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ANALISI DELLA NOVELLA DI CIAPPELLETTO

La storia di Ciappelletto, affidata al racconto di Panfilo, è posta a principio della prima giornata e
quindi è la novella di esordio dell’intera opera. Come era consuetudine nella cultura medievale, l’inizio deve
essere consacrato a Dio; e infatti l’argomento è religioso. Tuttavia l’esaltazione della volontà divina resta
estranea a ogni intento edificante.
Dopo una premessa e un’introduzione storico-geografica, la novella introduce la figura grandiosa di
ser Cepparello, genio della recitazione e della trasgressione, il quale, a causa della sua disonestà e cattiveria,
viene mandato in Borgogna a riscuotere i debiti di messer Musciatto. In Borgogna Cepparello, chiamato dai
Francesi Ciappelletto, si ammala gravemente e sta per morire suscitando così la preoccupazione dei due
usurai fiorentini che lo ospitano in casa e che, conoscendolo come uomo irreligioso e peccatore impenitente,
temono che la sua morte avvenga senza i conforti religiosi. Difatti, un evento simile potrebbe provocare l’ira
dei Borgognoni contro tutti gli Italiani (i ‘lombardi cani’) residenti nella regione e già mal visti. Ciappelletto,
uditi i discorsi dei due usurai, provvede a risolvere le cose nel migliore dei modi e fa chiamare come
confessore un santo e valente frate al cospetto del quale, capovolgendo la realtà, reinventa e racconta la
propria vita dimostrando una straordinaria abilità nel rovesciare in virtù i vizi e i peccati di cui si era
macchiato. Il modo di argomentare del protagonista è una continua parodia dei valori tradizionali, un
rovesciamento completo che farà sì che egli, «piggior uomo» in vita, sia da morto ritenuto santo.
Prima di mettere in azione Ciappelletto, Boccaccio ne delinea a lungo il ritratto. Il bisogno di
indugiare sui vizi e le depravazioni del personaggio è determinato da necessità strutturali: bisogna infatti che
il lettore conosca i vari aspetti della personalità del protagonista, perché possa avere efficacia il suo
rovesciamento comico nella confessione. Tutto il sapore della novella sta nel contrasto fra il ritratto reale del
notaio di Prato e la comica idealizzazione che egli costruisce di se stesso nel corso della confessione. L’arte
comica di Boccaccio raggiunge il vertice attraverso l’uso della tecnica del rovesciamento attraverso la quale
alle premesse di ogni frase tengono dietro inaspettate conseguenze: «egli, essendo notaro, avea grandissima
vergogna quando uno de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato»;
«Testimonianze false con sommo diletto diceva, richiesto e non richiesto»; «Invitato a un omicidio o a
qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava». Il continuo rovesciamento, in cui
si individua la chiave di volta dell’intera novella (il farabutto che diventa santo, il frate che da ammonitore
passa ad ammonito) si manifesta soprattutto nella creazione dell’autoritratto che il protagonista inventa in
sede di confessione. Il confessore, «un santo e valente frate» rappresenta un interlocutore alto col quale
instaurare un duello di intelligenza e di parola. A tal fine Boccaccio presta a Ciappelletto tutti gli strumenti
retorici necessari a dimostrare la tesi paradossale della sua virtù e santità. Ciappelletto è in possesso di un
rigoroso codice penitenziale e sa usare a dovere le formule del linguaggio devozionale: dimostra perizia
terminologica («Padre mio…»), cita concetti teologici, usa immagini ascetiche (Dio lo ha ‘visitato’ con la
malattia; «l’anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue») e riporta pratiche di
pietà («e sempre co’ poveri di Dio, quello che guadagnato ho, ho partito per mezzo, la mia metà convertendo
ne’ miei bisogni, l’altra metà dando loro»). L’abilità di Ciappelletto consiste nel fatto che egli, invece di
fingersi platealmente santo, si incolpa come peccatore per minime infrazioni a norme severissime, oppure
confessando mancanze comunemente considerate virtù («con quello diletto e con quello appetito l’acqua
bevuta aveva»). Egli si accusa praticamente di tutti i peccati, con degli esordi che sembrerebbero metterlo in
cattiva luce. L’impareggiabile attore elenca tutta una serie di autoironici pentimenti: di essersi adirato
«veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose», di aver detto male di un vicino che picchiava la moglie
«cattivella», di aver «bestemmiato» la sua mamma quando era «piccolino». Egli ricorre a toni patetici, con
uso di diminuitivi ed espressioni tenere al fine di accrescere ulteriormente la benevolenza del frate nei suoi
confronti.
Da questo uso magistrale della parola viene fuori una maschera di santità del tutto credibile, tanto
che il confessore, in segno di rispetto, passerà dal ‘tu’ iniziale al ‘voi’, chiamando Ciappelletto con il suo
titolo ‘ser’. Il capovolgimento si è realizzato: il penitente capovolge il suo ruolo, giungendo a impartire
lezioni al suo confessore, quando rimprovera i frati di non rispettare i luoghi consacrati. La performance
oratoria di Ciappelletto assume i modi della beffa che si consuma ai danni di beffati inconsapevoli, quali il
frate e il popolo, che venera Ciappelletto come un santo. La santificazione di Ciappelletto e il fanatismo
ingiustificato di quella devozione porta a esiti grotteschi (i pellegrini strappano i panni del cadavere per
ricavarne reliquie). La scena della confessione di Ciappelletto ha un carattere fortemente teatrale sia grazie
all’abilità del protagonista di mescolare all’eloquenza elementi mimici, come il pianto o il silenzio, mirabile
strumento emotivo, sia perché i due usurai sono gli spettatori nascosti che vengono affascinati e spiazzati dal
comportamento paradossale del penitente.
Tra i verbi utilizzati si noti la replicazione del verbo «parere»: il verbo proprio di Ciappelletto artista
della parola, nonché il verbo dell’apparenza assunta come modello di vita.

Per ciò che concerne i valori religiosi, Boccaccio introduce il piano ultraterreno in una prospettiva
opposta alla visione medievale di Dio come fondamento assoluto di valori immutabili: si tratta piuttosto di
una prospettiva di problematicità del reale. Infatti per Panfilo è presumibile, ma non è certo, che Ciappelletto
sia finito tra i dannati. L’onniscienza del narratore viene meno, poichè l’imperscrutabilità di Dio apre tutte le
ipotesi, anche quella di un misericordioso rovesciamento da falso a vero santo. Vi è dunque la teorizzazione
di una distinzione di piani: da un lato quello divino, imperscrutabile; dall’altro quello umano, mutevole e
problematico.
Il centro dell’interesse del Decameron è esclusivamente il mondo terreno, in cui bisogna orientarsi secondo i
criteri della ragione. Il Decameron è stato definito come «epopea dei mercatanti» (Vittore Branca), nel senso
che il mondo borghese e mercantesco, fino ad allora estraneo agli onori della letteratura, in esso irrompe con
straordinaria vitalità. Boccaccio, tuttavia, non presenta soltanto figure positive d’ambito mercantesco, ma
anche figure su cui incombe una luce sinistra, come in questa novella nella quale si aggirano personaggi
senza scrupoli, mossi dalla pura logica dell’interesse. Musciatto Franzesi, i fratelli fiorentini e Ciappelletto
agiscono tutti per pura ragione economica. Musciatto ha bisogno di una persona senza scrupoli che riscuota
per suo conto i crediti in Borgogna. I due fratelli ospitano Ciappelletto per motivi di convenienza e per
calcolo vorrebbero disfarsene appena fiutano il danno che tale presenza potrebbe arrecare loro. Lo stesso
Ciappelletto accetta l’incarico in Borgogna perché «quasi da necessità costretto» e da uomo d’affari si
comporta coi colleghi e perfino con Dio.

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