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PENSIERO
IN
MOVIMENTO C O N T E M P L A Z I O N E
PENSIERO
IN
MOVIMENTO C O N T E M P L A Z I O N E
L’opera è stata ideata e realizzata da Maurizio Ferraris, insieme con Alessandra Saccon ed Enrico Terrone, con contributi
di Franco Chiarle.
Franco Chiarle e Alessandra Saccon hanno curato la revisione didattica di tutti i capitoli.
Enrico Terrone è autore della Geografia della sezione 3, e dei profili storici dei capitoli da 10 a 13.
Alessandra Saccon è autrice delle Geografie delle sezioni 4 e 5; dei profili storici dei capitoli da 14 a 22; degli Esperimenti
filosofici; del progetto didattico dei Testi, della selezione antologica e degli apparati dei testi relativi ai capitoli 15, 17, 18,
19, e della selezione antologica dei capitoli 21 e 22; dei Concetti L’interiorità e La dialettica; ha inoltre curato il progetto
didattico, la supervisione e parte della realizzazione dei Fare per capire.
Franco Chiarle è autore dei seguenti apparati didattici: Lessico filosofico; Sintesi di fine capitolo; L’officina della filosofia.
Maria Cristina Bertola è autrice dei seguenti materiali: Il ritratto; Il punto di vista dell’arte; Il pensiero si fa immagine; Espe-
rimenti filosofici pp. 17, 83; Fare per capire; Ricorda che; schede Filosofia e letteratura - Agostino e Petrarca p. 152, Per ap-
profondire - Boezio: tra antichità classica e Medioevo latino p. 267, Per approfondire - Gli ordini mendicanti p. 307; Mappe
concettuali, schemi visivi e Idee a confronto; Concetto La cura; ha inoltre curato la selezione dei Testi e la realizzazione
dei relativi apparati didattici per i capitoli da 10 a 13, e la realizzazione degli apparati didattici dei testi dei capitoli 21 e 22.
Vera Tripodi è autrice dei Temi.
Giulia Fresco ha contribuito alla realizzazione dei Laboratori delle competenze.
Maria Battaglia ha realizzato gli elementi illustrativi del progetto grafico e i disegni che corredano le rubriche Esperimento
filosofico, Il pensiero si fa immagine e Argomentare e dibattere.
Jacopo De Santis ha realizzato l’elaborazione grafica del ritratto di Plotino (p. 95) e delle carte alle pp. 213, 235, 261 e 295.
Si ringrazia Tiziana Pers per la gentile concessione del ritratto nella rubrica A tu per tu con Maurizio Ferraris.
Si ringrazia Alessandra Montagnani per il prezioso contributo al progetto iconografico dell’opera.
In copertina:
Anonimo romano, Ritratto di San Tommaso d’Aquino, part., olio su tela, XVII secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana,
elaborazione grafica © DEA/Veneranda biblioteca Ambrosiana/De Agostini/Getty Images
© Gino Severini, by SIAE 2019
Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti
alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire
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diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi,
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III
Indice generale
sezione 3
L’ELLENISMO
E L’EPOCA ROMANA
Geografia La diffusione della cultura greca 2
il QUADRO STORICO 2
l ’ INTRECCIO CULTURALE 4
gli SCENARI FILOSOFICI 6
capitolo 10
L’epicureismo 8
2 La fisica 9
Materia, atomi e vuoto 9
Il clinàmen 11
lessico filosofico inclinazione 11
Uomini e dei 11
lessico filosofico intermundia 11
3 La logica 12
La priorità del sensibile 12
lessico filosofico canonica 12
lessico filosofico simulacri, sensazione 13
L’evidenza delle sensazioni 13
Memoria, immaginazione, anticipazione 14
lessico filosofico anticipazione 14
4 L’etica 15
Libertà e felicità 15
lessico filosofico páthos 16
IV INDICE GENERALE
Piaceri e desideri 16
lessico filosofico piaceri cinetici, piaceri catastematici 16
lessico filosofico edonismo 17
ESPERIMENTO filos ofico La selezione di piaceri e desideri 17
Dolori e timori 18
lessico filosofico quadruplice farmaco 18
L’approdo alla felicità 20
lessico filosofico aponía, ataraxía 20
Nascondimento e amicizia 20
lessico filosofico vivi nascostamente 20
TESTI 22
t1 La sensazione
da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 22
t2 Come ottenere la felicità
da Epicuro, Lettera a Menèceo 23
SINTESI 26
MAPPE CONCETTUALI 27
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 28
capitolo 11
Lo stoicismo 30
2 La fisica 31
I due principi fondamentali dell’universo 31
lessico filosofico lógos spermatikós 31
lessico filosofico panteismo 32
L’ordine razionale 32
V
3 La logica 33
Il criterio di verità 33
lessico filosofico rappresentazione catalettica 34
I concetti 35
I termini 36
lessico filosofico significato 36
Le proposizioni 37
Il ragionamento e le sue figure fondamentali 37
lessico filosofico anapodittico 37
PER APPROFONDIRE I paradossi stoici 38
4 L’etica 41
Il male 41
La libertà 41
lessico filosofico causa interna 41
La virtù 42
lessico filosofico oikéiosis, dovere, rigorismo 43
La felicità 43
lessico filosofico valori 43
L’istinto e le passioni 44
lessico filosofico passione, apatìa 44
Dall’etica alla politica: il cosmopolitismo 45
lessico filosofico cosmopolitismo 45
TESTI 54
t1 La concezione del dovere
da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 54
VI INDICE GENERALE
SINTESI 58
MAPPE CONCETTUALI 60
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 62
capitolo 12
Lo scetticismo 64
2 Lo scetticismo accademico 66
ARCESILAO 66
La svolta scettica dell’Accademia di Atene 66
lessico filosofico epoché 66
La polemica contro i dogmatici 66
CARNEADE 67
Dalla ragionevolezza alla persuasività 67
PER APPROFONDIRE Carneade, un illustre “sconosciuto” 67
Da Atene a Roma 68
3 Lo scetticismo neopirroniano 69
Enesidemo e Agrippa 69
lessico filosofico tropi 69
Sesto Empirico 69
TESTI 74
t1 La pratica dell’afasìa
da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 74
t2 La critica al dogmatismo
da Sesto Empirico, Schizzi pirroniani 75
SINTESI 76
MAPPE CONCETTUALI 77
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 78
capitolo 13
Il neoplatonismo e Plotino 79
L’Intelletto 85
L’Anima 85
Il legame dell’Anima con lo spazio e il tempo 86
La materia 86
Il male 88
VIII INDICE GENERALE
TESTI 96
t1 I caratteri dell’Uno dalle Enneadi 96
t2 La materia e il male dalle Enneadi 97
t3 Il ritorno dell’anima alla sua origine dalle Enneadi 99
SINTESI 101
MAPPE CONCETTUALI 102
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 103
sezione 4
IL CRISTIANESIMO
E LA PATRISTICA
Geografia La formazione di una koiné cristiana 118
iL QUADRO STORICO 118
l ’ INTRECCIO CULTURALE 120
gli SCENARI FILOSOFICI 121
capitolo 14
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede 122
Il Messia 130
Il Figlio di Dio 131
PER APPROFONDIRE La parola e il nome di Dio 131
SINTESI 138
MAPPE CONCETTUALI 139
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 140
capitolo 15 figura
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca,
la certezza della scoperta 142
TESTI 172
t1 La confessione a Dio e agli uomini
dalle Confessioni 172
t2 Interiorità e verità
da La vera religione 174
t3 La presenza del tempo nello spirito umano
dalle Confessioni 176
t4 La natura del male
da La natura del bene 178
SINTESI 180
MAPPE CONCETTUALI 182
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 184
sezione 5
L’ETÀ MEDIEVALE
capitolo 16
Il Medioevo e la filosofia 198
SINTESI 208
MAPPE CONCETTUALI 209
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 210
capitolo 17
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena,
al-Kindi e al-Farabi 212
La natura come l’insieme delle cose che sono e che non sono 217
lessico filosofico natura 218
La derivazione dal primo principio e le divisioni della natura 218
lessico filosofico dialettica, teologia negativa, teofania 219
Una visione positiva della realtà e dell’uomo 220
al-Kindi 223
al-Farabi 224
lessico filosofico intelletto agente 224
PER APPROFONDIRE Il Liber de pomo: una particolare interpretazione
della filosofia aristotelica 225
TESTI 226
SCOTO ERIUGENA
t1 La sublime natura divina
dall’Omelia sul prologo al Vangelo di Giovanni 226
AL-FARABI
t2 La filosofia madre di tutte le scienze
da Il conseguimento della felicità 228
XV
SINTESI 230
MAPPE CONCETTUALI 231
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 232
capitolo 18
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta 234
LA COSMOLOGIA 240
lessico filosofico decima intelligenza 241
TESTI 250
AVICENNA
t1 L’uomo volante
dal Liber de anima 250
ANSELMO
t2 L’argomento a priori
dal Proslogion 252
SINTESI 254
MAPPE CONCETTUALI 256
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 258
capitolo 19
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo:
Abelardo, Averroè e Maimonide 260
L’ETICA 272
La morale dell’intenzione 272
lessico filosofico inclinazione 273
Peccato e danno pubblico 274
TESTI 284
ABELARDO
t1 La ragione e le autorità
dal Sic et non 284
t2 L’etica dell’intenzione
dall’Etica 285
AVERROÈ
t3 La filosofia di fronte alla religione
dal Trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia 286
SINTESI 288
MAPPE CONCETTUALI 290
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 292
capitolo 20
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino 294
La quaestio 299
lessico quaestio 299
lessico autorità 300
La disputatio 300
lessico disputatio 300
ESPERIMENTO filos ofico Una disputa sulla guerra giusta 301
lessico summa 302
Autorità e ragione 302
SINTESI 309
MAPPE CONCETTUALI 310
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 311
capitolo 21 figura
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano 312
TESTI 340
t1 La tripartizione delle sostanze
da L’ente e l’essenza 340
t2 La scientificità della teologia
dalla Somma di teologia 342
t3 La felicità intellettuale
dalla Somma contro i Gentili 343
t4 La natura politica e sociale dell’uomo
da Il governo dei prìncipi 345
SINTESI 348
MAPPE CONCETTUALI 350
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 352
capitolo 22
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni 355
TESTI 375
OCKHAM
t1 Che cos’è l’universale?
dalla Somma logica 375
t2 L’autorità dell’imperatore non deriva dal papa
dal Breve discorso sul governo tirannico 377
SINTESI 379
MAPPE CONCETTUALI 380
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA 381
L’ELLENISMO
E L’EPOCA
ROMANA
VIDEO
Classe capovolta
Geograia
La diffusione della cultura greca
il QUADRO Dalla pólis all ’ impero
STORICO La filosofia era sorta e si era affermata nel mondo greco in un arco di tempo di circa tre
secoli, dal VI al IV secolo a.C., nel quadro di una struttura politica peculiare, quella del-
la pólis: la città-Stato i cui cittadini partecipavano attivamente alle decisioni rilevanti per
la vita pubblica. Il sistema delle póleis tramonta in corrispondenza con la fase espansiva
del regno di Macedonia. Dopo che Filippo II (che governa dal 359 al 336 a.C.) ha im-
posto il dominio macedone sulle principali città greche, suo figlio Alessandro (che
regna dal 336 al 323 a.C.) crea un impero di dimensioni inaudite, esteso dall’Egitto
fino all’India. Alla morte di Alessandro, nel 323 a.C., l’impero è spartito fra i suoi ge-
nerali, che prendono il nome di “diàdochi” (dal greco diádochoi, “successori”). Questi
trasmettono la sovranità ai propri discendenti, dando così origine a una pluralità di
nuovi regni: in Egitto si instaura la dinastia dei Tolomei, in Macedonia e in Grecia re-
gnano gli Antigònidi, in Persia e in Siria i Selèucidi, a Pergamo gli Attàlidi.
Lo storico Johann Gustav Droysen (1808-1884) ha definito “ellenismo” il periodo
di circa due secoli che inizia con il costituirsi dei regni dei diàdochi dopo la morte di Ales-
sandro e termina con la sottomissione di questi regni ai Romani. La struttura politica
che caratterizza l’ellenismo non è più la pólis, la città-Stato propensa alla democrazia e
sensibile all’opinione pubblica, bensì il grande regno governato su base dinastica
mediante la forza dell’esercito e l’efficacia di un imponente apparato burocratico.
In epoca ellenistica la cultura e la lingua greca si impongono come fattori di uni-
ficazione (da qui la denominazione “ellenismo” scelta per indicare questa fase storica)
sia all’interno dei singoli regni sia nelle comunicazioni e negli scambi tra regni diffe-
renti. D’altra parte, nell’espandersi in una varietà di territori, la cultura greca si conta-
mina con le culture locali, in particolare con quelle medio-orientali e asiatiche, e viene
meno la netta distinzione tra Greci e barbari che era stata uno dei tratti caratterizzanti
dell’epoca delle póleis.
Le nuove capitali
Il mondo ellenistico è un mondo significativamente cosmopolita, che usa il greco come
lingua condivisa (koiné diálektos, in greco appunto “lingua comune”), ma in cui la Gre-
cia non è più il centro della vita politica e culturale. Atene resta uno snodo importante, ma
deve far fronte alla crescente influenza delle capitali dei regni dei diàdochi: Antiochia,
Pergamo e soprattutto Alessandria, capitale del regno d’Egitto, così chiamata in onore di
Alessandro che l’aveva fondata nel 322 a.C. Ad Alessandria viene creata la più grande
biblioteca dell’antichità, con oltre settecentomila volumi, nel quadro di un’istituzione de-
nominata Museo, un centro di ricerca scientifica e culturale, finanziato dal sovrano.
Vi è tuttavia un’altra città, al di fuori del mondo ellenistico, che di lì a poco sovrasterà
in potenza Atene, Alessandria e tutte le altre capitali dei regni dei diàdochi; questa città
è Roma. La conquista romana dei regni ellenistici avviene gradualmente nel corso del
II e del I secolo a.C.: prende avvio con l’occupazione della Macedonia nel 168 a.C. e
giunge a compimento con l’annessione dell’Egitto nel 30 a.C., dopo la battaglia di Azio.
L’egemonia romana cambia nettamente gli equilibri politici senza tuttavia sconvolgere
l’assetto culturale complessivo. I grandi regni che si erano formati dallo smembramento
dell’impero di Alessandro sono nuovamente incorporati all’interno di un’unica struttu-
ra imperiale; Roma si affianca ad Atene e ad Alessandria come punto di riferimento
della vita culturale, e il latino inizia a competere con il greco per il ruolo di lingua condivisa
4 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
nei dibattiti filosofici e scientifici. L’esistenza dell’Impero romano si estende lungo una
durata di circa cinque secoli. La sua data di inizio è fissata convenzionalmente nel 27 a.C.,
anno in cui Ottaviano ottiene il titolo di Augusto, e quella della fine nel 476 d.C., con la
deposizione di Romolo Augusto; questo riguarda il solo Impero romano d’Occidente,
mentre l’Impero romano d’Oriente sopravvive fino al 1453.
della ragione e all’acquisizione del sapere. Insomma, pur avendo rinunciato all’obiettivo di
plasmare la vita politica della comunità, la filosofia ellenistica si mantiene in sostanziale
continuità con la storia della disciplina, di cui riprende il metodo e le motivazioni fonda-
mentali della ricerca cercando di adattarli alle esigenze del nuovo contesto storico.
gli Mentre Alessandria diviene il polo dominante della ricerca scientifica e Roma si impo-
SCENARI ne progressivamente come il centro del potere politico, Atene rimane il principale punto
di riferimento per la filosofia. Le scuole filosofiche con la tradizione più illustre restano
FILOSOFICI l’Accademia, fondata da Platone, e il Liceo, fondato da Aristotele, ma nuove scuole si
impongono all’attenzione, costituendo i principali scenari filosofici di questa fase storica.
Giardino, Atene, a partire dalla fine del IV secolo a.C.
Epicuro stabilisce ad Atene la sua
scuola chiamata “Giardino”; lì si insegna la dottrina filosofica che prende il nome dal
fondatore, l’epicureismo. Nei secoli successivi tale orientamento si diffonde anche nel
mondo romano, soprattutto per opera di Lucrezio. ❯ CAPITOLO 10 L’epicureismo
Accademia scettica, Atene, a partire dal III secolo a.C. Lo scetticismo si impone come
orientamento dominante dell’Accademia platonica sotto la direzione di Arcesilao e, in
seguito al viaggio di Carneade da Atene a Roma, inizia a penetrare anche nella cultura
romana. ❯ CAPITOLO 12 Lo scetticismo
la fine IV 263
FILOSOFIA secolo muore Zenone 106 43
nasce nasce Cicerone muore
Zenone 214 129 Cicerone
nasce muore
Carneade Carneade
341 270
nasce muore
Epicuro Epicuro
Scuola neoplatonica, Alessandria e Roma, a partire dal III secolo d.C. Dalla riflessione
sulla filosofia di Platone, scaturisce l’ultima grande dottrina filosofica dell’antichità, il
neoplatonismo, che prende avvio con gli insegnamenti di Ammonio Sacca ad Alessan-
dria e raggiunge il suo pieno sviluppo con Plotino, che stabilisce la sua scuola a
Roma. ❯ CAPITOLO 13 Il neoplatonismo e Plotino
CONCETTO A fronte di circostanze storiche che creano instabilità e un diffuso senso di inquietudine,
le filosofie ellenistiche offrono agli individui strumenti razionali per fronteggiare la
paura (gli epicurei), per accettare il corso del destino (gli stoici), per assumere un atteg-
giamento di sereno distacco dal mondo (gli scettici), per guardare oltre la molteplicità e
precarietà del mondo sensibile (i neoplatonici). In questo senso uno dei concetti che
emergono come centrali è quello di “cura”, intesa come cura della propria anima e
della propria vita, ricerca della pace interiore, della libertà dalle passioni, dai timori e
dalla sofferenza. ❯ CONCETTO La cura
TEMA Nella prospettiva della ricerca di una vita felice, un aspetto che molti filosofi ellenistici
indicano come fondamentale e che coltivano essi stessi nelle proprie comunità filoso-
fiche è quello dell’amicizia. Le relazioni di amicizia sostituiscono in parte il legame
sociale che vincolava i cittadini della pólis: ripropongono, nella sfera privata, quella di-
mensione di collaborazione e solidarietà che è indispensabile all’essere umano,
risultando fonte di serenità e di sicurezza.
Nell’ambito del dibattito contemporaneo alcuni studiosi di sociologia pongono i le-
gami di amicizia alla base della concordia sociale e della convivenza civile. La discus-
sione sul tema dell’amicizia tra popoli viene affrontata perlopiù in riferimento al feno-
meno dell’immigrazione e all’importanza del dialogo e del confronto tra persone che
appartengono a culture diverse. ❯ TEMA L’amicizia è un fatto personale o sociale?
121 180
nasce Marco muore Marco
Aurelio Aurelio
4 65
nasce muore 205 270
Seneca Seneca nasce muore
Plotino Plotino
capitolo 10 L’epicureismo
“
Quando dunque diciamo che il bene è il piacere non intendiamo
il semplice piacere dei goderecci, ma quanto aiuta il corpo a non
soffrire e l’animo a essere sereno.
(Epicuro, Lettera a Menèceo, 131)
“
La vita umana sotto gli occhi di tutti turpemente giaceva sulla terra, oppressa sotto il peso
della religione, che affacciava il capo dalle plaghe del cielo con volto spaventoso incom-
bendo dall’alto sugli uomini, quando un uomo greco per primo osò alzare contro di lei gli
occhi mortali e primo le si drizzò contro.
In questi versi scritti nel I secolo a.C., il poeta latino Lucrezio celebra un filosofo greco
vissuto più di duecento anni prima, Epicuro, il fondatore dell’epicureismo, la scuola filo-
sofica di cui Lucrezio stesso è convinto seguace.
Epicuro era nato a Samo, in Asia Minore, nel 341 a.C., e si era formato alla scuola di
Nausìfane, dove si insegnava la dottrina atomistica di Democrito. All’età di circa trent’an-
ni, Epicuro fonda una sua scuola filosofica, che ha inizialmente sede a Mitilene, in Asia
Minore. Giunto ad Atene intorno al 306 a.C., accoglie i suoi discepoli (tra i quali vi sono
anche donne e schiavi, il che indica il carattere aperto e innovativo dell’iniziativa) in un
giardino attiguo alla sua casa; da questo luogo deriva il nome Képos (“Giardino”) con cui
viene spesso designata la scuola epicurea. Alla morte di Epicuro, avvenuta intorno al 270
a.C., alla direzione del Giardino gli succede il suo allievo Ermarco, seguito a sua volta da
Polistrato. Nella scuola epicurea si pratica una vita frugale e semplice dedita alla lettura
e allo studio, in cui il fondatore è celebrato come una figura dotata di un’aura quasi leggen-
daria. In tal senso, né Ermarco né Polistrato né gli altri eredi del pensiero di Epicuro introdu-
cono modifiche sostanziali alla dottrina del maestro, che prende il nome di “epicureismo”.
L’epicureismo capitolo 10 9
I membri della scuola si limitano perlopiù a spiegare e diffondere tale dottrina, difenden-
dola dalle critiche e dalle obiezioni dei filosofi delle scuole rivali, in particolare gli stoici
e gli scettici.
Agli inizi del I secolo a.C. l’epicureismo inizia ad affermarsi nel mondo latino,
soprattutto per iniziativa di Filodèmo di Gàdara, fondatore del gruppo epicureo di Na-
poli. Da lì l’epicureismo giunge a Roma, influenzando poeti come Virgilio, Orazio e
soprattutto Lucrezio, il cui poema De rerum natura (“Sulla natura delle cose”) – uno dei
capolavori della letteratura latina – è un’appassionata illustrazione e una vibrante dife-
sa della filosofia di Epicuro. Testi come il De rerum natura o i cosiddetti papiri di Erco-
lano (scoperti intorno al 1750 e contenenti perlopiù opere di Filodèmo) ci permettono
di avere una visione più completa dell’epicureismo, compensando la perdita della mag-
gior parte delle opere di Epicuro.
Gli scritti
Tra gli scritti del fondatore della scuola, che secondo Diogene Laerzio ammontavano a
circa trecento volumi, ci sono state tramandate in forma integrale soltanto tre lettere
filosofiche (o “epistole dottrinali”): una sull’atomismo (Lettera a Erodoto), una sulla
❯ QUADERNO PER
meteorologia (Lettera a Pìtocle) e una sulla felicità (Lettera a Menèceo). Del principale
LE COMPETENZE E
trattato filosofico di Epicuro, il monumentale Sulla natura delle cose in 37 libri, resta- IL NUOVO ESAME
no soltanto alcuni frammenti. p. 12
La dottrina epicurea consta fondamentalmente di tre parti: una teoria della natura
(tradizionalmente denominata “fisica”), una teoria della conoscenza (“logica” o “ca-
nonica”) e una teoria del giusto agire e della felicità (“etica”). Le prime due parti del
sistema filosofico sono in funzione della terza: lo scopo ultimo dell’epicureismo è libe-
rare gli esseri umani dalle false credenze e dai falsi timori, fornendo loro il sapere che
permette di raggiungere la felicità.
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo le caratteristiche della scuola epicurea.
2 La fisica
Materia, atomi e vuoto
La teoria epicurea della natura è uno sviluppo della dottrina atomistica e meccani-
cista di Democrito, che era rimasta ai margini del dibattito filosofico ateniese, mono-
polizzato dalle visioni finalistiche di Platone e Aristotele. L’epicureismo si contrappone
nettamente sia alla concezione platonica per cui la natura imita modelli ideali, sia alla
concezione aristotelica per cui la natura tende verso la perfezione divina del motore
immobile. Contro queste prospettive finalistiche, Epicuro riprende da Democrito la tesi
per cui tutto quello che esiste è semplicemente materia nello spazio vuoto, senza alcun
progetto, senza alcuna finalità: questa è la verità fondamentale a partire dalla quale è
possibile raggiungere il sapere e la felicità.
10 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
Nella loro esperienza, gli esseri umani assistono alla formazione di alcuni corpi
materiali e al disfacimento di altri, e si formano l’idea erronea che la materia si crei dal
nulla e ritorni al nulla. Ma – osserva Epicuro – nulla si può creare dal nulla; dunque, se
la materia avesse davvero dovuto sorgere dal nulla, l’universo non sarebbe mai sorto; e
se la materia finisse davvero nel nulla, allora l’universo avrebbe già cessato di esistere
da molto tempo. I fenomeni di formazione e disfacimento ai quali assistiamo riguarda-
no, a ben vedere, soltanto i corpi materiali percepibili. Tuttavia – come aveva intuito
Democrito – questi corpi sono costituiti a loro volta da minuscoli corpi materiali imper-
cettibili, gli atomi, che sono assolutamente compatti, indivisibili, indistruttibili ed eter-
ni. La formazione o il disfacimento di un certo corpo percepibile deriva dai movimen-
ti degli atomi, che variano la loro posizione reciproca all’interno dello spazio vuoto,
senza che nessun’altra loro proprietà risulti mutata. L’esistenza transitoria dei corpi
materiali percepibili, che ci viene testimoniata dall’esperienza, si può dunque spiegare
in base ai movimenti degli atomi: un corpo inizia a esistere quando certi atomi si muo-
vono aggregandosi per formarlo, e cessa di esistere quando i suoi atomi si muovono
allontanandosi in modo tale da disgregare il corpo che formavano. Tuttavia, affinché
questi movimenti siano possibili, occorre uno spazio vuoto in grado di ospitarli: gli
atomi e il vuoto sono dunque i due principi fondamentali mediante i quali si può spie-
gare tutto ciò che esiste. Il vuoto è lo spazio immateriale che funziona come contenito-
re degli atomi: è all’interno del vuoto che gli atomi si muovono ed eventualmente si
aggregano per formare un corpo materiale oppure si allontano gli uni dagli altri di-
sgregandolo.
L’aggregazione e la disgregazione degli atomi è all’origine degli infiniti mondi che
secondo gli epicurei costituiscono l’universo. Al pari dei singoli corpi, questi mondi sono
soggetti a nascita e distruzione, anche se in tempi molto più lunghi.
❯ Mosaico pavimentale di epoca romana, copia di un originale ellenistico, Città del Vaticano, Museo Gregoriano
Profano. Il disegno raffigura gli avanzi di un banchetto.
L’epicureismo capitolo 10 11
Il clinàmen
Democrito aveva sostenuto che le uniche proprietà degli atomi sono la loro forma geome-
trica, il loro orientamento e il loro ordine nello spazio. A queste proprietà Epicuro ag-
giunge il peso, concependo gli atomi come gocce di pioggia che cadono verticalmente
nel vuoto in ragione del loro peso. Per spiegare come dagli atomi si possano formare
tutti gli altri corpi, Epicuro introduce l’ipotesi dell’inclinazione (in latino clinàmen), per
cui gli atomi tenderebbero per puro caso a deviare leggermente dal loro moto verticale di
caduta, finendo così per urtarsi, combinarsi e aggregarsi. In assenza del clinàmen, il mon-
do sarebbe costituito soltanto da linee di atomi che cadono verticalmente nel vuoto senza
entrare in contatto fra loro; il clinàmen è come una brezza che devia fortuitamente gli
atomi dalle loro traiettorie verticali facendo sì che essi possano aggregarsi per costituire
i corpi materiali. La teoria del clinàmen introduce un elemento di indeterminazione e di
casualità in un universo altrimenti regolato esclusivamente da una rigida necessità.
FARE per CAPIRE • Elabora una mappa concettuale in cui emergano le caratteristiche degli atomi e il
modo in cui danno origine a tutte le cose.
Uomini e dei
A Epicuro preme evidenziare l’effetto di serenità d’animo che deriva dal riconoscere che
tutto quello che esiste non è altro che un precipitare di particelle nel vuoto. Egli trae dal-
la teoria atomistica conseguenze significative per l’esistenza umana: c’è qualcosa di pro-
fondamente rasserenante nel rendersi conto che l’universo è molto più semplice e unifor-
me di quanto possa apparire in prima battuta; è in ultima analisi un motivo di conforto
ritenere che la sterminata estensione dei luoghi e l’immensa varietà delle cose esistenti
non è altro che la manifestazione di un’unica struttura elementare. Tutto quello che esi-
ste è composto di materia ed è localizzato nello spazio vuoto.
Epicuro concepisce le divinità stesse come creature materiali, che abitano luoghi
lontanissimi – gli intermundia – e restano completamente indifferenti alle vicende
umane. Gli esseri umani sono a loro volta concepiti da Epicuro come creature mate-
riali; in tal senso, egli argomenta vigorosamente contro la tesi che l’anima sia una
sostanza speciale, immateriale e immortale: essa è a sua volta formata di atomi, sep-
pure «oltremodo torniti e sottili», ed è inestricabilmente unita al corpo. Come non vi
può essere corpo animato senza un’anima, così non vi può essere un’anima in assenza
di un corpo animato: l’idea che l’anima possa esistere separatamente dal corpo – sia
prima della nascita sia dopo la morte – appare ai filosofi epicurei come una superstizio-
ne puerile.
L’epicureismo critica la tesi della separabilità dell’anima dal corpo richiamandosi al
ruolo cruciale della sensibilità. La credenza nell’esistenza dell’anima si fonda su pro-
cessi elementari come il vedere, l’ascoltare, il toccare, il sentire caldo o freddo, il provare
inclinazione (in greco parénklisis, in latino clinàm- intermundia gli spazi tra gli infiniti mondi che co- lessico
en) la deviazione casuale che gli atomi compiono ri- stituiscono l’universo. In questi, gli dei vivono senza filosofico
spetto alla traiettoria verticale di caduta e che per- occuparsi delle vicende umane.
mette loro di scontrarsi e aggregarsi. Questa
deviazione infrange il rigido determinismo che regola
l’universo.
12 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
❯ Agesandro, Atanodoro
e Polidoro di Rodi, Gruppo
del Laocoonte, scultura in
marmo, seconda metà
del I secolo a.C., Città del
Vaticano, Musei vaticani.
Il capolavoro dell’età
ellenistica raffigura
il sacerdote troiano
Laocoonte e i suoi due figli
uccisi da due grossi
serpenti marini. L’opera
esprime la drammaticità
del momento e
la sofferenza estrema
del protagonista.
3 La logica
La priorità del sensibile
La logica epicurea è essenzialmente una teoria della conoscenza, che viene detta anche
canonica perché si basa sull’individuazione del “canone”, ossia il criterio di verità che ci
permette di distinguere i pensieri veri da quelli falsi.
Per Epicuro il canone è fissato dalla sensibilità, che è la nostra facoltà cognitiva
fondamentale. Perché vi sia conoscenza, occorre che le cose esistenti nel mondo entrino
in contatto con l’anima; tuttavia, in un mondo in cui tutto ciò che esiste è materia nello
lessico canonica così viene chiamata la logica epicurea, in quanto stabilisce la regola o “canone” del corret-
filosofico to procedere del pensiero, fornendo il criterio di verità, cioè la sensazione.
L’epicureismo capitolo 10 13
spazio vuoto, il contatto tra le cose e l’anima può avvenire soltanto mediante flussi di
materia che dalle cose procedono verso gli organi di senso. I flussi di materia che stimo-
lano la vista prendono il nome di simulacri, ma vi sono anche flussi di materia di altro
tipo che stimolano gli altri sensi. In ogni caso, il flusso di atomi conserva la struttura
dell’oggetto da cui si origina.
A fondamento della conoscenza vi è dunque la sensazione, intesa come contatto fra
un certo organo di senso e il flusso di atomi emanato da un certo corpo. Una sensa-
zione, essendo la diretta conseguenza di un contatto che avviene nel mondo fisico, è
sempre vera, ovvero rappresenta sempre correttamente il contatto che la genera: in que-
sta prospettiva, la sensibilità è infallibile. Se vediamo rosso, sicuramente c’è del rosso; se
sentiamo caldo, sicuramente c’è del caldo; se sentiamo sibilare, sicuramente c’è un sibilo.
Il fatto che talvolta ci sbagliamo nei nostri pensieri e nei nostri giudizi non dipende dalla
sensibilità, ma piuttosto dal modo in cui l’intelletto – la facoltà cognitiva superiore – in-
terpreta le sensazioni fornitegli dalla sensibilità. Ad esempio, la vista rappresenta corret-
tamente l’apparenza storta di un bastone immerso nell’acqua: è l’intelletto che si sbaglia
ad attribuire la proprietà dell’essere storto al bastone invece che all’effetto della rifrazione
della luce nell’acqua. Di fronte a tali illusioni percettive, l’epicureismo risponde con la
massima «agli occhi non ascrivere la colpa della mente». ❯ testo 1 p. 22
FARE per CAPIRE • Spiega, dal punto di vista di un epicureo, che cosa avviene quando crediamo di vede-
re un essere umano mentre ci troviamo di fronte all’ombra di un mobile sulla parete.
simulacri (in greco éidola) sono le immagini de- sensazione (in greco áisthesis) ciò che si pro- lessico
gli oggetti che si formano nell’organo della vista, va quando un flusso di atomi, staccandosi da un filosofico
nel momento in cui flussi di atomi, che si staccano oggetto di cui conserva la conformazione, colpi-
dall’oggetto conservandone la conformazione, sce un organo di senso.
colpiscono l’occhio e generano la sensazione.
14 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
lessico anticipazione (in greco prólepsis) l’immagine schematica di un oggetto che la mente costruisce a
filosofico partire dal ricordo di sensazioni passate, e che permette di anticipare nel pensiero la rappresenta-
zione dell’oggetto.
❯ Mosaico pavimentale romano (copia dell’originale proveniente dalle terme di Otricoli, in Umbria) con
la raffigurazione dei centauri. Secondo Epicuro l’immaginazione consente di ricombinare le tracce fornite
dai sensi in nuove immagini che possono anche essere inesistenti, come il centauro, creatura mitologica metà
uomo e metà cavallo.
L’epicureismo capitolo 10 15
FARE per CAPIRE • Sottolinea con colori diversi qual è la funzione rispettivamente di: memoria, im-
maginazione, anticipazione, emozioni (piacere e dolore).
4 L’etica
Libertà e felicità
Per Epicuro gli esseri umani sono liberi di agire e quindi responsabili delle proprie azio-
ni. La libertà è resa possibile dal fatto che gli atomi, come abbiamo visto trattando della
fisica, possono scostarsi dalla traiettoria verticale prestabilita secondo una certa inclina-
zione, il clinàmen, che introduce una componente aleatoria nel funzionamento dell’uni-
verso. Il deviare (microscopico) degli atomi dalle loro traiettorie prestabilite rende possi-
bile il deviare (macroscopico) dell’anima – anch’essa costituita di atomi – dalla rigida
necessità che governa il mondo fisico. Se il clinàmen non producesse «un inizio di movi-
mento che spezzi i decreti del fato», nel mondo non ci sarebbe la possibilità di una «vo-
lontà avulsa dai fati, per cui procediamo ciascuno dove il piacere ci guida» (Lucrezio, De
rerum natura, II). Il clinàmen fa sì che l’anima non sia determinata dalle leggi del moto
degli atomi che la compongono, e nemmeno dalle leggi del moto degli atomi che com-
pongono gli altri corpi; esso rende invece possibili azioni libere, cioè decise dall’anima
stessa, anziché prestabilite dalle leggi del movimento degli atomi. Gli esseri viventi sono
dunque, in una certa misura, padroni del proprio destino. L’etica epicurea si propone di
spiegare come possiamo sfruttare la libertà di cui disponiamo per raggiungere la felicità.
16 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
Per poter andare in cerca della felicità occorre innanzitutto sapere in che cosa essa
consiste. Epicuro identifica la felicità con il piacere:
“
Noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto
bene primo a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e sce-
gliamo ogni bene in base alla sensazione del piacere o del dolore.
(Lettera a Menèceo, 129)
Il primato del piacere in campo etico è una conseguenza del primato della sensibilità
in campo cognitivo: se l’anima è indissolubilmente legata al corpo, e se l’intera attività
mentale si basa sulle sensazioni provenienti dal corpo, allora anche gli stati di felicità e
infelicità, in quanto stati mentali, dovranno dipendere in maniera decisiva dalle sensa-
zioni che giungono dal corpo. Nella fattispecie, le sensazioni decisive per suscitare la
felicità e l’infelicità sono rispettivamente quelle di piacere e dolore, due varianti di
uno stesso tipo di stato mentale designato dal termine greco páthos. In un brano
dello scritto Sul fine (che ci è pervenuto tramite una citazione di Cicerone), Epicuro spie-
ga in che senso il piacere sia essenziale alla felicità:
“
Io non so concepire che cosa è il bene, se prescindo dai piaceri del gusto, dai piaceri d’a-
more, dai piaceri dell’udito, da quelli che derivano dalle belle immagini percepite dagli
occhi e in generale da tutti i piaceri che gli uomini hanno dai sensi. Non è vero che solo la
gioia della mente è un bene; giacché la mente si rallegra nella speranza dei piaceri sensi-
bili, nel cui godimento la natura umana può liberarsi dal dolore.
(Sul fine, in Cicerone, Tusculanae disputationes, III, 18, 42)
Piaceri e desideri
Epicuro distingue due tipi di piaceri: i piaceri cinetici o instabili, che sono essenzial-
mente mescolati con turbamento o dolore (ad esempio il piacere fisico, intenso ma tran-
sitorio e fuggevole); e i piaceri catastematici o stabili, che invece consistono nell’assen-
za di dolore. Sebbene i piaceri instabili diano spesso una parvenza di maggiore felicità,
sono ingannevoli, perché, essendo mescolati con turbamento o dolore, non permettono
mai di raggiungere una piena soddisfazione. Nella sua esposizione della filosofia epicu-
rea, Lucrezio paragona il perseguimento dei piaceri instabili al tentativo di riempire
d’acqua un contenitore bucato.
lessico páthos la “passione”, intesa come ciò che il nuove sensazioni piacevoli, e non riesce a liberar-
filosofico corpo e la mente “provano”, “patiscono”. Le pas- si definitivamente dal dolore e dal turbamento.
sioni sono le sensazioni piacevoli o dolorose che
l’individuo prova in conseguenza dei flussi di ato- piaceri catastematici (dal greco katastematikós,
mi che colpiscono gli organi di senso, e che sono derivato da kathístemi, “placo”, “stabilizzo”) piaceri
all’origine della felicità o dell’infelicità. che comportano stabilità e immutabilità; non di-
pendono dal fatto di moltiplicare le soddisfazioni
piaceri cinetici (dal greco kinetikós, derivato da sensibili, ma consistono nell’assenza di dolore, per-
kinéo, “muovo”) piaceri che comportano muta- seguita grazie all’appagamento dei desideri natu-
mento e instabilità: l’anima brama continuamente rali.
L’epicureismo capitolo 10 17
Alla distinzione tra due tipi di piaceri Epicuro fa corrispondere una distinzione tra
due tipi di desideri. Da una parte ci sono i desideri naturali, che sono suscitati da biso-
gni naturali del corpo e il cui soddisfacimento può effettivamente condurre a un piacere
stabile; essi sono a loro volta distinti in desideri naturali necessari, come la fame e la
sete, e desideri naturali non necessari, come la voglia di cibi raffinati e costosi. Dall’altra
ci sono i desideri vani o superflui, ad esempio il desiderio di celebrità o ricchezza, che
non corrispondono a bisogni naturali del corpo e tendono a generare principalmente
piaceri instabili, fonte di perenne insoddisfazione in quanto mai pienamente appaganti.
L’etica epicurea è dunque una forma di edonismo, dal momento che pone il piacere
come costituente essenziale della felicità. Si tratta tuttavia di un edonismo in un sen-
so peculiare, per cui quello che conta veramente non è il piacere qualunque esso sia, ma
soltanto una famiglia ristretta di piaceri, per l’appunto quelli stabili, che dunque devono
essere scelti in base a una valutazione razionale. Scrive Epicuro:
“
Quando dunque diciamo che il bene è il piacere non intendiamo il semplice piacere dei
goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo inter-
pretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno.
(Lettera a Menèceo, 131)
FARE • Indica, per ciascuno degli esempi riportati di seguito, se si tratta di desideri naturali necessa-
per ri, desideri naturali non necessari o desideri superflui: ambizione politica - desiderio sessuale
CAPIRE - fame - sete - desiderio smodato di cibi dolci - ambizione di gloria - aspirazione alla ricchezza
- propensione all’ozio.
edonismo (dal greco hedoné, piacere) dottrina filosofica che pone come fine dell’azione umana il lessico
piacere. filosofico
Dolori e timori
Sulla via che porta gli esseri umani alla felicità si frappongono come ostacoli apparente-
mente insormontabili i dolori e i timori. Epicuro ritiene tuttavia che molti di questi osta-
coli siano ingannevoli e che possano essere agevolmente superati mediante l’acquisizio-
ne del sapere. In particolare, Epicuro ritiene che il sapere filosofico possa funzionare
come un quadruplice farmaco (o “tetrafarmaco”) capace di liberare gli esseri umani dai
quattro grandi timori che li attanagliano:
• il timore degli dei;
• il timore della morte;
• il timore dell’infelicità;
• il timore della sofferenza.
Il timore degli dei si supera riconoscendo la loro indifferenza alle vicende umane,
dimostrata dalla presenza del male nel mondo. Se gli dei non potessero eliminare il male
dal mondo, sarebbero impotenti; se non lo volessero, sarebbero malevoli; dal momento
che impotenza e malevolenza sono caratteristiche che non possono essere attribuite alle
divinità, l’unica spiegazione plausibile è che gli dei, se esistono, siano del tutto indiffe-
renti alle vicende umane.
Il timore della morte si supera riconoscendo che l’anima è inseparabile dal corpo, e che
quindi, alla morte di quest’ultimo, termina anch’essa di esistere. Lo stato in cui saremo
lessico quadruplice farmaco le quattro vie del sapere filosofico che l’epicureismo propone per liberare
filosofico l’animo umano dalle quattro grandi paure che rendono impossibile la felicità: la paura degli dei, del-
la morte, dell’infelicità e della sofferenza.
❯ Galata morente
(copia romana da
originale greco
del III secolo a.C.),
scultura in marmo,
Roma, Musei
Capitolini.
L’epicureismo capitolo 10 19
dopo essere morti è lo stesso in cui eravamo prima di essere nati. Come non provavamo
nessun dolore prima di nascere, così non proveremo nessun dolore dopo essere morti, e
quindi non c’è nulla da temere:
“
la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entram-
bi nel sentire, e la morte non è altro che la sua assenza. […] Quando noi viviamo, la mor-
te non c’è. Quando c’è lei, non ci siamo noi.
(Lettera a Menèceo, 124-125)
I timori più motivati e difficili da estirpare sono quelli che hanno per oggetto l’infe-
licità e la sofferenza. In una certa misura questi timori hanno una funzione proficua,
perché ci spingono alla ricerca della felicità proprio per evitarli, ma si trasformano in
ostacoli nocivi quando fanno apparire la felicità più ardua da raggiungere di quanto in
realtà sia, e la sofferenza più temibile di quanto in realtà sia. Per contrastare questi ti-
mori infondati, Epicuro mostra che, da una parte, la felicità è qualcosa di facilmente
accessibile, dal momento che consiste nell’assenza di dolore e nella serenità d’animo;
d’altra parte, che l’unica forma reale di dolore, quello fisico, comporta normalmente tre
alternative le quali, a ben vedere, non sono poi così temibili: o il dolore passa rapida-
mente; oppure è tale da far sì che vi ci si abitui senza più soffrire; o può arrivare a con-
durre alla morte, che come si è visto pone fine a qualsiasi sofferenza.
In ultima analisi, la funzione principale della mente umana consiste nel cercare di
massimizzare il piacere e minimizzare il dolore. A questo scopo la mente deve fare
affidamento innanzitutto sulla sensibilità, che va tuttavia integrata dalla capacità di an-
ticipazione, di ragionamento e di calcolo che è propria dell’intelletto: i piaceri devono
infatti essere valutati con attenzione in modo da prevederne le conseguenze, i vantaggi
e gli svantaggi. Questo perché, come spiega Epicuro:
“
talvolta conviene tralasciare alcuni piaceri da cui può venire più male che bene, e giudica-
re alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare
dopo averle sopportate a lungo.
(Lettera a Menèceo, 129)
la paura della morte quando siamo vivi, la morte non c’è; quando c’è la morte, non ci siamo noi
la paura della soferenza il dolore passa rapidamente; oppure è tale da far sì che ci si abitui ad esso
senza più soffrire; o al limite conduce alla morte, che non è nulla
20 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
“
Dolce, quando nel mare immenso i venti sconvolgono le acque, contemplare dalla riva
l’affanno grande di altri, non perché l’angoscia di un uomo dia gioia e sollievo, ma perché
è dolce vedere da che mali tu stesso sei libero. Dolce anche guardare grandi battaglie
spiegarsi nel piano, senza essere tu nel pericolo. Ma nulla è più consolante che occupare i
forti templi sereni elevati dalla dottrina dei saggi, donde tu possa abbassare lo sguardo
sugli altri e vederli errare smarriti e alla ventura cercare la via della vita, e far gara d’inge-
gno, competere di nobiltà, notte e giorno sforzarsi con assillante fatica di emergere a som-
ma potenza e impadronirsi dello Stato.
(De rerum natura, II)
Come la fisica epicurea rivelava che la natura è in realtà molto più semplice di quanto
appaia – soltanto atomi in movimento nel vuoto –, così l’etica epicurea rivela che la feli-
❯ QUADERNO PER
cità è in realtà qualcosa di molto più semplice e accessibile di quanto possa sembrare di
LE COMPETENZE E
IL NUOVO ESAME primo acchito. Si tratta principalmente di evitare sia di inseguire falsi obiettivi sia di
p. 72 sfuggire a falsi timori, imparando a sottrarsi all’inutile trambusto dell’esistenza.
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo dei due paragrafi precedenti le frasi che sintetizzano in modo
significativo la concezione epicurea della felicità.
Nascondimento e amicizia
Sia la vita tumultuosa nelle grandi città sia la vita lussuosa alla corte dei potenti o dei
sovrani sono costellate di falsi desideri e falsi timori che ostacolano inutilmente la ri-
cerca della felicità. La vita pubblica, in generale, ha fattezze di tempesta e di battaglia,
ed Epicuro ha mostrato che la vera felicità si può raggiungere soltanto osservando la
tema tempesta e la battaglia dall’esterno. In tal senso l’etica epicurea è sintetizzata dalla
L’AMICIZIA È UN FATTO
PERSONALE O SOCIALE? massima vivi nascostamente, cioè “conduci un’esistenza il più possibile appartata
p. 106 e semplice”.
lessico aponía (termine greco composto da a- privativo, piaceri e si è liberato delle paure grazie al qua-
filosofico “senza”, e pónos, “dolore”) l’“assenza di dolore” druplice farmaco.
fisico, dipendente dalla soddisfazione dei desi-
deri necessari, concernenti il corpo. vivi nascostamente (in greco láthe biósas) è
l’invito epicureo a vivere lontano dal tumulto e
ataraxía (termine greco composto da a- pri- dai desideri falsi e smodati alimentati dall’ambi-
vativo, “senza”, e táraxis, “turbamento”) l’“assen- zione del potere e della ricchezza, scegliendo
za di turbamento” e la perfetta pace dell’anima. invece piccole e frugali comunità dove condurre
È tipica del saggio epicureo che sa valutare i una vita semplice e serena insieme con gli amici.
L’epicureismo capitolo 10 21
D’altra parte, è importante notare che Epicuro non concepisce la felicità in termini di
totale rifiuto della vita sociale. Il saggio epicureo non è un eremita che vive completa-
mente isolato dalla società, né un individualista che persegue esclusivamente la propria
felicità nella totale indifferenza per gli altri. Anzi, Epicuro riconosce l’importanza della
socialità nella costruzione della vita felice. Innanzitutto c’è una ragione utilitaristica:
associandosi tra loro, gli esseri umani sono in grado di soddisfare meglio quei deside-
ri naturali – ad esempio il nutrimento o il riparo dalle intemperie e dai pericoli – da cui
dipendono il piacere e la felicità. Il sorgere delle prime forme di vita associata si spiega
dunque come un processo di collaborazione finalizzata al soddisfacimento di alcuni
desideri condivisi. Un ruolo cruciale nello sviluppo della vita sociale è svolto dal
linguaggio, che per Epicuro ha anch’esso – come la conoscenza – origine dalla sensibi-
lità: il linguaggio primitivo è formato da suoni emessi in corrispondenza di particolari
percezioni o sensazioni:
“
i nomi, in principio, non venivano attribuiti secondo convenzione, ma le stesse nature
degli esseri umani, per ciascun popolo, provando determinate sensazioni e ricevendo de-
terminate immagini, emettevano dalla bocca in determinati modi l’aria inviata da ciascu-
na sensazione e immagine.
(Lettera a Erodoto, 75-76) ESERCIZI
[L’origine della sensazione] Occorre aver ben chiaro che noi vediamo le forme delle cose e
ne facciamo oggetto del pensiero per il fatto che qualcosa sopravviene a noi dall’esterno.
Non sarebbe possibile che le cose esterne imprimessero in noi la loro natura, la loro forma
o il loro colore soltanto per mezzo dell’aria che c’è tra loro e noi, né per mezzo di raggi o
5 correnti di qualsiasi specie che si dipartissero da noi verso di loro, mentre invece tutto ciò
è ben possibile per mezzo di immagini che giungano a noi dagli oggetti esterni, di colore
e di forma simile a quelli, e di grandezza proporzionata alla nostra vista e alla nostra mente.
Tali immagini si muovono con velocità; per questa ragione danno la visione dell’oggetto
nella sua unità e nella sua contiguità, e conservano la corrispondenza con l’oggetto da cui
10 provengono per via del loro stesso appoggiarsi a quello con contiguità commisurata, che
ha le sue radici nella vibrazione degli atomi che avviene nella profondità del corpo solido.
La visione che in tal modo otteniamo, sia della forma sia delle sue affezioni, per un atto di
apprensione della mente o dei sensi, è la forma stessa del solido, risultante dalla presenza
compatta del simulacro o dai residui di esso.
15 [Il fondamento dell’errore] L’inganno e l’errore consistono sempre nel nostro aggiungere
alcunché, con l’opinione, [a ciò che attende di] esser confermato [o di non essere smentito],
e nel fatto che poi questo qualcosa non sia confermato [o riceva prova contraria].
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 48-50, in Epicuro, Opere, a cura di M. Isnardi Parente,
UTET, Torino 1983, pp. 154-155)
ALLENA LE COMPETENZE
TESTI
COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO
righe 1-7 La conoscenza dipende dal fatto che con grande velocità, consentono una percezione
qualcosa proviene in noi dall’«esterno»; in altre pa- istantanea e precisa dell’oggetto nella sua unità e
role, qualcosa si stacca dalle cose e colpisce i nostri collocazione. Le immagini si formano a seguito
sensi. Non sarebbe infatti possibile che le cose agis- della vibrazione degli atomi all’interno del corpo
sero su di noi direttamente, attraverso l’aria, o che percepito: la visione che ne deriva è perfettamente
noi agissimo sulle cose mediante «raggi» o «cor- adeguata all’oggetto e quindi veritiera.
renti» che le raggiungessero partendo dal nostro
righe 15-17 L’errore non risiede dunque nella
corpo. Dagli oggetti, invece, provengono «imma-
sensazione, bensì nell’«opinione», cioè nel giudizio
gini» che ne mantengono la forma, il colore e la
su di essa, nella sua valutazione (che appunto “ag-
struttura e vanno a sollecitare gli organi di senso.
giunge” qualcosa a ciò che attestano i sensi): tale
righe 8-14 Tali immagini sono assolutamente giudizio può essere confermato o smentito da ul-
fedeli alle cose da cui si originano e, muovendosi teriori sensazioni.
RIFLETTI
Nel brano l’autore propone una spiegazione meccanicistica del fenomeno della sensazione. Spie-
ga quali elementi supportano tale affermazione ed esponi il tuo punto di vista in proposito.
Epicuro a Meneceo: salve. Né quando uno è giovane esiti a filosofare, né quando è vec-
chio si stanchi di filosofare. Infatti, per nessuno, non è ancora il momento o non è più il
momento di acquistare la salute dell’anima. Perché chi afferma che non è ancora il tempo
opportuno per filosofare, o che questo tempo è ormai passato, assomiglia a chi dicesse
5 che non è giunto ancora il momento per la felicità, o che non lo è più. Cosicché, deve
occuparsi di filosofia sia un giovane sia un vecchio, il primo perché, invecchiando, possa
essere giovane nei beni, in grazia di ciò che è stato, l’altro per essere, al contempo, gio-
vane e anziano, in virtù della mancanza di paura verso quanto deve ancora avvenire nel
futuro. Occorre, dunque, avere cura di tutto quanto produce felicità, se è vero, come è
10 vero, che, quando essa è presente, abbiamo tutto, mentre, quando è assente, agiamo al
fine di potere averla. E quelle cose che ho continuato a raccomandarti, compile e àbbine
cura, ritenendo che queste sono i fondamenti del vivere bene.
[La considerazione degli dei] In primo luogo, nella convinzione che Dio è un vivente
incorruttibile e beato – ed è questa la concezione comune di Dio –, non attribuirgli nulla
15 che esuli da questa incorruttibilità e neppure che esuli dalla beatitudine, bensì pensa di
lui tutto ciò che è in grado di conservare questa sua beatitudine insieme con l’incorrutti-
bilità. Infatti, gli dèi esistono, in quanto la cognizione che ne abbiamo è evidente: ma essi
non sono come i più li considerano; infatti, non sanno mantenerli quali li concepiscono.
24 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
Ed è empio non chi nega gli dèi venerati dai più, ma chi ascrive agli dèi le opinioni dei più.
TESTI
20 Infatti, le asserzioni dei più riguardo agli dèi non sono prolessi, bensì assunzioni false. In
conseguenza a ciò, sono attribuite agli dèi le maggiori sciagure per i malvagi e le maggio-
ri fortune per i buoni. Infatti, essendo in tutto intimamente uniti con le loro virtù proprie,
[gli dei]1 accolgono quelli simili a loro, considerando invece come estraneo tutto ciò che
non è tale.
25 [La paura della morte] Abìtuati a pensare che la morte non è nulla per noi, poiché ogni
bene e ogni male risiede nella sensazione: ebbene, la morte è privazione di sensazione.
Perciò, la retta cognizione che la morte non è nulla per noi rende bene accetto anche il
fatto che la vita finisce con la morte, […] liberandoci dalla brama di immortalità. […]
Cosicché, è stolto chi sostiene di temere la morte non perché porterà pena quando sarà
30 presente, bensì perché porta pena mentre deve ancora venire. Infatti, ciò che non addo-
lora quando è presente, non ha senso che addolori mentre lo si attende. Dunque, il più
orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, poiché, per tutto il tempo in cui noi siamo,
la morte non è presente; e invece, per tutto il tempo in cui la morte è presente, noi non
siamo. Dunque, essa non riguarda né i vivi né i morti, poiché per i primi non c’è, e gli
35 altri non sono più. Ma la maggior parte delle persone talora fugge la morte come il più
grande dei mali, talaltra, invece, la sceglie come mezzo per fare cessare i mali della vita.
Il saggio, invece, né ricusa di vivere, né teme il non-vivere: infatti, non gli dà noia il vi-
vere, e neppure ritiene che il non-vivere sia un male. E, come del cibo egli si sceglie non
la porzione maggiore in assoluto, ma la più gustosa, così anche del tempo coglie non la
40 parte più lunga, ma la più piacevole.
[L’obiettivo dell’imperturbabilità] Analogamente, bisogna considerare che, tra i desideri,
alcuni sono naturali; altri, invece, vacui; e, tra i naturali, alcuni sono necessari, altri sem-
plicemente naturali; e tra i necessari, a loro volta, alcuni lo sono in vista della felicità,
altri, invece, in vista dell’assenza di dolore del corpo, altri ancora in vista della vita stes-
45 sa. Infatti, una infallibile considerazione di questi principi sa indirizzare ogni atto di
scelta e di repulsa verso la salute del corpo e l’imperturbabilità dell’anima, poiché questo
è il fine del vivere beatamente. È per questo scopo, infatti, che noi facciamo ogni cosa:
appunto, al fine di non soffrire e non essere turbati dalla paura.
(Epicuro, Lettera a Menèceo, in Epicurea, nell’edizione di Hermann Usener,
a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2002, pp. 171-184)
1. Il soggetto non è esplicitato, ma sembra che si voglia qui alludere all’imperturbabilità degli dei, i quali stanno tra
i propri simili disinteressandosi di quanto accade agli altri esseri.
L’epicureismo capitolo 10 25
TESTI
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
Nel brano, a proposito del saggio si legge: «anche del tempo coglie non la parte più lunga, ma la più
piacevole». Epicuro invita a concentrarsi sulla qualità della vita, ad attribuire valore a ogni istante,
cercando di non “perderlo” in preoccupazioni inutili e opprimenti. Esprimi il tuo punto di vista sul
valore del tempo, facendo riferimento alla visione che la società attuale mostra di averne e
all’impiego che ne fa.
26 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
capitolo 10
SINTESI L’epicureismo
AUDIOSINTESI
2 La fisica
Quali sono i principi della fisica epicurea? Epicuro to di atomi in eterno movimento, non vi è alcuna
afferma che tutta la realtà è costituita da atomi che finalità.
si muovono nel vuoto aggregandosi e separandosi. Come vengono concepiti l’anima e gli dei? Anche gli
Gli atomi si differenziano per forma geometrica, dei e l’anima sono costituiti da atomi: gli dei vivono
orientamento, ordine nello spazio e peso. Per spie- beati negli spazi tra i mondi; l’anima è costituita da
gare come possano scontrarsi, Epicuro introduce atomi leggeri e lisci ed è inscindibilmente legata al
l’ipotesi del clinàmen, una deviazione degli atomi corpo, alla morte del quale subisce la medesima sorte.
dal moto verticale di caduta. Nell’universo, costitui-
3 La logica
Che cos’è la “canonica”? La canonica è la logica epi- Come viene spiegata l’attività della mente? I ragio-
curea, così denominata in quanto individua il “cano- namenti dipendono dalle sensazioni: i concetti
ne”, cioè la regola della verità. Secondo la canonica sono anticipazioni di sensazioni future e sono costruiti
fondamento della conoscenza è la sensazione, la qua- dalla mente a partire da sensazioni passate. Il deside-
le si genera quando flussi di atomi, partendo dagli og- rio e il timore si basano su sensazioni passate piacevo-
getti, colpiscono gli organi di senso, provocando in noi li o spiacevoli, custodite nella memoria: si tramutano in
immagini delle cose. Le sensazioni sono sempre vere; azioni se l’anima mette in movimento il corpo, tramite
è l’intelletto che può errare pronunciando i giudizi. un flusso di atomi che attraversa le membra.
4 L’etica
In che senso l’epicureismo è una teoria edonistica? presenta come un quadruplice farmaco, offrendo
L’obiettivo dell’etica epicurea è quello di indicare la quattro vie che servono proprio a tale scopo: 1. la
via verso la felicità. Essa, per Epicuro, consiste nel prima riconosce che gli dei non sono da temere per-
piacere, il quale dipende dalle sensazioni che dal ché sono indifferenti alle vicende umane; 2. la se-
corpo raggiungono l’anima. I piaceri, però, devono conda sostiene che la morte non è nulla perché
essere attentamente catalogati e valutati: i piaceri quando siamo vivi, la morte non c’è, e quando c’è la
instabili o cinetici comportano turbamento e dolo- morte, non ci siamo noi; 3. la terza ammette che la
re; inoltre non danno mai piena soddisfazione per- felicità è raggiungibile se sappiamo opportuna-
ché sono legati a una ricerca di piacere infinita e mai mente valutare i desideri e calcolare i piaceri; 4. la
sazia. I piaceri stabili o catastematici, invece, con- quarta afferma che il dolore fisico o è sopportabile
sistono nella totale assenza di dolore e sono legati al oppure ci conduce rapidamente alla morte. La feli-
soddisfacimento dei desideri necessari. cità consiste nell’assenza di dolore fisico (aponía) e
Quali sono le condizioni fondamentali per rag- di turbamento dell’anima (ataraxía).
giungere la felicità? Oltre che selezionare i piace- Quale valore attribuisce Epicuro alla vita pubblica?
ri, preferendo quelli stabili, per raggiungere la feli- La vita pubblica, con i suoi eccessi, può risultare dan-
cità è necessario liberarsi dai quattro timori nosa per la felicità, per cui il saggio è invitato a vivere
fondamentali: degli dei, della morte, dell’infelicità “nascostamente”, cioè in piccole comunità di amici
e della sofferenza. In questo senso la filosofia si in cui condurre un’esistenza moderata e serena.
27
capitolo 10
MAPPE CONCETTUALI L’epicureismo
LA FISICA
LA FISICA EPICUREA
sostiene che
sono materiali le cose, gli esseri tutti i corpi derivano introduce un elemento
viventi e anche l’anima e gli dei dall’aggregazione degli atomi nel di casualità in un universo
loro movimento di caduta governato dalla necessità
nel vuoto, e si dissolvono per
la loro disgregazione
LA LOGICA
LA LOGICA EPICUREA
afferma che
sensazione
sensibilità (contatto tra flussi di atomi elaborazione delle sensazioni
delle cose e organi di senso)
da cui derivano
i concetti o anticipazioni
L ’ ETICA
LA FELICITÀ
quadruplice farmaco
capitolo 10
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA L’epicureismo
RIPASSO
ad alta voce
34. Chiarisci in 3 minuti la concezione del piacere
in Epicuro.
30 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
capitolo 11 Lo stoicismo
“
Quando ha attuato la piena razionalità della vita, l’uomo ha
compiuto il suo bene e toccato la meta segnata alla sua natura.
(Seneca, Lettere a Lucilio, 76)
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo i caratteri della scuola stoica e le articolazioni della sua dottrina.
2 La fisica
I due principi fondamentali dell ’ universo
Gli stoici concepiscono il mondo come un enorme organismo vivente che consiste nell’unio-
ne indissolubile di due principi, uno attivo (poióun, “principio che agisce”) e uno pas-
sivo (páschon, “principio che subisce”). Il principio passivo è pura materia pervasa e
animata dal principio attivo, il quale è caratterizzato dagli stoici in vari modi: come ra-
gione e come seme (lógos spermatikós), ma anche come spirito o soffio vitale (pnéuma),
e poi anche come anima del mondo, come fuoco e come divinità. Quando Cleante com-
pone il suo poema Inno a Zeus, la divinità a cui egli di fatto si rivolge non è il sovrano
lógos spermatikós (letteralmente, “ragione semi- tutto il cosmo. Per estensione indica quindi il princi- lessico
nale”) il principio generativo o attivo, che dà vita alla pio razionale e divino che conferisce ordine all’uni- filosofico
materia, intesa come principio passivo, e permea verso.
32 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
dell’Olimpo bensì il principio attivo che infonde vita nel mondo: «la ragione comune che
in tutti penetra […] la ragione unica di tutto, che si svolge e vive per l’eternità». La con-
cezione stoica della divinità come un principio razionale che pervade il mondo nella sua
totalità viene tipicamente indicata con il termine panteismo. Il politeismo tradizionale
viene comunque preservato considerando gli dei come aspetti peculiari dell’ordine razio-
nale che governa l’universo.
A differenza del demiurgo di Platone, che dava origine al mondo modellando la ma-
teria dall’esterno, la divinità di cui parlano gli stoici – il principio attivo – plasma il
mondo dall’interno, essendo indissolubilmente congiunta con la materia stessa. In tal
senso la relazione tra principio attivo e principio passivo nella fisica degli stoici rimanda
piuttosto alla combinazione di forma e materia nella fisica aristotelica. Tuttavia per Ari-
stotele la combinazione di forma e materia riguardava soltanto l’esistenza delle singole
sostanze; invece per gli stoici è il mondo nella sua totalità a essere concepito come una
“sostanza” vivente che ha una sua “forma” (il principio attivo) e una sua “materia” (il
principio passivo) indissolubilmente interconnesse.
L’ ordine razionale
Il principio attivo, pervadendo la materia, conferisce razionalità, finalità e necessità a
tutto ciò che accade: in questo senso gli stoici affermano che il mondo evolve nel tempo
secondo una legge necessaria, chiamata “fato” o “provvidenza”, che realizza un progetto
razionale prestabilito, in base a un concatenarsi sistematico di cause ed effetti. Si parla a
tal proposito di finalismo e anche di ottimismo della concezione stoica, essendo il mon-
do concepito come il dispiegarsi di una razionalità orientata verso ciò che è bene che sia.
Secondo gli stoici la finalità o legge interna all’universo prevede infinite ripetizioni
della stessa serie di eventi. Questa serie inizia con una grande conflagrazione, una vio-
lenta esplosione da cui si origina il cosmo, e termina con un’altra conflagrazione in cui il
cosmo si distrugge in modo da avviarsi verso un nuovo inizio, processo che gli stoici
chiamano palingenesi. Si parla a tal proposito di “cicli cosmici”, tali per cui tra una con-
flagrazione e l’altra gli eventi si ripetono sempre identici. In virtù dell’ordine razionale
universale, ogni evento è l’effetto prestabilito e inevitabile di cause necessarie; gli stoici
ritengono dunque possibile la divinazione o “mantica”, cioè l’arte di prevedere il futuro
in base a ciò che sappiamo del passato e del presente.
lessico panteismo (dal greco pán, “tutto”, e theós, “dio”) la palingenesi il nuovo inizio (dal greco pálin, “di
filosofico concezione per cui il divino non è separato dal mondo, nuovo”) a cui è soggetto il cosmo dopo ogni ciclo.
ma è presente in tutta la realtà come principio interno
e immanente: dio e il mondo sono la stessa cosa.
Lo stoicismo capitolo 11 33
Sebbene il mondo sia un unico immenso organismo, al suo interno si possono distin-
guere varie entità munite di un certo grado di autonomia. Per gli stoici, soltanto le entità
dotate di un corpo, cioè di una localizzazione e di un’estensione nello spazio, esistono in
senso proprio. Le cose esistenti all’interno del mondo sono individui particolari costituiti
dall’azione del principio attivo sul principio passivo, e si possono classificare in base al
modo in cui il primo pervade e plasma il secondo. Nel caso degli oggetti inanimati, il
principio attivo si limita a munire la materia di un certo aspetto, mentre nel caso degli
organismi vegetali alla materia viene conferita una certa natura, da cui deriva la vita in
senso biologico. Nel caso degli animali, la natura è potenziata dall’anima, la cui funzione
primaria consiste nel permettere movimenti autonomi. Nel caso degli esseri umani, infi-
ne, l’anima è governata dalla facoltà razionale, che gli stoici chiamano heghemonicón
(“egemonico”).
Al pari degli epicurei, gli stoici trattano l’anima umana come un’entità corporea uni-
taria, ma a differenza degli epicurei essi non la considerano costituita da materia inerte,
bensì dal fuoco divino, il soffio vitale, la medesima materia del principio attivo di cui è
parte; pertanto ritengono che, in linea di principio, l’anima potrebbe sopravvivere alla
morte del corpo. La capacità dell’anima umana di conoscere e ragionare è il tema dell’in-
dagine filosofica che gli stoici chiamano “logica”, mentre la capacità di deliberare e agire
è il tema dell’etica. ESERCIZI
FARE per CAPIRE • Evidenzia con colori diversi le categorie di enti che esistono nel mondo e i modi
in cui il principio attivo costituisce gli individui che ne fanno parte.
3 La logica
Il criterio di verità RICORDA CHE...
Per gli epicurei il
Gli stoici concordano con gli epicurei sul fatto che la conoscenza derivi dalla sensibilità,
criterio di verità
cioè dall’azione dei corpi esterni sugli organi di senso. Tuttavia, lo stoicismo rifiuta la tesi coincide con la
epicurea per cui il criterio di verità consiste nella sensazione stessa: la sensazione pro- sensazione, intesa come
duce soltanto una modificazione dell’anima determinata dalle caratteristiche di un certo contatto tra un organo
di senso e il flusso di
oggetto. I sensi forniscono le impressioni, che si fissano nell’anima come su un foglio atomi prodotto da
bianco: questa è la fase passiva della conoscenza, in cui non si può ancora parlare di un certo corpo. Una
verità o falsità. Il criterio di verità, in base al quale è possibile stabilire con certezza che sensazione, essendo
la diretta conseguenza
cosa è vero e che cosa è falso, ossia come stanno realmente le cose, si dà soltanto quando dell’azione di un oggetto
l’intelletto dà il suo assenso alla sensazione; è a questo punto che il soggetto conoscen- concreto, è sempre vera,
te afferra con il pensiero l’oggetto che ha causato la sensazione. L’assenso dell’intelletto ovvero rappresenta
sempre correttamente
alla sensazione è l’inizio del momento attivo della conoscenza, attraverso cui il sogget- il contatto che la genera.
to riconosce le impressioni. ❯ p. 13
heghemonicón la facoltà razionale che esercita il ruolo “egemonico” di guida all’interno dell’anima lessico
umana e, tramite i ragionamenti e le decisioni, guida le azioni. filosofico
34 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
“
Come gli anelli imprimono sempre nella cera, con estrema precisione, tutte le caratteristi-
che del loro sigillo, così coloro che hanno un’impressione cognitiva degli oggetti devono
notarne tutte le peculiarità.
(Sesto Empirico, Contro i dogmatici, 7.247-252)
L’atto con cui l’intelletto concede l’assenso a una sensazione è un atto libero che gli
stoici chiamano giudizio. Il giudizio identifica un certo oggetto attribuendogli certe pro-
prietà: ad esempio, nell’identificare una cosa che vedo muoversi in lontananza posso
giudicare che si tratta di un cavallo che sta correndo. Quando l’intelletto non è sicuro di
aver davvero afferrato un certo oggetto, il giudizio è soltanto credenza o opinione (dóxa).
Perché il giudizio conti come conoscenza genuina o scienza (epistéme), è necessario che
l’impressione di aver afferrato un certo particolare oggetto con il pensiero sia accompa-
gnata da certezza infallibile. Per enfatizzare questo punto, Zenone introduce un’ulte-
riore similitudine tra il pensiero e le mani, paragonando la scienza a due mani che si
stringono una sull’altra: una mano afferra l’oggetto, e l’altra dà conferma che l’oggetto
afferrato è proprio quello che si crede di aver afferrato. Gli stoici affermano che la mag-
gior parte dei giudizi delle persone comuni sono opinioni, mentre è privilegio dei soli
sapienti afferrare mentalmente gli oggetti con piena certezza, e quindi avere giudizi che
valgano come conoscenze genuine.
Tuttavia resta il problema di stabilire se, perfino per i massimi sapienti, sia davvero
possibile avere certezze infallibili. Al tal proposito, Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, VII,
177-178) racconta la vicenda di Sfero di Boristene, un filosofo stoico unanimemente rite-
nuto un grande sapiente, che un giorno si disse certo di avere di fronte a sé una melagra-
na, mentre si trattava di una scultura in cera. Dopo aver scoperto la verità, Sfero fu co-
stretto ad ammettere che il contenuto della sua certezza infallibile non consisteva
nell’avere di fronte a sé una melagrana, ma soltanto nel ritenere ragionevole l’ipotesi che
di fronte a sé ci fosse una melagrana.
lessico rappresentazione catalettica (dal greco katalambánein, “prendere”, “afferrare”) l’impressione certa e
filosofico vera, corrispondente a un oggetto conosciuto chiaramente, che l’intelletto afferra o comprende.
Lo stoicismo capitolo 11 35
rappresentazione l’intelletto afferra o sintesi dei due aspetti la mano stretta a pugno
catalettica comprende l’oggetto della conoscenza:
dopo aver dato il suo quello passivo della
assenso sensazione e quello
attivo dell’assenso
I concetti
Per gli stoici la conoscenza deriva dalla sensibilità e quindi riguarda in primo luogo gli
oggetti che possiamo conoscere mediante gli organi di senso: gli oggetti esistenti, ovve-
ro gli individui particolari muniti di un corpo situato nello spazio. Le rappresentazioni
fondamentali sono dunque le percezioni dei singoli individui esistenti; queste percezioni
vengono immagazzinate nella memoria, da dove possono essere riattivate ed elaborate
da facoltà cognitive superiori come l’immaginazione e l’intelletto. In questo modo si for-
mano i concetti, che gli stoici concepiscono come strumenti mentali che permettono di
raggruppare vari individui in base a certe caratteristiche comuni. Ad esempio il
concetto “giallo” permette di raggruppare le varie cose gialle, e il concetto “leone” per-
mette di raggruppare i vari singoli leoni. Dalla funzione di raggruppamento deriva la
funzione di anticipazione: se ho già percepito dei leoni e mi sono formato il concetto di
leone, quando vedrò un nuovo leone sarò in grado di riconoscerlo come tale sulla base di
determinati indizi percettivi. Su questo gli stoici concordano con gli epicurei nel caratte-
rizzare il concetto come un’anticipazione (prólepsis).
Un punto di cruciale importanza per la logica stoica è il ruolo subordinato dei con-
cetti in rapporto alle rappresentazioni che riguardano singoli individui. Nozioni come
“giallo” o “leone” non afferrano nulla di realmente esistente: sono soltanto costrutti
mentali che utilizziamo per raggruppare le uniche cose che esistono realmente, ossia gli
individui. Questa teoria dei concetti svolge un ruolo decisivo nella costruzione delle teo-
rie stoiche concernenti il linguaggio e il ragionamento.
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la definizione dei concetti e le loro due funzioni principali.
36 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
❯ Strumenti per la
scrittura, affresco,
I secolo d.C.,
Pompei, Museo
Archeologico
Nazionale.
I termini
Per gli stoici i termini linguistici hanno normalmente tre componenti: il segno, l’oggetto
e il significato. Il segno è la sostanza fisica del termine stesso: il particolare suono profe-
rito oppure la particolare iscrizione tracciata su una superficie; ad esempio la parola
“luna” scritta o proferita. L’oggetto è a sua volta un’entità corporea: il particolare indivi-
duo cui il termine si riferisce; ad esempio l’oggetto della parola “luna” è la luna in tutta
la sua concretezza. Il significato si differenzia invece sia dal segno sia dall’oggetto in
ragione della sua natura incorporea. Esso non è un’entità esistente, ma una struttura di
pensiero, che permette di collegare il segno con il suo oggetto: il significato del nome
“luna” è ciò che si attiva nella nostra mente quando udiamo il nome “luna”, e che ci fa
pensare proprio alla luna e non al sole o alla terra.
Il significato è di fondamentale importanza per quei termini come “giallo” o “leone”
che corrispondono a concetti, e che dunque – nella prospettiva degli stoici – non hanno un
singolo oggetto reale come corrispettivo. Per termini di questo tipo, i significati stabiliscono
le caratteristiche condivise che permettono di raggruppare i singoli individui: è soltanto
conoscendo il significato di parole come “giallo” e “leone” che possiamo stabilire se una
certa cosa è gialla oppure no, o se una certa creatura è un leone oppure no.
FARE • Indica se i seguenti sono esempi di “segni”, “oggetti” o “significati”: a. il cavallo che vedo nel
per prato; b. il concetto di albero; c. la parola “albero”; d. il nome “Roberto”; e. mio fratello;
CAPIRE f. l’immagine di Maria fissata nella mia memoria; g. il cane Charlie che gratta alla porta.
lessico significato (in greco lektón, letteralmente “il e permette di collegare un segno con il suo og-
filosofico dicibile, l’esprimibile”) la rappresentazione con- getto o con un insieme di oggetti che condivido-
cettuale che il segno suscita nella mente. Questa no caratteristiche comuni.
rappresentazione è una costruzione della mente
Lo stoicismo capitolo 11 37
Le proposizioni
Sia i termini come “luna” o “Socrate”, che si riferiscono a un singolo individuo, sia i termini
come “giallo” e “leone”, che corrispondono a un certo concetto, hanno un significato che gli
stoici definiscono “incompleto”, nel senso che di per sé non ci fornisce nessuna informazio-
ne su come stanno le cose nel mondo. Non basta dire “luna” o “giallo” per dire qualcosa sul
mondo: soltanto combinando i due termini in una proposizione, come “la luna è gialla”, si
esprime un significato “compiuto”, che può essere valutato come vero oppure come falso.
Per gli stoici le proposizioni sono fondamentalmente attribuzioni di proprietà a indi-
vidui: dunque, “la luna è gialla” è una proposizione (vera), così come “Socrate è un leone”
è una proposizione (falsa). Invece “l’uomo è un animale” per gli stoici non è una proposi-
zione in senso stretto perché non fa riferimento a nessun individuo particolare, e si limita
a connettere tra loro due concetti (“uomo” e “animale”). Una frase come “l’uomo è un
animale” sintetizza implicitamente due proposizioni sotto l’apparenza di una sola frase:
quando diciamo “l’uomo è un animale”, in realtà il significato che esprimiamo è “se un
certo individuo è un uomo, allora quell’individuo è un animale.”
Da queste considerazioni deriva la differenza principale tra la logica stoica e la logica
aristotelica. Per Aristotele “l’uomo è un animale” è una proposizione che connette i concet-
ti “uomo” e “animale”, e che si può generalizzare nella forma “A è B”, dove i simboli A e B
rappresentano due concetti generici. Invece per gli stoici “l’uomo è un animale” è una propo-
sizione composta che connette la proposizione “un certo individuo è un uomo” con la propo-
sizione “quell’individuo è un animale”; dunque, la generalizzazione sarà “se p, allora q”, dove
i simboli p e q non rappresentano più dei nomi o dei concetti bensì delle proposizioni.
In conclusione, la logica aristotelica si basa su un calcolo (il sillogismo) i cui simboli
rappresentano singoli termini come nomi e concetti; la logica stoica – molto più simile in
questo alla logica moderna – è invece un calcolo i cui simboli rappresentano proposizioni,
ed è per questo definita “logica proposizionale”.
FARE per CAPIRE • Esplicita le proposizioni di cui è composta l’asserzione “l’albero è un vegetale”,
secondo la logica stoica.
anapodittico (dal greco anapódeiktos, “non di- le cinque forme fondamentali del ragionamento, lessico
mostrabile”) ciò che non è dimostrabile, perché è perché sono intuitivamente evidenti. Su queste si filosofico
evidente di per sé. Per gli stoici sono anapodittiche basano tutte le altre forme di ragionamento.
38 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
Una proposizione condizionale è tale per cui essa risulta falsa se l’antecedente è vero e
il conseguente è falso, mentre risulta vera in tutti gli altri casi (p vera e q vera; p falsa e
q vera; p falsa e q falsa). Ad esempio la proposizione condizionale “se la luna è un satel-
lite, allora ruota attorno a un pianeta” è vera (avendo antecedente e conseguente veri),
mentre la proposizione condizionale “se la luna è un satellite, allora è al centro dell’uni-
verso” è falsa (avendo antecedente vero e conseguente falso).
La prima figura, tradizionalmente designata dall’espressione latina modus ponens
(“modo che afferma”), ha la forma:
• “se p allora q” (premessa);
• “p” (premessa);
• dunque “q” (conclusione).
Un esempio di prima figura è il ragionamento:
• “se la luna è un satellite, allora la luna ruota attorno a un pianeta”;
• “la luna è un satellite”;
• dunque “la luna ruota attorno a un pianeta”.
La seconda figura, tradizionalmente designata dall’espressione latina modus tollens
(“modo che nega”), ha la forma:
• “se p allora q” (premessa);
• “non q” (premessa);
• dunque “non p” (conclusione).
I paradossi stoici
S econdo la testimonianza di Diogene Laerzio nelle
Vite dei filosofi, gli stoici si occuparono anche di
proposizioni problematiche, come i paradossi, stu-
verità di questa affermazione: se il cretese dice il vero,
allora, in virtù della verità del contenuto della sua af-
fermazione, proprio in quanto cretese mente, dice il
diando quelli antichi e proponendone di nuovi. Pro- falso; se invece dice il falso, allora, in virtù della falsità
babilmente, tale interesse derivò dal fatto che Zeno- del contenuto della sua affermazione, dice il vero.
ne fu allievo di due importanti esponenti della scuola Nell’esaminare questo paradosso, Crisippo giunge
megarica (caratterizzata dall’attenzione per i para- alla conclusione che l’affermazione del cretese è insen-
dossi, ❯ vol. 1A, p. 173): Stilpone e Diodoro Crono. sata, perché non ha un valore di verità univoco, cioè
Sempre in base a quanto afferma Diogene Laerzio, il non è possibile stabilire se sia vera o meno. Agli stoici
filosofo stoico che più si occupò di paradossi fu Crisip- viene attribuita l’intuizione che la natura paradossale
po, che dedicò ben sei libri all’argomento. Purtroppo dell’affermazione deriva dalla sua autoriflessività,
di queste opere ci è rimasto ben poco, come anche cioè dal fatto che finisce per parlare anche di sé stes-
della maggior parte degli altri scritti stoici sui para- sa, poiché tra gli oggetti che cadono sotto la sua por-
dossi; è possibile tuttavia soffermarci sui paradossi tata vi è anche ciò che il cretese sta dicendo.
che la scuola stoica condivide con quella megarica.
Il paradosso del coccodrillo
Il paradosso del mentitore
F ra questi vi è innanzitutto il paradosso del mentito-
re, che si può formulare considerando il caso di un
U na variante del paradosso del mentitore su cui si
appunta l’interesse degli stoici è quella del cocco-
drillo. Nella situazione prospettata, il famelico rettile
cretese che afferma «I cretesi mentono sempre». Il rapisce un bambino e promette alla madre che glie-
paradosso sta nel fatto che non è possibile stabilire la lo restituirà soltanto se lei avrà indovinato ciò che
Lo stoicismo capitolo 11 39
lui ne vorrà fare. Se la madre rispondesse «Lo man- cui non è possibile stabilire se sono veri o falsi. Tali
gerai», il coccodrillo si troverebbe nell’impossibilità di sono gli enunciati “questo è un mucchio” e “questa
stabilire che cosa fare: se mangiasse il bambino, viole- persona è calva” pronunciati nella fase di transizione
rebbe la promessa (non potrebbe restituirlo alla ma- in cui il mucchio passa da tanti a pochi granelli e la
dre); ma se lo restituisse, entrerebbe ugualmente in testa dell’uomo da tanti a pochi capelli. Analoga-
contraddizione con quanto dichiarato, perché in quel mente, il paradosso del mentitore mostra che non è
caso la madre non avrebbe indovinato il destino del possibile stabilire la verità o falsità dell’affermazione
figlio e dunque non dovrebbe vederselo restituire. «I cretesi mentono sempre» quando questa è pro-
nunciata da un cretese, e il paradosso del coccodrillo
Il paradosso del sorìte e del calvo mostra che non è possibile stabilire la verità o falsità
Ad esempio,
• “la luna è o un satellite o un pianeta”;
• “la luna è un pianeta”;
• dunque “la luna non è un satellite”
costituisce un ragionamento valido ma non vero, perché ha una premessa falsa.
Invece
• “la luna è o un satellite o un pianeta”;
• “la luna è un satellite”;
• dunque “la luna non è un pianeta”
costituisce un ragionamento vero, perché oltre a essere valido ha anche tutte le pre-
ESERCIZI messe vere.
FARE per CAPIRE • Fai un esempio, diverso da quelli riportati nel testo, di proposizione condizionale
vera e uno di proposizione condizionale falsa.
4 L’etica
Il male
L’etica si occupa tipicamente di stabilire che cosa è bene e che è cosa male, e dunque
quali sono le giuste scelte e le giuste azioni da compiere. Tuttavia, nel mondo descritto
dalla fisica stoica, in cui la divinità è un principio attivo di perfezione e provvidenza che
pervade ogni cosa, non sembra esserci posto né per il male né per la libertà umana di
scegliere e di agire. Se dio pervade ogni cosa ed è sommo bene, allora non ci può essere
il male; e se dio prestabilisce ogni evento in base a una legge necessaria di concatenazio-
ne causale, allora gli esseri umani non possono essere liberi nelle loro scelte e nelle loro
azioni. I filosofi stoici affrontano esplicitamente la questione di come siano possibili il
bene, il male e la libertà in un mondo perfettamente razionale.
La distinzione tra bene e male viene giustificata dallo stoicismo sulla base della
considerazione per cui il male è necessario per far risaltare il bene, e quindi nel mon-
do, che la divinità plasma in vista del bene, deve esserci posto anche per il male, altri-
menti non ci sarebbe posto nemmeno per il bene. Secondo quanto riporta lo scrittore di
epoca romana Aulo Gellio:
“
Crisippo, nel libro IV della sua opera Della provvidenza, disse: nessuno è più stolto di colo-
ro i quali ritengono che possano esservi dei beni senza che vi siano anche dei mali. Essen-
do infatti il bene contrario al male, è necessario che l’uno e l’altro sussistano in opposizio-
ne reciproca e quasi sostenendosi a vicenda con sforzo insieme scambievole e contrario:
non vi è alcun contrario senza che sussista anche il suo contrario.
(Notti attiche, VII, I, 1)
La libertà
Per quanto riguarda la libertà umana, gli stoici ritengono che tutto ciò che accade obbe-
disce a una connessione causale necessaria prestabilita dalla divinità intesa come princi-
pio attivo; dunque il singolo essere umano non può sottrarsi alla catena di eventi che
costituiscono il suo destino. Se essere liberi vuol dire essere gli artefici del proprio desti-
no, allora gli esseri umani non sono liberi. Tuttavia, gli stoici non negano del tutto la
possibilità della libertà umana; le danno piuttosto un significato peculiare, introducendo
le nozioni di “causa interna” e di “assenso”.
Una palla rotola lungo un piano perché è stata spinta da una causa esterna (ad esem-
pio il vento), ma rotola anche perché ha una forma tale che le permette di rotolare, e
questa forma conta come causa interna, che insieme alla causa esterna contribuisce a
determinare il movimento. Allo stesso modo un certo uomo compie le azioni che compie
perché così ha previsto il progetto divino (causa esterna), ma anche perché quell’uomo è
fatto in un certo modo (causa interna).
causa interna è la causa che rimanda alla natura propria dell’individuo o delle cose, e che li porta lessico
ad agire o a muoversi in modi che discendono direttamente e necessariamente da tale intrinseca filosofico
natura.
42 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
❯ Bighe in corsa,
affresco,
VI secolo a.C.,
Chiusi, Tomba
del Colle.
Inoltre, sebbene quell’uomo sia obbligato a compiere le azioni che compie da un proget-
to che va ben al di là della sua volontà individuale, egli ha comunque la libertà di dare il
proprio assenso a quello che è stato previsto per lui nel piano divino – quindi di accet-
tarlo e di assecondarlo –, oppure negarglielo. Quale che sia la sua scelta, il corso degli
eventi della vita di quell’uomo non cambia, ma cambia la sua condizione morale. Come
nella logica stoica il sapere consiste nel dare il nostro assenso a quello che percepiamo, così
FARE per CAPIRE nell’etica stoica la libertà consiste nel dare il nostro assenso a quello che ci accade.
• Individua la Lo stoico Cleante paragonava l’uomo a un cane legato a un carro, che è obbligato ad
causa esterna e andare dove va il carro. Come il cane è comunque libero di seguire l’andamento del carro
la causa interna oppure opporvisi facendosi trascinare, così l’uomo è libero di seguire il destino prestabilito
negli eventi
seguenti: dal piano divino oppure opporvisi facendosi trascinare; in ogni caso, il cane andrà dove lo
a. il crollo di un porta il carro e l’uomo andrà dove lo porta il destino. Tuttavia, l’atteggiamento di un cane
edificio durante che si oppone al carro è diverso da quello di un cane che segue il carro; e l’atteggiamento
un sisma;
b. il successo di di una persona che si oppone al destino è diverso da quello di una persona che asseconda
un film. il destino. Per Cleante la libertà consiste proprio nella scelta di quest’ultimo atteggiamento.
La virtù
Per gli stoici la libertà consiste nella scelta di adeguarsi o meno al destino prestabilito dal piano
divino, ossia all’ordine razionale dell’universo di cui fanno parte anche gli esseri umani: l’idea
centrale dell’etica stoica è proprio quella secondo cui gli uomini devono vivere in armonia con
tale ordine, e quindi anche con sé stessi e con la propria essenza. A questo proposito svolge un
ruolo cruciale il concetto di oikéiosis, che indica lo sforzo di “far ritorno alla propria abitazio-
ne”, lo sforzo di “adattamento”, cioè di riconciliazione con la propria natura profonda.
Dato che il piano divino è finalizzato al bene – anzi, è di per sé il bene –, la scelta di ade-
guarvisi conta come scelta virtuosa, e produce azioni giuste, mentre la scelta di opporvisi
conta come scelta viziosa, e produce azioni ingiuste.
La persona virtuosa è dunque colei che scorge il dipanarsi del proprio destino all’interno del
piano divino, e che sceglie di assecondarlo, vivendo secondo natura, ossia secondo l’ordine ra-
zionale che governa il mondo. Come osserva Diogene Laerzio, nella prospettiva dell’etica stoica
“
il fine è costituito dal vivere secondo natura, cioè secondo la natura singola e la natura dell’uni-
verso, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta
ragione diffusa per tutto l’universo, ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo.
(Vite dei filosofi, VII, 85-89)
Lo stoicismo capitolo 11 43
Da una parte, per gli stoici la virtù è sapere, in quanto essere virtuosi richiede di ricono-
scere il proprio ruolo nel fluire della natura in base al piano divino. Dall’altra, per gli stoici la
virtù è anche dovere, perché quello che si richiede all’uomo virtuoso è di scegliere di ade-
guarsi a un piano che non dipende dalla sua volontà. Se a un certo punto dell’esistenza l’e-
vento più appropriato in funzione del piano divino è la morte, l’uomo virtuoso non deve
esitare a porre fine alla propria vita mediante il suicidio, come fece ad esempio il fondatore
della scuola stoica, Zenone di Cizio, quando ormai anziano e gravemente malato riconobbe
di non essere più in grado di condurre una vita degna della sua natura di essere umano.
In quanto atteggiamento di fermo assenso al proprio destino considerato nella sua inte-
rezza, la virtù non può essere qualcosa che si possiede soltanto in un certo grado o in una
certa parte: o la si possiede nella sua interezza o non la si possiede affatto. L’unica azione
virtuosa degna di questo nome è dunque quella del saggio, che agisce sempre e infallibil-
mente in modo virtuoso: non si può essere virtuosi in alcune occasioni e non esserlo in altre.
Questa posizione prende tradizionalmente il nome di rigorismo, ed è il corrispettivo in
campo etico della tesi – caratteristica della logica stoica – per cui l’unica conoscenza degna
di questo nome è quella del saggio che afferra mentalmente, con certezza infallibile, gli og-
getti dei suoi pensieri. ❯ testo 1 p. 54
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la risposta alla seguente domanda: in che senso per gli stoici
la virtù è sapere?
La felicità
Soltanto la virtù può condurre alla felicità, che per gli stoici consiste nel vivere in armonia
con il corso degli eventi prestabilito dalla legge razionale universale, accettando l’ordine
che ne deriva. La felicità non dipende dunque dalle cose che una persona possiede e nem-
meno dalle cose che le accadono: dipende soltanto dalla capacità di assumere il giusto atteg-
giamento nei confronti di quello che si ha e di quello che accade, fornendo il proprio assen-
so al realizzarsi del grande progetto divino del quale si ha il privilegio di essere parte.
Dato che la virtù e la felicità dipendono soltanto dall’atteggiamento che si ha verso le
cose, non dalle cose in quanto tali, gli stoici definiscono “indifferenti” beni come la salute,
l’onore, il benessere. D’altra parte, gli stoici ammettono che la salute è preferibile alla ma-
lattia, l’onore al disonore, il benessere alla miseria, poiché queste cose, a differenza dei
loro opposti, normalmente contribuiscono alla vita secondo natura; in tal senso gli stoici
definiscono questi beni valori (áxia), ovvero “cose degne di scelta”, sebbene non indispen-
sabili per la felicità.
oikéiosis (dal greco oikía, “casa”) indica lo sforzo necessità di seguire in qualunque situazione il lessico
con cui l’uomo deve adattarsi alla propria natura dovere al fine di realizzare la pienezza della vir- filosofico
(cioè appunto, in senso metaforico, tornare alla tù, la quale non può essere esercitata soltanto in
propria “abitazione”), la quale coincide con l’ordine parte. Il rigorismo morale stoico rende lecito an-
razionale che governa l’universo. che il suicidio, quando le circostanze impedisco-
no il compimento delle azioni doverose.
dovere per gli stoici consiste nell’adeguare con
piena consapevolezza le proprie azioni alla legge valori (in greco áxia) sono le cose e le azioni de-
divina che regge l’universo e l’individuo stesso, gne di essere scelte da parte del saggio, perché pre-
parte integrante dell’ordine cosmico. feribili al loro opposto (ad esempio la salute, l’onore,
il benessere); non sono però determinanti per la
rigorismo concezione etica che afferma la realizzazione della virtù e della conseguente felicità.
44 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
Per quanto i valori siano importanti, la virtù e la felicità possono sussistere anche in loro
assenza. Il saggio stoico gode di una condizione di autosufficienza o autarchia, che fa sì
che la sua felicità perduri qualunque cosa gli succeda, poiché la sua virtù è inalterabile. Il
filosofo stoico Stilpone di Mègara, dopo che la sua città fu distrutta dai nemici e tutta la sua
famiglia sterminata, uscì imperturbabile da quello scenario di devastazione affermando:
«Tutti i miei beni li ho con me». Pur avendo perduto le persone che più gli erano care, Stil-
pone aveva infatti preservato «senso di giustizia, virtù, saggezza, e soprattutto l’intelligen-
za di non ritenere un bene ciò che può essere tolto» (Seneca, Lettere a Lucilio, 9, 8-22). Per i
filosofi stoici, la felicità e la virtù appartengono al saggio e soltanto a lui: esse sono comple-
tamente indipendenti da ciò che egli può avere o perdere in base alle circostanze esteriori.
L’ istinto e le passioni
Abbiamo visto che per gli stoici la virtù coincide con il vivere secondo natura, cioè con il
vivere secondo necessità, assecondando l’ordine razionale dell’universo. A questo obiet-
tivo l’uomo perviene mediante la ragione: il virtuoso è il sapiente. La ragione è preroga-
tiva esclusiva degli esseri umani, i quali, però, sono anche muniti di istinto; occorre dun-
que spiegare quale sia il ruolo dell’istinto e in che rapporto stia con la ragione.
L’istinto spinge l’uomo a prendersi cura della sua sopravvivenza e possibilmente anche
della prosecuzione della sua specie, mentre la ragione gli permette di governare gli impul-
si che provengono dall’istinto. Nella prospettiva dello stoicismo «la ragione si aggiunge
come plasmatrice ed educatrice dell’istinto» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 85-89).
Tra gli impulsi che derivano dall’istinto, gli stoici definiscono passione quell’impulso
che eccede la giusta misura e che deve pertanto essere governato dalla ragione affinché
l’azione sia virtuosa. Le passioni fondamentali sono quattro: la letizia intesa come ecces-
sivo piacere per una condizione passata o presente; l’afflizione, intesa come eccessivo
dolore per una condizione passata o presente; la brama, intesa come eccessivo desiderio
per una situazione futura; la paura, intesa come eccessivo timore per una situazione futu-
ra. Per gli stoici, impulsi basilari come il piacere, il dolore, il desiderio e il timore non sono
mali di per sé, anzi, hanno una loro ragion d’essere, nella misura in cui contribuiscono al
funzionamento dell’istinto in vista dell’autoconservazione; quello che gli stoici condanna-
no come male da evitare sono le passioni intese come eccessi di questi impulsi basilari.
FARE per CAPIRE Riprendendo un’immagine di Galeno – il grande medico di epoca romana (130-200 d.C.
• Elenca tre circa) cui dobbiamo anche preziose riflessioni filosofiche (❯ Filosofia e scienza, p. 72) –, possiamo
attività motivate paragonare l’impulso a una corsa in pianura che siamo in grado di fermare quando voglia-
rispettivamente mo, e la passione a una corsa lungo una discesa talmente ripida che ci impedisce di fermarci.
dal perseguimen-
to di un “valore”, Mentre lo stolto si lascia dominare dalle passioni gettandosi a capofitto nelle discese della vita,
dall’accondiscen- il saggio – che sa vivere in conformità con l’ordine razionale che governa il mondo, esercitando
denza verso un la virtù e godendo di una felicità che sa bastare a sé stessa – controlla magistralmente i propri
“impulso”, dalla
spinta di una impulsi impedendo loro di degenerare in passioni; in tal senso la condizione del saggio
“passione”. viene definita dagli stoici apatìa (“assenza di passioni”). ❯ Il punto di vista dell ’arte, p. 46
lessico passione (in greco páthos) un impulso che ec- apatìa (in greco apátheia, “assenza di passioni”)
filosofico cede la giusta misura e che quindi deve essere l’assenza di passioni tipica del saggio, il quale, pur
governato dalla ragione per realizzare la virtù. non essendo privo di impulsi, non eccede mai la
giusta misura, non è mai preda dell’impulso sre-
golato, perché sa tenerlo a freno con la ragione.
Lo stoicismo capitolo 11 45
❯ Schiavi romani
in una bottega di
falegnameria,
I secolo d.C.,
affresco da Pompei.
Secondo gli stoici
la distinzione tra
persone libere e
schiavi è priva di
fondamento.
“
quanto al mondo, gli stoici ritengono che esso sia retto dalla volontà divina, e costituisca
per così dire la città e la patria comune degli uomini e degli dei, e ciascuno di noi sia una
parte di tale mondo.
(Cicerone, Sui termini estremi dei bene e dei mali, III, 62-65)
L’indifferenza alle leggi stabilite dagli uomini fa sì che gli stoici rifiutino la distinzione
– così importante sia nel mondo greco sia in quello romano – tra persone libere e schiavi.
Per gli stoici la sola schiavitù è quella dello stolto che soccombe alle passioni, e simmetri-
camente la sola libertà è quella del saggio che le domina. Ciò che conta è unicamente
l’atteggiamento nei confronti della legge divina che governa il mondo – un atteggiamen-
to in base al quale l’ultimo degli schiavi secondo le leggi degli uomini può rivelarsi più
libero del più potente dei sovrani. Dunque, in linea di principio, l’etica stoica si pone a
una netta distanza dalla sfera politica, che concerne la formulazione delle leggi che rego-
lano la vita nelle varie comunità umane. Di fatto, però, nello stoicismo di epoca romana
la sfera etica e la sfera politica tendono ad avvicinarsi considerevolmente. ESERCIZI
cosmopolitismo (dal greco kósmos, “mondo”, politico bisogna assecondare le leggi della natu- lessico
e polítes, “cittadino”) teoria che afferma che il ra umana nella sua dimensione universale, più filosofico
singolo è cittadino del mondo. Se la legge razio- che quelle delle singole entità statali stabilite
nale del cosmo è universale, anche nel campo dagli uomini.
IL PUNTO DI VISTA
arte
DELL’
L’OPERA COME
ESPRESSIONE
DELLE PASSIONI ED
ENFATIZZAZIONE
DELLA REALTÀ
47
lessico eclettismo (dal greco ekléghein, “scegliere”, diverse tradizioni filosofiche, senza che venga av-
filosofico “selezionare”) indirizzo filosofico che consiste nel- vertita l’esigenza di armonizzarli in una nuova e
lo scegliere elementi ritenuti validi provenienti da originale visione.
Lo stoicismo capitolo 11 49
“
Ora, poiché si ricomincia a chiedere il mio parere su questioni politiche, è doveroso occu-
parsi di politica, anzi, ad essa bisogna rivolgere ogni pensiero e ogni attività, riservando
allo studio della filosofia solo il tempo che rimarrà libero dai compiti e dai doveri pubblici.
(Sulla divinazione, II, 1-7)
In nome della partecipazione alla politica Cicerone sacrificherà non soltanto lo studio
della filosofia ma anche la propria vita, finendo assassinato brutalmente, nel 43 a.C., dai
sicari di Marco Antonio.
FARE per CAPIRE • Sottolinea la risposta alla domanda seguente: qual è la differenza tra la concezio-
ne della libertà degli stoici greci e quella di Cicerone?
❯ La statua di
un soldato romano,
particolare delle
sculture di un ponte
sul fiume Tevere,
a Roma.
50 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
“
Ogni giorno sostengo la mia causa davanti a me stesso […] vedo scrutando tutta la mia
giornata e riesamino i miei fatti e i miei detti: nulla nascondo a me stesso, nulla tralascio.
(De ira, III, 34)
❯ Eduardo Barron Gonzalez, Nerone e Seneca, 1907, Cordova, Palazzo del Comune.
Lo stoicismo capitolo 11 51
consigliere e si ritira a vita privata, ma nel 65 d.C. è accusato di aver partecipato a una
congiura contro Nerone e, di fronte alla prospettiva di essere giustiziato per ordine
dell’imperatore, in conformità con la pratica stoica decide di suicidarsi. Per lo stoicismo,
infatti, la vita risulta sacra soltanto se vissuta degnamente; quando così non è, il
saggio può legittimamente decidere di porvi termine. D’altra parte, la fine della vita non
significa la fine dell’anima, che è per Seneca un’entità spirituale soltanto temporanea- tema
L’AMICIZIA È UN FATTO
mente imprigionata nel corpo, e destinata, dopo la morte, a ritornare alla dimensione PERSONALE O SOCIALE?
divina da cui proviene. p. 106
Epitteto
Lo stoicismo sostiene che il mondo è governato da un ordine razionale e da un principio
di saggezza, ma di fatto il mondo è governato dall’Impero romano; dunque se l’Impero
romano governasse il mondo in base a un ordine razionale e a un principio di saggezza,
la tesi stoica troverebbe una convincente realizzazione. Nei fatti però, come dimostra la
vicenda di Seneca e Nerone, si assiste piuttosto a un conflitto tra filosofia e politica,
che prosegue negli anni successivi e si acuisce nel 74 d.C., quando l’imperatore Vespa-
siano emana un decreto di espulsione di tutti i filosofi da Roma e dall’Italia, non tolle-
randone l’indipendenza di giudizio e lo spirito critico. Un secondo decreto di analogo
contenuto, e per analoghe motivazioni, viene emanato dall’imperatore Domiziano
nell’89 d.C. Tra i filosofi espulsi da Domiziano vi è anche Epittèto, un ex schiavo cui era
stata concessa la libertà dal suo padrone, Epafrodìto, potentissimo segretario di Nerone.
In seguito all’espulsione, Epittèto si rifugia a Nicòpoli, in Epiro, dove fonda una sua
scuola che si richiama allo stoicismo delle origini, e dove trascorre il resto della sua vita,
fino alla morte avvenuta nel 138 d.C. all’età di quasi novant’anni. Le sue lezioni vengo-
no trascritte dal discepolo Arriano mediante un metodo stenografico; ce ne restano
quattro libri, in greco, intitolati Le diatribe, cui si aggiunge un Manuale che contiene una
raccolta di precetti.
Uno dei temi centrali nella riflessione di Epittèto è la libertà, che per lui non dipende
dalla condizione esteriore in cui una certa persona si trova, bensì esclusivamente dalla
sua coscienza, dalla sua interiorità. Per l’ex schiavo Epittèto la vera differenza tra libertà
e schiavitù non dipende dallo status giuridico bensì dal profilo morale. Nel primo libro
delle Diatribe questa tesi è efficacemente esemplificata da un dialogo immaginario tra un
potente e un filosofo: «Rivelami i segreti»; «Non te li rivelo perché questo dipende da
me»; «Ma io ti metterò in catene»; «Uomo, che intendi? Me? Le mie gambe metterai in
catene, ché la mia persona morale non può vincerla neppure Zeus» (I, 1).
“
Nel felice corso di più di ottant’anni, la pubblica amministrazione fu regolata dalla virtù
e dalla abilità di Nerva, di Traiano, di Adriano, e dei due Antonini […]. Se si avesse da
stabilire nella storia del Mondo il periodo, nel quale la condizione degli uomini sia stata
più prospera e felice, si dovrebbe subito nominare quello che corse dalla morte di Domi-
ziano all’avvenimento di Commodo. La vasta estensione del romano Impero venne rego-
lata da un assoluto potere sotto la scorta della virtù e della prudenza. Gli eserciti furono
contenuti dalla mano forte ma moderata di quattro successivi imperatori, il carattere e
l’autorità dei quali esigevano involontario rispetto. Il sistema dell’amministrazione civile
fu gelosamente conservato da Nerva, da Traiano, da Adriano e dagli Antonini, i quali si
dilettavano della immagine della libertà, e si riguardavano con compiacenza come i mini-
stri e i custodi delle leggi. (Declino e caduta dell’impero romano, I)
❯Marco Aurelio,
circondato da soldati e
attendenti, assiste a un
sacrificio animale,
bassorilievo in marmo,
III secolo d.C., Roma,
Arco di Costantino.
Lo stoicismo capitolo 11 53
Il massimo esito del connubio tra stoicismo e impero è rappresentato dall’ultimo dei
“cinque imperatori buoni”, Marco Aurelio (121-180). Egli non soltanto si interessa alla
filosofia stoica come guida per la pratica di governo, ma si dedica in prima persona alla
scrittura filosofica, raccogliendo i propri pensieri in un’opera in dodici volumi, in greco,
intitolata A se stesso. L’imperatore si rivolge a sé stesso utilizzando la seconda persona, il
“tu”, ed esplora la sua interiorità, riconoscendo la propria subordinazione a un principio
di razionalità universale, che paragona allo scorrere inesorabile di un fiume:
“
Pensa spesso alla velocità con la quale passano e si dileguano le cose che esistono. Il mondo
è come un fiume che scorre perennemente, le attività sono soggette a continue trasformazio-
ni, le cause assumono innumerevoli forme e quasi nulla è stabile, anche ciò che è vicino e a
portata di mano. E pensa anche all’abisso infinito del passato e del futuro nel quale tutto si
dilegua. […] Pensa alla totalità del mondo, di cui tu non sei che una piccolissima parte, alla
totalità del tempo, del quale ti è stato assegnato un tratto breve e insignificante, e al destino,
nell’ambito del quale quanto è limitata la parte che occupi tu? […] Tutte le cose sono conca-
tenate fra loro e il loro legame è sacro, e si può ben dire che nessuna sia estranea alle altre,
perché formano un solo complesso e contribuiscono tutte insieme all’ordine del cosmo.
(A se stesso, V)
[La definizione del dovere] Dicono che dovere è l’azione che, una volta compiuta, ha in sé
una giustificazione razionale: così per esempio ciò ch’è coerente nella vita; questo si esten-
de anche alle piante e agli animali; anche fra di essi si possono riconoscere dei doveri. Per
primo da Zenone il dovere fu così denominato, prendendo questa denominazione in base
5 al suo «convenire a qualcuno».
[I vari tipi di atti] Esso è un atto proprio della costituzione secondo natura. Gli atti che si
compiono in base a impulso sono alcuni doveri, altri contro il dovere, altri ancora né dove-
ri né contro il dovere. Doveri sono quegli atti che la ragione sceglie di fare: per esempio
venerare i genitori, i fratelli, la patria, venire in aiuto agli amici; contro il dovere ciò che non
10 sceglie la ragione, cioè cose come non aver cura dei genitori, non preoccuparsi dei fratelli,
non soccorrere gli amici, disprezzare la patria e altre simili. Né doveri né contro il dovere
sono tutte quelle cose che la ragione né sceglie né respinge: raccogliere sterpi, tenere uno
stilo o uno strigìle1 e altre simili a queste.
[I doveri incondizionati] E vi sono poi doveri indipendenti dalle circostanze e altri soggetti
15 a queste. Indipendenti da ogni circostanza sono cose come aver cura della salute, dell’inte-
grità dei propri sensi e simili; soggetti a particolari circostanze cose come mutilarsi o gettar
via il proprio patrimonio. Analogamente si può dire delle cose che sono contro il dovere.
Inoltre di ciò ch’è secondo il dovere parte lo è sempre e parte non sempre. Sempre dovero-
so è il vivere secondo virtù; non sempre interrogare e rispondere, o passeggiare, e simili; e
20 lo stesso discorso si deve fare circa le cose che sono contro il dovere.
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 107-109, in Stoici antichi,
a cura di M. Isnardi Parente, UTET, Torino 1989, pp. 1152-1153)
1. Strumento metallico usato anticamente per detergere il corpo dopo il bagno o l’attività fisica.
Lo stoicismo capitolo 11 55
TESTI
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
L’etica stoica viene considerata in genere una forma di “rigorismo etico”, in quanto prescrive di segui-
re il proprio “dovere” con il massimo rigore, sempre e ovunque, arrivando a giustificare azioni estre-
me come il suicidio quando ciò non sia possibile. Ritieni che tale impostazione, per quanto drasti-
ca, presenti aspetti condivisibili? Esponi il tuo punto di vista in proposito, precisando anche
qual è, a tuo avviso, il ruolo della razionalità nelle scelte etiche.
[L’inutile fuga da sé stessi] Tu credi che sia capitato solo a te, e ti meravigli come di un fatto
strano di non essere riuscito a liberarti della tristezza o della noia, malgrado i lunghi viag-
gi e la varietà dei luoghi visitati. Il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi. Anche
se attraversi il vasto oceano; anche se, come dice il nostro Virgilio, «ti lasci dietro terre e
5 città»1, dovunque andrai ti seguiranno i tuoi vizi. Disse Socrate ad uno che si lamentava per
1. Citazione dall’Eneide (III, 72), il poema epico scritto da Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.).
56 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
lo stesso motivo: «Perché ti meravigli che non ti giovino i viaggi? Tu porti in ogni luogo te
TESTI
stesso; t’incalza cioè sempre lo stesso male che t’ha spinto fuori». Che giovamento può darti
la varietà dei paesaggi o la conoscenza di città e luoghi nuovi? Tale sballottamento non serve
a nulla. Chiedi perché tu non trovi sollievo nella fuga? Perché tu fuggi sempre in compa-
10 gnia di te stesso. Nessun luogo ti piacerà finché non avrai abbandonato il peso che hai
nell’animo. […]
[L’anima come una nave dal carico sbilanciato Tu corri qua e là per cacciare via il peso che ti
opprime e che diventa più gravoso col tuo stesso agitarti. Similmente sulla nave il carico
esercita minore pressione se è ben fissato, mentre, se si sposta disordinatamente, fa som-
15 mergere il fianco su cui viene a gravare. Qualunque cosa tu faccia, la fai a tuo danno; e con
lo stesso movimento ti danneggi, perché scuoti un ammalato.
[La serenità di chi ha sanato la propria anima] Ma quando tu riuscissi ad estirpare codesto
male, ogni cambiamento di luogo ti sarà piacevole. Potrai anche essere cacciato nelle terre
più lontane e più barbare: ogni luogo, qualunque esso sia, sarà per te ospitale. L’importan-
20 te è sapere con quale spirito arrivi, non dove arrivi; perciò non dobbiamo legare l’animo a
nessun luogo. Bisogna vivere con questa persuasione: «Non sono nato per attaccarmi a un
posto. La mia patria è l’universo intero». Se la cosa fosse chiara alla tua mente, non ti me-
raviglieresti che non ci dia giovamento la varietà della regioni in cui ti sposti, sempre an-
noiato delle precedenti. Ti sarebbe piaciuta la prima in cui fossi capitato, se ogni regione la
25 considerassi tua. Ora tu non viaggi, ma vai errando e sei spinto a passare da un luogo a un
altro, mentre quello che cerchi, la felicità, si trova in ogni luogo. Qual luogo può essere più
turbolento del foro2? Eppure anche lì si può trovare il modo di vivere tranquilli. Ma se mi
fosse consentito di disporre di me liberamente, fuggirei lontano anche dalla vista e dalle
vicinanze del foro. Come i luoghi malsani minacciano anche la salute più solida, così anche
30 per un animo buono, ma non ancora maturo e saldo, alcuni posti sono poco salubri. Non
approvo coloro che si gettano in mezzo ai flutti e preferiscono una vita tumultuosa, e per-
ciò lottano coraggiosamente con le difficoltà di ogni giorno. Il saggio le saprà tollerare, ma
non le cercherà, e vorrà vivere in pace piuttosto che nei contrasti. Non giova molto essersi
liberato dai propri vizi, se bisogna poi combattere con quelli degli altri.
(Seneca, Lettere a Lucilio, 28, BUR, Milano 1985, pp. 209, 211)
2. Presso i Romani, il foro era il centro religioso, commerciale, amministrativo, culturale della città.
Lo stoicismo capitolo 11 57
TESTI
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI E DISCUTI
Il tema del viaggio è ricorrente nella riflessione filosofica e letteraria: esso simboleggia una condizione
esistenziale, attraverso la quale il soggetto compie esperienze fondamentali per la sua formazione.
Nella lettera, Seneca distingue il “peregrinare” di Lucilio dal viaggio vero e proprio, che è quello com-
piuto nell’interiorità, alla ricerca di un equilibrio che consenta di stare bene in qualunque luogo.
Illustra il tuo punto di vista su questo argomento, chiarendo qual è il ruolo che il viaggio assume
nella tua vita e quale significato gli attribuisci. Quindi confrontati con i tuoi compagni, riflettendo
insieme sulla frase della scrittrice Marguerite Yourcenar (1903-1987): «ogni viaggio fatto con in-
telligenza, è una scuola di resistenza, di stupefazione, quasi un’ascesi, un mezzo per perdere i
propri pregiudizi, mettendoli in contatto con quelli dello straniero».
58 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
capitolo 11
SINTESI Lo stoicismo
AUDIOSINTESI
2 La fisica
Quali sono i principi fondamentali della fisica infinite ripetizioni della stessa serie di eventi.
stoica? Per gli stoici il mondo è costituito da un Tale processo inizia con una grande conflagrazione
principio passivo, la materia, e da un principio – da cui ha origine il cosmo – e termina con un’altra
attivo, chiamato “ragione universale” o “anima del conflagrazione – in cui il cosmo si distrugge av-
mondo”. Il principio attivo è divino, pervade tutta viandosi verso un nuovo inizio (“palingenesi”).
la realtà e conferisce ordine e razionalità al cosmo; Che cosa esiste per gli stoici? Secondo gli stoici
la fisica stoica è quindi panteista. ciò che esiste è corpo, e ogni corpo è pervaso e go-
In che cosa consiste il ciclo cosmico? Secondo gli vernato dal principio della razionalità universale,
stoici la finalità o legge interna all’universo prevede che nell’uomo si manifesta come anima razionale.
3 La logica
Da che cosa ha origine la conoscenza? Secondo gli cioè l’ente materiale a cui il segno si riferisce, e il
stoici la conoscenza deriva dalla sensazione, che significato. Il significato è incorporeo e collega il
però non costituisce il criterio di verità. Quest’ulti- segno all’oggetto cui si riferisce.
mo risiede nell’intelletto, e in particolare nell’atto In che senso la logica stoica è definita “logica
con cui l’intelletto dà l’assenso alle rappresentazio- proposizionale”? La logica stoica non si occupa
ni. È sulle rappresentazioni dotate di certezza ed delle combinazioni dei termini, bensì della con-
evidenza – definite “catalettiche” – che è fondata la nessione delle proposizioni, cioè dei ragiona-
conoscenza vera. menti: in particolare, si occupa di come sia possi-
Che cosa sono i concetti? I concetti nascono dalla bile ottenere una proposizione finale (conclusione)
rielaborazione delle sensazioni e sono un’immagi- a partire da una serie di proposizioni iniziali (pre-
ne semplificata degli oggetti, che permette di messe). Le cinque figure fondamentali del ragiona-
raggruppare vari individui in base a certe caratteri- mento sono dette “anapodittici”. Le prime due fi-
stiche comuni o anticipare percezioni future. gure si avvalgono di proposizioni condizionali; le
Quali sono le componenti dei termini linguistici? I tre figure successive si avvalgono di proposizioni
termini del linguaggio hanno tre componenti: il che prendono il nome di “congiunzione” e “disgiun-
segno, cioè il suono o la parola scritta, l’oggetto, zione esclusiva”.
Lo stoicismo capitolo 11 59
4 L’etica
Come si giustificano il male e la libertà nella con- virtuoso è felice, in quanto dà il proprio assenso al
cezione stoica? Benché nel cosmo stoico tutto – piano divino alla base del cosmo. Da questo punto
anche le azioni degli uomini – accada secondo la di vista il possesso di cose o beni materiali è indiffe-
ragione universale, il male è necessario perché rente, benché alcune condizioni, ad esempio la salu-
esista anche il bene, dal momento che i contrari te, l’onore, il benessere, siano preferibili rispetto ad
sono reciprocamente indispensabili: se c’è l’uno altre; i valori sono proprio le cose degne di scelta,
ci deve essere anche l’altro. La libertà consiste nel benché non indispensabili per la felicità.
fare ciò che dipende dalla causa interna, cioè dalla Qual è la condizione del saggio? Il saggio stoico,
natura propria dell’individuo, e nel dare l’assenso non avendo necessità di nulla, se non di adeguarsi
a ciò che il piano divino prevede. Non è possibile all’ordine razionale e divino, è in una condizione di
fuggire alla legge necessaria che governa l’univer- autosufficienza. Egli sa governare con la ragione
so: l’individuo, tuttavia, può scegliere se accettare e le passioni, che sono impulsi che eccedono la giusta
aderire consapevolmente all’ordine delle cose, op- misura; il saggio stoico è quindi in una condizione
pure lasciarsi trascinare dagli eventi. di apatia, nel senso che non subisce le passioni e
In che cosa consiste la virtù? La virtù consiste nel- non si fa guidare da esse. Per quanto riguarda la
la scelta di adeguarsi al piano razionale divino: in sfera politica, il saggio, come ogni essere umano, è
questo senso è sapere, perché comporta la cono- cittadino del mondo (cosmopolitismo), la sua pa-
scenza della legge universale, ed è dovere, perché tria è ovunque ed egli non è condizionato dalla si-
implica un’azione conforme a tale legge. L’uomo tuazione contingente in cui si trova.
capitolo 11
MAPPE CONCETTUALI Lo stoicismo
LE FASI DELLO
STOICISMO LO STOICISMO
LA FISICA
LA FISICA STOICA
sostiene che
il quale la quale
LA LOGICA
LA LOGICA STOICA
sostiene che
dalla cui
i sensi forniscono l’intelletto dà il suo consentono di connessione
le impressioni che assenso alle raggruppare gli derivano
si fissano impressioni individui sulla base
nell’anima come su di caratteristiche i ragionamenti
un foglio bianco comuni
l’intelletto elabora le cinque figure
la rappresentazione fondamentali sono
catalettica dette “anapodittici”
L ’ ETICA
L’ETICA STOICA
sostiene che
e coincide con
capitolo 11
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Lo stoicismo TEST
Allena la logica
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) 22. L’individuo raggiuge l’apatìa quando:
14. Perché la sensazione è necessaria ma non (segna la risposta esatta)
sufficiente come criterio di verità? a è indifferente a qualsiasi cosa e privo di forza di
volontà
15. Qual è la natura dei concetti? b domina gli eccessi degli impulsi naturali, grazie
16. Che cosa sono gli anapodittici? alla guida della ragione
c è indifferente al dovere, perché comunque tutto
scrivere e rielaborare (15-20 righe) accade secondo il piano divino
17. Spiega la relazione tra segno, oggetto e significato. d negando le passioni, rende impossibile realizzare
la felicità
ad alta voce
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
18. Spiega in 5 minuti la differenza tra
l’impostazione stoica e quella aristotelica 23. Che cos’è il dovere?
in relazione al ragionamento. 24. Quale ruolo occupano i valori nell’etica stoica?
25. Perché i principi seguiti dal saggio stoico sono
superiori alle leggi di una singola città?
4 L ’ etica scrivere e rielaborare (15-20 righe)
riconoscere le nozioni e il significato 26. Individua e descrivi le caratteristiche del saggio
delle parole stoico.
19. Per gli stoici la virtù è sapere perché: ad alta voce
(segna la risposta esatta)
a colui che sa conosce il piano provvidenziale e vi
27. Esponi e commenta in 5 minuti, in relazione al
aderisce con l’assenso
problema della libertà, la similitudine riportata
da Cleante del cane legato al carro.
b colui che non sa infrange l’ordine del cosmo e
introduce così il male
c colui che conosce il piano cosmico può evitare ciò
che di negativo questo prevede
d colui che non sa non può evitare i momenti 5 Lo stoicismo di epoca romana
dolorosi che il lógos prevede riconoscere le nozioni
20. Indica qual è la relazione tra dovere e felicità 28. Nella riflessione di Epittèto, la libertà dipende
nell’etica stoica: (segna la risposta esatta) dalla: (segna la risposta esatta)
a il dovere è opposto alla felicità, perché questa a condizione di cittadino romano
consiste nello scegliere tra diverse possibilità b benevolenza dell’imperatore
b la felicità è godimento individuale, il dovere c rettitudine morale
invece è rinuncia, quindi sono opposti
d ricchezza, che permette di affrancarsi
c felicità e dovere coincidono perché il bene
secondo l’ordine cosmico è il piacere 29. Nel periodo che va da Traiano a Marco Aurelio,
d felicità e dovere coincidono nella scelta di l’azione di governo degli imperatori sembra
adeguarsi al piano provvidenziale incarnare: (segna la risposta esatta)
a un principio di potenza ed espansione
21. L’impulso diventa passione quando:
(segna la risposta esatta) b l’idea dell’ordine razionale
c il disinteresse verso la politica, per privilegiare
a ci dà l’entusiasmo per vivere pienamente secondo
ragione la filosofia
d il conflitto tra filosofia e politica
b ci spinge a prenderci cura della nostra
sopravvivenza e a cercare la felicità esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
c non lo subiamo passivamente, ma lo guidiamo
attivamente per vivere secondo natura
30. Qual è il nesso tra politica e filosofia per Cicerone?
d eccede la giusta misura, sfuggendo al controllo 31. Perché Seneca sceglie il suicidio e come viene
della ragione giustificato?
64 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
capitolo 12 Lo scetticismo
“
Gli scettici procedevano rovesciando tutti i princìpi delle varie
sette, essi per conto loro senza dimostrare niente dogmatica-
mente. Eliminavano lo stesso definire affermando «nulla noi de-
finiamo», per evitare di dare con ciò una definizione.
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 74)
lessico afasìa (dal greco aphasía, composto da a-, “senza”, e phásis, “parola”) il rifiuto del linguaggio, tipico
filosofico del saggio scettico, che deriva dalla convinzione secondo cui qualsiasi conoscenza è inaffidabile.
Lo scetticismo capitolo 12 65
A partire dall’afasia, che implica un certo distacco emotivo dalle situazioni, sulle qua-
li ci si rifiuta di prendere posizione, è possibile raggiungere uno stato di assoluta indiffe-
renza e imperturbabilità di fronte a qualsiasi accadimento – uno stato che prende il
nome di atarassìa e che per Pirrone coincide con la felicità e con la saggezza. Pirrone
aveva partecipato alle spedizioni in Oriente di Alessandro Magno, ed è probabile che la
sua concezione dell’atarassia sia stata favorita dall’incontro con la cultura indiana – in
particolare con l’indifferenza al dolore e la capacità di sopportazione esibite dai fachiri e
dai gimnosofisti (dal greco ghynmnosophistái, “sapienti nudi”, ossia saggi che vivevano in
condizioni di estrema austerità, rinunciando perfino a vestirsi e nutrendosi con il mini-
mo indispensabile).
Coerentemente con la sua concezione dell’afasia e dell’atarassia come apici della ricer-
ca, Pirrone non scrive nessuna opera filosofica. La dottrina pirroniana è tuttavia esposta
dal suo allievo Timone di Fliunte in un’opera intitolata Sílloi di cui rimangono soltanto
pochi frammenti.
FARE per CAPIRE • Sottolinea con colori diversi le concezioni degli epicurei e degli stoici, da un lato, e quelle
degli scettici, dall’altro, in relazione al rapporto tra teoria della conoscenza, fisica ed etica.
atarassìa (dal greco ataraxía, composto da a-, scetticismo (dal greco sképsis, che significa lessico
“senza”, e táraxis, “confusione”, “turbamento”) “indagine”, “ricerca”, ma anche “incertezza”, “dub- filosofico
l’assenza di turbamento e la pace dell’anima do- bio”) l’orientamento filosofico secondo cui non è
vute all’assoluta indifferenza dello scettico di fron- possibile ottenere una conoscenza oggettiva e per-
te a qualunque avvenimento. tanto l’indagine non può mai giungere a superare
l’incertezza e il dubbio.
66 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
2 Lo scetticismo accademico
ARCESILAO
La svolta scettica dell ’Accademia di Atene
Nel III secolo a.C. – e ancora agli inizi del II – i filosofi dell’Accademia di Atene si dedica-
no principalmente allo studio e all’insegnamento delle dottrine del fondatore della scuo-
la, Platone. Quando però, verso il 265 a.C., la direzione della scuola (o “scolarcato”) passa
nelle mani di Arcesilao di Pìtane, l’Accademia inizia a sviluppare una forma originale di
scetticismo. I fondamenti dello “scetticismo accademico” si trovano già nella filosofia
platonica, a ben vedere: Platone riteneva che il mondo sensibile fosse sfuggente, ingan-
nevole, e in ultima analisi inconoscibile, e concludeva che vi potesse essere conoscenza
genuina soltanto del mondo intelligibile, cioè delle idee. Arcesilao condivide la premessa
di Platone sull’inconoscibilità del mondo sensibile, ma si rifiuta di ipotizzare un mondo
intelligibile situato al di là del mondo sensibile: dunque, dall’inconoscibilità del mondo
sensibile per Arcesilao segue l’impossibilità di qualsiasi conoscenza, cioè lo scetticismo.
Lo scetticismo di Arcesilao è ancora più radicale di quello di Pirrone e Timone. Costo-
ro ritenevano che, nonostante l’inaffidabilità dei sensi, si potesse comunque giungere
alla consapevolezza del carattere instabile della realtà e della conseguente indetermina-
tezza della conoscenza, e che se ne potessero trarre indicazioni di carattere etico che
portavano alla felicità e alla saggezza. Per Arcesilao invece nessuna conoscenza è pos-
sibile, in assoluto, e quindi nemmeno il “sapere di non sapere” che per Socrate era il
punto di partenza della ricerca filosofica e per Pirrone e Timone il punto di arrivo.
Coerentemente con questo assunto, Arcesilao si rifiuta non soltanto di scrivere opere
filosofiche, ma perfino di proporre tesi filosofiche proprie. Egli si limita a discutere le tesi
degli altri filosofi mediante la dialettica, intesa come tecnica di argomentazione che si
pone al tempo stesso a favore e contro una certa tesi, mostrando che non vi sono argo-
menti decisivi per accettarla o rifiutarla. Mediante la dialettica Arcesilao fa vedere dun-
que che l’unico atteggiamento ragionevole è l’epoché, la sospensione del giudizio, cioè
il rifiuto di prendere posizione da parte del filosofo scettico, in base alla convinzione che
non sia possibile raggiungere alcuna conoscenza. La pratica sistematica dell’epoché è an-
che l’unico modo per garantire l’infallibilità che per definizione caratterizza il saggio:
non esprimendo nessuna opinione, il saggio scettico ha la certezza di non sbagliare mai,
ossia di essere infallibile come si richiede a un vero saggio.
lessico epoché (dal greco epécho, “trattengo”) la sospensione del giudizio tipica degli scettici, i quali, in as-
filosofico senza della possibilità di raggiungere una conoscenza certa, invitano a non esprimere opinioni.
Lo scetticismo capitolo 12 67
Il principale bersaglio delle critiche di Arcesilao è lo stoicismo, e in particolare la conce- FARE per CAPIRE
zione stoica del criterio di verità. Arcesilao nega che vi siano conoscenze infallibili: se
• Sottolinea con
infatti è vero – come gli stoici stessi ammettono – che tutte le conoscenze derivano dai colori differenti
sensi, è anche innegabile che questi sono per loro natura fallibili e pertanto non possono i passaggi in cui
offrire nessun criterio di verità. emerge la diversità
di Arcesilao
Per Arcesilao occorre rimpiazzare il criterio di verità con un criterio di ragionevolezza, rispettivamente da
che non ambisce a stabilire che cosa sia vero in assoluto, ma soltanto che cosa, in una Platone e da
Pirrone e Timone.
certa situazione, sia appunto ragionevole credere. La scelta del saggio deve dunque cadere • Evidenzia nel
su quella credenza che in una certa circostanza meglio si presta a essere difesa in modo testo la definizio-
ragionevole, soprattutto in base alle esigenze della vita pratica. ne del criterio di
ragionevolezza.
CARNEADE
Dalla ragionevolezza alla persuasività
L’insegnamento di Arcesilao viene sviluppato dai filosofi che gli succedono alla direzio-
ne dell’Accademia; tra questi spicca Carneade di Cirene, il cui scolarcato inizia intorno al
167 a.C. (❯ Per approfondire). Carneade si propone di difendere lo scetticismo di Arcesilao
dalle obiezioni che gli erano state mosse dagli stoici. Contro la difesa stoica del criterio di
verità, Carneade si richiama al caso dei sogni e delle allucinazioni: quando sogniamo im-
mersi in un sonno profondo, oppure abbiamo un’allucinazione, crediamo di sapere come
stanno le cose, e non siamo in grado di riconoscere che ci stiamo sbagliando. D’altra parte,
potremmo trovarci nello stesso stato ingannevole in qualsiasi occasione in cui siamo con-
vinti di conoscere con assoluta certezza: l’esperienza, di per sé, non ci permette di discrimi-
nare tra lo stato di veglia e lo stato di sogno o di allucinazione; dunque non è possibile avere
conoscenze del tutto infallibili, né vi è un criterio di verità che permetta di individuarle.
Per queste ragioni, Carneade concorda con Arcesilao sulla necessità di abbandonare il
criterio di verità, ma propone di rimpiazzarlo non con un criterio di ragionevolezza –
come proponeva Arcesilao – bensì con un criterio di persuasività. La posizione che è
opportuno scegliere, in assenza di un criterio di verità, è quella che ci appare più convin-
cente, più persuasiva. Carneade fornisce tre indicatori che contribuiscono a individuare
le rappresentazioni persuasive:
1. l’evidenza: una rappresentazione che mostra chiaramente l’oggetto risulta più
persuasiva di una che lo mostra confusamente; ad esempio, la visione di un ogget-
to in piena luce fornisce una rappresentazione più persuasiva della visione dello
stesso oggetto in penombra;
2. la non contraddittorietà: una rappresentazione che non ne contraddice altre risul-
ta più persuasiva di una che le contraddice; ad esempio, vedere un gatto che inse-
gue un topo è più persuasivo che vedere un topo che insegue un gatto;
3. l’esaminabilità: una rappresentazione i cui oggetti sono esaminabili è più per-
suasiva di una i cui oggetti non lo sono; ad esempio, la visione di un oggetto che
possiamo anche toccare è più persuasiva della visione di un oggetto che possiamo
soltanto vedere.
FARE per CAPIRE • Sottolinea con colori diversi affinità e differenze tra Arcesilao e Carneade.
Da Atene a Roma
A Carneade si deve anche l’ingresso dello scetticismo nella cultura romana. Nel 156
a.C., egli è inviato a Roma come ambasciatore di Atene, insieme allo stoico Diogene e
all’aristotelico Critolao, per ottenere il condono di una multa inflitta alla città per aver
saccheggiato Oropo, nell’Attica. È il primo autentico contatto di Roma con la filosofia gre-
ca, una decina di anni dopo la conquista romana della Macedonia avvenuta nel 168 a.C.
Il passaggio di Carneade a Roma lascia il segno. Il primo giorno di visita, Carneade
tiene un discorso appassionante in cui sostiene che la giustizia è una forma di saggezza,
ed elogia la giustizia praticata dai Romani, suscitando grande ammirazione da parte dei
numerosi uditori, tra i quali vi sono eminenti politici ma anche molti giovani. Nei giorni
successivi, tuttavia, applicando il metodo dialettico messo a punto da Arcesilao, Carnea-
de tiene un altro discorso in cui dimostra in maniera altrettanto convincente che la giu-
stizia e la saggezza sono incompatibili. In particolare, egli spiega che se i Romani voles-
sero essere davvero giusti dovrebbero restituire ai popoli sottomessi tutti i loro beni, ma
così facendo non si rivelerebbero niente affatto saggi. Tra gli uditori, Catone il Censore,
uno degli uomini politici più influenti dell’epoca, reagisce con veemenza a questa provo-
cazione, e chiede al senato l’espulsione di Carneade da Roma considerando il suo inse-
gnamento diseducativo e nocivo per i giovani.
Nonostante questo incidente diplomatico, nei decenni successivi la filosofia scettica si
diffonde progressivamente nella cultura romana. Non si tratta però dello scetticismo ra-
dicale propugnato da Carneade: lo scetticismo si afferma a Roma non tanto come una
critica delle teorie dogmatiche della conoscenza, quanto piuttosto come una forma di
saggezza che antepone la vita pratica alle speculazioni teoriche. In tal senso, lo scettici-
smo di ambito romano non rinuncia a combinarsi con aspetti propositivi di altre dottrine,
ESERCIZI in particolare lo stoicismo.
Lo scetticismo capitolo 12 69
3 Lo scetticismo neopirroniano
Nel periodo che va dal I secolo a.C. al II secolo d.C., l’indirizzo scettico attraversa una fase
di declino all’interno dell’Accademia, ma lo scetticismo trova nuova linfa per iniziativa di
alcuni filosofi – in particolare Enesidemo, Agrippa e Sesto Empirico – che agiscono al di
fuori delle scuole costituite e si richiamano all’insegnamento originario di Pirrone.
Enesidemo e Agrippa
Enesidemo di Cnosso, vissuto nel I secolo a.C., insegna ad Alessandria e scrive un’opera
in otto libri intitolata Discorsi pirroniani, che è andata perduta e che conosciamo soltanto
mediante testimonianze di epoca successiva, in particolare quelle di Sesto Empirico. Fra i
principali contributi di Enesidemo vi è l’elencazione di una serie di “modi” o tropi: stru-
menti di argomentazione che, presentando situazioni contraddittorie o controverse, con-
sentono allo scettico di mettere in crisi le tesi dogmatiche al fine di mostrare che non vi è
un criterio di verità e che quindi occorre sospendere il giudizio.
Nell’esporre i tropi, Enesidemo si sofferma in particolare sulle differenze tra i siste-
mi percettivi di esseri umani con diverse caratteristiche fisiche, e sulle differenze tra i sistemi
percettivi di animali appartenenti a specie diverse: «È probabile che quegli animali (come
le capre o i gatti) che hanno pupille oblique e allungate vedano gli oggetti in maniera dif-
ferente dagli animali con pupille rotonde». Queste differenze secondo Enesidemo rivelano
che non c’è una verità oggettiva, ma soltanto una pluralità di punti di vista soggettivi.
Agrippa, che vive all’incirca negli stessi anni di Enesidemo, fornisce ulteriori stru-
menti argomentativi che permettono di minare alle fondamenta gli edifici teorici dei fi-
losofi dogmatici. In particolare, Agrippa mette in luce due tropi che derivano dall’analisi
delle forme logiche del ragionamento.
1. In primo luogo, il regresso all’infinito, per cui un ragionamento richiede delle
premesse, che a loro volta per essere dimostrate richiedono delle premesse, e così
via all’infinito; l’unica via di uscita per Agrippa è l’atteggiamento scettico di so-
spensione del giudizio.
2. In secondo luogo, il circolo vizioso, per cui una certa dimostrazione giunge a una
conclusione C utilizzando una premessa P che però, per essere dimostrata, neces-
sita di C stessa come sua premessa. In questo caso non si produce nessuna cono-
scenza perché per avere certezza di C occorre avere la certezza di P, ma la certezza
di P si può avere soltanto a condizione di avere già la certezza di C.
Sesto Empirico
Sesto Empirico, medico e filosofo vissuto verso la fine del II secolo d.C., porta a com-
pimento il lavoro iniziato da Enesidemo e Agrippa due secoli prima. Le principali ope-
re filosofiche di Sesto, che ci sono pervenute integralmente, sono gli Schizzi pirroniani,
tropi (dal greco trópos, “modo”) nel pensiero scettico, sono gli argomenti per dimostrare che non vi lessico
è nessun criterio o fondamento per la verità; pertanto le tesi dei dogmatici non sono sostenibili ed è filosofico
necessario sospendere il giudizio.
70 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
in tre libri, e Contro i dogmatici (noto anche come Contro i matematici), in undici libri,
entrambe scritte in greco. Sesto concepisce la sua filosofia come uno sviluppo e un
compimento dello scetticismo originario di Pirrone. Questo ritorno alle origini dello
scetticismo è per Sesto innanzitutto un ritorno al significato primigenio della parola
sképsis: “indagine”, “ricerca”. In tal senso Sesto distingue nettamente il suo scetticismo
da quello degli accademici:
“
Sui temi principali della filosofia, alcuni dichiarano di aver scoperto la verità, altri dichiarano
che la verità non può essere raggiunta, altri non dichiarano nulla e continuano a cercare.
Coloro che credono di aver scoperto la verità sono noti come “dogmatici”, ad esempio i
seguaci di Aristotele ed Epicuro, oppure gli stoici ed altri filosofi; mentre i seguaci di […]
Carneade, e gli altri accademici, hanno dichiarato che la verità è inconoscibile; invece gli
scettici continuano nella ricerca. Dunque pare ragionevole concludere che vi sono tre prin-
cipali tipi di filosofia: quella dogmatica, quella accademica, e quella scettica.
(Schizzi pirroniani, I.1-4)
il filosofo scettico non è però l’esatta raffigurazione, come nel caso del pittore, bensì
uno stato gratificante di atarassia: una completa serenità d’animo, derivante dal rag-
giungimento della consapevolezza che non è possibile una risposta definitiva alla que-
stione che si stava indagando. L’atarassia segue la sospensione del giudizio «come
l’ombra segue il corpo» (Schizzi pirroniani, I.28-29). Per Sesto la fallacia dei dogmatici
consiste nel voler usare le apparenze per ricavare pensieri (noúmena) che afferrino delle
verità; occorre invece fermarsi alle apparenze (phainómena), limitandosi a descriverle,
«come un cronista descrive gli avvenimenti ai quali assiste» (Schizzi pirroniani, I.4). Le
apparenze non sono dunque ingannevoli, anzi, sono l’unica realtà non ingannevole di
cui disponiamo; esse diventano ingannevoli soltanto se si pretende di usarle per rica-
varne pensieri che ambiscono alla verità e alla conoscenza. ❯ testo 2 p. 75
Sulla distinzione tra apparenza e pensiero si basa la critica di Sesto alla nozione
di causalità. Riprendendo un tropo di Enesidemo, Sesto sostiene che non abbiamo
nessuna ragione fondata per trattare le apparenze come effetti di cause le quali, senza
apparire esse stesse, si manifesterebbero mediante le apparenze: è infondata la pretesa
di passare da ciò che è evidente a ciò che non lo è. L’apparenza per Sesto non è null’al-
tro che apparenza; trattarla come effetto che ci permetterebbe di risalire alla sua causa
è un atteggiamento dogmatico di cui non è possibile fornire nessuna giustificazione
convincente. ESERCIZI
FARE per CAPIRE • Sintetizza in uno schema le tesi di dogmatici, accademici e scettici sulla verità.
a critica scettica della nozione di conoscenza ha luogo proprio nei secoli in cui la
L scienza compie enormi progressi. Decisivo è in tal senso il ruolo svolto dal Museo
di Alessandria, un centro di ricerca che comprende – oltre a una sterminata biblioteca –
un osservatorio astronomico, un giardino zoologico, un orto botanico e alcune sale
anatomiche. Ad Alessandria compiono le loro ricerche i principali scienziati di epoca
ellenistica e romana, tra i quali i matematici Euclide e Archimede, gli astronomi
Ipparco, Claudio Tolomeo e Ipazia, i medici Erofilo, Erasistrato e Galeno.
da Claudio Tolomeo, vissuto anch’egli ad Alessan- randola dagli elementi magici o religiosi – che at-
dria, ma oltre trecento anni dopo, nel II secolo d.C. tribuivano le malattie ad agenti soprannaturali – e
Per tenere conto delle osservazioni sul moto dei fondandola sullo studio dell’anatomia e della fi-
pianeti discordanti rispetto al modello geocen- siologia, sull’esame degli elementi patogeni na-
trico di Aristotele, Ipparco e Tolomeo ricorrono turali e dei sintomi osservabili. Alle opere origi-
all’ingegnosa ipotesi degli epicicli, per cui i vari nali di Ippocrate, si affianca nel corso del tempo
astri si muovono lungo dei cerchi il cui centro ruo- una grande quantità di commenti; il tutto va a
ta intorno alla Terra. Nel suo capolavoro, intitolato formare un sistema di testi che prende il nome di
Almagesto, Tolomeo difende magistralmente la Corpus Hippocraticum.
teoria geocentrica, che da lui prenderà il nome di
Al centro della dottrina medica ippocratica vi è la
“modello tolemaico”. Ai giorni nostri, il modello
teoria che interpreta la malattia come l’effetto di
tolemaico è notoriamente considerato un caso
una disarmonia; obiettivo della terapia è dunque
esemplare di teoria scientifica che è stata abban-
stimolare la forza naturale che è insita nell’organi-
donata in favore di una teoria migliore, quella elio-
smo e che risulta in grado di ripristinare l’equili-
centrica introdotta da Copernico nel XVI secolo,
brio originario. Commentando la teoria di Ippo-
per cui è la Terra a girare intorno al Sole. Ciò non
crate, Galeno parla a tal proposito di vis medicatrix
toglie che il modello tolemaico resti una teoria
naturae (“forza curatrice naturale”).
scientifica a tutti gli effetti, anzi, un esempio ge-
niale di teoria scientifica, con un sofisticatissimo L’apice della ricerca medica è raggiunto in epoca
apparato geometrico che permetteva di prevedere romana per merito di Galeno, che nasce a Perga-
efficacemente il movimento degli astri. Il sistema mo nel 129 d.C., studia ad Alessandria verso la
tolemaico è stato peraltro oggetto di sviluppi e metà del secolo, dove si avvale sia del Corpus
raffinamenti, in epoca antica, anche dopo la mor- Hippocraticum sia delle ricerche anatomiche ba-
te dello scienziato che gli ha dato il nome. sate sulla dissezione dei cadaveri, e quindi giun-
ge a Roma. Qui esercita la professione medica
Una figura chiave in tal senso è Ipazia, figlia
per vari decenni, fino alla morte avvenuta intor-
dell’astronomo Teone, vissuta ad Alessandria tra il
no al 200, ed è medico di corte degli imperatori
IV e il V secolo d.C., della cui eccezionale attività
Marco Aurelio, Lucio Vero, Commodo e Settimio
scientifica e filosofica ci sono giunte informazioni
Severo. Tra i suoi numerosi scritti, in cui spesso la
mediante gli scritti del suo allievo Sinesio. Da lui
medicina si intreccia con questioni filosofiche,
sappiamo che Ipazia insegnò filosofia e astrono-
ricordiamo Sulla dimostrazione, L’arte medica e
mia nel Museo e si impose come figura di spicco
Le mie opinioni. In queste opere si coglie l’impor-
della scuola neoplatonica di Alessandria. Truci-
tanza di due dimensioni complementari: da un
data da un gruppo di fanatici cristiani, è diventata
lato l’anatomia, concepita come base di tutto l’e-
il simbolo della libertà della ricerca scientifica
dificio del sapere medico, dall’altro il procedi-
contro ogni forma di oscurantismo. Alla sua figura
mento razionale, indispensabile per interpretare
è ispirato il film Agora (2009), e al suo nome ren-
in maniera coerente i sintomi dei pazienti.
de omaggio la rivista internazionale “Hypatia: A
Journal of Feminist Philosophy”, fondata nel 1986.
[Il procedimento degli scettici] Gli Scettici procedevano rovesciando tutti i principi delle
varie sette, essi per conto loro senza dimostrare niente dogmaticamente; non facevano che
addurre le definizioni date dagli altri e spiegarle senza mai per loro conto definire niente,
senza neanche definire questo loro assunto. Eliminavano lo stesso definire affermando
5 «nulla noi definiamo», per evitare di dare con ciò una definizione.
[L’equilibrio statico] «Riferiamo – essi dicono – le affermazioni altrui a indicazione della
nostra cautela», e si comportano come se fosse possibile indicare ciò semplicemente accen-
nando con la testa; con l’espressione «nulla noi definiamo» intendono indicare lo stato
d’animo dell’assoluto equilibrio statico.
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 74, in La filosofia dell’ellenismo,
a cura di M. Isnardi Parente, Loescher, Torino 1995, p. 96)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
Condividi la posizione scettica secondo cui non è possibile raggiungere la verità sulle cose, oppure pensi
che sia possibile conoscere e penetrare la realtà? Esponi e argomenta il tuo punto di vista.
Lo scetticismo capitolo 12 75
TESTI
t2 La critica al dogmatismo da Sesto Empirico, Schizzi pirroniani
Nel brano seguente, Sesto Empirico spiega come gli scettici rifiutino qualsiasi posizione dogmatica,
intendendo con questa espressione tutte le dottrine filosofiche che pretendono di offrire una
rappresentazione oggettiva della realtà.
[L’assenza di principi dogmatici] Noi diciamo che lo scettico non ha principi dogmatici
non in quel senso della parola «dogma» per cui da alcuni questo si intende come l’aderi-
re a un oggetto qualsiasi (infatti lo scettico assente a quelle affezioni che conseguono
necessariamente alle rappresentazioni: così per esempio, se sente caldo o freddo, non
5 direbbe mai di non sentirli): noi diciamo che non ha principi dogmatici nel senso che si
dà a «dogma» quando si dice che esso è l’assenso a un oggetto di quelli che indagano le
scienze. Il pirroniano non dà il suo assenso ad alcuna cosa che non sia immediatamente
evidente.
[Le affermazioni che lo scettico deve preferire] E per non affermare principi dogmatici,
10 egli deve preferire, intorno alle cose non evidenti, affermazioni scettiche, come «niente
di preferenza» o «nulla definisco» o altre che diremo più oltre. Chi afferma principi dog-
matici, infatti, dà presupposto come esistente ciò intorno a cui professa tali principi;
mentre lo scettico pone tutte queste espressioni come non aventi una realtà oggettiva in
assoluto.
(Sesto Empirico, Schizzi pirroniani,
in La filosofia dell’ellenismo, cit., p. 97)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
Dal brano emerge che, secondo Sesto Empirico, è infondata la pretesa di passare da ciò che è evidente
a ciò che non lo è, ad esempio dall’apparenza immediata all’idea della causa che l’ha prodotta.
L’adesione a questa prospettiva comporta, però, la messa in dubbio della possibilità della scienza.
Che cosa pensi di questa conclusione teorica? Esponi il tuo punto di vista in proposito.
76 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
capitolo 12
SINTESI Lo scetticismo
AUDIOSINTESI
2 Lo scetticismo accademico
Quali sono le tesi di Arcesilao? Arcesilao discute in base alle esigenze della vita pratica, sembrano
le tesi degli altri filosofi, che definisce “dogmatici” essere più ragionevoli.
in quanto pensano di poter giungere a conclusioni Che cosa afferma Carneade? Carneade ribadisce
vere. Egli mostra, attraverso la dialettica, che per che i sensi sono ingannevoli; poiché ogni cono-
nessuna tesi vi sono argomenti decisivi per accet- scenza inizia da questi, bisogna sospendere il giu-
tarla o rifiutarla. In particolare Arcesilao polemiz- dizio. In assenza del criterio di verità, è opportuno
za contro il criterio stoico della rappresentazio- scegliere le rappresentazioni più persuasive,
ne catalettica, sostenendo che i nostri sensi sono cioè evidenti, non contraddittorie ed esaminabili.
fonti di illusioni. L’unico atteggiamento coerente è Carneade contribuisce a diffondere lo scetticismo a
la sospensione del giudizio (epoché). In assenza di Roma, ma viene espulso perché il suo insegnamen-
criteri decisivi, il saggio sceglierà le credenze che, to è ritenuto diseducativo.
3 Lo scetticismo neopirroniano
Quali sono le tesi fondamentali di Enesidemo e e la sospensione del giudizio non sono stabilite una
Agrippa? Enesidemo mette a punto delle tecniche volta per tutte, bensì caso per caso. Nell’indagine,
di argomentazione, o tropi, per controbattere le non dobbiamo disprezzare le apparenze che l’espe-
tesi dogmatiche e mostrare che non vi è criterio di rienza ci fornisce, ma dobbiamo evitare di trarne
verità. Il suo argomento fondamentale è la sogget- conclusioni che abbiano la pretesa della verità. Allo
tività delle percezioni. Agrippa mostra che ogni stesso modo, non possiamo risalire dagli effetti
ragionamento prevede o un regresso all’infinito constatati alle cause che non constatiamo, cioè non
alla ricerca di premesse vere, o un circolo vizioso. possiamo passare da ciò che è evidente nell’espe-
In che cosa consiste l’originale dottrina di Sesto rienza a ciò che non lo è. Questo lavoro instancabi-
Empirico? Sesto Empirico si distingue dagli acca- le di ricerca, orientata alla sospensione del giudizio,
demici, perché riprende il significato originario di conduce alla saggezza e alla felicità, identificata con
sképsis: per lui il vero scetticismo consiste nella la serenità dell’animo o atarassia.
ricerca continua; l’impossibilità della conoscenza
77
capitolo 12
MAPPE CONCETTUALI Lo scetticismo
LO SCETTICISMO
DELLE ORIGINI
PIRRONE
afferma che
l’afasìa l’atarassìa
non
evidenza esaminabilità
contraddittorietà
78 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
capitolo 12
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Lo scetticismo
RIPASSO
Alla morte di Plotino, avvenuta nel 270, gli succede alla direzione della scuola l’allievo
Porfirio, al quale si deve la sistemazione delle opere scritte del maestro in sei raccolte di
nove libri ciascuna, denominate Enneadi (dal greco ennéa, “nove”), che ci sono giunte
integralmente. Nel corso del IV secolo d.C. vengono fondate nuove scuole neoplatoniche
in Siria e a Pergamo; a quest’ultima scuola si forma il futuro imperatore Giuliano, che nel
suo breve regno (361-363) cercherà di opporsi al diffondersi del cristianesimo imponendo
come alternativa un culto pagano di ispirazione neoplatonica.
Nel V secolo d.C. viene fondata una scuola di indirizzo neoplatonico ad Atene, per
iniziativa di Plutarco. Il principale esponente del neoplatonismo ateniese è Proclo, un
allievo di Plutarco che usa la dottrina di Plotino come fondamento di un imponente edi-
ficio teorico che ambisce a sintetizzare le principali acquisizioni filosofiche, scientifiche e
religiose del pensiero antico.
Le fonti di ispirazione
Come indica il termine stesso, il neoplatonismo ha la sua principale fonte nella filosofia
di Platone, di cui la dottrina di Plotino costituisce un tentativo di riformulazione e di
sviluppo. Tuttavia nel neoplatonismo ci sono anche significative influenze aristoteliche,
dovute al fatto che Plotino, nel solco del suo maestro Ammonio, considera la filosofia di
Aristotele non come un’alternativa radicale alla dottrina di Platone, bensì come una sua
estensione in nuovi campi e in nuove direzioni.
Plotino concepisce la propria filosofia come il punto di arrivo di una linea di ricerca che
comincia con Platone per poi passare attraverso Aristotele e le varie scuole ellenistiche, in
particolare lo stoicismo, e arrivare infine ad Ammonio, e di lì a Plotino stesso. A ben vedere,
però, la nozione fondamentale del neoplatonismo – ossia quella di unità – ha radici anco-
ra più antiche della filosofia di Platone. È una nozione già all’opera nelle ricerche dei primi
FARE per CAPIRE filosofi presocratici, i quali cercano di ricondurre la varietà dei fenomeni osservabili a un
• Sintetizza in unico principio fondamentale, la cui semplicità è tale da non richiedere ulteriori spiegazioni.
uno schema le Questo principio, che i presocratici cercavano di identificare e descrivere, per Plotino è inve-
fasi di sviluppo
della dottrina ce qualcosa di assolutamente impensabile e indescrivibile, che può essere oggetto soltanto
neoplatonica. di esperienze di carattere religioso, sul modello dei mistici delle culture orientali.
❯La cosiddetta
“Accademia di
Platone”, mosaico,
I secolo d.C., Napoli,
Museo Archeologico
Nazionale.
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 81
il ritratto
PLOTINO: la vita come ricerca spirituale
on possediamo molte rappresentazioni di Plotino: perlopiù sculture marmoree
Uno il principio primo, assoluto, perfetto e divino, emanazione la modalità attraverso cui dall’U- lessico
origine e fondamento di tutte le cose. Con questa no derivano le realtà inferiori. L’emanazione è filosofico
espressione, Plotino vuole indicare che il principio è conseguenza necessaria della sovrabbondanza
al di là di qualsiasi molteplicità o pluralità che ca- di perfezione dell’Uno, quindi non implica nes-
ratterizzano il mondo e il linguaggio, per cui in sen- sun mutamento nel principio.
so stretto qualsiasi termine è inadatto a indicarlo.
Le cose non sono create dall’Uno (a differenza di quanto sostengono religioni come
l’ebraismo o il cristianesimo a proposito della creazione divina), ma nemmeno coincido-
no con l’Uno (a differenza di quanto accade nelle concezioni panteiste come quella degli
stoici, per cui la divinità è in ogni cosa). Per Plotino, l’Uno è distinto dalle cose e non le
crea; eppure è tale per cui l’esistenza delle cose ne deriva e ne dipende.
L’emanazione di tutto ciò che esiste dall’Uno si compie gradualmente, attraverso una
serie di passaggi: dall’Uno emana direttamente l’Intelletto, dall’Intelletto emana l’Anima,
e dall’Anima emanano tutte le altre cose. L’intero campo dell’esistente si può dunque
concepire come l’esito della sovrapposizione di tre livelli ontologici gerarchicamente
ordinati, o ipòstasi: l’Uno, che è il livello fondamentale, ovvero il vertice della gerarchia;
l’Intelletto, che è il livello intermedio; e l’Anima, che è il terzo livello.
La stessa necessità che caratterizza l’Uno caratterizza anche l’Intelletto e l’Anima: è
nella natura di ogni ipostasi emanare esistenza al di là della propria esistenza. In tal
senso Plotino caratterizza l’essere delle ipostasi nei termini seguenti:
“
è necessario che ciascun essere dia del suo a un altro, altrimenti l’Uno non sarebbe l’Uno,
né l’Intelletto sarebbe quel che è, né l’Anima sarebbe la stessa.
(Enneadi, II, 9, 3)
FARE per CAPIRE • Sottolinea le metafore riportate per spiegare l’emanazione, e sintetizza a margine
il loro significato.
lessico ipòstasi (dal greco hypóstasis, “ciò che sta nazione dall’Uno, e così l’Anima dall’Intelletto; si
filosofico sotto, a fondamento”) il fondamento di tutto ciò tratta pertanto di una visione dell’essere gerar-
che esiste. Le ipostasi per Plotino sono l’Uno, chicamente ordinato, che perde perfezione al-
l’Intelletto e l’Anima. L’Intelletto deriva per ema- lontanandosi dell’Uno.
il PENSIERO
si fa IMMAGINE L’emanazione dall’Uno come irradiamento o effusione
L’ Intelletto
La principale novità del neoplatonismo in rapporto alla filosofia di Platone sta nel fatto
che per Plotino il mondo intelligibile – il mondo delle idee – non è più la dimensione
fondamentale di tutto quello che esiste: per lui il mondo intelligibile o Intelletto costituisce
un livello secondario di realtà, emanato dalla realtà fondamentale, che è l’Uno.
Plotino definisce “Intelletto” il mondo intelligibile per evidenziare che l’esistenza del-
le idee va di pari passo con l’esistenza di un atto intellettivo di contemplazione. Un’idea
è fatta per essere contemplata così come un’immagine è fatta per essere vista (e la stessa
parola greca idéa significa originariamente “ciò che è visto o visibile”); la contemplazione,
al pari della visione, impone dunque la distinzione fra l’atto del contemplare e l’ogget-
to che è contemplato (nella fattispecie, l’idea). Ma nell’Uno, che è assoluta unità e sempli-
cità, non è possibile nessuna distinzione, nemmeno quella fra atto e oggetto: nell’Uno non
si può avere nulla di paragonabile alla visione o alla contemplazione. Poiché il mondo in-
telligibile richiede invece la distinzione tra l’idea e l’atto intellettivo di contemplarla (cono-
scerla, comprenderla), a questo livello non vi può essere assoluta unità. Plotino ne trae la
conclusione che l’Uno non fa parte del mondo intelligibile, bensì lo precede e lo fonda.
Nell’Uno la contemplazione è presente soltanto in potenza; perché si attui, occorre
che da esso emani il livello dell’Intelletto, in cui le idee si dispiegano di fronte all’atto
di pensiero che le contempla. Sebbene fra l’atto intellettivo del contemplare e le idee con-
template vi sia distinzione, Plotino ritiene che tra i due vi sia anche identità. Questo
perché l’atto intellettivo e il mondo delle idee sono due manifestazioni differenti di un’u-
nica realtà, ovvero l’Intelletto che contempla sé stesso: in quanto contemplante, l’Intel-
letto è atto; in quanto contemplato, l’Intelletto è il mondo delle idee. Possiamo paragonare
l’Intelletto a una persona che si guarda allo specchio: come lo sguardo rivolto allo spec-
chio e la figura che si vede nello specchio sono due manifestazioni differenti della stessa
persona, così l’atto intellettivo del contemplare e le idee come oggetto contemplato sono
due manifestazioni differenti di un’unica realtà, che è l’Intelletto stesso. In ultima analisi,
l’Intelletto ha un’unità di fondo che gli deriva dall’Uno da cui emana, ma ha anche una
distinzione interna che fa sì che esso risulti separato e secondario in rapporto all’assoluta
unità e semplicità dell’Uno. ❯ testo 1 p. 96
L’ Anima
Nell’Intelletto si contemplano le idee come le intendeva Platone: forme astratte e univer-
sali, che esistono al di fuori dello spazio e del tempo. Plotino concorda con Platone sul
fatto che le idee godano di un grado di realtà superiore a quello delle cose concrete che
esistono nello spazio e nel tempo, nel “mondo sensibile”, come lo chiamava Platone. Ma
il motivo per cui Plotino ritiene le idee ontologicamente superiori alle cose concrete deri-
va da un tratto originale della sua filosofia.
Per Plotino la realtà è tanto più piena e perfetta quanto più tende all’unità. Dunque
l’Uno è superiore all’Intelletto perché nell’Uno vi è pura unità, mentre nell’Intelletto vi è
distinzione fra atto del contemplare e oggetto contemplato.
86 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
Analogamente, l’Intelletto, cioè il mondo delle idee, è superiore al mondo delle cose
concrete perché a un’unica idea corrisponde una molteplicità di cose concrete: ad esempio,
a un’unica idea di Triangolo corrisponde una molteplicità di cose triangolari, e a un’unica
idea di Rosso corrisponde una molteplicità di cose rosse.
Per spiegare come dal mondo delle idee emani il mondo delle cose concrete Plotino
ricorre alla terza ipostasi, l’Anima, che egli caratterizza come il principio mediante il
quale le idee conferiscono alle cose concrete la loro forma specifica. Se da una parte
l’Anima si rivolge al mondo delle idee, e le contempla, dall’altra plasma e ordina il mondo
fisico applicandovi le idee stesse. In quanto applicate dall’Anima al mondo fisico, le idee
non sono soltanto modelli che presiedono all’esistenza delle cose, ma anche forme insite
nelle cose. Da qui la conciliazione tra la dottrina platonica (per cui le idee sono model-
li delle cose) e quella aristotelica (per cui le idee sono forme insite nelle cose). In virtù
della mediazione dell’Anima, la teoria aristotelica della forma diviene un esito della dot-
❯ QUADERNO PER
trina platonica delle idee: le cose che esistono nel mondo concreto, quelle che Aristotele
LE COMPETENZE E
IL NUOVO ESAME chiama “sostanze”, hanno la forma che le contraddistingue in ragione del fatto di essere
p. 31 state plasmate dall’Anima in base al modello fornito dalle idee.
La materia
Il processo di emanazione che porta innanzitutto dall’Uno all’Intelletto, e quindi dall’In-
telletto all’Anima, giunge a compimento con il mondo corporeo, il mondo di corpi con-
creti situati nello spazio e nel tempo, ovvero il mondo in cui noi stessi viviamo. Per Plo-
tino il punto limite di questo processo di emanazione è la materia. Se, come fa Plotino, si
paragona il processo di emanazione a un raggio di luce che irradia da una sorgente, allora
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 87
la materia corrisponde alla zona d’ombra in cui il raggio di luce termina di esercitare il
suo effetto illuminante: la materia è la regione della realtà più distante e più indifferente
rispetto all’azione plasmatrice che procede dall’Uno attraverso l’Intelletto e l’Anima.
Ciononostante, la materia fa anch’essa parte del campo di realtà che emana dall’Uno. Da
un lato, la materia è il limite dell’azione plasmatrice dell’Anima, cioè la regione in cui
“non penetra la luce”; dall’altro, è ciò che rende questa azione plasmatrice possibile,
perché è mediante la materia che le idee si manifestano nello spazio e nel tempo come
forme delle cose concrete. Il fatto che la materia sia la frontiera estrema del processo di
emanazione non esclude che essa stessa sia un esito del processo di emanazione, anzi lo
conferma: la frontiera è pur sempre parte del territorio di cui è frontiera. D’altra parte, in
ragione della sua distanza ontologica dall’Uno e dall’Intelletto, la materia produce nel
mondo concreto un effetto di molteplicità e dispersione che Plotino, per il quale l’unità
è il sommo valore, vede come un momento di degradazione della realtà.
Dal contrasto fra l’azione plasmatrice dell’Anima e la resistenza passiva e dispersiva
della materia si genera la varietà di individui che popola il mondo spazio-temporale.
Ciascun individuo ha un’anima che gli deriva dall’essere generato dall’azione plasmatri-
ce dell’Anima, ma ha anche un corpo per effetto del quale l’anima individuale tende a
isolarsi dall’Anima del mondo di cui è parte, e si comporta come se fosse un’entità a sé
stante, in balìa della materialità corporea. Così Plotino descrive il degradarsi dell’anima
a causa della sua commistione con la materia:
“
Impura, voglio dire, e trascinata qua e là dagli allettamenti del regno molteplice della sen-
sibilità, con la mescolanza di molti elementi fisici, e tanta materia legata, tale, poi, da rice-
vere una forma diversa da quella che le è conveniente, l’anima, per tutto questo confonder-
si con ciò che è più vile di lei, viene alterandosi: come uno che, caduto nel fango o nello
sterco, non mostri più quella bellezza, che è sua; e del volto si veda solo il fango e lo sterco
che han lasciato impronta su di lui […] Saremo nel giusto, dunque, se diremo che l’anima
divien brutta per il suo mescolarsi, convenire e come cospirare con il corpo e la materia.
(Enneadi, I, 6, 5)
❯ In questo sarcofago,
risalente al 260 circa,
un filosofo, da alcuni
identificato con
Plotino, è ritratto al
centro, nell’atto di
srotolare un papiro
ed è affiancato da
due figure femminili
(forse due muse)
e da due filosofi che
guardano verso
l’esterno.
88 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
Il male
Dalla realtà della materia, secondo Plotino, dipende il problema del male. Infatti, il male
è l’esito del conflitto fra la molteplicità di individui particolari in cui si scinde l’Anima del
mondo proprio in ragione della resistenza della materia.
D’altra parte, la materia è anch’essa un esito del processo di emanazione dall’Uno,
e dunque il male stesso, in quanto effetto della materia, va considerato a sua volta come
un aspetto della realtà che emana dall’Uno. In tal senso per Plotino il male non è qual-
cosa di negativo in assoluto, ma soltanto se comparato con altre forme di realtà più vici-
❯ testo 2 p. 97 ne all’Uno.
Se si assume una visione d’insieme, anche la materia e il male trovano la loro ragion
d’essere nel quadro di un sistema generale che, emanando dall’Uno, non può che essere
perfetto come lo è la fonte da cui emana. Chi sostiene che il mondo è imperfetto perché
vi è il male al suo interno fa un errore paragonabile a chi, dovendo valutare qualcosa
nella sua interezza, si sofferma esclusivamente su una parte. Valutare il mondo imperfet-
to a causa del male per Plotino equivale a valutare brutta una persona «soffermandosi
soltanto su un capello o su un dito dei piedi, trascurando la totalità dell’uomo che è uno
spettacolo divino» (Enneadi, III, 2, 3). Sarebbe come valutare brutto uno spettacolo teatra-
le «perché non tutti in esso sono eroi, ma c’è un servitore o un rusticone dalla voce rozza;
eppure il dramma non è più bello se si sopprimono queste parti secondarie, anzi, è com-
ESERCIZI pletato da queste» (Enneadi, III, 2, 11).
FARE per CAPIRE • Evidenzia con colori diversi le quattro frasi che meglio definiscono la materia e il
male.
❯ Odisseo e
i compagni durante
il viaggio per
ritornare a Itaca,
mosaico, III secolo,
Dhugga (Tunisia).
È lo stesso Plotino
a paragonare la via
dell’anima verso
l’Uno al lungo
viaggio di ritorno
dell’eroe greco verso
la propria patria.
di realtà in cui ha avuto origine la nostra esistenza. È Plotino stesso a suggerire l’analogia
tra la narrazione letteraria dell’Odissea e la narrazione filosofica del neoplatonismo:
“
Fuggiamo, dunque, verso la cara patria, ecco quel che con superiore verità ci si potrebbe
consigliare. E che cosa è, dunque, questo fuggire? In che modo risaliremo? Come Ulisse,
che, dicono, fuggì la maga Circe o Calipso, perché non voleva fermarsi presso di loro,
nonostante il piacere che gli davano.
(Enneadi, I, 6, 8)
“
l’azione sussiste per amore di una contemplazione e di una visione; tant’è vero che, anche
per coloro che agiscono, finalità è la contemplazione: come se essi, impotenti a raggiun-
gere qualcosa per diritta via, cerchino poi di conquistarla con un giro smarrito.
(Enneadi, III, 8, 36-40)
90 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
L’anima imprigionata nel corpo e nella materia non può puntare direttamente alla con-
templazione, ma deve passare attraverso un «giro smarrito» nel corso del quale si affranca
dai vincoli del corpo e dalla materia mediante l’esercizio delle virtù civiche di cui tratta l’eti-
ca. Una volta che questo «giro smarrito» sia giunto a termine, l’anima non deve accontentar-
si del risultato raggiunto: deve puntare più in alto, alla contemplazione del mondo delle idee.
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la funzione delle virtù civiche.
“
Anche la bellezza semplice di un colore ha la sua ragione nella forma, nel dominio sulla
tenebrosa materia, nella presenza di una luce immateriale che è ragione e idea […] Questi
sono i pensieri che riguardano il bello sensibile, immagini e ombre, che cadute fuggevol-
mente nella materia, le danno ordine e forma, e il cui apparire a noi fa come un sacro e
tremendo stupore.
(Enneadi, I, 6, 3)
A differenza di Platone, Plotino ritiene che anche l’arte possa svolgere un ruolo im-
portante nell’ascesa dell’anima dal mondo sensibile al mondo intelligibile. Per Platone
l’arte produce soltanto imitazioni delle entità del mondo sensibile, che a loro volta non
sono che imitazioni delle idee; dunque l’arte non fornisce che imitazioni di imitazione,
allargando il divario che ci separa dal mondo intelligibile. Invece per Plotino l’arte è in
grado di produrre entità che si avvicinano alle idee più di quanto non riesca alle enti-
tà ordinarie:
“
le arti non imitano direttamente il mondo sensibile; risalgono, invece, ai principi da cui
viene l’ordine della natura, e molte cose, ecco, esse creano da sé; portando, infatti, in sé la
bellezza, correggono le insufficienze della realtà naturale: Fidia fece appunto il suo Zeus
senza tener conto di alcun modello sensibile, ma figurandosi l’immagine del dio, quale si
mostrerebbe, se egli si degnasse di apparire agli occhi degli uomini.
(Enneadi, V, 8, 1)
Per Plotino le opere d’arte sono entità del mondo sensibile che rimandano esplicita-
mente alle idee del mondo intelligibile; invece i corpi viventi, anche quando manifestano
bellezza, rischiano di risultare ingannevoli, indirizzando il desiderio verso i corpi stessi
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 91
anziché verso il mondo delle idee. La bellezza suscita desiderio e amore, ma occorre sa-
per distinguere tra l’amore intellettivo, che ci eleva al mondo delle idee, e l’amore sen-
suale, che invece ci risospinge verso le tenebre della materia. In tal senso Plotino, dopo
aver elogiato l’esperienza della bellezza e il sentimento dell’amore, si sente in dovere di
precisare che è alle idee che ci si deve rivolgere, non ai corpi (facendo riferimento impli-
cito al mito di Narciso, annegato per essersi lasciato attrarre dal riflesso del suo corpo
nell’acqua):
“
A chi vede la bellezza fisica conviene non già correre verso di lei, ma, anzi, riconoscendo
che si tratta di immagini, e orme, e ombre, rifugiarsi in quel vero di cui esse non sono ap-
punto che figure. E chi verso di esse si precipitasse per coglierle quasi fossero il vero si
troverebbe nella stessa condizione di quell’uomo […] il quale volendo fermare la sua ama-
bile immagine che si muoveva, riflessa, nell’acqua, gettatosi giù nella corrente, scomparve.
(Enneadi, I, 6, 8)
L’arte e la bellezza sono i primi passi di un’ascesa verso il mondo intelligibile che, per
proseguire appropriatamente, richiede di innalzarsi dall’esperienza sensibile alla cono-
scenza intellettuale. A questo scopo, l’arte e la bellezza devono cedere il passo alla scienza
e alla filosofia: queste ultime si soffermano esclusivamente sulle forme astratte, senza
più nessun legame con i corpi e la materia. Nell’esperienza della bellezza l’anima con-
templava le forme nelle cose, cioè osservando le cose, mentre la scienza e la filosofia
permettono di contemplare le forme in quanto tali, ovvero le idee. Al termine di un percor-
so che ha come tappe intermedie la virtù, la bellezza e l’arte, attraverso la scienza e la
filosofia l’anima arriva infine a raggiungere la massima prossimità con l’Intelletto,
inteso come puro atto di contemplazione delle idee. ❯ testo 3 p. 99
FARE per CAPIRE • Individua e sintetizza a margine del testo la funzione svolta rispettivamente dal-
la bellezza e dall’arte nell’ascesa verso il mondo intelligibile.
L ’esperienza mistica
Il ricongiungimento dell’anima con l’Uno si situa al di là dell’attività intellettiva e si ca-
ratterizza piuttosto come esperienza mistica di fusione tra soggetto e oggetto, e quindi
di uscita del soggetto dalla propria condizione di soggetto: un’esperienza che nel neopla-
tonismo prende il nome di estasi. Nell’estasi, qualsiasi distinzione tra soggetto e oggetto
svanisce:
“
Non ci sono più, estranei uno all’altro, un soggetto che vede, e un oggetto veduto, ma chi
ha vista acuta riscopre l’oggetto entro la propria soggettività […] La visione è tale che in
essa il soggetto si fa identico alla cosa veduta.
(Enneadi, V, 8, 10-11)
lessico estasi (dal greco ékstasis, che letteralmente di sé”, vale a dire dalla propria condizione di se-
filosofico significa “essere fuori di sé”) l’esperienza misti- paratezza dall’oggetto, si congiunge con l’ogget-
ca attraverso la quale il soggetto, uscendo “fuori to contemplato.
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 93
FARE per CAPIRE • Sintetizza in uno schema le fasi dell’ascesa dell’anima, dal ricongiungimento con
l’Anima del mondo e con l’Intelletto fino all’unione mistica con l’Uno.
sublime (dal latino sub-, “sotto”, e limes, “soglia”, esso. Tale nozione è il tema principale di un impor- lessico
forse nel significato “fin sotto la soglia più alta”, a tante trattato risalente al I secolo d.C. giuntoci ano- filosofico
indicare qualcosa che arriva al limite più elevato nimo, il cui titolo originale greco è Perì Hýpsous, che
possibile) per Plotino è l’esperienza eccezionale di letteralmente significa “Su ciò che è elevato” e che
contemplazione dell’Uno e di unione mistica con viene tradotto in italiano “Del sublime”.
Professore, secondo lei perché Plotino sente
l’esigenza di ricondurre la molteplicità del
mondo sensibile a un principio fondamentale
e unitario?
a tu per tu con Ovviamente i veri motivi non li sapremo mai (e non
è detto che lo stesso Plotino li sapesse). Di certo
per opera della fede: in fondo non c’è niente di più Nelle Enneadi Plotino ricorre a una espressione
razionale del riconoscere che la ragione arriva sol- molto eloquente: la forma è traccia dell’informe,
tanto fino a un certo punto, non al “centro” delle vale a dire che ciò che vediamo e pensiamo, per
cose, per il semplice motivo che il mondo non è quanto ordinato e trasparente, è pur sempre la
fatto per soddisfare tutte le nostre curiosità. Per traccia di qualcosa che ci sfugge: a cominciare dal-
dirla nei miei termini, c’è l’epistemologia, ossia le nostre intenzioni, che spesso non sono chiare
quello che sappiamo o crediamo di sapere, e c’è neppure a noi stessi. L’idea che nell’interiorità
l’ontologia, quello che c’è, ed è quello che è indi- dell’uomo sia celata una dimensione misteriosa è
pendentemente dal fatto che noi lo conosciamo o straordinariamente attuale, sembra anticipare la
meno. Tra le due dimensioni ovviamente c’è una psicoanalisi e la scoperta di dimensioni della psi-
connessione, nel senso che sappiamo poco o tanto che non accessibili alla coscienza eppure fonda-
del mondo, ma in effetti non conosciamo mai tut- mentali per capire la nostra identità. Plotino, a
to, e questo “tutto” è probabilmente quello che modo suo, con la sua scuola filosofica a Roma, era
Plotino indicava con “Uno”. uno psicoanalista ante litteram, e prometteva ai
Romani colti e ricchi che avrebbero fatto pace con
sé stessi non soltanto ricorrendo alla filosofia gre-
Nella prospettiva di Plotino il ritorno all’Uno ca, ma anche alle sapienze orientali che aveva co-
presuppone il ripiegamento dell’uomo in sé nosciuto seguendo la spedizione militare in Persia.
stesso, nell’interiorità della propria coscienza,
dove può ricongiungersi con il principio
sovrarazionale da cui tutto deriva.
La conoscenza di sé diventa dunque apertura
alla trascendenza dell’Uno. Come giudica
questo approdo mistico della filosofia?
Definire “mistico” un filosofo non è dal mio punto
di vista fargli un complimento. Eppure ci sono sta-
ti grandi filosofi, antichi e moderni, che hanno
sentito la tentazione della mistica, e sicuramente
Plotino è il loro capostipite. Perché? Perché quan-
to più si ricerca, tanto più ci si rende conto che la
ricerca non ha fine, e che c’è sempre qualcosa de-
stinato a sfuggirci; in fondo, credo che nessuno
possa davvero pensare che il mondo non abbia mi-
steri. Ne ha, eccome, e soprattutto sono talmente
ben nascosti che non li sospettiamo nemmeno.
In altri termini, se la filosofia nasce dal superamento
del mitico, come spiegazione narrativa del mondo,
in nome del lógos, cioè del principio di ragione, non
di rado il suo approdo è il mistico, ossia il riconosci-
mento che ci sono realtà che trascendono la ragione.
TESTI
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
Nel brano Plotino parla dell’Uno come «fonte di tutte le realtà eccellenti» e «potenza creativa in se
stessa stabile». Spiega quale concezione è sottesa a queste definizioni; quindi esponi il tuo punto di
vista sul tema della generazione dell’universo, confrontando la tua visione con quella di Plotino.
[La natura della materia] In realtà, il principio del divenire è la natura della materia, la quale è
a tal punto malvagia da contagiare del proprio male perfino quello che non è ancora in essa
ma si limita a guardarla. Nella materia, infatti, non c’è traccia di bene, in quanto essa è priva-
zione di bene, e poi, essendo pura mancanza, tende ad assimilare a sé tutto ciò che in qualche
98 sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
5 modo la tocca. Dunque, l’Anima perfetta, quella che è diretta verso l’intelligenza, non ri-
TESTI
nuncia mai alla sua purezza, e per questo distoglie lo sguardo dalla materia; inoltre non
guarda né accosta tutto ciò che è indefinito, privo di misura, e insomma malvagio. […]
[Il male come assenza totale di bene] Il fatto che l’Anima veda l’oscurità e con essa si accompa-
gni dipende dalla mancanza di bene, e il male per lei consisterà proprio in questa mancanza.
10 E sarà il male primario – posto che il male secondario sia l’oscurità –, sicché la natura del male
non sarà più inerente alla materia, ma ancora prima della materia. Il male, però, non può con-
sistere in una mancanza di qualunque tipo, ma in una mancanza totale; pertanto, una realtà
che abbia una minima carenza di bene non è un male, in quanto, in proporzione alla sua na-
tura, può anche attingere alla perfezione. Ma quando la mancanza è totale, come nel caso
15 della materia, allora siamo in presenza del male in sé in cui non c’è parte alcuna di bene. Il
fatto è che alla materia fa difetto l’essere necessario per partecipare al bene; le attribuiamo solo
per omonimia, mentre, in verità, essa meriterebbe il nome di non-essere. Insomma, la man-
canza di bene implica il non essere bene, ma l’assoluta mancanza di bene implica il male.
(Enneadi, I, 8, 4-5, trad. it. di G. Reale, cit.)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI E DISCUTI
1. Quello del male è un tema centrale per la filosofia, che da sempre si interroga sulla sua natura e su
come sia possibile conciliarne la presenza con l’ipotesi dell’esistenza di una divinità benigna. La solu-
zione di Plotino è quella di considerare il male in termini “ontologici”, come costitutiva mancanza di
bene e di essere. Ti sembra una risposta soddisfacente? Vi sono problemi che, a tuo avviso, in questa
prospettiva rimangono insoluti? Esponi e argomenta il tuo punto di vista in proposito.
2. Affrontate un dibattito in classe sul tema del male, provando a esplicitare quali sono per voi i princi-
pali “mali” odierni e quale possa essere il significato che al giorno d’oggi riveste il concetto stesso di
“male”. Potete partire dalle significative e provocatorie parole del fisico Albert Einstein (1879-
1955): «Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che fanno male, ma a causa di co-
loro che stanno a guardare senza fare niente».
Il neoplatonismo e Plotino capitolo 13 99
TESTI
t3 Il ritorno dell’anima alla sua origine dalle Enneadi
Nella concezione di Plotino l’anima si trova in una posizione intermedia fra il mondo intelligibile, da cui
deriva, e quello sensibile, in cui è dispersa: nel testo è descritto il viaggio di ritorno verso la sua origine,
costituita dall’Uno. Si tratta di un percorso che richiede il distacco dalla molteplicità e dal mondo delle
cose sensibili per accedere, innanzitutto, alla contemplazione delle idee nell’Intelletto.
[Il viaggio verso l’Uno] E dunque, quale viaggio è mai questo e quale fuga? Certo, non si può
compiere a piedi, perché in ogni caso i piedi ci porterebbero da una terra all’altra. Neanche si
devono attrezzare carrozze di cavalli o imbarcazioni: basta solamente distaccarsi da tutto e
non guardare più, ma, per così dire, con gli occhi ben serrati, riattivare quell’altra vista che
5 tutti hanno, ma che in pochi usano, e ricorrere a essa.
Che cosa coglie questa vista interiore? Al risveglio, ancora non riesce a distinguere nitidamen-
te le realtà che splendono di luce abbagliante. Occorre anzitutto abituare l’anima in quanto
tale a contemplare le belle imprese; poi le belle azioni, ma non i prodotti artistici, bensì le gesta
degli uomini che hanno fama di bontà.
10 [La purificazione dell’anima] Bisogna poi passare all’anima dei responsabili di queste belle
azioni. Ma come si può vedere quale bellezza ha un’anima buona? Rientra in te stesso e guar-
da: se ancora non ti vedi bello di dentro, fa’ come lo scultore di una statua che deve venire
bella, il quale a volte toglie e a volte leviga, a volte liscia e a volte raffina, fin quando sulla
statua non affiori un bel volto. Dunque, comportati anche tu come lui, togliendo il superfluo,
15 raddrizzando ogni stortura, purificando ciò che è scuro per renderlo lucente, non smettendo
mai di «ritoccare la tua propria statua», fino a quando non riluce per lo splendore divino della
virtù, e non vedi «la temperanza saldamente posta su di un piedistallo immacolato».
[L’approdo dell’anima alla contemplazione delle idee] Se sei diventato così e riesci a vederla, e in
tutta purezza ti sei congiunto a te stesso, niente più ti impedirà di diventare uno per questa
20 via, perché non avrai più alcuna mescolanza nel tuo intimo, ma sarai ridotto a null’altro che a
vera luce […]. Ora, se ti vedi trasformato in questo modo, allora ormai sei ridotto a puro sguar-
do, e, acquisita fiducia in te stesso, per quanto ancora quaggiù, sei già salito lassù, senza più
bisogno di chi ti indichi il cammino, a tal punto non ti resta che tendere lo sguardo e guarda-
re, perché solo quest’occhio può cogliere la grande Bellezza.
25 Ma se qualcuno arriva alla contemplazione con gli occhi malati, impuro o gracile o solo inca-
pace di vedere quella luce sfolgorante per colpevole debolezza, non vedrà nulla anche se un
altro gli addita quello che è lì apposta per essere visto. Il veggente, infatti, prima deve farsi
congenere e affine al suo oggetto, e poi applicarsi alla visione; infatti l’occhio non potrebbe mai
guardare il Sole se prima non è diventato simile al Sole, e lo stesso è per l’anima che non può
30 vedere il bello se non dopo essersi fatta bella. L’uomo, dunque, assuma in primo luogo forma
divina e divenga del tutto bello, se davvero vuole mettersi a contemplare Dio e la Bellezza.
(Enneadi, I, 6, 8-9, trad. it. di R. Radice, Mondadori, Milano 2002, pp. 199-203)
ALLENA LE COMPETENZE
3. Evidenzia la similitudine che Plotino utilizza per descrivere la preparazione dell’anima in vista del
percorso di risalita verso l’Uno.
RIFLETTI
Plotino invita a rivolgere lo sguardo al nostro interno per scorgere verità superiori e “splendenti”: in
questa prospettiva, la condizione ideale della conoscenza sembra essere quella della concentrazione
e del silenzio, al riparo dagli stimoli esterni. Concordi con questa prospettiva? Esponi il tuo punto
di vista, raccontando qual è la tua personale modalità di studio e di ricerca intellettuale.
101
capitolo 13
SINTESI Il neoplatonismo e Plotino
AUDIOSINTESI
capitolo 13
MAPPE CONCETTUALI Il neoplatonismo
e Plotino
DALL ’ UNO ALLA
MOLTEPLICITÀ
L’UNO
è • assolutamente semplice
• unitario
il principio originario della realtà • al di là di ogni determinazione,
molteplicità e pluralità
da cui tutte le cose • trascendente e ineffabile
derivano tramite
l’Uno irradia oltre sé stesso
l’emanazione infatti la propria sovrabbondanza
di essere
la quale determina
coincide con il principio in esso si distinguono l’atto dà forma alla materia sul
unitario al di là dell’essere del contemplare e l’oggetto modello delle idee, e genera
contemplato (le idee) lo spazio ed il tempo
LA VIA DEL
RITORNO ALL ’ UNO
L’ANIMA UMANA
tale percorso di
ascesi comporta le virtù civiche
capitolo 13
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Il neoplatonismo
e Plotino RIPASSO
Concetto
La cura
Nell’età ellenistica i confini e gli orizzonti del mondo conosciuto si allargano, ma
contemporaneamente gli individui tendono a ripiegarsi su sé stessi. Date le mutate condizioni
politiche che riducono gli spazi di partecipazione pubblica dei sudditi, la riflessione filosofica
si concentra sulla cura di sé: gli individui – smarriti nella nuova, sterminata compagine
statale e resi fragili dalle disparità economiche – si volgono alla ricerca di risorse per
affrontare le paure e le inquietudini del presente. Si cercano risposte a questioni relative
al significato dell’esistenza, avendo perso il rassicurante riferimento della pólis, che attribuiva
ai cittadini un posto e un ruolo: la filosofia costituisce allora un riparo rasserenante, poiché
propone una visione del mondo unitaria e coerente sulla cui base è possibile individuare una
nuova scala di valori, un rinnovato codice di comportamento, nuovi obiettivi.
il significato Il termine cura, inteso come cura di sé, della propria anima e della propria vita, allude
al compito quasi terapeutico che la filosofia assolve in età ellenistica, unitamente alla più
del termine tradizionale funzione conoscitiva e critico-razionale. Grazie alla filosofia l’individuo può
trovare un orizzonte di senso che aveva perduto, riuscendo a elaborare strategie esisten-
ziali più efficaci e adatte al nuovo contesto storico.
Nelle filosofie ellenistiche, la cura dell’anima si persegue in modi differenti e viene intesa
come:
- farmaco contro le principali paure;
- conoscenza e accettazione del destino;
- atteggiamento intellettuale di distacco dalle cose;
- apertura alla trascendenza.
DEFINIAMO IL CONCETTO
Partiamo dunque dalla poesia di Gibran per approfondire i tratti salienti dell’amicizia,
mettendo a confronto le tesi che Aristotele, Epicuro, Cicerone e Seneca hanno elaborato su
questo tema. Cercheremo di trovare una risposta agli interrogativi seguenti:
• in che cosa consiste e su che cosa si basa la vera amicizia?
• l’amicizia favorisce il perseguimento della felicità?
• si può fare a meno degli amici?
• l’amicizia è un legame individuale o riguarda la comunità?
Aristotele e la dimensione etico-politica
dell’amicizia
Nel Profeta di Gibran, Almustafa mette in luce la necessità e la bellezza dell’amici-
zia. All’incirca in questi termini, molti secoli prima e in un contesto assai diverso,
anche Aristotele ha parlato di amicizia, alla cui trattazione ha dedicato due libri,
l’VIII e il IX, dell’Etica nicomachea (❯ vol. 1A, p. 347).
Aristotele afferma che «senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche se
Che cos’è
l’amicizia possedesse tutti gli altri beni»: l’amicizia, dunque, è per lui fondamentale. Senten-
ziato ciò, egli ne analizza le diverse tipologie e i presupposti. Essa può avere origine
dall’utilità, dal piacere o dalla virtù. Quella che trova il suo fondamento nell’utilità
o nel piacere è un’amicizia accidentale e precaria, destinata a finire quando viene
meno l’occasione che l’ha suscitata; quella basata sulla virtù, invece, è stabile e
duratura, perché cementata dal bene reciproco, che rappresenta la prima condizio-
ne dell’amicizia. Per Aristotele, altri due presupposti sono l’intimità del rapporto e il
fatto di avere molte cose in comune. Da ciò risulta che la vera amicizia è una sorta
di concordia che implica una somiglianza tra le persone coinvolte.
In questo senso, l’amicizia va distinta, in primo luogo, dalla benevolenza, che
Che cosa non è
l’amicizia può indirizzarsi anche a estranei e, come dice Aristotele, può restare «celata»; in
secondo luogo, dall’amore, che è condizionato dalla vista della bellezza e dal pia-
cere che ne deriva. A proposito del confronto con l’amore, Aristotele sostiene che
l’amicizia assomiglia ad una «disposizione» (che comporta un agire), mentre l’a-
more a una «passione» (che comporta un subire): gli uomini vogliono il bene dei
loro amici per intima disposizione, non perché seguano una passione. La passione,
infatti, può rivolgersi anche a cose inanimate (oggetti fisici, idee, obiettivi ideali,
come il patriottismo) e può non venire ricambiata, cosa che, invece, non può acca-
dere con l’amicizia autentica, la quale implica sempre una scelta reciproca: la per-
sona buona sceglie come amico una persona buona perché rappresenta un bene per
lei, ed è ricambiata per la stessa ragione.
Per Aristotele, ad alimentare l’amicizia è la vita in comune: nell’Etica nicomachea
Dall’individuo
alla collettività si profila infatti quella dimensione sociale dell’individuo che verrà ampiamente
trattata nella Politica. L’uomo, oltre a essere un «animale razionale», è anche un
«animale politico», che soltanto nella collaborazione con gli altri può conseguire la
felicità. Aristotele si spinge ad affermare che a tenere insieme le città sia proprio
l’amicizia, tanto che i legislatori si preoccupano più di questa che della giustizia:
infatti, quando si è amici non c’è alcun bisogno di giustizia, mentre quando si è
giusti c’è ancora bisogno di amicizia.
L’AMICIZIA È UN FATTO PERSONALE O SOCIALE? tema 109
L’epicureismo e lo stoicismo:
la dimensione privata dell’amicizia
Se per Aristotele l’amicizia è un fatto sociale, che trova la sua spiegazione nell’es-
senza “politica” dell’uomo, per l’epicureismo e lo stoicismo la prospettiva è mag-
giormente individualistica, probabilmente perché il contesto in cui operano è ormai
mutato. L’epoca ellenistica, infatti, è segnata dal formarsi di grandi regni (❯ p. 2),
all’interno dei quali i cittadini si sentono spersonalizzati in una dimensione dilatata
che sgomenta. La filosofia, quindi, non si occupa più principalmente della vita felice
della comunità, bensì di quella dei singoli individui. È in quest’ottica che viene af-
frontato il tema dell’amicizia.
“
Non chi cerca sempre l’assistenza degli amici dev’essere considerato un amico, né chi
non se ne approfitta mai. L’uno fa mercato del bene per averne il contraccambio, l’altro
recide la speranza del bene per l’avvenire.
(Sentenze Vaticane, n. 39)
“
In questo bellissimo giorno, che è anche l’ultimo della mia vita, ti scrivo questa lettera.
I dolori […] non possono essere più lancinanti, eppure la gioia del mio animo riesce ad
opporsi a loro per il dolce ricordo del nostro filosofare insieme.
Come per Epicuro, anche per Cicerone l’amicizia rende possibile una vita felice
perché è stata data agli uomini come ausilio della virtù: è grazie a questa unione di
virtù e amicizia che si riesce a raggiungere il bene supremo. L’amicizia autentica,
quindi, è propria soltanto degli uomini virtuosi, i quali sono disposti a fare qualun-
que sacrificio per l’altro, non mettono mai l’amico nella condizione di contravvenire
alla morale e al diritto, e sono in grado di costruire e alimentare un rapporto di
amore, di stima e di rispetto. Questo perché, a differenza dei malvagi, sanno domi-
nare le passioni e seguono i princìpi della giustizia.
Sebbene non debba essere cercata per secondi fini, l’amicizia comporta comun-
I benefici
dell’amicizia que grandi vantaggi: come dice lo stesso Cicerone «i successi l’amicizia li rende più
splendidi, le avversità le rende più lievi» (L’amicizia, VI, 22, cit., p. 24). Essa alimenta
negli uomini la speranza nel futuro e impedisce ai loro animi di deprimersi e di
abbattersi quando sono vittime dei capricci della sorte. Tutti gli altri beni, invece, ad
esempio la ricchezza, i piaceri, la salute e il potere, oltre a essere passeggeri, procu-
rano vantaggi circoscritti e non sono in grado di elevare la natura dell’uomo nella
sua interezza come fa l’amicizia.
L’AMICIZIA È UN FATTO PERSONALE O SOCIALE? tema 111
Dopo aver messo in evidenza il valore dell’amicizia, intesa come il «dono più
Le leggi
e le basi bello» degli dèi, Cicerone ne stabilisce le “leggi”. In primo luogo, bisogna rivolgere
dell’amicizia agli amici soltanto richieste oneste e compiere per loro soltanto azioni oneste; poi
bisogna avere il coraggio di dare liberamente il proprio parere: Cicerone sostiene
che «grandissimo valore abbia nell’amicizia l’autorevolezza di amici che consigliano
al bene: la si adoperi per esortare non solo apertamente, ma anche con durezza, se
sarà necessario, e quando la si adopera la si rispetti» (L’amicizia, XIII, 44, cit., p. 40).
In un rapporto di amicizia, insomma, non ci dev’essere spazio per la condiscenden-
za forzata e per l’adulazione, analogamente a quanto suggerisce Gibran nella sua
poesia: «Quando l’amico vi confida il suo pensiero, non negategli la vostra approva-
zione, né abbiate paura di contraddirlo».
In secondo luogo, occorre fare tutto il possibile per aiutare l’amico e per trat-
tarlo con indulgenza, sebbene ci sia un limite alla disponibilità che gli si può con-
cedere: quando compie azioni disdicevoli, che procurano disonore a chi gli sta in-
torno, bisogna allontanarsi da lui.
Basi dell’amicizia, secondo Cicerone, sono la lealtà, la stabilità, la coerenza e la
comunanza di interessi. Essenziale, poi, è il rispetto reciproco. A rendere l’amici-
zia ancora più piacevole è la dolcezza dei modi:
“
Un aspetto pensoso, una serietà continua conferiscono certo austerità, ma l’amicizia deve
essere più alla mano, più liberante, più dolce e più incline all’amabilità e all’affabilità.
(L’amicizia, XVIII, 66, cit., p. 54)
“
Il saggio si accontenta di sé stesso non a tal punto da volere, ma da potere stare senza
un amico. Ed ecco come va inteso ciò che ho detto, che il saggio può stare senza amico:
ne sopporta con animo sereno la perdita. Certo non vivrà mai senza un amico: da lui
dipende il trovarne al più presto un altro.
(Lettere a Lucilio, libro I, lettera 9, a cura di U. Boella, UTET, Torino 2013, p. 68)
Per Seneca è opportuno riflettere a lungo se sia il caso di accogliere qualcuno come
amico, ma, una volta deciso, bisogna farlo con tutto il cuore e parlare con lui aperta-
mente come con sé stessi: alla base della vera amicizia si trova sempre la fiducia.
Secondo Seneca, prima di stringere amicizie, è necessario maturare una propria
Le condizioni
per vivere identità e diventare, per così dire, amici di sé stessi; soltanto successivamente è
l’amicizia possibile mettersi alla prova attraverso il confronto con gli altri, stabilendo rela-
zioni sociali e legami affettivi. Per vivere felici anche negli improvvisi capovolgimen-
ti della sorte, occorre imparare a essere autonomi e indipendenti dalle altre perso-
ne, proprio come fa il saggio, che racchiude in sé ogni bene, vale a dire «la giustizia,
la costanza, la stessa convinzione che non è un vero bene quello che ci può essere
tolto» (Lettere a Lucilio, libro I, lettera 9, cit., p. 70). Soltanto accrescendo la stima di
sé stessi si è in grado di cogliere la bellezza e l’importanza dell’amicizia.
Nelle Lettere a Lucilio, Seneca illustra anche il modo in cui è possibile stringere
La ricerca
di nuovi amici nuove amicizie e lo fa citando Ecatòne di Rodi, un filosofo stoico:
“
ti indicherò un filtro senza incantesimi, senza erbe, senza le formule di alcuna maga:
se vuoi essere amato, ama.
(Lettere a Lucilio, libro I, lettera 9, cit., p. 68)
ARGOMENTARE e DIBATTERE P ro s p e t t i ve
D E B A T E sul presente
Amicizia e integrazione sociale
come un requisito per il funzionamento delle società. Alla base di questa teoria, l’amicizia è in qualche modo
connessa alla concordia sociale e alla convivenza civile. Legando gli individui gli uni agli altri attraverso
sentimenti di cordialità e benevolenza, l’amicizia può essere considerata una premessa importante
dell’integrazione sociale. Il dibattito contemporaneo dà spazio a questo tema soprattutto in riferimento
al fenomeno dell’immigrazione e al confronto tra persone che appartengono a culture diverse.
SPUNTI DI RIFLESSIONE
Prova a rispondere alle seguenti domande: • quali sono, secondo te, le caratteristiche che deve pos-
• i filosofi che abbiamo trattato, pur assumendo posizioni sedere un legame per poter essere definito un legame
teoriche diverse, riconoscono nell’amicizia un bene pre- di amicizia?
zioso, forse il più grande che gli uomini possano avere: • a tuo avviso, l’amicizia può rinsaldare i legami sociali?
condividi questo punto di vista? per quali ragioni? perché?
DIBATTITO
Vi proponiamo ora la questione seguente: “L’amicizia fase 2 discutere razionalmente A questo punto
ha una dimensione politico-sociale, come voleva Ari- adottate una delle modalità di discussione praticate
stotele, oppure individuale, come hanno inteso epicu- nei gruppi di lavoro, quella del “giro di tavolo”. Unite
reismo e stoicismo?”. i banchi e formate un unico tavolo, intorno al quale
fase 1 Ognuno di voi risponde istintivamente alla vi sedete suddivisi nei sottogruppi. Parla un sotto-
domanda, schierandosi a favore di uno dei due gruppo alla volta, per non più di 3 minuti, mediante
orientamenti teorici. Quindi, sotto la guida dell’in- un portavoce. Al termine del giro di tavolo, ogni sot-
segnante, suddividete i due gruppi che si sono venu- togruppo dovrà dire quale delle argomentazioni del-
ti a creare in sottogruppi di 3 studenti. Ogni sotto- lo schieramento avverso ha trovato più convincente
gruppo deve individuare un’argomentazione da e perché. Vince chi ha raccolto più consensi.
addurre a favore della tesi. Dovete fare in modo che
le argomentazioni siano tutte differenti tra loro.
114 LABORATORIO delle competenze
sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
Per i filosofi antichi la filosofia era innanzitutto una scelta di vita. Significava abbracciare
un certo stile di vita, quello “filosofico”, pieno di riflessione e di ricerca, a scapito di uno
non filosofico, di cui difficilmente si riesce a vedere il senso.
A dar retta al grande storico del pensiero antico Pierre Hadot, al filosofo non importava
5 abbracciare astrattamente una teoria filosofica piuttosto che un’altra, ma seguire un me-
todo rigoroso per vivere bene. O, in una parola, per essere felice.
Ma che stile di vita era quello di un epicureo? Benché oggi l’appellativo epicureo indichi
spesso persone dedite a un uso smodato dei piaceri, gli epicurei, al pari degli stoici e degli
scettici, erano uomini sobri e morigerati. Certo, erano dei materialisti. Ma questo fatto
10 esalta ancora di più il carattere “spirituale” dei loro esercizi filosofici quotidiani. Il famo-
so «Giardino» di Epicuro non era altro che un orto, e i cibi che vi si coltivavano erano
semplici e frugali: carote, finocchi, ravanelli. Altro che giardino delle delizie! Ma in un orto
così si impara a estirpare le radici del turbamento, dell’inquietudine, dei desideri illusori,
dell’ira e dei germinanti affanni che sono d’ostacolo alla serenità. È un orto il cui frutto è
15 la felicità che si produce sulla terra. Tutto sta nel saperlo coltivare.
E i modi di Epicuro sono straordinariamente adatti a noi moderni, che pure abbiamo bi-
sogno, per raggiungere la tranquillità dell’animo, proprio di quel genere di esercizi quoti-
diani, siano essi meditazioni o divagazioni a partire da messaggi di altri filosofi o sapienti,
o anche giochi ed esperimenti mentali, tra il serio e il faceto. In tutti i casi, esercitazioni
20 per conquistarci la nostra felicità. «Non nasciamo che una volta – dice Epicuro –, due non
ci è concesso... E tu, che pur non sei padrone del tuo domani, procrastini la gioia! Così la
vita se ne va mentre si indugia». E ancora: «Bisogna insieme ridere e attendere alla filoso-
fia, alle occupazioni a noi proprie e all’esercizio di tutte le nostre facoltà, senza mai smet-
tere di proclamare le massime della retta filosofia».
25 Sono massime che Epicuro riassume nel «quadruplice principio»: «Non aver paura degli
dèi, non temere la morte, il bene è facile da acquisire, il male è facile da sopportare». L’e-
picureo aborre il vizio e l’abbandonarsi smodato alle passioni. Niente a che vedere con
l’immagine gaudente e un po’ volgare che gli si è voluta ritagliare addosso. È invece quan-
to di più spirituale si possa pensare a partire dalla consapevolezza di quanto sia breve,
30 finito e fragile il nostro essere qui.
115
Dunque, se volete provare a dare un senso pieno a ogni istante della vostra vita, partite
dall’esercizio che nello spirito di Epicuro gli antichi esprimevano così: «Convinciti che
ogni nuovo giorno che si leverà, per te, sarà l’ultimo. Con gratitudine allora accoglierai ogni
insperata ora. Riconoscendone tutto il valore affronterai ogni momento del tempo che
35 viene ad aggiungersi come se derivasse da una incredibile fortuna».
(A. Massarenti, Una promessa di felicità, in “Il Sole-24 Ore - Domenica”, 10 novembre 2013)
COMPRENSIONE E INTERPRETAZIONE
1. Scrivi la sintesi del testo in circa 70 parole.
2. Qual è la tesi sostenuta dall’autore?
3. Quale argomento utilizza l’autore per giustificare la sua tesi?
4. Nella seconda metà dell’articolo, l’autore ricorre a citazioni dirette delle parole di Epicuro. Qual è
la funzione di queste citazioni?
5. Spiega qual è secondo te il significato del titolo dell’articolo. Suggerisci un altro titolo.
6. Nell’ultimo capoverso l’autore cambia modo e persona delle forme verbali che utilizza. Analizza i
verbi usati per introdurre l’ultima citazione di Epicuro. Perché, secondo te, viene fatta questa scelta?
COMMENTO ARGOMENTATIVO
A partire dalle tue riflessioni intorno all’articolo che hai letto, scrivi un testo argomentativo che non
superi le tre colonne di metà di foglio protocollo (circa 2500 caratteri al computer) dichiarandoti a
favore o contro la tesi sostenuta da Massarenti. Se concordi con l’autore, esponi altri esempi e altre
argomentazioni per mostrare l’attualità della proposta epicurea. Se sei in disaccordo, porta elemen-
ti a favore della tua posizione.
116 LABORATORIO delle competenze
sezione 3 L’ ELLENISMO E L’ EPOCA ROMANA
OBIETTIVO
Immagina di far parte di una commissione culturale incaricata dal Comune in cui risiedi di sensibilizzare
gli abitanti sull’importanza dell’impegno sociale e politico. Ipotizza un progetto che vada in questa
direzione (ad esempio un ciclo di lezioni presso le scuole secondarie di primo grado, un cineforum, un
concerto, un convegno) e supponi di sottoporlo agli altri membri della commissione.
FASI
fase 1
progettazione (divisi in gruppi in classe - un’ora)
Sotto la guida dell’insegnante, dividete la classe in 4 gruppi. Ognuno stabilisce il proprio progetto
definendo i concetti chiave del messaggio che vuole trasmettere, i destinatari dell’intervento (tutti
gli abitanti del Comune, oppure i giovani dai 20 ai 30 anni, o gli studenti della scuola secondaria
di primo grado...), la sua durata (alcune ore, oppure un’intera giornata, o 2-3 giorni...) e la sua
articolazione (un’unica fase, oppure più fasi, o una serie di lezioni...).
fase 2
stesura del progetto (in gruppo o individualmente a casa - un’ora)
Ciascun gruppo redige un elenco dei principali partecipanti (relatori, musicisti, politici, esponenti
di associazioni...) e, in generale, delle persone che dovrebbero essere coinvolte (dagli addetti
all’allestimento del palco alle forze dell’ordine, ai volontari...), chiarendo il compito che attribuirebbe
a ciascuno di loro.
fase 3
stesura della presentazione (in gruppo o individualmente a casa - un’ora)
Ciascun gruppo elabora una breve presentazione per esporre agli altri membri della commissione
(il resto della classe) non soltanto le modalità di attuazione del progetto, ma soprattutto le finalità
specifiche della sua proposta e i suoi punti di forza.
117
fase 3 In classe: ciascun gruppo produce un breve testo (150/170 parole) sul
tema del raggiungimento della felicità secondo le scuole di pensiero
dell’età ellenistica, rielaborando anche i contenuti della videolezione.
sezione 4
IL CRISTIANESIMO
E LA PATRISTICA
VIDEO
Classe capovolta
Geograia
La formazione di una koiné cristiana
Il destino del cristianesimo dei primi secoli è intrecciato con le vicende politiche dell’Im-
il QUADRO pero romano: dopo la divisione avvenuta alla morte di Teodosio (395 d.C.), la parte oc-
STORICO cidentale e quella orientale avranno destini diversi.
L’Impero d ’Occidente
In Occidente l’Impero romano si avvia verso la decadenza: anche se il crollo definitivo
avviene nel 476 d.C. (deposizione di Romolo Augusto, ultimo imperatore romano d’Occi-
dente), già nei primi secoli dell’era cristiana si osserva la sua profonda crisi, a livello sia
politico sia culturale. Nonostante una diffusa retorica sulla grandezza e i fasti dell’impero,
viene meno il senso dello Stato e l’amministrazione centrale si mostra sempre più debole
e inefficace.
Ai confini dell’impero, difficilmente difendibili per la loro estensione, premono popola-
zioni nuove, i “barbari” (ad esempio i vandali e i goti), che infliggono clamorose sconfitte
alla potenza militare romana: la componente germanica diventerà un elemento costitutivo
delle formazioni politiche nate dal crollo dell’impero, i regni romano-germanici. Le città si
spopolano e le grandi vie di comunicazione vengono lasciate cadere in rovina; gli sposta-
menti e i traffici si riducono e l’economia si trasforma gradualmente da cittadina a rurale.
Anche il calo demografico è conseguenza del generale impoverimento e del declino del-
la società. Nella ricerca di nuovi simboli e valori che diano senso all’incertezza e precarietà
dell’esistenza, il cristianesimo si impone come riferimento culturale e religioso, e a poco a
poco anche la sua forma istituzionale, il papato, colmerà il vuoto lasciato dall’impero.
L’Impero d ’Oriente
Diverso è il caso dell’Oriente, dove l’impero sopravvivrà per altri mille anni. Già nel 330
d.C., con la designazione di Costantinopoli (l’antica Bisanzio) come capitale dell’impe-
ro e lo spostamento del trono in Oriente, il potere politico si rafforza, appoggiandosi
anche al cristianesimo che nel 380 d.C. diventa religione di Stato grazie all’editto di
Tessalonica, sotto l’imperatore Teodosio.
La stabilità politica e la relativa sicurezza dei confini consentono uno sviluppo della
vita cittadina e dei commerci ad ampio raggio. In questo caso il cristianesimo non sosti-
tuisce la struttura imperiale, ma vi si allea e la sostiene dall’interno, dando vita al feno-
meno del cesaropapismo, ossia l’ingerenza del potere politico nelle questioni religiose.
Milano
Roma Costantinopoli
Tessalonica
Ippona
Cartagine
Tagaste
Agostino
palestina
Nazareth
Area occidentale dell’Impero romano (Tagaste, Roma, Milano, Ippona), IV-V secolo Nell’area
occidentale dell’Impero romano, il maggior esponente della patristica latina è Agostino:
attraverso un’esistenza irrequieta che lo porta a ricercare la verità in dottrine diverse,
giunge a scoprirla nell’interiorità, in cui risiede la luce divina, fonte di ogni conoscenza.
❯ CAPITOLO 15 figura Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta
la
FILOSOFIA 354 430
nasce muore
Agostino Agostino
nell’Impero romano –, e tuttavia si afferma sottolineando la propria novità. Come per ogni
fenomeno che modifica profondamente l’orizzonte di senso, vi è contemporaneamente
continuità e rottura con il mondo culturale precedente, soprattutto per quanto riguarda
l’elaborazione filosofica. Da un lato, infatti, gli autori cristiani dei primi secoli si oppongono
decisamente alle pretese razionali della filosofia, che essi ritengono una sapienza mondana
vana e ingannevole perché fondata unicamente sulle capacità intellettuali umane. Dall’al-
tro, attingono a piene mani a questo patrimonio, assimilandone molti concetti: così, pur
mantenendo una differenza qualitativa tra fede e ragione e rimarcando la priorità della
prima, sviluppano una riflessione che può definirsi propriamente “filosofia”.
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel paragrafo i termini più significativi per delineare il mondo culturale
e politico in cui sorge e si diffonde il cristianesimo.
lessico monoteismo (dal greco mónos, “uno”, e theós, “dio) concezione religiosa che afferma l’esistenza di
un unico dio. Le tre principali religioni monoteiste sono il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam.
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 125
❯ Cristo consegna
la nuova legge
a Mosè, IV secolo,
mosaico, Roma,
Mausoleo
di Santa Costanza.
Nel mausoleo
sono riprodotti
numerosi episodi
tratti dall’Antico
Testamento.
la fede e “sacri” in quanto ispirati direttamente da Dio agli uomini. Tale raccolta è defini-
ta “canonica” perché costituisce il canone, ossia la regola o norma che il credente deve
seguire; sono esclusi dal canone i testi ritenuti apòcrifi, cioè non autentici.
Nella versione cristiana, la Bibbia è divisa in due parti: l’Antico Testamento, che
comprende i testi della tradizione ebraica, e il Nuovo Testamento, che raccoglie gli scrit-
ti della prima comunità cristiana e non è incluso nei libri sacri dell’ebraismo. Il termine
“testamento” significa “patto” e si riferisce all’alleanza che Dio avrebbe stipulato con il
popolo di Israele, rinnovata poi per tutta l’umanità nella figura di Gesù Cristo.
L’ Antico Testamento
L’Antico Testamento si compone di opere eterogenee, redatte in un arco di tempo piutto-
sto ampio, con genere letterario e ambiente di provenienza molto diversi. È scritto in
ebraico, ma alcuni dei testi più recenti, composti in età ellenistica, sono in greco.
I libri dell’Antico Testamento vengono generalmente distinti in tre gruppi:
1. il Pentateuco (i primi cinque libri, ossia Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio)
e i libri storici (Giosuè, Giudici, Samuele, Libri dei Re). In questo gruppo di testi si
narrano gli episodi fondamentali della vita di Israele, ma i racconti hanno una fina-
lità teologica, più che storica in senso odierno. L’intento non è infatti quello di ripor-
tare gli eventi secondo una sequenza coerente, completa e obiettiva, ma di presenta-
re le gesta del Dio d’Israele che interviene nella storia e si impegna per il suo popolo;
canone (dal greco kanón, in origine il “bastone libri apòcrifi (dal greco apokrýpto, “nascon- lessico
di canna” che serviva per misurare, quindi “re- do”, “tengo segreto”, nel senso di “tengo lontano
gola”, “misura”, “prescrizione”) la regola che dall’uso”) testi che sono ritenuti dalla Chiesa non
l’autorità ecclesiastica stabilisce per individuare autentici, cioè non ispirati da Dio. Sono quindi
i testi considerati sacri in quanto ispirati da Dio e esclusi dal novero dei libri canonici e non fanno
portatori di verità fondamentali per la fede. Nel parte della Bibbia.
loro insieme costituiscono la Bibbia.
126 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
2. i libri profetici (distinti in profeti maggiori, tra cui Isaia, Geremia ed Ezechiele, e
profeti minori). Il fenomeno del profetismo è una caratteristica fondamentale
dell’ebraismo: più che predire eventi futuri, i profeti rappresentano la coscienza
critica del popolo, parlano in nome di Dio e richiamano al rispetto e all’osservanza
della legge divina contro deviazioni e tentazioni;
3. i libri sapienziali (come i Salmi, i Proverbi, Giobbe, Qoelet, il Cantico dei Cantici), cui
si aggiungono alcuni testi scritti in greco in età ellenistica, come Sapienza e Siracide.
I libri sapienziali non si soffermano sulla storia di Israele nel suo rapporto con Dio,
né hanno un intento profetico: scavano invece a fondo nell’esistenza quotidiana, af-
frontando temi come l’amore tra uomo e donna (il Cantico dei Cantici), il problema del
male (Giobbe), la fugacità e l’apparente vanità di tutte le occupazioni umane (Qoelet).
Quella che insegnano è una sapienza prima di tutto umana, che canta la vita in
tutta la sua complessità, ne affronta il bene e il male con la stessa attenzione: ap-
prezza i momenti di luce e si attrezza a sopportare i momenti di ombra. Si potrebbe
dire che molti di questi testi racchiudono la “filosofia dell’ebraismo”, anche se con
modalità diverse da quelle che abbiamo appreso nello studio della filosofia greca.
Il Nuovo Testamento
Il Nuovo Testamento comprende i testi fondativi del cristianesimo, composti tutti nel
I secolo d.C. Il canone esclude da questa raccolta sia racconti popolari, dai toni magici e
miracolistici (i cosiddetti “Vangeli apocrifi”), che trasmettono un’immagine semplicistica
e inadeguata del messaggio cristiano, sia la letteratura cristiana dei secoli successivi, in
quanto gli autori non appartengono al gruppo dei testimoni diretti, cioè di coloro che
hanno conosciuto e ascoltato Gesù.
Il Nuovo Testamento include:
• i quattro Vangeli, dove il termine “vangelo” significa “buona novella”, il lieto an-
nuncio del regno di Dio di cui Gesù di Nazareth sarebbe portatore: Marco, Matteo,
Luca e Giovanni. I primi tre sono chiamati “Vangeli sinottici”, per le forti somiglian-
ze tra loro che consentono di leggerli operando numerosi confronti diretti, in una
sorta di sguardo d’insieme. Il Vangelo di Giovanni è invece più tardo, meno narra-
tivo e più “filosofico”: anziché soffermarsi su eventi particolari della vita di Gesù
(come l’infanzia o l’annuncio del regno di Dio), ne accompagna gli atti e i miracoli
con ampi discorsi in cui viene presentata l’identità teologica del “Figlio di Dio”;
• gli Atti degli Apostoli, scritti dall’evangelista Luca, dove si narrano le vicende
della comunità cristiana nei primi decenni dopo la morte di Gesù;
• le lettere apostoliche, la maggior parte delle quali scritte da Paolo di Tarso, l’aposto-
lo che non ha conosciuto direttamente Gesù, ma che si sarebbe convertito in seguito
a un’apparizione divina sulla via di Damasco. Da fervente persecutore dei cristiani, si
sarebbe così trasformato nell’“apostolo delle genti” (cioè l’evangelizzatore dei pagani,
FARE per CAPIRE i cosiddetti “gentili”), uno dei principali interpreti e divulgatori del cristianesimo. Egli
• Riproduci fonda comunità cristiane nei principali centri urbani del tempo (Corinto, Efeso, Tes-
in una tabella salonica, Roma), alle quali scrive le lettere poi raccolte nel Nuovo Testamento;
le partizioni
fondamentali • l’Apocalisse, attribuita all’evangelista Giovanni, l’ultimo testo del Nuovo Testa-
della Bibbia e mento e quello di più difficile interpretazione. Il termine significa “rivelazione” o
riporta come
esempi alcuni “manifestazione”: vi si trovano visioni, simboli, misteri, riferiti alla fine dei tempi
dei libri citati. e al giudizio universale.
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 127
❯ Giona ingoiato
dal pistrice, mosaico
(part.), IV secolo,
Aquileia, Basilica.
Il racconto di Giona,
inghiottito da
un mostro marino
e poi rigettato, può
essere inteso come
un’allegoria della
resurrezione di Cristo.
FARE per CAPIRE • Evidenzia nel paragrafo il motivo che giustifica l’accoglimento dei testi ebraici nel
cristianesimo e la modalità cristiana della loro lettura.
ermeneutica (dal greco hermeneutiché téchne) neutica è il tentativo di comprenderli andando lessico
indica, in generale, la “tecnica di interpretazio- oltre il significato letterale, per individuare quel-
ne” dei testi. In relazione ai testi sacri, l’erme- lo profondo e autentico.
128 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
Nel suo modo di comportarsi Gesù non sembra molto diverso dai rabbini del tempo:
predica, interpreta le Scritture, guida un gruppo di discepoli che hanno con lui anche una
comunione di vita. Nello stesso tempo, colpisce e scandalizza i contemporanei soprattutto
per il sovvertimento dei valori che esprime: proclama la centralità del povero, l’impor-
tanza della mitezza e il rifiuto della violenza, il perdono che supera ogni limite, l’amore
verso il prossimo da misurare con quello per sé stessi. Invece dell’osservanza di norme
religiose e di comportamenti esteriori, Gesù esorta all’interiorità della fede e trasgredisce
ogni convenzione sociale, frequentando derelitti, emarginati, lebbrosi, peccatori.
Ma finché si tratta di un predicatore itinerante, che proviene dalle regioni periferiche
della Palestina e si rivolge a gente semplice e di umili condizioni sociali, non suscita l’atten-
zione né la preoccupazione delle autorità religiose; ciò che provoca la violenta reazione dei
capi religiosi ebrei è piuttosto il fatto di presentare sé stesso come “Messia” e come
“Figlio di Dio”. Si tratta di due affermazioni ben più scandalose dell’atteggiamento com- VIDEO
plessivo di Gesù e che sono alla base della sua condanna a morte: questi due titoli sancisco- La novità del
messaggio di
no la rottura con l’ebraismo e rappresentano perciò la principale novità del cristianesimo. Gesù di Nazareth
tempo un’unica traduzione latina ufficiale, ma non ha mai dell’ispirazione muterà da passivo ad attivo: un testo sarà
ritenuto che la rivelazione potesse essere appresa soltanto considerato “ispirato” non soltanto perché frutto di una
nelle lingue originali. In tal modo non ha mai accolto pie- intuizione, un’ispirazione divina che ne ha guidato la com-
namente l’idea che gli scrittori sacri avessero un ruolo me- posizione, ma anche per la sua capacità di ispirare i lettori,
ramente passivo, scrivendo sotto dettatura verbale diret- aprire significati e nuovi orizzonti di comprensione.
ta, come uno strumento inerte nelle mani di Dio. Se la
Bibbia si può tradurre, è il contenuto a essere rivelato e
non la sua forma linguistica, che certamente è importan-
te, ma non perfetta.
La teoria dell’interpretazione
D a quanto detto, si coglie come il modo in cui è con-
cepita l’ispirazione divina della Bibbia sia ricco di
conseguenze per la teoria dell’interpretazione: si ri-
chiede infatti uno sforzo interpretativo e riflessivo per
discernere il messaggio salvifico, che è il contenuto della
fede, distinguendolo dalle forme espressive e dalle rap-
presentazioni culturali, che dipendono dal contesto di
origine. Contro le false interpretazioni della Scrittura, la
Chiesa elaborerà nei primi secoli un “credo”, la retta dot-
trina cristiana, i dogmi di fede che orientano nella lettu-
ra dei testi sacri. Nello stesso tempo, però, tale lettura
rivelerà una profondità inesauribile, e si svilupperà una
riflessione sui metodi di interpretazione (l’ermeneutica):
oltre al senso letterale, si scoprirà la possibilità di sensi
allegorici, spirituali, etici, con un lavoro di scavo e di
riflessione infinita.
❯ Ascensione
di Gesù Cristo,
IX secolo, mosaico.
Grecia, Tessalonica,
Basilica di Santa Sofia.
Il Messia
Il messianismo è una caratteristica fondamentale dell’ebraismo e percorre tutta la sua
storia: consiste nell’attesa di un messia, cioè di una figura cui è attribuito il compito di
liberare e salvare il popolo di Israele. Il termine “messia” deriva dall’ebraico e signifi-
ca letteralmente “colui che è unto con l’olio”, per indicare il segno della benedizione di-
vina; in greco il termine è reso con christós, che è l’appellativo dato a Gesù. L’attesa di un
messia è ampiamente descritta nell’Antico Testamento, dove si tinge di connotati diversi:
un nuovo re, un profeta, un sacerdote. Quando Gesù parla di sé come del “Cristo”, del
“Messia” appunto, fa riferimento a questo insieme di significati, che erano ben presenti
nella visione religiosa del tempo; è una pretesa molto forte, espressa sia nelle parole sia
nei gesti. Ad esempio l’ingresso trionfale a Gerusalemme, la città santa, con il popolo che
lo osanna e agita rami di palma in suo onore (Giovanni 12, 12-19), richiama molti simbo-
li propri del messianismo regale e profetico, ed è un gesto che le autorità giudaiche non
potevano che interpretare come pericoloso e provocatorio.
All’epoca di Cristo, però, l’attesa messianica si legava alla diffusa ostilità nei confron-
ti della dominazione romana; perciò la figura descritta dai profeti aveva assunto i tratti di
un liberatore politico. Da questo punto di vista la rivendicazione messianica di Gesù
non corrispondeva alle immagini e alle speranze dei contemporanei, ma aveva un senso
più profondo, radicalmente nuovo. Ciò è evidente, ad esempio, nell’annuncio del regno
di Dio, che viene privato di ogni carattere terreno e politico, in una separazione piut-
tosto netta tra la dimensione religiosa e l’apparato statale. Il regno di Dio assume la con-
notazione di una dimensione interiore più che di un luogo ultraterreno o di una situazio-
ne politica esteriore. Inoltre, Gesù promette la liberazione non dalle autorità del governo,
bensì dal peccato. A chi si attende un messia che porti la liberazione politica, Gesù ri-
sponde invitando a separare «ciò che è di Cesare» e «ciò che è di Dio». In tal modo egli
reinterpreta la figura del messia e, nella misura in cui dichiara l’attesa messianica conclu-
sa e realizzata nella sua persona, fa apparire superata e delegittimata la visione religiosa
ebraica, secondo la quale quell’attesa permane.
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 131
Il Figlio di Dio
Il secondo titolo, quello di “Figlio di Dio”, è teologicamente più problematico: Gesù non
si limita a presentarsi come profeta o inviato da Dio, ma dichiara la sua natura divina.
Diversamente dai profeti, egli parla in prima persona e si rivolge a Dio chiamandolo “pa-
dre”, con un’intimità inconcepibile nella tradizione ebraica, che di Dio non voleva pro-
nunciare neppure il nome per rispetto della sua trascendenza (❯ Per approfondire). Nei di-
scorsi e nei gesti Gesù mostra una consapevolezza di sé superiore a quella di un inviato
divino; questo atteggiamento diventa dirimente per la condanna a morte: essersi procla-
mato “Figlio di Dio” viene considerato una pubblica bestemmia, nonché un attentato
all’autorità religiosa.
Comprendere il significato di questo titolo – molto più che quello di “messia” comun-
que legato alla tradizione ebraica – sarà il compito principale della teologia cristiana dei
primi secoli. Nell’interpretazione cristiana la morte di Gesù non è infatti il martirio di un
profeta o di un uomo benedetto da Dio, ma rappresenta il sacrificio di Dio per l’umanità.
Un Dio che muore e che si sacrifica per l’uomo, e non viceversa, è un’idea totalmente
inedita dal punto di vista religioso e ha valore salvifico soltanto se Gesù Cristo, inteso
come “Figlio di Dio” è pienamente e simultaneamente Dio e uomo, cioè se non è né un
uomo “divinizzato”, accolto nella sfera celeste per i suoi meriti e la sua fede, né un Dio che
assume sembianze umane. La Chiesa si preoccupa di definire l’identità di Gesù soprat-
tutto nei cosiddetti concili “cristologici” del IV-V secolo, tenutisi rispettivamente a Nicea
(325), Costantinopoli (381), Efeso (431) e Calcedonia (451). Per spiegare l’unità della na-
tura divina e umana nella persona di Gesù la teologia dovrà prendere a prestito molti
termini del linguaggio filosofico (come “natura” e “sostanza”) e non potrà evitare di
confrontarsi direttamente con la filosofia.
4 Cristianesimo e filosofia
Abbiamo visto come, fin dalle origini della filosofia, il distacco dalle spiegazioni mitiche
e religiose abbia rappresentato una delle condizioni per la nascita e lo sviluppo del pen-
siero razionale autonomo. Con la diffusione del cristianesimo, invece, religione e filoso-
fia incrociano i loro percorsi, anche se non sempre in modo pacifico. Per la prima volta
la riflessione filosofica viene messa al servizio dell’adesione religiosa e diventa la via per
portare alla conversione, oltre che lo strumento per l’approfondimento della fede.
L’ideale di una vita filosofica, condotta distinguendo bene e male secondo la sapienza
umana, viene sostituito da un modello di comportamento e da un sistema di valori che si
ritiene di origine divina, e che si fonda sull’amore per Dio e per il prossimo. È soprattut-
to sul piano dottrinale che il confronto – talvolta un vero e proprio scontro – produce
esiti culturalmente significativi: si apre una vivace discussione sul rapporto tra ragione
e fede, che contrappone chi le ritiene reciprocamente ostili e chi invece le considera alle-
ate per una visione più completa della realtà.
Cristo, scandalosa e stolta agli occhi del mondo. Il rifiuto della filosofia, come simbolo
della conoscenza umana che confida solamente nella ragione senza aprirsi alla fede, si
trova spesso nella letteratura cristiana dei primi secoli, anche perché i filosofi accusano a
loro volta i cristiani di farsi promotori di dottrine assurde e irrazionali.
L’autore cristiano più intransigente è Tertulliano (155-230), che pure era imbevuto di
cultura classica e buon conoscitore della filosofia. Egli accusa la ricerca filosofica di arro-
ganza e di vana curiosità: se in essa si trova qualcosa di vero e buono, è un puro caso, ed
è sommerso da una grande quantità di errori. Dal suo punto di vista la rivelazione di Dio
ha posto fine a tutte le domande, perché il Vangelo è tutto quello che un cristiano deve
sapere. Tertulliano arriva a esporre la sua posizione in maniera paradossale, affermando
di credere nella resurrezione proprio perché umanamente inconcepibile e incredibile.
L’idea di una fede certa perché impossibile ha dato vita all’espressione credo quia absur-
dum (“credo perché assurdo”), che in effetti non si trova alla lettera nelle sue opere, ma
che esprime il senso della sua condanna del sapere umano.
Il prologo di Giovanni
Il primo incontro tra cristianesimo e filosofia si può osservare nel prologo del Vange-
lo di Giovanni, l’ultimo dei Vangeli, redatto verso la fine del I secolo.
Per illustrare l’identità divina di Gesù si ricorre qui a una terminologia di elevato
spessore filosofico: «In principio era il Verbo [lógos], il Verbo era presso Dio e il Verbo
era Dio». In pochi versetti ci si riferisce a un lógos, che era in “principio”, era presso Dio
ed era Dio; tramite questo lógos, definito “vita” e “luce”, viene creato tutto ciò che esiste.
Verbo il latino verbum traduce il greco lógos, mo, dal senso letterale si passa a quello di “pa- lessico
termine ampiamente usato dai filosofi con il si- rola che rivela il divino”, e quindi a Gesù Cristo,
gnificato di “parola”, “ragione”. Nel cristianesi- figlio di Dio e parola divina incarnata e rivelata.
134 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
Il termine lógos rinvia a una ragione eterna, ma assume anche il significato di “parola”
nel senso di rivelazione del divino, perché rende manifesto Dio, invisibile, grazie al
fatto che ha assunto un corpo umano: «il Verbo si fece carne e […] noi vedemmo la sua
gloria». La densità concettuale è evidente, ma l’evangelista non fa un uso passivo di
nozioni desunte dalla filosofia: prende forma una riflessione su Dio e sul mondo che
supera sia la visione ebraica della divinità, invisibile e innominabile, sia la concezione
greca del rapporto tra dimensione spirituale e dimensione corporea. Il cristianesimo
afferma la possibilità di vedere Dio grazie all’incarnazione del suo figlio: senza rinun-
ciare alla trascendenza, la coniuga con una presenza divina accessibile e familiare. Nel-
lo stesso tempo, rispetto al mondo culturale greco, il prologo di Giovanni rivaluta la
dimensione della corporeità: pur utilizzando termini e concetti profondamente legati
alla tradizione filosofica, ne capovolge il senso nella misura in cui attribuisce al lógos (la
razionalità, lo spirito) una trasformazione che lo porta a divenire “carne”. Contraria-
mente a un’antropologia filosofica di matrice platonica, che intende il corpo come un
carcere o comunque un peso per l’anima, qui si assiste a un apprezzamento della realtà
corporea, fisica e mortale.
Il prologo del Vangelo di Giovanni si serve dunque di concetti filosofici per esporre i
due assunti fondamentali della fede cristiana: la divinità del lógos, figlio di Dio, e la sua
incarnazione, cioè la piena umanità. In tal modo trasforma sia la filosofia sia la fede: la
filosofia, perché sottopone le nozioni filosofiche a significati inediti, ampliandone e
modificandone i contesti di riferimento; la fede, perché il suo contenuto non si esprime
soltanto in forma narrativa o simbolica, ma in una dottrina, un discorso teologico espli-
cativo e non meramente esortativo o prescrittivo. Nei secoli successivi la letteratura cri-
stiana continuerà su questa strada: non si concepirà la filosofia come disciplina autono-
ma, né gli scrittori cristiani si presenteranno come filosofi, ma la teologia attiverà un
confronto e uno scambio proficuo, e per certi aspetti manterrà in vita la tradizione
filosofica.
FARE per CAPIRE • Individua nel testo i diversi motivi per cui il cristianesimo si serve della filosofia.
contrappone
perché perché
5 La letteratura cristiana:
patristica greca e latina
La periodizzazione
La storiografia è solita distinguere tre momenti di elaborazione del pensiero cristiano dei
primi secoli.
1. Il periodo apostolico (I secolo d.C.) è così definito in quanto gli autori sono ancora
in contatto, diretto o indiretto, con gli apostoli. L’obiettivo principale dei loro scrit-
ti è quello catechetico-pastorale: essi mirano a istruire i cristiani, a offrire inse-
gnamenti morali e a esortare alla fede. Questi testi sono importanti dal punto di
vista storico e teologico per comprendere l’evoluzione delle prime comunità cristia-
ne e il senso della loro identità, ma non si trovano rilievi di carattere filosofico:
benché non sia esclusa una generica influenza della terminologia filosofica, la
spiegazione razionale della fede non è l’interesse prioritario.
2. Il periodo degli apologeti (detti anche “apologisti”) è definito in questo modo per-
ché gli autori cristiani difendono la fede dagli attacchi loro rivolti nel clima perse-
cutorio del II e III secolo. In questo periodo il cristianesimo deve guadagnarsi il
diritto di cittadinanza nell’impero e deve motivare la sua pretesa assoluta e univer-
sale. La preoccupazione dei padri apologeti è dunque la difesa del cristianesimo
e della sua legittimità: l’esposizione rimane determinata dalle accuse da confutare,
senza che venga sviluppata una riflessione di più ampio respiro. L’incontro con la
filosofia si impone nella misura in cui il cristianesimo si diffonde al di fuori della
Palestina e i cristiani devono sostenere la fede di fronte agli uomini di cultura del
tempo. Come si è visto, l’atteggiamento nei confronti della filosofia è piuttosto va-
rio, e va dalla condanna netta di Tertulliano al recupero in chiave cristiana dei
“semi di verità” presenti nei filosofi pagani. Alcuni apologeti, come Giustino (100-
162/8) e Clemente Alessandrino (150-215), aderiscono al cristianesimo dopo aver
frequentato diverse scuole e correnti filosofiche; altri invece, come Origene (185-
254), approfondiscono la conoscenza filosofica soltanto per rendere l’annuncio del
cristianesimo più credibile e comprensibile. Filosofia e riflessione cristiana appar-
tengono però ancora a due mondi culturali in contrapposizione, e il confronto non
è sempre pacifico e produttivo.
3. Il periodo della fioritura della patristica si può collocare all’incirca tra il IV e l’VIII
secolo. Dopo l’editto di Milano (313) – emanato da Costantino – il cristianesimo
ottiene la libertà di culto e si appresta a divenire la religione dell’impero. Questo è
dunque il periodo in cui si sviluppa una letteratura cristiana di più ampio respiro e
la riflessione sul cristianesimo raggiunge la sua maturità: la richiesta di rende-
re ragione della fede non è più determinata dal contesto esterno, dalle accuse del
mondo pagano, dalla volontà di predicare anche a pagani colti, ma è alimentata
apologeti (dal greco apologhéo, “adduco ragio- come scopo principale delle loro opere la difesa lessico
ni”, “espongo argomentazioni in difesa di qualcuno del cristianesimo dalle accuse degli uomini di cul-
o qualcosa”) i primi autori cristiani, che pongono tura pagani e delle autorità politiche imperiali.
136 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
La patristica greca
La patristica greca si alimenta alle fonti della filosofia classica ed ellenistica, e instaura un
dialogo serrato soprattutto con la tradizione platonica e neoplatonica. In Oriente i pa-
dri della Chiesa si confrontano direttamente con i testi originali greci, e sono consapevo-
li di usare la lingua della filosofia e di essere debitori dell’immenso patrimonio concet-
tuale a loro disposizione per elaborare la riflessione sulla dottrina cristiana.
Il confronto con la filosofia non avviene però solamente con le opere dei filosofi, ma è
un confronto “vivente”, perché nell’Impero bizantino la filosofia greca continua ad
esistere e a prosperare anche nell’era cristiana. Non è quindi soltanto il recupero e la
reinterpretazione di testi antichi, ma il rapporto talvolta conflittuale con una tradizione
viva, tanto che per un lungo periodo pagani e cristiani frequentano le stesse scuole: ad
Alessandria, Ammonio Sacca è il maestro tanto di Plotino quanto del cristiano Origene;
Simplicio, neoplatonico del VI secolo, condivide lo stesso maestro del teologo Giovanni
Filopono. Ad Atene, l’Accademia platonica è attiva fino al 529, anno in cui l’imperatore
Giustiniano decide di sradicare la filosofia pagana, all’interno di una politica che si serve
del cristianesimo come strumento per la coesione e il controllo dell’impero. Ma neppure
questa volontà ostile e repressiva pone fine all’esperienza filosofica: bandita da Atene, la
filosofia pagana migra in Turchia, in Siria, in Persia, e continua a prosperare anche ad
Alessandria.
La patristica greca sperimenta perciò la concorrenza diretta del pensiero filosofico:
all’inizio vi attinge direttamente, poi tenderà a contrapporvi la sapienza cristiana come
unica e vera conoscenza, e a chiudersi a influenze esterne avvertite come pericolose.
lessico eresia (dal greco háiresis, “scelta”) dottrina che padri della Chiesa gli autori e scrittori cristiani
nega esplicitamente una verità che la Chiesa ritiene dei primi secoli, le cui dottrine la Chiesa ritiene fon-
rivelata e fondamentale per la fede: eretico è colui damentali per chiarire le verità di fede e per defini-
che “sceglie” di mettersi contro la Chiesa. Ne è un re la tradizione cristiana.
esempio l’eresia professata dal sacerdote di Ales-
sandria, Ario (eresia ariana), il quale sosteneva che in
quanto “generato” Gesù fosse inferiore a Dio Padre.
La filosofia cristiana: rendere ragione della fede capitolo 14 137
Una certa dipendenza dal potere imperiale, che assumerà anche un ruolo di controllo
dell’ortodossia della dottrina, determinerà nel mondo bizantino il mancato sviluppo di
scuole o istituzioni in cui trasmettere la cultura antica. L’eredità filosofica non sarà rac-
colta nella sua interezza dalla patristica greca, ma si sposterà fuori dai confini dell’Impe-
ro d’Oriente, per ritornare nel mondo occidentale latino molti secoli più tardi, grazie alla
mediazione del mondo arabo (❯ p. 206).
La patristica latina
Ben diverso è il panorama culturale del mondo occidentale, dove l’impero non ha la forza
di resistere alle incursioni delle nuove popolazioni “barbare” che premono ai suoi confi-
ni a partire dal II secolo. Ovunque, tra i pagani come tra i cristiani, si ha la netta perce-
zione della fine di un’epoca e di un inesorabile declino; la grandezza rappresentata
dalla cultura classica si allontana e non sembra offrire risposte ai contemporanei, dimi-
nuiscono i libri e la loro circolazione, resistono le scuole di retorica, ma non quelle di fi-
losofia; il greco non è più la lingua della cultura e sono sempre meno coloro che lo
parlano, anche perché la divisione dell’impero lo ha reso inutile per la carriera ammini-
strativa. Paradossalmente, però, proprio in una situazione di maggiore povertà culturale
ci si cimenta a ripensare il mondo con strumenti concettuali più adeguati ai tempi e
si preparano timidamente un nuovo inizio e una nuova sintesi. La lettura dei pochi testi
filosofici a disposizione è selettiva e orientata alla dimensione più specificamente teolo-
gica, ma viene comunque mantenuto aperto un interesse nei confronti della filosofia,
che consentirà la riscoperta e la rinascita dei secoli successivi.
Non possiamo considerare filosofi i padri della Chiesa, ma certamente essi hanno rive-
stito un ruolo nella trasmissione e reinterpretazione di alcuni motivi filosofici, oltre che
nell’arricchimento della riflessione con nuove questioni. Tra i padri della Chiesa latina Ago-
stino rappresenta senza dubbio la figura più rilevante e influente per il pensiero successivo. ESERCIZI
FARE per CAPIRE • Costruisci uno schema in cui riportare i diversi momenti del pensiero cristiano dei
primi secoli, evidenziando i caratteri principali di ogni periodo.
138 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
capitolo 14
SINTESI La filosofia cristiana:
rendere ragione della fede
AUDIOSINTESI
4 Cristianesimo e filosofia
Quali sono le posizioni in merito al rapporto tra di Paolo di Tarso e Tertulliano. Dall’altro si pongo-
ragione e fede? Da un lato vi sono coloro che in no coloro che si servono della filosofia sia per ri-
nome della fede condannano la filosofia, intesa spondere alle accuse degli intellettuali pagani, sia
come sapere vano e presuntuoso: è l’atteggiamento per chiarire e argomentare la fede.
capitolo 14
MAPPE CONCETTUALI La filosofia cristiana:
rendere ragione della fede
IL CRISTIANESIMO NELL ’ IMPERO ROMANO
legati al contesto circolazione di idee nell’impero
I MOTIVI DELLA esterno e assenza di barriere culturali
DIFFUSIONE DEL sono principalmente
CRISTIANESIMO legati al risposta ai problemi
contenuto della salvezza dell’anima
si distinguono
capitolo 14
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA La filosofia cristiana:
rendere ragione della fede
RIPASSO
b la rifiuta, perché ritenuta incapace di trovare b gli autori che definiscono i primi dogmi della
argomenti adatti per difendere i cristiani fede cristiana
c la rifiuta, perché dopo la rivelazione non c’è più c gli autori del II-III secolo che difendono la fede
bisogno della ricerca della verità cristiana dalle accuse mosse dai pagani
d la apprezza, perché utile per supportare la fede d gli autori del II-III secolo che ritengono
impossibile la conciliazione tra cristianesimo e
12. Scrivi quale termine filosofico viene utilizzato filosofia
nel prologo del Vangelo di Giovanni: ..................
.................................
15. La patristica comprende: (segna la risposta esatta)
a gli scrittori cristiani dal IV all’VIII secolo, che
Giovanni usa questo termine per indicare:
(segna la risposta esatta)
forniscono la prima elaborazione dottrinale del
cristianesimo
a Cristo come principio spirituale contrapposto
b gli evangelisti, che per primi mettono per scritto
alla materia
la dottrina cristiana usando concetti filosofici
b il principio divino inaccessibile, sul modello
c i primi santi e martiri, fino all’VIII secolo, il cui
neoplatonico
pensiero è accolto dalla Chiesa
c Cristo come parola che rivela il divino
d tutti i filosofi che la Chiesa ha proclamato santi e
d l’ordine immanente del mondo considera portatori ufficiali del pensiero cattolico
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) scrivere e rielaborare (15-20 righe)
13. In che senso il cristianesimo si rivolge alla 16. Spiega in che cosa differiscono gli ambienti
filosofia e ne utilizza i concetti? culturali in cui si sviluppano la patristica greca
e quella latina.
ad alta voce
17. Illustra in 5 minuti la periodizzazione
del pensiero cristiano delle origini
e le caratteristiche di ciascuna fase.
142 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
capitolo 15 figura
Agostino: l ’inquietudine della
VIDEOLEZIONE
Maurizio Ferraris
presenta Agostino ricerca, la certezza della scoperta
“
Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore
abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi
anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della
ragione.
(La vera religione, 39, 78)
Dal punto di vista etico ed esistenziale tale conversione comporta infatti scelte
totalizzanti, che spingono “l’uomo” Agostino prima ad appartarsi dal mondo, in una
condizione favorevole alla meditazione, quindi a dedicarsi con passione all’impegno
pastorale, in un periodo difficile per la Chiesa scossa da divisioni e controversie interne.
Dal punto di vista intellettuale, la conversione comporta un vero e proprio cambiamento
di direzione, che conduce “il filosofo” Agostino a volgere la sua attenzione non più
al mondo esterno ma a quello interiore.
Tale verità risiede nel profondo dell’anima, abita nella parte più intima dell’uomo, ma
per afferrarla non è sufficiente conoscere sé stessi. Per Agostino la verità non è infatti
un’acquisizione individuale né soggettiva: non si consegue attraverso il ripiegamento
intimistico su di sé, bensì mediante un’illuminazione interiore che proviene da Dio.
Anche la “confessione”, il genere autobiografico con cui Agostino ripercorre le vicende
più significative della sua vita, non è la mera esplicitazione di sentimenti e moti interiori:
la scrittura autobiografica è lo strumento con cui l’autore vuole “attuare la verità”, e
non soltanto nel suo cuore ma anche di fronte a molti testimoni. Si tratta di comunicare
e scrivere perché la verità possa manifestarsi e trovare una dimensione pubblica.
Il tempo scandisce la nostra vita e sembra essere una realtà nota, mentre è tra le più
misteriose e difficili da definire. Tutta l’esistenza – dice Agostino – è scandita dal
tempo e apparentemente sappiamo che cos’è e come misurarlo. Eppure, non appena
ci soffermiamo con più attenzione sulla sua natura, ci afferrano mille dubbi: il tempo ci
sfugge, non possiamo fermarlo, e ad esempio non sappiamo dire che cosa rende lungo o
breve un determinato lasso temporale. Sono tutte domande che riportano Agostino a
confrontarsi con l’anima, che vive le diverse dimensioni del tempo.
1 La vita e le opere
STORIA DI UN’ESISTENZA INQUIETA
Agostino si presenta come un animo irrequieto e intellettualmente sensibile a tutte le
proposte culturali del suo tempo. Le vicende biografiche, così intensamente raccontate
nelle sue Confessioni, costituiscono perciò anche un itinerario intellettuale, che deter-
mina le scelte fondamentali della sua esistenza. Più ancora che in altri autori, ci troviamo
di fronte a una riflessione che è inseparabile dalla vita vissuta, in un intreccio difficil-
mente districabile tra vicissitudini esterne e percorso interiore.
L’ ambiente di origine
Agostino nasce nel 354 d.C. a Tagaste (l’odierna Souk Ahras, in Algeria), in una fertile
regione agricola. La sua città natale appartiene alla Numidia proconsolare (provincia
romana nordafricana, corrispondente all’incirca alla parte nord-orientale dell’attuale Al-
geria); tranne una breve permanenza in Italia, Agostino trascorre tutta la propria esi-
stenza nell’Africa settentrionale. Ai suoi tempi, infatti, l’area del Mediterraneo rappre-
senta un mondo relativamente unitario, dove le province culturalmente più fiorenti sono
proprio quelle del Nord Africa e del Medio Oriente, da cui provengono anche diversi
imperatori (come la dinastia dei Severi), mentre l’Italia ha perso la sua centralità econo-
mica e culturale.
Contemporaneamente, nell’Impero romano è in corso una trasformazione, che porta
verso la polarizzazione in due mondi culturali distinti: la parte orientale in cui si parla
greco e quella occidentale in cui la lingua ufficiale è il latino. Nell’Africa settentrionale
questa polarizzazione divide l’Algeria, che appartiene alla cultura occidentale, dall’Egit-
to, dove invece continua a svilupparsi una cultura greca. Non stupisce pertanto che Ago-
stino, pur avendo studiato il greco da giovane, non sia mai riuscito ad apprenderlo piena-
mente, e che la sua conoscenza delle fonti letterarie e filosofiche greche sia rimasta
sempre parziale e indiretta.
Il padre, Patrizio, è un piccolo possidente con incarichi amministrativi, che desidera
per il figlio una carriera forense e si attiva presso amici e conoscenti per procurarsi i mez-
zi per farlo studiare. Diversamente dal padre, che si converte al cristianesimo soltanto
verso la fine della vita, la madre, Monica, è una fervente cristiana ed esercita un ruolo
determinante nell’educazione e nella vita del figlio, partecipando a tutte le sue vicende e
seguendolo fino alla conversione.
La formazione e l ’ insegnamento
Dopo aver studiato nelle scuole di Tagaste e Madaura, verso la fine del 370 Agostino
viene inviato a Cartagine, una delle più grandi città dell’impero, che da un lato lo ine-
bria con la ricca offerta culturale, dall’altro lo travolge con uno stile di vita licenzioso
e sregolato. Qui riceve una formazione retorica classica, tipicamente latina, ma si
avvicina anche a testi fondamentali della cultura ellenistica; si distingue inoltre in
ambito poetico-letterario, ottenendo un discreto successo e pubblici riconoscimenti.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 145
il ritratto
AGOSTINO nella rappresentazione di Botticelli
ella Chiesa di Ognissanti a
Una prima lettura della Bibbia lo lascia deluso per lo stile semplice e a suo giudizio roz-
zo, molto lontano dall’eleganza della prosa ciceroniana. È invece proprio l’Ortensio di
Cicerone – un’opera andata perduta in cui l’autore esortava a dedicarsi alla sapienza
filosofica – ad accendere in Agostino un genuino interesse per la filosofia, che tende a
oscurare quello per la retorica. Più che una disciplina dedicata alla spiegazione raziona-
le e argomentata del mondo, Agostino ricerca nella filosofia una sapienza di vita, che
sappia coniugare pensiero, esistenza e istanze religiose, in vista del raggiungimento
della felicità.
Sono anni caratterizzati da una profonda inquietudine, da un inappagato desiderio
di conoscenza, dalla ricerca di un senso per la propria esistenza, ma anche da una vita
disordinata e dissoluta. Nel 372 Agostino ha un figlio, Adeodato, da una donna con cui
convive per quasi sedici anni. Sempre a Cartagine si accosta al manicheismo, una setta
filosofico-religiosa, fondata dal persiano Mani (216-277), che interpreta la realtà come
frutto del conflitto tra due principi divini opposti, rispettivamente del bene e del male.
In questa dottrina Agostino pensa di avere trovato non soltanto una visione razionale,
che possa offrire una spiegazione scientifica dei fenomeni naturali, ma anche e soprat-
tutto una risposta al problema dell’origine del male, che attanaglia la sua esistenza e che
sarà oggetto di numerose riflessioni e ripensamenti durante tutta la sua produzione
letteraria.
Conclusi gli studi, si dedica all’insegnamento, prima a Tagaste e poi ancora a Carta-
gine, dove nel 375 apre una scuola di eloquenza che gli procura una certa fama. Pur
continuando a frequentare i circoli manichei, cominciano a insinuarsi in lui i primi dubbi
sulla coerenza di tali dottrine; l’incontro con l’autorità della setta, il vescovo Fausto di
Milevi, avvenuto nel 383 per chiarire le numerose questioni irrisolte, è una cocente delu-
sione per Agostino, perché, al di là di una fluente abilità oratoria, Fausto si mostra privo
di argomenti e le sue risposte denotano piuttosto ignoranza e credulità.
lessico manicheismo dottrina religiosa fondata in Persia da Mani, secondo la quale tutta la realtà deriva da
filosofico due principi divini contrapposti: il principio del bene o della luce, e il principio del male o delle tenebre.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 147
Simmaco è anticristiano e pensa di aver trovato in Agostino il retore giusto per con-
trastare il prestigio del vescovo Ambrogio, ma è proprio la predicazione di Ambrogio a
conquistare Agostino, portandolo a rivalutare le sacre scritture grazie ad un’interpreta-
zione allegorica e non letterale.
VIDEO
Nei circoli milanesi, inoltre, Agostino si accosta alla filosofia neoplatonica, in cui Il primo incontro
fra Agostino
affermerà in seguito di aver trovato tutte le verità cristiane, tranne l’incarnazione. Il neo- e Ambrogio
platonismo, insieme all’ascolto dei sermoni di Ambrogio, prepara il terreno per la sua
conversione al cristianesimo.
Al culmine di una profonda crisi interiore, nel 386 decide di abbandonare l’insegna-
mento e di ritirarsi con alcuni amici in una villa a Cassiciaco (probabilmente l’attuale
Cassago Brianza), dove abbraccia definitivamente il cristianesimo cambiando radical-
mente la sua vita. In questo luogo appartato, lontano dagli impegni mondani, trae ispira-
zione per alcune opere di argomento filosofico-religioso (Contro gli accademici, La vita
beata, I soliloqui, L’immortalità dell’anima). Ritorna quindi a Milano per entrare tra i catecu-
meni (coloro che intraprendono un percorso di fede) e riceve il battesimo dal vescovo
Ambrogio, durante la veglia pasquale del 387. Subito dopo il battesimo, Agostino matura
la decisione di rientrare in Africa, insieme agli amici e ai familiari; ma a Ostia, in attesa
di imbarcarsi, la madre si ammala e muore nel 388.
Vescovo di Ippona
A partire dal 395 Agostino deve occuparsi più attivamente della Chiesa africana, scossa
da divisioni interne e conflitti dottrinali: è consacrato vescovo ausiliario di Ippona, per
ricoprire poi pienamente l’incarico dal 396 fino alla morte. La seconda parte della sua vita
è dunque completamente dedicata all’impegno pastorale e teologico, con un’intensa
attività che, oltre al governo della diocesi, lo porta a partecipare a numerosi concili, a
impegnarsi attivamente nella lotta contro le eresie, affrontando diverse controversie sul- FARE per CAPIRE
la corretta interpretazione della fede.
• Elenca le diverse
Oltre a ciò svolge un’assidua attività di predicazione e si dedica all’approfondimento svolte nella vita
e alla chiarificazione dottrinale della fede cristiana. In questo periodo vengono alla di Agostino,
luce le opere maggiori, tra cui le Confessioni, La trinità, La Genesi alla lettera, La città di Dio, riportando
tempo, luogo,
Le ritrattazioni. Agostino muore a Ippona il 28 agosto del 430, all’età di 75 anni, mentre i caratteristica
vandali di Genserico assediano la città. fondamentale.
148 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
GLI SCRITTI
La scrittura e le fasi del pensiero
Agostino è uno scrittore versatile e facondo, che in una vasta produzione mette al servizio
del pensiero cristiano la sua abilità oratoria e la capacità di adattare il suo stile a generi e
contesti diversi. Non ci è pervenuto nessuno scritto di Agostino precedente la conversione,
eppure l’elenco delle sue opere giunte fino a noi è lunghissimo: quasi 100 titoli, cui vanno
aggiunte più di 200 lettere e circa 400 sermoni. Alcuni di questi scritti sono testi di ampio
respiro e di notevole impegno teorico, redatti nel corso di diversi anni, come le grandi opere
teologico-dogmatiche e i commenti esegetici (finalizzati all’interpretazione delle Scritture);
altri invece nascono da esigenze pastorali (come i sermoni e i testi con intento ascetico-mo-
rale) o sono legati a eventi storici, come la diffusione di movimenti ereticali all’interno della
Chiesa, a cui Agostino risponde con opere polemiche, fortemente critiche dei relativi conte-
nuti teorici. Non mancano però testi dedicati alla riflessione filosofica e, per la prima volta,
viene percorso con inedita profondità il genere letterario dell’autobiografia.
Nel cercare di classificare cronologicamente questa produzione letteraria molto ampia
e composita, bisogna però considerare che la conversione al cristianesimo non è l’unica
svolta della sua esistenza: quando Agostino viene costretto ad abbandonare la vita della
comunità da lui fondata e deve assumere l’incarico episcopale, rivede molte delle posizio-
ni teoriche precedenti, soprattutto in merito al ruolo che la filosofia può ricoprire nella
comprensione del cristianesimo. Si può distinguere perciò un primo decennio, che va
dalla conversione al 396, dove traspare un genuino entusiasmo per la filosofia e la sua
valorizzazione nella comprensione della fede, e il periodo successivo, quando Agostino
più volte torna sulle sue tesi precedenti, per riaggiustarle e in parte ritrattarle. Le ritratta-
zioni, l’ultima opera, pubblicata tre anni prima della morte, confermano la revisione del-
le tesi giovanili, per affermare un assoluto primato della grazia di Dio su qualsiasi im-
pegno umano per una vita giusta. La filosofia, che nelle opere giovanili era apprezzata e
sembrava una via privilegiata per la conversione, ora è considerata un ostacolo, perché
qualunque pretesa razionale umana si infrange di fronte alla grazia di Dio, intesa come
unica possibilità di salvezza. Ecco quindi un elenco delle opere più significative, ordi-
nate cronologicamente all’interno di questi due momenti fondamentali.
1. Primo periodo (anni 386-395): opere composte a Cassiciaco e a Tagaste, che mo-
strano un chiaro influsso della filosofia, soprattutto di quella neoplatonica.
• La vita beata (De beata vita, 386). La ricerca della felicità era il tema filosofico per
eccellenza, a partire dall’ellenismo. Agostino si inserisce in questa tradizione, per
presentare come fine della ricerca filosofica non soltanto la serenità individuale,
ma anche e soprattutto la conoscenza di Dio.
• Contro gli accademici (Contra accademicos, 386). Gli accademici contro cui si ri-
volge quest’opera sono gli scettici: secondo Agostino è infatti attraverso il supera-
mento dello scetticismo che si può approdare alla certezza e alla presenza interio-
re della verità.
• I soliloqui (Soliloquia, inizi del 387). È un dialogo interiore, in cui l’autore si occu-
pa della ricerca di Dio e dell’immortalità dell’anima.
• Il libero arbitrio (De libero arbitrio, 386-388, forse terminato però a Ippona tra il
391 e il 395). È la prima opera sulla libertà e sul male, tema presente in tutta la ri-
flessione di Agostino, con molti ripensamenti e revisioni.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 149
• Il maestro (De magistro, 389). È un’opera dedicata al figlio, sulla ricerca della veri-
tà verso cui ci guida un maestro interiore. Il titolo non si riferisce dunque a una
figura umana, ma a Cristo che illumina l’anima nella conoscenza della verità.
• La vera religione (De vera religione, 390). È un testo con intento apologetico, ovve-
ro mirato a difendere ed esporre la religione cristiana in opposizione alla cultura
pagana e al dualismo manicheo.
❯ Sant’Agostino,
in abiti vescovili,
è rappresentato
intento a scrivere
nel suo studio, sotto
lo sguardo benevolo
di un angelo,
XIV secolo, mosaico,
Venezia, Basilica di
San Marco.
150 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
La confessione
Qual è il senso di confessare la propria vita a Dio? È necessario anzitutto intendere bene il
significato del termine confessione, che non vuol dire in primo luogo ammettere le proprie
colpe di fronte a un giudice o un accusatore, ma “rendere lode a Dio” e quindi proclamare
la propria fede. In Agostino non vi è pertanto un ossessivo soffermarsi sulle proprie azio-
ni per sviscerarne l’origine e i motivi, ma l’intenzione di mostrare nella propria vita l’inter-
vento provvidenziale di Dio, che riesce a servirsi anche del peccato per ricondurre l’uomo a
sé: quanto più esecrabile è la condizione umana, tanto più elevata è la potenza di Dio, che
merita dunque una confessione di lode.
Il racconto autobiografico segue alcuni motivi che attraversano come una chiave di lettu-
ra tutte le vicende. Vi è in primo luogo il tema della conversione, interpretato come l’allon-
tanamento dalla dispersione del mondo materiale per trovare l’unità e la quiete del mondo
interiore e spirituale. Si vede in questa aspirazione l’influenza della filosofia neoplatonica, che
lessico confessione (dal latino confessio, derivato dal verbo confiteor, “dichiaro apertamente”, “confesso”)
filosofico nel contesto dell’opera agostiniana indica sia la pubblica confessione degli errori, sia la proclama-
zione della propria fede.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 151
presentava il ritorno all’Uno come via per purificare l’anima e ritrovare unità e pace interiore.
In secondo luogo, rileggendo la sua storia personale Agostino attribuisce a relazioni e incontri
un carattere provvidenziale: i compagni d’infanzia, gli amici, la madre, il figlio, il vescovo
Ambrogio sono tutte persone che hanno un ruolo chiave nei momenti più significativi, sono
presenti nei momenti di dubbio e concorrono alla sua crescita e trasformazione. Infine, ogni
svolta o conversione è accompagnata e suggellata da un libro o una citazione, a cominciare
dall’Ortensio di Cicerone, da cui Agostino trae l’esortazione a dedicarsi alla filosofia, per con-
tinuare con gli scritti neoplatonici, che gli appaiono una versione filosofica del cristianesimo
(tranne che per il dogma dell’incarnazione), per finire con i testi cristiani, come il versetto del
Nuovo Testamento letto a caso nel momento più acuto della crisi interiore che sfocerà nella
decisione di cambiare vita. L’episodio è narrato nell’VIII libro delle Confessioni, dove si descri-
ve il tormento interiore di Agostino nella sua villa di Cassiciaco, quando sente la voce di un
fanciullo che canta come una filastrocca «prendi e leggi» (tolle, lege). Nel buio della sua soffe-
renza, egli si lascia guidare da quella voce, interpretandola come un comando divino; apre
quindi a caso la Bibbia e trova la forza di convertirsi grazie al versetto di san Paolo (Lettera ai
Romani 13, 13-14) che gli si presenta sotto agli occhi e che lo invita a rinunciare alle intempe-
ranze della carne per trovare conforto in Dio.
Verità e testimonianza
Nell’atto della “confessione” a Dio emerge anche la questione della verità e del rapporto con
i lettori. Nel X libro delle Confessioni Agostino si chiede perché sta raccontando la sua vita,
prendendo addirittura Dio come interlocutore. È un aspetto paradossale, dal momento che si
suppone che Dio sappia già tutto, che sia onnisciente e che non abbia bisogno che l’uomo gli
sveli i particolari della sua vita, compresi i tormenti interiori: «nulla di vero dico agli uomini,
se prima tu non l’hai udito da me; e tu da me non odi nulla, se prima non l’hai detto tu stesso»
(Confessioni, X, 2, 2).
Non si tratta dunque di un semplice tributo a Dio, ma di un’esigenza dell’uomo; e non sol-
tanto di un racconto intimo, interno alla propria coscienza, ma di una confessione “pubblica”:
“
Ecco, tu amasti la verità, poiché chi l’attua viene alla luce. Voglio dunque attuarla dentro al
mio cuore: davanti a te nella mia confessione, e nel mio scritto davanti a molti testimoni
(Confessioni, X, 1, 1)
L’opera autobiografica non viene dunque scritta per Dio e neppure solamente per sé stesso,
bensì per i molti testimoni, i lettori che ne riconosceranno la verità. L’atto del racconto porta a
riflettere sulla propria vita, ma la scrittura ne fissa il significato e lo apre anche ad altri. Entra
in gioco una concezione della verità che è tale solo se proclamata apertamente: posso rico-
noscere una verità dentro di me, nel mio intimo, ma le cose diventano effettivamente vere se
sono espresse e confessate pubblicamente. Non soltanto: questo atto pubblico di verità richie- ❯ testo 1 p. 172
de una forma di scrittura e la presenza di testimoni. La verità non è una semplice constata-
zione di quanto esiste, ma si produce in un discorso, che è soprattutto una parola scritta, non FARE per CAPIRE
fugace come l’espressione orale; deve essere registrata sulla carta oppure iscritta nella memo-
• Sottolinea
ria, in maniera da renderla stabile. Perché tale parola sia vera, ci devono essere persone che la nel testo
ascoltino e ne testimonino la verità, in una relazione sociale che è essenziale per la sua realiz- le caratteristiche
zazione. Questa particolare concezione dell’“attuare la verità” si può definire una “teoria testi- letterarie e
filosofiche delle
moniale” della verità, dove l’aggettivo ha un duplice senso: avviene alla presenza di testimoni, Confessioni come
ma anche chi la professa si fa suo testimone, la certifica e la prende su di sé. autobiografia.
152
“
Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di
me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri
con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non
esistessero in te.
(Confessioni, X, 27, 38)
Non vi è qui soltanto l’opposizione tra “dentro” e “fuori”, il mondo interiore e quello
esterno, ma si scopre anche l’ambivalenza dell’atteggiamento dell’uomo, che si estrania
da sé in quanto affascinato dalle realtà esteriori. Tutto il brano è costruito su opposizioni
di questo tipo, a partire dalla definizione di Dio, che è bellezza antica, eterna, ma anche
nuova perché si rinnova incessantemente e soltanto da poco è stata scoperta da Agostino
stesso. Al contrario l’uomo, privo di forma (perché privo di Dio), è attratto dalle belle
forme delle creature e non dalla forma perfetta che è la bellezza divina. Queste coordi-
nate spaziali (dentro-fuori, vicino-lontano) non indicano luoghi o distanze reali, ma
hanno una valenza morale, tanto che Agostino ritiene di essere stato lontano da Dio,
mentre Dio gli era comunque vicino («eri con me, ma io non ero con te») in quanto pre-
sente nella sua interiorità. Si tratta quindi di metafore usate per chiarire l’orientamento e
le scelte dell’uomo, che dipendono da un’errata valutazione dell’essere: Agostino attribu-
isce alle creature un’esistenza autonoma, che esse non hanno, senza percepire che queste
non esisterebbero se non ricevessero il loro essere da Dio. In sé le creature non rappre-
sentano un male né un momento negativo (hanno «belle forme»), ma soltanto se non
vengono assolutizzate, cioè soltanto se a partire dalle creature si riesce a risalire al
fondamento del loro essere, che è Dio.
154 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
FARE per CAPIRE • Sottolinea con due colori diversi le espressioni che rivelano una valenza teologica
e quelle che esprimono una valenza psicologica dell’interiorità.
In primo luogo Agostino risponde alla tesi scettica per cui non è possibile prestare
l’assenso a una proposizione che descrive la realtà, perché non possiamo distinguere con
certezza il vero dal falso; per lo scetticismo bisogna quindi limitarsi a ritenere le cono-
scenze solamente probabili e verosimili. Agostino ribatte che il concetto di verosimi-
glianza è inconcepibile se non si possiede quello di verità: non avrebbe senso descrivere
un uomo, affermando che è simile a suo padre, se nessuno conoscesse il padre che serve
da termine di confronto. Si deve pertanto presumere un criterio di verità anche quando,
con cautela filosofica, si riconosce che alcune conoscenze sono solamente probabili.
All’argomento della verosimiglianza, Agostino aggiunge che non tutta la conoscenza
umana può essere definita probabile e incerta, perché ad esempio le affermazioni della
logica si basano su un principio inconfutabile, il principio di non contraddizione: se si
negasse la loro verità, si cadrebbe in contraddizione. Anche le verità matematiche godono
di analoga certezza, dal momento che seguono regole deduttive di carattere universale:
sulla base di tali regole, 2+2 farà sempre 4 e non 5.
Ancora più sottile è la discussione sulla verità degli asserti relativi alla realtà fisica. Per
dimostrare che anche sulla natura è possibile fare affermazioni vere, Agostino applica le
proposizioni disgiuntive: non posso sapere se il mondo è unico o molteplice, se ha avu-
to inizio nel tempo o se è eterno, se la sua disposizione è dovuta al caso o a un ordine
provvidenziale; tuttavia posso affermare la verità della proposizione disgiuntiva, in
quanto ricade nel principio di non contraddizione e del terzo escluso: è vero che il mondo
è o unico o molteplice, o temporale o eterno, o casuale o ordinato. Lo scettico potrebbe
rispondere che qualsiasi affermazione che riguarda la realtà naturale è viziata dal fatto
che i sensi ci ingannano e non danno alcuna garanzia di certezza. Per Agostino, però, pur
ammettendo la fallibilità della nostra conoscenza sensibile, è innegabile che qualcosa
appare ai nostri sensi.
❯ Capolettera
istoriata con
sant’Agostino,
miniatura, 1459,
Parigi, Bibliothèque
Sainte-Geneviève
“
Poiché, anche se dubita, vive; se dubita, ricorda donde provenga il suo dubbio; se dubita,
comprende di dubitare; se dubita, vuole arrivare alla certezza; se dubita, pensa; se dubita,
sa di non sapere; se dubita, giudica che non deve dare il suo consenso alla leggera.
(La trinità, X, 10, 14)
FARE per CAPIRE • Riporta a margine del testo un elenco numerato degli argomenti contro lo scetti-
cismo, e scegli quello che ti sembra migliore.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 157
il PENSIERO
si fa IMMAGINE La verità come luce interiore
“ […] tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione […]
In questo caso senz’altro non ti si presenterà la luce di questo sole,
“
ma la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo.
Essa non si può percepire con questi occhi.
(La vera religione, 39, 72)
Per Agostino la verità si presenta come una luce che illumina la mente. Tale luce
non coincide con quella naturale, proveniente dal sole, e non si può cogliere con
gli occhi del corpo: è infatti «il lume stesso della ragione», si identifica con quei
criteri assoluti che Dio ha posto nell’anima dell’uomo, sulla cui base la ragione
umana valuta le cose e le conosce.
158 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la risposta alla domanda: in che senso Agostino trasforma la
teoria platonica della reminiscenza?
IDEE A
CONFRONTO CONOSCENZA E APPRENDIMENTO IN PLATONE E AGOSTINO
PER PLATONE PER AGOSTINO
lessico illuminazione nella teoria agostiniana della conoscenza, indica il fatto che Dio illumina la mente
filosofico umana provvedendola di criteri universali di giudizio che consentono la valutazione della realtà.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 159
4 La creazione e il tempo
L’ eternità di Dio e la temporalità delle creature
Con la teoria della conoscenza come illuminazione Agostino riprende alcuni motivi fi-
losofici di stampo platonico per elaborare una concezione della verità che approda al Dio
cristiano. Con la dottrina della creazione si delinea il percorso inverso: vi è infatti un
tema teologico (Dio come principio dell’universo) che dischiude alcune importanti im-
plicazioni filosofiche, riguardanti soprattutto il problema del tempo e la possibilità di
misurarlo. La questione è esposta negli ultimi tre libri delle Confessioni, che prendono
spunto dal racconto biblico della creazione riportato nei primi capitoli della Genesi.
La riflessione agostiniana sulla creazione intende chiarire due aspetti principali: il
rapporto tra Dio e le creature e la distinzione tra eternità e tempo. Per quanto ri-
guarda il primo punto, Dio crea il mondo dal nulla: non si serve di una materia pree-
sistente come il demiurgo platonico descritto nel Timeo, né produce il mondo a partire da sé,
come nell’emanazione neoplatonica dove l’Uno riversa la sua sostanza in gradi inferiori.
Il passaggio dal non essere (ex nihilo) all’essere, tramite un puro atto di volontà divina,
esprime la dipendenza delle creature da Dio, da cui ricevono il fatto stesso di esistere,
ma istituisce contemporaneamente la loro differenza ontologica, ossia la radicale dif-
ferenza rispetto all’essere del creatore: il mondo creato può essere “segno” di Dio, ma
non è divino, perché le creature non sono l’emanazione della divinità. La creazione non
si produce all’interno della sostanza divina (che per sua natura è eterna), ma ha un ini-
zio nel tempo e si distingue da Dio.
❯ La creazione,
arazzo, XI secolo,
Girona (Spagna),
Cattedrale
di Santa Maria.
Cristo pantocratore
(parola greca
che significa
“onnipotente”)
è raffigurato al
centro della scena
circondato da tutte
le opere del creato.
IL PUNTO DI VISTA DELL’ arte
161
Cristo benedicente in trono, IV-IX secolo, mosaico, Milano, Basilica di Sant’Ambrogio, abside.
162 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
Con questo ci accostiamo al secondo punto, cioè la distinzione tra eternità e tempo.
L’eternità è la dimensione di Dio e non indica una mera estensione indefinita del tem-
po, bensì la sua assoluta pienezza e perfezione, al di sopra di ogni riferimento tempora-
le (Dio non è nel tempo). Al contrario il tempo, che viene rappresentato proprio dal suo
scorrere, definisce la situazione creaturale, intesa nella sua precarietà e mutabilità.
Chiedersi che cosa faceva Dio prima di creare il mondo diventa perciò una domanda
priva di senso, perché si può parlare di una anteriorità temporale soltanto nel mondo
creato: Dio non ha un “prima” e un “poi”, e soprattutto il tempo, essendo la dimensione
per eccellenza delle creature, esiste soltanto a partire dal momento in cui ha inizio il
mondo e viene dunque creato con esso. Dio non crea solamente il mondo nel tempo, ma
crea il tempo del mondo.
in noi, perché abbiamo memoria del passato e attesa del futuro. Anche il presente, in
questo senso, non è l’istante fuggevole e inafferrabile che trascorre senza poter fermare
il fluire del futuro verso il passato, ma è dato dall’attenzione verso quello che viviamo.
Noi non misuriamo presente, passato e futuro come realtà esterne, ma consideriamo la
loro permanenza nella nostra mente, la maniera in cui queste dimensioni sono “presenti”
in essa:
“
È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire
che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro.
Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il
presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del fu-
turo l’attesa. (Confessioni, XI, 20, 26) ESERCIZI
La misura del tempo avviene dunque nell’animo, cioè l’elemento spirituale dell’esse- ❯ QUADERNO PER
re umano, anzi il tempo stesso è definito come distensione dell’animo (distentio animi): LE COMPETENZE E
il tempo non si percepisce nello scorrere delle cose, ma tramite lo spirito che si estende IL NUOVO ESAME
p. 46
nel tempo, attraverso memoria, attenzione e attesa.
Ciò non significa che il tempo sia puramente soggettivo e che il mondo esterno sia
privo di una dimensione temporale: come si è visto, tale dimensione caratterizza tutta la
creazione in quanto tale. Le cose esterne esistono e subiscono cambiamenti che accadono
oggettivamente e si situano nel tempo, anch’esso parte della creazione divina. Sono la
percezione e la misurazione del tempo che avvengono nell’animo, il quale in qualche
modo garantisce una presenza e una permanenza a ciò che è ineluttabilmente destinato
a divenire e a perire. ❯ testo 3 p. 176
eternità nella filosofia cristiana, si intende distensione dell’animo espressione con cui Ago- lessico
l’assenza del tempo, non un tempo senza limiti stino definisce il tempo: esso va compreso in riferi- filosofico
che si protrae all’infinito; è una caratteristica in- mento all’animo (cioè lo spirito dell’essere umano),
trinseca all’assoluta pienezza e perfezione di che si estende nel tempo attraverso la memoria del
Dio, che rimane immutabile e al di fuori di ogni passato, l’attesa del futuro e l’attenzione verso il
riferimento temporale. presente.
164 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
❯ Adamo ed Eva
scacciati dal
Paradiso, mosaico,
XII-XIII secolo,
Monreale (Palermo),
Cattedrale.
Nella visione
agostiniana
il peccato è sempre
un allontanamento
dal bene e quindi
da Dio.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 165
male dal punto di vista metafisico, non è una peccato la dimensione morale del male; deri- lessico
sostanza e quindi non è essere, perché tutto ciò va dalla volontà, la quale può orientarsi verso un filosofico
che è discende da Dio e quindi è bene. Il male è bene inferiore e limitato, allontanandosi da Dio. Il
privazione di essere e di bene: deriva dal fatto peccato richiede la libertà della volontà umana e
che il creato non è e non può essere perfetto. quindi la responsabilità di colui che sceglie.
166 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
lessico grazia (dal latino gratia, derivato di gratus, “grato, gradito, riconoscente”) nell’ambito teologico, indica
filosofico l’intervento benevolo di Dio, assolutamente libero e gratuito, dal quale dipende la salvezza dell’uomo.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 167
FARE per CAPIRE • Sottolinea la definizione della grazia e le conseguenze sul piano teorico (predesti-
nazione, antidonatismo, antipelagianesimo).
168 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
Le due città
Per quanto riguarda il primo aspetto, le due “città” non designano due collettività con-
trapposte: il termine civitas indica infatti il senso di identità e di appartenenza, e potreb-
be essere tradotto con “cittadinanza”. Perciò la distinzione tra le due città non ha conno-
tazioni geografiche o storiche, cioè non comporta l’individuazione di due città concrete,
situate in luoghi specifici o in epoche determinate; al tempo stesso non è una distinzione
politica: non esistono infatti sistemi politici fondati sull’amor sui (“l’amore di sé”) e siste-
mi politici a servizio dell’amor Dei (“l’amore di Dio”). Pur nella condanna dell’Impero
romano, Agostino non aspira a un sistema teocratico e non individua nella Chiesa la
concretizzazione della città di Dio.
lessico città di Dio la comunità (in latino civitas) compo- teocrazia (dal greco theós, “Dio”, e krátos, “pote-
filosofico sta da coloro che vivono secondo la fede, scelgono re”) sistema di governo in cui il potere è esercitato
e amano Dio, fino al disprezzo di sé. È contrappo- dall’autorità religiosa “in nome” di Dio e in coeren-
sta alla città degli uomini, che mirano alla propria za con determinati principi religiosi. In particolare,
affermazione, scelgono sé stessi, l’amore per i nel mondo cristiano significa superiorità della
beni terreni e arrivano al disprezzo di Dio. Chiesa e del papa sul potere politico.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 169
La distinzione non ha neppure un valore cronologico (il mondo presente terreno con-
trapposto al mondo celeste, da realizzarsi alla fine dei tempi), ma è interna alle persone,
riguarda quella linea interiore e invisibile che discrimina chi è giusto e vive secondo la
fede da chi ambisce ai beni terreni e alla propria affermazione nel mondo. Le due forme
di vita sono dunque mescolate nella storia e nessuna istituzione incarna pienamente
l’una o l’altra: all’interno di questo perenne conflitto che caratterizza la storia, non è pos-
sibile separare i due elementi, né contrassegnarli con chiarezza, perché la distinzione con-
cerne l’orientamento interiore di ogni individuo.
teologia della storia visione della storia come disegnando un andamento circolare del tempo, lessico
sviluppo del progetto divino. In Agostino, la sto- analogo a quello che si osserva nella natura. filosofico
ria ha un andamento lineare, poiché inizia con la
creazione e prosegue, nei suoi momenti fonda- visione lineare del tempo concezione propria
mentali, con l’incarnazione di Cristo e il giudizio dell’ebraismo e del cristianesimo, secondo cui lo
finale. sviluppo temporale segue un andamento che
prevede un inizio, uno sviluppo e una fine: l’inizio
visione ciclica del tempo concezione diffusa è la creazione del mondo da parte di Dio; lo svi-
nella cultura classica secondo cui lo sviluppo luppo è il disegno di Dio, l’ordine provvidenziale,
temporale segue un andamento ciclico, cioè com- in cui ogni evento ottiene il suo senso e la sua
porta fasi di nascita, crescita, decadenza e rina- giustificazione; la fine è il giudizio universale alla
scita che si ripetono in modo regolare e costante, fine dei tempi e l’avvento del regno di Dio.
Professore, perché Agostino sceglie la via della
“confessione” e qual è il rapporto che si può
cogliere tra la filosofia e l’individualità
dell’autore?
a tu per tu con Da una parte, abbiamo a che fare con una persona-
lità “esibizionista”, non diversamente dal corrispet-
TESTI
[La confessione agli uomini]
20 ascoltare le mie confessioni? La guarigione di tutte le mie debolezze non verrà certo da
questa gente curiosa di conoscere la vita altrui, ma infingarda nel correggere la propria.
Perché chiedono di udire da me chi sono io, ed evitano di udire da te chi sono essi? Come
poi sapranno, udendo me stesso parlare di me stesso, se dico il vero, quando nessuno fra
gli uomini conosce quanto avviene in un uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Ma poi-
25 ché la carità crede tutto, in coloro almeno che unifica legandoli a se stessa, anch’io, Signo-
re, pure così mi confesso a te per farmi udire dagli uomini. Prove della veridicità della
mia confessione non posso fornire loro; ma quelli, cui la carità apre le orecchie alla mia
voce, mi credono.
(Confessioni, X, 1,1 - 3,3, trad. it. di C. Carena, in Agostino, Opere, vol. I,
Città Nuova Editrice, Roma 19915, pp. 299-301)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI E DISCUTI
1. È sempre lecito svelare il proprio pensiero intimo agli altri? A quali condizioni? Con quale fine? Ri-
fletti su questo tema esponendo il tuo punto di vista in proposito.
2. Come dimostra anche l’enorme diffusione dei social network, spesso abbiamo bisogno di testimoni
delle nostre azioni ed emozioni, tanto da condividerli costantemente con un numero sempre mag-
giore di persone. Perché? Avvia un dibattito in classe su questo argomento, provando a risponde-
re anche al seguente interrogativo: che cosa rende “vero” un evento, il suo semplice accadere o
anche il fatto di essere testimoniato?
174 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
t2
TESTI
[La necessità di “ritornare in sé stessi”] C’è dunque ancora qualcosa che non possa ricor-
dare all’anima la primitiva bellezza che ha perduto, dal momento che lo possono fare i
suoi stessi vizi? La sapienza divina pervade il creato da un confine all’altro (Sapienza 8, 1);
quindi, per tramite suo, il sommo Artefice ha disposto tutte le sue opere in modo ordina-
5 to, verso l’unico fine della bellezza. Nella sua bontà pertanto a nessuna creatura, dalla più
alta alla più bassa, ha negato la bellezza che da Lui soltanto può venire, così che nessuno
può allontanarsi dalla verità senza portarne con sé una qualche immagine. Chiediti che
cosa ti attrae nel piacere fisico e troverai che non è niente altro che l’armonia; infatti, men-
tre ciò che è in contrasto produce dolore, ciò che è in armonia produce piacere. Riconosci
10 quindi in cosa consista la suprema armonia: non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la
verità abita nell’uomo interiore e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche
te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che trascendi l’anima razionale: tendi,
pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione. A che cosa perviene infatti chi sa
ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ra-
15 gionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione. Vedi in ciò un’armonia insu-
perabile e fa’ in modo di essere in accordo con essa. Confessa di non essere tu ciò che è la
verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da
un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della mente, in modo che l’uomo
interiore potesse congiungersi con ciò che abita in lui non nel basso piacere della carne,
20 ma in quello supremo dello spirito.
[Dubbio e verità] Ma se non ti è chiaro ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno
se non dubiti di dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo. In
questo caso senz’altro non ti si presenterà la luce di questo sole, ma la luce vera che illu-
mina ogni uomo che viene in questo mondo (Giovanni 1, 9). Essa non si può percepire né
25 con questi occhi né con quelli con cui sono pensate le rappresentazioni che gli occhi stes-
si imprimono nell’anima, ma con quelli con cui alle stesse rappresentazioni diciamo:
“Non siete voi ciò che io cerco, e non siete neppure il principio in base al quale vi dispon-
go in ordine; ciò che trovo di brutto in voi lo disapprovo, mentre approvo ciò che trovo di
bello; ma, poiché il principio per cui disapprovo e approvo è più bello, lo approvo di più e
30 lo antepongo non solo a voi, ma anche a tutti i corpi dai quali vi ho attinte”. Quindi questa
regola che tu constati formulala così: chiunque comprende che sta dubitando, comprende
il vero e di ciò che comprende è certo; dunque è certo del vero. Ciò vuol dire che chiunque
dubita dell’esistenza della verità, ha in se stesso il vero, per cui non può dubitarne. Ma il
vero è tale unicamente per la verità; perciò non deve dubitare della verità chi ha potuto
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 175
dubitare per qualche motivo. Queste cose appaiono manifeste dove risplende la luce che
TESTI
35
non si estende né nello spazio né nel tempo e che non può essere rappresentata né in for-
ma spaziale né in forma temporale. Tali cose possono corrompersi da qualche parte? No,
benché perisca o diventi vecchio tra gli esseri carnali inferiori chiunque possiede l’uso di
ragione. In realtà, il ragionamento non crea tali verità, ma le scopre. Esse perciò sussisto-
40 no in sé prima ancora che siano scoperte e, una volta scoperte, ci rinnovano.
(La vera religione, 39, 72-73, trad. it. di G. Ceriotti, in Agostino, Opere,
vol. VI/1, cit., pp. 109-113)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
1. Rifletti sulla funzione che rivestono i temi della bellezza e dell’armonia all’interno del brano proposto.
Quindi confronta le tesi di Agostino con la concezione della bellezza di Platone, mettendo in luce i
punti di contatto e quelli di divergenza. Esponi infine il tuo punto di vista in proposito: dove risiedo-
no e che cosa sono per te la bellezza e l’armonia?
2. Agostino individua una relazione fondamentale tra dubbio e verità. Concordi con le sue tesi?
Motiva la tua risposta.
176 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
t3
TESTI
[Il concetto di tempo] Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi
saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure,
quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando sia-
mo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri.
5 Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga,
non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esistereb-
be un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla
che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il
futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quan-
10 to al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo,
ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possia-
mo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non
possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere.
[La durata del tempo] Eppure parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendoci soltanto al
15 passato o al futuro. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad esempio, di cento anni prima;
e così uno futuro è lungo se è di cento anni dopo; breve poi è il passato quando è, supponi,
di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o
breve ciò che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Dunque non dovremmo
dire di un tempo che è lungo, ma dovremmo dire del passato che fu lungo, del futuro che
20 sarà lungo.
Signore mio, luce mia, la tua verità non deriderà l’uomo anche qui? Perché, questo tempo
passato, che fu lungo, lo fu quando era già passato, o quando era ancora presente? Poteva
essere lungo solo nel momento in cui era una cosa che potesse essere lunga. Una volta
passato, non era più, e dunque non poteva nemmeno essere lungo, perché non era affatto.
25 Quindi non dovremmo dire del tempo passato che fu lungo: poiché non troveremo nulla,
che sia stato lungo, dal momento che non è, in quanto è passato. Diciamo invece che fu
lungo quel tempo presente, perché mentre era presente, era lungo. Allora non era già pas-
sato, così da non essere; era una cosa, che poteva essere lunga. Appena passato, invece,
cessò all’istante di essere lungo, poiché cessò di essere. […]
30 [L’esistenza del tempo nel presente] Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato
esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe
esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del
futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altro-
ve: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del
35 futuro l’attesa. […]
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 177
TESTI
[La misura del tempo è nello spirito]
re contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti
turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L’impressione che le cose producono in te
al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non
40 già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo
è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. […]
Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come crescerebbe
il passato, che non è più, se non per l’esistenza nello spirito, autore di questa operazione,
dei tre momenti dell’attesa, dell’attenzione e della memoria? Così l’oggetto dell’attesa fatto
45 oggetto dell’attenzione passa nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tut-
tavia esiste già nello spirito l’attesa del futuro. E chi nega che il passato non esiste più?
Tuttavia esiste ancora nello spirito la memoria del passato. E chi nega che il tempo presen-
te manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia perdura l’attenzione, davan-
ti alla quale corre verso la sua scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente,
50 non è lungo, ma un lungo futuro è l’attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato,
inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato.
(Confessioni, XI, 14,17 - 15,18; 20,26; 27,36 - 28,27, trad. it. di C. Carena,
in Agostino, Opere, vol. I, cit., pp. 381-383, 399-401)
ALLENA LE COMPETENZE
righe 36-51 In conclusione Agostino riprende il ti. La temporalità non è una proprietà oggettiva
tema della misura del tempo, che era l’aporia da dei corpi né del loro movimento, ma di ciò che
cui si era mossa l’indagine: come misurare qualco- l’animo trattiene dentro di sé nel trascorrere delle
sa che non esiste e che è privo di estensione? È cose. L’animo rende dunque reali e misurabili le
l’animo che misura il tempo, nel suo distendersi; tre dimensioni del tempo: non è il tempo in sé a
anzi propriamente non misura il tempo, ma ciò essere lungo o breve, ma lo sono la memoria, l’at-
che in essa rimane impresso nel fluire degli even- tenzione e l’attesa.
RIFLETTI E DISCUTI
Come rileva Agostino, la questione del tempo è di difficile soluzione, benché esso sia un fattore co-
stantemente presente nella nostra vita. Avviate una discussione in classe sul tema, cercando di ela-
borarne una definizione condivisa. Per stimolare e orientare la riflessione potete fare riferimento agli
interrogativi seguenti:
• come si può conciliare la concezione del tempo agostiniana con la misurazione oggettiva del tem-
po per mezzo di strumenti che mirano a essere precisi e validi ovunque?
• si può dire che il tempo non scorre se non vi è l’animo che si estende nelle sue dimensioni?
• che cosa succede quando la memoria, l’attenzione e l’attesa sono utilizzate nell’atto di can-
tare una canzone (un esempio che Agostino propone subito dopo il brano proposto)?
[Il male come corruzione di misura, forma e ordine] 4. La domanda sulla natura del male
deve perciò precedere quella sulla sua origine. E il male non è altro che corruzione: della
misura, della forma o dell’ordine naturale. Si dice quindi cattiva la natura che è corrotta: se
non lo è, infatti, è certamente buona. Ma anche la natura corrotta, in quanto natura, è
5 buona; è cattiva, in quanto corrotta. […]
6. Del resto, se la corruzione togliesse alle realtà corruttibili ogni misura, ogni forma, ogni
ordine, non resterebbe nessuna natura. Per questo ogni natura che non può corrompersi è
il sommo bene, come lo è Dio. Ogni natura che può corrompersi è però anch’essa un certo
bene: la corruzione infatti non potrebbe nuocergli se non sottraendo e diminuendo quel
10 che è buono.
[La corruzione degli spiriti razionali] 7. Alle creature più dotate, però, vale a dire agli spi-
riti razionali, Dio ha assicurato che non potessero corrompersi senza volerlo, quando
cioè fossero rimaste nell’obbedienza sotto il Signore loro Dio, conformandosi alla sua
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 179
TESTI
15 ro corrotte nelle pene senza volerlo, poiché si corrompono volontariamente nei peccati. In
questo senso Dio è bene: non c’è bene per chi lo abbandona. E fra le realtà che sono state
fatte da Dio, la natura razionale è un bene tanto grande, che nessun bene può farla felice
all’infuori di Dio. […]
[Nessuna natura, in quanto tale, è cattiva] 17. Dunque non è cattiva nessuna natura, in
20 quanto natura; per ogni natura invece il male non è altro che diminuzione di bene. Se poi
la diminuzione ne comportasse la eliminazione, come non resterebbe nessun bene, così
non resterebbe nessuna natura.
(La natura del bene, trad. it. di L. Alici, in Agostino, Opere, vol. XIII/1, cit., pp. 353-355, 363)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
Dopo aver stilato un elenco di situazioni che si possono connotare come “male”, prova a definire in
che modo possano essere considerate “corruzione” o “privazione” di qualcosa. La comprensione del
male in senso privativo e degenerativo si applica a tutti i casi o ci sono fenomeni che sfuggono
a questa definizione?
180 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
capitolo 15 igura
SINTESI Agostino: l ’ inquietudine della ricerca,
la certezza della scoperta
AUDIOSINTESI
1 La vita e le opere
Qual è l’ambiente d’origine e di formazione di Ago- Quali esperienze lo conducono alla conversione?
stino? Agostino nasce a Tagaste, nell’odierna Alge- Trasferitosi a Roma e poi a Milano, Agostino entra in
ria, e studia retorica a Cartagine, dove conduce una contatto con il vescovo Ambrogio e studia il neopla-
vita disordinata ma riceve molti stimoli intellettuali. tonismo. Si converte al cristianesimo nel 386, dopo
In particolare si avvicina al manicheismo, dal quale un lungo tormento interiore. Tornato in Africa, divie-
però si allontana presto per la semplicità e incoeren- ne sacerdote e poi vescovo di Ippona, dove muore. Tra
za della dottrina, approdando a posizioni scettiche. le opere, notissime sono le Confessioni e La città di Dio.
4 La creazione e il tempo
Quali implicazioni filosofiche derivano dalla dot- e separata: Dio è assolutamente trascendente. La
trina della creazione? La creazione comporta un creazione si distingue sia dall’attività del demiurgo
passaggio dal nulla all’essere, grazie ad un atto platonico, che agisce su una materia preesistente,
libero della volontà divina. La creatura dipende da sia dall’emanazione neoplatonica, la quale non di-
Dio, ma è ontologicamente diversa da lui, inferiore pende dalla volontà di Dio ma è necessaria.
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 181
In che modo il tema della creazione si connette a Che cos’è il tempo e come è possibile “misurarlo”?
quello del tempo? Il tempo è nettamente distinto Gli uomini “misurano” il tempo cogliendo nell’ani-
dall’eternità, che coincide con l’assenza di tempo. ma le tre dimensioni del passato, del futuro e del
Dio non ha un prima o un poi, ma rappresenta la presente. In questo senso il tempo è “distensione
pienezza e perfezione dell’essere, che non ammette dell’animo”, la quale ricorda il passato nella memoria,
divenire: nel creare il mondo, Dio crea il tempo, il anticipa il futuro nell’attesa e si concentra sul pre-
quale pertanto concerne soltanto le creature. sente con l’attenzione.
capitolo 15 igura
MAPPE CONCETTUALI Agostino: l ’ inquietudine della ricerca,
la certezza della scoperta
ESISTENZA
E RIFLESSIONE
LE CONFESSIONI
la concezione
lode a Dio e ammissione delle relazioni e incontri
la conversione testimoniale della
professione di fede proprie colpe importanti
verità
dunque
la quale
teoria dell’illuminazione
o del maestro interiore
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 183
LA CREAZIONE
E IL TEMPO
DIO
che
IL MALE
IL MALE
LA STORIA E
LE DUE CITTÀ
LA STORIA
è caratterizzata è scandita da
dal conflitto tra
eventi significativi
la città di Dio la città degli uomini (creazione, incarnazione
di Cristo, giudizio finale)
secondo
composta da coloro
composta da coloro
che amano il proprio una concezione lineare
che amano Dio fino al
benessere fino al del tempo
disprezzo di sé stessi
disprezzo di Dio
184 sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
capitolo 15 igura
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Agostino: l ’ inquietudine
della ricerca, la certezza
RIPASSO
della scoperta
Tabella esercizio 22
IL PROBLEMA DEL MALE
manicheismo Agostino
............................................................................................................ ............................................................................................................
............................................................................................................ ............................................................................................................
............................................................................................................ ............................................................................................................
............................................................................................................ ............................................................................................................
............................................................................................................ ............................................................................................................
............................................................................................................ ............................................................................................................
Agostino: l ’ inquietudine della ricerca, la certezza della scoperta capitolo 15 igura 187
verso le competenze
CONFRONTARE E ARGOMENTARE
• Leggi il primo capitolo dell’Ecclesiaste o Qoelet – che Agostino conosceva molto bene –, in cui si
afferma la vanità di tutte le cose. Spiega in che modo Agostino, nei vari aspetti della sua riflessione
(conoscenza, ruolo dell’interiorità, tempo, importanza della filosofia, rapporto bene/male, storia),
per un verso condivida le affermazioni contenute nel libro biblico, mentre per un altro vada oltre.
188
Concetto
L’ interiorità
Nella filosofia classica il concetto di interiorità non era certo sconosciuto: si pensi all’invito
di Socrate a conoscere sé stessi, o al dáimon, quella voce interiore che lo trattiene dal
compiere il male. Anche la tradizione stoica contrappone il mondo materiale esterno alla
virtù e alla saggezza interiore, e insegna pertanto il distacco e l’apatia verso le cose terrene,
che – come dice Marco Aurelio – «non toccano né modificano l’anima» (Ricordi, V, 19).
Ancora, il neoplatonismo concepisce il ritorno all’Uno come ascesi e purificazione
dell’anima, che nel rientrare in sé stessa ritrova il mondo intelligibile e l’Uno. Nelle sue
varie declinazioni, dunque, nel mondo antico il tema dell’interiorità è sempre legato
a una concezione spirituale dell’anima (intesa come sostanza intellettuale e non come
forma del corpo), cui si unisce il tema della coscienza di sé.
Con il cristianesimo l’espressione si arricchisce, arrivando a indicare, in Agostino,
la dimensione spirituale in cui si realizzano l’incontro e il dialogo con Dio.
il significato Il termine interiorità (dal latino interior, comparativo formato sulla preposizione in,
“dentro”) indica “ciò che risiede nella parte più interna”, con particolare riferimento
del termine all’ambito dei sentimenti, dei pensieri e della coscienza umana, contrapposto all’esterio-
rità delle cose del mondo. Usato fin dall’antichità per riferirsi all’anima e ai valori intellet-
tuali, assume particolare importanza con il cristianesimo. In tale contesto l’interiorità
viene concepita in termini di:
- dimensione morale e spirituale dell’uomo accessibile soltanto a Dio;
- sfera intima in cui cercare e trovare la verità.
L’INTERIORITÀ CRISTIANA
COME DIMENSIONE MORALE corpo/anima, ma al tempo stesso la vita morale e
E SPIRITUALE spirituale dell’uomo ha sede in un’interiorità acces-
Nonostante la fascinazione per un certo platonismo sibile soltanto a Dio.
che esalta il principio spirituale, nel cristianesimo la
visione dell’interiorità si fa più complessa: rimane la AGOSTINO: L’INTERIORITÀ
contrapposizione alle passioni terrene e al mondo COME LUOGO IN CUI ABITA
esteriore e corporeo, ma non si giunge mai ad affer- LA VERITÀ
mare che la realtà sensibile sia un mondo di ombre e È Agostino che conferisce all’interiorità uno spessore
di copie, come in Platone, o mera parvenza e non es- inedito, rendendola chiave di volta di tutta la sua ri-
sere, come nel neoplatonismo. Per il cristianesimo la flessione. Le Confessioni sono un itinerario dentro
natura è concepita come creazione, quindi come l’anima dell’autore, un percorso che egli può compie-
prodotto della bontà di Dio; inoltre lo stesso corpo re soltanto di fronte a Dio, in ragione della sacralità e
viene riscattato grazie all’incarnazione del Figlio di dell’insondabilità della mente umana. L’interiorità è
Dio e alla promessa della «resurrezione della carne». dunque il luogo privilegiato per trovare Dio e, in-
Se cambia la valutazione della dimensione corporea sieme a Dio, il senso della propria esistenza. Si tratta
ed esteriore, anche la visione dell’anima, cioè del di una ricerca che non si compie mai in modo defini-
principio interiore e spirituale dell’uomo, si modifi- tivo e che continua ad alimentarsi nel desiderio di
ca e si fa più elaborata: c’è il rifiuto di un dualismo una sempre maggiore profondità e verità.
189
Soltanto Dio conosce il cuore dell’uomo, come scritto identità con il principio primo, ma dischiude una di-
già nella Bibbia; per Agostino però questa affermazio- mensione sempre più profonda e irraggiungibile.
ne assume una coloritura diversa: non è tanto l’invito Dal punto di vista psicologico, grazie al racconto au-
a non giudicare gli altri, quanto l’impossibilità di co- tobiografico di Agostino si scopre – per la prima vol-
noscere veramente sé stessi. «Tu eri in me, ma io non ta nel pensiero occidentale – che l’io sfugge alla
ero in me» (Confessioni, X, 27, 38): è l’io che sfugge propria conoscenza, che l’interiorità si apre su di-
alla propria coscienza, che è fuori da sé, perché si allon- mensioni segrete e perlopiù ignote al soggetto. In
tana dalla presenza interiore di Dio. L’io si lascia esplorare una parola: non tutta la sfera interiore dell’uomo è
unicamente al cospetto di Dio. Da qui l’esortazione a riconducibile a coscienza.
non disperdersi nel mondo esterno, a non lasciarsi di- 3. La memoria Per indagare il mistero e la
strarre dalle creature, ma a ritornare in sé, perché vastità della dimensione interiore, Agostino si de-
«nell’uomo interiore abita la verità» (La vera religione, dica a un’accurata analisi delle facoltà dell’anima
39, 72). Da questo movimento di introversione si (sensi, memoria, intelletto, volontà): anche la perce-
ricavano almeno tre elementi che attraversano tutta la zione sensibile si muove dall’interno verso l’esterno e
riflessione di Agostino sull’interiorità: 1. la non divinità non viceversa, e ha quindi origine nell’interiorità;
dell’anima; 2. la non identità di interiorità e coscienza; inoltre la presenza di Dio nell’anima è reinterpretata
3. l’insondabilità della memoria. come immagine divina della Trinità, che si riflette nel-
1. Dio e l’anima L’invito a rientrare in sé stes- le tre facoltà superiori (memoria, intelligenza, volon-
si, distogliendo lo sguardo dalle realtà esteriori, rie- tà). Ma è soprattutto la meditazione sulla memoria
cheggia molto da vicino l’esortazione analoga di Plo- che evidenzia la novità della concezione di Agostino:
tino ad abbandonare la visione degli occhi per cercare con fine indagine psicologica egli cerca di esaminare
la bellezza inestimabile nella propria interiorità (Ennea- tutto ciò che vi è raccolto, distinguendo le immagini
di, I, 6, 8). L’esito del percorso è tuttavia molto diver- provenienti dalla percezione sensibile, i ricordi di
so nei due autori: per Plotino l’anima appartiene per esperienze vissute e i pensieri, e cercando di com-
natura al mondo intelligibile e, distogliendo lo sguar- prendere il meccanismo con cui tutto ciò viene evoca-
do dal mondo materiale, ritrova sé stessa diventando to, torna alla mente. La memoria è paragonata a spa-
ciò che è, una luce vera e divina. Diversamente dal zi e campi immensi, a un enorme palazzo, a uno
neoplatonismo, per Agostino l’anima non è divina: scrigno prezioso; lo sforzo di indagare ciò che vi è
Dio è immanente e insieme trascendente rispetto contenuto e il modo con cui dimentichiamo o ricor-
all’anima, è più intimo dell’interiorità umana, ma diamo le cose al di là della nostra volontà portano
anche incommensurabilmente superiore. È vero che Agostino a esclamare disorientato: «Grande è questa
la verità abita nell’interiorità, ma la natura umana è potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un
mutevole e per accedere alla verità l’uomo deve tra- santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo?
scendere sé stesso. E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla
2. L’interiorità al di là della coscienza mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tut-
Al di là del momento teologico che impone la diffe- to ciò che sono» (Confessioni, X, 8, 15). L’interiorità
renza tra uomo e Dio, questa concezione ha una ri- amplia le proprie potenzialità, sprofonda verso luo-
caduta filosofica: l’io non riesce a essere veramente ghi inattingibili, mostra la sua incommensurabile
trasparente a sé stesso, a riconoscere fino in fondo la vastità, in un modo che nessuna indagine psicologi-
sua più intima interiorità. Viene alla luce una dinami- ca elaborata fino ad allora era riuscita a immaginare.
ca più complessa di quella neoplatonica, che con- In questa dimensione inafferabile, che si estende ver-
trapponeva il mondo esteriore a quello interiore: il so l’infinito, si infrangono tutte le metafore spaziali
movimento di introspezione, che porta l’uomo a disto- che possano descrivere l’interiorità: la memoria è un
gliere lo sguardo dalla molteplicità delle realtà sensibili, luogo privo di determinazioni; nelle parole di Agosti-
non mira al raggiungimento della propria unità e no è interior locus non locus (Confessioni, X, 9, 16).
190 LABORATORIO delle competenze
sezione 4 IL CRISTIANESIMO E LA PATRISTICA
Carlo Maria Martini: Io ho colto soprattutto due aspetti dell’insegnamento agostiniano, che
considero particolarmente consoni con il cammino che propongo alla Diocesi. Primo, Agosti-
no come scopritore dell’interiorità. Per Agostino la storia si gioca nel cuore dell’uomo. È qui,
nel profondo dell’animo nostro, che avvengono le grandi scelte che determinano la storia. Mi
5 ha sempre colpito il riferimento al «Maestro interiore» presente in ciascuno di noi. È lui che
bisogna ascoltare quando si tratta di scegliere. Secondo, la Chiesa come corpo di Cristo. Ago-
stino era insieme capace di interiorizzare i suoi stati d’animo e di cogliere il collettivo nella
storia, cioè l’essere insieme in un corpo organico. Egli aveva la stessa sensibilità per gli stati
psicologici più minuti, più delicati, e per le vicende di un corpo sociale. Con questo voglio dire
10 che la ricerca dell’interiorità, quella del De magistro, non era un solipsismo, un chiudersi in sé
stessi, ma un rendersi sensibile ai grandi processi storici.
Massimo Cacciari: Credo che Lei, Eminenza, abbia toccato davvero due aspetti essenziali
dell’attualità di Agostino. Provo ad affrontarli forse in altro modo ma in grande assonanza con
quanto Lei ha detto. Anzitutto, il tema dell’interiorità. Penso sia di grande importanza per in-
15 tendere tutta la civiltà europea e cristiana, perché in esso si rovescia completamente la prospet-
tiva classica dell’idea di verità. Se la verità abita nell’abisso dell’interiorità, la verità si fa imma-
nente all’interiorità dell’uomo. Attenzione, di questo uomo, proprio di questo uomo in dubbio.
La verità è immanente allo stesso essere in dubbio, allo stesso essere inquieto dell’uomo. Non
è un oggetto che sta lì, di fronte a me, e che posso o non posso conquistare attraverso un pro-
20 cesso di tipo eminentemente gnoseologico1. Per Agostino questo significa che la verità «si
muove» con la ricerca che ne facciamo dentro di noi, concresce con il nostro dubbio, la nostra
angoscia, la nostra ansia. Dunque non c’è via di accesso alla verità se non attraverso l’indagine
di quell’abisso che è l’interiorità dell’uomo. Davvero un rovesciamento dell’atteggiamento
classico verso la verità. Un rovesciamento fondamentale per la filosofia moderna e contempo-
25 ranea. Il secondo aspetto da Lei sottolineato è quello della città, che fa tutt’uno con il tema
dell’interiorità. Perché come la verità è immanente all’esserci e quindi all’inquietudine che se-
gna questo esserci, così la città per Agostino è in itinere, è una societas peregrina, una sorta di
rappresentazione esterna di questa inquietudine interiore caratterizzata anch’essa dall’essere
itinerante. Neppure la verità di questa città è esterna ad essa, ma concresce nella realtà: la civitas
30 Dei è costantemente immanente alla civitas hominis esattamente come la verità è costantemente
Carlo Maria Martini: Io mi collego a quanto Lei diceva all’inizio riguardo a questa interiorità
40 in cui anche nel dubbio, anche nello scetticismo si fa strada la verità, quindi qualche cosa che
la persona sperimenta attraverso il suo dramma. In questo percorso mi colpisce soprattutto
l’aspetto dell’inquietudine. Tutti conoscono di Agostino almeno le quattro o cinque parole
dell’inizio delle Confessioni: «Il nostro cuore è inquieto finché non si riposa in te». Parole che
nella loro semplicità esprimono una costante dell’essere umano, e anche della nostra cultura,
45 della nostra esperienza. È in particolare l’esperienza di tanti giovani inquieti perché in tensio-
ne verso qualcosa d’altro. Mi dà molto conforto cogliere che questa tensione, questa inquietu-
dine non è un male, ma è qualcosa che forgia la persona e la mette a contatto con la verità.
(C. M. Martini - M. Cacciari, Dialogo su Agostino, postato nel sito http://temi.repubblica.it/micromega-
online/carlo-maria-martini-massimo-cacciari-dialogo-su-agostino/ il 3 settembre 2012)
2. Escatologica: che riguarda la salvezza (dal greco éskhatos, “ultimo”, inteso come destino finale).
COMPRENSIONE E INTERPRETAZIONE
1. Qual è la tesi di fondo sulla quale concordano i due interlocutori? Sottolinea nel testo una o più
frasi che la espongono esplicitamente.
2. Quali sono i due argomenti di Martini a sostegno di questa tesi?
3. Come risponde Cacciari a Martini? Si mostra in accordo o in disaccordo con il cardinale?
4. I due interlocutori di questo dialogo provengono da due prospettive di pensiero differenti, quella
religiosa e quella filosofica. Tra le parole di Cacciari, individua almeno tre espressioni specifiche del
lessico filosofico.
5. Dopo l’intervento di Cacciari, Martini riprende uno degli argomenti della discussione e ne appro-
fondisce un aspetto in particolare. Qual è e perché, secondo il cardinale, interessa da vicino i giova-
ni del nostro tempo?
COMMENTO ARGOMENTATIVO
Rileggi le righe 41-47 (da «In questo percorso» a «verità»). A partire da questo pensiero del cardi-
nale Martini, tratto dal dialogo che hai analizzato, e dalla tua esperienza personale, scrivi un testo
argomentativo che non superi le tre colonne di metà di foglio protocollo (circa 2500 caratteri al
computer) sull’«inquietudine» e la «tensione verso qualcosa d’altro» dei giovani. Secondo te, verso
che cosa si indirizza questa tensione? Pensi anche tu che tale inquietudine non sia un male e che
aiuti a forgiare le persone oppure la ritieni negativa? Perché? Che cos’è la «verità» a cui fa riferi-
mento Martini e che cos’è per te la verità?
sezione 5
L’ETÀ
MEDIEVALE
Geograia
Un mondo plurale
il QUADRO Che cos’ è il Medioevo?
STORICO Èla assai arduo definire il Medioevo, un periodo che si fa convenzionalmente iniziare con
caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.) e che si conclude con la scoperta
dell’America (1492), estendendosi dunque per più di un millennio.
Più facile risulta dire che cosa il Medioevo non è: non è un’età di mezzo, di transi-
zione tra antichità ed epoca moderna, come il termine suggerisce, e questo anche sol-
tanto per la sua enorme estensione temporale. Non è un periodo buio, ma presenta
luci e ombre come tutte le epoche, né è un lungo sonno della ragione, dominato da una
fede intollerante e superstiziosa. Ma soprattutto non è un momento unitario e uniforme:
in un mondo concepito e percepito come comune, dove la maggior parte dei traffici
coinvolgono il bacino del Mediterraneo, diverse civiltà si incontrano, si confrontano, si
scontrano. Le principali sono quella bizantina, quella araba e quella latina, con molte
differenziazioni al loro interno: ognuna di esse ha livelli diversi di evoluzione e di svi-
luppo, e i momenti di decadenza dell’una non sono gli stessi per le altre.
Ad esempio, vale soltanto per l’Occidente latino la distinzione tra alto e basso Me-
dioevo (il primo dura fino al X secolo, il secondo dall’XI al XV), che impiega come discri-
mine la rinascita economica e la fioritura delle città dopo l’anno Mille, la quale però nei
regni arabi avviene ben prima; al contrario, la nascita e lo sviluppo delle università in
Europa (nel XII e soprattutto nel XIII secolo) sono fenomeni che non hanno uguali nel-
le altre civiltà.
Le trasformazioni politiche del mondo medievale
Le vicende politiche sono profondamente diverse nelle differenti regioni geografiche.
La dissoluzione dell’Impero romano in Occidente apre uno scenario desolante:
invasioni, guerre, carestie, razzie costringono la popolazione a spostarsi nelle campa-
gne; molti terreni sono lasciati incolti, le strade abbandonate, i commerci ridotti al
minimo. Le nuove istituzioni politiche – i cosiddetti regni romano-germanici – si mo-
strano fragili. Soltanto con la formazione di entità politiche che a poco a poco si conso-
lidano come Stati nazionali si ritroverà in Occidente una relativa stabilità favorevole
allo sviluppo.
Il mondo bizantino riesce a resistere meglio alle incursioni dei “barbari”, ma, pri-
ma la Persia, e dall’VIII secolo gli arabi tengono sotto scacco l’Impero d’Oriente. Dopo
un periodo di splendore tra il X e l’XI secolo, l’azione congiunta della pressione araba e
dell’ostilità latina (ad esempio con la quarta crociata, che nel 1204 culmina nel saccheg-
gio e nella conquista di Costantinopoli) provoca un inarrestabile declino e la progressi-
va perdita di territori. Quando i turchi ottomani conquistano Costantinopoli nel 1453,
del glorioso Impero bizantino non rimangono di fatto che la città, il suo entroterra e
parte della Tessaglia e del Peloponneso.
Nei secoli VII-VIII, nella penisola araba la predicazione e la diffusione dell’islam si
trasformano in un movimento di espansione e di conquista, che si volge verso est (sot-
tomettendo tutto il Medio Oriente e spingendosi fino alle regioni dell’India settentrio-
nale) e verso ovest (lungo l’Africa settentrionale fino a tutta la penisola iberica). Le
lotte dinastiche interne e l’enorme espansione, che rende difficile l’azione di controllo
e di gestione dei territori, incrinano l’unità politica del mondo arabo, e le spinte nazio-
naliste portano presto alla costituzione di regni indipendenti, che tuttavia favoriscono
lo sviluppo economico e la promozione delle attività culturali.
194 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Le istituzioni scolastiche
La storia della filosofia, e in generale dei progressi scientifici, è storia delle persone, ma
anche di scuole, biblioteche, centri del sapere, università. Il sapere si può trasmettere
soltanto se vi sono luoghi a esso deputati, che garantiscano la continuità al di là delle
Filosofia e teologia
Nella filosofia medievale il rapporto della ragione con la fede è un tema centrale:
tutti i filosofi appartengono a uno dei tre monoteismi (ebraismo, cristianesimo e islam)
e devono conciliare la loro identità religiosa con la verità che indagano filosoficamente.
I primi a cercare di definire questo rapporto sono gli arabi, che si chiedono quanto la
filosofia, che è una scienza ereditata dai greci (cioè da infedeli), possa favorire oppure
ostacolare una retta fede. Analogamente nel pensiero latino, soprattutto dopo la risco-
perta delle opere di Aristotele nel XII secolo grazie al contatto con la cultura araba che
ne aveva realizzato traduzioni e commenti, si esprime l’esigenza di accordare la razio-
nalità filosofica con la fede: la teologia diventa una vera e propria scienza, si cerca di
dimostrare l’esistenza di Dio in modo razionale, si persegue la possibilità che la ragione
contribuisca a rafforzare la fede, più che metterla in pericolo.
196 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Francia cristiana e Spagna araba, XII secolo Nell’Occidente, che comincia a dare se-
gnali di ripresa, Abelardo appare come una figura esemplare nel promuovere il ruolo
della razionalità filosofica. Nella sua opera trova impulso soprattutto la dialettica, che
diventa lo strumento della discussione e della ricerca della verità anche in ambito teo-
logico. Nell’islam occidentale opera Averroè, il quale si dedica al commento dei testi
aristotelici e sviluppa un’originale concezione epistemologica volta a stabilire le con-
dizioni della validità universale della conoscenza. ❯ CAPITOLO 19 Il primato della ragione filosofica
nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide
Italia, Francia, XIII secolo In un’epoca in cui le università sono ormai diventate le
istituzioni fondamentali per l’elaborazione e la trasmissione della cultura, Tommaso
d’Aquino sviluppa un pensiero che diventerà punto di riferimento dottrinale per la
Chiesa. Egli riesce infatti a conciliare le esigenze della fede e della ragione in un siste-
ma filosofico unitario e coerente, integrando la concezione aristotelica nella visione
religiosa dell’universo. ❯ CAPITOLO 20 Il XIII secolo: la ripresa culturale dell’Occidente latino ❯ CAPITOLO 21
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano
Inghilterra, XIV secolo Il Trecento si profila come un’epoca di stagnazione e di crisi. In tale
contesto emergono figure di pensatori quali Duns Scoto e Guglielmo di Ockham. Con
essi da un lato si diffonde la sfiducia nella possibilità di applicare la ragione al divino, dall’al-
tro – grazie in particolare alla ricerca di Ockham – si affinano e si sviluppano le procedure
della logica, che rivela un’importante capacità critica nei confronti del sapere, arrivando a
destituire di senso le astrazioni metafisiche. ❯ CAPITOLO 22 Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni
CONCETTO Nel Medioevo la logica si identifica con la dialettica, la quale diventa poco per volta
sinonimo di filosofia. Nata come arte della discussione e dell’argomentazione, la dia-
lettica si precisa quale disciplina specifica, posta al vertice delle arti del trivio, e viene
considerata come lo strumento logico fondamentale per progredire nella ricerca del-
la verità, indispensabile anche alla teologia. ❯ CONCETTO La dialettica
TEMA Una delle questioni affrontate nell’ambito del pensiero cristiano fin da Agostino, e ri-
prese ad esempio da Anselmo e Tommaso, è quella del libero arbitrio: l’obiettivo di
questi pensatori è di dimostrare razionalmente che, nonostante il peccato originale e
la prescienza divina, all’uomo resta la capacità di compiere scelte autonome, e che tali
scelte sono libere e volontarie.
Nell’epoca attuale il dibattito sul libero arbitrio ha coinvolto anche le neuroscienze,
che studiano i vari aspetti del sistema nervoso e cercano di capire se le nostre azioni sia-
no spontanee o se dipendano, invece, da reazioni fisico-chimiche all’ambiente esterno.
❯ TEMA Siamo liberi o ci illudiamo di esserlo?
1266 1308
1109 nasce muore
muore Duns Scoto Duns Scoto
Anselmo
1142 1225 1274
muore nasce muore
Abelardo Tommaso Tommaso
Peraltro, anche dal punto di vista materiale va rilevato che alcune importanti scoperte,
che hanno trasformato la nostra civiltà e influenzato il nostro modo di vivere, risalgono
proprio al Medioevo. Basta osservare gli oggetti presenti in una classe scolastica per sti-
larne un elenco notevole: gli occhiali, l’orologio, la carta, la forma dei libri e i manuali, la
stampa e perfino il modo di fare “lezione”. Il catalogo si allunga se consideriamo altri
ambiti: lo sfruttamento di diverse forme di energia (idrica ed eolica tramite i mulini); gli
strumenti per la navigazione (la bussola, l’astrolabio); l’economia (le banche, le lettere di
credito) e la vita quotidiana (l’uso dei vetri alle finestre, la forchetta, gli scacchi). Questo
elenco fa emergere un’immagine più vivace e variegata della civiltà medievale, ri-
spetto a cui gli stereotipi contemporanei si rivelano ingiusti.
La produzione intellettuale
Per quanto riguarda la produzione intellettuale e filosofica, il Medioevo è stato spesso
accusato di oscurantismo per la centralità della visione religiosa della vita, dalla quale
dipenderebbe il fatto che la filosofia medievale risulti asservita alla fede, quasi un mero
strumento utile soltanto a rafforzare convinzioni religiose che non derivano da un’inda-
gine razionale.
In questo modo però si perdono di vista le elaborazioni propriamente filosofiche: di-
versamente dalla patristica, nel Medioevo la filosofia si guadagna un ruolo di primo
piano, tanto da diventare la condizione necessaria per dedicarsi alle altre scienze,
compresa la riflessione teologica. Di conseguenza, anche il rapporto tra ragione e fede
viene reinterpretato: la filosofia “serve” sì alla teologia, ma nel senso che quest’ultima
non può farne a meno. L’uso della razionalità, della logica e dell’argomentazione, in un
mondo orientato in senso religioso, non rappresenta pertanto un atteggiamento oscuran-
tista, bensì il riconoscimento e il tributo alla ragione, che può spingersi oltre l’ambito
naturale fino a indagare il divino.
oscurantismo atteggiamento di ostilità pregiudiziale nei confronti del progresso e di ogni forma di lessico
evoluzione culturale e sociale, da cui deriva generalmente una limitazione della libertà di pensiero.
200 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
La gran parte di questo patrimonio è ancora inedita, ovvero non esistono edizioni mo-
derne, leggibili e accessibili, e si dispone soltanto di codici che richiedono un lavoro di
decifrazione estremamente faticoso, oltre che competenze tecniche molto sofisticate.
Molti di questi manoscritti non sono neppure conosciuti: ancora oggi ne vengono rinve-
nuti esemplari nei fondi non inventariati delle biblioteche o in antichi magazzini. Rimane
un lavoro immane da fare: di scoperta, catalogazione, attribuzione di paternità, edizione
e traduzione; gli studi sul Medioevo sono dunque in continua evoluzione e aggiorna-
mento. Prima di lasciarci condizionare da giudizi senza appello, dobbiamo pertanto rico-
noscere che ci manca ancora una visione completa.
FARE per CAPIRE • Scrivi tre diverse definizioni dell’“oscurità” del Medioevo, riferendole rispettivamente
alle condizioni materiali, all’oscurantismo delle idee, alla nostra conoscenza del periodo.
lessico codice (dal latino codex, in origine “ceppo” o “fusto” d’albero, con riferimento all’uso antico di scri-
vere su tavolette di legno) in filologia indica un testo manoscritto, composto da più fogli o fascicoli di
pergamena rilegati insieme.
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo gli elementi pregiudiziali nella definizione dell’età medievale.
La pluralità di lingue
Nel Medioevo non si fa filosofia soltanto in latino, ma si continua a scrivere e a leggere
in greco nella parte orientale dell’Impero romano. Con l’affermarsi politico dell’islam
(VII-VIII secolo) inizia poi la traduzione della filosofia greca in arabo e si sviluppa una
riflessione araba autonoma; il contatto con il mondo islamico risulterà determinante
per la ripresa culturale dell’Occidente latino, che si osserva nel XII e nel XIII secolo. In
questa trasmissione filosofica, spesso un ruolo fondamentale è svolto dagli ebrei, che
vivono sia nel mondo arabo sia in quello cristiano e che spesso fungono da traduttori e
mediatori culturali, nonché essi stessi autori di opere filosofiche; infine, a partire dal
XIII secolo, in Occidente oltre al latino si cominciano a usare le lingue volgari. I diver-
si veicoli linguistici condizionano i contenuti filosofici e la forma del pensiero: non è la
stessa cosa leggere un filosofo in greco o in arabo; molti termini latini usati per tradurre
Aristotele sono lontani dal senso originario, così che tante questioni si comprendono
soltanto tenendo presenti le differenti culture che hanno arricchito i testi di concetti e
significati nuovi.
Percepire questa varietà linguistica non è un mero dettaglio erudito: per capire il pen-
siero medievale bisogna tenere conto dell’interdipendenza dei contributi in lingue
diverse e della capacità della filosofia di esprimersi con veicoli linguistici lontani
Il Medioevo e la filosofia capitolo 16 203
dall’origine greca, lavorando sul lessico e sulla traduzione. Molti testi medievali, che si
soffermano sul significato dei termini, nascono dall’acuta consapevolezza del ruolo del-
la lingua nel dare forma ai concetti e di come un uso errato o superficiale delle parole
possa creare gravi fraintendimenti nella comprensione e nella comunicazione.
Non si tratta di lingue usate in mondi lontani o non comunicanti: nonostante le
enormi differenze, le varie riflessioni filosofiche si sviluppano in un contesto percepito
come unico (quello che grossomodo ha ancora come centro il Mediterraneo) e costrui-
scono la loro identità culturale nel serrato confronto con i medesimi testi della filosofia
greca (Platone, Aristotele e il neoplatonismo).
❯ La fortezza della
fede assediata da
eretici e miscredenti
è difesa dal papa,
i vescovi, i monaci
e i dottori della
Chiesa, miniatura,
XV secolo.
La pluralità di fedi
e culti diversi
contribuisce a
definire lo scenario
culturale del
Medioevo.
204 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
La pluralità di tempi
I “tempi” della filosofia medievale, benché collocata in un mondo percepito come uni-
co, sono differenti. Quando ordiniamo gli eventi entro uno stesso orizzonte cronologi-
co (che per noi è il calendario che conta gli anni dalla nascita di Cristo) assumiamo un
quadro comune, che però non può essere inteso come riferimento assoluto, soprattut-
to in relazione alle diverse civiltà presenti nell’età medievale e alle fasi di sviluppo,
fioritura e decadenza che le caratterizzano. L’interpretazione di un’epoca come perio-
do di decadenza o evoluzione del pensiero filosofico non è infatti la stessa per tutte le
tradizioni coinvolte: ad esempio, lo sviluppo della filosofia araba precede e rende possi-
bile quello della filosofia latina, e una parte della storiografia filosofica ebraica fa inizia-
re l’illuminismo da Mosè Maimonide (❯ p. 282), vissuto nel XII secolo dell’era cristiana.
Come sottolinea lo studioso francese Alain de Libera (nato nel 1948), bisognerebbe
diventare sensibili alla pluralità dei tempi che caratterizzano la cultura medievale e che
si esprimono anche con calendari diversi: come vedremo (❯ p. 212 e ss.), la corte di Car-
lo Magno ad Aquisgrana del IX secolo e la Baghdad del III secolo dell’ègira (il trasferi-
mento di Maometto dalla Mecca a Medina nel 622, data che segna l’inizio dell’era musul-
mana) sono cronologicamente contemporanee, ma non appartengono al medesimo
universo culturale. Vi è insomma una pluralità di tempi che convivono, ma pur essendo
sincronici mantengono una loro specificità irriducibile. Per percepire questa pluralità
temporale non occorre redigere cronologie separate, né usare i differenti calendari di
ogni civiltà, bensì assumere un atteggiamento analogo a quello che tiene conto dei fusi
orari nello spazio geografico. Anche in quel caso si considerano simultanei eventi che in
varie parti del mondo accadono in ore diverse: «tener conto degli spostamenti d’orario o,
per meglio dire, delle differenti regolazioni degli orologi culturali, accettare le sfasature
che esprimono la pluralità dei tempi vissuti dagli attori della storia, questo è il compito
dello storico della filosofia» (Alain de Libera, Storia della filosofia medievale, Jaca Book,
Milano 1999, p. 3). Non è necessario dunque modificare la nostra misurazione del tempo,
ma osservare gli eventi all’interno di un quadro più ampio e variegato, nella sincronia
di movimenti differenti che a un certo punto entrano in contatto e talvolta in collisione.
❯ Maometto vieta
di modificare il
calendario islamico,
miniatura, 1307,
Edimburgo,
Biblioteca
dell’Università.
Il calendario
islamico è basato sul
moto della Luna e
si articola in 12 mesi
lunari di 29 o 30
giorni; un anno dura
354 giorni (355 ogni
3 anni). Parte dal
venerdì 16 luglio 622,
data dell’ègira.
Il Medioevo e la filosofia capitolo 16 205
FARE per CAPIRE • Riporta in uno schema i tre aspetti per cui il Medioevo si presenta come epoca
“plurale”, fornendo gli esempi di tale differenziazione interna.
Il patrimonio culturale
Noi siamo i libri che abbiamo letto e che hanno definito la nostra identità culturale: la
nostra visione del mondo è organizzata sulla base delle conoscenze che ne abbiamo.
Proviamo a immaginare che un’esplosione nucleare abbia distrutto tutte le fonti del sa-
pere scientifico, tranne la biblioteca personale dei pochi superstiti e un deposito di testi
rinvenuti per caso e scritti in una lingua ignota. Si tratterà di ricominciare da capo e di
ricostruire gradualmente il sapere; molto dipenderà da cosa materialmente si è conserva-
to e dalla capacità dei sopravvissuti di riformulare spiegazioni scientifiche utilizzando
dati, informazioni e teorie, che sono però tutti incompleti. A prima vista sembra un
esempio drastico e catastrofico, ma in un certo senso si può applicare alla filosofia succes-
siva all’età classico-ellenistica, anche se si tratta di un processo graduale e non di una ce-
sura improvvisa: a poco a poco il greco cessa di essere la lingua comune della cultura
e, al di fuori dell’Impero bizantino, non viene più parlato né in Occidente né nei territori
conquistati dagli arabi (tra cui Siria, Egitto e Palestina).
206 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Mentre però gli arabi mettono in atto un potente lavoro di raccolta, traduzione e rie-
laborazione dei testi filosofici antichi proprio per preservarne i contenuti, nel mondo la-
tino la loro diffusione è limitata e difficoltosa: non soltanto viene meno la possibilità di
comprendere le opere scritte in greco, ma per diversi secoli mancano anche poteri forti e
istituzioni che possano garantire la conservazione e la promozione della cultura.
Il patrimonio filosofico e scientifico a disposizione è dunque la condizione materiale
che contraddistingue la civiltà araba rispetto a quella latina. Tra l’VIII e il IX secolo i ca-
liffi musulmani promuovono la traduzione in arabo di gran parte dei testi filosofici
antichi con l’intento di presentarsi come i veri eredi della civiltà greca. Invece nella cul-
tura latina per molti secoli si ha una conoscenza soltanto indiretta e selettiva della
filosofia greca: Platone è quasi del tutto ignorato, così come Plotino e gli altri neoplato-
nici, e di Aristotele, fino al XII secolo, si conoscono unicamente le opere di logica.
In tutto il Medioevo vi è il problema di conservare e riprodurre i libri, e di renderli acces-
sibili nelle lingue conosciute, quindi di tradurre le conoscenze; inoltre queste attività di
conservazione, traduzione e trasmissione del sapere sono efficaci soltanto all’interno di
istituzioni a esse dedicate, che dipendono a loro volta dal potere politico. La storia della fi-
losofia medievale si intreccia con la storia di come il sapere antico viene trasmesso, selezio-
nato e rielaborato: ciò avviene passando per culture differenti, che, pur vivendo nello stesso
mondo, partecipano in fasi diverse a questa attività e, per così dire, si passano il “testimone”
nell’interpretazione e riappropriazione del patrimonio antico. Ma è infine anche storia del-
le istituzioni che consentono di conservare, approfondire e tramandare il sapere stesso: le
corti, i monasteri, le scuole cattedrali, le università rappresentano luoghi emblematici, che
sostituiscono le scuole antiche in quanto nuovi spazi del pensiero filosofico.
La filosofia e i filosofi
La disponibilità di libri antichi e la presenza di istituzioni che promuovano il sapere, da
un lato, l’adesione a una fede religiosa e un’idea di razionalità come orizzonte comune,
dall’altro, sono due fattori che condizionano il modo di fare filosofia nel Medioevo, uno
a livello materiale, l’altro a livello spirituale. Sono però elementi che subiscono un’evo-
luzione nei secoli e che, almeno in parte, spiegano le differenze tra le culture (bizantina,
araba, ebraica, latina) in cui si produce filosofia. Questo fa sì che la filosofia medievale,
più che quella di ogni altro periodo, sia difficilmente riconducibile a una definizione
unitaria: il pensiero filosofico medievale è un pensiero plurale, i cui autori appar-
tengono a civiltà diverse che nella filosofia si affrontano, si incontrano e dibattono.
Fra tutti i protagonisti di questo periodo presenteremo soltanto alcune figure signifi-
cative ed esemplificative, contemporanee tra loro ma appartenenti a mondi caratterizzati
da fasi di sviluppo differenti: Giovanni Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi (IX-X secolo);
Avicenna e Anselmo d’Aosta (XI secolo); Abelardo, Averroè e Maimonide (XII secolo);
Tommaso d’Aquino (XIII secolo); Duns Scoto e Guglielmo di Ockham (XIV secolo). ESERCIZI
FARE per CAPIRE • Sottolinea con due colori diversi le condizioni storico-culturali che rendono pecu-
liare la filosofia nel Medioevo
❯ Una scuola
filosofica a
Costantinopoli,
miniatura,
XIII secolo.
208 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
capitolo 16
SINTESI Il Medioevo e la filosofia
AUDIOSINTESI
capitolo 16
MAPPE CONCETTUALI Il Medioevo e la filosofia
è caratterizzata da
si traduce la filosofia
greca in arabo e si permangono culti pagani
differenti “fusi culturali”
sviluppa una riflessione e religioni misteriche
araba autonoma
LA FILOSOFIA
NEL MEDIOEVO
LE CONDIZIONI
DELLA FILOSOFIA MEDIEVALE
sono
capitolo 16
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Il Medioevo e la filosofia
RIPASSO
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) 13. Nel Medioevo la trasmissione del sapere
10. In che senso il Medioevo è caratterizzato avviene: (segna la risposta esatta)
dall’assenza di unità religiosa? a grazie alla libera iniziativa di privati e mecenati
b nelle tradizionali scuole filosofiche nate nel
scrivere e rielaborare (15-20 righe) periodo ellenistico
11. Individua gli elementi di pluralità della cultura c all’interno di istituzioni politico-religiose
filosofica medievale e gli aspetti che invece d grazie alla presenza di liberi editori
accomunano le varie tradizioni.
14. Il problema di integrare la visione religiosa
nell’interpretazione filosofica:
(segna la risposta esatta)
a riguarda i pensatori di tutte e tre le grandi
4. Che cos ’ è la filosofia religioni monoteistiche
b è un problema soltanto del mondo latino,
nel Medioevo? perché era stato già posto dalla patristica
c non si pone nel mondo islamico, perché rifiuta
riconoscere le nozioni
la filosofia
12. Considerando i secoli VIII-IX, attribuisci a latini d si pone soltanto nel mondo islamico, perché
(L), bizantini (B) o arabi (A) le affermazioni nel mondo latino l’accordo è naturale
seguenti: (una delle affermazioni è priva
di corrispondenze) esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
a. raccolgono, traducono e rielaborano 15. Qual è la condizione materiale che
i testi greci ................ contraddistingue la cultura araba da quella
b. ignorano quasi completamente il greco ................ latina nei secoli VIII-IX?
c. continuano a scrivere in greco e leggono
direttamente i classici della filosofia ................ ad alta voce
d. conoscono pochissime opere di Platone 16. Spiega in 5 minuti a quale condizione è
e Aristotele ................ possibile il dialogo tra fedi religiose diverse,
e. si presentano come i veri eredi utilizzando le espressioni seguenti:
della civiltà greca ................ infedele • essere razionale • dialogo
f. traducono i testi dal greco al latino ................ • argomentazioni razionali
212 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
co
mare Balti I CENTRI FILOSOFICI NEI SECOLI IX E X
del Nord mar
York
Aquisgrana
Magonza
Corbie
Tours Lione
ma
mar Nero
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Costantinopoli
Harran Ray
Kairouan
mar Mediterraneo Baghdad
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214 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
2 La rinascita carolingia
e Giovanni Scoto Eriugena
LA CORTE DI CARLO MAGNO
Sapienza e potere
La parola chiave del programma culturale di Carlo Magno è ordo: ordine, organizzazione
ed equilibrio. Il suo disegno è unire sapienza e potenza per strutturare i modi e le forme
di governo, i ruoli sociali, la visione del mondo. Senza tale programma egli non può spe-
rare di far durare un impero nato da guerre, massacri, deportazioni, che deve conquistar-
si la sua legittimità sia dall’alto, grazie alla consacrazione papale del proprio sovrano, sia
dal basso, con il consenso di quelle popolazioni che, nonostante tutto, lo percepiscono
come unica alternativa al dilagare dell’instabilità politica e dell’insicurezza civile.
“Ordine” significa mettere le cose a posto, dare a ciascuna istituzione il suo ruolo, de-
terminare i compiti, i poteri, le identità; poter organizzare la società secondo un modello
che rispecchia una legge di natura, e disporre del “linguaggio” adatto per distinguere e
unire allo stesso tempo realtà diverse. Le guerre e le conquiste non sono sufficienti a co-
stituire il regno di Carlo Magno: occorre creare una nuova identità culturale, per favorire
la coesione sociale e la stabilità politica, e attingere pertanto alla tradizione latina classica,
ai suoi simboli e valori, integrati da una nuova idea della sacralità dell’impero.
lessico arti liberali (dal latino liberalis, “che si addice a un uomo libero”) sono le discipline di base inse-
gnate nelle scuole medievali, e si distinguono in trivio (grammatica, retorica e dialettica) e quadrivio
(aritmetica, geometria, astronomia e musica).
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 215
❯ Il monaco Alcuino
di York, fondatore
della Schola Palatina,
presenta l’erudito
Rabano Mauro
a san Martino,
miniatura, 850 circa.
FARE per CAPIRE • Riporta in forma schematica i motivi anche politici della rinascita carolingia.
L’origine irlandese di Giovanni Scoto Eriugena è espressa ben due volte, negli appellativi
che accompagnano il nome proprio: “Scoto” perché Scotia maior era il termine con cui i
Romani designavano l’Irlanda; quest’ultima in celtico veniva chiamata “Eriu”, da cui il
secondo soprannome. Scoto stesso si designa come “Eriùgena” (“nato in Irlanda”, da Eriu
unito al greco gena), lasciando trapelare la profonda assimilazione della lingua e della
cultura greca, che completa la sua identità latina. La conoscenza del greco gli consente di
accedere a fonti sconosciute ai suoi contemporanei, e la cultura e l’ingegno non comuni ne
fanno il pensatore più originale e complesso dell’alto Medioevo, una figura che si
staglia unica e incompresa non soltanto nel proprio tempo, ma anche nei secoli successivi.
Vi sono poche notizie certe sulla sua vita, talvolta mescolate a racconti leggendari, che
non è facile contestualizzare in tempi e luoghi precisi. Anche le date di nascita e di mor-
te sono approssimative: nasce nei primi anni del IX secolo, ma non si sa quando abbia
lasciato l’Irlanda, e dopo l’877 non si hanno più testimonianze che lo riguardino, così si
presume che la morte sia occorsa di lì a poco. È probabile che abbia insegnato nella scuo-
la palatina, e godette comunque dell’ammirazione e della stima degli ambienti della cor-
te carolingia.
Nell’851 viene inviato a Reims per confutare la tesi della doppia predestinazione,
sostenuta dal monaco Gotescalco e dai suoi seguaci: costoro ritenevano che Dio avesse
scelto già all’inizio dei tempi (“predestinato”, appunto) chi avrebbe ottenuto la salvezza e
chi, invece, sarebbe stato dannato per l’eternità. La replica di Eriugena – che produce lo
scritto De divina praedestinatione – va ben oltre la confutazione della tesi, perché giunge a
negare non soltanto la predestinazione ma perfino la stessa esistenza dell’inferno e delle
relative pene corporali, così com’erano rappresentate dalla tradizione. Il sovrano Carlo
il Calvo (840-877) mostra una totale fiducia nelle sue qualità intellettuali anche quando
gli affida l’incarico di tradurre in latino le opere di Dionigi pseudo-Areopagita, un
lavoro che porterà mirabilmente a termine negli anni 860-862, nonostante la difficoltà
linguistica dell’originale (❯ Per approfondire).
Dionigi pseudo-Areopagita
L’influenza neoplatonica
F ilosoficamente la dipendenza da Proclo è rilevante,
perché con le opere di Dionigi entra in Occidente il
D ionigi pseudo-Areopagita è un autore cristiano, pro-
babilmente originario della Siria, il quale si presenta
nei suoi scritti come quel Dionigi che sarebbe stato con-
neoplatonismo greco (i cui testi originali saranno tra-
dotti in latino solamente molto più tardi), e quindi
vertito dall’apostolo Paolo dopo la predicazione nell’Are- tutta la riflessione plotiniana sull’Uno trova un nuovo
opago di Atene (Atti degli Apostoli 17, 34). In realtà, la ambito di applicazione nella comprensione del Dio cri-
dottrina di Dionigi è direttamente influenzata dal neo- stiano. Anche la teologia precedente affermava l’uni-
platonismo di Proclo (vissuto nel V secolo), e quindi la cità di Dio, ma l’apporto neoplatonico aggiunge il mo-
collocazione cronologica va posposta presumibilmente tivo della trascendenza dell’Uno rispetto all’essere e al
nel VI secolo. Grazie all’uso dello pseudonimo, che lo ac- linguaggio. Qualsiasi predicato si voglia attribuire all’U-
credita come discepolo di san Paolo, e grazie anche alla no (ad esempio l’essere o il pensiero) implica infatti la
traduzione in latino delle sue opere fatta dall’Eriugena, perdita della sua unità, in quanto tutti i predicati si riferi-
questo autore gode di grandissima fama nel Medioevo, scono anche alle realtà inferiori all’Uno, che sono molte-
imponendosi con un’autorità seconda soltanto al Nuovo plici. Per Dionigi Dio, inteso come il principio unitario
Testamento; oltre alle Epistole, Dionigi è autore di quat- che oltrepassa la realtà creata, è al di là di essa, rimane
tro importanti trattati: La gerarchia celeste, La gerarchia quindi inconoscibile e indefinibile: quello che si può co-
ecclesiastica, La teologia mistica, I nomi divini. noscere sono soltanto le sue manifestazioni.
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 217
La natura come l’ insieme delle cose che sono e che non sono
Gli elementi leggendari che circondano la figura di Giovanni Scoto Eriugena evidenzia-
no una statura filosofica eccezionale, che si distingue dai suoi contemporanei per l’intel-
ligenza audace, la profonda cultura e la padronanza della lingua greca, grazie alla quale
ha accesso a dottrine, come quelle neoplatoniche, perlopiù ignote ai latini, o conosciute
in modo parziale (ad esempio attraverso Agostino, il quale ne aveva acquisito alcuni ele-
menti da fonti indirette e in modo selettivo). Nella sua opera principale il debito verso
la filosofia greca è visibile non soltanto dal titolo originario (Periphyseon, letteralmente
Sulle nature), ma anche dall’impostazione neoplatonica che gli deriva direttamente dai
testi greci.
La “teologia negativa”
L a dottrina di Dionigi comporta una particolare attenzione a come parliamo di Dio,
perché le nostre parole definiscono sempre realtà molteplici e determinate: più che
affermare qualcosa su Dio, il nostro linguaggio dovrebbe mirare a escludere da Dio
ogni caratteristica che si applica al mondo creato. In questo modo si scopre una fun-
zione inedita del linguaggio: invece che descrivere una realtà finita, esso può cogliere
l’infinito divino usando la negazione, in modo da far intuire che Dio è “totalmente
altro” rispetto a tutto ciò che percepiamo e conosciamo. Ci si avvicina di più a Dio
dicendo ciò che non è (non è essere, non è pensiero, non è sostanza) che affermando
positivamente qualità che sono necessariamente limitate, perché le nostre parole de-
scrivono la realtà in modo categoriale e finito. Si tratta di un uso del linguaggio che
viene chiamato “teologia negativa”, e mira a salvaguardare sia l’assoluta inconoscibili-
tà e trascendenza della natura divina, sia la possibilità di poterne in qualche modo
parlare, di forzare il discorso umano verso ciò che va al di là della sua razionalità.
Dionigi l ’ Areopagit a ritratto nel particol are del l ’af f re sco di Andrea Bonaiuti
Trionfo di San Tommaso, XI V secolo, F iren ze, S anta Maria Novell a.
218 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Quanto alla struttura, l’opera si divide in cinque libri, composti negli anni 864-868, in
forma di dialogo tra un maestro e un discepolo, dove quest’ultimo ha il compito di
RICORDA CHE... porre domande che consentono al maestro di guidarlo nel processo della conoscenza. La
Per Plotino l’Uno è natura cui si riferisce il titolo è il termine che l’autore sceglie per designare tutta la real-
al di là di qualsiasi tà nel suo complesso, includendo in essa «sia le cose che sono, sia le cose che non sono».
molteplicità e pluralità, Le «cose che sono» rappresentano la realtà creata, tutto ciò che possiamo percepire e
e pertanto risulta
totalmente “altro” conoscere come “essere”, mentre l’espressione «le cose che non sono» si riferisce a ciò che
rispetto a ciò che trascende la realtà finita, si colloca al di là dell’essere per la sua infinità e perfezione: non
esiste. In questo senso si tratta dunque di oggetti inesistenti o immaginari, ma di Dio, inteso come principio e
è fuori dalla portata
del pensiero e fine del tutto. L’essenza divina è imperscrutabile e va pensata al di sopra e al di là dell’es-
del linguaggio. ❯ p. 82 sere, come già avveniva per l’Uno plotiniano. Il non essere di Dio non è pertanto un
indice di inesistenza o un predicato che lo avvicina al nulla: segnala invece la sua perfe-
zione e trascendenza rispetto alla realtà (l’essere) che possiamo descrivere e comprende-
❯ testo 1 p. 226 re con la nostra razionalità.
“Natura” è quindi un termine che unisce due prospettive incommensurabili, la natu-
ra dell’essere creato, che si può descrivere e conoscere con le categorie, e quella divina,
che è incomprensibile e indicibile. In tal senso offre un punto di vista comune entro cui
pensare il tutto in modo unitario: “natura” ha pertanto un significato metafisico, e non
semplicemente fisico. Non è però un genere astratto, inteso in senso logico, e non offre
neppure una visione statica, ma costituisce il punto focale attraverso cui la totalità è col-
ta nel suo principio di unità e insieme nella sua diversificazione. La molteplicità non
corrompe la totalità, perché in ogni elemento è presente il principio unitario, da cui tutto
deriva e in cui tutto ritorna. Questa rappresentazione allo stesso tempo unitaria e molte-
plice è possibile perché Eriugena descrive la totalità come vivente e processuale. Proprio
la scelta del termine “natura” lo manifesta chiaramente: “natura” (dal latino nascor, “na-
sco”) rinvia immediatamente a un processo generativo o di creazione; in essa è compresa
la realtà nella sua varietà infinita, dove le differenze non distruggono l’unità, ma la di-
spiegano in armonia.
FARE per CAPIRE • Elabora una breve definizione della realtà per Eriugena, usando i termini totalità
- unità - molteplicità.
lessico natura in Scoto Eriugena il termine indica tut- nite come tali non perché non esistano, ma per-
filosofico ta la realtà, sia quella creata, cioè le cose che ché Dio è oltre l’essere e ogni possibilità di defi-
sono, l’essere, sia quella divina, cioè le cose che nizione, cioè è assolutamente trascendente.
non sono, il non essere; queste ultime sono defi-
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 219
La dialettica nel Medioevo è una delle arti liberali del trivio e costituisce l’anima logico-
razionale della filosofia, in virtù dell’assunto che vi è corrispondenza tra la realtà, il pensie-
ro e il linguaggio che lo esprime. Partendo dall’espressione linguistica di cui il pensiero si
serve, la dialettica ha la funzione di analizzare, definire e comprendere la realtà. In questo
caso, Eriugena considera la nozione di “natura” come un nome generale, che viene specifi-
cato attraverso differenze. Tali differenze si ottengono attribuendo alla natura l’attività del
creare, in tutte le sue possibili forme verbali: affermativa e negativa, attiva e passiva; com-
binando reciprocamente tutte le possibilità si ottiene la quadripartizione seguente.
1. Natura che non è creata e che crea. Tale natura è Dio, principio di tutto, considera-
to in sé, al di là di quanto la ragione umana può conoscere o esprimere. È quindi
trascendente, ineffabile, inconcepibile; una infinità insondabile, a cui non si può ap-
plicare alcuna determinazione categoriale: le nostre parole possono descrivere sol-
tanto le realtà finite, che si possono appunto “determinare”. In relazione alla divinità
l’unico linguaggio che si avvicina alla sua essenza è quello della teologia negativa,
cioè il discorso in cui, anziché affermare una proprietà divina, si negano gli attributi
che possono confondere Dio con una realtà creata. È proprio in virtù della teologia
negativa che, ad esempio, si può parlare di Dio come “non essere”.
2. Natura che è creata e che crea. La seconda divisione della natura rappresenta
le idee o forme ideali con cui Dio crea il mondo. Nella Genesi, il primo libro della
Bibbia, la creazione avviene tramite la sua parola («Dio disse... e il mondo fu»,
Genesi 1). Nell’interpretazione cristiana questa parola divina è il Verbo, cioè il Figlio
di Dio, coeterno e coessenziale a Dio. Tale visione viene ulteriormente arricchita
con le suggestioni provenienti dal Timeo platonico, dove il demiurgo plasma le re-
altà sensibili a partire dalle idee. Così anche il Verbo divino nella teologia cristiana
si serve di forme ideali e perfette per creare tutte le realtà: queste forme intelligibi-
li dunque partecipano attivamente alla creazione, ma nello stesso tempo sono una
“natura creata”, perché ontologicamente inferiori a Dio. Se le idee sono eternamen-
te presenti nella mente divina, ciò significa che tutta la creazione è pensata in Dio
dall’eternità e in qualche modo fa parte della natura divina, non è esterna a essa.
3. Natura che è creata e che non crea. È il mondo creato, non più presente soltanto
nella mente di Dio, ma che riceve un’origine nel tempo ed è collocato in una di-
mensione spazio-temporale. Si tratta di una realtà finita e imperfetta; in quanto
però frutto della volontà libera e creatrice di Dio, possiede un’intrinseca bontà on-
tologica: ciò che deriva da Dio non può essere che buono. Per Eriugena la creazione
rappresenta il massimo dispiegarsi del primo principio, è una sua manifestazione
o teofania. Con questo termine, che è una delle nozioni portanti del suo sistema,
dialettica insieme alla grammatica e alla re- sibile definire Dio in positivo, possiamo parlarne lessico
torica, è una delle arti del trivio e consente di soltanto in negativo, negando di Dio qualsiasi filosofico
sviluppare la capacità di analizzare e compren- attributo o caratteristica che noi attribuiamo alla
dere le espressioni linguistiche con cui il pensie- realtà creata.
ro si esprime, mettendo in luce i rapporti logici e
razionali interni al discorso. teofania (dal greco theós, “dio”, e pháinomai,
“appaio”) letteralmente il termine indica una ma-
teologia negativa la teoria secondo cui Dio, nifestazione sensibile della divinità. Secondo Eri-
essendo infinito, creatore e trascendente, è to- ugena i quattro gradi della natura sono teofanie
talmente oltre le possibilità espressive del lin- in quanto appunto manifestazioni di Dio, che tut-
guaggio umano, che è limitato; non è quindi pos- tavia rimane in sé assolutamente trascendente.
220 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
l’autore interpreta tutti i gradi della natura, compresa la realtà sensibile, come un
processo di rivelazione divina: Dio in sé rimane assolutamente trascendente e
inafferrabile, ma noi possiamo coglierne le manifestazioni. Dio si dispiega nel crea-
to, perché tutto ciò che esiste non è un effetto esterno, ma esiste in lui, prima nella
sua mente e poi nel tempo. Se il creato è una teofania divina, non può perciò esse-
re inteso come una degradazione rispetto all’essere originario.
4. Natura che non è creata e che non crea. La quarta natura è ancora Dio, compreso
come il fine di tutto l’universo e non più come sua causa, cioè inteso al di là della
sua attività creatrice, come la meta verso cui tutte le cose devono fare ritorno. Il
primo e l’ultimo momento pertanto coincidono, conferendo un movimento circo-
lare all’interpretazione della realtà come natura.
si articola in
1. natura che non è 2. natura che è 3. natura che è 4. natura che non è
creata e che crea creata e che crea creata e che non crea creata e che non crea
Dio, principio di le idee o forme ideali il mondo creato, finito Dio inteso come fine
tutto, trascendente, di cui Dio si serve e imperfetto, collocato di tutto l’universo
ineffabile, nella creazione del nella dimensione
inconcepibile mondo spazio-temporale
2. Nel distinguere i diversi aspetti della natura traspare un’enorme fiducia nelle ca-
pacità intellettuali umane e nella possibilità di conoscere la realtà tramite la filo-
sofia: i procedimenti logico-razionali si possono applicare alla natura, perché la dia-
lettica non è soltanto legge del pensiero, ma corrisponde allo sviluppo processuale
della natura e alla sua intrinseca razionalità. Nella ricerca del principio divino del
reale la filosofia assume un ruolo di primo piano, tanto da essere equiparata alla
“vera religione”, perché proviene dalla stessa verità divina e ha il compito di illu-
minare il contenuto della rivelazione, per prevenire gli errori da parte dei fedeli.
Nello stesso tempo, la filosofia è attività umana e ha quindi dei limiti, perché, nonostan-
te la struttura razionale della realtà, la natura divina rimane inconoscibile e inafferrabile.
La ragione è la facoltà conoscitiva discorsiva, che comprende l’ordine interno dell’univer-
so, si serve di categorie e si esprime nel linguaggio: il suo ambito d’azione è il mondo crea-
to. Se però questo mondo è inteso come manifestazione divina, allora le categorie concet-
tuali si rivelano inadeguate: la filosofia mostra qui i confini della ragione stessa e insieme li
oltrepassa, aprendosi all’infinito. La mente umana è infatti in grado di elevarsi dal crea-
to al suo fondamento increato: pensando il tutto come “natura” (l’unità metafisica del creato e
del divino) e affermando il limite della conoscenza umana, la mente supera sé stessa e può
ascendere all’infinità di Dio, in una sorta di intuizione intellettuale che non è conoscen-
za in senso proprio, ma è la base per la contemplazione di Dio. ESERCIZI
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la concezione del male e la funzione della filosofia.
❯ Un maestro di
filosofia e i suoi
discepoli, miniatura,
XIII secolo.
All’inizio l’interesse sembra volto soprattutto agli studi scientifici, come la medicina,
l’astronomia, la matematica – tutte discipline che conoscono uno sviluppo inedito nell’i-
slam orientale –, ma ben presto l’azione di traduzione si indirizza anche ai testi filosofici
propriamente detti. Una leggenda racconta che Aristotele in persona sarebbe apparso in
sogno al califfo al-Mamun (786-833), per esortarlo a raccogliere e tradurre tutti i mano-
scritti delle sue opere. Proprio durante il regno di questo califfo si sviluppa a Baghdad la
“Casa della sapienza”, un’istituzione unica, che è insieme una biblioteca dotata di circa
mezzo milione di volumi e un centro di studi, dove convergono i traduttori e le massime
personalità intellettuali dell’epoca; comprende inoltre un osservatorio astronomico e un
laboratorio medico, che funge anche da ospedale.
Nel massiccio sforzo di traduzione dei testi filosofici promosso dai califfi arabi si mo-
strano alcune tendenze interpretative, che rivelano interessi e priorità, e un preciso fine
politico e ideologico. In primo luogo, il patrimonio culturale dell’antichità viene inter-
pretato come un tutto omogeneo, senza accentuare le differenze di pensiero, di scuola,
di stile filosofico. Nell’accostarci alla filosofia antica per noi è evidente la contrapposi-
zione tra il pensiero platonico e quello aristotelico, oppure tra stoici ed epicurei, e siamo
consapevoli dell’impossibilità di ridurre l’uno all’altro. Nella ricezione araba, al contra-
rio, ci si sforza di conferire un progetto unitario alla filosofia precedente, in una visione
concordistica: i sistemi filosofici trovano il loro posto in una concezione globale, che
armonizza le differenze, come in una sinfonia di strumenti diversi. Questo disegno si
ripercuote anche nella scelta dei filosofi: Platone viene tradotto soltanto in parte, mentre
ci si concentra soprattutto su Aristotele, oggetto di numerose traduzioni e commenti, che
lo leggono però in chiave neoplatonica.
lessico concordismo prospettiva che tende a conci- unitario alla filosofia greca, privilegiando gli ele-
filosofico liare orientamenti filosofici differenti; nel pen- menti di concordanza tra gli autori, in particola-
siero arabo è lo sforzo di conferire un progetto re Platone e Aristotele.
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 223
Il lavoro di traduzione stimola la nascita di una filosofia in lingua araba, che ha tra i FARE per CAPIRE
suoi primi obiettivi quello di chiarire il ruolo della filosofia (che ha un’origine pagana)
• Sottolinea le
entro la visione teologica dell’islam. Da questo punto di vista i pensatori arabi affrontano, attività fonda-
con alcuni secoli di anticipo, lo stesso problema che affronteranno quelli ebrei e quelli la- mentali che si
tini: qual è il valore della filosofia in una visione religiosa della realtà? Che cosa può dire svolgevano nella
“Casa della
la razionalità umana di fronte ai testi della rivelazione divina (come la Bibbia e il Corano)? sapienza” e prova
Il confronto tra filosofia e rivelazione si gioca tutto sull’interpretazione di Aristotele, a immaginare
un’istituzione
che per essere accolto viene “teologizzato” utilizzando i concetti della filosofia neoplato- moderna a essa
nica: questo è l’apporto fondamentale di autori quali al-Kindi e al-Farabi. comparabile.
al-Kindi
Il primo filosofo che a Baghdad lavora per accogliere la metafisica aristotelica nella teo-
logia islamica è al-Kindi (800-866), tanto da essere noto come “il filosofo degli arabi”.
Profondamente convinto della possibilità di conciliare la rivelazione e la filosofia, è
proprio per accordare la metafisica di Aristotele con la visione religiosa musulmana che
egli la completa con la teoria dell’Uno plotiniano. La tensione verso l’Uno e il significa-
to quasi religioso che il neoplatonismo attribuisce a esso diventano la chiave di lettura
di Aristotele; sembra una forzatura, come se volessimo comprendere il senso ultimo
dell’Odissea aggiungendovi il viaggio narrato da Dante nella Divina commedia, ma biso-
gna cercare di comprendere il punto di vista dei primi interpreti di Aristotele.
Nella Metafisica di Aristotele si trovano la dottrina delle cause, la trattazione della teoria
dell’essere e della sostanza, e nel XII libro vi è anche una rappresentazione di Dio come
primo motore immobile e pensiero di pensiero. Quest’ultima sezione però non sembra
molto congruente con la teoria dell’essere esposta nei libri precedenti, o perlomeno Aristo-
tele non indaga i rapporti tra essere e Dio, che è il vero motivo di interesse di al-Kindi. Egli
ritiene che l’incongruenza possa essere colmata se il Dio aristotelico viene ad assumere
anche le caratteristiche dell’Uno neoplatonico: in tal modo è infatti possibile mostrare la
sintonia della filosofia con la fede islamica, perché le proprietà dell’Uno si accordano bene
alla concezione teologica di Allah (in particolare alla sua assoluta unicità, trascendenza,
inconoscibilità e indefinibilità). L’esito di tale peculiare integrazione è duplice:
1. la Metafisica di Aristotele viene interpretata a partire dal XII libro, al fine di elabo-
rare una visione filosofica di Dio, e anche le parti più propriamente “ontologiche”
(l’essere in quanto essere, la sostanza, l’atto e la potenza) sono usate a questo sco-
po: ciò significa che la metafisica culmina in una teologia filosofica;
2. la trattazione aristotelica di Dio arricchita con la tradizione neoplatonica produce testi
“ibridi”, cioè testi composti da una sintesi di brani neoplatonici la cui paternità è
attribuita ad Aristotele. I due esempi più celebri sono redatti proprio all’interno
della cerchia di al-Kindi: La teologia di Aristotele, che riporta ampie parafrasi delle
Enneadi di Plotino, e Il libro delle cause, che è un adattamento degli Elementi di teologia
di Proclo. Questi testi verranno poi tradotti in Occidente sotto la paternità aristotelica,
perpetuando perciò l’interpretazione concordistica anche tra i latini (❯ Per approfondire).
al-Farabi
Il secondo grande filosofo operante a Baghdad è al-Farabi, vissuto quasi un secolo dopo
al-Kindi (880-950). Egli ne prosegue il progetto concordistico, anzi scrive addirittura un
Trattato sull’accordo fra le dottrine dei due sapienti, Platone e Aristotele. L’accordo tra le due filo-
sofie maggiori dell’antichità non riguarda soltanto la metafisica, ma anche la dottrina della
conoscenza. Particolarmente rilevante per l’influenza filosofica successiva è la teoria della
felicità intellettuale, che si fonda su una peculiare interpretazione del De anima di Aristo-
tele che farà scuola. In quell’opera Aristotele aveva distinto due funzioni dell’intelletto: una
ricettiva dei contenuti, che descrive la capacità di imparare (l’intelletto potenziale); l’altra
attiva, che rappresenta il principio che effettivamente trasforma in atto la possibilità di ap-
prendere (l’intelletto agente) e che viene paragonata alla luce che consente agli occhi di ve-
dere. Questa distinzione descrive bene il processo individuale dell’apprendimento, ma non
l’universalità della nostra conoscenza; ad esempio chiarisce come uno studente, grazie alle
spiegazioni ricevute e allo sforzo di concentrazione, possa comprendere un teorema di geo-
metria, ma non dice perché quel teorema sia valido per tutti. Su questo aspetto la teoria delle
idee di Platone aveva fornito una risposta più adeguata: la garanzia di validità e l’universalità
della nostra conoscenza geometrica poggiano sull’esistenza reale dell’idea di triangolo.
Per rispondere all’esigenza di fondare la conoscenza in quanto universale, al-Farabi
ritiene che l’intelletto agente sia distinto dall’uomo e lo descrive come sussistente di
ESERCIZI per sé, sulla base di un passo aristotelico piuttosto oscuro in cui esso viene definito
lessico intelletto agente in al-Farabi, deriva da Dio, è unico per tutti gli uomini, è la sede dei modelli univer-
filosofico sali della conoscenza e il principio che, illuminando l’intelletto individuale, gli permette di conoscere.
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 225
«separato» e «immateriale». Tale intelletto, unico per tutti gli uomini, viene ad assolvere
la stessa funzione delle idee platoniche: è la fonte dell’universalità della conoscenza,
ma anche il principio che illumina la mente umana e spiega il percorso individuale di
apprendimento. Nell’acquisizione della conoscenza vi è dunque un apporto esterno, che
deriva direttamente da Dio; l’intelletto umano, oltre che esserne illuminato, aspira a ele- FARE per CAPIRE
varsi a questa luce eterna, a congiungersi con essa, a divenire simile a Dio. Viene descrit- • Evidenzia nel
to un processo che non è soltanto la spiegazione dell’attività del conoscere, ma anche la testo il modo
ricerca di perfezione morale, in un percorso che porta alla felicità nella misura in cui ac- in cui viene letto
Aristotele e la
crescere la conoscenza avvicina di più al principio divino. Al-Farabi formula per la prima finalità per cui
volta una tesi che avrà seguito nei secoli successivi, sia nel mondo arabo sia in quello la- viene usato.
tino: la conoscenza è una sorta di ascesi spirituale, che porta a una beatitudine filosofi-
ca, nel senso che rende più simili a Dio. ❯ testo 2 p. 228
SCOTO ERIUGENA
t1 La sublime natura divina
dall’Omelia sul prologo al Vangelo di Giovanni
Il brano seguente è l’inizio dell’omelia che Eriugena dedica al prologo del Vangelo di Giovanni, un testo
di alta densità concettuale, che presenta il Figlio di Dio come Lógos o Verbo divino. Con un ritmo
avvincente e uno stile più appassionato che argomentativo, in cui abbondano le immagini, Eriugena
conduce il lettore a penetrare la sublimità della natura divina. L’autore invita a contemplare una realtà
inaccessibile, che si eleva al di là del mondo fisico ma anche intellettuale, che supera ciò che può
essere compreso dall’intelligenza e giunge alle cose che non sono: il Verbo divino e il principio
ineffabile di ogni cosa.
[La voce dell’evangelista] La voce dell’aquila spirituale risuona all’orecchio della chiesa.
Volti verso l’esterno, i sensi ne raccolgano il suono fuggevole, l’animo interiore ne penetri
il significato immutabile. Voce del volatile delle altitudini, che vola non solo al di sopra
dell’elevamento fisico dell’aria, o dell’etere, o del limite stesso dell’universo sensibile nel-
5 la sua totalità, ma arriva a trascendere ogni teoria, al di là di tutte le cose che sono e che
non sono, con le ali veloci della più inaccessibile teologia, con gli sguardi della contem-
plazione più luminosa ed elevata.
[Le cose che sono e che non sono] Definisco, precisamente, «cose che sono» tutte quelle
che non sfuggono interamente a una qualsiasi forma di comprensione, sia umana sia
10 angelica, collocandosi al di sotto di Dio, entro il numero delle creature che hanno origine
dalla causa unica di tutte le cose. Per «cose che non sono» intendo invece quelle che ol-
trepassano assolutamente le forze di qualsiasi intelligenza.
[Il Verbo al di là dell’intelletto] Così, il santo teologo Giovanni non si limita a sollevarsi in
volo sopra ciò che può essere compreso dall’intelligenza ed espresso dalla parola, ma si
15 spinge al di là, all’interno di ciò che supera ogni intelligibilità e ogni significato. Al di fuori
di tutte le cose, con il volo ineffabile della mente, è innalzato fin entro l’arcano del principio
Filosofi di corte tra IX e X secolo: Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi capitolo 17 227
unico di tutte le cose, e mentre percepisce limpidamente, dello stesso principio e Verbo,
TESTI
cioè del Padre e del Figlio, l’incomprensibile superessenzialità dell’unione, insieme all’in-
comprensibile supersostanzialità nella distinzione, inizia il suo vangelo annunciando: In
20 principio era il Verbo.
(G. Scoto Eriugena, Omelia sul prologo di Giovanni, 1, a cura di M. Cristiani,
Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1987, pp. 9-11)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
1. Nel testo Eriugena descrive come Giovanni sia riuscito a elevare il pensiero al di sopra della realtà
fisica. Riesci a immaginare di poter fare un’esperienza del genere? In che modo?
2. Rifletti sul rapporto tra pensiero e parola: che cosa viene “prima”? In che senso il tuo pensiero può
essere descritto come discorso interiore? Quando non trovi la parola che esprime correttamen-
te una cosa, puoi davvero dire di conoscere quest’ultima? Motiva la risposta.
228 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
AL-FARABI
TESTI
[La filosofia prima] Questa scienza1 precede tutte le altre ed è la più perfetta per esercita-
re il governo; tutte le altre scienze che hanno a che vedere col governo sono subordinate ad
essa. Con «tutte le altre scienze che hanno a che fare col governo» io intendo la seconda e la
terza2 e quelle che ne derivano, e ciò perché esse seguono l’esempio della prima e sono
5 impiegate allo scopo di perfezionare il fine di quella prima scienza, cioè il conseguimento
della suprema felicità e della più compiuta perfezione che l’uomo possa attingere.
[La storia interculturale della filosofia] Di questa scienza si dice che esisteva già in antico3
presso i caldei4 che abitavano l’Iraq, quindi è passata agli egiziani e da loro ai greci, dove
si è conservata fino a che non è stata trasmessa ai siriani e da loro agli arabi. Tutto ciò che
10 era compreso in questa scienza fu espresso dapprima in lingua greca, poi in siriaco e infine
in lingua araba. I greci che possedevano questa scienza la chiamavano sophía nel senso più
elevato del termine, e massimamente sapienza. Chiamavano inoltre l’acquisizione di que-
sta scienza e l’abito mentale che ne deriva filosofia, intendendo con essa l’amore e l’inclina-
zione per la massima sapienza. Pensavano che essa potenzialmente comprendesse tutte le
15 virtù e la chiamavano scienza delle scienze o madre delle scienze o sapienza di tutte le
sapienze o arte di tutte le arti […].
[Il filosofo perfetto] Quando le scienze speculative sono separate le une dalle altre e chi le
possiede non ha la capacità di utilizzarle in campi diversi, si tratta allora di filosofia difet-
tosa. Il filosofo perfetto al massimo grado è colui che, acquisite le scienze speculative, ha la
20 capacità di utilizzarle a beneficio degli altri per quanto gli è possibile. Se si considera il fi-
losofo perfetto, si scopre che non vi è alcuna differenza tra lui e il supremo governante, e
ciò perché colui che ha la capacità di utilizzare quanto è compreso nelle scienze speculati-
ve a beneficio degli altri è tra quelli che hanno la capacità di fare esistere in atto tanto gli
oggetti intelligibili quanto i volontari.
(al-Farabi, Il conseguimento della felicità, 54-55, in Scritti politici,
a cura di M. Campanini, UTET, Torino 2007, pp. 108-109)
TESTI
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI E DISCUTI
1. Anche Platone riteneva che i governanti dovessero essere filosofi. Quali analogie e differenze riscon-
tri fra la posizione platonica e quella di al-Farabi?
2. Il testo mira a evidenziare che la filosofia è superiore alle altre scienze, e che chi vi si dedica raggiun-
ge la perfezione e la felicità. Discuti questo assunto con i tuoi compagni, ponendo in luce
quanto la conoscenza possa o meno essere un elemento imprescindibile per essere felici.
230 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
capitolo 17
SINTESI Filosofi di corte tra IX e X secolo:
Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi
AUDIOSINTESI
capitolo 17
MAPPE CONCETTUALI Filosofi di corte tra IX e X secolo:
Scoto Eriugena, al-Kindi e al-Farabi
I PRINCIPALI CENTRI CULTURALI DELL ’ VIII E IX SECOLO
LA CORTE DI CARLO MAGNO aspetti comuni LA CASA DELLA SAPIENZA
AD AQUISGRANA DI BAGHDAD
affermando che
si distingue in
capitolo 17
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Filosofi di corte tra IX e
X secolo: Scoto Eriugena, RIPASSO
al-Kindi e al-Farabi
1 Lo “ spostamento ” della cultura: c le realtà che non esistono e quindi non possono
essere oggetto di nessun pensiero
dal centro alla periferia d le realtà che si collocano al confine tra l’essere e
il non essere
riconoscere le nozioni
5. Riguardo alle capacità umane, Scoto Eriugena:
1. Indica quali sono i due centri di rinnovamento (segna la risposta esatta)
culturale, rispettivamente in Occidente e in a condivide il generale atteggiamento negativo
Oriente, nei secoli VIII-IX: tipico del Medioevo
a) .......................................................... b afferma che, pur con dei limiti, la ragione tramite
b) .......................................................... la dialettica possa comprendere la natura
c pensa che la struttura razionale della natura
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) metta l’uomo in grado di comprenderla in tutti i
suoi significati
2. Che cosa rappresenta l’Impero bizantino per il
d ritiene che, poiché le capacità umane sono
mondo carolingio e per quello islamico?
limitate, alla ragione sia totalmente precluso
il divino
Tabella esercizio 14
PROGETTO CONCORDISTA
interesse prevalente concetti utilizzati
...................................................................................................
al-Kindi ................................................................................................... ...................................................................................................
...................................................................................................
...................................................................................................
al-Farabi ................................................................................................... ...................................................................................................
...................................................................................................
234 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
“
Che io ti cerchi desiderandoti, che ti desideri cercandoti, che ti
trovi amandoti, e che ti ami trovandoti.
(Anselmo, Proslogion, 1)
mare
del Nord mar
Balt
ico I CENTRI FILOSOFICI NELL ’ XI SECOLO
Canterbury
Le Bec
Tours Reichenau
Pavia lago Aral
mar Nero
Saragozza
Toledo Salerno Buchara
mar
Valencia Caspio
Nishapur
Ray
mar Mediterraneo
Baghdad
Alessandria Isfahan
Il Cairo Bassora
go
lfo
Pe
rsico
Medina
ma
rR
oss
o
236 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
FARE • Elabora uno schema in cui evidenziare le caratteristiche rispettivamente del mondo arabo e
per del mondo latino, in relazione a: luoghi di elaborazione della cultura - fonti - oggetti di studio
CAPIRE - rapporto con l’autorità politica o religiosa.
Avicenna mostra inoltre interessi letterari e politici, a riprova del fatto che, dopo l’ac-
quisizione dell’eredità greca, la cultura araba è matura per produrre uno sviluppo auto-
nomo: per la storia della filosofia sono soprattutto la sua metafisica e la teoria della
conoscenza a rivelare un’elaborazione originale, la cui influenza nel mondo occidentale
durerà per secoli.
❯ Avicenna nell’atto
di insegnare,
miniatura da una
traduzione latina del
Canone di medicina,
XII secolo.
238 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la risposta alla seguente domanda: “di che cosa si deve occu-
pare la metafisica secondo Avicenna?”.
lessico esistenza il fatto di essere realmente; l’atto di es- ente, quindi ciò che fa sì che una cosa sia quello
filosofico sere che si concretizza in un particolare individuo. che è, differenziandola dalle altre. L’essenza vie-
ne espressa nella definizione ed è l’oggetto di
essenza la nozione, di origine aristotelica, in- conoscenza della scienza.
dica ciò che appartiene necessariamente a un
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 239
2. che cos’è quello che esiste? Qui l’attenzione si sposta su ciò che una cosa è. L’es-
senza è la natura delle cose, così come viene spiegata nella loro definizione: ad
esempio l’essenza di un uomo è quella di “animale razionale”, cioè un essere vi-
vente e sensibile, dotato di ragione. Mentre l’esistenza è un atto comune a tutto ciò
che esiste, l’essenza distingue un ente da un altro.
Avere distinto esistenza ed essenza porta Avicenna a riflettere anche sul ruolo dell’es-
senza nella conoscenza, perché il compito di dire che cosa sono le cose che ci circonda-
no è affidato alla scienza. Posso sapere che cos’è un quadrato senza avere in questo mo-
mento la figura geometrica sotto i miei occhi; so addirittura che cosa sono i dinosauri,
pur essendosi estinti e non potendo più attribuire loro l’esistenza. Su questo aspetto Avi-
cenna elabora una teoria originale: sostiene cioè che compito della scienza sia quello di
conoscere l’essenza delle cose, indipendentemente dalla loro esistenza. Che una cosa
esista o meno è infatti un altro livello di indagine rispetto alla definizione dell’essenza,
la quale è indifferente all’esistenza della cosa: rimane la medesima sia che essa esista sia
che non esista, per cui nella trattazione scientifica se ne può prescindere.
Ciò vale ovviamente soltanto per gli esseri contingenti, possibili, che ricevono l’essere
da qualcos’altro e potrebbero non esistere o cessare in qualsiasi momento di esistere. Al
contrario, nell’essere necessario (Dio) non ci può essere distinzione tra esistenza ed
essenza e non si può dire che l’esistenza sia una caratteristica accidentale o che sia indif-
ferente alla sua essenza.
FARE • Indica se, nelle proposizioni seguenti, il verbo “essere” è usato per esprimere l’esistenza
per o l’essenza dei vari soggetti: “Nel bosco ci sono dei larici”; “L’albero è un vegetale”;
CAPIRE “Nell’atomo ci sono protoni, neutroni ed elettroni”; “L’acqua è un liquido”.
❯“Aristotele principe
dei filosofi”, incisione,
XV secolo, Augsburg,
Collezione privata.
Aristotele, qui ritratto
come un astronomo,
rappresenta
la principale fonte
di ispirazione sia
della metafisica
sia della cosmologia
di Avicenna.
240 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
LA COSMOLOGIA
Come la metafisica, anche la cosmologia di Avicenna si ispira a quella aristotelica, com-
binandosi però con i princìpi portanti del pensiero neoplatonico.
RICORDA CHE... Oltre al primo motore immobile, Aristotele aveva postulato che le sfere celesti fossero
Aristotele concepisce mosse da altrettante sostanze immobili ed eterne. Avicenna collega tra loro queste sostan-
l’universo come ze, interpretandole come una gerarchia di intelligenze che derivano dalla causa prima,
un’enorme sfera al cui
ossia Dio, essere necessario. La causa prima produce per emanazione la prima intelligen-
centro sta la Terra,
circondata dalle za, da cui emana la seconda, da cui la terza e così via fino alla decima intelligenza, che
sfere celesti, le sfere governa il mondo terrestre (“sublunare”). Ogni intelligenza produce per emanazione
concentriche dei cieli. non soltanto un’intelligenza inferiore, ma anche la sfera celeste a essa corrispondente e
Il movimento circolare
di ogni sfera celeste la sua anima; la decima e ultima intelligenza imprime le forme nella realtà materiale ed
è ricondotto al motore è il principio della conoscenza. È un processo emanativo che descrive una perfezione
immobile, che agisce decrescente, ma comprende in maniera unitaria tutta la realtà, riconducendola al primo
come causa finale sulle
sostanze immobili ed principio. Questa visione emanatista implica due condizioni:
eterne che governano 1. che la causa prima intervenga soltanto nella produzione della prima intelligenza,
ciascuna sfera.
❯ vol. 1A, p. 338 mentre tutte le realtà sottostanti sono prodotte tramite la mediazione di princìpi via
via inferiori;
2. che la creazione dell’universo sia considerata come emanazione e perciò sia eterna:
se infatti la causa prima è eterna, dovranno esserlo anche i suoi effetti, diretti o indi-
retti. Avicenna afferma dunque l’eternità del mondo, non il suo inizio nel tempo.
FARE per CAPIRE • Prova a disegnare il cosmo immaginato da Avicenna evidenziando le relazioni tra
i vari elementi.
IDEE A
CONFRONTO LA CAUSA PRIMA, LA GERARCHIA DEGLI ESSERI E I CARATTERI DELL’UNIVERSO
ARISTOTELE PLOTINO AVICENNA
decima intelligenza l’ultima intelligenza frut- intelletto agente per Avicenna, il principio at- lessico
to del processo di emanazione che ha origine da tivo della conoscenza, identificato con la decima filosofico
Dio. Essa governa e ordina il mondo terrestre, intelligenza celeste. È separato dalla mente indi-
imprime le forme nella realtà materiale ed è il viduale, che può formulare i concetti e conosce-
principio della conoscenza. re così l’universale perché da questo illuminata.
242 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
lessico anima mentre per Aristotele è forma del corpo e come tale non separabile da esso, in Avicenna è
filosofico una sostanza a sé stante, che quindi può esistere e conoscere sé stessa a prescindere dal corpo.
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 243
❯ Scuola di Fabriano,
Anselmo d’Aosta
(a sinistra),
XV secolo, affresco,
particolare dei
medaglioni del
Cappellone,
Tolentino (Macerata),
Basilica di San Nicola.
244 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Fino a questo momento, la vita di Anselmo a Le Bec gli aveva consentito la serenità
spirituale per potersi dedicare allo studio; è in tale periodo infatti che vengono alla luce
alcune delle opere più importanti, come il Monólogion nel 1076 e il Proslógion nell’anno
successivo, ma anche alcuni dialoghi sull’uso della grammatica, sulla verità, sul libero
arbitrio e sul male (De grammatico, De veritate, De libertate arbitrii, De casu diaboli – “La
caduta del diavolo”).
Alla morte di Guglielmo il Conquistatore (1087), il figlio e successore Guglielmo II
Rufo mette in atto una politica dispotica nei confronti della Chiesa, al fine di controllarne
i beni, ma trova in Anselmo un tenace oppositore. È durante questo burrascoso periodo
che egli viene nominato arcivescovo di Canterbury (1093) e si batte assiduamente per
la libertà della Chiesa e perché siano vietate le nomine dei vescovi da parte dei poteri
laici. L’aspro scontro politico non gli impedisce però di comporre un’opera di alto spesso-
re teologico, l’Epistola de Incarnatione Verbi (“Lettera sull’incarnazione del Verbo”). Nel
1097 lascia l’Inghilterra in una sorta di esilio volontario per recarsi a Lione e a Roma, ma
FARE per CAPIRE
il pontefice lo invita a non rassegnare le dimissioni; nel frattempo riesce a portare a ter-
• Elabora una mine la sua opera teologica di maggior rilievo, il Cur Deus homo (“Perché un Dio uomo”).
tabella in cui
inserire le tappe Torna in Inghilterra alla morte del re (1100), ma anche con il nuovo sovrano, Enrico I,
filosoficamente i rapporti sono tesi per il rifiuto di Anselmo di prestare giuramento di vassallaggio.
significative della Costretto a un nuovo esilio nel 1103, potrà rientrare in Inghilterra nel 1107, quando il re
vita di Anselmo e
i relativi riferi- è obbligato a cedere alle richieste di Anselmo dalla minaccia della scomunica papale.
menti cronologici. Muore a Canterbury il 21 aprile 1109.
FARE per CAPIRE • Sottolinea le caratteristiche peculiari della dimostrazione dell’esistenza di Dio
offerta nel Monologion.
della ragione sulla fede, quanto un’intuizione dell’intelletto, che illumini la mente con
l’evidenza del suo principio. Nel Monologion la premessa era costituita dalla presenza di
una molteplicità di enti, considerati sotto l’aspetto della loro bontà o perfezione. Nel Pro-
slogion Anselmo vuole ridurre al minimo le premesse, escludendo non soltanto la fede,
ma anche l’esistenza reale del mondo: egli ricerca un argomento «che per essere dimo-
strato non avesse bisogno di altro, ma solo di sé stesso, e che fosse da solo sufficiente a
stabilire che Dio esiste veramente» (Proslogion, proemio). Per questo si serve solamente
del linguaggio, cioè della definizione di Dio, con un argomento che nel corso della storia
sarà spesso chiamato ontologico o a priori: ontologico, perché ricava l’essere di Dio da
una definizione concettuale e dimostra la sua esistenza ragionando unicamente su come
si pensa e si definisce Dio; a priori, perché è un argomento che prescinde da qualsiasi
esistenza reale o considerazione sulla realtà sensibile.
La superiorità di questo “unico argomento” sulle dimostrazioni discorsive del Mono-
logion emerge anche nelle vicende che portano alla sua elaborazione. Dopo molteplici
tentativi Anselmo non sembra venire a capo di nulla e comincia a dubitare della possibi-
lità di tale impresa. Ma proprio quando decide di abbandonare la ricerca, l’idea dell’argo-
mento unico comincia a tormentarlo, presentandosi insistentemente alla sua mente e
impedendogli di pensare ad altro, finché la soluzione si impone da sé, in maniera inat-
tesa e improvvisa. I biografi di Anselmo descrivono questa scoperta evidenziandone il
carattere miracoloso: per Eadmero, suo discepolo e segretario, la soluzione al dilemma
avviene di notte, grazie a un’illuminazione divina, che rende l’argomento immediata-
mente evidente all’intelletto. Anselmo si affretta a scriverlo su tavolette di cera, affidate
alla custodia di un confratello, che misteriosamente spariscono. Una seconda riscrittura
ha un esito altrettanto sfortunato, perché le tavolette vengono rinvenute in frantumi e
soltanto faticosamente ricomposte, così da consentire ad Anselmo di riportare il testo su
pergamena. Un secolo dopo Giovanni di Salisbury, nella sua Vita di Anselmo, non esita ad
attribuire l’opera di sabotaggio al demonio, terrorizzato dall’efficacia dell’argomento. Al
di là dell’interpretazione miracolistica, la scoperta dell’argomento descrive il processo
che porta all’intuizione, quell’illuminazione improvvisa che accende una luce nella
mente e fa immediatamente “vedere” la soluzione a un problema su cui si è lungamente
riflettuto e rimuginato, in un groviglio di pensieri, dubbi e idee insoddisfacenti.
L’ argomento ontologico
Vediamo come si sviluppa l’argomentazione. La fede nell’esistenza di Dio sembra
essere messa in dubbio dall’ateo, caratterizzato in questo contesto come insipiens,
che secondo il salmo 14,1 «disse in cuor suo: Dio non esiste». Tale “insipiente” non è
uno sciocco o un blasfemo, ma rappresenta un momento necessario all’argomentazione:
oltre che un personaggio esterno ed estraneo alla fede, è anche una figura interiore, che
esemplifica il dubbio insito in chi crede, e serve quindi alla ragione per chiarire la propria
fede. Chi afferma che Dio non esiste comprende ciò che sta dicendo, cioè dà un signifi-
cato al termine “Dio”, anche se ritiene che la realtà che il termine indica sia inesistente
lessico argomento ontologico o a priori l’argomento detto anche “a priori” (letteralmente, “da ciò che
filosofico che ritiene di poter dimostrare l’esistenza di Dio è prima”) perché è precedente a qualsiasi riferi-
partendo unicamente dalla sua definizione. È mento all’esistenza del mondo e all’esperienza.
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 247
(e conseguentemente dichiara «Dio non esiste»). Se non c’è un accordo con l’ateo riguar-
do all’esistenza di Dio, si può almeno trovare una base comune in una descrizione con-
divisa di Dio: la definizione che funge da premessa unica all’argomento è che Dio è “ciò
di cui non si può pensare nulla di maggiore”. È un’espressione inconsueta, che non è
tuttavia inventata da Anselmo, perché si trova in forme simili in Seneca e in Agostino;
Anselmo però è l’unico che la sfrutta come presupposto per dimostrare la necessità
dell’esistenza di Dio. Il punto di forza di questa definizione è duplice:
1. include la possibilità del pensiero, cioè definisce che cosa possiamo pensare, quan-
do pronunciamo il termine “Dio”;
2. è costruita con un comparativo di maggioranza e una negazione, che stabiliscono
il limite assoluto di questo pensiero (“non si può pensare a qualcosa di superiore a
questo ente”).
L’argomento funziona soltanto in virtù di tale definizione e non sarebbe possibile se, ad
esempio, si scegliesse di caratterizzare Dio come “ente sommo”, “essere perfettissimo”,
“signore onnipotente”.
Anche l’ateo, pur negandone l’esistenza reale, è in grado di comprendere la definizione
proposta da Anselmo. Accettandola, però, la sua professione di ateismo diventa contraddit-
toria, perché questa definizione non può riferirsi a qualcosa che egli ha soltanto in mente,
senza che esista nella realtà. Infatti, se questo Dio non esistesse, sarebbe possibile pensare
un altro ente che, oltre a essere “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore”, esista anche
nella realtà. Ma questo secondo ente sarebbe maggiore del primo e Dio non sarebbe più “ciò
di cui non si può pensare il maggiore”. La definizione che l’ateo ha accettato ha senso e non
risulta contraddittoria soltanto se si include l’esistenza reale di Dio. Detto altrimenti: l’ateo
cade in contraddizione perché ammette che Dio è “ciò di cui non si può pensare nulla di
maggiore”, ma nega la sua esistenza, e così lascia aperta la possibilità di pensare a qualcosa
di maggiore (pensare Dio come esistente è infatti maggiore che pensarlo come non esisten-
te). Notiamo che l’argomento si svolge nell’orizzonte del pensiero, ma che nello stesso tem-
po lo supera: Anselmo non dice che se Dio è perfetto deve esistere, ma che, se lo pensiamo
secondo questa definizione, dobbiamo pensarlo come esistente e pertanto Dio deve esistere.
❯ Cristo
pantocratore,
mosaico, 1180 ca.,
Palermo, Monreale,
conca absidale
del Duomo.
248 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Se accettiamo che Dio è “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore”, intuiamo anche
che Dio necessariamente esiste. È un’intuizione che si può paragonare a quella relativa a
un triangolo equilatero, in cui dobbiamo necessariamente pensare che ogni angolo interno
misura 60°, anche se in prima battuta non lo abbiamo espresso. Come è impossibile pensare
un triangolo senza che la somma dei suoi angoli interni sia 180°, così Dio non può essere
pensato come “non esistente”. Non è il pensiero a determinarne l’esistenza (come non di-
pende dal nostro pensiero la misura degli angoli), ma è l’esistenza di Dio che lo rende pen-
sabile come “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore”.
“
ti ringrazio, buon Signore, perché ciò che prima ho creduto per un tuo dono, ora per la tua
illuminazione lo comprendo, in modo tale che, se non volessi credere che tu esisti, non potrei
non comprenderlo.
(Proslogion, 4)
L’ipotesi irreale della conclusione sovverte le nostre attese: l’ateo è razionalmente vin-
colato ad affermare l’esistenza di Dio, ma non all’adesione di fede, che per natura è un
atto libero e dipende dalla volontà, e non dall’intelletto.
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo la premessa dell’argomentazione sviluppata nel Proslogion e
la sua conclusione.
cadere in contraddizione. Anselmo apprezza l’obiezione e ordina che essa sia riportata
alla fine del Proslogion, insieme alle sue risposte. I diversi aspetti della critica di Gaunilo-
ne si possono raggruppare in due grandi temi: uno riguarda il modo in cui viene pensata
la definizione di Dio, l’altro il rapporto tra pensiero e realtà.
1. Per quanto riguarda il primo punto, Gaunilone afferma che si possono pensare
moltissime cose, anche dubbie e false; bisognerebbe pertanto distinguere tra pen-
sare (cogitare) e comprendere (intellìgere). Chi pensa Dio, non può dire di conoscer-
lo né di comprenderlo, perché non ne conosce il concetto: Dio è incomparabilmen-
te al di sopra di ogni realtà a noi conosciuta. La definizione che Anselmo propone
non conduce ad alcuna conoscenza reale e, più che definire Dio, mostra il dinami-
smo dell’intelletto, che pensa qualcosa che trascende ogni pensabile. Perché que-
sta definizione possa avere un contenuto reale, bisognerebbe avere prima dimo-
strato per altra via che Dio in quanto essere sommo esiste.
Anselmo però ribatte che per la validità dell’argomento non è necessario presume-
re una conoscenza di Dio; si può pensare Dio anche se è inaccessibile e incompren-
sibile, e ciò è sufficiente per suffragare la dimostrazione. Come non è necessario
riuscire a fissare lo sguardo sul sole per vedere la luce del giorno, così non è neces-
saria una nozione completa di Dio per pensarlo.
2. Il secondo punto riguarda il passaggio dal pensare Dio alla conclusione che ne af-
ferma l’esistenza. Per Gaunilone la definizione di Dio rimane tutta interna al pen-
siero e da qui non si può passare al piano della realtà: anche se penso che Dio
esista, ciò non implica che Dio esista veramente. Per chiarire questa obiezione, egli
fornisce il celebre esempio di un’isola beata, dotata di ogni ricchezza e delizia a tal
punto da rendere felice chiunque la raggiunga; essendo un’isola immaginata come
il luogo migliore di tutti quelli presenti sulla Terra, applicando il ragionamento di
Anselmo bisognerebbe concludere che essa esista necessariamente; il che è ovvia-
mente assurdo.
Anselmo risponde che l’isola beata, pur essendo il luogo migliore nel suo genere,
può essere pensata come non esistente senza incorrere in una contraddizione, men-
tre Dio è tale in assoluto, è l’unico ente di cui non si può pensare nulla di maggiore
e che dunque deve esistere. Inoltre rimprovera Gaunilone di avere semplificato la
definizione di Dio nella formula “ciò che è maggiore di tutti”; in tal modo l’argo-
mento non funziona e la dimostrazione dell’esistenza deve seguire altre vie (come
quelle esplicitate nel Monologion). È soltanto nella definizione proposta da Anselmo
che si può passare dal pensiero alla realtà, o meglio a riconoscere in modo evidente
che senza l’esistenza di Dio la definizione è contraddittoria. Dio è l’unico a cui l’ar-
gomento possa essere applicato, perché è il massimo pensabile; al di sotto di questo
limite tutte le cose pensate possono esistere o non esistere; ma se Dio, che è il limi-
te estremo della pensabilità, non esistesse, forse nulla potrebbe veramente dirsi
reale e non potrebbe neppure essere pensato. Non è l’esistenza di Dio che dipende
dalla sua definizione, ma è la sua esistenza intuita come necessaria (perché la non
esistenza è una contraddizione) che ne rende possibile la definizione. ESERCIZI
250 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
AVICENNA
t1 L’uomo volante dal Liber de anima
In questo brano Avicenna invita a immaginare un uomo sospeso nell’aria, privo di storia e di percezioni
sensibili. È un esperimento mentale che mira a indagare se, privato di esperienza sensibile, un essere
umano possa avere coscienza di sé e se questo “io”, che l’uomo afferma di essere, sia l’anima, la quale
pertanto risulta priva di legami con il corpo.
[Un uomo privo di sensazioni] Diremo dunque che uno di noi deve supporre di essere stato
creato all’improvviso e perfetto, ma di non vedere le cose esteriori essendo la sua vista
velata, e di essere stato creato come se si muovesse nell’aria o nel vuoto, così che non lo
toccasse la densità dell’aria in modo da poterla sentire, e come se le sue membra fossero
5 separate in modo da non urtarsi né toccarsi. Si osservi poi se egli possa affermare l’esisten-
za della sua essenza: non esiterà infatti ad affermare di esistere, ma non affermerà tuttavia
l’esistenza delle membra esteriori, né i recessi di quelle interne, né l’animo, né il cervello,
né qualcos’altro al di fuori, ma affermerà l’esistenza di sé stesso, di cui non potrà dire né la
lunghezza, né la larghezza, né la profondità. Se infatti in quel momento gli fosse possibile
10 immaginare una mano o un altro membro, non lo immaginerebbe tuttavia come parte di
sé, né come necessario alla sua essenza. […]
[La certezza dell’esistenza] Ripetiamo ora ciò che abbiamo detto in precedenza, cioè che se
un uomo fosse creato all’improvviso, con le mani e i piedi distesi, che egli stesso non
potesse vedere, né toccare, e queste stesse membra non potessero toccarsi, ed egli non
15 udisse alcun suono, ignorerebbe invero l’esistenza delle sue membra e tuttavia saprebbe di
esistere, anche perché è una qualche unità, benché non conosca tutte quelle membra (po-
iché invero ciò che si ignora non è lo stesso di ciò che si afferma). Ma queste membra in
verità sono soltanto come delle vesti, che, poiché a lungo aderirono a noi, abbiamo preso a
considerare come noi stessi o come una parte di noi; quando infatti immaginiamo le nostre
20 anime, non le immaginiamo nude, ma rivestite dei corpi, a causa della continua aderenza;
ma siamo soliti togliere le vesti e gettarle via, cosa che non siamo affatto soliti fare con le
membra; perciò l’opinione che le membra siano parte di noi è in noi più radicata dell’opin-
ione che le vesti siano parte di noi. […]
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 251
Ma se qualcuno dicesse: «Ignori che ciò sia l’anima», dirò che lo so da sem-
TESTI
[L’io e l’anima]
25 pre e che questo è ciò che intendo con anima, anche se forse ignoro che sia chiamata ani-
ma; quando però avrò compreso che si chiama anima, comprenderò che è identico a essa,
e che è proprio quello che guida gli strumenti che si muovono e apprendono; per cui ignoro
che quell’io sia l’anima, finché ignorerò che cosa sia l’anima. Non è così invece la posizione
del cuore o del cervello. Comprendo infatti che cosa siano il cuore e il cervello, ma non
30 comprendo di essere io quelli; quando infatti comprendo che l’anima stessa è il principio
dei movimenti e delle apprensioni che possiedo e rispetto a tutti questi è il loro fine, conos-
co in maniera assolutamente verace che io sono questa stessa anima, oppure che essa stes-
sa sia l’io che regge questo corpo.
(Liber de anima seu Sextus de Naturalibus, I, 1; V, 7, trad. it. di A. Saccon,
in M. Ferraris - P. Kobau, a cura di, L’altra estetica, Einaudi, Torino 2001, pp. 125-127)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI E DISCUTI
1. Prova a fornire gli elementi che ritieni imprescindibili per poter affermare di esistere e rifletti se tali
aspetti siano certi oppure no (se si possa, ad esempio, immaginare che siano frutto di illusione o di
un errore di percezione).
2. Avviate una discussione in classe sul tema dell’identità dell’io: quest’ultima è necessariamente legata
al proprio corpo o può esistere anche in assenza di una percezione sensibile chiara? Ai fini del dibatti-
to potete immaginare altri esperimenti mentali o situazioni reali, in cui si possano distinguere
“anima” e “corpo” (amnesie, perdite di sensibilità, sogni, ipotesi di vita su altri pianeti o in
assenza di atmosfera, deficit cognitivi o sensoriali, anestesie ecc.).
252 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
TESTI
ANSELMO
t2 L’argomento a priori dal Proslogion
I primi paragrafi del Proslogion sono dedicati a dimostrare l’esistenza di Dio con un unico argomento,
a priori e logicamente inattaccabile anche per un ateo; nella seconda parte, molto più estesa, Anselmo
cerca invece di comprendere che cosa sia Dio e come si possa definire l’essenza divina.
Il testo seguente riporta l’argomento di Anselmo, dalla definizione di Dio alla considerazione della sua
possibile non esistenza affermata dall’insipiente, fino alla necessità di ammettere che non si può
pensare che Dio non esista.
[La definizione di Dio] Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di
comprendere, per quanto sai che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che sei
quello che noi crediamo.
E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande.
5 O forse non vi è una tale natura, perché «disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste»? Ma
certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè «qualcosa di cui
non si può pensare nulla di più grande», comprende ciò che ode; e ciò che comprende è nel
suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa
sia nell’intelletto, e altro è intendere che quella cosa esista. Quando il pittore, infatti, prima
10 pensa a ciò che sta per fare, ha certamente nell’intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma
non intende ancora che questo esista. Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell’in-
telletto ciò che ha già fatto, ma intende anche che esso esista. Anche l’insipiente, dunque,
deve convenire che, almeno nell’intelletto, vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla
di più grande, perché quando sente questa espressione la intende, e tutto ciò che si intende
15 è nell’intelletto.
[L’esistenza di Dio] Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande
non può essere nel solo intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che
esista anche nella realtà, il che è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il mag-
giore è nel solo intelletto, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si
20 può pensare il maggiore. Ma evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non
si può pensare il maggiore esiste, senza dubbio, sia nell’intelletto, sia nella realtà.
[L’impossibilità di pensare l’inesistenza di Dio] Tutto ciò è talmente vero, che non si può nep-
pure pensare che Dio non esista. Infatti si può pensare che vi sia qualcosa di cui non si
possa pensare che non esiste; e questo è maggiore di ciò che si può pensare non esistente.
25 Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente,
quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si può pensare il
maggiore, ma questo è contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore
esiste così veramente che non si può neppure pensare non esistente.
(Proslogion, 2-3, trad. it. di I. Sciuto, in Anselmo, Monologio e Proslogio,
Bompiani, Milano 2002, pp. 317-319)
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 253
TESTI
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI E DISCUTI
1. Come credente Anselmo non dubita dell’esistenza di Dio (lo si evince anche dall’invocazione iniziale);
invece l’insipiente, che alla fine dovrebbe essere logicamente convinto dell’esistenza di Dio, non è
tenuto ad abbracciare la fede. Qual è dunque a tuo avviso il fine della dimostrazione? E quale il rapporto
tra logica razionale e fede?
2. Sotto la guida dell’insegnante, organizza con i tuoi compagni un dibattito regolamentato (stabilendo
in anticipo i tempi e i modi degli interventi) in cui una squadra assuma la posizione di Anselmo
e l’altra difenda quella dell’ateo.
254 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
capitolo 18
SINTESI Filosofi dell ’XI secolo:
Avicenna e Anselmo d ’Aosta
AUDIOSINTESI
capitolo 18
MAPPE CONCETTUALI Filosofi dell ’XI secolo:
Avicenna e Anselmo d ’Aosta
GLI AMBIENTI CULTURALI
ARABO E LATINO
IL MONDO ARABO IL MONDO LATINO
è caratterizzato da è caratterizzato da
disponibilità del sostegno dei sovrani scarsità delle fonti predominio di una
patrimonio filosofico allo sviluppo delle (perlopiù latine), cultura “clericale”
e scientifico dell’età scienze e della custodite e studiate
classica e presenza cultura nei monasteri e nelle
di ricche biblioteche scuole cattedrali
AVICENNA
scienza universale
che si occupa
LA METAFISICA è
dell’“essere in
quanto essere”
distingue tra
realtà contingente: Dio: non deriva l’atto d’essere ciò che fa sì che
deriva da altro e da altro una cosa sia quella
può cessare di che è
esistere
Filosofi dell ’XI secolo: Avicenna e Anselmo d ’Aosta capitolo 18 257
decima intelligenza
la causa prima (Dio) la creazione sia (o intelletto agente)
intervenga soltanto nella considerata come
produzione della prima emanazione e pertanto che
intelligenza e della sia eterna
relativa sfera celeste
è separata illumina la mente
dall’individuo e umana infondendo
l’universo è strutturato la causa prima è eterna garantisce in essa le idee
secondo una gerarchia di e dunque lo sono anche l’universalità
intelligenze via via inferiori i suoi effetti del sapere
ANSELMO
la fede non può essere
cieca e incondizionata
LA DIMOSTRAZIONE è necessaria
DELL’ESISTENZA DI DIO perché
la ragione costituisce
l’orizzonte comune per
è elaborata nel combattere il dubbio nella fede
Monologion Proslogion
(argomento a posteriori) (argomento a priori)
infatti
capitolo 18
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Filosofi dell ’XI secolo:
Avicenna e Anselmo d ’Aosta TEST
Allena la logica
Cordova Catania
Granada
mar Mediterraneo
Marrakech
Il Cairo
ma
rR
oss
o
262 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Nei confronti del mondo arabo gli intellettuali latini continuano a percepire un senso
di inferiorità, ma stanno recuperando a grandi passi questo divario grazie alla vicinanza
geografica e a una prossimità culturale che deriva dal fatto di onorare le stesse fonti
antiche del sapere (i filosofi greci classici). E proprio per accedere a queste fonti si rivol-
gono agli arabi che le hanno conservate, e cercano in tutti i modi di leggerle, copiarle,
tradurle, in un processo di lenta acquisizione che darà i suoi frutti nella rinascita latina
del XIII secolo (❯ p. 294 e ss.).
Gli arabi hanno il merito di trasmettere all’Occidente il sapere antico e un patrimonio
filosofico fatto di commenti, parafrasi e riflessioni originali; sono però i latini a costrui-
re i luoghi istituzionali dove preservare e trasmettere nei secoli futuri tale eredità. Nel-
le città del mondo latino fioriscono le scuole episcopali, organizzate da chierici nella ca-
nonica della cattedrale, ma anche scuole private, rette da singoli maestri. Questi luoghi
sono un’anticipazione delle università, e a poco a poco conquisteranno una certa autono-
mia rispetto all’autorità politica ed ecclesiastica: in tal modo l’insegnamento diventa una
professione, come vedremo con Abelardo, e non più un ruolo legato a una posizione di
potere. Al contrario, nel mondo arabo, la mancanza di istituzioni analoghe alle scuole e
la dipendenza dei filosofi dalla politica culturale dei sovrani determinerà la decadenza
della filosofia dopo Averroè.
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo i due elementi che favoriscono la fioritura culturale del XII secolo.
• Evidenzia nel testo i fattori di novità legati allo sviluppo delle città.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 263
❯ A destra, Eloisa
(in piedi con il
vestito rosso) entra
in convento;
a sinistra, i due
sposi si rincontrano;
miniature,
XV e XVI secolo.
La vicenda amorosa
di Abelardo
ed Eloisa ebbe
grande fortuna nei
secoli successivi,
divenendo oggetto
di numerose
rappresentazioni
iconografiche e
letterarie.
Temendo che Abelardo voglia ripudiare Eloisa, Fulberto si vendica atrocemente, facen-
dolo evirare da alcuni sicari nel cuore della notte. A quel punto Eloisa è costretta a pren-
dere i voti religiosi e per tutta la vita motiverà la sua scelta come gesto d’amore per Abe-
lardo; quest’ultimo invece si rifugia nel monastero di Saint-Denis, non per vocazione, ma
per la vergogna e il desiderio di ritirarsi in solitudine.
Le strade dei due si incontreranno ancora nel 1129, quando Abelardo offrirà ospitalità
a Eloisa e alle sue consorelle, il cui convento era stato espropriato, donando loro il mona-
stero del Paracleto (presso Troyes). A questi anni risale una raccolta di lettere tra Abe-
lardo ed Eloisa, dove lei rievoca in maniera struggente la loro storia giovanile senza
rinnegare mai la sua dedizione, mentre Abelardo cerca di ricondurre la relazione a un
piano più propriamente intellettuale e spirituale.
Gli ultimi anni della vita di Abelardo sono dunque caratterizzati da spostamenti tra
diverse città, controversie, condanne, e perfino da un tentativo di avvelenamento da
parte dei monaci, ma sono contrassegnati anche da un’attività di insegnamento quasi
ininterrotta, coronata da un successo unanime presso gli studenti, che si calcola siano
stati circa cinquemila; tra essi si annoverano alcuni discepoli celebri, come sovrani, papi,
vescovi, abati.
FARE per CAPIRE • Evidenzia i dati biografici di Abelardo filosoficamente rilevanti e costruisci una
tabella, riportando a sinistra gli eventi e a destra la loro importanza filosofica.
266 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
La posizione realista
Al tempo di Abelardo, l’ipotesi secondo cui gli universali hanno un valore ontologico è
definita realista. Per i realisti, come Guglielmo di Champeaux, gli universali sono essen-
ze eterne, che il nostro intelletto contempla e rispecchia nelle categorie. Tali essenze
lessico dialettica il termine nel Medioevo è sinonimo universale (dal latino universus, “tutto”, “intero”)
filosofico di “logica”. Per Abelardo la dialettica non è unica- il genere o la specie in cui l’individuo può essere
mente un insieme di regole che il pensiero deve classificato, quindi ciò che definisce l’insieme, il
seguire per produrre ragionamenti formalmente “tutto” dove l’individuo, come parte, si colloca.
corretti, bensì lo strumento con cui accrescere la
conoscenza e avvicinarsi alla verità.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 267
realismo nella discussione sugli universali, la (“cose”) che esistono a prescindere dagli individui e lessico
posizione secondo cui essi sono essenze immuta- anzi sono la condizione di esistenza di questi ultimi. filosofico
bili che hanno un’esistenza reale; sono cioè res Gli universali hanno quindi un valore ontologico.
delle cose stesse. Abelardo distingue infatti la funzione linguistica, con cui si nominano
e definiscono le cose, dal significato che le parole hanno, ciò che il linguaggio fa com-
prendere, ovvero il concetto o contenuto mentale: è soltanto a questo secondo livello che
si può parlare di universalità dei concetti.
nominalismo nella disputa sugli universali, la concettualismo la posizione di Abelardo se- lessico
posizione secondo cui questi non corrispondono condo cui gli universali non sono né essenze re- filosofico
a nessuna entità, essenza reale o res, ma sono almente esistenti né puri nomi, ma concetti co-
solamente nomi (flatus vocis) che usiamo per in- struiti per astrazione a partire dagli elementi
dicare gruppi di oggetti, accomunati in base a comuni che identificano la natura degli individui.
caratteristiche simili. Gli universali non hanno I concetti hanno un significato non convenziona-
valore ontologico, ma sono pure convenzioni, le, perché si riferiscono a caratteri fondamentali
perché esistono soltanto gli individui. che tutti gli individui di una classe condividono.
270 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
lessico theològia (dal greco theós, “Dio”, e lógos, “discorso”) nell’accezione di Abelardo, discorso razionale
filosofico su Dio che si serve anche delle argomentazioni logico-dialettiche.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 271
FARE • Sottolinea nel testo la risposta alla domanda: “in che cosa consiste la novità della posizione
per di Abelardo in relazione alla dialettica?”.
CAPIRE • Definisci lo scopo del Sic et non, utilizzando i termini: autorità - tradizione - ragione.
FARE per CAPIRE • Elabora una tabella in cui inserire ciascuna regola interpretativa e la sua sintetica
descrizione.
L’ ETICA
La morale dell ’ intenzione
Un filosofo così controcorrente come Abelardo non poteva non intervenire anche nell’am-
bito morale, specificando i criteri di valutazione del comportamento umano con rifles-
sioni di indubbia originalità. Diversamente dall’etica ellenistica, intesa sostanzialmente
come ricerca della felicità, che trattava in positivo i comportamenti e lo stile di vita da
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 273
❯ Il Giudizio
universale, mosaico,
part., XI secolo, isola
del Torcello (Venezia),
Santa Maria Assunta.
inclinazione l’insieme delle disposizioni e ten- non è di per sé peccato: quest’ultimo risiede nella lessico
denze naturali che fanno parte della natura uma- scelta di seguire o meno l’inclinazione, dunque filosofico
na e che orientano l’individuo verso un comporta- nella volontà umana.
mento piuttosto che verso un altro. L’inclinazione
274 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
non potevo farci nulla». La colpa o peccato consiste per Abelardo nel dare l’assenso
all’inclinazione naturale, nello scegliere interiormente di seguirla. L’uomo non è quin-
di soltanto un insieme di disposizioni naturali, ma ha libertà di scelta, che si esprime con
l’assentire o meno alle sue inclinazioni, di per sé moralmente indifferenti. È ciò che Abe-
lardo afferma quando sostiene che il peccato non è peccato della “carne”, ascrivibile cioè
al limite naturale, ma proviene sempre dallo spirito, e quindi dalla capacità di riconosce-
re un atto come peccaminoso e dalla libertà di consentirvi deliberatamente.
Se però il peccato coincide con l’intenzione di peccare, allora il suo compimento o
meno risulta indifferente: si può avere l’intenzione di svaligiare una banca ed esserne
impediti da circostanze casuali; nondimeno tale intenzione rimane un peccato. Questo
vale anche per la virtù, che non consiste nella realizzazione del proposito, ma nell’inten-
zione di fare il bene, come Abelardo illustra efficacemente con un esempio: se due uo-
mini decidono entrambi di costruire delle case per i poveri, ma uno dei due viene deru-
bato del denaro e non può più realizzare il progetto, hanno entrambi lo stesso merito,
❯ testo 2 p. 285 perché altrimenti la ricchezza potrebbe condizionare la qualità dell’azione morale.
❯Un dibattito
immaginario tra
Averroè e il filosofo
greco Porfirio di Tiro
(233-305), anch’egli
commentatore
di Aristotele,
illustrazione da
un manoscritto
su pergamena,
XIV secolo, Parigi,
Biblioteca Nazionale.
276 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Proprio la dipendenza della filosofia araba dal potere politico e il fatto di non poter
contare su strutture culturali autonome ne sanciranno la fine: nella misura in cui i so-
vrani adottano una linea fondamentalista – assumendo il dominio totale in ogni ambito
e limitando la libertà di pensiero –, la filosofia viene sempre più emarginata e sottoposta
a controlli e censure. Una parabola discendente di questo tipo è esemplificata proprio
dalla figura di Averroè: verso la fine della sua vita cade in disgrazia presso la corte
degli Almohadi (subentrati agli Almoravidi in Andalusia) per il suo atteggiamento ra-
zionalista, anche se forse non sono estranei alcuni intrighi di palazzo. È condannato e
costretto a fuggire in esilio, a Marrakech, dove muore nel 1198; nello stesso anno ca-
dono le accuse contro di lui, ma non si sa se la sua riabilitazione sia giunta mentre egli
era ancora in vita.
In realtà l’emarginazione politica e culturale non è il destino soltanto di Averroè, ma
anche della filosofia peripatetica all’interno del mondo arabo, il quale, dopo aver conse-
gnato all’Occidente il frutto di tanti secoli di riflessione filosofica, a partire dal Duecen-
to persegue un’altra via di ricerca più coerente con la sua tradizione religiosa. Dopo
Averroè la filosofia islamica continua ad essere praticata, ma perde a poco a poco il rife-
rimento culturale alle fonti greche e in tal modo anche la capacità di interagire con il
mondo occidentale.
Gli scritti
Il corpus delle opere di Averroè è estremamente ampio, sia per numero di scritti sia per
gli ambiti di interesse: compone infatti diversi trattati di diritto, di teologia, di interpre-
tazione coranica e di medicina, che tranne qualche eccezione non vengono tradotti in
latino. Dal punto di vista filosofico, però, il nome di Averroè è legato soprattutto al ge-
nere letterario del commento ad Aristotele, che egli utilizza in una forma che servirà
da modello anche per il mondo latino: mentre Avicenna parafrasava molto liberamen-
te il testo di Aristotele o lo lasciava implicito, Averroè commenta le opere dello Stagirita
citando all’inizio il testo originale, distinto anche graficamente dal resto dell’esposizio-
ne. Il commento, inoltre, procede in modo analitico, soffermandosi quasi su ogni parola
e spiegando le singole frasi: in questa maniera il lettore può ricostruire il dettato aristo-
telico e nel contempo disporre di una spiegazione chiara e sistematica. Più che nel mon-
do arabo, i commenti di Averroè saranno apprezzati in quello latino, dove il filosofo è
conosciuto come il “Commentatore” per antonomasia e le sue opere sono il tramite per
la conoscenza di Aristotele: ancora nella seconda metà del Cinquecento saranno stam-
pati a Venezia, in un’edizione di particolare successo. Questa fortuna spiega perché
Dante colloca Averroè nel limbo dei pagani virtuosi («Averrois che ’l gran comento feo»,
Inferno, IV, 144).
Si narra che l’impresa monumentale di spiegare tutto Aristotele sarebbe stata com-
missionata ad Averroè dallo stesso califfo, che si lamentava per l’oscurità dei testi e cer-
cava qualcuno che li comprendesse a fondo, per poterne illustrare le finalità e il signifi-
cato. Il commento di Averroè si estende a tutte le opere di Aristotele, tranne la Politica,
sconosciuta al mondo arabo: egli colma questa mancanza con il commento alla Repubblica
di Platone, unica opera platonica cui dedica attenzione.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 277
La filosofia e la fede
Con la sua teoria Averroè non soltanto preserva uno spazio per la filosofia all’interno
della tradizione islamica, ma le conferisce anche un ruolo d’onore, ritenendola addirittu-
ra indispensabile per chi può dedicarvisi. La possibilità di un contrasto tra ragione e fede
è quindi esclusa, pur ammettendo che i testi dei filosofi possono contenere errori, che
vanno corretti senza però rinunciare a tutta la loro riflessione. Il disaccordo tra filosofia
e religione è per Averroè soltanto apparente, e non è causato dai loro contenuti, ma
dagli uomini che vi si applicano.
278 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
❯ Una discussione
tra due filosofi,
miniatura,
XIII secolo,
Istanbul, Biblioteca
del Museo Topkapi.
Se in linea teorica filosofia e religione non sono in contrasto, è soltanto partendo dall’ana-
lisi concreta dei conflitti che si possono chiarire i motivi del dissidio. A questo scopo,
Averroè distingue nella società tre diverse classi di persone, che corrispondono ai tre
tipi di argomentazioni individuabili nella logica aristotelica (oratorie, dialettiche e dimo-
strative). Il primo gruppo è sensibile soltanto agli argomenti retorici: sono i credenti, che
giungono alla fede tramite la predicazione, spesso condotta con esempi, immagini, rac-
conti edificanti. All’estremo opposto vi è il gruppo dei filosofi, cioè di coloro che “com-
prendono quello che credono”, perché si servono di ragionamenti dimostrativi, che si fon-
dano su premesse certe e necessarie. Poiché tali argomentazioni sono estremamente
complesse, i filosofi non devono istruire i credenti, che non comprenderebbero le dimo-
strazioni e quindi perderebbero la fede. In mezzo ai due gruppi vi sono coloro che usano
ragionamenti dialettici, che pur avendo la forma del sillogismo non sono così cogenti,
perché si basano su premesse probabili. Questa terza categoria rappresenta i teologi, con
cui Averroè entra in contrasto e che considera nocivi sia per la massa dei credenti sia per i
filosofi: i teologi osteggiano i filosofi ritenendosi superiori e confondono il popolo dei cre-
denti con ragionamenti infondati. Secondo questa interpretazione, la filosofia si caratte-
rizza per un uso legittimo e libero della ragione; fede e ragione, islam e filosofia non
possono essere in contraddizione, ma corrono su strade parallele. Il filosofo non ha alcun
compito educativo nei confronti dei credenti, che devono attenersi al senso letterale del
testo sacro senza bisogno di dimostrazioni. Tale posizione sarà fraintesa nel mondo latino
nel senso di una doppia verità, una tesi che non corrisponde al punto di vista di Averroè:
soltanto chi non è filosofo e non comprende il ragionamento dimostrativo può pensare
che la filosofia sostenga tesi alternative o contrarie alla religione; in realtà la filosofia
giunge alla stessa verità della fede, soltanto in modo diverso. Ma l’aspetto più rilevante
della visione averroista è che i filosofi costituiscono un’élite ristretta e separata, che non
lessico teoria della doppia verità teoria secondo cui esistono una verità della fede e una verità della filo-
filosofico sofia diverse tra loro, ma ciascuna valida nel proprio ambito.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 279
interferisce con la fede del popolo. Invece che subordinare la filosofia alla teologia, o usar-
la per rafforzare il discorso teologico, Averroè sembra considerarla superiore, e delegittima
i teologi: non sufficientemente filosofi per comprendere l’argomentazione, non abbastan-
za “semplici” per credere alla lettera del Corano.
FARE per CAPIRE • Costruisci una tabella in cui far corrispondere ai tre tipi di argomentazione, la
classe sociale e il modo di arrivare alla verità e alla fede.
così che il teorema imparato da ognuno sia lo stesso per tutta la classe e per tutti gli stu-
diosi di matematica, in ogni tempo e in ogni luogo. È questo secondo aspetto – l’univer-
salità del sapere – che sta a cuore ad Averroè: come possiamo essere certi che ciò che
sappiamo sia valido per tutti? che gli altri comprendano ciò che diciamo? che il teorema
che abbiamo appreso in tempi e modi diversi sia lo stesso cui si riferisce l’insegnante?
Le funzioni che Aristotele chiama “intelletto agente” e “intelletto potenziale” rappre-
sentano per Averroè la dimensione universale e necessaria del conoscere, non il soggetto
concreto: “intelletto” non indica un organo, come l’occhio che è l’organo della vista, ma
le condizioni universali del conoscere e i suoi contenuti ideali, che come tali sono privi di
materia e sono indipendenti dalle condizioni soggettive.
lessico intelletto agente per Averroè è un’intelligenza intelletto potenziale per Averroè è anch’esso
filosofico esterna all’uomo che agisce sulla mente umana separato dall’individuo e universale, e indica non
illuminandola, così come la luce rende possibile la capacità del singolo uomo di imparare, ma la
la visione dei colori. possibilità che un oggetto di conoscenza diventi
un concetto universale conoscibile.
Il primato della ragione filosofica nel XII secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide capitolo 19 281
una potenzialità simile a quella della materia, perché quest’ultima riceve forme individuali,
senza un processo di comprensione da parte sua, mentre l’intelletto riceve forme universali
(i concetti) e in questa assimilazione comprende tali forme intelligibili. Inoltre, l’intelletto
potenziale non si trova mai in una condizione di potenzialità assoluta, non è un puro
vuoto indeterminato, ma è in potenza soltanto nei confronti di ciò che ancora non cono-
sce. L’intelletto potenziale è una sorta di luogo ideale (non fisico), in cui si trova tutta la
conoscenza, considerata nel suo aspetto universale e “indistruttibile”: se sbaglio o dimen-
tico la dimostrazione di un teorema, non per questo il teorema diventa falso.
FARE per CAPIRE • Riporta sinteticamente a margine, numerandole, le varie fasi del processo conoscitivo.
282 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
La felicità intellettuale
La metafora della connessione aiuta a spiegare un ultimo aspetto rilevante della teoria di
Averroè, che avrà una notevole fortuna: più l’uomo accresce la sua conoscenza, più l’atti-
vità dell’intelletto agente (che è pensiero puro) diventa durevole, sviluppando la capacità
di apprendere. Conoscere non è mai un processo meccanico di acquisizione di nozioni,
ma un atto che trasforma il nostro modo di pensare: non si naviga in Internet soltanto per
scaricare file con cui riempire la memoria del nostro computer, ma anche per acquisire
informazioni e migliorare le nostre competenze.
Per Averroè, più si apprende e più la mente umana potenzia le proprie capacità,
diventa più intuitiva e in grado di conoscere concetti sempre più complessi e astratti. Nel
suo massimo grado questo processo rappresenta una “congiunzione” o “unione” com-
pleta all’intelletto agente: uno stato felice e perfetto a cui soltanto i filosofi possono
accedere; una forma di beatitudine terrena che deriva dal possedere tutta la conoscenza
dell’intelletto agente; una identificazione della mente umana con il puro pensiero.
Con ciò si esprime un apprezzamento entusiastico per la ragione umana, in grado
di elevarsi a una visione intellettuale universale, e si delinea una forma di realizzazione
filosofica parallela, se non alternativa, a quella religiosa. Anche per quanto riguarda la
felicità intellettuale, che si ottiene con la conoscenza, i filosofi si mostrano superiori alle
ESERCIZI altre classi sociali individuate da Averroè.
Nel mondo ebraico è un’autorità indiscussa come guida religiosa e giuridica: è consi-
derato il nuovo Mosè, che non trasmette più le tavole della legge, ma la loro corretta
interpretazione.
La sua fama di erudito e di medico gli apre anche gli ambienti della corte di Saladino
e dei circoli culturali più elevati: oltre che di teologia e di filosofia, si occupa di matema-
tica, astronomia e zoologia.
FARE per CAPIRE • Elabora uno schema in cui inserire le diverse classi di uomini, nel corretto ordine
gerarchico, e il tipo di conoscenza che compete loro.
284 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
ABELARDO
t1 La ragione e le autorità dal Sic et non
Nel Sic et non Abelardo mette a confronto le opinioni favorevoli e contrarie dei padri della Chiesa
relativamente a un gran numero di questioni. Nel brano seguente – tratto dal prologo dell’opera –
l’autore spiega che il motivo di questa raccolta di autorità discordanti è promuovere la ricerca per
giungere alla sapienza: le opinioni autorevoli dei santi e della Bibbia non limitano infatti la libertà
dell’indagine, ma sollecitano al contrario l’uso della ragione.
[La ricerca come chiave della sapienza] Poi, come abbiamo stabilito, delibate [riconosciute]
queste nozioni, decidiamo di raccogliere diversi detti dei santi padri che saranno venuti
alla memoria, in quanto sembrano comportare qualche questione per discordanza: essi
stimoleranno i giovani lettori al più intenso esercizio di ricerca della verità e li renderanno
5 più puntuali nell’indagine. Appunto questa assidua e ripetuta investigazione si definisce
proprio come prima chiave della sapienza; e allora, per bisogno impellente di possederla,
il filosofo più intelligente di tutti, Aristotele, nella categoria «che cosa» esorta gli studiosi
dicendo: «ma forse è difficile chiarire con sicurezza simili problemi se non si sono spesso
trattati a fondo. Ma dubitare di ognuno non sarà cosa inutile».
10 [Il dubbio e la verità] Certo, dubitando facciamo ricerca e ricercando raggiungiamo la verità.
In conformità a questo la Verità stessa ha detto: «cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto»
(Matteo 7, 27). Volendo insegnarcelo in pratica con l’esempio, a circa dodici anni volle essere
trovato in mezzo ai dottori che sedeva e interrogava (Luca 2, 46), mostrandoci per prima cosa
l’aspetto di discepolo mediante l’interrogazione, piuttosto che di maestro mediante la predi-
15 cazione, pur essendo la sapienza stessa di Dio, piena e perfetta. Quando dunque sono stati
addotti alcuni passi delle Scritture, essi tanto più ampiamente sollecitano il lettore e lo stimo-
lano alla ricerca della verità, quanto più si accompagna l’autorità della Scrittura stessa.
(Pro e contro. Il prologo del Sic et non, trad. it. e cura di R. Mazzarol, Atì, Milano 2011, pp. 65-66)
ALLENA LE COMPETENZE
TESTI
COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO
righe 1-9 Fin dalla prima parte del brano si osserva righe 10-17 In queste righe viene sviluppata la
un uso inedito delle autorità, che non servono a con- funzione del dubbio: esso non rappresenta un osta-
fermare una tesi, ma sono raccolte proprio in nome colo alla ricerca, né un elemento occasionale, ma è la
della discordanza, al fine di rendere i giovani più atten- via maestra per la verità. E se nella parte precedente
ti e scrupolosi nella ricerca della sapienza. Il testo rivela era il filosofo per eccellenza a insegnare a dubitare,
soprattutto un’attenzione didattica, affinché gli stu- qui si prende come modello lo stesso Gesù che, pur
denti non siano disorientati dal contrasto delle opinio- essendo verità e sapienza, si è messo per primo nei
ni, bensì incitati ad approfondire l’indagine con tena- panni del discepolo che interroga. La riflessione sul
cia: in una riflessione sull’uso delle autorità, la citazione dubbio non si limita quindi alla ricerca filosofica, ma
di Aristotele, il più sapiente tra i filosofi, conferma che riguarda direttamente anche quella teologica e l’au-
la via della conoscenza passa attraverso il dubbio. torità dei testi sacri.
RIFLETTI E DISCUTI
Rifletti su che cosa significa, a tuo avviso, fare ricerca oggi e avvia una discussione in classe sul ruolo del
dubbio e della raccolta di pareri autorevoli discordanti in vista della scoperta della verità di una tesi.
[Il vizio dell’animo] Il vizio così inteso non si identifica affatto col peccato, né il peccato si iden-
tifica a sua volta con l’azione cattiva. Per esempio, l’essere iracondo, cioè incline o facile a la-
sciarsi prendere dall’ira, è vizio e inclina la mente a compiere in modo inconsulto e senza
controllo della ragione qualche cosa che non deve essere fatto. Ora questo vizio ha la sua sede
5 nell’anima in modo che sia facile ad adirarsi anche quando non viene mossa dall’ira; così lo
zoppicare, per cui appunto un uomo si dice zoppo, si trova in lui anche quando non cammina
zoppicando, poiché il vizio c’è anche quando l’azione non c’è ancora. Del pari la stessa natura
o la complessione fisica rende molti inclini alla lussuria, come all’ira; e tuttavia costoro non
peccano per il fatto stesso che sono così come sono, anzi da ciò possono ricavare motivo di
10 lotta, per conquistare attraverso la virtù della temperanza la corona del trionfo su se stessi […]
[Il peccato come colpa dinanzi a Dio] Il vizio è pertanto ciò per cui siamo resi inclini a pec-
care, cioè siamo inclinati ad acconsentire a cose illecite, siano azioni oppure omissioni. Ora
questo consenso chiamiamo propriamente peccato, cioè la colpa dell’anima, per cui essa
merita la dannazione o viene a porsi in condizione di rea presso Dio. Che cos’è infatti que-
15 sto consenso se non il disprezzo di Dio e l’offesa a lui recata? Dio infatti non può essere
offeso dal danno, ma dal disprezzo.
(Etica, trad. it. di M. Dal Pra, CUEM, Milano 2012, pp. 26-27)
286 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
ALLENA LE COMPETENZE
TESTI
RIFLETTI
Prova a trasformare l’etica religiosa di Abelardo in un’etica laica, sostituendo al concetto di “peccato”
quello di “colpa”. Con questa attualizzazione, come puoi definire la colpa, visto che per Abelardo
il peccato è «il disprezzo di Dio»?
AVERROÈ
t3 La filosofia di fronte alla religione
dal Trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia
Averroè non si limita a constatare la legittimità della ricerca filosofica da parte dei credenti, ma
stabilisce nell’ordine: 1. la necessità di tale indagine; 2. il carattere eminentemente razionale della
filosofia, che si fonda su dimostrazioni certe; 3. l’uso della razionalità come via migliore per conoscere
Dio. A partire quindi da una questione giuridica (se la legge religiosa consideri lecita l’attività filosofica),
l’autore giunge a valutare la dimostrazione filosofica superiore anche all’atteggiamento di chi crede.
TESTI
[Il sillogismo dimostrativo]
speculazione e l’indagine razionale sugli esseri esistenti, e poiché tale indagine non consiste
in altro che nella deduzione e nella derivazione dell’ignoto dal già noto – e questo è ciò che
si chiama sillogismo ovvero ciò che si ottiene per mezzo del sillogismo –, è pure obbligato-
15 rio che ci rivolgiamo allo studio della realtà esistente per mezzo del ragionamento raziona-
le. È inoltre evidente che questo tipo di analisi cui la Legge religiosa chiama e incita, è la
specie più perfetta di ragionamento, cioè quella che si chiama “dimostrazione [apodittica]”.
[La conoscenza di Dio] Poiché la Legge induce alla conoscenza di Dio Altissimo e di tutte
le creature per mezzo della dimostrazione, la cosa migliore e più assolutamente vincolante
20 per chiunque voglia conoscere Dio Benedetto ed Eccelso e gli altri esseri esistenti attraver-
so la dimostrazione, è in primo luogo di progredire nella conoscenza delle varie specie di
dimostrazione e delle loro condizioni, e poi di sapere quale sia la differenza tra il ragiona-
mento dimostrativo, quello dialettico, quello retorico e quello erroneo. Ciò però non è pos-
sibile, se prima non si perviene a sapere che cos’è il ragionamento in senso generale e di
25 quante specie è composto, e ciò che è davvero il ragionamento e ciò che non lo è. E questo
a sua volta non è possibile se prima non si perviene a sapere quali sono le parti che com-
pongono il ragionamento – e in specie le premesse e le loro distinzioni. In conclusione è
vincolante per chi crede nella religione e si conforma ad essa scegliendo di speculare sugli
esseri esistenti, che, prima di speculare, arrivi a conoscere quelle cose che, relativamente al
30 pensiero, svolgono la stessa funzione degli attrezzi relativamente all’attività pratica.
(Il trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia,
trad. it. di M. Campanini, BUR, Milano 1994, pp. 45-49)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
Si può a tuo avviso attualizzare il discorso di Averroè, sostenendo che chiunque crede deve appli-
carsi a conoscere la realtà attraverso l’indagine scientifica? Quali sarebbero secondo te le cono-
scenze preliminari (la “cassetta degli attrezzi”) per condurre tale ricerca?
288 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
capitolo 19
SINTESI Il primato della ragione filosofica nel XII secolo:
Abelardo, Averroè e Maimonide
AUDIOSINTESI
capitolo 19
MAPPE CONCETTUALI Il primato della ragione filosofica nel XII
secolo: Abelardo, Averroè e Maimonide
ABELARDO E LA DISPUTA
SUGLI UNIVERSALI
ABELARDO
infatti sostiene il
concettualismo
ABELARDO: TEOLOGIA E
METODO DIALETTICO
LA TEOLOGIA
che utilizza
il metodo
la filosofia esemplificato dal Sic et non
dell’argomentazione
la quale
AVERROÈ: LA CONCEZIONE
DELLA CONOSCENZA
L’UNIVERSALITÀ DELLA CONOSCENZA
è garantita da
che costituiscono
LA CONOSCENZA INDIVIDUALE
ha origine nella
rappresentazione sensibile
delle cose
da cui ricava
un procedimento di
le forme intelligibili mediante “astrazione” ad opera
dell’intelletto agente
le quali
capitolo 19
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Il primato della ragione
filosofica nel XII secolo: RIPASSO
Abelardo, Averroè e Maimonide
5. Lo scopo dell’opera Sic et non è mostrare che:
1 Culture diverse in un mondo (segna la risposta esatta)
comune a la teologia è inaffidabile, perché gli scrittori sacri
si contraddicono
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) b la ragione deve applicare principi interpretativi
1. Individua tre elementi che favoriscono per superare le contraddizioni tra autorità
l’avvicinamento tra mondo culturale latino, arabo c la ragione senza la tradizione si contraddice,
ed ebraico: perché le interpretazioni sono molteplici
a. ................................................................................. d non si può andare oltre il dubbio della ragione,
b. ................................................................................. se non con la fede
c. ................................................................................. 6. Nell’Etica, Abelardo sostiene che:
2. In quali diversi contesti istituzionali si sviluppa (segna la risposta esatta)
la filosofia nel mondo arabo e in quello latino, a per valutare la moralità di un’azione occorre
e con quali conseguenze? riferirsi al danno pubblico che essa provoca
b il peccato è conseguenza necessaria
dell’inclinazione della natura umana
c l’intenzione è inutile per la virtù se non si traduce
verso le competenze
ARGOMENTARE E DISCUTERE
Prendendo spunto dagli interrogativi che hanno orientato la ricerca di Averroè, discutete in classe
sul rapporto fra teologia e filosofia, seguendo queste indicazioni:
• sotto la guida dell’insegnante dividetevi in due schieramenti che sostengano, rispettivamente,
che la filosofia è un’attività lecita ma indifferente per la fede oppure un’attività a cui sarebbe bene che
tutti i credenti si dedicassero;
• ogni schieramento seleziona almeno 2 argomenti a sostegno della propria tesi;
• i due schieramenti – nominando un portavoce – si affrontano in un dibattito in classe sul tema proposto,
esponendo a turno gli argomenti a sostegno della propria tesi (durata massima degli interventi 10 minuti).
La valutazione finale sullo schieramento risultato più efficace nel sostenere le proprie opinioni spetta
all’insegnante, che assume il ruolo di giudice.
294 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Il termine “scolastica” è talvolta usato per indicare tutta l’età medievale, a cominciare
dalla rinascita carolingia del IX secolo, che è un primo tentativo di stilare programmi e
creare istituzioni scolastiche, per proseguire con le scuole cattedrali dell’XI-XII secolo,
fino alle università. Tuttavia, benché si osservi un’innegabile continuità con le istituzioni
precedenti, è soltanto con il fiorire delle università che si mettono a punto un metodo e
uno stile filosofico che si possono veramente definire “scolastici” (e che continueranno
per tutta l’età moderna). La vera e propria scolastica inizia dunque in questo momento FARE per CAPIRE
grazie all’insegnamento universitario, basato sulla lettura e sull’interpretazione di testi, • Evidenzia nel
sui dibattiti e sul confronto tra posizioni contrapposte. Non rappresenta pertanto un pen- testo i fattori che
siero unitario e omogeneo, né un insieme di dottrine autorevoli e insindacabili (come promuovono la
ripresa culturale
nelle critiche a essa rivolte dagli umanisti e dai moderni), ma esprime un modello di ra- dell’Occidente
zionalità che si alimenta attraverso il confronto critico con i testi. latino.
ltico
mare del Nord mar Ba I CENTRI FILOSOFICI NEL XIII SECOLO
Lincoln
Oxford Londra Colonia
Praga
oceano Heidelberg
Atlantico Parigi Vienna
Monaco
Padova
Avignone Bologna
Tolosa Firenze Siena mar Nero
Montpellier
Viterbo Costantinopoli
Napoli
Toledo
Palermo Atene
Granada
mar Mediterraneo
Il Cairo
scolastica il termine si riferisce alla schola, il tuzionalizzazione dell’insegnamento e dei suoi lessico
luogo in cui si elabora e si trasmette il sapere nel metodi osservabile soprattutto dopo la fondazio- filosofico
periodo medievale. Pur non manifestando un’o- ne delle università, ed esprime un modello di ra-
mogeneità dottrinale, la scolastica mostra una zionalità che si basa sul confronto con i testi au-
certa comunanza di tratti distintivi, data dall’isti- torevoli e sulla discussione.
296 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
lessico università a partire dall’inizio del XII secolo, dediti all’elaborazione e trasmissione del sapere,
indica la corporazione che riunisce professori e e garantisce immunità, autonomia e libertà di in-
studenti, tutela gli interessi dei propri membri segnamento.
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 297
lo sviluppo
quattro facoltà entità giuridiche collettive
della filosofia scolastica
basata su che
2 I metodi di insegnamento
e il dibattito come ricerca della verità
Per quanto innovative, le università medievali non nascono dal nulla: hanno alle spalle
diverse esperienze di “scuole”, da cui mutuano – perfezionandole – le tecniche d’inse-
gnamento. I momenti principali della formazione universitaria sono la lectio, la quaestio e
la disputatio.
La lectio
Ancora oggi l’unità didattica fondamentale si chiama “lezione”. Il significato originario è
quello di “lettura” di testi – lectio –, l’attività principale dell’insegnamento medievale;
il termine lascia però trasparire l’influsso di prassi cristiane più antiche delle istituzioni
scolastiche, come la lectio divina (la spiegazione delle sacre scritture) o l’abitudine mona-
stica a leggere testi biblici e patristici durante i pasti consumati in silenzio. Prima della
fondazione delle università vi sono secoli e secoli in cui l’apprendimento avviene ascol-
tando la lettura di libri preziosi e autorevoli. Anche l’istruzione universitaria si struttura
in primo luogo come lettura e spiegazione delle opere ritenute fondamentali per ciascuna
disciplina: ad esempio, si studia Cicerone per la retorica, Tolomeo per l’astronomia, Eu-
clide per la geometria, la Bibbia e i padri della Chiesa per la teologia.
L’idea è che si impara leggendo scritti illustri, spiegati e commentati dal maestro, non
per un apprendimento mnemonico, ma lasciandosi guidare dagli antichi. Non si mira
cioè alla ripetizione e a uno studio nozionistico, bensì alla possibilità di pensare con il
testo: se si prende in mano un qualsiasi commento medievale, si rimane stupiti del fatto
che poche righe di un autore antico riescano a generare pagine e pagine di riflessione
autonoma. La lettura stimola l’approfondimento ed esige una comprensione attiva: il te-
sto pone questioni, suscita dubbi, spesso pare in contraddizione con ulteriori fonti ugual-
mente prestigiose. È così che la lectio si apre alla quaestio, il tratto più innovativo dell’in-
segnamento medievale.
La quaestio
La questione universitaria – quaestio – è il tipico procedimento medievale che trasforma
i testi da dottrine da apprendere in occasioni per la discussione, unica via per la ricerca
della verità.
Accade generalmente che la lezione sul testo si interrompa in seguito a un dubbio o un’a-
poria e inizi un dibattito che cerca di risolvere il conflitto tra le opinioni diverse. La centrali-
tà assegnata alla questione implica l’importanza del dubbio e del procedimento dialettico
❯Una lezione,
miniatura, XV secolo,
Friburgo in Brisgovia,
Biblioteca universitaria.
per chiarire il problema e giungere a una soluzione; a tale scopo anche le opinioni che alla
fine vengono respinte sono essenziali per non lasciare inesplorato nessun punto di vista,
anzi se possibile sono valorizzate, e non criticate in maniera inappellabile. Proprio l’impor-
tanza metodica della domanda e del dubbio fa sì che la questione assuma una portata
RICORDA CHE... universale: non c’è argomento o contenuto che non si possa mettere in discussione, anche se
Nell’opera Sic et non non si dubita effettivamente della sua realtà (come per i medievali a proposito dell’esistenza
Abelardo enumera 158 di Dio), perché il dibattito che ne deriva rafforza la chiarezza e il possesso della verità. Perfi-
questioni, che egli non no aspetti apparentemente futili e inessenziali lasciano trasparire questioni filosofiche di un
discute né risolve,
limitandosi a riportare certo rilievo: ad esempio, chiedersi in quale luogo si trovino gli angeli impone di chiarire
per ognuna una serie di come applicare le determinazioni spazio-temporali a enti immateriali.
citazioni tratte dai padri
L’opposizione tra autorità contraddittorie (gli argomenti a favore e quelli contrari
della Chiesa in senso
favorevole o contrario desunti da testi autorevoli) richiama il metodo dialettico di Abelardo messo a punto nel
alla tesi. In questo modo Sic et non, ma nell’università medievale esso viene generalizzato e formalizzato. Dal
lascia implicitamente alla conflitto di interpretazioni e dai dubbi posti dal testo si procede a strutturare la questio-
ragione il compito di
superare il contrasto. ne secondo un modello uniforme: è così che nasce la disputa universitaria, che non di-
❯ p. 270 pende più dal testo e ha modi e ruoli istituzionali specifici.
La disputatio
All’interno dell’università la disputa – disputatio – diventa una specifica attività didattica,
accuratamente regolamentata negli statuti; la quaestio disputata è un evento pubblico della
facoltà durante il quale sono interrotte le altre attività in modo che vi possano partecipare
tutti gli studenti e i maestri. La forma diventa standardizzata: si pone il problema, si enucleano
lessico autorità nella cultura medievale, le autorità segue una forma standardizzata: il maestro pone il
(auctoritates) sono testi o autori riconosciuti come problema e, sulla base degli argomenti pro e contro
rilevanti, autorevoli, che quindi vengono citati a individuati dal baccelliere, sviluppa la soluzione sia
supporto degli argomenti di una discussione. con opportune argomentazioni sia facendo ricorso a
testi la cui autorità è riconosciuta da tutti, infine ri-
disputatio (letteralmente, “disputa”, “discussione”) sponde agli argomenti contrari e alle obiezioni.
dibattito che si svolge a partire dalla quaestio e che
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 301
gli argomenti contrari e di seguito quelli a favore, si offre la soluzione, e infine si risponde a
ognuna delle tesi contrarie. L’organizzazione della disputa spetta al maestro (magister), che
deve fornire la soluzione dottrinale, ma è prevista anche la partecipazione attiva degli stu-
denti; in particolare, il baccelliere (una sorta di assistente, che non ha ancora ottenuto i
gradi accademici per insegnare) ha il compito di proporre le autorità contro e a favore. È la
pratica universitaria a cui si riferisce anche Dante nella Divina Commedia, quando, interro-
gato da san Pietro sulla fede, si paragona al baccelliere, che aveva la funzione di proporre gli
argomenti, ma non di risolvere (o determinare) la questione: Sì come il baccellier s’arma e non
parla / fin che ‘l maestro la question propone, / per approvarla, non per terminarla /così m’armava
io d’ogni ragione (Paradiso, XXIV, 46-48). L’interesse per questo procedimento è tale che i
maestri vengono apprezzati in base alla capacità di trovare la soluzione a questioni comples-
se; inoltre la disputa è una delle prove che gli studenti devono sostenere nell’esame finale.
Oltre alle dispute che riguardano argomenti trattati nei singoli corsi, vengono istituite
anche le quaestiones quodlibetales, dove è il pubblico, e non il docente, a proporre un “qual-
siasi” (quodlibet) tema da discutere: si tratta di una disputa particolarmente impegnativa,
che si tiene due volte all’anno, cui soltanto i maestri più preparati possono sottoporsi,
perché hanno il compito di risolvere la questione senza alcuna preparazione previa.
Il dibattito diventa la chiave dell’insegnamento, quale via per la ricerca della verità
al di là dei pareri discordi: le ragioni pro e contro si basano perlopiù su autorità ugual-
mente venerabili, per cui non si può semplicemente demolire o censurare la tesi contra-
ria, ma è necessario un intelligente lavoro di comprensione del problema. È raro perciò
che vi siano attacchi o accuse personali: solitamente la posizione avversaria non è respin-
ta, bensì ricompresa sotto una diversa angolatura, distinguendo il modo in cui intender-
FARE per CAPIRE la con verità e cercando di giustificarne il contributo alla verità stessa.
• Elabora uno Questa forma peculiare di didattica, basata su lettura, questione e dibattito, produce
schema in cui
inserisci le anche i corrispettivi testi scritti, veri e propri nuovi generi letterari: il commento, che riflet-
caratteristiche te la pratica della lectio, anche se si arricchisce di innumerevoli questioni e digressioni tema-
principali dei tre tiche; le quaestiones disputatae e le quaestiones quodlibetales, che sono la redazione da
momenti
dell’insegnamento parte del maestro delle dispute che ha condotto; e infine le summae, ossia sintesi disciplina-
universitario. ri, ordinate in modo sistematico e coerente, che si articolano anch’esse in questioni.
Autorità e ragione
Nella disputa, come abbiamo visto, l’argomentazione fa ricorso ad auctoritates, testi auto-
revoli citati per suffragare la propria posizione. Questo modo di procedere è stato spesso
considerato un cedimento della razionalità, che invece di dimostrare una tesi in maniera
autonoma fa appello ad autori ritenuti inoppugnabili, quasi nascondendosi dietro di essi.
Sembra un atteggiamento dogmatico, o almeno intellettualmente pigro; nel contesto me-
dievale però le cose sono più complesse: l’autorità non è la rinuncia al ragionamento,
ma un suo alleato, e non lo sostituisce in alcun modo.
Autorità e autore (auctoritas, auctor) hanno la stessa radice, perché derivano dal verbo
latino augeo, che significa “accresco”, “faccio aumentare”, “potenzio”; in senso traslato
questo accrescimento indica il successo, il valore, l’autorevolezza di una personalità che
arriva a diventare un modello. L’autore – sia di un’opera materiale sia di un testo – è colui
che ne risponde, fa da garante sull’autenticità, può fornirne l’interpretazione corretta.
All’interno dell’insegnamento medievale il significato del termine subisce un’evoluzione
per cui non si riferisce più all’autore, bensì al brano commentato. Inoltre, la necessità di
reperire argomenti a favore e contrari in occasione delle dispute trasforma le autorità
in citazioni concise e isolate, che acquistano la forma di “sentenze”, staccate dal resto
dell’opera, dal contesto letterario, personale e storico. La lista di argomenti supportati da
autorità fa sì che siano accostati passi di testi che distano anche parecchi secoli, come se
fossero contemporanei tra loro e per chi li cita: in una discussione sull’origine del mondo
si possono trovare menzionati la Genesi, Aristotele, Avicenna, il commento di Calcidio al
Timeo di Platone, Cicerone, spesso in ordine sparso. È un uso che stride con la nostra
lessico summa genere letterario tipico della filosofia e disposte in modo ordinato e sistematico, al fine di
della teologia medievali. L’esposizione degli ar- dare una visione completa del sapere in un de-
gomenti si articola in questioni discusse e risolte, terminato campo.
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 303
sensibilità storica, ma che può aiutare a comprendere meglio la forma della discussione
medievale, la quale affronta problemi attuali con l’aiuto delle soluzioni proposte in
passato. Ciò che colpisce di più è che non si utilizzano mai le autorità per chiudere la
discussione, ma piuttosto per aprire il dibattito, come testimonia il fatto che autori che
godono di enorme prestigio vengono citati sia negli argomenti a favore della tesi sia in
quelli contrari.
Il riferimento alle autorità nel Medioevo non è dunque un modo per sottrarsi alla di-
scussione, bensì per potenziarla, e non è un’alternativa all’argomentazione razionale,
bensì ciò che la sostanzia. I testi non sono soltanto l’occasione per il sorgere di questioni,
ma anche il luogo in cui la ragione ricerca le soluzioni, servendosi delle autorità in modo
piuttosto libero e spregiudicato.
In breve:
1. il ricorso all’autorità non esprime sempre l’ossequio alla tradizione: la fonte viene
talvolta usata per introdurre un pensiero altamente innovativo, che contrasta con il
senso comune. L’abitudine a estrapolare le citazioni dal contesto le rende estrema-
mente fluide, sottoposte a infinite interpretazioni. Non è raro che il senso origina-
rio sia molto differente dal significato che viene a esse conferito, a denotare una
notevole libertà interpretativa;
2. nella considerazione astorica delle fonti, trattate come contemporanee al punto di
vista di chi vi ricorre, emerge certamente una mancanza di senso storico, ma soprat-
tutto la percezione che i problemi discussi conservano una perenne attualità;
3. nelle università si discute e si fanno discutere autorità che non si sarebbero mai
potute incontrare realmente, perché il sapere è concepito non come un’acquisizio-
ne individuale, ma come un patrimonio universale e intersoggettivo. Nessun
autore medievale considera l’originalità individuale come valore, né vuole proporre
una tesi unica, creativa, innovativa, senza un consenso più ampio: non esiste veri-
tà se questa è valida e riconoscibile soltanto da una persona.
reperibili su supporti non soltanto cartacei; al contrario, quella medievale è una cultura
del testo scritto, raro e prezioso, dove il libro non è strumento di apprendimento passivo,
ma occasione di pensiero.
Il nome di Aristotele, prima associato soltanto ad alcune opere di logica, viene ora a
incarnare un sistema filosofico organico e coerente, che affascina e insieme preoccupa
per la difficoltà di integrarlo nella visione cristiana. L’incontro del mondo latino con la
filosofia di Aristotele non corrisponde però all’immagine che ne abbiamo attualmente: è
un Aristotele tradotto dall’arabo e filtrato dai commenti arabi, soprattutto di Averroè,
che grazie alla sistematicità e alla chiarezza dell’esposizione si guadagna il titolo di com-
mentatore per antonomasia, anche per la struttura dei suoi commenti, in cui il testo ari-
stotelico non è parafrasato come in Avicenna, ma riportato integralmente in piccoli brani
all’inizio di ogni capitolo (❯ p. 276). Soltanto in seguito si cercherà di ri-tradurre Aristo-
tele partendo dal testo greco, ma sarà comunque un lavoro lento.
❯ Un capolettera
miniato con un
filosofo che
contempla le stelle,
pagina tratta da
un’edizione
medievale della
Fisica di Aristotele,
XIII secolo, Londra,
British Library.
Il XIII secolo: la ripresa culturale dell ’Occidente latino capitolo 20 305
1. Nella sua divisione e classificazione delle scienze, Aristotele non utilizza un mo-
dello gerarchico, che porti a preferire alcune discipline rispetto ad altre ritenute
inferiori o meramente propedeutiche: ogni scienza studia un particolare settore
della realtà, in base a un’impostazione e un metodo specifici, a seconda dell’ogget-
to e del fine. Il mondo cristiano tende invece a finalizzare a Dio tutta la realtà e il
sapere, pertanto la teologia diventa la scienza perfetta, soprattutto se intesa come
una conoscenza in cui Dio, prima che il contenuto, è il soggetto che la trasmette
agli uomini per rivelazione. Da qui la tendenza a squalificare le altre discipline,
considerate inferiori, inutili o addirittura di ostacolo per la salvezza. È un deprez-
zamento della ragione umana che ha radici antiche, come il disprezzo per la filo- RICORDA CHE...
sofia in san Paolo e nell’ultima fase del pensiero di Agostino. Negli scritti della
2. Nella concezione aristotelica, la natura si fonda su principi propri, che la ragione maturità, Agostino
modifica il suo
riconosce grazie a un’indagine basata su osservazione ed esperienza, oltre che su atteggiamento nei
principi metafisici che spiegano la realtà nella sua globalità. La natura è dunque confronti della
compresa in maniera autonoma e razionale, senza ipotizzare interventi esterni, filosofia. Essa è vista
non più come supporto
come quello divino. Per Aristotele, infatti, il mondo e le specie naturali sono eterni; razionale per la
inoltre il cosmo non riveste alcuna valenza simbolica e non rinvia a Dio come suo comprensione della
creatore, elemento fondamentale nel pensiero cristiano. fede, ma addirittura
come un ostacolo,
3. Il ruolo di Dio nel sistema aristotelico è solamente quello di offrire un fondamento per la sua visione
logico per spiegare il movimento e un modello di attività intellettuale, a cui il filo- immanente e
totalmente umana
sofo aspira. Tale Dio – atto puro, immateriale e immobile, che pensa sé stesso – non dell’esistenza.
crea il mondo (che a sua volta è eterno), non interviene nei processi naturali e nel- ❯ p. 166
le vicende umane, non prova alcun interesse per ciò che è inferiore, non nutre
passioni e sentimenti come l’amore, che rivelerebbero imperfezione e mancanza.
In sintesi: non ha alcun carattere religioso, soprattutto non possiede nessuno dei
tratti che i cristiani attribuiscono al loro Dio. Dal punto di vista teologico, sarebbe
stato molto più facile “cristianizzare” il pensiero platonico, mentre quello aristote-
lico sembra respingere decisamente tale operazione.
4. Infine, nei confronti dell’essere umano Aristotele mostra uno sguardo pacato e
benevolo: ne analizza virtù e vizi, e deplora gli eccessi e le azioni che mirano a un
fine diverso da quello per cui sono state concepite. La sua visione antropologica è
complessivamente ottimistica: in quanto “animale razionale” l’uomo è in grado di
raggiungere il proprio fine e di assumere comportamenti virtuosi grazie all’eserci-
zio, che li rende una disposizione stabile della sua natura, un habitus. Nulla di più
lontano, quindi, dall’idea cristiana di peccato (una colpa di cui l’uomo risponde di
fronte a Dio) e ancor più da quella di peccato originale, il segno dell’incapacità
ontologica e morale di realizzare il bene da sé, senza l’aiuto della grazia divina.
Di fronte a queste divergenze di fondo i cristiani avevano due scelte: o respingere in toto
Aristotele come pericoloso per la fede cristiana, distruggerne i libri e vietarne la lettura,
oppure accettare il confronto ed elaborare un nuovo modello di pensiero per integrare la
ragione filosofica autonoma con la fede nella rivelazione. La prima opzione viene seguita
da alcuni, ma non riesce ad arrestare il dirompente successo dei nuovi testi filosofici; è
invece la seconda via che si rivela produttiva per lo sviluppo sia della filosofia sia della
teologia, che devono concepire nuove forme di relazione.
FARE per CAPIRE • Sintetizza a margine del testo i principali motivi di divergenza tra la filosofia ari-
stotelica e la dottrina cristiana.
306 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
• Nel valutare il ruolo della filosofia, l’ordine francescano (❯ Per approfondire), il cui
esponente più eminente è Bonaventura da Bagnoregio (1217/1221 circa - 1274),
segue invece Agostino, non Aristotele. La ricerca filosofica può essere utile per
aprirsi al cristianesimo, in quanto via verso la verità, ma è la teologia, intesa come
sapienza, che la può effettivamente raggiungere. La tradizione francescana esalta
una conoscenza accessibile unicamente per fede, che pertanto non ha bisogno
della filosofia. La teologia è superiore alla filosofia: quest’ultima può apportare
un suo contributo nella comprensione parziale della natura, ma è delegittimata
nella sua pretesa di conferire senso a tutta la realtà. Invece la teologia recupera le
fonti bibliche e patristiche, e diventa un itinerario di ricerca interiore, guidato
dall’illuminazione divina, in cui la conoscenza è subordinata all’amore di Dio.
• I filosofi, soprattutto coloro che sono ritenuti “averroisti” (come Sigieri di Brabante
e Boezio di Dacia), esaltano il sapere filosofico come fine ultimo dell’uomo: essi
RICORDA CHE... propongono uno stile di vita che mira a una conoscenza perfetta, raggiungibile in
Secondo Averroè modo autonomo rispetto alla fede e alla riflessione teologica. La filosofia si presen-
i filosofi rappresentano ta quasi come un’alternativa alla teologia, perché prospetta una sorta di beatitudi-
un gruppo elitario di
fedeli: sono infatti
ne terrena, che si acquisisce grazie all’impegno intellettuale: è un ideale che sem-
gli unici che bra destinato a una élite ristretta, superiore al volgo istruito soltanto tramite la
– attraverso religione, così come si era espresso Averroè.
ragionamenti
dimostrativi – possono • In questo panorama complesso si pone la sintesi di Tommaso d’Aquino, di cui ci
arrivare a comprendere occuperemo nel capitolo seguente, che da teologo riesce a “salvare” Aristotele: una
ciò in cui credono. sintesi difficile e delicata, ma che rappresenta un atto coraggioso e responsabile, e
I credenti, invece,
accedono alla fede garantisce uno spazio autonomo per la riflessione filosofica. E se forse si possono
attraverso racconti trovare più affascinanti e audaci le posizioni di qualche filosofo o teologo contro-
e immagini edificanti, e corrente, è però innegabile che a influenzare il corso della filosofia sia stato in
i teologi partendo da
assunti soltanto misura molto più consistente Tommaso, che opera una trasformazione di entram-
probabili. ❯ p. 278 be le discipline dall’interno, senza ricorrere a rigide condanne.
FARE per CAPIRE • Sintetizza a margine del testo i principali modelli attraverso i quali viene interpre-
tato il rapporto tra filosofia e teologia.
❯ Due canonici
intenti allo studio
delle sacre scritture,
miniatura tratta
dal Libro dei buoni
precetti morali
di Jacques Legrand,
XV secolo, Chantilly,
Museo Condé.
309
capitolo 20
SINTESI Il XIII secolo: la ripresa culturale
dell ’Occidente latino
AUDIOSINTESI
2 I metodi di insegnamento
e il dibattito come ricerca della verità
Come è strutturato il metodo di insegnamento sco- nell’insegnamento, è frequente il ricorso alle autorità,
lastico? Il metodo scolastico si articola in: lectio (la usate fuori dal contesto originario, per sostenere la
lettura e il commento del testo); quaestio (l’emergere propria posizione: non si tratta della rinuncia al ra-
di problemi e dubbi relativi all’interpretazione del gionamento, ma di un modo per aprire il dibattito o
testo); disputatio (la discussione in cui il maestro per potenziare la discussione.
fornisce la soluzione). Nelle dispute, e in generale
3 La riscoperta di Aristotele
Quali problemi comporta l’assimilazione della filo- di Aristotele il mondo è eterno e non rinvia a un Dio
sofia aristotelica? A partire dalla seconda metà del creatore. In terzo luogo, è differente la concezione
XII secolo, la maggior parte delle opere di Aristotele di Dio: il Dio aristotelico non crea, non conosce il
viene conosciuta grazie alle traduzioni in latino mondo, non lo ama e non interviene nella storia. In-
dall’arabo. Non è facile integrare la dottrina aristote- fine, è diversa la visione antropologica: in Aristote-
lica nella cultura cristiana. In primo luogo, Aristotele le, l’uomo con le forze della ragione raggiunge il suo
considera tutte le scienze sullo stesso piano, mentre il fine e realizza la virtù, mentre nel cristianesimo il
mondo cristiano privilegia la teologia come scienza peccato rende l’essere umano incapace di realizzare
perfetta. In secondo luogo, nella visione cosmologica il bene senza l’aiuto di Dio.
capitolo 20
MAPPE CONCETTUALI Il XIII secolo:
la ripresa culturale
dell ’Occidente latino
L ’ ORGANIZZAZIONE
DELLE UNIVERSITÀ
L’INSEGNAMENTO UNIVERSITARIO
è strutturato in
da cui derivano
LA DIFFUSIONE DI ARISTOTELE
E LE SUE IMPLICAZIONI
LA DIFFUSIONE DEI TESTI IL RAPPORTO TRA FILOSOFIA
ARISTOTELICI E TEOLOGIA
è inteso in termini di
è resa possibile comporta
grazie alla
capitolo 20
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Il XIII secolo:
la ripresa culturale
RIPASSO
dell ’Occidente latino
1 Il secolo delle università 3. La riscoperta di Aristotele
riconoscere le nozioni e il significato riconoscere le nozioni e il significato
delle parole delle parole
1. Filosofia “scolastica” nel significato più proprio sta 7. Come viene introdotta l’opera di Aristotele
ad indicare: (segna la risposta esatta) nelle università? (segna la risposta esatta)
a la filosofia insegnata nelle scuole dei monasteri a si studiano prevalentemente i testi originali
b una filosofia ripetitiva e priva di senso critico in greco
c la filosofia delle università b si leggono traduzioni latine del testo greco
d tutta la filosofia cristiana c si conoscono i commenti dei filosofi arabi,
senza il testo aristotelico
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) d si studiano traduzioni latine dall’arabo,
2. Che cosa sono le università e come sono con i commenti dei filosofi arabi
organizzate le varie facoltà?
esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
8. Per quali ragioni il dio aristotelico sembra non
conciliabile con il cristianesimo?
2 I metodi di insegnamento e il 9. Perché l’idea di peccato è lontana dall’immagine
dell’essere umano di Aristotele?
dibattito come ricerca della verità
riconoscere le nozioni e il significato
delle parole
3. Abbina i metodi d’insegnamento alle rispettive 4. Il rapporto tra filosofia e teologia
definizioni: (attenzione: due definizioni sono in riconoscere le nozioni e il significato
eccesso) delle parole
lectio (L) quaestio (Q) disputatio (D) 10. Individua l’affermazione corretta rispetto alla
a. difficoltà derivante da possibili diverse posizione di Bonaventura: (segna la risposta esatta)
interpretazioni di un passo ............ a è il primo grande interprete della possibilità di
b. pubblicazione del commento di un testo ............ conciliare Aristotele e la teologia
c. discussione condotta considerando b si richiama ad Agostino, sostenendo la superiorità
gli argomenti pro o contro la soluzione della teologia sulla filosofia
di un problema ............ c richiamandosi ad Agostino, ritiene indispensabile
d. lettura e commento di un testo ............ il contributo della filosofia per la fede
e. genere letterario tipico della scolastica ............ d si ricollega all’interpretazione averroista di
4. Indica la forma letteraria più tipica della filosofia Aristotele
scolastica: (segna la risposta esatta) esporre concetti e relazioni (max 5 righe)
a auctoritas c disputatio
11. Come intende Alberto Magno i rapporti tra
b summa d disputatio de quodlibet teologia e filosofia?
esporre concetti e relazioni (max 5 righe) 12. Perché la Chiesa non può accettare la posizione
5. Qual è il ruolo delle auctoritates nella discussione? degli averroisti?
capitolo 21 figura
Tommaso d ’Aquino:
VIDEOLEZIONE
Maurizio Ferraris
presenta Tommaso un aristotelismo cristiano
“
Dunque l’uomo per natura desidera, quale ultimo fine, di
conoscere la causa prima. Ma la causa prima di tutte le cose
è Dio. Quindi conoscere Dio è l’ultimo fine dell’uomo.
(Somma contro i Gentili, III, cap. XXVI)
Vi sono poi altri importanti aspetti della riflessione di Tommaso per cui egli è debitore
della teoria aristotelica: uno di questi è la teoria dell’anima e dell’intelletto, in cui il teologo
rigetta la posizione averroista dell’intelletto universale, focalizzando l’attenzione sul processo
conoscitivo dell’individuo, che si fonda sulla sensibilità pur arrivando a superarla.
1 La vita e le opere
UNA VITA PER L’UNIVERSITÀ
Il conflitto con la famiglia
Primi di maggio del 1244: un certo Rainaldo d’Aquino è ospite in uno dei castelli impe-
riali di Federico II ad Acquapendente (ai confini tra Lazio e Toscana), quando vi giunge il
superiore dei domenicani insieme a un novizio. I due religiosi sono in viaggio per Parigi,
perché il giovane novizio possa proseguire lo studio della teologia nell’università più
prestigiosa del tempo; è così che Rainaldo apprende che suo fratello minore, Tommaso, è
entrato nei domenicani all’insaputa della famiglia e contro il suo volere. Senza esitare,
organizza un rapimento in piena regola, strappando Tommaso alla custodia di frate Gio-
vanni e rimandandolo in Campania sotto scorta. Per circa un anno la famiglia cercherà
con ogni mezzo di far desistere Tommaso dall’intenzione di entrare nell’ordine domeni-
cano, ma alla fine sarà la sua determinazione a prevalere.
L’ostilità della famiglia non nasce dalla contrarietà per la vita religiosa – in quanto
figlio cadetto, ossia non primogenito, Tommaso (nato a Roccasecca, vicino a Cassino, nel
1225) era destinato alla carriera ecclesiastica –, ma dall’infrangersi del progetto di ve-
derlo stabilmente collocato nell’ordine benedettino fino a ricoprire la carica di abate
di Montecassino, una delle abbazie più ricche e potenti del tempo. L’ordine benedettino
incarnava la tradizione conservatrice e feudale; i monasteri, che sorgevano fuori dalle
mura cittadine, erano importanti centri culturali, oltre che potenti soggetti politici nei
conflitti tra papato e impero. I monaci, dediti alla preghiera e al lavoro manuale e intel-
lettuale, facevano professione di “stabilità”, cioè evitavano se possibile di uscire dal con-
vento o di trasferirsi altrove. Se questo ideale aveva permesso di istituire delle oasi di
prosperità nell’alto Medioevo, ora rappresentava un irrigidimento rispetto alla più dina-
mica vita cittadina.
Al contrario l’ordine domenicano, di recentissima fondazione (1216) come quello
francescano (1209), faceva della predicazione itinerante la sua missione ed esprimeva
bene le esigenze del nuovo mondo urbano. Mentre le abbazie monastiche erano luoghi
isolati dalla città, spesso microcosmi alternativi, separati da mura e con un’economia
autosufficiente, i nuovi ordini religiosi avevano nella città il loro centro di attività; erano
per altro “ordini mendicanti”, cioè rinunciavano a beni e rendite stabili e vivevano di
carità, cosa invece vietata agli altri chierici. Queste considerazioni rendono comprensibi-
le la reazione della famiglia di Tommaso: è come se oggi un figlio cresciuto in un nucleo
familiare dalla mentalità convenzionale decidesse di lasciare una prestigiosa posizione
lavorativa per unirsi a un gruppo di artisti di strada.
Il giovane Tommaso deve all’ordine domenicano la possibilità di emanciparsi dai pro-
getti della famiglia e di seguire la sua vocazione intellettuale, frequentando i centri più
importanti e innovativi dell’epoca, come Napoli, Parigi e Colonia. Va detto però che il
“debito” viene ampiamente saldato, perché in Tommaso l’ordine trova uno degli inge-
gni più acuti e produttivi, che sarà proposto per secoli come modello di conoscenza
filosofica e teologica, oltre che di santità.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 315
il ritratto
TOMMASO nel dipinto di Benozzo Gozzoli
ommaso d’Aquino è una delle figure centrali della cristianità occidentale: uomo delle
T istituzioni, docente all’età di soli 27 anni nelle università più prestigiose dell’Europa
medievale, punto di riferimento nella politica ecclesiastica, autore di una poderosa
sintesi e sistematizzazione del sapere teologico, che gli è valsa il titolo di “dottore della Chiesa”.
Da Parigi a Colonia
Quando Tommaso, dopo il sequestro famigliare, riesce finalmente a raggiungere Parigi
(1245), ha all’incirca vent’anni e ha già studiato per almeno cinque anni nell’Università
di Napoli, fondata da Federico II, un centro all’avanguardia per l’apertura al pensiero fi-
losofico e scientifico degli antichi greci e degli arabi.
A Parigi Tommaso diventa allievo di Alberto Magno (1206 circa - 1280), grande fi-
losofo e teologo domenicano. Nel 1248 l’ordine domenicano decide di fondare a Colonia
uno Studio generale, cioè un centro universitario, con una spiccata vocazione interna-
zionale; la direzione viene affidata ad Alberto, che porta con sé il giovane allievo. La
stima di Alberto Magno per Tommaso è tale che nel 1252 propone il suo nome per rico-
prire la cattedra dei domenicani a Parigi, anche se ciò richiede una deroga al limite mi-
nimo d’età di 29 anni per insegnare.
La carriera universitaria
A Parigi Tommaso svolge per alcuni anni il ruolo di “baccelliere sentenziario”, una specie
di assistente con il compito di commentare le Sentenze di Pietro Lombardo (1100-1160 cir-
ca). In quest’opera erano ordinate sistematicamente le principali “sentenze” dei padri della
Chiesa sui temi fondamentali della fede cristiana: per la sua praticità e per l’efficacia della
sintesi il testo era divenuto il manuale di teologia in tutte le università. Lo rimase fino al XV
secolo, quando fu gradualmente sostituito dalla Somma di teologia di Tommaso. Nel 1256
Tommaso diventa magister, cioè professore, bruciando nuovamente le tappe, perché non
ha ancora compiuto 35 anni, l’età minima solitamente richiesta per il titolo. Dal punto di
vista storico, è il periodo in cui le censure su Aristotele sono venute meno (❯ Per approfondire,
p. 298) e le opere del filosofo greco sono introdotte nel programma della facoltà di filosofia.
Tommaso ne aveva già un’ottima conoscenza, per cui interviene attivamente nel dibattito
sui rapporti tra filosofia pagana e teologia cristiana, realizzando quella sintesi che sarà
presa come modello anche nei secoli a venire.
Nel 1259 è richiamato in Italia: qui rimane per circa dieci anni, per occuparsi dell’or-
ganizzazione degli studi dell’ordine domenicano, insegnando prima nel convento di Or-
vieto, poi a Roma, dove viene incaricato di fondare un nuovo Studio. Sono anni intensi e
fervidi di attività: per un certo periodo è impegnato anche come teologo ufficiale nella
curia papale, e deve affrontare temi di politica ecclesiale, ad esempio il rapporto con il
potere temporale e con la Chiesa d’Oriente. Oltre che all’insegnamento si dedica alacre-
mente alla scrittura, componendo le sue opere teologiche fondamentali: la Somma contro
i Gentili e la Somma di teologia. Tra il 1269 e il 1272 si colloca il suo secondo magistero
parigino, una decisione eccezionale da parte dell’ordine, che preferiva un avvicenda-
mento delle cattedre per elevare la qualità culturale degli Studi locali. In questi anni la
sua attività letteraria si intensifica, raggiungendo ritmi febbrili: oltre a proseguire nella
stesura della sua opera principale, la Somma di teologia, si dedica alla lettura e al commen-
to di quasi tutti i testi di Aristotele.
FARE per CAPIRE • Elabora una tabella in cui inserire le tappe principali della vita di Tommaso e i rela-
tivi riferimenti cronologici.
LE OPERE E LA SCRITTURA
La produttività di Tommaso ha quasi dell’incredibile: in un arco di tempo relativamente
breve, circa vent’anni, riesce a scrivere una mole di testi impressionante non soltanto
per numero, ma anche per estensione. Tra commenti, summae e questioni possiamo attri-
buirgli una cinquantina di opere, molte delle quali articolate in più libri, senza conside-
rare quelle la cui autenticità è probabile ma non acclarata. Alcuni dei suoi testi sono re-
datti a mano dallo stesso Tommaso, con una grafia nervosa e poco leggibile; di solito
però si serve di segretari che scrivono sotto dettatura; negli ultimi anni la sua attività
letteraria ha un ritmo quasi febbrile, tanto da rendere necessari più segretari, cui egli
❯ QUADERNO PER detta contemporaneamente opere diverse.
LE COMPETENZE E
IL NUOVO ESAME Possiamo distinguere questa enorme produzione in alcuni grandi gruppi: le sintesi teo-
p. 19 logiche; le questioni disputate, le opere filosofiche, i commenti biblici e le altre opere minori.
Le sintesi teologiche
Tra le sintesi teologiche va ricordato anzitutto il Commento alle Sentenze, che deriva
dalla lettura delle Sentenze di Pietro Lombardo, tenuta nel primo magistero parigino. Pur
seguendo il testo di Pietro Lombardo, Tommaso conferisce all’opera una struttura nuova,
che richiama il modello neoplatonico: i primi due libri sono dedicati alla rivelazione e alla
creazione (l’exitus di tutte le cose da Dio), mentre il terzo e il quarto trattano il modo in
cui tutto ritorna al proprio principio (il reditus).
La Somma contro i Gentili (Summa contra Gentiles), redatta tra il 1258 e il 1264, ha
l’obiettivo di presentare razionalmente la fede cristiana a coloro che non credono nel Dio
cristiano, i “Gentili”, che per Tommaso non sono tanto i pagani, quanto i musulmani e gli
ebrei. Visti i destinatari, egli espone la teologia cristiana attingendo alla filosofia e basan-
dosi su argomenti razionali.
Vi è infine l’opera fondamentale, la Somma di teologia (Summa theologiae), la cui ste-
sura risponde alla richiesta degli studenti di avere una sintesi ordinata e ragionata degli
argomenti trattati nella teologia. L’opera, la cui composizione inizia negli anni 1265-1266
❯ Andrea di Bonaiuto,
La Chiesa militante
e trionfante, affresco,
1365-1367, particolare
con san Tommaso
d’Aquino davanti
agli eretici, Firenze,
Santa Maria Novella,
Cappellone degli
Spagnoli.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 319
e continua fino alla fine del 1273, contiene più di 500 questioni ed è divisa in tre parti, la
seconda delle quali è ulteriormente divisa in due. Pur essendo incompiuta – si ferma in-
fatti alla questione 90 della terza parte –, rimane il testo più conosciuto e utilizzato di
Tommaso: verrà considerato per secoli il manuale imprescindibile per ogni teologo catto-
lico e sarà a sua volta oggetto di studi e commenti. Ciò deriva dalla chiarezza e sobrietà
della scrittura e dall’ordine interno con cui sono affrontate le questioni, ma anche dal ge-
nere letterario. La “somma” non è infatti un’esposizione sommaria e riassuntiva, ma una
sintesi ragionata e sistematica dei principi e dei temi di una determinata scienza, con l’o-
biettivo di chiarire i fondamenti e l’articolazione di un ambito del sapere.
FARE per CAPIRE • Elenca le principali opere teologiche di Tommaso, indicandone l’argomento e/o
l’obiettivo.
SOSTANZE
SOPRASENSIBILI PRIVE DI MATERIA
o SEMPLICI
(l ’ anima e le intelligenze celesti)
essenza ciò che definisce la natura specifica di essere/esistenza indica l’effettivo e concreto lessico
un ente e quindi ci permette di individuare che esistere di un ente, quindi la realizzazione di filosofico
cosa è. L’essenza viene espressa nella definizione un’essenza; a questo scopo si usa anche la locu-
e non implica l’esistenza reale della cosa definita. zione “atto d’essere”.
322 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
FARE per CAPIRE • Sottolinea con colori diversi i principali debiti di Tommaso verso il pensiero arabo
e le peculiarità della dottrina tomista, rispetto a quella aristotelica, che ne derivano.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 323
Il principio di individuazione
L a conoscenza mira a fornire una definizione dell’es-
senza delle cose. Ma è possibile conoscere ciò che
è individuale in quanto tale? E che cosa rende un in-
“indico”), è il “questo qui” (tóde ti) della metafisica
aristotelica. La materia determinata da caratteristiche
quantitative è dunque il principio di individuazione:
dividuo unico e diverso da ogni altro esemplare della ciò spiega anche perché l’individuale (dotato di pro-
sua specie? Il primo aspetto riguarda la modalità della prietà uniche e irripetibili) non sia oggetto di alcuna
conoscenza, il secondo è invece una questione di tipo scienza, che mira invece a definizioni generali.
ontologico, per cui ci si chiede quale sia il principio di
individuazione, che rende “Socrate” non soltanto un
“uomo”, ma unicamente ed esclusivamente “Socrate”.
Tommaso sostiene che la differenza individuale delle
sostanze sensibili dipende dall’elemento materiale
e non da quello formale. Non si tratta però della ma-
teria tout court, ossia di ciò che compone la sostanza
sensibile e che rientra nella sua definizione insieme
alla forma (per cui, ad esempio, nel definire la statua
si fa riferimento al marmo di cui è costituita), ma del-
la materia propria dell’individuo.
Forma e materia servono soltanto per definire e differenziare gli enti, ma il limite e la
finitezza del mondo naturale non derivano dalla presenza della materia. La contingenza
degli enti deriva invece dal fatto che essenza ed esistenza sono distinte, e che soltanto
l’esistenza rende attuale e reale l’essenza.
Se saliamo nella scala degli esseri, troviamo le sostanze immateriali, dette anche
“sostanze semplici” in quanto costituite unicamente da una forma pura: si tratta delle
intelligenze, i motori delle sfere celesti, che spesso nella tradizione medievale sono sta-
te identificate con gli angeli. Pur essendo immortali, in quanto prive di materia, sono
anch’esse contingenti, perché “ricevono l’essere” da un principio superiore (Dio).
Nessuna delle sostanze in cui si osserva la distinzione tra essenza ed esistenza può in-
fatti darsi l’essere da sola, perché altrimenti esisterebbe in maniera necessaria ed eterna.
Soltanto Dio ha invece l’essere da sé, sussiste di per sé come essere in senso asso-
luto (ipsum esse subsistens), senza bisogno di altri; per questo in Dio l’essenza e l’esi-
stenza coincidono: non soltanto ha essere, ma è l’essere. Allo stesso modo, di Dio non
si afferma semplicemente che «è buono, sapiente, misericordioso», ma che «è bontà,
sapienza, misericordia», perché tali caratteristiche pervadono tutta la sua essenza, in
modo assoluto e necessario. Dio ha l’essere per essenza, le creature invece ricevono
l’essere da Dio per partecipazione: ciò significa che non possiedono l’essere nella sua
pienezza, ma soltanto grazie a Dio che le fa passare dalla potenza all’atto (ovvero
dall’essenza all’esistenza).
FARE • Considera il termine “angelo” e prova a fornirne una definizione filosofica (essenza);
per esprimiti quindi a favore della sua esistenza (essere) o meno, proponendo almeno un ar-
CAPIRE gomento.
❯ La gerarchia degli esseri in base alla distinzione essenza (potenza) / esistenza (atto)
SOSTANZE
SOPRASENSIBILI
ESSERI CONTINGENTI
o SEMPLICI in cui vi è distinzione tra essenza
(l ’ anima e le intelligenze celesti) (potenzialmente esistente)
ed essere (esistenza in atto);
ricevono l ’essere da Dio
SOSTANZE SENSIBILI o COMPOSTE
(uomo, animali, vegetali, sostanze inorganiche)
lessico partecipazione modo in cui le creature ricevono l’essere dal creatore: non sono l’essere e non ne
filosofico hanno la pienezza, che compete soltanto a Dio, ma partecipano dell’essere, cioè hanno l’essere in
conseguenza dell’atto creatore di Dio.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 325
FARE • Indica per ognuno dei ragionamenti seguenti se è a priori o a posteriori: questo albero è un
per vegetale perché tutti gli alberi sono vegetali - dove c’è fumo c’è fuoco - dato che la terra è
CAPIRE bagnata ha piovuto - il delfino è un mammifero come lo sono tutti i cetacei.
Le cinque vie
La prima via si fonda sul principio per cui «tutto ciò che si muove è mosso da un altro»
(quidquid movetur ab alio movetur) ed è una rielaborazione di quella aristotelica, con cui si
perviene a un primo motore immobile dell’universo. È la via più semplice, perché si appog-
gia maggiormente all’osservazione sensibile: risulta infatti evidente sia l’esistenza del moto
sia il fatto che ogni movimento è provocato da qualcos’altro. Per Tommaso il movimento
(come ogni altro tipo di mutamento) è inteso aristotelicamente come una trasformazione
da uno stato potenziale a uno attuale che è il punto finale del processo; in tal modo, ogni
lessico dimostrazione a posteriori tipo di dimostra- a derivare l’esistenza di Dio. Si contrappone alla
filosofico zione che dagli effetti (“da ciò che viene dopo”, dimostrazione a priori (“da ciò che viene prima”),
significato letterale di “posteriori”) risale alla che invece parte dalla definizione e dal concetto
causa. Parte dunque dall’esperienza che il sog- di Dio per dedurne l’esistenza.
getto può avere del mondo e da questa procede
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 327
movimento implica un atto esterno all’oggetto che viene mosso, perché lo stesso ente non
può essere simultaneamente in potenza e in atto rispetto allo stesso punto di vista, cioè
non può essere contemporaneamente causa del moto e oggetto mosso. Il processo non può
risalire all’infinito: ci deve essere un primo motore del movimento, che non sia mosso a sua
volta; e questo motore «tutti riconoscono essere Dio».
Un ragionamento analogo viene applicato nella seconda via, che si fonda sul concetto di
“causa efficiente”: ogni effetto deve essere provocato da una causa, perché nulla può esse-
re causa di sé stesso. Anche in questo caso non possiamo ammettere un regresso all’infinito,
perché altrimenti tutto il processo causale sarebbe inspiegabile; quindi, risalendo dagli ef-
fetti alle cause intermedie, si giunge a dimostrare che vi è una prima causa efficiente, «che
noi chiamiamo Dio».
La terza via è ripresa da Avicenna e considera il carattere contingente e possibile degli
enti. Tutto quello che noi osserviamo potrebbe anche non essere: un tempo non esisteva e
in futuro cesserà di esistere. Se tutto è contingente, si può ipotizzare un momento in cui non
c’era nulla, ma questo è assurdo, perché rende impossibile spiegare come dal nulla sia deri-
vato qualcosa. Quindi non tutto è contingente: deve esserci qualcosa che sia necessario e
non dipenda da un altro per la sua esistenza. Tale essere necessario «tutti lo chiamano Dio».
La quarta via era presente già nel Monologion di Anselmo e considera i gradi di perfe-
zione che si osservano nelle cose: possiamo dire che una cosa ha un grado di bontà, verità
o perfezione maggiore di un’altra. Ma se distinguiamo dei gradi – più o meno buono, più o
meno perfetto ecc. –, significa che abbiamo un criterio sommo e assoluto con cui valutarli.
L’essere sommamente perfetto, che è la causa dei gradi diversi delle perfezioni che si riscon-
trano negli enti finiti, «lo chiamiamo Dio».
La quinta via, infine, osserva il finalismo presente nella natura, per cui anche orga-
nismi privi di ragione agiscono per un fine, comportandosi perlopiù nello stesso modo per
raggiungere lo scopo. Poiché tali enti, pur privi di intelligenza, si comportano in maniera
ragionevole, è evidente che vi sono in loro una predisposizione e un ordine voluti da un es-
sere intelligente, allo stesso modo in cui la freccia colpisce il bersaglio, ma è la mano dell’ar-
ciere che l’ha diretta. Questo essere intelligente, principio dell’ordine teleologico della natu-
ra, «lo chiamiamo Dio».
il PENSIERO
si fa IMMAGINE L’intelligenza ordinatrice come un arciere
“ Vediamo che alcune cose mancanti di conoscenza operano per un fine. […]
Ma le cose che non hanno conoscenza non tendono al fine se non dirette
da qualcuno che possiede conoscenza e intelletto, come la freccia che è
“
scagliata dall’arciere. Quindi vi è un essere intelligente da cui tutte le cose
create vengono indirizzate ad un fine.
(Somma teologica, I, questione 2, articolo 3)
“
Che il mondo non sia sempre esistito è tenuto soltanto per fede e non può essere provato
con argomenti dimostrativi […] E la ragione è che l’inizio del mondo non può essere di-
mostrato partendo dal mondo stesso.
(Somma teologica, I parte, questione 46, articolo 2, risposta)
lessico cause seconde gli esseri della natura, in sere, da Dio come creatore e causa prima, ma
filosofico quanto agiscono come cause di effetti naturali. godono di autonomia per quanto riguarda la loro
Le cause seconde dipendono, quanto al loro es- reale capacità di agire e produrre effetti.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 331
La conoscenza intellettuale
RICORDA CHE... La funzione dell’intelletto è quella di elaborare concetti che hanno il carattere dell’uni-
Per Averroè la versalità, come già Averroè e i suoi interpreti latini avevano evidenziato. Il modo con cui
dimensione apprendiamo un contenuto, ad esempio un teorema di geometria, ha percorsi individua-
universale e
li diversi, ma il risultato è uguale per tutti, perché tutti comprendono lo stesso teorema, e
necessaria del
conoscere è garantita quindi è universale. Questo vale per ogni genere di conoscenza: si presume che il concet-
dall’intelletto agente e to generale di “gatto” sia chiaro e univoco per chiunque, pur avendo ciascuno esperienze
dall’intelletto diverse di gatti particolari; vale anche per le leggi del pensiero, come il principio di non
potenziale, che per lui
sono separati contraddizione o l’affermazione che il tutto è maggiore di una sua parte. In virtù di que-
dall’individuo sta universalità del sapere, Averroè e molti autori latini (spesso definiti “averroisti”)
particolare: essi ritenevano che l’intelletto fosse unico per l’umanità intera e che l’individuo potesse par-
rappresentano le
condizioni universali tecipare di un sapere universale venendo illuminato e “unendosi” a questo intelletto su-
del conoscere e i suoi periore. Qui si pone la questione del soggetto della conoscenza: chi è il vero portatore
contenuti ideali, che del sapere, l’individuo umano o un pensiero universale che pensa in noi? E se, come
come tali sono privi di
materia e indipendenti verrebbe subito da dire, a conoscere è l’individuo, che cosa ci garantisce che pensiamo
dalle condizioni tutti le stesse cose e nello stesso modo?
soggettive. ❯ p. 280
Per rispondere a queste domande Tommaso elabora una teoria della conoscenza
coerente con la sua visione antropologica, che possa replicare alle posizioni averroiste.
Egli segue abbastanza fedelmente la posizione aristotelica, soprattutto nell’affermare
che ogni processo conoscitivo inizia dalla percezione sensibile. Con un’espressione
che avrà fortuna nell’empirismo dell’età moderna, egli afferma che «non si trova nulla
nell’intelletto che non sia prima nei sensi» (nihil est in intellectu quod non sit prius in sensu):
l’uomo – in quanto unione di anima e corpo – può conoscere soltanto servendosi di
rappresentazioni sensibili e non può accedere a una conoscenza diretta delle sostanze
immateriali (come sono Dio e le intelligenze angeliche). Il percorso della conoscenza
umana implica una trasformazione dal particolare all’universale (dal conoscere uno
specifico individuo – come il cane Fido – al concetto che si applica a tutti i rappresen-
tanti della specie, in questo caso la nozione di “cane”) e da ciò che è concreto e mate-
riale (ed è perciò percepito con gli organi di senso) a contenuti immateriali. Questo
processo è descritto con il termine “astrazione”, con cui si indica la capacità di coglie-
re l’elemento essenziale (la forma) togliendo la materia, cioè le caratteristiche con-
crete e accidentali: ad esempio, so che cosa sono i “cani” senza associare questo con-
cetto a uno specifico animale o ad altre caratteristiche variabili (il colore, il peso, la
forma). Con questa tesi Tommaso può rispondere alla teoria averroista che ipotizzava
un unico intelletto universale: proprio perché il processo della conoscenza inizia sem-
pre dall’esperienza sensibile, pur superandola, si può affermare che è l’individuo a co-
noscere, e non un pensiero universale; è quest’uomo a comprendere (hic homo intelligit).
Il pensiero non è quindi separato dall’uomo, né è un intelletto universale e anonimo:
FARE per CAPIRE ha il nome di ogni individuo a cui appartiene per essenza. La capacità di avere concet-
• Sottolinea ti universali non implica che l’individuo sia puramente connesso a un unico intelletto,
nel testo con senza un’attiva partecipazione alla conoscenza, ma è fondata sul processo astrattivo, in
colori diversi qual
è il soggetto cui è la forma – e non la conoscenza – a essere universale. In altre parole, per gli aver-
del conoscere roisti il valore oggettivo del sapere doveva fondarsi sull’universalità dell’intelletto, per
per Tommaso e Tommaso invece la possibilità di una conoscenza universale è iscritta nel processo co-
dove risiede
l’universalità noscitivo proprio del soggetto individuale, in cui l’intelletto è facoltà dell’anima e non
della conoscenza. una sostanza separata.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 335
5 L’etica e la politica
Il desiderio naturale dell ’ uomo
«Tutti gli uomini per natura desiderano conoscere», così affermava Aristotele all’inizio
della Metafisica (I, 1, 980a 21). Il desiderio è ciò che a livello pratico guida l’uomo verso la
perfezione, ma per Tommaso non è circoscritto all’ambito umano. Tutto il creato è infatti
caratterizzato da un orientamento naturale verso la propria conservazione e realizzazio-
ne: già a livello biologico si osserva un appetitus, che non è soltanto l’istinto naturale,
ma anche ciò che spinge a perseguire quello che è bene per ogni essere. Mentre negli
esseri non dotati di ragione questo desiderio si esprime nella spontanea attitudine a ri-
cercare ciò che mantiene e favorisce la propria perfezione naturale, nell’uomo il “bene” è
individuato ed esplicitato dalla ragione, che consente alla volontà di scegliere i compor-
tamenti adeguati per raggiungere il fine. Vi è in Tommaso un primato dell’intelletto
sulla volontà, nel senso che l’essere umano può scegliere liberamente soltanto dopo che
la ragione ha indagato ciò che è bene e ciò che è male: senza conoscenza, la scelta non è tema
libera, ma istintuale ed emotiva; si può volere e scegliere unicamente sulla base di una SIAMO LIBERI
O CI ILLUDIAMO
considerazione razionale, secondo l’adagio scolastico «non si può volere qualcosa, se DI ESSERLO?
non è stato prima conosciuto» (nihil volitum, nisi praecognitum). p. 384
L’inclinazione al bene (il desiderio, appunto) si compie dunque tramite la conoscenza in-
tellettuale. Ma che cosa vuole l’uomo? Che cosa desidera veramente? Oltre ai beni particolari,
che portano a un soddisfacimento momentaneo, egli ricerca soprattutto la felicità perfetta,
una beatitudine infinita che nessun ideale e obiettivo terreno sono in grado di realizzare. Il
desiderio di conoscere, così come definito da Aristotele, è senz’altro un momento qualifican-
te la natura umana, ma secondo Tommaso non è sufficiente per la piena felicità. ❯ testo 3 p. 343
FARE per CAPIRE • Individua nel testo e sintetizza a margine la funzione della ragione e quella della
volontà.
Natura e grazia
Il vero desiderio dell’uomo è quello di «vedere Dio» (desiderium naturale videndi Deum): è
un desiderio naturale, che chiede un compimento che trascende le capacità umane. Qui
si inserisce la peculiare dottrina della “grazia” – nel senso di intervento soprannaturale –
affrontata nel suo rapporto con la natura.
L’assioma che Tommaso ripete frequentemente nelle proprie opere è che «la grazia non
toglie né distrugge la natura, ma la eleva e la perfeziona», intendendo con queste parole
una complementarità fra i due piani e ribadendo che nella natura stessa vi è un deside-
rio che la supera. Da un lato, la contemplazione di Dio è il fine ultimo dell’essere umano,
e implicitamente di tutta la creazione: è l’inclinazione al bene, il desiderio di perfezione,
che è consapevole soltanto nelle sostanze intellettuali, ma che è iscritto in ogni creatura.
appetitus tendenza naturale, presente in tutti re ciò che è idoneo alla propria autoconservazio- lessico
gli esseri, che spinge alla realizzazione di ciò ne; nell’uomo è subordinato alla ragione, che ha filosofico
che è bene per l’essere stesso. Negli animali si il compito di individuare il bene, su cui si eserci-
manifesta con l’istinto, che li induce a persegui- terà la libera scelta della volontà.
336 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
D’altro lato, questo desiderio non si può soddisfare con mezzi naturali, perché con le sue
forze l’uomo non può cogliere l’essenza di Dio, ma soltanto conoscerlo parzialmente con
la mediazione del mondo sensibile: per poter contemplare direttamente Dio è necessario
un intervento soprannaturale. Nell’uomo vi è dunque un desiderio naturale, che però la
natura non può realizzare da sé. La grazia, tuttavia, non è un miracolo che si inserisce in
modo estrinseco, infrangendo le leggi naturali, ma agisce perfezionando e nobilitando
la natura. In altre parole la natura, spinta dal desiderio di felicità eterna, mira a superare
sé stessa e accoglie la grazia come l’intervento più adeguato per raggiungere la propria
perfezione.
Si possono infatti distinguere quattro tipi di legge, cui l’uomo deve sottostare:
1. la legge eterna (lex aeterna), che rappresenta l’ordine che Dio ha impresso nel
mondo; è la provvidenza che guida il creato secondo una sapienza eterna: coinvol-
ge tutti gli esseri in vista di un bene universale;
2. la legge naturale (lex naturalis), che rappresenta il modo in cui la creatura raziona-
le partecipa alla legge eterna: mentre gli altri esseri si conformano per natura
all’ordine eternamente disposto da Dio, l’uomo lo esprime con la ragione. Il princi-
pio fondamentale di questa legge è quello di ricercare il bene e di evitare il male;
3. la legge umana (lex humana o lex humanitus posita), che è il corpo di leggi e di di-
sposizioni che servono a regolare la vita civile;
4. la legge divina (lex divina), che riguarda il destino soprannaturale dell’uomo ed è
frutto di rivelazione.
Questa distinzione evidenzia che il fine ultimo dell’essere umano non è la vita politica,
bensì la beatitudine soprannaturale. Perciò, come la natura trova il suo compimento nel-
la grazia, analogamente il potere politico che deriva dalla natura umana è subordinato
all’autorità del papa, che deve indirizzare gli uomini alla felicità ultraterrena. La supe-
riorità del potere spirituale non giustifica però interferenze nell’esercizio del potere poli- FARE per CAPIRE
tico, che se non confligge con il fine soprannaturale dell’uomo è autonomo e sovrano. La • Evidenzia
responsabilità dell’organizzazione della vita associata è tutta nelle mani del principe; nel testo il
fondamento del
l’unica limitazione è data dalla consapevolezza che la realizzazione umana non si trova potere politico e
sul piano naturale della convivenza sociale, ma su quello spirituale della salvezza eterna. il suo obiettivo.
Gino Severini, Trionfo di San Tommaso, litografia, 1949, Città del Vaticano, Collezione di arte religiosa moderna.
Al centro, l’uomo cristiano, circondato dai simboli dei quattro evangelisti, è toccato dalla luce divina, ma vive sulla
Terra minacciata dal dragone. A destra sono raffigurate le facoltà universitarie illuminate e protette da Tommaso;
a sinistra la Giustizia, la Libertà e la Pace.
340 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
[Essere ed essenza in Dio] Si trovano dunque nelle sostanze tre diversi modi di possedere
l’essenza. Vi è infatti qualcosa, come Dio, la cui essenza è il suo stesso essere, e perciò vi
sono alcuni filosofi che affermano che Dio non ha quiddità1 o essenza, poiché la sua essen-
za non è altro che il suo essere. […] Quantunque Dio sia soltanto essere, non è necessario
5 che gli manchino le altre perfezioni o nobiltà: anzi Dio possiede tutte le perfezioni che
sono in tutti i generi, tanto da essere chiamato perfetto in senso assoluto, come dicono il
Filosofo e il Commentatore2 nel V libro della Metafisica3, ma le possiede in modo più eccel-
lente rispetto a tutte le altre cose, perché in Lui formano un’unità, mentre nelle altre cose
rimangono distinte tra loro. E ciò perché tutte quelle perfezioni convengono a Dio secondo
10 il suo essere semplice. […]
[Essere ed essenza nelle sostanze spirituali create] In un secondo modo l’essenza si trova
nelle sostanze create individuali, in cui l’essere è altro dalla loro essenza, per quanto l’es-
senza stessa sia priva di materia. Il loro essere non è perciò assoluto, ma ricevuto, e perciò
limitato e finito secondo la capacità della natura ricevente; ma la loro natura o quiddità è
15 tuttavia assoluta, non ricevuta in alcuna materia. E perciò si dice nel libro Sulle cause che le
intelligenze sono infinite in basso e finite in alto4: sono infatti finite rispetto all’essere che
ricevono da ciò che è superiore; ma non sono finite in basso, perché le loro forme non ven-
gono limitate secondo la capacità di qualche materia in grado di riceverle. […]
1. “Quiddità” (dal latino quidditas) è un altro termine 3. Aristotele, Metafisica V, 18, 1021b 30-33, anche se nel
con cui i medievali designano l’essenza, che risponde passo non si fa riferimento a Dio, come invece in Aver-
alla domanda “quid est?” (“che cos’è?”). roè, In Metafisica, V, commento 5.
2. Il Filosofo è Aristotele; il Commentatore per antono- 4. Liber de causis, prop. 16, commento, trad. it. di C.
masia è Averroè. D’Ancona Costa, in Tommaso d’Aquino, Commento al
«Libro delle cause», Rusconi, Milano 1986, p. 325.
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 341
TESTI
[Essere ed essenza nelle sostanze composte di materia e forma]
20 si ritrova nelle sostanze composte di materia e forma, nelle quali non solo l’essere è ricevu-
to e finito, per il fatto che ricevono l’essere da altro, ma la stessa natura o quiddità è in
questo caso ricevuta nella materia segnata5. E per questo sono finite, tanto in basso quan-
to in alto, e in esse è già possibile, per la divisione della materia segnata, la moltiplicazione
degli individui all’interno di una stessa specie.
(L’ente e l’essenza, par. 5, trad. it. di P. Porro, Bompiani, Milano 2002, pp. 119-127)
5. Per Tommaso la “materia signata” è la materia deter- (ad esempio per un uomo, non il corpo, ma quel determi-
minata dalla quantità, cioè dalle caratteristiche spazio- nato corpo, con caratteristiche irripetibili in un altro).
temporali; è ciò che distingue un individuo da un altro
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
Per Tommaso ogni essere umano è caratterizzato da una materia signata; questo significa che l’indi-
vidualità di ciascuno è garantita da particolari caratteristiche spazio-temporali che consentono all’es-
senza comune di “uomo” di assumere una conformazione unica e irripetibile. Prova a elencare gli
aspetti che connotano in modo peculiare una persona che conosci, differenziandola inequivoca-
bilmente da tutte le altre. Il tuo elenco è conforme alla dottrina tomista o risulta invece fondato
su presupposti differenti?
342 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
t2
TESTI
Articolo 2
La dottrina sacra è una scienza?
[I motivi per cui la dottrina sacra non sembra essere una scienza] Sembra di no. Infatti:
1. Ogni scienza procede da princìpi di per sé evidenti. La dottrina sacra invece procede da
5 articoli di fede, i quali non sono di per sé evidenti, tanto è vero che non tutti li accettano:
Non di tutti, infatti, è la fede, come è detto in 2 Ts1. Quindi la dottrina sacra non è una scienza.
2. La scienza non si occupa dei singolari. Ora, la dottrina sacra si occupa di particolarità,
come delle gesta di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Dunque non è una scienza.
[Perché la dottrina sacra può essere considerata una scienza] In contrario: dice Agostino:
10 «A questa scienza spetta soltanto ciò mediante cui la fede che salva viene generata, nutrita,
difesa, rafforzata». Ora, siccome ciò è esclusivo unicamente della dottrina sacra, ne deriva
che la dottrina sacra è una scienza.
Risposta: la dottrina sacra è una scienza.
[I due tipi di scienze] Bisogna però sapere che vi è un doppio genere di scienze. Alcune infat-
15 ti procedono da princìpi noti attraverso il lume naturale dell’intelletto, come l’aritmetica e la
geometria, altre invece procedono da princìpi conosciuti alla luce di una scienza superiore: per
esempio la prospettiva si basa su princìpi di geometria e la musica su princìpi di aritmetica. E
in questo modo la dottrina sacra è una scienza: in quanto poggia su princìpi conosciuti alla luce
di una scienza superiore, cioè della scienza di Dio e dei beati. Come quindi la musica crede i
20 princìpi che le fornisce il matematico, così la dottrina sacra crede i princìpi rivelati da Dio.
Soluzione delle difficoltà: 1. I princìpi di ogni scienza sono evidenti o di per sé, o alla luce di
una qualche scienza superiore. E tali sono anche i princìpi della scienza sacra, come ora ab-
biamo spiegato.
2. I fatti particolari nella dottrina sacra non hanno una parte principale, ma vi sono intro-
25 dotti o quali esempi di vita, come avviene nelle scienze morali, o anche per dichiarare l’au-
torità di quegli uomini attraverso i quali è derivata la rivelazione sulla quale si fonda la
Scrittura o dottrina sacra.
(Somma di teologia, I, articolo 2, trad. it. a cura dei Frati Domenicani,
Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014, pp. 27-28)
ALLENA LE COMPETENZE
TESTI
COMPRENDI IL SIGNIFICATO FILOSOFICO
righe 1-8 Nell’indagare lo statuto epistemologi- quelle che muovono da princìpi evidenti di per sé
co della teologia, Tommaso si sofferma in primo (come la matematica), e quelle che partono da prin-
luogo su quegli aspetti che potrebbero avallare l’i- cìpi desunti da altre scienze (come la musica, che
potesi che tale disciplina non sia una scienza. Si presuppone principi matematici). La teologia è una
tratta innanzitutto del fatto che la teologia non si scienza di questo secondo tipo (“subalterna”), in
sviluppa a partire da premesse evidenti di per sé, quanto desume le proprie premesse dalla rivelazio-
bensì accettate per fede. La dottrina sacra ha inol- ne (che rinvia alla «scienza di Dio», cioè la cono-
tre come oggetto aspetti individuali, fatto che soli- scenza che egli ha di sé stesso). Nella “soluzione alle
tamente la scienza evita, occupandosi di nozioni difficoltà” Tommaso ribadisce tali concetti e ag-
universali. giunge che nella teologia l’attenzione per gli aspetti
particolari non risulta essenziale, bensì funzionale
righe 9-27 Contrariamente a ciò, Tommaso ritie-
alla presentazione di esempi a scopo didascalico, o
ne che la teologia sia una scienza che si occupa di
all’introduzione di autorità che supportino le argo-
difendere e di rafforzare la fede. Per argomentare la
mentazioni.
sua posizione egli distingue due generi di scienze:
RIFLETTI E DISCUTI
Elabora una tua personale definizione della teologia; quindi confrontala con quella dei tuoi compa-
gni, avviando una discussione sulla funzione che ritenete debba o possa avere oggi la teologia.
[La conoscenza di Dio come fine ultimo dell’essere umano] 1. Ma poiché tutte le creature,
comprese quelle prive d’intelletto, sono ordinate a Dio come al loro ultimo fine, e poiché
tutte lo raggiungono in quanto partecipano una certa sua somiglianza, le creature intelli-
genti lo raggiungono in una maniera speciale, ossia mediante la loro operazione, cono-
5 scendolo intellettualmente. Perciò è necessario che la conoscenza intellettiva di Dio sia il
fine delle creature intellettive. […]
2. […] La conoscenza intellettiva è l’operazione propria delle sostanze intellettive. Dunque
essa è il loro fine. Quindi l’atto più perfetto in questa forma in attività è il loro ultimo fine. […]
La conoscenza dell’intelligibile perfettissimo, che è Dio, è la più perfetta delle operazioni
10 intellettive. Quindi conoscere Dio mediante l’intellezione è il fine ultimo di qualsiasi so-
stanza intellettiva.
[…] Sembra che l’intellezione dell’intelligibile debba essere esclusa dall’intelletto umano,
data la sua debolezza: infatti rispetto all’intelligibile più alto esso è «come l’occhio del pi-
pistrello rispetto al sole»1.
1. Aristotele, Metafisica, I, 1, 2.
344 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
va, anche di quella più modesta. Sopra infatti noi abbiamo dimostrato che Dio è l’ultimo
fine a cui tendono tutti gli esseri. Ora, l’intelletto umano, pur essendo l’ultimo nell’ordine
delle sostanze intellettive, è superiore a tutti gli esseri privi di intelligenza. Perciò siccome
una sostanza più nobile non può avere un fine meno nobile, anche l’intelletto umano dovrà
20 avere Dio come fine. Ma ogni essere intelligente consegue il suo ultimo fine per il fatto che
lo conosce intellettivamente, come abbiamo già visto. Dunque l’intelletto umano raggiun-
ge Dio come ultimo fine conseguendolo intellettualmente. […]
[Il desiderio naturale di conoscere Dio] 8. Gli uomini hanno il desiderio naturale di conosce-
re le cause di ciò che vedono: ecco perché essi diedero inizio alla ricerca filosofica, per la
25 meraviglia dei fenomeni che vedevano e di cui ignoravano la causa; e una volta trovata la
causa si fermavano. Ma la ricerca non ha tregua fino a che non si giunge alla prima causa:
e «allora noi pensiamo di conoscere perfettamente quando conosciamo la causa prima»2.
Dunque l’uomo per natura desidera, quale ultimo fine, di conoscere la causa prima. Ma la
causa prima di tutte le cose è Dio. Quindi conoscere Dio è l’ultimo fine dell’uomo.
30 10. Un corpo, il quale tende per natura verso il luogo suo proprio, si muove con maggior
forza e velocità quanto più si avvicina al termine: e da questo Aristotele dimostra3 che il
moto naturale retto non può tendere all’infinito, poiché altrimenti dovrebbe essere unifor-
me. Perciò quanto nel tendere a un oggetto aumenta il suo impulso non può muoversi
all’infinito, ma tende a uno scopo determinato. Ora, ciò si riscontra nel desiderio di sapere:
35 infatti più uno sa, più desidera di sapere. Dunque il desiderio naturale dell’uomo per il
sapere tende ad un fine determinato. Ma questo non può essere che il conoscibile più alto,
cioè Dio. Quindi il fine ultimo dell’uomo è la conoscenza di Dio.
[La beatitudine come conoscenza di Dio] Ora, l’ultimo fine dell’uomo e di qualsiasi sostanza in-
tellettiva viene denominato felicità o beatitudine: perché questo è ciò che tutte le sostanze
40 intellettive desiderano come ultimo fine e per se stesse. Dunque conoscere Dio è la beati-
tudine o la felicità ultima di tutte le sostanze intellettive.
(Somma contro i Gentili, III, cap. XXVI, a cura di T. Centi, UTET, Torino 1992, p. 603)
ALLENA LE COMPETENZE
TESTI
luce del sole. Tuttavia, è verso tale oggetto perfet- luogo naturale, così come lo aveva spiegato Aristo-
to che l’uomo deve volgere i suoi sforzi, essendo tele. Infatti, come un corpo accelera in prossimità
questo il fine proprio di ogni essere: non potrebbe del suo obiettivo – e non potrebbe essere privo di
infatti ambire a un fine meno nobile rispetto a un luogo verso cui tendere perché altrimenti biso-
quello delle creature inferiori, prive di intelligenza. gnerebbe ipotizzare un movimento uniforme e
senza fine –, allo stesso modo colui che conosce, a
righe 23-29 Per Tommaso, coerentemente con la
mano a mano che procede nella propria ricerca,
dottrina aristotelica, la conoscenza è un desiderio na-
vede aumentare la forza di attrazione verso il fine
turale degli esseri umani: essi cominciano a filosofare,
naturale della conoscenza. Quest’ultimo, massimo
cioè a interrogarsi sulle cause delle cose, per la mera-
obiettivo del pensiero, non può essere che l’intelli-
viglia provata nei confronti dei fenomeni e per la con-
gibile più perfetto, cioè Dio.
seguente volontà di individuare una spiegazione. Ma
la ricerca delle cause è destinata a non arrestarsi fin- righe 38-41 Nella conclusione l’autore identifica
ché non si giunga alla causa prima: la conoscenza di il fine ultimo dell’uomo con la felicità o beatitudi-
quest’ultima, cioè di Dio, è dunque il fine dell’uomo. ne: la conoscenza di Dio non è uno dei tanti possi-
bili obiettivi degli uomini, ma quello che consente
righe 30-37 Tommaso paragona il desiderio di
di raggiungere la perfezione del proprio essere.
conoscere al movimento di un corpo verso il suo
RIFLETTI
Elabora un breve testo (max 30 righe) in cui immagini di discutere con Tommaso sul fine dell’esi-
stenza umana. Se concordi con lui, spiegherai perché apprezzi il suo punto di vista; se invece
hai una visione differente, dovrai esporne i motivi e chiarire qual è la tua prospettiva.
[L’uomo come essere orientato verso un fine] In tutti gli esseri ordinati ad un fine, che però
essi possono perseguire in un modo o in un altro, è necessaria una guida, con il cui aiuto
si giunga direttamente al fine stabilito: una nave, che a seconda del soffiare dei venti può
andare in varie direzioni, non raggiungerebbe mai la meta prefissata senza l’arte del pilota
5 che la dirige verso il porto. Anche l’uomo ha un suo determinato fine a cui sono ordinate
tutta la sua vita e ogni azione, come è noto: il suo agire, infatti è guidato dall’intelligenza
la quale fa tutto in vista di uno scopo. Ora, gli uomini perseguono il fine previsto per vie
diverse, e ne è prova la differenza delle propensioni e delle azioni individuali: ecco perché
l’uomo necessita di qualcuno che lo indirizzi verso il fine.
10 [L’essere umano come animale sociale e politico] Ogni singolo essere umano è dotato dalla
natura della luce della ragione, grazie alla quale, nei suoi atti, si può indirizzare verso il fine;
quindi, come è per molti animali, se si confacesse all’uomo un’esistenza da isolato, egli non
avrebbe nessun bisogno di qualcuno che lo guidasse al fine, ma sarebbe lui sovrano di sé
stesso sotto il governo di Dio, sommo Re, poiché, con la luce della ragione conferitagli divi-
15 namente, sarebbe lui a dirigere sé stesso nelle sue azioni. Al contrario, dalla natura l’uomo
346 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
è un animale sociale e politico, che vive in una comunità di individui assai più che tutti gli
TESTI
altri animali; la necessità della natura è lì a documentarlo: la natura, infatti, agli animali ha
predisposto il cibo, i peli che li ricoprono e mezzi di difesa come i denti, le corna, gli artigli,
o almeno la velocità per fuggire. Nessuno di tutti questi aiuti l’uomo ha ricevuto dalla natu-
20 ra, ma al loro posto gli è stata data la ragione: con essa l’uomo ha la capacità di prepararsi
tali sussidi con il lavoro delle sue mani. Il singolo individuo tuttavia, non è in grado di pro-
curarsi tutto da solo, non ce la farebbe da sé a sopravvivere; è dunque un’esigenza naturale
per l’uomo quella di vivere in società con molte altre persone. […]
Assodato così che secondo natura l’uomo vive in una società composta di molte persone,
25 sorge l’esigenza che tra gli uomini ci sia qualcuno che governi la comunità: una massa di
individui in cui ognuno pensasse esclusivamente a procurarsi ciò che va bene per sé si
sfalderebbe, se non ci fosse anche qualcuno che si interessasse del bene della moltitudine.
Esiste un fondamento razionale che giustifica tale fenomeno, in quanto “proprio” e “comu-
ne” non indicano la stessa cosa: ciò che è proprio è principio di differenziazione, mentre ciò
30 che è comune implica l’unificazione, ed entità diverse postulano cause diverse. Ecco per-
ché, oltre al principio che stimola al bene proprio del singolo, si esige un principio che
promuova il bene comune della massa. Per tale motivo, quando tutte le cose sono in fun-
zione dello stesso fine, si trova che ce n’è una che ne regge un’altra: nell’Universo fisico, il
primo corpo, cioè il corpo celeste, muove gli altri corpi secondo un determinato ordine
35 della provvidenza divina; la creatura razionale, a sua volta, muove tutti gli altri corpi. Così,
in ogni individuo, l’anima regge il corpo, e per ciò che concerne le parti dell’anima, quella
irascibile e quella concupiscibile, sono guidate dalla ragione. Fra gli stessi organi del corpo
ne esiste uno che è il principale in quanto muove tutti gli altri, cioè il cuore o la testa. Ecco
perché, ovunque esiste un’aggregazione, è necessario che ci sia uno che governa.
(Il governo dei prìncipi. Al re di Cipro, in Tommaso d’Aquino, Opuscoli politici,
trad. it. di L. Perotto, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1997, pp. 32-34)
ALLENA LE COMPETENZE
TESTI
righe 10-39 Posto che l’essere umano per esigen- prima delle sfere cosmiche che ruotano intorno alla
za naturale deve vivere in una collettività, emerge Terra – muove tutte le altre sfere come ha predi-
la necessità di individuare una guida. Se quest’ulti- sposto il volere divino; o delle creature terrestri, al
ma non ci fosse, infatti, ciascuno agirebbe in vista cui vertice è posto l’uomo. È anche il caso dell’indi-
di obiettivi privati e verrebbe meno quella coesione viduo, in cui l’anima governa il corpo ed è essa stes-
del gruppo sociale utile al perseguimento di una sa costituita di parti gerarchicamente strutturate;
finalità comune. Tale situazione caratterizza ogni analogamente il corpo è organizzato in modo che
entità formata dall’aggregazione di parti, in cui, per vi sia un organo egemone, come il cuore o il cervel-
garantire l’ordine, deve essere rispettata un’orga- lo. Tali esempi dimostrano come anche la società
nizzazione gerarchica. È il caso dell’universo fisico, umana non possa fare a meno di qualcuno che la
in cui il «primo corpo» – cioè il primo mobile, la governi, pena la dissoluzione.
RIFLETTI E DISCUTI
1. Poiché quella di associarsi è per l’uomo una necessità naturale, secondo Tommaso alla società occorre
una guida “illuminata”, la quale faccia in modo che gli interessi particolari non impediscano la costru-
zione di un bene comune. In quale misura si può applicare questa concezione alle democrazie con-
temporanee? Che cosa garantisce oggi che l’azione di governo sia indirizzata al bene comune? Espo-
ni il tuo punto di vista in proposito in un breve testo (max 25/30 righe).
2. apprendimento cooperativo Sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in gruppi di 5 o 6 studenti;
mediante opportuna ricerca in Internet o in manuali, ogni gruppo deve individuare due o tre tesi
autorevoli in relazione all’origine della società civile e dello Stato, analoghe o alternative rispetto
a quella di Tommaso. Confrontate quindi le teorie raccolte, dando avvio ad un dibattito in
classe in cui emerga il vostro punto di vista personale.
348 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
capitolo 21 igura
SINTESI Tommaso d ’Aquino:
un aristotelismo cristiano
AUDIOSINTESI
1 La vita e le opere
Tommaso, nato nel 1225 circa da una famiglia nobile, a comporre le sue opere più note: la Somma contro
entra nell’ordine dei domenicani – maggiormente i Gentili e la Somma di teologia. Nel 1269 è nuova-
legati alla vivacità della vita urbana e al dibattito cultu- mente magister a Parigi; in questi anni di insegna-
rale delle università – contro la volontà della famiglia mento commenta quasi tutti i testi di Aristotele. Rice-
che lo voleva benedettino. Studia a Parigi, dove di- vuto l’incarico di fondare uno Studio a Napoli nel
venta allievo di Alberto Magno e lo segue a Colonia. 1272, conclude la sua carriera nella città partenopea,
Torna a Parigi nel 1252 per insegnare, prima come perché nel 1273 cessa di scrivere per gravi problemi di
assistente con il compito di commentare le Sentenze di salute. Muore nel 1274, a Fossanova, mentre si sta
Pietro Lombardo, poi come magister. Qui emerge la recando al concilio di Lione. Nell’arco di pochi de-
sua profonda conoscenza delle opere di Aristotele, cenni il suo pensiero diventa un punto di riferimento
oltre che la straordinaria capacità di sintesi teologica. per la Chiesa e le sue opere saranno usate per secoli
Viene chiamato a Roma nel 1259 e in questa città inizia come manuali universitari.
argomenti, o «vie», “a posteriori”, che cioè parto- perfezione risale a un criterio sommo con cui valu-
no dagli effetti per risalire alla loro causa: 1. la pri- tarli; 5. la quinta via dalla finalità intrinseca del
ma via dai movimenti risale a un primo motore im- mondo risale a un essere intelligente ordinatore. Le
mobile; 2. la seconda via dagli effetti risale alla loro dimostrazioni servono a ribadire che la fede non è
causa efficiente; 3. la terza via dal contingente risa- cieca e irrazionale: fede e ragione possono collabo-
le a ciò che è necessario, 4. la quarta via dai gradi di rare nell’autonomia reciproca.
5 L’etica e la politica
Qual è il fine dell’essere umano? Tutti gli esseri A quali leggi deve sottostare l’essere umano?
animati sono guidati dal desiderio (appetitus) verso L’essere umano è soggetto a quattro ordini di legge:
la propria autoconservazione e verso ciò che è bene 1. la legge eterna, che rappresenta l’ordine provvi-
per sé; nell’uomo è la ragione, e non l’istinto, che denziale che Dio ha impresso al mondo; 2. la legge
individua gli obiettivi dell’agire. Il bene che l’uomo naturale, che rappresenta il modo in cui con la ragio-
cerca e che costituisce la sua felicità è la piena ed ne l’uomo partecipa della legge eterna; 3. la legge
eterna conoscenza di Dio. Vedere Dio è un desi- umana, che è il corpo delle leggi politiche e civili;
derio naturale, che però trascende le forze della ra- 4. la legge divina, che riguarda il destino sopranna-
gione; per realizzarlo è allora necessaria la grazia, turale dell’uomo. Come la legge eterna è superiore
intervento soprannaturale divino, che perfeziona la a quella umana, così il potere spirituale è superiore a
natura e la porta a compimento. quello politico; quest’ultimo è responsabile dell’orga-
Qual è la funzione del potere politico? L’uomo per nizzazione della convivenza civile, ma non può en-
Tommaso è un «animale politico», come per Aristo- trare in conflitto con il fine soprannaturale dell’uo-
tele, quindi lo Stato nasce dalla naturale tendenza mo. Tommaso infine si interroga se, a fronte della
degli uomini ad associarsi per realizzare i propri fini degenerazione dello Stato in un regime dispotico, sia
e sopperire ai bisogni fondamentali. Il potere politi- lecito il tirannicidio. Pur con molta cautela, sostiene
co pone le regole per la convivenza civile, ma non che in casi estremi l’insurrezione contro un potere
può realizzare il fine ultimo dell’uomo; ha quindi un che risulta negativo per il bene comune è legittima e
ambito di autonomia e competenza limitato. non costituisce un atto di sedizione.
350 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
capitolo 21 igura
MAPPE CONCETTUALI Tommaso d ’Aquino:
un aristotelismo cristiano
LA METAFISICA
LA REALTÀ PER TOMMASO
tra tra
sostanze sostanze
essere essere
sensibili o soprasensibili Dio essenza essere
contingente necessario
composte o semplici
sostanze
composte e
Dio
sostanze
semplici
in lui
essenza ed
esistenza
coincidono
LA TEOLOGIA
LA TEOLOGIA «SACRA DOTTRINA»
la quale
prima via: seconda via: terza via: quarta via: quinta via:
dal moto dagli effetti da ciò che è dai gradi di dalla
delle cose risale alla contingente perfezione finalità
risale al causa risale a ciò risale al delle cose
primo prima che è criterio risale al
motore necessario sommo e principio
immobile assoluto ordinatore
Tommaso d ’Aquino: un aristotelismo cristiano capitolo 21 igura 351
LA NATURA, L ’ UOMO
E LA CONOSCENZA
LA IL MONDO LA
L’UOMO CONOSCENZA
CREAZIONE CREATO
l’attività
con cui Dio
un ruolo
fa esistere una relativa un’unità esperienza
privilegiato
le cose e autonomia psicofisica sensibile
nell’universo
le conserva
nel tempo
l’intelletto astrae
la natura è
corpo anima gli elementi
retta da leggi
mortale immortale essenziali, cioè
proprie, è creato a
le forme
è creato con il regolari e immagine e
mondo costanti, che somiglianza di
le quali
l’uomo può Dio
conoscere con
la ragione destinati a ricongiungersi hanno valore
dopo il giudizio finale universale
L ’ ETICA E
LA POLITICA
IN AMBITO ETICO LO STATO
emerge
deriva dalla serve a
i quali ma
l’uomo può scegliere soltanto nascono da esigenze non costituisce il fine ultimo
dopo che la ragione ha biologiche e antropologiche degli esseri umani, che è
individuato ciò che è bene degli individui la beatitudine eterna
ossia
capitolo 21 igura
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Tommaso d ’Aquino:
un aristotelismo cristiano
RIPASSO
verso le competenze
ARGOMENTARE E DISCUTERE
• Tenendo presente il ruolo che Tommaso attribuisce al corpo in relazione all’anima, rifletti e discuti con
i tuoi compagni sull’importanza che il corpo ha per definire chi sei, qual è la tua personalità, e se questa
cambierebbe in presenza di un corpo diverso.
• Nel 1998, papa Giovanni Paolo II ha promulgato l’enciclica Fides et Ratio. Leggi l’introduzione e i primi
quattro capitoli, ed elabora un confronto in forma scritta (max 30 righe) tra la posizione attuale della
Chiesa sul rapporto tra ragione e fede, e quella di Tommaso.
355
Non stupisce allora che l’epoca sia caratterizzata da numerose proteste e rivolte sociali,
e da uno sguardo pessimistico nei confronti della storia e della condizione umana, cui
si unisce una mentalità generale spesso fatalistica e dolorosamente rassegnata.
FARE per CAPIRE • Elabora una tabella inserendo i principali elementi che caratterizzano il Trecento
dal punto di vista economico, politico e culturale.
❯ Maestro di Tolentino,
La disputa con i dottori,
XIV secolo, affresco,
Tolentino (Macerata),
Cappellone
di San Nicola.
358 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
in quanto essere infinito, e addirittura dimostrare la sua esistenza; non può tuttavia dire
nulla della sua essenza e neppure considerarlo come causa prima degli enti o primo mo-
tore. La creazione del mondo è oggetto di fede e non può essere dimostrata dalla ragione:
è un atto libero e imprevedibile di Dio, che si radica nella sua volontà imperscrutabile e
onnipotente.
La conseguenza più interessante di questa visione teologica riguarda la concezione del-
la realtà: considerato che il mondo avrebbe potuto essere diverso da come è o non essere
creato affatto, tutto ciò che esiste è contingente, privo di qualunque necessità: possiamo
conoscere come stanno di fatto le cose, ma non come potrebbero essere. Questo è il motivo
per cui Scoto valorizza l’esperienza sensibile e la conoscenza diretta degli enti concreti.
conoscenza intuitiva (in latino notitia intuitiva) co- conoscenza astrattiva (in latino notitia abstracti- lessico
glie in modo immediato l’esistenza di un oggetto in- va) conoscenza di un oggetto che prescinde dalla filosofico
dividuale, che con la sua presenza dà origine all’atto sua presenza ed esistenza in atto. Concerne la for-
stesso di conoscenza. Non è esclusiva della perce- ma o essenza di una cosa, cioè l’universale, ed è
zione sensibile, ma appartiene anche all’intelletto. esclusiva dell’intelletto.
360 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
❯ Domenico
Muttoni, Gesù
bambino appare a
Giovanni Duns Scoto
dinanzi al tabernacolo,
affresco, 1653,
Peschiera (Verona),
Santuario della
Madonna del
Frassino.
La differenza tra le due forme di apprendimento dipende da ciò che provoca la conoscenza nei
due casi: la presenza effettiva e immediata dell’oggetto (la sua esistenza) nella conoscenza
intuitiva; la rappresentazione dell’oggetto (la sua essenza), chiamata anche “specie”, in quel-
la astrattiva.
FARE • Indica per ciascuno degli esempi proposti di seguito se è oggetto di conoscenza intuitiva
per (CI) o astrattiva (CA), specificando anche se da parte dei sensi (S) o dell’intelletto (I):
CAPIRE il colore blu del fiordaliso nel vaso che ho di fronte - la razza equina - l’essere umano - questa
mela - la certezza di esistere.
La natura dell’universale
Da quanto detto si ricava che la conoscenza intuitiva è immediata perché implica la pre-
senza dell’oggetto, mentre quella astrattiva è mediata dalla specie, che è universale, cioè
vale per tutti gli individui appartenenti a un certo genere.
La specie non è una generalizzazione dell’intuizione individuale, ma ha un’esistenza
RICORDA CHE... “reale” pur non essendo un ente singolare: si parla a tal proposito di posizione realista.
I realisti sostengono Secondo Scoto l’individuo e la natura universale sono distinti formalmente, anche
che gli universali hanno se l’intelletto li conosce simultaneamente. Perciò l’“equinità”, per usare un esempio
un valore ontologico,
dell’autore, è diversa dai singoli cavalli, e non è qualcosa che esiste individualmente –
cioè sono res, “cose”
dotate di un’esistenza come se oltre ai diversi esemplari di cavalli esistesse anche la “natura equina” –, ma non
autonoma. ❯ p. 266 è neppure un semplice concetto ricavato a posteriori. L’intelletto può cogliere l’universa-
le in molteplici realtà individuali soltanto a condizione che questo sia una “natura comu-
ne” antecedente al concetto e indipendente dai singoli. Scoto riconosce all’universale
una qualche forma di esistenza autonoma (diversa sia da quella fisica sia da quella concet-
tuale) e in questo senso si oppone alla posizione dei nominalisti, che ritengono che l’in-
telletto ricavi l’universale dall’individuale, in un atto successivo.
Il realismo di Scoto e l’idea della “natura comune” come realtà formale intermedia tra
l’esistenza concreta e il puro concetto saranno oggetto della critica veemente di Gugliel-
ESERCIZI mo di Ockham.
lessico specie in Scoto la specie è universale, ma non indica una generalizzazione dell’intuizione individuale,
filosofico bensì una “natura comune” con un’esistenza autonoma rispetto all’individuo e anteriore rispetto al concetto.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 361
3 Guglielmo di Ockham:
il primato dell ’ individuale
LA VITA E GLI SCRITTI
Un ’esistenza al centro dei conflitti politici
Come per la maggior parte degli autori medievali, la data di nascita di Gu-
gliemo è incerta, e oscilla tra il 1280 e il 1290; il luogo di nascita è il villag-
gio di Ockham, nella contea del Surrey, poco distante da Londra. Entrato
nell’ordine francescano, Guglielmo studia a Oxford, un’università molto
vivace e attenta alle discipline scientifiche: sia l’appartenenza all’ordine francescano,
che si contrappone ai domenicani, sia la formazione universitaria anglosassone lo di-
stanziano dalle posizioni di Tommaso. Dopo aver ottenuto il grado di baccelliere (sorta
di assistente del magister), inizia a tenere i corsi sulle Sentenze di Pietro Lombardo, ma
non riesce a diventare magister theologiae per l’opposizione interna del cancelliere
dell’Università di Oxford, il domenicano John Lutterell. Questi, in nome di una visio-
ne tomista più tradizionale, accusa Guglielmo di Ockham di eresia e lo costringe a tra-
sferirsi a Londra. A nulla vale il fatto che l’università non condivida la posizione di
Lutterell e lo sostituisca alla carica di cancelliere, anzi ciò si ritorce contro lo stesso
Ockham: dopo essere stato deposto, infatti, Lutterell si reca presso il papa ad Avignone,
dove continua la battaglia e porta all’attenzione della commissione teologica papale le
opere del giovane francescano, ritenute pericolose per la fede, filosoficamente scorrette
e moralmente fuorvianti. Per difendersi dalle accuse, nel 1324 Ockham deve dunque
recarsi ad Avignone. Il processo si protrae per vari anni, senza che la commissione giun-
ga a un giudizio ufficiale.
Nel frattempo, però, le questioni teologiche si intrecciano con quelle politiche. Sono gli
anni in cui imperversa la polemica sulla “povertà di Cristo”, che affronta una questione
di scottante attualità, perché diventa una disputa sulla liceità della Chiesa di possedere ric-
chezze e di esercitare un potere politico. Tra coloro che sostengono la necessità di una po-
vertà radicale si annoverano non soltanto i maggiori esponenti dell’ordine francescano ma
anche l’imperatore Ludovico il Bavaro, che cerca di legittimare il suo potere emancipando-
si dall’autorità papale. Il papa condanna la tesi dei francescani più intransigenti, e per que-
sto motivo convoca ad Avignone il generale dell’ordine, Michele da Cesena. Su sua richie-
sta, Ockham studia la questione della povertà e giunge alla sorprendente conclusione che
è il papa a essere eretico, ed è pertanto da ritenere decaduto nel momento stesso in cui ha
abbracciato l’errore in materia di fede. Trasformatosi da imputato di eresia in accusatore
dell’autorità suprema della Chiesa, egli si rende conto che l’esito del processo non gli potrà
essere favorevole, così decide di abbandonare segretamente Avignone insieme a Michele da
Cesena e ad altri due confratelli: nella notte del 6 maggio 1328 fugge dalla curia papale e si
dirige in Italia. Un mese dopo sarà emanata la scomunica papale, che non condanna tanto
le sue tesi filosofiche e teologiche, quanto il fatto di aver abbandonato la sede di Avignone
senza autorizzazione. A Pisa Ockham incontra Ludovico il Bavaro, e si mette alle sue di-
pendenze; si narra che avrebbe richiesto la protezione della sua spada, promettendogli in
cambio di difenderlo con la sua penna (Imperator, defende me gladio et ego defendam te verbo).
362 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
❯ L’elezione di papa
Giovanni XXII,
miniatura dalla
Nova Cronica di
Giovanni Villani,
XIV secolo.
Giovanni XXII,
sul soglio pontificio
dal 1316 al 1334,
fu il papa con cui
si scontrò Ockham
durante la sua
battaglia polemica
contro la ricchezza
della Chiesa.
Le opere
Nella biografia intellettuale di Ockham si possono distinguere due periodi: un primo
periodo (relativo agli anni di Oxford e Londra, dove aveva studiato e insegnato) dedi-
cato alla riflessione filosofica e teologica, e un secondo momento dedicato invece alla
riflessione politica, nella città imperiale di Monaco. Possiamo pertanto distinguere le
sue opere in due gruppi:
1. gli scritti composti fino al 1325, frutto dell’insegnamento universitario: sono testi
teoretici che si occupano di logica, come la Somma logica e i Commenti ai testi di lo-
gica di Porfirio e Aristotele; di filosofia naturale, come il Commento alla Fisica di
Aristotele, di teologia, come il Commento alle Sentenze e Le 7 questioni quodlibetali,
la cui redazione si conclude ad Avignone;
2. la vasta produzione di opere politiche, composte a Monaco: molti sono scritti po-
lemici rivolti contro i diversi papi che si succedono ad Avignone (Giovanni XXII,
Benedetto XII e Clemente VI) e in difesa della povertà della Chiesa; vi sono però
diverse questioni e trattati di più ampio respiro, in cui egli si occupa della distin-
zione tra il potere spirituale e quello civile. Il più importante dei trattati politici
è il Dialogo tra un maestro e un discepolo sull’autorità del papa e dell’imperatore, ma si
possono ricordare anche le Otto questioni circa il potere del papa e il Breve discorso sul
governo tirannico.
FARE per CAPIRE • Costruisci una tabella mettendo in relazione i due periodi della biografia intellettuale
di Ockham con gli avvenimenti principali e le opere che li caratterizzano.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 363
L’ impostazione filosofica
Ockham non è il primo filosofo che proviene dall’Inghilterra, e Oxford era una sede
universitaria antica e con una tradizione di studi autorevole e originale; in lui si com-
pendiano però in modo eccellente i tratti distintivi che caratterizzeranno in epoca mo-
derna lo sviluppo del pensiero filosofico anglosassone: l’affermazione della realtà in-
dividuale concreta contro la metafisica delle essenze universali, un orientamento
empirista nella conoscenza, l’analisi e la critica del linguaggio, la difesa della libertà
in senso politico e personale.
La sua riflessione si presenta pertanto come un complesso ordinato e coerente: la
partizione delle opere in due periodi è giustificata dalle vicende storico-biografiche
che abbiamo presentato, ma dal punto di vista dottrinale bisogna rimarcare che non
vi è cesura, bensì continuità di ispirazione in tutta la produzione. Logica e politica
sono i due ambiti disciplinari che costituiscono il punto di partenza e quello di arrivo
della filosofia di Ockham, ma il filo rosso è dato da un’ontologia dell’individuo,
considerato l’unica realtà concreta esistente, e dalla conseguente critica delle astrazio-
ni veicolate dal linguaggio. Per queste tesi è considerato l’esponente principale del
nominalismo, una peculiare comprensione del linguaggio e della realtà che pervade
tutto il suo pensiero.
“
nello stesso modo in cui la scrittura è un segno secondario rispetto ai suoni vocali, poiché le
parole occupano il primo posto tra tutti i segni istituiti convenzionalmente, così le parole
sono segni secondari di ciò di cui i concetti o le intenzioni dell’anima sono segni primari.
(Somma logica, I, 1, 12)
L’affermazione della priorità del linguaggio mentale su quello espresso (tanto orale
quanto scritto) si accompagna alla tesi secondo cui tra i diversi ordini del discorso non vi è
“rispecchiamento”: il linguaggio espresso non è il riflesso di quello mentale. La lingua
parlata o scritta è infatti convenzionale, ovvero si basa sull’accordo tra gli esseri umani: il
suono e la relativa forma grafica delle parole – i termini orali e scritti – dipendono da un
atto di creazione o meglio di istituzione volontaria, che è decisa in modo arbitrario e come
FARE per CAPIRE tale può essere modificata di comune accordo. Al contrario, un termine mentale, cioè un
concetto, è tale “per natura”: possiamo nominare il gatto in diverse lingue (cat, chat, Katze,
• Evidenzia con
due colori diversi gato ecc.) o servirci di diverse descrizioni (“felino domestico”, “animale molto diffuso nelle
le definizioni case italiane”, “essere peloso che fa le fusa”) o addirittura accordarci su un nome diverso,
riferite rispettiva- ma il concetto che ne abbiamo non muta, perché è determinato dall’esistenza concreta
mente al discorso
mentale e a dei singoli gatti. Senza l’esistenza individuale della realtà indicata dal termine, non po-
quello espresso. tremmo averne alcun concetto e di conseguenza non potremmo parlarne in alcun modo.
lessico termini orali e scritti le parole, le unità mini- termine mentale il concetto, l’unità minima del
filosofico me del linguaggio orale e scritto istituite per discorso mentale, che per Ockham precede e fon-
convenzione di comune accordo tra gli uomini. da il linguaggio espresso. Ogni termine mentale è
determinato dall’esistenza concreta degli oggetti
di cui è concetto, dunque è tale “per natura”.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 365
determina un si riferisce a un
SEGNO NATURALE
l’idea di gatto
(il concetto o termine mentale)
è espresso da un si riferisce a un
SEGNO CONVENZIONALE
gatto, chat, cat ecc.
(il termine orale o scritto)
Significato e supposizione
In quanto segni convenzionali o naturali, i termini usati in una proposizione “stanno per”
qualcos’altro. Questo “stare per” è una relazione che viene definita supposizione e che
non indica il contenuto mentale – il significato, ciò che il soggetto pensa, che ha appunto
nella mente –, ma il modo in cui un termine “sta per” l’oggetto significato o vi si riferisce.
segno qualsiasi notazione che rinvii oltre sé supposizione (in latino suppositio, da suppó- lessico
stessa e “stia per” qualcos’altro. Il segno è con- nere, “porre in luogo di altro”, “sostituire”) rela- filosofico
venzionale se il legame con l’oggetto cui riman- zione che definisce il modo in cui un termine, nel
da è stabilito con un accordo tra coloro che uti- contesto di una proposizione, sta al posto di un
lizzano il segno stesso; è naturale se è l’oggetto oggetto significato.
indicato che determina il segno.
366 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo in che cosa consistono l’universalità del segno, la realtà indi-
cata dal segno e il segno stesso.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 367
Il rasoio di Ockham
Il ragionamento con cui Ockham nega la realtà degli universali è coerente con il suo pre-
supposto metodologico fondamentale, definito rasoio di Ockham. Si tratta del principio
per cui “non si devono moltiplicare gli enti senza necessità” (entia non sunt multiplicanda
praeter necessitatem), cioè non bisogna essere ridondanti nelle spiegazioni scientifiche e
occorre evitare il ricorso a enti superflui o inesistenti. È quello che nella scienza mo-
derna è stato chiamato “principio di economia”: se posso arrivare alla stessa soluzione,
spiegando il fenomeno in maniera ugualmente valida, ma più semplice, devo preferire
questa via al percorso più complesso.
Sia la metafora del rasoio sia la sua formulazione più conosciuta non si trovano ripor-
tate alla lettera nelle opere di Ockham, ma interpretano bene il suo pensiero e l’assunto
per cui è «inutile servirsi di più entità, quando possiamo fare lo stesso con meno» ( frustra
fit per plura quod potest fieri per pauciora, Somma logica, I, 1, 12). Ciò non significa però che
la spiegazione più semplice sia preferibile in assoluto, ma soltanto a parità di potere espli-
cativo e soltanto se è possibile verificarne la validità. Per fare un confronto sul piano
pratico, solitamente non siamo attenti a spendere poco a ogni costo, ma unicamente a
non pagare di più un prodotto identico o analogo a quello di uso abituale, che possa as-
solvere esattamente la stessa funzione. La semplicità richiesta non è dunque un invito
alla superficialità, né a fermarsi alla prima ipotesi (magari quella più ingenua), bensì ad
accogliere la spiegazione che si serve del minor numero di elementi, in quanto meglio
verificabile empiricamente.
rasoio di Ockham principio metodologico secondo cui si deve evitare il ricorso a enti superflui o lessico
inesistenti, per spiegare realtà che possono essere chiarite con un minor numero di principi. filosofico
368 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Ciò che produce una conoscenza astrattiva non è dunque la specie, una forma universale
presente nella realtà individuale, ma sempre e soltanto la precedente conoscenza intuitiva,
come dimostra il fatto che una persona non vedente non può avere alcun concetto di colore,
in quanto non può avere intuizione diretta di un oggetto colorato.
Diversamente da Scoto – secondo cui la conoscenza intuitiva aveva come oggetto l’esi-
stenza e quella astrattiva l’essenza (o specie) –, Ockham ritiene che le due forme di cono-
scenza colgano lo stesso oggetto, l’una in modo diretto ed evidente, l’altra in modo derivato.
La conoscenza intuitiva consente di formulare giudizi evidenti su realtà individuali,
e rappresenta il livello fondamentale e imprescindibile del sapere: è l’atto con cui si coglie
un oggetto immediatamente presente, e dal punto di vista conoscitivo dà origine a un
termine semplice. La conoscenza astrattiva, invece, consente di elaborare giudizi com-
plessi, espressi in proposizioni, ma presuppone la conoscenza intuitiva: non è possibi-
le avere una conoscenza astratta di qualcosa se prima non ne abbiamo avuto l’intuizione.
La conoscenza intuitiva è pertanto la fonte di ogni conoscenza ed è su questa che si fonda
la possibilità di giudicare la verità o la falsità di un’asserzione.
FARE per CAPIRE • Costruisci una tabella definendo la conoscenza intuitiva e quella astrattiva e indi-
cando le loro rispettive caratteristiche.
METAFISICA E TEOLOGIA
La realtà degli individui
Dal punto di vista conoscitivo Ockham sostiene un empirismo radicale – in quanto per lui
fondamento del sapere è la conoscenza intuitiva di enti concreti, da cui deriva ogni pos-
sibile astrazione –; parallelamente, dal punto di vista ontologico delinea un mondo di in-
dividui, di cose singole, che non posseggono alcuna generalità.
A partire da tale assunto, sono almeno tre le conseguenze teoriche di rilievo, che toc-
cano tanto la metafisica quanto la teologia:
1. l’affermazione della contingenza della realtà;
2. l’idea dell’infinito;
3. la libertà dell’agire umano e divino.
La realtà contingente
Conosciamo con evidenza soltanto quello che attingiamo dall’esperienza sensibile: la
conoscenza intuitiva ci informa su come sono di fatto le cose, non su come è necessario che
siano. Le leggi che riconosciamo nella realtà non sono eterne o necessarie, ma seguono
una regolarità unicamente probabile. Ad esempio, non possiamo – se non in via ipote-
tica – prevedere gli effetti di un evento considerato come “causa”: se osserviamo un fatto
che ne provoca un altro, possiamo soltanto constatare il loro legame sulla base dell’espe-
rienza diretta, ma non siamo autorizzati a estendere tale legame a tutti i casi analoghi
ricavandone una legge generale e necessaria. Allo stesso modo, non possiamo andare
oltre le qualità sensibili che percepiamo concretamente, ipotizzando una “sostanza” che
ne sarebbe il supporto, in quanto tale sostanza è fuori dalla nostra esperienza.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 369
❯ La Creazione,
part., miniatura
dal manoscritto
del XIV secolo
Libro della proprietà
delle cose, opera del
monaco francescano
Barthélemy l’Anglais,
Madrid, Museo
Lazaro Galdiano.
FARE per CAPIRE • Sottolinea nel testo in che senso per Ockham si può parlare di “cause” o “sostanze”
soltanto in via ipotetica.
contingenza nozione che designa come qual- tuitiva permette esclusivamente di constatare i lessico
siasi realtà del mondo non sia necessaria, e pos- fatti per come sono e riconoscere la regolarità filosofico
sa essere diversa da come è o addirittura non delle relazioni che li collegano, ma non la loro ne-
essere. In Ockham implica che la conoscenza in- cessità.
370 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Un ordine di questo tipo lascia aperta la possibilità della conoscenza umana, ma nello stes-
so tempo non compromette l’onnipotenza e la libertà di Dio. L’operato divino non è vin-
colato a una necessità razionale: in questo senso non si può dimostrare razionalmente
l’esistenza di Dio, né partendo da una definizione che la renda evidente, né muovendo
dagli effetti cosmologici, da cui risalire alla causa prima.
Se infatti la ragione fosse in grado di acquisire una tale certezza in materia di fede, la
rivelazione risulterebbe superflua, cioè eliminabile secondo il principio di economia. Il
concordismo di Tommaso tra ragione e fede pare in questo senso a Ockham pericoloso,
perché finisce per non distinguere nettamente il piano razionale umano e quello della
volontà libera di Dio, con il rischio di inserire anche Dio entro leggi razionali necessarie
e definire la teologia come scienza secondo il modello aristotelico, e pertanto pagano. È
per questo che Ockham distingue e separa filosofia e teologia.
L’affermazione della contingenza della realtà comporta dunque l’esaltazione dell’on-
nipotenza e della libera volontà di Dio; ciò non significa che il suo operato sia arbitrario
e irragionevole, ma che in primo luogo si deve prendere atto della trascendenza e del
valore imperscrutabile dei disegni divini.
FARE per CAPIRE • Scrivi a margine del testo perché l’affermazione della contingenza del mondo
salvaguarda la libertà di Dio.
Fisica e teologia
L’ipotesi dell’infinità dei mondi divina implica infiniti mondi possibili, sottoposti a leggi
el Trecento si infrange, almeno a livello di ipotesi diverse, il cosmo chiuso e antropocentrico dell’aristoteli-
N logica, la visione della finitezza del cosmo e della
sua unicità. È un tema discusso soprattutto all’interno
smo cristiano si apre e si prendono in considerazione altre
ipotesi teoricamente valide, al di là di quanto ritenuto
della teologia: da un lato si intende affermare che l’illi- fisicamente possibile.
nche la dottrina teologica della “transustanziazione”
mitata potenza di Dio possa creare infiniti mondi;
dall’altro l’unicità di questo mondo è ritenuta presuppo-
sto necessario per garantire l’universalità del messaggio
A – il modo in cui viene spiegata la trasformazione eu-
caristica del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo –
cristiano e della Chiesa. Così, nel Trecento si continua ad apre questioni innovative in ambito fisico: se il pane e il
ammettere che – di fatto – esista un solo mondo, ma per vino continuano ad apparire tali, pur trasformati in un’al-
non ledere l’infinita onnipotenza divina viene ammessa tra sostanza, se ne può ricavare che gli accidenti possono
anche la possibilità teorica dell’esistenza di più mondi al di sussistere indipendentemente dalla sostanza a cui ine-
fuori di questo universo finito. Tale concezione non rima- riscono. Ma allora, oltre alle qualità come quelle che carat-
ne un atto di fede teologico, ma ha ricadute teoriche an- terizzano il pane e il vino, ormai separate dalla vera so-
che nella fisica: a differenza di quanto si crede comune- stanza, si può ipotizzare che anche quantità e dimensioni
mente, la teologia tardomedievale non ostacola, ma esistano di per sé, prive di una sostanza cui fare riferimen-
anzi accelera lo sviluppo scientifico, perché evidenzia i to, contro la teoria aristotelica.
limiti dei paradigmi tradizionali di spiegazione.
Il ruolo della teologia
La messa in discussione delle tesi di Aristotele i osserva insomma uno strano capovolgimento di ruo-
che valga anche a livello naturale, al di là dell’immagine Tommaso sono ormai divenute impraticabili. La cono-
necessaria, perfetta, finita del cosmo che era stata finora scenza naturale si considera sempre più autonoma e ri-
data per scontata. nuncia al compito di integrare la visione fisica del cosmo
con quella trasmessa dalla fede: ne segue il disinteresse
C osì, dall’affermazione – teologicamente ineccepibile –
che Dio può fare tutto (ad esempio creare un sasso al di
là dei confini dell’universo), si passa alla domanda – non più
della filosofia nei confronti delle questioni teologiche,
che non possono più essere tematizzate con gli strumenti
teologica, ma fisica – relativa a che cosa accadrebbe se un di una razionalità costruita sul mondo reale ed esistente.
uomo si sporgesse dall’ultimo cielo, alzando un braccio. La
questione del concepire qualcosa al di là dell’universo cono-
sciuto viene rigettata sulla base dell’assunto aristotelico
D al punto di vista epistemologico, trovano spazio nella
scienza anche elementi ricavati ex suppositione, cioè
per “induzione”, non dotati dell’universalità di cui godo-
(esposto nel De coelo) che in questo mondo esiste tutta la no le conclusioni di premesse certe e necessarie, ma osser-
materia possibile; ma in risposta si obietta che se Dio non vabili “perlopiù”, con regolarità, e caratterizzati quindi da
potesse creare altra materia risulterebbe debole e incapace: un certo grado di probabilità. L’aspetto congetturale e
all’impossibilità naturale si replica facendo valere la possi- probabilistico favorisce lo sviluppo di elementi osservati-
bilità soprannaturale. Il mondo razionale, finito e perfetto vi ed empirici. Inoltre, se al di là del cosmo esistente si
della fisica aristotelica si trasforma in un universo contin- possono ipotizzare infiniti mondi, allora nella conoscenza
gente, regolato da leggi non necessarie, i cui fenomeni si della natura ha un ruolo anche la facoltà dell’immagina-
conoscono soltanto in modo parziale ed empirico. zione, che prospetta possibilità alternative.
Ockham risponde a questi argomenti discutendo l’origine della proprietà, che a suo
avviso non è fondata su una legge naturale, ma è la conseguenza del peccato originale.
Infatti, nel giardino dell’Eden Adamo ed Eva potevano servirsi liberamente di qualsiasi
cosa; soltanto in seguito alla cacciata dal paradiso vengono elaborate norme positive, un
accordo tra gli uomini per definire proprietà e diritti e poter convivere pacificamente. La
regola dei francescani si pone invece al di là e prima di tale diritto positivo: ne è prova il
fatto che, benché essi godano di un usufrutto sui beni che può anche durare a lungo (ad
esempio per i loro conventi), non maturano su tali proprietà alcun diritto legale. Questa
dovrebbe essere la vita della Chiesa intera e soprattutto quella del suo capo.
FARE per CAPIRE • Individua nel testo il completamento della frase seguente: “La difesa della pover-
tà di Cristo implica...”.
❯ Giotto, La rinuncia
ai beni, dal ciclo
di affreschi dedicato
alle Storie
di San Francesco,
ca. 1325-1328,
Firenze, Basilica
di Santa Croce,
Cappella Bardi.
374 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
La supremazia del pontefice nella sfera temporale è contestata da Ockham anche con
un argomento di ordine storico: l’Impero romano esisteva ben prima della Chiesa ed è
a questo impero che Carlo Magno e i suoi successori devono la legittimità e l’autonomia
del loro potere senza bisogno di alcuna investitura papale.
Le due autorità non sono però per Ockham totalmente indipendenti e separate, ma in
qualche modo si integrano, e una può supplire all’altra in caso di inadempienza. In via
eccezionale, il papa può agire in ambito temporale, se non provvedono le autorità com-
petenti; dal canto suo l’imperatore deve difendere la fede cristiana e intervenire nel caso
in cui il papa aderisse a posizioni dottrinali manifestamente eretiche: come si è visto,
questo non è un caso limite, puramente teorico, ma per Ockham rappresenta la situazio-
❯ testo 2 p. 377 ne effettiva della Chiesa del suo tempo.
FARE per CAPIRE • Individua e sottolinea nel testo i motivi per cui il potere temporale non spetta alla
Chiesa.
OCKHAM
t1 Che cos’è l’universale? dalla Somma logica
Nel brano emerge la concezione degli universali intesi come termini generali, mentali o espressi: per
Ockham si tratta in entrambi i casi di segni (naturali o convenzionali), privi di una realtà extramentale.
[La natura degli universali] Il concetto è singolare e universale: allo stesso modo per
cui diciamo che il sole è causa universale e tuttavia in realtà è una cosa particolare e sin-
golare. Il sole infatti si dice causa universale perché è causa di molte cose, cioè di tutte
queste cose inferiori generabili e corruttibili; e si dice causa particolare perché è una sola
5 causa e non più cause: così il concetto (intentio animae) si dice universale perché è un segno
predicabile di molte cose e si dice singolare perché è una cosa sola e non più cose. Tuttavia
si deve sapere che l’universale è duplice. C’è un universale naturale che è un segno natu-
rale predicabile di molti, allo stesso modo che il fumo naturalmente significa il fuoco e il
gemito dell’ammalato il dolore e il riso la gioia interna; e questo universale non è altro che
10 il concetto, così che nessuna sostanza e nessun accidente «extra animam» è universale in
questo senso. Di questo universale parleremo nei capitoli seguenti.
C’è poi un altro universale per convenzione; e, in questo senso è universale la parola, che
in realtà è una qualità numericamente una; poiché è un segno istituito apposta per indica-
re molte cose. Quindi come una parola si dice comune, così si può dire universale, ma tale
15 proprietà non l’ha di sua natura, ma solo per volere di chi l’ha istituita. […]
[La non sostanzialità degli universali] Che infatti nessun universale sia una qualche sostan-
za esistente fuori dall’anima può essere dimostrato con evidenza.
In primo luogo così: nessun universale è una sostanza singolare e numericamente una.
Infatti se si dicesse di sì, ne seguirebbe che Socrate sarebbe qualche cosa di universale;
20 poiché non c’è una ragione speciale che sia universale una certa sostanza singolare piutto-
sto che un’altra: quindi nessuna sostanza singolare è qualche cosa di universale, ma ogni
sostanza è numericamente una e singolare, poiché ogni cosa è una sola cosa e non più
cose. Difatti se è una cosa e non più cose, è una di numero. […]
Similmente se un qualche universale fosse una sostanza esistente nelle sostanze singolari
25 distinta da esse, ne seguirebbe che potrebbe esistere senza di esse, perché di ogni cosa che
è di sua natura anteriore a un’altra Dio può farla esistere senza di essa; ma la conseguenza
376 sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
è assurda, dunque, ecc. Inoltre se quella opinione fosse vera, nessun individuo potrebbe
TESTI
essere creato se preesistesse un qualche individuo, poiché il suo essere non sarebbe tratto
dal nulla, se l’universale che è in esso, prima esistesse in un altro […]
30 Tale universale inoltre non potrebbe essere ritenuto come qualche cosa totalmente fuori
dell’essenza dell’individuo: farebbe parte quindi dell’essenza dell’individuo; di conseguenza,
l’individuo si compone di universali e così l’individuo sarà piuttosto universale che singolare.
Parimenti ne segue che qualche cosa dell’essenza di Cristo sarà misero e dannato; poiché
quella natura comune esistente realmente in Cristo e in un dannato sarà dannata, perché
35 lo è in Giuda. Ora questo è assurdo, quindi, ecc.
(Summa totius logicae, I parte, capp. XIV-XV, trad. it. di E. Bettoni, in Grande Antologia Filosofica,
vol. 4, Il pensiero cristiano, Marzorati, Milano 1954, pp. 1439-1440)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI
Il testo riporta soltanto alcuni degli argomenti di Ockham contro l’esistenza dell’universale.
Prova ad aggiungerne almeno altri due elaborati da te.
Il XIV secolo: un periodo di trasformazioni capitolo 22 377
TESTI
t2 L’autorità dell’imperatore non deriva dal papa
dal Breve discorso sul governo tirannico
In questo testo – composto tra il 1341 e il 1342 – Ockham si oppone alla concezione teocratica e alla
dottrina per cui il potere spirituale e il potere temporale sono prerogativa di una sola persona, da cui
conseguirebbe che il papa è un’autorità superiore a tutte le altre. Per Ockham affermare che il papa sia
«vicario di Cristo» non significa in alcun modo che possa esercitare lo stesso potere divino del Figlio
di Dio, né tantomeno che l’imperatore debba considerarsi vassallo del pontefice.
prima invece, dal potere del papa sono stati esclusi i diritti e le libertà degli altri concesse
da Dio e dalla natura, affinché il papa non possa opprimere gli innocenti e i giusti contro
la loro volontà con onerosi e gravosi decreti, disposizioni, leggi o precetti, al di là di ciò che
deve essere fatto per necessità e a cui sono tenuti per legge divina e per il diritto di natura.
40 Se tenta di fare ciò si dimostra colpevole di gettare la sua falce in una messe non sua e di
fare cose che non spettano al suo ufficio e perciò per il diritto quello che farà non avrà al-
cun valore.
(Breve discorso sul governo tirannico, libro V, cap. 2, trad. it. di A. Salerno,
Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2000, pp. 188-189)
ALLENA LE COMPETENZE
RIFLETTI E DISCUTI
Nel mondo contemporaneo occidentale non c’è più nessuno che sostenga l’idea della dipendenza
dell’autorità politica da quella spirituale. Si discute però su come la vita civile debba considerare e
rispettare i valori religiosi (non necessariamente quelli cristiani, ma anche di altre religioni). Qual
è la vostra opinione a riguardo? Avviate un dibattito in classe sull’argomento, interrogandovi
anche su quale rapporto vi sia, sul piano etico, tra la vita politica e gli insegnamenti religiosi.
379
capitolo 22
SINTESI Il XIV secolo: un periodo
di trasformazioni
AUDIOSINTESI
capitolo 22
MAPPE CONCETTUALI Il XIV secolo: un periodo
di trasformazioni
DUNS SCOTO
FILOSOFIA E TEOLOGIA LA CONOSCENZA
hanno si articola in
la quale la quale
segni
naturali convenzionali
(termini mentali) (termini orali e scritti)
capitolo 22
L’OFFICINA DELLA FILOSOFIA Il XIV secolo: un periodo
di trasformazioni TEST
Allena la logica
Concetto
La dialettica
Nell’alto Medioevo la dialettica costituisce, insieme a grammatica e retorica, una delle arti
liberali del trivium, mentre aritmetica, musica, geometria e astronomia sono le arti del
quadrivium. Si chiamano “liberali” perché destinate a uomini liberi, mentre con l’espressione
artes mechanicae ci si riferisce a occupazioni pratiche, considerate servili (come l’agricoltura,
la caccia, il commercio, la tessitura, l’attività militare). Il trivio e il quadrivio rappresentano
il sapere di base, preliminare allo studio di tutte le altre scienze. La distinzione in sette arti
liberali risale a Marziano Capella (IV-V secolo), il cui trattato Le nozze di Filologia e Mercurio
è un riferimento fondamentale per la riorganizzazione delle scuole nel Medioevo latino, già
a partire dalla rinascita carolingia.
Mentre il quadrivio si caratterizza per l’uso della matematica, il trivio riguarda l’ambito
letterario-filosofico, ovvero l’uso della parola (le discipline che lo compongono si
definiscono pertanto anche artes sermocinales): la grammatica si dedica allo studio della
lingua e della letteratura latina, la retorica è l’arte del discorso e infine la dialettica
rappresenta l’arte dell’argomentazione, non in vista dell’eleganza dello stile e della
persuasione, bensì del conseguimento della verità.
il significato Il termine dialettica (dal verbo greco dialéghesthai, “discutere”, “dialogare”), che indi-
ca originariamente l’arte della discussione, passa a designare una disciplina specifica
del termine nell’organizzazione degli studi e lo strumento per progredire nella conoscenza e rag-
giungere la verità; in tal senso è il coronamento delle arti del trivio ed è indispensabile
anche nella teologia. Nel lungo periodo che contraddistingue l’età medievale, la dialetti-
ca si arricchisce di nuove connotazioni, venendo intesa come:
- logica;
- filosofia;
- disputa.
LA DIALETTICA COME LOGICA occupa soltanto delle regole formali di validità del ra-
Per Aristotele la dialettica è distinta dalla logica di- gionamento, ma anche di ciò che consente di discer-
mostrativa, in quanto la prima si occupa di opinioni e nere il vero dal falso ed è perciò la condizione della
argomenti probabili, e conserva un elemento dialogi- conoscenza di qualsiasi aspetto della realtà. Per que-
co: infatti, a differenza del sillogismo scientifico o sto motivo è raccomandata da Rabano Mauro – uno
dimostrativo – basato su premesse assolutamente dei promotori della rinascita culturale del IX secolo –
certe –, il sillogismo dialettico poggia su premesse anche nella formazione del clero: essa è definita disci-
soltanto probabili, perché fondate sul confronto e plina dell’indagine razionale, della definizione e
sulla discussione tra intuizioni contrastanti. Diversa- dell’argomentazione, in grado di distinguere il vero
mente da Aristotele, gli stoici, allargando il campo dal falso. A conferma dell’utilità della dialettica,
della logica anche ai ragionamenti ipotetici, conside- Mauro riprende la celebre definizione di Agostino:
rano la dialettica come arte della corretta discussione «Disciplina delle discipline. Insegna a insegnare, inse-
finalizzata a comprendere la realtà. Questo è il si- gna a imparare. In essa la ragione mostra e rivela ciò
gnificato che viene trasmesso al Medioevo, dove i che essa è, ciò che vuole, ciò che può fare. Essa sa di
termini dialettica e logica sono perlopiù usati come sapere, essa sola non vuole soltanto rendere sapienti,
sinonimi. Non si tratta però di una disciplina che si ma può anche farlo» (Agostino, L’ordine, II, 13, 38).
383
DEFINIAMO IL CONCETTO
libero arbitrio
L’espressione “libero arbitrio” indica la ca-
pacità di un soggetto razionale di compie-
re scelte autonome in merito alle proprie
azioni ed ai propri giudizi, in situazioni che
presentano più alternative. Così inteso, il
libero arbitrio presuppone la possibilità
di agire senza alcuna costrizione esterna.
La questione della libertà del volere sorge
inizialmente nell’ambito della riflessione
teologica ed è connessa ai temi del pecca-
to originale e della grazia. L’obiettivo dei
pensatori cristiani, un tempo come oggi, è
quello di conciliare azioni umane volonta-
rie e intervento divino salvifico.
385
“ DANNY: Non prendiamoci in giro: arrestiamo gente che non ha infranto alcuna
legge.
VIDEO
Prenderemo spunto dal film di Spielberg per mettere a confronto le tesi di Agostino, di Anselmo
e di Tommaso sul libero arbitrio degli esseri umani. Cercheremo di trovare una risposta alle
seguenti domande:
• i nostri comportamenti dipendono soltanto da noi oppure sono condizionati?
• se ammettiamo che la natura dell’uomo è corrotta irrimediabilmente dal peccato,
possiamo ancora affermare di essere liberi di compiere il bene e di non compiere il male?
• ammettiamo l’esistenza di un Dio onnisciente e onnipotente, che conosce le nostre
se
azioni future, dobbiamo concludere che siamo costretti ad agire come agiamo?
Agostino: la libertà di “poter non peccare”
Nel film di Spielberg, le previsioni dei Pre-cogs sembrano mettere in discussione la
libertà degli esseri umani: se qualcuno può sapere in modo assolutamente certo
come un individuo si comporterà in una determinata circostanza, allora le azioni di
quell’individuo non sono forse predeterminate?
Se ci spostiamo sul piano teologico, la questione può essere formulata in questi
termini: in quale misura il libero arbitrio – inteso come capacità di scegliere, ope-
rare e giudicare senza costrizione alcuna – è conciliabile con il peccato originale
e con l’onniscienza di Dio?
“
Certo per il peccato [di Adamo] sparì la libertà, ma la libertà che esisteva nel paradi-
so di possedere la piena giustizia insieme all’immortalità. […] Infatti è tanto vero che
non è sparito nel peccatore il libero arbitrio che proprio per mezzo di esso peccano gli
uomini, specialmente tutti coloro che peccano con piacere e amore del peccato, ac-
consentendo a ciò che fa loro piacere.
(Contro le due lettere dei Pelagiani, I, 2, in www.augustinus.it)
Dunque, la libertà completa e perfetta, che Agostino definisce maior, ossia la pos-
sibilità di volere il bene in modo pieno e totale, conformemente alla natura stessa
della volontà, creata per amare, sarebbe andata perduta in seguito al peccato origina-
le. All’essere umano, però, resta il libero arbitrio, ossia una libertà minor, che consiste
nella facoltà di scegliere tra il bene e il male. Agostino sottolinea infatti la piena
responsabilità dell’essere umano, che scaturisce appunto dal suo libero arbitrio:
“
se agisco male, a chi attribuirlo se non a me? […] Se il movimento con cui la volontà
si volge qua e là non fosse volontario e posto in nostro potere, non si dovrebbe appro-
vare l’uomo quando torce verso l’alto il perno, per così dire, del volere e non si do-
vrebbe riprovare, quando lo torce verso il basso.
(De libero arbitrio, III, 1, in www.augustinus.it)
Il libero arbitrio si caratterizza, allora, come il posse non peccare (“poter non pec-
La scelta
dell’uomo e care”), vale a dire come la scelta del bene di fronte alla possibilità del male. Questa
l’aiuto di Dio condizione è diversa dal non posse peccare (“non poter peccare”), dal momento che
non sempre la nostra volontà si volge al bene maggiore, ovvero a Dio: essa può deci-
dere di seguire ciò che la giustizia vieta e da cui potrebbe liberamente astenersi.
SIAMO LIBERI O CI ILLUDIAMO DI ESSERLO? tema 387
“
Come infatti l’occhio corporale […] per vedere viene aiutato dalla luce e non può
vedere se la luce non l’aiuta, così Dio, che è la luce dell’uomo interiore, aiuta l’intuito
della nostra mente perché operiamo alcunché di buono, non secondo la nostra giu-
stizia, ma secondo la sua. (Il castigo e il perdono dei peccati, II, 5, in www.augustinus.it)
“
Anche la nostra volontà rientra nella serie delle cause che per Dio è determinata ed è
compresa nella sua prescienza, perché anche la volontà umana è causa di azioni umane.
Così egli che ha avuto prescienza delle cause di tutti gli avvenimenti non ha potuto
certamente non conoscere in quelle cause anche la nostra volontà, di cui sapeva per
prescienza che sarebbe stata causa delle nostre azioni.
(La città di Dio, V, 9, in www.augustinus.it)
Anselmo: la libertà di conservare
la rettitudine della volontà
A distanza di alcuni secoli da Agostino, Anselmo d’Aosta ripensa i temi della liber-
tà e della grazia, approdando a una soluzione originale, che lo porta ad accentuare
il significato morale del libero arbitrio.
La libertà dell’arbitrio
Per Anselmo, se il libero arbitrio consistesse nella scelta tra peccare e non peccare,
L’amore della
rettitudine si dovrebbe concludere che né Dio né gli angeli, in quanto esseri impossibilitati a
fare il male, lo possiedono, il che è inammissibile. Il poter peccare, che è incluso
nella definizione di libero arbitrio data da Agostino, secondo Anselmo esprime un
difetto, non un pregio; una privazione, non un elemento di forza. La libertà per lui
deve avere una connotazione positiva ed essere manifestazione di una ricchezza
ontologica. Anselmo ritiene infatti che la volontà di Dio e degli angeli sia libera
proprio perché non può essere indotta a peccare in alcun modo. Al contrario, la
volontà dell’essere umano può venire distolta dalla retta decisione di non peccare, e
dunque l’individuo può compiere azioni che potranno risultare per lui inutili, scon-
venienti o dannose. Pertanto, il potere di peccare diminuisce la libertà, mentre
quello di non peccare la incrementa.
A questo punto, per Anselmo si tratta di stabilire in che cosa consiste non tanto
il libero arbitrio, quanto ciò per cui il libero arbitrio è libero, e quindi di compren-
dere che cosa sia, di fatto, la libertà del libero arbitrio. Il filosofo elabora la seguente
definizione:
“
poiché ogni libertà è potere, la libertà di arbitrio è il potere di serbare la rettitudine
della volontà per amore della rettitudine stessa.
(La libertà di arbitrio, in A. d’Aosta, Opere filosofiche,
a cura di S. Vanni Rovighi, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 165)
La rettitudine, per Anselmo, consiste nel volere ciò che Dio vuole che si vo-
glia e deve essere ricercata non per ottenere una ricompensa, fosse anche la felicità
eterna, ma per sé stessa.
Secondo Anselmo, Adamo, il primo uomo, ha peccato in virtù del suo libero ar-
Le conseguenze
del peccato bitrio, cioè per sua scelta (non per costrizione né per necessità), e di conseguenza è
originale stato giustamente punito.
Nonostante il peccato originale, l’uomo non ha distrutto la libertà del suo arbi-
trio, infatti può ancora scegliere il bene. Con il peccato originale l’essere umano ha
perso l’effettivo possesso della rettitudine, ma non la capacità di possederla. E
se questa capacità è concessa all’uomo da Dio come dono gratuito, sta all’uomo con-
servarla: grazia e libero arbitrio non sono dunque in contraddizione, ma risultano
complementari.
SIAMO LIBERI O CI ILLUDIAMO DI ESSERLO? tema 389
“
sebbene nell’eternità vi sia soltanto il presente, quel presente non è però temporale
come il nostro, ma eterno, e in esso sono contenuti tutti i tempi. Come infatti il tem-
po presente si estende a ogni luogo e a ciò che si trova in qualsiasi luogo, così nell’e-
terno presente è compreso insieme ogni tempo e tutto ciò che è in qualsiasi tempo.
(La concordia della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio,
in A. d’Aosta, Opere filosofiche, cit., p. 229)
In merito al secondo punto, Anselmo afferma che quando si dice “Se questa cosa
Due diversi tipi
di necessità futura sarà, necessariamente sarà”, la necessità segue l’accadimento della cosa,
non lo precede; si tratta, cioè, di una necessità logica, basata sul principio di non
contraddizione, secondo cui se una cosa è, non può anche non essere, e viceversa:
“
Se infatti dico: «Domani ci sarà una ribellione popolare», questo non significa che la
ribellione ci sarà necessariamente. Prima che avvenga, infatti, può darsi che non
avvenga, anche se di fatto avverrà. Talora però la cosa di cui si dice che sarà, avverrà
necessariamente, come quando si dice che domani sorgerà il sole.
(La concordia della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio,
in A. d’Aosta, Opere filosofiche, cit., pp. 225-226)
In base a questa teoria, il sorgere del sole sarà necessariamente perché è necessario
che sia (in base a una legge astronomica): la necessità condiziona il fenomeno e lo fa
essere (necessità ontologica, quindi anche logica); mentre, per quanto riguarda la ri-
bellione, la necessità non costringe a essere l’avvenimento (la ribellione può avvenire
o non avvenire), ma segue la sua realizzazione (necessità logica, ma non ontologica).
Pertanto, sebbene Dio preveda tutto ciò che sarà, egli non prevede tutto ciò che
sarà come necessario, ma prevede che alcune azioni dipenderanno dalla libera vo-
lontà dell’essere umano:
“
A chi dunque rettamente considera, non sembrerebbero affatto opposte la prescien-
za, dalla quale segue una necessità, e la libertà di arbitrio che esclude la necessità,
poiché è necessario che sia ciò che Dio prevede, e insieme Dio prevede che qualcosa
sarà compiuto senza necessità.
(La concordia della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio,
in A. d’Aosta, Opere filosofiche, cit., pp. 223)
Anche in Minority Report sembra emergere l’idea che l’uomo sia comunque re-
sponsabile delle proprie azioni: un atto libero è pre-conosciuto dai Pre-cogs come
libero, e quindi, se la sezione del capitano Anderton non intervenisse a impedire gli
omicidi, essi verrebbero compiuti senza che ciò fosse ontologicamente necessario.
Tommaso: la libertà di scegliere
Il libero arbitrio, tra volontà e ragione
Tommaso d’Aquino sostiene che l’uomo possiede il libero arbitrio perché è un essere
La differenza
tra cose, razionale, in grado di giudicare le situazioni con pieno discernimento e di agire in base
animali ed a tale giudizio. Se l’uomo non possedesse il libero arbitrio, allora sarebbero inutili i con-
esseri umani sigli, le esortazioni, i precetti, le proibizioni, i premi e le pene.
Afferma Tommaso:
“
alcuni esseri agiscono senza alcun discernimento o giudizio, come la pietra che si muove
verso il basso; e così tutte le cose che sono prive di conoscenza. Altri esseri invece agiscono
con un certo giudizio, che però non è libero, come gli animali bruti. Infatti la pecora, al ve-
dere il lupo, giudica, con discernimento naturale e non libero, che è necessario fuggirlo […].
(Somma di teologia, I, q. 83, art. 2, trad. it. a cura dei Frati Domenicani,
Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014, p. 927)
Il “giudizio” della pecora, come quello degli altri animali, non si basa su un confron-
to tra opzioni diverse, ma su un istinto naturale, per questo non propriamente libero.
L’uomo, invece, giudica le situazioni mediante la facoltà conoscitiva, quindi non è de-
terminato a fare una cosa sola, ma ha il potere di orientarsi in direzioni diverse.
L’atto proprio del libero arbitrio, per Tommaso, è quindi la scelta, alla quale con-
corrono sia il consiglio (che rientra nell’ambito conoscitivo) sia il desiderio (che
rientra nell’ambito appetitivo): quando si tratta di scegliere, il consiglio è determina-
to prima dal parere della ragione, quindi dall’accettazione dell’appetito.
Poiché per Tommaso spetta «alla medesima potenza il volere e lo scegliere»
(Somma di teologia, I, q. 83, art. 4, cit., p. 748), il libero arbitrio viene a identificarsi
con la volontà. Si tratta di una volontà che, come abbiamo visto, è libera proprio in
quanto ha come suo «motore» l’intelletto: se il nostro arbitrio fosse esclusivamen-
te un atto della volontà, svincolato dal giudizio della ragione, sarebbe cieco e non
libero, esattamente come quello degli animali.
Sebbene la volontà tenda sempre a ciò che la ragione le presenta come bene, può ac-
Le cause
del peccato cadere che essa nutra desideri contrari alla ragione. Le passioni, ad esempio, possono
agire indirettamente sulla volontà, distraendola o impedendo il retto giudizio della ra-
gione: in questo caso l’uomo commette peccato, che consiste nel volere il male. L’igno-
ranza può essere un’altra causa di peccato: se non si possiede la scienza che illumina la
ragione, allora è possibile dirigere le proprie azioni verso ciò che non è bene in sé. Oltre
alla passione e all’ignoranza, anche la «malizia» può volgere la volontà al male: in que-
sto caso si tratta di un «peccato conosciuto e voluto», commesso «per calcolo».
Per Tommaso, Dio non è mai causa del peccato dell’uomo, sebbene quest’ulti-
mo non faccia nulla senza il sostegno di Dio:
“
il peccato sta a indicare un ente e un’azione con annesso un difetto. Ora, tale difetto
dipende da una causa creata, cioè dal libero arbitrio in quanto decade dall’ordine del
primo agente, cioè di Dio. Perciò tale difetto non risale causalmente a Dio, ma al li-
bero arbitrio: come il difetto dello zoppicare risale alla curvatura della tibia, e non
alla facoltà di locomozione, dalla quale tuttavia viene causato quanto c’è di mozione
SIAMO LIBERI O CI ILLUDIAMO DI ESSERLO? tema 391
nello zoppicare. E sotto questo aspetto Dio è causa dell’atto del peccato, ma non del
peccato: poiché non è causa del fatto che tale azione sia accompagnata da un difetto.
(Somma di teologia, II, q. 79, art. 2, cit., p. 785)
“
sebbene i contingenti [le cose che potrebbero non accadere] si attuino uno dopo l’altro,
pure Dio non li conosce in loro stessi, successivamente, come li conosciamo noi, ma
tutti insieme. Perché la sua conoscenza, come anche il suo essere, ha per misura l’eter-
nità e questa, esistendo tutta insieme, chiude nel suo ambito tutti i tempi […]. Quindi
tutte le realtà esistenti nel tempo sono presenti a Dio dall’eternità […] perché il suo
sguardo si porta dall’eternità su tutte le cose in quanto sono presenti dinanzi a lui.
(Somma di teologia, I, q. 14, art. 13, cit., p. 205)
In questa prospettiva, non dissimile da quella di Anselmo, le azioni umane che per
noi sono future per Dio sono presenti, perché le conosce nell’eternità, che è al di sopra
del tempo. Il fatto che Dio riesca a vederle non le priva del loro carattere contingente
(ossia non necessario); le cose contingenti restano tali proprio perché Dio le vuole così.
Il libero arbitrio è causa delle azioni umane sebbene non sia causa prima, perché
Cause prime e
cause seconde è Dio la causa prima che muove la volontà dell’uomo, e lo fa senza interferire con
la sua libertà. Dio prevede le azioni che l’uomo compirà, ma tali azioni non vengono
compiute per il fatto che Dio le ha previste:
“
Dio muove l’uomo ad agire non solo presentando ai sensi l’oggetto […] ma muovendo
la stessa volontà: poiché ogni moto, sia della volontà che della natura, deriva da lui
come dal primo motore. E come non distrugge la nozione di natura il fatto che il moto
naturale derivi da Dio come dal primo motore, essendo la natura come uno strumen-
to che Dio muove, così non distrugge la nozione di atto volontario la sua derivazione
da Dio, essendo la volontà sotto la mozione di Dio.
(Somma di teologia, II, q. 6, art. 1, cit., p. 90)
ARGOMENTARE e DIBATTERE P ro s p e t t i ve
D E B A T E sul presente
Neuroscienze e libero arbitrio
i vari aspetti del sistema nervoso. Esse si interrogano se le nostre decisioni e le nostre azioni siano una
conseguenza di reazioni fisico-chimiche, ossia se dipendano dall’interazione fra il nostro cervello e l’ambiente
esterno, e se siano in qualche modo imputabili al nostro corredo genetico. Al riguardo sono stati condotti
diversi esperimenti, tra i quali il più celebre è quello del neurofisiologo e psicologo statunitense Benjamin
Libet (1916-2007), che ha cercato di determinare il tempo intercorrente tra l’esecuzione di un atto e la
consapevolezza di averlo compiuto. In base alle misurazioni di Libet si è ipotizzato che il cervello decida di
compiere un’azione prima che il soggetto prenda consapevolezza di questa decisione. Se le cose stessero
effettivamente così, ogni atto volontario e spontaneo avrebbe inizio in maniera inconsapevole, perciò gli esseri
umani non eserciterebbero un controllo cosciente sulle proprie azioni.
SPUNTI DI RIFLESSIONE
Prova a rispondere alle domande seguenti: • trovi soddisfacenti le risposte che hanno dato Agosti-
• dal tuo punto di vista, che cos’è un atto libero e quando no, Anselmo e Tommaso al problema della conciliazio-
un’azione è davvero libera? ne di libertà umana e prescienza divina? perché? qual
• ritieni che i comportamenti degli esseri umani possano è la tua personale opinione su questo argomento?
essere condizionati dalla loro natura psicofisica? perché?
DIBATTITO
Rifletti insieme con i tuoi compagni sul tema “Gli es- riate al dibattito a casa, prevedendo un paio di incon-
seri umani sono responsabili del bene e del male che tri di gruppo, nel corso dei quali dovrete formulare
compiono?”. un’argomentazione “di parte”.
fase 1 Sotto la guida dell’insegnante dividetevi in fase 3 argomentare In classe, a turno, un portavoce
quattro gruppi: quello dei teologi, quello dei neuro- di ogni gruppo espone agli altri la propria argomen-
scienziati, quello della polizia e quello dei giudici. Cin- tazione in 8 minuti al massimo. Al termine di tutti gli
que studenti non parteciperanno al dibattito e dovran- interventi, gli studenti chiamati alla valutazione del
no valutare chi tra i compagni è stato più convincente. dibattito, dopo essersi consultati tra loro, decreteran-
fase 2 fare ricerca Ogni gruppo deve calarsi nel no chi è stato più persuasivo. Il verdetto dovrà tenere
ruolo assegnatogli e approfondire la questione dal conto anche di quanto i compagni siano stati capaci di
proprio specifico punto di vista, facendo ricerche in addurre un’argomentazione credibile rispetto al loro
Internet o in biblioteca. È bene, quindi, che vi prepa- ruolo.
394 LABORATORIO delle competenze
sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
Nei primi decenni del Novecento questo tipo di approccio era corrente nella storiografia
filosofica, e venne applicato anche al pensiero medievale sia da studiosi di formazione
30 idealistica, sia dai grandi medievisti di ispirazione neoscolastica. Questi ultimi, in partico-
lare, erano soliti distinguere tre “fasi” della “scolastica”: la “prescolastica” (secoli IX-XII),
caratterizzata da una piena ma sin troppo ingenua fiducia nella possibilità di realizzare
l’ideale agostiniano della fides quaerens intellectum; l’apogeo della scolastica (secolo XIII),
dominato dalla figura di Tommaso d’Aquino e dalla sua “sintesi” di aristotelismo e cristia-
35 nesimo; la successiva “decadenza” della scolastica (XIV-XV secolo), durante la quale il
precario accordo fra regione e fede ne sarebbe sfociato in separazione o in aperto contra-
sto. Ne derivava, parallelamente, una gerarchia fra gli autori, giudicati in base ai loro pre-
sunti meriti e demeriti, e disinvoltamente distinti fra “maggiori” e “minori”. Sempre discu-
tibili, simili apprezzamenti sembrano particolarmente arbitrari per i pensatori medievali,
40 alcuni dei quali venivano peraltro classificati fra i “minori” solo perché le loro opere erano
difficilmente accessibili, in quanto non pubblicate a stampa: le grande imprese editoriali
degli ultimi decenni ci consentono ora una valutazione più equilibrata.
(M. Bettetini - L. Bianchi - C. Marmo - P. Porro, Filosofia medievale,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 4-5)
COMPRENSIONE E INTERPRETAZIONE
1. Dividi la prima parte del testo (rr. 1-19) in periodi e riassumi ciascuno di essi in una frase di circa
15 parole.
2. Qual è la tesi esposta dagli autori?
3. Nella prima parte del brano, sottolinea le parole o le espressioni che svolgono il ruolo di connettivi.
Quale funzione hanno ai fini dell’argomentazione?
4. Dopo aver esposto la tesi, gli autori riportano due possibili contro-argomentazioni. Quali sono?
5. Quali sono le risposte degli autori a queste possibili contro-argomentazioni?
COMMENTO ARGOMENTATIVO
A partire dalla tua conoscenza del pensiero dei filosofi che hai studiato nella sezione, individua
alcuni esempi che possano validare le argomentazioni usate dagli autori a sostegno della tesi espo-
sta nel passo. Scrivi un testo argomentativo che non superi le tre colonne di metà di foglio proto-
collo (circa 2500 caratteri al computer), ampliando il ragionamento esposto in questo brano grazie
agli esempi che hai individuato.
396 LABORATORIO delle competenze
sezione 5 L’ ETÀ MEDIEVALE
OBIETTIVO
Immagina che la tua classe sia la redazione dell’inserto culturale di un giornale e decida di pubblicare due
articoli che presentino punti di vista contrapposti sulla questione del rapporto tra l’intenzione e l’azione,
e tra l’etica e la legge.
FASI
fase 1
individuazione di un caso (lavoro individuale a casa - 1 ora)
Cerca sui quotidiani online un caso di attualità che si presti a una duplice interpretazione dei fatti,
secondo la legge e secondo l’etica dell’intenzione; deve essere giudicabile in modo diverso se
si esamina l’azione in sé e per sé o se si prende in considerazione anche l’intenzione dalla quale
è scaturita. Riporta sul quaderno o in un file la sitografia consultata e usata.
fase 2
scelta del caso e organizzazione (lavoro in classe - 20 minuti)
Il docente sceglie il caso di attualità più interessante tra quelli proposti dagli studenti e divide
la classe in due gruppi. Il primo gruppo dovrà giudicare l’azione commessa alla luce della legge;
il secondo gruppo dovrà esaminare invece l’intenzione con la quale il fatto è stato compiuto.
fase 3
elaborazione e stesura dell’articolo (lavoro in gruppo in classe o a casa - 2 ore)
A partire dal punto di vista che vi è stato assegnato, discutete tra voi ed esponete le argomentazioni
a sostegno della vostra posizione. Scrivete quindi un articolo di giornale (massimo 4 colonne di metà
di foglio protocollo o 3000 caratteri al computer), nel quale dovrete:
• riassumere il fatto di attualità;
• presentare il vostro “verdetto”, dal punto di vista della legge o dell’intenzione;
• argomentare utilizzando quanto avete scritto nella fase precedente.
397
Indice
dei nomi
D G
Democrito, 8, 9, 10, 11
Dick, Philip K., 385 Galeno, 44, 72, 73
Diodoro Crono, 38 Gallieno, imperatore, 79, 81
Diogene di Seleucia, 68 Gaunilone, 248-249, 255
Diogene Laerzio, 9, 22, 31, 34, 38, 42, 44, Gellio, Aulo, 40, 41
54, 64, 74 Genserico, re dei vandali, 147
Dione di Prusa, 52 Gesù di Nazareth, 120, 122, 124, 125, 126,
Dionigi pseudo-Areopagita, 82, 216, 217, 127, 128-132, 138, 285
230 Gibbon, Edward, 52
Dionigi, tiranno di Siracusa, 50 Gibran, Kahlil, 107, 108, 110, 111
Domenico di Guzmán, 307 Giotto di Bondone, 333
Domiziano, imperatore, 51 Giovanni di Salisbury, 246
Donato, vescovo, 167 Giovanni, evangelista, 126, 133-134, 175,
Droysen, Johann Gustav, 2 227
Duns Scoto, Giovanni, 197, 357, 358-360, Giovanni XXII, papa, 362, 372
367, 368, 379, 380 Giuliano, imperatore, 80
Giustiniano, imperatore, 136, 213
Giustino, 135
E Gordiano III, imperatore, 79, 81
Eadmero, 246 Gotescalco, 216
Ecatòne di Rodi, 112 Gozzoli, Benozzo, 315
Eloisa, 263, 264, 265, 288 Gregorio IX, papa, 298
Enesidemo di Cnosso, 69, 71 Guglielmo di Champeaux, 263, 266
Enrico I, re d’Inghilterra, 244 Gugliemo di Ockham, 197, 207, 355, 357,
Epafrodìto, 51 360, 361-374, 375-378, 380
Epicuro, 6, 8-21, 22-25, 26, 104, 107, 109-110 Guglielmo il Conquistatore, re d’Inghilterra,
Epittèto, 6, 31, 51, 52, 59 243, 244
Erasistrato, 72 Guglielmo II Rufo, 244
400 INDICE DEI NOMI
J N
Jerrome, Dorothy, 113 Nausìfane, 8
Nerone, imperatore, 50, 51
Nerva, imperatore, 51
K Notkero di San Gallo, 215
Kripke, Saul, 67
O
L Onorio III, papa, 217
Lanfranco di Pavia, 243 Orazio, 9
Leone XIII, papa, 317 Origene, 135, 136
Libera, Alain de, 204 Ottaviano Augusto, imperatore, 4, 122
Libet, Benjamin, 393
Lombardo, Pietro, 316, 318, 348, 358, 361
Luca, evangelista, 126, 227
P
Lucilio, 55, 57 Paolo di Tarso, 126, 128, 132, 138, 151, 166,
216, 315
Lucrezio, 6, 8, 9, 15, 16, 20
Patrizio (padre di Agostino), 144
Ludovico il Bavaro, imperatore del Sacro
romano impero, 361 Pelagio, 167
Lutterell, John, 361 Petrarca, Francesco, 152
Pietro, apostolo, 133, 373, 379
Pietro il Venerabile, 264, 265
M Pio XI, papa, 315
Machiavelli, Niccolò, 52 Pirrone di Èlide, 64-65, 66, 69, 76
Maimonide (Mosè ben Maimon), 204, 207, Platone, 6, 7, 9, 21, 32, 49, 50, 66, 80, 85,
262, 282-283, 289 86, 90, 92, 94, 101, 158, 188, 199, 203,
Manfredi, re di Sicilia, 225 206, 222, 224, 225, 230, 234, 251, 254,
Mani, 146, 164 266, 267, 276, 302, 315, 356
Manzoni, Alessandro, 67 Plotino, 7, 79-95, 96-100, 101, 105, 136,
Maometto, 128, 204, 212, 277, 283 170, 189, 206, 224, 267
Marco Antonio, 49 Plutarco, 80
Marco Aurelio, imperatore, 6, 31, 51-53, 58, Polistrato, 8
59, 105, 171, 188 Porfirio, 80, 81, 93, 101, 265, 267, 362, 383
Marco, evangelista, 227 Porro, Pasquale, 394, 395
Marmo, Costantino, 394, 395 Proclo, 80, 216, 224
INDICE DEI NOMI 401
T Z
Zenone di Cizio, 6, 30, 31, 34, 38, 43, 58
Talete, 94 Zenone di Elea, 30
Tempier, Étienne, 317, 356
402
A E
afasìa 64 eclettismo 48
anapodittico 37 edonismo 17
anima 242 emanazione 83
anticipazione 14 epoché 66
apatìa 44 eresia 136
apologeti 135 ermeneutica 127
aponía 20 esistenza 238
appetitus 335 essenza (Avicenna) 238
argomento ontologico o a priori 246 essenza (Tommaso) 321
arti liberali 214 essere/esistenza 321
atarassìa 65 estasi 92
ataraxía 20 eternità 163
autorità 300
G
C grazia 166
canone 125
canonica 12
causa interna
cause seconde
41
330
H
heghemonicón 33
città di Dio 168
codice 200
concettualismo
concordismo
269
222 I
confessione 150 illuminazione 158
conoscenza astrattiva 359 inclinazione (Abelardo) 273
conoscenza intuitiva 359 inclinazione (Epicuro) 11
contingenza 369 intelletto agente (al-Farabi) 224
cosmopolitismo 45 intelletto agente (Averroè) 280
intelletto agente (Avicenna) 241
intelletto potenziale 280
D intermundia
ipòstasi
11
84
decima intelligenza 241
dialettica 219
dialettica (Abelardo)
dimostrazione a posteriori
266
326 L
disputatio 300 lectio 299
distensione dell’animo 163 libri apòcrifi 125
dovere 43 lógos spermatikós 31
INDICE DEI LESSICI FILOSOFICI 403
M S
male 165 scetticismo 65
manicheismo 146 scolastica 295
monoteismo 124 segno 365
sensazione 13
significato 36
N simulacri
specie
13
360
natura 218
sublime 93
nominalismo 269
summa 302
supposizione 365
O
oikéiosis
oscurantismo
43
199
T
teocrazia 168
teofania 219
teologia della storia
P teologia negativa
169
219
padri della Chiesa 136 teoria della doppia verità 278
palingenesi 32 termine mentale 364
panteismo 32 termini orali e scritti 364
partecipazione 324 theològia 270
passione 44 tropi 69
páthos 16
peccato 165
piaceri catastematici
piaceri cinetici
16
16
U
universale 266
università 296
Uno
Q 83
quadruplice farmaco 18
quaestio 299 V
valori 43
Verbo
R visione ciclica del tempo
133
169
rappresentazione catalettica 34 visione lineare del tempo 169
rasoio di Ockham 367 vivi nascostamente 20
realismo 267
rigorismo 43
404
Indice
delle rubriche
A tu per tu con Maurizio Ferraris
Plotino: il riconoscimento del limite della ragione 94
Agostino, nostro “contemporaneo” 170
Tommaso: l’autonomia della ragione e la rilevanza del mondo sensibile 338
Il ritratto
Plotino: la vita come ricerca spirituale 81
Agostino nella rappresentazione di Botticelli 145
Tommaso nel dipinto di Benozzo Gozzoli 315
Esperimento filosofico
La selezione di piaceri e desideri 17
Il paradosso di Protagora 40
L’oggetto misterioso 83
I modelli del mondo interiore 155
I “secoli bui” 200
Che cos’è un testo? 223
Gli universali e la loro percezione 268
Una disputa sulla guerra giusta 301
Una lettera a un ateo: dimostrare l’esistenza di Dio 328
Il pensiero si fa immagine
L’emanazione dall’Uno come irradiamento o effusione 84
La verità come luce interiore 157
L’intelligenza ordinatrice come un arciere 327
Per approfondire
I paradossi stoici 38
Carneade, un illustre “sconosciuto” 67
La nozione di “teologia negativa” 82
Rivelazione, ispirazione, interpretazione 128
La parola e il nome di Dio 131
Dionigi pseudo-Areopagita 216
Il Liber de pomo: una particolare interpretazione della filosofia aristotelica 225
Boezio: tra antichità classica e Medioevo latino 267
Scioperi e proteste per la libertà di insegnamento 298
Gli ordini mendicanti 307
Il principio di individuazione 323
Fisica e teologia 370
Concetto
La cura 104
L’interiorità 188
La dialettica 382
Tema
L’amicizia è un fatto personale o sociale? 106
Siamo liberi o ci illudiamo di esserlo? 384
Indice
delle illustrazioni
p. 3 p. 7
Tempio di Kom Ombo, II secolo a.C., Biga romana sulla linea di partenza, III secolo d.C.,
particolare, cittadina di Kom Ombo, Egitto. mosaico, Madrid, Museo Arqueológico Nacional.
p. 5 p. 8
p. 6
p. 73 p. 121
p. 114 p. 122
p. 119
p.193 p. 198
p. 212
p. 196
Bibbia manoscritta eseguita a Tours nel 845,
Parigi, Biblioteca nazionale.
p. 234
p. 294 p. 358
p. 313 p. 361
p. 355
Le carte alle pp. 213, 235, 261 e 295 sono tratte, con adattamenti, da L. Sturlese,
Filosofia nel Medioevo, Carocci, Roma 2014, pp. 29, 36, 49 e 61.