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LA SEGNALAZIONE CERTIFICATA DI INIZIO ATTIVITÀ (S.C.I.A.)


(ARTT. 19 E 21 L. N. 241 DEL 1990 S.M.I.)
di MARIA ALESSANDRA SANDULLI

BIBLIOGRAFIA

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dopo l’Adunanza Plenaria n. 15/2011: la difficile composizione del modello sostanziale con il modello processuale,
in DA, 2011, 811 ss.
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364 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

SOMMARIO 1. Premessa. Dalla d.i.a. alla s.c.i.a. — 2. Le nuove “certezze” sull’utilizzabilità dello
strumento e le nuove garanzie di stabilità del titolo nella l. n. 124 del 2015 e nei relativi decreti di
attuazione. — 3. La “nuova” attenzione per la (precaria) posizione del segnalante e le questioni
irrisolte. — 4. I riflessi della riforma del 2015 sulla tutela del terzo: premessa e rinvio. — 5.
Conclusioni.

1. Premessa. Dalla d.i.a. alla s.c.i.a. Una delle più evidenti testimonianze
della “storicità” del diritto amministrativo è rappresentata dall’evoluzione del
sistema dei controlli sull’esercizio delle attività economiche impattanti su interessi
pubblici (ambiente, governo del territorio, sanità pubblica, commercio, istruzione,
ecc.).
Nel tempo, sulla scorta del potere riconosciutogli dall’art. 41 Cost., il legisla-
tore aveva invero progressivamente introdotto strumenti di controllo preventivo
della compatibilità di tali attività con il quadro normativo di riferimento e con gli
interessi pubblici coinvolti (autorizzazioni, abilitazioni, permessi, licenze, nulla
osta, ecc.; cfr. la classificazione di A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo,
Napoli, 1952 e 1989). Le complessità burocratiche e le tempistiche delle ammini-
strazioni avevano tuttavia tradizionalmente costituito un fortissimo ostacolo all’ef-
fettivo esercizio della libertà d’impresa, spingendo verso la progressiva elabora-
zione di strumenti di tutela avverso l’inerzia degli uffici pubblici e di meccanismi di
semplificazione procedimentale (cfr. i contributi di G. MARI e di M.A. SANDULLI,
supra, e di G.B. CONTE, S. TRANQUILLI, infra).
Negli ultimi decenni, anche e soprattutto sotto la spinta dei principi di libertà
di stabilimento e di libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione Europea
(tradotti nella direttiva n. 2006/123/CE, c.d. direttiva servizi o direttiva Bolkestein,
su cui v. M.A. SANDULLI, G. TERRACCIANO), si è tuttavia registrata una netta inver-
sione di tendenza e, accanto alla menzionata introduzione di strumenti di sempli-
ficazione (silenzio assenso e conferenza di servizi), il legislatore ha concepito una
formula sostitutiva di controllo, di tipo meramente successivo, di cui ha gradual-
mente esteso la portata a sempre più vasti settori di attività, consentendone
l’intrapresa sulla base di autocertificazioni (spesso trasformate, di fatto, in autova-
lutazioni) di conformità giuridica (emblematica quella di conformità del fabbricato
alla normativa urbanistico-edilizia) rimesse agli stessi interessati (o a loro tecnici) e
sotto la loro esclusiva responsabilità (cfr. amplius sul tema il precedente contributo
su “La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di
atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio”, di seguito più brevemente “contributo sulle
“dichiarazioni sostitutive”).
Il percorso ha avuto inizio nel 1990, quando la l. n. 241, nell’estendere
l’ambito di applicazione dello strumento “semplificatorio” del silenzio assenso (art.
20), introdusse, nell’art. 19, quello, parzialmente “liberalizzatorio”, della “denuncia
di inizio dell’attività” (d.i.a.), devolvendo ad apposito regolamento governativo il
compito di individuare i casi in cui, in considerazione del carattere sostanzial-
mente vincolato dell’atto di assenso e dell’assenza di limiti o contingenti comples-
sivi e di rischi di pregiudizio per la tutela dei valori storico-artistici o ambientali e
per la sicurezza dei lavoratori, l’esercizio di un’attività privata, già subordinato ad
autorizzazione, licenza, nulla-osta o altri atti di consenso comunque denominati,
poteva essere intrapreso con mera d.i.a. all’amministrazione competente, cui
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residuava il potere/dovere di “verificare d’ufficio la sussistenza dei presupposti e dei


requisiti di legge richiesti e disporre, se del caso, con provvedimento motivato, il divieto di
prosecuzione dell’attività e la rimozione dei suoi effetti, salvo che, ove ciò sia possibile,
l’interessato non provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti
entro il termine prefissatogli”. Il regolamento (approvato con d.P.R. n. 300 del 26
aprile 1992) indicava altresì in quali casi l’attività potesse iniziare immediatamente
dopo la presentazione della denuncia (c.d. “d.i.a. immediata”) e in quali si dovesse
invece attendere il decorso di un termine prestabilito per categorie di atti, para-
metrato alla complessità degli accertamenti richiesti (c.d. “d.i.a. differita”).
L’art. 19 fu poi integralmente riformulato dalla l. 24 dicembre 1993, n. 537
(recante “interventi correttivi sulla finanza pubblica”), che riconobbe diretta operati-
vità allo strumento e dispose che, ad esclusione dei casi in cui i titoli dovevano
essere rilasciati previa valutazione tecnica o previo apprezzamento discrezionale (e
al di fuori di specifiche materie, ritenute particolarmente “sensibili”), tutte le
attività già soggette al rilascio di un titolo abilitativo dovevano essere avviate su
“mera” denuncia (con autocertificazione di legittimità) del privato (fermo re-
stando il controllo successivo da parte dell’amministrazione, da esercitare entro i
successivi 60).
Il modello (ripreso e ridefinito per lo specifico settore edilizio dagli artt. 22 ss.
del d.P.R. n. 380 del 2001, di approvazione del Testo Unico delle disposizioni in
materia edilizia (T.U. edilizia), è andato progressivamente definendosi ed esten-
dendosi, modificando anche la denominazione, dapprima (l. n. 80 del 2005, di
riforma della l. n. 241) in quella di “dichiarazione di inizio attività” (con il medesimo
acronimo d.i.a.) e, successivamente, in quella di “segnalazione certificata di inizio
attività-s.c.i.a.”.
Quest’ultima modifica si deve alla l. n. 122 del 2010, di conversione del d.l. n.
78 (recante “misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica”), che, all’art. 49, comma 4-bis, ha di nuovo integralmente sostituito il
testo dell’art. 19 l. n. 241 (già sensibilmente modificato, in linea con gli obiettivi di
semplificazione delle procedure amministrative per l’esercizio delle attività eco-
nomiche perseguiti dalla richiamata direttiva Bolkestein del 2006, dalla l. n. 69 del
2009), con l’espressa, importante, precisazione, al comma 4-ter, che la disciplina
della s.c.i.a., direttamente sostitutiva di quella della d.i.a. contenuta in ogni nor-
mativa statale o regionale, attiene “alla tutela della concorrenza ai sensi dell’articolo
117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, e costituisce livello essenziale delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi della lettera m) del medesimo comma”.
Il comma è stato poi abrogato dal d.lg. n. 126 del 2016 (primo decreto di attua-
zione della delega conferita dalla l. n. 124 del 2015 in tema di s.c.i.a.), che ha
trasposto nell’art. 29, comma 2-ter, l. n. 241 l’affermazione di attinenza ai livelli
essenziali delle prestazioni (l.e.p.) delle disposizioni della medesima legge concer-
nenti “la presentazione di istanze, segnalazioni e comunicazioni, la dichiarazione di inizio
attività e il silenzio assenso e la conferenza di servizi”.
Il testo vigente dell’art. 19, comma 1 — come ulteriormente modificato dalle
ll. nn. 106/2011 (di conversione del d.l. “Sviluppo” 2011) e 35 e 134/2012 (di
conversione, rispettivamente, del d.l. “Semplificazioni” e del d.l. “Sviluppo”
2012), ma rimasto inalterato nelle riforme del 2014 (d.l. “Sblocca cantieri” 12
settembre 2014 n. 133, conv. nella l. n. 164) e del 2015 (legge “Madia” 7 agosto
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366 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

2015 n. 124) — dispone infatti che “ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non
costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscri-
zioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o
artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti
di legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o
contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli
atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell’interessato con la sola esclusione dei casi in cui
sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle ammini-
strazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo,
alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi
compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco,
nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti
dalla normativa comunitaria”.
L’amplissimo ambito di operatività dell’istituto ne determina il ruolo assolu-
tamente centrale nello studio dei rapporti tra cittadino e pubblica amministra-
zione e pone in primo piano l’esigenza di certezza delle regole che ne conformano
l’utilizzo e delle garanzie di efficacia e di stabilità che esso offre nei confronti dei
poteri pubblici e dei terzi controinteressati.
Significativamente, la riscrittura della disciplina dello strumento costituisce
uno dei più importanti interventi del “pacchetto” di riforme della pubblica ammi-
nistrazione avviato dalla l. n. 124 del 2015, sul quale sono intervenuti già due
decreti delegati (nn. 126 e 222 del 2016, meglio noti come decreti “s.c.i.a. 1” e
“s.c.i.a. 2”), cercando il difficile (e forse impossibile) equilibrio tra tali opposti
interessi, nel tentativo di evitare che la (pur indubitabilmente giusta) preoccupa-
zione di impedire l’abuso dell’autolegittimazione si traduca in una perenne incer-
tezza del titolo, scoraggiando gli operatori dall’intrapresa dell’attività che la sua
introduzione avrebbe dovuto incentivare e semplificare.
Con il riferito radicale trasferimento di responsabilità dal pubblico al privato,
il medesimo comma 1 dell’art. 19 rimette invero all’interessato il compito di cor-
redare la segnalazione, che lo abilita all’immediato esercizio dell’attività, delle di-
chiarazioni, attestazioni e asseverazioni necessarie, nonché dei relativi elaborati tec-
nici, con l’ulteriore precisazione (da leggere comunque alla luce delle surrichiamate
esclusioni dall’ambito di operatività della s.c.i.a. delle attività condizionate dai c.d.
interessi sensibili e dunque escludendo gli atti, i pareri e le verifiche relativi a tali
interessi) che “nei casi in cui la normativa vigente prevede l’acquisizione di atti o pareri di
organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque sostituiti
dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma,
salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti”.
Il comma 2 stabilisce quindi che la presentazione della segnalazione all’am-
ministrazione competente (recte, allo sportello unico indicato a norma dell’art.
19-bis, inserito dal d.lgs. “s.c.i.a. 1” n. 126 del 2016) o, nei casi in cui siano
necessarie altre s.c.i.a., a una delle amministrazioni competenti (rimettendone, in
termini alquanto criticabili, la scelta allo stesso segnalante, cui è affidato il potere/
dovere di curarne la trasmissione alle altre amministrazioni interessate per i
relativi controlli e di raccoglierne le proposte motivate eventualmente pervenutele
fino a 5 giorni prima dalla scadenza del termine di verifica) consente l’inizio
immediato dell’attività, mentre la verifica della sussistenza dei requisiti e dei
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presupposti per il legittimo utilizzo dello strumento è effettuata ex post entro un


termine perentorio, fissato dal legislatore in 60 giorni (comma 3), ridotti a 30 in
materia edilizia (comma 6-bis), fatto comunque salvo il potere dell’amministra-
zione di intervenire dopo tale termine nei tempi e alle condizioni previste dall’art.
21-nonies per l’annullamento d’ufficio dei propri provvedimenti (cfr. infra il con-
tributo di M. SINISI).
Dal tradizionale sistema “autorizzatorio”, si è dunque passati, con la l. n. 241
s.m.i., a un sistema “misto”, che, accanto al modello di assenso preventivo, di cui è
stata peraltro progressivamente ampliata la possibilità di ottenimento implicito
(c.d. silenzio assenso: cfr. il contributo di G. MARI, supra), ha visto, dapprima
prudentemente introdurre e poi decisamente (e, come vedremo, non sempre
opportunamente) estendere la sostituzione del regime autorizzatorio (esplicito o
implicito) con uno strumento che, a ormai trenta anni dalla sua prima previsione
e nonostante le diverse modifiche intervenute, non ha ancora trovato una sua
definitiva sistemazione dogmatica e il cui utilizzo lascia pertanto tuttora aperti una
serie di problemi, sostanziali e processuali.
In particolare, in un quadro normativo che, alla stregua di quanto avvertito
sin dall’Introduzione al presente Volume, è tutt’altro che scevro da incertezze
sull’individuazione delle “regole” di esercizio di una determinata attività, con la
s.c.i.a. l’operatore viene autoresponsibilizzato a verificare la sussistenza dei pre-
supposti e dei requisiti di legge per intraprenderla, con l’unico onere di comuni-
carne all’amministrazione “l’inizio”, fermo restando (o, a seconda delle prospet-
tive, residuando) in capo a quest’ultima un potere/dovere di intervento postumo
(di tipo inibitorio o repressivo o, laddove possibile, conformativo) qualora ne
riscontri il contrasto con l’ordinamento.
Come anticipato, per meglio comprendere la portata e la ratio di tale evolu-
zione, è significativo richiamare il d.lg. n. 59 del 2010, di attuazione della direttiva
123/2006/CE per la semplificazione delle attività di prestazione di servizi all’in-
terno della Comunità (oggi Unione) europea, che, nella riferita ottica di massima
semplificazione per l’esercizio di tali attività, dopo aver chiarito che “ai fini del
presente decreto, non costituisce regime autorizzatorio la dichiarazione di inizio attività
(d.i.a.), di cui all’articolo 19, comma 2, secondo periodo, della legge 7 agosto 1990, n. 241”
(art. 8) e che “nei limiti del presente decreto, l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi
costituiscono espressione della libertà di iniziativa economica e non possono essere sottoposti
a limitazioni non giustificate o discriminatorie” (art. 10, comma 1), ha configurato il
regime autorizzatorio per le attività di cui esso si occupa come un’ipotesi mera-
mente residuale, stabilendo, all’art. 17, che “ai fini del rilascio del titolo autorizzatorio
riguardante l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi di cui al presente decreto si segue il
procedimento di cui all’articolo 19, comma 2, primo periodo, della legge 7 agosto 1990, n.
241 [relativo alla d.i.a.], ovvero, se così previsto, di cui all’articolo 20 della medesima legge
n. 241 del 1990” [relativo al silenzio assenso], e che soltanto “qualora sussista un
motivo imperativo di interesse generale, può essere imposto che il procedimento si concluda
con l’adozione di un provvedimento espresso”.
Si introduceva così, per effetto della direttiva Bolkestein, e per le attività di
prestazione di servizi contemplate dal decreto che vi ha dato attuazione, un
radicale capovolgimento della regola generale espressa dall’art. 2 della l. n. 241,
che, invece, imponeva la chiusura del procedimento amministrativo con un prov-
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368 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

vedimento espresso, tanto da far (illusoriamente) apparire la disciplina dei silenzi


c.d. significativi e in particolare quella del silenzio assenso (dettata dal successivo
art. 20) come una deroga dettata dall’esigenza di superare la patologia dell’inerzia
piuttosto che, come nella realtà lo strumento è divenuto, come un modello alter-
nativo (e, anzi, prevalente), di soluzione procedimentale, perfettamente inserito in
un sistema che vede purtroppo sempre più spesso trasferire oneri e responsabilità
agli amministrati (per una critica a tale tendenza, oltre al precedente contributo
sulle “dichiarazioni sostitutive”, v. già le riflessioni svolte in M.A. SANDULLI, Riflessioni
sulla tutela del cittadino contro il silenzio della pubblica amministrazione).
Ma, soprattutto, si caricavano le attività soggette a una mera dichiarazione/
segnalazione di avvio delle numerose e irrisolte questioni interpretative sollevate
da tale specialissimo (e discusso) strumento (v. amplius M.A. SANDULLI, Controlli
sull’attività edilizia; e, più recentemente, la voce Edilizia).
In particolare, e in termini antitetici, i problemi posti dalla d.i.a./s.c.i.a. con-
cernono, dalla parte del segnalante, la garanzia dell’effettività del titolo e, da
quella dell’amministrazione e dei terzi controinteressati, la tutela contro l’impro-
prio utilizzo dello strumento in assenza dei requisiti prescritti dalla normativa di
riferimento.
Il “pendolo” del legislatore ha, secondo l’indirizzo politico del momento,
privilegiato l’uno o l’altro profilo.
Per una migliore comprensione di tali problemi e per una migliore valuta-
zione critica delle soluzioni proposte (o lasciate irrisolte) dal legislatore e dalla
giurisprudenza è, pertanto, essenziale ripercorrere sinteticamente i principali
passaggi evolutivi della disciplina dell’istituto (G. STRAZZA, La s.c.i.a. tra semplifica-
zione, liberalizzazione e complicazione).
Il controllo (come detto, meramente successivo) sul corretto utilizzo dello
strumento, nelle forme della verifica immediata (nel suddetto termine perentorio)
e di quella postuma (modulata, ma con le evidenti difficoltà derivanti dall’intrin-
seca diversità dell’istituto, sull’annullamento d’ufficio dei provvedimenti autoriz-
zatori) dei requisiti prescritti dal quadro normativo (generale e speciale) di riferi-
mento costituisce intuitivamente uno dei profili più delicati del “sistema s.c.i.a.”.
Non è un caso, quindi, che esso sia stato oggetto di continue modifiche anche nelle
ultime riforme (in particolare, dopo quelle del d.l. n. 133 del 2014, conv. nella l. n.
164, la l. n. 124 del 2015 e i relativi decreti di attuazione — d.lg. nn. 126 e 222 del
2016 —, sollevando non poche questioni applicative e interpretative, già anticipate
nell’Introduzione e nel contributo sulle “dichiarazioni sostitutive”, e solo in parte
risolte dal d.l. n. 76 del 2020).
Il comma 3 dell’art. 19, l. n. 241, nel testo attualmente vigente, stabilisce in
proposito che “L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e
dei presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della
segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prose-
cuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia
possibile, l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi
effetti entro un termine fissato dall’amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta
giorni”.
Nel testo modificato dalla riforma del 2005 e vigente fino alla l. n. 124 del
2015, la disposizione faceva, peraltro, al contempo, salvo il potere di adottare
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“determinazioni in via di autotutela” (ex artt. 21-quinquies e 21-nonies, su cui si rinvia al


contributo di M. SINISI, infra), che le norme “Sblocca-Italia” del 2014 avevano
opportunamente circoscritto ai “casi di cui al comma 4” (ossia “solo in presenza del
pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per
la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità
di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla
normativa vigente”: cfr. TAR Veneto, Sez. III, 27 gennaio 2015, n. 75). Nella logica
che esclude la tutela dell’affidamento dei soggetti che, in mala fede, abbiano
indotto l’amministrazione a rilasciare (o a lasciar formare) il titolo abilitativo,
l’ultimo periodo dello stesso comma 3 disponeva tuttavia che “in caso di dichiara-
zioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci, l’amministrazione,
ferma restando l’applicazione delle sanzioni penali di cui al comma 6, nonché di quelle di cui
al capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000,
n. 445, può sempre e in ogni tempo adottare i provvedimenti di cui al primo periodo”
(quest’ultimo passaggio è stato espunto e trasposto, in termini non perfettamente
identici, nel comma 2-bis del nuovo testo dell’art. 21-nonies, suscitando, proprio
per la diversa e meno chiara formula utilizzata, ulteriori dubbi interpretativi, sui
quali si rinvia ai già richiamati contributi sulle dichiarazioni sostitutive e sull’au-
totutela).
Il sistema si completava — e complicava — peraltro con quanto disposto
dall’art. 21, che, al comma 1, limitava (e limita) la possibilità di conformazione
dell’attività quando essa fosse stata avviata sulla base di dichiarazioni false o
mendaci e, al comma 2 (oggi finalmente abrogato), assoggettava le attività avviate
in assenza dei requisiti per il legittimo utilizzo della d.i.a. o comunque in contrasto
con il quadro normativo di riferimento alle medesime sanzioni previste per l’as-
senza (o la difformità) del titolo, ponendo così il denunciante in una situazione
che, anche di fronte all’autorità amministrativa, era, ingiustamente, molto più
debole di quella del fruitore di un titolo espresso (M.A. SANDULLI, Le novità in tema
di silenzio, e Edilizia e ivi ulteriori richiami).
La mancanza di un provvedimento (esplicito o implicito) da impugnare
creava sotto altro profilo il problema dell’individuazione del tipo di azione espe-
ribile dal terzo controinteressato e delle relative tempistiche (M.A SANDULLI, De-
nuncia di inizio di attività). La giurisprudenza (Cons. St., Ad. plen., 29 luglio 2011,
n. 15), accogliendo le sollecitazioni della dottrina (G. GRECO, Ancora sulla s.c.i.a.; ID.,
La SCIA e la tutela dei terzi), aveva “costruito” un sistema fondato su un’azione di
accertamento dell’assenza dei presupposti per l’utilizzo dello strumento, esperi-
bile entro il termine di 60 giorni (termine generale di impugnazione degli atti
amministrativi) dalla scadenza di quello entro il quale l’amministrazione avrebbe
dovuto effettuare la verifica. L’omesso intervento (repressivo, conformativo o
inibitorio dell’amministrazione) nei termini previsti per tale verifica veniva peral-
tro inteso come implicito rifiuto di esercitarli, legittimando anche un’azione cau-
telare. La riferita costruzione non ha però incontrato il favore del legislatore, che,
con una reazione inusualmente tempestiva, ha aggiunto un comma 6-ter nell’art.
19 (d.l. 13 agosto 2011, n. 138 conv. nella l. 14 settembre 2011, n. 148), ricondu-
cendo la tutela del terzo nell’alveo dell’azione avverso il silenzio inadempimento,
esperibile, con il rito accelerato di cui all’art. 114 c.p.a., fin quando dura il potere
amministrativo di provvedere e, dunque, difficilmente compatibile con le tempi-
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370 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

stiche ridotte della verifica ordinaria e, nei limiti di cui si dirà infra, anche con
quelle della verifica postuma.

2. Il percorso verso maggiori “certezze” sull’utilizzabilità dello strumento e


verso nuove garanzie di stabilità del titolo nella l. n. 124 del 2015 e nei relativi decreti
di attuazione. Nell’ottica di incentivazione delle attività economiche, la “riforma
Madia” ha avuto come primo obiettivo quello di offrire maggiori garanzie al
segnalante. La l. n. 124 del 2015 è dunque, per un verso, direttamente intervenuta
sulla disciplina del potere di controllo successivo dell’amministrazione, ridefinen-
done i confini in coerenza con i nuovi limiti al potere di autotutela caducatoria (art.
6) e, per l’altro verso, ha delegato il Governo alla “precisa individuazione dei proce-
dimenti (recte, delle attività) oggetto di s.c.i.a. o di silenzio assenso (...), nonché di quelli per
i quali è necessaria l’autorizzazione espressa e di quelli per i quali è sufficiente una comuni-
cazione preventiva”, in una con la definizione della “disciplina generale delle attività
non assoggettate ad autorizzazione preventiva espressa” ivi compresa quella delle mo-
dalità di presentazione e dei contenuti standard degli atti degli interessati e delle
modalità di svolgimento della procedura, anche telematica, e con la regolazione
degli strumenti per documentare o attestare gli effetti prodotti da tali atti (art. 5).
Il richiamo, nella delega, ai “princìpi del diritto dell’Unione europea relativi all’accesso
alle attività di servizi” e ai “princìpi di ragionevolezza e proporzionalità” esprime, sotto
altro profilo, il più ambizioso obiettivo di razionalizzare e rivisitare i rapporti tra
poteri amministrativi e attività private, in un’ottica di tendenziale liberalizzazione
di quelle che non necessitano controlli pubblici preventivi.
Il legislatore delegato, chiamato a un compito estremamente complesso, ha
cercato di assolvere, per quanto possibile, almeno con riferimento alla s.c.i.a., ad
entrambe le finalità, ma, come dimostravano già i primi commenti e le prime
applicazioni (o reazioni) giurisprudenziali, la riforma non è riuscita a risolvere le
contraddizioni e i profili di criticità intrinseci allo strumento.
Confermando il carattere evidentemente utopistico del disegno di completa
ricognizione e ridefinizione dei diversi regimi delle attività private potenzialmente
confliggenti con l’interesse pubblico, il primo decreto delegato (d.lg. 30 giugno
2016, n. 126: c.d. “s.c.i.a. 1”) ha fallito l’obiettivo e il Governo è stato costretto a
ridimensionarne drasticamente l’oggetto, individuato nella “disciplina generale ap-
plicabile ai procedimenti relativi alle attività private” soggette a semplice s.c.i.a., con
rinvio a “successivi decreti legislativi” (ad oggi solo il c.d. decreto “s.c.i.a. 2” n. 222 del
2016) per la catalogazione delle “attività oggetto di procedimento [termine evidente-
mente improprio: n.d.r.] di mera comunicazione o segnalazione certificata di inizio di
attività (...) od oggetto di silenzio assenso, nonché quelle per le quali è necessario il titolo
espresso”. L’articolo aggiunge peraltro che, “allo scopo di garantire certezza sui regimi
applicabili alle attività private e di salvaguardare la libertà di iniziativa economica, le
attività private non espressamente individuate ai sensi dei medesimi decreti o specificamente
oggetto di disciplina da parte della normativa europea, statale e regionale, sono libere”. La
regola è all’evidenza dirompente (e, considerata la difficoltà di censimento delle
diverse attività, estremamente rischiosa), tanto più se si considera che, nel parere
(n. 1784/2016) sullo schema del decreto “s.c.i.a. 2”, il Consiglio di Stato ha affer-
mato che, stante l’effetto innovativo che la delega ha attribuito all’individuazione
NOMELAV: 2023_0004609 PAG: 9 SESS: 19 USCITA:

LA S.C.I.A. 371

dei diversi regimi, alla luce dei principi eurounitari di accesso alle attività di servizi,
proporzionalità e ragionevolezza, la disgiuntiva “o” implicherebbe che la salvezza
delle discipline vigenti sia limitata ai settori estranei a quelli che abbiano già
costituito oggetto di catalogazione (ad oggi, commercio, edilizia e ambiente),
mentre all’interno di tali settori le attività non espressamente individuate dovreb-
bero considerarsi comunque effettivamente “libere”. Come rilevato in sede di
primo commento della riforma (M.A. SANDULLI, Segnalazione certificata di inizio di
attività), la ricostruzione proposta dal parere non convince, ponendosi peraltro in
contrasto con la previsione, accettata dallo stesso organo consultivo (pur con
l’invito al Governo a meglio definirne i criteri, la cui eccessiva genericità espone al
rischio di facili eccessi da parte degli enti locali), che le singole amministrazioni
possono ricondurre “le attività non elencate, anche in ragione della loro specificità
territoriale, ma riconducibili a quelle elencate (...) a quelle corrispondenti elencate, dandone
pubblicità sul proprio sito istituzionale” (art. 2, commi 1 e 2, d.lg. 126).
Per quanto concerne la disciplina generale, il decreto ha innanzitutto regolato
le modalità di presentazione delle istanze, segnalazioni, comunicazioni (art. 2) e la
documentazione da allegare a tali atti, facendo obbligo alle amministrazioni com-
petenti di predisporre e pubblicare sul proprio sito istituzionale moduli standar-
dizzati e — per ciascuna tipologia di procedimento — l’elenco degli stati, qualità
personali e fatti oggetto di dichiarazione sostitutiva, di certificazione o di atto di
notorietà, nonché delle attestazioni e asseverazioni dei tecnici abilitati o delle
dichiarazioni di conformità dell’Agenzia delle imprese, necessari a corredo della
segnalazione, indicando le norme che ne prevedono la produzione.
Per garantire l’effettiva osservanza della prescrizione, l’art. 2, comma 5, del
decreto dispone che la richiesta di integrazioni documentali non corrispondenti
alle informazioni pubblicate e/o la mancata pubblicazione delle stesse costituiscono
illecito disciplinare (“punibile con la sospensione con privazione della retribuzione da tre
giorni a sei mesi”). La previsione, come era stato immediatamente segnalato da chi
scrive e ripreso anche dal Consiglio di Stato (parere n. 839/2016) appare eccessi-
vamente rigida e sarebbe stato opportuno sostituire le parole « costituiscono illecito
disciplinare » con “sono valutabili ai fini dell’illecito disciplinare”, in quanto, in caso di
richieste “logiche”, non sembra giusto punire chi le ha effettuate, ma, al più, chi
non ha inserito i documenti negli elenchi. Si segnala piuttosto l’opportunità di
chiarire che (almeno secondo quello che appare l’intentum legis) le richieste di
integrazioni documentali non incidono comunque sul termine di conclusione del
procedimento e, dunque, non possono pregiudicare il consolidamento della
s.c.i.a..
A garanzia dei suddetti obblighi di pubblicità, l’art. 2, comma 3, disciplina un
doppio potere sostitutivo (che costituisce un’ulteriore costante della riforma Ma-
dia, tradotta nel d.P.R. n. 194 del 2016), affidato, rispettivamente, alle Regioni nei
confronti degli enti locali — “anche su segnalazione del cittadino”, “nel rispetto della
disciplina statale e regionale applicabile nella relativa materia” e allo Stato nei riguardi
delle Regioni (ex art. 8, l. n. 131 del 2003).
Sono fatti in ogni caso espressamente salvi gli obblighi di trasparenza, le
sanzioni e i rimedi del d.l. n. 33 del 2013 (c.d. “Decreto trasparenza”), con cui
peraltro il Consiglio di Stato (parere n. 839) aveva vanamente rappresentato
un’esigenza di coordinamento.
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372 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

Aggiungendo un nuovo art. 18-bis (“Presentazione di istanze, segnalazioni o co-


municazioni”) nella l. n. 241, il d.lg. n. 126 fa poi espresso obbligo alle amministra-
zioni di rilasciare “immediatamente, anche in via telematica, una ricevuta” che “attesta
l’avvenuta presentazione dell’istanza, della segnalazione e della comunicazione e indica i
termini entro i quali l’amministrazione è tenuta, ove previsto, a rispondere, ovvero entro i
quali il silenzio dell’amministrazione equivale ad accoglimento dell’istanza”.
La novella precisa peraltro che “se” la ricevuta contiene le informazioni di cui
all’art. 8 della l. n. 241 (eventualità che appare illogicamente rimessa alla scelta
discrezionale dell’amministrazione), essa costituisce anche comunicazione di avvio
del procedimento (di verifica dei presupposti, nel caso di s.c.i.a. e di rilascio del
titolo nel caso di istanza). È specificato, inoltre, opportunamente, che la data di
protocollazione dell’istanza, segnalazione o comunicazione non può comunque
essere diversa da quella della sua effettiva presentazione e che la ricevuta non è
condizione di efficacia della s.c.i.a., dell’istanza o della comunicazione, ferma
restando la responsabilità (evidentemente, in mancanza di specifiche previsioni,
secondo le norme generali) del soggetto competente.
Come chiarito dal comma 2 dello stesso art. 18-bis, in caso di presentazione a
un ufficio diverso da quello competente, i termini di cui all’art. 19, comma 3 (per
l’esercizio dei poteri inibitori/conformativi/repressivi all’esito della verifica dei
presupposti e dei requisiti per l’utilizzo dello strumento), “decorrono dal ricevimento
della SCIA da parte dell’ufficio competente”.
Una delle più importanti novità della riforma è costituita dalla “Concentrazione
dei regimi amministrativi”, disciplinata dal nuovo art. 19-bis della l. n. 241 (introdotto
dall’art. 3, comma 1, lett. c, del decreto n. 126), volto, come anticipato, a regolare
le ipotesi di attività soggette a s.c.i.a., che per il loro svolgimento necessitano di
“altre s.c.i.a., comunicazioni, attestazioni, asseverazioni e notifiche” (c.d. “s.c.i.a. pura”/
unica) e quelle che sono condizionate all’acquisizione di atti di assenso comunque
denominati, a pareri di altri uffici e amministrazioni, o all’esecuzione di verifiche
preventive non sostituibili con autodichiarazioni, autocertificazioni o autoasseve-
razioni (c.d. “s.c.i.a. impura”).
Nel primo caso (comma 2) “l’interessato presenta un’unica SCIA” allo sportello
dell’amministrazione indicata nei decreti di cui all’art. 1, che ha il compito di
trasmetterla “immediatamente” alle altre amministrazioni interessate (competenti a
verificare il corretto utilizzato delle altre s.c.i.a. e la validità delle correlate comu-
nicazioni, attestazioni, ecc.) per l’esercizio dei relativi controlli. Come anticipato,
non sembra logico, quando effettivamente occorrano più s.c.i.a., lasciare al segna-
lante la scelta sull’amministrazione a cui affidare la gestione della pratica, anche e
soprattutto perché il ruolo e il tempo lasciato alle “altre” amministrazioni compe-
tenti per i necessari controlli è incomprensibilmente ridotto, dal momento che,
per un verso, il decreto non fissa un termine chiaro e certo (non potendo ritenersi
tale l’avverbio “immediatamente”, soprattutto alla luce della sua traduzione in 5 e
addirittura in 15 giorni nell’art. 76, commi 2 e 5 del d.lg. n. 50 del 2016, nuovo
codice dei contratti pubblici) entro il quale l’amministrazione prescelta deve tra-
smettere loro la pratica e, per altro verso, esse non hanno un potere diretto di
intervento, ma possono soltanto presentare a quest’ultima le loro “eventuali propo-
ste motivate” almeno 5 giorni prima della scadenza di quelli concessi alla medesima
“prescelta” per la chiusura del procedimento di verifica.
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LA S.C.I.A. 373

In attuazione della descritta disciplina, l’art. 2, comma 3, del decreto “s.c.i.a.2”


stabilisce che “Per lo svolgimento delle attività per le quali la tabella A indica il regime
amministrativo della Scia si applica il regime di cui all’articolo 19 della legge n. 241 del
1990. Ove la tabella indica il regime amministrativo della Scia unica, si applica altresì
quanto previsto dall’articolo 19-bis, co. 2, della stessa legge n. 241 del 1990”: si chiarisce
così il rapporto di specialità tra le due discipline, di talché quella della s.c.i.a.
ordinaria si applica anche alla s.c.i.a. unica (coerentemente inquadrata nel parere
n. 1784 — sul decreto “s.c.i.a.2” — nella medesima categoria, della c.d. “s.c.i.a.
pura”), che è regolata “altresì” da una disposizione particolare.
Il comma 3 del nuovo art. 19-bis regola invece le ipotesi definite di “s.c.i.a.
impura”, disponendo che, “nel caso in cui l’attività oggetto di SCIA è condizionata
all’acquisizione di atti di assenso comunque denominati o pareri di altri uffici e amministra-
zioni, ovvero all’esecuzione di verifiche preventive, l’interessato presenta allo sportello di cui
al comma 1 la relativa istanza” dalla quale decorre il termine di convocazione della
conferenza di servizi cui all’art. 14. Recependo le indicazioni del Consiglio di Stato,
la disposizione precisa subito dopo che (diversamente da quanto avviene per la
c.d. “s.c.i.a. pura”), “l’inizio dell’attività resta subordinato al rilascio degli atti medesimi, di
cui lo sportello dà comunicazione all’interessato”. Siamo dunque di fronte a un mecca-
nismo procedimentale del tutto diverso dalla s.c.i.a. vera e propria (anche
“unica”), nel quale si innesta una fase prodromica di tipo autorizzativo classico,
totalmente estraneo e anzi antitetico al modello di autolegittimazione proprio
della s.c.i.a.: tanto che, significativamente, non si parla di “segnalazione”, ma di
“istanza” e si avvia il percorso della conferenza di servizi. Il vantaggio (unico) per
l’interessato è che la richiesta di autorizzazione (e, soprattutto, il suo ottenimento)
gravano direttamente sull’amministrazione, che si deve attivare avviando la con-
ferenza di servizi. Il modello, richiamato dal decreto “s.c.i.a. 2”, crea tuttavia
notevoli problemi applicativi e interpretativi, puntualmente evidenziati anche dal
Consiglio di Stato nel parere (n. 1784) sullo schema dell’atto normativo.
In particolare, come evidenziato anche nel suddetto parere, il nuovo art.
19-bis, comma 3, lett. c, l. n. 241, nel riportare sotto il regime della c.d. “s.c.i.a.
impura” (rinvio degli effetti della s.c.i.a. all’avverarsi delle richieste condizioni) le
attività soggette a s.c.i.a. per le quali sia richiesta l’acquisizione di “pareri di altri
uffici e amministrazioni, ovvero [al]l’esecuzione di verifiche preventive” pone un pro-
blema di coordinamento con quanto previsto nell’art. 19, comma 1, terzo periodo,
che, sempre con riferimento alla “acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi,
ovvero l’esecuzione di verifiche preventive”, dispone che essi sono — più semplice-
mente — “comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certi-
ficazioni” di cui allo stesso comma. Il parere risolve l’antinomia nel senso che le
esigenze di semplificazione sottese all’art. 19-bis ne implicano l’applicazione solo in
presenza di atti autorizzatori, con conseguente prevalenza del procedimento già
semplificato dall’art. 19 in caso di pareri o verifiche non accompagnati da atti
autorizzatori. Il problema sembra però a ben vedere risolvibile, anche alla luce
dell’art. 23 del T.U. edilizia (cui la disposizione chiaramente si inspira), conside-
rando che l’art. 19-bis, comma 3, si riferisce in realtà ai casi che l’art. 19 esclude
dall’ambito della s.c.i.a. (in quanto le attività sono condizionate dall’esistenza di
vincoli o di atti finalizzati alla tutela di interessi “sensibili”). Da ciò l’ibrido stru-
mento della c.d. “s.c.i.a. impura”, con l’anomalia della sua conciliabilità con la
NOMELAV: 2023_0004609 PAG: 12 SESS: 19 USCITA:

374 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

procedura della conferenza di servizi, che, evidentemente, si conclude con la


determinazione espressa dell’amministrazione procedente (posto che il riferi-
mento generico all’art. 14, il carattere obbligatorio e i presupposti per l’indizione
della conferenza la fanno chiaramente inquadrare in quella decisoria).
Come anticipato, il d.lg. n. 222 del 2016 (“s.c.i.a. 2”), di più lunga e complessa
gestazione, ha intrapreso l’individuazione dei “regimi amministrativi delle attività
private” (s.c.i.a., s.c.i.a. unica, silenzio assenso, comunicazione, autorizzazione),
prendendo le mosse da quelle in materia di edilizia, ambiente e commercio, che ha
inquadrato in un’apposita tabella A, allegata al testo normativo e parte integrante
dello stesso, che indica il regime amministrativo applicabile a ciascuna attività, con
rinvio agli artt. 19 e 19-bis della l. n. 241e la conseguente specificazione che “nei casi
in cui la tabella indica il regime della SCIA condizionata ad atti di assenso, comunque
denominati” si applica quanto previsto dal comma 3 di quest’ultimo articolo (e
dunque l’anomalo regime della c.d. “s.c.i.a. impura”).
L’individuazione dei diversi regimi è stata intesa dal Governo (in termini che
il Consiglio di Stato ha espressamente dichiarato “corretti”) come un’individua-
zione attiva e non meramente ricognitiva dell’esistente, proprio per adeguare la
(più onerosa) disciplina vigente ai (più semplici) standard europei sull’accesso alle
attività di servizi, nonché ai principi di ragionevolezza e proporzionalità (che
spingono anch’essi verso una riduzione degli oneri esistenti), in linea con i criteri
direttivi della delega.
La tabella, di cui era affidato al Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione, previa intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni, il pe-
riodico aggiornamento (e relativa pubblicazione) “con le modifiche strettamente con-
seguenti alle disposizioni legislative successivamente intervenute”, è suddivisa in tre se-
zioni:
1) la I (Attività commerciali e assimilabili), ricomprende le attività di commercio
su area privata, su area pubblica, l’esercizio di somministrazione di alimenti e
bevande, strutture ricettive e stabilimenti balneari, attività di spettacolo o intrat-
tenimento, sale giochi, autorimesse, distributori di carburante, officine di autori-
parazione, acconciatori ed estetisti, panifici, tintorie, lavanderie, arti tipografiche,
litografiche, fotografiche e di stampa, per un totale di 82 attività;
2) la II (Edilizia) ricomprende gli interventi edilizi e i relativi regimi ammini-
strativi, altri adempimenti successivi all’intervento edilizio e gli interventi relativi a
impianti alimentati da fonti rinnovabili, per un totale di 105 attività;
3) la III (Ambiente) ricomprende le autorizzazioni integrate ambientali (AIA),
le valutazioni di impatto ambientale (VIA), le autorizzazioni uniche ambientali
(AUA), nonché le attività relative alle emissioni in atmosfera, alla gestione rifiuti,
all’inquinamento acustico, agli scarichi idrici, alle dighe, alle bonifiche e altri
procedimenti in materia di tutela dei corpi idrici, per un totale di 37 attività.
Il comma 6 dello stesso articolo riconosce peraltro alle singole amministra-
zioni il potere di ricondurre le attività non espressamente elencate nella suddetta
tabella (anche in ragione delle loro specificità territoriali) a quelle ad essa corri-
spondenti, dandone evidenza mediante pubblicazione sul proprio sito istituzio-
nale. Come sottolineato nel parere del Consiglio di Stato, la previsione è eccessi-
vamente generica e si presta a facili eccessi da parte delle amministrazioni locali.
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LA S.C.I.A. 375

Gli articoli 3 e 4 si occupano poi specificamente della semplificazione in


materia edilizia e in materia di pubblica sicurezza.
L’articolo 3 merita speciale attenzione, perché interviene in modo significa-
tivo sul T.U. edilizia, riducendo il numero dei titoli edilizi e introducendo ulteriori
elementi di semplificazione anche in riferimento alle ulteriori certificazioni con-
nesse all’utilizzo delle opere edilizie.
In particolare, sotto il primo profilo, viene eliminata la comunicazione di
inizio lavori (c.i.l.) — salva la residua ipotesi prevista dall’art. art. 6, comma 1, lett.
e-bis- e gli interventi che vi erano soggetti sono sottratti a qualsiasi controllo sotto
il profilo edilizio; il regime “residuale” applicabile, già individuato nella s.c.i.a.,
diventa quello della comunicazione asseverata di inizio lavori (c.i.l.a., su cui v. M.
TIMO), cui viene ricondotto anche il restauro e risanamento conservativo che non
riguardi parti strutturali dell’edificio; è abolita la c.d. super d.i.a., sostituita da una
s.c.i.a. con efficacia differita.
Sotto il secondo profilo, si segnala la semplificazione del modello procedimen-
tale per l’ottenimento del certificato di agibilità, sostituito con una s.c.i.a., corre-
data dalla documentazione specificamente indicata dal comma 5 dello stesso
articolo.
Si lascia peraltro alle Regioni la facoltà di estendere la disciplina della c.i.l.a. a
interventi ulteriori rispetto a quelli individuati dalla disciplina statale. Nonostante
il decreto non lo dica espressamente, vale evidentemente anche in questo caso la
regola, sancita dall’art. 20, comma 4 per il silenzio assenso, che l’estensione non
incide sul regime penale disegnato dall’art. 44.
La materia dei controlli sull’attività edilizia (su cui amplius M.A. SANDULLI,
Controlli sull’attività edilizia e, più recentemente, la voce Edilizia) ha subito ulteriori
modifiche per effetto delle misure di rilancio economico legate agli effetti del-
l’emergenza COVID-19 (in particolare, artt. 264 del d.l. n. 34, convertito nella l. n.
77, e 10 del d.l. n. 76 del 2020) ed è comunque di nuovo in forte evoluzione, tanto
che sono all’esame progetti di riforma del TUED.

3. L’attenzione delle “riforme Madia” per la (precaria) posizione del segna-


lante e le questioni irrisolte (anche alla luce del d.l. n. 76 del 2020). L’attenzione per
il segnalante ha sotto altro profilo indotto il legislatore a rivedere il sistema dei
controlli sul legittimo utilizzo della s.c.i.a., per evitare, che, in assenza dell’“om-
brello” protettivo del provvedimento, l’operatore si trovasse indefinitamente
esposto tanto al potere di autotutela caducatoria (in forza dell’improprio richiamo
agli artt. 21-quinquies e 21-nonies introdotto nell’art. 19 dalla l. n. 80 del 2005),
quanto, addirittura, a quello inibitorio-repressivo per l’esercizio dell’attività in
assenza di titolo. Come sopra ricordato, infatti, l’art. 21, della l. n. 241, sotto la
rubrica “disposizioni sanzionatorie”, dopo aver disciplinato le conseguenze delle
dichiarazioni o attestazioni false o mendaci (comma 1, su cui v. infra), stabiliva al
comma 2 che “le sanzioni attualmente previste in caso di svolgimento dell’attività in
carenza dell’atto di assenso dell’amministrazione o in difformità di esso si applicano anche nei
riguardi di coloro i quali diano inizio all’attività ai sensi degli articoli 19 e 20 in mancanza
dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente”. In altri termini,
diversamente dai titolari di un provvedimento esplicito di assenso, i titolari di un
NOMELAV: 2023_0004609 PAG: 14 SESS: 19 USCITA:

376 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

assenso implicito e i denuncianti/segnalanti che abbiano (anche incolpevolmente)


erroneamente ritenuto di poter validamente utilizzare gli strumenti del silenzio-
assenso o della d.i.a./s.c.i.a. si trovavano esposti, a tempo indeterminato, a causa
del mancato tempestivo esercizio del potere/dovere amministrativo di verifica dei
relativi presupposti, alle medesime sanzioni previste a carico di coloro che aves-
sero agito in assenza di ogni titolo.
L’incertezza sulla formazione del titolo abilitativo, a prescindere dalla circo-
stanza che il richiedente avesse reso dichiarazioni mendaci o false attestazioni,
oltre a determinare un’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai titolari di
un provvedimento espresso, si poneva in evidente contrasto con i principi costi-
tuzionali ed euro-unitari in tema di certezza del diritto e di legittimo affidamento
(su cui v. supra D.-U. GALETTA) e con il richiamato obiettivo di semplificazione
dell’esercizio delle attività economiche.
Esemplificativamente, il Consiglio di Stato, Sez. VI, nella sentenza n. 1413/
2014, ribadiva che, “anche aderendo alla tesi che attribuisce alla d.i.a. natura privata,
esiste comunque un titolo abilitativo, che può considerarsi formato (...) solo in presenza di
tutti i presupposti di completezza e veridicità delle autocertificazioni, nonché degli altri
documenti prescritti”, per cui solo ad un titolo abilitativo “regolarmente formato”,
“corrisponde un legittimo affidamento dell’interessato”, con la conseguenza che l’incom-
pletezza o l’erroneità della relazione asseverata presentata dall’istante “costituisce
(...) causa di nullità” (recte inesistenza) del titolo abilitativo tacito, “anche in assenza di
dolo del professionista incaricato, come può verificarsi in vicende complesse”.
La giurisprudenza più attenta alle esigenze di garanzia aveva peraltro oppor-
tunamente iniziato a delimitare il potere di intervento diretto in via inibitoria sulle
attività intraprese tramite d.i.a./s.c.i.a. successivamente alla scadenza dei termini di
verifica stabiliti dall’art. 19 (commi 3 e 6-bis), assoggettandolo alle condizioni
dell’autotutela (Cons. St., Sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4780, già apprezzata da
M.A. SANDULLI, in Federalismi.it, 2014; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 24 ottobre
2014, n. 2557).
La riforma del 2015, recependo le istanze sopra rappresentate (ribadite dalla
scrivente anche in sede di audizione parlamentare), ha finalmente ricostruito il
sistema dei controlli sulla s.c.i.a. e, oltre ad abrogare il richiamato comma 2
dell’art. 21, ha integralmente sostituito i commi 3 e 4 dell’art. 19. Più specifica-
mente, l’art. 6 della l. n. 124 ha confermato il contenuto dispositivo del primo
periodo del comma 3 (diviso però ora in tre diversi periodi), ribadendo la vigenza,
in capo all’amministrazione competente, di un potere/dovere di intervento, in
senso conformativo, inibitorio e/o repressivo in caso di riscontrata carenza dei
presupposti e dei requisiti previsti dal comma 1, esercitabile entro 60 giorni dal
ricevimento della segnalazione (ridotti a 30 per la s.c.i.a. edilizia: comma 6-bis), con
la precisazione che essa, con atto motivato, avrebbe dovuto, ove possibile, invitare
il privato a “conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente” (con
netta preferenza, dunque, per l’opzione conformativa), “disponendo [al contempo:
n.d.r.] la sospensione dell’attività intrapresa e prescrivendo le misure necessarie con la
fissazione di un termine non inferiore a 30 giorni per l’adozione di queste ultime”, decorso
inutilmente il quale “l’attività si intende [come logico: n.d.r.] vietata”. Nel riferito
spirito di favore per il segnalante, il d.lg. n. 126 del 2016 ha peraltro limitato il
potere di sospensione alle ipotesi in cui la s.c.i.a. contiene attestazioni non veritiere
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LA S.C.I.A. 377

circa i requisiti posseduti o l’attività comporta pericoli “per la tutela dell’interesse


pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa
nazionale”, consentendo, in ogni altro caso, la prosecuzione dell’attività illegittima-
mente avviata nelle more della “regolarizzazione” (sempre che, naturalmente,
questa avvenga nei termini stabiliti). A parte la difficoltà di comprendere il riferi-
mento alle sole “attestazioni” (e non anche alle asseverazioni, notifiche, comunica-
zioni, o altre dichiarazioni/segnalazioni), sembra però incongruo limitare il potere
di sospendere l’attività in sede di prima verifica dell’abuso se, a prescindere dalla
sussistenza di un “pericolo per l’interesse pubblico” legato a materie circoscritte, man-
cano comunque i presupposti o i requisiti per l’utilizzo della s.c.i.a. (solo perché
magari il segnalante, artatamente o per errore, non ha fatto “attestazioni” al ri-
guardo).
In sintesi, ai sensi dell’art. 19, comma 3, l. n. 241, nel testo modificato dall’art.
3, comma 1, lett. b, d.lg. n. 126, in caso di carenza dei presupposti e dei requisiti
previsti dall’art. 19, comma 1, entro 60 giorni dalla presentazione della segnalazione
(ridotti a 30 per la s.c.i.a. edilizia), l’amministrazione competente (ovvero, in caso di
più s.c.i.a., quella cui è stata presentata la segnalazione, alla luce delle proposte even-
tualmente pervenute dalle altre amministrazioni interessate, cui essa dovrebbe
avere “immediatamente” trasmesso la segnalazione, nei 5 giorni precedenti alla sca-
denza del termine di verifica) “adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa”. Peraltro, come già visto,
“qualora sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente,
l’amministrazione competente, con atto motivato, [deve preferibilmente] invita[re] il pri-
vato a provvedere prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore
a trenta giorni per l’adozione di queste ultime” pena, come si è visto, in caso di mancato
rispetto del suddetto termine, l’interdizione dell’attività.
Il suddetto “atto motivato” di conformazione (nel quale, nei casi sopra descritti,
l’amministrazione dovrà altresì disporre la sospensione dell’attività intrapresa),
“interrompe il termine” per la verifica, “che ricomincia a decorrere dalla data in cui il
privato comunica l’adozione delle suddette misure”. L’ultimo periodo dell’art. 19,
comma 3, precisa infine che, “in assenza di ulteriori provvedimenti” il decorso del
suddetto (nuovo) termine determina la cessazione degli effetti della sospensione
eventualmente adottata. La disposizione desta qualche perplessità. Se infatti può
essere coerente far decorrere ex novo il termine di verifica, non appare altrettanto
giusto tenere fermi gli effetti della sospensione durante il suo decorso, creando di
fatto un’anomala ipotesi di efficacia differita del titolo.
In coerenza con la natura privata del titolo abilitativo (chiaramente sottoli-
neata anche dalla Corte costituzionale: cfr. pronunce richiamate infra), la riforma
ha poi eliminato ogni riferimento al potere di autotutela caducatoria dei provve-
dimenti amministrativi, sostituendolo con la precisazione, al nuovo comma 4, che,
decorso il termine di cui ai commi 3 e 6-bis, l’amministrazione competente può
esercitare i poteri (conformativi, inibitori, repressivi e soprassessori) di cui allo
stesso comma 3 soltanto nei limiti e alle condizioni previsti dall’art. 21-nonies per
l’annullamento d’ufficio (su cui v. infra il contributo di M. SINISI). In coerenza con
questi ultimi, che non distinguono tra gli interessi tutelati, la riforma ha poi
eliminato la distinzione anche per gli interventi postumi sulla s.c.i.a..
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378 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

La mancanza di rilievi nel termine fissato dalla legge per l’esercizio immediato
del potere di verifica, pur non formalmente equiparata a verifica positiva, esplica
dunque un effetto di stabilizzazione del titolo, preclusivo dei successivi interventi
della p.a. senza le garanzie richieste per l’autoannullamento (così ora testualmente
anche l’art. 2, comma 8-bis, introdotto dal d.l. n. 76 del 2020, su cui subito infra).
Anche con riferimento alla s.c.i.a., istituzionalmente sostitutiva di un atto
autorizzatorio, dunque, oltre all’obbligo di motivazione sull’attualità dell’interesse
pubblico all’adozione della misura e al limite generale di ragionevolezza della
medesima, in considerazione dei diversi interessi incisi e del lasso temporale
intercorso, valgono i rigorosi limiti temporali (e relativi contro-limiti) rispettiva-
mente previsti dai commi 1 e 2-bis dell’art. 21-nonies.
Nel rinviare per una più ampia analisi di tali disposizioni all’apposito contri-
buto di M. SINISI (infra), merita qui segnalare in particolare il dibattito sulla
necessità dell’accertamento penale richiesto dal suddetto comma 2-bis anche per le
“false rappresentazioni dei fatti” (oggetto di apposita appendice al suddetto contri-
buto e di specifico approfondimento nel più volte richiamato contributo sulle
“dichiarazioni sostitutive”, cui pertanto si rinvia) e fermare l’attenzione sulle pecu-
liarità che la nuova disciplina dell’autoannullamento (applicabile, come detto, in
forza dell’art. 19, comma 4, alla verifica postuma dei requisiti per l’utilizzo del
titolo) presenta con riferimento alla s.c.i.a..
Rispondendo (almeno in questa parte) alle sollecitazioni della dottrina (vd. an-
che la prima edizione di questo Volume) e del Consiglio di Stato (in entrambi i sur-
richiamati pareri nn. 839 e 1784 del 2016), il decreto “s.c.i.a.2” ha opportunamente
chiarito che il termine di diciotto (portato nel 2020 a dodici) mesi per la verifica
postuma inizia a decorrere dalla scadenza di quello per la verifica immediata.
Un ulteriore problema interpretativo peculiare alla s.c.i.a. (e al silenzio assenso
provvedimentale, su cui v. infra il contributo di G. MARI) è stato individuato nel
rapporto tra l’art. 21-nonies e l’art. 21, comma 1, l. n. 241, sul quale, senza eviden-
temente percepirne la potenziale contraddittorietà con il nuovo testo dell’art. 21-
nonies (di cui non vi è significativamente traccia nei lavori preparatori), la l. n. 124
del 2015 si è limitata a un mero intervento di drafting, consistente nella sostituzione
formale del termine “denuncia” con quello “segnalazione”. Come anticipato nel già
segnalato contributo sulle “dichiarazioni sostitutive”, la disposizione, nel richiamare
l’obbligo del segnalante di dichiarare (sotto la propria responsabilità) “la sussistenza
dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti”, stabilisce pertanto ancora oggi che “In caso
di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività
e dei suoi effetti a legge (omissis) ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo
483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato”.
Nei richiamati pareri sui decreti delegati s.c.i.a., il Consiglio di Stato, pren-
dendo atto delle perplessità, in realtà eccessive, avanzate da alcuni primi commen-
tatori (M. LIPARI, La SCIA, cit.; diversamente, M.A. SANDULLI, Semplificazione e
certezza delle regole), ha dunque rilevato l’esigenza di chiarire se la previsione debba
considerarsi come un’ulteriore deroga al limite temporale massimo di intervento
postumo previsto dall’art. 21-nonies, aggiuntiva rispetto a quella prevista dal
comma 2-bis dello stesso articolo.
Lo spirito della riforma, l’abrogazione dell’art. 21, comma 2, e il chiaro
disposto dell’art. 21-nonies, comma 2-bis, inducono invero ragionevolmente a
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LA S.C.I.A. 379

circoscrivere la portata dell’art. 21, comma 1, alla verifica ordinaria che l’ammini-
strazione deve compiere nei primi sessanta (o per l’edilizia trenta) giorni. Gli stessi
menzionati pareri hanno del resto giustamente sottolineato che, se avesse inteso
effettivamente aderire alla seconda ipotesi prospettata (per garantire il rispetto del
principio di legalità sostanziale: cfr. C. cost. n. 115 del 2001), il legislatore avrebbe
dovuto specificare “quali siano i poteri ulteriori esercitabili ex art. 21, co. 1, rispetto a
quelli di intervento ex post alle condizioni dell’art. 21-nonies (...)”. Il decreto “s.c.i.a.2”
si limita però, purtroppo, a un generico richiamo alla riferita disposizione (nel-
l’art. 2, comma 4), che, comunque, in doverosa coerenza con la riforma, non può
avere altro significato se non quello di ribadire che la conformazione non è mai
possibile — e la norma risulta speciale e applicabile senza limiti di tempo — nei
(soli) casi di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni riconducibili alla fattispe-
cie penale di cui all’art. 483 c.p. accertata (come richiesto dall’art. 21-nonies,
comma 2-bis) con sentenza di condanna passata in giudicato. Come anticipato nel
contributo sulle “dichiarazioni sostitutive”, la riferita chiave di lettura trova ormai
conferma nel surricordato comma 8-bis dell’art. 2 l. 241, introdotto dall’art. 12 d.l.
n. 76 del 2020 (c.d. “Decreto Semplificazioni”), che, ribadendo la volontà legisla-
tiva a favore della stabilità del titolo tracciata dalla riforma Madia, precisa testual-
mente che “i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli
eventuali effetti, di cui all’articolo 19, comma 3 e 6-bis, adottati dopo la scadenza dei termini
ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando [soltanto: n.d.r.] quanto previsto dall’art.
21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.
Dovrebbe ritenersi così definitivamente superato l’orientamento che, sulla
scorta dell’art. 21, comma 1, continuava a sostenere la mancata formazione del
silenzio assenso e del titolo autocertificato (s.c.i.a.) in assenza dei requisiti e pre-
supposti di legge.
Il legislatore ha invece perso un’importante occasione per risolvere il pro-
blema, sopra anticipato, della pretesa possibilità di distinguere, all’interno dell’ec-
cezione di cui al comma 2-bis dell’art. 21-nonies, tra le “false dichiarazioni sostitutive
delle certificazioni e degli atti di notorietà” e le “false rappresentazioni dei fatti” e di
limitare alle prime la condizione dell’accertamento del reato con sentenza penale
di condanna (così anche, tra le più recenti, Cons. St., Sez. IV, 30 giugno 2023, n.
6387), per di più indebitamente estendendo le seconde (nonostante il chiaro
riferimento normativo al “falso”) agli errori di qualificazione delle fattispecie
attraverso una ricostruzione e valutazione del quadro normativo e tecnico non
condivisa dall’amministrazione (tipica, l’applicabilità o meno della s.c.i.a. per
l’esercizio di una determinata attività, la sussistenza o meno di un vincolo, ecc.). Sul
tema si rinvia alle più ampie considerazioni svolte nel contributo sulle “dichiara-
zioni sostitutive”.
Non dovrebbero, invece, toccare la s.c.i.a., stante il chiaro limite del loro
oggetto (indebito conseguimento di benefici), le “reazioni” amministrative previ-
ste (sotto il titolo generico e atecnico di “sanzioni”) dal Capo VI del d.P.R. n. 445 del
2000 quale conseguenza della non veridicità delle “dichiarazioni sostitutive delle
certificazioni e degli atti di notorietà” rese per il conseguimento di “benefici”, seria-
mente inasprite dall’art. 264 del d.l. n. 34 del 2020 (convertito, senza modificazioni
in parte qua, nella l. n. 77 del 17 luglio) attraverso l’introduzione di un comma 1-bis
all’art. 75, che ha aggiunto alla misura, tradizionale (e non propriamente sanzio-
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380 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

natoria), della decadenza (con effetto ex nunc) dei benefici indebitamente ottenuti
sulla base di autodichiarazioni non veritiere, la previsione che “la dichiarazione
mendace comporta, altresì, la revoca [ex tunc] degli eventuali benefici già erogati” [non si
richiede quindi l’accertamento penale del falso, né si pongono limiti temporali] e
addirittura “il divieto di accesso a contributi, finanziamenti e agevolazioni per un periodo
di due anni decorrenti da quando l’amministrazione ha adottato l’atto di decadenza”. Il
principio di stretta legalità delle sanzioni — categoria cui sicuramente apparten-
gono le nuove misure introdotte dal riportato comma 1-bis dell’art. 75 — ne
impedisce in ogni caso l’applicazione analogica fuori dallo specifico ambito della
disposizione: dichiarazioni “mendaci” rese “ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 445
del 2000” (e dunque dichiarazioni sostitutive di atti e documenti amministrativi di
certificazione e di atti di notorietà) che hanno fruttato il conseguimento (fraudo-
lento) di “benefici”, non certamente sovrapponibili alle più ampie e generali dichia-
razioni di autovalutazione sul possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi per
l’esercizio di un’attività che il legislatore ha inteso “liberalizzare”, sicché, come
chiarito anche dalla Corte costituzionale, il segnalante “è titolare di una posizione
soggettiva originaria che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella legge che non
ha bisogno di alcun consenso della. P.A.” (sentt. nn. 49/2016, 45/2019 e 153 del 2020).
Sul tema si rinvia comunque alle più ampie considerazioni svolte nel richiamato
specifico contributo sulle “dichiarazioni sostitutive” (in particolare, par. 4).

4. I riflessi della riforma del 2015 sulla tutela del terzo: premessa e rinvio. La
questione più complessa che, nonostante le reiterate sollecitazioni, il legislatore ha
mancato di risolvere, ingiustamente affidando alla giurisprudenza un potere che
esula dalla sua funzione di interprete di scelte spettanti agli organi rappresentativi
della volontà popolare, resta, peraltro, quella della tutela del terzo, che, come
avvertito già nelle precedenti edizioni di questo Volume, sono ulteriormente
aggravati dagli stringenti limiti temporali imposti dalla riforma al potere ammini-
strativo di intervenire sull’attività eventualmente avviata in difetto dei presupposti
per il corretto utilizzo della s.c.i.a. dopo il termine per la verifica ordinaria degli
stessi. Di nuovo, si pone infatti l’esigenza di trovare un giusto punto di equilibrio
tra la necessità (evidentemente irrinunciabile) di garantire al terzo (e, attraverso la
sua azione, indirettamente, alla collettività) un’effettiva tutela contro l’abuso dello
strumento e quella del segnalante alla stabilità del titolo conseguito. Come rilevato
nelle precedenti edizioni di quest’opera, il carattere perentorio del termine di cui
all’art. 19, comma 1, e i nuovi limiti imposti dalla riforma all’intervento di con-
trollo “postumo” sulla sussistenza dei presupposti per il relativo utilizzo (da tenere
evidentemente distinto dal potere di verifica della conformità dell’attività svolta a
quella “segnalata”: sul punto, chiaramente, Cons. St, Sez. VI, 8 luglio 2021, n.
5208) mal si conciliano infatti con i tempi tecnici di un giudizio (ancorché accele-
rato come quello ex art. 31 c.p.a. indicato dal comma 6-ter della stessa norma
sostanziale). Anche se, nella logica dei principi generali, l’accoglimento del ricorso
sul mancato esercizio dei poteri inibitori/repressivi nei termini di cui al comma 1,
implicando l’accertamento dell’illegittimo utilizzo della d.i.a./s.c.i.a., ne impone
evidentemente l’esercizio postumo in sede di ottemperanza, svincolandolo perciò
dal rispetto delle condizioni di cui all’art. 21-nonies, si pone invero la questione del
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LA S.C.I.A. 381

termine entro il quale il terzo deve sollecitare l’intervento della p.a. e, conseguen-
temente, denunciarne l’eventuale inerzia. Teoricamente, stante la consumazione
del potere-dovere di “prima” reazione all’illegittimo utilizzo della d.i.a./s.c.i.a.
(indipendente dalla sussistenza di uno specifico interesse pubblico e dalla valuta-
zione dei contrapposti interessi), esso dovrebbe coincidere con i sessanta (o, per la
s.c.i.a. edilizia, trenta) giorni entro (e non oltre) i quali tale reazione può avere
luogo (posto che nessuna sollecitazione può essere più mossa e nessuna inerzia
può essere più imputata a chi non ha più il potere/dovere di provvedere sulla base
di un mero riscontro di illegittimità, ma ha solo il potere, discrezionale, di inter-
venire con i limiti di cui all’art. 21-nonies). La soluzione indicata è sicuramente in
linea con la logica di garanzia della stabilità dei titoli abilitativi che ha guidato la
riforma, garanzia che sarebbe evidentemente frustrata se i c.d. strumenti di para-
liberalizzazione offrissero ai loro fruitori, nei confronti delle azioni dei terzi, tutele
inferiori a quelle offerte ai titolari dei provvedimenti, espliciti o impliciti, di
autorizzazione. Essa priva tuttavia di adeguata tutela il terzo in tutti i casi in cui,
anche strumentalmente, l’attività segnalata non venga di fatto tempestivamente
iniziata e dunque esso non sia posto in grado di averne contezza in tempo utile per
sollecitare la predetta verifica di legittimità e proporre, in caso di inerzia, la
suddetta azione. I nuovi limiti (non solo temporali) al potere di intervento po-
stumo (condizionato alla sussistenza di presupposti, rimessi alla valutazione di-
screzionale dell’amministrazione, diversi dal mero ripristino della legalità) esclu-
dono d’altro canto che il terzo possa trovare sicura soddisfazione e garanzia nella
sollecitazione del relativo esercizio. In sede di primo commento alla l. n. 124 del
2015 (e nella prima edizione di quest’opera) era stato pertanto segnalato che, per
evitare prevedibili (e infruttuosi) contrasti interpretativi, era necessario un solle-
cito intervento legislativo, che, in coerenza con i tempi per promuovere l’azione di
annullamento del titolo provvedimentale (che ha il suo dies a quo nella piena
conoscenza del provvedimento) definisse la natura del ricorso ex art. 19, comma
6-ter quale azione di accertamento dell’illegittimità dell’omessa verifica dell’illegit-
timo utilizzo della d.i.a./s.c.i.a. e di condanna all’adozione degli atti conseguenti, e
ne legasse temporalmente la proposizione all’effettivo avvio dell’attività
denunciata/segnalata. La questione rileva anche ai fini dei presupposti per l’acco-
glimento di un’eventuale domanda risarcitoria dei danni subiti dal terzo per
effetto dell’inerzia, cui potrebbe essere opposto (in forza dell’art. 30, comma 3,
c.p.a. e dello stesso dato testuale dell’art. 19, comma 6-ter) il mancato (volontario)
esperimento dell’azione ex art. 19, comma 6-ter. Né legislatore delegato, né le
plurime riforme che si sono susseguite in questi anni, sono però purtroppo
intervenute sul punto, dando così adito a forti incertezze applicative tradotte in
rilevanti contrasti giurisprudenziali e sfociate in due interventi della Corte costi-
tuzionale, per la cui analisi si rinvia all’apposito focus di G. STRAZZA.
L’evoluzione tecnologica e una effettiva attuazione delle norme sull’accesso,
anche nelle forma del c.d. accesso civico generalizzato (su cui v. infra il contributo
di A. CORRADO) dovrebbero peraltro semplificare la conoscenza delle segnalazioni
e, conseguentemente, una limitazione temporale dell’azione del terzo.
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382 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

5. Conclusioni. A partire dalla riforma Madia, il legislatore sembra aver con-


divisibilmente intrapreso un percorso di “lealtà”, al dichiarato fine di evitare che la
semplificazione e la “para-liberalizzazione” dei titoli abilitativi si traducano in una
riduzione della tutela dell’affidamento, quanto meno nei confronti della p.a.
Questo cambio di paradigma (confermato anche dal richiamato art. 10 del d.l.
n. 76 del 2020) rischia però di essere vanificato da interpretazioni fuorvianti della
giurisprudenza (su cui si rinvia a quanto già affermato supra, al contributo di M.
SINISI e alla relativa appendice giurisprudenziale) e da un quadro normativo non
sempre di agevole lettura, che (come anticipato nell’Introduzione e sottolineato nel
contributo sulle “dichiarazioni sostitutive”) ha giustificato la riduzione delle respon-
sabilità dei funzionari pubblici e non può tradursi in un trasferimento delle stesse
in capo agli amministrati, minando la stabilità dei titoli di cui essi vengono chiamati
ad autovalutare la conformità.
Per evitare interpretazioni strumentali e non conformi all’intentum legis, oc-
corre tenere a mente la ratio di semplificazione/liberalizzazione sottesa all’istituto
della s.c.i.a., legata “a filo doppio” all’esigenza di stabilizzare la posizione del
denunciante/segnalante, come recentemente ribadito dalla Corte costituzionale
(sentt. nn. 49/2016, 45/2019 e 153 del 2020), che ha espressamente sottolineato
che quest’ultimo “è titolare di una posizione soggettiva originaria che rinviene il suo
fondamento diretto ed immediato nella legge che non ha bisogno di alcun consenso della.
P.A.” e che “la fase amministrativa che ad essa accede costituisce una — sia pur importante
— parentesi puntualmente delimitata nei modi e nei tempi. Una dilatazione temporale dei
poteri di verifica, per di più con modalità indeterminate, comporterebbe, invece, quel recupero
dell’istituto all’area amministrativa tradizionale, che il legislatore ha inteso inequivocabil-
mente escludere”.
La Consulta sembra, dunque, aver contribuito alla costruzione di alcuni
importanti punti fermi: la natura privata della s.c.i.a.; la perentorietà dei termini
per il controllo (confermata — come già evidenziato — dal “Decreto Semplifica-
zioni”) che si ripercuote sulla tutela del terzo, privo della possibilità di sollecitare
(prima) e far rivivere nel processo (poi) poteri già estintisi sul piano sostanziale.
L’ormai conclamata natura privata della d.i.a./s.c.i.a. dovrebbe, sotto altro
profilo, escludere che essa possa formare oggetto del potere straordinario di
annullamento governativo previsto dall’art. 138 t.u.e.e.ll. (su cui cfr. il già richia-
mato contributo di M. SINISI. Significativamente, del resto, l’art. 39 del T.U.
edilizia, con riferimento allo speciale potere di annullamento del permesso di
costruire esercitabile entro dieci anni dalle Regioni, ne ha espressamente esteso —
e limitato — l’applicabilità alla sola s.c.i.a. sostitutiva di quest’ultimo: comma 5-bis).
Agli occhi dell’interprete, dunque, la s.c.i.a. dovrebbe mantenere le peculia-
rità di un istituto di para-liberalizzazione, caratterizzato dalla soggezione a un
potere di controllo successivo dell’amministrazione, di cui il legislatore ha tracciato
rigorosamente i confini in coerenza con le esigenze di stabilità e certezza dei
rapporti, da considerare imprescindibili — oggi più che mai — per un effettivo
“rilancio” del nostro Paese.
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LA S.C.I.A. 383

GIURISPRUDENZA
di ANTONIO PERSICO

1. SUI POTERI DI CONTROLLO IN CASO DI S.C.I.A.

TAR Campania, Napoli, Sez. III, 19 maggio 2022, n. 3411

IL TERMINE PER L’ESERCIZIO DEI POTERI DI CONTROLLO DECORRE DAL RICEVIMENTO DELLA S.C.I.A., ANCHE
SE CARENTE DEI PRESUPPOSTI

Il termine per l’esercizio per l’esercizio del potere inibitorio, avuto riguardo alla disciplina
applicabile in materia edilizia, è fissato in trenta giorni dal ricevimento della segnalazione; oltre tale
termine, i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti eventual-
mente prodotti sono inefficaci ex art. 2, comma 8-bis, se non assunti in pendenza delle ulteriori
condizioni previste dall’articolo 21-nonies L. n. 241/1990.
Fatti: L’amministrazione comunale, sulla base della ritenuta insussistenza dei requisiti
di legge, aveva dichiarato l’inefficacia giuridica di una s.c.i.a. edilizia e disposto l’inibitoria
dell’attività oltre il termine di trenta giorni dal ricevimento della segnalazione..
Doglianze: Il ricorrente lamentava la tardività del provvedimento, in quanto adottato
oltre il termine di trenta giorni dal ricevimento della s.c.i.a.
Decisione:
È evidente che il Comune [...] non ha rispettato la tempistica di legge, in quanto la
SCIA è stata presentata in data 23.3.2021, mentre il divieto di prosecuzione dell’attività è
stato adottato in data 15.11.2021, con una comunicazione di avvio del procedimento di
poco precedente (20.10.2021).
Si applica quindi il comma 8-bis dell’art. 2 della legge 241/90, in forza del quale “ le
determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli
atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli
articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successiva-
mente all’ultima riunione di cui all’articolo 14-ter, comma 7, nonché i provvedimenti di divieto
di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’articolo 19, commi 3 e 6-bis,
primo periodo, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando
quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.
Nel caso di specie, come già ribadito in sede cautelare, il provvedimento del Comune
è privo dei presupposti per ritenere esistente l’esercizio di qualsivoglia tipologia di autotu-
tela, secondo quanto previsto dall’art. 21 nonies l. 241/90, non essendo stata fatta alcuna
valutazione sull’interesse pubblico e mancando la valutazione comparativa tra gli interessi
del privato e quello dell’Amministrazione.
Peraltro, alla parte non è stata contestata alcuna falsa rappresentazione dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto
di condotte costituenti reato.
Nessun aspetto dell’art. 21 nonies l. 241/90 è stato quindi contestato, e la dichiarazione
di inefficacia per ragioni di tipo urbanistico — che è la classica inibitoria di ogni SCIA — per
essere ritenuta legittima andava effettuata nei termini di legge.
Per giurisprudenza costante, “il termine per l’esercizio del potere inibitorio, avuto
riguardo alla disciplina applicabile in materia edilizia, è fissato in trenta giorni dal ricevi-
mento della segnalazione (art. 19, comma 6 bis, L. n. 241 del 1990) [sessanta in materia
diversa da quella edilizia]; oltre tale termine i medesimi provvedimenti (di divieto di
prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti eventualmente prodotti) possono
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384 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

essere assunti soltanto in presenza delle ulteriori condizioni previste dall’articolo 21-nonies,
L. n. 241 del 1990 “ (Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 7286/2021).
E ancora “ una volta decorsi i termini per l’esercizio del potere inibitorio-repressivo, la
scia (come già la dia) costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace, che può essere
rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotu-
tela decisoria; pertanto, non solo deve ritenersi illegittima l’adozione, da parte di un’Am-
ministrazione comunale, di un provvedimento repressivo-inibitorio oltre il termine peren-
torio di trenta giorni dalla presentazione e senza le garanzie e i presupposti previsti
dall’ordinamento per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, ma neppure possono,
più in generale, disconoscersi gli effetti abilitativi non formalmente inibiti o rimossi” (Cons.
Stato, sez. V, 29.9.2020, n. 5725) (nello stesso senso, T.A.R. Campania, Salerno, sez. II,
2.12.2021, n. 2611; id., 1.10.2020, n. 1276; T.A.R. Lazio, sez. II, 7.1.2021, n. 214; T.A.R.
Campania, Napoli, sez. VIII, 13.7.2021, n. 4850).
Nota bene: La sentenza dichiara, a norma dell’art. 2, comma 8-bis, l. n. 241/1990,
l’inefficacia del provvedimento inibitorio adottato dal Comune oltre il termine di trenta
giorni dalla presentazione della s.c.i.a. A giudizio del TAR Campania, infatti, non è condi-
visibile la tesi per cui, in difetto dei presupposti di legge (nella specie, si trattava di requisiti
di carattere urbanistico), la fattispecie della s.c.i.a. non si perfeziona, con la conseguente
inefficacia del titolo abilitativo e la possibilità per l’amministrazione di inibire l’attività
oggetto di segnalazione sine die. Di contro, la pronuncia aderisce alla giurisprudenza che
afferma la decorrenza del termine per l’esercizio del potere inibitorio-repressivo ordinario
a partire dal ricevimento della segnalazione, la quale, una volta decorso il suddetto termine,
costituisce titolo abilitativo valido ed efficace, rimuovibile solo in presenza delle condizioni
per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, con atto debitamente motivato sul
punto.

TAR Lazio, Roma, Sez. II Bis, 13 marzo 2023, n. 4419

IL TERMINE PER L’ESERCIZIO DEI POTERI DI CONTROLLO NON DECORRE IN CASO DI S.C.I.A. INCOMPLETA
Per la decorrenza del termine di controllo “ordinario” sulla SCIA/DIA di trenta giorni, ex art. 19,
comma 3 legge n. 241/1990, è necessario che sussistano nella loro interezza i presupposti di efficacia
della SCIA/DIA, ossia che risulti debitamente comprovato, anche per mezzo di autocertificazioni, il
possesso delle certificazioni e dei requisiti richiesti.
Fatti: Decorsi trenta giorni dalla presentazione di una d.i.a. edilizia, ad attività ormai
iniziata, il Comune ordinava la sospensione dei lavori e la produzione di integrazioni
documentali.
Doglianze: La proprietaria agiva in giudizio anche a fini risarcitori, deducendo che gli
elementi integrativi richiesti non erano necessari a norma di legge, né indicati nella modu-
listica predisposta dal Comune stesso, e che comunque risultavano evincibili dalla proget-
tazione allegata alla d.i.a. Evidenziava quindi che la sospensione dei lavori aveva illegittima-
mente inciso sull’efficacia di un valido titolo abilitativo, la cui idoneità a legittimare l’inter-
vento intrapreso sarebbe stata peraltro confermata a seguito dell’istruttoria comunale.
Decisione: [...] l’integrazione documentale, così come sollecitata da[l Comune], era
appropriata e pertinente, non irragionevole e non costituente quindi un ingiustificato o
illegittimo aggravamento procedimentale.
Ne deriva che nessuna delle doglianze dedotte, sul punto del procedimento e degli
effetti della DIA può trovare accoglimento.
Infatti, secondo pacifica giurisprudenza, in presenza di “strumenti di semplificazione
dell’attività amministrativa, quali la d.i.a. od il silenzio assenso, presupposti perché la fattispecie possa
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LA S.C.I.A. 385

essere produttiva di effetti sono, indefettibilmente, la completezza e la veridicità delle dichiarazioni


contenute nell’autocertificazione, dovendo l’interessato rappresentare all’Amministrazione tutti gli
elementi necessari all’istruttoria procedimentale” (cfr. da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI,
07/04/2021, n. 2799; v. anche le sentenze dello stesso Consiglio di Stato nn.2584/2018 e
1416/2014).
Più precisamente, secondo tale orientamento, affinché la SCIA (o la DIA) possa essere
idonea allo scopo, sono necessarie la sussistenza e la completezza della relativa documen-
tazione, dovendo la stessa, anche se intesa quale atto del privato, corrispondere al modello
legale per poter produrre effetti. Anche nell’attuale quadro normativo (DPR 380/01 e L.
241/90) appare evidente il rilievo e punibilità della falsa o comunque erronea rappresen-
tazione della realtà materiale, la quale può avvenire anche col solo silenzio su circostanze
rilevanti o al riferimento solo parziale delle medesime (Cons. di Stato n. 1227/2019). E per
erronea si deve intendere anche la incompletezza della DIA o della SCIA che, ove non
sorretta dalla necessaria documentazione a corredo, si rivela potenzialmente inidonea a
costituire valido ed efficace titolo abilitativo “tacito”.
Ciò comporta che, nei casi in cui la documentazione sussista, ma l’ufficio la ritenga
incompleta o non esaustiva, l’istruttoria è doverosa proprio in funzione di quei presupposti
di leale cooperazione tra Amministrazione e privato che la parte odierna ricorrente afferma
— ingiustamente — essere stati lesi.
Infatti, laddove la documentazione non fosse esaustiva e la DIA/SCIA non fosse in
grado di espletare così gli effetti di legge, l’intervento edilizio sarebbe “senza titolo”, con
ogni conseguenza sul piano dell’assetto degli interessi (l’intervento edilizio eventualmente
avviato o compiuto si qualificherebbe come avvenuto in assenza dei presupposti di legge; le
opere risulterebbero abusive perché compiute in assenza del relativo titolo edilizio; sul
punto, Consiglio di Stato n. 6790/2020, TAR Napoli n. 2754/2021, n. 143/2019).
Per questi motivi, anche l‘incompletezza della pratica edilizia non può generare alcuna
efficacia di essa, e viene equiparata alla falsa rappresentazione dello stato di fatto: una
rappresentazione incompleta o anche solo parziale, corrisponde ad una situazione non
veritiera da parte del soggetto presentatore della SCIA, ed è considerata dalla giurispru-
denza amministrativa circostanza sufficiente per ritenere non applicabile l’esercizio dei
poteri di cui al comma 4 dell’art.19 della l. n. 241/90 il termine decadenziale di 18 mesi (oggi
12) per l’esercizio dei relativi poteri (TAR Napoli n. 2754/2021, TAR Venezia n.1060/2020,
TAR Napoli n. 2993/2015; TAR Lazio, Roma n. 3506/2013; TAR Napoli n. 5367/2012).
Pertanto, è infondato l’argomento di ricorso — dal quale dipendono le censure
dedotte — secondo cui a seguito dell’istruttoria veniva confermata l’efficacia legittimante
della DIA, così che la sospensione dei lavori si sarebbe rivelata illegittima ex post : invece,
laddove una SCIA non ha mai maturato un punto di completezza effettiva (formale e
sostanziale), significa che la sua incompletezza non genera alcuna legittimazione all’opera
edilizia oggetto della pratica.
Questa circostanza è sufficiente per consentire al Comune di applicare i poteri inibitori
e conformativi (con tipica richiesta di integrazioni che avviene nei primi trenta giorni dalla
presentazione), anche oltre i predetti trenta giorni; poteri inibitori e conformativi in ambito
di autotutela nei successivi 18 mesi (ora 12 mesi con L. 108/2021).
Infatti per la decorrenza del termine di controllo “ordinario” sulla SCIA/DIA di trenta
giorni, ex art. 19, comma 3 legge n. 241/1990, è necessario che sussistano nella loro interezza
i presupposti di efficacia della SCIA/DIA, ossia che risulti debitamente comprovato, anche
per mezzo di autocertificazioni, il possesso delle certificazioni e dei requisiti richiesti. (cfr.
TAR Roma 7811/2021, T.A.R. Venezia n. 1060/2020, T.A.R. Milano n. 1303/2020).
Nota bene: Il T.A.R. Lazio, constatata l’incompletezza della denuncia presentata dalla
ricorrente, ha affermato, richiamando precedenti conformi, che la fattispecie della s.c.i.a./
d.i.a., quale strumento di semplificazione, si perfeziona solo in caso di completezza e
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386 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

veridicità delle dichiarazioni concernenti gli elementi necessari all’istruttoria procedimen-


tale. Pertanto, la segnalazione/denuncia carente in punto di allegazione documentale è
inidonea a integrare un titolo valido ed efficace, con possibilità per l’amministrazione di
esercitare i poteri inibitori e conformativi ex art. 19, commi 3 e 6-bis della legge n. 241/1990,
anche oltre il termine di 60 giorni ovvero di 30 giorni in materia edilizia. In definitiva, la
pronuncia sostiene che, affinché possa decorrere il termine di controllo “ordinario” sulla
s.c.i.a., è necessario che risulti debitamente comprovato, anche per mezzo di autocertifica-
zioni, il possesso delle certificazioni e dei requisiti richiesti dalla normativa applicabile.

Cons. St., Sez. II, 7 marzo 2023, n. 2371

L’“AUTOTUTELA” DI CUI ALL’ART. 19, COMMA 4, SU ISTANZA DEL CONTROINTERESSATO, È DOVEROSA


NELL’AN, MA NON NEL QUOMODO

A fronte dell’istanza volta all’attivazione dei poteri di “autotutela” ex art.. 19, comma 4, L. n.
241/1990, doverosa è l’attivazione del procedimento, ma non il relativo esito, che, al contrario,
recupera appieno la discrezionalità contenutistica che connota l’istituto.
Fatti: Il Comune aveva rigettato l’istanza tesa all’attivazione dei poteri inibitori e
repressivi a fronte di un intervento edilizio oggetto di d.i.a., la cui difformità dalla norma-
tiva vigente all’epoca della denuncia era già stata accertata con sentenza del Coniglio di
Stato. Questa pronuncia, invero, confermava l’annullamento, disposto in primo grado, del
diniego di adozione dei provvedimenti ripristinatori dello stato dei luoghi, espresso dal
Comune sulla base di un’erronea interpretazione della normativa urbanistica applicabile.
Tuttavia, mentre sul versante conformativo il TAR aveva affermato l’obbligo del Comune di
esercitare i poteri di vigilanza e di repressione di cui al comma 6-bis dell’art. 19 della legge
n. 241 del 1990, con la conseguente adozione di un provvedimento dal contenuto vincolato,
la decisione del Consiglio di Stato si limitava a richiedere la verifica dei presupposti
dell’annullamento d’ufficio disciplinato dall’articolo 21-nonies della medesima legge, ai fini
dell’adozione di un provvedimento dal contenuto discrezionale. Ciò in ragione del fatto che
la sollecitazione dei poteri di controllo era avvenuta oltre il termine di trenta giorni previsti
dal combinato disposto dei commi 3 e 6-bis dell’art. 19 cit., non essendo quindi la relativa
istanza idonea a fondare l’obbligo dell’amministrazione di provvedere con un dispiega-
mento senza limiti dei poteri repressivi.
Doglianze: La controinteressata invocava in sede di ottemperanza la nullità del nuovo
diniego comunale, per violazione/elusione del giudicato. In sintesi, sosteneva che il Co-
mune era vincolato al ripristino dello stato dei luoghi senza poter attribuire rilevanza alcuna
alla conformità dell’intervento con le norme urbanistiche sopravvenute, alla sussistenza di
un interesse pubblico al mantenimento dell’opera, all’esigenza di tutelare l’affidamento del
dichiarante.
Decisione: 12. Le censure con cui la ricorrente lamenta i vizi di violazione o elusione del
giudicato sono infondate.
[...]
16. Il Collegio ritiene che lo sfasamento ricostruttivo da parte della ricorrente sia da
ravvisare nella sostanziale neutralizzazione del punto essenziale della divergenza ricostrut-
tiva [tra la sentenza di primo grado e la pronuncia di appello], che risiede non nell’analisi
dei poteri di controllo, d’ufficio o su istanza/denuncia di parte, dell’Amministrazione sulla
d.i.a./s.c.i.a., a monte, ma nelle loro conseguenze, a valle, una volta che sia stato accertato,
a maggior ragione all’esito di un procedimento giurisdizionale, un sostanziale abuso edili-
zio.
16.1. - Nel caso di specie, infatti, nucleo comune ad entrambe le sentenze è la stigmatiz-
zazione come erronea della lettura data dal Comune all’art. 9, comma 8-bis della l. r. n.14 del
NOMELAV: 2023_0004609 PAG: 25 SESS: 19 USCITA:

LA S.C.I.A. 387

2009, che ha “assecondato” l’intervento realizzato da[lla dichiarante] in contrasto con le possi-
bilità ampliative e derogatorie ricavabili dalla norma, ovvero calcolando la percentuale del 40 %
fruibile sull’altezza dell’edificio di controparte, in quanto più alto nella zona, anziché sul fabbri-
cato in ristrutturazione.
[...]
17. Per comprendere il comportamento del Comune e l’esatta portata delle due
sentenze, occorre a questo punto richiamare brevemente la disciplina dei controlli conse-
guenti a procedimenti dichiarativi in ambito edilizio.
18. Il termine entro cui i controinteressati possono produrre osservazioni sollecitando
interventi dell’amministrazione — senza il quale si avrebbe un potere temporalmente
illimitato e in bianco, in manifesto contrasto con il principio di legalità-tipicità — è correlato
alle verifiche cui la stessa è chiamata ex art. 19, da esercitarsi, in materia edilizia, entro i
trenta giorni decorrenti dalla data di presentazione della s.c.i.a., ovvero nei successivi 12
mesi (combinato disposto dei commi 3, 4, 6-bis e 6-ter). Segnatamente, l’art. 19, comma 3,
attribuisce alla p.a. nel primo, ristretto lasso temporale un triplice ordine di poteri (inibitori,
repressivi e conformativi, questi ultimi ormai da preferire, giusta l’inciso « Qualora sia
possibile », se del caso sospendendo cautelarmente l’attività). La portata cogente della dispo-
sizione, peraltro, è stata di recente rinforzata sanzionando di “inefficacia” i provvedimenti
di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti adottati dopo la
scadenza del termine (art. 2, comma 8-bis della l. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 12,
comma 1, lett. a), del d.l. n. 76 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 120/2020).
Il successivo comma 4 consente di esercitare tali poteri anche una volta decorso tale
termine, ma solo in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-novies della stessa legge n.
241 del 1990, ovvero secondo le regole generali che governano l’annullamento d’ufficio di
atti illegittimi, che impongono la verifica della sussistenza di un interesse pubblico ulteriore
rispetto al ripristino della legalità, l’effettuazione di un bilanciamento fra gli interessi
coinvolti e, per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati, che non si
superino i dodici mesi dall’emanazione dell’atto, nel caso di specie da computare dallo
spirare del termine ordinario di controllo di trenta giorni (gli originari diciotto mesi sono
stati ridotti agli attuali dodici dal d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni,
dalla l. 29 luglio 2021, n. 108).
18.1. - Il comma 6-bis, riferito alla materia edilizia, in linea di principio non contiene
alcuna diversa declinazione dei poteri di controllo, salvo ridurre i termini per l’effettua-
zione di quelli “ordinari” a trenta giorni, secondo il modello poc’anzi ricostruito.
18.1.2. - Il comma 6-ter, a sua volta, riconosce al terzo la possibilità di compulsare tali
controlli, che tuttavia non si diversificano per tempistica, contenuti e finalità da quelli
attivati ex officio, come da ultimo ben chiarito dalla Corte costituzionale (sentenza n. 45 del
2019, già richiamata).
19. È ormai consolidato che l’autotutela di cui al comma 4 dell’articolo 19 della legge
n. 241/1990 si diversifica per così dire sul piano ontologico dal modello generale declinato
dall’art. 21- novies, cui pure rinvia, innanzi tutto per il fatto che non incide su un precedente
provvedimento amministrativo, connotandosi pertanto per conseguire ad un procedi-
mento di primo e non di secondo grado, tanto da indurre la dottrina a rivederne finanche
la qualificazione definitoria. Inoltre, mentre di regola il potere di autotutela è ampiamente
discrezionale nell’apprezzamento dell’interesse pubblico che può imporne l’esercizio e
pertanto non coercibile, al punto che la p.a. non ha neanche l’obbligo di rispondere a
eventuali istanze con cui il privato ne solleciti l’esercizio, nel caso di cui all’art. 19, comma 4,
della l. n. 241 del 1990, si ritiene che l’Amministrazione abbia l’obbligo di rispondere, sicché
la discrezionalità risulta piuttosto relegata alla verifica in concreto della sussistenza o meno
dei presupposti di cui all’articolo 21-novies. « Depongono nel senso della doverosità (in deroga al
consolidato orientamento secondo cui l’istanza di autotutela non è coercibile), sia l’argomento letterale
‒ segnatamente, la differente formulazione dell’art. 21-nonies rispetto all’art. 19, comma 4, della legge
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388 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

n. 241 del 1990, il quale ultimo, a differenza del primo, dispone che l’amministrazione “adotta
comunque” (e non già semplicemente “può adottare”) i provvedimenti repressivi e conformativi (sempre
che ricorrano le ‘condizioni’ per l’autotutela) ‒, sia la lettura costituzionalmente orientata del disposto
normativo » (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2021, n. 5208).
20. Altra e diversa questione è l’individuazione del limite estremo fino al quale possono
spingersi le deviazioni dalle ordinarie regole che governano il potere di autotutela rispetto
a quelle sopra evidenziate. Pur essendo la questione non rilevante nel caso di specie,
essendosi il Comune espresso sulle ragioni del mancato esercizio dell’autotutela, il Collegio
ritiene opportuno ribadire la correttezza nell’an di tale scelta, stante che accanto all’obbligo
di attivazione, chiaramente desumibile dal dato testuale della norma, si colloca anche un
assai più pregnante obbligo di pronuncia, di talché l’Amministrazione è chiamata a moti-
vare non soltanto la scelta di procedere all’annullamento, nell’accezione chiarita con rife-
rimento ai procedimenti dichiarativi, ma anche quella opposta, di non annullare, seppure
in presenza di presupposti di illegittimità dell’atto, utilizzando in senso speculare i para-
metri individuati dal legislatore (la mancanza di interesse pubblico all’annullamento, ov-
vero la tutela dell’affidamento del soggetto la cui posizione sia stata ampliata dall’atto che si
andrebbe ad eliminare).
20.1. - Il regime delle tutele accordate al terzo controinteressato in via giurisdizionale
(purché, peraltro, si ritiene, egli pure titolare di interesse ad agire in termini di vicinitas per
come declinata dall’Adunanza plenaria — 9 dicembre 2022, n. 21— seppure con riferi-
mento all’impugnativa del permesso di costruire) è contenuto nel comma 6-ter dell’art. 19
della legge n. 241 del 1990. La norma, dopo avere affermato che la segnalazione certificata
di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provve-
dimenti taciti direttamente impugnabili, ed avere codificato la ricordata facoltà dello stesso
di « sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione », completa il quadro ricono-
scendogli « esclusivamente » la possibilità, in caso di inerzia, di esperire l’azione di cui all’art.
31, commi 1, 2 e 3 del c.p.a.: il che sottintende appunto un obbligo di pronuncia, ancorché
negativa, pur senza indirizzarne i contenuti.
20.2. - Si è cercato peraltro di colmare il vuoto di tutela che continua in qualche modo
a connotare la posizione del controinteressato (intrinseca finanche nell’utilizzo di ridetta
categorizzazione) “ritagliando” una sorta di funzione di accertamento, in verità ad essa
estranea, al giudizio demolitorio avverso il diniego di autotutela (emblematica al riguardo
la sentenza non definitiva n. 12 del 22 gennaio 2019 con la quale il T.a.r. per l’Emilia
Romagna, sezione staccata di Parma, ha sollevato ulteriori dubbi di legittimità costituzio-
nale dell’art. 19, comma 6-ter, della l. n. 241 del 1990, dichiarati peraltro inammissibili dalla
Corte costituzionale con ordinanza n. 153 del 20 luglio 2020).
21. Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha avuto modo di esprimersi sulla
questione, peraltro in relazione ad una fattispecie analoga a quella da cui è scaturito
l’odierno giudizio di ottemperanza, che il primo giudice aveva risolto nel senso della
inammissibilità del ricorso proprio sull’assunto che il Comune aveva l’obbligo di attivarsi,
ma non di motivare la propria scelta negativa sull’autotutela. Dopo aver affermato la non
decisività, ai fini della controversia al suo esame, della questione se il Comune fosse
obbligato o meno a rispondere all’istanza del terzo, ha poi inteso comunque motivare in
senso affermativo, sulla base peraltro sia della ricordata obbligatorietà della peculiare
tipologia di autotutela di cui all’art. 19, comma 4, sia dell’immanenza sulla stessa dei poteri
di vigilanza in ambito urbanistico-edilizio. Ciò « a maggior ragione alla luce delle considerazioni
svolte dalla sentenza della Corte costituzionale la quale — pur riconoscendo di non potere intervenire
sui vuoti normativi esistenti nel sistema — ha messo in evidenza la questione di possibili lacune nella
tutela del terzo confinante rispetto agli interventi realizzati sulla base della SCIA » (Cons. Stato, sez.
IV, 11 marzo 2022, n. 1737, che richiama Cons. Stato, sez. IV, 13 febbraio 2017, n. 611,
nonché sez. VI, 3 novembre 2016, n. 4610).
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LA S.C.I.A. 389

22. La tesi della ricorrente interseca dunque i possibili rischi ravvisati dalla dottrina
nella ricostruzione dell’obbligo di attivazione in termini (anche) di obbligo di riscontro,
ravvisandovi una limitazione della discrezionalità laddove sia stata accertata una illegitti-
mità tale da trasformare l’intervento in sostanzialmente illecito, seppure non necessaria-
mente abusivo giusta il preesistente titolo di legittimazione. In tale limitata ipotesi, cioè, il
contenuto dell’autotutela decisoria dovrebbe coincidere necessariamente con quello della
(ben diversa) autotutela c.d. esecutiva operando l’accertata violazione delle regole urbani-
stiche una sorta di innesto nella prima dei poteri -recte, degli obblighi — sottesi alle
competenze di vigilanza di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, sì da imporre di eliminare
manufatti o parti di essi distonici rispetto alla pianificazione del contesto. Così facendo
tuttavia si finisce per confondere l’oggettiva difficoltà di motivare la scelta di non eliminare
gli effetti di un procedimento che si ripercuote sul corretto sviluppo dell’assetto del terri-
torio — e quindi la necessità di una motivazione rinforzata sul punto — con l’obbligo di
eliminarlo sempre e comunque, id est di ingiungere in ogni caso la demolizione dell’opera.
[...]
25. [...] il Consiglio di Stato, nel porre l’accento sull’art. 19, comma 6-ter, per come letto
dalla Corte costituzionale, ha esplicitamente ricordato la sola possibilità, al sussistere delle
relative condizioni, di operare ai sensi dell’art. 21-novies, valutando cioè, al pari di quanto
accade per i provvedimenti per silentium, espressamente menzionati dalla norma, l’oppor-
tunità o meno di conservare l’atto o la sua efficacia, a prescindere dalla tipologia di
violazione che lo affligge.
25.1. - Tale ricostruzione, che il Collegio peraltro condivide, non consente dunque
alcuna forma di automatismo riveniente dalla riconduzione sotto l’egida dell’inesauribile
potere di vigilanza spettante agli enti territoriali degli esiti di qualsivoglia controllo tardivo,
facendo così gravare sul privato le conseguenze dell’inerzia della pubblica amministrazione
nell’effettuazione di verifiche per le quali il legislatore ha imposto tempistiche precise.
Diversamente opinando, il terzo controinteressato si vedrebbe attribuire una tutela addi-
rittura più ampia rispetto a quella accordata al titolare di interesse (in questo caso opposi-
tivo) all’annullamento di un permesso di costruire, la cui impugnativa è comunque assog-
gettata agli ordinari termini di decadenza.
26. Vero è che il legislatore non ha mai abbandonato il riferimento all’autotutela
esecutiva, pur quando ha ipotizzato l’autotutela decisoria, così contribuendo ad accrescere
le incertezze interpretative. Ed è su tali richiami testuali, come detto, che fa leva la ricostru-
zione del T.a.r. per il Veneto, che invoca appunto la portata cogente della formula di
chiusura della previsione di cui all’art. 19, comma 6-bis, della l. n. 241 del 1990, laddove
tiene « ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità
e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.380, e dalle leggi
regionali ».
26.1. - In maniera analoga, la Corte costituzionale, nella più volte ricordata sentenza n.
45 del 13 marzo 2019, dopo aver ammesso l’esistenza di profili di lacuna legislativa che
rendono non piena la tutela del controinteressato, ha tuttavia ricordato come essa vada pur
sempre collocata « in una prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto dell’insieme degli
strumenti apprestati[...] », tra i quali menziona « i poteri di vigilanza e repressivi di settore, spettanti
all’amministrazione, ai sensi all’art. 21, comma 2 bis, della legge n. 241 del 1990, come, ad esempio,
quelli in materia di edilizia, regolati dagli articoli 27 e seguenti del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 38,
recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)”,
espressamente richiamati anche dall’art. 19, comma 6-bis » (§10.1.).
27. Ma tale richiamo non può che essere inteso nel senso di imporre l’intervento
repressivo ogniqualvolta risulti chiaro lo “sconfinamento” rispetto all’ambito definitorio del
titolo utilizzato, sicché l’opera non può che essere considerata sine titulo ( si pensi alle
difficoltà di inquadramento delle opere non destinate a soddisfare esigenze temporanee e
contingenti installate con una semplice comunicazione inizio lavori — c.i.l.- ex art. 6, comma
NOMELAV: 2023_0004609 PAG: 28 SESS: 19 USCITA:

390 PRINCIPI E REGOLE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA

1, lett. e.bis), ovvero all’utilizzo di una comunicazione inizio lavori asseverata — c.i.l.a.
— ex art. 6-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 per interventi che dagli accertamenti risultino
assimilabili a nuove costruzioni); consentendolo solo all’esito della decisione di annullare gli
effetti della s.c.i.a. per tutte le rimanenti violazioni, anche di natura urbanistica.
28. In sintesi, il legislatore, nel continuare a richiamare l’obbligo di vigilanza sull’as-
setto del territorio, ha imposto al Comune di tenere conto anche delle finalità della stessa
nella comparazione degli interessi in gioco, di fatto attribuendo una particolare connota-
zione al ripristino della legalità laddove essa si identifichi con il ripristino delle regole di
ordinato sviluppo del suolo, senza tuttavia imporne sempre e comunque la prevalenza.
28. Il consolidarsi della situazione illegittima -recte, accertata come tale ex post, d’ufficio
o su impulso di parte, in via giudiziale o stragiudiziale — non fa infatti venire meno « le re-
sponsabilità connesse all’adozione [recte, in caso di s.c.i.a., alla mancata effettuazione dei controlli
nel termine ordinario di 30 o 60 giorni] e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo »
(art. 21-novies, comma 1, ultimo periodo). Ed è di tutta evidenza che laddove l’illegittimità
trasmodi nell’abusivismo la motivazione della scelta del mantenimento dell’opera dovrà ne-
cessariamente essere più incisiva, giusta la possibilità, non a caso evocata anche dalla Corte
costituzionale nella ricostruzione del quadro sistematico delle tutele del terzo, che quest’ul-
timo agisca per il risarcimento del danno derivatogli dall’inerzia colpevole dell’amministra-
zione, nei controlli tempestivi, indi nell’annullamento d’ufficio, ove possibile. L’unico modo,
dunque, per cercare di raggiungere quel delicato punto di equilibrio fra esigenze di stabilità
delle situazioni giuridiche e salvaguardia delle regole che sovrintendono ad un ordinato svi-
luppo dell’assetto del territorio va individuato nella scelta motivata e responsabile, piuttosto
che nell’automatismo della sanzione, che finirebbe per vanificare la volontà di liberalizza-
zione di certe tipologie di uso del suolo che il legislatore ha inteso esprimere con insistita
coerenza, in una continua ricerca di uno strumentario giuridico aggiuntivo che ponga argine
alle preoccupate (e preoccupanti) resistenze delle amministrazioni pubbliche.
[...]
32. In tale cornice, è indubbio che con il provvedimento prot. [...] inviato il 5-6 ottobre
2021 il Comune [...] ha ottemperato al suo obbligo di riscontrare l’istanza di autotutela
avanzata dalla parte, seppure ribadendo la scelta negativa precedente, stavolta nella piena
consapevolezza della illegittimità delle d.i.a. presentate da[lla dichiarante]. Sicché così come
l’atto originariamente impugnato afferiva al (negato) esercizio dell’autotutela, non ritenen-
dosi sussistente alcuna violazione di legge, quello adottato in ottemperanza della decisione
di annullare il precedente riedita il medesimo potere epurandolo, almeno nelle intenzioni
del Comune, dai vizi individuati col precedente giudicato. Doverosa era, infatti, tale (ri)at-
tivazione del procedimento, non il relativo esito, Doverosa era, infatti, tale (ri)attivazione
del procedimento, non il relativo esito, che, al contrario, recupera appieno la discrezionalità
contenutistica che connota l’istituto [...].
Nota bene: Il Consiglio di Stato, in sede di ottemperanza, dopo aver ricostruito la
disciplina dei controlli conseguenti alle dichiarazioni/segnalazioni di inizio attività ai sensi
dell’art. 19 l. n. 241/1990, si è soffermato sulle caratteristiche del potere di “secondo”
controllo attivabile dal controinteressato in presenza delle condizioni di cui all’art. 21-
nonies, una volta decorsi i termini di cui ai commi 3 e 6-bis dell’art. 19 cit. (60 giorni, ovvero
30 giorni in materia edilizia).
Sul punto, il Collegio ha evidenziato la diversità ontologica che intercorre tra
l’“autotutela” di cui al comma 4 dell’articolo 19 e quella, vera e propria, prevista dal
richiamato art. 21-nonies, ricordando innanzitutto come, in caso di segnalazione del privato,
l’intervento della p.a. non incida su un precedente provvedimento amministrativo, conse-
guendo bensì a un procedimento di primo grado.
La sentenza ha quindi chiarito che, mentre di regola il potere di autotutela è ampia-
mente discrezionale e non coercibile, al punto che la p.a. non ha neanche l’obbligo di
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LA S.C.I.A. 391

rispondere a eventuali istanze con cui il privato ne solleciti l’esercizio, nel caso di cui all’art.
19, comma 4, della l. n. 241/1990, l’amministrazione ha l’obbligo di rispondere, trattandosi
di attività vincolata nell’an. Al riguardo, la pronuncia ha specificato che il comma 6-ter
dell’art. 19 sottintende un obbligo di pronuncia, ancorché negativa. Pertanto, a fronte
dell’istanza del controinteressato, la p.a. è tenuta a esprimersi motivando non soltanto la
scelta di procedere all’annullamento, ma anche quella opposta, di non annullare, seppure
in presenza di presupposti di illegittimità dell’atto; conclusione, questa, che ad avviso del
Collegio si impone anche nell’ottica di attenuare le conseguenze di possibili lacune legisla-
tive inerenti alla tutela del controinteressato, il quale non può essere gravato delle conse-
guenze dell’inerzia della pubblica amministrazione nell’effettuazione di verifiche per le
quali il Legislatore ha imposto tempistiche precise.
Nondimeno, il Consiglio di Stato ha ritenuto che la peculiare doverosità che connota
l’attivazione del potere di cui all’art. 19, comma 4, lascia impregiudicato il contenuto
discrezionale del provvedimento conclusivo, il quale è in ciò assimilabile agli atti di autotu-
tela in senso proprio. La sentenza ha escluso al riguardo ogni automatismo repressivo in
caso di accertamento (anche giudiziale) dell’illegittimità dell’attività oggetto di
dichiarazione/segnalazione, eccezion fatta per le opere realizzate sine titulo, per le quali il
riferimento di cui al comma 6-bis dell’art. 19 alla perdurante spettanza dei poteri di
vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia e di quelli sanzionatori (autotutela esecutiva) im-
pone l’intervento repressivo senza limiti di tempo. In definitiva, il Collegio ha tratteggiato
i contorni di un potere vincolato nell’an, ma discrezionale nel quomodo.

Ulteriori pronunce rilevanti


Per la ricostruzione dell’istituto si veda Cons. St., Ad. plen., 29 luglio 2011, n. 15. Sui
poteri di controllo esercitabili dalla p.a. in caso di s.c.i.a. si veda C. cost., 9 marzo 2016, n. 49;
Id., 16 luglio 2012, n. 188; Cons. St., Sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4780.
Sulla tutela del terzo in caso di s.c.i.a., oltre alle pronunce indicate nel Focus, si veda
anche Cons. St., Sez. IV, 14 maggio 2019, n. 3124; TAR Veneto, Sez. II, 19 dicembre 2019,
nn. 1379 e 1381.
Sull’incompatibilità dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 con lo “schema” della s.c.i.a. si
veda Cons. St., Sez. VI, 25 gennaio 2023, n. 833; TAR Lazio, Roma, Sez. II ter, 20 marzo
2023, n. 4776; TAR Campania, Sez. III, 9 marzo 2023, n.1532.
Sull’inefficacia della s.c.i.a. incompleta, con la conseguente inidoneità della stessa a far
decorrere i termini per l’esercizio dei poteri inibitori e conformativi, si veda anche TAR
Veneto, Sez. II, 20 gennaio 2023, n. 96 e 13 novembre 2021, n. 1060; TAR Lazio, Roma,
Sez. II quater, 1° luglio 2021, n. 7811. Sull’inefficacia della s.c.i.a. edilizia a causa dell’omessa
rappresentazione della non conformità alla normativa urbanistica si veda Cons. St., Sez. VI,
26 ottobre 2022, n. 9125.
Sull’unicità del controllo amministrativo esercitabile nel caso in cui la medesima s.c.i.a.
venga presentata, in via precauzionale, a plurimi uffici della stessa amministrazione, si veda
Cons. St., Sez. VI, 1° dicembre 2022, n. 10574. Sull’impossibilità per l’amministrazione di
modificare in via unilaterale e senza alcun contraddittorio le caratteristiche e il contenuto
dell’attività economica o produttiva intrapresa in base alla s.c.i.a., si veda TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 20 febbraio 2023, n. 440.
Sulla tardività del diniego espresso dopo oltre nove mesi dall’avvenuta integrazione
documentale della d.i.a./s.c.i.a., si v. Cons. Stato, Sez. VI, 14 marzo 2023, n. 266.
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