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(…) Scesi di nascosto, rotolai per la scala vietata. Caddi.

Quando aprii gli occhi,


vidi l’Aleph.” “L’Aleph” ripetei. “Sì, il luogo dove si trovano, senza confondersi,
tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli. Non rivelai a nessuno la mia
scoperta ma vi tornai ancora. Il bambino non poteva supporre che quel privilegio
gli era accordato perché l’uomo cesellasse il poema! (…) La verità non penetra in
un intelletto ribelle. Se tutti i luoghi della terra si trovano nell’Aleph, vi si
troveranno tutti i lumi, tutte le lampade, tutte le sorgenti di luce”.

Jorge Luis Borges

Questa recensione è dedicata a Eugenio Dessy, il quale mi stimolò pervicacemente


fino al punto in cui dovetti cedere le armi intellettuali all’idea che non si
possono creare aspettative sufficientemente alte nei confronti del labirinto
edificato da uno scrittore-minotauro, giacché le aspettative, essendo pensieri, non
sono né alte né basse perché già parte di un labirinto che non si misura con il
sistema metrico-decimale, creato ex novo dalla vittoria napoleonica sull’Ancient
regime.

L’Aleph è una raccolta di racconti di Jorge Luis Borges (1899-1986), edita per la
prima volta nel 1949 e poi ampliata a più riprese fino a metà degli anni cinquanta.
Si tratta indubbiamente di un’opera la cui lettura non risulta agile e non è
pensata per essere tale. Allo stesso tempo, Borges offre al lettore una serie di
racconti che sono legati da “somiglianze, similitudini e variazioni sullo stesso
tema”. E’ impossibile ricostruire dettagliatamente ogni singolo racconto della
raccolta, ma considereremo esclusivamente i nuclei tematici e formali che ci
sembrano di maggior rilievo per chi si accosti per la prima volta a L’Aleph.

L’immagine più nitida di quanto un lettore può scoprire in questa raccolta potrebbe
essere quella dei quadri di De Chirico (1888-1978), il pittore “metafisico”.
Infatti, l’opera di De Chirico è realista e fantastica allo stesso tempo, classica
e avanguardistica, atemporale e storicamente determinata. I quadri di De Chirico
sono quasi spesso ambientati in mondi senza ombre, in cui le architetture classiche
lasciano intravedere una nerbatura non posticcia di natura moderna e
avanguardistica nel senso di uno stile in piena rottura con l’apparente immagine
realistica. Tutto questo si ritrova anche in Borges. Molti racconti sono ambientati
in momenti in cui le ombre sono assenti (al mezzodì o nell’oscurità totale – dove
si trova anche l’Aleph). L’immagine più ricorrente de L’Aleph è quella del
labirinto, ovvero di una variazione su un tema fisso che deraglia nei meandri di
richiami ad altre storie, ad altri evi e ad altre diciture linguistiche. In De
Chirico l’amore del labirinto non si esprime negli stessi termini, ma negli stessi
termini si danno ricorrenze, variazioni su temi costanti e, allo stesso tempo,
inesauribili. C’è una somiglianza, forse non del tutto casuale, con le variazioni
sul tema della musica classica che, non a caso, non compare tra le opere maggiori
della storia della musica, pur essendone parte costitutiva. E non è forse detto che
anche Borges amasse quel Brahms, espressamente citato, delle variazioni sul tema di
Handel.

Altro autore che può servire come pietra di paragone, ma questa volta all’inverso,
è Kafka. Si può forse dire, con un certo ardimento ma solo limitatamente, che
Borges sia l’opposto metafisico del grande praghese. Il Kafka dei racconti o de Il
castello e non quello, ad esempio, de Il processo o de La metamorfosi. Infatti, in
Kafka si ritrova continuamente lo sviluppo onirico di una realtà apparentemente
chiara, ma in realtà assai contorta ed oscura. Come in Kafka, il lettore si ritrova
a scoprire di aver perso il filo della narrazione, che si sviluppa su un tema per
diramarsi in infinite circonvallazioni, giri di parole e di nuclei tematici. Non
c’è mai uno sviluppo “lineare” dell’infinita trama che assume, piuttosto, la forma
dello “gliommero” di gaddiana memoria. Ma a differenza di Gadda, Borges non propone
uno stile straordinario e barocco perché, a differenza di Gadda, il linguaggio è un
espediente più di quanto non sia un fine. Borges, in questo, assomiglia a Pontiggia
che recupera e sfrutta continuamente le parole per deviare il normale corso della
trama, per fornire un sottosviluppo semantico della storia con il solo scopo di
creare una sorta di “ipertesto” che finisce per essere avulso non tanto dalla
realtà, quanto dalla logica e naturale sequenza degli eventi che egli fa finta di
narrare. E qui sta la differenza con Pontiggia, che invece usa le parole con grande
fiducia nel fatto che esse restituiscano fedelmente, quando appropriatamente
impiegate, la realtà. La finzione di Borges sta proprio in questo, ovvero nel non
narrare mai niente di particolare, se non una idea, un concetto astratto che, di
per sé, è inesauribile. Restio ad essere esaurito, Borges non vuole assolutamente
esaurire proprio niente.

Kafka, si diceva, è un autore che usa la realtà per trasformarla in un incubo da


cui non ci si può svegliare e ci riesce attraverso lo sviluppo dell’assurdo, del
passaggio da un’immagine ad un’altra, come negli incubi. In Borges sembra darsi lo
stesso caso, ma se in Kafka il significato della lingua è rimandare al sogno e
all’assurdo, in Borges la lingua non rimanda ad altro che ad una idea “classica”,
ad una sorta di modello platonico del mondo in cui il mondo è trasfigurato nel
modello ideale, che è di per sé inesauribile. Per questo il mondo è intuito come un
labirinto. Ma non un labirinto da cui si entra e si esce. Al contrario, si tratta
di un labirinto “infinito”, in “tre dimensioni” e senza entrata e senza uscita. E
infatti l’espediente “quadrimensionale” del labirinto di Borges assume per ciascuna
dimensione un valore a sé: il tempo e lo spazio assumono, a seconda dei casi, lo
scopo del muro di un labirinto fatto di pietre o di vuoti, dove la “o” qui è
interpretata anche nel suo senso di “e”. E non è un caso, infatti, che l’Aleph sia
proprio il simbolo impiegato dai matematici per intendere il trasfinito, ovvero
quel tipo di infinito che sarebbe più numeroso dei numeri naturali, così da Cantor
in poi e che ci viene esplicitamente definito dallo stesso Borges.

Il punto è essenziale: un labirinto è un oggetto reale, anche quando prende la


forma del deserto (cioè la negazione essenziale della natura del labirinto
concepito fisicamente come infinità di vie e passaggi per giungere da nessuna
parte). Un labirinto ha senso in quanto è reale. Se così non fosse, non sarebbe
neppure interessante. Se in Kafka il lettore scopre di vivere in un incubo da cui
non si può svegliare ma, in quanto tale, è pur sempre falso, in Borges, al
contrario, il lettore scopre di essere in un labirinto di continuo, di giungervi
suo malgrado continuamente. Ma, proprio per questa “ineluttabilità labirintica”,
non si tratta di una narrativa fantastica, se con questa nozione si intende
l’esplorazione di un’idea che non ha corrispettivo con la realtà. Al contrario,
Borges sfrutta continuamente immagini reali per dar forma al suo “modello
platonico” di realtà: Londra, una città immaginaria, un deserto, una fortezza sono
tutte immagini impiegate per costruire racconti di persone perdute in labirinti.

Ma la realtà è che labirintico non è solo il mondo. Ma anche il pensiero e quindi


il linguaggio. Borges è un fine conoscitore della grammatica dei termini e dei suoi
infiniti usi che possono essere sfruttati per far deviare e deragliare i pensieri
del lettore. Ogni parola sembra una trappola, ogni logica grammaticale un filo di
Arianna che non conduce al Minotauro (non a caso, protagonista di uno dei
racconti). Sicché tutto è un gioco di richiami a parole che non sono
necessariamente dotate di un significato diverso da quello che Borges utilizza solo
per introdurre una storia nella storia, fosse anche solo di una parola.

Il risultato complessivo è la costruzione di un mondo in cui il soggetto si perde


nel linguaggio e il linguaggio non ha chiari rimandi al mondo se non lo stretto
indispensabile per rendere l’immagine di una confusione che non rimanda all’onirico
ma all’incommensurabilità della realtà. La realtà, come un labirinto, non può
essere esaurita. E la parola stessa, “esaurimento”, sembra essere in questi termini
un controsenso logico. Non c’è niente da esaurire, come il personaggio agostiniano
che non può eliminare l’oceano semplicemente con un secchio. La finitudine umana si
esprime nello scetticismo nei confronti del linguaggio, il quale è il solo mezzo
che egli ha per intuire le infinite forme della sola realtà (e in questo, sì,
Borges è un “classico”). Ma il linguaggio è un mezzo che distingue e parcellizza e,
quindi, rende ancora più limitato un mondo che non si può restituire mai
interamente (e quindi, in questo senso, Borges è tutt’altro che classico).

E allora qua Borges sembra intimamente legato al Wittgenstein delle Ricerche


filosofiche, che esplicitamente ci parla del linguaggio come di un labirinto: “203.
Language is a labyrinth of paths. You approach from one side and know your way
about; you approach the same place from another side and no longer know your way
about. (Wittgenstein (1953), p. 83)”. (Il linguaggio è un labirinto di percorsi. Tu
puoi arrivarci da un lato e sapere quale sia quella via, ma puoi giungerci
dall’altro lato e non sapere più quale sia la strada da seguire). Non sarebbe forse
questa la fede dello stesso Borges espressa nei termini di un filosofo che compie,
più o meno negli stessi anni, esattamente la stessa operazione, mutatis mutandis?
Il secondo Wittgenstein giunge ad esplorare la stessa idea perché è vinto dagli
stessi scetticismi, pur senza scadere nello scetticismo nei confronti della
conoscenza e del mondo. E anche questo si ritrova proprio in Borges, in cui il
labirinto non è espressione della sconfitta, ma di una peculiare vittoria dello
spirito umano che contempla se stesso da una angolatura differente, in cui il
linguaggio è tornato ad essere solo parzialmente il modo attraverso cui risolvere
ogni problema. E non a caso, infatti, Wittgenstein usa le stesse immagini per
veicolare lo stesso straniamento, lo stesso deragliamento dalla strada che
sembrava, appunto, così chiara e distinta.

La potenza di Borges e de L’Aleph sta nell’intuizione del classico nel mondo


contemporaneo. Borges non si può capire senza la filosofia greca, senza i classici
della letteratura occidentale (infiniti i richiami espliciti e impliciti), pur
apparendo in piena rottura con essi (il rifiuto della “descrizione unica” o del
“realismo”, a mio avviso ingenuo di una certa letteratura veristica). Egli è un
uomo contemporaneo che vede il mondo attraverso l’interpretazione classica del
mondo e, quindi, come De Chirico vede le forme perfette del fondamento occidentale
della conoscenza e, allo stesso tempo, scopre attraverso esso nuove forme, nuove
espressioni per un mondo che è sempre stato, non confuso, ma che induce confusione.
Non c’è confusione nel mondo (visione classica) ma non è detto che l’uomo possa non
essere lui confuso (visione del contemporaneo). Come un uomo che scopre che il suo
disegno sovrapposto alla realtà devia dalla linea reale perché nel mondo non
esistono linee, così Borges ritaglia il linguaggio per spostarlo progressivamente
verso punti privi di contatto tra realtà e finzione. Quindi il soggetto può essere
indotto a vedere nuove forme nell’antico, può essere portato a prendere abbagli, ma
questo è un problema suo, per così dire. Non si tratta della visione del Don
Chisciotte (citato nella raccolta) che sovrappone immaginazione pura prodotta
dall’applicazione di leggi assunte ex ante. Si tratta dell’uomo che si chiede dove
finisca il suo essere Don Chisciotte, dove sta venendo ingannato dalla sua
percezione e dove, invece, ci vede bene. Da qui la sensazione dello spettatore di
un 8 ½, nel quale la confusione è indotta dall’impossibile sovrapposizione tra
soggetto e oggetto.

Borges non è un visionario ma un abitante del mondo che non ha abbandonato la


strada classica. Il punto è che la strada “classica” lo ha condotto ad un luogo
senza strade e, quindi, paradossalmente labirintico proprio perché senza percorsi
fissati ex ante. Egli deve, per così dire, costruire ex novo le sue strade e, così,
scopre che senza una strada anteriore, ogni strada è potenzialmente possibile e
nessuna sembra essere privilegiata, più importante o non accessoria perché
assolutamente contingente. Sicché tutto si perde, perché tutto diventa possibile.
Ma non la strada classica, unico metro e misura del possibile che è il nostro
presente.

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