sono contra- comportarsi in modo coerente ai propri principi).

RIFLETTI
L’etica stoica viene considerata in genere una forma di “rigorismo etico”, in quanto prescrive di segui-
re il proprio “dovere” con il massimo rigore, sempre e ovunque, arrivando a giustificare azioni estre-
me come il suicidio quando ciò non sia possibile. Ritieni che tale impostazione, per quanto drasti-
ca, presenti aspetti condivisibili? Esponi il tuo punto di vista in proposito, precisando anche
qual è, a tuo avviso, il ruolo della razionalità nelle scelte etiche.

t2 I viaggi portano giovamento all’animo?


da Seneca, Lettere a Lucilio
Il testo seguente è tratto da una delle lettere indirizzate dal filosofo Seneca all’amico Lucilio tra il 62 e
il 65 d.C. Il tema affrontato è quello del viaggio, visto da Lucilio come mezzo per alleviare i tormenti
dell’animo; secondo Seneca si tratta di un’aspettativa scorretta, perché la pace interiore non può
derivare dall’esterno, ma deve essere conquistata attraverso l’esercizio della ragione e della virtù.

[L’inutile fuga da sé stessi] Tu credi che sia capitato solo a te, e ti meravigli come di un fatto
strano di non essere riuscito a liberarti della tristezza o della noia, malgrado i lunghi viag-
gi e la varietà dei luoghi visitati. Il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi. Anche
se attraversi il vasto oceano; anche se, come dice il nostro Virgilio, «ti lasci dietro terre e
5 città»1, dovunque andrai ti seguiranno i tuoi vizi. Disse Socrate ad uno che si lamentava per

1. Citazione dall’Eneide (III, 72), il poema epico scritto da Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.).
56 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

lo stesso motivo: «Perché ti meravigli che non ti giovino i viaggi? Tu porti in ogni luogo te
TESTI

stesso; t’incalza cioè sempre lo stesso male che t’ha spinto fuori». Che giovamento può darti
la varietà dei paesaggi o la conoscenza di città e luoghi nuovi? Tale sballottamento non serve
a nulla. Chiedi perché tu non trovi sollievo nella fuga? Perché tu fuggi sempre in compa-
10 gnia di te stesso. Nessun luogo ti piacerà finché non avrai abbandonato il peso che hai
nell’animo. […]
[L’anima come una nave dal carico sbilanciato Tu corri qua e là per cacciare via il peso che ti
opprime e che diventa più gravoso col tuo stesso agitarti. Similmente sulla nave il carico
esercita minore pressione se è ben fissato, mentre, se si sposta disordinatamente, fa som-
15 mergere il fianco su cui viene a gravare. Qualunque cosa tu faccia, la fai a tuo danno; e con
lo stesso movimento ti danneggi, perché scuoti un ammalato.
[La serenità di chi ha sanato la propria anima] Ma quando tu riuscissi ad estirpare codesto
male, ogni cambiamento di luogo ti sarà piacevole. Potrai anche essere cacciato nelle terre
più lontane e più barbare: ogni luogo, qualunque esso sia, sarà per te ospitale. L’importan-
20 te è sapere con quale spirito arrivi, non dove arrivi; perciò non dobbiamo legare l’animo a
nessun luogo. Bisogna vivere con questa persuasione: «Non sono nato per attaccarmi a un
posto. La mia patria è l’universo intero». Se la cosa fosse chiara alla tua mente, non ti me-
raviglieresti che non ci dia giovamento la varietà della regioni in cui ti sposti, sempre an-
noiato delle precedenti. Ti sarebbe piaciuta la prima in cui fossi capitato, se ogni regione la
25 considerassi tua. Ora tu non viaggi, ma vai errando e sei spinto a passare da un luogo a un
altro, mentre quello che cerchi, la felicità, si trova in ogni luogo. Qual luogo può essere più
turbolento del foro2? Eppure anche lì si può trovare il modo di vivere tranquilli. Ma se mi
fosse consentito di disporre di me liberamente, fuggirei lontano anche dalla vista e dalle
vicinanze del foro. Come i luoghi malsani minacciano anche la salute più solida, così anche
30 per un animo buono, ma non ancora maturo e saldo, alcuni posti sono poco salubri. Non
approvo coloro che si gettano in mezzo ai flutti e preferiscono una vita tumultuosa, e per-
ciò lottano coraggiosamente con le difficoltà di ogni giorno. Il saggio le saprà tollerare, ma
non le cercherà, e vorrà vivere in pace piuttosto che nei contrasti. Non giova molto essersi
liberato dai propri vizi, se bisogna poi combattere con quelli degli altri.
(Seneca, Lettere a Lucilio, 28, BUR, Milano 1985, pp. 209, 211)

2. Presso i Romani, il foro era il centro religioso, commerciale, amministrativo, culturale della città.
Lo stoicismo capitolo 11 57

TESTI
ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Indica da quali elementi stilistico-formali si riconosce il genere epistolare del brano.
2. Individua e sottolinea la similitudine con cui l’autore descrive la tormentata condizione interiore del
destinatario della lettera.
3. Individua ed elenca le esortazioni che l’autore rivolge a Lucilio e che scandiscono la lettera.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-11 Seneca si rivolge all’amico Lucilio, interiore che la opprime, Lucilio potrà finalmente
esortandolo a riflettere sul motivo per cui, nei lun- apprezzare i luoghi in cui si reca. A quel punto non
ghi e numerosi viaggi compiuti, non ha potuto tro- avrà alcuna importanza se i posti sono ospitali o
vare giovamento per la sua anima. Il fatto è che la inospitali; e non ci sarà alcun luogo preferenziale,
serenità interiore non dipende dalle circostanze perché il saggio è felice ovunque. Addirittura risul-
esterne: in ogni luogo, anche il più lontano, ci por- terà inutile spostarsi alla ricerca di posti nuovi, per-
tiamo dietro i conflitti interiori che non siamo riusci- ché la patria può essere identificata con l’universo
ti a risolvere, ed essi ci impediscono anche di godere intero (tale principio è coerente con la visione co-
delle nuove situazioni in cui veniamo a trovarci. smopolitica stoica, secondo cui la legge razionale
dell’universo è identica in ogni luogo e per tutti gli
righe 12-16 La condizione di Lucilio è paragona-
esseri umani). Seneca evidenzia la condizione di
ta da Seneca a quella di un vascello, in cui il carico,
schiavitù in cui si trova Lucilio: nel suo peregrinare
mal assicurato, si muove da una parte all’altra, ri-
incessante, infatti – che non può essere definito
schiando di far affondare l’imbarcazione. Analoga-
“viaggiare” –, egli va errando da una meta all’altra,
mente l’animo dell’amico, già turbato, è scosso dai
continuamente insoddisfatto, mentre ciò che cerca,
continui spostamenti, che invece di acquietarlo lo
ossia la felicità, è a portata di mano, nella sua interio-
agitano ancora di più.
rità. Nelle righe conclusive Seneca rileva come la
righe 17-34 Soltanto dopo aver affrontato il ma- pace dell’anima sia più facile da raggiungere se ci si
lessere della propria anima e aver risolto il conflitto tiene lontani dal trambusto degli affari.

RIFLETTI E DISCUTI
Il tema del viaggio è ricorrente nella riflessione filosofica e letteraria: esso simboleggia una condizione
esistenziale, attraverso la quale il soggetto compie esperienze fondamentali per la sua formazione.
Nella lettera, Seneca distingue il “peregrinare” di Lucilio dal viaggio vero e proprio, che è quello com-
piuto nell’interiorità, alla ricerca di un equilibrio che consenta di stare bene in qualunque luogo.
Illustra il tuo punto di vista su questo argomento, chiarendo qual è il ruolo che il viaggio assume
nella tua vita e quale significato gli attribuisci. Quindi confrontati con i tuoi compagni, riflettendo
insieme sulla frase della scrittrice Marguerite Yourcenar (1903-1987): «ogni viaggio fatto con in-
telligenza, è una scuola di resistenza, di stupefazione, quasi un’ascesi, un mezzo per perdere i
propri pregiudizi, mettendoli in contatto con quelli dello straniero».
58 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 11
SINTESI Lo stoicismo
AUDIOSINTESI

1 La nascita e gli sviluppi dello stoicismo


Che cos’è lo stoicismo? Lo stoicismo è un indiriz- ne teneva le lezioni. Lo stoicismo – in cui si possono
zo filosofico fondato da Zenone di Cizio nella distinguere tre fasi (Antica, Media e Nuova Stoà) –
prima metà del III secolo a.C. Il nome del movi- avrà grande successo nel mondo romano, grazie a
mento deriva dal portico (in greco stoà) dove Zeno- Cicerone, Seneca, Epitteto e Marco Aurelio.

2 La fisica
Quali sono i principi fondamentali della fisica infinite ripetizioni della stessa serie di eventi.
stoica? Per gli stoici il mondo è costituito da un Tale processo inizia con una grande conflagrazione
principio passivo, la materia, e da un principio – da cui ha origine il cosmo – e termina con un’altra
attivo, chiamato “ragione universale” o “anima del conflagrazione – in cui il cosmo si distrugge av-
mondo”. Il principio attivo è divino, pervade tutta viandosi verso un nuovo inizio (“palingenesi”).
la realtà e conferisce ordine e razionalità al cosmo; Che cosa esiste per gli stoici? Secondo gli stoici
la fisica stoica è quindi panteista. ciò che esiste è corpo, e ogni corpo è pervaso e go-
In che cosa consiste il ciclo cosmico? Secondo gli vernato dal principio della razionalità universale,
stoici la finalità o legge interna all’universo prevede che nell’uomo si manifesta come anima razionale.

3 La logica
Da che cosa ha origine la conoscenza? Secondo gli cioè l’ente materiale a cui il segno si riferisce, e il
stoici la conoscenza deriva dalla sensazione, che significato. Il significato è incorporeo e collega il
però non costituisce il criterio di verità. Quest’ulti- segno all’oggetto cui si riferisce.
mo risiede nell’intelletto, e in particolare nell’atto In che senso la logica stoica è definita “logica
con cui l’intelletto dà l’assenso alle rappresentazio- proposizionale”? La logica stoica non si occupa
ni. È sulle rappresentazioni dotate di certezza ed delle combinazioni dei termini, bensì della con-
evidenza – definite “catalettiche” – che è fondata la nessione delle proposizioni, cioè dei ragiona-
conoscenza vera. menti: in particolare, si occupa di come sia possi-
Che cosa sono i concetti? I concetti nascono dalla bile ottenere una proposizione finale (conclusione)
rielaborazione delle sensazioni e sono un’immagi- a partire da una serie di proposizioni iniziali (pre-
ne semplificata degli oggetti, che permette di messe). Le cinque figure fondamentali del ragiona-
raggruppare vari individui in base a certe caratteri- mento sono dette “anapodittici”. Le prime due fi-
stiche comuni o anticipare percezioni future. gure si avvalgono di proposizioni condizionali; le
Quali sono le componenti dei termini linguistici? I tre figure successive si avvalgono di proposizioni
termini del linguaggio hanno tre componenti: il che prendono il nome di “congiunzione” e “disgiun-
segno, cioè il suono o la parola scritta, l’oggetto, zione esclusiva”.
Lo stoicismo capitolo 11 59

4 L’etica
Come si giustificano il male e la libertà nella con- virtuoso è felice, in quanto dà il proprio assenso al
cezione stoica? Benché nel cosmo stoico tutto – piano divino alla base del cosmo. Da questo punto
anche le azioni degli uomini – accada secondo la di vista il possesso di cose o beni materiali è indiffe-
ragione universale, il male è necessario perché rente, benché alcune condizioni, ad esempio la salu-
esista anche il bene, dal momento che i contrari te, l’onore, il benessere, siano preferibili rispetto ad
sono reciprocamente indispensabili: se c’è l’uno altre; i valori sono proprio le cose degne di scelta,
ci deve essere anche l’altro. La libertà consiste nel benché non indispensabili per la felicità.
fare ciò che dipende dalla causa interna, cioè dalla Qual è la condizione del saggio? Il saggio stoico,
natura propria dell’individuo, e nel dare l’assenso non avendo necessità di nulla, se non di adeguarsi
a ciò che il piano divino prevede. Non è possibile all’ordine razionale e divino, è in una condizione di
fuggire alla legge necessaria che governa l’univer- autosufficienza. Egli sa governare con la ragione
so: l’individuo, tuttavia, può scegliere se accettare e le passioni, che sono impulsi che eccedono la giusta
aderire consapevolmente all’ordine delle cose, op- misura; il saggio stoico è quindi in una condizione
pure lasciarsi trascinare dagli eventi. di apatia, nel senso che non subisce le passioni e
In che cosa consiste la virtù? La virtù consiste nel- non si fa guidare da esse. Per quanto riguarda la
la scelta di adeguarsi al piano razionale divino: in sfera politica, il saggio, come ogni essere umano, è
questo senso è sapere, perché comporta la cono- cittadino del mondo (cosmopolitismo), la sua pa-
scenza della legge universale, ed è dovere, perché tria è ovunque ed egli non è condizionato dalla si-
implica un’azione conforme a tale legge. L’uomo tuazione contingente in cui si trova.

5 Lo stoicismo di epoca romana


Qual è la prospettiva teorica di Cicerone? Cicero- mamente decidere di porvi termine. D’altra parte la
ne adotta un atteggiamento eclettico, sostenendo morte non rappresenta la fine dell’anima, che è de-
che bisogna selezionare da ogni dottrina filosofica stinata a ritornare alla dimensione divina da cui
ciò che incontra il consensum gentium, cioè il con- proviene.
senso delle varie comunità umane. Egli vede nelle Epittèto è un ex schiavo, che accentua il ruolo della
virtù civiche e nella potenza militare di Roma una libertà interiore, a prescindere dallo status giuri-
realizzazione del piano razionale che gli stoici attri- dico e dalle condizioni di vita dell’individuo.
buiscono al principio attivo. Qual è la peculiarità degli “imperatori buoni”?
Che cosa sostengono Seneca ed Epitteto? Seneca Gli “imperatori buoni” del II secolo d.C. sembrano
condivide con Cicerone l’idea della centralità della incarnare quel principio attivo razionale che, per
politica e delle virtù civili; la saggezza, per lui, è gli stoici, guida e governa il cosmo. In particolare,
frutto di un processo di formazione che prosegue l’imperatore Marco Aurelio esplora la propria inte-
giorno per giorno grazie all’attenzione verso l’inte- riorità, riconoscendo la subordinazione dell’uomo a
riorità e la coscienza. Nella concezione stoica di un principio di razionalità universale, ma anche la
Seneca la vita risulta sacra se è vissuta degnamente; caducità del singolo all’interno dell’ordine che go-
in caso ciò non sia possibile, il saggio può legitti- verna tutte le cose.
60 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 11
MAPPE CONCETTUALI Lo stoicismo

LE FASI DELLO
STOICISMO LO STOICISMO

si sviluppa in tre fasi

Antica Stoà Media Stoà Nuova Stoà

Zenone, Cleante scuola di Siria e prima stoicismo romano


e Crisippo diffusione della dottrina (Seneca, Epitteto e
a Roma (Cicerone) Marco Aurelio)

LA FISICA
LA FISICA STOICA

sostiene che

l’universo è costituito tutto è corpo e ogni


da due principi il ciclo cosmico corpo deriva
fondamentali dall’azione del
principio attivo su
quello passivo

il principio passivo il principio attivo

che è che è prevede

ragione, spirito la ripetizione infinita nell’uomo il principio


pura materia inerte o soffio vitale della stessa serie attivo è l’anima
di eventi

il quale la quale

pervade la materia, e dalla conflagrazione è governata


la anima conferendole originaria, alla dall’heghemonicón,
razionalità, finalità e palingenesi, a una la facoltà razionale
necessità nuova conflagrazione
Lo stoicismo capitolo 11 61

LA LOGICA
LA LOGICA STOICA

sostiene che

la conoscenza i concetti i termini del


linguaggio
è costituita da sono

hanno tre si combinano nelle


componenti: proposizioni di
una fase passiva una fase attiva strumenti mentali
segno, oggetto e significato
significato compiuto

dalla cui
i sensi forniscono l’intelletto dà il suo consentono di connessione
le impressioni che assenso alle raggruppare gli derivano
si fissano impressioni individui sulla base
nell’anima come su di caratteristiche i ragionamenti
un foglio bianco comuni
l’intelletto elabora le cinque figure
la rappresentazione fondamentali sono
catalettica dette “anapodittici”

l’intelletto elabora la scienza:


l’impressione cognitiva è accompagnata
da certezza infallibile

L ’ ETICA
L’ETICA STOICA

sostiene che

il male è necessario per far


la libertà umana è possibile la virtù
risaltare il bene

e coincide con

consiste nel dare il proprio il dovere


assenso al piano razionale
divino inteso come

adeguamento delle azioni alla


legge razionale divina che
regge l’universo

la felicità che ne deriva è una


condizione di autosufficienza
accompagnata da apatìa
62 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 11
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Lo stoicismo TEST
Allena la logica

esporre concetti e relazioni (max 5 righe)


1 La nascita e gli sviluppi 6. Qual è la funzione del lógos spermatikós?
dello stoicismo 7. Perché nello stoicismo fato e provvidenza sono
riconoscere le nozioni sinonimi?
1. Inserisci in una mappa le fasi dello stoicismo 8. In che modo l’uomo partecipa del principio
e i nomi dei loro principali esponenti: universale?
Cicerone • Zenone • Media Stoà • Epitteto • Cleante
• Antica Stoà • Marco Aurelio • Crisippo • Nuova scrivere e rielaborare (15-20 righe)
Stoà • Seneca 9. Evidenzia somiglianze e differenze tra la concezione
stoica della divinità e quella di Aristotele.

2 La fisica ad alta voce


riconoscere le nozioni e il significato 10. Chiarisci in 5 minuti la concezione dell’anima
delle parole per gli epicurei e per gli stoici.
2. Gli eventi del mondo accadono:
(segna la risposta esatta)
a liberamente
b secondo la legge che fa aggregare o disaggregare
3 La logica
gli atomi riconoscere le nozioni e il significato
c seguendo un comune principio che lega ogni delle parole
cosa necessariamente 11. La rappresentazione catalettica:
d per la libera volontà divina (segna la risposta esatta)
3. La concezione stoica è panteista perché: a consiste nell’assenso che l’intelletto dà a una
(segna la risposta esatta) sensazione evidente
a il principio divino permea il cosmo b consiste nella sensazione perché questa è l’origine
della verità
b un dio ha creato tutta la realtà
c esprime un’opinione, che potrebbe essere errata
c tutta la realtà è materia
d è una rappresentazione confusa, che deve essere
d dio è separato dal mondo, ma governa ogni cosa
chiarita da una sensazione
4. Con heghemonicón gli stoici intendono: 12. Il significato di un termine si identifica con:
(segna la risposta esatta)
(segna la risposta esatta)
a il principio vitale di tutti i viventi
a l’oggetto concreto a cui il termine rimanda
b il principio attivo del cosmo
b il suono della parola
c il principio razionale dell’uomo
c la rappresentazione mentale che il termine suscita
d la razionalità universale
d l’assenso dato alla sensazione corrispondente
5. “Il cosmo è soggetto a palingenesi” significa che: 13. Come viene chiamato il ragionamento
(segna la risposta esatta)
sottostante? (segna la risposta esatta)
a tutto segue la necessità del lógos spermatikós
“Se la stilografica scrive, allora la cartuccia contiene
b il cosmo compie un unico ciclo e poi ritornerà inchiostro. La cartuccia non contiene inchiostro.
al caos primitivo Dunque, la stilografica non scrive”.
c dopo la conflagrazione universale permarrà
a modus ponens c sillogismo
soltanto il lógos spermatikós
b disgiunzione esclusiva d modus tollens
d il cosmo segue cicli infiniti di distruzione
e rinascita
Lo stoicismo capitolo 11 63

esporre concetti e relazioni (max 5 righe) 22. L’individuo raggiuge l’apatìa quando:
14. Perché la sensazione è necessaria ma non (segna la risposta esatta)
sufficiente come criterio di verità? a è indifferente a qualsiasi cosa e privo di forza di
volontà
15. Qual è la natura dei concetti? b domina gli eccessi degli impulsi naturali, grazie
16. Che cosa sono gli anapodittici? alla guida della ragione
c è indifferente al dovere, perché comunque tutto
scrivere e rielaborare (15-20 righe) accade secondo il piano divino
17. Spiega la relazione tra segno, oggetto e significato. d negando le passioni, rende impossibile realizzare
la felicità
ad alta voce
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
18. Spiega in 5 minuti la differenza tra
l’impostazione stoica e quella aristotelica 23. Che cos’è il dovere?
in relazione al ragionamento. 24. Quale ruolo occupano i valori nell’etica stoica?
25. Perché i principi seguiti dal saggio stoico sono
superiori alle leggi di una singola città?
4 L ’ etica scrivere e rielaborare (15-20 righe)
riconoscere le nozioni e il significato 26. Individua e descrivi le caratteristiche del saggio
delle parole stoico.
19. Per gli stoici la virtù è sapere perché: ad alta voce
(segna la risposta esatta)
a colui che sa conosce il piano provvidenziale e vi
27. Esponi e commenta in 5 minuti, in relazione al
aderisce con l’assenso
problema della libertà, la similitudine riportata
da Cleante del cane legato al carro.
b colui che non sa infrange l’ordine del cosmo e
introduce così il male
c colui che conosce il piano cosmico può evitare ciò
che di negativo questo prevede
d colui che non sa non può evitare i momenti 5 Lo stoicismo di epoca romana
dolorosi che il lógos prevede riconoscere le nozioni
20. Indica qual è la relazione tra dovere e felicità 28. Nella riflessione di Epittèto, la libertà dipende
nell’etica stoica: (segna la risposta esatta) dalla: (segna la risposta esatta)
a il dovere è opposto alla felicità, perché questa a condizione di cittadino romano
consiste nello scegliere tra diverse possibilità b benevolenza dell’imperatore
b la felicità è godimento individuale, il dovere c rettitudine morale
invece è rinuncia, quindi sono opposti
d ricchezza, che permette di affrancarsi
c felicità e dovere coincidono perché il bene
secondo l’ordine cosmico è il piacere 29. Nel periodo che va da Traiano a Marco Aurelio,
d felicità e dovere coincidono nella scelta di l’azione di governo degli imperatori sembra
adeguarsi al piano provvidenziale incarnare: (segna la risposta esatta)
a un principio di potenza ed espansione
21. L’impulso diventa passione quando:
(segna la risposta esatta) b l’idea dell’ordine razionale
c il disinteresse verso la politica, per privilegiare
a ci dà l’entusiasmo per vivere pienamente secondo
ragione la filosofia
d il conflitto tra filosofia e politica
b ci spinge a prenderci cura della nostra
sopravvivenza e a cercare la felicità esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
c non lo subiamo passivamente, ma lo guidiamo
attivamente per vivere secondo natura
30. Qual è il nesso tra politica e filosofia per Cicerone?
d eccede la giusta misura, sfuggendo al controllo 31. Perché Seneca sceglie il suicidio e come viene
della ragione giustificato?
64 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 12 Lo scetticismo

Gli scettici procedevano rovesciando tutti i princìpi delle varie
sette, essi per conto loro senza dimostrare niente dogmatica-
mente. Eliminavano lo stesso definire affermando «nulla noi de-
finiamo», per evitare di dare con ciò una definizione.
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 74)

1 Le origini dello scetticismo


Pirrone
Nel nono libro delle Vite dei filosofi, Diogene Laerzio racconta di un filosofo che non aveva
nessuna fiducia nella conoscenza derivata dai sensi e andava in giro senza guardarsi attor-
no, rischiando a più riprese di finire investito da un carro o di cadere in un precipizio. Il
filosofo in questione è Pirrone di Èlide, nato intorno al 365 a.C. e vissuto quasi cento anni,
a dispetto della diceria riportata da Diogene. Sebbene in tutta evidenza esagerato e carica-
turale, il racconto di Diogene rimanda a un aspetto cruciale della dottrina di Pirrone: la
sfiducia nel valore della conoscenza fornitaci dai sensi. Per Pirrone la realtà è per sua na-
tura sfuggente, instabile, indeterminata, e quindi essenzialmente inconoscibile; dunque le
sensazioni che ci dovrebbero mettere in contatto con essa non sono né vere né false, e la
stessa condizione di indeterminatezza affligge le opinioni che derivano dalle sensazioni.
Il saggio deve pertanto fare in modo di non avere opinioni, e non deve esprimersi su nul-
la, fino a raggiungere uno stato di afasìa, che si può intendere come rifiuto del linguaggio
e quindi come totale silenzio, oppure come ricerca di un nuovo linguaggio che non esprima
opinioni ma soltanto dubbi (Pirrone suggerisce a tal proposito l’uso sistematico di frasi ne-
❯ testo 1 p. 74 gative, che contengano l’avverbio greco ou, che corrisponde all’italiano “non”).

lessico afasìa (dal greco aphasía, composto da a-, “senza”, e phásis, “parola”) il rifiuto del linguaggio, tipico
filosofico del saggio scettico, che deriva dalla convinzione secondo cui qualsiasi conoscenza è inaffidabile.
Lo scetticismo capitolo 12 65

A partire dall’afasia, che implica un certo distacco emotivo dalle situazioni, sulle qua-
li ci si rifiuta di prendere posizione, è possibile raggiungere uno stato di assoluta indiffe-
renza e imperturbabilità di fronte a qualsiasi accadimento – uno stato che prende il
nome di atarassìa e che per Pirrone coincide con la felicità e con la saggezza. Pirrone
aveva partecipato alle spedizioni in Oriente di Alessandro Magno, ed è probabile che la
sua concezione dell’atarassia sia stata favorita dall’incontro con la cultura indiana – in
particolare con l’indifferenza al dolore e la capacità di sopportazione esibite dai fachiri e
dai gimnosofisti (dal greco ghynmnosophistái, “sapienti nudi”, ossia saggi che vivevano in
condizioni di estrema austerità, rinunciando perfino a vestirsi e nutrendosi con il mini-
mo indispensabile).
Coerentemente con la sua concezione dell’afasia e dell’atarassia come apici della ricer-
ca, Pirrone non scrive nessuna opera filosofica. La dottrina pirroniana è tuttavia esposta
dal suo allievo Timone di Fliunte in un’opera intitolata Sílloi di cui rimangono soltanto
pochi frammenti.

La peculiarità dello scetticismo


A partire dal I secolo a.C. la dottrina di Pirrone e Timone sarà classificata come una for-
ma di scetticismo, un termine che indica l’impossibilità di raggiungere una conoscenza
oggettiva. Nella prospettiva scettica, l’indagine è fine a sé stessa, e non può condurre
al sapere; al più, come nella dottrina di Pirrone, può condurre a una saggezza basata
sulla consapevolezza dell’impossibilità di sapere. Mentre per Socrate il “sapere di non
sapere” era il punto di partenza della ricerca filosofica, per Pirrone diviene il punto di
arrivo.
Lo scetticismo pirroniano condivide con le due maggiori scuole dell’età ellenistica –
l’epicureismo e lo stoicismo – la convinzione che lo scopo ultimo della filosofia sia
la ricerca della felicità. Tuttavia epicureismo e stoicismo ritengono che la teoria che
verte sulla felicità, ovvero l’etica, sia il punto di arrivo di una riflessione sistematica che
comprende preliminarmente una teoria della natura (fisica) e una teoria della conoscen-
za (logica). Invece per lo scetticismo la teoria della conoscenza giunge alla conclusione
che la conoscenza è impossibile, dunque nulla si può dire quanto alla teoria della na-
tura, mentre la teoria della felicità si risolve nell’indicazione di quale sia l’atteggiamento
più appropriato da tenere dopo aver preso consapevolezza che la conoscenza è impossi-
bile. Insomma, nello scetticismo la logica si limita a dimostrare che «è nella nostra natura
non poter conoscere nulla», per cui la fisica non ha più ragion d’essere e l’etica si riduce a
un atteggiamento di totale indifferenza a qualsiasi accadimento.

FARE per CAPIRE • Sottolinea con colori diversi le concezioni degli epicurei e degli stoici, da un lato, e quelle
degli scettici, dall’altro, in relazione al rapporto tra teoria della conoscenza, fisica ed etica.

atarassìa (dal greco ataraxía, composto da a-, scetticismo (dal greco sképsis, che significa lessico
“senza”, e táraxis, “confusione”, “turbamento”) “indagine”, “ricerca”, ma anche “incertezza”, “dub- filosofico
l’assenza di turbamento e la pace dell’anima do- bio”) l’orientamento filosofico secondo cui non è
vute all’assoluta indifferenza dello scettico di fron- possibile ottenere una conoscenza oggettiva e per-
te a qualunque avvenimento. tanto l’indagine non può mai giungere a superare
l’incertezza e il dubbio.
66 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

2 Lo scetticismo accademico
ARCESILAO
La svolta scettica dell ’Accademia di Atene
Nel III secolo a.C. – e ancora agli inizi del II – i filosofi dell’Accademia di Atene si dedica-
no principalmente allo studio e all’insegnamento delle dottrine del fondatore della scuo-
la, Platone. Quando però, verso il 265 a.C., la direzione della scuola (o “scolarcato”) passa
nelle mani di Arcesilao di Pìtane, l’Accademia inizia a sviluppare una forma originale di
scetticismo. I fondamenti dello “scetticismo accademico” si trovano già nella filosofia
platonica, a ben vedere: Platone riteneva che il mondo sensibile fosse sfuggente, ingan-
nevole, e in ultima analisi inconoscibile, e concludeva che vi potesse essere conoscenza
genuina soltanto del mondo intelligibile, cioè delle idee. Arcesilao condivide la premessa
di Platone sull’inconoscibilità del mondo sensibile, ma si rifiuta di ipotizzare un mondo
intelligibile situato al di là del mondo sensibile: dunque, dall’inconoscibilità del mondo
sensibile per Arcesilao segue l’impossibilità di qualsiasi conoscenza, cioè lo scetticismo.
Lo scetticismo di Arcesilao è ancora più radicale di quello di Pirrone e Timone. Costo-
ro ritenevano che, nonostante l’inaffidabilità dei sensi, si potesse comunque giungere
alla consapevolezza del carattere instabile della realtà e della conseguente indetermina-
tezza della conoscenza, e che se ne potessero trarre indicazioni di carattere etico che
portavano alla felicità e alla saggezza. Per Arcesilao invece nessuna conoscenza è pos-
sibile, in assoluto, e quindi nemmeno il “sapere di non sapere” che per Socrate era il
punto di partenza della ricerca filosofica e per Pirrone e Timone il punto di arrivo.
Coerentemente con questo assunto, Arcesilao si rifiuta non soltanto di scrivere opere
filosofiche, ma perfino di proporre tesi filosofiche proprie. Egli si limita a discutere le tesi
degli altri filosofi mediante la dialettica, intesa come tecnica di argomentazione che si
pone al tempo stesso a favore e contro una certa tesi, mostrando che non vi sono argo-
menti decisivi per accettarla o rifiutarla. Mediante la dialettica Arcesilao fa vedere dun-
que che l’unico atteggiamento ragionevole è l’epoché, la sospensione del giudizio, cioè
il rifiuto di prendere posizione da parte del filosofo scettico, in base alla convinzione che
non sia possibile raggiungere alcuna conoscenza. La pratica sistematica dell’epoché è an-
che l’unico modo per garantire l’infallibilità che per definizione caratterizza il saggio:
non esprimendo nessuna opinione, il saggio scettico ha la certezza di non sbagliare mai,
ossia di essere infallibile come si richiede a un vero saggio.

La polemica contro i dogmatici


L’obiettivo polemico di Arcesilao sono coloro che egli chiama “dogmatici” (dal greco dógma,
“dottrina”), cioè i filosofi che sono convinti di poter raggiungere, mediante la ricerca, cono-
scenze genuine, a partire dalle quali si possono sostenere tesi ed edificare sistemi e dottrine.

lessico epoché (dal greco epécho, “trattengo”) la sospensione del giudizio tipica degli scettici, i quali, in as-
filosofico senza della possibilità di raggiungere una conoscenza certa, invitano a non esprimere opinioni.
Lo scetticismo capitolo 12 67

Il principale bersaglio delle critiche di Arcesilao è lo stoicismo, e in particolare la conce- FARE per CAPIRE
zione stoica del criterio di verità. Arcesilao nega che vi siano conoscenze infallibili: se
• Sottolinea con
infatti è vero – come gli stoici stessi ammettono – che tutte le conoscenze derivano dai colori differenti
sensi, è anche innegabile che questi sono per loro natura fallibili e pertanto non possono i passaggi in cui
offrire nessun criterio di verità. emerge la diversità
di Arcesilao
Per Arcesilao occorre rimpiazzare il criterio di verità con un criterio di ragionevolezza, rispettivamente da
che non ambisce a stabilire che cosa sia vero in assoluto, ma soltanto che cosa, in una Platone e da
Pirrone e Timone.
certa situazione, sia appunto ragionevole credere. La scelta del saggio deve dunque cadere • Evidenzia nel
su quella credenza che in una certa circostanza meglio si presta a essere difesa in modo testo la definizio-
ragionevole, soprattutto in base alle esigenze della vita pratica. ne del criterio di
ragionevolezza.

CARNEADE
Dalla ragionevolezza alla persuasività
L’insegnamento di Arcesilao viene sviluppato dai filosofi che gli succedono alla direzio-
ne dell’Accademia; tra questi spicca Carneade di Cirene, il cui scolarcato inizia intorno al
167 a.C. (❯ Per approfondire). Carneade si propone di difendere lo scetticismo di Arcesilao
dalle obiezioni che gli erano state mosse dagli stoici. Contro la difesa stoica del criterio di
verità, Carneade si richiama al caso dei sogni e delle allucinazioni: quando sogniamo im-
mersi in un sonno profondo, oppure abbiamo un’allucinazione, crediamo di sapere come
stanno le cose, e non siamo in grado di riconoscere che ci stiamo sbagliando. D’altra parte,
potremmo trovarci nello stesso stato ingannevole in qualsiasi occasione in cui siamo con-
vinti di conoscere con assoluta certezza: l’esperienza, di per sé, non ci permette di discrimi-
nare tra lo stato di veglia e lo stato di sogno o di allucinazione; dunque non è possibile avere
conoscenze del tutto infallibili, né vi è un criterio di verità che permetta di individuarle.

Carneade, un illustre “sconosciuto”


arneade! Chi era costui? – ruminava tra sé don ppure Carneade sconosciuto non era, di sicuro non ai
«C Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza
del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti,
E suoi tempi, ma nemmeno in quelli di don Abbondio
(prima metà del Seicento), del quale infatti Manzoni, nel
quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata. – Carnea- passaggio citato, intende mettere in luce l’ignoranza.
de! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; do- D’altra parte, l’ignoranza di don Abbondio non gli impe-
veva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo disce di parlare di Carneade. In tal senso, questo brano dei
antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?». Promessi sposi evidenzia un aspetto importante del fun-
on questo celebre brano, che apre l’ottavo capitolo dei zionamento del linguaggio: si può usare un nome proprio
C Promessi sposi, Manzoni ha reso Carneade uno dei filo-
sofi più citati. Lo ha reso famoso, ma per una ragione para-
pur ignorando chi sia il suo portatore. È la tesi che sarà
sostenuta dal filosofo americano Saul Kripke nel suo libro
dossale: famoso per non essere famoso. Mediante la figu- Nome e necessità (1970): i nomi propri funzionano indi-
ra retorica dell’antonomàsia (che consiste nel trasformare pendentemente dalle informazioni possedute da chi li
un nome proprio in un nome comune, cioè un soggetto in un usa; sono come frecce che raggiungono sempre il loro ber-
predicato), “carneade” si è imposto come termine che desi- saglio anche se sono scagliate alla cieca. Quando don Ab-
gna chi non è riuscito a raggiungere la celebrità. Quando di bondio esclama «Carneade! Chi era costui?», sta comun-
un artista o di un politico si dice che è un “carneade”, lo si que parlando del grande filosofo scettico, pur ignorando
sta etichettando come un illustre sconosciuto. che fosse un grande filosofo e che fosse scettico.
68 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Per queste ragioni, Carneade concorda con Arcesilao sulla necessità di abbandonare il
criterio di verità, ma propone di rimpiazzarlo non con un criterio di ragionevolezza –
come proponeva Arcesilao – bensì con un criterio di persuasività. La posizione che è
opportuno scegliere, in assenza di un criterio di verità, è quella che ci appare più convin-
cente, più persuasiva. Carneade fornisce tre indicatori che contribuiscono a individuare
le rappresentazioni persuasive:
1. l’evidenza: una rappresentazione che mostra chiaramente l’oggetto risulta più
persuasiva di una che lo mostra confusamente; ad esempio, la visione di un ogget-
to in piena luce fornisce una rappresentazione più persuasiva della visione dello
stesso oggetto in penombra;
2. la non contraddittorietà: una rappresentazione che non ne contraddice altre risul-
ta più persuasiva di una che le contraddice; ad esempio, vedere un gatto che inse-
gue un topo è più persuasivo che vedere un topo che insegue un gatto;
3. l’esaminabilità: una rappresentazione i cui oggetti sono esaminabili è più per-
suasiva di una i cui oggetti non lo sono; ad esempio, la visione di un oggetto che
possiamo anche toccare è più persuasiva della visione di un oggetto che possiamo
soltanto vedere.

FARE per CAPIRE • Sottolinea con colori diversi affinità e differenze tra Arcesilao e Carneade.

Da Atene a Roma
A Carneade si deve anche l’ingresso dello scetticismo nella cultura romana. Nel 156
a.C., egli è inviato a Roma come ambasciatore di Atene, insieme allo stoico Diogene e
all’aristotelico Critolao, per ottenere il condono di una multa inflitta alla città per aver
saccheggiato Oropo, nell’Attica. È il primo autentico contatto di Roma con la filosofia gre-
ca, una decina di anni dopo la conquista romana della Macedonia avvenuta nel 168 a.C.
Il passaggio di Carneade a Roma lascia il segno. Il primo giorno di visita, Carneade
tiene un discorso appassionante in cui sostiene che la giustizia è una forma di saggezza,
ed elogia la giustizia praticata dai Romani, suscitando grande ammirazione da parte dei
numerosi uditori, tra i quali vi sono eminenti politici ma anche molti giovani. Nei giorni
successivi, tuttavia, applicando il metodo dialettico messo a punto da Arcesilao, Carnea-
de tiene un altro discorso in cui dimostra in maniera altrettanto convincente che la giu-
stizia e la saggezza sono incompatibili. In particolare, egli spiega che se i Romani voles-
sero essere davvero giusti dovrebbero restituire ai popoli sottomessi tutti i loro beni, ma
così facendo non si rivelerebbero niente affatto saggi. Tra gli uditori, Catone il Censore,
uno degli uomini politici più influenti dell’epoca, reagisce con veemenza a questa provo-
cazione, e chiede al senato l’espulsione di Carneade da Roma considerando il suo inse-
gnamento diseducativo e nocivo per i giovani.
Nonostante questo incidente diplomatico, nei decenni successivi la filosofia scettica si
diffonde progressivamente nella cultura romana. Non si tratta però dello scetticismo ra-
dicale propugnato da Carneade: lo scetticismo si afferma a Roma non tanto come una
critica delle teorie dogmatiche della conoscenza, quanto piuttosto come una forma di
saggezza che antepone la vita pratica alle speculazioni teoriche. In tal senso, lo scettici-
smo di ambito romano non rinuncia a combinarsi con aspetti propositivi di altre dottrine,
ESERCIZI in particolare lo stoicismo.
Lo scetticismo capitolo 12 69

3 Lo scetticismo neopirroniano
Nel periodo che va dal I secolo a.C. al II secolo d.C., l’indirizzo scettico attraversa una fase
di declino all’interno dell’Accademia, ma lo scetticismo trova nuova linfa per iniziativa di
alcuni filosofi – in particolare Enesidemo, Agrippa e Sesto Empirico – che agiscono al di
fuori delle scuole costituite e si richiamano all’insegnamento originario di Pirrone.

Enesidemo e Agrippa
Enesidemo di Cnosso, vissuto nel I secolo a.C., insegna ad Alessandria e scrive un’opera
in otto libri intitolata Discorsi pirroniani, che è andata perduta e che conosciamo soltanto
mediante testimonianze di epoca successiva, in particolare quelle di Sesto Empirico. Fra i
principali contributi di Enesidemo vi è l’elencazione di una serie di “modi” o tropi: stru-
menti di argomentazione che, presentando situazioni contraddittorie o controverse, con-
sentono allo scettico di mettere in crisi le tesi dogmatiche al fine di mostrare che non vi è
un criterio di verità e che quindi occorre sospendere il giudizio.
Nell’esporre i tropi, Enesidemo si sofferma in particolare sulle differenze tra i siste-
mi percettivi di esseri umani con diverse caratteristiche fisiche, e sulle differenze tra i sistemi
percettivi di animali appartenenti a specie diverse: «È probabile che quegli animali (come
le capre o i gatti) che hanno pupille oblique e allungate vedano gli oggetti in maniera dif-
ferente dagli animali con pupille rotonde». Queste differenze secondo Enesidemo rivelano
che non c’è una verità oggettiva, ma soltanto una pluralità di punti di vista soggettivi.
Agrippa, che vive all’incirca negli stessi anni di Enesidemo, fornisce ulteriori stru-
menti argomentativi che permettono di minare alle fondamenta gli edifici teorici dei fi-
losofi dogmatici. In particolare, Agrippa mette in luce due tropi che derivano dall’analisi
delle forme logiche del ragionamento.
1. In primo luogo, il regresso all’infinito, per cui un ragionamento richiede delle
premesse, che a loro volta per essere dimostrate richiedono delle premesse, e così
via all’infinito; l’unica via di uscita per Agrippa è l’atteggiamento scettico di so-
spensione del giudizio.
2. In secondo luogo, il circolo vizioso, per cui una certa dimostrazione giunge a una
conclusione C utilizzando una premessa P che però, per essere dimostrata, neces-
sita di C stessa come sua premessa. In questo caso non si produce nessuna cono-
scenza perché per avere certezza di C occorre avere la certezza di P, ma la certezza
di P si può avere soltanto a condizione di avere già la certezza di C.

Sesto Empirico
Sesto Empirico, medico e filosofo vissuto verso la fine del II secolo d.C., porta a com-
pimento il lavoro iniziato da Enesidemo e Agrippa due secoli prima. Le principali ope-
re filosofiche di Sesto, che ci sono pervenute integralmente, sono gli Schizzi pirroniani,

tropi (dal greco trópos, “modo”) nel pensiero scettico, sono gli argomenti per dimostrare che non vi lessico
è nessun criterio o fondamento per la verità; pertanto le tesi dei dogmatici non sono sostenibili ed è filosofico
necessario sospendere il giudizio.
70 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

in tre libri, e Contro i dogmatici (noto anche come Contro i matematici), in undici libri,
entrambe scritte in greco. Sesto concepisce la sua filosofia come uno sviluppo e un
compimento dello scetticismo originario di Pirrone. Questo ritorno alle origini dello
scetticismo è per Sesto innanzitutto un ritorno al significato primigenio della parola
sképsis: “indagine”, “ricerca”. In tal senso Sesto distingue nettamente il suo scetticismo
da quello degli accademici:


Sui temi principali della filosofia, alcuni dichiarano di aver scoperto la verità, altri dichiarano
che la verità non può essere raggiunta, altri non dichiarano nulla e continuano a cercare.
Coloro che credono di aver scoperto la verità sono noti come “dogmatici”, ad esempio i
seguaci di Aristotele ed Epicuro, oppure gli stoici ed altri filosofi; mentre i seguaci di […]
Carneade, e gli altri accademici, hanno dichiarato che la verità è inconoscibile; invece gli
scettici continuano nella ricerca. Dunque pare ragionevole concludere che vi sono tre prin-
cipali tipi di filosofia: quella dogmatica, quella accademica, e quella scettica.
(Schizzi pirroniani, I.1-4)

Nella versione di Sesto Empirico, lo scetticismo non è l’affermazione perentoria che


la conoscenza è impossibile e la ricerca è vana: per lui il vero scetticismo richiede una
ricerca continua che mostri l’impossibilità della conoscenza e la necessità della sospen-
sione del giudizio non una volta per tutte – come pretendono di fare gli accademici –
bensì caso per caso. Soltanto questo lavoro instancabile di ricerca orientata alla so-
spensione del giudizio può condurre alla saggezza e alla felicità.
In tal senso Sesto paragona il filosofo scettico al pittore Apelle, che, intento a dipin-
gere un cavallo, cercava invano di raffigurarne lo schiumare; in un gesto di sconforto,
Apelle «lancia contro la tela la spugna che usava per pulire i pennelli, e inaspettata-
mente le tracce della spugna producono esattamente sulla tela l’effetto dello schiumare
del cavallo» (Schizzi pirroniani, I.28-29). Per Sesto la ricerca della verità su una certa
questione corrisponde al tentativo di Apelle di dipingere lo schiumare del cavallo, e il
gesto del gettare la spugna corrisponde alla sospensione del giudizio. L’esito finale per

❯ Parete con paesaggio


e architetture
illusionistiche, in cui
si finge l’esistenza
di edifici non reali,
camera da letto della
Villa di P. Fannius
Sinistor a Boscoreale,
ca. 50-40 a.C.
Lo scetticismo capitolo 12 71

il filosofo scettico non è però l’esatta raffigurazione, come nel caso del pittore, bensì
uno stato gratificante di atarassia: una completa serenità d’animo, derivante dal rag-
giungimento della consapevolezza che non è possibile una risposta definitiva alla que-
stione che si stava indagando. L’atarassia segue la sospensione del giudizio «come
l’ombra segue il corpo» (Schizzi pirroniani, I.28-29). Per Sesto la fallacia dei dogmatici
consiste nel voler usare le apparenze per ricavare pensieri (noúmena) che afferrino delle
verità; occorre invece fermarsi alle apparenze (phainómena), limitandosi a descriverle,
«come un cronista descrive gli avvenimenti ai quali assiste» (Schizzi pirroniani, I.4). Le
apparenze non sono dunque ingannevoli, anzi, sono l’unica realtà non ingannevole di
cui disponiamo; esse diventano ingannevoli soltanto se si pretende di usarle per rica-
varne pensieri che ambiscono alla verità e alla conoscenza. ❯ testo 2 p. 75
Sulla distinzione tra apparenza e pensiero si basa la critica di Sesto alla nozione
di causalità. Riprendendo un tropo di Enesidemo, Sesto sostiene che non abbiamo
nessuna ragione fondata per trattare le apparenze come effetti di cause le quali, senza
apparire esse stesse, si manifesterebbero mediante le apparenze: è infondata la pretesa
di passare da ciò che è evidente a ciò che non lo è. L’apparenza per Sesto non è null’al-
tro che apparenza; trattarla come effetto che ci permetterebbe di risalire alla sua causa
è un atteggiamento dogmatico di cui non è possibile fornire nessuna giustificazione
convincente. ESERCIZI

FARE per CAPIRE • Sintetizza in uno schema le tesi di dogmatici, accademici e scettici sulla verità.

LA CONCEZIONE DELLA FELICITÀ NELLE FILOSOFIE ELLENISTICHE IDEE A


CONFRONTO
EPICUREI STOICI SCETTICI

APONÌA (ASSENZA DI DOLORE APATIA ATARASSIA


FISICO) E ATARASSIA (ASSENZA DI (ASSENZA DI PASSIONI) (ASSENZA DI TURBAMENTO)
TURBAMENTO NELL’ANIMA)

si ottiene attraverso la si ottiene attraverso l’esercizio si ottiene attraverso l’epoché,


filosofia, in grado di liberare della virtù e del dovere, (la sospensione di ogni
gli uomini dai timori il quale consiste nel vivere giudizio) e l’afasìa (il rifiuto
fondamentali, e comporta in armonia con il corso degli del linguaggio) conseguenti
un’attenta valutazione dei eventi prestabilito dalla legge al raggiungimento della
desideri e dei piaceri razionale universale consapevolezza che non è
possibile una conoscenza
infallibile
72

filosofia & SCIENZA


Matematica, astronomia
e medicina nell’età ellenistica

a critica scettica della nozione di conoscenza ha luogo proprio nei secoli in cui la
L scienza compie enormi progressi. Decisivo è in tal senso il ruolo svolto dal Museo
di Alessandria, un centro di ricerca che comprende – oltre a una sterminata biblioteca –
un osservatorio astronomico, un giardino zoologico, un orto botanico e alcune sale
anatomiche. Ad Alessandria compiono le loro ricerche i principali scienziati di epoca
ellenistica e romana, tra i quali i matematici Euclide e Archimede, gli astronomi
Ipparco, Claudio Tolomeo e Ipazia, i medici Erofilo, Erasistrato e Galeno.

LA MATEMATICA: EUCLIDE E ARCHIMEDE Su venzioni militari, egli era e si considerava innan-


Euclide, attivo ad Alessandria intorno al 300 zitutto un matematico; tra le sue principali sco-
a.C., abbiamo scarne informazioni biografiche, perte annoverava quelle sulle aree e sui volumi,
ma ci è giunta integralmente la sua opera princi- in particolare la scoperta che una sfera ha un vo-
pale, che si intitola Elementi e consta di tredici lume pari ai due terzi del volume del cilindro a
libri. Sintesi e apice della matematica greca, gli essa circoscritto. D’altra parte, l’originalità di Ar-
Elementi ci offrono un’applicazione esemplare chimede sta proprio nella sua capacità di applica-
del metodo assiomatico, in base al quale la co- re la matematica a una varietà di campi, antici-
noscenza matematica consiste nel partire da al- pando il modo di procedere della scienza e della
cuni principi indimostrabili, intuitivi ed evidenti, tecnica in epoca moderna. In tal senso, si devono
che prendono il nome di assiomi, per ricavare, ad Archimede importanti contributi nei domini
mediante ragionamenti, conclusioni che prendo- della fisica, dell’astronomia e dell’ingegneria;
no il nome di teoremi. Nel caso della geometria, tra le invenzioni che gli vengono attribuite, vi
Euclide dimostra una varietà di teoremi a partire sono un planetario meccanico capace di mostrare
da cinque soli assiomi; analogamente, egli co- il movimento degli astri e una macchina, detta
struisce una varietà di nozioni geometriche me- “vite di Archimede” o coclea, che permette di
diante l’uso esclusivo di riga e compasso, a parti- sollevare pesi o drenare l’acqua. Nell’ambito degli
re dalle nozioni elementari di punto, linea e studi compiuti sui fluidi, Archimede arriva a for-
superficie. Più in generale, l’opera di Euclide co- mulare un principio che ancora oggi porta il suo
stituisce un paradigma metodologico che se- nome, secondo cui un corpo immerso in un flui-
gnerà l’intera storia della matematica. do riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al
Un altro protagonista della matematica di epoca peso del volume di fluido spostato. Il ruolo fon-
ellenistica è Archimede, nato intorno al 287 a.C. damentale di Archimede nel progresso ingegne-
a Siracusa, dove fa ritorno dopo gli studi che – ristico sarà esplicitamente riconosciuto in due dei
secondo varie fonti – hanno avuto luogo princi- principali testi antichi sulla tecnica: il De archi-
palmente ad Alessandria. Durante le guerre pu- tectura di Vitruvio (I secolo a.C.) e il Mechanica
niche, Siracusa, alleata con Cartagine, subisce di Erone di Alessandria (I secolo d.C.).
l’assedio dell’esercito romano. Archimede, con le
sue straordinarie invenzioni tecnologiche, tra le L’ASTRONOMIA: IPPARCO, TOLOMEO E IPAZIA
quali spiccano catapulte e artigli metallici, contri- L’astronomia di epoca ellenistica e romana svilup-
buisce alla difesa della sua città, che però alla fine pa la tesi geocentrica già difesa da Aristotele, se-
è costretta alla resa, e lo stesso Archimede è as- condo cui la Terra è il centro dell’universo. I contri-
sassinato da un soldato romano. Sebbene la fama buti fondamentali in tale direzione vengono da
di Archimede sia dovuta soprattutto alle sue in- Ipparco, vissuto ad Alessandria nel II secolo a.C., e
73

da Claudio Tolomeo, vissuto anch’egli ad Alessan- randola dagli elementi magici o religiosi – che at-
dria, ma oltre trecento anni dopo, nel II secolo d.C. tribuivano le malattie ad agenti soprannaturali – e
Per tenere conto delle osservazioni sul moto dei fondandola sullo studio dell’anatomia e della fi-
pianeti discordanti rispetto al modello geocen- siologia, sull’esame degli elementi patogeni na-
trico di Aristotele, Ipparco e Tolomeo ricorrono turali e dei sintomi osservabili. Alle opere origi-
all’ingegnosa ipotesi degli epicicli, per cui i vari nali di Ippocrate, si affianca nel corso del tempo
astri si muovono lungo dei cerchi il cui centro ruo- una grande quantità di commenti; il tutto va a
ta intorno alla Terra. Nel suo capolavoro, intitolato formare un sistema di testi che prende il nome di
Almagesto, Tolomeo difende magistralmente la Corpus Hippocraticum.
teoria geocentrica, che da lui prenderà il nome di
Al centro della dottrina medica ippocratica vi è la
“modello tolemaico”. Ai giorni nostri, il modello
teoria che interpreta la malattia come l’effetto di
tolemaico è notoriamente considerato un caso
una disarmonia; obiettivo della terapia è dunque
esemplare di teoria scientifica che è stata abban-
stimolare la forza naturale che è insita nell’organi-
donata in favore di una teoria migliore, quella elio-
smo e che risulta in grado di ripristinare l’equili-
centrica introdotta da Copernico nel XVI secolo,
brio originario. Commentando la teoria di Ippo-
per cui è la Terra a girare intorno al Sole. Ciò non
crate, Galeno parla a tal proposito di vis medicatrix
toglie che il modello tolemaico resti una teoria
naturae (“forza curatrice naturale”).
scientifica a tutti gli effetti, anzi, un esempio ge-
niale di teoria scientifica, con un sofisticatissimo L’apice della ricerca medica è raggiunto in epoca
apparato geometrico che permetteva di prevedere romana per merito di Galeno, che nasce a Perga-
efficacemente il movimento degli astri. Il sistema mo nel 129 d.C., studia ad Alessandria verso la
tolemaico è stato peraltro oggetto di sviluppi e metà del secolo, dove si avvale sia del Corpus
raffinamenti, in epoca antica, anche dopo la mor- Hippocraticum sia delle ricerche anatomiche ba-
te dello scienziato che gli ha dato il nome. sate sulla dissezione dei cadaveri, e quindi giun-
ge a Roma. Qui esercita la professione medica
Una figura chiave in tal senso è Ipazia, figlia
per vari decenni, fino alla morte avvenuta intor-
dell’astronomo Teone, vissuta ad Alessandria tra il
no al 200, ed è medico di corte degli imperatori
IV e il V secolo d.C., della cui eccezionale attività
Marco Aurelio, Lucio Vero, Commodo e Settimio
scientifica e filosofica ci sono giunte informazioni
Severo. Tra i suoi numerosi scritti, in cui spesso la
mediante gli scritti del suo allievo Sinesio. Da lui
medicina si intreccia con questioni filosofiche,
sappiamo che Ipazia insegnò filosofia e astrono-
ricordiamo Sulla dimostrazione, L’arte medica e
mia nel Museo e si impose come figura di spicco
Le mie opinioni. In queste opere si coglie l’impor-
della scuola neoplatonica di Alessandria. Truci-
tanza di due dimensioni complementari: da un
data da un gruppo di fanatici cristiani, è diventata
lato l’anatomia, concepita come base di tutto l’e-
il simbolo della libertà della ricerca scientifica
dificio del sapere medico, dall’altro il procedi-
contro ogni forma di oscurantismo. Alla sua figura
mento razionale, indispensabile per interpretare
è ispirato il film Agora (2009), e al suo nome ren-
in maniera coerente i sintomi dei pazienti.
de omaggio la rivista internazionale “Hypatia: A
Journal of Feminist Philosophy”, fondata nel 1986.

LA MEDICINA: IL CORPUS HIPPOCRATICUM E


GALENO La medicina di epoca ellenistica e ro-
mana sviluppa l’opera pionieristica di Ippocrate,
che per primo, tra il V e il IV secolo a.C., aveva
conferito statuto scientifico alla disciplina, libe-
74 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

TESTI del capitolo 12


Lo scetticismo

t1 La pratica dell’afasìa da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi


Il testo proposto permette di cogliere il tipico atteggiamento dei filosofi scettici, i quali ritenevano che
non fosse possibile ottenere un sapere oggettivo e certo. Di conseguenza, praticavano l’afasìa, cioè
evitavano di esporsi con definizioni o teorie preferendo il silenzio o l’espressione del dubbio.

[Il procedimento degli scettici] Gli Scettici procedevano rovesciando tutti i principi delle
varie sette, essi per conto loro senza dimostrare niente dogmaticamente; non facevano che
addurre le definizioni date dagli altri e spiegarle senza mai per loro conto definire niente,
senza neanche definire questo loro assunto. Eliminavano lo stesso definire affermando
5 «nulla noi definiamo», per evitare di dare con ciò una definizione.
[L’equilibrio statico] «Riferiamo – essi dicono – le affermazioni altrui a indicazione della
nostra cautela», e si comportano come se fosse possibile indicare ciò semplicemente accen-
nando con la testa; con l’espressione «nulla noi definiamo» intendono indicare lo stato
d’animo dell’assoluto equilibrio statico.
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 74, in La filosofia dell’ellenismo,
a cura di M. Isnardi Parente, Loescher, Torino 1995, p. 96)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


Individua e sottolinea le espressioni riferibili al campo semantico del definire.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-5 L’autore riferisce come gli scettici evitasse- gli scettici scelgono la strada dell’afasìa, cioè il silenzio:
ro di proporre dottrine autonome, limitandosi a espor- nel brano è simboleggiato dal cenno del capo da loro
re e confutare quelle altrui, in particolare degli stoici e utilizzato, a indicare che le parole non possono essere
degli epicurei (definiti «sette»). Rivelandone la con- impiegate in modo scevro da equivoci. L’equilibrio cui
traddittorietà, essi mostravano come fosse impossibile si fa riferimento indica probabilmente la condizione di
giungere a definizioni o conoscenze certe e assolute. astensione da ogni pronunciamento, in cui non si pro-
righe 6-9 Nella convinzione che non si possa ottene- pende per nessuna alternativa dottrinale o conoscitiva,
re nessuna conoscenza né proporre alcuna definizione, ma si rimane appunto in una sorta di stasi intellettuale.

RIFLETTI
Condividi la posizione scettica secondo cui non è possibile raggiungere la verità sulle cose, oppure pensi
che sia possibile conoscere e penetrare la realtà? Esponi e argomenta il tuo punto di vista.
Lo scetticismo capitolo 12 75

TESTI
t2 La critica al dogmatismo da Sesto Empirico, Schizzi pirroniani
Nel brano seguente, Sesto Empirico spiega come gli scettici rifiutino qualsiasi posizione dogmatica,
intendendo con questa espressione tutte le dottrine filosofiche che pretendono di offrire una
rappresentazione oggettiva della realtà.

[L’assenza di principi dogmatici] Noi diciamo che lo scettico non ha principi dogmatici
non in quel senso della parola «dogma» per cui da alcuni questo si intende come l’aderi-
re a un oggetto qualsiasi (infatti lo scettico assente a quelle affezioni che conseguono
necessariamente alle rappresentazioni: così per esempio, se sente caldo o freddo, non
5 direbbe mai di non sentirli): noi diciamo che non ha principi dogmatici nel senso che si
dà a «dogma» quando si dice che esso è l’assenso a un oggetto di quelli che indagano le
scienze. Il pirroniano non dà il suo assenso ad alcuna cosa che non sia immediatamente
evidente.
[Le affermazioni che lo scettico deve preferire] E per non affermare principi dogmatici,
10 egli deve preferire, intorno alle cose non evidenti, affermazioni scettiche, come «niente
di preferenza» o «nulla definisco» o altre che diremo più oltre. Chi afferma principi dog-
matici, infatti, dà presupposto come esistente ciò intorno a cui professa tali principi;
mentre lo scettico pone tutte queste espressioni come non aventi una realtà oggettiva in
assoluto.
(Sesto Empirico, Schizzi pirroniani,
in La filosofia dell’ellenismo, cit., p. 97)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea nel testo le due accezioni del termine “dogma”.
2. Evidenzia con colori diversi quali sono i presupposti rispettivamente del dogmatico e dello scettico.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-8 L’autore chiarisce il senso della sua critica righe 9-14 Secondo Sesto, di fronte alle cono-
ai principi dogmatici: egli non intende come “dogma- scenze non evidenti lo scettico deve sospendere il
tica” l’adesione all’esperienza immediata, cioè la fidu- suo assenso, evitare di emettere giudizi perentori.
cia nell’apparenza attestata dai sensi (fiducia condivi- Per l’autore, infatti, il rapporto di corrispondenza
sa dallo stesso filosofo pirroniano). Sesto è invece che il dogmatico ammette tra il pensiero e le cose
polemico contro il dogmatismo intellettuale, proprio risulta problematico: posso constatare ciò che attesta-
di coloro che reputano infallibili e certi i pensieri e le no i sensi, ma non posso fare nessun tipo di inferen-
dottrine elaborati a partire dall’esperienza immedia- za al di là di questa esperienza immediata.
ta, i quali non hanno alcuna garanzia di veridicità.

RIFLETTI
Dal brano emerge che, secondo Sesto Empirico, è infondata la pretesa di passare da ciò che è evidente
a ciò che non lo è, ad esempio dall’apparenza immediata all’idea della causa che l’ha prodotta.
L’adesione a questa prospettiva comporta, però, la messa in dubbio della possibilità della scienza.
Che cosa pensi di questa conclusione teorica? Esponi il tuo punto di vista in proposito.
76 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 12
SINTESI Lo scetticismo
AUDIOSINTESI

1 Le origini dello scetticismo


Qual è l’obiettivo dello scetticismo? Obiettivo Che cosa sostiene Pirrone? Pirrone, l’iniziatore
dello scetticismo è, come per l’epicureismo e lo stoi- dello scetticismo, sostiene che né le sensazioni né
cismo, la ricerca della felicità, che consiste nella le opinioni che possono derivare dalle sensazioni
serenità d’animo ottenuta grazie alla consapevolez- possono condurci a conoscenze certe. Di conse-
za che non è possibile una conoscenza infallibile. Il guenza, il saggio persegue uno stato di afasìa, in-
termine “scetticismo” deriva appunto da sképsis, tesa come rifiuto del linguaggio o accettazione di
che significa “indagine”, intesa come ricerca che un nuovo linguaggio che esprima soltanto dubbi.
non porta a conclusioni, se non al riconoscimento Dall’afasia deriva uno stato di assoluta indifferenza
dell’impossibilità di conoscere. e imperturbabilità di fronte a qualsiasi accadimento
(l’atarassìa).

2 Lo scetticismo accademico
Quali sono le tesi di Arcesilao? Arcesilao discute in base alle esigenze della vita pratica, sembrano
le tesi degli altri filosofi, che definisce “dogmatici” essere più ragionevoli.
in quanto pensano di poter giungere a conclusioni Che cosa afferma Carneade? Carneade ribadisce
vere. Egli mostra, attraverso la dialettica, che per che i sensi sono ingannevoli; poiché ogni cono-
nessuna tesi vi sono argomenti decisivi per accet- scenza inizia da questi, bisogna sospendere il giu-
tarla o rifiutarla. In particolare Arcesilao polemiz- dizio. In assenza del criterio di verità, è opportuno
za contro il criterio stoico della rappresentazio- scegliere le rappresentazioni più persuasive,
ne catalettica, sostenendo che i nostri sensi sono cioè evidenti, non contraddittorie ed esaminabili.
fonti di illusioni. L’unico atteggiamento coerente è Carneade contribuisce a diffondere lo scetticismo a
la sospensione del giudizio (epoché). In assenza di Roma, ma viene espulso perché il suo insegnamen-
criteri decisivi, il saggio sceglierà le credenze che, to è ritenuto diseducativo.

3 Lo scetticismo neopirroniano
Quali sono le tesi fondamentali di Enesidemo e e la sospensione del giudizio non sono stabilite una
Agrippa? Enesidemo mette a punto delle tecniche volta per tutte, bensì caso per caso. Nell’indagine,
di argomentazione, o tropi, per controbattere le non dobbiamo disprezzare le apparenze che l’espe-
tesi dogmatiche e mostrare che non vi è criterio di rienza ci fornisce, ma dobbiamo evitare di trarne
verità. Il suo argomento fondamentale è la sogget- conclusioni che abbiano la pretesa della verità. Allo
tività delle percezioni. Agrippa mostra che ogni stesso modo, non possiamo risalire dagli effetti
ragionamento prevede o un regresso all’infinito constatati alle cause che non constatiamo, cioè non
alla ricerca di premesse vere, o un circolo vizioso. possiamo passare da ciò che è evidente nell’espe-
In che cosa consiste l’originale dottrina di Sesto rienza a ciò che non lo è. Questo lavoro instancabi-
Empirico? Sesto Empirico si distingue dagli acca- le di ricerca, orientata alla sospensione del giudizio,
demici, perché riprende il significato originario di conduce alla saggezza e alla felicità, identificata con
sképsis: per lui il vero scetticismo consiste nella la serenità dell’animo o atarassia.
ricerca continua; l’impossibilità della conoscenza
77

capitolo 12
MAPPE CONCETTUALI Lo scetticismo

LO SCETTICISMO
DELLE ORIGINI
PIRRONE

afferma che

non è possibile ottenere consapevolezza


una conoscenza oggettiva della realtà da cui deriva la felicità

pertanto occorre perseguire

l’afasìa l’atarassìa

rifiuto del linguaggio o


indifferenza e imperturbabililtà
espressione esclusiva del dubbio

GLI SVILUPPI DELLO


SCETTICISMO

ARCESILAO CARNEADE SESTO EMPIRICO

afferma che afferma che afferma che

non si può ottenere non esistono lo scetticismo è ricerca


nessuna conoscenza conoscenze infallibili continua orientata alla
sospensione del
giudizio

pertanto pertanto la quale conduce a

l’unico atteggiamento l’unico criterio al quale l’unico criterio una condizione


possibile è l’epoché si può fare riferimento al quale si può fare di atarassìa
(la sospensione è quello di riferimento è quello e di serena
del giudizio) ragionevolezza di persuasività consapevolezza

fondato su tre indicatori

non
evidenza esaminabilità
contraddittorietà
78 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 12
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Lo scetticismo
RIPASSO

1 Le origini dello scetticismo 3 Lo scetticismo neopirroniano


riconoscere le nozioni e il significato riconoscere le nozioni e il significato
delle parole delle parole
1. Il saggio scettico pratica l’afasia, perché: 8. Per Sesto Empirico i dogmatici sono:
(segna la risposta esatta) (segna la risposta esatta)
a è felice e quindi non ha bisogno di parlare a quei filosofi che dichiarano di aver scoperto
b ha raggiunto la certezza della verità, quindi la verità
la parola è inutile b coloro che ritengono vere soltanto le affermazioni
c le certezze dei sensi non sono esprimibili a parole dell’autorità religiosa
d nessuna opinione può essere sostenuta con c i pensatori che sostengono come indiscutibile
argomenti validi e quindi il saggio tace il rifiuto di qualsiasi verità
d coloro che continuano la ricerca sospendendo
Esporre concetti e relazioni (max 5 righe) il giudizio caso per caso
2. Qual è il rapporto tra atarassia e assenza di 9. In merito alla causalità Sesto Empirico sostiene
verità? che: (segna la risposta esatta)
3. Spiega l’origine e il significato del termine a il nesso causale sia veritiero, perché i pensieri ci
“scetticismo”. portano oltre le apparenze
b analizzando le apparenze possiamo comprenderne
le cause
c dobbiamo limitarci a descrivere la successione

2 Lo scetticismo accademico delle apparenze, senza trattarle come effetti di


cause profonde
riconoscere le nozioni d non possiamo conoscere le cause delle apparenze,
4. Per Arcesilao occorre rimpiazzare il criterio di perché queste sono ingannevoli
verità con: (segna la risposta esatta) esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
a un criterio di persuasività
10. Che cosa sono i tropi elaborati da Enesidemo e
b un criterio di ragionevolezza
Agrippa?
c il principio di non contraddizione
d il criterio dell’evidenza scrivere e rielaborare (15-20 righe)
5. Secondo Carneade gli indicatori che 11. Individua la specificità della posizione di Sesto
contribuiscono a individuare le rappresentazioni Empirico rispetto ai dogmatici e agli accademici.
persuasive sono: (segna la risposta esatta)
a evidenza, non contraddittorietà ed esaminabilità
b evidenza, non contraddittorietà e ragionevolezza
c abitudine, razionalità e verificabilità empirica
d intuitività, immediatezza ed evidenza

esporre concetti e relazioni (max 5 righe)


6. Fornisci una definizione di epoché.
ad alta voce
7. In 5 minuti spiega il rapporto che esiste tra
sképsis, epoché, afasia e atarassia.
79

capitolo 13 Il neoplatonismo e Plotino



Non ci sono più, estranei uno all’altro, un soggetto che vede e
un oggetto veduto, ma chi ha vista acuta riscopre l’oggetto
entro la propria soggettività.
(Plotino, Enneadi, V, 8, 10)

1 La scuola neoplatonica: vicende e fonti


Origini e sviluppo del neoplatonismo
Il neoplatonismo è l’ultima grande corrente della filosofia antica; ha origine in età impe-
riale, nel III secolo d.C., cinquecento anni dopo gli inizi di epicureismo, stoicismo e scet-
ticismo. Il primo “germe” di filosofia neoplatonica si trova nella dottrina di Ammonio
Sacca, che insegna ad Atene e ad Alessandria nella prima metà del III secolo d.C., e
combina elementi platonici e aristotelici in un quadro d’insieme dalla forte connotazione
mistico-religiosa.
Tra i giovani filosofi che seguono le lezioni di Ammonio ad Alessandria, spicca Plotino,
proveniente da Licopoli, una città nel Sud dell’Egitto. Dopo una decina di anni trascorsi
nella scuola di Ammonio, nel 244 Plotino, all’età di quasi quarant’anni, decide di unirsi
alla spedizione militare dell’imperatore Gordiano III in Oriente contro i Sasanidi, con
l’obiettivo di studiare direttamente la cultura persiana e quella indiana, che costituivano
significative fonti di ispirazione per la dottrina del suo maestro. La spedizione però si
interrompe brutalmente dopo pochi mesi, in seguito alla grave sconfitta nella battaglia di
Mesiche (l’odierna Falluja, in Iraq), cui fa seguito la morte di Gordiano. Plotino decide
allora di trasferirsi a Roma, dove sviluppa il proprio sistema filosofico, che costituisce la
principale versione della dottrina che sarà denominata “neoplatonismo” in epoca moderna.
A Roma Plotino fonda una scuola, la quale riscuote presto notevole successo, guada-
gnandosi l’ammirazione e l’appoggio dell’imperatore Gallieno, che regna dal 253 al 268.
80 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Alla morte di Plotino, avvenuta nel 270, gli succede alla direzione della scuola l’allievo
Porfirio, al quale si deve la sistemazione delle opere scritte del maestro in sei raccolte di
nove libri ciascuna, denominate Enneadi (dal greco ennéa, “nove”), che ci sono giunte
integralmente. Nel corso del IV secolo d.C. vengono fondate nuove scuole neoplatoniche
in Siria e a Pergamo; a quest’ultima scuola si forma il futuro imperatore Giuliano, che nel
suo breve regno (361-363) cercherà di opporsi al diffondersi del cristianesimo imponendo
come alternativa un culto pagano di ispirazione neoplatonica.
Nel V secolo d.C. viene fondata una scuola di indirizzo neoplatonico ad Atene, per
iniziativa di Plutarco. Il principale esponente del neoplatonismo ateniese è Proclo, un
allievo di Plutarco che usa la dottrina di Plotino come fondamento di un imponente edi-
ficio teorico che ambisce a sintetizzare le principali acquisizioni filosofiche, scientifiche e
religiose del pensiero antico.

Le fonti di ispirazione
Come indica il termine stesso, il neoplatonismo ha la sua principale fonte nella filosofia
di Platone, di cui la dottrina di Plotino costituisce un tentativo di riformulazione e di
sviluppo. Tuttavia nel neoplatonismo ci sono anche significative influenze aristoteliche,
dovute al fatto che Plotino, nel solco del suo maestro Ammonio, considera la filosofia di
Aristotele non come un’alternativa radicale alla dottrina di Platone, bensì come una sua
estensione in nuovi campi e in nuove direzioni.
Plotino concepisce la propria filosofia come il punto di arrivo di una linea di ricerca che
comincia con Platone per poi passare attraverso Aristotele e le varie scuole ellenistiche, in
particolare lo stoicismo, e arrivare infine ad Ammonio, e di lì a Plotino stesso. A ben vedere,
però, la nozione fondamentale del neoplatonismo – ossia quella di unità – ha radici anco-
ra più antiche della filosofia di Platone. È una nozione già all’opera nelle ricerche dei primi
FARE per CAPIRE filosofi presocratici, i quali cercano di ricondurre la varietà dei fenomeni osservabili a un
• Sintetizza in unico principio fondamentale, la cui semplicità è tale da non richiedere ulteriori spiegazioni.
uno schema le Questo principio, che i presocratici cercavano di identificare e descrivere, per Plotino è inve-
fasi di sviluppo
della dottrina ce qualcosa di assolutamente impensabile e indescrivibile, che può essere oggetto soltanto
neoplatonica. di esperienze di carattere religioso, sul modello dei mistici delle culture orientali.

❯La cosiddetta
“Accademia di
Platone”, mosaico,
I secolo d.C., Napoli,
Museo Archeologico
Nazionale.
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 81

il ritratto
PLOTINO: la vita come ricerca spirituale
on possediamo molte rappresentazioni di Plotino: perlopiù sculture marmoree

N di epoca romana come quella che proponiamo, che ci restituiscono l’immagine


di un uomo austero, serio, assorto nei suoi pensieri, tanto che lo sguardo sembra
perdersi in una distanza abissale rispetto al mondo.

La descrizione di Porfirio Questi dettagli rispetto di Gallieno e della moglie Cornelia


iconografici richiamano la descrizione di Salonina, affascinati dalla sua personalità
Porfirio, allievo di Plotino e autore di una carismatica e dall’abilità oratoria. Chi ne segue
biografia del maestro, il quale afferma che il le lezioni riferisce che nel parlare «lo splendore
filosofo «aveva l’aspetto di uno che si vergogni dell’intelligenza» è «tale da illuminare persino
di essere in un corpo». Plotino viene dunque il suo volto»; in quei momenti diventa ancora
presentato con i caratteri dell’asceta più affascinante e la sua dolcezza traspare
totalmente assorbito dall’attività spirituale; nella prontezza e nell’attenzione con cui
un’attività intesa come strumento per risponde alle domande (Porfirio, Vita di Plotino,
distaccarsi dall’esperienza concreta, per 13, 1-10).
accedere al mondo intelligibile, ma, ancora più
radicalmente, come ricerca di una condizione La nostalgia dell ’anima Nonostante il
mistica di fusione con il principio originario. successo, il suo spirito, immune alle lusinghe,
La «disposizione spirituale» di Plotino – rimane quello dell’“esule”, interamente
ancora secondo la testimonianza di Porfirio – concentrato sul desiderio di tornare alla «cara
è alla base del suo ostinato rifiuto a posare per patria», al di là della condizione terrena.
i pittori che desiderano ritrarlo: secondo lui Come attesta ancora Porfirio: «aveva un’anima
non vale la pena tramandare l’immagine del pura, sempre protesa verso il divino, e
proprio corpo, un «simulacro» di cui la natura adoperò ogni mezzo per sottrarsi al flusso
ci ha voluto rivestire e che «siamo costretti a crudele di questa vita». In qualche modo il suo
trascinare» nella nostra esistenza terrena. sguardo – così come lo presentano gli scultori
romani – resta dunque costantemente rivolto
Una figura di “esule” A conferma di tale all’interno; ed è l’interiorità che egli indica
convinzione, la metafora a cui il filosofo ai suoi allievi romani come il luogo
ricorre abitualmente è quella dell’anima in cui cercare la verità.
“esule” nel mondo materiale, che ambisce a Dischiudendo una
ritornare alla «cara patria», il luogo originario profondità psicologica
di tutti gli esseri. Plotino, con la sua attitudine ancora poco esplorata,
all’introversione e alla meditazione, con la sua Plotino rivela il valore
manifesta ambizione di oltrepassare la realtà della “nostalgia” provata
concreta, pare testimoniare questo sforzo. dall’anima umana: in
Alcuni eventi della sua vita, poi, sembrano essa risiedono lo
offrire lo spunto da cui deriva l’immagine stimolo e l’indicazione
stessa dell’“esilio”: il filosofo, non ancora per intraprendere il
quarantenne, partito al seguito di Gordiano III cammino di “ritorno
per la Persia, alla morte di quest’ultimo si è a casa”, dove
trovato nella difficile condizione di esule in ricongiungersi all’origine
terra straniera. Da quella regione remota egli di tutto: il principio «che
ritorna a stento, affrontando un viaggio non ha né forma né idea,
impegnativo che lo porta ad Antiochia e poi a perché si trova al di sopra
Roma. Qui ha grande seguito ed è apprezzato di ogni sensibile» (Vita di
negli ambienti imperiali, dove guadagna il Plotino, 23, 12).

Plotino, busto in marmo, copia da un originale greco,


350-370 circ a, Ostia antic a, Museo Ostiense.
82 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

2 Dall ’Uno alla molteplicità


L’ Uno
Secondo Plotino, il principio di tutte le cose è qualcosa di assolutamente semplice, per-
ché se fosse composto da altri elementi lo si potrebbe spiegare in base a come questi
elementi si compongono tra loro, e pertanto non sarebbe il principio di tutte le cose. In
tal senso Plotino lo chiama Uno. L’assoluta semplicità dell’Uno garantisce che esso
non richieda spiegazione ulteriore: se “spiegare” significa infatti ricondurre il complesso
al semplice, allora soltanto quando si giunge a un livello di massima semplicità la spie-
gazione si conclude definitivamente. L’Uno è per Plotino questo livello essenziale che
permette di spiegare tutto ciò che esiste.
L’Uno è al di là di qualsiasi molteplicità, pluralità o determinazione, risulta total-
mente “altro” rispetto a ciò che esiste, assolutamente trascendente: esso è pertanto fuo-
ri dalla portata del pensiero e del linguaggio, i quali utilizzano concetti e termini che
rimandano a specificazioni e caratteri determinati. In questo senso Plotino sostiene che
non è possibile attribuire all’Uno tratti distintivi, ma soltanto indicare le caratteristiche
che esso non possiede: l’Uno non è nello spazio né nel tempo, non è fatto di nessuna
materia e non ha nessuna forma o figura. Lo stesso termine “Uno” non esprime una
autentica caratteristica, ma soltanto la mancanza di qualsiasi molteplicità o distinzione
❯ testo 1 p. 96 (❯ Per approfondire).
Dell’Uno si può dire al più che è infinito nel senso che la sua potenza è illimitata; non
ci sono limiti a ciò che dall’Uno si potrebbe potenzialmente derivare: «principio e fine,
esso è tutto immediatamente in se stesso, e non manca di nulla» (Enneadi, V, 8, 7).

La nozione di “teologia negativa”


C on l’espressione “teologia negativa” si designa una
concezione di Dio che lo considera fuori dalla por-
tata della conoscenza e del linguaggio. Per la teologia
come la teologia negativa fa con Dio. C’è però un
aspetto essenziale del neoplatonismo di Plotino che
impedisce una sua interpretazione in questi termini: la
negativa, di Dio si può dire soltanto quello che non è; filosofia di Plotino non è, in ultima analisi, una teolo-
nulla si può dire a proposito di quello che è. La teolo- gia, un discorso su Dio, bensì una metafisica, una tesi
gia negativa si sviluppa nel corso del IV e V secolo d.C., su quello che sta a fondamento della realtà, che Ploti-
soprattutto per iniziativa di Agostino e Dionigi pseudo- no identifica con l’Uno. A tale principio non possono
Areopagita (❯ p. 144 e p. 218) che adattano l’apparato essere attribuite le caratteristiche che la religione cri-
teoretico della filosofia neoplatonica ai contenuti dot- stiana attribuisce a Dio: aver creato il mondo, possede-
trinali della religione cristiana. Ci si può chiedere, a que- re onniscienza e onnipotenza, mostrare infinita bontà
sto punto, se sia lecito applicare retrospettivamente la e saggezza. Non vi è nulla di significativamente divino
nozione di teologia negativa anche alla filosofia neopla- nell’Uno, né nulla di significativamente teologico nella
tonica, e in particolare alla metafisica di Plotino. filosofia che lo pone a fondamento della realtà. Una

I n effetti, Plotino concepisce l’Uno come al di fuori


della portata di conoscenza e linguaggio proprio
presunta “teologia negativa” di Plotino sarebbe dun-
que talmente negativa da non essere una teologia.
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 83

La derivazione delle cose dall ’Uno: l ’emanazione


Nonostante l’assoluta difformità dell’Uno da tutto ciò che esiste, esso è il principio di
tutto ciò che esiste. Questo non significa che sia una sostanza naturale, come afferma-
vano i fisici presocratici, oppure un Dio creatore, come affermano l’ebraismo e il cristia-
nesimo. Plotino caratterizza il processo di derivazione di tutte le cose esistenti dall’Uno
mediante la metafora dell’emanazione: tutte le cose emanano dall’Uno come il profu-
mo emana da un fiore, o la luce e il calore dal fuoco.
L’emanazione dall’Uno non va intesa come un processo spazio-temporale, poiché
l’Uno è situato al di fuori dello spazio e del tempo: lo spazio e il tempo stessi sono esiti
dell’emanazione. La nozione di emanazione può essere precisata mediante la relazione
di dipendenza: le cose che emanano dall’Uno “dipendono” dall’Uno – nel senso che se
non ci fosse l’Uno non ci sarebbero nemmeno queste cose –, ma non sono “prodotte” da
esso. L’emanazione non può essere spiegata in termini di azioni o processi. Tutte le cose
derivano dall’Uno semplicemente in ragione di quello che l’Uno è: esso è tale per cui
tutte le cose ne derivano necessariamente, come se il suo essere fosse “sovrabbondante”
e le facesse “traboccare” da sé, senza subire esso stesso nessun mutamento.
Nonostante la sua assoluta trascendenza, l’Uno è dunque origine delle cose e questa
relazione è necessaria, nel senso che dipende dalla natura stessa dell’Uno, così come è
nella natura stessa del fiore emanare profumo ed è nella natura del fuoco irradiare luce
e calore.

Uno il principio primo, assoluto, perfetto e divino, emanazione la modalità attraverso cui dall’U- lessico
origine e fondamento di tutte le cose. Con questa no derivano le realtà inferiori. L’emanazione è filosofico
espressione, Plotino vuole indicare che il principio è conseguenza necessaria della sovrabbondanza
al di là di qualsiasi molteplicità o pluralità che ca- di perfezione dell’Uno, quindi non implica nes-
ratterizzano il mondo e il linguaggio, per cui in sen- sun mutamento nel principio.
so stretto qualsiasi termine è inadatto a indicarlo.

ESPERIMENTO filosofico L’oggetto misterioso


• Sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in due gruppi, ognuno dei quali scrive un elenco di
almeno 5 concetti “astratti”, o comunque di non facile definizione (ad esempio “spirito”, “musi-
ca”, “profumo” ecc.).
• Per ogni concetto si riportano almeno 3 aspetti che non si
possono applicare al concetto scelto (ad esempio “non si può
toccare”, “non è in nessun luogo preciso”, “non è questo o
quello” ecc.).
• Ogni gruppo, attraverso un portavoce, prova a far indovi-
nare al resto della classe l’oggetto individuato, esponendo
le 3 caratteristiche “negative” riportate, e rispondendo, con
l’aiuto del resto del gruppo, a massimo 3 ulteriori domande
poste dai compagni: dovrà sempre ricorrere alla forma ne-
gativa ed evitare di fornire indicazioni “in positivo”.
• Ottiene il punteggio più alto il gruppo che sarà riuscito a
far indovinare il maggior numero di concetti senza aver vio-
lato le regole stabilite.
84 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Le cose non sono create dall’Uno (a differenza di quanto sostengono religioni come
l’ebraismo o il cristianesimo a proposito della creazione divina), ma nemmeno coincido-
no con l’Uno (a differenza di quanto accade nelle concezioni panteiste come quella degli
stoici, per cui la divinità è in ogni cosa). Per Plotino, l’Uno è distinto dalle cose e non le
crea; eppure è tale per cui l’esistenza delle cose ne deriva e ne dipende.
L’emanazione di tutto ciò che esiste dall’Uno si compie gradualmente, attraverso una
serie di passaggi: dall’Uno emana direttamente l’Intelletto, dall’Intelletto emana l’Anima,
e dall’Anima emanano tutte le altre cose. L’intero campo dell’esistente si può dunque
concepire come l’esito della sovrapposizione di tre livelli ontologici gerarchicamente
ordinati, o ipòstasi: l’Uno, che è il livello fondamentale, ovvero il vertice della gerarchia;
l’Intelletto, che è il livello intermedio; e l’Anima, che è il terzo livello.
La stessa necessità che caratterizza l’Uno caratterizza anche l’Intelletto e l’Anima: è
nella natura di ogni ipostasi emanare esistenza al di là della propria esistenza. In tal
senso Plotino caratterizza l’essere delle ipostasi nei termini seguenti:


è necessario che ciascun essere dia del suo a un altro, altrimenti l’Uno non sarebbe l’Uno,
né l’Intelletto sarebbe quel che è, né l’Anima sarebbe la stessa.
(Enneadi, II, 9, 3)

FARE per CAPIRE • Sottolinea le metafore riportate per spiegare l’emanazione, e sintetizza a margine
il loro significato.

lessico ipòstasi (dal greco hypóstasis, “ciò che sta nazione dall’Uno, e così l’Anima dall’Intelletto; si
filosofico sotto, a fondamento”) il fondamento di tutto ciò tratta pertanto di una visione dell’essere gerar-
che esiste. Le ipostasi per Plotino sono l’Uno, chicamente ordinato, che perde perfezione al-
l’Intelletto e l’Anima. L’Intelletto deriva per ema- lontanandosi dell’Uno.

il PENSIERO
si fa IMMAGINE L’emanazione dall’Uno come irradiamento o effusione

“ Un irradiamento che si diffonde da Lui, da Lui che resta immobile, com’è


nel Sole la luce che gli splende tutt’intorno. […] Tutti gli esseri producono
necessariamente dal fondo della loro essenza una certa esistenza,
congiunta alla loro attuale virtù: il fuoco effonde da sé il suo calore, e
la neve non conserva il freddo soltanto dentro di sé; un’ottima prova di ciò

che stiamo dicendo la danno le sostanze odorose, dalle quali deriva
qualcosa tutto intorno, di cui gode chi gli sta vicino.
(Enneadi V, 1, 6)

Per chiarire il processo di “emanazione” dall’Uno, Plotino ricorre ad alcune immagini


che riprende dal mondo naturale. L’emanazione è infatti per lui un fenomeno simile
all’irradiazione della luce, o all’emanazione del calore, o, ancora, al diffondersi di
un profumo. Come gli esseri che irradiano intorno a sé luce, calore e profumo
rimangono invariati in sé stessi, così l’Uno permane immobile e immutabile pur
essendo fonte dell’esistenza delle cose.
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 85

L’ Intelletto
La principale novità del neoplatonismo in rapporto alla filosofia di Platone sta nel fatto
che per Plotino il mondo intelligibile – il mondo delle idee – non è più la dimensione
fondamentale di tutto quello che esiste: per lui il mondo intelligibile o Intelletto costituisce
un livello secondario di realtà, emanato dalla realtà fondamentale, che è l’Uno.
Plotino definisce “Intelletto” il mondo intelligibile per evidenziare che l’esistenza del-
le idee va di pari passo con l’esistenza di un atto intellettivo di contemplazione. Un’idea
è fatta per essere contemplata così come un’immagine è fatta per essere vista (e la stessa
parola greca idéa significa originariamente “ciò che è visto o visibile”); la contemplazione,
al pari della visione, impone dunque la distinzione fra l’atto del contemplare e l’ogget-
to che è contemplato (nella fattispecie, l’idea). Ma nell’Uno, che è assoluta unità e sempli-
cità, non è possibile nessuna distinzione, nemmeno quella fra atto e oggetto: nell’Uno non
si può avere nulla di paragonabile alla visione o alla contemplazione. Poiché il mondo in-
telligibile richiede invece la distinzione tra l’idea e l’atto intellettivo di contemplarla (cono-
scerla, comprenderla), a questo livello non vi può essere assoluta unità. Plotino ne trae la
conclusione che l’Uno non fa parte del mondo intelligibile, bensì lo precede e lo fonda.
Nell’Uno la contemplazione è presente soltanto in potenza; perché si attui, occorre
che da esso emani il livello dell’Intelletto, in cui le idee si dispiegano di fronte all’atto
di pensiero che le contempla. Sebbene fra l’atto intellettivo del contemplare e le idee con-
template vi sia distinzione, Plotino ritiene che tra i due vi sia anche identità. Questo
perché l’atto intellettivo e il mondo delle idee sono due manifestazioni differenti di un’u-
nica realtà, ovvero l’Intelletto che contempla sé stesso: in quanto contemplante, l’Intel-
letto è atto; in quanto contemplato, l’Intelletto è il mondo delle idee. Possiamo paragonare
l’Intelletto a una persona che si guarda allo specchio: come lo sguardo rivolto allo spec-
chio e la figura che si vede nello specchio sono due manifestazioni differenti della stessa
persona, così l’atto intellettivo del contemplare e le idee come oggetto contemplato sono
due manifestazioni differenti di un’unica realtà, che è l’Intelletto stesso. In ultima analisi,
l’Intelletto ha un’unità di fondo che gli deriva dall’Uno da cui emana, ma ha anche una
distinzione interna che fa sì che esso risulti separato e secondario in rapporto all’assoluta
unità e semplicità dell’Uno. ❯ testo 1 p. 96

FARE • Sottolinea nel testo la risposta alle seguenti domande:


per - perché l’Uno non fa parte del mondo intelligibile?
CAPIRE - perché l’Intelletto è caratterizzato contemporaneamente dalla distinzione e dall’unità?

L’ Anima
Nell’Intelletto si contemplano le idee come le intendeva Platone: forme astratte e univer-
sali, che esistono al di fuori dello spazio e del tempo. Plotino concorda con Platone sul
fatto che le idee godano di un grado di realtà superiore a quello delle cose concrete che
esistono nello spazio e nel tempo, nel “mondo sensibile”, come lo chiamava Platone. Ma
il motivo per cui Plotino ritiene le idee ontologicamente superiori alle cose concrete deri-
va da un tratto originale della sua filosofia.
Per Plotino la realtà è tanto più piena e perfetta quanto più tende all’unità. Dunque
l’Uno è superiore all’Intelletto perché nell’Uno vi è pura unità, mentre nell’Intelletto vi è
distinzione fra atto del contemplare e oggetto contemplato.
86 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Analogamente, l’Intelletto, cioè il mondo delle idee, è superiore al mondo delle cose
concrete perché a un’unica idea corrisponde una molteplicità di cose concrete: ad esempio,
a un’unica idea di Triangolo corrisponde una molteplicità di cose triangolari, e a un’unica
idea di Rosso corrisponde una molteplicità di cose rosse.
Per spiegare come dal mondo delle idee emani il mondo delle cose concrete Plotino
ricorre alla terza ipostasi, l’Anima, che egli caratterizza come il principio mediante il
quale le idee conferiscono alle cose concrete la loro forma specifica. Se da una parte
l’Anima si rivolge al mondo delle idee, e le contempla, dall’altra plasma e ordina il mondo
fisico applicandovi le idee stesse. In quanto applicate dall’Anima al mondo fisico, le idee
non sono soltanto modelli che presiedono all’esistenza delle cose, ma anche forme insite
nelle cose. Da qui la conciliazione tra la dottrina platonica (per cui le idee sono model-
li delle cose) e quella aristotelica (per cui le idee sono forme insite nelle cose). In virtù
della mediazione dell’Anima, la teoria aristotelica della forma diviene un esito della dot-
❯ QUADERNO PER
trina platonica delle idee: le cose che esistono nel mondo concreto, quelle che Aristotele
LE COMPETENZE E
IL NUOVO ESAME chiama “sostanze”, hanno la forma che le contraddistingue in ragione del fatto di essere
p. 31 state plasmate dall’Anima in base al modello fornito dalle idee.

Il legame dell’ Anima con lo spazio e il tempo


Più in generale, l’Anima è concepita da Plotino come il principio che dà vita al mondo
concreto, ed è all’origine dello spazio e del tempo. La realtà spaziale e temporale, infatti,
esiste soltanto per opera dell’Anima, che se ne serve per dare concretezza e molteplicità alle
idee: le cose concrete, a differenza delle idee che danno loro forma, possono esistere soltan-
to se hanno una localizzazione nello spazio e nel tempo. In tal senso l’Anima è l’anello di
congiunzione tra ciò che è ideale e astratto (le idee, che esistono fuori dallo spazio e dal
tempo) e ciò che è invece concreto (le cose localizzate nello spazio e nel tempo).
Così inteso, il concetto neoplatonico di Anima rivela significative affinità con quello
RICORDA CHE... di “principio attivo” o “anima del mondo” con cui gli stoici designavano il principio di
Per gli stoici il mondo è razionalità e giustizia che plasma la natura. Tuttavia fra stoicismo e neoplatonismo per-
un enorme organismo mane una differenza cruciale: per gli stoici il principio attivo era il principio fondamentale
vivente caratterizzato
di tutto quello che esiste; per Plotino invece l’Anima è soltanto un’emanazione dell’Intel-
dall’unione indissolubile
di un principio passivo, letto, il quale è a sua volta un’emanazione dell’Uno, che è l’autentico principio fondamen-
che è pura materia, e di tale. Insomma, Plotino incorpora nel suo sistema sia il principio attivo degli stoici (carat-
un principio attivo, terizzato come Anima) sia il mondo delle idee di Platone (caratterizzato come Intelletto)
l’anima del mondo,
il principio razionale sia le forme di Aristotele (caratterizzate come esito dell’applicazione delle idee al mondo
divino che vivifica e fisico), ma li subordina tutti quanti a un livello di realtà più fondamentale, l’Uno, la cui
ordina la realtà. ❯ p. 31 nozione costituisce il maggiore contributo filosofico del neoplatonismo.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo le funzioni e le caratteristiche dell’Anima.

La materia
Il processo di emanazione che porta innanzitutto dall’Uno all’Intelletto, e quindi dall’In-
telletto all’Anima, giunge a compimento con il mondo corporeo, il mondo di corpi con-
creti situati nello spazio e nel tempo, ovvero il mondo in cui noi stessi viviamo. Per Plo-
tino il punto limite di questo processo di emanazione è la materia. Se, come fa Plotino, si
paragona il processo di emanazione a un raggio di luce che irradia da una sorgente, allora
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 87

la materia corrisponde alla zona d’ombra in cui il raggio di luce termina di esercitare il
suo effetto illuminante: la materia è la regione della realtà più distante e più indifferente
rispetto all’azione plasmatrice che procede dall’Uno attraverso l’Intelletto e l’Anima.
Ciononostante, la materia fa anch’essa parte del campo di realtà che emana dall’Uno. Da
un lato, la materia è il limite dell’azione plasmatrice dell’Anima, cioè la regione in cui
“non penetra la luce”; dall’altro, è ciò che rende questa azione plasmatrice possibile,
perché è mediante la materia che le idee si manifestano nello spazio e nel tempo come
forme delle cose concrete. Il fatto che la materia sia la frontiera estrema del processo di
emanazione non esclude che essa stessa sia un esito del processo di emanazione, anzi lo
conferma: la frontiera è pur sempre parte del territorio di cui è frontiera. D’altra parte, in
ragione della sua distanza ontologica dall’Uno e dall’Intelletto, la materia produce nel
mondo concreto un effetto di molteplicità e dispersione che Plotino, per il quale l’unità
è il sommo valore, vede come un momento di degradazione della realtà.
Dal contrasto fra l’azione plasmatrice dell’Anima e la resistenza passiva e dispersiva
della materia si genera la varietà di individui che popola il mondo spazio-temporale.
Ciascun individuo ha un’anima che gli deriva dall’essere generato dall’azione plasmatri-
ce dell’Anima, ma ha anche un corpo per effetto del quale l’anima individuale tende a
isolarsi dall’Anima del mondo di cui è parte, e si comporta come se fosse un’entità a sé
stante, in balìa della materialità corporea. Così Plotino descrive il degradarsi dell’anima
a causa della sua commistione con la materia:


Impura, voglio dire, e trascinata qua e là dagli allettamenti del regno molteplice della sen-
sibilità, con la mescolanza di molti elementi fisici, e tanta materia legata, tale, poi, da rice-
vere una forma diversa da quella che le è conveniente, l’anima, per tutto questo confonder-
si con ciò che è più vile di lei, viene alterandosi: come uno che, caduto nel fango o nello
sterco, non mostri più quella bellezza, che è sua; e del volto si veda solo il fango e lo sterco
che han lasciato impronta su di lui […] Saremo nel giusto, dunque, se diremo che l’anima
divien brutta per il suo mescolarsi, convenire e come cospirare con il corpo e la materia.
(Enneadi, I, 6, 5)

❯ In questo sarcofago,
risalente al 260 circa,
un filosofo, da alcuni
identificato con
Plotino, è ritratto al
centro, nell’atto di
srotolare un papiro
ed è affiancato da
due figure femminili
(forse due muse)
e da due filosofi che
guardano verso
l’esterno.
88 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Il male
Dalla realtà della materia, secondo Plotino, dipende il problema del male. Infatti, il male
è l’esito del conflitto fra la molteplicità di individui particolari in cui si scinde l’Anima del
mondo proprio in ragione della resistenza della materia.
D’altra parte, la materia è anch’essa un esito del processo di emanazione dall’Uno,
e dunque il male stesso, in quanto effetto della materia, va considerato a sua volta come
un aspetto della realtà che emana dall’Uno. In tal senso per Plotino il male non è qual-
cosa di negativo in assoluto, ma soltanto se comparato con altre forme di realtà più vici-
❯ testo 2 p. 97 ne all’Uno.
Se si assume una visione d’insieme, anche la materia e il male trovano la loro ragion
d’essere nel quadro di un sistema generale che, emanando dall’Uno, non può che essere
perfetto come lo è la fonte da cui emana. Chi sostiene che il mondo è imperfetto perché
vi è il male al suo interno fa un errore paragonabile a chi, dovendo valutare qualcosa
nella sua interezza, si sofferma esclusivamente su una parte. Valutare il mondo imperfet-
to a causa del male per Plotino equivale a valutare brutta una persona «soffermandosi
soltanto su un capello o su un dito dei piedi, trascurando la totalità dell’uomo che è uno
spettacolo divino» (Enneadi, III, 2, 3). Sarebbe come valutare brutto uno spettacolo teatra-
le «perché non tutti in esso sono eroi, ma c’è un servitore o un rusticone dalla voce rozza;
eppure il dramma non è più bello se si sopprimono queste parti secondarie, anzi, è com-
ESERCIZI pletato da queste» (Enneadi, III, 2, 11).

FARE per CAPIRE • Evidenzia con colori diversi le quattro frasi che meglio definiscono la materia e il
male.

3 La via del ritorno all ’Uno


L’ obiettivo dell’ etica: il ritorno dell ’ anima individuale all ’ Uno
Il destino degli esseri umani è di vivere nello strato più periferico della realtà, a distanza
siderale dall’Uno e dall’Intelletto, e invece a stretto contatto con l’estrema frontiera del
reale, la materia, e con il suo effetto più nefasto, il male. Tuttavia, ciascun essere umano
reca in sé un’anima che, seppure scissa dall’Anima del mondo per l’effetto individualiz-
zante del corpo, continua comunque a essere parte della vita dell’Anima, e mediante
questa è in grado di risalire verso i livelli più fondamentali della realtà: l’Intelletto e l’Uno.
L’etica di Plotino inizia dunque dove finisce la sua ontologia, nelle lande periferiche del
mondo spazio-temporale, in cui le anime individuali vivono imprigionate nei corpi concre-
ti che le espongono alle insidie della materia e del male, ed esiliate dall’Anima da cui han-
no avuto origine. Data questa situazione di esilio ontologico, l’etica si propone come il ca-
pitolo inaugurale di una grande narrazione che racconta come sia possibile per l’anima
individuale riunirsi con l’Anima del mondo e mediante questa risalire ai livelli ontologici
fondamentali dell’Intelletto e dell’Uno, dai quali l’Anima emana. Una narrazione che ha un
obiettivo paragonabile a quello dell’Odissea, il ritorno a casa, ma la “casa” per il neoplato-
nismo va intesa non in senso geografico bensì appunto ontologico: è lo strato fondamentale
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 89

❯ Odisseo e
i compagni durante
il viaggio per
ritornare a Itaca,
mosaico, III secolo,
Dhugga (Tunisia).
È lo stesso Plotino
a paragonare la via
dell’anima verso
l’Uno al lungo
viaggio di ritorno
dell’eroe greco verso
la propria patria.

di realtà in cui ha avuto origine la nostra esistenza. È Plotino stesso a suggerire l’analogia
tra la narrazione letteraria dell’Odissea e la narrazione filosofica del neoplatonismo:


Fuggiamo, dunque, verso la cara patria, ecco quel che con superiore verità ci si potrebbe
consigliare. E che cosa è, dunque, questo fuggire? In che modo risaliremo? Come Ulisse,
che, dicono, fuggì la maga Circe o Calipso, perché non voleva fermarsi presso di loro,
nonostante il piacere che gli davano.
(Enneadi, I, 6, 8)

Il ricongiungimento con l ’ Anima del mondo


La prima fase del viaggio di ritorno dell’anima individuale alla «cara patria» consiste nel suo
ricongiungimento con l’Anima del mondo. A tal fine, svolgono un ruolo cruciale le virtù
civiche come la temperanza, il coraggio o la giustizia, le quali, mettendo un argine all’edo-
nismo, all’individualismo e all’egoismo, permettono all’anima di sottrarsi alla prospettiva
limitata impostale dal corpo, e di assumere invece una visuale più ampia, fino a identificar-
si con l’Anima del mondo. In questa insistenza sul superamento della limitatezza della
prospettiva individuale, l’etica neoplatonica rivela significative affinità con l’etica stoica. Vi è
però una differenza fondamentale: per gli stoici il ricongiungimento dell’anima individuale
all’Anima del mondo rappresentava il punto di arrivo definitivo della ricerca filosofica, men-
tre per Plotino si tratta soltanto della prima tappa di un percorso di redenzione molto più
articolato, i cui stadi successivi necessitano dell’integrazione delle virtù civiche con virtù
intellettuali, quelle specifiche del filosofo, che oltrepassano il dominio dell’etica. Per Plotino,
infatti, l’etica concerne soltanto la sfera dell’azione, mentre il ritorno alla «cara patria» a un
certo punto richiede un passaggio dall’azione alla contemplazione:


l’azione sussiste per amore di una contemplazione e di una visione; tant’è vero che, anche
per coloro che agiscono, finalità è la contemplazione: come se essi, impotenti a raggiun-
gere qualcosa per diritta via, cerchino poi di conquistarla con un giro smarrito.
(Enneadi, III, 8, 36-40)
90 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

L’anima imprigionata nel corpo e nella materia non può puntare direttamente alla con-
templazione, ma deve passare attraverso un «giro smarrito» nel corso del quale si affranca
dai vincoli del corpo e dalla materia mediante l’esercizio delle virtù civiche di cui tratta l’eti-
ca. Una volta che questo «giro smarrito» sia giunto a termine, l’anima non deve accontentar-
si del risultato raggiunto: deve puntare più in alto, alla contemplazione del mondo delle idee.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la funzione delle virtù civiche.

Il ritorno all ’Intelletto


Uno snodo cruciale del viaggio di ritorno verso la «cara patria» consiste nel riconoscere
sia l’anima individuale sia l’Anima del mondo come emanazioni dell’Intelletto, cioè del
mondo perfetto e immutabile delle idee. Nel descrivere il cammino dell’anima verso l’In-
telletto, l’etica neoplatonica rivela significative analogie con la teoria platonica dell’ascesa
dal mondo sensibile al mondo intelligibile, che trova espressione emblematica nel rac-
conto dell’uscita dalla caverna (❯ vol. 1A, p. 212). In particolare, Plotino concorda con
Platone sul ruolo decisivo che l’esperienza della bellezza svolge nell’elevare l’anima
dalle miserie del mondo sensibile agli splendori del mondo intelligibile. La bellezza è
infatti la proprietà che ci permette di scorgere nei corpi materiali l’azione plasmatrice
dell’Anima, che conferisce alla materia una forma derivante dalle idee dell’Intelletto.
Contemplando la bellezza, possiamo innalzarci dalla contemplazione dei corpi alla
contemplazione delle idee, e quindi accedere a un grado superiore di realtà, quello
dell’Intelletto. La bellezza ci permette di cogliere la capacità delle idee di dominare la
materia caotica e molteplice, conferendole ordine, unità e forma:


Anche la bellezza semplice di un colore ha la sua ragione nella forma, nel dominio sulla
tenebrosa materia, nella presenza di una luce immateriale che è ragione e idea […] Questi
sono i pensieri che riguardano il bello sensibile, immagini e ombre, che cadute fuggevol-
mente nella materia, le danno ordine e forma, e il cui apparire a noi fa come un sacro e
tremendo stupore.
(Enneadi, I, 6, 3)

A differenza di Platone, Plotino ritiene che anche l’arte possa svolgere un ruolo im-
portante nell’ascesa dell’anima dal mondo sensibile al mondo intelligibile. Per Platone
l’arte produce soltanto imitazioni delle entità del mondo sensibile, che a loro volta non
sono che imitazioni delle idee; dunque l’arte non fornisce che imitazioni di imitazione,
allargando il divario che ci separa dal mondo intelligibile. Invece per Plotino l’arte è in
grado di produrre entità che si avvicinano alle idee più di quanto non riesca alle enti-
tà ordinarie:


le arti non imitano direttamente il mondo sensibile; risalgono, invece, ai principi da cui
viene l’ordine della natura, e molte cose, ecco, esse creano da sé; portando, infatti, in sé la
bellezza, correggono le insufficienze della realtà naturale: Fidia fece appunto il suo Zeus
senza tener conto di alcun modello sensibile, ma figurandosi l’immagine del dio, quale si
mostrerebbe, se egli si degnasse di apparire agli occhi degli uomini.
(Enneadi, V, 8, 1)

Per Plotino le opere d’arte sono entità del mondo sensibile che rimandano esplicita-
mente alle idee del mondo intelligibile; invece i corpi viventi, anche quando manifestano
bellezza, rischiano di risultare ingannevoli, indirizzando il desiderio verso i corpi stessi
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 91

anziché verso il mondo delle idee. La bellezza suscita desiderio e amore, ma occorre sa-
per distinguere tra l’amore intellettivo, che ci eleva al mondo delle idee, e l’amore sen-
suale, che invece ci risospinge verso le tenebre della materia. In tal senso Plotino, dopo
aver elogiato l’esperienza della bellezza e il sentimento dell’amore, si sente in dovere di
precisare che è alle idee che ci si deve rivolgere, non ai corpi (facendo riferimento impli-
cito al mito di Narciso, annegato per essersi lasciato attrarre dal riflesso del suo corpo
nell’acqua):


A chi vede la bellezza fisica conviene non già correre verso di lei, ma, anzi, riconoscendo
che si tratta di immagini, e orme, e ombre, rifugiarsi in quel vero di cui esse non sono ap-
punto che figure. E chi verso di esse si precipitasse per coglierle quasi fossero il vero si
troverebbe nella stessa condizione di quell’uomo […] il quale volendo fermare la sua ama-
bile immagine che si muoveva, riflessa, nell’acqua, gettatosi giù nella corrente, scomparve.
(Enneadi, I, 6, 8)

L’arte e la bellezza sono i primi passi di un’ascesa verso il mondo intelligibile che, per
proseguire appropriatamente, richiede di innalzarsi dall’esperienza sensibile alla cono-
scenza intellettuale. A questo scopo, l’arte e la bellezza devono cedere il passo alla scienza
e alla filosofia: queste ultime si soffermano esclusivamente sulle forme astratte, senza
più nessun legame con i corpi e la materia. Nell’esperienza della bellezza l’anima con-
templava le forme nelle cose, cioè osservando le cose, mentre la scienza e la filosofia
permettono di contemplare le forme in quanto tali, ovvero le idee. Al termine di un percor-
so che ha come tappe intermedie la virtù, la bellezza e l’arte, attraverso la scienza e la
filosofia l’anima arriva infine a raggiungere la massima prossimità con l’Intelletto,
inteso come puro atto di contemplazione delle idee. ❯ testo 3 p. 99

FARE per CAPIRE • Individua e sintetizza a margine del testo la funzione svolta rispettivamente dal-
la bellezza e dall’arte nell’ascesa verso il mondo intelligibile.

❯ Giardino con erme


e fontana, affresco
dalla Casa del
Bracciale d’Oro a
Pompei, I secolo d.C.
Plotino attribuisce
all’arte e alla
bellezza la capacità
di elevare l’anima
dal mondo sensibile
verso il mondo
intelligibile.
92 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Il ritorno all ’Uno


Nel mito platonico della caverna, il prigioniero che si è liberato dalle catene del mondo
sensibile ed è uscito dalla caverna, giungendo a contemplare il mondo intelligibile, alla
fine decide di fare ritorno nella caverna, per insegnare anche agli altri prigionieri a libe-
rarsi. Qui si coglie come, per Platone, la destinazione finale della ricerca sia l’attività poli-
tica, l’emancipazione della comunità nel suo complesso. Per Plotino, invece, dopo che si è
usciti dalla “caverna” a contemplare il mondo intelligibile, non è opportuno tornare indie-
tro, e nemmeno ci si deve fermare al punto in cui si è arrivati: per giungere alla meta, oc-
corre spingersi ancora oltre. Questa è la grande novità del neoplatonismo in rapporto alla
filosofia di Platone. Il mondo delle idee, ovvero l’Intelletto, non è più il vertice assoluto
della ricerca: una volta approdati nel mondo intelligibile, resta ancora un tragitto da com-
piere, un ulteriore livello ontologico da raggiungere, il livello fondamentale: l’Uno.
Il processo di elevazione dal mondo sensibile al mondo intelligibile avviene a partire
dal riconoscimento delle idee che danno forma alle cose materiali, un riconoscimento che
si realizza esemplarmente nelle esperienze della bellezza e dell’arte, e che viene portato
a compimento dalla scienza e dalla filosofia. Tuttavia, la contemplazione delle idee com-
porta necessariamente una distinzione fra l’atto del contemplare e l’oggetto contemplato;
invece, per poter accedere all’Uno, che è unità assoluta, occorre superare qualsiasi distin-
zione. Dunque, l’ascesa dell’anima all’Uno, ovvero il ritorno effettivo alla «cara patria»,
può avvenire soltanto mediante un superamento delle nozioni di forma e idea, e quindi
anche del livello dell’Intelletto.

L ’esperienza mistica
Il ricongiungimento dell’anima con l’Uno si situa al di là dell’attività intellettiva e si ca-
ratterizza piuttosto come esperienza mistica di fusione tra soggetto e oggetto, e quindi
di uscita del soggetto dalla propria condizione di soggetto: un’esperienza che nel neopla-
tonismo prende il nome di estasi. Nell’estasi, qualsiasi distinzione tra soggetto e oggetto
svanisce:


Non ci sono più, estranei uno all’altro, un soggetto che vede, e un oggetto veduto, ma chi
ha vista acuta riscopre l’oggetto entro la propria soggettività […] La visione è tale che in
essa il soggetto si fa identico alla cosa veduta.
(Enneadi, V, 8, 10-11)

Come nell’ascesa dell’anima al livello dell’Intelletto si trattava di imparare a vedere le


cose concrete come manifestazioni delle forme e delle idee, così ora, nell’ascesa all’Uno, si
tratta di vedere le forme stesse (e le idee stesse) come manifestazioni di un livello ancora
più fondamentale, talmente fondamentale da situarsi al di là delle forme e delle idee in cui
si manifesta: «La forma è infatti la traccia di ciò che è senza forma», scrive Plotino (Enne-
adi, VI, 7). Se per accedere all’Intelletto occorreva cercare la forma nella materia, per acce-
dere all’Uno occorre andare al di là della forma, ma non per retrocedere alla materia,
bensì per immergersi in quell’unità assoluta, senza forma, da cui deriva la forma stessa.

lessico estasi (dal greco ékstasis, che letteralmente di sé”, vale a dire dalla propria condizione di se-
filosofico significa “essere fuori di sé”) l’esperienza misti- paratezza dall’oggetto, si congiunge con l’ogget-
ca attraverso la quale il soggetto, uscendo “fuori to contemplato.
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 93

Mentre le forme e le idee si rivelavano esemplarmente nell’esperienza della bellezza,


lo strato informe che sta a fondamento delle forme e delle idee si rivela in esperienze
molto più intense e sconvolgenti, il cui oggetto turba al punto da non lasciarsi più defini-
re “bello”, e appare piuttosto come qualcosa che eccede la nozione del bello, cioè come
qualcosa di sublime. Così Plotino descrive l’esperienza del filosofo che si approssima
all’Uno: «Persino le cose belle, egli le ha ormai valicate; anzi, egli corre già al di sopra del
bello stesso, al di sopra del coro delle virtù» (Enneadi, VI, 9, 72-77). L’esperienza del subli-
me, e soprattutto l’estasi, che è il punto di massimo avvicinamento all’Uno, non possono
essere esaustivamente descritte, perché ciò su cui vertono, l’Uno, è al di là di qualsiasi
possibilità di descrizione. Si tratta di esperienze eccezionali, lontanissime dall’espe-
rienza ordinaria, accessibili soltanto come esito di un lungo e impegnativo percorso di
ricerca.
Nella biografia del suo maestro Plotino, scritta come premessa alle Enneadi, Porfirio
racconta che Plotino è riuscito a raggiungere l’estasi soltanto quattro volte in tutta la sua
vita, mentre Porfirio è riuscito a provare la stessa esperienza una sola volta. Eppure, per
quanto così ardua e così sporadica, quella è l’esperienza che ci rivela da dove veniamo e
che cosa siamo realmente: è l’esperienza che, seppure soltanto momentaneamente, ci ri-
porta a casa, alla «cara patria», ed è dunque l’esperienza verso la quale l’intera esistenza
deve tendere. ESERCIZI

FARE per CAPIRE • Sintetizza in uno schema le fasi dell’ascesa dell’anima, dal ricongiungimento con
l’Anima del mondo e con l’Intelletto fino all’unione mistica con l’Uno.

TEORIE SULL’UNIVERSO IDEE A


CONFRONTO
PLATONE ARISTOTELE STOICI PLOTINO

IL DEMIURGO IL PRIMO MOTORE IL PRINCIPIO ATTIVO L’UNO


IMMOBILE

plasma una materia imprime vivifica e ordina è caratterizzato da


preesistente il movimento la materia una sovrabbondanza
prendendo a modello all’universo e attrae di essere da cui
le idee a sé tutte le cose le cose discendono
come loro causa per emanazione
finale

sublime (dal latino sub-, “sotto”, e limes, “soglia”, esso. Tale nozione è il tema principale di un impor- lessico
forse nel significato “fin sotto la soglia più alta”, a tante trattato risalente al I secolo d.C. giuntoci ano- filosofico
indicare qualcosa che arriva al limite più elevato nimo, il cui titolo originale greco è Perì Hýpsous, che
possibile) per Plotino è l’esperienza eccezionale di letteralmente significa “Su ciò che è elevato” e che
contemplazione dell’Uno e di unione mistica con viene tradotto in italiano “Del sublime”.
Professore, secondo lei perché Plotino sente
l’esigenza di ricondurre la molteplicità del
mondo sensibile a un principio fondamentale
e unitario?
a tu per tu con Ovviamente i veri motivi non li sapremo mai (e non
è detto che lo stesso Plotino li sapesse). Di certo

Maurizio Ferraris viveva in un impero, quello romano, dove da un


unico principio discendevano le leggi e il potere:
qualcosa di inconcepibile per un greco dell’età clas-
sica, cresciuto in un mondo caratterizzato dalla
pluralità, nel quale l’idea di un unico padrone del
mondo appariva come una barbarie orientale. Ag-
giunga che veniva dall’Egitto, dove non si era spen-
ta la memoria dei faraoni, degli autocrati che si
identificavano con il Sole, e in cui si erano manife-
state alcune forme di monoteismo. Per completare
il tutto, consideri che il culto dell’unico Dio nei cri-
stiani era ormai diffuso, e che la formazione filoso-
fica di Plotino aveva avuto luogo ad Alessandria,
ossia nella città in cui si era verificata la fusione tra
l’ellenismo e l’ebraismo. Queste sono circostanze,
per così dire, culturali. Al tempo stesso, però, la
passione per l’Uno è una tentazione strettamente
filosofica: in fondo, quando i primi filosofi cercava-
no il principio delle cose andavano alla ricerca di un
fondamento unitario, sicché l’acqua di Talete può

Plotino: il essere intesa come il remoto antenato dell’Uno di


Plotino.

riconoscimento A differenza di Platone, Plotino pone l’Uno al

del limite di là del noús, cioè al di là dell’intelletto, ne fa


qualcosa di ineffabile e indefinibile. Ci può
chiarire il significato filosofico di questa scelta?
della ragione Diversamente dall’acqua di Talete, l’Uno non si
vede e non si comprende, oltrepassa tanto i sensi
quanto l’intelletto, ossia è, strettamente parlando,
D opo aver affrontato il capitolo su Plotino,
proviamo a ritornare sulle questioni
fondamentali della sua riflessione chiedendo
“mistico”. Qui c’è lo stesso sospetto nei confronti
della vanità della conoscenza sensibile caratteristi-
co di Platone, cui però si aggiunge un nuovo ele-
al professor Maurizio Ferraris di illustrarci il mento: i sensi ingannano, ma l’intelletto arriva sol-
suo punto di vista in proposito. tanto fino a un certo punto; c’è una soglia oltre la
quale la ragione non può andare, e in cui le spiega-
zioni cedono il passo al silenzio. Da una parte, è
facile interpretare questa posizione come il farsi
avanti di una modalità tipica del Medioevo, delle
religioni rivelate perché inaccessibili alla ragione,
dei misteri della fede. Ed è anche possibile che una
sensibilità di questo tipo sia effettivamente presen-
te in Plotino, che cronologicamente è molto più
vicino ad Agostino che a Platone. Ma, visto che
d’altra parte il procedere argomentativo di Plotino
è mirabilmente logico, forse non dobbiamo lasciarci
sedurre dal cliché della sostituzione della ragione
95

per opera della fede: in fondo non c’è niente di più Nelle Enneadi Plotino ricorre a una espressione
razionale del riconoscere che la ragione arriva sol- molto eloquente: la forma è traccia dell’informe,
tanto fino a un certo punto, non al “centro” delle vale a dire che ciò che vediamo e pensiamo, per
cose, per il semplice motivo che il mondo non è quanto ordinato e trasparente, è pur sempre la
fatto per soddisfare tutte le nostre curiosità. Per traccia di qualcosa che ci sfugge: a cominciare dal-
dirla nei miei termini, c’è l’epistemologia, ossia le nostre intenzioni, che spesso non sono chiare
quello che sappiamo o crediamo di sapere, e c’è neppure a noi stessi. L’idea che nell’interiorità
l’ontologia, quello che c’è, ed è quello che è indi- dell’uomo sia celata una dimensione misteriosa è
pendentemente dal fatto che noi lo conosciamo o straordinariamente attuale, sembra anticipare la
meno. Tra le due dimensioni ovviamente c’è una psicoanalisi e la scoperta di dimensioni della psi-
connessione, nel senso che sappiamo poco o tanto che non accessibili alla coscienza eppure fonda-
del mondo, ma in effetti non conosciamo mai tut- mentali per capire la nostra identità. Plotino, a
to, e questo “tutto” è probabilmente quello che modo suo, con la sua scuola filosofica a Roma, era
Plotino indicava con “Uno”. uno psicoanalista ante litteram, e prometteva ai
Romani colti e ricchi che avrebbero fatto pace con
sé stessi non soltanto ricorrendo alla filosofia gre-
Nella prospettiva di Plotino il ritorno all’Uno ca, ma anche alle sapienze orientali che aveva co-
presuppone il ripiegamento dell’uomo in sé nosciuto seguendo la spedizione militare in Persia.
stesso, nell’interiorità della propria coscienza,
dove può ricongiungersi con il principio
sovrarazionale da cui tutto deriva.
La conoscenza di sé diventa dunque apertura
alla trascendenza dell’Uno. Come giudica
questo approdo mistico della filosofia?
Definire “mistico” un filosofo non è dal mio punto
di vista fargli un complimento. Eppure ci sono sta-
ti grandi filosofi, antichi e moderni, che hanno
sentito la tentazione della mistica, e sicuramente
Plotino è il loro capostipite. Perché? Perché quan-
to più si ricerca, tanto più ci si rende conto che la
ricerca non ha fine, e che c’è sempre qualcosa de-
stinato a sfuggirci; in fondo, credo che nessuno
possa davvero pensare che il mondo non abbia mi-
steri. Ne ha, eccome, e soprattutto sono talmente
ben nascosti che non li sospettiamo nemmeno.
In altri termini, se la filosofia nasce dal superamento
del mitico, come spiegazione narrativa del mondo,
in nome del lógos, cioè del principio di ragione, non
di rado il suo approdo è il mistico, ossia il riconosci-
mento che ci sono realtà che trascendono la ragione.

Ritratto di Plotino, elaborazione grafica, 2018.


96 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

TESTI del capitolo 13


Il neoplatonismo e Plotino

t1 I caratteri dell’Uno dalle Enneadi


Plotino indica nell’Uno il principio fondamentale da cui dipendono tutte le cose. Poiché tale principio è al
di là di ogni molteplicità, pluralità o determinazione, risulta ineffabile e trascendente, dunque impossibile
da definire. Come mostra il brano che segue, l’autore tenta comunque di individuarne alcune peculiarità.

Questa molteplicità coesa in cui consiste il cosmo intelli-


[Il principio al di sopra dell’intelletto]
gibile è certamente nei pressi del Primo, e, a nostro giudizio, è dotata di un essere necessario,
una volta che sia ammessa la necessità dell’anima: tale molteplicità, infatti, è assai più potente
dell’anima. Ma, nonostante ciò, essa non è il Primo, perché non è ne una né semplice: l’Uno,
5 sì, che è semplice e principio di tutte le cose! Poniamo, dunque, che ci sia qualcosa che viene
ancor prima del più prezioso degli esseri. È infatti necessario che esista qualcosa che precede
l’Intelligenza, perché questa vuole essere uno, ma non lo è, limitandosi tutt’al più ad avere «la
forma dell’Uno»: essa infatti, in sé non è dispersa, ma è davvero intimamente coerente e sen-
za divisioni per il fatto di seguire da vicino l’Uno, da cui in un certo modo ha osato separarsi.
10 [La natura ineffabile dell’Uno] Dunque, questa straordinaria realtà che viene prima dell’Intelli-
genza è l’Uno, il quale non è essere e per tal ragione, al suo livello, non varrà come un uno che
si predica di altro, né gli si addice alcun nome in senso proprio. In verità, dato che pur bisogna
nominarlo, «Uno» è la denominazione comunemente accettata, purché non si intenda che egli
prima fosse una cosa diversa e poi, in un secondo momento, sia diventato Uno. Certo conoscer-
15 lo per questa via non è facile, e noi preferiamo comprenderlo attraverso la sua creatura: l’essere,
al quale l’Intelligenza conduce. L’Uno è dotato di una meravigliosa natura che è fonte di tutte
le realtà eccellenti ed è una potenza creativa in se stessa stabile che non perde vigore per essere
nelle cose che da lei derivano. Ora, qualsiasi sia la cosa che precede queste, per indicarlo fra di
noi, saremo costretti a fare uso del nome «Uno», perché, grazie a esso, saremo spinti a conce-
20 pire un che di indivisibile, che nelle nostre intenzioni potrebbe rendere unitaria l’anima. Co-
munque, non diciamo «Uno» e «indivisibile» nel senso del punto geometrico o del numero uno,
i quali sono, sì, principi, ma della quantità, che non esisterebbe se prima non ci fosse stato
l’essere e ciò che è ancora prima dell’essere. Non è dunque questo l’obiettivo verso cui bisogna
indirizzare la mente, per quanto tali realtà matematiche mantengano sempre un rapporto di
25 analogia con quelle realtà trascendenti per la loro semplicità, e rifuggano dalla molteplicità e
dalla divisione.
(Enneadi, VI, 9, 5, trad. it. di G. Reale, Mondadori, Milano 2002)
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 97

TESTI
ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea con colori diversi le espressioni che possono essere riferite ai seguenti ambiti semantici:
• semplicità, unitarietà, indivisibilità;
• molteplicità, divisibilità, imperfezione.
2. Individua ed elenca a margine le caratteristiche che vengono attribuite al’Uno.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-9 Pur essendo superiore alla terza ipo- za, che può essere colta soltanto attraverso l’indivi-
stasi – l’Anima –, l’Intelletto (il «più prezioso degli duazione di attributi specifici. Plotino lo chiama
esseri», ciò che nel regno dell’essere ha il maggior “Uno” per poterlo “nominare”, consapevole che si
valore) non costituisce il principio supremo: non è tratta di un uso strumentale e convenzionale del
infatti unitario. Principio supremo è invece l’Uno, termine. Di fatto l’Uno può essere conosciuto e de-
che è fondamento di tutto ciò che è. Postulare finito soltanto a partire dall’essere dell’Intelletto e
qualcosa di unitario che precede l’Intelletto è ne- dagli enti che da questo derivano: in tal senso si
cessario: quest’ultimo, infatti, aspira all’unità ma comprende che è dotato di una natura perfetta a
non la raggiunge. Esso si avvicina all’Uno, derivan- differenza di quelli, e che dalla sua infinita potenza
do dalla sua contemplazione, ed essendone l’im- “generativa” derivano tutte le cose senza che esso
magine («ha la forma dell’Uno»); tuttavia, come ne risulti impoverito.
pensiero, comporta una molteplicità (dovuta allo
righe 18-26 Facendo uso del termine “Uno” si
sdoppiamento tra soggetto e oggetto).
intende alludere a qualcosa di unitario, indiviso e
righe 10-18 L’Uno «non è essere» in quanto è al semplice (cui la stessa anima aspira). Tale denomi-
di sopra dell’essere quale suo fondamento. Pertan- nazione, tuttavia, non deve essere intesa in senso
to, non è “uno” inteso come attributo di qualche matematico o geometrico: l’unità matematico-ge-
ente: essendo al di sopra degli enti, l’Uno non pos- ometrica comporta infatti una quantità, che pre-
siede alcuna delle determinazioni di questi ultimi e suppone a sua volta l’essere; l’Uno, invece, come
risulta impossibile definirlo in qualsiasi modo – ogni abbiamo detto è al di là di ogni essere, figura o
«nome» comporta infatti il riferimento a un’essen- numero, essendo il loro fondamento trascendente.

RIFLETTI
Nel brano Plotino parla dell’Uno come «fonte di tutte le realtà eccellenti» e «potenza creativa in se
stessa stabile». Spiega quale concezione è sottesa a queste definizioni; quindi esponi il tuo punto di
vista sul tema della generazione dell’universo, confrontando la tua visione con quella di Plotino.

t2 La materia e il male dalle Enneadi


Nel brano seguente, Plotino chiarisce in che senso la materia si identifica con il male, e definisce
quest’ultimo come mancanza di bene e di essere.

[La natura della materia] In realtà, il principio del divenire è la natura della materia, la quale è
a tal punto malvagia da contagiare del proprio male perfino quello che non è ancora in essa
ma si limita a guardarla. Nella materia, infatti, non c’è traccia di bene, in quanto essa è priva-
zione di bene, e poi, essendo pura mancanza, tende ad assimilare a sé tutto ciò che in qualche
98 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

5 modo la tocca. Dunque, l’Anima perfetta, quella che è diretta verso l’intelligenza, non ri-
TESTI

nuncia mai alla sua purezza, e per questo distoglie lo sguardo dalla materia; inoltre non
guarda né accosta tutto ciò che è indefinito, privo di misura, e insomma malvagio. […]
[Il male come assenza totale di bene] Il fatto che l’Anima veda l’oscurità e con essa si accompa-
gni dipende dalla mancanza di bene, e il male per lei consisterà proprio in questa mancanza.
10 E sarà il male primario – posto che il male secondario sia l’oscurità –, sicché la natura del male
non sarà più inerente alla materia, ma ancora prima della materia. Il male, però, non può con-
sistere in una mancanza di qualunque tipo, ma in una mancanza totale; pertanto, una realtà
che abbia una minima carenza di bene non è un male, in quanto, in proporzione alla sua na-
tura, può anche attingere alla perfezione. Ma quando la mancanza è totale, come nel caso
15 della materia, allora siamo in presenza del male in sé in cui non c’è parte alcuna di bene. Il
fatto è che alla materia fa difetto l’essere necessario per partecipare al bene; le attribuiamo solo
per omonimia, mentre, in verità, essa meriterebbe il nome di non-essere. Insomma, la man-
canza di bene implica il non essere bene, ma l’assoluta mancanza di bene implica il male.
(Enneadi, I, 8, 4-5, trad. it. di G. Reale, cit.)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea con colori diversi le espressioni che indicano i caratteri rispettivamente della materia e
del male.
2. Evidenzia nel testo la frase in cui si illustra la natura delle realtà corporee in relazione al male.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-7 Dalla materia – situata per Plotino all’e- traddistingue è diverso da quello che caratterizza
stremità inferiore dell’essere, nella regione in cui non gli esseri («secondario»), i quali sono una commi-
penetra la luce che emana dall’Uno – derivano il di- stione di materia e di forma, di tenebra e di luce, e
venire, la dispersione e il male. Quest’ultimo, inteso pertanto possono avere una carenza di bene, di
come assenza di luce e di bene, contamina, “conta- vario grado, ma non coincidono mai con il male.
gia” le entità corporee, le quali sono costituite dalla Essi, in base alla loro natura che implica un legame
forma impressa dall’Anima all’elemento materiale. con il bene, possono «attingere alla perfezione»,
L’Anima, benché nella sua attività plasmatrice degli cioè possono aspirare alla realizzazione della forma
esseri abbia a che fare con la materia – sostrato inde- che costituisce la loro essenza. Il male vero e pro-
finito e informe –, ne rimane separata. prio spetta unicamente alla materia, che appunto è
totalmente priva di essere e di bene e, come tale,
righe 8-18 La materia rappresenta l’oscurità to-
coincide con il non essere.
tale. In questo senso il male («primario») che la con-

RIFLETTI E DISCUTI
1. Quello del male è un tema centrale per la filosofia, che da sempre si interroga sulla sua natura e su
come sia possibile conciliarne la presenza con l’ipotesi dell’esistenza di una divinità benigna. La solu-
zione di Plotino è quella di considerare il male in termini “ontologici”, come costitutiva mancanza di
bene e di essere. Ti sembra una risposta soddisfacente? Vi sono problemi che, a tuo avviso, in questa
prospettiva rimangono insoluti? Esponi e argomenta il tuo punto di vista in proposito.
2. Affrontate un dibattito in classe sul tema del male, provando a esplicitare quali sono per voi i princi-
pali “mali” odierni e quale possa essere il significato che al giorno d’oggi riveste il concetto stesso di
“male”. Potete partire dalle significative e provocatorie parole del fisico Albert Einstein (1879-
1955): «Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che fanno male, ma a causa di co-
loro che stanno a guardare senza fare niente».
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 99

TESTI
t3 Il ritorno dell’anima alla sua origine dalle Enneadi
Nella concezione di Plotino l’anima si trova in una posizione intermedia fra il mondo intelligibile, da cui
deriva, e quello sensibile, in cui è dispersa: nel testo è descritto il viaggio di ritorno verso la sua origine,
costituita dall’Uno. Si tratta di un percorso che richiede il distacco dalla molteplicità e dal mondo delle
cose sensibili per accedere, innanzitutto, alla contemplazione delle idee nell’Intelletto.

[Il viaggio verso l’Uno] E dunque, quale viaggio è mai questo e quale fuga? Certo, non si può
compiere a piedi, perché in ogni caso i piedi ci porterebbero da una terra all’altra. Neanche si
devono attrezzare carrozze di cavalli o imbarcazioni: basta solamente distaccarsi da tutto e
non guardare più, ma, per così dire, con gli occhi ben serrati, riattivare quell’altra vista che
5 tutti hanno, ma che in pochi usano, e ricorrere a essa.
Che cosa coglie questa vista interiore? Al risveglio, ancora non riesce a distinguere nitidamen-
te le realtà che splendono di luce abbagliante. Occorre anzitutto abituare l’anima in quanto
tale a contemplare le belle imprese; poi le belle azioni, ma non i prodotti artistici, bensì le gesta
degli uomini che hanno fama di bontà.
10 [La purificazione dell’anima] Bisogna poi passare all’anima dei responsabili di queste belle
azioni. Ma come si può vedere quale bellezza ha un’anima buona? Rientra in te stesso e guar-
da: se ancora non ti vedi bello di dentro, fa’ come lo scultore di una statua che deve venire
bella, il quale a volte toglie e a volte leviga, a volte liscia e a volte raffina, fin quando sulla
statua non affiori un bel volto. Dunque, comportati anche tu come lui, togliendo il superfluo,
15 raddrizzando ogni stortura, purificando ciò che è scuro per renderlo lucente, non smettendo
mai di «ritoccare la tua propria statua», fino a quando non riluce per lo splendore divino della
virtù, e non vedi «la temperanza saldamente posta su di un piedistallo immacolato».
[L’approdo dell’anima alla contemplazione delle idee] Se sei diventato così e riesci a vederla, e in
tutta purezza ti sei congiunto a te stesso, niente più ti impedirà di diventare uno per questa
20 via, perché non avrai più alcuna mescolanza nel tuo intimo, ma sarai ridotto a null’altro che a
vera luce […]. Ora, se ti vedi trasformato in questo modo, allora ormai sei ridotto a puro sguar-
do, e, acquisita fiducia in te stesso, per quanto ancora quaggiù, sei già salito lassù, senza più
bisogno di chi ti indichi il cammino, a tal punto non ti resta che tendere lo sguardo e guarda-
re, perché solo quest’occhio può cogliere la grande Bellezza.
25 Ma se qualcuno arriva alla contemplazione con gli occhi malati, impuro o gracile o solo inca-
pace di vedere quella luce sfolgorante per colpevole debolezza, non vedrà nulla anche se un
altro gli addita quello che è lì apposta per essere visto. Il veggente, infatti, prima deve farsi
congenere e affine al suo oggetto, e poi applicarsi alla visione; infatti l’occhio non potrebbe mai
guardare il Sole se prima non è diventato simile al Sole, e lo stesso è per l’anima che non può
30 vedere il bello se non dopo essersi fatta bella. L’uomo, dunque, assuma in primo luogo forma
divina e divenga del tutto bello, se davvero vuole mettersi a contemplare Dio e la Bellezza.
(Enneadi, I, 6, 8-9, trad. it. di R. Radice, Mondadori, Milano 2002, pp. 199-203)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea nel testo le espressioni che rientrano nel campo semantico della luce.
2. Individua e cerchia il passaggio in cui si precisa che cosa è necessario fare per compiere il viaggio.
100 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
TESTI

3. Evidenzia la similitudine che Plotino utilizza per descrivere la preparazione dell’anima in vista del
percorso di risalita verso l’Uno.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-9 Il viaggio di ritorno dell’anima verso Analogamente, l’anima deve praticare le virtù, pu-
l’Uno non è un trasferimento fisico, che richieda rificandosi dalle passioni e dagli istinti (gli aspetti
mezzi di trasporto concreti, bensì un viaggio spiri- materiali dell’individuo), per rendersi lucente, im-
tuale. Esso comporta il distacco dalle cose esteriori macolata, di uno splendore «divino».
e il ripiegamento del soggetto nella propria inte-
righe 18-31 La purificazione dell’anima è condi-
riorità, quasi attivando uno sguardo interno, le fa-
zione imprescindibile per arrivare a elevarsi – nel
coltà dell’intelletto, gli “occhi dell’anima”. Tale «vi-
tragitto verso l’Uno – alla visione delle idee intelli-
sta interiore» – ossia la mente – in un primo
gibili che risiedono nell’Intelletto: l’anima deve
momento può risultare abbagliata dalla luminosità
cercare di sottrarsi sempre più alla «mescolanza»
degli oggetti intelligibili, cioè da contenuti troppo
con la materia, cioè deve ritirarsi nell’interiorità e
elevati: per questo è indispensabile abituarla gra-
distaccarsi dalla lusinga dei sensi. Soltanto in que-
dualmente, concentrandosi prima sulle azioni
sto modo il suo «sguardo» può riuscire a vedere la
umane che riflettono la bellezza ideale.
Bellezza ideale. In caso contrario, se ancora si pre-
righe 10-17 Per poter accedere alla contempla- sentasse contaminata con il corpo, l’anima risulte-
zione della bellezza ideale, l’anima deve farsi essa rebbe come un individuo malato, debole, incapace
stessa bella: Plotino paragona questo processo di di scorgere anche ciò che gli altri gli indicano. Plo-
purificazione interiore all’attività dello scultore, il tino presenta dunque il percorso della risalita
quale si applica a rifinire e levigare una figura, sot- come impegnativo e graduale: per poter accedere
traendo poco per volta la materia residua, in modo al mondo intelligibile in cui regna la Bellezza, l’ani-
che la forma possa emergere in tutto il suo fulgore. ma deve rendersi simile a essa.

RIFLETTI
Plotino invita a rivolgere lo sguardo al nostro interno per scorgere verità superiori e “splendenti”: in
questa prospettiva, la condizione ideale della conoscenza sembra essere quella della concentrazione
e del silenzio, al riparo dagli stimoli esterni. Concordi con questa prospettiva? Esponi il tuo punto
di vista, raccontando qual è la tua personale modalità di studio e di ricerca intellettuale.
101

capitolo 13
SINTESI Il neoplatonismo e Plotino
AUDIOSINTESI

1 La scuola neoplatonica: vicende e fonti


Che cos’è il neoplatonismo? Il neoplatonismo è esponente del neoplatonismo è Plotino, il quale co-
l’ultima grande corrente del pensiero antico; si nosce il platonismo tramite Ammonio Sacca. Dopo
ispira a Platone, ma risente fortemente anche di in- il fallito tentativo di venire a contatto con la sapien-
fluenze aristoteliche, delle filosofie ellenistiche e del za persiana e indiana, si stabilisce a Roma dove fon-
clima mistico-religioso dei primi secoli dopo Cristo. da una scuola di notevole successo. Il discepolo Por-
Chi è il suo principale esponente? Il principale firio ne pubblica gli scritti con il titolo di Enneadi.

2 Dall ’Uno alla molteplicità


Qual è il principio fondamentale della realtà se- simo, la seconda l’Intelletto, la terza l’Anima. Per
condo Plotino? Secondo Plotino principio di tutte emanazione dall’Uno deriva l’Intelletto, che corri-
le cose è l’Uno. Poiché si colloca oltre lo spazio, il sponde al mondo delle idee; in esso vi è distinzione
tempo e ogni pluralità o distinzione, non è possibi- tra l’oggetto contemplato e l’atto del contemplare.
le descriverlo attribuendogli caratteristiche specifi- Dall’Intelletto emana l’Anima, principio che dà vita
che. Dell’Uno possiamo dire soltanto ciò che non è. e forma alle cose concrete, e allo spazio e al tempo.
Come avviene la derivazione delle cose dall’Uno? Che cos’è la materia? La materia di cui le cose cor-
Tutte le cose derivano e dipendono dall’Uno trami- poree sono costituite è il punto limite dell’emana-
te l’emanazione. L’emanazione non può essere zione. Come il buio è l’arrestarsi della luce prove-
spiegata in termini di azioni o processi, bensì sem- niente da una sorgente, così la materia è quanto di
plicemente in ragione di quello che l’Uno è, vale a più lontano esiste rispetto all’Uno. La materia è
dire in virtù della sovrabbondanza del suo essere. responsabile della molteplicità e dispersione del
Da questo deriva la sua necessità: le cose emanano mondo.
dall’Uno come un profumo emana dal fiore o la Da dove deriva il male? Il male deriva dalla resi-
luce emana dalla sorgente luminosa. stenza che la materia oppone al principio di unità.
Quali sono i livelli in cui è articolata la realtà? Plo- Esso, tuttavia, non è assoluto, ma va considerato
tino teorizza tre livelli della realtà gerarchicamente come un aspetto necessario del sistema generale e
ordinati e chiamati ipòstasi: la prima è l’Uno mede- perfetto che deriva dall’Uno.

3 La via del ritorno all ’Uno


Qual è il compito dell’anima umana? Il compito Perché scienza e filosofia sono superiori alla bel-
dell’anima individuale è ripercorrere a ritroso i gra- lezza e all’arte? La scienza e la filosofia si soffer-
di dell’emanazione e, dalla dispersione del mondo, mano esclusivamente sulle forme astratte, senza
risalire all’Uno. La prima fase è il ricongiungimento più nessun legame con i corpi e la materia: consen-
con l’Anima del mondo, tramite le virtù civiche che tono quindi di contemplare direttamente il mondo
concernono l’azione. Superiori a queste sono le virtù delle idee, cioè l’Intelletto.
intellettuali, che concernono la contemplazione e
consentono all’anima di elevarsi all’Intelletto. La bel- Qual è l’esperienza che va oltre l’Intelletto? Oltre
lezza svolge un ruolo fondamentale per passare dal l’Intelletto si colloca l’identificazione con l’Uno, che
mondo sensibile a quello intelligibile e cogliere l’uni- non può essere definita come un’attività intellettiva,
tà oltre la molteplicità. Un’importante funzione è at- perché supera la distinzione tra il soggetto che con-
tribuita all’arte, concepita come attività in grado di templa e l’oggetto contemplato. È un’esperienza
produrre entità che si avvicinano alle idee, cioè ai mistica di fusione e di superamento dell’individua-
principi fondamentali della realtà. lità del soggetto; tale stato viene chiamato “estasi”.
102 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

capitolo 13
MAPPE CONCETTUALI Il neoplatonismo
e Plotino
DALL ’ UNO ALLA
MOLTEPLICITÀ
L’UNO

è • assolutamente semplice
• unitario
il principio originario della realtà • al di là di ogni determinazione,
molteplicità e pluralità
da cui tutte le cose • trascendente e ineffabile
derivano tramite
l’Uno irradia oltre sé stesso
l’emanazione infatti la propria sovrabbondanza
di essere

la quale determina

tre livelli di realtà o ipòstasi

l’Uno l’Intelletto l’Anima

coincide con il principio in esso si distinguono l’atto dà forma alla materia sul
unitario al di là dell’essere del contemplare e l’oggetto modello delle idee, e genera
contemplato (le idee) lo spazio ed il tempo

LA VIA DEL
RITORNO ALL ’ UNO
L’ANIMA UMANA

aspira a ritornare all’Uno

tale percorso di
ascesi comporta le virtù civiche

tre fasi successive la bellezza e l’arte

dopo le quali è la scienza e la filosofia


possibile raggiungere
esperienza mistica di fusione
l’estasi
tra soggetto e oggetto
103

capitolo 13
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Il neoplatonismo
e Plotino RIPASSO

1 La scuola neoplatonica: 6. Qual è il tratto distintivo della materia?


(segna la risposta esatta)
vicende e fonti a è il punto limite del processo dell’emanazione

riconoscere le nozioni b è un principio opposto all’Uno


c è la conseguenza del male
1. Le principali fonti della dottrina neoplatonica
sono: (segna la risposta esatta) d è il principio che dà l’essere al mondo
a Platone, Aristotele e gli stoici
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
b Pitagora, Platone e Aristotele
7. Perché l’Uno è indicibile?
c epicureismo e scetticismo
8. Quali sono i caratteri dell’Intelletto?
d la filosofia presocratica, in particolare Parmenide
9. Come nasce la molteplicità del mondo empirico?
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) 10. Da dove ha origine il male?
2. In che senso la nozione neoplatonica di unità 11. Quale importanza rivestono le virtù civiche
è simile alle teorie dei presocratici? nel percorso di ritorno dell’anima all’Uno?
scrivere e rielaborare (15-20 righe)
12. Quale visione dell’essere emerge dal pensiero
2 Dall ’ Uno alla molteplicità di Plotino?
riconoscere le nozioni e il significato
delle parole
3. Per Plotino l’Uno va inteso: (segna la risposta esatta)
a come un dio creatore che si rivela nella natura
3 La via del ritorno all ’ Uno
b come sostanza primordiale, dalla cui riconoscere le nozioni e il significato
modificazione emanano tutte le cose delle parole
c come principio indicibile, che non subisce 13. Lo scopo etico del pensiero di Plotino consiste:
modificazioni benché da esso derivino tutte le cose (segna la risposta esatta)
d come mondo intelligibile, in cui sono contenuti a nell’insegnare agli uomini a vivere bene
gli archetipi delle cose nel mondo
b nell’additare la via del ritorno all’Uno
4. Che cos’è l’emanazione? (segna la risposta esatta)
c nel delineare un modello di vita conforme
a è un atto libero dell’Uno, che, per la sua bontà e
all’atarassia
sovrabbondanza, dà origine al mondo
d nell’attendere la salvezza da parte dell’Uno
b è un processo necessario di derivazione delle cose
dall’Uno, a causa della sovrabbondanza dell’Uno 14. L’estasi consiste: (segna la risposta esatta)
c è un processo di degradazione dell’Uno che a nella contemplazione della bellezza, grazie all’arte
diventa Intelletto e Anima b nel godimento dei piaceri, che spingono ad
d è il processo che permette di capire che l’Uno è andare sempre oltre
la legge immanente della natura c nella ricongiunzione e fusione con l’Anima universale
5. Attribuisci i caratteri seguenti all’Intelletto d nella ricongiunzione e fusione con l’Uno
(usando “I”), all’Anima (usando “A”), o a
nessuno dei due (usando “/”): esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
a. principio vitale del mondo (...); b. dà origine al 15. Qual è il ruolo della bellezza nell’ascesa dal
tempo (...); c. è la seconda ipostasi (...); d. plasma mondo sensibile al mondo intelligibile?
la materia (...); e. è il primo livello della molteplicità
(...); f. è la prima ipostasi (...); g. è il primo atto
ad alta voce
di contemplazione (...); h. è oltre il pensiero (...); 16. Spiega in 5 minuti le tappe del ritorno alla
i. conferisce la forma alle cose (...). «cara patria».
104

sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

Concetto
La cura
Nell’età ellenistica i confini e gli orizzonti del mondo conosciuto si allargano, ma
contemporaneamente gli individui tendono a ripiegarsi su sé stessi. Date le mutate condizioni
politiche che riducono gli spazi di partecipazione pubblica dei sudditi, la riflessione filosofica
si concentra sulla cura di sé: gli individui – smarriti nella nuova, sterminata compagine
statale e resi fragili dalle disparità economiche – si volgono alla ricerca di risorse per
affrontare le paure e le inquietudini del presente. Si cercano risposte a questioni relative
al significato dell’esistenza, avendo perso il rassicurante riferimento della pólis, che attribuiva
ai cittadini un posto e un ruolo: la filosofia costituisce allora un riparo rasserenante, poiché
propone una visione del mondo unitaria e coerente sulla cui base è possibile individuare una
nuova scala di valori, un rinnovato codice di comportamento, nuovi obiettivi.

il significato Il termine cura, inteso come cura di sé, della propria anima e della propria vita, allude
al compito quasi terapeutico che la filosofia assolve in età ellenistica, unitamente alla più
del termine tradizionale funzione conoscitiva e critico-razionale. Grazie alla filosofia l’individuo può
trovare un orizzonte di senso che aveva perduto, riuscendo a elaborare strategie esisten-
ziali più efficaci e adatte al nuovo contesto storico.
Nelle filosofie ellenistiche, la cura dell’anima si persegue in modi differenti e viene intesa
come:
- farmaco contro le principali paure;
- conoscenza e accettazione del destino;
- atteggiamento intellettuale di distacco dalle cose;
- apertura alla trascendenza.

IL TETRAFARMACO in relazione a questi temi serve per placare le ansie che


DEGLI EPICUREI ne derivano. È infatti inutile temere gli dei, che sog-
La visione del mondo su cui è basata la “cura” della fi- giornano in regioni lontanissime e risultano del tutto
losofia epicurea è materialista e meccanicista: per indifferenti alle vicende umane; allo stesso modo è
Epicuro tutto è spiegabile in termini di materia e mo- stolto temere la morte, la quale non è altro che la di-
vimento degli atomi nel vuoto, senza ipotizzare alcun sgregazione del composto di atomi che ci costituisce,
progetto o finalità. Le aggregazioni degli atomi e il e quando sopraggiunge interrompe ogni sensazione e
loro disfacimento, pur essendo rigorosamente deter- consapevolezza. Inoltre, perché temere il dolore,
minati dal dinamismo meccanico universale, avvengo- quando sappiamo che è transitorio oppure conduce
no per caso, e gli stessi esseri umani sono composizio- alla morte in breve tempo? E perché avere paura
ni casuali e contingenti di atomi destinati a dissolversi. dell’infelicità, quando la felicità è a portata di mano,
Si tratta di una teoria che, oltre a soddisfare le nostre dal momento che risiede nell’assenza di dolore? In
esigenze conoscitive, svolge un benefico effetto sull’a- tutti questi casi, attingendo la verità si può evitare il
nimo di chi la apprende, mostrando che alcune delle turbamento. Ecco qual è la cura prescritta da Epicuro:
principali paure dell’essere umano sono prive di vivere all’insegna della razionalità, allontanando ciò
fondamento. Epicuro ne cita in particolare quattro: la che provoca inutili sofferenze e cercando di perseguire
paura degli dèi, quella della morte, il timore dell’infe- quei piaceri che procurano una condizione di sereni-
licità e della sofferenza. Sapere come stanno le cose tà e di pace.
105

GLI STOICI E IL RISPETTO il comportamento della vita quotidiana risulta per-


DELL’ORDINE RAZIONALE tanto svincolato da qualsiasi prescrizione, e può esse-
DELLE COSE re adeguato alle esigenze pratiche che di volta in vol-
Anche per gli stoici la cura ai mali dello spirito risiede ta ci si presentano.
nella conoscenza: si tratta di comprendere il princi-
pio divino che pervade il mondo nella sua totalità. IL NEOPLATONISMO
L’essere umano è parte integrante dell’organismo co- E L’APERTURA ALLA
smico; quindi, riconoscendo la razionalità, la finalità TRASCENDENZA
e la necessità del suo ordine, può cogliere anche il Il neoplatonismo introduce nella considerazione della
senso della propria esistenza. Più esaminiamo a fon- cura due aspetti peculiari: con Plotino, infatti, viene
do le cose – e a tale scopo disponiamo dei sensi e meno la concezione secondo cui la conoscenza di sé è
delle raffinate strategie logiche dell’intelletto –, più interamente guidata dalla ragione, e inoltre si assiste
abbiamo la possibilità di capire il significato di ciò che a un’apertura alla trascendenza. Questi due aspetti
ci accade. È inutile disperarsi per gli eventi sfortunati, sono legati fra loro: quando Plotino colloca l’Uno al
gli inconvenienti, le privazioni: il male non è mai fine di là dell’Intelletto, parla di qualcosa che non può es-
a sé stesso, perché ogni cosa rientra nella logica sere conosciuto razionalmente. Una tale trasforma-
dell’universo, ha un suo ruolo, una funzione. Nostro zione di pensiero dipende da molti fattori concomi-
dovere è adeguarci al destino, accettarne le condi- tanti: il diffondersi nel periodo ellenistico di religioni
zioni con rassegnazione e fiducia. orientali, il fascino esercitato dai culti misterici e il
Il pensiero stoico è comunque sensibile alla caducità progressivo affermarsi del cristianesimo. La filosofia
del mondo e della vita umana: Marco Aurelio, rife- non è più separata dalle credenze religiose, ma si pra-
rendosi a coloro che si dimostrano arroganti, scrive: tica in un contesto religioso, in cui il cristianesimo –
dopo un periodo di contrasto con le istituzioni politi-
“ Dove sono quegli uomini acuti, capaci di predire il
futuro o pieni di boria? Tutto effimero, morto da che – diventa dominante.
tempo: alcuni non sono stati ricordati neppure Nonostante tale innegabile concessione al mistici-
per breve tempo, altri sono passati nella leggenda, smo, la filosofia plotiniana è fondata su un percorso
altri sono scomparsi anche dalle leggende. razionale che l’anima deve affrontare per raggiun-
(Pensieri, VIII, 25) gere la condizione più elevata. Dispersa nel mondo
delle cose, infatti, l’anima è chiamata a risalire tut-
La filosofia insegna però che, sebbene tutto appaia ti i livelli della realtà, affrancandosi innanzitutto dai
effimero e instabile, esiste tra le cose un «legame sa- vincoli del corpo e della materia attraverso l’eserci-
cro», e la vera felicità risiede nell’assecondare con zio delle virtù. A questo punto, il suo itinerario risulta
consapevolezza «l’ordine del cosmo», il suo sviluppo. sostanzialmente contemplativo: l’anima individuale
deve ricongiungersi all’Anima del mondo, cogliendo
L’ATTEGGIAMENTO DI nella bellezza corporea – con l’apporto dell’arte – un
DISTACCO DEGLI SCETTICI riflesso di quella intelligibile; quindi deve attingere
Per quanto riguarda gli scettici, la cura rappresentata la conoscenza intellettuale attraverso la scienza e la
dalla loro filosofia consiste nell’esito cui perviene: la filosofia. Soltanto così sarà possibile sperimentare
lucida consapevolezza dell’impossibilità della co- l’estasi, la mistica unione e identificazione con il
noscenza. Ne deriva che la felicità è costituita dal principio supremo in cui consiste la beatitudine.
distacco nei confronti delle cose, di cui non possiamo Il sentimento di scissione e di tensione che gli indivi-
avere certezza, e dall’indifferenza verso gli accadi- dui provano dentro di sé deriva dal fatto che l’anima
menti, sui quali è consigliabile sospendere il giudizio. aspira a ritornare alla «cara patria» da cui proviene; in
Se non possiamo individuare verità certe, non esiste questo senso, il percorso di ascesi insegnato da Ploti-
qualcosa che meriti di essere perseguito, un bene ver- no è la cura per lenire il dolore radicato nell’esistenza
so cui orientare le nostre scelte, un dovere assoluto: umana.
tema
L’AMICIZIA
È UN FATTO
PERSONALE
O SOCIALE?

DEFINIAMO IL CONCETTO

amicizia Il termine “ami-


cizia” denota in genere un legame di reci-
proco affetto tra due o più persone unite
da stima vicendevole e da affinità di in-
teressi e di sentimenti. La filosofia antica
ha elaborato un concetto di amicizia più
esteso: ad esempio, per Aristotele l’ami-
cizia è essenziale per rinforzare le virtù e
si esercita collettivamente, mentre per gli
epicurei e per gli stoici è una delle princi-
pali esperienze della vita del saggio, non-
ché un caposaldo dell’etica. Nel dibattito
contemporaneo ci si interroga se l’amicizia
possa favorire l’integrazione sociale, so-
prattutto fra persone che appartengono a
culture diverse
107

PARTIAMO DA UNA POESIA: L’AMICIZIA DI GIBRAN


Tra i numerosi testi dedicati al tema del rapporto con l’altro, la poesia L’amicizia di Kahlil Gibran
(1883-1931), scrittore libanese naturalizzato statunitense, è tra i più citati. Il componimento è
tratto dal Profeta, che raccoglie 26 sermoni relativi a varie esperienze di carattere universale
e che per questo è stato definito un “breviario per laici”.
Il pretesto dell’opera è offerto dalla partenza del profeta Almustafa, che, dopo aver vissuto per
dodici anni in terra straniera, sta per tornare nella sua isola nativa. Prima di congedarsi, Almusta-
fa condivide i frutti delle sue riflessioni con la gente accorsa a salutarlo, trattando diversi temi,
quali la natura, la libertà, l’amore, il tempo, il matrimonio, la morte. Riportiamo alcuni versi della
poesia sull’amicizia.

“ EE un adolescente disse: Parlaci dell’Amicizia.


lui rispose dicendo:
Il vostro amico è il vostro bisogno saziato.
È il campo che seminate con amore e mietete con riconoscenza.
È la vostra mensa e il vostro focolare.
Poiché, afamati, vi rifugiate in lui e lo ricercate per la vostra pace.

Quando l’amico vi conida il suo pensiero, non negategli la vostra approvazione,


né abbiate paura di contraddirlo.
E quando tace, il vostro cuore non smetta di ascoltare il suo cuore:
Nell’amicizia ogni pensiero, ogni desiderio, ogni attesa nasce in silenzio e viene
condiviso con inesprimibile gioia. […]
E non vi sia nell’amicizia altro scopo che l’approfondimento dello spirito. […]

E condividete i piaceri sorridendo nella dolcezza dell’amicizia.


Poiché nella rugiada delle piccole cose il cuore ritrova il suo mattino e si ristora. “
(K. Gibran, L’amicizia, in Il Profeta, trad. it. di G. F. Brambilla,
Feltrinelli, Milano 2013, pp. 57 e ss.)

GLI INTERROGATIVI FILOSOFICI


Nella sua poesia Gibran parla dell’amicizia come di un rifugio, un luogo sicuro, dove colmare
necessità materiali e raggiungere il benessere interiore. L’amicizia comporta però anche impegno
e dedizione: occorre imparare ad ascoltare l’altro e non esitare ad ammonirlo se si ritiene che stia
sbagliando. Soltanto così è possibile attuare quell’«approfondimento dello spirito» che permette
una migliore conoscenza di sé stessi e una più autentica condivisione con l’altro.

Partiamo dunque dalla poesia di Gibran per approfondire i tratti salienti dell’amicizia,
mettendo a confronto le tesi che Aristotele, Epicuro, Cicerone e Seneca hanno elaborato su
questo tema. Cercheremo di trovare una risposta agli interrogativi seguenti:
• in che cosa consiste e su che cosa si basa la vera amicizia?
• l’amicizia favorisce il perseguimento della felicità?
• si può fare a meno degli amici?
• l’amicizia è un legame individuale o riguarda la comunità?
Aristotele e la dimensione etico-politica
dell’amicizia
Nel Profeta di Gibran, Almustafa mette in luce la necessità e la bellezza dell’amici-
zia. All’incirca in questi termini, molti secoli prima e in un contesto assai diverso,
anche Aristotele ha parlato di amicizia, alla cui trattazione ha dedicato due libri,
l’VIII e il IX, dell’Etica nicomachea (❯ vol. 1A, p. 347).
Aristotele afferma che «senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche se
Che cos’è
l’amicizia possedesse tutti gli altri beni»: l’amicizia, dunque, è per lui fondamentale. Senten-
ziato ciò, egli ne analizza le diverse tipologie e i presupposti. Essa può avere origine
dall’utilità, dal piacere o dalla virtù. Quella che trova il suo fondamento nell’utilità
o nel piacere è un’amicizia accidentale e precaria, destinata a finire quando viene
meno l’occasione che l’ha suscitata; quella basata sulla virtù, invece, è stabile e
duratura, perché cementata dal bene reciproco, che rappresenta la prima condizio-
ne dell’amicizia. Per Aristotele, altri due presupposti sono l’intimità del rapporto e il
fatto di avere molte cose in comune. Da ciò risulta che la vera amicizia è una sorta
di concordia che implica una somiglianza tra le persone coinvolte.
In questo senso, l’amicizia va distinta, in primo luogo, dalla benevolenza, che
Che cosa non è
l’amicizia può indirizzarsi anche a estranei e, come dice Aristotele, può restare «celata»; in
secondo luogo, dall’amore, che è condizionato dalla vista della bellezza e dal pia-
cere che ne deriva. A proposito del confronto con l’amore, Aristotele sostiene che
l’amicizia assomiglia ad una «disposizione» (che comporta un agire), mentre l’a-
more a una «passione» (che comporta un subire): gli uomini vogliono il bene dei
loro amici per intima disposizione, non perché seguano una passione. La passione,
infatti, può rivolgersi anche a cose inanimate (oggetti fisici, idee, obiettivi ideali,
come il patriottismo) e può non venire ricambiata, cosa che, invece, non può acca-
dere con l’amicizia autentica, la quale implica sempre una scelta reciproca: la per-
sona buona sceglie come amico una persona buona perché rappresenta un bene per
lei, ed è ricambiata per la stessa ragione.
Per Aristotele, ad alimentare l’amicizia è la vita in comune: nell’Etica nicomachea
Dall’individuo
alla collettività si profila infatti quella dimensione sociale dell’individuo che verrà ampiamente
trattata nella Politica. L’uomo, oltre a essere un «animale razionale», è anche un
«animale politico», che soltanto nella collaborazione con gli altri può conseguire la
felicità. Aristotele si spinge ad affermare che a tenere insieme le città sia proprio
l’amicizia, tanto che i legislatori si preoccupano più di questa che della giustizia:
infatti, quando si è amici non c’è alcun bisogno di giustizia, mentre quando si è
giusti c’è ancora bisogno di amicizia.
L’AMICIZIA È UN FATTO PERSONALE O SOCIALE? tema 109

L’epicureismo e lo stoicismo:
la dimensione privata dell’amicizia
Se per Aristotele l’amicizia è un fatto sociale, che trova la sua spiegazione nell’es-
senza “politica” dell’uomo, per l’epicureismo e lo stoicismo la prospettiva è mag-
giormente individualistica, probabilmente perché il contesto in cui operano è ormai
mutato. L’epoca ellenistica, infatti, è segnata dal formarsi di grandi regni (❯ p. 2),
all’interno dei quali i cittadini si sentono spersonalizzati in una dimensione dilatata
che sgomenta. La filosofia, quindi, non si occupa più principalmente della vita felice
della comunità, bensì di quella dei singoli individui. È in quest’ottica che viene af-
frontato il tema dell’amicizia.

Epicuro: la ragione utilitaristica dell’amicizia


Epicuro non identifica più, in senso stretto, l’individuo con il cittadino, anzi, vede
nell’attività politica un «inutile affanno» che può suscitare turbamento e quindi
ostacolare la ricerca della felicità. Secondo il filosofo, per poter essere davvero felici
gli uomini dovrebbero praticare una vita appartata e semplice, allietata dalla soli-
darietà e dall’amicizia, secondo la massima “vivi nascostamente”. Ed è proprio
questo il tipo di vita che egli conduce nel Giardino alla periferia di Atene, in una
piccola comunità frugale, lontana dagli eccessi delle grandi città e delle corti.
Nell’ottica dell’epicureismo per essere felici è d’aiuto sottrarsi al trambusto
Il piacere
e l’utilità dell’esistenza, evitando di inseguire falsi obiettivi e di sfuggire a falsi timori. In tale
dell’amicizia impresa un aiuto prezioso viene dalla filosofia che, liberando gli uomini da deside-
ri superflui e paure vane, li rende capaci di rapportarsi in modo nuovo a sé stessi
e agli altri. Questa trasformazione è un presupposto dell’amicizia autentica, ossia
di un legame che si fonda sul sapere e da cui hanno origine piaceri stabili. Secon-
do Epicuro, perfino il saggio, che pure è in grado di affermare la propria libertà e di
essere autosufficiente, trae giovamento dall’amicizia, perché essa contribuisce a far-
lo vivere in tranquillità.
In una delle sue massime, Epicuro stabilisce un collegamento tra amicizia e
utilità:


Non chi cerca sempre l’assistenza degli amici dev’essere considerato un amico, né chi
non se ne approfitta mai. L’uno fa mercato del bene per averne il contraccambio, l’altro
recide la speranza del bene per l’avvenire.
(Sentenze Vaticane, n. 39)

Con queste parole il filosofo si riferisce non soltanto a un’«assistenza» di tipo


materiale, legata al soddisfacimento di alcuni bisogni condivisi, come il nutrimento
o il riparo dalle intemperie e dai pericoli: l’utile dell’amicizia, a suo avviso, sta anche
nel valore dell’amicizia stessa e nella sua grande portata esistenziale.
Sembrano qui riecheggiare le parole di Kahlil Gibran riportate in apertura: «[Il
Un’amicizia
all’insegna vostro amico] È la vostra mensa e il vostro focolare. Poiché, affamati, vi rifugiate in lui
della filosofia e lo ricercate per la vostra pace». L’amico, per Epicuro, è «mensa» e «focolare» in sen-
so spirituale: gli amici veri sono quelli che si scambiano ragionamenti filosofici,
che ripassano insieme i princìpi della dottrina e si aiutano a metterli in pratica.
Di un’amicizia così intesa e del suo carattere eccezionale dà testimonianza lo stesso
Epicuro, che nell’Epistola a Idomeneo, scritta in punto di morte, si esprime così:


In questo bellissimo giorno, che è anche l’ultimo della mia vita, ti scrivo questa lettera.
I dolori […] non possono essere più lancinanti, eppure la gioia del mio animo riesce ad
opporsi a loro per il dolce ricordo del nostro filosofare insieme.

Cicerone: la natura disinteressata dell’amicizia


Anche nell’ambito dello stoicismo l’amicizia viene analizzata da un punto di vista
individualistico e assume i tratti di un’esperienza esclusiva, che riguarda uomini
dotati di grande integrità morale, di uno spiccato senso di equità e di una generosi-
tà non comune. È quanto sostiene, ad esempio, Cicerone, autore di un’opera specifi-
camente dedicata al tema e intitolata Sull’amicizia.
Cicerone ritiene che l’amicizia scaturisca da un’inclinazione dell’animo mista a
La virtù
a fondamento un sentimento di amore. Egli, infatti, afferma:
dell’amicizia

se poi ci sono di quelli che pensano che tutto questo [l’affetto] nasca da un bisogno di
aiuto, perché ci sia una persona grazie alla quale ottenere ciò di cui si ha bisogno, co-
storo allora riconoscono all’amicizia solo un’origine, per così dire, del tutto umile e per
nulla nobile, visto che la si vuole nata dal bisogno di aiuto e da indigenza.
(L’amicizia, IX, 29, a cura di A. Massarenti, UTET, Torino 2014, p. 33)

Come per Epicuro, anche per Cicerone l’amicizia rende possibile una vita felice
perché è stata data agli uomini come ausilio della virtù: è grazie a questa unione di
virtù e amicizia che si riesce a raggiungere il bene supremo. L’amicizia autentica,
quindi, è propria soltanto degli uomini virtuosi, i quali sono disposti a fare qualun-
que sacrificio per l’altro, non mettono mai l’amico nella condizione di contravvenire
alla morale e al diritto, e sono in grado di costruire e alimentare un rapporto di
amore, di stima e di rispetto. Questo perché, a differenza dei malvagi, sanno domi-
nare le passioni e seguono i princìpi della giustizia.
Sebbene non debba essere cercata per secondi fini, l’amicizia comporta comun-
I benefici
dell’amicizia que grandi vantaggi: come dice lo stesso Cicerone «i successi l’amicizia li rende più
splendidi, le avversità le rende più lievi» (L’amicizia, VI, 22, cit., p. 24). Essa alimenta
negli uomini la speranza nel futuro e impedisce ai loro animi di deprimersi e di
abbattersi quando sono vittime dei capricci della sorte. Tutti gli altri beni, invece, ad
esempio la ricchezza, i piaceri, la salute e il potere, oltre a essere passeggeri, procu-
rano vantaggi circoscritti e non sono in grado di elevare la natura dell’uomo nella
sua interezza come fa l’amicizia.
L’AMICIZIA È UN FATTO PERSONALE O SOCIALE? tema 111

Dopo aver messo in evidenza il valore dell’amicizia, intesa come il «dono più
Le leggi
e le basi bello» degli dèi, Cicerone ne stabilisce le “leggi”. In primo luogo, bisogna rivolgere
dell’amicizia agli amici soltanto richieste oneste e compiere per loro soltanto azioni oneste; poi
bisogna avere il coraggio di dare liberamente il proprio parere: Cicerone sostiene
che «grandissimo valore abbia nell’amicizia l’autorevolezza di amici che consigliano
al bene: la si adoperi per esortare non solo apertamente, ma anche con durezza, se
sarà necessario, e quando la si adopera la si rispetti» (L’amicizia, XIII, 44, cit., p. 40).
In un rapporto di amicizia, insomma, non ci dev’essere spazio per la condiscenden-
za forzata e per l’adulazione, analogamente a quanto suggerisce Gibran nella sua
poesia: «Quando l’amico vi confida il suo pensiero, non negategli la vostra approva-
zione, né abbiate paura di contraddirlo».
In secondo luogo, occorre fare tutto il possibile per aiutare l’amico e per trat-
tarlo con indulgenza, sebbene ci sia un limite alla disponibilità che gli si può con-
cedere: quando compie azioni disdicevoli, che procurano disonore a chi gli sta in-
torno, bisogna allontanarsi da lui.
Basi dell’amicizia, secondo Cicerone, sono la lealtà, la stabilità, la coerenza e la
comunanza di interessi. Essenziale, poi, è il rispetto reciproco. A rendere l’amici-
zia ancora più piacevole è la dolcezza dei modi:


Un aspetto pensoso, una serietà continua conferiscono certo austerità, ma l’amicizia deve
essere più alla mano, più liberante, più dolce e più incline all’amabilità e all’affabilità.
(L’amicizia, XVIII, 66, cit., p. 54)

Fondamentale nell’amicizia, inoltre, è la capacità di mettersi allo stesso livello


di chi è inferiore per età, per rango o per capacità. La condizione umana, come
ricorda Cicerone, è fragile e caduca, per questo è necessario trovare qualcuno da
amare e che ci ami a sua volta: «se si tolgono infatti l’affetto e il volersi bene, si toglie
ogni gioia alla vita» (L’amicizia, XXVII, 102, cit., p. 75).

Seneca: dall’autosufficienza all’amicizia


Sempre nell’ambito dello stoicismo si colloca Seneca, il quale ritiene – come Cicero-
L’amicizia
interessata ne – che l’amicizia vada ricercata per sé stessa, non per timore dell’instabilità della
sorte né per opportunismo. Per Seneca l’amicizia basata sull’interesse è insincera
ed effimera. Il ricco, ad esempio, attira a sé tanti amici perché può essere loro utile,
tuttavia rimane solo se cade in disgrazia. Secondo Seneca, infatti, chi ha dato inizio
ad un’amicizia per mera convenienza non avrà remore a tradire l’amico se messo
alla prova.
Occorre pertanto coltivare soltanto amicizie disinteressate, e in quanto tali
L’amicizia
autentica “pure”. In modo simile a Gibran, anche Seneca esorta a riconoscere come unico
scopo dell’amicizia l’approfondimento dello spirito, ossia l’arricchimento interio-
re: nessun interesse personale deve condurre all’amicizia, bensì una naturale incli-
nazione, un’innata attrattiva verso una determinata persona.
Nelle Lettere a Lucilio, Seneca si chiede se il saggio, che per definizione è autosuf-
ficiente, abbia bisogno degli amici. La sua risposta è emblematica e lo avvicina al
pensiero ciceroniano, in base al quale l’essere umano non ama l’isolamento:


Il saggio si accontenta di sé stesso non a tal punto da volere, ma da potere stare senza
un amico. Ed ecco come va inteso ciò che ho detto, che il saggio può stare senza amico:
ne sopporta con animo sereno la perdita. Certo non vivrà mai senza un amico: da lui
dipende il trovarne al più presto un altro.
(Lettere a Lucilio, libro I, lettera 9, a cura di U. Boella, UTET, Torino 2013, p. 68)

Per Seneca è opportuno riflettere a lungo se sia il caso di accogliere qualcuno come
amico, ma, una volta deciso, bisogna farlo con tutto il cuore e parlare con lui aperta-
mente come con sé stessi: alla base della vera amicizia si trova sempre la fiducia.
Secondo Seneca, prima di stringere amicizie, è necessario maturare una propria
Le condizioni
per vivere identità e diventare, per così dire, amici di sé stessi; soltanto successivamente è
l’amicizia possibile mettersi alla prova attraverso il confronto con gli altri, stabilendo rela-
zioni sociali e legami affettivi. Per vivere felici anche negli improvvisi capovolgimen-
ti della sorte, occorre imparare a essere autonomi e indipendenti dalle altre perso-
ne, proprio come fa il saggio, che racchiude in sé ogni bene, vale a dire «la giustizia,
la costanza, la stessa convinzione che non è un vero bene quello che ci può essere
tolto» (Lettere a Lucilio, libro I, lettera 9, cit., p. 70). Soltanto accrescendo la stima di
sé stessi si è in grado di cogliere la bellezza e l’importanza dell’amicizia.
Nelle Lettere a Lucilio, Seneca illustra anche il modo in cui è possibile stringere
La ricerca
di nuovi amici nuove amicizie e lo fa citando Ecatòne di Rodi, un filosofo stoico:


ti indicherò un filtro senza incantesimi, senza erbe, senza le formule di alcuna maga:
se vuoi essere amato, ama.
(Lettere a Lucilio, libro I, lettera 9, cit., p. 68)

In definitiva, per conquistare l’affetto di qualcuno, la prima regola è predisporre il


nostro animo a un sentimento tanto grande, come fa il contadino quando prepara
il campo per la semina: in quest’ottica Seneca paragona la ricerca di nuovi amici
all’attendere con zelo a un lavoro.
L’AMICIZIA È UN FATTO PERSONALE O SOCIALE? tema 113

ARGOMENTARE e DIBATTERE P ro s p e t t i ve
D E B A T E sul presente
Amicizia e integrazione sociale
come un requisito per il funzionamento delle società. Alla base di questa teoria, l’amicizia è in qualche modo
connessa alla concordia sociale e alla convivenza civile. Legando gli individui gli uni agli altri attraverso
sentimenti di cordialità e benevolenza, l’amicizia può essere considerata una premessa importante
dell’integrazione sociale. Il dibattito contemporaneo dà spazio a questo tema soprattutto in riferimento
al fenomeno dell’immigrazione e al confronto tra persone che appartengono a culture diverse.

MATERIALI PER LA DISCUSSIONE


• Per approfondire il tema dell’amicizia nel mondo an- scuola primaria di Milano sul tema dell’immigrazione:
tico e in quello contemporaneo potete consultare www.raiscuola.rai.it/articoli/immigrazione-lopinione-
queste pagine Internet: dei-bambini/6150/default.aspx
– www.un.org/en/events/friendshipday/index.shtml • Alcuni saggi interessanti sull’amicizia sono:
– www.istitutoeuroarabo.it/DM/lamicizia-al-tempo- – Francesco Alberoni, L’amicizia, Garzanti, Milano 1984
di-cicerone-e-ai-nostri-giorni/ – Maurizio Ghisleni, Paola Rebughini, Dinamiche dell’a-
• Sotto la guida dell’insegnante, potete guardare in micizia. Riconoscimento e identità, Franco Angeli, Mi-
classe il seguente video girato dagli studenti di una lano 2006

SPUNTI DI RIFLESSIONE
Prova a rispondere alle seguenti domande: • quali sono, secondo te, le caratteristiche che deve pos-
• i filosofi che abbiamo trattato, pur assumendo posizioni sedere un legame per poter essere definito un legame
teoriche diverse, riconoscono nell’amicizia un bene pre- di amicizia?
zioso, forse il più grande che gli uomini possano avere: • a tuo avviso, l’amicizia può rinsaldare i legami sociali?
condividi questo punto di vista? per quali ragioni? perché?

DIBATTITO
Vi proponiamo ora la questione seguente: “L’amicizia fase 2 discutere razionalmente A questo punto
ha una dimensione politico-sociale, come voleva Ari- adottate una delle modalità di discussione praticate
stotele, oppure individuale, come hanno inteso epicu- nei gruppi di lavoro, quella del “giro di tavolo”. Unite
reismo e stoicismo?”. i banchi e formate un unico tavolo, intorno al quale
fase 1 Ognuno di voi risponde istintivamente alla vi sedete suddivisi nei sottogruppi. Parla un sotto-
domanda, schierandosi a favore di uno dei due gruppo alla volta, per non più di 3 minuti, mediante
orientamenti teorici. Quindi, sotto la guida dell’in- un portavoce. Al termine del giro di tavolo, ogni sot-
segnante, suddividete i due gruppi che si sono venu- togruppo dovrà dire quale delle argomentazioni del-
ti a creare in sottogruppi di 3 studenti. Ogni sotto- lo schieramento avverso ha trovato più convincente
gruppo deve individuare un’argomentazione da e perché. Vince chi ha raccolto più consensi.
addurre a favore della tesi. Dovete fare in modo che
le argomentazioni siano tutte differenti tra loro.
114 LABORATORIO delle competenze
sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

PRIMA PROVA TIPOLOGIA B


Analisi e produzione di un testo argomentativo
Ambito filosofico

Una promessa di felicità


Il filosofo ed epistemologo italiano Armando Massarenti (1961) è stato responsabile dal 2011
al 2018 del supplemento culturale “Il Sole-24 Ore - Domenica”. Questo articolo è del 10 novem-
bre 2013.

Per i filosofi antichi la filosofia era innanzitutto una scelta di vita. Significava abbracciare
un certo stile di vita, quello “filosofico”, pieno di riflessione e di ricerca, a scapito di uno
non filosofico, di cui difficilmente si riesce a vedere il senso.
A dar retta al grande storico del pensiero antico Pierre Hadot, al filosofo non importava
5 abbracciare astrattamente una teoria filosofica piuttosto che un’altra, ma seguire un me-
todo rigoroso per vivere bene. O, in una parola, per essere felice.
Ma che stile di vita era quello di un epicureo? Benché oggi l’appellativo epicureo indichi
spesso persone dedite a un uso smodato dei piaceri, gli epicurei, al pari degli stoici e degli
scettici, erano uomini sobri e morigerati. Certo, erano dei materialisti. Ma questo fatto
10 esalta ancora di più il carattere “spirituale” dei loro esercizi filosofici quotidiani. Il famo-
so «Giardino» di Epicuro non era altro che un orto, e i cibi che vi si coltivavano erano
semplici e frugali: carote, finocchi, ravanelli. Altro che giardino delle delizie! Ma in un orto
così si impara a estirpare le radici del turbamento, dell’inquietudine, dei desideri illusori,
dell’ira e dei germinanti affanni che sono d’ostacolo alla serenità. È un orto il cui frutto è
15 la felicità che si produce sulla terra. Tutto sta nel saperlo coltivare.
E i modi di Epicuro sono straordinariamente adatti a noi moderni, che pure abbiamo bi-
sogno, per raggiungere la tranquillità dell’animo, proprio di quel genere di esercizi quoti-
diani, siano essi meditazioni o divagazioni a partire da messaggi di altri filosofi o sapienti,
o anche giochi ed esperimenti mentali, tra il serio e il faceto. In tutti i casi, esercitazioni
20 per conquistarci la nostra felicità. «Non nasciamo che una volta – dice Epicuro –, due non
ci è concesso... E tu, che pur non sei padrone del tuo domani, procrastini la gioia! Così la
vita se ne va mentre si indugia». E ancora: «Bisogna insieme ridere e attendere alla filoso-
fia, alle occupazioni a noi proprie e all’esercizio di tutte le nostre facoltà, senza mai smet-
tere di proclamare le massime della retta filosofia».
25 Sono massime che Epicuro riassume nel «quadruplice principio»: «Non aver paura degli
dèi, non temere la morte, il bene è facile da acquisire, il male è facile da sopportare». L’e-
picureo aborre il vizio e l’abbandonarsi smodato alle passioni. Niente a che vedere con
l’immagine gaudente e un po’ volgare che gli si è voluta ritagliare addosso. È invece quan-
to di più spirituale si possa pensare a partire dalla consapevolezza di quanto sia breve,
30 finito e fragile il nostro essere qui.
115

Dunque, se volete provare a dare un senso pieno a ogni istante della vostra vita, partite
dall’esercizio che nello spirito di Epicuro gli antichi esprimevano così: «Convinciti che
ogni nuovo giorno che si leverà, per te, sarà l’ultimo. Con gratitudine allora accoglierai ogni
insperata ora. Riconoscendone tutto il valore affronterai ogni momento del tempo che
35 viene ad aggiungersi come se derivasse da una incredibile fortuna».
(A. Massarenti, Una promessa di felicità, in “Il Sole-24 Ore - Domenica”, 10 novembre 2013)

COMPRENSIONE E INTERPRETAZIONE
1. Scrivi la sintesi del testo in circa 70 parole.
2. Qual è la tesi sostenuta dall’autore?
3. Quale argomento utilizza l’autore per giustificare la sua tesi?
4. Nella seconda metà dell’articolo, l’autore ricorre a citazioni dirette delle parole di Epicuro. Qual è
la funzione di queste citazioni?
5. Spiega qual è secondo te il significato del titolo dell’articolo. Suggerisci un altro titolo.
6. Nell’ultimo capoverso l’autore cambia modo e persona delle forme verbali che utilizza. Analizza i
verbi usati per introdurre l’ultima citazione di Epicuro. Perché, secondo te, viene fatta questa scelta?

COMMENTO ARGOMENTATIVO
A partire dalle tue riflessioni intorno all’articolo che hai letto, scrivi un testo argomentativo che non
superi le tre colonne di metà di foglio protocollo (circa 2500 caratteri al computer) dichiarandoti a
favore o contro la tesi sostenuta da Massarenti. Se concordi con l’autore, esponi altri esempi e altre
argomentazioni per mostrare l’attualità della proposta epicurea. Se sei in disaccordo, porta elemen-
ti a favore della tua posizione.
116 LABORATORIO delle competenze
sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA

COMPITO DI REALTÀ COMPETENZE


• Sviluppare la rilessione personale, il giudizio critico,
l’attitudine all’approfondimento
• Progettare
• Collaborare e partecipare

PREPARARE UNA CAMPAGNA DI SENSIBILIZZAZIONE


L’importanza dell’impegno sociale e politico
In epoca ellenistica, la riflessione dei filosofi sulla natura della felicità e sulle vie per raggiun-
gerla è sintomo di un generale ripiegamento dell’individuo su sé stesso e di una tendenza piut-
tosto diffusa all’allontanamento dall’impegno sociale e politico. A esprimere in modo esemplare
questo tipo di prospettiva è il motto «Vivi nascosto», al quale, secondo Epicuro, il saggio deve
ispirarsi per condurre una vita autenticamente libera dagli affanni e, dunque, felice.

OBIETTIVO
Immagina di far parte di una commissione culturale incaricata dal Comune in cui risiedi di sensibilizzare
gli abitanti sull’importanza dell’impegno sociale e politico. Ipotizza un progetto che vada in questa
direzione (ad esempio un ciclo di lezioni presso le scuole secondarie di primo grado, un cineforum, un
concerto, un convegno) e supponi di sottoporlo agli altri membri della commissione.

FASI
fase 1
progettazione (divisi in gruppi in classe - un’ora)
Sotto la guida dell’insegnante, dividete la classe in 4 gruppi. Ognuno stabilisce il proprio progetto
definendo i concetti chiave del messaggio che vuole trasmettere, i destinatari dell’intervento (tutti
gli abitanti del Comune, oppure i giovani dai 20 ai 30 anni, o gli studenti della scuola secondaria
di primo grado...), la sua durata (alcune ore, oppure un’intera giornata, o 2-3 giorni...) e la sua
articolazione (un’unica fase, oppure più fasi, o una serie di lezioni...).
fase 2
stesura del progetto (in gruppo o individualmente a casa - un’ora)
Ciascun gruppo redige un elenco dei principali partecipanti (relatori, musicisti, politici, esponenti
di associazioni...) e, in generale, delle persone che dovrebbero essere coinvolte (dagli addetti
all’allestimento del palco alle forze dell’ordine, ai volontari...), chiarendo il compito che attribuirebbe
a ciascuno di loro.
fase 3
stesura della presentazione (in gruppo o individualmente a casa - un’ora)
Ciascun gruppo elabora una breve presentazione per esporre agli altri membri della commissione
(il resto della classe) non soltanto le modalità di attuazione del progetto, ma soprattutto le finalità
specifiche della sua proposta e i suoi punti di forza.
117

ATTIVITÀ PER LA CLASSE CAPOVOLTA


Il raggiungimento della felicità VIDEO
nella visione di epicurei, stoici e scettici Classe capovolta

IL LAVORO IN SINTESI Analizzare e confrontare le teorie sul raggiungimento della


felicità presso le principali scuole di pensiero dell’ellenismo.

ARGOMENTO Il raggiungimento della felicità


FILOSOFI Epicurei, stoici e scettici

PREREQUISITI Conoscere in modo generale le concezioni dei ilosoi citati.

OBIETTIVI Comprendere la risposta data dai movimenti filosofici dell’età ellenistica


alla questione del raggiungimento della felicità. Individuare gli elementi
di somiglianza e differenza tra le diverse visioni filosofiche analizzate.

COMPETENZE • Individuare collegamenti e relazioni


COINVOLTE
• Sviluppare la riflessione personale, la capacità critica e argomentativa

LAVORO In classe, sotto la guida dell’insegnante, dividersi in gruppi di 3 studenti.


PRELIMINARE In ogni gruppo ripartirsi le seguenti letture:
• Epicuro, Come ottenere la felicità, t2 p. 23
• Seneca, I viaggi portano giovamento all’animo?, t2 p. 55
• Lo scetticismo, par. 1, pp. 64-65
Eventualmente reperire altri testi sull’argomento.

INDICAZIONI fase 1 A casa: guardare in modo attento la videolezione sul raggiungimento


OPERATIVE della felicità e prendere sinteticamente nota degli aspetti salienti;
leggere il testo assegnato.

fase 2 In classe: riunirsi nei gruppi e analizzare i testi evidenziando le teorie


delle diverse scuole filosofiche su come realizzare la felicità. Mettere a
confronto le diverse prospettive e individuare analogie e differenze.

fase 3 In classe: ciascun gruppo produce un breve testo (150/170 parole) sul
tema del raggiungimento della felicità secondo le scuole di pensiero
dell’età ellenistica, rielaborando anche i contenuti della videolezione.
sezione 4

IL CRISTIANESIMO
E LA PATRISTICA
VIDEO
Classe capovolta

Geograia
La formazione di una koiné cristiana
Il destino del cristianesimo dei primi secoli è intrecciato con le vicende politiche dell’Im-
il QUADRO pero romano: dopo la divisione avvenuta alla morte di Teodosio (395 d.C.), la parte oc-
STORICO cidentale e quella orientale avranno destini diversi.

L’Impero d ’Occidente
In Occidente l’Impero romano si avvia verso la decadenza: anche se il crollo definitivo
avviene nel 476 d.C. (deposizione di Romolo Augusto, ultimo imperatore romano d’Occi-
dente), già nei primi secoli dell’era cristiana si osserva la sua profonda crisi, a livello sia
politico sia culturale. Nonostante una diffusa retorica sulla grandezza e i fasti dell’impero,
viene meno il senso dello Stato e l’amministrazione centrale si mostra sempre più debole
e inefficace.
Ai confini dell’impero, difficilmente difendibili per la loro estensione, premono popola-
zioni nuove, i “barbari” (ad esempio i vandali e i goti), che infliggono clamorose sconfitte
alla potenza militare romana: la componente germanica diventerà un elemento costitutivo
delle formazioni politiche nate dal crollo dell’impero, i regni romano-germanici. Le città si
spopolano e le grandi vie di comunicazione vengono lasciate cadere in rovina; gli sposta-
menti e i traffici si riducono e l’economia si trasforma gradualmente da cittadina a rurale.
Anche il calo demografico è conseguenza del generale impoverimento e del declino del-
la società. Nella ricerca di nuovi simboli e valori che diano senso all’incertezza e precarietà
dell’esistenza, il cristianesimo si impone come riferimento culturale e religioso, e a poco a
poco anche la sua forma istituzionale, il papato, colmerà il vuoto lasciato dall’impero.
L’Impero d ’Oriente
Diverso è il caso dell’Oriente, dove l’impero sopravvivrà per altri mille anni. Già nel 330
d.C., con la designazione di Costantinopoli (l’antica Bisanzio) come capitale dell’impe-
ro e lo spostamento del trono in Oriente, il potere politico si rafforza, appoggiandosi
anche al cristianesimo che nel 380 d.C. diventa religione di Stato grazie all’editto di
Tessalonica, sotto l’imperatore Teodosio.
La stabilità politica e la relativa sicurezza dei confini consentono uno sviluppo della
vita cittadina e dei commerci ad ampio raggio. In questo caso il cristianesimo non sosti-
tuisce la struttura imperiale, ma vi si allea e la sostiene dall’interno, dando vita al feno-
meno del cesaropapismo, ossia l’ingerenza del potere politico nelle questioni religiose.

L’apporto del cristianesimo


Sia a Oriente sia a Occidente il cristianesimo è un elemento determinante, perché
rappresenta un nuovo sistema di valori, che si innesta in un mondo già “globalizza-
to” dalla cultura ellenistica. Esso diventa in un certo senso la nuova koiné, un orizzon-
te comune e ampiamente condiviso, anche per la sua capacità di integrare le diverse
culture dell’impero: non soltanto, dunque, un riferimento religioso, ma anche una nuo-
va interpretazione dell’esistenza individuale e della società, e una forma istituzionale
visibile e radicata, sia nei luoghi (chiese, diocesi, monasteri) sia nelle cariche ecclesiasti-
che (diaconi, presbiteri, vescovi, patriarchi, abati).
Tuttavia, la divisione politica e il diverso destino dei due tronconi dell’impero porte-
ranno a filosofie e organizzazioni sociali profondamente diverse. In particolare, si assi-
sterà a una frattura culturale e linguistica tra un Occidente latino e germanico e un
Oriente ellenistico, tanto che gli intellettuali e i funzionari occidentali non godranno
più del bilinguismo perfetto greco-latino delle classi romane colte, e si esprimeranno
soltanto in latino.
120 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

l ’INTRECCIO La forma dottrinale del cristianesimo


CULTURALE Ilsolamente
cristianesimo si differenzia dalle religioni del mondo antico perché non si esprime
in racconti (come il mito) o con forme prescrittive (comandamenti e divieti),
ma sviluppa un contenuto dottrinale complesso: nonostante l’apparente semplicità e
immediatezza della predicazione cristiana, vi è l’invito a “rendere ragione” della fede,
ad argomentarla e spiegarla agli stessi credenti. Le forme argomentative che ciò richie-
de sono il naturale terreno d’incontro con la filosofia (fin dalla sua nascita caratterizzata
dal metodo razionale), alleata e concorrente sul piano di una visione unitaria del mondo
e nella promessa di felicità per l’esistenza umana.

I testi fondanti e la loro interpretazione


Come l’ebraismo, anche il cristianesimo è religione del Libro, perché si ritiene fondato su
una rivelazione divina consegnata a scritture sacre. L’impegno del credente è dunque quel-
lo di decifrare la volontà divina a partire dai testi: non si tratta soltanto di comprendere il
senso immediato, ma anche i molteplici livelli di significato che si celano sotto quello
letterale del testo e che hanno a che fare con la rivelazione e la salvezza. A partire dall’im-
portanza imprescindibile della Bibbia, acquistano pertanto uno sviluppo inedito le tecni-
che di interpretazione, che si esercitano su scritti ritenuti “parola di Dio”. Uno dei primi
problemi interpretativi è l’esigenza di porre in relazione il messaggio cristiano con i
testi dell’Antico Testamento, appartenenti alla tradizione ebraica, che la Chiesa non ri-
getta e considera ugualmente rivelati: si sviluppa pertanto una lettura allegorica, che vede
negli scritti veterotestamentari un’anticipazione della vita e della predicazione di Gesù.

I LUOGHI DELLA FILOSOFIA E DELLA STORIA

Milano

Roma Costantinopoli
Tessalonica

Ippona
Cartagine
Tagaste
Agostino
palestina
Nazareth

Confini dell’Impero romano nel 395


Impero romano d’Occidente
Impero romano d’Oriente
Geograia La formazione di una koiné cristiana 121

Anche la filosofia comincia a concepirsi prioritariamente come interpretazione di testi


autorevoli e, a poco a poco, si assiste alla trasformazione dei generi letterari in cui si esprime:
dal trattato si passa al commento (che tanta fortuna avrà nei secoli successivi), e il dialogo
viene arricchito da forme letterarie quali il monologo, inteso come colloquio interiore con Dio.

gli Il cristianesimo si diffonde rapidamente in tutti i paesi affacciati sul Mediterraneo,


supportato dall’attività didascalica e apologetica dei primi pensatori cristiani.
SCENARI
FILOSOFICI Bacino del Mediterraneo, II-IV secolo Dopo la fine delle persecuzioni del II e III secolo si
sviluppa una letteratura cristiana di più ampio respiro, che instaura un confronto fecondo
con la riflessione filosofica: oltre all’esigenza di chiarire i contenuti della fede, gli autori av-
vertono la necessità di consolidare la dottrina teologica con termini mutuati dalla filosofia,
come lógos, sostanza, natura. A partire dal IV secolo gli autori cristiani sono considerati
“padri della Chiesa”, cioè punto di riferimento fondamentale per la dottrina cristiana.
Si distingue una patristica greca, nell’impero d’Oriente, e una patristica latina, in quello
d’Occidente. ❯ CAPITOLO 14 La filosofia cristiana: rendere ragione della fede

Area occidentale dell’Impero romano (Tagaste, Roma, Milano, Ippona), IV-V secolo Nell’area
occidentale dell’Impero romano, il maggior esponente della patristica latina è Agostino:
attraverso un’esistenza irrequieta che lo porta a ricercare la verità in dottrine diverse,
giunge a scoprirla nell’interiorità, in cui risiede la luce divina, fonte di ogni conoscenza.
❯ CAPITOLO 15 figura Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta

CONCETTO Se l’anima è il luogo in cui sperimentare la presenza divina, l’interiorità acquista un


significato inedito rispetto alla filosofia greca: non è più solamente l’origine delle idee e
delle scelte morali, ma anche una dimensione inafferrabile, di cui l’uomo non è mai
pienamente consapevole. Sotto l’aspetto sia teologico sia psicologico il mondo inte-
riore si apre a una profondità sconosciuta al mondo greco e di cui non è possibile
tracciare i confini. ❯ CONCETTO L’ interiorità

la
FILOSOFIA 354 430
nasce muore
Agostino Agostino

200 350 500


303 313 395
ultima persecuzione libertà divisione 476
dei cristiani di culto dell’Impero deposizione di
212 in tutto Romolo Augusto:
editto di Caracalla: l’Impero 380 fine dell’Impero
la cittadinanza editto di romano d’Occidente
romana è estesa 325
la a tutti gli abitanti concilio di Nicea:
Tessalonica:
cristianesimo
STORIA dell’Impero condanna dell’arianesimo religione di Stato
122 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

capitolo 14 La filosofia cristiana:


rendere ragione della fede

In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio.
Tutto è stato fatto per mezzo di Lui.
(Giovanni 1, 1-3)

1 Il cristianesimo nell ’Impero romano


Le radici storico-culturali
All’epoca di Augusto (27 a.C. - 14 d.C.), sotto il cui regno nasce Gesù di Nazareth, l’Impero
romano si estendeva su tutto il bacino del Mediterraneo, in un crogiolo di culture, lingue,
tradizioni e religioni. Il cristianesimo sorge dunque in un contesto particolarmente ricco e
multiculturale: il suo fondatore, Gesù, predica in un mondo che politicamente è sotto il
dominio romano (la Siria-Palestina è una delle province dell’Impero romano a partire dal
65 a.C.); culturalmente si colloca in un ambiente ellenistico; dal punto di vista religioso la
fede cristiana nasce come ramo dell’ebraismo, da cui riceve la maggior parte dei testi sacri.
Il cristianesimo è pertanto un fenomeno che subisce diversi influssi, anche se rivendica
un’assoluta originalità. Il messaggio cristiano offre risposte inedite a domande che erano
già maturate nel periodo ellenistico, in cui la filosofia non era intesa principalmente come
spiegazione razionale della realtà, ma come modello di vita, terapia per la ricerca della feli-
cità, cura dell’anima per ritrovare la pace interiore; in una parola, la filosofia era una ricerca
di senso e di salvezza, sia pure concepita in chiave terrena. Questa attenzione alla dimen-
sione etica e ai comportamenti da tenere per la realizzazione di sé, da ricercarsi più nel
mondo interiore che nella sfera pubblica, rappresentava un terreno fertile per l’innesto di
dottrine e valori religiosi: il cristianesimo costituisce una ricerca di salvezza tra le altre – ad
esempio i molti culti e riti, spesso di provenienza mediorientale (come quelli di origine
egiziana in onore di Iside e Osiride, o di Mitra di origine persiana), che convivevano
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 123

nell’Impero romano –, e tuttavia si afferma sottolineando la propria novità. Come per ogni
fenomeno che modifica profondamente l’orizzonte di senso, vi è contemporaneamente
continuità e rottura con il mondo culturale precedente, soprattutto per quanto riguarda
l’elaborazione filosofica. Da un lato, infatti, gli autori cristiani dei primi secoli si oppongono
decisamente alle pretese razionali della filosofia, che essi ritengono una sapienza mondana
vana e ingannevole perché fondata unicamente sulle capacità intellettuali umane. Dall’al-
tro, attingono a piene mani a questo patrimonio, assimilandone molti concetti: così, pur
mantenendo una differenza qualitativa tra fede e ragione e rimarcando la priorità della
prima, sviluppano una riflessione che può definirsi propriamente “filosofia”.

Il rapporto con l ’ autorità politica


Un’analoga ambivalenza si osserva dal punto di vista politico: i cristiani sono cittadini
dell’impero, ma nello stesso tempo si presentano come pellegrini sulla terra e si sentono
cittadini di un regno ultraterreno. Rifiutano pertanto di omaggiare l’imperatore, che
era allora anche pontifex maximus (“pontefice massimo”), cioè la massima autorità religio-
sa, perché giudicano tale richiesta un atto di idolatria, e per questo motivo vengono di-
scriminati e sottoposti a condanne e persecuzioni, che si protraggono almeno fino alla
fine del III secolo.
Per le autorità politiche la presenza di una nuova religione non rappresentava di per
sé un evento preoccupante o sovversivo, perché la civiltà latina era abituata ad assimila-
re religioni, culture, filosofie tra loro molto diverse, all’interno di una comune visione
dello Stato. Ciò che destava preoccupazione non era il fatto che i cristiani adorassero un
dio diverso da quelli presenti nel pántheon romano, già piuttosto ricco e affollato, ma che
non accettassero di venerare i simboli dell’autorità imperiale: veniva punita l’insubordi-
nazione politica, non la credenza religiosa come tale. Nell’Impero romano la religione
aveva infatti un ruolo pubblico: ogni religione poteva convivere con l’impero, a patto che
si riconoscesse il culto ufficiale all’imperatore. È sulla base del rifiuto di questi riti che i
cristiani vengono considerati ribelli e pericolosi per la stabilità politica.

La diffusione e lo sviluppo del cristianesimo


Nonostante l’ostilità e il sospetto da parte delle autorità, il cristianesimo si propaga mol-
to rapidamente: nel corso di un paio di secoli si trova a passare da una condizione di
persecuzione a una di legittimazione grazie alla libertà di culto concessa dall’imperatore
Costantino (313); infine diventa religione di Stato sotto Teodosio con l’editto di Tessalo-
nica (380), che implica l’esclusione e la repressione delle altre forme religiose.
La circostanza favorevole a questa espansione è rappresentata dall’ampia circolazio-
ne di idee e persone nel bacino del Mediterraneo: l’Impero romano risulta essere un
mondo culturalmente e politicamente privo di barriere interne, “globalizzato”, che favo-
risce la divulgazione della fede cristiana. Fin dall’inizio la predicazione si spinge al di là
dell’ambiente di Gerusalemme e della comunità giudaica cui appartenevano i primi di-
scepoli, e si serve della lingua greca, anche per redigere i testi fondativi (i Vangeli e le
lettere apostoliche). Il cristianesimo mostra un carattere universalistico, aperto a tutte
le genti, senza esclusione di etnia, nazionalità e condizione sociale. Questa apertura cul-
turale non è però sufficiente per spiegare le ragioni di una propagazione così ampia e
capillare, che vanno ricercate non soltanto nel contesto esterno, ma anche e soprattutto
nel contenuto del messaggio cristiano.
124 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

In primo luogo, il significato del cristianesimo è facilmente accessibile anche alle


classi sociali più umili; anzi, i poveri hanno un posto privilegiato al suo interno: sono
dichiarati «beati» perché non legati alla ricchezza e agli onori mondani, che possono
sostituirsi alla fede in Dio. Il cristianesimo non è una religione elitaria o esoterica, ma ha
un nucleo dottrinale semplice e coinvolgente: l’amore e la misericordia di Dio, che hanno
come complemento l’esortazione ad amare il prossimo, a perdonare, a riconoscersi come
fratelli. In secondo luogo, non è una religione che ammette atteggiamenti superstiziosi o
alimenta il senso del magico, ma ha un contenuto concettualmente profondo, denso e
rigoroso, pur nella sua semplicità. Per questo suscita l’interesse anche di persone colte,
come funzionari, retori, uomini di legge, che trovano nel monoteismo un motivo religio-
so più convincente sia delle credenze popolari, che attribuivano caratteri animistici agli
elementi naturali o agli astri, sia del culto delle divinità tradizionali, che assegnava agli
dei qualità tipicamente umane.
A poco a poco il mondo cristiano diventa la nuova koiné, l’orizzonte culturale con-
diviso; il declino dell’Impero romano e la crisi delle sue istituzioni portano la nuova re-
ligione a imporsi anche sulla scena politica, con esiti diversi nelle due parti dell’impero.
Nell’Occidente sconvolto dalle invasioni barbariche, essa finisce con il sostituirsi all’au-
torità politica e civile. Al contrario, nell’Impero d’Oriente o bizantino la Chiesa cristiana
è strettamente associata all’autorità dell’imperatore, che ritiene suo compito occuparsi
delle questioni ecclesiastiche, sia nell’ambito istituzionale-amministrativo sia in quello
dottrinale.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel paragrafo i termini più significativi per delineare il mondo culturale
e politico in cui sorge e si diffonde il cristianesimo.

2 I testi sacri e le origini ebraiche


del cristianesimo
La Bibbia
Il cristianesimo nasce in seno all’ebraismo e per comprenderlo appieno non si può pre-
scindere dalla sua origine ebraica: Gesù proviene dalla città di Nazareth in Galilea, parla
aramaico come tutti gli ebrei di quel territorio e la sua predicazione è rivolta principal-
mente agli ebrei. Dall’ebraismo il cristianesimo trae la maggior parte dei suoi testi sacri,
che costituiscono la Bibbia.
Il termine “bibbia” era originariamente il plurale del vocabolo greco che significa
“libro” (biblíon), a indicare il libro per eccellenza, senza bisogno di aggiungere alcun
attributo specificativo. La Bibbia è una raccolta di testi, scritti probabilmente a partire dal
VII secolo a.C., che la Chiesa tra il II e il IV secolo d.C. riconosce come fondamentali per

lessico monoteismo (dal greco mónos, “uno”, e theós, “dio) concezione religiosa che afferma l’esistenza di
un unico dio. Le tre principali religioni monoteiste sono il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam.
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 125

❯ Cristo consegna
la nuova legge
a Mosè, IV secolo,
mosaico, Roma,
Mausoleo
di Santa Costanza.
Nel mausoleo
sono riprodotti
numerosi episodi
tratti dall’Antico
Testamento.

la fede e “sacri” in quanto ispirati direttamente da Dio agli uomini. Tale raccolta è defini-
ta “canonica” perché costituisce il canone, ossia la regola o norma che il credente deve
seguire; sono esclusi dal canone i testi ritenuti apòcrifi, cioè non autentici.
Nella versione cristiana, la Bibbia è divisa in due parti: l’Antico Testamento, che
comprende i testi della tradizione ebraica, e il Nuovo Testamento, che raccoglie gli scrit-
ti della prima comunità cristiana e non è incluso nei libri sacri dell’ebraismo. Il termine
“testamento” significa “patto” e si riferisce all’alleanza che Dio avrebbe stipulato con il
popolo di Israele, rinnovata poi per tutta l’umanità nella figura di Gesù Cristo.

L’ Antico Testamento
L’Antico Testamento si compone di opere eterogenee, redatte in un arco di tempo piutto-
sto ampio, con genere letterario e ambiente di provenienza molto diversi. È scritto in
ebraico, ma alcuni dei testi più recenti, composti in età ellenistica, sono in greco.
I libri dell’Antico Testamento vengono generalmente distinti in tre gruppi:
1. il Pentateuco (i primi cinque libri, ossia Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio)
e i libri storici (Giosuè, Giudici, Samuele, Libri dei Re). In questo gruppo di testi si
narrano gli episodi fondamentali della vita di Israele, ma i racconti hanno una fina-
lità teologica, più che storica in senso odierno. L’intento non è infatti quello di ripor-
tare gli eventi secondo una sequenza coerente, completa e obiettiva, ma di presenta-
re le gesta del Dio d’Israele che interviene nella storia e si impegna per il suo popolo;

canone (dal greco kanón, in origine il “bastone libri apòcrifi (dal greco apokrýpto, “nascon- lessico
di canna” che serviva per misurare, quindi “re- do”, “tengo segreto”, nel senso di “tengo lontano
gola”, “misura”, “prescrizione”) la regola che dall’uso”) testi che sono ritenuti dalla Chiesa non
l’autorità ecclesiastica stabilisce per individuare autentici, cioè non ispirati da Dio. Sono quindi
i testi considerati sacri in quanto ispirati da Dio e esclusi dal novero dei libri canonici e non fanno
portatori di verità fondamentali per la fede. Nel parte della Bibbia.
loro insieme costituiscono la Bibbia.
126 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

2. i libri profetici (distinti in profeti maggiori, tra cui Isaia, Geremia ed Ezechiele, e
profeti minori). Il fenomeno del profetismo è una caratteristica fondamentale
dell’ebraismo: più che predire eventi futuri, i profeti rappresentano la coscienza
critica del popolo, parlano in nome di Dio e richiamano al rispetto e all’osservanza
della legge divina contro deviazioni e tentazioni;
3. i libri sapienziali (come i Salmi, i Proverbi, Giobbe, Qoelet, il Cantico dei Cantici), cui
si aggiungono alcuni testi scritti in greco in età ellenistica, come Sapienza e Siracide.
I libri sapienziali non si soffermano sulla storia di Israele nel suo rapporto con Dio,
né hanno un intento profetico: scavano invece a fondo nell’esistenza quotidiana, af-
frontando temi come l’amore tra uomo e donna (il Cantico dei Cantici), il problema del
male (Giobbe), la fugacità e l’apparente vanità di tutte le occupazioni umane (Qoelet).
Quella che insegnano è una sapienza prima di tutto umana, che canta la vita in
tutta la sua complessità, ne affronta il bene e il male con la stessa attenzione: ap-
prezza i momenti di luce e si attrezza a sopportare i momenti di ombra. Si potrebbe
dire che molti di questi testi racchiudono la “filosofia dell’ebraismo”, anche se con
modalità diverse da quelle che abbiamo appreso nello studio della filosofia greca.

Il Nuovo Testamento
Il Nuovo Testamento comprende i testi fondativi del cristianesimo, composti tutti nel
I secolo d.C. Il canone esclude da questa raccolta sia racconti popolari, dai toni magici e
miracolistici (i cosiddetti “Vangeli apocrifi”), che trasmettono un’immagine semplicistica
e inadeguata del messaggio cristiano, sia la letteratura cristiana dei secoli successivi, in
quanto gli autori non appartengono al gruppo dei testimoni diretti, cioè di coloro che
hanno conosciuto e ascoltato Gesù.
Il Nuovo Testamento include:
• i quattro Vangeli, dove il termine “vangelo” significa “buona novella”, il lieto an-
nuncio del regno di Dio di cui Gesù di Nazareth sarebbe portatore: Marco, Matteo,
Luca e Giovanni. I primi tre sono chiamati “Vangeli sinottici”, per le forti somiglian-
ze tra loro che consentono di leggerli operando numerosi confronti diretti, in una
sorta di sguardo d’insieme. Il Vangelo di Giovanni è invece più tardo, meno narra-
tivo e più “filosofico”: anziché soffermarsi su eventi particolari della vita di Gesù
(come l’infanzia o l’annuncio del regno di Dio), ne accompagna gli atti e i miracoli
con ampi discorsi in cui viene presentata l’identità teologica del “Figlio di Dio”;
• gli Atti degli Apostoli, scritti dall’evangelista Luca, dove si narrano le vicende
della comunità cristiana nei primi decenni dopo la morte di Gesù;
• le lettere apostoliche, la maggior parte delle quali scritte da Paolo di Tarso, l’aposto-
lo che non ha conosciuto direttamente Gesù, ma che si sarebbe convertito in seguito
a un’apparizione divina sulla via di Damasco. Da fervente persecutore dei cristiani, si
sarebbe così trasformato nell’“apostolo delle genti” (cioè l’evangelizzatore dei pagani,
FARE per CAPIRE i cosiddetti “gentili”), uno dei principali interpreti e divulgatori del cristianesimo. Egli
• Riproduci fonda comunità cristiane nei principali centri urbani del tempo (Corinto, Efeso, Tes-
in una tabella salonica, Roma), alle quali scrive le lettere poi raccolte nel Nuovo Testamento;
le partizioni
fondamentali • l’Apocalisse, attribuita all’evangelista Giovanni, l’ultimo testo del Nuovo Testa-
della Bibbia e mento e quello di più difficile interpretazione. Il termine significa “rivelazione” o
riporta come
esempi alcuni “manifestazione”: vi si trovano visioni, simboli, misteri, riferiti alla fine dei tempi
dei libri citati. e al giudizio universale.
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 127

❯ Giona ingoiato
dal pistrice, mosaico
(part.), IV secolo,
Aquileia, Basilica.
Il racconto di Giona,
inghiottito da
un mostro marino
e poi rigettato, può
essere inteso come
un’allegoria della
resurrezione di Cristo.

Il rapporto del cristianesimo con la tradizione ebraica


Dal punto di vista della storia delle religioni il cristianesimo rappresenta un fenomeno
singolare: è una nuova religione, che nasce all’interno di una tradizione religiosa più
antica senza tuttavia ripudiarla; pur distinguendosi, non recide le sue radici, ma le rein-
terpreta. Come si è visto, la Chiesa non abroga né ritiene superati i testi sacri dell’ebrai-
smo (l’Antico Testamento), ma li accoglie pienamente come “parola” divina.
Questa decisione non esprime soltanto la consapevolezza dell’origine storica o del
debito verso la tradizione ebraica, ma ha anche un significato teologico: il cristianesimo
afferma di essere il compimento dell’ebraismo e rivendica il diritto di appropriarsi dei
suoi testi sacri, rileggendoli alla luce dell’annuncio cristiano. L’antica alleanza di Dio con
il suo popolo non è cancellata o superata, ma si compie con Gesù: in quest’ottica, il signi-
ficato autentico dell’Antico Testamento viene spiegato in riferimento alla figura di Cristo.
All’origine di questa interpretazione cristiana dell’Antico Testamento vi è l’atteggia-
mento stesso di Gesù, che usa costantemente i simboli, le profezie e gli eventi presenti
nei testi biblici per chiarire la sua identità. Ad esempio, apparso dopo la sua morte ai di-
scepoli in cammino verso la cittadina di Emmaus, Gesù illustra in tutti i passi biblici
quello che si riferisce a lui, ovvero chiarisce il senso profondo dei libri sacri rivelando
come essi alludano alla sua figura (Luca 24, 13-35). Si tratta del primo autorevole esempio
di ermeneutica cristiana, cioè di un metodo di interpretazione che spieghi le Scritture
secondo la verità in esse contenuta e non ne riporti soltanto l’immediato significato
letterale. In questa prospettiva le antiche scritture sacre presentano in maniera nascosta e
figurata gli eventi, il cui senso è svelato e compiuto con Gesù; il valore dell’Antico Testa-
mento è dunque quello di preparare e di prefigurare la sua venuta (❯ Per approfondire, p. 128).

FARE per CAPIRE • Evidenzia nel paragrafo il motivo che giustifica l’accoglimento dei testi ebraici nel
cristianesimo e la modalità cristiana della loro lettura.

ermeneutica (dal greco hermeneutiché téchne) neutica è il tentativo di comprenderli andando lessico
indica, in generale, la “tecnica di interpretazio- oltre il significato letterale, per individuare quel-
ne” dei testi. In relazione ai testi sacri, l’erme- lo profondo e autentico.
128 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

3 La figura di Gesù di Nazareth


e la novità del cristianesimo
Il carattere innovativo della predicazione di Gesù
Il cristianesimo ha permeato la civiltà occidentale degli ultimi due millenni: i suoi simboli,
i suoi valori, alcuni suoi insegnamenti sono parte della nostra quotidianità, senza che ne
ravvisiamo sempre l’origine. Per cercare di offrirne una presentazione il più possibile obiet-
tiva è necessario staccarsi dall’immagine vaga, ma pervasiva, che domina la nostra cultura,
per cercare di definire il cristianesimo come fenomeno storico. Bisogna pertanto collocare
la figura del suo fondatore, Gesù di Nazareth, nel contesto di appartenenza e comprende-
re come egli presenta sé stesso e il suo ruolo, cioè interpretarlo alla luce delle dichiara-
zioni che fa su di sé.

Rivelazione, ispirazione, interpretazione


Gli aspetti implicati nell’elaborazione Il rapporto tra la parola di Dio e quella umana
del canone
Q uesto schema apparentemente semplice pone però
numerosi problemi interpretativi: innanzitutto,
L’ elaborazione del canone biblico, l’insieme dei testi
normativi da cui non si può prescindere perché ispi-
rati da Dio, mette in gioco tre aspetti tra loro connessi:
qual è il rapporto tra la parola di Dio e le parole umane
che la esprimono? e tra autore divino e scrittore umano?
la nozione di rivelazione (1), un corpo di scritti canonici La spiegazione più immediata è quella di concepire l’ispi-
(2) e l’ispirazione (3). razione come dettatura diretta da parte di Dio o di un
suo messaggero: così è spesso presentata nell’iconografia,
1. I tre monoteismi – ebraismo, cristianesimo, islam –
soprattutto in raffigurazioni che hanno per tema la scrit-
sono religioni rivelate, cioè si comprendono come la
tura dei Vangeli (come nel dipinto San Matteo e l’angelo
risposta a un’iniziativa diretta di Dio: secondo que-
di Caravaggio, in cui alle spalle dell’evangelista un angelo
ste religioni Dio, pur essendo nella sua natura assolu-
tamente trascendente e inaccessibile, sceglie di ma- detta e controlla quello che Matteo scrive). Tuttavia, pur
nifestarsi agli uomini. Tale rivelazione non avviene essendo un modello chiaro, che esalta l’autoralità divina,
in maniera episodica o miracolistica, ma segue un presenta alcune criticità: se i libri sacri sono stati dettati da
progetto coerente: Dio rivela contenuti dottrinali e Dio o da un suo angelo, vanno attribuite a Dio anche le
anche pratici, ovvero illustra qual è l’atteggiamento imperfezioni stilistiche e le incongruenze contenutisti-
religioso che i credenti devono adottare in vista della che? Si tratta di un’ipotesi non sostenibile, a meno di scre-
salvezza. ditare la coerenza divina. Si tende pertanto a concepire gli
scrittori dei testi sacri come interpreti della rivelazio-
2. Perché la manifestazione divina non sia solamente
ne, il cui senso va ricercato al di là dei loro inevitabili erro-
individuale (come quella del roveto ardente a Mosè,
ri e fraintendimenti e dei loro condizionamenti culturali.
o l’illuminazione sulla via di Damasco per Paolo di
Tarso, o le apparizioni di angeli per Maometto), la ri- Il problema della lingua
velazione si deve “depositare” in un corpo di scritti
canonici, che sono il modo con cui Dio continua a
parlare ai fedeli nei secoli, e sono pertanto letti e
U n ulteriore problema riguarda la lingua: se l’ispirazio-
ne divina va intesa in senso letterale e diretto, per
ascoltare veramente la parola di Dio sarebbe necessario
usati durante le liturgie. leggerla nelle lingue in cui è stata trascritta. Le esigenze
3. Quindi i testi sacri, frutto della rivelazione divina, di traduzione sono però imprescindibili, perché sono la
sono ispirati da Dio, rappresentano la sua “parola”, condizione per la comprensione dei contenuti e l’evange-
che deve essere accolta, rispettata e venerata come lizzazione: la Chiesa cristiana, nel corso dei secoli, ha
tale. sempre vigilato sulle traduzioni, riconoscendo per molto
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 129

Nel suo modo di comportarsi Gesù non sembra molto diverso dai rabbini del tempo:
predica, interpreta le Scritture, guida un gruppo di discepoli che hanno con lui anche una
comunione di vita. Nello stesso tempo, colpisce e scandalizza i contemporanei soprattutto
per il sovvertimento dei valori che esprime: proclama la centralità del povero, l’impor-
tanza della mitezza e il rifiuto della violenza, il perdono che supera ogni limite, l’amore
verso il prossimo da misurare con quello per sé stessi. Invece dell’osservanza di norme
religiose e di comportamenti esteriori, Gesù esorta all’interiorità della fede e trasgredisce
ogni convenzione sociale, frequentando derelitti, emarginati, lebbrosi, peccatori.
Ma finché si tratta di un predicatore itinerante, che proviene dalle regioni periferiche
della Palestina e si rivolge a gente semplice e di umili condizioni sociali, non suscita l’atten-
zione né la preoccupazione delle autorità religiose; ciò che provoca la violenta reazione dei
capi religiosi ebrei è piuttosto il fatto di presentare sé stesso come “Messia” e come
“Figlio di Dio”. Si tratta di due affermazioni ben più scandalose dell’atteggiamento com- VIDEO
plessivo di Gesù e che sono alla base della sua condanna a morte: questi due titoli sancisco- La novità del
messaggio di
no la rottura con l’ebraismo e rappresentano perciò la principale novità del cristianesimo. Gesù di Nazareth

tempo un’unica traduzione latina ufficiale, ma non ha mai dell’ispirazione muterà da passivo ad attivo: un testo sarà
ritenuto che la rivelazione potesse essere appresa soltanto considerato “ispirato” non soltanto perché frutto di una
nelle lingue originali. In tal modo non ha mai accolto pie- intuizione, un’ispirazione divina che ne ha guidato la com-
namente l’idea che gli scrittori sacri avessero un ruolo me- posizione, ma anche per la sua capacità di ispirare i lettori,
ramente passivo, scrivendo sotto dettatura verbale diret- aprire significati e nuovi orizzonti di comprensione.
ta, come uno strumento inerte nelle mani di Dio. Se la
Bibbia si può tradurre, è il contenuto a essere rivelato e
non la sua forma linguistica, che certamente è importan-
te, ma non perfetta.

La teoria dell’interpretazione
D a quanto detto, si coglie come il modo in cui è con-
cepita l’ispirazione divina della Bibbia sia ricco di
conseguenze per la teoria dell’interpretazione: si ri-
chiede infatti uno sforzo interpretativo e riflessivo per
discernere il messaggio salvifico, che è il contenuto della
fede, distinguendolo dalle forme espressive e dalle rap-
presentazioni culturali, che dipendono dal contesto di
origine. Contro le false interpretazioni della Scrittura, la
Chiesa elaborerà nei primi secoli un “credo”, la retta dot-
trina cristiana, i dogmi di fede che orientano nella lettu-
ra dei testi sacri. Nello stesso tempo, però, tale lettura
rivelerà una profondità inesauribile, e si svilupperà una
riflessione sui metodi di interpretazione (l’ermeneutica):
oltre al senso letterale, si scoprirà la possibilità di sensi
allegorici, spirituali, etici, con un lavoro di scavo e di
riflessione infinita.

T utta la ricchezza esercitata nell’interpretare i testi sacri si


trasporrà anche nel contesto profano, nei testi letterari,
poetici, nelle produzioni artistiche e filosofiche. E a poco a Michelangelo Merisi da Caravaggio, San Matteo e l ’ angelo, part.,
poco, in ambito sia teologico sia filosofico, il significato olio su tela, 1602, Roma, San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli.
130 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

❯ Ascensione
di Gesù Cristo,
IX secolo, mosaico.
Grecia, Tessalonica,
Basilica di Santa Sofia.

Il Messia
Il messianismo è una caratteristica fondamentale dell’ebraismo e percorre tutta la sua
storia: consiste nell’attesa di un messia, cioè di una figura cui è attribuito il compito di
liberare e salvare il popolo di Israele. Il termine “messia” deriva dall’ebraico e signifi-
ca letteralmente “colui che è unto con l’olio”, per indicare il segno della benedizione di-
vina; in greco il termine è reso con christós, che è l’appellativo dato a Gesù. L’attesa di un
messia è ampiamente descritta nell’Antico Testamento, dove si tinge di connotati diversi:
un nuovo re, un profeta, un sacerdote. Quando Gesù parla di sé come del “Cristo”, del
“Messia” appunto, fa riferimento a questo insieme di significati, che erano ben presenti
nella visione religiosa del tempo; è una pretesa molto forte, espressa sia nelle parole sia
nei gesti. Ad esempio l’ingresso trionfale a Gerusalemme, la città santa, con il popolo che
lo osanna e agita rami di palma in suo onore (Giovanni 12, 12-19), richiama molti simbo-
li propri del messianismo regale e profetico, ed è un gesto che le autorità giudaiche non
potevano che interpretare come pericoloso e provocatorio.
All’epoca di Cristo, però, l’attesa messianica si legava alla diffusa ostilità nei confron-
ti della dominazione romana; perciò la figura descritta dai profeti aveva assunto i tratti di
un liberatore politico. Da questo punto di vista la rivendicazione messianica di Gesù
non corrispondeva alle immagini e alle speranze dei contemporanei, ma aveva un senso
più profondo, radicalmente nuovo. Ciò è evidente, ad esempio, nell’annuncio del regno
di Dio, che viene privato di ogni carattere terreno e politico, in una separazione piut-
tosto netta tra la dimensione religiosa e l’apparato statale. Il regno di Dio assume la con-
notazione di una dimensione interiore più che di un luogo ultraterreno o di una situazio-
ne politica esteriore. Inoltre, Gesù promette la liberazione non dalle autorità del governo,
bensì dal peccato. A chi si attende un messia che porti la liberazione politica, Gesù ri-
sponde invitando a separare «ciò che è di Cesare» e «ciò che è di Dio». In tal modo egli
reinterpreta la figura del messia e, nella misura in cui dichiara l’attesa messianica conclu-
sa e realizzata nella sua persona, fa apparire superata e delegittimata la visione religiosa
ebraica, secondo la quale quell’attesa permane.
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 131

Il Figlio di Dio
Il secondo titolo, quello di “Figlio di Dio”, è teologicamente più problematico: Gesù non
si limita a presentarsi come profeta o inviato da Dio, ma dichiara la sua natura divina.
Diversamente dai profeti, egli parla in prima persona e si rivolge a Dio chiamandolo “pa-
dre”, con un’intimità inconcepibile nella tradizione ebraica, che di Dio non voleva pro-
nunciare neppure il nome per rispetto della sua trascendenza (❯ Per approfondire). Nei di-
scorsi e nei gesti Gesù mostra una consapevolezza di sé superiore a quella di un inviato
divino; questo atteggiamento diventa dirimente per la condanna a morte: essersi procla-
mato “Figlio di Dio” viene considerato una pubblica bestemmia, nonché un attentato
all’autorità religiosa.
Comprendere il significato di questo titolo – molto più che quello di “messia” comun-
que legato alla tradizione ebraica – sarà il compito principale della teologia cristiana dei
primi secoli. Nell’interpretazione cristiana la morte di Gesù non è infatti il martirio di un
profeta o di un uomo benedetto da Dio, ma rappresenta il sacrificio di Dio per l’umanità.

La parola e il nome di Dio


N ell’Antico Testamento si trova un’ampia riflessio-
ne sul linguaggio e sulle sue funzioni, nella misu-
ra in cui una delle attività principali di Dio consiste nel
P er questo motivo il nome di Dio nell’Antico Testa-
mento è presente in quasi tutti i libri, ma non veni-
va mai pronunciato letteralmente, bensì sostituito con
“parlare” agli uomini. espressioni come “il Signore”, “il Nome”, “il Santo bene-
detto”. Si scriveva perciò il tetragramma sacro, cioè le
A nche la creazione del mondo si compie secondo un
paradigma linguistico: «Dio disse: “Sia la luce!”. E
la luce fu» (Genesi 1, 3); non si tratta dell’atto di plasma-
quattro lettere che compongono il nome di Dio
(YHWH, essendo l’ebraico una lingua consonantica; il
re una materia (come nel modello platonico del demiur- tetragramma vocalizzato si trascriverebbe “Yahweh”),
go, descritto nel Timeo), bensì di una parola divina im- ma non lo si pronunciava. Era un divieto ferreo, ancora
mediatamente efficace, che non solamente descrive le oggi in vigore nelle comunità ebraiche (in certe inter-
cose, ma le fa esistere, conferisce loro un essere dal nul- pretazioni restrittive è fatto divieto anche di pronun-
la. D’altra parte anche la parola umana, pur non rive- ciarlo mentalmente), e non soltanto l’invito a non invo-
stendo una funzione creativa, non è intesa come un care Dio per questioni futili (“non nominarlo invano”).
semplice strumento meccanico di comunicazione o di
designazione degli oggetti. Lo si vede già nel racconto
della Genesi, dove l’uomo è invitato a dare un nome a
Q ueste considerazioni chiariscono l’elevato valore attri-
buito alla parola e al linguaggio nella visione ebraica,
ma aiutano anche a comprendere quanto fosse scandaloso
tutti gli esseri viventi creati da Dio, così, in qualunque per gli ebrei contemporanei a
modo l’uomo li avesse chiamati, quello sarebbe stato il Gesù sentire che egli si rivol-
loro nome (Genesi 2, 19-20). L’attività di organizzare con geva a Dio con grande intimi-
categorie linguistiche il mondo creato da Dio implica la tà, chiamandolo addirittura
superiorità dell’essere umano rispetto alle altre creature, “abbà”, un termine aramaico
ma anche la funzione peculiare del linguaggio: ciò che molto familiare con cui i bam-
si può nominare si può definire, e quindi conoscere, bini indicavano il papà.
controllare, dominare. Questo valore della parola emer-
ge ancora più chiaramente nel divieto di nominare Dio:
non perché nessun nome può racchiudere l’essenza di-
Il f rammento di un coccio, ris alente
vina, ma perché l’uomo non può conoscere – né tanto- all ’ V III secolo a.C., con una iscrizione
meno controllare – Dio, assolutamente trascendente. che contiene il nome di Yahweh.
132 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

Un Dio che muore e che si sacrifica per l’uomo, e non viceversa, è un’idea totalmente
inedita dal punto di vista religioso e ha valore salvifico soltanto se Gesù Cristo, inteso
come “Figlio di Dio” è pienamente e simultaneamente Dio e uomo, cioè se non è né un
uomo “divinizzato”, accolto nella sfera celeste per i suoi meriti e la sua fede, né un Dio che
assume sembianze umane. La Chiesa si preoccupa di definire l’identità di Gesù soprat-
tutto nei cosiddetti concili “cristologici” del IV-V secolo, tenutisi rispettivamente a Nicea
(325), Costantinopoli (381), Efeso (431) e Calcedonia (451). Per spiegare l’unità della na-
tura divina e umana nella persona di Gesù la teologia dovrà prendere a prestito molti
termini del linguaggio filosofico (come “natura” e “sostanza”) e non potrà evitare di
confrontarsi direttamente con la filosofia.

FARE • Sottolinea con colori diversi:


per - il significato che Gesù attribuisce ai due titoli di “Messia” e “Figlio di Dio”;
CAPIRE - l’interpretazione/valutazione che ne davano le autorità ebraiche.

4 Cristianesimo e filosofia
Abbiamo visto come, fin dalle origini della filosofia, il distacco dalle spiegazioni mitiche
e religiose abbia rappresentato una delle condizioni per la nascita e lo sviluppo del pen-
siero razionale autonomo. Con la diffusione del cristianesimo, invece, religione e filoso-
fia incrociano i loro percorsi, anche se non sempre in modo pacifico. Per la prima volta
la riflessione filosofica viene messa al servizio dell’adesione religiosa e diventa la via per
portare alla conversione, oltre che lo strumento per l’approfondimento della fede.
L’ideale di una vita filosofica, condotta distinguendo bene e male secondo la sapienza
umana, viene sostituito da un modello di comportamento e da un sistema di valori che si
ritiene di origine divina, e che si fonda sull’amore per Dio e per il prossimo. È soprattut-
to sul piano dottrinale che il confronto – talvolta un vero e proprio scontro – produce
esiti culturalmente significativi: si apre una vivace discussione sul rapporto tra ragione
e fede, che contrappone chi le ritiene reciprocamente ostili e chi invece le considera alle-
ate per una visione più completa della realtà.

La condanna della filosofia


Quale apporto può fornire la filosofia al cristianesimo? Se si pensa la filosofia come
ricerca razionale della verità, i due termini sembrano in contrasto, perché la fede reli-
giosa dichiara di aver trovato la verità in una dimensione ultrarazionale. Per questo
motivo, soprattutto all’inizio nel cristianesimo si leva una condanna esplicita nei con-
fronti della filosofia e di ogni forma di cultura pagana: nell’ottica di una adesione tota-
le e incondizionata all’annuncio contenuto nelle Scritture, si ritiene che soltanto la fede
consenta di giungere alla verità, e che la spiegazione razionale umana sia sempre limi-
tata e fallibile.
Già Paolo di Tarso, l’autore della maggior parte delle lettere apostoliche, aveva esor-
tato i fedeli a non farsi ingannare dalla filosofia, in quanto sapienza vana e mendace, che
considera esclusivamente la realtà terrena. Alla filosofia Paolo contrappone la sapienza di
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 133

Cristo, scandalosa e stolta agli occhi del mondo. Il rifiuto della filosofia, come simbolo
della conoscenza umana che confida solamente nella ragione senza aprirsi alla fede, si
trova spesso nella letteratura cristiana dei primi secoli, anche perché i filosofi accusano a
loro volta i cristiani di farsi promotori di dottrine assurde e irrazionali.
L’autore cristiano più intransigente è Tertulliano (155-230), che pure era imbevuto di
cultura classica e buon conoscitore della filosofia. Egli accusa la ricerca filosofica di arro-
ganza e di vana curiosità: se in essa si trova qualcosa di vero e buono, è un puro caso, ed
è sommerso da una grande quantità di errori. Dal suo punto di vista la rivelazione di Dio
ha posto fine a tutte le domande, perché il Vangelo è tutto quello che un cristiano deve
sapere. Tertulliano arriva a esporre la sua posizione in maniera paradossale, affermando
di credere nella resurrezione proprio perché umanamente inconcepibile e incredibile.
L’idea di una fede certa perché impossibile ha dato vita all’espressione credo quia absur-
dum (“credo perché assurdo”), che in effetti non si trova alla lettera nelle sue opere, ma
che esprime il senso della sua condanna del sapere umano.

L’ apertura alla filosofia


Questa posizione di diffidenza nei confronti della filosofia non è quella più diffusa all’in-
terno della letteratura cristiana. La pretesa universalistica del messaggio cristiano e la
necessità di rispondere alle accuse degli esponenti culturali pagani portano diversi auto-
ri cristiani a un’apertura verso la filosofia, che diventa quasi un modo per rendere com-
prensibile la loro fede a interlocutori estranei alla tradizione religiosa ebraica. Il cristia-
nesimo cerca dunque di esprimersi filosoficamente, produce una sua filosofia, anche
se si tratta di una riflessione particolare, che mostra un interesse contenutistico selettivo
e introduce categorie e modi originali del pensiero.
La ricerca di una chiarificazione filosofica non nasce soltanto dall’esigenza di legitti-
mare le proprie posizioni di fronte ai detrattori, ma anche da ragioni intrinseche, a par-
tire dall’invito rivolto nella prima lettera di Pietro a “rendere ragione” della propria fede,
che pertanto va spiegata, chiarita, argomentata. Certamente i cristiani non mettono in
discussione l’esistenza di Dio o le verità fondamentali della fede, ma ciò non esclude una
riflessione razionale, sull’uomo, sull’universo, sui valori e sui comportamenti, sul senso
della storia.

Il prologo di Giovanni
Il primo incontro tra cristianesimo e filosofia si può osservare nel prologo del Vange-
lo di Giovanni, l’ultimo dei Vangeli, redatto verso la fine del I secolo.
Per illustrare l’identità divina di Gesù si ricorre qui a una terminologia di elevato
spessore filosofico: «In principio era il Verbo [lógos], il Verbo era presso Dio e il Verbo
era Dio». In pochi versetti ci si riferisce a un lógos, che era in “principio”, era presso Dio
ed era Dio; tramite questo lógos, definito “vita” e “luce”, viene creato tutto ciò che esiste.

Verbo il latino verbum traduce il greco lógos, mo, dal senso letterale si passa a quello di “pa- lessico
termine ampiamente usato dai filosofi con il si- rola che rivela il divino”, e quindi a Gesù Cristo,
gnificato di “parola”, “ragione”. Nel cristianesi- figlio di Dio e parola divina incarnata e rivelata.
134 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

Il termine lógos rinvia a una ragione eterna, ma assume anche il significato di “parola”
nel senso di rivelazione del divino, perché rende manifesto Dio, invisibile, grazie al
fatto che ha assunto un corpo umano: «il Verbo si fece carne e […] noi vedemmo la sua
gloria». La densità concettuale è evidente, ma l’evangelista non fa un uso passivo di
nozioni desunte dalla filosofia: prende forma una riflessione su Dio e sul mondo che
supera sia la visione ebraica della divinità, invisibile e innominabile, sia la concezione
greca del rapporto tra dimensione spirituale e dimensione corporea. Il cristianesimo
afferma la possibilità di vedere Dio grazie all’incarnazione del suo figlio: senza rinun-
ciare alla trascendenza, la coniuga con una presenza divina accessibile e familiare. Nel-
lo stesso tempo, rispetto al mondo culturale greco, il prologo di Giovanni rivaluta la
dimensione della corporeità: pur utilizzando termini e concetti profondamente legati
alla tradizione filosofica, ne capovolge il senso nella misura in cui attribuisce al lógos (la
razionalità, lo spirito) una trasformazione che lo porta a divenire “carne”. Contraria-
mente a un’antropologia filosofica di matrice platonica, che intende il corpo come un
carcere o comunque un peso per l’anima, qui si assiste a un apprezzamento della realtà
corporea, fisica e mortale.
Il prologo del Vangelo di Giovanni si serve dunque di concetti filosofici per esporre i
due assunti fondamentali della fede cristiana: la divinità del lógos, figlio di Dio, e la sua
incarnazione, cioè la piena umanità. In tal modo trasforma sia la filosofia sia la fede: la
filosofia, perché sottopone le nozioni filosofiche a significati inediti, ampliandone e
modificandone i contesti di riferimento; la fede, perché il suo contenuto non si esprime
soltanto in forma narrativa o simbolica, ma in una dottrina, un discorso teologico espli-
cativo e non meramente esortativo o prescrittivo. Nei secoli successivi la letteratura cri-
stiana continuerà su questa strada: non si concepirà la filosofia come disciplina autono-
ma, né gli scrittori cristiani si presenteranno come filosofi, ma la teologia attiverà un
confronto e uno scambio proficuo, e per certi aspetti manterrà in vita la tradizione
filosofica.

FARE per CAPIRE • Individua nel testo i diversi motivi per cui il cristianesimo si serve della filosofia.

MAPPA FILOSOFIA E CRISTIANESIMO


CONCETTUALE
LA DISCUSSIONE SUL RAPPORTO
TRA RAGIONE E FEDE

contrappone

chi le considera e chi le considera


reciprocamente ostili alleate

perché perché

- soltanto la fede la filosofia consente di:


consente di giungere - difendersi di fronte
alla verità ai detrattori
- la spiegazione - “rendere ragione”
razionale è sempre della propria fede
limitata e fallibile
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 135

5 La letteratura cristiana:
patristica greca e latina
La periodizzazione
La storiografia è solita distinguere tre momenti di elaborazione del pensiero cristiano dei
primi secoli.
1. Il periodo apostolico (I secolo d.C.) è così definito in quanto gli autori sono ancora
in contatto, diretto o indiretto, con gli apostoli. L’obiettivo principale dei loro scrit-
ti è quello catechetico-pastorale: essi mirano a istruire i cristiani, a offrire inse-
gnamenti morali e a esortare alla fede. Questi testi sono importanti dal punto di
vista storico e teologico per comprendere l’evoluzione delle prime comunità cristia-
ne e il senso della loro identità, ma non si trovano rilievi di carattere filosofico:
benché non sia esclusa una generica influenza della terminologia filosofica, la
spiegazione razionale della fede non è l’interesse prioritario.
2. Il periodo degli apologeti (detti anche “apologisti”) è definito in questo modo per-
ché gli autori cristiani difendono la fede dagli attacchi loro rivolti nel clima perse-
cutorio del II e III secolo. In questo periodo il cristianesimo deve guadagnarsi il
diritto di cittadinanza nell’impero e deve motivare la sua pretesa assoluta e univer-
sale. La preoccupazione dei padri apologeti è dunque la difesa del cristianesimo
e della sua legittimità: l’esposizione rimane determinata dalle accuse da confutare,
senza che venga sviluppata una riflessione di più ampio respiro. L’incontro con la
filosofia si impone nella misura in cui il cristianesimo si diffonde al di fuori della
Palestina e i cristiani devono sostenere la fede di fronte agli uomini di cultura del
tempo. Come si è visto, l’atteggiamento nei confronti della filosofia è piuttosto va-
rio, e va dalla condanna netta di Tertulliano al recupero in chiave cristiana dei
“semi di verità” presenti nei filosofi pagani. Alcuni apologeti, come Giustino (100-
162/8) e Clemente Alessandrino (150-215), aderiscono al cristianesimo dopo aver
frequentato diverse scuole e correnti filosofiche; altri invece, come Origene (185-
254), approfondiscono la conoscenza filosofica soltanto per rendere l’annuncio del
cristianesimo più credibile e comprensibile. Filosofia e riflessione cristiana appar-
tengono però ancora a due mondi culturali in contrapposizione, e il confronto non
è sempre pacifico e produttivo.
3. Il periodo della fioritura della patristica si può collocare all’incirca tra il IV e l’VIII
secolo. Dopo l’editto di Milano (313) – emanato da Costantino – il cristianesimo
ottiene la libertà di culto e si appresta a divenire la religione dell’impero. Questo è
dunque il periodo in cui si sviluppa una letteratura cristiana di più ampio respiro e
la riflessione sul cristianesimo raggiunge la sua maturità: la richiesta di rende-
re ragione della fede non è più determinata dal contesto esterno, dalle accuse del
mondo pagano, dalla volontà di predicare anche a pagani colti, ma è alimentata

apologeti (dal greco apologhéo, “adduco ragio- come scopo principale delle loro opere la difesa lessico
ni”, “espongo argomentazioni in difesa di qualcuno del cristianesimo dalle accuse degli uomini di cul-
o qualcosa”) i primi autori cristiani, che pongono tura pagani e delle autorità politiche imperiali.
136 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

dall’esigenza di precisare il contenuto del messaggio cristiano al proprio interno e


di fornire un’interpretazione chiara e vincolante della fede di fronte al pullulare di
eresie interne alla Chiesa. L’espressione padri della Chiesa (da cui il termine “pa-
tristica”) usata per gli scrittori di questo periodo indica il loro valore costitutivo per
la tradizione cristiana: si tratta di autori che sono venerati per la santità di vita,
oltre che per gli insegnamenti. A poco a poco l’insieme delle dottrine dei padri
della Chiesa (nei punti fondamentali, in cui vi è accordo unanime) diventa un rife-
rimento normativo per definire la fede cristiana, affiancandosi alla Scrittura per
illuminare i credenti sui contenuti dottrinali e sui comportamenti morali.
In un mondo culturalmente mutato per la presenza capillare della nuova religione, la ri-
flessione cristiana si esprime in una duplice tradizione, una in lingua greca nella parte
orientale dell’impero (l’Impero bizantino), e una in lingua latina in quella occidentale,
due tradizioni che tenderanno ad allontanarsi nel corso dei secoli e a seguire percorsi
originali.

La patristica greca
La patristica greca si alimenta alle fonti della filosofia classica ed ellenistica, e instaura un
dialogo serrato soprattutto con la tradizione platonica e neoplatonica. In Oriente i pa-
dri della Chiesa si confrontano direttamente con i testi originali greci, e sono consapevo-
li di usare la lingua della filosofia e di essere debitori dell’immenso patrimonio concet-
tuale a loro disposizione per elaborare la riflessione sulla dottrina cristiana.
Il confronto con la filosofia non avviene però solamente con le opere dei filosofi, ma è
un confronto “vivente”, perché nell’Impero bizantino la filosofia greca continua ad
esistere e a prosperare anche nell’era cristiana. Non è quindi soltanto il recupero e la
reinterpretazione di testi antichi, ma il rapporto talvolta conflittuale con una tradizione
viva, tanto che per un lungo periodo pagani e cristiani frequentano le stesse scuole: ad
Alessandria, Ammonio Sacca è il maestro tanto di Plotino quanto del cristiano Origene;
Simplicio, neoplatonico del VI secolo, condivide lo stesso maestro del teologo Giovanni
Filopono. Ad Atene, l’Accademia platonica è attiva fino al 529, anno in cui l’imperatore
Giustiniano decide di sradicare la filosofia pagana, all’interno di una politica che si serve
del cristianesimo come strumento per la coesione e il controllo dell’impero. Ma neppure
questa volontà ostile e repressiva pone fine all’esperienza filosofica: bandita da Atene, la
filosofia pagana migra in Turchia, in Siria, in Persia, e continua a prosperare anche ad
Alessandria.
La patristica greca sperimenta perciò la concorrenza diretta del pensiero filosofico:
all’inizio vi attinge direttamente, poi tenderà a contrapporvi la sapienza cristiana come
unica e vera conoscenza, e a chiudersi a influenze esterne avvertite come pericolose.

lessico eresia (dal greco háiresis, “scelta”) dottrina che padri della Chiesa gli autori e scrittori cristiani
nega esplicitamente una verità che la Chiesa ritiene dei primi secoli, le cui dottrine la Chiesa ritiene fon-
rivelata e fondamentale per la fede: eretico è colui damentali per chiarire le verità di fede e per defini-
che “sceglie” di mettersi contro la Chiesa. Ne è un re la tradizione cristiana.
esempio l’eresia professata dal sacerdote di Ales-
sandria, Ario (eresia ariana), il quale sosteneva che in
quanto “generato” Gesù fosse inferiore a Dio Padre.
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 137

❯ Alcuni padri della


Chiesa rappresentati
nei mosaici bizantini
della cattedrale di
Santa Sofia a Kiev:
da sinistra, dopo
la prima figura
(un arcidiacono),
Basilio il Grande,
Giovanni Crisostomo,
Gregorio di Nissa e
Gregorio Taumaturgo;
tutti raffigurati con i
Vangeli in mano.

Una certa dipendenza dal potere imperiale, che assumerà anche un ruolo di controllo
dell’ortodossia della dottrina, determinerà nel mondo bizantino il mancato sviluppo di
scuole o istituzioni in cui trasmettere la cultura antica. L’eredità filosofica non sarà rac-
colta nella sua interezza dalla patristica greca, ma si sposterà fuori dai confini dell’Impe-
ro d’Oriente, per ritornare nel mondo occidentale latino molti secoli più tardi, grazie alla
mediazione del mondo arabo (❯ p. 206).

La patristica latina
Ben diverso è il panorama culturale del mondo occidentale, dove l’impero non ha la forza
di resistere alle incursioni delle nuove popolazioni “barbare” che premono ai suoi confi-
ni a partire dal II secolo. Ovunque, tra i pagani come tra i cristiani, si ha la netta perce-
zione della fine di un’epoca e di un inesorabile declino; la grandezza rappresentata
dalla cultura classica si allontana e non sembra offrire risposte ai contemporanei, dimi-
nuiscono i libri e la loro circolazione, resistono le scuole di retorica, ma non quelle di fi-
losofia; il greco non è più la lingua della cultura e sono sempre meno coloro che lo
parlano, anche perché la divisione dell’impero lo ha reso inutile per la carriera ammini-
strativa. Paradossalmente, però, proprio in una situazione di maggiore povertà culturale
ci si cimenta a ripensare il mondo con strumenti concettuali più adeguati ai tempi e
si preparano timidamente un nuovo inizio e una nuova sintesi. La lettura dei pochi testi
filosofici a disposizione è selettiva e orientata alla dimensione più specificamente teolo-
gica, ma viene comunque mantenuto aperto un interesse nei confronti della filosofia,
che consentirà la riscoperta e la rinascita dei secoli successivi.
Non possiamo considerare filosofi i padri della Chiesa, ma certamente essi hanno rive-
stito un ruolo nella trasmissione e reinterpretazione di alcuni motivi filosofici, oltre che
nell’arricchimento della riflessione con nuove questioni. Tra i padri della Chiesa latina Ago-
stino rappresenta senza dubbio la figura più rilevante e influente per il pensiero successivo. ESERCIZI

FARE per CAPIRE • Costruisci uno schema in cui riportare i diversi momenti del pensiero cristiano dei
primi secoli, evidenziando i caratteri principali di ogni periodo.
138 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

capitolo 14
SINTESI La filosofia cristiana:
rendere ragione della fede
AUDIOSINTESI

1 Il cristianesimo nell ’Impero romano


Dove ha origine il cristianesimo? Il cristianesimo na- l’Impero romano è un mondo culturalmente e po-
sce nella Palestina romana e, nonostante sia perse- liticamente “globalizzato”, in cui è facilitata l’am-
guitato dall’autorità politica, si propaga rapidamente. pia circolazione di idee; inoltre è favorita dal conte-
Quali sono i motivi della sua rapida diffusione? La nuto del messaggio cristiano, capace di rispondere
diffusione della nuova religione è dovuta al fatto che ai problemi della salvezza dell’anima.

2 I testi sacri e le origini ebraiche del cristianesimo


Quali sono i testi sacri del cristianesimo? L’insieme Qual è il rapporto del cristianesimo con l’ebraismo?
dei testi riconosciuti dalla Chiesa come ispirati diret- Il cristianesimo nasce in seno all’ebraismo, ma reinter-
tamente da Dio costituisce la Bibbia, che si divide in preta i testi di questa tradizione spiegando quello che
Antico e Nuovo Testamento. L’Antico Testamento è ritiene essere il loro vero significato in relazione alla
comune a ebrei e cristiani. Il Nuovo Testamento figura di Gesù. In tal senso si propone come il compi-
raccoglie i testi fondanti del cristianesimo. mento dell’ebraismo attraverso la figura di Cristo.

3 La figura di Gesù di Nazareth e la novità del cristianesimo


Gesù sorprende i contemporanei perché si procla- Perché il titolo di “Figlio di Dio” risulta scandaloso
ma “Messia” e “Figlio di Dio”. per gli ebrei? Il fatto che Cristo si rivolga a Dio chia-
Qual è il significato della figura del “messia”? Il mes- mandolo “padre” denuncia un’intimità inconcepi-
sia, per Gesù, è colui che annuncia il regno di Dio e bile per gli ebrei, i quali evitano addirittura di nomi-
viene a liberare tutti gli uomini dal peccato. nare Dio per rispetto alla sua trascendenza.

4 Cristianesimo e filosofia
Quali sono le posizioni in merito al rapporto tra di Paolo di Tarso e Tertulliano. Dall’altro si pongo-
ragione e fede? Da un lato vi sono coloro che in no coloro che si servono della filosofia sia per ri-
nome della fede condannano la filosofia, intesa spondere alle accuse degli intellettuali pagani, sia
come sapere vano e presuntuoso: è l’atteggiamento per chiarire e argomentare la fede.

5 La letteratura cristiana: patristica greca e latina


Qual è la periodizzazione del pensiero cristiano? con i filosofi ancora attivi. Non sorgono però istituzio-
Gli storici suddividono il pensiero cristiano in: 1. pe- ni in cui trasmettere il patrimonio filosofico antico,
riodo apostolico (I secolo), in cui gli autori mirano a che verrà trasmesso all’Occidente attraverso la me-
istruire i cristiani e ad esortare alla fede; 2. periodo diazione araba.
degli apologeti (II-III secolo), in cui si utilizzano In quale contesto si sviluppa la patristica latina?
concetti e ragionamenti filosofici per difendere il cri- In Occidente si vive un’epoca di crisi e di inesorabile
stianesimo; 3. periodo della fioritura della patristica declino: in seguito alle invasioni barbariche va perduto
(IV-VIII secolo), che comprende gli scrittori definiti gran parte del patrimonio culturale e viene meno l’uso
“padri della Chiesa”. della lingua greca. Tuttavia si mantiene vivo l’interesse
In quale contesto si sviluppa la patristica greca? per la filosofia; il maggior esponente della patristica la-
In Oriente i padri della Chiesa hanno la possibilità di tina è Agostino.
confrontarsi con i testi della filosofia greca e anche
139

capitolo 14
MAPPE CONCETTUALI La filosofia cristiana:
rendere ragione della fede
IL CRISTIANESIMO NELL ’ IMPERO ROMANO
legati al contesto circolazione di idee nell’impero
I MOTIVI DELLA esterno e assenza di barriere culturali
DIFFUSIONE DEL sono principalmente
CRISTIANESIMO legati al risposta ai problemi
contenuto della salvezza dell’anima

IL RAPPORTO TRA CRISTIANESIMO E FILOSOFIA


soltanto la fede
Paolo di
LA CONDANNA consente di
Tarso,
DELLA FILOSOFIA raggiungere
Tertulliano
si osservano due la verità
Nell’ambiente
atteggiamenti
cristiano fondamentali occorre procedere a
prologo del
L’APERTURA una chiarificazione
Vangelo di
ALLA FILOSOFIA filosofica dei
Giovanni
contenuti della fede

NEL PENSIERO CRISTIANO DEI PRIMI SECOLI

si distinguono

1. periodo apostolico 2. periodo degli apologeti 3. patristica

si istruiscono i cristiani e si si difendono il cristianesimo si precisa il contenuto


offrono loro precetti morali e la sua legittimità della fede

patristica greca patristica latina

confronto diretto con la tradizione scarsa disponibilità di testi e


filosofica perdita dell’uso della lingua greca

è il salvatore, che annuncia


il Messia
il regno di Dio
GESÙ si presenta come
il Figlio di Dio è insieme Dio e uomo
140 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

capitolo 14
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA La filosofia cristiana:
rendere ragione della fede
RIPASSO

1 Il cristianesimo 6. La prima ermeneutica cristiana si propone:


(segna la risposta esatta)
nell ’ Impero romano a di comprendere il significato letterale dei testi sacri
b di mostrare come il significato profondo
riconoscere le nozioni dell’Antico Testamento trovi realizzazione in
1. I cristiani rifiutano di omaggiare l’imperatore Cristo
romano perché: (segna la risposta esatta) c di evitare qualsiasi interpretazione dei testi sacri
a negano l’autorità religiosa che questi rappresenta d di combattere l’ebraismo, mostrandone gli errori
b adorano un dio non presente nel pántheon romano di interpretazione dei testi sacri
c il suo potere minaccia quello della Chiesa
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
d non sono considerati cittadini dell’impero
7. Quali tradizioni scritte confluiscono
2. Individua la definizione corretta di monoteismo: rispettivamente nell’Antico e nel Nuovo
a teoria cristiana che colloca Dio Padre al di sopra Testamento?
del Figlio e dello Spirito Santo
b teoria teologica che afferma l’esistenza scrivere e rielaborare (15-20 righe)
di un unico Dio 8. Spiega in che senso nel presentare sé stesso
c teoria che attribuisce soltanto a Dio i caratteri Gesù realizza una prima forma di ermeneutica
della perfezione cristiana.
d teoria che attribuisce soltanto a Dio la capacità
di creare il mondo

esporre concetti e relazioni (max 5 righe)


3. Quali sono gli elementi di rottura e di continuità tra 3 La figura di Gesù di Nazareth
il cristianesimo e il mondo culturale precedente? e la novità del cristianesimo
4. Quali sono i caratteri del messaggio cristiano riconoscere le nozioni e il significato
che ne favoriscono la rapida diffusione? delle parole
9. Nel presentarsi come il “Messia”, Gesù:
(segna la risposta esatta)
a ne interpreta la figura annunciando che il regno
2 I testi sacri e le origini ebraiche di Dio non ha un carattere terreno

del cristianesimo b si pone in contrasto con la tradizione ebraica,


che ignorava il concetto
riconoscere le nozioni c annuncia un regno di Dio in cui dimensione
5. Indica l’affermazione che illustra in modo religiosa e dimensione politica saranno unificate
corretto il rapporto tra l’Antico Testamento d intende sé stesso come colui che, con la
e la predicazione di Cristo: benedizione di Dio, libererà il popolo ebraico
dall’oppressione romana
a Gesù nega la fede ebraica e il valore dell’Antico
Testamento, perché non è ebreo esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
b Cristo non prende in considerazione l’Antico
10. Perché il titolo di “Figlio di Dio”, assunto da
Testamento perché introduce una nuova legge
Gesù, risulta scandaloso per le autorità religiose
c Gesù considera l’Antico Testamento come
ebraiche?
rivelazione divina, portandolo a compimento
d la predicazione di Cristo ribadisce che soltanto
l’Antico Testamento è scrittura rivelata
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 141

4 Cristianesimo e filosofia 5 La letteratura cristiana:


riconoscere le nozioni e il significato
delle parole
patristica greca e latina
11. Quale posizione assume Tertulliano di fronte riconoscere le nozioni e il significato
delle parole
alla filosofia?
a la apprezza, anche se vana e arrogante,
14. Gli apologeti sono: (segna la risposta esatta)
perché la conosce bene a un gruppo di eretici del IV secolo

b la rifiuta, perché ritenuta incapace di trovare b gli autori che definiscono i primi dogmi della
argomenti adatti per difendere i cristiani fede cristiana
c la rifiuta, perché dopo la rivelazione non c’è più c gli autori del II-III secolo che difendono la fede
bisogno della ricerca della verità cristiana dalle accuse mosse dai pagani
d la apprezza, perché utile per supportare la fede d gli autori del II-III secolo che ritengono
impossibile la conciliazione tra cristianesimo e
12. Scrivi quale termine filosofico viene utilizzato filosofia
nel prologo del Vangelo di Giovanni: ..................
.................................
15. La patristica comprende: (segna la risposta esatta)
a gli scrittori cristiani dal IV all’VIII secolo, che
Giovanni usa questo termine per indicare:
(segna la risposta esatta)
forniscono la prima elaborazione dottrinale del
cristianesimo
a Cristo come principio spirituale contrapposto
b gli evangelisti, che per primi mettono per scritto
alla materia
la dottrina cristiana usando concetti filosofici
b il principio divino inaccessibile, sul modello
c i primi santi e martiri, fino all’VIII secolo, il cui
neoplatonico
pensiero è accolto dalla Chiesa
c Cristo come parola che rivela il divino
d tutti i filosofi che la Chiesa ha proclamato santi e
d l’ordine immanente del mondo considera portatori ufficiali del pensiero cattolico
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) scrivere e rielaborare (15-20 righe)
13. In che senso il cristianesimo si rivolge alla 16. Spiega in che cosa differiscono gli ambienti
filosofia e ne utilizza i concetti? culturali in cui si sviluppano la patristica greca
e quella latina.

ad alta voce
17. Illustra in 5 minuti la periodizzazione
del pensiero cristiano delle origini
e le caratteristiche di ciascuna fase.
142 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

capitolo 15 figura
Agostino: l ’inquietudine della
VIDEOLEZIONE
Maurizio Ferraris
presenta Agostino ricerca, la certezza della scoperta

Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore
abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi
anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della
ragione.
(La vera religione, 39, 78)

Gli interrogativi filosofici


Da dove ha origine l ’ incessante insoddisfazione dell ’animo?
Agostino è un autore inquieto, la cui ricerca intellettuale ed esistenziale sembra
destinata a non esaurirsi mai, così che ogni conquista risulta l’inizio di una nuova
indagine. Insoddisfatto degli studi compiuti, della vita disordinata e dissoluta condotta
negli anni della giovinezza, delle filosofie che man mano abbraccia, giunge infine a una
conversione che non è soltanto religiosa: l’adesione alla fede cristiana rappresenta infatti
un evento che coinvolge ogni aspetto della sua vita e del suo pensiero.

Dal punto di vista etico ed esistenziale tale conversione comporta infatti scelte
totalizzanti, che spingono “l’uomo” Agostino prima ad appartarsi dal mondo, in una
condizione favorevole alla meditazione, quindi a dedicarsi con passione all’impegno
pastorale, in un periodo difficile per la Chiesa scossa da divisioni e controversie interne.
Dal punto di vista intellettuale, la conversione comporta un vero e proprio cambiamento
di direzione, che conduce “il filosofo” Agostino a volgere la sua attenzione non più
al mondo esterno ma a quello interiore.

Come si trova e in che cosa consiste la verità?


Nell’interiorità Agostino scopre un mondo insondabile, privo di confini e aperto alla
presenza trascendente di Dio. Volgendo lo sguardo dentro di sé, “ritornando in sé
stesso”, egli trova la verità della luce divina, fonte e fondamento di ogni altra conoscenza.

Tale verità risiede nel profondo dell’anima, abita nella parte più intima dell’uomo, ma
per afferrarla non è sufficiente conoscere sé stessi. Per Agostino la verità non è infatti
un’acquisizione individuale né soggettiva: non si consegue attraverso il ripiegamento
intimistico su di sé, bensì mediante un’illuminazione interiore che proviene da Dio.
Anche la “confessione”, il genere autobiografico con cui Agostino ripercorre le vicende
più significative della sua vita, non è la mera esplicitazione di sentimenti e moti interiori:
la scrittura autobiografica è lo strumento con cui l’autore vuole “attuare la verità”, e
non soltanto nel suo cuore ma anche di fronte a molti testimoni. Si tratta di comunicare
e scrivere perché la verità possa manifestarsi e trovare una dimensione pubblica.

Che cos ’ è il tempo?


L’indagine sulla verità e la scoperta dell’interiorità come “luogo” del suo fondamento
portano con sé altri interrogativi cui Agostino tenta di offrire soluzione, ad esempio
quelli sul tempo e sul male.

Il tempo scandisce la nostra vita e sembra essere una realtà nota, mentre è tra le più
misteriose e difficili da definire. Tutta l’esistenza – dice Agostino – è scandita dal
tempo e apparentemente sappiamo che cos’è e come misurarlo. Eppure, non appena
ci soffermiamo con più attenzione sulla sua natura, ci afferrano mille dubbi: il tempo ci
sfugge, non possiamo fermarlo, e ad esempio non sappiamo dire che cosa rende lungo o
breve un determinato lasso temporale. Sono tutte domande che riportano Agostino a
confrontarsi con l’anima, che vive le diverse dimensioni del tempo.

Da dove proviene il male?


Anche la questione del male emerge da una riflessione intima: nel ritornare in sé stesso,
Agostino deve fare i conti con la sua coscienza tormentata, con il senso di colpa, con
la consapevolezza di non aver potuto resistere al peccato nonostante il desiderio di
opporvisi. Il male gli appare in un primo tempo come una dimensione così tangibile nella
propria vita da poterlo identificare con un principio divino, impegnato in una lotta
metafisica con il principio del bene. Tuttavia, una riflessione ulteriore sul male
lo conduce a una spiegazione più raffinata e complessa, che mette in gioco
la responsabilità dell’uomo e la criticità delle sue scelte. Agostino arriverà dunque a
riformulare il problema, sia nel suo aspetto metafisico, definendo che cosa sia realmente
il male, sia nel suo aspetto morale, cercando di chiarire in che cosa consistano la libertà
umana e il peccato.
144 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

1 La vita e le opere
STORIA DI UN’ESISTENZA INQUIETA
Agostino si presenta come un animo irrequieto e intellettualmente sensibile a tutte le
proposte culturali del suo tempo. Le vicende biografiche, così intensamente raccontate
nelle sue Confessioni, costituiscono perciò anche un itinerario intellettuale, che deter-
mina le scelte fondamentali della sua esistenza. Più ancora che in altri autori, ci troviamo
di fronte a una riflessione che è inseparabile dalla vita vissuta, in un intreccio difficil-
mente districabile tra vicissitudini esterne e percorso interiore.

L’ ambiente di origine
Agostino nasce nel 354 d.C. a Tagaste (l’odierna Souk Ahras, in Algeria), in una fertile
regione agricola. La sua città natale appartiene alla Numidia proconsolare (provincia
romana nordafricana, corrispondente all’incirca alla parte nord-orientale dell’attuale Al-
geria); tranne una breve permanenza in Italia, Agostino trascorre tutta la propria esi-
stenza nell’Africa settentrionale. Ai suoi tempi, infatti, l’area del Mediterraneo rappre-
senta un mondo relativamente unitario, dove le province culturalmente più fiorenti sono
proprio quelle del Nord Africa e del Medio Oriente, da cui provengono anche diversi
imperatori (come la dinastia dei Severi), mentre l’Italia ha perso la sua centralità econo-
mica e culturale.
Contemporaneamente, nell’Impero romano è in corso una trasformazione, che porta
verso la polarizzazione in due mondi culturali distinti: la parte orientale in cui si parla
greco e quella occidentale in cui la lingua ufficiale è il latino. Nell’Africa settentrionale
questa polarizzazione divide l’Algeria, che appartiene alla cultura occidentale, dall’Egit-
to, dove invece continua a svilupparsi una cultura greca. Non stupisce pertanto che Ago-
stino, pur avendo studiato il greco da giovane, non sia mai riuscito ad apprenderlo piena-
mente, e che la sua conoscenza delle fonti letterarie e filosofiche greche sia rimasta
sempre parziale e indiretta.
Il padre, Patrizio, è un piccolo possidente con incarichi amministrativi, che desidera
per il figlio una carriera forense e si attiva presso amici e conoscenti per procurarsi i mez-
zi per farlo studiare. Diversamente dal padre, che si converte al cristianesimo soltanto
verso la fine della vita, la madre, Monica, è una fervente cristiana ed esercita un ruolo
determinante nell’educazione e nella vita del figlio, partecipando a tutte le sue vicende e
seguendolo fino alla conversione.

La formazione e l ’ insegnamento
Dopo aver studiato nelle scuole di Tagaste e Madaura, verso la fine del 370 Agostino
viene inviato a Cartagine, una delle più grandi città dell’impero, che da un lato lo ine-
bria con la ricca offerta culturale, dall’altro lo travolge con uno stile di vita licenzioso
e sregolato. Qui riceve una formazione retorica classica, tipicamente latina, ma si
avvicina anche a testi fondamentali della cultura ellenistica; si distingue inoltre in
ambito poetico-letterario, ottenendo un discreto successo e pubblici riconoscimenti.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 145

il ritratto
AGOSTINO nella rappresentazione di Botticelli
ella Chiesa di Ognissanti a

N Firenze si può ammirare


un affresco di Sandro
Botticelli (1445-1510), che propone
una delle più famose e diffuse
immagini di Agostino.

Agostino nel suo studio Il santo è


ritratto nel suo studio, circondato
da antichi e preziosi volumi, che
attestano la sua passione per
la cultura e la propensione alla
riflessione filosofica. La scena ha
un’impronta drammatica: mostra
un uomo solo, provato, turbato da
una profonda crisi interiore.
Botticelli ci presenta un Agostino
maturo, arrivato ai vertici della
gerarchia ecclesiastica – come
dimostra la preziosa mitra
appoggiata sul tavolo alle sue
spalle –; eppure l’aspetto su cui
pone l’accento non è l’autorità del
vescovo, ma la complessità
psicologica dell’uomo, concentrato
in una sofferta ricerca spirituale.
La tormentata immagine autobiografica
La scelta iconografica dell’artista
non è certo casuale né arbitraria:
Agostino stesso, infatti, nell’opera
autobiografica le Confessioni Sandro Botticelli, Sant ’ Agostino nello studio, 1480 circa, affresco, Firenze,
Chiesa di Ognissanti.
racconta il difficile percorso
interiore che, dalla sfrenatezza e
intemperanza giovanili, lo ha Il comune riferimento alle dottrine tuttavia, sembra ancorato e
portato alla conversione e alla fede neoplatoniche L’assonanza tra oppresso dalla condizione terrena,
cristiana, passando attraverso l’immagine dipinta e quella dalla materialità dell’esistenza,
complesse e impegnative autobiografica trova un’ulteriore della quale sono simbolo evidente
esperienze esistenziali e spiegazione nel comune riferimento le mani esageratamente grandi,
intellettuali connotate dal costante dei due autori alle dottrine tormentate, contorte,
e ossessivo interrogativo sul male. neoplatoniche, conosciute profondamente umane.
Ed è ancora Agostino che, già da Botticelli nella Firenze Tale immagine è ancora
maturo e affermato come figura quattrocentesca dei Medici – alla una volta speculare a quella
istituzionale della Chiesa, cui corte erano studiate e diffuse – che Agostino propone di sé,
conferma la sua natura inquieta, e apprezzate da Agostino nel suo quando descrive la sua personale
mettendo in discussione le teorie soggiorno a Milano. Agostino, nel e tragica esperienza della
esposte nelle opere precedenti, e ritratto di Botticelli, ha lo sguardo corruzione e del peccato, la sua
sviluppando una posizione sempre rivolto verso l’alto, la dimensione giovanile distanza da Dio,
più severa e in qualche modo alla quale l’anima desidera elevarsi l’incapacità di dominare le
negativa dell’essere umano. nel suo percorso di ascesi verso Dio; tentazioni e le ambizioni terrene.
146 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

Una prima lettura della Bibbia lo lascia deluso per lo stile semplice e a suo giudizio roz-
zo, molto lontano dall’eleganza della prosa ciceroniana. È invece proprio l’Ortensio di
Cicerone – un’opera andata perduta in cui l’autore esortava a dedicarsi alla sapienza
filosofica – ad accendere in Agostino un genuino interesse per la filosofia, che tende a
oscurare quello per la retorica. Più che una disciplina dedicata alla spiegazione raziona-
le e argomentata del mondo, Agostino ricerca nella filosofia una sapienza di vita, che
sappia coniugare pensiero, esistenza e istanze religiose, in vista del raggiungimento
della felicità.
Sono anni caratterizzati da una profonda inquietudine, da un inappagato desiderio
di conoscenza, dalla ricerca di un senso per la propria esistenza, ma anche da una vita
disordinata e dissoluta. Nel 372 Agostino ha un figlio, Adeodato, da una donna con cui
convive per quasi sedici anni. Sempre a Cartagine si accosta al manicheismo, una setta
filosofico-religiosa, fondata dal persiano Mani (216-277), che interpreta la realtà come
frutto del conflitto tra due principi divini opposti, rispettivamente del bene e del male.
In questa dottrina Agostino pensa di avere trovato non soltanto una visione razionale,
che possa offrire una spiegazione scientifica dei fenomeni naturali, ma anche e soprat-
tutto una risposta al problema dell’origine del male, che attanaglia la sua esistenza e che
sarà oggetto di numerose riflessioni e ripensamenti durante tutta la sua produzione
letteraria.
Conclusi gli studi, si dedica all’insegnamento, prima a Tagaste e poi ancora a Carta-
gine, dove nel 375 apre una scuola di eloquenza che gli procura una certa fama. Pur
continuando a frequentare i circoli manichei, cominciano a insinuarsi in lui i primi dubbi
sulla coerenza di tali dottrine; l’incontro con l’autorità della setta, il vescovo Fausto di
Milevi, avvenuto nel 383 per chiarire le numerose questioni irrisolte, è una cocente delu-
sione per Agostino, perché, al di là di una fluente abilità oratoria, Fausto si mostra privo
di argomenti e le sue risposte denotano piuttosto ignoranza e credulità.

Il viaggio in Italia e la conversione


Nel 383, a 29 anni, Agostino è ormai un retore di successo, i cui interrogativi esistenzia-
li sono ancora irrisolti. Al distacco dal manicheismo, che lo porta su posizioni scettiche,
si aggiunge l’insoddisfazione per gli studenti della sua scuola, di cui lamenta la scarsa
disciplina. Attratto anche dalla possibilità di una carriera migliore, decide pertanto di
trasferirsi a Roma, salpando segretamente durante la notte, a causa della contrarietà
della madre, che tuttavia lo raggiungerà in Italia due anni dopo.
Anche a Roma Agostino si fa notare per le qualità oratorie, ma gli studenti romani
non si mostrano migliori dei precedenti, soprattutto per l’abitudine di cambiare maestro
prima di pagare il corso. Frequentando i circoli conservatori legati alla tradizione roma-
na, conosce il prefetto Sìmmaco, che lo raccomanda per un incarico a Milano, allora
sede imperiale, e nell’autunno del 384 Agostino accetta di buon grado di cambiare anco-
ra una volta città.

lessico manicheismo dottrina religiosa fondata in Persia da Mani, secondo la quale tutta la realtà deriva da
filosofico due principi divini contrapposti: il principio del bene o della luce, e il principio del male o delle tenebre.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 147

Simmaco è anticristiano e pensa di aver trovato in Agostino il retore giusto per con-
trastare il prestigio del vescovo Ambrogio, ma è proprio la predicazione di Ambrogio a
conquistare Agostino, portandolo a rivalutare le sacre scritture grazie ad un’interpreta-
zione allegorica e non letterale.
VIDEO
Nei circoli milanesi, inoltre, Agostino si accosta alla filosofia neoplatonica, in cui Il primo incontro
fra Agostino
affermerà in seguito di aver trovato tutte le verità cristiane, tranne l’incarnazione. Il neo- e Ambrogio
platonismo, insieme all’ascolto dei sermoni di Ambrogio, prepara il terreno per la sua
conversione al cristianesimo.
Al culmine di una profonda crisi interiore, nel 386 decide di abbandonare l’insegna-
mento e di ritirarsi con alcuni amici in una villa a Cassiciaco (probabilmente l’attuale
Cassago Brianza), dove abbraccia definitivamente il cristianesimo cambiando radical-
mente la sua vita. In questo luogo appartato, lontano dagli impegni mondani, trae ispira-
zione per alcune opere di argomento filosofico-religioso (Contro gli accademici, La vita
beata, I soliloqui, L’immortalità dell’anima). Ritorna quindi a Milano per entrare tra i catecu-
meni (coloro che intraprendono un percorso di fede) e riceve il battesimo dal vescovo
Ambrogio, durante la veglia pasquale del 387. Subito dopo il battesimo, Agostino matura
la decisione di rientrare in Africa, insieme agli amici e ai familiari; ma a Ostia, in attesa
di imbarcarsi, la madre si ammala e muore nel 388.

Il ritorno a Tagaste e la vita religiosa


Dopo la morte della madre, Agostino si trattiene a Roma per alcuni mesi, ma infine ri-
parte per l’Africa. A Tagaste si libera dei beni materiali, donandoli ai poveri, e si ritira con
alcuni amici in una sorta di vita religiosa, dedicandosi allo studio, alla meditazione e alla
scrittura, soprattutto dopo la morte del figlio diciassettenne avvenuta nel 389. Compone
La Genesi contro i manichei, Il maestro (dedicato al figlio Adeodato) e La vera religione, una
prima riflessione di ampio respiro sul cristianesimo, contro la cultura pagana e il mani-
cheismo. Nel 391, mentre si trova a Ippona, nonostante la sua contrarietà viene ordinato
sacerdote a furor di popolo; Agostino teme che l’impegno pastorale lo sottragga agli
studi e alla contemplazione, ma il vescovo gli mette a disposizione un monastero nei
pressi della città per continuare a condurre una vita ritirata.

Vescovo di Ippona
A partire dal 395 Agostino deve occuparsi più attivamente della Chiesa africana, scossa
da divisioni interne e conflitti dottrinali: è consacrato vescovo ausiliario di Ippona, per
ricoprire poi pienamente l’incarico dal 396 fino alla morte. La seconda parte della sua vita
è dunque completamente dedicata all’impegno pastorale e teologico, con un’intensa
attività che, oltre al governo della diocesi, lo porta a partecipare a numerosi concili, a
impegnarsi attivamente nella lotta contro le eresie, affrontando diverse controversie sul- FARE per CAPIRE
la corretta interpretazione della fede.
• Elenca le diverse
Oltre a ciò svolge un’assidua attività di predicazione e si dedica all’approfondimento svolte nella vita
e alla chiarificazione dottrinale della fede cristiana. In questo periodo vengono alla di Agostino,
luce le opere maggiori, tra cui le Confessioni, La trinità, La Genesi alla lettera, La città di Dio, riportando
tempo, luogo,
Le ritrattazioni. Agostino muore a Ippona il 28 agosto del 430, all’età di 75 anni, mentre i caratteristica
vandali di Genserico assediano la città. fondamentale.
148 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

GLI SCRITTI
La scrittura e le fasi del pensiero
Agostino è uno scrittore versatile e facondo, che in una vasta produzione mette al servizio
del pensiero cristiano la sua abilità oratoria e la capacità di adattare il suo stile a generi e
contesti diversi. Non ci è pervenuto nessuno scritto di Agostino precedente la conversione,
eppure l’elenco delle sue opere giunte fino a noi è lunghissimo: quasi 100 titoli, cui vanno
aggiunte più di 200 lettere e circa 400 sermoni. Alcuni di questi scritti sono testi di ampio
respiro e di notevole impegno teorico, redatti nel corso di diversi anni, come le grandi opere
teologico-dogmatiche e i commenti esegetici (finalizzati all’interpretazione delle Scritture);
altri invece nascono da esigenze pastorali (come i sermoni e i testi con intento ascetico-mo-
rale) o sono legati a eventi storici, come la diffusione di movimenti ereticali all’interno della
Chiesa, a cui Agostino risponde con opere polemiche, fortemente critiche dei relativi conte-
nuti teorici. Non mancano però testi dedicati alla riflessione filosofica e, per la prima volta,
viene percorso con inedita profondità il genere letterario dell’autobiografia.
Nel cercare di classificare cronologicamente questa produzione letteraria molto ampia
e composita, bisogna però considerare che la conversione al cristianesimo non è l’unica
svolta della sua esistenza: quando Agostino viene costretto ad abbandonare la vita della
comunità da lui fondata e deve assumere l’incarico episcopale, rivede molte delle posizio-
ni teoriche precedenti, soprattutto in merito al ruolo che la filosofia può ricoprire nella
comprensione del cristianesimo. Si può distinguere perciò un primo decennio, che va
dalla conversione al 396, dove traspare un genuino entusiasmo per la filosofia e la sua
valorizzazione nella comprensione della fede, e il periodo successivo, quando Agostino
più volte torna sulle sue tesi precedenti, per riaggiustarle e in parte ritrattarle. Le ritratta-
zioni, l’ultima opera, pubblicata tre anni prima della morte, confermano la revisione del-
le tesi giovanili, per affermare un assoluto primato della grazia di Dio su qualsiasi im-
pegno umano per una vita giusta. La filosofia, che nelle opere giovanili era apprezzata e
sembrava una via privilegiata per la conversione, ora è considerata un ostacolo, perché
qualunque pretesa razionale umana si infrange di fronte alla grazia di Dio, intesa come
unica possibilità di salvezza. Ecco quindi un elenco delle opere più significative, ordi-
nate cronologicamente all’interno di questi due momenti fondamentali.
1. Primo periodo (anni 386-395): opere composte a Cassiciaco e a Tagaste, che mo-
strano un chiaro influsso della filosofia, soprattutto di quella neoplatonica.
• La vita beata (De beata vita, 386). La ricerca della felicità era il tema filosofico per
eccellenza, a partire dall’ellenismo. Agostino si inserisce in questa tradizione, per
presentare come fine della ricerca filosofica non soltanto la serenità individuale,
ma anche e soprattutto la conoscenza di Dio.
• Contro gli accademici (Contra accademicos, 386). Gli accademici contro cui si ri-
volge quest’opera sono gli scettici: secondo Agostino è infatti attraverso il supera-
mento dello scetticismo che si può approdare alla certezza e alla presenza interio-
re della verità.
• I soliloqui (Soliloquia, inizi del 387). È un dialogo interiore, in cui l’autore si occu-
pa della ricerca di Dio e dell’immortalità dell’anima.
• Il libero arbitrio (De libero arbitrio, 386-388, forse terminato però a Ippona tra il
391 e il 395). È la prima opera sulla libertà e sul male, tema presente in tutta la ri-
flessione di Agostino, con molti ripensamenti e revisioni.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 149

• Il maestro (De magistro, 389). È un’opera dedicata al figlio, sulla ricerca della veri-
tà verso cui ci guida un maestro interiore. Il titolo non si riferisce dunque a una
figura umana, ma a Cristo che illumina l’anima nella conoscenza della verità.
• La vera religione (De vera religione, 390). È un testo con intento apologetico, ovve-
ro mirato a difendere ed esporre la religione cristiana in opposizione alla cultura
pagana e al dualismo manicheo.

2. Secondo periodo (anni 396-430): opere composte durante l’attività episcopale di


Agostino, che mirano alla chiarificazione dottrinale, alla corretta interpreta-
zione della fede, oltre che alla lotta contro le divisioni interne alla Chiesa e le
eresie. Sono le opere più estese e teologicamente influenti.
• Confessioni (Confessiones, 397-401). L’opera più affascinante, che ancora oggi av-
vicina il lettore alla figura dell’autore, perché la narrazione della sua esistenza di-
venta un itinerario tutto interiore.
• La trinità (De trinitate, 399-422/426). È la principale opera dogmatica, punto di
riferimento per tutta la riflessione trinitaria occidentale. Agostino si trova impe-
gnato a chiarire e quasi a coniare ex novo il lessico latino per la teologia trinitaria.
• La città di Dio (De civitate Dei, 413-427). Un’opera maestosa, forse la sintesi di tutto
il pensiero filosofico e teologico di Agostino, che offre numerose considerazioni sul
rapporto tra religione e politica, ed elabora la prima vera teologia della storia.
• Le ritrattazioni (Retractationes, 426-427). Agostino ripercorre tutti i suoi scritti
precedenti, fornendone un’interpretazione riveduta e corretta. È un’opera in cui
viene esplicitato il distacco dalla filosofia, avvenuto nel periodo della maturità: la
riflessione filosofica è dipinta non più come un alleato per la fede, ma piuttosto un
concorrente.
FARE per CAPIRE • Scrivi accanto a ciascuna opera le parole chiave che ne descrivono il contenuto.

❯ Sant’Agostino,
in abiti vescovili,
è rappresentato
intento a scrivere
nel suo studio, sotto
lo sguardo benevolo
di un angelo,
XIV secolo, mosaico,
Venezia, Basilica di
San Marco.
150 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

2 Esistenza e riflessione: le Confessioni


Il valore dell ’autobiografia
Nel caso di Agostino, la biografia è un dato fondamentale: è riflettendo sulla sua vita che
egli mette a fuoco i temi fondamentali della ricerca. Le sue vicissitudini sono rilette come
un itinerario di formazione, che sperimenta diverse possibilità, prima di approdare alla
fede: la cultura e la filosofia latina, il manicheismo, lo scetticismo, il neoplatonismo. Riper-
correndo la sua vita, però, Agostino non si sofferma tanto sulle vicende esterne, quanto sul
percorso interiore, esplicitando desideri, dubbi, tentennamenti e speranze.
Nell’opera più famosa, le Confessioni, Agostino mette a nudo sé stesso e inaugura il
genere letterario dell’autobiografia, che avrà grande fortuna nel mondo moderno. Esisteva-
no già “vite di filosofi” e “vite di uomini illustri” e, in epoca cristiana, fioriranno le “vite dei
santi”, ma qui si tratta di un autore che scrive su di sé, senza proporsi come modello, anzi
enfatizzando il suo travaglio interiore, le sue colpe e i suoi errori. In questo senso Agostino
si presenta come autore “moderno”, perché esplora introspettivamente il suo io e lo scopre
più importante e misterioso di quanto appaia il mondo esterno.
Come in ogni autobiografia, l’autore è in primo piano, si impone con la sua soggettività,
anche nella scelta dei momenti biografici e dei significati da attribuirvi. È proprio la man-
canza di obiettività e di distacco che rende l’opera ricca di páthos, perché fa trasparire la
presenza e la personalità dell’io narrante. Più che raccontare eventi, Agostino è intento a
scandagliare i motivi reconditi delle proprie azioni e a valutarli retrospettivamente alla luce
della conversione, come un percorso che lo ha condotto a ritrovare in Dio il senso della
propria esistenza. Dio non è però soltanto l’oggetto della ricerca, ma è l’interlocutore diret-
❯ QUADERNO PER
to della narrazione, che assume così un registro letterario immediato e coinvolgente: non si
LE COMPETENZE E
IL NUOVO ESAME tratta di un monologo né di una sorta di diario per fissare alcuni ricordi, ma di un discorso
p. 16 rivolto a Dio, che spesso si trasforma in invocazione e preghiera.

La confessione
Qual è il senso di confessare la propria vita a Dio? È necessario anzitutto intendere bene il
significato del termine confessione, che non vuol dire in primo luogo ammettere le proprie
colpe di fronte a un giudice o un accusatore, ma “rendere lode a Dio” e quindi proclamare
la propria fede. In Agostino non vi è pertanto un ossessivo soffermarsi sulle proprie azio-
ni per sviscerarne l’origine e i motivi, ma l’intenzione di mostrare nella propria vita l’inter-
vento provvidenziale di Dio, che riesce a servirsi anche del peccato per ricondurre l’uomo a
sé: quanto più esecrabile è la condizione umana, tanto più elevata è la potenza di Dio, che
merita dunque una confessione di lode.
Il racconto autobiografico segue alcuni motivi che attraversano come una chiave di lettu-
ra tutte le vicende. Vi è in primo luogo il tema della conversione, interpretato come l’allon-
tanamento dalla dispersione del mondo materiale per trovare l’unità e la quiete del mondo
interiore e spirituale. Si vede in questa aspirazione l’influenza della filosofia neoplatonica, che

lessico confessione (dal latino confessio, derivato dal verbo confiteor, “dichiaro apertamente”, “confesso”)
filosofico nel contesto dell’opera agostiniana indica sia la pubblica confessione degli errori, sia la proclama-
zione della propria fede.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 151

presentava il ritorno all’Uno come via per purificare l’anima e ritrovare unità e pace interiore.
In secondo luogo, rileggendo la sua storia personale Agostino attribuisce a relazioni e incontri
un carattere provvidenziale: i compagni d’infanzia, gli amici, la madre, il figlio, il vescovo
Ambrogio sono tutte persone che hanno un ruolo chiave nei momenti più significativi, sono
presenti nei momenti di dubbio e concorrono alla sua crescita e trasformazione. Infine, ogni
svolta o conversione è accompagnata e suggellata da un libro o una citazione, a cominciare
dall’Ortensio di Cicerone, da cui Agostino trae l’esortazione a dedicarsi alla filosofia, per con-
tinuare con gli scritti neoplatonici, che gli appaiono una versione filosofica del cristianesimo
(tranne che per il dogma dell’incarnazione), per finire con i testi cristiani, come il versetto del
Nuovo Testamento letto a caso nel momento più acuto della crisi interiore che sfocerà nella
decisione di cambiare vita. L’episodio è narrato nell’VIII libro delle Confessioni, dove si descri-
ve il tormento interiore di Agostino nella sua villa di Cassiciaco, quando sente la voce di un
fanciullo che canta come una filastrocca «prendi e leggi» (tolle, lege). Nel buio della sua soffe-
renza, egli si lascia guidare da quella voce, interpretandola come un comando divino; apre
quindi a caso la Bibbia e trova la forza di convertirsi grazie al versetto di san Paolo (Lettera ai
Romani 13, 13-14) che gli si presenta sotto agli occhi e che lo invita a rinunciare alle intempe-
ranze della carne per trovare conforto in Dio.

Verità e testimonianza
Nell’atto della “confessione” a Dio emerge anche la questione della verità e del rapporto con
i lettori. Nel X libro delle Confessioni Agostino si chiede perché sta raccontando la sua vita,
prendendo addirittura Dio come interlocutore. È un aspetto paradossale, dal momento che si
suppone che Dio sappia già tutto, che sia onnisciente e che non abbia bisogno che l’uomo gli
sveli i particolari della sua vita, compresi i tormenti interiori: «nulla di vero dico agli uomini,
se prima tu non l’hai udito da me; e tu da me non odi nulla, se prima non l’hai detto tu stesso»
(Confessioni, X, 2, 2).
Non si tratta dunque di un semplice tributo a Dio, ma di un’esigenza dell’uomo; e non sol-
tanto di un racconto intimo, interno alla propria coscienza, ma di una confessione “pubblica”:


Ecco, tu amasti la verità, poiché chi l’attua viene alla luce. Voglio dunque attuarla dentro al
mio cuore: davanti a te nella mia confessione, e nel mio scritto davanti a molti testimoni
(Confessioni, X, 1, 1)

L’opera autobiografica non viene dunque scritta per Dio e neppure solamente per sé stesso,
bensì per i molti testimoni, i lettori che ne riconosceranno la verità. L’atto del racconto porta a
riflettere sulla propria vita, ma la scrittura ne fissa il significato e lo apre anche ad altri. Entra
in gioco una concezione della verità che è tale solo se proclamata apertamente: posso rico-
noscere una verità dentro di me, nel mio intimo, ma le cose diventano effettivamente vere se
sono espresse e confessate pubblicamente. Non soltanto: questo atto pubblico di verità richie- ❯ testo 1 p. 172
de una forma di scrittura e la presenza di testimoni. La verità non è una semplice constata-
zione di quanto esiste, ma si produce in un discorso, che è soprattutto una parola scritta, non FARE per CAPIRE
fugace come l’espressione orale; deve essere registrata sulla carta oppure iscritta nella memo-
• Sottolinea
ria, in maniera da renderla stabile. Perché tale parola sia vera, ci devono essere persone che la nel testo
ascoltino e ne testimonino la verità, in una relazione sociale che è essenziale per la sua realiz- le caratteristiche
zazione. Questa particolare concezione dell’“attuare la verità” si può definire una “teoria testi- letterarie e
filosofiche delle
moniale” della verità, dove l’aggettivo ha un duplice senso: avviene alla presenza di testimoni, Confessioni come
ma anche chi la professa si fa suo testimone, la certifica e la prende su di sé. autobiografia.
152

filosofia & LETTERATURA


Agostino e Petrarca

L’INCONTRO CON AGOSTINO Il pensiero di Ago- IL SECRETUM Agostino diventa addirittura


stino influenza profondamente l’opera del poeta e l’interlocutore di una delle opere di Petrarca, il Se-
letterato italiano Francesco Petrarca (1304-1374). cretum (1342-1343), ispirata alle Confessioni. In
Nei suoi scritti emerge un’idea della filosofia come essa l’autore immagina di dialogare con il filosofo
ricerca intorno alla natura dell’uomo e alla sua di Ippona lungo l’arco di tre giorni (corrispondenti
felicità, cioè come percorso morale, e non princi- ai tre libri in cui è articolato lo scritto), alla presenza
palmente come logica o indagine scientifica, secon- della Verità, raffigurata come una donna silenziosa
do l’impostazione dominante nell’ambiente cultura- e bellissima. Nel testo – che rappresenta di fatto
le dell’epoca. Nella produzione latina, e in particolare un dialogo dell’autore con sé stesso – Agostino
nelle opere religioso-morali, Petrarca esprime una svolge il ruolo di coscienza morale, inflessibile giu-
forte esigenza di approfondimento dell’animo dice che rimprovera ed evidenzia la debolezza del-
umano in tutte le sue sfaccettature, ed è questo la volontà, l’incapacità di mettere in atto i proposi-
orientamento che lo avvicina ad Agostino, alla sua ti di una vita virtuosa. In particolare, il personaggio
inquietudine interiore, al percorso esistenziale che di Agostino mette in luce il principale peccato del
egli affida alle Confessioni, alla religiosità sofferta e suo interlocutore, l’accidia, una sorta di inerzia spi-
profonda cui approda dopo molteplici esperienze e rituale, di malinconia, di indolenza, che gli impedi-
lunghi anni di studio e meditazione. Con lui il poeta sce di assumere un atteggiamento risoluto, in gra-
condivide il bisogno di “ritornare in sé stessi”, la ne- do di contrastare le inclinazioni più vili. Queste
cessità dell’introspezione, l’esame di sé e della pro- ultime consistono soprattutto nell’ambizione di
pria vita al fine di individuare il modo per superare gloria terrena, che lo distoglie dai beni eterni, e nel
le contraddizioni più profonde e scoprire la via verso desiderio carnale per Laura, la donna amata dal
la redenzione e la salvezza. poeta e fonte di ispirazione di tutta la sua opera.

LA DIFFERENZA RISPETTO ALLE CONFESSIONI


L’esito del dialogo interiore rimane aperto: l’autore,
riconoscendo la debolezza della propria natura,
non può che mettere in evidenza le contraddizioni
che lo opprimono, senza avere la possibilità di giun-
gere a una loro risoluzione. È una delle differenze
sostanziali del Secretum rispetto alle Confessioni di
Agostino: se per quest’ultimo le dolorose e dram-
matiche vicende autobiografiche risultano pream-
bolo e presupposto della conversione, la quale
rappresenta un radicale mutamento di direzione
impresso alla propria esistenza, per Petrarca è inve-
ce impossibile giungere a una piena redenzione e
quindi alla pace interiore. L’unica composizione pos-
sibile del dissidio spirituale testimoniato dal testo di
Petrarca è affidata allo stile e alla modalità espositi-
va, i quali, assumendo il modello sintattico classico,
risultano estremamente limpidi, chiari e armoniosi,
e suggeriscono una sorta di distacco dall’incande-
scente materia autobiografica: nell’adesione alla
cultura classica, ai suoi valori di proporzione e mi-
sura, e nella pratica dell’esercizio letterario, Petrarca
trova un riflesso di quella superiore purificazione e
“redenzione” morale e religiosa dalla quale, a diffe-
e il suo vol to ritratto nel c apolettera, XI V secolo, Venezia, renza di Agostino, risulta escluso.
Bibliotec a Marciana.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 153

3 La ricerca della verità


e la scoperta di Dio nell ’anima
Il ritorno in sé stessi
Nei Soliloqui Agostino compendia l’oggetto della sua inesausta ricerca con singolare ica-
sticità: «Dio e l’anima: questo desidero conoscere – Nulla più? – Assolutamente nulla»
(Soliloqui, I, 2, 7). Il percorso e l’esito della sua indagine mostrano che i due oggetti non
sono estranei e che l’interiorità è il luogo per ritrovare entrambi: Dio si può scoprire
soltanto dentro di sé e l’anima si conosce pienamente soltanto in Dio. D’altra parte, nella
visione di Agostino, l’uomo è estraneo a sé stesso, gli è nascosta la propria verità perché
la sua attenzione è rivolta al mondo sensibile, mutevole e instabile, dal quale deve disto-
gliere lo sguardo per rientrare in sé stesso. È un cammino di introversione che Agosti-
no ha appreso dal neoplatonismo, che descrive il ritorno all’Uno come un percorso di
purificazione dell’anima individuale, in cui essa si libera dalle rappresentazioni dei sensi
e dell’intelletto. Egli però mette a frutto questo motivo filosofico nella sua esperienza
cristiana: tutta la ricerca è interpretata come ricerca di Dio e non come identificazione
con l’Uno.
L’insuccesso e l’insoddisfazione manifestano però che non è Dio a mancare, ma è
l’uomo che non è presente a sé stesso. In un celebre passo delle Confessioni, Agostino
afferma:


Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di
me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri
con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non
esistessero in te.
(Confessioni, X, 27, 38)

Non vi è qui soltanto l’opposizione tra “dentro” e “fuori”, il mondo interiore e quello
esterno, ma si scopre anche l’ambivalenza dell’atteggiamento dell’uomo, che si estrania
da sé in quanto affascinato dalle realtà esteriori. Tutto il brano è costruito su opposizioni
di questo tipo, a partire dalla definizione di Dio, che è bellezza antica, eterna, ma anche
nuova perché si rinnova incessantemente e soltanto da poco è stata scoperta da Agostino
stesso. Al contrario l’uomo, privo di forma (perché privo di Dio), è attratto dalle belle
forme delle creature e non dalla forma perfetta che è la bellezza divina. Queste coordi-
nate spaziali (dentro-fuori, vicino-lontano) non indicano luoghi o distanze reali, ma
hanno una valenza morale, tanto che Agostino ritiene di essere stato lontano da Dio,
mentre Dio gli era comunque vicino («eri con me, ma io non ero con te») in quanto pre-
sente nella sua interiorità. Si tratta quindi di metafore usate per chiarire l’orientamento e
le scelte dell’uomo, che dipendono da un’errata valutazione dell’essere: Agostino attribu-
isce alle creature un’esistenza autonoma, che esse non hanno, senza percepire che queste
non esisterebbero se non ricevessero il loro essere da Dio. In sé le creature non rappre-
sentano un male né un momento negativo (hanno «belle forme»), ma soltanto se non
vengono assolutizzate, cioè soltanto se a partire dalle creature si riesce a risalire al
fondamento del loro essere, che è Dio.
154 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

L’ interiorità senza limiti


Rispetto all’invito a conoscere sé stessi offerto dalla filosofia, in Agostino si apre uno sce-
nario inedito: gli spazi dell’interiorità si dispiegano all’infinito. È la conseguenza di aver
individuato nell’anima la dimora di Dio, che è più intimo della parte più intima, e più ele-
vato della parte suprema dell’uomo: Dio è presente nell’anima, è dunque “immanente”, ma
è ad essa infinitamente superiore, cioè è al tempo stesso “trascendente”. La “trascendenza
immanente” di Dio allarga la stessa nozione di interiorità, privata di confini definiti.
Quella descritta da Agostino è anche un’inedita esperienza psicologica, un’introspe-
zione che non giunge a un punto finale, uno sguardo all’interiorità che si apre su oriz-
zonti che si spostano sempre più in là. Sprofondando nella ricerca di sé stesso e di Dio,
Agostino scopre che l’interiorità ha recessi più ampi di quanto possa immaginare: non è
il mondo esterno che è difficile da conoscere per la sua vastità, ma è quello interiore che
presenta dimensioni sconosciute.
Al di là dell’esito teologico e del senso religioso che si può attribuire all’esplorazione
dell’anima, anche la filosofia guadagna una riflessione di grandissima importanza, i cui
sviluppi attraversano i secoli: la scoperta dell’interiorità psicologica e la frantumazione
di ogni metafora spaziale che le possiamo attribuire. Qualsiasi tentativo di descrivere il
mondo interiore che si servirà di analogie tratte dal mondo sensibile, infatti, non potrà
far altro che registrare la loro inadeguatezza, la mancanza di coordinate spaziali o di
parametri oggettivi adeguati a “misurare” l’interiorità, la cui estensione è sconosciuta e
inafferrabile allo stesso soggetto.
La facoltà che in modo più perspicuo esprime la profondità dell’anima è la memoria,
che, pur conservando i nostri ricordi, si mostra talvolta inaccessibile. Agostino si soffer-
ma spesso sul suo funzionamento e la descrive variamente come un recesso nascosto, un
santuario, uno scrigno, un tesoro immenso e segreto: tutte immagini che la connotano
come preziosa e sconosciuta al tempo stesso. Nella memoria sono racchiuse conoscenze
che non sono attualmente presenti alla nostra mente e che talvolta non sappiamo neppu-
re di possedere; spesso basta uno sforzo di attenzione per richiamarle alla mente, ma
talvolta i meccanismi del ricordo seguono strade imprevedibili e sconosciute. Oltre ai ri-
cordi e alle conoscenze, nella memoria è custodita l’identità della persona: essa è ciò che
conferisce unità all’io disperso nel mondo esteriore. Per questa ragione, se l’uomo si per-
de in occupazioni esterne, si dimentica e si estrania da sé stesso.

FARE per CAPIRE • Sottolinea con due colori diversi le espressioni che rivelano una valenza teologica
e quelle che esprimono una valenza psicologica dell’interiorità.

La confutazione dello scetticismo


La scoperta della verità interiore è possibile soltanto se si supera lo scetticismo, una po-
sizione cui Agostino approda dopo la delusione provata nei confronti del manicheismo.
È una reazione che si osserva spesso in chi aderisce con tutto sé stesso a una teoria, una
filosofia, una fede, e poi si rende conto che tale adesione non è più sostenibile. Si defini-
sce “scettico” colui che dubita di tutto, perché ritiene che la verità sia inattingibile e che
l’uomo non possa conoscerla. Dello scetticismo Agostino si occupa soprattutto nell’opera
Contro gli accademici, che ha la forma letteraria di un dialogo tenuto a Cassiciaco nel 386
e in cui riprende e sviluppa organicamente alcuni argomenti tradizionali.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 155

In primo luogo Agostino risponde alla tesi scettica per cui non è possibile prestare
l’assenso a una proposizione che descrive la realtà, perché non possiamo distinguere con
certezza il vero dal falso; per lo scetticismo bisogna quindi limitarsi a ritenere le cono-
scenze solamente probabili e verosimili. Agostino ribatte che il concetto di verosimi-
glianza è inconcepibile se non si possiede quello di verità: non avrebbe senso descrivere
un uomo, affermando che è simile a suo padre, se nessuno conoscesse il padre che serve
da termine di confronto. Si deve pertanto presumere un criterio di verità anche quando,
con cautela filosofica, si riconosce che alcune conoscenze sono solamente probabili.
All’argomento della verosimiglianza, Agostino aggiunge che non tutta la conoscenza
umana può essere definita probabile e incerta, perché ad esempio le affermazioni della
logica si basano su un principio inconfutabile, il principio di non contraddizione: se si
negasse la loro verità, si cadrebbe in contraddizione. Anche le verità matematiche godono
di analoga certezza, dal momento che seguono regole deduttive di carattere universale:
sulla base di tali regole, 2+2 farà sempre 4 e non 5.
Ancora più sottile è la discussione sulla verità degli asserti relativi alla realtà fisica. Per
dimostrare che anche sulla natura è possibile fare affermazioni vere, Agostino applica le
proposizioni disgiuntive: non posso sapere se il mondo è unico o molteplice, se ha avu-
to inizio nel tempo o se è eterno, se la sua disposizione è dovuta al caso o a un ordine
provvidenziale; tuttavia posso affermare la verità della proposizione disgiuntiva, in
quanto ricade nel principio di non contraddizione e del terzo escluso: è vero che il mondo
è o unico o molteplice, o temporale o eterno, o casuale o ordinato. Lo scettico potrebbe
rispondere che qualsiasi affermazione che riguarda la realtà naturale è viziata dal fatto
che i sensi ci ingannano e non danno alcuna garanzia di certezza. Per Agostino, però, pur
ammettendo la fallibilità della nostra conoscenza sensibile, è innegabile che qualcosa
appare ai nostri sensi.

ESPERIMENTO filosofico I modelli del mondo interiore


• In piccoli gruppi (al massimo 3 o 4 persone) provate a costruire una mappa o
un’immagine che possa rappresentare il mondo interiore:
- in prima battuta, elencate tutto ciò che appartiene all’interiorità (pensieri, emozio-
ni, memorie, fantasie, sentimenti, desideri...) cercando di fornirne una definizione;
- quindi rappresentate il mondo interiore con un’immagine, uno schema, una map-
pa concettuale, che presenti sinteticamente tutti gli elementi ritenuti costitutivi.
• A questo punto confrontate i prodotti dei diversi gruppi, cercando di mettere a
fuoco i punti in comune e quelli che esprimono modelli diversi, e verificando come
sono state descritte dagli altri le dimensioni interiori. Dopo una breve discussione
ogni gruppo può cercare di integrare il proprio modello (o aggiungendo degli ele-
menti o ridefinendone alcuni per una migliore comprensione).
• Osservate e discutete infine le immagini e il tipo di rappresentazioni che avete
utilizzato: avete trovato dei punti di accordo? e quali sono le divergenze? Inoltre,
nelle vostre rappresentazioni avete usato indicatori spaziali (ad esempio profondi-
tà, altezza…) e indicatori di movimento (come frecce di direzione…)?

L’attività mira a fare un percorso analogo a quello di Agostino, sperimentando la


difficoltà di trovare rappresentazioni adeguate per descrivere l’interiorità e i suoi
meccanismi.
156 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

❯ Capolettera
istoriata con
sant’Agostino,
miniatura, 1459,
Parigi, Bibliothèque
Sainte-Geneviève

Dal dubbio alla certezza


La nostra conoscenza sensibile può ingannarci, ma ci offre certamente delle rappresen-
tazioni: possiamo dubitare della sua affidabilità, non del fatto di percepire qualcosa. Con
ciò ci si avvicina a quello che è l’argomento principale e tipicamente agostiniano della
confutazione dello scetticismo, ovvero che anche nel dubbio si ha una certezza: quella
del dubitare. Come Agostino dirà nelle opere mature, si fallor, sum, “se dubito, esisto” (La
città di Dio, XI, 26): il fatto di potermi ingannare mi porta all’assoluta certezza della mia
esistenza.
L’argomento non ha un valore puramente logico, perché rinvia al percorso interiore di
acquisizione della certezza e valorizza il dubbio come strumento per il suo superamento.
Non è più una semplice disquisizione accademica sull’inconsistenza delle posizioni scet-
tiche, ma al contrario l’affermazione che qualsiasi certezza interiore deve passare attra-
verso il dubbio, come si può cogliere nel passo seguente:


Poiché, anche se dubita, vive; se dubita, ricorda donde provenga il suo dubbio; se dubita,
comprende di dubitare; se dubita, vuole arrivare alla certezza; se dubita, pensa; se dubita,
sa di non sapere; se dubita, giudica che non deve dare il suo consenso alla leggera.
(La trinità, X, 10, 14)

Il dubbio non si oppone alla certezza, ma ne è il fondamento. Per comprendere l’argo-


mentazione di Agostino bisogna considerare che egli non intende soltanto garantire la
validità della conoscenza umana, ma anche risalire alla fonte della verità: ha a cuore il
percorso interiore della conoscenza, più che la corrispondenza al mondo esterno. La cer-
tezza vive all’interno del dubbio: si dubita quando si ha in sé l’idea della verità, con
l’inespressa certezza che tale verità esista. Vi è dunque una verità presente nell’uomo
anche durante il dubbio e che proprio il dubbio sembra confermare; una verità interiore
❯ testo 2 p. 174 all’uomo, di cui l’uomo non è il creatore, ma che può scoprire.

FARE per CAPIRE • Riporta a margine del testo un elenco numerato degli argomenti contro lo scetti-
cismo, e scegli quello che ti sembra migliore.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 157

La conoscenza come illuminazione


La verità che l’uomo trova quando riflette su di sé non è prodotta da lui, ma lo trascende,
è interiore e assoluta al tempo stesso. Nella conoscenza egli scopre di avere criteri di
giudizio assoluti, ad esempio quelli di “Giustizia”, di “Bello”, di “Uguaglianza”; tali
criteri non possono derivare dalla realtà esterna, mutevole e contingente, ma neppure
dall’uomo che è comunque una creatura imperfetta. Per il platonismo questi criteri di
giudizio sono le idee, che l’anima ha appreso nell’iperuranio e che tramite l’esperienza
sensibile e la maieutica sono richiamate alla mente. Agostino non può accettare la teoria
della reminiscenza, e la trasforma in un’ottica cristiana: per lui i criteri di giudizio deri-
vano da Dio, che diventa la luce intelligibile per l’anima, la luce che illumina la mente
come fa il sole nel mito della caverna.
Il principio della conoscenza è dunque nell’interiorità dell’uomo: a essere presenti
nell’anima non sono tanto i singoli contenuti, quanto appunto i criteri di giudizio deriva-
ti da Dio, le verità universali e necessarie, quei parametri grazie a cui la ragione giudica
le cose dell’esperienza. Anche le conoscenze naturali, che apparentemente derivano dal-
la realtà sensibile, sono fondate su un criterio di verità interiore e assoluto, così che il
processo del sapere procede sempre dall’interno verso l’esterno, e ha come ultima garan-
zia la Verità divina.
L’acquisizione della conoscenza è anche il tema del dialogo Il maestro, composto poco
dopo la conversione a Tagaste nel 389; in esso Agostino discute con il figlio sul ruolo
delle parole e dell’insegnamento, facendo riferimento alla verità interiore. La nostra com-
prensione non deriva né dalle parole come tali, né da insegnamenti esterni e neppure
dalla realtà sensibile: ogni parola rinvia sempre ad altre parole, e anche il maestro che
spiega le cose non fa che richiamare una verità che abita già dentro di noi. Il vero mae-
stro è dunque quello con cui dialoghiamo interiormente, cioè Cristo, che nella tradizione
cristiana è chiamato anche “Verbo” o Lógos divino, espressione che Agostino collega alla
“luce” interiore che illumina la mente. Dal punto di vista pedagogico, ciò significa che
l’insegnante ha un ruolo maieutico, non trasmette le sue conoscenze, ma è soltanto il
tramite esterno per stimolare la scoperta della verità interiore.

il PENSIERO
si fa IMMAGINE La verità come luce interiore

“ […] tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione […]
In questo caso senz’altro non ti si presenterà la luce di questo sole,

ma la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo.
Essa non si può percepire con questi occhi.
(La vera religione, 39, 72)

Per Agostino la verità si presenta come una luce che illumina la mente. Tale luce
non coincide con quella naturale, proveniente dal sole, e non si può cogliere con
gli occhi del corpo: è infatti «il lume stesso della ragione», si identifica con quei
criteri assoluti che Dio ha posto nell’anima dell’uomo, sulla cui base la ragione
umana valuta le cose e le conosce.
158 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

La teoria della conoscenza come illuminazione rappresenta bene il punto di in-


contro tra ragione e fede, e in modo derivato anche quello tra filosofia e teologia; per
Agostino vi è una certa circolarità tra i due momenti, che sono tuttavia mantenuti di-
stinti. Da una parte la ragione mostra un’apertura verso qualcosa che la trascende:
perché i criteri assoluti di verità vengono all’uomo da una fonte divina, per quanto a lui
interiore. Dall’altra la fede non è “cieca” o priva di ragioni, perché è necessario capire
ciò in cui si crede, e rinunciare all’esercizio della facoltà intellettuale significherebbe
impoverire non soltanto la ragione, ma anche la fede. Vi è dunque complementarità tra
i due aspetti: da un lato vi è l’appello alla ragione a credere per poter comprendere (cre-
de ut intelligas, ovvero “credi per capire”); dall’altro l’invito alla fede ad aprirsi alla ra-
gione, per una scelta consapevole e razionale (intellige, ut credas, cioè “comprendi per
credere”). ❯ Il punto di vista dell ’arte , p. 160

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la risposta alla domanda: in che senso Agostino trasforma la
teoria platonica della reminiscenza?

IDEE A
CONFRONTO CONOSCENZA E APPRENDIMENTO IN PLATONE E AGOSTINO
PER PLATONE PER AGOSTINO

sono i modelli eterni e sono le verità universali e


LE IDEE immutabili delle cose necessarie che Dio ha posto
e risiedono nell’iperuranio nell’anima umana

è reminiscenza: l’anima, è illuminazione: la mente può


sollecitata dalla percezione conoscere grazie ai principi di
delle cose sensibili, ricorda derivazione divina che trova in
LA CONOSCENZA le idee che ha contemplato sé stessa e che la illuminano,
nell’iperuranio prima di offrendole i parametri con cui
incarnarsi, le quali fungono da valutare le cose
parametri per la conoscenza

avviene attraverso il dialogo avviene attraverso il dialogo


IL PROCESSO tra soggetti, impegnati nella con il maestro interiore, cioè
DELL’APPRENDIMENTO comune ricerca della disponendosi ad accogliere
definizione e verità dell’idea la luce della verità divina

lessico illuminazione nella teoria agostiniana della conoscenza, indica il fatto che Dio illumina la mente
filosofico umana provvedendola di criteri universali di giudizio che consentono la valutazione della realtà.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 159

4 La creazione e il tempo
L’ eternità di Dio e la temporalità delle creature
Con la teoria della conoscenza come illuminazione Agostino riprende alcuni motivi fi-
losofici di stampo platonico per elaborare una concezione della verità che approda al Dio
cristiano. Con la dottrina della creazione si delinea il percorso inverso: vi è infatti un
tema teologico (Dio come principio dell’universo) che dischiude alcune importanti im-
plicazioni filosofiche, riguardanti soprattutto il problema del tempo e la possibilità di
misurarlo. La questione è esposta negli ultimi tre libri delle Confessioni, che prendono
spunto dal racconto biblico della creazione riportato nei primi capitoli della Genesi.
La riflessione agostiniana sulla creazione intende chiarire due aspetti principali: il
rapporto tra Dio e le creature e la distinzione tra eternità e tempo. Per quanto ri-
guarda il primo punto, Dio crea il mondo dal nulla: non si serve di una materia pree-
sistente come il demiurgo platonico descritto nel Timeo, né produce il mondo a partire da sé,
come nell’emanazione neoplatonica dove l’Uno riversa la sua sostanza in gradi inferiori.
Il passaggio dal non essere (ex nihilo) all’essere, tramite un puro atto di volontà divina,
esprime la dipendenza delle creature da Dio, da cui ricevono il fatto stesso di esistere,
ma istituisce contemporaneamente la loro differenza ontologica, ossia la radicale dif-
ferenza rispetto all’essere del creatore: il mondo creato può essere “segno” di Dio, ma
non è divino, perché le creature non sono l’emanazione della divinità. La creazione non
si produce all’interno della sostanza divina (che per sua natura è eterna), ma ha un ini-
zio nel tempo e si distingue da Dio.

❯ La creazione,
arazzo, XI secolo,
Girona (Spagna),
Cattedrale
di Santa Maria.
Cristo pantocratore
(parola greca
che significa
“onnipotente”)
è raffigurato al
centro della scena
circondato da tutte
le opere del creato.
IL PUNTO DI VISTA DELL’ arte
161

IL FONDO DORATO NEI MOSAICI


PALEOCRISTIANI
benedice gli astanti, tra i santi Gervasio e Protasio;
ai lati del trono i due arcangeli, Michele e
Gabriele, volano nel cielo luminoso recando due
IL CONTESTO: L’AFFERMAZIONE corone; in basso figurano tre tondi con i volti di
santa Marcellina, san Satiro (fratello gemello di
DEL CRISTIANESIMO sant’Ambrogio) e santa Candida, emblemi di una
Il periodo storico in cui vive Agostino è
vita esemplare, della virtù e dei valori cristiani.
caratterizzato dalla tormentata ma travolgente
Nella rappresentazione il fondo dorato satura
affermazione del cristianesimo. È al tempo stesso
lo spazio tra le figure, a significare che il visibile è
l’epoca delle eresie, che si diffondono numerose
soltanto il riflesso di una dimensione ultraterrena,
nel territorio dell’impero, minacciando
atemporale, infinitamente superiore e preziosa.
l’ortodossia e l’unità cristiana.
La tecnica del mosaico si serve in questo caso di
In questa fase delicata le autorità ecclesiastiche piccole tessere di pasta vitrea; quelle dorate, in
avvertono l’esigenza di rafforzare l’identità particolare, sono disposte con inclinazioni
cristiana, attraverso l’allestimento di luoghi di differenti per determinare diversi effetti di
culto rappresentativi in cui officiare la liturgia, rifrazione della luce.
offrendo un punto di riferimento alla comunità
dei fedeli. Si fissano così le principali tipologie
architettoniche, elaborate riprendendo lo stile LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE
degli edifici civili romani, ad esempio le basiliche Nella prospettiva cristiana la luce è l’emblema
(destinate ad attività commerciali, di Dio, che illumina ogni evento terreno,
amministrative o giuridiche); al tempo stesso si conferendo un significato eterno a ciò che è
definiscono i modelli iconografici dei principali effimero, transitorio, oscuro. Agostino stesso
soggetti dell’arte religiosa cristiana, molti dei attinge a questa simbologia quando descrive il
quali rimarranno invariati fino ai nostri giorni. processo della conoscenza come “illuminazione”
Intorno al IV secolo compare ad esempio la interiore: egli precisa che non si tratta di una luce
raffigurazione di Gesù con i capelli lunghi e sensibile, ma di una luce intelligibile, quel «lume»
la barba, che diventerà canonica e prevarrà interiore di origine divina grazie a cui l’anima può
rispetto a quella del Gesù imberbe, testimoniata, accedere alla conoscenza e alla salvezza.
parallelamente all’altra, fino al VI secolo. Per
rappresentare l’essere trascendente di Dio si Il significato dell’oro inserito nel mosaico
ricorre all’espressione metaforica e simbolica, ambrosiano è dunque metafisico: è materia che
utilizzando immagini presenti nelle sacre si fa luce, liberandosi dall’opacità della propria
scritture o nella tradizione filosofica (in condizione sensibile; il suo splendore è segno di
particolare neoplatonica): un caso quel riscatto, di quella beatitudine eterna cui
emblematico è il simbolo della luce, che diventa l’individuo può aspirare. Cristo benedice i fedeli
centrale in tutta la produzione artistica della mostrandosi, insieme ai santi e agli angeli, nella
cristianità, ispirando, in questa fase originaria, dimensione circonfusa di luce del regno di Dio:
la realizzazione del fondo dorato dei mosaici. l’immagine, in questo senso, comunica
un messaggio, indica il cammino da compiere,
che è quello di coloro che hanno seguito Cristo.
Nello stesso tempo la rappresentazione della luce
L’OPERA: CRISTO BENEDICENTE è essa stessa rivelazione: è la manifestazione
IN TRONO tangibile, seppure imperfetta, della trascendenza
Nel mosaico che occupa la calotta absidale della divina, in grado di sollecitare l’immaginazione e la
basilica di Sant’Ambrogio a Milano – concepito nel venerazione di chi ammira, e dunque di operare
IV-V secolo – è centrale l’immagine di Cristo, che una vera e propria trasformazione spirituale.

Cristo benedicente in trono, IV-IX secolo, mosaico, Milano, Basilica di Sant’Ambrogio, abside.
162 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

Con questo ci accostiamo al secondo punto, cioè la distinzione tra eternità e tempo.
L’eternità è la dimensione di Dio e non indica una mera estensione indefinita del tem-
po, bensì la sua assoluta pienezza e perfezione, al di sopra di ogni riferimento tempora-
le (Dio non è nel tempo). Al contrario il tempo, che viene rappresentato proprio dal suo
scorrere, definisce la situazione creaturale, intesa nella sua precarietà e mutabilità.
Chiedersi che cosa faceva Dio prima di creare il mondo diventa perciò una domanda
priva di senso, perché si può parlare di una anteriorità temporale soltanto nel mondo
creato: Dio non ha un “prima” e un “poi”, e soprattutto il tempo, essendo la dimensione
per eccellenza delle creature, esiste soltanto a partire dal momento in cui ha inizio il
mondo e viene dunque creato con esso. Dio non crea solamente il mondo nel tempo, ma
crea il tempo del mondo.

La misura del tempo


Fin qui la riflessione riguarda soprattutto la relazione tra il mondo creato e Dio, ma il
tempo è una dimensione tipicamente umana, che rivela un aspetto paradossale: si misu-
ra, ma è inafferrabile, perché definito proprio dallo scorrere. La questione è talmente
complessa che Agostino afferma: «Se non mi chiedi che cos’è il tempo lo so, ma appena
me lo chiedi non lo so più». Apparentemente ognuno di noi sa che cos’è il tempo, tutta la
nostra vita si svolge in esso e ciò non sembra costituire un problema, anzi, non riusciamo
nemmeno a immaginarci fuori da una dimensione temporale. Eppure non siamo in grado
di definire il tempo.
Una prima risposta alla richiesta di chiarire che cosa sia il tempo inizia con la distin-
zione delle tre dimensioni temporali: passato, presente e futuro. Tuttavia, non appena
cominciamo a chiederci se tali dimensioni esistano davvero, ci troviamo di fronte a diffi-
coltà apparentemente insormontabili, perché non è possibile fermare il tempo così da
poterlo “afferrare” concettualmente. Il passato non esiste più, è appunto passato, non è
più; neppure il futuro esiste in questo istante proprio perché futuro, ancora da venire, lo
attendiamo ma non è ancora. Sembra quindi che rimanga soltanto il presente, come unica
dimensione temporale che sperimentiamo effettivamente. Ma anche l’effettiva esistenza
del presente è problematica, perché anche il presente è un incessante fluire da un “non
essere ancora” a un “non essere più”, da un tempo “futuro” a un tempo “passato”: dallo
scorrere di due dimensioni che non sono, neppure il presente può ottenere un qualche
“essere”. Se il presente è tempo, e non eternità, deve tradursi subito in passato, ma allora
– continua Agostino – «come possiamo dire di esso che esiste, se la ragione per cui esiste
è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se
non in quanto tende a non esistere» (Confessioni, XI, 14, 17).

Il tempo come distensione dell’animo


Agostino osserva che noi percepiamo e misuriamo il tempo, cioè lo descriviamo come
lungo o breve; ma come è possibile farlo, se il tempo non esiste? La risposta va trovata
ancora nell’interiorità, nella mente umana che misura il tempo. Se ci riflettiamo, osser-
viamo che anche per noi il tempo non è dato tanto dagli orologi che lo scandiscono,
quanto dal modo in cui lo viviamo: parlare di passato e di futuro ha senso in riferimen-
to allo spirito che percepisce e misura il tempo. Ci ricordiamo del passato e abbiamo
aspettative, più o meno positive, verso il futuro: sia il passato sia il futuro sono presenti
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 163

in noi, perché abbiamo memoria del passato e attesa del futuro. Anche il presente, in
questo senso, non è l’istante fuggevole e inafferrabile che trascorre senza poter fermare
il fluire del futuro verso il passato, ma è dato dall’attenzione verso quello che viviamo.
Noi non misuriamo presente, passato e futuro come realtà esterne, ma consideriamo la
loro permanenza nella nostra mente, la maniera in cui queste dimensioni sono “presenti”
in essa:


È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire
che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro.
Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il
presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del fu-
turo l’attesa. (Confessioni, XI, 20, 26) ESERCIZI

La misura del tempo avviene dunque nell’animo, cioè l’elemento spirituale dell’esse- ❯ QUADERNO PER
re umano, anzi il tempo stesso è definito come distensione dell’animo (distentio animi): LE COMPETENZE E
il tempo non si percepisce nello scorrere delle cose, ma tramite lo spirito che si estende IL NUOVO ESAME
p. 46
nel tempo, attraverso memoria, attenzione e attesa.
Ciò non significa che il tempo sia puramente soggettivo e che il mondo esterno sia
privo di una dimensione temporale: come si è visto, tale dimensione caratterizza tutta la
creazione in quanto tale. Le cose esterne esistono e subiscono cambiamenti che accadono
oggettivamente e si situano nel tempo, anch’esso parte della creazione divina. Sono la
percezione e la misurazione del tempo che avvengono nell’animo, il quale in qualche
modo garantisce una presenza e una permanenza a ciò che è ineluttabilmente destinato
a divenire e a perire. ❯ testo 3 p. 176

AGOSTINO E IL TEMPO MAPPA


IL TEMPO CONCETTUALE
si articola in

passato presente futuro

che che che

non è più non ha durata non è ancora

e tuttavia e tuttavia e tuttavia

è percepito nella memoria è percepito nell’attenzione è percepito nell’attesa

eternità nella filosofia cristiana, si intende distensione dell’animo espressione con cui Ago- lessico
l’assenza del tempo, non un tempo senza limiti stino definisce il tempo: esso va compreso in riferi- filosofico
che si protrae all’infinito; è una caratteristica in- mento all’animo (cioè lo spirito dell’essere umano),
trinseca all’assoluta pienezza e perfezione di che si estende nel tempo attraverso la memoria del
Dio, che rimane immutabile e al di fuori di ogni passato, l’attesa del futuro e l’attenzione verso il
riferimento temporale. presente.
164 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

5 L’origine del male


La lotta tra bene e male
L’anima umana non è soltanto il luogo di ricerca della verità e la misura del tempo, ma
anche un mondo oscuro di passioni indomabili, di desideri egoistici, di impulsi ad agire
perfino contro ciò che si ritiene giusto. Nasce da queste considerazioni la domanda sulla
definizione e l’origine del male, un tema che Agostino affronta nel corso di tutta la sua
esistenza. Unde malum?, “da dove viene il male?”, e perché l’uomo sceglie di aderirvi con
comportamenti malvagi? Per Agostino non si tratta di una questione teorica, ma di un
problema che si radica in una coscienza tormentata, nella costante inquietudine di non
essere all’altezza del bene e nel giudizio negativo che egli dà della propria vita.
Una prima risposta gli viene fornita dal manicheismo, a cui egli aderisce in gioventù,
prima di convertirsi al cristianesimo. Come abbiamo visto (❯ p. 146), per i seguaci di
Mani tutta la realtà è teatro di un conflitto tra due principi, un principio della luce e un
principio delle tenebre, un dio buono che spinge verso il bene e un dio maligno, che è
causa del male. Tale risposta al dilemma sull’origine del male è piuttosto semplice: l’uo-
mo si comporta male perché tentato da un principio “cattivo” e perché in questa lotta tra
principio del bene e principio del male soccombe al secondo. In qualche modo l’uomo
viene deresponsabilizzato, perché la radice dei comportamenti riprovevoli non è posta
in lui, ma in una forza esterna; nello stesso tempo egli risulta un mero burattino nelle
mani di forze superiori. Anche l’immagine di Dio ne esce sminuita, perché viene coinvol-
to nella lotta del bene contro il male: non può essere veramente onnipotente un dio che
è esposto agli attacchi di un principio maligno. Proprio per queste motivazioni teoriche
– alle quali si aggiunge l’accusa rivolta agli adepti della setta di avere un atteggiamento
dogmatico e di rigido ossequio alle dottrine – a poco a poco Agostino prende le distanze
dalla dottrina manichea, giudicandola insoddisfacente e limitata. Egli si batterà contro i
suoi sostenitori sia con numerosi scritti polemici sia in pubblici contraddittori.

❯ Adamo ed Eva
scacciati dal
Paradiso, mosaico,
XII-XIII secolo,
Monreale (Palermo),
Cattedrale.
Nella visione
agostiniana
il peccato è sempre
un allontanamento
dal bene e quindi
da Dio.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 165

Il male dal punto di vista metafisico


Esclusa la soluzione manichea, rimane aperta la domanda sull’origine del male. Agostino RICORDA CHE...
trova una risposta grazie alla sua adesione al neoplatonismo, che rifiuta di intendere il Per il neoplatonismo
male come una sostanza: il male è una privazione di essere, e non una realtà a sé stan- il concetto di male
te che vi si oppone; è una mancanza, e non un “essere”. La questione è innanzitutto è connesso a quello
di materia, intesa
metafisica, non di tipo morale: si considerano le ragioni dell’imperfezione e del limite come la regione
della realtà, non i motivi delle azioni malvagie. Non vi è bisogno dunque di ipotizzare un dell’essere più distante
principio divino “cattivo”, ma soltanto di intendere il male come un venir meno del bene. dall’Uno. Il male è
l’esito
La negazione del carattere ontologico del male serve ad Agostino anche per evitare le dell’allontanamento
contraddizioni che una sussistenza concreta del male porterebbe nella visione di Dio. In- dall’Uno: non è
fatti, se il male fosse una “cosa” o un “ente” dovrebbe provenire da Dio come tutte le re- dunque qualcosa di
sostanziale, ma
altà create e non si riuscirebbe a evitare l’inquietante domanda: “se Dio è buono, come può piuttosto una
creare il male?”. Tutto ciò che esiste, invece, proprio in quanto creato da Dio è bene, e il condizione di
male non è che “privazione di bene” ( privatio boni): esso è la conseguenza del fatto che il “privazione” di bene
e di luce. ❯ p. 88
creato, pur derivando da Dio, non è e non può essere perfetto, né divino. Ciò che noi de-
finiamo “male” non è dunque una sostanza determinata né l’azione di un principio mali-
gno opposto a Dio, ma l’affermazione del limite ontologico della realtà, della sua im-
perfezione che non ha la pienezza dell’essere. ❯ testo 4 p. 178

Male fisico e male morale


La definizione metafisica del male come privazione o mancanza di bene si riflette sulla
concezione del male presente nella natura e nelle azioni umane.
Consideriamo innanzitutto il male fisico, come una malattia o una calamità naturale.
In questo caso il male è la mancanza di un bene relativo alla natura di una cosa: ad esem-
pio, la cecità è un difetto della vista, la privazione della capacità di vedere correttamente. La
presenza del male è insita nella natura delle creature, che, pur essendo buone in quanto
create e volute da Dio, non sono tuttavia perfette.
Per ciò che riguarda il male morale, ovvero il peccato, il discorso è più complesso ed è
affrontato da Agostino in modo originale. Per lui l’azione malvagia non è tale in quanto sce-
glie qualcosa che è oggettivamente un male, perché ontologicamente il male è non essere
e quindi non può divenire oggetto di un atto di volontà. Piuttosto il peccato dipende dalla FARE per CAPIRE
decisione della volontà, che si orienta verso un bene inferiore e limitato. Anche nel caso
• Sottolinea nel
del peccato e della colpa si tratta dunque di una privazione, di un allontanamento dal bene;
testo la risposta
tale scelta colpevole si radica nella libertà dell’uomo di scegliere il male invece del bene. alla domanda
In realtà, però, le due opzioni non sono sullo stesso piano: la libertà umana non si eser- “da dove viene
il male?” sia per
cita mai su scelte equivalenti o equidistanti, ma sempre su alternative moralmente connota- il manicheismo
te. Per Agostino non è la stessa cosa scegliere di compiere un’azione buona o un’azione sia per Agostino,
malvagia: nel primo caso la libertà si rafforza e si realizza, nel secondo caso invece si depo- distinguendo
in quest’ultimo
tenzia, perché si allontana dal bene e, in ultima analisi, da Dio. L’uomo è perciò responsa- male fisico e male
bile delle sue scelte ed è colpevole se orienta il suo comportamento verso ciò che non è Dio. morale.

male dal punto di vista metafisico, non è una peccato la dimensione morale del male; deri- lessico
sostanza e quindi non è essere, perché tutto ciò va dalla volontà, la quale può orientarsi verso un filosofico
che è discende da Dio e quindi è bene. Il male è bene inferiore e limitato, allontanandosi da Dio. Il
privazione di essere e di bene: deriva dal fatto peccato richiede la libertà della volontà umana e
che il creato non è e non può essere perfetto. quindi la responsabilità di colui che sceglie.
166 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

6 La teoria della grazia e le controversie con


donatisti e pelagiani
Il peccato e la salvezza
Affermare che il male non ha una sostanzialità non vuol dire che esso non esista tout
court: che il male non sia una sostanza, una realtà a sé stante, non significa che l’uomo
non sia esposto a dolore, sofferenza e morte, e che non possa compiere azioni peccami-
nose, con conseguenze devastanti per sé e per gli altri. Chiarito che tutto ciò che esiste
è buono, perché creato da Dio, e che il male è conseguenza dell’imperfezione e del pec-
cato dell’uomo, la visione che Agostino ha delle realtà terrene e del mondo umano è
tutt’altro che benevola. Soprattutto nelle sue opere mature, egli si lascia andare a giudi-
zi molto severi e privi di appello. Si può dire che il male morale, nel senso teologico
forte di “peccato”, cioè scelta contraria al progetto divino, sia un filo conduttore
dell’intera produzione teologica agostiniana. Il peccato è percepito in tutta la sua dram-
maticità esistenziale, perché sembra che l’uomo con le sue sole forze non riesca a eserci-
tare correttamente la propria libertà, scegliendo il bene, ma si trovi costantemente nella
situazione descritta dall’apostolo Paolo: «non faccio il bene che voglio, ma il male che
non voglio» (Lettera ai Romani 7, 19).
L’insistenza sull’incapacità umana di compiere il bene, che pure si desidera, è un
motivo che si può apparentemente spiegare alla luce della conversione di Agostino, av-
venuta dopo lunghissimi anni di travaglio interiore e di vita disordinata che egli con-
danna in modo impietoso. Ma nel corso del tempo la visione pessimista nei confronti
della natura umana tende a radicalizzarsi, fino a concepire la salvezza come possibile
unicamente per l’intervento insondabile e gratuito di Dio, un intervento che teologi-
camente si definisce grazia. Anche la fede non è una scelta che l’uomo compie con le
sue proprie forze, ma è un dono divino, e nessuna azione umana può sostituirvisi o
meritarla. Tale dono, tuttavia, non è elargito a tutti, dal momento che non tutti aderisco-
no alla fede: sembra pertanto che il giudizio di Dio sia libero e imperscrutabile tanto da
rasentare l’arbitrarietà, come nella scelta di coloro che sono destinati alla salvezza, gli
tema “eletti”, e coloro che invece sono destinati alla dannazione, i “dannati”. È il motivo della
SIAMO LIBERI predestinazione alla salvezza, su cui Agostino ritorna più volte cercando una spiega-
O CI ILLUDIAMO
DI ESSERLO? zione adeguata, ma su cui alla fine ammette che le ragioni sono nascoste nell’insonda-
p. 384 bilità della volontà divina.

La ritrattazione della filosofia


Negli scritti maturi Agostino modifica il suo atteggiamento nei confronti della filosofia,
proprio per lasciare spazio alla dottrina della grazia. La filosofia non è più l’ingresso pri-
vilegiato alla conoscenza di Dio, né una preparazione alla fede, ma piuttosto l’emblema
del fallimento degli sforzi umani per condurre una vita beata, la quale prescinde

lessico grazia (dal latino gratia, derivato di gratus, “grato, gradito, riconoscente”) nell’ambito teologico, indica
filosofico l’intervento benevolo di Dio, assolutamente libero e gratuito, dal quale dipende la salvezza dell’uomo.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 167

dall’intervento divino. È un ripensamento che si esprime con tono fortemente autocri-


tico: nel 396, in una lettera a Simpliciano, l’allora vescovo di Milano, Agostino rivela
l’insoddisfazione per le opere scritte nel decennio precedente e ne auspica una revisione;
in maniera ancora più intransigente negli ultimi anni della sua vita rinnegherà molte
sue tesi, fornendo nelle Ritrattazioni alcune precise indicazioni di lettura e interpretazio-
ne dei suoi testi. Quell’equilibrio tra fede e ragione che Agostino aveva raggiunto all’i-
nizio, grazie anche all’apporto della filosofia, si sbilancia decisamente verso la fede,
intesa come opera della grazia, un aiuto soprannaturale che non è motivato da una vita
virtuosa. La filosofia, più che un supporto razionale per la comprensione dei misteri
divini, arriva addirittura a essere concepita da Agostino come un ostacolo, perché pro-
pone una visione immanente e totalmente umana della felicità, dell’esistenza, del mon-
do intelligibile ultraterreno, disconoscendo il peso del peccato e il ruolo imprescindi-
bile e imperscrutabile dell’intervento di Dio.

Contro il donatismo e il pelagianesimo


Alla luce della concezione della grazia si spiega anche perché Agostino dedichi molte
energie e molti anni della sua vita a combattere eresie, che, pur diverse tra loro, hanno
in comune una positiva valutazione delle capacità umane, la centralità assegnata all’uo-
mo e alle sue facoltà. È il caso anzitutto del donatismo (dal nome del vescovo di Carta-
gine Donato, IV secolo), un’eresia che non considerava validi i sacramenti amministrati
da ministri indegni, come se il valore del sacramento stesso derivasse dalle qualità mo-
rali del sacerdote e non fosse invece un atto salvifico, che dipende esclusivamente da
Dio. Questo rigorismo morale nasceva in realtà da una situazione disciplinare, prima
che dottrinale: il donatismo cercava di affrontare la questione dei ministri che avevano
rinnegato il cristianesimo spinti dalle persecuzioni dei Romani e poi vi erano rientrati,
riuscendo talora addirittura a ottenere la carica di vescovo. I toni della controversia,
all’inizio piuttosto pacati, tendono a diventare inflessibili, nella misura in cui l’eresia si
diffonde nella Chiesa africana e ne minaccia la stabilità, costringendo lo stesso impera-
tore a intervenire nella condanna. Al di là delle vicende storiche, la posizione dottrinale
di Agostino mira a esaltare il valore della grazia, togliendo qualsiasi merito o possibilità
di agire virtuosamente all’essere umano.
Ancora più dura, e apparentemente immotivata, è la condanna del pelagianesimo
da parte di Agostino. Pelagio era un monaco bretone, che dopo il sacco di Roma a opera
dei visigoti di Alarico (410) si era rifugiato in Africa, dove le sue dottrine avevano trovato
un largo seguito. Egli riteneva che il peccato originale avesse limitato ma non annullato
del tutto la libertà umana: esortava pertanto l’uomo a condurre una vita integra e mo-
ralmente degna, per poter ottenere la salvezza. Non negava in tal modo l’intervento
della grazia divina, che però non escludeva la cooperazione umana e valorizzava le ca-
pacità naturali dell’uomo. Anche in questo caso, la reazione di Agostino fu molto netta,
anzi il fervore polemico lo spinse a radicalizzare le sue posizioni, negando fermamente
che l’uomo potesse con le sue sole forze scegliere il bene: l’unica scelta totalmente impu-
tabile all’uomo è quella di fare il male, mentre è soltanto la grazia divina che dopo il
peccato originale può riabilitare l’uomo e portarlo al bene.

FARE per CAPIRE • Sottolinea la definizione della grazia e le conseguenze sul piano teorico (predesti-
nazione, antidonatismo, antipelagianesimo).
168 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

7 La città di Dio e la città dell ’uomo


Il sacco di Roma e La città di Dio
Nel 410 i visigoti assediano Roma; per giorni la città che la retorica imperiale aveva defi-
nito “eterna” è devastata da orde selvagge. L’evento risulta traumatico non soltanto per
gli effetti materiali della distruzione e della violenza, ma anche perché rende viva nei
contemporanei la percezione della fine di un’epoca, del declino della civiltà romana,
incapace di resistere alle invasioni dei popoli barbari. Lo sconcerto e l’angoscia per lo
sgretolarsi del proprio mondo, senza intravedere alcun futuro, provocano un acceso di-
battito sulle cause della disfatta: da parte romana si insiste sulla decadenza dei valori e
dei culti tradizionali che avevano rappresentato la coesione e la solidità dell’impero. Di-
versi intellettuali additano i cristiani come responsabili del declino, per l’attitudine alla
mitezza, al perdono e alla non violenza; da parte loro i cristiani rispondono che la deca-
denza è interna alla cultura romana.
Nel reciproco scambio di accuse la voce cristiana più autorevole è quella di Agostino,
che trae lo spunto dalla situazione storica per comporre La città di Dio, un’opera che lo
impegnò dal 412 al 426. L’assunto principale dell’opera è la distinzione tra una città degli
uomini e una città di Dio; mentre la prima rappresenta la ricerca egoistica del proprio
benessere e piacere, fino al disprezzo di Dio (amor sui usque ad contemptum Dei, “amore di
sé fino al disprezzo di Dio”), la città di Dio è la comunità di uomini che amano Dio, fino
a disprezzare sé stessi, a non tenere più in conto la propria vita (amor Dei usque ad con-
temptum sui, “amore di Dio fino al disprezzo di sé”). Al di là della netta contrapposizione
tra amore terreno e amore divino, tra la ricerca dell’appagamento dei propri desideri e il
dedicarsi a Dio, questa teoria porta in sé due importanti aspetti teorici: il tema politico e
la nuova concezione della storia.

Le due città
Per quanto riguarda il primo aspetto, le due “città” non designano due collettività con-
trapposte: il termine civitas indica infatti il senso di identità e di appartenenza, e potreb-
be essere tradotto con “cittadinanza”. Perciò la distinzione tra le due città non ha conno-
tazioni geografiche o storiche, cioè non comporta l’individuazione di due città concrete,
situate in luoghi specifici o in epoche determinate; al tempo stesso non è una distinzione
politica: non esistono infatti sistemi politici fondati sull’amor sui (“l’amore di sé”) e siste-
mi politici a servizio dell’amor Dei (“l’amore di Dio”). Pur nella condanna dell’Impero
romano, Agostino non aspira a un sistema teocratico e non individua nella Chiesa la
concretizzazione della città di Dio.

lessico città di Dio la comunità (in latino civitas) compo- teocrazia (dal greco theós, “Dio”, e krátos, “pote-
filosofico sta da coloro che vivono secondo la fede, scelgono re”) sistema di governo in cui il potere è esercitato
e amano Dio, fino al disprezzo di sé. È contrappo- dall’autorità religiosa “in nome” di Dio e in coeren-
sta alla città degli uomini, che mirano alla propria za con determinati principi religiosi. In particolare,
affermazione, scelgono sé stessi, l’amore per i nel mondo cristiano significa superiorità della
beni terreni e arrivano al disprezzo di Dio. Chiesa e del papa sul potere politico.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 169

La distinzione non ha neppure un valore cronologico (il mondo presente terreno con-
trapposto al mondo celeste, da realizzarsi alla fine dei tempi), ma è interna alle persone,
riguarda quella linea interiore e invisibile che discrimina chi è giusto e vive secondo la
fede da chi ambisce ai beni terreni e alla propria affermazione nel mondo. Le due forme
di vita sono dunque mescolate nella storia e nessuna istituzione incarna pienamente
l’una o l’altra: all’interno di questo perenne conflitto che caratterizza la storia, non è pos-
sibile separare i due elementi, né contrassegnarli con chiarezza, perché la distinzione con-
cerne l’orientamento interiore di ogni individuo.

Una nuova concezione della storia


La considerazione dell’eterno scontro fra le due città offre lo spunto per una teologia
della storia, che scarta rispetto a una visione ciclica del tempo, diffusa invece nella cul-
tura classica. Si parla di visione ciclica in relazione a una concezione circolare dello
sviluppo temporale, analoga a ciò che accade nella natura: come si osserva il ripetersi
delle stagioni, dei moti celesti, del giorno e della notte, così anche per gli eventi umani si
presume che si fondino sulla natura umana, che tende a riprodurre le stesse azioni. Inve-
ce nell’ebraismo, e poi nel cristianesimo, si afferma una visione lineare del tempo se-
condo cui la storia ha un inizio, un orientamento e una fine.
Già nelle Confessioni, come si è visto, Agostino aveva riflettuto in modo inedito sul
tempo; qui il tema non è più la misura interiore del tempo, ma il tempo del mondo, la sua
storia iniziata con la creazione a opera di Dio. In una rappresentazione lineare non tutti
gli eventi si equivalgono, ma ci sono alcuni momenti fondanti che scandiscono la storia
e le conferiscono un senso. Oltre al momento iniziale della creazione, vi sono l’incarna-
zione di Cristo e il giudizio finale: l’inizio della storia avvia un cammino verso un fine
e una fine, che è la pienezza dei tempi, il compimento del senso di tutta la storia, la rea- ESERCIZI

lizzazione delle speranze umane.


Soltanto in una concezione lineare ci si apre a un futuro che non si è ancora speri- FARE per CAPIRE
mentato, ma si inventa anche il “passato”, come tempo ormai trascorso e non più recu- • Scrivi a lato di
perabile nella sua unicità. Agostino ha chiara la percezione della novità del cristianesi- ciascuno dei tre
capoversi che
mo, come anche del fatto che il mondo sia ormai “vecchio”: come molti cristiani dei compongono il
primi secoli attende con imminenza la fase finale della storia e condivide con i suoi paragrafo una
contemporanei il senso del declino e della fine. Nella sua visione storica però la fine parola chiave o
un’espressione
del mondo è anche la sua realizzazione, e la decadenza apre uno spazio alla speranza di che ne sintetizzi
un tempo nuovo. il contenuto.

teologia della storia visione della storia come disegnando un andamento circolare del tempo, lessico
sviluppo del progetto divino. In Agostino, la sto- analogo a quello che si osserva nella natura. filosofico
ria ha un andamento lineare, poiché inizia con la
creazione e prosegue, nei suoi momenti fonda- visione lineare del tempo concezione propria
mentali, con l’incarnazione di Cristo e il giudizio dell’ebraismo e del cristianesimo, secondo cui lo
finale. sviluppo temporale segue un andamento che
prevede un inizio, uno sviluppo e una fine: l’inizio
visione ciclica del tempo concezione diffusa è la creazione del mondo da parte di Dio; lo svi-
nella cultura classica secondo cui lo sviluppo luppo è il disegno di Dio, l’ordine provvidenziale,
temporale segue un andamento ciclico, cioè com- in cui ogni evento ottiene il suo senso e la sua
porta fasi di nascita, crescita, decadenza e rina- giustificazione; la fine è il giudizio universale alla
scita che si ripetono in modo regolare e costante, fine dei tempi e l’avvento del regno di Dio.
Professore, perché Agostino sceglie la via della
“confessione” e qual è il rapporto che si può
cogliere tra la filosofia e l’individualità
dell’autore?
a tu per tu con Da una parte, abbiamo a che fare con una persona-
lità “esibizionista”, non diversamente dal corrispet-

Maurizio Ferraris tivo moderno di Agostino, il filosofo illuminista


Jean-Jacques Rousseau, autore anche lui di un libro di
Confessioni. In Agostino, però, la cosa interessante è
che il suo interlocutore, colui a cui parla dandogli del
“tu”, è Dio, al punto che un altro titolo possibile per il
libro di Agostino avrebbe potuto essere Io e Dio. Tut-
tavia, sarebbe ovviamente ingiusto ridurre Agostino a
un esibizionista. La sua idea è che Dio non è la strut-
tura logica del mondo, o il principio di tutte le cose, o
un Uno inattingibile come in Plotino. È una persona, a
cui ci si rivolge mettendo in primo piano la nostra vita,
e lo si fa in pubblico, coinvolgendo la comunità dei
credenti. Agostino a un certo punto dice una cosa illu-
minante: si chiede perché abbia deciso di confessarsi a
Dio, che è onnisciente e che dunque sa tutto su di lui,
meglio di lui, prima di lui. E risponde dicendo che vuole
confessarsi perché vuole “attuare la verità” (usa proprio
questa espressione, che fa riferimento più al fare che al
contemplare), sia nel suo cuore, sia per iscritto, di fron-
te a molti testimoni. Per Agostino la verità è una que-

Agostino, stione personale, che ha a che fare con la vita di un


essere umano, con la collettività in cui vive, e con
quell’assoluto che è anche persona, e che è Dio.
nostro Se ci facciamo caso, è una situazione analoga a quella
che si crea nei social network: le persone si confessano
“contemporaneo” (in modo spesso imprudente), raccontano in pubblico
la loro vita, di fronte a molti testimoni, postano le loro
foto. Perché? Per essere riconosciuti dagli altri, perché

D opo aver affrontato il pensiero di


Agostino, proviamo a ritornare sul-
le questioni individuate all’inizio come
sono consapevoli del fatto che esistere significa “esiste-
re per qualcuno” (e qui il qualcuno non è, come per
Agostino, Dio e la comunità, ma soltanto la comuni-
fondamentali nella sua riflessione, po- tà). E, ovviamente, esistere per qualcuno come perso-
na. Si tratta di intuizioni molto semplici a cui Agostino
nendo al professor Maurizio Ferraris al-
riesce a dare uno spessore metafisico: la filosofia non è
cune domande in proposito. una astratta teorizzazione, ma l’espressione di un indi-
viduo; l’assoluto, per quanto trascendente, si mostra
sempre in una forma personale; e la verità esiste sol-
tanto tra esseri umani, che possono disfarla, con la
menzogna, o farla, con una narrazione veritiera.

Con Agostino lo sguardo filosofico si ripiega


sull’interiorità, dove l’uomo non ritrova soltanto
sé stesso ma anche, e soprattutto, la dimensione
trascendente del divino. Ci può spiegare quali
sono le differenze fondamentali che si possono
individuare tra questa concezione cristiana della
ricerca della verità e quella propria della
tradizione greca?
171

Pensi che per i Greci arcaici l’anima non era dentro il


corpo, ma fuori: lo conteneva, perché ne era la forma c’è più e il filosofo che si racconta? La memoria, il
(questa idea dell’anima come forma del corpo la tro- sentimento del tempo, che a questo punto non è
viamo ancora in Aristotele). Tra questi Greci e Agosti- più, come per i Greci, scandito dal moto degli astri,
no molta acqua è passata sotto i ponti: ad esempio bensì dal movimento dell’anima. Il sole sorge e tra-
gli stoici hanno insegnato all’élite romana l’impor- monta, e il suo “movimento” ci dice che un giorno è
tanza di esaminare le proprie azioni e i propri pensie- passato; questo, però, non è che superficie: se non ci
ri, facendo della vita un perenne esame di coscienza. fossero umani capaci di ricordare tale movimento,
Un imperatore filosofo, Marco Aurelio, ha consegna- che scandisce le loro vite, il tempo non ci sarebbe,
to i suoi pensieri a un diario scritto in pubblico: A se così come non ci sarebbe la verità. Sebbene con un
stesso. I cristiani hanno insegnato che c’è una sola tono narrativo e diaristico, quello di Agostino è un
cosa importante nell’uomo: l’anima, la quale sta al sistema, coerente in tutte le sue parti, che inaugura
suo interno e ci permette di scoprire Dio, che vi abita. un nuovo modo di fare filosofia, e senza il quale non
E Agostino, spinto da una soggettività straripante, sarebbe concepibile il pensiero moderno. È per que-
inventa un nuovo genere filosofico: un parlare a sé sto che, mentre i filosofi che lo hanno preceduto ci
stesso che è anche un rivolgersi a Dio, uno scavo inte- appaiono anzitutto come la manifestazione di forme
riore che è insieme una ricerca della verità. di vita ormai scomparse, Agostino (con sua madre,
suo figlio, le sue vicissitudini, i suoi lutti, e perfino la
Per Agostino la verità interiore rappresenta vita in Brianza) è un nostro contemporaneo.
il criterio alla luce del quale valutare la realtà
esterna. Per lui conoscere non significa
rispecchiare il mondo esterno nel pensiero: sembra
essere piuttosto il soggetto a dettare le regole del
conoscere. Cade dunque il paradigma della
conoscenza come “contemplazione” dell’essere?
No, semplicemente la manifestazione dell’essere
non si dà fuori, nella natura, ma dentro, nell’uomo.
Agostino non si sognerebbe mai di proporre una
prova dell’esistenza di Dio, perché Dio è la cosa più
evidente, il primo oggetto di contemplazione, ciò
che è in noi prima di noi. Diversissimo sarà l’uso del-
la soggettività come punto di partenza per una rico-
struzione razionale del mondo prevalente nella filo-
sofia moderna. Aristotele aveva scritto che l’anima è
potenzialmente tutti gli enti che conosce, e Agosti-
no lo prende in parola: davvero, quello che siamo e
quello che vogliamo, ma anche quello che c’è, nella
natura e nello spirito, si manifesta anzitutto davanti
agli occhi dell’anima.

Anche nella concezione del tempo Agostino


sottolinea il ruolo fondamentale della
soggettività, che in qualche modo garantisce una
presenza e una permanenza a ciò che è destinato
a divenire e a dissolversi. Può esporci il suo
personale punto di vista su questa soluzione?
Agostino scrive a un certo punto una frase bellissi-
ma, piena del suo talento di retore: «la mia infanzia è
morta, e io vivo». È paradossale, ma è così. Ora, che
cosa stabilisce la continuità tra il bambino che non

Ritratto di Agostino, elaborazione grafica, 2018.


172 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

TESTI del capitolo 15


Agostino igura

t1 La confessione a Dio e agli uomini dalle Confessioni


Nel X libro delle Confessioni, dopo aver ripercorso la sua vita fino alla conversione, Agostino
si interroga sul motivo e sull’utilità della sua “confessione”, atto di verità di fronte a Dio – che pure
conosce il cuore dell’uomo e non ha bisogno che questi glielo sveli – e di fronte agli uomini, che
si presentano come suoi testimoni. “Attuare la verità” implica manifestare sé stessi a Dio e agli
uomini, con la parola e con lo scritto.

[La confessione a Dio, fonte di verità] Ti comprenderò1, o tu che mi comprendi; ti compren-


derò come sono anche compreso da te. […] Ecco, tu amasti la verità, poiché chi l’attua viene
alla luce. Voglio dunque attuarla dentro al mio cuore: davanti a te nella mia confessione,
e nel mio scritto davanti a molti testimoni.
5 A te, Signore, se ai tuoi occhi è svelato l’abisso della conoscenza umana, potrebbe essere
occultato qualcosa in me, quand’anche evitassi di confessartelo? Nasconderei te a me,
anziché me a te. Nasconderei te a me, anziché me a te. Ora però i miei gemiti attestano
il disgusto che provo di me stesso, e perciò tu splendi e piaci e sei oggetto d’amore e di
desiderio, cosicché arrossisco di me e mi respingo per abbracciarti, e non voglio piacere
10 né a te né a me, se non per quanto ho di te. Dunque, Signore, io ti sono noto con tutte le
mie qualità. A quale scopo tuttavia mi confessi a te, già l’ho detto. A quale scopo tuttavia
mi confessi a te, già l’ho detto. È una confessione fatta non con parole e grida del corpo,
ma con parole dell’anima e grida della mente, che il tuo orecchio conosce. Nella cattive-
ria è confessione il disgusto che provo di me stesso; nella bontà è confessione il negar-
15 mene il merito, poiché tu, Signore, benedici il giusto, ma prima lo giustifichi quando è empio.
Quindi la mia confessione davanti ai tuoi occhi, Dio mio, è insieme tacita e non tacita. Tace
la voce, grida il cuore, poiché nulla di vero dico agli uomini, se prima tu non l’hai udito
da me; e tu da me non odi nulla, se prima non l’hai detto tu stesso.

1. Le parti in corsivo corrispondono alle citazioni della Bibbia.


Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 173

Ma cos’ho da spartire con gli uomini, per cui dovrebbero

TESTI
[La confessione agli uomini]
20 ascoltare le mie confessioni? La guarigione di tutte le mie debolezze non verrà certo da
questa gente curiosa di conoscere la vita altrui, ma infingarda nel correggere la propria.
Perché chiedono di udire da me chi sono io, ed evitano di udire da te chi sono essi? Come
poi sapranno, udendo me stesso parlare di me stesso, se dico il vero, quando nessuno fra
gli uomini conosce quanto avviene in un uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Ma poi-
25 ché la carità crede tutto, in coloro almeno che unifica legandoli a se stessa, anch’io, Signo-
re, pure così mi confesso a te per farmi udire dagli uomini. Prove della veridicità della
mia confessione non posso fornire loro; ma quelli, cui la carità apre le orecchie alla mia
voce, mi credono.
(Confessioni, X, 1,1 - 3,3, trad. it. di C. Carena, in Agostino, Opere, vol. I,
Città Nuova Editrice, Roma 19915, pp. 299-301)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


Distingui i due piani della confessione a Dio e agli uomini, evidenziando nel testo:
• con quali modalità avviene la confessione;
• chi è il beneficiario;
• qual è la prova della verità.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-18 Nella prima parte Agostino analizza righe 19-28 Qui Agostino riflette sul senso del-
il senso della confessione a Dio, a cui nulla può es- la confessione agli altri uomini, prendendo però le
sere nascosto. Non si tratta di rivelare il proprio distanze da forme di curiosità morbosa da parte di
intimo a Dio, bensì di ricevere da Dio la verità su sé chi non si mette in discussione. Come Agostino
stessi: solamente perché conosciuto da Dio, l’uo- vuole “attuare la verità” con le sue parole e con il
mo può riconoscere il bene e il male delle proprie suo scritto, così i testimoni potranno comprender-
azioni (e provare «disgusto» nei confronti dei pro- ne il senso soltanto grazie alla carità, cioè a un’e-
pri peccati e riconoscere il merito di Dio per la pro- sperienza di Dio simile a quella dell’autore. Si trat-
pria bontà); la rivelazione su di sé precede l’azione ta di un modo di intendere la verità come relazione
di confessarsi a Dio. Il passo è giocato sul duplice con Dio (che conosce l’abisso della coscienza uma-
senso di “confessione”, che non significa soltanto na) e con gli uomini (testimoni passivi e attivi nello
accusarsi per i propri peccati, ma anche rendere stesso tempo).
lode a Dio per la sua opera nel cuore dell’uomo.

RIFLETTI E DISCUTI
1. È sempre lecito svelare il proprio pensiero intimo agli altri? A quali condizioni? Con quale fine? Ri-
fletti su questo tema esponendo il tuo punto di vista in proposito.
2. Come dimostra anche l’enorme diffusione dei social network, spesso abbiamo bisogno di testimoni
delle nostre azioni ed emozioni, tanto da condividerli costantemente con un numero sempre mag-
giore di persone. Perché? Avvia un dibattito in classe su questo argomento, provando a risponde-
re anche al seguente interrogativo: che cosa rende “vero” un evento, il suo semplice accadere o
anche il fatto di essere testimoniato?
174 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

t2
TESTI

Interiorità e verità da La vera religione


Questo passo di Agostino esemplifica la direzione della sua ricerca: egli intende mostrare la verità della
religione cristiana non a partire da argomenti tratti dalla Scrittura o dalla fede, ma invitando a seguire
il percorso della ragione. L’opera da cui è tratto il brano, La vera religione, appartiene al periodo di
maggiore apertura alla filosofia da parte di Agostino, perché egli considera la ricerca filosofica quasi
il preludio per la conversione al cristianesimo. Analogamente, il dubbio è il preludio e la condizione per
la scoperta della verità.

[La necessità di “ritornare in sé stessi”] C’è dunque ancora qualcosa che non possa ricor-
dare all’anima la primitiva bellezza che ha perduto, dal momento che lo possono fare i
suoi stessi vizi? La sapienza divina pervade il creato da un confine all’altro (Sapienza 8, 1);
quindi, per tramite suo, il sommo Artefice ha disposto tutte le sue opere in modo ordina-
5 to, verso l’unico fine della bellezza. Nella sua bontà pertanto a nessuna creatura, dalla più
alta alla più bassa, ha negato la bellezza che da Lui soltanto può venire, così che nessuno
può allontanarsi dalla verità senza portarne con sé una qualche immagine. Chiediti che
cosa ti attrae nel piacere fisico e troverai che non è niente altro che l’armonia; infatti, men-
tre ciò che è in contrasto produce dolore, ciò che è in armonia produce piacere. Riconosci
10 quindi in cosa consista la suprema armonia: non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la
verità abita nell’uomo interiore e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche
te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che trascendi l’anima razionale: tendi,
pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione. A che cosa perviene infatti chi sa
ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ra-
15 gionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione. Vedi in ciò un’armonia insu-
perabile e fa’ in modo di essere in accordo con essa. Confessa di non essere tu ciò che è la
verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da
un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della mente, in modo che l’uomo
interiore potesse congiungersi con ciò che abita in lui non nel basso piacere della carne,
20 ma in quello supremo dello spirito.
[Dubbio e verità] Ma se non ti è chiaro ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno
se non dubiti di dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo. In
questo caso senz’altro non ti si presenterà la luce di questo sole, ma la luce vera che illu-
mina ogni uomo che viene in questo mondo (Giovanni 1, 9). Essa non si può percepire né
25 con questi occhi né con quelli con cui sono pensate le rappresentazioni che gli occhi stes-
si imprimono nell’anima, ma con quelli con cui alle stesse rappresentazioni diciamo:
“Non siete voi ciò che io cerco, e non siete neppure il principio in base al quale vi dispon-
go in ordine; ciò che trovo di brutto in voi lo disapprovo, mentre approvo ciò che trovo di
bello; ma, poiché il principio per cui disapprovo e approvo è più bello, lo approvo di più e
30 lo antepongo non solo a voi, ma anche a tutti i corpi dai quali vi ho attinte”. Quindi questa
regola che tu constati formulala così: chiunque comprende che sta dubitando, comprende
il vero e di ciò che comprende è certo; dunque è certo del vero. Ciò vuol dire che chiunque
dubita dell’esistenza della verità, ha in se stesso il vero, per cui non può dubitarne. Ma il
vero è tale unicamente per la verità; perciò non deve dubitare della verità chi ha potuto
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 175

dubitare per qualche motivo. Queste cose appaiono manifeste dove risplende la luce che

TESTI
35
non si estende né nello spazio né nel tempo e che non può essere rappresentata né in for-
ma spaziale né in forma temporale. Tali cose possono corrompersi da qualche parte? No,
benché perisca o diventi vecchio tra gli esseri carnali inferiori chiunque possiede l’uso di
ragione. In realtà, il ragionamento non crea tali verità, ma le scopre. Esse perciò sussisto-
40 no in sé prima ancora che siano scoperte e, una volta scoperte, ci rinnovano.
(La vera religione, 39, 72-73, trad. it. di G. Ceriotti, in Agostino, Opere,
vol. VI/1, cit., pp. 109-113)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Evidenzia nel testo con colori diversi:
• i termini che si riferiscono alla bellezza (bellezza, armonia, ordine...);
• i termini che si riferiscono alla ragione (ragione, mente, verità);
• il tema del dubbio e della ricerca;
• i verbi che indicano un movimento, esteriore o interiore.
2. Riscrivi in 10 righe al massimo il senso complessivo del testo, mantenendo la prima persona singolare.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-20 Agostino invita l’interlocutore a rien- bello e di brutto vi è nelle rappresentazioni offerte
trare in sé stesso, a non fermarsi all’armonia e dai sensi, proprio in quanto possiamo valutarle sul-
all’ordine esteriori, ma a ritrovarli dentro di sé. Si la base della Bellezza ideale che “abita” dentro di
tratta però di una ricerca interiore che apre spazi noi ed è superiore a ogni bellezza terrena.
inaspettati: l’interiorità non è un territorio finito e
righe 30-40 Nella parte conclusiva del testo
delimitato, e la ragione deve procedere oltre, andare
emerge quella che vale come “regola” per la ragio-
oltre sé stessa. È un percorso verso ciò che è “più
ne: in ogni dubbio è insita la certezza. Chiunque
profondo”, che diventa l’indagine di ciò che è “più
dubita, è certo di qualcosa (almeno del dubitare):
alto”: il punto di arrivo non è la ragione, ma la sua
questo è il cammino verso la verità, che è interiore
origine, la sua fonte (il «lume»).
e nello stesso tempo superiore all’uomo stesso,
righe 21-30 Centrale è qui il dubbio, inteso come perché derivata da Dio. In tal modo Agostino su-
parte integrante della ragione, che porta però a pera lo scetticismo.
scoprire che l’ordine e la bellezza rinviano a un prin- In tutto il brano il filo rosso è quello della ricerca e
cipio più elevato, quello che Agostino – riprenden- della scoperta, che avviene in modo dinamico: si
do Giovanni – definisce la «luce vera che illumina cerca per trovare e si trova per cercare ancora più
ogni uomo». Tale luce si identifica con i criteri di profondamente, in un cammino dello spirito che
verità che Dio ha posto nell’anima umana, grazie ai non è puramente razionale, ma che porta a un rin-
quali è ad esempio possibile discernere ciò che di novamento e trasforma la vita stessa dell’autore.

RIFLETTI
1. Rifletti sulla funzione che rivestono i temi della bellezza e dell’armonia all’interno del brano proposto.
Quindi confronta le tesi di Agostino con la concezione della bellezza di Platone, mettendo in luce i
punti di contatto e quelli di divergenza. Esponi infine il tuo punto di vista in proposito: dove risiedo-
no e che cosa sono per te la bellezza e l’armonia?
2. Agostino individua una relazione fondamentale tra dubbio e verità. Concordi con le sue tesi?
Motiva la tua risposta.
176 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

t3
TESTI

La presenza del tempo nello spirito umano


dalle Confessioni
La discussione sul concetto di tempo, che si trova nell’XI libro delle Confessioni, si colloca nel contesto
più ampio della comprensione della creazione: non ha senso infatti interrogarsi su ciò che c’era prima
che il mondo fosse creato, in quanto non esisteva un “prima”, perché non esisteva il tempo. La
domanda di Agostino su che cosa sia il tempo si scontra inoltre con un paradosso: tutti parliamo del
tempo, ma non riusciamo ad afferrarne l’essenza. Soltanto nell’animo il tempo può essere misurato.

[Il concetto di tempo] Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi
saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure,
quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando sia-
mo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri.
5 Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga,
non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esistereb-
be un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla
che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il
futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quan-
10 to al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo,
ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possia-
mo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non
possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere.
[La durata del tempo] Eppure parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendoci soltanto al
15 passato o al futuro. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad esempio, di cento anni prima;
e così uno futuro è lungo se è di cento anni dopo; breve poi è il passato quando è, supponi,
di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o
breve ciò che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Dunque non dovremmo
dire di un tempo che è lungo, ma dovremmo dire del passato che fu lungo, del futuro che
20 sarà lungo.
Signore mio, luce mia, la tua verità non deriderà l’uomo anche qui? Perché, questo tempo
passato, che fu lungo, lo fu quando era già passato, o quando era ancora presente? Poteva
essere lungo solo nel momento in cui era una cosa che potesse essere lunga. Una volta
passato, non era più, e dunque non poteva nemmeno essere lungo, perché non era affatto.
25 Quindi non dovremmo dire del tempo passato che fu lungo: poiché non troveremo nulla,
che sia stato lungo, dal momento che non è, in quanto è passato. Diciamo invece che fu
lungo quel tempo presente, perché mentre era presente, era lungo. Allora non era già pas-
sato, così da non essere; era una cosa, che poteva essere lunga. Appena passato, invece,
cessò all’istante di essere lungo, poiché cessò di essere. […]
30 [L’esistenza del tempo nel presente] Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato
esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe
esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del
futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altro-
ve: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del
35 futuro l’attesa. […]
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 177

È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepita-

TESTI
[La misura del tempo è nello spirito]
re contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti
turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L’impressione che le cose producono in te
al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non
40 già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo
è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. […]
Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come crescerebbe
il passato, che non è più, se non per l’esistenza nello spirito, autore di questa operazione,
dei tre momenti dell’attesa, dell’attenzione e della memoria? Così l’oggetto dell’attesa fatto
45 oggetto dell’attenzione passa nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tut-
tavia esiste già nello spirito l’attesa del futuro. E chi nega che il passato non esiste più?
Tuttavia esiste ancora nello spirito la memoria del passato. E chi nega che il tempo presen-
te manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia perdura l’attenzione, davan-
ti alla quale corre verso la sua scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente,
50 non è lungo, ma un lungo futuro è l’attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato,
inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato.
(Confessioni, XI, 14,17 - 15,18; 20,26; 27,36 - 28,27, trad. it. di C. Carena,
in Agostino, Opere, vol. I, cit., pp. 381-383, 399-401)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Scrivi a margine qual è la domanda fondamentale di ogni paragrafo del testo di Agostino, che pro-
cede attraverso dubbi e interrogativi.
2. Evidenzia nel testo le espressioni riconducibili ai seguenti campi semantici:
• misura;
• brevità/lunghezza.
3. Sottolinea nel testo tutte le occorrenze di “presente”, la dimensione del tempo su cui Agostino si
sofferma di più.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-13 Nel linguaggio quotidiano tutti ci rife- scrivendolo come lungo o breve. La questione del
riamo al tempo in modo ovvio, senza avvertire nulla tempo si addensa e pare un problema privo di solu-
di problematico o oscuro. Eppure definire il tempo è zione: Agostino si rivolge a Dio, perché lo illumini,
un’operazione tutt’altro che semplice, proprio per- ma continua la sua riflessione, riportando al presen-
ché il tempo sfugge e non si riesce ad afferrare la sua te la durata del tempo.
realtà ontologica. Non basta infatti descrivere quello
righe 30-35 A partire da queste righe si comin-
che accade nel tempo, ma occorre spiegare che cosa
cia a intravedere la soluzione di Agostino: il tempo
sia il tempo in cui avvengono le cose. Quando poi si
è costitutivamente presente nell’animo umano,
differenzia il tempo in passato, presente e futuro si
che si distende come memoria del passato, atten-
rafforza l’impressione che il tempo non esista, per-
zione del presente e attesa del futuro. Nell’animo
ché il passato non è più, il futuro non è ancora e il
il tempo non trova soltanto la sua realtà, ma anche
presente è lo scorrere dal futuro al passato.
la sua unità: le tre dimensioni temporali non sono
righe 14-29 L’idea che il tempo non esista sembra dotate di esistenza autonoma, ma sono presenti
però smentita dal fatto che noi lo “misuriamo”, de- nello spirito.
178 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
TESTI

righe 36-51 In conclusione Agostino riprende il ti. La temporalità non è una proprietà oggettiva
tema della misura del tempo, che era l’aporia da dei corpi né del loro movimento, ma di ciò che
cui si era mossa l’indagine: come misurare qualco- l’animo trattiene dentro di sé nel trascorrere delle
sa che non esiste e che è privo di estensione? È cose. L’animo rende dunque reali e misurabili le
l’animo che misura il tempo, nel suo distendersi; tre dimensioni del tempo: non è il tempo in sé a
anzi propriamente non misura il tempo, ma ciò essere lungo o breve, ma lo sono la memoria, l’at-
che in essa rimane impresso nel fluire degli even- tenzione e l’attesa.

RIFLETTI E DISCUTI
Come rileva Agostino, la questione del tempo è di difficile soluzione, benché esso sia un fattore co-
stantemente presente nella nostra vita. Avviate una discussione in classe sul tema, cercando di ela-
borarne una definizione condivisa. Per stimolare e orientare la riflessione potete fare riferimento agli
interrogativi seguenti:
• come si può conciliare la concezione del tempo agostiniana con la misurazione oggettiva del tem-
po per mezzo di strumenti che mirano a essere precisi e validi ovunque?
• si può dire che il tempo non scorre se non vi è l’animo che si estende nelle sue dimensioni?
• che cosa succede quando la memoria, l’attenzione e l’attesa sono utilizzate nell’atto di can-
tare una canzone (un esempio che Agostino propone subito dopo il brano proposto)?

t4 La natura del male da La natura del bene


In questo scritto contro i manichei, composto presumibilmente intorno al 400, Agostino definisce il
male come corruzione e non come natura in sé: poiché vi è un unico principio – Dio – da cui deriva tutta
la realtà, non può esistere il male come sostanza, perché ogni ente, derivato da Dio, è buono, sebbene
imperfetto. Esiste invece la corruzione del bene e la possibilità, per gli esseri razionali, di abbandonare
deliberatamente Dio per scegliere realtà inferiori.

[Il male come corruzione di misura, forma e ordine] 4. La domanda sulla natura del male
deve perciò precedere quella sulla sua origine. E il male non è altro che corruzione: della
misura, della forma o dell’ordine naturale. Si dice quindi cattiva la natura che è corrotta: se
non lo è, infatti, è certamente buona. Ma anche la natura corrotta, in quanto natura, è
5 buona; è cattiva, in quanto corrotta. […]
6. Del resto, se la corruzione togliesse alle realtà corruttibili ogni misura, ogni forma, ogni
ordine, non resterebbe nessuna natura. Per questo ogni natura che non può corrompersi è
il sommo bene, come lo è Dio. Ogni natura che può corrompersi è però anch’essa un certo
bene: la corruzione infatti non potrebbe nuocergli se non sottraendo e diminuendo quel
10 che è buono.
[La corruzione degli spiriti razionali] 7. Alle creature più dotate, però, vale a dire agli spi-
riti razionali, Dio ha assicurato che non potessero corrompersi senza volerlo, quando
cioè fossero rimaste nell’obbedienza sotto il Signore loro Dio, conformandosi alla sua
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 179

incorruttibile bellezza; se invece non avessero voluto conservare l’ubbidienza, si sarebbe-

TESTI
15 ro corrotte nelle pene senza volerlo, poiché si corrompono volontariamente nei peccati. In
questo senso Dio è bene: non c’è bene per chi lo abbandona. E fra le realtà che sono state
fatte da Dio, la natura razionale è un bene tanto grande, che nessun bene può farla felice
all’infuori di Dio. […]
[Nessuna natura, in quanto tale, è cattiva] 17. Dunque non è cattiva nessuna natura, in
20 quanto natura; per ogni natura invece il male non è altro che diminuzione di bene. Se poi
la diminuzione ne comportasse la eliminazione, come non resterebbe nessun bene, così
non resterebbe nessuna natura.
(La natura del bene, trad. it. di L. Alici, in Agostino, Opere, vol. XIII/1, cit., pp. 353-355, 363)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Evidenzia nel testo le espressioni riferite al male e quelle riferite al bene.
2. Sottolinea nel testo la differenza tra la corruzione naturale degli esseri privi di ragione e il peccato
degli esseri razionali.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-10 A differenza dei manichei, che spie- esseri razionali ciò avviene soltanto come effetto
gavano la natura del male riconducendola a un della volontà: in questo senso il male è “peccato”,
principio malvagio, diverso da Dio, Agostino di- cioè disobbedienza e allontanamento da Dio che
stingue la domanda sulla natura del male da quel- è bene, e senza il quale gli uomini non possono
la sulla sua origine. Inoltre discute l’esistenza del essere felici.
male nel quadro della dottrina della creazione,
righe 19-22 Nella parte finale del brano Agosti-
dove ogni natura è buona per il fatto di possedere
no ribadisce che non esiste una natura che sia cat-
misura (modus), forma (species) e ordine (ordo).
tiva, ma unicamente una eventuale diminuzione
Con queste tre espressioni si intende la misura
del bene in essa. Se tale corruzione arrivasse all’eli-
dell’essere, la forma che costituisce positivamente
minazione di ogni bene, ciò comporterebbe l’eli-
la bellezza del creato e il principio razionale intrin-
minazione della cosa stessa. Pertanto il male non
seco che ordina le diverse realtà in relazione al loro
può essere assoluto, ossia totale privazione ontolo-
creatore.
gica, perché ha come condizione l’esistenza di una
righe 11-18 Il male è un fenomeno di alterazio- natura buona da corrompere; invece, può esistere
ne dell’ordine, della misura e della forma, ma negli il bene assoluto, che è Dio.

RIFLETTI
Dopo aver stilato un elenco di situazioni che si possono connotare come “male”, prova a definire in
che modo possano essere considerate “corruzione” o “privazione” di qualcosa. La comprensione del
male in senso privativo e degenerativo si applica a tutti i casi o ci sono fenomeni che sfuggono
a questa definizione?
180 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

capitolo 15 igura
SINTESI Agostino: l ’ inquietudine della ricerca,
la certezza della scoperta
AUDIOSINTESI

1 La vita e le opere
Qual è l’ambiente d’origine e di formazione di Ago- Quali esperienze lo conducono alla conversione?
stino? Agostino nasce a Tagaste, nell’odierna Alge- Trasferitosi a Roma e poi a Milano, Agostino entra in
ria, e studia retorica a Cartagine, dove conduce una contatto con il vescovo Ambrogio e studia il neopla-
vita disordinata ma riceve molti stimoli intellettuali. tonismo. Si converte al cristianesimo nel 386, dopo
In particolare si avvicina al manicheismo, dal quale un lungo tormento interiore. Tornato in Africa, divie-
però si allontana presto per la semplicità e incoeren- ne sacerdote e poi vescovo di Ippona, dove muore. Tra
za della dottrina, approdando a posizioni scettiche. le opere, notissime sono le Confessioni e La città di Dio.

2 Esistenza e riflessione: le Confessioni


A quale genere letterario appartengono le Con- il figlio Adeodato, il vescovo Ambrogio, gli amici),
fessioni ? L’opera ha un carattere autobiografico: significative per la sua crescita interiore; l’importan-
l’autore, ripercorrendo il suo travaglio interiore, za di alcune letture (l’Ortensio di Cicerone, i testi
ammette pubblicamente le sue colpe e rende lode a neoplatonici, la Bibbia), che lo accompagnano nelle
Dio, che lo ha condotto alla fede. sue crisi esistenziali e lo aiutano a superarle; infine la
Quali sono i temi fondamentali dell’opera? I temi questione della verità, che deve essere espressa e
fondamentali che emergono nell’opera sono: la con- confermata davanti a testimoni, non soltanto davan-
versione, che conduce Agostino alla pace interiore; ti a sé stesso e a Dio. La profonda analisi introspetti-
il valore delle relazioni personali (la madre Monica, va rende l’opera estremamente moderna.

3 La ricerca della verità e la scoperta di Dio nell ’anima


Come avviene la ricerca della verità? La ricerca qualcosa appare ai nostri sensi. Tale argomento pre-
della verità avviene attraverso l’introspezione: il lude a quello principale e tipicamente agostiniano,
soggetto è invitato a “ritornare in sé stesso” – sottra- compendiabile nell’affermazione si fallor, sum, cioè
endosi alle lusinghe del mondo esterno – dove risiede “se dubito, se posso ingannarmi, esisto”: nell’ingan-
la luce divina da cui proviene ogni vera conoscenza. narmi emerge la certezza della mia esistenza.
L’interiorità si rivela infinita, perché in essa trovia- Dove risiede il fondamento della verità per Agosti-
mo Dio, che è immanente e, insieme, trascendente. no? La verità non può avere il suo fondamento
Quali sono gli argomenti di Agostino contro lo scetti- nell’uomo, il quale è imperfetto, ma risiede in Dio – il
cismo? Gli argomenti contro lo scetticismo sono quel- maestro interiore – da cui derivano i criteri di verità
lo della verosimiglianza; quello relativo alla validità che illuminano la conoscenza e sono posti nell’anima.
delle affermazioni della logica, basate sul principio di La teoria della conoscenza come illuminazione è
non contraddizione, e alla certezza delle proposizioni debitrice nei confronti della teoria della reminiscenza
matematiche; quello secondo cui, nonostante la fallibi- platonica e mostra come la ricerca razionale conduca
lità della nostra conoscenza sensibile, è innegabile che alla fede.

4 La creazione e il tempo
Quali implicazioni filosofiche derivano dalla dot- e separata: Dio è assolutamente trascendente. La
trina della creazione? La creazione comporta un creazione si distingue sia dall’attività del demiurgo
passaggio dal nulla all’essere, grazie ad un atto platonico, che agisce su una materia preesistente,
libero della volontà divina. La creatura dipende da sia dall’emanazione neoplatonica, la quale non di-
Dio, ma è ontologicamente diversa da lui, inferiore pende dalla volontà di Dio ma è necessaria.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 181

In che modo il tema della creazione si connette a Che cos’è il tempo e come è possibile “misurarlo”?
quello del tempo? Il tempo è nettamente distinto Gli uomini “misurano” il tempo cogliendo nell’ani-
dall’eternità, che coincide con l’assenza di tempo. ma le tre dimensioni del passato, del futuro e del
Dio non ha un prima o un poi, ma rappresenta la presente. In questo senso il tempo è “distensione
pienezza e perfezione dell’essere, che non ammette dell’animo”, la quale ricorda il passato nella memoria,
divenire: nel creare il mondo, Dio crea il tempo, il anticipa il futuro nell’attesa e si concentra sul pre-
quale pertanto concerne soltanto le creature. sente con l’attenzione.

5 L’origine del male


Quale posizione assume Agostino relativamente Come viene inteso il male dal punto di vista metafi-
al problema del male? Inizialmente aderisce alle sico, fisico e morale? Dal punto di vista metafisico
posizioni manichee, che presentano due principi le creature sono ontologicamente inferiori a Dio e
divini, la luce e le tenebre, in lotta tra loro. L’idea di quindi inevitabilmente imperfette, cioè parzial-
un dio del bene sottoposto all’attacco di un dio del mente prive di bene. Dal punto di vista fisico il
male gli appare però insostenibile. Per questo, sotto male è la mancanza di un bene relativo al funzio-
l’influenza del neoplatonismo, arriva ad affermare namento di un organo del corpo o ad un fenomeno
che il male non può derivare da Dio, perché tutto naturale. Dal punto di vista morale, il male è il pec-
ciò che esiste, in quanto creatura di Dio, non può cato, cioè la scelta di un bene inferiore rispetto a
che essere bene. Di conseguenza, il male non è so- uno superiore. La scelta peccaminosa richiede che
stanza, ma privazione di essere e quindi di bene. la volontà sia libera e responsabile.

6 La teoria della grazia e le controversie con donatisti e pelagiani


Qual è la concezione della grazia sviluppata da sono destinati alla dannazione, i “dannati” – Ago-
Agostino? Agostino ha una visione severa dell’es- stino afferma il ruolo imprescindibile e imper-
sere umano, compromesso dal peccato originale e scrutabile dell’intervento di Dio. Anche la fun-
destinato a compiere il male: l’uomo può raggiun- zione della filosofia viene ridimensionata e appare
gere la salvezza eterna soltanto per grazia di Dio, come un ostacolo a fronte dell’iniziativa divina.
indipendentemente da ogni iniziativa propria. La valorizzazione della grazia di Dio in relazione
Che cosa sostiene sul problema della predestina- alla salvezza, rispetto a ogni possibile sforzo uma-
zione? In relazione al problema della predestina- no, porta Agostino a polemizzare contro i donatisti
zione – ossia la scelta divina di coloro che sono de- e i pelagiani, i quali assegnavano una centralità
stinati alla salvezza, gli “eletti”, e coloro che invece all’uomo e alle sue capacità.

7 La città di Dio e la città dell ’uomo


Perché Agostino scrive La città di Dio? Lo stimolo dicano due possibili atteggiamenti interiori; soltan-
viene dal saccheggio di Roma, nel 410, da parte dei to alla fine dei tempi saranno separate e andranno
visigoti: molti esponenti del mondo romano accu- a costituire le due schiere dei beati e dei dannati.
sano i cristiani di aver indebolito i valori tradizio- Qual è la concezione agostiniana della storia? La
nali. Agostino risponde con il suo libro, elaborando storia viene compresa alla luce di una visione teolo-
una visione complessiva della storia. gica, che implica una concezione lineare del tempo
Perché Agostino arriva a distinguere l’umanità in storico. Mentre il mondo greco vedeva la storia in
due città? Il vescovo di Ippona vede nella storia lo modo ciclico, come un ripetersi circolare degli even-
scontro fra due città, cioè tra due possibili scelte ti, Agostino interpreta la storia come un percorso
di vita: la città di Dio rappresenta coloro che ama- lineare, scandito da alcuni eventi fondamentali
no Dio fino al disprezzo di sé; la città degli uomini (creazione, incarnazione di Cristo, giudizio finale),
rappresenta coloro che scelgono sé, fino al disprez- in cui si realizza il piano provvidenziale divino.
zo di Dio. Le due città sono mescolate e non hanno Gli eventi per lui non si ripetono, e la fine del mondo
connotazioni geografiche, storiche o politiche: in- coincide anche con la sua piena realizzazione.
182 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

capitolo 15 igura
MAPPE CONCETTUALI Agostino: l ’ inquietudine della ricerca,
la certezza della scoperta
ESISTENZA
E RIFLESSIONE
LE CONFESSIONI

hanno il valore di hanno come temi

la concezione
lode a Dio e ammissione delle relazioni e incontri
la conversione testimoniale della
professione di fede proprie colpe importanti
verità

il racconto e la scrittura sono esigenze dell’uomo che vuole


“attuare la verità” dinanzi a molti testimoni

IL TEMA DELLA VERITÀ E


LA SCOPERTA DI DIO NELL ’ ANIMA
LA RICERCA DELLA VERITÀ IL SUPERAMENTO DELLO SCETTICISMO

comporta avviene attraverso

l’allontanamento dal mondo esterno, la riflessione su


che distrae l’uomo da sé stesso verosimiglianza, l’argomento
non contraddizione del dubbio
e disgiunzione

se dubito esisto se dubito ho in me


(si fallor, sum) l’idea di verità

dunque

scoperta di Dio, che è verità e luce, esiste una verità interiore


nella propria anima (i criteri di giudizio assoluti, le idee)

la quale

tematizzazione deriva da Dio, luce intelligibile


trascendenza che illumina la mente
dell’interiorità
immanente di Dio
psicologica

teoria dell’illuminazione
o del maestro interiore
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 183

LA CREAZIONE
E IL TEMPO
DIO

crea il mondo dal nulla crea il tempo

che

dipendenza delle creature è distensione dell’animo


dal creatore
(differenza ontologica)

memoria attenzione attesa


del passato per il presente del futuro

IL MALE
IL MALE

mancanza di un bene relativo alla decisione della volontà che


privazione di essere e di bene
natura delle cose sceglie un bene inferiore

male metafisico male fisico male morale o peccato

LA STORIA E
LE DUE CITTÀ
LA STORIA

è caratterizzata è scandita da
dal conflitto tra

eventi significativi
la città di Dio la città degli uomini (creazione, incarnazione
di Cristo, giudizio finale)

secondo

composta da coloro
composta da coloro
che amano il proprio una concezione lineare
che amano Dio fino al
benessere fino al del tempo
disprezzo di sé stessi
disprezzo di Dio
184 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

capitolo 15 igura
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Agostino: l ’ inquietudine
della ricerca, la certezza
RIPASSO
della scoperta

1 La vita e le opere 2 Esistenza e riflessione:


riconoscere le nozioni le Confessioni
1. Riporta i seguenti passaggi della vita di Agostino riconoscere le nozioni e il significato
nella sequenza corretta: delle parole
lettura dell’Ortensio di Cicerone • conversione al
6. La scelta del titolo Confessioni da parte di
cristianesimo • incontro con Ambrogio
• ordinazione sacerdotale • studi di retorica • lettura Agostino indica la volontà di:
dei testi neoplatonici • fase scettica (segna la risposta esatta)
• adesione al manicheismo • polemica contro a narrare la propria vita per ammettere le proprie
i pelagiani colpe davanti a Dio
................................................................................. b raccontare la propria vita e il proprio tormento
................................................................................. interiore
c presentarsi come esempio di conversione, per
................................................................................. aiutare altri a compiere il medesimo percorso
d ammettere le proprie colpe e proclamare la fede
2. Qual è il ruolo dei testi neoplatonici
in Dio, che lo ha guidato alla salvezza
nel percorso intellettuale di Agostino?
(segna la risposta esatta) 7. La modernità delle Confessioni risiede:
a la lettura di questi testi convince Agostino (segna la risposta esatta)
dell’equivalenza tra filosofia e fede a nel fatto che l’introspezione rivela la complessità
b Agostino afferma che i neoplatonici l’hanno psicologica del soggetto
spinto allo scetticismo b nel mostrare concetti teologici fondamentali per
c Agostino individua una profonda similitudine tra chi vive l’esperienza della fede
neoplatonismo e cristianesimo c nell’indagare con auto-compiacimento le ragioni
d soltanto abbandonando il neoplatonismo profonde delle proprie scelte
Agostino può convertirsi al cristianesimo d nel mostrare che è possibile la conversione
religiosa con l’aiuto della filosofia
3. Possiamo dividere le opere di Agostino:
(segna la risposta esatta) esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
a in tre gruppi: le opere con un’impostazione
8. In che modo il percorso verso la conversione può
manichea, quelle neoplatoniche e quelle contro
essere compreso in termini neoplatonici?
la filosofia
b in due gruppi: quelle prima della conversione e 9. Qual è il rapporto tra verità e testimonianza nelle
quelle successive all’adesione al cristianesimo Confessioni?
c in due gruppi successivi alla conversione: quelle
con una chiara impronta neoplatonica e quelle scrivere e rielaborare (15-20 righe)
prettamente teologiche 10. Riassumi il significato complessivo dell’opera, a
d in tre gruppi: contro i manichei, contro gli eretici partire dal titolo: le Confessioni.
e quelle di impostazione biografica

esporre concetti e relazioni (max 5 righe)


4. Che cosa ricerca Agostino nella filosofia, dopo la
lettura dell’Ortensio di Cicerone?
5. Come cambia l’atteggiamento di Agostino nei
confronti della filosofia nelle opere degli ultimi
anni della sua vita?
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 185

3 La ricerca della verità e 4 La creazione e il tempo


la scoperta di Dio nell ’ anima riconoscere le nozioni e il significato
delle parole
riconoscere le nozioni e il significato 16. Attribuisci alla creazione (C), all’emanazione
delle parole
(E) o all’attività del demiurgo (D) le
11. Quale delle seguenti affermazioni esprime affermazioni seguenti:
correttamente il rapporto tra l’anima e Dio per
a. modella una materia preesistente ...........
Agostino?
b. fa nascere il mondo dal nulla ...........
a l’anima trova Dio principalmente nella bellezza
c. è un passaggio dal non essere all’essere ...........
del mondo creato
d. non comporta una distinzione netta
b la ricerca di Dio può essere condotta soltanto
del principio dai gradi derivati ...........
scavando nell’anima
c l’anima non può cogliere Dio, anche se deriva da e. richiede un atto libero di volontà
onnipotente ...........
lui, essendo prigioniera del corpo
f. è un processo necessario ...........
d la ricerca nell’anima permette di scoprire la nostra
forma essenziale, che rimanda a Dio g. il derivato è ontologicamente diverso
e separato dal principio ...........
12. Indica le affermazioni riferibili allo scettico (S) e
le corrispondenti affermazioni agostiniane (A) 17. Indica i termini agostiniani corrispondenti alle
a esse contrapposte: definizioni seguenti:
a. le proposizioni della logica sono dotate di certezza a. presenza del passato
nell’animo ......................................
b. dobbiamo dubitare di tutto
b. presenza del futuro
c. posso definire verosimile una proposizione
nell’animo ......................................
soltanto se ho il concetto di verità
c. presenza del presente
d. le conoscenze sono soltanto probabili o verosimili
nell’animo ......................................
e. non possiamo ottenere nessuna conoscenza certa
f. se dubito, esisto
18. Il tempo è «distensione dell’animo» nel senso che:
(segna la risposta esatta)
a il tempo è prima di tutto un fenomeno esterno
S ........... S ........... S ...........
che secondariamente si colloca nell’animo
A ........... A ........... A ........... b il tempo è percepito nell’animo attraverso le tre
dimensioni temporali
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) c i movimenti dei corpi misurano il tempo, che si
13. Qual è il ragionamento compendiato nella distende nell’animo dal futuro al passato
formula si fallor, sum? d il tempo è puramente soggettivo e relativo a ogni
animo, nessuna oggettività è possibile
14. Quali sono le analogie e le differenze tra
la teoria della conoscenza come illuminazione esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
di Agostino e la teoria della conoscenza come 19. Spiega la differenza ontologica fra il creatore
reminiscenza di Platone? e la creatura.
scrivere e rielaborare (15-20 righe) 20. Perché non ha senso chiedersi che cosa faceva
15. Illustra il ragionamento che conduce Agostino Dio prima della creazione del mondo?
dalla scoperta di una verità interiore
– supportata dall’argomento del dubbio –
scrivere e rielaborare (15-20 righe)
alla teoria dell’illuminazione. 21. Chiarisci in che modo la teoria della conoscenza
come illuminazione e il concetto di creazione
mostrano in maniera diversa la collaborazione
tra filosofia e fede.
186 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

5 L ’ origine del male 6 La teoria della grazia e


L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA

riconoscere le nozioni e il significato


delle parole
le controversie con donatisti
22. Inserisci nella tabella riportata a fondo pagina e pelagiani
le frasi seguenti: (attenzione: una è di troppo) riconoscere le nozioni e il significato
il male non è sostanza • vi è lotta tra il Dio del delle parole
bene e il Dio del male • è assurdo che il Dio del 28. Completa la mappa inserendo le frasi seguenti:
male possa insidiare quello del bene • l’anima è
contesa tra il principio del male e quello del bene • la salvezza dipende soltanto dalla grazia di Dio
Dio è unico, quindi è responsabile del male • il male • l’uomo può scegliere se salvarsi o meno
è assenza di essere • tutto ciò che esiste è bene • ha corrotto radicalmente gli esseri umani • ha
• responsabile del male è il principio corrispondente indebolito ma non annullato la libertà di scelta

23. Secondo Agostino, Dio può essere l’origine del IL PECCATO


male? (segna la risposta esatta) ORIGINALE
a no, perché tutto ciò che è dipende da Dio, che è
buono, quindi è bene
b no, perché tutto ciò che è bene dipende da Dio,
per Pelagio per Agostino
il male deriva da un altro principio ontologico
c sì, perché Dio è creatore e onnipotente, quindi se
il male c’è dipende da lui ............................................. .............................................
d sì, perché Dio ha voluto privare le creature della ............................................. .............................................
perfezione e della pienezza dell’essere
24. In che cosa consiste il male morale o peccato?
a nel volere un non essere ............................................. .............................................
b nel scegliere il principio ontologico del male ............................................. .............................................
c nel volere un essere intrinsecamente cattivo
d nel volere un bene minore rispetto a uno
29. A proposito della grazia divina, Agostino
maggiore
afferma che: (segna la risposta esatta)
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) a la grazia dipende dalla capacità degli uomini di
compiere il bene per guadagnare la salvezza
25. Che cos’è il male dal punto di vista metafisico?
b gli uomini sono incapaci di compiere il bene, per
26. Qual è il rapporto tra il male fisico e quello cui non otterranno la grazia divina e la salvezza
metafisico? c soltanto la grazia può condurre alla salvezza,
perché gli uomini sono incapaci di compiere
ad alta voce il bene con le proprie forze
27. Spiega in 5 minuti in che senso, per Agostino, d le azioni buone che gli uomini fanno spingono
l’uomo è responsabile del male. Dio a concedere la grazia

Tabella esercizio 22
IL PROBLEMA DEL MALE
manicheismo Agostino
............................................................................................................ ............................................................................................................
............................................................................................................ ............................................................................................................
............................................................................................................ ............................................................................................................
............................................................................................................ ............................................................................................................
............................................................................................................ ............................................................................................................
............................................................................................................ ............................................................................................................
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 187

esporre concetti e relazioni (max 5 righe) valori tradizionali

L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA


30. Perché Agostino combatte i donatisti? 35. Nel definire la città di Dio, Agostino considera:
31. In che cosa consiste l’eresia pelagiana e con (segna la risposta esatta)
quali argomenti Agostino ne contesta a l’amore per Dio contrapposto all’amore di sé
l’assunto? b la Chiesa contrapposta all’Impero
c due entità politico-religiose collocate in luoghi
scrivere e rielaborare (max 15-20 righe) diversi e in contrasto tra loro
32. Spiega come cambia la visione della natura d il mondo terreno presente contrapposto al regno
umana nelle opere mature di Agostino. dei cieli futuro
36. A proposito della visione della storia, Agostino
sostiene che: (segna la risposte esatta)
a tutto nella storia si ripete sempre identico,
7 La città di Dio e la città dell ’ uomo secondo la volontà immutabile di Dio
b nella storia si delinea un progetto che tende
riconoscere le nozioni e il significato
delle parole a uno scopo
c la storia è decadenza perché gli esseri umani
33. L’opera La città di Dio prende spunto: vivono nel peccato
(segna la risposta esatta)
d la storia nella città degli uomini è un succedersi
a dalla caduta dell’Impero romano nel 476
disordinato di eventi
b dall’assedio di Ippona da parte dei goti
c dal saccheggio di Roma da parte dei visigoti esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
nel 410 37. Qual è il rapporto tra le due città nella storia?
d da una feroce persecuzione dei Romani contro
i cristiani scrivere e rielaborare (15-20 righe)
34. Qual è la reazione degli intellettuali pagani 38. Spiega in che cosa consistono rispettivamente
di fronte all’evento che ha offerto lo spunto la concezione ciclica e quella lineare del tempo.
a La città di Dio?
a individuano nel cristianesimo il nuovo cemento
culturale per rilanciare l’impero
b provano angoscia per la fine di un’epoca e
accusano i cristiani di esserne responsabili
c invitano alla collaborazione con i nuovi vincitori,
per rilanciare la potenza romana
d imputano ai popoli barbari la decadenza dei

verso le competenze
CONFRONTARE E ARGOMENTARE
• Leggi il primo capitolo dell’Ecclesiaste o Qoelet – che Agostino conosceva molto bene –, in cui si
afferma la vanità di tutte le cose. Spiega in che modo Agostino, nei vari aspetti della sua riflessione
(conoscenza, ruolo dell’interiorità, tempo, importanza della filosofia, rapporto bene/male, storia),
per un verso condivida le affermazioni contenute nel libro biblico, mentre per un altro vada oltre.
188

sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

Concetto
L’ interiorità
Nella filosofia classica il concetto di interiorità non era certo sconosciuto: si pensi all’invito
di Socrate a conoscere sé stessi, o al dáimon, quella voce interiore che lo trattiene dal
compiere il male. Anche la tradizione stoica contrappone il mondo materiale esterno alla
virtù e alla saggezza interiore, e insegna pertanto il distacco e l’apatia verso le cose terrene,
che – come dice Marco Aurelio – «non toccano né modificano l’anima» (Ricordi, V, 19).
Ancora, il neoplatonismo concepisce il ritorno all’Uno come ascesi e purificazione
dell’anima, che nel rientrare in sé stessa ritrova il mondo intelligibile e l’Uno. Nelle sue
varie declinazioni, dunque, nel mondo antico il tema dell’interiorità è sempre legato
a una concezione spirituale dell’anima (intesa come sostanza intellettuale e non come
forma del corpo), cui si unisce il tema della coscienza di sé.
Con il cristianesimo l’espressione si arricchisce, arrivando a indicare, in Agostino,
la dimensione spirituale in cui si realizzano l’incontro e il dialogo con Dio.

il significato Il termine interiorità (dal latino interior, comparativo formato sulla preposizione in,
“dentro”) indica “ciò che risiede nella parte più interna”, con particolare riferimento
del termine all’ambito dei sentimenti, dei pensieri e della coscienza umana, contrapposto all’esterio-
rità delle cose del mondo. Usato fin dall’antichità per riferirsi all’anima e ai valori intellet-
tuali, assume particolare importanza con il cristianesimo. In tale contesto l’interiorità
viene concepita in termini di:
- dimensione morale e spirituale dell’uomo accessibile soltanto a Dio;
- sfera intima in cui cercare e trovare la verità.

L’INTERIORITÀ CRISTIANA
COME DIMENSIONE MORALE corpo/anima, ma al tempo stesso la vita morale e
E SPIRITUALE spirituale dell’uomo ha sede in un’interiorità acces-
Nonostante la fascinazione per un certo platonismo sibile soltanto a Dio.
che esalta il principio spirituale, nel cristianesimo la
visione dell’interiorità si fa più complessa: rimane la AGOSTINO: L’INTERIORITÀ
contrapposizione alle passioni terrene e al mondo COME LUOGO IN CUI ABITA
esteriore e corporeo, ma non si giunge mai ad affer- LA VERITÀ
mare che la realtà sensibile sia un mondo di ombre e È Agostino che conferisce all’interiorità uno spessore
di copie, come in Platone, o mera parvenza e non es- inedito, rendendola chiave di volta di tutta la sua ri-
sere, come nel neoplatonismo. Per il cristianesimo la flessione. Le Confessioni sono un itinerario dentro
natura è concepita come creazione, quindi come l’anima dell’autore, un percorso che egli può compie-
prodotto della bontà di Dio; inoltre lo stesso corpo re soltanto di fronte a Dio, in ragione della sacralità e
viene riscattato grazie all’incarnazione del Figlio di dell’insondabilità della mente umana. L’interiorità è
Dio e alla promessa della «resurrezione della carne». dunque il luogo privilegiato per trovare Dio e, in-
Se cambia la valutazione della dimensione corporea sieme a Dio, il senso della propria esistenza. Si tratta
ed esteriore, anche la visione dell’anima, cioè del di una ricerca che non si compie mai in modo defini-
principio interiore e spirituale dell’uomo, si modifi- tivo e che continua ad alimentarsi nel desiderio di
ca e si fa più elaborata: c’è il rifiuto di un dualismo una sempre maggiore profondità e verità.
189

Soltanto Dio conosce il cuore dell’uomo, come scritto identità con il principio primo, ma dischiude una di-
già nella Bibbia; per Agostino però questa affermazio- mensione sempre più profonda e irraggiungibile.
ne assume una coloritura diversa: non è tanto l’invito Dal punto di vista psicologico, grazie al racconto au-
a non giudicare gli altri, quanto l’impossibilità di co- tobiografico di Agostino si scopre – per la prima vol-
noscere veramente sé stessi. «Tu eri in me, ma io non ta nel pensiero occidentale – che l’io sfugge alla
ero in me» (Confessioni, X, 27, 38): è l’io che sfugge propria conoscenza, che l’interiorità si apre su di-
alla propria coscienza, che è fuori da sé, perché si allon- mensioni segrete e perlopiù ignote al soggetto. In
tana dalla presenza interiore di Dio. L’io si lascia esplorare una parola: non tutta la sfera interiore dell’uomo è
unicamente al cospetto di Dio. Da qui l’esortazione a riconducibile a coscienza.
non disperdersi nel mondo esterno, a non lasciarsi di- 3. La memoria Per indagare il mistero e la
strarre dalle creature, ma a ritornare in sé, perché vastità della dimensione interiore, Agostino si de-
«nell’uomo interiore abita la verità» (La vera religione, dica a un’accurata analisi delle facoltà dell’anima
39, 72). Da questo movimento di introversione si (sensi, memoria, intelletto, volontà): anche la perce-
ricavano almeno tre elementi che attraversano tutta la zione sensibile si muove dall’interno verso l’esterno e
riflessione di Agostino sull’interiorità: 1. la non divinità non viceversa, e ha quindi origine nell’interiorità;
dell’anima; 2. la non identità di interiorità e coscienza; inoltre la presenza di Dio nell’anima è reinterpretata
3. l’insondabilità della memoria. come immagine divina della Trinità, che si riflette nel-
1. Dio e l’anima L’invito a rientrare in sé stes- le tre facoltà superiori (memoria, intelligenza, volon-
si, distogliendo lo sguardo dalle realtà esteriori, rie- tà). Ma è soprattutto la meditazione sulla memoria
cheggia molto da vicino l’esortazione analoga di Plo- che evidenzia la novità della concezione di Agostino:
tino ad abbandonare la visione degli occhi per cercare con fine indagine psicologica egli cerca di esaminare
la bellezza inestimabile nella propria interiorità (Ennea- tutto ciò che vi è raccolto, distinguendo le immagini
di, I, 6, 8). L’esito del percorso è tuttavia molto diver- provenienti dalla percezione sensibile, i ricordi di
so nei due autori: per Plotino l’anima appartiene per esperienze vissute e i pensieri, e cercando di com-
natura al mondo intelligibile e, distogliendo lo sguar- prendere il meccanismo con cui tutto ciò viene evoca-
do dal mondo materiale, ritrova sé stessa diventando to, torna alla mente. La memoria è paragonata a spa-
ciò che è, una luce vera e divina. Diversamente dal zi e campi immensi, a un enorme palazzo, a uno
neoplatonismo, per Agostino l’anima non è divina: scrigno prezioso; lo sforzo di indagare ciò che vi è
Dio è immanente e insieme trascendente rispetto contenuto e il modo con cui dimentichiamo o ricor-
all’anima, è più intimo dell’interiorità umana, ma diamo le cose al di là della nostra volontà portano
anche incommensurabilmente superiore. È vero che Agostino a esclamare disorientato: «Grande è questa
la verità abita nell’interiorità, ma la natura umana è potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un
mutevole e per accedere alla verità l’uomo deve tra- santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo?
scendere sé stesso. E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla
2. L’interiorità al di là della coscienza mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tut-
Al di là del momento teologico che impone la diffe- to ciò che sono» (Confessioni, X, 8, 15). L’interiorità
renza tra uomo e Dio, questa concezione ha una ri- amplia le proprie potenzialità, sprofonda verso luo-
caduta filosofica: l’io non riesce a essere veramente ghi inattingibili, mostra la sua incommensurabile
trasparente a sé stesso, a riconoscere fino in fondo la vastità, in un modo che nessuna indagine psicologi-
sua più intima interiorità. Viene alla luce una dinami- ca elaborata fino ad allora era riuscita a immaginare.
ca più complessa di quella neoplatonica, che con- In questa dimensione inafferabile, che si estende ver-
trapponeva il mondo esteriore a quello interiore: il so l’infinito, si infrangono tutte le metafore spaziali
movimento di introspezione, che porta l’uomo a disto- che possano descrivere l’interiorità: la memoria è un
gliere lo sguardo dalla molteplicità delle realtà sensibili, luogo privo di determinazioni; nelle parole di Agosti-
non mira al raggiungimento della propria unità e no è interior locus non locus (Confessioni, X, 9, 16).
190 LABORATORIO delle competenze
sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA

PRIMA PROVA TIPOLOGIA B


Analisi e produzione di un testo argomentativo
Ambito filosofico
Dialogo intorno al pensiero di Agostino
Carlo Maria Martini (1927-2012) è stato un teologo, cardinale e arcivescovo cattolico; Massimo Cac-
ciari (n. 1944) è un filosofo, docente universitario e politico. In questo dialogo, pubblicato nel sito
della rivista “Micromega” il 3 settembre 2012, discutono di alcuni aspetti del pensiero di Agostino.

Carlo Maria Martini: Io ho colto soprattutto due aspetti dell’insegnamento agostiniano, che
considero particolarmente consoni con il cammino che propongo alla Diocesi. Primo, Agosti-
no come scopritore dell’interiorità. Per Agostino la storia si gioca nel cuore dell’uomo. È qui,
nel profondo dell’animo nostro, che avvengono le grandi scelte che determinano la storia. Mi
5 ha sempre colpito il riferimento al «Maestro interiore» presente in ciascuno di noi. È lui che
bisogna ascoltare quando si tratta di scegliere. Secondo, la Chiesa come corpo di Cristo. Ago-
stino era insieme capace di interiorizzare i suoi stati d’animo e di cogliere il collettivo nella
storia, cioè l’essere insieme in un corpo organico. Egli aveva la stessa sensibilità per gli stati
psicologici più minuti, più delicati, e per le vicende di un corpo sociale. Con questo voglio dire
10 che la ricerca dell’interiorità, quella del De magistro, non era un solipsismo, un chiudersi in sé
stessi, ma un rendersi sensibile ai grandi processi storici.

Massimo Cacciari: Credo che Lei, Eminenza, abbia toccato davvero due aspetti essenziali
dell’attualità di Agostino. Provo ad affrontarli forse in altro modo ma in grande assonanza con
quanto Lei ha detto. Anzitutto, il tema dell’interiorità. Penso sia di grande importanza per in-
15 tendere tutta la civiltà europea e cristiana, perché in esso si rovescia completamente la prospet-
tiva classica dell’idea di verità. Se la verità abita nell’abisso dell’interiorità, la verità si fa imma-
nente all’interiorità dell’uomo. Attenzione, di questo uomo, proprio di questo uomo in dubbio.
La verità è immanente allo stesso essere in dubbio, allo stesso essere inquieto dell’uomo. Non
è un oggetto che sta lì, di fronte a me, e che posso o non posso conquistare attraverso un pro-
20 cesso di tipo eminentemente gnoseologico1. Per Agostino questo significa che la verità «si
muove» con la ricerca che ne facciamo dentro di noi, concresce con il nostro dubbio, la nostra
angoscia, la nostra ansia. Dunque non c’è via di accesso alla verità se non attraverso l’indagine
di quell’abisso che è l’interiorità dell’uomo. Davvero un rovesciamento dell’atteggiamento
classico verso la verità. Un rovesciamento fondamentale per la filosofia moderna e contempo-
25 ranea. Il secondo aspetto da Lei sottolineato è quello della città, che fa tutt’uno con il tema
dell’interiorità. Perché come la verità è immanente all’esserci e quindi all’inquietudine che se-
gna questo esserci, così la città per Agostino è in itinere, è una societas peregrina, una sorta di
rappresentazione esterna di questa inquietudine interiore caratterizzata anch’essa dall’essere
itinerante. Neppure la verità di questa città è esterna ad essa, ma concresce nella realtà: la civitas
30 Dei è costantemente immanente alla civitas hominis esattamente come la verità è costantemente

1. Gnoseologico: che riguarda la conoscenza (dal greco gnòsis, “conoscenza”).


191

immanente all’interiorità. Queste sono dimensioni del pensiero agostiniano assolutamente


decisive per tutta la civiltà europea. Agostino definisce la persona europea (cristiana) come
quella persona nella cui interiorità abita la verità e caratterizza la politica nel senso più alto
come irriducibile a unità: la città europea è una città itinerante, pellegrina, ed è una civitas
35 perplexa (complessa diremmo noi adesso) perché irriducibilmente su di essa grava la riserva
escatologica2 della città di Dio. Ma la civitas Dei non è astrattamente estranea alla civitas
hominis, concresce con essa in antagonismo. La nostra città – la nostra anima – è un dramma:
questo è il pensiero delle Confessioni e della Civitas Dei. È questo pensiero che fonda l’Europa.

Carlo Maria Martini: Io mi collego a quanto Lei diceva all’inizio riguardo a questa interiorità
40 in cui anche nel dubbio, anche nello scetticismo si fa strada la verità, quindi qualche cosa che
la persona sperimenta attraverso il suo dramma. In questo percorso mi colpisce soprattutto
l’aspetto dell’inquietudine. Tutti conoscono di Agostino almeno le quattro o cinque parole
dell’inizio delle Confessioni: «Il nostro cuore è inquieto finché non si riposa in te». Parole che
nella loro semplicità esprimono una costante dell’essere umano, e anche della nostra cultura,
45 della nostra esperienza. È in particolare l’esperienza di tanti giovani inquieti perché in tensio-
ne verso qualcosa d’altro. Mi dà molto conforto cogliere che questa tensione, questa inquietu-
dine non è un male, ma è qualcosa che forgia la persona e la mette a contatto con la verità.
(C. M. Martini - M. Cacciari, Dialogo su Agostino, postato nel sito http://temi.repubblica.it/micromega-
online/carlo-maria-martini-massimo-cacciari-dialogo-su-agostino/ il 3 settembre 2012)

2. Escatologica: che riguarda la salvezza (dal greco éskhatos, “ultimo”, inteso come destino finale).

COMPRENSIONE E INTERPRETAZIONE
1. Qual è la tesi di fondo sulla quale concordano i due interlocutori? Sottolinea nel testo una o più
frasi che la espongono esplicitamente.
2. Quali sono i due argomenti di Martini a sostegno di questa tesi?
3. Come risponde Cacciari a Martini? Si mostra in accordo o in disaccordo con il cardinale?
4. I due interlocutori di questo dialogo provengono da due prospettive di pensiero differenti, quella
religiosa e quella filosofica. Tra le parole di Cacciari, individua almeno tre espressioni specifiche del
lessico filosofico.
5. Dopo l’intervento di Cacciari, Martini riprende uno degli argomenti della discussione e ne appro-
fondisce un aspetto in particolare. Qual è e perché, secondo il cardinale, interessa da vicino i giova-
ni del nostro tempo?

COMMENTO ARGOMENTATIVO
Rileggi le righe 41-47 (da «In questo percorso» a «verità»). A partire da questo pensiero del cardi-
nale Martini, tratto dal dialogo che hai analizzato, e dalla tua esperienza personale, scrivi un testo
argomentativo che non superi le tre colonne di metà di foglio protocollo (circa 2500 caratteri al
computer) sull’«inquietudine» e la «tensione verso qualcosa d’altro» dei giovani. Secondo te, verso
che cosa si indirizza questa tensione? Pensi anche tu che tale inquietudine non sia un male e che
aiuti a forgiare le persone oppure la ritieni negativa? Perché? Che cos’è la «verità» a cui fa riferi-
mento Martini e che cos’è per te la verità?
sezione 5

L’ETÀ
MEDIEVALE

Geograia
Un mondo plurale
il QUADRO Che cos’ è il Medioevo?
STORICO Èla assai arduo definire il Medioevo, un periodo che si fa convenzionalmente iniziare con
caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.) e che si conclude con la scoperta
dell’America (1492), estendendosi dunque per più di un millennio.
Più facile risulta dire che cosa il Medioevo non è: non è un’età di mezzo, di transi-
zione tra antichità ed epoca moderna, come il termine suggerisce, e questo anche sol-
tanto per la sua enorme estensione temporale. Non è un periodo buio, ma presenta
luci e ombre come tutte le epoche, né è un lungo sonno della ragione, dominato da una
fede intollerante e superstiziosa. Ma soprattutto non è un momento unitario e uniforme:
in un mondo concepito e percepito come comune, dove la maggior parte dei traffici
coinvolgono il bacino del Mediterraneo, diverse civiltà si incontrano, si confrontano, si
scontrano. Le principali sono quella bizantina, quella araba e quella latina, con molte
differenziazioni al loro interno: ognuna di esse ha livelli diversi di evoluzione e di svi-
luppo, e i momenti di decadenza dell’una non sono gli stessi per le altre.
Ad esempio, vale soltanto per l’Occidente latino la distinzione tra alto e basso Me-
dioevo (il primo dura fino al X secolo, il secondo dall’XI al XV), che impiega come discri-
mine la rinascita economica e la fioritura delle città dopo l’anno Mille, la quale però nei
regni arabi avviene ben prima; al contrario, la nascita e lo sviluppo delle università in
Europa (nel XII e soprattutto nel XIII secolo) sono fenomeni che non hanno uguali nel-
le altre civiltà.
Le trasformazioni politiche del mondo medievale
Le vicende politiche sono profondamente diverse nelle differenti regioni geografiche.
La dissoluzione dell’Impero romano in Occidente apre uno scenario desolante:
invasioni, guerre, carestie, razzie costringono la popolazione a spostarsi nelle campa-
gne; molti terreni sono lasciati incolti, le strade abbandonate, i commerci ridotti al
minimo. Le nuove istituzioni politiche – i cosiddetti regni romano-germanici – si mo-
strano fragili. Soltanto con la formazione di entità politiche che a poco a poco si conso-
lidano come Stati nazionali si ritroverà in Occidente una relativa stabilità favorevole
allo sviluppo.
Il mondo bizantino riesce a resistere meglio alle incursioni dei “barbari”, ma, pri-
ma la Persia, e dall’VIII secolo gli arabi tengono sotto scacco l’Impero d’Oriente. Dopo
un periodo di splendore tra il X e l’XI secolo, l’azione congiunta della pressione araba e
dell’ostilità latina (ad esempio con la quarta crociata, che nel 1204 culmina nel saccheg-
gio e nella conquista di Costantinopoli) provoca un inarrestabile declino e la progressi-
va perdita di territori. Quando i turchi ottomani conquistano Costantinopoli nel 1453,
del glorioso Impero bizantino non rimangono di fatto che la città, il suo entroterra e
parte della Tessaglia e del Peloponneso.
Nei secoli VII-VIII, nella penisola araba la predicazione e la diffusione dell’islam si
trasformano in un movimento di espansione e di conquista, che si volge verso est (sot-
tomettendo tutto il Medio Oriente e spingendosi fino alle regioni dell’India settentrio-
nale) e verso ovest (lungo l’Africa settentrionale fino a tutta la penisola iberica). Le
lotte dinastiche interne e l’enorme espansione, che rende difficile l’azione di controllo
e di gestione dei territori, incrinano l’unità politica del mondo arabo, e le spinte nazio-
naliste portano presto alla costituzione di regni indipendenti, che tuttavia favoriscono
lo sviluppo economico e la promozione delle attività culturali.
194 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

l ’INTRECCIO Lingue e libri


CULTURALE La pluralità del Medioevo è data anzitutto dalle lingue in cui si esprime. I testi della
cultura scientifica e filosofica dell’antichità sono scritti in greco, che nel periodo elleni-
stico diventa la koiné, la lingua franca parlata dagli intellettuali. Con la divisione dell’Im-
pero romano, a Occidente la situazione di declino e decadenza porta a perdere non
soltanto l’uso del greco, ma anche l’accesso alle fonti del sapere, tranne i pochi testi
che erano stati tradotti in latino. Contemporaneamente, nel suo movimento espansio-
nistico l’islam conquista città ricche di cultura, si impadronisce di intere biblioteche
e mette in atto un immenso sforzo di traduzione in arabo dei volumi di cui viene in
possesso, servendosi anche di traduttori cristiani ed ebrei. Nei territori islamici ciò por-
ta a una profonda acquisizione del sapere antico e a uno sviluppo delle scienze scono-
sciuto nelle altre aree geografiche. Sarà grazie alla trasmissione degli arabi che i latini
a partire dal XII secolo riscopriranno gran parte del patrimonio filosofico dell’anti-
chità, soprattutto nella penisola iberica, per lo stretto contatto con i cristiani impegnati
nella reconquista, la liberazione dei territori sotto il dominio islamico.

Le istituzioni scolastiche
La storia della filosofia, e in generale dei progressi scientifici, è storia delle persone, ma
anche di scuole, biblioteche, centri del sapere, università. Il sapere si può trasmettere
soltanto se vi sono luoghi a esso deputati, che garantiscano la continuità al di là delle

I LUOGHI DELLA FILOSOFIA E DELLA STORIA


Geograia Un mondo plurale 195

vicende individuali e l’autonomia dell’insegnamento dai poteri politici. Questo è tanto


più vero per il periodo medievale: mentre l’imperatore bizantino rafforza la sua auto-
rità ponendosi e imponendosi come garante dell’ortodossia (e perciò chiude le scuole
filosofiche e persegue le eresie teologiche), nei regni islamici i sovrani promuovono
la cultura, costruiscono biblioteche e centri di ricerca intorno alle loro corti, e nel
mondo latino vi è un’evoluzione dei luoghi della cultura dalle scuole monastiche e
cattedrali (X-XI secolo) fino all’università (XII-XIII secolo).

Filosofia e teologia
Nella filosofia medievale il rapporto della ragione con la fede è un tema centrale:
tutti i filosofi appartengono a uno dei tre monoteismi (ebraismo, cristianesimo e islam)
e devono conciliare la loro identità religiosa con la verità che indagano filosoficamente.
I primi a cercare di definire questo rapporto sono gli arabi, che si chiedono quanto la
filosofia, che è una scienza ereditata dai greci (cioè da infedeli), possa favorire oppure
ostacolare una retta fede. Analogamente nel pensiero latino, soprattutto dopo la risco-
perta delle opere di Aristotele nel XII secolo grazie al contatto con la cultura araba che
ne aveva realizzato traduzioni e commenti, si esprime l’esigenza di accordare la razio-
nalità filosofica con la fede: la teologia diventa una vera e propria scienza, si cerca di
dimostrare l’esistenza di Dio in modo razionale, si persegue la possibilità che la ragione
contribuisca a rafforzare la fede, più che metterla in pericolo.
196 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

gli La riflessione medievale si esprime attraverso le voci di pensatori che appartengono a


mondi culturali anche molto diversi, ma che nella filosofia si affrontano, si scontra-
SCENARI no e dibattono, intessendo una trama di ricerca comune.
FILOSOFICI Occidente: Aquisgrana / Oriente: Baghdad, IX-X secolo Nel Medioevo risulta partico-
larmente significativa l’attività di conservazione, traduzione e trasmissione del sa-
pere, che avviene in modalità e forme differenti in Occidente e in Oriente, e condiziona
l’elaborazione della filosofia nelle due aree anche in relazione alle istituzioni culturali
che si sviluppano. In Occidente, nel IX secolo, una delle figure più brillanti della corte
carolingia è Scoto Eriugena, che mira a fondere neoplatonismo e cristianesimo; men-
tre in Oriente, nella Casa della Sapienza di Baghdad, al-Kindi e al-Farabi interpretano
la filosofia antica come un tutto unitario, conciliando autori come Platone e Aristotele.
❯ CAPITOLO 16 Il Medioevo e la filosofia ❯ CAPITOLO 17 Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e
al-Farabi

Oriente: Uzbekistan-Iran / Occidente: Aosta e Canterbury, XI secolo Avicenna, conside-


rato il più grande filosofo dell’islam orientale, partendo dall’opera aristotelica propone
una visione originale della metafisica e della teoria della conoscenza. In Occidente
si distingue Anselmo d’Aosta, il quale applica al discorso su Dio le strategie logico-
razionali della filosofia, elaborando alcune importanti prove dell’esistenza di Dio.
❯ CAPITOLO 18 Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta

Francia cristiana e Spagna araba, XII secolo Nell’Occidente, che comincia a dare se-
gnali di ripresa, Abelardo appare come una figura esemplare nel promuovere il ruolo
della razionalità filosofica. Nella sua opera trova impulso soprattutto la dialettica, che
diventa lo strumento della discussione e della ricerca della verità anche in ambito teo-
logico. Nell’islam occidentale opera Averroè, il quale si dedica al commento dei testi
aristotelici e sviluppa un’originale concezione epistemologica volta a stabilire le con-
dizioni della validità universale della conoscenza. ❯ CAPITOLO 19 Il primato della ragione filosofica
nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide

la 800 866 1033


FILOSOFIA nasce muore al-Kindi nasce
al-Kindi 880 950 Anselmo
nasce al-Farabi muore 1079
al-Farabi nasce
Abelardo
810 870
nasce Scoto muore 980 1037
Eriugena Scoto Eriugena nasce muore
Avicenna Avicenna

700 900 1100


710 800 1054
gli arabi invadono incoronazione di Carlo Magno scisma d’Oriente:
la Spagna; separazione delle Chiese di
prosegue la loro Occidente e di Oriente
la straordinaria 832
istituzione della Casa della Sapienza
STORIA espansione
come centro di studi a Baghdad
Geograia Un mondo plurale 197

Italia, Francia, XIII secolo In un’epoca in cui le università sono ormai diventate le
istituzioni fondamentali per l’elaborazione e la trasmissione della cultura, Tommaso
d’Aquino sviluppa un pensiero che diventerà punto di riferimento dottrinale per la
Chiesa. Egli riesce infatti a conciliare le esigenze della fede e della ragione in un siste-
ma filosofico unitario e coerente, integrando la concezione aristotelica nella visione
religiosa dell’universo. ❯ CAPITOLO 20 Il XIII secolo: la ripresa culturale dell’Occidente latino ❯ CAPITOLO 21
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano

Inghilterra, XIV secolo Il Trecento si profila come un’epoca di stagnazione e di crisi. In tale
contesto emergono figure di pensatori quali Duns Scoto e Guglielmo di Ockham. Con
essi da un lato si diffonde la sfiducia nella possibilità di applicare la ragione al divino, dall’al-
tro – grazie in particolare alla ricerca di Ockham – si affinano e si sviluppano le procedure
della logica, che rivela un’importante capacità critica nei confronti del sapere, arrivando a
destituire di senso le astrazioni metafisiche. ❯ CAPITOLO 22 Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni

CONCETTO Nel Medioevo la logica si identifica con la dialettica, la quale diventa poco per volta
sinonimo di filosofia. Nata come arte della discussione e dell’argomentazione, la dia-
lettica si precisa quale disciplina specifica, posta al vertice delle arti del trivio, e viene
considerata come lo strumento logico fondamentale per progredire nella ricerca del-
la verità, indispensabile anche alla teologia. ❯ CONCETTO La dialettica

TEMA Una delle questioni affrontate nell’ambito del pensiero cristiano fin da Agostino, e ri-
prese ad esempio da Anselmo e Tommaso, è quella del libero arbitrio: l’obiettivo di
questi pensatori è di dimostrare razionalmente che, nonostante il peccato originale e
la prescienza divina, all’uomo resta la capacità di compiere scelte autonome, e che tali
scelte sono libere e volontarie.
Nell’epoca attuale il dibattito sul libero arbitrio ha coinvolto anche le neuroscienze,
che studiano i vari aspetti del sistema nervoso e cercano di capire se le nostre azioni sia-
no spontanee o se dipendano, invece, da reazioni fisico-chimiche all’ambiente esterno.
❯ TEMA Siamo liberi o ci illudiamo di esserlo?

1266 1308
1109 nasce muore
muore Duns Scoto Duns Scoto
Anselmo
1142 1225 1274
muore nasce muore
Abelardo Tommaso Tommaso

1126 1198 1290 1348


nasce muore nasce muore
Averroè Averroè Guglielmo Guglielmo
di Ockham di Ockham
1100 1300 1500
1097-1099 1270 1348
prima crociata 1212 ottava e grande peste
battaglia di Las ultima 1492
Navas de Tolosa; crociata riconquista di Granada,
vittoria cristiana ultimo baluardo arabo
nella reconquista in Europa
198 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 16 Il Medioevo e la filosofia



Impara ogni cosa. Vedrai in seguito che nulla è superfluo.
(Ugo di San Vittore, Didascalicon, VI, 3)

1 Secoli bui o conoscenza oscura?


Nel linguaggio corrente, “medievale” è sinonimo di antiquato, oscurantista, arretrato: si
parla talora di “ritorno al Medioevo” per evocare un clima di sospetto superstizioso, da
“caccia alle streghe”, e stigmatizzare fanatismo e intolleranza, che bloccano il naturale
progresso della ragione. Nell’immaginario comune è presente l’idea di un periodo di
secoli bui per la civiltà e pertanto poco rilevante anche dal punto di vista filosofico. Le
prospettive fornite dagli storici e dai loro studi, tuttavia, offrono un quadro più di-
namico, che non concorda con questa visione: ad esempio, non si può negare che nel
Medioevo si siano verificati gravi fenomeni di intolleranza e persecuzione (il pensiero
corre immediatamente alle crociate e allo sterminio dei catari), ma i tribunali dell’Inqui-
sizione e le condanne al rogo per eresia e per stregoneria si diffondono soprattutto a
partire dal XV secolo, e dunque sono tipicamente moderni. L’epoca moderna, spesso
chiamata “età della ragione” e culminante nell’Illuminismo del Settecento, è il periodo
in cui si assiste anche alle più sanguinose guerre di religione e in cui milioni di persone
sono torturate e condannate a morte per reati d’opinione o semplicemente perché per-
cepite come “diverse”.

Le condizioni della vita materiale


Dal punto di vista delle condizioni materiali non sarebbe certamente desiderabile tornare
al Medioevo, ma vale lo stesso per quelle intellettuali? Nessuno di noi si farebbe curare
da un medico medievale né accetterebbe abitudini, alimentazione, ruoli sociali dell’epoca
(se per questo, troveremmo assai scomoda anche la vita del Settecento e perfino quella di
un secolo fa); ma si può estendere un giudizio negativo sulle condizioni socio-economiche
alla dimensione culturale?
Il Medioevo e la filosofia capitolo 16 199

Peraltro, anche dal punto di vista materiale va rilevato che alcune importanti scoperte,
che hanno trasformato la nostra civiltà e influenzato il nostro modo di vivere, risalgono
proprio al Medioevo. Basta osservare gli oggetti presenti in una classe scolastica per sti-
larne un elenco notevole: gli occhiali, l’orologio, la carta, la forma dei libri e i manuali, la
stampa e perfino il modo di fare “lezione”. Il catalogo si allunga se consideriamo altri
ambiti: lo sfruttamento di diverse forme di energia (idrica ed eolica tramite i mulini); gli
strumenti per la navigazione (la bussola, l’astrolabio); l’economia (le banche, le lettere di
credito) e la vita quotidiana (l’uso dei vetri alle finestre, la forchetta, gli scacchi). Questo
elenco fa emergere un’immagine più vivace e variegata della civiltà medievale, ri-
spetto a cui gli stereotipi contemporanei si rivelano ingiusti.

La produzione intellettuale
Per quanto riguarda la produzione intellettuale e filosofica, il Medioevo è stato spesso
accusato di oscurantismo per la centralità della visione religiosa della vita, dalla quale
dipenderebbe il fatto che la filosofia medievale risulti asservita alla fede, quasi un mero
strumento utile soltanto a rafforzare convinzioni religiose che non derivano da un’inda-
gine razionale.
In questo modo però si perdono di vista le elaborazioni propriamente filosofiche: di-
versamente dalla patristica, nel Medioevo la filosofia si guadagna un ruolo di primo
piano, tanto da diventare la condizione necessaria per dedicarsi alle altre scienze,
compresa la riflessione teologica. Di conseguenza, anche il rapporto tra ragione e fede
viene reinterpretato: la filosofia “serve” sì alla teologia, ma nel senso che quest’ultima
non può farne a meno. L’uso della razionalità, della logica e dell’argomentazione, in un
mondo orientato in senso religioso, non rappresenta pertanto un atteggiamento oscuran-
tista, bensì il riconoscimento e il tributo alla ragione, che può spingersi oltre l’ambito
naturale fino a indagare il divino.

L’“ oscurità” del Medioevo


Sulla base delle considerazioni appena fatte, è dunque problematico parlare di “secoli bui”
a proposito del Medioevo; tuttavia vi è almeno un senso in cui è lecito parlare di “oscuri-
tà”, e non per esprimere un giudizio negativo sull’epoca, ma per definire lo stato della
ricerca, che non è ancora in grado di fornire un quadro completo della produzione
letteraria. Qualche dato può illustrare meglio la situazione delle nostre conoscenze.
Tutta la filosofia presocratica ci è stata conservata in pochi frammenti, spesso ricavati
da citazioni molto più tarde; le opere di Platone e di Aristotele sono raccolte in edizioni
che insieme non superano qualche migliaio di pagine. Se consideriamo invece il Medio-
evo, non riusciamo a quantificare le opere che ci sono pervenute: limitandoci solamente
alla produzione in latino (cui però andrebbero aggiunti i testi in greco, arabo, ebraico), ci
sono noti i nomi di circa 10 000 autori, oltre a un numero enorme di opere anonime. La
nostra conoscenza è lacunosa non per mancanza di documenti, ma per il loro eccesso.

oscurantismo atteggiamento di ostilità pregiudiziale nei confronti del progresso e di ogni forma di lessico
evoluzione culturale e sociale, da cui deriva generalmente una limitazione della libertà di pensiero.
200 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

La gran parte di questo patrimonio è ancora inedita, ovvero non esistono edizioni mo-
derne, leggibili e accessibili, e si dispone soltanto di codici che richiedono un lavoro di
decifrazione estremamente faticoso, oltre che competenze tecniche molto sofisticate.
Molti di questi manoscritti non sono neppure conosciuti: ancora oggi ne vengono rinve-
nuti esemplari nei fondi non inventariati delle biblioteche o in antichi magazzini. Rimane
un lavoro immane da fare: di scoperta, catalogazione, attribuzione di paternità, edizione
e traduzione; gli studi sul Medioevo sono dunque in continua evoluzione e aggiorna-
mento. Prima di lasciarci condizionare da giudizi senza appello, dobbiamo pertanto rico-
noscere che ci manca ancora una visione completa.

FARE per CAPIRE • Scrivi tre diverse definizioni dell’“oscurità” del Medioevo, riferendole rispettivamente
alle condizioni materiali, all’oscurantismo delle idee, alla nostra conoscenza del periodo.

lessico codice (dal latino codex, in origine “ceppo” o “fusto” d’albero, con riferimento all’uso antico di scri-
vere su tavolette di legno) in filologia indica un testo manoscritto, composto da più fogli o fascicoli di
pergamena rilegati insieme.

ESPERIMENTO filosofico I “secoli bui”


• Sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in piccoli gruppi (3 o 4 studenti); in classe o in un laboratorio
connesso a Internet, stilate un elenco di film storici di ambientazione medievale e uno di ambientazione
moderna (ad esempio per il Medioevo: Il nome della rosa; per l’età moderna: Barry Lindon). Di ogni elenco
scegliete i due o tre esempi che preferite e ricercate il trailer e alcune scene significative in Internet.
• Confrontate la presentazione filmografica dei due periodi storici, con particolare riguardo ai seguenti
aspetti:
- qual è l’uso della luce, negli interni e nelle riprese esterne? Vi è una preferenza per scene buie o luminose?
- come sono presentati i personaggi minori? quanto si intravede una presenza corale o individuale? quan-
to i personaggi non protagonisti sono tratteggiati con caratteristiche personali o sono piuttosto rappre-
sentanti di una classe, di un genere, di un ruolo sociale?
- qual è il ruolo di personaggi appartenenti alla sfera ecclesiastica (papi, vescovi, monaci, religiosi, sacer-
doti)? è centrale o secondario? qual è la presenza di temi legati all’intolleranza religiosa?
• Nei singoli gruppi, evidenziate le differenze e i punti in comune tra i due tipi di film e confrontate i ri-
sultati; discutete su quanto queste ambientazioni siano storicamente giustificate e quanto invece frutto
di una lettura deformante, provan-
do a pensare anche ad altre rappre-
sentazioni del Medioevo elaborate
da canali diversi (letteratura, lin-
guaggio comune, manuali scolasti-
ci). In quale misura secondo voi le
immagini trasmesse condizionano il
nostro giudizio?
Il Medioevo e la filosofia capitolo 16 201

2 Il Medioevo come “età di mezzo”


Una definizione svalutativa
Ogni storico (e quindi anche lo storico della filosofia) ha bisogno di scandire la propria
narrazione distinguendo diverse epoche, difficilmente però le varie “etichette” corri-
spondono al modo in cui il periodo preso in esame veniva vissuto. Consideriamo il
significato ambiguo di termini come “antico” e “moderno”: ognuno di noi si perce-
pisce come contemporaneo al proprio tempo, dunque come “moderno”, ed è soltanto in
una definizione posteriore che le epoche più distanti vengono connotate come “anti-
che”, con un giudizio implicito che le rende lontane, inattuali, superate. A ben vedere,
anche la nozione di “superamento” si rivela problematica, perché valuta un autore o
un pensiero alla luce di conoscenze successive, proiettando giudizi non sempre equi e
spesso sottintendendo un’idea di progresso per cui quanto viene dopo è interpretato
come migliore.
Ancora più problematica risulta la determinazione del periodo che va dalla fine
dell’antichità (convenzionalmente sancita dal crollo dell’Impero romano d’Occidente
nel 476 d.C.) all’inizio dell’epoca moderna (solitamente identificato con l’Umanesimo
quattrocentesco) come “Medioevo”, ovvero “età di mezzo”. L’espressione è stata intro-
dotta in senso spregiativo dagli umanisti, che volevano rimarcare la loro originalità e
differenza rispetto al Medioevo, da loro considerato un’epoca di declino, e intendevano
ispirarsi invece all’età classica quale modello letterario ed etico-civile.

L’ inadeguatezza della denominazione “Medioevo”


Al di là delle valutazioni, è proprio il termine “Medioevo” inteso come epoca “media”
ad essere inadeguato. Proviamo a immaginare tutte le espressioni in cui si parla di
qualcosa che “sta in mezzo”, come la terra di mezzo tra due paesi; la scuola media tra
elementari e liceo; l’adolescenza come periodo incerto collocato tra infanzia e maturità:
in tutti gli esempi viene accentuata l’incompletezza, uno sviluppo non ancora rag-
giunto; si descrive un momento di passaggio, una situazione non definitiva e transito-
ria, di sospensione, dove non si è ancora trovato il proprio posto. Comunque lo si voglia
descrivere, ogni processo e trasformazione che implica un “essere in mezzo” deve svol-
gersi entro uno spazio e un tempo limitati: una terra di mezzo non può essere più
estesa dei paesi confinanti, né l’adolescenza può prolungarsi più dell’età adulta.
Tali aspetti – l’incompletezza e la limitatezza – risultano però del tutto inadeguati
in riferimento alla filosofia medievale, considerando che questa si estende per circa
un millennio ed è più ampia della filosofia antica o di quella moderna, tra le quali
viene invece collocata come fase transitoria e poco significativa. Definire un periodo
così vasto e scarsamente conosciuto come “età di mezzo” si rivela dunque estrema-
mente riduttivo: la riflessione filosofica medievale diventerebbe in tale prospettiva
una sorta di “buco nero” che in virtù di una natura “spuria” (l’interesse teologico) e di
un carattere incompiuto (epoca media) non merita di essere approfondita.
202 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Se si considera inoltre che questa denominazione implica un punto di vista inter-


pretativo parziale, coincidente grossomodo con quello dell’Occidente latino (l’“età di
mezzo” è infatti stimata sulla base della nostra evoluzione storica), si comprende come
essa porti a selezionare pochi fattori caratterizzanti e perlopiù stereotipati, a scapito del
riconoscimento della pluralità culturale dell’epoca.
Pur qualificando come “medievale” la filosofia dei secoli VI-XV, poiché il termine è
ormai convenzionale e insostituibile, dobbiamo allora mettere a fuoco gli elementi che
impediscono di presentarla come età unitaria.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo gli elementi pregiudiziali nella definizione dell’età medievale.

3 Pluralità di lingue, religioni e tempi


Come si è visto, oltre al pregiudizio oscurantista grava sul Medioevo l’idea di un pensie-
ro unitario, definito perlopiù in modo negativo o meglio per sottrazione (non è più filo-
sofia antica e non è ancora l’età della ragione moderna) e considerato da un unico punto
di vista, quello occidentale: non si evidenziano le sue caratteristiche proprie, tranne la
presunta priorità assegnata alla fede cristiana a scapito della riflessione filosofica.
Contro la presunzione di unitarietà, bisogna invece intendere l’età medievale come
un’epoca estremamente ricca in termini culturali, in cui coesistono lingue, religioni e
tempi diversi. Anzi, forse è proprio la pluralità che rende questo periodo filosoficamen-
te interessante, soprattutto alla luce dei tentativi attuali di costruzione di una società
multiculturale.

La pluralità di lingue
Nel Medioevo non si fa filosofia soltanto in latino, ma si continua a scrivere e a leggere
in greco nella parte orientale dell’Impero romano. Con l’affermarsi politico dell’islam
(VII-VIII secolo) inizia poi la traduzione della filosofia greca in arabo e si sviluppa una
riflessione araba autonoma; il contatto con il mondo islamico risulterà determinante
per la ripresa culturale dell’Occidente latino, che si osserva nel XII e nel XIII secolo. In
questa trasmissione filosofica, spesso un ruolo fondamentale è svolto dagli ebrei, che
vivono sia nel mondo arabo sia in quello cristiano e che spesso fungono da traduttori e
mediatori culturali, nonché essi stessi autori di opere filosofiche; infine, a partire dal
XIII secolo, in Occidente oltre al latino si cominciano a usare le lingue volgari. I diver-
si veicoli linguistici condizionano i contenuti filosofici e la forma del pensiero: non è la
stessa cosa leggere un filosofo in greco o in arabo; molti termini latini usati per tradurre
Aristotele sono lontani dal senso originario, così che tante questioni si comprendono
soltanto tenendo presenti le differenti culture che hanno arricchito i testi di concetti e
significati nuovi.
Percepire questa varietà linguistica non è un mero dettaglio erudito: per capire il pen-
siero medievale bisogna tenere conto dell’interdipendenza dei contributi in lingue
diverse e della capacità della filosofia di esprimersi con veicoli linguistici lontani
Il Medioevo e la filosofia capitolo 16 203

dall’origine greca, lavorando sul lessico e sulla traduzione. Molti testi medievali, che si
soffermano sul significato dei termini, nascono dall’acuta consapevolezza del ruolo del-
la lingua nel dare forma ai concetti e di come un uso errato o superficiale delle parole
possa creare gravi fraintendimenti nella comprensione e nella comunicazione.
Non si tratta di lingue usate in mondi lontani o non comunicanti: nonostante le
enormi differenze, le varie riflessioni filosofiche si sviluppano in un contesto percepito
come unico (quello che grossomodo ha ancora come centro il Mediterraneo) e costrui-
scono la loro identità culturale nel serrato confronto con i medesimi testi della filosofia
greca (Platone, Aristotele e il neoplatonismo).

L’ assenza di unità religiosa


Il Medioevo non è soltanto l’epoca della filosofia cristiana, ma anche delle riflessioni
filosofiche interne agli altri monoteismi (ebraismo e islam), nonché della permanenza
di culti pagani e religioni misteriche. Lo stesso cristianesimo non è un fenomeno
unitario: nel 1054 vi è uno scisma che sancisce la divisione definitiva tra la Chiesa cat-
tolica occidentale e quella ortodossa orientale, e nel corso dei secoli emergono numero-
si movimenti ereticali.
La consapevolezza della pluralità di esperienze religiose è presente negli stessi
filosofi cristiani, benché essi non mettano in discussione la loro identità religiosa e la sua
superiorità sulle altre. Per citare alcuni esempi celebri, nell’XI secolo Anselmo d’Aosta
costruisce la sua dimostrazione dell’esistenza di Dio a partire dal punto di vista dell’ateo;
nel XII secolo Pietro Abelardo compone il Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano,
dove le diverse visioni del mondo si confrontano sul piano dell’argomentazione raziona-
le; nel XIII secolo Tommaso d’Aquino pensa a una presentazione del cristianesimo rivol-
ta a coloro che aderiscono ad altre fedi e redige la Somma contro i Gentili.

❯ La fortezza della
fede assediata da
eretici e miscredenti
è difesa dal papa,
i vescovi, i monaci
e i dottori della
Chiesa, miniatura,
XV secolo.
La pluralità di fedi
e culti diversi
contribuisce a
definire lo scenario
culturale del
Medioevo.
204 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

La pluralità di tempi
I “tempi” della filosofia medievale, benché collocata in un mondo percepito come uni-
co, sono differenti. Quando ordiniamo gli eventi entro uno stesso orizzonte cronologi-
co (che per noi è il calendario che conta gli anni dalla nascita di Cristo) assumiamo un
quadro comune, che però non può essere inteso come riferimento assoluto, soprattut-
to in relazione alle diverse civiltà presenti nell’età medievale e alle fasi di sviluppo,
fioritura e decadenza che le caratterizzano. L’interpretazione di un’epoca come perio-
do di decadenza o evoluzione del pensiero filosofico non è infatti la stessa per tutte le
tradizioni coinvolte: ad esempio, lo sviluppo della filosofia araba precede e rende possi-
bile quello della filosofia latina, e una parte della storiografia filosofica ebraica fa inizia-
re l’illuminismo da Mosè Maimonide (❯ p. 282), vissuto nel XII secolo dell’era cristiana.
Come sottolinea lo studioso francese Alain de Libera (nato nel 1948), bisognerebbe
diventare sensibili alla pluralità dei tempi che caratterizzano la cultura medievale e che
si esprimono anche con calendari diversi: come vedremo (❯ p. 212 e ss.), la corte di Car-
lo Magno ad Aquisgrana del IX secolo e la Baghdad del III secolo dell’ègira (il trasferi-
mento di Maometto dalla Mecca a Medina nel 622, data che segna l’inizio dell’era musul-
mana) sono cronologicamente contemporanee, ma non appartengono al medesimo
universo culturale. Vi è insomma una pluralità di tempi che convivono, ma pur essendo
sincronici mantengono una loro specificità irriducibile. Per percepire questa pluralità
temporale non occorre redigere cronologie separate, né usare i differenti calendari di
ogni civiltà, bensì assumere un atteggiamento analogo a quello che tiene conto dei fusi
orari nello spazio geografico. Anche in quel caso si considerano simultanei eventi che in
varie parti del mondo accadono in ore diverse: «tener conto degli spostamenti d’orario o,
per meglio dire, delle differenti regolazioni degli orologi culturali, accettare le sfasature
che esprimono la pluralità dei tempi vissuti dagli attori della storia, questo è il compito
dello storico della filosofia» (Alain de Libera, Storia della filosofia medievale, Jaca Book,
Milano 1999, p. 3). Non è necessario dunque modificare la nostra misurazione del tempo,
ma osservare gli eventi all’interno di un quadro più ampio e variegato, nella sincronia
di movimenti differenti che a un certo punto entrano in contatto e talvolta in collisione.

❯ Maometto vieta
di modificare il
calendario islamico,
miniatura, 1307,
Edimburgo,
Biblioteca
dell’Università.
Il calendario
islamico è basato sul
moto della Luna e
si articola in 12 mesi
lunari di 29 o 30
giorni; un anno dura
354 giorni (355 ogni
3 anni). Parte dal
venerdì 16 luglio 622,
data dell’ègira.
Il Medioevo e la filosofia capitolo 16 205

Questo sguardo a un “Medioevo plurale” è fondamentale per comprendere la nostra


civiltà. Non si tratta del lusso erudito di confrontare culture remote, senza apparenti
legami con la nostra, come quella cinese o maya, ma di esaminare un mondo condiviso
e geograficamente unitario declinato in forme diverse: quanto accadeva nella Baghdad
del IX secolo ha a che fare con la cultura e la civiltà latine. Per questo motivo, nei pros-
simi capitoli accosteremo alcune figure di filosofi tra loro contemporanei, ma apparte-
nenti a “fusi culturali” differenti; prima però è necessario chiarire che cosa sia la fi-
losofia nel Medioevo e come la intendano coloro che la praticano.

FARE per CAPIRE • Riporta in uno schema i tre aspetti per cui il Medioevo si presenta come epoca
“plurale”, fornendo gli esempi di tale differenziazione interna.

4 Che cos’ è la filosofia nel Medioevo?


Come nelle altre epoche storiche, anche nel Medioevo la filosofia è l’impegno a compren-
dere la realtà e a cercare risposte razionali ai problemi posti dal proprio tempo e contesto
culturale. Ma, come per ogni epoca, l’uso della razionalità e il suo effettivo esplicitarsi in
teorie e strumenti interpretativi dipendono dalle condizioni storiche, culturali e materia-
li. Da un certo punto di vista si può affermare che l’obiettivo della filosofia rimane sem-
pre lo stesso (la comprensione razionale del mondo), ma le forme in cui essa si esplicita
dipendono dal tipo di realtà che si presenta. Quando si studiano i temi della storia della
filosofia che ci ha preceduto, si rischia talvolta di dimenticare che il punto di partenza
non sono le idee o i problemi, ma gli uomini concreti che con quelle idee rispondevano
agli interrogativi e alle sfide poste dalla loro esistenza.
Nel caso del pensiero medievale dobbiamo tenere presenti due condizioni di par-
tenza profondamente diverse rispetto al periodo classico ed ellenistico: il patrimonio
culturale a disposizione e il modo in cui si configura il rapporto tra religione e filosofia.

Il patrimonio culturale
Noi siamo i libri che abbiamo letto e che hanno definito la nostra identità culturale: la
nostra visione del mondo è organizzata sulla base delle conoscenze che ne abbiamo.
Proviamo a immaginare che un’esplosione nucleare abbia distrutto tutte le fonti del sa-
pere scientifico, tranne la biblioteca personale dei pochi superstiti e un deposito di testi
rinvenuti per caso e scritti in una lingua ignota. Si tratterà di ricominciare da capo e di
ricostruire gradualmente il sapere; molto dipenderà da cosa materialmente si è conserva-
to e dalla capacità dei sopravvissuti di riformulare spiegazioni scientifiche utilizzando
dati, informazioni e teorie, che sono però tutti incompleti. A prima vista sembra un
esempio drastico e catastrofico, ma in un certo senso si può applicare alla filosofia succes-
siva all’età classico-ellenistica, anche se si tratta di un processo graduale e non di una ce-
sura improvvisa: a poco a poco il greco cessa di essere la lingua comune della cultura
e, al di fuori dell’Impero bizantino, non viene più parlato né in Occidente né nei territori
conquistati dagli arabi (tra cui Siria, Egitto e Palestina).
206 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Mentre però gli arabi mettono in atto un potente lavoro di raccolta, traduzione e rie-
laborazione dei testi filosofici antichi proprio per preservarne i contenuti, nel mondo la-
tino la loro diffusione è limitata e difficoltosa: non soltanto viene meno la possibilità di
comprendere le opere scritte in greco, ma per diversi secoli mancano anche poteri forti e
istituzioni che possano garantire la conservazione e la promozione della cultura.
Il patrimonio filosofico e scientifico a disposizione è dunque la condizione materiale
che contraddistingue la civiltà araba rispetto a quella latina. Tra l’VIII e il IX secolo i ca-
liffi musulmani promuovono la traduzione in arabo di gran parte dei testi filosofici
antichi con l’intento di presentarsi come i veri eredi della civiltà greca. Invece nella cul-
tura latina per molti secoli si ha una conoscenza soltanto indiretta e selettiva della
filosofia greca: Platone è quasi del tutto ignorato, così come Plotino e gli altri neoplato-
nici, e di Aristotele, fino al XII secolo, si conoscono unicamente le opere di logica.
In tutto il Medioevo vi è il problema di conservare e riprodurre i libri, e di renderli acces-
sibili nelle lingue conosciute, quindi di tradurre le conoscenze; inoltre queste attività di
conservazione, traduzione e trasmissione del sapere sono efficaci soltanto all’interno di
istituzioni a esse dedicate, che dipendono a loro volta dal potere politico. La storia della fi-
losofia medievale si intreccia con la storia di come il sapere antico viene trasmesso, selezio-
nato e rielaborato: ciò avviene passando per culture differenti, che, pur vivendo nello stesso
mondo, partecipano in fasi diverse a questa attività e, per così dire, si passano il “testimone”
nell’interpretazione e riappropriazione del patrimonio antico. Ma è infine anche storia del-
le istituzioni che consentono di conservare, approfondire e tramandare il sapere stesso: le
corti, i monasteri, le scuole cattedrali, le università rappresentano luoghi emblematici, che
sostituiscono le scuole antiche in quanto nuovi spazi del pensiero filosofico.

L’ integrazione di religione e filosofia


Se la condizione materiale alla base del pensiero del Medioevo è il patrimonio culturale
a disposizione, l’altro aspetto caratterizzante è l’esigenza di incorporare la visione reli-
giosa nell’interpretazione filosofica. Non si tratta di asservire la ragione alla fede o di
usare la filosofia per scopi teologici, ma di interpretare razionalmente la realtà consi-
derando il fenomeno religioso come parte integrante di essa. Questo impegno rappre-
senta un segno del legame della filosofia con il periodo storico in cui si colloca: la rifles-
sione medievale sorge in un contesto in cui la religione è un elemento indiscusso, con un
ruolo più rilevante di quello che aveva nella filosofia greca antica, e non può evitare di
considerare questo aspetto nella sua visione della realtà. Il confronto tra ragione e fede
caratterizzava già la patristica, ma nel periodo medievale riguarda non soltanto il mondo
cristiano, bensì anche quello ebraico e islamico. In tutte queste culture si prospetta l’at-
tenzione a mediare tra la comprensione religiosa del mondo e quella filosofica, elaboran-
do possibilità di accordo, invece della facile contrapposizione. Anche se riflette sulla fede
e sul divino, la filosofia rimane una ricerca razionale con i suoi testi di riferimento, e non
una disciplina utile unicamente per fini teologici. Rispetto alla patristica la sfida è più alta
e difficile: non si cerca soltanto di inserire alcuni spunti filosofici nel quadro di una rifles-
sione religiosa, ma di pensare filosoficamente all’interno della fede, servendosi di sistemi
di pensiero a essa estranei, come quello di Aristotele.
Il rapporto tra fede e ragione non è mai semplice né definito una volta per tutte, e
tanto nel mondo islamico quanto in quello cristiano vi sono esempi di teologi che guar-
dano con sospetto la filosofia, o che cercano di ridimensionarne il ruolo e l’autonomia.
Il Medioevo e la filosofia capitolo 16 207

Altrettanto complesso è il confronto tra culture e religioni differenti: spesso nel


contesto medievale il rapporto è stato visto sotto la categoria dello scontro, del conflit-
to, della crociata o della “guerra santa”. Se consideriamo però l’ampia produzione filo-
sofica medievale scopriamo che chi si dedica alla filosofia, anche se lo fa per argomen-
tare a favore della propria fede religiosa, considera gli “avversari” dotati di ragione:
è nell’orizzonte di una razionalità comune e condivisa che il dibattito, anche aspro, può
avere luogo. Dal punto di vista religioso ognuno considera l’altro un infedele, e tuttavia
questo giudizio non interrompe mai la discussione filosofica. La divisione confessiona-
le non inficia l’orizzonte comune, perché si condividono le stesse strutture razionali:
prima che essere usata per fini teologici, la filosofia è soprattutto l’ambito che rende
possibile qualsiasi confronto di idee.

La filosofia e i filosofi
La disponibilità di libri antichi e la presenza di istituzioni che promuovano il sapere, da
un lato, l’adesione a una fede religiosa e un’idea di razionalità come orizzonte comune,
dall’altro, sono due fattori che condizionano il modo di fare filosofia nel Medioevo, uno
a livello materiale, l’altro a livello spirituale. Sono però elementi che subiscono un’evo-
luzione nei secoli e che, almeno in parte, spiegano le differenze tra le culture (bizantina,
araba, ebraica, latina) in cui si produce filosofia. Questo fa sì che la filosofia medievale,
più che quella di ogni altro periodo, sia difficilmente riconducibile a una definizione
unitaria: il pensiero filosofico medievale è un pensiero plurale, i cui autori appar-
tengono a civiltà diverse che nella filosofia si affrontano, si incontrano e dibattono.
Fra tutti i protagonisti di questo periodo presenteremo soltanto alcune figure signifi-
cative ed esemplificative, contemporanee tra loro ma appartenenti a mondi caratterizzati
da fasi di sviluppo differenti: Giovanni Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi (IX-X secolo);
Avicenna e Anselmo d’Aosta (XI secolo); Abelardo, Averroè e Maimonide (XII secolo);
Tommaso d’Aquino (XIII secolo); Duns Scoto e Guglielmo di Ockham (XIV secolo). ESERCIZI

FARE per CAPIRE • Sottolinea con due colori diversi le condizioni storico-culturali che rendono pecu-
liare la filosofia nel Medioevo

❯ Una scuola
filosofica a
Costantinopoli,
miniatura,
XIII secolo.
208 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 16
SINTESI Il Medioevo e la filosofia
AUDIOSINTESI

1 Secoli bui o conoscenza oscura?


Quale pregiudizio grava sul Medioevo? Dal punto In che cosa consiste l’“oscurità” del Medioevo? Se
di vista culturale, il Medioevo è stato spesso accu- non è corretto parlare di “oscurantismo” del Medio-
sato di oscurantismo, per il presunto asservimento evo, è possibile invece riferirsi a una certa oscurità
del pensiero razionale alla fede; un giudizio che che caratterizza la nostra conoscenza non ancora
non tiene conto del ruolo importante che in questo completa dell’enorme quantità di testi medievali
periodo viene accordato alla filosofia e alla ragione. prodotti.

2 Il Medioevo come “età di mezzo”


Da dove deriva la denominazione “Medioevo”? Il Quali connotazioni comporta questo termine? Tale
termine “Medioevo” deriva dagli umanisti, i quali denominazione comporta l’idea di un’epoca incom-
vollero rafforzare l’idea della propria originalità in- pleta, non ben definita, giudicata in modo riduttivo
dividuando un’epoca di mero passaggio tra il mon- sulla base di pochi elementi stereotipati. Invece il
do antico, che rappresentava per loro un modello, e Medioevo rappresenta un periodo estremamente
sé stessi. complesso e ricco dal punto di vista culturale.

3 Pluralità di lingue, religioni e tempi


In che senso il mondo culturale del Medioevo è ca- si con tendenze non ortodosse o addirittura eretiche al
ratterizzato dalla pluralità linguistica? Nel Medio- loro interno.
evo si fa filosofia in latino nella parte occidentale In che senso si possono individuare “tempi diversi”
dell’impero e in greco nella parte orientale. Il mondo nella filosofia medievale? In questa fase storica, il
arabo, poi, ha il merito di appropriarsi della tradizio- pensiero filosofico è elaborato contemporaneamente in
ne filosofica greca, traducendone i testi e sviluppan- realtà diverse le une dalle altre, come quella occidenta-
do una riflessione autonoma. Anche gli ebrei colla- le, latina, e quella orientale, bizantina e araba, che vivo-
borano all’attività di traduzione e trasmissione del no fasi di sviluppo, fioritura e decadenza differenti,
patrimonio filosofico antico. “fusi culturali” diversi. Tuttavia, pur nella diversità,
In che cosa consiste il pluralismo religioso del Me- tali realtà fanno riferimento a un orizzonte comune dal
dioevo? Dal punto di vista religioso, nel Medioevo si punto di vista geografico (un mondo percepito come
riscontra una pluralità di prospettive, in quanto coesi- unico che grossomodo ha ancora come centro il Medi-
stono i tre principali monoteismi – ebraismo, cristia- terraneo) e dal punto di vista culturale (la filosofia rap-
nesimo e islam – i quali a loro volta devono confrontar- presenta il terreno di confronto razionale condiviso).

4 Che cos’ è la filosofia nel Medioevo?


Qual è l’elemento materiale alla base del pensiero Qual è l’elemento comune a tutte le tradizioni dal
del Medioevo? Dal punto di vista materiale il pensie- punto di vista spirituale? Il fattore spirituale che acco-
ro filosofico medievale è condizionato dal patrimo- muna il mondo ebraico, cristiano e arabo è l’esigenza di
nio librario a disposizione e dalle istituzioni che integrare la visione religiosa nell’interpretazione
consentono di conservarlo e tramandarlo. Nel mondo filosofica, anche se vi sono teologi che guardano con
latino si perde il contatto con i testi filosofici originali; sospetto alla filosofia, o che cercano di ridimensionar-
gli arabi, invece, raccolgono, traducono e rielaborano i ne il ruolo e l’autonomia. Il riferimento a una base filo-
testi della tradizione filosofica antica, presentandosi sofica e razionale condivisa rende possibile anche il
come i veri eredi della civiltà greca. confronto tra gli appartenenti a religioni diverse.
209

capitolo 16
MAPPE CONCETTUALI Il Medioevo e la filosofia

DI LINGUE, RELIGIONI E TEMPI


LA CULTURA MEDIEVALE

è caratterizzata da

PLURALITÀ DI LINGUE PLURALITÀ RELIGIOSA PLURALITÀ DI TEMPI

si sviluppa la riflessione presenza di molteplici


si fa filosofia in latino
filosofica nell’ambito dei civiltà caratterizzate da
(Occidente) e in greco
tre monoteismi (ebraico, diverse fasi di sviluppo,
(Oriente)
cristiano e islamico) fioritura e decadenza

si traduce la filosofia
greca in arabo e si permangono culti pagani
differenti “fusi culturali”
sviluppa una riflessione e religioni misteriche
araba autonoma

cominciano a essere usate


le lingue volgari

LA FILOSOFIA
NEL MEDIOEVO
LE CONDIZIONI
DELLA FILOSOFIA MEDIEVALE

sono

il patrimonio culturale il rapporto tra religione e filosofia

nel mondo arabo in un mondo connotato


nel mondo latino si si afferma l’orizzonte
si promuovono in senso religioso,
perde l’uso del greco e di una razionalità
la conservazione si avverte l’esigenza
la diffusione dei testi comune, che rende
e la traduzione di mediare tra la
filosofici antichi è possibile il confronto
del patrimonio comprensione religiosa
limitata e difficoltosa tra idee diverse
filosofico antico e quella filosofica
210 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 16
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Il Medioevo e la filosofia
RIPASSO

1 Secoli bui o conoscenza oscura? 3 Pluralità di lingue, religioni


riconoscere le nozioni e il significato
delle parole
e tempi
1. Perché si è formato il pregiudizio oscurantista riconoscere le nozioni
sul Medioevo? (segna la risposta esatta) 7. Linguisticamente il Medioevo:
a perché è il periodo delle guerre di religione (segna la risposta esatta)
in Europa x è un periodo fortemente unitario
b perché è il momento culminante della “caccia y presenta una grande pluralità
alle streghe”
infatti: (segna la risposta esatta)
c perché c’è una forte presenza della filosofia araba
a la produzione filosofica è quasi esclusivamente
d perché la visione religiosa della vita appare in latino
dominante
b si leggono quasi esclusivamente i testi originali
2. La produzione filosofica medievale: dei filosofi greci
(segna la risposta esatta) c il mondo greco, latino e arabo si ignorano perché
a è quantitativamente molto limitata fanno riferimento a testi diversi
b è in buona parte sconosciuta perché inedita d si produce filosofia in greco, latino e arabo
c è oscura perché priva di razionalità 8. Uno degli aspetti comuni alle varie tradizioni
d è poco interessante perché ripetitiva presenti nel panorama culturale medievale è
costituito: (segna la risposta esatta)
scrivere e rielaborare (15-20 righe) a dal confronto con i medesimi testi della filosofia
3. Spiega in che senso si può parlare di “oscurità” greca
a proposito del Medioevo. b dall’assoggettamento all’islam, che predomina
nel mondo mediterraneo
ad alta voce c dalla subordinazione alla Chiesa cattolica
4. Spiega in 3 minuti quali elementi permettono d dal riferimento privilegiato a un’unica lingua,
di avere del Medioevo un’immagine dinamica, al di là delle traduzioni
utilizzando le espressioni seguenti:
età della ragione • Inquisizione • guerre di religione
9. La fioritura e la decadenza delle culture intorno
• occhiali • energia • bussola • banche al Mediterraneo: (segna la risposta esatta)
a avvengono negli stessi tempi, perché tali culture
intrattengono continui scambi commerciali
b avvengono prima nel mondo latino e poi nel
2 Il Medioevo come “ età di mezzo ” mondo bizantino e in quello arabo
c avvengono in tempi diversi, e la rinascita latina, ad
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) esempio, è favorita dalla conoscenza dei testi arabi
5. Da dove deriva l’espressione “Medioevo”? d avvengono contemporaneamente, perché
la differenza dei calendari è una convenzione
6. In che senso la denominazione “Medioevo” insignificante
implica un punto di vista interpretativo limitato?
Il Medioevo e la filosofia capitolo 16 211

esporre concetti e relazioni (max 5 righe) 13. Nel Medioevo la trasmissione del sapere
10. In che senso il Medioevo è caratterizzato avviene: (segna la risposta esatta)
dall’assenza di unità religiosa? a grazie alla libera iniziativa di privati e mecenati
b nelle tradizionali scuole filosofiche nate nel
scrivere e rielaborare (15-20 righe) periodo ellenistico
11. Individua gli elementi di pluralità della cultura c all’interno di istituzioni politico-religiose
filosofica medievale e gli aspetti che invece d grazie alla presenza di liberi editori
accomunano le varie tradizioni.
14. Il problema di integrare la visione religiosa
nell’interpretazione filosofica:
(segna la risposta esatta)
a riguarda i pensatori di tutte e tre le grandi
4. Che cos ’ è la filosofia religioni monoteistiche
b è un problema soltanto del mondo latino,
nel Medioevo? perché era stato già posto dalla patristica
c non si pone nel mondo islamico, perché rifiuta
riconoscere le nozioni
la filosofia
12. Considerando i secoli VIII-IX, attribuisci a latini d si pone soltanto nel mondo islamico, perché
(L), bizantini (B) o arabi (A) le affermazioni nel mondo latino l’accordo è naturale
seguenti: (una delle affermazioni è priva
di corrispondenze) esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
a. raccolgono, traducono e rielaborano 15. Qual è la condizione materiale che
i testi greci ................ contraddistingue la cultura araba da quella
b. ignorano quasi completamente il greco ................ latina nei secoli VIII-IX?
c. continuano a scrivere in greco e leggono
direttamente i classici della filosofia ................ ad alta voce
d. conoscono pochissime opere di Platone 16. Spiega in 5 minuti a quale condizione è
e Aristotele ................ possibile il dialogo tra fedi religiose diverse,
e. si presentano come i veri eredi utilizzando le espressioni seguenti:
della civiltà greca ................ infedele • essere razionale • dialogo
f. traducono i testi dal greco al latino ................ • argomentazioni razionali
212 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 17 Filosofi di corte tra IX e X secolo:


Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi

L’acume penetrante della più profonda contemplazione, quando
una volta ha contemplato il volto della verità, mai più ne è respinto,
mai più cade in errore.
(Giovanni Scoto Eriugena, Omelia sul prologo di Giovanni, 2)

1 Lo “spostamento” della cultura:


dal centro alla periferia
Tra l’VIII e il IX secolo si osservano almeno due centri di rinnovamento culturale, che
possono essere comparati, pur se collocati a migliaia di chilometri di distanza: la corte di
Carlo Magno (742-814) ad Aquisgrana e la “Casa della sapienza”, importante istituzione
fondata dal califfo al-Mamun (786-833) a Baghdad.
Gli esiti culturali sono profondamente differenti, ma si possono evidenziare alcuni
tratti comuni nell’impegno di due sovrani così diversi a promuovere una rinascita intel-
lettuale:
• entrambi i regni sono privi di un patrimonio letterario proprio: come le altre
popolazioni germaniche, che avevano dato vita ai regni romano-barbarici, anche
i Franchi non potevano vantare una tradizione scritta. Lo stesso valeva per gli
arabi prima di Maometto: è soltanto con la conquista dell’Egitto, della Siria e della
Persia nel VII-VIII secolo che essi vengono a contatto con una cultura filosofico-
scientifica scritta;
• entrambi i sovrani percepiscono che la cultura è un elemento di coesione e
stabilità, per regni multietnici come quelli sotto il loro dominio, privi di una tra-
dizione comune, e che sono stati conquistati con le armi in modo eccezionalmente
rapido;
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 213

• entrambi mirano a un ideale di sapienza al servizio della potenza imperiale, da


conseguire recuperando il patrimonio dell’antichità: nella cosiddetta “rinascita ca-
rolingia” ci si affida ai testi latini classici e patristici, mentre nella fioritura intellet-
tuale araba si traducono quelli greci;
• entrambi avvertono la rivalità con l’Impero romano d’Oriente che da diversi
secoli godeva di stabilità e prosperità. Sia il mondo carolingio sia quello islamico
sono soggiogati dallo splendore della civiltà bizantina, e tentano di emularla, po-
nendosi in competizione politica e culturale con essa.
I primi momenti di rinascita dell’alto Medioevo si manifestano dunque in zone perife-
riche del mondo allora conosciuto: non sono coinvolte le aree mediterranee né l’Impe-
ro bizantino, che non contribuisce allo sviluppo di una filosofia autonoma, considerata
estranea alla teologia cristiana di cui l’imperatore si serve per conferire sacralità al suo
potere. Nell’Impero d’Oriente, infatti, gli imperatori estendono la loro autorità anche alla
sfera religiosa (nominano il patriarca, intervengono nelle questioni teologiche e discipli-
nari) e non incentivano l’insegnamento della filosofia, verso cui si mostrano addirittura
ostili, tanto che già Giustiniano aveva ordinato la chiusura delle scuole filosofiche paga-
ne, come quella di Atene nel 529.
Carlo Magno cercherà di imitare la struttura del potere bizantino anche nei simboli FARE per CAPIRE
architettonici (per cui, ad esempio, il modello della cattedrale di Aquisgrana è la basilica • Elabora una
di san Vitale a Ravenna, costruita quando la città era sotto il dominio bizantino), ma tabella in cui
l’imperatore d’Oriente lo considererà sempre un usurpatore e lo diffiderà dall’usare il ti- riportare le
caratteristiche
tolo di “imperatore dei Romani”. Analogamente gli arabi, che avevano cercato più volte fondamentali
di conquistare Costantinopoli fin dal VII-VIII secolo, accolgono gli intellettuali espulsi della politica
dall’imperatore e si appropriano dei testi della cultura greca antica, come se intendessero culturale delle tre
diverse civiltà:
sostituirsi, in qualità di veri eredi della cultura greca, a quell’impero che non erano riu- carolingia, araba,
sciti a sottomettere politicamente. bizantina.

co
mare Balti I CENTRI FILOSOFICI NEI SECOLI IX E X
del Nord mar
York
Aquisgrana
Magonza
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Costantinopoli

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Bassora
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214 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

2 La rinascita carolingia
e Giovanni Scoto Eriugena
LA CORTE DI CARLO MAGNO
Sapienza e potere
La parola chiave del programma culturale di Carlo Magno è ordo: ordine, organizzazione
ed equilibrio. Il suo disegno è unire sapienza e potenza per strutturare i modi e le forme
di governo, i ruoli sociali, la visione del mondo. Senza tale programma egli non può spe-
rare di far durare un impero nato da guerre, massacri, deportazioni, che deve conquistar-
si la sua legittimità sia dall’alto, grazie alla consacrazione papale del proprio sovrano, sia
dal basso, con il consenso di quelle popolazioni che, nonostante tutto, lo percepiscono
come unica alternativa al dilagare dell’instabilità politica e dell’insicurezza civile.
“Ordine” significa mettere le cose a posto, dare a ciascuna istituzione il suo ruolo, de-
terminare i compiti, i poteri, le identità; poter organizzare la società secondo un modello
che rispecchia una legge di natura, e disporre del “linguaggio” adatto per distinguere e
unire allo stesso tempo realtà diverse. Le guerre e le conquiste non sono sufficienti a co-
stituire il regno di Carlo Magno: occorre creare una nuova identità culturale, per favorire
la coesione sociale e la stabilità politica, e attingere pertanto alla tradizione latina classica,
ai suoi simboli e valori, integrati da una nuova idea della sacralità dell’impero.

La riorganizzazione delle scuole


Carlo Magno si dedica quindi innanzitutto a promuovere l’istituzione di scuole nel terri-
torio imperiale e incarica il monaco Alcuino di York (che muore nell’804) di riorganiz-
zare gli studi e di definirne i programmi e le finalità. In un’epoca in cui con l’equivalente
in denaro del valore di un libro si poteva acquistare un terreno per sfamare un’intera fa-
miglia e i testi erano patrimonio quasi esclusivo dei monasteri, si aprono nuove scuole e
si ricomincia a leggere e a scrivere. I programmi di insegnamento si articolano nelle arti
liberali del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geo-
metria, astronomia e musica), secondo la classificazione operata dal retore Marziano Ca-
pella nel V secolo. Da queste scuole usciranno i funzionari dello Stato e si formerà una
nuova classe dirigente, e soprattutto la scuola palatina, fondata da Alcuino intorno al 781
su incarico di Carlo Magno all’interno del palazzo imperiale di Aquisgrana, diventa un
punto di riferimento per gli intellettuali provenienti da ogni parte dell’impero. I contenu-
ti dell’insegnamento non sono innovativi, ma si tratta del primo passo per uscire dalla
decadenza dei secoli precedenti: la riscoperta del patrimonio latino classico offre i
VIDEO
modelli, la linfa vitale per la ripresa, mentre la politica di Carlo Magno crea i luoghi
La rinascita
carolingia istituzionali in cui la cultura può attecchire.

lessico arti liberali (dal latino liberalis, “che si addice a un uomo libero”) sono le discipline di base inse-
gnate nelle scuole medievali, e si distinguono in trivio (grammatica, retorica e dialettica) e quadrivio
(aritmetica, geometria, astronomia e musica).
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 215

❯ Il monaco Alcuino
di York, fondatore
della Schola Palatina,
presenta l’erudito
Rabano Mauro
a san Martino,
miniatura, 850 circa.

In questa rinascita intellettuale, posta al servizio dell’idea imperiale, diversi autori


esaltano la sapienza del sovrano in termini quasi agiografici. Uno di questi, Notkero di
San Gallo, narra di due monaci irlandesi approdati insieme ad alcuni mercanti sulle coste
della Francia. Essi, non avendo nulla da vendere, si sarebbero messi a gridare: «Se qual-
cuno desidera la sapienza, venga da noi e l’acquisti», suscitando stupore e ammirazione
tra gli astanti. Giunta la notizia all’imperatore, egli li avrebbe fatti chiamare e interrogati:
avendone apprezzato le risposte, li avrebbe quindi presi al suo servizio per risollevare gli
studi che languivano ovunque nell’impero, ma si sarebbe congedato subito dopo per al-
lestire una spedizione militare. Questa leggenda mette in luce alcuni elementi caratteri-
stici della rinascita carolingia: da un lato la volontà del sovrano di circondarsi di funzio-
nari preparati e fedeli e l’impegno programmatico di favorire lo sviluppo intellettuale;
dall’altro l’estraneità di Carlo Magno a questo mondo culturale: egli è soprattutto un
uomo d’azione, che usa il prestigio dei dotti per rafforzare la propria autorità.

FARE per CAPIRE • Riporta in forma schematica i motivi anche politici della rinascita carolingia.

GIOVANNI SCOTO ERIUGENA


Un irlandese che legge il greco
Dalla leggenda dei monaci “venditori della sapienza” emerge un altro elemento signifi-
cativo: l’origine non autoctona del rinnovamento culturale di epoca carolingia. I maestri
e i dotti protagonisti della rinascita provengono da oltre confine, molti di loro dall’Irlan-
da, un’isola convertita al cristianesimo da san Patrizio, che per la sua posizione geogra-
fica era rimasta indenne da guerre e invasioni, godendo perciò di una certa prosperità.
216 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

L’origine irlandese di Giovanni Scoto Eriugena è espressa ben due volte, negli appellativi
che accompagnano il nome proprio: “Scoto” perché Scotia maior era il termine con cui i
Romani designavano l’Irlanda; quest’ultima in celtico veniva chiamata “Eriu”, da cui il
secondo soprannome. Scoto stesso si designa come “Eriùgena” (“nato in Irlanda”, da Eriu
unito al greco gena), lasciando trapelare la profonda assimilazione della lingua e della
cultura greca, che completa la sua identità latina. La conoscenza del greco gli consente di
accedere a fonti sconosciute ai suoi contemporanei, e la cultura e l’ingegno non comuni ne
fanno il pensatore più originale e complesso dell’alto Medioevo, una figura che si
staglia unica e incompresa non soltanto nel proprio tempo, ma anche nei secoli successivi.
Vi sono poche notizie certe sulla sua vita, talvolta mescolate a racconti leggendari, che
non è facile contestualizzare in tempi e luoghi precisi. Anche le date di nascita e di mor-
te sono approssimative: nasce nei primi anni del IX secolo, ma non si sa quando abbia
lasciato l’Irlanda, e dopo l’877 non si hanno più testimonianze che lo riguardino, così si
presume che la morte sia occorsa di lì a poco. È probabile che abbia insegnato nella scuo-
la palatina, e godette comunque dell’ammirazione e della stima degli ambienti della cor-
te carolingia.
Nell’851 viene inviato a Reims per confutare la tesi della doppia predestinazione,
sostenuta dal monaco Gotescalco e dai suoi seguaci: costoro ritenevano che Dio avesse
scelto già all’inizio dei tempi (“predestinato”, appunto) chi avrebbe ottenuto la salvezza e
chi, invece, sarebbe stato dannato per l’eternità. La replica di Eriugena – che produce lo
scritto De divina praedestinatione – va ben oltre la confutazione della tesi, perché giunge a
negare non soltanto la predestinazione ma perfino la stessa esistenza dell’inferno e delle
relative pene corporali, così com’erano rappresentate dalla tradizione. Il sovrano Carlo
il Calvo (840-877) mostra una totale fiducia nelle sue qualità intellettuali anche quando
gli affida l’incarico di tradurre in latino le opere di Dionigi pseudo-Areopagita, un
lavoro che porterà mirabilmente a termine negli anni 860-862, nonostante la difficoltà
linguistica dell’originale (❯ Per approfondire).

Dionigi pseudo-Areopagita
L’influenza neoplatonica
F ilosoficamente la dipendenza da Proclo è rilevante,
perché con le opere di Dionigi entra in Occidente il
D ionigi pseudo-Areopagita è un autore cristiano, pro-
babilmente originario della Siria, il quale si presenta
nei suoi scritti come quel Dionigi che sarebbe stato con-
neoplatonismo greco (i cui testi originali saranno tra-
dotti in latino solamente molto più tardi), e quindi
vertito dall’apostolo Paolo dopo la predicazione nell’Are- tutta la riflessione plotiniana sull’Uno trova un nuovo
opago di Atene (Atti degli Apostoli 17, 34). In realtà, la ambito di applicazione nella comprensione del Dio cri-
dottrina di Dionigi è direttamente influenzata dal neo- stiano. Anche la teologia precedente affermava l’uni-
platonismo di Proclo (vissuto nel V secolo), e quindi la cità di Dio, ma l’apporto neoplatonico aggiunge il mo-
collocazione cronologica va posposta presumibilmente tivo della trascendenza dell’Uno rispetto all’essere e al
nel VI secolo. Grazie all’uso dello pseudonimo, che lo ac- linguaggio. Qualsiasi predicato si voglia attribuire all’U-
credita come discepolo di san Paolo, e grazie anche alla no (ad esempio l’essere o il pensiero) implica infatti la
traduzione in latino delle sue opere fatta dall’Eriugena, perdita della sua unità, in quanto tutti i predicati si riferi-
questo autore gode di grandissima fama nel Medioevo, scono anche alle realtà inferiori all’Uno, che sono molte-
imponendosi con un’autorità seconda soltanto al Nuovo plici. Per Dionigi Dio, inteso come il principio unitario
Testamento; oltre alle Epistole, Dionigi è autore di quat- che oltrepassa la realtà creata, è al di là di essa, rimane
tro importanti trattati: La gerarchia celeste, La gerarchia quindi inconoscibile e indefinibile: quello che si può co-
ecclesiastica, La teologia mistica, I nomi divini. noscere sono soltanto le sue manifestazioni.
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 217

Eriugena cerca di costruire un sistema filosofico che faccia interagire neoplatonismo


e visione cristiana, interpretando Dio attraverso il concetto di Uno di derivazione ploti-
niana: l’esito di questo impegno speculativo sarà il suo capolavoro Sulla divisione della
natura (Periphyseon o De divisione naturae, 864-868), un imponente affresco metafisico
che grazie alla nozione di “natura” riesce a tenere insieme filosofia e teologia, pensiero e
realtà, unità e differenze. Anche quest’opera, come quella sulla predestinazione, gli pro-
cura un sospetto di eresia e, in generale, riscuote scarso successo, forse per la complessi-
tà della riflessione contenuta. Diversi secoli più tardi, nel 1225, lo scritto viene condanna-
to da papa Onorio III, che lo ritiene «brulicante di eretica pravità» e ordina di bruciarne
FARE per CAPIRE
al rogo tutte le copie. L’ostilità che cresce intorno alla figura di Scoto è ben rappresentata
anche da una leggenda sulla sua fine: secondo questo racconto Eriugena, alla morte del • Evidenzia a
margine del
suo protettore Carlo il Calvo, avrebbe trovato rifugio in Inghilterra, dove però sarebbe testo gli elementi
stato ucciso delle molteplici ferite inferte dai monaci con la punta dei loro calami. Non culturalmente
mancarono, d’altra parte, i suoi estimatori: una leggenda di segno opposto narra che rilevanti della
biografia di
l’umile cappella dove era stato sepolto si illuminasse ogni notte di luce divina, così da Giovanni Scoto
convincere i monaci a dargli sepoltura in un luogo più degno. Eriugena.

La natura come l’ insieme delle cose che sono e che non sono
Gli elementi leggendari che circondano la figura di Giovanni Scoto Eriugena evidenzia-
no una statura filosofica eccezionale, che si distingue dai suoi contemporanei per l’intel-
ligenza audace, la profonda cultura e la padronanza della lingua greca, grazie alla quale
ha accesso a dottrine, come quelle neoplatoniche, perlopiù ignote ai latini, o conosciute
in modo parziale (ad esempio attraverso Agostino, il quale ne aveva acquisito alcuni ele-
menti da fonti indirette e in modo selettivo). Nella sua opera principale il debito verso
la filosofia greca è visibile non soltanto dal titolo originario (Periphyseon, letteralmente
Sulle nature), ma anche dall’impostazione neoplatonica che gli deriva direttamente dai
testi greci.

La “teologia negativa”
L a dottrina di Dionigi comporta una particolare attenzione a come parliamo di Dio,
perché le nostre parole definiscono sempre realtà molteplici e determinate: più che
affermare qualcosa su Dio, il nostro linguaggio dovrebbe mirare a escludere da Dio
ogni caratteristica che si applica al mondo creato. In questo modo si scopre una fun-
zione inedita del linguaggio: invece che descrivere una realtà finita, esso può cogliere
l’infinito divino usando la negazione, in modo da far intuire che Dio è “totalmente
altro” rispetto a tutto ciò che percepiamo e conosciamo. Ci si avvicina di più a Dio
dicendo ciò che non è (non è essere, non è pensiero, non è sostanza) che affermando
positivamente qualità che sono necessariamente limitate, perché le nostre parole de-
scrivono la realtà in modo categoriale e finito. Si tratta di un uso del linguaggio che
viene chiamato “teologia negativa”, e mira a salvaguardare sia l’assoluta inconoscibili-
tà e trascendenza della natura divina, sia la possibilità di poterne in qualche modo
parlare, di forzare il discorso umano verso ciò che va al di là della sua razionalità.

Dionigi l ’ Areopagit a ritratto nel particol are del l ’af f re sco di Andrea Bonaiuti
Trionfo di San Tommaso, XI V secolo, F iren ze, S anta Maria Novell a.
218 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Quanto alla struttura, l’opera si divide in cinque libri, composti negli anni 864-868, in
forma di dialogo tra un maestro e un discepolo, dove quest’ultimo ha il compito di
RICORDA CHE... porre domande che consentono al maestro di guidarlo nel processo della conoscenza. La
Per Plotino l’Uno è natura cui si riferisce il titolo è il termine che l’autore sceglie per designare tutta la real-
al di là di qualsiasi tà nel suo complesso, includendo in essa «sia le cose che sono, sia le cose che non sono».
molteplicità e pluralità, Le «cose che sono» rappresentano la realtà creata, tutto ciò che possiamo percepire e
e pertanto risulta
totalmente “altro” conoscere come “essere”, mentre l’espressione «le cose che non sono» si riferisce a ciò che
rispetto a ciò che trascende la realtà finita, si colloca al di là dell’essere per la sua infinità e perfezione: non
esiste. In questo senso si tratta dunque di oggetti inesistenti o immaginari, ma di Dio, inteso come principio e
è fuori dalla portata
del pensiero e fine del tutto. L’essenza divina è imperscrutabile e va pensata al di sopra e al di là dell’es-
del linguaggio. ❯ p. 82 sere, come già avveniva per l’Uno plotiniano. Il non essere di Dio non è pertanto un
indice di inesistenza o un predicato che lo avvicina al nulla: segnala invece la sua perfe-
zione e trascendenza rispetto alla realtà (l’essere) che possiamo descrivere e comprende-
❯ testo 1 p. 226 re con la nostra razionalità.
“Natura” è quindi un termine che unisce due prospettive incommensurabili, la natu-
ra dell’essere creato, che si può descrivere e conoscere con le categorie, e quella divina,
che è incomprensibile e indicibile. In tal senso offre un punto di vista comune entro cui
pensare il tutto in modo unitario: “natura” ha pertanto un significato metafisico, e non
semplicemente fisico. Non è però un genere astratto, inteso in senso logico, e non offre
neppure una visione statica, ma costituisce il punto focale attraverso cui la totalità è col-
ta nel suo principio di unità e insieme nella sua diversificazione. La molteplicità non
corrompe la totalità, perché in ogni elemento è presente il principio unitario, da cui tutto
deriva e in cui tutto ritorna. Questa rappresentazione allo stesso tempo unitaria e molte-
plice è possibile perché Eriugena descrive la totalità come vivente e processuale. Proprio
la scelta del termine “natura” lo manifesta chiaramente: “natura” (dal latino nascor, “na-
sco”) rinvia immediatamente a un processo generativo o di creazione; in essa è compresa
la realtà nella sua varietà infinita, dove le differenze non distruggono l’unità, ma la di-
spiegano in armonia.

FARE per CAPIRE • Elabora una breve definizione della realtà per Eriugena, usando i termini totalità
- unità - molteplicità.

La derivazione dal primo principio e le divisioni della natura


Dopo aver affrontato la prima grande divisione della realtà in cose che sono e cose che
non sono, Eriugena si occupa del processo di derivazione delle prime dalle seconde e di
come tutto il creato aneli a tornare all’unità originaria. Contemplata nella sua totalità la
natura è «l’insieme delle cose che sono e di quelle che non sono»; colta invece nel suo
processo di differenziazione, si esplica in diversi livelli di esistenza. Il linguaggio rive-
la l’ispirazione neoplatonica e descrive un movimento di derivazione dall’Uno e di ritor-
no a esso, ma il modo con cui Eriugena approda alla distinzione di quattro gradi della
natura è originale, perché si serve di un procedimento dialettico.

lessico natura in Scoto Eriugena il termine indica tut- nite come tali non perché non esistano, ma per-
filosofico ta la realtà, sia quella creata, cioè le cose che ché Dio è oltre l’essere e ogni possibilità di defi-
sono, l’essere, sia quella divina, cioè le cose che nizione, cioè è assolutamente trascendente.
non sono, il non essere; queste ultime sono defi-
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 219

La dialettica nel Medioevo è una delle arti liberali del trivio e costituisce l’anima logico-
razionale della filosofia, in virtù dell’assunto che vi è corrispondenza tra la realtà, il pensie-
ro e il linguaggio che lo esprime. Partendo dall’espressione linguistica di cui il pensiero si
serve, la dialettica ha la funzione di analizzare, definire e comprendere la realtà. In questo
caso, Eriugena considera la nozione di “natura” come un nome generale, che viene specifi-
cato attraverso differenze. Tali differenze si ottengono attribuendo alla natura l’attività del
creare, in tutte le sue possibili forme verbali: affermativa e negativa, attiva e passiva; com-
binando reciprocamente tutte le possibilità si ottiene la quadripartizione seguente.
1. Natura che non è creata e che crea. Tale natura è Dio, principio di tutto, considera-
to in sé, al di là di quanto la ragione umana può conoscere o esprimere. È quindi
trascendente, ineffabile, inconcepibile; una infinità insondabile, a cui non si può ap-
plicare alcuna determinazione categoriale: le nostre parole possono descrivere sol-
tanto le realtà finite, che si possono appunto “determinare”. In relazione alla divinità
l’unico linguaggio che si avvicina alla sua essenza è quello della teologia negativa,
cioè il discorso in cui, anziché affermare una proprietà divina, si negano gli attributi
che possono confondere Dio con una realtà creata. È proprio in virtù della teologia
negativa che, ad esempio, si può parlare di Dio come “non essere”.
2. Natura che è creata e che crea. La seconda divisione della natura rappresenta
le idee o forme ideali con cui Dio crea il mondo. Nella Genesi, il primo libro della
Bibbia, la creazione avviene tramite la sua parola («Dio disse... e il mondo fu»,
Genesi 1). Nell’interpretazione cristiana questa parola divina è il Verbo, cioè il Figlio
di Dio, coeterno e coessenziale a Dio. Tale visione viene ulteriormente arricchita
con le suggestioni provenienti dal Timeo platonico, dove il demiurgo plasma le re-
altà sensibili a partire dalle idee. Così anche il Verbo divino nella teologia cristiana
si serve di forme ideali e perfette per creare tutte le realtà: queste forme intelligibi-
li dunque partecipano attivamente alla creazione, ma nello stesso tempo sono una
“natura creata”, perché ontologicamente inferiori a Dio. Se le idee sono eternamen-
te presenti nella mente divina, ciò significa che tutta la creazione è pensata in Dio
dall’eternità e in qualche modo fa parte della natura divina, non è esterna a essa.
3. Natura che è creata e che non crea. È il mondo creato, non più presente soltanto
nella mente di Dio, ma che riceve un’origine nel tempo ed è collocato in una di-
mensione spazio-temporale. Si tratta di una realtà finita e imperfetta; in quanto
però frutto della volontà libera e creatrice di Dio, possiede un’intrinseca bontà on-
tologica: ciò che deriva da Dio non può essere che buono. Per Eriugena la creazione
rappresenta il massimo dispiegarsi del primo principio, è una sua manifestazione
o teofania. Con questo termine, che è una delle nozioni portanti del suo sistema,

dialettica insieme alla grammatica e alla re- sibile definire Dio in positivo, possiamo parlarne lessico
torica, è una delle arti del trivio e consente di soltanto in negativo, negando di Dio qualsiasi filosofico
sviluppare la capacità di analizzare e compren- attributo o caratteristica che noi attribuiamo alla
dere le espressioni linguistiche con cui il pensie- realtà creata.
ro si esprime, mettendo in luce i rapporti logici e
razionali interni al discorso. teofania (dal greco theós, “dio”, e pháinomai,
“appaio”) letteralmente il termine indica una ma-
teologia negativa la teoria secondo cui Dio, nifestazione sensibile della divinità. Secondo Eri-
essendo infinito, creatore e trascendente, è to- ugena i quattro gradi della natura sono teofanie
talmente oltre le possibilità espressive del lin- in quanto appunto manifestazioni di Dio, che tut-
guaggio umano, che è limitato; non è quindi pos- tavia rimane in sé assolutamente trascendente.
220 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

l’autore interpreta tutti i gradi della natura, compresa la realtà sensibile, come un
processo di rivelazione divina: Dio in sé rimane assolutamente trascendente e
inafferrabile, ma noi possiamo coglierne le manifestazioni. Dio si dispiega nel crea-
to, perché tutto ciò che esiste non è un effetto esterno, ma esiste in lui, prima nella
sua mente e poi nel tempo. Se il creato è una teofania divina, non può perciò esse-
re inteso come una degradazione rispetto all’essere originario.
4. Natura che non è creata e che non crea. La quarta natura è ancora Dio, compreso
come il fine di tutto l’universo e non più come sua causa, cioè inteso al di là della
sua attività creatrice, come la meta verso cui tutte le cose devono fare ritorno. Il
primo e l’ultimo momento pertanto coincidono, conferendo un movimento circo-
lare all’interpretazione della realtà come natura.

MAPPA LE DIVISIONI DELLA NATURA


CONCETTUALE
LA NATURA

si articola in

1. natura che non è 2. natura che è 3. natura che è 4. natura che non è
creata e che crea creata e che crea creata e che non crea creata e che non crea

Dio, principio di le idee o forme ideali il mondo creato, finito Dio inteso come fine
tutto, trascendente, di cui Dio si serve e imperfetto, collocato di tutto l’universo
ineffabile, nella creazione del nella dimensione
inconcepibile mondo spazio-temporale

Una visione positiva della realtà e dell ’ uomo


Quello che Scoto Eriugena elabora è un sistema metafisico estremamente raffinato e
complesso, che sarà scarsamente compreso nel suo tempo, e che oltre ad alcuni estima-
tori incontrerà molte critiche e censure. Vale la pena menzionare due aspetti filosofica-
mente rilevanti e originali, che lasciano trapelare una visione della realtà e dell’uomo
poco convenzionale: 1. l’inesistenza del male come realtà ontologica e la critica della
concezione tradizionale dell’inferno; 2. la fiducia nella ragione umana.
1. Per quanto riguarda il primo aspetto, Eriugena propone una grandiosa visione,
dove Dio si manifesta tramite la creazione e richiama tutto a sé, e quindi non c’è
spazio per il male come realtà esterna a Dio. Eriugena critica anche la concezione
tradizionale dell’inferno come un luogo ultraterreno in cui i dannati vengono pu-
niti con atroci sofferenze, perché trasmette un’immagine vendicativa di Dio, che si
accanisce in eterno sui peccatori escogitando le pene più terribili. D’altra parte,
questo non implica che vi sia un’identica beatitudine per tutti, perché significhe-
rebbe non considerare (e perciò non rispettare) le libere scelte fatte dagli uomini
durante la vita terrena. I peccatori perciò soffriranno una sorta di inferno interiore,
provocato dalla consapevolezza di non poter accedere alla contemplazione divina:
a renderli infelici non saranno il fuoco dell’inferno o le sofferenze fisiche, ma il
fatto di essersi preclusi la beatitudine. Nella vita eterna, come in quella terrena, il
male è dunque concepito neoplatonicamente come assenza di bene.
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 221

2. Nel distinguere i diversi aspetti della natura traspare un’enorme fiducia nelle ca-
pacità intellettuali umane e nella possibilità di conoscere la realtà tramite la filo-
sofia: i procedimenti logico-razionali si possono applicare alla natura, perché la dia-
lettica non è soltanto legge del pensiero, ma corrisponde allo sviluppo processuale
della natura e alla sua intrinseca razionalità. Nella ricerca del principio divino del
reale la filosofia assume un ruolo di primo piano, tanto da essere equiparata alla
“vera religione”, perché proviene dalla stessa verità divina e ha il compito di illu-
minare il contenuto della rivelazione, per prevenire gli errori da parte dei fedeli.
Nello stesso tempo, la filosofia è attività umana e ha quindi dei limiti, perché, nonostan-
te la struttura razionale della realtà, la natura divina rimane inconoscibile e inafferrabile.
La ragione è la facoltà conoscitiva discorsiva, che comprende l’ordine interno dell’univer-
so, si serve di categorie e si esprime nel linguaggio: il suo ambito d’azione è il mondo crea-
to. Se però questo mondo è inteso come manifestazione divina, allora le categorie concet-
tuali si rivelano inadeguate: la filosofia mostra qui i confini della ragione stessa e insieme li
oltrepassa, aprendosi all’infinito. La mente umana è infatti in grado di elevarsi dal crea-
to al suo fondamento increato: pensando il tutto come “natura” (l’unità metafisica del creato e
del divino) e affermando il limite della conoscenza umana, la mente supera sé stessa e può
ascendere all’infinità di Dio, in una sorta di intuizione intellettuale che non è conoscen-
za in senso proprio, ma è la base per la contemplazione di Dio. ESERCIZI

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la concezione del male e la funzione della filosofia.

3 Filosofia in arabo: la “Casa della sapienza”


di Baghdad
La trasmissione della filosofia greca nel mondo arabo
Tra il VII e l’VIII secolo l’espansione islamica a oriente (il cui esito viene definito median-
te l’espressione “islam orientale”) aveva sottratto numerosi territori all’Impero bizantino
(Siria, Egitto, Palestina) e sconfitto l’Impero persiano, giungendo poi a spingersi fino al
lago Aral con la presa di Kabul e Samarcanda. Già nell’VIII secolo tale espansione si era
rivolta anche verso occidente, in particolare in Africa settentrionale e in Spagna.
Con la conquista della Siria, dell’Egitto e della Persia i musulmani avevano scoperto
non soltanto l’ingente patrimonio filosofico dell’antichità greca, conservato pressoché
integro, ma anche scuole e centri di cultura in cui la filosofia era una tradizione viva,
come Damasco, Alessandria, Antiochia, Edessa e Harran, nell’alta Mesopotamia.
L’occupazione politica non distrugge questo tessuto culturale: si mostra al contrario
particolarmente ospitale nei confronti dei cristiani, degli ebrei e dei filosofi in generale.
Molti di questi erano stati perseguitati come pagani o eretici nell’Impero bizantino; ora,
pur in subordine ai musulmani, acquistano invece lo status di “protetti”. È un’accoglien-
za che non si configura come mera tolleranza né disinteresse, ma rientra in una politica
culturale che pone gli intellettuali al servizio della raccolta e della traduzione del patri-
monio antico, a prescindere dalle loro origini e credenze religiose.
222 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

❯ Un maestro di
filosofia e i suoi
discepoli, miniatura,
XIII secolo.

All’inizio l’interesse sembra volto soprattutto agli studi scientifici, come la medicina,
l’astronomia, la matematica – tutte discipline che conoscono uno sviluppo inedito nell’i-
slam orientale –, ma ben presto l’azione di traduzione si indirizza anche ai testi filosofici
propriamente detti. Una leggenda racconta che Aristotele in persona sarebbe apparso in
sogno al califfo al-Mamun (786-833), per esortarlo a raccogliere e tradurre tutti i mano-
scritti delle sue opere. Proprio durante il regno di questo califfo si sviluppa a Baghdad la
“Casa della sapienza”, un’istituzione unica, che è insieme una biblioteca dotata di circa
mezzo milione di volumi e un centro di studi, dove convergono i traduttori e le massime
personalità intellettuali dell’epoca; comprende inoltre un osservatorio astronomico e un
laboratorio medico, che funge anche da ospedale.
Nel massiccio sforzo di traduzione dei testi filosofici promosso dai califfi arabi si mo-
strano alcune tendenze interpretative, che rivelano interessi e priorità, e un preciso fine
politico e ideologico. In primo luogo, il patrimonio culturale dell’antichità viene inter-
pretato come un tutto omogeneo, senza accentuare le differenze di pensiero, di scuola,
di stile filosofico. Nell’accostarci alla filosofia antica per noi è evidente la contrapposi-
zione tra il pensiero platonico e quello aristotelico, oppure tra stoici ed epicurei, e siamo
consapevoli dell’impossibilità di ridurre l’uno all’altro. Nella ricezione araba, al contra-
rio, ci si sforza di conferire un progetto unitario alla filosofia precedente, in una visione
concordistica: i sistemi filosofici trovano il loro posto in una concezione globale, che
armonizza le differenze, come in una sinfonia di strumenti diversi. Questo disegno si
ripercuote anche nella scelta dei filosofi: Platone viene tradotto soltanto in parte, mentre
ci si concentra soprattutto su Aristotele, oggetto di numerose traduzioni e commenti, che
lo leggono però in chiave neoplatonica.

lessico concordismo prospettiva che tende a conci- unitario alla filosofia greca, privilegiando gli ele-
filosofico liare orientamenti filosofici differenti; nel pen- menti di concordanza tra gli autori, in particola-
siero arabo è lo sforzo di conferire un progetto re Platone e Aristotele.
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 223

Il lavoro di traduzione stimola la nascita di una filosofia in lingua araba, che ha tra i FARE per CAPIRE
suoi primi obiettivi quello di chiarire il ruolo della filosofia (che ha un’origine pagana)
• Sottolinea le
entro la visione teologica dell’islam. Da questo punto di vista i pensatori arabi affrontano, attività fonda-
con alcuni secoli di anticipo, lo stesso problema che affronteranno quelli ebrei e quelli la- mentali che si
tini: qual è il valore della filosofia in una visione religiosa della realtà? Che cosa può dire svolgevano nella
“Casa della
la razionalità umana di fronte ai testi della rivelazione divina (come la Bibbia e il Corano)? sapienza” e prova
Il confronto tra filosofia e rivelazione si gioca tutto sull’interpretazione di Aristotele, a immaginare
un’istituzione
che per essere accolto viene “teologizzato” utilizzando i concetti della filosofia neoplato- moderna a essa
nica: questo è l’apporto fondamentale di autori quali al-Kindi e al-Farabi. comparabile.

al-Kindi
Il primo filosofo che a Baghdad lavora per accogliere la metafisica aristotelica nella teo-
logia islamica è al-Kindi (800-866), tanto da essere noto come “il filosofo degli arabi”.
Profondamente convinto della possibilità di conciliare la rivelazione e la filosofia, è
proprio per accordare la metafisica di Aristotele con la visione religiosa musulmana che
egli la completa con la teoria dell’Uno plotiniano. La tensione verso l’Uno e il significa-
to quasi religioso che il neoplatonismo attribuisce a esso diventano la chiave di lettura
di Aristotele; sembra una forzatura, come se volessimo comprendere il senso ultimo
dell’Odissea aggiungendovi il viaggio narrato da Dante nella Divina commedia, ma biso-
gna cercare di comprendere il punto di vista dei primi interpreti di Aristotele.

ESPERIMENTO filosofico Che cos’è un testo?


• Sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in 2 o 3 gruppi con ugual numero di componenti
(non più di 10 studenti ciascuno); identificate ogni gruppo con una lettera dell’alfabeto: “A”,
“B”, “C”. Gli studenti devono rimanere nei propri banchi, in maniera che il gruppo identifichi
una fila o una serie di banchi vicini.
• Distribuite a ogni studente un foglio di piccole dimensioni, uguale per tutti (ad esempio
dividendo in 8 parti un foglio A4).
Sul retro del foglio ciascuno studente riporti la lettera del gruppo di appartenenza e il
proprio numero progressivo – in modo che lo studente più vicino alla cattedra abbia il n. 1,
il vicino il n. 2 e così di seguito.
• Lo studente con il n. 1 di ogni gruppo riceverà alcune righe da copiare. A titolo di esempio
si può utilizzare questo brano in olandese, estrapolato dal contesto di origine e privato di
maiuscole e punteggiatura:
het is in samenhang met de verdachtmakingen over en weer dat filosofen zich nadrukkelijk
gingen beroepen op de autoriteit van enkele beroemde voorgangers.
• Una volta terminata la copiatura, lo studente
n. 1 passerà il suo foglio al vicino, trattenendo
l’originale; il n. 2 passerà la sua versione al n. 3,
trattenendo quella del n. 1, fino all’ultimo.
• Occorre completare la copiatura nel modo
più veloce possibile: l’ultimo studente di ogni
gruppo deve consegnare l’esito all’insegnante.
Vince il gruppo che consegna per primo.
Obiettivo dell’esperimento è simulare la prati-
ca dei copisti medievali, riflettendo sui testi
che ne risultano.
224 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Nella Metafisica di Aristotele si trovano la dottrina delle cause, la trattazione della teoria
dell’essere e della sostanza, e nel XII libro vi è anche una rappresentazione di Dio come
primo motore immobile e pensiero di pensiero. Quest’ultima sezione però non sembra
molto congruente con la teoria dell’essere esposta nei libri precedenti, o perlomeno Aristo-
tele non indaga i rapporti tra essere e Dio, che è il vero motivo di interesse di al-Kindi. Egli
ritiene che l’incongruenza possa essere colmata se il Dio aristotelico viene ad assumere
anche le caratteristiche dell’Uno neoplatonico: in tal modo è infatti possibile mostrare la
sintonia della filosofia con la fede islamica, perché le proprietà dell’Uno si accordano bene
alla concezione teologica di Allah (in particolare alla sua assoluta unicità, trascendenza,
inconoscibilità e indefinibilità). L’esito di tale peculiare integrazione è duplice:
1. la Metafisica di Aristotele viene interpretata a partire dal XII libro, al fine di elabo-
rare una visione filosofica di Dio, e anche le parti più propriamente “ontologiche”
(l’essere in quanto essere, la sostanza, l’atto e la potenza) sono usate a questo sco-
po: ciò significa che la metafisica culmina in una teologia filosofica;
2. la trattazione aristotelica di Dio arricchita con la tradizione neoplatonica produce testi
“ibridi”, cioè testi composti da una sintesi di brani neoplatonici la cui paternità è
attribuita ad Aristotele. I due esempi più celebri sono redatti proprio all’interno
della cerchia di al-Kindi: La teologia di Aristotele, che riporta ampie parafrasi delle
Enneadi di Plotino, e Il libro delle cause, che è un adattamento degli Elementi di teologia
di Proclo. Questi testi verranno poi tradotti in Occidente sotto la paternità aristotelica,
perpetuando perciò l’interpretazione concordistica anche tra i latini (❯ Per approfondire).

al-Farabi
Il secondo grande filosofo operante a Baghdad è al-Farabi, vissuto quasi un secolo dopo
al-Kindi (880-950). Egli ne prosegue il progetto concordistico, anzi scrive addirittura un
Trattato sull’accordo fra le dottrine dei due sapienti, Platone e Aristotele. L’accordo tra le due filo-
sofie maggiori dell’antichità non riguarda soltanto la metafisica, ma anche la dottrina della
conoscenza. Particolarmente rilevante per l’influenza filosofica successiva è la teoria della
felicità intellettuale, che si fonda su una peculiare interpretazione del De anima di Aristo-
tele che farà scuola. In quell’opera Aristotele aveva distinto due funzioni dell’intelletto: una
ricettiva dei contenuti, che descrive la capacità di imparare (l’intelletto potenziale); l’altra
attiva, che rappresenta il principio che effettivamente trasforma in atto la possibilità di ap-
prendere (l’intelletto agente) e che viene paragonata alla luce che consente agli occhi di ve-
dere. Questa distinzione descrive bene il processo individuale dell’apprendimento, ma non
l’universalità della nostra conoscenza; ad esempio chiarisce come uno studente, grazie alle
spiegazioni ricevute e allo sforzo di concentrazione, possa comprendere un teorema di geo-
metria, ma non dice perché quel teorema sia valido per tutti. Su questo aspetto la teoria delle
idee di Platone aveva fornito una risposta più adeguata: la garanzia di validità e l’universalità
della nostra conoscenza geometrica poggiano sull’esistenza reale dell’idea di triangolo.
Per rispondere all’esigenza di fondare la conoscenza in quanto universale, al-Farabi
ritiene che l’intelletto agente sia distinto dall’uomo e lo descrive come sussistente di
ESERCIZI per sé, sulla base di un passo aristotelico piuttosto oscuro in cui esso viene definito

lessico intelletto agente in al-Farabi, deriva da Dio, è unico per tutti gli uomini, è la sede dei modelli univer-
filosofico sali della conoscenza e il principio che, illuminando l’intelletto individuale, gli permette di conoscere.
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 225

«separato» e «immateriale». Tale intelletto, unico per tutti gli uomini, viene ad assolvere
la stessa funzione delle idee platoniche: è la fonte dell’universalità della conoscenza,
ma anche il principio che illumina la mente umana e spiega il percorso individuale di
apprendimento. Nell’acquisizione della conoscenza vi è dunque un apporto esterno, che
deriva direttamente da Dio; l’intelletto umano, oltre che esserne illuminato, aspira a ele- FARE per CAPIRE
varsi a questa luce eterna, a congiungersi con essa, a divenire simile a Dio. Viene descrit- • Evidenzia nel
to un processo che non è soltanto la spiegazione dell’attività del conoscere, ma anche la testo il modo
ricerca di perfezione morale, in un percorso che porta alla felicità nella misura in cui ac- in cui viene letto
Aristotele e la
crescere la conoscenza avvicina di più al principio divino. Al-Farabi formula per la prima finalità per cui
volta una tesi che avrà seguito nei secoli successivi, sia nel mondo arabo sia in quello la- viene usato.
tino: la conoscenza è una sorta di ascesi spirituale, che porta a una beatitudine filosofi-
ca, nel senso che rende più simili a Dio. ❯ testo 2 p. 228

Il Liber de pomo: una particolare interpretazione della filosofia aristotelica


N ella cerchia filosofica di al-Kindi ha origine proba-
bilmente anche uno scritto di autore ignoto che
avrà grandissimo successo in tutto il Medioevo, il Liber
tutto si rivolge a Dio come creatore. Questi aspetti fa-
ranno la fortuna dell’opera per molti secoli: nel mondo
latino la paternità aristotelica viene messa in dubbio sol-
de pomo sive de morte Aristotelis (“Il pomo e la morte tanto all’inizio del Trecento, ma il testo continuerà a cir-
di Aristotele”). colare sotto il suo nome anche nei secoli successivi, e
sarà tradotto in alcune lingue volgari (come l’italiano e il
T radotto in persiano (intorno al IX-X secolo) e poi in
ebraico a Barcellona nel 1235, entra nel mondo lati- catalano), oltre che ispirare diversi poemi e poesie.
no grazie alla traduzione dall’ebraico di Manfredi, re di
Sicilia, nel 1255, venendo inspiegabilmente attribuito
allo stesso Aristotele. Il testo si presenta nella forma di
P er quanto possa sembrarci strano, sono pochi quelli
che notano la profonda incompatibilità di questa
raffigurazione di Aristotele con il contenuto delle
un dialogo tra Aristotele, gravemente malato, e alcuni sue opere: è un segnale della particolare interpretazio-
filosofi che gli fanno visita per essere istruiti sulla vera ne con cui la filosofia aristotelica viene integrata in una
sapienza. Aristotele trova le energie per rispondere rappresentazione religiosa del mondo.
grazie alla fragranza profumata di una mela, che tiene
nella mano tremante finché gli mancano le forze:
quando il frutto cade dalla mano, il filosofo si spegne.

Il dialogo è realizzato sul modello del Fedone di Platone,


sia nei contenuti – Aristotele afferma che il saggio non
deve temere la morte, che rappresenta una liberazione
dell’anima dal carcere del corpo – sia nei personaggi – i
nomi dei saggi assomigliano a quelli dei discepoli pre-
senti negli ultimi istanti di vita di Socrate. Oltre ad attri-
buire ad Aristotele la visione platonica della morte, ci
sono alcuni elementi che chiariscono la finalità del testo,
che consiste nel mostrare la compatibilità tra la filosofia
e la religione: nel suo lascito spirituale, il filosofo afferma
con certezza l’immortalità dell’anima, l’importanza di
una vita virtuosa che rinunci ai desideri terreni, e soprat-

Aristotele, mal ato, con l a mel a tra le mani, miniatura tratta da


un ’ edizione del Liber de pomo sive de morte Aristotelis, XIII secolo.
226 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

TESTI del capitolo 17


Filosofi di corte tra IX e X secolo

SCOTO ERIUGENA
t1 La sublime natura divina
dall’Omelia sul prologo al Vangelo di Giovanni
Il brano seguente è l’inizio dell’omelia che Eriugena dedica al prologo del Vangelo di Giovanni, un testo
di alta densità concettuale, che presenta il Figlio di Dio come Lógos o Verbo divino. Con un ritmo
avvincente e uno stile più appassionato che argomentativo, in cui abbondano le immagini, Eriugena
conduce il lettore a penetrare la sublimità della natura divina. L’autore invita a contemplare una realtà
inaccessibile, che si eleva al di là del mondo fisico ma anche intellettuale, che supera ciò che può
essere compreso dall’intelligenza e giunge alle cose che non sono: il Verbo divino e il principio
ineffabile di ogni cosa.

[La voce dell’evangelista] La voce dell’aquila spirituale risuona all’orecchio della chiesa.
Volti verso l’esterno, i sensi ne raccolgano il suono fuggevole, l’animo interiore ne penetri
il significato immutabile. Voce del volatile delle altitudini, che vola non solo al di sopra
dell’elevamento fisico dell’aria, o dell’etere, o del limite stesso dell’universo sensibile nel-
5 la sua totalità, ma arriva a trascendere ogni teoria, al di là di tutte le cose che sono e che
non sono, con le ali veloci della più inaccessibile teologia, con gli sguardi della contem-
plazione più luminosa ed elevata.
[Le cose che sono e che non sono] Definisco, precisamente, «cose che sono» tutte quelle
che non sfuggono interamente a una qualsiasi forma di comprensione, sia umana sia
10 angelica, collocandosi al di sotto di Dio, entro il numero delle creature che hanno origine
dalla causa unica di tutte le cose. Per «cose che non sono» intendo invece quelle che ol-
trepassano assolutamente le forze di qualsiasi intelligenza.
[Il Verbo al di là dell’intelletto] Così, il santo teologo Giovanni non si limita a sollevarsi in
volo sopra ciò che può essere compreso dall’intelligenza ed espresso dalla parola, ma si
15 spinge al di là, all’interno di ciò che supera ogni intelligibilità e ogni significato. Al di fuori
di tutte le cose, con il volo ineffabile della mente, è innalzato fin entro l’arcano del principio
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 227

unico di tutte le cose, e mentre percepisce limpidamente, dello stesso principio e Verbo,

TESTI
cioè del Padre e del Figlio, l’incomprensibile superessenzialità dell’unione, insieme all’in-
comprensibile supersostanzialità nella distinzione, inizia il suo vangelo annunciando: In
20 principio era il Verbo.
(G. Scoto Eriugena, Omelia sul prologo di Giovanni, 1, a cura di M. Cristiani,
Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1987, pp. 9-11)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea nel brano tutte le espressioni che indicano un trascendimento, un oltrepassamento e un
superamento della comprensione e della realtà.
2. Evidenzia nel testo la definizione delle «cose che sono» e delle «cose che non sono».

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-7 L’aquila è il simbolo dell’evangelista cato più ampio di “essere” perché include anche la
Giovanni, secondo una tradizione patristica che at- divinità.
tribuisce agli evangelisti il riferimento ai quattro
righe 13-20 Il termine «Verbo» è la traduzione
esseri viventi di Apocalisse 5, 6-8 (oltre a Giovanni-
del greco Lógos, riferito al Figlio di Dio: non indica
aquila, Matteo è rappresentato come uomo, Luca
soltanto la parola, intesa come manifestazione del
come toro, Marco come leone). L’aquila, inoltre,
pensiero interiore, ma il pensiero stesso, che prima
per la sua capacità di volare in alto e per la vista
ancora di esprimersi è una sorta di discorso. Qui la
acuta e penetrante, che non teme la luce del sole,
riflessione teologica incontra la ricerca filosofica
compare in diversi contesti letterari come simbolo
del «principio»: benché l’origine di tutte le cose sia
della contemplazione diretta della luce divina: l’an-
«arcana» e incomprensibile per l’intelletto umano,
nuncio del prologo di Giovanni oltrepassa i sensi e
Giovanni vi fa ugualmente riferimento con lucidità
l’intelletto umano, perché supera l’universo fisico
e chiarezza. L’evangelista contempla nel principio
ma anche ogni visione intellettuale, giungendo
l’unione e la distinzione del Padre e del Figlio, no-
fino al principio della divinità.
nostante esse siano al di là dell’essenza («superes-
righe 8-12 Le «cose che sono» e quelle «che non senzialità») e della sostanza («supersostanziali-
sono» indicano una nuova visione della realtà, non tà»). Le parole e il pensiero umano si infrangono di
più compresa dal termine “essere”: Dio infatti è al fronte a una tale contemplazione della mente:
di là dell’essere e di ogni intelligenza creaturale. Nel tutto il brano utilizza la teologia negativa, in quan-
Periphyseon questa distinzione è ricompresa all’in- to non si può descrivere ciò che si afferma, ma sol-
terno del termine “natura”, che ha quindi un signifi- tanto rinviare a un “oltre”.

RIFLETTI
1. Nel testo Eriugena descrive come Giovanni sia riuscito a elevare il pensiero al di sopra della realtà
fisica. Riesci a immaginare di poter fare un’esperienza del genere? In che modo?
2. Rifletti sul rapporto tra pensiero e parola: che cosa viene “prima”? In che senso il tuo pensiero può
essere descritto come discorso interiore? Quando non trovi la parola che esprime correttamen-
te una cosa, puoi davvero dire di conoscere quest’ultima? Motiva la risposta.
228 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

AL-FARABI
TESTI

t2 La filosofia madre di tutte le scienze


da Il conseguimento della felicità
Al-Farabi presenta la filosofia non soltanto come la più alta forma di sapere, ma anche come possesso
delle virtù e della capacità di agire: per questo motivo tutte le altre scienze sono a essa subordinate e
concorrono alla sua acquisizione, che costituisce la suprema felicità umana. Il filosofo «perfetto» ha
quindi le qualità per essere anche il miglior governante delle città e degli Stati.

[La filosofia prima] Questa scienza1 precede tutte le altre ed è la più perfetta per esercita-
re il governo; tutte le altre scienze che hanno a che vedere col governo sono subordinate ad
essa. Con «tutte le altre scienze che hanno a che fare col governo» io intendo la seconda e la
terza2 e quelle che ne derivano, e ciò perché esse seguono l’esempio della prima e sono
5 impiegate allo scopo di perfezionare il fine di quella prima scienza, cioè il conseguimento
della suprema felicità e della più compiuta perfezione che l’uomo possa attingere.
[La storia interculturale della filosofia] Di questa scienza si dice che esisteva già in antico3
presso i caldei4 che abitavano l’Iraq, quindi è passata agli egiziani e da loro ai greci, dove
si è conservata fino a che non è stata trasmessa ai siriani e da loro agli arabi. Tutto ciò che
10 era compreso in questa scienza fu espresso dapprima in lingua greca, poi in siriaco e infine
in lingua araba. I greci che possedevano questa scienza la chiamavano sophía nel senso più
elevato del termine, e massimamente sapienza. Chiamavano inoltre l’acquisizione di que-
sta scienza e l’abito mentale che ne deriva filosofia, intendendo con essa l’amore e l’inclina-
zione per la massima sapienza. Pensavano che essa potenzialmente comprendesse tutte le
15 virtù e la chiamavano scienza delle scienze o madre delle scienze o sapienza di tutte le
sapienze o arte di tutte le arti […].
[Il filosofo perfetto] Quando le scienze speculative sono separate le une dalle altre e chi le
possiede non ha la capacità di utilizzarle in campi diversi, si tratta allora di filosofia difet-
tosa. Il filosofo perfetto al massimo grado è colui che, acquisite le scienze speculative, ha la
20 capacità di utilizzarle a beneficio degli altri per quanto gli è possibile. Se si considera il fi-
losofo perfetto, si scopre che non vi è alcuna differenza tra lui e il supremo governante, e
ciò perché colui che ha la capacità di utilizzare quanto è compreso nelle scienze speculati-
ve a beneficio degli altri è tra quelli che hanno la capacità di fare esistere in atto tanto gli
oggetti intelligibili quanto i volontari.
(al-Farabi, Il conseguimento della felicità, 54-55, in Scritti politici,
a cura di M. Campanini, UTET, Torino 2007, pp. 108-109)

1. La scienza speculativa, ovvero la filosofia prima.


2. Nella terminologia di al-Farabi si tratta qui della facoltà persuasiva e dell’immaginazione.
3. Nell’antichità.
4. Popolazione semita, stanziata nella parte meridionale della Mesopotamia, la cui esistenza è attestata dai testi
assiri fin dal IX secolo a.C.
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 229

TESTI
ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea le diverse espressioni con cui nel testo ci si riferisce alla filosofia.
2. Evidenzia nel brano il riferimento alle modalità di trasmissione della filosofia agli arabi, attraverso il
fenomeno delle traduzioni.
3. Sottolinea nel testo la definizione della filosofia «difettosa» e quella del filosofo «perfetto».

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-6 La descrizione della filosofia prima che l’autore accoglie con entusiasmo e apertura
sottende una tripartizione delle scienze che si fon- mentale: questo atteggiamento ricettivo è tanto
da sui tre tipi di ragionamento individuabili nella più comprensibile per il fatto che si tratta della
logica di Aristotele (quello dimostrativo proprio massima sapienza, madre di tutte le scienze, le arti
delle scienze speculative, quello dialettico, che si e le virtù.
serve di premesse probabili, e quello retorico), una
righe 17-24 Il testo evidenzia non soltanto che
distinzione che avrà una certa fortuna nel mondo
la filosofia prima è una conoscenza superiore, ma
arabo. Anche Aristotele aveva definito la metafisi-
anche che il suo possesso implica l’acquisizione
ca come la scienza più nobile, ma aveva mantenuto
delle altre scienze, sia speculative sia pratiche. Il
l’autonomia delle altre scienze nel metodo e nei
«filosofo perfetto» è infatti in grado di utilizzare la
contenuti; al contrario, al-Farabi sostiene che le al-
sua sapienza in ambiti diversi, secondo una visione
tre scienze dipendono da quella speculativa e che è
unitaria e interdisciplinare del sapere. Tale perfe-
possibile governare soltanto con una piena padro-
zione mira tanto alla realizzazione individuale
nanza della filosofia.
quanto al bene comune: il perfetto filosofo è an-
righe 7-16 In questa digressione sull’origine del- che supremo governante, perché sa impiegare le
la filosofia, al-Farabi si mostra consapevole che conoscenze a beneficio di tutti, dal momento che
tale scienza non è una creazione degli arabi, ma è ha la capacità sia di comprendere (cioè portare in
giunta loro attraverso svariati passaggi culturali e atto i contenuti potenzialmente intelligibili) sia di
molteplici traduzioni. Gli arabi sono soltanto l’ulti- realizzare le decisioni della sua volontà.
mo anello di una catena di trasmissione del sapere,

RIFLETTI E DISCUTI
1. Anche Platone riteneva che i governanti dovessero essere filosofi. Quali analogie e differenze riscon-
tri fra la posizione platonica e quella di al-Farabi?
2. Il testo mira a evidenziare che la filosofia è superiore alle altre scienze, e che chi vi si dedica raggiun-
ge la perfezione e la felicità. Discuti questo assunto con i tuoi compagni, ponendo in luce
quanto la conoscenza possa o meno essere un elemento imprescindibile per essere felici.
230 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 17
SINTESI Filosofi di corte tra IX e X secolo:
Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi
AUDIOSINTESI

1 Lo “spostamento” della cultura: dal centro alla periferia


Nell’VIII e nel IX secolo si possono individuare due stengono la cultura per dare unità e stabilità ai regni
centri culturali principali: la corte di Carlo Magno ad sotto il loro dominio e giustificazione e prestigio al
Aquisgrana e la “Casa della sapienza” a Baghdad proprio potere.
fondata dal califfo al-Mamun. Entrambi i sovrani so-

2 La rinascita carolingia e Giovanni Scoto Eriugena


Qual è l’obiettivo del rinnovamento culturale pro- create e finite (“quelle che sono”), sia quelle non cre-
mosso da Carlo Magno? Carlo Magno vuole dare or- ate e infinite (“le cose che non sono”, nel senso che si
dine al suo regno, legittimarlo, formare una classe collocano oltre il concetto di “essere” riferito alle cose
dirigente e strutturare di conseguenza la società. Per del mondo), cioè Dio. Sul modello dell’Uno neoplato-
questo incarica Alcuino di York di riorganizzare gli stu- nico, l’essenza divina è per Eriugena imperscrutabile
di e di definirne i programmi e le finalità: è in questo e indefinibile con il linguaggio umano; la totalità del-
contesto che viene fondata la scuola palatina, la quale la natura va però intesa come processo di manifesta-
diventa punto di riferimento per gli intellettuali prove- zione del principio divino (teofania) e può essere
nienti da ogni parte dell’impero. Gli insegnamenti si colta attraverso la dialettica.
rifanno alla cultura latina classica e sono articolati La natura si articola in quattro gradi: la natura che
secondo le arti liberali del trivio e del quadrivio. non è creata e che crea, cioè Dio come principio di
Chi è Scoto Eriugena e quali sono le sue tesi princi- tutte le cose; la natura creata e che crea, cioè le forme
pali? Scoto Eriugena è una delle figure più significa- universali o idee con cui Dio crea il mondo; la natura
tive dell’ambiente intellettuale carolingio. Di origine creata e che non crea, cioè la realtà del mondo che è
irlandese, insegna nella scuola palatina; per quanto teofania di Dio; la natura che non è creata e che non
riguarda la sua attività filosofica, confuta la teoria del- crea, cioè Dio inteso come il fine a cui tende il mondo.
la doppia predestinazione, traduce dal greco le opere Qual è la visione antropologica di Eriugena? Nel si-
del neoplatonico Dionigi pseudo-Areopagita e co- stema metafisico di Eriugena traspare una grande
struisce un sistema metafisico che concilia neoplato- fiducia nelle capacità umane di comprendere la re-
nismo e cristianesimo. altà con la dialettica. Il limite stesso che la ragione
Eriugena elabora una particolare visione della “natura”, mostra apre la possibilità di elevarsi alla contempla-
intesa come la totalità di tutte le cose, sia quelle zione di Dio attraverso l’intuizione intellettuale.

3 Filosofia in arabo: la “Casa della sapienza” di Baghdad


Qual è il ruolo svolto dalla “Casa della sapienza”? Metafisica dedicato al motore immobile, alla luce della
Nella Casa della sapienza, dotata di una biblioteca, un teoria dell’Uno neoplatonico, che meglio si accorda
osservatorio astronomico e un laboratorio medico, vie- con la concezione di Allah. Al-Farabi prosegue il pro-
ne raccolto e tradotto in arabo il patrimonio cultura- getto concordistico in riferimento a Platone e Aristo-
le antico. La filosofia greca viene intesa come un tutto tele, in particolare per quanto riguarda la teoria
unitario, per cui si privilegiano gli elementi di concor- dell’intelletto, che Aristotele aveva distinto in poten-
danza tra gli autori, in particolare Platone e Aristotele. ziale e agente. Al-Farabi intende l’intelletto agente
Qual è l’apporto principale di al-Kindi e al-Farabi? come separato, unico e fonte dell’universalità della
La filosofia araba, come quella cristiana, ha il proble- conoscenza, perché illumina le menti attraverso prin-
ma di stabilire il valore della razionalità umana di cipi universali. L’intelletto agente e universale deriva
fronte al testo rivelato del Corano, e dunque di armo- da Dio, per cui l’essere umano progredendo nella co-
nizzare religione e filosofia. Al-Kindi è convinto che noscenza si avvicina a Dio e accresce la sua felicità: in
filosofia greca e islam siano conciliabili; a tal fine in- questo senso la conoscenza è un percorso verso la bea-
terpreta Aristotele, e in particolare il libro XII della titudine filosofica.
231

capitolo 17
MAPPE CONCETTUALI Filosofi di corte tra IX e X secolo:
Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi
I PRINCIPALI CENTRI CULTURALI DELL ’ VIII E IX SECOLO
LA CORTE DI CARLO MAGNO aspetti comuni LA CASA DELLA SAPIENZA
AD AQUISGRANA DI BAGHDAD

ha come caratteri peculiari ha come caratteri peculiari

l’“ordine” e la volontà di mancanza di un la volontà di preservare


unire sapienza e potenza patrimonio letterario e tradurre il patrimonio
filosofico greco

l’istituzione di scuole concezione della un atteggiamento


(riforma carolingia e cultura come elemento favorevole nei confronti
scuola palatina) di coesione e stabilità dei filosofi

la riscoperta del visione della sapienza una visione concordistica


patrimonio latino classico come funzionale al della filosofia (accordo tra
potere i principali filosofi greci)

forte rivalità con l’esigenza di conciliare


l’Impero bizantino filosofia greca e islam

I PRINCIPALI ESPONENTI DELLA CORTE CAROLINGIA E DELLA CASA DELLA SAPIENZA


SCOTO ERIUGENA AL-KINDI AL-FARABI

conosce il greco si propone di intepreta concilia la teoria concepisce


e può accedere a conciliare la metafisica della conoscenza l’intelletto agente
fonti sconosciute neoplatonismo e di Aristotele di Aristotele e come sussistente
in Occidente visione cristiana attraverso quella di Platone di per sé e fonte
categorie dell’universalità
neoplatoniche del sapere

affermando che

traduce l’opera di la “natura” è tutta la conoscenza è ascesi


Dionigi pseudo- la realtà nel suo spirituale che porta
Areopagita complesso (mondo alla felicità
creato e Dio)

si distingue in

1. natura che 2. natura che 3. natura che 4. natura che


non è creata e è creata e che è creata e che non è creata e
che crea (Dio) crea non crea che non crea
(le idee) (il mondo) (Dio come fine)
232 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 17
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Filosofi di corte tra IX e
X secolo: Scoto Eriugena, RIPASSO
al-Kindi e al-Farabi

1 Lo “ spostamento ” della cultura: c le realtà che non esistono e quindi non possono
essere oggetto di nessun pensiero
dal centro alla periferia d le realtà che si collocano al confine tra l’essere e
il non essere
riconoscere le nozioni
5. Riguardo alle capacità umane, Scoto Eriugena:
1. Indica quali sono i due centri di rinnovamento (segna la risposta esatta)
culturale, rispettivamente in Occidente e in a condivide il generale atteggiamento negativo
Oriente, nei secoli VIII-IX: tipico del Medioevo
a) .......................................................... b afferma che, pur con dei limiti, la ragione tramite
b) .......................................................... la dialettica possa comprendere la natura
c pensa che la struttura razionale della natura
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) metta l’uomo in grado di comprenderla in tutti i
suoi significati
2. Che cosa rappresenta l’Impero bizantino per il
d ritiene che, poiché le capacità umane sono
mondo carolingio e per quello islamico?
limitate, alla ragione sia totalmente precluso
il divino

esporre concetti e relazioni (max 5 righe)


2 La rinascita carolingia 6. Quale rapporto sussiste, nell’ideale di impero di
e Giovanni Scoto Eriugena Carlo Magno, tra la riorganizzazione politica e
quella culturale?
riconoscere le nozioni e il significato 7. Che cos’è la natura creata e che crea?
delle parole
3. Dal punto di vista delle radici culturali, Scoto 8. Secondo Eriugena, quale conoscenza possiamo
Eriugena: (segna la risposta esatta) avere di Dio, e che cos’è la teologia negativa?
a non conosce il greco; si ispira al patrimonio latino
scrivere e rielaborare (15-20 righe)
classico per sostenere la divergenza tra filosofia e
teologia 9. Illustra la concezione della ragione umana,
b conosce il greco e legge Platone e Aristotele, tra
tra possibilità e limiti, in Eriugena.
i quali tenta una conciliazione
ad alta voce
c legge in greco Dionigi pseudo-Areopagita,
proponendo una sintesi tra neoplatonismo e 10. Esponi in 5 minuti il concetto e l’articolazione
teologia cristiana della natura in Scoto Eriugena usando le
d traduce Dionigi pseudo-Areopagita, ma non espressioni seguenti:
accetta la prospettiva neoplatonica la totalità di tutte le cose • le cose che sono • le
cose che non sono • concetto di “essere” • Dio
4. L’espressione “le cose che non sono”, a proposito • natura che non è creata e che crea • natura
della natura, in Eriugena significa: (segna la creata e che crea • natura creata e che non crea •
risposta esatta) natura che non è creata e che non crea
a ciò che si colloca oltre la natura finita del mondo
creato, e quindi il divino
b ciò che è soltanto immaginato ma non realmente
esistente nel mondo materiale
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 233

3 Filosofia in arabo: la “ Casa della 13. Al-Farabi riprende la dottrina dell’intelletto


agente da:
sapienza ” di Baghdad .......................................

riconoscere le nozioni e il significato Egli modifica tale dottrina affermando che


delle parole l’intelletto agente è: (segna la risposta esatta)
11. Il problema che la filosofia in lingua araba ha in a ricettivo in quanto ha la capacità di apprendere
comune con quella occidentale è: (segna la gli universali
risposta esatta) b individuale e tipico di ogni uomo
a chiarire il ruolo della filosofia entro una visione c unico e separato, portatore di universali
teologica paragonabili alle idee platoniche
b interrogarsi sulla concordanza tra Platone e d Dio stesso, che illumina la mente dell’uomo
Aristotele permettendogli di conoscere le idee
c negare il valore della riflessione razionale a fronte
14. Completa la tabella collocata a fondo pagina,
del Corano o della Bibbia
inserendo l’interesse prevalente di ciascuno
d giustificare la superiorità della riflessione
dei due autori, a scelta tra “metafisica”
razionale rispetto ai testi rivelati
e “conoscenza e felicità”. Colloca poi
12. Per rendere compatibili religione e filosofia, correttamente le espressioni seguenti:
al-Kindi: (segna la risposta esatta) intelletto agente • diventare simili a Dio • assoluta
a interpreta la teoria del motore immobile trascendenza di Allah • idee platoniche • Uno
aristotelico alla luce dell’Uno neoplatonico neoplatonico • motore immobile
b sostituisce il libro XII della Metafisica con
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
le Enneadi di Plotino
c attribuisce gli Elementi di teologia di Proclo 15. Che cosa si intende per “visione concordistica
ad Aristotele della filosofia”?
d modifica la teoria dell’essere e della sostanza 16. Quale rapporto sussiste, in al-Farabi, tra
alla luce del Corano conoscenza e felicità?

scrivere e rielaborare (15-20 righe)


17. Quali sono le esigenze comuni sottese ai
progetti culturali della corte carolingia e di
quella della “Casa della sapienza” islamica?

Tabella esercizio 14
PROGETTO CONCORDISTA
interesse prevalente concetti utilizzati
...................................................................................................
al-Kindi ................................................................................................... ...................................................................................................
...................................................................................................
...................................................................................................
al-Farabi ................................................................................................... ...................................................................................................
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234 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 18 Filosofi dell ’XI secolo:


Avicenna e Anselmo d ’Aosta

Tutte le scienze hanno in comune la stessa utilità: realizzare la
perfezione dell’anima, disponendola alla felicità.
(Avicenna, Metafisica, I, 3)


Che io ti cerchi desiderandoti, che ti desideri cercandoti, che ti
trovi amandoti, e che ti ami trovandoti.
(Anselmo, Proslogion, 1)

1 Forme di filosofia tra Oriente e Occidente


Nell’XI secolo, come già nel IX-X, le due figure filosoficamente più rilevanti appartengono a
due mondi diversi: si tratta di Avicenna, il più grande filosofo dell’islam orientale, e di An-
selmo d’Aosta, il primo che in Occidente ha l’ardire di pensare l’essere di Dio come neces-
sità logica. Entrambi riflettono sul significato di “essere” ed entrambi mettono a punto una
RICORDA CHE... dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, ma le analogie si fermano qui: l’ambiente cul-
In epoca medievale si turale da cui provengono e i riferimenti filosofici che alimentano la loro riflessione sono
osserva una diversa
disponibilità del
profondamente differenti, benché le domande di partenza non siano così distanti.
patrimonio culturale Come si è visto, il mondo arabo dispone di quasi tutto il patrimonio filosofico e scien-
a Occidente e a Oriente: tifico dell’età classica, mentre l’Occidente cristiano si riferisce principalmente a fonti latine,
mentre nel mondo
latino la diffusione dei senza una conoscenza diretta di Platone (tranne la prima parte del Timeo) e di Aristotele, di
testi filosofici greci e la cui sono tradotte in latino soltanto le opere di logica. Le conoscenze pregresse condizionano
possibiltà di lo sviluppo della filosofia: mentre tra gli arabi la riflessione spazia dalla metafisica alla fisica,
comprenderli diventano
limitate e difficoltose, dalla logica e teoria della conoscenza all’etica, i latini si occupano soprattutto delle discipline
nel mondo arabo i califfi del trivio (grammatica, retorica e dialettica), in stretta relazione con una riflessione teologica
promuovono la di ispirazione agostiniana. I due autori dell’XI secolo che consideriamo in questo capitolo –
traduzione in arabo di
gran parte dei testi uno medico e consigliere di corte, l’altro abate e vescovo – sono esemplificativi dello svilup-
filosofici antichi. ❯ p. 205 po diseguale della filosofia nella civiltà araba e in quella latina.
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 235

L’ ambiente culturale arabo


Nel mondo arabo il luogo privilegiato di elaborazione del sapere sono le biblioteche istitui-
te e finanziate dai sovrani: i filosofi sono precettori, traduttori, medici, funzionari che ruo-
tano tutti intorno a un ambiente di corte di grande vivacità culturale. Oltre alla logica, alla
metafisica e alla teologia, fioriscono gli studi di astronomia, ottica, matematica, medicina,
scienze naturali, che invece nell’Occidente latino sono trascurati. Inoltre, quanti si dedica-
no alla filosofia non sono necessariamente teologi come avviene perlopiù nell’Occidente:
studiano e spiegano il Corano, professano l’accordo della filosofia con la fede islamica, ma
mostrano anche l’autonomia della ricerca filosofica dalle questioni religiose.
Il sostegno del potere politico rappresenta la condizione per un’espansione delle scien-
ze non asservita a fini teologici, e assicura un impiego di risorse e una disponibilità di testi
che non hanno confronti nella cultura latina. Questo elemento di superiorità della cultura
araba costituirà però a lungo andare anche un motivo di debolezza: sviluppandosi a corte, la
filosofia dipende dalle scelte culturali dei sovrani e non si radica in istituzioni autonome, che
ne garantiscano la sopravvivenza anche in situazioni di conflitto con il potere politico.

L’ ambiente culturale latino


L’evoluzione della filosofia nel mondo latino sembra seguire un percorso speculare e con-
trario: l’élite intellettuale appartiene a ordini monastici o al clero; i più importanti centri
di studio sono i monasteri, cui si affiancano dopo l’anno Mille le scuole cattedrali, centri di
studio istituiti sotto l’ègida dei vescovi all’interno delle cattedrali. L’interesse per il mondo
naturale e per le scienze rimane subordinato all’interpretazione della realtà come crea-
zione divina. Si guarda alla scienza araba con profonda ammirazione e anche soggezione,
e si traducono alcuni trattati di astronomia o medicina, ma si tratta di interessi settoriali,

mare
del Nord mar
Balt
ico I CENTRI FILOSOFICI NELL ’ XI SECOLO
Canterbury

Le Bec
Tours Reichenau
Pavia lago Aral
mar Nero
Saragozza
Toledo Salerno Buchara
mar
Valencia Caspio
Nishapur
Ray
mar Mediterraneo
Baghdad
Alessandria Isfahan
Il Cairo Bassora
go
lfo
Pe
rsico
Medina
ma
rR
oss
o
236 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

che inizialmente non entrano nella costruzione di un sapere unitario o di un programma di


studi. Questi testi scientifici diventano rilevanti per le scuole di medicina, come quella di
Salerno, ma non per la formazione del chierico dotto. Tuttavia il predominio di una cultura
“clericale” è destinato a produrre istituzioni scolastiche, che si trasformeranno fino alle uni-
versità, grazie alle quali si svilupperà una coscienza dell’autonomia del sapere rispetto sia al
potere politico sia a quello ecclesiale.

FARE • Elabora uno schema in cui evidenziare le caratteristiche rispettivamente del mondo arabo e
per del mondo latino, in relazione a: luoghi di elaborazione della cultura - fonti - oggetti di studio
CAPIRE - rapporto con l’autorità politica o religiosa.

2 Avicenna, un medico e filosofo


ai confini con l ’India
La vita e le opere
Ibn-Sina, noto ai latini come Avicenna, è sicuramente la personalità più versatile e in-
fluente dell’islam orientale. Anche il mondo latino gli è profondamente debitore, perché
Aristotele verrà conosciuto in Occidente nel secolo successivo attraverso l’interpretazione
di Avicenna, prima che dalla lettura diretta dei testi.
Avicenna nasce ad Afshana (un villaggio vicino alla città di Buchara, nell’attuale Uz-
bekistan) nel 980 e trascorre tutta la sua esistenza nelle regioni asiatiche, a oriente di Bagh-
dad. Nonostante l’enorme distanza da Atene (❯ carta, p. 235), nell’Asia centrale la cultura
greca era ancora viva: vi era stata portata ai tempi di Alessandro Magno, e sia nell’Impero
persiano sia nella dominazione araba era stata preservata e custodita in ricche biblioteche.
A partire dall’VIII secolo, infatti, i califfi abbasidi conservano, traducono e rivitalizzano le
fonti del pensiero greco, che senza di loro sarebbero probabilmente andate perdute.
Avicenna vive dunque in un contesto geografico per noi remoto, ma in un ambiente
culturale che ha profondamente assimilato le opere filosofiche e scientifiche dell’antica
Grecia. Fin da giovane egli dà prova di estrema vivacità intellettuale, riuscendo ad appren-
dere e a padroneggiare la logica, le scienze, la filosofia. A 16 anni si dedica alla medicina,
che considera più facile della filosofia, e compie progressi così rapidi che la sua fama si
diffonde: diventa medico di corte, professione che gli consente l’accesso alle biblioteche
di palazzo. Ricopre però anche incarichi politici, spostandosi da una corte all’altra: è
consigliere e ministro di vari principi, con alterna fortuna, spesso coinvolto in rivolgimen-
ti politici e congiure di palazzo. Muore nel 1037 durante una spedizione al seguito del
principe e viene sepolto a Hamadān (l’antica Ecbatana).
Scrive un centinaio di testi, prevalentemente in arabo, anche se la sua lingua madre
era il persiano. Tra le opere principali ricordiamo Il canone di medicina, il testo medico
di riferimento fino al XVI secolo, e Il libro della guarigione, una grandiosa enciclopedia
che organizza tutto il sapere filosofico-scientifico in quattro parti: 1. logica; 2. filosofia
naturale; 3. matematica; 4. metafisica.
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 237

Avicenna mostra inoltre interessi letterari e politici, a riprova del fatto che, dopo l’ac-
quisizione dell’eredità greca, la cultura araba è matura per produrre uno sviluppo auto-
nomo: per la storia della filosofia sono soprattutto la sua metafisica e la teoria della
conoscenza a rivelare un’elaborazione originale, la cui influenza nel mondo occidentale
durerà per secoli.

LA METAFISICA COME SCIENZA DELL’ESSERE


Il senso della metafisica
Nonostante le indubbie doti intellettuali, l’incontro di Avicenna con la Metafisica di Ari-
stotele non fu facile. Nella sua autobiografia Avicenna narra di aver provato a leggerla
dopo aver studiato tutte le scienze, in modo da padroneggiare logica, fisica, medicina,
diritto, ma di non essere riuscito a capirla. Nella sua caparbietà rilegge l’opera almeno 40
volte, fino a conoscerla a memoria, senza però venirne a capo e disperando di poterne
comprendere il significato. Questa difficoltà non deriva dall’incapacità di afferrare i prin-
cipi della metafisica aristotelica in quanto tali, ma dal non riuscire a trovare un senso
unitario, che definisca questa disciplina.
Nella metafisica vengono affrontati diversi argomenti, al punto che la “filosofia pri-
ma” aristotelica risulta avere diversi oggetti (l’essere in quanto essere, la sostanza, l’atto
e la potenza, le cause, Dio come primo motore immobile), che ad Avicenna appaiono
privi di una chiara relazione tra loro. La soluzione al problema di trovare l’elemento uni-
ficante della metafisica gli si presenta in maniera apparentemente casuale: un giorno, al
mercato, un venditore ambulante particolarmente insistente lo convince ad acquistare un
libro di al-Farabi, filosofo vissuto alla corte di Baghdad (❯ p. 224), e improvvisamente il
senso della metafisica aristotelica gli appare chiaro.

❯ Avicenna nell’atto
di insegnare,
miniatura da una
traduzione latina del
Canone di medicina,
XII secolo.
238 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Seguendo al-Farabi, infatti, Avicenna ne fa una scienza universale, che si occupa di


tutto ciò che è comune a quanto esiste, e non una scienza particolare, neppure quella che
si riferisce a Dio come essere supremo, di cui tratta la teologia. Avicenna ritiene cioè che
ci debba essere un unico oggetto della metafisica, che definisca in maniera certa ed
evidente l’ambito d’indagine e da cui possano scaturire gli altri argomenti che in essa
vengono affrontati. Questo oggetto è “l’essere in quanto essere”, ossia considerato sol-
tanto come “essere”, indipendentemente da ogni altra condizione; tutti gli altri oggetti
d’indagine (come Dio e le cause) rientrano nella metafisica soltanto in quanto rappresen-
tano un’articolazione dell’essere. Con questa teoria Avicenna inaugura un’interpretazio-
ne autenticamente ontologica e non teologica della metafisica.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la risposta alla seguente domanda: “di che cosa si deve occu-
pare la metafisica secondo Avicenna?”.

L’ essere possibile e l ’essere necessario


Apparentemente l’essere è una caratteristica comune a tutto ciò che esiste, ma ad un’a-
nalisi più approfondita si può operare una distinzione.
Tutto ciò che ci circonda esiste, ma potrebbe anche non esistere: è un essere contin-
gente, possibile, che per la sua esistenza dipende da qualcos’altro e può cessare di esistere.
Bisogna postulare però un essere che non derivi da un altro, cioè qualcosa che esista in
modo necessario perché non riceve il suo atto d’essere da un altro, altrimenti bisognereb-
be indagare l’essere di questo altro ente e si procederebbe all’infinito. Se non esistesse un
essere necessario, non si potrebbe giustificare neppure l’essere possibile e tutta la realtà
sarebbe priva di spiegazione.
Questo essere necessario, che esiste di per sé e non deve la sua esistenza ad altro se
non a sé stesso, si identifica con Dio. È la prima dimostrazione dell’esistenza di Dio
nella storia del pensiero medievale e come tale sarà ripresa anche da Tommaso d’Aquino:
se vi è un essere contingente, bisogna risalire a un suo fondamento necessario. Diversa-
mente da Aristotele, che poneva Dio come primo motore immobile, vale a dire come
causa del movimento, Avicenna sposta il discorso sul principio dell’essere in quanto tale:
è una prospettiva autenticamente metafisica, non soltanto fisica.

La distinzione tra essenza ed esistenza


La riflessione su ciò che esiste, oltre a differenziare ciò che è contingente e l’essere divino
necessario, individua due livelli di indagine: l’esistenza e l’essenza di un ente. Per capire
questa distinzione, che di per sé risale ad Aristotele, è utile partire dalle domande a cui i
due termini rispondono:
1. esiste qualcosa? c’è qualcosa? In questo caso il verbo “essere” viene usato in sen-
so esistenziale (come nella frase “ci sono alcuni studenti in quest’aula”) e non in
senso copulativo (“alcuni studenti sono attenti”);

lessico esistenza il fatto di essere realmente; l’atto di es- ente, quindi ciò che fa sì che una cosa sia quello
filosofico sere che si concretizza in un particolare individuo. che è, differenziandola dalle altre. L’essenza vie-
ne espressa nella definizione ed è l’oggetto di
essenza la nozione, di origine aristotelica, in- conoscenza della scienza.
dica ciò che appartiene necessariamente a un
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 239

2. che cos’è quello che esiste? Qui l’attenzione si sposta su ciò che una cosa è. L’es-
senza è la natura delle cose, così come viene spiegata nella loro definizione: ad
esempio l’essenza di un uomo è quella di “animale razionale”, cioè un essere vi-
vente e sensibile, dotato di ragione. Mentre l’esistenza è un atto comune a tutto ciò
che esiste, l’essenza distingue un ente da un altro.
Avere distinto esistenza ed essenza porta Avicenna a riflettere anche sul ruolo dell’es-
senza nella conoscenza, perché il compito di dire che cosa sono le cose che ci circonda-
no è affidato alla scienza. Posso sapere che cos’è un quadrato senza avere in questo mo-
mento la figura geometrica sotto i miei occhi; so addirittura che cosa sono i dinosauri,
pur essendosi estinti e non potendo più attribuire loro l’esistenza. Su questo aspetto Avi-
cenna elabora una teoria originale: sostiene cioè che compito della scienza sia quello di
conoscere l’essenza delle cose, indipendentemente dalla loro esistenza. Che una cosa
esista o meno è infatti un altro livello di indagine rispetto alla definizione dell’essenza,
la quale è indifferente all’esistenza della cosa: rimane la medesima sia che essa esista sia
che non esista, per cui nella trattazione scientifica se ne può prescindere.
Ciò vale ovviamente soltanto per gli esseri contingenti, possibili, che ricevono l’essere
da qualcos’altro e potrebbero non esistere o cessare in qualsiasi momento di esistere. Al
contrario, nell’essere necessario (Dio) non ci può essere distinzione tra esistenza ed
essenza e non si può dire che l’esistenza sia una caratteristica accidentale o che sia indif-
ferente alla sua essenza.

FARE • Indica se, nelle proposizioni seguenti, il verbo “essere” è usato per esprimere l’esistenza
per o l’essenza dei vari soggetti: “Nel bosco ci sono dei larici”; “L’albero è un vegetale”;
CAPIRE “Nell’atomo ci sono protoni, neutroni ed elettroni”; “L’acqua è un liquido”.

❯“Aristotele principe
dei filosofi”, incisione,
XV secolo, Augsburg,
Collezione privata.
Aristotele, qui ritratto
come un astronomo,
rappresenta
la principale fonte
di ispirazione sia
della metafisica
sia della cosmologia
di Avicenna.
240 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

LA COSMOLOGIA
Come la metafisica, anche la cosmologia di Avicenna si ispira a quella aristotelica, com-
binandosi però con i princìpi portanti del pensiero neoplatonico.
RICORDA CHE... Oltre al primo motore immobile, Aristotele aveva postulato che le sfere celesti fossero
Aristotele concepisce mosse da altrettante sostanze immobili ed eterne. Avicenna collega tra loro queste sostan-
l’universo come ze, interpretandole come una gerarchia di intelligenze che derivano dalla causa prima,
un’enorme sfera al cui
ossia Dio, essere necessario. La causa prima produce per emanazione la prima intelligen-
centro sta la Terra,
circondata dalle za, da cui emana la seconda, da cui la terza e così via fino alla decima intelligenza, che
sfere celesti, le sfere governa il mondo terrestre (“sublunare”). Ogni intelligenza produce per emanazione
concentriche dei cieli. non soltanto un’intelligenza inferiore, ma anche la sfera celeste a essa corrispondente e
Il movimento circolare
di ogni sfera celeste la sua anima; la decima e ultima intelligenza imprime le forme nella realtà materiale ed
è ricondotto al motore è il principio della conoscenza. È un processo emanativo che descrive una perfezione
immobile, che agisce decrescente, ma comprende in maniera unitaria tutta la realtà, riconducendola al primo
come causa finale sulle
sostanze immobili ed principio. Questa visione emanatista implica due condizioni:
eterne che governano 1. che la causa prima intervenga soltanto nella produzione della prima intelligenza,
ciascuna sfera.
❯ vol. 1A, p. 338 mentre tutte le realtà sottostanti sono prodotte tramite la mediazione di princìpi via
via inferiori;
2. che la creazione dell’universo sia considerata come emanazione e perciò sia eterna:
se infatti la causa prima è eterna, dovranno esserlo anche i suoi effetti, diretti o indi-
retti. Avicenna afferma dunque l’eternità del mondo, non il suo inizio nel tempo.

FARE per CAPIRE • Prova a disegnare il cosmo immaginato da Avicenna evidenziando le relazioni tra
i vari elementi.

IDEE A
CONFRONTO LA CAUSA PRIMA, LA GERARCHIA DEGLI ESSERI E I CARATTERI DELL’UNIVERSO
ARISTOTELE PLOTINO AVICENNA

IL MOTORE IMMOBILE, L’UNO, IL PRINCIPIO PERFETTO DIO, L’ESSERE NECESSARIO


PENSIERO DI PENSIERO E INEFFABILE

muove le sfere celesti in produce per emanazione dà origine alla prima


quanto causa finale delle le altre due ipostasi intelligenza e alla sfera
intelligenze motrici che (Intelletto e Anima), celeste corrispondente; da
presiedono a ciascuna di esse che aspirano a ricongiungersi questa deriva la seconda da
con esso cui deriva la terza, fino alla
decima intelligenza, che
governa il mondo terrestre

l’universo è eterno, essendo l’universo è eterno perché l’universo è creato da Dio


caratterizzato dal movimento dipende dall’emanazione ed è eterno in quanto frutto
senza fine delle sfere celesti del principio eterno di emanazione da una causa
prima eterna
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 241

LA TEORIA DELLA CONOSCENZA


L’ intelligenza agente
Le intelligenze non servono soltanto a spiegare l’ordine, il movimento e la razionalità del
cosmo, ma anche la conoscenza umana. L’ultima intelligenza, infatti, viene identificata
da Avicenna con l’intelletto agente, cioè quell’intelletto che per Aristotele era il princi-
pio attivo della conoscenza, tanto da essere paragonato alla luce per la vista. Per Avicen-
na questo principio intellettuale non è interno e proprio di ogni uomo, bensì esterno e
separato, è appunto la decima intelligenza celeste, e viene chiamato «datore delle for-
me»: infonde le forme nella realtà naturale e illumina le menti umane, generando in esse
le idee o concetti.
Nella teoria della conoscenza di Avicenna l’esperienza sensibile è utile all’uomo per
orientarsi nella vita quotidiana, ma non per elaborare un sapere vero, né per definire dei
concetti: la conoscenza deriva dall’illuminazione dell’intelletto agente, e per “illumina-
zione” si deve intendere una forma di emanazione intellettuale in base alla quale i prin-
cìpi universali del sapere vengono infusi nella mente umana. Il processo della conoscen-
za non parte dunque dai sensi per elevarsi a contenuti intellettuali grazie all’astrazione,
ma è vero piuttosto il contrario: soltanto possedendo nell’intelletto le forme universali,
ricevute per illuminazione, è possibile comprendere la realtà sensibile.

La conoscenza come divinizzazione


Per Avicenna, come già per al-Farabi (❯ p. 224), la conoscenza è un processo che eleva
l’uomo, lo rende più spirituale, lo conduce a raffinare e purificare il suo intelletto, fino a
unirsi all’intelligenza divina. Nel considerare la conoscenza Aristotele si era limitato a
descrivere la relazione tra la capacità di apprendere, cioè l’intelletto potenziale, inteso
come una tabula rasa su cui si scrive, e l’intelletto agente, il principio che suscita l’effet-
tiva comprensione. Nel pensiero arabo, invece, la conoscenza è indagata come processo
di apprendimento globale, che trasforma il soggetto e non si limita ad accumulare
nozioni. Il sapere non è soltanto la somma di atti distinti di conoscenza, in cui l’intellet-
to agente illumina i concetti che si depositano nell’intelletto potenziale, ma è un proces-
so che modifica la capacità di apprendere. Più si conosce, più si è in grado di farlo; mag-
giore è il bagaglio di conoscenze, più l’apprendimento sarà veloce e ci si potrà innalzare
a contenuti difficili e complessi, non legati alla realtà sensibile. In questo percorso di
graduale elevazione, che va di pari passo con l’incremento del sapere, l’ultimo stadio è
rappresentato dall’unione con l’intelletto agente separato, cioè il momento in cui l’in-
telletto umano conosce tutto in atto, senza ulteriori possibili conoscenze che siano fuo-
ri dall’illuminazione del principio agente.

decima intelligenza l’ultima intelligenza frut- intelletto agente per Avicenna, il principio at- lessico
to del processo di emanazione che ha origine da tivo della conoscenza, identificato con la decima filosofico
Dio. Essa governa e ordina il mondo terrestre, intelligenza celeste. È separato dalla mente indi-
imprime le forme nella realtà materiale ed è il viduale, che può formulare i concetti e conosce-
principio della conoscenza. re così l’universale perché da questo illuminata.
242 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Questa unione è la massima aspirazione dell’uomo e rappresenta perciò la sua felicità.


La beatitudine viene così concepita come identificazione con un principio di natura divi-
na, ma anche nella sua valenza eminentemente intellettuale: è la conoscenza che condu-
ce l’uomo a elevarsi fino a congiungersi con il divino.
In questa teoria l’aspetto più problematico è l’affermazione secondo cui il principio
della conoscenza (l’intelletto agente) è un intelletto separato, esterno alla mente umana
e unico per tutti. In tal modo Avicenna cerca di spiegare non tanto l’apprendimento indi-
viduale, quanto la validità universale del sapere: lo stesso contenuto (ad esempio un teo-
rema di geometria) può essere appreso in modi e circostanze diversi, ma è uguale per
tutti, proprio perché il principio della conoscenza, che illumina nell’apprendimento indi-
viduale, è unico e universale.

L’ anima come sostanza intellettuale


Tutta la filosofia di Avicenna è permeata da un forte intellettualismo, in quanto privi-
legia il principio intellettuale a scapito di quello corporeo, materiale, sensibile. Ciò si
riflette anche nella teoria dell’anima umana. Per Aristotele l’anima è forma del corpo, è
la sua vita, tanto che anche le piante e gli animali secondo lui hanno un’anima in quan-
to esseri viventi. Concepire l’anima come forma del corpo significa non poter separare i
due elementi, così come non si possono isolare forma e materia di una sostanza compo-
sta. Per Avicenna, invece, l’anima è una sostanza a sé stante: il suo legame con il corpo
non è essenziale, tanto che è in grado di conoscere sé stessa anche senza riferirsi al
proprio corpo.
Per dimostrare questa affermazione, Avicenna presenta un esperimento mentale,
cioè un’ipotesi che non è possibile realizzare concretamente, ma che si può raffigurare
mentalmente: è il celebre esempio dell’“uomo volante”. Avicenna suggerisce di imma-
ginare un uomo creato all’improvviso e privo di storia, di memoria e di esperienza; un
individuo sospeso nell’aria senza sentirne la pressione, con mani e piedi distanziati dal
corpo in modo da non poter toccare le sue membra, e sprovvisto della vista e dell’udito.
Queste condizioni servono a pensare un uomo privo di qualsiasi esperienza e cono-
scenza sensibile. Avicenna si chiede se un tale uomo possa affermare la sua esistenza e
riconoscere di essere un “io”; la risposta è affermativa: egli non può negare di esistere,
ma tale intuizione non ha alcuna base sensibile. Ciò conferma che l’anima è una so-
stanza e non dipende dal corpo, paragonato addirittura a un vestito; possiamo cono-
ESERCIZI scere il nostro corpo o il nostro cuore o il nostro cervello, ma non ci identifichiamo con
essi: “abbiamo” un corpo, un cuore, un cervello, ma non “siamo” corpo, cuore, cervello.
❯ testo 1 p. 250 L’identità dell’io è data perciò dall’anima come principio assolutamente spirituale.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo i caratteri dell’intelletto agente.


• Scrivi a margine qual è l’obiettivo dell’esperimento mentale dell’uomo volante.

lessico anima mentre per Aristotele è forma del corpo e come tale non separabile da esso, in Avicenna è
filosofico una sostanza a sé stante, che quindi può esistere e conoscere sé stessa a prescindere dal corpo.
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 243

3 Anselmo d ’Aosta, l ’abate:


credere e comprendere
La burrascosa esistenza di un monaco
Anselmo è un monaco appartenente all’ordine benedettino, un esponente dell’élite intel-
lettuale legata alle istituzioni ecclesiastiche. La scelta della vita monastica non lo porta
però a condurre un’esistenza sedentaria e isolata dal mondo, ma lo vede costantemente
in viaggio, per scelta o necessità, a contatto e spesso in conflitto con le più importanti
autorità politiche e religiose del tempo. In Italia è conosciuto come Anselmo d’Aosta,
dove nasce nel 1033 o 1034; in Francia è ricordato come Anselmo di Le Bec, abbazia
normanna dove è stato monaco, priore e abate; ma altrove è universalmente noto come
Anselmo di Canterbury, di cui è stato arcivescovo.
Trascorre infanzia e giovinezza ad Aosta, in una famiglia di nobili origini e ricca di mez-
zi. Il padre gli nega più volte il consenso per entrare in monastero, così, quasi per spirito di
opposizione, Anselmo finisce per dedicarsi a una vita sregolata, finché nel 1056 abbandona
la casa paterna e inizia a peregrinare per la Francia, alla ricerca di maestri che possano cor-
rispondere alla sua sete di sapere. Dopo tre anni di vita errabonda, diventa discepolo di
Lanfranco di Pavia, priore dell’abbazia di Le Bec in Normandia, e in seguito matura la
decisione di entrare nello stesso monastero, dove è ammesso come novizio nel 1060.
Nel 1066 Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia, trionfa sul re sassone nella
battaglia di Hastings e conquista il regno di Inghilterra; Lanfranco lo segue e viene no-
minato arcivescovo di Canterbury (1070), mentre Anselmo, già divenuto priore, viene
eletto alla guida dell’abbazia nel 1078.

❯ Scuola di Fabriano,
Anselmo d’Aosta
(a sinistra),
XV secolo, affresco,
particolare dei
medaglioni del
Cappellone,
Tolentino (Macerata),
Basilica di San Nicola.
244 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Fino a questo momento, la vita di Anselmo a Le Bec gli aveva consentito la serenità
spirituale per potersi dedicare allo studio; è in tale periodo infatti che vengono alla luce
alcune delle opere più importanti, come il Monólogion nel 1076 e il Proslógion nell’anno
successivo, ma anche alcuni dialoghi sull’uso della grammatica, sulla verità, sul libero
arbitrio e sul male (De grammatico, De veritate, De libertate arbitrii, De casu diaboli – “La
caduta del diavolo”).
Alla morte di Guglielmo il Conquistatore (1087), il figlio e successore Guglielmo II
Rufo mette in atto una politica dispotica nei confronti della Chiesa, al fine di controllarne
i beni, ma trova in Anselmo un tenace oppositore. È durante questo burrascoso periodo
che egli viene nominato arcivescovo di Canterbury (1093) e si batte assiduamente per
la libertà della Chiesa e perché siano vietate le nomine dei vescovi da parte dei poteri
laici. L’aspro scontro politico non gli impedisce però di comporre un’opera di alto spesso-
re teologico, l’Epistola de Incarnatione Verbi (“Lettera sull’incarnazione del Verbo”). Nel
1097 lascia l’Inghilterra in una sorta di esilio volontario per recarsi a Lione e a Roma, ma
FARE per CAPIRE
il pontefice lo invita a non rassegnare le dimissioni; nel frattempo riesce a portare a ter-
• Elabora una mine la sua opera teologica di maggior rilievo, il Cur Deus homo (“Perché un Dio uomo”).
tabella in cui
inserire le tappe Torna in Inghilterra alla morte del re (1100), ma anche con il nuovo sovrano, Enrico I,
filosoficamente i rapporti sono tesi per il rifiuto di Anselmo di prestare giuramento di vassallaggio.
significative della Costretto a un nuovo esilio nel 1103, potrà rientrare in Inghilterra nel 1107, quando il re
vita di Anselmo e
i relativi riferi- è obbligato a cedere alle richieste di Anselmo dalla minaccia della scomunica papale.
menti cronologici. Muore a Canterbury il 21 aprile 1109.

IL MONOLOGION: UNA RIFLESSIONE SULLA RAZIONALITÀ DELLA FEDE


L’ indagine razionale al servizio della fede
La biografia di Anselmo ha molti tratti in comune con quella di Agostino: la giovinezza
inquieta ed errabonda, la ricerca di risposte alla propria sete di verità, la ritrosia ad accet-
tare cariche ecclesiastiche (che pure assume per il bene della Chiesa), la partecipazione ai
maggiori conflitti della propria epoca. Ma la somiglianza non si ferma agli eventi esterio-
ri, perché il pensiero di Agostino è un’influenza costante negli scritti di Anselmo. L’ispi-
razione agostiniana è percepibile anche nei titoli delle due opere più filosofiche, in cui
considera la fede sotto il profilo razionale, fino a dimostrare l’esistenza di Dio. Il Monolo-
gion, ovvero “Monologo”, che in origine era intitolato “Meditazione sulla razionalità del-
la fede”, è una riflessione solitaria della ragione con sé stessa, che richiama i Soliloqui di
Agostino, mentre il Proslogion è un discorso rivolto a Dio, come le Confessioni. Pur ripren-
dendo la dottrina agostiniana, il mondo intellettuale in cui vive Anselmo tuttavia è pro-
fondamente mutato: egli, più che intendere la filosofia come sapienza di vita, mette a
servizio della comprensione della fede gli strumenti della dialettica, ovvero la logica e
l’indagine razionale. È in tale contesto che si pone la sfida di dimostrare razionalmente
l’esistenza di Dio e la sua necessità logica.
Nel Monologion questo obiettivo si raggiunge con un linguaggio semplice e preciso, e
un percorso dimostrativo che non si fonda sulle sacre scritture né su altre autorità teolo-
giche o filosofiche. Non si vuole soltanto mostrare la ragionevolezza della fede o il suo
carattere non contraddittorio, ma anche e soprattutto l’intrinseca razionalità, che implica
una dimostrazione inconfutabile del fatto che Dio esiste necessariamente.
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 245

Le motivazioni della dimostrazione


Che senso ha per un monaco, che non mette in dubbio la sua fede in Dio, impegnarsi a
dimostrarne l’esistenza? Ci sono almeno due ragioni che motivano questa scelta.
La prima riguarda la qualità della stessa fede: per Anselmo non è auspicabile una fede
cieca, e l’atto di credere deve corrispondere all’uomo nella sua interezza, non si può ottene-
re a prezzo del sacrificio dell’intelletto. Questa visione ha una ricaduta antropologica, in
quanto il credente non deve soltanto accettare una verità rivelata, ma deve farla sua, con
una ragione che argomenta, insinua dubbi, vuole comprendere e dimostrare. Tale conce-
zione, però, ha anche una ricaduta teologica, nel senso che l’immagine di Dio non è quella
di un signore dispotico e arbitrario, ma di un creatore che imprime nel cosmo leggi razio-
nali e un ordine intelligente.
La seconda motivazione nasce dal ruolo del dubbio nella fede, di fronte a un mondo
diviso in cui vi sono religioni diverse (ebraismo, islam) e conflitti teologici interni al cri-
stianesimo, come per lo scisma d’Oriente (che nel 1054 porta alla separazione tra la Chiesa
cattolica e quella ortodossa) e le eresie. Nonostante la pretesa universalità della fede, sul
piano storico la verità si presenta declinata al plurale. È dunque la ragione, e non la reli- tema
gione, che costituisce l’orizzonte comune e fornisce le strutture universali su cui potersi SIAMO LIBERI
O CI ILLUDIAMO
incontrare, tanto per il credente quanto per il non credente, tanto per il cristiano quanto DI ESSERLO?
per chi crede in un dio diverso. p. 384

La dimostrazione dell ’esistenza di Dio


Come avviene, dunque, la dimostrazione dell’esistenza di Dio nel Monologion? L’autore
presenta diversi argomenti, che hanno tuttavia una struttura simile. Il punto di partenza
è la considerazione della molteplicità delle realtà create e dei loro diversi gradi di bontà
e di perfezione. Tutto ciò che ha dei gradi rimanda a un criterio assoluto che lo renda
possibile: se si è capaci di valutare che una cosa è più perfetta di un’altra, si deve poter ri-
salire alla perfezione assoluta; se vi è una gerarchia di beni, è necessario ammettere un
bene sommo. Concatenando con rigore logico tutta una serie di argomenti, Anselmo per-
viene alla necessità di un ente sommo, che non fonda solamente i diversi gradi di bontà,
grandezza e perfezione, ma anche l’essere di tutte le realtà. Tale ente sommo (summum
omnium) viene identificato con il Dio cristiano solamente alla fine dell’opera, quasi a ri-
marcare il contesto filosofico della dimostrazione, che si applica alla fede soltanto una
volta che sia stata svolta logicamente.

FARE per CAPIRE • Sottolinea le caratteristiche peculiari della dimostrazione dell’esistenza di Dio
offerta nel Monologion.

IL PROSLOGION: LA FEDE CHE CERCA L ’INTELLIGENZA


Il tormentato processo che porta all’ intuizione
Nonostante l’ampiezza delle argomentazioni e l’uso di ragioni necessarie, Anselmo si mo-
stra insoddisfatto dei risultati raggiunti nel Monologion, soprattutto perché gli sembra che
la dimostrazione dell’esistenza di Dio richieda un argomento più immediato e inoppugna-
bile, un unico argomento e non molteplici dimostrazioni; e non tanto una meditazione
246 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

della ragione sulla fede, quanto un’intuizione dell’intelletto, che illumini la mente con
l’evidenza del suo principio. Nel Monologion la premessa era costituita dalla presenza di
una molteplicità di enti, considerati sotto l’aspetto della loro bontà o perfezione. Nel Pro-
slogion Anselmo vuole ridurre al minimo le premesse, escludendo non soltanto la fede,
ma anche l’esistenza reale del mondo: egli ricerca un argomento «che per essere dimo-
strato non avesse bisogno di altro, ma solo di sé stesso, e che fosse da solo sufficiente a
stabilire che Dio esiste veramente» (Proslogion, proemio). Per questo si serve solamente
del linguaggio, cioè della definizione di Dio, con un argomento che nel corso della storia
sarà spesso chiamato ontologico o a priori: ontologico, perché ricava l’essere di Dio da
una definizione concettuale e dimostra la sua esistenza ragionando unicamente su come
si pensa e si definisce Dio; a priori, perché è un argomento che prescinde da qualsiasi
esistenza reale o considerazione sulla realtà sensibile.
La superiorità di questo “unico argomento” sulle dimostrazioni discorsive del Mono-
logion emerge anche nelle vicende che portano alla sua elaborazione. Dopo molteplici
tentativi Anselmo non sembra venire a capo di nulla e comincia a dubitare della possibi-
lità di tale impresa. Ma proprio quando decide di abbandonare la ricerca, l’idea dell’argo-
mento unico comincia a tormentarlo, presentandosi insistentemente alla sua mente e
impedendogli di pensare ad altro, finché la soluzione si impone da sé, in maniera inat-
tesa e improvvisa. I biografi di Anselmo descrivono questa scoperta evidenziandone il
carattere miracoloso: per Eadmero, suo discepolo e segretario, la soluzione al dilemma
avviene di notte, grazie a un’illuminazione divina, che rende l’argomento immediata-
mente evidente all’intelletto. Anselmo si affretta a scriverlo su tavolette di cera, affidate
alla custodia di un confratello, che misteriosamente spariscono. Una seconda riscrittura
ha un esito altrettanto sfortunato, perché le tavolette vengono rinvenute in frantumi e
soltanto faticosamente ricomposte, così da consentire ad Anselmo di riportare il testo su
pergamena. Un secolo dopo Giovanni di Salisbury, nella sua Vita di Anselmo, non esita ad
attribuire l’opera di sabotaggio al demonio, terrorizzato dall’efficacia dell’argomento. Al
di là dell’interpretazione miracolistica, la scoperta dell’argomento descrive il processo
che porta all’intuizione, quell’illuminazione improvvisa che accende una luce nella
mente e fa immediatamente “vedere” la soluzione a un problema su cui si è lungamente
riflettuto e rimuginato, in un groviglio di pensieri, dubbi e idee insoddisfacenti.

L’ argomento ontologico
Vediamo come si sviluppa l’argomentazione. La fede nell’esistenza di Dio sembra
essere messa in dubbio dall’ateo, caratterizzato in questo contesto come insipiens,
che secondo il salmo 14,1 «disse in cuor suo: Dio non esiste». Tale “insipiente” non è
uno sciocco o un blasfemo, ma rappresenta un momento necessario all’argomentazione:
oltre che un personaggio esterno ed estraneo alla fede, è anche una figura interiore, che
esemplifica il dubbio insito in chi crede, e serve quindi alla ragione per chiarire la propria
fede. Chi afferma che Dio non esiste comprende ciò che sta dicendo, cioè dà un signifi-
cato al termine “Dio”, anche se ritiene che la realtà che il termine indica sia inesistente

lessico argomento ontologico o a priori l’argomento detto anche “a priori” (letteralmente, “da ciò che
filosofico che ritiene di poter dimostrare l’esistenza di Dio è prima”) perché è precedente a qualsiasi riferi-
partendo unicamente dalla sua definizione. È mento all’esistenza del mondo e all’esperienza.
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 247

(e conseguentemente dichiara «Dio non esiste»). Se non c’è un accordo con l’ateo riguar-
do all’esistenza di Dio, si può almeno trovare una base comune in una descrizione con-
divisa di Dio: la definizione che funge da premessa unica all’argomento è che Dio è “ciò
di cui non si può pensare nulla di maggiore”. È un’espressione inconsueta, che non è
tuttavia inventata da Anselmo, perché si trova in forme simili in Seneca e in Agostino;
Anselmo però è l’unico che la sfrutta come presupposto per dimostrare la necessità
dell’esistenza di Dio. Il punto di forza di questa definizione è duplice:
1. include la possibilità del pensiero, cioè definisce che cosa possiamo pensare, quan-
do pronunciamo il termine “Dio”;
2. è costruita con un comparativo di maggioranza e una negazione, che stabiliscono
il limite assoluto di questo pensiero (“non si può pensare a qualcosa di superiore a
questo ente”).
L’argomento funziona soltanto in virtù di tale definizione e non sarebbe possibile se, ad
esempio, si scegliesse di caratterizzare Dio come “ente sommo”, “essere perfettissimo”,
“signore onnipotente”.
Anche l’ateo, pur negandone l’esistenza reale, è in grado di comprendere la definizione
proposta da Anselmo. Accettandola, però, la sua professione di ateismo diventa contraddit-
toria, perché questa definizione non può riferirsi a qualcosa che egli ha soltanto in mente,
senza che esista nella realtà. Infatti, se questo Dio non esistesse, sarebbe possibile pensare
un altro ente che, oltre a essere “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore”, esista anche
nella realtà. Ma questo secondo ente sarebbe maggiore del primo e Dio non sarebbe più “ciò
di cui non si può pensare il maggiore”. La definizione che l’ateo ha accettato ha senso e non
risulta contraddittoria soltanto se si include l’esistenza reale di Dio. Detto altrimenti: l’ateo
cade in contraddizione perché ammette che Dio è “ciò di cui non si può pensare nulla di
maggiore”, ma nega la sua esistenza, e così lascia aperta la possibilità di pensare a qualcosa
di maggiore (pensare Dio come esistente è infatti maggiore che pensarlo come non esisten-
te). Notiamo che l’argomento si svolge nell’orizzonte del pensiero, ma che nello stesso tem-
po lo supera: Anselmo non dice che se Dio è perfetto deve esistere, ma che, se lo pensiamo
secondo questa definizione, dobbiamo pensarlo come esistente e pertanto Dio deve esistere.

❯ Cristo
pantocratore,
mosaico, 1180 ca.,
Palermo, Monreale,
conca absidale
del Duomo.
248 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Se accettiamo che Dio è “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore”, intuiamo anche
che Dio necessariamente esiste. È un’intuizione che si può paragonare a quella relativa a
un triangolo equilatero, in cui dobbiamo necessariamente pensare che ogni angolo interno
misura 60°, anche se in prima battuta non lo abbiamo espresso. Come è impossibile pensare
un triangolo senza che la somma dei suoi angoli interni sia 180°, così Dio non può essere
pensato come “non esistente”. Non è il pensiero a determinarne l’esistenza (come non di-
pende dal nostro pensiero la misura degli angoli), ma è l’esistenza di Dio che lo rende pen-
sabile come “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore”.

La struttura del ragionamento di Anselmo


Riportato in maniera schematica, il ragionamento di Anselmo è il seguente:
a. Dio, inteso come “ciò di cui non si può pensare il maggiore”, esiste nella mente,
poiché anche l’ateo comprende l’espressione,
ma
b. questo ente per definizione deve esistere anche nella realtà, perché altrimenti si
potrebbe pensare a qualcosa di maggiore dotato di esistenza e si cadrebbe in con-
traddizione (ovvero si definirebbe come maggiore ciò che non è tale).
Come si giustifica allora l’affermazione dell’ateo, se l’esistenza di Dio è evidente a ogni
mente razionale? Secondo Anselmo, l’ateo esprime con parole ciò che non può pensare.
La sua negazione di Dio è puramente verbale, ma razionalmente è insostenibile: è
“insipiens” perché non ha riflettuto su quello che dice e non può pensare quello che dice;
senza saperlo cade in contraddizione perché non ha compreso la definizione. Si può ne-
gare l’esistenza di Dio soltanto privando le parole del loro significato; se si comprende la
❯ testo 2 p. 252 definizione è necessario pensare che Dio esista.
Con questa dimostrazione Anselmo non intende però imporre la fede come necessità
razionale. La fede è sempre descritta come dono divino ed è una scelta libera della
volontà, mentre le strutture razionali seguono una logica necessaria. La conclusione di
Anselmo, dopo aver esposto l’argomento, introduce una distinzione sottile e preziosa:


ti ringrazio, buon Signore, perché ciò che prima ho creduto per un tuo dono, ora per la tua
illuminazione lo comprendo, in modo tale che, se non volessi credere che tu esisti, non potrei
non comprenderlo.
(Proslogion, 4)

L’ipotesi irreale della conclusione sovverte le nostre attese: l’ateo è razionalmente vin-
colato ad affermare l’esistenza di Dio, ma non all’adesione di fede, che per natura è un
atto libero e dipende dalla volontà, e non dall’intelletto.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la premessa dell’argomentazione sviluppata nel Proslogion e
la sua conclusione.

Gaunilone: la difesa dell ’ ateo


La grandezza di un pensiero si misura anche dalla grandezza delle critiche che suscita.
L’argomento di Anselmo non è stato discusso animatamente soltanto nella filosofia suc-
cessiva, ma ha trovato un brillante oppositore anche in un monaco a lui contemporaneo,
Gaunilone (morto nel 1083), che difende la possibilità di pensare che Dio non esista senza
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 249

cadere in contraddizione. Anselmo apprezza l’obiezione e ordina che essa sia riportata
alla fine del Proslogion, insieme alle sue risposte. I diversi aspetti della critica di Gaunilo-
ne si possono raggruppare in due grandi temi: uno riguarda il modo in cui viene pensata
la definizione di Dio, l’altro il rapporto tra pensiero e realtà.
1. Per quanto riguarda il primo punto, Gaunilone afferma che si possono pensare
moltissime cose, anche dubbie e false; bisognerebbe pertanto distinguere tra pen-
sare (cogitare) e comprendere (intellìgere). Chi pensa Dio, non può dire di conoscer-
lo né di comprenderlo, perché non ne conosce il concetto: Dio è incomparabilmen-
te al di sopra di ogni realtà a noi conosciuta. La definizione che Anselmo propone
non conduce ad alcuna conoscenza reale e, più che definire Dio, mostra il dinami-
smo dell’intelletto, che pensa qualcosa che trascende ogni pensabile. Perché que-
sta definizione possa avere un contenuto reale, bisognerebbe avere prima dimo-
strato per altra via che Dio in quanto essere sommo esiste.
Anselmo però ribatte che per la validità dell’argomento non è necessario presume-
re una conoscenza di Dio; si può pensare Dio anche se è inaccessibile e incompren-
sibile, e ciò è sufficiente per suffragare la dimostrazione. Come non è necessario
riuscire a fissare lo sguardo sul sole per vedere la luce del giorno, così non è neces-
saria una nozione completa di Dio per pensarlo.
2. Il secondo punto riguarda il passaggio dal pensare Dio alla conclusione che ne af-
ferma l’esistenza. Per Gaunilone la definizione di Dio rimane tutta interna al pen-
siero e da qui non si può passare al piano della realtà: anche se penso che Dio
esista, ciò non implica che Dio esista veramente. Per chiarire questa obiezione, egli
fornisce il celebre esempio di un’isola beata, dotata di ogni ricchezza e delizia a tal
punto da rendere felice chiunque la raggiunga; essendo un’isola immaginata come
il luogo migliore di tutti quelli presenti sulla Terra, applicando il ragionamento di
Anselmo bisognerebbe concludere che essa esista necessariamente; il che è ovvia-
mente assurdo.
Anselmo risponde che l’isola beata, pur essendo il luogo migliore nel suo genere,
può essere pensata come non esistente senza incorrere in una contraddizione, men-
tre Dio è tale in assoluto, è l’unico ente di cui non si può pensare nulla di maggiore
e che dunque deve esistere. Inoltre rimprovera Gaunilone di avere semplificato la
definizione di Dio nella formula “ciò che è maggiore di tutti”; in tal modo l’argo-
mento non funziona e la dimostrazione dell’esistenza deve seguire altre vie (come
quelle esplicitate nel Monologion). È soltanto nella definizione proposta da Anselmo
che si può passare dal pensiero alla realtà, o meglio a riconoscere in modo evidente
che senza l’esistenza di Dio la definizione è contraddittoria. Dio è l’unico a cui l’ar-
gomento possa essere applicato, perché è il massimo pensabile; al di sotto di questo
limite tutte le cose pensate possono esistere o non esistere; ma se Dio, che è il limi-
te estremo della pensabilità, non esistesse, forse nulla potrebbe veramente dirsi
reale e non potrebbe neppure essere pensato. Non è l’esistenza di Dio che dipende
dalla sua definizione, ma è la sua esistenza intuita come necessaria (perché la non
esistenza è una contraddizione) che ne rende possibile la definizione. ESERCIZI
250 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

TESTI del capitolo 18


Filosofi dell ’XI secolo

AVICENNA
t1 L’uomo volante dal Liber de anima
In questo brano Avicenna invita a immaginare un uomo sospeso nell’aria, privo di storia e di percezioni
sensibili. È un esperimento mentale che mira a indagare se, privato di esperienza sensibile, un essere
umano possa avere coscienza di sé e se questo “io”, che l’uomo afferma di essere, sia l’anima, la quale
pertanto risulta priva di legami con il corpo.

[Un uomo privo di sensazioni] Diremo dunque che uno di noi deve supporre di essere stato
creato all’improvviso e perfetto, ma di non vedere le cose esteriori essendo la sua vista
velata, e di essere stato creato come se si muovesse nell’aria o nel vuoto, così che non lo
toccasse la densità dell’aria in modo da poterla sentire, e come se le sue membra fossero
5 separate in modo da non urtarsi né toccarsi. Si osservi poi se egli possa affermare l’esisten-
za della sua essenza: non esiterà infatti ad affermare di esistere, ma non affermerà tuttavia
l’esistenza delle membra esteriori, né i recessi di quelle interne, né l’animo, né il cervello,
né qualcos’altro al di fuori, ma affermerà l’esistenza di sé stesso, di cui non potrà dire né la
lunghezza, né la larghezza, né la profondità. Se infatti in quel momento gli fosse possibile
10 immaginare una mano o un altro membro, non lo immaginerebbe tuttavia come parte di
sé, né come necessario alla sua essenza. […]
[La certezza dell’esistenza] Ripetiamo ora ciò che abbiamo detto in precedenza, cioè che se
un uomo fosse creato all’improvviso, con le mani e i piedi distesi, che egli stesso non
potesse vedere, né toccare, e queste stesse membra non potessero toccarsi, ed egli non
15 udisse alcun suono, ignorerebbe invero l’esistenza delle sue membra e tuttavia saprebbe di
esistere, anche perché è una qualche unità, benché non conosca tutte quelle membra (po-
iché invero ciò che si ignora non è lo stesso di ciò che si afferma). Ma queste membra in
verità sono soltanto come delle vesti, che, poiché a lungo aderirono a noi, abbiamo preso a
considerare come noi stessi o come una parte di noi; quando infatti immaginiamo le nostre
20 anime, non le immaginiamo nude, ma rivestite dei corpi, a causa della continua aderenza;
ma siamo soliti togliere le vesti e gettarle via, cosa che non siamo affatto soliti fare con le
membra; perciò l’opinione che le membra siano parte di noi è in noi più radicata dell’opin-
ione che le vesti siano parte di noi. […]
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 251

Ma se qualcuno dicesse: «Ignori che ciò sia l’anima», dirò che lo so da sem-

TESTI
[L’io e l’anima]
25 pre e che questo è ciò che intendo con anima, anche se forse ignoro che sia chiamata ani-
ma; quando però avrò compreso che si chiama anima, comprenderò che è identico a essa,
e che è proprio quello che guida gli strumenti che si muovono e apprendono; per cui ignoro
che quell’io sia l’anima, finché ignorerò che cosa sia l’anima. Non è così invece la posizione
del cuore o del cervello. Comprendo infatti che cosa siano il cuore e il cervello, ma non
30 comprendo di essere io quelli; quando infatti comprendo che l’anima stessa è il principio
dei movimenti e delle apprensioni che possiedo e rispetto a tutti questi è il loro fine, conos-
co in maniera assolutamente verace che io sono questa stessa anima, oppure che essa stes-
sa sia l’io che regge questo corpo.
(Liber de anima seu Sextus de Naturalibus, I, 1; V, 7, trad. it. di A. Saccon,
in M. Ferraris - P. Kobau, a cura di, L’altra estetica, Einaudi, Torino 2001, pp. 125-127)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea la similitudine con cui vengono descritte le membra del corpo.
2. Evidenzia le caratteristiche che definiscono l’anima.
3. Individua nel testo la domanda fondamentale a cui Avicenna cerca di rispondere.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-11 In questa prima parte del testo si da ritenerle parte di sé. Come in Platone, il corpo
chiede di immaginare un uomo privo di sensazioni: viene considerato un elemento esterno all’anima
il cosiddetto “uomo volante” è in realtà un indivi- umana, che la avvolge come un vestito, senza mo-
duo sospeso nell’aria, creato all’improvviso, ovvero dificarne l’identità.
senza storia o memoria di sé. È una situazione limi-
righe 24-33 La certezza di esistere e di essere un
te, che permette però di affrontare il problema
ente spirituale non dipende dall’aver appreso che
dell’identità dell’io in modo limpido e netto: un
cosa sia l’anima, ma è un’intuizione («lo so da sem-
tale uomo dotato di pensiero afferma sicuramente
pre») che il concetto di anima non fa che confer-
di esistere, senza derivare questa certezza dalla
mare. L’identità tra l’io e l’anima è ribadita anche
percezione sensibile del proprio corpo.
dal confronto con gli organi corporei: il cuore e il
righe 12-23 Si riprende l’immagine precedente cervello ci appartengono, ma non sono il nostro io,
dell’uomo che non può percepire le sue membra e non rappresentano l’unità individuale. Il rapporto
tuttavia sa di esistere, ma Avicenna spinge più tra corpo e anima è analogo a quello che sussiste
avanti la sua riflessione: egli paragona infatti il cor- tra gli strumenti e il loro fine.
po umano a delle vesti a cui si è talmente abituati

RIFLETTI E DISCUTI
1. Prova a fornire gli elementi che ritieni imprescindibili per poter affermare di esistere e rifletti se tali
aspetti siano certi oppure no (se si possa, ad esempio, immaginare che siano frutto di illusione o di
un errore di percezione).
2. Avviate una discussione in classe sul tema dell’identità dell’io: quest’ultima è necessariamente legata
al proprio corpo o può esistere anche in assenza di una percezione sensibile chiara? Ai fini del dibatti-
to potete immaginare altri esperimenti mentali o situazioni reali, in cui si possano distinguere
“anima” e “corpo” (amnesie, perdite di sensibilità, sogni, ipotesi di vita su altri pianeti o in
assenza di atmosfera, deficit cognitivi o sensoriali, anestesie ecc.).
252 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
TESTI

ANSELMO
t2 L’argomento a priori dal Proslogion
I primi paragrafi del Proslogion sono dedicati a dimostrare l’esistenza di Dio con un unico argomento,
a priori e logicamente inattaccabile anche per un ateo; nella seconda parte, molto più estesa, Anselmo
cerca invece di comprendere che cosa sia Dio e come si possa definire l’essenza divina.
Il testo seguente riporta l’argomento di Anselmo, dalla definizione di Dio alla considerazione della sua
possibile non esistenza affermata dall’insipiente, fino alla necessità di ammettere che non si può
pensare che Dio non esista.

[La definizione di Dio] Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di
comprendere, per quanto sai che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che sei
quello che noi crediamo.
E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande.
5 O forse non vi è una tale natura, perché «disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste»? Ma
certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè «qualcosa di cui
non si può pensare nulla di più grande», comprende ciò che ode; e ciò che comprende è nel
suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa
sia nell’intelletto, e altro è intendere che quella cosa esista. Quando il pittore, infatti, prima
10 pensa a ciò che sta per fare, ha certamente nell’intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma
non intende ancora che questo esista. Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell’in-
telletto ciò che ha già fatto, ma intende anche che esso esista. Anche l’insipiente, dunque,
deve convenire che, almeno nell’intelletto, vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla
di più grande, perché quando sente questa espressione la intende, e tutto ciò che si intende
15 è nell’intelletto.
[L’esistenza di Dio] Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande
non può essere nel solo intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che
esista anche nella realtà, il che è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il mag-
giore è nel solo intelletto, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si
20 può pensare il maggiore. Ma evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non
si può pensare il maggiore esiste, senza dubbio, sia nell’intelletto, sia nella realtà.
[L’impossibilità di pensare l’inesistenza di Dio] Tutto ciò è talmente vero, che non si può nep-
pure pensare che Dio non esista. Infatti si può pensare che vi sia qualcosa di cui non si
possa pensare che non esiste; e questo è maggiore di ciò che si può pensare non esistente.
25 Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente,
quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si può pensare il
maggiore, ma questo è contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore
esiste così veramente che non si può neppure pensare non esistente.
(Proslogion, 2-3, trad. it. di I. Sciuto, in Anselmo, Monologio e Proslogio,
Bompiani, Milano 2002, pp. 317-319)
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 253

TESTI
ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea con due colori diversi le espressioni riferibili al campo semantico della conoscenza (com-
prendere, conoscere, intendere, pensare) e a quello dell’essere (esistere, essere, realtà).
2. Riporta a margine del testo un elenco numerato dei diversi passaggi attraverso cui si snoda l’argo-
mentazione.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-15 Il primo passo della dimostrazione è stente sia nell’intelletto sia nella realtà). Data que-
stabilire una definizione di Dio (“ciò di cui non si sta definizione di Dio, per Anselmo non si può
può pensare nulla di maggiore”) che sia condivisa negare la sua esistenza senza entrare in contraddi-
anche da chi nega la sua esistenza. L’insipiente di zione, come se in una dimostrazione geometrica si
cui parla Anselmo (riferendosi al Salmo 52, 2) non affermasse che il triangolo ha quattro lati.
è uno stolto che dice cose insensate, ma va preso
righe 22-28 In quest’ultima parte del brano,
sul serio, anche se – come risulterà alla fine del
l’argomento viene ribadito anche dal punto di vi-
percorso – ciò che egli afferma è logicamente in
sta del pensiero: la definizione di Dio non implica
contraddizione con ciò che pensa. A questo inter-
soltanto la sua esistenza, ma anche l’impossibilità
locutore si chiede inizialmente soltanto di com-
di pensarlo come inesistente; questo aspetto sarà
prendere e accettare la definizione di Dio data: ri-
utilizzato nel paragrafo successivo per spiegare
spettando la sua posizione di non credente, viene
che l’insipiente si contraddice in quanto non pre-
mantenuta la chiara distinzione tra ciò che esiste
sta attenzione a ciò che pensa. Anche se l’argo-
nella mente e ciò che esiste anche nella realtà,
mentazione è basata sempre sulla contraddizione
come avviene nel caso di un pittore che immagina
insita nel pensare come maggiore ciò che non lo è,
l’opera prima di averla realizzata.
il focus si è spostato: l’impossibilità di pensare l’i-
righe 16-21 La peculiare definizione di Dio – nesistenza di Dio implica la sua esistenza necessa-
che implica l’impossibilità di pensare a qualcosa di ria. In altri termini: Dio non esiste come le altre
maggiore – impedisce di mantenere la distinzione realtà create (di cui si può sempre pensare la non
tra esistenza mentale ed esistenza reale. Infatti, se esistenza), ma esiste veramente, in modo così as-
Dio fosse solamente un oggetto del pensiero, po- soluto e necessario che pensarlo privo di esistenza
tremmo pensare a qualcosa di maggiore (cioè esi- sarebbe una contraddizione.

RIFLETTI E DISCUTI
1. Come credente Anselmo non dubita dell’esistenza di Dio (lo si evince anche dall’invocazione iniziale);
invece l’insipiente, che alla fine dovrebbe essere logicamente convinto dell’esistenza di Dio, non è
tenuto ad abbracciare la fede. Qual è dunque a tuo avviso il fine della dimostrazione? E quale il rapporto
tra logica razionale e fede?
2. Sotto la guida dell’insegnante, organizza con i tuoi compagni un dibattito regolamentato (stabilendo
in anticipo i tempi e i modi degli interventi) in cui una squadra assuma la posizione di Anselmo
e l’altra difenda quella dell’ateo.
254 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 18
SINTESI Filosofi dell ’XI secolo:
Avicenna e Anselmo d ’Aosta
AUDIOSINTESI

1 Forme di filosofia tra Oriente e Occidente


Avicenna e Anselmo sono le due figure filosofica- una riflessione razionale accanto a quella teologica,
mente più significative dell’XI secolo; essi riflettono dall’altro, a lungo andare, rappresenterà un motivo
entrambi sul significato di “essere” ed elaborano di debolezza per la mancata realizzazione di istitu-
una prova dell’esistenza di Dio, ma operano in am- zioni che non dipendano dal favore dei sovrani.
bienti culturalmente molto diversi. Il mondo latino dispone invece di fonti molto limi-
Quali sono le caratteristiche del mondo arabo e di tate: non si ha conoscenza diretta di Platone e si
quello latino? Nel mondo arabo, grazie alle ricche conoscono pochi testi logici di Aristotele. La cultura
e numerose biblioteche, è possibile accedere al pa- si sviluppa nei monasteri o nelle scuole cattedrali,
trimonio filosofico e scientifico dell’età classica. istituzioni scolastiche che evolveranno nelle univer-
Inoltre, il fatto che la cultura abbia il sostegno del sità e che, poco per volta, diventeranno sempre più
potere politico da un lato agevola lo sviluppo di indipendenti dal potere politico ed ecclesiale.

2 Avicenna, un medico e filosofo ai confini con l ’India


Avicenna è uno studioso poliedrico che si interessa, stenza. In relazione all’essere necessario (Dio) non
oltre che di filosofia, anche di medicina, scienze si può invece distinguere essenza ed esistenza: in
naturali e politica. Influenza profondamente la cul- lui essenza ed esistenza coincidono.
tura occidentale perché, nel XII secolo, nel mondo Come viene reinterpretata la cosmologia aristo-
latino Aristotele sarà conosciuto attraverso la me- telica? Avicenna riprende la struttura aristotelica
diazione dei suoi commenti. del cosmo combinandola con elementi neoplatoni-
Qual è l’interpretazione di Avicenna della metafi- ci. Dalla causa prima (Dio), per un processo di
sica aristotelica? Avicenna interpreta la metafisi- emanazione, deriva la prima intelligenza, e via via
ca come “scienza dell’essere in quanto essere” e una gerarchia di intelligenze, ciascuna delle
perciò come scienza universale, che si occupa di quali presiede a una sfera celeste. La decima e ulti-
tutto ciò che è comune a quanto esiste. L’essere vie- ma intelligenza imprime le forme nella realtà ma-
ne distinto in possibile e necessario: il primo è teriale conferendole ordine, ed è il principio della
contingente, cioè esiste ma potrebbe anche non esi- conoscenza.
stere, pertanto dipende da qualcos’altro; il secondo Come si sviluppa la conoscenza umana? La deci-
esiste di per sé e giustifica l’esistenza dell’essere ma intelligenza agisce come intelletto agente, che
possibile, la cui spiegazione altrimenti richiedereb- illumina le menti e permette di conoscere le forme
be un regresso all’infinito. L’essere necessario è universali. L’intelletto agente è di conseguenza
Dio. unico e separato dall’uomo. La conoscenza è un
In che cosa consiste la distinzione tra essenza ed processo di elevazione dell’uomo e di purificazione
esistenza? Nella riflessione su ciò che esiste, Avi- del suo intelletto, che si allontana dal mondo sensi-
cenna individua due ulteriori livelli di indagine: l’e- bile e si avvicina al divino fino a identificarvisi.
sistenza, cioè l’atto d’essere; e l’essenza, che rap- Come viene concepita l’anima? Per Avicenna l’ani-
presenta la natura di una cosa – ciò che fa sì che ma non è soltanto forma del corpo, come in Aristo-
una cosa sia quella che è – così come viene espressa tele, ma è una vera e propria sostanza separata e
nella sua definizione. La scienza è conoscenza indipendente, che può esistere e conoscere sé stes-
dell’essenza delle cose a prescindere dalla loro esi- sa a prescindere dal corpo.
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 255

3 Anselmo d ’Aosta, l ’abate: credere e comprendere


Monaco benedettino e poi abate di Le Bec e arcive- constatazione che anche l’ateo, detto insipiens, con-
scovo di Canterbury, Anselmo d’Aosta contrasta divide la definizione secondo cui Dio è “ciò di cui
duramente l’autorità politica per difendere l’auto- non si può pensare nulla di maggiore”. Tale defini-
nomia della Chiesa. Le sue opere più note sono il zione implica che Dio esista nella realtà e non sol-
Monologion e il Proslogion. tanto nel pensiero: infatti, ciò che ha l’esistenza è
Qual è il contenuto del Monologion? Il Monologion maggiore di ciò che non ce l’ha, e se Dio non esi-
è un’opera in cui la logica e l’indagine razionale stesse si potrebbe pensare qualcosa di esistente
vengono utilizzate per dimostrare l’esistenza di nella realtà oltre che nel pensiero che sarebbe supe-
Dio, partendo dalla molteplicità delle cose crea- riore a lui. La conclusione è che l’ateo, avendo accol-
te. I diversi gradi di perfezione e bontà delle cose to la suddetta definizione di Dio, non può negare la
create, infatti, rimandano a un grado sommo, che sua esistenza senza cadere in contraddizione.
rappresenta il fondamento di tutte le realtà ed è Quali sono le obiezioni di Gaunilone all’argomento
identificato con Dio. La dimostrazione dell’esisten- ontologico? Gaunilone critica l’argomento di An-
za di Dio è necessaria anche per colui che già crede, selmo osservando che pensare Dio non vuol dire
perché la fede non può essere cieca e incondiziona- conoscerlo, perché Dio è al di là di qualsiasi defini-
ta, e deve essere argomentata per meglio compren- zione; in secondo luogo, egli fa notare che non è
dere l’ordine razionale del creato. Inoltre la dimo- possibile passare dal pensiero di Dio come esi-
strazione può combattere il dubbio che si insinua stente alla realtà della sua esistenza effettiva.
nella fede e delineare un orizzonte comune rispetto Che cosa risponde Anselmo a Gaunilone? Ansel-
a coloro che credono in un Dio diverso. mo controbatte che si può definire Dio e dimostrare
Di che cosa si occupa il Proslogion? Il Proslogion la sua esistenza anche senza conoscerlo. Inoltre Dio
vuole dimostrare l’esistenza di Dio con un argo- è l’unico a cui si applica l’argomento, in quanto è il
mento unico, a partire dalla sua definizione e massimo pensabile. Al di sotto di questo limite
non dal mondo creato. Questo argomento viene tutte le cose pensate possono esistere o non esistere.
definito “ontologico” o “a priori” e si basa sulla
256 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 18
MAPPE CONCETTUALI Filosofi dell ’XI secolo:
Avicenna e Anselmo d ’Aosta
GLI AMBIENTI CULTURALI
ARABO E LATINO
IL MONDO ARABO IL MONDO LATINO

è caratterizzato da è caratterizzato da

disponibilità del sostegno dei sovrani scarsità delle fonti predominio di una
patrimonio filosofico allo sviluppo delle (perlopiù latine), cultura “clericale”
e scientifico dell’età scienze e della custodite e studiate
classica e presenza cultura nei monasteri e nelle
di ricche biblioteche scuole cattedrali

il sapere filosofico non si sviluppano istituzioni


si radica in istituzioni scolastiche
autonome

AVICENNA
scienza universale
che si occupa
LA METAFISICA è
dell’“essere in
quanto essere”
distingue tra

essere possibile essere necessario esistenza essenza

realtà contingente: Dio: non deriva l’atto d’essere ciò che fa sì che
deriva da altro e da altro una cosa sia quella
può cessare di che è
esistere
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 257

LA VISIONE EMANATISTA DEL COSMO LA CONOSCENZA

comporta che deriva dalla

decima intelligenza
la causa prima (Dio) la creazione sia (o intelletto agente)
intervenga soltanto nella considerata come
produzione della prima emanazione e pertanto che
intelligenza e della sia eterna
relativa sfera celeste
è separata illumina la mente
dall’individuo e umana infondendo
l’universo è strutturato la causa prima è eterna garantisce in essa le idee
secondo una gerarchia di e dunque lo sono anche l’universalità
intelligenze via via inferiori i suoi effetti del sapere

ANSELMO
la fede non può essere
cieca e incondizionata
LA DIMOSTRAZIONE è necessaria
DELL’ESISTENZA DI DIO perché
la ragione costituisce
l’orizzonte comune per
è elaborata nel combattere il dubbio nella fede

Monologion Proslogion
(argomento a posteriori) (argomento a priori)

a partire dal a partire dalla

riconoscimento dei gradi definizione di Dio come “ciò


diversi di perfezione di cui non si può pensare
e di bontà nulla di maggiore”

si arriva alla si arriva alla

affermazione di un criterio affermazione dell’esistenza


assoluto che li rende di Dio nella realtà oltre che
possibilli, cioè Dio nel pensiero

infatti

se si negasse l’esistenza di Dio, bisognerebbe


ammettere che vi è qualcosa di maggiore rispetto a
lui (perché esisterebbe nella realtà oltre che nel
pensiero), e ciò sarebbe contraddittorio
258 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 18
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Filosofi dell ’XI secolo:
Avicenna e Anselmo d ’Aosta TEST
Allena la logica

1 Forme di filosofia tra Oriente 5. L’essere si può distinguere in:


(segna la risposta esatta)
e Occidente a contingente, che riceve la sua esistenza da
un altro, e necessario, che esiste per sé
riconoscere le nozioni b necessario, perché un altro ente lo causa,
1. A differenza che nel mondo arabo, in quello e contingente, che potrebbe non esistere
latino: (segna la risposta esatta) c contingente, carattere comune a tutto l’essere,
a il patrimonio culturale greco è conservato e possibile, che potrebbe non esistere
e studiato d necessario, carattere comune a tutto l’essere,
b Platone e Aristotele sono completamente e contingente, che deriva da un altro
sconosciuti
6. La distinzione tra essenza ed esistenza implica
c le fonti sono limitate e si conoscono pochi testi
che: (segna la risposta esatta)
dei principali filosofi greci
a la prima esista necessariamente, mentre
d si inaugura un’imponente opera di traduzione
la seconda sia contingente
dei testi classici greci
b la seconda sia superiore alla prima, perché
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) riguarda enti concreti
c l’esistenza definisca i caratteri fondamentali
2. Qual è il rapporto della cultura con il potere
di una cosa, l’essenza la sua realtà
politico nel mondo arabo?
d l’essenza definisca la natura fondamentale di un
3. Presso quali istituzioni si sviluppa la cultura nel oggetto, l’esistenza la sua realtà
mondo latino?
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
7. Con quali argomenti Avicenna dimostra
l’esistenza di Dio?
2 Avicenna, un medico e filosofo 8. Qual è il rapporto tra la decima intelligenza
ai confini con l ’ India e il mondo terrestre?
9. Com’è concepito da Avicenna l’intelletto agente?
riconoscere le nozioni e il significato
delle parole 10. Qual è il rapporto tra anima e corpo?
4. Il senso della Metafisica aristotelica appare chiaro
scrivere e rielaborare (15-20 righe)
ad Avicenna quando: (segna la risposta esatta)
a la comprende come scienza dell’essere supremo 11. Spiega la relazione tra conoscenza e felicità
secondo Avicenna.
b capisce che la filosofia prima ha diversi oggetti
e diversi argomenti ad alta voce
c comprende che si occupa di un unico oggetto:
l’essere in quanto essere 12. Esponi in 3 minuti l’esperimento mentale
dell’uomo volante e il suo significato filosofico,
d comprende che si occupa di un unico oggetto:
l’essere contingente utilizzando le espressioni seguenti:
individuo sospeso • esperienza e conoscenza
sensibile • esistenza • “io” • anima • sostanza
• corpo • principio spirituale
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 259

3 Anselmo d ’ Aosta, l ’ abate: 16. L’argomento ontologico in sintesi afferma che:


(segna la risposta esatta)
credere e comprendere a Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di
maggiore, quindi esiste realmente, altrimenti
riconoscere le nozioni e il significato potremmo pensare qualcosa di maggiore in
delle parole quanto esistente non soltanto nel pensiero
13. Quali, tra le seguenti affermazioni, sono b Dio esiste, di conseguenza nulla è maggiore di lui
corrette in riferimento alla vita e alla formazione c soltanto nel pensiero Dio è ciò di cui non
di Anselmo? (segna le 2 risposte esatte) possiamo pensare nulla di maggiore
a ha a disposizione i testi della scienza d premesso che Dio esiste, Dio è ciò di cui non
e della filosofia greca si può pensare nulla di maggiore, altrimenti
b non conosce direttamente i testi platonici la definizione non sarebbe adeguata e lo stolto
c la vita monastica lo isola dal mondo e ciò si contraddirebbe
favorisce la sua riflessione
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
d contrasta il sovrano per difendere la libertà
della Chiesa 17. Perché è necessario che esista un ente sommo?
e è a servizio della corte imperiale, che gli mette 18. Qual è il ruolo dell’insipiens nell’argomento
a disposizione una ricca biblioteca di Anselmo?
14. Per quale ragione Anselmo vuole dimostrate 19. La dimostrazione dell’esistenza di Dio rende
l’esistenza di Dio? (segna la risposta esatta) inutile la fede?
a perché in gioventù ha passato un periodo
di dubbio e di vita dissipata 20. Perché l’argomento ontologico è applicabile
soltanto a Dio?
b perché si trova a condurre una polemica
con gli islamici scrivere e rielaborare (15-20 righe)
c perché la fede non deve essere cieca,
ma argomentata
21. Spiega perché, negando Dio, l’ateo cade
in contraddizione.
d perché soltanto con la ragione si può giungere
alla fede ad alta voce
15. Qual è la principale differenza di impostazione 22. Esponi in 5 minuti i due argomenti
tra il Monologion e il Proslogion? fondamentali di Gaunilone in difesa
(segna la risposta esatta) dell’insipiens.
a nel Monologion l’autore parte dalla molteplicità
della realtà del mondo, nel Proslogion cerca un
argomento che si imponga per la sua intrinseca
evidenza
b nel Monologion le prove non sono convincenti,
per cui il Proslogion privilegia la fede
c il Proslogion parte dalla realtà del mondo,
il Monologion dalla definizione di Dio
d il Monologion prende in considerazione la
posizione dell’ateo per superarla
260 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 19 Il primato della ragione


filosofica nel XII secolo:
Abelardo, Averroè e Maimonide

Dubitando facciamo ricerca e ricercando raggiungiamo la verità.
(Abelardo, Sic et non, prologo)

1 Culture diverse in un mondo comune


La fioritura culturale a Occidente
Come i secoli precedenti, anche il XII va affrontato considerando l’apporto di diverse ri-
flessioni filosofiche, soprattutto quella araba e latina, cui si aggiunge il contributo della
tradizione ebraica. Vi sono però alcuni importanti mutamenti: se osserviamo la carta
geografica dei maggiori centri culturali confrontandola con quella dell’XI secolo, coglia-
mo immediatamente che il luogo più fertile per lo sviluppo filosofico è l’Europa occiden-
tale, in particolare la penisola iberica, la Francia e il territorio italiano. Questa nuova
concentrazione culturale è frutto di due fattori: la peculiare vivacità della Spagna mu-
sulmana e la ripresa economica del mondo latino.
1. L’islam era presente in Spagna fin dall’VIII secolo, quando tra il 711 e il 716 aveva
sconfitto i visigoti; ma è soltanto a partire dai secoli X-XI che si registra una straor-
dinaria fioritura culturale, grazie anche alla trasmissione di testi che provengono
dai centri arabi dell’Oriente (❯ p. 234). Nella penisola iberica si osserva una con-
centrazione di libri, biblioteche e studiosi che non ha confronti nel mondo latino-
cristiano. Politicamente, però, l’islam non costituisce un regno unitario: la frantu-
mazione in numerosi Stati e il susseguirsi turbolento di diverse dinastie in lotta tra
loro consente ai sovrani spagnoli cristiani – che nell’XI-XII secolo dominavano
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 261

Castiglia, Aragona, Navarra e Portogallo – di avanzare verso sud, in un movimen-


to di reconquista che si protrae per diversi secoli e si conclude nel 1492, quando
viene espugnata Granada, ultima roccaforte musulmana nella penisola iberica.
L’instabilità politica non impedisce la grande fioritura della civiltà araba in Spagna,
di fronte alla quale i cristiani rimangono affascinati e soggiogati: gli intellettuali
latini del tempo guardano al mondo arabo con interesse, meraviglia e invidia, fa-
cendo a gara per procurarsi testi manoscritti e tradurli in latino.
2. Il secondo fattore è interno al mondo latino: lo sviluppo di nuovi centri culturali è
conseguenza della ripresa successiva all’anno Mille, quando si comincia a godere
di una relativa pace, dopo la fine delle invasioni (in particolare di ungari, norman-
ni e saraceni), e inizia un lento miglioramento economico. L’aumento della pro-
duttività agricola, dovuto a una serie di innovazioni tecnologiche, si riversa sui
centri cittadini, che acquistano centralità e grande dinamismo: nelle città si concen-
tra la diffusione di scuole e si assiste a una riorganizzazione della vita sociale che
implica un valore nuovo conferito alla cultura.

Una nuova prossimità culturale tra mondo arabo e latino


Come si è visto, tra l’XI e il XII secolo il mondo culturale latino e quello arabo si avvici-
nano, dal momento che la filosofia araba si sviluppa soprattutto nella penisola iberica.
Arabi, ebrei e latini abitano gli stessi spazi e il confronto si fa più pressante e fecondo;
l’immagine dell’“altro” non è più ammantata di elementi mitici e fantastici, ma è divenu-
ta più vicina e familiare, ed entra ormai nella vita quotidiana. Le stesse crociate compor-
tano un elemento di incontro e conoscenza, e provocano l’aumento dei commerci e degli
scambi anche culturali, così che tra i latini coloro che conoscono l’arabo sono più di quan-
ti leggono il greco.

Oxford Londra I CENTRI FILOSOFICI NEL XII SECOLO


Liegi
Laon
Parigi Reims
oceano
Atlantico Chartres Clairvaux
Troyes
Poitiers
Bologna
Montpellier mar Nero
Saragozza Costantinopoli
Toledo Salerno

Cordova Catania
Granada

mar Mediterraneo

Marrakech
Il Cairo
ma
rR
oss
o
262 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Nei confronti del mondo arabo gli intellettuali latini continuano a percepire un senso
di inferiorità, ma stanno recuperando a grandi passi questo divario grazie alla vicinanza
geografica e a una prossimità culturale che deriva dal fatto di onorare le stesse fonti
antiche del sapere (i filosofi greci classici). E proprio per accedere a queste fonti si rivol-
gono agli arabi che le hanno conservate, e cercano in tutti i modi di leggerle, copiarle,
tradurle, in un processo di lenta acquisizione che darà i suoi frutti nella rinascita latina
del XIII secolo (❯ p. 294 e ss.).
Gli arabi hanno il merito di trasmettere all’Occidente il sapere antico e un patrimonio
filosofico fatto di commenti, parafrasi e riflessioni originali; sono però i latini a costrui-
re i luoghi istituzionali dove preservare e trasmettere nei secoli futuri tale eredità. Nel-
le città del mondo latino fioriscono le scuole episcopali, organizzate da chierici nella ca-
nonica della cattedrale, ma anche scuole private, rette da singoli maestri. Questi luoghi
sono un’anticipazione delle università, e a poco a poco conquisteranno una certa autono-
mia rispetto all’autorità politica ed ecclesiastica: in tal modo l’insegnamento diventa una
professione, come vedremo con Abelardo, e non più un ruolo legato a una posizione di
potere. Al contrario, nel mondo arabo, la mancanza di istituzioni analoghe alle scuole e
la dipendenza dei filosofi dalla politica culturale dei sovrani determinerà la decadenza
della filosofia dopo Averroè.

La vita cittadina tra innovazione e censura


La città è il luogo simbolo dello sviluppo occidentale del XII secolo: l’importanza della
vita cittadina non è una novità nel mondo arabo, mentre segna davvero un cambiamento
epocale rispetto alle strutture feudali latine, perché in questo centro di traffici e di com-
merci la cultura si apre a nuovi soggetti, e quelli tradizionali sono costretti a trasformar-
si. Lo si vede nell’evoluzione dei monasteri: essi devono confrontarsi con un profondo
rinnovamento che intacca il modello della società feudale e la riflessione teorica che la
sosteneva. I monasteri sono ancora i principali depositari della cultura, anche in senso
materiale, perché sono i luoghi in cui si trova il maggior numero di libri e dove arrivano
le novità, avidamente e gelosamente copiate, ma sulla scena filosofica si stanno affac-
ciando figure diverse: non più il monaco, l’abate o il vescovo, ma il magister, dedito
all’insegnamento per vocazione e per professione. Questi cambiamenti spiegano in che
senso il XII secolo sia un secolo di fermento e di contraddizioni: oltre alla diffusione
di nuovi saperi e di sperimentazioni culturali, la città è teatro anche di scontri, di con-
danne e di censure da parte di coloro che ritengono di difendere la tradizione o che in-
terpretano la filosofia come potenzialmente pericolosa e destabilizzante per i valori con-
solidati e la visione politica.
I tre filosofi che prendiamo in esame, Abelardo, Averroè e Maimonide, sono acco-
munati dalle censure delle autorità politiche o religiose: Abelardo deve sopportare reite-
rate condanne di concili, che ordinano il rogo dei suoi libri; Averroè e Maimonide sono
costretti all’esilio. Il contesto e le motivazioni della condanna sono diversi per i tre autori,
e anche i contenuti della loro riflessione, ma in tutti i casi la persecuzione che subiscono
ha a che fare con l’esercizio di una razionalità filosofica autonoma.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo i due elementi che favoriscono la fioritura culturale del XII secolo.
• Evidenzia nel testo i fattori di novità legati allo sviluppo delle città.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 263

2 Pietro Abelardo, il dialettico


LA VITA E LE OPERE
Un ’esistenza irrequieta
Se l’autobiografia di Agostino è una “confessione” – ovvero il riconoscimento dei propri
peccati e, insieme, una lode a Dio –, quella di Abelardo si intitola Storia delle mie disgrazie
(Historia calamitatum mearum, 1030-1031) e porta immediatamente a collocare l’autore in
un contesto conflittuale che rispecchia le contraddizioni di un’epoca in fermento.
Nato nel 1079 a Le Pallet, presso Nantes, da una famiglia appartenente alla piccola
nobiltà, rinuncia ai diritti di primogenitura per dedicarsi agli studi e, come scrive, «ab-
bandona Marte per Minerva», la carriera militare per la filosofia. Inizia così un’esistenza
itinerante alla ricerca dei migliori maestri, come Roscellino di Compiègne e Guglielmo di
Champeaux, che pure non mancherà di criticare.
Completati gli studi di filosofia nella scuola cattedrale di Parigi, decide di aprire una
scuola sua, spostandosi in diversi centri a sud di Parigi (prima Melun e poi Corbeil). Nel
1108 torna a Parigi, insegnando prima a Sainte-Geneviève e poi entrando nella presti-
giosa scuola di Nôtre-Dame. Ottiene subito un grande successo come insegnante di
retorica e di dialettica (ovvero di logica, lo strumento fondamentale della filosofia), e
non manca neppure di cimentarsi in maniera innovativa nella teologia, appresa presso
Anselmo di Laon, con cui polemizza: Abelardo lo accusa di incantare i discepoli con la
sua eloquenza, senza produrre vere argomentazioni, come quando si accende un fuoco
che riempie l’ambiente di fumo, senza riuscire a illuminarlo.
Sia le cronache dell’epoca sia la ricostruzione retrospettiva fatta da Abelardo mettono
in evidenza un’intelligenza brillante e temeraria, una figura ricercatissima dagli studen-
ti, ma che non manca di suscitare dure opposizioni. Sono due aspetti correlati, poiché
quanto più Abelardo sembra rifiutare la tradizione e mostrarsi critico nei confronti dei
propri maestri, tanto più la sua fama si accresce, generando – secondo quanto afferma lui
stesso – l’invidia per la celebrità ottenuta, invidia che egli vede come causa principale
delle sue «disgrazie».

L’ incontro con Eloisa


È al culmine di questo successo, tra il 1115 e il 1116, che si colloca l’incontro più celebre
della sua vita: il canonico Fulberto gli affida l’educazione della giovane nipote Eloisa,
un’aristocratica straordinariamente colta per l’epoca. I due si innamorano appassionata-
mente e stringono una relazione clandestina, durante la quale Eloisa rimane incinta.
Abelardo la conduce segretamente in Bretagna, nella sua città natale, dove Eloisa dà alla
luce un figlio maschio, che viene chiamato Astrolabio (il nome di uno strumento astro-
nomico per determinare la posizione dei pianeti). Per placare le ire dello zio Fulberto, i
due si uniscono in matrimonio, che Abelardo però mantiene segreto per timore che
possa compromettere la sua carriera (a chi insegnava nelle scuole cattedrali si richiede-
va la rinuncia alla vita matrimoniale). Per questo motivo smentisce la sua unione quan-
do la famiglia di Eloisa diffonde la notizia, e invita la sposa a trasferirsi in un convento.
264 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

❯ A destra, Eloisa
(in piedi con il
vestito rosso) entra
in convento;
a sinistra, i due
sposi si rincontrano;
miniature,
XV e XVI secolo.
La vicenda amorosa
di Abelardo
ed Eloisa ebbe
grande fortuna nei
secoli successivi,
divenendo oggetto
di numerose
rappresentazioni
iconografiche e
letterarie.

Temendo che Abelardo voglia ripudiare Eloisa, Fulberto si vendica atrocemente, facen-
dolo evirare da alcuni sicari nel cuore della notte. A quel punto Eloisa è costretta a pren-
dere i voti religiosi e per tutta la vita motiverà la sua scelta come gesto d’amore per Abe-
lardo; quest’ultimo invece si rifugia nel monastero di Saint-Denis, non per vocazione, ma
per la vergogna e il desiderio di ritirarsi in solitudine.
Le strade dei due si incontreranno ancora nel 1129, quando Abelardo offrirà ospitalità
a Eloisa e alle sue consorelle, il cui convento era stato espropriato, donando loro il mona-
stero del Paracleto (presso Troyes). A questi anni risale una raccolta di lettere tra Abe-
lardo ed Eloisa, dove lei rievoca in maniera struggente la loro storia giovanile senza
rinnegare mai la sua dedizione, mentre Abelardo cerca di ricondurre la relazione a un
piano più propriamente intellettuale e spirituale.

La vita monastica, le condanne e la morte


Per Abelardo anche la vita monastica si mostra irta di difficoltà e conflitti: con il suo
temperamento e ingegno arriva a inimicarsi i monaci dell’abbazia, oltre che attirare l’at-
tenzione della censura ecclesiastica per le audaci tesi teologiche. Viene condannato una
prima volta nel concilio di Soissons del 1121, che ordina di bruciare il suo libro sulla tri-
nità. Anni dopo Bernardo di Chiaravalle si impegna con zelo indefesso affinché la con-
danna sia reiterata, come effettivamente avviene a Sens, nel 1140, in occasione di un
concilio a cui Abelardo rifiuta di partecipare, perché la commissione teologica si era riu-
nita preventivamente per decidere la censura senza diritto di replica.
Proprio nel 1140, mentre era in viaggio verso Roma per evitare la condanna papale,
Abelardo viene ospitato dall’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, che intercede in suo fa-
vore, convincendolo a rimanere come insegnante nel monastero. Muore due anni dopo,
nel 1142, in un convento dipendente da Cluny. Pietro il Venerabile trasferisce segreta-
mente le spoglie di Abelardo presso il convento di Eloisa; i due vengono sepolti vicini e i
loro resti non saranno mai separati (si trovano oggi nel cimitero di Père Lachaise a Parigi).
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 265

Gli ultimi anni della vita di Abelardo sono dunque caratterizzati da spostamenti tra
diverse città, controversie, condanne, e perfino da un tentativo di avvelenamento da
parte dei monaci, ma sono contrassegnati anche da un’attività di insegnamento quasi
ininterrotta, coronata da un successo unanime presso gli studenti, che si calcola siano
stati circa cinquemila; tra essi si annoverano alcuni discepoli celebri, come sovrani, papi,
vescovi, abati.

La composizione delle opere


Abelardo fu una figura che non lasciò indifferenti i suoi contemporanei: si conquistò
acerrimi nemici, ma anche altrettanti ammiratori entusiastici, come Pietro il Venerabile,
che lo paragonò a Socrate, Platone e Aristotele nella stessa persona. Fu il più grande lo-
gico della sua epoca, affermazione tanto più significativa se si considera che delle opere
logiche dell’antichità egli conosceva soltanto la cosiddetta logica vetus (“logica antica”),
ovvero le Categorie e L’interpretazione di Aristotele, l’Isagòge di Porfirio e gli scritti di Boe-
zio (❯ Per approfondire , p. 267). Visse in maniera itinerante e irrequieta, spostandosi per ri-
cercare e insegnare nuove verità, ma anche per fuggire persecuzioni e ostilità. Non riuscì
a trovare un suo luogo proprio, né nella vita matrimoniale né in quella religiosa o mona-
stica: le uniche cifre costanti della sua esistenza furono l’attività di insegnamento e il suo
metodo, la dialettica, ossia l’applicazione dell’argomentazione razionale a ogni riflessio-
ne, tanto filosofica quanto teologica.
Il carattere aperto e dinamico della sua ricerca di una verità mai completamente ac-
quisita si riflette anche nella composizione delle opere, che vengono tutte sottoposte a
revisioni, riformulazioni e riscritture, soprattutto quelle pensate per l’insegnamento.
Possiamo distinguere la sua produzione in alcuni gruppi di opere:
1. opere di logica e dialettica, tra cui ricordiamo la Logica ingredientibus (Logica per i
principianti, così chiamata perché “ingredientibus” è la prima parola dello scritto) e
la Dialectica; mentre la prima opera è un commento molto aderente ai testi aristo-
telici, la Dialettica si articola in maniera tematica e maggiormente autonoma;
2. opere di teologia, filosoficamente rilevanti perché anche in quest’ambito Abelar-
do ricorre all’argomentazione razionale, opponendosi all’uso delle autorità patristi-
che come principio dirimente e applicando così la dialettica anche alla teologia. Tra
le opere più importanti vi sono la Teologia del sommo bene, il Sic et non e il Dialogo tra
un filosofo, un ebreo e un cristiano;
3. la riflessione etica, che trova sistemazione organica nell’Ethica sive scito te ipsum
(Etica o conosci te stesso), composta verso la fine della sua vita, in cui in maniera
estremamente moderna e innovativa Abelardo valuta l’azione morale a partire
dall’intenzione interiore e non dall’atto esteriore;
4. gli scritti biografici, già citati, ovvero lo scambio epistolare con Eloisa, a cui viene
premessa la Storia delle mie disgrazie, che si può considerare una delle prime auto-
biografie moderne (anche se l’autenticità dell’epistolario e dell’Historia calamitatum
è stata recentemente messa in dubbio da alcuni studiosi, almeno nella forma in cui
i testi ci sono pervenuti).

FARE per CAPIRE • Evidenzia i dati biografici di Abelardo filosoficamente rilevanti e costruisci una
tabella, riportando a sinistra gli eventi e a destra la loro importanza filosofica.
266 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

LA DISPUTA SUGLI UNIVERSALI


I termini generali della questione
Abelardo è anzitutto un dialettico, termine usato nel Medioevo per indicare la logica, che
egli non concepisce tuttavia come un mero esercizio formale o come un insieme di regole
preliminari alle altre discipline, ma come strumento per giungere alla conoscenza. La
dialettica diventa l’atteggiamento fondamentale del filosofo, che discute di tutto e si met-
te in questione per avvicinarsi a una verità che non è mai acquisita in maniera definitiva.
La fama di logico di Abelardo si impone per la prima volta in occasione della disputa
sugli universali, che lo vede contrapporsi al suo maestro di un tempo, Guglielmo di
Champeaux (morto nel 1120), demolendone le tesi realiste e rovinandogli la reputazio-
ne (secondo il racconto, evidentemente non imparziale, fornito dallo stesso Abelardo).
Per comprendere i termini del problema è però opportuno considerare le radici antiche
di un tema che attraversa tutta la discussione medievale.
Lo statuto dei concetti universali è una questione presente già in Platone, nella mi-
sura in cui – dopo aver definito il mondo delle idee come realtà universale, perfetta e im-
mutabile – è necessario stabilire il nesso con le realtà sensibili particolari, che “imitano”
tali essenze ideali. La critica alla dottrina delle idee è uno dei presupposti teorici di Ari-
stotele, ma anche in una visione aristotelica è necessario definire il rapporto tra una
classe (come il genere o la specie) e gli individui che vi appartengono. Come si defini-
sce la classe? Soltanto in base al fatto che si generalizzano determinate somiglianze in-
terne al gruppo? E con quale criterio sono privilegiate alcune proprietà invece che altre?
Un conto è infatti accomunare gli individui secondo caratteristiche accidentali (ad esem-
pio i nati nel 2003 o chi ha gli occhi azzurri), un conto è cercare somiglianze che hanno
una pretesa definitoria (ad esempio distinguere concettualmente i felini dai bovini). Il
punto cruciale è stabilire se la classe ha semplicemente una funzione descrittiva, impo-
sta per comodità linguistica e concettuale, o se corrisponde invece alle caratteristiche
essenziali degli individui, per cui è necessario riferirsi a qualcosa di universale per defi-
nire la sostanza di un individuo.
La questione riguarda pertanto il rapporto tra il valore logico delle categorie aristo-
teliche e il loro significato ontologico: le categorie sono un comodo strumento logico
per organizzare la nostra conoscenza del mondo, ma si può anche pensare che esse si
prestino bene a descrivere e ordinare la realtà perché corrispondono alla sua struttura.

La posizione realista
Al tempo di Abelardo, l’ipotesi secondo cui gli universali hanno un valore ontologico è
definita realista. Per i realisti, come Guglielmo di Champeaux, gli universali sono essen-
ze eterne, che il nostro intelletto contempla e rispecchia nelle categorie. Tali essenze

lessico dialettica il termine nel Medioevo è sinonimo universale (dal latino universus, “tutto”, “intero”)
filosofico di “logica”. Per Abelardo la dialettica non è unica- il genere o la specie in cui l’individuo può essere
mente un insieme di regole che il pensiero deve classificato, quindi ciò che definisce l’insieme, il
seguire per produrre ragionamenti formalmente “tutto” dove l’individuo, come parte, si colloca.
corretti, bensì lo strumento con cui accrescere la
conoscenza e avvicinarsi alla verità.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 267

immutabili sono presenti nelle diverse forme particolari e costituiscono la condizione


dell’esistenza degli individui: la priorità non viene assegnata a ciò che è singolare ben-
sì all’universale, per cui, ad esempio, nonostante le differenze individuali, le diverse per-
sone hanno la stessa natura o essenza di “uomo”, intesa come una determinazione reale.
I concetti universali non sono semplici categorie linguistiche, ma corrispondono a una
realtà da cui il linguaggio stesso dipende (❯ Per approfondire).

realismo nella discussione sugli universali, la (“cose”) che esistono a prescindere dagli individui e lessico
posizione secondo cui essi sono essenze immuta- anzi sono la condizione di esistenza di questi ultimi. filosofico
bili che hanno un’esistenza reale; sono cioè res Gli universali hanno quindi un valore ontologico.

Boezio: tra antichità classica e Medioevo latino


autore ammette che è estremamente difficile stabilire
L’origine della disputa sugli universali
l tempo di Abelardo, la questione degli universali L’ qual è la giusta opinione da seguire, perché ci si trova di
A viene affrontata come “commento sul commento
di un commento”, cioè riferendosi al testo di Boezio
fronte a un’aporia: se gli universali sono sostanze separate,
non si capisce come possano essere presenti in più indivi-
dui; se sono mere categorie usate dall’intelletto, potrebbe-
sull’Isagòge di Porfirio. Nel III secolo d.C. Porfirio, neo-
ro essere nozioni vuote o false, senza corrispondenza alla
platonico discepolo di Plotino, aveva scritto un’intro-
realtà. La soluzione è ricercata nella capacità della mente
duzione (in greco eisagoghé) alle Categorie di Aristo-
umana di formare dei concetti: mentre infatti i sensi per-
tele; agli inizi del VI secolo, il filosofo romano Severino cepiscono sempre soltanto caratteristiche individuali, l’in-
Boezio traduce in latino e commenta l’opera di Por- telletto coglie l’universale, in un concetto che si riferisce
firio; nei secoli successivi i medievali useranno proprio alla realtà senza però essere un’idea platonica. Questa po-
questi testi logici tradotti da Boezio. È una “catena di sizione, proposta nel commento all’Isagòge, viene svilup-
testi”, che parte da Aristotele, attraversa il pensiero neo- pata da Boezio nella sua ultima opera, il De consolatione
platonico, poi quello cristiano, per alimentare le distin- philosophiae (la Consolazione della filosofia), dove vengo-
zioni medievali: è così che la questione degli univer- no toccati anche importanti temi metafisici e morali.
sali viene trasmessa al Medioevo, che la discute
appassionatamente per le implicazioni ontologiche e Il De consolatione
ntorno al 524 Boezio era stato imprigionato a Pavia da
teologiche in essa racchiuse.
a figura di Boezio rappresenta in questo senso un
I Teodorico, re degli ostrogoti, con l’accusa di tradimento;

L importante anello di congiunzione tra la cultura gre-


ca pagana e quella medievale cristiana. Nel commento
l’autore immagina che la filosofia, sotto le spoglie di una
nobildonna, vada a trovarlo nel carcere per dargli confor-
to parlandogli della felicità e dei modi per acquisirla. La
all’Isagòge egli riprende quanto Porfirio asseriva rispet- felicità si può ottenere coltivando i valori spirituali, i beni
to agli universali, ponendosi il problema se i generi e le dell’anima, che risultano più stabili e sicuri rispetto a
specie siano o meno realtà esistenti di per sé. quelli materiali, soggetti alle circostanze contingenti. In
particolare la felicità risiede in Dio, bene sommo, che
La posizione di Boezio crea e governa il mondo orientandone le vicende secondo
n relazione a tale alternativa, Boezio riporta sia il pun-
I to di vista di Platone – secondo cui gli universali esi-
stono indipendentemente dai corpi, sono realtà imma-
un ordine provvidenziale: l’uomo deve assecondare tale
ordine e vivere mirando al bene. Il male secondo Boezio
non può derivare da Dio, è non essere, mancanza, emer-
teriali a sé stanti – sia quello di Aristotele – secondo il ge laddove le creature non siano riuscite – per la debolez-
quale gli universali sussistono nelle cose sensibili, qua- za della loro volontà o per ignoranza – a ottenere il bene,
li loro “forme” immanenti. cui tutte, indistintamente, sono votate.
268 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

La critica al realismo e il concettualismo di Abelardo


L’aspra critica di Abelardo al suo maestro è che, se si pensa l’universale come una essenza
reale e unica in tutte le cose che appartengono a uno stesso genere o specie, gli individui
diventano mere modificazioni accidentali dell’universale. Ciò implica conseguenze
logicamente insostenibili: se l’universale fosse una res (cioè fosse dotato di esistenza rea-
le), la stessa cosa avrebbe proprietà contraddittorie; ad esempio, se consideriamo il concet-
to di “animale” come reale sia nell’uomo sia nel cavallo, esso risulterà contemporanea-
mente razionale (nel primo caso) e non razionale (nel secondo). Per Abelardo, dunque,
l’universale non può essere una sostanza unica presente in tutti gli individui, come se
questi fossero semplici espressioni o varianti di una specie. La questione non è un mero
esercizio di logica, ma riguarda il modo di interpretare la realtà, che è sempre individuale:
soltanto gli individui esistono realmente, non i concetti universali.
La critica al realismo degli universali sembrerebbe portare direttamente alla tesi op-
posta, quella di Roscellino (anch’egli maestro di Abelardo), che aveva definito i concetti
universali come semplici nomi, prodotti dall’emissione della voce ( flatus vocis). Abelardo
si distacca però anche da questa posizione, che in seguito sarà definita nominalismo,
perché a suo avviso gli universali non possono essere nomi arbitrariamente imposti alle
cose. Abelardo sostiene una posizione intermedia tra realismo e nominalismo, che è
stata chiamata concettualismo: l’universale non è una realtà (res) e neppure un nome
convenzionale (vox), ma è un termine dotato di significato (sermo), un concetto che si
applica alla realtà. Esso deriva dal processo astrattivo dell’intelletto, che distingue nella
realtà le differenze individuali dall’elemento comune, ciò che è proprio di Socrate come
individuo dal suo “essere uomo” che è comune anche agli altri uomini. Con grande acu-
me Abelardo sposta la considerazione dal piano ontologico a quello mentale, riflettendo
sul significato degli universali, e non sulla loro esistenza. Il valore universale dei termi-
ni non è una pura convenzione linguistica, ma si fonda sul fatto che i concetti sono rica-
vati per astrazione dalle realtà fisiche e quindi ciò che esprimono corrisponde alla natura

ESPERIMENTO filosofico Gli universali e la loro percezione


• Prendete un foglio bianco o di un altro colore, e dividetelo in due parti.
• Osservando contemporaneamente i due fogli, rispondete individualmente e per scritto
alla domanda: quello che si vede è un bianco o due bianchi? La domanda significa: per
descrivere la percezione del colore dei due fogli, è più adeguata la frase “vedo un unico
bianco” (o se si preferisce “un’unica bianchezza”) oppure “vedo due bianchi” (o “due
bianchezze”)? È importante rispondere evitando di discutere e di confrontarsi con i com-
pagni, e anche di dare risposte complesse (del tipo “dipende da che cosa si intende per...”,
“da un certo punto di vista...”, “se si considera che...”). Lo scopo di questo esperimento è
di raccogliere risposte non filosofiche su come viene descritta la propria percezione.
• Dopo che ognuno avrà risposto (possibilmente senza rifletterci troppo), prendete nota
di quanti nella classe si sono schierati a favore della prima ipotesi (un’unica bianchezza)
o della seconda (due bianchi).
• A questo punto rileggete nel testo come vengono presentati il realismo e il nominalismo
nella disputa sugli universali. A quale delle due posizioni si può ricondurre il gruppo di chi
vede un solo bianco? E quello di chi ne vede due? Discutete e motivate le risposte.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 269

delle cose stesse. Abelardo distingue infatti la funzione linguistica, con cui si nominano
e definiscono le cose, dal significato che le parole hanno, ciò che il linguaggio fa com-
prendere, ovvero il concetto o contenuto mentale: è soltanto a questo secondo livello che
si può parlare di universalità dei concetti.

LA DISPUTA SUGLI UNIVERSALI MAPPA


CONCETTUALE
GLI UNIVERSALI

per i realisti per i nominalisti per i concettualisti

sono res, essenze sono solamente sono concetti costruiti


immutabili che nomi convenzionali, per astrazione a partire
possiedono utilizzati per indicare dagli oggetti, dei quali
un’esistenza reale gruppi di oggetti con identificano la natura
caratteristiche simili comune

IL METODO DIALETTICO IN TEOLOGIA


La teoria trinitaria
La risposta di Abelardo al problema degli universali ha un rilievo anche teologico, perché
coinvolge l’interpretazione della trinità: la dottrina ufficiale sostiene la sussistenza di tre
persone realmente distinte, che non sono però tre “dei” perché hanno un’unica essenza
divina. Se il nominalismo estremo di Roscellino portava al pericolo di concepire tre divi-
nità non unite da un’essenza comune (triteismo), perché l’essenza è soltanto un nome
privo di una corrispondenza reale, la dottrina trinitaria di Abelardo si presta all’accusa
contraria di rendere le tre persone soltanto dei modi dell’unica natura divina (modali-
smo). Egli infatti attribuisce alle figure del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo rispetti-
vamente le proprietà di potenza, sapienza e amore, che sembrano caratteristiche troppo
deboli per distinguere adeguatamente una persona divina dall’altra, perché non appar-
tengono loro in modo esclusivo (ad esempio la sapienza può definirsi prioritariamente
presente nel Figlio, detto anche Lógos, ma non si può affermare che il Padre e lo Spirito
non siano sapienti). È una spiegazione della trinità che si allontana dalla concezione dog-
matica tradizionale – e che provoca pertanto la censura ecclesiastica –, ma che Abelardo
giustifica come tentativo di rendere questa verità di fede razionalmente comprensibile.

nominalismo nella disputa sugli universali, la concettualismo la posizione di Abelardo se- lessico
posizione secondo cui questi non corrispondono condo cui gli universali non sono né essenze re- filosofico
a nessuna entità, essenza reale o res, ma sono almente esistenti né puri nomi, ma concetti co-
solamente nomi (flatus vocis) che usiamo per in- struiti per astrazione a partire dagli elementi
dicare gruppi di oggetti, accomunati in base a comuni che identificano la natura degli individui.
caratteristiche simili. Gli universali non hanno I concetti hanno un significato non convenziona-
valore ontologico, ma sono pure convenzioni, le, perché si riferiscono a caratteri fondamentali
perché esistono soltanto gli individui. che tutti gli individui di una classe condividono.
270 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

❯ Una lezione nella


facoltà di teologia
dell’Università di
Parigi, miniatura,
XI secolo, Londra,
British Museum.
Il termine “teologia”
viene applicato per
la prima volta
da Abelardo
in relazione alla
riflessione cristiana.

La vera rivoluzione di Abelardo non consiste perciò in un’interpretazione originale del


dogma trinitario, ma nell’applicazione del metodo dialettico anche alla teologia, così da
porre la ragione accanto alle autorità – e da un certo punto di vista al di sopra delle auto-
rità –, come loro giudice. In tal modo egli propone un modello di teologia alternativo a quel-
lo tradizionale monastico, che consisteva fondamentalmente nella meditazione sulla Scrit-
tura (la cosiddetta lectio divina) con l’ausilio della riflessione dei padri della Chiesa. Abelardo
contrappone un insegnamento basato sull’ascolto da parte degli studenti a uno che si avva-
le di questioni: la teologia non viene più chiamata “dottrina sulla Scrittura” (doctrina in sa-
cra pagina), espressione che lascia trapelare una dimensione più esegetica che razionale, ma
theològia, termine che in precedenza era riservato alle concezioni filosofiche della divi-
nità e che Abelardo per primo usa per la riflessione cristiana. La “teologia” diventa così un
discorso razionale su Dio, che si serve anche della filosofia e del metodo dell’argomenta-
zione. Da un certo punto di vista, Abelardo si pone sulla scia di Anselmo d’Aosta, che già
aveva applicato la razionalità alla fede, ma diversamente da quest’ultimo egli si comporta da
filosofo e soprattutto da logico, che mira a porre questioni e a risolverle, analizzando i ter-
mini, la validità delle argomentazioni e i diversi livelli del discorso. Nei testi teologici non si
accontenta perciò di riportare e commentare le verità della fede, ma mostra che anche la
teologia è teatro di conflitti e di contraddizioni che soltanto la ragione può sciogliere, in vir-
tù del principio che per poter credere è necessario comprendere quello in cui si crede.

L’ opposizione come metodo: il Sic et non


Il metodo dell’indagine razionale deve permeare la riflessione sulle verità di fede anche
perché le autorità della Scrittura e dei padri della Chiesa (la cosiddetta tradizione) non
mostrano sempre una posizione unitaria, ma in certi casi possono addirittura essere usate

lessico theològia (dal greco theós, “Dio”, e lógos, “discorso”) nell’accezione di Abelardo, discorso razionale
filosofico su Dio che si serve anche delle argomentazioni logico-dialettiche.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 271

in modo contraddittorio. La necessità di riflettere sul valore argomentativo della tradizio-


ne è alla base dell’opera Sic et non (“Sì e no” o “Pro e contro”), nella quale viene stilato un
elenco di posizioni discordanti tra le diverse autorità, lasciando implicitamente alla
ragione il compito di superare il contrasto. In questo opuscolo teologico Abelardo enu-
mera infatti 158 questioni, che egli non discute né risolve, limitandosi a riportare per
ognuna una serie di citazioni tratte dai padri della Chiesa in senso favorevole o contrario
alla tesi. Alcune delle questioni su cui Abelardo si impegna a riportare i pro e i contro
possono oggi sembrare inattuali (come il luogo in cui avviene la creazione di Adamo), ma
la maggior parte conserva un grande interesse perché scaturisce dall’esame della dottri-
na cristiana e dai dubbi che essa suscita: ad esempio, ci si chiede se la fede debba fondar-
si su ragioni umane; se si possa umanamente “resistere” a Dio; se Dio sia libero di fare
qualsiasi cosa; se Cristo abbia voluto morire; se non sia mai lecito mentire per nessuna
causa.
A prima vista l’obiettivo del testo sembrerebbe quello di fornire un prontuario di ci-
tazioni utili per le discussioni, ma il fatto che su argomenti di grande rilievo teologico
(dalla trinità alla libertà dell’uomo) ci siano autorità sia a favore (sic) sia contrarie (non)
pare rivelare le contraddizioni della tradizione. Ciò significa che la citazione, soprat-
tutto se ridotta a una frase estrapolata dal contesto, non può supportare da sola l’argo-
mentazione, ma va compresa e interpretata: con grande scandalo per la teologia mona-
stica, è la ragione che diventa arbitro e giudice della tradizione ed è la ragione che
deve argomentare. ❯ testo 1 p. 284

FARE • Sottolinea nel testo la risposta alla domanda: “in che cosa consiste la novità della posizione
per di Abelardo in relazione alla dialettica?”.
CAPIRE • Definisci lo scopo del Sic et non, utilizzando i termini: autorità - tradizione - ragione.

L’ interpretazione dei testi


Abelardo non intende mostrare che i padri della Chiesa sono inaffidabili, né approdare
in modo scettico all’impossibilità di decidere su questioni su cui ci sono tanti argomen-
ti autorevoli sia favorevoli sia contrari, ma ha un intento costruttivo. L’autore vuole por-
tare l’attenzione su un uso scorretto di citazioni tratte da testi che talvolta sono poco
attendibili o non intendevano affermare quello che si fa dire loro. Nel prologo al testo
Abelardo infatti discute i principi interpretativi che la ragione deve osservare nei con-
fronti della tradizione, fornendo regole di straordinaria attualità. Se i testi della tradizio-
ne sembrano contraddirsi, è la ragione che, nella sua funzione dialettica, ha il compito
di approfondirne il significato, per mostrare che le autorità espongono aspetti diversi, e
che, perlopiù, la contraddizione non è interna ai testi, ma dipende da un’errata com-
prensione.
Ecco, in sintesi, le regole interpretative che Abelardo offre per un uso corretto dei
testi e che in fondo costituiscono principi ermeneutici validi per la lettura di ogni opera:
• quando le affermazioni degli autori sembrano contraddittorie, bisogna evitare di
giudicarle immediatamente false: è necessario prima considerare se le abbiamo
comprese adeguatamente. L’interpretazione può avvenire soltanto nella “carità”:
bisogna cioè intendere il testo nel modo più benevolo possibile, cercandone il sen-
so autentico. Se però, dopo accurate considerazioni, il testo continua a mostrarsi
272 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

contraddittorio o errato, occorre almeno salvare il suo autore dall’accusa di men-


zogna, intesa come la volontà di dire il falso per ingannare. Gli autori possono
sbagliarsi (e ciò vale non soltanto per i padri della Chiesa ma anche per gli scritto-
ri ispirati della Bibbia), però non si può attribuire loro l’intenzione di ingannare
deliberatamente;
• è necessario comprendere bene il senso delle parole, che a volte sono usate per
suscitare attenzione o per adeguarsi al livello dei destinatari, evitando un linguag-
gio troppo tecnico. Inoltre spesso le affermazioni non vanno intese in senso lette-
rale, ma in modo metaforico e allegorico (come accade anche per i testi poetici o
filosofici); oppure sono espressioni derivate dal senso comune che non descrivono
oggettivamente la realtà, come quando si afferma che una scatola è vuota se non
contiene alcun oggetto, pur essendo “piena” di aria;
• se il testo appare contraddittorio, bisogna mettere in atto una serie di considera-
zioni propriamente filologiche. In primo luogo è necessario indagare se il testo
non sia apocrifo, ossia se non sia stato falsamente attribuito a una fonte autorevo-
le per accrescerne il valore. Inoltre bisogna considerare che alcune difficoltà pre-
senti nel testo possono derivare da errori del copista (che non comprendeva bene
il senso del manoscritto che stava trascrivendo), da improprie traduzioni, da errori
nella trasmissione del testo che è pervenuto in modo incompleto o scorretto;
• inoltre, bisogna considerare che su molte tesi i padri della Chiesa hanno rivisto le
loro posizioni, come è il caso di Agostino nelle sue Ritrattazioni, oppure non si
sono espressi in maniera chiara, lasciando ai posteri la possibilità di decidere. In-
fine, talvolta un’autorità sembra contraddittoria perché in quel passo l’autore non
sta esponendo la propria opinione, ma quella altrui.
L’applicazione di questi principi interpretativi è opera della ragione: la presentazione dei
detti dei padri in maniera contrastiva, pro e contro, serve pertanto a sollecitare la ricerca
della verità da parte dei lettori sensibili e li rende più acuti, perché «dubitando facciamo
ricerca e ricercando raggiungiamo la verità» (Sic et non, prologo).
La lista di argomenti favorevoli e contrari, che in fondo richiama una sorta di contrad-
dittorio di origine giuridico-processuale, avrà un grande successo e sarà alla base dell’ar-
ticolazione della disputa universitaria. È per questo che Abelardo viene riconosciuto
come l’antesignano di un metodo scolastico che sarà efficacemente sviluppato nelle uni-
versità del secolo successivo (❯ p. 299).

FARE per CAPIRE • Elabora una tabella in cui inserire ciascuna regola interpretativa e la sua sintetica
descrizione.

L’ ETICA
La morale dell ’ intenzione
Un filosofo così controcorrente come Abelardo non poteva non intervenire anche nell’am-
bito morale, specificando i criteri di valutazione del comportamento umano con rifles-
sioni di indubbia originalità. Diversamente dall’etica ellenistica, intesa sostanzialmente
come ricerca della felicità, che trattava in positivo i comportamenti e lo stile di vita da
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 273

❯ Il Giudizio
universale, mosaico,
part., XI secolo, isola
del Torcello (Venezia),
Santa Maria Assunta.

assumere per potervi giungere, la morale cristiana dell’epoca di Abelardo si concentra


maggiormente sul concetto di peccato che sulla virtù, giungendo talvolta a elencarne i
diversi tipi e a valutarli in maniera più giuridica che etica, ovvero considerando soprat-
tutto l’azione colpevole in quanto tale e trascurando invece le motivazioni e l’intenzione
del soggetto.
La riflessione morale di Abelardo trova una sistemazione nella sua ultima opera,
l’Ethica sive scito te ipsum (Etica ovvero conosci te stesso), composta negli anni 1138-1139.
Già nel titolo, che riporta il motto socratico, si avverte lo spostamento dell’attenzione dal
comportamento esteriore (le azioni compiute dall’uomo) all’interiorità che lo orienta.
L’etica di Abelardo si definisce perciò un’etica dell’intenzione, perché ritiene che la cor-
rettezza o meno di un comportamento non si possa valutare a partire dall’azione esterio-
re, ma soltanto dall’intenzione con cui è compiuta.
In particolare, la prospettiva etica di Abelardo mira a spezzare due binomi tradizio-
nali: l’identificazione dell’inclinazione naturale (o vizio) con il peccato e l’identificazione
del peccato con l’azione malvagia. L’inclinazione non va considerata già peccato, perché
fa parte della natura umana: è un insieme di tendenze, desideri, disposizioni, che rien-
trano nel bagaglio interiore, come la costituzione fisica è una natura che ci distingue,
favorendoci in alcuni aspetti o limitandoci in altri. Ad esempio, essere irascibili, cioè in-
clini ad arrabbiarsi, non è già peccato; anzi, la capacità di resistere a tale inclinazione è
meritoria e lodevole. Ciò significa che l’uomo non può essere valutato moralmente per
la sua disposizione naturale, altrimenti potrebbe sempre rispondere: «sono fatto così e

inclinazione l’insieme delle disposizioni e ten- non è di per sé peccato: quest’ultimo risiede nella lessico
denze naturali che fanno parte della natura uma- scelta di seguire o meno l’inclinazione, dunque filosofico
na e che orientano l’individuo verso un comporta- nella volontà umana.
mento piuttosto che verso un altro. L’inclinazione
274 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

non potevo farci nulla». La colpa o peccato consiste per Abelardo nel dare l’assenso
all’inclinazione naturale, nello scegliere interiormente di seguirla. L’uomo non è quin-
di soltanto un insieme di disposizioni naturali, ma ha libertà di scelta, che si esprime con
l’assentire o meno alle sue inclinazioni, di per sé moralmente indifferenti. È ciò che Abe-
lardo afferma quando sostiene che il peccato non è peccato della “carne”, ascrivibile cioè
al limite naturale, ma proviene sempre dallo spirito, e quindi dalla capacità di riconosce-
re un atto come peccaminoso e dalla libertà di consentirvi deliberatamente.
Se però il peccato coincide con l’intenzione di peccare, allora il suo compimento o
meno risulta indifferente: si può avere l’intenzione di svaligiare una banca ed esserne
impediti da circostanze casuali; nondimeno tale intenzione rimane un peccato. Questo
vale anche per la virtù, che non consiste nella realizzazione del proposito, ma nell’inten-
zione di fare il bene, come Abelardo illustra efficacemente con un esempio: se due uo-
mini decidono entrambi di costruire delle case per i poveri, ma uno dei due viene deru-
bato del denaro e non può più realizzare il progetto, hanno entrambi lo stesso merito,
❯ testo 2 p. 285 perché altrimenti la ricchezza potrebbe condizionare la qualità dell’azione morale.

Peccato e danno pubblico


Rispetto alla valutazione dell’azione esteriore, Abelardo opera un’acuta distinzione tra il
peccato vero e proprio e le sue conseguenze giuridico-sociali. In realtà Dio è l’unico in
grado di scrutare il cuore dell’uomo e le sue intenzioni, quindi soltanto Dio riconosce
davvero il peccato e la virtù, e giudicherà secondo giustizia, concedendo premi o pene
eterni. Gli uomini, invece, possono considerare solamente il comportamento visibile,
e dunque tendono a punire non la colpa individuale, ma le opere, usando un criterio di
“pubblica utilità”; ciò significa che, più che giudicare l’intenzione e il peccato, il diritto
umano si occupa di prevenire un danno sociale. Così, ad esempio, è punito più severa-
mente chi compie un’azione peccaminosa in presenza di altri, arrecando danno e scan-
dalo con il suo esempio, rispetto a chi lo fa di nascosto, benché l’intenzione sia identica
in entrambi. Allo stesso modo viene punito chi concretizza la sua intenzione malvagia e
non chi, per qualsiasi motivo, ne viene impedito, anche se Dio considera entrambi pec-
catori. Infine, si giudicano più severamente azioni che arrecano maggior danno, sebbe-
ne il peccato sia minore: secondo Abelardo, si punisce con una pena più severa un in-
cendio rispetto a uno stupro oppure si valuta più grave violare una donna nel tempio di
Dio perché lo si ritiene un sacrilegio, rispetto allo stesso crimine compiuto altrove, sen-
za riconoscere che il peccato non è contro un edificio, ma contro la donna che è il vero
tempio di Dio.
In tal modo il giudizio umano e le pene comminate non avvengono secondo giusti-
zia, ma in vista dell’ordine sociale: non valutano l’intenzione individuale, ma il possibile
danno pubblico; considerano le circostante e le azioni più rilevanti rispetto al peccato. È
uno spunto interessante e decisamente moderno: l’ambito dell’etica individuale non
coincide pienamente con quello giuridico che ha di mira l’integrità collettiva, e scopo
ESERCIZI della legge non è imporre valori, ma salvaguardare il bene comune e la convivenza.

FARE per CAPIRE • Evidenzia nel testo la definizione di peccato.


Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 275

3 L’ islam occidentale: Averroè


LA VITA E LE OPERE
Un aristotelico a Cordova
Con Averroè torniamo a occuparci della filosofia araba, ma non di quella del lontano
Oriente – nella Baghdad della “Casa della sapienza” e di Avicenna –, bensì dell’islam
occidentale, saldamente presente nella penisola iberica (❯ p. 260).
Mettere a fuoco i luoghi della riflessione filosofica è utile per non proiettare sul Me-
dioevo una cesura tra Oriente e Occidente tipica dell’epoca moderna. Nel periodo medie-
vale l’incontro e lo scontro di civiltà e religioni non era geograficamente e politicamente
polarizzato in un mondo cristiano occidentale e in un mondo islamico orientale: la di-
stinzione tra Oriente e Occidente si manifestava all’interno di ciascuna civiltà, tra i latini
cattolici e i bizantini ortodossi, da una parte, e tra l’islam orientale e l’islam occidentale,
dall’altra.
Averroè (nome latinizzato di Ibn Rush) nasce a Cordova nel 1126 da una eminente
famiglia di giuristi; come già suo padre e suo nonno, esercita l’attività di giudice, pri-
ma a Siviglia e poi a Cordova, e ricopre diverse cariche pubbliche alla corte del califfo.
Oltre a giurisprudenza, teologia, medicina, studia anche filosofia, senza però insegnar-
la. Nel mondo arabo, infatti, non esisteva la figura del filosofo di professione: anche
Avicenna, come si è visto (❯ p. 236), non era ritenuto filosofo, ma esercitava l’attività di
medico di corte e di consigliere politico. La filosofia era promossa dai sovrani e spesso
molto apprezzata a corte e nei circoli intellettuali, ma non esistevano scuole di filosofia
o altre istituzioni di trasmissione della cultura, come sarà l’università nel mondo latino.

❯Un dibattito
immaginario tra
Averroè e il filosofo
greco Porfirio di Tiro
(233-305), anch’egli
commentatore
di Aristotele,
illustrazione da
un manoscritto
su pergamena,
XIV secolo, Parigi,
Biblioteca Nazionale.
276 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Proprio la dipendenza della filosofia araba dal potere politico e il fatto di non poter
contare su strutture culturali autonome ne sanciranno la fine: nella misura in cui i so-
vrani adottano una linea fondamentalista – assumendo il dominio totale in ogni ambito
e limitando la libertà di pensiero –, la filosofia viene sempre più emarginata e sottoposta
a controlli e censure. Una parabola discendente di questo tipo è esemplificata proprio
dalla figura di Averroè: verso la fine della sua vita cade in disgrazia presso la corte
degli Almohadi (subentrati agli Almoravidi in Andalusia) per il suo atteggiamento ra-
zionalista, anche se forse non sono estranei alcuni intrighi di palazzo. È condannato e
costretto a fuggire in esilio, a Marrakech, dove muore nel 1198; nello stesso anno ca-
dono le accuse contro di lui, ma non si sa se la sua riabilitazione sia giunta mentre egli
era ancora in vita.
In realtà l’emarginazione politica e culturale non è il destino soltanto di Averroè, ma
anche della filosofia peripatetica all’interno del mondo arabo, il quale, dopo aver conse-
gnato all’Occidente il frutto di tanti secoli di riflessione filosofica, a partire dal Duecen-
to persegue un’altra via di ricerca più coerente con la sua tradizione religiosa. Dopo
Averroè la filosofia islamica continua ad essere praticata, ma perde a poco a poco il rife-
rimento culturale alle fonti greche e in tal modo anche la capacità di interagire con il
mondo occidentale.

Gli scritti
Il corpus delle opere di Averroè è estremamente ampio, sia per numero di scritti sia per
gli ambiti di interesse: compone infatti diversi trattati di diritto, di teologia, di interpre-
tazione coranica e di medicina, che tranne qualche eccezione non vengono tradotti in
latino. Dal punto di vista filosofico, però, il nome di Averroè è legato soprattutto al ge-
nere letterario del commento ad Aristotele, che egli utilizza in una forma che servirà
da modello anche per il mondo latino: mentre Avicenna parafrasava molto liberamen-
te il testo di Aristotele o lo lasciava implicito, Averroè commenta le opere dello Stagirita
citando all’inizio il testo originale, distinto anche graficamente dal resto dell’esposizio-
ne. Il commento, inoltre, procede in modo analitico, soffermandosi quasi su ogni parola
e spiegando le singole frasi: in questa maniera il lettore può ricostruire il dettato aristo-
telico e nel contempo disporre di una spiegazione chiara e sistematica. Più che nel mon-
do arabo, i commenti di Averroè saranno apprezzati in quello latino, dove il filosofo è
conosciuto come il “Commentatore” per antonomasia e le sue opere sono il tramite per
la conoscenza di Aristotele: ancora nella seconda metà del Cinquecento saranno stam-
pati a Venezia, in un’edizione di particolare successo. Questa fortuna spiega perché
Dante colloca Averroè nel limbo dei pagani virtuosi («Averrois che ’l gran comento feo»,
Inferno, IV, 144).
Si narra che l’impresa monumentale di spiegare tutto Aristotele sarebbe stata com-
missionata ad Averroè dallo stesso califfo, che si lamentava per l’oscurità dei testi e cer-
cava qualcuno che li comprendesse a fondo, per poterne illustrare le finalità e il signifi-
cato. Il commento di Averroè si estende a tutte le opere di Aristotele, tranne la Politica,
sconosciuta al mondo arabo: egli colma questa mancanza con il commento alla Repubblica
di Platone, unica opera platonica cui dedica attenzione.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 277

IL RAPPORTO TRA FILOSOFIA E RELIGIONE


La necessità della filosofia
Il trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia è un breve testo in cui Averroè
affronta il rapporto tra fede e ragione, considerando anche l’aspetto giuridico – coerente-
mente con il suo ruolo di giudice. Egli si interroga in particolare sulla compatibilità dello
studio della filosofia e della logica con i precetti del Corano, e sulla sua utilità per il
credente. La questione sorge perché la riflessione filosofica è un innesto esterno alla cul-
tura islamica: lo stesso termine arabo usato per indicare la filosofia ( falsafa) è un calco dal
greco, quasi a ribadire la sua estraneità culturale. In un contesto di fitte polemiche teolo-
giche e politiche sull’autentica interpretazione dell’islam, molti sollevano dubbi sulla sua
utilità e alcuni la condannano senza appello. D’altra parte, anche chi sostiene l’importanza
della filosofia è tenuto a spiegare perché essa non sia prescritta o consigliata nel Corano.
A queste domande Averroè risponde in qualità di giudice supremo, partendo dall’in-
terpretazione della legge islamica, che prevede tre tipi di comportamenti: 1. leciti, 2. ille-
citi e 3. prescritti. Egli indaga sul modo in cui deve essere intesa la filosofia in relazione a
questa tripartizione: è un’attività lecita, ma indifferente per la fede, nel senso che non in-
tacca né accresce il suo valore? oppure la filosofia va vietata, perché pericolosa per la fede?
o, infine, è un atto prescritto, per cui sarebbe bene che tutti i credenti vi si dedicassero?
Il primo passo è mostrare che la filosofia non è dannosa per l’uomo religioso, anzi
è utile perché, riflettendo su tutto ciò che esiste, aiuta a comprendere la realtà come cre-
ata da Dio. Da filosofo, Averroè ritiene dunque che la riflessione razionale non possa
ostacolare o contraddire la fede; tuttavia non la considera indifferente, cioè un’attività
consentita ma non rilevante, anzi ne sottolinea l’importanza. Rimane la terza categoria.
La filosofia è un atto prescritto ma non obbligatorio (perché non tutti sono in grado di
dedicarvisi), anche se fortemente raccomandato: il filosofo infatti eleva la sua anima e
compie un atto meritorio di fronte a Dio. Non vale l’obiezione che la legge coranica non
aveva previsto la filosofia e che i primi seguaci di Maometto non la conoscevano, perché
anche altre scienze, come la giurisprudenza, la matematica, l’astronomia, hanno cono-
sciuto un progresso verso una maggiore complessità, e non ha senso rinunciarvi. Tutte le
conoscenze scoperte e sviluppate nell’antichità greca prima dell’islam non vanno respin-
te, bensì giudicate e conservate per quanto vi è di vero: «accetteremo con gioia ciò che è
conforme a verità e gliene saremo grati». Del resto, se gli arabi non avessero appreso la
logica e la filosofia dai greci, avrebbero dovuto inventarle loro stessi. ❯ testo 3 p. 286

La filosofia e la fede
Con la sua teoria Averroè non soltanto preserva uno spazio per la filosofia all’interno
della tradizione islamica, ma le conferisce anche un ruolo d’onore, ritenendola addirittu-
ra indispensabile per chi può dedicarvisi. La possibilità di un contrasto tra ragione e fede
è quindi esclusa, pur ammettendo che i testi dei filosofi possono contenere errori, che
vanno corretti senza però rinunciare a tutta la loro riflessione. Il disaccordo tra filosofia
e religione è per Averroè soltanto apparente, e non è causato dai loro contenuti, ma
dagli uomini che vi si applicano.
278 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

❯ Una discussione
tra due filosofi,
miniatura,
XIII secolo,
Istanbul, Biblioteca
del Museo Topkapi.

Se in linea teorica filosofia e religione non sono in contrasto, è soltanto partendo dall’ana-
lisi concreta dei conflitti che si possono chiarire i motivi del dissidio. A questo scopo,
Averroè distingue nella società tre diverse classi di persone, che corrispondono ai tre
tipi di argomentazioni individuabili nella logica aristotelica (oratorie, dialettiche e dimo-
strative). Il primo gruppo è sensibile soltanto agli argomenti retorici: sono i credenti, che
giungono alla fede tramite la predicazione, spesso condotta con esempi, immagini, rac-
conti edificanti. All’estremo opposto vi è il gruppo dei filosofi, cioè di coloro che “com-
prendono quello che credono”, perché si servono di ragionamenti dimostrativi, che si fon-
dano su premesse certe e necessarie. Poiché tali argomentazioni sono estremamente
complesse, i filosofi non devono istruire i credenti, che non comprenderebbero le dimo-
strazioni e quindi perderebbero la fede. In mezzo ai due gruppi vi sono coloro che usano
ragionamenti dialettici, che pur avendo la forma del sillogismo non sono così cogenti,
perché si basano su premesse probabili. Questa terza categoria rappresenta i teologi, con
cui Averroè entra in contrasto e che considera nocivi sia per la massa dei credenti sia per i
filosofi: i teologi osteggiano i filosofi ritenendosi superiori e confondono il popolo dei cre-
denti con ragionamenti infondati. Secondo questa interpretazione, la filosofia si caratte-
rizza per un uso legittimo e libero della ragione; fede e ragione, islam e filosofia non
possono essere in contraddizione, ma corrono su strade parallele. Il filosofo non ha alcun
compito educativo nei confronti dei credenti, che devono attenersi al senso letterale del
testo sacro senza bisogno di dimostrazioni. Tale posizione sarà fraintesa nel mondo latino
nel senso di una doppia verità, una tesi che non corrisponde al punto di vista di Averroè:
soltanto chi non è filosofo e non comprende il ragionamento dimostrativo può pensare
che la filosofia sostenga tesi alternative o contrarie alla religione; in realtà la filosofia
giunge alla stessa verità della fede, soltanto in modo diverso. Ma l’aspetto più rilevante
della visione averroista è che i filosofi costituiscono un’élite ristretta e separata, che non

lessico teoria della doppia verità teoria secondo cui esistono una verità della fede e una verità della filo-
filosofico sofia diverse tra loro, ma ciascuna valida nel proprio ambito.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 279

interferisce con la fede del popolo. Invece che subordinare la filosofia alla teologia, o usar-
la per rafforzare il discorso teologico, Averroè sembra considerarla superiore, e delegittima
i teologi: non sufficientemente filosofi per comprendere l’argomentazione, non abbastan-
za “semplici” per credere alla lettera del Corano.

FARE per CAPIRE • Costruisci una tabella in cui far corrispondere ai tre tipi di argomentazione, la
classe sociale e il modo di arrivare alla verità e alla fede.

LA TEORIA DELLA CONOSCENZA


Il problema dell ’ universalità del sapere e la fonte aristotelica
I commenti di Averroè sono riflessioni filosofiche originali, non semplici manuali espli-
cativi; nel cercare di restituire il senso originario dei testi aristotelici, sfrondandolo delle
interpretazioni neoplatoniche di cui gran parte del pensiero arabo l’aveva rivestito, Aver-
roè pone questioni nuove e presenta soluzioni che Aristotele non avrebbe potuto nem-
meno immaginare. Ci soffermiamo qui sulla teoria della conoscenza, esposta nel Grande
commento al De anima, perché la posizione di Averroè provocherà un acceso dibattito nel
mondo latino e, oltre a voci critiche, troverà numerosi estimatori e seguaci.
Nel III libro del suo trattato Sull’anima Aristotele affronta lo statuto dell’intelletto e
distingue tra una funzione attiva, l’intelletto agente paragonato alla luce, e una funzio-
ne ricettiva, l’intelletto potenziale, paragonato a una tavoletta di cera su cui si può
scrivere qualsiasi cosa.
L’intelletto agente è definito come separabile, sempre in atto per essenza ed eterno,
ma anche quello potenziale – che è appunto in potenza perché può ricevere qualsiasi
forma intellettuale – è descritto come indipendente dal corpo. Il brano di Aristotele è
piuttosto breve e oscuro, anche perché, in un’opera che definisce l’anima in modo biolo-
gico come «atto di un corpo organico che ha la vita in potenza», l’autore introduce la fa-
coltà intellettiva, che non è un processo biologico ma un’attività immateriale, non legata
al corpo. Perciò l’intelletto è una facoltà dell’anima, ma non dipende dal corpo. Consape-
vole della difficoltà, Aristotele afferma di voler affrontare il tema dell’immaterialità della
conoscenza in seguito, ma nelle opere a noi conosciute non rispetta il proposito, tranne
aggiungere che il pensare è un’attività divina che rende tali coloro che vi si dedicano
(Etica nicomachea, X), e che l’intelletto proviene all’uomo dall’esterno ed è divino (Sulla
generazione degli animali 2, 3). Partendo da questi testi, Avicenna aveva collocato l’intellet-
to agente al di fuori della mente umana, come principio universale ed eterno; Averroè
estende tale condizione anche all’intelletto potenziale, una tesi che suscita la critica di chi
vede compromessa la possibilità di conoscere da parte dell’individuo umano.
La questione discussa da Averroè è soprattutto l’universalità della conoscenza, cioè
come è possibile che abbiamo nozioni universalmente valide, pur avendole apprese in
tempi e modi diversi. Si può infatti considerare la conoscenza sotto due diversi aspetti:
quello individuale e soggettivo si sofferma sul soggetto che conosce e sul suo processo
di apprendimento, mentre quello universale e oggettivo si occupa dell’oggetto del sape-
re, uguale per tutti e indipendente dalle condizioni empiriche della sua acquisizione.
Quando un insegnante spiega un teorema di geometria ai suoi studenti, si preoccupa
certamente dell’apprendimento soggettivo, assicurandosi che ognuno abbia compreso la
spiegazione, ma mira soprattutto a trasmettere un sapere, cioè un contenuto oggettivo,
280 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

così che il teorema imparato da ognuno sia lo stesso per tutta la classe e per tutti gli stu-
diosi di matematica, in ogni tempo e in ogni luogo. È questo secondo aspetto – l’univer-
salità del sapere – che sta a cuore ad Averroè: come possiamo essere certi che ciò che
sappiamo sia valido per tutti? che gli altri comprendano ciò che diciamo? che il teorema
che abbiamo appreso in tempi e modi diversi sia lo stesso cui si riferisce l’insegnante?
Le funzioni che Aristotele chiama “intelletto agente” e “intelletto potenziale” rappre-
sentano per Averroè la dimensione universale e necessaria del conoscere, non il soggetto
concreto: “intelletto” non indica un organo, come l’occhio che è l’organo della vista, ma
le condizioni universali del conoscere e i suoi contenuti ideali, che come tali sono privi di
materia e sono indipendenti dalle condizioni soggettive.

La dimensione oggettiva e universale del sapere


Averroè sottolinea che la conoscenza non è un processo fisico, ma mentale; ha a che
fare con idee e rappresentazioni di cose, non direttamente con le cose concretamente
esistenti: si conoscono leggi, teoremi, caratteristiche generali, non le proprietà peculiari
di un singolo oggetto (ad esempio la natura del gatto, non il colore del pelo di Silvestro).
Averroè interpreta in questo senso le qualità che Aristotele attribuisce all’intelletto: è
«separato», cioè indipendente dal mondo sensibile e materiale; la sua eternità esclude che
si tratti di una “natura” o di un organo sottoposti a generazione e corruzione; l’essere
«privo di mescolanza» significa che non ha nulla di corporeo. Queste caratteristiche non
si adattano al pensiero individuale (che esiste sempre in una persona concreta), ma sol-
tanto all’universalità della conoscenza.
Averroè distingue il pensiero dall’attività del pensare, la conoscenza dal conosce-
re, nello stesso modo in cui, quando parliamo delle “conoscenze umane” o del “pensiero”
scientifico, filosofico, artistico ecc., intendiamo un patrimonio ideale comune, che pre-
scinde da quanto conoscono effettivamente i singoli uomini. Per garantire l’universalità
e l’idealità della conoscenza, entrambi gli intelletti devono essere “separati” dagli
individui, in modo che il sapere sia tale anche se una persona lo dimentica o non l’ha
ancora acquisito. Consideriamo le implicazioni di questa affermazione.
L’intelletto agente, per Averroè come per Avicenna, è un’intelligenza esterna all’uomo
che agisce sulla mente umana illuminandola, proprio come la luce rende possibile la visio-
ne dei colori. Più difficile è invece spiegare lo statuto dell’intelletto potenziale, che Aver-
roè ritiene «numericamente uno in tutti gli individui della specie umana, non generabile,
né corruttibile», allo stesso modo dell’intelletto agente. Questo si può comprendere se si
interpreta l’intelletto potenziale non come la capacità del singolo uomo di imparare, ma
come la possibilità che qualcosa divenga un contenuto di conoscenza, che un oggetto di-
venti un concetto, a prescindere dalle caratteristiche individuali della singola mente. L’u-
nicità dell’intelletto potenziale è un altro modo per esprimere la sua universalità, così
come l’incorruttibilità ribadisce il carattere immateriale, cioè ideale. Per spiegare l’im-
materialità di questo intelletto, Averroè evidenzia che la ricettività dell’intelletto non è

lessico intelletto agente per Averroè è un’intelligenza intelletto potenziale per Averroè è anch’esso
filosofico esterna all’uomo che agisce sulla mente umana separato dall’individuo e universale, e indica non
illuminandola, così come la luce rende possibile la capacità del singolo uomo di imparare, ma la
la visione dei colori. possibilità che un oggetto di conoscenza diventi
un concetto universale conoscibile.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 281

una potenzialità simile a quella della materia, perché quest’ultima riceve forme individuali,
senza un processo di comprensione da parte sua, mentre l’intelletto riceve forme universali
(i concetti) e in questa assimilazione comprende tali forme intelligibili. Inoltre, l’intelletto
potenziale non si trova mai in una condizione di potenzialità assoluta, non è un puro
vuoto indeterminato, ma è in potenza soltanto nei confronti di ciò che ancora non cono-
sce. L’intelletto potenziale è una sorta di luogo ideale (non fisico), in cui si trova tutta la
conoscenza, considerata nel suo aspetto universale e “indistruttibile”: se sbaglio o dimen-
tico la dimostrazione di un teorema, non per questo il teorema diventa falso.

FARE • Sottolinea nel testo la risposta alle seguenti domande:


per - qual è la principale differenza tra Avicenna e Averroè in relazione alla concezione dell’intelletto?
CAPIRE - in che cosa consistono, rispettivamente, gli aspetti soggettivo e oggettivo del conoscere?

La dimensione individuale della conoscenza


Per quanto riguarda l’altra faccia del problema, cioè la dimensione individuale della co-
noscenza, Averroè non intende negare che l’individuo pensi e conosca, anzi ritiene che la
fonte della nostra conoscenza sia empirica: per concepire le nozioni astratte dobbiamo
partire da rappresentazioni sensibili, prodotte in noi dalle realtà esterne. Tali rappre-
sentazioni divengono però intelligibili con un processo di astrazione, in cui si “tolgono”
gli aspetti materiali e determinati per conservare la pura forma intelligibile: questa tra-
sformazione è opera dell’intelletto agente, senza il quale nulla può essere compreso. Gra-
zie a questa azione le rappresentazioni delle cose perdono il carattere particolare, per
diventare puri contenuti di pensiero, e come tali immateriali, universali, eterni, cioè con-
cetti che vengono ricevuti dall’intelletto potenziale. Il carattere individuale della cono-
scenza è dato dalla sua origine empirica, che è diversa per ognuno: è il modo con cui
arriviamo a comprendere il teorema, disegnando per esempio una figura particolare e
seguendo le spiegazioni dell’insegnante, e non la formula che lo esprime universalmente.
Detto in altri termini, si conoscono dati empirici, ma il principio intellettuale che li
rende universali non è empirico: l’intelletto agente e l’intelletto potenziale sono le condi-
zioni della conoscenza e della sua validità universale, mentre l’esperienza sensibile è il
momento originario individuale con cui l’uomo raggiunge il sapere. Con questa teoria
Averroè giustifica sia il sapere universale sia il pensiero individuale, cioè chiarisce in che
senso ogni singolo uomo compia un autonomo percorso di apprendimento attingendo in
modo individuale conoscenze universali: l’unicità dell’intelletto implica l’universalità e
l’oggettività della conoscenza (cioè che il teorema studiato sia lo stesso per tutta la classe),
ma non una conoscenza unica per tutti.
Per cercare di spiegare il rapporto tra questi due aspetti della conoscenza (universale e
individuale), qualche studioso ha utilizzato la metafora della rete informatica, a cui ci si
collega o scollega per poter accedere tutti agli stessi contenuti; l’intelletto agente sarebbe
un server universale e l’intelletto potenziale l’insieme dei siti, mentre i contenuti sarebbe-
ro caricati o scaricati collegandosi alla rete. Il paragone non chiarisce tutti gli aspetti – so-
prattutto non spiega come il server e i siti “conoscano” tutti i contenuti della rete –, ma
almeno rende ragione di come l’acquisizione individuale della conoscenza divenga un
sapere universale e continui ad essere disponibile (presente in rete) anche se uno o più
individui si disconnettono.

FARE per CAPIRE • Riporta sinteticamente a margine, numerandole, le varie fasi del processo conoscitivo.
282 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

La felicità intellettuale
La metafora della connessione aiuta a spiegare un ultimo aspetto rilevante della teoria di
Averroè, che avrà una notevole fortuna: più l’uomo accresce la sua conoscenza, più l’atti-
vità dell’intelletto agente (che è pensiero puro) diventa durevole, sviluppando la capacità
di apprendere. Conoscere non è mai un processo meccanico di acquisizione di nozioni,
ma un atto che trasforma il nostro modo di pensare: non si naviga in Internet soltanto per
scaricare file con cui riempire la memoria del nostro computer, ma anche per acquisire
informazioni e migliorare le nostre competenze.
Per Averroè, più si apprende e più la mente umana potenzia le proprie capacità,
diventa più intuitiva e in grado di conoscere concetti sempre più complessi e astratti. Nel
suo massimo grado questo processo rappresenta una “congiunzione” o “unione” com-
pleta all’intelletto agente: uno stato felice e perfetto a cui soltanto i filosofi possono
accedere; una forma di beatitudine terrena che deriva dal possedere tutta la conoscenza
dell’intelletto agente; una identificazione della mente umana con il puro pensiero.
Con ciò si esprime un apprezzamento entusiastico per la ragione umana, in grado
di elevarsi a una visione intellettuale universale, e si delinea una forma di realizzazione
filosofica parallela, se non alternativa, a quella religiosa. Anche per quanto riguarda la
felicità intellettuale, che si ottiene con la conoscenza, i filosofi si mostrano superiori alle
ESERCIZI altre classi sociali individuate da Averroè.

4 La filosofia ebraica: Maimonide


Una figura di riferimento per la comunità ebraica
Gli ebrei nel Medioevo sono ovunque e in nessun luogo: privati del diritto di cittadinan-
za, additati come “diversi”, spesso capri espiatori del fanatismo popolare, sono però ri-
cercati da principi e vescovi per la loro fama di dotti, medici, giuristi. Per questa pecu-
liare condizione sviluppano la capacità di mimetizzarsi in ogni luogo, di mescolarsi a
ogni cultura, conservando tuttavia un forte senso di identità: è un’identità spirituale,
priva di potere politico o di segni esteriori, tranne un numero abbastanza limitato di
rituali e di divieti.
Una delle figure di maggior rilievo del pensiero ebraico, anche per il fascino che eser-
cita sul mondo latino, è Mosè ben Maimon, conosciuto come Maimonide.
Figlio di un rabbino e lui stesso poi divenuto tale, nasce a Cordova (intorno al 1138)
come Averroè ed è poco più giovane di lui. Quando nel 1148 conquista il potere la dina-
stia degli Almohadi, fautori di un rigorismo religioso che obbliga le minoranze ad aderi-
re all’islam, la famiglia di Maimonide abbandona Cordova, trasferendosi in varie città
dell’Andalusia e poi in Marocco.
Nel 1164-1165 Maimonide si reca in Egitto, nella città del Cairo, dove era presente
una nutrita comunità ebraica e dove rimane fino alla morte (1204), esercitando la funzio-
ne di giudice rabbinico interpellato dalle comunità ebraiche di tutta Europa, ma pratican-
do anche la professione di medico, oltre che di commerciante di gioielli insieme al fratello.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 283

Nel mondo ebraico è un’autorità indiscussa come guida religiosa e giuridica: è consi-
derato il nuovo Mosè, che non trasmette più le tavole della legge, ma la loro corretta
interpretazione.
La sua fama di erudito e di medico gli apre anche gli ambienti della corte di Saladino
e dei circoli culturali più elevati: oltre che di teologia e di filosofia, si occupa di matema-
tica, astronomia e zoologia.

Il primato del razionalismo filosofico


L’opera a cui Maimonide deve il posto di rilievo nella storia della filosofia è la Guida dei
perplessi, composta negli anni 1180-1190 e tradotta in latino già tra il 1220 e il 1230,
forse nell’ambiente siciliano della corte di Federico II. Il titolo latino – Dux neutrorum –
indica la posizione di chi è indeciso, neutrale, perché non ha ancora preso posizione: i
destinatari di questo scritto sono pertanto i “perplessi” che non riescono a conciliare
l’adesione all’ebraismo con le conoscenze filosofiche, un tema comune anche a islami-
smo e cristianesimo.
L’opera consiste in un’interpretazione filosofica della Bibbia ebraica, che raziona- RICORDA CHE...
lizza i contenuti della fede distinguendo il senso letterale, naturalmente compreso da La Bibbia ebraica è
tutti, da quello allegorico, accessibile soltanto ai filosofi. composta dai testi
dell’Antico Testamento.
La soluzione al conflitto interiore tra credenza religiosa e filosofia è analoga a quella Si tratta di un insieme
proposta da Averroè, ovvero un primato accordato al razionalismo filosofico da parte di di opere redatte in un
chi è in grado di comprendere a un livello più elevato le verità religiose, a cui i fedeli ampio arco temporale,
e con genere letterario
incolti credono senza sollevare dubbi. Come per Averroè, la filosofia non può essere una e ambiente di
via aperta a tutti: la maggior parte dei fedeli deve accontentarsi del senso letterale dei provenienza molto
testi sacri, senza accedere all’interpretazione allegorica e ai ragionamenti dimostrativi. diversi. ❯ p. 124
I filosofi sono quindi un gruppo elitario, che deve guardarsi dal rendere partecipi i
credenti delle dimostrazioni, perché potrebbero confonderli e danneggiarne la fede: essi
hanno soltanto il dovere di comunicare ai credenti gli esiti del loro ragionamento (come
l’esistenza di Dio, la sua incorporeità e la provvidenza divina). Anche Maimonide, quin-
di, ritiene che esistano diverse classi di uomini, che in una scala ascendente sono: gli
atei; gli uomini dell’opinione; i credenti; i teologi; i filosofi o uomini della dimostrazio-
ne. Come si vede, i teologi sono inferiori ai filosofi, perché i primi si fondano su af-
fermazioni non dimostrate, che in diversi punti contraddicono la dottrina aristotelica,
mentre i secondi sono in grado di provare le tesi principali.
Tra i filosofi, alcuni giungono a una conoscenza perfetta, che è uno stato di totale
illuminazione intellettuale e che Maimonide chiama “profezia”: questo stato costitu-
RICORDA CHE...
Il fenomeno del
isce la massima perfezione etica e intellettiva, e deriva da Dio tramite l’intelletto agente, profetismo è
coinvolgendo dapprima la ragione e poi la facoltà immaginativa. È un modo per spiega- una caratteristica
re razionalmente uno dei fondamenti della religione ebraica, cioè il profetismo. L’inten- fondamentale
dell’ebraismo: i profeti
to di Maimonide non è però di rendere la fede ebraica una sorta di filosofia, bensì di
rappresentano
salvarne la specificità e mostrare che la sua legge è incondizionata e assolutamente giu- la coscienza critica
sta. È nel segno della superiorità dell’ebraismo che egli presenta Mosè come profeta e del popolo, parlano
filosofo nello stesso tempo, l’uomo perfetto che riceve la rivelazione direttamente da Dio in nome di Dio e
richiamano al rispetto e
(e non mediante un angelo, come Maometto) e in modo chiaro, senza sogni o visioni all’osservanza della sua
enigmatiche. legge. ❯ p. 126

FARE per CAPIRE • Elabora uno schema in cui inserire le diverse classi di uomini, nel corretto ordine
gerarchico, e il tipo di conoscenza che compete loro.
284 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

TESTI del capitolo 19


Il primato della ragione filosofica

ABELARDO
t1 La ragione e le autorità dal Sic et non
Nel Sic et non Abelardo mette a confronto le opinioni favorevoli e contrarie dei padri della Chiesa
relativamente a un gran numero di questioni. Nel brano seguente – tratto dal prologo dell’opera –
l’autore spiega che il motivo di questa raccolta di autorità discordanti è promuovere la ricerca per
giungere alla sapienza: le opinioni autorevoli dei santi e della Bibbia non limitano infatti la libertà
dell’indagine, ma sollecitano al contrario l’uso della ragione.

[La ricerca come chiave della sapienza] Poi, come abbiamo stabilito, delibate [riconosciute]
queste nozioni, decidiamo di raccogliere diversi detti dei santi padri che saranno venuti
alla memoria, in quanto sembrano comportare qualche questione per discordanza: essi
stimoleranno i giovani lettori al più intenso esercizio di ricerca della verità e li renderanno
5 più puntuali nell’indagine. Appunto questa assidua e ripetuta investigazione si definisce
proprio come prima chiave della sapienza; e allora, per bisogno impellente di possederla,
il filosofo più intelligente di tutti, Aristotele, nella categoria «che cosa» esorta gli studiosi
dicendo: «ma forse è difficile chiarire con sicurezza simili problemi se non si sono spesso
trattati a fondo. Ma dubitare di ognuno non sarà cosa inutile».
10 [Il dubbio e la verità] Certo, dubitando facciamo ricerca e ricercando raggiungiamo la verità.
In conformità a questo la Verità stessa ha detto: «cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto»
(Matteo 7, 27). Volendo insegnarcelo in pratica con l’esempio, a circa dodici anni volle essere
trovato in mezzo ai dottori che sedeva e interrogava (Luca 2, 46), mostrandoci per prima cosa
l’aspetto di discepolo mediante l’interrogazione, piuttosto che di maestro mediante la predi-
15 cazione, pur essendo la sapienza stessa di Dio, piena e perfetta. Quando dunque sono stati
addotti alcuni passi delle Scritture, essi tanto più ampiamente sollecitano il lettore e lo stimo-
lano alla ricerca della verità, quanto più si accompagna l’autorità della Scrittura stessa.
(Pro e contro. Il prologo del Sic et non, trad. it. e cura di R. Mazzarol, Atì, Milano 2011, pp. 65-66)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea nel testo le espressioni legate all’area semantica della ricerca (indagine, dubbio ecc.).
2. Evidenzia le autorità citate nel testo ed esplicita se hanno la funzione di aprire o chiudere la discussione.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 285

TESTI
COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO
righe 1-9 Fin dalla prima parte del brano si osserva righe 10-17 In queste righe viene sviluppata la
un uso inedito delle autorità, che non servono a con- funzione del dubbio: esso non rappresenta un osta-
fermare una tesi, ma sono raccolte proprio in nome colo alla ricerca, né un elemento occasionale, ma è la
della discordanza, al fine di rendere i giovani più atten- via maestra per la verità. E se nella parte precedente
ti e scrupolosi nella ricerca della sapienza. Il testo rivela era il filosofo per eccellenza a insegnare a dubitare,
soprattutto un’attenzione didattica, affinché gli stu- qui si prende come modello lo stesso Gesù che, pur
denti non siano disorientati dal contrasto delle opinio- essendo verità e sapienza, si è messo per primo nei
ni, bensì incitati ad approfondire l’indagine con tena- panni del discepolo che interroga. La riflessione sul
cia: in una riflessione sull’uso delle autorità, la citazione dubbio non si limita quindi alla ricerca filosofica, ma
di Aristotele, il più sapiente tra i filosofi, conferma che riguarda direttamente anche quella teologica e l’au-
la via della conoscenza passa attraverso il dubbio. torità dei testi sacri.

RIFLETTI E DISCUTI
Rifletti su che cosa significa, a tuo avviso, fare ricerca oggi e avvia una discussione in classe sul ruolo del
dubbio e della raccolta di pareri autorevoli discordanti in vista della scoperta della verità di una tesi.

t2 L’etica dell’intenzione dall’Etica


Nella parte iniziale della sua opera dedicata all’etica, Abelardo offre alcune definizioni fondamentali per
delimitare l’ambito di indagine. Per poter valutare la qualità morale di un comportamento, è necessario
distinguere il vizio dal peccato: infatti né il vizio (o inclinazione naturale) né l’atto in sé sono “peccato”, ma lo è
soltanto l’assenso che l’anima dà interiormente all’azione, a prescindere dal fatto che essa si realizzi o meno.
In tal modo si fonda un’etica dell’intenzione, che ha luogo nell’interiorità e nella decisione di agire in modo
malvagio, e rifugge invece dalla catalogazione dei comportamenti esterni.

[Il vizio dell’animo] Il vizio così inteso non si identifica affatto col peccato, né il peccato si iden-
tifica a sua volta con l’azione cattiva. Per esempio, l’essere iracondo, cioè incline o facile a la-
sciarsi prendere dall’ira, è vizio e inclina la mente a compiere in modo inconsulto e senza
controllo della ragione qualche cosa che non deve essere fatto. Ora questo vizio ha la sua sede
5 nell’anima in modo che sia facile ad adirarsi anche quando non viene mossa dall’ira; così lo
zoppicare, per cui appunto un uomo si dice zoppo, si trova in lui anche quando non cammina
zoppicando, poiché il vizio c’è anche quando l’azione non c’è ancora. Del pari la stessa natura
o la complessione fisica rende molti inclini alla lussuria, come all’ira; e tuttavia costoro non
peccano per il fatto stesso che sono così come sono, anzi da ciò possono ricavare motivo di
10 lotta, per conquistare attraverso la virtù della temperanza la corona del trionfo su se stessi […]
[Il peccato come colpa dinanzi a Dio] Il vizio è pertanto ciò per cui siamo resi inclini a pec-
care, cioè siamo inclinati ad acconsentire a cose illecite, siano azioni oppure omissioni. Ora
questo consenso chiamiamo propriamente peccato, cioè la colpa dell’anima, per cui essa
merita la dannazione o viene a porsi in condizione di rea presso Dio. Che cos’è infatti que-
15 sto consenso se non il disprezzo di Dio e l’offesa a lui recata? Dio infatti non può essere
offeso dal danno, ma dal disprezzo.
(Etica, trad. it. di M. Dal Pra, CUEM, Milano 2012, pp. 26-27)
286 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

ALLENA LE COMPETENZE
TESTI

LAVORA SUL TESTO


Sottolinea nel testo le definizioni, in negativo e in positivo, rispettivamente del vizio e del peccato;
quindi prova a formulare una tua definizione.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-10 Per Abelardo virtù e vizi dell’anima righe 11-16 Il peccato non è l’azione illecita, per-
sono attitudini interiori che ci rendono inclini ad ché può configurarsi anche come omissione; inoltre
azioni buone o cattive. Le inclinazioni a comportarsi si dà peccato anche senza la sua realizzazione con-
in maniera riprovevole (come cedere all’ira) non sono creta, ad esempio nel caso in cui l’azione venga osta-
però già peccato, perché rappresentano soltanto la colata da fattori esterni alla volontà del soggetto. Il
debolezza della natura umana, contro cui l’uomo discorso etico si colloca a livello di interiorità e non
deve lottare per non acconsentire a comportamenti dipende né da un elemento naturale (il vizio come
errati. Il peccato è invece legato alla scelta dell’essere inclinazione) né dall’azione esteriore: si è colpevoli
umano (mentre l’inclinazione naturale non dipende nel momento in cui si acconsente al male, mostrando
da lui) e consiste nell’adesione interiore al vizio. in tal modo di disprezzare i comandamenti divini.

RIFLETTI
Prova a trasformare l’etica religiosa di Abelardo in un’etica laica, sostituendo al concetto di “peccato”
quello di “colpa”. Con questa attualizzazione, come puoi definire la colpa, visto che per Abelardo
il peccato è «il disprezzo di Dio»?

AVERROÈ
t3 La filosofia di fronte alla religione
dal Trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia
Averroè non si limita a constatare la legittimità della ricerca filosofica da parte dei credenti, ma
stabilisce nell’ordine: 1. la necessità di tale indagine; 2. il carattere eminentemente razionale della
filosofia, che si fonda su dimostrazioni certe; 3. l’uso della razionalità come via migliore per conoscere
Dio. A partire quindi da una questione giuridica (se la legge religiosa consideri lecita l’attività filosofica),
l’autore giunge a valutare la dimostrazione filosofica superiore anche all’atteggiamento di chi crede.

Il fine di questo scritto è indagare, dal punto di vista


[Il ruolo della filosofia per la religione]
della Legge religiosa, se la speculazione filosofica e le scienze logiche siano lecite […] o proi-
bite o obbligatorie, sia perché commendevoli [degne di lode] sia perché necessarie.
E quindi diciamo: ogni attività filosofica altro non è che speculazione sugli esseri esistenti e
5 riflessione su come, attraverso la considerazione che sono creati, si pervenga a dimostrare il
Creatore: infatti gli esseri esistenti sono prodotti, per cui dimostrano di avere un produttore.
Tale conoscenza relativa alla produzione delle cose, tanto più è completa quanto più consen-
te una conoscenza completa di Colui che le ha prodotte. La Legge religiosa autorizza, e anzi
stimola, la riflessione su ciò che esiste, per cui è evidente che l’attività indicata col nome di
10 filosofia è considerata necessaria dalla Legge religiosa, o, per lo meno, ne è autorizzata […].
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 287

Siccome si è stabilito che la Legge religiosa rende obbligatoria la

TESTI
[Il sillogismo dimostrativo]
speculazione e l’indagine razionale sugli esseri esistenti, e poiché tale indagine non consiste
in altro che nella deduzione e nella derivazione dell’ignoto dal già noto – e questo è ciò che
si chiama sillogismo ovvero ciò che si ottiene per mezzo del sillogismo –, è pure obbligato-
15 rio che ci rivolgiamo allo studio della realtà esistente per mezzo del ragionamento raziona-
le. È inoltre evidente che questo tipo di analisi cui la Legge religiosa chiama e incita, è la
specie più perfetta di ragionamento, cioè quella che si chiama “dimostrazione [apodittica]”.
[La conoscenza di Dio] Poiché la Legge induce alla conoscenza di Dio Altissimo e di tutte
le creature per mezzo della dimostrazione, la cosa migliore e più assolutamente vincolante
20 per chiunque voglia conoscere Dio Benedetto ed Eccelso e gli altri esseri esistenti attraver-
so la dimostrazione, è in primo luogo di progredire nella conoscenza delle varie specie di
dimostrazione e delle loro condizioni, e poi di sapere quale sia la differenza tra il ragiona-
mento dimostrativo, quello dialettico, quello retorico e quello erroneo. Ciò però non è pos-
sibile, se prima non si perviene a sapere che cos’è il ragionamento in senso generale e di
25 quante specie è composto, e ciò che è davvero il ragionamento e ciò che non lo è. E questo
a sua volta non è possibile se prima non si perviene a sapere quali sono le parti che com-
pongono il ragionamento – e in specie le premesse e le loro distinzioni. In conclusione è
vincolante per chi crede nella religione e si conforma ad essa scegliendo di speculare sugli
esseri esistenti, che, prima di speculare, arrivi a conoscere quelle cose che, relativamente al
30 pensiero, svolgono la stessa funzione degli attrezzi relativamente all’attività pratica.
(Il trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia,
trad. it. di M. Campanini, BUR, Milano 1994, pp. 45-49)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


Evidenzia nel testo con colori diversi i termini riferiti all’ambito filosofico, a quello giuridico e a
quello teologico.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-10 Il Trattato decisivo di Averroè affron- righe 18-30 Nell’ultima parte del testo si sottoli-
ta il problema dell’accordo tra religione e filosofia nea come la conoscenza razionale di Dio, stimolata
in chiave giuridica, chiedendosi cioè se la legge re- dalla legge religiosa, comporti necessariamente la
ligiosa consenta, vieti o prescriva la ricerca filosofi- conoscenza della logica: chiunque desideri cono-
ca. L’autore risponde affermando che la filosofia scere Dio deve dedicarsi alla filosofia e per poter
non è soltanto lecita, ma anche necessaria, in quan- progredire nella dimostrazione deve apprendere la
to si applica allo studio di ciò che esiste, dimostran- differenza tra le diverse modalità di ragionamento,
do che ogni essere è il prodotto di Dio creatore. le loro condizioni e le loro parti. In particolare deve
distinguere la filosofia da altre considerazioni della
righe 11-17 Stabilito l’obbligo della speculazione
realtà: la teologia (che si serve di ragionamenti dia-
razionale, Averroè chiarisce che il procedimento di-
lettici, le cui premesse non godono di certezza as-
mostrativo utilizzato è il sillogismo, un ragionamento
soluta) e la credenza religiosa, che si accontenta di
che procede da premesse certe (il «noto») per cono-
discorsi retorici.
scere in modo deduttivo ciò che prima era «ignoto».
Tale ragionamento è definito «il più perfetto».

RIFLETTI
Si può a tuo avviso attualizzare il discorso di Averroè, sostenendo che chiunque crede deve appli-
carsi a conoscere la realtà attraverso l’indagine scientifica? Quali sarebbero secondo te le cono-
scenze preliminari (la “cassetta degli attrezzi”) per condurre tale ricerca?
288 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 19
SINTESI Il primato della ragione filosofica nel XII secolo:
Abelardo, Averroè e Maimonide
AUDIOSINTESI

1 Culture diverse in un mondo comune


Quali sono le relazioni tra mondo arabo e latino Spagna) e della “reconquista” dei territori spa-
nel XII secolo? Nel XII secolo i due principali poli gnoli musulmani a opera dei sovrani cristiani; per-
filosofici sono per il mondo arabo la penisola iberi- fino le crociate rappresentano un’occasione di
ca e per il mondo latino la Francia e l’Italia, che co- scambio intellettuale e commerciale. Le due cultu-
noscono un notevole sviluppo economico e urbano. re si rifanno agli stessi testi della filosofia greca,
I contatti tra i due mondi si intensificano soprat- pur sviluppandosi in istituzioni diverse: il sapere
tutto in virtù della vicinanza geografica (dal mo- latino nelle scuole cittadine, quello islamico nelle
mento che la filosofia araba si sviluppa perlopiù in corti dei sovrani.

2 Pietro Abelardo, il dialettico


Abelardo è un brillante oratore e dialettico. Dopo la Quale rilievo assume l’applicazione del metodo
travolgente storia d’amore con Eloisa, si dedica alla dialettico alla teologia? Il metodo dialettico e la
vita monastica e all’attività di insegnamento, che soluzione del problema degli universali vengono
ottiene grande successo. Le sue dottrine teologiche utilizzati da Abelardo in riferimento alla dottrina
saranno più volte condannate dalla Chiesa. della trinità e in generale alla teologia, permetten-
Qual è la posizione di Abelardo nella disputa sugli dogli di elaborare un discorso razionale su Dio.
universali? La fama di Abelardo come logico si af- Nell’opera Sic et non, in particolare, Abelardo mo-
ferma in occasione della questione degli universali. stra come le apparenti contraddizioni tra i padri
Il problema consiste nello stabilire quale sia lo statu- della Chiesa possano essere superate applicando
to dei concetti universali, ossia se abbiano una fun- specifici criteri di interpretazione del testo e an-
zione unicamente descrittiva (cioè siano termini che dando oltre il suo significato letterale.
riuniscono in una classe determinati individui sulla Quali sono le tesi di Abelardo in ambito etico? In
base delle loro somiglianze), oppure abbiano un va- ambito etico Abelardo specifica i parametri di valu-
lore ontologico (cioè si riferiscano a essenze real- tazione del comportamento umano, focalizzando la
mente esistenti, che costituiscono la struttura della sua attenzione sul concetto di “intenzione”. Per lui
realtà). Quest’ultima ipotesi è il “realismo”, che Abe- l’inclinazione naturale non è necessariamente
lardo contesta, affermando che, se l’universale fosse peccato: quest’ultimo si commette soltanto se la
dotato di esistenza reale, non potrebbe essere pre- volontà acconsente all’inclinazione. L’intenzione è
sente nei singoli individui. Per Abelardo non è valida pertanto l’elemento primario sulla cui base si devo-
nemmeno la posizione dei “nominalisti”, i quali so- no giudicare il peccato e la virtù. In questo modo
stenevano che l’universale è un puro suono di voce Abelardo distingue la sfera etica, in cui appunto
del tutto arbitrario. La tesi di Abelardo è definita vale il criterio dell’intenzione, da quella giuridica,
“concettualismo”: l’universale è un concetto che che valuta le azioni esteriori delle persone e l’even-
la mente ricava per astrazione dalle caratteristiche tuale danno pubblico che causano.
fondamentali delle realtà fisiche; il suo significato
(sermo) sta nel riferirsi a queste in modo necessario.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 289

3 L ’ islam occidentale: Averroè


Come valuta Averroè il rapporto tra filosofia e re- Qual è la teoria della conoscenza di Averroè? In
ligione? Averroè è uno dei principali pensatori relazione alla conoscenza, Averroè condivide con
arabi dell’epoca medievale. Nasce a Cordova e rico- Aristotele l’idea che l’intelletto agente sia separato;
pre diverse cariche pubbliche alla corte del califfo; è tuttavia si spinge oltre, riconoscendo che anche
noto e apprezzato soprattutto per il commento alle l’intelletto potenziale è unico, separato e incor-
opere di Aristotele. Nel Trattato decisivo sull’accordo ruttibile. L’obiettivo di Averroè è distinguere la di-
tra filosofia e religione l’autore sostiene che la filoso- mensione soggettiva e individuale della conoscen-
fia non è un’attività dannosa e nemmeno indiffe- za da quella universale e oggettiva. La conoscenza
rente, ma è un atto prescritto, anche se non acces- individuale parte da rappresentazioni sensibili e
sibile a tutti. Da questo punto di vista Averroè tramite l’astrazione, grazie all’azione dell’intelletto
distingue tre tipi di fedeli: i credenti, che giungono agente, comprende la forma intelligibile, immate-
alla fede con argomentazioni retoriche, immagini e riale ed eterna, che viene ricevuta dall’intelletto po-
racconti edificanti; i teologi, che utilizzano argo- tenziale. L’intelletto agente e l’intelletto potenziale
mentazioni dialettiche non provviste di necessità; i sono le condizioni della validità universale della
filosofi, che si servono di argomentazioni dimo- conoscenza. Il più alto livello di conoscenza porta
strative. Filosofia e fede procedono su strade paral- alla congiunzione con l’intelletto agente e genera la
lele, ma giungono alla stessa verità, seppure in felicità.
modi diversi; per Averroè non ci può essere con-
trasto tra ragione e islam.

4 La filosofia ebraica: Maimonide


Come viene considerato il rapporto tra ragione e biblico, sono in grado di comprendere l’accordo tra
fede da Maimonide? Mosè Maimonide è noto per la fede e filosofia; in questo sono superiori ai teologi. La
Guida dei perplessi. Di fronte alla possibilità di un conoscenza perfetta è uno stato di illuminazione
contrasto tra ragione e fede ebraica, sostiene che i fi- totale, chiamato “profezia”, che coinvolge non sol-
losofi, andando oltre il significato letterale del testo tanto la ragione ma anche la facoltà immaginativa.
290 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 19
MAPPE CONCETTUALI Il primato della ragione filosofica nel XII
secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide
ABELARDO E LA DISPUTA
SUGLI UNIVERSALI
ABELARDO

assume una posizione


intermedia tra

gli universali esistono gli universali sono puri


realismo nominalismo
nella realtà nomi

infatti sostiene il

concettualismo

gli universali non sono realtà


o meri nomi ma concetti,
termini dotati di significato

ABELARDO: TEOLOGIA E
METODO DIALETTICO
LA TEOLOGIA

un discorso razionale su Dio

che utilizza

il metodo
la filosofia esemplificato dal Sic et non
dell’argomentazione

per poter credere è necessario elenco di posizioni discordanti


comprendere quello in cui si crede
sottoposto al

vaglio della ragione

la quale

applica le regole diventa giudice


interpretative della tradizione
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 291

TRA FILOSOFIA E RELIGIONE


LA FILOSOFIA

è utile fa un uso legittimo della ragione

infatti attraverso la quale

aiuta a comprendere la realtà giunge alla stessa verità della


come creata da Dio fede ma per una via diversa

AVERROÈ: LA CONCEZIONE
DELLA CONOSCENZA
L’UNIVERSALITÀ DELLA CONOSCENZA

è garantita da

luogo “ideale” in cui si


intelligenza separata
l’intelletto l’intelletto trova la conoscenza
che illumina la mente
agente potenziale intesa nel suo aspetto
umana
universale

che costituiscono

le condizioni universali del conoscere


e i suoi contenuti ideali

LA CONOSCENZA INDIVIDUALE

ha origine nella

rappresentazione sensibile
delle cose

da cui ricava

un procedimento di
le forme intelligibili mediante “astrazione” ad opera
dell’intelletto agente

le quali

vengono ricevute dall’intelletto


potenziale
292 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 19
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Il primato della ragione
filosofica nel XII secolo: RIPASSO
Abelardo, Averroè e Maimonide
5. Lo scopo dell’opera Sic et non è mostrare che:
1 Culture diverse in un mondo (segna la risposta esatta)
comune a la teologia è inaffidabile, perché gli scrittori sacri
si contraddicono
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) b la ragione deve applicare principi interpretativi
1. Individua tre elementi che favoriscono per superare le contraddizioni tra autorità
l’avvicinamento tra mondo culturale latino, arabo c la ragione senza la tradizione si contraddice,
ed ebraico: perché le interpretazioni sono molteplici
a. ................................................................................. d non si può andare oltre il dubbio della ragione,
b. ................................................................................. se non con la fede
c. ................................................................................. 6. Nell’Etica, Abelardo sostiene che:
2. In quali diversi contesti istituzionali si sviluppa (segna la risposta esatta)
la filosofia nel mondo arabo e in quello latino, a per valutare la moralità di un’azione occorre
e con quali conseguenze? riferirsi al danno pubblico che essa provoca
b il peccato è conseguenza necessaria
dell’inclinazione della natura umana
c l’intenzione è inutile per la virtù se non si traduce

2 Pietro Abelardo, il dialettico in azioni concrete


d l’intenzione cattiva è peccato, anche senza
riconoscere le nozioni e il significato l’azione che ne consegue
delle parole
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
3. Discutere dello statuto dei concetti universali
significa: (segna la risposta esatta) 7. Qual è il ruolo della dialettica secondo Abelardo?
a interrogarsi sul perché gli universali esistano 8. In che cosa consiste la differenza tra funzione
b chiedersi come Dio possa aver creato i concetti descrittiva e significato ontologico
universali dell’universale?
c domandarsi se gli universali abbiano un valore
soltanto descrittivo o anche un valore ontologico
9. Qual è la novità che Abelardo apporta in ambito
teologico?
d negare il valore ontologico delle categorie
aristoteliche scrivere e rielaborare (15-20 righe)
4. Indica se le affermazioni seguenti relative al 10. Ricostruisci l’origine del problema
problema degli universali sono riferibili al realismo degli universali e in particolare la soluzione
(A), al nominalismo (B), al concettualismo (C) o di Abelardo.
a nessuna di queste posizioni (/):
a. gli universali sono termini che servono per ad alta voce
raggruppare cose simili ........ 11. Spiega in 3 minuti in che cosa consiste la morale
b. gli universali sono essenze realmente esistenti ........ dell’intenzione teorizzata da Abelardo.
c. gli universali sono soltanto nomi ........
d. gli universali sono ricavati per astrazione
e rispecchiano la natura delle cose ........
e. gli universali sono individui concreti ........
f. gli universali costituiscono la struttura
profonda della realtà ........
g. gli universali, in quanto sermo, si applicano
a tutti i singoli individui di una classe ........
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 293

3 L ’ islam occidentale: Averroè 15. Individua l’affermazione corretta in relazione


alla teoria della conoscenza di Averroè:
riconoscere le nozioni e il significato a l’intelletto agente garantisce l’universalità della
delle parole conoscenza, mentre quello potenziale si riferisce
12. Averroè è molto noto in Occidente alla dimensione individuale
nel Medioevo perché: (segna la risposta esatta) b l’intelletto agente e l’intelletto potenziale
a è un famoso medico e l’Occidente utilizza le sue garantiscono la dimensione universale della
conoscenze conoscenza
c l’origine empirica della conoscenza ne garantisce
b commenta e rende disponibili molte opere di
Platone l’universalità e l’oggettività
c traduce Aristotele rendendolo accessibile in d a partire dalle rappresentazioni sensibili,
Occidente l’intelletto potenziale astrae gli intelligibili
d stila un commento a tutte le opere di Aristotele esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
13. Indica se le affermazioni seguenti possono 16. Per quale ragione secondo Averroè i filosofi
essere riferite ai credenti (C), ai teologi (T), non devono istruire i fedeli?
ai filosofi (F) o a nessuna delle precedenti
17. Perché entrambi gli intelletti, agente e
categorie (/):
potenziale, devono essere separati?
a. utilizzano argomentazioni dimostrative per
mostrare il disaccordo tra filosofia ed islam ........ 18. In che cosa consiste la felicità?
b. confondono il popolo con ragionamenti
dialettici infondati ........ scrivere e rielaborare (15-20 righe)
c. attraverso argomentazioni dimostrative 19. Istituisci un confronto tra l’atteggiamento
comprendono l’accordo tra filosofia ed islam ........ di Abelardo e quello di Averroè rispetto
d. attraverso argomenti retorici mostrano all’autorità dei teologi.
l’accordo tra filosofia ed islam ........
e giungono alla fede tramite la predicazione,
che si avvale di immagini e racconti ........
14. Secondo Averroè: (segna la risposta esatta) 4 La filosofia ebraica: Maimonide
a soltanto chi non è filosofo pensa che la filosofia esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
sostenga tesi contrarie alla religione
20. Che cosa significa il titolo dell’opera di
b soltanto chi è filosofo pensa che la filosofia
Maimonide, Guida dei perplessi?
sostenga tesi contrarie alla religione
c i teologi pensano che la filosofia possa accordarsi 21. Che cosa si intende per “primato del
con la fede islamica razionalismo filosofico” in riferimento alla
d i filosofi sostengono la doppia verità: dottrina di Maimonide?
una per la fede e l’altra per la filosofia

verso le competenze
ARGOMENTARE E DISCUTERE
Prendendo spunto dagli interrogativi che hanno orientato la ricerca di Averroè, discutete in classe
sul rapporto fra teologia e filosofia, seguendo queste indicazioni:
• sotto la guida dell’insegnante dividetevi in due schieramenti che sostengano, rispettivamente,
che la filosofia è un’attività lecita ma indifferente per la fede oppure un’attività a cui sarebbe bene che
tutti i credenti si dedicassero;
• ogni schieramento seleziona almeno 2 argomenti a sostegno della propria tesi;
• i due schieramenti – nominando un portavoce – si affrontano in un dibattito in classe sul tema proposto,
esponendo a turno gli argomenti a sostegno della propria tesi (durata massima degli interventi 10 minuti).
La valutazione finale sullo schieramento risultato più efficace nel sostenere le proprie opinioni spetta
all’insegnante, che assume il ruolo di giudice.
294 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 20 Il XIII secolo: la ripresa


culturale dell ’Occidente latino

Sì come il baccellier s’arma e non parla / fin che ‘l maestro la
question propone, / per approvarla, non per terminarla /così
m’armava io d’ogni ragione.
(Dante Alighieri, Paradiso, XXIV, 46-48)

1 Il secolo delle università


I nuovi centri del sapere
Nel XIII secolo il baricentro della cultura filosofica e scientifica si è definitivamente spo-
stato nel mondo latino: come si può osservare nella carta, i nuovi poli culturali non sono
più “periferici” rispetto al mondo arabo e a quello orientale, ma si concentrano in un’Eu-
ropa che si sta costellando di città.
Diversi fattori promuovono questa rinascita: la ripresa economica iniziata già nell’XI-
XII secolo; un periodo storico di relativa pace; la competizione tra il potere papale e quel-
lo dei sovrani; il superamento delle istituzioni feudali; ma soprattutto la maggiore dispo-
nibilità di testi antichi grazie al fervente lavoro di traduzione (❯ p. 206). Se da un lato la
civiltà latina è debitrice nei confronti di quella araba per il grande patrimonio di testi
scientifici e filosofici che le viene trasmesso, dall’altro riesce a emanciparsi da tale dipen-
denza e a produrre una riflessione autonoma.
È in questo contesto storico-culturale che nascono le università – la creazione più ori-
ginale e duratura dell’Occidente latino –, che diventano il luogo della produzione e della
trasmissione del sapere. E poiché la filosofia, così come le altre scienze, si sviluppa e si
studia nelle università, dove se ne elaborano i metodi e i contenuti, questo periodo viene
spesso definito scolastica, in quanto le scholae sono lo spazio privilegiato di tutta la cultura.
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 295

Il termine “scolastica” è talvolta usato per indicare tutta l’età medievale, a cominciare
dalla rinascita carolingia del IX secolo, che è un primo tentativo di stilare programmi e
creare istituzioni scolastiche, per proseguire con le scuole cattedrali dell’XI-XII secolo,
fino alle università. Tuttavia, benché si osservi un’innegabile continuità con le istituzioni
precedenti, è soltanto con il fiorire delle università che si mettono a punto un metodo e
uno stile filosofico che si possono veramente definire “scolastici” (e che continueranno
per tutta l’età moderna). La vera e propria scolastica inizia dunque in questo momento FARE per CAPIRE
grazie all’insegnamento universitario, basato sulla lettura e sull’interpretazione di testi, • Evidenzia nel
sui dibattiti e sul confronto tra posizioni contrapposte. Non rappresenta pertanto un pen- testo i fattori che
siero unitario e omogeneo, né un insieme di dottrine autorevoli e insindacabili (come promuovono la
ripresa culturale
nelle critiche a essa rivolte dagli umanisti e dai moderni), ma esprime un modello di ra- dell’Occidente
zionalità che si alimenta attraverso il confronto critico con i testi. latino.

La nascita dell’ università nel mondo cittadino


La cultura feudale era strettamente dipendente dalla terra e dal suo possesso: chi la lavora-
va apparteneva a una condizione servile, mentre i feudatari erano rappresentanti di un pote-
re che si fondava su legami personali di fedeltà e di obbedienza. La rinascita economica e il
nuovo contesto cittadino modificano profondamente tali valori: il lavoro non è più soltanto
legato alla terra, ma diventa anche strumento di arricchimento e di ascesa sociale, e oltre ai
legami personali si formano corporazioni di arti e mestieri che tutelano interessi collettivi.

ltico
mare del Nord mar Ba I CENTRI FILOSOFICI NEL XIII SECOLO
Lincoln
Oxford Londra Colonia
Praga
oceano Heidelberg
Atlantico Parigi Vienna
Monaco
Padova
Avignone Bologna
Tolosa Firenze Siena mar Nero
Montpellier
Viterbo Costantinopoli
Napoli
Toledo
Palermo Atene
Granada

mar Mediterraneo

Il Cairo

scolastica il termine si riferisce alla schola, il tuzionalizzazione dell’insegnamento e dei suoi lessico
luogo in cui si elabora e si trasmette il sapere nel metodi osservabile soprattutto dopo la fondazio- filosofico
periodo medievale. Pur non manifestando un’o- ne delle università, ed esprime un modello di ra-
mogeneità dottrinale, la scolastica mostra una zionalità che si basa sul confronto con i testi au-
certa comunanza di tratti distintivi, data dall’isti- torevoli e sulla discussione.
296 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Proprio questo rinnovamento sociale e culturale favorisce la fondazione dell’università,


che ancora oggi è il luogo privilegiato per l’insegnamento e la ricerca.
L’università nasce dall’evoluzione delle scuole precedenti e risponde all’esigenza di
una formazione culturale più ampia, con la codificazione dei programmi e dei corsi di
studio intorno a quattro facoltà: le “arti”; medicina; giurisprudenza; teologia. La filosofia
corrisponde alla facoltà delle arti (tanto che i filosofi sono perlopiù chiamati “artisti”): si
tratta delle antiche artes liberales (❯ p. 214), che si arricchiscono di nuovi programmi di
studio, integrando il trivio (grammatica, retorica e dialettica) e il quadrivio (aritmetica,
geometria, musica, astronomia) con la filosofia di Aristotele. Diversamente dall’accezione
attuale, il termine “università” non si riferisce direttamente ai luoghi o agli edifici prepo-
sti all’insegnamento, bensì alla corporazione che riunisce professori e studenti: l’uni-
versità è un’entità giuridica collettiva, come quelle degli altri mestieri, che tutela gli inte-
ressi dei propri membri in vista dell’elaborazione e della trasmissione del sapere. Questa
struttura corporativa è indicativa del fatto che il lavoro intellettuale viene riconosciuto
come una professione, che implica prestigio morale e politico ma anche particolari immu-
nità e libertà per chi vi si dedica. Inoltre, una volta compiuti gli studi universitari, si ottie-
ne l’autorizzazione a esercitare l’attività di insegnamento in qualsiasi altra università o
istituzione superiore (licentia ubique docendi): un riconoscimento universale dei titoli otte-
nuti, che favorisce l’internazionalizzazione, la mobilità dei docenti e lo scambio culturale
tra i diversi paesi europei, forse perfino in misura maggiore di quanto avviene oggi.

Professionalità e libertà dell ’insegnamento


La creazione e la strutturazione interna delle università sono la condizione per lo svilup-
po dell’insegnamento come professione riconosciuta e regolamentata. Questo aspetto
impone due ordini di considerazioni.
1. Fino al XII secolo il mondo latino non poteva competere culturalmente con quello
arabo; la fondazione delle università ha un ruolo determinante per recuperare il
divario e favorire la rinascita scientifica e intellettuale, ma soprattutto per consen-
tirne la durata e permanenza nei secoli successivi. Nel mondo arabo la possibili-
tà di studio e di ricerca era agevolata dalla grande disponibilità di libri e dalla pre-
senza di biblioteche, ma dipendeva in primo luogo dal favore dei prìncipi: i grandi
filosofi arabi, come al-Farabi, Avicenna e Averroè, erano uomini di corte, non filo-
sofi di professione. Attorno a loro fiorivano cerchie di discepoli e studiosi, ma la
trasmissione del sapere era il frutto di legami personali e non poteva espandersi e
perpetuarsi, una volta venuti meno i maestri. L’università medievale, al contrario,
riconosce e valorizza l’insegnamento come professione e diventa un’istituzione
che prescinde dal prestigio individuale. Al suo interno si sviluppa un forte senso di
appartenenza, così che essa – come le altre corporazioni – cerca di tutelare la propria
autonomia rispetto alle ingerenze dei poteri locali. I regolamenti delle università, i
cosiddetti statuti, non si occupano infatti soltanto dei programmi e dell’organizza-
zione degli studi, ma anche della vita pubblica e privata degli appartenenti, che co-
stituiscono quasi una comunità particolare entro una collettività politica più ampia.

lessico università a partire dall’inizio del XII secolo, dediti all’elaborazione e trasmissione del sapere,
indica la corporazione che riunisce professori e e garantisce immunità, autonomia e libertà di in-
studenti, tutela gli interessi dei propri membri segnamento.
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 297

2. L’università medievale è stata spesso considerata una creazione ecclesiale, perché il


permesso di istituirla veniva concesso perlopiù dall’autorità papale (ma in alcuni casi
anche da altri sovrani) e i docenti e i discenti appartenevano di solito al clero o a un
ordine religioso. Non sarebbe legittimo però intenderla come emanazione del potere
ecclesiastico e ad esso asservita, perché la concessione papale serviva proprio per scio-
gliere l’università dagli obblighi verso le autorità locali, rendendola una sorta di ente
extraterritoriale. Soltanto un potere superiore, che rivendicava una validità universa-
le, aveva la facoltà di conferire uno statuto giuridico speciale alle università. In tal modo
si creano le condizioni per la libertà di insegnamento, e non per la sua limitazione: ci
sono molti casi in cui le università respingono le interferenze dottrinali o disciplinari
del potere ecclesiastico o temporale, proprio in nome della loro autonomia, adottando
anche misure drastiche come lo sciopero dell’Università di Parigi, durato più di due
anni (❯ Per approfondire, p. 298). E una celebre università italiana, quella di Padova, sorta nel
1222 da una secessione di docenti e studenti di Bologna alla ricerca di maggiore libertà
accademica, mantiene ancora oggi il motto medievale che fa della libertà l’espressione
irrinunciabile della propria identità: universa universis patavina libertas (“tutta intera per
tutti la libertà dell’università padovana”). Infine, la licentia ubique docendi – l’autorizza-
zione a insegnare ovunque – non riguardava soltanto la filosofia, ma anche la teologia
(ovvero i contenuti della fede). Tale licenza era conferita in seguito al superamento
degli esami finali e non in virtù dell’appartenenza alla gerarchia ecclesiastica: non era
quindi il sacramento dell’ordine sacro, ma la competenza professionale che abilitava
i futuri docenti a trasmettere la verità, anche teologica; in termini correnti, si potrebbe
dire che era il merito e non l’appartenenza a una casta a conferire la posizione sociale.
Perciò, invece che essere uno strumento della curia papale, le università sviluppano una
nuova autonomia del sapere: oltre ai due poteri medievali tradizionali, quello temporale
e quello spirituale (il regnum e il sacerdotium), emerge così un terzo “potere”, l’autorità
dell’insegnamento (il magisterium), che non esita a entrare talvolta in conflitto con gli
altri due per difendere la propria libertà.

I CARATTERI DELLE UNIVERSITÀ MAPPA


CONCETTUALE
LE UNIVERSITÀ

favoriscono sono organizzate in sono

lo sviluppo
quattro facoltà entità giuridiche collettive
della filosofia scolastica

basata su che

tutelano gli interessi dei loro


membri (professori e studenti)

lettura e interpretazione arti o filosofia il lavoro intellettuale è


dei testi medicina riconosciuto come mestiere

dibattito e confronto tra giurisprudenza sono garantite l’autonomia e


posizioni contrastanti teologia la libertà di insegnamento
298 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Scioperi e proteste per la libertà di insegnamento


Censure e proibizioni denti per protesta interrompono le lezioni e organizzano
ono passati pochi decenni dall’ingresso massiccio dei uno sciopero a oltranza per circa due anni, trasferendosi
S testi di Aristotele in Occidente e già si levano censure
e proibizioni, che colpiscono soprattutto l’Università di
di fatto in altre sedi dove non erano in vigore proibizioni
dottrinali. Questo sciopero memorabile ottiene però i
Parigi. Nel 1210 il sinodo locale vieta di «leggere in suoi effetti, perché la chiusura dell’università rappresen-
pubblico o in segreto i libri di Aristotele sulla filosofia tava un grave danno economico per la città di Parigi.
naturale e i commenti», pena la scomunica. Nel 1215 la Così nel 1231, grazie anche alla mediazione del papa, le
norma viene inserita negli statuti della facoltà delle arti, lezioni riprendono, i divieti sono attenuati, il re riconosce
esplicitando che la proibizione si estende alla metafisica l’indipendenza dell’università, conferendole numerosi
e che sono inclusi anche riassunti e compendi dei testi privilegi. L’autonomia universitaria diventa un obiettivo
interdetti. È un provvedimento istituzionale: si proibisce sia del re, per la ricaduta economica che l’università ha
di usare Aristotele come testo per l’insegnamento della sulla città, sia del papato, che cerca di limitare l’influenza
filosofia, sia nelle lezioni pubbliche sia in quelle private, delle autorità religiose locali. Aristotele viene guardato
limitandosi a utilizzarlo per la logica e l’etica. Di fronte ancora con diffidenza e sottoposto al giudizio di una com-
alle recriminazioni dell’università, papa Gregorio IX cerca missione teologica, con il compito di epurare i suoi scritti,
una mediazione, istituendo nel 1231 una commissione ma a poco a poco diviene il filosofo per eccellenza: negli
che esamini i libri sulla natura di Aristotele, “purgandoli” statuti del 1252 e 1255 tutti i libri di Aristotele sono in-
dai contenuti considerati dannosi. Tali limitazioni non seriti come lettura obbligatoria nel curriculum della fa-
riescono però ad arrestare il successo di Aristotele, anzi coltà delle arti.
la reiterazione è un segnale della loro inefficacia. Le di- uesta vicenda di censure, interferenze e proteste fa
sposizioni si applicano soltanto localmente: i libri proi-
biti a Parigi erano già entrati nel curriculum di altre uni-
Q intuire come la coscienza del ruolo di docenti e stu-
denti, al servizio della conoscenza e dell’insegnamento,
versità, come a Oxford, e addirittura l’Università di portasse quasi inevitabilmente allo scontro con i diversi
Tolosa approfitta di questa opportunità per attrarre i poteri, locali e universali, che alla fine sono però costret-
migliori maestri e studenti, garantendo la libertà di inse- ti a venire a patti con gli interessi corporativi dell’univer-
gnamento negata a Parigi. La censura parigina sembra sità. La libertà di pensiero è un ideale per cui si comincia
dunque un caso isolato, ma ha un valore emblematico a combattere già nel Duecento.
perché questa università si appresta a divenire il riferi-
mento intellettuale della cristianità – soprattutto per
l’insegnamento della filosofia e della teologia –, il cen-
tro di formazione con cui avranno a che fare gli autori
più eminenti del XIII e del XIV secolo.

Lo sciopero dell’Università di Parigi


e i suoi effetti
l superamento dei divieti è il segnale di una nuova
Iconsapevolezza, che concerne sia lo spazio della rifles-
sione filosofica, sia il nuovo ruolo sociale dell’intellet-
tuale, che rivendica la libertà da ogni condizionamento
politico ed ecclesiastico. L’acquisizione di Aristotele va di
pari passo con l’autonomia reclamata dall’università, ma
non è un processo immediato né indolore, come attesta-
no ancora le burrascose vicende dell’Università di Parigi,
che nel 1229 entra addirittura in sciopero. La scintilla è
una questione di ordine pubblico: una rissa provocata da
alcuni studenti ubriachi e una reazione eccessiva da parte
delle autorità cittadine, ma il motivo reale è il conflitto
con i poteri locali che interferiscono con l’università e Una lezione nella facoltà di teologia dell ’ Università di Parigi
cercano di limitare i privilegi corporativi. Docenti e stu- con Aristotele in cattedra, 1372, Bruxelles, Biblioteca Reale Albert I.
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 299

2 I metodi di insegnamento
e il dibattito come ricerca della verità
Per quanto innovative, le università medievali non nascono dal nulla: hanno alle spalle
diverse esperienze di “scuole”, da cui mutuano – perfezionandole – le tecniche d’inse-
gnamento. I momenti principali della formazione universitaria sono la lectio, la quaestio e
la disputatio.

La lectio
Ancora oggi l’unità didattica fondamentale si chiama “lezione”. Il significato originario è
quello di “lettura” di testi – lectio –, l’attività principale dell’insegnamento medievale;
il termine lascia però trasparire l’influsso di prassi cristiane più antiche delle istituzioni
scolastiche, come la lectio divina (la spiegazione delle sacre scritture) o l’abitudine mona-
stica a leggere testi biblici e patristici durante i pasti consumati in silenzio. Prima della
fondazione delle università vi sono secoli e secoli in cui l’apprendimento avviene ascol-
tando la lettura di libri preziosi e autorevoli. Anche l’istruzione universitaria si struttura
in primo luogo come lettura e spiegazione delle opere ritenute fondamentali per ciascuna
disciplina: ad esempio, si studia Cicerone per la retorica, Tolomeo per l’astronomia, Eu-
clide per la geometria, la Bibbia e i padri della Chiesa per la teologia.
L’idea è che si impara leggendo scritti illustri, spiegati e commentati dal maestro, non
per un apprendimento mnemonico, ma lasciandosi guidare dagli antichi. Non si mira
cioè alla ripetizione e a uno studio nozionistico, bensì alla possibilità di pensare con il
testo: se si prende in mano un qualsiasi commento medievale, si rimane stupiti del fatto
che poche righe di un autore antico riescano a generare pagine e pagine di riflessione
autonoma. La lettura stimola l’approfondimento ed esige una comprensione attiva: il te-
sto pone questioni, suscita dubbi, spesso pare in contraddizione con ulteriori fonti ugual-
mente prestigiose. È così che la lectio si apre alla quaestio, il tratto più innovativo dell’in-
segnamento medievale.

La quaestio
La questione universitaria – quaestio – è il tipico procedimento medievale che trasforma
i testi da dottrine da apprendere in occasioni per la discussione, unica via per la ricerca
della verità.
Accade generalmente che la lezione sul testo si interrompa in seguito a un dubbio o un’a-
poria e inizi un dibattito che cerca di risolvere il conflitto tra le opinioni diverse. La centrali-
tà assegnata alla questione implica l’importanza del dubbio e del procedimento dialettico

lectio (letteralmente, “lettura”) è il momento quaestio (letteralmente, “questione”, “proble- lessico


iniziale dell’insegnamento universitario, che pre- ma”) tipico momento dell’insegnamento univer-
vede la lettura di testi autorevoli (la Bibbia, gli sitario medievale, grazie al quale i testi vengono
scritti dei padri della Chiesa, pubblicazioni di problematizzati e trasformati in occasione di di-
scienziati e filosofi antichi) spiegati e commenta- scussione. Il punto di partenza è il commento al
ti dal maestro. testo, il quale fa emergere dubbi, domande, inter-
pretazioni diverse e opposizioni fra autorità che
sembrano sostenere punti di vista contrastanti.
300 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

❯Una lezione,
miniatura, XV secolo,
Friburgo in Brisgovia,
Biblioteca universitaria.

per chiarire il problema e giungere a una soluzione; a tale scopo anche le opinioni che alla
fine vengono respinte sono essenziali per non lasciare inesplorato nessun punto di vista,
anzi se possibile sono valorizzate, e non criticate in maniera inappellabile. Proprio l’impor-
tanza metodica della domanda e del dubbio fa sì che la questione assuma una portata
RICORDA CHE... universale: non c’è argomento o contenuto che non si possa mettere in discussione, anche se
Nell’opera Sic et non non si dubita effettivamente della sua realtà (come per i medievali a proposito dell’esistenza
Abelardo enumera 158 di Dio), perché il dibattito che ne deriva rafforza la chiarezza e il possesso della verità. Perfi-
questioni, che egli non no aspetti apparentemente futili e inessenziali lasciano trasparire questioni filosofiche di un
discute né risolve,
limitandosi a riportare certo rilievo: ad esempio, chiedersi in quale luogo si trovino gli angeli impone di chiarire
per ognuna una serie di come applicare le determinazioni spazio-temporali a enti immateriali.
citazioni tratte dai padri
L’opposizione tra autorità contraddittorie (gli argomenti a favore e quelli contrari
della Chiesa in senso
favorevole o contrario desunti da testi autorevoli) richiama il metodo dialettico di Abelardo messo a punto nel
alla tesi. In questo modo Sic et non, ma nell’università medievale esso viene generalizzato e formalizzato. Dal
lascia implicitamente alla conflitto di interpretazioni e dai dubbi posti dal testo si procede a strutturare la questio-
ragione il compito di
superare il contrasto. ne secondo un modello uniforme: è così che nasce la disputa universitaria, che non di-
❯ p. 270 pende più dal testo e ha modi e ruoli istituzionali specifici.

La disputatio
All’interno dell’università la disputa – disputatio – diventa una specifica attività didattica,
accuratamente regolamentata negli statuti; la quaestio disputata è un evento pubblico della
facoltà durante il quale sono interrotte le altre attività in modo che vi possano partecipare
tutti gli studenti e i maestri. La forma diventa standardizzata: si pone il problema, si enucleano

lessico autorità nella cultura medievale, le autorità segue una forma standardizzata: il maestro pone il
(auctoritates) sono testi o autori riconosciuti come problema e, sulla base degli argomenti pro e contro
rilevanti, autorevoli, che quindi vengono citati a individuati dal baccelliere, sviluppa la soluzione sia
supporto degli argomenti di una discussione. con opportune argomentazioni sia facendo ricorso a
testi la cui autorità è riconosciuta da tutti, infine ri-
disputatio (letteralmente, “disputa”, “discussione”) sponde agli argomenti contrari e alle obiezioni.
dibattito che si svolge a partire dalla quaestio e che
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 301

gli argomenti contrari e di seguito quelli a favore, si offre la soluzione, e infine si risponde a
ognuna delle tesi contrarie. L’organizzazione della disputa spetta al maestro (magister), che
deve fornire la soluzione dottrinale, ma è prevista anche la partecipazione attiva degli stu-
denti; in particolare, il baccelliere (una sorta di assistente, che non ha ancora ottenuto i
gradi accademici per insegnare) ha il compito di proporre le autorità contro e a favore. È la
pratica universitaria a cui si riferisce anche Dante nella Divina Commedia, quando, interro-
gato da san Pietro sulla fede, si paragona al baccelliere, che aveva la funzione di proporre gli
argomenti, ma non di risolvere (o determinare) la questione: Sì come il baccellier s’arma e non
parla / fin che ‘l maestro la question propone, / per approvarla, non per terminarla /così m’armava
io d’ogni ragione (Paradiso, XXIV, 46-48). L’interesse per questo procedimento è tale che i
maestri vengono apprezzati in base alla capacità di trovare la soluzione a questioni comples-
se; inoltre la disputa è una delle prove che gli studenti devono sostenere nell’esame finale.

ESPERIMENTO filosofico Una disputa sulla guerra giusta


• Sotto la guida dell’insegnante scegliete due gruppi vio della “determinazione” o discussione vera e pro-
(da 5 a 8 persone), con l’obiettivo di rappresentare pria a un’ora successiva). La squadra proponente
una disputa medievale e di usare in modo appropria- sceglie un portavoce che esprima la soluzione
to autorità e ragionamenti. Il tema è: “esiste una della squadra (“Una guerra si può definire giusta
guerra giusta?”. Assegnate per sorteggio quale delle nel caso in cui…, perché…”). Dopo aver argomen-
due squadre dovrà sostenere la posizione a favore e tato a favore, si devono esaminare ordinatamente le
quale quella contraria. obiezioni degli avversari (anch’esse fondate su au-
• La squadra “proponente” (cioè favorevole alla possibi- torità indiscusse) e si deve cercare di rispondere
lità che una guerra possa essere giusta) ha anzitutto il spiegando in che modo vanno comprese, salvando
compito di reperire argomenti a favore della tesi, a il valore dell’autorità, ma difendendo la propria tesi
partire da citazioni riconosciute da tutti come autore- (ad esempio, si può asserire che il senso dell’autori-
voli. La squadra avversaria (“opponente”) deve repe- tà era diverso o non riguardava i casi in questione).
rire gli argomenti contrari. • La tesi avversaria ha il diritto di replica: dopo una
Si tenga presente che in questo caso non si tratta di un pausa di consultazione di circa 10 minuti, si può
confronto tra due squadre, ma del tentativo di dimo- contestare il modo in cui sono stati depotenziati gli
strazione di una tesi: protagonisti del dibattito sono i argomenti contrari alla guerra giusta. È importante
componenti della squadra proponente, mentre la non aggiungere nuove autorità o nuovi ragiona-
squadra opponente ha il ruolo di un “pubblico mini- menti e rimanere entro i confini della discussione
stero”, o più semplicemente di “avvocato del diavolo”. tracciati dalla squadra proponente.
• Ogni squadra nomina un segretario che stili un • Al termine della disputa l’insegnante (o il gruppo di
elenco di argomenti da presentare all’altro gruppo. studenti che non sono stati coinvolti nella preparazio-
Si può scegliere di proporre la disputa con autorità ne) giudicherà se la tesi è stata adeguatamente di-
moderne e contemporanee, oppure di cercare di mostrata oppure no.
calarsi nello spirito medievale, assumendo come
autorità quelle che si potevano citare all’epoca (la
Bibbia, gli scrittori latini, i padri della Chiesa).
Qualsiasi testo si usi, è necessario che abbia un’au-
torevolezza riconosciuta anche dagli avversari e
che l’autorità non sostituisca l’argomentazione, ma
sia parte integrante di essa.
Nella prima parte della disputa, la squadra propo-
nente deve spiegare la tesi e riportare gli argomen-
ti a favore, mentre la squadra avversaria deve elen-
care gli argomenti contrari.
• Dopo la raccolta e l’enunciazione delle argomenta-
zioni, si deve prevedere una pausa (oppure il rin-
302 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Oltre alle dispute che riguardano argomenti trattati nei singoli corsi, vengono istituite
anche le quaestiones quodlibetales, dove è il pubblico, e non il docente, a proporre un “qual-
siasi” (quodlibet) tema da discutere: si tratta di una disputa particolarmente impegnativa,
che si tiene due volte all’anno, cui soltanto i maestri più preparati possono sottoporsi,
perché hanno il compito di risolvere la questione senza alcuna preparazione previa.
Il dibattito diventa la chiave dell’insegnamento, quale via per la ricerca della verità
al di là dei pareri discordi: le ragioni pro e contro si basano perlopiù su autorità ugual-
mente venerabili, per cui non si può semplicemente demolire o censurare la tesi contra-
ria, ma è necessario un intelligente lavoro di comprensione del problema. È raro perciò
che vi siano attacchi o accuse personali: solitamente la posizione avversaria non è respin-
ta, bensì ricompresa sotto una diversa angolatura, distinguendo il modo in cui intender-
FARE per CAPIRE la con verità e cercando di giustificarne il contributo alla verità stessa.
• Elabora uno Questa forma peculiare di didattica, basata su lettura, questione e dibattito, produce
schema in cui
inserisci le anche i corrispettivi testi scritti, veri e propri nuovi generi letterari: il commento, che riflet-
caratteristiche te la pratica della lectio, anche se si arricchisce di innumerevoli questioni e digressioni tema-
principali dei tre tiche; le quaestiones disputatae e le quaestiones quodlibetales, che sono la redazione da
momenti
dell’insegnamento parte del maestro delle dispute che ha condotto; e infine le summae, ossia sintesi disciplina-
universitario. ri, ordinate in modo sistematico e coerente, che si articolano anch’esse in questioni.

Autorità e ragione
Nella disputa, come abbiamo visto, l’argomentazione fa ricorso ad auctoritates, testi auto-
revoli citati per suffragare la propria posizione. Questo modo di procedere è stato spesso
considerato un cedimento della razionalità, che invece di dimostrare una tesi in maniera
autonoma fa appello ad autori ritenuti inoppugnabili, quasi nascondendosi dietro di essi.
Sembra un atteggiamento dogmatico, o almeno intellettualmente pigro; nel contesto me-
dievale però le cose sono più complesse: l’autorità non è la rinuncia al ragionamento,
ma un suo alleato, e non lo sostituisce in alcun modo.
Autorità e autore (auctoritas, auctor) hanno la stessa radice, perché derivano dal verbo
latino augeo, che significa “accresco”, “faccio aumentare”, “potenzio”; in senso traslato
questo accrescimento indica il successo, il valore, l’autorevolezza di una personalità che
arriva a diventare un modello. L’autore – sia di un’opera materiale sia di un testo – è colui
che ne risponde, fa da garante sull’autenticità, può fornirne l’interpretazione corretta.
All’interno dell’insegnamento medievale il significato del termine subisce un’evoluzione
per cui non si riferisce più all’autore, bensì al brano commentato. Inoltre, la necessità di
reperire argomenti a favore e contrari in occasione delle dispute trasforma le autorità
in citazioni concise e isolate, che acquistano la forma di “sentenze”, staccate dal resto
dell’opera, dal contesto letterario, personale e storico. La lista di argomenti supportati da
autorità fa sì che siano accostati passi di testi che distano anche parecchi secoli, come se
fossero contemporanei tra loro e per chi li cita: in una discussione sull’origine del mondo
si possono trovare menzionati la Genesi, Aristotele, Avicenna, il commento di Calcidio al
Timeo di Platone, Cicerone, spesso in ordine sparso. È un uso che stride con la nostra

lessico summa genere letterario tipico della filosofia e disposte in modo ordinato e sistematico, al fine di
della teologia medievali. L’esposizione degli ar- dare una visione completa del sapere in un de-
gomenti si articola in questioni discusse e risolte, terminato campo.
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 303

sensibilità storica, ma che può aiutare a comprendere meglio la forma della discussione
medievale, la quale affronta problemi attuali con l’aiuto delle soluzioni proposte in
passato. Ciò che colpisce di più è che non si utilizzano mai le autorità per chiudere la
discussione, ma piuttosto per aprire il dibattito, come testimonia il fatto che autori che
godono di enorme prestigio vengono citati sia negli argomenti a favore della tesi sia in
quelli contrari.
Il riferimento alle autorità nel Medioevo non è dunque un modo per sottrarsi alla di-
scussione, bensì per potenziarla, e non è un’alternativa all’argomentazione razionale,
bensì ciò che la sostanzia. I testi non sono soltanto l’occasione per il sorgere di questioni,
ma anche il luogo in cui la ragione ricerca le soluzioni, servendosi delle autorità in modo
piuttosto libero e spregiudicato.
In breve:
1. il ricorso all’autorità non esprime sempre l’ossequio alla tradizione: la fonte viene
talvolta usata per introdurre un pensiero altamente innovativo, che contrasta con il
senso comune. L’abitudine a estrapolare le citazioni dal contesto le rende estrema-
mente fluide, sottoposte a infinite interpretazioni. Non è raro che il senso origina-
rio sia molto differente dal significato che viene a esse conferito, a denotare una
notevole libertà interpretativa;
2. nella considerazione astorica delle fonti, trattate come contemporanee al punto di
vista di chi vi ricorre, emerge certamente una mancanza di senso storico, ma soprat-
tutto la percezione che i problemi discussi conservano una perenne attualità;
3. nelle università si discute e si fanno discutere autorità che non si sarebbero mai
potute incontrare realmente, perché il sapere è concepito non come un’acquisizio-
ne individuale, ma come un patrimonio universale e intersoggettivo. Nessun
autore medievale considera l’originalità individuale come valore, né vuole proporre
una tesi unica, creativa, innovativa, senza un consenso più ampio: non esiste veri-
tà se questa è valida e riconoscibile soltanto da una persona.

3 La riscoperta di Aristotele RICORDA CHE...


Le traduzioni latine dell ’ opera aristotelica Nel XII secolo Castiglia,
Aragona, Navarra e
Nelle facoltà di filosofia l’autorità per eccellenza è rappresentata da Aristotele, i cui testi Portogallo erano regni
a poco a poco diventano una lettura obbligata: ciò è possibile perché a partire dalla se- cristiani, mentre
l’Andalusia era sotto
conda metà del XII secolo si assiste a un sistematico lavoro di traduzione in latino delle il dominio arabo.
opere aristoteliche, accompagnate dai commenti arabi che ne guidano l’interpretazione. L’instabilità politica
È un fenomeno che viene favorito dalla progressiva riconquista cristiana della penisola interna al mondo arabo
favorisce tuttavia un
iberica e dalle occasioni di confronto con la cultura araba. Alla base della rinascita movimento verso sud
dell’Occidente latino, come abbiamo già accennato, vi è dunque la riscoperta di testi di reconquista dei
antichi e una inedita disponibilità di libri su cui studiare e aprirsi a nuove prospettive. La territori occupati,
ad opera dei sovrani
portata rivoluzionaria di questo evento è difficile da comprendere oggi, in un contesto in spagnoli cristiani.
cui le informazioni si trasmettono con straordinaria velocità e sono immediatamente ❯ p. 261
304 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

reperibili su supporti non soltanto cartacei; al contrario, quella medievale è una cultura
del testo scritto, raro e prezioso, dove il libro non è strumento di apprendimento passivo,
ma occasione di pensiero.
Il nome di Aristotele, prima associato soltanto ad alcune opere di logica, viene ora a
incarnare un sistema filosofico organico e coerente, che affascina e insieme preoccupa
per la difficoltà di integrarlo nella visione cristiana. L’incontro del mondo latino con la
filosofia di Aristotele non corrisponde però all’immagine che ne abbiamo attualmente: è
un Aristotele tradotto dall’arabo e filtrato dai commenti arabi, soprattutto di Averroè,
che grazie alla sistematicità e alla chiarezza dell’esposizione si guadagna il titolo di com-
mentatore per antonomasia, anche per la struttura dei suoi commenti, in cui il testo ari-
stotelico non è parafrasato come in Avicenna, ma riportato integralmente in piccoli brani
all’inizio di ogni capitolo (❯ p. 276). Soltanto in seguito si cercherà di ri-tradurre Aristo-
tele partendo dal testo greco, ma sarà comunque un lavoro lento.

Il confronto con la cultura cristiana


I problemi che la scoperta dei testi aristotelici pongono non sono soltanto di natura lin-
guistica. L’incontro con Aristotele è una sfida impegnativa, perché, se da un lato la sua
filosofia affascina per la coerenza interna e la capacità di spiegare la realtà, dall’altro
esprime una visione del mondo estranea alla concezione teologica tradizionale, e in alcu-
ni punti anche in contraddizione con essa. I principali motivi di divergenza (o di vero e
proprio contrasto) riguardano: 1. il metodo e l’organizzazione del sapere; 2. l’immagine
della natura; 3. l’idea di Dio; 4. la descrizione del fine dell’esistenza umana. Analizziamo
in dettaglio questi aspetti, che appaiono i più difficilmente conciliabili con la visione cri-
stiana tradizionale.

❯ Un capolettera
miniato con un
filosofo che
contempla le stelle,
pagina tratta da
un’edizione
medievale della
Fisica di Aristotele,
XIII secolo, Londra,
British Library.
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 305

1. Nella sua divisione e classificazione delle scienze, Aristotele non utilizza un mo-
dello gerarchico, che porti a preferire alcune discipline rispetto ad altre ritenute
inferiori o meramente propedeutiche: ogni scienza studia un particolare settore
della realtà, in base a un’impostazione e un metodo specifici, a seconda dell’ogget-
to e del fine. Il mondo cristiano tende invece a finalizzare a Dio tutta la realtà e il
sapere, pertanto la teologia diventa la scienza perfetta, soprattutto se intesa come
una conoscenza in cui Dio, prima che il contenuto, è il soggetto che la trasmette
agli uomini per rivelazione. Da qui la tendenza a squalificare le altre discipline,
considerate inferiori, inutili o addirittura di ostacolo per la salvezza. È un deprez-
zamento della ragione umana che ha radici antiche, come il disprezzo per la filo- RICORDA CHE...
sofia in san Paolo e nell’ultima fase del pensiero di Agostino. Negli scritti della
2. Nella concezione aristotelica, la natura si fonda su principi propri, che la ragione maturità, Agostino
modifica il suo
riconosce grazie a un’indagine basata su osservazione ed esperienza, oltre che su atteggiamento nei
principi metafisici che spiegano la realtà nella sua globalità. La natura è dunque confronti della
compresa in maniera autonoma e razionale, senza ipotizzare interventi esterni, filosofia. Essa è vista
non più come supporto
come quello divino. Per Aristotele, infatti, il mondo e le specie naturali sono eterni; razionale per la
inoltre il cosmo non riveste alcuna valenza simbolica e non rinvia a Dio come suo comprensione della
creatore, elemento fondamentale nel pensiero cristiano. fede, ma addirittura
come un ostacolo,
3. Il ruolo di Dio nel sistema aristotelico è solamente quello di offrire un fondamento per la sua visione
logico per spiegare il movimento e un modello di attività intellettuale, a cui il filo- immanente e
totalmente umana
sofo aspira. Tale Dio – atto puro, immateriale e immobile, che pensa sé stesso – non dell’esistenza.
crea il mondo (che a sua volta è eterno), non interviene nei processi naturali e nel- ❯ p. 166
le vicende umane, non prova alcun interesse per ciò che è inferiore, non nutre
passioni e sentimenti come l’amore, che rivelerebbero imperfezione e mancanza.
In sintesi: non ha alcun carattere religioso, soprattutto non possiede nessuno dei
tratti che i cristiani attribuiscono al loro Dio. Dal punto di vista teologico, sarebbe
stato molto più facile “cristianizzare” il pensiero platonico, mentre quello aristote-
lico sembra respingere decisamente tale operazione.
4. Infine, nei confronti dell’essere umano Aristotele mostra uno sguardo pacato e
benevolo: ne analizza virtù e vizi, e deplora gli eccessi e le azioni che mirano a un
fine diverso da quello per cui sono state concepite. La sua visione antropologica è
complessivamente ottimistica: in quanto “animale razionale” l’uomo è in grado di
raggiungere il proprio fine e di assumere comportamenti virtuosi grazie all’eserci-
zio, che li rende una disposizione stabile della sua natura, un habitus. Nulla di più
lontano, quindi, dall’idea cristiana di peccato (una colpa di cui l’uomo risponde di
fronte a Dio) e ancor più da quella di peccato originale, il segno dell’incapacità
ontologica e morale di realizzare il bene da sé, senza l’aiuto della grazia divina.
Di fronte a queste divergenze di fondo i cristiani avevano due scelte: o respingere in toto
Aristotele come pericoloso per la fede cristiana, distruggerne i libri e vietarne la lettura,
oppure accettare il confronto ed elaborare un nuovo modello di pensiero per integrare la
ragione filosofica autonoma con la fede nella rivelazione. La prima opzione viene seguita
da alcuni, ma non riesce ad arrestare il dirompente successo dei nuovi testi filosofici; è
invece la seconda via che si rivela produttiva per lo sviluppo sia della filosofia sia della
teologia, che devono concepire nuove forme di relazione.

FARE per CAPIRE • Sintetizza a margine del testo i principali motivi di divergenza tra la filosofia ari-
stotelica e la dottrina cristiana.
306 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

4 Il rapporto tra filosofia e teologia


Che cosa sono la filosofia e la teologia nel Medioevo?
Per comprendere appieno il rapporto tra filosofia e teologia, è necessario collocarle nel
preciso contesto storico di riferimento: nel Duecento queste due discipline sono qualcosa
di diverso non soltanto dall’immagine odierna, ma anche da quella dei secoli precedenti,
perché la forma istituzionale che ricevono nell’università modifica il loro ruolo.
La filosofia non è una qualunque riflessione razionale sulla realtà, bensì un corso di
studi universitari obbligatorio. Oltre alle arti liberali, ovvero a una panoramica gene-
rale dello scibile in ambito umanistico e scientifico, gli studi di filosofia prevedono la
conoscenza di tutte le opere di Aristotele, che nei testi medievali è chiamato semplice-
mente “il Filosofo”. Esistono filosofi di professione, cioè maestri che insegnano nella fa-
coltà delle arti, ma la formazione filosofica è propedeutica per tutti, compresi medici,
giuristi e teologi.
Anche la teologia nel Duecento è una disciplina diversa da quello che probabilmente
immaginiamo oggi, perché pretende lo stesso grado di scientificità (se non maggiore)
delle altre scienze, quindi ha poco a che fare con la meditazione spirituale e l’adesione
non razionale a principi di fede. Inoltre, mentre medicina e giurisprudenza sono ambiti
settoriali, filosofia e teologia aspirano entrambe a fornire una interpretazione globale
della realtà: si confrontano e si scontrano sullo stesso terreno.

Le diverse forme del rapporto tra filosofia e teologia


In maniera estremamente semplificata si può affermare che nel XIII secolo la relazione tra
filosofia e teologia viene concepita secondo quattro modelli: la reciproca autonomia e
distinzione; la pretesa superiorità della teologia come unica via per la verità; la supe-
riorità della filosofia, che offre quasi un modello di vita alternativo, senza tenere conto
di esigenze teologiche; la sintesi nella distinzione.
• La prima posizione è sostenuta, tra gli altri, da Alberto Magno (1206 circa-1280),
un domenicano tedesco che si era applicato al commento sistematico delle opere di
Aristotele, per «renderlo comprensibile ai Latini» e superare l’ostilità che i suoi
scritti avevano suscitato. Alberto distingue nettamente i due ambiti disciplinari,
quanto al metodo, all’oggetto e al fine, così che non sembrano esserci punti di in-
contro o di contrasto. Ci sono questioni che per la filosofia sono indecidibili (come
lo stato dell’anima dopo la morte) e altre in cui la teologia non può dettare legge,
al punto che Alberto afferma che in materia di fede Agostino è un’autorità supe-
riore ai filosofi, ma «se si parla di questioni naturali credo più ad Aristotele – o a
chiunque altro sia esperto di scienza naturale». Questa reciproca autonomia di fi-
losofia e teologia diventa quasi un percorso parallelo, in cui una disciplina prescin-
de completamente dall’altra, ma non è sempre facile mantenere distinti due ambi-
ti che mirano entrambi a un’interpretazione globale della realtà e che hanno
pertanto molti temi in comune.
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 307

• Nel valutare il ruolo della filosofia, l’ordine francescano (❯ Per approfondire), il cui
esponente più eminente è Bonaventura da Bagnoregio (1217/1221 circa - 1274),
segue invece Agostino, non Aristotele. La ricerca filosofica può essere utile per
aprirsi al cristianesimo, in quanto via verso la verità, ma è la teologia, intesa come
sapienza, che la può effettivamente raggiungere. La tradizione francescana esalta
una conoscenza accessibile unicamente per fede, che pertanto non ha bisogno
della filosofia. La teologia è superiore alla filosofia: quest’ultima può apportare
un suo contributo nella comprensione parziale della natura, ma è delegittimata
nella sua pretesa di conferire senso a tutta la realtà. Invece la teologia recupera le
fonti bibliche e patristiche, e diventa un itinerario di ricerca interiore, guidato
dall’illuminazione divina, in cui la conoscenza è subordinata all’amore di Dio.

Gli ordini mendicanti


L’ideale evangelico Il diverso atteggiamento verso le dottrine
T ra il XII e il XIII secolo vennero istituiti nell’ambito
della Chiesa cattolica gli ordini religiosi dei francesca-
aristoteliche
ni e dei domenicani, definiti “ordini mendicanti” in riferi-
mento alla regola della povertà, che imponeva a tutti
D alle fila dei francescani e dei domenicani vennero
molti dei maestri attivi nelle università, protagonisti
della rinascita culturale del XIII secolo: la diversità del
coloro che vi appartenevano la rinuncia a qualsiasi bene loro orientamento speculativo si rese evidente nell’atteg-
materiale e il ricorso per il sostentamento alla pratica giamento verso le dottrine aristoteliche. I francescani
dell’elemosina o al proprio lavoro. L’origine di tali ordini – tra cui Bonaventura da Bagnoregio – furono sempre
va ricercata nella volontà della Chiesa di contrastare il cauti e diffidenti nell’accoglierle e maggiormente pro-
dilagare delle eresie, offrendo un nuovo modello di reli- pensi a rimanere fedeli ai padri della Chiesa, in particola-
giosità improntato all’ideale evangelico di una vita sem- re Agostino; i domenicani, invece – tra i quali spiccano
plice, dedita alla carità, alla penitenza e alla predicazione le figure di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino – si di-
della parola di Dio. mostrarono da subito propensi ad accogliere e utilizzare
la filosofia aristotelica, impegnandosi a conciliarla con i
La regola contenuti della rivelazione.
G li ordini mendicanti erano organizzati sulla base di una
“regola”, a cui tutti gli aderenti dovevano obbedire. In
particolare, l’ordine dei francescani, fondato da Francesco
d’Assisi (1181-1226) nel 1209, seguiva l’insieme di diretti-
ve stabilite dal fondatore stesso, il quale in uno specifico
documento approvato dalla Chiesa nel 1223 aveva indica-
to una serie di norme pratiche di condotta, tra cui appun-
to la rinuncia a ogni possesso, con l’obiettivo di riprodurre
lo stile di vita delle prime comunità cristiane. L’ordine dei
domenicani, fondato da Domenico di Guzmán (1170-
1221) nel 1216, nasceva invece con un obiettivo specifi-
camente dottrinale e culturale, proponendosi di lottare
contro le manifestazioni di fede non ortodosse e di eserci-
tare una capillare opera di educazione spirituale nonché di
diffusione dei contenuti della fede.

Un francescano e un domenicano rifiutano


le elemosine dagli usurai, miniatura,
1250 circa, Parigi, Biblioteca Nazionale.
308 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

• I filosofi, soprattutto coloro che sono ritenuti “averroisti” (come Sigieri di Brabante
e Boezio di Dacia), esaltano il sapere filosofico come fine ultimo dell’uomo: essi
RICORDA CHE... propongono uno stile di vita che mira a una conoscenza perfetta, raggiungibile in
Secondo Averroè modo autonomo rispetto alla fede e alla riflessione teologica. La filosofia si presen-
i filosofi rappresentano ta quasi come un’alternativa alla teologia, perché prospetta una sorta di beatitudi-
un gruppo elitario di
fedeli: sono infatti
ne terrena, che si acquisisce grazie all’impegno intellettuale: è un ideale che sem-
gli unici che bra destinato a una élite ristretta, superiore al volgo istruito soltanto tramite la
– attraverso religione, così come si era espresso Averroè.
ragionamenti
dimostrativi – possono • In questo panorama complesso si pone la sintesi di Tommaso d’Aquino, di cui ci
arrivare a comprendere occuperemo nel capitolo seguente, che da teologo riesce a “salvare” Aristotele: una
ciò in cui credono. sintesi difficile e delicata, ma che rappresenta un atto coraggioso e responsabile, e
I credenti, invece,
accedono alla fede garantisce uno spazio autonomo per la riflessione filosofica. E se forse si possono
attraverso racconti trovare più affascinanti e audaci le posizioni di qualche filosofo o teologo contro-
e immagini edificanti, e corrente, è però innegabile che a influenzare il corso della filosofia sia stato in
i teologi partendo da
assunti soltanto misura molto più consistente Tommaso, che opera una trasformazione di entram-
probabili. ❯ p. 278 be le discipline dall’interno, senza ricorrere a rigide condanne.

FARE per CAPIRE • Sintetizza a margine del testo i principali modelli attraverso i quali viene interpre-
tato il rapporto tra filosofia e teologia.

❯ Due canonici
intenti allo studio
delle sacre scritture,
miniatura tratta
dal Libro dei buoni
precetti morali
di Jacques Legrand,
XV secolo, Chantilly,
Museo Condé.
309

capitolo 20
SINTESI Il XIII secolo: la ripresa culturale
dell ’Occidente latino
AUDIOSINTESI

1 Il secolo delle università


Nel XIII secolo il centro della cultura filosofica si dei poteri locali, sia politici sia religiosi. Completato
colloca nel mondo latino, grazie allo sviluppo delle il percorso di studi, si ottiene la licenza di esercitare
città e alla disponibilità di testi antichi. Nel contesto ovunque il mestiere di insegnante; l’insegnamento
urbano nascono le università, strutturate in facoltà: diventa dunque una professione, con la propria au-
arti liberali, medicina, giurisprudenza e teologia. tonomia e dignità, e si struttura come un terzo po-
Che cos’è l’università e quale ruolo assume? L’uni- tere, a fianco di quello temporale e religioso. Nelle
versità è una corporazione di docenti e studenti università si sviluppa la scolastica, che letteralmen-
che difende la sua autonomia dalle interferenze te significa “filosofia delle scholae”.

2 I metodi di insegnamento
e il dibattito come ricerca della verità
Come è strutturato il metodo di insegnamento sco- nell’insegnamento, è frequente il ricorso alle autorità,
lastico? Il metodo scolastico si articola in: lectio (la usate fuori dal contesto originario, per sostenere la
lettura e il commento del testo); quaestio (l’emergere propria posizione: non si tratta della rinuncia al ra-
di problemi e dubbi relativi all’interpretazione del gionamento, ma di un modo per aprire il dibattito o
testo); disputatio (la discussione in cui il maestro per potenziare la discussione.
fornisce la soluzione). Nelle dispute, e in generale

3 La riscoperta di Aristotele
Quali problemi comporta l’assimilazione della filo- di Aristotele il mondo è eterno e non rinvia a un Dio
sofia aristotelica? A partire dalla seconda metà del creatore. In terzo luogo, è differente la concezione
XII secolo, la maggior parte delle opere di Aristotele di Dio: il Dio aristotelico non crea, non conosce il
viene conosciuta grazie alle traduzioni in latino mondo, non lo ama e non interviene nella storia. In-
dall’arabo. Non è facile integrare la dottrina aristote- fine, è diversa la visione antropologica: in Aristote-
lica nella cultura cristiana. In primo luogo, Aristotele le, l’uomo con le forze della ragione raggiunge il suo
considera tutte le scienze sullo stesso piano, mentre il fine e realizza la virtù, mentre nel cristianesimo il
mondo cristiano privilegia la teologia come scienza peccato rende l’essere umano incapace di realizzare
perfetta. In secondo luogo, nella visione cosmologica il bene senza l’aiuto di Dio.

4 Il rapporto tra filosofia e teologia


Quale ruolo rivestono nel Duecento la filosofia e la e fine; 2. superiorità della teologia, come nel fran-
teologia? Nel Duecento sia la filosofia sia la teologia cescano Bonaventura da Bagnoregio, che afferma che
sono insegnamenti universitari: entrambe si presen- la filosofia può essere utile per indicare la via della
tano come interpretazioni globali della realtà, che verità, ma è alla teologia che quest’ultima appartiene;
possono entrare in concorrenza. 3. superiorità della filosofia, come negli averroisti, i
Quali sono le posizioni in merito ai rapporti tra teo- quali ritengono che il sapere filosofico sia il fine ultimo
logia e filosofia? I rapporti tra queste due scienze si dell’uomo, in grado di portarlo a una perfetta contem-
possono schematizzare così: 1. reciproca autonomia plazione e beatitudine; 4. sintesi nella distinzione:
e distinzione, posizione di Alberto Magno, secondo sarà questa la posizione di Tommaso d’Aquino, che
cui filosofia e teologia divergono per metodo, oggetto garantisce uno spazio autonomo per la filosofia.
310 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 20
MAPPE CONCETTUALI Il XIII secolo:
la ripresa culturale
dell ’Occidente latino
L ’ ORGANIZZAZIONE
DELLE UNIVERSITÀ
L’INSEGNAMENTO UNIVERSITARIO

è strutturato in

lectio quaestio disputatio

problematizzazione dei testi, dibattito che si sviluppa a


lettura e spiegazione di scritti
che diventano occasione di partire dalla quaestio secondo
autorevoli
discussione una forma standardizzata

da cui derivano

forme letterarie come il commento,


le quaestiones disputatae, le quaestiones
quodlibetales e le summae

LA DIFFUSIONE DI ARISTOTELE
E LE SUE IMPLICAZIONI
LA DIFFUSIONE DEI TESTI IL RAPPORTO TRA FILOSOFIA
ARISTOTELICI E TEOLOGIA

è inteso in termini di
è resa possibile comporta
grazie alla

traduzione in latino difficoltà di 1. reciproca autonomia


dall’arabo degli scritti integrazione rispetto Alberto Magno
e distinzione
del filosofo alla cultura cristiana

che quanto a 2. superiorità Bonaventura da


della teologia Bagnoregio
1. la classificazione
delle scienze 3. superiorità Sigieri di Brabante
diventano una lettura 2. la concezione della filosofia e Boezio di Dacia
obbligata nelle facoltà della natura
di filosofia 3. il ruolo di Dio
4. la visione 4. sintesi nella Tommaso
dell’essere umano distinzione d’Aquino
311

capitolo 20
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Il XIII secolo:
la ripresa culturale
RIPASSO
dell ’Occidente latino
1 Il secolo delle università 3. La riscoperta di Aristotele
riconoscere le nozioni e il significato riconoscere le nozioni e il significato
delle parole delle parole
1. Filosofia “scolastica” nel significato più proprio sta 7. Come viene introdotta l’opera di Aristotele
ad indicare: (segna la risposta esatta) nelle università? (segna la risposta esatta)
a la filosofia insegnata nelle scuole dei monasteri a si studiano prevalentemente i testi originali
b una filosofia ripetitiva e priva di senso critico in greco
c la filosofia delle università b si leggono traduzioni latine del testo greco
d tutta la filosofia cristiana c si conoscono i commenti dei filosofi arabi,
senza il testo aristotelico
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) d si studiano traduzioni latine dall’arabo,
2. Che cosa sono le università e come sono con i commenti dei filosofi arabi
organizzate le varie facoltà?
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
8. Per quali ragioni il dio aristotelico sembra non
conciliabile con il cristianesimo?
2 I metodi di insegnamento e il 9. Perché l’idea di peccato è lontana dall’immagine
dell’essere umano di Aristotele?
dibattito come ricerca della verità
riconoscere le nozioni e il significato
delle parole
3. Abbina i metodi d’insegnamento alle rispettive 4. Il rapporto tra filosofia e teologia
definizioni: (attenzione: due definizioni sono in riconoscere le nozioni e il significato
eccesso) delle parole
lectio (L) quaestio (Q) disputatio (D) 10. Individua l’affermazione corretta rispetto alla
a. difficoltà derivante da possibili diverse posizione di Bonaventura: (segna la risposta esatta)
interpretazioni di un passo ............ a è il primo grande interprete della possibilità di
b. pubblicazione del commento di un testo ............ conciliare Aristotele e la teologia
c. discussione condotta considerando b si richiama ad Agostino, sostenendo la superiorità
gli argomenti pro o contro la soluzione della teologia sulla filosofia
di un problema ............ c richiamandosi ad Agostino, ritiene indispensabile
d. lettura e commento di un testo ............ il contributo della filosofia per la fede
e. genere letterario tipico della scolastica ............ d si ricollega all’interpretazione averroista di
4. Indica la forma letteraria più tipica della filosofia Aristotele
scolastica: (segna la risposta esatta) esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
a auctoritas c disputatio
11. Come intende Alberto Magno i rapporti tra
b summa d disputatio de quodlibet teologia e filosofia?
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) 12. Perché la Chiesa non può accettare la posizione
5. Qual è il ruolo delle auctoritates nella discussione? degli averroisti?

ad alta voce scrivere e rielaborare (15-20 righe)


6. Spiega in 5 minuti che cosa sono lectio, quaestio e 13. Spiega perché risulta problematico integrare
disputatio. Aristotele nel pensiero cristiano.
312 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 21 figura
Tommaso d ’Aquino:
VIDEOLEZIONE
Maurizio Ferraris
presenta Tommaso un aristotelismo cristiano

Dunque l’uomo per natura desidera, quale ultimo fine, di
conoscere la causa prima. Ma la causa prima di tutte le cose
è Dio. Quindi conoscere Dio è l’ultimo fine dell’uomo.
(Somma contro i Gentili, III, cap. XXVI)

Gli interrogativi filosofici


Perché un teologo nella storia della filosofia?
La biografia e le opere di Tommaso rivelano il profilo di un eminente teologo: pur essendo
un fine conoscitore di Aristotele, egli non si sarebbe mai definito un filosofo, né avrebbe mai
usato l’espressione “filosofia cristiana”, così spesso applicata al pensiero medievale. Ma allora
perché inserirlo in una storia della filosofia, addirittura come figura chiave del XIII secolo?

L’aspetto innovativo di Tommaso è la capacità di integrare Aristotele – la cui dottrina


rappresenta per lui il punto di riferimento privilegiato – con il pensiero cristiano in un unico
sistema del sapere e della verità, senza creare subordinazioni o strumentalizzazioni. Con
Tommaso viene quindi inaugurato un nuovo equilibrio tra fede e ragione, un “concordismo”
in cui, senza disprezzare la filosofia, l’orizzonte prevalente è quello teologico.

Come devono essere intese la teologia e la filosofia?


La posizione di Tommaso da un lato porta beneficio alla riflessione teologica, che viene a
strutturarsi come una disciplina scientifica, dall’altro apre uno spazio di autonomia anche
per la filosofia. La teologia diventa scientia, quaestio e disputatio, e non soltanto meditatio
della Scrittura: la discussione e l’argomentazione entrano nella teologia, e la concezione
aristotelica della natura si rivela un valore aggiunto per l’impianto cristiano, orientato verso
una dimensione soprannaturale. Il punto di forza della visione di Tommaso è che in essa
la riflessione filosofica risulta indipendente dalla teologia (diversamente dall’impostazione
agostiniana), ma non in contrasto con la rivelazione: non dà adito quindi a una “doppia
verità”, un duplice accesso a contenuti diversi che non entrano mai in relazione, come si
tendeva ad attribuire ad esempio ad Averroè. “Filosofia” è per Tommaso l’esercizio
autonomo della ragione, senza necessità di un intervento esterno come la rivelazione o
l’apporto della grazia; d’altronde la ragione è ciò che qualifica l’essere umano in quanto tale:
è questo uomo naturale e dotato di intelletto colui al quale è rivolto il messaggio cristiano,
non un essere angelico o soprannaturale. La teologia non può non includere la filosofia,
ma quest’ultima non può essere semplicemente una preparazione alla teologia, perché
si sminuirebbero sia la ricerca umana, sia il valore di novità della fede e la sua differenza
ontologica. È proprio da teologo che Tommaso mostra i motivi per apprezzare
la filosofia: se la ragione fosse inutile e bastasse la fede, Dio non avrebbe creato degli esseri
razionali (e non si può supporre che Dio crei qualcosa privo di senso e senza un fine).
Se d’altra parte la filosofia sfociasse nella teologia senza soluzione di continuità, si
perderebbe la differenza tra i due ambiti e tutti potrebbero arrivare a intuire la rivelazione
con le loro forze (e, in questo caso, a essere inutili sarebbero la fede e la grazia divina).

Come si può integrare Aristotele nella visione cristiana


del mondo?
Tommaso riesce a rendere il pensiero di Aristotele compatibile con la teologia cristiana
senza snaturarla, proprio negli elementi che più sembravano distanti dal cristianesimo:
• la natura e la visione della realtà: il piano naturale e quello soprannaturale (la “grazia”)
non si oppongono, ma si completano, e nella stessa struttura ontologica degli enti è
implicito un riferimento a un essere necessario da cui dipende tutto ciò che esiste;
• la visione di Dio: la riflessione aristotelica è quasi una premessa razionale per la fede,
ovvero rappresenta la massima conoscenza a cui la ragione può giungere. Anche se rimane
uno scarto, un salto, tra il dio dei filosofi e quello della fede, per Tommaso non può esserci
contraddizione;
• l’organizzazione del sapere e la definizione di scienza: quest’ultima viene applicata
anche alla teologia, conferendole così un nuovo statuto epistemologico;
• il fine ultimo dell’uomo: Tommaso lo concepisce, in sintonia con quanto descritto
nell’etica aristotelica, come naturale desiderio di felicità e di conoscenza, benché ammetta
che tale desiderio può trovare compimento soltanto per l’intervento soprannaturale.

Vi sono poi altri importanti aspetti della riflessione di Tommaso per cui egli è debitore
della teoria aristotelica: uno di questi è la teoria dell’anima e dell’intelletto, in cui il teologo
rigetta la posizione averroista dell’intelletto universale, focalizzando l’attenzione sul processo
conoscitivo dell’individuo, che si fonda sulla sensibilità pur arrivando a superarla.

Di matrice aristotelica è anche la rivalutazione del mondo concreto, il quale viene


compreso come un ambito autonomo, in cui le creature agiscono secondo leggi proprie,
pur dovendo la propria esistenza a Dio. Si tratta di una prospettiva innovativa nel contesto
del pensiero cristiano, che apre la strada a un’autonoma ricerca scientifica. Infine, la sintesi
operata tra ragione e fede, tra prospettiva naturale e soprannaturale, è alla base delle
interessanti riflessioni di Tommaso in ambito politico.
314 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

1 La vita e le opere
UNA VITA PER L’UNIVERSITÀ
Il conflitto con la famiglia
Primi di maggio del 1244: un certo Rainaldo d’Aquino è ospite in uno dei castelli impe-
riali di Federico II ad Acquapendente (ai confini tra Lazio e Toscana), quando vi giunge il
superiore dei domenicani insieme a un novizio. I due religiosi sono in viaggio per Parigi,
perché il giovane novizio possa proseguire lo studio della teologia nell’università più
prestigiosa del tempo; è così che Rainaldo apprende che suo fratello minore, Tommaso, è
entrato nei domenicani all’insaputa della famiglia e contro il suo volere. Senza esitare,
organizza un rapimento in piena regola, strappando Tommaso alla custodia di frate Gio-
vanni e rimandandolo in Campania sotto scorta. Per circa un anno la famiglia cercherà
con ogni mezzo di far desistere Tommaso dall’intenzione di entrare nell’ordine domeni-
cano, ma alla fine sarà la sua determinazione a prevalere.
L’ostilità della famiglia non nasce dalla contrarietà per la vita religiosa – in quanto
figlio cadetto, ossia non primogenito, Tommaso (nato a Roccasecca, vicino a Cassino, nel
1225) era destinato alla carriera ecclesiastica –, ma dall’infrangersi del progetto di ve-
derlo stabilmente collocato nell’ordine benedettino fino a ricoprire la carica di abate
di Montecassino, una delle abbazie più ricche e potenti del tempo. L’ordine benedettino
incarnava la tradizione conservatrice e feudale; i monasteri, che sorgevano fuori dalle
mura cittadine, erano importanti centri culturali, oltre che potenti soggetti politici nei
conflitti tra papato e impero. I monaci, dediti alla preghiera e al lavoro manuale e intel-
lettuale, facevano professione di “stabilità”, cioè evitavano se possibile di uscire dal con-
vento o di trasferirsi altrove. Se questo ideale aveva permesso di istituire delle oasi di
prosperità nell’alto Medioevo, ora rappresentava un irrigidimento rispetto alla più dina-
mica vita cittadina.
Al contrario l’ordine domenicano, di recentissima fondazione (1216) come quello
francescano (1209), faceva della predicazione itinerante la sua missione ed esprimeva
bene le esigenze del nuovo mondo urbano. Mentre le abbazie monastiche erano luoghi
isolati dalla città, spesso microcosmi alternativi, separati da mura e con un’economia
autosufficiente, i nuovi ordini religiosi avevano nella città il loro centro di attività; erano
per altro “ordini mendicanti”, cioè rinunciavano a beni e rendite stabili e vivevano di
carità, cosa invece vietata agli altri chierici. Queste considerazioni rendono comprensibi-
le la reazione della famiglia di Tommaso: è come se oggi un figlio cresciuto in un nucleo
familiare dalla mentalità convenzionale decidesse di lasciare una prestigiosa posizione
lavorativa per unirsi a un gruppo di artisti di strada.
Il giovane Tommaso deve all’ordine domenicano la possibilità di emanciparsi dai pro-
getti della famiglia e di seguire la sua vocazione intellettuale, frequentando i centri più
importanti e innovativi dell’epoca, come Napoli, Parigi e Colonia. Va detto però che il
“debito” viene ampiamente saldato, perché in Tommaso l’ordine trova uno degli inge-
gni più acuti e produttivi, che sarà proposto per secoli come modello di conoscenza
filosofica e teologica, oltre che di santità.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 315

il ritratto
TOMMASO nel dipinto di Benozzo Gozzoli
ommaso d’Aquino è una delle figure centrali della cristianità occidentale: uomo delle

T istituzioni, docente all’età di soli 27 anni nelle università più prestigiose dell’Europa
medievale, punto di riferimento nella politica ecclesiastica, autore di una poderosa
sintesi e sistematizzazione del sapere teologico, che gli è valsa il titolo di “dottore della Chiesa”.

L’aspetto dimesso In contrasto con


la fama e il ruolo acquisiti nel corso
della vita, Tommaso in prima battuta
appare a coloro che lo conoscono
come un uomo bonario, corpulento,
taciturno, non particolarmente
intelligente. Alcuni aneddoti
riferiscono come i suoi compagni di
università lo chiamassero “bue
muto”, ironizzando sul suo aspetto
fisico robusto e sulla sua attitudine
al silenzio e alla riflessione.
Addirittura si narra che un
confratello, supponendo che la
riservatezza di Tommaso fosse
dovuta a debolezza d’ingegno, si
fosse offerto di aiutarlo nel ripetere
la lezione, scoprendo con stupore
che le qualità intellettuali di quel
ragazzo erano di gran lunga
superiori alle sue. Si racconta che
l’ingegno del giovane non tardasse
a emergere: durante una disputa,
la soluzione di Tommaso avrebbe
suscitato l’ammirazione di Alberto
Magno al punto da fargli esclamare:
«questi che voi chiamate il bue muto, Benoz zo Goz zoli, Trionfo di san Tommaso d’Aquino, part., olio su tel a,
farà un giorno udire i suoi muggiti 1 470-1 47 5, Parigi, Museo del Louvre.
da un capo all’altro della terra!».
La tavola di Benozzo Gozzoli di cui sembra voler mostrare agli l’Aquinate è stato capace, e risulta
Benché non sia possibile verificare spettatori il contenuto. Il “bue muto” dunque sconfitto nella disputa
l’attendibilità degli aneddoti, gli è raffigurato come colui che è stato filosofica.
aspetti della personalità di Tommaso in grado di proferire parole di verità; A conferma della predizione di
che essi sottolineano si ritrovano parole di fronte alle quali perfino Alberto Magno, e coerentemente
nella tradizione iconografica che lo filosofi come Platone e Aristotele con il ritratto quattrocentesco,
ritrae, ad esempio nella tavola del (posti rispettivamente a destra e la voce di Tommaso sarà udita
pittore toscano Benozzo Gozzoli a sinistra di Tommaso) a distanza di secoli e considerata
(1420 circa - 1497) Il trionfo di san ammutoliscono a loro volta, in nel suo valore «perenne», quale base
Tommaso d’Aquino, dipinta tra il 1470 riverente ascolto. Ai piedi di della cultura e del pensiero cattolico:
e il 1475 per la cattedrale di Pisa. Tommaso è disteso Averroè, il in un’enciclica del 1923, papa Pio XI
Tommaso vi è rappresentato come filosofo arabo che, nonostante lo definisce un pilastro della teologia
un uomo dall’aspetto mite e il prezioso lavoro di commento cattolica e – a riscatto delle antiche
tranquillo, con il viso rotondo e la al testo aristotelico e l’acume ironie sulla sua figura silenziosa –
corporatura massiccia, ma speculativo dimostrato, non ha gli attribuisce il possesso di ciò che
l’attenzione è appuntata soprattutto saputo trovare quell’equililbrio tra san Paolo definiva «il linguaggio
sui testi sacri che tiene in grembo, ragione e fede di cui invece della sapienza».
316 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Da Parigi a Colonia
Quando Tommaso, dopo il sequestro famigliare, riesce finalmente a raggiungere Parigi
(1245), ha all’incirca vent’anni e ha già studiato per almeno cinque anni nell’Università
di Napoli, fondata da Federico II, un centro all’avanguardia per l’apertura al pensiero fi-
losofico e scientifico degli antichi greci e degli arabi.
A Parigi Tommaso diventa allievo di Alberto Magno (1206 circa - 1280), grande fi-
losofo e teologo domenicano. Nel 1248 l’ordine domenicano decide di fondare a Colonia
uno Studio generale, cioè un centro universitario, con una spiccata vocazione interna-
zionale; la direzione viene affidata ad Alberto, che porta con sé il giovane allievo. La
stima di Alberto Magno per Tommaso è tale che nel 1252 propone il suo nome per rico-
prire la cattedra dei domenicani a Parigi, anche se ciò richiede una deroga al limite mi-
nimo d’età di 29 anni per insegnare.

La carriera universitaria
A Parigi Tommaso svolge per alcuni anni il ruolo di “baccelliere sentenziario”, una specie
di assistente con il compito di commentare le Sentenze di Pietro Lombardo (1100-1160 cir-
ca). In quest’opera erano ordinate sistematicamente le principali “sentenze” dei padri della
Chiesa sui temi fondamentali della fede cristiana: per la sua praticità e per l’efficacia della
sintesi il testo era divenuto il manuale di teologia in tutte le università. Lo rimase fino al XV
secolo, quando fu gradualmente sostituito dalla Somma di teologia di Tommaso. Nel 1256
Tommaso diventa magister, cioè professore, bruciando nuovamente le tappe, perché non
ha ancora compiuto 35 anni, l’età minima solitamente richiesta per il titolo. Dal punto di
vista storico, è il periodo in cui le censure su Aristotele sono venute meno (❯ Per approfondire,
p. 298) e le opere del filosofo greco sono introdotte nel programma della facoltà di filosofia.
Tommaso ne aveva già un’ottima conoscenza, per cui interviene attivamente nel dibattito
sui rapporti tra filosofia pagana e teologia cristiana, realizzando quella sintesi che sarà
presa come modello anche nei secoli a venire.
Nel 1259 è richiamato in Italia: qui rimane per circa dieci anni, per occuparsi dell’or-
ganizzazione degli studi dell’ordine domenicano, insegnando prima nel convento di Or-
vieto, poi a Roma, dove viene incaricato di fondare un nuovo Studio. Sono anni intensi e
fervidi di attività: per un certo periodo è impegnato anche come teologo ufficiale nella
curia papale, e deve affrontare temi di politica ecclesiale, ad esempio il rapporto con il
potere temporale e con la Chiesa d’Oriente. Oltre che all’insegnamento si dedica alacre-
mente alla scrittura, componendo le sue opere teologiche fondamentali: la Somma contro
i Gentili e la Somma di teologia. Tra il 1269 e il 1272 si colloca il suo secondo magistero
parigino, una decisione eccezionale da parte dell’ordine, che preferiva un avvicenda-
mento delle cattedre per elevare la qualità culturale degli Studi locali. In questi anni la
sua attività letteraria si intensifica, raggiungendo ritmi febbrili: oltre a proseguire nella
stesura della sua opera principale, la Somma di teologia, si dedica alla lettura e al commen-
to di quasi tutti i testi di Aristotele.

La conclusione di un ’ esistenza itinerante


Nel 1272 viene incaricato di fondare uno Studio a Napoli, la città in cui aveva ricevuto
la sua prima formazione: qui Tommaso conclude la sua carriera e la sua attività letteraria,
perché il 6 dicembre del 1273 cessa improvvisamente di scrivere. I primi biografi parlano
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 317

di un’esperienza mistica o di una visione durante la celebrazione eucaristica; gli studiosi


moderni ipotizzano un crollo nervoso o addirittura un ictus. La sua salute cagionevole
non si riprenderà più; nonostante la malattia, pochi mesi dopo decide di partire per il
concilio di Lione, al quale era stato convocato come teologo, ma non riesce neppure a
raggiungere Roma: muore nell’abbazia di Fossanova, nel 1274, all’età di circa 49 anni.
La sua morte, in viaggio, riflette il senso itinerante della sua esistenza, come impone-
va l’adesione all’ordine domenicano, ma anche la professione di insegnante e studioso,
dedito alla ricerca della verità: nelle scuole medievali l’essere pellegrini è infatti la quali-
fica principale dei dotti. Del resto, se il sapere è un valore universale, ovunque riconosci-
bile e riconosciuto, allora chi vi si dedica avrà un’identità più forte di una generica appar-
tenenza nazionale, un aspetto reso possibile anche dall’uso del latino nell’insegnamento
e nella scrittura, perfino dopo il consolidamento delle lingue volgari. E poiché il sapere
non va percepito come un possesso definitivo, né l’apprendimento come un processo
concluso, la ricerca della verità si coniuga spesso con i viaggi e i trasferimenti di studenti
e professori.

FARE per CAPIRE • Elabora una tabella in cui inserire le tappe principali della vita di Tommaso e i rela-
tivi riferimenti cronologici.

Il significato storico della figura di Tommaso


La vita di Tommaso, tutta dedita all’insegnamento, alla scrittura e ad alcuni incarichi che
lo portano a interagire con il papa e con altre autorità politiche, può sembrare monocorde.
Ma se da uno sguardo puramente biografico ci eleviamo fino a considerare il contesto
storico, nella vita di Tommaso si colgono in controluce i mutamenti di un’epoca in fer-
mento e di grandi trasformazioni culturali, a cui il teologo partecipa in prima linea. L’u-
niversità medievale non è un’oasi lontana dai conflitti dove potersi concentrare nello
studio, come nell’antichità, quando lo studio era l’otium cui ci si dedicava una volta espleta-
te le varie occupazioni, ma è un’istituzione al centro delle novità, è oggetto di scontri e te-
atro di contrasti di natura non soltanto intellettuale. Inoltre, come si è visto (❯ p. 294 e ss.),
è una struttura corporativa, internazionale, i cui membri si spostano frequentemente da
una sede all’altra. E l’insegnamento non è dogmatico, bensì critico: si basa su questioni
da risolvere con la disputa, che non teme di confrontarsi neppure con la filosofia pagana
di Aristotele.
In un’epoca di accesi dibattiti e censure nemmeno il pensiero di Tommaso sfugge a
pesanti attacchi e accuse, soprattutto dopo la sua morte. Già nel 1270 e poi nel 1277 il
vescovo parigino Étienne Tempier elabora una duplice lista di proposizioni filosofiche
ritenute erronee e pericolose per la fede, tra le quali rientrano alcune affermazioni pre-
senti nelle opere di Tommaso. Anche l’ordine francescano si mobilita contro di lui e nel
1282 proibisce la lettura della Somma di teologia, mentre i domenicani ne impongono lo
studio. La santificazione di Tommaso, avvenuta nel 1323, placa le contese: a poco a
poco i suoi testi diventano oggetto di studio, oltre che essere alla base di gran parte della
manualistica universitaria nell’epoca moderna, e il suo pensiero diventa un modello da
seguire. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si afferma una corrente filoso-
fica chiamata “neotomismo” o “neoscolastica”, che si ispira direttamente a Tommaso; nel
1893 papa Leone XIII dichiara il tomismo philosophia perennis: a lui è dedicata l’imponen-
te edizione critica delle opere di Tommaso (editio Leonina), che è tuttora in corso.
318 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

LE OPERE E LA SCRITTURA
La produttività di Tommaso ha quasi dell’incredibile: in un arco di tempo relativamente
breve, circa vent’anni, riesce a scrivere una mole di testi impressionante non soltanto
per numero, ma anche per estensione. Tra commenti, summae e questioni possiamo attri-
buirgli una cinquantina di opere, molte delle quali articolate in più libri, senza conside-
rare quelle la cui autenticità è probabile ma non acclarata. Alcuni dei suoi testi sono re-
datti a mano dallo stesso Tommaso, con una grafia nervosa e poco leggibile; di solito
però si serve di segretari che scrivono sotto dettatura; negli ultimi anni la sua attività
letteraria ha un ritmo quasi febbrile, tanto da rendere necessari più segretari, cui egli
❯ QUADERNO PER detta contemporaneamente opere diverse.
LE COMPETENZE E
IL NUOVO ESAME Possiamo distinguere questa enorme produzione in alcuni grandi gruppi: le sintesi teo-
p. 19 logiche; le questioni disputate, le opere filosofiche, i commenti biblici e le altre opere minori.

Le sintesi teologiche
Tra le sintesi teologiche va ricordato anzitutto il Commento alle Sentenze, che deriva
dalla lettura delle Sentenze di Pietro Lombardo, tenuta nel primo magistero parigino. Pur
seguendo il testo di Pietro Lombardo, Tommaso conferisce all’opera una struttura nuova,
che richiama il modello neoplatonico: i primi due libri sono dedicati alla rivelazione e alla
creazione (l’exitus di tutte le cose da Dio), mentre il terzo e il quarto trattano il modo in
cui tutto ritorna al proprio principio (il reditus).
La Somma contro i Gentili (Summa contra Gentiles), redatta tra il 1258 e il 1264, ha
l’obiettivo di presentare razionalmente la fede cristiana a coloro che non credono nel Dio
cristiano, i “Gentili”, che per Tommaso non sono tanto i pagani, quanto i musulmani e gli
ebrei. Visti i destinatari, egli espone la teologia cristiana attingendo alla filosofia e basan-
dosi su argomenti razionali.
Vi è infine l’opera fondamentale, la Somma di teologia (Summa theologiae), la cui ste-
sura risponde alla richiesta degli studenti di avere una sintesi ordinata e ragionata degli
argomenti trattati nella teologia. L’opera, la cui composizione inizia negli anni 1265-1266

❯ Andrea di Bonaiuto,
La Chiesa militante
e trionfante, affresco,
1365-1367, particolare
con san Tommaso
d’Aquino davanti
agli eretici, Firenze,
Santa Maria Novella,
Cappellone degli
Spagnoli.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 319

e continua fino alla fine del 1273, contiene più di 500 questioni ed è divisa in tre parti, la
seconda delle quali è ulteriormente divisa in due. Pur essendo incompiuta – si ferma in-
fatti alla questione 90 della terza parte –, rimane il testo più conosciuto e utilizzato di
Tommaso: verrà considerato per secoli il manuale imprescindibile per ogni teologo catto-
lico e sarà a sua volta oggetto di studi e commenti. Ciò deriva dalla chiarezza e sobrietà
della scrittura e dall’ordine interno con cui sono affrontate le questioni, ma anche dal ge-
nere letterario. La “somma” non è infatti un’esposizione sommaria e riassuntiva, ma una
sintesi ragionata e sistematica dei principi e dei temi di una determinata scienza, con l’o-
biettivo di chiarire i fondamenti e l’articolazione di un ambito del sapere.

Le questioni disputate, le opere filosofiche, i commenti


e le altre opere minori
Le questioni disputate sono opere che riecheggiano i temi discussi durante l’insegna- RICORDA CHE...
mento, ma che vengono poi sottoposte a rielaborazione, per cui si configurano non come Le quaestiones
un semplice resoconto del dibattito orale, bensì come trattati monografici estremamente disputatae sono la
redazione da parte del
articolati. Tra le questioni più importanti vi sono quelle che riguardano il concetto di
magister universitario
verità, le facoltà dell’anima, il male, la virtù. delle dispute che
Tra le opere più propriamente filosofiche, ricordiamo il pregevole trattato giovanile ha condotto, ossia
dei dibattiti che
L’ente e l’essenza, un opuscolo Sull’unità dell’intelletto, uno Sull’eternità del mondo, oltre che i nella prassi didattica
numerosi commenti ad Aristotele, a Boezio e all’anonimo Liber de causis. si svolgevano in forma
standardizzata,
Sono infine da menzionare i commenti biblici (soprattutto al Nuovo Testamento) e articolandosi in lectio,
svariate lettere, sermoni e opere d’occasione, legate a precise vicende storico-politiche quaestio, disputatio.
(come quelle sul rapporto tra potere temporale e potere spirituale o sulla difesa degli ❯ p. 299
ordini mendicanti nell’università).

FARE per CAPIRE • Elenca le principali opere teologiche di Tommaso, indicandone l’argomento e/o
l’obiettivo.

Lo stile della scrittura


Come si evince dai vari titoli, le opere di Tommaso sono strettamente legate all’insegna-
mento e continueranno a essere usate per secoli come manuali universitari, a loro volta
discussi e commentati. Il motivo di questo successo non è soltanto la qualità e la ricchez-
za della riflessione teorica, ma anche la chiarezza della scrittura, unita a una particolare
sensibilità didattica. Perfino un testo decisamente imponente come la Somma di teologia
è pensato a misura degli studenti, che rimanevano disorientati dalla complessità e dal
numero delle questioni, spesso esposte senza un chiaro ordine e apparentemente senza
nesso tra loro.
In generale, Tommaso ha un talento innato per districare problemi, e lo fa distinguen-
do in modo lineare e organico le parti e stabilendo unità, connessioni, priorità gerarchi-
che. Egli si adopera anzitutto per sciogliere nodi concettuali, spiegando il lessico e le di-
verse accezioni dei termini, senza escludere nulla: non è un pensatore di rottura, ma un
architetto del sapere, che prima di rigettare un elemento cerca di comprendere la pro-
spettiva in cui possa essere utilizzato. Anche per questi motivi quella di Tommaso è una
sintesi vincente e convincente, che farà scuola e insegnerà un metodo, oltre che divenire
oggetto inesauribile di studio.
320 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

2 La metafisica: una nuova visione dell ’essere


La distinzione tra essere reale ed essere logico
Uno dei primi scritti di Tommaso è il trattato L’ente e l’essenza (De ente et essentia), redatto
a Parigi durante il primo magistero (1252-1256), su richiesta dei confratelli, dopo aver
terminato il periodo di studio a Colonia.
Per delimitare il campo d’indagine, Tommaso inizia con una chiarificazione termino-
logica, a partire dalla definizione di ente come «ciò che ha l’essere»: “essere” si può rife-
rire sia all’essere reale sia a quello logico.
Nel primo significato è qualcosa che esiste realmente nella natura delle cose, secon-
do le varie modalità individuate dalle dieci categorie aristoteliche, e si distingue pertanto
in “sostanza”, che sussiste di per sé, e “accidente”, che esiste soltanto in una sostanza. In
senso logico, invece, “essere” si usa per formulare un giudizio (“il cielo è blu”), che può
essere vero o falso, e in questa accezione il significato è molto più ampio di ciò che ha
un’esistenza reale, perché si può parlare con verità anche di cose non concretamente esi-
stenti. Per chiarire però il significato fondamentale dell’essere – e occuparsi quindi di
metafisica – in questo trattato Tommaso rinuncia ad affrontare l’essere logico e, in sinto-
nia con Aristotele, ritiene che l’essere in senso proprio si trovi nelle sostanze e soltanto
in modo derivato negli accidenti, che per esistere hanno bisogno delle sostanze.

La gerarchia dell ’ essere


Il problema di Tommaso è in primo luogo come descrivere e catalogare la realtà nei suoi
diversi aspetti e modi di esistere. Considerando la sostanza, che aristotelicamente è il signi-
ficato principale dell’essere, si può riprendere la distinzione di Aristotele tra sostanze sensi-
bili, composte da materia e forma, e sostanze soprasensibili, prive di materia e composte da
sola forma, come i motori dei cieli e il primo motore immobile. Per Aristotele questa distin-
zione era sufficiente a comprendere tutta la realtà, senza bisogno di riferirsi a un principio
trascendente; per Tommaso, invece, Dio non si trova sullo stesso piano ontologico delle altre
sostanze spirituali e ciò modifica e arricchisce l’ordine gerarchico degli esseri.
Pertanto la comprensione tomistica della realtà risulta così articolata:
• le sostanze sensibili o composte (costituite dall’unione di materia e forma), il cui livel-
lo più alto è rappresentato dall’uomo, che ha un’anima razionale; seguono poi gli ani-
mali, con anima sensibile, le piante con anima vegetativa e infine la natura inorganica;
• le sostanze soprasensibili o spirituali, cioè prive di materia, come l’anima e le
intelligenze celesti (o intelligenze angeliche). Nel linguaggio medievale si chiamano
“sostanze semplici” (per differenziarle da quelle composte di materia e forma) o
anche “sostanze separate”, in quanto prive di materia e delle caratteristiche spazio-
temporali e quantitative che appartengono alla materia;
• Dio, che non può essere inserito tra gli enti dotati di materia, ma neppure tra le
sostanze spirituali, dotate di pura forma, perché anche queste sono state create da
Dio, il quale è incomparabilmente superiore. Ecco perché la distinzione aristotelica
tra materia e forma non è sufficiente per descrivere tutto ciò che esiste ed è neces-
sario indagare il modo in cui le cose esistono, esaminando nelle diverse realtà la
relazione tra essenza ed esistenza.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 321

❯ L’articolazione della realtà in base alla distinzione materia/forma

DIO SUPERIORE ALLE SOSTANZE SENSIBILI


E SOPRASENSIBILI, CREATE DA LUI

SOSTANZE
SOPRASENSIBILI PRIVE DI MATERIA
o SEMPLICI
(l ’ anima e le intelligenze celesti)

SOSTANZE SENSIBILI o COMPOSTE COMPOSTE DA MATERIA E FORMA


(uomo, animali, vegetali,sostanze inorganiche)

La distinzione tra essenza ed essere


L’essenza è la natura di un ente, ciò che spiega che cos’è una determinata cosa e la ren-
de quello che è (ad esempio l’essenza dell’uomo è “animale razionale”); l’essenza distin-
gue un essere da un altro, perché se si è una cosa non si può essere qualcos’altro. L’essere
o atto d’essere (actus essendi), invece, è l’esistenza effettiva, ciò che accomuna tutto
ciò che esiste; è il fatto di esistere considerato nella sua massima generalità. Secondo
Tommaso, l’essere è il primum notum, cioè quello che il nostro intelletto percepisce imme-
diatamente e prima di ogni altra nozione. Immaginiamo di trovarci nel dormiveglia mat-
tutino e di non riuscire a identificare gli oggetti nella nostra stanza, ma nello stesso
tempo di avvertire un movimento vicino a noi. L’esistenza (= l’essere) di qualcosa ci sarà
immediatamente chiara, anche se non saremo in grado di individuare che cosa (= l’es-
senza) abbia provocato il movimento; ci domanderemo quindi: “che cos’è?”, e non: “esiste
quello che sento?”. Distinguiamo pertanto l’essere (il fatto che qualcosa esista, aspetto
implicito in ogni atto intellettivo) e l’essenza (la definizione di che cosa sia ciò che esiste).
Questa distinzione di essere ed essenza si applica sia alle sostanze semplici sia a quel-
le composte; non si applica invece a Dio, il cui essere è necessario e coincide con la sua
essenza. In tal modo la gerarchia degli enti risulta più complessa: interpretando e tra-
sformando Aristotele, Tommaso elabora una visione della realtà in cui la dipendenza del
mondo da Dio è giustificata anche a livello metafisico. ❯ testo 1 p. 340

FARE • Sottolinea nel testo le risposte alle seguenti domande:


per - che cos’è l’essenza?
CAPIRE - che cos’è l’esistenza?
- a quali sostanze si applica la distinzione tra essenza ed esistenza?

essenza ciò che definisce la natura specifica di essere/esistenza indica l’effettivo e concreto lessico
un ente e quindi ci permette di individuare che esistere di un ente, quindi la realizzazione di filosofico
cosa è. L’essenza viene espressa nella definizione un’essenza; a questo scopo si usa anche la locu-
e non implica l’esistenza reale della cosa definita. zione “atto d’essere”.
322 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Il superamento della metafisica aristotelica


Il vero ispiratore della riflessione ontologica di Tommaso non è Aristotele, ma Avicenna
(❯ p. 236). In particolare, due sono gli apporti originali del filosofo persiano recepiti da
Tommaso:
1. la concezione dell’essenza. L’essenza è l’oggetto della conoscenza: quest’ultima
si occupa di definire ciò che le cose sono e non la loro esistenza empirica. L’esi-
stenza non modifica la natura di una cosa e non rientra nella sua definizione (e
questo è il motivo fondamentale per cui Tommaso non accetta l’argomento di
Anselmo);
2. la distinzione tra essere necessario ed essere contingente. Per la tradizione araba
e cristiana si pone il problema di distinguere tra ciò che esiste in modo necessa-
rio e non deve ad altri ma soltanto a sé il fatto di essere (Dio), e ciò la cui esisten-
za è prodotta da un altro e potrebbe anche non esistere, quindi è contingente
(il mondo creato da Dio). Questo punto si può chiarire osservando il modo in cui
parliamo dell’essere: diciamo che ogni cosa esiste, ha l’esistenza, ma non diciamo
che è l’essere. Se una sostanza fosse l’essere stesso non potrebbe essere finita,
perché non potrebbe mai perdere l’essere e cessare di esistere. Tutto ciò a cui
applichiamo il termine “essere” è contingente, quindi deve avere un principio
diverso da sé stesso. In una prospettiva filosofica questa affermazione giustifica
la contingenza del mondo, lasciando aperto lo spazio per la teoria teologica della
creazione.
La conseguenza di tale riflessione è un duplice superamento della metafisica aristotelica:
1. la chiave fondamentale della struttura ontologica degli esseri non è più la mera
classificazione in sostanze materiali e immateriali, bensì la distinzione tra esse-
re ed essenza. Si prospetta così la possibilità di considerare l’essenza prescinden-
do dalla sua esistenza reale: si può conoscere l’essenza di una cosa (come il caval-
lo o l’ippogrifo) senza chiedersi se esista concretamente; questo implica che anche
una realtà immaginaria può avere un’essenza e una definizione. Per Aristotele, al
contrario, si poteva definire soltanto un’essenza reale, e non enti come l’ippogrifo,
per i quali si dà soltanto una chiarificazione linguistica e non un’essenza in senso
proprio;
2. per Aristotele il mondo era eterno (e così in un certo senso l’essere). Egli ammet-
teva inoltre diversi gradi di perfezione (rappresentati dalla vicinanza o meno allo
stato di quiete, o dalla presenza o meno delle facoltà superiori negli esseri viventi),
ma non una relazione di dipendenza tra sostanze, né la distinzione tra essere
contingente e necessario. Invece Tommaso pensa filosoficamente la realtà come
contingente e quindi derivata da un principio necessario: a partire da questo
ripensamento metafisico, la riflessione teologica – senza contrapporsi a quella ra-
zionale – può sviluppare la teoria della creazione e dell’intervento divino nell’es-
sere delle cose.

FARE per CAPIRE • Sottolinea con colori diversi i principali debiti di Tommaso verso il pensiero arabo
e le peculiarità della dottrina tomista, rispetto a quella aristotelica, che ne derivano.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 323

La distinzione tra atto e potenza


Il passo successivo di Tommaso è quello di chiarire la sua visione della realtà con le no-
zioni di atto e di potenza, e di riformulare la gerarchia ontologica aristotelica.
La relazione tra potenza e atto si applica anche alla distinzione tra materia e forma,
perché la forma, come sosteneva Aristotele, conferisce l’atto a una materia potenzial-
mente determinabile. Quindi, a un primo livello, l’essenza delle sostanze sensibili ha
un’intrinseca relazione di potenza e atto in quanto composta da materia e forma (così, ad
esempio, nella definizione aristotelica di uomo, “animale” è la parte materiale, mentre
“razionale” esprime la forma). Secondo Tommaso vi è però una relazione di potenza e atto
anche nel rapporto tra essenza ed esistenza perché l’essenza, per esistere, deve ricevere
un’esistenza concreta e attuale: è l’atto di essere che rende attuale un’essenza puramente
potenziale. Non è dunque più la forma a rendere attuale e concreto l’ente, come per Aristo-
tele, bensì l’atto di essere, che viene conferito alle creature da un principio esterno (Dio).

Il principio di individuazione
L a conoscenza mira a fornire una definizione dell’es-
senza delle cose. Ma è possibile conoscere ciò che
è individuale in quanto tale? E che cosa rende un in-
“indico”), è il “questo qui” (tóde ti) della metafisica
aristotelica. La materia determinata da caratteristiche
quantitative è dunque il principio di individuazione:
dividuo unico e diverso da ogni altro esemplare della ciò spiega anche perché l’individuale (dotato di pro-
sua specie? Il primo aspetto riguarda la modalità della prietà uniche e irripetibili) non sia oggetto di alcuna
conoscenza, il secondo è invece una questione di tipo scienza, che mira invece a definizioni generali.
ontologico, per cui ci si chiede quale sia il principio di
individuazione, che rende “Socrate” non soltanto un
“uomo”, ma unicamente ed esclusivamente “Socrate”.
Tommaso sostiene che la differenza individuale delle
sostanze sensibili dipende dall’elemento materiale
e non da quello formale. Non si tratta però della ma-
teria tout court, ossia di ciò che compone la sostanza
sensibile e che rientra nella sua definizione insieme
alla forma (per cui, ad esempio, nel definire la statua
si fa riferimento al marmo di cui è costituita), ma del-
la materia propria dell’individuo.

Q uello che distingue l’uomo “Socrate” dall’uomo


“Aristippo” è la cosiddetta materia signata, cioè
determinata dalle sue dimensioni spazio-temporali:
entrambi gli individui hanno un corpo, ma il corpo di Quattro re del
Socrate ha dimensioni ed estensione diverse da quello Medioevo: Enrico II
e Ricc ardo I (sopra),
di Aristippo, così che la mano di Socrate è come quella di Giovanni ed Enrico III
Aristippo, ma non è materialmente la stessa. Il termi- (sotto), miniatura,
ne signata (letteralmente “designata”, “indicata”), oltre XII secolo.
che significare la determinazione quantitativa della ma- Secondo Tommaso,
è l a materia signata
teria, ha anche una funzione ostensiva: l’individuo è ciò ciò che distingue
che si può indicare con un dito (da ostendo, “mostro”, ciascun individuo.
324 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Forma e materia servono soltanto per definire e differenziare gli enti, ma il limite e la
finitezza del mondo naturale non derivano dalla presenza della materia. La contingenza
degli enti deriva invece dal fatto che essenza ed esistenza sono distinte, e che soltanto
l’esistenza rende attuale e reale l’essenza.
Se saliamo nella scala degli esseri, troviamo le sostanze immateriali, dette anche
“sostanze semplici” in quanto costituite unicamente da una forma pura: si tratta delle
intelligenze, i motori delle sfere celesti, che spesso nella tradizione medievale sono sta-
te identificate con gli angeli. Pur essendo immortali, in quanto prive di materia, sono
anch’esse contingenti, perché “ricevono l’essere” da un principio superiore (Dio).
Nessuna delle sostanze in cui si osserva la distinzione tra essenza ed esistenza può in-
fatti darsi l’essere da sola, perché altrimenti esisterebbe in maniera necessaria ed eterna.
Soltanto Dio ha invece l’essere da sé, sussiste di per sé come essere in senso asso-
luto (ipsum esse subsistens), senza bisogno di altri; per questo in Dio l’essenza e l’esi-
stenza coincidono: non soltanto ha essere, ma è l’essere. Allo stesso modo, di Dio non
si afferma semplicemente che «è buono, sapiente, misericordioso», ma che «è bontà,
sapienza, misericordia», perché tali caratteristiche pervadono tutta la sua essenza, in
modo assoluto e necessario. Dio ha l’essere per essenza, le creature invece ricevono
l’essere da Dio per partecipazione: ciò significa che non possiedono l’essere nella sua
pienezza, ma soltanto grazie a Dio che le fa passare dalla potenza all’atto (ovvero
dall’essenza all’esistenza).

FARE • Considera il termine “angelo” e prova a fornirne una definizione filosofica (essenza);
per esprimiti quindi a favore della sua esistenza (essere) o meno, proponendo almeno un ar-
CAPIRE gomento.

❯ La gerarchia degli esseri in base alla distinzione essenza (potenza) / esistenza (atto)

DIO ESSERE NECESSARIO


in cui vi è assoluta coincidenza
di essere ed essenza; è atto puro

SOSTANZE
SOPRASENSIBILI
ESSERI CONTINGENTI
o SEMPLICI in cui vi è distinzione tra essenza
(l ’ anima e le intelligenze celesti) (potenzialmente esistente)
ed essere (esistenza in atto);
ricevono l ’essere da Dio
SOSTANZE SENSIBILI o COMPOSTE
(uomo, animali, vegetali, sostanze inorganiche)

lessico partecipazione modo in cui le creature ricevono l’essere dal creatore: non sono l’essere e non ne
filosofico hanno la pienezza, che compete soltanto a Dio, ma partecipano dell’essere, cioè hanno l’essere in
conseguenza dell’atto creatore di Dio.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 325

3 La teologia come scienza


La distinzione tra essere ed essenza è la chiave per interpretare l’unità della realtà e nel
contempo per ordinare tutto ciò che esiste in una scala gerarchica, che culmina in un
essere necessario. La riflessione su tale essere, che la tradizione cristiana identifica con
Dio, non è però compito della metafisica, ma della teologia, che in Tommaso riceve una
nuova definizione e sistemazione.

La definizione della teologia


La prima questione della Somma di teologia si interroga sulla definizione e sulla necessità
della teologia (che Tommaso chiama «sacra dottrina»), distinguendola dalla semplice ri-
flessione filosofica sul divino. La questione si sviluppa in dieci articoli, che mirano a
chiarire che cosa sia la teologia, se abbia o meno una struttura scientifica, quali siano i
suoi compiti, il suo linguaggio e i rapporti con le altre discipline. Per comprendere la re-
lazione tra filosofia e teologia, è utile soffermarsi soprattutto sui primi due articoli.
In primo luogo Tommaso si chiede se per la conoscenza di Dio non sia sufficiente la teologia
“filosofica”, che affronta tutto ciò che si può dire sulla divinità con gli strumenti razionali a di-
sposizione dell’uomo e che rinuncia per principio ad esplorare quanto si eleva al di sopra della
ragione. Tommaso, però, rigetta tale posizione, affermando che per la salvezza stessa dell’uomo
occorre un’esposizione teorica (una «dottrina») di ciò che supera le capacità della ragione na-
turale. Anche se l’origine dei contenuti teologici è la rivelazione e non la ragione, è tuttavia
indispensabile che l’uomo apprenda e conosca tale dottrina, altrimenti non comprenderebbe
neppure il fine per cui è stato creato. Così, Tommaso rifiuta di circoscrivere l’uso dell’intelli-
genza all’ambito dell’esperienza naturale, ritenendo non soltanto possibile e lecito ma addirit-
tura necessario che la ragione si occupi anche di quanto trascende il mondo sensibile.
Il modo in cui le premesse della rivelazione, assunte per fede, producono una cono-
scenza “scientifica”, e non soltanto una meditazione spirituale, è l’oggetto del secondo
articolo, in cui ci si chiede quindi se la sacra dottrina sia una scienza. L’obiezione più forte
mossa in genere alla sua scientificità è che, diversamente dalle altre forme di conoscenza,
non si fonda su principi noti di per sé, ma su verità che devono essere accettate per fede.
Tommaso non vuole fare della teologia un caso unico ed eccezionale: egli cerca piuttosto
di elaborare una teoria generale della conoscenza scientifica, in cui anche la sacra dottrina
trova posto, perché ha una struttura epistemologica analoga alle altre forme di sapere.
Ogni scienza si sviluppa infatti a partire da alcune evidenze iniziali, che non devono
essere dimostrate, o perché evidenti di per sé o perché derivano da altre scienze: ad esem-
pio, la matematica poggia su princìpi evidenti, mentre l’ottica assume alcuni princìpi dalla
geometria, senza bisogno di dimostrarli, perché la dimostrazione è già avvenuta in geo-
metria. La teologia rientra in questo secondo tipo di scienze (dette “subalterne”) perché si
costruisce a partire da premesse che non sono evidenti di per sé ma derivano da una
scienza superiore. In particolare, la teologia dipende dalla “scienza di Dio”, cioè dalla
conoscenza che Dio ha di sé stesso e che comunica parzialmente all’uomo per rivelazione.
È una soluzione che può sembrare artificiosa, ma ha il pregio di armonizzare scienza e
fede: da un lato la teologia deve avere una struttura scientifica e si deve attrezzare con pro-
cedimenti argomentativi; dall’altro poggia su premesse assunte per fede e pertanto non di-
mostrabili, ma questa è una situazione che vale per tutte quelle scienze i cui principi non
possono essere oggetto di dimostrazione. ❯ testo 2 p. 342
326 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

La critica all’argomento di Anselmo


La seconda questione della Somma di teologia si occupa di un altro problema capitale per
la riflessione teologica, ovvero se si possa dimostrare l’esistenza di Dio. Per Tommaso,
che Dio esista non è una premessa evidente, né la sua esistenza può essere ricavata a
RICORDA CHE... partire dalla formulazione di Anselmo secondo cui Dio è “ciò di cui non si può pensa-
L’argomento re nulla di maggiore”. Nel contestare il procedimento anselmiano, Tommaso osserva che
“ontologico” di tale definizione non implica con evidenza l’esistenza di Dio: evidente è qualcosa che non
Anselmo muove dalla
si può negare senza cadere in contraddizione, ma l’ateo lo fa, e non può essere tacciato di
definizione di Dio come
“ciò di cui non si può incoerenza. In senso proprio, in Dio l’esistenza coincide con la sua essenza, quindi egli in
pensare nulla di sé è evidente, ma non lo è per noi; ci sono infatti affermazioni evidenti in sé – come quel-
maggiore”, affermando la per cui l’uomo è un “animale” – che non sono tali per chi ad esempio ignora il signifi-
che colui che ne nega
l’esistenza entra in cato del termine “animale”. Se conoscessimo l’essenza divina, potremmo intuire imme-
contraddizione: ciò che diatamente la sua esistenza; la definizione di Anselmo non descrive però la natura di
non ha esistenza è Dio, ma soltanto il modo in cui egli viene pensato. Secondo Tommaso l’argomento di
infatti inferiore a ciò
che la possiede, e Anselmo sembra dimostrare unicamente che “se Dio (inteso come “ciò di cui non si può
quindi, negando che pensare nulla di maggiore”) esiste, allora la sua esistenza è necessaria”.
Dio esista, si ammette
che esista qualcosa che Se dunque non si può conoscere l’essenza di Dio, è ancora possibile dimostrarne in
è “maggiore” rispetto qualche modo l’esistenza? La posizione di Tommaso rifiuta i due estremi rappresentati
a lui. ❯ p. 246 dall’evidenza dell’argomento a priori di Anselmo e dal fideismo di chi afferma che l’esi-
stenza di Dio è soltanto un atto di fede. La possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio
passa invece attraverso la mediazione dell’esperienza, cioè può essere unicamente una
dimostrazione a posteriori, che dagli effetti risale alla causa. Ci è preclusa la conoscenza
dell’essenza infinita di Dio, ma possiamo conoscere gli effetti finiti della sua azione nel
mondo: per quanto rimanga una sproporzione tra l’essere di Dio e la nostra comprensione,
questo tipo di ragionamento rappresenta il massimo a cui la mente umana può aspirare.
Tommaso individua cinque argomenti a posteriori, che chiama «vie», ossia percorsi che il
pensiero può seguire per acquisire il convincimento razionale dell’esistenza di Dio.

FARE • Indica per ognuno dei ragionamenti seguenti se è a priori o a posteriori: questo albero è un
per vegetale perché tutti gli alberi sono vegetali - dove c’è fumo c’è fuoco - dato che la terra è
CAPIRE bagnata ha piovuto - il delfino è un mammifero come lo sono tutti i cetacei.

Le cinque vie
La prima via si fonda sul principio per cui «tutto ciò che si muove è mosso da un altro»
(quidquid movetur ab alio movetur) ed è una rielaborazione di quella aristotelica, con cui si
perviene a un primo motore immobile dell’universo. È la via più semplice, perché si appog-
gia maggiormente all’osservazione sensibile: risulta infatti evidente sia l’esistenza del moto
sia il fatto che ogni movimento è provocato da qualcos’altro. Per Tommaso il movimento
(come ogni altro tipo di mutamento) è inteso aristotelicamente come una trasformazione
da uno stato potenziale a uno attuale che è il punto finale del processo; in tal modo, ogni

lessico dimostrazione a posteriori tipo di dimostra- a derivare l’esistenza di Dio. Si contrappone alla
filosofico zione che dagli effetti (“da ciò che viene dopo”, dimostrazione a priori (“da ciò che viene prima”),
significato letterale di “posteriori”) risale alla che invece parte dalla definizione e dal concetto
causa. Parte dunque dall’esperienza che il sog- di Dio per dedurne l’esistenza.
getto può avere del mondo e da questa procede
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 327

movimento implica un atto esterno all’oggetto che viene mosso, perché lo stesso ente non
può essere simultaneamente in potenza e in atto rispetto allo stesso punto di vista, cioè
non può essere contemporaneamente causa del moto e oggetto mosso. Il processo non può
risalire all’infinito: ci deve essere un primo motore del movimento, che non sia mosso a sua
volta; e questo motore «tutti riconoscono essere Dio».
Un ragionamento analogo viene applicato nella seconda via, che si fonda sul concetto di
“causa efficiente”: ogni effetto deve essere provocato da una causa, perché nulla può esse-
re causa di sé stesso. Anche in questo caso non possiamo ammettere un regresso all’infinito,
perché altrimenti tutto il processo causale sarebbe inspiegabile; quindi, risalendo dagli ef-
fetti alle cause intermedie, si giunge a dimostrare che vi è una prima causa efficiente, «che
noi chiamiamo Dio».
La terza via è ripresa da Avicenna e considera il carattere contingente e possibile degli
enti. Tutto quello che noi osserviamo potrebbe anche non essere: un tempo non esisteva e
in futuro cesserà di esistere. Se tutto è contingente, si può ipotizzare un momento in cui non
c’era nulla, ma questo è assurdo, perché rende impossibile spiegare come dal nulla sia deri-
vato qualcosa. Quindi non tutto è contingente: deve esserci qualcosa che sia necessario e
non dipenda da un altro per la sua esistenza. Tale essere necessario «tutti lo chiamano Dio».
La quarta via era presente già nel Monologion di Anselmo e considera i gradi di perfe-
zione che si osservano nelle cose: possiamo dire che una cosa ha un grado di bontà, verità
o perfezione maggiore di un’altra. Ma se distinguiamo dei gradi – più o meno buono, più o
meno perfetto ecc. –, significa che abbiamo un criterio sommo e assoluto con cui valutarli.
L’essere sommamente perfetto, che è la causa dei gradi diversi delle perfezioni che si riscon-
trano negli enti finiti, «lo chiamiamo Dio».
La quinta via, infine, osserva il finalismo presente nella natura, per cui anche orga-
nismi privi di ragione agiscono per un fine, comportandosi perlopiù nello stesso modo per
raggiungere lo scopo. Poiché tali enti, pur privi di intelligenza, si comportano in maniera
ragionevole, è evidente che vi sono in loro una predisposizione e un ordine voluti da un es-
sere intelligente, allo stesso modo in cui la freccia colpisce il bersaglio, ma è la mano dell’ar-
ciere che l’ha diretta. Questo essere intelligente, principio dell’ordine teleologico della natu-
ra, «lo chiamiamo Dio».

il PENSIERO
si fa IMMAGINE L’intelligenza ordinatrice come un arciere

“ Vediamo che alcune cose mancanti di conoscenza operano per un fine. […]
Ma le cose che non hanno conoscenza non tendono al fine se non dirette
da qualcuno che possiede conoscenza e intelletto, come la freccia che è

scagliata dall’arciere. Quindi vi è un essere intelligente da cui tutte le cose
create vengono indirizzate ad un fine.
(Somma teologica, I, questione 2, articolo 3)

Nella descrizione della quinta via, Tommaso paragona il principio ordinatore


dell’universo, cioè Dio, all’arciere, che dirige la freccia verso il bersaglio.
Osservando una freccia siamo infatti portati ad attribuire la sua traiettoria a colui
che l’ha scagliata; allo stesso modo, vedendo come molte cose siano orientate
verso uno scopo, dobbiamo riconoscere un’intelligenza che le guida.
328 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Argomentazione razionale e fede


A che cosa servono gli argomenti di Tommaso e in quale rapporto stanno le dimostrazio-
ni dell’esistenza di Dio con la fede? Certamente Tommaso non ha mai dubitato dell’esi-
stenza di Dio, come non ne aveva dubitato Anselmo; per entrambi è all’interno della fede
che nasce il bisogno di comprendere ciò che si crede, dimostrando che l’oggetto della fede
soddisfa anche le esigenze della razionalità. L’ideale di Tommaso non è una fede cieca, che
crede senza comprendere, ma nemmeno una razionalità che si sostituisce alla fede.
In senso proprio, infatti, le cinque vie non provano l’esistenza di “Dio”, ma quella rispet-
tivamente di un primo motore, di una prima causa, di un essere necessario, di una somma
perfezione, di un’intelligenza ordinatrice. È soltanto dopo la dimostrazione razionale – e al di
fuori della sua coerenza logica – che Tommaso osserva «e questo noi lo chiamiamo Dio»: che
ad esempio il primo motore sia Dio, è un riconoscimento ulteriore da parte dei credenti, e non
ESERCIZI parte della prova. Peraltro, una volta dimostrata l’esistenza di un principio delle cose e aver
riferito a Dio tali caratteristiche, non sappiamo ancora nulla dell’essenza divina: non abbiamo
una conoscenza né una definizione di Dio, perché la sua essenza trascende le capacità umane
FARE per CAPIRE di comprensione. Primo motore, essere necessario, intelligenza ordinatrice sono funzioni
• Sottolinea nel relative agli effetti che da esso dipendono: spiegano ciò che è in movimento, è contingente,
testo a quale agisce ordinatamente verso un fine, ma non spiegano che cosa sia Dio. Nello stesso tempo,
esigenza risponde attribuire al Dio oggetto della fede le caratteristiche ricavate dalla ragione significa non rele-
la dimostrazione
dell’esistenza gare la fede in una dimensione irrazionale e insieme suggerire una possibile convergenza
di Dio. tra fede e ragione, nel rispetto della reciproca autonomia.

ESPERIMENTO filosofico Una lettera a un ateo: dimostrare l’esistenza di Dio


• Sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in gruppi • Il gruppo più numeroso deve invece immedesimar-
di 4-5 persone e in un gruppo di 8-10, che lavore- si nella posizione dell’ateo e discutere sull’impossi-
ranno per almeno un’ora. bilità di dimostrare l’esistenza di Dio, redigendo
• Compito dei gruppi quantitativamente meno estesi una lista di controargomenti alle potenziali prove
è di elaborare uno o più argomenti per dimostrare che saranno prodotte dagli altri gruppi.
l’esistenza di Dio: ci si può ispirare a Tommaso (o ad • Nell’ora successiva, le diverse lettere verranno let-
Anselmo), ma le prove devono contenere elementi te alla classe e il gruppo che rappresenta l’ateo do-
di originalità e di attualità. Dalla discussione deve vrà cercare di controbattere gli argomenti (con
infatti emergere un testo che abbia la forma di una diritto di replica da parte dei “rappresentanti di
lettera scritta a un ateo dei giorni nostri; l’autore di Dio”). Per ogni lettera, la lettura e la discussione
tale lettera deve essere Dio stesso. dovrebbero esaurirsi in un quarto d’ora circa.
• Infine, i “portavoce dell’ateo” saranno chiamati a
esprimersi su quale gruppo abbia rappresentato
meglio la dimostrazione dell’esistenza di Dio, valu-
tando con un punteggio da 1 a 10:
- la coerenza e il rigore logico dell’argomentazione;
- l’efficacia persuasiva;
- la capacità di replica.

L’esperimento è un libero adattamento del gioco pre-


sentato da A. Caputo in Philosophia ludens. 240 atti-
vità per giocare in classe con la storia della filosofia,
La meridiana, Molfetta 2011, pp. 89-90.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 329

4 La concezione della natura,


la visione dell ’uomo e la conoscenza
La creazione, il tempo e l ’ eternità
Nella loro struttura ontologica le creature portano iscritta la dipendenza da un principio
dell’essere diverso da loro: un essere per sé sussistente, da cui ha origine il tutto. Questo si-
gnifica che l’atto della creazione, con cui Dio conferisce l’essere alle creature, non è un mo-
mento circoscritto e limitato all’istante in cui ha inizio l’universo, ma è la condizione della
loro esistenza nel tempo. Detto in termini teologici: la creazione è l’attività continua per cui
Dio non fa soltanto esistere le cose che prima non erano, ma le conserva anche nella loro
esistenza. La creazione è dunque un rapporto costitutivo, non limitato al passaggio dal non
essere all’essere; è una relazione al creatore che non si esprime al passato (“Dio ha creato
il mondo”) bensì al presente: Dio continua a creare mantenendo le cose nell’essere.
In tal senso, il tempo non è il momento in cui ha inizio il mondo, ma viene creato insie-
me a esso: è soltanto la nostra immaginazione che ci porta a pensare a “prima” o “dopo” la
creazione, come se ci fosse una specie di “sostrato”, un’estensione temporale comune al non
essere e all’essere. Prima della creazione non c’era nulla di creato e pertanto neppure il tempo.
Con notevole acume, Tommaso afferma che anche un mondo eterno, esistente da un
tempo infinito, sarebbe comunque un mondo creato; dal punto di vista filosofico egli so-
stiene infatti che non possiamo stabilire se l’universo sia eterno o abbia avuto origine nel
tempo. Soltanto la Scrittura ci rivela che il mondo ha iniziato a esistere, e questo è dunque
un asserto da assumere per fede, che non può in alcun modo essere dimostrato:


Che il mondo non sia sempre esistito è tenuto soltanto per fede e non può essere provato
con argomenti dimostrativi […] E la ragione è che l’inizio del mondo non può essere di-
mostrato partendo dal mondo stesso.
(Somma teologica, I parte, questione 46, articolo 2, risposta)

L’ipotesi di un mondo eterno non è contraddittoria per la ragione e soprattutto non


contraddice la relazione creaturale con Dio: anche se il mondo fosse eterno continuerebbe
a dipendere da Dio per la sua esistenza, proprio perché la creazione non è il mero atto di-
vino iniziale, ma ciò che mantiene nell’essere tutte le creature.

L’ autonomia della natura


Nonostante il riferimento a Dio in quanto principio, le creature sono create dal “nulla”, e
non sono quindi manifestazioni o emanazioni dell’essenza divina, ma sono “altro” da
Dio, hanno una natura propria e godono pertanto di una relativa autonomia. La loro
esistenza è finita, ma reale. Ciò consente a Tommaso di accogliere nella sua riflessione,
almeno in parte, la nozione aristotelica di “natura” intesa come tutto ciò che è sottoposto
al movimento e che può essere esperito e descritto con leggi razionali.
La novità di questa posizione si può apprezzare maggiormente se si considera l’atteg-
giamento simbolico nei confronti della natura che dominava la teologia fino al XII secolo
e che Tommaso supera radicalmente. Si tendeva cioè a considerare la natura fisica soltanto
come immagine e simbolo per elevarsi a Dio, manifestando una forma di “platonismo
cristiano” in cui il mondo sensibile non ha valore in sé, ma soltanto in quanto rinvia al
mondo ideale o divino.
330 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Tommaso, al contrario, rivaluta l’autonomia e la concretezza della natura come am-


bito di causalità effettiva. Gli esseri creati non sono né simboli né strumenti nelle mani
di Dio, ma operano secondo leggi proprie, e sono vere cause di quanto producono, anche
se non sono cause prime bensì cause seconde. Uno strumento è infatti ciò che trasferisce
l’effetto, quasi prolungando in maniera meccanica la causa principale (ad esempio, se mi
servo di un amico per far pervenire un messaggio ad una terza persona); la causa secon-
da, invece, agisce in modo libero e autosufficiente (ad esempio, se affitto una casa, l’affit-
tuario diventa responsabile di quanto vi accade durante la sua permanenza).
L’affermazione di una causalità creaturale effettiva fa sì che la scienza non dipenda
dalla teologia: se le creature hanno una capacità reale di operare e di produrre degli ef-
FARE per CAPIRE
fetti, l’indagine sulle cause naturali riacquista dignità e valore di scienza. Dio è il fonda-
• Sottolinea nel mento dell’essere della creatura e la condizione del suo agire, ma per quanto riguarda i
testo la risposta
alla domanda fenomeni fisici non è lecito invocare l’intervento divino; così, ad esempio, una calamità
“perché l’ipotesi non è “voluta” da Dio, perché egli non interferisce con la causalità naturale. Il mondo
che il mondo sia fisico diventa perciò un mondo reale, con leggi di natura regolari e costanti, che pos-
eterno non
contraddice l’idea sono essere studiate scientificamente anche da parte di chi crede che siano state impres-
della creazione?”. se nella natura dalla sapienza di un creatore (❯ Il punto di vista dell ’arte , p. 332).

Il posto dell’ uomo nella natura


Anche nella visione antropologica Tommaso opera una sintesi fra teologia cristiana e filo-
sofia aristotelica. Dal punto di vista teologico l’uomo non esprime soltanto la sua dipen-
denza da Dio quanto alla finitezza della sua esistenza, come le altre creature, ma ha un
ruolo privilegiato nell’universo. Secondo la Genesi, infatti, la creazione dell’uomo avviene
«a immagine e somiglianza» di Dio (Genesi 1, 26); nella tradizione patristica e medievale,
questa espressione è messa in relazione con il passo del Nuovo Testamento in cui Gesù è
descritto come immagine perfetta del Dio invisibile (Lettera ai Colossesi 1, 15). L’uomo non
può ovviamente vantare un’analoga perfezione, ma è in qualche modo simile a Dio: non
immagine piena, ma «a immagine», ovvero egli partecipa in modo imperfetto della natura
divina. La somiglianza divina si riflette non nella dimensione corporea, bensì nelle facoltà
superiori dell’anima (intelletto e volontà) come descritte anche dalla riflessione filosofica.
Tommaso cerca di accordare la teoria teologica dell’uomo creato a immagine divina
con la definizione aristotelica dell’anima come «forma del corpo». Egli rifiuta una visione
dell’essere umano come sostanza intellettuale, in cui il corpo sia accidentalmente unito
all’anima, perché nella definizione dell’anima è incluso il riferimento al corpo, da cui non
si può prescindere. Senza un corpo su cui esercitare la funzione “animatrice”, l’anima
non è anima; non si può quindi intenderla come una “sostanza” dotata di un’esistenza
propria, perché il soggetto proprio è l’individuo umano nella sua unità psicofisica.
Dal punto di vista antropologico vi è dunque un recupero della dimensione corporea,
contro una tradizione più spiritualista di ascendenza platonica che era incline a svalutare il
corpo come fardello e prigione per l’anima. Per Tommaso anima e corpo non si uniscono

lessico cause seconde gli esseri della natura, in sere, da Dio come creatore e causa prima, ma
filosofico quanto agiscono come cause di effetti naturali. godono di autonomia per quanto riguarda la loro
Le cause seconde dipendono, quanto al loro es- reale capacità di agire e produrre effetti.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 331

in modo accidentale e provvisorio, ma determinano insieme l’unità e l’identità della persona.


Anche se l’anima è un principio superiore al corpo in virtù della sua spiritualità, la per-
sona nella sua integrità è superiore all’anima considerata separatamente.
Questa visione ha conseguenze importanti per la teoria della conoscenza, perché la
facoltà intellettiva è l’unica dimensione dell’anima che può operare senza il corpo.

L’ immortalità dell ’anima


Per Tommaso, come per Aristotele, l’anima umana assolve alle funzioni vegetative, sen- RICORDA CHE...
sitive e intellettive: l’intelletto non è quindi l’unica dimensione che definisce l’uomo. Tut- Per Aristotele l’anima
tavia, il ruolo dell’intelletto sembra mettere in crisi l’unità psicofisica dell’uomo. permette
il funzionamento
La facoltà intellettiva è immateriale, cioè sembra prescindere dalla dimensione cor- del corpo attraverso
porea: si possono infatti pensare cose astratte, cose non esistenti o non concretamente le sue tre facoltà
presenti. Poiché questa parte dell’anima è indipendente dal corpo nelle sue operazioni, fondamentali:
vegetativa, sensitiva e
sembra che lo sia anche quanto all’essere, che possa cioè perdurare dopo la morte (e dun- intellettiva. La prima
que essere immortale), senza necessità di ricongiungersi al corpo. Qui si pone la questio- presiede al nutrimento
ne di come conciliare l’immortalità dell’anima con l’unità dell’uomo. e alla riproduzione;
quella sensitiva alle
Tommaso ritiene che l’anima sia effettivamente immortale, perché la natura intellet- funzioni della
tiva non dipende dal corpo, ma è piuttosto il corpo a dipendere da essa. Tuttavia, benché sensibilità, dell’appetito
e del movimento;
l’anima possa sopravvivere alla morte del corpo, rimane l’anima di quel corpo, cioè con- la facoltà intellettiva,
serva l’individualità; questa tesi è coerente con la dottrina cristiana della resurrezione dei tipica soltanto
corpi, la quale, pur accettata unicamente per fede e non dimostrabile razionalmente, pre- degli esseri umani,
è la facoltà di pensare.
vede la ricomposizione dell’unità psicofisica, cioè il ricongiungimento dell’anima con la ❯ vol. 1A, p. 340
specifica materia corporea con la quale era connessa prima della morte. Secondo Tom-
maso, la resurrezione del corpo restituirà all’anima immortale tutta la sua integrità.

❯ A sinistra, il mondo secondo Aristotele, XII secolo; a destra, le sfere celesti,


XIV secolo; entrambe le miniature sono conservate a Parigi, Bibliothèque
Sainte-Geneviève.
La rappresentazione del mondo medievale concilia la visione aristotelica con
quella cristiana: la Terra e l’umanità al centro, circondate da otto sfere concentriche
(i cieli), a loro volta racchiuse nell’Empireo, sede di Dio, della Vergine Maria
e degli angeli (che nella seconda immagine girano le manovelle del primo cielo).
IL PUNTO DI VISTA DELL’ arte
333

LA VALORIZZAZIONE DEL MONDO


CONCRETO
descrive un episodio molto amato dalla devozione
popolare, quello in cui Francesco rivolge una
predica agli uccelli, i quali si radunano intorno a lui
IL CONTESTO: L’ARTE GOTICA come richiamati dalle sue parole.
Se dal punto di vista culturale il XIII secolo è
caratterizzato dalla nascita delle università e dallo In realtà la tavola è debitrice della tradizione
sviluppo del metodo di insegnamento scolastico, bizantina, a partire dall’ampio sfondo dorato,
in ambito artistico nel medesimo periodo si e tuttavia in essa è evidente un intento del tutto
assiste alla diffusione dello stile gotico. nuovo: la volontà di presentare la scena in modo
Quest’ultimo diventa dominante nell’architettura, verosimile e credibile. L’inclinazione dell’albero
influenzando la progettazione di imponenti e il movimento del santo, insieme agli effetti
cattedrali dalla prospettiva verticale e slanciata; chiaroscurali della pittura, restituiscono infatti
nello stesso tempo, segna anche la produzione di il senso di una spazialità e profondità reali.
sculture e pitture, complementi fondamentali La straordinarietà dell’evento, poi, è testimoniata
degli edifici religiosi, in cui si manifestano una dallo stupore del confratello di Francesco,
vitalità e una invidualità inedite. L’arte figurativa sentimento che traspare dal gesto della mano e
gotica è in questo senso caratterizzata da un dall’espressione del volto, i quali conferiscono
accentuato naturalismo, che sembra fare eco alla un tono realistico alla raffigurazione. Francesco
valorizzazione del mondo sensibile operata, stesso è dipinto non in modo convenzionale o
a livello teorico, da Tommaso. stereotipato (quale emblema della superiore
potenza divina), bensì facendo emergere i tratti
umani che lo contraddistinguono, ossia la mitezza,
l’umiltà, la dolcezza, il legame intimo con la natura,
L’OPERA: LA PREDICAZIONE DI così importante nella prospettiva francescana.
FRANCESCO AGLI UCCELLI Colpiscono anche la vividezza e varietà
Protagonista di questa fase artistica è Giotto di descrittiva nella rappresentazione degli uccelli,
Bondone (1267 circa - 1337), celebrato già in vita riprodotti con una precisione quasi didascalica: non
come grande rinnovatore della pittura italiana. I suoi si tratta di sagome di volatili, funzionali al racconto
concittadini, orgogliosi della fama da lui conseguita, agiografico, ma di individui specifici, connotati da
diffondono aneddoti sulla sua abilità, ad esempio forme, colorazioni e dettagli del tutto peculiari.
quello secondo cui, ancora apprendista, avrebbe
dipinto una mosca con un tale realismo che il suo
maestro – il pittore Cimabue – avrebbe tentato di
scacciarla via. Alla fine del Trecento, il pittore e
L’IMPORTANZA DELLA STORIA
teorico dell’arte Cennino Cennini definisce lo stile di E DELLA NATURA
Giotto come quello «che rimutò l’arte del dipingere Giotto dipinge figure vere e concrete in uno spazio
di greco in latino, e ridusse al moderno»: per lui, vero e concreto. Gli spettatori sono resi testimoni
con Giotto si passa da una pittura dominata dalla dei fatti, vengono introdotti al racconto di episodi
tradizione bizantina («greca»), caratterizzata da di cui si sottolinea innanzitutto il valore storico e
figure frontali, simboliche e ieratiche, a una umano, prima ancora del significato etico e spirituale.
concezione occidentale e moderna che recupera
Come in Tommaso il mondo sensibile acquista una
il naturalismo dell’arte romana. Questo tratto è
dignità inedita per il mondo cristiano, diventando
evidente nel dipinto a tempera realizzato per
punto di partenza della riflessione filosofica volta a
la chiesa di san Francesco a Pisa, in cui il pittore
conoscere la verità, così in Giotto la natura non
veicola unicamente un aspetto simbolico o
evocativo della dimensione ultraterrena, ma viene
Giotto di Bondone, San Francesco predica agli uccelli, olio su tavola, ad assumere un ruolo autonomo, diventando
313 x 136 cm, 1295-1300, Parigi, Museo del Louvre. oggetto di indagine in tutti i suoi aspetti.
334 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

La conoscenza intellettuale
RICORDA CHE... La funzione dell’intelletto è quella di elaborare concetti che hanno il carattere dell’uni-
Per Averroè la versalità, come già Averroè e i suoi interpreti latini avevano evidenziato. Il modo con cui
dimensione apprendiamo un contenuto, ad esempio un teorema di geometria, ha percorsi individua-
universale e
li diversi, ma il risultato è uguale per tutti, perché tutti comprendono lo stesso teorema, e
necessaria del
conoscere è garantita quindi è universale. Questo vale per ogni genere di conoscenza: si presume che il concet-
dall’intelletto agente e to generale di “gatto” sia chiaro e univoco per chiunque, pur avendo ciascuno esperienze
dall’intelletto diverse di gatti particolari; vale anche per le leggi del pensiero, come il principio di non
potenziale, che per lui
sono separati contraddizione o l’affermazione che il tutto è maggiore di una sua parte. In virtù di que-
dall’individuo sta universalità del sapere, Averroè e molti autori latini (spesso definiti “averroisti”)
particolare: essi ritenevano che l’intelletto fosse unico per l’umanità intera e che l’individuo potesse par-
rappresentano le
condizioni universali tecipare di un sapere universale venendo illuminato e “unendosi” a questo intelletto su-
del conoscere e i suoi periore. Qui si pone la questione del soggetto della conoscenza: chi è il vero portatore
contenuti ideali, che del sapere, l’individuo umano o un pensiero universale che pensa in noi? E se, come
come tali sono privi di
materia e indipendenti verrebbe subito da dire, a conoscere è l’individuo, che cosa ci garantisce che pensiamo
dalle condizioni tutti le stesse cose e nello stesso modo?
soggettive. ❯ p. 280
Per rispondere a queste domande Tommaso elabora una teoria della conoscenza
coerente con la sua visione antropologica, che possa replicare alle posizioni averroiste.
Egli segue abbastanza fedelmente la posizione aristotelica, soprattutto nell’affermare
che ogni processo conoscitivo inizia dalla percezione sensibile. Con un’espressione
che avrà fortuna nell’empirismo dell’età moderna, egli afferma che «non si trova nulla
nell’intelletto che non sia prima nei sensi» (nihil est in intellectu quod non sit prius in sensu):
l’uomo – in quanto unione di anima e corpo – può conoscere soltanto servendosi di
rappresentazioni sensibili e non può accedere a una conoscenza diretta delle sostanze
immateriali (come sono Dio e le intelligenze angeliche). Il percorso della conoscenza
umana implica una trasformazione dal particolare all’universale (dal conoscere uno
specifico individuo – come il cane Fido – al concetto che si applica a tutti i rappresen-
tanti della specie, in questo caso la nozione di “cane”) e da ciò che è concreto e mate-
riale (ed è perciò percepito con gli organi di senso) a contenuti immateriali. Questo
processo è descritto con il termine “astrazione”, con cui si indica la capacità di coglie-
re l’elemento essenziale (la forma) togliendo la materia, cioè le caratteristiche con-
crete e accidentali: ad esempio, so che cosa sono i “cani” senza associare questo con-
cetto a uno specifico animale o ad altre caratteristiche variabili (il colore, il peso, la
forma). Con questa tesi Tommaso può rispondere alla teoria averroista che ipotizzava
un unico intelletto universale: proprio perché il processo della conoscenza inizia sem-
pre dall’esperienza sensibile, pur superandola, si può affermare che è l’individuo a co-
noscere, e non un pensiero universale; è quest’uomo a comprendere (hic homo intelligit).
Il pensiero non è quindi separato dall’uomo, né è un intelletto universale e anonimo:
FARE per CAPIRE ha il nome di ogni individuo a cui appartiene per essenza. La capacità di avere concet-
• Sottolinea ti universali non implica che l’individuo sia puramente connesso a un unico intelletto,
nel testo con senza un’attiva partecipazione alla conoscenza, ma è fondata sul processo astrattivo, in
colori diversi qual
è il soggetto cui è la forma – e non la conoscenza – a essere universale. In altre parole, per gli aver-
del conoscere roisti il valore oggettivo del sapere doveva fondarsi sull’universalità dell’intelletto, per
per Tommaso e Tommaso invece la possibilità di una conoscenza universale è iscritta nel processo co-
dove risiede
l’universalità noscitivo proprio del soggetto individuale, in cui l’intelletto è facoltà dell’anima e non
della conoscenza. una sostanza separata.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 335

5 L’etica e la politica
Il desiderio naturale dell ’ uomo
«Tutti gli uomini per natura desiderano conoscere», così affermava Aristotele all’inizio
della Metafisica (I, 1, 980a 21). Il desiderio è ciò che a livello pratico guida l’uomo verso la
perfezione, ma per Tommaso non è circoscritto all’ambito umano. Tutto il creato è infatti
caratterizzato da un orientamento naturale verso la propria conservazione e realizzazio-
ne: già a livello biologico si osserva un appetitus, che non è soltanto l’istinto naturale,
ma anche ciò che spinge a perseguire quello che è bene per ogni essere. Mentre negli
esseri non dotati di ragione questo desiderio si esprime nella spontanea attitudine a ri-
cercare ciò che mantiene e favorisce la propria perfezione naturale, nell’uomo il “bene” è
individuato ed esplicitato dalla ragione, che consente alla volontà di scegliere i compor-
tamenti adeguati per raggiungere il fine. Vi è in Tommaso un primato dell’intelletto
sulla volontà, nel senso che l’essere umano può scegliere liberamente soltanto dopo che
la ragione ha indagato ciò che è bene e ciò che è male: senza conoscenza, la scelta non è tema
libera, ma istintuale ed emotiva; si può volere e scegliere unicamente sulla base di una SIAMO LIBERI
O CI ILLUDIAMO
considerazione razionale, secondo l’adagio scolastico «non si può volere qualcosa, se DI ESSERLO?
non è stato prima conosciuto» (nihil volitum, nisi praecognitum). p. 384
L’inclinazione al bene (il desiderio, appunto) si compie dunque tramite la conoscenza in-
tellettuale. Ma che cosa vuole l’uomo? Che cosa desidera veramente? Oltre ai beni particolari,
che portano a un soddisfacimento momentaneo, egli ricerca soprattutto la felicità perfetta,
una beatitudine infinita che nessun ideale e obiettivo terreno sono in grado di realizzare. Il
desiderio di conoscere, così come definito da Aristotele, è senz’altro un momento qualifican-
te la natura umana, ma secondo Tommaso non è sufficiente per la piena felicità. ❯ testo 3 p. 343

FARE per CAPIRE • Individua nel testo e sintetizza a margine la funzione della ragione e quella della
volontà.

Natura e grazia
Il vero desiderio dell’uomo è quello di «vedere Dio» (desiderium naturale videndi Deum): è
un desiderio naturale, che chiede un compimento che trascende le capacità umane. Qui
si inserisce la peculiare dottrina della “grazia” – nel senso di intervento soprannaturale –
affrontata nel suo rapporto con la natura.
L’assioma che Tommaso ripete frequentemente nelle proprie opere è che «la grazia non
toglie né distrugge la natura, ma la eleva e la perfeziona», intendendo con queste parole
una complementarità fra i due piani e ribadendo che nella natura stessa vi è un deside-
rio che la supera. Da un lato, la contemplazione di Dio è il fine ultimo dell’essere umano,
e implicitamente di tutta la creazione: è l’inclinazione al bene, il desiderio di perfezione,
che è consapevole soltanto nelle sostanze intellettuali, ma che è iscritto in ogni creatura.

appetitus tendenza naturale, presente in tutti re ciò che è idoneo alla propria autoconservazio- lessico
gli esseri, che spinge alla realizzazione di ciò ne; nell’uomo è subordinato alla ragione, che ha filosofico
che è bene per l’essere stesso. Negli animali si il compito di individuare il bene, su cui si eserci-
manifesta con l’istinto, che li induce a persegui- terà la libera scelta della volontà.
336 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

D’altro lato, questo desiderio non si può soddisfare con mezzi naturali, perché con le sue
forze l’uomo non può cogliere l’essenza di Dio, ma soltanto conoscerlo parzialmente con
la mediazione del mondo sensibile: per poter contemplare direttamente Dio è necessario
un intervento soprannaturale. Nell’uomo vi è dunque un desiderio naturale, che però la
natura non può realizzare da sé. La grazia, tuttavia, non è un miracolo che si inserisce in
modo estrinseco, infrangendo le leggi naturali, ma agisce perfezionando e nobilitando
la natura. In altre parole la natura, spinta dal desiderio di felicità eterna, mira a superare
sé stessa e accoglie la grazia come l’intervento più adeguato per raggiungere la propria
perfezione.

Il fondamento del potere politico


Tommaso vive al centro di mutamenti non soltanto culturali, ma anche istituzionali, a cui
partecipa attivamente per quanto riguarda le questioni interne alla politica ecclesiale, i
rapporti tra papa e prìncipi, la trasformazione del potere temporale e la sua progressiva
emancipazione da quello spirituale. La teoria politica di Tommaso si può ricostruire a
partire da alcune questioni della Somma di teologia, da parti del Commento all’Etica di
Aristotele, ma anche da un’opera dedicata alle varie forme di governo, Il governo dei prìncipi
(De regimine principum). Questo trattato è indirizzato al giovanissimo re di Cipro, come
occasione di riflessione sulle varie forme di Stato, sulla loro origine e sugli strumenti di
governo: l’inizio della composizione si può collocare intorno al 1266, ma l’opera rimane
incompiuta (e sarà completata da un discepolo di Tommaso), anche perché il sovrano
muore già nel 1267.
Qual è il fondamento del potere politico? Contrariamente a visioni teologiche pessi-
miste che vedevano nello Stato l’unico freno all’anarchia e alla violenza derivanti dal
peccato originale, Tommaso ritiene che l’uomo sia in grado di organizzare e dirigere i
propri comportamenti in vista di un fine, senza una coercizione esterna: per natura egli
dispone infatti di una facoltà razionale che lo guida nelle sue scelte. La necessità dello
Stato non nasce perciò dall’incapacità dei singoli di operare per il bene, ma dall’innata
tendenza dell’uomo a creare legami sociali, a essere un «animale politico» come l’ave-
va definito già Aristotele. Questa natura politica non è una semplice inclinazione che
porta l’essere umano verso i suoi simili, ma nasce sul piano dei bisogni ed è ciò che lo
distingue dagli animali: egli infatti non è provvisto di difese naturali per sopravvivere
(denti, corna, artigli, velocità per fuggire), ma soltanto della ragione, con cui riesce a pro-
❯ testo 4 p. 345 curarsi strumenti idonei.
Inoltre, mentre gli animali sono dotati di istinto, con cui possono discernere ciò che è
loro utile e ciò che è dannoso, l’uomo ha soltanto una conoscenza generica di quanto
serve alle sue necessità vitali. Mancando dell’istinto, egli può contare unicamente sulle
esperienze, che diventano patrimonio comune grazie alla vita sociale, e sul linguaggio,
con cui comunica significati più complessi dei versi degli animali. È sulla base di queste
esigenze biologiche e antropologiche che si costituisce lo Stato, e si rende quindi neces-
sario che vi sia qualcuno che eserciti il potere; si tratta di uno sviluppo naturale, che
reinterpreta la filosofia aristotelica, più che difendere un progetto politico teocratico.

L’ ordinamento delle leggi


Proprio perché fondato sulla natura dell’uomo, il potere politico serve a realizzare la con-
vivenza civile, e non il fine ultimo di ogni individuo, e ha quindi un’autorità circoscritta.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 337

Si possono infatti distinguere quattro tipi di legge, cui l’uomo deve sottostare:
1. la legge eterna (lex aeterna), che rappresenta l’ordine che Dio ha impresso nel
mondo; è la provvidenza che guida il creato secondo una sapienza eterna: coinvol-
ge tutti gli esseri in vista di un bene universale;
2. la legge naturale (lex naturalis), che rappresenta il modo in cui la creatura raziona-
le partecipa alla legge eterna: mentre gli altri esseri si conformano per natura
all’ordine eternamente disposto da Dio, l’uomo lo esprime con la ragione. Il princi-
pio fondamentale di questa legge è quello di ricercare il bene e di evitare il male;
3. la legge umana (lex humana o lex humanitus posita), che è il corpo di leggi e di di-
sposizioni che servono a regolare la vita civile;
4. la legge divina (lex divina), che riguarda il destino soprannaturale dell’uomo ed è
frutto di rivelazione.
Questa distinzione evidenzia che il fine ultimo dell’essere umano non è la vita politica,
bensì la beatitudine soprannaturale. Perciò, come la natura trova il suo compimento nel-
la grazia, analogamente il potere politico che deriva dalla natura umana è subordinato
all’autorità del papa, che deve indirizzare gli uomini alla felicità ultraterrena. La supe-
riorità del potere spirituale non giustifica però interferenze nell’esercizio del potere poli- FARE per CAPIRE
tico, che se non confligge con il fine soprannaturale dell’uomo è autonomo e sovrano. La • Evidenzia
responsabilità dell’organizzazione della vita associata è tutta nelle mani del principe; nel testo il
fondamento del
l’unica limitazione è data dalla consapevolezza che la realizzazione umana non si trova potere politico e
sul piano naturale della convivenza sociale, ma su quello spirituale della salvezza eterna. il suo obiettivo.

La degenerazione dello Stato


Per quanto riguarda le varie forme di governo, Tommaso segue Aristotele nel considerar-
le di per sé tutte lecite; il criterio per valutare uno Stato non è dunque la forma istituzio-
nale, ma il raggiungimento del bene comune. Tra le diverse forme, tuttavia, l’Aquinate
considera migliore la monarchia, perché più idonea a mantenere l’unità e l’ordine e
quindi a operare per il bene comune; coerentemente, è proprio la sua degenerazione, la
tirannide, a costituire la forma peggiore, perché in essa gli interessi privati prevalgono e
soffocano quelli della collettività.
A questo proposito si è molto discusso sulla liceità o meno per Tommaso di opporsi a un
regime dispotico, fino alla forma estrema del tirannicidio: Tommaso si mostra cauto ma
possibilista in situazioni che violano gravemente i diritti dei cittadini. Procedendo per gradi,
egli sostiene che non si è tenuti a obbedire a un’autorità che travalica la propria sfera impo-
nendo qualcosa di ingiusto; in questo caso però pensa a una resistenza passiva, in cui il rifiu-
to di obbedire può portare alla perdita della propria vita, come nel caso dei màrtiri. Un pote-
re tirannico, inoltre, non può essere rovesciato da un singolo, a meno che non si tratti
dell’imperatore – che ha un’autorità legittima superiore a quella del principe –, ma esclusiva-
mente da tutto il popolo. Bisogna poi valutare se l’azione violenta con cui si intende rimuove-
re il tiranno non abbia conseguenze peggiori per il bene comune, ad esempio disordini e
violenze fuori controllo. Pur con queste limitazioni, tuttavia, Tommaso riconosce che una
insurrezione contro un regime dispotico che nuoce alla collettività è lecita e non rientra nel
peccato mortale della sedizione: sedizioso è colui che provoca divisione e discordia all’interno
della comunità, contrapponendosi alla legge, alla giustizia e alla pubblica utilità. Nel caso
della rivolta contro un tiranno è quest’ultimo a essere sedizioso, a pregiudicare il bene comu-
ne, e non chi vi si oppone. In casi estremi è pertanto legittimo rovesciare un regime tirannico. ESERCIZI
Professore, rispetto ad Agostino, che
riconosceva il valore della ragione ma non la sua
autonomia, Tommaso afferma invece che
la razionalità è in grado di scoprire verità
a tu per tu con necessarie e universali. Come giudica le posizioni
dei due filosofi a questo riguardo?

Maurizio Ferraris Agostino era un mistico e un entusiasta, Tommaso


un realista. Per quest’ultimo la ragione basta da sola
a spiegarci tutta la realtà naturale, e Dio è molto
scrupoloso nel non interferire nel creato. Il diverso
atteggiamento di Agostino e di Tommaso, oltre che
dipendere dal loro carattere e dalla loro formazione
culturale, si spiega a partire dai diversi problemi che
si pongono. Agostino è, per così dire, un cristiano di
frontiera, ha conosciuto e praticato la cultura paga-
na, e tende a stabilire una differenza netta tra la città
di Dio, retta dalla grazia, e la città dell’uomo, regola-
ta dalla natura e dalle leggi di un impero che per seco-
li è stato pagano. Tommaso vive in un mondo ormai
cristiano da secoli; nella sua epoca le università sono
istituzioni che sviluppano e diffondono il sapere,
promuovendo una conoscenza comune nell’ambito
della quale la filosofia è il fondamento di tutte le di-
scipline. Da una parte, dunque, non c’è bisogno di
invocare la fede quando così tanto ci viene offerto
dal sapere; dall’altra, in un mondo in cui la fede non

Tommaso: è più in pericolo, diviene possibile una indagine senza


pregiudizi, che non ha bisogno dell’illuminazione di-
vina, bastandole il lume naturale della ragione.

l’autonomia Ci può chiarire perché, nella considerazione del


della ragione mondo concreto, risulta fondamentale la
distinzione tra essenza ed esistenza operata da

e la rilevanza Tommaso? Si tratta di una distinzione significativa


anche per la riflessione filosofica attuale?

del mondo La ragione può fare tante cose, e in particolare cogliere


l’essenza, ciò che una cosa è. Ma c’è una cosa che asso-
lutamente non può fare, e cioè dare l’esistenza alle
sensibile cose: quella gliela può dare soltanto Dio. Accanto alla
preoccupazione teologica, che consiste nell’integrare la
filosofia di Aristotele in una prospettiva cristiana, cioè

D opo aver affrontato il capitolo su Tom-


maso, chiediamo al professor Maurizio
Ferraris di illustrarci il suo punto di vista in
creazionista, la mossa di Tommaso è carica di conse-
guenze per la filosofia successiva, indipendentemente
da questioni di fede. Con la distinzione tra essenza ed
merito ad alcune questioni fondamentali del esistenza, Tommaso è consapevole del fatto che l’esi-
stenza non è una caratteristica delle cose, insieme, po-
pensiero tomista.
niamo, al peso o al colore, ma appartiene a un ordine
totalmente diverso. Se io ordino una pizza, chiedo
(poniamo) una margherita, determinandone delle ca-
ratteristiche; ma non aggiungo proprio niente alla
descrizione dell’“essenza” della pizza dicendo «mi dia
una pizza margherita e reale», in quanto l’esistenza,
l’essere reale, non è una caratteristica che si aggiunge
alle altre nel determinare l’essenza di una cosa. Inver-
samente, posso conoscere tutto sulla birra, nei minimi
339
dettagli chimici e fisici, ma se quella birra non c’è, non quello, appunto, era il mondo di Anselmo, che non è
posso berla. Con la distinzione tra essenza ed esisten- più quello di Tommaso, che ha letto tutto Aristotele.
za, dunque, Tommaso ci ricorda che tra il conoscere e
l’essere c’è un abisso, che soltanto Dio riesce a valicare.
Tommaso riprende le tesi di Aristotele,
sottolineando l’importanza fondamentale
Ci spiega qual è la novità e la rilevanza filosofica dell’esperienza sensibile nel processo conoscitivo.
del procedimento utilizzato da Tommaso per In relazione a questo aspetto, come deve essere
dimostrare l’esistenza di Dio? valutata la visione della conoscenza tomista?
Prima di tutto il fatto che non siano dimostrazioni, ma Anche qui c’è una forte coerenza interna. Come
piuttosto argomenti più o meno persuasivi, il cui sco- dall’essenza non posso arrivare all’esistenza, così se
po primario non è tanto attestare che non si può non non ho mai mangiato un ananas non saprò mai qua-
credere in Dio, quanto che la fede in Dio è un atteg- le sapore abbia: nessuna definizione di ananas, nep-
giamento razionale, di cui si possono trarre prove dalla pure la più accurata, potrà mai farmi capire qual è il
semplice osservazione del mondo, con esperienze e gusto di quel frutto. In questo modo, la centralità
riflessioni accessibili a tutti. È cruciale che siano prove conoscitiva dell’esperienza sensibile è un correlato
a posteriori, che partono dal mondo e arrivano a Dio, necessario del carattere insostituibile e unico dell’esi-
proprio perché, in base alla distinzione tra essenza ed stenza. Poiché gli esseri umani non sono angeli, la
esistenza, risulta impraticabile la dimostrazione a pri- loro conoscenza ha sempre un inizio sensibile, ossia
ori dell’esistenza di Dio proposta da Anselmo. Con il ha a che fare con la vista, il tatto, l’udito. L’astrazione
suo argomento, infatti, Anselmo riteneva che l’esi- viene dopo, e anche nel pensiero astratto rimane
stenza fosse un carattere degli enti, e che un ente per- qualcosa dell’esperienza sensibile, perché nei nostri
fettissimo come Dio non potesse non esistere. Come ragionamenti ci serviamo di esempi, di immagini, di
si vede, l’esistenza veniva ricavata dall’essenza, con ricordi, cioè di frammenti di vita ordinaria che com-
una fiducia straordinaria nei poteri della logica. Ma paiono anche nella prova dell’esistenza di Dio.

Gino Severini, Trionfo di San Tommaso, litografia, 1949, Città del Vaticano, Collezione di arte religiosa moderna.
Al centro, l’uomo cristiano, circondato dai simboli dei quattro evangelisti, è toccato dalla luce divina, ma vive sulla
Terra minacciata dal dragone. A destra sono raffigurate le facoltà universitarie illuminate e protette da Tommaso;
a sinistra la Giustizia, la Libertà e la Pace.
340 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

TESTI del capitolo 21


Tommaso d ’Aquino igura

t1 La tripartizione delle sostanze da L’ente e l’essenza


Nel testo seguente Tommaso spiega qual è la gerarchia degli esseri, alla luce della distinzione tra
essenza ed essere. La differenza fondamentale non è più – come per Aristotele – tra esseri composti
di materia e forma e sostanze pure soprasensibili, ma tra chi ha l’essere per sé, identico alla sua
essenza (Dio), e chi lo riceve nell’atto della creazione.

[Essere ed essenza in Dio] Si trovano dunque nelle sostanze tre diversi modi di possedere
l’essenza. Vi è infatti qualcosa, come Dio, la cui essenza è il suo stesso essere, e perciò vi
sono alcuni filosofi che affermano che Dio non ha quiddità1 o essenza, poiché la sua essen-
za non è altro che il suo essere. […] Quantunque Dio sia soltanto essere, non è necessario
5 che gli manchino le altre perfezioni o nobiltà: anzi Dio possiede tutte le perfezioni che
sono in tutti i generi, tanto da essere chiamato perfetto in senso assoluto, come dicono il
Filosofo e il Commentatore2 nel V libro della Metafisica3, ma le possiede in modo più eccel-
lente rispetto a tutte le altre cose, perché in Lui formano un’unità, mentre nelle altre cose
rimangono distinte tra loro. E ciò perché tutte quelle perfezioni convengono a Dio secondo
10 il suo essere semplice. […]
[Essere ed essenza nelle sostanze spirituali create] In un secondo modo l’essenza si trova
nelle sostanze create individuali, in cui l’essere è altro dalla loro essenza, per quanto l’es-
senza stessa sia priva di materia. Il loro essere non è perciò assoluto, ma ricevuto, e perciò
limitato e finito secondo la capacità della natura ricevente; ma la loro natura o quiddità è
15 tuttavia assoluta, non ricevuta in alcuna materia. E perciò si dice nel libro Sulle cause che le
intelligenze sono infinite in basso e finite in alto4: sono infatti finite rispetto all’essere che
ricevono da ciò che è superiore; ma non sono finite in basso, perché le loro forme non ven-
gono limitate secondo la capacità di qualche materia in grado di riceverle. […]

1. “Quiddità” (dal latino quidditas) è un altro termine 3. Aristotele, Metafisica V, 18, 1021b 30-33, anche se nel
con cui i medievali designano l’essenza, che risponde passo non si fa riferimento a Dio, come invece in Aver-
alla domanda “quid est?” (“che cos’è?”). roè, In Metafisica, V, commento 5.
2. Il Filosofo è Aristotele; il Commentatore per antono- 4. Liber de causis, prop. 16, commento, trad. it. di C.
masia è Averroè. D’Ancona Costa, in Tommaso d’Aquino, Commento al
«Libro delle cause», Rusconi, Milano 1986, p. 325.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 341

In un terzo modo l’essenza

TESTI
[Essere ed essenza nelle sostanze composte di materia e forma]
20 si ritrova nelle sostanze composte di materia e forma, nelle quali non solo l’essere è ricevu-
to e finito, per il fatto che ricevono l’essere da altro, ma la stessa natura o quiddità è in
questo caso ricevuta nella materia segnata5. E per questo sono finite, tanto in basso quan-
to in alto, e in esse è già possibile, per la divisione della materia segnata, la moltiplicazione
degli individui all’interno di una stessa specie.
(L’ente e l’essenza, par. 5, trad. it. di P. Porro, Bompiani, Milano 2002, pp. 119-127)

5. Per Tommaso la “materia signata” è la materia deter- (ad esempio per un uomo, non il corpo, ma quel determi-
minata dalla quantità, cioè dalle caratteristiche spazio- nato corpo, con caratteristiche irripetibili in un altro).
temporali; è ciò che distingue un individuo da un altro

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


Individua e sottolinea nel testo lo specifico modo di «possedere l’essenza» rispettivamente di Dio,
delle sostanze spirituali create e delle sostanze composte.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-10 Tommaso distingue la realtà degli es- perché risultano limitate nella misura in cui, ap-
seri in base al diverso modo con cui possiedono punto, dipendono dall’atto creatore di Dio (sono
l’essenza. Innanzitutto vi è il modo di Dio, l’essere limitate «in alto», cioè rispetto all’essere del crea-
superiore, in cui essere ed essenza coincidono: Dio tore). Si possono invece definire infinite in rappor-
infatti è l’essere in senso assoluto e necessario, che to alle sostanze composte («in basso»), perché a
non deve ad altri il proprio essere. Inoltre è unità, differenza di queste non sono limitate da alcuna
in cui tutti i caratteri degli enti si trovano al massi- materia.
mo grado e riuniti in una sintesi perfetta (in que-
righe 19-24 Vi sono infine le sostanze sensibili,
sto senso è «semplice», non presenta divisioni di
composte di materia e forma. Queste, essendo
parti che comporterebbero molteplicità).
create da Dio, non soltanto dipendono da altro per
righe 11-18 In secondo luogo vi è il modo di es- il loro essere, e sono dunque contingenti, ma a dif-
sere delle sostanze spirituali, come l’anima e le in- ferenza delle sostanze spirituali ricevono l’essenza
telligenze celesti, le quali sono pura forma priva di in una materia specifica, che le caratterizza e le li-
materia. Queste sostanze sono contingenti, in mita. Tale materia signata, cioè determinata, è
quanto il loro essere deriva da altro, cioè da Dio. quella che consente di distinguere i vari individui
Benché in esse l’essenza non sia unita ad alcuna all’interno di una stessa specie.
materia, non possiedono l’essere in modo assoluto,

RIFLETTI
Per Tommaso ogni essere umano è caratterizzato da una materia signata; questo significa che l’indi-
vidualità di ciascuno è garantita da particolari caratteristiche spazio-temporali che consentono all’es-
senza comune di “uomo” di assumere una conformazione unica e irripetibile. Prova a elencare gli
aspetti che connotano in modo peculiare una persona che conosci, differenziandola inequivoca-
bilmente da tutte le altre. Il tuo elenco è conforme alla dottrina tomista o risulta invece fondato
su presupposti differenti?
342 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

t2
TESTI

La scientificità della teologia dalla Somma di teologia


Nel secondo articolo della Somma di teologia Tommaso si chiede se la teologia sia una scienza, esaminando
la questione alla luce di autorità come la Bibbia e Agostino. La conclusione è che la teologia o «sacra
dottrina» è una scienza, tanto che ha una struttura analoga alle scienze “subalterne”, che procedono da
principi non evidenti di per sé ma desunti da altre scienze, in questo caso dalla rivelazione, scienza di Dio.

Articolo 2
La dottrina sacra è una scienza?
[I motivi per cui la dottrina sacra non sembra essere una scienza] Sembra di no. Infatti:
1. Ogni scienza procede da princìpi di per sé evidenti. La dottrina sacra invece procede da
5 articoli di fede, i quali non sono di per sé evidenti, tanto è vero che non tutti li accettano:
Non di tutti, infatti, è la fede, come è detto in 2 Ts1. Quindi la dottrina sacra non è una scienza.
2. La scienza non si occupa dei singolari. Ora, la dottrina sacra si occupa di particolarità,
come delle gesta di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Dunque non è una scienza.
[Perché la dottrina sacra può essere considerata una scienza] In contrario: dice Agostino:
10 «A questa scienza spetta soltanto ciò mediante cui la fede che salva viene generata, nutrita,
difesa, rafforzata». Ora, siccome ciò è esclusivo unicamente della dottrina sacra, ne deriva
che la dottrina sacra è una scienza.
Risposta: la dottrina sacra è una scienza.
[I due tipi di scienze] Bisogna però sapere che vi è un doppio genere di scienze. Alcune infat-
15 ti procedono da princìpi noti attraverso il lume naturale dell’intelletto, come l’aritmetica e la
geometria, altre invece procedono da princìpi conosciuti alla luce di una scienza superiore: per
esempio la prospettiva si basa su princìpi di geometria e la musica su princìpi di aritmetica. E
in questo modo la dottrina sacra è una scienza: in quanto poggia su princìpi conosciuti alla luce
di una scienza superiore, cioè della scienza di Dio e dei beati. Come quindi la musica crede i
20 princìpi che le fornisce il matematico, così la dottrina sacra crede i princìpi rivelati da Dio.
Soluzione delle difficoltà: 1. I princìpi di ogni scienza sono evidenti o di per sé, o alla luce di
una qualche scienza superiore. E tali sono anche i princìpi della scienza sacra, come ora ab-
biamo spiegato.
2. I fatti particolari nella dottrina sacra non hanno una parte principale, ma vi sono intro-
25 dotti o quali esempi di vita, come avviene nelle scienze morali, o anche per dichiarare l’au-
torità di quegli uomini attraverso i quali è derivata la rivelazione sulla quale si fonda la
Scrittura o dottrina sacra.
(Somma di teologia, I, articolo 2, trad. it. a cura dei Frati Domenicani,
Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014, pp. 27-28)

1. Seconda lettera ai Tessalonicesi 3, 2.

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Gli argomenti a sostegno della tesi secondo cui la teologia non è una scienza, come anche l’opposta
argomentazione di Agostino, hanno la forma del sillogismo. Sottolinea con colori diversi, nei tre
ragionamenti, le premesse e la conclusione.
2. Individua ed evidenzia nel testo il modo in cui secondo Tommaso la «dottrina sacra» è una scienza.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 343

TESTI
COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO
righe 1-8 Nell’indagare lo statuto epistemologi- quelle che muovono da princìpi evidenti di per sé
co della teologia, Tommaso si sofferma in primo (come la matematica), e quelle che partono da prin-
luogo su quegli aspetti che potrebbero avallare l’i- cìpi desunti da altre scienze (come la musica, che
potesi che tale disciplina non sia una scienza. Si presuppone principi matematici). La teologia è una
tratta innanzitutto del fatto che la teologia non si scienza di questo secondo tipo (“subalterna”), in
sviluppa a partire da premesse evidenti di per sé, quanto desume le proprie premesse dalla rivelazio-
bensì accettate per fede. La dottrina sacra ha inol- ne (che rinvia alla «scienza di Dio», cioè la cono-
tre come oggetto aspetti individuali, fatto che soli- scenza che egli ha di sé stesso). Nella “soluzione alle
tamente la scienza evita, occupandosi di nozioni difficoltà” Tommaso ribadisce tali concetti e ag-
universali. giunge che nella teologia l’attenzione per gli aspetti
particolari non risulta essenziale, bensì funzionale
righe 9-27 Contrariamente a ciò, Tommaso ritie-
alla presentazione di esempi a scopo didascalico, o
ne che la teologia sia una scienza che si occupa di
all’introduzione di autorità che supportino le argo-
difendere e di rafforzare la fede. Per argomentare la
mentazioni.
sua posizione egli distingue due generi di scienze:

RIFLETTI E DISCUTI
Elabora una tua personale definizione della teologia; quindi confrontala con quella dei tuoi compa-
gni, avviando una discussione sulla funzione che ritenete debba o possa avere oggi la teologia.

t3 La felicità intellettuale dalla Somma contro i Gentili


Il passo che segue riporta alcuni argomenti di Tommaso in cui egli dimostra che tutto il creato tende a
Dio come suo fine e realizzazione. Gli esseri umani, in particolare, raggiungono Dio intellettualmente,
per questo la loro felicità consiste proprio nella conoscenza intellettiva del creatore.

[La conoscenza di Dio come fine ultimo dell’essere umano] 1. Ma poiché tutte le creature,
comprese quelle prive d’intelletto, sono ordinate a Dio come al loro ultimo fine, e poiché
tutte lo raggiungono in quanto partecipano una certa sua somiglianza, le creature intelli-
genti lo raggiungono in una maniera speciale, ossia mediante la loro operazione, cono-
5 scendolo intellettualmente. Perciò è necessario che la conoscenza intellettiva di Dio sia il
fine delle creature intellettive. […]
2. […] La conoscenza intellettiva è l’operazione propria delle sostanze intellettive. Dunque
essa è il loro fine. Quindi l’atto più perfetto in questa forma in attività è il loro ultimo fine. […]
La conoscenza dell’intelligibile perfettissimo, che è Dio, è la più perfetta delle operazioni
10 intellettive. Quindi conoscere Dio mediante l’intellezione è il fine ultimo di qualsiasi so-
stanza intellettiva.
[…] Sembra che l’intellezione dell’intelligibile debba essere esclusa dall’intelletto umano,
data la sua debolezza: infatti rispetto all’intelligibile più alto esso è «come l’occhio del pi-
pistrello rispetto al sole»1.

1. Aristotele, Metafisica, I, 1, 2.
344 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

15 Ma è evidente che la conoscenza intellettiva di Dio è il fine di qualsiasi sostanza intelletti-


TESTI

va, anche di quella più modesta. Sopra infatti noi abbiamo dimostrato che Dio è l’ultimo
fine a cui tendono tutti gli esseri. Ora, l’intelletto umano, pur essendo l’ultimo nell’ordine
delle sostanze intellettive, è superiore a tutti gli esseri privi di intelligenza. Perciò siccome
una sostanza più nobile non può avere un fine meno nobile, anche l’intelletto umano dovrà
20 avere Dio come fine. Ma ogni essere intelligente consegue il suo ultimo fine per il fatto che
lo conosce intellettivamente, come abbiamo già visto. Dunque l’intelletto umano raggiun-
ge Dio come ultimo fine conseguendolo intellettualmente. […]
[Il desiderio naturale di conoscere Dio] 8. Gli uomini hanno il desiderio naturale di conosce-
re le cause di ciò che vedono: ecco perché essi diedero inizio alla ricerca filosofica, per la
25 meraviglia dei fenomeni che vedevano e di cui ignoravano la causa; e una volta trovata la
causa si fermavano. Ma la ricerca non ha tregua fino a che non si giunge alla prima causa:
e «allora noi pensiamo di conoscere perfettamente quando conosciamo la causa prima»2.
Dunque l’uomo per natura desidera, quale ultimo fine, di conoscere la causa prima. Ma la
causa prima di tutte le cose è Dio. Quindi conoscere Dio è l’ultimo fine dell’uomo.
30 10. Un corpo, il quale tende per natura verso il luogo suo proprio, si muove con maggior
forza e velocità quanto più si avvicina al termine: e da questo Aristotele dimostra3 che il
moto naturale retto non può tendere all’infinito, poiché altrimenti dovrebbe essere unifor-
me. Perciò quanto nel tendere a un oggetto aumenta il suo impulso non può muoversi
all’infinito, ma tende a uno scopo determinato. Ora, ciò si riscontra nel desiderio di sapere:
35 infatti più uno sa, più desidera di sapere. Dunque il desiderio naturale dell’uomo per il
sapere tende ad un fine determinato. Ma questo non può essere che il conoscibile più alto,
cioè Dio. Quindi il fine ultimo dell’uomo è la conoscenza di Dio.
[La beatitudine come conoscenza di Dio] Ora, l’ultimo fine dell’uomo e di qualsiasi sostanza in-
tellettiva viene denominato felicità o beatitudine: perché questo è ciò che tutte le sostanze
40 intellettive desiderano come ultimo fine e per se stesse. Dunque conoscere Dio è la beati-
tudine o la felicità ultima di tutte le sostanze intellettive.
(Somma contro i Gentili, III, cap. XXVI, a cura di T. Centi, UTET, Torino 1992, p. 603)

2. Aristotele, Metafisica, I, 3, 1. 3. Aristotele, Il cielo e il mondo, I, 8, 13.

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Sottolinea con colori diversi le espressioni riconducibili alle seguenti aree semantiche: fine/finalità
e natura/naturale.
2. Evidenzia nel testo gli argomenti aristotelici che sono utilizzati per dimostrare che conoscere Dio è
la vera felicità cui tende l’uomo.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-22 Tutte le creature hanno come fine l’oggetto più perfetto cui può innalzarsi il pensie-
Dio, ma le creature intelligenti lo raggiungono me- ro. Data la sua limitatezza, sembra impossibile che
diante la loro attività peculiare, cioè appunto l’atti- l’intelletto umano possa elevarsi a Dio, rispetto al
vità razionale. Il fine delle sostanze intelligenti è quale esso si trova nella condizione dell’occhio del
dunque la conoscenza intellettiva di Dio, che è pipistrello, animale notturno incapace di vedere la
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 345

TESTI
luce del sole. Tuttavia, è verso tale oggetto perfet- luogo naturale, così come lo aveva spiegato Aristo-
to che l’uomo deve volgere i suoi sforzi, essendo tele. Infatti, come un corpo accelera in prossimità
questo il fine proprio di ogni essere: non potrebbe del suo obiettivo – e non potrebbe essere privo di
infatti ambire a un fine meno nobile rispetto a un luogo verso cui tendere perché altrimenti biso-
quello delle creature inferiori, prive di intelligenza. gnerebbe ipotizzare un movimento uniforme e
senza fine –, allo stesso modo colui che conosce, a
righe 23-29 Per Tommaso, coerentemente con la
mano a mano che procede nella propria ricerca,
dottrina aristotelica, la conoscenza è un desiderio na-
vede aumentare la forza di attrazione verso il fine
turale degli esseri umani: essi cominciano a filosofare,
naturale della conoscenza. Quest’ultimo, massimo
cioè a interrogarsi sulle cause delle cose, per la mera-
obiettivo del pensiero, non può essere che l’intelli-
viglia provata nei confronti dei fenomeni e per la con-
gibile più perfetto, cioè Dio.
seguente volontà di individuare una spiegazione. Ma
la ricerca delle cause è destinata a non arrestarsi fin- righe 38-41 Nella conclusione l’autore identifica
ché non si giunga alla causa prima: la conoscenza di il fine ultimo dell’uomo con la felicità o beatitudi-
quest’ultima, cioè di Dio, è dunque il fine dell’uomo. ne: la conoscenza di Dio non è uno dei tanti possi-
bili obiettivi degli uomini, ma quello che consente
righe 30-37 Tommaso paragona il desiderio di
di raggiungere la perfezione del proprio essere.
conoscere al movimento di un corpo verso il suo

RIFLETTI
Elabora un breve testo (max 30 righe) in cui immagini di discutere con Tommaso sul fine dell’esi-
stenza umana. Se concordi con lui, spiegherai perché apprezzi il suo punto di vista; se invece
hai una visione differente, dovrai esporne i motivi e chiarire qual è la tua prospettiva.

t4 La natura politica e sociale dell’uomo


da Il governo dei prìncipi
Secondo Tommaso, che si richiama anche in questo ad Aristotele, l’uomo è per natura orientato verso
un fine e, al tempo stesso, portato a stringere legami con i suoi simili. L’autore rileva inoltre come
la società che ne deriva abbia bisogno di una guida, in grado di indirizzarla verso il bene comune.

[L’uomo come essere orientato verso un fine] In tutti gli esseri ordinati ad un fine, che però
essi possono perseguire in un modo o in un altro, è necessaria una guida, con il cui aiuto
si giunga direttamente al fine stabilito: una nave, che a seconda del soffiare dei venti può
andare in varie direzioni, non raggiungerebbe mai la meta prefissata senza l’arte del pilota
5 che la dirige verso il porto. Anche l’uomo ha un suo determinato fine a cui sono ordinate
tutta la sua vita e ogni azione, come è noto: il suo agire, infatti è guidato dall’intelligenza
la quale fa tutto in vista di uno scopo. Ora, gli uomini perseguono il fine previsto per vie
diverse, e ne è prova la differenza delle propensioni e delle azioni individuali: ecco perché
l’uomo necessita di qualcuno che lo indirizzi verso il fine.
10 [L’essere umano come animale sociale e politico] Ogni singolo essere umano è dotato dalla
natura della luce della ragione, grazie alla quale, nei suoi atti, si può indirizzare verso il fine;
quindi, come è per molti animali, se si confacesse all’uomo un’esistenza da isolato, egli non
avrebbe nessun bisogno di qualcuno che lo guidasse al fine, ma sarebbe lui sovrano di sé
stesso sotto il governo di Dio, sommo Re, poiché, con la luce della ragione conferitagli divi-
15 namente, sarebbe lui a dirigere sé stesso nelle sue azioni. Al contrario, dalla natura l’uomo
346 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

è un animale sociale e politico, che vive in una comunità di individui assai più che tutti gli
TESTI

altri animali; la necessità della natura è lì a documentarlo: la natura, infatti, agli animali ha
predisposto il cibo, i peli che li ricoprono e mezzi di difesa come i denti, le corna, gli artigli,
o almeno la velocità per fuggire. Nessuno di tutti questi aiuti l’uomo ha ricevuto dalla natu-
20 ra, ma al loro posto gli è stata data la ragione: con essa l’uomo ha la capacità di prepararsi
tali sussidi con il lavoro delle sue mani. Il singolo individuo tuttavia, non è in grado di pro-
curarsi tutto da solo, non ce la farebbe da sé a sopravvivere; è dunque un’esigenza naturale
per l’uomo quella di vivere in società con molte altre persone. […]
Assodato così che secondo natura l’uomo vive in una società composta di molte persone,
25 sorge l’esigenza che tra gli uomini ci sia qualcuno che governi la comunità: una massa di
individui in cui ognuno pensasse esclusivamente a procurarsi ciò che va bene per sé si
sfalderebbe, se non ci fosse anche qualcuno che si interessasse del bene della moltitudine.
Esiste un fondamento razionale che giustifica tale fenomeno, in quanto “proprio” e “comu-
ne” non indicano la stessa cosa: ciò che è proprio è principio di differenziazione, mentre ciò
30 che è comune implica l’unificazione, ed entità diverse postulano cause diverse. Ecco per-
ché, oltre al principio che stimola al bene proprio del singolo, si esige un principio che
promuova il bene comune della massa. Per tale motivo, quando tutte le cose sono in fun-
zione dello stesso fine, si trova che ce n’è una che ne regge un’altra: nell’Universo fisico, il
primo corpo, cioè il corpo celeste, muove gli altri corpi secondo un determinato ordine
35 della provvidenza divina; la creatura razionale, a sua volta, muove tutti gli altri corpi. Così,
in ogni individuo, l’anima regge il corpo, e per ciò che concerne le parti dell’anima, quella
irascibile e quella concupiscibile, sono guidate dalla ragione. Fra gli stessi organi del corpo
ne esiste uno che è il principale in quanto muove tutti gli altri, cioè il cuore o la testa. Ecco
perché, ovunque esiste un’aggregazione, è necessario che ci sia uno che governa.
(Il governo dei prìncipi. Al re di Cipro, in Tommaso d’Aquino, Opuscoli politici,
trad. it. di L. Perotto, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1997, pp. 32-34)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Individua e sottolinea il paragone a cui ricorre Tommaso per spiegare perché sia indispensabile ave-
re una guida per raggiungere il fine prefissato.
2. Evidenzia nel testo il motivo principale per cui gli uomini si riuniscono in società.
3. Sottolinea i significati attribuiti dall’autore rispettivamente agli aggettivi «proprio» e «comune».

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-9 Per Tommaso tutte le creature che agi- duo vivesse isolato, la ragione sarebbe sufficiente a
scono in funzione di un fine necessitano di una gui- dirigere le sue azioni, ed egli risulterebbe «sovrano
da (come la nave necessita di un comandante). Que- di sé stesso». L’uomo però non dispone per natura di
sto vale anche per gli esseri umani, la cui vita e le cui cibo e di strumenti di difesa come gli altri animali,
azioni sono orientate verso uno scopo dalla ragione; ma unicamente della ragione, con la quale sopperi-
ognuno persegue il proprio fine, differenziandosi sce soltanto in parte a tali mancanze: non potendo
sulla base delle inclinazioni personali e delle circo- procurarsi da solo tutto ciò che serve alla sopravvi-
stanze, ma tutti ricorrono alla razionalità. Se l’indivi- venza, deve necessariamente riunirsi in società.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 347

TESTI
righe 10-39 Posto che l’essere umano per esigen- prima delle sfere cosmiche che ruotano intorno alla
za naturale deve vivere in una collettività, emerge Terra – muove tutte le altre sfere come ha predi-
la necessità di individuare una guida. Se quest’ulti- sposto il volere divino; o delle creature terrestri, al
ma non ci fosse, infatti, ciascuno agirebbe in vista cui vertice è posto l’uomo. È anche il caso dell’indi-
di obiettivi privati e verrebbe meno quella coesione viduo, in cui l’anima governa il corpo ed è essa stes-
del gruppo sociale utile al perseguimento di una sa costituita di parti gerarchicamente strutturate;
finalità comune. Tale situazione caratterizza ogni analogamente il corpo è organizzato in modo che
entità formata dall’aggregazione di parti, in cui, per vi sia un organo egemone, come il cuore o il cervel-
garantire l’ordine, deve essere rispettata un’orga- lo. Tali esempi dimostrano come anche la società
nizzazione gerarchica. È il caso dell’universo fisico, umana non possa fare a meno di qualcuno che la
in cui il «primo corpo» – cioè il primo mobile, la governi, pena la dissoluzione.

RIFLETTI E DISCUTI
1. Poiché quella di associarsi è per l’uomo una necessità naturale, secondo Tommaso alla società occorre
una guida “illuminata”, la quale faccia in modo che gli interessi particolari non impediscano la costru-
zione di un bene comune. In quale misura si può applicare questa concezione alle democrazie con-
temporanee? Che cosa garantisce oggi che l’azione di governo sia indirizzata al bene comune? Espo-
ni il tuo punto di vista in proposito in un breve testo (max 25/30 righe).
2. apprendimento cooperativo Sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in gruppi di 5 o 6 studenti;
mediante opportuna ricerca in Internet o in manuali, ogni gruppo deve individuare due o tre tesi
autorevoli in relazione all’origine della società civile e dello Stato, analoghe o alternative rispetto
a quella di Tommaso. Confrontate quindi le teorie raccolte, dando avvio ad un dibattito in
classe in cui emerga il vostro punto di vista personale.
348 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 21 igura
SINTESI Tommaso d ’Aquino:
un aristotelismo cristiano
AUDIOSINTESI

1 La vita e le opere
Tommaso, nato nel 1225 circa da una famiglia nobile, a comporre le sue opere più note: la Somma contro
entra nell’ordine dei domenicani – maggiormente i Gentili e la Somma di teologia. Nel 1269 è nuova-
legati alla vivacità della vita urbana e al dibattito cultu- mente magister a Parigi; in questi anni di insegna-
rale delle università – contro la volontà della famiglia mento commenta quasi tutti i testi di Aristotele. Rice-
che lo voleva benedettino. Studia a Parigi, dove di- vuto l’incarico di fondare uno Studio a Napoli nel
venta allievo di Alberto Magno e lo segue a Colonia. 1272, conclude la sua carriera nella città partenopea,
Torna a Parigi nel 1252 per insegnare, prima come perché nel 1273 cessa di scrivere per gravi problemi di
assistente con il compito di commentare le Sentenze di salute. Muore nel 1274, a Fossanova, mentre si sta
Pietro Lombardo, poi come magister. Qui emerge la recando al concilio di Lione. Nell’arco di pochi de-
sua profonda conoscenza delle opere di Aristotele, cenni il suo pensiero diventa un punto di riferimento
oltre che la straordinaria capacità di sintesi teologica. per la Chiesa e le sue opere saranno usate per secoli
Viene chiamato a Roma nel 1259 e in questa città inizia come manuali universitari.

2 La metafisica: una nuova visione dell ’essere


Perché Tommaso introduce la distinzione tra es- Come viene considerato il rapporto fra potenza e
senza ed essere? Nel trattato L’ente e l’essenza Tom- atto in Tommaso? Nelle sostanze sensibili, com-
maso ridefinisce il concetto di essere, distinguendo poste di materia e forma, il rapporto fra potenza e
diversi tipi di sostanze: le sostanze sensibili, compo- atto si coglie all’interno dell’essenza, in quanto la
ste di materia e forma, le sostanze soprasensibili, materia è potenza e la forma è atto. Tuttavia, ad un
prive di materia, e infine Dio. Per distinguere pie- livello superiore, l’essenza stessa può essere consi-
namente Dio dalle altre sostanze, introduce la di- derata come “potenza” rispetto all’essere che è
stinzione tra essenza ed essere. L’essenza è la natura “atto”: l’ente nella sua completezza esiste soltanto
di un ente, ciò che spiega che cos’è una determinata quando l’essenza da potenza passa all’atto, ma que-
cosa e la rende quello che è (in questo senso la scien- sto richiede l’intervento di un altro ente che gli dia
za mira a conoscere l’essenza delle cose); l’essere, o l’esistenza. Le sostanze sensibili e soprasensibili,
atto d’essere, indica la sua esistenza effettiva (e non pertanto, sono contingenti (potrebbero anche non
rientra pertanto nella definizione di una cosa). La esistere o cessare di esistere): ricevono l’essere da
distinzione tra essenza ed essere si applica soltanto un altro che deve essere un principio necessario il
alle creature (le sostanze sensibili e soprasensibili), quale ha l’essere da sé. Tale principio è Dio, che non
mentre non può essere applicata a Dio, l’essere ne- soltanto ha essere, ma è l’essere.
cessario in cui essenza ed esistenza coincidono.

3 La teologia come scienza


Come viene concepita la teologia da Tommaso? balterna” perché riceve le evidenze iniziali non dalla
Nella Somma di teologia la «sacra dottrina» o teologia ragione ma da ciò che Dio ha fatto conoscere all’uomo
è distinta dalla riflessione filosofica sul divino, che tramite la rivelazione.
rinuncia ad esplorare quanto si eleva al di sopra della Secondo Tommaso è possibile dimostrare l’esi-
ragione. Secondo Tommaso l’uso dell’intelligenza non stenza di Dio? Relativamente alla questione se si
deve essere limitato all’ambito dell’esperienza natu- possa dimostrare l’esistenza di Dio, Tommaso rifiu-
rale: è necessario che la ragione si occupi anche di ta la prova a priori di Anselmo, perché l’esistenza
quanto trascende il mondo sensibile, perché altrimenti non è compresa nell’essenza e non può essere de-
l’uomo non potrebbe comprendere il senso della sua dotta da questa. Tuttavia, a suo avviso è possibile
esistenza. La teologia è definita “scienza subalterna”: dimostrare l’esistenza di Dio passando attraverso la
“scienza” perché ha una struttura dimostrativa; “su- mediazione dell’esperienza, e individua cinque
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 349

argomenti, o «vie», “a posteriori”, che cioè parto- perfezione risale a un criterio sommo con cui valu-
no dagli effetti per risalire alla loro causa: 1. la pri- tarli; 5. la quinta via dalla finalità intrinseca del
ma via dai movimenti risale a un primo motore im- mondo risale a un essere intelligente ordinatore. Le
mobile; 2. la seconda via dagli effetti risale alla loro dimostrazioni servono a ribadire che la fede non è
causa efficiente; 3. la terza via dal contingente risa- cieca e irrazionale: fede e ragione possono collabo-
le a ciò che è necessario, 4. la quarta via dai gradi di rare nell’autonomia reciproca.

4 La concezione della natura, la visione dell ’uomo e la conoscenza


Come deve essere inteso l’atto della creazione? animatrice. L’io è composto di anima e corpo; vi è
Le creature dipendono da un essere esistente per pertanto un forte recupero della dimensione corpo-
sé: l’atto della creazione non è soltanto un momento rea, contrariamente alla tradizione platonica che ve-
circoscritto con cui Dio conferisce l’essere alle crea- deva il corpo soltanto come un ostacolo.
ture, ma è la condizione della loro esistenza nel Come avviene la conoscenza? La concezione dell’uo-
tempo. Il tempo non esiste prima della creazione, mo come unione psicofisica di anima e corpo ha im-
ma anche se il mondo fosse eterno avrebbe comun- portanti conseguenze per la teoria della conoscenza:
que bisogno di Dio per esistere, poiché l’essere del benché la funzione intellettiva non dipenda dal cor-
mondo è contingente. po, l’anima rimane comunque l’anima di quel parti-
Qual è la concezione della natura e dell’uomo in colare corpo e tale unità psicofisica verrà ricomposta
Tommaso? La natura, pur dipendendo da Dio con la resurrezione dei corpi. Per quel che riguarda
quanto al suo essere, ha autonomia e valore in sé. l’universalità della funzione intellettiva, Tommaso si
Le creature sono cause seconde che operano in differenzia da Averroè e dalla sua teoria dell’unicità
base a leggi proprie e agiscono come cause reali; di dell’intelletto universale. Ogni conoscenza comincia
conseguenza, la scienza della natura ha un valore dai sensi e il passaggio all’universale avviene tramite
autonomo e dignità. il processo di astrazione che coglie la forma. Il per-
Nella natura un posto privilegiato spetta all’uomo. corso di conoscenza e astrazione è compiuto da uno
La teoria antropologica di Tommaso riprende quella specifico soggetto nella sua individualità, e quindi l’in-
aristotelica dell’anima come forma del corpo: l’ani- telletto non è una sostanza separata universale ma è
ma è pensata in stretta relazione con il corpo, per- individuale. Universale è l’oggetto conosciuto al ter-
ché senza questo non può esercitare la sua funzione mine del processo di astrazione: la forma.

5 L’etica e la politica
Qual è il fine dell’essere umano? Tutti gli esseri A quali leggi deve sottostare l’essere umano?
animati sono guidati dal desiderio (appetitus) verso L’essere umano è soggetto a quattro ordini di legge:
la propria autoconservazione e verso ciò che è bene 1. la legge eterna, che rappresenta l’ordine provvi-
per sé; nell’uomo è la ragione, e non l’istinto, che denziale che Dio ha impresso al mondo; 2. la legge
individua gli obiettivi dell’agire. Il bene che l’uomo naturale, che rappresenta il modo in cui con la ragio-
cerca e che costituisce la sua felicità è la piena ed ne l’uomo partecipa della legge eterna; 3. la legge
eterna conoscenza di Dio. Vedere Dio è un desi- umana, che è il corpo delle leggi politiche e civili;
derio naturale, che però trascende le forze della ra- 4. la legge divina, che riguarda il destino sopranna-
gione; per realizzarlo è allora necessaria la grazia, turale dell’uomo. Come la legge eterna è superiore
intervento soprannaturale divino, che perfeziona la a quella umana, così il potere spirituale è superiore a
natura e la porta a compimento. quello politico; quest’ultimo è responsabile dell’orga-
Qual è la funzione del potere politico? L’uomo per nizzazione della convivenza civile, ma non può en-
Tommaso è un «animale politico», come per Aristo- trare in conflitto con il fine soprannaturale dell’uo-
tele, quindi lo Stato nasce dalla naturale tendenza mo. Tommaso infine si interroga se, a fronte della
degli uomini ad associarsi per realizzare i propri fini degenerazione dello Stato in un regime dispotico, sia
e sopperire ai bisogni fondamentali. Il potere politi- lecito il tirannicidio. Pur con molta cautela, sostiene
co pone le regole per la convivenza civile, ma non che in casi estremi l’insurrezione contro un potere
può realizzare il fine ultimo dell’uomo; ha quindi un che risulta negativo per il bene comune è legittima e
ambito di autonomia e competenza limitato. non costituisce un atto di sedizione.
350 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 21 igura
MAPPE CONCETTUALI Tommaso d ’Aquino:
un aristotelismo cristiano
LA METAFISICA
LA REALTÀ PER TOMMASO

risulta articolata in presenta una distinzione

tra tra

sostanze sostanze
essere essere
sensibili o soprasensibili Dio essenza essere
contingente necessario
composte o semplici

ossia ossia che che

la natura di un l’atto d’essere, riceve l’essere sussiste


fatte di
dotate di l’essere ente, ciò che l’esistenza da altro e può di per sé
materia e
sola forma sommo rende una concreta di un anche cessare in senso
forma
cosa ciò che è ente di esistere assoluto

sostanze
composte e
Dio
sostanze
semplici

in lui
essenza ed
esistenza
coincidono

LA TEOLOGIA
LA TEOLOGIA «SACRA DOTTRINA»

dipende dalla arriva a elaborare

scienza di Dio una dimostrazione dell’esistenza di Dio

la quale

si sviluppa a partire da premesse dagli effetti risale alla loro causa


desunte dalla rivelazione (dimostrazione a posteriori)

prima via: seconda via: terza via: quarta via: quinta via:
dal moto dagli effetti da ciò che è dai gradi di dalla
delle cose risale alla contingente perfezione finalità
risale al causa risale a ciò risale al delle cose
primo prima che è criterio risale al
motore necessario sommo e principio
immobile assoluto ordinatore
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 351

LA NATURA, L ’ UOMO
E LA CONOSCENZA
LA IL MONDO LA
L’UOMO CONOSCENZA
CREAZIONE CREATO

è possiede ha è comincia dalla

l’attività
con cui Dio
un ruolo
fa esistere una relativa un’unità esperienza
privilegiato
le cose e autonomia psicofisica sensibile
nell’universo
le conserva
nel tempo

il quale infatti infatti composta da da cui

l’intelletto astrae
la natura è
corpo anima gli elementi
retta da leggi
mortale immortale essenziali, cioè
proprie, è creato a
le forme
è creato con il regolari e immagine e
mondo costanti, che somiglianza di
le quali
l’uomo può Dio
conoscere con
la ragione destinati a ricongiungersi hanno valore
dopo il giudizio finale universale

L ’ ETICA E
LA POLITICA
IN AMBITO ETICO LO STATO

emerge
deriva dalla serve a

il primato dell’intelletto innata tendenza dell’uomo realizzare la


sulla volontà a creare legami sociali convivenza civile

i quali ma

l’uomo può scegliere soltanto nascono da esigenze non costituisce il fine ultimo
dopo che la ragione ha biologiche e antropologiche degli esseri umani, che è
individuato ciò che è bene degli individui la beatitudine eterna

ossia

ciò che può portare alla può essere raggiunta soltanto


felicità e alla conoscenza quest’ultima per mezzo della grazia, che
intellettuale di Dio perfeziona e nobilita la natura
352 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 21 igura
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Tommaso d ’Aquino:
un aristotelismo cristiano
RIPASSO

1 La vita e le opere 2 La metafisica: una nuova visione


riconoscere le nozioni
1. Individua le affermazioni correttamente riferibili
dell ’ essere
a Tommaso: (segna le 4 risposte esatte) riconoscere le nozioni e il significato
a appartiene all’ordine benedettino
delle parole
b ha come maestro Alberto Magno 5. Scrivi il titolo dell’opera in cui Tommaso
c appartiene all’ordine domenicano ridefinisce il concetto di essere:
d fonda lo Studio domenicano di Colonia ....................................................................................................
e ricopre la cattedra universitaria di Parigi 6. L’essenza delle sostanze sensibili in Tommaso:
f legge e commenta i testi di Platone (segna la risposta esatta)
g esercita lo studio inteso come otium, lontano a è la materia, che permette di definire un ente
dai problemi del mondo concretamente esistente
h nel XIX secolo, la Chiesa riconosce la filosofia b coincide unicamente con la forma
di Tommaso come philosophia perennis c comprende forma e materia ed è potenza

2. Indica i titoli delle 3 principali opere teologiche di rispetto all’esistenza


Tommaso: d è la realizzazione in atto di un’esistenza possibile

1. .............................................................................................. 7. Indica qual è il rapporto fra essenza ed esistenza


2. .............................................................................................. nelle sostanze composte: (segna la risposta esatta)
3. .............................................................................................. a l’essenza diventa necessariamente esistenza,
perché il mondo non è contingente
3. Nella Summa contra Gentiles, Tommaso:
b poiché il mondo è contingente, il passaggio
(segna la risposta esatta)
dall’essenza all’esistenza richiede la creazione
a commenta le opere teologiche musulmane,
c l’essenza, per essere completa e conosciuta,
per mostrarne la falsità richiede sempre l’esistenza dell’ente definito
b commenta le Sentenze di Pietro Lombardo
d l’esistenza potrebbe non esserci, per cui è
c presenta con argomenti filosofici la teologia potenza rispetto all’essenza che è atto
cristiana a coloro che non sono cristiani
d mostra la superiorità della fede cristiana contro esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
la filosofia pagana 8. Come si articola l’ordine gerarchico dell’essere?
4. La Summa theologiae: (segna la risposta esatta) 9. Quale relazione sussiste tra il binomio essenza/
a utilizza la struttura della quaestio per presentare esistenza e il binomio atto/potenza?
sistematicamente la teologia cattolica
b è strutturata come commento a passi biblici, sulla
10. Qual è la differenza tra “essere” riferito a Dio
cui base si sviluppa la teologia ed “essere” riferito alle creature?
c è un’esposizione sommaria e sintetica della
scrivere e rielaborare (15-20 righe)
teologia, strutturata per questioni disputate
d è organizzata per questioni filosofiche a servizio
11. Illustra in che modo Tommaso, rifacendosi ad
della teologia cattolica, contro gli eretici Avicenna, apre uno spazio concettuale per
il concetto teologico di creazione.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 353

3 La teologia come scienza 4 La concezione della natura, la


riconoscere le nozioni e il significato
delle parole
visione dell ’ uomo e la conoscenza
12. Indica qual è lo statuto scientifico della teologia riconoscere le nozioni e il significato
delle parole
per Tommaso: (segna la risposta esatta)
a la teologia è una scienza i cui principi evidenti
17. È possibile una scienza autonoma della natura
derivano dalla rivelazione divina perché: (segna la risposta esatta)
a la natura è simbolo del divino e strumento per
b la teologia non è una scienza perché è subalterna
alla rivelazione elevarsi a esso
c la teologia è una scienza perché la filosofia può b la cause naturali sono cause prime e non
dimostrare l’esistenza di Dio dipendono da nessun altro essere
c le cause seconde esistono di per sé e hanno totale
d la teologia non è una scienza perché altrimenti
la fede sarebbe inutile autonomia da Dio
d le cause naturali seguono le proprie leggi, anche
13. Le cinque vie di Tommaso dimostrano se il loro essere dipende da Dio
l’esistenza di Dio attraverso argomenti:
(segna la risposta esatta) 18. Indica qual è l’affermazione corretta in
x a priori y a posteriori relazione alla visione antropologica di
Tommaso:
perché: (segna la risposta esatta) a l’anima intesa come forma autonoma non è
a muovono dai fenomeni del mondo sufficiente a definire l’essere umano
b sono garantiti dall’esperienza b il corpo è prevalentemente un impedimento alla
c deducono l’esistenza di Dio dalla sua definizione beatitudine dell’anima
d vengono dopo la rivelazione c il corpo mostra la somiglianza dell’uomo a Dio
d il corpo è la forma dell’anima, perché ne definisce
14. Indica quale affermazione configura l’individualità
correttamente il rapporto tra ragione e fede
per Tommaso: 19. Il processo di astrazione consiste nella capacità
a la ragione rende inutile la fede, perché può di: (segna la risposta esatta)
dimostrare l’esistenza di Dio a cogliere le forme grazie alla comunanza
b la fede rende inutile la ragione, perché fornisce dell’intelletto universale
tutte le verità necessarie per la salvezza b prescindere dal particolare empirico grazie
c la ragione è utile per la fede, perché può all’illuminazione divina
dimostrare i dogmi c cogliere la forma prescindendo dalla materia
d la ragione è utile alla fede, perché può aiutare a d cogliere la particolarità prescindendo dalla forma
chiarire le verità della rivelazione
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) 20. In che senso l’essere umano è un’unità
15. Che cosa significa che la teologia è “scienza psicofisica?
subalterna”?
21. Qual è la novità della concezione della natura di
ad alta voce Tommaso rispetto alla riflessione cristiana
precedente?
16. Esponi in 5 minuti le vie per dimostrare
l’esistenza di Dio usando le espressioni scrivere e rielaborare (15-20 righe)
seguenti:
22. Illustra come Tommaso presenta la teoria
primo motore • movimento • causa efficiente • dell’intelletto e in che modo si differenzia dalle
atto • potenza • contingente • necessario •
teorie averroiste.
perfezione • criterio sommo • finalismo • ordine
354 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

25. Qual è il ruolo dell’intelletto nel perseguire


5 L ’ etica e la politica
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA

il bene? (segna la risposta esatta)


riconoscere le nozioni e il significato a l’intelletto deve riconoscere il bene, affinché
delle parole la volontà possa sceglierlo
23. Che cos’è l’appetitus? (segna la risposta esatta) b l’intelletto è subordinato al desiderio, che indica
a il più basso livello del desiderio, corrispondente ai la strada del bene
bisogni del corpo c l’intelletto soddisfa il desiderio di conoscere e
realizza pienamente la felicità umana
b il desiderio nella sua componente moralmente
condannabile d per raggiungere il bene, l’intelletto deve essere
c la tendenza a ricercare ciò che è bene per ogni abbandonato a favore della grazia divina
essere 26. Completa la tabella sottostante inserendo
d l’aspirazione all’autoconservazione propria degli opportunamente i termini e le espressioni seguenti:
esseri umani creatura razionale • ragione • destino
24. Indica qual è lo scopo dello Stato per Tommaso: soprannaturale • ordine • provvidenza • vita civile •
(segna la risposta esatta) rivelazione • legge eterna • naturale (lex naturalis)
a trattenere gli individui dal male e dalla violenza esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
b realizzare la legge divina e il destino 27. Quale legame sussiste tra felicità e grazia?
soprannaturale dell’uomo
c permettere l’esercizio del potere religioso 28. Relativamente alla teoria dello Stato, quali
elementi accomunano Tommaso e Aristotele?
d rendere possibile la convivenza, indispensabile
per la realizzazione dei bisogni umani 29. Quando la ribellione al potere politico non è
sedizione?

scrivere e rielaborare (15-20 righe)


30. Spiega la formula tomista «La grazia non toglie
né distrugge la natura, ma la eleva e la
perfeziona».
Tabella esercizio 26
Leggi cui l’uomo deve obbedire Descrizione
legge eterna (lex aeterna) rappresenta l’.................................. che Dio ha impresso nel mondo, è la ..................................
che guida tutto il creato secondo una sapienza eterna: coinvolge tutti gli esseri in vista di un
bene universale
legge .................................. rappresenta il modo in cui la .................................. partecipa alla .................................. : mentre
gli altri esseri si conformano per natura all’ordine eternamente disposto da Dio, l’uomo lo
esprime con la ...................................
legge umana (lex humana è il corpo di leggi e di disposizioni che servono a regolare la ..................................
o lex humanitus posita)
legge divina (lex divina) riguarda il .................................. dell’uomo ed è frutto di ..................................

verso le competenze
ARGOMENTARE E DISCUTERE
• Tenendo presente il ruolo che Tommaso attribuisce al corpo in relazione all’anima, rifletti e discuti con
i tuoi compagni sull’importanza che il corpo ha per definire chi sei, qual è la tua personalità, e se questa
cambierebbe in presenza di un corpo diverso.
• Nel 1998, papa Giovanni Paolo II ha promulgato l’enciclica Fides et Ratio. Leggi l’introduzione e i primi
quattro capitoli, ed elabora un confronto in forma scritta (max 30 righe) tra la posizione attuale della
Chiesa sul rapporto tra ragione e fede, e quella di Tommaso.
355

capitolo 22 Il XIV secolo: un periodo


di trasformazioni

Inutile servirsi di più entità, quando possiamo fare lo stesso
con meno.
(Guglielmo di Ockham, Somma logica, I, 1, 12)

1 La crisi del Trecento


Il clima storico-culturale del Trecento si presenta profondamente mutato rispetto ai seco-
li precedenti. Ci troviamo di fronte a un nuovo sguardo sul mondo che può essere in-
terpretato in vari modi: come una “crisi”, che segna un momento di arresto e la fine di
un’epoca, oppure come un periodo di fermento, che con le sue trasformazioni prepara
e anticipa le innovazioni dell’età moderna. Comunque si voglia valutare questo cambia-
mento, è indubbio che i modelli culturali del XIII secolo risultano ormai inadatti per le
nuove esigenze ed è necessario sperimentare metodi e soluzioni innovativi rispetto ai
percorsi tracciati dalla riflessione filosofica precedente.

Il punto di vista economico


Dal punto di vista economico tutto il secolo rappresenta un lungo periodo di stagnazione.
Il ciclo positivo iniziato dopo l’anno Mille, toccata la sua massima espansione, volge alla
fine. La crescita demografica rallenta e aumenta invece lo squilibrio tra risorse disponi-
bili e popolazione; il peggioramento climatico di inizio secolo, con inverni più rigidi e
piovosi, provoca una drastica diminuzione delle rese agricole e riduce i ceti meno abbien-
ti alla fame.
La peste del 1347 trova una popolazione già duramente colpita da ricorrenti carestie,
e pertanto l’epidemia si diffonde facilmente, sia per le carenti condizioni igieniche sia per
le scarse difese immunitarie, indebolite dalla mancanza di un’alimentazione adeguata.
356 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Non stupisce allora che l’epoca sia caratterizzata da numerose proteste e rivolte sociali,
e da uno sguardo pessimistico nei confronti della storia e della condizione umana, cui
si unisce una mentalità generale spesso fatalistica e dolorosamente rassegnata.

Il punto di vista politico


Dal punto di vista politico si registra la fine dei poteri universali. Nel 1302 papa Boni-
facio VIII emana la bolla Unam Sanctam (Unam Sanctam Ecclesiam, “una sola santa Chie-
sa”), forse la più convinta giustificazione teorica della superiorità del potere del pontefice
su quello politico. Ma questa esaltazione teocratica non corrisponde più alla realtà storica
e rappresenta piuttosto l’epilogo del primato papale, quasi un ultimo sussulto di orgoglio
prima della sua delegittimazione. Per nulla intimorito dalle affermazioni di principio, il
re francese Filippo il Bello non soltanto resiste alle ingerenze politiche del papa, ma sca-
tena anche un’offensiva contro la sua persona, arrivando ad imprigionarlo ad Anagni nel
1303. In tal modo i progetti di supremazia papale si infrangono: la “cattività avignonese”
prima (1309-1377) e lo scisma d’Occidente poi (1378-1417) indeboliscono irrimediabil-
mente il prestigio e la credibilità della curia romana.
Si assiste però non soltanto al fallimento dei progetti teocratici, ma al declino
dell’idea stessa di un governo universale: anche l’autorità imperiale, infatti, soffre di
una perdita di legittimazione, mentre emergono nuove configurazioni politiche, fonti
di tensioni e turbolenze. La lotta per la propria affermazione fa sì che il potere si orga-
nizzi intorno a forme embrionali di Stati nazionali, perché le entità territoriali dai con-
fini troppo piccoli (come i feudi, i comuni, i ducati) rischiano di soccombere di fronte ai
conflitti interni e alle mire espansionistiche esterne. Nel Trecento si sviluppano rifles-
sioni sullo Stato che distinguono nettamente la sfera politica da quella religiosa e la
considerano autonoma, basata su princìpi propri, non subordinati né strumentali alla
realizzazione della dimensione spirituale. Il fondamento dello Stato non è più divino o
soprannaturale, ma rinvia alla naturale esigenza degli uomini di organizzarsi in società.
Il fine delle istituzioni politiche non è pertanto la salvezza dell’anima, ma la convivenza
pacifica e sicura, con princìpi e valori radicati nella natura umana e non in un’autorità
esterna e superiore.

Il punto di vista culturale


Anche dal punto di vista culturale si osserva un cambiamento di interessi e di metodo.
Nel secolo precedente gli sforzi più produttivi erano stati profusi nell’appropriarsi inte-
gralmente delle opere di Aristotele e dei commentatori arabi, cercando una sintesi effica-
ce con la tradizione cristiana e il suo sistema di valori (❯ p. 303). Gli scritti aristotelici
erano diventati i manuali di studio prescritti in tutte le università e anche la teologia
aveva tratto benefici dall’impianto scientifico derivante dalla filosofia. Nel Trecento, in-
vece, sono pochi i nuovi testi tradotti e la conoscenza del patrimonio filosofico antico non
viene ampliata in modo significativo: per la riscoperta di Platone bisognerà infatti atten-
dere l’Umanesimo. Verso la fine del Duecento, inoltre, emergono sospetti e censure
nei confronti della filosofia; gli interventi più eclatanti sono gli elenchi di tesi filosofi-
che condannate da Étienne Tempier, vescovo di Parigi: nel 1270 sono colpite da censura
13 proposizioni e nel 1277 addirittura 219 tesi, tra le quali alcune vicine alle posizioni
di Tommaso d’Aquino. Dedicarsi alla filosofia diventa una professione rischiosa se non
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 357

si rispettano i limiti e le prescrizioni dottrinali imposte dalla teologia. Le numerose con-


danne attestano però un grande fermento culturale, legato al fatto che molti studiosi non
si riconoscono più nelle sintesi aristotelico-cristiane e sperimentano vie alternative, sia
nella concezione della natura, sia nella costruzione del sapere.
Filosofia e teologia iniziano a percorrere strade separate per l’incrinarsi di un qua-
dro epistemologico unitario. La teologia invoca la sua superiorità rispetto alla ragione
filosofica e la filosofia rinuncia alla pretesa di comprendere ciò che trascende la pura ra-
zionalità; si diffonde una sfiducia nelle possibilità di applicare la mente umana al divino,
in virtù dell’inafferrabilità e della trascendenza di Dio, come si vede in Giovanni Duns
Scoto e in Gugliemo di Ockham (❯ p. 358 e p. 361). Cambia anche il modo di considerare
la natura e si prende atto di alcune difficoltà intrinseche della fisica aristotelica. Ma vi è
soprattutto un enorme progresso della logica e un rinnovato interesse per la teoria della
conoscenza scientifica. In un’epoca segnata da cambiamenti e incertezze, il tentativo di
formalizzare le regole del pensiero e del discorso è un modo per assicurare la validità del
ragionamento: vi è una ricerca insistente di precisione, di coerenza logica, di condizioni
di validità delle argomentazioni. La logica diventa uno strumento sofisticato e altamente
professionale, con un’elevata capacità critica nei confronti del sapere: cominciano a vacil-
lare le premesse universali e necessarie, considerate inattaccabili nel secolo precedente, e
molte argomentazioni si mostrano prive di un fondamento certo. Cambiano, di conse-
guenza, i modelli della conoscenza e anche la rappresentazione della realtà, come si può
osservare nelle trasformazioni inaugurate da Guglielmo di Ockham: si criticano le astra-
zioni metafisiche (gli “universali”) e la loro capacità di spiegare la realtà; ci si richiama al
fondamento empirico della conoscenza e si costruisce un’ontologia dell’individuale,
unica realtà concreta esistente.

FARE per CAPIRE • Elabora una tabella inserendo i principali elementi che caratterizzano il Trecento
dal punto di vista economico, politico e culturale.

❯ Maestro di Tolentino,
La disputa con i dottori,
XIV secolo, affresco,
Tolentino (Macerata),
Cappellone
di San Nicola.
358 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

2 Giovanni Duns Scoto:


dall ’essere infinito all ’ individuo
Una carriera in movimento
Francescano di origini scozzesi, Giovanni Duns Scoto (Maxton, 1265 circa -
Colonia, 1308) insegna a Oxford, a Parigi e a Colonia, i centri intellettuali
più importanti del periodo. La sua esistenza attraversa i conflitti dell’epoca,
a livello sia dottrinale (soprattutto per il divario crescente tra aristotelismo
filosofico e teologia cristiana) sia politico, perché egli viene coinvolto nello
scontro violento tra il re di Francia, Filippo il Bello, e papa Bonifacio VIII.
Per aver appoggiato il pontefice, Scoto deve lasciare Parigi; vi ritorna alla
fine del 1304, ma l’ostilità del sovrano lo induce a trasferirsi a Colonia nel
1307, dove morirà l’anno successivo. In tutte le città in cui si sposta, si dedi-
ca a un’incessante attività di insegnamento, che si riflette nelle sue opere:
oltre ai commenti filosofici (sulla logica, sull’anima, sulla metafisica),
vanno ricordati il trattato Sul primo principio e la revisione delle lezioni
tenute a Oxford sulle Sentenze di Pietro Lombardo, che è conosciuta come
Ordinatio o Opus oxonense.

Teologia rivelata e metafisica dell ’essere


Scoto – chiamato dai contemporanei doctor subtilis (“dottor sottile”) per la puntigliosità
con cui si applica allo studio e affronta le varie questioni – rifiuta la sintesi tomista tra
filosofia aristotelica e pensiero cristiano in nome della specificità della teologia e della
trascendenza di Dio, che l’uomo non può comprendere con la sua sola ragione. Pertanto,
filosofia e teologia imboccano due strade diverse: da una parte una riflessione razionale
autonoma, che studia l’essere e la natura così come essi si presentano all’esperienza,
dall’altra una scienza che dipende dalla rivelazione divina e le cui verità fondamentali
vanno accolte per fede. La teologia può servirsi di termini e concetti filosofici, ma non c’è
accordo né un rapporto di dipendenza tra le due discipline. Inoltre, il fine della teologia
non è teoretico, bensì pratico: presentare all’uomo il bene soprannaturale, a cui egli deve
tendere con le proprie azioni.
Cambia di conseguenza anche la concezione antropologica: per Scoto l’uomo è viator,
pellegrino sulla Terra e in cammino verso la sua perfezione soprannaturale: quest’ulti-
ma è incomprensibile per la filosofia, che ignora sia il peccato originale sia la grazia.
Vengono alla luce i limiti dell’essere umano, la sua imperfezione e inclinazione al male,
ma anche la sua storicità e contingenza: la natura umana non è fin dall’inizio determi-
nata e perfetta, ma si presenta in divenire verso una realizzazione che è posta al di là
dello spazio naturale.
La divergenza tra le due prospettive, quella filosofico-naturale e quella teologico-
soprannaturale, si ripresenta anche nella definizione dell’oggetto della metafisica, che
per Scoto è propriamente l’essere in quanto essere (secondo una tradizione che risale fino
ad Avicenna), e non Dio. L’essere è un concetto universale, che comprende tutto ciò che
esiste, sia le realtà finite sia l’essere infinito: si tratta di una considerazione così ampia e
indeterminata da precedere ogni distinzione. La metafisica può occuparsi di Dio soltanto
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 359

in quanto essere infinito, e addirittura dimostrare la sua esistenza; non può tuttavia dire
nulla della sua essenza e neppure considerarlo come causa prima degli enti o primo mo-
tore. La creazione del mondo è oggetto di fede e non può essere dimostrata dalla ragione:
è un atto libero e imprevedibile di Dio, che si radica nella sua volontà imperscrutabile e
onnipotente.
La conseguenza più interessante di questa visione teologica riguarda la concezione del-
la realtà: considerato che il mondo avrebbe potuto essere diverso da come è o non essere
creato affatto, tutto ciò che esiste è contingente, privo di qualunque necessità: possiamo
conoscere come stanno di fatto le cose, ma non come potrebbero essere. Questo è il motivo
per cui Scoto valorizza l’esperienza sensibile e la conoscenza diretta degli enti concreti.

FARE • Sottolinea nel testo le risposte alle seguenti domande:


per - qual è la concezione antropologica di Scoto?
CAPIRE - sotto quale aspetto la metafisica si occupa di Dio?

Conoscenza intuitiva e astrattiva


Oltre alla nuova visione della metafisica e della teologia, a Duns Scoto si deve una rifor-
mulazione del rapporto tra sensi e intelletto nella teoria della conoscenza. Già Aristo-
tele aveva distinto ciò che è individuale (la sostanza prima, come “Socrate”) e ciò che è
universale (la sostanza seconda, ad esempio “l’uomo”). Riprendendo la teoria aristoteli-
ca, la tradizione scolastica affermava che i sensi colgono l’individuale, ma è soltanto l’in-
telletto che trasforma le percezioni sensibili in conoscenza vera e propria, che è sempre
conoscenza dell’universale.
Duns Scoto osserva invece che la peculiarità della percezione sensibile non consiste
solamente nel cogliere l’individuale, ma è data anche dalla presenza attuale dell’oggetto
di fronte agli organi di senso: non posso vedere un colore se non ho davanti agli occhi un
oggetto colorato, né percepire un suono se esso non si produce in questo momento. Scoto
definisce pertanto conoscenza intuitiva quel sapere che si genera nella presenza attuale
e immediata dell’oggetto conosciuto e che ne coglie l’esistenza. Tale conoscenza intuitiva
non è però una modalità esclusiva dei sensi: anche l’intelletto può cogliere in modo im-
mediato e diretto un oggetto.
La conoscenza astrattiva è invece la facoltà – tipica del solo intelletto – di conoscere
un oggetto indipendentemente dalla sua presenza e anche dalla sua esistenza. In
questo modo l’intelletto coglie la forma o essenza di una cosa, che viene compresa in
quanto tale, anche se non è effettivamente presente in questo istante (ad esempio un
canguro), non è più esistente (un mammut) o è del tutto inesistente (un ippogrifo).
La prima conseguenza di questa distinzione è che sensi e intelletto non sono fa-
coltà del tutto eterogenee, ma concorrono al processo conoscitivo collocandosi a li-
velli diversi di perfezione: l’intelletto, facoltà superiore, possiede anche la conoscenza
intuitiva, propria dei sensi; questi ultimi invece non hanno accesso a quella astrattiva.

conoscenza intuitiva (in latino notitia intuitiva) co- conoscenza astrattiva (in latino notitia abstracti- lessico
glie in modo immediato l’esistenza di un oggetto in- va) conoscenza di un oggetto che prescinde dalla filosofico
dividuale, che con la sua presenza dà origine all’atto sua presenza ed esistenza in atto. Concerne la for-
stesso di conoscenza. Non è esclusiva della perce- ma o essenza di una cosa, cioè l’universale, ed è
zione sensibile, ma appartiene anche all’intelletto. esclusiva dell’intelletto.
360 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

❯ Domenico
Muttoni, Gesù
bambino appare a
Giovanni Duns Scoto
dinanzi al tabernacolo,
affresco, 1653,
Peschiera (Verona),
Santuario della
Madonna del
Frassino.

La differenza tra le due forme di apprendimento dipende da ciò che provoca la conoscenza nei
due casi: la presenza effettiva e immediata dell’oggetto (la sua esistenza) nella conoscenza
intuitiva; la rappresentazione dell’oggetto (la sua essenza), chiamata anche “specie”, in quel-
la astrattiva.

FARE • Indica per ciascuno degli esempi proposti di seguito se è oggetto di conoscenza intuitiva
per (CI) o astrattiva (CA), specificando anche se da parte dei sensi (S) o dell’intelletto (I):
CAPIRE il colore blu del fiordaliso nel vaso che ho di fronte - la razza equina - l’essere umano - questa
mela - la certezza di esistere.

La natura dell’universale
Da quanto detto si ricava che la conoscenza intuitiva è immediata perché implica la pre-
senza dell’oggetto, mentre quella astrattiva è mediata dalla specie, che è universale, cioè
vale per tutti gli individui appartenenti a un certo genere.
La specie non è una generalizzazione dell’intuizione individuale, ma ha un’esistenza
RICORDA CHE... “reale” pur non essendo un ente singolare: si parla a tal proposito di posizione realista.
I realisti sostengono Secondo Scoto l’individuo e la natura universale sono distinti formalmente, anche
che gli universali hanno se l’intelletto li conosce simultaneamente. Perciò l’“equinità”, per usare un esempio
un valore ontologico,
dell’autore, è diversa dai singoli cavalli, e non è qualcosa che esiste individualmente –
cioè sono res, “cose”
dotate di un’esistenza come se oltre ai diversi esemplari di cavalli esistesse anche la “natura equina” –, ma non
autonoma. ❯ p. 266 è neppure un semplice concetto ricavato a posteriori. L’intelletto può cogliere l’universa-
le in molteplici realtà individuali soltanto a condizione che questo sia una “natura comu-
ne” antecedente al concetto e indipendente dai singoli. Scoto riconosce all’universale
una qualche forma di esistenza autonoma (diversa sia da quella fisica sia da quella concet-
tuale) e in questo senso si oppone alla posizione dei nominalisti, che ritengono che l’in-
telletto ricavi l’universale dall’individuale, in un atto successivo.
Il realismo di Scoto e l’idea della “natura comune” come realtà formale intermedia tra
l’esistenza concreta e il puro concetto saranno oggetto della critica veemente di Gugliel-
ESERCIZI mo di Ockham.

lessico specie in Scoto la specie è universale, ma non indica una generalizzazione dell’intuizione individuale,
filosofico bensì una “natura comune” con un’esistenza autonoma rispetto all’individuo e anteriore rispetto al concetto.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 361

3 Guglielmo di Ockham:
il primato dell ’ individuale
LA VITA E GLI SCRITTI
Un ’esistenza al centro dei conflitti politici
Come per la maggior parte degli autori medievali, la data di nascita di Gu-
gliemo è incerta, e oscilla tra il 1280 e il 1290; il luogo di nascita è il villag-
gio di Ockham, nella contea del Surrey, poco distante da Londra. Entrato
nell’ordine francescano, Guglielmo studia a Oxford, un’università molto
vivace e attenta alle discipline scientifiche: sia l’appartenenza all’ordine francescano,
che si contrappone ai domenicani, sia la formazione universitaria anglosassone lo di-
stanziano dalle posizioni di Tommaso. Dopo aver ottenuto il grado di baccelliere (sorta
di assistente del magister), inizia a tenere i corsi sulle Sentenze di Pietro Lombardo, ma
non riesce a diventare magister theologiae per l’opposizione interna del cancelliere
dell’Università di Oxford, il domenicano John Lutterell. Questi, in nome di una visio-
ne tomista più tradizionale, accusa Guglielmo di Ockham di eresia e lo costringe a tra-
sferirsi a Londra. A nulla vale il fatto che l’università non condivida la posizione di
Lutterell e lo sostituisca alla carica di cancelliere, anzi ciò si ritorce contro lo stesso
Ockham: dopo essere stato deposto, infatti, Lutterell si reca presso il papa ad Avignone,
dove continua la battaglia e porta all’attenzione della commissione teologica papale le
opere del giovane francescano, ritenute pericolose per la fede, filosoficamente scorrette
e moralmente fuorvianti. Per difendersi dalle accuse, nel 1324 Ockham deve dunque
recarsi ad Avignone. Il processo si protrae per vari anni, senza che la commissione giun-
ga a un giudizio ufficiale.
Nel frattempo, però, le questioni teologiche si intrecciano con quelle politiche. Sono gli
anni in cui imperversa la polemica sulla “povertà di Cristo”, che affronta una questione
di scottante attualità, perché diventa una disputa sulla liceità della Chiesa di possedere ric-
chezze e di esercitare un potere politico. Tra coloro che sostengono la necessità di una po-
vertà radicale si annoverano non soltanto i maggiori esponenti dell’ordine francescano ma
anche l’imperatore Ludovico il Bavaro, che cerca di legittimare il suo potere emancipando-
si dall’autorità papale. Il papa condanna la tesi dei francescani più intransigenti, e per que-
sto motivo convoca ad Avignone il generale dell’ordine, Michele da Cesena. Su sua richie-
sta, Ockham studia la questione della povertà e giunge alla sorprendente conclusione che
è il papa a essere eretico, ed è pertanto da ritenere decaduto nel momento stesso in cui ha
abbracciato l’errore in materia di fede. Trasformatosi da imputato di eresia in accusatore
dell’autorità suprema della Chiesa, egli si rende conto che l’esito del processo non gli potrà
essere favorevole, così decide di abbandonare segretamente Avignone insieme a Michele da
Cesena e ad altri due confratelli: nella notte del 6 maggio 1328 fugge dalla curia papale e si
dirige in Italia. Un mese dopo sarà emanata la scomunica papale, che non condanna tanto
le sue tesi filosofiche e teologiche, quanto il fatto di aver abbandonato la sede di Avignone
senza autorizzazione. A Pisa Ockham incontra Ludovico il Bavaro, e si mette alle sue di-
pendenze; si narra che avrebbe richiesto la protezione della sua spada, promettendogli in
cambio di difenderlo con la sua penna (Imperator, defende me gladio et ego defendam te verbo).
362 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

❯ L’elezione di papa
Giovanni XXII,
miniatura dalla
Nova Cronica di
Giovanni Villani,
XIV secolo.
Giovanni XXII,
sul soglio pontificio
dal 1316 al 1334,
fu il papa con cui
si scontrò Ockham
durante la sua
battaglia polemica
contro la ricchezza
della Chiesa.

In effetti, Ockham segue l’imperatore, stabilendosi nel convento francescano di Monaco


di Baviera, e per circa vent’anni si occupa di filosofia politica, criticando la Chiesa di
Avignone e teorizzando un’autorità autonoma rispetto al primato papale. Pur con alcune
differenze, è una visione che Guglielmo condivide con Marsilio da Padova (1275-1342),
l’autore del Difensore della pace (Defensor pacis), una delle più lucide riflessioni politiche
tardomedievali, anche lui rifugiatosi a Monaco. Guglielmo di Ockham muore intorno
al 1347, probabilmente vittima dell’epidemia di peste che aveva colpito tutta l’Europa.

Le opere
Nella biografia intellettuale di Ockham si possono distinguere due periodi: un primo
periodo (relativo agli anni di Oxford e Londra, dove aveva studiato e insegnato) dedi-
cato alla riflessione filosofica e teologica, e un secondo momento dedicato invece alla
riflessione politica, nella città imperiale di Monaco. Possiamo pertanto distinguere le
sue opere in due gruppi:
1. gli scritti composti fino al 1325, frutto dell’insegnamento universitario: sono testi
teoretici che si occupano di logica, come la Somma logica e i Commenti ai testi di lo-
gica di Porfirio e Aristotele; di filosofia naturale, come il Commento alla Fisica di
Aristotele, di teologia, come il Commento alle Sentenze e Le 7 questioni quodlibetali,
la cui redazione si conclude ad Avignone;
2. la vasta produzione di opere politiche, composte a Monaco: molti sono scritti po-
lemici rivolti contro i diversi papi che si succedono ad Avignone (Giovanni XXII,
Benedetto XII e Clemente VI) e in difesa della povertà della Chiesa; vi sono però
diverse questioni e trattati di più ampio respiro, in cui egli si occupa della distin-
zione tra il potere spirituale e quello civile. Il più importante dei trattati politici
è il Dialogo tra un maestro e un discepolo sull’autorità del papa e dell’imperatore, ma si
possono ricordare anche le Otto questioni circa il potere del papa e il Breve discorso sul
governo tirannico.

FARE per CAPIRE • Costruisci una tabella mettendo in relazione i due periodi della biografia intellettuale
di Ockham con gli avvenimenti principali e le opere che li caratterizzano.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 363

L’ impostazione filosofica
Ockham non è il primo filosofo che proviene dall’Inghilterra, e Oxford era una sede
universitaria antica e con una tradizione di studi autorevole e originale; in lui si com-
pendiano però in modo eccellente i tratti distintivi che caratterizzeranno in epoca mo-
derna lo sviluppo del pensiero filosofico anglosassone: l’affermazione della realtà in-
dividuale concreta contro la metafisica delle essenze universali, un orientamento
empirista nella conoscenza, l’analisi e la critica del linguaggio, la difesa della libertà
in senso politico e personale.
La sua riflessione si presenta pertanto come un complesso ordinato e coerente: la
partizione delle opere in due periodi è giustificata dalle vicende storico-biografiche
che abbiamo presentato, ma dal punto di vista dottrinale bisogna rimarcare che non
vi è cesura, bensì continuità di ispirazione in tutta la produzione. Logica e politica
sono i due ambiti disciplinari che costituiscono il punto di partenza e quello di arrivo
della filosofia di Ockham, ma il filo rosso è dato da un’ontologia dell’individuo,
considerato l’unica realtà concreta esistente, e dalla conseguente critica delle astrazio-
ni veicolate dal linguaggio. Per queste tesi è considerato l’esponente principale del
nominalismo, una peculiare comprensione del linguaggio e della realtà che pervade
tutto il suo pensiero.

LOGICA E FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO


La funzione della logica nella costruzione del sapere
L’analisi del linguaggio e l’indagine delle strutture logiche del pensiero rappresentano la
risposta di Ockham alle questioni aperte dalle sintesi dottrinali del secolo precedente.
Il concordismo di Tommaso tra filosofia e teologia (❯ p. 312) si rivela per lui insoddisfacente
e inattuale; la fisica aristotelica, a un esame attento e scrupoloso, evidenzia limiti e con-
traddizioni: all’ordine razionale del mondo si contrappone la contingenza degli eventi, e
alle leggi necessarie dell’intelletto si affianca la volontà libera. In mancanza di riferimenti
teorici certi, Ockham riparte dalla logica, dalle leggi formali del pensiero che possono
vantare una validità universale, e mostra un’attenzione particolare per le strutture della
conoscenza, più che per i principi metafisici della realtà.
La logica, per Ockham, è lo strumento più utile per ogni conoscenza, e si rivela indi-
spensabile per il progresso del sapere. Diversamente dagli attrezzi che si impiegano
nei lavori manuali, che tendono a deteriorarsi, essa si affina e si sviluppa con l’uso; anzi,
quando si applicano i principi della logica alle altre scienze, non si progredisce soltanto
in queste ultime, ma si acquista anche una maggiore padronanza della prima. La logica
è assimilata a un’arte, cioè a un sapere pratico, che analizza come si svolgono le attività
della nostra mente; non è dunque soltanto uno strumento (órganon) trasversale alle disci-
pline, ma si applica anche e soprattutto al processo della conoscenza. Studia le forme del
pensiero e del linguaggio, indagandone il funzionamento e le regole, senza però avere di
per sé implicazioni ontologiche: la forma logica del linguaggio non rispecchia infatti la
struttura delle cose, così che non si possono trasferire le distinzioni e le astrazioni del
discorso sul piano reale. In questo senso lo studio della logica svolge un’importante fun-
zione critica contro il rischio di rendere realtà sostanziali i termini generali (come “ani-
male”, “uomo” ecc.).
364 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Linguaggio mentale e linguaggio espresso


Compito della logica è contribuire a una corretta conoscenza della realtà attraverso l’ana-
lisi del discorso scientifico, che si articola in ragionamenti, composti da proposizioni,
a loro volta costituite da termini, le unità minime dotate di significato all’interno del
linguaggio. È da qui che parte Ockham, in ossequio al principio metodico che impone di
passare dagli elementi più semplici a quelli più complessi: la prima parte della Somma
logica è dedicata infatti all’analisi dei termini, la seconda alle proposizioni, la terza al ra-
gionamento argomentativo.
In primo luogo il filosofo osserva che il linguaggio può essere espresso in forma orale
o scritta, oppure rimanere interiore. Questa distinzione è presente nella riflessione filo-
sofica latina fin da Agostino, ma l’apporto originale di Ockham consiste nel farne il pre-
ludio per approfondire l’uso e le funzioni del linguaggio. Un termine può infatti essere
mentale, proferito oralmente o presentato con segni grafici: il linguaggio non si identifica
dunque soltanto con la lingua parlata e la sua forma scritta, ma ha anche una forma
“mentale”, che viene a coincidere con il pensiero. L’attività del pensiero è quindi conce-
pita come discorso mentale, con una grammatica propria: al pari di quello orale o scrit-
to, anche il linguaggio mentale comprende non soltanto nomi e verbi, ma anche prono-
mi, avverbi, congiunzioni, e si articola in proposizioni. Esso non è però la trasposizione
interiore delle lingue parlate, ma ne è al contrario il fondamento. Infatti, come le parole
scritte sono la trascrizione di quelle pronunciate nel discorso orale e da esso dipendono,
così il linguaggio espresso dipende da quello mentale, dai nostri concetti (i termini men-
tali), chiamati anche «intenzioni dell’anima»:


nello stesso modo in cui la scrittura è un segno secondario rispetto ai suoni vocali, poiché le
parole occupano il primo posto tra tutti i segni istituiti convenzionalmente, così le parole
sono segni secondari di ciò di cui i concetti o le intenzioni dell’anima sono segni primari.
(Somma logica, I, 1, 12)

L’affermazione della priorità del linguaggio mentale su quello espresso (tanto orale
quanto scritto) si accompagna alla tesi secondo cui tra i diversi ordini del discorso non vi è
“rispecchiamento”: il linguaggio espresso non è il riflesso di quello mentale. La lingua
parlata o scritta è infatti convenzionale, ovvero si basa sull’accordo tra gli esseri umani: il
suono e la relativa forma grafica delle parole – i termini orali e scritti – dipendono da un
atto di creazione o meglio di istituzione volontaria, che è decisa in modo arbitrario e come
FARE per CAPIRE tale può essere modificata di comune accordo. Al contrario, un termine mentale, cioè un
concetto, è tale “per natura”: possiamo nominare il gatto in diverse lingue (cat, chat, Katze,
• Evidenzia con
due colori diversi gato ecc.) o servirci di diverse descrizioni (“felino domestico”, “animale molto diffuso nelle
le definizioni case italiane”, “essere peloso che fa le fusa”) o addirittura accordarci su un nome diverso,
riferite rispettiva- ma il concetto che ne abbiamo non muta, perché è determinato dall’esistenza concreta
mente al discorso
mentale e a dei singoli gatti. Senza l’esistenza individuale della realtà indicata dal termine, non po-
quello espresso. tremmo averne alcun concetto e di conseguenza non potremmo parlarne in alcun modo.

lessico termini orali e scritti le parole, le unità mini- termine mentale il concetto, l’unità minima del
filosofico me del linguaggio orale e scritto istituite per discorso mentale, che per Ockham precede e fon-
convenzione di comune accordo tra gli uomini. da il linguaggio espresso. Ogni termine mentale è
determinato dall’esistenza concreta degli oggetti
di cui è concetto, dunque è tale “per natura”.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 365

La teoria del segno


La differenza fra termini espressi e termini mentali dipende dal modo con cui essi svol-
gono la funzione di segno. Il segno, infatti, può rinviare alla realtà significata in modo
convenzionale, per abitudine condivisa dalla collettività (come un semaforo rosso indica
l’obbligo di fermarsi), o in modo naturale, per similitudine (come un emoticon sorridente
comunica gioia): i termini orali o scritti sono segni linguistici convenzionali, quelli mentali
sono segni naturali, prodotti da una realtà extramentale. In questo senso i termini mentali
possono essere utilizzati come criterio per distinguere il significato delle parole espresse:
due termini ad esempio sono sinonimi se, pur formalmente diversi, si riferiscono allo stesso
concetto. Il linguaggio mentale, invece, non presenta sinonimi, che servono all’eleganza
stilistica e non alla definizione concettuale: esso precede quello espresso e non appartiene
ad alcuna lingua, anzi talvolta mancano le parole per esprimerlo compiutamente. Tale in-
guaggio garantisce la possibilità di comunicazione tra gli uomini: se non ci fossero termini
naturali nell’anima non potrebbero nemmeno esserci termini convenzionali e arbitrari.

IL RAPPORTO TRA OGGETTO REALE, SEGNO NATURALE E SEGNO CONVENZIONALE MAPPA


CONCETTUALE
OGGETTO O REALTÀ EXTRAMENTALE il gatto in carne e ossa

determina un si riferisce a un

SEGNO NATURALE
l’idea di gatto
(il concetto o termine mentale)

è espresso da un si riferisce a un

SEGNO CONVENZIONALE
gatto, chat, cat ecc.
(il termine orale o scritto)

Significato e supposizione
In quanto segni convenzionali o naturali, i termini usati in una proposizione “stanno per”
qualcos’altro. Questo “stare per” è una relazione che viene definita supposizione e che
non indica il contenuto mentale – il significato, ciò che il soggetto pensa, che ha appunto
nella mente –, ma il modo in cui un termine “sta per” l’oggetto significato o vi si riferisce.

segno qualsiasi notazione che rinvii oltre sé supposizione (in latino suppositio, da suppó- lessico
stessa e “stia per” qualcos’altro. Il segno è con- nere, “porre in luogo di altro”, “sostituire”) rela- filosofico
venzionale se il legame con l’oggetto cui riman- zione che definisce il modo in cui un termine, nel
da è stabilito con un accordo tra coloro che uti- contesto di una proposizione, sta al posto di un
lizzano il segno stesso; è naturale se è l’oggetto oggetto significato.
indicato che determina il segno.
366 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Qualsiasi termine, in quanto tale, è dotato di significato; la sua supposizione invece si dà


soltanto nel contesto di una proposizione e può essere di tre tipi:
1. una supposizione personale, in cui il termine “sta per” una realtà individuale,
come nella frase “il gatto sta dormendo”. È il caso più frequente e paradigmatico;
2. una supposizione semplice, dove il termine “sta per” un concetto, una nozione
FARE per CAPIRE comune, cioè è un segno che si riferisce a più cose, come nell’affermazione “il gat-
to è una specie”;
• Indica quale
esempio di 3. una supposizione materiale, in cui il termine si riferisce a sé stesso in quanto tale,
supposizione cioè alla materia di cui è composto (il suono della voce o le lettere), come quando si
(personale,
dice “gatto è composto di 5 lettere”.
semplice,
materiale) L’importanza della teoria è duplice. In primo luogo, evidenziando il fatto che i termini
configura ciascuna stanno al posto delle realtà che significano, mostra che lo scopo del linguaggio (e
delle seguenti
proposizioni: delle proposizioni che costituiscono la scienza) non è soltanto quello di comunicare
“pappa è un contenuti mentali, ma anche di parlare del mondo, aprendo il pensiero alla realtà. In
suono labiale”, secondo luogo, grazie alla distinzione tra i diversi tipi di supposizione, si può dire che,
“Michele corre”,
“il lupo è un anche se il linguaggio opera con astrazioni e concetti, la realtà a cui si riferisce è sempre
carnivoro”. individuale.

LA CONOSCENZA DELLA REALTÀ


Il rifiuto degli universali
La teoria linguistica è sufficiente a rendere ragione della presenza di termini generali nel
linguaggio – ad esempio in proposizioni quali “il gatto è una specie”, in cui il termine
“gatto” rinvia a un concetto generale –, senza bisogno che si attribuisca loro un qualche
livello di realtà.
Secondo Ockham, infatti, non esistono realtà universali e quindi i concetti generali
non sono entità o sostanze extramentali. Universale è ciò che è predicabile di più cose,
e in tal senso è indubbio che esistano termini universali, come “uomo” e “gatto”: essi
sono in primo luogo dei concetti universali e, derivati da questi, dei nomi universali, propri
del linguaggio espresso. Tali termini si riferiscono a più individui, ma l’universalità
riguarda unicamente la funzione del segno: non si applica alla realtà indicata, che è
costituita da un insieme di oggetti individuali, e nemmeno al segno stesso, che è una sin-
gola entità, prodotta da un atto individuale della mente o della voce. Il fatto che si pen-
sino diversi oggetti insieme (ad esempio attraverso il concetto generale di “uomo”, che
comprende l’insieme degli uomini) o che un unico termine sia predicabile di molti (la
parola “uomo” può essere riferita a tutti gli uomini esistenti) non implica che tali termini
(il termine mentale e quello espresso) siano universali. E, soprattutto, non autorizza a
pensare che oltre ai singoli esista anche il genere che li accomuna e che, ad esempio, oltre
agli individui umani esista l’“umanità”. La forma linguistica non ammette dunque per
Ockham un’immediata trasposizione al piano della realtà: una rigorosa analisi del lin-
guaggio mostra il carattere inutile di tante astrazioni metafisiche, di cui la conoscenza
❯ testo 1 p. 375 può fare a meno e che vanno quindi drasticamente eliminate.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo in che cosa consistono l’universalità del segno, la realtà indi-
cata dal segno e il segno stesso.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 367

Il rasoio di Ockham
Il ragionamento con cui Ockham nega la realtà degli universali è coerente con il suo pre-
supposto metodologico fondamentale, definito rasoio di Ockham. Si tratta del principio
per cui “non si devono moltiplicare gli enti senza necessità” (entia non sunt multiplicanda
praeter necessitatem), cioè non bisogna essere ridondanti nelle spiegazioni scientifiche e
occorre evitare il ricorso a enti superflui o inesistenti. È quello che nella scienza mo-
derna è stato chiamato “principio di economia”: se posso arrivare alla stessa soluzione,
spiegando il fenomeno in maniera ugualmente valida, ma più semplice, devo preferire
questa via al percorso più complesso.
Sia la metafora del rasoio sia la sua formulazione più conosciuta non si trovano ripor-
tate alla lettera nelle opere di Ockham, ma interpretano bene il suo pensiero e l’assunto
per cui è «inutile servirsi di più entità, quando possiamo fare lo stesso con meno» ( frustra
fit per plura quod potest fieri per pauciora, Somma logica, I, 1, 12). Ciò non significa però che
la spiegazione più semplice sia preferibile in assoluto, ma soltanto a parità di potere espli-
cativo e soltanto se è possibile verificarne la validità. Per fare un confronto sul piano
pratico, solitamente non siamo attenti a spendere poco a ogni costo, ma unicamente a
non pagare di più un prodotto identico o analogo a quello di uso abituale, che possa as-
solvere esattamente la stessa funzione. La semplicità richiesta non è dunque un invito
alla superficialità, né a fermarsi alla prima ipotesi (magari quella più ingenua), bensì ad
accogliere la spiegazione che si serve del minor numero di elementi, in quanto meglio
verificabile empiricamente.

Conoscenza intuitiva e astrattiva


In coerenza con il principio metodologico del “rasoio”, orientato alla semplicità e alla
concretezza, Ockham elabora una visione epistemologica spiccatamente empirista, in
cui ogni rappresentazione generale e astratta viene fatta dipendere da una conoscenza
immediata di oggetti individuali e concreti.
Ockham riprende a questo proposito la distinzione di Duns Scoto tra conoscenza in-
tuitiva e conoscenza astrattiva, ma la modifica in alcuni punti fondamentali, in confor-
mità con la sua ontologia. Il merito di Scoto era stato di non riservare la conoscenza in-
tuitiva soltanto ai sensi, ma di renderla una caratteristica propria anche della facoltà
intellettuale, reinterpretando perciò il rapporto tra sensi e intelletto. Quello che Ockham
non può accogliere in base alle sue convinzioni metafisiche è però la teoria della specie
(❯ p. 360) che Scoto aveva posto a fondamento della conoscenza astrattiva, perché postu-
lare tale “entità” metafisica, intesa come elemento intermedio tra la mente e l’oggetto
della conoscenza, risulta in definitiva ingiustificato e “inutile” sulla base del principio di
economia: si può dire che la specie sia la prima vittima illustre del suo rasoio.
Secondo Ockham per una conoscenza astrattiva non è necessario isolare una specie, una
natura comune formalmente distinta dall’individuo, ma è sufficiente prescindere (per l’ap-
punto “astrarre”) dall’esistenza dell’oggetto e generalizzare le sue caratteristiche individuali.

rasoio di Ockham principio metodologico secondo cui si deve evitare il ricorso a enti superflui o lessico
inesistenti, per spiegare realtà che possono essere chiarite con un minor numero di principi. filosofico
368 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Ciò che produce una conoscenza astrattiva non è dunque la specie, una forma universale
presente nella realtà individuale, ma sempre e soltanto la precedente conoscenza intuitiva,
come dimostra il fatto che una persona non vedente non può avere alcun concetto di colore,
in quanto non può avere intuizione diretta di un oggetto colorato.
Diversamente da Scoto – secondo cui la conoscenza intuitiva aveva come oggetto l’esi-
stenza e quella astrattiva l’essenza (o specie) –, Ockham ritiene che le due forme di cono-
scenza colgano lo stesso oggetto, l’una in modo diretto ed evidente, l’altra in modo derivato.
La conoscenza intuitiva consente di formulare giudizi evidenti su realtà individuali,
e rappresenta il livello fondamentale e imprescindibile del sapere: è l’atto con cui si coglie
un oggetto immediatamente presente, e dal punto di vista conoscitivo dà origine a un
termine semplice. La conoscenza astrattiva, invece, consente di elaborare giudizi com-
plessi, espressi in proposizioni, ma presuppone la conoscenza intuitiva: non è possibi-
le avere una conoscenza astratta di qualcosa se prima non ne abbiamo avuto l’intuizione.
La conoscenza intuitiva è pertanto la fonte di ogni conoscenza ed è su questa che si fonda
la possibilità di giudicare la verità o la falsità di un’asserzione.

FARE per CAPIRE • Costruisci una tabella definendo la conoscenza intuitiva e quella astrattiva e indi-
cando le loro rispettive caratteristiche.

METAFISICA E TEOLOGIA
La realtà degli individui
Dal punto di vista conoscitivo Ockham sostiene un empirismo radicale – in quanto per lui
fondamento del sapere è la conoscenza intuitiva di enti concreti, da cui deriva ogni pos-
sibile astrazione –; parallelamente, dal punto di vista ontologico delinea un mondo di in-
dividui, di cose singole, che non posseggono alcuna generalità.
A partire da tale assunto, sono almeno tre le conseguenze teoriche di rilievo, che toc-
cano tanto la metafisica quanto la teologia:
1. l’affermazione della contingenza della realtà;
2. l’idea dell’infinito;
3. la libertà dell’agire umano e divino.

La realtà contingente
Conosciamo con evidenza soltanto quello che attingiamo dall’esperienza sensibile: la
conoscenza intuitiva ci informa su come sono di fatto le cose, non su come è necessario che
siano. Le leggi che riconosciamo nella realtà non sono eterne o necessarie, ma seguono
una regolarità unicamente probabile. Ad esempio, non possiamo – se non in via ipote-
tica – prevedere gli effetti di un evento considerato come “causa”: se osserviamo un fatto
che ne provoca un altro, possiamo soltanto constatare il loro legame sulla base dell’espe-
rienza diretta, ma non siamo autorizzati a estendere tale legame a tutti i casi analoghi
ricavandone una legge generale e necessaria. Allo stesso modo, non possiamo andare
oltre le qualità sensibili che percepiamo concretamente, ipotizzando una “sostanza” che
ne sarebbe il supporto, in quanto tale sostanza è fuori dalla nostra esperienza.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 369

❯ La Creazione,
part., miniatura
dal manoscritto
del XIV secolo
Libro della proprietà
delle cose, opera del
monaco francescano
Barthélemy l’Anglais,
Madrid, Museo
Lazaro Galdiano.

L’empirismo di Ockham comporta quindi il riconoscimento dell’assoluta contingenza


del mondo: l’uomo può attingere soltanto l’evidenza di un mondo di cose singole, sulle
cui relazioni può fare congetture, ma che non presentano alcuna necessità.
Qualche secolo più tardi, la rivoluzione scientifica sulla base dell’osservazione dei dati
empirici riprenderà l’idea che le leggi non sono passivamente scoperte e contemplate nella
natura, ma che esprimono una costruzione della mente umana per comprendere la real-
tà. E in effetti la posizione di Ockham rappresenta, per diversi aspetti, un’apertura alla
filosofia moderna.

FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo in che senso per Ockham si può parlare di “cause” o “sostanze”
soltanto in via ipotetica.

Il fondamento teologico dell ’empirismo


Il tratto peculiare di Ockham, che sarebbe stato difficile condividere per un filosofo moder-
no, è che il suo empirismo radicale ha un fondamento eminentemente teologico. L’afferma-
zione della contingenza del reale non nasce da uno scetticismo nei confronti della razio-
nalità né da dubbi sull’esistenza di Dio o sul suo intervento nel mondo; al contrario,
dipende dall’esigenza di salvare soprattutto la libertà di Dio. Il riconoscimento della con-
tingenza della realtà non esclude l’esistenza di un ordine del mondo; anzi, l’osservazione e
lo studio della natura alimentano la convinzione che esso esista e che in qualche modo
l’uomo possa arrivare a conoscerlo. Tuttavia, non si tratta di un ordine necessario, bensì
appunto contingente, perché Dio ha creato il mondo con un atto libero e nella sua imper-
scrutabile volontà avrebbe potuto crearne altri, contemporaneamente o in successione, se-
guendo princìpi diversi, o intervenire in qualsiasi istante nella natura in modo imprevedibile.

contingenza nozione che designa come qual- tuitiva permette esclusivamente di constatare i lessico
siasi realtà del mondo non sia necessaria, e pos- fatti per come sono e riconoscere la regolarità filosofico
sa essere diversa da come è o addirittura non delle relazioni che li collegano, ma non la loro ne-
essere. In Ockham implica che la conoscenza in- cessità.
370 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Un ordine di questo tipo lascia aperta la possibilità della conoscenza umana, ma nello stes-
so tempo non compromette l’onnipotenza e la libertà di Dio. L’operato divino non è vin-
colato a una necessità razionale: in questo senso non si può dimostrare razionalmente
l’esistenza di Dio, né partendo da una definizione che la renda evidente, né muovendo
dagli effetti cosmologici, da cui risalire alla causa prima.
Se infatti la ragione fosse in grado di acquisire una tale certezza in materia di fede, la
rivelazione risulterebbe superflua, cioè eliminabile secondo il principio di economia. Il
concordismo di Tommaso tra ragione e fede pare in questo senso a Ockham pericoloso,
perché finisce per non distinguere nettamente il piano razionale umano e quello della
volontà libera di Dio, con il rischio di inserire anche Dio entro leggi razionali necessarie
e definire la teologia come scienza secondo il modello aristotelico, e pertanto pagano. È
per questo che Ockham distingue e separa filosofia e teologia.
L’affermazione della contingenza della realtà comporta dunque l’esaltazione dell’on-
nipotenza e della libera volontà di Dio; ciò non significa che il suo operato sia arbitrario
e irragionevole, ma che in primo luogo si deve prendere atto della trascendenza e del
valore imperscrutabile dei disegni divini.

FARE per CAPIRE • Scrivi a margine del testo perché l’affermazione della contingenza del mondo
salvaguarda la libertà di Dio.

Fisica e teologia
L’ipotesi dell’infinità dei mondi divina implica infiniti mondi possibili, sottoposti a leggi
el Trecento si infrange, almeno a livello di ipotesi diverse, il cosmo chiuso e antropocentrico dell’aristoteli-
N logica, la visione della finitezza del cosmo e della
sua unicità. È un tema discusso soprattutto all’interno
smo cristiano si apre e si prendono in considerazione altre
ipotesi teoricamente valide, al di là di quanto ritenuto
della teologia: da un lato si intende affermare che l’illi- fisicamente possibile.
nche la dottrina teologica della “transustanziazione”
mitata potenza di Dio possa creare infiniti mondi;
dall’altro l’unicità di questo mondo è ritenuta presuppo-
sto necessario per garantire l’universalità del messaggio
A – il modo in cui viene spiegata la trasformazione eu-
caristica del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo –
cristiano e della Chiesa. Così, nel Trecento si continua ad apre questioni innovative in ambito fisico: se il pane e il
ammettere che – di fatto – esista un solo mondo, ma per vino continuano ad apparire tali, pur trasformati in un’al-
non ledere l’infinita onnipotenza divina viene ammessa tra sostanza, se ne può ricavare che gli accidenti possono
anche la possibilità teorica dell’esistenza di più mondi al di sussistere indipendentemente dalla sostanza a cui ine-
fuori di questo universo finito. Tale concezione non rima- riscono. Ma allora, oltre alle qualità come quelle che carat-
ne un atto di fede teologico, ma ha ricadute teoriche an- terizzano il pane e il vino, ormai separate dalla vera so-
che nella fisica: a differenza di quanto si crede comune- stanza, si può ipotizzare che anche quantità e dimensioni
mente, la teologia tardomedievale non ostacola, ma esistano di per sé, prive di una sostanza cui fare riferimen-
anzi accelera lo sviluppo scientifico, perché evidenzia i to, contro la teoria aristotelica.
limiti dei paradigmi tradizionali di spiegazione.
Il ruolo della teologia
La messa in discussione delle tesi di Aristotele i osserva insomma uno strano capovolgimento di ruo-

In particolare, grazie alla riflessione teologica si avver-


tono le prime crepe dell’aristotelismo nella fisica. Im-
S li: in questo secolo è la teologia che in nome della po-
tenza divina suggerisce ipotesi impensabili e rivoluziona-
maginare nuovi mondi, ordinati secondo leggi proprie, rie sul cosmo, mentre la fisica aristotelica frena, tacciando
fa vacillare la centralità e unicità dell’uomo nell’uni- di assurdità le congetture prodotte. Ma il tarlo e il seme
verso; cambia l’idea di movimento, di tempo e di spazio, del dubbio sono ormai gettati: se in nome di un principio
e si comincia anche a pensare che il vuoto, pur impossi- teologico si può contestare la validità della fisica aristoteli-
bile in natura, sia logicamente possibile. Se l’onnipotenza ca (o almeno limitarla), allora si può trovare un’alternativa
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 371

L’ idea dell’ infinito


Per Ockham l’uomo è immerso in un mondo contingente, e può cogliere soltanto realtà
individuali; la conoscenza scientifica umana non può pertanto essere concepita come il
rispecchiamento di leggi razionali, universali e necessarie: il mondo non è più uno spet-
tacolo da contemplare, ma un insieme di enti concreti cui attribuire una parte, una collo-
cazione, delle relazioni reciproche. In questo senso la razionalità non consiste in un ipo-
tetico ordine oggettivo e assoluto della realtà, ma è in qualche modo impressa dall’uomo
all’insieme dei fatti contingenti oggetto di esperienza.
Il fatto che le leggi della natura siano intese come il frutto della costruzione della co-
noscenza umana apre la scienza all’elaborazione di nuove ipotesi e di inedite visioni del
mondo, che incrinano la concezione di un cosmo perfetto e finito. La possibilità che l’u-
niverso non abbia limiti (almeno come ipotesi di lavoro) è una conseguenza dell’irrinun-
ciabile primato esistenziale dell’individuo: se esistono i singoli e non le specie (che
per Aristotele erano eterne e soprattutto numericamente limitate), non vi è un numero
finito entro cui contenere gli individui. I confini dell’universo cominciano ad estendersi
al di là della concezione tradizionale aristotelica e diventa pensabile l’idea di infinito
(❯ Per approfondire). La stessa conoscenza viene compresa come attività inesauribile e
infinita, che non giunge mai a compimento e letteralmente “non ha fine”.

che valga anche a livello naturale, al di là dell’immagine Tommaso sono ormai divenute impraticabili. La cono-
necessaria, perfetta, finita del cosmo che era stata finora scenza naturale si considera sempre più autonoma e ri-
data per scontata. nuncia al compito di integrare la visione fisica del cosmo
con quella trasmessa dalla fede: ne segue il disinteresse
C osì, dall’affermazione – teologicamente ineccepibile –
che Dio può fare tutto (ad esempio creare un sasso al di
là dei confini dell’universo), si passa alla domanda – non più
della filosofia nei confronti delle questioni teologiche,
che non possono più essere tematizzate con gli strumenti
teologica, ma fisica – relativa a che cosa accadrebbe se un di una razionalità costruita sul mondo reale ed esistente.
uomo si sporgesse dall’ultimo cielo, alzando un braccio. La
questione del concepire qualcosa al di là dell’universo cono-
sciuto viene rigettata sulla base dell’assunto aristotelico
D al punto di vista epistemologico, trovano spazio nella
scienza anche elementi ricavati ex suppositione, cioè
per “induzione”, non dotati dell’universalità di cui godo-
(esposto nel De coelo) che in questo mondo esiste tutta la no le conclusioni di premesse certe e necessarie, ma osser-
materia possibile; ma in risposta si obietta che se Dio non vabili “perlopiù”, con regolarità, e caratterizzati quindi da
potesse creare altra materia risulterebbe debole e incapace: un certo grado di probabilità. L’aspetto congetturale e
all’impossibilità naturale si replica facendo valere la possi- probabilistico favorisce lo sviluppo di elementi osservati-
bilità soprannaturale. Il mondo razionale, finito e perfetto vi ed empirici. Inoltre, se al di là del cosmo esistente si
della fisica aristotelica si trasforma in un universo contin- possono ipotizzare infiniti mondi, allora nella conoscenza
gente, regolato da leggi non necessarie, i cui fenomeni si della natura ha un ruolo anche la facoltà dell’immagina-
conoscono soltanto in modo parziale ed empirico. zione, che prospetta possibilità alternative.

Il nuovo metodo della filosofia naturale Il teorema dell’onnipotenza divina, pertanto, se da un


lato priva di certezze la conoscenza del mondo fisico e
P iù che le risposte, sono le domande in sé che aprono
possibilità inedite al pensiero: si comincia a usare la
struttura logica della congettura, si ragiona servendosi di
ne acuisce i limiti derivati dalla sua contingenza, dall’al-
tro arricchisce il ragionamento scientifico di nuovi mo-
delli di ragionamento.
entità immaginarie, di ragionamenti ipotetici, si esplo-
ra il regno della probabilità.
Per un quadro più ampio si veda: L. Bianchi, “Il cielo e il mon-

L a conseguenza diretta di queste discussioni è che la


sintesi e la concordia tra ragione e fede concepite da
do”, in P. Rossi - C. A. Viano, Storia della filosofia. 2. Il Medio-
evo, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 488-506.
372 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Il nuovo valore della libertà


Di fronte a una realtà aperta alla conoscenza e alla scoperta di leggi, l’uomo recupera
anche uno spazio inedito di libertà. Tale libertà si esprime, per Ockham, innanzitutto
nella fede, che è assenso della volontà e non un atto prioritariamente intellettuale:
per questo è una scelta che non discende da nessuna evidenza razionale che possa in-
durre a credere. Affrancando il rapporto di fede da sovrastrutture razionali, si libera
anche l’atteggiamento di Dio verso l’uomo, soprattutto per quanto riguarda premi e
punizioni. Non si “merita” la salvezza, nel senso che nessun comportamento moral-
mente degno può esigere da Dio una controparte, una ricompensa: in questa nuova
ottica, nulla può costringere Dio a un’azione salvifica, che si radica invece nella sua
pura volontà imperscrutabile.
Al di là dell’ambito religioso, l’uomo sperimenta la propria libertà nella ricerca
scientifica, una conoscenza da costruire sulla base dell’osservazione attenta della na-
tura, senza lasciarsi condizionare da opinioni e autorità. Ockham rivendica un’analoga
libertà in ambito sociale, nei confronti sia del potere religioso sia di quello civile, come
emerge nelle sue opere politiche.

LA POLITICA: ELOGIO DELLA LIBERTÀ E DELLA LAICITÀ


La disputa sulla povertà
Ockham si trova per la prima volta a occuparsi di questioni politiche in occasione del
soggiorno forzato ad Avignone, in attesa del pronunciamento della commissione teologi-
ca sull’ortodossia delle sue opere. In quegli stessi anni aveva raggiunto il suo culmine
l’accesa disputa sulla povertà di Cristo e della Chiesa, che opponeva il pontefice all’ordi-
ne francescano, e in particolare alla corrente interna degli “spirituali”, che auspicavano
un ritorno a una povertà radicale in nome dell’esortazione evangelica a privarsi di
ogni bene per seguire Cristo (Luca 14, 33; Matteo 19, 21).
Dietro una posizione che apparentemente si limita a invitare i cristiani a vivere in
povertà, seguendo l’esempio di Cristo, si cela in realtà una feroce critica al diritto ri-
vendicato dalla Chiesa di possedere beni e anche di esercitare un potere temporale.
Il riferimento al pauperismo evangelico è lo spunto per stigmatizzare la pretesa teocra-
tica della Chiesa, oltre che per attaccare il lusso e la ricchezza della curia pontificia: non
quindi una questione meramente esegetica o devozionale, ma una disputa politica con
forti implicazioni sul potere del pontefice e sul suo legittimo esercizio. Per questo moti-
vo papa Giovanni XXII fa appello ad argomentazioni giuridiche, fondandosi sul princi-
pio espresso dal Codice di Giustiniano secondo cui la distinzione tra proprietà in senso
stretto e uso legittimo dopo un certo tempo viene meno. Se qualcuno mi presta un og-
getto per un periodo limitato, è evidente che non ne sono il proprietario, ma se quest’u-
so si protrae in maniera permanente e senza condizioni, quale differenza sussisterà tra
possesso e prestito? Con questo argomento il papa ritiene legittimo il diritto della Chie-
sa (intesa come istituzione, e non nei suoi singoli membri) di possedere ricchezze e di
esercitare un dominio temporale, secondo la dottrina della “pienezza del potere” (pleni-
tudo potestatis) che spetta al pontefice, cui è subordinata ogni autorità temporale.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 373

Ockham risponde a questi argomenti discutendo l’origine della proprietà, che a suo
avviso non è fondata su una legge naturale, ma è la conseguenza del peccato originale.
Infatti, nel giardino dell’Eden Adamo ed Eva potevano servirsi liberamente di qualsiasi
cosa; soltanto in seguito alla cacciata dal paradiso vengono elaborate norme positive, un
accordo tra gli uomini per definire proprietà e diritti e poter convivere pacificamente. La
regola dei francescani si pone invece al di là e prima di tale diritto positivo: ne è prova il
fatto che, benché essi godano di un usufrutto sui beni che può anche durare a lungo (ad
esempio per i loro conventi), non maturano su tali proprietà alcun diritto legale. Questa
dovrebbe essere la vita della Chiesa intera e soprattutto quella del suo capo.

FARE per CAPIRE • Individua nel testo il completamento della frase seguente: “La difesa della pover-
tà di Cristo implica...”.

Potere spirituale e potere temporale


La polemica con il papa coinvolge tutta la concezione teocratica, che faceva dipendere il
potere temporale da quello spirituale. Ockham contesta la tesi per cui il pontefice gode
della “pienezza del potere” sulla base di argomenti di ordine teologico e storico-politico.
In primo luogo, non vi è nel Vangelo il conferimento all’apostolo Pietro, primo pontefice
della Chiesa cattolica, di nessuna giurisdizione temporale, anzi si affermano la sepa-
razione dei due ambiti e la legittimità dell’Impero romano, sancita dall’obbligo di pagare
le tasse («date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio», Matteo 22, 21). In
secondo luogo, è la nozione stessa di “autorità” del papa, intesa anche nell’accezione spi-
rituale, che va riformulata: in senso cristiano non si deve parlare di “potere” come “si-
❯ QUADERNO PER
gnoria” e “imposizione”, bensì come guida spirituale che si pone a servizio dei fedeli. È
LE COMPETENZE E
infatti per l’utilità dei credenti che tale autorità è stata istituita, e non come onore o bene- IL NUOVO ESAME
ficio personale; pertanto è un ministero, un servizio, e non un potere coercitivo. p. 34

❯ Giotto, La rinuncia
ai beni, dal ciclo
di affreschi dedicato
alle Storie
di San Francesco,
ca. 1325-1328,
Firenze, Basilica
di Santa Croce,
Cappella Bardi.
374 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

La supremazia del pontefice nella sfera temporale è contestata da Ockham anche con
un argomento di ordine storico: l’Impero romano esisteva ben prima della Chiesa ed è
a questo impero che Carlo Magno e i suoi successori devono la legittimità e l’autonomia
del loro potere senza bisogno di alcuna investitura papale.
Le due autorità non sono però per Ockham totalmente indipendenti e separate, ma in
qualche modo si integrano, e una può supplire all’altra in caso di inadempienza. In via
eccezionale, il papa può agire in ambito temporale, se non provvedono le autorità com-
petenti; dal canto suo l’imperatore deve difendere la fede cristiana e intervenire nel caso
in cui il papa aderisse a posizioni dottrinali manifestamente eretiche: come si è visto,
questo non è un caso limite, puramente teorico, ma per Ockham rappresenta la situazio-
❯ testo 2 p. 377 ne effettiva della Chiesa del suo tempo.

FARE per CAPIRE • Individua e sottolinea nel testo i motivi per cui il potere temporale non spetta alla
Chiesa.

La libertà del cristiano


Nel difendere il potere politico dalle interferenze e dalla pretesa superiorità di quello
papale, Ockham non si sbilancia nella difesa a oltranza dell’imperatore, ma tenta piutto-
sto di mettere limiti a entrambi, in nome della libertà dell’uomo.
Il potere politico mira all’organizzazione pacifica della convivenza umana, ma deve
godere del consenso dei sudditi e non può essere assoluto o dispotico. Da parte sua la
Chiesa è la moltitudine dei credenti, la somma di individui accomunati dalla fede, e non
una struttura piramidale: con accesi intenti polemici Ockham ribadisce che l’insegna-
mento cristiano non è a disposizione del clero, ma deve essere rivolto a tutto il popolo
di Dio, ai laici e alla gente semplice. L’attacco più forte alla concezione teocratica viene
proprio dalla consapevolezza del valore dell’individuo, della laicità e soprattutto della
libertà. La legge cristiana è infatti istituita da Cristo come legge di libertà che si contrap-
pone alla condizione descritta nell’Antico Testamento: se il papa avesse davvero ricevuto
una pienezza di poteri sia nelle cose temporali sia in quelle spirituali, i cristiani vivrebbe-
re in una condizione di schiavitù più intollerabile e pesante di quella dell’antica legge.
Tale pretesa, dunque, non può che essere falsa, eretica e dannosa per la pacifica convi-
venza. L’autorità del papa non deve travalicare i propri limiti neppure in ambito spiritua-
le: la Chiesa non deve prescrivere norme e vincoli che non siano necessari né interferire
con le scelte libere dei singoli, a meno che queste non siano esplicitamente contrarie alle
leggi divine. Il magistero si deve limitare a esortare e consigliare, rispettando però la
coscienza e l’autonomia dei fedeli, senza imporre azioni e comportamenti.
Si può pertanto concludere che, come nella logica e nella metafisica Ockham combat-
te il realismo degli universali, così nella riflessione politica la sua teoria sancisce la fine
dei poteri universali in nome della libertà del singolo e in fondo anche il declino della
ESERCIZI cultura religiosa medievale.
375

TESTI del capitolo 22


Il XIV secolo

OCKHAM
t1 Che cos’è l’universale? dalla Somma logica
Nel brano emerge la concezione degli universali intesi come termini generali, mentali o espressi: per
Ockham si tratta in entrambi i casi di segni (naturali o convenzionali), privi di una realtà extramentale.

[La natura degli universali] Il concetto è singolare e universale: allo stesso modo per
cui diciamo che il sole è causa universale e tuttavia in realtà è una cosa particolare e sin-
golare. Il sole infatti si dice causa universale perché è causa di molte cose, cioè di tutte
queste cose inferiori generabili e corruttibili; e si dice causa particolare perché è una sola
5 causa e non più cause: così il concetto (intentio animae) si dice universale perché è un segno
predicabile di molte cose e si dice singolare perché è una cosa sola e non più cose. Tuttavia
si deve sapere che l’universale è duplice. C’è un universale naturale che è un segno natu-
rale predicabile di molti, allo stesso modo che il fumo naturalmente significa il fuoco e il
gemito dell’ammalato il dolore e il riso la gioia interna; e questo universale non è altro che
10 il concetto, così che nessuna sostanza e nessun accidente «extra animam» è universale in
questo senso. Di questo universale parleremo nei capitoli seguenti.
C’è poi un altro universale per convenzione; e, in questo senso è universale la parola, che
in realtà è una qualità numericamente una; poiché è un segno istituito apposta per indica-
re molte cose. Quindi come una parola si dice comune, così si può dire universale, ma tale
15 proprietà non l’ha di sua natura, ma solo per volere di chi l’ha istituita. […]
[La non sostanzialità degli universali] Che infatti nessun universale sia una qualche sostan-
za esistente fuori dall’anima può essere dimostrato con evidenza.
In primo luogo così: nessun universale è una sostanza singolare e numericamente una.
Infatti se si dicesse di sì, ne seguirebbe che Socrate sarebbe qualche cosa di universale;
20 poiché non c’è una ragione speciale che sia universale una certa sostanza singolare piutto-
sto che un’altra: quindi nessuna sostanza singolare è qualche cosa di universale, ma ogni
sostanza è numericamente una e singolare, poiché ogni cosa è una sola cosa e non più
cose. Difatti se è una cosa e non più cose, è una di numero. […]
Similmente se un qualche universale fosse una sostanza esistente nelle sostanze singolari
25 distinta da esse, ne seguirebbe che potrebbe esistere senza di esse, perché di ogni cosa che
è di sua natura anteriore a un’altra Dio può farla esistere senza di essa; ma la conseguenza
376 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

è assurda, dunque, ecc. Inoltre se quella opinione fosse vera, nessun individuo potrebbe
TESTI

essere creato se preesistesse un qualche individuo, poiché il suo essere non sarebbe tratto
dal nulla, se l’universale che è in esso, prima esistesse in un altro […]
30 Tale universale inoltre non potrebbe essere ritenuto come qualche cosa totalmente fuori
dell’essenza dell’individuo: farebbe parte quindi dell’essenza dell’individuo; di conseguenza,
l’individuo si compone di universali e così l’individuo sarà piuttosto universale che singolare.
Parimenti ne segue che qualche cosa dell’essenza di Cristo sarà misero e dannato; poiché
quella natura comune esistente realmente in Cristo e in un dannato sarà dannata, perché
35 lo è in Giuda. Ora questo è assurdo, quindi, ecc.
(Summa totius logicae, I parte, capp. XIV-XV, trad. it. di E. Bettoni, in Grande Antologia Filosofica,
vol. 4, Il pensiero cristiano, Marzorati, Milano 1954, pp. 1439-1440)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Definisci che cosa intende l’autore con «universale» e con «singolare».
2. Riporta a margine degli argomenti addotti da Ockham contro l’esistenza reale degli universali qual
è la tesi che viene in essi sostenuta.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-15 Per Ockham il concetto è, insieme, righe 16-35 Ockham propone quindi alcuni argo-
singolare e universale: singolare perché è di per sé menti contro l’esistenza reale extramentale degli uni-
una cosa singola, un singolo termine mentale; uni- versali. Secondo il primo, l’universale non è una sostan-
versale perché si riferisce a molte cose (ad esempio za individuale, altrimenti non potrebbe distinguersi
il concetto di cavallo si riferisce a tutti i cavalli esi- dagli individui esistenti, come Socrate; ma è evidente
stenti); l’universalità, pertanto, risiede nella sua che Socrate non è un universale, perché è un individuo
funzione di segno, ossia di qualcosa che sta per unico, una sola sostanza singolare.
qualcos’altro. Gli universali possono essere di due L’universale non può neppure essere una qualche so-
tipi. Sono naturali quando risultano prodotti dalla stanza esistente nelle sostanze singolari, come se ci
realtà extramentale e quindi necessariamente con- fosse in esse una «natura comune»: tale natura, infat-
nessi all’oggetto, o agli oggetti, di cui sono segno ti, potrebbe esistere di per sé, indipendentemente
(come il fumo rispetto al fuoco). Di questo tipo è dagli individui, ma ciò è assurdo (dovrebbe esistere
appunto il concetto, che si differenzia dalle realtà ad esempio la natura umana indipendentemente da-
extramentali le quali, essendo sostanze, non sono gli uomini). Inoltre questa ipotesi porterebbe a nega-
predicabili di altro. Gli universali possono poi essere re la creazione, perché l’individuo non sarebbe creato
tali per convenzione, cioè per la precisa volontà di dal nulla, essendoci qualcosa che gli preesiste.
chi li istituisce decidendo che siano riferibili a molte Ancora, se nell’individuo ci fosse una sostanza univer-
cose di un certo tipo. Di questo genere sono le pa- sale indipendente, essa farebbe parte della sua essen-
role scritte e orali, le quali non hanno un valore uni- za ed egli risulterebbe, insieme, universale e singolare.
versale per natura, ma lo assumono per una decisio- Allo stesso modo, Cristo dovrebbe essere considerato
ne condivisa (si decide ad esempio che la parola insieme misero e dannato, perché in lui – che si è fatto
“gatto” indichi quegli specifici animali, di cui abbia- uomo – ci sarebbe la stessa «natura comune» presen-
mo un concetto nella mente). te negli uomini dannati come Giuda; ma questo è as-
surdo e quindi l’assunto di partenza va negato.

RIFLETTI
Il testo riporta soltanto alcuni degli argomenti di Ockham contro l’esistenza dell’universale.
Prova ad aggiungerne almeno altri due elaborati da te.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 377

TESTI
t2 L’autorità dell’imperatore non deriva dal papa
dal Breve discorso sul governo tirannico
In questo testo – composto tra il 1341 e il 1342 – Ockham si oppone alla concezione teocratica e alla
dottrina per cui il potere spirituale e il potere temporale sono prerogativa di una sola persona, da cui
conseguirebbe che il papa è un’autorità superiore a tutte le altre. Per Ockham affermare che il papa sia
«vicario di Cristo» non significa in alcun modo che possa esercitare lo stesso potere divino del Figlio
di Dio, né tantomeno che l’imperatore debba considerarsi vassallo del pontefice.

In primo luogo si deve dimostra-


[La tesi: la Scrittura non prova che l’impero derivi dal papa]
re che non si può provare che l’impero derivi dal papa e che l’imperatore sia vassallo del
papa per mezzo delle parole della Scrittura che mostrano la preminenza dell’autorità confe-
rita a Cristo da Dio, come ad esempio: «Tutto mi è stato dato dal Padre mio» (Matteo 11, 27);
5 «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Matteo 28, 18) […].
[I due argomenti] Primo perché, come si può dimostrare apertamente in base agli argo-
menti precedenti, quelle parole devono intendersi di Cristo secondo la divinità o secondo
l’umanità in senso spirituale e nelle cose spirituali, o dello stesso Cristo dopo la sua risur-
rezione e glorificazione.
10 Secondo perché, sulla base dei passi precedenti e simili, non si può dimostrare che il pote-
re del papa sia uguale a quello di Cristo.
[La spiegazione: la pretesa teocratica fondata sulla Scrittura è eretica] Coloro che sosten-
gono quella opinione1 affermano che Cristo avrebbe avuto tanto potere da essergli lecito
istituire nuovi sacramenti, dispensare dai propri comandamenti, compiere miracoli con-
15 tro il corso della natura, privare qualunque mortale di qualsiasi suo bene o diritto […].
Ne seguirebbe allora che tutti i poteri sopra elencati e altri simili, che in verità Cristo
ebbe secondo la natura divina (ma per i sostenitori della precedente opinione secondo la
natura umana), anche il papa li avrebbe in virtù del potere conferitogli da Cristo, se il suo
potere fosse uguale a quello di Cristo. Pertanto il papa in virtù del potere datogli da Cri-
20 sto potrebbe spogliare i mortali di tutti i loro beni e diritti, compiere miracoli e tutte le
cose suddette e innumerevoli altre, anche contro il diritto naturale e il diritto divino. Ciò
è talmente eretico che nessuno, anche inesperto e semplice, dovrebbe avere dei dubbi a
riguardo.
[La conclusione: non si può inferire che l’imperatore sia vassallo del papa] Se dunque per
25 mezzo delle precedenti parole e simili non si può dimostrare che il papa ha ogni potere che
ebbe Cristo, allora o per mezzo di esse non si può dimostrare nulla sul potere del papa,
oppure si potrà dimostrare che il papa ha da Cristo una parte del potere che ebbe Cristo e
non tutto.
Ma da questa particolare proposizione non si può inferire, se non in modo sofistico, che il
30 papa abbia proprio questo potere2 e che l’imperatore, come vassallo, sia tenuto a riconosce-
re che l’impero deriva dal papa.
Si deve dunque dire che, pur essendo il papa il vicario di Cristo, non gli è stato concesso
tutto il potere di Cristo né secondo la divinità né secondo l’umanità, come alcuni adorato-
ri del papa vanno fantasticando in modo adulatorio ed ereticale.

1. Cioè che il potere dell’imperatore deriva da quello del papa.


2. Il potere politico.
378 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

35 Come è stato detto


[Il corollario: se il papa eccede i suoi poteri, i suoi decreti sono illegittimi]
TESTI

prima invece, dal potere del papa sono stati esclusi i diritti e le libertà degli altri concesse
da Dio e dalla natura, affinché il papa non possa opprimere gli innocenti e i giusti contro
la loro volontà con onerosi e gravosi decreti, disposizioni, leggi o precetti, al di là di ciò che
deve essere fatto per necessità e a cui sono tenuti per legge divina e per il diritto di natura.
40 Se tenta di fare ciò si dimostra colpevole di gettare la sua falce in una messe non sua e di
fare cose che non spettano al suo ufficio e perciò per il diritto quello che farà non avrà al-
cun valore.
(Breve discorso sul governo tirannico, libro V, cap. 2, trad. it. di A. Salerno,
Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2000, pp. 188-189)

ALLENA LE COMPETENZE

LAVORA SUL TESTO


1. Individua e sottolinea nel testo con colori diversi gli argomenti a favore del potere assoluto del
papa e i principali controargomenti di Ockham.
2. Evidenzia nel testo quale tesi dei sostenitori della teocrazia risulta secondo Ockham inequivocabil-
mente eretica.
3. Sottolinea la metafora utilizzata da Ockham per descrivere la colpevolezza del pontefice che agisca
al di fuori del suo ufficio legittimo.

COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO


righe 1-5 Per affermare che l’imperatore non è righe 12-23 Cristo poteva compiere miracoli e in-
sottoposto al pontefice, Ockham riporta i passi delle frangere le leggi naturali, ma chi sostenesse che il
Scritture su cui si fonda la posizione teocratica: se papa può fare altrettanto è manifestamente eretico:
Cristo ha ricevuto da Dio ogni potere, sembra che è infatti evidente che il papa non può privare gli altri
anche il papa, in quanto vicario di Cristo, si trovi in di beni e di diritti, né opporsi in alcun modo al diritto
una posizione di superiorità rispetto a ogni autorità naturale e divino.
terrena.
righe 24-34 Se il papa ha soltanto una parte dei
righe 6-11 Ockham elabora due controargomen- poteri di Cristo, non si può dimostrare che abbia il
ti alla tesi precedente. In primo luogo, Cristo non ha potere politico, né tantomeno che l’imperatore deb-
mai inteso parlare di un potere temporale, ma si è ba riconoscergli una superiorità sul piano temporale.
sempre riferito all’ambito spirituale (come conferma Si noti anche qui l’affermazione per cui la dottrina
il riferimento alla sua «risurrezione e glorificazione», teocratica non è solamente falsa, ma addirittura ere-
che indica un’esistenza non più terrena). In secondo tica e sostenuta da adulatori idolatri.
luogo, nessuno dei passi riportati (e altri simili) af-
righe 35-42 Il papa non può opprimere gli inno-
ferma che i poteri di Cristo siano stati interamente
centi con oneri, decreti, norme che vanno al di là del-
trasmessi al papa.
la legge divina; qualora lo faccia, le sue disposizioni
non avranno valore.

RIFLETTI E DISCUTI
Nel mondo contemporaneo occidentale non c’è più nessuno che sostenga l’idea della dipendenza
dell’autorità politica da quella spirituale. Si discute però su come la vita civile debba considerare e
rispettare i valori religiosi (non necessariamente quelli cristiani, ma anche di altre religioni). Qual
è la vostra opinione a riguardo? Avviate un dibattito in classe sull’argomento, interrogandovi
anche su quale rapporto vi sia, sul piano etico, tra la vita politica e gli insegnamenti religiosi.
379

capitolo 22
SINTESI Il XIV secolo: un periodo
di trasformazioni
AUDIOSINTESI

1 La crisi del Trecento


Dal punto di vista economico, il secolo rappresenta un con l’indebolimento del prestigio papale (emblematici
periodo di stagnazione e recessione (squilibrio tra sono la “cattività” avignonese e lo scisma d’Occidente)
popolazione e risorse, forte diminuzione delle rese e dell’autorità imperiale (emergono forme embrionali
agricole per il peggioramento climatico ecc.), di cui la di Stati nazionali). Nella cultura, non si cerca più la
peste del 1347 è l’evento culminante. Dal punto di vi- sintesi tra pensiero aristotelico e fede cristiana: filoso-
sta politico si assiste al declino dei poteri universali, fia e teologia percorrono strade separate.

2 Giovanni Duns Scoto: dall ’essere infinito all ’ individuo


Qual è la differenza fra teologia e filosofia per Scoto? atto dell’oggetto, cogliendone l’esistenza. Si tratta di
La filosofia studia l’essere e la natura sulla base dei una forma di conoscenza che non è esclusiva dei sensi,
dati dell’esperienza e ha un fine teoretico; la teologia ma appartiene anche all’intelletto.
indaga la trascendenza divina, che non è accessibile La conoscenza astrattiva è invece peculiare dell’intellet-
alla ragione, e ha come fine la salvezza eterna. to e ci fa conoscere la forma o essenza di un oggetto,
Qual è la sua teoria della conoscenza? Scoto distin- a prescindere dalla sua esistenza. Tale forma o specie è
gue tra conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva. la “natura comune” a più oggetti singolari. In questo
La prima è immediata e si genera nella presenza in senso si parla di “realismo” della posizione di Scoto.

3 Guglielmo di Ockham: il primato dell ’ individuale


Come intende Ockham il ruolo della logica? La lo- In che cosa consiste la sua visione metafisica e teo-
gica è lo strumento per far progredire il sapere; logica? La conoscenza intuitiva ci mostra come
essa si occupa della struttura del pensiero e del lin- sono le cose, ma non può cogliere nessuna necessità
guaggio. Ockham distingue il linguaggio espresso nei loro rapporti: il mondo è infatti contingente.
(parlato o scritto), che utilizza segni convenzionali, e Fondamento della contingenza del mondo è la scelta
il linguaggio mentale, i cui termini sono i concetti. assolutamente libera e imprevedibile di Dio, che
Questi non mutano a seconda delle lingue: sono se- avrebbe potuto creare altri mondi con leggi total-
gni naturali determinati dall’esistenza concreta dei mente diverse. Di conseguenza, partendo dal mondo
singoli oggetti. I segni hanno un significato, che è il non è possibile dimostrare l’esistenza di Dio, che è
contenuto mentale a cui il segno rimanda; dal signifi- oggetto di pura fede. La stessa salvezza eterna di-
cato si distingue la supposizione, che indica il modo pende unicamente dall’iniziativa di Dio. La contin-
in cui il segno “sta per” un oggetto. genza del mondo fa sì che le leggi della natura siano
Qual è la sua teoria della conoscenza? Il fatto che costruzioni della mente umana, che può porsi do-
esistano termini con valore universale non implica mande nuove, tra cui quella concernente l’infinità
che esistano realtà universali: l’universalità è una dell’universo.
funzione del segno, che può essere predicato di più Quali sono le tesi politiche di Ockham? La presa
cose. Il rasoio di Ockham invita a evitare gli enti di posizione a favore della povertà della Chiesa im-
superflui o inesistenti e a cercare sempre la spiega- plica un attacco al potere temporale e teocratico.
zione più semplice, cioè quella che, a parità di effica- Secondo Ockham la teoria che assegna la pienezza
cia rispetto a un’altra più complessa, si avvalga di un del potere al papa è errata, perché nei Vangeli non
minor numero di principi. c’è nessun riferimento al potere politico di Pietro e
Per Ockham la conoscenza intuitiva ci fa cogliere l’autorità del papa va intesa come servizio e guida
l’esistenza dell’individuo; la conoscenza astrattiva spirituale; inoltre il potere dell’imperatore non de-
generalizza le caratteristiche dell’oggetto prescin- riva da quello papale perché l’impero esisteva già
dendo dalla sua esistenza effettiva. In questo senso prima della Chiesa. Ockham vuole difendere la li-
dipende da quella intuitiva: le due forme di cono- bertà e il valore dell’individuo, sia dal dispoti-
scenza colgono infatti lo stesso oggetto, l’una in modo smo politico sia dalle pretese teocratiche della ge-
diretto ed evidente, l’altra in modo derivato. rarchia ecclesiastica.
380 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

capitolo 22
MAPPE CONCETTUALI Il XIV secolo: un periodo
di trasformazioni
DUNS SCOTO
FILOSOFIA E TEOLOGIA LA CONOSCENZA

hanno si articola in

oggetto e finalità diversi conoscenza intuitiva conoscenza astrattiva

la quale la quale

la teologia dipende coglie l’essenza di una


la filosofia studia coglie l’esistenza
dalla rivelazione divina cosa indipendentemente
l’essere e la natura di un oggetto grazie alla
e ha come fine pratico dalla sua presenza
con finalità teoretica sua presenza attuale
la salvezza eterna ed esistenza

appartiene a sensi ed appartiene soltanto


intelletto all’intelletto

OCKHAM: LOGICA E TEORIA DEL SEGNO


LA LOGICA analizza innanzitutto i termini

che svolgono la funzione di

segni

i quali possono essere

naturali convenzionali
(termini mentali) (termini orali e scritti)

OCKHAM: LA TEORIA DELLA CONOSCENZA


LA TEORIA DELLA CONOSCENZA

si avvale del è di tipo

rasoio di Ockham empirista

bisogna evitare il ricorso a intuizione immediata di enti


la conoscenza intuitiva
enti superflui o inesistenti concreti individuali

infatti è fondamento della

gli universali sono concetti elaborazione di concetti


o termini mentali che si conoscenza astrattiva universali e di giudizi
riferiscono a più individui complessi
381

capitolo 22
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Il XIV secolo: un periodo
di trasformazioni TEST
Allena la logica

1 La crisi del Trecento 3 Guglielmo di Ockham: il primato


riconoscere le nozioni dell ’ individuale
1. Individua le tre affermazioni corrette in riconoscere le nozioni e il significato
riferimento alla situazione culturale: delle parole
a continua l’opera di traduzione e interpretazione
4. Quale carattere possiamo attribuire al linguaggio
dei testi di Aristotele
mentale? (segna la risposta esatta)
b la sintesi tra aristotelismo e cristianesimo viene
a è la traduzione in pensieri della lingua che
messa in discussione
concretamente parliamo e quindi i suoi concetti
c la filosofia cerca strade autonome, rinunciando a dipendono da questa
indagare il soprannaturale
b coincide con la lingua che scriviamo e parliamo:
d la filosofia ritiene che si possa indagare senza linguaggio non ci sono segni mentali
razionalmente anche il divino
c è costituito da segni secondari, i concetti, che
e si sviluppa la logica nel tentativo di poterla sono convenzionali rispetto alla cosa
applicare anche al discorso teologico
d è prioritario perché i termini mentali sono segni
f lo sviluppo della logica è un tentativo di conferire naturali delle cose, al di là dei diversi termini
autonomia al pensiero razionale linguistici
5. In riferimento ai termini universali, Ockham
afferma che: (segna la risposta esatta)
2 Giovanni Duns Scoto: dall ’ essere a l’universalità si concretizza in sostanze universali
b l’universalità riguarda la funzione del segno
infinito all ’ individuo c l’universalità è una caratteristica essenziale

riconoscere le nozioni e il significato del termine mentale


delle parole d l’universalità, in qualsiasi modo intesa,
è unicamente un equivoco linguistico
2. In che cosa consiste la specificità della
conoscenza sensibile? (segna la risposta esatta) esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
a ci dà la conoscenza dell’universale nell’individuale
6. Perché l’applicazione del rasoio di Ockham porta
b è percezione dell’individuale a prescindere dalla all’eliminazione degli universali?
presenza attuale di questo
c è la conoscenza della specie, cioè della 7. In che cosa consiste la realtà?
rappresentazione dell’oggetto
scrivere e rielaborare (15-20 righe)
d ci dà la percezione dell’individuo e la sua
presenza attuale 8. “Il mondo è contingente”: illustra le implicazioni di
questo assunto di Ockham in relazione alla teoria
3. A proposito dell’esistenza della specie della conoscenza e al rapporto Dio-mondo.
o natura comune, Scoto afferma che:
(segna la risposta esatta) ad alta voce
a la specie è soltanto un concetto ottenuto per 9. Esponi in 3 minuti in quali modi Ockham,
generalizzazione delle caratteristiche individuali nelle sue opere, difende il valore dell’individuo.
b la specie ha un’esistenza reale come un ente
singolare, antecedente agli oggetti fisici
c la specie è soltanto un nome che indica
la possibilità dell’esistenza di singoli oggetti
d la specie ha un’esistenza autonoma, pur non
essendo né un oggetto singolare né soltanto
un concetto
382

sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

Concetto
La dialettica
Nell’alto Medioevo la dialettica costituisce, insieme a grammatica e retorica, una delle arti
liberali del trivium, mentre aritmetica, musica, geometria e astronomia sono le arti del
quadrivium. Si chiamano “liberali” perché destinate a uomini liberi, mentre con l’espressione
artes mechanicae ci si riferisce a occupazioni pratiche, considerate servili (come l’agricoltura,
la caccia, il commercio, la tessitura, l’attività militare). Il trivio e il quadrivio rappresentano
il sapere di base, preliminare allo studio di tutte le altre scienze. La distinzione in sette arti
liberali risale a Marziano Capella (IV-V secolo), il cui trattato Le nozze di Filologia e Mercurio
è un riferimento fondamentale per la riorganizzazione delle scuole nel Medioevo latino, già
a partire dalla rinascita carolingia.
Mentre il quadrivio si caratterizza per l’uso della matematica, il trivio riguarda l’ambito
letterario-filosofico, ovvero l’uso della parola (le discipline che lo compongono si
definiscono pertanto anche artes sermocinales): la grammatica si dedica allo studio della
lingua e della letteratura latina, la retorica è l’arte del discorso e infine la dialettica
rappresenta l’arte dell’argomentazione, non in vista dell’eleganza dello stile e della
persuasione, bensì del conseguimento della verità.

il significato Il termine dialettica (dal verbo greco dialéghesthai, “discutere”, “dialogare”), che indi-
ca originariamente l’arte della discussione, passa a designare una disciplina specifica
del termine nell’organizzazione degli studi e lo strumento per progredire nella conoscenza e rag-
giungere la verità; in tal senso è il coronamento delle arti del trivio ed è indispensabile
anche nella teologia. Nel lungo periodo che contraddistingue l’età medievale, la dialetti-
ca si arricchisce di nuove connotazioni, venendo intesa come:
- logica;
- filosofia;
- disputa.

LA DIALETTICA COME LOGICA occupa soltanto delle regole formali di validità del ra-
Per Aristotele la dialettica è distinta dalla logica di- gionamento, ma anche di ciò che consente di discer-
mostrativa, in quanto la prima si occupa di opinioni e nere il vero dal falso ed è perciò la condizione della
argomenti probabili, e conserva un elemento dialogi- conoscenza di qualsiasi aspetto della realtà. Per que-
co: infatti, a differenza del sillogismo scientifico o sto motivo è raccomandata da Rabano Mauro – uno
dimostrativo – basato su premesse assolutamente dei promotori della rinascita culturale del IX secolo –
certe –, il sillogismo dialettico poggia su premesse anche nella formazione del clero: essa è definita disci-
soltanto probabili, perché fondate sul confronto e plina dell’indagine razionale, della definizione e
sulla discussione tra intuizioni contrastanti. Diversa- dell’argomentazione, in grado di distinguere il vero
mente da Aristotele, gli stoici, allargando il campo dal falso. A conferma dell’utilità della dialettica,
della logica anche ai ragionamenti ipotetici, conside- Mauro riprende la celebre definizione di Agostino:
rano la dialettica come arte della corretta discussione «Disciplina delle discipline. Insegna a insegnare, inse-
finalizzata a comprendere la realtà. Questo è il si- gna a imparare. In essa la ragione mostra e rivela ciò
gnificato che viene trasmesso al Medioevo, dove i che essa è, ciò che vuole, ciò che può fare. Essa sa di
termini dialettica e logica sono perlopiù usati come sapere, essa sola non vuole soltanto rendere sapienti,
sinonimi. Non si tratta però di una disciplina che si ma può anche farlo» (Agostino, L’ordine, II, 13, 38).
383

LA DIALETTICA COME LA DIALETTICA COME DISPUTA


FILOSOFIA È soprattutto nel XII secolo che la dialettica trionfa
Nel mondo latino fino al XII secolo il termine “dialet- nelle scuole: Abelardo, il più autorevole rappresen-
tica” è sinonimo di logica, che tuttavia è l’attività tante del mondo latino in quel periodo, racconta di
principale della filosofia. Ciò è dovuto anche alla co- essersi votato alla filosofia scambiando le armi della
noscenza selettiva di testi filosofici dell’antichità: sol- guerra (ovvero la carriera militare cui era destinato)
tanto a partire dal 1150 circa si iniziano a tradurre si- con quelle della dialettica. In lui il termine riacquista
stematicamente tutte le opere di Aristotele, insieme l’originario significato dialogico e soprattutto di con-
ai commenti arabi, e soltanto nel secolo successivo fronto aperto e aspro tra due posizioni opposte. Nel
questi testi diventeranno parte integrante dell’inse- suo Sic et non, la raccolta di autorità favorevoli e con-
gnamento grazie alle università. Le fonti principali trarie sulle tesi più disparate, si pongono le basi per la
della logica antica erano invece conosciute in tradu- disputa medievale. Di fronte a posizioni contrarie
zione latina già da secoli: si tratta delle Categorie e offerte dalle autorità, è la ragione che deve decidere,
del De interpretatione di Aristotele, tradotti e com- che deve battersi per sostenere la propria tesi e argo-
mentati da Boezio (che traduce e commenta anche mentare nel modo più efficace possibile: la disputa si
l’Isagòge di Porfirio), e di alcuni scritti logici di Cice- serve del dubbio, delle obiezioni e della confutazio-
rone, Apuleio, Agostino. Mentre in altre discipline, ne, per ricercare più saldamente la verità. La dialettica
come la fisica e la metafisica, non si osserva pertanto non è soltanto la conoscenza delle regole del ragiona-
un significativo sviluppo (almeno se paragonato alla mento, ma anche l’arte del discutere e del disputare,
riflessione coeva degli arabi), nella logica i latini di- di porre e affrontare questioni, di definire, argomen-
spiegano competenze estremamente raffinate, arric- tare e avanzare obiezioni: è il banco di prova del ma-
chendo la tradizione con importanti questioni, ap- estro, che mette a fuoco la sua capacità di indagine e
profondimenti e rielaborazioni. Per questo motivo nello stesso tempo di insegnamento. Pur continuan-
dialettica e filosofia diventano praticamente sinoni- do a citare l’autorità di Agostino, che definisce la dia-
mi e l’argomentazione razionale entra in competizio- lettica come disciplina somma, Abelardo la intende
ne con la riflessione teologica. come un esercizio del pensiero, che non riguarda il
Già nell’XI secolo si accende un dibattito che contrap- singolo, ma è un evento collettivo, nel quale si espri-
pone i dialettici (cioè i filosofi) agli antidialettici, me la razionalità.
perlopiù monaci, i quali guardano con preoccupazio- Il secolo successivo porta a compimento questa intui-
ne l’impiego dell’argomentazione razionale in teolo- zione e si serve della disputa come metodo nelle
gia, sostenendo che in materia di fede nulla può la università. Al pari dei suoi contemporanei, anche
scienza profana, incapace di giungere alla verità. In Tommaso d’Aquino trova del tutto normale arrivare
questo contesto è allora particolarmente significativa alla conoscenza del vero tramite il confronto delle
la posizione di Anselmo d’Aosta, che non soltanto opinioni contrapposte e la considerazione di tutte le
difende l’uso della dialettica nell’ambito della teologia, possibili obiezioni: sia nell’insegnamento (da cui de-
ma giunge anche a dimostrare l’esistenza di Dio con rivano le varie Questioni disputate), sia negli scritti
argomenti razionali: è la fede stessa che cerca una (come le Summe e i Commenti), la presentazione dei
comprensione e ha bisogno della ragione, senza con contenuti è articolata in questioni, che esaminano
ciò contraddire l’impenetrabilità della natura divina. sempre gli argomenti a favore e quelli contrari.
In particolare l’argomento del Proslogion – secondo
cui non si può concepire la non esistenza di Dio, in
quanto essere «di cui non si può pensare nulla di
maggiore» – non sarebbe stato possibile senza una
grande padronanza della dialettica e senza l’audacia
di volgerla al servizio della fede.
tema
SIAMO LIBERI
O CI ILLUDIAMO
DI ESSERLO?

DEFINIAMO IL CONCETTO

libero arbitrio
L’espressione “libero arbitrio” indica la ca-
pacità di un soggetto razionale di compie-
re scelte autonome in merito alle proprie
azioni ed ai propri giudizi, in situazioni che
presentano più alternative. Così inteso, il
libero arbitrio presuppone la possibilità
di agire senza alcuna costrizione esterna.
La questione della libertà del volere sorge
inizialmente nell’ambito della riflessione
teologica ed è connessa ai temi del pecca-
to originale e della grazia. L’obiettivo dei
pensatori cristiani, un tempo come oggi, è
quello di conciliare azioni umane volonta-
rie e intervento divino salvifico.
385

PARTIAMO DA UN FILM: MINORITY REPORT


Minority Report, film del 2002 diretto da Steven Spielberg e ispirato a un racconto di Philip
K. Dick, è ambientato nel 2054 a Washington D.C. e descrive uno scenario fantascientifico,
in cui una speciale unità del Dipartimento di giustizia, chiamata “Pre-crimine”, previene gli
omicidi intervenendo prima che vengano commessi e punendo i potenziali colpevoli. Per
riuscire in questa impresa, la polizia si serve dei Pre-cogs, tre individui dotati di eccezionali
poteri extrasensoriali grazie ai quali possono avere una precognizione dei delitti futuri. I
Pre-cogs sono costretti a stare perennemente immersi in una vasca di galleggiamento e sono
collegati per mezzo di sensori a un sofisticato software che rende manifeste le loro visioni.
Il capitano dell’unità Pre-crimine, John Anderton, è sicuro che le immagini provenienti dalla
mente dei Pre-cogs rivelino in modo infallibile i colpevoli da fermare. Più scettico, invece,
è Danny Witwer, l’ispettore federale inviato dal Governo a cercare eventuali difetti del
sistema. Ecco un dialogo tra i due, emblematico delle rispettive posizioni:

“ DANNY: Non prendiamoci in giro: arrestiamo gente che non ha infranto alcuna
legge.
VIDEO

JAD [un collega di John]: Ma lo farà!


FLETCHER [un altro collega di John]: […] I Pre-cogs vedono il futuro e non sbagliano
mai.
DANNY: Ma non è il futuro se lo fermate. Non è un paradosso fondamentale?
JOHN: Sì, lo è! [Fletcher gli lancia una palla] Parlavate di predeterminazione, una
cosa che succede continuamente. [John lascia rotolare la palla su un piano
leggermente inclinato; Danny l’aferra prima che cada] Perché l’ha presa?
DANNY: Perché stava per cadere!
JOHN: Ne è sicuro?
DANNY: Sì!
JOHN: Ma non è caduta, l’ha presa! Il fatto che ha evitato che cadesse non cambia
il fatto che sarebbe caduta comunque!
DANNY: Ricevete mai dei falsi positivi? Qualcuno vorrà uccidere il suo capo o sua
moglie ma non va fino in fondo… come fanno i Pre-cogs a distinguere?
JOHN: I Pre-cogs non vedono quello che vuoi fare, vedono quello che farai. “
John Anderton non ha ragione di dubitare del sistema, finché i Pre-cogs non indicano proprio
lui come futuro omicida di un individuo che nemmeno conosce…

GLI INTERROGATIVI FILOSOFICI


Il tema centrale di Minority Report è quello della libertà di scegliere e di essere responsabili delle
proprie azioni. Il film rappresenta una società in cui è possibile prevedere, almeno in parte, il futuro
e sapere in anticipo come agiranno le persone in determinate situazioni-limite. La polizia considera
il comportamento criminale inevitabile, come lo è il rotolare di una palla su un piano inclinato.
Se in un primo momento il protagonista accoglie l’idea che alcune azioni siano già “scritte” (e
quindi l’uomo non sia libero di non compierle), quando viene accusato di omicidio sente il bisogno
di rivendicare non soltanto la propria innocenza, ma anche la propria libertà di non commettere
quel crimine. John, insomma, non vuole seguire il copione che qualcuno ha preparato per lui.

Prenderemo spunto dal film di Spielberg per mettere a confronto le tesi di Agostino, di Anselmo
e di Tommaso sul libero arbitrio degli esseri umani. Cercheremo di trovare una risposta alle
seguenti domande:
• i nostri comportamenti dipendono soltanto da noi oppure sono condizionati?
• se ammettiamo che la natura dell’uomo è corrotta irrimediabilmente dal peccato,
possiamo ancora affermare di essere liberi di compiere il bene e di non compiere il male?
• ammettiamo l’esistenza di un Dio onnisciente e onnipotente, che conosce le nostre
se
azioni future, dobbiamo concludere che siamo costretti ad agire come agiamo?
Agostino: la libertà di “poter non peccare”
Nel film di Spielberg, le previsioni dei Pre-cogs sembrano mettere in discussione la
libertà degli esseri umani: se qualcuno può sapere in modo assolutamente certo
come un individuo si comporterà in una determinata circostanza, allora le azioni di
quell’individuo non sono forse predeterminate?
Se ci spostiamo sul piano teologico, la questione può essere formulata in questi
termini: in quale misura il libero arbitrio – inteso come capacità di scegliere, ope-
rare e giudicare senza costrizione alcuna – è conciliabile con il peccato originale
e con l’onniscienza di Dio?

Il libero arbitrio e la grazia


Secondo Agostino, il libero arbitrio si distingue dalla libertà «perfetta», che consi-
Libertà maior e
libertà minor ste essenzialmente nel potere di:
1. non peccare;
2. non avere passioni contrarie alla ragione;
3. non morire.
L’essere umano ha perso questa libertà a causa del peccato originale, quindi non
può né salvarsi da solo né essere esente dall’influsso irrazionale delle passioni né
evitare la morte. È all’interno di questi limiti che comunque egli esercita la sua libertà:


Certo per il peccato [di Adamo] sparì la libertà, ma la libertà che esisteva nel paradi-
so di possedere la piena giustizia insieme all’immortalità. […] Infatti è tanto vero che
non è sparito nel peccatore il libero arbitrio che proprio per mezzo di esso peccano gli
uomini, specialmente tutti coloro che peccano con piacere e amore del peccato, ac-
consentendo a ciò che fa loro piacere.
(Contro le due lettere dei Pelagiani, I, 2, in www.augustinus.it)

Dunque, la libertà completa e perfetta, che Agostino definisce maior, ossia la pos-
sibilità di volere il bene in modo pieno e totale, conformemente alla natura stessa
della volontà, creata per amare, sarebbe andata perduta in seguito al peccato origina-
le. All’essere umano, però, resta il libero arbitrio, ossia una libertà minor, che consiste
nella facoltà di scegliere tra il bene e il male. Agostino sottolinea infatti la piena
responsabilità dell’essere umano, che scaturisce appunto dal suo libero arbitrio:


se agisco male, a chi attribuirlo se non a me? […] Se il movimento con cui la volontà
si volge qua e là non fosse volontario e posto in nostro potere, non si dovrebbe appro-
vare l’uomo quando torce verso l’alto il perno, per così dire, del volere e non si do-
vrebbe riprovare, quando lo torce verso il basso.
(De libero arbitrio, III, 1, in www.augustinus.it)

Il libero arbitrio si caratterizza, allora, come il posse non peccare (“poter non pec-
La scelta
dell’uomo e care”), vale a dire come la scelta del bene di fronte alla possibilità del male. Questa
l’aiuto di Dio condizione è diversa dal non posse peccare (“non poter peccare”), dal momento che
non sempre la nostra volontà si volge al bene maggiore, ovvero a Dio: essa può deci-
dere di seguire ciò che la giustizia vieta e da cui potrebbe liberamente astenersi.
SIAMO LIBERI O CI ILLUDIAMO DI ESSERLO? tema 387

Da solo l’essere umano non è dunque in grado di compiere pienamente il bene:


per farlo ha bisogno della grazia divina, la quale non depotenzia il libero arbi-
trio, ma, anzi, lo rafforza e lo perfeziona, affinché possa seguire la via della giu-
stizia e raggiungere così la salvezza:


Come infatti l’occhio corporale […] per vedere viene aiutato dalla luce e non può
vedere se la luce non l’aiuta, così Dio, che è la luce dell’uomo interiore, aiuta l’intuito
della nostra mente perché operiamo alcunché di buono, non secondo la nostra giu-
stizia, ma secondo la sua. (Il castigo e il perdono dei peccati, II, 5, in www.augustinus.it)

Come la volontà può essere influenzata negativamente dalla debolezza umana,


dal timore, dalle passioni disordinate, così l’intelletto può esserlo dall’ignoranza, dal
dubbio e dall’incertezza. La grazia di Dio, per Agostino, ha dunque una duplice
funzione: essa è necessaria all’uomo innanzitutto per distinguere i beni superiori
dai beni inferiori, quindi per indirizzarsi ai primi e prendere le distanze dai secondi.
Il bene che compiamo è, allo stesso tempo, nostro e di Dio: nostro in virtù del
libero arbitrio che ci permette di scegliere, di Dio in virtù della grazia con cui
Egli supplisce alle nostre carenze. Se l’unica vera libertà è, come sostiene Agostino,
quella dell’amore, allora essa è piena e perfetta soltanto per mezzo dell’intervento
divino, che rende appunto il nostro amore pieno e perfetto.

Una prescienza che non costringe


Il film di Spielberg solleva un interrogativo che, sebbene in termini profondamente
diversi, ovvero teologici, si era posto anche Agostino: la conoscenza anticipata del
futuro, che in Minority Report è attribuita ai Pre-cogs mentre nella teologia agosti-
niana compete a Dio, rende l’essere umano vincolato alla necessità?
Agostino sostiene che Dio conosce ogni cosa prima che avvenga, tuttavia chiari-
L’uomo pecca
liberamente sce che “prescienza” non significa “costrizione”. Dio infatti non costringe nessuno
a peccare, perché da lui non dipende il volere degli esseri umani; egli semplice-
mente prevede i peccati che gli uomini commetteranno per propria volontà:
«Dio ha prescienza di tutte le cose di cui è autore, ma non è autore di tutte le cose
di cui ha prescienza».
Con queste parole Agostino introduce una netta distinzione tra predestinazio-
Dio non orienta
la volontà ne e prescienza, salvaguardando la libertà umana: se non si ammette la responsa-
dell’uomo bilità dell’uomo nel compiere il bene oppure il male, non si può comprendere il giu-
dizio di Dio, che condanna chi ha peccato; in altre parole, se l’uomo fosse non libero
ma predestinato, non potrebbe essere giudicato equamente. Quindi Dio conosce il
modo in cui si volgerà la nostra volontà, ma non la determina a volgersi a un
bene inferiore invece che a un bene superiore:


Anche la nostra volontà rientra nella serie delle cause che per Dio è determinata ed è
compresa nella sua prescienza, perché anche la volontà umana è causa di azioni umane.
Così egli che ha avuto prescienza delle cause di tutti gli avvenimenti non ha potuto
certamente non conoscere in quelle cause anche la nostra volontà, di cui sapeva per
prescienza che sarebbe stata causa delle nostre azioni.
(La città di Dio, V, 9, in www.augustinus.it)
Anselmo: la libertà di conservare
la rettitudine della volontà
A distanza di alcuni secoli da Agostino, Anselmo d’Aosta ripensa i temi della liber-
tà e della grazia, approdando a una soluzione originale, che lo porta ad accentuare
il significato morale del libero arbitrio.

La libertà dell’arbitrio
Per Anselmo, se il libero arbitrio consistesse nella scelta tra peccare e non peccare,
L’amore della
rettitudine si dovrebbe concludere che né Dio né gli angeli, in quanto esseri impossibilitati a
fare il male, lo possiedono, il che è inammissibile. Il poter peccare, che è incluso
nella definizione di libero arbitrio data da Agostino, secondo Anselmo esprime un
difetto, non un pregio; una privazione, non un elemento di forza. La libertà per lui
deve avere una connotazione positiva ed essere manifestazione di una ricchezza
ontologica. Anselmo ritiene infatti che la volontà di Dio e degli angeli sia libera
proprio perché non può essere indotta a peccare in alcun modo. Al contrario, la
volontà dell’essere umano può venire distolta dalla retta decisione di non peccare, e
dunque l’individuo può compiere azioni che potranno risultare per lui inutili, scon-
venienti o dannose. Pertanto, il potere di peccare diminuisce la libertà, mentre
quello di non peccare la incrementa.
A questo punto, per Anselmo si tratta di stabilire in che cosa consiste non tanto
il libero arbitrio, quanto ciò per cui il libero arbitrio è libero, e quindi di compren-
dere che cosa sia, di fatto, la libertà del libero arbitrio. Il filosofo elabora la seguente
definizione:


poiché ogni libertà è potere, la libertà di arbitrio è il potere di serbare la rettitudine
della volontà per amore della rettitudine stessa.
(La libertà di arbitrio, in A. d’Aosta, Opere filosofiche,
a cura di S. Vanni Rovighi, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 165)

La rettitudine, per Anselmo, consiste nel volere ciò che Dio vuole che si vo-
glia e deve essere ricercata non per ottenere una ricompensa, fosse anche la felicità
eterna, ma per sé stessa.
Secondo Anselmo, Adamo, il primo uomo, ha peccato in virtù del suo libero ar-
Le conseguenze
del peccato bitrio, cioè per sua scelta (non per costrizione né per necessità), e di conseguenza è
originale stato giustamente punito.
Nonostante il peccato originale, l’uomo non ha distrutto la libertà del suo arbi-
trio, infatti può ancora scegliere il bene. Con il peccato originale l’essere umano ha
perso l’effettivo possesso della rettitudine, ma non la capacità di possederla. E
se questa capacità è concessa all’uomo da Dio come dono gratuito, sta all’uomo con-
servarla: grazia e libero arbitrio non sono dunque in contraddizione, ma risultano
complementari.
SIAMO LIBERI O CI ILLUDIAMO DI ESSERLO? tema 389

Prescienza divina e necessità dei fatti


Anche Anselmo, come Agostino, si interroga sulla possibilità di coniugare la libertà
di scelta con la prescienza divina. La difficoltà, a suo avviso, nasce dall’immaginare
la prescienza divina come precedente nel tempo l’agire umano e dal confondere la
necessità logica (l’ordine che sottende tutte le cose create) con la necessità ontologi-
ca (la successione effettiva degli eventi).
In merito al primo punto, Anselmo sostiene che Dio si colloca in un’eternità al di
Un’eternità
fuori dal tempo fuori e al di sopra del tempo, quindi non si può parlare di un prima della conoscen-
za divina, che influenzerebbe un dopo dell’azione umana:


sebbene nell’eternità vi sia soltanto il presente, quel presente non è però temporale
come il nostro, ma eterno, e in esso sono contenuti tutti i tempi. Come infatti il tem-
po presente si estende a ogni luogo e a ciò che si trova in qualsiasi luogo, così nell’e-
terno presente è compreso insieme ogni tempo e tutto ciò che è in qualsiasi tempo.
(La concordia della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio,
in A. d’Aosta, Opere filosofiche, cit., p. 229)

In merito al secondo punto, Anselmo afferma che quando si dice “Se questa cosa
Due diversi tipi
di necessità futura sarà, necessariamente sarà”, la necessità segue l’accadimento della cosa,
non lo precede; si tratta, cioè, di una necessità logica, basata sul principio di non
contraddizione, secondo cui se una cosa è, non può anche non essere, e viceversa:


Se infatti dico: «Domani ci sarà una ribellione popolare», questo non significa che la
ribellione ci sarà necessariamente. Prima che avvenga, infatti, può darsi che non
avvenga, anche se di fatto avverrà. Talora però la cosa di cui si dice che sarà, avverrà
necessariamente, come quando si dice che domani sorgerà il sole.
(La concordia della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio,
in A. d’Aosta, Opere filosofiche, cit., pp. 225-226)

In base a questa teoria, il sorgere del sole sarà necessariamente perché è necessario
che sia (in base a una legge astronomica): la necessità condiziona il fenomeno e lo fa
essere (necessità ontologica, quindi anche logica); mentre, per quanto riguarda la ri-
bellione, la necessità non costringe a essere l’avvenimento (la ribellione può avvenire
o non avvenire), ma segue la sua realizzazione (necessità logica, ma non ontologica).
Pertanto, sebbene Dio preveda tutto ciò che sarà, egli non prevede tutto ciò che
sarà come necessario, ma prevede che alcune azioni dipenderanno dalla libera vo-
lontà dell’essere umano:


A chi dunque rettamente considera, non sembrerebbero affatto opposte la prescien-
za, dalla quale segue una necessità, e la libertà di arbitrio che esclude la necessità,
poiché è necessario che sia ciò che Dio prevede, e insieme Dio prevede che qualcosa
sarà compiuto senza necessità.
(La concordia della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio,
in A. d’Aosta, Opere filosofiche, cit., pp. 223)

Anche in Minority Report sembra emergere l’idea che l’uomo sia comunque re-
sponsabile delle proprie azioni: un atto libero è pre-conosciuto dai Pre-cogs come
libero, e quindi, se la sezione del capitano Anderton non intervenisse a impedire gli
omicidi, essi verrebbero compiuti senza che ciò fosse ontologicamente necessario.
Tommaso: la libertà di scegliere
Il libero arbitrio, tra volontà e ragione
Tommaso d’Aquino sostiene che l’uomo possiede il libero arbitrio perché è un essere
La differenza
tra cose, razionale, in grado di giudicare le situazioni con pieno discernimento e di agire in base
animali ed a tale giudizio. Se l’uomo non possedesse il libero arbitrio, allora sarebbero inutili i con-
esseri umani sigli, le esortazioni, i precetti, le proibizioni, i premi e le pene.
Afferma Tommaso:


alcuni esseri agiscono senza alcun discernimento o giudizio, come la pietra che si muove
verso il basso; e così tutte le cose che sono prive di conoscenza. Altri esseri invece agiscono
con un certo giudizio, che però non è libero, come gli animali bruti. Infatti la pecora, al ve-
dere il lupo, giudica, con discernimento naturale e non libero, che è necessario fuggirlo […].
(Somma di teologia, I, q. 83, art. 2, trad. it. a cura dei Frati Domenicani,
Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014, p. 927)

Il “giudizio” della pecora, come quello degli altri animali, non si basa su un confron-
to tra opzioni diverse, ma su un istinto naturale, per questo non propriamente libero.
L’uomo, invece, giudica le situazioni mediante la facoltà conoscitiva, quindi non è de-
terminato a fare una cosa sola, ma ha il potere di orientarsi in direzioni diverse.
L’atto proprio del libero arbitrio, per Tommaso, è quindi la scelta, alla quale con-
corrono sia il consiglio (che rientra nell’ambito conoscitivo) sia il desiderio (che
rientra nell’ambito appetitivo): quando si tratta di scegliere, il consiglio è determina-
to prima dal parere della ragione, quindi dall’accettazione dell’appetito.
Poiché per Tommaso spetta «alla medesima potenza il volere e lo scegliere»
(Somma di teologia, I, q. 83, art. 4, cit., p. 748), il libero arbitrio viene a identificarsi
con la volontà. Si tratta di una volontà che, come abbiamo visto, è libera proprio in
quanto ha come suo «motore» l’intelletto: se il nostro arbitrio fosse esclusivamen-
te un atto della volontà, svincolato dal giudizio della ragione, sarebbe cieco e non
libero, esattamente come quello degli animali.
Sebbene la volontà tenda sempre a ciò che la ragione le presenta come bene, può ac-
Le cause
del peccato cadere che essa nutra desideri contrari alla ragione. Le passioni, ad esempio, possono
agire indirettamente sulla volontà, distraendola o impedendo il retto giudizio della ra-
gione: in questo caso l’uomo commette peccato, che consiste nel volere il male. L’igno-
ranza può essere un’altra causa di peccato: se non si possiede la scienza che illumina la
ragione, allora è possibile dirigere le proprie azioni verso ciò che non è bene in sé. Oltre
alla passione e all’ignoranza, anche la «malizia» può volgere la volontà al male: in que-
sto caso si tratta di un «peccato conosciuto e voluto», commesso «per calcolo».
Per Tommaso, Dio non è mai causa del peccato dell’uomo, sebbene quest’ulti-
mo non faccia nulla senza il sostegno di Dio:


il peccato sta a indicare un ente e un’azione con annesso un difetto. Ora, tale difetto
dipende da una causa creata, cioè dal libero arbitrio in quanto decade dall’ordine del
primo agente, cioè di Dio. Perciò tale difetto non risale causalmente a Dio, ma al li-
bero arbitrio: come il difetto dello zoppicare risale alla curvatura della tibia, e non
alla facoltà di locomozione, dalla quale tuttavia viene causato quanto c’è di mozione
SIAMO LIBERI O CI ILLUDIAMO DI ESSERLO? tema 391

nello zoppicare. E sotto questo aspetto Dio è causa dell’atto del peccato, ma non del
peccato: poiché non è causa del fatto che tale azione sia accompagnata da un difetto.
(Somma di teologia, II, q. 79, art. 2, cit., p. 785)

Per Tommaso, quindi, il libero arbitrio è compatibile con l’esistenza di Dio e ne


subisce l’influenza soltanto nella misura in cui Dio interviene per conferire all’esse-
re umano il potere di agire.

La scienza degli eventi futuri


Dio, essendo il creatore delle singole realtà del mondo, ha piena conoscenza di esse.
Sarebbe un’incongruenza, infatti, ammettere che l’uomo possa conoscere realtà che
sono ignorate da Dio. Tommaso si chiede allora se tale scienza si estenda anche agli
eventi futuri. Come abbiamo già visto a proposito di Agostino e di Anselmo, la que-
stione riguarda la possibilità di ammettere allo stesso tempo la libertà, e quindi la
responsabilità dell’uomo, da un lato, e l’onnipotenza e l’onniscienza divine, dall’altro.
Tommaso risponde che la conoscenza di Dio non può essere che illimitata e
L’eterno
presente di Dio perfetta, perciò deve estendersi anche ai desideri e alla volontà degli esseri umani.
Precisa, però, che Dio non “prevede” il futuro bensì, semplicemente, lo “vede”:


sebbene i contingenti [le cose che potrebbero non accadere] si attuino uno dopo l’altro,
pure Dio non li conosce in loro stessi, successivamente, come li conosciamo noi, ma
tutti insieme. Perché la sua conoscenza, come anche il suo essere, ha per misura l’eter-
nità e questa, esistendo tutta insieme, chiude nel suo ambito tutti i tempi […]. Quindi
tutte le realtà esistenti nel tempo sono presenti a Dio dall’eternità […] perché il suo
sguardo si porta dall’eternità su tutte le cose in quanto sono presenti dinanzi a lui.
(Somma di teologia, I, q. 14, art. 13, cit., p. 205)

In questa prospettiva, non dissimile da quella di Anselmo, le azioni umane che per
noi sono future per Dio sono presenti, perché le conosce nell’eternità, che è al di sopra
del tempo. Il fatto che Dio riesca a vederle non le priva del loro carattere contingente
(ossia non necessario); le cose contingenti restano tali proprio perché Dio le vuole così.
Il libero arbitrio è causa delle azioni umane sebbene non sia causa prima, perché
Cause prime e
cause seconde è Dio la causa prima che muove la volontà dell’uomo, e lo fa senza interferire con
la sua libertà. Dio prevede le azioni che l’uomo compirà, ma tali azioni non vengono
compiute per il fatto che Dio le ha previste:


Dio muove l’uomo ad agire non solo presentando ai sensi l’oggetto […] ma muovendo
la stessa volontà: poiché ogni moto, sia della volontà che della natura, deriva da lui
come dal primo motore. E come non distrugge la nozione di natura il fatto che il moto
naturale derivi da Dio come dal primo motore, essendo la natura come uno strumen-
to che Dio muove, così non distrugge la nozione di atto volontario la sua derivazione
da Dio, essendo la volontà sotto la mozione di Dio.
(Somma di teologia, II, q. 6, art. 1, cit., p. 90)

Secondo Tommaso, le decisioni che prendiamo nella vita, quando ci troviamo a


scegliere la nostra strada, dipendono da noi, «supposto però l’aiuto divino». Dopo il
peccato originale, infatti, il libero arbitrio è «decaduto», si trova cioè ostacolato
nel volere e nel compiere il bene, e pertanto ha bisogno dell’aiuto offerto da Dio.
La grazia, quindi, perfeziona e nobilita la natura umana.
Una riflessione conclusiva
Il punto di vista di Agostino, Anselmo e Tommaso
Le riflessioni di Agostino, Anselmo e Tommaso sul tema della libertà, come abbiamo
potuto vedere, presentano alcune affinità. Per tutti e tre i filosofi, il peccato originale
ha compromesso la capacità dell’uomo di comportarsi sempre rettamente, perciò ha
reso necessario l’intervento della grazia divina. Essa per Agostino aiuta a riconoscere i
beni superiori e a perseguirli; per Anselmo dona la capacità di avere una volontà retta;
per Tommaso eleva l’essere umano, in modo che possa realizzare pienamente sé stesso.
Al di là di come viene intesa, la grazia di Dio non riduce il libero arbitrio degli
individui, i quali sono sempre responsabili delle proprie azioni. Pur prendendo le
mosse da questo comune assunto, i tre filosofi intendono il concetto di libero arbi-
trio in modi diversi: per Agostino esso corrisponde al potere di non peccare, per
Anselmo al potere di conservare la rettitudine della volontà e per Tommaso al po-
tere di scegliere, giudicando razionalmente le varie situazioni.
La libertà dell’uomo permane anche ammettendo la prescienza di Dio: per i tre
filosofi, infatti, Dio “vede” il nostro agire futuro, ma non lo determina. Secondo
Agostino, anche se Dio conosce il nostro volere futuro, non ne segue che siamo
senza volontà; secondo Anselmo, sebbene Dio preveda tutto ciò che sarà, egli pre-
vede che alcuni eventi saranno necessari (come il sorgere del sole), altri dipenderan-
no dalla libera volontà dell’essere umano (come il peccato); secondo Tommaso, e
anche secondo Anselmo, ciò che avverrà è futuro rispetto a noi, ma non rispetto alla
conoscenza di Dio, la quale è in una dimensione sovratemporale.

Il punto di vista di Minority Report


Tornando al film Minority Report, anche in esso si affronta il complesso dilemma
della libertà. I Pre-cogs prevedono che Anderton ucciderà un uomo che lui nemme-
no conosce, di nome Leo Crow. Mentre sta indagando sul delitto che egli stesso do-
vrebbe commettere, Anderton scopre che i tre Pre-cogs possono emettere “verdetti”
in disaccordo tra loro: uno dei tre può prevedere eventi futuri diversi rispetto agli
altri due. Quando ciò accade, quello dei due Pre-cogs è un “rapporto di maggioranza”
mentre quello del Pre-cog dissenziente è un “rapporto di minoranza” (minority
report), che però, appena elaborato, viene distrutto dal sistema perché minerebbe la
credibilità della “Pre-crimine”. Il “rapporto di minoranza” non è altro che un futu-
ro alternativo, un elemento di indeterminatezza che preserva la possibilità di agi-
re in modo libero. In questa prospettiva, Anderton sembrerebbe potersi liberare dal
determinismo della “Pre-crimine”.
Trovatosi di fronte a Crow, pur avendo maturato il sospetto che quell’uomo abbia
rapito suo figlio, Anderton decide di non ucciderlo, per cambiare il proprio destino.
In seguito a una colluttazione, però, dalla sua pistola parte accidentalmente un col-
po e Crow muore, proprio come previsto. Questa scena parrebbe suggerire che l’o-
micidio di Crow, in quanto futuro possibile, avrebbe anche potuto non accadere;
ma Anderton, in un modo o in un altro, lo ha fatto accadere, pertanto i Pre-cogs,
al cui sguardo tutto è presente, non potevano non vederlo.
SIAMO LIBERI O CI ILLUDIAMO DI ESSERLO? tema 393

ARGOMENTARE e DIBATTERE P ro s p e t t i ve
D E B A T E sul presente
Neuroscienze e libero arbitrio
i vari aspetti del sistema nervoso. Esse si interrogano se le nostre decisioni e le nostre azioni siano una
conseguenza di reazioni fisico-chimiche, ossia se dipendano dall’interazione fra il nostro cervello e l’ambiente
esterno, e se siano in qualche modo imputabili al nostro corredo genetico. Al riguardo sono stati condotti
diversi esperimenti, tra i quali il più celebre è quello del neurofisiologo e psicologo statunitense Benjamin
Libet (1916-2007), che ha cercato di determinare il tempo intercorrente tra l’esecuzione di un atto e la
consapevolezza di averlo compiuto. In base alle misurazioni di Libet si è ipotizzato che il cervello decida di
compiere un’azione prima che il soggetto prenda consapevolezza di questa decisione. Se le cose stessero
effettivamente così, ogni atto volontario e spontaneo avrebbe inizio in maniera inconsapevole, perciò gli esseri
umani non eserciterebbero un controllo cosciente sulle proprie azioni.

MATERIALI PER LA DISCUSSIONE


• In Internet è possibile approfondire sia gli esperimen- • Può essere utile leggere anche quanto sostiene a pro-
ti condotti da Libet (e da altri studiosi) sul cervello posito del libero arbitrio Stephen Hawking (1942-
sia le reazioni che questi esperimenti hanno suscitato 2018), fisico e astrofisico britannico noto soprattut-
presso altri scienziati. Ecco alcuni link: to per i suoi studi sui buchi neri. Nel libro intitolato
– www.focus.it/comportamento/psicologia/lorigine- Il grande disegno (Mondadori, Milano 2011), scritto
dellimpulsivita insieme con Leonard Mlodinow (fisico e sceneggia-
– www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/i-neuroni- tore statunitense), Hawking afferma: «sembra che
decidono-noi non siamo nient’altro che macchine biologiche e che
– www.treccani.it/enciclopedia/liberta-umana-causalita- il libero arbitrio sia soltanto un’illusione».
neuroetica _ %28XXI-Secolo%29/

SPUNTI DI RIFLESSIONE
Prova a rispondere alle domande seguenti: • trovi soddisfacenti le risposte che hanno dato Agosti-
• dal tuo punto di vista, che cos’è un atto libero e quando no, Anselmo e Tommaso al problema della conciliazio-
un’azione è davvero libera? ne di libertà umana e prescienza divina? perché? qual
• ritieni che i comportamenti degli esseri umani possano è la tua personale opinione su questo argomento?
essere condizionati dalla loro natura psicofisica? perché?

DIBATTITO
Rifletti insieme con i tuoi compagni sul tema “Gli es- riate al dibattito a casa, prevedendo un paio di incon-
seri umani sono responsabili del bene e del male che tri di gruppo, nel corso dei quali dovrete formulare
compiono?”. un’argomentazione “di parte”.
fase 1 Sotto la guida dell’insegnante dividetevi in fase 3 argomentare In classe, a turno, un portavoce
quattro gruppi: quello dei teologi, quello dei neuro- di ogni gruppo espone agli altri la propria argomen-
scienziati, quello della polizia e quello dei giudici. Cin- tazione in 8 minuti al massimo. Al termine di tutti gli
que studenti non parteciperanno al dibattito e dovran- interventi, gli studenti chiamati alla valutazione del
no valutare chi tra i compagni è stato più convincente. dibattito, dopo essersi consultati tra loro, decreteran-
fase 2 fare ricerca Ogni gruppo deve calarsi nel no chi è stato più persuasivo. Il verdetto dovrà tenere
ruolo assegnatogli e approfondire la questione dal conto anche di quanto i compagni siano stati capaci di
proprio specifico punto di vista, facendo ricerche in addurre un’argomentazione credibile rispetto al loro
Internet o in biblioteca. È bene, quindi, che vi prepa- ruolo.
394 LABORATORIO delle competenze
sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

PRIMA PROVA TIPOLOGIA B


Analisi e produzione di un testo argomentativo
Ambito filosofico

Il ruolo della teologia nel pensiero medievale


Il testo Filosofia medievale raccoglie brani tratti dagli scritti dei principali pensatori tra il V e il
XIV secolo ed è stato curato da quattro docenti universitari esperti di filosofia medievale: Maria
Bettetini, Luca Bianchi, Costantino Marmo e Pasquale Porro. Nell’Introduzione al testo gli autori
espongono alcune considerazioni sui pregiudizi che hanno caratterizzato lo studio del pensiero
filosofico del Medioevo.

Comunque la si voglia intendere, la filosofia medievale non si identifica con la teologia,


non è neppure il luogo di elaborazione di strumenti teorici da utilizzarsi esclusivamente
nella riflessione teologica, e nemmeno si esaurisce in un incessante dialogo fra “ragione”
e “fede”. È vero che in tutti i pensatori medievali – cristiani, ebrei e musulmani – fra ricer-
5 ca filosofica e fede religiosa si viene a creare una feconda interazione, ma nessuno riduce
la prima a razionalizzazione della seconda o addirittura a sua mera introduzione: l’affer-
mazione che “la filosofia è l’ancella della teologia” esprime un ideale vagheggiato da alcu-
ni teologi medievali, non riflette una gerarchia dei saperi universalmente condivisa, e
ancor meno fornisce una descrizione di come i rapporti fra teologia e filosofia si configu-
10 rarono di fatto nella realtà storica. Indubbiamente i temi dell’esistenza di Dio, della sua
conoscibilità, dei suoi attributi, della sua relazione al mondo sono centrali in Agostino e
nello Pseudo-Dionigi, in Giovanni Eriugena e in Avicenna, in Tommaso d’Aquino e negli
“aristotelici radicali” come Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia (un tempo considerati
campioni di “razionalismo” e miscredenza), e molte loro pagine sono da leggersi come
15 itinerari della mente verso Dio. Tuttavia questi stessi autori hanno dedicato attenzione
non minore a problemi di logica, di gnoseologia, di cosmologia, di fisica, di etica, di poli-
tica. Tali problemi non erano – allora – secondari, e non possono – oggi – essere trascura-
ti da chi, anziché cercarvi una qualche philosophia perennis, sia interessato a cogliere tutta
la ricchezza e la complessità della cultura medievale.
20 Nel rifiutare l’idea che la teologia e/o la metafisica costituiscano l’essenza del pensiero
medievale ci limitiamo a prendere atto di una tendenza ormai diffusa nella “nuova me-
dievistica”, che da alcuni decenni ha messo in crisi tutte le gerarchie di valore che aveva-
no sorretto gli studi sul pensiero medievale dal XIX alla metà del XX secolo, crisi delle
gerarchie tra discipline, delle gerarchie fra epoche, delle gerarchie fra autori. Le gerarchie
25 fra le epoche acquistano significato solo all’interno di una prospettiva teleologica, che
vede in ogni momento della storia del pensiero una preparazione di – oppure una peri-
colosa deviazione da – una filosofia “vera”, assunta come criterio assoluto di riferimento.
395

Nei primi decenni del Novecento questo tipo di approccio era corrente nella storiografia
filosofica, e venne applicato anche al pensiero medievale sia da studiosi di formazione
30 idealistica, sia dai grandi medievisti di ispirazione neoscolastica. Questi ultimi, in partico-
lare, erano soliti distinguere tre “fasi” della “scolastica”: la “prescolastica” (secoli IX-XII),
caratterizzata da una piena ma sin troppo ingenua fiducia nella possibilità di realizzare
l’ideale agostiniano della fides quaerens intellectum; l’apogeo della scolastica (secolo XIII),
dominato dalla figura di Tommaso d’Aquino e dalla sua “sintesi” di aristotelismo e cristia-
35 nesimo; la successiva “decadenza” della scolastica (XIV-XV secolo), durante la quale il
precario accordo fra regione e fede ne sarebbe sfociato in separazione o in aperto contra-
sto. Ne derivava, parallelamente, una gerarchia fra gli autori, giudicati in base ai loro pre-
sunti meriti e demeriti, e disinvoltamente distinti fra “maggiori” e “minori”. Sempre discu-
tibili, simili apprezzamenti sembrano particolarmente arbitrari per i pensatori medievali,
40 alcuni dei quali venivano peraltro classificati fra i “minori” solo perché le loro opere erano
difficilmente accessibili, in quanto non pubblicate a stampa: le grande imprese editoriali
degli ultimi decenni ci consentono ora una valutazione più equilibrata.
(M. Bettetini - L. Bianchi - C. Marmo - P. Porro, Filosofia medievale,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 4-5)

COMPRENSIONE E INTERPRETAZIONE
1. Dividi la prima parte del testo (rr. 1-19) in periodi e riassumi ciascuno di essi in una frase di circa
15 parole.
2. Qual è la tesi esposta dagli autori?
3. Nella prima parte del brano, sottolinea le parole o le espressioni che svolgono il ruolo di connettivi.
Quale funzione hanno ai fini dell’argomentazione?
4. Dopo aver esposto la tesi, gli autori riportano due possibili contro-argomentazioni. Quali sono?
5. Quali sono le risposte degli autori a queste possibili contro-argomentazioni?

COMMENTO ARGOMENTATIVO
A partire dalla tua conoscenza del pensiero dei filosofi che hai studiato nella sezione, individua
alcuni esempi che possano validare le argomentazioni usate dagli autori a sostegno della tesi espo-
sta nel passo. Scrivi un testo argomentativo che non superi le tre colonne di metà di foglio proto-
collo (circa 2500 caratteri al computer), ampliando il ragionamento esposto in questo brano grazie
agli esempi che hai individuato.
396 LABORATORIO delle competenze
sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE

COMPITO DI REALTÀ COMPETENZE


• Sviluppare la rilessione personale, il giudizio critico,
l’attitudine all’approfondimento
• Progettare e organizzare fasi di lavoro
• Attualizzare un contenuto appreso

SCRIVERE UN ARTICOLO DI GIORNALE


Il rapporto tra intenzione e azione nella morale
e nel diritto
Diversamente dall’etica antica, intesa soprattutto come metodo per conseguire la virtù, la mo-
rale cristiana si concentra maggiormente sul peccato e sul vizio. Molti pensatori medievali ana-
lizzano le azioni scorrette degli uomini e le valutano in maniera più giuridica che etica, conside-
rando l’atto colpevole in quanto tale e trascurando invece le motivazioni e l’intenzione del
soggetto. Nel 1138-1139 Abelardo rivaluta invece il concetto di intenzione, sostenendo che si
possa parlare di peccato solamente quando la volontà dà il suo assenso all’inclinazione natura-
le. Egli distingue così la sfera etica, in cui appunto vale il criterio dell’intenzione, da quella giuri-
dica, che valuta le azioni esteriori delle persone e l’eventuale danno pubblico che causano.

OBIETTIVO
Immagina che la tua classe sia la redazione dell’inserto culturale di un giornale e decida di pubblicare due
articoli che presentino punti di vista contrapposti sulla questione del rapporto tra l’intenzione e l’azione,
e tra l’etica e la legge.

FASI
fase 1
individuazione di un caso (lavoro individuale a casa - 1 ora)
Cerca sui quotidiani online un caso di attualità che si presti a una duplice interpretazione dei fatti,
secondo la legge e secondo l’etica dell’intenzione; deve essere giudicabile in modo diverso se
si esamina l’azione in sé e per sé o se si prende in considerazione anche l’intenzione dalla quale
è scaturita. Riporta sul quaderno o in un file la sitografia consultata e usata.
fase 2
scelta del caso e organizzazione (lavoro in classe - 20 minuti)
Il docente sceglie il caso di attualità più interessante tra quelli proposti dagli studenti e divide
la classe in due gruppi. Il primo gruppo dovrà giudicare l’azione commessa alla luce della legge;
il secondo gruppo dovrà esaminare invece l’intenzione con la quale il fatto è stato compiuto.
fase 3
elaborazione e stesura dell’articolo (lavoro in gruppo in classe o a casa - 2 ore)
A partire dal punto di vista che vi è stato assegnato, discutete tra voi ed esponete le argomentazioni
a sostegno della vostra posizione. Scrivete quindi un articolo di giornale (massimo 4 colonne di metà
di foglio protocollo o 3000 caratteri al computer), nel quale dovrete:
• riassumere il fatto di attualità;
• presentare il vostro “verdetto”, dal punto di vista della legge o dell’intenzione;
• argomentare utilizzando quanto avete scritto nella fase precedente.
397

ATTIVITÀ PER LA CLASSE CAPOVOLTA


Il potere spirituale e il potere temporale VIDEO
in Tommaso e in Ockham Classe capovolta

IL LAVORO IN SINTESI Analizzare e confrontare il rapporto tra il potere spirituale e


il potere temporale nelle prospettive di Tommaso e Ockham.

ARGOMENTO Il rapporto tra potere spirituale e potere temporale


FILOSOFI Tommaso e Ockham

PREREQUISITI Conoscere il pensiero politico dei ilosoi citati.

OBIETTIVI Comprendere e confrontare le posizioni di Tommaso e Ockham riguardo


il rapporto tra il potere spirituale e il potere temporale.

COMPETENZE • Individuare collegamenti e relazioni


COINVOLTE
• Leggere, comprendere e interpretare un testo
• Sviluppare la riflessione personale, la capacità critica e argomentativa

LAVORO In classe, sotto la guida dell’insegnante, dividersi in coppie di studenti.


PRELIMINARE In ogni coppia ripartirsi la lettura dei seguenti testi:
• Tommaso, La natura politica e sociale dell’uomo, t4 p. 345
• Ockham, L’autorità dell’imperatore non deriva dal papa, t2 p. 377

INDICAZIONI fase 1 A casa: guardare in modo attento la videolezione e prendere


OPERATIVE sinteticamente nota degli aspetti salienti; leggere il testo assegnato.

fase 2 A scuola: con l’aiuto dell’insegnante, analizzare i due testi proposti


evidenziando la tesi di ciascun filosofo. È consigliabile riportare citazioni
testuali che mettano in risalto la posizione dei due pensatori
di riferimento.

fase 3 In classe: ciascuna coppia di studenti produce un breve testo (150/170


parole) sul rapporto fra il potere spirituale e il potere temporale nelle
prospettive di Tommaso e Ockham, rielaborando anche i contenuti della
videolezione.
398

Indice
dei nomi

302, 303, 304, 305, 306, 308, 309, 312,


A 313, 315, 316, 317, 319, 320, 321, 322,
Abelardo, Pietro, 196, 203, 207, 260, 262, 323, 331, 335, 336, 337, 338, 339, 340,
263-274, 284-286, 288, 290, 300, 383 345, 348, 349, 356, 359, 362, 382, 383
Adeodato (figlio di Agostino), 146, 147, 180 Arriano, 51, 52
Adriano, imperatore, 52 Averroè, 196, 207, 262, 275-282, 283,
Agostino, 82, 94, 121, 137, 138, 142-187, 286-287, 289, 291, 296, 304, 308, 312,
188, 189, 190, 197, 217, 244, 247, 263, 315, 334, 340, 349
272, 306, 307, 338, 342, 364, 382, 383, Avicenna, 196, 207, 234, 236-242, 250-251,
385, 386-387, 388, 389, 391, 392 254, 256, 275, 276, 279, 296, 302, 304,
Agrippa, 69 322, 327
Agrippina (madre di Nerone), 50
Alarico, re dei visigoti, 167
Alberto Magno, re di Macedonia, 306, 307,
B
309, 315, 316, 348 Benedetto XII, papa, 362
Alcuino di York, 214, 230 Bernardo di Chiaravalle, 264
Alessandro Magno, re di Macedonia, 2, 3, Bettetini, Maria, 394, 395
47, 50, 65, 236 Bianchi, Luca, 394, 395
al-Farabi, 196, 207, 223, 224-225, 228-231, Boezio di Dacia, 308
237, 238, 241, 296 Boezio, Severino, 265, 267, 319, 383
Alighieri, Dante, 276, 294, 301 Bonaventura da Bagnoregio, 307, 309
al-Kindi, 196, 207, 223-224 Bonifacio VIII, papa, 356, 358
al-Mamun, 212, 222, 230
Ambrogio, vescovo, 147, 151, 180
Ammonio Sacca, 7, 80, 101, 136
C
Cacciari, Massimo, 190, 191
Anselmo d’Aosta, 196, 197, 203, 207, 234,
243-248, 249, 252-255, 270, 322, 326, Calcidio, 302
327, 328, 339, 348, 383, 385, 388-389, Caligola, imperatore, 50
391, 392 Capella, Marziano, 214, 382
Anselmo di Laon, 263 Caravaggio v. Merisi, Michelangelo
Antonino Pio, imperatore, 52 Carlo il Calvo, imperatore del Sacro romano
Apuleio, 383 impero, 216
Arcesilao di Pitane, 6, 66-67, 68, 76 Carlo Magno, re dei franchi e imperatore
Archimede, 72 del Sacro romano impero, 204, 212, 213,
214, 215, 230, 374
Ario, 136
Carneade di Cirene, 6, 67-68, 76
Aristotele, 6, 9, 32, 37, 50, 72, 73, 80, 86,
106, 107, 108, 109, 171, 195, 199, 202, Catone il Censore, 68
203, 206, 222, 223, 224, 225, 229, 230, Cenni di Pepo (detto Cimabue), 333
234, 236, 237, 238, 240, 241, 242, 254, Cennini, Cennino, 333
265, 266, 267, 276, 285, 289, 296, 298, Cesare, Caio Giulio, 48
INDICE DEI NOMI 399

Cicerone, Marco Tullio, 6, 16, 31, 45, 48-49, Ermarco, 8


58, 59, 107, 110-111, 146, 151, 180, 299, Erofilo, 72
302, 383 Erone di Alessandria, 72
Cimabue v. Cenni di Pepo Euclide, 72, 299
Claudio, imperatore, 50
Cleante, 30, 31, 42
Clemente Alessandrino, 135
F
Clemente VI, papa, 362 Fausto di Milevi, 146
Commodo, imperatore, 53 Federico II, imperatore del Sacro romano
Copernico, Niccolò, 73 impero, 283, 314, 316
Cornelia Salonina (moglie di Gallieno), 81 Filippo il Bello, 356, 358
Costantino, imperatore, 123, 135 Filippo II, re di Macedonia, 2
Cratete, 30 Filodèmo di Gàdara, 9
Crisippo, 30, 31, 38 Filopono, Giovanni, 136
Cristo v. Gesù di Nazareth Flaubert, Gustave, 53
Critolao, 68 Francesco d’Assisi, 307, 333
Fulberto, vescovo, 263, 264

D G
Democrito, 8, 9, 10, 11
Dick, Philip K., 385 Galeno, 44, 72, 73
Diodoro Crono, 38 Gallieno, imperatore, 79, 81
Diogene di Seleucia, 68 Gaunilone, 248-249, 255
Diogene Laerzio, 9, 22, 31, 34, 38, 42, 44, Gellio, Aulo, 40, 41
54, 64, 74 Genserico, re dei vandali, 147
Dione di Prusa, 52 Gesù di Nazareth, 120, 122, 124, 125, 126,
Dionigi pseudo-Areopagita, 82, 216, 217, 127, 128-132, 138, 285
230 Gibbon, Edward, 52
Dionigi, tiranno di Siracusa, 50 Gibran, Kahlil, 107, 108, 110, 111
Domenico di Guzmán, 307 Giotto di Bondone, 333
Domiziano, imperatore, 51 Giovanni di Salisbury, 246
Donato, vescovo, 167 Giovanni, evangelista, 126, 133-134, 175,
Droysen, Johann Gustav, 2 227
Duns Scoto, Giovanni, 197, 357, 358-360, Giovanni XXII, papa, 362, 372
367, 368, 379, 380 Giuliano, imperatore, 80
Giustiniano, imperatore, 136, 213
Giustino, 135
E Gordiano III, imperatore, 79, 81
Eadmero, 246 Gotescalco, 216
Ecatòne di Rodi, 112 Gozzoli, Benozzo, 315
Eloisa, 263, 264, 265, 288 Gregorio IX, papa, 298
Enesidemo di Cnosso, 69, 71 Guglielmo di Champeaux, 263, 266
Enrico I, re d’Inghilterra, 244 Gugliemo di Ockham, 197, 207, 355, 357,
Epafrodìto, 51 360, 361-374, 375-378, 380
Epicuro, 6, 8-21, 22-25, 26, 104, 107, 109-110 Guglielmo il Conquistatore, re d’Inghilterra,
Epittèto, 6, 31, 51, 52, 59 243, 244
Erasistrato, 72 Guglielmo II Rufo, 244
400 INDICE DEI NOMI

Marsilio da Padova, 362


H Martini, Carlo Maria, 190, 191
Hawking, Stephen, 393 Massarenti, Armando, 114, 115
Matteo, evangelista, 128, 227
I Merisi, Michelangelo (detto Caravaggio), 128
Messalina (moglie di Claudio), 50
Ibn Rush, 275
Michele da Cesena, 361
Ipazia, 72, 73
Mlodinow, Leonard, 393
Ipparco, 72, 73
Ippocrate, 73 Monica (madre di Agostino), 144, 180

J N
Jerrome, Dorothy, 113 Nausìfane, 8
Nerone, imperatore, 50, 51
Nerva, imperatore, 51
K Notkero di San Gallo, 215
Kripke, Saul, 67
O
L Onorio III, papa, 217
Lanfranco di Pavia, 243 Orazio, 9
Leone XIII, papa, 317 Origene, 135, 136
Libera, Alain de, 204 Ottaviano Augusto, imperatore, 4, 122
Libet, Benjamin, 393
Lombardo, Pietro, 316, 318, 348, 358, 361
Luca, evangelista, 126, 227
P
Lucilio, 55, 57 Paolo di Tarso, 126, 128, 132, 138, 151, 166,
216, 315
Lucrezio, 6, 8, 9, 15, 16, 20
Patrizio (padre di Agostino), 144
Ludovico il Bavaro, imperatore del Sacro
romano impero, 361 Pelagio, 167
Lutterell, John, 361 Petrarca, Francesco, 152
Pietro, apostolo, 133, 373, 379
Pietro il Venerabile, 264, 265
M Pio XI, papa, 315
Machiavelli, Niccolò, 52 Pirrone di Èlide, 64-65, 66, 69, 76
Maimonide (Mosè ben Maimon), 204, 207, Platone, 6, 7, 9, 21, 32, 49, 50, 66, 80, 85,
262, 282-283, 289 86, 90, 92, 94, 101, 158, 188, 199, 203,
Manfredi, re di Sicilia, 225 206, 222, 224, 225, 230, 234, 251, 254,
Mani, 146, 164 266, 267, 276, 302, 315, 356
Manzoni, Alessandro, 67 Plotino, 7, 79-95, 96-100, 101, 105, 136,
Maometto, 128, 204, 212, 277, 283 170, 189, 206, 224, 267
Marco Antonio, 49 Plutarco, 80
Marco Aurelio, imperatore, 6, 31, 51-53, 58, Polistrato, 8
59, 105, 171, 188 Porfirio, 80, 81, 93, 101, 265, 267, 362, 383
Marco, evangelista, 227 Porro, Pasquale, 394, 395
Marmo, Costantino, 394, 395 Proclo, 80, 216, 224
INDICE DEI NOMI 401

Teodorico, re degli ostrogoti, 267


R Teodosio, imperatore, 118, 119, 123
Rabano Mauro, 382 Teone, 73
Rainaldo d’Aquino, 314 Tertulliano, 133, 135, 138
Romolo Augusto, imperatore, 4, 118 Timone di Fliunte, 65, 66
Roscellino di Compiègne, 263, 268, 269 Tolomeo, Claudio, 72, 73, 299
Rousseau, Jean-Jacques, 170 Tommaso d’Aquino, 197, 203, 207, 238, 307,
308, 309, 312-354, 356, 361, 363, 371,
381, 383, 385, 390-391, 392
S Traiano, imperatore, 52
Sacca, Ammonio, 79
Saladino (Salah al-Din), sultano di Egitto
e di Siria, 283 U
Scoto Eriugena, Giovanni, 196, 197, 207, Ugo di San Vittore, 198
212, 215-221, 226-227, 230
Seneca, Lucio Anneo, 6, 30, 31, 44, 49-51,
55-57, 58, 59, 107, 111-112, 247 V
Sesto Empirico, 34, 69-71, 75, 76 Vespasiano, imperatore, 51
Sfero di Boristene, 34 Virgilio Marone, Publio, 9, 55
Sigieri di Brabante, 308 Vitruvio, 72
Sìmmaco, 146, 147
Simmel, Georg, 113
Simpliciano, 167
W
Wolf, Eric, 113
Simplicio, 136
Sinesio, 73
Socrate, 65, 188, 225 Y
Spielberg, Steven, 385, 386, 387 Yourcenar, Marguerite, 52, 57
Stilpone di Mègara, 38, 44

T Z
Zenone di Cizio, 6, 30, 31, 34, 38, 43, 58
Talete, 94 Zenone di Elea, 30
Tempier, Étienne, 317, 356
402

Indice dei lessici


filosofici

A E
afasìa 64 eclettismo 48
anapodittico 37 edonismo 17
anima 242 emanazione 83
anticipazione 14 epoché 66
apatìa 44 eresia 136
apologeti 135 ermeneutica 127
aponía 20 esistenza 238
appetitus 335 essenza (Avicenna) 238
argomento ontologico o a priori 246 essenza (Tommaso) 321
arti liberali 214 essere/esistenza 321
atarassìa 65 estasi 92
ataraxía 20 eternità 163
autorità 300

G
C grazia 166
canone 125
canonica 12
causa interna
cause seconde
41
330
H
heghemonicón 33
città di Dio 168
codice 200
concettualismo
concordismo
269
222 I
confessione 150 illuminazione 158
conoscenza astrattiva 359 inclinazione (Abelardo) 273
conoscenza intuitiva 359 inclinazione (Epicuro) 11
contingenza 369 intelletto agente (al-Farabi) 224
cosmopolitismo 45 intelletto agente (Averroè) 280
intelletto agente (Avicenna) 241
intelletto potenziale 280
D intermundia
ipòstasi
11
84
decima intelligenza 241
dialettica 219
dialettica (Abelardo)
dimostrazione a posteriori
266
326 L
disputatio 300 lectio 299
distensione dell’animo 163 libri apòcrifi 125
dovere 43 lógos spermatikós 31
INDICE DEI LESSICI FILOSOFICI 403

M S
male 165 scetticismo 65
manicheismo 146 scolastica 295
monoteismo 124 segno 365
sensazione 13
significato 36
N simulacri
specie
13
360
natura 218
sublime 93
nominalismo 269
summa 302
supposizione 365

O
oikéiosis
oscurantismo
43
199
T
teocrazia 168
teofania 219
teologia della storia
P teologia negativa
169
219
padri della Chiesa 136 teoria della doppia verità 278
palingenesi 32 termine mentale 364
panteismo 32 termini orali e scritti 364
partecipazione 324 theològia 270
passione 44 tropi 69
páthos 16
peccato 165
piaceri catastematici
piaceri cinetici
16
16
U
universale 266
università 296
Uno
Q 83

quadruplice farmaco 18
quaestio 299 V
valori 43
Verbo
R visione ciclica del tempo
133
169
rappresentazione catalettica 34 visione lineare del tempo 169
rasoio di Ockham 367 vivi nascostamente 20
realismo 267
rigorismo 43
404

Indice
delle rubriche
A tu per tu con Maurizio Ferraris
Plotino: il riconoscimento del limite della ragione 94
Agostino, nostro “contemporaneo” 170
Tommaso: l’autonomia della ragione e la rilevanza del mondo sensibile 338

Il ritratto
Plotino: la vita come ricerca spirituale 81
Agostino nella rappresentazione di Botticelli 145
Tommaso nel dipinto di Benozzo Gozzoli 315

Esperimento filosofico
La selezione di piaceri e desideri 17
Il paradosso di Protagora 40
L’oggetto misterioso 83
I modelli del mondo interiore 155
I “secoli bui” 200
Che cos’è un testo? 223
Gli universali e la loro percezione 268
Una disputa sulla guerra giusta 301
Una lettera a un ateo: dimostrare l’esistenza di Dio 328

Il pensiero si fa immagine
L’emanazione dall’Uno come irradiamento o effusione 84
La verità come luce interiore 157
L’intelligenza ordinatrice come un arciere 327

Il punto di vista dell’arte


L’opera come espressione delle passioni ed enfatizzazione della realtà 46
Il fondo dorato nei mosaici paleocristiani 160
La valorizzazione del mondo concreto 332

Filosofia & scienza


Matematica, astronomia e medicina nell’età ellenistica 72

Filosofia & letteratura


Agostino e Petrarca 152
INDICE DELLE RUBRICHE 405

Per approfondire
I paradossi stoici 38
Carneade, un illustre “sconosciuto” 67
La nozione di “teologia negativa” 82
Rivelazione, ispirazione, interpretazione 128
La parola e il nome di Dio 131
Dionigi pseudo-Areopagita 216
Il Liber de pomo: una particolare interpretazione della filosofia aristotelica 225
Boezio: tra antichità classica e Medioevo latino 267
Scioperi e proteste per la libertà di insegnamento 298
Gli ordini mendicanti 307
Il principio di individuazione 323
Fisica e teologia 370

Concetto
La cura 104
L’interiorità 188
La dialettica 382

Tema
L’amicizia è un fatto personale o sociale? 106
Siamo liberi o ci illudiamo di esserlo? 384

Laboratorio delle competenze


Prima prova per il nuovo esame di Stato
Tipologia B - Ambito filosofico 114
Compito di realtà 116
Attività per la classe capovolta 117
Prima prova per il nuovo esame di Stato
Tipologia B - Ambito filosofico 190
Prima prova per il nuovo esame di Stato
Tipologia B - Ambito filosofico 394
Compito di realtà 396
Attività per la classe capovolta 397
406

Indice
delle illustrazioni
p. 3 p. 7

Tempio di Kom Ombo, II secolo a.C., Biga romana sulla linea di partenza, III secolo d.C.,
particolare, cittadina di Kom Ombo, Egitto. mosaico, Madrid, Museo Arqueológico Nacional.

p. 5 p. 8

Ballerine, I secolo d.C., affresco, Napoli,


Museo Archeologico Nazionale.
Ponte del Gard (acquedotto romano più alto
dell’impero), ca. 19 a.C., pietra, Vers-Pont-du-
p. 30
Gard, Francia.

p. 6

Affresco proveniente da Villa Boscoreale


(Pompei), 60 a.C. circa, Napoli, Museo
Archeologico Nazionale.
Alessandro Magno a cavallo, I sec. a.C. bronzo,
copia da un originale di Lisippo del 334 a.C.,
Napoli, Museo Archeologico Nazionale. p. 64

Ritratto di Saffo, affresco proveniente


Naumachia, I secolo a.C., affresco da Pompei, da Pompei, 55 - 79 d.C., Napoli, Museo
particolare, Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Archeologico Nazionale.
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI 407

p. 73 p. 121

Antica decorazione pavimentale romana,


mosaico, I secolo d.C.
Ariani in fuga su una nave dopo il Concilio di Nicea
(325 d.C.), miniatura da un manoscritto greco.
p. 79

Pavimento con motivo floreale centrale,


marmo, particolare del triclino invernale della Teodorico da Praga, Sant’Agostino, XIV secolo
casa dell’Efebo, Pompei. d.C., pittura a tempera su tavola di legno, Praga.

p. 114 p. 122

Cristo, la Vergine Maria e Giovanni Battista,


XI secolo, mosaico, Kiev, Cattedrale
di Santa Sofia.

Museo di arte moderna, Fort Worth, Texas p. 143

p. 119

Rovine di Basilica Romana, Rodi.


Maestro dei Medaglioni di Coburgo, Agostino
di Ippona o Sant’Agostino con due donatori,
1480-90 ca., olio e tempera su tavola. Francia,
Strasburgo, Museo dell’Opera di Notre Dame.
408 INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

p.193 p. 198

Cattedrale, XII-XIII secolo, Siena.

Lorenzo da Voltolina, La classe di Enrico di


p. 195 Germania, (ca. 1360-90), particolare, Berlino,
Kupferstichkabinett.

p. 212

Duomo di San Ciriaco, X-XI secolo, Ancona.

p. 196
Bibbia manoscritta eseguita a Tours nel 845,
Parigi, Biblioteca nazionale.

p. 234

Carlo Magno incoronato da papa Leone III,


XIV sec., miniatura. I monaci e gli studenti in una libreria,
XV secolo, manoscritto.
p. 197
p. 260

Il trionfo della morte, part., affresco,


XV secolo, Palermo, Galleria Regionale Miniatura, XIII secolo, Parigi,
di Palazzo Abatellis. Biblioteca nazionale.
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI 409

p. 294 p. 358

Lezione all’università, XIV secolo, miniatura da


Novela super Sexto di Jean André, Cambrai, Pedro Berreguete, ritratto di Duns Scoto,
Francia, Biblioteca Municipale. Urbino, Palazzo Ducale.

p. 313 p. 361

Ritratto di Guglielmo di Ockham, vetrata,


Beato Angelico, Crocifissione con la Vergine
Ockham, Regno Unito, Chiesa di Ognissanti.
e i Santi Giovanni Evangelista, Domenico
e Tommaso d’Aquino, particolare con San
Tommaso, 1438-41 ca. Toscana, Firenze, Museo
Nazionale di San Marco. p. 384

p. 355

Ai Weiwei, Gilded Cage, 2017 – 2018,


New York, Central Park.
Buonamico Buffalmacco, Trionfo della
Morte, 1336 ca., affresco (particolare), Pisa,
Camposanto monumentale.
410

Indice delle referenze


iconografiche
p. 3: Bjorn Grotting/Alamy Stock Photo; p. 5: Sylvain Sonnet/Corbis; p. 6: Araldo de Luca/
Corbis; Araldo de Luca/Corbis; p. 7: Araldo de Luca/Corbis; Danny Lehman/Corbis; Museo
Ostiense, Ostia Antica, Roma/Bridgeman Images; Leemage/Corbis; p. 9: Luigi Spina/Electa/
Mondadori Portfolio; p. 14: PHAS/UIG via Getty Images; p. 18: Photoservice Electa/Akg/
Pirozzi; p. 30: DEA/G. Nimatallah/De Agostini/Getty Images; p. 42: Foto Scala, Firenze;
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Attività Culturali e del Turismo; p. 80: Leemage/Corbis; p. 81: Museo Ostiense, Ostia Antica,
Roma/Bridgeman Images; p. 87: Foto Scala, Firenze; p. 89: DEA/G. Dagli Orti/De Agostini/
Getty Images; p. 91: Foto Scala, Firenze - su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività
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Schuelke/Alamy Stock Photo; p. 119: Alexander Nikiforov/Alamy Stock Photo; p. 122: Fine Art
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Boisvieux/Corbis; p. 131: www.BibleLandPictures.com/Alamy Stock Photo; p. 137: Fine Art
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Archive/UIG via Getty Images; p. 203: Universal History Archive/UIG via Getty Images;
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Historical Picture Archive/Alamy Stock Photo; p. 215: PHAS/UIG via Getty Images; p. 217: Foto
Scala, Firenze - su concessione dei Musei Civici Fiorentini; p. 225: www.e-codices.unifr.ch/en/
list/one/ebs/0020; p. 234: Universal History Archive/Getty Images; p. 237: Granger Historical
Picture Archive/Alamy Stock Photo; p. 239: Interfoto/Alamy Stock Photo; Interfoto/Alamy Stock
Photo; p. 247: Richard T. Nowitz/Corbis; p. 261: Heritage Image Partnership Ltd/Alamy Stock
Photo; p. 264: Interfoto/Alamy Stock Photo; Photo 12/Alamy Stock Photo; p. 270: The British
Library Board/Bridgeman Images; p. 273: Araldo de Luca/FMR; p. 275: Bridgeman Images;
p. 278: DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze; p. 294: Erich Lessing Culture and Fine Arts
Archives; p. 304: The British Library Board/Scala, Firenze; p. 308: Leemage/Corbis via Getty
Images; p. 313: Foto Scala, Firenze - su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali e del Turismo; p. 315: Art Collection 3/Alamy Stock Photo; p. 318: De Agostini/Getty
Images; p. 331: Bibliothèque Sainte-Geneviève, Paris/Archives Charmet/Bridgeman Images;
p. 332: Bridgeman Images; p. 339: Peter Horree/Alamy Stock Photo; p. 360: Mario Bonotto/Foto
Scala, Firenze; p. 361: culture-images/Lebrecht/Bridgeman Images; p. 362: Granger Historical
Picture Archive/Alamy Stock Photo; p. 369: Fine Art Images/Heritage Images/Getty Images;
p. 384: vdb vsl/Alamy Stock Photo; p. 385: AF Archive/Alamy Stock Photo.

Le carte alle pp. 213, 235, 261 e 295 sono tratte, con adattamenti, da L. Sturlese,
Filosofia nel Medioevo, Carocci, Roma 2014, pp. 29, 36, 49 e 61.

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