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L’Aleph è una raccolta di racconti di Jorge Luis Borges (1899-1986), edita per la
prima volta nel 1949 e poi ampliata a più riprese fino a metà degli anni cinquanta.
Si tratta indubbiamente di un’opera la cui lettura non risulta agile e non è
pensata per essere tale. Allo stesso tempo, Borges offre al lettore una serie di
racconti che sono legati da “somiglianze, similitudini e variazioni sullo stesso
tema”. E’ impossibile ricostruire dettagliatamente ogni singolo racconto della
raccolta, ma considereremo esclusivamente i nuclei tematici e formali che ci
sembrano di maggior rilievo per chi si accosti per la prima volta a L’Aleph.
L’immagine più nitida di quanto un lettore può scoprire in questa raccolta potrebbe
essere quella dei quadri di De Chirico (1888-1978), il pittore “metafisico”.
Infatti, l’opera di De Chirico è realista e fantastica allo stesso tempo, classica
e avanguardistica, atemporale e storicamente determinata. I quadri di De Chirico
sono quasi spesso ambientati in mondi senza ombre, in cui le architetture classiche
lasciano intravedere una nerbatura non posticcia di natura moderna e
avanguardistica nel senso di uno stile in piena rottura con l’apparente immagine
realistica. Tutto questo si ritrova anche in Borges. Molti racconti sono ambientati
in momenti in cui le ombre sono assenti (al mezzodì o nell’oscurità totale – dove
si trova anche l’Aleph). L’immagine più ricorrente de L’Aleph è quella del
labirinto, ovvero di una variazione su un tema fisso che deraglia nei meandri di
richiami ad altre storie, ad altri evi e ad altre diciture linguistiche. In De
Chirico l’amore del labirinto non si esprime negli stessi termini, ma negli stessi
termini si danno ricorrenze, variazioni su temi costanti e, allo stesso tempo,
inesauribili. C’è una somiglianza, forse non del tutto casuale, con le variazioni
sul tema della musica classica che, non a caso, non compare tra le opere maggiori
della storia della musica, pur essendone parte costitutiva. E non è forse detto che
anche Borges amasse quel Brahms, espressamente citato, delle variazioni sul tema di
Handel.
Altro autore che può servire come pietra di paragone, ma questa volta all’inverso,
è Kafka. Si può forse dire, con un certo ardimento ma solo limitatamente, che
Borges sia l’opposto metafisico del grande praghese. Il Kafka dei racconti o de Il
castello e non quello, ad esempio, de Il processo o de La metamorfosi. Infatti, in
Kafka si ritrova continuamente lo sviluppo onirico di una realtà apparentemente
chiara, ma in realtà assai contorta ed oscura. Come in Kafka, il lettore si ritrova
a scoprire di aver perso il filo della narrazione, che si sviluppa su un tema per
diramarsi in infinite circonvallazioni, giri di parole e di nuclei tematici. Non
c’è mai uno sviluppo “lineare” dell’infinita trama che assume, piuttosto, la forma
dello “gliommero” di gaddiana memoria. Ma a differenza di Gadda, Borges non propone
uno stile straordinario e barocco perché, a differenza di Gadda, il linguaggio è un
espediente più di quanto non sia un fine. Borges, in questo, assomiglia a Pontiggia
che recupera e sfrutta continuamente le parole per deviare il normale corso della
trama, per fornire un sottosviluppo semantico della storia con il solo scopo di
creare una sorta di “ipertesto” che finisce per essere avulso non tanto dalla
realtà, quanto dalla logica e naturale sequenza degli eventi che egli fa finta di
narrare. E qui sta la differenza con Pontiggia, che invece usa le parole con grande
fiducia nel fatto che esse restituiscano fedelmente, quando appropriatamente
impiegate, la realtà. La finzione di Borges sta proprio in questo, ovvero nel non
narrare mai niente di particolare, se non una idea, un concetto astratto che, di
per sé, è inesauribile. Restio ad essere esaurito, Borges non vuole assolutamente
esaurire proprio niente.