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EDITRICE BIBLIOGRAFICA
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4. Paradigmi e obiettivi
4.1 Il sito web del museo: perché?
4.2 La collezione on-line
4.2.1 Un’unica collezione on-line
4.2.2 La collezione on-line e il nutrimento all’industria creativa
4.3 Trasparenza, sostenibilità, accountability
5. La partecipazione: ragioni e pratiche
5.1 Quale partecipazione
5.2 Casi significativi
Di cosa parliamo quando parliamo del digitale nella sfera culturale? Fino a
qualche anno fa, una domanda del genere avrebbe suscitato accesi dibattiti di
stampo fondamentalista tra “pro” e “contro”: il digitale come una dimensione da
sposare oppure al contrario da rifiutare nella sua interezza, e questo ancora di più
se ci si confinava a quell’ambito dell’ecosistema culturale che comprende i musei
e il patrimonio tangibile. Oggi quella fase si può dire sostanzialmente superata.
Non si può essere “contro” il digitale in senso stretto perché sarebbe come andare
contro i flussi delle maree o il ciclo delle stagioni. Però, per molti, per quanto
inevitabile da accettare il digitale nella sfera culturale viene visto più come un
male necessario che come il dischiudersi di un mondo di nuove possibilità. La
ragione è chiara: si pensa al digitale come a una formidabile arma di distrazione
di massa che, anche quando sembra voler favorire l’accesso all’esperienza
culturale e la partecipazione, in realtà fa il gioco contrario stimolando le persone
a uno sguardo sempre più superficiale, a un’attenzione sempre più erratica, a un
pensiero sempre più capriccioso e disattento. E l’immagine simbolo di tutto ciò
sembra essere la famosa foto che ritrae un gruppo di teenagers seduti nel
Rijksmuseum di fronte alla Ronda di notte di Rembrandt e tutti intenti a
guardare i propri smartphone invece del quadro. Una foto che, prevedibilmente,
ha attratto strali polemici di ogni genere in quanto “prova inconfutabile” della
nuova barbarie estetica alle porte. Quel che è emerso a un’analisi più attenta è
però che molti dei protagonisti di quella scena stavano in realtà usando i propri
smartphone per documentarsi meglio sull’opera che avevano di fronte e sulle
collezioni del museo, ovvero stavano facendo proprio quel che ci aspetteremmo e
ci augureremmo da un visitatore consapevole e interessato. L’apparenza dunque
inganna, e ancora più ingannevole è l’ansia di trovare riscontri a una tesi in gran
parte preconcetta che più che da una seria analisi sul campo sembra prendere le
mosse da un pregiudizio radicato, come peraltro è storicamente avvenuto per
ogni altra grande innovazione introdotta nell’ambito della produzione e
dell’accesso culturale, dai libri a stampa, al cinema, ai videogiochi, giusto per fare
qualche esempio ovvio.
Ciò non vuol dire naturalmente che il digitale non abbia ombre e non ponga
sfide che necessitano di intelligenza ed attenzione nell’inquadrarle, nel dare loro
senso, e possibilmente nell’affrontarle con efficacia. È indubbio che il digitale
ponga vari tipi di problemi di natura socio-comportamentale che non siamo ben
preparati a gestire e che possono produrre effetti non voluti e non desiderabili,
anche se pure in questo caso bisogna lamentare la persistenza di preconcetti
piuttosto resistenti all’evidenza scientifica, come ad esempio la supposta
perniciosità dei videogiochi nel generare dipendenza negli utilizzatori (quello che
la ricerca ci dice invece è che esiste una maggiore o minore suscettibilità
individuale a sviluppare dipendenze di varia natura, che possono orientarsi verso i
videogiochi o verso molte altre forme, ma che non beneficiano particolarmente
dal vedersene semplicemente precluderne una). Occorre quindi, come sempre,
affrontare le tematiche connesse al digitale nella sfera culturale, nella loro
ramificazione sempre più complessa, con mente aperta, con curiosità, e
soprattutto con una gran voglia di documentarsi e fare riferimento alla riflessione
e alla ricerca recente, che è ovviamente in piena fioritura e offre spunti
ricchissimi a chi vuole provare a capire meglio. È quello che fa in questo libro
Maria Elena Colombo, che da professionista del settore ha una vasta esperienza
di lavoro “sul campo” per quanto riguarda il digitale nei musei, ma che riesce qui
ammirabilmente a evitare di proporre una prospettiva da digital evangelist, ovvero
da promotore entusiasta di una rivoluzione da accettare senza resistenze, per
assumere invece una posizione intelligentemente critica e problematica,
alimentata da un percorso di letture ricco e attentamente scelto, ma allo stesso
tempo però molto pragmatica e sensibile alle opportunità e ai dilemmi delle
scelte quotidiane di chi deve operare in un settore in cui il ritmo del mutamento
supera spesso quello delle possibilità di comprensione, per rispondere ad alcune
semplici domande: che fare, come, e perché.
Questo, va detto subito, è un libro coraggioso. Basti pensare che il capitolo di
apertura parte da quella che è forse oggi la vera mission impossible per chi vuole
provare a comprendere questo mondo in turbolento cambiamento: la costruzione
di un approccio tassonomico al digitale nei musei. La tassonomia che viene
proposta non è però una griglia rigida, destinata a diventare rapidamente e
inevitabilmente obsoleta, quanto piuttosto quello che potremmo chiamare un
abito mentale: a quale dimensione guardare? Con che obiettivi e per quali
ragioni? Un altro elemento particolarmente apprezzabile è che nell’intraprendere
un percorso del genere non viene scelto il tono apodittico di chi prova a scrivere
le tavole della legge, ma si dà un grande spazio alle voci di vari grandi
professionisti ed esperti del settore la cui riflessione si intreccia continuamente
con quella dell’autrice, così che a volte più che a una riflessione sembra di
assistere a una conversazione particolarmente ben orchestrata. La riflessione
punta decisamente a superare quegli atteggiamenti che potremmo definire di
neo-benjaminismo ingenuo, che vedono nella dimensione digitale un sostituto
improprio e fuorviante dell’esperienza del rapporto materiale con l’opera e con
l’oggetto, come se una contrapposizione di questo genere avesse senso in un
ecosistema esperienziale nel quale sempre di più la presenza digitale e quella
fisica si amplificano a vicenda invece di sostituirsi. Il punto è che il digitale mette
prima di tutto quelli che un tempo chiamavamo spettatori nella prospettiva di
definire le proprie regole del gioco, di giocare con esse, di contraddirsi e di
ritornare sui propri passi se necessario senza essere necessariamente sotto la lente
valutativa-prescrittiva di qualcuno che pre-definisce il senso, i confini e lo scopo
di quell’esperienza. It’s up to you, come ci avverte il titolo del secondo capitolo: c’è
una vertigine di libertà che magari non sarà sempre spesa con soddisfazione e
costrutto ma che ci proietta tutti in una nuova dimensione nella quale
l’esperienza culturale non funziona più come elemento di distinzione, di statico
posizionamento sociale, ma invece e soprattutto come elemento di possibile
relazione, come fattore di una negoziazione dinamica e aperta nella quale certi
principi di qualità esperienziale non devono essere affatto necessariamente
negati, ma devono riacquistare il proprio senso e la propria credibilità a partire da
un dialogo orizzontale.
Oggi parliamo tanto di audience development, ma non è il semplice porre la
questione in questi termini un implicito riconoscimento di una sconfitta?
Possiamo davvero paternalisticamente pensare che il pubblico vada “sviluppato” e
quindi plasmato nel conformarsi a modi, forme e contenuti che sono stati già
pensati a questo scopo da chi ha il compito di ammaestrarlo? Nel fare queste
considerazioni non stiamo naturalmente adottando un punto di vista liberal-
spontaneistico secondo il quale ognuno è il miglior giudice del modo in cui
intende vivere le proprie esperienze culturali e che ogni tentativo di stabilire un
dialogo in questo senso equivale appunto a una intrusione paternalistica. Il punto
è piuttosto che questo tipo di dialogo, che è non soltanto possibile ma
auspicabile, deve fondarsi su una negoziazione, su un confronto che non voglia e
non debba partire da una legittimazione sociale che riconosce a priori a una parte
il diritto ad avere l’ultima parola. Ciò che questo libro vuole dirci in ultima
analisi è che il digitale oggi è esattamente quello spazio sociale e cognitivo in cui
questo dialogo può accadere, qualora se ne comprenda il potenziale, se ne
accettino le implicazioni aperte, e soprattutto si abbia il coraggio e la generosità
di mettersi in gioco senza trincerarsi nella difesa di ruoli sociali precostituiti. I
social network di un museo diventano allora non un luogo di “promozione” o
“comunicazione” ma un’eccezionale arena nella quale il museo svolge una parte
essenziale della propria missione. Il museo di oggi non comunica nello spazio
digitale ma esiste (o meno) nello spazio digitale, che lo voglia o no. E questo lo
hanno capito fin troppo bene anche musei estremamente prestigiosi e
riconosciuti che non soltanto non hanno avuto paura di “contaminare” la loro
immagine e il loro prestigio istituzionale in questa nuova dimensione, ma l’hanno
sposata con entusiasmo sperimentando con coraggio senza preoccuparsi di
conformarsi alle aspettative e ai desiderata dei propri pubblici storici di
riferimento, trasformando la loro possibile incomprensione e persino il rifiuto in
una ulteriore, grandissima opportunità di sperimentazione e sviluppo.
Una volta superata questa concezione “strumentalista” della vita digitale del
museo, si rimane quasi senza fiato rispetto alle straordinarie esperienze che si
prospettano possibili, a partire da aspetti apparentemente banali come la
progettazione e l’organizzazione di un sito web. E queste possibilità portano
tutte verso un obiettivo apparentemente alla portata ma in realtà complesso e
sfuggente: quello della partecipazione. Come modificare la grammatica del
coinvolgimento, come trasformare la passività in proattività senza piegarsi in
modo banale e riduttivo alle logiche dell’intrattenimento (più edonico che
eudaimonico)? Il museo che si mostra impreparato rispetto a questa sfida rivela
in ultima analisi un limite nella sua capacità di uscire dalla sua propria comfort
zone mentre invita continuamente il pubblico a manifestare una costante
disponibilità a trasgredire la propria: in altre parole, non sa stare al gioco a cui
invita gli altri a giocare. E mai questo test potrebbe essere più stringente e
impietoso che nel caso dei bambini, che non sono soltanto l’interlocutore elettivo
dell’istituzione museo nella sua dimensione socio-pedagogica, ma ne sono anche
inevitabilmente i giudici più severi e liberi da qualunque compromesso o
condizionamento. È per questo che il rapporto con i bambini costituisce oggi un
banco di prova chiave a cui nessun museo dovrebbe sottrarsi. Ma per valutare in
che misura il museo è davvero in grado di rispondere efficacemente a queste sfide
non si può sfuggire a una seria responsabilità di accountability, a un impegno
rigoroso a una valutazione che venga condotta però con gli strumenti e le
metriche adeguate, e quindi non tanto centrata su obiettivi tanto labili quanto
poco significativi di impatto economico fine a se stesso, quanto piuttosto sulla
capacità di innescare processi di risposta cognitiva, emozionale e
comportamentale che lascino davvero una traccia profonda, che svolgano una
funzione abilitante, che trasformino appunto il museo in un luogo familiare,
ospitale, accogliente, non secondo il metro di chi ospita, ma secondo quello di
chi non si sente più un ospite.
Questo è, in poche parole, il percorso tracciato dal libro. Un percorso ben
argomentato, affascinante, e mi verrebbe da dire necessario. Se lo leggerete con
l’apertura mentale e l’attenzione che merita, il digitale diventerà un terreno di
esplorazione, sperimentazione e scoperta al quale non vorrete e non potrete
sottrarvi. Buon viaggio.
Pier Luigi Sacco
INTRODUZIONE
“Se non riusciva a comprendere qualcosa si sedeva al tavolo e cominciava a battere a macchina, e poi
tornava alla prima riga e riscriveva, fino a che il pensiero prendeva forma attraverso la scrittura. Ha
scritto per capire, non per insegnare ad altri ciò che è giusto pensare”.
(Annalena Benini, I racconti delle donne, a proposito di Joan Didion1)
La premessa teorica
Sono convinta che il digitale sia stato la leva che ha messo davvero in discussione
in modo più profondo la funzione del museo di oggi e di domani, perché ha
forzato un interrogarsi su alcuni punti-chiave: chi ha voce? Chi sceglie che cosa
dire? Che cosa si può dire? Perché lo si dice? E infine, la grande domanda: qual è
il patrimonio? Tutto questo all’interno di istituzioni ancora in gran parte
ottocentesche e che, anche per questo, hanno contrapposto severe resistenze e
chiusure verso un approccio meno conservatore.
Insomma, tornando alla letteratura di settore, l’assunto di partenza del mio
lavoro è che soltanto ora, dopo più di quarant’anni, l’avvento del digitale abbia
drammaticamente dato corpo per davvero al museo forum in luogo del museo
tempio – per usare le note espressioni coniate da Duncan Cameron. 4
Per di più, il museo forum non sempre è necessariamente un edificio con una
collezione allestita. O non solo. Per dirlo con le parole di Amelia S. Wong,
i social media non pongono nuove questioni riguardo l’etica nella pratica museale, ma pongono con
forza domande persistenti su controllo, autorità, proprietà, voce e responsabilità in una dimensione che
è pubblica in modo molto diverso dalla pubblicità di quella fisica con cui i musei hanno secoli di
esperienza.5
Ben lungi dal doverci formare sulle fantomatiche potenzialità della realtà
virtuale, che lascerei a esperti del settore, siamo di fronte a domande culturali,
filosofiche, antropologiche, etiche, sociali e politiche correlate alla dimensione
del tempo e dello spazio, alla larghezza e al senso del fare cultura, dei processi
vari e profondi di smaterializzazione e disintermediazione che hanno riguardato
tanta parte dei nostri orizzonti quotidiani.
Per questa ragione il mio contributo non è affatto tecnico-specialistico,
mancando del tutto di un taglio tecnologico; ma vuole costituire una proposta di
approccio metodologico e storico-critico. Si tratta di un contributo consapevole
della propria incompletezza su molte dimensioni: d’altronde, l’allargamento
dell’orizzonte ad altre discipline e la riflessione sui casi non possono avere la
pretesa di essere onnicomprensivi o esaustivi, sia in termini bibliografici, sia di
affondi verticali.
E arriviamo quindi al secondo aspetto di complessità: chi e come costruisce la
formazione di un professionista museale preparato ad affrontare la questione in
tutte le sue larghissime necessità e ricadute? Solo per citarne alcune: la capacità di
mediazione interna e condivisione nell’ambito di istituzioni museali nelle quali i
professionisti sono formati su ben altri patterns disciplinari; una riflessione etica e
deontologica sulle regole e la policy nella relazione fra digitale e museo; una
riflessione sul senso dell’operare con il digitale e quindi sui suoi obiettivi e sulla
misurabilità.
Ho dunque evidenziato alcuni temi-nuclei centrali sui quali mi sono
interrogata nell’ultimo decennio: un modo pretestuoso per organizzare il
pensiero e lo scritto che si sono diramati entrambi da quella partenza. Troverete,
prima delle interviste, sette capitoli.
Il primo intende, da un lato, circoscrivere il discorso ai soli mezzi di
comunicazione o di valorizzazione dei musei, specificando che non è qui trattata
una serie di pratiche e temi che, pur avendo una stretta relazione con la rete e il
digitale, non ha direttamente a che vedere con questo ambito; dall’altro, si
propone di suggerire alcune domande in relazione all’area di digitale che stiamo
qui indagando, riferendosi a una selezione di titoli di studi, italiani e
anglosassoni, dai quali si possa partire in modo attuale e lucido per farsi un’idea.
Il secondo capitolo fornisce spunti critici in ambito culturale per sollecitare alla
riflessione su alcune fattispecie del ritardo e della resistenza, molto italiana, al
digitale a confronto con le vocazioni, i manifesti e le attitudini della cultura
digitale. Il percorso propone un’analisi della narrativa e della saggistica pubblicata
nel mercato italiano e anglosassone, come cartina di tornasole a riguardo.
Segue una disamina che individua alcune aree rimaste scoperte nell’avvicinarsi
delle istituzioni culturali ai social network: qualche riflessione etica – e non solo –
sull’equilibrio fra voce personale e voce istituzionale, sulle regole basate su casi,
errori, vuoti normativi ed eccessi di pratiche note e meno note.
Il capitolo quattro è dedicato alla collezione on-line, cuore del sito di un
museo, e ad altre necessità o lacune comunicative, legate alla trasparenza,
all’accountability, alla sostenibilità finanziaria ed energetica, alle loro ragioni
d’essere o meno sul sito web (e quindi alla necessità di acquisire una dimensione
pubblica) di un museo, e persino alla logica di disseminazione in rete fuori di
esso.
Le pratiche partecipative, digitali e non, che hanno una ricaduta significativa
sul modo di allestire e comunicare il museo sono l’oggetto del capitolo cinque,
che attraversa, con un excursus storico, casi americani e una lucidissima
esperienza italiana di vero scambio sui significati, quello del Museo Egizio di
Torino nel 2019. Mi auguro che quest’ultimo sia il caso in grado di generare
grande seguito e imitazioni ed esempi, senza tema di rischi.
La relazione fra digitale e bambini – o ragazzi – è stata terreno dei più vani e
vaghi stereotipi dal sapore apocalittico e, nel contesto specifico dei musei, ma
non solo, ha generato reazioni di particolare veemenza e povertà di argomenti.
Per questa ragione ho dedicato al tema qualche considerazione che si incentra,
come altrove nel volume, sulla questione delle domande da porre, sulle risposte e
sugli studi esistenti in una prospettiva storica e, ancora, sull’individuazione di
valide pratiche e voci-guida.
In ultimo, ho affrontato il grande tema della misurabilità, caratteristica
endogena al digitale, sulla quale si sono di frequente appuntate domande, attese e
aspettative spesso mal poste o con conseguenze negative.
Voglio chiudere con un omaggio a una scrittrice alla quale ho pensato spesso
mentre, dal tavolo della mia cucina, lavoravo al volume: Brunella Gasperini, che
difendeva in casa il proprio lavoro di autrice da figli e animali domestici con
cartelli quali “Non rompetemi il filo”, o “È difficile domare una scrivania”.
Scrisse anche – quanto la capisco – un ipotetico testo per la sua lapide:
Viaggiò tutta la vita
intorno a un tavolo
senza mai combinare
un cavolo.
Mi sia consentito chiudere con un inchino al suo spirito e alla sua leggerezza,
ma anche, doverosamente, alla rete: girando intorno al tavolo della mia cucina
ora si arriva davvero ovunque.
1
I racconti delle donne, a cura di Annalena Benini, Torino, Einaudi, 2019, p. 60.
2
Ringrazio fin da subito Marco Enrico Giacomelli, e con lui “Artribune”, per la fiducia accordatami e la
sempre piacevole collaborazione.
3
Salvatore Veca, Il senso della possibilità, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 31.
4
Cameron Duncan, The Museum, a Temple or the Forum, “Curator”, 14 (1971), 1, p. 11-24.
5
“Social media does not pose new questions about ethical museum practice, so much as it recasts
enduring questions about control, authority, ownership, voice and responsibility into a realm that is public
in quite different way than the physical one with which museums have centuries of experience”, traduzione
mia; Amelia S. Wong, Ethical Issues on Social Media in Museums. A Case Study, “Museum Management and
Curatorship”, 26 (2011), 2, p. 98.
1. UNA TASSONOMIA DEL DIGITALE: DI CHE COSA PARLIAMO
QUANDO PARLIAMO DI DIGITALE E MUSEI
Risultato di questo “scarto”, o meglio delle varie distopie sommate, è che i corsi
universitari che ho tenuto e tengo hanno avuto nel corso del tempo le
intitolazioni più disparate: Digital Humanities, Museologia e comunicazione,
Digitale per i musei, e infine, all’Accademia di Brera, Multimedialità per i beni
culturali. Quest’ultimo approccio – un po’ fine anni Novanta – mi ha reso
evidente e confermato come manchino le parole per connotare in maniera
pertinente un intero ambito. 8
Un ambito non così recente quanto si pensi, dato che i suoi esordi sono
collocati negli anni Settanta, è legato all’arte digitale, a quell’arte cioè
che nasce utilizzando strumenti digitali e/o se ne serve per il suo
allestimento e la sua fruizione. Pur indubbiamente contigua, alla
dimensione e al mondo del digitale (anzi ne costituisce un
imprescindibile agente dirompente), la “new media art” costituisce un
ambito specialistico e specifico. Rimando ad altri aggiornati e completi
scritti su arte digitale (in particolare la sesta parte del volume Museums
and Digital Culture). 11
Nella sua premessa sono interessanti due presupposti: uno definisce – per me
sorprendentemente – un limite; cioè confina il terreno della sua analisi al solo
museo d’arte, e l’altro allarga, apre a un ruolo dell’arte che asservirebbe la cultura
intesa in senso ampio, che comprenderebbe festival di musica o di film, concerti,
fiere dedicate al cibo.
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terra straniera risiede, almeno in parte, nel fatto che le testimonianze che ci
troviamo a fronteggiare sono state selezionate come significative in un certo
tempo, da qualcuno, con una certa intenzione e competenza. Spesso però questo
passaggio fondamentale è dato per scontato o passato sotto silenzio. Ma
aggiungiamo, come ribadisce – realisticamente – Nancy Proctor nell’intervista
nel paragrafo 8.2 che, in ogni caso, il pubblico più numeroso in assoluto sarà
quello che non verrà mai fisicamente in museo, per una questione di contiguità
territoriale e di mezzi a disposizione, tra i quali includerei oltre a quelli finanziari
anche l’età e lo stato di salute. Perché non declinare il digitale, quindi, che può
colmare e contenere il disorientamento e allargare punti di vista e potenziale
accessibilità?
Mi collego a questo concetto per fare un passo sul tema scottante della
riproduzione on-line delle opere, a bassa o alta risoluzione (vi torneremo nel
capitolo quarto). Credo sia giunto il momento di superare la paura ancestrale e
preconcetta secondo la quale l’immagine dell’opera riprodotta e fatta circolare
digitalmente sottrarrebbe attenzione e pubblico all’incontro con la medesima
opera “in carne e ossa”, fisicamente, nell’allestimento. A guardare senza
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preconcetti la questione del bisogno essenziale del contatto fisico con l’opera, la
verità è che per i più l’incontro primo con l’aspetto delle opere è avvenuto nel
corso dell’ultimo secolo grazie a un’immagine fotografica, stampata, in una
monografia, o anche di quel tipo piccolo, spelacchiato (a volte persino in bianco e
nero), ancora ampiamente in uso nei manuali di storia dell’arte di ogni ciclo
scolastico. E non per responsabilità di un sito web, dunque.
Le immagini delle opere a disposizione ora sono diffuse in tutto il mondo,
grazie alla rete, per chi visita e per chi non potrà visitare; colmano un vuoto di
informazione, sono un’opportunità di approfondimento quando sono in rete e
consentono a chi lo desideri di arrivare in museo con l’opportunità di ri-
conoscere, per vedere “di più” l’oggetto – impreziosito dal contesto e dalla
materia – e, a chi non potrà mai vederlo dal vivo, di averne un’idea più vicina al
vero. In entrambi i casi il digitale non danneggia, non sostituisce, non
allontanata, ma prepara, ricorda, richiama e collega.
La resistenza rispetto al digitale in museo mi sembra poi essere dimentica di un
paio di aspetti fondamentali: sappiamo che il tempo di sosta davanti a un’opera è
in realtà molto basso, quand’anche fossero, e sono rari, disponibili studi grazie ai
quali ci fosse dato conoscerlo nel dettaglio di ogni museo. È certo questo un
fronte sul quale lavorare, ma perché non consentire che, a posteriori rispetto alla
visita, non si possa tornare su di un’opera, una testimonianza, un dettaglio?
Consentire al visitor’s journey di essere in qualche modo circolare, e ricorsivo
rinsaldando da casa la relazione col museo? Segnalo che quand’anche il museo
scelga di non fornire contenuti digitali, lo può fare liberamente una terza parte,
sulla quale il museo non ha controllo né voce in capitolo. In realtà, proprio così è
cominciata tutta questa faccenda. Con il sito del Louvre messo on-line da uno
studente, Nicolas Pioch. E non solo: “Quando si può avere in tasca un’intera
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Ma il sapore riportato dai giornali della lettura apocalittica di Eco, privato delle
dovute sfumature, ha per anni avuto ampio spazio, quasi senza contraddittorio,
nel mondo culturale italiano, interpretato anche da voci anagraficamente meno
“datate” rispetto a quella di Eco.
Nel frattempo, nel 2008, per fare un parallelo nel mondo della narrativa ma
alzando lo sguardo ad altri contesti culturali, Cory Doctorow, giornalista e
scrittore canadese, ambientava il suo Little Brother in una scuola superiore di San
Francisco in cui ogni alunno ha a disposizione un tablet con alcune limitazioni
imposte dalla scuola; qui il protagonista, l’adolescente Marcus, dopo una serie di
disavventure riesce a usare la console giochi per organizzare iniziative di
attivismo contro la violenza. Il tutto all’insaputa dei genitori.
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Aaron è lapidario: con l’avvento del web ognuno di noi ha la licenza per poter
parlare; l’attenzione deve essere sulla distribuzione della possibilità di essere
ascoltato; è su questo versante che risiede il tema di una questione democratica e
politica. Il suo Guerrilla Open Access Manifesto (2008) è una chiamata alla 51
Swartz spese tutta la sua vita perché fosse concreto e garantito per tutti
l’accesso all’informazione e perché l’industria culturale fosse realmente libera,
senza arricchire corporazioni di editori, in modo tale che l’accesso al sapere non
esistesse solo in ragione e in misura della capacità finanziaria. Segnalo che la
parola “cultura” punteggia l’intervista in numerosissimi frangenti.
Aaron, accusato di tredici crimini federali per un gesto di attivismo contro
JSTOR messo in atto nella biblioteca del MIT, rischiava una pena di 35 anni e
una multa da un milione di dollari. Si tolse la vita nel febbraio 2013. 53
In linea con quanto Aaron Swartz individua come potenziale beneficio della
rete, compresa la possibilità di entrare in contatto con persone più simili a noi
anche dall’altra parte del mondo, sollevandosi da una sensazione di isolamento
nel proprio contesto locale, è imprescindibile il rimando a danah boyd,
ricercatrice in materia di social media presso Microsoft Research, fondatrice e
presidente del Data & Society Research Institute e Visiting Professor presso la
New York University, autrice – fra l’altro – di It’s Complicated. The Social Lives of
Networked Teens. Il saggio, documentato e frutto di uno studio durato anni, è
introdotto da una prefazione di valore a firma di Fabio Chiusi: 54
Perché quando si parla di giovani, prevale il “panico morale”. Una paura, ingigantita dalle enormi
aspettative sullo strumento proprio dai proclami utopistici letti dall’alba della rete, che risuscita ogni
volta si verifichi un fenomeno in grado di minacciare l’ordine costituito e dunque di generare ansie e
preoccupazioni in chi lo abita. boyd ricorda che non c’è niente di nuovo, che è avvenuto “per ogni
tecnologia”. Quando fu introdotta la macchina da cucire, si legge in It’s Complicated, si disse che il
movimento della gamba avrebbe finito per influenzare la sessualità femminile; alla nascita del walkman
fu associata l’idea di uno strumento del demonio che avrebbe portato i giovani in un mondo parallelo,
suscitando incomunicabilità con l’altro. I fumetti e la musica rock avrebbero dovuto condurre gli
adolescenti sulla strada della criminalità, e i romanzi corrompere la moralità delle donne. Ora sono
accuse ridicole, dice boyd, ma all’epoca erano prese sul serio. A queste forme di panico immotivato si
lega poi la tendenza alla nostalgia per “i bei tempi che furono”. Così molti adulti “associano l’arrivo
delle tecnologie digitali con un declino – sociale, intellettuale e morale. La ricerca che presento qui
suggerisce che spesso è vero il contrario”. Ecco, se c’è un pregio indubitabile nel lavoro che la
ricercatrice ha svolto nell’arco di tutta la sua carriera è questo rispetto assoluto dei dati, raro e tuttavia
indispensabile per analizzare le precise caratteristiche e conseguenze di precise tecnologie in precisi
contesti.
L’apertura dei canali social da parte delle istituzioni museali, avvenuta in Italia
nel corso degli ultimi dieci anni, non è stata preceduta da una riflessione teorica
né generale né particolare. È stata quindi del tutto mancante una condivisione,
innanzitutto interna all’istituzione, che dotasse sia il museo, sia il professionista
incaricato, di solide regole sul fronte interno e di policy formalizzate sul fronte
esterno.
Non si è considerato fin da subito che, in tutta evidenza, il cambiamento
risiedeva nell’esistenza di un canale di ritorno, attraverso la rappresentazione che
l’istituzione compie di se stessa in rete o che altri compiono, in totale autonomia:
la questione supera profondamente la semplice organizzazione di un piano
editoriale per i social network, se si considera quest’ultimo uno strumento che
calendarizza una comunicazione mono-direzionale, unicamente in uscita. A
complicare le cose l’attenzione delle recenti ricerche si è rivolta al ruolo
dell’individuo nella massa; che non è il nostro caso, ove un individuo – o più –
presta la propria voce, scritta, per far parlare un’istituzione. Ognuna di queste
varianti pone nuove questioni, fino a ora mai affrontate appieno. I nuclei centrali
sono:
Paola Saluzzi, giornalista di Sky, scrisse dal proprio profilo personale su Twitter
un insulto a un noto pilota di Formula 1 dandogli, senza tanti giri di parole,
dell’imbecille. La giornalista venne sospesa dal proprio editore, e poi reintegrata
piuttosto velocemente. Ora, qui è evidente che non stiamo valutando il fatto in sé
o l’opportunità del tweet e del suo contenuto (ovviamente del tutto inopportuno,
anche fatto a titolo personale), ma la questione è stata un buon innesco per
affrontare alcune domande. In che misura il profilo personale (e i contenuti e le
posizioni ivi espresse, sfumature comprese) di chi lavora per un’istituzione
museale influenza quello dell’istituzione? Sono – o dovrebbero essere – legati in
modo del tutto trasparente? In che misura, allora, al profilo personale di chi
gestisce i social network di un museo è richiesta compostezza e coerenza con
quanto è legato all’operato e ai valori dell’istituzione?
E infine, quale rischio (od opportunità) c’è che i due profili si cannibalizzino a
vicenda o che uno dei due riversi la visibilità sull’altro? Avviene in modo
eticamente e deontologicamente legittimo, normato, condiviso?
Le prime riflessioni programmatiche in merito sono arrivate dall’ambito
giornalistico. In Italia è stato significativo il lavoro di Anna Masera per “La
Stampa”: a lei si deve la redazione di un decalogo per i giornalisti al servizio della
testata relativo al comportamento sui social network (2012-2013, non più
reperibile on-line). In sostanza si ricordava ai giornalisti come il loro profilo
privato fosse in ogni circostanza legato a quello della testata per la quale
lavorano, e che quindi erano tenuti a rappresentarla degnamente anche tramite il
proprio profilo personale. Ne cito uno stralcio introduttivo che avevo conservato:
“Poiché le attività di interazione e socializzazione di un giornalista che
rappresenta il giornale sui social network mettono in gioco l’immagine della
testata, serve un decalogo di comportamento”.
Insomma il profilo personale non sarebbe più – in alcuni casi – del tutto
personale, ma essendo pubblico per natura, risulterebbe di fatto collegato alla
posizione lavorativa. Un affondo chiaro anche da parte del “New York Times” va
in questa direzione:
Noi ci relazioniamo con i nostri lettori con la medesima correttezza sia in privato, sia in pubblico.
Chiunque abbia contatti con i lettori è tenuto a onorare tale principio, consapevole del fatto che i lettori
sono in definitiva i nostri datori di lavoro. L’educazione si esplicita sia che i contatti avvengano di
persona, per telefono, via lettera, od on-line.
Ma quale confine invece è eticamente designabile per tutti senza essere troppo
assolutori o semplicistici? In un documento dell’Area Science Park di Trieste si 63
Definire gli orizzonti – per altro con un fuso orario preciso, fondamentale per
un museo di richiamo internazionale – mette al riparo l’istituzione, il social
media manager e il pubblico da situazioni nelle quali le aspettative potrebbero
essere disattese su più fronti (per esempio la tempestività della risposta è
fondamentale, in particolare quando l’utente ponga questioni relative al servizio).
Dal punto di vista della tutela contrattuale la definizione dei livelli di servizio e
la trasparenza in merito sono un supporto imprescindibile per chi
quotidianamente gestisce le piattaforme social: ho fatto questo mestiere per anni
e quindi so per esperienza che, se le premesse, le condizioni – e i rischi – non
sono condivisi con la direzione del museo, la preoccupazione per quanto accade
sui canali digitali è viva, per chi ha avuto l’incarico con la responsabilità a esso
collegata, per 24 ore su 24 e 7 giorni su 7.
Detto questo però, ritengo che per come viene espresso per i due grandi musei,
il parametro sveli una considerazione dei social media quali mezzi di solo
servizio, regolamentabili come uno sportello di banca. Come in ogni questione è
il contesto di riferimento ciò che può aiutare a costruire la corretta misura delle
cose: da un piccolo museo di provincia non mi aspetto, e non credo serva, una
copertura totale, né le risorse necessarie per gestirla, ma da Versailles o dal
Louvre, e quindi dal British Museum, forse sì. 66
Superato uno spontaneo mezzo sorriso che la verità covata, condivisa e non
detta genera quando si palesa, il messaggio di Sree apre uno squarcio su un
mondo di domande: quale errore? Come lo definisco e riconosco? In quale senso
si può sbagliare se non ci sono regole condivise? Se non si sono preliminarmente
fissati obiettivi, ambiti, ambizioni? E se non si è definito come si reagisca in
possibili momenti di crisi?
Principale caratteristica dei social network è il loro vivere nel e del momento.
La pratica in uso di determinare un piano editoriale preciso, nel quale le giornate
sono scandite da post definiti (o addirittura approvati) in precedenza, presenta
alla prova dei fatti grandi limiti e zone di rischio. Siamo al livello
controllo/definizione basilare. Avere la responsabilità di gestire un profilo social
museale significa anche e soprattutto investire tempo per leggere i contenuti
veicolati (anche, ma non solo) dai social network e avere la sensibilità e le
competenze per distinguere momento da momento in un modo difficilmente
preventivabile appieno.
Proviamo a esaminare una serie di esempi. Mi vengono in mente innanzitutto i
casi di concomitanze con eventi drammatici: il post programmato per un banale
mercoledì mattina qualunque per lanciare l’apertura di una mostra diventa
repentinamente inopportuno se, in quel preciso momento, nel Museo del Bardo
di Tunisi alcuni visitatori sono ostaggio di terroristi armati. Quello è piuttosto il
68
dell’iniziativa un pretesto per ribadire valori distintivi della politica di destra quali
“prima gli italiani”. Durante il confronto, il direttore Greco è stato, nonostante la
calca di giornalisti, l’ostilità e, immagino, un certo disappunto, in grado di
restituire la complessità della questione di partenza, il grande tema delle
restituzioni delle collezioni, fisiche o simboliche che siano; ha proposto un
racconto di lotta agli stereotipi da parte di musei, riferendo un’iniziativa del
Metropolitan di New York a favore degli immigrati italiani. Il video girato in
quel momento è stato visto tantissime volte: non credo si possa dire che esistano
altre circostanze nelle quali un pubblico così vasto e non specialistico sia stato
esposto a un discorso sulla problematizzazione del tema della proprietà delle
collezioni e dell’attivismo del museo, in termini di inclusione e lotta agli
stereotipi. Potenza del web.
La circostanza che abbiamo appena riportato conduce a una rilettura della
profonda missione del museo: manifesta ancora una volta il suo spostarsi dalla
rappresentazione in senso storico-artistico stretto della collezione (pur sempre
esistente) a una relazione con il presente; il museo per assolvere alla sua funzione
deve impegnarsi a essere contemporaneo, a fronteggiare e negoziare il presente
continuamente, l’oggi e i suoi dilemmi in continuo cambiamento. E, grazie a
questo, parlare a un pubblico più ampio.
Non a caso l’aggettivo relevant, importante per la contemporaneità, è stato nel
corso del 2015-2017 una delle parole ricorrenti nei discorsi sul museo, dal titolo
del prezioso libro di Nina Simon, The Art of Relevance, a uno dei tweet che
annunciavano il rinnovamento del Metropolitan Museum che – cito
testualmente – diceva “how a 145 years old Museum stays Relevant in the
Smartphone Age” (come un museo di 145 anni rimane importante e attuale
nell’era degli smartphone). Nel caso citato del Museo Egizio (per altro non nato
73
sulla rete ma giuntoci un po’ per caso) era il direttore in persona a esprimere la
posizione sofisticata che spiegava una restituzione simbolica.
Tornando al tema della policy del museo in relazione alla sua posizione sui
social network propongo una riflessione sull’organigramma “tipo”, che ho visto
anche di recente presentato come paradigmatico per un’istituzione museale: al
centro di ogni funzione, in posizione di apice assoluto, il direttore. Ritengo che il
cambiamento, di mezzi o meno, abbia reso obsoleto tale modo di organizzare, e
quindi rappresentare gerarchicamente processi e funzioni all’interno di un museo.
Da un lato i temi e le competenze sono divenuti davvero numerosissimi,
specialistici e vari e quindi non più assolvibili in tutte le multidisciplinarietà da
un unico professionista, sia anche di lungo corso. Quanto ai processi interni, il
canale di ritorno dei social network richiede che lo scambio fra il responsabile
della dimensione digitale e la direzione siano frequenti e, in alcuni casi, rivestano
carattere di urgenza, ove l’uno abbia la dimestichezza delle logiche del mezzo e
l’altro sappia come mantenere intatta l’identità culturale ed etica del museo, in
stretta connessione con la missione.
Esprime con precisione questa idea Robert Janes in un passaggio dedicato a “il
solitario direttore del museo”:
La struttura piramidale erode i legami informativi e provoca la perdita delle reazioni e risposte
immediate, quanto veritiere. Forse è per questo che ci sono così tanti cambiamenti inconsapevoli e
assolutamente non necessari all’arrivo di un nuovo direttore, poiché tale isolamento sembra creare l’idea
di una certa onniscienza nel nuovo direttore, escluso com’è da un’interazione genuina e critica con i
colleghi […]. Invece in un modello di primus inter pares, ogni tentativo di cambiamento arbitrario
sarebbe esaminato in modo completo con i colleghi senior, il che consentirebbe di evitare lo sperpero di
risorse e di energie morali derivante dall’onnisciente, ma svantaggiato, direttore solitario.74
per assenza, ed è abbagliante. Si prenda per esempio la madre dei casi, relativa al
British Museum e alla restituzione dei marmi del Partenone o Elgin Marbles. 76
In rete ci sono profili dedicati alla questione, ma il profilo del British Museum
non interagisce né propone in rete il tema, ignorandolo.
61
Rinvio a un articolo su “Repubblica”, ma ce ne sono numerosi in rete:
https://www.repubblica.it/spettacoli/tv-
radio/2015/04/13/news/insulti_via_twitter_a_alonso_paola_saluzzi_sospesa_da_sky-111837020/?
refresh_ce.
62
“We treat our readers no less fairly in private than in public. Anyone who deals with readers is expected
to honor that principle, knowing that ultimately the readers are our employers. Civility applies whether an
exchange takes place in person, by telephone, by letter or online”; “we should always treat Twitter, Facebook
and other social media platforms as public activities” [because] “readers will inevitably associate anything
you post on social media with The Times” (traduzione mia), https://www.nytimes.com/editorial-
standards/ethical-journalism.html#ourDutyToOurReaders.
63
https://www.areasciencepark.it/wp-content/uploads/CDA-Social-media-policy.pdf.
64
“We love hearing from you and, to ensure that everyone has a positive experience, here are a few house
rules for being part of our online community: Protect privacy, Stay on topic, Be respectful. Don’t advertise
or self-promote, Don’t infringe intellectual property, Know what to expect. We monitor social media
platforms between 09.30 and 17.30 GMT Monday to Friday, excluding UK national holidays” (traduzione
mia). Si veda: https://www.britishmuseum.org/terms-use/social-media-code-conduct.
65
https://www.uffizi.it/pagine/social_media_policy_uffizigalleries.
66
Cito la reggia di Versailles perché ho avuto la fortuna di ascoltare il team che gestisce i social network in
occasione di un convegno presso la Reggia di Venaria: si pongono problemi di scala e senso molto diversi, a
partire dal fatto che colloquiano con un pubblico anche cinese, e che il loro obiettivo non è chiamare i
pubblici a una visita pubblica, bensì distribuirne i flussi lungo l’anno perché siano gestibili.
67
“The dirty secret of Social Media / Almost everyone will miss almost everything you do on social
media”. “Until you make a mistake” (traduzione mia).
68
Attacco avvenuto mercoledì 18 marzo 2015, verso le 12.30; è costato la vita a 24 persone.
69
“All of this means that we must reconsider the authority and exemplary role of the museum, so as to
provide this collective search with non-authoritarian and non-vertical forms of cultural action, facilitating
platforms for visibility and public debate […]. At Museo Reina Sofia we are organizing a heterogeneous
network of partnerships with groups, social movements, universities, and other bodies that question the
museum and generate spaces for negotiation rather than mere representation” (traduzione mia),
https://www.museoreinasofia.es/en/museum/mission-statement.
70
https://www.artribune.com/tribnews/2016/10/anish-kapoor-vandalizzato-a-versailles-con-frasi-
antisemite-lartista-accusa-il-museo.
71
L’incontro è avvenuto in occasione dell’Assemblea Generale dell’Associazione delle Residenze Reali
Europee presso la Reggia di Venaria lunedì 30 e martedì 31 maggio 2016.
72
https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/politica-e-pubblica-
amministrazione/2018/02/fratelli-italia-museo-egizio-torino-meloni-greco.
73
“Fast Company”, tweet del marzo 2016.
74
“The lone museum director”: “The pyramidal structure erodes information links and destroys channel of
honest reaction and feedback. Perhaps this is why there is so much unthinking and unnecessary change
when a new director arrives, as this isolation seems to create a certain all-knowing quality in the new
director, cut off as he or she is from genuine and critical interaction with peers […]. In this primus inter
pares model, any attempt at arbitrary change would have to be fully scrutinized by one senior peer, which
would do much to prevent the squandering of resources and morale resulting from the omniscient, but
disadvantaged, lone director” (traduzione mia), Robert R. Janes, Museums in a Troubled World. Renewal,
Irrelevance, or Collapse?, New York, Routledge, 2009, p. 62-62.
75
“I media digitali funzionano come il luminol, la sostanza usata dalla polizia scientifica per rilevare
macchie di sangue e di liquidi biologici invisibili agli occhi: da qualche anno racconto che internet è come il
luminol perché ci aiuta a rivelare vizi, difetti, delitti, e comportamenti presenti nella società, ma finora
invisibili”, Mafe De Baggis, #Luminol, cit., p. 1.
76
Sulla questione rimando a Christopher Hitchens, I marmi del Partenone. Le ragioni della loro restituzione,
Roma, Fazi Editore, 2009, o più di recente la battaglia condotta da Amal Alamuddin Clooney,
http://www.rainews.it/dl/rainews/media/mrs-clooney-riportare-in-grecia-i-marmi-del-partenone-
155ca77f-2904-43ac-8f56-1b1662218dd9.html#foto-1.
4. PARADIGMI E OBIETTIVI
Agli esordi, una su tutte le questioni è stata quella dominante: per quale
ragione un utente frequenta il sito di un museo? Ho sempre trovato la domanda
apodittica: la ragione per la quale un utente investe il suo tempo a navigare su un
sito è in stretta relazione di causalità con ciò che il sito stesso ha da offrire.
Sembrerebbe lapalissiano invece, a prescindere da una riflessione sull’offerta, per
anni si sono susseguiti questionari e studi, molti dei quali hanno sostenuto che il
sito web fosse usato prevalentemente come strumento utile a organizzare
preliminarmente la visita fisica. Un caso esemplare è stato quello
dell’Indianapolis Museum of Art, che ha proceduto chiedendo la ragione della
visita on-line ai visitatori proprio sul sito web, offrendo loro la possibilità di una
risposta chiusa:
a) per organizzare la visita
b) per interessi personali
c) per interessi professionali
d) per acquistare;
e) per curiosità e per caso.
Tra gli oltre 4000 visitatori che hanno fornito risposta quasi il 90% ha optato
per a) b) e c) (che tenderei ad assimilare). Ultimo posto per gli acquisti con il 2,6
% e l’incontro casuale con il 10% circa.
L’abstract dell’intervento alla Museum and the Web Conference dedicato allo
studio di cui sopra recita:
In questo intervento, gli autori descriveranno la logica, la metodologia e i risultati di una serie di studi
che sono stati condotti con i visitatori del sito web del Museo di Arte di Indianapolis. L’obiettivo degli
studi è comprendere meglio la motivazione delle persone a visitare il sito e se questa motivazione abbia
un impatto sul modo in cui si impegnano on-line. La speranza è che questi risultati forniscano un set di
dati di riferimento e un modello replicabile per altri musei che sono interessati a comprendere meglio il
loro pubblico on-line e a condurre studi simili per i loro sforzi sul web.78
Per un museo che raggiunge 400.000 visitatori all’anno, 4000 risposte sono una
ben ridotta campionatura.
Avanzo, inoltre, due motivi di perplessità: da un lato nessuna delle risposte
proposte lasciava spazio all’espressione del desiderio di conoscere a fondo la
collezione e il museo, anche da lontano e senza intenzione o possibilità di
visitare, e dall’altro l’interfaccia del sito e la struttura dei contenuti in quel
momento on-line mettevano in rilievo le voci “visit” al primo posto nel menu
orizzontale, gli orari, i calendari, i modi di giungere al museo, già dalla
homepage. Mi pare lecito pensare che, quindi, il visitatore fosse condotto un
79
L’obiettivo dei piccoli interventi sul sito era di riuscire a massimizzarne l’impatto
in sole due settimane. La squadra della Price – coadiuvata dall’agenzia Made by
Many – si è servita di focus group, per capire da un campione di utenti cosa fosse
funzionale e piacevole e cosa invece poco chiaro in merito al sito. Il feedback
raccolto chiedeva più facilità nell’accesso alle informazioni relative alla visita e
maggiore immediatezza nella navigazione. Tenendo fissi gli obiettivi del team
del museo, si sono operate piccole modifiche all’interfaccia, al linguaggio (alcune
voci sono diventate una call to action esplicita), alla posizione delle informazioni,
e si è fatta chiarezza sul menu al di sopra del grande banner che occupava la gran
parte dell’header della homepage. Il sito web ha poi proposto per sei giorni,
contemporaneamente e “randomicamente”, le due soluzioni diverse, quella on-
line pre-analisi e quella messa a punto con l’analisi condotta, ciascuna al 50%
degli utenti del sito: leggendo gli analytics si è, solo alla prova dei fatti,
definitivamente proposta la soluzione nuova che aveva dato risultati migliori sulla
base di 46.000 visitatori unici, con un aumento dell’11% delle visite alle pagine
prima richiamate all’interno del banner, un aumento del 43% del traffico sulla
pagina di vendita dei biglietti e un aumento delle iscrizioni alla newsletter del
27% (questi due ultimi in particolare gli obiettivi iniziali).
Solo poco dopo, nell’aprile del 2016, la stessa Kati Price annunciò la messa on-
line del nuovo sito con queste parole: “It’s not a refresh, it’s a rebuild”, cioè non si
tratta di un ritocco estetico superficiale, ma di una ricostruzione. Il sito, che
aveva al momento cinque anni di vita, venne dunque interamente riprogettato
sulla base della volontà di raggiungere obiettivi dichiarati. Il primo citato è
“Desideriamo che l’esperienza digitale del V&A sia all’altezza della presenza
fisica, un posto vibrante, attivo e in continuo cambiamento”; il secondo, molto
81
open source, per di più. Il CMS scelto, inoltre, usa come particella minima non
l’articolo, ma “l’oggetto del museo come l’atomo del contenuto. Ciò ci conferisce
la libertà di realizzare una curatela degli oggetti on-line in un modo
concettualmente simile a come la si effettua nel museo stesso”. I contenuti
83
senso da dare ai contenuti, fruibili anche on-site e come guida, per chi, come la
maggior parte dei visitatori “global”, visiterà il museo una volta nella vita, senza
essere costretto a scaricare uno strumento pesante come l’app nativa, destinata
poco dopo a rimanere per sempre inutilizzata. 87
Dopo una fase di grande entusiasmo per il mondo delle app, ritengo che questo
assestamento sia definitivamente più coerente e sostenibile all’interno
dell’ecosistema degli strumenti digitali di un museo. Sofie Andersen la chiama
88
Andersen conferma che le loro ricerche e i nuovi prodotti sono sempre basati
sull’analisi dei dati: il sito web del Met ha 30 milioni di visite all’anno e il museo
circa 7 milioni di visitatori. Andersen specifica, però, che sono consapevoli del
fatto che il pubblico internazionale visiterà il museo solo una volta, dedicandosi
alla collezione permanente, mentre il pubblico locale ha un alto tasso di ritorno,
con una particolare attenzione per le esposizioni temporanee. A questi due
differenti gruppi di utenza bisogna fornire strumenti adeguati ai bisogni specifici.
Aggiungo una considerazione che vede unanimi le voci di Nancy Proctor, Sofie
Andersen e altre: se il tasso di conversione tra visitatori e sito, quand’anche
altissimo, non supera nemmeno nei casi dei musei enciclopedici il 20%, qual è la
ragione per non condividere con l’80% degli interessati il patrimonio
digitalizzato e disponibile on-line? Ultima, ma non da poco, resta la proporzione
fra collezioni allestite e collezioni in deposito: quale percentuale di pubblico
potrà mai venire in contatto con le opere non esposte, se non on-line?
anche on-line.
È stata di recente aperta la call per assegnare il premio del 2020. Si potrebbe
pronosticare, senza tema di smentite, un alto numero di risposte.
Gli esempi, illustrati nelle immagini, sono due casi americani: la dashboard
dell’Indianapolis Museum of Art e quella del Dallas Museum of Art, senza
differenze sostanziali fra l’una e l’altra.
Si tratta di semplici pagine web, con aggiornamento variabile (non credo che
quelle citate avessero un feed in tempo reale) di velocissima consultazione, con
l’immediatezza potente e sintetica di un’infografica, e la capacità di dare
all’esterno una visione del museo molto nitida all’istante.
In Italia lo strumento ha avuto – che io sappia – un solo caso di attestazione, in
un’istituzione partecipata, Palazzo Strozzi a Firenze, al tempo della gestione
Bradburne, e ora non più on-line (vedi immagine in basso). Vi si illustravano un
numero contenuto di dati: il numero dei visitatori, divisi fra mostre tradizionali
di Palazzo Strozzi e quelle di Strozzina – partizione anche questa non più attuale
– i ricavi, i finanziamenti privati e pubblici.
La dashboard è, anche nella sua versione semplificata, uno strumento di grande
trasparenza: si tratta di una sorta di “restituzione” alla comunità della complessità
del museo; è un gesto che manifesta come l’istituzione senta il dovere di dare
conto dei propri risultati, ne sia consapevole e li esponga.
Quando sento parlare di difficoltà a trovare finanziamenti o gli inossidabili
stereotipi sulle attività che i professionisti svolgono in museo, penso sempre che
il primo passo da fare per un’istituzione è raccontarsi, non solo nella propria
storia, o nello storytelling sulle collezioni, ma nell’oggi, come impresa culturale,
con un linguaggio che manifesti il suo livello di consapevolezza e saper fare.
Ancora più esaustivo su questo tema è uno strumento che nasce analogico (e di
fatto lo resta) ma viene pubblicato e messo a disposizione on-line: mi riferisco al
bilancio di missione o bilancio sociale (negli esempi che illustrerò è disponibile
on-line sul sito dell’istituzione relativa in formato pdf). Uno dei più efficaci (e
uno dei primi), che ho atteso ogni anno da quando hanno cominciato a
pubblicarlo, è quello della Fondazione Querini Stampalia di Venezia. È 94
Insisto sulla questione del “formato” perché naturalmente tali documenti non
sono rintracciabili in rete se non se ne conosce il nome e non si sa dove cercarli,
perché il pdf, come noto, non è certo scandagliato dai motori di ricerca. È un
vero peccato – e forse una lacuna colmabile senza troppa fatica – e sono convinta
che la condivisione dei dati e degli approcci sarebbe di assoluto vantaggio per
l’intero comparto museale per molti versi, non ultimo certamente la possibilità
per ricercatori e studenti di fare analisi comparative su una base informativa
condivisa.
Un aspetto ancora riguarda il museo come istituzione contemporanea: dare
conto del proprio comportamento responsabile sulla sostenibilità non solo
finanziaria, ma anche in termini di attenzione all’utilizzo delle risorse
energetiche. Il Museo della Scienza di Milano, con un anticipo sui tempi
97
Con la nascita dei social network, visitatori e non hanno acquisito la possibilità
di esprimersi liberamente sulle attività e perfino sull’identità del museo, e questo
costituisce un primo grado primordiale di autonoma partecipazione: la voce
esiste, data dal mezzo, ma non è certo conseguenza necessaria che si valutino le
sue ricadute o che siano incisive e determinanti per l’istituzione.
La partecipazione evoluta e dotata di reciprocità alla quale ci dedicheremo qui è
quella nella quale è la voce dei pubblici a forgiare il museo, a indirizzare il suo
operato, a determinare la sua immagine, a condizionare il suo modo di allestire, il
suo modo di parlare e di rappresentarsi. Ho appreso da una testimonianza di
100
sia usanza diffusa, certo non è prevalente, nei musei italiani, che sembrano anche
in questo essere resistenti all’ibridazione dei pareri, delle opinioni e dei punti di
vista.
Costruire processi di partecipazione che guidino e condizionino l’operato di un
museo è operazione complessa, che richiede certamente personale capace e
maturo, per preparazione e attitudine, tanta competenza ed energia per
indirizzare il progetto stesso e un alto livello di osmosi e reciprocità fra i
dipartimenti coinvolti, siano essi curatoriali o votati alla mediazione di tipo
didattico o di altro genere. Significativa – perché i cambiamenti passano
attraverso le parole – la testimonianza di Jennifer Sly, Museum Education and
Technology Specialist, presso il Minnesota History Center: la Sly sottolinea che
il loro team non utilizza più la parola “curator” (pare che comunque tengano
poco in considerazione i titoli in generale) ma che siano più attenti a quanto
ognuno possa contribuire allo sviluppo del processo che porta alla mostra e
all’impatto sull’esperienza del visitatore. 102
tecipare on-line al processo di selezione delle opere per una mostra fotografica,
condizionandolo. Decisivo il tema: oltre a valutare il valore estetico dello scatto,
si era chiamati anche a giudicare la capacità rappresentativa della foto in merito
al tema “The changing faces of Brooklyn”. 389 le immagini di artisti – anche la
loro candidatura presentata in modo anonimo – sottoposte a giudizio dal 1 aprile
al 23 maggio 2008. 3344 valutatori, ai quali era richiesto di dichiarare il proprio
livello di competenza e la propria zona di provenienza, hanno prodotto più di
410.000 valutazioni. In mostra, come parte dell’allestimento, sono state esposte
105
le prime 80 opere votate, stampate in una scala che rispecchiava via via il rating
raccolto. La riflessione che condusse all’iniziativa ebbe come miccia la
pubblicazione di un volume, The Wisdom of the Crowd di James Surowiecki,
columnist del “New York Financial Times”, la cui tesi era che un gruppo allargato
di non esperti avrebbe potuto manifestare una certa saggezza, a patto che il
singolo non fosse in grado di condizionare gli altri. Si è riconosciuta quindi,
molto in sintonia col tema territoriale, una competenza alla comunità locale. A
votare, verosimilmente per un legame umano col tema, sono state in particolare
persone di Brooklyn.
L’anno successivo, nel 2009, è lo Smithsonian a fornirci un’esperienza
partecipativa. Il Luce Foundation Center, primo fra i depositi museali visitabili,
chiede collaborazione su un’attività: il ruolo del deposito è sostanzialmente quello
di sostituire le opere che, con una rotazione piuttosto sostenuta, lasciano di
frequente un vuoto allestitivo perché concesse in prestito: con Fill the Gap il
team chiede di suggerire ai curatori della galleria una sostituzione opportuna e
adeguata, come misure e come senso. La collaborazione avviene esclusivamente
su Flickr.
106
Andiamo poi all’esperienza di “I went to MoMA and…” del 2011, ideata dal
Museum of Modern Art di New York. È un esempio illuminante innanzitutto
107
Sergio Mattarella nel settembre 2019 un nuovo bene a Recanati, dedicato alla
poesia L’infinito di Giacomo Leopardi ove fu tradizionalmente concepita. Al
termine di un percorso, tutto multimediale, dato che il luogo offre “una visita
guidata dentro la poesia” e suggerisce una sua lettura, si chiede al visitatore di
darne una propria interpretazione, e di condividerla sul sito www.fainfinito.it.
Nel panorama italiano ho sempre trovato importante e veramente interessante
il caso “Palazzo Grassi Teens” e “Detto fra noi”, presentato da Marina Rotondo
alla prima edizione del MAXXI Digital Think In e ancora in corso. 114
Non ci porta lontano un superfluo, quanto tardo, giudizio di valore sul caso in
sé, mentre è assai utile prendere atto della strada fatta dal Poldi Pezzoli a
“Palazzo Grassi Teens” e considerare le formazioni e le squadre in gioco con la
dovuta attenzione per il futuro (e in alcuni casi per il presente): tra le due
esperienze passano solo una quindicina di anni.
I processi partecipativi costituiscono un presupposto indispensabile per la
rigenerazione in chiave attuale, creativa o meno, della memoria: a questo
119
Pur essendo oramai alcuni nativi digitali divenuti adulti, in senso anagrafico – lo
rammento a segnare lo scorrere dei decenni – se si cerca di approfondire, senza
preconcetti, il tema della relazione dei bambini con il digitale e con internet si
comprende che ancora la sostanza informativa, in particolare in lingua italiana, è
dotata di poca organicità e consistenza. Per contro, anche in relazione a questo
tema non si è affrontata la complessità; piuttosto sono molto diffusi
considerazioni di stampo apocalittico e metodi iper-correttivi, il cui obiettivo è
unicamente vietare o limitare il contatto con il digitale.
Per comprendere l’ambito si può in modo più costruttivo provare a
riorganizzare mentalmente gli articoli e le ricerche, ordinandoli in una griglia che
li accorpi a seconda della domanda alla quale rispondono: qui di seguito “come e
quanto?”, “cosa?” e “perché?”.
bibliografia e nella trattazione “il male”, un secondo “ambito” sul quale allo
strumento digitale viene riconosciuta indiscussa valenza positiva è il mondo di
app, senza le quali i bambini con disabilità non avrebbero il medesimo contatto
con il mondo (si veda il bell’articolo When Screen Time Became a Life Line. How
Technology Impacts Children with Special Health Care Need, su TocaBoca, ove si
descrive quanto l’iPad abbia cambiato la vita di un bambino affetto da autismo
che, grazie all’app Proloquo, riesce a esprimersi).
127
Accento sui rischi, più che sui benefici e sulle opportunità, eppure da un lato i
dati (questa volta inglesi) ci dicono che in età prescolare il 25% dei bambini da 0
a 2 anni possiede un tablet, e che la percentuale sale al 36% se guardiamo ai
bambini della fascia 3/5 anni; lo screen time rilevato è ben più ampio di un’ora al
giorno. Il numero di operazioni che sanno fare in autonomia con un tablet è
impressionante (nel medesimo studio Parenting for a Digital Future). Dall’altro
128
lato, sempre Sonia Livingstone (vedi lecture appena citata), ci informa che non c’è
stata alcuna impennata di suicidi o malattie mentali a seguito della diffusione dei
mezzi digitali fra bambini e adolescenti. Anzi. Più i bambini sono competenti
nell’uso, precocemente, più aumentano le loro opportunità professionali e di
crescita nella vita.
Riguardo ai due binomi rischi/danni e opportunità/benefici la Livingstone
sottolinea come sia necessario che si abbandoni, anche nel linguaggio politico, la
semplificazione che vede nelle giovanissime generazioni delle “vittime”,
connotate come nativi digitali. Serve insomma una riflessione politica e sociale
che inneschi un adattamento: è necessario che i bambini siano accompagnati in
questi percorsi – come del resto in tutti gli altri del loro progetto educativo –
dalla famiglia e dalla scuola.
E qui veniamo al dunque. Perché la famiglia e la scuola possano proporre
prodotti di qualità, con contenuti e modalità adatte e sicure, è necessario che
maturino una propria competenza. Sta agli educatori, in famiglia e non,
selezionare e proporre prodotti di qualità, progettati e pensati per bambini, non
per adulti. Introduco, allora, un lavoro tutto italiano condotto sul tema con
grazia e competenza da Giulia Natale, torinese, consulente digitale, che progetta
corsi di formazione per genitori e insegnanti. Dal 2011 si dedica alla scoperta di
storie digitali per bambini tra vari blog: “Paddybooks”, “Wired.it” e “Mamamò”,
dove definisce così la sua metrica di valutazione:
La qualità delle storie digitali si giudica per i movimenti, le illustrazioni interattive, la narrazione, gli
effetti sonori, la professionalità della traccia di lettura e della sua eventuale sincronizzazione, la colonna
sonora, i tasti di navigazione.129
E infine un affondo:
I bambini usano in modo naturale i contenuti disponibili su tablet e smartphone, ma spesso non hanno
competenze adeguate per scegliere buone letture [naturalmente, non le possiedono nemmeno per i libri
cartacei]. Tocca agli adulti formarsi.
come ovvio, anche al tema della privacy e della sollecitazione all’acquisto in app
nei confronti dei bambini. Il tema, ancora una volta, è rilevantissimo in quanto
condiviso con altri media: la pressione commerciale è onnipresente e invadente
anche nei cartoni animati trasmessi in tv.
Nella pagina dedicata dalla commissione europea a “Better Internet for Kids” 133
non si manca però, finalmente, di sottolineare gli aspetti benefici dello sviluppo
di abilità digitali:
I bambini hanno sia particolari bisogni sia particolari vulnerabilità su internet; internet diventerà per i
bambini un luogo di opportunità per l’accesso alla conoscenza, per comunicare, sviluppare le loro
capacità e migliorare le loro prospettive di lavoro e occupazione.134
Segnalo, a titolo di riflessione, quanto sia facile per un bambino anche piccolo
essere esposto alla parlata in altre lingue, anche solo per gioco, e quanto invece
l’esperienza, molto benefica per giovani menti capaci di apprendere velocemente
e per osmosi, fosse in realtà riservata a pochi anche solo vent’anni fa.
135
Torniamo a pensare alle risposte date alle domande sul come, sul cosa: in realtà
rispondono, se di adeguata complessità e accuratezza, anche a un perché ben più
importante della definizione dello screen time, che forse richiede solo un minimo
di regole di comportamento, ma non un’approfondita capacità selettiva e critica.
La domanda resta sempre inevasa, perché ha una risposta molto complessa che
richiede di superare la domanda relativa a quanto tempo vi si dedica, soprattutto
se di mercato: quest’ultimo avendo come obiettivo il fatturato, opera con altre
logiche, naturalmente non necessariamente benefiche o etiche; più i bambini
sono esposti, fanno download, cliccano sulle pubblicità, più aumenta il fatturato.
Proviamo però a mettere in chiaro alcuni punti di base identificati per un
prodotto digitale “good for kids” per renderlo misurabile e parametrizzabile:
7.1 Le precondizioni
Cominciando dalla maglia larga, per poter valutare l’esito di una qualsiasi
emissione digitale del museo è indispensabile valutare le precondizioni,
procedere a una sorta di SWOT, perché la risposta a qualunque offerta digitale
144
– sia essa un’app, un sito web, un canale social – non è strettamente e solo legata
al prodotto, ma ha fruizione assecondata, potenziata, o inibita dal contesto.
Tra i fattori endogeni durante la visita, le precondizioni d’uso infrastrutturali
costituiscono insindacabili ragioni di forza, o al contrario di debolezza: prime fra
queste la presenza di un wi-fi adeguato e della disponibilità delle prese di energia
elettrica per ricaricare i devices qualora, scaricando contenuti, o utilizzandoli per
un arco di tempo non breve, si avesse necessità di ricaricare la batteria, magari
sostando piacevolmente in un caffè interno al museo. Entrambe le condizioni,
pur afferenti al semplice buon senso, sono invece di frequente disattese, anzi, è
un’eccezione che siano prese in considerazione. 145
(ove intendo per qualunque smartphone o tablet in uso per dimensioni e sistema
operativo), oppure possono essere pensate per un uso meta-temporale e con un
senso diverso prima e dopo la visita, o ancora possono avere la capacità di
personalizzare i livelli di approfondimento in modo tagliato su misura per
l’utente ecc.
Certo, tra i fattori che determinano forza o debolezza in merito a un’iniziativa
digitale ci sono anche i tipi di pubblici usuali: avrà un peso differenziale la loro
estrazione, anagrafica e culturale, e la loro attitudine o curiosità per il digitale.
Ma la sfida risiede nella precisione delle motivazioni alla base dell’approccio
verso questi pubblici: voglio allargare ad altri pubblici più digitali richiamandoli
grazie a un prodotto per loro? Voglio alfabetizzare pubblici un poco ostili
all’utilizzo dello smartphone? Sono direzioni diverse e richiedono risorse e
percorsi differenti.
Riguardo ai fattori esterni, prima di guardare ai dati sul digitale (e
naturalmente non solo) per capire cosa li condiziona, è opportuno valutare la
collocazione fisica dell’istituzione sul territorio, se sia facilmente raggiungibile e
visibile, se si trovi territorialmente in competizione con altra istituzione più nota,
vicina a una sede di esposizioni straordinarie particolarmente appetibili e
massivamente pubblicizzate, quali siano gli orari di apertura: in sintesi non è utile
e ragionevole confrontare i dati del Museo del Novecento in Piazza Duomo a
Milano con quelli del Museo “Ettore Guatelli”, perla di Ozzano sul Taro in
provincia di Parma, nemmeno se stiamo cercando di comprendere dati
provenienti “solo” dal digitale.
149
Condurre un’indagine sui dati unicamente legati all’espressione sui canali on-
line, non è corretto culturalmente, ma nemmeno dal punto di vista del metodo:
esattamente come il museo non è una monade, non lo è nemmeno la sua
dimensione digitale. Per dirlo tramite esempi immediati, se il museo apre una
mostra comunicata con grandi affissioni, massivo lavoro dell’ufficio stampa e
inviti cartacei all’inaugurazione, e persino – all’interno dello stesso ecosistema
digitale – con l’invio di una newsletter, si osserverà un picco anche nella fruizione
on-line; elemento che però non può essere letto, evidentemente, come un
successo attribuibile a quella dimensione.
Come sottolinea l’indagine condotta da Kati Price e James Daffyd:
Sebbene la maggioranza [degli intervistati nello studio] (56%) stia misurando le prestazioni rispetto a
obiettivi definiti, è preoccupante che molti non lo stiano facendo, o non siano sicuri: quasi un quarto
(23%) non sta misurando in relazione ai propri obiettivi e un quinto (21%) ha dichiarato: può essere.
Non posso mancare di segnalare che nello studio si esamina anche la
dimensione della squadra dedicata al digitale, che ha una sua rilevanza nel
raggiungimento dei risultati e nella reattività con la quale si risponde alle
sollecitazioni che si registrano sui diversi canali.
152
La Sánchez Laws cita già a pagina 1 uno statement di Museum and the web:
“Truly lively web sites will reflect an understanding of what people do with
museum data”, cioè solo i siti web davvero vivi rifletteranno la comprensione di
quello che la gente fa con i dati del museo. Un inno alla circolarità.
In secondo luogo è sensato fare chiarezza sulla relazione fra visitatore digitale e
visitatore fisico e sulla loro eventuale intersezione. La lettura e la proporzione fra
i dati provenienti dai due mondi (ove intendiamo biglietti venduti o staccati a
confronto con contatti digitali) sono state spesso ragione e oggetto di
fraintendimenti che rivelano una certa radicata ingenuità di partenza, e hanno
condizionato e ingenerato sillogismi zoppicanti. L’idea secondo la quale i secondi
(i digitali) dovrebbero trasformarsi in primi (i visitatori fisici), tout court, non
può avvantaggiarsi di alcun appiglio che possa darne sensatezza o
verosimiglianza. Ma sempre, e prima di tutto, il museo è un’entità comunque sia
locale, che risiede in un territorio, al quale è legato inevitabilmente, e non certo
un bene distribuito e venduto materialmente worldwide.
Unica eccezione a queste considerazioni è che tale lettura sia parte di obiettivi
molto specifici individuati e oggetto della strategia messa in atto, leggendo i dati
pregressi, e riferendosi a un tasso di conversione su base storica (visitatori web-
visitatori fisici), intervenendo – ad esempio sul sito web – proprio a quel limitato
fine, magari dando visibilità all’acquisto on-line dei biglietti. Esemplare in questo
è il caso citato nel capitolo quarto sul lavoro di Kati Price e del suo team sul sito
del Victoria & Albert Museum di Londra. 153
In ogni caso, per potere avere senso, la lettura dei dati deve partire da (e dare
seguito a) una strategia condivisa con la direzione, in linea con la missione del
museo; e potrebbe muoversi in direzioni molto diverse e diversificate, date le
molteplici combinazioni alchemiche fra le componenti in gioco.
In un volume di Jenkins, Ford e Green (la cui lettura trovo imprescindibile)
dedicato agli Spreadable Media si segnala molto opportunamente come il mondo
culturale abbia acriticamente fatto proprie le categorie e le metriche valutative del
marketing di prodotto, del mercato, a partire dal linguaggio stesso: generare e
contare le impressions o i click ha nell’ambito culturale ben differente valore e
altro significato, semplicemente perché le impressioni esibite, o create con la
logica della colonna di destra di sciocchi box in editoria ad esempio, sono la loro
linfa di vita; è la misura delle grandezze che possono vendere agli inserzionisti.
Ma come dice Jenkins forse dovremmo, come comunità di professionisti della
cultura, “continuare a cercare termini che descrivano con maggior precisione la
complessità dei modi in cui noi tutti interagiamo con i testi [e non solo] dei
media”.154
In materia di valutazione dei vari impatti dell’utilizzo dei social media da parte
dei musei, lo studio più puntuale, più ricco di bibliografia e che comprende
anche buoni spunti per la considerazione delle risorse coinvolte nella gestione
degli stessi, è la tesi di dottorato di Elena Villaespesa presso la School of
Museum Studies, Università di Leicester. Il lavoro si intitola Measuring Social
Media Success. The Value of the Balanced Scorecard as a Tool for Evaluation and
Strategic Management in Museums, è datato al 2015 ed è liberamente accessibile
on-line. Lungo tutto il prezioso studio la Villaespesa percorre passo per passo le
metriche qualitative e quantitative e i settori coinvolti per la valutazione dei
social network e del loro ritorno cercando di individuare un “framework”; l’esito,
pur più sofisticato, non è molto distante dal quello che ho citato
precedentemente, il Digital Engagement Framework, appunto. Rimando
certamente per completezza all’approfondimento argomentato e documentato
dell’autrice.
A questo punto viene la parte difficile: non abbiamo controllo assoluto sulla
circolazione dei contenuti che l’istituzione immette in rete, né – tanto meno – su
quelli che gli utenti mettono in rete autonomamente a proposito dell’istituzione.
Ma è proprio nel riversarsi autonomo nel mondo di risorse della comunità, locale
e globale, che si gioca la partita dell’impatto. Un nuovo ruolo sociale e creativo
risiede in questo ambito: il museo dovrebbe farsi “editore” e in questo (non solo
nella sua attività di conservazione e valorizzazione della collezione) fare
comunità, intorno a valori centrali, perché, come dice giustamente Christian
Greco citato da Paola Matossi, “il museo non è una monade”.
156
Guardata la questione sotto questa luce, l’analisi delle visualizzazioni, dei click
e dei commenti ha una rifrazione più complessa, tanto quanto è complesso
misurare davvero l’impatto di un’istituzione culturale sul territorio. Uno dei
parametri che ho visto mancare nelle discussioni professionali in materia è quello
della corrispondenza, o al contrario, distanza, fra l’immagine che il museo
restituisce di sé on-line e quella che offre al visitatore fisico. Esiste il pericolo che
l’immagine on-line – se non rimessa in circolazione e parte della discussione
interna condivisa, in ascolto, sullo sviluppo del museo – possa produrre
aspettative poi drammaticamente disattese in presenza.
Questo fattore ci riporta alla vexata quaestio sulle ragioni del fare digitale in
museo, sul sospetto della sottrazione di visibilità e non sull’incremento dato dal
digitale, e sui suoi, anche più larghi, obiettivi. Esistono certo alcune fattispecie di
comunicazioni digitali che hanno come mandato quello di parlare a un pubblico
locale: pensiamo agli eventi in particolare (presentazioni di libri, conferenze), ma
per la gran parte dei casi anche alle esibizioni temporanee, anche speciali: solo
per citare alcuni esempi di consapevolezza indico per Roma il lavoro di Palazzo
Barberini-Gallerie Corsini; per Milano il lavoro fatto dalla Pinacoteca di Brera
sui Dialoghi, per New York le dichiarazioni di Sophie Anderson per il
Metropolitan Museum e Shelly Bernstein per il Brooklyn Museum; si tratta –
almeno per una porzione – di comunicazione informativa, semplice,
continuativa; costruisce certo, e sostanzia, affezione e continuità di interazione,
ma non va molto oltre questo (né è intenzionata a farlo). In qualche caso ci sarà
da valutare dove ci siano intersezioni fra pubblici e audience on-line e off-line,
perché certamente esistenti.
Valutare i dati della frequentazione del sito web, per cominciare, consente di
identificare la provenienza delle visite e quindi la visibilità internazionale, in
modo puntuale per quanto semplicissimo: già di per sé l’informazione è di rilievo
dato che sui visitatori fisici in museo la verità è che spesso sappiamo ben poco.
Anche in questo caso segnalo la precondizione necessaria, che è, naturalmente, la
disponibilità del sito non solo in lingua italiana ma anche in inglese. E l’offerta di
contenuti pensata per molteplici target.
Una differenza evidente con i siti dei musei di stampo anglosassone è la
mancanza sui nostrani di una parte blog ove raccontare ai colleghi nazionali e
internazionali le proprie esperienze, di successo e non solo. Segnalo il blog del
Victoria and Albert Museum, “InsideOut” del MoMA di New York divenuto,
157
dopo la recente riapertura del museo e re-design del sito, un magazine, The Iris.
158
Behind the Scenes at the Getty Museum. Anche in questo caso, da segnalare il
159
“blog”, che è invece una rivista scientifica on-line, dell’Egizio di Torino. Sul 160
sito della Pinacoteca di Brera, invece, segnalo due sezioni “blog”: una è “Brera
Stories” che costituisce a tutti gli effetti un magazine di approfondimento su
questioni, recenti e meno, relative al museo; l’altra è la recente “MyBrera” che
consente di dare un volto al personale tutto, che esibisce qui la propria preferenza
su un’opera. 161
Curating Curation, un atlante dei processi curatoriali messi in atto per “Eyes of
the City”, per la Biennale di Hong Kong. Sarebbe interessante avere una parte
167
del sito di un’istituzione museale dedicata a esprimere i propri dati con spirito
creativo, in linea col lavoro sul brand e l’immagine coordinata del museo.
144
Per SWOT si intende un noto strumento di pianificazione strategica che consente di valutare i punti di
forza e di debolezza (Strenghts and Weaknesses) quanto le opportunità e le minacce (Opportunities and
Threats); si veda http://www.treccani.it/enciclopedia/analisi-swot_%28Dizionario-di-Economia-e-
Finanza%29.
145
“Mettono a disposizione della propria utenza la connessione Wi-Fi gratuita (dal 18,6% del 2015 al
25,1% del 2018)”, dal rapporto ISTAT, L’Italia dei musei, dicembre 2019,
https://www.istat.it/it/files//2019/12/LItalia-dei-musei_2018.pdf. Non ho dati a disposizione riguardo la
possibilità di avere una presa per ricaricare la batteria, se non la mia esperienza di visitatrice, che mi consente
di dire che è scarsa.
146
Ne ho scritto in Maria Elena Colombo, La vita delle opere e l’esigenza di una riflessione critica sul digitale,
in Comunicare il museo oggi. Dalle scelte museologiche al digitale, a cura di Lida Branchesi e Valter Curzi,
Milano, Skira, 2016, p. 377-385.
147
L’acronimo sta per Bring Your Own Device, e indica l’abitudine consolidata di usare prodotti e servizi
ciascuno sul proprio device, senza la necessità di fornirne uno ad hoc. Si veda Scott Sayre, Bring It On.
Ensuring the Success of BYOD Programming in the Museum Environment, in “Museum and the web
Conference”, giugno 2016, https://mw2015.museumsandtheweb.com/paper/bring-it-on-ensuring-the-
success-of-byod-programming-in-the-museum-environment.
148
Understanding the Mobile V&A Visitors, 2012, è ancora un ottimo esempio di studio in merito;
https://www.vam.ac.uk/__data/assets/pdf_file/0009/236439/Visitor_Use_Mobile_Devices.pdf.
149
Si faccia riferimento ad esempio allo schema di analisi utilizzato per i cinque casi analizzati da Smith
Bautista, nel volume Museums in the Digital Age, cit., ben illustrato nel capitolo “Methodology”, p. 231-238.
150
Cito due articoli del 2015: https://www.artwort.com/2015/02/13/arte/arte-web-e-social-network-il-
museo-2-0; https://www.wired.it/play/cultura/2015/08/26/digital-thinkin-maxxi-roma.
151
Traduzione mia: “We live not in the digital, not in the physical, but in the kind of minestrone that our
mind makes of the two. Museums, Ms. Antonelli insists, have an important role to play in helping people
explore and understand the emerging hybrid culture. “It’s this strange moment of change,” she explained.
“And digital space is increasingly another space we live in.” Articolo pubblicato sul “New York Times” nel
2014: https://www.nytimes.com/2014/10/26/arts/artsspecial/the-met-and-other-museums-adapt-to-the-
digital-age.html. Traduzione mia.
152
Traduzione dall’inglese mia: “Though the majority (56%) are measuring performance against defined
targets, it’s of concern so many aren’t, or are unsure: almost a quarter (23%) are not measuring against their
targets, and a fifth (21%) said ‘maybe’”. Kati Price, James Daffyd, Structuring for Digital Success. A Global
Survey of how Museums and Other Cultural Organizations Resource, Fund, and Structure Their Digital Teams
and Activity, Museum and The Web Conference, Vancouver, 2018,
https://mw18.mwconf.org/paper/structuring-for-digital-success-a-global-survey-of-how-museums-and-
other-cultural-organisations-resource-fund-and-structure-their-digital-teams-and-activity.
153
Sul blog del Victoria & Albert Museum, non più on-line nella nuova versione; si veda il loro intervento
a Museum and The Web citato nella nota precedente.
154
Henry Jenkins, Sam Ford, Joshua Green, Spreadable Media. I media tra condivisione, circolazione,
partecipazione, Milano, Apogeo, 2013, p. 1-4.
155
James Bradburne. Un’intervista, a c. di Maria Elena Colombo p. 99-110, in Senza titolo. Le metafore
della didascalia, a c. di Maria Chiara Ciaccheri, Anna Chiara Cimoli, Nicole Moolhuijsen, Busto Arsizio,
Nomos Edizioni, 2019.
156
Intervista nel paragrafo 8.2 di questo volume.
157
https://www.vam.ac.uk/blog.
158
È fermo al 2016 “Inside/Out”: https://www.moma.org/explore/inside_out/; si veda ora
https://www.moma.org/magazine.
159
In questo podcast si trova anche uno sguardo sul potenziamento che il digitale ha dato agli studi:
http://blogs.getty.edu/iris/podcast-talking-art-history-with-getty-research-institute-director-mary-miller.
160
https://rivista.museoegizio.it.
161
Le sezioni sono accessibili dall’home page, https://pinacotecabrera.org/brera-stories, e
https://mybrera.pinacotecabrera.org.
162
Si veda l’intervista a Nancy Proctor nel paragrafo 8.2.
163
Donata Columbro, Comunicazione. Identità e reputazione. Quando il marketing mette al centro il valore
della relazione, “I Quaderni di Symbola”, 2019, p. 114-117.
164
Henry Jenkins et al., Spreadable Media, cit., p. 247-250.
165
Virginio Sala, il traduttore dell’intero volume di Spreadable Media in premessa avverte sulla difficoltosa
traducibilità del termine spreadable, che infatti mantiene in originale inglese nel titolo e traduce con
“diffondibile” nel testo a p. VIII.
166
Giorgia Lupi, Stefanie Posavec, Dear Data, New York, Particular Book, 2016.
167
Il lavoro è sviluppato con la Northeastern University’s Center for Design:
https://camd.northeastern.edu/news/cfd-at-shenzhen-biennale.
8. VOCI DAL MONDO
L’età media dei relatori stranieri (che non credo arrivasse ai quaranta), il ruolo
da loro ricoperto o, seppure su un altro versante, le difficoltà riportate in
relazione ad alcuni processi interni alle istituzioni museali mi hanno sollecitato
una serie di riflessioni: dal confronto scaturiscono possibilità via via più
sofisticate e mature, su basi solide, o perché si diventa consapevoli di una lacuna
o un ritardo nazionale, o perché invece si evidenziano punti di contatto, ma in
particolare perché si individuano percorsi nitidi di innovazione in base a un’idea
di museo in trasformazione.
In numerose circostanze mi sono sorpresa a pensare che una parte delle
difficoltà fossero le medesime a New York, quanto a Milano. Le istituzioni
rappresentate a Firenze, tuttavia, non potevano e non possono ragionevolmente
costituire un modello che si possa considerare perseguibile o replicabile tout court:
il Metropolitan Museum di New York, con Loic Tallon – succeduto a Sree
Sreenevasan – il Rijskmuseum di Amsterdam con Linda Volkers, la National
Gallery di Londra con Mona Walsh, il British Museum, ma anche la Pinacoteca
di Brera; si tratta di strutture di dimensioni considerevoli, lunga tradizione,
dotate di uno staff numericamente consistente.
Un primo inquadramento della situazione nazionale, sebbene rappresentato
con il noto accento anglosassone, si è palesato con la presenza del direttore James
Bradburne, che parlava della dimensione del digitale alla Pinacoteca di Brera,
unico museo italiano fra gli speakers – se non contiamo l’ospite e organizzatore
Timothy Verdon, direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze – a
presenziare fisicamente, seppure non attraverso un professionista dedicato alla
dimensione della comunicazione o del digitale, ma con lo stesso direttore. Una
prima cartina di tornasole, senza dubbio. I musei rappresentati erano però tutti,
senza distinzione, anche del medesimo ambito disciplinare: grandi musei dedicati
all’arte, e non certo contemporanea.
Per questa ragione le mie domande nelle interviste che seguono hanno
interpellato i rappresentanti di istituzioni diverse, per raccogliere il punto di vista
anche sui musei della scienza, sull’arte contemporanea e, come vedremo, non
solo, anche di istituzioni che “sparigliano i conti” quanto a conformazione stessa
del museo.
Mi riferisco in particolare a Michael Peter Edson e al suo progetto UN Live, 169
al lavoro di Sebastian Chan presso l’Australian Center for the Moving Image di
Melbourne, ma anche se ancora non ho avuto il piacere di poter pubblicare una
170
8.1.1 I temi
Le domande che ho formulato sono quelle che i museum digital professionals si
trovano con ineludibile certezza a dover fronteggiare e a dover interpretare per
fornire una risposta nell’operato quotidiano:
tutta la collezione, anche con un senso giocoso, come quello dei tavoli digitali
ove riprodurre pattern della carta da parati e trovarsi immersi nella loro
proiezione. Come sarebbe bello fruire della collezione di pizzi del Museo Poldi
175
Pezzoli on-line? O dei disegni di progetto dell’intera casa dei Fratelli Bagatti
Valsecchi? “It’s time for us to listen better”; è arrivato il tempo per noi di
ascoltare di più e meglio, dice Nancy Proctor, e ha tanti significati, anche sul
versante professionale.
Insomma, una grandissima varietà di “job title”. Ci si muove fra livelli diversi di
ruoli direzionali e negli organigrammi compare in 9 casi su 16 la parola
“digital/digitale”; in soli due casi, uno dei quali all’Egizio di Torino, fa capolino
“marketing”, che ancora tanta resistenza (nonostante Kotler) genera nelle
176
E io so che ciò che sto dicendo verrebbe messo in dubbio, se non in ridicolo;
molti curatori pensano che la loro preparazione – ed esperienza – stia su un
diverso piano rispetto a quelle di un social media manager ma, sai, ciò che
davvero ci è necessario è il meglio di entrambi questi mondi: la capacità del
SMM di mettersi in contatto coi pubblici, di ascoltare quanto hanno da dire, di
coinvolgere le persone e sollecitare conversazioni piuttosto che operare o da una
torre d’avorio o anche in una comunicazione mono-direzionale; che trasmette
competenza, esperienza, opere.
Quando i processi di integrazione delle figure potranno dirsi conclusi, sarà inutile avere
ancora il suffisso “digital”? Curatore e digital curator saranno la medesima
professione?
Beh, ecco, lo è già abbastanza. Quando cominciai il mio lavoro presso lo
Smithsonian American Art Museum (Washington, DC.) il ruolo era Head of
New Media, che oggi suona davvero superato; e certamente il suffisso “digital”
subirà lo stesso destino. Almeno perché tutte le tecnologie che sono “digital”
coinvolgono audiences non nel senso nel quale noi utilizziamo il termine “digital”
nel mondo dei musei. Quindi, beh, la mia risposta è sì!
Non abbiamo nei musei squadre di professionisti per scrivere al computer,
giusto? Ciascuno sa come scrivere al computer e come usarlo. Sarà la medesima
cosa.
Come possiamo valutare le attività sui social media?
Questa è una domanda molto importante. Vorrei avere una risposta semplice e
definitiva. La mia risposta è che questa è davvero un’area fondamentale sulla
quale lavorare. I lavori più significativi in merito sono stati fatti da professionisti
come Sebastian Chan e Jane Finnis del Let’s Get Real Project.
Mi viene in mente anche Elena Villaespesa, sei d’accordo?
Oh sì, certo, ed è veramente meraviglioso che grandi istituzioni come la Tate e
come il Met stiano assumendo risorse dedicate all’analisi dei dati dei social
network e dei digital media.
Ma credo che siamo ancora all’inizio della questione. Un altro saggio che è
diventato per me di riferimento a riguardo è Museums… So What? di Robert
Stein, su Medium, e anche parte di un lavoro più grande: CODE | WORDS.
179
Technology and Theory in the Museum pubblicato con Suse Cairns e Ed Rodley; 180
questa sia un’area utile per aiutarci a capire perché cambiare è così difficile e
come possiamo farlo meglio.
Infine, un libro da consigliare ai colleghi italiani. Quello che trovi più geniale e utile di
tutti.
Non ti dirò un solo titolo, non posso, troppi libri meravigliosi; ma un nuovo libro
che raccomando caldamente è Creating the Visitor-Centered Museum di Peter
Samis e Mimi Michaelson: la loro importante ricerca è condotta su vari musei e
progetti che hanno fatto qualche passo avanti su questo tema. Mi piace perché
offre alcune soluzioni e caratteristiche per essere un museo incentrato sui
visitatori, e casi veri da studiare e da mettere in pratica.
Poi, forse meno interessante per i colleghi italiani, ma molto per quelli che
lavorano negli USA e in Europa, è davvero importante cominciare a capire
l’eredità del sistema della giustizia criminale per come è stata gestita nel XX
secolo; io raccomando The New Jim Crow di Michelle Alexander, e Bryan
Stevenson, che mostra come la società americana si sia evoluta dalla schiavitù in
segregazione e poi in un sistema di giustizia che contiene un senso implicito di
razzismo; il risultato è che da 300.000 persone incarcerate negli anni Settanta
oggi più 2 milioni di persone sono in carcere, e per la comunità afroamericana
significa che un terzo della popolazione non può votare. Questi sono i temi che
dobbiamo trattare; e se non siamo consapevoli di questo, non raggiungeremo
alcun obiettivo nei musei. Uno dei miei preferiti è Cory Doctorow, del quale vi
segnalo Information Doesn’t Want to Be Free, sull’economia digitale.
Conversazione con Silvio Salvo, social media manager e ufficio stampa della
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, giugno 2017
Quale ritieni possa essere il profilo fertile per fare il tuo lavoro? Intendo quali
competenze e quali caratteristiche anche intese come soft skills.
Per svolgere al meglio il lavoro di SMM è necessario: conoscere bene i contenuti
che si devono comunicare; avere buone capacità di copy; essere curiosi; essere
aggiornati sui nuovi mezzi di comunicazione; informare la community; interagire
con la community; creare la community; guadagnarsi sul campo l’autonomia
nella gestione dei canali che si seguono; intercettare i gusti e le passioni del target
anche fuori dal campo di pertinenza; immettere nuova linfa nei processi di
comunicazione; appropriarsi “dell’immaginario quotidiano” che si trova nei social
e utilizzarlo per comunicare il prodotto con un tone of voice adeguato al canale (lo
stesso contenuto deve essere diverso se appare sul sito, sulla newsletter, su un
comunicato stampa). Se, per esempio, leggo sui social di un museo di arte
contemporanea “oggi il museo è aperto dalle 12 alle 19” penso: bene, ma non
benissimo.
Personalmente faccio attenzione agli elementi che appartengono alla
quotidianità e penso che ogni aspetto della realtà che mi circonda possa essere
fonte di ispirazione per comunicare i contenuti. Considero Barbara D’Urso
un’icona contemporanea al pari di David Foster Wallace, Lionel Messi, Barack
Obama, Donald Trump, Pornhub, Thom Yorke, Ed Sheeran, i profughi di
guerra, Peppa Pig o Chiara Ferragni.
Nei social cerco di creare uno scenario che supera i confini fra i vari linguaggi:
arti visive, pubblicità, tv, musica, cinema, letteratura, giornalismo, social media.
È la natura dei social: l’organizzazione “caotica” delle informazioni ti permette di
diventare un architetto della parola e dell’immagine. Si possono creare
cortocircuiti interessanti. “The medium is the mess-age”. Siamo nell’era del caos.
Quale credi che sia la necessità di integrazione tra il SMM e il team della Fondazione?
E con i curatori in particolare?
Il gioco di squadra è fondamentale. Puoi essere autonomo quanto vuoi, ma senza
un’interazione continua con lo staff, non riesci ad avere una visione completa
delle mostre o delle attività che devi comunicare.
I curatori mi spiegano le mostre, la scelta degli artisti, e mi ci fanno
appassionare. A quel punto tocca a me declinarli a seconda dei canali di
comunicazione. Anche parlare direttamente con gli artisti è utile: con Adrián
Villar Rojas (è stato più di un mese in Fondazione) abbiamo parlato di musica
(va matto per i Radiohead e i Nirvana), di Maradona, del Papa, di Star Wars.
Conoscere le sue passioni mi ha aiutato nella comunicazione del backstage della
mostra.
Credi che il contesto del contemporaneo sia una facilitazione? Intendo, che sia in
qualche modo più naturalmente vicino a social e digital (rispetto per esempio a un
museo archeologico)?
Per la comunicazione di un museo archeologico possiamo attingere da secoli di
storia. L’arte contemporanea è qui e ora ed è la memoria di domani. E non
dimentichiamoci che per ogni persona che ama l’arte contemporanea, ce ne sono
almeno cinque (se non dieci) a cui non interessa o che pensa che non meriti lo
sforzo di entrare in un museo. Ma queste stesse persone sanno che tutta l’arte è
stata contemporanea. Stiamo vivendo da protagonisti l’arte che verrà studiata
dagli alieni quando ci invaderanno. Nel 2430 ci saranno code al Louvre per
vedere un’opera che è stata realizzata in questo preciso momento. Un museo di
arte contemporanea deve trasmettere anche questo messaggio.
Quale pensi sia il senso dell’utilizzo dei canali social?
Il senso è comunicare le attività e interagire e con il pubblico in maniera più
immediata. I feedback (elogi e critiche) che arrivano dai social sono molto
importanti anche perché ti danno la possibilità di migliorare i servizi.
Persino tu ti muovi tramite un piano editoriale? Te lo approvi da solo? Cresce
nell’immediatezza di oggi giorno?
Sfatiamo un mito: esiste un piano editoriale. Seguo schemi consolidati che spesso
nascono dall’ispirazione del momento: una ragazza che porta a spasso il cane nel
giardino davanti la Fondazione, il sole che si alza dietro l’edificio, un bambino
rapito da un’opera in mostra durante i laboratori del nostro magnifico
dipartimento educativo, le opere in mostra, la tematica affrontata dall’artista, le
riunioni con Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, la lettura di un quotidiano, le
conversazioni con i colleghi durante la pausa pranzo, un film visto la sera prima,
una canzone ascoltata in auto, il rancoroso Raz Degan sull’Isola dei Famosi, i sei
goal del Barcellona al PSG, L’amica geniale di Elena Ferrante, le serie Black
Mirror e Stranger Things, un editoriale sul “New York Times”, i servizi di moda
sulla rivista musicale “Rolling Stone”, una b-side dei Radiohead realizzata per il
mercato giapponese, una battuta del Quartetto C’era su “Eccezionale
Veramente”, le inquadrature a Barbara D’Urso, le invettive di Enrico Mentana,
gli haters contro Bebe Vio, le telefonate che arrivano a “La Zanzara” su Radio24,
i troll, le urla in piazza nel programma “Dalla Vostra Parte”, i discorsi dei
politici, i clochard bruciati vivi, i commenti sulle pagine Facebook di “Libero”,
gli editoriali di Selvaggia Lucarelli, i video-messaggi di Saviano, vanno tenuti
nella stessa considerazione. Devi essere costantemente sintonizzato. Se
comunichi l’arte contemporanea, non puoi prescindere dall’utilizzare il
linguaggio della società contemporanea. I social organizzano la comunicazione in
maniera caotica e noi ci adeguiamo. Il caos è equo, come sostiene il Joker. Nella
nostra comunicazione tutti sono allo stesso livello. Occorre però fare attenzione:
se vuoi raggiungere tutti i target, a volte corri il rischio di non raggiungerli tutti.
Come valuti tu, e come viene valutato dall’istituzione per la quale lavori, il tuo
impegno sui social? Esistono obiettivi dichiarati? Misurabili? Quantificabili? Elabori
una reportistica?
L’impegno sui social è pari all’impegno della presidente e dei miei colleghi. Se
non creassero contenuti di alto livello (mostre, eventi, attività didattiche) il mio
lavoro sarebbe inutile. L’obiettivo principale è dare le informazioni utili a far
conoscere le nostre attività e fare entrare in testa “Fondazione Sandretto Re
Rebaudengo”. Il feedback è positivo. I colleghi e la community apprezzano.
Godi di un mandato molto ampio, che ti riconosce ampia capacità creativa, sei
d’accordo? È stato da sempre così? Hai mai dovuto difendere o giustificare la tua linea
editoriale sui social? Nessuno ha mai fatto fatica ad apprezzarla?
È sempre stato così. A volte alcuni miei colleghi mi dicono “Non ho capito”, ma
gli stessi colleghi accettano di fare la dub dance per la foto degli auguri di Natale.
L’intenzione è anche quella di spiazzare. Sono sicuro che chi entra per la prima
volta sui nostri canali social sia spaesato. I nostri post prevedono un piccolo
sforzo. Devono essere decodificati (e non intendo i post scritti in codice morse
quando parlano gli alieni). Alcuni sono più immediati di altri. Se vuoi
intercettare tutti i gusti culturali e le tendenze più attuali, se vuoi stimolare
suggestioni, corri il rischio di non essere sempre compreso da tutti.
Ti racconto questo aneddoto: avevo appena posteggiato l’auto davanti la
Fondazione. In quel momento stavo ascoltando una canzone dei Nirvana. Ho
alzato il volume e ho fatto un video (inquadratura statica per 7 secondi) alla
Fondazione mentre rimbombavano le note di Drain You (quando Kurt Cobain
urla come disperato al minuto 2 e 27 secondi).
Ho postato il video su Facebook con questa descrizione: “Ci è arrivata una
chiavetta con un video. Senza mittente. Se è uno scherzo non è divertente.
#Palesati”. I like e i cuoricini arrivavano da fan di band death metal norvegesi.
Un’ora dopo un mio collega entra nel mio ufficio e mi dice che dobbiamo
avvertire la polizia, che ho fatto male a postare quel video. Io gli dico di aspettare
e di non preoccuparsi perché sicuramente si sarebbe palesato. Il giorno dopo
rifaccio un video sempre dall’auto con sottofondo i Verdena. Dopo cinque
minuti mi chiama il mio collega: “Sto per chiamare la polizia, portami la
chiavetta, spero tu abbia usato i guanti”. Vado da lui e poco prima che componga
il numero gli dico che è opera mia. Ho trovato tutto molto inquietante e
divertente. Ovviamente, dopo questo episodio, al mio super-collega lascerei
anche le chiavi di casa e so che il mondo è un posto migliore se c’è anche lui.
Secondo te (domanda classica al SMM) il seguito sui social si traduce in
biglietti/visite? E secondo il tuo aiutante Yoda?
Sicuramente sì, ma in minima parte. È un modo come un altro (mezzi di
informazione, sito web, newsletter) di tenersi informati sulle attività della
Fondazione. Nei questionari che distribuiamo ai visitatori abbiamo aggiunto la
voce “Come sei venuto a conoscenza di questa mostra?”. Presto ti saprò dire.
Il Maestro Yoda, @iodaioda (sono io il suo aiutante), sa già la risposta perché
usa la Forza e riesce a vedere il futuro. Dimenticavo: quando un bimbo vestito da
Yoda è entrato in Fondazione con la mamma e il papà ci siamo emozionati.
Il tuo lavoro costituisce di per sé una performance vera e propria. È consapevole?
Voluto? Strategico?
È il social network, bellezza! Il tone of voice che utilizziamo sui social rispecchia il
linguaggio che troviamo sui social: haters, complottisti, seguaci di Osho, post
deliranti di personaggi assurdi, razzisti, avvocati che sponsorizzano le loro pagine
e vengono derisi dai potenziali clienti, MASSIMA DIFFUSIONE!111!!!, odio
la Juve, W la Juve, rom rinchiusi in una gabbia, etichette dei vini, selfie con gli
occhi grandissimi perché ritoccati con l’applicazione “ingrandisci gli occhi così
sembro più bello”, piedi, gattini, elogi tutti uguali ai post della Ceres, pagine
ironiche, satanisti, l’oroscopo di Brezsny, bestemmie, pagine religiose, gruppi di
pervertiti, post-truth, video che scuotono le coscienze su AJ+.
Per capire il mood della giornata, oltre a leggere gli editoriali sui quotidiani,
puoi stare 20 minuti al giorno su Facebook. Raramente guardo le campagne
social degli altri musei (la maggior parte fa un ottimo lavoro). La comunicazione
social della Sandretto è efficace proprio perché non è convenzionale, ma è
convenzionale se inserita in un ambito più ampio: quello dei social, in cui si
creano cortocircuiti e caos e i linguaggi si mixano in un calderone che alla fine
della giornata non ti lascia niente se non un argomento di conversazione della
durata di un minuto sulle bambine che entrano nella stanza quando il padre
rilascia l’intervista alla BBC.
Attingiamo da tutto: dall’arte contemporanea, da Cruciani e Parenzo, da J.M.
Coetzee, da Francesco Totti, da Club to Club, da Maccio Capatonda, dai
Radiohead, da Vulvia, da Quelo, da Alessandro Bergonzoni, da Arturo
Brachetti, dal Cavaliere Oscuro.
E soprattutto cerchiamo di coinvolgere gli altri musei cittadini (fare rete anche
sui social è fondamentale) e personaggi che c’entrano poco con la Fondazione:
Salvatore Aranzulla, Mario Giuliacci, il Divino Otelma. Diamo informazioni,
creiamo il caos e intratteniamo: “infochaostainment”.
Il legame con il cinema è un legame con te o con la Fondazione? O con entrambi? O
dovrebbe comunque esserci e ne segnali l’assenza?
Il legame con il cinema è nato con “L’arte è”. Mi sono trovato a gestire i social
della Fondazione e ho dovuto improvvisare, fare in fretta e trovare un modo di
trasmettere le nostre informazioni in maniera non banale e poco istituzionale. È
stato un inizio “ingenuo”, ma genuino, dettato dalla mia grande passione. Con
“L’arte è” creavo uno scenario. Sono appassionato di cinema e per me è stata la
scelta più immediata. Nel corso degli anni l’evoluzione è stata spontanea. I meme
con personaggi universali (del cinema, della televisione, della pubblicità, della
musica) rendono riconoscibile il nostro spazio in Via Modane. Intrattengono e
informano. Quello che tento di fare è “creare un immaginario” della nostra sede.
Abbiamo la fortuna di avere questa sede meravigliosa, amata dagli artisti che
espongono da noi, una parete esterna lunghissima, un “palcoscenico naturale”.
Perché non sfruttarla e giocare un po’? A volte è rischioso, mi rendo conto: i
puristi possono non apprezzare una contaminazione così sfacciata, ma (forse) si
faranno una risata.
Che libro consiglieresti ai colleghi?
Visto che l’ho “citato” dicendo “the medium is the mess-age” direi Gli strumenti
del comunicare di McLuhan, ma anche Striscia la Tv di Antonio Ricci. Invece se
devo semplicemente indicare un buon titolo, il mio libro definitivo è Pastorale
americana. Aggiungo Gioventù di J.M. Coetzee, Istanbul di Pamuk, Il barone
rampante di Calvino.
Conversazione con Patricia Buffa, Head of Digital Communications, Fondation
Louis Vuitton, Parigi, aprile 2017
Ci racconti un poco del tuo lavoro il tuo team, i tuoi obiettivi?
Alla Fondation Louis Vuitton lavorano in tutto 35 persone, assunte e a tempo
indeterminato, includendo tutti i dipartimenti, dall’accoglienza, all’editoria, al
marketing, alla produzione delle mostre e dei concerti e alla mediazione
culturale. Io in particolare lavoro nel Dipartimento di comunicazione e sono
responsabile della Comunicazione digitale. Nel mio team ci sono anche un social
media manager, un web-editor. L’obiettivo principale del nostro lavoro è
sviluppare la presenza della Fondation Louis Vuitton on-line, non solo in
termini di immagine, ma anche e soprattutto nel fornire risorse utili e
interessanti a tutti i pubblici che ci seguono, suscitare il loro interesse, ascoltarli,
dialogare con loro, stimolare la loro curiosità e intercettare nuovi pubblici che
magari non conoscono ancora la fondazione e la sua programmazione. Ogni
giorno cerchiamo di individuare i migliori canali e media per far si che i nostri
contenuti raggiungano nella maniera più semplice ed efficace il pubblico al quale
sono destinati, nell’intento di trasformare un visitatore virtuale in visitatore reale.
Non si tratta di una comunicazione unilaterale, ma biunivoca, in cui prendono
campo sempre più spesso anche i contenuti creati dagli utilizzatori. A mio avviso
la fondazione non è semplicemente composta dalle 35 persone assunte a tempo
indeterminato (e da tutte le agenzie e i fornitori che ci accompagnano in questa
avventura), ma anche da tutti coloro che vengono alle nostre mostre e ai nostri
concerti. Condividendo sui social media la loro esperienza partecipano di fatto
allo sviluppo della nostra immagine. La fondazione è anche loro. La motivazione
che mi accompagna al lavoro ogni mattina è quella di rendere la loro esperienza
on-line e sul posto sempre più interessante, ricca e, perché no, divertente.
Quando conta (o dovrebbe contare) la comunicazione digitale e lo sviluppo sul digitale
in un museo per te?
I digital media sono un modo per essere accessibili a tutti i pubblici e in
particolare al pubblico che non si trova sul posto. Nella vita di tutti i giorni
alterniamo in continuazione, e ormai senza neanche più rendercene conto,
comunicazioni digitali, analogiche e di persona. È questa stessa naturalezza che
si deve cercare di riprodurre anche quando a comunicare non è una persona
fisica, ma un’istituzione culturale o un’impresa. Fare distinzione tra
comunicazione digitale e “non digitale” è un po’ come aggiungere una barriera
artificiale, dato che nella vita queste due dimensioni sono fortemente
interconnesse. Un visitatore può ad esempio venire a un evento organizzato alla
fondazione perché lo ha visto sulla nostra pagina Facebook, oppure perché sono i
suoi amici che lo hanno condiviso. Cliccando sul link dell’evento potrà comprare
il biglietto on-line, cosa che gli permetterà di evitare la fila in biglietteria e di
avere accesso preferenziale alla fondazione. Una volta sul posto vivrà l’esperienza
“reale”, magari porrà delle domande agli educatori che sono a disposizione del
pubblico nelle gallerie oppure scaricherà l’app Fondation Louis Vuitton (la
nostra audio-guida digitale, messa a disposizione gratuitamente). Probabilmente
farà delle foto con il suo cellulare e le posterà in seguito sui social media usando
gli hashtag e geo-localizzandosi alla fondazione. Il nostro scopo è accompagnare
il visitatore nella maniera migliore possibile prima, durante e dopo la visita,
fornirgli strumenti in modo non invasivo per permettergli di vivere a proprio
modo la sua esperienza e instaurare così un circolo virtuoso tra contenuti ed
esperienze on-line alla fondazione.
Una mostra come Icons of Modern Art. The Shchukin Collection, che è stata182
I vostri canali social sono curatissimi anche sotto l’aspetto grafico: secondo te – è una
mia sensazione – la recenziorità di un’istituzione e la firma di un archistar sull’edificio
che peso hanno sull’idea di bellezza e la cura della comunicazione in ogni suo versante?
Lo schizzo che Frank Gehry ha realizzato per il progetto della Fondazione è
senza dubbio diventato un’icona ed è stato declinato e ripreso su molti supporti
diversi. Per quanto riguarda l’identità della Fondazione on-line nel primo anno
sono stati fatti vari tentativi ed esperimenti. A due anni e mezzo dall’apertura è
venuto il momento di creare codici di riferimento che possano essere un punto di
riferimento. Per ogni social media sviluppiamo non solo un linguaggio di
riferimento, ma anche un approccio grafico diverso: su Instagram sviluppiamo la
nostra immagine mentre su Facebook diamo un’attenzione particolare alla
divulgazione dei contenuti, con un approccio più educativo.
Infine qualcosa su di te (possiamo?). Raccontaci. Come sei arrivata a Parigi? Qual è la
tua storia di formazione e professionale?
Mi sono laureata in Bocconi, a Milano, e ho approfondito il tema del
management dei media e della cultura a Sciences Po a Parigi. Ho lavorato a
Napoli per Mondadori-Electa, a Roma per l’apertura del museo MAXXI e poi
sei anni negli USA per il Sole24 Ore e il MoMA.
Come vedi lo stato di sviluppo delle istituzioni italiane sul “digitale”?
Non seguo da vicino le vicende nazionali, ma vedo che ci sono profili pieni di
vitalità ed energia. E so che il pubblico è molto attivo. Sia al MoMA che alla
Fondazione Louis Vuitton gli italiani figurano sempre ai primi posti quando si
guarda alla provenienza geografica degli abbonati. È una cosa che mi ha sempre
stupito positivamente. Nonostante in entrambi i casi menzionati non ci sia alcun
contenuto messo a disposizione in italiano, gli italiani leggono i post, li
condividono e li commentano più di altre nazionalità. Non saprei dire in
generale se le istituzioni culturali italiane sono attive e innovative dal punto di
vista della presenza digitale, ma mi sembra che gli italiani siano “connessi’,
ricettivi ai contenuti digitali, il che significa che c’è senza dubbio del potenziale.
Su che arco di tempo sarebbe sensato pianificare le attività e la strategia? Voi come vi
muovete?
Un anno per uno sguardo a esempi e pratiche di altri e pianificazione; un mese
prima del lancio il piano editoriale è confezionato (pronto anche ad essere
cambiato on going).
In ultimo, un libro da consigliare ai colleghi italiani. Quello che trovi più geniale e
ispirante di tutti.
In questo periodo sto leggendo The Culture Map. Decoding How People Think,
Lead, and Get Things Done Across Cultures di Erin Meyer, un libro che mi ha
consigliato la Chief Digital Officer de Museum of Natural History di New York.
Lo trovo molto interessante perché parla delle differenze nella maniera di
comunicare sul lavoro tra persone che provengono da culture diverse e di come
evitare di essere mal interpretati quando si lavora con persone che vengono da un
paese diverso, un’altra soft skill molto importate in un mondo globalizzato.
Conversazione con Chiara Bernasconi, Assistant Director in Digital Media al
MoMA, New York City, settembre 2017
Quanto conta la comunicazione digitale e lo sviluppo sul digitale in un museo? E al
MoMA in particolare?
La comunicazione e lo sviluppo digitale in un museo contano moltissimo, prima
di tutto perché non si può prescindere dalle abitudini del pubblico, che sempre di
più utilizza dispositivi mobili e tecnologie per capire il mondo.
C’è un articolo interessante di qualche anno fa dove si cita Paola Antonelli e
sono completamente d’accordo. 185
As Paola Antonelli, senior curator of architecture and design at the Museum of Modern Art, puts it,
“We live not in the digital, not in the physical, but in the kind of minestrone that our mind makes of
the two”. Museums, Ms. Antonelli insists, have an important role to play in helping people explore and
understand the emerging hybrid culture. “It’s this strange moment of change,” she explained. “And
digital space is increasingly another space we live in”.
Una delle sfide più grandi per i musei oggi è la capacità di rafforzare e unire
l’aspetto on-line a quello off-line, di mediare in questa cultura ibrida fra realtà
virtuale e fisica. Un piano strategico di un museo oggi non può esistere senza una
strategia digitale. Alcuni colleghi del settore avanzano l’ipotesi che sia possibile
tra qualche anno non dover aggiungere l’aggettivo “digitale” a titoli di staff o a
una strategia del museo, ma ci ricordano che per ora dobbiamo ancora fare
riferimento a una separata strategia digitale, per essere certi che venga
considerata! In ogni caso siamo già su una traiettoria dove l’aspetto digitale fa
sempre più parte integrante di tutto quello che il museo è e fa ogni giorno.
Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia
della comunicazione sui social?
La digitalizzazione dei contenuti, delle risorse e dei processi è fondamentale e
deve essere alla base di ogni sforzo e operazione sui social, che altrimenti
rimangono fine a se stessi e permettono solo una comunicazione superficiale.
Naturalmente tutto deve essere fatto rispetto alle proprie dimensioni e risorse
quindi con lanci in fasi. Non ci si aspetta di avere tutta la collezione on-line, ci
vogliono anni per cambiare le cose, ma bisogna cominciare da qualche parte,
mettere in atto un processo e proseguire con costanza.
Per un museo come il MoMA cosa significa svolgere un’attività relevant?
Fare attività rilevanti per il MoMA significa creare una programmazione con un
approccio user-centric sia nelle gallerie sia on-line. Significa saper attrarre un
pubblico il più ampio possibile (è scritto nella nostra missione!), che
continuamente cambia e non necessariamente è interessato solo ad arte moderna
e contemporanea, che ha diversi gradi di conoscenza dell’arte, locale e
internazionale, che a volte non parla l’inglese, e che può essere giovane o
anziano.
Che competenze deve avere chi si occupa di comunicazione social in un museo? E quali
caratteristiche personali (soft skills)? Si può fare su mandato, semplicemente seguendo
delle regole?
La conoscenza e la passione per i contenuti del museo a mio parere è
fondamentale perché non si può improvvisare, semplicemente seguendo delle
regole, per quanto anche queste siano necessarie, e devono essere comunicate in
modo trasparente e condivise.
La voce digitale deve essere personale, unica, deve avere uno stile forte,
ovviamente consono allo spirito del museo. Deve avere la fiducia dei curatori,
degli educatori, deve tradurre il loro linguaggio per renderlo accessibile a tutti. È
fondamentale che chi si occupa di comunicazione social sia prima di tutto un
“traduttore”, un ponte tra diversi linguaggi e diversi pubblici.
È un profilo con competenze richieste di tipo “tecnico” (ove intendo coding, grafica
ecc.)?
Non necessariamente deve avere skills tecniche, sono molto più importanti la
capacità di collaborare a ogni livello, sapere essere cross-departmental e cogliere
(anche tra le righe) la visione strategica dell’istituzione per cui si lavora, e avere
un’ottica di lungo periodo delle tendenze e del panorama artistico e culturale
generale. Più di ogni cosa chi si occupa di social media deve essere un abile
storyteller e deve coltivare connessioni interne al museo, ed esterne con altri
musei e istituzioni locali e internazionali.
On-line e off-line sono due mondi o uno solo? Dacci una speranza. Almeno al MoMA.
La ricerca della perfetta integrazione tra questi due mondi è ancora un’utopia.
Quelli che chiamiamo “the moments of truth” nel percorso del visitatore sia on-
line che off-line rimangono ancora poco analizzati ed esplorati, un po’ per
mancanza di competenze un po’ per mancanza di risorse e staff dedicato.
Comunque siamo in buona compagnia, è una delle sfide più grandi anche per il
settore for profit. Chi saprà rendere questa integrazione il più coordinata
possibile sopravvivrà. Al MoMA ci stiamo lavorando, anche se per ora ci
pensiamo sempre quando siamo nel bel mezzo della programmazione e non a
priori.
Quando i processi di integrazione delle figure potranno dirsi conclusi, avrà senso avere
ancora il suffisso “digital”?
Non credo che ci sarà mai completa integrazione, e forse questo è naturale, forse
non è nemmeno importante, però spero anche io che tra un po’ il termine
digitale sarà obsoleto e non dovremmo passare così tanto tempo a giustificare
perché è importante e potremmo concentrarci invece sulla creazione e
pianificazione di contenuti e programmi digitali. Un altro aspetto che vorrei
sottolineare è che non tutte le attività di un museo devono necessariamente
includere un aspetto digitale, ma solo se ha senso!
E ora, su New York: in che misura il museo ha un ruolo anche politico? Il MoMA si è
schierato contro il ban di Trump. Che ci dici in merito?
Credo che ogni museo abbia sempre un ruolo politico, è inerente al suo ruolo
chiave per la conservazione e diffusione di arte e conoscenza, di istituzione che ci
apre gli occhi a diverse specifiche culture e diversi punti di vista. Ogni decisione
curatoriale è di per sé politica, si tratta di scegliere di mettere in luce opere o
pratiche artistiche che hanno una particolare rilevanza in un preciso momento
storico.
In vari momenti storici esponenti della cultura hanno preso posizioni più o
meno chiare, ovviamente la situazione è complessa perché le istituzioni
naturalmente ospitano voci differenziate al loro interno. In ogni caso, credo che
ogni museo abbia il dovere e la responsabilità, come luogo pubblico rivolto
all’apertura e all’educazione, di comunicare il proprio dissenso verso scelte o
posizioni politiche ingiuste.
Un gruppo di curatori al MoMA ha sentito il bisogno di esprimere la propria
posizione nei confronti di un’operazione politica razzista attraverso una chiara
dimostrazione con l’arma della conoscenza e della cultura delle pericolose
conseguenze che queste prese di posizione possono avere anche nel mondo
dell’arte.
Infine qualcosa su di te (possiamo?). Il tuo “I went to MoMA and…”?
“I went to MoMA and…”; non avrei mai pensato di restare nello stesso luogo di
lavoro per nove anni! Al MoMA però succede questo e altro, ed è grazie a
colleghi straordinari, professionali, stimolanti, pronti a mettersi in gioco, a
sperimentare e a imparare dagli altri. Mi auguro che sempre più i luoghi della
cultura e le istituzioni possano coltivare questo tipo di ambiente di
sperimentazione e crescita.
Sono rimasta molto stupita dalla successione degli eventi al Met; è sembrato come se il
Met Breuer presentasse il conto a inaugurazione ancora in corso. Quale visione porta a
questi problemi? Su che arco di tempo sarebbe sensato pianificare le attività e la
strategia? Voi come vi muovete? Quale processo vedi mancante qui in Italia?
Quello che sta succedendo al Met credo sia legato a un’incapacità di operare in
modo agile, mi sembra dovuto più a manie di grandezza e incapacità di gestione
finanziaria e dispendio dei fondi, che a un vero problema strategico. C’era una
visione forte e definita; il problema è stato non accorgersi in tempo che la realtà
dei fatti non corrispondeva alla strategia e agli outcomes sperati. Spero che quello
che è successo al Met non freni altri musei a seguire una via di sperimentazione
intelligente e monitorata.
Un libro da consigliare ai colleghi italiani. Quello che trovi più geniale e utile di tutti.
Il testo di Nina Simon, The Participatory Museum, ha avuto una grande influenza
su tutti i professionisti dei musei negli ultimi anni. È un progetto generoso e
utile per mettere in discussione le gerarchie e i processi e ripensare a nuovi modi
di collaborare e di programmare nei musei.
Conversazione con Merete Sanderhoff, curator and senior advisor per lo sviluppo
digitale dello Staten Museum for Kunst di Copenhagen, maggio 2018
Quanto sono importanti la comunicazione e lo sviluppo digitali per un museo? E
quanto al Staten Museum for Kunst in particolare?
Al giorno d’oggi è importante che ogni museo persegua uno sviluppo digitale,
poiché questa dimensione ha sostanzialmente trasformato il modo in cui le
persone utilizzano, si relazionano, discutono e creano cultura. È pertanto
naturalmente vitale per i musei. Tuttavia, anche se il digitale pervade la nostra
vita di tutti i giorni, non è necessariamente sempre la scelta giusta per un museo
usare un canale di comunicazione digitale o una tecnologia. Il digitale non
riguarda la tecnologia, ma l’attitudine – per parafrasare Jasper Visser. Il digitale
ha insegnato al mondo che si può avere una mentalità aperta, dialogare, lavorare
insieme, condividere processi, conoscenze e strumenti per andare oltre, più
velocemente, insieme. Questa è la mentalità su cui basiamo il nostro lavoro su
SMK Open. Stiamo aprendo la collezione digitalizzata del museo a un riutilizzo
completamente libero e senza restrizioni, ed è estremamente interessante vedere i
modi affascinanti che le persone hanno di utilizzare le nostre collezioni con esiti
che non avremmo mai immaginato. La verità è che noi stiamo imparando tanto
da questa interazione con il mondo!
Quanto significa la digitalizzazione delle risorse e dei processi in termini di efficacia
della comunicazione attraverso i canali social?
Sta diventando sempre più chiaro che una solida infrastruttura digitale con facile
accesso a risorse digitalizzate, ben indicizzate e concesse con una licenza chiara,
che migliora le procedure interne ed esterne di co-editing e co-produzione di
contenuti, è la spina dorsale di un’efficiente organizzazione museale oggi.
Consente di cercare, trovare e condividere facilmente le risorse digitalizzate nel
formato adatto, senza dover inviare richieste a vari dipartimenti o chiedere il
permesso per vie burocratiche. Lo considero un investimento strategico chiave
per qualsiasi museo che voglia sfruttare le potenzialità dei canali dei social media.
Per SMK quali attività sono relevant? Puoi dirci qualcosa sul tuo progetto di
riconoscimento di immagini?
Offrire una versione “open” delle nostre risorse e conoscenze e mettere il nostro
patrimonio culturale condiviso nelle mani del pubblico è uno dei contributi più
significativi che possiamo dare alla società democratica nell’era digitale. Ciò
consente a partner esterni come la comunità di stampa 3D Shapeways o la start-
up Vizgu, che lavora al riconoscimento di immagini, di creare nuove esperienze e
prodotti per utenti che potrebbero non conoscere mai direttamente SMK:
consente di interessarsi al patrimonio culturale, prima di incontrarlo – o senza
mai visitarlo – attraverso queste piattaforme.
Che tipo di metriche usi per valutare un progetto digitale?
Come quasi tutti, misuriamo e analizziamo la portata e l’interazione tra le nostre
piattaforme digitali e i social media utilizzando Google Analytics. Ma se da un
lato questa è una buona pratica di base da mantenere, dall’altro bisogna essere
consapevoli che i numeri non dicono tutto. In questo momento stiamo
esplorando gli strumenti proposti da Europeana Impact Playbook per valutare in
modo più allargato l’impatto sociale, culturale e innovativo frutto della
digitalizzazione del patrimonio culturale. È co-sviluppato dai membri della rete
Europeana; faccio parte della task force che ci lavora. Offre un nuovo approccio
alla metrica, in quanto combina dati quantitativi e qualitativi, trasformandoli in
storie d’impatto avvincenti che prendono senso per le persone – per esempio i
politici, i finanziatori, i donatori e il pubblico di cui dipendiamo. Il settore
culturale necessita davvero di saper raccontare in modo più strutturato quanto
contribuisca alla società prospera e dinamica in cui tutti noi vogliamo vivere.
Ci sono due mondi separati là fuori? Uno on-line e uno off-line, o c’è un solo mondo?
Un mondo solo, ma con una nuova dimensione che apporta elementi sia positivi
sia negativi. Ogni volta che emerge una nuova tecnologia, cambiano la nostra
prospettiva, le nostre condizioni e le nostre abilità. Per il meglio o il peggio. Ma
il mondo è fondamentalmente il mondo, e siamo esseri umani come lo siamo
sempre stati, anche se le condizioni riguardo il lavoro, il tempo libero,
l’istruzione, la comunicazione e molto altro si sono evolute in nuove direzioni.
Detto questo, è evidente che esista una divisione netta tra aree che hanno avuto
uno sviluppo digitale e aree che non lo hanno avuto, e questo è uno dei fattori
che impediscono pari opportunità per tutta l’umanità. Dobbiamo lavorare per
diventare un mondo in cui tutti abbiano uguale accesso alle conoscenze e alle
risorse – anche nelle forme digitali.
Infine qualcosa su di te. Parlaci del tuo rapporto con il museo per cui lavori. Quali sono
i tuoi progetti preferiti?
Mi ritengo una donna molto fortunata a lavorare in SMK. Sono qui da undici
anni, il che sembra molto, ma in questo lasso di tempo il museo si è evoluto in
modo deciso da un’istituzione piuttosto conservatrice a un’istituzione dalla
mentalità vivace. Ha maturato davvero uno sguardo aperto e digitale. Sono
orgogliosa di questo sviluppo che mi fa andare al lavoro tutti i giorni con la
certezza che i musei possano di fatto andare avanti e abbracciare il cambiamento.
E abbiamo solo da guadagnare durante il processo.
Vuoi consigliare un libro intelligente e utile per i colleghi italiani e non?
Io credo che sia Europeana Impact Playbook, che ritengo sia molto utile per
qualsiasi istituzione che si occupi di patrimonio culturale, in qualsiasi parte del
mondo. In Italia in particolare modo dato il patrimonio culturale straordinario e
significativo per lo sviluppo delle culture europee e mondiali, nel quale le persone
di tutto il mondo possono identificarsi. Non desiderate sapere come e quanto ciò
condizioni la prospettiva delle persone rispetto alla storia, alla società e alle loro
vite? Europeana Impact Playbook potrebbe contribuire a rendere ancora più
efficace il legame di cuori e menti con il vostro patrimonio culturale in futuro.
Conversazione con Linda Volkers, Responsible for International and Digital
Marketing for the Rijksmuseum, Amsterdam, ottobre 2017
Quanto la comunicazione digitale incide sulla comunicazione in generale di un museo?
La comunicazione digitale sta divenendo via via sempre più importante quale
strumento per raggiungere gli stakeholders del museo. Al Rijskmuseum il
“digitale” costituisce uno dei principali pilastri della strategia dell’istituzione.
Dicendo “digitale” non mi riferisco solo alla digitalizzazione della collezione e
delle informazioni relative con ciò che riguarda la logistica o i processi. Digitale è
anche raggiungere la nostra audience attraverso i canali frequentati abitualmente
in autonomia, a partire dai social media, fino al sito web del museo o l’app. Per il
Rijksmuseum in particolare significa rendere la collezione disponibile on-line
tramite il Rijksstudio, un mezzo per raggiungere i possibili visitatori del museo e
far sì che più persone entrino in contatto con la nostra collezione e il marchio
Rijksmuseum.
Invece, quando fisicamente presenti in museo, noi desideriamo che i visitatori
si concentrino unicamente sugli oggetti esposti. Per questa ragione non abbiamo
alcuna installazione o distrazione digitale, con l’unica esclusione del wi-fi.
Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia
della comunicazione sui social?
Il Rijksmuseum utilizza i suoi canali digitali principalmente come modo per
mostrare la propria collezione: ciascuno può usare tutte le immagini di alta
qualità del Rijksstudio. Un secondo obiettivo è quello di fornire informazioni
relativamente alle mostre e agli eventi che organizziamo.
Usiamo diversi canali con diverse ragioni, servendoci della forza di
penetrazione specifica di ogni social media (Facebook, Instagram, Twitter,
LinkedIn, YouTube). Abbiamo perfino progettato un programma educativo
speciale, si chiama Snapguide, e si serve di Snapchat. In aggiunta ai nostri propri
canali, interagiamo sempre di più con instagrammer, blogger e vlogger.
L’istituzione per la quali lavori è uno dei grandi esempi di digitalizzazione: ha
superato resistenze obsolete rispetto ai diritti delle immagini, condividendole in HR.
Ci racconti di questo?
Rijksmuseum cominciò la digitalizzazione più di dieci anni fa, per ragioni
accademiche, legate alla ricerca, come parte del processo quotidiano del museo.
Dato che avevamo le immagini delle nostre opere in digitale, comunque,
abbiamo deciso di renderle disponibili a un pubblico più vasto. Ci è stato
possibile farlo perché i diritti d’autore non sussistevano più per gran parte della
nostra collezione.
Per un museo come il Rijks cosa significa svolgere un’attività relevant?
“Relevancy” per noi significa consentire agli altri di fare un uso della collezione
nel modo che preferiscono; noi non abbiamo stabilito restrizioni o limitazioni.
Puoi usarle per fare o progettare tutto ciò che vuoi, da un’opera d’arte a un uso
commerciale. L’unico vincolo esistente è che non è permesso utilizzare il nome e
il logo del museo. Fare attività rilevanti insomma per me significa facilitare e
consentire altri sguardi, necessariamente diversi, perché provengono da occhi con
storie diverse.
Che competenze deve avere chi si occupa di comunicazione social in un museo? E quali
caratteristiche personali (soft skills)? Si può fare su mandato, semplicemente seguendo
delle regole?
Credo che la caratteristica più importante sia essere curiosi, essere aperti
all’interazione con stakeholders e colleghi, non avere timore di procedere per
binari non tradizionali nella tua istituzione, e aver voglia di sperimentare. Allo
stesso tempo però avere ben chiaro in mente un obiettivo specifico, sul quale
rimanere concentrati e avere un impatto reale.
È un profilo con competenze richieste di tipo “tecnico” (intendo coding, grafica ecc.)?
No, non per me. Essere capaci di coinvolgere in una conversazione è molto più
importante, così come saper riconoscere dove ti serve competenza ed esperienza e
dove qualcos’altro.
On-line e off-line sono due mondi o uno solo?
Io penso a due mondi, che stanno sempre più convergendo. Tuttavia esistono
cose delle quali vuoi fare esperienza nella vita reale, come un bellissimo
Rembrandt o un Leonardo Da Vinci.
In che misura il museo ha un ruolo anche politico? Il MoMA si è schierato contro il ban
di Trump. Che ci dici in merito?
Rijksmuseum racconta la storia dell’arte e la storia dell’Olanda; rappresenta tutto
ciò, ma senza prendere posizione politica alcuna.
Un libro da consigliare ai colleghi italiani. Quello che trovi più geniale e utile.
Ho due libri nel mio elenco “da leggere”; penso e spero che possano essere utili
anche per i colleghi in Italia. Il primo è Irresistible. The Rise of Addictive
Technology and the Business of Keeping us Hooked di Adam Alter: ho appena
cominciato a leggerlo; parla della ragione per cui smartphone, app e social media
danno dipendenza. Il secondo è Customers the Day After Tomorrow, dell’esperto
di marketing Steven Van Belleghem; è appena stato pubblicato.
Conversazione con Luisella Mazza, Head of Operations, Google Cultural
Institute, aprile 2018
Come è nata l’idea in Google di occuparsi così direttamente di arte e cultura?
L’idea è iniziata con una domanda: come utilizzare la tecnologia di Google per
preservare e rendere accessibile l’arte? Nata con il nome di Google Art Project,
questa avventura inizia nel 2011 con 17 musei partner in tutto il mondo, in Italia
la Galleria degli Uffizi. Si trattava di uno di quei progetti noti come 20%, nei
quali i “Googler”, soprattutto nell’ambito engineering, possono dedicare parte
delle proprie ore lavorative alla creazione di progetti e iniziative che esulano dalle
loro attività lavorative quotidiane.
Quali sono le ragioni di questa diffusa attenzione?
La missione di Google è rendere le informazioni dal mondo intero più accessibili
per tutti gli utenti, incluse le informazioni sull’arte e la cultura. Google Art
Project, evolutosi in Google Arts & Culture, si inserisce ancora oggi in questa
missione.
Dopo una prima fase di pura “digitalizzazione”, gli strumenti offerti e il supporto del
GAC sono divenuti via via più sofisticati e più capaci di supportare un’elaborazione,
quasi allestitivi. È questo uno degli obiettivi?
Le conversazioni con gli esponenti del settore sono cambiate e si sono evolute nel
corso degli anni, e sicuramente ci hanno fornito molti spunti per migliorare
l’offerta per i musei partner. Per esempio, uno degli obiettivi richiesti era di
rendere la digitalizzazione in alta risoluzione – ossia, in giga pixel – più semplice
e veloce. Un’immagine giga pixel è particolarmente importante per i nostri
partner: è composta da oltre un miliardo di pixel e quindi permette di far risaltare
dettagli invisibili a occhio nudo. Per questo nel 2016 abbiamo creato Art
Camera, una speciale macchina fotografica robotizzata che permette di
riprendere opere d’arte in altissima risoluzione e in tempi rapidi. Ad esempio
un’opera d’arte di dimensioni piccole/medie (un metro per un metro) può essere
elaborata in solo mezz’ora.
Quali strumenti e progetti proporrete per i prossimi anni?
Continuiamo ad ascoltare i feedback dei nostri partner e a sviluppare nuove
tecnologie, in particolare attraverso il Google Cultural Institute Lab, il “crocevia”
dove comunità tecnologiche e creative si uniscono per condividere idee e scoprire
nuovi modi di vivere l’arte e la cultura. Sebbene non possiamo elaborare nei
dettagli, stiamo lavorando per ampliare alcune tra le tecnologie sviluppate di
recente nel Lab, come per esempio la realtà virtuale sperimentabile tramite
Google Cardboard, le nuove caratteristiche dell’app Google Arts & Culture, e gli
esperimenti nati dalla collaborazione con programmatori creativi, come ad
esempio X Degrees of Separation e Free Fall.
Ci parlate un po’ di numeri e statistiche? Musei, opere, mostre, quanti sono? E i
visitatori?
I musei e le istituzioni culturali partner sono oltre 1500 da oltre 70 Paesi e hanno
reso disponibili on-line sulla piattaforma oltre 6 milioni di immagini e oltre 9000
mostre digitali curate da esperti. I visitatori superano i 43 milioni all’anno, con
oltre 175 milioni di visualizzazioni di contenuti. Infine, i contenuti su YouTube
hanno ricevuto 5,2 milioni di visualizzazioni all’anno e ci sono oltre 348.000
persone che ci seguono sui social media.
Che clima e attitudine vi trovate ad affrontare in relazione ai musei italiani? È
diverso altrove?
I musei italiani sono aperti al dialogo e alle nuove tecnologie, lo dimostra anche
il fatto che abbiamo oltre 100 istituzioni culturali partner in Italia, il maggior
numero tra i Paesi europei su Google Arts & Culture. In generale, il dialogo con
i musei sul digitale è un capitolo ancora aperto. Uno degli esempi più recenti del
clima di apertura dei musei italiani è il progetto lanciato recentemente con la
Galleria Nazionale di Roma. Grazie a questa collaborazione, il museo ha portato
on-line oltre 170 opere opere digitalizzate in altissima risoluzione, compiendo la
nostra maggiore operazione di digitalizzazione di opere in un singolo museo in
Italia tramite Art Camera; inoltre ci ha chiesto di pensare a un’iniziativa creativa
speciale e così abbiamo creato insieme la residency dell’artista Paco Cao. Il
risultato è stato la performance Control, espressa dall’artista tramite Tilt Brush, la
tecnologia di Google per dipingere in tre dimensioni.
Quali expertise sta sviluppando GAC come seguito di queste esperienze di contatto con
le istituzioni culturali?
Come dicevamo il contatto con le istituzioni è determinante per ampliare e
migliorare la nostra offerta continuamente. Un esempio è stato l’ampliamento
delle collaborazioni tecniche con istituzioni culturali che scelgono di condividere
un numero sempre maggiore di opere d’arte, per rendere disponibili on-line le
loro collezioni nel modo migliore. Abbiamo collaborato, ad esempio, con il
Rijksmuseum di Amsterdam che ha portato on-line oltre trecentomila opere
d’arte della collezione su Google Arts & Culture, ma anche con il Natural
History Museum di Londra, che ha condiviso l’intera collezione di oltre
trecentomila immagini scientifiche. Un altro esempio potrebbe essere l’utilizzo
della digitalizzazione a 360 gradi che, con la collaborazione dei partner, ci ha
portato a “entrare” virtualmente in performance straordinarie come quella del
balletto dell’Opera di Parigi, o in atmosfere emozionanti come quelle del Palio di
Siena, tramite i video immersivi a 360 gradi.
È un settore sul quale Google intende investire anche nei prossimi anni?
Il settore è in continua evoluzione e senza dubbio siamo impegnati a fianco dei
nostri partner sul lungo termine.
Ci segnali un libro che consiglieresti a tutti i professionisti museali italiani?
Non ho la presunzione di consigliare un libro a chi si occupa di tutelare e
preservare il nostro patrimonio culturale. Tuttavia un testo che personalmente
trovo fonte di continui stimoli è La storia del mondo in 100 oggetti di Neil
MacGregor, direttore fino al 2015 del British Museum. L’interpretazione, la
rilettura e la storia di questi 100 oggetti – da una punta di freccia alla carta di
credito, tutti selezionati dalle collezioni del British Museum – sono
un’ispirazione a creare connessioni e riflessioni sul passato e il presente originali e
inaspettate.
Conversazione con Darren Milligan, Director dello Smithsonian Learning Lab e
Senior Digital Strategist per lo Smithsonian Institution’s Center fot Learning and
Digital Access, Washington, D.C., maggio 2018
Quanto sono importanti la comunicazione digitale e lo sviluppo digitale per un museo?
E quanto allo Smithsonian?
Penso che tutti i musei dovrebbero prendere in considerazione, almeno in parte,
il loro potenziale impatto oltre le proprie mura. Chi potrebbero servire, a chi
potrebbe essere utile usare le loro collezioni e conoscenze? È tempo di ripensare
e possibilmente ridefinire le priorità. Ciò non significa che tutti i musei possano
o debbano passare alla digitalizzazione o a progetti digitali all’avanguardia.
Questi, per essere realizzati bene, richiedono esperienza e risorse alle quali
purtroppo non tutti i musei, almeno in questo momento, hanno accesso. E
questo è lo stato dell’arte. Ciò che è vero ora, tuttavia, è che gli strumenti delle
comunicazioni digitali (anche semplici siti web e social media) non sono affatto
al di là della portata anche dei musei più piccoli. Queste tecnologie, strumenti
per la distribuzione, la comunicazione e la conoscenza, anche se usati nei loro
modi più basilari possono aiutarci a raggiungere tutte le nostre missioni.
Lo Smithsonian, essendo il complesso museale, educativo e di ricerca più
grande del mondo, considera l’outreach un obiettivo primario (la nostra
dichiarazione di intenti, poiché la nostra fondazione nel 1846 è stata “l’aumento
e la diffusione della conoscenza”). Abbiamo obiettivi ambiziosi per raggiungere
un miliardo di persone all’anno, molte più di quelle che vivono negli Stati Uniti o
persino nell’emisfero occidentale. Ciò significa che dobbiamo necessariamente
servirci della tecnologia per garantire che tutti, ovunque, abbiano accesso alle
nostre risorse. Finora, abbiamo digitalizzato circa 3 milioni di oggetti dalla
nostra vastissima collezione, che ne comprende più di 150 milioni.
Quanto significa la digitalizzazione delle risorse e dei processi in termini di efficacia
della comunicazione attraverso i canali social?
Può significare tutto! Avere accesso ai contenuti multimediali consente ai
professionisti dei social media di coinvolgere nuovi segmenti di pubblico, creare
conversazioni e promuovere opportunità di apprendimento al di là delle sole
parole. Le immagini sono e continueranno a essere potenti ponti.
Per la rete Smithsonian quali attività sono rilevanti e significative?
Per un posto grande come lo Smithsonian (ci sono più di 6.000 persone che
lavorano qui), ci sono sempre esempi entusiasmanti di come le nostre istituzioni
abbiano un impatto crescente. Uno dei miei preferiti è lo Smithsonian
Transcription Center, una piattaforma on-line in cui quasi diecimila volontari
hanno trascritto il testo trovato su più di trecentomila pagine di oggetti del
museo digitalizzati (la trascrizione di testi – trovati in foto – consente la
ricercabilità!). È proprio la tecnologia che ha consentito la collaborazione di
persone da tutto il mondo per aiutare lo Smithsonian a raggiungere i propri
obiettivi.
Con una collezione così ampia siamo costretti a pensare a sempre nuovi metodi
per digitalizzare: uno di questi è “digitalizzazione rapida delle acquisizioni”
eseguita dallo Smithsonian Digitization Program Office. Immaginate un nastro
trasportatore, installato in una stanza sul retro di uno dei nostri musei, in cui gli
oggetti tolti dal magazzino scorrono e vengono fotografati alla velocità di uno
ogni pochi secondi. Questi oggetti, solitamente accessibili solo ai ricercatori che
fisicamente vengono a Washington, D.C., sono poi invece disponibili on-line
per tutti.
Che tipo di metriche usi per valutare un progetto digitale?
Cerchiamo di fare un’analisi ampia e approfondita, il che significa che grandi
numeri quantitativi sono sempre utili per mostrare la portata che un progetto
potrebbe avere; sfortunatamente, non ti dicono molto sull’impatto. Per capire
questo, devi andare più a fondo. È necessario comprendere a chi stai fornendo un
servizio e come. Spesso questo lavoro di interpretazione può essere più difficile,
ma è molto più gratificante.
Ci sono due mondi separati là fuori? Uno on-line e uno off-line, o c’è un solo mondo? E
poi una sola strategia, o due?
Il “mondo digitale”, il “mondo fisico” queste locuzioni stanno divenendo sempre
più irrilevanti. Ciò che è importante capire adesso è che entrambi sono, insieme,
un mondo creato dall’uomo. E che, come musei, e come tali con la missione di
documentare e preservare il patrimonio culturale fisico e immateriale condiviso, il
nostro ruolo è quello di educare e ispirare in questo mondo. Quindi dobbiamo
pensare al nostro pubblico nella totalità della loro possibile esperienza.
In ultimo (ma non meno importante) qualcosa su di te. Parlaci del tuo rapporto con il
museo per cui lavori. Quali sono i tuoi progetti preferiti?
Lavoro per l’ufficio centrale e l’ufficio di sensibilizzazione dello Smithsonian,
chiamato “Centro per l’apprendimento e l’accesso digitale”. La nostra missione è
garantire che tutti, ovunque, possano usufruire delle risorse digitali dei musei,
delle biblioteche, degli archivi e dei centri di ricerca dello Smithsonian, avendo
come ultimo fine l’apprendimento. Ciò significa che spesso ci rivolgiamo a
insegnanti o studenti, ma sentiamo davvero che chiunque può avere
un’esperienza di apprendimento grazie alle nostre risorse. Lo facciamo
principalmente attraverso una piattaforma che abbiamo sviluppato e che si
chiama Smithsonian Learning Lab. The Lab è un’applicazione web, un toolkit
che garantisce la scoperta di quasi 3 milioni di risorse digitali; fornisce anche
metodologie e strumenti che consentono a tutti di usarle, mescolandole con le
immagini della propria vita per ricavarne nuove cose, e infine condividere ciò che
si crea con gli altri.
Infine, puoi consigliare un libro che ritieni sia interessante utile anche per i colleghi
italiani?
Uno dei miei preferiti sui modi in cui le persone interagiscono e creano cultura è
The Secret War Between Download and Uploading. Tales of the Computer as Culture
Machine, di Peter Lunenfeld, critico e teorico dei media digitali presso l’UCLA.
Il libro descrive in modo intuitivo il potenziale culturale che le tecnologie digitali
hanno abilitato: da quello del consumo a quello della creazione. Non
dimentichiamo che la parola cultura deriva dalla medesima radice di coltivazione
e agricoltura, quindi dire che la macchina della cultura è cresciuta e si è evoluta
attraverso l’uploading è incoraggiante e non è un ossimoro.
Conversazione con Sebastian Chan, Chief Experience Officer presso l’Australia
Center for the Moving Image, novembre 2017
Quanto sono importanti la comunicazione e lo sviluppo digitali per un museo? Ci sono
due mondi separati là fuori? Uno on-line e uno off-line, o uno solo?
Entrambi sono essenziali al giorno d’oggi; infatti io credo piuttosto che il digitale
sia ormai inscindibile dal resto in ogni parte della nostra vita. I modelli di ricavo
dal digitale per i musei sono ancora obsoleti; rappresentano in gran parte la
traslazione sul digitale dei flussi di entrate tradizionali: la bigliettazione ne è
l’esempio più ovvio.
Cosa significa per un museo fare qualcosa di “rilevante”? E come può essere misurato
(nel mondo digitale e/o nel mondo fisico)?
La rilevanza può essere misurata solo se il museo è molto consapevole rispetto
all’obiettivo del proprio essere rilevanti. Oggigiorno i musei si confrontano con
un pubblico molto diversificato: dai ricercatori, studiosi professionisti, ai turisti
internazionali, che visiteranno il museo una volta solamente, con ogni variante
fra le due posizioni. Essere chiari riguardo l’obiettivo, scegliere con chi è
necessario essere rilevanti, è l’unico modo in cui un museo può iniziare a
considerare come misurare al meglio la propria attività.
Le metriche e le misure che ho visto utilizzare nei musei vanno dal conteggio
del numero delle citazioni, alle recensioni dei social media fino al significato
profondo che l’istituzione guadagna al cospetto della comunità, presso i cittadini
locali.
Quali sono le abilità e le competenze fondamentali per un SMM in un museo? Questo
profilo professionale richiede competenze tecniche?
I social media cambiano molto rapidamente – e non alludo solo alle singole
piattaforme, ma anche al modo in cui vengono utilizzate. Ora che le linee tra
comunicazione digitale e non digitale si sono intrecciate nell’attività
“comunicazione” tout court, fare il SMM significa piuttosto comprendere il
contesto e come il significato viene costruito in modi diversi nelle differenti
comunità. Al giorno d’oggi le competenze chiave per qualunque ruolo riguardano
la capacità di adattarsi al cambiamento e la curiosità di lavorare con le comunità,
in uno scambio reciproco, non solo in trasmissione. Le competenze tecniche
sono meno importanti; credo però fermamente che, all’interno di musei più
grandi, sia necessaria una solida conoscenza tecnica per stare al passo con il
cambiamento ed essere in grado di comprendere e sperimentare “ciò che verrà
dopo”.
Secondo te che tipo di narrazione produce una grande esperienza? Ad esempio potresti
dirci, dopo anni, alcuni pensieri, valutazioni, del progetto Cooper Hewitt Pen?
Il progetto Cooper Hewitt Pen ha davvero trasformato la relazione del pubblico
con quel museo. Sono molto orgoglioso del team che ha collaborato a quel
progetto, soprattutto perché ha superato di gran lunga quello che ognuno di noi
si sarebbe potuto aspettare in termini di risultati raggiungibili: le presenze sono
aumentate, l’età media del visitatore è precipitata, la collezione è stata largamente
vista e condivisa. Un risultato ancora più importante, tuttavia, è stato l’aver
fornito all’intero comparto museale un suggerimento su ciò che si può davvero
realizzare in un “museo completamente digitalizzato. Confesso che sono un po’
deluso dal fatto che altre istituzioni non abbiano davvero tenuto conto
dell’esempio e non lo abbiano seguito, anzi, credo sia ancora visto come
un’eccezione, quando non un’anomalia.
Infine, qualcosa su di te. Parlaci della tua relazione con il museo per cui lavori. Sei
soddisfatto di lavorare in Australia?
Sono il Chief Experience Officer di ACMI e abbiamo appena cominciato a
lavorare a una grande riqualificazione del nostro principale sito museale, situato
nel centro di Melbourne. È una buona istituzione in una grande città che si trova
in un momento di svolta decisiva nella sua crescita. Nei prossimi anni emergerà
un nuovo ACMI e – essendo il museo nazionale del cinema, della tv, del
videogioco, della cultura digitale e dell’arte – la digitalizzazione risiede nel cuore
stesso dell’istituto.
Puoi consigliare un libro che ritieni sia intelligente e utile per i colleghi italiani?
Quest’anno sono tornato a leggere molta più fiction. Il secondo romanzo di
Robin Sloan, Sourdough, è una meditazione veloce e divertente sulla cultura
tecnologica attraverso gli occhi di un ingegnere robotico che eredita una coltura
di lievito naturale. È una lettura veloce e proviene dalla mente che ha prodotto il
video davvero preveggente del 2004, EPIC2014, ove ha immaginato il futuro
186
Proprio quando questo volume era pronto per andare in stampa, siamo stati tutti
costretti a cambiare abitudini e stili di vita perché chiamati a rimanere in casa per
evitare, o almeno contenere, il diffondersi del contagio da Coronavirus.
Tutto ha chiuso: scuole, università, aziende, negozi e… musei.
Non potevo dunque lasciare che questo libro, dedicato a musei e cultura
digitale, uscisse e si presentasse al mondo privo di una riflessione dedicata
all’eccezionale contesto che i musei si sono trovati ad affrontare in questo
drammatico momento storico, che ha toccato per prima l’Italia settentrionale.
Perché?
Perché è stata proprio la chiusura dei musei a rendere evidente con
straordinaria immediatezza che la relazione fra musei e pubblici esiste, ed è
necessaria, anche quando le istituzioni fisiche si trovino a dover chiudere i propri
palazzi, a non avere possibilità di contatto con il visitatore fisico, con colui che per
tanto tempo la museologia più tradizionale e conservativa ha riconosciuto come
unico vero visitatore.
E invece…
Dal momento immediatamente successivo alla chiusura, i musei che erano
“attrezzati” teoricamente, con convinzione e con risorse adeguate, hanno sentito
la necessità di presidiare e tenere acceso il loro discorso con i propri pubblici, via
web e sulle piattaforme social.
Di fatto, proprio a chiusura del mio lavoro, si è appalesata la totale strumentale
(quanto diffusa anche in ambito giornalistico) irrilevanza della contrapposizione
on-line/fisico: è stato un unico ecosistema istituzionale, un unico organismo, che
ha reagito alla chiusura dei musei.
La connessione, più che la comunicazione, ha rivelato lo stato di necessità che
trova la sua risposta nei social network, nei siti web dei musei, nella disponibilità
dei loro più vari archivi in rete.
A conferma di quanto avete trovato nelle pagine precedenti, evidentemente
non per caso, Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, ha messo
in salvo la “passeggiata con il direttore” in museo mettendo a disposizione video-
pillole sui social network.
La Pinacoteca di Brera di Milano ha lanciato video e foto corredati di hashtag
programmatici quali Voci dal museo, myBrera, Appunti per una resistenza
culturale.
Il Muse di Trento da giorni trasmette su Facebook laboratori per insegnare
coding ai giovani a partire dal famosissimo Scratch del MIT. 187
Insomma molti dei musei italiani dei quali abbiamo accennato nelle pagine
precedenti, ma anche altri, si sono attivati con grande naturalezza,
semplicemente cambiando dimensione spaziale, assicurando continuità di
servizio e relazionale.
Ma, come già ribadito in questo volume numerose volte, la dimensione digitale
richiede competenza, risorse, infrastrutture adeguate.
La rincorsa, a tratti con evidente affanno, dei giorni scorsi a presidiare il
territorio dei social da parte di tutte le istituzioni museali non ha mancato di
disvelare differenze sostanziali nella dimestichezza e nella naturalità
dell’esposizione on-line; non in tutti i casi, cui siamo comunque grati per
l’impegno, si sono visti prodotti o idee all’altezza, o insomma esiti felici,
semplicemente perché non ci si improvvisa nella fretta congestizia, senza una
riflessione ampia.
Tra le esperienze che non si possono improvvisare è l’offerta della visita virtuale
del museo on-line nelle sue due varianti: la consultazione della collezione on-
line, che ha sviluppato invece con successo la Pinacoteca di Brera in autonomia;
oppure il tour virtuale; quest’ultimo non diffusissimo in Italia (si veda quello
esemplare dell’Egizio di Torino dedicato alla mostra Archeologia Invisibile). È 189
da segnalare, tuttavia, che numerosi musei italiani hanno sviluppato i loro tour
grazie alla collaborazione con Google Arts and Culture, come la Galleria degli
Uffizi.
190
Non tutti i volumi sono puntualmente citati in nota, ma la lettura di tutti ha contribuito a rendere possibile
questo lavoro. Ritengo utile condividere ogni titolo che ha accompagnato il mio percorso durante gli anni
passati.
Landmarks
1. Cover