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Ben lungi dal doverci formare sulle fantomatiche potenzialità della realtà virtuale,

siamo di fronte a domande culturali, filosofiche, antropologiche, etiche, sociali e politiche


correlate alla dimensione del tempo e dello spazio, alla larghezza e al senso del fare
cultura, ai processi vari e profondi di smaterializzazione e disintermediazione che
hanno riguardato tanta parte dei nostri orizzonti quotidiani.
Maria Elena Colombo

La cultura digitale ha creato le condizioni per un nuovo museo in ascolto e


sempre aperto. L’autrice raccoglie nuovi spunti e voci per interrogarsi sulla
relazione ormai decennale tra musei e cultura digitale, cogliendone stereotipi,
resistenze, illuminazioni e opportunità.
Si indagano qui i temi fondanti su entrambi i versanti, i reciproci
condizionamenti e le ibridazioni, leggendo fra le righe della narrativa e dei profili
dei protagonisti, incrociati con la lettura critica della letteratura dell’ultimo
decennio.
Il volume ha le sue premesse nelle interviste condotte dall’autrice negli ultimi
tre anni a professionisti del digitale nei musei di tutto il mondo e pubblicate su
“Artribune”.

MARIA ELENA COLOMBO


Si è laureata in Conservazione dei beni culturali e ha conseguito un Master in
Museologia, museografia e gestione dei beni culturali. Si è occupata per un
decennio di comunicazione in contesti digitali; è stata redattrice del progetto “Un
museo al mese”, collaborazione fra la testata “Focus Junior” e il MiBACT. Ha
lavorato come digital media curator e ufficio stampa per il Museo Diocesano di
Milano dal 2011 al 2015 e ha collaborato con la casa museo Bagatti Valsecchi.
Insegna Multimedialità per i beni culturali presso l’Accademia di Brera, al
Master in Museologia, museografia e gestione culturale e alla Scuola di
Specializzazione in Beni archeologici presso l’Università Cattolica di Milano sul
tema museologia e comunicazione, con focus sul digitale.
Geografie culturali
Maria Elena Colombo

Musei e cultura digitale

Fra narrativa, pratiche e testimonianze

EDITRICE BIBLIOGRAFICA
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume
dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n.
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Ebook: Luca Mozzicarelli


ISBN: 978-88-9357-178-4
Copyright © 2020 Editrice Bibliografica
Via San Francesco D’Assisi 15 - 20122 Milano
Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy
INDICE

Premessa, di Pier Luigi Sacco


Introduzione
1. Una tassonomia del digitale: di che cosa parliamo quando parliamo di digitale e
musei
1.1 Altre strade e proposte
1.2 Il digitale per quale museo: luogo e partecipazione
1.3 Quale digitale per il museo: l’asse del tempo
2. It’s up to you. La rete: resistenze, martiri, pensatori
2.1 Attraverso la narrativa
2.2 Giovani e professionisti
2.3 Visioni differenti

3. Regole, policy, posizione culturale: quale statement per i social network di un


museo
3.1 Persone e regole
3.2 Policy e livelli di servizio
3.3 Piano editoriale o linee culturali? La prova dell’errore
3.3.1 Centralità dei temi sociali, politici, culturali
3.4 Crisis Management

4. Paradigmi e obiettivi
4.1 Il sito web del museo: perché?
4.2 La collezione on-line
4.2.1 Un’unica collezione on-line
4.2.2 La collezione on-line e il nutrimento all’industria creativa
4.3 Trasparenza, sostenibilità, accountability
5. La partecipazione: ragioni e pratiche
5.1 Quale partecipazione
5.2 Casi significativi

6. Digitale, bambini, musei. Qualche considerazione


6.1 Come e quanto?
6.2 Cosa? Ovvero, quale digitale per i bambini
6.3 Il più complesso perché
6.4 Insegnanti, scuole digitali e musei. Quali sinergie?

7. Le trappole della misurabilità


7.1 Le precondizioni
7.2 Strategia e obiettivi
7.3 I report particolari: il professionista e gli user-generated contents
7.4 La dimensione creativa dei dati: Data Viz
8. Voci dal mondo
8.1 La premessa alle interviste e la loro lettura
8.1.1 I temi
8.1.2 Gli obiettivi del digitale e la loro misurazione
8.1.3 Profilo professionale e competenze
8.1.4 I libri consigliati nelle interviste
8.2 Musei e digitale: 16 interviste per “Artribune”
Post Scriptum: i musei e la dimensione digitale in Italia al tempo del Coronavirus
Bibliografia
Ringraziamenti
PREMESSA

Di cosa parliamo quando parliamo del digitale nella sfera culturale? Fino a
qualche anno fa, una domanda del genere avrebbe suscitato accesi dibattiti di
stampo fondamentalista tra “pro” e “contro”: il digitale come una dimensione da
sposare oppure al contrario da rifiutare nella sua interezza, e questo ancora di più
se ci si confinava a quell’ambito dell’ecosistema culturale che comprende i musei
e il patrimonio tangibile. Oggi quella fase si può dire sostanzialmente superata.
Non si può essere “contro” il digitale in senso stretto perché sarebbe come andare
contro i flussi delle maree o il ciclo delle stagioni. Però, per molti, per quanto
inevitabile da accettare il digitale nella sfera culturale viene visto più come un
male necessario che come il dischiudersi di un mondo di nuove possibilità. La
ragione è chiara: si pensa al digitale come a una formidabile arma di distrazione
di massa che, anche quando sembra voler favorire l’accesso all’esperienza
culturale e la partecipazione, in realtà fa il gioco contrario stimolando le persone
a uno sguardo sempre più superficiale, a un’attenzione sempre più erratica, a un
pensiero sempre più capriccioso e disattento. E l’immagine simbolo di tutto ciò
sembra essere la famosa foto che ritrae un gruppo di teenagers seduti nel
Rijksmuseum di fronte alla Ronda di notte di Rembrandt e tutti intenti a
guardare i propri smartphone invece del quadro. Una foto che, prevedibilmente,
ha attratto strali polemici di ogni genere in quanto “prova inconfutabile” della
nuova barbarie estetica alle porte. Quel che è emerso a un’analisi più attenta è
però che molti dei protagonisti di quella scena stavano in realtà usando i propri
smartphone per documentarsi meglio sull’opera che avevano di fronte e sulle
collezioni del museo, ovvero stavano facendo proprio quel che ci aspetteremmo e
ci augureremmo da un visitatore consapevole e interessato. L’apparenza dunque
inganna, e ancora più ingannevole è l’ansia di trovare riscontri a una tesi in gran
parte preconcetta che più che da una seria analisi sul campo sembra prendere le
mosse da un pregiudizio radicato, come peraltro è storicamente avvenuto per
ogni altra grande innovazione introdotta nell’ambito della produzione e
dell’accesso culturale, dai libri a stampa, al cinema, ai videogiochi, giusto per fare
qualche esempio ovvio.
Ciò non vuol dire naturalmente che il digitale non abbia ombre e non ponga
sfide che necessitano di intelligenza ed attenzione nell’inquadrarle, nel dare loro
senso, e possibilmente nell’affrontarle con efficacia. È indubbio che il digitale
ponga vari tipi di problemi di natura socio-comportamentale che non siamo ben
preparati a gestire e che possono produrre effetti non voluti e non desiderabili,
anche se pure in questo caso bisogna lamentare la persistenza di preconcetti
piuttosto resistenti all’evidenza scientifica, come ad esempio la supposta
perniciosità dei videogiochi nel generare dipendenza negli utilizzatori (quello che
la ricerca ci dice invece è che esiste una maggiore o minore suscettibilità
individuale a sviluppare dipendenze di varia natura, che possono orientarsi verso i
videogiochi o verso molte altre forme, ma che non beneficiano particolarmente
dal vedersene semplicemente precluderne una). Occorre quindi, come sempre,
affrontare le tematiche connesse al digitale nella sfera culturale, nella loro
ramificazione sempre più complessa, con mente aperta, con curiosità, e
soprattutto con una gran voglia di documentarsi e fare riferimento alla riflessione
e alla ricerca recente, che è ovviamente in piena fioritura e offre spunti
ricchissimi a chi vuole provare a capire meglio. È quello che fa in questo libro
Maria Elena Colombo, che da professionista del settore ha una vasta esperienza
di lavoro “sul campo” per quanto riguarda il digitale nei musei, ma che riesce qui
ammirabilmente a evitare di proporre una prospettiva da digital evangelist, ovvero
da promotore entusiasta di una rivoluzione da accettare senza resistenze, per
assumere invece una posizione intelligentemente critica e problematica,
alimentata da un percorso di letture ricco e attentamente scelto, ma allo stesso
tempo però molto pragmatica e sensibile alle opportunità e ai dilemmi delle
scelte quotidiane di chi deve operare in un settore in cui il ritmo del mutamento
supera spesso quello delle possibilità di comprensione, per rispondere ad alcune
semplici domande: che fare, come, e perché.
Questo, va detto subito, è un libro coraggioso. Basti pensare che il capitolo di
apertura parte da quella che è forse oggi la vera mission impossible per chi vuole
provare a comprendere questo mondo in turbolento cambiamento: la costruzione
di un approccio tassonomico al digitale nei musei. La tassonomia che viene
proposta non è però una griglia rigida, destinata a diventare rapidamente e
inevitabilmente obsoleta, quanto piuttosto quello che potremmo chiamare un
abito mentale: a quale dimensione guardare? Con che obiettivi e per quali
ragioni? Un altro elemento particolarmente apprezzabile è che nell’intraprendere
un percorso del genere non viene scelto il tono apodittico di chi prova a scrivere
le tavole della legge, ma si dà un grande spazio alle voci di vari grandi
professionisti ed esperti del settore la cui riflessione si intreccia continuamente
con quella dell’autrice, così che a volte più che a una riflessione sembra di
assistere a una conversazione particolarmente ben orchestrata. La riflessione
punta decisamente a superare quegli atteggiamenti che potremmo definire di
neo-benjaminismo ingenuo, che vedono nella dimensione digitale un sostituto
improprio e fuorviante dell’esperienza del rapporto materiale con l’opera e con
l’oggetto, come se una contrapposizione di questo genere avesse senso in un
ecosistema esperienziale nel quale sempre di più la presenza digitale e quella
fisica si amplificano a vicenda invece di sostituirsi. Il punto è che il digitale mette
prima di tutto quelli che un tempo chiamavamo spettatori nella prospettiva di
definire le proprie regole del gioco, di giocare con esse, di contraddirsi e di
ritornare sui propri passi se necessario senza essere necessariamente sotto la lente
valutativa-prescrittiva di qualcuno che pre-definisce il senso, i confini e lo scopo
di quell’esperienza. It’s up to you, come ci avverte il titolo del secondo capitolo: c’è
una vertigine di libertà che magari non sarà sempre spesa con soddisfazione e
costrutto ma che ci proietta tutti in una nuova dimensione nella quale
l’esperienza culturale non funziona più come elemento di distinzione, di statico
posizionamento sociale, ma invece e soprattutto come elemento di possibile
relazione, come fattore di una negoziazione dinamica e aperta nella quale certi
principi di qualità esperienziale non devono essere affatto necessariamente
negati, ma devono riacquistare il proprio senso e la propria credibilità a partire da
un dialogo orizzontale.
Oggi parliamo tanto di audience development, ma non è il semplice porre la
questione in questi termini un implicito riconoscimento di una sconfitta?
Possiamo davvero paternalisticamente pensare che il pubblico vada “sviluppato” e
quindi plasmato nel conformarsi a modi, forme e contenuti che sono stati già
pensati a questo scopo da chi ha il compito di ammaestrarlo? Nel fare queste
considerazioni non stiamo naturalmente adottando un punto di vista liberal-
spontaneistico secondo il quale ognuno è il miglior giudice del modo in cui
intende vivere le proprie esperienze culturali e che ogni tentativo di stabilire un
dialogo in questo senso equivale appunto a una intrusione paternalistica. Il punto
è piuttosto che questo tipo di dialogo, che è non soltanto possibile ma
auspicabile, deve fondarsi su una negoziazione, su un confronto che non voglia e
non debba partire da una legittimazione sociale che riconosce a priori a una parte
il diritto ad avere l’ultima parola. Ciò che questo libro vuole dirci in ultima
analisi è che il digitale oggi è esattamente quello spazio sociale e cognitivo in cui
questo dialogo può accadere, qualora se ne comprenda il potenziale, se ne
accettino le implicazioni aperte, e soprattutto si abbia il coraggio e la generosità
di mettersi in gioco senza trincerarsi nella difesa di ruoli sociali precostituiti. I
social network di un museo diventano allora non un luogo di “promozione” o
“comunicazione” ma un’eccezionale arena nella quale il museo svolge una parte
essenziale della propria missione. Il museo di oggi non comunica nello spazio
digitale ma esiste (o meno) nello spazio digitale, che lo voglia o no. E questo lo
hanno capito fin troppo bene anche musei estremamente prestigiosi e
riconosciuti che non soltanto non hanno avuto paura di “contaminare” la loro
immagine e il loro prestigio istituzionale in questa nuova dimensione, ma l’hanno
sposata con entusiasmo sperimentando con coraggio senza preoccuparsi di
conformarsi alle aspettative e ai desiderata dei propri pubblici storici di
riferimento, trasformando la loro possibile incomprensione e persino il rifiuto in
una ulteriore, grandissima opportunità di sperimentazione e sviluppo.
Una volta superata questa concezione “strumentalista” della vita digitale del
museo, si rimane quasi senza fiato rispetto alle straordinarie esperienze che si
prospettano possibili, a partire da aspetti apparentemente banali come la
progettazione e l’organizzazione di un sito web. E queste possibilità portano
tutte verso un obiettivo apparentemente alla portata ma in realtà complesso e
sfuggente: quello della partecipazione. Come modificare la grammatica del
coinvolgimento, come trasformare la passività in proattività senza piegarsi in
modo banale e riduttivo alle logiche dell’intrattenimento (più edonico che
eudaimonico)? Il museo che si mostra impreparato rispetto a questa sfida rivela
in ultima analisi un limite nella sua capacità di uscire dalla sua propria comfort
zone mentre invita continuamente il pubblico a manifestare una costante
disponibilità a trasgredire la propria: in altre parole, non sa stare al gioco a cui
invita gli altri a giocare. E mai questo test potrebbe essere più stringente e
impietoso che nel caso dei bambini, che non sono soltanto l’interlocutore elettivo
dell’istituzione museo nella sua dimensione socio-pedagogica, ma ne sono anche
inevitabilmente i giudici più severi e liberi da qualunque compromesso o
condizionamento. È per questo che il rapporto con i bambini costituisce oggi un
banco di prova chiave a cui nessun museo dovrebbe sottrarsi. Ma per valutare in
che misura il museo è davvero in grado di rispondere efficacemente a queste sfide
non si può sfuggire a una seria responsabilità di accountability, a un impegno
rigoroso a una valutazione che venga condotta però con gli strumenti e le
metriche adeguate, e quindi non tanto centrata su obiettivi tanto labili quanto
poco significativi di impatto economico fine a se stesso, quanto piuttosto sulla
capacità di innescare processi di risposta cognitiva, emozionale e
comportamentale che lascino davvero una traccia profonda, che svolgano una
funzione abilitante, che trasformino appunto il museo in un luogo familiare,
ospitale, accogliente, non secondo il metro di chi ospita, ma secondo quello di
chi non si sente più un ospite.
Questo è, in poche parole, il percorso tracciato dal libro. Un percorso ben
argomentato, affascinante, e mi verrebbe da dire necessario. Se lo leggerete con
l’apertura mentale e l’attenzione che merita, il digitale diventerà un terreno di
esplorazione, sperimentazione e scoperta al quale non vorrete e non potrete
sottrarvi. Buon viaggio.
Pier Luigi Sacco
INTRODUZIONE

“Se non riusciva a comprendere qualcosa si sedeva al tavolo e cominciava a battere a macchina, e poi
tornava alla prima riga e riscriveva, fino a che il pensiero prendeva forma attraverso la scrittura. Ha
scritto per capire, non per insegnare ad altri ciò che è giusto pensare”.
(Annalena Benini, I racconti delle donne, a proposito di Joan Didion1)

Questo libro nasce da una specifica inclinazione: un’attitudine a farsi domande, a


partire dal piccolo, dal basso, dalla scala a misura di persona. Mi sono convinta,
strada facendo, che questo approccio possa costituire un buon antidoto contro gli
stereotipi e le resistenze preconcette.
Il mio profilo e il mio percorso professionale, e in questo anche la mia
formazione, che considero sempre in fieri, sono andati crescendo per fasi e fermi,
molto diversi fra loro; credo che, in un diagramma, la linea adatta a
rappresentarlo a volte si sarebbe ripiegata su se stessa tornando indietro, per poi
ripartire più marcata. Qualche volta, solo ora – a posteriori – e solo di recente,
vedo delinearsi con decisione i legami di senso di quel percorso. Confesso, però,
che è stato un continuo alternarsi di verticalizzazioni e allargamenti, dubbi,
visioni, incontri, reazioni.
Ho avuto la fortuna – e forse la vocazione – di dedicarmi ai musei nella loro
dimensione “digitale” nel senso più ampio dell’aggettivo che, per come lo intendo
io, da un lato non si è mai contrapposto a “fisico” nel suo senso più tradizionale
né, dall’altro, ha costituito una disciplina separata dalla museologia, o forse
meglio, dai Museums Studies.
In anni di continua attenzione al tema tramite i social network,
confrontandomi con qualche ottimo e prezioso collega, partecipando a convegni
nazionali e internazionali, ho realizzato che la consistenza degli argomenti stava
crescendo davvero poco in profondità e adeguatezza, e in modo destrutturato; di
qui la necessità di lavorare sull’individuazione, discussione e disseminazione di
alcuni principi di base: mi sembra indiscutibile come in Italia sia stata del tutto
assente – per almeno un decennio – una riflessione teorica sulla questione; e per
riflessione teorica intendo un’elaborazione tipica dell’ambito culturale, fuori dalle
tendenze relative alle piattaforme del momento e oltre il linguaggio e le logiche
commerciali che hanno invece presidiato e dato forma al settore.
Da queste premesse professionali e biografiche nasce un progetto che si incarna
in diverse iniziative che ho affrontato attraverso la prospettiva dell’attivismo
culturale. La prima è il concepimento della rubrica Musei e digitale, che curo dal
2017 per “Artribune”, pubblicata a volte sul magazine cartaceo, a volte nella sua
versione on-line, a volte su entrambe, quasi ad assecondare la natura del
contenuto. Durante le interviste ho rivolto alcune domande, intorno ai concetti
2

che ritengo fondamentali, a colleghi professionisti nel campo di musei e digitale,


nella convinzione che collazionare una pluralità di interpretazioni e contesti
potesse creare un’utile piattaforma di riflessione per tutti.
L’intento era, ed è, quello di creare un breviario collettivo di idee che consenta
la formazione, la circolazione e la messa in opera di letture critiche e di
esperienze in un campo che, certo, è ben lungi dall’essere sapere consolidato ma
che – forse sarebbe opportuno ribadirlo oggi – non si colloca nemmeno ai suoi
esordi, al momento t0, pre-storico. Ed è proprio dalle interviste che nasce la
prima idea di questo volume: ho creduto che la pubblicazione della loro raccolta,
nella versione integrale, spesso più lunga di quella pubblicata con “Artribune” per
semplici questioni di disponibilità di spazio, potesse costituire nel panorama
editoriale, in particolare modo italiano, una buona occasione per fornire l’accesso
a una pluralità di sguardi, mezzi, esperienze.
Il piano è poi cambiato, crescendo e articolandosi su sollecitazione di Luca Dal
Pozzolo, che dirige questa collana. Luca mi ha chiesto di espormi di più. Mi
sono sentita in qualche modo chiamata a rispondere alla domanda: “Come si
costituisce il bagaglio di competenze sulla storia di musei e digitale?”. Mi sono
dunque convinta a prendere il coraggio necessario per scrivere le riflessioni che
ho maturato e condividerle, confortata dal bagaglio di anni di esperienze e
intenzionata a inframmezzarle, arricchirle e corredarle con le risposte dei
professionisti operanti a livello internazionale e nazionale: mi sarebbe
dispiaciuto, per il valore che hanno, consegnarle all’effimero.
L’ascolto dell’insieme di voci, diverse per collocazione geografica, istituzione,
formazione, è poi interpretato alla luce della mia esperienza professionale nei
musei, della ricerca di pratiche esemplari come docente universitaria della
materia e della continua attività di osservazione e ricerca sui social network, che
ritengo una fertilissima fonte di informazioni sui musei; per anni forse l’unica a
fornire una finestra che consentisse di essere attenti e aggiornati anche sul
contesto internazionale.
Si è trattato in gran misura – come spesso mi capita – di una costruzione di
connessioni fra libri di diversa natura, diffusione, notorietà e tono, narrativa
compresa; attraverso una larga varietà di interpretazioni del mondo ho cercato di
individuare un filo rosso che potesse costituire un appiglio, non strettamente
disciplinare o accademico, per cercare di restituire la trama della complessità
entro cui provare ad accogliere l’opportunità del digitale, e insieme della cultura
che il digitale ha prodotto al museo, ricollegandole. Mi sono sorpresa a trovare
inaspettatamente quel filo fra le pagine più disparate, che mi accompagnano da
tempo. Per dirla con Salvatore Veca, “anche l’esplorare le connessioni è, alla fine,
una pratica intellettuale che induce ad acquisire prospettive inedite e inaspettate,
immergendo i nostri oggetti abituali in un intorno di possibilità”. 3

Non a caso, l’ultima domanda di ogni intervista chiede al mio interlocutore di


consigliare un libro ai colleghi, italiani o meno: ho trovato che i titoli segnalati
suggeriscano un percorso che rappresenta la misura di una grande ibridazione, in
un viaggio fertilissimo, molto simile al mio, che dell’ibridazione sono cultrice.
Aggiungo dunque sul tavolo della discussione e della riflessione, aperta al
contraddittorio, anche il mio contributo.

La premessa teorica
Sono convinta che il digitale sia stato la leva che ha messo davvero in discussione
in modo più profondo la funzione del museo di oggi e di domani, perché ha
forzato un interrogarsi su alcuni punti-chiave: chi ha voce? Chi sceglie che cosa
dire? Che cosa si può dire? Perché lo si dice? E infine, la grande domanda: qual è
il patrimonio? Tutto questo all’interno di istituzioni ancora in gran parte
ottocentesche e che, anche per questo, hanno contrapposto severe resistenze e
chiusure verso un approccio meno conservatore.
Insomma, tornando alla letteratura di settore, l’assunto di partenza del mio
lavoro è che soltanto ora, dopo più di quarant’anni, l’avvento del digitale abbia
drammaticamente dato corpo per davvero al museo forum in luogo del museo
tempio – per usare le note espressioni coniate da Duncan Cameron. 4

Per di più, il museo forum non sempre è necessariamente un edificio con una
collezione allestita. O non solo. Per dirlo con le parole di Amelia S. Wong,
i social media non pongono nuove questioni riguardo l’etica nella pratica museale, ma pongono con
forza domande persistenti su controllo, autorità, proprietà, voce e responsabilità in una dimensione che
è pubblica in modo molto diverso dalla pubblicità di quella fisica con cui i musei hanno secoli di
esperienza.5

Ben lungi dal doverci formare sulle fantomatiche potenzialità della realtà
virtuale, che lascerei a esperti del settore, siamo di fronte a domande culturali,
filosofiche, antropologiche, etiche, sociali e politiche correlate alla dimensione
del tempo e dello spazio, alla larghezza e al senso del fare cultura, dei processi
vari e profondi di smaterializzazione e disintermediazione che hanno riguardato
tanta parte dei nostri orizzonti quotidiani.
Per questa ragione il mio contributo non è affatto tecnico-specialistico,
mancando del tutto di un taglio tecnologico; ma vuole costituire una proposta di
approccio metodologico e storico-critico. Si tratta di un contributo consapevole
della propria incompletezza su molte dimensioni: d’altronde, l’allargamento
dell’orizzonte ad altre discipline e la riflessione sui casi non possono avere la
pretesa di essere onnicomprensivi o esaustivi, sia in termini bibliografici, sia di
affondi verticali.
E arriviamo quindi al secondo aspetto di complessità: chi e come costruisce la
formazione di un professionista museale preparato ad affrontare la questione in
tutte le sue larghissime necessità e ricadute? Solo per citarne alcune: la capacità di
mediazione interna e condivisione nell’ambito di istituzioni museali nelle quali i
professionisti sono formati su ben altri patterns disciplinari; una riflessione etica e
deontologica sulle regole e la policy nella relazione fra digitale e museo; una
riflessione sul senso dell’operare con il digitale e quindi sui suoi obiettivi e sulla
misurabilità.
Ho dunque evidenziato alcuni temi-nuclei centrali sui quali mi sono
interrogata nell’ultimo decennio: un modo pretestuoso per organizzare il
pensiero e lo scritto che si sono diramati entrambi da quella partenza. Troverete,
prima delle interviste, sette capitoli.
Il primo intende, da un lato, circoscrivere il discorso ai soli mezzi di
comunicazione o di valorizzazione dei musei, specificando che non è qui trattata
una serie di pratiche e temi che, pur avendo una stretta relazione con la rete e il
digitale, non ha direttamente a che vedere con questo ambito; dall’altro, si
propone di suggerire alcune domande in relazione all’area di digitale che stiamo
qui indagando, riferendosi a una selezione di titoli di studi, italiani e
anglosassoni, dai quali si possa partire in modo attuale e lucido per farsi un’idea.
Il secondo capitolo fornisce spunti critici in ambito culturale per sollecitare alla
riflessione su alcune fattispecie del ritardo e della resistenza, molto italiana, al
digitale a confronto con le vocazioni, i manifesti e le attitudini della cultura
digitale. Il percorso propone un’analisi della narrativa e della saggistica pubblicata
nel mercato italiano e anglosassone, come cartina di tornasole a riguardo.
Segue una disamina che individua alcune aree rimaste scoperte nell’avvicinarsi
delle istituzioni culturali ai social network: qualche riflessione etica – e non solo –
sull’equilibrio fra voce personale e voce istituzionale, sulle regole basate su casi,
errori, vuoti normativi ed eccessi di pratiche note e meno note.
Il capitolo quattro è dedicato alla collezione on-line, cuore del sito di un
museo, e ad altre necessità o lacune comunicative, legate alla trasparenza,
all’accountability, alla sostenibilità finanziaria ed energetica, alle loro ragioni
d’essere o meno sul sito web (e quindi alla necessità di acquisire una dimensione
pubblica) di un museo, e persino alla logica di disseminazione in rete fuori di
esso.
Le pratiche partecipative, digitali e non, che hanno una ricaduta significativa
sul modo di allestire e comunicare il museo sono l’oggetto del capitolo cinque,
che attraversa, con un excursus storico, casi americani e una lucidissima
esperienza italiana di vero scambio sui significati, quello del Museo Egizio di
Torino nel 2019. Mi auguro che quest’ultimo sia il caso in grado di generare
grande seguito e imitazioni ed esempi, senza tema di rischi.
La relazione fra digitale e bambini – o ragazzi – è stata terreno dei più vani e
vaghi stereotipi dal sapore apocalittico e, nel contesto specifico dei musei, ma
non solo, ha generato reazioni di particolare veemenza e povertà di argomenti.
Per questa ragione ho dedicato al tema qualche considerazione che si incentra,
come altrove nel volume, sulla questione delle domande da porre, sulle risposte e
sugli studi esistenti in una prospettiva storica e, ancora, sull’individuazione di
valide pratiche e voci-guida.
In ultimo, ho affrontato il grande tema della misurabilità, caratteristica
endogena al digitale, sulla quale si sono di frequente appuntate domande, attese e
aspettative spesso mal poste o con conseguenze negative.
Voglio chiudere con un omaggio a una scrittrice alla quale ho pensato spesso
mentre, dal tavolo della mia cucina, lavoravo al volume: Brunella Gasperini, che
difendeva in casa il proprio lavoro di autrice da figli e animali domestici con
cartelli quali “Non rompetemi il filo”, o “È difficile domare una scrivania”.
Scrisse anche – quanto la capisco – un ipotetico testo per la sua lapide:
Viaggiò tutta la vita
intorno a un tavolo
senza mai combinare
un cavolo.

Mi sia consentito chiudere con un inchino al suo spirito e alla sua leggerezza,
ma anche, doverosamente, alla rete: girando intorno al tavolo della mia cucina
ora si arriva davvero ovunque.
1
I racconti delle donne, a cura di Annalena Benini, Torino, Einaudi, 2019, p. 60.
2
Ringrazio fin da subito Marco Enrico Giacomelli, e con lui “Artribune”, per la fiducia accordatami e la
sempre piacevole collaborazione.
3
Salvatore Veca, Il senso della possibilità, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 31.
4
Cameron Duncan, The Museum, a Temple or the Forum, “Curator”, 14 (1971), 1, p. 11-24.
5
“Social media does not pose new questions about ethical museum practice, so much as it recasts
enduring questions about control, authority, ownership, voice and responsibility into a realm that is public
in quite different way than the physical one with which museums have centuries of experience”, traduzione
mia; Amelia S. Wong, Ethical Issues on Social Media in Museums. A Case Study, “Museum Management and
Curatorship”, 26 (2011), 2, p. 98.
1. UNA TASSONOMIA DEL DIGITALE: DI CHE COSA PARLIAMO
QUANDO PARLIAMO DI DIGITALE E MUSEI

Mi avvicino al tema attraverso una nota autobiografica: ho avuto e ho la fortuna


di insegnare in diverse università e corsi, per studenti laureandi o in master e
scuole di specializzazione post-laurea. Mi dedico, con un portato preciso, a un
ambito tematico che potremmo descrivere come un discorso, casi alla mano, sulla
messa in questione dell’intersezione fra musei e digitale attraverso una lettura
culturale, non tecnica.
Ho visto crescere il numero di istituzioni universitarie, di corsi, di ore dedicate
al tema, e posso testimoniare che, nell’arco di meno di un decennio, l’interesse è
cresciuto sensibilmente ed esponenzialmente, almeno in termini quantitativi:
segnale che io leggo come positivo, di apertura dell’“accademia” nei confronti di
pratiche e strumenti che si sono fatti strada da soli, e che hanno – a volte
indispettendo la tradizionale formazione umanistica – preteso attenzione e
spazio.
L’introduzione dei corsi nei piani di studio, tuttavia, non è stata preceduta da
una fase di riflessione teorica che, invece, avrebbe dovuto essere affrontata e che
potrebbe essere individuata come “il nome delle cose”, a definirne struttura,
sfumature e obiettivi. Le ragioni sono molteplici: una di queste certamente è
identificabile nel fatto che si è verificato una sorta di paradosso, un “effetto
Dunning-Kruger”: come descritto magistralmente da Stefano Bartezzaghi, “le
competenze che servono per giudicare a proposito di una materia sono le
medesime necessarie per conoscerla; di conseguenza meno so, meno sono
consapevole di non essere titolato in merito”. 6

Credo si possa, fuor di polemica ma certamente semplificando, dire che chi


aveva un minimo di competenze se le era costruite sul campo facendosi domande
e interrogandosi, ma non aveva voce o peso accademico; chi quel peso
accademico o museale lo aveva mancava di dimestichezza con i confini della
materia o con la sua consistenza in generale, e specificatamente sul versante
culturale: fase peraltro non archiviata storicamente, ma che continua a
manifestarsi anche nel presente in diverse fattispecie.
Lo rileva del resto anche un recente studio a cura Jane Finnis, Let’s Get Real sul
versante museale:
Per molte organizzazioni culturali il mondo on-line e gli strumenti digitali sono ancora insoliti e
sconosciuti. Esse sono consapevoli del gap fra loro stesse e le persone che, spesso più giovani, si sentono
sicuri usando questo nuovo linguaggio.7

Risultato di questo “scarto”, o meglio delle varie distopie sommate, è che i corsi
universitari che ho tenuto e tengo hanno avuto nel corso del tempo le
intitolazioni più disparate: Digital Humanities, Museologia e comunicazione,
Digitale per i musei, e infine, all’Accademia di Brera, Multimedialità per i beni
culturali. Quest’ultimo approccio – un po’ fine anni Novanta – mi ha reso
evidente e confermato come manchino le parole per connotare in maniera
pertinente un intero ambito. 8

Naturalmente la mancata “etichettatura” corrisponde a, o meglio deriva da, una


profonda vaghezza nella definizione di contenuti e intenzioni didattiche di tali
corsi, nelle domande alle quali i corsi stessi vogliono dare risposte (per non
parlare del destino professionale degli studenti ai quali sono dedicati). Tali linee
sarebbero state da negoziare con lungimiranza a un tavolo congiunto fra
professionisti museali e accademia, e non solo.
Come dice Luca Dal Pozzolo:
Mai si insisterà abbastanza sulla necessità di promuovere un lavoro e una ricerca congiunta di esperti del
patrimonio, esperti di multimedialità e prodotti digitali, per evitare spettacolarizzazioni virtuosistiche
su scialbi contenuti e pedissequi database più respingenti di sussidiari degli anni Cinquanta squadernati
in una vetrina.9

In un paio di buone occasioni di convegni, in particolare Museum Digital


Transformation a Firenze nel 2017 (ci torneremo più avanti) e Museum at the
“Post-Digital” Turn presso le Officine Grandi Riparazioni a Torino nel
novembre dello stesso anno, ho realizzato come ancora manchi una riflessione
critica e sistematica sul tema, tanto che si affronta il post digital senza ancora aver
compreso e definito la portata del digital turn.
Potrà forse sembrare banale, ma c’è bisogno di fare ordine. C’è necessità di una
sistemazione tassonomica e di un vocabolario che sappia distinguere ambiti e
questioni molto diverse. Enucleiamo qui, pur semplificando, le aree esistenti:

La prima funzione del digitale è al servizio della più tradizionale


missione del museo: la conservazione. Mi riferisco alla produzione di
documentazione a scopo archivistico e conservativo e alla diagnostica, ad
esempio attraverso TAC e radiografie: insomma la digitalizzazione di
ogni oggetto della collezione e della sua storia conservativa e di curatela,
organizzata in record specifici. Un livello più complesso, ma in qualche
modo afferente a questo ambito, è il caso della documentazione
dell’effimero, l’operazione di fermare nel tempo l’immaterialità delle
performances, ad esempio, e di renderle riproducibili: si pongono qui
naturalmente alcune domande di natura etico-deontologica. Un’arte
creata per essere vissuta in un momento, in relazione corporea e di spazi
con chi da spettatore la condivide, viene rispettata condividendo la sua
versione filmata e riproducibile? Insomma passare attraverso la porta ai
cui lati stanno due persone nude, come in Imponderabilia, messa in scena
da Marina Abramovich e Ulay per la prima volta a Bologna nel 1977, è
come vedere qualcun altro passarci in un video? 10

Un ambito non così recente quanto si pensi, dato che i suoi esordi sono
collocati negli anni Settanta, è legato all’arte digitale, a quell’arte cioè
che nasce utilizzando strumenti digitali e/o se ne serve per il suo
allestimento e la sua fruizione. Pur indubbiamente contigua, alla
dimensione e al mondo del digitale (anzi ne costituisce un
imprescindibile agente dirompente), la “new media art” costituisce un
ambito specialistico e specifico. Rimando ad altri aggiornati e completi
scritti su arte digitale (in particolare la sesta parte del volume Museums
and Digital Culture). 11

Veniamo dunque al digitale utilizzato come strumento e canale per la


valorizzazione, la comunicazione e soprattutto l’ascolto e la
partecipazione, in tutte le sue estensioni, come l’innesco di un processo
che ha messo in discussione schemi tradizionali di organizzazione e
strutturazione del museo, in qualche modo ancora da metabolizzare.

In questo volume ci concentreremo solo su quest’ultimo ambito che, seppure


così circoscritto, resta ampissimo. Sono convinta che ciascuno di questi ambiti
costituisca campo sufficiente per una vita intera di ricerca.
Mentre concepivo questo scritto mi è venuta in soccorso la pubblicazione del
lavoro su Musei e media digitali di Nicolette Mandarano, che ha proficuamente
12

individuato categorie ed esempi di strumenti digitali di comunicazione e


valorizzazione, nonché di audience engagement; l’autrice fa seguire a un sempre
utile excursus storico una prima proposta di tassonomia categorizzando gli
elementi in base al luogo di utilizzo: strumenti on-site e strumenti on-line.
Fra gli strumenti on-site l’autrice colloca totem e tavoli multimediali, app,
prodotti con realtà aumentata, realtà virtuale e realtà mista, video-mapping,
chatbot e videogiochi; fra quelli on-line i siti web dei musei, i canali sociali delle
istituzioni e quelli, come TripAdvisor, nei quali i visitatori esprimono un proprio
giudizio in merito al museo e all’esperienza che vi hanno condotto, nelle sue varie
sfaccettature. Un affondo preciso, con la presentazione di casi e ampia
bibliografia. La pubblicazione di questa vera e propria “bussola” consente – una
volta acquisiti – di scostarci da questi presupposti per avvicinarci al tema tramite
altri punti di vista e di interrogarci attraverso altri schemi.

1.1 Altre strade e proposte


Sono possibili altri approcci: ne prenderemo in esame due in particolare, che ho
trovato utili, i cui percorsi sono stati del tutto casualmente molto vicini per
metodo a quello utilizzato da chi scrive: costruzione teorica, casi, interviste,
domande; non necessariamente in questo ordine.
Faccio riferimento a due lavori in particolare: quello di Susana Smith Bautista,
Museums in the Digital Age. Changing Meanings of Place, Community and Culture,
che comprende un’introduzione metodologica e la presentazione di cinque casi,
con 30 interviste allo staff dei medesimi cinque musei (edito per la prima volta
nel 2014); e quello di Ana Luisa Sánchez Laws, Museum Websites & Social
Media. Issues of Participation, Sustainability, Trust and Diversity, edito nel 2015,
con uno schema simile: teoria, pratica e casi.
13

Li ritengo importanti perché sono due i concetti o parametri che hanno


sradicato la prospettiva precedente: quello di spazio (che è indissolubilmente
legato al concetto di comunità) – sul quale ha riflettuto molto Bautista – e quello
di partecipazione, che ha un ruolo ineludibile nella progettazione del museo
dedicato al visitatore – cuore delle valutazioni della Sánchez Law. I titoli dei due
lavori segnano di per sé un cambio di passo, individuando ed evidenziando già a
partire dalla copertina concetti e nodi legati all’agire digitale in museo. In primo
luogo: place, community, partecipation, che come abbiamo detto costituiscono le
chiavi di volta fondamentali; quindi sustainability, trust, diversity, temi che
torneranno più avanti in queste pagine. Bautista esamina i suoi casi rispondendo
in particolare a tre domande cardine:

come e con quale obiettivo i musei d’arte si stanno relazionando alla


tecnologia (tema che ci accompagnerà per tutto il volume)?
quale relazione hanno la comunità on-line e quella fisica? E quindi,
quale ruolo ha il luogo (che lo si indichi come place o space) nell’era
digitale?
come può la tecnologia aiutarci a capire i nostri pubblici e a
massimizzare l’engagement?

Nella sua premessa sono interessanti due presupposti: uno definisce – per me
sorprendentemente – un limite; cioè confina il terreno della sua analisi al solo
museo d’arte, e l’altro allarga, apre a un ruolo dell’arte che asservirebbe la cultura
intesa in senso ampio, che comprenderebbe festival di musica o di film, concerti,
fiere dedicate al cibo.
14

La studiosa definisce il proprio metodo Digital Ethnography e lo esplicita come


un’analisi condotta all’interno e sull’esterno del museo; per comporre la sua
lettura si interroga appunto lo spazio fisico come quello on-line; i programmi
permanenti o ricorsivi e quelli solo temporanei e la relazione sia con la comunità
locale, sia con quella globale, in contatto tramite la rete.
Per seguire il filo rappresentato dal valore dato allo spazio è importante
sottolineare come la cornice più opportuna per comprendere il digitale nel
rapporto con i musei sia quella dello spostamento della museologia tout court (e
direi non solo) su parametri quali place, community, culture, technology, invece che
sull’oggetto della collezione e la sua musealizzazione.
Il parametro place, si sottolinea, è cambiato nella contemporaneità
caratterizzata dalla separazione dei concetti di luogo e spazio, e dalla
proliferazione dei non luoghi di Marc Augé. Bautista propone la lettura di
15

Marita Sturken, secondo la quale “la postmodernità si porta con sé il concetto di


non luogo, in continuità con il moderno senso dello spazio, che viene però
compresso, attraversato, rimosso dai luoghi reali” tanto da proporre un parallelo
fra place ed experience, in armonia con il pensiero di Clifford, secondo il quale “un
luogo è più un itinerario che uno spazio con confini, è una serie di incontri e
traduzioni, spostamenti”. 16

In questa scia, la definizione di museo come luogo di contatto data da Clifford


non risulta nient’affatto controversa se applicata al museo “espanso” nella sua
dimensione digitale, ove anche la comunità di riferimento, grazie agli strumenti
offerti dall’evoluzione tecnologica, assume una molteplicità di livelli di distanza e
di interazione, tante quante sono le estrazioni culturali, le differenze di registro
accoglibili e i contenuti condizionati specularmente dalla relazione con portatori
di esigenze, significati e relazioni dissimili.
In una lezione on-line, nella quale Sree Sreenevasan anticipava i cambiamenti
che sarebbero avvenuti sul sito web del Metropolitan Museum di New York, il
responsabile del Digital Department dichiarava che il museo si pensava espresso
in “quattro sedi”, la principale sulla Quinta Avenue, il Met Cloister, il nuovo
Met Breuer dedicato all’arte contemporanea e, come quarta, proprio il sito web
del museo.
Sanchez Laws compie qualche passo oltre, fin dal primo capitolo del suo
lavoro. La studiosa mette in relazione a partire dagli anni Sessanta-Settanta a
oggi il modello di comunicazione in auge da McLuhan e Cameron fino a Nina
Simon, ma con il focus dell’attenzione del museo, spostato definitivamente
dall’istituzione-collezione al visitatore, in una mescolanza di sguardi, citazioni,
snodi tali da individuare in questo composito “testo” un momento apicale dei
Museum Studies contemporanei.
La lettura della relazione tra la museologia e le sue oscillazioni è resa molto
complessa, come del resto di fatto è, se si pone l’accento non sul luogo, bensì sul
tema della partecipazione alla produzione della cultura.
L’affondo della Sánchez Laws sul tema dei social network è significativo:
segnala come nel 2005, ancora, per i musei rappresentati e riuniti alla Museum
and the Web Conference, fosse dato per assodato il bisogno di avere un sito web,
ma che l’esposizione sui social network fosse invece ancora vista come
“eccessiva”.
La relazione con la tecnologia incarna ed esplicita, anche inconsapevolmente, le
resistenze e le difficoltà della storia fra museo e digitale; nello studio della
Sánchez la classificazione proposta per i siti web è realizzata sulla base del
“contenuto strategico” prevalente e rivelatore: li divide in institution-oriented,
collection-oriented, user-oriented, in un crescendo di riconoscimento al contributo
della comunità da ininfluente a centrale: anche questo mi pare un passo avanti
verso una tassonomia che diventa rivelatrice di una consistenza strategica.
L’accettare la necessità di avere uno spazio sul web non porta necessariamente
con sé la conseguenza di pensarlo come un luogo anche di ascolto e, quindi, di
partecipazione. 17

Il cambio di modello di comunicazione da emettitore singolo versus molti


riceventi a quello tipico, teoricamente più orizzontale, del cosiddetto web 2.0 ha
trasformato il museo – seppur con tempi lunghi rispetto alla riflessione teorica
della Nuova Museologia di Huges de Varine – da luogo del sapere indiscusso a
luogo ove la conoscenza può essere contestata e negoziata. L’inizio della critica
alla voce del museo come unica autorevole e legittimata a intervenire in merito
alle collezioni, riconosce a ciascuno la possibilità di avere voce, di godere
dell’opportunità di partecipare attivamente alla costruzione della cultura. 18

Il fatto che i visitatori (o gli utenti) possano scambiarsi in rete informazioni, in


assoluta autonomia rispetto all’emettitore-istituzione, ha posto la gerarchia
tradizionale del museo di fronte a una sfida. La Nuova Museologia, con il
determinante contributo strumentale dell’avvento del digitale, ha riconosciuto il
fatto che i musei offrano interpretazioni professionali, non verità assolute; che i
punti di vista che vengono applicati nello schema classificatorio del
riconoscimento del valore non sono gli unici esistenti, e sono comunque figli
della Storia: la sfida da affrontare è, quindi, utilizzare gli oggetti non per
consolidare visioni ma per dare mobilità alle rappresentazioni del mondo che,
confrontandoci con esse, siamo in grado di costruire, per il passato e per il
presente.

1.2 Il digitale per quale museo: luogo e partecipazione


Mi preme in apertura di questo percorso fare il punto su “quale museo”. Negli
scritti e negli interventi ai convegni ho visto distinguere nettamente il caso del
museo “storico-artistico” da quello dei musei “altri”, quali musei della scienza,
musei archeologici, musei etnografici, musei di storia naturale e via dicendo. Nei
pensieri che seguiranno, e in tutto il volume, ho tenuto presente il museo come
tipo di istituzione caratterizzata da una missione precisa, a prescindere dal tipo di
collezione e dalla vocazione disciplinare in senso stretto.
La mia pretesa di allargare lo sguardo si basa su diversi argomenti. Uno di
questi è prettamente museologico: non ritengo che i musei d’arte costituiscano
tout court un mondo a sé, con istanze proprie; credo che vedere nei “capolavori”
dell’arte una testimonianza, certo particolare, ma sempre come testimonianza,
apra a passaggi di senso e significato culturale più fertili. Ho già avuto modo di
scrivere che una delle grandi domande, spesso inevasa o addirittura non posta,
dovrebbe incentrarsi su quale lezione, quale insegnamento desideriamo che il
museo lasci al visitatore:
Intendiamo il museo come uno strumento per fare didattica in pillole sulla disciplina che quella
specifica istituzione rappresenta o sull’esito dell’utilizzo di tale disciplina? O tramite l’esito di quella
disciplina, e a prescindere dalla conoscenza di quella, che è sempre e solo strumento, si punta oltre […]?
Il passaggio di un visitatore in un museo storico-artistico lo renderà, via via, più edotto come in un
percorso formativo diacronico e destrutturato come storico dell’arte? Saprà qualcosa di metodi
attributivi, di linguaggi tecnici, di tecniche artistiche, di iconologia, di conferme documentali?19

La risposta a questa domanda, nell’esibita e condivisa pretesa di rendere il


museo comunque sia contemporaneo, è ovviamente negativa. Tale attitudine si
intreccia – e si potenzia terribilmente su questa categoria di musei – con la
retorica della grande bellezza; grande bellezza che non intendo affatto qui
disconoscere in sé. Vorrei solo prendessimo atto collettivamente del fatto che
questa non può essere valore unico sufficiente a dare senso al pensiero e agli
obiettivi culturali per tutti i generi di musei. Anzi, ritengo persino sia
potenzialmente rischioso, se indicato come dominante il solo valore storico-
artistico, estetico, a definire una sorta di differenza intrinseca, di gerarchia di
valore fra i musei, le storie, gli oggetti.
Sarà che – essendo archeologa medievista di formazione – ho amato molto le
storture delle epigrafi alto-medievali, asimmetriche, incise con segno irregolare,
con il testo che, solo a un certo punto della linea viene quasi sorpreso dal limite
della superficie lapidea, e si affanna, e si accavalla, e inventa soluzioni per
raggiungere il suo scopo prima del burrone. Le ho amate tanto perché nella
sequenza storica, nella linea del tempo e nel distribuirsi nello spazio, quelle
epigrafi parlano di una grande frattura, quella fra il mondo romano e ciò che lo
ha seguito, del tentativo e del bisogno di rifarsi a modelli in qualche modo
perduti, non replicabili per competenze tecniche, ma ben presenti nel loro
significato simbolico.
In questo senso ritengo esemplare il racconto del preziosissimo Museo
Guatelli, fatto dalla voce stessa del suo fondatore, il quale raccolse 60.000 oggetti
perché rimanesse viva la “lezione delle cose”; in un passaggio, entrando nella
camera dove ha esposto numerose scatole di latta, Ettore Guatelli dice:
[È] la camera della grafica, delle insegne, del piacere di guardare […]. Ho cominciato a raccogliere le
scatole perché mi davano la testimonianza di fabbriche che non c’erano più; guardando le scatole mi
dicevo […] ma guarda questa fabbrica non c’è più; mi è venuta la voglia di documentare l’attività
industriale inerente al pomodoro. Poi, da una […] deriva l’altra: le vedevi belle, ti piacevano, e poi
c’erano altre attività da testimoniare […] così la faccenda si è allargata e sono andato a finire nella
bellezza grafica, della pubblicità; vorrei che chi viene qui potesse trarre dei suggerimenti. Quindi più è
vasta la gamma dei suggerimenti e più il mio scopo si realizza.20

Ci torneremo più avanti, in relazione alla funzione di nutrimento creativo del


museo.
Ho proposto questa digressione museologica e museografica per introdurre una
riflessione che ho fatto sul tema dopo aver ascoltato l’intervento del direttore
James Bradburne alla conferenza fiorentina citata in precedenza. Lucido 21

pensatore e brillante oratore, Bradburne ha esordito con un distinguo netto – in


tema di applicazione degli strumenti digitali – fra il museo rappresentato dalla
Pinacoteca di Brera e – per esempio – un museo di storia naturale. La qualità
degli oggetti da vedere costituirebbe un distinguo: davanti a un Caravaggio
sarebbe un errore offrire uno schermo che dia accesso a informazioni tramite il
digitale perché questo porterebbe in un’altra dimensione, e interromperebbe
l’engagement con l’opera in un momento sbagliato; la didascalia invece, si 22

inserirebbe nella medesima dimensione spazio-temporale a raggiungere


l’obiettivo, far “vedere di più” e meglio. Sono certa facesse riferimento all’utilizzo
del device come filtro tra visitatore e opera, come accessorio per la realtà
aumentata o virtuale; perché l’oggetto della comunicazione, la didascalia, non
cambia la sua efficacia, mutando il supporto tramite il quale è veicolata. La mia
stima per James Bradburne è altissima e mi sono quindi fermata a pensare molto
ad alcuni passaggi; lo ritengo del tutto sincero quando dice di non avere nessuna
resistenza aprioristica nei confronti degli strumenti digitali, come del resto la sua
esperienza attesta, anche nell’ultimo incarico alla Pinacoteca di Brera,
testimoniata dalla svolta che ha impresso al sito web dell’istituzione; ed è ancora
nel giusto quando evidenzia la pressione commerciale alla quale i musei sono
sottoposti nella direzione della realizzazione di prodotti digitali.
Ma sono assolutamente convinta che il suo lavoro innovativo sulle didascalie, a
Brera come a Palazzo Strozzi, sarebbe arricchito piuttosto che depauperato da
una diffusione partecipativa e da interventi corali, come del resto ha fatto
accadere per via analogica per ragazzi, storici, scrittori. Insomma se potesse
arrivare fuori dal suo spazio in via Brera attraverso il digitale.
È presumibile che la difficoltà maggiore sia di carattere gestionale e sia
direttamente in relazione alla carenza di risorse: in tali condizioni, la “pressione
commerciale” spinge spesso ad affidarsi a professionisti esterni al museo; questi,
per quanto “tecnicamente” capaci e preparati, non potranno mai essere i
depositari della misura strategica, dell’interpretazione personale del digitale nel
museo. Anzi.
Mi sia permesso fare una riflessione ancora “tassonomica”, e per certi versi,
forse rischiosamente stereotipata: il museo d’arte tradizionale mi sembra avere
fatta molta più fatica ad affrancarsi da una tradizione di studi antica, legata a un
approccio storico artistico rigoroso, indirizzato a dare certezze; gli altri musei più
poveri di “grande bellezza” ai quali non ci si avvicina con ossequiosità mistica,
hanno avuto e hanno molta più naturalezza nel condurre la negoziazione sulla
struttura di restituzione dei significati (ad attribuirne e ricostruirne).
Sembra avere passo più agile in merito anche il museo di arte contemporanea,
forse anche per contiguità storica con i mezzi digitali: i casi italiani quali il
Museo MAXXI di Roma e la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo sembrano
confermarlo. Caso antesignano di precocissimo utilizzo del web partecipativo fu,
non a caso, la Tate di Londra, che lanciò nel 1998 un sito web che offriva
l’opportunità di chattare e partecipare a forum on-line; tornando invece a musei
23

di altri ambiti disciplinari, è il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia


di Milano l’unico esempio italiano citato nel volume della Sánchez per una
sperimentazione sulla creazione della realtà virtuale nell’ormai lontano 1999. 24

Ampliando ancora lo sguardo dal punto di vista museologico, è opportuno fare


riferimento a musei che hanno avuto una genesi molto diversa dall’idea di
collezionismo, primo fra tutti il Museo dell’Innocenza, nato dalla letteratura, dal
racconto su carta di Orhan Pamuk e dal suo saggio L’innocenza degli oggetti, che
ne rappresenta il manifesto. O ancora, in una variante partecipativa, il Museo
25

delle Relazioni interrotte, a Zagabria. Li metto in connessione perché sono casi


26

nei quali la dimensione di “servizio” degli oggetti, al cospetto del racconto, è


eclatante a prescindere dal loro valore.
Le voci che sono dotate di grande consapevolezza su questo tema sono ancora
una volta quelle ibride, di formazione non propriamente “classica”; Sebastian
Chan (intervistato nel paragrafo 8.2), citato dalla Sánchez Laws, dice che i musei
potrebbero guardare al destino delle biblioteche che si sono adattate più di
vent’anni fa, a essere “servizio” e non “collezione”, in qualche modo a “garanzia”
della tenuta della propria, pur aperta, autorità.

1.3 Quale digitale per il museo: l’asse del tempo


La riflessione strategica mancante, allora, è relativa a ciò che i colleghi
anglosassoni chiamano visitor’s journey: la concezione, l’articolazione e la
declinazione degli strumenti che tengano presente la collocazione sull’asse del
tempo – incrociata con la dimensione dello spazio – nell’utilizzo dei mezzi; il
prima, il durante e il dopo rispetto alla visita fisica in museo (o anche, come
vedremo, il mai). Dice Catherine Devine:
Capire il visitor’s journey significa anche comprendere che l’esperienza del visitatore non comincia e non
finisce con la visita fisica al museo. La sua esperienza comincia prima che si giunga al museo, continua
durante la visita e si allarga a dopo che ha lasciato l’edificio. Inizia con l’informazione su cosa aspettarsi,
con l’organizzazione e la scoperta. Non termina certo quando il visitatore se ne va.27

Se desideriamo che il visitatore possa conoscere (e io lo spingerei al piacere


rassicurante del ri-conoscere) i contesti, le opere e gli oggetti, ogni momento può
avere i suoi contenuti calibrati per quella “fase” del suo viaggio. E non solo sulla
linea del tempo, ma articolando ogni contenuto in numerose sfumature sulla
linea di significati. Lasciando così al visitatore lo spazio per esprimersi attraverso
una selezione in base ai propri interessi.
Il museo è uno spazio riconosciuto come straniante per i più, “il passato è un
terra straniera” dice James Clifford in Strade. La ragione di questo sentirsi in
28

terra straniera risiede, almeno in parte, nel fatto che le testimonianze che ci
troviamo a fronteggiare sono state selezionate come significative in un certo
tempo, da qualcuno, con una certa intenzione e competenza. Spesso però questo
passaggio fondamentale è dato per scontato o passato sotto silenzio. Ma
aggiungiamo, come ribadisce – realisticamente – Nancy Proctor nell’intervista
nel paragrafo 8.2 che, in ogni caso, il pubblico più numeroso in assoluto sarà
quello che non verrà mai fisicamente in museo, per una questione di contiguità
territoriale e di mezzi a disposizione, tra i quali includerei oltre a quelli finanziari
anche l’età e lo stato di salute. Perché non declinare il digitale, quindi, che può
colmare e contenere il disorientamento e allargare punti di vista e potenziale
accessibilità?
Mi collego a questo concetto per fare un passo sul tema scottante della
riproduzione on-line delle opere, a bassa o alta risoluzione (vi torneremo nel
capitolo quarto). Credo sia giunto il momento di superare la paura ancestrale e
preconcetta secondo la quale l’immagine dell’opera riprodotta e fatta circolare
digitalmente sottrarrebbe attenzione e pubblico all’incontro con la medesima
opera “in carne e ossa”, fisicamente, nell’allestimento. A guardare senza
29

preconcetti la questione del bisogno essenziale del contatto fisico con l’opera, la
verità è che per i più l’incontro primo con l’aspetto delle opere è avvenuto nel
corso dell’ultimo secolo grazie a un’immagine fotografica, stampata, in una
monografia, o anche di quel tipo piccolo, spelacchiato (a volte persino in bianco e
nero), ancora ampiamente in uso nei manuali di storia dell’arte di ogni ciclo
scolastico. E non per responsabilità di un sito web, dunque.
Le immagini delle opere a disposizione ora sono diffuse in tutto il mondo,
grazie alla rete, per chi visita e per chi non potrà visitare; colmano un vuoto di
informazione, sono un’opportunità di approfondimento quando sono in rete e
consentono a chi lo desideri di arrivare in museo con l’opportunità di ri-
conoscere, per vedere “di più” l’oggetto – impreziosito dal contesto e dalla
materia – e, a chi non potrà mai vederlo dal vivo, di averne un’idea più vicina al
vero. In entrambi i casi il digitale non danneggia, non sostituisce, non
allontanata, ma prepara, ricorda, richiama e collega.
La resistenza rispetto al digitale in museo mi sembra poi essere dimentica di un
paio di aspetti fondamentali: sappiamo che il tempo di sosta davanti a un’opera è
in realtà molto basso, quand’anche fossero, e sono rari, disponibili studi grazie ai
quali ci fosse dato conoscerlo nel dettaglio di ogni museo. È certo questo un
fronte sul quale lavorare, ma perché non consentire che, a posteriori rispetto alla
visita, non si possa tornare su di un’opera, una testimonianza, un dettaglio?
Consentire al visitor’s journey di essere in qualche modo circolare, e ricorsivo
rinsaldando da casa la relazione col museo? Segnalo che quand’anche il museo
scelga di non fornire contenuti digitali, lo può fare liberamente una terza parte,
sulla quale il museo non ha controllo né voce in capitolo. In realtà, proprio così è
cominciata tutta questa faccenda. Con il sito del Louvre messo on-line da uno
studente, Nicolas Pioch. E non solo: “Quando si può avere in tasca un’intera
30

enciclopedia” il museo è chiamato a dare di più in termini di distinzione ed


elaborazione dei contenuti. 31
6
Stefano Bartezzaghi, Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social network, Milano, Bompiani, 2019, p. 9.
7
“For many cultural organizations the on-line world and digital tools are still unfamiliar and unknown.
They are aware of the knowledge gap between them and those (often younger) individuals who feel fluent in
this new language”. Traduzione mia da Jane Finnis, Let’s Get Real Project. Report from the Second Culture24
Action Research Project-2016, disponibile on-line.
8
Riferisco come segnale di apertura davvero positiva, per la quale sono grata, che alla Scuola di
Specializzazione in Archeologia presso l’Università Cattolica di Milano il corso che mi è stato assegnato ha
tout court il cappello di Museologia e che ho l’onore e il piacere di condividere l’insegnamento con
Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino.
9
Luca Dal Pozzolo, Il patrimonio culturale fra memoria e futuro, Milano, Editrice Bibliografica, 2018, p.
150-151.
10
https://www.artribune.com/television/2017/07/video-abramovic-ulay-imponderabilia-performance.
11
Tula Giannini, Jonathan P. Bowen, Museums and Digital Culture. New Perspective and Research, Cham,
Springer, 2019.
12
Nicolette Mandarano, Musei e media digitali, Roma, Carocci, 2019.
13
Susana Smith Bautista, Museums in the Digital Age. Changing Meaning of Place, Community, and Culture,
Lanham (Maryland), Altamira Press, 2014; Ana Luisa Sánchez Laws, Museum Web Site & Social Media.
Issues of Participation, Sustainability, Trust and Diversity, Berghahn, New York, 2015.
14
Susana Smith Bautista, Museums in the Digital Age, cit., p. XVIII.
15
Marc Augé, Non luoghi, Milano, Eleuthera, 2018.
16
Susana Smith Bautista, Museums in the Digital Age, cit., p. 11; quest’ultima cita Marita Sturken,
Mobilities of Time and Space. Technologies of the Modern and the Postmodern, in Technological Visions. The
Hopes and Fears that Shape New Technologies, a cura di Marita Sturken, Douglas Thomas e Sandra J. Ball-
Rokeach, Philadelphia, Temple University Press, 2004. James Clifford, Routes. Travel and Translation in the
Twentieth Century, London, Harvard University Press, 1997 (traduzione mia).
17
Ana Luisa Sánchez Laws, Museum Web Site, cit. p. 43-45.
18
Ivi, p. 30-36.
19
Maria Elena Colombo, Un museo per cosa? Quali i confini? pubblicato su https://www.che-
fare.com/maria-elena-colombo-un-museo-per-cosa-quali-i-confini.
20
https://www.youtube.com/watch?v=k_YV2KTZxQ0.
21
Museum Digital Transformation, Firenze, 2017.
22
La didascalia è un campo di grande attenzione e innovazione da parte di Bradburne sia a i tempi di
Palazzo Strozzi (si veda Maria Elena Colombo, La vita delle opere e l’esigenza di una riflessione critica sul
digitale, in Comunicare il museo oggi. Dalle scelte museologiche al digitale, Milano, Skira, 2016, p.377-385); sia
alla Pinacoteca di Brera (si veda Intervista a James Bradburne a cura di Maria Elena Colombo, in Senza
titolo. Le metafore della didascalia, a cura di Maria Chiara Ciaccheri, Anna Chiara Cimoli e Nicole
Moolhuijsen, Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2020).
23
Ana Luisa Sánchez Laws, Museum Web Site, cit., p. 27.
24
Ivi, p. 2.
25
Orhan Pamuk, L’innocenza degli oggetti, Il Museo dell’innocenza, Istanbul, Torino, Einaudi, 2012.
26
https://brokenships.com; si veda Olinka Vistica, Drazen Grubisic, Il museo delle relazioni interrotte. Ciò
che resta dell’amore in 203 oggetti, Milano, Mondadori, 2018.
27
“Understanding visitor’s journey also means understanding that a visitor’s experience doesn’t start and
end with a physical visit to the Museum. The visitor’s experience starts before they arrive, exists during the
visit and extends after they leave. It starts with anticipating, planning and discovering. The experience
doesn’t end when the visitor leaves”, Catherine Davine, The Museum Digital Experience. Considering the
Visitor’s Journey - MWA2015: Museums and the Web Asia 2015,
https://mwa2015.museumsandtheweb.com/paper/the-museum-digital-experience-considering-the-visitors-
journey. Traduzione mia.
28
James Clifford, Routes. Travel and Translation in the Twentieth Century, London, Harvard University
Press, 1997.
29
Ana Luisa Sánchez Laws, Museum Web Site, cit., p. 11.
30
Ivi, p. 1; Nicolette Mandarano, Musei e media, cit.
31
“Once e visitor carries a full searchable encyclopedia in their pocket […] the whole idea of a ‘museum’
and how it could and would be designed changes” (traduzione mia), in Ana Luisa Sánchez Laws, Museum
Web Site, cit., p. 38.
2. IT’S UP TO YOU. LA RETE: RESISTENZE, MARTIRI, PENSATORI

Nel nostro paese si è verificato un ritardo significativo nell’adozione dei media


digitali in generale, da parte delle istituzioni culturali in particolare, e si è aperto
un vuoto sul senso culturale che l’introduzione dei mezzi avrebbe potuto e
dovuto apportare. Le ragioni di questo ritardo sono molteplici e di differente
natura. Una di queste, però, è certamente da individuare in una resistenza
dell’élite intellettuale del paese nei confronti degli strumenti di condivisione
digitale, complice, forse, il digital divide legato a una questione prettamente
anagrafico-generazionale.
La pubblica messa in scena di tale resistenza si è manifestata
internazionalmente e senza pudore nei confronti dell’ormai famosa foto che
ritraeva alcuni ragazzini, nei pressi della Ronda di notte di Rembrandt, seduti su
una panchina del Rjiksmuseum di Amsterdam, intenti a fare ciascuno una
qualche operazione sul proprio device. La foto generò per anni (dal 2014 al 2016,
e qualche volta ricompare ancora, divenendo una sorta di fake interpretation con
longevità da record) commenti apocalittici sul destino della generazione in
questione, intenta a giocherellare sullo “sciocco” cellulare invece di prestare
attenzione al capolavoro.
Calzante la descrizione di questa generazione fornita da Alessandro Baricco:
Li si scorgeva preda di un’inspiegabile retromarcia genetica a causa della quale invece che migliorare la
specie sembravano con tutta evidenza perpetrare una misteriosa involuzione. Incapaci di concentrarsi,
dispersi in uno sterile multitasking, sempre attaccati a qualche computer, vagavano sulla crosta delle
cose senza scopo apparente che non fosse quello di limitare l’eventualità di una pena.32

Sulla vicenda degli adolescenti al Rijksmuseum, e sulla lettura di tale


accoglienza, rimando a un articolo di Massimo Mantellini del 6 dicembre 2014
sul “Post”: A non meravigliarsi più di niente, titolo preso da un saggio di Natalia
33

Ginzburg, La vecchiaia. Il contributo venne pubblicato a seguito di un articolo


scritto dall’insegnante che aveva accompagnato i ragazzi in gita, il quale
testimoniava il fatto che stessero in realtà consultando, su sua richiesta, l’app del
museo per informarsi sull’opera.
Mantellini individua e descrive incisivamente una resistenza preconcetta, una
diffidenza archetipica per il nuovo, senza possibilità di scampo, nelle reazioni
degli adulti alla foto e, per metonimia, ai mezzi digitali in generale. Diffidenza
che in Italia non è schematicamente contenuta in un recinto anagrafico: non è il
digital divide che separa un dodicenne di oggi dalla generazione di Umberto Eco.
Il medesimo atteggiamento è infatti trasversale anche a generazioni più recenti.
Prestando attenzione alle esternazioni varie, colte dalle news e nell’ambito
letterario per un determinato periodo di anni (dal 2005 al 2017), si trovano
conferme solidissime a questa lettura.
Cominciamo con l’occasione – per altro citata vagamente anche da Mantellini
– della consegna della laurea honoris causa a Umberto Eco all’Università di
Torino nel giugno 2015. Le dichiarazioni del professore, su tutti i giornali, sono
categoriche e non lasciano spazio a dubbi o sfumature:
I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un
bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo
stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.34

In prima battuta, intuitivamente, si potrebbe attribuire tale atteggiamento a


una ragione anagrafica: Umberto Eco nasce nel 1932; al momento dell’avvento di
alcuni strumenti digitali poteva forse avere raggiunto un’età che non rende inclini
a essere curiosi per novità tanto dirompenti e rivoluzionarie. Da un altro versante
però è nota la sua curiosità per il computer e la sua capacità di lettura dei mass
media. Terrei in considerazione l’ipotesi che si riferisse in realtà, come dice
35

Stefano Bartezzaghi, “a un certo rinnovato prestigio conferito alla mancanza di


cultura e all’ignoranza”; cultura, anzi, simmetricamente svuotata continuamente
di valore e di senso. 36

Un passaggio illuminante va ascritto a Giacomo Papi, ne Il censimento dei


radical chic:
L’egemonia culturale è finita. Il valore della ragione era legato soprattutto al suo impiego materiale:
studiare migliora la vita. Da quando non succede più, la conoscenza ha perso valore. È un cambio
epocale e porterà la guerra, prima o poi, perché la ragione per definizione comprende, distingue, rifiuta
le semplificazioni e la logica amico/nemico, mentre la fede crede o non crede.37

Ma il sapore riportato dai giornali della lettura apocalittica di Eco, privato delle
dovute sfumature, ha per anni avuto ampio spazio, quasi senza contraddittorio,
nel mondo culturale italiano, interpretato anche da voci anagraficamente meno
“datate” rispetto a quella di Eco.

2.1 Attraverso la narrativa


A testimoniare una resistenza archetipica si possono citare, più striscianti e
indirette, rappresentazioni contenute nella narrativa, anche da autori dai quali
non ci si sarebbe aspettato, forse per ingenuità o perché condizionati da qualche
preconcetto, un tale conservatorismo: mi riferisco a Stefano Benni e a Michele
Serra, che hanno rispettivamente 15 e 22 anni in meno di Umberto Eco.
Stefano Benni esprime la sua voce sul tema in uno dei racconti contenuti nella
raccolta Cari mostri, edito da Feltrinelli nel 2015. Il brano, ambientato in un
38

museo chiamato Darwin, si intitola La mummia. La polarizzazione schematica


fra bene e male è chiarissima fin dalle prime righe, ove si introducono la “mite e
amabile professoressa Antonietta, egittologa insigne, tra le persone più esperte al
mondo” e, a contrapporsi a lei, “non c’era persona più odiosa, presuntuosa e
arrogante del professor Gardenia, nuovo direttore di museo, politicante insigne
ed esperto di null’altro che di intrallazzi”. Nella contrapposizione fra i due,
quest’ultimo è l’“incolto”, caratteristica ribadita più volte, ed è proprio lui a farsi
promotore della valorizzazione attraverso gli strumenti digitali all’interno del
museo; il suo progetto è raccontato con un linguaggio e scelte lessicali
ostentatamente votate a vaghezza e imprecisione (“dobbiamo cambiare,
dobbiamo modernizzare. Mettere schermi, video, interattività [sic]. È questo che
piace adesso”). Antonietta obietta: “Certo, ma non è Scienza”. La 39

contrapposizione fra il male e il bene corrisponde a quella Gardenia-Digitale,


Antonietta-Scienza.
Nell’esame della narrativa in cui più apertamente traspare una posizione
rispetto al digitale ho trovato che, di frequente, la resistenza ai mezzi digitali
largamente intesi vada mano nella mano con una rappresentazione stereotipata e
distopica delle generazioni più giovani. Nel racconto di Benni troviamo il
giovane informatico Gomma:
Il dottor Gomma aveva 26 anni, occhiali fosforescenti, capelli fucsia, ed era l’esperto di computer [sic].
Un nerd geniale […]. I geroglifici erano i resti di un linguaggio iconico-informatico, e le piramidi erano
state costruite col teletrasporto o con gru azionate da astronavi. Come dubitarne?40

Dunque un’altissima concentrazione di stereotipi che disconoscono, mettendoli


in ridicolo, digitale e giovani insieme, uniti per destino e per una pochezza della
quale sorridere paternalisticamente.
Veniamo ora a Michele Serra (nato nel 1954). L’autore pubblica il fortunato
Gli sdraiati, romanzo autobiografico dedicato alla generazione dei figli, rispetto
41

ai quali si mettono in luce “cattive abitudini” quali l’utilizzo in contemporanea di


più devices nonché il disordine e la frammentazione dell’attenzione. Il tema del
multitasking è divenuto diffusamente causa (o sintomo?) dell’utilizzo quotidiano
dei devices che sarebbe collegato all’inabilità di mantenere l’attenzione su un
impegno alla volta. Le righe scritte da Wu Ming sul tema sono chiarissime:
“Mantenere un’attenzione diffusa e a bassa intensità su una molteplicità di
stimoli, per poi focalizzarla ad alta intensità” quando serve è una “abilità
necessaria”, che andrebbe insegnata a chi non ne è dotato, piuttosto che “tenere
sempre aperta la caccia alle streghe”. 42

Serra, poco dopo, pubblica Ognuno potrebbe. Il romanzo, recensito come


43

“affresco feroce della modernità”, ha come protagonista ancora una volta un


44

giovane; vi si conia (addirittura) il neologismo “egofono” a indicare lo


smartphone. E vi si propone la seguente visione sull’utilizzo dei social network:
“Picchiettando sull’egofono chiunque è in grado di farne sortire una verità più
grave e più insidiosa di quella appena scoperta dal vicino”. E ancora: “Nessuno
parla veramente con qualcuno e nessuno risponde a nessuno”.
Non strumento di comunicazione, di costruzione di rete, di acquisizione e
condivisione democratica del sapere, ma uno specchio – con megafono – per le
più varie stolide storture complottistiche e anti-scientifiche, non molto
diversamente da quanto teorizzato da Eco dunque, o almeno, da quanto la
stampa ci ha riferito in merito.
Anche in questo scritto di Serra la fotografia della generazione dei giovani è
appiattita e ingenerosa, fino a spingersi a un sarcasmo molto vicino al limite
dell’offensivo, a mio parere, data la congiuntura storica che ha determinato e
determina drammatiche difficoltà nella realizzazione delle aspirazioni
professionali, peraltro non incontrata dalla generazione dell’autore. Serra fa così
parlare il protagonista:
Io sono, ehm ehm, antropologo ricercatore. Faccio parte di un gruppo di lavoro che studia l’esultanza
dei calciatori. È un contratto a termine, una specie di dottorato, ma non un dottorato […] è con tutta
evidenza un sussidio di disoccupazione mascherato da attività para-accademica.45

Il sarcasmo sul tema, ipotizzando che lo sia, è inopportuno quanto – forse


inconsapevolmente – disvelatore di una lettura del mondo.

2.2 Giovani e professionisti


Per contrappeso (o contrappasso?) cito qui, dato che ci viene utile nel discorso, la
chiarezza con la quale, nel 2011, il dodicenne Thomas Suarez, appassionato
creatore di app, in una lucidissima presentazione TED individua e spiega – con
46

naturalezza scevra da ogni polemica – il digital divide, ed espone le sue intenzioni


rispetto agli strumenti e agli insegnanti. Suarez riconosce candidamente che i
genitori non sono un’utile guida formativa nel momento in cui si abbia
intenzione di imparare a creare app, perché “non molti genitori hanno creato
app”. La sua visione rispetto alla competenza sul digitale e al suo utilizzo è la
seguente: “Per me ha reso disponibile un intero mondo di nuove possibilità”;
“posso condividere le mie esperienze con gli altri”. Thomas ha ben chiaro anche
come non sia sufficiente semplicemente fornire devices nella scuola – pratica
invece attuata acriticamente negli istituti di formazione nostrani – perché “una
grande sfida è [capire] in che modo gli iPad dovrebbero essere usati”. Inoltre, per
tornare a uno snodo che abbiamo identificato già dalla prefazione, “di questi
tempi gli studenti sanno di solito un po’ di più dei loro insegnanti rispetto alla
tecnologia” (di questo si scusa, adorabilmente), e però è certo che “questa è una
risorsa per insegnanti ed educatori”.47

Nel frattempo, nel 2008, per fare un parallelo nel mondo della narrativa ma
alzando lo sguardo ad altri contesti culturali, Cory Doctorow, giornalista e
scrittore canadese, ambientava il suo Little Brother in una scuola superiore di San
Francisco in cui ogni alunno ha a disposizione un tablet con alcune limitazioni
imposte dalla scuola; qui il protagonista, l’adolescente Marcus, dopo una serie di
disavventure riesce a usare la console giochi per organizzare iniziative di
attivismo contro la violenza. Il tutto all’insaputa dei genitori.
48

Che si tratti di una problematica radicata nel gap generazionale o meno, è


necessario prendere atto che in questo momento riflettere sulla rete e sul digitale
si pone come questione di cultura, di conoscenza, di consapevolezza di temi, di
testimonianze e ricerche di tutto rispetto, e persino di democrazia, ben oltre il
territorio dell’improvvisazione, dell’interpretazione e della reazione emotiva a
carattere personale. La rete e il digitale hanno ormai da tempo i loro martiri, i
loro studiosi, i loro testimonial professionali.
Ritengo sia una ben triste lacuna che i giovani non sappiano chi sia Aaron
Swartz, che ha fatto della rete, e delle logiche finanziarie e di potere applicate al
sapere scambiato in rete, le ragioni del suo attivismo e, infine, della sua
drammatica e precoce morte. Aaron, ragazzo che diremmo “prodigio”, impara
prestissimo a leggere, a programmare e, ancora più importante, capisce da subito
come imparare a imparare (Gregory Bateson sarebbe stato orgoglioso del suo
anti-metodo). Molto attento al tema della condivisione partecipativa, crea una
sorta di Wikipedia ante litteram a soli 12 anni (viene premiato per TheInfo.org).
Poco più che bambino partecipa al lavoro per la creazione della licenza Creative
Commons, a fianco di Lawrence Lessig e Cory Doctorow, con la volontà di
49

superare il vecchio sistema protezionistico del copyright, inadatto e


inevitabilmente superato nell’era del web. Le sue considerazioni in merito al
nutrimento dell’industria creativa, all’impossibilità di creare il “nuovo” senza
avere presente il passato, alla condivisione imprescindibile del sapere, di parole,
poesie, immagini, musica, sono ancora oggi in gran parte sostanzialmente
inascoltate. Dice infatti:
Nel processo creativo ogni cosa si basa su un’altra cosa; nulla assomiglia a niente, perché se tu creassi
qualcosa dal nulla, gli altri non sarebbero in grado di capirlo […]. Tutto si basa sul mettere insieme
elementi noti e ricombinarli.50

Aaron è lapidario: con l’avvento del web ognuno di noi ha la licenza per poter
parlare; l’attenzione deve essere sulla distribuzione della possibilità di essere
ascoltato; è su questo versante che risiede il tema di una questione democratica e
politica. Il suo Guerrilla Open Access Manifesto (2008) è una chiamata alla 51

consapevolezza collettiva: “It’s up to you”, dipende da voi, è la risposta iconica


data nel 2012 al giornalista che gli domanda cosa accadrà alla rete e se internet
sia il luogo della libertà o, piuttosto, il luogo del potere. 52

Swartz spese tutta la sua vita perché fosse concreto e garantito per tutti
l’accesso all’informazione e perché l’industria culturale fosse realmente libera,
senza arricchire corporazioni di editori, in modo tale che l’accesso al sapere non
esistesse solo in ragione e in misura della capacità finanziaria. Segnalo che la
parola “cultura” punteggia l’intervista in numerosissimi frangenti.
Aaron, accusato di tredici crimini federali per un gesto di attivismo contro
JSTOR messo in atto nella biblioteca del MIT, rischiava una pena di 35 anni e
una multa da un milione di dollari. Si tolse la vita nel febbraio 2013. 53

In linea con quanto Aaron Swartz individua come potenziale beneficio della
rete, compresa la possibilità di entrare in contatto con persone più simili a noi
anche dall’altra parte del mondo, sollevandosi da una sensazione di isolamento
nel proprio contesto locale, è imprescindibile il rimando a danah boyd,
ricercatrice in materia di social media presso Microsoft Research, fondatrice e
presidente del Data & Society Research Institute e Visiting Professor presso la
New York University, autrice – fra l’altro – di It’s Complicated. The Social Lives of
Networked Teens. Il saggio, documentato e frutto di uno studio durato anni, è
introdotto da una prefazione di valore a firma di Fabio Chiusi: 54

Perché quando si parla di giovani, prevale il “panico morale”. Una paura, ingigantita dalle enormi
aspettative sullo strumento proprio dai proclami utopistici letti dall’alba della rete, che risuscita ogni
volta si verifichi un fenomeno in grado di minacciare l’ordine costituito e dunque di generare ansie e
preoccupazioni in chi lo abita. boyd ricorda che non c’è niente di nuovo, che è avvenuto “per ogni
tecnologia”. Quando fu introdotta la macchina da cucire, si legge in It’s Complicated, si disse che il
movimento della gamba avrebbe finito per influenzare la sessualità femminile; alla nascita del walkman
fu associata l’idea di uno strumento del demonio che avrebbe portato i giovani in un mondo parallelo,
suscitando incomunicabilità con l’altro. I fumetti e la musica rock avrebbero dovuto condurre gli
adolescenti sulla strada della criminalità, e i romanzi corrompere la moralità delle donne. Ora sono
accuse ridicole, dice boyd, ma all’epoca erano prese sul serio. A queste forme di panico immotivato si
lega poi la tendenza alla nostalgia per “i bei tempi che furono”. Così molti adulti “associano l’arrivo
delle tecnologie digitali con un declino – sociale, intellettuale e morale. La ricerca che presento qui
suggerisce che spesso è vero il contrario”. Ecco, se c’è un pregio indubitabile nel lavoro che la
ricercatrice ha svolto nell’arco di tutta la sua carriera è questo rispetto assoluto dei dati, raro e tuttavia
indispensabile per analizzare le precise caratteristiche e conseguenze di precise tecnologie in precisi
contesti.

La resistenza si allarga quindi a ogni novità, con diversi gradi di innovazione e


tecnologia. Ma forse non basta a capire la durata e la diffusione della riluttanza
ancora così in voga; sarebbe forse bene pensare che alfabetizzare e
problematizzare la questione del digitale è necessario, in tutte le fasi della
formazione. danah boyd non manca di segnalare, ad esempio, come il motore di
ricerca Google sia inteso tout court dai giovani – ma anche dai loro genitori –
come una fonte “neutra”; mi sento di aggiungere che in Italia il livello di
analfabetismo è spesso più grave, tanto da non saper distinguere un browser da
un motore di ricerca. La questione è oggettivamente più complessa.
“Dopotutto, è proprio per questo che ‘è complicato’: perché servono distinguo,
fatica, applicazione, onestà intellettuale per provare a comprendere la rivoluzione
in cui siamo immersi”. 55

2.3 Visioni differenti


A guardare il mercato editoriale nostrano potremmo segnare l’anno 2018 come
quello della svolta: hanno visto la luce titoli di differenti intenzioni, consistenze e
metodi, che segnalano tutti, con la loro stessa presenza e indirizzo, un’attitudine
aperta nella considerazione della dimensione digitale. Ne cito alcuni: The Game
di Alessandro Baricco, Bassa risoluzione di Massimo Mantellini, Tienilo acceso di
Vera Gheno e Bruno Mastroianni, #Luminol di Mafe De Baggis e ultimo, nel
2019, Stefano Bartezzaghi, Banalità. luoghi comuni, semiotica, social network. 56

Il lavoro di Baricco ha un valore in sé nella scelta stessa di scriverlo: l’interesse e


l’impegno che l’autore dedica alla questione sono un segno di implicito
riconoscimento, non essendo lo scrittore impegnato personalmente sul quel
fronte. Il contenuto segna un po’ il passo, in termini di capacità di divulgazione
(anche storica) e di lucidità, nella lettura dall’alto di un fenomeno che ha meno di
trent’anni:
Nel complesso quello che sappiamo della mutazione che stiamo realizzando è davvero poco. I nostri
gesti già sono cambiati, con una velocità sconcertante, ma i pensieri sembrano essere rimasti indietro
nel compito di nominare quello che creiamo a ogni istante.57

Vi racconta, in un registro da conversazione informale che è tipico dell’autore,


il percorso che ci ha visti passare dal calcio balilla al flipper, al videogioco,
individuandovi correttamente un “passaggio di civiltà”. Interessante il tentativo
di tradurre in mappe visive, strumento all’autore molto caro, i passaggi-chiave del
fenomeno. Nondimeno però, Baricco circoscrive gli elementi chiave del
passaggio di civiltà, nella disintermediazione, smaterializzazione, libertà e facilità
di contatto. Congruamente con la lezione lasciata di Aaron ci segnala che
Berners Lee scelse di mettere a disposizione del mondo la sua invenzione
pensandola come possibilità gratuita di saltare da un “cassetto” all’altro di testi,
suoni, immagini. Però passaggio che la rende epocale è la possibilità per ciascuno
non solo di attingere da quei cassetti, ma di riempirli; qui sta la “rivoluzione
digitale” secondo Baricco: presenta una nuova modalità di stare al mondo e di
pensare, e proprio per questo segna la fine del Novecento. La disintermediazione
ha un gran sapore e valore di libertà: rende superflui i sacerdoti dispensatori. Il
digitale pare colpire con immediatezza due obiettivi: l’immobilità e la prevalenza
delle élite.
Come dice in una fondamentale prefazione Wu Ming a un testo altrettanto
fondamentale, Cultura convergente di Henry Jenkins:
Ci sono due schieramenti l’un contro l’altro armati – e dalle cui schermaglie dovremmo tenerci distanti:
da un lato, quelli che usano ‘popolare’ come giustificazione per produrre e spacciare fetenzie; dall’altra,
quelli che disprezzano qualunque cosa non venga consumata da un’élite.

E invece è proprio sull’accessibilità, la diffusione, la riappropriazione dei


contenuti e la creatività (anche amatoriale) nel rimescolarli che hanno ripreso vita
forme di cultura popolare e non solo. 58

Anche lo scritto di Massimo Mantellini non tralascia la questione


generazionale e di élite intellettuali – purtroppo sovrapposte – legando il
concetto articolato e complesso di “bassa risoluzione”, che guida attraverso il
volume, al contesto culturale italiano. Ci segnala che il potenziale dell’avvento
della rete, in termini di sblocco del ricambio generazionale, sia stato del tutto
sovrastimato in un paese in cui “notorietà e autorevolezza sono esentate da ogni
valutazione di attualità”. L’autore evidenzia come nel mondo anglosassone, in un
frangente epocale connotato da profonde mutazioni sociali legate all’innovazione
digitale, i punti di riferimento culturale, i “fari intellettuali” siano giovani, non
oltre i quarant’anni. Mantellini racconta altresì lo stupore di Alec Ross,
quarantenne consulente per l’innovazione nel governo Obama, il quale durante il
festival della Letteratura di Mantova registra un paradossale relativismo nella
lettura della sua stessa posizione anagrafica: negli Stati Uniti è il più anziano del
gruppo e in Italia sempre il più giovane. Pare abbia chiuso il proprio intervento
con “mi sa che voi avete un problema”. 59

Un problema appunto, che ha frenato un po’ tutti. L’inverso è accaduto proprio


nelle tech-company: riporto un passo pubblicato nel 2017 sul blog del
Metropolitan Museum a firma di Loic Tallon:
Le aziende di successo che sono nate ‘digitali’ – Google, Twitter, Netflix – attribuiscono i loro successi
alla cultura di squadra che hanno sviluppato. I loro valori condivisi parlano di impatto, di rapidità, di
coraggio e di trasparenza. Fare in modo che i propri team abbiano la sicurezza psicologica per realizzare
la trasformazione è parte della loro cultura. Qui sta uno snodo. I valori comunemente associati al lavoro
digitale sono diversi da quelli di un’istituzione culturale secolare; la capacità di trasformare o spingere
non sono caratteristiche che si sentono spesso in relazione a un’istituzione culturale. Dare mandato per
il cambiamento – che è quello che hanno fatto quei dipartimenti che lavorano con il digitale – è
intrinsecamente rischioso, ma le istituzioni culturali sono naturalmente poco propense al rischio.60

Mi preme mettere in evidenza che non è certo la condizione nella quale si


guida il cambiamento o l’innovazione nella gran parte dei musei italiani.
Il museo, istituzione che nasce con l’idea forte di servizio culturale e
democratico per tutti, dovrebbe essere in grado di rappresentare anche nei mezzi,
nel linguaggio, nelle categorie applicate, il proprio cambiamento che rispecchia e
accoglie quelli della società, alcune volte rompendo le regole e superando nuclei
di anacronistici freni che – quelli sì – rischiano di renderlo del tutto irrilevante.
Ogni espressione di una società parla della sua cultura e dell’allineamento o
meno con i tempi; uno sguardo particolare andrebbe rivolto alla produzione
legislativa e alle sue parole, spesso arcaiche, incapaci di adeguarsi ai cambiamenti
veloci. Rammento con chiarezza che uno dei primi contratti nazionali tramite i
quali venni assunta, in una tech company, era quello per metalmeccanici,
destinato anche a chi lavorava nell’informatica.
32
Alessandro Baricco, The Game, Torino, Einaudi, 2008, p. 7.
33
https://www.ilpost.it/massimomantellini/2014/12/06/meravigliarsi-piu-niente/.
34
https://www.lastampa.it/cultura/2015/06/11/news/umberto-eco-con-i-social-parola-a-legioni-di-
imbecilli-1.35250428?refresh_ce.
35
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/08/26/eco-io-il-mio-computer.html.
36
Stefano Bartezzaghi, Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social network, Bompiani, Milano, 2019, p. 86.
37
Giacomo Papi, Il censimento dei radical chic, Milano, Feltrinelli, 2019, p. 82-83; naturalmente “studiare
migliora la vita”, ma in una dimensione decisamente immateriale, o meglio, non ovviamente materiale (ndr).
38
Stefano Benni, Cari mostri, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 83-98.
39
Ivi, p. 86.
40
Ivi, p. 90.
41
Michele Serra, Gli sdraiati, Milano, Feltrinelli, 2013.
42
Prefazione del collettivo Wu Ming al volume di Henry Jenkins, Cultura convergente, Santarcangelo di
Romagna, Apogeo, 2007, p. VIII.
43
Michele Serra, Ognuno potrebbe, Milano, Feltrinelli, 2015.
44
Bruno Gambarotta, dalla quarta di copertina del volume Ognuno potrebbe.
45
Michele Serra, Ognuno potrebbe, cit.
46
TED è un acronimo per “Technology, Entertainment, Education”, i temi ai quali la nota serie di
interventi disponibili on-line è dedicata. Si veda https://www.ted.com/about/conferences.
47
“Not many parents have written apps”; “this opened up a whole new world of possibilities for me”; “I
can share my experiences with others”; “a big challenge is how should the iPads be used”; “these days,
students usually know a little bit more than teachers with the technology”; “this is a resources for teachers
and educators” (traduzione mia), in Thomas Suarez: creatore di app a soli 12 anni, TED Conference,
novembre 2011, https://www.ted.com/talks/thomas_suarez_a_12_year_old_app_developer?language=it.
48
Cory Doctorow, Little Brother, Terni, Multiplayer Edizioni, 2015.
49
Membro dell’American Academy of Art and Science, professore di Law and Leadership presso la
Harvard Law School, studioso e filosofo della rete; fautore della licenza Creative Commons. Si veda
Lawrence Lessig, Remix. Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni), Etas, Milano, 2009.
50
Intervista rilasciata a War for the Web il 10 luglio 2012, https://www.youtube.com/watch?
v=rSYf7exDuj0.
51
Link dalla pagina di “Doppiozero”, https://www.doppiozero.com/materiali/web-analysis/guerrilla-
open-access-manifesto, al manifesto tradotto https://docs.google.com/document/d/1n7P-
92OW8qSoO_1FVeerHe6azz1OJK4mL0KlLhHFvSs/edit.
52
La posizione di Aaron riguardava i mezzi nativi dello scambio in rete, come ad esempio i blog.
L’avvento della diffusione del “post” in luogo del “blog”, per esempio attraverso Facebook, avrebbe dovuto
garantire più orizzontalità, cioè accesso partecipativo anche in condizione di poca dimestichezza con gli
strumenti informatici. Rimando a Bartezzaghi sull’illusorietà di questa orizzontalità, legata alla profittabilità
delle piattaforme attraverso la raccolta pubblicitaria. A questo e ad altro allude Aaron qui (Stefano
Bartezzaghi, Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social network, Milano, Bompiani, 2019, p. 180).
53
Per la storia di Aaron rimando al commovente The Internet’s Own Boy, documentario dedicato nel 2014
in rete e alla biografia scritta da Justine Peters, The Idealist: Aaron Swartz Wanted to Save the World. Why
Didn’t He Could Save Himself?, Washington, Slate Magazine, 2013.
54
Danah Boyd, It’s Complicated. La vita sociale degli adolescenti del web, Roma, Castelvecchi, 2014.
55
Ivi.
56
Alessandro Baricco, The Game, Torino, Einaudi, 2018; Massimo Mantellini, Bassa risoluzione, Torino,
Einaudi, 2018; Vera Gheno, Bruno Mastroianni, Tienilo acceso, Milano, Longanesi, 2018; Mafe De Baggis,
#Luminol. La realtà rivelata dai media digitali, Milano, Hoepli, 2018.
57
Alessandro Baricco, The Game, cit., p. 15.
58
Henry Jenkins, Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007, p. VII-XV.
59
Massimo Mantellini, Bassa risoluzione, cit., p. 76-77.
60
“Those successful companies that were ‘born’ digital – Google, Twitter, Netflix – attribute their
successes to the team cultures they have developed. Their cultural values speak to impact, moving fast,
having courage, and transparency. Providing their teams with the psychological safety to deliver
transformation is rooted in their culture. Herein lies a tension. The values commonly associated with digital
work are different from those of a century-old cultural institution; the ability to transform or pivot are not
characteristics one often hears in relation to a cultural institution. Delivering change – which is what those
departments that are working with digital have been doing – is inherently risky, but cultural institutions are
relatively risk averse” (traduzione mia), https://www.metmuseum.org/blogs/now-at-the-met/2017/digital-
future-at-the-met.
3. REGOLE, POLICY, POSIZIONE CULTURALE: QUALE STATEMENT PER
I SOCIAL NETWORK DI UN MUSEO

L’apertura dei canali social da parte delle istituzioni museali, avvenuta in Italia
nel corso degli ultimi dieci anni, non è stata preceduta da una riflessione teorica
né generale né particolare. È stata quindi del tutto mancante una condivisione,
innanzitutto interna all’istituzione, che dotasse sia il museo, sia il professionista
incaricato, di solide regole sul fronte interno e di policy formalizzate sul fronte
esterno.
Non si è considerato fin da subito che, in tutta evidenza, il cambiamento
risiedeva nell’esistenza di un canale di ritorno, attraverso la rappresentazione che
l’istituzione compie di se stessa in rete o che altri compiono, in totale autonomia:
la questione supera profondamente la semplice organizzazione di un piano
editoriale per i social network, se si considera quest’ultimo uno strumento che
calendarizza una comunicazione mono-direzionale, unicamente in uscita. A
complicare le cose l’attenzione delle recenti ricerche si è rivolta al ruolo
dell’individuo nella massa; che non è il nostro caso, ove un individuo – o più –
presta la propria voce, scritta, per far parlare un’istituzione. Ognuna di queste
varianti pone nuove questioni, fino a ora mai affrontate appieno. I nuclei centrali
sono:

in che misura il professionista manifesta se stesso e in che misura il


museo?
entro quali confini il museo si rappresenta sui social network?
L’immagine digitale e quella fisica corrispondono? L’immagine digitale
ha una ricaduta su quella fisica?
con quali obiettivi il museo si muove sui social network?
quale tipo di relazione costruisce con i propri visitatori on-line? Si
tengono in conto la partecipazione e l’ascolto?
come si reagisce in uno stato di “emergenza” (ad esempio se il museo è
sotto attacco con accuse infamanti)?

3.1 Persone e regole


Un caso utilissimo per capire l’ampiezza di tali domande si è verificato nel 2015: 61

Paola Saluzzi, giornalista di Sky, scrisse dal proprio profilo personale su Twitter
un insulto a un noto pilota di Formula 1 dandogli, senza tanti giri di parole,
dell’imbecille. La giornalista venne sospesa dal proprio editore, e poi reintegrata
piuttosto velocemente. Ora, qui è evidente che non stiamo valutando il fatto in sé
o l’opportunità del tweet e del suo contenuto (ovviamente del tutto inopportuno,
anche fatto a titolo personale), ma la questione è stata un buon innesco per
affrontare alcune domande. In che misura il profilo personale (e i contenuti e le
posizioni ivi espresse, sfumature comprese) di chi lavora per un’istituzione
museale influenza quello dell’istituzione? Sono – o dovrebbero essere – legati in
modo del tutto trasparente? In che misura, allora, al profilo personale di chi
gestisce i social network di un museo è richiesta compostezza e coerenza con
quanto è legato all’operato e ai valori dell’istituzione?
E infine, quale rischio (od opportunità) c’è che i due profili si cannibalizzino a
vicenda o che uno dei due riversi la visibilità sull’altro? Avviene in modo
eticamente e deontologicamente legittimo, normato, condiviso?
Le prime riflessioni programmatiche in merito sono arrivate dall’ambito
giornalistico. In Italia è stato significativo il lavoro di Anna Masera per “La
Stampa”: a lei si deve la redazione di un decalogo per i giornalisti al servizio della
testata relativo al comportamento sui social network (2012-2013, non più
reperibile on-line). In sostanza si ricordava ai giornalisti come il loro profilo
privato fosse in ogni circostanza legato a quello della testata per la quale
lavorano, e che quindi erano tenuti a rappresentarla degnamente anche tramite il
proprio profilo personale. Ne cito uno stralcio introduttivo che avevo conservato:
“Poiché le attività di interazione e socializzazione di un giornalista che
rappresenta il giornale sui social network mettono in gioco l’immagine della
testata, serve un decalogo di comportamento”.
Insomma il profilo personale non sarebbe più – in alcuni casi – del tutto
personale, ma essendo pubblico per natura, risulterebbe di fatto collegato alla
posizione lavorativa. Un affondo chiaro anche da parte del “New York Times” va
in questa direzione:
Noi ci relazioniamo con i nostri lettori con la medesima correttezza sia in privato, sia in pubblico.
Chiunque abbia contatti con i lettori è tenuto a onorare tale principio, consapevole del fatto che i lettori
sono in definitiva i nostri datori di lavoro. L’educazione si esplicita sia che i contatti avvengano di
persona, per telefono, via lettera, od on-line.

E ancora: “Dobbiamo sempre gestire Twitter, Facebook e gli altri social


network come attività pubbliche”, perché “i lettori assoceranno inevitabilmente
ogni contenuto che condividerai con il ‘New York Times’”. 62
Certo, forse a leggerlo oggi, esposto in modo così piano, può suonare ovvio, ma
non lo è e non lo è stato per diversi anni, come il caso Saluzzi ben testimonia.
Successivi accadimenti hanno peraltro fatto allargare la riflessione anche ai
collaboratori, non solo ai dipendenti.
E ancora sui legittimi confini non esistono regole così specifiche e salde. È
necessario, dunque, lavorare a un’analisi che porti a una loro possibile
definizione. È davvero abbastanza spontaneo pensare che un medesimo grado di
identificazione fra testata e professionista sia naturale e sensato quando si parla di
giornalisti e, tornando a noi, di livelli apicali nei musei; ad esempio, Thomas
Campbell, già direttore del Metropolitan Museum di New York, ha
rappresentato il museo in rete con impegno costante durante il suo mandato; ha
trovato un suo tono, a volte anche scherzoso: rammento il suo post su Instagram
durante la campale giornata di cambio del logo del Met, ove i suoi pets
commentavano, dall’abitacolo della sua auto, i nuovi banner sventolanti sulla
famosa scala.

Ma quale confine invece è eticamente designabile per tutti senza essere troppo
assolutori o semplicistici? In un documento dell’Area Science Park di Trieste si 63

stabilisce che tutti i lavoratori dell’istituzione debbano esplicitare, nella


descrizione dei propri profili social personali, di essere dipendenti della struttura
e che, inoltre, la policy relativa ai social network dell’istituzione abbia validità
anche in merito a quelli.
Credo che si tratti di una sorta di ipercorrettismo, che porta il regolamento a
esprimersi in modi eccessivamente vincolistici, che soverchiano la libertà
individuale e di espressione. Mi spiego meglio: il giardiniere del museo, per
esempio, potrebbe non sentire la totale fusione fra quel che fa per vivere e quello
che è o si sente di esprimere, e magari amare nel suo tempo libero in rete: parlare
di calcio, di cucina, usare meme piccati del tutto legittimamente; insomma la
richiesta di adesione totale alla missione pare a chi scrive una forzatura eccessiva,
se generalizzata. Non tutto il personale del museo è tenuto a essere sempre
politicamente corretto, aggiornato, spiritoso tanto da poter rappresentare in rete
la struttura.
Sulla questione esiste anche un rovescio della medaglia. Mi è capitato di
verificare che colleghi interni a un museo, destinati a mansioni non legate ai
social network, si prendessero la briga di condividere sui social immagini o eventi
prima che il canale on-line dell’istituzione li avesse annunciati o promossi – per
mano mia, legittima incaricata alla funzione – bruciando contenuto e notizia.
Tali iniziative sono naturalmente da scoraggiare e varrebbe la pena chiarire
internamente la regola e il principio di embargo anche per la dimensione digitale.
La partecipazione sentita ed espressa dai lavoratori di un’istituzione che se ne
facciano ambasciatori entusiasti in rete è certamente da leggere come ottimo
segnale ma, appunto, richiede una pregressa condivisione di regole, anche
semplici.
È in quest’area, quindi, che possiamo enucleare un primo elemento di
“sottovalutazione” della selezione del profilo professionale e della persona, con
maturità, sensibilità e competenze sufficienti a condurre l’attività senza sbavature.
Ne riparleremo nell’introduzione alle interviste.
Nella direzione della trasparenza possiamo indicare (fra i miei intervistati):
Silvio Salvo, Nicolette Mandarano, Merete Sanderhoff, Kati Price, che
esplicitano all’interno del loro profilo personale il legame e il ruolo
nell’istituzione museale di appartenenza, pur avendo contrattualmente posizioni
differenti nei confronti dell’istituzione.

3.2 Policy e livelli di servizio


Nel vuoto che abbiamo descritto, alcuni musei hanno invece curiosamente scelto
di esplicitare le regole del gioco nell’interazione con i propri pubblici on-line, ma
regolando il versante dei pubblici, chiedendo di rispettarle. Vediamo ad esempio
il caso del British Museum di Londra:
Amiamo essere in contatto con voi e, per assicurare a tutti un’esperienza positiva, trovate qui alcune
regole da rispettare per fare parte della nostra comunità on-line: proteggi la tua privacy; resta sul tema,
sii rispettoso, non fare pubblicità o promozione di te o di altro; non infrangere la proprietà intellettuale,
e sii preparato su cosa aspettarti. Monitoriamo le piattaforme social dalle 9.30 alle 17.30 GMT, da
lunedì a venerdì, escluse le festività nazionali inglesi.64

Ho trovato questo regolamento in qualche modo molto britannico, nel senso


della tradizione legale anglosassone: esplicita i termini di utilizzo in modo che, se
qualcuno si rendesse reo di non rispettarli, il problema della responsabilità
sarebbe a-problematicamente tutto suo e verrebbe semplicemente escluso di
imperio dalla comunità. Mi sono domandata se – per converso – esista un
regolamento interno, non reso pubblico (chissà poi perché), parte contrattuale di
ogni dipendente o collaboratore del British Museum. C’è però un portato
interessante nell’intervento di questa istituzione, e risiede nell’ultimo capoverso
riportato, ove si definiscono i livelli di servizio: “Monitoriamo le piattaforme
social da lunedì a venerdì dalle 9.30 alle 17.30”. Nel 2019, contestualmente alla
pubblicazione del nuovo sito tanto atteso, anche le Gallerie degli Uffizi hanno
reso pubblico un regolamento, che ricalca fedelmente proprio quello del British
Museum. 65

Definire gli orizzonti – per altro con un fuso orario preciso, fondamentale per
un museo di richiamo internazionale – mette al riparo l’istituzione, il social
media manager e il pubblico da situazioni nelle quali le aspettative potrebbero
essere disattese su più fronti (per esempio la tempestività della risposta è
fondamentale, in particolare quando l’utente ponga questioni relative al servizio).
Dal punto di vista della tutela contrattuale la definizione dei livelli di servizio e
la trasparenza in merito sono un supporto imprescindibile per chi
quotidianamente gestisce le piattaforme social: ho fatto questo mestiere per anni
e quindi so per esperienza che, se le premesse, le condizioni – e i rischi – non
sono condivisi con la direzione del museo, la preoccupazione per quanto accade
sui canali digitali è viva, per chi ha avuto l’incarico con la responsabilità a esso
collegata, per 24 ore su 24 e 7 giorni su 7.
Detto questo però, ritengo che per come viene espresso per i due grandi musei,
il parametro sveli una considerazione dei social media quali mezzi di solo
servizio, regolamentabili come uno sportello di banca. Come in ogni questione è
il contesto di riferimento ciò che può aiutare a costruire la corretta misura delle
cose: da un piccolo museo di provincia non mi aspetto, e non credo serva, una
copertura totale, né le risorse necessarie per gestirla, ma da Versailles o dal
Louvre, e quindi dal British Museum, forse sì. 66

3.3 Piano editoriale o linee culturali? La prova dell’errore


Un personaggio di assoluto rilievo per visibilità e operato nell’utilizzo dei social
network di un museo è stato Sreenath Sreenivasan, detto Sree, fino al 2016
Chief Digital Officer del Metropolitan Museum di New York quando il reparto
contava circa duecento persone; ha sempre rappresentato il museo anche tramite
il suo profilo personale. Sree, giornalista, si spende ancora oggi molto
generosamente tramite i social network offrendosi in occasioni di formazione per
colleghi o semplici curiosi in rete. In uno di questi momenti, che ho seguito per
anni con grande curiosità, mostrò una slide (sulla quale campeggiava il vecchio
logo del Metropolitan) con il seguente contenuto: “Lo sporco segreto dei Social
Media / Quasi tutti ignoreranno quasi tutto ciò che fai sui social network”.
Attimo di sospensione, e poi: “Fino a che non farai un errore”. 67

Superato uno spontaneo mezzo sorriso che la verità covata, condivisa e non
detta genera quando si palesa, il messaggio di Sree apre uno squarcio su un
mondo di domande: quale errore? Come lo definisco e riconosco? In quale senso
si può sbagliare se non ci sono regole condivise? Se non si sono preliminarmente
fissati obiettivi, ambiti, ambizioni? E se non si è definito come si reagisca in
possibili momenti di crisi?
Principale caratteristica dei social network è il loro vivere nel e del momento.
La pratica in uso di determinare un piano editoriale preciso, nel quale le giornate
sono scandite da post definiti (o addirittura approvati) in precedenza, presenta
alla prova dei fatti grandi limiti e zone di rischio. Siamo al livello
controllo/definizione basilare. Avere la responsabilità di gestire un profilo social
museale significa anche e soprattutto investire tempo per leggere i contenuti
veicolati (anche, ma non solo) dai social network e avere la sensibilità e le
competenze per distinguere momento da momento in un modo difficilmente
preventivabile appieno.
Proviamo a esaminare una serie di esempi. Mi vengono in mente innanzitutto i
casi di concomitanze con eventi drammatici: il post programmato per un banale
mercoledì mattina qualunque per lanciare l’apertura di una mostra diventa
repentinamente inopportuno se, in quel preciso momento, nel Museo del Bardo
di Tunisi alcuni visitatori sono ostaggio di terroristi armati. Quello è piuttosto il
68

momento nel quale tutte le istituzioni si dovrebbero stringere intorno al museo


colpito e manifestare una comunione nella non violenza.
E ancora. È comune, e del tutto comprensibile, la prassi dei musei di postare
foto di personaggi molto noti in visita come una sorta di promozione con
testimonial casuale; o che lo facciano i visitatori stessi e i musei condividano con
il loro seguito. L’intento è senza dubbio dare una visibilità leggera e facile,
giocata sul seguito garantito dalle persone note: il museo segnala visitatori VIP,
stelle del cinema, della musica, della televisione, dello sport. Eppure, anche un
contenuto così potenzialmente innocuo può generare un contraddittorio.
Nella primavera del 2019 la visita di Fedez e Chiara Ferragni in alcuni musei
romani ha generato, sui profili social dei musei, grande scontento e critiche da
parte dei follower dei musei stessi, che non si sono trattenuti dall’esprimere la
loro posizione: la coppia di personaggi non sarebbe stata in qualche modo degna
dell’attenzione che il museo stava riconoscendo loro (e quindi in sostanza di
rappresentarlo). I musei hanno dovuto accettare un calo di seguito, a causa del
quale qualcuno ha scelto, per mettere fine a critiche e alle loro conseguenze, di
rimuovere la foto. L’accaduto è un interessante segnale di come il seguito delle
istituzioni museali, anche sui social network, si consideri élite culturale, con più
diritti di altri (non meglio identificati), e non si imbarazzi nel dire che, in tutta
sostanza, quel museo non sia per questi “altri”. Si tratta di cartine di tornasole
delle quali non rallegrarsi: ritengo al contrario che la presenza di personaggi
giovani e noti, non appartenenti al mondo della cultura, possa invece essere
benefica per l’audience potenziale del museo, su di un tipo di pubblico altrimenti
difficilmente “ingaggiabile”; o quanto meno innocua. Segnalo inoltre che, d’altro
canto, nei profili di Fedez e di Chiara Ferragni, nessun follower ha reagito alla
foto di contesto culturale commentando con sprezzo, negativamente. C’è da
pensare.

3.3.1 Centralità dei temi sociali, politici, culturali


Passiamo a citare un caso invece diverso, che ci orienta però verso la medesima
complessa posizione. Quando nel giugno 2015, durante il governo Obama, negli
Stati Uniti si raggiunse il pieno riconoscimento dei diritti delle coppie LGBT,
nel giro di pochi istanti i profili social dei grandi musei americani si espressero in
merito rivestendosi di arcobaleni, plaudendo pertanto all’approvazione della
legge come passo avanti della comunità.
Tale tipo di espressione, e la sua immediatezza rispetto all’evento commentato,
mostra in tutta evidenza come all’interno dell’istituzione museale si condivida
una posizione culturale e politica, tanto da far sentire legittimo al social media
manager un intervento repentino da parte del museo sul tema, senza necessità di
approvazioni. Tanto più quindi, allargando oltre il senso della questione, che si
considera parte della missione del museo, anche attraverso i canali social, una
presa di posizione su temi che esulano dal limite tradizionale ristretto
unicamente alle collezioni. Insomma il museo si fa portavoce di posizioni che
sono culturali, sociali e politiche, per altro in osservanza stretta con parte della
definizione ICOM di museo “al servizio dello sviluppo della società”.
Sulla medesima scia si stanno collocando, da poco e sotto nuove e illuminate
direzioni, anche alcuni musei italiani; il Museo Egizio di Torino, per esempio,
nel giugno 2019 posta il seguente testo sulla propria pagina Facebook: “Il Museo
Egizio di Torino supporta Greta Thunberg e tutti gli studenti del pianeta
partecipando alla mobilitazione internazionale #FridayforFuture di cui condivide
pienamente le ragioni e lo scopo”. Anche qui, nulla a che vedere con le
collezioni, quindi: il museo incarna un ruolo sociale nel momento storico del
paese e del pianeta. È del tutto evidente che, passo passo, non si sta più parlando
di museo e cultura digitale, ma del senso del museo stesso oggi, dell’ampiezza del
suo mandato, della rarefazione del suo legame con lo spazio fisico e la collezione.
In termini di mandato: come si dichiara questa attenzione? Uno spazio
adeguato potrebbe essere quella della sezione del sito internet del singolo museo
dedicata allo statement. Un caso esemplare è quello del Museo Reina Sofia di
Madrid:
Per tutto questo dobbiamo riconsiderare l’autorità e il ruolo del museo, al fine di proporre questa ricerca
collettiva, distinta da forme di attività culturali non autoritarie e non verticali, aperte su ogni
piattaforma, per la visibilità, e disponibili al dibattito pubblico […]. Presso il Museo Reina Sofia stiamo
organizzando una rete di partnership eterogenea, con gruppi, movimenti sociali, università, e altri corpi
sociali che mettono in discussione il museo e generano spazio per la negoziazione piuttosto che per la
mera rappresentazione.69

3.4 Crisis Management


Concepito in questo largo spettro il ruolo del museo attraverso i social, diventa
essenziale affrontare la questione della gestione della crisi. Il confronto poi con
temi delicati, strumentalizzazioni e hate speeches ci pone altre domande e allarga
ancora l’orizzonte. Nel 2016 la mostra dell’artista Anish Kapoor allestita nei
giardini di Versailles venne pesantemente e ripetutamente vandalizzata con frasi 70

razziste e antisemite. La vicenda è stata grave e di una certa complessità.


Andiamo alle piattaforme social dell’istituzione museale: vi si è riversato
verbalmente il medesimo tipo di attacco. Ho sentito raccontare quest’esperienza
dalla voce del team che gestiva i social network e con mia grande sorpresa ho
71

scoperto che non avevano a disposizione nemmeno una manciata di regole di


riferimento per la gestione di una crisi, né avevano in quel momento il tempo o il
modo di farsi carico a titolo personale di una posizione così delicata e in vista.
Pertanto la decisione è stata che, dato il contesto, il silenzio fosse la risposta più
adeguata. Gli attacchi sui social network sono stati dunque completamente
ignorati.
Nella mia esperienza professionale di gestione dei profili di un’istituzione è
capitato di rado (non so se per semplice buona sorte o per effetto di una coerenza
che ho cercato con tanta energia) di dover gestire “momenti difficili” in questo
senso. Uno, in particolare modo, è utile per individuare la definizione dei confini
del mandato del Digital Media Curator. Lavoravo per il Museo Diocesano di
Milano quando si inaugurò a Palazzo Reale la mostra dedicata all’anniversario
dell’Editto di Costantino, promulgato a Milano nel 313 d.C. Alla mostra erano
state dedicate risorse, attenzione ed energia per anni dal museo e da un comitato
scientifico creato ad hoc. Per poter seguire l’evento avevo chiesto alla direzione di
essere coinvolta nelle riunioni di vario genere, in modo da essere competente su
ogni aspetto della questione, contenuti, scelte editoriali, allestimento. A
posteriori, mi dico, davvero per fortuna. Successe che il giorno seguente
all’inaugurazione un tweet che menzionava il profilo del museo avvertiva che il
rabbino capo di Roma aveva rilasciato a un quotidiano nazionale un’intervista
nella quale sosteneva che il Museo Diocesano, tramite la mostra, “santificasse”
Costantino, il quale era, a dire del rabbino, colui che avrebbe dato il via alle
persecuzioni nei confronti degli ebrei.
Questo quanto ricevuto. Non entro ora nei termini della questione storica: il
dato di fatto in quel momento era l’esigenza di dare una risposta
incontrovertibile, non polemica, molto salda. Ho avvertito e interpellato in
merito il direttore, che non era in ufficio e, lasciato passare un po’ di tempo, mi
sono posta il problema dell’improrogabile necessità di immediatezza della
risposta. Avrebbe potuto essere potenzialmente dannoso lasciare un’affermazione
di tale natura appesa in rete, senza sapere che dire. Intuendo che la risposta della
direzione avrebbe verosimilmente potuto arrivare solo dopo un lasso di tempo
non adatto ai canali social, mi sono domandata quale risposta fosse lecita e
sensata. Inerpicarsi per fonti storiche allo scopo di verificare la correttezza o
meno dell’affermazione in sé, mi è sembrato vischioso, lento e un poco fuori
tema. Ma, grazie al mio affiancamento al percorso scientifico, che mi aveva
portata a seguire la struttura della narrativa rispecchiata nell’allestimento, potevo
invece dire che l’uomo Costantino vi era restituito in tutte le sue caratteristiche
storiche, comprese quelle più o meno nefande. Tradussi nei 140 caratteri la mia
risposta. E la questione si chiuse così.
Legarsi a temi controversi, come quelli dei diritti, dell’identità di comunità,
della diversità espone, in particolare attraverso i social, il museo al rischio di
strumentalizzazioni a vario titolo.
Noto è il caso del confronto faccia a faccia tra la politica Giorgia Meloni e il
direttore dell’Egizio di Torino Christian Greco in occasione di una politica di
apertura e inclusione dei confronti della comunità arabofona di Torino (febbraio
2018): la polarizzazione e la facile strumentalizzazione politica hanno fatto
72

dell’iniziativa un pretesto per ribadire valori distintivi della politica di destra quali
“prima gli italiani”. Durante il confronto, il direttore Greco è stato, nonostante la
calca di giornalisti, l’ostilità e, immagino, un certo disappunto, in grado di
restituire la complessità della questione di partenza, il grande tema delle
restituzioni delle collezioni, fisiche o simboliche che siano; ha proposto un
racconto di lotta agli stereotipi da parte di musei, riferendo un’iniziativa del
Metropolitan di New York a favore degli immigrati italiani. Il video girato in
quel momento è stato visto tantissime volte: non credo si possa dire che esistano
altre circostanze nelle quali un pubblico così vasto e non specialistico sia stato
esposto a un discorso sulla problematizzazione del tema della proprietà delle
collezioni e dell’attivismo del museo, in termini di inclusione e lotta agli
stereotipi. Potenza del web.
La circostanza che abbiamo appena riportato conduce a una rilettura della
profonda missione del museo: manifesta ancora una volta il suo spostarsi dalla
rappresentazione in senso storico-artistico stretto della collezione (pur sempre
esistente) a una relazione con il presente; il museo per assolvere alla sua funzione
deve impegnarsi a essere contemporaneo, a fronteggiare e negoziare il presente
continuamente, l’oggi e i suoi dilemmi in continuo cambiamento. E, grazie a
questo, parlare a un pubblico più ampio.
Non a caso l’aggettivo relevant, importante per la contemporaneità, è stato nel
corso del 2015-2017 una delle parole ricorrenti nei discorsi sul museo, dal titolo
del prezioso libro di Nina Simon, The Art of Relevance, a uno dei tweet che
annunciavano il rinnovamento del Metropolitan Museum che – cito
testualmente – diceva “how a 145 years old Museum stays Relevant in the
Smartphone Age” (come un museo di 145 anni rimane importante e attuale
nell’era degli smartphone). Nel caso citato del Museo Egizio (per altro non nato
73
sulla rete ma giuntoci un po’ per caso) era il direttore in persona a esprimere la
posizione sofisticata che spiegava una restituzione simbolica.
Tornando al tema della policy del museo in relazione alla sua posizione sui
social network propongo una riflessione sull’organigramma “tipo”, che ho visto
anche di recente presentato come paradigmatico per un’istituzione museale: al
centro di ogni funzione, in posizione di apice assoluto, il direttore. Ritengo che il
cambiamento, di mezzi o meno, abbia reso obsoleto tale modo di organizzare, e
quindi rappresentare gerarchicamente processi e funzioni all’interno di un museo.
Da un lato i temi e le competenze sono divenuti davvero numerosissimi,
specialistici e vari e quindi non più assolvibili in tutte le multidisciplinarietà da
un unico professionista, sia anche di lungo corso. Quanto ai processi interni, il
canale di ritorno dei social network richiede che lo scambio fra il responsabile
della dimensione digitale e la direzione siano frequenti e, in alcuni casi, rivestano
carattere di urgenza, ove l’uno abbia la dimestichezza delle logiche del mezzo e
l’altro sappia come mantenere intatta l’identità culturale ed etica del museo, in
stretta connessione con la missione.
Esprime con precisione questa idea Robert Janes in un passaggio dedicato a “il
solitario direttore del museo”:
La struttura piramidale erode i legami informativi e provoca la perdita delle reazioni e risposte
immediate, quanto veritiere. Forse è per questo che ci sono così tanti cambiamenti inconsapevoli e
assolutamente non necessari all’arrivo di un nuovo direttore, poiché tale isolamento sembra creare l’idea
di una certa onniscienza nel nuovo direttore, escluso com’è da un’interazione genuina e critica con i
colleghi […]. Invece in un modello di primus inter pares, ogni tentativo di cambiamento arbitrario
sarebbe esaminato in modo completo con i colleghi senior, il che consentirebbe di evitare lo sperpero di
risorse e di energie morali derivante dall’onnisciente, ma svantaggiato, direttore solitario.74

In quest’ultimo passaggio sono radicate, nella dimensione storica attuale,


grandi questioni. Mi preme segnalare che affrontarle o non affrontarle, ignorarle
od osteggiarle col silenzio, non siano strategie di “successo” proprio perché esiste
la rete. Si ha la sensazione in alcuni casi che l’istituzione abbia un’idea del
controllo della comunicazione con una pretesa ormai inattuale: non è più, e non
sarà mai più, il museo a mandare alla stampa (o alla radio o alla tv) alcune veline
di auto-rappresentazione senza opzione di contraddittorio. Il tema delle
restituzioni è uno di quelli che, nel digitale, determinano più potentemente un
effetto “luminol”: la posizione nei confronti della questione si evidenzia anche
75

per assenza, ed è abbagliante. Si prenda per esempio la madre dei casi, relativa al
British Museum e alla restituzione dei marmi del Partenone o Elgin Marbles. 76

In rete ci sono profili dedicati alla questione, ma il profilo del British Museum
non interagisce né propone in rete il tema, ignorandolo.
61
Rinvio a un articolo su “Repubblica”, ma ce ne sono numerosi in rete:
https://www.repubblica.it/spettacoli/tv-
radio/2015/04/13/news/insulti_via_twitter_a_alonso_paola_saluzzi_sospesa_da_sky-111837020/?
refresh_ce.
62
“We treat our readers no less fairly in private than in public. Anyone who deals with readers is expected
to honor that principle, knowing that ultimately the readers are our employers. Civility applies whether an
exchange takes place in person, by telephone, by letter or online”; “we should always treat Twitter, Facebook
and other social media platforms as public activities” [because] “readers will inevitably associate anything
you post on social media with The Times” (traduzione mia), https://www.nytimes.com/editorial-
standards/ethical-journalism.html#ourDutyToOurReaders.
63
https://www.areasciencepark.it/wp-content/uploads/CDA-Social-media-policy.pdf.
64
“We love hearing from you and, to ensure that everyone has a positive experience, here are a few house
rules for being part of our online community: Protect privacy, Stay on topic, Be respectful. Don’t advertise
or self-promote, Don’t infringe intellectual property, Know what to expect. We monitor social media
platforms between 09.30 and 17.30 GMT Monday to Friday, excluding UK national holidays” (traduzione
mia). Si veda: https://www.britishmuseum.org/terms-use/social-media-code-conduct.
65
https://www.uffizi.it/pagine/social_media_policy_uffizigalleries.
66
Cito la reggia di Versailles perché ho avuto la fortuna di ascoltare il team che gestisce i social network in
occasione di un convegno presso la Reggia di Venaria: si pongono problemi di scala e senso molto diversi, a
partire dal fatto che colloquiano con un pubblico anche cinese, e che il loro obiettivo non è chiamare i
pubblici a una visita pubblica, bensì distribuirne i flussi lungo l’anno perché siano gestibili.
67
“The dirty secret of Social Media / Almost everyone will miss almost everything you do on social
media”. “Until you make a mistake” (traduzione mia).
68
Attacco avvenuto mercoledì 18 marzo 2015, verso le 12.30; è costato la vita a 24 persone.
69
“All of this means that we must reconsider the authority and exemplary role of the museum, so as to
provide this collective search with non-authoritarian and non-vertical forms of cultural action, facilitating
platforms for visibility and public debate […]. At Museo Reina Sofia we are organizing a heterogeneous
network of partnerships with groups, social movements, universities, and other bodies that question the
museum and generate spaces for negotiation rather than mere representation” (traduzione mia),
https://www.museoreinasofia.es/en/museum/mission-statement.
70
https://www.artribune.com/tribnews/2016/10/anish-kapoor-vandalizzato-a-versailles-con-frasi-
antisemite-lartista-accusa-il-museo.
71
L’incontro è avvenuto in occasione dell’Assemblea Generale dell’Associazione delle Residenze Reali
Europee presso la Reggia di Venaria lunedì 30 e martedì 31 maggio 2016.
72
https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/politica-e-pubblica-
amministrazione/2018/02/fratelli-italia-museo-egizio-torino-meloni-greco.
73
“Fast Company”, tweet del marzo 2016.
74
“The lone museum director”: “The pyramidal structure erodes information links and destroys channel of
honest reaction and feedback. Perhaps this is why there is so much unthinking and unnecessary change
when a new director arrives, as this isolation seems to create a certain all-knowing quality in the new
director, cut off as he or she is from genuine and critical interaction with peers […]. In this primus inter
pares model, any attempt at arbitrary change would have to be fully scrutinized by one senior peer, which
would do much to prevent the squandering of resources and morale resulting from the omniscient, but
disadvantaged, lone director” (traduzione mia), Robert R. Janes, Museums in a Troubled World. Renewal,
Irrelevance, or Collapse?, New York, Routledge, 2009, p. 62-62.
75
“I media digitali funzionano come il luminol, la sostanza usata dalla polizia scientifica per rilevare
macchie di sangue e di liquidi biologici invisibili agli occhi: da qualche anno racconto che internet è come il
luminol perché ci aiuta a rivelare vizi, difetti, delitti, e comportamenti presenti nella società, ma finora
invisibili”, Mafe De Baggis, #Luminol, cit., p. 1.
76
Sulla questione rimando a Christopher Hitchens, I marmi del Partenone. Le ragioni della loro restituzione,
Roma, Fazi Editore, 2009, o più di recente la battaglia condotta da Amal Alamuddin Clooney,
http://www.rainews.it/dl/rainews/media/mrs-clooney-riportare-in-grecia-i-marmi-del-partenone-
155ca77f-2904-43ac-8f56-1b1662218dd9.html#foto-1.
4. PARADIGMI E OBIETTIVI

4.1 Il sito web del museo: perché?


La decisione dei musei di presenziare sul web è giunta come una sorta di
passaggio obbligato dettato dall’avanzare dell’importanza della rete. Di rado
però, e certo non in prima battuta, le istituzioni hanno condotto un’analisi
strategica sul significato della loro presenza sul web in relazione alla propria
missione e ai propri obiettivi. Solo a posteriori sono proliferate le domande. Del
resto, nel “Rapporto Symbola” Io sono Cultura (2019) si cita il rapporto
dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, secondo il quale il 76% dei musei
intervistati avrebbe dichiarato di non avere una strategia complessiva sul digitale
ancora oggi.77

Agli esordi, una su tutte le questioni è stata quella dominante: per quale
ragione un utente frequenta il sito di un museo? Ho sempre trovato la domanda
apodittica: la ragione per la quale un utente investe il suo tempo a navigare su un
sito è in stretta relazione di causalità con ciò che il sito stesso ha da offrire.
Sembrerebbe lapalissiano invece, a prescindere da una riflessione sull’offerta, per
anni si sono susseguiti questionari e studi, molti dei quali hanno sostenuto che il
sito web fosse usato prevalentemente come strumento utile a organizzare
preliminarmente la visita fisica. Un caso esemplare è stato quello
dell’Indianapolis Museum of Art, che ha proceduto chiedendo la ragione della
visita on-line ai visitatori proprio sul sito web, offrendo loro la possibilità di una
risposta chiusa:
a) per organizzare la visita
b) per interessi personali
c) per interessi professionali
d) per acquistare;
e) per curiosità e per caso.
Tra gli oltre 4000 visitatori che hanno fornito risposta quasi il 90% ha optato
per a) b) e c) (che tenderei ad assimilare). Ultimo posto per gli acquisti con il 2,6
% e l’incontro casuale con il 10% circa.
L’abstract dell’intervento alla Museum and the Web Conference dedicato allo
studio di cui sopra recita:
In questo intervento, gli autori descriveranno la logica, la metodologia e i risultati di una serie di studi
che sono stati condotti con i visitatori del sito web del Museo di Arte di Indianapolis. L’obiettivo degli
studi è comprendere meglio la motivazione delle persone a visitare il sito e se questa motivazione abbia
un impatto sul modo in cui si impegnano on-line. La speranza è che questi risultati forniscano un set di
dati di riferimento e un modello replicabile per altri musei che sono interessati a comprendere meglio il
loro pubblico on-line e a condurre studi simili per i loro sforzi sul web.78

Per un museo che raggiunge 400.000 visitatori all’anno, 4000 risposte sono una
ben ridotta campionatura.
Avanzo, inoltre, due motivi di perplessità: da un lato nessuna delle risposte
proposte lasciava spazio all’espressione del desiderio di conoscere a fondo la
collezione e il museo, anche da lontano e senza intenzione o possibilità di
visitare, e dall’altro l’interfaccia del sito e la struttura dei contenuti in quel
momento on-line mettevano in rilievo le voci “visit” al primo posto nel menu
orizzontale, gli orari, i calendari, i modi di giungere al museo, già dalla
homepage. Mi pare lecito pensare che, quindi, il visitatore fosse condotto un
79

poco forzatamente a utilizzare il sito in tale senso e quindi a rispondere al


questionario esattamente come si è verificato. È poco in dubbio che un’adeguata
lettura degli analytics del sito fornisce, certo non da sola, risposte utili e
verosimili, anche se aperte a molte interpretazioni.
In questa direzione cito l’esemplare caso di conduzione di ricerca strategica ed
empirica sul sito web che è stato quello del Victoria & Albert Museum di
Londra, raccontato in due momenti differenti da Kati Price. La prima volta ho
ascoltato la sua presentazione intitolata Think Small. How Small Changes Can Get
Big Results, in occasione del convegno Digital Think In organizzato dal Museo
MAXXI di Roma nel 2015 (on-line sul blog del museo stesso nel 2015). 80

L’obiettivo dei piccoli interventi sul sito era di riuscire a massimizzarne l’impatto
in sole due settimane. La squadra della Price – coadiuvata dall’agenzia Made by
Many – si è servita di focus group, per capire da un campione di utenti cosa fosse
funzionale e piacevole e cosa invece poco chiaro in merito al sito. Il feedback
raccolto chiedeva più facilità nell’accesso alle informazioni relative alla visita e
maggiore immediatezza nella navigazione. Tenendo fissi gli obiettivi del team
del museo, si sono operate piccole modifiche all’interfaccia, al linguaggio (alcune
voci sono diventate una call to action esplicita), alla posizione delle informazioni,
e si è fatta chiarezza sul menu al di sopra del grande banner che occupava la gran
parte dell’header della homepage. Il sito web ha poi proposto per sei giorni,
contemporaneamente e “randomicamente”, le due soluzioni diverse, quella on-
line pre-analisi e quella messa a punto con l’analisi condotta, ciascuna al 50%
degli utenti del sito: leggendo gli analytics si è, solo alla prova dei fatti,
definitivamente proposta la soluzione nuova che aveva dato risultati migliori sulla
base di 46.000 visitatori unici, con un aumento dell’11% delle visite alle pagine
prima richiamate all’interno del banner, un aumento del 43% del traffico sulla
pagina di vendita dei biglietti e un aumento delle iscrizioni alla newsletter del
27% (questi due ultimi in particolare gli obiettivi iniziali).
Solo poco dopo, nell’aprile del 2016, la stessa Kati Price annunciò la messa on-
line del nuovo sito con queste parole: “It’s not a refresh, it’s a rebuild”, cioè non si
tratta di un ritocco estetico superficiale, ma di una ricostruzione. Il sito, che
aveva al momento cinque anni di vita, venne dunque interamente riprogettato
sulla base della volontà di raggiungere obiettivi dichiarati. Il primo citato è
“Desideriamo che l’esperienza digitale del V&A sia all’altezza della presenza
fisica, un posto vibrante, attivo e in continuo cambiamento”; il secondo, molto
81

interessante, è l’acquisizione di autonomia da parte della squadra digitale del


museo, che progetta il nuovo sito con l’agenzia, ma con un percorso di
formazione on going su un CMS che li rende del tutto indipendenti; un CMS
82

open source, per di più. Il CMS scelto, inoltre, usa come particella minima non
l’articolo, ma “l’oggetto del museo come l’atomo del contenuto. Ciò ci conferisce
la libertà di realizzare una curatela degli oggetti on-line in un modo
concettualmente simile a come la si effettua nel museo stesso”. I contenuti
83

vengono articolati in base all’identificazione di quattro categorie di fruitori del


sito, definiti in base al loro comportamento on-line, frutto dello studio degli
analytics: Kati Price li etichetta così, “the general visitor, the enthusiast, the
researcher and the inspiration seeker” e chiarisce che la categoria di appartenenza
non ha un’attribuzione definitiva, ma ogni individuo può comportarsi in un
particolare momento in uno dei modi e quindi essere variabilmente appartenente
a una delle categorie.
Grazie ai dati degli analytics del sito venne riconosciuto come del tutto
predominante nelle visite il gruppo dei “general visitors” con una componente
pari al 70% del traffico. Sulla base di questa stima, e con l’obiettivo di
incrementare i visitatori fisici in museo, il team di Kati Price si pose un’ulteriore
sfida: con il nuovo sito il tasso di conversione da utente del sito web a visitatore
fisico deve passare dall’8 al 10%; tenendo fermo il dato di visite sul totale di
quelle realizzate nel sito precedente i visitatori in museo sarebbero divenuti da
poco più di un milione a un milione 270 mila; un ragionamento sulla redditività
prodotta da tali presenze garantiva la copertura dei costi del progetto di
rifacimento del sito. I risultati hanno dato ragione alla sfida del team digital
superando di gran lunga le aspettative.

4.2 La collezione on-line


Il piano strategico del Rijksmuseum di Amsterdam, a seguito di grandi lavori di
ristrutturazione e dopo la sua riapertura nel 2013, ha utilizzato ogni strumento
analogico e digitale per realizzare l’obiettivo di restituire l’arte olandese agli
olandesi e al mondo, concependo un ecosistema di capillare distribuzione del
loro patrimonio; le opere sono state stampate sui cartoni del latte, ma anche
messe on-line ad alta risoluzione, liberamente scaricabili, in un numero
elevatissimo, che ora conta centinaia di migliaia di oggetti. Il sito, che rientra
nella categoria che la Sánchez definirebbe collection-oriented, propone al visitatore
di creare uno spazio proprio, un profilo personalizzato, nel quale raccogliere e
salvare le opere che preferisce, il Rijkstudio. Naturalmente la creazione della
selezione personale conduce anche l’utente non esperto a curiosare e navigare,
attraverso i percorsi proposti con chiavi di lettura che non richiedono una
competenza sulla natura delle collezioni: capolavori, taggati per titolo o per
autore, percorsi nella storia della nazione, elenchi di nomi di artisti o di soggetti
e via dicendo.
Il visitatore di questo sito con tutta evidenza ha buone ragioni per trascorrere il
suo tempo sul dominio del museo, ove ci si sente calorosamente accolti. Solo un
anno dopo la pubblicazione del sito, nel 2015, il Rijksmuseum dichiara che
200.000 utenti hanno creato un proprio profilo mentre le visite alla sezione
Rijkstudio si sono attestate sui 15 milioni.
84

Le opere attualmente on-line sono 660.000 circa e si è aggiunto un servizio


fondamentale: attraverso il proprio profilo l’utente può costruire un percorso di
visita selezionando le opere che vorrà vedere presso il museo, che saranno
ordinate dall’app sul proprio smartphone a seconda della loro collocazione
nell’allestimento fisico, con le informazioni relative, anche audio. Infine, un
aspetto partecipativo e peer to peer che dà un tocco decisivo di contemporaneità: è
possibile fruire in loco di percorsi e selezioni tematiche proposte da altri
visitatori, oltre naturalmente a quelli proposti dall’istituzione.
La centralità della piena disponibilità della collezione on-line si è manifestata
in numerosi casi. Vediamone un altro. In occasione del rifacimento del sito del
Metropolitan Museum, al momento dell’acquisizione e dell’apertura del Met
Breuer nella sede dell’ex Whitney e di un discussissimo cambio di logo, Sree
Sreenevasan descrisse l’operazione come “a refresh, not a relaunch” nell’editoriale
sul sito del museo pubblicato il 29 febbraio 2016; il titolo del suo scritto, co-
firmato da Loic Tallon, era A Fresh Digital Face for the Met. Perché solo un
85

“ritocco”, ma non un “rifacimento”? L’esatto opposto di ciò che dichiara Kati


Price rispetto al rifacimento del sito del V&A. Perché il cuore del sito, che ha
impegnato investimenti di energie, ricerca, tempo, ed è riconosciuto come il suo
vero patrimonio, è la collezione on-line. Il lancio di quest’ultima era avvenuto nel
2011 grazie alla collaborazione con l’agenzia Cogapp; l’operazione fu realizzata
dopo aver condotto 102 colloqui o workshop con il personale del museo al fine di
comprendere e configurare l’organizzazione più accessibile per i contenuti.
Sia il Met sia il Rijksmuseum hanno elaborato strumenti per mobile che non
sono propriamente app native, ma soluzioni ibride che rimandano ai rispettivi siti
web, naturalmente responsive. Sottolineo questo aspetto perché significativo del
86

senso da dare ai contenuti, fruibili anche on-site e come guida, per chi, come la
maggior parte dei visitatori “global”, visiterà il museo una volta nella vita, senza
essere costretto a scaricare uno strumento pesante come l’app nativa, destinata
poco dopo a rimanere per sempre inutilizzata. 87

Dopo una fase di grande entusiasmo per il mondo delle app, ritengo che questo
assestamento sia definitivamente più coerente e sostenibile all’interno
dell’ecosistema degli strumenti digitali di un museo. Sofie Andersen la chiama
88

“progressive web app” in un’intervista, dopo averla sperimentata al Whitney


Museum nel 2018 e non solo, facendola richiamare velocemente con un
QRcode. Recentemente approdata al Metropolitan Museum di New York, la
89

Andersen conferma che le loro ricerche e i nuovi prodotti sono sempre basati
sull’analisi dei dati: il sito web del Met ha 30 milioni di visite all’anno e il museo
circa 7 milioni di visitatori. Andersen specifica, però, che sono consapevoli del
fatto che il pubblico internazionale visiterà il museo solo una volta, dedicandosi
alla collezione permanente, mentre il pubblico locale ha un alto tasso di ritorno,
con una particolare attenzione per le esposizioni temporanee. A questi due
differenti gruppi di utenza bisogna fornire strumenti adeguati ai bisogni specifici.
Aggiungo una considerazione che vede unanimi le voci di Nancy Proctor, Sofie
Andersen e altre: se il tasso di conversione tra visitatori e sito, quand’anche
altissimo, non supera nemmeno nei casi dei musei enciclopedici il 20%, qual è la
ragione per non condividere con l’80% degli interessati il patrimonio
digitalizzato e disponibile on-line? Ultima, ma non da poco, resta la proporzione
fra collezioni allestite e collezioni in deposito: quale percentuale di pubblico
potrà mai venire in contatto con le opere non esposte, se non on-line?

4.2.1 Un’unica collezione on-line


Sulla centralità della questione della digitalizzazione delle collezioni è giunto il
momento di una riflessione collettiva fra istituzioni. Quand’anche la singola
istituzione si sia attrezzata a riguardo, il processo si è evoluto con metodi e spinte
singole, non certo in direzione di uniformità e creazione di reti nazionali o
internazionali.
Sul numero di novembre 2019 del “Museums Journal”, Kevin Gosling apre in
un piccolo trafiletto un caso specifico: si domanda per quale ragione, dato che in
Gran Bretagna 1700 musei hanno investito milioni di pound sulla
digitalizzazione delle opere, non si possano effettuare ricerche attraverso
l’interezza, l’insieme delle collezioni, ma solamente incanalandole sul sito di un
museo alla volta. È una questione che dovrebbero affrontare tutti i musei che
non sono stati in grado fino a ora di produrre un unico ecosistema di opere,
accessibile, libero, gratuito, collaborativo. Non ci cono riusciti, e non mi risulta
nemmeno ne abbiano sentito l’esigenza, l’International Council of Museums,
l’American Association of Museums o la britannica Museums Association.
La chiamata collettiva alla costruzione di un’unica collezione on-line è stata
raccolta da Europeana, ma soprattutto per estensione, qualità e potenza di fuoco
90

da Google Arts and Culture. La fondazione legata a Google ha esordito con il


nome di Google Arts Project nel 2011. Ho intervistato Luisella Mazza, Head of
Operation della sede londinese del Google Cultural Institute. 91

I numeri prodotti sono assolutamente considerevoli per il settore:


I musei e le istituzioni culturali partner sono oltre 1500 da oltre 70 Paesi e hanno reso disponibili on-
line sulla piattaforma oltre 6 milioni di immagini e oltre 9000 mostre digitali curate da esperti. I
visitatori superano i 43 milioni all’anno, con oltre 175 milioni di visualizzazioni di contenuti.92

Tale risultato impone una serie di domande: come mai la digitalizzazione di


alcuni musei è potuta avvenire solo tramite Google, cioè un attore terzo? Come
mai l’intero comparto museale, su scala internazionale, non ha avuto la forza
teorica e operativa di condurre in autonomia un’operazione della medesima
portata?
Gli strumenti offerti da GAC stanno con grande velocità crescendo
quantitativamente e qualitativamente: sono passati dalla foto ad altissima
risoluzione (ArtCamera, giga pixel) che consente di vedere dettagli delle opere
non percepibili a occhio nudo, alle restituzioni a 360 gradi, alla realtà aumentata.
E ancora il laboratorio parigino Cultural Institute Lab è sede di interessantissime
sperimentazioni creative. Il versante web della fondazione si sta velocemente
evolvendo, fornendo contenuti professionali, come mostre digitali impossibili da
realizzare analogicamente in una sede fisica. Così come i professionisti che
lavorano in questo comparto sono dinamici e capaci di acquisire enorme expertise
in lassi di tempo molto brevi.
Rilevo che pochissime eccezioni, come ad esempio la Pinacoteca di Brera
diretta da James Bradburne, hanno inteso manifestare un diniego rispetto al
progetto della Fondazione Google, forse come attestazione di una certa
autonomia. Altre, pur attrezzate autonomamente, come il Rijksmuseum del
quale abbiamo parlato, hanno corposamente aderito al progetto, in tutta evidenza
e correttamente vedendoci una piattaforma di lancio e di comunicazione
incomparabile.
I musei italiani hanno reagito – ne sono testimone – con un’iniziale diffidenza,
in particolare legata alla difesa del diritto d’autore nella sua forma più obsoleta,
forse risentendo dell’impossibilità di mediazione dovuta alla carenza interna di
personale competente in merito. Le istituzioni che sono state capaci di aderire
hanno certamente goduto di strumenti innovativi, supporto professionale e
grande visibilità, il tutto a titolo completamente gratuito.
Nel confronto culturale con la rete sarebbe stato, e forse sarebbe ancora
opportuno che le istituzioni museali avessero contezza del rischio dell’intervento
e della colonizzazione dei giganti della rete e scegliessero eticamente di difendere
l’autonomia della propria posizione non commerciale, non legata al mercato, e la
propria identità digitale legata alla missione nativa della condivisione del sapere.
O che, quanto meno, si interrogassero seriamente su una tendenza di così larga
scala, per comprendere l’obsolescenza della propria attitudine a interpretare il
futuro e il significato del cedere il passo a Google.
Alla guida della Andersen, il Metropolitan ha certamente compiuto un passo
oltre: le loro opere sono disseminate e disponibili non solo sul sito
dell’istituzione, ma anche su altri siti; grazie alla collezione in open source hanno
stretto partnership con Wikipedia e Pinterest per fornire i contenuti anche ad
altre piattaforme, delle quali non curano il design; l’obiettivo – dice la Andersen
– non è indirizzare verso il sito del Metropolitan, o tenere le redini strette del
racconto, ma far sì che i contenuti del Metropolitan facciano parte della vita
quotidiana del numero più alto di individui, che si persegua la finalità di
condividere conoscenza. Tutto ciò riguarda direttamente il modo che ha il museo
di pensarsi nel futuro. I numeri sono certamente di rilievo: 225 milioni di oggetti
del Metropolitan compaiono in articoli Wiki. Quest’ultima soluzione individua
un percorso nuovo di liberazione e diffusione dei contenuti che, credo, sarebbe
piaciuto anche ad Aaron Swartz per la sua autonoma e democratica costruzione.

4.2.2 La collezione on-line e il nutrimento all’industria creativa


Una delle funzioni alle quali il museo è incontrovertibilmente chiamato da
quando è nato, è quella di costituire nutrimento dell’industria creativa, nella sua
veste di alter ego dell’Accademia. L’iniziativa che meglio risponde nell’era
digitale a questa chiamata è in assoluto il Rijks Award, del Rijksmuseum di
Amsterdam: si tratta di una call aperta internazionalmente a designer e creativi a
realizzare, ispirandosi, utilizzando, richiamando le opere del museo in oggetti
d’uso quotidiani. Il claim dello spot on-line della prima edizione del premio, nel
2017, era “our art belongs to the world. Use our art to create new art” (la nostra
arte appartiene al mondo. Usala per creare nuova arte). Alla commissione
internazionale chiamata a giudicare vennero sottoposte 2600 proposte
provenienti da 62 paesi. I 10 finalisti selezionati sono un inno alla vitalità del
museo, al rendere l’arte tutta davvero contemporanea, con capofila Masterpieces
Never Sleep: mascherine per dormire sulle quali sono riprodotte la parti di viso
dei dipinti con gli occhi aperti; preservativi distinti da una confezione che ha
come soggetto Adamo ed Eva nelle varianti della collezione del museo, la
camicia ispirata alla Ronda di notte di Rembrandt, le lenti a contatto e le unghie
Delft blue con i motivi blu su bianco tipici dei manufatti olandesi ispirati alle
porcellane cinesi. Gli oggetti sono in vendita come merchandising del museo,
93

anche on-line.
È stata di recente aperta la call per assegnare il premio del 2020. Si potrebbe
pronosticare, senza tema di smentite, un alto numero di risposte.

4.3 Trasparenza, sostenibilità, accountability


Un aspetto che meriterebbe una collocazione stabile, funzionale, ben ponderata
sui siti delle istituzioni, riguarda tutto ciò che concerne le numerose e differenti
attività che il museo svolge, con l’obiettivo della trasparenza totale e
dell’accountability. Come noto l’istituzione museo necessita di finanziamenti,
siano essi pubblici, privati, misti, di partner o provenienti da bandi: in ogni caso
il sostegno economico è indispensabile per procedere. Proprio per questa ragione
rendere conto di ogni impegno preso, di ogni decisione, di ogni risultato, di ogni
tipo di ricerca, anche quando non legislativamente vincolati alla trasparenza, è
non solo eticamente corretto, ma potenzialmente fertile perché supporta la
creazione di fiducia con tutti i generi di pubblici e di stakeholders.
I modi, gli strumenti e i traguardi sono molteplici. Gli esempi, purtroppo, non
tantissimi. Il primo strumento da citare è la dashboard, una pagina web che
illustra quantitativamente le attività dell’istituzione tramite il numero dei
visitatori, informando sul sostegno finanziario stabile e continuativo, ma anche
sul numero di membership, esponendo i dati relativi alla comunità digitale, quali
i follower sui social network o i visitatori al sito web; ma ancora oltre, tenere
presenti gli obiettivi quali accountability e i bisogni degli stakeholders, i
finanziamenti pubblici, quelli privati, le rendicontazioni delle attività, che siano
restauri, mostre, acquisizioni, prestiti, le spese per il personale, per la
manutenzione ordinaria e straordinaria della struttura, le partnership.

Gli esempi, illustrati nelle immagini, sono due casi americani: la dashboard
dell’Indianapolis Museum of Art e quella del Dallas Museum of Art, senza
differenze sostanziali fra l’una e l’altra.
Si tratta di semplici pagine web, con aggiornamento variabile (non credo che
quelle citate avessero un feed in tempo reale) di velocissima consultazione, con
l’immediatezza potente e sintetica di un’infografica, e la capacità di dare
all’esterno una visione del museo molto nitida all’istante.
In Italia lo strumento ha avuto – che io sappia – un solo caso di attestazione, in
un’istituzione partecipata, Palazzo Strozzi a Firenze, al tempo della gestione
Bradburne, e ora non più on-line (vedi immagine in basso). Vi si illustravano un
numero contenuto di dati: il numero dei visitatori, divisi fra mostre tradizionali
di Palazzo Strozzi e quelle di Strozzina – partizione anche questa non più attuale
– i ricavi, i finanziamenti privati e pubblici.
La dashboard è, anche nella sua versione semplificata, uno strumento di grande
trasparenza: si tratta di una sorta di “restituzione” alla comunità della complessità
del museo; è un gesto che manifesta come l’istituzione senta il dovere di dare
conto dei propri risultati, ne sia consapevole e li esponga.
Quando sento parlare di difficoltà a trovare finanziamenti o gli inossidabili
stereotipi sulle attività che i professionisti svolgono in museo, penso sempre che
il primo passo da fare per un’istituzione è raccontarsi, non solo nella propria
storia, o nello storytelling sulle collezioni, ma nell’oggi, come impresa culturale,
con un linguaggio che manifesti il suo livello di consapevolezza e saper fare.

Ancora più esaustivo su questo tema è uno strumento che nasce analogico (e di
fatto lo resta) ma viene pubblicato e messo a disposizione on-line: mi riferisco al
bilancio di missione o bilancio sociale (negli esempi che illustrerò è disponibile
on-line sul sito dell’istituzione relativa in formato pdf). Uno dei più efficaci (e
uno dei primi), che ho atteso ogni anno da quando hanno cominciato a
pubblicarlo, è quello della Fondazione Querini Stampalia di Venezia. È 94

annunciato nella pagina web come segue:


Dal 2009 la Fondazione redige il bilancio di missione, uno strumento fondamentale per dialogare e
confrontarsi con il proprio pubblico e le istituzioni e per informare nel dettaglio tutte le persone
interessate alla sua attività. Nel bilancio sono tracciati in modo puntuale i risultati culturali ed
economici delle attività svolte durante l’anno dando così conto del grado di ampliamento della sua
missione e dei risultati progressivamente raggiunti.

Si tratta di un documento che conta circa 150 pagine. È un impaginato


gradevole nella grafica, esaustivo nel contenuto ed eterogeneo nella densità delle
pagine. Vi si può trovare una pagina doppia con sfondo fotografico nella quale
galleggiano i numeri riconosciuti come significativi: dalle visite ai metri quadri,
dal numero dei volumi a quello delle visite guidate, dal seguito sui social ai giorni
di apertura. Non manca la trasparenza anche in questioni di bilancio in senso
tradizionale, rendendo conto di entrate (finanziamenti pubblici e privati,
fatturato, sponsorizzazione) e uscite (manutenzione, personale dipendente,
collaboratori e consulenze, fino alle utenze).
Significativa la narrazione delle varie attività quali ricerche, mostre, convegni,
concerti, presentazioni, del programma di formazione del personale inserito nella
sezione dedicata alla gestione delle collezioni e anticipato da questo vero e
proprio statement museologico e operativo: “Nel panorama internazionale gli
allestimenti museali vengono progettati assegnando sempre più importanza alla
centralità del visitatore, sviluppando in modo nuovo temi quali l’accessibilità,
l’interpretazione e il coinvolgimento”. Il documento propone poi utili grafici dal
95

2015 al 2018, facilitando un ragionamento diacronico sull’andamento dei dati.


Trovo apprezzabilissima e molto utile la rendicontazione delle attività di
comunicazione, che illustra – oltre ai social network e al sito web – anche i
comunicati stampa emessi, le uscite stampa e tv offrendo un’immagine del
grande ribollire di attività che si svolgono ogni giorno in un museo che non
trovano ancora cittadinanza stabile nell’immaginario collettivo.
Un ulteriore e significativo passo avanti, a fine 2019, la pubblicazione del
primo documento di rendicontazione integrata dal titolo La creazione del valore,
da parte del Museo Egizio di Torino, che ha la seguente premessa:
Raccontare le molteplici attività intraprese è un compito arduo. Il primo risultato di questo percorso è
la pubblicazione delle due edizioni del bilancio sociale (2017 e 2018), attraverso le quali trova
espressione il nostro desiderio di raccontare l’impegno quotidiano per affermarci con sempre più forza
quale ente di ricerca, luogo di dialogo e confronto culturale, laboratorio di innovazione in cui
sperimentare anche nuove forme di convivenza sociale. Contestualmente, è maturata un’ulteriore
consapevolezza: oltre a raccontare i risultati del nostro agire, ci preme infatti rendere trasparenti e
comprensibili i processi. Ecco allora che nel 2019 abbiamo portato avanti un progetto di
rendicontazione integrata; basandoci su linee guida e standard internazionali, il Museo Egizio si è
interrogato sulle modalità con le quali persegue i suoi obiettivi strategici.96

Insisto sulla questione del “formato” perché naturalmente tali documenti non
sono rintracciabili in rete se non se ne conosce il nome e non si sa dove cercarli,
perché il pdf, come noto, non è certo scandagliato dai motori di ricerca. È un
vero peccato – e forse una lacuna colmabile senza troppa fatica – e sono convinta
che la condivisione dei dati e degli approcci sarebbe di assoluto vantaggio per
l’intero comparto museale per molti versi, non ultimo certamente la possibilità
per ricercatori e studenti di fare analisi comparative su una base informativa
condivisa.
Un aspetto ancora riguarda il museo come istituzione contemporanea: dare
conto del proprio comportamento responsabile sulla sostenibilità non solo
finanziaria, ma anche in termini di attenzione all’utilizzo delle risorse
energetiche. Il Museo della Scienza di Milano, con un anticipo sui tempi
97

rispetto ai Fridays For Future di Greta Thunberg, si è dotato di pannelli solari


con i quali produce parte dell’energia indispensabile al museo per funzionare: un
pannello digitale durante il percorso dell’allestimento illustra in tempo reale la
produzione e il consumo dell’energia data dal pannello fotovoltaico installato.
Non credo sia più soltanto questione di affinità disciplinare: il tema del climate
change riguarda tutti e, se il museo vuole fare cultura, lo può e deve fare anche su
questo tema. Avere una policy responsabile sull’uso delle risorse energetiche e
comunicarla, magari con una dashboard on-line, sarebbe un buon passo dentro il
XXI secolo.
77
https://www.symbola.net/ricerca/io-sono-cultura-2019.
78
“In this paper, the authors will describe the rationale, methodology, and results of a series of studies
that have been conducted with visitors to the Indianapolis Museum of Art website. The objective of the
studies is to better understand people’s motivation for visiting the site and whether this motivation has an
impact on the way they engage on-line. The hope is that these results will provide a reference dataset, and a
replicable model for other museums that are interested in better understanding their on-line audience and
in conducting similar studies for their own web efforts” (traduzione mia), in Silvia Filippini Fantoni, Robert
Stein,
https://www.museumsandtheweb.com/mw2012/papers/exploring_the_relationship_between_visitor_mot
(anche l’illustrazione proposta è mutuata dallo stesso articolo).
79
La governance e quindi il sito del museo sono in seguito mutati.
80
https://www.maxxi.art/events/digital-think-in-la-voce-digitale-dei-musei;
https://www.vam.ac.uk/blog/digital/thinking-small-how-small-changes-can-get-big-results.
81
“We want our digital experiences to live up to the V&A’s physical presence as a vibrant, active,
continually changing place” (traduzione mia), https://www.vam.ac.uk/blog/digital/the-new-va-website-the-
inside-story.
82
Acronimo per Content Management System, cioè la piattaforma che consente di pubblicare contenuti
su un sito anche a chi non abbia dimestichezza con il codice. Si vedano in merito le considerazioni in Digital
Humanities, Cambridge, MIT, 2012, p. 132-133.
83
“The museum object as the atomic unit of content. This gives us the freedom to curate objects online in
a way that’s conceptually similar to how we do it in the museum itself” (traduzione mia),
https://www.vam.ac.uk/blog/digital/the-new-va-website-the-inside-story.
84
Dichiarazione di Martijn Pronk il 24 aprile 2015 a Club Innovation & Culture France.
85
Mentre scrivo è on-line: https://www.metmuseum.org/blogs/digital-underground/2016/fresh-digital-
face-for-the-met?
utm_source=Facebook&utm_medium=statusupdate&utm_content=20160229&utm_campaign=digitalunderground
86
Responsive è una parola mutuata dall’inglese, senza corrispettivo in lingua italiana; sta a indicare un
contenuto disponibile via web capace di adattare la propria impaginazione alla dimensione dello schermo del
dispositivo grazie al quale si consulta.
87
Ana Luisa Sánchez Laws, Museum Web Site, cit.
88
Maria Elena Colombo, La vita delle opere, cit., p. 384.
89
Sofie Andersen, intervista in Beyond Museum Walls, Webby Podcast, 18 novembre 2019.
90
Si veda in merito l’intervista a Merete Sanderhoff in questo volume, paragrafo 8.2.
91
Si veda l’intervista nel paragrafo 8.2.
92
Si veda l’intervista nel paragrafo 8.2.
93
https://www.rijksmuseum.nl/en/rijksstudio-award.
94
Reperibili qui dal 2010 al 2018, http://www.querinistampalia.org/ita/fqs/bilancio_di_missione.php.
95
Ivi, p. 46.
96
https://www.museoegizio.it/esplora/notizie/e-online-la-creazione-del-valore-del-museo-egizio-il-
primo-progetto-sperimentale-di-rendicontazione-integrata-a-livello-museale-in-italia.
97
Per un approfondimento verticale sul tema rimando a Michela Rota, Musei per la sostenibilità integrata,
Milano, Editrice Bibliografica, 2019.
5. LA PARTECIPAZIONE: RAGIONI E PRATICHE

5.1 Quale partecipazione


Uno dei capisaldi bibliografici del museo partecipativo è il volume di Nina
Simon dal titolo The Participatory Museum (Il museo partecipativo). Il capitolo
quinto si apre con la domanda: che cosa comporta per un’istituzione culturale
diventare un luogo di engagement partecipativo? Tutti i progetti partecipativi
sono basati su tre principi istituzionali:

il desiderio di ricevere messaggi e coinvolgimento da parte dell’esterno;


la fiducia nelle abilità dei partecipanti;
la capacità di dare una risposta alle azioni e ai contributi dei
partecipanti. 98

La pubblicazione, data la rapidità dei tempi, è un poco datata, essendo uscita


nel 2010; non di meno individua tratti fondamentali per la partecipazione che
sono con tutta evidenza condivisi con ciò che contraddistingue alcuni
comportamenti tipici della rete dal web 2.0 in poi, quali lo user-generated content
e lo sharing. Ciononostante, anche in questo caso, la ricerca della definizione dei
tratti distintivi della partecipazione in museo, in particolare modo parlando di
digitale, non è peregrina. Il senso di questa pratica, riguardo grandi musei o
piccole istituzioni di provincia, è espressione fra le più significative
dell’istituzione museale oggi.
Per dirlo con le parole di Nicholas Serota, già direttore della Tate di Londra:
Il museo può essere una piattaforma per l’espressione di punti di vista diversi e può aiutare a
comprendere il modo in cui la cultura da un lato risponde e dall’altro contribuisce ai cambiamenti nella
società […]. Come le università possono servire a verificare delle ipotesi, ma possono anche attrarre
quel vasto pubblico che genera un senso di fiducia e di comunità ormai raro all’interno delle istituzioni
accademiche.99

Con la nascita dei social network, visitatori e non hanno acquisito la possibilità
di esprimersi liberamente sulle attività e perfino sull’identità del museo, e questo
costituisce un primo grado primordiale di autonoma partecipazione: la voce
esiste, data dal mezzo, ma non è certo conseguenza necessaria che si valutino le
sue ricadute o che siano incisive e determinanti per l’istituzione.
La partecipazione evoluta e dotata di reciprocità alla quale ci dedicheremo qui è
quella nella quale è la voce dei pubblici a forgiare il museo, a indirizzare il suo
operato, a determinare la sua immagine, a condizionare il suo modo di allestire, il
suo modo di parlare e di rappresentarsi. Ho appreso da una testimonianza di
100

Silvia Filippini Fantoni che all’Indianapolis Museum of Art fosse prassi


confrontarsi apertamente con i vari dipartimenti interni con peso equanime, ma
non solo, interpellare preventivamente sui progetti, per gradi, i visitatori in
possesso di membership e poi i visitatori stessi – attivamente o meno – su vari
aspetti di una mostra, dal titolo-nome, alla collocazione in allestimento dei
dispositivi digitali di supporto o approfondimento per la visita. Non mi risulta 101

sia usanza diffusa, certo non è prevalente, nei musei italiani, che sembrano anche
in questo essere resistenti all’ibridazione dei pareri, delle opinioni e dei punti di
vista.
Costruire processi di partecipazione che guidino e condizionino l’operato di un
museo è operazione complessa, che richiede certamente personale capace e
maturo, per preparazione e attitudine, tanta competenza ed energia per
indirizzare il progetto stesso e un alto livello di osmosi e reciprocità fra i
dipartimenti coinvolti, siano essi curatoriali o votati alla mediazione di tipo
didattico o di altro genere. Significativa – perché i cambiamenti passano
attraverso le parole – la testimonianza di Jennifer Sly, Museum Education and
Technology Specialist, presso il Minnesota History Center: la Sly sottolinea che
il loro team non utilizza più la parola “curator” (pare che comunque tengano
poco in considerazione i titoli in generale) ma che siano più attenti a quanto
ognuno possa contribuire allo sviluppo del processo che porta alla mostra e
all’impatto sull’esperienza del visitatore. 102

Non a caso non appartengono a professionisti museali, almeno nel senso


tradizionale, gli sguardi più accoglienti sulle pratiche di “condivisione”, o
meglio, di condividersi con le opere: fondendosi, fermandosi, immaginandosi come soggetti fotografici,
facendo di sé una linea di fuga, attraversando soglie, passando da una sala all’altra, e non con
l’atteggiamento del critico o dell’archeologo che sa tutto quello che andrà a vedere, ma di chi vive quegli
spazi, a modo suo, anche inconsapevole e persino incompetente.

Il passo è di Roberto Cotroneo, scrittore e fotografo, al quale siamo gratissimi


anche per la foto della copertina di questo volume. 103

Vi è partecipazione insomma, se l’istituzione, incarnata nei suoi professionisti,


prevede la volontà di aprirsi per davvero e di rispondere in una relazione
caratterizzata da reciprocità con i pubblici e il loro contributo.
Il portato di tali operazioni è naturalmente in tutto dissimile se confrontato con
quello di operazioni nate dall’assecondare solo superficialmente alcune mode
posticciamente addobbate di facili claim. Non saremmo in errore pensando che le
pratiche partecipative siano una delle più importanti forme di restituzione, il cui
valore simbolico è esattamente agli antipodi rispetto al museo ostaggio di un’élite
intellettuale autoreferenziale, incapace di negoziare e incontrare.

5.2 Casi significativi


Anche in questo ambito non siamo al punto zero: nel corso degli ultimi dieci
anni e più si sono succeduti casi significativi e memorabili, con differenti gradi di
impegno e di ritorno. Quelli che vado a presentare si sono distinti per livello di
circolarità fra museo e pubblici, di immediatezza e di efficacia che ho trovato
esemplari.
Prima fra tutti, in ordine di tempo, di notorietà e di diffusione, capostipite
davvero poco seguita, l’esperienza del 2008 del Brooklyn Museum, “Click! A
Crowd-Curated Exhibition” organizzata da Shelley Bernstein, Manager of
Information Systems al museo. La sfida è stata chiamare la comunità a par-
104

tecipare on-line al processo di selezione delle opere per una mostra fotografica,
condizionandolo. Decisivo il tema: oltre a valutare il valore estetico dello scatto,
si era chiamati anche a giudicare la capacità rappresentativa della foto in merito
al tema “The changing faces of Brooklyn”. 389 le immagini di artisti – anche la
loro candidatura presentata in modo anonimo – sottoposte a giudizio dal 1 aprile
al 23 maggio 2008. 3344 valutatori, ai quali era richiesto di dichiarare il proprio
livello di competenza e la propria zona di provenienza, hanno prodotto più di
410.000 valutazioni. In mostra, come parte dell’allestimento, sono state esposte
105

le prime 80 opere votate, stampate in una scala che rispecchiava via via il rating
raccolto. La riflessione che condusse all’iniziativa ebbe come miccia la
pubblicazione di un volume, The Wisdom of the Crowd di James Surowiecki,
columnist del “New York Financial Times”, la cui tesi era che un gruppo allargato
di non esperti avrebbe potuto manifestare una certa saggezza, a patto che il
singolo non fosse in grado di condizionare gli altri. Si è riconosciuta quindi,
molto in sintonia col tema territoriale, una competenza alla comunità locale. A
votare, verosimilmente per un legame umano col tema, sono state in particolare
persone di Brooklyn.
L’anno successivo, nel 2009, è lo Smithsonian a fornirci un’esperienza
partecipativa. Il Luce Foundation Center, primo fra i depositi museali visitabili,
chiede collaborazione su un’attività: il ruolo del deposito è sostanzialmente quello
di sostituire le opere che, con una rotazione piuttosto sostenuta, lasciano di
frequente un vuoto allestitivo perché concesse in prestito: con Fill the Gap il
team chiede di suggerire ai curatori della galleria una sostituzione opportuna e
adeguata, come misure e come senso. La collaborazione avviene esclusivamente
su Flickr.
106

Andiamo poi all’esperienza di “I went to MoMA and…” del 2011, ideata dal
Museum of Modern Art di New York. È un esempio illuminante innanzitutto
107

in merito al definitivo superamento della forzosa distinzione fra esperienza on-


line e off-line. Come vedremo, il progetto rimbalza con leggerezza da una parte
all’altra di quel confine, vanificandolo e svuotandolo di senso. L’iniziativa, datata
2011, comincia come una semplice domanda: si consegnava in sito al visitatore
un foglietto, cartaceo sì, con la sola scritta “I went to MoMa and…” (sono
andato al MoMA e…) e tanto spazio bianco, consegnato con una matita alla
libera creatività ed espressione del pubblico. La destinazione dei foglietti era, in
questa fase, una bacheca fisica, ove il museo componeva e mostrava agli altri
visitatori i molteplici sguardi su se stesso. Credo che al MoMA si siano
velocemente accorti della preziosità dei contributi che mescolavano messaggi di
testo e disegni, in un misto di semplice entusiasmo, curioso umorismo e grande
profondità. Insomma un libro-firme, meno paludato, divertente, tanto da
decidere di farne una versione web 2.0, mostrandola al mondo. Nella successiva
fase del progetto al visitatore venne quindi chiesto di imbucare il bigliettino con
il suo feedback sulla visita in una sorta di cassetta, del tutto simile a quella che
raccoglie i reclami, però in realtà uno scanner. Ai bigliettini era destinato un sito
web che li vedeva pubblicati ed esposti ordinatamente in una bacheca digitale,
consentendo l’opzione di condividerli tramite social network e via email.
Ma giunto all’on-line, “I went to MoMA and…”, compie un altro passo
significativo: il museo utilizza i bigliettini, selezionati e aggregati, per la propria
campagna di advertising sulla stampa, analogica quindi, in particolare sul “New
York Times” e sulle pensiline degli autobus. In sostanza una sorta di crowd
communication, orizzontale, dal basso, insomma peer to peer, ove il museo è solo
tramite. Lo racconta così Brigitta Bungard, Assistant Creative Director:
Un esperimento estemporaneo per vedere cosa sarebbe successo se avessimo offerto ai visitatori
l’opportunità di condividere le loro esperienze al Museo, qualunque esse fossero. Abbiamo
semplicemente fornito matite e biglietti e ci siamo offerti di mostrare tutte le risposte nella hall, e “sono
andato al MoMA e…” ha superato i nostri sogni più sfrenati, producendo una gamma incredibile di
belle, intelligenti e sincere parole scritte a mano e risposte disegnate. Davvero l’esito fu così
sorprendente, che presto coprirono la nostra hall, riempirono un sito web e divennero una campagna
pubblicitaria molto popolare sul ‘New York Times’, su altre riviste e con affissioni in tutta la città. Le
persone hanno persino iniziato a condividerle on-line, tramite i biglietti pubblicati su siti web e blog
popolari.108

Altro posto di rilevo per apertura, diffusione e capacità di adattamento il


progetto Be Here, come descritto da Nancy Proctor in un incontro organizzato
da Meet The Media Guru a Palazzo Litta nel 2017. L’idea consiste in una
piattaforma open source disponibile su smartphone, contributiva sulla base della
geolocalizzazione; Nancy Proctor da subito mette l’accento sul fatto che spesso i
musei devono fare il grosso dello sforzo sul versante economico degli strumenti
per via dei loro costi, con un esito poi timido quanto ai contenuti. Be Here è uno
strumento disponibile per tutti (sui due versanti, pubblici e istituzioni) che
consente di raccontare una storia o di ascoltarla a seconda di dove ci si trova;
l’intento è naturalmente quello di condividere i racconti (che la Proctor preferisce
chiamare “voci”) all’interno di una comunità locale, la quale è solitamente
depositaria di un grande sapere in merito ai luoghi e al loro divenire. 109

L’iniziativa è migrata sulla piattaforma izi.Travel stando a quanto si vede on-line,


ma è tuttora ricca e partecipatissima. Unica difficoltà, nella fruizione dall’Italia
ove non può aiutare la geolocalizzazione, è il discernere fra tanti file audio.
110

L’intento dichiarato è di capacity building: durante il processo contributivo la


comunità impara a capire cosa c’è da conservare e interpretare, rispettare e
tramandare, cioè il museo condivide il suo stesso mandato.
Nonostante il progetto non sia affatto recente, ma creato dallo Smithsonian da
oltre un ventennio, il caso è poco imitato e la piattaforma originaria è stata del
tutto inutilizzata qui. Allo stesso progetto era legata una declinazione più “fisica”,
che consentiva alla grande istituzione, lo Smithsonian, di localizzare con la
partecipazione della comunità una mostra itinerante per il paese, mostra che via
via si accresceva (spostandosi), di nuovi significati, dal nome Museum on the
Main Street. Come ha avuto modo di sottolineare anche la Proctor, non si tratta
di non dare peso al contributo curatoriale, ma di svolgerlo altrimenti, negoziando
continuamente il contenuto.
Sul medesimo solco sembra essere il recentissimo annuncio di Met Stories,
contributi in loco, via social network e via web, ideato da Sofie Anderson, che
offrirebbe di ascoltare come viene vista l’istituzione al di fuori del settore
museale. 111

Caso italiano, recentissimo e di grande rilievo (datato al settembre 2019), di


interazione tramite digitale, e non solo, fra pubblici e allestimento, è il
questionario condiviso dal Museo Egizio di Torino sul tema dell’esposizione di
resti umani. Il questionario, parte di un percorso di ricerca dell’istituzione sul
tema, era volto a individuare i livelli di sensibilità dei pubblici all’esposizione di
resti umani a partire da una domanda definitoria: “Cosa intendi per resto
umano?”. È stato somministrato a cura di Quorum, società specializzata in
sondaggi, a 2300 soggetti, tra interviste personali in sito, telefoniche e diffusione
via social network, su un campione di visitatori, quindi sia reali sia potenziali.
Ho personalmente risposto alle domande e, nonostante abbia professionale
dimestichezza con il tema, mi sono sentita più volte spiazzata a riguardo: trovare
alcuni confini su temi etici è complesso; attendiamo con ansia la pubblicazione
dei risultati e i suoi effetti sull’allestimento e la comunicazione.
Il convegno dedicato alla questione, sul versante professionale, svoltosi a
Torino fra il 30 settembre e il 1 ottobre 2019, non ha mancato – aspetto già
segnalato in merito al museo in questione – un affondo simbolico e
contemporaneo, dato dalla partecipazione significativa di Cristina Cattaneo,
medico e antropologo, professoressa di Medicina legale all’Università degli Studi
di Milano e direttore del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia
forense, a collegare il tema museologico e museografico alla questione dei
migranti magistralmente posta nel suo ultimo libro: Naufraghi senza volto. Dare
un nome alle vittime del Mediterraneo, edito nel 2018. 112

Nel dicembre 2019 l’Oakland Museum of California ha chiesto la


collaborazione e l’opinione dei pubblici per il rinnovamento di una galleria;
l’iniziativa, Vote On Posters From Our Collection, si è svolta in 24 ore
chiedendo la selezione di poster degli anni Sessanta e Settanta sui temi dei diritti
delle donne, della riforma carceraria e dell’ambiente. La votazione si è svolta via
Twitter e Instagram Stories e l’opera scelta sarà esposta, con le altre, a giugno
2020.
Anche il FAI, Fondo Ambiente Italiano, si appoggia a pratiche partecipative.
Storicamente l’iniziativa “I Luoghi del Cuore” consente di candidare e sottoporre
a votazione pubblica on-line luoghi bisognosi di interventi conservativi o di
valorizzazione, segnalabili da chiunque. La prassi presenta una combinazione
virtuosa fra “pubblicità” e professionalità; dopo la selezione determinata dai voti,
un gruppo di professionisti con varie competenze conforta e conferma la
proposta nella sua sensatezza e sostenibilità (27 sono i progetti poi sostenuti, i
voti più di due milioni e oltre 37 mila i luoghi votati in prima battuta, distribuiti
per tutto il paese). Il FAI ha anche inaugurato alla presenza del presidente
113

Sergio Mattarella nel settembre 2019 un nuovo bene a Recanati, dedicato alla
poesia L’infinito di Giacomo Leopardi ove fu tradizionalmente concepita. Al
termine di un percorso, tutto multimediale, dato che il luogo offre “una visita
guidata dentro la poesia” e suggerisce una sua lettura, si chiede al visitatore di
darne una propria interpretazione, e di condividerla sul sito www.fainfinito.it.
Nel panorama italiano ho sempre trovato importante e veramente interessante
il caso “Palazzo Grassi Teens” e “Detto fra noi”, presentato da Marina Rotondo
alla prima edizione del MAXXI Digital Think In e ancora in corso. 114

L’esperienza è da conoscere per diverse ragioni; la prima è il target di


riferimento, individuato e raggiunto proprio accogliendone le caratteristiche
distintive: gli adolescenti; a ciò si aggiungono la capacità del team di Palazzo
Grassi di analizzare le premesse, condurre un’esperienza complessa e innovativa
e, davvero raro, la volontà manifesta di presentare e raccontare ad altri il lavoro e
i suoi passaggi (mi riferisco non solo a Marina Rotondo, ma anche a Federica
Pascotto, ottime interpreti della voce dell’istituzione).
Il processo esemplare è sinteticamente il seguente: l’istituzione si rendeva conto
che fra i vari pubblici era scarso, se non del tutto mancante, quello dei teenager.
Alla presa di coscienza è seguita una disamina onesta della propria offerta, grazie
alla quale Palazzo Grassi si è reso conto che, in particolare per quel pubblico, in
realtà non vi fossero che scarsissime proposte. Il passaggio successivo è stato il
riconoscimento della caratteristica distintiva dell’adolescente, cioè il suo mondo
fatto di pari, e il ridotto desiderio di mettersi in relazione con gli adulti. Per
questa ragione l’arte contemporanea di Palazzo Grassi gli adolescenti se la
raccontano fra loro (in un percorso guidato e complesso che ha richiesto grande
impegno nel relazionarsi con le scuole da parte dell’Istituzione).
Sul sito, completamente dedicato a loro, la premessa non lascia dubbi:
Palazzo Grassi Teens è un sito web creato dai tuoi coetanei e destinato a tutti i ragazzi pronti ad
avventurarsi nel mondo dell’arte contemporanea. Insieme scopriremo come gli artisti della Pinault
Collection che sono passati da Palazzo Grassi e Punta della Dogana interpretano il presente e
anticipano il futuro del mondo in cui viviamo. E poiché Palazzo Grassi Teens è un gioco da ragazzi,
sarai tu a parlarne! Cosa aspetti? Inizia a navigare! Spiegare e capire l’arte non è mai stato così facile.115

Mi preme sottolineare che questo caso costituisce anche un paradigma in


termini di rigore metodologico: è stato l’unico nel quale ho visto compilato e
applicato (e condiviso) con esemplare lucidità il Digital Engagement
Framework, lo schema tanto noto, quanto mi pare inapplicato, studiato da Jasper
Visser e Jim Richardson e disponibile in rete. Un passo preso dal documento
andrebbe davvero condiviso con valore di manifesto: “Un’istituzione sociale è
un’organizzazione che ha messo in atto tutte le strategie, tecnologie e processi
necessari per coinvolgere sistematicamente tutte le parti interessate per
massimizzare il valore co-creato”.
116

Per converso invece, e ai fini dell’inquadramento corretto del tema, mi torna in


mente un caso che ben rappresenta un procedimento incompleto, che non è
riuscito ad attenuare l’ombra lunga degli stereotipi dominanti. Anche il museo
Poldi Pezzoli di Milano a un certo punto della propria storia, all’inizio della
direzione Zanni, realizzò di avere scarsità di pubblico giovane. L’operazione che
ne sortì – certo oggi datata in tanti sensi, ma qui utile per ragionare – fu una
campagna pubblicitaria a firma di Italo Lupi, autore anche del logotipo della casa
museo, ove il profilo della Dama del Pollaiolo, immagine icona della casa museo,
venne affiancata nei manifesti affissi per Milano da un altro profilo, da leggersi
verosimilmente con immediatezza come “giovane”. Il modo nel quale il “giovane”
viene rappresentato (è una lei, forse, con una cresta di capelli molto alta e
multicolore) rivela da un lato la distanza fra i giovani e quantomeno chi ha
realizzato e approvato la campagna (il giovane in questione è a tutti gli effetti
somigliante all’informatico Gomma del racconto di Benni citato nel secondo
capitolo di questo volume) e dall’altra incuriosisce su quali misure innovative
possano essere state messe in atto nel museo, create a misura di questo giovane.
Sull’ultimo fronte già Paolo Biscottini rilevava nel 2001: “La dama del Pollaiolo
117

è ancora perfettamente pettinata e tutto nel museo è rimasto identico a prima. In


altri termini, si è colto nel segno il problema del museo, ma non si è mantenuta
la promessa: il problema è posto, ma non risolto”. A leggerlo adesso, viene da
domandarsi a chi sia mai stata fatta qualche promessa o chi si sia sentito il
destinatario di quella promessa, e con quale premessa.

La partecipazione insomma, l’adattamento, l’inclusione non possono essere


comunicati come una messa in scena, senza passare attraverso uno scambio: la
crepa assume un’evidenza stigmatizzante. Il caso appena citato si è verificato
storicamente quando, da Duncan Cameron alla Hooper Greenhill, la riflessione
sulle opzioni da offrire ai visitatori “da un modello lineare a uno transazionale,
ove il messaggio è formulato, scambiato e interpretato in un processo continuo”
era già ampiamente in atto.118

Non ci porta lontano un superfluo, quanto tardo, giudizio di valore sul caso in
sé, mentre è assai utile prendere atto della strada fatta dal Poldi Pezzoli a
“Palazzo Grassi Teens” e considerare le formazioni e le squadre in gioco con la
dovuta attenzione per il futuro (e in alcuni casi per il presente): tra le due
esperienze passano solo una quindicina di anni.
I processi partecipativi costituiscono un presupposto indispensabile per la
rigenerazione in chiave attuale, creativa o meno, della memoria: a questo
119

riguardo propongo la metafora definitoria coniata da Lawrence Lessig nella sua


ricerca e riformulazione attualizzata della questione del copyright; secondo
Lessig – in un gergo geek – come esistono file RO, Read Only, e file RW, Read
and Write, esistono anche culture corrispondenti a questi due generi, che si
offrono solo in lettura o che diventano materiale fertile per nuove visioni.
Il museo, come istituzione, per avere senso nel prossimo futuro non può
rinunciare all’ambizione a ricavarsi un posto come dispositivo fondamentale in
entrambi gli ambiti RO e RW: in ogni contesto le posizioni protezionistiche
esibiscono letture eccessivamente semplificate, negando la necessità di cambiare
modelli di riferimento, come spesso ancora oggi accade nell’evoluzione di una
lingua; Lessig non manca di segnalare che “tutte le prove a nostra disposizione
danno a intendere che si possa praticare una sintesi straordinaria fra il passato e il
presente al fine di creare un futuro straordinariamente più propizio”, e rende
omaggio alla Cultura convergente di Henry Jenkins. 120

In termini di letture creative terze, rispetto alle istituzioni, segnalo la


convergenza di culture nella recente raccolta edita da Sellerio, Pezzi da museo.
Ventidue collezioni straordinarie nel racconto di grandi scrittori, che si apre con
Roddy Doyle che racconta del Lower East Side Tenement Museum di New
York, e Louvre Mon Amour. Undici grandi artisti in visita al museo più grande del
mondo a cura di Pierre Schneider, o ancora alla performance Il Louvre senza il
Louvre di Alex Cecchetti, alla quale ho potuto assistere in Triennale a Milano. 121

Non siamo lontani dall’idea di James Bradburne sulle didascalie di scrittori, ma


queste sono mobili e stampate. È una partecipazione cui riesce a dare il via chi ha
più dimestichezza con la dimensione creativa, una partecipazione in qualche
modo d’alto lignaggio, che – proprio per questo – grazie all’ammissione di
debolezze, preferenze e comune stanchezza museale da parte di una “élite
culturale”, apre all’idea ampia di altre voci.
98
“What does it take for a cultural institution to become a place for participatory engagement? All
participatory projects are based on three institutional values:
-Desire for the input and involvement of outside participants
-Trust in participants’ abilities
-Responsiveness to participants’ actions and contributions”. Traduzione mia. Nina Simon, The
Participatory Museum, Santa Cruz, Museum 2.0, 2010, cap. 5, disponibile on-line all’indirizzo
http://www.participatorymuseum.org/read.
99
Nicolas Serota, introduzione al volume Pezzi da museo, a cura di Maggie Fergusson, Palermo, Sellerio,
2019, p. 11.
100
Anche Sánchez Law cita pareri non dissimili sull’essenza “pro forma” di alcune attività di
partecipazione, quanto sull’impegno necessario, alto per competenze e tempo a disposizione, per approdare
a una “vera” attività partecipata, Museum Web Site, cit., p. 4.
101
Intervento di Silvia Filippini Fantoni durante il primo corso Oh dida - Senza titolo, curato da Maria
Chiara Ciaccheri e Anna Chiara Cimoli nel maggio 2016, https://www.spaziobk.com/prodotto/corsi/senza-
titolo/.
102
Peter Samis, Mimi Michaelson, Creating the Visitor-Centered Museum, London, Routledge, 2017, p.
83.
103
Roberto Cotroneo, Genius loci. Nel teatro dell’arte, Roma, Contrasto, 2017, p. 8.
104
Le informazioni sono disponibili sul sito del museo:
https://www.brooklynmuseum.org/exhibitions/click; il rimando però più dettagliato è a Nina Simon, The
Participatory Museum, cit., p. 115-122; Nina Simon ha informazioni dettagliate e dirette sia da Shelly
Bernstein sia voci raccolte dai partecipanti a vario titolo, personale del museo o votante. Mi sembra l’unica
pubblicazione così strettamente correlata al caso.
105
L’immagine qui riprodotta è la copertina del catalogo della mostra.
106
https://americanart.si.edu/blog/eye-level/2009/11/1033/case-fill-gap.
107
L’esperienza è narrata in un post del blog del museo “Inside/out”,
https://www.moma.org/explore/inside_out/2011/12/07/i-went-to-moma-and-it-s-back.
108
“An impromptu experiment to see what would happen if we gave visitors an opportunity to share their
experiences at the Museum – whatever those might be. We simply provided pencils and note cards and
offered to display all the responses in the lobby, and “I went to MoMA and…” exceeded our wildest
dreams, yielding an amazing range of beautiful, clever, and heartfelt hand-written and hand-drawn
responses. So amazing, in fact, that they soon covered our lobby, filled a website, and became a very popular
ad campaign in ‘The New York Times’, magazines, and posters throughout the city. People even started to
share them on-line, with cards popping up on popular websites and blogs” (traduzione mia),
https://www.moma.org/explore/inside_out/2011/12/07/i-went-to-moma-and-it-s-back.
109
Si veda l’intervista a Nancy Proctor nel paragrafo 8.2, https://www.museweb.us/behere.
110
Ne parla anche Maria Grazia Mattei nel volume Visioni al Futuro, Milano, Editrice Bibliografica,
2018, p. 229.
111
Presenta l’iniziativa l’8 gennaio 2020 il direttore del museo Max Hollein: “That’s why, for the
anniversary year, The Met is launching Met Stories, a yearlong video series and social-media initiative that
will feature captivating stories we’ve gathered from the many people who visit The Met”,
https://www.metmuseum.org/blogs/now-at-the-met/2020/max-met-stories; Sofie Anderson, Behind the
Wall, cit.
112
Cristina Cattaneo, Naufraghi senza nome. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, Milano, Raffaello
Cortina Editore, 2018.
113
https://www.fondoambiente.it/il-fai/grandi-campagne/i-luoghi-del-cuore/?
gclid=EAIaIQobChMIrbW05OTJ5gIVR-h3Ch2bsAixEAAYASAAEgL2XfD_BwE.
114
https://www.slideshare.net/PGTEENS15/adolescenti-al-museo-lo-strano-caso-di-palazzo-grassi-
teens.
115
https://teens.palazzograssi.it.
116
“A social institution is an organization that has put in place all the strategies, technologies and
processes that are needed to systematically involve all stakeholders to maximize co-created value”
(traduzione mia), https://digitalengagementframework.com.
117
Paolo Biscottini, Chi spettina la dama del Pollaiolo, “Nuova Museologia”, 2 (2001), 4, p. 17-18.
118
Ana Luisa Sánchez Laws, Museum Web Site, cit., p. 29; Eileen Hooper-Greenhill, Museums, Media,
Message, London, Routledge, 1995.
119
Pier Luigi Sacco, Introduzione, in Visioni al Futuro, cit., p. 213.
120
Lawrence Lessig, Remix. Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni), Milano, Etas, 2009, p. 7, 13-
14.
121
Pezzi da museo, cit.; Pierre Schneider, Louvre Mon Amour, Milano, Johan & Levi, 2012; ho intervistato
Alex Cecchetti per “Artribune”, https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-is-
who/2018/01/intervista-alex-cecchetti-performance.
6. DIGITALE, BAMBINI, MUSEI. QUALCHE CONSIDERAZIONE

Pur essendo oramai alcuni nativi digitali divenuti adulti, in senso anagrafico – lo
rammento a segnare lo scorrere dei decenni – se si cerca di approfondire, senza
preconcetti, il tema della relazione dei bambini con il digitale e con internet si
comprende che ancora la sostanza informativa, in particolare in lingua italiana, è
dotata di poca organicità e consistenza. Per contro, anche in relazione a questo
tema non si è affrontata la complessità; piuttosto sono molto diffusi
considerazioni di stampo apocalittico e metodi iper-correttivi, il cui obiettivo è
unicamente vietare o limitare il contatto con il digitale.
Per comprendere l’ambito si può in modo più costruttivo provare a
riorganizzare mentalmente gli articoli e le ricerche, ordinandoli in una griglia che
li accorpi a seconda della domanda alla quale rispondono: qui di seguito “come e
quanto?”, “cosa?” e “perché?”.

6.1 Come e quanto?


Cominciamo affrontando il tema nettamente prevalente che è quello dello screen
time, cioè la risposta alla domanda “quanto”. Quanto tempo un bambino può
restare davanti allo schermo?L’interrogativo – pur in una semplificazione attuata
a fini illustrativi – si rivela anche a prima vista poco sofisticato, dato che finisce
per sollecitare una sorta di immediato sbalordimento che genera – o dovrebbe
farlo – altre domande: tempo per fare cosa, con chi, su quale schermo e, non
ultimo, quale bambino e in quale contesto.
Negli Stati Uniti, che hanno preceduto l’Europa nella diffusione di reti e
devices, l’associazione pediatri americani (AAP, American Academic of
Pediatrics) ha avanzato precocemente una regola molto semplice, detta del “2x2”:
nessun utilizzo di un device digitale prima dei due anni, e due ore al giorno al
massimo negli anni successivi. Senza alcuna ulteriore specifica, a cominciare dai
contenuti. Nell’ottobre del 2016, probabilmente cercando di tenere il passo con
l’evoluzione sociologica del fenomeno, che ha visto la stabile introduzione in casa
di diversi devices e piattaforme in tempi davvero rapidissimi, l’AAP è tornata sul
tema rivedendo le proprie posizioni per riproporle con un’articolazione diversa e
con uno sguardo al contesto. 122

In sintesi, a seconda della fascia di età:

si riconferma che è preferibile nessun utilizzo prima del compimento dei


due anni;
dai 2 ai 5 anni è consigliato l’utilizzo per meno di un’ora al giorno, ma
alla presenza dei genitori;
per i maggiori di 6 anni si raccomanda di costruire un piano e delle
regole nell’utilizzo del digitale, e di verificare che il tempo speso sul
digitale non sottragga tempo al sonno, al gioco, alla conversazione e
all’attività fisica.

La modifica più rilevante mi pare essere quella che riguarda lo sguardo al


contesto e il coinvolgimento della famiglia; vi si caldeggia la costruzione di un
piano personalizzato per ciascuna famiglia, con regole che valgano anche per gli
adulti, e un fondamentale momento chiamato “media free time”. Uno snodo
educativo del documento è certamente nell’esplicitazione del ruolo genitoriale:
non produttori di regole (e poi quindi cerberi controllori del loro rispetto) ma
mentori, guide in un percorso, capaci di negoziare sul nuovo e dare l’esempio.
Mancano all’appello ancora indicazioni sulla formazione di una cultura per i
genitori, che consenta loro di essere adeguatamente informati: la generazione di
chi è nato dopo il 2000 può avere con alta probabilità genitori che davvero non
abbiano avuto modo di costruire competenze sufficienti in merito, o addirittura
nessuna dimestichezza (si rammenti la lucidità di Tomas Suarez nell’enucleare il
digital divide nell’intervento TED citato al secondo capitolo).
Una grande quantità di studi e interventi relativi alle proposte in merito ai
bambini si concentrano e sbilanciano molto su rischi e pericoli, e pochissimo sul
versante dell’opportunità e sugli effetti positivi (guardate la lecture di Sonia
Livingstone alla London School of Economics: Children in the Digital Age). 123

Anche la puntata dedicata al tema da parte del programma televisivo Presa


Diretta, nel febbraio 2017, evidenzia casi patologici molto gravi e riprende
124

bambini di 4 anni accompagnati a giocare ai video game alla Milano Games


Week, i cui genitori candidamente ammettono di consentire loro di essere presi
da quella occupazione per 4, 5, 6 ore al giorno.
Si trovano anche sul New York Times suggerimenti su come riuscire a togliere di
mano un device a un bambino al termine delle ore regolamentate per lo screen
time (leggete sotto gli articoli i commenti apocalittici), come anche discussioni e
proposte che vanno a comporre un vero e proprio manifesto di caratteristiche
qualitative e di contenuto, che guidano chi non ha alcuna esperienza a scremare
fra mille proposte e prodotti, quantomeno a un uso consapevole e informato
degli strumenti di parental control.
125
6.2 Cosa? Ovvero, quale digitale per i bambini
Rimane ancora poco affrontata, quasi inevasa, la domanda “cosa”, accanto alla
prima che ci siamo posti. Al di là dei giochi addictive, che incarnano nella
126

bibliografia e nella trattazione “il male”, un secondo “ambito” sul quale allo
strumento digitale viene riconosciuta indiscussa valenza positiva è il mondo di
app, senza le quali i bambini con disabilità non avrebbero il medesimo contatto
con il mondo (si veda il bell’articolo When Screen Time Became a Life Line. How
Technology Impacts Children with Special Health Care Need, su TocaBoca, ove si
descrive quanto l’iPad abbia cambiato la vita di un bambino affetto da autismo
che, grazie all’app Proloquo, riesce a esprimersi).
127

Accento sui rischi, più che sui benefici e sulle opportunità, eppure da un lato i
dati (questa volta inglesi) ci dicono che in età prescolare il 25% dei bambini da 0
a 2 anni possiede un tablet, e che la percentuale sale al 36% se guardiamo ai
bambini della fascia 3/5 anni; lo screen time rilevato è ben più ampio di un’ora al
giorno. Il numero di operazioni che sanno fare in autonomia con un tablet è
impressionante (nel medesimo studio Parenting for a Digital Future). Dall’altro
128

lato, sempre Sonia Livingstone (vedi lecture appena citata), ci informa che non c’è
stata alcuna impennata di suicidi o malattie mentali a seguito della diffusione dei
mezzi digitali fra bambini e adolescenti. Anzi. Più i bambini sono competenti
nell’uso, precocemente, più aumentano le loro opportunità professionali e di
crescita nella vita.
Riguardo ai due binomi rischi/danni e opportunità/benefici la Livingstone
sottolinea come sia necessario che si abbandoni, anche nel linguaggio politico, la
semplificazione che vede nelle giovanissime generazioni delle “vittime”,
connotate come nativi digitali. Serve insomma una riflessione politica e sociale
che inneschi un adattamento: è necessario che i bambini siano accompagnati in
questi percorsi – come del resto in tutti gli altri del loro progetto educativo –
dalla famiglia e dalla scuola.
E qui veniamo al dunque. Perché la famiglia e la scuola possano proporre
prodotti di qualità, con contenuti e modalità adatte e sicure, è necessario che
maturino una propria competenza. Sta agli educatori, in famiglia e non,
selezionare e proporre prodotti di qualità, progettati e pensati per bambini, non
per adulti. Introduco, allora, un lavoro tutto italiano condotto sul tema con
grazia e competenza da Giulia Natale, torinese, consulente digitale, che progetta
corsi di formazione per genitori e insegnanti. Dal 2011 si dedica alla scoperta di
storie digitali per bambini tra vari blog: “Paddybooks”, “Wired.it” e “Mamamò”,
dove definisce così la sua metrica di valutazione:
La qualità delle storie digitali si giudica per i movimenti, le illustrazioni interattive, la narrazione, gli
effetti sonori, la professionalità della traccia di lettura e della sua eventuale sincronizzazione, la colonna
sonora, i tasti di navigazione.129

E infine un affondo:
I bambini usano in modo naturale i contenuti disponibili su tablet e smartphone, ma spesso non hanno
competenze adeguate per scegliere buone letture [naturalmente, non le possiedono nemmeno per i libri
cartacei]. Tocca agli adulti formarsi.

Coautrice di una serie di ebook e app per bambini, ha di recente creato un


profilo YouTube in cui mette a confronto un libro per bambini (la selezione in sé
merita peraltro un riconoscimento per sensibilità e buon gusto) con la sua
versione digitale o app enucleandone aspetti peculiari, paralleli pro e contro, in
un caso e nell’altro. 130

6.3 Il più complesso perché


L’Unione Europea sta lavorando da tempo in questo senso, producendo alcune
indicazioni: “Make a Better Internet for Kids” mostra che ci sono stati concreti
progressi sia nel condividere e rinnovare buone pratiche, sia nell’accelerare lo
sviluppo e l’implementazione di meccanismi di segnalazione, le impostazioni
sulla privacy adeguate all’età, la classificazione dei contenuti, gli strumenti
parentali e la rimozione efficace del materiale di abuso di minori”; sono le 131

parole di Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione Europea responsabile


per la Digital Agenda for Europe (2009-2014). L’attenzione è rivolta dunque,
132

come ovvio, anche al tema della privacy e della sollecitazione all’acquisto in app
nei confronti dei bambini. Il tema, ancora una volta, è rilevantissimo in quanto
condiviso con altri media: la pressione commerciale è onnipresente e invadente
anche nei cartoni animati trasmessi in tv.
Nella pagina dedicata dalla commissione europea a “Better Internet for Kids” 133

non si manca però, finalmente, di sottolineare gli aspetti benefici dello sviluppo
di abilità digitali:
I bambini hanno sia particolari bisogni sia particolari vulnerabilità su internet; internet diventerà per i
bambini un luogo di opportunità per l’accesso alla conoscenza, per comunicare, sviluppare le loro
capacità e migliorare le loro prospettive di lavoro e occupazione.134

Segnalo, a titolo di riflessione, quanto sia facile per un bambino anche piccolo
essere esposto alla parlata in altre lingue, anche solo per gioco, e quanto invece
l’esperienza, molto benefica per giovani menti capaci di apprendere velocemente
e per osmosi, fosse in realtà riservata a pochi anche solo vent’anni fa.
135

Torniamo a pensare alle risposte date alle domande sul come, sul cosa: in realtà
rispondono, se di adeguata complessità e accuratezza, anche a un perché ben più
importante della definizione dello screen time, che forse richiede solo un minimo
di regole di comportamento, ma non un’approfondita capacità selettiva e critica.
La domanda resta sempre inevasa, perché ha una risposta molto complessa che
richiede di superare la domanda relativa a quanto tempo vi si dedica, soprattutto
se di mercato: quest’ultimo avendo come obiettivo il fatturato, opera con altre
logiche, naturalmente non necessariamente benefiche o etiche; più i bambini
sono esposti, fanno download, cliccano sulle pubblicità, più aumenta il fatturato.
Proviamo però a mettere in chiaro alcuni punti di base identificati per un
prodotto digitale “good for kids” per renderlo misurabile e parametrizzabile:

deve essere un progetto realizzato e progettato come destinato ai


bambini, non agli adulti;
deve nascere da un’esigenza di gioco o di formazione con grande
attenzione al contenuto, che è il suo vero valore: insomma ha poca
importanza che il veicolo sia un tablet, un libro o un canale tv, ciò che
guida la creatività in un progetto è la competenza e la conoscenza degli
argomenti e dei contenuti, la capacità di elaborarli in una mediazione
che risulti efficace ma anche divertente (non so perché, ma “divertente”
in alcuni contesti sembra essere diventato un disvalore);
deve possedere grande cura nella grafica, perché anche il digitale è
strumento di educazione all’osservazione, allo stile, alla bellezza,
all’equilibrio nell’espressione iconica;
ritmo e tempi cadenzati, che non significa lunghi, ma lenti, distanti dai
gesti ossessivi sollecitati da alcune note diffusissime proposte con record
di download;
nella lentezza, sollecitare l’osservazione, l’interazione e l’azione anche
con ciò che sta fuori dal device, l’ascolto, insomma la curiosità.

Imparando a riconoscerli e a utilizzare buoni strumenti con consapevolezza e


misura è più probabile che i bambini crescano con una grande familiarità e una
solida competenza sul digitale. È del tutto evidente, del resto, e su questo non ci
possono essere tentennamenti, che non sia più ammesso in contesti professionali
alcun grado di analfabetismo digitale. Condivido appieno la formulazione che
restituisce la complessità di tutto questo fatta da Sonia Livingstone: “La
domanda da farsi non è ‘come guidare i bambini in internet’, ma ‘come guidarli
alla scoperta del mondo attraverso internet’”.

6.4 Insegnanti, scuole digitali e musei. Quali sinergie?


Qualche anno fa ho tenuto un corso di aggiornamento per insegnanti ingaggiata
da “Ad Artem” presso il Museo del Novecento a Milano. Il tema, al solito un po’
schematicamente, era stato individuato in “Musei e digitale”. In un paese nel
quale la diffidenza culturale nei confronti del digitale tout court è ancora
sensibilmente alta, mi sono fatta molte domande. Se l’introduzione della LIM
(Lavagna Interattiva Multimediale) dota gli insegnanti, ove più ove meno
diffusamente, di uno strumento potenzialmente anche adatto all’interazione con
gli studenti, quali sono i contenuti ai quali gli insegnanti possono attingere? E
quali le dinamiche da modificare nella lezione frontale? Perché il tema poi, è
sempre quello: quali contenuti e modi.
Ho provato, allora, a organizzare i materiali disponibili in categorie funzionali,
che rendessero più facile sbrogliare la matassa per quell’occasione e capire il senso
dell’intersezione digitale/scuola/musei. Lo scheletro della presentazione è forse
ancora una base sulla quale lavorare.
Una risorsa
In primo luogo si può identificare il digitale come risorsa, fonte di idee. I
rimandi sono quasi interamente a musei di cultura anglosassone: gli esempi sono
Tate Kids, Met Kids o, in modo diverso, anche il MoMA; Tate Kids o Met Kids
propongono sui siti web una varietà di contributi modulati per fascia d’età e
tipologia; alcuni di questi sono pensati perché l’insegnante vi si ispiri, lavorando
136

su di sé, per aggiungere un’attività manuale e creativa a un insegnamento teorico.


Ad esempio, si parla della tessitura e si produce un piccolo telaio con materiale di
facile reperimento. Si parla dell’invenzione della fotografia e si può giocare con la
carta chimica (legando i famigerati lavoretti all’insegnamento in senso stretto e
superando l’idea che digitale sia solo digitale). Sono disponibili in diverse
modulazioni e varianti, sui medesimi siti, i documenti per poter preparare un
piano di lezioni organico, diviso per fasce di età che comprendono la scuola
primaria e non solo. Le sezioni suddette intendono accompagnare l’alunno anche
a casa: su Tate Kids ciascun bambino può selezionare le opere preferite,
riprodurre e caricare le sue copie o suoi soggetti ispirati ai capolavori e
condividere gli uni e gli altri. Sono dunque uno strumento adatto per i bambini
(con tanto di disclaimer per i genitori in merito alla sicurezza) e per le famiglie, da
usare anche a casa in continuità con l’attività didattica condotta in classe (sono
disponibili on-line numerosi giochi).
La sezione dedicata ai bambini del Metropolitan Museum è ricca di video (è
l’unico strumento utilizzato, fatta eccezione per la strepitosa Time Machine) e 137

prevale certamente la sollecitazione all’esperienza creativa manuale, ma con una


sezione di Q/A (Questions and Answers) nella quale si spiegano alcuni concetti
chiave rispondendo proprio alle loro domande (“può un artista rompere le
regole?”; “come fa il museo a prendersi cura della collezione di armature?”; “come
si crea una mummia?”).
Sul sito del MoMA l’indirizzo è più decisamente quello dell’aggiornamento
dedicato agli insegnanti sul piano metodologico: vi sono presenti diversi corsi
gratuiti sull’insegnamento dell’arte moderna, condotti in video da Lisa Mazzola,
a partire dalle ragioni e dai modi per interessare i bambini all’arte moderna.
Sono, invece, a pagamento solo i corsi che abilitano a una specifica certificazione.
Sempre per ciò che concerne il MoMA è ancora comunque raggiungibile on-line
una versione, antiquata dal punto di vista della resa quanto apprezzabile nei
contenuti, di un sito dedicato ai bambini. Tutti gli strumenti indicati sono
138

ricchi e accessibili, con un’unica limitazione: la dimestichezza con la lingua


inglese.
Per la visita in museo
Il digitale può ovviamente essere uno strumento di supporto alla visita in museo,
prima, durante e dopo. Anche in questo caso sono numerosi gli esempi di
stampo anglosassone, ma ci sono ottimi esempi anche in Italia, come le app (in
due lingue) prodotte da ArtStories per i più piccoli, dedicate al Castello
Sforzesco, al Duomo e a Palazzo Marino a Milano, che mescolano
sapientemente e con grande cura dei dettagli contenuto e forma. Il Museo
Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” a Milano ha
sviluppato la visita al sottomarino Toti con la cardboard, un dispositivo che
consente l’accesso alla realtà aumentata, solo per fare alcuni esempi ai quali sono
legata per familiarità. L’app del MoMA di New York prevede contenuti audio
anche dedicati ai bambini, differentemente modulati rispetto a quelli dedicati
agli adulti.
Fare digitale
Il digitale può essere anche strumento di produzione e rappresentazione del
mondo per mano dei bambini: si sono moltiplicati i momenti di formazione; i
bambini possono stare dietro al codice, ma anche davanti al codice durante i
Coderdojo (che, per esperienza personale, tanto entusiasmano i giovanissimi
geek). L’idea di laboratori, in museo o in classe, ove i bambini guidati possano
139

produrre strumenti di valorizzazione digitale per i musei è ancora tutta da


percorrere.
Alcune questioni rimangono aperte: quali esperienze sono condivisibili tra
l’insegnante e gli alunni sulla LIM? A quale età? Di quali altri supporti –
individuali – si può o potrà disporre? A che età è lecito servirsi dei social
network? Quale condivisione è possibile con le famiglie?
140

L’esperienza italiana di riferimento in merito è bARTolomeo, la cui


presentazione è: “bARTolomeo aiuta i bambini, gli insegnanti e i genitori a
viaggiare, scoprire l’arte e i musei, le città e il mondo. Con giochi didattici,
attività pratiche e lesson plans è il posto giusto per costruire occasioni di
apprendimento divertenti e complete”; o il programma “Riconnessioni” legato
141

alla Compagnia di San Paolo. 142

Nell’Agenda per le nuove competenze e per l’occupazione, l’Unione Europea,


già nel 2011 segnalava come fosse vitale educare a un utilizzo critico dei mezzi
digitali, e a una formazione che fornisse anche i fondamentali strumenti
informatici: vale a dire, almeno la dimestichezza con la selezione e l’utilizzo di
strumenti di base. Per avvicinarsi a questo obiettivo faccio nuovamente
riferimento a Henry Jenkins, il quale sostiene che sia indispensabile fin da
giovani insegnare Media Literacy perché, se è pur vero che la dimestichezza con
l’uso dei mezzi è per loro naturale, l’approccio intuitivo non mette in condizione i
bambini e i ragazzi di comprendere “le pratiche sociali e complesse ancora
emergenti”. In particolare Jenkins individua tre punti chiave:

il partecipation gap, cioè il divario della partecipazione, fra chi può


partecipare o meno, che è determinato per un verso dall’accesso
all’“infrastruttura” necessaria, che siano devices o disponibilità di wi-fi
(che già di per sé segnano un confine per fasce di reddito, o lo hanno
fatto fino a poco fa), ma anche dalla familiarità genitoriale nel fornire
elementari indicazioni;
il trasparency problem, come per tutte le altre esperienze della vita, i
giovanissimi devono essere attrezzati con un bagaglio di strumenti per
saper affrontare e condividere ciò che succede on-line, consci del limite
da non superare e dei rischi che comporta farlo senza il coinvolgimento
dei genitori o degli educatori; non sono in tutta evidenza facoltà auto-
generative, alle quali possano giungere in assenza di un supporto
maieutico;
l’ethos challenge, cioè la sfida etica; è naturalmente menzognero e
vanamente consolatorio credere che i bambini possano avere un’idea
delle norme etiche necessarie per interagire in rete; come le altre, vanno
individuate, discusse, spiegate, e va data loro forma con il buon
esempio. 143

Quest’ultima parte di crescita dovrebbe impegnare, più di altre, la formazione


di docenti e genitori, capaci finalmente di restituire con misura la questione
critica della non neutralità dei mezzi e di rendersi referenti maturi nell’insegnare
la responsabilità nell’uso degli stessi. Mutamento faticoso quanto
improcrastinabile per essere educatori del XXI secolo, evitando improduttive e
dannose cacce alle streghe.
122
https://www.aap.org/en-us/about-the-aap/aap-press-room/pages/american-academy-of-pediatrics-
announces-new-recommendations-for-childrens-media-use.aspx.
123
Children in the Digital Age: https://www.youtube.com/watch?v=FRhZUup3aIQ&feature=youtu.be.
124
http://www.presadiretta.rai.it/dl/portali/site/puntata/ContentItem-8cec7ce6-6db0-4c96-8d9f-
133734a26da6.html.
125
https://well.blogs.nytimes.com/2016/05/05/two-minute-warnings-make-turning-off-the-tv-harder/?
referer=&utm_content=buffere734e&utm_medium=social&utm_source=twitter.com&utm_campaign=buffer
126
Con addictive intendo giochi che creano dipendenza, connotati dal ritmo di uno scorrimento di
immagini molto veloce, che richiedono un uso compulsivo attraverso rapidi movimenti.
127
Il link è https://tocaboca.com/magazine/screen-time-special-needs/; segnalo anche la loro visione:
https://tocaboca.com/about/, e i loro prodotti, come certamente di qualità.
128
I dati vengono da un report del 2017
(http://eprints.lse.ac.uk/76245/1/Parenting%20for%20a%20Digital%20Future%20%E2%80%93%20What%20are%20pre-
schoolers%20doing%20with%20tablets%20and%20is%20it%20good%20for%20them_.pdf), ma segnalo
come buona fonte, con numerose sfumature sui temi l’intera sezione di ricerca del sito:
https://blogs.lse.ac.uk/parenting4digitalfuture/category/research-shows/page/2.
129
https://www.paddybooks.com/corsi-di-formazione.
130
https://www.paddybooks.com, https://www.mamamo.it. Si presenta il profilo di “Giulia Digitale”:
https://youtu.be/O3Znk_UwThY.
131
Traduzione mia: “Make a Better Internet for Kids shows that they have made concrete progress by
sharing and renewing good practices and speeding up the development and implementation of reporting
mechanisms, age-appropriate privacy settings, content classification, parental tools and the effective removal
of child abuse material”.
132
https://ec.europa.eu/digital-single-market/news/better-internet-kids-ceo-coalition-1-year.
133
https://www.betterinternetforkids.eu/web/portal/home.
134
Traduzione mia: “Children have particular needs and vulnerabilities on the Internet, so that the
Internet becomes a place of opportunities for children to access knowledge, to communicate, to develop
their skills and to improve their job perspectives and employability”.
135
Children in the Digital Age, cit.
136
https://www.tate.org.uk/kids, e https://www.metmuseum.org/art/online-
features/metkids/videos/channel/MetKids-Create.
137
https://www.metmuseum.org/art/online-features/metkids/time-machine.
138
https://www.moma.org/interactives/destination/#.
139
https://coderdojo.com/it-IT.
140
L’età per l’iscrizione è fissata a 13 anni, ma di frequente la norma è ignorata. Per un approfondimento
rimando a “Mamamò”, che a sua volta rimanda ai dati dell’Osservatorio sull’adolescenza,
https://www.mamamo.it/educazione-digitale/buone-prassi/iscrizione-bambini-facebook-instagram-
musically-13-anni.
141
Vi si possono trovare piani didattici, giochi e attività destinate alla scuola e suddivise per fasce d’età:
http://bartolomeo.education.
142
https://www.riconnessioni.it.
143
Henry Jenkins, Culture partecipative e competenze digitali. Media Education per il XXI secolo, Milano,
Guerini e Associati, 2010, p. 76-90.
7. LE TRAPPOLE DELLA MISURABILITÀ

Caratteristica distintiva di ogni canale digitale è la misurabilità. Ma quali dati


leggiamo, cosa vi leggiamo, come li leggiamo e in particolare a quale scopo non è
questione di poco conto, anzi ha spesso costituito un vizio di forma iniziale che
ha pregiudicato il portato potenziale dei dati stessi.

7.1 Le precondizioni
Cominciando dalla maglia larga, per poter valutare l’esito di una qualsiasi
emissione digitale del museo è indispensabile valutare le precondizioni,
procedere a una sorta di SWOT, perché la risposta a qualunque offerta digitale
144

– sia essa un’app, un sito web, un canale social – non è strettamente e solo legata
al prodotto, ma ha fruizione assecondata, potenziata, o inibita dal contesto.
Tra i fattori endogeni durante la visita, le precondizioni d’uso infrastrutturali
costituiscono insindacabili ragioni di forza, o al contrario di debolezza: prime fra
queste la presenza di un wi-fi adeguato e della disponibilità delle prese di energia
elettrica per ricaricare i devices qualora, scaricando contenuti, o utilizzandoli per
un arco di tempo non breve, si avesse necessità di ricaricare la batteria, magari
sostando piacevolmente in un caffè interno al museo. Entrambe le condizioni,
pur afferenti al semplice buon senso, sono invece di frequente disattese, anzi, è
un’eccezione che siano prese in considerazione. 145

Non solo; nonostante la presenza di pesanti lacune infrastrutturali su questo


fronte, ho visto proporre lunghi video, prodotti in HR, all’interno di un’app che,
non essendo largamente comunicata o largamente nota, non aveva certo la
chance di essere scaricata a casa preventivamente, per attrezzarsi prima della
visita, grazie al wi-fi domestico. Destinate a nessuno quindi, per evidente
mancanza di considerazione delle condizioni di funzionamento. Tali prodotti
devono, disponibilità di rete a parte, anche tenere presente l’ingombro dello
spazio di memoria dello smartphone, per non essere problematici o invasivi, e
quindi inadatti.146

Come primo passaggio sullo SWOT, consapevoli dell’abitudine oramai


consolidata al BYOD, sul versante interno prendiamo atto che in assenza di tali
147

precondizioni non può avere alcun senso una valutazione quantitativa, ad


esempio, del download di un’app nativa o l’utilizzo di app progressive e ibride o
del sito web del museo in versione responsive, in funzione di supporto alla visita, e
altrettanto vale per lo sharing di foto o commenti in tempo reale. Semplicemente
non hanno alcuna possibilità di realizzarsi.
Solo in successione gerarchica di importanza hanno un peso le caratteristiche
del prodotto, che possono essere adeguate e disegnate per essere multidevice 148

(ove intendo per qualunque smartphone o tablet in uso per dimensioni e sistema
operativo), oppure possono essere pensate per un uso meta-temporale e con un
senso diverso prima e dopo la visita, o ancora possono avere la capacità di
personalizzare i livelli di approfondimento in modo tagliato su misura per
l’utente ecc.
Certo, tra i fattori che determinano forza o debolezza in merito a un’iniziativa
digitale ci sono anche i tipi di pubblici usuali: avrà un peso differenziale la loro
estrazione, anagrafica e culturale, e la loro attitudine o curiosità per il digitale.
Ma la sfida risiede nella precisione delle motivazioni alla base dell’approccio
verso questi pubblici: voglio allargare ad altri pubblici più digitali richiamandoli
grazie a un prodotto per loro? Voglio alfabetizzare pubblici un poco ostili
all’utilizzo dello smartphone? Sono direzioni diverse e richiedono risorse e
percorsi differenti.
Riguardo ai fattori esterni, prima di guardare ai dati sul digitale (e
naturalmente non solo) per capire cosa li condiziona, è opportuno valutare la
collocazione fisica dell’istituzione sul territorio, se sia facilmente raggiungibile e
visibile, se si trovi territorialmente in competizione con altra istituzione più nota,
vicina a una sede di esposizioni straordinarie particolarmente appetibili e
massivamente pubblicizzate, quali siano gli orari di apertura: in sintesi non è utile
e ragionevole confrontare i dati del Museo del Novecento in Piazza Duomo a
Milano con quelli del Museo “Ettore Guatelli”, perla di Ozzano sul Taro in
provincia di Parma, nemmeno se stiamo cercando di comprendere dati
provenienti “solo” dal digitale.
149

Faccio un poco polemicamente riferimento all’inveterata e sempre verde


tentazione da parte dei giornali di titolare “Milioni di follower al profilo di
Twitter – ora nella variante Instagram – del MoMA e poche migliaia agli Uffizi.
Italia fanalino di coda”. Sempre con quei casi citati.150

Comincerei col rendere assodato che, come dovrebbe essere lapalissiano, la


visibilità e la notorietà delle strutture più famose e visitate al mondo, si riversa
naturalmente sui suoi propri canali digitali. C’è poco da sorprendersi dei 4,4
milioni di follower del profilo di TheMet, perché ha milioni di visitatori fisici e
non solo: fattore di forza è che comunica in lingua inglese; per verificare la
veridicità e il peso di questo elemento è sufficiente confrontare il dato con quello
del Louvre, che è il più visitato museo al mondo con più di 8 milioni di visitatori
l’anno, ma sui social network utilizza il francese, e quindi ha un seguito di (solo)
1,5 milioni di follower. E se è vero che il francese è meno letto dell’inglese, certo
è anche che il noto museo parigino non ha fatto una propria sfida cardine
dell’on-line, almeno non come il Metropolitan, e i dati semplicemente lo
registrano. Quindi la Galleria degli Uffizi si è riallineata con i tempi sotto la
direzione Eike Schmidt dal 2015, solo piuttosto recentemente, e ha sì milioni di
visitatori l’anno, ma l’uso della lingua l’italiana – pur alternata all’inglese nel
profilo – penalizza in termini di diffusione internazionale e, quanto al resto, c’è
ancora tempo per recuperare.

7.2 Strategia e obiettivi


La definizione preliminare delle metriche di valutazione non è dunque
indipendente rispetto all’ecosistema ove si colloca il museo, tra una gran quantità
di condizionamenti e influssi, che si intrecciano inevitabilmente con la sua
identità autonoma.
Come dice Paola Antonelli, Senior Curator di architettura e design al MoMA
di New York (citata nell’intervista a Chiara Bernasconi nel paragrafo 8.2): “La
nostra vita non è in una dimensione digitale o in una dimensione fisica, ma in
una sorta di minestrone che la nostra mente fa dei due”; sul tema, prosegue la
Antonelli, “i musei hanno l’importante ruolo di aiutare le persone a esplorare e
capire la cultura ibrida che ne sta nascendo, e che lo spazio digitale è sempre di
più uno spazio nel quale viviamo”. 151

Condurre un’indagine sui dati unicamente legati all’espressione sui canali on-
line, non è corretto culturalmente, ma nemmeno dal punto di vista del metodo:
esattamente come il museo non è una monade, non lo è nemmeno la sua
dimensione digitale. Per dirlo tramite esempi immediati, se il museo apre una
mostra comunicata con grandi affissioni, massivo lavoro dell’ufficio stampa e
inviti cartacei all’inaugurazione, e persino – all’interno dello stesso ecosistema
digitale – con l’invio di una newsletter, si osserverà un picco anche nella fruizione
on-line; elemento che però non può essere letto, evidentemente, come un
successo attribuibile a quella dimensione.
Come sottolinea l’indagine condotta da Kati Price e James Daffyd:
Sebbene la maggioranza [degli intervistati nello studio] (56%) stia misurando le prestazioni rispetto a
obiettivi definiti, è preoccupante che molti non lo stiano facendo, o non siano sicuri: quasi un quarto
(23%) non sta misurando in relazione ai propri obiettivi e un quinto (21%) ha dichiarato: può essere.
Non posso mancare di segnalare che nello studio si esamina anche la
dimensione della squadra dedicata al digitale, che ha una sua rilevanza nel
raggiungimento dei risultati e nella reattività con la quale si risponde alle
sollecitazioni che si registrano sui diversi canali.
152

La Sánchez Laws cita già a pagina 1 uno statement di Museum and the web:
“Truly lively web sites will reflect an understanding of what people do with
museum data”, cioè solo i siti web davvero vivi rifletteranno la comprensione di
quello che la gente fa con i dati del museo. Un inno alla circolarità.
In secondo luogo è sensato fare chiarezza sulla relazione fra visitatore digitale e
visitatore fisico e sulla loro eventuale intersezione. La lettura e la proporzione fra
i dati provenienti dai due mondi (ove intendiamo biglietti venduti o staccati a
confronto con contatti digitali) sono state spesso ragione e oggetto di
fraintendimenti che rivelano una certa radicata ingenuità di partenza, e hanno
condizionato e ingenerato sillogismi zoppicanti. L’idea secondo la quale i secondi
(i digitali) dovrebbero trasformarsi in primi (i visitatori fisici), tout court, non
può avvantaggiarsi di alcun appiglio che possa darne sensatezza o
verosimiglianza. Ma sempre, e prima di tutto, il museo è un’entità comunque sia
locale, che risiede in un territorio, al quale è legato inevitabilmente, e non certo
un bene distribuito e venduto materialmente worldwide.
Unica eccezione a queste considerazioni è che tale lettura sia parte di obiettivi
molto specifici individuati e oggetto della strategia messa in atto, leggendo i dati
pregressi, e riferendosi a un tasso di conversione su base storica (visitatori web-
visitatori fisici), intervenendo – ad esempio sul sito web – proprio a quel limitato
fine, magari dando visibilità all’acquisto on-line dei biglietti. Esemplare in questo
è il caso citato nel capitolo quarto sul lavoro di Kati Price e del suo team sul sito
del Victoria & Albert Museum di Londra. 153

In ogni caso, per potere avere senso, la lettura dei dati deve partire da (e dare
seguito a) una strategia condivisa con la direzione, in linea con la missione del
museo; e potrebbe muoversi in direzioni molto diverse e diversificate, date le
molteplici combinazioni alchemiche fra le componenti in gioco.
In un volume di Jenkins, Ford e Green (la cui lettura trovo imprescindibile)
dedicato agli Spreadable Media si segnala molto opportunamente come il mondo
culturale abbia acriticamente fatto proprie le categorie e le metriche valutative del
marketing di prodotto, del mercato, a partire dal linguaggio stesso: generare e
contare le impressions o i click ha nell’ambito culturale ben differente valore e
altro significato, semplicemente perché le impressioni esibite, o create con la
logica della colonna di destra di sciocchi box in editoria ad esempio, sono la loro
linfa di vita; è la misura delle grandezze che possono vendere agli inserzionisti.
Ma come dice Jenkins forse dovremmo, come comunità di professionisti della
cultura, “continuare a cercare termini che descrivano con maggior precisione la
complessità dei modi in cui noi tutti interagiamo con i testi [e non solo] dei
media”.154

In materia di valutazione dei vari impatti dell’utilizzo dei social media da parte
dei musei, lo studio più puntuale, più ricco di bibliografia e che comprende
anche buoni spunti per la considerazione delle risorse coinvolte nella gestione
degli stessi, è la tesi di dottorato di Elena Villaespesa presso la School of
Museum Studies, Università di Leicester. Il lavoro si intitola Measuring Social
Media Success. The Value of the Balanced Scorecard as a Tool for Evaluation and
Strategic Management in Museums, è datato al 2015 ed è liberamente accessibile
on-line. Lungo tutto il prezioso studio la Villaespesa percorre passo per passo le
metriche qualitative e quantitative e i settori coinvolti per la valutazione dei
social network e del loro ritorno cercando di individuare un “framework”; l’esito,
pur più sofisticato, non è molto distante dal quello che ho citato
precedentemente, il Digital Engagement Framework, appunto. Rimando
certamente per completezza all’approfondimento argomentato e documentato
dell’autrice.

7.3 I report particolari: il professionista e gli user-generated contents


Mi preme qui, tuttavia, fare qualche considerazione su due aspetti in particolare,
entrambi legati da un’omologa idea di valutazione. Detto che senza ombra di
dubbio per qualunque professionista si occupi dei social media di un museo
debba essere prassi consolidata consegnare un report di analisi quantomeno
mensile – magari riuscendo a presentarlo di persona – suggerisco di aggiungere
un’inquadratura pulita del proprio lavoro, per quanto basilare: illustrare il
rapporto fra post/tweet generati e aumento del seguito.
È una metrica elementare – verosimilmente anche un po’ grossolana – ma pur
con i suoi limiti, può costituire una base per impostare un rapporto improntato
sulla trasparenza e affidabilità rispetto alla continuità dell’operato del
professionista e, anche, una prima occasione per il confronto e la buona
alfabetizzazione per un management che non abbia dimestichezza con i social
network.
Il secondo aspetto è fondamentale: se diamo finalmente per acquisito che il
digitale e i canali social siano una dimensione umana del museo, non tecnologica,
allora la metrica da applicare è la medesima che accreditiamo in situ, cioè la
verifica del numero di conversazioni generate, come quelle che il direttore
Bradburne ritiene un buon parametro per la valutazione dell’impatto
immediato. 155

A questo punto viene la parte difficile: non abbiamo controllo assoluto sulla
circolazione dei contenuti che l’istituzione immette in rete, né – tanto meno – su
quelli che gli utenti mettono in rete autonomamente a proposito dell’istituzione.
Ma è proprio nel riversarsi autonomo nel mondo di risorse della comunità, locale
e globale, che si gioca la partita dell’impatto. Un nuovo ruolo sociale e creativo
risiede in questo ambito: il museo dovrebbe farsi “editore” e in questo (non solo
nella sua attività di conservazione e valorizzazione della collezione) fare
comunità, intorno a valori centrali, perché, come dice giustamente Christian
Greco citato da Paola Matossi, “il museo non è una monade”.
156

Guardata la questione sotto questa luce, l’analisi delle visualizzazioni, dei click
e dei commenti ha una rifrazione più complessa, tanto quanto è complesso
misurare davvero l’impatto di un’istituzione culturale sul territorio. Uno dei
parametri che ho visto mancare nelle discussioni professionali in materia è quello
della corrispondenza, o al contrario, distanza, fra l’immagine che il museo
restituisce di sé on-line e quella che offre al visitatore fisico. Esiste il pericolo che
l’immagine on-line – se non rimessa in circolazione e parte della discussione
interna condivisa, in ascolto, sullo sviluppo del museo – possa produrre
aspettative poi drammaticamente disattese in presenza.
Questo fattore ci riporta alla vexata quaestio sulle ragioni del fare digitale in
museo, sul sospetto della sottrazione di visibilità e non sull’incremento dato dal
digitale, e sui suoi, anche più larghi, obiettivi. Esistono certo alcune fattispecie di
comunicazioni digitali che hanno come mandato quello di parlare a un pubblico
locale: pensiamo agli eventi in particolare (presentazioni di libri, conferenze), ma
per la gran parte dei casi anche alle esibizioni temporanee, anche speciali: solo
per citare alcuni esempi di consapevolezza indico per Roma il lavoro di Palazzo
Barberini-Gallerie Corsini; per Milano il lavoro fatto dalla Pinacoteca di Brera
sui Dialoghi, per New York le dichiarazioni di Sophie Anderson per il
Metropolitan Museum e Shelly Bernstein per il Brooklyn Museum; si tratta –
almeno per una porzione – di comunicazione informativa, semplice,
continuativa; costruisce certo, e sostanzia, affezione e continuità di interazione,
ma non va molto oltre questo (né è intenzionata a farlo). In qualche caso ci sarà
da valutare dove ci siano intersezioni fra pubblici e audience on-line e off-line,
perché certamente esistenti.
Valutare i dati della frequentazione del sito web, per cominciare, consente di
identificare la provenienza delle visite e quindi la visibilità internazionale, in
modo puntuale per quanto semplicissimo: già di per sé l’informazione è di rilievo
dato che sui visitatori fisici in museo la verità è che spesso sappiamo ben poco.
Anche in questo caso segnalo la precondizione necessaria, che è, naturalmente, la
disponibilità del sito non solo in lingua italiana ma anche in inglese. E l’offerta di
contenuti pensata per molteplici target.
Una differenza evidente con i siti dei musei di stampo anglosassone è la
mancanza sui nostrani di una parte blog ove raccontare ai colleghi nazionali e
internazionali le proprie esperienze, di successo e non solo. Segnalo il blog del
Victoria and Albert Museum, “InsideOut” del MoMA di New York divenuto,
157

dopo la recente riapertura del museo e re-design del sito, un magazine, The Iris.
158

Behind the Scenes at the Getty Museum. Anche in questo caso, da segnalare il
159

“blog”, che è invece una rivista scientifica on-line, dell’Egizio di Torino. Sul 160

sito della Pinacoteca di Brera, invece, segnalo due sezioni “blog”: una è “Brera
Stories” che costituisce a tutti gli effetti un magazine di approfondimento su
questioni, recenti e meno, relative al museo; l’altra è la recente “MyBrera” che
consente di dare un volto al personale tutto, che esibisce qui la propria preferenza
su un’opera. 161

Ciononostante, rimane in merito una lacuna italiana; temo rifletta la


persistenza dell’idea del digitale come destinazione non opportuna per contenuti
accademico-scientifici. Ritengo, piuttosto, che avere una sezione dedicata a
raccontare l’esperienza del museo in generale, sul digitale in particolare, possa
rappresentare un punto di riferimento anche internazionale per gli scholars del
settore, e sollecitare il museo a un’analisi non occasionale, ma organica delle
proprie iniziative, strategie e risultati.
Quali benefici porta la visibilità internazionale? Elenchiamone solo alcuni. Sul
versante dei pubblici, significa entrare in contatto con persone che
probabilmente, per una serie di ragioni, non verranno mai fisicamente in
museo. Offrire loro il meglio dell’istituzione dovrebbe essere pertanto
162

eticamente preso come impegno, in linea con la missione di qualunque


istituzione. Significa creare una serie di connessioni e reti che possono far
circolare opere, studi, esperienze, stimoli in uno scambio e aggiornamento
continuo, a vantaggio di tutto il comparto. Verificare, numeri alla mano, quali
siano le sezioni di sito più lette all’estero può dare luogo inoltre a considerazioni
strategiche successive, su target per natura e formazione molto diversi.
Faccio un cenno ad alcune possibili innovazioni riguardo al sito web tout court
(avendo parlato già diffusamente della collezione on-line nel capitolo quarto)
perché, come si fa giustamente notare nel rapporto “Symbola”, per ciò che
riguarda la diffusione attraverso le piattaforme proprietarie, e in particolare
Facebook, è l’algoritmo della piattaforma stessa che condiziona grandemente
l’andamento di una pagina. Sulla base della mia esperienza personale non posso
che confermare che una pagina Facebook dedicata, anche se ben curata, riesce a
dare ben poche soddisfazioni in termini quantitativi e qualitativi per gli scambi
generati, molto di frequente davvero miseri, indipendentemente dalle
conversazioni alle quali ci si sia riferiti.
Riversando tali contenuti sul sito del museo tout court, invece, se appoggiati a
un buon seguito e fatti circolare da una buona rete di profili personali, ritengo si
possano ottenere risultati più congrui all’impegno dedicato. Addirittura il
rapporto “Symbola” si spinge oltre: all’idea di creare strumenti indipendenti per
fare comunicazione web 2.0 in museo. La sua realizzazione, open, diffusa,
condivisa, sarebbe davvero il segno di una grande svolta di maturità ed etica
dell’innovazione.163

La tendenza a utilizzare media indipendenti per la promozione, o ad


appoggiarsi alla propria rete di sostenitori ai quali dare gratuitamente i contenuti,
ha due casi esemplari di esercizio, per quanto diversi, in Cory Doctorow,
scrittore, e Nina Paley, creatrice di animazioni. Pur rappresentando entrambi il
settore creativo e non museale, ritengo il loro esempio potenzialmente
significativo per i musei. Non hanno la medesima strategia, ma condividono una
lettura che riconosce fiducia massima nelle comunità dal basso e in senso
completamente anti-protezionistico (e nei due casi di specie ne va del
sostentamento personale). Ingenerano entrambi un processo che, sulle loro stesse
creazioni, è privo di controllo, e forse non misurabile se non proprio a posteriori;
non sulla comunicazione, ma sulla diffusione del prodotto, mettendo a
164

disposizione gratuita le loro opere.


A questo riguardo mi preme ribadire due punti:
a) Spreadable Media parla qui la lingua delle favole di Esopo: alcune volte i
“creatori” (si prenda questo come accento: i musei sono, o dovrebbero essere,
mediatori, restitutori votati alla disseminazione gratuita) ritornano a esprimere,
nel processo di diffusione, un’esigenza di possesso, come nella favola dello
scorpione e della rana che lo trasporta, allorché lo scorpione non resiste alla
tentazione di pungere, pur consapevole di non arrivare dall’altra parte del guado;
fuor di metafora quindi, l’idea è lasciar circolare i contenuti come fa il
Rijksmuseum, mentre come sottolinea il volume di Jenkins, le scelte che
facciamo su come trattare la proprietà intellettuale (per altro, lo rammento,
collettiva, non personale nel caso dei musei) devono essere culturali, politiche e
non certo biologiche o tanto meno, stranamente emotive. Il punto successivo è
conseguente.
b) Porsi come obiettivo la circolarità del proprio portato, un po’ incontrollabile,
al di là del copyright, ma dentro l’ispirazione, l’industria creativa, e la cultura
diffusa di un paese.
Il punto b) è misurabile? Forse al momento non puntualmente. Ma potremmo
ragionarci su. Sull’orizzonte lungo, in ogni caso si realizzerebbe ciò che Jenkins
suppone: “If it doesn’t spread, it’s dead”, ovvero “se non è diffondibile, è
morto”. 165

7.4 La dimensione creativa dei dati: Data Viz


In chiusura sulla lettura dei dati voglio fare un piccolo cenno alla dimensione
nella quale questa operazione di lettura e interpretazione dei dati diventa
comunicazione creativa, nella visualizzazione: il Data Viz. In particolare faccio
riferimento all’esperienza di Giorgia Lupi e Stefanie Posavec, pubblicata con il
titolo di Dear Data, ove i dati espressi sono quelli della vita di tutti i giorni; lo
scambio di cartoline, una alla settimana, durato un anno fra le due autrici,
diventa creazione poetica; da citare anche il recente caso di Paolo Ciuccarelli,
166

Curating Curation, un atlante dei processi curatoriali messi in atto per “Eyes of
the City”, per la Biennale di Hong Kong. Sarebbe interessante avere una parte
167

del sito di un’istituzione museale dedicata a esprimere i propri dati con spirito
creativo, in linea col lavoro sul brand e l’immagine coordinata del museo.
144
Per SWOT si intende un noto strumento di pianificazione strategica che consente di valutare i punti di
forza e di debolezza (Strenghts and Weaknesses) quanto le opportunità e le minacce (Opportunities and
Threats); si veda http://www.treccani.it/enciclopedia/analisi-swot_%28Dizionario-di-Economia-e-
Finanza%29.
145
“Mettono a disposizione della propria utenza la connessione Wi-Fi gratuita (dal 18,6% del 2015 al
25,1% del 2018)”, dal rapporto ISTAT, L’Italia dei musei, dicembre 2019,
https://www.istat.it/it/files//2019/12/LItalia-dei-musei_2018.pdf. Non ho dati a disposizione riguardo la
possibilità di avere una presa per ricaricare la batteria, se non la mia esperienza di visitatrice, che mi consente
di dire che è scarsa.
146
Ne ho scritto in Maria Elena Colombo, La vita delle opere e l’esigenza di una riflessione critica sul digitale,
in Comunicare il museo oggi. Dalle scelte museologiche al digitale, a cura di Lida Branchesi e Valter Curzi,
Milano, Skira, 2016, p. 377-385.
147
L’acronimo sta per Bring Your Own Device, e indica l’abitudine consolidata di usare prodotti e servizi
ciascuno sul proprio device, senza la necessità di fornirne uno ad hoc. Si veda Scott Sayre, Bring It On.
Ensuring the Success of BYOD Programming in the Museum Environment, in “Museum and the web
Conference”, giugno 2016, https://mw2015.museumsandtheweb.com/paper/bring-it-on-ensuring-the-
success-of-byod-programming-in-the-museum-environment.
148
Understanding the Mobile V&A Visitors, 2012, è ancora un ottimo esempio di studio in merito;
https://www.vam.ac.uk/__data/assets/pdf_file/0009/236439/Visitor_Use_Mobile_Devices.pdf.
149
Si faccia riferimento ad esempio allo schema di analisi utilizzato per i cinque casi analizzati da Smith
Bautista, nel volume Museums in the Digital Age, cit., ben illustrato nel capitolo “Methodology”, p. 231-238.
150
Cito due articoli del 2015: https://www.artwort.com/2015/02/13/arte/arte-web-e-social-network-il-
museo-2-0; https://www.wired.it/play/cultura/2015/08/26/digital-thinkin-maxxi-roma.
151
Traduzione mia: “We live not in the digital, not in the physical, but in the kind of minestrone that our
mind makes of the two. Museums, Ms. Antonelli insists, have an important role to play in helping people
explore and understand the emerging hybrid culture. “It’s this strange moment of change,” she explained.
“And digital space is increasingly another space we live in.” Articolo pubblicato sul “New York Times” nel
2014: https://www.nytimes.com/2014/10/26/arts/artsspecial/the-met-and-other-museums-adapt-to-the-
digital-age.html. Traduzione mia.
152
Traduzione dall’inglese mia: “Though the majority (56%) are measuring performance against defined
targets, it’s of concern so many aren’t, or are unsure: almost a quarter (23%) are not measuring against their
targets, and a fifth (21%) said ‘maybe’”. Kati Price, James Daffyd, Structuring for Digital Success. A Global
Survey of how Museums and Other Cultural Organizations Resource, Fund, and Structure Their Digital Teams
and Activity, Museum and The Web Conference, Vancouver, 2018,
https://mw18.mwconf.org/paper/structuring-for-digital-success-a-global-survey-of-how-museums-and-
other-cultural-organisations-resource-fund-and-structure-their-digital-teams-and-activity.
153
Sul blog del Victoria & Albert Museum, non più on-line nella nuova versione; si veda il loro intervento
a Museum and The Web citato nella nota precedente.
154
Henry Jenkins, Sam Ford, Joshua Green, Spreadable Media. I media tra condivisione, circolazione,
partecipazione, Milano, Apogeo, 2013, p. 1-4.
155
James Bradburne. Un’intervista, a c. di Maria Elena Colombo p. 99-110, in Senza titolo. Le metafore
della didascalia, a c. di Maria Chiara Ciaccheri, Anna Chiara Cimoli, Nicole Moolhuijsen, Busto Arsizio,
Nomos Edizioni, 2019.
156
Intervista nel paragrafo 8.2 di questo volume.
157
https://www.vam.ac.uk/blog.
158
È fermo al 2016 “Inside/Out”: https://www.moma.org/explore/inside_out/; si veda ora
https://www.moma.org/magazine.
159
In questo podcast si trova anche uno sguardo sul potenziamento che il digitale ha dato agli studi:
http://blogs.getty.edu/iris/podcast-talking-art-history-with-getty-research-institute-director-mary-miller.
160
https://rivista.museoegizio.it.
161
Le sezioni sono accessibili dall’home page, https://pinacotecabrera.org/brera-stories, e
https://mybrera.pinacotecabrera.org.
162
Si veda l’intervista a Nancy Proctor nel paragrafo 8.2.
163
Donata Columbro, Comunicazione. Identità e reputazione. Quando il marketing mette al centro il valore
della relazione, “I Quaderni di Symbola”, 2019, p. 114-117.
164
Henry Jenkins et al., Spreadable Media, cit., p. 247-250.
165
Virginio Sala, il traduttore dell’intero volume di Spreadable Media in premessa avverte sulla difficoltosa
traducibilità del termine spreadable, che infatti mantiene in originale inglese nel titolo e traduce con
“diffondibile” nel testo a p. VIII.
166
Giorgia Lupi, Stefanie Posavec, Dear Data, New York, Particular Book, 2016.
167
Il lavoro è sviluppato con la Northeastern University’s Center for Design:
https://camd.northeastern.edu/news/cfd-at-shenzhen-biennale.
8. VOCI DAL MONDO

8.1 La premessa alle interviste e la loro lettura


In occasione del convegno dell’aprile 2017 “Museum: Digital Transformation”,
tenutosi a Firenze e curato dall’Opera di Santa Maria del Fiore, ho cominciato
168

a pensare alla raccolta e alla lettura critica delle testimonianze. Ho potuto


ascoltare dal vivo esperienze, in gran parte internazionali, di grandi musei;
sempre a Firenze, nel 2014, avevo partecipato a un’altra conferenza
internazionale, la più storica e significativa nell’ambito, “Museum and the Web”
(evento mai più organizzato in Italia), della MuseWeb Foundation, organizzata
da Nancy Proctor.
I temi ricorrenti negli interventi erano individuabili in pochi punti:

la digitalizzazione delle collezioni;


la liberalizzazione della circolazione delle immagini delle opere;
la condivisione su più registri e più mezzi di contenuti del museo e
l’engagement che da questo deriva;
le domande aperte sul senso del digitale in relazione a luogo e tempo di
visita.

L’età media dei relatori stranieri (che non credo arrivasse ai quaranta), il ruolo
da loro ricoperto o, seppure su un altro versante, le difficoltà riportate in
relazione ad alcuni processi interni alle istituzioni museali mi hanno sollecitato
una serie di riflessioni: dal confronto scaturiscono possibilità via via più
sofisticate e mature, su basi solide, o perché si diventa consapevoli di una lacuna
o un ritardo nazionale, o perché invece si evidenziano punti di contatto, ma in
particolare perché si individuano percorsi nitidi di innovazione in base a un’idea
di museo in trasformazione.
In numerose circostanze mi sono sorpresa a pensare che una parte delle
difficoltà fossero le medesime a New York, quanto a Milano. Le istituzioni
rappresentate a Firenze, tuttavia, non potevano e non possono ragionevolmente
costituire un modello che si possa considerare perseguibile o replicabile tout court:
il Metropolitan Museum di New York, con Loic Tallon – succeduto a Sree
Sreenevasan – il Rijskmuseum di Amsterdam con Linda Volkers, la National
Gallery di Londra con Mona Walsh, il British Museum, ma anche la Pinacoteca
di Brera; si tratta di strutture di dimensioni considerevoli, lunga tradizione,
dotate di uno staff numericamente consistente.
Un primo inquadramento della situazione nazionale, sebbene rappresentato
con il noto accento anglosassone, si è palesato con la presenza del direttore James
Bradburne, che parlava della dimensione del digitale alla Pinacoteca di Brera,
unico museo italiano fra gli speakers – se non contiamo l’ospite e organizzatore
Timothy Verdon, direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze – a
presenziare fisicamente, seppure non attraverso un professionista dedicato alla
dimensione della comunicazione o del digitale, ma con lo stesso direttore. Una
prima cartina di tornasole, senza dubbio. I musei rappresentati erano però tutti,
senza distinzione, anche del medesimo ambito disciplinare: grandi musei dedicati
all’arte, e non certo contemporanea.
Per questa ragione le mie domande nelle interviste che seguono hanno
interpellato i rappresentanti di istituzioni diverse, per raccogliere il punto di vista
anche sui musei della scienza, sull’arte contemporanea e, come vedremo, non
solo, anche di istituzioni che “sparigliano i conti” quanto a conformazione stessa
del museo.
Mi riferisco in particolare a Michael Peter Edson e al suo progetto UN Live, 169

al lavoro di Sebastian Chan presso l’Australian Center for the Moving Image di
Melbourne, ma anche se ancora non ho avuto il piacere di poter pubblicare una
170

conversazione con un rappresentante del team, all’idea che sta dietro al


concepimento di M9 di Mestre, prima attestazione di museo completamente
digitale in Italia, e che, per argomento e disciplina potrebbe essere definito un
museo storico dedicato al Novecento. 171

In realtà, storicamente in questo ambito è opportuno citare anche Museo dei


Martinitt e Stelline a Milano, un lavoro antesignano, illuminato dal fascino della
creatività di Studio Azzurro sull’archivio dell’orfanotrofio, ma anche il Piccolo
Museo del Diario di Pieve Santo Stefano: tutti condividono una vocazione
storica documentale. 172

Conoscere le varie declinazioni, in termini di esempi, figure, competenze,


organizzazione delle esperienze, è un modo per dotarsi degli strumenti per
progettare ciascuno la propria dimensione più adatta e su misura, per stile e
sforzo, ma in modo consapevole, mai incosciente o anacronistico. Come dice
Nancy Proctor nell’intervista nel paragrafo 8.2: “Cambiare è molto difficile, ma
non solo nei musei, dico in senso lato per la cultura e la società, ove è intervenuto
internet”.
Per comodità di discorso ho raggruppato alcune risposte alle domande come
segue: in primo luogo quelle strettamente relative all’attività del digitale, poi
quelle legate al tema degli obiettivi, e infine le linee sul profilo professionale
adeguato e sulle competenze relative; solo in chiusura la richiesta a ogni
intervistato di suggerire un libro ai colleghi italiani e stranieri.
Ho scelto semplicemente di mettere qui in evidenza qualche distonia fra le
voci, qualche eco sorprendente per un verso o per un altro, senza ambizioni di
completezza o esaustività. I temi percorsi sono solo in parte quelli del volume
avvicinati fino a qui, ove la voce narrante è quella di chi scrive, e riporta quindi
inevitabilmente un punto di vista anche culturalmente molto specifico.
Ciascun lettore potrà a modo suo leggere e rileggere le interviste e vedervi in
filigrana altri utili portati emergenti da voci diverse.

8.1.1 I temi
Le domande che ho formulato sono quelle che i museum digital professionals si
trovano con ineludibile certezza a dover fronteggiare e a dover interpretare per
fornire una risposta nell’operato quotidiano:

on-line e off-line sono due mondi o uno solo?


il digitale sottrae attenzione al fisico (un grande classico: ovvero come
superiamo la strumentalizzazione vacua di questa contrapposizione)?
quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla
possibile efficacia della comunicazione sui social (ovvero può la
dimensione digitale essere solo “giustapposta” in un museo)?
cosa significa essere relevant per un museo oggi? quanto conta il suo
sviluppo sui canali digitali?

Pur essendo l’audience interpellata una nicchia selezionata per grande


dimestichezza professionale e culturale col digitale, i pareri non sono stati del
tutto omologhi, e hanno abbracciato uno spettro piuttosto ampio di opinioni:
Nancy Proctor sostiene che non avere una dimensione digitale è come non
servirsi dell’energia elettrica; Chiara Bernasconi, che ha collegato l’uso del
digitale alle abitudini quotidiane dei pubblici, ma, allertando sull’evitare una
posizione tecnocratica, ha specificato che non tutte le attività svolte in museo
debbano necessariamente includere un aspetto digitale, aspetto sottolineato
anche da Merete Sanderhoff. Di quest’ultima ho apprezzato molto la visione che
ha rimandato a Jasper Visser – più volte citato nel volume – secondo il quale il
digitale non riguarda la tecnologia, ma l’attitudine, con riferimento specifico al
senso della condivisione e dei processi bottom up, l’importanza dirompente dei
quali abbiamo più volte rilevato qui.
Curiosa si è rivelata la posizione di Linda Volkers, del Rijksmuseum, la cui
pratica è internazionalmente nota ed esemplare: secondo la Volkers la
dimensione del digitale dovrebbe limitarsi a vivere fuori dai confini del museo
fisico, per questo, specifica, “non abbiamo alcuna installazione o distrazione
digitale” in museo. Darren Milligan dello Smithsonian mette invece l’accento
proprio sul “potenziale impatto oltre le mura del museo”, intendendo
l’investimento in digitale asse portante della missione dell’istituzione, fino a
dichiarare che il loro obiettivo è quello di entrare in contatto con un miliardo di
persone all’anno, che – segnala – sono molte più degli abitanti dei soli Stati Uniti
e dell’emisfero occidentale.
Un potenziale link ulteriore, e uno sguardo unico, è aggiunto da Sebastian
Chan, il quale non manca di rimarcare come il digitale possa essere leva di ricavo,
se non venisse utilizzato unicamente seguendo il modello che contraddistingue i
flussi di entrate tradizionali (alludendo alla vendita dei biglietti). Approccio
decisamente più da cultura di progetto è quello espostoci da Neal Steamler con la
visione di un ecosistema tecnologico, che ha il suo cuore nella digitalizzazione di
collezioni, mostre, programmi educativi, pubblicazioni, in formato
rigorosamente open, scalabile e sostenibile.
Caso del tutto unico è il parere di Michael Peter Edson, il quale definisce il
museo UN Live come attestato “su tre piattaforme”: un edificio a Copenhagen,
una rete di istituzioni partner e una presenza digitale.
Significativa la posizione di Paolo Cavallotti per il Museo Nazionale della
Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano che, pur essendo
l’unico caso di così lunga esperienza nel settore in Italia, dice come nonostante
20 anni di esperienza “la strada sia ancora molto lunga prima di potersi
considerare all’altezza di ciò che un museo contemporaneo dovrebbe fare oggi”. 173

E, a proposito di contemporaneo, mi sia consentita una nota: la


digitalizzazione delle collezioni, e la loro disponibilità pubblica costituisce ben
altro tema quando si parla di opere sulle quali esistono diritti di autori in vita, o
scomparsi da poco. Credo che questa considerazione abbia molto inciso sul
lavoro di Silvio Salvo alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che utilizza per
comunicare, nel suo creativissimo e performativo colloquio con l’oggi, fotografie
dell’edificio della fondazione, ma non le opere. E ce lo conferma anche Linda
Volkers: il Rijksmuseum ha potuto percorrere la strada della condivisione delle
immagini in HR perché le opere erano oramai libere da diritti.
Resta una mia supposizione, che so non condivisa da tutti: che il museo di arte
contemporanea, che può incappare anche in opere di arte digitale, abbia
geneticamente un’attitudine per natura più disponibile e osmotica con gli
strumenti digitali, con l’innovazione, con la sperimentazione, forse determinati
anche dai limiti dettati dal copyright di cui sopra, e da un pubblico, per alcuni
versi, di nicchia.

8.1.2 Gli obiettivi del digitale e la loro misurazione


Sulla questione obiettivi le voci che ho ascoltato si fanno davvero interessanti.
Alcuni hanno palesato l’obiettivo – tra gli altri – di far diventare il visitatore
digitale un visitatore reale (lo esplicita Patricia Buffa e anche Nicolette
Mandarano, che raccoglie, con sorpresa, l’informazione dai questionari
somministrati).
Come potrete leggere, anche fra le righe, questo obiettivo è ovviamente
connesso a due ulteriori condizioni quali il rivolgersi, da un lato, a un pubblico
locale prossimo dal punto di vista geografico (magari in occasione di eventi e
mostre), e dall’altro, l’abbassamento dell’età media dei visitatori che entrano in
contatto con l’istituzione attraverso i canali digitali. Sebbene l’obiettivo non
venga declinato secondo la duplice condizione di cui sopra, citerei anche il caso
di Sebastian Chan presso il Cooper Hewitt Design Museum di New York,
all’interno del quale si può immaginare, prima del grande successo
internazionale, un iniziale allargamento dei pubblici locali a partire da quelli
giovani, e del calo a picco dell’età dei visitatori, così come Chan ci riferisce.
Una posizione intermedia, che non nega certo il riferimento diretto al visitatore
fisico, è invece quella di chi lavora sulla reputazione del museo e sulla sua
valorizzazione (Paolo Cavallotti), in modo tale che la presenza on-line del museo
sia all’altezza di quella fisica (abbiamo citato il caso di Kati Price e del sito del
Victoria & Albert Museum). D’altro canto la reputazione, come rilevato in un
paio di altri casi, viene valorizzata attraverso la grande attenzione posta alla tutela
del “brand” museo: il Rijksmuseum libera tutto il proprio patrimonio, ma tutela
il marchio, mentre la Fondation Luis Vuitton è molto attenta al fatto che lo stile
utilizzato sia parte dell’immagine coordinata che nasce dallo schizzo dell’archistar
della sede, Frank Gehry.
Sguardo più esteso ha Darren Milligan, quando sostiene che i dati quantitativi
possano e debbano essere utili a supportare la portata prevista di un progetto, ma
che la vera sfida sia misurare l’impatto, sul quale tali dati non ci dicono molto. Su
questa scia, Merete Sanderhoff, convinta che i soli dati quantitativi non siano
parlanti, propone a tutti la lettura di Europeana Impact Playbook, per allagare lo
sguardo all’impatto sociale, culturale e innovativo che viene dalla digitalizzazione
e consente di costruire metriche che considerano dati quantitativi e qualitativi
utili a saper riportare storie di impatto anche per politici, finanziatori e donatori.
All’importanza dello spendersi nella comunicazione trasparente di questi aspetti
ci siamo già dedicati nel capitolo “Paradigmi e obiettivi”.
Un’ultima doverosa considerazione riguarda la consapevolezza del portato
politico in merito all’operato del museo: già la sola posizione, incarnata
perfettamente da Nancy Proctor anche prima della direzione del Pale Museum e
da Darren Milligan per conto dello Smithsonian si declina su diverse traiettorie:
il digitale come volontà di abilitare alla visita e al contatto anche chi non riuscirà
a venire in museo e il digitale spesso visto come principale strumento di
accoglienza per far fronte all’infinita gamma delle differenze e delle condizioni di
accessibilità in tutti i sensi: fisica e percettiva, culturale, economica, sociale.
Nancy Proctor non manca di segnalare che richiedere ai pubblici di partecipare
alla creazione di contenuti digitali significa insegnare loro a usare gli strumenti di
oggi, anche a chi per formazione e opportunità non abbia sviluppato questa
competenza.
Le argomentazioni riportate sono già di per sé più che sufficienti, oltre
all’ampia bibliografia in merito, a comprendere che l’operato del museo è
politico. A questo però è necessario aggiungere che alcune istituzioni sono state
capaci di esporsi esplicitamente su questioni “direttamente” politiche: ce lo
racconta Chiara Bernasconi con l’attività del MoMA come manifestazione
contraria al ban di Trump, quando tolsero simbolicamente dall’allestimento le
opere di artisti stranieri.
E in tutta franchezza, questo gesto di attivismo culturale avrebbe potuto
trovare luogo anche sul sito web di altri musei, senza che il messaggio simbolico
di quella presa di posizione, in rete o nell’allestimento in sala, cambiasse di una
virgola la propria portata.
In chiusura raccolgo l’appello e la frustrazione di Sebastian Chan: perché
nessuno ha replicato la soluzione del Cooper Hewitt Design Museum, di grande
successo ed esito superiore alle aspettative? La digitalizzazione e l’offerta di
174

tutta la collezione, anche con un senso giocoso, come quello dei tavoli digitali
ove riprodurre pattern della carta da parati e trovarsi immersi nella loro
proiezione. Come sarebbe bello fruire della collezione di pizzi del Museo Poldi
175

Pezzoli on-line? O dei disegni di progetto dell’intera casa dei Fratelli Bagatti
Valsecchi? “It’s time for us to listen better”; è arrivato il tempo per noi di
ascoltare di più e meglio, dice Nancy Proctor, e ha tanti significati, anche sul
versante professionale.

8.1.3 Profilo professionale e competenze


Un interesse specifico che ho evidenziato risiede nella composizione di
competenze del profilo professionale digital media curator. Partirei da una
disamina sinottica della posizione indicatami dagli interessati, perché già di per
sé dà luogo a un’apertura interrogativa:

Nancy Proctor, fondatrice della MuseWeb Foundation, già Head of


Digital Departement
Silvio Salvo, social media manager e ufficio stampa
Patricia Buffa, Head of Digital Communications
Chiara Bernasconi, Assistant Director in Digital Media
Merete Sanderhoff, Curator and Senior Advisor
Linda Volkers, Responsible for International and Digital Marketing
Luisella Mazza, Head of Operations
Darren Milligan, Center for Learning and Digital Access
Sebastian Chan, Chief Experience Officer
Nicolette Mandarano, Digital Media Curator
Neal Stimler, Art Consultant, Humanities Enterpreneur, Scholar
Michael Peter Edson, co-fondatore del museo UN Live
Paolo Cavallotti, Head of Digital Team
Chris Michaels, Director of Digital, Communications and Technology
Paola Matossi, direttrice comunicazione e marketing
Kati Price, Head of Digital Media

Insomma, una grandissima varietà di “job title”. Ci si muove fra livelli diversi di
ruoli direzionali e negli organigrammi compare in 9 casi su 16 la parola
“digital/digitale”; in soli due casi, uno dei quali all’Egizio di Torino, fa capolino
“marketing”, che ancora tanta resistenza (nonostante Kotler) genera nelle
176

istituzioni culturali; due volte il concetto di “curatela”, che per Merete


Sanderhoff e il suo impegno in Europeana mi pare davvero un buon segno. Sarà
rimasta così, forse solo per pigrizia, una didascalia personale, a dispetto della sua
crescita e ibridazione nel ruolo e ora, forse, si trova in una posizione di
avanguardia, data l’irrilevanza che la gran parte degli intervistati ha dato al
prefisso “digital”: in alcuni casi letto come una difesa, in altri un argine, in tutti i
casi inteso come abbastanza superfluo e artificioso divenendo le attività digitali
del tutto trasversali a quelle tradizionalmente museali. Addirittura Nancy Proctor
individua un’evoluzione in avvicinamento fra social media manager e curatore, e
viceversa.
C’è sostanziale accordo sul fatto che si stia parlando di una professione nata sul
campo, i cui requisiti non sono tecnici, ma di conoscenza del contesto e della
collezione, con una spiccata attitudine alla mediazione verso l’interno e verso
l’esterno e la capacità, l’interesse, a mantenere uno sguardo saldo, rivolto in modo
aperto e generoso laddove balugini il futuro.

8.1.4 I libri consigliati nelle interviste


In ultimo, una domanda alla quale tenevo molto: prendendo esempio e
ispirazione da Michele Dantini e dal suo “A mo’ di appendice. Dieci libri colti
contro la pedanteria”, che chiude il suo volume Arte e sfera pubblica, ho chiesto a
177

ciascuno di loro di indicare un titolo di libro per i colleghi italiani e stranieri.


Dantini cita dall’Obituary of Julius Schlosser scritto da Gombrich: “Le sue
conoscenze e i suoi interessi erano troppo numerosi per appagarsi di una qualsiasi
specializzazione, la sua visuale troppo vasta, il suo orizzonte troppo esteso”, in un
sollecito a operare per un progetto che superi e consenta di archiviare
“inquietudini rispetto all’angustia di un determinato specialismo oggi corrente”.
Insomma, un richiamo per tutti a “recuperare marginalità” e operare nella sfera
pubblica adeguatamente, come impegno.
Ne è sortito un elenco entusiasmante, variegato, aspecifico o specificissimo, un
gioco di specchi e rimandi, che mi conforta rispetto alla natura e alla necessità
dell’ibridazione cuturale. Li trovate alla fine di ogni intervista: dai saggi alla
letteratura, andiamo da Calvino a Roth, dalla molto citata Nina Simon, alla
Storia del mondo in 100 oggetti del già direttore del British Museum, Neil
MacGregor, al Cory Doctorow di Information Doesn’t Want to Be Free, da Pamuk
a McLuhan, all’opera di Erin Meyer, The Culture Map. Decoding How People
Think, Lead, and Get Things Done Across Cultures.
In chiusura propongo qui, e spero a seguire, un tavolo di elaborazione del
metodo sulla base di un’antologia, più larga del solo volume che avete fra le mani,
in qualche modo sia uniforme sia eclettica, che mi sono impegnata a curare e far
nascere tramite le interviste e le librerie ideali degli intervistati. Sarò lieta di
sapere che ne pensate, inneschiamo la discussione, come è più congeniale: on-
line oppure off-line.

8.2 Musei e digitale: 16 interviste per “Artribune”


Conversazione con Nancy Proctor in occasione “Meet the Media Guru”, Palazzo
Litta, Milano, maggio 2017
Nancy Proctor è la fondatrice della MuseWeb Foundation, nata allo scopo di
accrescere l’impatto, la sostenibilità, l’accessibilità del patrimonio culturale grazie
all’innovazione. Con una freschissima nomina a direttrice del Peale Center di
Baltimora, è stata ospite di un evento a lei dedicato e organizzato da “Meet the
Media Guru”, a Palazzo Litta.
L’oggetto della presentazione della Proctor è Be Here, una piattaforma creata
nell’ottica dell’audience development in risposta al momento di crisi dei musei
contemporanei. La nascita del progetto Be Here è legata al programma Museum
on Main Street, una lungimirante iniziativa dello Smithsonian, nata più di
vent’anni fa e ancora molto poco conosciuta rispetto al suo radicalismo e alla sua
portata nella pratica museale. Si tratta di un metodo per creare mostre destinate a
piccoli paesi degli Stati Uniti, con meno di 10.000 abitanti; è una sorta di
“template”, come un modello franchising, che trae origine da un tema legato alle
collezioni dello Smithsonian. La mostra arriva in loco non ancora completata, e
lo è solo quando la comunità ha aggiunto i propri contenuti e significati,
attraverso storie, immagini, oggetti.
Insomma, è una pratica che consente di co-creare una mostra includendo il
contributo della comunità locale. Le testimonianze raccolte dalla comunità
entrano a far parte dell’archivio della mostra, così come le conversazioni a
riguardo. Il portato di queste pratiche è ciò che Nancy Proctor definisce “capacity
building”, costruzione di competenze, che spiega citando parola per parola la
definizione di museo di Icom: la comunità impara come si può raccogliere,
conservare, interpretare e tramandare i propri valori culturali alle generazioni
successive. È un modello che può funzionare anche su comunità periferiche e
molto piccole (lo stanno adottando in Alabama e Minnesota).
Di fatto l’obiettivo del programma è l’inclusione di alcune voci che non sono
mai accolte o ascoltate dalle élite culturali. “It’s time for us to listen better”,
sollecita Nancy. I musei sono in crisi perché hanno perso la capacità di essere
determinanti – relevant, una parola chiave in questo ultimo anno per i musei – su
audience diverse da quelle raccontate e rappresentate nei discorsi culturali
dominanti.
“I musei italiani sono molto capaci nel raccogliere e conservare, non altrettanto
nel mettersi in relazione; non riescono a parlare ai pubblici che non conoscono e
che quindi non frequentano i musei: è un compito più ampio del solo
conservare”.
Be Here è un microfono aperto verso la comunità; uno strumento che funziona
sulla base della geolocalizzazione. Il legame con la comunità apre a possibilità più
ampie anche riguardo alla sostenibilità, come non manca di sottolineare Nancy.
“Siamo identificati per ciò che acquistiamo: se invece provassimo a definirci in
base a quanto partecipiamo e apparteniamo a una comunità?”.
Nancy è da sempre una sostenitrice del mobile, e della pratica del BYOD;
anche oggi sottolinea che lo smartphone non è uno strumento per rispondere alle
chiamate, ma un potente mezzo di interazione.
Credi che la perdita di importanza dei musei, da te evidenziata, sia connessa alla
scarsità di storie raccontate o, invece, ai modi di raccontarle?
Preferisco la parola “voci” a “storie”, le storie sono raccontate dalle persone;
quando noi ci limitiamo a sentire solo poche persone, limitiamo molto, di
conseguenza, lo spettro e il tipo di storie che possiamo sentire.
Quanto la crisi dei musei è legata alla resistenza delle istituzioni al cambiamento?
Da un lato molto, dall’altro però credo ci sia una sorta di feticizzazione a
riguardo; oscilliamo fra questi due poli. Vi riporto la mia esperienza. Quando ho
cominciato a lavorare con il Peale, ho parlato con il direttore cercando di essere
chiara; avevo bisogno di essere sicura che fossero consapevoli che le mie idee
riguardo a come condurre un museo sono quantomeno inusuali. Mi è stato
risposto che le idee tradizionali le avevano già sperimentate e non avevano
portato molto lontano. Abbiamo passato gli ultimi mesi cercando di conoscerci a
vicenda, e io cercando di assicurami che fossero pronti ad allontanarsi, con me,
dalle pratiche più tradizionali. Naturalmente, mi preme dirlo, riconosco il grande
e importante lavoro dei musei nel conservare il patrimonio per le generazioni
successive; ma dobbiamo continuare a crescere per assolvere al nostro debito con
la cultura contemporanea, che è divenuta radicalmente diversa dopo l’avvento di
internet.
I musei stanno rispecchiando la complessità odierna?
Siamo, mi pare, nella società capitalistica, capaci di riservare spazi molto limitati
alla “differenza”; in realtà nei musei la giornata al mese dedicata agli immigrati,
al linguaggio dei segni o altro è solo un modo per contenere il potere dirompente
del cambiamento, e proteggere lo status quo.
Questo tipo di contenuto partecipativo, dal basso, è privo di controllo curatoriale?
Si tratta di co-creazione, e questo non significa che i contenuti siano senza
controllo da parte dei curatori. Sono i curatori a selezionare un tema e progettare
la mostra; il punto è che la mostra non è conclusa fino a che non abbia
contribuito anche la comunità locale. È quest’ultima a essere determinante nella
fase conclusiva; si tratta del frutto di una conversazione, di una relazione fra gli
esperti e la comunità, che in ogni caso ha una bagaglio di proprie conoscenze. È
questa la co-creazione.
Il portato di questa pratica condivisa è quello di insegnare un saper fare con gli
strumenti del XXI secolo. Ciò che l’esperienza di Museum on Main Street
insegna è che le persone sanno come raccontare le storie, ma non hanno idea di
quale piattaforma utilizzare per condividerle o tracciarne i dati.
Ci confrontiamo sulle ragioni del digitale nei musei, e quindi partirei da questa
domanda: quanto conta la comunicazione digitale e lo sviluppo sul digitale in generale
in un museo?
Ormai senza esagerare direi che non avere il digitale è come non avere l’energia
elettrica. È una parte profonda dell’infrastruttura di ogni organizzazione ora, in
particolare di quelle che hanno bisogno di connettersi con il pubblico esterno.
Ritengo che il ruolo del digitale nel museo oggi è del tutto indispensabile.
Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia
della comunicazione in un museo sui social, ma non solo?
Mi ricordo il periodo nel quale i musei erano preoccupati di digitalizzare e
mettere on-line le loro collezioni, per paura che nessuno sarebbe più andato a
visitare il museo; naturalmente quello che abbiamo scoperto è esattamente
l’opposto: ora le persone capiscono in rete quanto interessante potrebbe essere
visitare quegli oggetti di persona e vi trovano le ragioni per visitare il museo.
Certamente c’è una sorta di maturazione nella riflessione a riguardo anche se
forse non un consenso universale, rispetto all’importanza di digitalizzare e
mettere on-line le collezioni proprio col proposito di attirare il visitatore reale,
fisico.
Ma c’è anche un ruolo cruciale che la collezione on-line svolge per coloro i
quali non saranno mai in grado di visitare la collezione di persona. Privilegiare il
pubblico fisico ed escludere il visitatore on-line è veramente, come dire, che le
nostre porte sono aperte solo per coloro che sono fortunati abbastanza da vivere
vicino o da avere le risorse per visitare musei anche lontani, con aereo, hotel ecc.;
naturalmente non è la ragion d’essere del museo stare unicamente dalla parte
della upper class e di chi può sostenere economicamente un viaggio.
La vera sfida ora quindi è capire meglio come il pubblico on-line usa quelle
risorse e come creare esperienze più avvincenti rispetto alle sole collezioni on-
line. Quello che dobbiamo fare è creare un’esperienza on-line che sia davvero
capace di generare un engagement emotivo e intellettuale, cioè quello che è
possibile in presenza dell’oggetto. Per esempio, io ho lavorato con il Google
Culturale Institute al debutto, con i primi 70 musei, perché lavoravo allo
Smithsonian a quel tempo. Una delle cose che fecero fu la risoluzione in giga
pixel (giga pixel scan) per le collezioni che mettevano on-line. Non posso
dimenticare il momento nel quale ho potuto mostrare la portata della
riproduzione in giga pixel al direttore al museo: abbiamo cominciato a fare zoom
in, zoom in, e a un certo punto fu evidente che la medesima azione non sarebbe
stata possibile con l’opera appesa nella galleria; quantomeno le guardie ti
avrebbero fermato perché eri troppo vicino. Ci sono operazioni di osservazione
ed esami di esperti e ricercatori che ora sono più facili grazie allo sviluppo
digitale, molto di più di quanto non siano di persona; ma dobbiamo ammettere
che ancora non siamo bravi nel design dell’esperienza digitale e nel renderla
profondamente interessante.
Pensi che dovremmo pensare a diversificare i contenuti per offrirli in modo diverso nei
differenti momenti? Alludo a prima-durante-dopo la visita?
Questi contesti sono diversi certamente, ed è quindi importante esserne
consapevoli e tenere presente il contesto di visita, per naturalmente riuscire a
collegarli; il prima e dopo, sì, ma devo rammentare che ci sono persone che non
verranno mai fisicamente a visitare il museo, ed è dunque importante pensare
anche a loro in modo non marginale, e capire come raccordarci.
Per un museo cosa significa svolgere un’attività relevant, attualmente determinante?
Penso che relevant abbia molto a che vedere con inclusione; se mi sento incluso in
un’esperienza quella sarà determinante per me; uno dei problemi che abbiamo
visto è che in museo troppe persone non si sentono incluse. Il risultato è che,
direi poco sorprendentemente, non essendo per loro determinante l’esperienza,
queste persone non vengono nel museo. E le persone che non si interessano e
non vengono al museo non si sentiranno certo coinvolte nel momento in cui il
museo dovesse avere bisogno di un supporto pubblico per continuare a ricevere
risorse e fondi indispensabili per tenere aperto, e per portare avanti quella
importante attività di conservare le collezioni per tramandare quelle e la loro
conoscenza alle generazioni future.
Parliamo un poco di profili e organizzazione: che competenze deve avere chi si occupa
di comunicazione social in un museo? E quali caratteristiche personali?
Questa è una domanda molto interessante. Mi fa pensare a qualcosa che si sta
evolvendo nella MuseWeb Foundation. E la tua domanda mi fa ipotizzare che
non sia forse un fenomeno che riguarda le persone coinvolte, ma un trend più
generale. Noi siamo un’organizzazione molto piccola, ma abbiamo con noi un
fantastico digital curator, Heather Shelton. Lei copre diversi ruoli: è il nostro
social media manager, ma è anche il curatore della collezione digitale di storie
sulle quali stiamo lavorando con il progetto Be Here. Mi chiedo se il ruolo del
curatore non si stia sviluppando verso il ruolo del SMM e viceversa.
178

E io so che ciò che sto dicendo verrebbe messo in dubbio, se non in ridicolo;
molti curatori pensano che la loro preparazione – ed esperienza – stia su un
diverso piano rispetto a quelle di un social media manager ma, sai, ciò che
davvero ci è necessario è il meglio di entrambi questi mondi: la capacità del
SMM di mettersi in contatto coi pubblici, di ascoltare quanto hanno da dire, di
coinvolgere le persone e sollecitare conversazioni piuttosto che operare o da una
torre d’avorio o anche in una comunicazione mono-direzionale; che trasmette
competenza, esperienza, opere.
Quando i processi di integrazione delle figure potranno dirsi conclusi, sarà inutile avere
ancora il suffisso “digital”? Curatore e digital curator saranno la medesima
professione?
Beh, ecco, lo è già abbastanza. Quando cominciai il mio lavoro presso lo
Smithsonian American Art Museum (Washington, DC.) il ruolo era Head of
New Media, che oggi suona davvero superato; e certamente il suffisso “digital”
subirà lo stesso destino. Almeno perché tutte le tecnologie che sono “digital”
coinvolgono audiences non nel senso nel quale noi utilizziamo il termine “digital”
nel mondo dei musei. Quindi, beh, la mia risposta è sì!
Non abbiamo nei musei squadre di professionisti per scrivere al computer,
giusto? Ciascuno sa come scrivere al computer e come usarlo. Sarà la medesima
cosa.
Come possiamo valutare le attività sui social media?
Questa è una domanda molto importante. Vorrei avere una risposta semplice e
definitiva. La mia risposta è che questa è davvero un’area fondamentale sulla
quale lavorare. I lavori più significativi in merito sono stati fatti da professionisti
come Sebastian Chan e Jane Finnis del Let’s Get Real Project.
Mi viene in mente anche Elena Villaespesa, sei d’accordo?
Oh sì, certo, ed è veramente meraviglioso che grandi istituzioni come la Tate e
come il Met stiano assumendo risorse dedicate all’analisi dei dati dei social
network e dei digital media.
Ma credo che siamo ancora all’inizio della questione. Un altro saggio che è
diventato per me di riferimento a riguardo è Museums… So What? di Robert
Stein, su Medium, e anche parte di un lavoro più grande: CODE | WORDS.
179

Technology and Theory in the Museum pubblicato con Suse Cairns e Ed Rodley; 180

in questo saggio Robert sottolinea l’opportunità che perdiamo se non siamo in


grado di immaginare e misurare, e quindi accrescere la nostra capacità di valutare
l’impatto del raccontare storie, e il loro valore, coinvolgendo i pubblici; e,
dall’altro lato, se non siamo stati abbastanza capaci di raccontare storie, non
avremo il supporto critico di alcuni filantropi e alcuni segmenti di pubblici che ci
sono, invece, davvero necessari.
Ora qualcosa sui musei USA, possiamo? Sono rimasta molto stupita dalla successione
degli eventi al Met; è sembrato come se il Met Breuer presentasse il conto a
inaugurazione ancora in corso. Che è successo secondo te? Quale visione porta a questi
problemi? Su che arco di tempo sarebbe sensato pianificare le attività e la strategia?
Le organizzazioni come il Met sono incredibilmente complesse: penso che lo
staff sia di circa 3000 persone ed ha davvero una lunghissima storia; eviterei di
dare un’unica spiegazione per un evento importante come questo; comunque una
cosa che potrebbe essere corretto dire è che ciò che sta causando problemi al
Met, e che sta divenendo di dominio pubblico, è qualcosa con cui ogni
organizzazione sta lottando oggi, forse solo non è ancora finito sui giornali.
Cambiare è molto difficile, ma non solo nei musei, dico in senso lato per la
cultura e la società, ove è intervenuto internet. Il cambiamento è complesso. È
molto facile biasimare qualcuno o qualcosa per i problemi.
C’è uno stupendo talk di Tim Phillips, The neuroscience of social conflict; il suo
lavoro si è focalizzato sulle neuroscienze, ma lui viene dal MIT; penso che 181

questa sia un’area utile per aiutarci a capire perché cambiare è così difficile e
come possiamo farlo meglio.
Infine, un libro da consigliare ai colleghi italiani. Quello che trovi più geniale e utile di
tutti.
Non ti dirò un solo titolo, non posso, troppi libri meravigliosi; ma un nuovo libro
che raccomando caldamente è Creating the Visitor-Centered Museum di Peter
Samis e Mimi Michaelson: la loro importante ricerca è condotta su vari musei e
progetti che hanno fatto qualche passo avanti su questo tema. Mi piace perché
offre alcune soluzioni e caratteristiche per essere un museo incentrato sui
visitatori, e casi veri da studiare e da mettere in pratica.
Poi, forse meno interessante per i colleghi italiani, ma molto per quelli che
lavorano negli USA e in Europa, è davvero importante cominciare a capire
l’eredità del sistema della giustizia criminale per come è stata gestita nel XX
secolo; io raccomando The New Jim Crow di Michelle Alexander, e Bryan
Stevenson, che mostra come la società americana si sia evoluta dalla schiavitù in
segregazione e poi in un sistema di giustizia che contiene un senso implicito di
razzismo; il risultato è che da 300.000 persone incarcerate negli anni Settanta
oggi più 2 milioni di persone sono in carcere, e per la comunità afroamericana
significa che un terzo della popolazione non può votare. Questi sono i temi che
dobbiamo trattare; e se non siamo consapevoli di questo, non raggiungeremo
alcun obiettivo nei musei. Uno dei miei preferiti è Cory Doctorow, del quale vi
segnalo Information Doesn’t Want to Be Free, sull’economia digitale.
Conversazione con Silvio Salvo, social media manager e ufficio stampa della
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, giugno 2017
Quale ritieni possa essere il profilo fertile per fare il tuo lavoro? Intendo quali
competenze e quali caratteristiche anche intese come soft skills.
Per svolgere al meglio il lavoro di SMM è necessario: conoscere bene i contenuti
che si devono comunicare; avere buone capacità di copy; essere curiosi; essere
aggiornati sui nuovi mezzi di comunicazione; informare la community; interagire
con la community; creare la community; guadagnarsi sul campo l’autonomia
nella gestione dei canali che si seguono; intercettare i gusti e le passioni del target
anche fuori dal campo di pertinenza; immettere nuova linfa nei processi di
comunicazione; appropriarsi “dell’immaginario quotidiano” che si trova nei social
e utilizzarlo per comunicare il prodotto con un tone of voice adeguato al canale (lo
stesso contenuto deve essere diverso se appare sul sito, sulla newsletter, su un
comunicato stampa). Se, per esempio, leggo sui social di un museo di arte
contemporanea “oggi il museo è aperto dalle 12 alle 19” penso: bene, ma non
benissimo.
Personalmente faccio attenzione agli elementi che appartengono alla
quotidianità e penso che ogni aspetto della realtà che mi circonda possa essere
fonte di ispirazione per comunicare i contenuti. Considero Barbara D’Urso
un’icona contemporanea al pari di David Foster Wallace, Lionel Messi, Barack
Obama, Donald Trump, Pornhub, Thom Yorke, Ed Sheeran, i profughi di
guerra, Peppa Pig o Chiara Ferragni.
Nei social cerco di creare uno scenario che supera i confini fra i vari linguaggi:
arti visive, pubblicità, tv, musica, cinema, letteratura, giornalismo, social media.
È la natura dei social: l’organizzazione “caotica” delle informazioni ti permette di
diventare un architetto della parola e dell’immagine. Si possono creare
cortocircuiti interessanti. “The medium is the mess-age”. Siamo nell’era del caos.
Quale credi che sia la necessità di integrazione tra il SMM e il team della Fondazione?
E con i curatori in particolare?
Il gioco di squadra è fondamentale. Puoi essere autonomo quanto vuoi, ma senza
un’interazione continua con lo staff, non riesci ad avere una visione completa
delle mostre o delle attività che devi comunicare.
I curatori mi spiegano le mostre, la scelta degli artisti, e mi ci fanno
appassionare. A quel punto tocca a me declinarli a seconda dei canali di
comunicazione. Anche parlare direttamente con gli artisti è utile: con Adrián
Villar Rojas (è stato più di un mese in Fondazione) abbiamo parlato di musica
(va matto per i Radiohead e i Nirvana), di Maradona, del Papa, di Star Wars.
Conoscere le sue passioni mi ha aiutato nella comunicazione del backstage della
mostra.
Credi che il contesto del contemporaneo sia una facilitazione? Intendo, che sia in
qualche modo più naturalmente vicino a social e digital (rispetto per esempio a un
museo archeologico)?
Per la comunicazione di un museo archeologico possiamo attingere da secoli di
storia. L’arte contemporanea è qui e ora ed è la memoria di domani. E non
dimentichiamoci che per ogni persona che ama l’arte contemporanea, ce ne sono
almeno cinque (se non dieci) a cui non interessa o che pensa che non meriti lo
sforzo di entrare in un museo. Ma queste stesse persone sanno che tutta l’arte è
stata contemporanea. Stiamo vivendo da protagonisti l’arte che verrà studiata
dagli alieni quando ci invaderanno. Nel 2430 ci saranno code al Louvre per
vedere un’opera che è stata realizzata in questo preciso momento. Un museo di
arte contemporanea deve trasmettere anche questo messaggio.
Quale pensi sia il senso dell’utilizzo dei canali social?
Il senso è comunicare le attività e interagire e con il pubblico in maniera più
immediata. I feedback (elogi e critiche) che arrivano dai social sono molto
importanti anche perché ti danno la possibilità di migliorare i servizi.
Persino tu ti muovi tramite un piano editoriale? Te lo approvi da solo? Cresce
nell’immediatezza di oggi giorno?
Sfatiamo un mito: esiste un piano editoriale. Seguo schemi consolidati che spesso
nascono dall’ispirazione del momento: una ragazza che porta a spasso il cane nel
giardino davanti la Fondazione, il sole che si alza dietro l’edificio, un bambino
rapito da un’opera in mostra durante i laboratori del nostro magnifico
dipartimento educativo, le opere in mostra, la tematica affrontata dall’artista, le
riunioni con Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, la lettura di un quotidiano, le
conversazioni con i colleghi durante la pausa pranzo, un film visto la sera prima,
una canzone ascoltata in auto, il rancoroso Raz Degan sull’Isola dei Famosi, i sei
goal del Barcellona al PSG, L’amica geniale di Elena Ferrante, le serie Black
Mirror e Stranger Things, un editoriale sul “New York Times”, i servizi di moda
sulla rivista musicale “Rolling Stone”, una b-side dei Radiohead realizzata per il
mercato giapponese, una battuta del Quartetto C’era su “Eccezionale
Veramente”, le inquadrature a Barbara D’Urso, le invettive di Enrico Mentana,
gli haters contro Bebe Vio, le telefonate che arrivano a “La Zanzara” su Radio24,
i troll, le urla in piazza nel programma “Dalla Vostra Parte”, i discorsi dei
politici, i clochard bruciati vivi, i commenti sulle pagine Facebook di “Libero”,
gli editoriali di Selvaggia Lucarelli, i video-messaggi di Saviano, vanno tenuti
nella stessa considerazione. Devi essere costantemente sintonizzato. Se
comunichi l’arte contemporanea, non puoi prescindere dall’utilizzare il
linguaggio della società contemporanea. I social organizzano la comunicazione in
maniera caotica e noi ci adeguiamo. Il caos è equo, come sostiene il Joker. Nella
nostra comunicazione tutti sono allo stesso livello. Occorre però fare attenzione:
se vuoi raggiungere tutti i target, a volte corri il rischio di non raggiungerli tutti.
Come valuti tu, e come viene valutato dall’istituzione per la quale lavori, il tuo
impegno sui social? Esistono obiettivi dichiarati? Misurabili? Quantificabili? Elabori
una reportistica?
L’impegno sui social è pari all’impegno della presidente e dei miei colleghi. Se
non creassero contenuti di alto livello (mostre, eventi, attività didattiche) il mio
lavoro sarebbe inutile. L’obiettivo principale è dare le informazioni utili a far
conoscere le nostre attività e fare entrare in testa “Fondazione Sandretto Re
Rebaudengo”. Il feedback è positivo. I colleghi e la community apprezzano.
Godi di un mandato molto ampio, che ti riconosce ampia capacità creativa, sei
d’accordo? È stato da sempre così? Hai mai dovuto difendere o giustificare la tua linea
editoriale sui social? Nessuno ha mai fatto fatica ad apprezzarla?
È sempre stato così. A volte alcuni miei colleghi mi dicono “Non ho capito”, ma
gli stessi colleghi accettano di fare la dub dance per la foto degli auguri di Natale.
L’intenzione è anche quella di spiazzare. Sono sicuro che chi entra per la prima
volta sui nostri canali social sia spaesato. I nostri post prevedono un piccolo
sforzo. Devono essere decodificati (e non intendo i post scritti in codice morse
quando parlano gli alieni). Alcuni sono più immediati di altri. Se vuoi
intercettare tutti i gusti culturali e le tendenze più attuali, se vuoi stimolare
suggestioni, corri il rischio di non essere sempre compreso da tutti.
Ti racconto questo aneddoto: avevo appena posteggiato l’auto davanti la
Fondazione. In quel momento stavo ascoltando una canzone dei Nirvana. Ho
alzato il volume e ho fatto un video (inquadratura statica per 7 secondi) alla
Fondazione mentre rimbombavano le note di Drain You (quando Kurt Cobain
urla come disperato al minuto 2 e 27 secondi).
Ho postato il video su Facebook con questa descrizione: “Ci è arrivata una
chiavetta con un video. Senza mittente. Se è uno scherzo non è divertente.
#Palesati”. I like e i cuoricini arrivavano da fan di band death metal norvegesi.
Un’ora dopo un mio collega entra nel mio ufficio e mi dice che dobbiamo
avvertire la polizia, che ho fatto male a postare quel video. Io gli dico di aspettare
e di non preoccuparsi perché sicuramente si sarebbe palesato. Il giorno dopo
rifaccio un video sempre dall’auto con sottofondo i Verdena. Dopo cinque
minuti mi chiama il mio collega: “Sto per chiamare la polizia, portami la
chiavetta, spero tu abbia usato i guanti”. Vado da lui e poco prima che componga
il numero gli dico che è opera mia. Ho trovato tutto molto inquietante e
divertente. Ovviamente, dopo questo episodio, al mio super-collega lascerei
anche le chiavi di casa e so che il mondo è un posto migliore se c’è anche lui.
Secondo te (domanda classica al SMM) il seguito sui social si traduce in
biglietti/visite? E secondo il tuo aiutante Yoda?
Sicuramente sì, ma in minima parte. È un modo come un altro (mezzi di
informazione, sito web, newsletter) di tenersi informati sulle attività della
Fondazione. Nei questionari che distribuiamo ai visitatori abbiamo aggiunto la
voce “Come sei venuto a conoscenza di questa mostra?”. Presto ti saprò dire.
Il Maestro Yoda, @iodaioda (sono io il suo aiutante), sa già la risposta perché
usa la Forza e riesce a vedere il futuro. Dimenticavo: quando un bimbo vestito da
Yoda è entrato in Fondazione con la mamma e il papà ci siamo emozionati.
Il tuo lavoro costituisce di per sé una performance vera e propria. È consapevole?
Voluto? Strategico?
È il social network, bellezza! Il tone of voice che utilizziamo sui social rispecchia il
linguaggio che troviamo sui social: haters, complottisti, seguaci di Osho, post
deliranti di personaggi assurdi, razzisti, avvocati che sponsorizzano le loro pagine
e vengono derisi dai potenziali clienti, MASSIMA DIFFUSIONE!111!!!, odio
la Juve, W la Juve, rom rinchiusi in una gabbia, etichette dei vini, selfie con gli
occhi grandissimi perché ritoccati con l’applicazione “ingrandisci gli occhi così
sembro più bello”, piedi, gattini, elogi tutti uguali ai post della Ceres, pagine
ironiche, satanisti, l’oroscopo di Brezsny, bestemmie, pagine religiose, gruppi di
pervertiti, post-truth, video che scuotono le coscienze su AJ+.
Per capire il mood della giornata, oltre a leggere gli editoriali sui quotidiani,
puoi stare 20 minuti al giorno su Facebook. Raramente guardo le campagne
social degli altri musei (la maggior parte fa un ottimo lavoro). La comunicazione
social della Sandretto è efficace proprio perché non è convenzionale, ma è
convenzionale se inserita in un ambito più ampio: quello dei social, in cui si
creano cortocircuiti e caos e i linguaggi si mixano in un calderone che alla fine
della giornata non ti lascia niente se non un argomento di conversazione della
durata di un minuto sulle bambine che entrano nella stanza quando il padre
rilascia l’intervista alla BBC.
Attingiamo da tutto: dall’arte contemporanea, da Cruciani e Parenzo, da J.M.
Coetzee, da Francesco Totti, da Club to Club, da Maccio Capatonda, dai
Radiohead, da Vulvia, da Quelo, da Alessandro Bergonzoni, da Arturo
Brachetti, dal Cavaliere Oscuro.
E soprattutto cerchiamo di coinvolgere gli altri musei cittadini (fare rete anche
sui social è fondamentale) e personaggi che c’entrano poco con la Fondazione:
Salvatore Aranzulla, Mario Giuliacci, il Divino Otelma. Diamo informazioni,
creiamo il caos e intratteniamo: “infochaostainment”.
Il legame con il cinema è un legame con te o con la Fondazione? O con entrambi? O
dovrebbe comunque esserci e ne segnali l’assenza?
Il legame con il cinema è nato con “L’arte è”. Mi sono trovato a gestire i social
della Fondazione e ho dovuto improvvisare, fare in fretta e trovare un modo di
trasmettere le nostre informazioni in maniera non banale e poco istituzionale. È
stato un inizio “ingenuo”, ma genuino, dettato dalla mia grande passione. Con
“L’arte è” creavo uno scenario. Sono appassionato di cinema e per me è stata la
scelta più immediata. Nel corso degli anni l’evoluzione è stata spontanea. I meme
con personaggi universali (del cinema, della televisione, della pubblicità, della
musica) rendono riconoscibile il nostro spazio in Via Modane. Intrattengono e
informano. Quello che tento di fare è “creare un immaginario” della nostra sede.
Abbiamo la fortuna di avere questa sede meravigliosa, amata dagli artisti che
espongono da noi, una parete esterna lunghissima, un “palcoscenico naturale”.
Perché non sfruttarla e giocare un po’? A volte è rischioso, mi rendo conto: i
puristi possono non apprezzare una contaminazione così sfacciata, ma (forse) si
faranno una risata.
Che libro consiglieresti ai colleghi?
Visto che l’ho “citato” dicendo “the medium is the mess-age” direi Gli strumenti
del comunicare di McLuhan, ma anche Striscia la Tv di Antonio Ricci. Invece se
devo semplicemente indicare un buon titolo, il mio libro definitivo è Pastorale
americana. Aggiungo Gioventù di J.M. Coetzee, Istanbul di Pamuk, Il barone
rampante di Calvino.
Conversazione con Patricia Buffa, Head of Digital Communications, Fondation
Louis Vuitton, Parigi, aprile 2017
Ci racconti un poco del tuo lavoro il tuo team, i tuoi obiettivi?
Alla Fondation Louis Vuitton lavorano in tutto 35 persone, assunte e a tempo
indeterminato, includendo tutti i dipartimenti, dall’accoglienza, all’editoria, al
marketing, alla produzione delle mostre e dei concerti e alla mediazione
culturale. Io in particolare lavoro nel Dipartimento di comunicazione e sono
responsabile della Comunicazione digitale. Nel mio team ci sono anche un social
media manager, un web-editor. L’obiettivo principale del nostro lavoro è
sviluppare la presenza della Fondation Louis Vuitton on-line, non solo in
termini di immagine, ma anche e soprattutto nel fornire risorse utili e
interessanti a tutti i pubblici che ci seguono, suscitare il loro interesse, ascoltarli,
dialogare con loro, stimolare la loro curiosità e intercettare nuovi pubblici che
magari non conoscono ancora la fondazione e la sua programmazione. Ogni
giorno cerchiamo di individuare i migliori canali e media per far si che i nostri
contenuti raggiungano nella maniera più semplice ed efficace il pubblico al quale
sono destinati, nell’intento di trasformare un visitatore virtuale in visitatore reale.
Non si tratta di una comunicazione unilaterale, ma biunivoca, in cui prendono
campo sempre più spesso anche i contenuti creati dagli utilizzatori. A mio avviso
la fondazione non è semplicemente composta dalle 35 persone assunte a tempo
indeterminato (e da tutte le agenzie e i fornitori che ci accompagnano in questa
avventura), ma anche da tutti coloro che vengono alle nostre mostre e ai nostri
concerti. Condividendo sui social media la loro esperienza partecipano di fatto
allo sviluppo della nostra immagine. La fondazione è anche loro. La motivazione
che mi accompagna al lavoro ogni mattina è quella di rendere la loro esperienza
on-line e sul posto sempre più interessante, ricca e, perché no, divertente.
Quando conta (o dovrebbe contare) la comunicazione digitale e lo sviluppo sul digitale
in un museo per te?
I digital media sono un modo per essere accessibili a tutti i pubblici e in
particolare al pubblico che non si trova sul posto. Nella vita di tutti i giorni
alterniamo in continuazione, e ormai senza neanche più rendercene conto,
comunicazioni digitali, analogiche e di persona. È questa stessa naturalezza che
si deve cercare di riprodurre anche quando a comunicare non è una persona
fisica, ma un’istituzione culturale o un’impresa. Fare distinzione tra
comunicazione digitale e “non digitale” è un po’ come aggiungere una barriera
artificiale, dato che nella vita queste due dimensioni sono fortemente
interconnesse. Un visitatore può ad esempio venire a un evento organizzato alla
fondazione perché lo ha visto sulla nostra pagina Facebook, oppure perché sono i
suoi amici che lo hanno condiviso. Cliccando sul link dell’evento potrà comprare
il biglietto on-line, cosa che gli permetterà di evitare la fila in biglietteria e di
avere accesso preferenziale alla fondazione. Una volta sul posto vivrà l’esperienza
“reale”, magari porrà delle domande agli educatori che sono a disposizione del
pubblico nelle gallerie oppure scaricherà l’app Fondation Louis Vuitton (la
nostra audio-guida digitale, messa a disposizione gratuitamente). Probabilmente
farà delle foto con il suo cellulare e le posterà in seguito sui social media usando
gli hashtag e geo-localizzandosi alla fondazione. Il nostro scopo è accompagnare
il visitatore nella maniera migliore possibile prima, durante e dopo la visita,
fornirgli strumenti in modo non invasivo per permettergli di vivere a proprio
modo la sua esperienza e instaurare così un circolo virtuoso tra contenuti ed
esperienze on-line alla fondazione.
Una mostra come Icons of Modern Art. The Shchukin Collection, che è stata182

visitata da oltre 1,2 milioni di persone (un record assoluto in Francia), ha


indubbiamente contribuito all’aumento del traffico on-line verso il sito e i social
media della fondazione. Non a caso durante i quattro mesi in cui questa mostra
era aperta, la pagina del nostro sito a essa dedicata ha avuto oltre quattro milioni
di visite e la nostra fan page su Facebook ha registrato la migliore progressione di
tutte le istituzioni culturali francesi dall’inizio dell’anno. In questo caso
potremmo dunque dire che i contenuti on-line hanno beneficiato del successo
dei contenuti proposti alla fondazione e hanno fatto loro eco arricchendo
ulteriormente l’esperienza on-line grazie alle visite a 360 gradi che abbiamo
proposto su Facebook e YouTube, oppure alla riproduzione dell’allestimento
della mostra sul nostro profilo Instagram. In altre circostanze, il circolo virtuoso
nasce on-line e si sviluppa dopo off-line, come nel caso di eventi più di nicchia
che mediatizziamo sui social media per toccare un pubblico più ampio.
Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia
della comunicazione web e social?
Noi siamo un’istituzione molto giovane; siamo nati digitali e io e il mio team
183

siamo anagraficamente “nativi digitali”. Sono una persona molto consapevole


della necessità dell’esistenza delle corrette infrastrutture informative in azienda.
Al mio arrivo mi fu posto l’obiettivo di creare la newsletter della fondazione.
Mi fu chiara da subito la necessità di avere innanzitutto un buon sistema di
customer relationship management alimentato da tutti i reparti, per far sì che la
gestione dei contatti potesse essere organizzata su un data-base unico e
dinamico, al fine di avere dati precisi sulla nostra audience.
Per un’istituzione come la FLV cosa significa svolgere un’attività relevant?
Significa essere al passo con i tempi, essere innovativi, stupire e meravigliare il
pubblico, anche tramite tutte le nostre piattaforme digitali; non si tratta solo di
essere al passo con i tempi ma anche, in alcuni casi, di sperimentare.
Per esempio l’app Lucky Vibes che è stata lanciata in francese e inglese ad
aprile, è rivolta a un pubblico giovane (teenager+). Si tratta di un gioco musicale
che permette di acquisire informazioni e conoscere aneddoti sulla fondazione in
modo divertente, con contenuti bonus che diventano disponibili quando si passa
al livello successivo. Di tanto in tanto lanciamo dei contest su Lucky Vibes che
permettono ai giocatori che realizzano il punteggio migliore di vincere biglietti
per le mostre e gli eventi organizzati dalla Fondazione. Attraverso
l’entertainment, questa app ci permette di divulgare contenuti sull’architettura e
sulla programmazione della Fondazione tenendosi lontani dai toni accademici,
perché essere relevant significa anche essere in grado di parlare con ogni pubblico
utilizzando il suo proprio linguaggio.
Ci parli un po’ del vostro “visitor’s journey”? Che tipo di conoscenza avete dei vostri
visitatori? E della loro fruizione dei vostri strumenti?
Il pubblico on-line non corrisponde esattamente a quello che viene sul posto. La
sfida consiste appunto nel trasformare un visitatore “virtuale” in “reale”. Su
Facebook, Twitter e Instagram siamo seguiti per la maggior parte da un pubblico
femminile, francese della fascia fra i 24 e i 35 anni; su YouTube da profili
maschili, basati negli Stati Uniti, sempre tra i 24 e i 35 anni. Il pubblico che
visita la fondazione, fisicamente, invece, è più maturo, con una media intorno ai
45 anni. Stiamo attualmente conducendo una ricerca sul nostro sito per capire
meglio i bisogni e la soddisfazione del pubblico della loro visita on-line. L’analisi
di questi risultati ci permetterà di pianificare al meglio gli sviluppi futuri del sito
in termini di navigazione e contenuti.
Che competenze deve avere chi si occupa di comunicazione digitale in un museo o in
un’istituzione culturale?
È un mestiere che è nato sul campo, sperimentando e osservando cosa fanno le
altre istituzioni a livello internazionale, adattando pratiche sviluppate altrove alla
propria realtà.
Non esiste una letteratura solida e univoca in questa materia, anche se ci sono
moltissimi case studies da tenere sott’occhio. A livello di istituzione, dopo aver
fatto test e sperimentazioni, è importante definire una strategia chiara e la sua
declinazione in termini grafici, funzionali e editoriali, in modo da restituire on-
line, nel modo più fedele possibile, l’immagine che l’istituzione vuole
comunicare. È un’immagine che ovviamente deve poter evolvere assieme
all’istituzione, ma che non deve cambiare a seconda della persona che ricopre il
ruolo di social media manager.
E quali caratteristiche personali (soft skills)? È un profilo con competenze richieste di
tipo “tecnico” (intendo coding, grafica)?
Tra le soft skills considero importante la capacità di gestire efficacemente progetti
che coinvolgono profili molto diversi tra loro: dai curatori, ai grafici, ai
programmatori, ai cosiddetti “influencer”. Conoscere e saper gestire l’expertise
che ciascuno di questi profili può apportare fa davvero la differenza nella gestione
dei progetti digitali, assieme alla capacità di mantenere una visione di insieme.
Una certa familiarità con software come Photoshop, Final Cut ecc. sono
importanti per poter adattare agilmente i contenuti a disposizione a tutte le
piattaforme disponibili. È meno necessaria quando si passa da profili operativi a
profili più senior.
On-line e off-line sono due mondi o uno solo? Ha senso cercarne il confine? Mi ha
colpito molto sul vostro sito leggere una dichiarazione: “The collection can be explored
through events at the Foundation and elsewhere. On-line, the collection is presented in
the same way”. Sai che i critici del contatto digitale con le opere sono ancora parecchi? E
sostengono che questo sostituisca, danneggiandolo perché copia povera, il contatto fisico
con l’opera. Che cosa ne pensi?
Innanzi tutto penso che l’esperienza fisica non abbia paragoni; non verrà mai
sostituita da un contatto digitale. Il digitale è un modo per interessare il
pubblico, per informarlo. Si offre, in ogni caso, a chi non potrà essere fisicamente
presente perché impossibilitato per una serie di motivi. La frase citata fa
riferimento al modulo “The Collection” che abbiamo appena lanciato sul nostro
sito. L’approccio che seguiamo è quello di pubblicare la collezione on-line allo
stesso ritmo in cui la collezione è presentata tramite le mostre alla Fondazione e
in altri spazi espositivi. Grazie ai contenuti video e al materiale fotografico
prodotto per ogni esposizione, possiamo proporre on-line un’esperienza
immersive, vicina a quella che si ha visitando le gallerie della Fondazione. La
navigazione proposta segue fedelmente il percorso espositivo e, man mano che si
scende in basso sulla pagina, si ha accesso a contenuti sempre più approfonditi,
come le interviste con gli artisti e una selezione bibliografica per ogni artista (e
presto per ogni opera). È una soluzione in fieri, sempre aggiornata, che si
modifica con gli allestimenti e ne tiene traccia.
Quando i processi di integrazione delle figure potranno dirsi conclusi, avrà senso avere
ancora il prefisso “digital” davanti ai nomi dei ruoli?
Non sarà più necessario, ma forse oggi esiste ancora bisogno di avere il prefisso
“digital’ per poter dar voce al meglio a certi valori che il web incarna, come la
condivisione di contenuti, risorse e archivi e l’approccio bottom-up invece che top-
down.
Come possiamo valutare le attività sui social media? Voi, come valutate l’andamento
delle comunicazioni on-line alla FLV? Lo mettete in relazione diretta con l’afflusso
fisico dei pubblici?
Facciamo valutazioni quantitative sulla performance e la crescita sul seguito ogni
tre mesi. Un fattore sempre più rilevante nel valutare la perfomance di un post è
l’engagement rate. Il numero di condivisioni di un post è fattore di grande
rilevanza.
Nel 2016 i nostri canali social sono cresciuti molto: 62% Instagram, 42%
Twitter, 40% Facebook; abbiamo anche WeChat, per la Cina, ma dovremmo
parlarne a lungo. 184

I vostri canali social sono curatissimi anche sotto l’aspetto grafico: secondo te – è una
mia sensazione – la recenziorità di un’istituzione e la firma di un archistar sull’edificio
che peso hanno sull’idea di bellezza e la cura della comunicazione in ogni suo versante?
Lo schizzo che Frank Gehry ha realizzato per il progetto della Fondazione è
senza dubbio diventato un’icona ed è stato declinato e ripreso su molti supporti
diversi. Per quanto riguarda l’identità della Fondazione on-line nel primo anno
sono stati fatti vari tentativi ed esperimenti. A due anni e mezzo dall’apertura è
venuto il momento di creare codici di riferimento che possano essere un punto di
riferimento. Per ogni social media sviluppiamo non solo un linguaggio di
riferimento, ma anche un approccio grafico diverso: su Instagram sviluppiamo la
nostra immagine mentre su Facebook diamo un’attenzione particolare alla
divulgazione dei contenuti, con un approccio più educativo.
Infine qualcosa su di te (possiamo?). Raccontaci. Come sei arrivata a Parigi? Qual è la
tua storia di formazione e professionale?
Mi sono laureata in Bocconi, a Milano, e ho approfondito il tema del
management dei media e della cultura a Sciences Po a Parigi. Ho lavorato a
Napoli per Mondadori-Electa, a Roma per l’apertura del museo MAXXI e poi
sei anni negli USA per il Sole24 Ore e il MoMA.
Come vedi lo stato di sviluppo delle istituzioni italiane sul “digitale”?
Non seguo da vicino le vicende nazionali, ma vedo che ci sono profili pieni di
vitalità ed energia. E so che il pubblico è molto attivo. Sia al MoMA che alla
Fondazione Louis Vuitton gli italiani figurano sempre ai primi posti quando si
guarda alla provenienza geografica degli abbonati. È una cosa che mi ha sempre
stupito positivamente. Nonostante in entrambi i casi menzionati non ci sia alcun
contenuto messo a disposizione in italiano, gli italiani leggono i post, li
condividono e li commentano più di altre nazionalità. Non saprei dire in
generale se le istituzioni culturali italiane sono attive e innovative dal punto di
vista della presenza digitale, ma mi sembra che gli italiani siano “connessi’,
ricettivi ai contenuti digitali, il che significa che c’è senza dubbio del potenziale.
Su che arco di tempo sarebbe sensato pianificare le attività e la strategia? Voi come vi
muovete?
Un anno per uno sguardo a esempi e pratiche di altri e pianificazione; un mese
prima del lancio il piano editoriale è confezionato (pronto anche ad essere
cambiato on going).
In ultimo, un libro da consigliare ai colleghi italiani. Quello che trovi più geniale e
ispirante di tutti.
In questo periodo sto leggendo The Culture Map. Decoding How People Think,
Lead, and Get Things Done Across Cultures di Erin Meyer, un libro che mi ha
consigliato la Chief Digital Officer de Museum of Natural History di New York.
Lo trovo molto interessante perché parla delle differenze nella maniera di
comunicare sul lavoro tra persone che provengono da culture diverse e di come
evitare di essere mal interpretati quando si lavora con persone che vengono da un
paese diverso, un’altra soft skill molto importate in un mondo globalizzato.
Conversazione con Chiara Bernasconi, Assistant Director in Digital Media al
MoMA, New York City, settembre 2017
Quanto conta la comunicazione digitale e lo sviluppo sul digitale in un museo? E al
MoMA in particolare?
La comunicazione e lo sviluppo digitale in un museo contano moltissimo, prima
di tutto perché non si può prescindere dalle abitudini del pubblico, che sempre di
più utilizza dispositivi mobili e tecnologie per capire il mondo.
C’è un articolo interessante di qualche anno fa dove si cita Paola Antonelli e
sono completamente d’accordo. 185

As Paola Antonelli, senior curator of architecture and design at the Museum of Modern Art, puts it,
“We live not in the digital, not in the physical, but in the kind of minestrone that our mind makes of
the two”. Museums, Ms. Antonelli insists, have an important role to play in helping people explore and
understand the emerging hybrid culture. “It’s this strange moment of change,” she explained. “And
digital space is increasingly another space we live in”.

Una delle sfide più grandi per i musei oggi è la capacità di rafforzare e unire
l’aspetto on-line a quello off-line, di mediare in questa cultura ibrida fra realtà
virtuale e fisica. Un piano strategico di un museo oggi non può esistere senza una
strategia digitale. Alcuni colleghi del settore avanzano l’ipotesi che sia possibile
tra qualche anno non dover aggiungere l’aggettivo “digitale” a titoli di staff o a
una strategia del museo, ma ci ricordano che per ora dobbiamo ancora fare
riferimento a una separata strategia digitale, per essere certi che venga
considerata! In ogni caso siamo già su una traiettoria dove l’aspetto digitale fa
sempre più parte integrante di tutto quello che il museo è e fa ogni giorno.
Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia
della comunicazione sui social?
La digitalizzazione dei contenuti, delle risorse e dei processi è fondamentale e
deve essere alla base di ogni sforzo e operazione sui social, che altrimenti
rimangono fine a se stessi e permettono solo una comunicazione superficiale.
Naturalmente tutto deve essere fatto rispetto alle proprie dimensioni e risorse
quindi con lanci in fasi. Non ci si aspetta di avere tutta la collezione on-line, ci
vogliono anni per cambiare le cose, ma bisogna cominciare da qualche parte,
mettere in atto un processo e proseguire con costanza.
Per un museo come il MoMA cosa significa svolgere un’attività relevant?
Fare attività rilevanti per il MoMA significa creare una programmazione con un
approccio user-centric sia nelle gallerie sia on-line. Significa saper attrarre un
pubblico il più ampio possibile (è scritto nella nostra missione!), che
continuamente cambia e non necessariamente è interessato solo ad arte moderna
e contemporanea, che ha diversi gradi di conoscenza dell’arte, locale e
internazionale, che a volte non parla l’inglese, e che può essere giovane o
anziano.
Che competenze deve avere chi si occupa di comunicazione social in un museo? E quali
caratteristiche personali (soft skills)? Si può fare su mandato, semplicemente seguendo
delle regole?
La conoscenza e la passione per i contenuti del museo a mio parere è
fondamentale perché non si può improvvisare, semplicemente seguendo delle
regole, per quanto anche queste siano necessarie, e devono essere comunicate in
modo trasparente e condivise.
La voce digitale deve essere personale, unica, deve avere uno stile forte,
ovviamente consono allo spirito del museo. Deve avere la fiducia dei curatori,
degli educatori, deve tradurre il loro linguaggio per renderlo accessibile a tutti. È
fondamentale che chi si occupa di comunicazione social sia prima di tutto un
“traduttore”, un ponte tra diversi linguaggi e diversi pubblici.
È un profilo con competenze richieste di tipo “tecnico” (ove intendo coding, grafica
ecc.)?
Non necessariamente deve avere skills tecniche, sono molto più importanti la
capacità di collaborare a ogni livello, sapere essere cross-departmental e cogliere
(anche tra le righe) la visione strategica dell’istituzione per cui si lavora, e avere
un’ottica di lungo periodo delle tendenze e del panorama artistico e culturale
generale. Più di ogni cosa chi si occupa di social media deve essere un abile
storyteller e deve coltivare connessioni interne al museo, ed esterne con altri
musei e istituzioni locali e internazionali.
On-line e off-line sono due mondi o uno solo? Dacci una speranza. Almeno al MoMA.
La ricerca della perfetta integrazione tra questi due mondi è ancora un’utopia.
Quelli che chiamiamo “the moments of truth” nel percorso del visitatore sia on-
line che off-line rimangono ancora poco analizzati ed esplorati, un po’ per
mancanza di competenze un po’ per mancanza di risorse e staff dedicato.
Comunque siamo in buona compagnia, è una delle sfide più grandi anche per il
settore for profit. Chi saprà rendere questa integrazione il più coordinata
possibile sopravvivrà. Al MoMA ci stiamo lavorando, anche se per ora ci
pensiamo sempre quando siamo nel bel mezzo della programmazione e non a
priori.
Quando i processi di integrazione delle figure potranno dirsi conclusi, avrà senso avere
ancora il suffisso “digital”?
Non credo che ci sarà mai completa integrazione, e forse questo è naturale, forse
non è nemmeno importante, però spero anche io che tra un po’ il termine
digitale sarà obsoleto e non dovremmo passare così tanto tempo a giustificare
perché è importante e potremmo concentrarci invece sulla creazione e
pianificazione di contenuti e programmi digitali. Un altro aspetto che vorrei
sottolineare è che non tutte le attività di un museo devono necessariamente
includere un aspetto digitale, ma solo se ha senso!
E ora, su New York: in che misura il museo ha un ruolo anche politico? Il MoMA si è
schierato contro il ban di Trump. Che ci dici in merito?
Credo che ogni museo abbia sempre un ruolo politico, è inerente al suo ruolo
chiave per la conservazione e diffusione di arte e conoscenza, di istituzione che ci
apre gli occhi a diverse specifiche culture e diversi punti di vista. Ogni decisione
curatoriale è di per sé politica, si tratta di scegliere di mettere in luce opere o
pratiche artistiche che hanno una particolare rilevanza in un preciso momento
storico.
In vari momenti storici esponenti della cultura hanno preso posizioni più o
meno chiare, ovviamente la situazione è complessa perché le istituzioni
naturalmente ospitano voci differenziate al loro interno. In ogni caso, credo che
ogni museo abbia il dovere e la responsabilità, come luogo pubblico rivolto
all’apertura e all’educazione, di comunicare il proprio dissenso verso scelte o
posizioni politiche ingiuste.
Un gruppo di curatori al MoMA ha sentito il bisogno di esprimere la propria
posizione nei confronti di un’operazione politica razzista attraverso una chiara
dimostrazione con l’arma della conoscenza e della cultura delle pericolose
conseguenze che queste prese di posizione possono avere anche nel mondo
dell’arte.
Infine qualcosa su di te (possiamo?). Il tuo “I went to MoMA and…”?
“I went to MoMA and…”; non avrei mai pensato di restare nello stesso luogo di
lavoro per nove anni! Al MoMA però succede questo e altro, ed è grazie a
colleghi straordinari, professionali, stimolanti, pronti a mettersi in gioco, a
sperimentare e a imparare dagli altri. Mi auguro che sempre più i luoghi della
cultura e le istituzioni possano coltivare questo tipo di ambiente di
sperimentazione e crescita.
Sono rimasta molto stupita dalla successione degli eventi al Met; è sembrato come se il
Met Breuer presentasse il conto a inaugurazione ancora in corso. Quale visione porta a
questi problemi? Su che arco di tempo sarebbe sensato pianificare le attività e la
strategia? Voi come vi muovete? Quale processo vedi mancante qui in Italia?
Quello che sta succedendo al Met credo sia legato a un’incapacità di operare in
modo agile, mi sembra dovuto più a manie di grandezza e incapacità di gestione
finanziaria e dispendio dei fondi, che a un vero problema strategico. C’era una
visione forte e definita; il problema è stato non accorgersi in tempo che la realtà
dei fatti non corrispondeva alla strategia e agli outcomes sperati. Spero che quello
che è successo al Met non freni altri musei a seguire una via di sperimentazione
intelligente e monitorata.
Un libro da consigliare ai colleghi italiani. Quello che trovi più geniale e utile di tutti.
Il testo di Nina Simon, The Participatory Museum, ha avuto una grande influenza
su tutti i professionisti dei musei negli ultimi anni. È un progetto generoso e
utile per mettere in discussione le gerarchie e i processi e ripensare a nuovi modi
di collaborare e di programmare nei musei.
Conversazione con Merete Sanderhoff, curator and senior advisor per lo sviluppo
digitale dello Staten Museum for Kunst di Copenhagen, maggio 2018
Quanto sono importanti la comunicazione e lo sviluppo digitali per un museo? E
quanto al Staten Museum for Kunst in particolare?
Al giorno d’oggi è importante che ogni museo persegua uno sviluppo digitale,
poiché questa dimensione ha sostanzialmente trasformato il modo in cui le
persone utilizzano, si relazionano, discutono e creano cultura. È pertanto
naturalmente vitale per i musei. Tuttavia, anche se il digitale pervade la nostra
vita di tutti i giorni, non è necessariamente sempre la scelta giusta per un museo
usare un canale di comunicazione digitale o una tecnologia. Il digitale non
riguarda la tecnologia, ma l’attitudine – per parafrasare Jasper Visser. Il digitale
ha insegnato al mondo che si può avere una mentalità aperta, dialogare, lavorare
insieme, condividere processi, conoscenze e strumenti per andare oltre, più
velocemente, insieme. Questa è la mentalità su cui basiamo il nostro lavoro su
SMK Open. Stiamo aprendo la collezione digitalizzata del museo a un riutilizzo
completamente libero e senza restrizioni, ed è estremamente interessante vedere i
modi affascinanti che le persone hanno di utilizzare le nostre collezioni con esiti
che non avremmo mai immaginato. La verità è che noi stiamo imparando tanto
da questa interazione con il mondo!
Quanto significa la digitalizzazione delle risorse e dei processi in termini di efficacia
della comunicazione attraverso i canali social?
Sta diventando sempre più chiaro che una solida infrastruttura digitale con facile
accesso a risorse digitalizzate, ben indicizzate e concesse con una licenza chiara,
che migliora le procedure interne ed esterne di co-editing e co-produzione di
contenuti, è la spina dorsale di un’efficiente organizzazione museale oggi.
Consente di cercare, trovare e condividere facilmente le risorse digitalizzate nel
formato adatto, senza dover inviare richieste a vari dipartimenti o chiedere il
permesso per vie burocratiche. Lo considero un investimento strategico chiave
per qualsiasi museo che voglia sfruttare le potenzialità dei canali dei social media.
Per SMK quali attività sono relevant? Puoi dirci qualcosa sul tuo progetto di
riconoscimento di immagini?
Offrire una versione “open” delle nostre risorse e conoscenze e mettere il nostro
patrimonio culturale condiviso nelle mani del pubblico è uno dei contributi più
significativi che possiamo dare alla società democratica nell’era digitale. Ciò
consente a partner esterni come la comunità di stampa 3D Shapeways o la start-
up Vizgu, che lavora al riconoscimento di immagini, di creare nuove esperienze e
prodotti per utenti che potrebbero non conoscere mai direttamente SMK:
consente di interessarsi al patrimonio culturale, prima di incontrarlo – o senza
mai visitarlo – attraverso queste piattaforme.
Che tipo di metriche usi per valutare un progetto digitale?
Come quasi tutti, misuriamo e analizziamo la portata e l’interazione tra le nostre
piattaforme digitali e i social media utilizzando Google Analytics. Ma se da un
lato questa è una buona pratica di base da mantenere, dall’altro bisogna essere
consapevoli che i numeri non dicono tutto. In questo momento stiamo
esplorando gli strumenti proposti da Europeana Impact Playbook per valutare in
modo più allargato l’impatto sociale, culturale e innovativo frutto della
digitalizzazione del patrimonio culturale. È co-sviluppato dai membri della rete
Europeana; faccio parte della task force che ci lavora. Offre un nuovo approccio
alla metrica, in quanto combina dati quantitativi e qualitativi, trasformandoli in
storie d’impatto avvincenti che prendono senso per le persone – per esempio i
politici, i finanziatori, i donatori e il pubblico di cui dipendiamo. Il settore
culturale necessita davvero di saper raccontare in modo più strutturato quanto
contribuisca alla società prospera e dinamica in cui tutti noi vogliamo vivere.
Ci sono due mondi separati là fuori? Uno on-line e uno off-line, o c’è un solo mondo?
Un mondo solo, ma con una nuova dimensione che apporta elementi sia positivi
sia negativi. Ogni volta che emerge una nuova tecnologia, cambiano la nostra
prospettiva, le nostre condizioni e le nostre abilità. Per il meglio o il peggio. Ma
il mondo è fondamentalmente il mondo, e siamo esseri umani come lo siamo
sempre stati, anche se le condizioni riguardo il lavoro, il tempo libero,
l’istruzione, la comunicazione e molto altro si sono evolute in nuove direzioni.
Detto questo, è evidente che esista una divisione netta tra aree che hanno avuto
uno sviluppo digitale e aree che non lo hanno avuto, e questo è uno dei fattori
che impediscono pari opportunità per tutta l’umanità. Dobbiamo lavorare per
diventare un mondo in cui tutti abbiano uguale accesso alle conoscenze e alle
risorse – anche nelle forme digitali.
Infine qualcosa su di te. Parlaci del tuo rapporto con il museo per cui lavori. Quali sono
i tuoi progetti preferiti?
Mi ritengo una donna molto fortunata a lavorare in SMK. Sono qui da undici
anni, il che sembra molto, ma in questo lasso di tempo il museo si è evoluto in
modo deciso da un’istituzione piuttosto conservatrice a un’istituzione dalla
mentalità vivace. Ha maturato davvero uno sguardo aperto e digitale. Sono
orgogliosa di questo sviluppo che mi fa andare al lavoro tutti i giorni con la
certezza che i musei possano di fatto andare avanti e abbracciare il cambiamento.
E abbiamo solo da guadagnare durante il processo.
Vuoi consigliare un libro intelligente e utile per i colleghi italiani e non?
Io credo che sia Europeana Impact Playbook, che ritengo sia molto utile per
qualsiasi istituzione che si occupi di patrimonio culturale, in qualsiasi parte del
mondo. In Italia in particolare modo dato il patrimonio culturale straordinario e
significativo per lo sviluppo delle culture europee e mondiali, nel quale le persone
di tutto il mondo possono identificarsi. Non desiderate sapere come e quanto ciò
condizioni la prospettiva delle persone rispetto alla storia, alla società e alle loro
vite? Europeana Impact Playbook potrebbe contribuire a rendere ancora più
efficace il legame di cuori e menti con il vostro patrimonio culturale in futuro.
Conversazione con Linda Volkers, Responsible for International and Digital
Marketing for the Rijksmuseum, Amsterdam, ottobre 2017
Quanto la comunicazione digitale incide sulla comunicazione in generale di un museo?
La comunicazione digitale sta divenendo via via sempre più importante quale
strumento per raggiungere gli stakeholders del museo. Al Rijskmuseum il
“digitale” costituisce uno dei principali pilastri della strategia dell’istituzione.
Dicendo “digitale” non mi riferisco solo alla digitalizzazione della collezione e
delle informazioni relative con ciò che riguarda la logistica o i processi. Digitale è
anche raggiungere la nostra audience attraverso i canali frequentati abitualmente
in autonomia, a partire dai social media, fino al sito web del museo o l’app. Per il
Rijksmuseum in particolare significa rendere la collezione disponibile on-line
tramite il Rijksstudio, un mezzo per raggiungere i possibili visitatori del museo e
far sì che più persone entrino in contatto con la nostra collezione e il marchio
Rijksmuseum.
Invece, quando fisicamente presenti in museo, noi desideriamo che i visitatori
si concentrino unicamente sugli oggetti esposti. Per questa ragione non abbiamo
alcuna installazione o distrazione digitale, con l’unica esclusione del wi-fi.
Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia
della comunicazione sui social?
Il Rijksmuseum utilizza i suoi canali digitali principalmente come modo per
mostrare la propria collezione: ciascuno può usare tutte le immagini di alta
qualità del Rijksstudio. Un secondo obiettivo è quello di fornire informazioni
relativamente alle mostre e agli eventi che organizziamo.
Usiamo diversi canali con diverse ragioni, servendoci della forza di
penetrazione specifica di ogni social media (Facebook, Instagram, Twitter,
LinkedIn, YouTube). Abbiamo perfino progettato un programma educativo
speciale, si chiama Snapguide, e si serve di Snapchat. In aggiunta ai nostri propri
canali, interagiamo sempre di più con instagrammer, blogger e vlogger.
L’istituzione per la quali lavori è uno dei grandi esempi di digitalizzazione: ha
superato resistenze obsolete rispetto ai diritti delle immagini, condividendole in HR.
Ci racconti di questo?
Rijksmuseum cominciò la digitalizzazione più di dieci anni fa, per ragioni
accademiche, legate alla ricerca, come parte del processo quotidiano del museo.
Dato che avevamo le immagini delle nostre opere in digitale, comunque,
abbiamo deciso di renderle disponibili a un pubblico più vasto. Ci è stato
possibile farlo perché i diritti d’autore non sussistevano più per gran parte della
nostra collezione.
Per un museo come il Rijks cosa significa svolgere un’attività relevant?
“Relevancy” per noi significa consentire agli altri di fare un uso della collezione
nel modo che preferiscono; noi non abbiamo stabilito restrizioni o limitazioni.
Puoi usarle per fare o progettare tutto ciò che vuoi, da un’opera d’arte a un uso
commerciale. L’unico vincolo esistente è che non è permesso utilizzare il nome e
il logo del museo. Fare attività rilevanti insomma per me significa facilitare e
consentire altri sguardi, necessariamente diversi, perché provengono da occhi con
storie diverse.
Che competenze deve avere chi si occupa di comunicazione social in un museo? E quali
caratteristiche personali (soft skills)? Si può fare su mandato, semplicemente seguendo
delle regole?
Credo che la caratteristica più importante sia essere curiosi, essere aperti
all’interazione con stakeholders e colleghi, non avere timore di procedere per
binari non tradizionali nella tua istituzione, e aver voglia di sperimentare. Allo
stesso tempo però avere ben chiaro in mente un obiettivo specifico, sul quale
rimanere concentrati e avere un impatto reale.
È un profilo con competenze richieste di tipo “tecnico” (intendo coding, grafica ecc.)?
No, non per me. Essere capaci di coinvolgere in una conversazione è molto più
importante, così come saper riconoscere dove ti serve competenza ed esperienza e
dove qualcos’altro.
On-line e off-line sono due mondi o uno solo?
Io penso a due mondi, che stanno sempre più convergendo. Tuttavia esistono
cose delle quali vuoi fare esperienza nella vita reale, come un bellissimo
Rembrandt o un Leonardo Da Vinci.
In che misura il museo ha un ruolo anche politico? Il MoMA si è schierato contro il ban
di Trump. Che ci dici in merito?
Rijksmuseum racconta la storia dell’arte e la storia dell’Olanda; rappresenta tutto
ciò, ma senza prendere posizione politica alcuna.
Un libro da consigliare ai colleghi italiani. Quello che trovi più geniale e utile.
Ho due libri nel mio elenco “da leggere”; penso e spero che possano essere utili
anche per i colleghi in Italia. Il primo è Irresistible. The Rise of Addictive
Technology and the Business of Keeping us Hooked di Adam Alter: ho appena
cominciato a leggerlo; parla della ragione per cui smartphone, app e social media
danno dipendenza. Il secondo è Customers the Day After Tomorrow, dell’esperto
di marketing Steven Van Belleghem; è appena stato pubblicato.
Conversazione con Luisella Mazza, Head of Operations, Google Cultural
Institute, aprile 2018
Come è nata l’idea in Google di occuparsi così direttamente di arte e cultura?
L’idea è iniziata con una domanda: come utilizzare la tecnologia di Google per
preservare e rendere accessibile l’arte? Nata con il nome di Google Art Project,
questa avventura inizia nel 2011 con 17 musei partner in tutto il mondo, in Italia
la Galleria degli Uffizi. Si trattava di uno di quei progetti noti come 20%, nei
quali i “Googler”, soprattutto nell’ambito engineering, possono dedicare parte
delle proprie ore lavorative alla creazione di progetti e iniziative che esulano dalle
loro attività lavorative quotidiane.
Quali sono le ragioni di questa diffusa attenzione?
La missione di Google è rendere le informazioni dal mondo intero più accessibili
per tutti gli utenti, incluse le informazioni sull’arte e la cultura. Google Art
Project, evolutosi in Google Arts & Culture, si inserisce ancora oggi in questa
missione.
Dopo una prima fase di pura “digitalizzazione”, gli strumenti offerti e il supporto del
GAC sono divenuti via via più sofisticati e più capaci di supportare un’elaborazione,
quasi allestitivi. È questo uno degli obiettivi?
Le conversazioni con gli esponenti del settore sono cambiate e si sono evolute nel
corso degli anni, e sicuramente ci hanno fornito molti spunti per migliorare
l’offerta per i musei partner. Per esempio, uno degli obiettivi richiesti era di
rendere la digitalizzazione in alta risoluzione – ossia, in giga pixel – più semplice
e veloce. Un’immagine giga pixel è particolarmente importante per i nostri
partner: è composta da oltre un miliardo di pixel e quindi permette di far risaltare
dettagli invisibili a occhio nudo. Per questo nel 2016 abbiamo creato Art
Camera, una speciale macchina fotografica robotizzata che permette di
riprendere opere d’arte in altissima risoluzione e in tempi rapidi. Ad esempio
un’opera d’arte di dimensioni piccole/medie (un metro per un metro) può essere
elaborata in solo mezz’ora.
Quali strumenti e progetti proporrete per i prossimi anni?
Continuiamo ad ascoltare i feedback dei nostri partner e a sviluppare nuove
tecnologie, in particolare attraverso il Google Cultural Institute Lab, il “crocevia”
dove comunità tecnologiche e creative si uniscono per condividere idee e scoprire
nuovi modi di vivere l’arte e la cultura. Sebbene non possiamo elaborare nei
dettagli, stiamo lavorando per ampliare alcune tra le tecnologie sviluppate di
recente nel Lab, come per esempio la realtà virtuale sperimentabile tramite
Google Cardboard, le nuove caratteristiche dell’app Google Arts & Culture, e gli
esperimenti nati dalla collaborazione con programmatori creativi, come ad
esempio X Degrees of Separation e Free Fall.
Ci parlate un po’ di numeri e statistiche? Musei, opere, mostre, quanti sono? E i
visitatori?
I musei e le istituzioni culturali partner sono oltre 1500 da oltre 70 Paesi e hanno
reso disponibili on-line sulla piattaforma oltre 6 milioni di immagini e oltre 9000
mostre digitali curate da esperti. I visitatori superano i 43 milioni all’anno, con
oltre 175 milioni di visualizzazioni di contenuti. Infine, i contenuti su YouTube
hanno ricevuto 5,2 milioni di visualizzazioni all’anno e ci sono oltre 348.000
persone che ci seguono sui social media.
Che clima e attitudine vi trovate ad affrontare in relazione ai musei italiani? È
diverso altrove?
I musei italiani sono aperti al dialogo e alle nuove tecnologie, lo dimostra anche
il fatto che abbiamo oltre 100 istituzioni culturali partner in Italia, il maggior
numero tra i Paesi europei su Google Arts & Culture. In generale, il dialogo con
i musei sul digitale è un capitolo ancora aperto. Uno degli esempi più recenti del
clima di apertura dei musei italiani è il progetto lanciato recentemente con la
Galleria Nazionale di Roma. Grazie a questa collaborazione, il museo ha portato
on-line oltre 170 opere opere digitalizzate in altissima risoluzione, compiendo la
nostra maggiore operazione di digitalizzazione di opere in un singolo museo in
Italia tramite Art Camera; inoltre ci ha chiesto di pensare a un’iniziativa creativa
speciale e così abbiamo creato insieme la residency dell’artista Paco Cao. Il
risultato è stato la performance Control, espressa dall’artista tramite Tilt Brush, la
tecnologia di Google per dipingere in tre dimensioni.
Quali expertise sta sviluppando GAC come seguito di queste esperienze di contatto con
le istituzioni culturali?
Come dicevamo il contatto con le istituzioni è determinante per ampliare e
migliorare la nostra offerta continuamente. Un esempio è stato l’ampliamento
delle collaborazioni tecniche con istituzioni culturali che scelgono di condividere
un numero sempre maggiore di opere d’arte, per rendere disponibili on-line le
loro collezioni nel modo migliore. Abbiamo collaborato, ad esempio, con il
Rijksmuseum di Amsterdam che ha portato on-line oltre trecentomila opere
d’arte della collezione su Google Arts & Culture, ma anche con il Natural
History Museum di Londra, che ha condiviso l’intera collezione di oltre
trecentomila immagini scientifiche. Un altro esempio potrebbe essere l’utilizzo
della digitalizzazione a 360 gradi che, con la collaborazione dei partner, ci ha
portato a “entrare” virtualmente in performance straordinarie come quella del
balletto dell’Opera di Parigi, o in atmosfere emozionanti come quelle del Palio di
Siena, tramite i video immersivi a 360 gradi.
È un settore sul quale Google intende investire anche nei prossimi anni?
Il settore è in continua evoluzione e senza dubbio siamo impegnati a fianco dei
nostri partner sul lungo termine.
Ci segnali un libro che consiglieresti a tutti i professionisti museali italiani?
Non ho la presunzione di consigliare un libro a chi si occupa di tutelare e
preservare il nostro patrimonio culturale. Tuttavia un testo che personalmente
trovo fonte di continui stimoli è La storia del mondo in 100 oggetti di Neil
MacGregor, direttore fino al 2015 del British Museum. L’interpretazione, la
rilettura e la storia di questi 100 oggetti – da una punta di freccia alla carta di
credito, tutti selezionati dalle collezioni del British Museum – sono
un’ispirazione a creare connessioni e riflessioni sul passato e il presente originali e
inaspettate.
Conversazione con Darren Milligan, Director dello Smithsonian Learning Lab e
Senior Digital Strategist per lo Smithsonian Institution’s Center fot Learning and
Digital Access, Washington, D.C., maggio 2018
Quanto sono importanti la comunicazione digitale e lo sviluppo digitale per un museo?
E quanto allo Smithsonian?
Penso che tutti i musei dovrebbero prendere in considerazione, almeno in parte,
il loro potenziale impatto oltre le proprie mura. Chi potrebbero servire, a chi
potrebbe essere utile usare le loro collezioni e conoscenze? È tempo di ripensare
e possibilmente ridefinire le priorità. Ciò non significa che tutti i musei possano
o debbano passare alla digitalizzazione o a progetti digitali all’avanguardia.
Questi, per essere realizzati bene, richiedono esperienza e risorse alle quali
purtroppo non tutti i musei, almeno in questo momento, hanno accesso. E
questo è lo stato dell’arte. Ciò che è vero ora, tuttavia, è che gli strumenti delle
comunicazioni digitali (anche semplici siti web e social media) non sono affatto
al di là della portata anche dei musei più piccoli. Queste tecnologie, strumenti
per la distribuzione, la comunicazione e la conoscenza, anche se usati nei loro
modi più basilari possono aiutarci a raggiungere tutte le nostre missioni.
Lo Smithsonian, essendo il complesso museale, educativo e di ricerca più
grande del mondo, considera l’outreach un obiettivo primario (la nostra
dichiarazione di intenti, poiché la nostra fondazione nel 1846 è stata “l’aumento
e la diffusione della conoscenza”). Abbiamo obiettivi ambiziosi per raggiungere
un miliardo di persone all’anno, molte più di quelle che vivono negli Stati Uniti o
persino nell’emisfero occidentale. Ciò significa che dobbiamo necessariamente
servirci della tecnologia per garantire che tutti, ovunque, abbiano accesso alle
nostre risorse. Finora, abbiamo digitalizzato circa 3 milioni di oggetti dalla
nostra vastissima collezione, che ne comprende più di 150 milioni.
Quanto significa la digitalizzazione delle risorse e dei processi in termini di efficacia
della comunicazione attraverso i canali social?
Può significare tutto! Avere accesso ai contenuti multimediali consente ai
professionisti dei social media di coinvolgere nuovi segmenti di pubblico, creare
conversazioni e promuovere opportunità di apprendimento al di là delle sole
parole. Le immagini sono e continueranno a essere potenti ponti.
Per la rete Smithsonian quali attività sono rilevanti e significative?
Per un posto grande come lo Smithsonian (ci sono più di 6.000 persone che
lavorano qui), ci sono sempre esempi entusiasmanti di come le nostre istituzioni
abbiano un impatto crescente. Uno dei miei preferiti è lo Smithsonian
Transcription Center, una piattaforma on-line in cui quasi diecimila volontari
hanno trascritto il testo trovato su più di trecentomila pagine di oggetti del
museo digitalizzati (la trascrizione di testi – trovati in foto – consente la
ricercabilità!). È proprio la tecnologia che ha consentito la collaborazione di
persone da tutto il mondo per aiutare lo Smithsonian a raggiungere i propri
obiettivi.
Con una collezione così ampia siamo costretti a pensare a sempre nuovi metodi
per digitalizzare: uno di questi è “digitalizzazione rapida delle acquisizioni”
eseguita dallo Smithsonian Digitization Program Office. Immaginate un nastro
trasportatore, installato in una stanza sul retro di uno dei nostri musei, in cui gli
oggetti tolti dal magazzino scorrono e vengono fotografati alla velocità di uno
ogni pochi secondi. Questi oggetti, solitamente accessibili solo ai ricercatori che
fisicamente vengono a Washington, D.C., sono poi invece disponibili on-line
per tutti.
Che tipo di metriche usi per valutare un progetto digitale?
Cerchiamo di fare un’analisi ampia e approfondita, il che significa che grandi
numeri quantitativi sono sempre utili per mostrare la portata che un progetto
potrebbe avere; sfortunatamente, non ti dicono molto sull’impatto. Per capire
questo, devi andare più a fondo. È necessario comprendere a chi stai fornendo un
servizio e come. Spesso questo lavoro di interpretazione può essere più difficile,
ma è molto più gratificante.
Ci sono due mondi separati là fuori? Uno on-line e uno off-line, o c’è un solo mondo? E
poi una sola strategia, o due?
Il “mondo digitale”, il “mondo fisico” queste locuzioni stanno divenendo sempre
più irrilevanti. Ciò che è importante capire adesso è che entrambi sono, insieme,
un mondo creato dall’uomo. E che, come musei, e come tali con la missione di
documentare e preservare il patrimonio culturale fisico e immateriale condiviso, il
nostro ruolo è quello di educare e ispirare in questo mondo. Quindi dobbiamo
pensare al nostro pubblico nella totalità della loro possibile esperienza.
In ultimo (ma non meno importante) qualcosa su di te. Parlaci del tuo rapporto con il
museo per cui lavori. Quali sono i tuoi progetti preferiti?
Lavoro per l’ufficio centrale e l’ufficio di sensibilizzazione dello Smithsonian,
chiamato “Centro per l’apprendimento e l’accesso digitale”. La nostra missione è
garantire che tutti, ovunque, possano usufruire delle risorse digitali dei musei,
delle biblioteche, degli archivi e dei centri di ricerca dello Smithsonian, avendo
come ultimo fine l’apprendimento. Ciò significa che spesso ci rivolgiamo a
insegnanti o studenti, ma sentiamo davvero che chiunque può avere
un’esperienza di apprendimento grazie alle nostre risorse. Lo facciamo
principalmente attraverso una piattaforma che abbiamo sviluppato e che si
chiama Smithsonian Learning Lab. The Lab è un’applicazione web, un toolkit
che garantisce la scoperta di quasi 3 milioni di risorse digitali; fornisce anche
metodologie e strumenti che consentono a tutti di usarle, mescolandole con le
immagini della propria vita per ricavarne nuove cose, e infine condividere ciò che
si crea con gli altri.
Infine, puoi consigliare un libro che ritieni sia interessante utile anche per i colleghi
italiani?
Uno dei miei preferiti sui modi in cui le persone interagiscono e creano cultura è
The Secret War Between Download and Uploading. Tales of the Computer as Culture
Machine, di Peter Lunenfeld, critico e teorico dei media digitali presso l’UCLA.
Il libro descrive in modo intuitivo il potenziale culturale che le tecnologie digitali
hanno abilitato: da quello del consumo a quello della creazione. Non
dimentichiamo che la parola cultura deriva dalla medesima radice di coltivazione
e agricoltura, quindi dire che la macchina della cultura è cresciuta e si è evoluta
attraverso l’uploading è incoraggiante e non è un ossimoro.
Conversazione con Sebastian Chan, Chief Experience Officer presso l’Australia
Center for the Moving Image, novembre 2017
Quanto sono importanti la comunicazione e lo sviluppo digitali per un museo? Ci sono
due mondi separati là fuori? Uno on-line e uno off-line, o uno solo?
Entrambi sono essenziali al giorno d’oggi; infatti io credo piuttosto che il digitale
sia ormai inscindibile dal resto in ogni parte della nostra vita. I modelli di ricavo
dal digitale per i musei sono ancora obsoleti; rappresentano in gran parte la
traslazione sul digitale dei flussi di entrate tradizionali: la bigliettazione ne è
l’esempio più ovvio.
Cosa significa per un museo fare qualcosa di “rilevante”? E come può essere misurato
(nel mondo digitale e/o nel mondo fisico)?
La rilevanza può essere misurata solo se il museo è molto consapevole rispetto
all’obiettivo del proprio essere rilevanti. Oggigiorno i musei si confrontano con
un pubblico molto diversificato: dai ricercatori, studiosi professionisti, ai turisti
internazionali, che visiteranno il museo una volta solamente, con ogni variante
fra le due posizioni. Essere chiari riguardo l’obiettivo, scegliere con chi è
necessario essere rilevanti, è l’unico modo in cui un museo può iniziare a
considerare come misurare al meglio la propria attività.
Le metriche e le misure che ho visto utilizzare nei musei vanno dal conteggio
del numero delle citazioni, alle recensioni dei social media fino al significato
profondo che l’istituzione guadagna al cospetto della comunità, presso i cittadini
locali.
Quali sono le abilità e le competenze fondamentali per un SMM in un museo? Questo
profilo professionale richiede competenze tecniche?
I social media cambiano molto rapidamente – e non alludo solo alle singole
piattaforme, ma anche al modo in cui vengono utilizzate. Ora che le linee tra
comunicazione digitale e non digitale si sono intrecciate nell’attività
“comunicazione” tout court, fare il SMM significa piuttosto comprendere il
contesto e come il significato viene costruito in modi diversi nelle differenti
comunità. Al giorno d’oggi le competenze chiave per qualunque ruolo riguardano
la capacità di adattarsi al cambiamento e la curiosità di lavorare con le comunità,
in uno scambio reciproco, non solo in trasmissione. Le competenze tecniche
sono meno importanti; credo però fermamente che, all’interno di musei più
grandi, sia necessaria una solida conoscenza tecnica per stare al passo con il
cambiamento ed essere in grado di comprendere e sperimentare “ciò che verrà
dopo”.
Secondo te che tipo di narrazione produce una grande esperienza? Ad esempio potresti
dirci, dopo anni, alcuni pensieri, valutazioni, del progetto Cooper Hewitt Pen?
Il progetto Cooper Hewitt Pen ha davvero trasformato la relazione del pubblico
con quel museo. Sono molto orgoglioso del team che ha collaborato a quel
progetto, soprattutto perché ha superato di gran lunga quello che ognuno di noi
si sarebbe potuto aspettare in termini di risultati raggiungibili: le presenze sono
aumentate, l’età media del visitatore è precipitata, la collezione è stata largamente
vista e condivisa. Un risultato ancora più importante, tuttavia, è stato l’aver
fornito all’intero comparto museale un suggerimento su ciò che si può davvero
realizzare in un “museo completamente digitalizzato. Confesso che sono un po’
deluso dal fatto che altre istituzioni non abbiano davvero tenuto conto
dell’esempio e non lo abbiano seguito, anzi, credo sia ancora visto come
un’eccezione, quando non un’anomalia.
Infine, qualcosa su di te. Parlaci della tua relazione con il museo per cui lavori. Sei
soddisfatto di lavorare in Australia?
Sono il Chief Experience Officer di ACMI e abbiamo appena cominciato a
lavorare a una grande riqualificazione del nostro principale sito museale, situato
nel centro di Melbourne. È una buona istituzione in una grande città che si trova
in un momento di svolta decisiva nella sua crescita. Nei prossimi anni emergerà
un nuovo ACMI e – essendo il museo nazionale del cinema, della tv, del
videogioco, della cultura digitale e dell’arte – la digitalizzazione risiede nel cuore
stesso dell’istituto.
Puoi consigliare un libro che ritieni sia intelligente e utile per i colleghi italiani?
Quest’anno sono tornato a leggere molta più fiction. Il secondo romanzo di
Robin Sloan, Sourdough, è una meditazione veloce e divertente sulla cultura
tecnologica attraverso gli occhi di un ingegnere robotico che eredita una coltura
di lievito naturale. È una lettura veloce e proviene dalla mente che ha prodotto il
video davvero preveggente del 2004, EPIC2014, ove ha immaginato il futuro
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del web e delle news con grande anticipo.


Conversazione con Nicolette Mandarano, Digital Media Curator alle Gallerie
Nazionali di Arte Antica di Roma Palazzo Barberini e Galleria Corsini, marzo
2018
Quando conta (o dovrebbe contare) la comunicazione digitale e lo sviluppo sul digitale
in un museo per te? E per Barberini?
Oggi la comunicazione digitale è – o meglio dovrebbe essere – parte
fondamentale di un museo. Finora si è sempre sottolineata la differenza tra fisico
e digitale, invece penso che il museo vada inteso come un’unica entità. Alle
Gallerie si è cominciato, dal gennaio 2016, a lavorare intensamente sul digitale.
È stata progettata una nuova identità visiva, è stato lanciato un nuovo sito web e
sono stati aperti o rinnovati i profili social. Tutto studiato per dare una nuova
immagine alle Gallerie.
Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia
della comunicazione digital e social?
La digitalizzazione delle risorse è fondamentale, anche se è un processo che
richiede tempo. Noi stiamo procedendo per gradi. L’idea è quella di ampliare
man mano la collezione digitale sul sito e contemporaneamente di sviluppare
nuovi sistemi di fruizione interna. Intanto utilizziamo i profili social per far
conoscere le nostre collezioni e tutte le attività che vengono organizzate (mostre,
presentazioni di libri, convegni, laboratori didattici).
Per un’istituzione come Barberini, cosa significa svolgere un’attività relevant?
Svolgere un’attività relevant significa coinvolgere il più ampio pubblico possibile,
mirare a essere inclusivi e fornire a ognuno ciò di cui sente il bisogno.
Che competenze deve avere chi si occupa di comunicazione digitale in un museo o in
un’istituzione culturale? E quali caratteristiche personali (soft skills)? È un profilo con
competenze richieste di tipo “tecnico”?
Penso che la persona che si occupa di comunicazione digitale in un museo debba
avere una grande conoscenza delle collezioni e della storia dell’istituzione per cui
lavora. Deve essere molto flessibile e capace di affrontare “crisi” che possono
nascere on-line, spesso anche inaspettatamente. Deve avere una grande capacità
di relazionarsi con lo staff del museo per organizzare al meglio una
comunicazione di qualità, rendendo i contenuti con un linguaggio
scientificamente corretto, ma accessibile a tutti, e deve certamente saper
dialogare con il pubblico on-line, rispondendo alle richieste o risolvendo
problemi. Ovviamente deve conoscere al meglio gli strumenti che utilizza, deve
saper adeguare la comunicazione a ogni mezzo scelto, cercando sempre lo stile
più adatto. Deve monitorare costantemente i dati per poter effettuare gli
aggiustamenti necessari. Ritengo, inoltre, che debba avere una visione ampia per
interpretare i cambiamenti, dell’istituzione, della società e dei propri pubblici.
On-line e off-line sono due mondi o uno solo? Ha senso cercarne il confine? Che cosa ne
pensi? Quando i processi di integrazione delle figure potranno dirsi conclusi, avrà senso
avere ancora il suffisso “digital” davanti ai nomi dei ruoli?
Come ho già detto faccio difficoltà a intenderli come due mondi separati. In
ogni momento tutti noi siamo capaci di varcare il confine dall’analogico al
digitale e ritorno senza neanche accorgercene. Forse un giorno non sarà più
necessario anteporre il suffisso digitale, ma spero che prima saremo stati capaci di
trovare una definizione condivisa delle professioni culturali (del digitale) anche in
Italia.
Come possiamo valutare le attività sui social media? Voi, come valutate l’andamento e
l’efficacia delle comunicazioni on-line per Barberini-Corsini? Li mettete in relazione
diretta con l’afflusso fisico dei pubblici?
Non avrei mai pensato di poter cambiare idea. Per molto tempo ho creduto che
non ci potesse essere – o meglio – che non avesse senso cercare una relazione fra
visitatori reali e pubblico on-line che seguiva i musei sul web o sui social. Oggi
mi sono parzialmente ricreduta. Uno degli obiettivi fissati con il direttore delle
Gallerie, Flaminia Gennari Santori, era quello di far conoscere di più e meglio
Palazzo Barberini e la Galleria Corsini ai romani. Abbiamo così iniziato un
intenso lavoro di diffusione dei contenuti relativi alle due sedi museali sui social,
con post pensati appositamente per avvicinare i musei ai romani. Il lavoro sul
territorio ha iniziato a dare i suoi frutti. Dai questionari che stiamo
somministrando stiamo scoprendo che, rispetto allo scorso anno (dopo circa un
anno di attività digitale), molti visitatori scrivono che ci hanno scoperto tramite il
sito web o – i più giovani – attraverso Instagram. Sappiamo inoltre che il sito
web e i profili social sono molto visitati da utenti localizzati su Roma e il
territorio circostante, e credo che la comunicazione digitale, insieme a tutte le
altre attività svolte, abbiano certamente aiutato il notevole incremento dei
visitatori nel 2017.
Infine qualcosa su di te (possiamo?). Raccontaci. Qual è la tua storia di formazione e
professionale?
Sono una storica dell’arte, ma da sempre mi sono interessata a quella materia che
un tempo veniva chiamata Informatica applicata ai Beni Culturali. Inizialmente
mi occupavo di valutazione di siti web museali e di postazioni multimediali per
verificarne l’efficacia comunicativa; poi l’evoluzione costante del web, la nascita
dei social e l’incontro, nel 2013, con le recensioni che i visitatori rilasciavano sul
web in relazione ai musei mi hanno posta davanti nuove sfide. E così la
comunicazione (digitale) del patrimonio culturale al più ampio pubblico possibile
è diventata non solo il mio lavoro, ma anche il mio obiettivo e la mia passione.
In ultimo: un libro da consigliare ai colleghi. Quello che trovi più geniale e ispirante di
tutti.
Il ricchissimo Participatory Museum di Nina Simon e Sei lezioni americane di Italo
Calvino, per non perdere mai di vista la “leggerezza pensosa”.
Conversazione con Neal Stimler, Arts Consultant, Humanities Entrepreneur,
Scholar, dicembre 2018
Hai lavorato per oltre un decennio al Metropolitan Museum of Art di New York e poi
all’estero con altre organizzazioni.
Prima di essere un consulente indipendente, ho lavorato per oltre un decennio al
Metropolitan. Di recente sono tornato a New York City, dopo aver prestato
servizio come capo del Public Engagement alla Auckland Art Gallery Toi o
Tāmaki, in Nuova Zelanda. Sono tornato negli Stati Uniti per essere più vicino
alla famiglia. Sono entusiasta di condividere la profondità e l’ampiezza della mia
esperienza professionale con clienti od organizzazioni nei settori dell’arte, della
cultura, della tecnologia digitale, dell’istruzione e della gestione esecutiva.
Perché la trasformazione digitale è importante per i musei? Fino a che punto il settore
museale è mutato e cosa si può fare ancora?
La trasformazione digitale è fondamentale per perseguire la mission di un museo,
raggiungendo una buona efficienza operativa e la salute finanziaria. I musei
hanno bisogno di membri del consiglio qualificati ed esperti nei settori
dell’ingegneria e della tecnologia per sviluppare una capacità di leadership
pensata su misura per la gestione a lungo termine delle istituzioni del XXI
secolo. Il futuro dei musei non è rappresentato dai nuovi edifici: è nell’upload,
download e remix della cultura in tempo reale tramite la tecnologia digitale,
superando i confini grazie a differenti creatori di contenuti.
In che modo la digitalizzazione di un’organizzazione migliora il flusso di lavoro,
l’efficacia della comunicazione e l’utilizzo delle risorse?
Utilizzando con competenza gli strumenti digitali, un’organizzazione migliora la
comunicazione interna, la gestione dei progetti e ottimizza l’efficienza. È
necessario che i processi vengano gestiti in maniera consistente all’interno di un
unico e condiviso ecosistema-software. Questo aiuta a mantenere alta
l’attenzione, aumenta la trasparenza e mantiene i team di progetto informati e
coinvolti.
In un museo che è diventato un’organizzazione digitale, in che modo le attività e i
contenuti sono resi più rilevanti e significativi?
Il compito principale è quello di digitalizzare i prodotti core del museo
(collezioni, mostre, programmi e pubblicazioni) con flussi di lavoro ripetibili in
un formato archiviabile, aperto e scalabile. La digitalizzazione, con la
combinazione dell’accesso aperto, e la volontà di esplorare le capacità di generare
redditività tramite partnership, allarga la proposta di valore dei prodotti museali
oltre l’offerta limitata della visita fisica. Dettagliamo ogni ambito, partendo da
collezioni e mostre.
Le immagini e i dati delle collezioni sono materie prime per nuove forme di
produzione culturale da parte di musei, partner e creatori indipendenti per poter
offrire nuovi prodotti e servizi (in particolare modo se abilitati da accessi aperti
che supportano il riutilizzo commerciale e non hanno severi requisiti di
attribuzione o vincoli eccessivi). D’altra parte, un approccio digital-first sulle
mostre richiede una visione mirata alla gestione da parte dei musei per vedere le
loro collezioni (le risorse che già possiedono) come la principale risorsa cui
attingere per creare contenuti per i consumatori e, dove occorre, aggiungere
valore e significato per mantenere l’attrazione e l’interesse a lungo termine.
Passiamo all’ambito educational.
L’esigenza è di investire nell’educazione digitale, nel modo che il futuro pubblico
avrà di interagire con il museo attraverso tecnologie che sono consuete a partire
dalla giovane età. Inoltre, la digitalizzazione dei programmi pubblici offre
opportunità per la generazione di nuove entrate nella tariffazione ed emissione di
biglietti per programmi specifici, oltre alla vendita di biglietti on-line o alla
ricerca di donazioni con servizi di streaming.
Infine, le pubblicazioni.
Le pubblicazioni nei musei richiedono un approccio di tipo digitale con la
stampa su richiesta come canale di distribuzione secondario. Un pretesto per la
distribuzione della sola versione stampata è la falsa idea che il libro fisico abbia
un valore maggiormente percepito come oggetto.
Come si valuta il successo all’interno di un’organizzazione digitale?
Con un’infrastruttura digitale funzionale, un’istituzione può attingere da
dashboard e sistemi software integrati per il reporting dinamico, tenendo traccia
dei budget, del flusso di lavoro e dei progetti. I dati raccolti non dovrebbero
essere solo quantitativi, ma anche qualitativi. Tutti i membri di
un’organizzazione sono responsabili della contabilità per la loro produttività, per
l’efficacia e i risultati del proprio lavoro. Gli aneddoti non sono prove. Le
metriche definite invece lo sono.
Quali sono le tue preoccupazioni principali riguardo al futuro dei musei? Cosa ti
appassiona?
Sono seriamente impegnato nel rendere i musei più efficaci dal punto di vista
operativo e redditizi come imprese digitali. Il divario tra le aziende di contenuti
di successo che si occupano di piattaforme digitali o ibride rispetto a quelle dei
musei continua ad ampliarsi a detrimento a lungo termine dei musei. Se il settore
museale vuole un futuro in una cultura digitale, deve lavorare in modo sostanziale
sulla trasformazione digitale come massima priorità per il cambiamento
istituzionale.
Puoi consigliare un libro che sia utile per i tuoi colleghi?
Raccomando Charlie Fink, Metaverse - An AR Enabled Guide to VR & AR. Si
può seguire il lavoro di Charlie Fink anche su Twitter e tramite la sua rubrica su
“Forbes”.
Conversazione con Michael Peter Edson, co-fondatore del Museo per le Nazioni
Unite - UN Live, una nuova istituzione con sede a Copenaghen, in Danimarca e in
tutto il mondo, agosto 2018
Oggi il vostro progetto rappresenta una grande sfida, socialmente, politicamente (e
anche museologicamente). Ci presenti il progetto UN Live?
Mi fa sorridere che inizi questa intervista con una domanda sulle sfide. Perché il
Museo per le Nazioni Unite - UN Live è davvero un progetto sfidante. Il mondo
è un posto stimolante. Impegnativo, ma anche pieno di ottimismo e potenziale
umano non sfruttato: questo l’oggetto di UN Live. Al momento siamo una
ONG start-up, vicina, ma non parte delle Nazioni Unite, per le quali non
comporterà alcun costo. Saremo un museo su tre piattaforme: un edificio per il
museo fisico e quartier generale a Copenaghen (e in altre città globali); una rete
mondiale di istituzioni partner; e una presenza digitale.
Quando aprirà il museo? UN Live avrà una collezione permanente?
Speriamo di inaugurare l’edificio a Copenaghen nel 2023, ma sentiamo l’urgenza
di fare progressi sulle sfide globali, in particolare sui 17 obiettivi di sviluppo
sostenibile delle Nazioni Unite: quindi inizieremo a programmare on-line e con
la nostra rete nel 2018. Il museo non avrà una collezione nel senso tradizionale;
piuttosto, la nostra “collezione” sarà costituita dalle storie, dalla creatività, dal
know-how e dalla capacità di risoluzione dei problemi di individui e comunità in
tutto il mondo.
Quale sarà l’approccio del museo?
UN Live funzionerà principalmente “dal basso verso l’alto”, riconoscendo che il
nostro pubblico è, o può diventare, innovatore e risolutore di problemi a pieno
titolo. Lo stiamo progettando per raggiungere e ispirare persone, potenzialmente
miliardi di persone, specialmente giovani, là dove vivono – spesso fianco a fianco
con partner e istituzioni che sono già affidabili nel loro quotidiano.
UN Live sembra un’iniziativa visionaria e di vasta portata, ma perché è un museo?
L’idea di rendere UN Live un “museo” non è nata all’interno del mondo museale:
i professionisti museali non sono abitualmente incoraggiati a lavorare su questa
scala! L’idea è nata da un pensiero riguardo le piattaforme che potrebbero essere
utilizzate per riunire persone e lavorare su iniziative globali. Quasi dal primo
giorno abbiamo pensato che un museo potesse essere un potente catalizzatore per
il cambiamento.
Suona come una grande conferma della funzione civica dei musei!
Lo è, e penso anche che sia una dichiarazione relativa alla loro versatilità. I musei
possono presentare una gamma incredibilmente diversificata di contenuti,
programmi ed esperienze; e non ci sono regole su cosa sia o possa essere un
museo. UN Live ha un mandato globale, anche se sappiamo che il concetto di
“museo” non è universalmente amato, in particolare nelle società post-coloniali.
Nemmeno presso l’ONU! Il nostro lavoro sul campo ha dimostrato, tuttavia, che
“un museo per le Nazioni Unite” avrà un incredibile potere di richiamo; che il
concetto di “museo” può essere utilizzato per dare corpo alle aspettative delle
persone; e che alla fine le persone ci ameranno, o no, in base alle esperienze
specifiche che loro e i loro amici avranno avuto in UN Live, e non per via di un
pregiudizio sul nome dell’istituzione.
Quanto sono importanti la comunicazione digitale e lo sviluppo digitale per UN Live e
per i musei?
Vai in qualunque città del mondo, trova qualche ventenne e chiedi a loro.
Seriamente! I musei devono essere parte della vita delle persone, e sempre più
spesso quelle vite sono digitali e fisiche; globali e locali, creano, condividono,
consumano, tutto insieme. Più della metà della popolazione mondiale è on-line:
ecco perché il digitale è una parte cruciale di UN Live; il digitale è
un’opportunità di connetterci con tutti nel mondo.
Ci sono due mondi separati là fuori? Uno on-line e uno off-line, o c’è un solo mondo?
C’è solo la vita, un tutto unito. Ma il mondo digitale è pieno di nuove sorprese e
nuove connessioni e continuerà a esserlo. Ai Weiwei scrive di come Twitter sia
per lui un miracolo, in quanto lo collega a un contadino, a un fattore, all’umanità.
È saggio prestare attenzione a questo, senza mai dimenticare la poesia del mondo
oltre i nostri schermi.
Quale tipo di metriche utilizzi per valutare la presenza digitale?
UN Live è un museo di azione: se non si risolvono azioni positive, le sfide, se
non si migliorano le vite, non si realizza il suo scopo. Questo rende UN Live
differente dalla maggior parte dei musei e ci guida in tutte le decisioni. Stiamo
cominciando a costruire una strategia in tre parti, per tutte le nostre piattaforme:
utilizzeremo l’analisi dei social network, le scienze sociali e la gestione aziendale,
per aiutarci a comprendere e rafforzare le comunità di persone che lavorano per
obiettivi globali; si tratta di un’inchiesta narrativa partecipativa per condividere le
storie che la gente racconta sul cambiamento; useremo infine anche sondaggi,
per capire in che misura UN Live interagisce con i sentimenti e il
comportamento delle persone.
Puoi consigliare un libro illuminante ai colleghi?
Raccomando il manifesto Checklist del Dr. Atul Gawande. È un libro potente sul
ripensamento del modo in cui usiamo competenza e autorità per risolvere
problemi su vasta scala. È un magnifico scrittore e queste sono cose alle quali
dovremmo badare tutti noi che teniamo al futuro.
Qualcosa su di te, ora. Che tipo di relazione hai con il museo che stai creando?
Mi sento immensamente privilegiato a lavorare su UN Live. Le persone che sono
attratte da questo progetto sono incredibilmente stimolanti. Spero che tu e i tuoi
lettori possiate unirvi a noi in questo viaggio.
Conversazione con Paolo Cavallotti, responsabile della team dedicato al digitale
presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo Da Vinci”
a Milano, giugno 2019
Quanto conta (o dovrebbe contare) la comunicazione digitale e lo sviluppo sul digitale
in un museo per te? E per il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia
“Leonardo da Vinci”?
Conta nei limiti in cui un museo vuole essere significativo oggi ed esistere
domani. Il digitale, con la sua pervasività e potenza, è tecnologia, strumenti e
linguaggi che consideriamo ormai imprescindibili nelle nostre vite e così è
parimenti imprescindibile che diventi tessuto connettivo anche delle istituzioni
museali. Già oggi pubblici e stakeholders si aspettano linguaggi digitali dai musei,
in futuro non farne uso significherà semplicemente rischiare di non esserci. Nel
mio museo il percorso sul digitale è stato lungo e articolato, ci lavoriamo da più
di 20 anni ormai, eppure penso che la strada sia ancora molto lunga prima di
poterci considerare all’altezza di ciò che un museo contemporaneo dovrebbe
essere oggi. E considero questo un aspetto stimolante del mio lavoro. Ad
esempio, in questo istante siamo molto deficitari sul fronte del sito web
istituzionale (che sarà finalmente on-line, totalmente rifatto, il prossimo ottobre
2019) e adeguati su altri progetti on-line o sulla multimedialità interattiva, VR,
AR e i serious games in museo.
Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia
della comunicazione digital e social?
Digitalizzare processi e risorse è per qualsiasi istituzione, azienda, attività
commerciale o culturale un processo vitale e una grande opportunità. La
digitalizzazione dei processi consente di ottimizzare il lavoro, accelerare i tempi,
alzare la qualità di tutto ciò che si fa e questo è valido per tutti, musei e non. La
digitalizzazione delle risorse per un museo è non solo un’enorme risorsa per
potenziare tutte le proprie azioni di comunicazione e valorizzazione dei propri
contenuti ma è anche un’attività fondamentale per una missione chiave di
un’istituzione culturale che è il conservare, valorizzare e tutelare il proprio
patrimonio a vantaggio di tutti coloro che ne potranno fruire oggi e in futuro.
Per un’istituzione come il Museo della Scienza, cosa significa svolgere un’attività
relevant? È diverso in un museo dedicato alla scienza rispetto a un museo con
patrimonio “artistico”?
Ho una posizione di parte in questo, lavorando in un museo di scienza e
tecnologia, e spero sempre non me ne vogliano i colleghi dei musei d’arte quando
la esprimo, ma non posso negare di pensare che un’istituzione culturale che parla
di scienza e tecnologia abbia un ruolo più che mai centrale e cardine nella società
di cui fa parte. Penso che essere relevant per un museo come il nostro significhi
essere al centro della propria società e delle proprie comunità di riferimento. È
relevant saper coinvolgere le persone e i cittadini per farli sentire parte
consapevole e attiva del mondo e della società in cui vivono e si evolvono. Non
penso chiaramente che i musei d’arte abbiano un ruolo meno importante nella
società, non voglio essere frainteso; la crescita culturale di una società è una sola,
penso però che abbiamo alcune caratteristiche diverse. E lo dico tra l’altro da
persona di estrazione umanistica e non scientifica.
Che competenze deve avere chi si occupa di comunicazione digitale in un museo o in
un’istituzione culturale? E quali caratteristiche personali (soft skills)? È un profilo con
competenze richieste di tipo “tecnico”?
Per lavorare sul digitale, non solo sulla comunicazione digitale ma proprio su
tutti i linguaggi digital, penso che le caratteristiche più importanti da avere siano
due. La prima è una spiccata sensibilità sui linguaggi, un mix di predisposizione
personale ed esperienza sul campo, che ti consenta di avere un’istintiva capacità
di saper scegliere qual è la migliore tecnologia e linguaggio da usare a seconda
delle finalità, pubblici e contenuti a cui stai lavorando in quel preciso momento.
La seconda è essere camaleontici, sempre pronti al nuovo, sapersi adattare ai
contesti, ai target e agli obiettivi, e anche saper saltare dalla progettazione alla
gestione fino all’operatività senza preclusioni e “pudori” di alcun tipo. Le
competenze tecniche oggi come oggi vengono molto dopo queste due qualità in
ordine di importanza, a mio parere. È più importante saper lavorare con i tecnici
piuttosto che esserlo.
On-line e off-line sono due mondi o uno solo? Ha senso cercarne il confine? Che cosa ne
pensi? Quando i processi di integrazione delle figure potranno dirsi conclusi, avrà senso
avere ancora il suffisso “digital” davanti ai nomi dei ruoli?
Personalmente non considero on-line e off-line due mondi separati, ragiono solo
in termini di fruizione e quindi innegabilmente cambia se progettiamo
un’esperienza per una fruizione in museo o fuori museo o entrambe. Però non
penso si debba perseguire una strategia digitale diversificata in queste due
direzioni. La strategia deve essere unica ma il più possibile pervasiva e
diversificata. Scherzo spesso dicendo di lavorare per fare sì che un domani la mia
professione “digital” non sia più necessaria, di contribuire al far crescere cultura e
competenza digitali dentro tutti gli staff che lavorano in un museo, anche se il
percorso mi sembra ancora molto lungo almeno in Italia. Non morirà mai però la
necessità di rinnovare sempre i linguaggi e le tecnologie che ce li mettono a
disposizione. E penso che una regia che spinga la strategia nel rinnovo e
adeguamento delle tecnologie e dei linguaggi sarà sempre importantissima.
Come possiamo valutare le attività sui social media? Voi, come valutate l’andamento e
l’efficacia delle comunicazioni on-line per il Museo della Scienza? Lo mettete in
relazione diretta con l’afflusso fisico dei pubblici?
Seguiamo e studiamo le metriche, meno di quanto si dovrebbe fare perché ci
sarebbe bisogno quasi di un’attività full-time per farlo come si deve. Portare
visitatori al museo è in fondo sempre una missione strategica imprescindibile, ma
con i linguaggi del digitale noi perseguiamo in primis il miglioramento e la
valorizzazione della reputazione del nostro museo. Pensiamo che sia un luogo e
un’istituzione così bella ed emozionante che il primo risultato che vogliamo
perseguire è il farlo capire nel modo migliore possibile a più pubblici possibili. Il
resto viene di conseguenza.
Ci racconti del vostro progetto con il Google Cultural Institute presentato di recente?
Ho visto grandi partnership internazionali.
Google è per noi un partner molto importante, su molteplici progetti. Essere su
Arts & Culture era per il nostro museo imprescindibile e abbiamo amato portare
nostri contenuti e nostre storie su una piattaforma così importante e
internazionale. Ci è piaciuto lavorare con le persone di Arts & Culture e
abbiamo apprezzato il loro rispetto per il mondo culturale e per il ruolo delle
istituzioni che ne fanno parte. A volte si rischia di essere prevenuti in negativo
quando si fanno i nomi di questi grandi colossi mondiali del digitale.
Consigli un libro ai colleghi?
Nonostante abbia più di 20 anni io ancora oggi suggerisco la lettura di The
Invisible Computer di Donald Norman. Scritto nel 1998, anni in cui la
rivoluzione digitale era ancora in una fase ben più acerba rispetto agli scenari di
oggi, eppure già rifletteva sull’importanza di come la tecnologia debba aiutarci e
migliorare la vita rimanendo il più possibile invisibile. Norman lo fa con una
capacità di visione e una lucidità che non hanno età secondo me. Lo suggerisco
per ricordare sempre a tutti quelli che fanno il mio lavoro che persona,
contenuto, messaggio ed esperienza devono venire sempre prima
dell’innamoramento per la tecnologia. Penso che oggi scienza, tecnologia e
digitale debbano essere tra le culture più umanistiche che esistano nella nostra
società.
Conversazione con Chris Michaels, Director of Digital, Communications and
Technology presso la National Gallery, Londra, ottobre 2019
Perché la trasformazione digitale è importante per i musei? Quanto si è adattato il
settore museale e cosa si può fare di più? Quanto è “politico” questo cambiamento?
Siamo nel mezzo di una rivoluzione tecnologica di lungo periodo, che potrebbe
essere più profonda ancora di quanto non sia stata due secoli fa la rivoluzione
industriale. Nessuno può ignorarlo, e men che mai lo possono fare i musei che
sono il deposito della nostra memoria collettiva.
Abbiamo fatto abbastanza? Sì e no. I musei hanno fatto più di quanto si
rendano conto. L’area in cui sono stati più deboli è stata quella relativa alla vera
professionalità manageriale – cioè prendere sul serio i prodotti digitali che si
realizzano per il pubblico ed essere capaci di riconoscere persone, danaro e tempo
necessario e sufficiente per fare bene le cose.
Cosa sta facendo la National Gallery al riguardo? Quali sono le questioni sul “digitale”
oggi?
La National Gallery si è impegnata su un periodo di cinque anni per la
trasformazione digitale. È un pilastro chiave della strategia generale della
galleria. Ci concentriamo su tre aree: capire meglio la nostra audience e
migliorare le nostre prestazioni – anche commerciali – grazie alla lettura dei dati
e degli insights; migliorare i nostri prodotti e servizi digitali per creare una
migliore esperienza per i visitatori; investire nelle aree dell’innovazione e della
Ricerca & sviluppo come percorso per immaginare il futuro della galleria.
In che modo la digitalizzazione di un’organizzazione migliora il flusso di lavoro,
l’efficacia della comunicazione e l’utilizzo delle risorse?
Direi che il digitale cambia ampiamente la struttura sociale del lavoro. Significa
che comunichiamo e prendiamo decisioni più velocemente di quanto avremmo
potuto fare in precedenza, e lavoriamo in modi più immediati e informali. Faccio
la maggior parte della mia “gestione delle persone” con messaggi istantanei
tramite uno strumento di collaborazione, Slack. Significa che posso lavorare
velocemente e direttamente con le persone piuttosto che dover attendere email o
riunioni, perdendo tempo.
In un museo che è diventato un’organizzazione digitale, quali sono le attività e i
contenuti che lo rendono relevant, significativo?
È fondamentale trattare il nostro pubblico con la medesima profondità, cura e
comprensione che applichiamo alle nostre collezioni anche nell’ambito che è più
vicino all’“era digitale”. Dobbiamo riconoscere ai pubblici la medesima
importanza che riconosciamo all’arte che custodiamo, ricercare ciò che fanno, ciò
che vogliono e pensare a come possiamo servirli meglio, con la stessa
determinazione che applichiamo allo studio della storia dell’arte o
dell’archeologia. Prendersi cura del proprio pubblico consente di realizzare
prodotti migliori, servizi migliori ed essere un museo migliore.
Come si valuta il successo all’interno di un’organizzazione digitale? E che tipo di
metriche usi per valutare un progetto digitale?
La nostra strategia si basa su obiettivi economici piuttosto che su parametri di
crescita del pubblico. Per me è più importante essere finanziariamente sostenibili
piuttosto che far crescere semplicemente e genericamente i numeri.
Quali sono le tue preoccupazioni principali sul futuro dei musei?
I musei, in particolare quelli britannici, si stanno confrontando con tre fattori che
determinano il cambiamento. In primo luogo il cambiamento del contesto
finanziario: abbiamo perso il 30% dei nostri finanziamenti pubblici dal 2011, e
una Brexit non buona potrebbe farci perdere ancora di più. Quindi la prima leva
che ci muove è: come possiamo guadagnare di più come istituzione ed essere più
efficienti?
Il secondo fattore è che il nostro pubblico si sta diversificando e sta crescendo.
Abbiamo il 50% di visitatori in più rispetto a 19 anni fa e provengono sempre più
da luoghi molto diversi, sparsi in tutto il mondo. Come possiamo fornire
un’esperienza significativa per loro quando la loro relazione culturale con il
nostro patrimonio artistico si sta frammentando?
Il terzo e ultimo fattore è l’innovazione tecnologica: come possiamo tenere il
passo con i cambiamenti, anche quando siano ancora irrisolti nell’ambiente
tecnologico?
Rispondere bene anche solo a uno di questi problemi è difficile, ma dobbiamo
affrontare tutti e tre contemporaneamente. Non facile certo, ma eccitante.
Ultimo (ma non meno importante) qualcosa su di te. Parlaci del tuo rapporto con il
museo per cui lavori. Quali sono i tuoi progetti preferiti?
Sono alla National Gallery da due anni e mezzo e mi considero fortunato ad
avere un lavoro piuttosto unico e insolito.
Puoi consigliare un libro essenziale per i tuoi colleghi?
Sono un grande lettore (leggo uno-due libri alla settimana in media). Direi che
tutti nel settore pubblico dovrebbero leggere Lo stato innovatore di Mariana
Mazzucato e Il valore di tutto. Mariana è un’economista italiana che insegna a
Londra e sta cercando di riallineare il rapporto tra stato e impresa in modo
davvero positivo. Adoro il suo lavoro.
Conversazione con Paola Matossi L’Orsa, Direttrice Comunicazione e Marketing,
Museo Egizio, Torino, dicembre 2019
Quanto conta (o dovrebbe contare) la comunicazione digitale e lo sviluppo sul digitale
in un museo? E per il Museo Egizio di Torino? Come si integrano on-line e off-line?
I musei non sono monadi – come ricorda spesso il direttore Christian Greco –
ma abitano dei luoghi e dei contesti sociali e culturali e sono chiamati a riflettere
e interrogarsi sui cambiamenti in atto. Ritengo che un cambiamento importante
in termini di percezione derivi proprio dai musei, da come oggi interpretano il
ruolo attivo che possono avere all’interno della società. Un museo che conta più
di 850.000 visitatori l’anno è un osservatorio privilegiato e in questi 13 anni (da
quando ricopro l’incarico al Museo Egizio) ho visto una notevole evoluzione dei
consumi culturali e una richiesta crescente di trasformare la visita in
un’esperienza, preferibilmente personalizzata per i differenti target.
La comunicazione on-line e off-line integra sia il messaggio sia i risultati
poiché il pubblico stesso sceglie sulla base di sollecitazioni che gli giungono da
media sempre più differenziati. Per tali ragioni uno sviluppo dei musei sul
digitale è imprescindibile, ma è fondamentale non perdere di vista l’identità dei
musei stessi e le collezioni che essi conservano. Il digitale non deve essere fine a
sé stesso, ma deve essere uno strumento per raccontare la collezione, la cultura
materiale conservata all’interno del museo. Attingendo alle numerose possibilità
che il mondo digitale offre, può essere individuata la migliore piattaforma o la
tecnologia più adatta al preciso scopo o al pubblico al quale ci stiamo rivolgendo.
Il Museo Egizio ha fatto della ricerca un asset di sviluppo fondamentale: per la
comunicazione questa attività è una risorsa insostituibile che offre contenuti
nuovi al nostro pubblico, sia sulla storia delle collezioni sia sui reperti. Il digitale
permette quindi di poter raccontare questi risultati e nuove scoperte, e diventa
anche uno strumento di audience engagement (vedi la mostra Archeologia invisibile,
ad esempio). Infine, per chi svolge il mio mestiere, devo dire che “le voci” del
Museo Egizio sono un potente mezzo di comunicazione: da questo punto di
vista la presidente Christillin e il direttore Greco sono due formidabili
ambasciatori, che esprimono grande versatilità nell’interazione con i nuovi
media.
Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia
della comunicazione digital e social?
Crediamo che un museo archeologico debba tenere la cultura materiale al centro
del suo sviluppo, ma parallelamente esiste un tema di accessibilità. La
digitalizzazione è uno strumento che aiuta a superare alcune barriere. La messa
on-line delle nostre collezioni ci ha consentito di sviluppare un nuovo rapporto
con il pubblico, che non sostituisce in alcun modo l’esperienza museale ma
consente di prepararla, di approfondirla e di prolungarla anche successivamente,
magari condividendola con gli amici. Condividere la visita di un museo o di una
mostra è un’esigenza storica e attualissima e, per quanto concerne i consumi
culturali, oggi sembra far parte dell’esperienza stessa. L’uso del digitale ha
incrementato a livello esponenziale le possibilità. Il museo stesso sceglie
piattaforme diverse in base alle attività, agli eventi o ai contenuti scientifici;
tuttavia si cerca di mantenere un rapporto umano con i nostri pubblici, cercando
di coinvolgerli, attivando una relazione più partecipativa, cercando di garantire
una continuità tra il racconto che si trova sul digitale e quello che si trova in
museo.
Mi parlate del progetto della collezione on-line con licenza Creative Commons?
Il direttore Greco ha fortemente voluto e abbracciato la possibilità di far circolare
liberamente le immagini delle collezioni. L’obiettivo dell’accessibilità è contenuto
anche in questa scelta. Il Museo Egizio custodisce una collezione che è
patrimonio dell’umanità, ci piace sottolineare che appartiene a tutti e, anche nella
gestione delle immagini abbiamo voluto esprimere con forza questo messaggio.
Nella sua attuale versione, la collezione on-line dà accesso alla quasi totalità dei
reperti esposti (circa 3300) nelle sale del Museo Egizio. Le immagini dei reperti
sono liberamente utilizzabile sotto licenza Creative Commons 2.0. Nel 2020 è
prevista la sostituzione dell’attuale sistema di consultazione con un database a
campi multipli in cui nel tempo sarà resa disponibile l’intera collezione.
Per un’istituzione come il Museo Egizio cosa significa svolgere un’attività relevant? È
diverso in un museo archeologico rispetto a un museo con patrimonio “artistico”?
Dal punto di vista della comunicazione direi che ci sono differenze sostanziali
per la natura stessa delle collezioni. Sebbene quelle dei musei archeologici
possono essersi formate per interesse antiquario, legato a un gusto estetico del
periodo, hanno poi visto la nascita dell’archeologia come disciplina, aspetto che
ha generato una differente modalità già a partire dall’acquisizione di nuovi
reperti, per poi modificare radicalmente allestimenti e comunicazione delle
collezioni, generando anche una nuova percezione nel pubblico. Rispetto ai
musei d’arte, legati a una comprensione più estetica (bello/non bello), i musei
archeologici offrono numerosi spunti di riflessione, raccontano il nostro passato,
ci permettono di conoscere le nostre radici e toccano, forse, più aspetti legati alla
nostra vita di oggi; sono uno strumento per costruire la nostra memoria (es. ci
sono oggetti legati alla politica, oggetti di vita quotidiana, al rapporto con il
divino). È molto interessante individuare messaggi in grado di far dialogare un
passato antichissimo con il pubblico contemporaneo: direi che affrontare questa
sfida è un’attività relevant.
Che competenze deve avere chi si occupa di comunicazione digitale in un museo o in
un’istituzione culturale? E quali caratteristiche personali (soft skills)? È un profilo con
competenze richieste di tipo “tecnico”?
Le competenze necessarie sono molteplici. È indispensabile conoscere bene il
contenuto, per capire quanti e quali possono essere gli elementi per costruire una
o più narrazioni e, di conseguenza, unire a questo, competenze di storytelling (in
questo caso digitale). Nel mio gruppo di lavoro la comunicazione digitale è
gestita da tre giovani talentuose (Chiara Del Prete, Virginia Cimino e Divina
Centore), una delle quali è una “egittologa prestata alla comunicazione”. Tutte e
tre hanno una grande sensibilità rispetto all’identità del Museo Egizio e
appartengono a una generazione che manipola con competenza e naturalezza i
mezzi digitali. Il tema generazionale è imprescindibile per maneggiare
adeguatamente i mezzi. Inoltre e non meno importante, è la conoscenza delle
piattaforme che si hanno a disposizione per costruire una comunicazione efficace
e incontrare il pubblico a cui vogliamo rivolgerci.
Come possiamo valutare le attività sui social media? Voi, come valutate l’andamento e
l’efficacia delle comunicazioni on-line per il Museo Egizio? Lo mettete in relazione
diretta con l’afflusso fisico dei pubblici? Cosa intendete per partecipazione?
Abbiamo scelto di essere presenti su YouTube, Facebook, Twitter, Instagram e
LinkedIn, creando strategie diverse per ogni canale, in modo da garantire una
comunicazione trans-mediale, ma “omnicanale” per continuità di racconto e il
più possibile inclusiva.
L’analisi dell’efficacia della comunicazione avviene sia da un punto di vista
quantitativo (es. analisi dei dati, analytics del sito, i trend di Google), ma anche
qualitativa sui social, dove è possibile fare questo tipo di analisi (es. Facebook,
Google+ o TripAdvisor). Ci ispiriamo ai principi dell’etnografia digitale per
capire la percezione del museo e della collezione, gli eventuali interessi dei nostri
pubblici e indagare abitudini, usi e costumi in rete, anche in ambiti non
necessariamente legati al mondo dei musei o dell’archeologia: il Museo Egizio ci
parla di molti aspetti della vita e della società. Sicuramente l’analisi delle
comunicazioni on-line, soprattutto quelle legate alle attività e agli eventi, ha una
stretta relazione con l’afflusso “fisico” di pubblico, ma esiste anche un pubblico
“digitale” appassionato di antico Egitto con il quale è altrettanto importante
instaurare una relazione: investiamo sul vivace interesse che stimolano le novità
legate al museo o alla storia dell’antico Egitto. Sul piano della partecipazione
cerchiamo di creare delle community aumentando il senso di appartenenza alla
nostra istituzione.
In ultimo: un libro da consigliare ai colleghi. Quello che trovi più ispirante di tutti.
Ho lavorato per più di 15 anni come Marketing manager di brand di largo
consumo e l’osservazione dei comportamenti e le analisi di mercato erano il mio
pane quotidiano. All’inizio mi sembrava dissacrante accostare quel mercato a
quello culturale, ho affrontato la comunicazione del Museo Egizio con pudore
reverenziale, ma oggi la mia visione è molto più pragmatica e ora come allora i
risultati derivano dalla qualità dell’offerta. Osservare i visitatori (esattamente
come osservavo i consumatori) mi è stato ed è estremamente utile anche al
Museo Egizio. Per questa ragione, consiglio un libro che mi è sempre rimasto
molto caro: Small Data di Martin Lindstrom.
Conversazione con Kati Price, Head of Digital Media, Victoria & Albert Museum,
Londra, febbraio 2020
Quanto sono importanti la comunicazione digitale e lo sviluppo digitale per un museo?
E quanto al V&A in particolare?
Negli ultimi 30 anni, i media digitali hanno aperto nuovi modi per i musei di
connettersi e far crescere il loro pubblico. Il digitale è diventato uno strumento
vitale per aiutarci a realizzare le nostre missioni, per fornire accesso agli oggetti
contenuti nelle nostre collezioni. Presso il V&A raggiungiamo quattro volte più
persone on-line che fisicamente ogni anno: il digitale è uno dei modi in cui
coinvolgiamo il nostro pubblico e raccontiamo le storie dei milioni di oggetti
nelle nostre collezioni.
Quanto significa digitalizzazione delle risorse (ad es. delle collezioni) e dei processi in
termini di efficacia della comunicazione attraverso i canali dei social media?
Con una collezione grande come la nostra, stiamo lavorando via via alla
digitalizzazione di tutti gli oggetti dei quali ci prendiamo cura: hanno dimensioni
variabili da una piccola spilla Tudor a una complessa scala medievale. Avere
immagini ad alta risoluzione e produrre metadati di buona qualità per ogni
oggetto richiede molto tempo. Ma una volta che avremo questi dati, potremo
iniziare a creare avvincenti esperienze on-line e servirci dei nostri contenuti per
raggiungere nuove audience. La grande crescita dei social media ha visto i nostri
contenuti raggiungere più persone che mai. Ci ha anche sollecitati a pensare a
modi nuovi per strutturare e comunicare le storie sugli oggetti nelle nostre
collezioni.
Per il V&A quali attività sono rilevanti e significative? Avete attività partecipative?
Questa è una domanda difficile a cui rispondere! Facciamo molto in questo
senso! Il V&A ha una serie di priorità strategiche e il digitale, in ciascuna di esse,
riveste un ruolo importante; in sintesi per temi, indico l’obiettivo specifico del
digitale:

segmenti di pubblico: diversificare le audience in tutta la famiglia di siti


in crescita, del V&A e costruire un brand riconosciuto a livello globale;
collezioni: presentare per intero la portata delle collezioni del V&A,
posizionando il V&A al centro dei dibattiti globali su arte, design e
performance;
nazionale/internazionale: estendere e approfondire la portata della
missione del V&A attraverso partnership e collaborazioni innovative in
tutto il Regno Unito e all’estero;
Learning/Creative Industries: attivare la collezione del V&A, programmi
pubblici e reti creative per ispirare artisti, designer e innovatori;
sostenibilità: diversificare e aumentare le fonti di finanziamento
pubbliche, private e commerciali a sostegno di tutti i siti e le strategie di
V&A.

Che tipo di metriche usi per valutare un progetto digitale?


Stiamo lavorando per far maturare le nostre metriche, per superare quelle di
“vanità” riferite a portata o volume, verso metriche più significative e
rappresentative delle prestazioni digitali. Stiamo pensando a identificare i
differenti tipi di obiettivi dei nostri utenti nell’utilizzo delle risorse on-line e al
modo migliore per sviluppare una serie di metriche che possono aiutarci a
valutare, e quindi perfezionare, il modo in cui soddisfiamo le esigenze dei nostri
visitatori. Abbiamo identificato tre tipi di obiettivo: acquistare, imparare e
visitare. Quando il fine della visita on-line è l’acquisto, impostiamo alcuni snodi
di conversione per valutare quanto sia buona la nostra esperienza utente (ad
esempio), vendere abbonamenti, merchandising e biglietti e per capire in quali
punti le persone abbandonano il percorso di acquisto. Quando il fine è imparare,
misuriamo il rendimento dei nostri contenuti: le persone sono interessate a
questo, stanno trovando ciò di cui hanno bisogno? Le metriche in quest’area
includono, ad esempio, la frequenza di rimbalzo, il tempo di permanenza, la
percentuale di un video guardato o un articolo letto. Sul tema della visita,
tracciamo quante persone che visitano il museo fisicamente hanno utilizzato il
sito web come fonte di informazioni. Di fatto, ho costruito business case per
importanti investimenti nella dimensione digitale del museo (nel 2016)
scommettendo sul fatto che se l’utente avesse avuto garantita una migliore
esperienza della navigazione on-line, e quindi di conseguenza anche del brand
museo, saremmo stati in grado di convertire più visitatori on-line in visitatori del
museo. E nei successivi tre anni il nuovo e migliorato sito web del museo ha
portato altre 500.000 persone al museo.
Ci sono due mondi separati là fuori? Uno on-line e uno off-line, o c’è un solo mondo?
Questa è una domanda troppo filosofica per me per rispondere subito!
Hai lavorato molto sul sito web di V&A. Pensi che ci sia una relazione tra i visitatori
del sito web e i visitatori del museo? Quale? E solo per il V&A o per lo stesso museo?
Come ti dicevo prima, sì, sicuramente. Esiste assolutamente una relazione tra
visite on-line e visite fisiche. Una buona percentuale di persone che navigano il
sito web ha intenzione di visitare il museo. Abbiamo sviluppato contenuti più
stimolanti e una migliore esperienza per l’utente al fine di trasformare una più
alta percentuale di quelle visite on-line in visite fisiche.
Ma il rovescio della medaglia è che, comunque, la maggior parte dei nostri
visitatori on-line non arriverà mai ai nostri edifici. Ecco perché è così importante
creare un’esperienza on-line avvincente che non tenti di ricreare l’esperienza
museale, ma offra invece qualcosa di veramente distintivo. Presso il V&A
abbiamo, come vi ho detto, un numero maggiore di visitatori on-line rispetto a
quelli fisici, precisamente il quadruplo. È una proporzione eccezionalmente alta
rispetto a molti musei, ove il rapporto on-line/on-site è più contenuto. Ci sono
molti fattori in gioco. Mi piace pensare che stiamo spingendo dal digitale il
nostro peso, ma ovviamente il brand V&A ha, anche in questo, un ruolo
fondamentale: è un brand riconosciuto a livello globale e questa è ovviamente
una delle ragioni per cui abbiamo un pubblico on-line così vasto.
Ultimo (ma non meno importante), qualcosa su di te. Parlaci del tuo rapporto con il
museo per cui lavori. Quali sono i tuoi progetti preferiti? È facile lavorare su “cose
digitali” lì?
La mia relazione con il V&A è iniziata nel 1997 quando ho fatto il mio master
in Design History – un corso tenuto tra il V&A e il Royal College of Art. In
realtà, è iniziata prima, come visitatore, ma è stato solo durante i due anni del
mio MA che ho davvero iniziato a costruire un profondo legame con le
collezioni; 14 anni dopo sono tornata al V&A come responsabile dei media
digitali. È stato così emozionante trovarsi di nuovo in contatto con la collezione
che amo. Questa è la parte preferita del mio ruolo: creare nuovi modi per le
persone per connettersi con le storie dei nostri oggetti. È facile? Non sempre, ma
chi vorrebbe un lavoro sempre facile?
Infine, puoi raccomandare un libro che ritieni sia intelligente e utile per i colleghi
italiani e non solo?
Di recente mi è stato donato un libro intitolato Nine Lies About Work. A
Freethinking Leader’s Guide to the Real World. Mette in discussione alcune delle
“verità” di base sulla vita lavorativa e sottolinea gli aspetti che contano davvero
sul posto di lavoro.
168
Si trovano sul canale YouTube dell’Opera Santa Maria del Fiore tutti gli interventi con Museum:
Digital Transformation Conference: https://www.youtube.com/channel/UC14I32_TbQSfvXs8-D5L3NQ.
169
Il sito dell’istituzione è: https://museumfortheun.org.
170
L’ACMI è attualmente in una fase di rinnovamento: https://www.acmi.net.au.
171
Il sito dell’istituzione è: https://www.m9museum.it.
172
Si veda per Martinitt e Stelline, http://www.museomartinittestelline.it, e per il Piccolo Museo del
Diario di Pieve Santo Stefano, https://www.piccolomuseodeldiario.it.
173
Paolo Cavallotti annuncia nell’intervista il go live del nuovo sito web dell’istituzione, che ora è stato
realizzato: https://www.museoscienza.org/it. Nella citazione il corsivo è mio.
174
Si veda il video che introduce all’uso della “penna”: https://www.youtube.com/watch?v=ejIvvwmtX8M;
ma anche il caso dei tavoli interattivi per la tappezzeria e non solo https://vimeo.com/130469605.
175
Oltre all’intervista a Sebastian Chan nel paragrafo 8.2, rimando qui a Nicolette Mandarano, Musei e
media digitale, Roma, Carocci, p. X.
176
Neil Kotler, Philip Kotler, Marketing dei musei. Obiettivi, traguardi, risorse, Torino, Einaudi, 2004.
177
Michele Dantini, Arte e sfera pubblica. Il ruolo critico delle discipline umanistiche, Roma, Donzelli, 2016.
178
SMM sta per social media manager (ndr.).
179
https://medium.com/code-words-technology-and-theory-in-the-museum/museums-so-what-
7b4594e72283.
180
Pubblicato nel 2015 da MuseumsEtc.
181
Massachusetts Institute of Technology (ndr.).
182
Mostra tenutasi presso la Fondation Louis Vuitton dal 22 ottobre 2016 al 20 febbraio 2017 (ndr.).
183
L’apertura al pubblico è del 27 ottobre 2014.
184
Sarà per la prossima chiacchierata.
185
https://www.nytimes.com/2014/10/26/arts/artsspecial/the-met-and-other-museums-adapt-to-the-
digital-age.html.
186
https://www.youtube.com/watch?v=Bt3TmUW90B8.
POST SCRIPTUM: I MUSEI E LA DIMENSIONE DIGITALE IN ITALIA AL
TEMPO DEL CORONAVIRUS

Proprio quando questo volume era pronto per andare in stampa, siamo stati tutti
costretti a cambiare abitudini e stili di vita perché chiamati a rimanere in casa per
evitare, o almeno contenere, il diffondersi del contagio da Coronavirus.
Tutto ha chiuso: scuole, università, aziende, negozi e… musei.
Non potevo dunque lasciare che questo libro, dedicato a musei e cultura
digitale, uscisse e si presentasse al mondo privo di una riflessione dedicata
all’eccezionale contesto che i musei si sono trovati ad affrontare in questo
drammatico momento storico, che ha toccato per prima l’Italia settentrionale.
Perché?
Perché è stata proprio la chiusura dei musei a rendere evidente con
straordinaria immediatezza che la relazione fra musei e pubblici esiste, ed è
necessaria, anche quando le istituzioni fisiche si trovino a dover chiudere i propri
palazzi, a non avere possibilità di contatto con il visitatore fisico, con colui che per
tanto tempo la museologia più tradizionale e conservativa ha riconosciuto come
unico vero visitatore.
E invece…
Dal momento immediatamente successivo alla chiusura, i musei che erano
“attrezzati” teoricamente, con convinzione e con risorse adeguate, hanno sentito
la necessità di presidiare e tenere acceso il loro discorso con i propri pubblici, via
web e sulle piattaforme social.
Di fatto, proprio a chiusura del mio lavoro, si è appalesata la totale strumentale
(quanto diffusa anche in ambito giornalistico) irrilevanza della contrapposizione
on-line/fisico: è stato un unico ecosistema istituzionale, un unico organismo, che
ha reagito alla chiusura dei musei.
La connessione, più che la comunicazione, ha rivelato lo stato di necessità che
trova la sua risposta nei social network, nei siti web dei musei, nella disponibilità
dei loro più vari archivi in rete.
A conferma di quanto avete trovato nelle pagine precedenti, evidentemente
non per caso, Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, ha messo
in salvo la “passeggiata con il direttore” in museo mettendo a disposizione video-
pillole sui social network.
La Pinacoteca di Brera di Milano ha lanciato video e foto corredati di hashtag
programmatici quali Voci dal museo, myBrera, Appunti per una resistenza
culturale.
Il Muse di Trento da giorni trasmette su Facebook laboratori per insegnare
coding ai giovani a partire dal famosissimo Scratch del MIT. 187

Il Museo della Scienza di Milano ha lanciato l’hashtag #storieaportechiuse che


propone contenuti del museo sui propri canali Facebook e Instagram ufficiali.
Conferma ulteriore abbiamo da Carolyn Christov-Bakargiev che lancia
l’iniziativa Cosmo Digitale dal Castello di Rivoli a Torino, esplicitando in alcuni
passaggi che il web è una sede tout court e che, quindi, il museo è da considerarsi
aperto.188

Insomma molti dei musei italiani dei quali abbiamo accennato nelle pagine
precedenti, ma anche altri, si sono attivati con grande naturalezza,
semplicemente cambiando dimensione spaziale, assicurando continuità di
servizio e relazionale.
Ma, come già ribadito in questo volume numerose volte, la dimensione digitale
richiede competenza, risorse, infrastrutture adeguate.
La rincorsa, a tratti con evidente affanno, dei giorni scorsi a presidiare il
territorio dei social da parte di tutte le istituzioni museali non ha mancato di
disvelare differenze sostanziali nella dimestichezza e nella naturalità
dell’esposizione on-line; non in tutti i casi, cui siamo comunque grati per
l’impegno, si sono visti prodotti o idee all’altezza, o insomma esiti felici,
semplicemente perché non ci si improvvisa nella fretta congestizia, senza una
riflessione ampia.
Tra le esperienze che non si possono improvvisare è l’offerta della visita virtuale
del museo on-line nelle sue due varianti: la consultazione della collezione on-
line, che ha sviluppato invece con successo la Pinacoteca di Brera in autonomia;
oppure il tour virtuale; quest’ultimo non diffusissimo in Italia (si veda quello
esemplare dell’Egizio di Torino dedicato alla mostra Archeologia Invisibile). È 189

da segnalare, tuttavia, che numerosi musei italiani hanno sviluppato i loro tour
grazie alla collaborazione con Google Arts and Culture, come la Galleria degli
Uffizi.
190

Non ultimo, l’infrastruttura che consente di connettersi ha mostrato le sue


debolezze e lacune, non solo nella distribuzione sul territorio nazionale, ma
anche sul carico della rete dati.
Mai come oggi un segnale da parte del Governo dovrebbe essere dato sulla
distribuzione capillare del 5G; senza la disponibilità di connessione stabile
l’intera creazione di contenuti resta del tutto vana, come è stato evidente a
chiunque stia conducendo esperienze di insegnamento via web in tempo reale.
Forse era necessaria un’occasione così straordinariamente drammatica per dare
definitiva conferma teorica, attestata dalla pratica, che un museo è un’istituzione
al servizio della società, in relazione con la comunità, locale e globale, e che
proprio in questa relazione risiede la sua ragion d’essere. Tale relazione e
connessione è al momento possibile solo attraverso i canali digitali.
Non era poi difficile da immaginare data la maturazione nella museologia:
essere dedicati al visitatore, e non alla collezione, significa che senza visitatore, a
porte chiuse, non c’è museo e lo dico – sia ben chiaro – con tutto il rispetto per la
funzione primaria della conservazione del patrimonio.
E infatti la funzione del museo si è, ancora una volta, assestata su messaggi
sociali che nulla hanno a che vedere con gli oggetti conservati: l’hashtag
#iorestoacasa, richiamo al rispetto delle regole a beneficio della comunità, è
circolato sui social di tanta parte delle istituzioni culturali.
Nelle interviste che ho condotto una domanda cardine era sempre presente: “là
fuori ci sono due mondi o ce n’è uno solo?”.
Una risposta fenomenica quanto evidente ci arriva ora, nel bel mezzo di questa
crisi: ne esiste uno solo, ibrido e interrelato, e definitivamente e palesemente
necessario in questa composizione.
Il web, la rete, i social, non sono superficiali strumenti di comunicazione, o
promozione, ma un luogo, un pezzo di mondo come quello fisico, con le sue
infinite sfumature e valori.
Devo però dedicare con rammarico un pensiero al tema della sostenibilità:
alcuni esempi virtuosi di gestione, senza fondi pubblici, si trovano in grande
difficoltà. Chi ha saputo sapientemente provvedere al proprio equilibrio
finanziario con mezzi propri grazie alle entrate garantite dal pubblico, dall’affitto
spazi, dalle vendite del bookshop è ora in grave rischio.
Anche questa volta il bagaglio e il potere del digitale possono aiutare:
personalmente ho fatto il gesto simbolico di acquistare una borsa dallo shop on-
line del Museo Egizio, certa che i musei avranno presto bisogno di tutto il nostro
sostegno.
Ma se lanceranno una campagna di #crowdfunding so che saremo in tanti a
sostenerli.
13 marzo 2020
187
Raccontato da Samuela Caliari su Artribune: Musei e didattica. Il Museo delle Scienze di Trento,
“Artribune”, 9 marzo 2020, https://www.artribune.com/professioni-e-
professionisti/didattica/2020/03/intervista-museo-scienze-trento.
188
https://www.castellodirivoli.org/mostra/digital-cosmos.
189
https://museoegizio.it/static/virtual/ArcheologiaInvisibileITA/index.html.
190
https://artsandculture.google.com/streetview/uffizi-gallery/1AEhLnfyQCV-DQ.
BIBLIOGRAFIA

Non tutti i volumi sono puntualmente citati in nota, ma la lettura di tutti ha contribuito a rendere possibile
questo lavoro. Ritengo utile condividere ogni titolo che ha accompagnato il mio percorso durante gli anni
passati.

Click! A Crowd-Curated Exhibition, Brooklyn Museum, 2008, catalogo della


mostra.
Comunicare il Museo Oggi. Dalle scelte museologiche al digitale, a cura di Walter
Curzi e Leda Branchesi, Atti del convegno internazionale di studi (Roma, 18-
19 febbraio 2016), Milano, Skira, 2016.
I racconti delle donne, a cura di Annalena Benini, Torino, Einaudi, 2019.
Pezzi da museo. Ventidue collezioni straordinarie nel racconto di grandi scrittori, a
cura di Maggie Fergusson, Introduzione di Nicholas Serota, Palermo, Sellerio,
2019.
Senza titolo. Le metafore della didascalia, a cura di Maria Chiara Ciaccheri, Anna
Chiara Cimoli e Nicole Moolhuijsen, Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2019.
Visioni al futuro. Contributi all’Anno europeo del patrimonio culturale 2018, a cura
di Fondazione Fitzcarraldo, Milano, Editrice Bibliografica, 2018.
Marc Augé, Non luoghi, Milano, Eleuthera, 2018.
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Danah Boyd, It’s Complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web, Roma,
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Cristina Cattaneo, Naufraghi senza nome. Dare un nome alle vittime del
Mediterraneo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2018.
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Harvard University Press, 1997.
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digitale, in Comunicare il museo oggi. Dalle scelte museologiche al digitale, a cura di
Leda Branchesi e Valter Curzi, p. 377-385, Milano, Skira, 2016.
Maria Elena Colombo, Intervista a James Bradburne, in Senza titolo. Le metafore
della didascalia, a cura di Maria Chiara Ciaccheri, Anna Chiara Cimoli e
Nicole Moolhuijsens, Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2019.
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RINGRAZIAMENTI

Ogni libro è un’avventura, lo sappiamo. Costruisce mondi in lettura, ma non è da


meno in scrittura. Luca Dal Pozzolo è stato sodale quotidiano e brillante,
accogliente e caustico a seconda del bisogno. Mi mancherà molto. Pier Luigi
Sacco è uno che vede oltre e mantiene le promesse, e le sue sono proprio grandi
regali.
Co-protagonisti di questa avventura sono stati i professionisti intervistati, tutti,
con la loro disponibilità e Marco Enrico Giacomelli, che mi sorprende sempre
per tempestività e fiducia.
Questo libro è il frutto davvero, anche nella parte che porta la mia sola voce, di
un lavoro corale: Anna Chiara Cimoli ha dato una generosa e sapiente passata di
cipria sul tutto (e il cielo sa quanto ce ne fosse bisogno) ed è stata al contempo
supporto affettuoso e rigorosa e solerte coscienza, sempre con delicatezza, come
solo lei sa fare. Cinzia Picozzi, Maria Chiara Chiaccheri, Ilenia Atzori sono state
lettrici che tutti gli autori alla prima esperienza dovrebbero avere per entusiasmo
e curiosità. Sempre con me, a condividere contatti, riletture, amicizie, Nicolette
Mandarano e l’internazionale Valeria Gasparotti.
Sono stati imprescindibili facilitatori di vita, a vario turno e titolo, mio fratello
Lorenzo e l’impareggiabile coppia composta dal mio tollerante consorte Fabio e
dal contatore umano, mio figlio Francesco, che ha chiesto per mesi: “A quante
pagine siamo, mamma?”.
Altri si imbarazzerebbero a vedersi scritti qui. Li ringrazierò di persona.
Tavola dei Contenuti - "TOC"
1. Premessa
2. Introduzione
3. 1. Una tassonomia del digitale: di che cosa parliamo quando parliamo di
digitale e musei
4. 2. It’s up to you. La rete: resistenze, martiri, pensatori
5. 3. Regole, policy, posizione culturale: quale statement per i social network
di un museo
6. 4. Paradigmi e obiettivi
7. 5. La partecipazione: ragioni e pratiche
8. 6. Digitale, bambini, musei. Qualche considerazione
9. 7. Le trappole della misurabilità
10. 8. Voci dal mondo
11. Post Scriptum: i musei e la dimensione digitale in Italia al tempo del
Coronavirus
12. Bibliografia
13. Ringraziamenti

Landmarks
1. Cover

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