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02/2023

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RIVISTA IL MULINO
BOLOGNA, ANNO LXXII

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Editoriale
Siamo a qualche anno dalla fine delle guerre napoleoni-
che. Dopo la sconfitta a Waterloo, nel 1815, Bonaparte era
stato esiliato a Sant’Elena, dove sarebbe rimasto fino alla
morte, nel 1821. L’anno successivo Hegel tiene per la pri-

e
ma volta le sue lezioni sulla filosofia della storia all’Uni-

or
versità di Berlino. Nella versione del corso che verrà pub-

ut
blicata postuma, nel 1837, a cura di Eduard Gans, verso

l’a
la fine c’è una notazione che colpisce per il tono persona-

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le, diverso dallo stile prevalente in un testo che era sta-
to redatto per le aule universitarie: «Dopo quarant’anni

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di guerre e di confusione smisurata un vecchio cuore po-

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trebbe infine rallegrarsi di vederne arrivato il termine e

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sopravvenire una pacificazione». La rivoluzione francese

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è ormai lontana e, con la scomparsa di Napoleone, l’Eu-
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ropa sembra aver ritrovato un equilibrio garantito dal-
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la bilancia dei poteri e dal rispetto del principio dinasti-


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co. Eppure c’è qualcosa che disturba il filosofo. Per Hegel


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la storia non è soltanto una sequenza di fatti, ma è un


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processo inesorabile la cui potenza attiva non è la ma-


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teria ma lo spirito. Le idee contano, e quelle della rivo-


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luzione hanno scosso le fondamenta su cui si era basato


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per secoli l’ordine politico. In Francia, nel 1789, il pensie-


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ro, «il concetto del diritto si fece valere tutto in una volta
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e l’antica impalcatura dell’ingiustizia non poté fare resi-


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stenza contro di esso». A turbare Hegel non è il fantasma


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di Bonaparte, ma la consapevolezza che le idee della ri-


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voluzione borghese sono state esportate ovunque, spin-


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te dalla forza delle baionette e impresse nelle menti dal-


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le parole del codice civile.


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Lo spirito è vita, è movimento, e neanche l’inge-


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gno di un Metternich, o i ceppi dei suoi gendarmi, posso-


no arrestarne lo sviluppo:

Serve
più Stato?
«Non soddisfatto che siano in vigore diritti razio-
nali, libertà della persona e della proprietà, che vi
sia un’organizzazione dello Stato e al suo interno
sfere della vita civile, tenute ad amministrare da
sé certi affari, non soddisfatto che gli uomini in-
telligenti abbiano influenza sul popolo, e che in
esso regni la fiducia, il liberalismo oppone a tutto
ciò il principio degli atomi, delle singole volontà

e
individuali: tutto deve avvenire attraverso il loro

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esplicito potere e la loro approvazione esplicita.

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Con questo formalismo della libertà, con quest’a-

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strazione, le volontà individuali non fanno sorge-

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re nulla di stabile nell’organizzazione. Alle dispo-
sizioni particolari del governo si oppone subito la

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libertà, poiché quelle disposizioni sono volontà

op
particolare, dunque arbitrio. La volontà dei mol-

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ti abbatte il ministero e quella che era stata fin qui

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l’opposizione ne prende il posto; ma quest’ultima,
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diventata governo, ha di nuovo i molti contro di
itoriale
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sé. Così proseguono il movimento e l’agitazione.


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Questa è la collisione, il nodo, il problema, al qua-


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le è ferma la storia e che la storia avrà da risolve-


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re in tempi a venire».
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Hegel non crede che il filosofo possa prevedere il futuro,


et

o cambiare la realtà, ma può comprenderla e, nel ricon-


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ciliarsi con il proprio tempo, trovare un filo di speranza.


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Per la Germania questa speranza è affidata allo


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Stato: «In presenza di leggi stabili e di un’organizzazio-


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ne statale determinata, si deve ritenere che poco, quanto


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alla sostanza, sia rimesso alla decisione esclusiva del mo-


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narca. Senza dubbio è da considerarsi una grande fortu-


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na, se a un popolo è dato in sorte un nobile monarca; tut-


op

tavia in un grande Stato ciò ha poca importanza, poiché


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un grande Stato ha la sua forza nella sua ragione». Per


gli allievi progressisti di Hegel, come Gans, in questa vi-
sione del ruolo dello Stato come momento di mediazio-
ne che tenga sotto controllo gli «spiriti animali» che per-
corrono la società civile c’è la promessa di un futuro di
prosperità.
Hegel non vivrà tanto a lungo da dover fare i con-

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ti con la delusione che avrebbe provato per gli eventi del
XIX secolo. Poco dopo la sua scomparsa, nel 1831, arriva
a Berlino un giovane brillante e turbolento, nato a Trevi-
ri, in quella Renania dove le idee della rivoluzione ave-
vano messo solide radici. Nella capitale Karl Marx segue
le lezioni di Gans, ma non si lascia conquistare dalla vi-
sione hegeliana dello Stato come mediazione tra ordine
e libertà. D’altro canto, è difficile dargli torto. Nella Pub-

e
blica amministrazione i seguaci di Hegel vengono mano

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a mano messi ai margini da funzionari che sono più in li-

ut
nea con l’impronta reazionaria del re di Prussia. Come si

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può dar credito al ruolo provvidenziale dello Stato quan-

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do questo si schiera dalla parte dei proprietari dei boschi
contro dei poveracci che raccolgono la legna caduta per

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riscaldare le proprie misere abitazioni?

op
Messa in discussione da Marx, da Stirner, da Ba-

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kunin e sulle barricate del «secolo delle rivoluzioni», la

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visione provvidenziale dello Stato di Hegel si rifugia nelle
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aule universitarie, dove alimenta una straordinaria fiori-

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tura di studi. La scuola tedesca del diritto pubblico si im-

itoriale
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pone, fino a diventare egemone, in buona parte del con-


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tinente europeo, ma nelle riflessioni dei giuristi il legame


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tra la filosofia del diritto e la filosofia della storia si atte-


ed

nua. Diventando dottrina, il pensiero dello Stato in un


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certo senso si laicizza, la ragione cede il posto, di volta in


et

volta, alla nazione, al dominio, alla norma. Lo Stato vie-


ci

ne smontato, ogni pezzo esaminato dall’interno e dall’e-


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sterno, nuove discipline ne reclamano una parte: dopo il


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diritto, l’economia e la sociologia. Lo sguardo disincanta-


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to di Weber e di Kelsen vede dietro la norma il «volto de-


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moniaco del potere». Due guerre mondiali e la diffusione


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del totalitarismo nella prima metà del XX secolo danno


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concretezza a questa espressione.


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All’ombra del totalitarismo novecentesco pren-


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de corpo una nuova visione, figlia dell’individualismo


liberale che inquietava Hegel, che rigetta la concezione
«teleocratica» dello Stato, contrapponendola a un nuo-
vo ideale di associazione. In una «nomocrazia» – affer-
ma Oakeshott – la politica stabilisce un quadro di regole
generali che favoriscano il perseguimento di scopi indi-
viduali, senza interferire con i diversi fini che i privati

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scelgono di fare propri. Nel Secondo dopoguerra auto-
ri come Hayek, Buchanan, Nozick e Rothbard articolano
quella che Raymond Plant ha chiamato «teoria neo-libe-
rale» dello Stato, che si oppone alla visione provviden-
ziale della politica che era stata delineata da Hegel, e che
aveva trovato, secondo questi autori, i propri epigoni
sia nei fascismi sia nei socialismi del Novecento. Anche
quando viene perseguita da un regime democratico, so-

e
stengono i neo-liberali, una visione teleocratica non può

or
che avere l’effetto di comprimere la libertà negativa. Col

ut
passare del tempo la teoria neo-liberale diventa egemo-

l’a
ne non solo tra i conservatori, ma anche tra i progressi-

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sti. Intorno alla metà degli Ottanta, persino nella Francia
di Mitterrand, questo nuovo modo di pensare si impo-

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ne, attraverso la felice formulazione ideata da Laurent

op
Cohen-Tanugi de «Le droit sans l’État». Quando cade il

C
Muro di Berlino la storia appare a molti dare il proprio

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assenso al modello nomocratico del ruolo dello Stato, che
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diviene la nuova ortodossia a destra come a sinistra.
itoriale
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Gli eventi del nuovo secolo sembrano aver messo


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in discussione la concezione neo-liberale. Già nelle pri-


e
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me fasi della crisi finanziaria John Plender, sul «Finan-


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cial Times», si chiedeva se non si cominciassero a vedere


ed

i primi sintomi di un «ritorno dello Stato». Da allora di-


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versi studiosi, da Giuliano Amato a Mariana Mazzucato,


et

Graeme Garrard e Paolo Gerbaudo, hanno ripreso questo


ci

tema, sviluppandolo in diverse direzioni. C’è chi saluta


So

questo cambiamento come una svolta epocale, e chi in-


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vece mette in risalto le ambiguità, e i limiti, della riabili-


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tazione di uno Stato teleocratico. A questo tema – il nodo


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di Hegel – è dedicata la sezione monografica di questo fa-


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scicolo, a cura di Gerbaudo, che raccoglie contributi di


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autori di diversa formazione e orientamento.


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«La cosa importante per il governo non è
fare ciò che gli individui fanno già, e farlo
un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò
che presentemente non si fa del tutto».

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LA CITAZIONE
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John Maynard Keynes


La fine del laissez faire, 1926

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RIVISTA IL MULINO

3–6 10 – 27
E ITORIALE Mario Ricciardi
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UTOPIE RAGIONEVOLI

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SERVE PIÙ STATO?

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28 – 37 38 – 47
Paolo Gerbaudo Floriana Cerniglia

ia
PIÙ STATO, QUALE STATO? FRA STATO E MERCATO

op
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48 – 56 57 – 64

o.
Alberto Gherardini Laura Pennacchi
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e Francesco Ramella UN NUOVO INTERVENTISMO
SOMMARIO

IL NUOVO STATO SVILUPPISTA ELLO STATO


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65 – 74 75 – 83
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Simone Gasperin Lorenzo Casini


ed

QUAN O LO STATO LO STATO TAUMATURGO


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FA IMPRESA NELL’ERA EI BIG ATA
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84 – 92 93 – 101
So

Alessandro Aresu Paolo Borioni


by

LO STATO NELLA NEOSTATALISMI


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COMPETIZIONE TECNOLOGICA SCAN INAVI


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102 – 111 112 – 121


yr

Francesco Saraceno Antonella Stirati


op

L’EUROPA E UN RUOLO LO STATO


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PER LA MANO PUBBLICA NEO-KEYNESIANO

122 – 133
Intervista
MARIANA MAZZUCATO
a cura di
Alessandro Bonetti

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BOLOGNA, ANNO LXXII
NUMERO 522 – 02/2023

EXTRA

135 – 143 144 – 151


Macinalibro Profilo

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Andrea Capussela AL O CAPITINI

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ASCESA E CA UTA di Piergiorgio Giacchè

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I UE OR INI POLITICI

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152 – 160 161 – 168

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Globalizzazione Pnrr

op
Fabrizio Traù Valeria Termini

C
LA GLOBALIZZAZIONE UN’AGEN A ENERGETICA

o.
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E LA STORIA in PER L’ITALIA
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SOMMARIO
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169 – 178 179 – 186


il

Che succede a destra / 1 Che succede a destra / 2


e

Manuela Caiani Sofia Marini


ic
itr

e Federico Stefanutto Rosa e Gianluca Piccolino


ed

L’ASCESA ELLE ONNE FRATELLI ’ITALIA


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NELLA ESTRA RA ICALE NEI CONSIGLI REGIONALI
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187 – 195 196 – 211


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Israele L’anno scorso a Marienbad


by

Anna Momigliano Roberta e Monticelli


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ISRAELE E LA EMOCRAZIA L’ULISSE I BIL’IN


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212 – 227
yr

Idee
op

Paolo Branca
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RELIGIONI E RIVOLUZIONE

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MARIO
UTOPIE

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RICCIAR I
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RAGIONEVOLI

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Nel 1790 u ufficiale dell’esercito ardo di famiglia aristocratica viene

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condannato a trascorrere 42 giorni agli arresti domiciliari in seguito a un

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duello con un rivale in amore. Chiuso nella propria stanza all’interno della

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cittadella militare di Torino, Xavier de Maistre (fratello del più noto Joseph)

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decide di raccogliere le riflessioni e le fantasticherie cui si era abbandonato
nel corso di questo lungo periodo di reclusione ricorrendo a un curioso espe-

ia
diente letterario. Un prigioniero non può andarsene in giro, ma può adattare

op
lo spazio che ha a disposizione grazie all’immaginazione. Da questa intuizio-

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ne nacque un testo singolare: Voyage autour de ma chambre, nel quale il viag-

o.
gio ha luogo interamente all’interno della sua stanza. La reclusione forza-
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ta diviene l’occasione per liberare la mente, sottraendola alle pressioni cui
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è sottoposta dalle attività quotidiane, dalle aspirazioni, dalle obbligazioni e


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dalle aspettative che delimitano il perimetro di ciò che possiamo fare. Nella
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sua stanza, de Maistre scopre di essere libero di seguire un percorso col qua-
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le nulla e nessuno può interferire.


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PASSEGGIARE E FANTASTICARE
et

La prima edizione del Voyage di de Maistre porta come data di pubblicazio-


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ne il 1794, e come luogo di stampa Torino (ma in realtà vede la luce a Losan-
So

na nel 1795). L’espediente narrativo ideato dall’autore applica alla situazione


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peculiare del recluso motivi presenti già nella cultura antica: il viaggio come
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esperienza che consente di mettere in prospettiva gli usi e i costumi del Pae-
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se di origine, e come percorso che conduce alla conoscenza. Nel primo caso,
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l’immagine del viaggio serve per evocare il cambiamento di punto di vista


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nel guardare un oggetto come fattore che può condurre una persona a met-
op

tere in questione le proprie assunzioni. Lo scetticismo antico aveva esplorato


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questo fenomeno attraverso una pluralità di esempi, dagli inganni dei sensi
alla diversità dei costumi. Attraverso la sistemazione che questi esempi ri-
cevono nella dottrina dei modi dello scetticismo di Sesto Empirico tale mo-
tivo viene tramandato ai moderni [01]. Da Montaigne a Voltaire, passando per
Fénelon, Swift, Montesquieu e Diderot, l’effetto di spiazzamento – la sospen-
sione del giudizio – provocato dal cambiamento di prospettiva nel guardare
qualcosa diventa un potente fattore di disturbo della tradizione. Viaggiare è,

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in questo senso, un’esperienza che allarga le vedute, esponendo al dubbio ciò
che sembrava fuori discussione prima di mettersi in movimento. Nel secondo
caso, invece, quella del viaggio è un’immagine che evoca un percorso intellet-
tuale. La filosofia stessa, nella «seconda navigazione» di Platone, è una sor-
ta di viaggio interiore che conduce alla conoscenza. Stavolta, l’enfasi cade sul
fatto che allontanarsi dal proprio punto di partenza per raggiungere la meta
comporta uno sforzo, una ricerca, e la mediazione di una guida. Un interlo-
cutore, come Socrate, o una capacità naturale che richiede un qualche tipo

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di esercizio: il senso morale o la ragione. Per raggiungere la destinazione bi-

or
sogna avere un’idea dell’obiettivo e della direzione verso la quale procedere.

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Una scoperta casuale non è, in questo senso, soddisfacente, perché lo scopo

l’a
del viaggio viene raggiunto solo se il percorso è quello corretto. Non si tira a

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indovinare, ogni passo deve avere un suo «perché» che lo giustifica.

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Chi ha la forza di mettersi in cammino e di seguire

C
fino in fondo il percorso va incontro a un cambiamento

o.
del proprio atteggiamento nei confronti della realtà
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icciar
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Chi ha la forza di mettersi in cammino e di seguire fino in fondo il percorso


il

va incontro a un cambiamento del proprio atteggiamento nei confronti del-


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ario
la realtà. Che precedenti del genere siano presenti a de Maistre quando con-
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cepisce il suo progetto letterario è confermato da un’allusione al conflitto tra


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passioni e ragione in Platone. La filosofia libera anche chi si trova in uno stato
di costrizione individuale, e lo aiuta a superare, non solo i limiti della propria
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condizione materiale, ma anche quelli di natura psicologica. Viene in mente,


ci

a questo proposito, un altro precedente probabilmente ben noto a chi aveva


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un’educazione umanistica, quello di Boezio, che nel carcere pavese si risolle-


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va dallo stato di disperazione in cui era precipitato grazie al dialogo con una
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figura che impersona la filosofia (anche in questo caso c’è un’allusione espli-
cita a Platone).
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Nella sua camera de Maistre è un escluso, che trova consolazione nel


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pensare. A differenza di Boezio, tuttavia, la forma espressiva che sceglie non


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è quella del dialogo con un interlocutore che assume il ruolo di un maestro,


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di una guida verso la conoscenza, ma quella del viaggio in uno spazio ristret-
to, nel corso del quale egli si scambia qualche parola col suo servitore, che
ogni tanto si fa vivo per attendere ai suoi bisogni, ma soprattutto riflette sul-
le proprie esperienze, sui propri ricordi e sulle letture che lo hanno colpito,
o da cui ha tratto qualche insegnamento. Ragiona ad alta voce, rivolgendosi
alla cagnetta che gli tiene compagnia, o a interlocutori immaginari attraver-
so i quali mette a fuoco il proprio conflitto interiore tra razionalità e passioni.

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LA VITA RIESAMINATA
La relativa solitudine non costringe de Maistre all’inazione. Al contrario, pas-
sando dal letto alla poltrona, prendendo un libro da leggere o osservando un
quadro, egli mette in scena un dialogo interiore di straordinaria vivacità. Al
punto che, quando sta per essere rimesso in libertà, quasi si rammarica che
il ritorno alla normalità comporterà la perdita di un’altra – preziosa – liber-
tà, quella interiore. Pur essendo di gradevole lettura, il de Maistre del Voya-
ge non regge il confronto con il Rousseau de Les rêveries du promeneur solitaire
(pubblicate nel 1782, a quattro anni dalla morte dell’autore).

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Per Rousseau il pensiero è una vocazione, e la libertà

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interiore il risultato di una sorta di ascesi intellettuale

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Anche per il filosofo ginevrino è l’esclusione forzata dalla società a dare im-

ia
op
pulso a un’opera letteraria in cui le passeggiate solitarie vengono presentate

C
come l’occasione per riflettere sulla propria vita. Pensare, per Rousseau, non

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è un mero conforto nelle avversità, come per de Maistre. Per lui il pensiero
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è una vocazione, e la libertà interiore il risultato di una sorta di ascesi intel-

topie
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lettuale, il cui scopo è raggiungere uno stato di serenità che favorisca la chia-
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rezza del giudizio:

ragionevoli
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«Eccomi dunque solo sulla terra, senza più fratelli né prossimi, né


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amici, né altra società che me stesso. Il più socievole e amante de-


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gli umani, ne è stato proscritto per unanime accordo. Hanno cercato,


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nella raffinatezza del loro odio, quale tormento risultasse più crude-
et

le alla mia anima sensibile, e hanno spezzato con violenza ogni lega-
ci
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me che ci univa. Avrei amato gli uomini anche contro la loro volontà.
Solo cessando di esserlo hanno potuto sottrarsi al mio affetto. Eccoli,
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dunque, sconosciuti ed estranei, nulli ormai per me, perché così essi
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hanno voluto. Ma io, separato da loro e da tutto, che cosa sono io? Ecco
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ciò che mi resta da cercare. Purtroppo però, questa ricerca dovrà esse-
ig

re preceduta da un rapido sguardo sulla mia situazione. È un’idea da


yr

cui debbo per forza passare, perché da loro possa pervenire a me stes-
op

so» [02].
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Un solitario che riflette, scrive Rousseau, si occupa necessariamente molto di


se stesso [03]. L’allusione alla massima greca è evidente, e la serietà dello sco-
po tiene l’autore ben lontano dal tono frivolo cui spesso indulge de Maistre
nel ricostruire i propri dialoghi interiori. L’introspezione, tuttavia, non è che
il primo momento di un percorso che, passo dopo passo, conduce Rousseau
a riflettere anche sul suo posto nel mondo, e sui rapporti tra gli esseri uma-

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ni. Nella quarta passeggiata, infatti, l’attenzione si sposta sulla menzogna, sul
valore della verità, e sulla giustizia [04].
Sarebbe quindi un errore affermare, come ha fatto James Miller, che
le Rêveries segnerebbero una svolta nell’atteggiamento di Rousseau, in quan-
to alla prospettiva dell’azione – esemplificata, in modo diverso, in molti dei
suoi scritti precedenti – si sostituirebbe quella dell’inazione, del ritiro «in se-
reno isolamento e tranquilla passività» [05]. Certo, le riflessioni del passeggia-
tore rousseauiano, il suo «fantasticare», sono situate in una dimensione sog-

e
gettiva che, a prima vista, appare lontana dalle preoccupazioni «sociali» di

or
opere come i due discorsi scritti negli anni Cinquanta, o il Contrat social del

ut
1764. D’altro canto, Rousseau non era restio all’autoesame – più o meno sin-

l’a
cero, come egli stesso riconosce nelle Rêveries – e all’indagine della soggettivi-

r
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tà, come mostrano le sue riflessioni sull’educazione (un tema che sta al confi-
ne tra privato e pubblico, in più di un senso). Se le Rêveries hanno per noi un

ia
tono diverso da questi scritti precedenti è perché sappiamo che esse sono un

op
lavoro degli ultimi anni di vita del filosofo, rimasto peraltro incompiuto. La

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passeggiata solitaria, tuttavia, non è una fuga dalla società, nonostante quel

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che Rousseau stesso afferma a più riprese, ma una presa di distanza necessa-
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ria per recuperare quella libertà di giudizio che l’uomo perde diventando so-
icciar
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cievole.
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ario
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Rousseau affronta questioni che qualunque essere umano


itr
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potrebbe porsi trovandosi nelle condizioni che stimolano


un certo tipo di riflessioni
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Anche nelle Rêveries c’è sullo sfondo l’idea di perfettibilità degli esseri uma-
So

ni che aveva un ruolo centrale nel secondo discorso, quello sulla disegua-
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glianza. Tale nozione, come ha osservato Robert Wokler, introduce l’idea che
©

può esserci un cambiamento cumulativo che può andare in una direzione o


nell’altra, perché è compatibile sia con la storia della degradazione degli es-
ht
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seri umani sia con quella del loro progredire [06]. La vita esaminata nelle Rêv-
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eries è quella di Jean-Jacques, ma le questioni che egli affronta sono le stes-


op

se che qualunque essere umano potrebbe porsi se si trovasse nelle condizioni


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che stimolano questo tipo di riflessioni. Quando si chiede se la menzogna sia


lecita, e sotto quali condizioni, a essere in gioco non sono solo verità parti-
colari, che riguardano la vita di Jean-Jacques, ma anche la verità generale e
astratta che riguarda ciascuno, in quanto essere umano [07].
Se non c’è una svolta, come afferma Miller, rimane da spiegare perché
Rousseau avverta il bisogno di tornare ancora una volta a esplorare la propria
dimensione soggettiva. Nel testo egli fa riferimento alla «vecchiaia», e l’ipo-

14
tesi che voglia anche in qualche modo fare un bilancio della propria vita, per-
ché avverte l’avvicinarsi della fine, non è priva di fondamento. Tuttavia, essa
non è sufficiente per spiegare perché Rousseau ritorni sul tema della giusti-
zia – vista attraverso la questione della liceità della menzogna – di cui si era
ampiamente occupato in passato. Cosa c’è ancora da aggiungere? Perché tor-
nare a esaminare questi temi partendo dall’introspezione?
Nel secondo discorso i problemi che derivano dalla convivenza tra in-
dividui portatori di interessi confliggenti, ma costretti a coordinarsi e a coo-

e
perare per affrontare le sfide poste da un ambiente avverso, venivano affron-

or
tati con un metodo genealogico [08]. La somiglianza di questo approccio con la

ut
storia o l’autobiografia è solo superficiale. La situazione originale del genere

l’a
umano descritta da Rousseau non ha una collocazione temporale, e non pre-

r
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tende di ricostruire fatti realmente accaduti. Essa è una congettura a partire
dalle condizioni dell’umanità del XVIII secolo. Per Rousseau il suo è un tem-

ia
po in cui gli esseri umani vivono in società nelle quali la diseguaglianza delle

op
condizioni personali è sancita da istituzioni sociali e politiche che sono l’esito

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di un lungo processo di evoluzione. Nel corso di tale processo le capacità na-

o.
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turali della specie umana hanno reagito alle pressioni ambientali, che ne mi-

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topie
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nacciavano la sopravvivenza, attraverso schemi di coordinamento e di coo-
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perazione che si sono col tempo stabilizzati come convenzioni, ovvero come

ragionevoli
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insiemi di regole. L’ipotesi di uno stato primitivo che costituisce la «posizio-


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ne originaria» della genealogia – puro, privo di incrostazioni sociali – è subor-


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dinata allo scopo di mostrare come sia stato possibile arrivare:


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«al termine estremo della disuguaglianza, e al punto estremo che chiu-


et

de il circolo e tocca il punto in cui siamo partiti: è qui che tutti gli in-
ci

dividui ridiventano uguali perché non sono nulla, e, siccome non han-
So

no altra legge che la volontà del padrone e questi non ha altra regola
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che le sue passioni, la nozione del bene e i principi della giustizia sva-
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niscono di nuovo. Qui tutto si riconduce alla sola legge del più forte, e
ht

di conseguenza a un nuovo stato di natura, che differisce da quello da


ig

cui abbiamo prese le mosse perché quello era lo stato di natura nel-
yr

la sua purezza mentre quest’ultimo è il frutto di un eccesso di corru-


op

zione» [09].
C

L’ambiguità della perfettibilità richiamata da Wokler è in evidenza in que-


sto brano. Mano a mano che prosegue il processo di incivilimento, gli uomi-
ni perdono la propria indipendenza, ma la libertà come qualità dell’uomo
permane. L’uomo nasce libero, ma ovunque è in catene. Come è possibile ri-
conciliarsi con questa conclusione che appare ripugnante alla percezione che
ciascuno di noi ha del proprio valore come persona? La strada indicata da

15
Rousseau è quella di recuperare l’idea del contratto sociale, ma interpretan-
dola in modo diverso da come avevano fatto i suoi predecessori. La speranza
è che, attraverso il contratto, sia possibile conciliare la prospettiva soggetti-
va e quella oggettiva. Trovare un punto di equilibrio tra le pretese persona-
li (scoperte attraverso l’introspezione) e quelle impersonali, che si rivelano
quando gli esseri umani diventano cittadini.

La strada indicata da Rousseau è quella di recuperare l’idea

e
or
del contratto sociale, ma interpretandola in modo diverso

ut
l’a
La mia ipotesi è che Rousseau avvertisse che la via del contratto sociale non

r
è percorribile se prima non si è risolto il problema di come realizzare l’equi-

pe
librio senza che il punto di vista impersonale incorpori, fino ad annullar-

ia
lo, quello personale. È la questione irrisolta della parte costruttiva delle sue

op
riflessioni politiche, messa in risalto, nel corso del Novecento, dai liberali,

C
come Isaiah Berlin, che hanno visto in Rousseau un nemico della libertà [10].

o.
Posto in una condizione di isolamento, escluso dai rapporti con il mon-
in
i
ul
d

do, Rousseau torna dunque a esaminare la propria vita per farne un bilancio,
icciar
M

per capire chi è, ma allo stesso tempo non può farne a meno di tornare a con-
il

siderare la «virtù sovrana» della giustizia, perché essa è ciò che dovrebbe te-
R

nere insieme la prospettiva personale e quella impersonale. Non posso sape-


ario
ic
itr

re chi sono se non sono consapevole dei limiti della mia sfera di libertà, e di
M

ed

quali sono i doveri e le obbligazioni che ho nei confronti di altri esseri umani
che considero, come me, persone.
à
et
ci

GIUSTIZIA, CONTRATTO E EQUITÀ


So

D
Alla fine della sua vita, Rousseau è deluso dagli esseri umani, almeno da quel-
by

li con cui ha avuto a che fare, ma non ha perso dunque il proprio interesse per
l’umanità. Proprio questa curiosità intellettuale, in cui c’è forse anche un re-
©

siduo dell’amore cui allude all’inizio delle Rêveries, alimenta il desiderio di ri-
ht
ig

esaminare la propria vita per tentare di comprendere come stanno le cose, e


yr

questo lo spinge anche a occuparsi nuovamente di verità e menzogna. Rous-


op

seau si chiede quando abbiamo il dovere di dire la verità, perché ritiene che
C

ci sono circostanze in cui è lecito venir meno a questo precetto. Ci sarebbe-


ro quindi anche inganni innocenti. Assumendo questa postura, egli mette in
discussione la «morale austera dei libri», quella che «non costa nulla all’au-
tore» ma «è impossibile da mettere in pratica». Per trovare la risposta a tali
quesiti, Rousseau decide di affidarsi alla propria coscienza, e non alla luce
della ragione, perché è convinto che l’istinto morale non l’abbia mai inganna-
to. La soluzione che propone è che sia l’intenzione e non le conseguenze – che

16
variano all’infinito, come le circostanze in cui si formula il giudizio – a confe-
rire un grado di malizia o di bontà all’azione [11].

Anche per Kant, che è un ammiratore di Rousseau,


è l’intenzione, non sono le conseguenze, a rendere
buona l’azione
Tre anni dopo lo stesso esempio, la legittimità della menzogna, viene ripre-

e
so da Kant in Die Grundlegung zur Metaphysik der Sitten. Anche per il filosofo

or
tedesco, che è un ammiratore di Rousseau, è l’intenzione, non sono le conse-

ut
guenze, a rendere buona l’azione. Tuttavia, per raggiungere questa conclusio-

l’a
ne non è sufficiente affidarsi all’istinto morale. L’intuizione non è una guida

r
pe
affidabile per individuare quel tipo di ragioni che distinguono l’agire morale
dalla mera prudenza. Bisogna affidarsi invece alla ragione, a un metodo che

ia
op
consenta di riconoscere le massime che richiedono un’obbedienza puntua-
le, basata sulla pura idea del dovere. Anche Kant amava molto passeggiare, e

C
possiamo immaginare che pure per lui queste camminate fossero l’occasione

o.
in

U
per trovare il raccoglimento necessario per andare a fondo nelle cose, senza

topie
ul
farsi distogliere dalle distrazioni del mondo. Quando deve esporre le proprie
M

conclusioni sui fondamenti della morale, però, egli non sceglie la forma lette-

ragionevoli
il

raria adottata – con diversi risultati – da Rousseau e da de Maistre, ma si af-


e
ic

fida alla sobria prosa della dissertazione accademica. Una questione di tem-
itr

peramento, senza dubbio, ma anche il riflesso di un cambiamento sociale che


ed

annuncia una nuova epoca del pensiero. Kant non è più soltanto un intellet-
à

tuale, come Rousseau o Voltaire, ma un professore. Non scrive per la «società


et

delle lettere», ma per un pubblico di pari che si attendono standard elevati di


ci

rigore nell’argomentazione.
So

Dietro le apparenze dello stile c’è tuttavia una continuità. L’imperati-


by

vo categorico è reso possibile dal cambio di prospettiva che i suoi predeces-


©

sori affidavano all’immagine del viaggio, del percorso mondano che conferi-
ht

sce concretezza a una sequenza di argomenti. Passo dopo passo, la ragione


ig

costruisce l’oggettività messa in discussione dalla scoperta che ci sono diver-


yr

se prospettive concepibili per guardare allo stesso problema. Anche Kant ha


op

raggiunto un altrove, ma non avverte il bisogno di rappresentarlo attraver-


C

so la concretezza (anche se il motivo riaffiora, per esempio, quando scrive il


saggio sull’orientarsi nel pensiero) [12]. La vita giudicata dal punto di vista del-
la ragione della Grundlegung colloca il motivo del cambiamento di prospetti-
va a un più alto livello di astrazione. Un superamento, non una cancellazio-
ne, dell’immagine del viaggio interiore di Rousseau [13].
La condizione in cui si trova de Maistre è dunque un caso estremo che
ha elementi di continuità con altri nei quali l’isolamento non è imposto da

17
una costrizione, ma è invece il risultato di un processo mentale, attraverso il
quale un essere umano riesce ad affrancarsi dai limiti derivanti dalla propria
situazione contingente e intraprende un viaggio di esplorazione di possibili-
tà che altrimenti non avrebbe preso in considerazione. In casi del genere, l’e-
sperienza si fa «visione di idee» attraverso la liberazione «dalle barriere che
ce ne precludono l’accesso» [14].

Occorre trovare un modo che tenga insieme il punto

e
or
di vista personale e quello impersonale, per vedere le cose

ut
da entrambe le prospettive trovando un equilibrio

r l’a
pe
L’isolamento è un elemento di disturbo per la «vita non riflessiva», che ci
conduce a chiederci nuovamente in che cosa crediamo e che cosa desideria-

ia
mo, quale posizione occupiamo nella rete di relazioni con gli altri, e in che

op
misura le nostre aspirazioni sono compatibili con quelle altrui [15]. La strada

C
scelta da Kant nasce dalla consapevolezza della inadeguatezza dell’introspe-

o.
zione, e dell’intuizione, nel trovare una risposta a questi problemi che sia ac-
in
i
ul
d

cettabile per chiunque. Alcune delle nostre intuizioni potrebbero rivelarsi


icciar
M

corrette, ma tale conclusione non può basarsi soltanto sull’introspezione. Ab-


il

biamo bisogno di trovare un modo per mettere insieme il punto di vista per-
R

e
ario
sonale e quello impersonale, per vedere le cose da entrambe le prospettive
ic
itr

trovando un equilibrio [16].


M

ed

Se i due punti di vista vengono presi come i due poli di un’opposizio-


ne che non ammette se non una composizione individuale, come sembra
à
et

suggerire Rousseau, il risultato non è accettabile sul piano politico. Per que-
ci

sto il conflitto deve essere interpretato come un nuovo punto di vista, in cui
So

la soluzione non è semplicemente quella che appare migliore a un individuo


by

che si sforza di considerare in modo impersonale pretese personali, ma essa


©

dovrebbe essere invece la risposta a una nuova domanda: «Su cosa potrem-
mo essere tutti d’accordo, una volta che abbiamo accettato che le nostre mo-
ht
ig

tivazioni non sono esclusivamente impersonali?». Questo modo di affronta-


yr

re il problema ci conduce a riconsiderare l’idea di contratto sociale. Sulla


op

scorta delle critiche liberali a Rousseau, stavolta il contratto non deve esse-
C

re il modo per subordinare il punto di vista personale a quello impersona-


le, facendo assorbire l’essere umano dal cittadino, e sciogliendo in conse-
guenza le aspirazioni e i progetti individuali nella volontà generale. L’idea
di contratto deve essere riformulata in modo da individuare cosa sarebbe
ragionevole per ciascuno di noi fare e volere all’interno di un sistema di co-
operazione nel mutuo vantaggio, i cui termini potrebbero essere accettatiti
da chiunque.

18
La concezione della giustizia che emerge dalle riflessioni di Kant sul
contratto sociale ha tuttavia un limite. Essa deriva infatti dall’applicazione al
dominio pubblico del principio universale di giustizia, che è a sua volta una
versione dell’imperativo categorico [17]. Lo scopo principale di tale principio,
nel pensiero di Kant, è di individuare le interferenze giustificate con la libertà
individuale, escludendo le forme di subordinazione che violerebbero l’egua-
glianza tra i cittadini. Si tratta di una concezione minimalista, che esprime
un’interpretazione austera del liberalismo. La sua applicazione, nelle condi-

e
zioni storiche in cui Kant la concepisce, non esclude, almeno in modo espli-

or
cito, forme di subordinazione sociale (per esempio quelle basate sulla ric-

ut
chezza, sul reddito o sul genere) che sono oggi salienti, e che diventeranno

l’a
centrali nelle critiche del liberalismo a partire da Marx.

r
pe
ia
L’imperativo categorico kantiano individua una sfera

op
di libertà ma non offre una risposta convincente al problema

C
dell’ineguaglianza delle condizioni sociali

o.
in

U
topie
ul
Nelle sue ricadute costituzionali, l’imperativo categorico kantiano individua
M

una sfera di libertà che il diritto di una società giusta dovrebbe proteggere,

ragionevoli
il

ma non offre una risposta convincente al problema dell’ineguaglianza del-


e

le condizioni sociali posto da Rousseau. La conciliazione tra prospettiva per-


ic
itr

sonale e impersonale è garantita dalla possibilità di un consenso unanime su


ed

queste libertà, ma lascia aperta la questione di quali rimedi politici sarebbero


disponibili per garantire in modo efficace non solo una soddisfacente conce-
à
et

zione dell’eguaglianza di opportunità, ma anche un’adeguata considerazione


ci

delle aspettative dei più svantaggiati all’interno dello schema di cooperazio-


So

ne disegnato dalla costituzione e dal sistema giuridico di una società giusta.


by

Un tentativo di affrontare questo problema dall’interno di una pro-


©

spettiva filosofica liberale, che rimanga fedele allo spirito, se non alla lette-
ra, dell’impostazione kantiana, si trova nel pensiero di John Rawls. Pubblica-
ht
ig

to nel 1971, A Theory of Justice può essere considerato il punto di arrivo della
yr

reinterpretazione del contrattualismo rousseauiano inaugurata da Kant alla


op

fine del XVIII secolo. Sul piano sostanziale, i due principi di giustizia difesi
C

dal filosofo statunitense recepiscono il nucleo liberale della concezione del-


la giustizia di Kant, ma lo arricchiscono attraverso il riconoscimento che la
piena realizzazione dell’autonomia dei cittadini di una democrazia richiede
anche meccanismi istituzionali che assicurino l’eguaglianza di opportunità
nell’accesso alle condizioni sociali più vantaggiose, e che rendano le prospet-
tive di chi sta peggio migliori di quanto sarebbero in qualunque schema di co-
operazione sociale alternativo a quello preso in considerazione. Sul piano del

19
metodo, questa ispirazione kantiana anima la «posizione originaria» in cui le
parti di un ipotetico contratto sociale dovrebbero scegliere i principi di giu-
stizia che offrono la migliore interpretazione delle intuizioni relative alla giu-
stizia diffuse, e in qualche misura condivise, in una democrazia [18].
Secondo Timothy Hinton, in A Theory of Justice, Rawls concepiva il
processo di deliberazione nella «posizione originaria» in senso «socratico»:

«[…] la posizione originaria veniva impiegata nell’ambito di una ri-

e
cerca di principi che una persona dovrebbe accettare che assume fon-

or
damentalmente una prospettiva in prima persona. Questo obiettivo

ut
è socratico principalmente perché Rawls riteneva che la ricerca dei

l’a
principi di giustizia comportasse una riflessione critica di una perso-

r
pe
na sulle proprie credenze – il tipo di riflessione nella quale né i propri
giudizi iniziali né i principi in seguito trovati per via di inferenza sia-

ia
no trattati come sacrosanti. Una persona deve essere pronta a rivede-

op
re gli uni e gli altri sotto la pressione di ragioni cogenti. Quindi, nella

C
cornice della domanda socratica, il punto della posizione originaria è

o.
in
di metterci in grado di articolare ciò che ciascuno di noi preso indivi-
i
ul
d

dualmente dovrebbe credere sulla giustizia» [19].


icciar
M
il

La posizione originaria sarebbe dunque un passaggio intermedio tra le con-


R

e
ario
ic

vinzioni intuitive sulla giustizia di ciascuno e i principi astratti che sono il


itr

punto di arrivo dell’inferenza. Le caratteristiche della «posizione originaria»,


M

ed

e in particolare il vincolo imposto dal velo di ignoranza alle ragioni disponi-


à

bili, dovrebbero quindi assicurare quell’equilibrio tra punto di vista persona-


et

le e impersonale che, come abbiamo visto, garantisce un’adeguata considera-


ci

zione sia delle convinzioni e degli attaccamenti individuali sia delle ragioni
So

generali in favore di un principio.


by
©

Per Rawls fare riferimento alla posizione originaria rimane


ht

pur sempre uno strumento indispensabile per ragionare


ig
yr

sulla giustizia
op
C

Dopo il 1971 Rawls ha modificato diversi aspetti della propria teoria della
giustizia, e tra questi anche il modo di intendere la «posizione originaria» [20].
Queste modifiche furono ispirate, in larga misura, dal tentativo di rendere la
sua concezione della giustizia più sensibile alle esigenze legate al requisito di
stabilità che un ideale normativo dovrebbe soddisfare in una società demo-
cratica, caratterizzata dal «fatto del pluralismo ragionevole» [21]. Ciò non vuol
dire che la versione iniziale dell’argomento sia priva di interesse per noi. Al

20
contrario, fare riferimento alla posizione originaria rimane uno strumento
indispensabile per ragionare sulla giustizia quando siamo alla ricerca dell’e-
quilibrio tra punto di vista personale e punto di vista impersonale. A diffe-
renza della posizione originaria del secondo discorso, nella quale il procedi-
mento genealogico ha un carattere essenzialmente critico, quella di Rawls
guarda al futuro come il Contrat social dello stesso Rousseau e la Grundlegung
di Kant. Tuttavia, per dispiegare appieno le sue potenzialità normative essa
deve essere intesa in senso dinamico, come uno schema che interagisce non

e
solo con le intuizioni che emergono dalla ricostruzione introspettiva delle

or
proprie convinzioni su ciò che è giusto, ma anche con diversi modi di inten-

ut
dere il «punto di vista archimedeo» da cui giudicare concezioni alternative

l’a
della giustizia.

r
pe
LA PAN EMIA E IL SENSO I GIUSTIZIA

ia
D
D
Durante le prime fasi della pandemia di Covid-19 ci siamo trovati tutti in una

op
condizione simile a quella di de Maistre nel corso della sua reclusione tori-

C
nese. Per via del «distanziamento sociale» imposto dai provvedimenti per

o.
in
rallentare la diffusione del virus, siamo stati costretti a rimanere per buona

U
topie
ul
parte del tempo nelle nostre case, liberi di viaggiare soltanto con la fantasia.
M

Una condizione fuori dall’ordinario, che ci ha messo in una posizione inusua-

ragionevoli
il

le, da cui potevamo guardare al nostro modo di vivere osservandolo da una


e
ic

prospettiva insolita. Non quella della vacanza – cioè dell’evasione – ma quel-


itr

la della dislocazione. Per una parte della popolazione attiva, la fase del di-
ed

stanziamento sociale non è stata oziosa. Impegnati come prima, e per certi
à

versi più di prima, nelle attività quotidiane di lavoro e di cura, abbiamo tut-
et

tavia avuto la possibilità di fare un passo di lato, guardando al modo in cui


ci

le avremmo svolte normalmente assumendo una prospettiva diversa, da un


So

angolo inconsueto. Sotto questo profilo, quella del lockdown è stata per i più
by

fortunati tra noi un’esperienza preziosa. Ci ha dato la possibilità di viaggiare


©

con l’immaginazione, non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Riflettendo
ht

su ciò che è stato e su come potrebbe essere il nostro futuro. La solitudine re-
ig

lativa sperimentata da molti di noi ha lasciato spazio per l’introspezione, of-


yr

frendoci l’opportunità per esplorare la nostra dimensione interiore, metten-


op

do in questione le nostre attitudini e aspirazioni; e per renderci conto che il


C

fondale su cui poggiano molte delle nostre convinzioni è scivoloso.


Usciti dal lockdown, queste riflessioni hanno portato molti a spera-
re in un cambiamento del nostro modo di vivere. La frase «niente sarà come
prima» è stata ripetuta fino a diventare stucchevole, come l’altra – appena
meno frequente – «ne usciremo migliori». A qualche anno di distanza da quei
momenti, non credo si possa affermare che la pandemia abbia cambiato i
meccanismi fondamentali che presiedono alla distribuzione degli oneri e dei

21
benefici della cooperazione sociale. Le nostre società continuano a essere do-
minate dal consenso neoliberale che si è affermato dopo il 1989. Nonostante
i sintomi della crisi di legittimazione di questo modello politico siano ormai
evidenti, e testimoniati da una letteratura sempre più ampia, esso non è sta-
to sostituito da una visione alternativa basata su un profondo ripensamen-
to del nostro modo di vivere ispirato da principi di equità e di sostenibilità
ambientale [22]. Al contrario, stiamo assistendo all’accelerazione del processo
di erosione di molte delle conquiste sociali e politiche che hanno trasforma-

e
to le democrazie liberali negli anni che seguirono la Seconda guerra mondia-

or
le. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 ha poi alimenta-

ut
to un clima di incertezza sul piano delle politiche energetiche e ha condotto

l’a
diversi Paesi a rimettere in discussione gli ambiziosi programmi di conver-

r
pe
sione ecologica dell’economia concepiti prima della guerra. La prospettiva di
un cambiamento in direzione di maggiore equità e sostenibilità appare oggi

ia
molto più fragile, in un mondo in cui le spese per armamenti aumentano in

op
modo significativo.

C
o.
La pandemia ha forse cambiato i meccanismi
in
i
ul
d
icciar
M

che presiedono alla distribuzione degli oneri e dei benefici


il

della cooperazione sociale?


R

e
ario
ic
itr

Negli Stati Uniti, che rimangono all’avanguardia – non uso l’espressione in


M

ed

senso morale – nel cambiamento, per quel che riguarda le tendenze di evolu-
zione del capitalismo, la sconfitta di Donald Trump da parte di Joe Biden non
à
et

ha prodotto il ripensamento complessivo dei modi di orientare la produzione


ci

e il consumo che molti auspicavano. La promessa di una società più equa ri-
So

mane ancora disattesa, e persino i difensori più convinti della democrazia li-
by

berale cominciano a esprimere dubbi sul futuro di questa forma di governo:


©

«Davvero il lungo arco della storia si piega verso la giustizia, come po-
ht
ig

eticamente diceva Obama? Davvero il progresso si costruisce “un mat-


yr

tone alla volta, da una mano callosa all’altra”? Certamente è così. La


op

riforma è il frutto di sforzi estenuanti. Le vittorie nel campo dei diritti


C

civili degli anni Sessanta furono ottenute da persone che erano pronte
a rischiare le proprie vite. Tuttavia, comincio ad avere dubbi seri per
quel che riguarda il lungo arco della storia. La storia non è un’auto con
un sistema di guida automatico per condurre l’umanità a una destina-
zione prestabilita. Chiunque si trovi al volante deve assicurarsi che gli
altri rimangano a bordo. Dire ad alcuni dei passeggeri che non devo-
no impicciarsi di quel che accade al posto di guida perché non hanno

22
idea di quale sia la destinazione prima o poi porta a schiantarsi. “Ri-
prendere il controllo” era il canto sia dei sostenitori della Brexit sia de-
gli elettori di Trump. Rimane il grido di guerra della reazione populi-
sta in tutto il mondo occidentale» [23].

La ritirata del liberalismo di cui parla Edward Luce in questo brano, tratto
da un libro recente, sembra aver creato un vuoto nel quale prosperano movi-
menti nazionalisti, che alimentano la diffidenza nei confronti del diverso (lo

e
straniero, chi appartiene a minoranze etniche o religiose, chi sceglie modi di

or
vita che non si conformano a una visione tradizionale della società, nella qua-

ut
le i ruoli di genere e gli orientamenti sessuali sono rigidamente stabiliti da

l’a
una visione conservatrice della famiglia e del matrimonio). A essere messo in

r
pe
discussione non è soltanto un modo di concepire le istituzioni pubbliche, ma
anche la cultura pluralista che lo ha sostenuto e alimentato per decenni. In

ia
questa situazione, molti liberali hanno la tentazione di riproporre una conce-

op
zione militante dei propri valori che si ispira al «Cold War Liberalism» del Se-

C
condo dopoguerra. Un liberalismo che, lungi dall’essere inclusivo, aprendosi

o.
in
alle istanze di chi critica le iniquità del capitalismo, spera di trovare nel cli-

U
topie
ul
ma di un nuovo «conflitto di civiltà» le risorse per reagire alla sfida populista.
M

ragionevoli
il
e

Assistiamo a un liberalismo che, lungi dall’essere inclusivo,


ic

spera di trovare in un nuovo «conflitto di civiltà» le risorse


itr
ed

per reagire alla sfida populista


à
et

Per quanto comprensibile, questa strategia è destinata al fallimento. Durante


ci

la Guerra fredda il consenso liberale non si basava soltanto sulla difesa della
So

libertà negativa, ma anche sull’ampliamento di quella positiva reso possibi-


by

le da politiche ispirate a principi di equità molto simili a quelli difesi da John


©

Rawls nel suo libro del 1971, che oggi ci appare, con il beneficio della distan-
za, come la più eloquente e articolata difesa di un liberalismo sociale che of-
ht
ig

fra a ciascuno, e in primo luogo ai meno avvantaggiati, una prospettiva di vita


yr

dignitosa:
op
C

«Nel mondo molto iniquo in cui viviamo, il significato primario del


punto di vista impersonale per coloro che si trovano al fondo della pi-
ramide sociale è di congiungere la miseria della propria condizione
personale e la percezione che in realtà, agli occhi del mondo, essi non
contano nulla. Sottostare alle inevitabili avversità della sorte non è
bene; soffrire perché gli altri non accordano alla nostra vita il suo vero
valore è peggio» [24].

23
Questo ci riconduce al tema di come conciliare il punto di vista personale e
quello impersonale in modo da generare una concezione della giustizia socia-
le. Sotto questo profilo, tornare all’esperienza che abbiamo fatto nel corso del
lockdown può aiutarci a mettere meglio a fuoco le nostre intuizioni, utiliz-
zando la situazione in cui ci siamo trovati in quei giorni come un’integrazione
della posizione originaria descritta da Rawls. La dislocazione prodotta dall’i-
solamento, infatti, può aiutarci a immaginare ciò che in circostanze norma-
li avremmo considerato inimmaginabile [25]. L’importanza di avere un rifugio

e
sicuro – un luogo che possiamo considerare casa – e di poter contare su for-

or
me di solidarietà che non dipendano soltanto dalla benevolenza privata, ma

ut
siano il risultato di misure pubbliche adeguatamente finanziate, e organizza-

l’a
te in modo da intervenire in modo tempestivo in una situazione di emergen-

r
pe
za, è stata per molti di noi un sostegno essenziale per far fronte alla sensazio-
ne di angoscia alimentata dalla percezione di essere tutti egualmente esposti

ia
al pericolo rappresentato da un virus ancora poco conosciuto. Così come, per

op
quelli di noi che si trovano in posizioni relativamente alte nella piramide so-

C
ciale, è stato istruttivo renderci conto di quanto la nostra vita quotidiana in

o.
in
condizioni di normalità dipenda da una molteplicità di servizi offerti da lavo-
i
ul
d

ratori, spesso mal pagati, che fino a quel momento erano dal nostro punto di
icciar
M

vista quasi invisibili.


il
R

e
ario
ic

Riflettere sull’esperienza del lockdown ci porta a riesaminare


itr
M

ed

le presupposizioni che fanno da sfondo ai nostri giudizi


intuitivi su ciò che è giusto
à
et
ci

Riflettere sull’esperienza del lockdown ci conduce dunque a riesaminare le


So

presupposizioni che fanno da sfondo ai nostri giudizi intuitivi su ciò che è


by

giusto e ci interroga sull’urgenza dei bisogni legati alla protezione della salute
©

e alla difesa della vita, e sulla necessità di modi di cooperazione che non pas-
sino attraverso le forme dello scambio, ma siano motivati dalla solidarietà.
ht
ig

La versione più astratta della posizione originaria viene integrata, alla luce di
yr

queste considerazioni, affiancandola a un’altra, in cui il vincolo di ignoranza


op

si attenua e lascia spazio a una nuova prospettiva:


C

«Quando si vuole identificare scopi dell’azione che sono comuni a tut-


ta l’umanità, si pensa prima ai grandi disastri naturali o provocati
dall’uomo, contro i quali sia la prudenza sia la moralità sono necessa-
rie come protezione e come scudi. Non c’è alcuna vita tollerabile, de-
cente e degna di essere vissuta, senza una qualche protezione contro
[tali mali] e questa protezione deve essere fornita dall’ordine sociale

24
e politico, così come dalla prudenza e dal giudizio morale degli indi-
vidui. Grandi mali sono quegli stati di cose che devono essere evitati
per ragioni che sono indipendenti da qualunque pensiero riflessivo e
da ogni specifica concezione del male. La sofferenza fisica, la fame, la
perdita della libertà personale, la distruzione della propria famiglia o
della propria abitazione, sono avvertite come grandi mali da ciascuno
in virtù dell’essere una creatura vivente con tutti i bisogni che sono co-
muni alle creature viventi» [26].

e
or
Queste osservazioni di Stuart Hampshire mostrano che trovarci al cospetto

ut
di una catastrofe ci mette in una diversa prospettiva, opera una sorta di di-

l’a
slocazione del nostro sguardo sul mondo, per cui riusciamo a vedere la no-

r
pe
stra condizione di esseri umani, nella sua fragilità e vulnerabilità, in modo
più chiaro di quanto avviene nella vita quotidiana, quando una miriade di

ia
progetti, aspirazioni, desideri, bisogni, molti dei quali culturalmente indot-

op
ti, si sovrappone alle esigenze vitali primarie: protezione, un tetto sulla te-

C
sta, cibo, libertà di movimento. Chiusi nell’isolamento imposto dal timore del

o.
in
contagio riscopriamo l’elusiva libertà filosofica esercitata da Rousseau, Kant

U
topie
ul
e Rawls, che ci mette in condizione di riconoscere la contingenza di modelli
M

di organizzazione sociale che prima ci sembravano naturali soltanto perché

ragionevoli
il

non potevamo sottrarci alle richieste delle pratiche sociali – il lavoro, la pro-
e
ic

duzione, il consumo – attraverso le quali essi diventano attuali. Le possibili-


itr

tà pratiche, ci ricorda Hampshire, esistono soltanto nella misura in cui sono


ed

immaginate e attivamente esplorate [27].


à
et
ci

Serve una visione che articoli i principi di una società


So

più giusta che possa confutare le critiche all’utopismo


by

che si sono affermate dopo il 1989


©

C’è chi ha parlato, a questo proposito, di un «ritorno a Utopia» [28]. Un’espres-


ht
ig

sione da prendere sul serio perché coglie una tendenza che si sta facendo
yr

strada di recente nel pensiero (Rutger Bregman e Philippe van Parijs) e nel-
op

la prassi politica (movimenti ambientalisti ed egualitari che esprimono con


C

forza la propria richiesta di un mondo migliore). Ritornare a Utopia richie-


de tuttavia uno sforzo teorico – non basta la scontentezza per la situazione
attuale.
Ci vuole una visione che articoli i principi di una società più giusta di
quella in cui attualmente viviamo, che possa confutare, o almeno mostrare i
limiti, delle critiche all’utopismo che si sono affermate, fino a diventare sen-
so comune, dopo il 1989. Tali critiche non vengono soltanto dai conservatori,

25
ma anche da certi progressisti liberali ed egualitari che ritengono che le uto-
pie politiche del passato imponessero sforzi eccessivi alla motivazione indi-
viduale. Lo spettro del giacobinismo o del gulag deve essere esorcizzato da
utopie ragionevoli che estendano la nozione di ciò che è politicamente prati-
cabile, accettando la sfida di mostrare che alcuni tra i modelli politici di so-
cietà giusta siano anche accessibili. Lo spazio concettuale dell’utopia ragio-
nevole si apre, come ha sostenuto Salvatore Veca, se comprendiamo che ciò
che è possibile può essere, almeno in parte, alterato, modificato e modellato

e
da argomenti su ciò che è giusto [29].

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C

MARIO RICCIAR I fa parte del Comitato di


D
direzione di questa rivista dal 2012, di cui è direttore
dal 2018. Socio dell’Associazione di cultura e
politica «il Mulino», insegna Filosofia del diritto
all’Università Statale di Milano.

26
01 J. Annas e J. Barnes, The Modes of Come un virus ha cambiato il mondo, Roma, Luiss
Scepticism, Cambridge, Cambridge University University Press, 2020.
Press, 1985. 23 E. Luce, The Retreat of Western Liberal-
02 J.-J. Rousseau, Les rêveries du prome- ism, London, Abacus, 2018, p. 190.
neur solitaire, in Id., Œuvres complètes, vol. I, Pa- 24 Nagel, Equality and Partiality, cit., p. 19.
ris, Seuil, 1967, p. 501. Cito dalla traduzione italiana 25 I. Krastev, Is It Tomorrow Yet? Paradoxes
di Beppe Sebaste, Le passeggiate del sognatore of the Pandemic, London, Allen Lane, 2020, p. 14.
solitario, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 29. 26 S. Hampshire, Innocence and Expe-
03 Ibidem, p. 504. rience, Cambridge (Mass.), Harvard University
04 Ibidem, pp. 514-520. Press, 1989, p. 106.
05 J. Miller, The Philosophical Life, London, 27 Ibidem, pp. 185 s.
Oneworld, 2012, p. 249. 28 R. Mordacci, Ritorno a Utopia,
06 R. Wokler, Rousseau. A Very Short Intro- Roma - Bari, Laterza, 2020.

e
or
duction, Oxford, Oxford University Press, 2001, p. 29 S. Veca, La bellezza e gli oppressi. Dieci
62. lezioni sull’idea di giustizia, Milano, Feltrinelli, 2002,

ut
07 Rousseau, Les rêveries du promeneur p. 119.

l’a
solitaire, cit., p. 515.
08 Vedi M. Ricciardi, Questioni di etica e po-

r
pe
litica, in M. Mori e S. Veca (a cura di), Illuminismo.
Storia di un’idea plurale, Roma, Carocci, 2019, pp.

ia
92 s.
09 J.-J. Rousseau, Discours sur l’inégalité,

op
in Id., Œuvres complètes, vol. II, Paris, Seuil, 1971,

C
p. 243. Cito dalla traduzione italiana di Giulio Preti,
Origine della disuguaglianza, Milano, Feltrinelli,

o.
1972, p. 104.
in

U
10 I. Berlin, Freedom and Its Betrayal. Six

topie
ul
Enemies of Human Liberty, London, Pimlico, 2003,
M

pp. 27-49.
11 Rousseau, Les rêveries du promeneur

ragionevoli
il

solitaire, cit., p. 516.


e

12 Vedi O. O’Neill, Orientation in Thinking:


ic

Geographical Problems, Political Solutions, in Id.,


itr

Constructing Authorities. Reason, Politics and


ed

Interpretation in Kant’s Philosophy, Cambridge,


Cambridge University Press, 2015, pp. 153-169.
13 Vedi J. Rawls, Lectures on the History of
à
et

Moral Philosophy, a cura di B. Herman, Cambridge


(Mass.), Harvard University Press, 2000, pp. 159 s.
ci

14 Vedi R. e Monticelli, L’ascesi filosofica,


So
D
Milano, Feltrinelli, 1995, p. 11.
15 R. Wollheim, The Thread of Life, Cam-
by

bridge (Mass.), Harvard University Press, 1984, pp.


167 s.
©

16 T. Nagel, Equality and Partiality, Oxford,


ht

Oxford University Press, 1991, pp. 41-52.


17 O’Neill, Kant and the Social Contract
ig

Tradition, in Id., Constructing Authorities, cit. pp.


yr

170-185.
op

18 J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge


(Mass.), Harvard University Press, 1971, pp. 251-
C

257.
19 T. Hinton, Introduction, in Id. (a cura
di), The Original Position, Cambridge, Cambridge
University Press, 2015, p. 9.
20 Ibidem, pp. 9-12.
21 Vedi, sul punto, le considerazioni critiche,
a mio avviso condivisibili, di B. Barry in John Rawls
and the Search for Stability, «Ethics», vol. 105,
1995, pp. 874-915.
22 Vedi S. Maffettone, Il quarto shock.

27
Serve più Stato? / 1

PIÙ STATO, QUALE

e
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STATO?

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PAOLO
GERBAU O
D
28
l titolo di questa sezio e mo ografica, «Serve più Stato?», sarebbe

e
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n
n
stato impensabile fino a pochi anni fa, quando il consenso nel dibattito pub-

ut
blico sia nel centrodestra sia nel centrosinistra era che fosse necessario ridur-

l’a
re il potere dello Stato e liberare il potere del mercato; e che – indipendente-

r
pe
mente dalla propria volontà politica – tale progressiva riduzione del potere
dello Stato era la tendenza ineluttabile della Storia nell’era della globalizza-

ia
zione. Oggi ci troviamo al capolinea di tale visione del mondo e del perio-

op
do storico a cui ha dato forma. Siamo in una fase di passaggio epocale, come

C
espresso in Germania – in riferimento agli effetti della guerra in Ucraina –

o.
con la nozione di Zeitenwende. E questo passaggio tra vecchio e nuovo mondo
in
ul
comporta un passaggio delle consegne tra mercato e Stato come tema centra-
M

le del dibattito politico.


il
e

Nel vecchio mondo che ci lasciamo alle spalle – quello che lo storico di Oxford
ic
itr

Gary Gerstle ha descritto come «l’era neoliberista» – il discorso politico era


ed

incentrato sulla famosa idea di un «libero mercato», concepito come uno spa-
à

zio di scambi commerciali e concorrenza «meritocratica» tra imprese e indi-


et

vidui che doveva essere fatto crescere a spese di uno Stato ritenuto troppo in-
ci

gombrante, a suon di privatizzazioni, liberalizzazioni e politiche di austerità.


So

Si trattava di una visione liberista che però non apparteneva solo alla destra,
by

tant’è che alcuni la rivendicavano esplicitamente come parte del bagaglio cul-
©

turale progressista. Nel nuovo mondo in cui stiamo entrando, in buona parte
ht

ancora misterioso, la visione ingenua, e al contempo cinica, del «libero mer-


ig

cato» che ha dominato gli anni d’oro della globalizzazione – quelli che il teo-
yr

rico politico britannico Jeremy Gilbert ha chiamato i «lunghi Novanta» – ap-


op

pare come fuori luogo.


C

Del resto, sarebbe veramente difficile continuare a parlare di «libero


mercato» di fronte all’ennesimo salvataggio di banche, quelli di Silicon Valley
Bank negli Stati Uniti e Credit Suisse nel 2023, dopo quelli di Lehman e Royal
Bank of Scotland nel 2008; a un mercato dell’energia in cui gli Stati si trovano
costretti a intervenire per evitare il collasso economico; a piani di transizio-
ne climatica che intendono ridisegnare radicalmente il sistema di trasporti
e la produzione dell’elettricità; alla nazionalizzazione di imprese strategiche,

29
come avvenuto in Francia con Edf, e ad aiuti di Stato come quelli dell’Infla-
tion Reduction Act di Biden, in cui i governi non hanno remore a dare «se-
gnali» al mercato. La realtà del capitalismo contemporaneo è segnata dalla
presenza di uno Stato interventista che punta apertamente a plasmare e cor-
reggere il mercato e da un nuovo protezionismo commerciale che mette fine
al momento di massima apertura della globalizzazione.

La realtà del capitalismo è segnata dalla presenza

e
di uno Stato interventista che punta apertamente

or
a plasmare e correggere il mercato

ut
l’a
Questo passaggio di fase è ormai riconosciuto dai principali fautori del libe-

r
pe
rismo economico. Nel novembre 2021, l’«Economist» annunciava «il ritor-

ia
no del Big Government». La rivista – che nei tre decenni precedenti aveva

op
celebrato il processo di progressiva globalizzazione economica – ammette-

C
va che il consenso sullo Stato minimo che aveva dominato dagli anni Ottanta

o.
in avanti stava cedendo il passo a politiche protezioniste e dirigismo. Inoltre,
in
una serie di fattori strutturali di lungo periodo, come l’invecchiamento della
o
ul
d

popolazione, il cambiamento climatico e lo sviluppo tecnologico, erano desti-


erbau
M

nati a favorirne ulteriormente la crescita. Lo scorso febbraio l’opinionista del


il

«Financial Times» Martin Wolf ha parlato di un «nuovo interventismo» per


e
G

ic
aolo
riferirsi a «questa crescente fiducia nella capacità dei governi di rimodellare
itr

le proprie economie in meglio», alimentata da «paura della Cina, preoccupa-


ed
P

zioni per la sicurezza delle catene di approvvigionamento, desideri di reindu-


à

strializzazione e speranze di una trasformazione verde».


et

Ma che cosa significa effettivamente questo nuovo interventismo? In


ci
So

che modo si differenzia veramente dalla forma-Stato che prevalse durante


l’era neoliberista? E come si relaziona a forme di interventismo statale viste
by

in passato? In questo numero del «Mulino», per rispondere a queste doman-


©

de, possiamo contare sul contributo di economisti, politologi e giuristi che


ht

negli ultimi anni si sono cimentati con questi temi in ambito italiano e in-
ig

ternazionale. L’obiettivo è cercare di esplorare i diversi livelli dell’intervento


yr

statale e registrare il cambiamento nel senso comune e nello spazio politico


op

che ha preso piede negli ultimi anni.


C

Per sostenere questo sforzo di comprensione, particolarmente urgente


in una fase di profondo disorientamento, inquadrerò i diversi articoli concen-
trandomi su tre temi decisivi: la relazione tra Stato e neoliberismo; le diver-
se manifestazioni del nuovo interventismo statale; le implicazioni politiche
e strategiche di questo salto di paradigma e il modo in cui riguardano diret-
tamente il nostro Paese, che è un punto di osservazione privilegiato per que-
ste trasformazioni.

30
Ovviamente lo Stato, la sua natura e il suo ruolo sono questioni universa-
li della politica in ogni era. Lo Stato, ossia l’insieme di istituzioni pubbliche
che governano una determinata società, è esistito nelle forme più diverse sin
dagli albori della storia antica e non è «sparito» con il neoliberismo. Parlare
di «ritorno dello Stato» è un’iperbole che serve a portare l’attenzione su un
profondo cambiamento di enfasi nel rapporto tra Stato e mercato, una diver-
sa configurazione del loro rapporto. Questo non è significato «meno Stato» o
«più mercato» (per quanto così fosse posto nella retorica degli stessi neolibe-

e
risti) in senso puramente quantitativo.

or
Di fatto se si guarda ad alcuni indicatori come la spesa pubblica, non è

ut
affatto chiaro che il neoliberismo, quantomeno prima della crisi del 2008, ab-

l’a
bia comportato una riduzione del peso dello Stato. Piuttosto il neoliberismo

r
pe
ha sempre assegnato allo Stato un ruolo subordinato o «ancillare», in cui ad
esso non viene accordata alcuna autonomia funzionale, ma il cui ruolo è fina-

ia
lizzato a garantire condizioni ottimali di mercato. Tuttavia, questo tentativo

op
di «risolvere la questione dello Stato» nascondendo lo stesso sotto il tappeto è

C
alla radice di una serie di contraddizioni che hanno portato il neoliberismo al

o.

PIÙ STATO, QUALE STATO?


suo fallimento economico e politico. in
ul
M

In tutta la storia del neoliberismo è evidente


il
e

una profonda contraddizione tra retorica e prassi


ic
itr

rispetto alla questione dello Stato


ed

In tutta la storia del neoliberismo è evidente una profonda contraddizione


à
et

tra retorica e prassi rispetto alla questione dello Stato. Da un lato gli ideologi
ci

e i fautori hanno adottato posture retoriche che lasciavano trasparire l’inten-


So

zione di demolire lo Stato, visto come una specie di «nemico interno». Que-
by

sto tipo di retorica è quella espressa da Margaret Thatcher nella celebre fra-
©

se «spingere indietro le frontiere dello Stato» («roll back the frontiers of the
State»), da Ronald Reagan quando sosteneva che «il governo non è la solu-
ht
ig

zione al nostro problema, il governo è il problema», ma anche da figure della


yr

Terza Via come Bill Clinton quando parlava della «fine del big government».
op

Tuttavia, spesso, nella pratica i politici pro mercato hanno portato avanti po-
C

litiche che sembrano contraddire tali posizioni.


Da un punto di vista macroeconomico, si pensi all’aumento del defi-
cit pubblico sotto Reagan (per aumentare le spese in difesa, nel contesto del-
la «corsa agli armamenti» con l’Unione Sovietica) e al fatto che la tendenza
secolare di crescita del peso dello Stato sull’economia si sia solo rallentata o
sospesa durante l’era neoliberista, piuttosto che essere pienamente invertita.
Inoltre, l’elemento repressivo dello Stato (quello che molti, tanto nella sinistra

31
radicale, quanto nei circoli liberali associano all’autorità pubblica) non è cer-
tamente diminuito durante l’era neoliberista. Al contrario, politiche neoliberi-
ste sono spesso state applicate con l’ausilio di fucili (come avvenuto in Cile) o
manganelli (come avvenuto con la Thatcher e le proteste dei minatori). Inol-
tre, in Paesi come gli Stati Uniti la demolizione dello Stato sociale è stata ac-
compagnata da un aumento del tasso di incarcerazione (particolarmente du-
rante l’era Clinton), portando a quello che Loic Wacquant ha descritto come lo
«Stato carceriere»; uno Stato indolente quando si tratta di aiutare chi vive in

e
povertà, ma solerte nel punire chi viola la legge e la proprietà.

or
È per questa ragione che alcuni teorici marxisti hanno parlato del-

ut
lo «Stato neoliberista» come di uno «Stato forte» (celebre il libro di Andrew

l’a
Gamble, The Free Economy and the Strong State, Palgrave Macmillan, 1988).

r
pe
Tuttavia, è meglio parlare di una ricomposizione interna di quelli che con
Althusser e Poulantzas possiamo descrivere come gli «apparati dello Stato»

ia
(ideologici, repressivi, economici e sociali). Gli apparati economici e sociali

op
dello Stato (imprese pubbliche, organi di pianificazione e progettazione, ser-

C
vizi pubblici e prestazioni sociali) sono stati sacrificati, mentre l’apparato re-

o.
pressivo dello Stato è stato rafforzato. in
o
ul
d

In secondo luogo, i neoliberisti non si sono rapportati allo Stato solo in


erbau
M

forma negativa, nella modalità «roll back» associata alla Thatcher, ossia con
il

tagli e privatizzazioni, ma anche con la modalità che alcuni descrivono «roll


e
G

ic

out». Al contrario, come già presagito da Michel Foucault nella sua analisi
aolo
itr

dell’ordoliberalismo tedesco, essi hanno anche usato lo Stato in forma «co-


ed
P

struttiva», per creare nuovi mercati e per aprire al mercato nuovi canali di
à

profitto; per esempio, con investimenti in partnership tra pubblico e privato


et

o appaltando servizi pubblici a imprese.


ci

Dentro tale fattispecie, rientra anche il ruolo regolativo dello Stato, o


So

quello che Friedman definiva come «lo Stato arbitro». Anche in questa mo-
by

dalità (nel dibattito angloamericano si parla di «roll out» opposto al «roll


©

back»), le istituzioni pubbliche vengono concepite solo come scudiero del


ht

mercato, come suo «junior partner». Allo Stato è precluso qualsiasi interven-
ig

to discrezionale, cioè votato al perseguimento di fini ultimi definiti sulla base


yr

di considerazioni politiche. Qualsiasi decisione economica – che cosa produr-


op

re, su cosa investire ecc. – spetta non allo Stato ma al mercato. Quello neoli-
C

berista, insomma, è uno Stato che è una specie di anti-Stato concepito pura-
mente come strumento di interessi economici.
Questa concezione dello Stato era coerente alla sociologia della cono-
scenza neoliberista, che immaginava l’economia come un’attività decentra-
lizzata, e con i presupposti dell’economia neoclassica e la sua idea di competi-
zione perfetta – adesso integrata a livello planetario – e accompagnata da una
tendenza all’equilibrio e da informazione perfetta. In un contesto del gene-

32
re, l’intervento pubblico poteva essere solo concepito come interferenza; per-
ché imprese e consumatori erano «meglio informati» dei burocrati, per cita-
re una formula divenuta quasi proverbiale. Questa narrazione neoliberista è
andata progressivamente a cozzare con alcuni dati di realtà. Le crisi finan-
ziarie del XXI secolo hanno messo in luce quanto, lungi dall’essere autono-
mo e autoregolato, il mercato fosse dipendente dal potere dello Stato, costret-
to a salvare gli attori privati con grandi disborsi di denaro pubblico. Inoltre,
è apparso sempre più evidente, specie con l’emergere delle guerre commer-

e
ciali, come anche le famose «multinazionali» non siano veramente attori glo-

or
bali e indipendenti dallo Stato, ma siano sotto l’ala benevola dei governi di ri-

ut
ferimento, di cui talvolta si prestano a fare gli interessi interni o geopolitici.

l’a
Siamo dunque di fronte a una trasformazione dello scenario politico

r
pe
che ruota su due assi. Da un lato, si tratta di un cambiamento epistemico: una
serie di eventi traumatici (come i famosi «bailout») hanno svelato quanto il

ia
«libero mercato» sia tutt’altro che libero e spontaneo, ma dipenda dall’assi-

op
stenza continua dello Stato. In senso generale, potremmo dire – come lascia

C
trasparire Gramsci in una celebre pagina de I Quaderni – che non esiste uno

o.

PIÙ STATO, QUALE STATO?


in
Stato che sia del tutto non-interventista. Dietro la fantasia dello «Stato guar-
ul
diano di notte» si stagliano sempre forme di intervento, per quanto esse pos-
M

sano essere più indirette, invisibili o mediate dal mercato. Tuttavia, quello che
il

è avvenuto negli ultimi anni è anche un cambiamento pratico, ossia a una tra-
e
ic

sformazione effettiva della politica economica. A causa dell’esaurimento del


itr

modello di accumulazione della globalizzazione neoliberista l’intervento del-


ed

lo Stato diventa più massiccio, più diretto e meno mediato; è proprio questo
à

interventismo in senso più qualificato ciò che necessita di una spiegazione.


et
ci

Molte persone di fede liberale identificano immediatamente l’intervento dello


So

Stato nell’economia con il comunismo e il sistema fallimentare di Paesi come


by

l’Unione Sovietica. Tuttavia il capitalismo è stato segnato da forme di inter-


©

ventismo economico perfettamente compatibili con una «economia di merca-


ht

to», seppure attentamente controllata e bilanciata dallo Stato. Per quanto sia
ig

spesso identificato con la sinistra, l’interventismo economico dello Stato non


yr

ha un segno politico univoco. Storicamente, esso ha assunto forme radical-


op

mente diverse che comprendono, tra le altre: lo Stato mercantilista di Sei e Set-
C

tecento; lo Stato sociale socialdemocratico o keynesiano dei Paesi occidentali


e l’economia pianificata dei Paesi del blocco sovietico nel secolo scorso; lo Sta-
to corporativo fascista degli anni Trenta e Quaranta; lo Stato sviluppista visto
in Paesi capitalisti come Corea del Sud e Giappone nel Secondo dopoguerra.
Tali forme di interventismo sono molto diverse tra di loro sia nel loro
ambito di funzionamento e di intervento sia nelle loro conseguenze politi-
che. Lo Stato sviluppista nei Paesi dell’Estremo Oriente si concentrava sullo

33
sviluppo di «industrie nascenti», il New Deal di Roosevelt su grandi piani di
investimento pubblico, lo Stato socialdemocratico su trasferimenti e servizi
pubblici per garantire giustizia sociale. Oggi possiamo distinguere due fron-
ti principali del nuovo interventismo: da un lato c’è un nuovo interventismo
welfarista che si concentra sul fronte distributivo; dall’altro lato c’è un inter-
ventismo sul fronte produttivo e degli scambi che si concentra su politica in-
dustriale e commerciale.

e
or
a un lato c’è un interventismo welfarista che si concentra

ut
D
sul fronte distributivo; dall’altro un interventismo sul fronte

l’a
produttivo che si concentra sulla politica industriale

r
pe
È noto come l’era neoliberista sia stata segnata da una progressiva erosio-

ia
ne dei sistemi di sicurezza sociale, visti come un peso insostenibile per il si-

op
stema economico. Inoltre, è stata caratterizzata da un costante attacco ai

C
diritti dei lavoratori e delle loro organizzazioni che ha portato a un forte

o.
aumento della precarietà e, come conseguenza prevedibile, a una lunga sta-
in
o
ul
gnazione dei loro salari. Tuttavia, alcuni segnali sembrano indicare un’in-
d
erbau
M

versione di tendenza, come discusso in questo stesso numero nei contributi


il

di Floriana Cerniglia sulla trasformazione del rapporto tra Stato e mercato,


e
G

di Laura Pennacchi sulle nuove forme di intervento pubblico, di Antonella


ic
aolo
itr

Stirati sul ritorno dello Stato keynesiano e di Paolo Borioni sul revival del-
ed
P

lo statalismo nella socialdemocrazia scandinava. Come notava un rappor-


to dell’Ocse, durante la pandemia c’è stata «una massiccia espansione dei
à
et

sistemi di protezione sociale», in buona parte proprio per sopperire all’in-


ci

debolimento del sistema di sicurezza sociale durante l’era neoliberista. Go-


So

verni di diverso colore politico si sono visti costretti, spesso loro malgrado,
by

a rafforzare la protezione sociale.


©

Se questi sforzi hanno spesso avuto carattere temporaneo e emergen-


ziale, in alcuni Paesi governi progressisti hanno intenzionalmente investito
ht
ig

sulla creazione di quello che viene descritto come un «nuovo contratto so-
yr

ciale». Esemplare di tale sforzo è l’impegno della ministra del Lavoro Yolan-
op

da Díaz in Spagna. Díaz, durante la pandemia, ha creato un istituto simile a


C

quello della cassa integrazione per difendere i posti di lavoro, ha aumenta-


to di ben tre volte il salario minimo e ha portato a compimento una riforma
del lavoro di ispirazione progressista che ha ridotto drasticamente l’uso dei
contratti a tempo determinato. Anche negli Stati Uniti l’amministrazione Bi-
den ha cercato, con successo solo parziale, di estendere la protezione sociale
e rafforzare il potere contrattuale dei sindacati, descrivendolo come un inve-
stimento nella «infrastruttura umana» del Paese.

34
Su questo fronte la nuova destra nazionalista ha cercato di smarcar-
si parzialmente dal neoliberismo, come visto con Salvini e Le Pen che hanno
cercato di presentarsi come difensori dello Stato sociale. Tuttavia, si oppone
strenuamente a un riequilibrio della tassazione, che è la necessaria contro-
parte di un’espansione della protezione sociale; in alcuni casi, come nelle po-
litiche della «flat tax» del centrodestra italiano, se possibile le forze di destra
spingono in maniera ancora più estrema verso il darwinismo sociale e l’indi-
vidualismo possessivo.

e
Il secondo asse su cui si manifesta il ritorno dello Stato è quello del-

or
la politica industriale e commerciale: un insieme di politiche che riguarda-

ut
no non tanto la distribuzione della ricchezza, ma la sfera della produzione e

l’a
degli scambi. Durante l’era neoliberista la politica industriale era considera-

r
pe
ta come una perversione della supposta spontaneità del mercato. Secondo il
premio Nobel per l’economia Gary Becker, la politica industriale era desti-

ia
nata inevitabilmente a diventare portatrice di interessi particolari e produt-

op
trice di sprechi: la migliore politica industriale era l’assenza di politica indu-

C
striale (si veda G. Becker, L’approccio economico al comportamento umano, trad.

o.

PIÙ STATO, QUALE STATO?


in
it. Il Mulino, 1998). Quanto al protezionismo commerciale si trattava di un
ul
vero e proprio tabù nell’era della globalizzazione; questo nonostante il fatto
M

che, come affermato dall’economista sudcoreano Ha-Joon Chang, anche Pa-


il

esi portabandiera del «libero mercato», come Stati Uniti e Regno Unito, fos-
e
ic

sero giunti a una posizione di dominio economico dopo una lunga fase pro-
itr

tezionista.
ed

Anche a questo livello, il terremoto economico e politico dell’inizio del


à

XXI secolo sta rimescolando le carte. Il capitalismo contemporaneo è ben di-


et

verso dall’immagine di un capitalismo dominato solo dalle grandi compagnie


ci

private senza alcun intervento dello Stato. Il caso più evidente è quello del-
So

la proprietà diretta dello Stato sulle imprese. Come spiegato nel contributo
by

di Simone Gasperin in questo numero, le Soe (imprese di proprietà dello Sta-


©

to), tra cui si annoverava la nostra Iri, stanno tornando a essere attori deci-
ht

sivi nell’economia globale, come si vede in particolare in Cina, dove lo Stato


ig

controlla direttamente le imprese strategiche, ma anche in Francia, dove lo


yr

Stato ha quote in aziende importanti come Stellantis e ha recentemente rina-


op

zionalizzato Edf.
C

Tuttavia, anche in Paesi come gli Stati Uniti, in cui le imprese parte-
cipate sono sempre state poche (tra queste Amtrak e Us Mail), stiamo as-
sistendo al ritorno di forme di intervento economico dello Stato che non si
vedevano dagli anni Sessanta. Negli Stati Uniti esiste ormai un consenso bi-
partisan rispetto al fatto che la de-industrializzazione come conseguenza di
politiche neoliberiste ha indebolito il Paese. I grandi investimenti pubblici
dell’Infrastructure Act di Biden cercano di porre rimedio a decenni di disinve-

35
stimenti in strade, ponti, ferrovie, energia e trasporto urbano. Provvedimen-
ti come l’Inflation Reduction Act (che sussidia le imprese del settore energe-
tico e dell’auto elettrica) e il Chips and Science Act (che sostiene il settore dei
semiconduttori) segnano un chiaro abbandono del liberismo economico e un
ritorno allo spirito di Alexander Hamilton, il padre fondatore degli Stati Uni-
ti che per primo evidenziò la necessità della creazione di una base industriale
per garantire l’indipendenza e la sicurezza del Paese. Inoltre, come asserisce
Lorenzo Casini nel suo articolo, è sempre più accettata la necessità di un in-

e
tervento di regolazione dello Stato sul fronte delle nuove tecnologie e dei dati.

or
ut
l’a
Finita l’illusione di un «mercato globale», l’economia

r
planetaria si concepisce nuovamente come uno spazio

pe
di competizione tra Paesi

ia
op
La tecnologia è anche il campo in cui si manifestano le tensioni geopolitiche

C
tra Cina e Stati Uniti, come spiegato da Alessandro Aresu nel suo contribu-

o.
to. Gli Stati Uniti hanno deciso di garantirsi una produzione nazionale di mi-
in
o
ul
crochip, privando al contempo la Cina di accesso a macchinari necessari per
d
erbau
M

la produzione di chip avanzati. Questo conflitto economico e tecnologico tra


il

i due Paesi che hanno reso possibile la globalizzazione dimostra che è finita
e
G

l’illusione di un «mercato globale» e l’economia planetaria si concepisce nuo-


ic
aolo
itr

vamente come uno spazio di competizione tra grandi potenze e Paesi allea-
ed
P

ti, con il tema della sicurezza che prende sempre più sopravvento sulla mera
«convenienza».
à
et
ci

Un tema centrale del nuovo interventismo statale è il tentativo di ricostrui-


So

re una strategia di insieme in un’economia che troppo spesso appare estrema-


by

mente frammentata e priva di coordinazione. Indicativa di questa tendenza è


©

il ritorno della pianificazione, un fenomeno che più di altri aveva attirato gli
strali dei teorici neoliberisti che temevano che dietro ogni piano collettivo ci
ht
ig

fosse la volontà di privare gli individui di scelta. Ne sono esempio i tanti pia-
yr

ni che stanno emergendo negli ultimi anni, come i Piani nazionali integrali di
op

energia e clima (Pniec) sviluppati dai Paesi membri dell’Unione europea, o i


C

vari Piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr), prodotti nel contesto del pro-
gramma Next Generation Eu. Queste iniziative incarnano una rinnovata am-
bizione di cambiare la realtà e affrontare di petto problemi giganteschi, come
quelli connessi al cambiamento climatico, con un approccio che fino a poco
tempo fa sarebbe stato squalificato in partenza come «ingegneria sociale».
Tuttavia, molti di questi piani continuano a scontare alcuni pregiudi-
zi dell’era neoliberista e, come nel caso del Pnrr italiano, sono caratterizzati

36
da interventi a pioggia piuttosto che da una visione strategica capace di con-
centrare le risorse su pochi sforzi essenziali. Inoltre, lo Stato è impreparato
al compito che gli viene assegnato; a causa dei tagli e del blocco del turnover,
dovuti alle politiche di austerità degli anni Dieci del Duemila, all’amministra-
zione manca il personale e le competenze per uno sforzo così grande. A trar-
ne vantaggio sono le grandi società di consulenza di cui parla Mariana Maz-
zucato nell’intervista ospitata in questo numero.

e
or
Larghi settori delle nostre classi dirigenti pensano lo Stato

ut
come un’istituzione da accusare continuamente di sprechi,

l’a
salvo invocarne l’aiuto a ogni buona occasione

r
pe
Come visto nelle recenti polemiche sui ritardi nell’attuazione del Pnrr, dovu-

ia
ti in parte anche a questa carenza di personale e «capacity» dello Stato ita-

op
liano, c’è chi propone, come il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, di

C
trasformare il Pnrr in sussidi per le imprese, sulla falsariga dell’Inflation Re-

o.

PIÙ STATO, QUALE STATO?


duction Act. Tale stravolgimento di un provvedimento pensato per sopperire
in
ul
a un decennio di scarsi investimenti pubblici è improbabile che venga digeri-
M

to dalla Commissione europea. Ma è indicativo del modo in cui larghi settori


il

delle nostre classi dirigenti continuino a guardare allo Stato: come a un’isti-
e

tuzione da accusare continuamente di disfunzione e sprechi, salvo invocarne


ic
itr

l’aiuto a ogni buona occasione.


ed

Quello di cui c’è bisogno per uscire dalla trappola del sottosviluppo in
cui è caduto il nostro Paese è tuttavia qualcosa di ben diverso da uno Stato
à
et

Pantalone o uno Stato bancomat, di cui si dice peste e corna salvo poi chie-
ci

dergli di pagare il conto. Piuttosto è necessario recuperare una visione attiva


So

e progettuale dello Stato; lo Stato non solo come rappresentante del manda-
by

to democratico dei cittadini ma anche come portatore di quella visione di si-


©

stema e di quel progetto di Paese che la nostra classe imprenditoriale – nella


quale negli anni Novanta e Duemila furono confidate le speranze di un nuovo
ht
ig

miracolo economico – non è purtroppo stata in grado di formulare.


yr
op
C

PAOLO GERBAU O è un sociologo e teorico


D
politico che si occupa della trasformazione della
politica e dello Stato. È reader in igital Politics
D
al King’s College di Londra e ricercatore Marie
Skłodowska-Curie alla Scuola Normale Superiore.
Il suo ultimo libro, Controllare e proteggere. Il
ritorno dello Stato (nottetempo, 2022), analizza il
passaggio dal neoliberismo al nuovo interventismo
dello Stato.

37
Serve più Stato? / 2

FRA STATO

e
or
ut
E MERCATO

rl’a
pe
ia
op
C
o.
in
ul
M
il
e
ic
itr
ed
à
et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

FLORIANA
CERNIGLIA
38
l dibattito sul ruolo del mercato e dello tato ha impregnato a lungo

e
or
I
S
il pensiero e la riflessione di studiosi appartenenti a diverse discipline (eco-

ut
nomiche, giuridiche, politologiche, filosofiche, sociali). Non è questione che

l’a
possa essere facilmente risolta scegliendo l’uno o l’altro: i sistemi di puro

r
pe
mercato non esistono da nessuna parte né tantomeno quelli di pura pianifica-
zione centralizzata. La realtà storica è stata dominata da un’economia mista

ia
in cui entrambi erano presenti. Quello che è dunque necessario è esplorare il

op
rapporto (piuttosto che l’opposizione) tra Stato e mercato, quale debba esse-

C
re la logica dell’intervento pubblico in un’economia di mercato e infine qua-

o.
le sia il bilanciamento, o trade-off, tra l’efficienza economica (normalmente
in
ul
attribuita al mercato) e l’equità distributiva (che al contrario viene associata
M

con l’intervento dello stato nell’economia).


il

Tradizionalmente gli economisti – nel solco del contributo di Richard


e

Musgrave nel suo classico studio The Theory of Public Finance del 1959 – in-
ic
itr

dividuano tre funzioni che competono allo Stato: stabilizzazione economi-


ed

ca, redistribuzione e allocazione; studiano il ruolo dello Stato in un’econo-


à

mia di mercato soffermandosi su quelle circostanze in cui il mercato fallisce


et

nell’allocazione efficiente delle risorse. La teoria economica ci dice che lo Sta-


ci

to interviene in presenza di fallimenti del mercato. Quando ci sono questi


So

fallimenti – dovuti a esternalità, beni pubblici, asimmetrie informative, si-


by

tuazioni di monopolio – il mercato raggiunge il suo limite: cioè gli interessi


©

individuali degli agenti economici (imprese e/o consumatori) non coincido-


ht

no con l’interesse collettivo. L’intervento dello Stato serve a colmare questo


ig

divario. Attraverso, imposte, sussidi, norme, l’intervento pubblico fa in modo


yr

che l’allocazione scelta dal mercato non sia del tutto distante da un interes-
op

se generale e pubblico che tiene conto anche di aspetti equitativi. La finalità


C

della mano pubblica è superare i fallimenti di mercato, redistribuire tra i cit-


tadini e rendere meno gravi i cicli economici.
Negli ultimi due secoli, il pendolo storico che misura l’ampiezza del
ruolo dello Stato (e delle sue tre funzioni) nel mercato ha subito delle oscil-
lazioni. Volendo essere schematici, il dibattito si è organizzato attorno a due
poli estremi: da una parte la convinzione che lo Stato dovrebbe astenersi da
ogni intervento in quanto la «mano invisibile» del meccanismo di merca-

39
to assicura un controllo adeguato del sistema economico e la sua crescita;
dall’altro l’idea che lo Stato debba intervenire attivamente in quanto il libero
gioco delle forze di mercato non offre alcuna garanzia per uno sviluppo eco-
nomico adeguato (cfr. P. De Grauwe, I limiti del mercato, Da che parte oscilla il
pendolo dell’economia?, trad. it. Il Mulino, 2014). Se durante i decenni succes-
sivi alla caduta del muro di Berlino, il consenso della politica economica era
molto allineata sul primo polo, negli ultimi anni invece la comprensione del
ruolo rispettivo di Stato e mercato è influenzata dalle grandi trasformazioni
che stanno contrassegnato il mondo la globalizzazione, la trasformazione di-

e
or
gitale, la questione ambientale, i mutamenti geopolitici, gli squilibri demo-

ut
grafici. In poco più di dieci anni, si sono anche vissute due grandi crisi epoca-

l’a
li, quella finanziaria globale del 2007-2009 e quella del 2019-2020 innescata

r
pe
dalla pandemia a cui si è saldata quella provocata dall’incremento dei prezzi
delle materie prime e della guerra in Ucraina.

ia
op
C
Lo Stato interviene in presenza di fallimenti del mercato.

o.
Quando ci sono questi fallimenti il mercato raggiunge
in
erniglia
il suo limite
ul
M

Le grandi trasformazioni in atto cambieranno rispetto al passato la configu-


il
C

razione dei rapporti tra Stato e mercato? Ci stiamo avviando verso un proces-
e
loriana
ic

so di progressiva estensione dell’intervento pubblico e delle sue finalità, an-


itr

che ad ambiti e politiche nuove, per far fronte ai rischi crescenti e sempre più
ed
F

frequenti nel «nuovo mondo» che sta emergendo?


à
et

Più volte nel passato è accaduto che i rapporti tra lo Stato e il mercato siano
ci
So

stati profondamente ridisegnati come conseguenze di grandi crisi. La storia


economica degli ultimi due secoli è stata fatta di movimenti che hanno ac-
by

cresciuto l’influenza del mercato a spese dello Stato e altri dove ha predo-
©

minato lo Stato. Il XIX secolo aveva segnato il trionfo del sistema di merca-
ht

to e una crescita economica per la prima volta in molti Paesi. Il paradigma


ig

economico di riferimento era quello neoclassico che, abbandonando il con-


yr

cetto di classe sociale, si basava su individui (sia consumatori sia impren-


op

ditori) che avevano come unico obiettivo quello di massimizzare la pro-


C

pria funzione di utilità o di profitto. È la mano invisibile di Smith che porta


a un’allocazione efficiente e al benessere collettivo. Non c’è alcuna neces-
sità della mano pubblica: la flessibilità dei prezzi dei beni e dei fattori pro-
duttivi (salari e tasso d’interesse) basta ad assicurare equilibrio e crescita.
Quest’approccio si disinteressa del tutto dei problemi distributivi e dell’e-
quità. Il mercato non si presta a valutazioni morali o etiche da parte del de-
cisore pubblico.

40
Negli anni Trenta, il sopraggiungere della grande depressione, segna
una battuta d’arresto per questo paradigma e per la marcia trionfale del si-
stema di mercato. Keynes scrive la Teoria generale, che apre la strada al ruolo
essenziale dell’intervento pubblico e della politica di bilancio, per uscire dal-
le secche di spirali recessive in cui può incappare un Paese e che il mercato,
da solo, non è in grado di gestire.
Dopo la Seconda guerra mondiale, per tre decenni, sulla scia delle ri-
cette keynesiane, si assiste a un periodo di crescita sostenuta, guidata da una

e
complessa combinazione di fattori: progresso tecnico, sviluppo del commer-

or
cio internazionale e soprattutto ingenti investimenti statali non solo per beni

ut
pubblici e infrastrutture (che riscostruiscono lo stock di capitale distrutto

l’a
durante il conflitto bellico) ma anche per la costruzione di sistemi di prote-

r
pe
zione sociale che diedero all’Europa occidentale un posto centrale nel nuovo
modello economico. In tutti i Paesi Ocse, dal 1950 al 1985, raddoppia la spe-

ia
sa pubblica sul Pil (dal 25% al 50%). In molti di questi Paesi aumentano in

op
modo significativo anche le aliquote fiscali per i redditi più elevati. In quegli

C
anni il combinato di Welfare State e alta pressione fiscale pone un freno alle

o.

F
in
disuguaglianze economiche e sociali che diminuirono.

ra
ul

S
tato
M

Agli inizi degli anni Ottanta, la storia riprende la direzione


il

e
e

del mercato. Le ragioni sono molteplici

mercato
ic
itr
ed

Agli inizi degli anni Ottanta, la storia riprende la direzione del mercato. Le
ragioni sono molteplici: crisi petrolifere, stagflazione, ristagno tecnologico.
à
et

La teoria keynesiana viene ritenuta in parte responsabile di queste crisi e in-


ci

capace di dare risposte adeguate. Anche le economie pianificate dell’Unione


So

Sovietica e dell’Europa orientale mostravano segni di una crescita stagnante.


by

Questa sconfitta delle idee keynesiane porta alla ribalta in ambito ac-
cademico la cosiddetta controrivoluzione neoclassica che si articola intorno
©

alla nozione di un equilibrio naturale di mercato a cui l’economia tende spon-


ht
ig

taneamente se non ci sono rigidità, soprattutto dei prezzi. Si postula dunque


yr

l’efficienza del mercato e la fiducia nelle sue capacità di assorbire le crisi. La


op

ricerca accademica converge verso un «nuovo consenso» che domina la po-


C

litica economica per tutti gli anni Novanta e oltre (cfr. F. Saraceno, La scien-
za inutile, Luiss University Press, 2018). La convinzione è che le economie di
mercato possono svilupparsi facendo a meno del ruolo attivo dello Stato che
ha il solo compito di rimuovere le rigidità dei prezzi, combattere i monopoli
e fare riforme strutturali (liberalizzazioni, privatizzazioni, riforme nel mer-
cato del lavoro, riduzione della pressione fiscale soprattutto per i redditi più
alti) per consentire ai mercati di agire e portare crescita. Si invoca una dimi-

41
nuzione della spesa pubblica con il conseguente mantra della riduzione del
deficit e debito pubblico in rapporto al Pil.

In Europa per tutti gli anni Novanta si afferma sul piano


politico una sorta di «neoliberismo progressista»

Anche il commercio internazionale viene liberalizzato e si pongono le basi


per un’enorme globalizzazione dell’economia. Paesi come la Cina e l’Unio-

e
or
ne Sovietica abbandonano i loro principi di gestione centralizzata. Il mercato

ut
trionfava ovunque. Le gambe politiche di questo cambio di paradigma sono

l’a
Reagan negli Stati Uniti e la Thatcher nel Regno Unito. A dire il vero, in Euro-

r
pe
pa per tutti gli anni Novanta si afferma sul piano politico una sorta di «neo-
liberismo progressista» da parte dei leader europei che adottano politiche di

ia
liberalizzazioni e riforme nel mercato del lavoro talvolta con più radicalismo

op
dei politici di stampo conservatore, come spesso si conviene alla solerzia dei

C
convertiti (si veda P. Gerbaudo, Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato,

o.
nottetempo, 2022). in
erniglia
ul
L’ortodossia del «nuovo consenso» ha influenzato la politica e l’acca-
M

demia fino alla crisi del 2008, e oltre. È in questo quadro che vanno situa-
il
C

te molte scelte sul ruolo dello Stato nel mercato dei Paesi avanzati, come
e
loriana
ad esempio nel quadro dell’architettura istituzionale dell’Unione europea. Il
ic
itr

Patto di stabilità e crescita aveva come obiettivo principale quello di limitare


ed

(in caso di crisi economica) l’intervento dello Stato ai soli stabilizzatori au-
F

tomatici; l’Atto Unico del 1986 disegnava una politica della concorrenza che
et

deve combattere ogni forma di posizione dominante per eliminare tutte le ri-
ci

gidità che impediscono ai mercati di convergere verso l’equilibrio ottimale.


So
by

Non è un caso che negli scorsi decenni ci sia stata un’enfasi


©

costante per una crescita «guidata dal libero mercato»


ht
ig
yr

Non è quindi un caso che negli scorsi decenni ci sia stata un’enfasi costante
op

per una crescita «guidata dal libero mercato» e dunque basata sulle riforme,
C

sulla lotta al disavanzo e al debito pubblico e una totale assenza di program-


mazione economica, di politica industriale, di investimenti per le infrastrut-
ture materiali e immateriali. Il perimetro dello Stato sociale è stato lenta-
mente e pervasivamente ridotto.
I mercati progressivamente deregolamentati in quei decenni hanno fi-
nito per generare bolle speculative, indebitamento, squilibri della bilancia
dei pagamenti e si sono rivelati incapaci di stabilizzare l’economia e portare

42
crescita economica equilibrata e duratura. In aggiunta, negli anni preceden-
ti la crisi, in quasi tutti i Paesi – in primis negli Stati Uniti – la sola mano del
mercato ha condotto la disuguaglianza a picchi mai visti da prima della Gran-
de depressione. A sua volta, questa disuguaglianza molto elevata ha portato a
un arretramento della crescita (dato che si è ridotto il consumo e la doman-
da della classe media) diventando essa stessa foriera di instabilità sociale e
ulteriori fasi recessive e di crisi (cfr. J. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza,
trad. it. Einaudi, 2013).

e
Anche il mercato ha subito delle profonde trasformazioni: sempre più

or
globale, ma al contempo meno «libero», con un potere crescente in mano a

ut
imprese globali, che capitalizzano più del Pil di uno Stato e riescono a stabi-

l’a
lire le regole del gioco del mercato (cfr. R. Reich, Come salvare il capitalismo,

r
pe
trad. it. Fazi, 2015; S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’uma-
nità nell’era dei nuovi poteri, trad. it. Luiss University Press, 2019).

ia
op
Siamo adesso di fronte a un processo di progressiva trasformazione del rap-

C
porto tra Stato e mercato, in cui, dopo l’eccessiva enfasi sul potere del se-

o.

F
in
condo si torna ad accettare il bisogno di intervento pubblico. La crisi del

ra
ul
2007-2009 ha indebolito le certezze di cui si nutriva il «nuovo consenso» in

S
tato
M

merito al ruolo dello Stato. L’ampiezza di quella crisi (e le sue cause) che
il

non si vedeva dagli anni Trenta ha mostrato l’inconsistenza dell’afferma-

e
e

mercato
ic

zione per cui il mercato è in grado di ritornare rapidamente all’equilibrio


itr

quando colpito da uno shock. Soprattutto negli Stati Uniti, la politica di bi-
ed

lancio venne subito chiamata in soccorso di un’economia che non sembrava


à

in grado di risollevarsi da sola. Anche la pandemia è stata un potente pro-


et

memoria del fatto che gli sforzi per uscire dal pantano di una crisi devono
ci

essere inquadrati nell’alveo di un significativo intervento pubblico. E ha in-


So

fine portato anche l’Unione europea a una svolta nel suo paradigma di ri-
by

ferimento.
©
ht

La risposta europea si materializza in riforme e maggiore


ig
yr

disciplina fiscale per consentire alle forze di mercato


op

di operare liberamente
C

Nel 2007-2008 la risposta europea si materializza in riforme e maggiore di-


sciplina fiscale per consentire alle forze di mercato di operare liberamente
e riassorbire la crisi. Alla pandemia, l’Unione reagisce con un ingente piano
di investimenti pubblici (Next Generation Eu) su grandi obiettivi e missioni
verso cui orientare i mercati, con un allentamento delle regole fiscali pro-au-
sterità e degli aiuti di Stato (cfr. F. Cerniglia e F. Saraceno, Il ritorno della po-

43
litica di bilancio e il rilancio degli investimenti pubblici, «Rivista di Politica Eco-
nomica», n. 2/2022).
Siamo dunque in una fase di ripensamento che pare riportare il pen-
dolo del rapporto verso lo Stato. Persino ai cosiddetti «fondamentalisti di
mercato» la politica di bilancio sembra ormai imprescindibile sia per la sta-
bilizzazione macroeconomica di breve periodo, sia per la politica industriale
e soprattutto per rilanciare l’importanza dei beni pubblici, degli investimen-
ti pubblici che si erano ridotti in maniera significativa e costante dai massimi

e
degli anni Settanta. Detto altrimenti, è evidente in maniera ancora più netta

or
che in presenza di shock di una certa portata, l’intervento della mano pub-

ut
blica per evitare il peggio si rivela quanto mai necessario e i mercati, da soli,

l’a
non sono in grado di riassorbire i traumi. I grandi cambiamenti in atto ri-

r
pe
chiedono l’intervento pubblico per (ri)orientare gli investimenti dei mercati.

ia
op
In presenza di shock di una certa portata, l’intervento

C
della mano pubblica per evitare il peggio si rivela quanto

o.
mai necessario e i mercati, da soli, non sono in grado
in
erniglia
ul
di riassorbire i traumi
M
il
C

Tuttavia, il dibattito se il mercato sia meglio dello Stato non deve distoglie-
e
loriana
ic

re l’attenzione sulle regole del gioco del mercato e del suo funzionamento.
itr

Se le dimensioni dell’intervento pubblico sono importanti, la qualità dell’in-


ed

tervento pubblico e le modalità con cui lo Stato interviene in un’economia di


F

mercato sono altrettanto importanti per le conseguenze che si possono deter-


et

minare nel rapporto tra lo Stato e la società.


ci

Anche chi vuole meno Stato può volere in realtà uno Stato diverso che
So

vada a vantaggio proprio o dei propri sostenitori (cfr. K. Polanyi, La grande


by

trasformazione, trad. it. Einaudi, 2010). Stato e mercato non sono due istitu-
©

zioni giustapposte con processi decisionali paralleli e indipendenti. Lo Sta-


ht

to svolge un ruolo di correzione e indirizzo dei mercati anche attraverso nor-


ig

me e interventi che (come qui discusso) riflettono i dettami dei paradigmi


yr

economici di riferimento e influenzano il decisore politico. I mercati devo-


op

no incorporare nelle loro decisioni le regole che lo Stato detta per il merca-
C

to. Questa molteplicità di interconnessioni e interdipendenze ha plasmato le


differenze (sia tra Paesi, sia in uno stesso Paese nel tempo) sul ruolo e l’effi-
cacia della mano pubblica.
Lo Stato ha rispetto al mercato un potere coercitivo fondato su di-
vieti e prescrizioni, oltre che su incentivi e facilitazioni. Il problema è come
costruire il consenso (e quindi «chi» costruisce il consenso) tra i cittadini
sui principi o sui criteri che il decisore pubblico adotta quando interviene

44
mettendo in atto regole e politiche pubbliche. Recentemente, l’approccio del
«nudging» o della spinta gentile cerca di connettere questi due aspetti. Per
questa via si praticano politiche pubbliche facendo formalmente salva la li-
bertà degli individui, dato che si lascia ai cittadini la scelta individuale (cfr.
R. Thaler e C. Sunstein, La spinta gentile, trad. it. Feltrinelli, 2014).

Lo Stato ha un potere coercitivo fondato su divieti


e prescrizioni, oltre che su incentivi e facilitazioni:

e
or
il problema è come costruire il consenso

ut
l’a
Rimane anche da capire se in effetti, nei prossimi anni, una maggiore presen-

r
pe
za della mano pubblica è solo la sovrastruttura di un mercato che usa lo Sta-
to e la sua legittimazione derivante dal possesso legale della forza. Potrem-

ia
mo persino vivere una situazione paradossale. Da una parte le sfide globali e

op
i mutati contesti geopolitici richiedono ingenti investimenti pubblici e nuove

C
politiche pubbliche nella produzione, ad esempio, di maggiore conoscenza e

o.

F
innovazione tecnologica. È lo Stato che assume i rischi, finanzia e guida con
in

ra
ul
successo le innovazioni radicali. Non più uno Stato che deve limitarsi a quello

S
tato
M

del regolatore, del fornitore di servizi essenziali, garante dei diritti e dei beni
il

comuni, ma uno Stato «protettore», o «promotore» della crescita e dell’in-

e
e

mercato
novazione, oppure uno Stato «investitore o salvatore» rispetto al fallimento
ic
itr

di imprese sistemiche (cfr. M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, trad. it. Later-


ed

za, 2019 e Lo Stato promotore; come cambia l’intervento pubblico nell’economia, a


cura di F. Bassanini, G. Napolitano e L. Torchia, Il Mulino, 2021).
à
et

In sostanza uno Stato che abbia anche il ruolo di governare e indiriz-


ci

zare i mercati verso le trasformazioni in corso e soprattutto mette in atto tut-


So

te quelle politiche pubbliche che possono creare il terreno per investimen-


by

ti di lungo termine sia materiali e che immateriali. Sono ambiti in cui spesso
©

il mercato da solo, alla ricerca di rendimenti elevati e di breve periodo, falli-


sce. In questo contesti quindi si potrebbe giustificare un intervento dello Sta-
ht
ig

to che agisce ad esempio con banche pubbliche di investimento o che crea


yr

incentivi per le imprese rendendo appetibili alcuni investimenti a lungo ter-


op

mine.
C

Se, da una parte, un maggiore intervento statale


è auspicabile, non vanno tuttavia sottovalutati i rischi

Se, da una parte, un maggiore intervento statale è auspicabile, non vanno tut-
tavia sottovalutati i rischi. Questi ci sono quando i benefici dell’azione pubbli-

45
ca sono «privatizzati» se si creano opportunità per il rafforzamento soltanto
di alcune imprese, già in situazioni di oligopolio, che si appropriano degli in-
centivi pubblici e anche di conoscenze incrementali che spesso un interven-
to pubblico produce (ad esempio con importanti finanziamenti pubblici nel
campo della ricerca e sviluppo) con l’effetto di aumentare le disuguaglian-
ze (cfr. M. Florio, La privatizzazione della conoscenza, Tempi nuovi, 2021). Po-
trebbe verificarsi che la mano pubblica finisca per spingere ulteriormente il
mercato a scontrarsi con il suo limite, cioè quando l’interesse individuale (la

e
mano invisibile di Smith) non coincide più con quello collettivo. Sarà ancora

or
essenziale dunque ragionare sulle forme e gli strumenti dell’intervento pub-

ut
blico nell’economia e nelle dinamiche sociali in questa nuova fase (o paradig-

l’a
ma di riferimento) che si sta aprendo nel pendolo tra Stato e mercato.

r
pe
Infine, siamo in un mondo «sempre più globalizzato» e viviamo all’in-
terno di un’architettura istituzionale a più livelli di governo (si pensi alla Ue

ia
dove non è ancora sciolto il nodo su chi decide e per conto di chi decide).

op
Se lo Stato è legittimato a esercitare la sua autorità solo all’interno dei suoi

C
confini diventa molto difficile intervenire con beni pubblici che vadano ol-

o.
in
tre l’ambito nazionale e/o regolare i comportamenti di agenti economici che
erniglia
ul
si muovono in mercati e contesti trans-nazionali. Certamente, con l’approva-
M

zione del Programma Next Generation Eu (finanziato con debito europeo) e


il
C

con la temporanea sospensione del Patto di stabilità e l’allentamento del di-


e
loriana
ic

vieto degli aiuti di Stato si è aperta una nuova fase della regolazione europea
itr

dell’intervento pubblico nell’economia dove vi è un rinnovato sostegno sul-


ed

la necessità e urgenza per investimenti infrastrutturali anche nella direzione


F

di una maggiore autonomia strategica rispetto agli altri grandi «mega Stati»
et

(Cina e Usa in primis).


ci
So
by

È sempre più impellente l’esigenza di necessità


di una capacità fiscale europea per finanziare i grandi
©

beni pubblici europei


ht
ig
yr

Sarebbe auspicabile che questa nuovo orientamento diventi permanente e


op

stabile nei prossimi anni e non si esaurisca con Ngeu o con il ritorno alle vec-
C

chie regole «pro-mercato». Ad esempio, è sempre più impellente l’esigenza di


necessità di una capacità fiscale europea per finanziare i grandi beni pubbli-
ci europei (M. Buti e M. Messori, A Central Fiscal Capacity in the Eu Policy Mix,
Cepr Discussion Paper, n. 17577, 2022). La sfida è come costruire le gambe e
il consenso politico tra gli Stati in questa direzione. È altresì evidente che al-
cune grandi emergenze (si pensi all’ambiente) rendono vacuo l’intervento
pubblico se limitato non solo all’azione di un solo Stato ma financo a gruppi

46
di Stati, come nel caso in cui la sola Ue dovesse agire a livello mondiale verso
una transizione green. E dunque interrogarsi sul ruolo del potere pubblico, la
cui constituency è nazionale, in mercati globali e all’interno di trasformazioni
epocali (come alcune di quelle che stiamo vivendo) è un tema aperto, soprat-
tutto per i risvolti in termini di effettiva capacità di coordinamento degli in-
teressi tra Stati verso obiettivi comuni.
La riflessione teorica sullo Stato e il suo rapporto con il sistema econo-
mico non può che essere in continua evoluzione. Si è certamente aperta una

e
nuova fase dell’intervento pubblico nell’economia, ma le sue concrete confi-

or
gurazioni e gli effetti non sono ancora percepibili con nettezza.

ut
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pe
ia
op
C
o.

F
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S
tato
M
il

e
e

mercato
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ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

FLORIANA CERNIGLIA è professoressa ordinaria


di Economia politica alla Facoltà di Scienze
politiche e sociali dell’Università Cattolica di Milano
e dirige il Centro di ricerche in Analisi economica e
sviluppo economico internazionale (Cranec).

47
Serve più Stato? / 3

IL NUOVO STATO

e
or
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SVILUPPISTA

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C
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M
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by
©
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ALBERTO
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op

GHERAR INI
C

D
E FRANCESCO
RAMELLA
48
l dibattito sul ruolo dello tato nell’economia è puntuale come l’alter-

e
or
I
S
narsi delle stagioni. Tuttavia, a differenza del recente passato, quando si svol-

ut
geva nella cornice di una consolidata egemonia neoliberale, oggi le certezze

l’a
sulla residualità dello Stato rispetto al mercato sembrano essersi indebolite.

r
pe
Tale mutamento è dovuto a molti fattori. In primo luogo, alle critiche teori-
che espresse dal pensiero neo-keynesiano e post-keynesiano, che hanno evi-

ia
denziato l’endemica instabilità del capitalismo di matrice finanziaria, l’inca-

op
pacità del monetarismo di affrontarla e, di conseguenza, la necessità di una

C
maggiore regolamentazione del mercato.

o.
In secondo luogo, agli insuccessi nel promuovere lo sviluppo proprio
in
ul
laddove, come in America Latina, le ricette neoliberiste del Washington Con-
M

sensus sono state maggiormente applicate, a partire dalla seconda metà degli
il

anni Ottanta. Nei tre decenni precedenti, invece, nel continente sud-ameri-
e

cano si era registrato un ciclo di sviluppo senza precedenti, in virtù di una po-
ic
itr

litica protezionista e di una strategia d’industrializzazione guidata dallo Sta-


ed

to (Import Substitution Industrialization), culminata però nella crisi del debito


à

estero del 1982. Le riforme orientate al mercato, imposte dalle organizzazio-


et

ni internazionali, hanno tuttavia rallentato lo sviluppo di tutte le maggio-


ci

ri economie sud-americane (fatta eccezione per il Cile), con tassi di crescita


So

trascurabili e anche negativi che hanno ampliato il gap con i Paesi avanzati.
by

In terzo luogo, il cambio di prospettiva è da imputare agli effetti disgre-


©

ganti del neoliberismo sulla coesione sociale. La crescita delle disuguaglian-


ht

ze nelle società economicamente avanzate ha prodotto effetti politici inattesi,


ig

che hanno prima generato l’ascesa di partiti e movimenti populisti e successi-


yr

vamente condizionato l’offerta politica di quelli tradizionali verso istanze più


op

orientate alla protezione della società e dell’economia dal mercato.


C

Nell’affrontare il dibattito sul ruolo dello Stato con un approccio vicino alla
political-economy comparata, che guarda alla costruzione dell’economia uti-
lizzando le lenti dell’interazione tra Stato, mercato e società, occorre innan-
zitutto sottolineare che il dibattito su più o meno Stato è poco utile se non cir-
costanziato rispetto al come intervenire. Del resto, la storia italiana ci ha ben
insegnato che la spesa pubblica è una condizione necessaria ma non suffi-

49
ciente per la promozione dello sviluppo. Con essa, infatti, interagiscono molti
altri fattori: lo stile di policy making, l’efficacia nell’attuazione delle decisioni
prese, il grado e le modalità di interazione con gli attori economici e socia-
li, nonché la capacità complessiva delle élite di guardare al medio e al lun-
go periodo, ampliando gli orizzonti di scelta degli investitori. È facile intuire
che configurazioni diverse dei fattori appena accennati generano significative
differenze sia nell’efficacia dell’azione pubblica, sia nei risultati che ne conse-
guono, non solo in termini di crescita ma anche di coesione sociale.

e
or
Il dibattito su più o meno Stato è poco utile

ut
se non circostanziato rispetto al come intervenire

r l’a
pe
Alla base del dibattito sullo sviluppo nei Paesi dell’Asia orientale si leggono in
amella
controluce gli insegnamenti di Friedrich List e Alexander Gerschenkron, che

ia
op
hanno attirato l’attenzione sulla rilevanza dello Stato anche nella prima fase

C
dell’industrializzazione europea, soprattutto per i Paesi ritardatari. Il primo
R

o.
rancesco
ha chiarito come questi ultimi abbiano dovuto proteggere le loro industrie
in
nascenti, mentre il secondo ha sottolineato i vantaggi dello sviluppo tardivo.
ul
I Paesi a «tarda industrializzazione», infatti, hanno potuto beneficiare delle
M

tecnologie più avanzate e delle istituzioni già collaudate in altri Paesi, evitan-
F

il
e
do i costi di prova ed errore per la loro messa a punto.
e
ini
ic
d

itr
herar
Ma quali sono i tratti essenziali dello Stato sviluppista? Il primo elemento ri-
ed

guarda la strategia di sviluppo. L’intervento pubblico è mirato a promuovere la


G

crescita economica attraverso una politica industriale strutturale e di lungo


lberto
et

periodo che, pur riconoscendo il ruolo del settore privato, tende a guidarlo e
ci
So

a orientarlo verso i mercati internazionali. Si tratta, dunque, di una strategia


A

basata su alti livelli di investimenti, su una allocazione mirata del credito e


by

degli incentivi pubblici e su una esposizione selettiva dell’industria naziona-


©

le alla competizione internazionale.


ht

Il secondo elemento riguarda la struttura statuale. L’industrializza-


ig

zione è avvenuta nell’ambito di regimi autoritari (o semi-autoritari) ed è


yr

stata perciò guidata da un’élite politica dotata di ampi poteri e relativamen-


op

te isolata dalle pressioni sociali. Grazie all’eredità della tradizione confu-


C

ciana, inoltre, ha potuto avvalersi di un apparato burocratico solido ed effi-


ciente, selezionato su base meritocratica, provvisto di alto prestigio, dedito
agli interessi nazionali e internamente coeso. La descrizione più classica di
una simile burocrazia è quella fornita da Chalmers Johnson a proposito del
Ministry of International Trade and Industry in Giappone (Miti and the Ja-
panese Miracle. The Growth of Industrial Policy, 1925-1975, Stanford Universi-
ty Press, 1982).

50
In sintesi, gli Stati sviluppisti asiatici sono stati capaci non solo di so-
stenere la crescita economica, ma anche di dirigere l’industrializzazione poi-
ché le loro élite politico-burocratiche risultavano sufficientemente solide,
isolate e competenti da promuovere politiche orientate al lungo periodo.
Come è stato osservato, questi primi studi offrono però una visione in
parte edulcorata e semplificata delle relazioni tra il settore pubblico e quello
privato, con una forte predominanza del primo sul secondo, che è stata criti-
cata su due versanti. Da un lato, per la sopravvalutazione del carattere uni-

e
tario dell’apparato pubblico e dei successi ottenuti nei vari settori produttivi.

or
Dall’altro, per la sottovalutazione dei legami con alcune constituency econo-

ut
miche e sociali.

l’a
È anche a partire da queste critiche che si è fatto perciò strada un

r
pe
nuovo approccio (il New Developmental State) che pone una maggiore enfa-
si sul radicamento dello Stato nella società. Il primo contributo di rilievo è

ia
quello di Peter Evans (Embedded Autonomy: States and Industrial Transforma-

op
tion, Princeton University Press, 1995) sulla nascita del settore delle tecnolo-

I
gie dell’informazione in alcuni Paesi di nuova industrializzazione (Corea del

l
o.

nuovo
in
Sud, Brasile e India). Evans elabora due tipi-ideali di Stato. Da un lato ci sono
ul
gli Stati predatori (ad esempio il regime patrimoniale di Mobutu nello Zaire),
M

S
con élite pubbliche corrotte e particolaristiche che estraggono risorse dalla

tato
il

società minandone le capacità di sviluppo. Dall’altro ci sono gli Stati sviluppi-


e

sviluppista
ic

sti (come la Corea del Sud), dove le élite hanno un orientamento più univer-
itr

salistico, focalizzato sugli interessi nazionali.


ed

Questo secondo tipo di Stato può giocare un ruolo attivo nello svi-
à

luppo grazie alla sua struttura interna e alle relazioni che intrattiene con la
et

società. Sul primo versante, l’organizzazione dello Stato approssima la de-


ci

scrizione fatta da Weber di una moderna e meritocratica burocrazia pubbli-


So

ca. Sul secondo versante, quello esterno, le élite politico-burocratiche sono


by

tutt’altro che isolate, al contrario, sono radicate nella società mediante reti-
©

coli densi, che forniscono canali istituzionalizzati per la continua negoziazio-


ht

ne delle politiche.
ig
yr
op

Lo Stato sviluppista si basa sull’alchimia di due caratteristiche


C

apparentemente contraddittorie: autonomia e embeddedness

Lo Stato sviluppista, perciò, si basa su una sottile alchimia di due caratte-


ristiche apparentemente contraddittorie. Da un lato la sua autonomia, cioè
la sua capacità di preservare una certa indipendenza dagli interessi priva-
ti, che gli consente di formulare obiettivi di sviluppo di medio-lungo periodo
e di sfuggire alla «cattura» da parte delle lobby più potenti. Dall’altro la sua

51
embeddedness, cioè la capacità di costruire alleanze con alcuni gruppi sociali
(in particolare con gli industriali) con cui condivide una strategia di moder-
nizzazione del Paese. È solo quando entrambi questi aspetti si trovano uni-
ti, come nel caso della Corea del Sud, che si realizza una embedded autonomy
dello Stato, che offre la base strutturale per una efficace trasformazione eco-
nomica.
Seguendo questa stessa impostazione, sono stati studiati anche altri
Paesi emergenti che hanno raggiunto una posizione di avanguardia nei setto-

e
ri high-tech. Queste «storie di successo» vanno comprese sullo sfondo della

or
nascita delle catene globali del valore, cioè di un processo produttivo sempre

ut
più frammentato e disperso geograficamente, che consente ai Paesi emer-

l’a
genti di specializzarsi in una specifica fase produttiva e di competere su sca-

r
pe
la internazionale. Le strategie di industrializzazione seguite dai Paesi dell’A-
sia orientale mal si adattano a questi nuovi scenari, in particolare a settori di
amella
ia
mercato soggetti a un rapido cambiamento tecnologico che richiedono mag-

op
giore flessibilità.

C
R

Per questo Seán Ó Riain, studiando lo sviluppo dell’industria del

o.
rancesco
in
software in Irlanda, contrappone al vecchio modello di Stato burocratico (ti-
ul
pico, ad esempio, del Giappone) quello del Developmental Network State (The
M

Politics of High-Tech Growth: Developmental Network States in the Global Eco-


F

il

nomy, Cambridge University Press, 2004). Quest’ultimo è definito dalla ca-


e
e
ini
ic

pacità di attrarre investimenti e di collegare network produttivi locali e glo-


d

itr
herar
bali in modo da promuovere lo sviluppo. Ó Riain evidenzia che questa nuova
ed

forma di Stato assume una struttura organizzativa a rete, più flessibile e de-
G

centrata, basata sul molteplice radicamento delle agenzie statali nei circuiti
lberto
et

finanziari e nelle reti di innovazione internazionale.


ci

Pur partendo da premesse molto simili, un altro studio condotto da


So
A

Dan Breznitz su Irlanda, Israele e Taiwan tende invece a sottolineare come


by

queste nuove strategie non siano connesse a un’unica forma di Stato. A par-
©

tire dagli anni Sessanta, tutti e tre questi Paesi hanno intrapreso iniziative
ht

per creare una propria industria high-tech, seguendo alcune politiche comu-
ig

ni, quali il potenziamento dell’istruzione e delle infrastrutture comunicati-


yr

ve e il sostegno alle Pmi. Le somiglianze però finiscono qui. Si tratta, infatti,


op

di Stati che non hanno le stesse strutture burocratiche e hanno seguito poli-
C

tiche industriali diverse, generando competenze tecnologiche e specializza-


zioni produttive differenziate. Anche le modalità dell’embeddedness non si
assomigliano: i rapporti tra lo Stato e le imprese private sono stati costruiti
differentemente, sia nel mercato interno sia in quello internazionale.
Un altro caso di sicuro interesse è quello delle politiche di sviluppo
della Cina, uno tra i Paesi che più è cresciuto negli ultimi quarant’anni, sfa-
tando una visione troppo semplicistica della governance socialista. Molti au-

52
tori, come ad esempio Sebastian Heilmann (Policy Experimentation in Chi-
na’s Economic Rise, «Studies in Comparative International Development», n.
1/2008), hanno mostrato che la Cina ha saputo introdurre politiche efficaci
in una molteplicità di arene, tra cui quelle per l’innovazione. Ai fini della no-
stra argomentazione è sufficiente riassumere il complesso meccanismo cine-
se elencando schematicamente tre caratteristiche.
In primo luogo, un governo nazionale che promuove la sperimentazio-
ne delle politiche da parte dei governi locali. In secondo luogo, la selezione a

e
livello centrale dei progetti migliori, la loro revisione e diffusione nelle altre

or
regioni del Paese. Infine, la costruzione di un sistema capillare di valutazio-

ut
ne delle performance delle politiche e l’ancoraggio delle carriere degli ammi-

l’a
nistratori locali ai risultati conseguiti. In questo caso, la chiave dell’efficacia

r
pe
sta nella capacità del partito-Stato di stimolare e recepire il cambiamento che
avviene a livello decentrato, coordinando dal centro la diffusione degli inter-

ia
venti più promettenti.

op
Questo tipo di resoconto, che mette in luce un mutamento istituziona-

I
le diretto dallo Stato, tuttavia non è di per sé sufficiente a spiegare la cresci-

l
o.

nuovo
in
ta impetuosa del mercato e del settore privato, che è andata ben al di là delle
ul
aspettative iniziali delle élite politiche. A tal fine non vanno trascurati i pro-
M

S
cessi endogeni di cambiamento, basati sull’azione imprenditoriale e sulle reti

tato
il

di collaborazione tra gli attori privati. Queste innovazioni economiche dal


e

sviluppista
ic

basso, infatti, hanno influenzato non poco l’emergente architettura istituzio-


itr

nale del capitalismo cinese (V. Nee e S. Opper, Capitalism from Below: Markets
ed

and Institutional Change in China, Harvard University Press, 2012).


à
et
ci

Le innovazioni economiche dal basso hanno influenzato,


So

e non poco, l’emergente architettura istituzionale


by

del capitalismo cinese


©

L’insieme di questi casi di sviluppo – eterodossi rispetto ai dettati neoliberisti


ht
ig

– mostra chiaramente non solo la rilevanza dello Stato, ma anche come i dif-
yr

ferenti contesti istituzionali e le scelte politiche compiute modellino diversa-


op

mente le traiettorie di sviluppo. Ciò detto, il suggerimento forse più rilevan-


C

te che viene da questi neo-developmentalist studies è quello di non esagerare il


potenziale demiurgico dello Stato, ossia la sua capacità di dirigere e pianifi-
care lo sviluppo economico e tecnologico, sia nei Paesi emergenti sia in quel-
li avanzati.
Per chiarire questo punto, basta richiamare la ricostruzione offerta da
Fred Block e Matthew Keller dell’evoluzione del sistema di innovazione de-
gli Stati Uniti durante gli ultimi decenni (State of Innovation. The U.S. Govern-

53
ment’s Role in Technology Development, Paradigm Publishers, 2011). A causa
della difficoltà di dirigere dall’alto l’innovazione tecnologica, il governo fede-
rale ha promosso un «decentramento coordinato» delle politiche per l’inno-
vazione, basato su partnership pubblico-private. In questo sistema, le agen-
zie pubbliche non appaiono capaci di definire ex ante una precisa strategia di
cambiamento tecnologico. Oltre al sostegno finanziario, svolgono perciò una
funzione essenziale di brokeraggio socio-istituzionale, promuovendo le con-
dizioni per la collaborazione di tutti coloro che possono offrire un contributo

e
rilevante alla definizione delle priorità strategiche. Creano cioè degli «spazi

or
pubblici collaborativi», dove gli stakeholders si trovano a discutere e a scam-

ut
biarsi informazioni utili per lo sviluppo e l’innovazione. In altri termini, gli

l’a
interventi pubblici generano «risonanza sociale», cioè svolgono un ruolo ca-

r
pe
talitico e innescano conseguenze critiche solo interagendo con altri muta-
menti sociali, economici e politici, potenziandone l’effetto complessivo.
amella
ia
Un esempio recente di questi spazi pubblici collaborativi è riscontra-

op
bile anche nelle politiche tedesche per l’innovazione. L’High-tech-Strategie te-

C
R

desca è un complesso programma di interventi destinati a riposizionare l’e-

o.
rancesco
in
conomia nazionale verso l’innovazione radicale che è stato avviato da Angela
ul
Merkel nel 2006 e rinnovato dalla stessa cancelliera nel 2018. Al di là dei con-
M

tenuti specifici del piano, che in pochi anni ha triplicato la spesa pubblica in
F

il

ricerca e sviluppo, qui ci preme sottolineare la dimensione dialogica e nego-


e
e
ini
ic

ziale della governance di questi interventi, che ha visto il coinvolgimento di


d

itr
herar
un ampio spettro di portatori di interesse. Nella fase iniziale, il piano è stato
ed

il frutto di un lungo confronto tra il governo e i rappresentanti del mondo in-


G

dustriale, scientifico e professionale, che sono stati coinvolti anche nella fase
lberto
et

di attuazione, monitoraggio e miglioramento degli interventi. Questa marca-


ci

ta istituzionalizzazione del dialogo con gli stakeholders ha così creato una in-
So
A

frastruttura sociale capace di generare un intenso scambio di informazioni


by

che è risultato cruciale per la realizzazione del piano.


©

Esempi come questi mostrano che sempre più lo Stato e le agenzie


ht

pubbliche si trovano ad assolvere un ruolo di coordinamento strategico, ri-


ig

solvendo situazioni di network failure che si producono per opportunismo de-


yr

gli attori interessati e/o per mancanza di adeguati incentivi, informazioni e


op

competenze alla collaborazione. In questo processo la strategia non è defini-


C

ta a priori. È piuttosto il prodotto emergente – più o meno intenzionale a se-


conda dei vari programmi – di interazioni e modalità organizzative che coin-
volgono una pluralità di protagonisti.
Una seconda conseguenza della costruzione di infrastrutture sociali
per il policy making è la possibilità di accrescere la complementarità di istan-
ze divergenti, evitando il rischio di cattura da parte di interessi particolari-
stici. Per spiegare questo meccanismo, possiamo fare riferimento alle riforme

54
economico-sociali promosse dai Paesi a crescita inclusiva egualitaria, come
quelli del Nord Europa (si veda C. Trigilia, Capitalismi e democrazie. Si posso-
no conciliare crescita e uguaglianza?, Il Mulino, 2020). A partire dagli anni No-
vanta i Paesi scandinavi hanno saputo ri-regolare il capitalismo, cercando un
equilibrio tra crescita e coesione sociale che ha consentito di limitare le di-
suguaglianze. Le numerose riforme introdotte hanno, da un lato, ampliato le
protezioni contro i nuovi rischi sociali, dall’altro, promosso la formazione e le
reti per l’innovazione. Questo approccio allo sviluppo, molto diverso da quel-

e
lo adottato in altre economie avanzate nello stesso periodo, può essere com-

or
preso solo guardando alla sfera politica. Da una parte, la tradizione negoziale

ut
dei loro regimi democratici ha favorito il compromesso tra le diverse istanze

l’a
sociali e, parallelamente, tra mondo del lavoro e imprese. Dall’altra, la pre-

r
pe
senza di un sistema di relazioni industriali con sindacati e associazioni im-
prenditoriali forti ha spinto verso una strategia competitiva che non sacrifi-

ia
ca la coesione sociale.

op
C

I
l
o.

nuovo
I Paesi scandinavi hanno saputo ri-regolare il capitalismo,
in
cercando un equilibrio tra crescita e coesione sociale
ul
M

che ha consentito di limitare le disuguaglianze

S
tato
il
e

sviluppista
Prima di concludere è bene precisare che, di recente, il dibattito sul Develop-
ic
itr

mental State sta affrontando una revisione di alcuni dei suoi assunti origina-
ed

ri. Con particolare riferimento ai Paesi africani, ad esempio, ci si interroga


se la presenza di una struttura burocratica efficiente e meritocratica, di stile
à
et

confuciano-weberiano, sia davvero essenziale ab initio per far sì che i gover-


ci

ni possano svolgere un ruolo sviluppista. Così come si riflette sulla possibili-


So

tà che le democrazie possano svolgere la stessa funzione dei regimi autoritari


by

nella stabilizzazione politica e nella modernizzazione economica, prestan-


©

do però maggiore attenzione all’inclusione sociale. Sebbene nelle esperienze


asiatiche il tema delle riforme agrarie e della distribuzione del reddito non
ht
ig

fosse del tutto assente, la lente era però centrata sulla crescita del Pil, mentre
yr

le domande provenienti dai lavoratori e dalla società civile risultavano subor-


op

dinate. Nelle esperienze e nel dibattito contemporaneo, invece, affiora una


C

maggiore sensibilità verso le questioni dei diritti civili e politici e della soste-
nibilità sociale e ambientale dello sviluppo.
Così come testimonia la svolta inclusiva avvenuta negli ultimi decenni
in America Latina (D. Kapiszewski, S. Levitsky e D.J. Yashar, The Inclusionary
Turn in Latin American Democracies, Cambridge University Press, 2021): tra il
2000 e il 2014, nel continente sud-americano, la povertà si è ridotta dal 27 al
12% e la disuguaglianza è diminuita di quasi l’11%. Ciò non solamente in vir-

55
tù del boom delle materie prime, causato dalla crescente domanda interna-
zionale, ma anche di misure senza precedenti volte a riconoscere le popola-
zioni indigene, ad accrescere il decentramento e i canali di partecipazione e
a implementare politiche sociali redistributive. Questa svolta è legata solo in
parte alle vittorie elettorali della sinistra, avvenute a partire dal 1998 e pro-
seguite fino alla metà degli anni 2000. Decisivi, invece, sono stati la terza on-
data delle democratizzazioni e gli effetti cumulativi della persistenza demo-
cratica in un contesto di profonde disuguaglianze sociali.

e
La lezione che si può trarre dal dibattito sul New Developmental State

or
è che il ruolo di quest’ultimo non va ipostatizzato, ma deve essere compre-

ut
so in relazione a quello giocato da altri attori, siano essi i diversi livelli di go-

l’a
verno (sovra o sotto-ordinati), la burocrazia, le imprese e i portatori di in-

r
pe
teresse o, più in generale, i cittadini. In altre parole, che per tenere insieme
sviluppo, sostenibilità e coesione sociale è sì necessario un efficace e compe-
amella
ia
tente intervento pubblico, ma senza cadere nelle tentazioni demiurgiche dei

op
modelli top-down del passato. Al contrario, va irrobustito il radicamento del-

C
R

lo Stato nella società, costruendo infrastrutture sociali negoziali per un poli-

o.
rancesco
cy making aperto e riflessivo. in
ul
M
F

il
e
e
ini
ic
d

itr
herar
ed
G

à
lberto
et
ci
So
A

by
©
ht
ig
yr
op

ALBERTO GHERAR INI è professore associato di FRANCESCO RAMELLA è professore ordinario di


C

D
Sociologia economica all’Università di Torino. Tra Sociologia economica e del lavoro all’Università
i suoi lavori: Break up to Get Back Together: The di Torino, dove dirige il ipartimento di Culture,
D
Impact of Unionisation Through Innovative Service politiche e società. Tra le sue pubblicazioni con
Provision on Union Membership and Industrial il Mulino, L’economia della collaborazione (con
Relations. Comparative Report (con A. Bellini, C. Manzo, 2019), Sociologia dell’innovazione
M. Betti, F. Lauria e V. Marasco, Edizioni Lavoro, economica (2013), Imprese e territori dell’alta
2022). tecnologia in Italia (con C. Trigilia, 2010). Socio
dell’Associazione di cultura e politica «il Mulino», fa
parte del Comitato di direzione di questa rivista e di
«Stato e Mercato» (che ha diretto dal 2011 al 2015).

56
Serve più Stato? / 4

UN NUOVO

e
or
ut
INTERVENTISMO

rl’a
pe
ELLO STATO

ia
op
D
C
o.
in
ul
M
il
e
ic
itr
ed
à
et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

LAURA
PENNACCHI
57
’egemo ia eoliberista ha avuto come uno dei suoi cardini l’ostilità allo

e
L
n
n
Stato, alimentata anche da anni di nefasta teorizzazione di matrice blairiana

or
della superiorità delle pratiche di governance su quelle di government, espli-

ut
l’a
citamente indicate, e auspicate, come metodi di «amministrativizzazione» a
mezzo di «depoliticizzazione» (si pensi in Italia ai numerosi scritti di Sabino

r
pe
Cassese in tal senso).

ia
Per fronteggiare le conseguenze sanitarie, economiche e sociali del-

op
la pandemia da Covid-19 (non ancora completamente debellata), in tutto il

C
mondo gli Stati sono stati costretti – dopo un trentennio di restrizioni della

o.
spesa pubblica, di privatizzazioni, di tagli delle tasse per far «arretrare il pe-
in
rimetro pubblico» – a un’assunzione forte di responsabilità nei confronti dei
ennacchi
ul
propri cittadini, tale da far parlare di un «ritorno dello Stato». Ben presto,
M

però, sono cominciati i distinguo, tra cui richieste di vere e proprie regressio-
il

ni e liberazioni dal peso dello Stato, inviti alla prudenza più sottilmente argo-
e
P

ic
aura
mentati (si pensi al libro di Giuliano Amato, Bentornato Stato, ma, Il Mulino,
itr

2022), modelli dell’intervento pubblico mutuati da vecchi schemi riproposti


ed
L

come se nulla fosse accaduto nel frattempo.


à

Questi interventi continuano a gravitare attorno all’idea mainstream


et

che lo Stato debba limitarsi a fornire al mondo produttivo attività regolatoria


ci
So

e incentivi indiretti, e alla convinzione secondo cui di politica pubblica (come


quella industriale) si può parlare unicamente in termini di regole della con-
by

correnza (antitrust, privatizzazioni, difesa dei diritti proprietari ecc.) o di fi-


©

nanziamento delle infrastrutture di base. Secondo tali approcci, a cui appar-


ht

tiene la tesi teorizzata da Cass Sunstein (che fu consigliere di Obama), per cui
ig

il ruolo dello Stato dovrebbe essere quello di fornire «spinte gentili» (nudges),
yr

lo Stato dovrebbe fare cose importanti ma limitate, come finanziare la ricer-


op

ca di base o sostenere gli investimenti infrastrutturali.


C

Uno dei difetti maggiori di tali teorie è che, da una parte, immaginano
interventi pubblici «circoscritti» e «occasionali» (come circoscritti e occasio-
nali sarebbero i fallimenti del mercato), mentre essi nella realtà sono «per-
vasivi» e «strutturali»; dall’altra parte, ignorano un elemento fondamentale
della storia delle innovazioni: in molti casi decisivi il governo non ha soltan-
to dato «spintarelle» o fornito «regolazione», ma ha funzionato come «moto-
re primo» delle innovazioni più radicali e della creazione di lavoro. Nell’av-

58
vicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici – oggi con le tecnologie verdi e
farmacologiche – l’intervento dello Stato si è rivelato e si rivela decisivo, non
solo come «facilitatore» e alimentatore di condizioni permissive, ma come
creatore diretto, motore e traino dello sviluppo.

In molti casi decisivi il governo non ha soltanto dato


«spintarelle», ma ha funzionato come «motore primo»
delle innovazioni

e
or
Questo è, del resto, l’impianto che sorregge il piano di investimenti dell’U-

ut
l’a
nione europea Next Generation Eu, che non a caso ha il suo baricentro ne-
gli investimenti pubblici. Al contrario, gli approcci tradizionali si fondano

r
pe
sull’idea che, quando si tratti di mercati perfettamente concorrenziali, que-

ia
sti bastino a sé stessi. Al contrario, ci sono molte situazioni in cui semplice-

op

U
mente i mercati non ci possono soccorrere. E ciò è ancora più vero quando

n
nuovo
C
la strutturalità della crisi fa avanzare l’esigenza di un’analoga strutturalità

o.
nel ridisegno della composizione della produzione e del modello di svilup-
in
po, quando cioè le economie vanno rimodellate dalle fondamenta: il mercato

intervent
ul
non può chiedere prodotti che nessuno sa se siano possibili e, d’altro canto,
M

non si può assistere inerti al manifestarsi delle implicazioni del sovvertimen-


il

to del mondo in atto.


e

ISM
ic
itr

o
Mai come oggi tale strutturalità è chiamata in causa: l’invasione russa dell’U-

d
ed

ello
craina ha rimescolato le carte un’altra volta, proponendoci uno scenario da
à

«economia di guerra». Si tratta di una svolta storica sul piano geopolitico.


et

S
tato
Stati già molto provati per sostenere l’economia e la società durante l’epide-
ci
So

mia ora dirottano gran parte delle loro risorse verso gli armamenti e gli sforzi
bellici. Al contempo, la precarietà e le difficoltà occupazionali si accrescono,
by

i servizi sociali vengono ristretti, la povertà torna ad aumentare, l’esclusione


©

sociale si incrudelisce, si allargano le disuguaglianze, si rafforzano le mafie e


ht

la corruzione, così come la zona grigia intorno alla criminalità organizzata.


ig

Ma vengono anche distrutti interi ecosistemi, le migrazioni diventano sem-


yr

pre più dolorose, aumentano le ingiustizie ecologiche e ambientali, ai danni,


op

ancora una volta, dei ceti sociali più fragili e disagiati, si rischia di ritardare
C

se non di interrompere la transizione ecologica e anche quella digitale, vista


la crescente militarizzazione, per esempio, dell’intelligenza artificiale.
Tutti gli attori in campo sono spinti, paradossalmente, più da fattori di
debolezza che non da fattori di forza. La Russia sembra essere motivata nella
sua aggressività proprio dalla fragilità della sua economia, ridotta alla quasi
sola monocultura del petrolio e compromessa nelle sue potenzialità basilari
dalle privatizzazioni della shock therapy impostale dall’Occidente dopo il crol-

59
lo dell’Unione Sovietica. Gli Usa cercano di contrastare un declino che troppi
commentatori hanno dato per ineluttabile. La Cina, mentre si ritrova inde-
bolita dalle pratiche molto severe adottate per contenere l’epidemia da Co-
vid e colpita dalla guerra in Ucraina nel grande progetto della Via della seta e
delle linee di comunicazione conseguenti, mira a rafforzare ulteriormente la
sua presenza nelle tecnologie emergenti, dalla difesa ai programmi spaziali,
fino al nucleare e alla produzione di semiconduttori. Il groviglio più intrica-
to riguarda l’Europa, la cui costruzione risulta sempre più difficile, con i Pae-
si mediterranei persistentemente periferici e gli equilibri che si spostano ver-

e
or
so Nord e verso Est.

ut
l’a
Questa situazione altamente incerta e instabile, in cui proliferano populismi,

r
xenofobia, risentimenti anti-establishment, pone gli Stati di fronte al bisogno

pe
di superare il senso comune neoliberista e la visione secondo cui la globaliz-

ia
zazione avrebbe posto fine a qualsiasi possibilità di intervento pubblico. Oggi

op
si sta delineando quella che potrebbe essere descritta come una «globalizza-

C
zione selettiva», che va a sostituirsi alla passata iperglobalizzazione.

o.
in
ennacchi
ul
Oggi si sta delineando quella che potrebbe essere descritta
M

come una «globalizzazione selettiva», che va a sostituirsi


il

alla passata iperglobalizzazione


e
P

ic
aura
itr

Durante l’era neoliberista la globalizzazione viveva della compressione dei


ed
L

costi e la conseguente alimentazione di profitti altrimenti stagnanti consen-


à

tita alle imprese del mondo occidentale. Questo avveniva tramite molti stru-
et

menti, tra cui le delocalizzazioni nei Paesi emergenti a bassissimi salari. Oggi
ci
So

tuttavia ci troviamo al capolinea di questo modello economico. L’inflazione


seguita alla crisi del Covid è dovuta non solo ai problemi delle catene del va-
by

lore e delle interdipendenze, ma anche e soprattutto alla carenza di fonti per


©

la compressione dei costi e l’alimentazione dei profitti che siano diverse dai
ht

bassi salari in passato messi a disposizione dall’iperglobalizzazione neolibe-


ig

rista nei Paesi emergenti.


yr

La verità è che la grande inflazione degli anni Settanta e Ottanta è sta-


op

ta domata proprio con la globalizzazione dei decenni successivi, tutta vol-


C

ta alla delocalizzazione – «la cui sola minaccia», ci ricorda Daron Acemoğlu,


«teneva bassi i salari» – dai Paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo.
Come affermato in passato da Franco Bernabè, presidente di Acciaierie d’I-
talia, si trattava per gli imprenditori di «un albero della cuccagna: costi bas-
si, disponibilità enormi». Le imprese inseguivano persino minime differen-
ze di prezzo anche quando le soluzioni non erano davvero più efficienti: tutto
pur di mantenere bassi i prezzi ed elevati i profitti e remunerare lautamen-

60
te di conseguenza amministratori delegati e manager nell’età della sharehol-
der value (il valore per gli azionisti), delle stock options e dei bonus finanziari.
In questa situazione, come è stato anche evidenziato dalle recenti cri-
si bancarie di Silicon Valley Bank e Credit Suisse, la finanziarizzazione che ha
accompagnato l’iperglobalizzazione è giunta oramai a una impasse. La liqui-
dità creata dalle politiche monetarie «non convenzionali» (Quantitative Ea-
sing e molto altro) adottate progressivamente dalla crisi del 2007-2008 dal-
le banche centrali di tutto il mondo ha temporaneamente salvato il pianeta

e
dall’abisso. Tuttavia, ora che queste politiche vengono ritirate svelano i loro

or
aspetti controproducenti: la spinta a un’ulteriore finanziarizzazione è con-

ut
nessa all’iperglobalizzazione neoliberista, così come il suo annaspare, come

l’a
visto nelle ultime settimane, è connesso con la «globalizzazione selettiva»

r
pe
che le sta subentrando. La «eutanasia del rentier», che Keynes aveva auspica-
to per imbrigliare l’intrinseca predisposizione del capitalismo alle crisi perio-

ia
diche e dare vita a duraturi programmi di pace e di giustizia sociale, è stata

op

U
n
rovesciata nel suo contrario: il potere illimitato della rendita.

nuovo
C
Di conseguenza si moltiplicano le fonti di instabilità, dalla crescita

o.
in
esponenziale di debiti soprattutto privati, agli alti e bassi delle valute, alle

intervent
ul
convulsioni nelle bilance dei pagamenti, al saliscendi di apprezzamenti e de-
M

prezzamenti degli asset interni, a repentini cambiamenti nei movimenti di


il

capitale. L’ipertrofia finanziaria è stata alimentata da bassa inflazione e bas-


e

ISM
ic

si tassi di interesse (addirittura negativi) e ora, con inflazione e tassi di inte-


itr

o
resse in vertiginosa ascesa, si scontra con nuove difficoltà, come testimonia-

d
ed

ello
no non solo lo sconquasso valutario e monetario maldestramente provocato
à

nel Regno Unito dal governo di Liz Truss, ma anche le crescenti turbolen-
et

S
tato
ze dei mercati azionari, il crollo dei rendimenti delle piattaforme digitali e
ci

le problematicità – con forti perdite in borsa, conti al ribasso, difficoltà su


So

sviluppi strategici che promettevano mirabilia come il metaverso – delle Big


by

Five (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft).


©

In questo contesto, si delineano una serie di interrogativi che vanno


ht

dal «fondamento etico lacerato» del capitalismo all’esigenza di liberazione


ig

dal «fondamentalismo di mercato» affidata a un capitalismo progressista,


yr

all’esplicita volontà di ricostruzione delle «basi normative» deteriorate. Al


op

contempo, avanza una richiesta sempre più forte – talora da parte degli stessi
C

capitalisti – di interrogare il capitalismo anche sotto il profilo «morale» e del-


la sua «responsabilità etica», risalendo ai fondamenti della sua legittimità. Se
il carattere accentuatamente etico-politico dei sommovimenti in corso chia-
ma in causa in modo non banale la dimensione dei valori, ciò dà da una par-
te un forte significato morale alla denuncia dei guasti sociali e politici, dall’al-
tra dà alla moralità un elevato contenuto critico, configurando l’agire morale
tout court come «un agire critico restare».

61
Diventa lampante che non possiamo più restare alla superficie dei
sommovimenti in atto, ma dobbiamo risalire alle strutture profonde che ar-
ticolano i nostri sistemi di produzione e i nostri ruoli produttivi, vale a dire i
nostri doveri, i nostri poteri, il nostro prestigio sociale. In questo modo bal-
za in primo piano anche la questione della «democrazia economica», di come
cioè democratizzare profondamente le stesse imprese, estendendo la parte-
cipazione e associando i lavoratori alle decisioni relative.

e
or
Avanza una richiesta sempre più forte di interrogare

ut
il capitalismo anche sotto il profilo morale e della sua

l’a
responsabilità etica

r
pe
A fronte di tutto ciò occorre identificare un nuovo intervento pubblico, nuo-

ia
vo negli strumenti quantitativi e, soprattutto, nei suoi contenuti qualitati-

op
vi. La iperglobalizzazione, gli andamenti dell’inflazione, la finanziarizzazione

C
sono stati per il capitalismo neoliberista un modo fondamentale per con-

o.
trastare la stagnazione e cercare fonti alternative di profitto mediante la re-
in
ennacchi
ul
pressione della forza lavoro, che era stata la promotrice delle straordinarie
M

conquiste dei «trent’anni gloriosi» del secondo dopoguerra ispirati dalla ri-
il

flessione keynesiana.
e
P

Ora, di fronte alle distruzioni e al sangue della guerra, il capitalismo,


ic
aura
itr

lasciato a se stesso, cerca strade similari in: 1) una minore protezione e una
ed
L

maggiore concorrenza nei servizi per fare spazio a una loro ulteriore «mer-
catizzazione» a vantaggio degli operatori privati; 2) una più forte canalizza-
à
et

zione degli investimenti negli armamenti per risvegliare gli «spiriti animali»
ci

assopiti in un ciclo innovativo che molti esperti vedono volgere ormai verso
So

l’esaurimento. Ancora una volta verrebbero disattesi i moniti di Karl Polanyi


by

che già per gli anni Trenta del Novecento ammoniva che «permettere al mec-
©

canismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli es-
seri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impie-
ht
ig

go del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione della società».


yr

Per questo è il momento di immaginare forme di intervento pubbli-


op

co finalizzate alla costruzione di un «nuovo modello di sviluppo» fondato sul


C

lavoro e sulla «piena e buona occupazione». È qui che l’Europa ha un ruolo


fondamentale da svolgere, a dispetto di tutte le sue contraddizioni, esitazio-
ni, arretramenti. Sarebbe infatti esiziale se, invece di rimodellare in tutt’altra
direzione e con tutt’altri contenuti l’intero processo di sviluppo economico
e sociale puntando sul lavoro e i bisogni reali sociali insoddisfatti, si volesse
perseguire la pericolosa ipotesi di basare il rilancio della crescita e la ricerca
di nuove fonti di profitti su una minore protezione e una maggiore concor-

62
renza nei servizi, la quale comporterebbe tagli alla spesa sociale e nuove pri-
vatizzazioni su scala globale in campi strategici come la sanità e affini.
Così come sarebbe esiziale arrendersi all’idea che l’innovazione sia
possibile solo se veicolata da spese in armi e in guerra a cui andrebbe, pertan-
to, finalizzato in via prioritaria il sostegno dell’intervento pubblico, mentre è
negli investimenti per la pace che vanno urgentemente identificate le sorgen-
ti dell’innovazione del futuro. Al contrario, proprio questo tempo drammati-
co è il tempo di perseguire uno spirito «rivoluzionario» analogo a quello che

e
infiammò il New Deal di Roosevelt – ben più eretico e immaginifico dei pro-

or
grammi di spesa propugnati dai keynesiani della «sintesi neoclassica».

ut
r l’a
È necessario costruire un nuovo modello di sviluppo

pe
con il quale porre mano profondamente a «cosa,

ia
per chi, come» produrre

op

U
n
nuovo
C
È necessario costruire un «nuovo modello di sviluppo» con il quale porre

o.
mano profondamente a «cosa, per chi, come» produrre e per il quale mobili-
in

intervent
ul
tare forme radicali di quello Stato come employer of last resort (datore di lavo-
M

ro di ultima istanza) ipotizzato da Keynes e da Minsky. Se è sbagliato vedere


il

il ripristino generalizzato e indiscusso dell’autorità statale ovunque – quan-


e

ISM
do in realtà il ritorno dello Stato è contradditorio e spesso piegato al servizio
ic
itr

o
«predatorio» del capitale e dei poteri privati – è errato anche esprimere tota-

d
ed

ello
le scetticismo sulla possibilità che lo Stato sia in grado di identificare «mis-
sioni» innovative alternative a quelle scaturenti dai mercati e dalle impre-
à
et

S
se, come fa Alessandro Aresu, compiendo atti di fede solo negli animal spirits

tato
ci

schumpeteriani e nel potere come forza e come dominio e irridendo all’Euro-


So

pa che si ostina a ispirarsi alla «pace perpetua» di Kant e a raccontarsi come


by

«potenza normativa».
©

Non si tratta solo di evitare che delle tecnologie sia fatto un uso di-
storto e antisociale, si tratta piuttosto di riuscire a dare vita alle condizio-
ht
ig

ni per creare e inventare un’innovazione e un processo tecnologico comple-


yr

tamente nuovi, orientati primariamente alla soddisfazione di bisogni sociali


op

insoddisfatti e alla creazione di lavoro addizionale e solo in via derivata alla


C

generazione di nuove fonti di profitto. Si tratta, di conseguenza, di concepi-


re l’innovazione e le nuove tecnologie non come un processo inintenzionale,
imperscrutabile, naturalisticamente determinato, ma come un processo in-
tenzionalmente e strategicamente articolato e modellato, oggi a opera delle
propaggini delle grandi corporation (che, per esempio, fanno dell’automazio-
ne una «galassia di simulazione integrale» che si impone su di noi senza che
abbia luogo un adeguato dibattito pubblico), domani in percorsi alternativi,

63
ad opera di un pensiero e di una progettualità vivificati da una spinta creati-
va e immaginativa alternativa.
Daron Acemoğlu, per esempio, ritiene erronea la presunzione che
l’indirizzo già assunto dall’avanzare della intelligenza artificiale – tutto a ri-
sparmio di lavoro e con impieghi esclusivamente destinati a riconoscimento
facciale, trattamento linguistico, ideazione di algoritmi sostitutivi della co-
gnizione umana, invece che a soddisfare bisogni sociali insoddisfatti quali l’i-
struzione, l’educazione, la cura – sia l’unico possibile, come se fosse naturali-

e
sticamente determinato.

or
ut
L’innovazione e le nuove tecnologie vanno concepite non

l’a
come un processo imperscrutabile, ma come un processo

r
pe
intenzionalmente e strategicamente articolato e modellato

ia
op
Seguendo simili linee di pensiero e di azione, gli Stati (in un’accezione mol-

C
to larga, comprensiva della sfera dello «sperimentalismo istituzionale») pra-

o.
ticherebbero in favore della pace e dei beni comuni quella «direzione dell’in-
in
ennacchi
novazione» che Anthony Atkinson auspicava caldamente. Una direzione che
ul
non può che essere esercitata da un operatore pubblico a scala sovranaziona-
M

le, da uno «Stato innovatore» reale, rispetto al quale Mariana Mazzucato ci


il
e

ricorda che il programma Apollo, quando gli Stati Uniti operarono come in-
P

ic
aura
vestor of last resort e non come lender of last resort, aveva perfino una clauso-
itr

la no excess profit.
ed
L

Si può fare leva sullo spirito rivoluzionario che ha animato il Next Ge-
à

neration Eu, approfittare della rinegoziazione delle regole della governance


et
ci

europea e del «Patto di stabilità e di crescita», dotare l’Europa di una fiscal ca-
So

pacity destinata a finanziare beni pubblici europei, creare nuovi soggetti pub-
blici a scala europea «progettati come combinazioni di infrastrutture di ricer-
by

ca e di imprese pubbliche knowledge-intensive orientate da missioni a lungo


©

termine» secondo la proposta di Massimo Florio. Soggetti in grado di gestire


ht

come proprietà collettiva il capitale intangibile derivante dalla ricerca pub-


ig

blica, come già è avvenuto con il progetto Galileo, che non sarebbe mai stato
yr
op

realizzato se l’Unione europea si fosse attenuta ad angusti criteri di concor-


renza basati solo sui prezzi come fa troppo spesso oggi.
C

LAURA PENNACCHI, economista, più volte eletta


in Parlamento, è stata sottosegretaria al Tesoro con
Carlo Azeglio Ciampi nel primo governo Prodi. È
attiva nella Fondazione Basso e coordina il forum
Economia nazionale della Cgil. Ha pubblicato
numerosi saggi.

64
Serve più Stato? / 5

QUAN O LO STATO

e
or
ut
D
FA IMPRESA

rl’a
pe
ia
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C
o.
in
ul
M
il
e
ic
itr
ed
à
et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

SIMONE
GASPERIN
65
umero speciale del 2012 l’«Economist» sfoggiò una copertina rossa

e
u

or
In
n
n
con l’immagine di Vladimir Lenin con in mano un sigaro marchiato dall’effige

ut
del dollaro. Il titolo recitava The Rise of State Capitalism, l’ascesa del capitali-

l’a
smo di Stato. Un riferimento specifico a quando Lenin, nel 1918, argomentava

r
pe
come «dal punto di vista economico, il capitalismo di Stato [sia] immensa-
mente superiore al nostro attuale sistema economico». Il celebre giornale fi-

ia
nanziario londinese non intendeva certo perorare la causa leninista, bensì

op
semplicemente analizzare la crescente importanza delle imprese statali nel

C
contesto delle economie emergenti (fra tutte la Cina), ma anche in molti Pa-

o.
esi avanzati occidentali, il cui modello di capitalismo liberale stava subendo i
in
asperin
ul
contraccolpi della crisi economica del 2008.
M

Il ritorno del capitalismo di Stato, nella realtà economica e nella di-


il

scussione fra commentatori, studiosi e policymakers, campeggia ormai da una


G

e
imone
decina d’anni. La crisi pandemica e quella legata alle conseguenze della guer-
ic
itr

ra in Ucraina ne hanno rafforzato l’attenzione. Gli Stati europei hanno so-


ed
S

stenuto con capitali pubblici alcuni settori colpiti dagli effetti dei lockdown
à

(si pensi a quello del trasporto aereo con le ricapitalizzazioni di Air France e
et

Lufthansa). L’attuale crisi energetica ci ricorda come i principali soggetti in


ci

questo campo siano grandi imprese a controllo pubblico: Gazprom in Russia,


So

Edf e Uniper in Francia e Germania (recentemente nazionalizzate).


by
©

Un’impresa può essere definita pubblica se è gestita


ht

da soggetti pubblici e nel suo operare incorpora elementi


ig
yr

di politica economica
op
C

Nonostante questo, la concettualizzazione del ruolo dell’impresa pubblica è


ancora legata ad alcune superate teorie del trentennio neoliberista sull’effi-
cienza statica del capitale privato nell’allocare le risorse e nel gestire le im-
prese. Manca una concettualizzazione dell’impresa pubblica come strumento
di politica economica indirizzato a modificare la specializzazione produttiva
e a incidere sull’efficienza dinamica del sistema economico. La storia dell’im-
presa pubblica e del modello italiano di Stato imprenditore precedente alla

66
stagione delle privatizzazioni ce lo ricorda: un’impresa può essere definita
pubblica non solo se è controllata o gestita da soggetti pubblici, ma soprattut-
to se nel suo operare incorpora elementi di politica economica.

La prima storica manifestazione di impresa pubblica può essere rintracciata


nel monopolio fiscale. Un celebre esempio fu quello relativo alla produzione
e alla distribuzione del sale, introdotto in Cina nel III secolo a.C. Per mezzo
di esso le dinastie cinesi riuscirono a ottenere stabili e cospicue entrate fiscali

e
con cui finanziarono la formazione di eserciti nazionali e la costruzione del-

or
la Grande muraglia. In epoche successive, seguendo l’esempio della Francia

ut
di Colbert di fine XVII secolo, i principali Paesi europei introdussero mono-

l’a
poli fiscali su una serie di beni essenziali, fra tutti il tabacco. Ancora nel 1950,

r
pe
l’azienda statale di tabacco Seita (che produceva le celebri Gauloises) contri-
buiva per il 6% delle entrate tributarie francesi.

ia
La seconda forma di impresa pubblica fu quella della public corpora-

op
tion, dal nome che le attribuì il ministro dei Trasporti britannico Herbert

QUAN O LO STATO FA IMPRESA


Morrison nel 1933, con riferimento alla società del trasporto pubblico londi-

o.
in
nese appena creata. La public corporation – ente pubblico economico in Italia o

D
ul
établissement public à caractère industriel et commercial in Francia – operava in
M

settori in cui le alte barriere d’investimento all’ingresso e la difficile conten-


il

dibilità del bene (o del servizio) tendevano a configurarli come monopoli na-
e
ic

turali. Si trattava principalmente di attività connesse al settore elettrico, dei


itr

trasporti su rotaia e delle telecomunicazioni. L’obiettivo era evitare la forma-


ed

zione di rendite monopolistiche private che avrebbero ostacolato uno svilup-


à

po infrastrutturale omogeneo, l’accesso a servizi pubblici essenziali e la forni-


et

tura di input produttivi a basso costo. In Italia, l’esempio più celebre fu l’Ente
ci

nazionale per l’energia elettrica (Enel), istituito nel 1962.


So

Infine, maggiore rilevanza assunse, nella seconda metà del secolo scor-
by

so, la società per azioni a controllo pubblico. Lo Stato diventava azionista e


©

gestore di imprese commerciali che spesso si trovavano a competere con altri


ht

soggetti privati sul piano domestico e internazionale. Gli scopi di questa for-
ig

mula furono prevalentemente di politica industriale. Si rifacevano alla tutela


yr

di settori fondamentali dal punto di vista delle interdipendenze con il resto


op

del sistema economico o allo sviluppo di attività strategiche per il presidio


C

tecnologico di aree che il settore privato era riluttante a sviluppare, data la


maggiore incertezza del ritorno economico. Ne furono esempi la Renault e la
Volkswagen per il settore automobilistico, la Rolls-Royce nel campo dei mo-
tori aerei, ma anche l’intera industria aerospaziale europea (Airbus) e larga
parte di quella elettronica (semiconduttori e computer).
Come in altri Paesi europei, anche l’Italia presentava tutte queste for-
me di impresa pubblica nel periodo precedente alla stagione delle privatiz-

67
zazioni, inaugurata nel 1992. Al tempo stesso però, il nostro Paese aveva spe-
rimentato un modello del tutto originale di «Stato imprenditore», termine
con cui in Italia – ma anche all’estero, dove il fenomeno è stato ampiamente
studiato e in una certa misura imitato – si faceva riferimento alle due grandi
holding pubbliche che caratterizzarono la nostra economia nel Secondo do-
poguerra: l’Ente nazionale idrocarburi (Eni), ma soprattutto l’Istituto per la
ricostruzione industriale (Iri).

e
or
L’Italia, prima del 1992, presentava diverse forme

ut
di impresa pubblica, oltre alle due grandi holding Eni e Iri

r l’a
pe
Fondato nel 1933 con l’intento temporaneo di salvare le tre principali banche
del Paese e l’apparato industriale a esse collegato, nel dopoguerra l’Iri ricoprì

ia
op
un ruolo permanente nella gestione di settori chiave: siderurgia, meccanica,
cantieristica, telecomunicazioni, energia elettrica e trasporto marittimo. Da

C
o.
semplice finanziaria di partecipazioni, si trasformò in un gruppo industria-
in
le integrato, per quanto diversificato al suo interno. Le società operative ven-
asperin
ul
nero raggruppate in «finanziarie di settore», a loro volta controllate dall’ente
M

pubblico al vertice, l’Istituto. Da questa riorganizzazione merceologica nac-


il
G

quero le varie Stet, Finsider, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Sme, Fin-


e
imone
ic

mare e altre. L’Iri incarnò un modello di Stato imprenditore ben oltre le fasi
itr

della ricostruzione post-bellica (1948-1953) e del miracolo economico (1954-


ed
S

1963).
à

Dell’Iri si ricorda soprattutto il contributo che le aziende Finsider die-


et
ci

dero nell’immediato dopoguerra allo sviluppo di un’efficiente siderurgia na-


So

zionale, capace di fornire input produttivi di buona qualità e a basso costo per
l’espansione dell’industria meccanica produttrice di automobili, macchine
by

utensili ed elettrodomestici. Oppure si evoca la realizzazione delle principa-


©

li arterie autostradali, che diedero un ulteriore impulso allo sviluppo dell’in-


ht

dustria automobilistica. Ma spesso si dimentica la sua permanente funzione


ig
yr

di miglioramento della specializzazione produttiva del Paese. L’Iri si incaricò


op

infatti di sviluppare il settore aerospaziale (con l’assorbimento delle attività


C

Fiat nell’Aeritalia); aiutò la nascita e il consolidamento di un’industria nazio-


nale dei semiconduttori (con la Sgs-Ates, ossia la metà italiana di Stmicroe-
lectronics) e dei radar (con la Selenia); fu pioniere nel campo dell’informati-
ca con la Finsiel, diventando il secondo produttore europeo di software. Fece
poi dell’Alitalia una compagnia di prestigio a livello internazionale, quarta
fra le grandi europee per dimensioni, e anche la Rai e l’infrastruttura televi-
siva nazionale furono create dentro la sua orbita.

68
All’Iri si deve anche la sopravvivenza di importanti attività manifattu-
riere, con operazioni e investimenti di lungo periodo che portarono alla crea-
zione di campioni nazionali competitivi a livello mondiale, come l’Italtel (te-
lecomunicazioni), l’Elsag (automazione industriale), l’Ansaldo (ingegneria
industriale, dell’energia e dei trasporti), per non parlare della ristrutturazio-
ne della Fincantieri, che garantisce tuttora all’Italia una leadership mondiale
nel settore. Inoltre, l’Iri trasformò delle modeste concessionarie telefoniche
regionali nel gruppo Telecom Italia, che nel 1997, poco prima della sua pri-
vatizzazione, era diventata la quinta società di telecomunicazioni al mondo,

e
or
con 126 mila dipendenti in oltre 40 Paesi.

ut
Oltre a questi risultati, l’Iri si fece veicolo di vere e proprie «missio-

l’a
ni» pubbliche. Prima fra tutte, quella di formare una classe di tecnici, qua-

r
dri e dirigenti aziendali, tra cui anche personale proveniente da Paesi in via

pe
di sviluppo, con cui si mantenevano rapporti commerciali di lungo perio-

ia
do. Diede anche un contributo all’inversione della divergenza economica tra

op
Nord e Mezzogiorno. A partire dall’opera di infrastrutturazione: in una pri-

QUAN O LO STATO FA IMPRESA


ma fase con lo sviluppo della connessione elettrica (fino al 1962), poi dal

o.
1957 con i collegamenti telefonici (la densità di installazioni telefoniche del
in

D
Sud rispetto al Centro Nord passò dal 26,8% nel 1957 al 77,1% nel 1992), infi-
ul
M

ne con la costruzione delle autostrade Milano-Napoli (A1), Bologna-Taranto


il

(A14) e Napoli-Bari (A16), che collegarono i mercati e le produzioni del Sud


e

a quelli del Nord. Dalla fine degli anni Cinquanta, l’Iri diede un impulso de-
ic
itr

terminante all’industrializzazione del Mezzogiorno tramite la localizzazio-


ed

ne di grossi stabilimenti manifatturieri nel Sud – come l’Italsider a Taran-


to (1961), l’Alfasud a Pomigliano d’Arco (1968), l’Italtel a L’Aquila (1964), la
à
et

Ates (poi Sgs-Ates) a Catania (1962) e la creazione di un ecosistema indu-


ci

striale in cui l’industria privata potesse inserirsi.


So
by

Spesso accusato di essere un’enorme fonte di sprechi,


©

l’Iri fu in realtà decisivo per lo sviluppo economico-sociale


ht

del Paese
ig
yr

Infine, fondamentale fu l’impegno dell’Iri nella creazione e diffusione di co-


op

noscenza all’interno del sistema nazionale di innovazione. La spesa in ricer-


C

ca e sviluppo dell’Iri rispetto al totale delle imprese crebbe dal 7% del 1963
al 26% del 1992. L’Iri contribuì a ridurre la dipendenza tecnologica dall’este-
ro e facilitò l’accesso di soggetti nazionali alla conoscenza generata, grazie
a un’indulgente politica brevettuale e al coinvolgimento di imprese esterne
nelle attività dei grandi centri di ricerca e sviluppo delle aziende Iri. Il siste-
ma di ricerca Iri era aperto e mirava a potenziare il trasferimento tecnologi-
co fra imprese Iri (e non) e università.

69
L’Iri fu «mandato in pensione» quando non aveva ancora sessant’anni,
per poi essere liquidato nel 2002. Il suo periodo di attività coincise con quel-
lo più prospero dell’economia italiana: nei primi anni Novanta, infatti, le sta-
tistiche sui livelli di reddito attribuivano all’Italia il rango di quinta potenza
industriale al mondo. Nonostante sia spesso accusato di essere stato un’enor-
me fonte di sprechi, tutto quello che l’Iri ha fatto nel Secondo dopoguerra è
costato allo Stato circa 54 miliardi di euro (a prezzi del 2018) in ricapitaliz-
zazione dell’ente (una media annua dello 0,17% del Pil). Le significative per-

e
dite accumulate dall’Iri a partire dal 1974 furono rappresentate per circa tre

or
quarti dal settore siderurgico, che dal 1975 entrò nella sua più profonda cri-

ut
si globale e fu destinatario di massicci sussidi statali in tutti i Paesi europei.

l’a
A fronte di trasferimenti pubblici relativamente modesti rispetto alle dimen-

r
pe
sioni dell’Iri (che produceva circa il 3% del valore aggiunto nazionale) e co-

ia
munque determinati da fattori esterni, l’azione dell’Iri fu decisiva per lo svi-

op
luppo economico-sociale del Paese e il suo lascito all’apparato industriale e

C
infrastrutturale italiano è stato considerevole (si pensi solo a Leonardo, Stmi-

o.
croelectronics, Fincantieri o alla ex Telecom Italia).
in
asperin
ul
La stagione globale delle privatizzazioni decollò simbolicamente con la quo-
M

tazione di British Telecom nel novembre del 1984 (al tempo la più grande
il
G

offerta pubblica iniziale della storia), toccando il picco tra la fine degli anni
imone
ic

Ottanta e la fine dei Novanta. Le consistenti privatizzazioni di quegli anni


itr

hanno ridotto le dimensioni e uniformato i modelli preesistenti di impresa


ed
S

pubblica, senza però sradicarla dall’orizzonte economico. Sono quasi del tut-
à
et

to scomparsi il monopolio fiscale e la public corporation, permane invece l’im-


ci

presa a controllo statale, la State-owned enterprise (Soe). Il controllo pubblico


So

può essere al 100%, oppure più comunemente è di maggioranza relativa nelle


imprese quotate in borsa. Seguendo le Oecd Guidelines on Corporate Governance
by

of State-Owned Enterprises del 2015, molti Stati hanno elaborato una ownership
©

policy che interessa trasversalmente il portafoglio delle imprese a controllo


ht

pubblico, a prescindere dalle diversità dimensionali, di struttura societaria e


ig
yr

di settore. Oggi si può parlare a buon titolo dell’esistenza di «sistemi naziona-


op

li di imprese a partecipazione statale».


C

L’Italia non ha ancora approfittato di questo mutamento di prospetti-


va sul tema. Al nostro Paese mancano un’organizzazione coerente e un ragio-
namento strategico rispetto al suo sistema di imprese pubbliche, nonostan-
te da parecchi anni si discuta di un fatidico ritorno dello Stato imprenditore.
Con le privatizzazioni, il perimetro dell’impresa pubblica si è solo in parte ri-
dimensionato dal punto di vista quantitativo, ma la sua mutazione qualitativa
è stata significativa. Da Stato imprenditore attivo, coinvolto nella dinamica

70
dello sviluppo economico, si è trasformato in un più passivo Stato azionista
guidato da logiche prevalentemente finanziarie.

All’Italia mancano un’organizzazione coerente e un


ragionamento strategico rispetto al suo sistema di imprese
pubbliche

Uno studio del Forum Disuguaglianze Diversità ha analizzato il sistema delle

e
or
imprese controllate dal ministero dell’Economia (Mef) o indirettamente tra-

ut
mite Cassa depositi e prestiti (Cdp), a sua volta controllata all’82,8% dal Mef.

l’a
Sei di queste campeggiano fra le prime dieci società italiane per fatturato.

r
pe
Enel ed Eni sono rispettivamente prima e seconda, anche per capitalizzazio-
ne di borsa. Poste italiane e Ferrovie dello Stato sono i due principali gruppi

ia
per numero di addetti. Ferrovie dello Stato è la più importante impresa per

op
investimenti fissi, Terna si colloca al quarto posto. Leonardo è la società che

QUAN O LO STATO FA IMPRESA


più investe in Italia in ricerca e sviluppo. Le principali 20 società industria-

o.
li a controllo pubblico nel 2018 – da questa lista sono escluse le quattro gran-
in

D
ul
di società multiservizi controllate da enti pubblici locali (A2A, Hera, Iren,
M

Acea), le partecipazioni di minoranza (fra cui Tim, Webuild e Acciaierie d’I-


il

talia), e quelle aggiuntesi negli ultimi anni (Ita Airways e Autostrade per l’I-
e

talia) – totalizzavano 255 miliardi di euro di fatturato (14,3 miliardi in profit-


ic
itr

ti netti cumulati) e oltre mezzo milione di addetti (di cui 354 mila in Italia).
ed

Rispetto al complessivo settore delle imprese, quelle «pubbliche» rappresen-


tavano il 2,9% degli addetti, il 17% degli investimenti fissi e il 18,4% della spe-
à
et

sa in ricerca.
ci

Il problema è che le strategie di questi soggetti sistemici per l’econo-


So

mia nazionale vengono elaborate e decise esclusivamente in seno alle impre-


by

se stesse, in isolamento e talvolta in contrasto fra di loro. Spesso prevalgono


©

scelte di carattere finanziario che tendono a massimizzare la remunerazio-


ne degli azionisti – per la maggior parte rappresentati da investitori istituzio-
ht
ig

nali esteri nel caso delle società quotate – a scapito del reinvestimento di ri-
yr

sorse derivanti dagli utili. Nonostante la comunanza dell’azionista pubblico


op

di controllo, non esiste un’esplicita ownership policy, né tantomeno una strut-


C

tura di coordinamento che possa favorire la nascita di sinergie o il persegui-


mento di obiettivi industriali di interesse pubblico. Il potenziale economico
di questo apparato industriale a controllo pubblico rimane ampiamente sot-
toutilizzato.

Se la Cina è diventata una potenza economica globale, lo deve anche alla for-
za propulsiva del suo insieme di società statali. Il Fondo monetario interna-

71
zionale ha stimato che le imprese pubbliche cinesi pesano per oltre il 13% de-
gli asset totali delle 2.000 più grandi imprese mondiali. Fra le 100 più grandi
società al mondo per fatturato presenti nella rivista «Fortune Global 500», 28
sono gruppi cinesi a controllo pubblico. Le 97 più importanti central SOEs ci-
nesi sono supervisionate e coordinate da un’entità pubblica di diretta emana-
zione del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare, la State-owned Assets
Supervision and Administration Commission (Sasac). Se fosse considerata
come un’unica State-holding company, la Sasac risulterebbe il più grande com-

e
plesso industriale al mondo, con un fatturato complessivo di 39,4 trilioni di

or
yuan (circa 5,7 trilioni di dollari Usa), che corrisponderebbe a oltre il 32% del

ut
l’a
Pil cinese.
Fra le principali imprese controllate da Sasac si trovano: ChemChina

r
pe
(la proprietaria di Pirelli e Syngenta), Sinopec (il più grande gruppo al mon-

ia
do per la raffinazione di petrolio e gas), Crrc (il più grande costruttore mon-

op
diale di treni), Baowu (il più grande produttore mondiale di acciaio), la so-

C
cietà farmaceutica Sinopharm, il costruttore aereospaziale Comac, il secondo

o.
e terzo produttore automobilistico in Cina (Faw e Dongfeng), le tre principa-
in
li compagnie aree (China Southern Airline, China Eastern Airlines, Air Chi-
asperin
ul
na), la rete elettrica nazionale di State Grid Corporation of China, la compa-
M

gnia energetica China National Petroleum Corporation, la più grande società


il
G

di ingegneria civile al mondo (China State Construction Engineering) e il più


imone
ic

grande produttore di terre rare (China Rare Earth Group).


itr

Il modello Sasac è rilevante per l’esistenza di una gestione del siste-


ed
S

ma di imprese statali con finalità pubbliche. Sasac è responsabile dei prin-


à
et

cipali aspetti finanziari delle controllate, nomina i vertici aziendali, valuta


ci

la performance economica, organizza e coordina operazioni di fusione o ac-


So

quisizione, ma soprattutto si assicura che le imprese pubbliche rispondano


by

a obiettivi generali e specifici di politica economica stabiliti dal Consiglio di


Stato, in linea con le disposizioni dei piani quinquennali elaborati dalla Com-
©

missione nazionale di sviluppo e riforme.


ht

Se il caso cinese può sembrare non replicabile in Occidente, non man-


ig
yr

cano in Europa alcuni modelli interessanti. L’esempio francese è probabil-


op

mente quello di maggiore rilevanza per dimensione, governance e forma or-


C

ganizzativa del sistema di imprese pubbliche. In Francia l’agenzia pubblica


Agence des Participations de l’État (Ape) si occupa di gestire il patrimonio
delle 83 principali partecipazioni statali, fra cui si annoverano Edf, Air Fran-
ce, Engie, Thales, Orange, Renault, Safran, Sncf, Airbus e altre. L’insieme di
queste società raggiunge un fatturato complessivo di 423 miliardi di euro
(nel 2021), le prime venti per numero di addetti impiegano circa 1,7 milio-
ni di occupati.

72
In modo simile alla Sasac cinese, l’Ape incarna una «dottrina azionaria» che
vede le partecipazioni statali non soltanto come asset finanziari da cui spre-
mere flussi di dividendi, ma anche come strumenti per soddisfare missioni di
interesse pubblico generale legate alla sovranità energetica, tecnologica e mi-
litare. L’Ape si struttura in divisioni settoriali (industria, energia, trasporti,
servizi e finanza), con responsabili incaricati di seguire le attività delle con-
trollate di area, non solo dal punto di vista amministrativo e finanziario, ma
anche per quanto riguarda gli aspetti industriali. Nomina poi i membri dei

e
consigli di amministrazione delle società controllate, inclusi quelli in rappre-

or
sentanza dello Stato francese, talvolta gli stessi funzionari dell’agenzia. Infi-

ut
l’a
ne, il commissario dell’Ape partecipa di diritto al Conseil de l’Industrie, l’or-
gano statale che definisce le principali strategie di politica industriale del

r
pe
Paese.

ia
op
Le imprese a controllo pubblico sono tornate centrali come

QUAN O LO STATO FA IMPRESA


strumenti per soddisfare missioni legate alla sovranità
o.
in
energetica, tecnologica e militare

D
ul
M

In un contesto mondiale in cui da più di dieci anni le imprese a controllo


il

pubblico sono tornate ad acquisire una centralità nella vita economica degli
e
ic

Stati, l’Italia dovrebbe recuperare gli elementi più virtuosi della sua tradizio-
itr

ne di Stato imprenditore. Ricreare un «nuovo Iri» sul modello di quello già


ed

esistito sarebbe difficilmente funzionale: mancano le competenze in ambito


à

industriale, vi sono dei vincoli in materia di concorrenza e il grado di com-


et
ci

plessità del sistema è assai maggiore. Ma un ripensamento dell’attuale siste-


So

ma di imprese pubbliche va iniziato con urgenza.


Un primo passo potrebbe essere quello di delegare la gestione delle
by

principali partecipazioni statali – attualmente in capo a Cdp e al Mef – a un


©

unico Ente nazionale per le partecipazioni dello Stato (Enps), ideato sul mo-
ht

dello francese. Se gli venissero attribuite funzioni di coordinamento e di su-


ig
yr

pervisione, il nuovo ente potrebbe valorizzare l’impatto sistemico delle at-


op

tuali partecipate. Idealmente, l’Enps avrebbe un’autonoma entità giuridica


C

e sarebbe supervisionato da uno specifico comitato interministeriale. Do-


vrebbe essere amministrato da un organo esecutivo con componenti nomi-
nati da un apposito comitato parlamentare a maggioranza qualificata, a cui
si potrebbe affiancare un consiglio di supervisione composto dagli ammini-
stratori delle imprese controllate, oltre che da rappresentanti dei lavorato-
ri, del mondo accademico e delle principali organizzazioni della società ci-
vile.

73
Sulle novità istituzionali e sui dettagli tecnici di una riforma del si-
stema si potrebbe discutere a lungo. Ma il messaggio complessivo dovrebbe
essere evidente: se vuole trovarsi preparata rispetto alle nuove sfide econo-
miche, l’Italia non può più rinunciare all’impresa pubblica come strumento
attivo di politica economica.

e
or
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pe
ia
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C
o.
in
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ul
M
il
G

e
imone
ic
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S

à
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ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

SIMONE GASPERIN è dottorando di ricerca


presso l’Institute for Innovation and Public Purpose
di Londra. Fa parte del Forum isuguaglianze
D
iversità ed è consulente dell’Institute for Public
D
Policy Research. Ha pubblicato Economic Crisis
and Economic Thought: Alternative Theoretical
Perspectives on the Economic Crisis (Routledge,
2019).

74
Serve più Stato? / 6

LO STATO

e
or
ut
TAUMATURGO

rl’a
pe
NELL’ERA

ia
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C
EI BIG ATA o.
in
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©
ht
ig
yr
op
C

LORENZO
CASINI
75
o tato è, a cora oggi, sotto i riflettori. È la comunità politica per ec-

e
or
L
S
n
cellenza. È la meta più ambita da un popolo che voglia esercitare la propria

ut
sovranità su di un determinato territorio. Anche la pandemia ha confermato

l’a
la posizione principe dello Stato quale soggetto chiamato a gestire gli effetti

r
pe
del contagio da Covid-19 nel proprio territorio.
Oramai gli Stati sono censiti e valutati secondo i più diversi indica-

ia
tori e criteri. La classifica più nota è quella basata sul Prodotto interno lor-

op
do (Pil), che ha dato vita a organismi intergovernativi come il G7 e il G20.

C
Gli studi statistici che misurano gli Stati sono numerosi e prendono in esa-

o.
me pressoché ogni aspetto, come la competitività economica, il merito cre-
in
asini
ul
ditizio (il cosiddetto credit rating), il tasso di democrazia o lo stesso livello di
M

«statalità».
C

il
orenzo
Di declino e «crisi» dello Stato si è parlato in realtà molte volte nel pas-
e

sato: si pensi alle note posizioni critiche già formulate nel XIX e nel XX seco-
ic
itr

lo, come le teorie marxiste con la ineluttabile caduta dello Stato prospetta-
L

ed

ta da Engels; o al «più gelido di tutti i gelidi mostri» descritto da Nietzsche; o


à

al «pericolo maggiore» per la civiltà europea lamentato da Ortega y Gasset. È


et

facile comprendere, allora, perché le dinamiche della globalizzazione dell’ul-


ci

timo quarto di secolo, con l’espansione di organismi, regole e vincoli interna-


So

zionali, abbiano così rinvigorito il dibattito sulla «fine» dello Stato.


by
©

I segnali di buona salute dello Stato come comunità


ht

politica non mancano; ciò che oggi appare in crisi


ig
yr

è lo Stato democratico
op
C

Ma come sta davvero, oggi, lo Stato? I segnali di buona salute come comuni-
tà politica non mancano; ciò che oggi appare in crisi, invece, sembra essere
lo Stato democratico.
Un primo segnale delle buone condizioni di salute dello Stato è il sem-
pre più frequente uso di questo termine e del relativo concetto, in modo di-
chiaratamente anacronistico, per ricostruire dinamiche organizzative o isti-
tuzionali dell’antichità.

76
Il fenomeno non è nuovo ed è ben noto, anche perché è stato trattato
da molti studiosi, in differenti Paesi e in epoche diverse. Francis Fukuyama,
per esempio, ha iniziato la propria ricostruzione storica dei sistemi politici
dalla Cina, dove si sarebbe sviluppato uno Stato moderno nel senso weberia-
no più di duemila anni fa, in assenza però di rule of law o democrazia. E la no-
zione di Stato è oramai usata anche negli studi sull’antico Egitto, con riguar-
do alla «Unione dei due regni» (la cosiddetta sma tawy).
Ernst-Wolfgang Böckenförde, tra i massimi studiosi dello Stato, ha tut-

e
tavia rilevato, già negli anni Sessanta del XX secolo, che non sarebbe più pos-

or
sibile oggi parlare di Stato degli Elleni, degli Incas, del Medioevo e dello Stato

ut
di Platone, Aristotele e Tommaso d’Aquino. Per Böckenförde, tra i fondatori

l’a
della nota rivista «Der Staat», sarebbe infatti una acquisizione della scienza

r
pe
storica che quello di Stato non è un concetto universale, ma serve a indicare e
descrivere una forma di ordinamento politico sviluppatasi in Europa, dal se-

L
ia

o
colo XIII alla fine del XVIII, come processo di «secolarizzazione».

op

S tato
Quando si tratta il concetto di Stato, si è comunque di fronte a una no-

C
zione non solo storicamente determinata, ma anche culturalmente situata.

o.

taumaturgo
in
Tuttavia, la parola Stato continua a identificare la principale forma di regi-
ul
me politico e, sotto questo profilo, non sembra ancora mostrare seri segni di
M

cedimento.
il

Un secondo segnale della buona salute in cui si trova lo Stato viene dal
e

NELL’ERA EI BIG ATA


ic

numero dei cosiddetti «Paesi che non esistono» (Middleton), ossia i circa cin-
itr

quanta territori che chiedono di diventare o essere riconosciuti come Stati se-
ed

condo il diritto internazionale. Sono, per esempio, Belucistan, Cabinda, Cipro

D
à

del Nord, Circassia, Crimea, Papua occidentale, Saharawi, Tibet o Taiwan;


et

senza tralasciare il caso controverso dello «Stato islamico», l’Is.


ci

D
So
by

A fronte dell’incremento del numero di istituzioni


internazionali, quello degli Stati non si è ridotto, anzi
©
ht
ig

A fronte dell’incremento del numero di istituzioni internazionali, quello de-


yr

gli Stati non si è ridotto, anzi: quelli riconosciuti dall’Onu, come visto, sono
op

oggi 193; nel 1970, erano 123. Dal Secondo dopoguerra sono aumentati sia
C

gli Stati formalmente riconosciuti come tali, sia quelli de facto: ancora oggi è
lo Stato la figura che domina lo spazio giuridico globale e che rappresenta il
punto di arrivo «ontologico» dei popoli. Né vanno dimenticate le spinte se-
paratiste divenute sempre più pressanti anche in Europa, con la Catalogna in
Spagna e la Scozia nel Regno Unito.
Già agli inizi degli anni Novanta del XX secolo, del resto, la studiosa
Susan Strange, nel ricostruire il «retrocedere» (retreat) dello Stato, oltre a la-

77
mentare una sottovalutazione del fattore «tecnologia», rilevava il parados-
so che mentre i governi degli Stati consolidati, soprattutto in Nord Ameri-
ca e nell’Europa occidentale, vedevano una progressiva perdita della propria
autorità, cresceva la fila delle società che vogliono avere un proprio Stato; a
riprova di ciò, in Asia, lo Stato sembra tutt’altro che in crisi, perché esso ha
rappresentato e ancora rappresenta il principale strumento per raggiungere
crescita economica, infrastrutture moderne e migliori standard di vita.

Oggi non è il concetto di Stato a essere in crisi, perciò, quanto semmai l’idea

e
or
di Stato «democratico», costruito sulla separazione dei poteri, che si è affer-

ut
mata a partire dalla fine del XVIII secolo. Un’idea di Stato in cui la nozione di

l’a
sovranità è strettamente legata al mantenimento della democrazia. Ecco per-

r
ché diverse istituzioni globali si impegnano per sostenere gli Stati, fino a mi-

pe
surarne il tasso di statalità: è il caso, per esempio, del Fragile State Index, ri-

ia
sultato di una serie di indicatori adottati dal Fund for Peace per valutare, per

op
ogni Stato, aspetti quali l’effettivo controllo del territorio o l’effettivo mono-

C
polio del legittimo uso della forza, la eventuale perdita di autorità, la capaci-

o.
tà o meno di fornire pubblici servizi o anche la capacità o meno di interagire
con altri Stati a livello internazionale.
in
asini
ul
M

Analogamente, l’attenzione verso le ipotesi di fallimento dello Stato –


C

e verso i cosiddetti «Stati falliti» – evidenziano altri paradossi, collegati all’u-


il
orenzo
e

so di indicatori globali. Per un verso, i diversi indici e le varie classifiche man-


ic

tengono lo Stato – e gli Stati – quale «centro di gravità» del mondo, al punto di
itr
L

ed

monitorarne anche lo stato di salute. Per altro verso, però, alcune misurazio-
ni – si pensi al rating creditizio – possono avere l’effetto di indebolire pesan-
à
et

temente la sovranità statale, talvolta accelerando quei processi di «fallimen-


ci

to» che, viceversa, altre iniziative internazionali mirano a scongiurare. Ed è


So

evidente quanto le innovazioni tecnologiche possano oggi accentuare e acce-


lerare tutti questi processi.
by
©

La pandemia ha confermato la posizione dominante


ht
ig

dello Stato quale entità di regolamentazione e di esercizio


yr

sovrano del pubblico potere


op
C

Un terzo segnale delle buone condizioni dello Stato è rappresentato dalle vi-
cende legate alla pandemia del 2020, con particolare riferimento al ruolo che
tutti gli Stati nel mondo hanno avuto, sia nel proprio territorio, sia in coope-
razione tra loro, nel contrastare la emergenza sanitaria da Covid-19 e nel ten-
tare di dare sostegno anche economico alle popolazioni colpite.
La pandemia, come anticipato, ha ancora una volta confermato la po-
sizione dominante dello Stato quale entità di regolamentazione e di eserci-

78
zio sovrano del pubblico potere su una determinata popolazione all’interno
di un dato territorio. In tutto il mondo, gli Stati hanno approvato misure che
hanno interessato diversi aspetti della vita politica, sociale ed economica dei
rispettivi popoli. E l’esperienza della pandemia è stata anche una nuova oc-
casione per approfondire la portata e i limiti dei poteri di emergenza e dello
Stato di eccezione.
Un primo gruppo di azioni intraprese dagli Stati ha riguardato inter-
venti di carattere sanitario in senso stretto, come, per esempio, l’introduzio-

e
ne dell’obbligo del distanziamento tra le persone o dell’uso di mascherine. Ri-

or
entrano in quest’ambito anche le campagne di vaccinazione di massa. Sotto

ut
questo aspetto, si tratta di poteri che lo Stato ha esercitato più volte in passa-

l’a
to, di fronte a epidemie o emergenze sanitarie di qualsiasi tipo. Mai, tuttavia,

r
pe
si era registrata prima di questa occasione una dimensione tanto estesa, il che
è ovviamente dovuto anche alla crescita demografica degli ultimi decenni.

L
ia

o
Un secondo gruppo di provvedimenti ha invece avuto a oggetto la li-

op

S tato
mitazione di libertà fondamentali, quali per esempio la libera circolazione e

C
la libertà di riunione. A questi si sono aggiunte tutte le misure dirette a im-

o.

taumaturgo
in
pedire o limitare lo svolgimento di attività sociali ed economiche, nonché l’e-
ul
rogazione di servizi pubblici. La chiusura di scuole, teatri, cinema, la sospen-
M

sione dei campionati sportivi, l’obbligo del lavoro a distanza sono solo alcuni
il

degli interventi attuati dagli Stati negli anni 2020 e 2021 per contrastare la
e

NELL’ERA EI BIG ATA


ic

pandemia nella sua fase più acuta e in attesa che fossero disponibili i vaccini.
itr

Per tutte queste decisioni, al di là delle azioni coordinate necessarie su sca-


ed

la transfrontaliera e di altri temi oggetto di regolamentazione sovranaziona-

D
à

le, è stato compito degli Stati e dei rispettivi governi (e, in misura minore, a
et

causa dell’urgenza, Parlamenti) nazionali definirne contenuti, portata e limi-


ci

D
ti di applicazione.
So

In alcuni casi, come la tutela della privacy dei dati nell’ambito dell’U-
by

nione europea, l’intervento nazionale è stato invece condizionato da regole


©

sovraordinate: da ciò deriva anche, in Italia, la non obbligatorietà della app


ht

Immuni utilizzata per il tracciamento dei contagi. Allo stesso tempo, sempre
ig

nell’Unione europea, gli Stati si sono coordinati anche per assicurare un più
yr

rapido approvvigionamento dei vaccini: qui è intervenuta direttamente la


op

Commissione Ue, nel giugno 2020, con la comunicazione Com (245) «Strate-
C

gia dell’Unione europea per i vaccini contro la Covid-19».


Un terzo gruppo di misure, infine, attiene al sostegno economico e fi-
nanziario che la crisi pandemica ha reso necessario. Gli Stati, in modo ana-
logo a quanto avvenuto in occasione di precedenti crisi come quelle del 1929
o del 2008, sono diventati erogatori di ristori e indennizzi per limitare l’im-
patto negativo derivante dalla interruzione di così tante attività. Anche per
queste ragioni l’Unione europea ha poi varato un programma per l’adozione

79
di piani straordinari di ripresa e resilienza per il periodo 2021-2026, Pnrr, cui
anche l’Italia ha aderito per accedere a importanti finanziamenti.

Le vicende della pandemia del 2020 e il ruolo guida riconosciuto agli Stati ri-
evocano, nell’esercizio del pubblico potere e nel modo in cui esso è percepi-
to dalle popolazioni, la figura dei re taumaturghi ben descritta da Marc Blo-
ch. Nel raccontare una delle più clamorose fake news della storia, ossia il rito
della guarigione dalle scrofole tramite il tocco delle mani dei re cristiani di

e
Francia e Inghilterra nel Medioevo, Bloch osserva, con riferimento a Enrico

or
II Plantageneto re d’Inghilterra (1133-1189), che «il suo potere guaritore non

ut
gli era personale; lo possedeva per la sua funzione: era taumaturgo in quanto

l’a
re». Così, durante la pandemia, gli Stati sono divenuti «taumaturghi» nel sen-

r
pe
so più ampio possibile. Essi non solo sono stati «guaritori» mediante le cam-
pagne vaccinali – su cui si sono purtroppo scatenate vere e proprie battaglie

ia
di disinformazione – e addirittura, come nei casi di Cina, Russia o Cuba, pro-

op
muovendo direttamente la produzione di propri vaccini; ma gli Stati sono di-

C
ventati anche veri e propri assicuratori di ultima istanza rispetto alle condi-

o.
zioni economico-finanziarie di cittadini e imprese. in
asini
ul
M
C

Il ruolo guida riconosciuto agli Stati rievocano, nell’esercizio


il
orenzo
e

del pubblico potere, la figura dei re taumaturghi descritta


ic
itr

da Marc Bloch
L

ed

Diversamente dal Medioevo, le scelte compiute dagli Stati per contrastare la


à
et

pandemia hanno poggiato su elementi scientifici e sul supporto di organismi


ci

tecnici anche costituiti ad hoc. Tuttavia, non sempre i pubblici poteri sono
So

stati in grado di attuare strategie di informazione e comunicazione adegua-


by

te a contrastare l’azione di disinformazione prodotta più o meno consapevol-


©

mente tramite i social network.


Se lo Stato come comunità politica è in buona salute, dunque, è lo Sta-
ht
ig

to democratico a essere in difficoltà ed è messo a dura prova dai poteri globa-


yr

li e dalle nuove tecnologie.


op

Globalizzazione e rivoluzione tecnologica hanno infatti condiziona-


C

to enormemente l’organizzazione e il funzionamento dello Stato, che però,


come evidenziato, non mostra ancora veri e propri segni di caduta. Il numero
di Stati continua ad aumentare. La ricerca della «statalità» è ancora la mag-
giore ambizione per le comunità politiche che vogliano vedersi riconosciu-
te a livello internazionale. Inoltre, di fronte alla crescita di istituzioni, regole
e procedure ultrastatali, sono sempre gli Stati a svolgere il ruolo più impor-
tante.

80
Le riflessioni sulla fine o sul declino dello Stato a causa dell’emergere
di poteri globali spesso raccontano solamente una parte della storia, perché
gli Stati, all’interno dei processi di globalizzazione, si indeboliscono e si raf-
forzano al tempo stesso. Ciò appare in modo chiaro, per esempio, nel control-
lo di flussi migratori: solamente un intervento sovranazionale o comunque
coordinato tra più Paesi può misurarsi con efficacia con questo fenomeno; di
qui la miopia di scelte «sovraniste» di alcuni Stati, che ipotizzano di chiude-
re porti e confini rivendicando una forma di sovranità oramai superata dalla

e
storia e in contrasto con regole internazionali. Anche la gestione dei conflitti

or
bellici mostra la tendenza degli Stati a coalizzarsi e tessere sempre alleanze:

ut
lo confermano le reazioni di alcuni Paesi (come la Finlandia e la Svezia) che

l’a
hanno chiesto di entrare nella Nato all’indomani dello scoppio del conflitto

r
pe
tra Russia e Ucraina nel febbraio 2022.

L
ia

o
op

S tato
Non è la globalizzazione, sviluppatasi più velocemente

C
proprio grazie alla rivoluzione tecnologica, a mettere

o.

taumaturgo
davvero in crisi l’idea dello Stato
in
ul
M

Non è quindi la globalizzazione, che ha origine antica ma si è sviluppata più


il

velocemente e intensamente proprio grazie alla rivoluzione tecnologica, a


e

NELL’ERA EI BIG ATA


mettere davvero in crisi l’idea dello Stato. Al contrario, come visto, esistono
ic
itr

numerosi indicatori globali che misurano il livello di «statalità» e configura-


ed

no addirittura le ipotesi di «fallimento» di uno Stato. Una conferma, questa,

D
di quanto l’idea e il concetto di Stato siano ancora centrali nella scena politi-
à
et

ca internazionale.
ci

D
E sono proprio gli indicatori globali che possono aiutare a comprende-
So

re meglio gli effetti prodotti dalla globalizzazione sullo Stato. In particolare, se


by

si considerano indici come quelli legati allo sviluppo della democrazia (come
©

quello della United Nations Democracy Fund o di altre iniziative simili della
Ue e del Consiglio di Europa o anche quelli di Freedom House molto usati dai
ht
ig

politologi statunitensi), si ha conferma che a trovarsi in un periodo di difficol-


yr

tà non è tanto lo Stato in sé bensì lo Stato democratico e, dunque, la democra-


op

zia. Una difficoltà che, come più dati evidenziano, è stata certo acuita dagli ef-
C

fetti prodotti dalla crisi economico-finanziaria del 2008. E, come visto, tra le
ragioni che portano più studiosi, sulla base di diversi indicatori, a identifica-
re un periodo di crisi o di recessione, se non addirittura di fine, delle demo-
crazie contemporanee, vi è sicuramente la rivoluzione tecnologica. L’illusione
di sviluppare forme di democrazia diretta sostitutive – e non soltanto integra-
tive – della democrazia rappresentativa, per esempio, può purtroppo favori-
re modelli di consultazione plebiscitari, più vicini a regimi di tipo autoritario.

81
Ma quali sono i rapporti tra la rivoluzione tecnologica e lo Stato? In
che modo le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione in-
fluenzano la sovranità che protegge la democrazia?

In che modo le nuove tecnologie dell’informazione


e della comunicazione influenzano la sovranità
che protegge la democrazia?

e
or
Sempre più frequente, per esempio, è il ricorso a blockchain e Intelligenza ar-

ut
tificiale (Ia) da parte della sfera pubblica, come evidenzia anche l’Osserva-

l’a
torio sullo Stato digitale dell’Istituto di ricerche sulla pubblica amministra-

r
pe
zione (Irpa): in Cina, per contrastare il Covid-19, si è fatto uso di telecamere
di sorveglianza a scansione termica e guidate da Ia; nel Regno Unito, l’HM

ia
Land Registry, ossia il catasto, ha messo a punto una forma di smart contract

op
che utilizza auto-certificazioni tramite blockchain; in Estonia questa tecnolo-

C
gia è usata sin dal 2012 per il registro delle successioni, mentre in Olanda vie-

o.
ne adottata nei sistemi di previdenza e assistenza pubblica; in Argentina dal
in
asini
ul
2018 è attivo un sistema di Ia per l’adozione di decisioni automatizzate intel-
M

ligenti nel settore degli appalti (il sistema Prometea).


C

il
orenzo
e

Tra i diversi ambiti in cui emerge l’influenza delle nuove tecnologie sui pub-
ic
itr

blici poteri, sembra possibile distinguere almeno due gruppi di problemati-


L

ed

che, individuate anche in base agli effetti che i condizionamenti digitali pro-
ducono sugli elementi costitutivi dello Stato, ossia il popolo, il territorio e la
à
et

sovranità.
ci

Un primo gruppo riguarda le modalità di esercizio delle funzioni fon-


So

damentali, legislativa, giudiziaria e amministrativa. Si pensi alle tecniche


by

della cosiddetta democrazia diretta e i loro limiti, all’uso di algoritmi da par-


©

te dei giudici, alle decisioni automatizzate adottate dalle pubbliche ammi-


nistrazioni. Il secondo gruppo di problematiche è invece relativo ai cambia-
ht
ig

menti in atto che hanno conseguenze sul popolo e sul territorio. E qui sono
yr

coinvolti almeno tre aspetti: la tutela dei diritti fondamentali, in particolare


op

la protezione dei dati personali; la crisi delle frontiere; il rapporto tra tecno-
C

logie e informazione e, dunque, tra democrazia e verità.


Attraverso lo studio di questi gruppi di tematiche possono evidenziar-
si gli effetti importanti che la tecnologia produce sui processi decisionali delle
istituzioni. E proprio in quest’ambito è sempre più diffuso il ricorso ad algo-
ritmi, inclusi quelli cosiddetti predittivi, per supportare le decisioni dei pub-
blici poteri: è il caso, per esempio, della giustizia e del calcolo della pena nei
processi penali o più in generale della cosiddetta profilazione dei cittadini.

82
Ma il principale effetto sulle democrazie prodotto dalle nuove tecnolo-
gie sembra essere quello relativo all’informazione e, in particolare, alle mo-
dalità di formazione dell’opinione pubblica. Può questo davvero cambiare lo
Stato (moderno) e portare a rivedere i suoi elementi costitutivi?

e
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C

LORENZO CASINI è professore ordinario di iritto


D
amministrativo nella Scuola Imt Alti studi di Lucca.

83
Serve più Stato? / 7

LO STATO NELLA

e
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COMPETIZIONE

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TECNOLOGICA

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ALESSAN RO
D
ARESU
84
o dei ba chi di prova più i teressa ti per il rapporto tra Stato e mer-

e
Un
n
n
n
cato, in un’epoca di «neo-interventismo» (M. Wolf, The new interventionism

or
could pose a threat to global trade, «Financial Times», 14.2.2023), riguarda le

ut
l’a
filiere delle batterie e dei semiconduttori. Esse mostrano il ruolo dei poteri
pubblici nei conflitti commerciali e tecnologici, sulla base della sicurezza na-

r
pe
zionale, secondo il paradigma che ho sviluppato attraverso i concetti di «ca-
pitalismo politico» e «sanzionismo» (cfr. i miei Le potenze del capitalismo poli-

ia
op
tico, La nave di Teseo, 2020 e Il dominio del XXI secolo, Feltrinelli, 2022).

C
L’espressione «capitalismo politico» o «politicamente orientato» risa-

o.
le a Max Weber. Oggi l’intreccio tra economia e politica riguarda una varietà
in
di strumenti, non limitati alla partecipazione statale nelle imprese: l’uso po-
ul
litico del commercio, della finanza e della tecnologia; i rapporti tra appara-
M

ti burocratici e aziende; le sanzioni; lo scrutinio di investimenti esteri. Il con-


il

cetto di «sanzionismo» non rimanda solo al sequestro di asset e alle sanzioni


e
ic

finanziarie, accentuate dal ruolo internazionale del dollaro, ma anche al con-


itr

trollo degli investimenti, all’estensione delle politiche industriali e soprattut-


ed

to ai controlli sulle esportazioni (N. Mulder, The Economic Weapon. The Rise of
à

Sanctions as a Tool of Modern War, Yale University Press, 2022; A. Demarais,


et

Backfire, How Sanctions Reshape the World Against U.S. Interests, Columbia Uni-
ci
So

versity Press, 2022). In sintesi, gli Stati Uniti dispongono di un’economia di


guerra pronta per l’uso, attivabile per ragioni di emergenza o sicurezza na-
by

zionale: questo specifico condizionamento pubblico è più rilevante di quello


©

che caratterizza la genesi o lo sviluppo delle imprese, o il rapporto capitale/


ht

lavoro, in quanto rimanda al cuore della sovranità e, oggi, alla competizione


ig

sistemica con la Cina, nel cui sistema autocratico l’Esercito popolare di libe-
yr

razione risponde direttamente al Partito comunista, con un’interconnessione


op

continua tra militare e civile.


C

Oggi, il crescente intervento sui mercati per ragioni di sicurezza na-


zionale deriva da due fenomeni: in primo luogo, l’importanza di alcune tec-
nologie critiche (semiconduttori, intelligenza artificiale, batterie, cybersi-
curezza); in secondo luogo, l’ambizione cinese di raggiungere una posizione
più autonoma sulle tecnologie, resa esplicita nel piano Made in China 2025 e
nell’ampliamento della sicurezza nazionale. Gli esempi dei semiconduttori e
delle batterie si inseriscono in questo processo complessivo.

85
Buona parte della nostra vita su questo pianeta non può esistere senza
i semiconduttori, «mattoncini» della vita digitale presenti in pc, smartphone,
server, fabbriche, automobili, elettrodomestici, armamenti di varia natura.
L’industria dei semiconduttori, inventata negli Stati Uniti tra gli anni Qua-
ranta e Cinquanta, ha avuto le prime applicazioni in ambito militare per poi
trovare un grande mercato nell’elettronica di consumo. Dagli anni Settan-
ta fino agli anni Novanta è stata al centro della competizione tra Washington
e Tokyo: la perdita di competitività e l’importanza militare di questa tecno-

e
logia hanno portato gli Stati Uniti a dazi sulla base della sicurezza naziona-

or
le, oltre a investimenti pubblici con il consorzio Sematech. L’importanza di

ut
quest’ultimo è spesso esagerata: per esempio, le innovazioni di Intel negli

l’a
anni Novanta, leva del rilancio statunitense, non derivano in modo diretto da

r
pe
Sematech; lo stesso Robert Noyce, anima e guida di Sematech, aveva indica-
to come cartina di tornasole dell’iniziativa il destino della fotolitografia sta-

ia
tunitense, che fallisce.

op
C
o.
Il crescente intervento sui mercati per ragioni di sicurezza
in
resu
deriva dall’importanza di alcune tecnologie e dall’ambizione
ul
M

cinese di raggiungere una posizione più autonoma


A
ro
il
d

e
lessan
Nel mezzo della «prima guerra dei semiconduttori» tra Washington e Tokyo,
ic
itr

Morris Chang ha cambiato la struttura dell’industria a Taiwan negli anni Ot-


ed

tanta, con la fondazione di Tsmc. Caratteristica centrale dell’industria dagli


A

anni Ottanta in avanti è la diversificazione dei suoi segmenti: software e stru-


à
et

menti di progettazione; progettazione; chimica, materiali, gas industriali;


ci

macchinari; produzione; test e assemblaggio. In ognuno di questi segmenti, a


So

cui si aggiungono i centri di ricerca, vi sono diversi leader, in una filiera dove
by

partecipa un numero relativamente ristretto di Paesi (tra cui spiccano Sta-


©

ti Uniti, Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Cina, Paesi Bassi, e poi Germania,
Francia, Italia, Austria, Irlanda, Belgio, Israele). La diversificazione riguar-
ht
ig

da i prodotti (come processori, memorie, sensori) e i mercati di riferimento


yr

(smartphone, pc, data center, applicazioni industriali, automotive, difesa).


op

Nel recente sviluppo industriale e tecnologico cinese, i semicondutto-


C

ri sono diventati la prima voce d’importazione di Pechino, e il Partito comu-


nista ha dato priorità allo sviluppo di un’industria nazionale, con ingenti sus-
sidi pubblici. Eppure, gli obiettivi cinesi non sono stati raggiunti. Lo sviluppo
di alcune realtà, come Smic o Ymtc, non è abbastanza significativo. Soprat-
tutto, la Cina non è riuscita a sostituire alcuni nodi che rimangono in mano
ad altri: per esempio, negli strumenti per la progettazione (in cui dominano
aziende statunitensi come Synopsys e Cadence Systems), nella progettazio-

86
ne (aziende statunitensi come Nvidia e Amd), nei macchinari (aziende statu-
nitensi come Applied Materials, Kla, Lam Research, giapponesi come Tokyo
Electron e il gigante dei Paesi Bassi Asml).

Come si svolge la guerra dei semiconduttori? Al ciclo spietato


che caratterizza l’industria, si affiancano ragioni politiche, che
legano l’operato delle aziende agli interessi degli Stati

e
or
Come si svolge quindi l’attuale guerra dei semiconduttori? Al ciclo spietato

ut
che caratterizza l’industria, da sempre legata a momenti di vorticosa ascesa

l’a
e caduta dove i leader tendono a stritolare i concorrenti, e all’incertezza su-

r
pe
gli sviluppi tecnologici di alcune applicazioni, si affiancano ragioni politiche,
che legano l’operato delle aziende agli interessi degli Stati, in una corsa alla

LO STATO NELLA COMPETIZIONE TECNOLOGICA


ia
sicurezza, intesa come riduzione dei condizionamenti esterni, e quindi limi-

op
tazione della globalizzazione. I Paesi hanno interessi diversi. La Cina vuo-

C
le raggiungere un ruolo che attualmente non ha, facendo leva sulla propria

o.
scala. Gli Stati Uniti sono complessivamente i leader ma vogliono rispondere
in
ul
al declino manifatturiero aumentando il loro ruolo nella produzione, che si
M

svolge soprattutto a Taiwan e in Corea del Sud. L’Europa punta sia sulla pro-
il

gettazione sia sulla produzione, mentre su macchinari, chimica e ricerca ha


e

capacità rilevanti. Taiwan e Corea del Sud, in diversi modi, vogliono conser-
ic
itr

vare il proprio ruolo, mentre il Giappone vuole tornare per quanto possibi-
ed

le ai fasti degli anni Ottanta, sulla base di un ecosistema ancora forte. Nuovi
attori cercano spazio, a partire dall’India. La competizione si gioca su capa-
à
et

cità industriali, sussidi, hub di innovazione. Non si nota un rapporto causale


ci

tra la proprietà pubblica delle aziende e la loro performance, come può esse-
So

re mostrato dal confronto tra gli attori europei, mentre nelle aziende statuni-
by

tensi citate il ruolo dei programmi pubblici è stato rilevante solo nei processi
©

di ricerca iniziali. Ma lo sforzo statunitense attuale sulla produzione si basa


su sussidi pubblici, come nel Chips & Science Act, che comprende enormi in-
ht
ig

vestimenti in programmi scientifici.


yr

L’intervento più intrusivo dello Stato sul mercato è l’uso statunitense


op

dei controlli sulle esportazioni, innescato a partire dal 2018 dal caso Huawei.
C

In sintesi, Huawei non ha più potuto produrre smartphone avanzati perché


non ha più potuto avvalersi di Tsmc, che produceva i suoi chip. Questo per-
ché gli Stati Uniti, dopo la violazione da parte di Huawei delle sanzioni ver-
so l’Iran, hanno applicato una versione estesa di controlli sulle esportazio-
ni ai prodotti che utilizzano tecnologia statunitense, e le fabbriche di Taiwan
(come le altre fabbriche) utilizzano macchinari statunitensi. Quindi, per via
delle aziende che abbiamo citato, gli Stati Uniti possono azzoppare lo svilup-

87
po cinese con argomenti di sicurezza nazionale, ed è difficile per Pechino so-
stituire i colli di bottiglia che abbiamo evidenziato.
La stampa dà spesso risalto ai casi di furti di proprietà intellettua-
le da parte cinese verso varie aziende, tra cui il monopolista dei macchinari
più avanzati, Asml, ma è impossibile replicare le macchine di Asml (e i suoi
circa 200 fornitori critici, tra cui le aziende tedesche Trumpf e Zeiss). Né la
Cina potrà mai prendere il controllo effettivo di Tsmc in caso di invasione di
Taiwan. Questa filiera di enorme complessità è quindi caratterizzata da un

e
doppio fenomeno: la ricerca politica di sicurezza – che è anche tema econo-

or
mico, di limitazione dei rischi – e l’esigenza economica, oltre che politica, di

ut
collocarsi in alto sulla scala tecnologica nelle sue varie nicchie.

r l’a
pe
Se la filiera dei semiconduttori rappresenta un insuccesso cinese, è utile fare
riferimento al gioiello della crescita recente di Pechino: la filiera delle batte-

ia
rie, attualmente essenziale per la mobilità elettrica.

op
In un orizzonte più largo, la supply chain fotovoltaica è dominata dal-

C
la Cina e «la provincia cinese dello Xinjiang rappresenta il 40% della produ-

o.
in
zione mondiale di polisilicio» (International Energy Agency, Special Report
resu
ul
on Solar Pv Global Supply Chains, luglio 2022, p. 9). Gli europei hanno letteral-
M
A

mente pagato con i loro sussidi lo sviluppo industriale cinese, con piani pri-
ro
il

vi di obiettivi di produzione interna. I sussidi e la scala cinese hanno messo


d

e
lessan
ic

fuori gioco le aziende europee, in particolare tedesche. La batteria, principa-


itr

le elemento a valore aggiunto della mobilità elettrica, è un oggetto comples-


ed
A

so. Oggi il principale produttore mondiale di batterie a ioni di litio è la cinese


à

Catl, mentre Byd è un’azienda cinese che produce sia batterie sia auto elet-
et

triche, e nelle vendite di veicoli elettrici compete già per il vertice mondia-
ci

le con Tesla.
So
by

Se la filiera dei semiconduttori rappresenta un insuccesso


©

cinese, il gioiello della crescita recente di Pechino è invece


ht

la filiera delle batterie


ig
yr
op

Il successo cinese in questa filiera è nato dal riconoscimento del ritardo ri-
C

spetto ai produttori automobilistici tradizionali, dalla leva di un mercato in-


terno con un’espansione eccezionale, da esigenze sociali di miglioramento
ambientale. La strategia cinese ha visto un intreccio dei programmi pubbli-
ci, sviluppati da figure governative come Wan Gang, ministro della Scienza e
della Tecnologia formatosi nell’industria automobilistica tedesca, e dei pro-
getti di numerosi imprenditori privati, i quali non sono una mera espressio-
ne del Partito anche se si devono muovere nei vincoli dell’autoritarismo di

88
Pechino. Le aziende cinesi hanno investito nell’attività estrattiva, attraverso
accordi di lungo termine su materiali come litio e cobalto, in Australia, Cile,
Repubblica Democratica del Congo e nel trattamento e nella raffinazione dei
materiali. Il governo centrale e quelli locali hanno portato avanti politiche
aggressive sull’accesso al mercato da parte dei produttori stranieri in cam-
bio di un trasferimento tecnologico forzato, insieme alle sperimentazioni ur-
bane. In tutti i passaggi, la scala del mercato cinese è stato un elemento deci-
sivo (H. Sanderson, Volt Rush. The Winners and Losers in the Race to Go Green,

e
Oneworld Publications, 2022). Il dominio cinese della produzione di catodi,

or
anodi e batterie non deriva dalle capacità estrattive interne, ma dai processi

ut
di raffinazione e dalla scala del mercato.

l’a
Qual è la risposta degli altri attori? Imprese giapponesi e coreane,

r
pe
come Panasonic e Lg Chem, sono state superate dalla Cina ma restano com-
petitive. Gli europei hanno presentato un’iniziativa autolesionistica, cosid-

LO STATO NELLA COMPETIZIONE TECNOLOGICA


ia
detta Green Deal, tra il 2019 e il 2020, che ha dato più rilievo ai target che

op
alla strategia industriale, per poi correre ai ripari nel 2023, davanti alle mos-

C
se statunitensi. Nel mentre è avvenuta l’ascesa del «marchio» Tesla. I produt-

o.
in
tori automobilistici tradizionali hanno investito poco sui cambiamenti (che,
ul
oltre alla tecnologia della mobilità, riguardano l’elettronica, e quindi si lega-
M

no anche ai semiconduttori) e cercano di recuperare terreno.


il

In questo processo si è inserito l’Inflation Reduction Act del 2022, che


e
ic

a dispetto del nome interviene soprattutto sulla competizione tra Stati Uni-
itr

ti e Cina sulle filiere industriali della transizione ecologica. L’obiettivo è «for-


ed

zare» un cambiamento della supply chain, limitando l’influenza cinese e con-


à

tribuendo alla rinascita manifatturiera interna (D. Brower e A. Chu, The US


et

plan to become the world’s cleantech superpower, «Financial Times», 16.2.2023).


ci

Questa operazione di sicurezza nazionale comporta danni collaterali verso gli


So

alleati europei, che hanno un costo dell’energia molto più elevato, non solo
by

per la crisi energetica ma perché gli Stati Uniti hanno investito da tempo, con
©

tecnologie di transizione, sulla propria indipendenza energetica.


ht

Questo è lo stato dell’arte, in cui avremo nuovi scossoni, sempre basati


ig

sull’allargamento della sicurezza nazionale, ma ancora da definire nella loro


yr

portata e nella loro tempistica. È probabile che alcune misure lato sensu pro-
op

tezionistiche colpiscano il dominio fotovoltaico cinese o l’inondazione di au-


C

tomobili elettriche cinesi su mercati, come quelli europei, in cui l’auto è par-
te di quel che resta del contratto sociale.

Qual è allora il ruolo dello Stato nell’attuale competizione tecnologica? L’e-


sperienza storica sopra ricordata mostra i limiti di categorie come «neolibe-
rismo» o «Stato imprenditore» per affrontare semiconduttori, batterie e le
altre «tecnologie critiche». Il segno del nostro tempo sono gli interventi sem-

89
pre più frequenti per ragioni di sicurezza nazionale nelle filiere commerciali
e tecnologiche, di cui i sussidi pubblici sono solo uno degli strumenti. L’inci-
denza della sicurezza nazionale è evidenziata dal rovesciamento delle supply
chain globali, col controllo sulle esportazioni. Se la posta in gioco è la sicurez-
za nazionale, non basta allora sostenere l’importanza delle risorse pubbliche.
Senza obiettivi in grado di incidere sulla competizione politica nella tecnolo-
gia, il rischio è perseguire l’approccio generico e autolesionista europeo del
2019/2020, quando la guida pubblica ha posto un tema (la transizione ecolo-

e
gica) ma ha sottovalutato il punto centrale (la riorganizzazione e la proprietà

or
dei nodi tecnologici) e ha sopravvalutato l’enunciazione di target, senza co-

ut
struire un sistema semplice ed efficace per passare dalla teoria alla pratica.

r l’a
pe
Occorre investire per creare e proteggere la capacità

ia
tecnologica interna: quando gli italiani hanno rifatto

op
le facciate dei palazzi o comprato pannelli solari cinesi,

C
hanno fatto l’esatto contrario

o.
in
resu
ul
Nella prospettiva dell’attore pubblico, per influire sulla base della sicurez-
M
A

za nazionale su una supply chain in primo luogo bisogna conoscerla, studiar-


ro
il

la, e non è scontato che gli Stati – indeboliti nella loro capacità e nei loro pro-
d

e
lessan
ic

cessi, spesso esternalizzati – dispongano di questo bagaglio di conoscenza.


itr

In secondo luogo, bisogna avere la volontà e le risorse per separare le filiere


ed

strategiche da quelle che non lo sono, e pagare i costi economici e politici di


A

tali scelte. In terzo luogo, occorre investire per creare e proteggere la capaci-
et

tà tecnologica interna: quando gli europei (per esempio, italiani e tedeschi)


ci

hanno speso decine di miliardi per rifare le facciate dei palazzi o comprare
So

pannelli solari cinesi, hanno fatto l’esatto contrario.


by

Un approccio più maturo può seguire l’esempio dell’amministrazio-


©

ne Biden, sull’analisi delle supply chain e il loro monitoraggio (The White


ht

House, Building Resilient Supply Chains, Revitalizing American Manufacturing,


ig

and Fostering Broad-Based Growth, June 2021). Se conosciamo l’esistente nel


yr

dettaglio, possiamo individuare le realtà di riferimento, le loro potenziali-


op

tà, i principali divari su cui si pensa di intervenire, attraverso uno stretto


C

dialogo con imprese e centri di ricerca. Sempre ricordando che si tratta di


settori in cui abbondano elementi di genialità imprenditoriale che cadono
fuori dalla sfera del controllo statuale. Vi è una differenza profonda tra due
momenti da non confondere: la genesi e lo sviluppo delle aziende e l’inter-
vento della sicurezza nazionale, più o meno appropriato o giustificato. Per
fare qualche esempio: non è stato il Pentagono a dire a Jensen Huang di oc-
cuparsi di videogiochi, ed è il suo amore per la resa grafica dei videogiochi

90
che rende materialmente possibile la risposta di ChatGpt alle nostre do-
mande oggi (M. Hablen, Update: ChatGpt runs 10K Nvidia training Gpus with
potential for thousands more, «Fierce Electronics», 11.2.2023).
In Europa, il fatto che la Commissione e il governo olandese abbiano
dato qualche sussidio ad Asml non è stato decisivo per il suo successo, perché
i passaggi importanti sono stati compiuti prima, con la gestione del prodot-
to, dei clienti e fornitori, col ruolo di Asm International e l’imprenditorialità
portata da Arthur Del Prado, con l’aggancio di Zeiss, e poi con le autorizza-

e
zioni statunitensi alle acquisizioni in ottica anti-giapponese. Diverso è il caso

or
del miglior centro di ricerca applicata al mondo sui semiconduttori, Imec a

ut
Leuven: lì il finanziamento pubblico iniziale e stabile del governo fiammingo

l’a
è stato decisivo per avviare un percorso reso poi possibile e stabile dalla natu-

r
pe
ra di ricercatori-manager dei fondatori. Insomma, il rapporto tra Stati e mer-
cati cambia a seconda della casistica di riferimento ma in ogni caso l’intrec-

LO STATO NELLA COMPETIZIONE TECNOLOGICA


ia
cio tra Stato e mercato dello scenario contemporaneo passa dal rilievo della

op
sicurezza nazionale e dall’analisi delle supply chain, nel cammino che alcune

C
aree geografiche compiono per rafforzare e salvaguardare la capacità tecno-

o.
in
logica interna e non ritrovarsi meri clienti delle aziende altrui.
ul
M

Stiamo vivendo la fine delle illusioni di una transizione


il
e

energetica senza costi e senza consapevolezza industriale:


ic
itr

è urgente avviare un dialogo responsabile nell’opinione


ed

pubblica europea
à
et

Proprio il metodo dell’analisi delle supply chain consente di capire quanto la


ci

chimica sia un terreno essenziale per la competizione tecnologica, e orientare


So

in tal senso le scelte politiche. Per non trovarci in una trappola, in cui gli stes-
by

si piani – come il Green Deal europeo – con cui diciamo di rendere più soste-
©

nibili le nostre economie ci impediscono di realizzare i prodotti che determi-


ht

nano la nostra capacità industriale «sostenibile», esternalizzandoli ad altre


ig

aree, con aumento di vulnerabilità e potere di ricatto. Senza facili illusioni:


yr

il decisore in democrazia dovrà anche conoscere i costi ambientali e sociali


op

dell’aumento di capacità estrattiva e di trattamento, visto che in pochi voglio-


C

no abitare vicino a un centro di raffinazione del litio. In ogni caso, stiamo già
vivendo – e vivremo sempre di più – la fine delle illusioni di una transizione
energetica senza costi e senza consapevolezza industriale. Su questo è urgen-
te avviare un dialogo responsabile nell’opinione pubblica europea.
La competizione sulle batterie e sui semiconduttori, come sulle altre
tecnologie critiche, non va limitata ai materiali e al loro trattamento, in uno
smodato allargamento della sicurezza nazionale. Essa riguarda in primo luo-

91
go le persone e le loro competenze: la capacità di formare ingegneri elettro-
nici, ingegneri chimici, fisici, tecnici di laboratorio, esperti di test, e altri pro-
fili. Il successo di Taiwan e della Corea del Sud non è spiegabile solo col costo
del lavoro e coi sussidi pubblici alle aziende. La costruzione e lo sviluppo di
ecosistemi avanzati sul rapporto tra imprese, università e centri di ricerca
ne è una parte ineliminabile, assieme alle tecniche gestionali e organizzative
delle fabbriche. E tutto ciò indica l’importanza di un rapporto più solido tra
pubblico e privato. Questi elementi relativi alle competenze, oltre alla capaci-

e
tà dei governi di sviluppare sistemi autonomi di lettura di filiere molto com-

or
plesse, richiedono grande attenzione, se vogliamo elaborare un rapporto tra

ut
Stati e mercati all’altezza del nostro tempo.

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C
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by
©
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yr
op
C

ALESSAN RO ARESU è consigliere scientifico


D
di «Limes» e direttore scientifico della Scuola
di Politiche. Tra le sue pubblicazioni, Il dominio
del XXI secolo (Feltrinelli, 2022); Le potenze del
capitalismo politico (La nave di Teseo, 2020) e
L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia
(con L. Gori, Il Mulino, 2018).

92
Serve più Stato? / 8

NEOSTATALISMI

e
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SCAN INAVI

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C

PAOLO
BORIONI
93
buo pu to di osservazio e rispetto alla crisi del neoliberismo e il ri-

e
or
Un
n
n
n
torno dell’interventismo da parte dello Stato è la Scandinavia. I Paesi nordi-

ut
ci vivono da anni un dilemma: come trasformare un modello socio-economi-

l’a
co basato sulla competitività e l’internazionalizzazione economica? In questi

r
pe
Paesi il periodo di egemonia socialdemocratica aveva generato una pervasi-
va parità capitale-lavoro attraverso l’interazione fra alti salari, elevata occu-

ia
pazione, forte sindacato e forte Welfare che ha sbarrato progressivamente la

op
strada ai bassi salari. Ciò ha costretto il capitalismo scandinavo a prendere

C
una «via alta» alla competizione internazionale: con elevate dosi d’innova-

o.
zione e basse dosi di sfruttamento, alte spese in ricerca e sviluppo, politiche
in
ul
orioni
attive del lavoro e Welfare.
M

Si è trattato, semplificando, di una via sociale e inclusiva (e di succes-


il

so) all’internazionalizzazione, ma anche una via «democratica» (di eleva-


B

e
aolo
zione delle classi meno abbienti, piuttosto che «tecnocratica dall’alto») alla
ic
itr

progettazione socio-economica. Tuttavia negli ultimi decenni, specie all’in-


P

ed

terno delle regole Ue, i Paesi nordici si sono visti costretti a ridurre l’impat-
à

to dei fattori di domanda interna di questo modello (salari, Welfare ecc.) ri-
et

spetto al potenziale, accrescendo export e surplus (questi ultimi oltre l’utile


ci

e il ragionevole). Ciò ha potuto essere realizzato con meno traumi che altro-
So

ve in Europa, ma negli ultimi anni sono calate le capacità inclusive del siste-
by

ma, mentre sono cresciute le ansie sociali e le problematiche culturali che ne


©

derivano. Oggi, di fronte al «ritorno dello Stato», le socialdemocrazie cercano


ht

di reagire in modo coerente con il proprio retroterra storico, ma trovare una


ig

risposta coerente rimane arduo.


yr
op

Nel caso danese il problema principale riguarda il rapporto di tradizionale ma


C

sempre più problematica alleanza fra socialdemocrazia, che è determinata a


praticare e anche a comunicare (per quanto possibile a un’economia nordica
fortemente aperta) un certo ritorno protettivo rispetto al mercato, e il parti-
to liberal-radicale che a questo è decisamente contrario. Il partito liberal-radi-
cale danese è quello della commissaria alla Concorrenza e vicepresidente del-
la Commissione Ue Margrethe Vestager, che ha reagito in modo difensivo alle
nuove politiche industriali insite nell’Inflation Reduction Act di Biden. Men-

94
tre Habeck in Germania e Le Maire in Francia hanno aperto a misure analo-
gamente protettive delle produzioni «verdi» europee, Vestager si è opposta a
esse in coerenza con la sua fede neoliberista e sulla base del fatto che altri Pa-
esi hanno «tasche più profonde» per le politiche di «protezione» industriale.

Il partito Radikale Venstre danese è la cultura politica nordica


«progressista» più coincidente con l’europeismo neoliberale

e
or
Il partito liberal-radicale di Vestager (Radikale Venstre) è la cultura politi-

ut
ca nordica «progressista» più coincidente con l’europeismo neoliberale. Esso

l’a
nacque organizzando classi semiproletarie delle campagne, ma fu diretto dal-

r
la componente democratico-radicale cosmopolita di Copenaghen. Divenne

pe
l’alleato classico dei ben più grandi socialdemocratici, nel nome della limi-

ia
tazione dei poteri regi, di una maggiore redistribuzione dei profitti generati

op
dall’export agricolo nonché (fino alla Nato) dello stretto neutralismo e della

C
minimizzazione delle spese militari in favore di quelle sociali. Quei ceti co-

NEOSTATALISMI SCAN INAVI


o.
smopoliti di Copenaghen si sono trasformati da qualche decennio in tecno-
in
ul
crati neoliberali, che specie con Vestager hanno reso Radikale Venstre il par-
M

tito dell’export-led «progressista», ovvero insieme più europeista, globalista


il

e pro-immigrazione. A un certo punto l’alleanza dei socialdemocratici con


e

questo partito ha cominciato a produrre un netto declino nel voto popolare,


ic
itr

specie a favore dei nazional-populisti.

D
ed

Per ovviare a questa situazione, l’attuale leader socialdemocratica e


prima ministra Mette Frederiksen, dopo le elezioni del 2019 ha governato
à
et

con un monocolore del suo partito con sostegno esterno dei post-comunisti e
ci

dei socialisti popolari. In questo quadro Radikale Venstre è stato limitato al


So

ruolo comprimario di terzo partito di sostegno parlamentare. La promessa di


by

Frederiksen è un rinnovato primato della politica, compiendo, come è stato


definito, «un passo a destra e un passo a sinistra». Un passo a destra confer-
©

mando al 100% la linea fortemente restrittiva su immigrazione e asilo tenu-


ht
ig

ta dalle coalizioni avversarie. Un passo a sinistra rilanciando il Welfare, a co-


yr

minciare dalle pensioni anticipate per categorie operaie in lavori fortemente


op

usuranti, tipicamente quelle della macellazione suina. Inoltre, Frederiksen


C

ha invertito le politiche neoliberiste di taglio allo Stato sociale, agli uffici del-
la Pubblica amministrazione e alle scuole nelle aree periferiche e contrastato
le politiche di «new public management» in cui le consulenze esterne conta-
vano più delle competenze presenti nella Pa.
Siamo insomma di fronte a iniziative che sembrano venire incontro ad
ansie popolari diffuse, anche se meno di quanto sarebbe stato possibile viste
le floride condizioni (basso debito, surplus di bilancio, super-surplus com-

95
merciale). La socialdemocrazia fa qualcosa per sovranità e protezione eco-
nomica ma rimane in un quadro ancora troppo export-led per potere vera-
mente cambiare la situazione. Comunque sia, questa inversione rispetto al
periodo neoliberista sta cominciando a ottenere risultati. Nelle elezioni di
autunno la socialdemocrazia ha visto una crescita al 27,5% dopo decenni di
stasi o regressi, ottenuta surclassando tutti. È stato riconquistato il voto po-
polare alla destra nazional-populista, e sospinto nella frammentazione il cen-
tro-destra borghese in generale. I classici rivali del partito liberale (radica-

e
to nelle tradizioni agrarie del super-libero scambio) sono secondi con meno

or
della metà dei voti. Il partito di Vestager, che alla fine della legislatura ave-

ut
va deciso di reagire alla marginalità in cui Frederiksen lo aveva costretto to-

l’a
gliendo la fiducia al governo monocolore socialdemocratico, è sotto il 4%: ha

r
pe
perso oltre il 50% dei voti.

ia
Il problema generale sullo sfondo rimane un’Europa le cui regole economi-

op
co-finanziarie sono sempre più inadeguate. Se queste prevedessero livelli di

C
surplus commerciale di massimo lo 0,5%, ciò consentirebbe all’Italia di cre-

o.
in
scere meglio (senza più propria emigrazione e assorbendo più immigrazione
ul
orioni
senza traumi) e ai nordici di rimanere più coerentemente «Welfare univer-
M

salistici scandinavi». Nel contesto attuale invece i Paesi nordici sono indotti
il

(anche i socialdemocratici) a politiche sociali e salariali fortemente sottopo-


B

e
aolo
ic

tenziate (da cui lo scontento delle periferie geografico-sociali e lo «sciovini-


itr

smo del Welfare») rimanendo tuttavia preferibili rispetto ad altri Paesi Ue


P

ed

molto più danneggiati. Ecco generarsi l’effetto di doppia «perdita di control-


à

lo»: sia arretramento di molti ceti operai e delle periferie (con cospicui incre-
et

menti della diseguaglianza contrari alla socialdemocrazia connaturata) sia la


ci

sensazione di essere esposti a ondate migratorie massicce.


So
by

I Paesi nordici sono indotti (anche i socialdemocratici)


©

a politiche sociali e salariali fortemente sottopotenziate


ht
ig
yr

Queste contraddizioni si sono manifestate anche in occasione dell’emergenza


op

del Covid-19. Mentre le autorità sanitarie nordiche avevano tutte (e concor-


C

demente) raccomandato politiche di mera «mitigazione moderata», le auto-


rità politiche norvegesi e specialmente la danese Frederiksen a metà marzo
2020 trassero conclusioni opposte dai dati raccapriccianti provenienti dalla
Lombardia. In Danimarca il giorno 11 marzo alle ore 15 un’esponente dell’Au-
torità tecnica sanitaria (Sundhedsstyrelsen) aveva annunciato una «mitiga-
zione» moderata. Solo poche ore dopo, nei notiziari delle 20, il monocolore
socialdemocratico sorprendeva tutti con una «conversione a U» in favore di

96
notevoli restrizioni; questo mentre il governo socialdemocratico svedese ri-
maneva invece fedele alla mera mitigazione.
Per giustificare questa decisione, la prima ministra Frederiksen, vice-
versa, sottolineava la responsabilità dell’esecutivo:

«Come governo non possiamo limitarci soltanto al sostegno che of-


frono le evidenze scientifiche. Affrontiamo una nuova malattia che si
muove e sviluppa in modo che le autorità competenti non hanno sapu-
to prevedere. Attendendo di basare le nostre conoscenze sul Coronavi-

e
or
rus su prove scientifiche finiremmo per arrivare troppo tardi».

ut
l’a
Ne sortivano misure di emergenza che il Parlamento adottava quasi a scato-

r
la chiusa. Con diverse lamentele anche nei partiti di supporto parlamentare

pe
come i post-comunisti di Enhedslisten (per non essere stati inclusi nella de-

ia
cisione di dettaglio), le misure avocavano al ministro della Sanità, per un pe-

op
riodo di circa un anno, facoltà decisionali (ad esempio riguardo al diritto di

C
riunione e all’obbligo di isolamento sanitario) che appannavano il tradizio-

NEOSTATALISMI SCAN INAVI


o.
nalmente forte parlamentarismo nordico, nonché il suo controllo sui limi-
in
ti costituzionali imposti all’esecutivo. Un accordo parlamentare del dicem-
ul
bre 2020 sulla nuova legge contro la pandemia ha emendato questa falla, che
M

tuttavia si staglia nella storia nordica come esempio di democrazia sovrana.


il
e

Interessante non a caso come ne riferiscono gli analisti critici. Sull’im-


ic

portante rivista «Ræson» (estate 2021) Dennis Nørmark, politicamente op-


itr

D
posto a Frederiksen, ha pubblicato un pezzo significativamente intitolato
ed

Tutto è politica per Mette Frederiksen. Illuminanti un paio di citazioni:


à
et
ci

«La crisi del Covid è stata usata per rafforzare il consenso alla narra-
So

zione socialdemocratica: il Welfare e la presa della sua rete di prote-


zione in tutti i momenti di necessità. Non invece la narrazione di un
by

Paese benestante, in cui anche i governi borghesi e la sua predeces-


©

sora Thorning-Schmidt [citata perché socialdemocratica «blairiana»,


ht

N.d.R.] hanno contribuito a una buona economia a cui alimentarsi».


ig
yr

Poi Nørmark aggiunge sconsolato (pensando certamente anche all’assente le-


op

galità con cui fu impartita la notoria direttiva sull’uccisione dei visoni):


C

«Ogni volta che il governo ha stretto la presa sulla libertà dei danesi
ciò non ha suscitato opposizione ma l’inverso e questo è stato il gran-
de problema dell’opposizione: ogni volta che accusavano il governo di
pratica del potere fine a se stessa e di superflue restrizioni della libertà
hanno incrementato nella popolazione la sensazione che la presidente
del consiglio si occupava di loro».

97
Mentre i socialdemocratici danesi hanno reagito bene alla crescita di senti-
menti nazionalisti e populisti presso i ceti popolari, seppure in modo talvol-
ta spregiudicato, i socialdemocratici svedesi sono ancora lontani da questo.
Negli ultimi anni la discussione politica si è incentrata sempre più sul nesso
tra protezione e disuguaglianza. L’ex premier socialdemocratica Andersson
nel dicembre 2020 ha dichiarato che «il Covid pone fine all’era neoliberale».
Tuttavia, questo cambiamento del discorso politico avviene con il Paese alle
prese con un’esplosione di criminalità organizzata violentissima. Non a caso

e
la campagna elettorale dell’autunno 2022 ha dibattuto molto di introdurre

or
«pene danesi» (molto più dure anche in età adolescenziale) per «reati svede-

ut
si». L’esempio danese è stato anche richiamato dall’ex ministro socialdemo-

l’a
cratico Anders Ygeman riguardo a nuove politiche abitative per imporre una

r
pe
maggiore differenziazione etnica nelle cosiddette «zone ghetto»: quelle in cui
i residenti pregiudicati, disoccupati e «cittadini con retroterra non nordico»

ia
eccedono certi limiti percentuali.

op
Questa svolta è venuta dopo l’aumento del sostegno elettorale regi-

C
strato dal movimento post-fascista Sverigedemokraterna arrivato lo scorso

o.
in
autunno a essere il secondo partito con oltre il 20% (+3%) dopo il partito so-
ul
orioni
cialdemocratico (30,33%, secondo peggior risultato di sempre). Commentan-
M

do la crescita degli Sverigedemokraterna, l’importante esponente socialde-


il

mocratico Stefan Stern ha sostenuto che «se gli elettori non credono più che
B

e
aolo
ic

l’uguaglianza sia possibile cominciano ad attrezzarsi per la disuguaglianza».


itr

Come ha affermato l’ex leader Håkan Juholt, che ha cercato di spostare i so-
P

ed

cialdemocratici su un’agenda più di sinistra e demand-led, «c’è ansia rispetto


à

al fatto che non siamo più visti come abbastanza forti per mantenere lo Sta-
et

to sociale, così i cittadini si attrezzano per un diverso sistema, in cui bisogna


ci

sempre più occuparsi da sé della propria sicurezza sociale». Insomma, si cer-


So

ca protezione e controllo altrove se non è più (come prima) il Welfare «so-


by

cialdemocratico» a offrirla.
©
ht

In Svezia si è registrato un aumento dal 20 al 35% della


ig
yr

concentrazione di ricchezza per la frazione più ricca


op
C

Come affermato dai sociologi Anders Nilsson e Örjan Nyström quando si per-
de ogni speranza di mobilità sociale ci si preoccupa di non essere superati,
da cui una società più ansiogena e meno accogliente. Si tratta di un proble-
ma di grande attualità nel contesto svedese in cui, come affermato dal centro
di ricerca di area sindacale Katalys, si è registrato un aumento dal 20 al 35%
della concentrazione di ricchezza per la frazione più ricca. Katalys afferma
sul quotidiano «Dagens Nyheter»: «La crescente disuguaglianza e l’indeboli-

98
mento del Welfare contribuiscono alla segregazione e all’esclusione sociale.
Si vive in mondi sempre più separati […] il che crea polarizzazione fra grup-
pi e ambienti diversi». Ma nei centri studi di area socialdemocratico-sinda-
cale emergono anche richiami a politiche industriali o interventiste: Katalys
sostiene un «keynesismo del clima» se «la conversione verde deve accelerare.
Gli Usa lo hanno capito, ma il governo svedese sta passivamente a guardare»,
peraltro permettendo un certo regresso infrastrutturale ingiustificabile visti i
surplus. Anche il centro studi Arena nel rapporto Nazionalismo progressista in

e
età globale cerca una strada fra «nazionalismo regressivo» e «globalisti» a là

or
Blair: per la trasformazione verde sono importanti le regolamentazioni inter-

ut
l’a
nazionali ma «è al livello nazionale che si prendono le decisioni fondamen-
tali, ed è dunque necessario uno Stato forte dallo sguardo rivolto in avanti».

r
pe
ia
Secondo Katalys e molti altri uno dei fattori decisivi per la crescente disegua-

op
glianza è il processo di «riforma» dello Stato, mediante «razionalizzazioni»

C
e/o privatizzazioni (clamorose nella scuola, ingenti nella sanità), nonché me-

NEOSTATALISMI SCAN INAVI


o.
diante esternalizzazioni e altre conseguenze di approcci influenzati dal New
in
Public Management (ottenere eguale o maggiore efficienza con meno finan-
ul
ziamento introducendo sostanziose logiche di mercato). Molti decessi di an-
M

ziani per Covid sono dipesi proprio dalla precarizzazione «in subappalto» di
il
e

parte della manodopera nei centri per anziani. Per Anna Skarsjö, sindacali-
ic

sta, specie i sostituti interinali non possono permettersi, in caso di affezioni


itr

D
respiratorie o da raffreddamento, l’assenza per malattia. Un segnale di rea-
ed

zione a tutto ciò è la campagna socialdemocratica per la recente elezione re-


à
et

gionale di Stoccolma. Essa proclamava «Ora basta» e, più in piccolo, «Ripren-


ci

diamo il controllo della sanità»; un’allusione evidente allo slogan pro-Brexit


So

«take back control» come rovesciamento delle politiche di privatizzazione de-


by

gli ultimi decenni, con sullo sfondo anche le «porte girevoli», come quello
che coinvolge Filippa Reinfeldt, moglie dell’ex premier conservatore Fredrik
©

Reinfeldt, divenuta capo-lobbista del gigante della sanità privata Aleris dopo
ht

aver guidato la sanità pubblica nella regione di Stoccolma. Nella regione del-
ig
yr

la capitale questa campagna socialdemocratica ha prodotto un incremento


op

elettorale del 6,77%, con un risultato di diversi punti superiore alla media na-
C

zionale.
Ma il senso di «perdita di controllo/sovranità» riguarda anche il pro-
cesso di adesione alla Nato, pur largamente condiviso. La presenza di molti
curdi «sgraditi» a Erdogan, spesso cittadini svedesi, si è sommata alle esibi-
zioni anti-islamiche di Rasmus Paludan, il politico dano-svedese che coi suoi
roghi del Corano provoca disordini e indignazioni fra i musulmani in Svezia e
Turchia. Recentemente le forze dell’ordine svedesi hanno adottato un atteg-

99
giamento più restrittivo riguardo ai roghi, cercando con provvedimenti d’or-
dine pubblico di rimediare all’inesistenza di leggi anti-blasfemia. Essendo il
fine quello di dissuadere Erdogan dal porre il veto all’ingresso svedese nel-
la Nato, affiora inquietudine rispetto alla china intrapresa: quanto ci si do-
vrà adattare a valori estranei ogni volta che qualche tensione lo richiederà?
Solo ai tempi in cui il Paese era circondato dagli eserciti nazisti il cedimento
alle richieste altrui era stato superiore. In seguito, il tipo di neutralità attiva
perseguito da Erlander e Palme aveva «lavato» le inconfessabili concessioni

e
a Hitler (commercio di metalli e passaggio di truppe). Lungamente i principi

or
della neutralità attiva erano stati integralmente ispirati a un modello di so-

ut
cietà «terzo» rispetto a Usa e Urss, anche contando scaltramente sull’identi-

l’a
tà della Svezia come democrazia occidentale, che la Nato avrebbe protetto da

r
pe
insidie sovietiche. Per alcuni decenni questo interesse nazionale fatto di prin-
cipi, autonomia e calcolo (insomma una politica avanzata, ovviamente non

ia
angelicata) aveva garantito una sovranità davvero ampia, per realizzazioni

op
politiche e proiezione internazionale.

C
o.
in
Quanto l’adesione alla Nato incrementerà davvero l’effetto
ul
orioni
M

congiunto di sovranità, controllo e protezione?


il
B

e
aolo
Oggi, con tutte le enormi differenze rispetto ai tempi di Palme, viene da chie-
ic
itr

dersi: quanto era decaduta la sicurezza svedese nella neutralità durante la


P

ed

guerra ucraina? Quanto era probabile che, rimanendo la Svezia neutrale, la


Russia l’avrebbe attaccata essendo già impegnata allo spasimo? E visto che
à
et

un’aggressione alla Svezia avrebbe significato un attacco generalizzato all’Oc-


ci

cidente, non vi sarebbe stata comunque una reazione occidentale? Insomma,


So

quanto l’adesione alla Nato incrementerà davvero l’effetto congiunto di so-


by

vranità, controllo e protezione?


©

In Danimarca e Svezia la questione del ritorno dello Stato si collega al tenta-


ht
ig

tivo di coniugare un elevato grado di internazionalizzazione economica con


yr

le proprie peculiarità socio-politiche: un’impresa complessa e generatrice di


op

ansie. Riguardo alla sfida Usa della ripresa di controllo su produzioni stra-
C

tegiche, Germania, Francia e Italia sembrano decise a rispondere con politi-


che industriali piuttosto tradizionali. Questo per i nordici, come detto, sareb-
be un problema: essi si percepiscono con «tasche meno profonde» e mercati
interni troppo ridotti per fare altrettanto. La loro competitività, con grande
impatto socialdemocratico, consisteva in una serie di politiche ed equilibri
di classe che addirittura connettevano maggiore eguaglianza e competitività
più accettabile per pressoché tutti i ceti.

100
Tuttavia, abbiamo visto che anche fra i nordici in ultima analisi la
doppia internazionalizzazione neoliberale (Ue e globalizzazione) produce
maggiori richieste di protezione e sicurezza, nonché richiami all’interventi-
smo di Stato storicamente non frequenti, e dunque tanto più significativi. Ciò
avviene poiché fare propria l’ossessione dei surplus implica contenere oltre
il necessario Welfare e salari, generando una gerarchizzazione di classi e ceti
normale per la competitività ordo- e neoliberale, ma che le socialdemocrazie
nordiche avevano quasi espulso dalla storia. Oggi la gerarchizzazione riappa-

e
re, con inquietudini che abbiamo descritto solo in parte, sommandosi all’at-

or
trattività comparata delle società nordiche per i migranti. Questa, nei timori

ut
di molti, rischia di aggiungersi alle «società parallele» di larghe zone dei due

l’a
Paesi, specie in Svezia scenario di gravissimi problemi di criminalità.

r
pe
Insomma, l’intrico tra profondissima internazionalizzazione e neces-
saria «sovranità protettiva» è oggi altamente problematico anche dove più

ia
progressivamente era stato governato. Le socialdemocrazie sono in difficoltà

op
ma (almeno in Danimarca) meno dei «borghesi». Anche perché la loro fun-

C
zione storico-ideologica (una certa persistenza dell’identità di «movimento

NEOSTATALISMI SCAN INAVI


o.
in
popolare» e gli attrezzi per una «competitività senza sfruttamento») le rende
ul
ancora discretamente credibili, e i loro centri studi mostrano vitalità nonché
M

volontà di battere nuove vie. Viceversa, culture politiche sprovviste di questo


il

scompaiono (è il caso del Ps francese, del Pasok, e del Pvda) oppure (è caso
e
ic

del Pd) divengono mera infrastruttura sul lato «progressista» della crescen-
itr

te gerarchizzazione.

D
ed
à
et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

PAOLO BORIONI è professore associato


all’Università di Roma «La Sapienza». Lavora
per la Fondazione Giacomo Brodolini e fa parte
del Comitato scientifico della Fondazione Istituto
Gramsci. Con il Mulino ha pubblicato Solo il re
ha il potere delle armi (2008). Tra le sue altre
pubblicazioni, Danimarca (con N.F. Christiansen,
Unicopli, 2016) e Svezia (Unicopli, 2005).

101
Serve più Stato? / 9

L’EUROPA

e
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E UN RUOLO

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PER LA MANO

ia
op
C
PUBBLICA ul
o.
in
M
il
e
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itr
ed
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et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

FRANCESCO
SARACENO
102
Negli a i uemila l’eco omia mo diale si è trovata sulle montagne russe,
nn
D
n
n
e
passando nello spazio di tre lustri per tutte le fasi che aveva sperimentato nel

or
secolo precedente. La crisi finanziaria globale, una crisi keynesiana in senso

ut
classico, con il collasso del settore finanziario che ha trascinato con sé il set-

l’a
tore reale con una contrazione del credito, è stata affrontata rispolverando le

r
pe
politiche monetarie e di bilancio, che dopo il loro periodo di gloria nel Secon-
do dopoguerra erano state riposte in un cassetto e a lungo considerate ineffi-

ia
op
caci, quando non dannose. Alla crisi del 2008 è seguita una ripresa disugua-
le, con l’Eurozona che è ripiombata in una seconda crisi, questa volta legata

C
al debito sovrano e caratterizzata da politiche di consolidamento fiscale e da

o.
divergenze tra i Paesi membri. in
ul
Dalla recessione si è usciti principalmente grazie allo sforzo titanico
M

della Bce che, dal whatever it takes ai programmi di acquisti di titoli (Quanti-
il

tative Easing), ha portato l’istituto di Francoforte in acque incognite, consen-


e
ic

tendo alla moneta unica di sopravvivere. In quegli anni l’economia dei Paesi
itr

avanzati sembrava destinata a un lungo periodo di stagnazione secolare, con


ed

risparmi globali eccessivi e investimenti insufficienti, che tenevano i tassi di


à

interesse vicini allo zero e i prezzi a flirtare con la deflazione.


et

Con il Covid siamo entrati in una nuova fase. Le chiusure hanno in-
ci

fluenzato negativamente sia la domanda sia l’offerta. Soprattutto, la pande-


So

mia ha provocato una ricomposizione settoriale di consumo e produzione, di


by

cui ancora oggi non si riesce a capire se e quanto sia permanente (si pensi al
©

settore del trasporto aereo, di cui molti avevano pianto il decesso e che oggi
ht

mostra numeri superiori a quelli precedenti alla pandemia). A questa crisi


ig

senza precedenti (in tempi moderni) si è risposto con politiche senza prece-
yr

denti, cercando di tenere viva l’economia che era stata artificialmente mes-
op

sa in coma, con misure di sostegno dei mercati del lavoro che si sono rivelate
C

particolarmente efficaci (pensiamo all’estensione quasi ovunque degli sche-


mi di Cassa integrazione), con sostegno ai redditi di imprese e famiglie, con
politiche monetarie che sostenevano il colossale sforzo fiscale con program-
mi straordinari di acquisti di titoli.
La ripartenza dopo il Covid è anch’essa stata tempestosa. Le misure di
protezione dei governi sono state efficaci e, appena allentate le restrizioni, in-
vestimenti e consumi sono ripartiti violentemente, creando tensioni: da un

103
lato sistemi produttivi non ancora riorganizzati per adattarsi alla nuova com-
posizione della domanda, dall’altro la persistenza della pandemia in alcune
regioni hanno ostacolato la risincronizzazione settoriale di domanda e offer-
ta, e creato tensioni inflazioniste a livello microeconomico. Con la guerra in
Ucraina l’inflazione si è generalizzata e le banche centrali (soprattutto la Fed,
con la Bce in qualche modo obbligata a seguire) hanno iniziato un processo
di restrizione ancora in corso mentre scrivo (aprile 2023). A far da sfondo a
questo succedersi incessante di crisi, vi è poi la necessità di impegnarsi nelle

e
transizioni ecologica e digitale e di far fronte al cambiamento climatico. Men-

or
tre cercano di arginare gli incendi delle crisi che si susseguono, i policy makers

ut
sono costretti a progettare (e trovare le risorse per facilitare) la transizione

l’a
verso il mondo di domani.

r
pe
ia
Gli ultimi quindici anni hanno spazzato via l’illusione

op
che la mano pubblica potesse rimanere in secondo piano

C
nel governo dell’economia

o.
araceno
in
ul
Questa impressionante sequenza di crisi congiunturali o strutturali è tanto
M

più significativa in quanto segue un trentennio, durato dalla metà degli anni
S

il

Ottanta alla crisi del 2008, di «Grande moderazione», di fluttuazioni cicliche


rancesco
e

poco pronunciate e di inflazione moderata e stabile. Erano quelli gli anni del-
ic
itr

la «fine della storia» decretata da Francis Fukuyama, il quale riteneva che il


ed

modello delle democrazie liberali si fosse definitivamente imposto come uni-


F

ca modalità di organizzazione per la società. Ed erano anche gli anni della


à
et

«fine della stabilizzazione macroeconomica», problema che nel 2003 il pre-


ci

mio Nobel Robert Lucas dichiarò risolto una volta per tutte. Alla «Grande
So

moderazione» dell’economia corrispondeva quindi una grande moderazione


by

teorica, con un consenso che si organizzava intorno al modello di equilibrio


©

generale impropriamente chiamato «neo-keynesiano», in quanto incentrato


su efficienza dei mercati e ruolo limitato per le politiche macroeconomiche.
ht
ig

Gli eccessi dei mercati finanziari, la disuguaglianza crescente, gli squi-


yr

libri macroeconomici e commerciali che hanno portato alla crisi finanziaria


op

globale del 2007 hanno provocato un profondo ripensamento di questo con-


C

senso. Dopo oltre trent’anni di enfasi sulla supremazia dei mercati nel garan-
tire crescita e innovazione, si è avviato un dibattito a tutto campo sulla neces-
sità di rivalutare il ruolo della mano pubblica nel regolare il ciclo economico,
nel regolamentare i mercati e nel correggerne le inefficienze. Il dibattito non
risparmia nessuno dei dogmi precedenti alla crisi, dalla politica industriale
alla distribuzione del reddito, dalla tassazione al ruolo e alla natura delle ri-
forme «strutturali», arrivando addirittura fino al discutere pregi e difetti di

104
protezionismo e controlli sui flussi di capitale. In particolare, la discussione
in corso rivaluta il ruolo della politica di bilancio, per tre decenni relegata a
un ruolo marginale.
Il ritorno della politica di bilancio nella cassetta degli attrezzi si è ar-
ticolato in tre fasi distinte. La prima, durante la crisi finanziaria globale, ha
visto un intervento keynesiano in senso classico, volto a compensare il crol-
lo della domanda privata con politiche espansive di sostegno della domanda.
Dopo la svolta dell’austerità, nel 2010, l’attenzione si è spostata sul ruolo de-

e
gli investimenti pubblici, a lungo sacrificati dai programmi di consolidamen-

or
to di bilancio (si veda la serie annuale di European Public Investment Outlook,

ut
che curo con Floriana Cerniglia dal 2020). Infine, la pandemia ha evidenzia-

l’a
to le carenze di capitale sociale e di beni pubblici (la sanità, ovviamente, ma

r
pe
anche l’istruzione, la protezione sociale ecc.) e riportato al centro della scena
la politica industriale, per governare la ricomposizione settoriale dell’econo-

L’E
ia
mia e le necessarie transizioni digitale ed ecologica.

uropa
op
Insomma, gli ultimi quindici anni hanno spazzato via l’illusione che

C
la mano pubblica potesse rimanere in secondo piano nel governo dell’econo-

o.

e
un
in
mia: per garantire il benessere sociale e una crescita equilibrata i processi di
ul

ruolo
mercato vanno sostenuti, governati e regolati, orientati e a volte contrasta-
M

ti. Per fare tutto questo non è in alcun modo sufficiente la politica moneta-
il

ria. Occorre che le politiche di bilancio e fiscale facciano parte degli strumen-

per
e
ic

ti a disposizione del policy maker. Certo, non c’è consenso su quanto e come

la
itr

la politica economica debba regolare i mercati e interferire con il loro funzio-

mano
ed

namento; ma si tratta di una discussione su dove debba essere messo il cur-


à

sore, non sul fatto che esso debba essere spostato per prevedere un maggior

pubblica
et

ruolo dello Stato.


ci
So

L’Unione europea è stata a lungo impermeabile a questo rethinking economi-


by

cs (dal titolo di una serie di conferenze significativamente organizzate dopo


©

il 2008 dal Fmi, uno dei bastioni del vecchio consenso), ma con la pandemia
ht

si è scossa. Prima, l’approvazione in poche settimane del piano Ngeu (Next


ig

Generation Eu) ha spazzato via l’opposizione della Germania alla gestione


yr

comune degli shock (anzi, la Germania è stata, con la Francia, il motore del
op

piano). Poi, con la ripresa successiva al Covid, si è posto con forza il tema del
C

cambiamento strutturale: per adattare le nostre economie al mutamento dei


modi di vita successivo alla pandemia; per riorganizzare la produzione e le
catene del valore in un mondo sempre più instabile dal punto di vista geopo-
litico; per accelerare nel processo di transizione ecologica. Di fronte a queste
sfide, di fronte all’attivismo e al protezionismo di partner e avversari strate-
gici (dagli Stati Uniti all’India e alla Cina), il problema oggi non è se dotarsi di
una politica industriale, ma di quale forma questa debba prendere.

105
Dal dibattito recente (si veda ad esempio K. Aiginger e D. Rodrik,
Rebirth of Industrial Policy and an Agenda for the Twenty-First Century, «Jour-
nal of Industry, Competition and Trade», n. 20, 2020) emerge che una rin-
novata politica industriale non dovrebbe limitarsi a un generico protezio-
nismo e alla proposizione di campioni europei. Al contrario, si tratterebbe
di una strategia multidimensionale che coinvolgerebbe il settore privato e
richiederebbe investimenti significativi in infrastrutture materiali e imma-
teriali, ma anche regolamentazione, incentivi e sussidi, politiche attive del

e
lavoro, finanziamento della ricerca e addirittura politica monetaria e rego-

or
lamentazione finanziaria. Tutto quell’arsenale di strumenti, insomma, che

ut
consentirebbe di facilitare la ricomposizione settoriale di un sistema pro-

l’a
duttivo che nei prossimi anni sarà necessariamente molto diverso da quel-

r
pe
lo che abbiamo oggi.

ia
op
La complementarità degli obiettivi di crescita e di

C
sostenibilità è ancora più evidente dopo lo scoppio della

o.
araceno
crisi del Covid-19 in
ul
M

La complementarità degli obiettivi di crescita e di sostenibilità (sociale e am-


S

il

bientale) è ancora più evidente dopo lo scoppio della crisi del Covid-19, e
rancesco
e

pone con forza il tema non solo della quantità ma anche della qualità della
ic
itr

crescita. Il «vecchio» approccio contabile all’investimento pubblico, che mi-


ed

sura principalmente il capitale fisico, è inadeguato per comprendere appieno


F

la natura dell’investimento pubblico, e dovrebbe essere sostituito da un ap-


à
et

proccio che potremmo definire «funzionale»: è investimento ciò che aumen-


ci

ta lo stock di capitale: tangibile, ma anche umano e sociale.


So

La letteratura economica sembra aver integrato questa definizione


by

ampia dell’investimento e mira a un’analisi più sistematica di tipologie di in-


©

vestimento favorevoli alla crescita economica come gli investimenti pubbli-


ci nell’ambito della ricerca e dello sviluppo, gli investimenti sociali, le infra-
ht
ig

strutture pubbliche mirate a sostenere la spesa privata. Gli ultimi anni hanno
yr

visto una rinnovata attenzione al ruolo del finanziamento pubblico della ri-
op

cerca (si pensi all’interesse che suscitano i lavori di Mariana Mazzucato), in


C

particolare per favorire lo sviluppo di settori e prodotti per i quali la profit-


tabilità attesa è troppo incerta o troppo distante nel tempo. Il finanziamen-
to pubblico della ricerca avrebbe un ruolo importante da giocare anche nel
colmare le differenze nella capacità di generare innovazione, ancora signifi-
cative tra i Paesi europei; esso andrebbe quindi sviluppato e finanziato a li-
vello europeo, magari applicando il «metodo Next Generation Eu», di finan-
ziamento di politiche nazionali al servizio di obiettivi comuni.

106
Un’altra area lontana dalla nozione contabile di investimento, ma la
cui importanza è stata ribadita dalla pandemia, è quella delle infrastruttu-
re sociali. Investimenti a lungo termine nell’istruzione, nella sanità e nella
coesione sociale sono essenziali ai fini della crescita economica (i Paesi più
competitivi sono quelli che investono di più nelle politiche sociali), della ri-
duzione della disuguaglianza e della coesione territoriale. Nel 2018, un rap-
porto sulle infrastrutture sociali in Europa, coordinato dall’ex presidente del-
la Commissione europea Romano Prodi, stimava in 100-150 miliardi all’anno

e
la carenza di infrastrutture sociali.

or
Si pone allora il problema di come dotare l’Unione europea e i suoi

ut
l’a
Stati membri degli strumenti per attuare politiche sociali e industriali. Per-
ché le due crisi che abbiamo vissuto ci hanno lasciato in eredità due insegna-

r
pe
menti. Il primo è che le istituzioni e le pratiche europee sono completamente

L’E
ia
disallineate. Sulla carta abbiamo ancora il sistema ereditato dagli anni No-

uropa
op
vanta, incentrato sul primato degli aggiustamenti di mercato: un Patto di sta-

C
bilità che limita fortemente le politiche di bilancio; un mandato restrittivo

o.

e
per la banca centrale che si deve solo occupare di stabilità dei prezzi; e, infi-

un
in
ne, l’assenza di politica industriale, sostituita dalla politica della concorrenza
ul

ruolo
nella convinzione dell’epoca che fosse sufficiente «livellare il campo da gio-
M

co» perché i mercati fossero in grado di generare innovazione, crescita e be-


il

per
e

nessere. In pratica, negli ultimi anni i Paesi europei hanno usato massiccia-
ic

la
mente la politica di bilancio, la Bce ha usato politiche convenzionali e non
itr

mano
ed

per sostenere l’economia e il sistema finanziario, e la necessità della politica


industriale si è imposta in tutta la sua evidenza.
à

pubblica
et
ci
So

Una qualche forma di condivisione del rischio è non solo


necessaria per evitare divergenze eccessive, ma anche
by

benefica per tutti


©
ht

La seconda lezione della crisi è che le economie europee sono ormai così
ig
yr

strettamente legate tra loro e allo stesso tempo così eterogenee (tra l’altro a
op

causa delle politiche sciagurate attuate negli anni della crisi del debito sovra-
C

no: ne ho scritto in La politica economica europea. Nulla come prima?, «il Muli-
no», n. 1/2021) che le categorie di shock simmetrici o asimmetrici care agli
economisti non hanno più senso. Nessuno shock colpisce solo un’economia,
ma nessuno colpisce tutti allo stesso modo. Quindi, lo ha mostrato il Covid,
una qualche forma di condivisione del rischio, di risposta comune agli shock
e di sia pur limitata solidarietà, è non solo necessaria per evitare divergenze
eccessive, ma anche benefica per tutti, i più deboli come i più forti.

107
Per dotare i Paesi europei di una capacità fiscale di reazione agli
shock e di coordinamento delle politiche economiche si possono prende-
re strade diverse. Si può deciderne la creazione a livello centrale, dotando
gli organi comunitari di una capacità di spesa (e di tassazione) da mette-
re al servizio di investimenti e spese anticicliche; a quel punto, le rego-
le per i singoli Stati possono rimanere restrittive come sono oggi, o esse-
re emendate al margine. È il modello degli Stati Uniti, dove i singoli Stati
hanno rigidi vincoli di bilancio in pareggio, ma il governo federale usa le

e
politiche macroeconomiche con decisione e senza vincoli per la stabiliz-

or
zazione macroeconomica e per le politiche industriali. Oppure, se si de-

ut
cide di non sviluppare la capacità di spesa a livello centrale, si deve dare

l’a
spazio alle politiche di bilancio a livello locale, con regole molto più per-

r
pe
missive del Patto di stabilità e con una migliore coordinazione tra gli Stati

ia
membri e tra questi e la Commissione. Insomma, sarebbe auspicabile che

op
si ragionasse sulla riorganizzazione complessiva della governance macro-

C
economica (in un mondo ideale, peraltro, il mandato della Bce dovrebbe

o.
far parte della discussione).
araceno
in
Sfortunatamente, le élite europee non sembrano oggi in grado di por-
ul
tare avanti un ragionamento d’insieme sulla governance, ma procedono per
M

compartimenti stagni. Sulla capacità di bilancio centrale, l’opposizione dei


S

il
rancesco
e

Paesi del centro, i cosiddetti «frugali», a un possibile «Next Generation Eu


ic

permanente» rimane fortissima e al momento non è stato nemmeno formal-


itr

mente avviato il dibattito. La discussione sulla riforma delle regole di bilan-


ed
F

cio procede invece spedita. Ricordiamo che il Patto di stabilità, insieme al Fi-
à
et

scal Compact adottato in tutta fretta nel 2012 nell’erronea convinzione che
ci

fosse necessario imporre l’austerità per uscire dalla crisi del debito sovrano,
So

impongono obiettivi annuali in termini di disavanzo strutturale (cioè depu-


by

rato dal ciclo) per far sì che il debito pubblico scenda in modo costante ver-
so il livello del 60% (arbitrario, sia detto per inciso) stabilito dal Trattato di
©

Maastricht.
ht

Anche prima della crisi del 2008 alcuni, tra cui chi scrive, hanno cri-
ig
yr

ticato il Patto di stabilità, perché l’enfasi su obiettivi annuali spinge i Paesi


op

a adottare politiche pro-cicliche: in caso di crisi e di calo del Pil, per resta-
C

re sulla traiettoria di riduzione del debito, occorre una restrizione di bilancio


che però ha un impatto negativo sulla crescita, innescando un circolo vizio-
so. Inoltre, il Patto non riconosce le differenze tra Paesi, imponendo gli stessi
obiettivi a tutti (one size fits all). Infine, ma non da ultimo, la regola oggi non
distingue tra spesa corrente e spesa per investimenti, finendo per penalizza-
re questi ultimi che politicamente, per un governo a caccia di risorse, sono
meno costosi da tagliare.

108
La prova che il Patto di stabilità è inutilmente restrittivo e controproducen-
te («stupido», ebbe a definirlo Romano Prodi anni fa) viene indirettamente
dal fatto che nel marzo del 2020, per evitare gli errori degli anni precedenti,
la Commissione europea si è affrettata ad attivare la clausola di sospensione
per consentire ai Paesi europei di far fronte alla pandemia. Il Patto è sospeso
fino al dicembre 2023 e l’obiettivo è che la nuova regola sia approvata prima
che questo torni in vigore.
Ad aprile la Commissione europea ha messo sul tavolo la propria pro-

e
posta di riforma, che nelle sue linee fondamentali riprende una comunicazio-

or
ne di qualche mese prima. La proposta, sia pur molto imperfetta, rappresen-

ut
ta un miglioramento rispetto all’esistente. Gli obiettivi numerici annuali sono

l’a
sostituiti da programmi pluriannuali di riduzione del debito che sono formu-

r
pe
lati dai Paesi membri di concerto con la Commissione, sulla base di scenari di
evoluzione delle finanze pubbliche. I Paesi ad alto debito devono ovviamen-

L’E
ia
te fare sforzi più importanti, soprattutto se gli scenari più probabili prevedo-

uropa
op
no tassi di interesse elevati e crescita modesta, e quindi più rischi per la so-

C
stenibilità futura.

o.

e
un
in
Rispetto all’esistente la proposta introduce due miglioramenti molto
ul

ruolo
significativi: in primo luogo, il riconoscimento della specificità di ogni Paese
M

e dell’importanza che il piano sia predisposto dai Paesi e non dall’alto. In se-
il

condo luogo, l’adozione di una prospettiva di medio periodo, l’unica ragione-

per
e
ic

vole quando si parla di sostenibilità delle finanze pubbliche. È un bene che ci

la
itr

si sia finalmente resi conto dell’assurdità di obiettivi annuali. A fronte di que-

mano
ed

sti pregi, il difetto principale è che l’investimento pubblico non è veramente


à

protetto, limitandosi la regola a dare un po’ più di tempo per il rientro a Pae-

pubblica
et

si che si impegnino in progetti di investimento significativi. Mentre sono an-


ci

cora necessarie politiche per consolidare la ripresa, gestire l’inflazione e av-


So

viare la transizione dettata dal programma Ngeu, una governance fiscale che
by

imponesse significative correzioni di bilancio senza proteggere l’investimen-


©

to pubblico, comprometterebbe probabilmente gli obiettivi di trasformazio-


ht

ne strutturale che l’Europa si è prefissata proprio con il programma Ngeu.


ig
yr
op

Quanto e come utilizzare la politica di bilancio deve emergere


C

dall’imporsi di una visione del funzionamento dell’economia

La proposta prevede un ruolo importante per la Commissione, da un lato nel


definire gli scenari con i quali si determinano i rischi di sostenibilità del de-
bito (utilizzando uno strumento sviluppato negli anni scorsi da Banca mon-
diale e Fmi, l’Analisi dinamica del debito); dall’altro, nell’interagire con i Pa-
esi membri durante la predisposizione dei piani di rientro. Per chi, come chi

109
scrive, ha sempre sostenuto che la politica di bilancio di Paesi fortemente in-
tegrati non debba essere tecnocratica ma determinata da un processo politi-
co, l’arbitrarietà e lo spazio lasciato al negoziato tra Paesi e istituzioni euro-
pee un pregio. Quanto e come utilizzare la politica di bilancio deve emergere
dall’imporsi di una visione del funzionamento dell’economia (in altri tempi
si parlava di egemonia culturale), non spingendo per regole meccaniche che
leghino le mani in senso più o meno restrittivo a seconda della propria pro-
pensione per la disciplina di bilancio.

e
La centralità della Commissione è tuttavia fortemente criticata. Gli

or
oppositori dell’austerità temono che la discrezionalità consenta di imporre

ut
politiche draconiane, finendo quindi per farci rivivere gli anni Dieci del Due-

l’a
mila. I Paesi detti frugali, che soprattutto negli ultimi anni hanno criticato la

r
pe
Commissione perché troppo permissiva con i Paesi del Sud, hanno paura in-
vece che essa lasci passare piani di rientro troppo timidi. Per cercare di am-

ia
morbidire questi ultimi, la Commissione ha annacquato la propria propo-

op
sta originale, introducendo delle clausole di salvaguardia che scatterebbero

C
in caso deviazioni dai piani di rientro, reintroducendo obiettivi annuali. Se

o.
araceno
in
è vero che l’impianto della proposta originale non cambia, l’ulteriore enfasi
ul
sull’obiettivo di riduzione del debito segna comunque un punto a favore dei
M

partigiani della disciplina di bilancio come precondizione per qualunque po-


S

il

litica di crescita e di investimento.


rancesco
e
ic

Per quando sia insoddisfacente, occorre certamente auspicare che la


itr

proposta della Commissione riesca a superare l’opposizione dei Paesi detti


ed

frugali (Germania in testa) e a rimpiazzare l’ormai indigesto Patto di stabili-


F

tà. Tuttavia, è difficile immaginare che il quadro per la governance che si dise-
et

gnerebbe con la nuova regola sia sufficiente a creare lo spazio fiscale necessa-
ci

rio; detto altrimenti, è probabile che la nuova regola non consentirà agli Stati
So

di finanziare adeguatamente beni pubblici e investimenti. Se essa diventerà


by

il quadro di riferimento delle politiche di bilancio nazionali, lo spazio fisca-


©

le dovrà essere creato altrove. Marco Buti e Marcello Messori (A Central Fiscal
ht

Capacity in the Eu Policy Mix, «Cepr Discussion Paper», n. 17577, 2022) argo-
ig

mentano in modo convincente che la creazione in Europa di una capacità di


yr

bilancio centrale consentirebbe di provvedere alla stabilizzazione economi-


op

ca e a finanziare i beni pubblici europei con maggiore efficacia e costi minori


C

che con politiche nazionali.


Sarà difficile costruire il consenso su una proposta così innovativa, tra
Paesi europei fiaccati dalle crisi e sempre più ripiegati su sé stessi. Inoltre, la
creazione della capacità di tassare e spendere a livello centrale, mentre la re-
sponsabilità di fronte agli elettori rimane a livello nazionale, richiederebbe
un complesso processo di creazione dei check and balance necessari ad assicu-
rare che non appaia un ulteriore deficit democratico (che aprirebbe praterie

110
a sovranisti ed euroscettici di estrazione varia). Sarebbe probabilmente sta-
to più semplice ricreare un ruolo per la politica di bilancio a livello naziona-
le. Purtroppo, sulla riforma del Patto l’Europa non sembra avere l’ambizione
necessaria, e questo rende ineludibile l’apertura di una seria discussione sul-
la creazione di un qualche tipo di ministro delle Finanze europeo.

e
or
ut
rl’a
pe

L’E
ia

uropa
op
C
o.

e
un
in
ul

ruolo
M
il

per
e
ic

la
itr

mano
ed
à

pubblica
et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

FRANCESCO SARACENO, senior economist


all’Office di Sciences Po, di cui è vicedirettore,
e membro del comitato scientifico della Luiss
School of European Political Economy, fa parte
del Comitato di direzione di questa rivista. Tra i
suoi lavori La scienza inutile. Tutto quello che non
abbiamo voluto imparare dall’economia (2018) e La
riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come
possiamo riprendercela (2020), entrambi per Luiss
University Press.

111
Serve più Stato? / 10

LO STATO

e
or
ut
NEO-KEYNESIANO

rl’a
pe
ia
op
C
o.
in
ul
M
il
e
ic
itr
ed
à
et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

ANTONELLA
STIRATI
112
l co tributo di Key es è principalmente associato alla teoria che indica

e
I
n
n
or
nella domanda aggregata ciò che in ultima analisi determina il reddito e l’oc-

ut
cupazione. Una teoria in base alla quale nel sistema economico può verificar-

l’a
si una disoccupazione persistente, anche di ampie dimensioni, che dipende

r
esclusivamente da una carenza di domanda. Il messaggio centrale, da cui di-

pe
scendono molte conseguenze, è che un’economia di mercato lasciata libera di

ia
operare non è in grado di assicurare condizioni di piena occupazione del la-

op
voro o pieno utilizzo degli impianti. Se la piena occupazione è un obiettivo

C
che si intende perseguire, per ragioni sociali e di efficienza economica, allora

o.
è necessario un intervento pubblico a ciò finalizzato, e la politica fiscale è uno
in
strumento necessario, non essendo secondo Keynes la politica monetaria in
ul
M

grado da sola di consentire il raggiungimento di quell’obiettivo.


il
e

La teoria keynesiana dell’occupazione è attuale


ic
itr

perché è l’unica al tempo stesso analiticamente fondata


ed

e con solidi riscontri empirici


à
et

La teoria keynesiana dell’occupazione è attuale perché è l’unica teoria di cui


ci

disponiamo che sia al tempo stesso analiticamente ben fondata e con soli-
So

di riscontri empirici. Questo ovviamente non significa che non ci siano altre
by

teorie in circolazione, spesso dominanti sia nell’accademia che nel discorso


©

pubblico – al punto che mentre ritengo il pensiero di Keynes indispensabile


ht

per la comprensione dei processi economici, nutro dei dubbi circa un suo «ri-
ig

torno» nella cultura e nella politica economica.


yr

Indubbiamente, dopo il 2008, la difficoltà anche negli Stati Uniti a re-


op

cuperare il sentiero di crescita precedente alla crisi finanziaria, e gli esiti di-
C

sastrosi delle politiche di austerità nell’Eurozona, avevano fatto sì che molte


voci nell’establishment internazionale invocassero la necessità di un cambia-
mento nelle politiche macroeconomiche, in favore di politiche fiscali espan-
sive (cfr. L.H. Summers e A. Stansbury, Quale direzione per le banche centrali?,
«Project Syndicate», 23.8.2019). Durante la pandemia questo clima cultura-
le, insieme al rischio di collasso economico-sociale, hanno indotto i governi a
un forte interventismo. L’Europa ha sospeso i vincoli alle politiche di bilan-

113
cio e di sostegno alle imprese, e ha anche varato il Next generation Eu, che è
stato visto come un momento importante di innovazione. Le difficoltà di ap-
provvigionamento causate dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina hanno
inoltre riportato l’attenzione sulla necessità di investimenti pubblici e poli-
tiche industriali, in particolare nei settori di importanza strategica e in quel-
li rilevanti per combattere il cambiamento climatico e favorire la transizio-
ne energetica.
Tuttavia, non è chiaro se questi cambiamenti siano qui per restare e
che cosa accadrà alla politica economica nei prossimi anni. Nell’Eurozona

e
or
le pressioni per un rapido ritorno alle regole di bilancio non sono mai venu-

ut
te meno. Anche se oggi si affacciano proposte di riforma migliorative di tali

l’a
regole (European Commission, Communication on Orientations for a Reform of

r
pe
the Eu Economic Governance Framework, 9.11.2022), esse non sembrano evi-
tare alcuni difetti delle precedenti, tra cui la tendenza a scoraggiare investi-

ia
menti pubblici delle dimensioni che sarebbero invece necessarie (F. Sarace-

op
no, Here to Stay? The Return of Fiscal Policy and Challenges for Eu Governance,

C
«Review of Economics and Institutions», vol. 13, n. 1/2022). Inoltre, l’atten-

o.
zione si sta rapidamente spostando dal sostegno alla crescita e all’occupazio-
in
tirati
ul
ne verso politiche di contenimento dell’inflazione, anche a costo di rallentare
M

l’economia e causare disoccupazione. Insomma, il «ritorno» del keynesismo


S
ntonella
il

nell’analisi e nella politica economica non è scontato. D’altra parte, dietro a


e

questa fragilità del ritorno di Keynes, si possono leggere non solo aspetti cul-
ic
itr

turali, ma profondi interessi economici e rapporti di potere: l’obiettivo del-


ed

la piena occupazione del lavoro non è necessariamente condiviso da chi può


A

trarre vantaggio sia dalla debolezza contrattuale dei lavoratori, favorita dalla
à
et

disoccupazione, sia dal progressivo ritirarsi dello Stato da ambiti, quali la sa-
ci

nità, l’istruzione, la previdenza, in cui l’attività privata può essere estrema-


So

mente redditizia (cfr. M. Kalecki, Aspetti politici del pieno impiego, in Id., Sul
by

capitalismo contemporaneo, trad. it. Editori Riuniti, 1975; T. Cavalieri, M. Lu-


cii e P. Garegnani, La sinistra e l’occupazione. Anatomia di una sconfitta, «La Ri-
©

vista del Manifesto», n. 48, marzo 2004; P. Krugman, The Austerity Delusion?,
ht

«The Guardian», 29.4.2015).


ig
yr
op

Il discorso pubblico sull’economia, in Italia e in Europa,


C

continua a essere fortemente influenzato da un approccio


tradizionale, assai poco keynesiano
Questi dubbi sono rafforzati dal fatto che il discorso pubblico sull’economia
in Italia e in Europa continua a essere fortemente influenzato da un approc-
cio tradizionale, assai poco keynesiano e poco realistico, alle questioni econo-
miche. Vorrei proporre alcuni esempi di queste linee di interpretazione su di-

114
versi temi di attualità, e delle diverse considerazioni a cui porterebbe invece
un ritorno a una visione keynesiana, più corretta, del funzionamento dell’e-
conomia. Una maggiore consapevolezza nei mezzi di informazione di queste
diverse linee di pensiero potrebbe in effetti dare un contributo al ritorno del
keynesismo nel dibattito politico.

Il principale contributo della Teoria generale di Keynes consiste nella teoria


del reddito e dell’occupazione basata sul «principio della domanda effettiva».

e
Questa teoria indica in ultima analisi in alcune componenti della domanda

or
(investimenti privati, spesa pubblica, esportazioni) e nella spesa addiziona-

ut
le delle famiglie in beni e servizi prodotti nel Paese per ogni euro aggiunti-

l’a
vo di reddito disponibile, ciò che determina i livelli di produzione e occupa-

r
pe
zione. Keynes nega, in contrasto con la teoria allora dominante e che in larga
misura lo è ancora oggi, che esistano meccanismi economici spontanei che,

ia
in presenza di salari e prezzi flessibili, sono in grado di ricondurre sistema-

op
ticamente il sistema economico alla piena occupazione del lavoro e/o al pie-

C
no utilizzo degli impianti. Keynes riteneva di aver dimostrato che l’economia

LO STATO NEO-KEYNESIANO
o.
in
può persistentemente assestarsi a livelli di domanda e produzione inferiori a
ul
quelli potenzialmente possibili, con una disoccupazione che non può essere
M

ridotta dalla diminuzione dei salari. Anzi quest’ultima può avere effetti nega-
il

tivi sull’occupazione, a causa della riduzione dei consumi.


e
ic

Subito dopo la pubblicazione della Teoria generale però il contributo di


itr

Keynes, anche per alcuni suoi limiti, viene fortemente depotenziato e ridotto
ed

nelle analisi dominanti a essere una teoria del ciclo economico o delle depres-
à

sioni (cioè di eventi transitori o eccezionali). Una teoria talvolta utile per le
et

politiche economiche anticicliche, ma tuttavia non tale da mettere in discus-


ci

sione la tendenza dell’economia alla piena occupazione sia del lavoro che del
So

capitale grazie ai meccanismi di mercato, o se necessario con un po’ di aiuto


by

della politica monetaria (cfr. A. Stirati, Lavoro e salari. Un punto di vista alter-
©

nativo sulla crisi, L’Asino d’oro, 2020).


ht

Dopo la Teoria generale, tuttavia, si è andata sviluppando anche una


ig

diversa corrente di pensiero, che ripropone la teoria keynesiana del reddito


yr

nel suo pieno significato e in antitesi con la visione tradizionale. Il depoten-


op

ziamento della teoria keynesiana dell’occupazione era stato reso possibile an-
C

che da alcune debolezze della Teoria generale, in cui mal convivono elementi
innovativi e concezioni tradizionali. Tuttavia, queste ultime sono state mes-
se in discussione da importanti contributi successivi. La critica si è rivolta
alla relazione inversa tra salario e occupazione e tra tasso di interesse e in-
vestimenti, i due pilastri su cui si fonda la tesi della tendenza al pieno impie-
go, sulla base di contributi teorici e dell’accumularsi di evidenza empirica in
contrasto con quelle relazioni.

115
Il pieno recupero del principio della domanda effettiva consente an-
che la sua estensione alla spiegazione della crescita economica. Se l’economia
può restare a lungo, a causa di una carenza di domanda, in una situazione di
sottoutilizzo degli impianti, questo avrà un effetto negativo sugli investimen-
ti delle imprese e quindi sulla crescita; viceversa, una situazione di domanda
aggregata elevata e sovra-utilizzo degli impianti stimola le imprese a investi-
re per allargare la propria capacità produttiva.

e
or
Quando l’economia è in espansione, aumentano i tassi

ut
di partecipazione e le ore di lavoro, si riducono le attività

l’a
a basso reddito in favore di occupazioni più produttive

r
e redditizie

pe
ia
In modo simile, la persistenza di livelli di disoccupazione elevati può ridurre

op
la forza lavoro: alcuni lavoratori o lavoratrici usciranno dal mercato per sco-

C
raggiamento o marginalizzazione, altri troveranno rifugio in attività infor-

o.
mali o autonome a basso reddito e a bassa produttività. Quando invece l’eco-
in
tirati
ul
nomia è in espansione, la disponibilità di forza lavoro si adegua, aumentano
M

i tassi di partecipazione e le ore di lavoro, si riducono le attività a basso red-


S
ntonella
il

dito in favore di occupazioni più produttive e redditizie. Infine, anche la pro-


e
ic

duttività tende a crescere in risposta ad aumenti della domanda (cfr. nel mio
itr

Lavoro e salari, cit., in particolare pp. 259-266; D. Girardi, W. Paternesi Meloni


ed
A

e A. Stirati, Reverse Hysteresis? The expansionary effects of autonomous demand


à

expansions, «Cambridge Journal of Economics», April 2020).


et
ci

Secondo la teoria tradizionale, la piena occupazione del lavoro può essere


So

nella realtà associata a un certo ammontare di disoccupazione «frizionale»,


by

dovuta al fatto che l’incontro tra lavoratori e posti di lavoro non è immedia-
©

to. Inoltre, negli anni Ottanta, per spiegare l’elevata disoccupazione in Eu-
ht

ropa, la teoria tradizionale ha sviluppato modelli in cui le rigidità di salari e


ig

prezzi, causate da interferenze delle istituzioni con le forze di mercato, de-


yr

terminano una disoccupazione di equilibrio piuttosto elevata, che può essere


op

ridotta solo eliminando le rigidità, e quindi con le famose «riforme» del mer-
C

cato del lavoro.


Secondo questi modelli, i meccanismi di mercato garantiscono co-
munque il raggiungimento del massimo livello di occupazione compatibile
con le rigidità esistenti, a cui corrisponde il Pil potenziale. Questa lettura del-
la elevata disoccupazione come disoccupazione di equilibrio ha determinato
effetti aberranti (in una prospettiva keynesiana), consentendo alle istituzio-
ni europee di definire «di equilibrio» tassi di disoccupazione estremamente

116
alti, ad esempio maggiori del 10% in Italia dopo il 2013, quando la crisi finan-
ziaria e le politiche di austerità avevano fatto schizzare la disoccupazione ef-
fettiva. Questo ha condizionato la politica di bilancio pubblico che – per dirla
in modo semplice – nell’Eurozona è vincolata al pareggio di bilancio quando
il tasso di disoccupazione è, secondo le stime, quello di equilibrio e dunque il
Pil ha raggiunto il suo potenziale (mentre può essere moderatamente espan-
siva quando il tasso di disoccupazione è maggiore di quello «di equilibrio»).
Un cambiamento ragionevole della definizione di quest’ultimo, persino con

e
le attuali regole fiscali europee, creerebbe per l’Italia e per altri Paesi spazio

or
per politiche di spesa pubblica che potrebbero consentire (da un punto di vi-

ut
sta keynesiano) una riduzione dei disoccupati, oltre che un miglioramento di

l’a
servizi e infrastrutture (cfr. D. Cassese, Crescita e Pil potenziale: le stime contro-

r
pe
verse di Bruxelles, «Economia e Politica», 29.4.2019; C. Fontanari, A. Palum-
bo e C. Salvatori, Potential output in theory and practice: A revision and update of

ia
Okun’s original method, «Structural Change and Economic Dynamics», vol. 54,

op
n. 2/2020; Stirati, Lavoro e salari, cit., pp. 173-182).

LO STATO NEO-KEYNESIANO
o.
in
Un’altra idea che da anni viene continuamente ripetuta, e cioè che l’elevato
ul
debito pubblico italiano rappresenta un onere per le generazioni future, può
M

essere sostenuta solo in analisi economiche secondo le quali l’economia tende


il

costantemente al pieno impiego del lavoro e della capacità produttiva. Solo in


e
ic

tali circostanze, infatti, la spesa pubblica comporta l’utilizzo di risorse (lavo-


itr

ro e capitale) che potrebbero altrimenti essere destinate a investimenti del-


ed

le imprese, che beneficerebbero le generazioni future con una capacità pro-


à

duttiva e un reddito più elevati. Solo in questo senso il debito pubblico può
et

rappresentare un «onere» per le generazioni future. In assenza di piena oc-


ci

cupazione, al contrario, la teoria economica ci dice che la spesa pubblica crea


So

lavoro, produzione e reddito aggiuntivi (cioè un reddito che non sarebbe al-
by

trimenti esistito) e crea quindi anche maggiori risparmi privati di quanti vi


©

sarebbero stati in sua assenza. Essa, dunque, arricchisce le generazioni futu-


ht

re, piuttosto che impoverirle.


ig
yr
op

In assenza di piena occupazione, la spesa pubblica crea


C

lavoro, produzione e reddito aggiuntivi: dunque arricchisce


le generazioni future, piuttosto che impoverirle

Da un punto di vista meramente finanziario, d’altra parte, l’affermazione che


il debito pubblico «ricade» sui cittadini presenti o futuri non ha senso. Il de-
bito pubblico è un debito dello Stato con i cittadini, le imprese, le banche che
detengono titoli del debito pubblico – e quindi in aggregato debiti e crediti

117
sono del tutto equivalenti. Le generazioni future erediteranno il debito e gli
interessi da pagare attraverso la tassazione, ma anche il credito, cioè i titoli
pubblici che danno loro il diritto a riscuotere tali pagamenti.
Questo vale anche quando una parte dei titoli del debito pubblico è de-
tenuta da cittadini o istituzioni estere, se l’indebitamento netto con l’estero è
prossimo a zero, come è attualmente il caso dell’Italia. Infatti, a fronte di un
certo ammontare dei titoli del debito pubblico in mano a soggetti residenti
all’estero, cittadini e istituzioni italiane possiedono titoli e attività finanzia-

e
rie emesse all’estero per un pari ammontare, e non vi è quindi per il Paese nel

or
suo insieme alcun onere debitorio (cfr. R. Ciccone, Sulla natura e sugli effetti

ut
del debito pubblico, in S. Cesaratto e M. Pivetti, Oltre l’austerità. Un ebook contro

l’a
la crisi, Micromega, 2012). Naturalmente vi possono essere problemi connes-

r
pe
si alla distribuzione dei debiti e dei crediti, ad esempio se i soggetti che pa-
gano le tasse e quindi gli interessi sul debito pubblico (per lo più i lavoratori

ia
dipendenti, in Italia) sono diversi da coloro che detengono i titoli del debito

op
e riscuotono gli interessi (ad esempio proprietari di grandi patrimoni finan-

C
ziari, soggetti a tassazione molto modesta) – ma si tratta allora appunto di un

o.
in
problema distributivo, e non di onere del debito in quanto tale.
tirati
ul
In ogni caso, le politiche di austerità varate dopo la crisi del 2008, con
M

lo scopo dichiarato di ridurre il debito pubblico, hanno invece causato una


S
ntonella
il

forte caduta del Pil e un forte aumento del rapporto debito-Pil. In Italia que-
e
ic

sto rapporto era del 100% nel 2007, con la crisi è passato al 120% e poi al
itr

132% tra il 2011 e il 2013 con le politiche di austerità. L’effetto controprodu-


ed
A

cente delle politiche di austerità è stato riconosciuto nella letteratura accade-


à

mica internazionale (si veda, tra gli altri, A. Fatàs e L. Summers, The perma-
et

nent effects of fiscal consolidations, «Journal of International Economics», vol.


ci

112, May 2018), e persino alcuni fautori italiani dell’austerità hanno dovuto
So

riconoscerlo, sebbene non se ne abbia avuta eco nell’informazione (su alcune


by

contraddizioni interne tra economisti italiani a sostegno dell’austerità, cfr. il


©

mio Lavoro e salari, cit., pp. 7 e 28).


ht
ig

Un altro terreno in cui la visione tradizionale domina il discorso pubblico è


yr

quello delle cause della scarsa crescita dell’economia italiana. Secondo la vi-
op

sione tradizionale, la crescita della produzione dipende dalla crescita del-


C

la popolazione e quindi della manodopera disponibile, e dalla crescita del-


la produttività.
L’enfasi sul declino demografico dell’Italia come limite alla crescita di
cui tanto si parla viene da quell’analisi, che trascura la crescita che potrebbe
invece realizzarsi grazie al riassorbimento dei moltissimi disoccupati, sottoc-
cupati e inattivi (scoraggiati) presenti in Italia. In base alle statistiche uffi-
ciali nel 2022, in Italia i disoccupati erano circa 2 milioni. Tra gli occupati, il

118
18% è part-time, e tra questi, il 60% vorrebbe poter lavorare a tempo pieno. I
tassi di inattività femminile sono elevatissimi: circa 44% la media nazionale
(il 59% nel mezzogiorno) nella fascia d’età 15-64, pari a 8 milioni di persone
(Istat, Forze di lavoro). È del tutto plausibile che un aumento delle opportuni-
tà di lavoro potrebbe far aumentare l’occupazione di milioni di persone, gra-
zie a una maggiore partecipazione femminile e alla riduzione della disoccu-
pazione, del tutto indipendentemente dagli andamenti demografici.
La bassa crescita viene inoltre attribuita a scarsa capacità di innovare

e
delle imprese e alla inefficienza del settore pubblico. Quando anche vi fossero

or
alcuni elementi di realtà in questo, un grave limite di tale visione è l’assenza

ut
di ogni riferimento alla stagnazione della domanda aggregata e al ruolo delle

l’a
politiche di bilancio pubblico, che in Italia hanno avuto un segno restrittivo

r
pe
dal 1992 a oggi, con saldo primario (la differenza tra entrate e spese al netto
degli interessi sui titoli pubblici) costantemente in avanzo, o ai bassi salari e

ia
il loro effetto sui consumi.

op
Eppure, secondo molti economisti, l’andamento delle economie può

C
essere spiegato proprio dall’andamento della domanda. Nei primi decenni

LO STATO NEO-KEYNESIANO
o.
in
del dopoguerra, caratterizzati da crescita sostenuta, le economie industria-
ul
lizzate sono state trainate da una generale crescita della spesa pubblica all’in-
M

terno dei Paesi industrializzati, dall’espansione del commercio internaziona-


il

le e delle esportazioni, e dall’agganciamento dei salari alla produttività, che


e
ic

ha sostenuto i consumi privati.


itr
ed

opo la crisi del 2008, in molti Paesi la spesa pubblica


à
D
et

ha avuto un ruolo significativo nel contribuire alla ripresa


ci
So

In seguito, venuto meno questo quadro complessivo, è iniziata la fase del neo-
by

liberismo. In questo mutato contesto si sono affermati diversi modelli di cre-


scita: trainati da consumi e indebitamento del settore privato (Stati Uniti,
©

Regno Unito, in qualche misura la Spagna) o dalle esportazioni (Germania


ht
ig

e suoi «satelliti»). Dopo la crisi del 2008, in molti Paesi la spesa pubblica ha
yr

avuto un ruolo significativo nel contribuire alla ripresa: ad esempio in Fran-


op

cia con un incremento della spesa pubblica totale in termini reali del 20%
C

circa tra 2008 e 2018, in Germania del 10%, mentre in Italia essa è diminui-
ta (cfr. Stirati, Lavoro e salari, cit., pp. 189-202). Di conseguenza, la stagnazio-
ne dell’economia italiana può essere vista come dovuta all’assenza di un trai-
no della domanda a partire dagli anni Novanta e ancor più dopo la crisi del
2008. Una conferma dell’importanza della domanda aggregata può essere vi-
sta nella rapida ripresa dell’economia italiana dopo la pandemia, a differen-
za di quanto accaduto dopo il 2008, grazie alle misure di sostegno ai redditi

119
e di stimolo fiscale. La buona crescita del Pil ha inoltre consentito una ridu-
zione del rapporto debito-Pil, nonostante i saldi negativi dei conti pubblici.
Un altro tema ricorrente nel discorso pubblico è stato quello della ne-
cessità di ridurre il costo del lavoro e di aumentarne la flessibilità per ridurre
la disoccupazione. Ciò ha portato a una sequenza di riforme del mercato del
lavoro, fino al Jobs Act del 2015, che liberalizzava i licenziamenti individua-
li e finanziava generosamente le assunzioni con contratti permanenti, con
un costo complessivo per lo Stato tra i 15 e i 20 miliardi in tre anni. In quat-

e
tro anni, nel dicembre 2018, gli occupati permanenti erano aumentati di cir-

or
ca 400 mila, non molto se si tiene conto che si era in fase di moderata ripresa

ut
economica e dunque l’occupazione sarebbe aumentata a prescindere – e in-

l’a
fatti aumenta di quasi 700 mila unità, nello stesso periodo, l’occupazione con

r
pe
contratti a tempo determinato, non incentivati dalla misura (Istat, Forze di
lavoro, serie storiche). Oggi le conseguenze di impoverimento e precarizzazio-

ia
ne del mondo del lavoro sono talmente evidenti che si ha ritegno a proporre

op
ulteriore flessibilità; tuttavia, sentiamo ancora molto parlare di taglio del cu-

C
neo fiscale per ridurre il costo del lavoro e «aiutare le imprese» ad aumenta-

o.
in
re l’occupazione. In realtà, come ormai documentato da numerosi studi, que-
tirati
ul
ste riforme non hanno dato frutti in termini di crescita dell’occupazione né in
M

Italia né all’estero (cfr. E. Brancaccio, F. De Cristofaro e R. Giammetti, A me-


S
ntonella
il

ta-analysis on labour market deregulations and employment performance: no con-


e
ic

sensus around the Imf-Oecd consensus, «Review of Political Economy», vol. 32,
itr

n. 1/2020)
ed
A

Per concludere, va detto che l’intera architettura istituzionale dell’Eurozona


à
et

riflette la visione tradizionale che il sistema economico sia in grado di opera-


ci

re per il meglio senza necessità di politiche economiche discrezionali. L’inter-


So

vento delle politiche di bilancio deve essere minimo e solo, in via di principio,
by

molto moderatamente espansivo nelle fasi cicliche negative. In via di princi-


pio, perché nella pratica, come generalmente riconosciuto, le regole di bilan-
©

cio sono state nei fatti tali da operare in senso più restrittivo proprio durante
ht
ig

le recessioni, esacerbandone le conseguenze (European Fiscal Board, Asses-


yr

sment of Eu fiscal rules, 2019).


op
C

Nell’Eurozona si è creata un’area economica in cui strumenti


necessari di intervento non sono più disponibili a livello
nazionale, senza essere sostituiti a livello sovranazionale
In pratica nell’Eurozona si è creata un’area economica in cui ciascun Paese
ha perso importanti strumenti: politica di bilancio; tasso di interesse; tasso

120
di cambio; la tassazione in senso redistributivo, limitata dalla concorrenza fi-
scale tra Paesi e dalla libera mobilità internazionale dei capitali; le politiche
industriali ostacolate dalle regole contro gli «aiuti di Stato». Strumenti neces-
sari di intervento non sono più disponibili a livello nazionale, senza poter es-
sere sostituiti a livello sovranazionale, per l’assenza di un quadro istituziona-
le e politico adeguato (cfr. Saraceno, Here to stay?, cit.).
Uno dei risultati di questo assetto è che la zona euro è l’area economi-
ca del mondo con la minore crescita media annua nel ventennio preceden-

e
te la pandemia. Come notato da Stiglitz: «Nel 2000, l’anno dopo che era stato

or
introdotto l’euro, l’economia Usa era solo del 13% più grande dell’Eurozo-

ut
na; nel 2016 la differenza era diventata del 26%» (J. Stiglitz, È possibile salva-

l’a
re l’euro?, «Micromega», 16.6.2018). Sono cresciute inoltre le divergenze ter-

r
pe
ritoriali all’interno di tutta l’Eurozona, creando ampie regioni periferiche di
stagnazione economica e scontento sociale (Eurostat Regional Yearbook, 2018,

ia
mappe 6.1 e 6.2).

op
Il ritorno a un ruolo economico più ampio del settore pubblico, a poli-

C
tiche keynesiane non solo di stimolo all’economia, ma anche con uno sguar-

LO STATO NEO-KEYNESIANO
o.
in
do a lungo termine sulle esigenze di intervento pubblico in settori strategici
ul
e nell’innovazione, è necessario, ma per nulla scontato, soprattutto in Euro-
M

pa. Una inadeguatezza tanto degli Stati nazionali quanto delle istituzioni eu-
il

ropee a questo riguardo è destinata ad accentuare le fragilità economiche e


e
ic

sociali di tutta l’Eurozona. L’informazione potrebbe dare un contributo al ri-


itr

torno di temi keynesiani nel dibattito politico iniziando a proporre in forma


ed

pluralista e dialettica le interpretazioni dei fenomeni economici.


à
et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

ANTONELLA STIRATI è professoressa ordinaria


di Economia politica al ipartimento di Economia
D
dell’Università Roma Tre. Tra le sue pubblicazioni,
Lavoro e salari. Un punto di vista alternativo sulla
crisi (L’Asino d’oro, 2020).

121
Fotografia: Simon Fraser University.

C
op
yr
ig
ht
©
by
So
ci
et
à
ed

122
itr
ic
e
Intervista

il
M
ul
MARIANA

in
o.
a cura di Alessandro Bonetti

C
MAZZUCATO

op
ia
pe
r l’a
ut
or
e
In una certa narrazione, Stato e mercato sono visti

e
or
come due poli opposti dello sviluppo economico, due

ut
l’a
poli quasi inconciliabili. Negli ultimi anni, il lavoro di

r
Mariana Mazzucato ha messo in luce le contraddizioni

pe
empiriche di questa narrazione ideologica: nei Paesi ca-

ia
op
pitalisti avanzati, infatti, il successo del mercato è dipe-

C
so in modo decisivo da forti forme di intervento pubbli-
o.
in
co nel sistema nazionale di innovazione.
ul
Nata a Roma nel 1968, Mariana Mazzucato è pro-
M
il

fessoressa di Economia dell’innovazione e del valore


e
ic

pubblico allo University College di Londra (Ucl), dove


itr

ha fondato e dirige l’Institute for Innovation and Pu-


ed

blic Purpose, ed è nota in tutto il mondo per le sue teo-


à
et

rie sul rapporto fra Stato e mercato. A quattro anni si è


ci
So

trasferita con la famiglia negli Stati Uniti, dove il padre


by

era stato chiamato come fisico all’Università di Prince-


©

ton. Nel 1990 si è laureata in Storia e relazioni inter-


ht

nazionali alla Tufts University, per dedicarsi poi allo


ig
yr

studio dell’economia alla New School for Social Rese-


op

arch, dove ha ottenuto un master, nel 1994, e un dotto-


C

rato, nel 1999. Dopo alcuni incarichi di insegnamento


e ricerca negli Stati Uniti, si è trasferita nel Regno Uni-
to, dove ha lavorato alla London Business School, alla
Open University e all’Università del Sussex, fino ad ar-
rivare allo Ucl nel 2017.

123
Le sue ricerche sono state pubblicate su numero-
se riviste scientifiche, ma hanno raggiunto anche il gran-
de pubblico attraverso vari libri di successo. Fra gli altri,
ricordiamo Lo Stato innovatore. Sfatare il mito del pubblico
contro il privato (trad. it. Laterza, 2014), che ne ha con-
sacrato la fama internazionale, Il valore di tutto (Laterza,
2018), dedicato a una riscoperta della teoria del valore, e

e
or
Missione economia (trad. it. Laterza, 2021), in cui appro-

ut
l’a
fondisce il concetto di «approccio alle missioni», centrale

r
pe
nelle sue analisi.
I suoi studi le sono valsi riconoscimenti internazio-

ia
op
nali, come il premio Leontief (2018), il Madame de Staël

C
(2019) e l’onorificenza di Grande ufficiale dell’Ordine al
o.
in
merito della Repubblica italiana (2021). Collabora con le
ul
Nazioni Unite (nel Comitato consultivo di alto livello del-
ntervista
M
il

le Nazioni Unite per gli affari economici e sociali) e con


e
ic

l’Organizzazione mondiale della sanità (è presidente del


itr
I

comitato sull’Economia di una sanità per tutti). È stata


ed

chiamata come consigliera da vari governi e organizza-


à
et

zioni pubbliche, dall’Italia al Sudafrica, dal Cile al Regno


ci
So

Unito, confrontandosi con politici di vari schieramenti.


by

Il suo ultimo libro The Big Con. How the Consulting Indu-
©

stry Weakens our Businesses, Infantilizes our Governments


ht

and Warps our Economies (Penguin Books, 2023; in uscita


ig
yr

in Italia per Laterza a ottobre, con il titolo Il grande ingan-


op

no), scritto con Rosie Collington, mostra l’influenza noci-


C

va delle grandi società di consulenza sui governi. In que-


sta intervista ripercorriamo alcuni temi chiave della sua
carriera di studiosa e discutiamo come i governi dovreb-
bero intervenire per affrontare le tante sfide di questa era
di turbolenza politica ed economica.

124
AB Sono ormai molti anni che lavori sul rapporto tra Stato e mercato.
Nell’ultimo decennio il consenso sul ruolo dello Stato sembra essere
mutato e alcune delle tue idee sono entrate nel discorso della politica.
A tuo parere, che cos’è cambiato di più da quando hai scritto Lo Stato
innovatore, nel 2013?
MM Non sono sicura che sia cambiato molto, ma qualcosa certamente è
diverso. Quando ho scritto Lo Stato innovatore, l’Europa stava attuan-
do una massiccia austerità. Dalla crisi finanziaria stavamo appren-
dendo la lezione sbagliata. Mentre gli Stati Uniti si imbarcavano in

e
or
un programma di stimolo pubblico da 800 miliardi, i fondi europei

ut
per la ripresa erano condizionati a tagli del deficit, con il fantomati-

l’a
co limite del 3% (anche se poi in realtà alcuni Paesi portarono il de-

r
pe
ficit a zero o registrarono addirittura dei surplus!). E non funzionò.
Anzi, il rapporto debito/Pil aumentò, perché tagliando la spesa in

ia
deficit riducemmo anche la spesa pubblica in aree come la ricerca e

op
sviluppo, colpendo il motore della crescita di lungo periodo. La Spa-

C
gna, per esempio, tagliò la sua spesa pubblica in ricerca e sviluppo

o.
del 40%.

M
in

ariana
ul
Ecco, su questo punto le cose sono cambiate. Con la pandemia, l’Eu-
M

ropa ha approvato un piano di ripresa condizionato agli investimen-


il

M
ti, non all’austerità. Il governo americano spende fra 4 mila e 5 mila

azzucato
e

miliardi in vari programmi, dall’Inflation Reduction Act (Ira) al


ic
itr

Chips Act e così via.


ed

Ma c’è una cosa che non è cambiata: non è ancora accettata l’idea che
lo Stato debba avere una propria capacità d’azione e che debba inve-
à
et

stire molto di più nella formazione dei suoi funzionari. Una riforma
ci

della Pubblica amministrazione non può limitarsi a tagliare la buro-


So

crazia. Deve investire nelle competenze dei funzionari pubblici, in


by

modo da renderli più dinamici, agili, intelligenti e creativi.


Anche se con la pandemia abbiamo fatto un piano europeo di ripre-
©

sa, esso è ricaduto su Stati deboli. Stati che potrebbero sembrare


ht
ig

«larghi», dato che mobilitano molti soldi, ma in realtà sono ancora


yr

troppo fiacchi. Il semplice fatto che molti soldi pubblici siano iniet-
op

tati nel sistema non è di per sé un vero cambiamento.


C

Il mio messaggio, infatti, non è mai stato «Stato largo» vs «Stato mi-
nimo». Non ho mai pensato che la soluzione sia spendere soldi a
pioggia. Piuttosto, il mio messaggio è che dobbiamo trasformare lo
Stato stesso in una forza imprenditoriale. Ne abbiamo davvero biso-
gno e oggi ci sono più opportunità che mai. Con la crisi climatica, ci
serve uno Stato che intervenga in modo intelligente, oltre che con
molti fondi.

125
AB Il titolo di questa sezione della rivista è «Serve più Stato?». La doman-
da però si potrebbe porre in un altro modo. Forse non serve più Stato,
ma uno Stato diverso?
MM Sì, sono d’accordo. Come ho scritto con Rosie Collington nel nostro ul-
timo libro (The Big Con) e come ho cercato di divulgare in un altro li-
bro (Missione economia), abbiamo bisogno di uno Stato diverso. Uno
Stato orientato ai fini (purpose-oriented), che metta le grandi questioni
al centro di ciò che fa. Il suo scopo non può essere soltanto correggere

e
i fallimenti di mercato. Deve essere co-modellare e co-creare l’econo-

or
mia.

ut
Nell’economia tradizionale, anche studiosi progressisti come Joe Sti-

l’a
glitz sostengono che dovremmo usare le politiche pubbliche per cor-

r
pe
reggere i fallimenti di mercato. Il mio punto, invece, è che se lo Stato
si limita a correggere fa troppo poco e troppo tardi. Opera in una mo-

ia
dalità reattiva, non proattiva. Uno Stato così mette le pezze e basta.

op
E, alla fine, nel sistema emergeranno cospicue rendite. Per esempio,

C
se lo Stato non ha chiaro che deve concentrarsi sugli obiettivi di svi-

o.
in
luppo sostenibile e spingere i vari settori dell’economia a lavorare in-
ul
sieme per raggiungerli, sarà catturato molto più facilmente dagli inte-
ntervista
M

ressi privati.
il

Il mio lavoro, almeno in Italia, è stato spesso frainteso come la ripro-


e
ic

posizione di una vecchia idea di Stato, che in passato ha dato adito a


itr
I

clientelismo e corruzione. Ma in realtà è proprio l’opposto. Se abbia-


ed

mo uno Stato purpose-oriented e concentrato su obiettivi che vengono


à

discussi dalla società, abbiamo uno Stato più democratico e possiamo


et

considerarlo responsabile (accountable) per ciò che fa. Uno Stato così
ci

non può iniettare soldi in un settore solo perché quel settore è consi-
So

derato «importante». Dovrà essere chiaro sul contributo di quell’inve-


by

stimento all’economia intera.


©

Negli ultimi anni, in Germania si è adottato un approccio orientato ai


ht

fini nelle politiche di sostenibilità. Ad esempio, in settori come l’acciaio,


ig

sussidi e garanzie pubbliche non sono stati dati a pioggia come in Italia,
yr

ma condizionati a una riduzione del contenuto materiale della produ-


op

zione. Indipendentemente dal giudizio su questa particolare politica, il


C

punto è che c’erano una visione di alto livello e una strategia consape-
vole. I soldi pubblici sono stati condizionati a una trasformazione del
settore: così oggi la Germania ha l’acciaio «più verde» d’Europa.
AB Nel tuo ultimo libro hai descritto, con Rosie Collington, come la dipen-
denza dei governi dalle società di consulenza svuoti di competenze il
settore pubblico. Come possiamo ricostruire delle burocrazie compe-
tenti e dinamiche?

126
MM Allo University College di Londra ho realizzato un intero istituto [l’In-
stitute for Innovation and Public Purpose, N.d.R.] che si occupa di que-
sti temi. Ci sono molti dottorandi, come Rosie, che studiano la que-
stione. Il problema dell’esternalizzazione è un circolo vizioso. Più lo
Stato è svuotato di competenze, più ha bisogno di consulenti. E d’altro
canto i consulenti hanno un conflitto di interessi: non hanno motivo
di rendere gli Stati più capaci, perché altrimenti rischierebbero di non
vedersi affidati nuovi contratti in futuro.

e
Questo circolo vizioso colpisce anche la democrazia. In Italia, con Dra-

or
ghi, McKinsey fu coinvolta dal ministero dell’Economia e delle Finan-

ut
ze nel Pnrr, ma anche quando Conte era presidente del Consiglio ci

l’a
sono state varie persone di McKinsey, per esempio nella Commissione

r
pe
Colao. Cose del genere accadono ovunque nel mondo.
C’è però anche un altro conflitto di interessi: le società di consulenza

ia
spesso fanno una specie di «doppio gioco». Per esempio, in Sudafrica

op
consigliavano da un lato l’azienda pubblica Eskom e dall’altro il Teso-

C
ro, che avrebbe dovuto regolamentarla. Oppure, consigliano il gover-

o.

M
in
no australiano sul cambiamento climatico, mentre aiutano le impre-

ariana
ul
se di combustibili fossili a fare affari nel Paese. Mancano trasparenza
M

e incentivi al rafforzamento delle istituzioni.


il

M
Come rompere questo circolo vizioso? Innanzitutto, bisogna ricono-

azzucato
e
ic

scere che c’è un problema: lo Stato è indebolito. Certo, qualcuno po-


itr

trebbe obiettare che il governo ha necessità dei consulenti perché non


ed

ha capacità di azione. Allora dobbiamo chiederci: perché è così? Qual è


à

l’ideologia che continua ad alimentare una visione dello Stato che non
et

richiede una capacità attiva?


ci

Ci serve una narrazione diversa. Dobbiamo domandarci: quali sono le


So

competenze necessarie allo Stato per contribuire a modellare l’econo-


by

mia? Ho creato l’Iipp proprio per aiutare a modernizzare la formazio-


©

ne necessaria ai funzionari pubblici. Serve qualcosa di più ambizioso


ht

delle analisi costi-benefici o della teoria della scelta pubblica. Servo-


ig

no anche nuovi strumenti di intervento pubblico. Ne sono un esem-


yr

pio gli appalti orientati ai risultati (outcome-oriented procurement), in


op

cui non ci si limita a stipulare un contratto con un’impresa per la for-


C

nitura di un certo servizio, ma si mira a cambiare il funzionamento


concreto delle imprese. Dunque, serve che l’amministrazione pubbli-
ca sappia scrivere i contratti, valutare se il privato ha con il pubblico
un rapporto simbiotico o parassitario, catalizzare una strategia indu-
striale. Bisogna investire nelle competenze del governo, per renderlo
più dinamico e più propenso a correre rischi.

127
AB Come si intrecciano le idee di Stato innovatore e imprenditore con
la vecchia visione keynesiana e socialdemocratica? Sono in qualche
modo complementari?
MM Penso che Keynes sia stato frainteso dai progressisti. Spesso anche lui
è stato ricondotto alle teorie dei fallimenti di mercato. Ossia, il pa-
radigma keynesiano è stato inteso meramente come una soluzione a
un problema di coordinamento. Quando c’è un boom c’è troppo inve-
stimento, quando c’è una recessione ce n’è troppo poco, e quindi ser-

e
ve una politica anticiclica. Sicuramente questa interpretazione è stata

or
molto utile per governare i cicli economici, ma Keynes in realtà dice-

ut
va molto di più.

l’a
Secondo Keynes, lo scopo del governo non è fare ciò che i privati già

r
pe
fanno (e farlo un po’ meglio o un po’ peggio), ma fare quello che non
fanno per nulla. Questo punto di partenza ci obbliga a immaginare

ia
davvero dove vogliamo andare come società. Cos’è che non viene fatto

op
oggi dal privato sulla sanità, sui divari digitali, sul clima?

C
Non si tratta di microgestire l’economia, perché altrimenti si uccide-

o.
in
rebbe l’innovazione. Si tratta di chiedersi come è possibile fornire una
ul
direzione pubblica all’economia e allo stesso tempo alimentare una
ntervista
M

sperimentazione dal basso. A tale scopo, fra le altre cose, bisogna coin-
il

volgere il settore culturale. Non c’è da sorprendersi se Keynes e Ro-


e
ic

osevelt credevano entrambi nel ruolo della cultura e delle arti nello
itr
I

schiudere la nostra immaginazione sul futuro. La direzione dell’eco-


ed

nomia non è solo il tasso di crescita del Pil. Roosevelt, da presidente


à

degli Stati Uniti, portò gli artisti nella Works Progress Administration
et

[una grande agenzia del New Deal, N.d.R.]. Coinvolgere il settore cul-
ci

turale è necessario per alimentare una discussione aperta sul futuro


So

della società e immaginare nuove direzioni di sviluppo. E i grandi pro-


by

getti pubblici possono a loro volta essere di ispirazione per i cittadini


©

comuni, come lo fu lo sbarco sulla Luna, che spinse molti giovanissimi


ht

a studiare le scienze. Abbiamo bisogno di questo genere di ispirazione


ig

anche per i progetti sul cambiamento climatico, sulla sanità, su tutti


yr

gli obiettivi di sviluppo sostenibile.


op

Sfortunatamente la prospettiva keynesiana, per come è stata interpre-


C

tata dagli economisti, si è ridotta alla questione dell’investimento e


del «gettare denaro» ai problemi. Ma, come ho detto, penso che il mes-
saggio di Keynes sia molto più profondo: fare ciò che non viene fatto,
pensare in grande. Ed è qui che si inserisce il concetto di «missione».
Per me il paradigma delle «missioni» significa riorientare le politiche
pubbliche verso uno scopo, al fine di portare più attori possibili intor-
no al tavolo e catalizzare una crescita più dinamica.

128
In Italia ci sono molti settori economici abituati a ricevere sussidi con
poche condizionalità, proprio perché non c’è una direzione chiara per
lo sviluppo economico. Le missioni servono a fornire questa direzione,
e quindi ci aiutano a inserire delle condizionalità. Sono un modo per
disegnare strumenti keynesiani che non siano finanziamenti a pioggia.
Con un approccio orientato alle missioni si combina Keynes con Schu-
mpeter, ma anche con Ostrom, dato che si dà attenzione ai beni comuni.
AB Dalla crisi pandemica sono stati avviati grandi piani di investimento

e
negli Stati Uniti e in Europa. Si può già parlare del ritorno dello Stato

or
a un ruolo autonomo nell’economia o è ancora troppo presto?

ut
MM Sicuramente è una boccata d’aria fresca, almeno in Europa, dove dopo

l’a
la grande crisi del 2008 non si attuarono grandi piani di investimento.

r
pe
Gli Stati Uniti, invece, non hanno mai smesso di investire.
AB Qual è il tuo giudizio sulle politiche economiche del presidente statu-

ia
nitense Joe Biden, la cosiddetta Bidenomics?

op
MM Ciò che è più interessante e innovativo della Bidenomics è l’attenzione

C
alle condizionalità. Facciamo l’esempio del Chips Act (che vuole affer-

o.

M
in
mare la sovranità degli Usa nella produzione di chip). Nelle intenzio-

ariana
ul
ni dell’amministrazione non deve essere un semplice sussidio alle im-
M

prese dei semiconduttori, ma deve far sì che i lavoratori siano pagati


il

M
adeguatamente e che i profitti generati dagli investimenti pubblici sia-

azzucato
e
ic

no reinvestiti nell’economia. Ci sono poi diversi «obiettivi verdi» da ri-


itr

spettare lungo la filiera.


ed

C’è da dire anche che, per far passare più facilmente le nuove misu-
à

re al Congresso, il governo ha deciso di attuarle soprattutto attraverso


et

il codice tributario. La maggior parte dei finanziamenti pubblici non


ci

sono investimenti diretti, ma vari tipi di benefici fiscali. Il governo do-


So

vrà monitorarne attentamente gli effetti, perché un eccessivo affida-


by

mento agli incentivi fiscali rischia di aumentare i profitti e non neces-


©

sariamente gli investimenti.


ht

In ogni caso, è un grande cambiamento. Si tratta di somme di denaro


ig

enormi e finalizzate a rendere l’economia più verde e meno disugua-


yr

le. Il diavolo, però, è nei dettagli. È facile iniettare soldi nel sistema.
op

È molto più difficile far sì che questi soldi trasformino l’economia e la


C

rendano più sostenibile.


Anche in Europa il programma Next Generation Eu è basato su inve-
stimenti condizionati a obiettivi climatici, digitali e in parte sanitari.
Il problema (che vediamo anche in Italia) è che questi soldi ricadono
su attori pubblici che da tempo non investono sulla propria capacità di
implementazione. Perciò, credo che l’Europa debba introdurre un’al-
tra condizionalità: che i governi in cambio dei fondi europei investa-

129
no nella propria capacità amministrativa, a livello nazionale e locale.
Nel mio lavoro in Sudafrica ho notato che non mancano le buone idee
per le politiche, ma c’è una capacità di implementazione molto scarsa.
Lo stesso vale per le amministrazioni pubbliche in Italia, che non han-
no investito nelle proprie risorse interne e proprio per questo dipen-
dono da McKinsey, Deloitte, PwC e altri consulenti.
AB Nei programmi statunitensi vedi un rischio di protezionismo e di guer-
re commerciali? Dov’è il discrimine tra protezionismo e politica indu-

e
striale?

or
MM È una buona domanda. Sicuramente, il nazionalismo non è una solu-

ut
zione positiva. Al contrario, dobbiamo puntare a produrre un sistema

l’a
di innovazione dinamico e aperto, che attragga nel Paese i migliori ta-

r
pe
lenti del mondo in un certo settore.
Un esempio è quello della Danimarca, oggi fornitrice numero uno di

ia
servizi di alta tecnologia digitale e verde alla Cina. Com’è possibile?

op
Copenaghen ha deciso di diventare la città più verde al mondo ed è ri-

C
uscita a orientare tutto il suo ambiente di start-up digitali verso que-

o.
in
sto obiettivo, interagendo con il sistema nazionale di appalti, che a sua
ul
volta ha fornito un mercato a queste società. Queste sono le storie di
ntervista
M

successo che ci servono.


il

Se ad esempio l’Italia volesse diventare davvero il punto di riferimen-


e
ic

to mondiale per la produzione di cibo biologico e di alta qualità, occor-


itr
I

rerebbe un modo tutto nuovo di pensare alla produzione, alle filiere,


ed

all’agroalimentare, al finanziamento di una ricerca pubblica attratti-


à

va per realtà estere. La stessa cosa potrebbe valere per il turismo ver-
et

de o per il settore culturale, dato che l’Italia ha gran parte del patri-
ci

monio artistico del mondo. Immaginiamo se anche i settori dell’opera


So

e del teatro, così noti in Italia, fossero collegati a un’intera filiera, un


by

polo dinamico d’innovazione che coinvolge l’istruzione, la produzione


©

di materiali, la moda, i servizi digitali…


ht

È con strategie del genere che si stimolano gli investimenti, non con
ig

il protezionismo. Nella storia degli Stati Uniti, il protezionismo ha au-


yr

mentato la competitività solo nei primi tempi dello sviluppo indu-


op

striale, quando si dovevano difendere le industrie nascenti. Ma Paesi


C

moderni e già industrializzati hanno bisogno di sistemi di innovazio-


ne in cui pubblico e privato possano collaborare. Questi sistemi di in-
novazione devono diventare centri di attrazione per capitali, talenti e
imprese. È quello che è successo proprio negli Stati Uniti con la rivo-
luzione tecnologica. Gli spillover tecnologici sono emersi dalla soluzio-
ne cooperativa dei problemi: appena costruiamo muri, smettiamo di
risolvere i problemi insieme.

130
AB Tornando all’Europa, che cosa ci manca per raggiungere il livello de-
gli Stati Uniti nei piani di investimento? Alcuni sostengono che gli Sta-
ti europei non siano alla scala giusta per fare politica industriale, oltre
al fatto che l’Unione europea è ancora divisa sugli aiuti di Stato. Come
superare questa impasse?
MM Ciò che manca in Europa non è il venture capital, ma il lato pubblico
degli investimenti. Il venture capital riesce sempre a trovare in giro per
il mondo imprese in cui valga la pena investire. Il problema è che in

e
Europa non abbiamo abbastanza di queste imprese.

or
La ragione è che non abbiamo uno Stato dinamico e imprenditoria-

ut
le come negli Stati Uniti. Lì hanno agenzie dinamiche come la Darpa

l’a
[agenzia tecnologica del Dipartimento della Difesa, N.d.R.]; program-

r
pe
mi di acquisti pubblici in cui ogni dipartimento deve spendere fra il
3% e il 5% del suo budget nell’acquisto di soluzioni innovative da pic-

ia
cole aziende; una società di venture capital pubblico come In-Q-Tel, ge-

op
stita dalla Cia; politiche efficaci dal lato della domanda. Il tutto coor-

C
dinato da un governo centrale.

o.

M
in
In Europa, invece, non abbiamo ancora organizzazioni pubbliche con-

ariana
ul
tinentali orientate alle missioni. Non abbiamo abbastanza procedure
M

di aggiudicazione congiunta (joint procurement) fra Stati, che sarebbe-


il

M
ro utili nella creazione di nuovi mercati. Le abbiamo introdotte solo

azzucato
e
ic

recentemente e limitatamente ai vaccini. E poi manca la solidarietà


itr

europea. L’austerità dopo la Grande recessione ha generato miseria e


ed

indebolito il tessuto sociale, oltre a spingere gli europei gli uni contro
à

gli altri su base nazionale.


et

AB Passiamo all’Italia. Che cosa pensi del recupero del ruolo dello Stato
ci

nella retorica della destra? Qual è il tuo giudizio sull’approccio del go-
So

verno Meloni alla gestione dello Stato e delle imprese pubbliche?


by

MM Non è una sorpresa che un governo molto a destra come quello di Me-
©

loni riscopra lo Stato. E questo conferma il mio punto iniziale: non ba-
ht

sta che lo Stato faccia investimenti. Uno Stato rinvigorito non è di per
ig

sé una cosa buona.


yr

La questione è: a che cosa serve lo Stato? In una società democratica,


op

lo Stato serve a investire in ciò che è buono per le persone e il pianeta.


C

Ma chi decide che cosa è buono e cosa no? Per rispondere a questa do-
manda, servono più spazi democratici dove discutere che cosa voglia-
mo come Paese, in un dibattito politico acceso. Le istituzioni pubbli-
che dovrebbero interagire con questa rete decentralizzata di attori per
spingere l’economia nella direzione democraticamente scelta.
Parlare di investimenti e società pubbliche, perciò, non è di per sé una
cosa buona o cattiva. Dipende in quale direzione vogliamo andare. An-

131
che Trump voleva spendere molti soldi pubblici, nel suo caso per co-
struire un muro tra il Messico e gli Stati Uniti. Ma non diventa una mi-
sura progressista solo perché c’è lo Stato di mezzo.
AB Credi che l’ascesa di Elly Schlein alla guida del Partito democratico
cambierà l’approccio del Pd al ruolo dello Stato?
MM Spero che Elly Schlein porti un po’ di aria fresca. Il Partito democrati-
co non è stato né dinamico né visionario nel ripensare l’economia. Ho
avuto modo di parlare a lungo con Schlein e mi sono convinta che sia

e
aperta verso una nuova discussione sul ruolo dello Stato; credo pos-

or
sa scuotere un po’ la sinistra italiana. Una sinistra che, ricordiamolo,

ut
è stata parte del problema e ha classi dirigenti troppo bloccate. Fa ben

l’a
sperare il fatto che Schlein sia giovane, che sia una donna, che creda

r
pe
nella democrazia partecipativa e anche nella necessità di una diversa
strategia industriale per l’Italia, orientata alle missioni.

ia
L’impegno dei cittadini è fondamentale per il futuro delle nostre eco-

op
nomie. Nel mio lavoro con la Camden Renewal Commission, in Inghil-

C
terra, abbiamo portato al tavolo le assemblee dei cittadini e le associa-

o.
in
zioni dei residenti per discutere insieme il significato di crescita verde,
ul
invece di imporla dall’alto. Il Comune ha trasformato i banchi alimen-
ntervista
M

tari in cooperative alimentari ecologiche, conferendo potere e rappre-


il

sentanza alle persone, che così hanno il controllo del processo decisio-
e
ic

nale all’interno della stessa organizzazione di cui beneficiano. Stiamo


itr
I

facendo lo stesso con il Camden Wealth Fund.


ed

AB In Italia il Piano nazionale di ripresa e resilienza era stato salutato


à

come un cambiamento decisivo. Ora, però, sembra che i tempi di rea-


et

lizzazione si stiano allungando troppo e molto spesso non si riescono


ci

materialmente a spendere i fondi. Quali sono le ragioni?


So

MM È un problema che dura da tempo. Anche prima del Pnrr, con i fon-
by

di strutturali europei, l’Italia era costretta a rimandare indietro i soldi


©

perché non riusciva a spenderli. Se non si investe nelle proprie capa-


ht

cità amministrative, non si riescono neppure a spendere i fondi pub-


ig

blici. Ci serve un governo che non si limiti a parlare di «più Stato», ma


yr

che investa davvero nelle sue risorse interne.


op

Il lavoro che sto facendo con il governo di Boric in Cile si concentra


C

proprio sul ravvivare quello che chiamano «laboratorio de gobierno».


All’interno del governo serve uno spazio, un sandbox dove sia possibi-
le sperimentare e imparare nuovi approcci alle grandi questioni. Fin-
ché in Italia non investiremo in questo genere di competenze, rimar-
remo bloccati.
AB Le tue idee di approccio alle missioni hanno ispirato molti progetti,
dal Next Generation Eu al piano economico del leader laburista Keir

132
Starmer. Che cosa pensi dell’impatto che hanno avuto sul dibattito?
MM Concetti come «Stato imprenditore» e «orientamento alle missioni»
hanno preso slancio in giro per il mondo, tanto che oggi lavoro in vari
Paesi per spingere i governi a lavorare sulle loro capacità. Allo stes-
so tempo, però, dobbiamo stare attenti, perché la questione non si li-
mita alle parole che usiamo. Come ho scritto sul «New Statesman»,
è bello che Starmer abbia una strategia orientata alle missioni, ma il
suo approccio è ancora troppo vago. Non bastano enunciazioni generi-

e
che come: «Vogliamo la crescita economica». L’approccio delle missio-

or
ni va più a fondo. Quale politica industriale vogliamo? Come vogliamo

ut
cambiare i partenariati pubblico-privato in un modo più simbiotico e

l’a
meno parassitico? Come vogliamo cambiare l’approccio complessivo

r
pe
del governo alla sanità, al clima e ad altre questioni cruciali? È neces-
sario sporcarsi le mani con la progettazione concreta delle politiche.

ia
E soprattutto bisogna abbandonare la vecchia ideologia «Stato con-

op
tro imprese» e orientarsi verso una nuova direzione dell’economia, un

C
nuovo contratto sociale tra tutti gli attori in gioco.

o.

M
in

ariana
ul
M
il

M
azzucato
e
ic
itr
ed
à
et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

ALESSAN RO BONETTI è il fondatore di Kritica


D
Economica, sito gestito da un gruppo di ricercatori
e studiosi di varie estrazioni, appassionati di
economia e politica economica. Studia Economia
e Scienze sociali e scrive come commentatore
economico.

133
C
op
yr
ig
ht
©
by
So
ci
et
à
ed
itr
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il

134
M
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Macinalibro

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OR INI POLITICI

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ht
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yr
op
C

AN REA
D
CAPUSSELA
135
Bradford eLong

D
SLOUCHING TOWAR S UTOPIA:

D
AN ECONOMIC HISTORY OF THE TWENTIETH CENTURY
New York, Basic Books, 2022

Gary Gerstle
THE RISE AN FALL OF THE NEOLIBERAL OR ER:

D
D
AMERICA AN THE WORL IN THE FREE MARKET ERA

D
D
Oxford, Oxford University Press, 2022

e
or
ut
l’a
r
pe
ia
op
erché il compromesso socialdemocratico cedette il passo alla visio-

C
P
ne neoliberale? Quale fu la forza di questa visione, perché la sua egemo-

o.
nia durò tanto? Perché ora si è incrinata, forse dissolta? A queste domande
in
apussela
ul
rispondono, con interessanti divergenze, due libri usciti l’anno scorso, tra
M

aprile e settembre.
il

Dobbiamo il più recente a un economista e storico economico, Bra-


C

dford DeLong, che insegna a Berkeley e tra il 1993 e il 1995 – periodo crucia-
rea
ic
itr

le, vedremo – ebbe una posizione prossima ai vertici dell’amministrazione


A d
n
ed

statunitense. Il suo libro, Slouching Towards Utopia, è una storia economica


del «lungo XX secolo», che si pone esplicitamente in contrasto col «secolo
à
et

breve» di Eric Hobsbawm. Se lo storico marxista inglese collocava al cen-


ci

tro della sua interpretazione la rivoluzione bolscevica, le sue vaste riper-


So

cussioni e la parabola del socialismo reale, comprimendo il secolo scorso


by

nel settantennio che corre dal 1917 alla dissoluzione dell’Unione Sovietica,
DeLong guarda invece al motore profondo della crescita economica, ossia
©

il tasso di crescita stimato di ciò che definisce il «deposito delle idee utili».
ht
ig

Egli osserva una marcata accelerazione attorno al 1870, dovuta alla con-
yr

giunzione tra l’invenzione del laboratorio di ricerca industriale, che orga-


op

nizzò l’attività di innovazione, l’affermarsi dell’impresa moderna, che tra-


C

dusse le innovazioni in produzioni su larga scala, e la globalizzazione, che


stimolò e insieme nutrì questo processo. Naturalmente la discontinuità che
chiude il lungo XX secolo è la crisi iniziata nel 2007.
È una tesi stimolante, che si espone coraggiosamente alla critica de-
gli specialisti dei numerosi settori che attraversa, ma non mi sento in gra-
do di commentarla – se non per dire che la scelta di accostare Friedrich
von Hayek e Karl Polanyi nella medesima lente di analisi, e poi nella bus-

136
sola per il futuro, mi pare felice. Userò invece questo libro per giustapporre
le sue risposte alle tre domande che ho formulato a quelle offerte dal sag-
gio che Gary Gerstle ha dedicato all’ascesa e alla caduta dell’«ordine politi-
co» neoliberale. Storico americanista a Cambridge, il suo libro prosegue e
in parte aggiorna l’analisi avanzata oltre vent’anni fa in un volume, da lui
curato, sull’ascesa e la caduta del precedente «ordine politico», quello del
New Deal. L’analisi è concentrata sugli Stati Uniti, e in alcuni suoi passaggi
la questione del colore della pelle riveste grande importanza, ma sia la na-

e
tura degli argomenti impiegati sia l’influenza globale di quella nazione con-

or
feriscono a questo libro un respiro più ampio.

ut
l’a
Conviene partire dalla nozione di «ordine politico», centrale nell’interpre-

r
pe
tazione di Gerstle. In sintesi, quella espressione denota «una costellazione
di ideologie, indirizzi politici ed elettorati che plasma la politica statuni-

ia

A
tense in modi che durano oltre i [suoi] cicli elettorali biennali, quadrien-

op

scesa
nali e sessennali» (p. 2; la traduzione, di questo e dei successivi passi cita-

C
ti, è mia).

o.

e
in
In quasi cent’anni solo due ordini politici sono emersi: quello del

ca
ul

d
New Deal, che durò dagli anni Trenta agli anni Settanta, e quello neolibera-

uta
M

le, che nacque mentre il primo si disfaceva e si è rotto nel secondo decennio

d d
il

di questo secolo. Per stabilire un ordine politico, spiega Gerstle, non basta

i
e

ue
ic

«vincere un’elezione o due»: occorrono «ricchi finanziatori [che] facciano


itr

or
investimenti di lungo termine su candidati promettenti»; think tank capa-
ed

d
ci di «trasformare le idee politiche in programmi realizzabili»; un parti-

ini
à

to politico in ascesa «capace di legare stabilmente a sé molteplici segmen-

politici
et

ti dell’elettorato»; la capacità di «orientare l’opinione sia ai massimi livelli


ci

[…] sia nella stampa a larga diffusione e nei media immateriali»; e «una vi-
So

sione morale» capace di ispirare gli elettori (p. 2).


by

Un attributo cruciale degli ordini politici è «la capacità del parti-


©

to ideologicamente dominante di piegare il partito di opposizione alla pro-


ht

pria volontà» (p. 2). Negli anni Cinquanta un presidente repubblicano


ig

(Eisenhower) preservò l’assetto del New Deal, e quarant’anni dopo un pre-


yr

sidente democratico (Clinton) «accettò i principi centrali dell’ordine poli-


op

tico neoliberale» (p. 3). È in questi due passaggi che secondo Gerstle i due
C

ordini politici acquisirono stabilità e affermarono pienamente la propria


egemonia. L’acquiescenza di un partito all’ordine politico costruito dall’al-
tro non è mai completa, ma è decisiva:

«il successo di un ordine politico dipende dalla sua capacità di deter-


minare ciò che larghe maggioranze di eletti ed elettori di entrambi i
partiti ritengono politicamente possibile e desiderabile. Allo stesso

137
modo, la perdita di questa capacità di esercitare l’egemonia ideolo-
gica segna il declino di un ordine politico. In questi momenti di de-
clino, idee e programmi politici che in precedenza erano considerati
radicali, eterodossi, inattuabili [o stravaganti] possono muovere dai
margini del dibattito pubblico al mainstream. Ciò avvenne negli anni
Settanta, quando la disgregazione dell’ordine del New Deal permise
a idee neoliberali sino allora disdegnate di radicarsi» (p. 3).

e
Questa osservazione ci porta alla prima domanda. Figli dello spaventoso

or
trentennio compreso tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, e padri del

ut
felice trentennio che seguì, il New Deal e il compromesso socialdemocrati-

l’a
co europeo si incrinarono perché nel corso degli anni Settanta non seppero

r
pe
rispondere efficacemente alla singolare coesistenza di inflazione e ristagno
della crescita. Su questo sfondo, Gerstle e DeLong sottolineano altre due

ia
cause dell’affermazione della dottrina neoliberale: cause diverse ma non al-

op
ternative, cause convergenti sebbene operanti a distanza di circa un decen-

C
nio l’una dall’altra.

o.
in
apussela
ul
Un tratto distintivo e fortemente sottolineato nell’analisi di Gerstle è l’enfa-
M

si sulla fine della Guerra fredda: «le conseguenze della [dissoluzione dell’U-
il

nione Sovietica] e della sconfitta dell’ideologia che la legittimava furono


C

e
rea
ic

immense. Assieme resero possibile il trionfo del neoliberalismo in America


itr

e nel mondo» (p. 10) – trionfo che egli colloca appunto negli anni Novanta.
A d
n
ed

Oltre ad aprire vasti territori vergini al capitalismo e a ridurre lo


à

«spazio ideologico e di immaginazione» dei suoi oppositori, la caduta del


et

socialismo reale rimosse l’imperativo di mantenere quel «compromesso tra


ci

capitale e lavoro che era stato fondamentale per l’ordine politico del New
So

Deal» (pp. 149 e 146, rispettivamente). Svanita la minaccia militare, poli-


by

tica e ideologica che il blocco comunista rappresentava, «i capitalisti non


©

avevano più bisogno di assicurarsi contro di ess[a] pagando ai lavorato-


ht

ri americani gli alti salari che l’ordine politico del New Deal richiedeva»: le
ig

loro proteste contro la riduzione dei salari potevano essere «ignorate o af-
yr

frontate con la minaccia di spostare la produzione all’estero» (p. 146).


op

Secondo DeLong il compromesso socialdemocratico non fu schiac-


C

ciato da forze ineluttabili. Le cause profonde di una delle determinanti


maggiori – il netto rallentamento della crescita della produttività e dei red-
diti reali – restano tuttora «un mistero» (p. 461), e nonostante la congiun-
zione tra questo fenomeno ed elevati tassi di inflazione «le cose andavano
ancora molto bene in termini di crescita economica e degli indici del pro-
gresso sociale», quantomeno rispetto al periodo tra le due guerre o al qua-
rantennio precedente il 1914 (p. 434). Di passata, infatti, DeLong si chiede

138
se «la socialdemocrazia avrebbe potuto sopravvivere, riorganizzarsi»: a suo
parere questo è uno dei passaggi della storia nei quali gli eventi avrebbero
forse potuto prendere un corso diverso «se un numero relativamente picco-
lo di influenti circoli di persone avesse pensato pensieri diversi» (p. 439).
Nella sua ricostruzione la causa principale del declino del compro-
messo socialdemocratico fu «lo straordinario ritmo di crescita della pro-
sperità durante il Trentennio glorioso, che elevò l’asticella che un ordine
politico-economico deve superare per raccogliere largo consenso» (p. 429).

e
Ma è un’altra la causa che vorrei segnalare. Perché se la sinistra mancava

or
di idee per contrastare la stagflazione, sostiene DeLong, essa aveva anche

ut
un problema più profondo, interno alla logica del compromesso socialde-

l’a
mocratico.

r
pe
La spiegazione – pp. 415-416 – parte da lontano. «Gli umani, o quan-
tomeno noi umani, vedono la società come una rete di reciproche relazioni

ia

A
di dono-scambio»: siamo disposti sia a dare sia a ricevere; non vogliamo né

op

scesa
solo dare, che ci fa sentire sfruttati, né solo ricevere, che ci fa sentire ina-

C
deguati; e disapproviamo chi si limita a ricevere. Su questo sfondo inter-

o.

e
in
viene la «logica della socialdemocrazia», secondo la quale «come cittadini

ca
ul

d
siamo tutti eguali, e gli eguali non debbono essere trattati in modo disugua-

uta
M

le senza una buona ragione». Ma cosa succede quando qualcuno si ritiene

d d
il

«più uguale degli altri»? E che fare se qualcuno «riceve non perché è sfor-

i
e

ue
ic

tunato, ma semplicemente perché non contribuisce mai?». Questi problemi


itr

or
non sono gravi quando la crescita è sostenuta. Quando essa rallenta, tutta-
ed

d
via, e la disoccupazione cresce, il timore che gli «scrocconi» si avvantaggi-

ini
à

no di noi si diffonde: «questa paura degli scrocconi fu parte significativa di

politici
et

ciò che provocò la caduta della socialdemocrazia e la svolta verso il neoli-


ci

beralismo» (corsivo mio).


So

La marcata coloritura psicologica di questa interpretazione, fondata


by

sulle aspettative tradite e l’inclinazione alla reciprocità, è verosimilmente


©

legata alla convinzione che la caduta del compromesso socialdemocratico


ht

non fosse inevitabile. Benché formulata in termini generalissimi, inoltre,


ig

la spiegazione che fa leva sull’avversione per gli «scrocconi» pare ritaglia-


yr

ta sul caso statunitense (DeLong cita le «Welfare queens», per esempio, e


op

gli istituti di quel sistema di protezione sociale). Ma le recenti discussioni


C

sul reddito di cittadinanza e l’asserita pigrizia dei beneficiari le conferisco-


no qualche interesse anche in Italia.
Benché separate da circa un decennio, quantomeno nell’origine, le
due concause citate da Gerstle e DeLong compongono l’immagine di una
potente morsa. Dall’alto le élite economiche premevano sul compromesso
socialdemocratico avanzando senza più remore gli interessi del capitale, e
dal basso i ceti medi e popolari accettavano la contrazione delle politiche di

139
protezione sociale per punire chi se ne avvantaggiava immeritatamente. E
se entrambe le letture sono fondate, esse designano anche due permanen-
ti ostacoli alla formazione di un assetto politico-economico simile a quel-
lo del trentennio postbellico: perché all’orizzonte non appaiono sfide al ca-
pitalismo liberale comparabili al comunismo, e quella tensione tra la logica
della socialdemocrazia e l’umana inclinazione per la reciprocità è struttu-
rale, se esiste nei termini nei quali DeLong la descrive, e può essere ricom-
posta solo da uno stabile ritorno a un ritmo di crescita più alto.

e
Una digressione: anche in quei termini, quella tensione potrebbe

or
forse essere composta se si imponesse una visione politica capace di dare

ut
una diversa, cogente giustificazione ideale alla redistribuzione. Penso alla

l’a
teoria politica repubblicana, in particolare, della quale di recente ho ten-

r
pe
tato uno schizzo (Liberalismo e libertà, «il Mulino», n. 3/2022): in quella vi-
sione la protezione sociale è condizione della libertà individuale, e non è

ia
inconcepibile che la forza di questo valore – la libertà, alla quale tra l’altro

op
i repubblicani danno un significato più esigente di quello corrente, e forse

C
più appagante – possa sopire alla radice quella tensione, anche indipenden-

o.
temente dalla dinamica della crescita. in
apussela
ul
M

L’ascesa e la persistenza del neoliberalismo sono un «enigma», scrive De-


il

Long (p. 461), che pure dichiara il proprio passato «profondo» coinvolgi-
C

e
rea
ic

mento professionale, intellettuale e anche emotivo nella realizzazione di


itr

quella svolta (p. 428). Il neoliberalismo non generò investimenti più so-
A d
n
ed

stenuti, né accelerò la crescita della produttività, né riavviò la crescita dei


à

redditi delle classi medie, e produsse invece un «massiccio» aumento del-


et

le disuguaglianze di reddito e ricchezza. Ebbe consenso perché si ascrisse


ci

la «vittoria» nella Guerra fredda e il merito di «fare sì che i non meritevo-


So

li non ricevano nulla che non meritano», e perché i «potenti» usarono ef-
by

ficacemente la presa che i loro «megafoni» avevano sull’opinione pubblica


©

(p. 461).
ht

La critica a questa lettura, sempre più diffusa, è uno dei tratti più in-
ig

teressanti dell’analisi di Gerstle – che invece non dichiara le proprie sim-


yr

patie, presenti o passate. Egli la ritiene incompleta. Il neoliberalismo, ar-


op

gomenta diffusamente, non fu solo un progetto delle élite per favorire


C

l’accumulazione e velare la crescita delle disuguaglianze. In esso c’era an-


che una promessa di emancipazione che è figlia sia del liberalismo classico,
e della sua lotta per la libertà individuale, sia della rivolta della «nuova si-
nistra» statunitense contro la burocratizzazione della società del New Deal
e contro il complesso militare-industriale favorito dalla Guerra fredda. La
celebrazione della diversità, della creatività, dell’emancipazione individua-
le, anche della «spontaneità» – che secondo Hayek è «l’essenza della liber-

140
tà» (p. 98) – sono tratti fondanti del neoliberalismo, che spiegano sia il so-
stegno che raccolse anche a sinistra, sia la sua compatibilità con le istanze
di liberazione fondate sull’identità di genere, l’orientamento sessuale o il
colore della pelle. Senza tenerne conto, conclude Gerstle, è difficile spiegar-
si la duratura egemonia del neoliberalismo.
Anche DeLong descrive la coesistenza tra un neoliberalismo di de-
stra, uno centrista, e uno di sinistra, al quale pare legittimo ascriverlo; ma
nella sua analisi questa non pare una componente rilevante della sua forza.

e
Tornando a Gerstle, visto il rilievo che la politica delle identità ha re-

or
centemente avuto in Italia, è utile vedere come egli descriva la traiettoria

ut
presa da parte delle sinistre dell’Occidente al «trionfo» del neoliberalismo

l’a
(pp. 148-149). Se è vero che la dissoluzione dell’Unione Sovietica ridusse lo

r
pe
spazio politico delle sinistre, in larga parte del globo il socialismo aveva già
«perduto la sua capacità di muovere le masse». Già prima degli anni Novan-

ia

A
ta molti tentarono di dare al proprio radicalismo «un fondamento diverso

op

scesa
da quello marxista»: negli Stati Uniti «si rivolgevano in modo crescente alla

C
identity politics, nella quale potenti nuovi sogni di liberazione – per le don-

o.

e
in
ne, le persone di colore, i gay – erano in incubazione». E sebbene queste lot-

ca
ul

d
te generassero conflitti, esse «non minacciavano i regimi dell’accumulazio-

uta
M

ne di capitale come il comunismo aveva fatto»; anzi, il multiculturalismo e

d d
il

il cosmopolitismo fiorirono sotto l’ordine neoliberale. Con la fine del socia-

i
e

ue
ic

lismo reale il riorientamento verso questo fascio di temi si rafforzò: «colo-


itr

or
ro che continuavano a definirsi di sinistra dovettero ridefinire il proprio ra-
ed

d
dicalismo in forme alternative, che si rivelarono essere forme che i sistemi

ini
à

capitalisti» potevano agevolmente gestire. «Fu in questo momento che ne-

politici
et

gli Stati Uniti da movimento politico il neoliberalismo divenne ordine po-


ci

litico».
So

Non leggerei questa come una condanna della politica delle identità,
by

naturalmente, e non solo perché anche qui Gerstle mantiene la sua neutra-
©

lità assiologica: conviene giudicare quelle politiche per ciò che esse valgo-
ht

no e non per la loro congiunzione con altri cambiamenti politici. In questo


ig

caso, tuttavia, la distanza tra esse e il conflitto sulla distribuzione del red-
yr

dito appare particolarmente visibile.


op
C

DeLong si concentra sulla fine del «lungo ventesimo secolo», non sul decli-
no dell’ordine neoliberale. Ne ricorda alcuni prodromi. Uno, la guerra in
Iraq, che chiuse l’epoca nella quale gli Stati Uniti erano il «trusted leader»
dell’Occidente (p. 486), è similmente invocato da Gerstle. Qui voglio segna-
larne altri due: uno è la «insuperabile barriera tecnologica» incontrata nel
2007, che impedì di continuare a dimezzare le dimensioni dei micropro-
cessori e raddoppiarne la velocità senza generare troppo calore; l’altro è la

141
transizione, nel modello imprenditoriale dei settori nati con la rivoluzione
digitale, «dal fornire informazioni al captare l’attenzione [dei consumato-
ri] – e captare l’attenzione in modi che facevano leva sulle debolezze psico-
logiche della natura umana» (p. 487).
DeLong si dilunga acutamente sulle cause della crisi finanziaria glo-
bale e della recessione che la seguì. La ascrive ai difetti del neoliberalismo
realizzato, per così dire, e conviene con Piketty che gli esiti – disuguaglian-
za, influenza economica dei «plutocrati», rallentamento della crescita – non

e
debbono sorprenderci. In particolare, «una crescita rapida come quella os-

or
servata tra il 1945 e il 1973 richiede la distruzione creatrice: e poiché [nel

ut
processo di distruzione creatrice] è la ricchezza dei plutocrati che viene di-

l’a
strutta, è difficile che essi lo incoraggino» (p. 453). Senza tentarne una in-

r
pe
terpretazione sistematica, infine, DeLong rileva un fenomeno che tuttora
inquieta molti. La crisi e la recessione «non produssero tra gli elettorati del

ia
global north solide, durevoli maggioranze a sostegno di politici collocati alla

op
sinistra del neoliberalismo di sinistra»: in misura crescente, invece, gli elet-

C
tori iniziarono a cercare «qualcuno da incolpare» per la crisi, e a cercare

o.
in
«leader disposti a punire chiunque si trovasse a essere designato come ca-
apussela
ul
pro espiatorio» (p. 517).
M

Sull’amministrazione eletta anche sulle ali di questo fenomeno, nel


il

2016, il suo giudizio è reciso. Se ebbe una visione del mondo, questa non fu
C

e
rea
ic

che «sospetto» per asseriti nemici interni ed esterni; se ebbe una politica,
itr

fu innanzitutto e soprattutto «tax cuts for the rich» (p. 531). Riprenden-
A d
n
ed

do la curvatura psicologica di altri tratti della sua analisi, DeLong conclude


à

che quell’amministrazione non solo sigillò «l’esaurimento del lungo vente-


et

simo secolo», ma ci ricordò che «il pessimismo, la paura e il panico possono


ci

muovere gli individui, le idee e gli eventi tanto quanto l’ottimismo, la spe-
So

ranza e la fiducia» (p. 532).


by

L’integrazione che l’analisi di Gerstle può portare a questa lettu-


©

ra riguarda la fine dell’egemonia ideologica della dottrina neoliberale. Se


ht

quell’amministrazione procedette sulla via della deregulation, dello Stato


ig

minimo, e della riduzione della pressione fiscale e della sua progressività,


yr

essa avversò quattro componenti essenziali dell’ordine neoliberale: l’aper-


op

tura al cosmopolitismo, al multiculturalismo, all’immigrazione, alla globa-


C

lizzazione.
Gerstle si spinge sino al 2021. Gli elementi «culturali» del neolibe-
ralismo sopravvivono, in parte, «[m]a l’ordine politico neoliberale è rotto»
(pp. 292-293). L’attuale amministrazione statunitense sa di trovarsi a «un
punto di svolta», sa che l’indirizzo politico «ereditato da Clinton e Obama
non basta più», coopera con la sinistra del partito (p. 281). La proliferazio-
ne di nuove idee, reti, movimenti e media «suggerisce che un nuovo ordi-

142
ne politico progressista stia prendendo forma», sebbene esso appaia ancora
vulnerabile (p. 285). Segue dunque un avviso, che di nuovo riecheggia An-
tonio Gramsci. L’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 dimostra «quan-
to la rottura di un ordine politico possa essere pericolosa»: il nuovo ordi-
ne politico, se uno sorgerà, potrebbe invece «venire dalla destra ed essere
genuinamente autoritario [e] profondamente illiberale» (p. 289). Voilà une
joyeuse perspective!

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politici
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yr
op

AN REA CAPUSSELA è visiting fellow alla


D
London School of Economics. Ha guidato
C

l’Ufficio per gli affari economici e fiscali


dell’International Civilian Office, la missione
incaricata dalla comunità internazionale di
sorvegliare il Kosovo dopo l’indipendenza. È
autore di State-Building in Kosovo: Democracy,
Corruption, and the Eu in the Balkans (I.B.
Tauris, 2015), The Political Economy of Italy’s
Decline (Oxford University Press, 2018; trad. it.
eclino, Luiss University Press, 2019) e Declino
D
Italia (Einaudi, 2021).

143
C
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144
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Profilo

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CAPITINI
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di Piergiorgio Giacchè

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No solo ldo apiti i è u a delle prese ze più alte della cultura e della

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politica del Novecento italiano, ma è anche la più «altra» e, proprio per que-

or
sto, ancora non nota a sufficienza. La sua personalità e la sua attività risulta-

ut
l’a
no di immediata comprensione ma di difficile collocazione, anche per chi ha
avuto con lui un’assidua frequentazione.

r
pe
La figura. Aldo Capitini si è impegnato in politica e in religione, in filosofia e

ia
op
in pedagogia, in critica letteraria, in poesia; ma questo apparente eclettismo
è al contrario la prova di una sola e solida scelta, giacché l’attraversamento

C
dei vari ambiti e lo studio di diverse discipline sono motivati da una coeren-

o.
in
te «esperienza religiosa» che segna la sua vita e dà senso a tutte le sue opere.
ul
Aldo Capitini è stato un coraggioso e originale «libero religioso», a cui va in-
M

nanzitutto riconosciuto il merito – in tempi di dittatura e conformismo cul-


il

turale – di aver davvero «liberato» la parola e il concetto di religione dai con-


e
ic

fini di ogni chiesa che si vuole – e si suole – imporre come un suo sinonimo.
itr

Norberto Bobbio, che lo ricorda come il migliore dei suoi Maestri e


ed

compagni (Passigli, 1984), spiega che Capitini, più che al mondo della cultura,
à

appartiene alla «storia della spiritualità italiana», nella quale «occupa un po-
et

sto singolarissimo». Ed è sempre la religione – la sua Religione aperta (Guan-


ci
So

da, 1955; Laterza, 2011) – a renderlo diverso e inclassificabile secondo le lo-


giche o i canoni dell’ambiente intellettuale e dell’impegno politico e perfino
by

dello studio filosofico. Ancora Bobbio spiega che – malgrado tutti lo annove-
©

rino fra i filosofi – «Capitini non è e non vuole essere un filosofo […]. Egli si
ht

serve della filosofia ma non tende alla filosofia […]. Legge e discute i filosofi;
ig

ma mira a trasformare il mondo, non a interpretarlo». La stessa cosa vale per


yr

i suoi interessi letterari e perfino per il suo impegno politico, giacché – conti-
op

nua Bobbio – «Capitini è uomo d’azione ma non è un politico».


C

La coerenza ma soprattutto la purezza delle sue scelte di fondo hanno


suscitato molta ammirazione, ma davvero rara o scarsa identificazione: è sta-
to infatti maestro di moltissimi allievi ma di assai pochi seguaci, compagno
sempre disponibile all’incontro e al confronto, ma senza alcuna tentazione di
complicità e alcuna concessione al compromesso. Ma non si fraintenda come
un eccesso di rigore quello che discende da una legge di amore, che unifica e
vivifica il suo pensiero e la sua azione: quella nonviolenza che Aldo Capitini –

145
per primo – vuole che si scriva come una sola parola, perché la si deve inten-
dere come una proposta attiva che si completa con i corollari della non-men-
zogna e della non-collaborazione.
Capitini è da molti ricordato come «il Gandhi italiano», e in effetti gli
somiglia. Non solo perché la nonviolenza è il fondamento del suo pensiero e
della sua azione, ma per la tensione religiosa che lo anima. La sua «religione
aperta» non è una nuova confessione, ma si configura come una serie di espe-
rienze, ovvero di successive «aperture» verso l’Alto e verso l’Altro, anzi ver-
so Tutti gli altri Tu che formano la «compresenza dei morti e dei viventi», il

e
or
vertice della concezione spirituale di Capitini. «L’io non è solo – spiega Capi-

ut
tini – ma è con altri, tutti, anche i morti, e ciò che viene fatto, è fatto con l’a-

l’a
iuto di tutti… apritevi e muterete la vostra vita, accorgendovi che la compre-

r
senza c’è. Ogni nascita l’arricchisce, ogni morte la fa cercare» (Compresenza

pe
dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, 1966; Libreria Editrice Fiorentina, 2022).

ia
La compresenza non è una realtà che si impone o una totalità a cui si

op
appartiene, ma una unità a cui si sceglie di partecipare:

C
o.
«La compresenza comprende tutti gli esseri che siano mai nati, anche
in
minuscoli ed effimeri, anche lontanissimi e mai percepiti e impercepi-
ul
bili. Questo “tutti” non può essere abbracciato col pensiero, ma non è
M
PROFILO

irreale […]. La compresenza nella sua unità intima di morti e di viven-


il
e

ti preme sulla realtà così com’è, la realtà della natura, della vitalità e
ic

della potenza. La compresenza assedia senza tregua questa realtà del


itr

mondo e della natura, pervade e può anche fare trasformazioni totali».


ed
à

La fede. Non ci si può diffondere di più in questa sede sulla sua riflessione
et

e sulla proposta religiosa che ne deriva. Al fine di renderla almeno un poco


ci
So

comprensibile, conviene citare il primo passo di un’esperienza che davvero è


alla portata e forse nella memoria di tutti. Ascoltiamo direttamente le paro-
by

le di Capitini:
©
ht

«Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non


ig

posso ammettere che poi quell’animale vivente se ne vada nel nulla,


yr

muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire


op

che la realtà è fatta così, ma io non lo accetto. E se guardo meglio, tro-


C

vo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, per-
ché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più
piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalga-
no: una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provviso-
ria, insufficiente, ed io mi apro a una sua trasformazione profonda, a
una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della
morte. Questa è l’apertura religiosa fondamentale».

146
E si può aggiungere che questa è per molti (se non per tutti) la prima pre-
sa, anzi la sorpresa della Coscienza: accade prima o poi a tutti di essere tentati
o persuasi dalla sua Voce che si oppone alla realtà «così com’è», a prescinde-
re se poi questa esperienza la si voglia dimenticare o proseguire. Ma in ogni
caso non si tratta di un drastico rifiuto né di un impossibile esilio dal mondo
reale – non è questa la posizione di Capitini – ma di un semplice «non accet-
to», che muove nell’intimo dell’individuo una tensione verso una realtà libe-
rata dai suoi limiti, appunto inaccettabili.

e
Non ci si deve dunque mai chiudere al mondo, né vale sottrarsi agli

or
impedimenti che esistono e resistono: al contrario i limiti si superano con l’a-

ut
pertura e l’aggiunta, che sono – in Capitini e per Capitini – le due parole-chia-

l’a
ve (in ogni senso) che dettano il metodo giusto per ampliare ed elevare e infi-

r
pe
ne liberare la realtà esistente. L’opposizione politica e la liberazione spirituale si
fondono allora in un solo atto e un unico pensiero, critico e profetico insieme.

ia
Ebbene, la figura profetica e la funzione critica di Aldo Capitini è in-

op
negabile, ancorché misconosciuta: infine profezia e critica significano – molto

C
modestamente e «alla lettera» – di precedere e non di prevedere la storia, e

o.
in
intanto di non arrendersi mai alla dittatura della realtà, atteggiamenti e/o va-
ul
lori che Capitini testimonia durante tutta la sua vita di «provinciale aperto».

A d
l
M

o
il

C
La vita. Aldo Capitini nasce a Perugia il 23 dicembre del 1899 da una famiglia

apitini
e
ic

di umili origini. Ciò nonostante vive nel palazzo più imponente e importan-
itr

te della città, quello storico Palazzo dei Priori dove ancora oggi ha sede il Co-
ed

mune di Perugia. Il padre Enrico è infatti un impiegato economo che funge


à

da custode e ha funzioni di campanaro, e pertanto abita con la famiglia in un


et

appartamento proprio sotto la torre civica. Nella piccola stanza più elevata di
ci

quella torre, Capitini avrà per anni lo studio, dove riceverà allievi e compagni
So

durante tutto il periodo che lo vede come uno dei più importanti intellettua-
by

li e attivisti dell’antifascismo italiano.


©

Dopo un’infanzia segnata da una salute fragile che lo condizionerà lun-


ht

go tutto l’arco della vita, compie gli studi in un istituto tecnico per ragionieri,
ig

ma i suoi interessi personali si orientano da subito verso la poesia e la lette-


yr

ratura, di cui diventa avido lettore; successivamente, in occasione di un’espe-


op

rienza da precettore di un nobile, si mette a studiare da autodidatta il latino


C

e il greco e sostiene la maturità classica da privatista. Nel 1924, superato l’e-


same di Stato, vince un concorso alla Scuola Normale di Pisa e viene ammes-
so ai corsi universitari di letteratura e filosofia.
Allievo e poi assistente volontario di Attilio Momigliano, dopo la lau-
rea e il corso di perfezionamento (conclusi entrambi con tesi su Giacomo
Leopardi) potrà rimanere a Pisa perché, grazie ai suoi precedenti studi da
ragioniere, viene assunto, su proposta del rettore Giovanni Gentile, come se-

147
gretario economo della Normale nel 1929. Svolgerà questo incarico conti-
nuando i suoi studi e scambi e discussioni soprattutto con Claudio Baglietto
e altri giovani normalisti, insieme ai quali comincia ad approfondire il tema
della nonviolenza e le sue posizioni critiche sia verso la Chiesa sia verso la
cultura fascista. Il suo rifiuto di prendere la tessera del partito gli costa il li-
cenziamento e l’espulsione dalla Normale.
Tornato a Perugia nel 1933, Capitini passerà anni di stenti ma anche di
intensi contatti con una rete sempre più fitta di antifascisti di tutta Italia, di-

e
ventando uno dei punti di riferimento più importanti per molti giovani che

or
– soprattutto a partire dal 1937 e poi dalle leggi razziali del 1938 – comince-

ut
ranno a orientarsi contro il regime. Nel frattempo viaggia e scrive e, per il

l’a
tramite di Benedetto Croce, nel 1937 pubblica presso la casa editrice Laterza

r
pe
il suo primo libro: quegli Elementi di un’esperienza religiosa che, grazie all’ar-
gomento ritenuto «non pericoloso», sfugge alla censura fascista, pur essen-

ia
do animato da una visione etica e politica che poi sarà fondamento delle tesi

op
– elaborate con Guido Calogero – del «suo» liberalsocialismo, diverso ma non

C
diviso da quello elaborato dai fratelli Rosselli. Il movimento antifascista lo

o.
in
vede fra i principali interpreti e i più infaticabili attivisti, con in più l’origina-
ul
lità e il rigore di una posizione religiosa e di una proposta nonviolenta che lo
M
PROFILO

escluderà dalla partecipazione alla Resistenza armata. Questo non gli impe-
il

disce di essere maestro e interlocutore di molti giovani partigiani (fra i quali


e
ic

anche Antonio Giuriolo, partigiano veneto non violento), né lo sottrae all’ar-


itr

resto e al carcere: prima a Firenze, nel 1942; poi, l’anno seguente, a Perugia.
ed

Uscito di prigione il 25 luglio, Capitini, nel periodo più caotico che precede la
à

Liberazione, aderisce al Partito d’Azione e si nasconde in campagna a studia-


et

re, a scrivere e a prepararsi nella prospettiva di una futura Realtà di tutti (Arti
ci

Grafiche Tornar, 1948; Armando, 2010), ossia di una omnicrazia più vasta e
So

più giusta della democrazia, dove tutti si sentano coinvolti e impegnati in un


by

processo di autoeducazione collettiva.


©

Proprio questo è il progetto che – dopo la Liberazione e ancor prima


ht

delle elezioni del 1948 – prenderà la forma di un movimento basato sull’isti-


ig

tuzione di Centri di orientamento sociale (Cos), che funzioneranno a Perugia


yr

– ma anche in altre città e regioni – come assemblee popolari aperte a tutti


op

(con frequenza settimanale e orario da «scuola serale» per consentire il mas-


C

simo della partecipazione) per discutere ed elaborare proposte su tutti i più


immediati e concreti problemi della vita sociale quotidiana.
Gli anni post-bellici vedranno Aldo Capitini impegnato anche come
commissario dell’Università per Stranieri di Perugia e come principale ani-
matore e redattore del «Corriere di Perugia». In virtù di tale ruolo, diventa il
più formidabile animatore della vita culturale, e – con l’istituzione dei Cen-
tri di orientamento religioso (Cor) – anche di quella spirituale di una città

148
che, negli anni della ricostruzione, si vive come un crocevia cosmopolita a di-
spetto della sua dimensione e collocazione provinciale. Eppure saranno pro-
prio il provincialismo in cultura e il realismo in politica a osteggiare le propo-
ste e perfino a ostacolare la carriera di Capitini, che non otterrà la nomina di
rettore dell’Università per Stranieri e sarà «esiliato» a Cagliari come docen-
te universitario. La non-menzogna e la non-collaborazione, certamente più del-
la stessa nonviolenza (ritenuta innocua, quando non ingenua), erano coman-
damenti impossibili e opzioni disfunzionali in un periodo di confusione e di

e
incertezza segnato dalla ripresa dell’attività dei partiti politici, impegnati a

or
spartirsi il potere, e dal rilancio dell’egemonia della Chiesa cattolica.

ut
Ciò nonostante, tutto questo non impedì ad Aldo Capitini di continua-

l’a
re la sua opera di propagazione di idee e di attivazione di coscienze, in un’I-

r
pe
talia in cui le minoranze marginali ed eretiche sono state per decenni più im-
portanti ed efficaci dei tanti conformisti «al seguito» o intellettuali à la page.

ia
Arriviamo così alla famosa «Marcia della Pace per la fratellanza dei

op
popoli Perugia-Assisi» del 1961. Essa non è che il coronamento di una inde-

C
fessa attività politica e culturale, nonché il frutto di una continua tessitura

o.
in
di rapporti nazionali e internazionali. Ma per Capitini non si tratta che di un
ul
primo atto e di una prima marcia, cui farà seguito l’anno dopo una «Marcia

A d
l
M

per la Pace Camucia-Cortona», meno famosa e seguita, ma indicativa di un

o
il

C
gesto che voleva essere fecondo: non un rituale da ripetere ma un seme da

apitini
e
ic

diffondere e perfino da disperdere (il discorso di Capitini alla Marcia per la


itr

pace del 18 marzo 1962 può essere rintracciato in Rete e ascoltato dalla sua
ed

stessa voce). Aldo Capitini non amava istituzionalizzare ma piuttosto mo-


à

vimentare, e lo faceva attraverso le assemblee dei suoi «centri» o attraver-


et

so discorsi, lettere e giornali in forma di foglio unico volante, come il suo «Il
ci

Potere è di Tutti», che con un piccolo gruppo di amici e collaboratori ha con-


So

tinuato a pubblicare fino alla sua morte.


by

Aldo Capitini si spegne nella sua Perugia (dove soltanto nel 1964 era
©

riuscito a tornare come titolare della cattedra di Pedagogia, ma non di Filo-


ht

sofia, a causa dell’ostracismo dei docenti cattolici) il 19 ottobre del 1968. Pro-
ig

prio in quel fatidico 1968, quando la contestazione studentesca sembrava in-


yr

terpretare una variante, forse troppo pretenziosa e talvolta violenta, di quella


op

«non accettazione» che Capitini aveva predicato.


C

Nemo propheta in patria è un proverbio sbrigativo e consolatorio che


non gli si addice, perché la singolarità e la marginalità di Capitini hanno
un’altra causa e un ben più alto senso: non la radicalità delle sue scelte (ben
altri cattivi maestri radicali hanno avuto gran seguito), ma le sue imperdona-
bili disobbedienze al conformismo e al compromesso.
Capitini, vorremo dire infine ma certo non da ultimo, è stato un anti-
fascista nonviolento durante gli anni della Resistenza armata, un vegetaria-

149
no in epoche di generale indigenza e poi di festeggiato benessere, un movi-
mentista irriducibile nel periodo della rinascita dei partiti, un uomo politico
che ha rifiutato la candidatura elettorale. E un religioso «aperto» che ha chie-
sto di essere sbattezzato dalla Chiesa ma invitava i laici a un’«aggiunta reli-
giosa», senza la quale non si può fare una efficace opposizione. E ancor meno
una vera rivoluzione, anch’essa «aperta» e dunque pensata e vissuta come
una intensa e intima «festa» di liberazione.

e
La parola. La «festa» è una parola e un evento a cui Capitini fa continuo rife-

or
rimento: è il giorno più «aperto», quello dedicato al riposo, al silenzio, all’in-

ut
contro, alla pace, in cui in qualche modo si anticipa o almeno si annuncia la

l’a
«realtà liberata». Alla festa è dedicata l’opera poetica più importante dove

r
pe
Aldo Capitini ricapitola il suo pensiero e la sua azione, la sua vita spirituale e
la sua scelta politica: un breve poema intitolato al Colloquio corale da lui sem-

ia
pre agognato e promosso.

op
C
«La mia nascita è quando dico un tu. / Mentre aspetto l’animo già ten-

o.
in
de. / Andando verso un tu, ho pensato gli universi. / Non intuisco din-
ul
torno similitudini pari a quando penso alle persone».
M
PROFILO

il

Sono questi i versi che aprono e spiegano il suo animo aperto e il suo impe-
e
ic

gno di persuaso.
itr

«Persuaso» è un’altra «sua» parola che – rubata a Carlo Michelstaedter


ed

di La persuasione e la rettorica ma cambiata di segno (dal nichilismo all’ottimi-


à

smo, nota Angelo d’Orsi) – sostituisce il passivo «credente» ma anche l’attivo


et

«militante», che suona simile al militare. Il persuaso è in sé e per sé convinto,


ci

proprio perché resta aperto agli altri e attivo nel mondo: così come la corali-
So

tà – meglio di una collettività – è attenta alla diversità delle voci e insieme in-
by

tenta all’armonia del colloquio.


©

Sono molte le parole – anche semplici, ma sempre esemplari – che il


ht

Capitini della filosofia della pedagogia e della religione è costretto a «riforma-


ig

re» perché acquistino insieme la precisione e la tensione di un atto, ma anche


yr

perché infine siano anch’esse aperte come un verso e finiscano per sollecita-
op

re l’ambizione ma anche la necessità della poesia. Di parole Aldo Capitini ne


C

ha dette e scritte tante, ma ne anche «fatte» alcune che sono la sua più pre-
ziosa e duratura eredità. Non sono invenzioni ma scoperte di nuovo senso e
nuovo uso da riconoscere e applicare nel terreno delle pratiche e delle poli-
tiche prima ancora che nel cielo delle teorie: in politica, ad esempio, il centro
(dei Cos o dei Cor) è attraente solo quando è irradiante, e la marcia era un’e-
vidente e voluto controsenso per poi cercare gente e trovare pace «in cammi-
no» (In cammino per la pace, Einaudi, 1962; Silvana, 2022).

150
Sempre nel colloquio si trova un «verso» che è forse il suo migliore au-
toritratto, e intanto ci mostra Aldo davvero vicino e simile a tutti noi, o me-
glio a tutti quelli che abbiano mai provato – oltre la «sorpresa» della coscien-
za» – anche la miracolosa sensazione di un infinito amoroso senso (anche se
poi lo avrà rinnegato ben più delle fatidiche tre volte…): «La mente, visti i li-
miti della vita, si stupisce della mia costanza da innamorato».

Un attento e autentico ritratto d’autore, che ci racconta Aldo per come è sta-
to a dispetto di come è stato giudicato o peggio ignorato, ce lo regala ancora

e
or
Norberto Bobbio nella prefazione postuma al libro più «politico» di Capitini

ut
(Il potere di tutti, La Nuova Italia, 1969; Guerra, 1999; questo testo di Bobbio è

l’a
stato in parte ripreso più di recente in Il pensiero di Aldo Capitini. Filosofia, re-

r
ligione, politica, edizioni dell’asino, 2011):

pe
ia
«Ciò che colpiva maggiormente in lui era la sua serafica fermezza: se

op
non fosse stato così serafico e così fermo, la sua posizione di eretico

C
della religione e della politica sarebbe diventata, presto o tardi, inso-

o.
stenibile. Perché egli non fu al di sopra della mischia, ma dentro, sino
in
al collo. Fu costretto sempre a destreggiarsi tra coloro che volevano
ul

A d
blandirlo e coloro che volevano spegnerlo. Ma non si lasciò né blandi-

l
M

o
re né spegnere. Agli uni oppose la sua ragione critica, agli altri la sua
il

C
fede incrollabile.

apitini
e
ic

Lo credevano un ingenuo e invece era soltanto un uomo semplice, di


itr

quella semplicità che non esclude l’accortezza; lo credevano nelle nu-


ed

vole, e invece aveva i piedi stabilmente per terra, nella terra in cui era
à

nato, che aveva percorso a piedi palmo a palmo, di cui conosceva la


et

gente, le piccole storie, il suono delle campane.


ci
So

Difese con ostinazione, con energia, con successo, la propria indipen-


denza contro tutti. Non aveva ambizioni ma credeva fermamente nel-
by

la propria vocazione».
©
ht

PIERGIORGIO GIACCHÈ ha insegnato


Antropologia del teatro e dello spettacolo
ig

all’Università di Perugia. È stato, per volontà


yr

di Carmelo Bene, il primo presidente della sua


op

fondazione postuma, L’Immemoriale (dal 2002 al


2005). Collaboratore de «Lo Straniero», «gli asini» e
C

di numerose altre riviste nazionali e internazionali,


ha pubblicato, per le Edizioni dell’Asino, Ci fu una
volta la sinistra (2013) e ha curato, con Goffredo
Fofi, Agli amici. Lettere 1947-1968, di Aldo Capitini
(2011).

151
Globalizzazione

LA GLOBALIZZAZIONE

e
or
ut
E LA STORIA

rl’a
pe
ia
op
C
o.
in
ul
M
il
e
ic
itr
ed
à
et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

FABRIZIO
TRAÙ
152
«La sicurezza delle epoche di “pienezza” […] è un’illusione ottica che

e
or
induce a non preoccuparsi dell’avvenire, incaricando della sua dire-

ut
zione la meccanica dell’universo. Tanto il liberalismo progressista

l’a
quanto il socialismo di Marx suppongono che la società da loro auspi-

r
pe
cata come il migliore avvenire si realizzerà inesorabilmente, con una
necessità identica a quella astronomica. […] Così la vita sfuggì loro

ia
dalle mani, si rese interamente indipendente, e oggi procede sciolta,

op
senza una direzione conosciuta» [J. Ortega y Gasset, La ribellione del-

C
le masse, 1930].

o.
in
ul
a Globalization e è ormai dietro alle ostre spalle. Non si tratta
M
L
Ag
n
dell’eclisse di un sistema di scambi articolato su scala globale (l’integrazione
il

economica internazionale è destinata a rimanere elevata negli anni a venire),


e

ma del fatto che un vero e proprio ordine mondiale – incardinato sul multi-
ic
itr

lateralismo e la liberalizzazione del trade – si è ormai dissipato. Hanno agito


ed

su questo passaggio molti fattori endogeni che hanno reso nuovamente rile-
à

vante la «distanza» (rivelatasi tutt’altro che morta, contrariamente a quanto


et

per molto tempo asserito) e da ultimo due shock esogeni (prima la pandemia
ci

e poi la guerra) che hanno accresciuto fortemente l’option value del ricorso a
So

risorse nazionali, e aperto una fase di forte incertezza nelle relazioni tra i di-
by

versi sistemi economici.


©

A valle di questa discontinuità vale porsi la questione – per lo più elu-


ht

sa – di quanto l’affermarsi della Globalization Age sia stato condizionato fin


ig

dal suo avvio da presupposti di ordine geopolitico, prima che economico; e


yr

di quanto questo possa costituire una componente importante – se non deci-


op

siva – anche del suo successivo volgere al tramonto. Detto in termini esplici-
C

ti: se all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso le condizioni geopolitiche
non fossero state quelle che erano, la globalizzazione si sarebbe manifestata
nei termini che abbiamo conosciuto?
La risposta a questa domanda parte dalla constatazione che, in quegli
anni, all’interno delle economie occidentali – e degli Stati Uniti in particola-
re – è emersa e si è rapidamente consolidata l’idea che il mondo fosse diven-
tato una realtà ormai ineludibilmente unipolare. Questa idea è il portato del-

153
la convinzione che dopo la caduta del Muro, avviatasi a Berlino nel novembre
1989, la storia umana fosse finita, e che per i Paesi occidentali non esistes-
se più alcuna possibilità di essere sfidati da una Unione Sovietica che anda-
va allora collassando, né tantomeno da altre potenze economiche ancora di
là da venire. Ma da dove scaturisce questa convinzione? Si tratta della sem-
plice constatazione che la costruzione di un sistema economico alternativo a
quello di mercato fino a quel momento è fallita, o di una visione incardinata
su presupposti anche teorici?

e
or
Se negli anni Novanta le condizioni geopolitiche

ut
l’a
non fossero state quelle che erano, la globalizzazione

r
si sarebbe manifestata come la abbiamo conosciuta?

pe
ia
Su questo punto specifico vale la pena richiamare alcuni passi del citatissi-

op
mo saggio di Francis Fukuyama sulla «fine della storia» (The End of History?)

C
uscito su «The National Interest» nell’estate del 1989, ossia pochi mesi prima

o.
che il crollo del Muro sancisse l’uscita di scena formale del socialismo realiz-
in
zato nei Paesi dell’Europa orientale. Nelle parole di Fukuyama:
ul
raù
M
T

«Ciò a cui stiamo assistendo non è semplicemente la fine della Guer-


il
abrizio
e

ra fredda, o la scomparsa di un periodo particolare della storia del do-


ic

poguerra, ma la fine della storia in quanto tale: ossia il punto di arri-


itr
F

vo dell’evoluzione ideologica del genere umano e l’universalizzazione


ed

della democrazia liberale occidentale come forma finale del governo


à

umano» (p. 4).


et
ci
So

Questa asserzione, dal tono così definitivo, trae origine da una riflessione che
si muove su un terreno dichiaratamente filosofico, e che trova alimento nelle
by

Lezioni di filosofia della storia di Hegel, esplicitamente evocato a più riprese


©

nel testo. È su questi presupposti che Fukuyama può affermare che «la sto-
ht

ria è destinata a culminare in un momento assoluto, in cui una forma fina-


ig

le e razionale di società e dello Stato vince sulle altre» (p. 4, corsivo mio). E
yr

che, in particolare,
op
C

«lo Stato che emerge [che vince] alla fine della storia è liberale nella
misura in cui riconosce e protegge attraverso un sistema legale il dirit-
to universale degli uomini alla libertà, ed è democratico nella misura
in cui esiste soltanto con il consenso dei governati» (p. 5).

Un punto non marginale della questione è che Fukuyama è, al momento in


cui scrive, deputy director del Policy planning staff presso il Dipartimento di

154
Stato. E che dunque questa analisi non si disloca su un terreno semplicemen-
te intellettuale, ma si colloca all’interno del centro di elaborazione delle stra-
tegie di politica estera degli Stati Uniti. È su questi presupposti – e nel qua-
dro di uno Zeitgeist che vira prepotentemente verso l’idea che ormai tutto
è mercato – che a cavallo del 1990 si afferma, ai vertici dell’Amministrazio-
ne americana, una visione esplicitamente storicista, che affonda le sue radici
nell’idealismo tedesco, e che vede dialetticamente gli avvenimenti del tempo
come l’affermarsi definitivo di un modello di società che riassume in sé l’in-

e
tero senso della vicenda umana sulla terra.

or
En passant, la fine del comunismo nel mondo sovietico, cui i cambia-

ut
menti in corso preludono, fa implicitamente uscire di scena anche il rove-

l’a
sciamento della dialettica hegeliana da parte di Marx, che fa finire la storia,

r
pe
anziché con lo Stato assoluto, con la società senza classi. Nella prospettiva
adottata da Fukuyama, quel rovesciamento sul piano filosofico rappresenta

ia
necessariamente una dottrina fallace, dal momento che la stessa storia si è

op
incaricata di smentirla.

L
a
globalizzazione
o.
in
La fine del comunismo nel mondo sovietico
ul
M

fa implicitamente uscire di scena anche il rovesciamento


il

della dialettica hegeliana da parte di Marx


e
ic
itr

e
Ora, la principale deduzione che sul piano politico deriva da queste premes-

la
ed

se è che la «vittoria» ineluttabile – in quanto fondata su presupposti teorici

storia
– di un unico modello economico e politico, rappresentato al massimo grado
à
et

nel Paese-guida del mondo occidentale, si traduce necessariamente nell’av-


ci

vento di un unipolarismo per così dire strutturale. Ossia nel fatto che a livel-
So

lo mondiale non solo non esistono ormai rischi politici connessi allo sviluppo
by

di altri grandi sistemi-Paese, ma soprattutto che questi rischi non esisteran-


©

no più (la storia è finita).


Su questo piano lo stesso Fukuyama sottolinea costantemente come
ht
ig

l’attrazione esercitata dal modello occidentale sia così forte da scongiurare


yr

di per sé la possibilità che l’Unione Sovietica possa ancora ambire a un ruolo


op

egemonico a livello globale:


C

«L’assunzione automatica secondo cui la Russia [così nel testo] spo-


gliata della sua ideologia espansionista comunista dovrebbe ricomincia-
re da dove erano rimasti gli zar prima della rivoluzione bolscevica è
dunque piuttosto curiosa. Essa assume che l’evoluzione della coscien-
za umana sia rimasta nel frattempo immobile, e che i sovietici, mentre
colgono le idee attualmente di moda [fashionable] nel mondo dell’eco-

155
nomia, ritorneranno a politiche estere vecchie di cento anni nel resto
d’Europa» (p. 17, corsivo mio).

L’argomento è che – mentre stanno per abbracciare entusiasticamente il mer-


cato – i sovietici non possono attardarsi a inseguire una visione imperiale che
risale al tempo degli zar e che è ormai fuori della storia, e il cui perseguimen-
to comporterebbe una schizofrenia insostenibile (tanto più che nel frattem-
po è venuta meno anche l’«ideologia espansionista comunista»). Quanto alla

e
Cina, ancora pressoché fuori dal campo visivo, la schizofrenia è chiaramente

or
esclusa. Testualmente:

ut
l’a
«Questo è certamente quanto non è accaduto in Cina dopo che ha av-

r
pe
viato il suo processo di riforma. La competitività e l’espansionismo
sulla scena mondiale della Cina sono virtualmente scomparsi» (p. 17).

ia
op
È a partire da questa serie di assunzioni – e dalla persistente forza del dolla-

C
ro come valuta internazionale – che il mondo entra in un percorso che cul-

o.
in
minerà nel 1995 nell’istituzione della Wto, cinquant’anni dopo che gli stessi
ul
raù
Stati Uniti avevano boicottato l’istituzione della Ito a Bretton Woods (l’In-
M

ternational Trade Organization avrebbe dovuto essere già nel 1944 la «terza
T

il
abrizio
gamba» delle istituzioni preposte al governo dell’ordine economico mondia-
e
ic

le, a fianco della World Bank e dell’Imf. Cfr E. Sassoon, Objectives and Re-
itr

sults of the Uruguay Round, in Multilateralism and Regionalism After the Uruguay
F

ed

Round, a cura di E. Grilli ed E. Sassoon, MacMillan and St. Martin’s Press,


à

1997).
et

Rassicurato dalla fine della storia, e sostenuto dalla diffusione a scala


ci

planetaria del cosiddetto Washington Consensus, l’Occidente industrializzato


So

può tramutare la frammentazione delle catene di fornitura già attuata all’in-


by

terno dei suoi confini fin dagli anni Settanta (outsourcing) in offshoring, ridi-
©

slocando ora parte delle sue catene del valore in Paesi caratterizzati da una
ht

offerta illimitata di manodopera a costi irrisori. Attraverso quello che è stato


ig

definito trade in task (esternalizzazione di singole fasi di lavorazione) nasco-


yr

no le global value chains, e si avvia lo sviluppo manifatturiero delle economie


op

cosiddette emergenti. Sviluppo che – sulla base delle premesse di cui sopra –
C

non presenta alcuna controindicazione: a partire dagli anni Novanta del No-
vecento, rileva Fukuyama, «il trionfo dell’Occidente (dell’idea occidentale) è
evidente prima di tutto nel totale esaurirsi di alternative sistematiche prati-
cabili al liberalismo occidentale» (p. 3).

156
Tutto il mondo è ormai destinato a uniformarsi
alla medesima logica economica, cosa che esclude
il rischio di conflitti sul terreno politico

Ne deriva che tutto il mondo è ormai destinato a uniformarsi alla medesima


logica economica, e dunque a integrarsi, cosa che esclude per sua natura il ri-
schio di conflitti sul terreno politico.

e
I fatti (la storia) si incaricano, nel giro di pochi anni, di fare di questo scena-

or
rio carta straccia. Questo accade quando i) gli effetti dell’arrivo sulla scena

ut
dell’Asia emergente (che è magna pars del mondo emergente) cominciano a

l’a
farsi pesanti, in termini sia diretti (spiazzamento delle produzioni occiden-

r
pe
tali) sia indiretti (sotto forma di dumping salariale, ossia di impoverimento
di chi lavora in Occidente); e quando ii) l’emergere della Cina come sogget-

ia
to economico – e quindi politico – forte, e il ritorno sulla scena della Russia

op
come interlocutore obbligato della politica mondiale (se non altro per il ruo-

L
a
lo che svolge in tutte le aree di crisi) cominciano a mettere in discussione il

globalizzazione
o.
ruolo di unica potenza planetaria degli Stati Uniti.
in
ul
Nel primo caso gli effetti di impoverimento delle regioni manifatturie-
M

re degli Usa alimentano una reazione sociale che l’Amministrazione Obama


il

prova a fronteggiare inventandosi la Reshoring Initiative (2013), e che il suc-


e

cessivo arrivo di Trump trasforma nel «Make America Great Again», avviando
ic
itr

e
politiche dichiaratamente protezioniste (seguirà nel 2022, con la presidenza

la
ed

Biden, il lancio del Chips and Science Act e poi dell’Inflation Reduction Act).

storia
Nel secondo caso il problema che guadagna rapidamente il centro
à
et

dell’attenzione è l’esigenza di un contenimento delle potenze globali emer-


ci

genti o ri-emergenti: una volta realizzato che la storia è viva e vegeta e che
So

non sono destinati a governare il mondo da soli, gli Stati Uniti si trovano a do-
by

ver improvvisare una politica per evitare che il mondo sia governato da altri.
Ne derivano l’allargamento della Nato (prima a Est e poi addirittura nel Pa-
©

cifico) e la destabilizzazione prima del Medioriente e poi dei confini dell’Eu-


ht
ig

ropa nel Mediterraneo meridionale e a Est (piazza Maidan). E infine l’appog-


yr

gio esplicito a Taiwan – ancora nel Pacifico – in tempi più recenti. Ne deriva,
op

cioè, una serie di interventi sparsi e per così dire locali, orientati a ostacola-
C

re qui e adesso la possibilità che si affermino aree egemoniche alternative a


quella americana.
In questa chiave, quella che si è preso a chiamare de-globalizzazione
(tendenza del trade a farsi più «regionale», erosione del multilateralismo a
vantaggio di rapporti bilaterali o comunque di «multilateralismo selettivo»,
rallentamento degli investimenti esteri diretti, avviarsi di processi di back-
shoring, ossia di ritorno in patria di attività precedentemente de-localizza-

157
te), e che si avvia come detto su presupposti endogeni, si inscrive comunque
nel mutamento di rotta che caratterizza la sfera politica a livello mondiale.
Ciò che accade a livello economico è sempre più sottratto al puro e semplice
affermarsi della logica di mercato, e sempre più condizionato da una logica
squisitamente politica, che tende per sua natura ad assumere una dimensio-
ne conflittuale e che peraltro – da parte americana – appare anche del tut-
to priva di una chiara strategia di lungo periodo. Detto in altri termini, in un
mondo in cui la politica torna a svolgere il suo ruolo, la globalizzazione per-
de il suo carattere di irreversibilità (cfr. I. Clark, Globalization and Fragmenta-

e
or
tion. International Relations in the Twentieth Century, Oxford University Press,

ut
1997).

r l’a
pe
E l’Europa? Qui il problema è che l’idea di una graduale integrazione econo-
mica della Russia con l’Europa occidentale – che parte dalla Ostpolitik tede-

ia
sca degli anni Settanta e arriva fino a Nord Stream – entra in rotta di collisio-

op
ne col nuovo corso della politica estera statunitense, ora orientata verso una

C
logica dei blocchi. E quella dipendenza, ad esempio sul piano energetico, che

o.
costituiva semplicemente un pezzo di una strategia di lungo periodo diven-
in
ul
ta immediatamente un vincolo di cui liberarsi al più presto. Così, quello che
raù
M

forse è stato l’unico progetto politico di un’Europa a guida tedesca evapora. E


T

il
abrizio
poiché per il resto nell’ambito europeo domina in economia una visione non
e

meno che fideistica nel ruolo della concorrenza come unico possibile target
ic
itr

della politica economica (vale a dire che manca completamente un’agenda


F

ed

politica propria), con l’arrivo della guerra, l’Europa si trova letteralmente a


à

cedere il timone del proprio destino a chi guida la Nato.


et
ci
So

Con l’arrivo della guerra, l’Europa si trova letteralmente


by

a cedere il timone del proprio destino a chi guida la Nato


©

Dunque, si può dire che il mondo sia investito frontalmente negli anni che
ht
ig

corrono da una «crisi dell’unipolarismo» che sacrifica senza esitazioni la glo-


yr

balizzazione come bene assoluto conclamato per una intera fase della storia
op

contemporanea, scaraventando di nuovo il mondo strutturalmente dentro un


C

tempo che è fatto di muri, di ritorsioni, di minacce incrociate, insomma di


conflitti potenzialmente catastrofici – e se si vuole anche di morte totale del-
la verità, che viene sostituita direttamente dalla propaganda (quando esplo-
de una guerra tutti sanno che nessuno crede più a quello che dice, e il dialo-
go muore).
In questa prospettiva sembra ragionevole affermare che la globalizza-
zione come l’abbiamo conosciuta è finita non solo nel senso che il grado di in-

158
tegrazione internazionale dei sistemi produttivi ha smesso di aumentare, ma
anche nel senso che verosimilmente esso è destinato a ridursi. Fenomeni ap-
parsi eclatanti già nel corso della pandemia come la scarsità di beni strategi-
ci in ambito sia sanitario sia produttivo appaiono, di fronte a un conflitto po-
litico che corre sul filo di un possibile slittamento su quello militare, di fatto
insostenibili (è davvero difficile immaginare che tra dieci anni un Paese a ri-
schio politico come Taiwan potrà coprire ancora il 70% o quanto sia della do-
manda mondiale di semiconduttori).

e
E soprattutto, se il nuovo (vero) nemico politico dell’Occidente ormai

or
saldamente guidato dagli Stati Uniti è la Cina, tutta la politica di offshoring

ut
e gli investimenti diretti profusi dagli occidentali nel Paese – che sono sta-

l’a
ti la spina dorsale della globalizzazione – sono messi in discussione alla radi-

r
pe
ce (tanto più che la pandemia e i suoi lockdown proprio in Cina seguitano a
dominare la scena). E dunque il mondo – ormai orfano dell’ordine mondiale

ia
costruito nel corso della Globalization Age – è chiamato a riorganizzarsi in un

op
contesto in cui la ricostruzione di meccanismi di governance globali è diffi-

L
a
cilmente immaginabile come l’esito di un processo cooperativo. A questo ri-

globalizzazione
o.
in
guardo vale la pena riportare un esempio di quanto i toni siano mutati – ri-
ul
spetto all’entusiastico punto di vista espresso da Fukuyama nel 1989 – nel
M

modo in cui la Cina è vista nei documenti ufficiali dell’Amministrazione ame-


il

ricana, in cui si afferma senza tanti giri di parole che


e
ic
itr

e
«date la dimensione dell’economia cinese e l’estensione delle sue po-

la
ed

litiche di distorsione del mercato, l’aggressione della Cina minaccia

storia
à

attualmente non soltanto l’economia degli Stati Uniti, ma anche l’in-


et

sieme dell’economia globale» (White House, How China’s Economic Ag-


ci

gression Threatens the Technologies and Intellectual Property of the United


So

States and the World, White House Office of Trade and Manufacturing
by

Policy Report, 2018).


©
ht

La Belle Époque, l’era della prima globalizzazione a cavallo del 1900, è fini-
ig

ta con la Prima guerra mondiale. E a seguire ci sono voluti forse settant’anni


yr

perché – dopo i nazionalismi degli anni Trenta, la Seconda guerra mondiale e


op

poi la Guerra fredda e la divisione in blocchi del Secondo dopoguerra – si tor-


C

nasse a un mondo integrato sul piano economico.


Ora, la fine della Globalization Age prelude a una discontinuità che in
prospettiva potrebbe essere anch’essa molto marcata. Perché i sistemi eco-
nomici che possono determinare il profilo di un nuovo ordine internazionale
sono più di quanti fossero trent’anni fa (e anche per questo le relazioni inter-
nazionali sembrano doversi caratterizzare in prospettiva in termini più con-
flittuali che cooperativi). E perché arriva in un tempo sovrastato in aggiunta

159
da nuove grandi questioni epocali (il global warming, la disoccupazione strut-
turale, l’esplosione di flussi migratori apparentemente non governabili, l’au-
mento vertiginoso delle disuguaglianze tra sistemi economici e al loro inter-
no).

I sistemi economici che possono determinare


il profilo di un nuovo ordine internazionale sono
più di quanti fossero trent’anni fa

e
or
ut
Questi problemi richiedono tutti insieme risposte urgenti che la mainstream

l’a
economics consolidatasi negli anni della globalizzazione – di per sé refrattaria

r
a politiche attive – non può assicurare in ragione dei suoi stessi presupposti

pe
teorici: così, l’idea che fosse possibile gestire l’ordine mondiale, e garantire

ia
addirittura lo sviluppo delle economie in ritardo, attraverso un solo strumen-

op
to economico come la liberalizzazione del trade, perché la politica (e massi-

C
mamente la politica economica) era ormai fuori corso, si è infranta proprio

o.
contro il muro della storia. Ne consegue che le determinanti economiche del
in
cambiamento appaiono ora sempre più deboli e sovrastate da quelle politiche
ul
raù
– nel frattempo sempre più orientate all’edificazione di muri assai più che al
M
T

loro smantellamento.
il
abrizio
e

Da questo punto di vista vale osservare che tutti i lavori empirici che
ic

negli anni recenti hanno seguitato a constatare una intensità ancora modesta
itr
F

ed

dei processi di de-globalizzazione (neo-regionalismo, o backshoring) per for-


za di cose non hanno fatto in tempo neanche a tenere conto degli effetti del-
à
et

la pandemia, già loro certamente tutt’altro che flebili, cui ora si sommeranno
ci

quelli, probabilmente assai più consistenti, della guerra. E che è immagina-


So

bile che i risultati di questi lavori possano finire del tutto scompaginati dal
cambio di rotta che si sta consumando, e che ha visto la politica sostituirsi
by

all’economia nella guida del cambiamento. Su questi presupposti l’uscita dal


©

paradigma che ha governato il mondo negli ultimi quarant’anni può avveni-


ht

re a una velocità molto maggiore di quanto ancora percepito. Perché mentre


ig
yr

l’economia ha sempre le sue inerzie, la politica è capace di avvitamenti an-


op

che repentini.
C

FABRIZIO TRAÙ insegna Economia industriale


all’Università Luiss «Guido Carli» di Roma ed
è dirigente del Centro studi Confindustria. Tra
le sue pubblicazioni, la più recente, in corso di
stampa, è The New Industrial World. Manufacturing
Development in the Course of the Globalization Age
(con L. Romano, Oxford University Press).

160
C
op
yr
ig
ht
©
by
So
ci
et
à
ed
itr
ic
e
il
M

161
Pnrr

ul
in
o.
D
C

TERMINI
VALERIA
op
ia
UN’AGEN A

PER L’ITALIA
ENERGETICA

pe
r l’a
ut
or
e
e priorità di u ’age da e ergetica dell’ talia si innestano necessaria-

e
or
L
n
n
n
I
mente in quella europea. L’Unione europea ha disegnato bene l’indirizzo per

ut
affrontare la transizione energetica con il Green Deal, straordinaria svolta

l’a
economica e politica, la più impegnativa dopo Maastricht, che nel dicembre

r
pe
2019 ha preceduto il Covid.
«Crescita sostenibile» è diventato poi uno slogan; ma con questo in-

ia
dirizzo l’Unione europea aveva creato le basi per una nuova visione di poli-

op
tica economica, di nuove modalità di crescita, di relazione tra i Paesi mem-

C
bri. Ha abbandonato l’atteggiamento punitivo prevalso durante le crisi dei

o.
debiti pubblici nei confronti dei cosiddetti «Pigs» (Portogallo, Italia, Grecia,
in
ermini
ul
Spagna), per aprire la via a valori di solidarietà economica e condivisione.
M

Al riguardo va ricordato che la sostenibilità della crescita evocata è sia am-


il
T

bientale che sociale (cfr. Eu Green Deal, www.consilium.europa.eu/en/policies/


aleria
e

green-deal). Pnrr e transizione ecologica sono un’occasione storica di cresci-


ic
itr

ta economica per l’Italia.


V

ed

L’Unione europea ha proseguito su questa via con il Next Generation


à

Eu, il Repowering Eu, le sanzioni alla Russia, la solidarietà energetica e il flus-


et

so reversibile dei gasdotti per sostenere l’approvvigionamento di Paesi mem-


ci

bri limitrofi, il Fit for 55; fino al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)
So

che nel maggio 2022 ha stanziato 723,8 miliardi per finanziare la ripresa del-
by

le economie e la transizione ecologica, in preparazione della crescita a emis-


©

sioni zero al 2050; un importo suddiviso tra prestiti (385,8 miliardi di euro)
ht

e trasferimenti (338 miliardi di euro).


ig

Certo, manca ancora molto per definire una politica economica comu-
yr

ne, a partire dalla costituzione di un solido bilancio europeo, alle linee di una
op

politica industriale condivisa, a una fiscalità comune; ma l’indirizzo è stato


C

dato, nella direzione giusta, e va seguito.


Poi è arrivato il momento di negoziare le singole misure, i regolamen-
ti specifici, le Direttive e qui casca l’Italia. Vediamo i «no» recenti del gover-
no, privi di utilità economica, gravidi di disutilità politica, inspiegabili. In po-
che settimane il governo ha dato voto contrario alla Direttiva sull’efficienza
energetica e le «case green», il 23 marzo scorso alla Direttiva di revisione del-
le emissioni industriali (che include le soglie di inquinamento degli alleva-

162
menti intensivi solo il 2% in Italia!); infine si è trovato isolato nel rifiuto del
Regolamento per vietare la vendita di veicoli alimentati da benzina o diesel
dal 2035 e si è astenuto. Tanto da provocare una reazione pubblica del vice-
presidente Timmermans che in italiano ha dichiarato che il popolo italiano è
più incline alla decarbonizzazione del suo governo. Ciò si aggiunge al rifiuto
sul Mes, altrettanto inspiegabile in termini economici.

La svolta è stata profonda, economica e politica.

e
or
L’Italia non può interrompere il percorso ora

ut
l’a
Con benevolenza, questi voti contrari di minoranza si spiegano con l’assen-

r
za di una visione sostanziale e sistemica per utilizzare il Pnrr nella transizio-

pe
ne ecologica (una visione che caratterizzò invece l’utilizzo dei fondi del Piano

ia
Marshall nel dopoguerra). Vi si legge soprattutto la mancanza di un’agenda

op

U ’
di priorità per il Paese, una bussola da seguire per l’attuazione della transi-

n
agen
zione energetica. L’urgenza è oggi, nelle scelte per il Pnrr.

o.
Ben venga dunque l’esigenza di analizzare perimetro e contenuti di
in

d
ul

a
una possibile agenda. È questo il contributo che possono dare gli studiosi, gli

energeticaper
M

economisti, i giuristi, riuniti ad esempio nella Rosa Rossa, con gli operatori
il

di settore, sul quale l’opposizione possa fondare la sintesi politica. Propongo


e

uno schema semplificato degli assi portanti intorno ai quali registrare inter-
ic
itr

venti strategici della transizione ecologica, a partire dal settore energetico.


ed

l
’I
Se partiamo dai punti di forza del Paese per decarbonizzare la crescita, ne
à

talia
et

identifico due da valorizzare nella transizione. Il primo è quello che gli eco-
ci

nomisti definiscono «bene posizionale». La posizione dell’Italia nel Mediter-


So

raneo conferisce un vantaggio comparato straordinario tra i Paesi membri


by

dell’Unione europea, in relazione sia all’approvvigionamento di fonti prima-


rie di energia (rinnovabili e gas), sia alla centralità del Paese per lo snodo de-
©

gli scambi nel Mediterraneo, divenuto ancor più centrale dopo che la guer-
ht
ig

ra ha bloccato le vie di terra del Nord. Ricordo tra gli esempi che la Cina ha
yr

comprato il porto del Pireo e ha in corso la scrittura di una convenzione con


op

il porto di Trieste, mentre il Canale di Suez è stato raddoppiato per consenti-


C

re il passaggio di cargo di grandi dimensioni.


Nella diversificazione delle fonti le grandi riserve di gas trovate nel
Mediterraneo sono un privilegio per l’Italia (al 2015 risale la scoperta del gas
di Zhor in Egitto, al 2009 e al 2010 quelle sui fondali sottomarini di Levia-
than e Tamar, che dal 2017 consentono a Israele di esportare gas in Giordania
e in Egitto, dopo aver soddisfatto i fabbisogni interni). L’Italia ne può usufrui-
re per alimentarsi e per contribuire alle risorse necessarie all’Unione europea

163
dopo l’azzeramento del gas russo. Il gasdotto (GasMed) si potrà connettere a
quelli esistenti e/o si affiancherà ai rigassificatori che si inseriscono nella lo-
gistica dei rigassificatori europei (in Italia sono diventati 5, di cui due navi di-
sponibili in tempi relativamente brevi, la Golar Tundra a Piombino con 5 mi-
liardi di metri cubi di capacità e la Bv Singapore a Ravenna). La struttura di
trasporto del gas risulta così adeguata, rafforzando le dorsali di Snam che at-
traversano il Paese da Sud a Nord. Una potenzialità a parte è quella relativa
all’adattamento dei gasdotti per l’eventuale trasporto futuro di idrogeno ver-

e
de, oggi allo studio. Le fonti rinnovabili richiedono invece un rafforzamento

or
delle infrastrutture elettriche esistenti, con forti sinergie nell’indotto sul ter-

ut
ritorio delle regioni meridionali.

r l’a
pe
Come nel dopoguerra, gli investimenti vanno registrati intorno

ia
ai punti di forza del Paese nella sinergia tra pubblico e privati

op
C
Sempre dalla centralità nel Mediterraneo deriva la forza dello snodo dei

o.
commerci verso l’Europa; implica il passaggio dalla gomma al mare in linea
in
ermini
ul
con l’esigenza di ridurre le emissioni dei trasporti, comporta il rafforzamen-
M

to delle autostrade del mare (un esempio esistente è quella Catania-Raven-


il
T

na-Trieste) e la connessione via terra del trasporto delle merci tramite la rete
aleria
e

ferroviaria, prevista nel Pnrr (anche alimentata a idrogeno verde in fase di


ic
itr

sperimentazione), seppure in quota marginale (cfr. L. Bianchi e A. Giannola,


V

ed

Investimenti e Riforme per trasformare il Mezzogiorno e accelerare la crescita na-


zionale, Quaderno Svimez 2022).
à
et

Il sistema dei porti trova una base giuridica-amministrativa predi-


ci

sposta nelle 8 zone economiche speciali (Zes), in Sicilia, Sardegna, Puglia,


So

Abruzzo, Molise completate in queste settimane con l’aggiunta del porto di


by

Cagliari. In estrema sintesi, entrambi gli aspetti richiamati richiedono un po-


tenziamento delle infrastrutture esistenti.
©

Il secondo elemento di forza da valorizzare nella transizione è rappre-


ht
ig

sentato dalle straordinarie punte di innovazione diffuse nella filiera energeti-


yr

ca del Paese. Fra tutte ricordo tre esempi di maggiore dimensione: uno, a Ca-
op

tania, è la GigaFactory di pannelli solari, la 3Sun di Enel Green Power, la cui


C

tecnologia a celle Hjt (Hetero Junction Technology) è sulla frontiera in Eu-


ropa dei moduli solari bifacciali. Come spiegano i tecnici dell’impresa lo svi-
luppo delle sue linee di produzione è avvenuto in due fasi: dapprima la rea-
lizzazione di una nuova linea di assemblaggio di celle in silicio cristallino per
la produzione di pannelli con architettura bifacciale, che hanno una capacità
produttiva massima di 80 Mw/anno; successivamente, la installazione di cel-
le di tipo Hjt, che hanno una capacità produttiva di 200 Mw/anno.

164
I pannelli solari risultano così composti da due tecnologie combinate
(con silicio cristallino e silicio amorfo a film sottile); i moduli sono composti
da tre strati di materiale fotovoltaico, dei quali il primo, esterno, è di silicio
amorfo e cattura la luce solare, il secondo, in silicio monocristallino, trasfor-
ma la luce solare in elettricità, il terzo, a film sottile, è in grado di catturare
i fotoni rimanenti. Ciò consente di raccogliere più energia e aumentare l’effi-
cienza energetica di almeno il 25%. La potenza elettrica dei moduli Hjt, sale
di fatto tra i 370 W a 400 W per pannello, con un notevole miglioramento ri-

e
spetto alla potenza di 140 W del modello a film sottile. Può contribuire inol-

or
tre alla costruzione di una catena del valore integrata in Europa, dal polisi-

ut
licio al modulo. I nuovi moduli prodotti nella fabbrica di Catania sono meno

l’a
costosi, hanno una durata di vita attiva di circa 25 anni e tutto ciò rende i

r
pe
pannelli solari competitivi con la produzione cinese.
Il secondo esempio di innovazione di frontiera è in Veneto. È la spe-

ia
rimentazione nel trasporto di merci via terra non inquinante della Hyperlo-

op

U ’
opTT: minimizzando l’attrito dell’aria questa tecnologia consente il trasporto

n
agen
dei container a una velocità molto elevata, riducendo drasticamente l’inqui-

o.
in
namento perché alimentata da fonti rinnovabili. All’interno di un tubo, le

d
ul

a
capsule pressurizzate viaggiano fino a 1.223 chilometri orari per il trasporto

energeticaper
M

di persone e container di merci. La propulsione viene generata da una spin-


il

ta originata da un motore elettrico lineare e poi dalla levitazione magnetica,


e
ic

producendo il 30% in più dell’energia consumata.


itr
ed

l
Unificare il Paese nella complementarietà

’I
à

talia
et

tra Nord e Sud dei progetti di infrastrutturazione


ci

e attivare la partecipazione locale


So
by

Un terzo esempio è la sperimentazione dell’uso di idrogeno verde nel tra-


©

sporto ferroviario in corso, mentre tra le fonti rinnovabili rileva la speri-


mentazione sul territorio dell’uso di fonti geotermiche a bassa entalpia, oggi
ht
ig

allo studio dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), del Cnr


yr

e dell’Enea; infine va ricordata la ricerca avviata per il lungo periodo sul-


op

le potenzialità della fusione nucleare, ovvero la fusione a confinamento ma-


C

gnetico. La fisica spiega che nel processo di fusione due atomi leggeri, come
gli isotopi dell’idrogeno (deuterio e trizio) possono superare le loro forze re-
pulsive e fondersi, dando origine a un elemento più leggero della somma dei
due atomi iniziali, l’elio; la reazione libera energia, eliminando i rischi della
fissione. Ma la sfida più difficile oggi, ancora da superare, è quella di genera-
re una quantità di energia sufficientemente superiore a quella utilizzata nel-
la fusione.

165
Le due chiavi di volta per orientare la transizione sono unificare il Pa-
ese nella complementarietà tra Nord e Sud dei progetti di infrastrutturazione
e attivare la partecipazione locale. Il rischio è la frammentazione degli inter-
venti. Lo scempio è l’utilizzo dei fondi del Pnrr, il loro sperpero, in una nuvo-
la di azioni «casuali»; poiché i singoli interventi richiedono una regia, una vi-
sione strategica che delinei dove si immagina il Paese tra un decennio e dove
lo si vuole portare. È il compito specifico della politica, con il supporto dei
tecnici che la politica riesce ad attivare nel Paese.

e
Il pericolo è che in assenza di una strategia del governo e del Parla-

or
mento, pressati dalla richiesta della Commissione europea per rimanere en-

ut
tro tempi ragionevoli e programmati nell’uso del Pnrr, parte dei fondi sia re-

l’a
spinta al mittente; oppure che i fondi siano affidati a «chi sa spendere», come

r
pe
invocato da alcune regioni rette da burocrazie più manageriali, che certo han-

ia
no la competenza per utilizzare i finanziamenti nel loro territorio, in assen-

op
za di una strategia nazionale. Ma questa scelta implica che si rinunci a priori

C
all’effetto moltiplicatore straordinario – sociale ed economico – che una stra-

o.
tegia nazionale promette oggi dalla transizione ecologica, in così larga parte
in
finanziata dall’esterno, un «dono» prezioso e tempestivo da non disperdere.
ermini
ul
M

Investimenti privati programmati intorno ad assi portanti di investimenti


il
T
aleria
e

pubblici selezionati hanno un moltiplicatore straordinario, che supera di cer-


ic

to il 2% stimato dalla Banca d’Italia per l’investimento pubblico attuato in


itr
V

condizioni normali. Lo misura la scienza economica, ma è evidente alla po-


ed

litica, poiché trasforma l’ecosistema sociale generando per il Paese un salto


à
et

nella storia, come avvenne già una volta nel decennio di trasformazione so-
ci

ciale ed economica vissuto nel dopoguerra.


So

L’uso dei fondi del Pnrr è funzionale al raggiungimento di due obietti-


by

vi prioritari che possono disegnare una svolta per il Paese. La trasformazio-


ne energetica inclusa nel progetto vede due assi portanti intorno ai quali far
©

ruotare gli interventi del Pnrr previsti per la transizione ecologica. Il primo è
ht

l’opportunità di unificare il Paese con i progetti del Pnrr valorizzando la com-


ig
yr

plementarietà tra Nord e Sud nella transizione energetica; si tratta di raffor-


op

zare le dorsali e le infrastrutture già in essere nei piani di investimento 2022-


C

2026 delle società di rete, Snam e Terna in particolare per le reti elettriche e
il trasporto del gas; devono essere funzionali alla diffusione locale delle fonti
rinnovabili distribuite e alla connessione dei numerosi esempi di innovazio-
ne tecnologica sperimentati e attivi in ogni angolo del Paese; sono incorpo-
rati in aziende che si muovono sulla frontiera tecnologica del settore energe-
tico-digitale; le infrastrutture devono consentire loro di essere connesse per
fare sistema, accentuarne il valore aggiunto e creare un ecosistema favore-

166
vole alla crescita sinergica dei territori e del lavoro, dei servizi: un elenco fit-
to e disponibile.
Insieme ai punti di forza evidenziati sopra, questa visione dello svilup-
po del Paese si contrappone totalmente a quella delle «autonomie differen-
ziate» avanzata oggi dal governo; al contrario, valorizza le sinergie che si at-
tivano tra le diverse regioni a beneficio del Paese con un piano strategico che
connetta i punti di forza delle regioni meridionali a quelle centro-settentrio-
nali nella transizione ecologica di industria e servizi sostenuta dall’Unione

e
europea. Sicilia e Sardegna acquisiscono un ruolo chiave nelle dinamiche at-

or
tive per il Mediterraneo.

ut
r l’a
Il secondo obiettivo politico-sociale è attivare

pe
la partecipazione della popolazione alla transizione

ia
ecologica nei territori

op

U ’
C

n
agen
La partecipazione della popolazione alla transizione ecologica nei territori

o.
locali con le Cer (Comunità energetiche rinnovabili) è il secondo obiettivo
in

d
ul

a
politico-sociale da perseguire con i fondi del Pnrr. Su tutto il territorio na-

energeticaper
M

zionale lo sviluppo delle Cer è una bandiera importante, chiave della


il

partecipazione dei cittadini, che sono resi responsabili e protagonisti nella


e
ic

produzione e nel consumo di energia, nel risparmio ottenuto dalla produzio-


itr

ne rinnovabile e nella riallocazione di eventuali utili a beneficio del territo-


ed

rio. Le Cer sono società non-profit e a esse è data la possibilità di rivendere

l
’I
à

l’eventuale eccesso di energia elettrica prodotta mettendolo in rete diretta-

talia
et

mente attraverso le reti di distribuzione, rese accessibili dall’intervento digi-


ci

tale. I contatori intelligenti sono già disponibili per consentire in tempo rea-
So

le la lettura dei consumi locali.


by

La nuova normativa delle Cer è finalmente giunta a compimento e il


©

decreto ministeriale è stato sottoposto all’approvazione della Commissione


ht

il 24 febbraio scorso; Arera ha emanato le nuove linee guida che prevedono


ig

un tetto di capacità di 1 Mw e l’obbligo di connessione alla cabina primaria;


yr

la governance delle Comunità energetiche rinnovabili è stata da tempo defini-


op

ta dall’Ue per garantire produzione e autoconsumo sul territorio locale e nel


C

Pnrr sono stanziati 2,2 miliardi per contributi a fondo perduto ai comuni sot-
to i cinquemila abitanti e contributi per tariffe incentivanti per tutti. È essen-
ziale attivare questo percorso che da tempo coinvolge le aspettative dei cit-
tadini, e dei comuni, anche per consentire loro di promuovere un risparmio
sul costo energetico.

167
La visione strategica che sottende questi due assi portanti, incentrata sul ruo-
lo delle grandi imprese di settore a partecipazione pubblica e su una moltitu-
dine di medie attività imprenditoriali straordinariamente innovative, si avvi-
cina a quella che portò l’Italia al boom economico del dopoguerra, attraverso
un uso sinergico da parte dell’impresa pubblica e privata dei fondi del Piano
Marshall negli anni Cinquanta.
Si tratta di una visione intorno alla quale coagulare le forze del sinda-
cato e dell’opposizione. Può guidare l’opposizione in un modello economico

e
che unisce il Paese, in contrasto con la frammentazione proposta dal gover-

or
no, facendo leva sui punti di forza dell’Italia.

ut
Perdere questa possibilità nelle piccole contrapposizioni di governo

l’a
è un crimine perpetrato, a tutti noi, ai nostri figli e alle generazioni future.

r
pe
Tutte le parti politiche ne sono coinvolte. Sarebbe lo spreco di una occasio-
ne straordinaria che trova la popolazione e le imprese pronte ad agire dopo

ia
il sonno forzato imposto dalla pandemia. O, peggio, il pericolo è l’intercetta-

op
zione dei circuiti finanziari da parte di bande malavitose che si insinuano nei

C
percorsi della corruzione diffusa approfittando dell’assenza di una regia e di

o.
in
controlli sistematici della spesa che ne valutino l’adesione anche capillare a
ermini
ul
un piano nazionale.
M
il
T
aleria
e
ic
itr
V

ed
à
et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

VALERIA TERMINI è professoressa ordinaria di


Economia politica all’Università di Roma Tre, già
Commissario dell’Autorità per energia e ambiente
in Italia (Arera) e membro del Consiglio dei
regolatori europei (Ceer).

168
Che succede a destra / 1

L’ASCESA

e
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ELLE ONNE

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pe
D
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NELLA ESTRA

ia
op
D
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©
ht
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op

MANUELA CAIANI
C

E FE ERICO
D
STEFANUTTO ROSA
169
adri della azio e, femo azio aliste, amazzoni, donne di ferro, capita-

e
or
M
n
n
n
n
ne e perfino mamme grizzly. Sono stati coniati gli epiteti più svariati per cer-

ut
care di catturare la loro identità politica cangiante, propria di quel camale-

l’a
ontismo che il politologo Paul Taggart definisce come carattere fondante del

r
pe
populismo contemporaneo (cfr. Populism, Open University Press, 2000). Par-
ROSA

liamo delle donne della destra radicale, soggetto misterioso ancora poco stu-

ia
diato (salvo i singoli casi più noti), ma sempre più protagoniste all’interno

op
tefanutto
delle loro organizzazioni e delle arene politiche occidentali. In Italia ci siamo

C
resi conto plasticamente della loro rilevanza con l’ascesa di Giorgia Meloni,

o.
prima premier donna nella storia della Repubblica italiana, la cui leadership
in
ul
carismatica è paradossalmente sbocciata in una famiglia politica che si è for-
S

M
erico
giata nel culto dell’uomo forte e dell’ostentazione della virilità.
il

Meloni, ma non solo. Sono infatti molte altre le donne arrivate al ver-
e
F d

tice dei partiti di destra radicale in Occidente e che, in alcuni casi, hanno rag-
ic
e
itr

giunto ruoli di primo piano nelle istituzioni, spostando sempre più a destra il
e
aiani
ed

baricentro dei rispettivi sistemi politici nazionali.


à

Si tratta di un’importante novità proprio perché i partiti della destra


C

et
anuela
radicale sono stati tradizionalmente definiti dagli studiosi come Männerpart-
ci

eien, ossia forze politiche quasi esclusivamente guidate e rappresentate da


So

uomini (C. Mudde, Populist Radical Right Parties in Europe, Cambridge Uni-
M

by

versity Press, 2007). Al contempo, si ritiene che i successi elettorali della de-
©

stra radicale nelle democrazie occidentali siano, in larga parte, attribuibili


ht

alla capacità di intercettare il diffuso sentimento di ansia che accomuna gli


ig

«uomini bianchi e arrabbiati», come li ha definiti il sociologo Michael Kim-


yr

mel (cfr. Angry White Men: American Masculinity at the End of an Era, Nation
op

Books, 2017). Un’espressione utilizzata per descrivere i maschi breadwinner


C

del Trentennio glorioso che hanno sperimentato una progressiva perdita di


status e che sono stati conquistati dalla promessa della destra radicale di re-
staurare le loro prerogative sociali e porre un freno alla presunta decadenza
della mascolinità.
Questa politica identitaria maschile ha senz’altro contribuito ad alimentare
la mobilitazione della destra radicale (B. Sauer, Authoritarian Right-Wing Po-
pulism as Masculinist Identity Politics: The Role of Affects, in Right Wing Populi-

170
sm and Gender, Transcript Verlag, 2020). Tuttavia, descrivere questi partiti
come club per soli uomini non corrisponde più alla realtà. Il graduale sdoga-
namento delle organizzazioni di destra radicale ha infatti aperto al loro in-
terno nuove opportunità politiche per le donne, la cui presenza è diventata
fondamentale per allontanarsi da un’immagine tossica di «attivismo delle te-
ste rasate» tutto al maschile, tipicamente riconducibile alle componenti più
estremiste.

e
Il graduale sdoganamento delle organizzazioni di destra

or
radicale ha aperto al loro interno nuove opportunità politiche

ut
l’a
per le donne

r
pe
Nel percorso di legittimazione delle destre radicali, le donne hanno così as-

L’
ascesa
ia
sunto un protagonismo sempre maggiore, arrivando, in diversi casi, fino al

op
vertice dell’organizzazione (cfr. Tabella). Si tratta di figure rilevanti che me-

C
ritano di essere analizzate per comprendere più in profondità il nuovo volto

d
o.

elle
di questi partiti.
in
ul

d
Mappatura delle donne leader dei partiti di destra radicale che in Europa occidentale a partire

onne
M

dal 2000 hanno ottenuto rappresentanza politica in almeno un’elezione generale (Camera bassa)
oppure in un’elezione europea
il

nella
e

Paese Leader Partito (abbreviazione)


ic
itr

Austria Susanne Riess (2000 - 2002) Partito della Libertà Austriaco (Fpö)

d
ed

estra
Ursula Haubner (2004 - 2005) Partito della Libertà Austriaco (Fpö)
Johanna Trodt Limpl (2015 - 2017) Alleanza per il Futuro dell’Austria (Bzö)
à
et

animarca Pia Kjærsgaard (1985 - 1995) Partito del Progresso (FrP)

ra
D
(1995 - 2012) Partito del Popolo anese ( f)
ci

d
D
D
icale
Pernille Vermund (2015 - oggi) Nuovi Borghesi (Nye)
So

Francia Marine Le Pen (2011 - 2018) Fronte Nazionale (Fn)


by

(2018 - oggi) Raggruppamento Nazionale (Rn)


Finlandia Riikka Purra (2021 - oggi) Veri Finlandesi (Ps)
©
ht

Germania Frauke Petry (2015 - 2017) Alternativa per la Germania (Af )


D
Alice Weidel (2022 - oggi) Alternativa per la Germania (Af )
ig

D
yr

Italia Giorgia Meloni (2012 - oggi) Fratelli d’Italia (FdI)


op

Norvegia Siv Jensen (2006 - 2021) Partito del Progresso (FrP)


C

Sylvi Listhaug (2021 - oggi) Partito del Progresso (Frp)


Svizzera Ana Roch (2016 - 2019) Movimento dei Cittadini Ginevrini (Mcg)
Uk Catherine Blaiklock (gennaio 2019 - Partito della Brexit (Bp)
marzo 2019)
Fonte: Elaborazione degli autori.

Le leader della destra radicale si presentano come donne capaci di col-


tivare un’immagine contemporanea e pop. In molti casi, incarnano quel mo-

171
dello di celebrity leadership che caratterizza le figure politiche in grado di cre-
are consenso attraverso il linguaggio e i canoni comunicativi dello star system
(D. Campus, Celebrity Leadership: quando i leader politici fanno le star, «Comu-
nicazione Politica», n. 2/2020). Ne è un esempio lampante la copertina che,
nell’estate 2020, il settimanale «Novella 2000» ha dedicato a Giorgia Melo-
ni: la leader di Fratelli d’Italia si fa immortalare mentre prende il sole con in-
dosso un costume a tema bandiera italiana, declinando in chiave nazionalpo-
polare il suo orientamento nazionalista. La sirena tricolore, recita il titolo del

e
magazine («Novella 2000», n. 34, 12.8.2020), aggiungendo così un ulterio-

or
re tassello alla strategia di popolarizzazione della sua leadership dopo il suc-

ut
cesso di qualche mese prima della hit musicale Io sono Giorgia. Inizialmente

l’a
concepita come remix satirico della retorica anti-Lgbt di Meloni, la canzo-

r
pe
ne si è in poco tempo rivelata un involontario assist musicale alla leader di
ROSA

Fratelli d’Italia che, con abilità, ne ha fatto un inno da intonare in ogni dove,

ia
dai salotti televisivi alle adunate di piazza. Così, le parole identitarie di Me-

op
tefanutto
loni si sono tramutate in un ritornello accattivante cantato da tutti e ovun-

C
que: odiatori e ammiratori, grandi e piccini, alle feste di compleanno e nel-

o.
le discoteche. in
ul
S

M
erico
Le leader della destra radicale sanno coltivare
il
e

un’immagine contemporanea e pop, che non spaventa


F d

ic
e
itr
e
aiani
ed

La stessa capacità di trasformarsi in un fenomeno politico nazionalpopola-


re contraddistingue l’ascesa di Marine Le Pen. La leader del Rassemblement
à
C

et
anuela
National è riuscita a rendere più accettabile la percezione della destra radi-
ci

cale francese attraverso una comunicazione costruita intorno alla persona-


So

lizzazione esasperata della sua figura. Alle elezioni presidenziali del 2012, si
M

by

è presentata alla guida di un raggruppamento delle destre che portava il suo


nome: Rassemblement Blue Marine. Un abile gioco di parole che fondeva il
©

colore blu scuro della divisa della marina militare con il suo nome di battesi-
ht
ig

mo. Attraverso questo accostamento, come fa notare la linguista Lorella Sini,


yr

Marine Le Pen è riuscita a disfarsi dello scomodo cognome paterno cosicché


op

«chi non si riconosce nel lepenisme può essere invece sedotto dal marinisme»
C

(L. Sini, Il Front National di Marine Le Pen. Analisi del discorso neofrontista, Ets,
2017, p. 83).
In un dépliant elettorale stampato in cinque milioni di copie per rac-
contarsi senza filtri ai francesi, in occasione delle presidenziali del 2017, Le
Pen si mostra in molteplici vesti: in abbigliamento sportivo mentre passeg-
gia sulla spiaggia, in sella a un cavallo, in posa sui gradini dell’Eliseo, al ti-
mone di una barca e ospite di un popolare salotto televisivo (Dépliant Marine

172
Présidente, Elezioni presidenziali 2017). E, sempre in questo turno elettora-
le, confeziona uno spot tutto incentrato su se stessa che in brevissimo tempo
ha superato il milione di visualizzazioni e in cui si descrive come «una don-
na, una madre, un avvocato, ma se dovessi definirmi nel profondo direi sem-
plicemente che sono intensamente, fedelmente, fieramente ed evidentemen-
te francese» (Clip de campagne officiel Marine 2017, 5.2.2017). Una formula che
rafforza il processo di costruzione di un’identità stratificata tipica di molte le-
ader della destra radicale e che anticipa proprio il celebre tormentone melo-

e
niano: «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana» (G.

or
Meloni, Discorso alla manifestazione del centrodestra, 19.10.2019).

ut
In questo modo, attraverso una narrazione pop che fa leva sulla loro

l’a
identità di genere, le donne della destra radicale riescono in parte a norma-

r
pe
lizzare l’immagine dei loro partiti, rendendola meno respingente e più attrat-

L’
tiva agli occhi dell’elettorato.

ascesa
ia
op
C
In animarca la destra radicale è cresciuta nel segno di una

d
o.

elle
D
donna, Pia Kjærsgaard, che ha esercitato la sua leadership
in
mischiando carità e intransigenza
ul

d
onne
M
il

Oltre ai casi più conosciuti di Meloni e Le Pen, altre leader hanno persegui-

nella
e

to strategie analoghe, arrivando a ricoprire responsabilità istituzionali o co-


ic
itr

munque condizionando in maniera considerevole le politiche dei propri Pa-

d
ed

estra
esi. In Norvegia, Siv Jensen, leader della destra radical-populista del Partito
del Progresso, è riuscita a spezzare il cordone sanitario che isolava la sua
à
et

ra
organizzazione, accreditandola come partner di governo nella coalizione di
ci

d
centrodestra. Jensen ha così ricoperto la carica di ministra delle Finanze dal

icale
So

2013 al 2020, un ruolo che, in un Paese con il Pil pro capite tra più elevati di
by

Europa, ha un peso specifico pari quasi a quello di un primo ministro. Nel


©

2021, dopo quindici anni ininterrotti, ha lasciato la guida del partito a Sylvi
Listhaug, altra influente donna della destra radicale norvegese che da mini-
ht
ig

stra dell’Immigrazione si è distinta per la sua linea dura sulle politiche d’ac-
yr

coglienza.
op

Anche nella vicina Danimarca, la destra radicale è cresciuta nel segno


C

di una donna: Pia Kjærsgaard, leader del Partito del Progresso Danese dal
1985 al 1995 e successivamente fondatrice del Partito del Popolo Danese, che
ha guidato dal 1995 al 2012. Con un passato da assistente domiciliare per an-
ziani, Kjærsgaard ha costruito una efficace analogia tra la dedizione che ca-
ratterizza il suo mestiere e il suo impegno politico. È nato così il fortunato
slogan «un’assistenza domestica per la Danimarca», che segna la sua ascesa
nella seconda metà degli anni Novanta. Mamma Pia, come è soprannominata

173
all’interno del suo partito, ha coltivato la sua leadership attraverso una biz-
zarra miscela di carità e intransigenza. Da una parte, c’è la premurosità ma-
terna verso i danesi più in difficoltà, per i quali si fa promotrice di politiche
welfariste, dall’altra invece c’è il pugno di ferro verso i migranti, ai quali è ri-
servato un trattamento di seconda classe.
Questo orientamento politico, ribattezzato dagli studiosi sciovinismo
del benessere (cfr. J.G. Andersen e T. Bjorklund, Structural Changes and New
Cleavages: the Progress Parties in Denmark and Norway, «Acta Sociologica», Vol.

e
33, n. 3/1990), ha rappresentato la chiave del suo successo. Attraverso l’ap-

or
poggio esterno a diversi governi di minoranza del centrodestra, Kjærsgaard

ut
è riuscita a condizionare l’agenda delle riforme spostando decisamente a de-

l’a
stra il Paese sui temi dell’accoglienza e dell’integrazione. Nel 2015, a corona-

r
pe
mento della sua carriera politica, ha conquistato l’ambito scranno di presi-
ROSA

dente del Parlamento danese. Proprio in quell’anno, in Danimarca è emersa

ia
un’altra leadership femminile nella destra radicale populista; quella di Per-

op
tefanutto
nille Vermund, fondatrice e leader dei Nuovi Borghesi, partito contraddistin-

C
to da una piattaforma che tiene insieme nativismo e populismo antifiscale

o.
in
(cfr. P. Borioni, La Nuova Destra Nordica: una questione europea, «Italianieuro-
ul
pei», n. 4/2016). Nella sua comunicazione, Vermund segue logiche più simi-
S

M
erico
li a quelle di una influencer che di un rappresentante pubblico. Sul suo profi-
il

lo Instagram i contenuti a tema politico sono quasi del tutto assenti, mentre
e
F d

ic

prevalgono immagini che propongono un vero e proprio lifestyle danese: la


e
itr
e
cucina, le vacanze, la famiglia, lo sport e l’arredamento di casa.
aiani
ed
à

Allo stesso modo in Finlandia, alle elezioni presidenziali del 2018, il parti-
C

et
anuela
to di destra radicale dei Veri Finlandesi ha scelto di puntare sul volto nuo-
ci

vo di Laura Huhtasaari, antieuropeista convinta e seguace del creazionismo,


So

che si è classifica terza nella corsa per la massima carica del Paese. Nel 2021
M

by

la leadership del partito è stata affidata alla ricercatrice Riikka Purra che in
©

un’intervista ha raccontato come la sua conversione alla destra radicale sia


ht

stata condizionata dalle molestie sessuali, subite in adolescenza, da parte di


ig

alcuni immigrati nella periferia della città di Tampere (www.yle.fi, 7.8.2021).


yr

Una volta assunta la leadership del partito, Purra ha costruito con estrema
op

cura e abilità la sua immagine, dedicando grande attenzione alla sua narra-
C

zione sui social media. In particolare, le sue invettive contro la sinistra fin-
landese, condivise soprattutto su TikTok, le hanno permesso di affermarsi
come una leader combattiva e credibile nel campo conservatore. Mentre su
Instagram ha scelto di lasciare fuori la politica, privilegiando il racconto pri-
vato della sua vita e dispensando scatti, suggerimenti e ricette della sua ali-
mentazione salutista e vegetariana alla stregua di una food blogger. Così, tra

174
dimensione pubblica e quotidianità familiare, Purra ha creato una leadership
«a due facce» che ha consentito ai Veri Finlandesi di ottenere il risultato più
alto della loro storia: il 20% dei consensi alle elezioni parlamentari del 2023.

In Germania lo sdoganamento della destra radical-populista di Alternative


für Deutschland (AfD) è in gran parte opera di due carismatiche leadership
femminili. Frauke Petry, chimica e imprenditrice prestata alla politica, ha
guidato il partito dal 2015 al 2017 portandolo a diventare la terza forza poli-

e
tica del Paese. A spiazzare l’opinione pubblica tedesca è stato il contrasto tra

or
la sua immagine rassicurante da business woman e la radicalità della sua piat-

ut
taforma politica. I quotidiani socialisti e liberali hanno accusato Petry di ri-

l’a
portare il terrore nella politica tedesca, mascherando con la sua immagine

r
pe
i pericoli derivanti dall’ascesa dell’AfD (cfr. Frau Dr. Seltsams Lachen, «Der

L’
Freitag», 5.8.2016). Dopo che Petry ha abbandonato il partito in polemica

ascesa
ia
con una svolta eccessivamente estremista, è stato il turno di Alice Weidel che

op
ha prima ricoperto la prestigiosa carica di portavoce del gruppo parlamenta-

d
re della AfD nel Parlamento federale tedesco e, dal 2022, è diventata co-lea-

o.

elle
in
der del partito. Weidel riassume tutto quello che la destra populista dovreb-
ul

d
be, in teoria, vedere come fumo negli occhi: una carriera sfavillante nei più

onne
M

importanti colossi mondiali della finanza, un dottorato di ricerca, dichiara-


il

tamente lesbica, si è unita civilmente con una produttrice cinematografica di

nella
e
ic

origini srilankesi insieme alla quale ha adottato due bambini. È però riusci-
itr

ta a divincolarsi dalla trappola dell’incoerenza presentando la sua leadership

d
ed

estra
nel partito come la prova che l’AfD, a differenza di quanto emerge dal raccon-
à

to mediatico, non sarebbe una forza politica intollerante.


et

ra
ci

d
icale
So

Alice Weidel, co-leader di Af , rappresenta tutto ciò


D
by

che la destra populista combatte. Eppure è riuscita


a non risultare incoerente
©
ht
ig

Altrettanto interessante è il caso dell’Austria. Quando nel 2000 il Partito del-


yr

la Libertà Austriaco (Fpö) è entrato a far parte di un governo di coalizione di


op

centrodestra, lo storico leader Jörg Haider ha infatti scelto come vicecancel-


C

liera e nuovo capo del partito l’europarlamentare Susanne Riess, con l’inten-
to di favorire, attraverso la novità di una donna al comando, la legittimazio-
ne istituzionale della destra radicale austriaca.
Se poi si vuole allargare lo sguardo oltre l’Europa, non si può non cita-
re la figura di Sarah Palin, ex governatrice dell’Alaska e candidata vicepresi-
dente per il Partito repubblicano alle elezioni del 2008. Palin, con la sua re-
torica anti-élite, ha portato sulla scena politica americana un preludio del

175
trumpismo. Autodefinitasi «mamma grizzly» (come l’orso simbolo del suo
Stato), è riuscita attraverso questo soprannome a costruire una rappresen-
tazione che tiene insieme mascolinità e femminilità, aggressività e protezio-
ne. Mentre in Israele è emersa la leadership femminile di Ayelet Shaked, tra
le esponenti più in vista del partito ultranazionalista della Casa Ebraica e in
seguito leader dell’alleanza delle destre di Yamina, che è stata ministra della
Giustizia dal 2015 al 2019 e dell’Interno dal 2021 al 2022.

e
Al netto delle differenze di percorso e delle peculiarità nazionali, è senza

or
dubbio possibile individuare delle caratteristiche comuni a queste leader che

ut
aiutano a spiegare i motivi del loro successo e il loro ruolo nei partiti della de-

l’a
stra radicale. Innanzitutto, si autorappresentano come donne controcorrente

r
pe
(À contre flots è, non a caso, il titolo dell’autobiografia di Marine Le Pen, uscita
ROSA

in Francia per Granchet nel 2006). Coltivano così un’immagine di leader par-

ia
tite da sfavorite che, contro ogni pronostico, sono riuscite a emergere in un

op
tefanutto
ambiente a loro ostile. Nel racconto della loro ascesa, enfatizzano gli ostacoli

C
e le difficoltà che hanno dovuto sconfiggere, in quanto donne che hanno sca-

o.
in
lato organizzazioni tutte al maschile e in quanto esponenti della destra radi-
ul
cale all’interno di un sistema istituzionale e culturale che le ha isolate. Nella
S

M
erico
loro retorica è presente una vera e propria mitizzazione della traversata che
il

hanno compiuto per affermarsi.


e
F d

ic

È proprio questa narrazione che costituisce il fondamento del loro ca-


e
itr
e
risma e che, al contempo, attiva nell’elettorato un meccanismo di solidariz-
aiani
ed

zazione con la loro storia da underdog, per utilizzare l’espressione con cui si
à

è definita Giorgia Meloni nel suo primo discorso da premier. Questo paradig-
C

et
anuela
ma è una costante della loro comunicazione. È presente nell’autobiografia di
ci

Meloni in cui viene esaltato il suo percorso da militante di destra che si è fat-
So

ta largo in un ambiente dominato dagli uomini e in cui viene sottolineata ri-


M

by

petutamente l’emarginazione subita per il suo orientamento politico (cfr. G.


©

Meloni, Io sono Giorgia, Rizzoli, 2021). Lo troviamo anche nella retorica di


ht

Marine Le Pen, che si racconta come una outsider che, sia fuori sia all’inter-
ig

no del suo partito, ha dovuto superare il peso dell’isolamento e del pregiudi-


yr

zio per affermare la sua leadership. Allo stesso tempo, anche le leader nei Pa-
op

esi dell’Europa centro-settentrionale autocelebrano la loro identità eretica di


C

donne della destra radicale in sistemi politici fiori all’occhiello del socialismo
e del femminismo.

C’è poi un ulteriore elemento di interesse che riguarda la rappresentazione


delle donne della destra radicale. L’immagine di queste leader si allontana
infatti dai modelli più tradizionali; molte di loro sono divorziate, risposate o
hanno costituito situazioni familiari che si pongono in aperta contraddizio-

176
ne con le politiche iperconservatrici dei propri partiti. Eppure, questa diver-
genza non scalfisce la loro credibilità ma, anzi, in molti casi si trasforma in
un elemento di forza perché permette alla destra radicale di mantenersi sul
labile crinale dell’ambiguità in materia di diritti civili e politiche della fami-
glia. Grazie all’immagine delle proprie leader, questi partiti creano uno scu-
do reputazionale utile a difendersi dalle accuse di voler riportare indietro le
lancette della storia. La presenza al vertice di donne battagliere e indipen-
denti permette infatti di respingere le accuse di maschilismo, nonostante le

e
loro politiche rimangano in realtà incentrate sulla difesa del ruolo tradizio-

or
nale della donna nella sfera familiare. «Ho sentito dire che io vorrei le donne

ut
un passo dietro agli uomini, mi guardi, le sembra che io stia un passo dietro

l’a
agli uomini?», ha sostenuto Meloni, presentando la sua figura di leader come

r
pe
prova suprema del sostegno di Fratelli d’Italia alla parità di genere (G. Melo-

L’
ni, Discorso alla Camera dei deputati, 25.10.22).

ascesa
ia
op
I partiti della destra radicale traggono infine beneficio dall’immagine delle

d
proprie leader elevandole a simbolo delle campagne anti-Islam. Questa stra-

o.

elle
in
tegia politica che la sociologa Sara Farris definisce femonazionalismo (S.R.
ul

d
Farris, Femonazionalismo, Alegre, 2019) consiste nella strumentalizzazio-

onne
M

ne della difesa dei diritti delle donne nell’ambito di un orientamento isla-


il

mofobo. Lo stratagemma femonazionalista viene ampiamente utilizzato dal-

nella
e
ic

le leader della destra radicale che nella propria comunicazione giocano sul
itr

contrasto tra la loro figura di donne libere e quella delle donne musulmane

d
ed

estra
rappresentate come soggiogate dai propri padri o mariti.
à
et

ra
ci

d
Le leader di estrema destra strumentalizzano

icale
So

sovente la difesa dei diritti delle donne nell’ambito


by

di un orientamento islamofobo
©

Ad accomunare queste leader c’è dunque la denuncia dell’immigrazio-


ht
ig

ne dai Paesi arabo-musulmani sbandierata alla stregua di una minaccia per


yr

i diritti e i valori occidentali. Così, ad esempio, Alice Weidel ha giustificato


op

la sua adesione all’AfD in quanto, secondo il suo punto di vista, sarebbe l’u-
C

nico partito in grado di difendere la sua identità di donna omosessuale dal-


la presunta minaccia dell’islamizzazione: «Gli attacchi contro gli omosessuali
non solo mostrano l’odio di alcuni gruppi di migranti, ma mostrano anche il
loro disprezzo per il nostro Stato di diritto e la nostra cultura» (A. Weidel, in-
tervista sul blog www.philosophiaperennis.com, 20.9.2017). E allo stesso modo
anche le altre leader, soprattutto nei Paesi con una elevata presenza di mu-
sulmani, come Francia e Danimarca, accusano le forze della sinistra di aver

177
abdicato al loro ruolo di protettrici dei diritti delle donne in nome del multi-
culturalismo:

«Le ragazze sono strumentalizzate per portare il velo, vero ritorno


dell’oscurantismo; dei Comuni attrezzano i pasti nelle mense scolasti-
che della Repubblica per rispondere a tale o talaltra regola religiosa, o
sistemano gli orari nelle piscine pubbliche per evitare la mescolanza
dei sessi… Dove sono i difensori dei valori repubblicani?» (M. Le Pen,

e
Controcorrente, I libri del Borghese, 2011).

or
ut
Soffiando sulla paura dell’immigrazione, i partiti della destra radicale sono

l’a
quindi riusciti ad attrarre in maniera crescente i voti dell’elettorato femmini-

r
pe
le che oggi costituisce una porzione sempre più rilevante della propria base di
ROSA

consensi. Numeri che rappresentano una gigantesca novità rispetto al profilo

ia
elettorale maschiocentrico che ha storicamente caratterizzato questa fami-

op
tefanutto
glia politica (cfr. N. Mayer, The Closing of the Radical Right Gender Gap in Fran-

C
ce?, Centre d’ tudes europ ennes de Sciences Po, 2015).

o.


in
Stiamo così assistendo a un’importante trasformazione della destra
ul
radicale che vede le donne sempre più protagoniste in ruoli a forte esposizio-
S

M
erico
ne mediatica ma anche sempre più inclini a votare per questi partiti. La sta-
il

gione dei Männerparteien è oramai finita e oggi per la destra radicale è sem-
e
F d

ic

pre più vantaggioso parlare al femminile.


e
itr
e
aiani
ed
à
C

et
anuela
ci
So
M

by
©
ht
ig
yr
op
C

MANUELA CAIANI è professoressa associata in FE ERICO STEFANUTTO ROSA, laureatosi


D
Scienza politica nella classe di Scienze politico- in Scienze politiche presso la Scuola Normale
sociali della Scuola Normale Superiore. Tra le sue Superiore e l’Università di Firenze, è consulente
pubblicazioni: Populism and (Pop) Music (con E. di comunicazione politica e collabora con agenzie
Padoan, Palgrave Macmillan, 2023), Web nero. di comunicazione, istituti di ricerca e studi di
Organizzazioni di estrema destra e Internet (con L. consulenza strategica.
Parenti, Il Mulino, 2013), Mobilizing on the extreme
right (con . della Porta e C. Wagemann, Oxford
D
University Press, 2012).

178
Che succede a destra / 2

FRATELLI D’ITALIA

e
or
ut
NEI CONSIGLI

rl’a
pe
REGIONALI

ia
op
C
o.
in
ul
M
il
e
ic
itr
ed
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et
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op

GIANLUCA
C

PICCOLINO E
SOFIA MARINI
179
La vittoria di Frate i d’ ta ia (Fd ) e di Giorgia Meloni alle ultime elezio-

e
or
ll
I
l
I
ni politiche può essere considerata a buon diritto come l’affermazione di un

ut
preciso milieu. Il partito è infatti legato a doppio filo con la storia del Movi-

l’a
mento sociale italiano e della sua evoluzione in Alleanza nazionale, forma-

r
pe
zioni nelle quali si è formata la maggioranza della classe dirigente di FdI, seb-
bene diversi tópoi della destra radicale populista europea, non appartenenti

ia
a questa tradizione politica, siano stati aggiunti nel corso del tempo al baga-

op
arini
glio ideologico di Fratelli d’Italia (si veda L. Puleo e G. Piccolino, Back to the

C
Post-Fascist Past or Landing in the Populist Radical Right? The Brothers of Italy

o.
M
ofia
Between Continuity and Change, «South European Society and Politics», vol.
in
ul
25, n. 1/2022).
S

M
e
Nato alla fine del 2012 come una scissione dal Popolo delle Libertà
iccolino
il

all’inizio del crepuscolo del dominio berlusconiano sul centrodestra, il parti-


e

to di Meloni è cresciuto lentamente nei primi anni della sua storia per poi be-
ic
itr

neficiare di una brusca crescita di consensi nel biennio precedente alle ultime
P

ed
ianluca
elezioni politiche. Le cause di questa affermazione storica saranno un tema
à

caldo per la letteratura politologica contemporanea, ma esulano dagli sco-


et

pi di questo articolo, che si focalizza invece sulle caratteristiche di una com-


ci
G

ponente fondamentale per ogni partito italiano: il ceto politico nelle regioni.
So

In particolare, ci siamo chiesti in che misura FdI abbia cresciuto al suo inter-
by

no i propri consiglieri regionali oppure abbia ceduto alla tentazione di apri-


©

re le porte a un personale politico variegato per accompagnare la sua cresci-


ht

ta elettorale.
ig
yr

Notoriamente, il retroterra sociopolitico dei rappresentanti influisce sui loro


op

legami con la società, connettendoli a specifici gruppi e dando loro credibilità


C

nella rappresentanza degli interessi di questi ultimi. Appare perciò evidente


come lo studio delle élite di partito sia utile per comprenderne motivazioni,
preferenze e interessi. Allo stesso tempo, una figura professionale con mag-
giore esperienza avrà maggior capacità di governo e amministrazione, qua-
lità necessarie al buon governo: l’acquisizione di competenza è dunque fun-
zionale non solo alla progressione della propria carriera politica, ma anche a
una buona performance del partito.

180
Nonostante la letteratura sulle caratteristiche e i percorsi di carriera
delle élite politiche si concentri prevalentemente sul livello nazionale (o, più
raramente, sovranazionale), non mancano analisi sub-nazionali. Questi stu-
di analizzano principalmente gli scambi fra livelli di governo, non solo dal
punto di vista formale ma anche attraverso ricostruzioni dinamiche dei mo-
vimenti che avvengono fra essi. Un possibile approccio è dunque adottare il
concetto di multilevelness come rapporto fra le spinte centrifughe e centripe-
te presenti all’interno del sistema: misurando cioè quanto la sfera politica na-

e
zionale sia più appetibile rispetto a quella sub-nazionale (o viceversa) per lo

or
sviluppo di una carriera politica (cfr. K. Stolz, Moving up, moving down: Poli-

ut
tical careers across territorial levels, «European Journal of Political Research»,

l’a
vol. 42, n. 2/2003). Così facendo, è possibile ricostruire una tipologia dei mo-

r
pe
delli di carriera nei sistemi politici multilivello (J. Borchert, Individual Ambi-
tion and Institutional Opportunity: A Conceptual Approach to Political Careers in

ia

F
Multi-level Systems, «Regional & Federal Studies», vol. 21, n. 2/2011). Talvol-

op

ratelli
ta il cursus honorum procede linearmente dal livello locale a quello regionale

C
per raggiungere la sfera politica nazionale (pattern unidirezionale – possibile

o.

d
in
anche dal livello nazionale verso quello locale); in altri casi i livelli sono au-

’I
talia
ul
tonomi e non comunicanti, per quanto ugualmente ambiti (pattern alterna-
M

tivo); l’ultima possibilità infine (circuito integrato) riguarda quei sistemi in

nei
il

cui manca una chiara gerarchia fra livelli, facendo sì che le carriere politiche

C
e

onsigli
ic

si sviluppino frequentemente in entrambe le direzioni.


itr
ed

regionali
L’acquisizione di competenza è funzionale non solo
à
et

alla progressione della propria carriera, ma anche


ci

alla buona performance del partito


So
by

La letteratura accademica sulla mobilità delle carriere politiche fra livelli di


©

governo ha inoltre suggerito alcune possibili spiegazioni della direzione di


tali movimenti. Fra di esse, la forma di governo (i sistemi presidenziali do-
ht
ig

vrebbero incoraggiare lo sviluppo di carriere unidirezionali, quelli parlamen-


yr

tari un pattern integrato), la struttura organizzativa dei partiti politici (una


op

maggiore stratarchia dovrebbe facilitare un pattern alternativo), la politiciz-


C

zazione delle identità regionali, che andrebbe a creare arene politiche regio-
nali più salienti, e il grado di istituzionalizzazione delle legislature regionali,
che ne aumenterebbe l’attrattiva rispetto a quelle nazionali (si veda il capito-
lo «Sub-national political élites» di Filippo Tronconi, all’interno del Palgrave
Handbook of Political Elites, Routledge, 2018).
Queste prospettive, tuttavia, adottano un punto di vista individuale
nel cercare di spiegare lo sviluppo di una singola carriera politica. Borchert

181
suggerisce che tali scelte si basino prevalentemente sulla disponibilità, acces-
sibilità e attrattiva della carica in questione. Ciò è senz’altro essenziale per
spiegare chi viene reclutato nelle élite del partito e come i partiti stessi se-
lezionino le proprie candidature. Ma non ci concentreremo sul piano indivi-
duale, bensì guarderemo al livello aggregato attraverso lo studio della carrie-
ra politica dei rappresentanti regionali.
Dal punto di vista di un partito politico, il livello regionale rappresen-
ta una sfida per quanto riguarda la sua inclusione nelle strutture organizza-
tive e la sua relazione con il livello centrale, ma fornisce anche l’opportunità

e
or
di formare e reclutare personale politico competente e leale. Poiché infatti gli

ut
interessi e le ambizioni individuali sono influenzate dalle proprie esperien-

l’a
ze pregresse e condizioni sociali, poter reclutare una classe politica valida e

r
pe
fedele è vitale per le prospettive di un partito. L’arena regionale contribuisce
infatti alla socializzazione e professionalizzazione di figure politiche emer-

ia
genti, che potrebbero proseguire la loro carriera nelle istituzioni o negli or-

op
arini
gani direttivi partitici.

C
o.
M
ofia
in
Studiare le dinamiche di carriera delle élite politiche è cruciale
ul
per comprendere il grado di istituzionalizzazione di un partito
S

M
e
iccolino
il

Lo studio della composizione e delle dinamiche di carriera delle élite politi-


e
ic

che è pertanto cruciale per comprendere il grado di istituzionalizzazione (in-


itr

tesa in termini di stabilità elettorale e organizzativa) e professionalizzazione


P

ed
ianluca
– per quanto riguarda le risorse finanziarie, la centralizzazione e la prevalen-
à

za di uno staff qualificato e specializzato sui volontari – di un partito politi-


et

co. Si può osservare un’evoluzione di tali caratteristiche nel corso del tempo?
ci
G

So

Come si collegano al successo elettorale del partito? L’analisi delle carriere


politiche è informativa non solo delle dinamiche fra i diversi livelli di gover-
by

no, ma anche all’interno delle singole arene, per studiare la concentrazione e


©

il radicamento territoriale del partito a livello regionale.


ht
ig

Vediamo la situazione dei consiglieri di Fratelli d’Italia nei consigli regionali e


yr

delle province autonome in carica al 15 aprile 2023, a partire dai dati ricavati
op

dai siti internet delle istituzioni attraverso una pluralità di fonti – pagine uf-
C

ficiali dei gruppi, resoconti delle assemblee, rendiconti dei gruppi consiliari,
Anagrafe degli amministratori locali e regionali e Archivio elettorale del mi-
nistero dell’Interno. In questa prima analisi, ci siamo concentrati sull’origine
elettorale dei 130 consiglieri presenti nei gruppi di FdI dividendoli in due ca-
tegorie: chi è stato eletto all’interno delle liste di Fratelli d’Italia e chi invece,
pur essendo stato eletto in altre liste elettorali, è trasmigrato in FdI nel cor-
so della consiliatura.

182
Questi dati ci dicono che i consiglieri eletti in altre liste sono 14 su 130,
ossia il 10,7% del totale. Se tale cifra può apparire relativamente contenuta,
occorre tuttavia considerare che i quattro consigli regionali che portano in
dote il maggior numero di consiglieri a Fratelli d’Italia – Lazio, Lombardia,
Sicilia e Friuli-Venezia Giulia – sono stati rinnovati nell’ultimo anno. In altri
termini, si tratta di consigli di recente insediamento dove i «riposizionamen-
ti» tra gruppi consiliari non sono ancora avvenuti. Non casualmente, i gruppi
di FdI in queste regioni non hanno al loro interno alcun consigliere eletto in

e
altre liste. Tuttavia, analizzando i consigli di queste regioni alla scadenza del-

or
la precedente consiliatura, possiamo notare come i gruppi di FdI non siano

ut
stati affatto immuni dal trasformismo, in specie negli ultimi anni delle consi-

l’a
liature. Sia nel Lazio sia in Lombardia i gruppi di FdI avevano al loro interno

r
pe
quattro consiglieri provenienti da altre liste e solo due «autoctoni», mentre
in Friuli-Venezia Giulia si assisteva a un pareggio tra due consiglieri eletti con

ia

F
FdI e due aggiunte esterne. Nessun «trasmigrato», invece, nel gruppo all’As-

op

ratelli
semblea regionale siciliana.

C
Nei gruppi di Fratelli d’Italia presso Camera e Senato alla fine del-

o.

d
in
la passata legislatura, i transfughi da altre liste erano 13, ossia il 21,3% del

’I
talia
ul
totale dei parlamentari di FdI. Di questi, circa la metà – 7 su 13 – prove-
M

niva dalle liste del Movimento 5 Stelle, mentre i restanti erano stati elet-

nei
il

ti nel centrodestra. Nei consigli regionali, sette transfughi sono stati elet-

C
e

onsigli
ic

ti nella Lega, tre in Forza Italia, tre in liste locali di centrodestra e solo uno
itr

nel M5S. In buona sostanza, se il trasformismo verso FdI ha interessato sia


ed

i gruppi parlamentari sia quelli regionali, tra i primi è stato rilevante l’ap-

regionali
à

prodo dei pentastellati in fuga per le cicliche tensioni interne al partito,


et

mentre i secondi hanno accolto un rimescolamento essenzialmente inter-


ci

no al centrodestra.
So

Si possono poi segnalare alcune situazioni particolarmente interes-


by

santi. Ad esempio, tutti i quattro consiglieri regionali di Fratelli d’Italia in


©

Basilicata sono stati eletti in altre liste. L’unico consigliere eletto dal par-
ht

tito in quella regione nel 2019 è successivamente passato al gruppo della


ig

Lega, per poi fondare un altro gruppo ancora. Una situazione simile si ritro-
yr

va dall’altra parte del Paese. Nella provincia autonoma di Trento, FdI ave-
op

va raccolto alle elezioni del 2018 un misero 1,45%, non sufficiente a ottene-
C

re alcun seggio. Oggi può invece contare su tre esponenti, due provenienti
dalla Lega e uno da una lista locale.
Infine, una nota sull’eguaglianza di genere. Attualmente FdI può
contare su 32 consigliere regionali, pari al 24,6% del totale. Si tratta di un
dato in linea con quello fornito dal ministero dell’Interno nella sua Anagra-
fe degli amministratori locali, che valuta in poco meno di un quarto la pro-
porzione femminile all’interno dei consigli regionali.

183
Abbiamo poi esplorato più in profondità i dati degli eletti nelle liste di
FdI a seconda dei loro incarichi elettorali, nazionali o locali, occupati nei cin-
que anni precedenti le elezioni per il consiglio regionale. Più in particolare,
abbiamo preso in considerazione l’affiliazione partitica al momento dell’ele-
zione nell’ultimo incarico ricoperto prima dell’elezione nel consiglio regio-
nale. Ci siamo in buona sostanza chiesti quanti consiglieri regionali erano
già stati «sperimentati» dal partito attraverso un mandato elettorale prima
dell’elezione al consiglio regionale e quanti, invece, non avevano esperien-

e
ze pregresse o sono trasmigrati in FdI dopo aver avuto un’esperienza ammi-

or
nistrativa sotto altre insegne, spesso in competizione proprio con le liste di

ut
Fratelli d’Italia. Abbiamo incluso nel computo dei mandati anche i casi di as-

l’a
sessori che non erano, contestualmente, anche eletti nel consiglio dell’ente.

r
pe
Anche se in questo caso non si può propriamente parlare di elezione, quanto
piuttosto di nomina, trattandosi comunque di casi piuttosto limitati ci riferi-

ia
remo sempre a «eletti» nel resto dell’articolo.

op
arini
C
o.
M

Quanti consiglieri regionali erano già stati sperimentati dal


ofia
in
partito e quanti, invece, non avevano esperienze pregresse?
ul
S

M
e
iccolino
il

Abbiamo ottenuto una classificazione con quattro categorie (si veda la tabel-
e

la alla pagina seguente). La prima include coloro che non avevano avuto al-
ic
itr

cun mandato nei cinque anni precedenti l’elezione del consiglio regionale.
P

ed
ianluca
La seconda categoria raggruppa chi era stato precedentemente eletto in li-
ste di Fratelli d’Italia. La terza categoria, invece, comprende gli eletti in par-
à
et

titi diversi da Fratelli d’Italia o senza affiliazione partitica al momento dell’e-


ci
G

lezione. Una questione si è posta per le liste civiche locali, in special modo
So

nei comuni minori. In questo caso, abbiamo accertato attraverso altre fon-
by

ti – principalmente stampa locale e biografie pubbliche – se gli eletti fossero


effettivamente membri di FdI oppure se avessero un’altra affiliazione al mo-
©

mento dell’elezione. In caso di confermata appartenenza a FdI, si è proceduto


ht
ig

a un’assimilazione nella seconda categoria, mentre in caso di assenza di affi-


yr

liazione a FdI gli eletti sono stati inseriti nella terza categoria. L’ultima ca-
op

tegoria riguarda coloro per cui non è stato possibile ricostruire l’affiliazione
C

partitica.
Questi dati ci dicono che il personale eletto da FdI nelle regioni è, in
larga parte, ben sperimentato. Solo il 14,7% degli attuali consiglieri regiona-
li non aveva avuto alcun mandato elettorale nei cinque anni precedenti l’ele-
zione in consiglio: si tratta in parte di neofiti assoluti delle assemblee eletti-
ve, in parte di politici locali che hanno saltato qualche giro prima di rientrare
in gioco nel consiglio regionale.

184
Eletti in liste FdI in base all’ultimo mandato nazionale/locale ricoperto nei cinque anni precedenti
l’elezione del consiglio regionale
Situazione al momento dell’elezione nell’ultimo mandato n. %
Nessun mandato nei cinque anni precedenti 17 14,7
Appartenente a Fratelli d’Italia 49 42,2
Appartenente a partito diverso o indipendente in lista civica 47 40,5
Appartenenza partitica al momento dell’elezione sconosciuta 3 2,6
Totale 116 100,0
Fonte: Elaborazione degli autori basata su informazioni di consigli regionali, ministero dell’Interno e stampa

e
locale.

or
ut
I dati sulle affiliazioni partitiche gettano invece ulteriore luce sulla

l’a
mobilità politico-elettorale del ceto politico di Fratelli d’Italia nelle regioni.

r
Solo il 42,2% era stato eletto in un qualche incarico con FdI prima delle ele-

pe
zioni regionali. Non mancano, anche in questa categoria, casi di trasformi-

ia
smo piuttosto eclatanti. Ad esempio, l’attuale capogruppo di FdI in Calabria

F
op

ratelli
è al secondo mandato con il partito, ma era già stato eletto in consiglio regio-

C
nale nel 2014 nella coalizione di centrosinistra. Un consigliere dell’Assemblea

o.

d
regionale siciliana era stato eletto pochi mesi prima consigliere comunale a
in

’I
talia
ul
Palermo nelle liste di FdI, ma sedeva a Palazzo delle Aquile già dal 2017 dopo
M

essere stato eletto in una lista civica a sostegno di Leoluca Orlando.

nei
il

C
e

onsigli
ic

Diversi amministratori di piccoli comuni, eletti in liste civiche,


itr

che hanno poi aderito a FdI per fare il grande salto


ed

verso la regione

regionali
à
et

Molto vicino a questa categoria è il dato di chi era stato eletto in un manda-
ci
So

to locale/nazionale al di fuori del partito prima dell’elezione in consiglio re-


gionale, pari al 40,5%. Si tratta di personale politico con provenienze molto
by

variegate e che sfugge a classificazioni nette. Diversi sono i casi di trasfor-


©

mismo che potremmo definire «blando», ossia amministratori di piccoli co-


ht

muni eletti in liste civiche, senza affiliazione partitica, che hanno successi-
ig

vamente aderito a Fratelli d’Italia per fare il grande salto verso la regione.
yr

Inoltre, su questo dato influisce l’adesione a FdI, nel corso del tempo, di due
op

formazioni con un buon radicamento territoriale, ossia il gruppo di Raffae-


C

le Fitto in Puglia e #DiventeràBellissima di Nello Musumeci in Sicilia. Non


mancano, poi, alcuni eletti che avevano avuto una pregressa storia all’inter-
no di Alleanza nazionale e sono «ritornati a casa» in anni recenti dopo essere
transitati per qualche anno in Forza Italia o nella Lega allo scioglimento del
Pdl. In molti altri casi, si tratta di rappresentanti radicati nei territori – sin-
daci di medi comuni, ex presidenti di provincia, consiglieri regionali uscen-
ti etc. – senza alcun legame con il retroterra politico del partito, in rotta con

185
gli altri partner di coalizione dopo aver spesso attraversato una girandola di
sigle di centrodestra negli anni precedenti.
Il partito di Meloni è stato dunque molto generoso nell’aprire le por-
te a personale politico che non si è formato al proprio interno. In buona so-
stanza, se teniamo in considerazione i consiglieri regionali eletti in altre liste
e quelli eletti nelle liste di FdI con una pregressa storia amministrativa ester-
na al partito, poco meno della metà – 61 su 130 – degli attuali consiglieri re-
gionali di Fratelli d’Italia è stato eletto nel recente passato in concorrenza con

e
le liste del partito o, comunque, al di fuori dello stesso. Se a questi aggiungia-

or
mo i consiglieri che non avevano avuto mandati nei cinque anni precedenti

ut
l’elezione in consiglio, possiamo rilevare come la maggioranza assoluta degli

l’a
attuali consiglieri regionali di Fratelli d’Italia non è stata «sperimentata» dal

r
pe
partito con un altro mandato sotto le sue insegne prima dell’elezione in con-
siglio regionale.

ia
Il trasformismo nei consigli regionali non è certo una prerogativa

op
arini
esclusiva di Fratelli d’Italia, né un fenomeno sconosciuto alla letteratura.

C
Tuttavia, questi dati segnalano la debolezza del principale partito di gover-

o.
M
ofia
in
no nell’accompagnare la crescita elettorale dell’ultimo biennio con la costru-
ul
zione di una classe dirigente regionale e la necessità di ricorrere a vari inne-
S

M
e
sti esogeni per fronteggiare queste mancanze.
iccolino
il

Nonostante l’enfasi posta nel rimarcare la continuità con la sua tradi-


e
ic

zione politica e nel presentarsi come un partito realmente ancorato nel terri-
itr

torio e nella società, questi dati lasciano aperti molti interrogativi sulla fedel-
P

ed
ianluca
tà del ceto politico regionale del partito e sulla capacità di FdI di esprimere
à

una propria classe dirigente, quanto meno a livello locale. L’effetto bandwag-
et

on, se può portare a dei vantaggi nel breve periodo, rischia tuttavia di com-
ci
G

promettere la solidità del partito nel lungo termine. Molte delle nuove adesio-
So

ni sono state evidentemente dettate da considerazioni contingenti piuttosto


by

che da un convinto sostegno alla linea ideologica e programmatica di FdI. Un


©

rischio soprattutto in casi di rovesci elettorali futuri per il partito di Meloni,


ht

data la propensione alla «mobilità» dimostrata nel recente passato da questi


ig

attori politici.
yr
op
C

GIANLUCA PICCOLINO è assegnista di ricerca SOFIA MARINI è dottoranda di ricerca presso


presso l’Istituto Diritto, politica, sviluppo della l’Università di Vienna (Department of Government).
Scuola Superiore Sant’Anna.

186
C
op
yr
ig
ht
©
by
So
ci
D
et
à
ed
itr
ic
e
il
M

187
Israele

ul
in

ANNA
o.
C
ISRAELE

op
ia
pe

MOMIGLIANO
r l’a
ut
E LA EMOCRAZIA

or
e
artiamo da due a eddoti, u o serissimo e l’altro faceto. Verso la fine

e
or
P
n
n
degli anni Sessanta, quando Israele aveva da poco iniziato l’occupazione mili-

ut
tare dei Territori palestinesi, il ministro delle Finanze, Pinhas Sapir, si scon-

l’a
trò col ministro della Difesa, Moshe Dayan. Sapir provò, invano, a convincere

r
pe
Dayan che i Territori andavano restituiti al più presto: «Se continuiamo a te-
nere i Territori, prima o poi i Territori terranno in pugno noi» (cit. in P. Bei-

ia
nart, The Crisis of Zionism, Times Books, 2012). Mezzo secolo dopo, mentre

op
Israele è in un momento di crisi profonda della sua democrazia – o, meglio,

C
di quel sistema ricco di contraddizioni che può essere descritto come una de-

o.
mocrazia parziale, applicata solo in una parte del territorio che Israele con-
in
omigliano
ul
trolla, e pure lì con le sue peculiarità: un po’ di pazienza, ci arriviamo –, l’av-
M

vertimento si è rivelato premonitore.


il

Ma c’è un altro episodio, più recente, che dice molto su uno dei para-
e
M

dossi della situazione politica. Nel marzo del 2021, a ridosso delle penultime
ic
nna
itr

elezioni (si è votato nuovamente nel 2022), il programma televisivo satiri-


ed
A

co Eretz Nehederet mandò in onda una (finta) intervista a tale Shauli, per-
à

sonificazione dell’uomo di strada. Shauli spiega di non avere votato, perché,


et

dice, l’unica soluzione alle divisioni che squassano il Paese è una guerra civi-
ci

le. «Facciamo ashkenaziti contro sefarditi. Quelli di destra contro quelli di si-
So

nistra. Ricchi contro poveri, religiosi contro laici. Tutti contro tutti. Tranne
by

gli arabi, eh: loro stanno a guardare e poi magari combattono contro il vinci-
©

tore». Lo sketch coglie una miopia tipica della società israeliana, dove la que-
ht

stione palestinese è vista come un problema esterno, anziché esistenziale, e


ig

sempre rimandabile a un secondo momento.


yr
op
C

Una miopia tipica della società israeliana: la questione


palestinese è vista come un problema esterno, sempre
rimandabile a un secondo momento

Inquadrare, con un approccio analitico, quello che sta succedendo in Israele


e nei Territori palestinesi in questi ultimi mesi – che, a sua volta, è il risultato
di ciò che è successo negli ultimi cinquant’anni – è un obiettivo ad alto rischio

188
di fallimento. La questione è così complessa che si rischia sempre di lasciar-
ne fuori un pezzo, facendo torto a qualcuno; ma vale la pena tentare, perché
stanno succedendo due cose, di portata epocale, e collegate fra loro in modo
non immediato: da un lato il collasso della Linea Verde che separa Israele dai
Territori palestinesi, dall’altro il collasso della democrazia di Israele, dentro
la Linea Verde, nei suoi confini internazionalmente riconosciuti.

Cinque cose da mettere in chiaro. Per inquadrare questo doppio collasso avrem-

e
mo bisogno di compiere alcune operazioni che potrebbero mettere a disagio.

or
Le riassumerò brevemente, per poi analizzarle più in là. Primo: riconoscere

ut
che, da quando Israele occupa i Territori, di fatto esistono due Israele: da un

l’a
lato un’Israele democratica, all’interno della Linea Verde, dove tutti gli abi-

r
pe
tanti godono di cittadinanza e di uno Stato di diritto, sebbene una minoran-
za sia palesemente discriminata; e dall’altro un’Israele non democratica, vale

ia
a dire i Territori palestinesi che Israele controlla, dove si applicano due leggi

op
diverse a due popolazioni: gli israeliani, per i quali vige la legge israeliana, e i

C
palestinesi, sotto la legge marziale.

o.

I
sraele
in
Secondo: prendere atto che la Linea Verde sta evaporando. Un tempo
ul
c’era la percezione che l’Occupazione fosse un fatto temporaneo, che l’Auto-
M

e
rità nazionale palestinese rappresentasse l’embrione di uno Stato futuro; ma

la
il

la realtà è diversa, il controllo di Israele sui Territori è un fatto permanente,

d
e

emocrazia
ic

i poteri dell’Anp sono ridotti all’osso, mentre, per i cittadini israeliani, il con-
itr

fine è praticamente scomparso. Stiamo passando da un’ottica della soluzione


ed

«due Stati per due popoli» a un unico Stato di fatto, un’annessione non for-
à

malizzata.
et

Terzo: ammettere che, visto che c’è questa One-State Reality, come va
ci

di moda chiamarla ora, e che in questo unico-Stato-di-fatto c’è una parte del-
So

la popolazione che non gode dello Stato di diritto, allora la questione pale-
by

stinese può essere guardata da un’ottica diversa: non più una questione ter-
©

ritoriale, o di indipendenza, ma una questione di diritti civili e democrazia.


ht
ig
yr

L’annessione di fatto della Cisgiordania ha creato


op

una nuova realtà sul campo, dove c’è un unico Stato


C

che applica due leggi diverse

Quarto: riconoscere che anche nell’Israele democratica, quella all’interno dei


confini riconosciuti, la democrazia sta vacillando, come si è visto col tenta-
tivo di Netanyahu di relegare ai margini la Corte suprema, che ha scatenato
proteste oceaniche (mentre scrivo non posso sapere gli esiti di queste prote-
ste né della riforma).

189
Infine, quinto: provare a capire se questa crisi dell’Israele democrati-
ca abbia a che fare con il consolidamento dell’Occupazione: può forse essere
che, come predetto da Sapir, il regime non-democratico dei Territori abbia fi-
nito per contagiare quello democratico, dentro i confini legali?

Due leggi per due popoli. A questo punto tocca fare una digressione sull’Occu-
pazione, fatti che molti conoscono già, ma che è importante ribadire. Con la
Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, Israele ha sottratto ai Paesi arabi vicini (Egit-

e
to, Siria e Giordania) svariati territori: all’Egitto Sinai e Striscia di Gaza, alla

or
Siria le alture del Golan, alla Giordania Gerusalemme Est e la Cisgiordania (o

ut
West Bank). Il Sinai fu restituito all’Egitto, quindi archiviamolo. Per i restan-

l’a
ti territori conquistati, Israele scelse due strade: alcuni li annesse, offrendo

r
pe
la cittadinanza ai loro abitanti, altri si limitò a occuparli militarmente. Go-
lan e Gerusalemme Est furono annessi. Da notare che la comunità interna-

ia
zionale non riconosce questa annessione, che è appunto considerata illega-

op
le; inoltre la maggioranza degli abitanti arabi rifiutò l’offerta di cittadinanza

C
(sebbene nel Golan recentemente sia aumentato il numero di persone che

o.
in
l’hanno chiesta). Il punto è che il Golan, in particolare, può essere inquadra-
omigliano
ul
to come una questione, per così dire, territoriale: una nazione invade un’al-
M

tra, si prende alcuni territori e li ingloba, in quelle aree annesse vige una sola
il

legge, uguale (almeno in teoria) per tutti e le popolazioni locali sono ritenute
e
M

ic

degne di cittadinanza, al pari (sempre in teoria) di quelle della nazione con-


nna
itr

quistatrice. La situazione è illegale, certo, ma assai diversa da quella che in


ed
A

genere abbiamo in mente quando parliamo di Territori occupati.


à

Per Gaza e Cisgiordania Israele scelse l’occupazione militare. I Territo-


et

ri palestinesi non furono annessi, un po’ perché si pensava che sarebbe stata
ci

una cosa temporanea, e un po’ perché di assorbire tutta quella popolazione


So

palestinese Israele non aveva alcuna voglia (sì, parliamo di Territori palesti-
by

nesi anche se a quel tempo appartenevano a Egitto e Giordania perché era lì


©

che l’Onu avrebbe voluto, fin dal 1948, uno Stato palestinese. Poi che la po-
ht

polazione si consideri palestinese è fuori di dubbio). Questo ebbe una conse-


ig

guenza importante: occupazione militare significava applicare la legge mar-


yr

ziale ai palestinesi che ci abitavano.


op

E i coloni? Nel 1967 Israele varò i cosiddetti «regolamenti di emergen-


C

za» che estendevano l’applicazione delle leggi israeliane agli israeliani che vi-
vono nei Territori palestinesi: un cittadino israeliano che commette un crimi-
ne in Cisgiordania sarà processato secondo il diritto israeliano, proprio come
se si trovasse in Israele; un cittadino israeliano residente nella West Bank
paga le tasse, fa il servizio militare e vota proprio come se risiedesse in Isra-
ele. Questi «regolamenti di emergenza» devono essere rinnovati dal Parla-
mento ogni cinque anni: l’ultimo rinnovo, del 2022, ha causato la caduta del

190
governo Bennett-Lapid. E svelano una contraddizione: Israele non ricono-
sce la Cisgiordania come suo territorio (come a dire: «mica l’abbiamo annes-
sa!») ma tratta i suoi cittadini che ci vivono come se vivessero in Israele. Un
esempio: un israeliano può votare nelle colonie, anche se Israele, a differen-
za dell’Italia, non riconosce il voto all’estero, cosa che rende l’idea di come i
Territori non siano proprio visti come «estero».

In principio i coloni erano numericamente trascurabili:

e
nei primi dieci anni dell’Occupazione meno di cinquemila.

or
Oggi nella sola Cisgiordania superano il mezzo milione

ut
l’a
In principio i coloni erano numericamente trascurabili: l’ong israeliana

r
pe
Peace Now stima che nei primi dieci anni dell’Occupazione erano meno di

ia
cinquemila. Oggi nella sola Cisgiordania superano il mezzo milione (i coloni

op
di Gaza sono stati evacuati: la situazione nella Striscia meriterebbe un discor-

C
so a parte che qui non possiamo fare). Il risultato è che, oggi, nella West Bank

o.

I
vivono circa tre milioni di palestinesi e circa un milione di israeliani: due po-

sraele
in
polazioni che vivono nello stesso territorio, di fatto controllato dallo stesso
ul
governo, a cui vengono applicate due leggi diverse. Ora, applicare due leggi
M

e
diverse a due popolazioni che convivono nello stesso territorio e sotto lo stes-

la
il

so governo è la quintessenza dell’assenza di democrazia.

d
e

emocrazia
ic
itr

L’occupazione permanente. Alcuni contesteranno l’affermazione che la Cisgior-


ed

dania è controllata da un solo governo, quello israeliano. Ma come, non c’è


à

l’Autorità nazionale palestinese? Il fatto è che l’Anp è stata creata negli anni
et

Novanta, durante il processo di pace, come ente transitorio in vista di un fu-


ci
So

turo Stato palestinese; che non ha mai avuto il controllo totale del territorio;
e che negli ultimi anni la sua già scarsa autonomia si è ridotta notevolmen-
by

te. Nelle zone della Cisgiordania dove l’Anp gode di maggiori poteri, la cosid-
©

detta «area A», che include Ramallah, Betlemme e Jenin, l’esercito israeliano
ht

svolge regolarmente raid. Nel resto della West Bank Israele ha il controllo to-
ig

tale («area C») o quasi totale («area B»).


yr

Insomma, la realtà sul campo è che la vita degli abitanti palestine-


op

si della Cisgiordania è controllata dal governo israeliano tanto quanto lo è


C

quella dei cittadini israeliani nello stesso territorio, ma lo è in modo infinita-


mente più brutale e senza che i diretti interessati eleggano le autorità che de-
cidono delle loro vite. In Cisgiordania il potere vero lo detiene il governo isra-
eliano, e quel governo lo eleggono gli israeliani, inclusi quelli che vivono nelle
colonie, mica i palestinesi. Questa situazione, come vedremo, può essere in-
quadrata in modo assai diverso, a seconda che si veda l’Occupazione come
una cosa transitoria o permanente.

191
A lungo, nelle cancellerie occidentali, si è dato per scontato, o si è fin-
to di dare per scontato, che l’Occupazione fosse transitoria. L’esistenza stes-
sa dell’Anp deriva dal presupposto che gli israeliani se ne andranno; lo stesso
vale per la formula «due Stati per due popoli»; ogni volta che sentite parla-
re di «processo di pace» è sempre a quel presupposto che si fa riferimento. Il
problema è che quel presupposto si è rivelato una pia illusione. Israele con-
trolla la Cisgiordania da più di cinquant’anni e ha dimostrato di non avere al-
cuna intenzione di andarsene. Muoversi attraverso la Linea Verde è diven-

e
tato sempre più facile per gli israeliani, mentre i coloni, oltre ad aumentare

or
a dismisura, godono di un crescente peso e prestigio nella società israeliana.

ut
Un recente articolo di «Foreign Affairs» (M. Barnett, N. Brown, M. Lynch e S.

l’a
Telhami, Israel’s One-State Reality, «Foreign Affairs», maggio-giugno 2023) fa

r
pe
bene il punto della situazione: «La Palestina non è uno Stato in fieri e Israele
non è uno Stato democratico che, incidentalmente, occupa del territorio pa-

ia
lestinese», scrivono gli autori. «Lo status temporaneo dell’Occupazione dei

op
Territori palestinesi è oggi una condizione permanente in cui uno Stato, go-

C
vernato da un popolo, governa su un altro popolo».

o.
in
omigliano
ul
Il framing dell’apartheid. Il fattore temporale è cruciale. Se il controllo israelia-
M

no sui Territori palestinesi è temporaneo, allora lo si può inquadrare princi-


il

palmente in termini di diritti umani – i soprusi sui palestinesi sono un fatto e


e
M

ic

il 2022 è stato l’anno più letale dai tempi della Seconda Intifada – e di confini
nna
itr

nazionali: Israele deve restituire dei territori che non sono suoi. Se invece si
ed
A

guarda l’Occupazione come una realtà permanente, giusta o sbagliata che sia,
à

allora la cosa si può leggere anche in un’ottica di diritti politici e civili: per-
et

ché gli israeliani residenti in Cisgiordania hanno diritto a un processo equo e


ci

a votare, mentre i palestinesi no?


So
by

Perché gli israeliani residenti in Cisgiordania hanno diritto


©

a un processo equo e a votare, mentre i palestinesi no?


ht
ig
yr

Ecco perché si sta facendo strada sempre più, anche in ambienti non anti-i-
op

sraeliani (e persino anche in qualche ambiente sionista!), il cosiddetto fra-


C

ming dell’apartheid. Ora, va detto che la stessa parola può essere utilizzata in
modi diversi. Le accuse di apartheid sono a lungo state utilizzate per criticare
l’esistenza stessa di Israele, sulla falsa riga della risoluzione Onu del 1975 che
dichiarava il sionismo «una forma di razzismo»: per chi usa la parola «apar-
theid» in questo senso, il problema è l’esistenza stessa di uno Stato ebraico,
che abbia un rapporto privilegiato con il popolo ebraico. Volendo, si potreb-
be aprire una discussione seria sugli Stati nazionali e sulla loro compatibili-

192
tà con la democrazia come molti l’intendono oggi, ma non credo sia quello
l’intento di chi utilizza il termine apartheid in questa accezione, fortemente
anti-israeliana. In ogni caso, non è di questa accezione che stiamo parlando.
Negli ultimi anni si è diffusa l’analogia dell’apartheid per descrivere
l’applicazione di due leggi diverse a israeliani e palestinesi sullo stesso ter-
ritorio e, ancora più, la One-State Reality, insomma il fatto che la Cisgior-
dania è stata annessa di fatto a Israele senza che i suoi abitanti palestinesi
godano dei diritti politici e civili. È utilizzata, in questi termini, dall’ong isra-

e
eliana B’tselem e dal quotidiano «Haaretz», dove peraltro molte delle firme

or
si dichiarano sionisti di sinistra (si può essere sionisti e pensare che imporre

ut
un regime anti-democratico a un altro popolo sia sbagliato). Questa lettura

l’a
è stata criticata da molti commentatori pro israeliani, ma anche da qualche

r
pe
analista filo palestinese. Per esempio, Francesca Albanese, Special Rappor-
teur Onu per i Territori Palestinesi, sostiene che «un focus esclusivo sul re-

ia
gime di apartheid israeliano omette l’illegalità intrinseca dell’Occupazione»

op
(Rapporto all’Onu datato 21 settembre 2022). Come a dire: se vedo il proble-

C
ma in termini di diritti, proprio come nel Sudafrica dell’apartheid, dimentico

o.

I
sraele
le aspirazioni palestinesi all’indipendenza.in
ul
M

e
La crisi dell’Israele democratica. Inquadrato quanto sta accadendo nei Territo-

la
il

ri, in quella che abbiamo definito l’Israele non democratica, resta da capire

d
e

emocrazia
ic

cosa sta succedendo nell’Israele stricto sensu, quella all’interno dei confini in-
itr

ternazionalmente riconosciuti, che si può dire, tutto sommato, democratica.


ed

Una democrazia debole, con molte, moltissime pecche (per citarne una, la
à

legge del 2003 che vieta la riunificazione familiare per i palestinesi dei Ter-
et

ritori sposati con palestinesi di cittadinanza israeliana), ma pur sempre una


ci

democrazia. Lì sta succedendo quello che è successo nell’Ungheria di Viktor


So

Orbán, un’erosione della democrazia, prima graduale e poi tutta d’un colpo.
by

Qualche esempio. Nel 2018 c’è stata l’approvazione della Legge Base, cioè con
©

valore quasi-costituzionale, che stabiliva lo status di Israele come Stato na-


ht

zionale del popolo ebraico, che tra le altre cose promuove, all’articolo 7, «lo
ig

sviluppo di insediamenti ebraico come un valore nazionale». Nel 2022 il go-


yr

verno israeliano ha dichiarato fuorilegge sei ong palestinesi, inclusa Adda-


op

meer, che si occupa del trattamento dei prigionieri nelle carceri israeliane. A
C

gennaio di quest’anno le autorità hanno proibito la presenza di bandiere pa-


lestinesi in qualsiasi luogo pubblico.
Poi, naturalmente, c’è la riforma giudiziaria voluta da Benjamin Ne-
tanyahu, che, se approvata (mentre scrivo, la partita ancora non è chiusa),
avrebbe una portata eccezionale, tanto che «Haaretz» l’ha definito «un golpe
giudiziario». Si tratta di una serie di leggi che ridurrebbero ai minimi termini
i poteri e l’indipendenza della Corte suprema. Una permetterebbe alla Knes-

193
set, il Parlamento unicamerale, di annullare qualsiasi decisione della Corte
suprema, anche con una maggioranza di appena 61 deputati su 120. Un’altra
vieterebbe alla Corte suprema di bocciare qualsiasi legge dichiarata una Leg-
ge Base (più in là spieghiamo cosa sono). Una terza legge del pacchetto cam-
bierebbe il modo in cui sono nominati i giudici della Corte suprema: oggi la
nomina spetta a una commissione composta da rappresentanti politici, giu-
dici e avvocati, ma Netanyahu vorrebbe dare al governo, cioè a se stesso, una
maggioranza.

e
or
ut
Intanto nell’Israele democratica, quella all’interno dei confini

l’a
riconosciuti, la democrazia è sotto attacco

r
pe
Per capirne la rilevanza, bisogna avere un’infarinatura sul sistema politico

ia
israeliano, una democrazia parlamentare che non ha molti checks and balan-

op
ces. Parlamento e governo tendono a essere spesso, per quanto non sempre,

C
allineati, inoltre non c’è una Costituzione, ma solo delle Leggi Base che hanno

o.
un valore, più o meno, costituzionale: per esempio, la Legge Base del 1992, Di-
in
omigliano
ul
gnità umana e libertà, stabilisce che «Israele è uno Stato ebraico e democrati-
M

co» e che ogni essere umano ha diritto alla sicurezza, alla libertà e al rispetto
il

della sua proprietà. In questo contesto la Corte suprema, che si rifà alle Leggi
e
M

Base, è il solo vero contropotere al governo, tanto che ha talvolta dichiarato


ic
nna
itr

anti-costituzionali quel genere di cose che certi governi israeliani amano fare,
ed
A

per esempio confiscare case ai palestinesi: proprio lo scorso aprile, ha blocca-


to lo «sfratto» di una famiglia palestinese dalla casa di sua proprietà a Geru-
à
et

salemme Est. Va detto che, se in molti casi la Corte ha fatto valere i principi
ci

democratici, secondo la Legge Base del 1992 citata poco sopra, in altrettan-
So

ti ha chiuso un occhio, e che finora è stato un argine, non un freno, ai soprusi


by

e a certe tendenze autoritarie. Se Netanyahu riuscisse nel suo intento di ren-


derla irrilevante, il potere del governo sarebbe illimitato, così come il margi-
©

ne per violare qualsiasi principio dello Stato di diritto.


ht
ig
yr

Democrazia per tutti o solo per qualcuno? Gli israeliani hanno risposto con una
op

forza incredibile. Si sono viste manifestazioni oceaniche, con picchi di qua-


C

si mezzo milione di partecipanti, in un Paese con nove milioni di cittadini,


e con una costanza notevole: mentre scrivo, sta iniziando la diciassettesima
settimana consecutiva di proteste. Insomma, gli israeliani hanno dimostra-
to di tenere parecchio alla loro democrazia. Tuttavia, una delle critiche mos-
se a queste manifestazioni è che esse sembrano trascurare del tutto il tema
dell’Occupazione, che, come abbiamo provato a spiegare qui sopra, è precisa-
mente un tema di democrazia.

194
A dire il vero, molti degli israeliani anti-Occupazione (o, se preferite,
«il campo della democrazia per tutti») hanno partecipato alle proteste, ma
sono restati una minoranza nell’enorme blocco trasversale unito sotto la ban-
diera anti-riforma. Sulla testata israeliana ultra-progressista «972», Natalie
Davidson e Limor Yehuda hanno spiegato così la loro decisione di partecipa-
re: «Crediamo che Israele abbia già stabilito una forma di apartheid, eppure
vediamo la riforma giudiziaria come un fatto estremamente grave […]. Dob-
biamo capire che la democrazia e l’autocrazia esistono su uno spettro». Il ra-

e
gionamento è che, tornando alla nostra divisione in due Israele, vale la pena

or
di difendere l’Israele democratica anche se questo non cambia molto per l’I-

ut
sraele non democratica, salvo togliere un debole argine alla brutalità dell’Oc-

l’a
cupazione: oggi niente più Corte suprema che blocca alcuni espropri, forse

r
pe
domani niente più stampa indipendente.
Resta la contraddizione di una difesa energica, coraggiosa e genuina

ia
della democrazia, che resta, per lo più, organica a un sistema in cui la demo-

op
crazia vale solo per alcuni. Gli ottimisti hanno ipotizzato che la vicenda ha

C
avuto il pregio di sollevare questa contraddizione: «Forse queste migliaia di

o.

I
sraele
in
persone che sono scese in piazza hanno imparato un linguaggio nuovo e non
ul
vorranno tornare allo status quo» scrive Meron Rapoport sempre su «972».
M

e
Che gli israeliani lo abbiano capito o meno, non saprei dirlo. Quello che è cer-

la
il

to è che non è sostenibile lo status quo, inteso come le due Israele, una nazio-

d
e

emocrazia
ic

ne democratica che governa una sua appendice in modo anti-democratico.


itr

Sapir aveva ragione, i Territori conquistati hanno conquistato, a loro modo,


ed

Israele: mentre i confini tra Cisgiordania e Israele sono sempre più labili, la
à

natura anti-democratica dell’Occupazione ha avvelenato la democrazia isra-


et

eliana.
ci
So
by
©
ht
ig
yr
op
C

ANNA MOMIGLIANO ha scritto per «Washington


Post» e «Haaretz» e collabora con «New York
Times» e «Foreign Policy».

195
L’anno scorso a Marienbad

L’ULISSE

e
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I BIL’IN

rl’a
pe
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o.
in
ul
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il
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itr
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ig
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op
C

ROBERTA
E MONTICELLI
D
196
i il’i mi resterà il ricordo di una minuscola oasi di umanità e speran-
D
B
n
za: il luogo di una storia, una fra mille, che ci vorrebbe un piccolo Omero

e
or
a cantarla, anzi uno di quegli omeridi della dinastia mediterranea dei can-

ut
tastorie che ancora mezzo secolo fa magnificavano le gesta d’armi e d’amo-

l’a
re dei cavalieri antichi. Forse proprio un puparo siciliano ci vorrebbe, ma

r
pe
all’altezza dei nostri tempi e del loro mainstream di indecifrabile indifferen-
za al male, un male per lo più legalizzato. Un puparo capace di accendere

ia
qualche lampo d’intelligenza e d’ironia sulla scena tragica di questa terra di

op
Palestina, anzi di più: di proiettare un pirandelliano bagliore di umorismo,

C
il sentimento del contrario e dell’incongruo, sul fondale nero dell’ingiustizia

o.
e della violenza impunita. in
ul
M

UNA PICCOLA OASI


il

Bil’in, nel mezzo della Cisgiordania o West Bank, a meno di una dozzina di
e

chilometri a Ovest di Ramallah, si trova a circa quattro chilometri a Est della


ic
itr

Green Line (la partizione Onu del 1947, il confine virtuale anteriore al 1967):
ed

per una lezione rapida sul modo in cui funziona l’Architettura dell’occupazio-
ne [01] è un posto perfetto da visitare. Nonostante con la sentenza consultiva del
à
et

2004 la Corte internazionale dell’Aja avesse dichiarato contraria alla legge la


ci

costruzione del muro da parte di Israele all’interno dei Territori occupati, il


So

tracciato di quel sistema di muri, barriere e strade a esclusiva percorrenza


by

israeliana, insinuandosi in profondità nel territorio palestinese riconosciuto


©

(invano) dagli accordi di Oslo del 1993-1995, era destinato a spaccare in due
l’area del villaggio, privandolo del 60% dei suoi terreni agricoli.
ht
ig

Eppure Bil’in ci era apparsa – quel 3 gennaio 2023, forse la giornata più lun-
yr

ga, forse la più intensa del nostro viaggio di conoscenza in Palestina – quasi
op

come una piccola oasi anche del paesaggio, con la sua strada sterrata e la sua
C

collinetta così ben tenuta, gli alberi, i muretti, i sentieri, i minuscoli orti per
la coltivazione «organica». Insomma, quel mezzo chilometro di spazio respi-
rabile, anche dalla parte della marea avanzante di cemento e di protervia. Ma
questa è una parte della storia da raccontare e prima occorre farsi un’idea del
mondo in cui si svolge.
Un’oasi, sì, ma tanto minuscola quanto incombente. Nella cerchia più pros-
sima dell’orizzonte, ci era subito apparso l’enorme insediamento edilizio dei

197
coloni israeliani: Matityahu East, sobborgo orientale di Modi’in Illit, che «Ha-
aretz» aveva descritto già nel 2007 come «il più grande progetto di insedia-
mento edilizio illegale di sempre», e che in questi venticinque anni è cre-
sciuto ancora a dismisura, se ospita qualcosa come 100 mila coloni. Bisogna
guardarla, la carta geografica dell’area, per farsi un’idea della sproporzione
fra la città e i minuscoli villaggi cui questa smisurata proliferazione urbana
ha sottratto quasi tutta la terra – magra terra di ulivi e di orti – di cui gli abi-
tanti vivevano: Bil’in il più a ridosso, ma poi Deir Qaddis, Kharbatha Bani Ha-

e
rith, Ni’lin. Bisogna guardarli, minuscoli sulla carta, circondati dalle tortuose

or
volute del muro che li separa dalla gran parte delle loro terre e al contem-

ut
po condanna queste a diventare «terra morta» – e vedremo cosa questo esat-

l’a
tamente significa [02] – ma non certo «terra vuota», come nel sogno di Chaim

r
pe
Weizmann, presidente del Congresso sionista mondiale e primo presidente
dello Stato d’Israele: l’uomo che nel 1914 aveva reso popolare l’idea onirica

ia
di «un Paese senza popolo per un popolo senza terra» [03].

op
C
IL PARA OSSO ELLA CITTÀ EL LIBRO

o.
onticelli
D
D
D
in
E qui già ti colpisce, come ovunque in Palestina, un profondo paradosso le-
ul
gato alla topografia israeliana, con il suo sapore di centrifugato di geografia
M

biblica (ma anche spirituale e universale: il pozzo della Samaritana, la tom-


M

il

ba di Abramo, la città di Maria, la culla di Gesù) e cartina geopolitica. Che


De
e
ic

quasi quasi li capisci, quegli ebrei ultra-ortodossi dalle amicizie infrequen-


oberta
itr

tabili, quelli di Neturei Karta che Ben Gvir vuole deportare in Siria, perché
ed

agitano la bandiera palestinese appena bandita dagli spazi pubblici israelia-


R

ni dal nuovo ministro. Già: loro detestano la contaminazione del sacro e del
et

profano, della salvezza di Israele che solo il Messia porterà e dello Judenstaat
ci

di Theodor Herzl [04], lo Stato degli ebrei (e non di tutti i suoi cittadini, come
So

Netanyahu ha tenuto a ribadire recentemente [05]). E come non dar più ragio-
by

ne a loro, su questo punto, che agli altri e ben più numerosi ebrei ultra-or-
©

todossi insediatisi invece a Kiryat Sefer, il nucleo originario di Modi’in Illit,


ht

nel 1994 (nel pieno degli accordi di Oslo).


ig

Kiryat Sefer: la Città del Libro! Niente somiglia di meno all’idea che questo
yr

luminoso nome convoglia – al punto che qui, proprio nella pesantezza ma-
op

teriale e nella distopica accumulazione dell’agglomerato, nel volume, nella


C

densità, nell’estensione di queste masse edilizie, senti veramente non solo


avvilita, ma positivamente e quasi diabolicamente irrisa e profanata questa
idea, se la conosci.
Perché le religioni del Libro sono quelle che si basano sulla rivelazione di un
unico Dio – la sua «parola», e a questa più che allo specifico libro che la rac-
coglie (Torah, Antico e Nuovo testamento, Corano) si riferisce l’espressione.
Se c’è un punto che questa espressione vuole enfatizzare come comune alle

198
tre religioni è proprio la trascendenza del divino che in essi si annuncia: cosa
che in termini semplici significa la sua immaterialità, nel senso di inafferra-
bilità per mezzo dei sensi, delle mani, dei concetti umani. «Non nominare il
nome di Dio invano» – un precetto forse ancora più forte nell’ebraismo (e per
quanto riguarda il divieto di farne immagini nell’Islam) – non proibisce cer-
to la vanità nel senso di «vacuità» dei discorsi e delle immagini: non sono la
vanitas o i suoi equivalenti nelle lingue dei testi sacri a essere presi di mira da
questo comandamento, già a partire da quell’«invano» che traduce una radi-

e
ce ebraica tutta diversa da quella che nel Qohelet significa «vanità delle va-

or
nità» (habel habaim), soffio, nulla. Quest’altra parola (shav) significa inve-

ut
ce «inganno», «falsità», «malizia»: insomma, la proibizione colpisce la truffa

l’a
demoniaca di usare il nome di Dio per affari troppo umani [06]. E qui, dove il

r
pe
nome di Dio pare serva al marketing delle imprese edilizie, il senso di blasfe-
mia aggriccerebbe le viscere di chiunque, atei compresi.

ia
op
C
Qui, dove il nome di io pare serva al marketing

o.
D
delle imprese edilizie, il senso di blasfemia aggriccerebbe
in
le viscere di chiunque

L’U
ul
M

lisse
il

Più in generale il divieto è quello di mettere le mani sul divino, di usarlo a


e

d B ’
i
scopi politici, di farne strumento di regno o di potere: di metterlo sulle ban-
ic

il
itr

diere, dove – come usava dire Simone Weil – i nomi di dio diventano «paro-

in
ed

le assassine» (e questo è vero di qualunque bandiera, islamiche comprese ov-


viamente).
à
et

Se proprio uno volesse andare a fondo di questo pensiero, dovrebbe aggiun-


ci

gere che le religioni del Libro sono quelle che riconoscono Abramo come il
So

loro capostipite, e che Abramo intanto rappresenta per eccellenza l’uomo di


by

fede (non di religione istituzionale) in quanto «parte verso l’ignoto», secondo


©

la Lettera di Paolo agli Ebrei: come se la mistica del ritorno all’origine qui fosse
sostituita da una mistica della partenza [07], del futuro, forse del venire di chi
ht
ig

verrà, e non sappiamo quando. Insomma, forse davvero non avevano torto
yr

quegli altri ebrei ultra-ortodossi di Neturei Karta, dagli amici infrequentabili.


op
C

«STU IAVAMO I CLASSICI ELLA RESISTENZA NON VIOLENTA»


D
D
Ma torniamo a noi, alla collinetta dal dolce declivio, che visitammo a Bil’in
sotto la guida di Mohammed Khatib, membro del Comitato popolare di Bil’in
contro il muro e segretario del Consiglio di villaggio di Bil’in, sul cui sito [08]
potete trovare scritto il suo racconto, ma solo fino all’anno 2007. Io l’ho tro-
vato successivamente, parecchi giorni dopo averlo ascoltato dal vivo a Bil’in,
ma due righe almeno di questo suo scritto mi sono parse non solo commo-

199
venti, ma anche importanti per capire meglio lo spirito di quegli anni di re-
sistenza, che come vedremo cominciano nel 2004 e hanno un loro simbolico
punto d’arrivo nel 2011. Eccole:

«Nel dicembre 2004, quando l’esercito di Israele cominciò a spiana-


re la nostra terra coi bulldozer e a sradicare gli ulivi per costruire il
muro, noi scendemmo nei nostri campi a protestare. E imparammo
da altri villaggi che in Cisgiordania avevano adottato metodi di resi-

e
stenza nonviolenta al muro: e ci mettemmo a studiare Gandhi, Luther

or
King e Mandela».

ut
l’a
Nelson Mandela: leggendo queste righe, mi tornavano alla mente le paro-

r
pe
le che il grande leader sudafricano pronunciò nel 1997, in occasione della
Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese: «Sappia-

ia
mo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei pale-

op
stinesi» [09]. Le avevo lette, queste parole, proprio lo stesso giorno della visi-

C
ta a Bil’in – quel memorabile 3 gennaio – solo poche ore prima, nel corso della

o.
onticelli
in
visita che, a Ramallah, avevamo fatto all’ufficio che era di Marwan Barghou-
ul
ti, il grande leader di orientamento non violento, in carcere da ventidue anni.
M

L’uomo che, in un suo famoso intervento, Gideon Lévy identificò con il Man-
M

il

dela dei palestinesi, mentre fortemente auspicava che diventasse il loro presi-
De
e
ic

dente [10]. Erano affisse, quelle parole, a una parete di quell’ufficio: da dove at-
oberta
itr

tualmente Fadwa Barghouti, avvocata e moglie di Marwan Barghouti, dirige la


ed

campagna internazionale per la sua liberazione. Ma torniamo a Mohammed.


R

Mohammed Khatib è stato uno dei leader degli anni straordinari della resi-
et

stenza non violenta dell’intero villaggio all’inesorabile avanzata del muro,


ci

tracciato in modo da sottrarre territorio al villaggio per permettere l’ulterio-


So

re futura espansione di Modi’in Illit, che secondo il progetto in vigore doveva


by

raggiungere – addirittura – 150 mila abitanti. Un terzo in più, ancora, dell’or-


©

rore attuale. Mohammed ci raccontò la storia di questa resistenza, e della sua


ht

piccola vittoria, proprio dall’inizio.


ig
yr
op

Nel dicembre del 2004, come già in altri luoghi,


C

i soldati israeliani cominciano a sradicare gli ulivi


sulle terre del villaggio

Nel dicembre del 2004, come già in altri luoghi, i soldati israeliani comincia-
no a sradicare gli ulivi sulle terre del villaggio. Ecco: sentire il racconto, aven-
do sotto gli occhi quella specie di immobile tsunami di cemento che preme
dall’altra parte del muro, la rapina perpetrata e anche il po’ di campagna sal-

200
vata è diverso da leggere ciò che ne resta su questa pagina, riemergendo da
pochi appunti: è come se il racconto di Mohammed ne uscisse spogliato del-
la sua epica – oltre che del suo tragico humour. E allora, se volete restituire
carne e sangue a quel racconto dello sconcerto iniziale, della risposta dispera-
ta ma compatta di tutto il villaggio alla violenza dei bulldozer, guardatevi le
prime scene, del resto assai simili, di due docufilm che furono girati in que-
gli anni a Bil’in proprio da alcuni protagonisti della fase più creativa di questo
movimento spontaneo di resistenza, che per tre mesi non riuscì a fermare la

e
violenza dei bulldozer spalleggiati dai fucili. I bulldozer che sradicano gli ulivi.

or
ut
EPICA E FILMOGRAFIA I BIL’IN

l’a
D
Penso a Cinque telecamere rotte, girato da un coltivatore palestinese, Emad

r
pe
Burnat, a pezzi – i pezzi che in cinque anni riuscì a filmare dell’intera vicen-
da, ogni anno con una telecamera nuova, dopo che la precedente era stata

ia
sfasciata nelle cariche dei soldati durante le dimostrazioni del Venerdì, pa-

op
cifiche da una parte sola, o durante le aggressioni subite di notte a casa sua:

C
pezzi poi selezionati e rimessi insieme con l’aiuto di un giovane film-maker

o.
in
israeliano, Guy Davidi (il film è uscito nel 2011, e da allora ha vinto molti pre-

L’U
ul
mi). Ma penso anche a Bil’in habibti (Bil’in my love), girato da un altro giova-
M

lisse
ne film-maker israeliano, Shai Carmeli Pollak, che come Guy era anche fra gli
il

attivisti, israeliani e internazionali, che parteciparono alle dimostrazioni pa-


e

d B ’
i
ic

cifiche e contribuirono a far conoscere questa battaglia in tutto il mondo, do-

il
itr

cumentandola e facendola rimbalzare su tutti i media internazionali.

in
ed

Chi ha conosciuto personalmente Mohammed diciotto anni dopo, già con


à

qualche filo grigio fra i capelli, avrà l’emozione di rivederlo in azione, gio-
et

vanissimo padre e inesauribile animatore di quella resistenza straripante di


ci

fantasia e di coraggio. E non solo lui; di vedere molti degli altri protagonisti
So

di quella stagione, tutti elencati nella lista dei personaggi e interpreti alla fine
by

del film: Abdullah Abu Rahma, insegnante e coordinatore dei Comitati popo-
©

lari di resistenza nonviolenta della Cisgiordania, che chi deve a Luisa Mor-
ht

gantini la sua iniziazione alla tragedia palestinese sarà ammirato di ascolta-


ig

re su YouTube, mentre parla dell’intero movimento che ebbe luogo in quegli


yr

anni, accanto a Luisa che traduce le sue parole [11]. E poi Rani Bornat, il ragaz-
op

zo che nel secondo film vedete in carrozzella, e Wagee-Abed che guidava le


C

sue pecore in una marcia pacifista, facendo intonare dai loro belati l’ironia
dei giusti, e le ragazze americane di International Solidarity, e naturalmen-
te Mohammed Khadib stesso, a cui ripasso la parola. Ci raccontava che dopo
quei tre mesi di resistenza impotente cominciarono a sviluppare una resi-
stenza non violenta ma fatta di vere e proprie azioni cariche di senso: e nel
film di Pollak se ne vedono molte. La gente che si incatena agli ulivi, il lan-
cio dei palloncini riempiti con gli scoli di fogna, concertini improvvisati den-

201
tro una gabbia piantata fra i piedi dei soldati, che per avanzare con le loro ru-
spe devono sollevarla estraendone a forza i resistenti, uno per uno. Ognuna di
queste fragili barriere di fantasia e coraggio viene spianata, nessuna violenza
viene risparmiata nel corso di questi anni che solo a Bil’in hanno visto morti,
persone menomate a vita, centinaia di arresti e detenzioni.
Neppure i simpatizzanti internazionali vengono risparmiati. In Rete trovate
ancora una pagina di «Bbc News» datata giugno 2008 [12] dove si registrano fra
i «feriti» in una dimostrazione, con il premio Nobel irlandese Mairead Corri-

e
gan e il giudice italiano Giulio Toscano, la vicepresidente del Parlamento eu-

or
ropeo Luisa Morgantini, che la settimana precedente aveva aperto il Congres-

ut
so per la resistenza nonviolenta tenutosi a Bil’in, in seguito alla disposizione

l’a
della Corte suprema che imponeva la dislocazione del muro.

r
pe
Ma intanto i resistenti guadagnano tempo e rallentano la costruzione della
barriera, e in questo modo riescono a capire che prima del muro occorre fer-

ia
mare la crescita dell’enorme colonia, perché il muro, presentato dalle autori-

op
tà israeliane come una misura di sicurezza per la popolazione israeliana, è in-

C
vece uno strumento di rapina di sempre nuove terre. Infatti il suo tracciato si

o.
onticelli
in
sposta in funzione della crescita dell’agglomerato urbano, in modo da lascia-
ul
re sempre maggiori quote di terra «morta» – vale a dire, letteralmente, deva-
M

stata e pronta a portare nuovo cemento per l’espansione ulteriore, fino al rag-
M

il

giungimento della popolazione di coloni progettata.


De
e
ic
oberta
itr

I MO ERNI GIU ICI-RE: UNA ME ITAZIONE SULLA LEGGE


ed
D
D
D
Già, «dead land». Questa espressione mi aveva colpita sulle labbra di Moham-
R

med, e ne cercavo una spiegazione più approfondita. L’ho trovata in un docu-


et

mentario impressionante, The Law in These Parts [13]. Come il titolo suggerisce,
ci

indaga il modo in cui si costituisce il sistema legale in un Paese occupato, e


So

quindi come si modifica lo Stato di diritto del Paese occupante. C’è una cosa
by

che tutti abbiamo imparato a scuola, e certo non fanno eccezione i colti giuri-
©

sti, giudici e legislatori israeliani protagonisti di questo film: il «governo del-


ht

la legge» si oppone fin da Pericle al «governo dell’uomo», come l’universalità


ig

e la trasparenza di regole condivise si oppongono al potere arbitrario, «sciol-


yr

to» da ogni norma e legittimità, assoluto.


op

Il film solleva una questione profonda, filosofica: è possibile sviluppare e so-


C

stenere un sistema legale che trasformi un’occupazione militare in un «gover-


no della legge»? In altre parole, può un’occupazione militare operare in osse-
quio a un sistema di norme coerentemente integrabili in uno Stato di diritto,
dove la sovranità si esercita nei limiti del rule by law? È logicamente, ancora
prima che eticamente, possibile questa integrazione di una legislazione cre-
sciuta in cinquant’anni e più di occupazione militare in un sistema legislati-
vo, esecutivo e giudiziario che oltretutto, come Israele, si definisce una de-

202
mocrazia (e non ogni Stato di diritto lo è), ma che, in questi esatti termini,
costituisce un caso unico al mondo?

È possibile sviluppare e sostenere un sistema legale


che trasformi un’occupazione militare in un «governo
della legge»?

Il documentario è fatto di conversazioni fra il regista, Ra’anan Alexandrowi-

e
or
cz, e alcuni dei massimi esponenti del «corpo giuridico-legislativo dell’eserci-

ut
to israeliano». Ed è un unicum anche un simile «corpo»: sono, in sostanza, al-

l’a
cuni dei veri e propri architetti del sistema di leggi che Israele ha sviluppato

r
pe
relativamente ai Territori occupati, e sono anche generali dell’esercito – come
il giudice Meir Shamgar, generale di brigata, avvocato generale dell’esercito

ia
(1963-1968), giudice della Corte suprema di Israele (1975-1995) e presiden-

op
te della stessa (1983-1995) – o professionisti legali che all’esercito fanno capo,

C
come Alexander Ramati, l’avvocato che ci spiegherà cosa bisogna intendere

o.
per «terra morta». Il regista non compare nel film se non come la voce inter-
in

L’U
ul
rogante – la voce di un qualunque cittadino israeliano, o la nostra – o forse la
M

lisse
voce stessa della coscienza, una coscienza «socratica», che fa solo domande.
il

Man mano che sprofondavo negli avvincenti faccia a faccia di questo docu-
e

d B ’
i
mentario veramente magistrale, mi pareva sempre più chiaro che le doman-
ic

il
itr

de erano quelle giuste, quelle che si aggiravano nella mia mente senza parole,

in
ed

in forma di muto interrogativo, mentre ascoltavo il racconto di Mohammed.


E che, soprattutto, nascevano dallo stesso sconcertante sentimento dell’as-
à
et

surdo, quel «sentimento del contrario» che fin dall’inizio mi era apparso la
ci

chiave musicale, quasi la tonalità di fondo del piccolo poema epico della gen-
So

te di Bil’in e delle sue gesta. Ma qui lo stesso sentimento, lo stesso lieve bri-
by

vido della scissura logica, della contraddizione pura emanava dalle risposte e
©

– come in un film di Bergman – soprattutto dai volti, alcuni ieratici, altri an-
gosciati, qualcuno beffardo, di questi «professionisti della legge», che pure,
ht
ig

incalzati da quella voce interrogativa, affrontavano con acume e perfino con


yr

passione alcuni dei più complessi e cruciali dilemmi morali e giuridici che la
op

storia del pensiero umano ricordi. Concederete che sia un’avventura cogniti-
C

va emozionante per un filosofo!


Ma credo che lo sarebbe per chiunque volesse guardare questo film. Dopotut-
to, dalla «soluzione» di questi dilemmi erano dipese, e continuano a dipende-
re, la detenzione e la libertà di centinaia di migliaia di persone sottoposte ai
verdetti dei tribunali militari o civili di Israele, come i destini e le vite quoti-
diane di milioni di palestinesi: tre milioni e mezzo di rifugiati nei Paesi con-
finanti, tre nella Cisgiordania occupata, quasi due nella Striscia di Gaza, per

203
non parlare dei circa 2 milioni di arabi israeliani [14]. Ne dipende naturalmente
il futuro dei proliferanti coloni nei territori nominalmente soggetti all’Auto-
rità palestinese, che oggi hanno raggiunto il numero di 760 mila fra Cisgior-
dania e Gerusalemme Est.
C’è un punto cruciale, in ognuna di queste conversazioni, in cui la contraddi-
zione logica leva fieramente il busto, paludata nelle vesti della Giustizia, con
la benda sugli occhi e la bilancia in mano: e in quel punto la tensione tragica
vira al comico e al noir, mentre lo sconforto dello spettatore trova un po’ di

e
sollievo nella luce ferma della logica, che fissa in qualche fotogramma eterno

or
i volti dei «legislatori», a favore di telecamera. Oh, ne ha di risorse di umori-

ut
smo la nuda, disarmata ragionevolezza umana!

l’a
Ma se volete invece una formula algida e granitica, che uno di questi condottie-

r
pe
ri-giudici-re di Israele appone come un timbro moderno alle nuove Tavole del-
la Legge, eccola: «Ordine e giustizia non vanno sempre a braccetto». Lo dice il

ia
generale di brigata e consigliere legale dell’esercito Dov Shefi, al comando mi-

op
litare in Cisgiordania negli anni 1967-1968, in una delle prime scene: e questa

C
sentenza non esprime affatto uno stato di cose unico e peculiare a Israele, al

o.
onticelli
in
contrario, enuncia una verità di fatto piuttosto generale in questo mondo.
ul
Tuttavia, permettetemi ancora una sottigliezza filosofica. La coscienza inter-
M

rogante di questo film incalza i suoi interlocutori non sul piano di come stanno
M

il

le cose di fatto, ma di come dovrebbero stare: sul nesso fra etica e diritto, o for-
De
e
ic

se, meglio, fra le convinzioni morali di un giudice e le leggi. E a questo interro-


oberta
itr

gativo, in tutto il mondo, giuristi, sociologi, filosofi del diritto, politici e giudi-
ed

ci hanno le loro risposte, che vanno da una posizione estrema – nessun nesso
R

– all’estrema opposta: devono coincidere. Nelle società moderne, per mille ra-
et

gioni, sono mainstream le posizioni più vicine al primo polo, negativo, che al
ci

secondo: ma raramente possiamo vedere, come in un esperimento storico di


So

lungo periodo, a che tragedia porti l’applicazione sistematica della separazio-


by

ne in linea di principio di giustizia (proprio nel senso minimale di pari dignità


©

e diritti) e legalità, di etica (in quel senso minimale, appunto) e diritto. In que-
ht

sto senso la terra tragica di Palestina è anche un nodo del pensiero moderno.
ig
yr

LA QUERCIA I ABRAMO E LA «TERRA MORTA»


op

D
Ma veniamo alla terra morta. Come vada intesa l’espressione ce lo dice un
C

generale che fu anche avvocato e consigliere legale dell’esercito, Alexander


Ramati appunto. Sharon – siamo negli anni Settanta – era in imbarazzo. Im-
mediatamente dopo la Guerra dei Sei giorni, schiere di coloni avevano comin-
ciato a stabilirsi nei Territori occupati – da cui i residenti palestinesi venivano
allontanati con la menzogna che si trattasse di un trasferimento provvisorio,
per ragioni di sicurezza. Il caso di Elon Moreh restò celebre, modello di tutti
quelli venuti dopo. L’insediamento prende il nome dal luogo biblico, e dalla

204
quercia, presso la quale Abramo riceve dal suo Dio l’ordine di erigere un al-
tare per ringraziare di esser giunto nella Terra promessa (Genesi, 12,5-8). Cir-
ca tre millenni dopo, un avamposto di coloni occupa in una notte la sommità
della collina con dei prefabbricati – ed è lì, di fronte alla ribellione dei nativi
all’inganno e alla rapina, che Sharon si lascia immortalare (ripreso anche nel
documentario di Alexandrowicz) mentre fieramente proclama: «La lotta per
l’esistenza di Israele è appena cominciata».
Ora, l’articolo 49 della Convenzione di Ginevra proibisce a una potenza oc-

e
cupante di trasferire cittadini in un’area occupata: e nel film si assiste a una

or
scena che sembra tratta da un famoso racconto di Kleist, Michael Kohlhaas,

ut
dove il personaggio che ha subito un’ingiustizia, prima di diventare a sua vol-

l’a
ta un brigante, afferma la sua assoluta fiducia nei giudici. «Andremo davanti

r
pe
alla Corte dell’Aja», sentiamo dire ai capi dei contadini espulsi dalle loro ter-
re. Una fiducia, una disperata speranza nel diritto internazionale che anco-

ia
ra, cinquant’anni dopo quell’evento, ho percepito, incredula, sulle labbra di

op
molte delle persone che abbiamo incontrato. La gente di Bil’in per anni e anni

C
ha gridato questa speranza, l’ha scritta sui suoi cartelli nelle dimostrazio-

o.
in
ni. Quella volta la petizione di uno di loro trovò grazia presso la Corte supre-

L’U
ul
ma di Israele: per una volta la Corte suprema di Israele emise un’ingiunzione
M

lisse
di sgombero, perché la terra fosse restituita ai proprietari. È qui che Sharon
il

convoca tutti gli esperti legali dell’esercito, ed è allora che l’avvocato Ramati
e

d B ’
i
ic

ha la sua idea risolutiva. Mawat Land. Terra morta.

il
itr

in
ed

«Andremo alla Corte dell’Aja»: la gente di Bil’in per anni


à
et

ha gridato questa speranza, l’ha scritta sui suoi cartelli


ci

durante le dimostrazioni
So
by

Ramati, da comandante in zona occupata, aveva acquisito una certa familia-


©

rità con le leggi e le usanze tramandate dall’epoca ottomana e ancora vigen-


ti sotto il regno di Giordania. E così nel filmato lo vediamo sogghignare men-
ht
ig

tre estrae dalla sua memoria come da un cappello di prestigiatore l’astuta


yr

soluzione all’impasse di Sharon e dei coloni. Mawat, morta, viene definita da


op

un’antica legge ottomana una terra che a) disti dal villaggio più vicino più di
C

quanto occorra per udire ancora il canto del gallo b) non sia stata coltivata
dai proprietari o affidatari per tre anni. Una terra così ritorna nel possesso di-
retto dell’Impero. Legalmente parlando, spiega Ramati a Sharon, dell’Impe-
ro fa le veci il comando di occupazione. Sharon lo convoca presto la mattina
dopo, gli fornisce degli elicotteri e gli ordina di farli mettere immediatamente
alla ricerca di terre che soddisfino le due condizioni. «Girammo fino a trovare
un posto adatto», conclude Ramati. E dov’era? «Dove è adesso Elon Moreh».

205
MA CI SARÀ UN GIU ICE A BERLINO?

D
Questo caso è memorabile anche per il modo in cui aggira una delle poche de-
cisioni della Corte suprema contro le disposizioni legali emesse dal corpo le-
gislativo dell’esercito per legalizzare la rapina delle terre. Eppure, fu impor-
tante che questa decisione ci fosse stata. Dev’essere brillata come un lumino
nelle notti di Bil’in, quando, a seguito della visibilità che le dimostrazioni non
violente andavano assumendo, un avvocato israeliano incaricato dai Comita-
ti popolari (Michael Sfard) scoprì che gli insediamenti di Mod’in Illit non era-
no illegali soltanto in base al diritto internazionale, ma anche in base a quello

e
or
interno: e, secondo documenti reperibili in Rete, proprio perché l’intera co-

ut
lonia era stata costruita senza il permesso dello Stato proprietario delle ter-

l’a
re secondo la famosa legge ottomana [15]! Del resto un’altra denuncia, questa

r
volta relativa al muro, fu accolta nel 2007 dalla Corte suprema, che impose al

pe
ministero della Difesa di spostare il tracciato del muro in modo da restituire

ia
al villaggio parte delle sue terre, riconoscendo che il precedente tracciato non

op
corrispondeva affatto a ragioni di sicurezza, ma alla deliberata strategia di

C
rendere morte le terre tagliate fuori [16]. Dovettero passare ancora quattro anni

o.
onticelli
perché si arrivasse ad applicare la disposizione e Bil’in ottenesse a partire dal
in
ul
2011 quel po’ di respiro che il visitatore avverte come fosse ancora nell’aria.
M

Mentre scrivo (gennaio 2023) un articolo di Gideon Levy uscito su «Haaretz»


M

il

viene ripreso da «Internazionale» [17], quasi in risposta amara all’annuncia-


De
e

to smantellamento dell’autonomia della Corte suprema da parte dell’attua-


ic
oberta
itr

le governo di ultra-destra. La Corte suprema, conferma Levy, non ha mai fat-


ed

to altro che legittimare la legislazione dei tribunali militari: ha approvato le


R

detenzioni amministrative senza processo, le deportazioni di massa, la de-


à
et

molizione di case, la rapina delle terre palestinesi, anche dopo gli accordi di
ci

Oslo. Eppure io ricorderei anche questi pochi lumini di speranza, i rari esem-
So

pi di decisioni «giuste»: se non altro per ribadire che le decisioni finali non
by

sono mai i sistemi o le istituzioni a prenderle, senza il volto e la mano di un


individuo che firma un atto, o un atto contrario. E se «ordine e giustizia non
©

vanno sempre a braccetto» non è colpa della Storia, come con un divertito
ht
ig

sorriso affermava uno dei giudici-re del docufilm di Alexandrowicz, ma degli


yr

individui in carne e ossa che hanno approvato questo divorzio.


op
C

LE RA ICI IVELTE
D
D
Se ora riguardate le sequenze iniziali dei film su Bil’in, questa lunga digres-
sione sul significato di «terra morta» potrà sembrarvi superflua, tanto forte
è l’impatto emotivo della ruspa che sradica gli ulivi, anche quelli più antichi
e maestosi. La terra morta appare in tutto il suo dramma di terra uccisa, e le
radici divelte gridano l’indicibile paradosso che prolunga la storia di Israele
nei millenni. Quanta pseudofilosofia, quanta spazzatura letteraria fu prodot-

206
ta sull’Ebreo errante, che, sradicato, sradica, e diventa un paradigma della
modernità sradicatrice, della fluidificazione di tutti i valori nel fluido circo-
lare del denaro o del capitale finanziario. Quanta rivoltante idiozia nell’an-
tisemitismo metafisico che gronda, ad esempio, dai Quaderni neri del filosofo
più letto e venerato del secolo scorso, Martin Heidegger, questo mediocre so-
fista che divenne talmente popolare in Europa da inquinare l’intero canone
dell’insegnamento della filosofia [18].

e
or
La terra dove l’ulivo è un simbolo sacro di vita e di pace,

ut
come lo era alla dea Atena, o sul monte Ararat,

l’a
o in ogni terra mediterranea

r
pe
E quanta cattiva metafisica delle «radici» cristiane dell’Europa, come se l’Eu-

ia
ropa non fosse la patria dei diritti umani universali, come se il cristianesimo

op
non fosse soprattutto la religione del vento che soffia dove vuole e quando è

C
veramente divino non è che una brezza, ruah, spirito. E poi, semmai, la reli-

o.
gione di un uomo nudo, spogliato di ogni potere, ucciso in Palestina. La terra
in

L’U
ul
dove l’ulivo è un simbolo sacro di vita e di pace, come lo era alla dea Atena, o
M

lisse
sul monte Ararat, o in ogni terra mediterranea.
il

Non deve dunque stupire che una delle scene più forti, nel film Bil’in Habi-
e

d B ’
i
bti, sia quella della lettera che Mohammed Khadib porta ai soldati israelia-
ic

il
itr

ni a nome di tutto il villaggio, durante una delle dimostrazioni del Venerdì.

in
ed

Ne trovate una frase anche in quel frammento di racconto scritto di pugno da


Mohammed, che ho citato sopra:
à
et
ci

«Se foste venuti come ospiti, vi avremmo mostrato gli alberi che i no-
So

stri antenati piantarono qui, le piante, gli orti che noi facciamo cresce-
by

re. Ma voi siete venuti a sradicarli tutti, gli ulivi. […] Non ci sarà sicu-
©

rezza per nessuno di noi finché Israele non rispetterà i nostri diritti su
questa terra» [19].
ht
ig
yr

UN SINGOLARE CAVALLO I TROIA


op

D
Ci avviamo alla fine di questa nostra storia che divaga e sogna, perché non
C

trova fine e soluzione e pacificazione. L’ultimo pezzo della storia che ci rac-
contò Mohammed comincia dove finisce il film (Bil’in Habibti). La scoperta
dell’illegalità anche secondo le leggi israeliane degli insediamenti di Modi’in
Illit, e soprattutto della sua inarrestabile crescita, aveva suscitato un’idea di
confronto assai simile a quella tecnica di discussione che i filosofi adotta-
no spesso nelle loro dispute: la reductio ad absurdum, che consiste nel portare
abilmente l’avversario, una volta che si sia lasciato sfuggire l’ammissione che

207
la neve è bianca, a dover dedurre dalle proprie premesse, più o meno nasco-
ste, che la neve è nera. Insomma, inchiodarlo a una contraddizione.
L’idea era semplice. Prima mossa: illegale per illegale, perché non facciamo
anche noi il nostro avamposto dall’altra parte del muro? La tecnica è nota: si
porta un contenitore, una roulotte, un caravan, e lo si installa lì, e poi man
mano ci si fanno crescere attorno altre strutture, altri caravan.
Detto fatto. Il muro, ancora in costruzione, e già soggetto a ordine di dislo-
cazione, permette a un camion di insinuarsi al punto di passaggio, che non è

e
ancora un attrezzato checkpoint, ma un varco sorvegliato da pattuglie mobi-

or
li: di notte si trova il momento giusto, e si passa di là. Il giorno dopo, una sor-

ut
ta di caravan o baracca mobile è già lì, su una delle alture assediate. I soldati

l’a
lo rimuovono immediatamente, ma intanto si conversa: perché non rimuove-

r
pe
te anche loro? Perché solo noi? Anche la tecnica dilatoria è nota: la differenza
è il fatto compiuto, il fatto inamovibile. La casa vera e propria, fissa, abitata.

ia
Ma c’è tempo per una lezione di abusivismo edilizio. Che cosa si intende dun-

op
que per immobile abitabile? Si finge lo sconcerto, si prende nota delle minu-

C
ziose istruzioni. Dimensioni minime, altezza, superficie, almeno una finestra.

o.
onticelli
in
Mohammed e i suoi compagni si preparano: due camion vengono armati di
ul
tutto il necessario. Ed ecco, la sera di Natale, il primo, con Mohammed alla
M

guida, riesce ad approfittare dell’intervallo nel pattugliamento e a passare.


M

il

Con lui c’è anche una ragazza israeliana, oltre alla gente capace di tirar su pa-
De
e
ic

reti e tetto in una notte. Ma l’altro camion non fa in tempo a passare, e a que-
oberta
itr

sto punto i militari bloccano tutto. Niente da fare, anche Mohammed, inter-
ed

cettato dai militari, deve tornare indietro. Ma c’è molto fango, e il suo camion
R

stracarico di materiali s’impantana malamente. Che fare? La ragazza israe-


et

liana conversa con la sentinella a capo del presidio: non c’è modo di ricevere
ci

aiuto dai soldati per disincagliare il camion rimasto oltre il muro, e permet-
So

tergli di tornare indietro come gli hanno ingiunto? Impossibile. Le Forze del-
by

la difesa israeliana non sono autorizzate a trarre d’impaccio palestinesi privi


©

di permesso di passaggio. Suvvia, la legge è la legge!


ht

Come la cometa di Natale, un fascio di luce guizza per la mente di Moham-


ig

med, aprendo un varco ilare nel buio dell’ottusità saldata alla protervia, come
yr

i due battenti della Porta della Legge che gli stanno chiudendo in faccia. «Dun-
op

que non resta che andare a cercare aiuto dall’altra parte!» – la ragazza israelia-
C

na sorride e si accerta che il piantone abbia ben capito. «Abbiamo bisogno di


aiuto, possiamo andare a chiamare qualcuno?». Nessun diniego. Non c’è altra
via. Che si arrangino, questi fuorilegge. Noi non possiamo farci niente. L’Ulis-
se di Bil’in torna di lì a poco, seduto accanto al guidatore dentro il Cavallo di
Troia dell’altro camion, quello che avevano bloccato fuori dalla barriera. Ed è
fatta. C’è tutto. E la notte di Natale è ancora lunga. La mattina dopo, sulla col-

208
lina da cui era stato rimosso il caravan, gli elicotteri in ricognizione segnala-
no qualcosa di nuovo. Le guardie accorse sono esterrefatte. Un’abitazione con
muri e tetto, finestra regolamentare, tutto a regola d’arte abusiva, perfetta.
Come è venuta su in una notte sola? Beh, ma è Natale. Sarà un regalo di Gesù
Bambino. Certo, i ragazzi dell’associazione Followers of Jesus the Palestinian
l’hanno già saputo, stanno venendo a ringraziare il cielo. E così tutti gli altri:
quelli di International Solidarity, quelli di Gush Shalom, gli Anarchici contro
il Muro, i fotografi, i cameramen… Troia è caduta. Fosse pure per un giorno

e
solo. La gioia esplode, incontenibile.

or
ut
l’a
Riuscirà un «fatto compiuto» palestinese a sopravvivere,

r
come le centinaia di migliaia di «fatti compiuti» israeliani?

pe
ia
Riuscirà un «fatto compiuto» palestinese a sopravvivere, come le centinaia di

op
migliaia di «fatti compiuti» israeliani? Io non lo so, e non ho osato chiederlo a

C
Mohammed. Il nostro racconto si chiude in dissolvenza sulla casa di là dal muro,

o.
«our tiny home», disse Mohammed. Proprio così, una casa piccolissima, e la di-
in

L’U
ul
mora di tutto il villaggio, forse di tutta la Palestina. Certe storie vere assomigliano
M

lisse
alle parabole del Vangelo, con le loro fiabesche sproporzioni; l’enorme cammel-
il

lo che passa per la cruna sottilissima dell’ago, il grano di senape che si fa immen-
e

d B ’
sa fronda carica di uccelli, di tutti gli uccelli del cielo. Sono le smisurate misure

i
ic

il
itr

della grazia, che ci vuole, dove non c’è giustizia. O, se volete, sono i colpi di grazia

in
ed

dello spirito, che è un altro nome dello humour – del sentimento del contrario.
à
et

POST-FACTUM E POST-SCRIPTUM
ci

Certo che le proteste dovettero continuare a lungo, prima che nel 2011 le au-
So

torità israeliane si decidessero a spostare il muro di quel paio di chilometri


by

che restituivano al villaggio metà della terra rubata. Ma ora che il racconto
di Mohammed era finito, ci fu offerto uno sguardo sul presente della fattoria
©

dove ci trovavamo. Dalla parte degli orti, una leggera struttura di legno, circo-
ht
ig

lare, ancora a cielo aperto, a metà strada fra un palcoscenico mobile da teatro
yr

contemporaneo e un tempietto giapponese alle divinità dei fiori, ci accolse se-


op

duti in circolo ad ascoltare Abu Ala che raccontava la sua storia. Abu Ala era
C

il proprietario di un bel pezzo di terra – si intende, un pezzo della terra recu-


perata. Un giorno due ragazzi vennero a chiedergli se la potevano affittare per
tre anni. Abu Ala si informò sui loro intenti: gli dissero che volevano lancia-
re coltivazioni con metodi nuovi e antichi, sostenibili, per salvare la varietà di
semi e frutti che la coltivazione industriale elimina, e per dimostrare al mon-
do come un’impresa agricola palestinese potesse funzionare, all’avanguardia
biologica… Abu Ala si accertò che lo sapessero bene: certo non avrebbero trat-

209
to gran profitti da quell’impresa. Confermarono che non era quello il loro fine.
Allora Abu Ala disse loro: questa terra voglio darvela per cinque anni, non per
tre, e non in affitto, ma gratis. Poi ci mostrò come, tutt’intorno, la fattoria si sta-
va attrezzando per ospitare volontari da ogni Paese oltre che da ogni luogo del-
la Palestina, che volessero offrire il loro lavoro e apprendere l’arte della cura,
anche per periodi di una stagione o due. E ciascuno non avrebbe solo imparato
un’arte utile, ma coltivato intanto anche il suo proprio talento, qualunque fos-
se. Poi Abu Ala ci indicò l’orizzonte, dove il profilo della colonia, fantasmatico

e
nel suo biancore, era come smaterializzato dai raggi del sole al tramonto. Un

or
tramonto davvero magnifico, in quella giornata di vento. E raccontò che quella

ut
terra gliel’aveva lasciata in eredità sua madre, che per comprarla aveva impie-

l’a
gato i risparmi di una vita. E che quando lui guardava il sole tramontare all’o-

r
pe
rizzonte, era certo di vedere, in quella luce, anche il sorriso di sua madre, che
gli diceva: hai fatto un buon affare, Abu Ala. Veramente un buon affare.

ia
C’è un video che mostra questa fattoria, e si può vedere come sia divenuta

op
anche una scuola stagionale di agricoltura sostenibile, e seguire una lezione

C
e chiedersi se si vorrà andare là, come volontari stagionali, a imparare molte

o.
onticelli
in
cose. Abu Ala, là, dice che un giorno venne in visita in fattoria e ci trovò die-
ul
ci persone, e ciascuno veniva da un diverso Paese del mondo [20].
M
M

il
De
e
ic
oberta
itr

Questo testo nasce da un viaggio in Palestina, tra il 28 dicembre 2022 e il 5 gennaio


ed

2023. Un viaggio di conoscenza, di quelli che Assopace Palestina e Luisa Morgantini


R

organizzano da molti anni, perché chi vi prende parte veda ogni cosa «con i propri
à
et

occhi». Il racconto riguarda uno solo dei molti luoghi che in una settimana destina-
ci

ta a restare per tutti memorabile si riescono non dirò a visitare, ma a vivere. Le sco-
So

perte e le riflessioni che lo allungano a dismisura sono frutto di memoria ma natu-


by

ralmente anche di ricerca posteriore: e non sarebbero state possibili senza le fonti, le
immagini, le informazioni, le segnalazioni accumulate sul sito di Assopace, ma an-
©

che nel fiume impetuoso della chat che ancora tiene legati i partecipanti. Per la par-
ht
ig

ticolare pagina di questo viaggio che il mio racconto rimemora, debbo i documenti
yr

essenziali al vasto archivio palestinese di Guido De Monticelli e Roberta Arcelloni,


op

senza i quali – come senza Luisa Morgantini – questo dolente eppure vivificante ca-
C

pitolo di una coscienza, e della coscienza di un filosofo per giunta, o almeno di una
(vecchia) professoressa di filosofia – non avrebbe potuto venire alla luce.

ROBERTA E MONTICELLI è professoressa


D
ordinaria di Filosofia all’Università Vita-Salute
San Raffaele. Tra le sue pubblicazioni: Il dono dei
vincoli. Per leggere Husserl (Garzanti, 2018) e Al di
qua del bene e del male. Per una teoria dei valori
(Einaudi, 2015).

210
01 E. Weizman, Architettura dell’occupazio- posizione di Mandela sulla resistenza palestinese
ne. Spazio politico e controllo territoriale in Palesti- si veda il canale YouTube di Middle East Eye: basta
na e Israele, trad. it. Milano, B. Mondadori, 2007. digitare «Nelson Mandela: What the South African
02 A Modi’in Illit fu conferito lo status di icon said about Palestine».
municipalità nel 2008 da Aluf Gadi Shamni, un 10 Cfr. U. e Giovannangeli, L’ultima spe-

D
militare di carriera che divenne attaché militare ranza della Palestina si chiama Marwan Barghouti,
dell’ambasciata israeliana negli Stati Uniti nel 2009. www.globalist.it, 2.5.2021; M. Martinelli, Marwan
Ci si può chiedere come possa un militare decidere Barghouti, un rivoltoso illuminato e pacifista, pubbli-
di questioni e norme amministrative: ma come cato nella versione online di «Odissea» il 5.6.2017
vedremo questo è uno dei nodi della legislazione (www.libertariam.blogspot.com/).
palestinese, e ha molto a che vedere con il concetto 11 Si trova digitando «L’attività dei Comitati
di «terre morte». Ci tornerò sopra in seguito. Popolari per la resistenza nonviolenta Palestinese»,
03 Fu lui a riprendere la famosa formulazio- nell’ambito di ¡NO MÁS! per la Palestina.

e
or
ne onirica che per primo avanzò Israel Zangwill alla 12 Nel sito di «Bbc News»: Eu Vips hurt at
fine del XIX secolo. Cfr. E. Said, La questione pale- West Bank protest.

ut
stinese, trad. it. Milano, il Saggiatore, 1992, p. 61; C. 13 The Law in These Parts, www.thelawfilm.

l’a
Weizmann, 28 marzo 1914, in B. Litvinoff (a cura di), com.
The Letters and Papers of Chaim Weizmann, Vol. I, 14 Tutti i dati sono disponibili sul sito dell’O-

r
pe
Serie B, Jerusalem, Israel University Press, 1983, cha (UN Office for the Coordination of Humanita-
pp. 115 ss. rian Affairs), www.ochaopt.org.

ia
04 Come è noto, Theodor Herzl, autore di 15 La storia è parzialmente ricostruita da
Der Judenstaat e fondatore del Movimento sionista Wikipedia, alla voce «Modi’in Illit».

op
(1897), sostenne il diritto degli ebrei di fondare uno 16 Anche questa vicenda si trova riassunta

C
Stato ebraico, ove possibile in Palestina (ma non digitando semplicemente «Bil’in» nel sito inglese di
necessariamente, tanto che una prima ipotesi fu Wikipedia.

o.
l’Uganda). 17 G. Levy, La difesa ipocrita della democra-
05 Nel 2019 Netanyahu affermò pubblica- in
zia israeliana, «Internazionale», 20.1.2023.

L’U
ul
mente che «lo Stato di Israele non è lo Stato di tutti 18 E. Faye, Heidegger, l’introduzione del
M

lisse
i suoi cittadini ma del popolo ebraico esclusiva- nazismo nella filosofia, trad. it. Roma, L’Asino d’oro,
mente». Lo fece riferendosi all’avvenuta approva- 2012.
il

zione, l’anno precedente, del Nation State Bill che 19 M. Kahtib, Bil’in will continue to struggle
e

d B ’
definisce lo Stato di Israele «Stato-nazione del against the wall and settlements, www.zmag.org,

i
ic

popolo ebraico» e che è ora legge costituzionale in 19.6.2013.

il
itr

seguito alla sua approvazione (con 62 voti a favore, 20 Il video si trova sul sito di Assopace

in
ed

55 contrari, 2 astensioni) avvenuta il 19 luglio 2018 Palestina: Bil’in: la fattoria, vittoria contro il muro .
(legge in seguito dichiarata non anticostituzio-
nale dalla Corte Suprema di Israele). Questa era
à
et

indubbiamente già la dottrina di Ben Gurion. Fra gli


uomini di Stato israeliani che tentarono di opporsi
ci

a questa legge, sottolineando come essa violi la


So

norma universalistica di una democrazia e avvicini


Israele a uno Stato di apartheid, è da menzionare
by

almeno Reuven Rivlin, che in occasione della sua


elezione a presidente di Israele nel 2014 si dichiarò
©

contrario a questo disegno di legge.


ht

06 Cfr. M. Jevolella, Non nominare il nome


di Allah invano, trad. it. Milano, Boroli, 2004 e R.
ig

e Monticelli Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai


yr
D
cristiani, Milano, Baldini Castoldi alai, 2007. Si
op

D
noti che «l’appello al cielo», espressione con la
quale John Locke e la tradizione liberale legittima-
C

no il diritto di ribellione all’oppressione del sovrano


quando calpesta i diritti basilari che uno Stato deve
garantire, non ha nulla a che vedere col nome di
io sulle bandiere.
D
07 J. Héring, Fenomenologia e religione,
trad. it. Verona, Edizioni Fondazione Centro Studi
Campostrini, 2010, p. 18.
08 Il testo si ritrova anche in www.palsolida-
rity.org/2007/09/znet.
09 Per una bella sintesi delle prese di

211
C
op
yr
ig
ht
©
by
So
ci
et
à
ed

212
Idee

itr
ic
e
il
M

PAOLO
BRANCA
ul
in
RELIGIONI

o.
C
op
E RIVOLUZIONE

ia
pe
r l’a
ut
or
e
e ma ifestazio i di protesta che interessano la Repubblica islamica

e
or
L
n
n
dell’Iran, non certo le prime ma forse tra le più intense e continuative, do-

ut
vrebbero sollevare un interrogativo di fondo che però è di sovente trascura-

l’a
to. Il fatto che principii e valori religiosi comportino un sovvertimento della

r
pe
mentalità comune per condurre i credenti a un modo di essere «diverso» da
quello meramente mondano, spesso legato alla legge del più forte e comun-

ia
que lontano da ideali e «alternative» impostazioni dell’esistenza sia indivi-

op
duale sia collettiva, è senz’altro pacifico. Non altrettanto scontato è, invece,

C
che il ricorso a tali premesse possa o debba mettere in atto azioni rivoluzio-

o.
narie a livello istituzionale e politico. in
ul
Ci pare opportuno spendere qualche parola sul tema, che non inte-
M

ressa – come vedremo – unicamente Stati o governi che si autodefiniscono


il

«islamici», ma più in generale tutte le tradizioni religiose di fronte alle sfi-


e

de del cambiamento, particolarmente evidenti e acute nella post-modernità


ic
itr

che tutto sembra mettere in discussione, ma al tempo stesso rivela ambiguità


ed

e inadeguatezze circa gli strumenti ormai apparentemente consolidati nella


à

gestione delle questioni individuali e collettive, sempre più spesso in relazio-


et

ne problematica. La questione permane anche se, al posto di riferimenti reli-


ci

giosi, sussistono istanze etiche:


So
by

«Molti ritengono che una caratterizzazione limitativa dello Stato, che


©

non vada oltre la sua dimensione funzionale, sia necessaria a impe-


ht

dire che lo Stato si trasformi in una macchina del terrore (Moloch) e


ig

quindi a rivendicare il primato della libertà dell’individuo. Se lo Sta-


yr

to è concepito e definito come Stato etico, vale a dire, come portatore


op

di un significato che supera il solo valore funzionale, detentore di au-


C

torità e responsabilità, non rappresenta un pericolo per la libertà in-


dividuale, assoggettata a obblighi, obiettivi e scopi che sono, in ultima
analisi, fissati solo da persone o da gruppi di persone? […] Altrettan-
to facilmente si può porre la domanda al contrario: possono i compiti
e le funzioni che lo Stato, il nostro Stato, assume e deve assumere, af-
francarsi da un fondamento etico-morale? […]» [01].

213
L’IRRUZIONE EL TOTALMENTE «ALTRO» E LA PROSPETTIVA I UN «OLTRE»

D
D
Sia per competenze sia per ragioni di spazio ci soffermeremo qui sui tre mo-
noteismi abramitici, consapevoli che anche in altri contesti, mutatis mutandis,
potremmo riscontrare situazioni analoghe.
Oltretutto nelle religioni «rivelate», ossia che dipendono da una Pa-
rola di origine divina che si rivolge in vari modi agli esseri umani, i Testi cui
si fa riferimento – Bibbia e Corano – contengono anche disposizioni che non
riguardano unicamente precetti del culto, ma anche altre «norme» che spa-
ziano su vari ambiti della vita dei singoli e dei gruppi, ben oltre il limite che

e
or
siamo ormai soliti (di recente e nemmeno in tutto l’Occidente) considerare

ut
«profani» o, per dirla con un termine più a noi vicino, «laici» (basti pensare

l’a
all’interdizione vigente in alcuni Stati degli Stati Uniti a trattare delle teorie

r
evoluzioniste nelle scuole).

pe
L’aspetto etico-giuridico, tuttavia, è soltanto una conseguenza di mes-

ia
saggi più propriamente pedagogico-narrativi che tentano di rimediare a un

op
male «originario». Anche senza che si condivida il dogma del peccato origi-

C
nale, dalle tre religioni suddette è riconosciuta una distanza, uno iato fra la

o.
condizione creaturale primigenia e ciò che ne è seguito.
ul
in
ranca
M

Troppe interpretazioni letterali di passi biblici o coranici


il
B

hanno prodotto più danni che vantaggi


e
aolo
ic
itr

La finalità del discorso celeste non può pertanto esser ridotta alle sue pur pre-
P

ed

senti componenti «pratiche», senza tradirne od offuscarne l’intento essenzia-


à

le. Troppe interpretazioni letterali di passi biblici o coranici hanno prodotto


et

più danni che vantaggi, in quanto non si è a lungo (e da parte di alcuni, tutto-
ci
So

ra) tenuto conto che – per essere inteso e messo in atto – il messaggio non ha
potuto fare a meno anzitutto di «tradursi» in linguaggio a noi accessibile (con
by

tutti i possibili fraintendimenti che comporta) e nelle condizioni ambientali


©

e temporali in cui è risuonato per la prima volta, per poi riproporsi ed essere
ht

riletto con tutti i condizionamenti spazio-temporali del caso.


ig

Ciò nulla toglie al suo carattere universale e permanente, ma appunto


yr

a patto che non ne venga compromesso l’intento, che per sua natura «oltre-
op

passa» i limiti sia della nostra comprensione sia di qualsiasi sua attualizzazio-
C

ne storicamente determinata.

PROSPETTIVA EBRAICA: MONOTEISMO E ALLEANZA


La rivoluzione dell’ebraismo è quella del monoteismo, con una relazione spe-
cialissima fra Dio e popolo espressa dai termini «alleanza» ed «elezione».
Non si tratta di un privilegio, ma anche di un onere, e certe vulgate attuali,
secondo cui ogni monoteismo sarebbe peggiore del politeismo pluralista del

214
mondo antico, appaiono di una banalità sconcertante. In teologia non valgo-
no criteri aritmetici: le pur molteplici divinità arcaiche pretendevano infatti
anche sacrifici umani e non sempre erano così aperte a «nuovi intrusi». Pro-
prio il monoteismo, anzi, che riserva la trascendenza e la santità a un solo
Dio, se rettamente inteso, apre la strada a una sana concezione del «profano»,
vale a dire di tutto ciò che Dio non è.
Tale inedita prospettiva non ha comunque compromesso la distinzio-
ne del Popolo di Dio in dodici tribù, e persino il passaggio alla monarchia fu

e
unicamente uno «strumento», come ogni forma di Stato o di governo, per or-

or
ganizzare meglio il «servizio» di guida della comunità, la quale vide inevita-

ut
bilmente sovrani che si mostrarono encomiabili accanto ad altri che lo furo-

l’a
no assai meno. Il ruolo svolto da Mosè come apportatore anche di una «legge»

r
pe
così come la sua funzione di leader «politico», similmente a ciò che sarà come
vedremo per Maometto, si spiega – rimanendo sul piano storico – per le ca-

ia
ratteristiche di frammentazione e di nomadismo dei destinatari del suo mes-

op
saggio, i quali erano privi tanto dell’una quanto dell’altro.

C
In chiave metastorica, invece, la fedeltà alla Torah gelosamente custo-

o.

R
eligioni
dita e puntualmente seguita si configura come tentativo di mantenere auten-
in
ul
tica l’adesione all’alleanza con il divino ben espressa dalla formula: «Quindi
M

prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quan-

e
il

to il Signore ha ordinato, noi faremo e ascolteremo!”» (Esodo, 24, 7), ove l’ap-

rivoluzione
e
ic

parente illogica consequenzialità temporale dei due ultimi verbi rivela inve-
itr

ce un’obbedienza che precede la comprensione, che ne è anzi presupposto e


ed

condizione, similmente a quella dei figli ancora piccoli rispetto ai genitori o


à

al principio tipico della «scuola attiva»: se faccio, capisco [02].


et
ci
So

PROSPETTIVA CRISTIANA: «MA IO VI ICO»


D
Gesù non ebbe le due funzioni or ora menzionate poiché ai suoi tempi di leg-
by

gi ve n’erano ben due: quella ebraica e quella romana, mentre l’assunzione di


©

una leadership politica la rifiutò deliberatamente. Nondimeno la sua predi-


ht

cazione e il suo esempio furono persino «scandalosi», contestando il modo in


ig

cui anche le norme religiose e il modo di governare venivano messi in pratica.


yr

Non si può tuttavia dire che neppure i suoi primi e diretti discepoli ne com-
op

presero sempre o appieno il senso, e la storia delle chiese non è certo stata
C

immune proprio rispetto a molti dei rischi di deviazione stigmatizzati da Cri-


sto. Il grado di evoluzione del diritto romano fece sì che anche gli imperatori
cristiani ne siano stati i continuatori, mentre in fatto di religione un distinto
codice di diritto canonico venne gradualmente ad affiancarsi alla legge «civi-
le» per limitarsi a regolare l’organizzazione interna alla chiesa.
Col potere politico quest’ultima conobbe almeno due filoni: quello oc-
cidentale, nel quale Papato e Impero – non senza problemi e conflitti – si con-

215
figurarono come due distinti «poteri», mentre in Oriente prevalse il modello
«cesaropapista». Ridotto infine, per poi scomparire del tutto il «potere tem-
porale» della Chiesa cattolica, permane invece in quelle ortodosse un radi-
camento «locale», non a caso autocefalo, tuttora segnato dalla relazione non
semplice con i governi dei territori in cui esistono e con i quali mantengono
profondi legami etnico-linguistici e quindi anche nazionalistici le cui conse-
guenze si fanno pesantemente sentire [03].

e
PROSPETTIVA ISLAMICA: E PLURIBUS UNUM?

or
In un ambiente di nomadi divisi in tribù litigiose risuona ancora l’appello di-

ut
vino verso un’unificazione sulla base della medesima fede abbracciata:

r l’a
pe
«Afferratevi insieme tutti alla corda di Dio e non disperdetevi, e ricor-
date le grazie che Dio v’ha largito: eravate nemici e v’ha posto armo-

ia
nia in cuore e per la Sua grazia siete divenuti fratelli; eravate sull’orlo

op
di una fossa di fuoco e v’ha salvato; così Iddio vi dichiara i Suoi Segni

C
a che possiate trovare la giusta Via» (Corano, 3, 103).

o.
in
ul
ranca
Monoteismo, giustizia ed escatologia furono i temi principali della prima pre-
M

dicazione di Maometto, fortemente osteggiati dai notabili de La Mecca, che


il

dovevano la propria fortuna sia alla presenza del santuario politeista che la
B

e
aolo
città ospitava, meta di pellegrinaggi da parte di tutte le tribù che vi ritrovava-
ic
itr

no i simulacri delle loro divinità, sia centro carovaniero per mercanti spesso
P

ed

disonesti e comunque di genti assorbite dalle necessità di una difficile soprav-


à

vivenza in un ambiente duro e ostile, prive di ogni prospettiva ultraterrena,


et

giudicata bizzarra quando non del tutto folle.


ci

La famosa Egira, o migrazione in un altro centro urbano, rappresen-


So

tò un salto di qualità nella stessa autopercezione dei primi musulmani: svin-


by

colandosi dai legami di sangue e da precedenti alleanze, vennero a costituire


©

una «umma» o comunità basata sulla medesima fede, a distinzione e accanto


ht

alle altre e la funzione del Corano e dello stesso Profeta si videro arricchite di
ig

un ruolo normativo per quanto riguarda il Testo e di capo politico per quan-
yr

to riguarda Maometto, come è evidente nelle sure o capitoli che a tale perio-
op

do corrispondono [04].
C

SIONISMO, INTEGRALISMO, FON AMENTALISMO


D
Eppure, vi sono correnti di pensiero o movimenti che, ispirandosi alla fede
dei padri, hanno agito e continuano a operare nell’agone politico con modali-
tà trasformative comunque di forte impatto. Vedremo ora se si possono con-
siderare rivoluzionarie, come in taluni casi si presentano, e i limiti di tale ri-
vendicazione.

216
Vi sono movimenti che, ispirandosi alla fede dei padri,
hanno agito e continuano a operare nell’agone politico
con modalità trasformative di forte impatto

Com’è noto, il sionismo è nato come ipotesi di una soluzione alla «questione
ebraica», vale a dire alla situazione non solamente di diaspora, ma soprattut-
to di discriminazione e persino di persecuzione, che i figli d’Israele sperimen-
tavano da secoli nelle varie parti del mondo in cui si erano dovuti disperdere.

e
Al suo inizio tale movimento aveva poco a che fare con l’identità religiosa de-

or
gli ebrei, molti dei quali non erano credenti o praticanti, e neppure necessa-

ut
riamente con la Palestina. Vennero ipotizzate anche altre soluzioni che oggi

l’a
ci sorprenderebbero in base al principio: «una terra senza popolo per un po-

r
pe
polo senza terra». Inoltre, fra i primi insediamenti ebraici in Terra Santa pre-
valsero forme di comuni agricole (i cosiddetti kibbutz) animati da coloni di

ia
op
tendenza socialista se non comunista, spesso provenienti dall’Europa orien-

C
tale del Primo dopoguerra. Soltanto successivamente il ritorno (o «salita»)

o.
alla terra dei Padri assunse tinte più religiose, specialmente da parte di alcu-

R
eligioni
in
ni raggruppamenti che tuttavia neanche oggi possono dirsi predominanti né
ul
tantomeno esclusivi nello Stato d’Israele.
M

Non è un caso che esso sia di sovente definito «l’unica democrazia del

e
il

rivoluzione
Medioriente» (nonostante le molte limitazioni patite dai non ebrei, non solo
e
ic

tramite l’espropriazione di territori altrui da parte dei coloni, ma anche con


itr

recenti proposte di riforme in ambito giuridico, fortemente contestate da una


ed

parte cospicua della cittadinanza): proprio la provenienza dei primi coloni da


à

Paesi europei ha influito sulla sua istituzione e sulla forma di Stato che vi go-
et

verna. Nonostante molti elementi di trasformazione e innovazione rispetto


ci
So

allo status degli ebrei in Israele, riteniamo comunque che il termine «rivolu-
zione» non sia adeguato a definire la fattispecie del sionismo:
by
©

«C’è stata una rivoluzione sionista? Se sì, qual è stata la sua natura?
ht

[…] Che si sia trattato, riguardo all’impatto del sionismo sulla storia
ig

degli ebrei, di qualcosa almeno al limite del rivoluzionario è fuori di-


yr

scussione, mi sembra. Altrettanto fuori discussione sono le straordi-


op

narie conseguenze dell’ascesa del sionismo in ambito internazionale.


C

In generale, qualunque cosa i sionisti pensassero di fare in un parti-


colare momento, il loro movimento, tutto sommato, ha sferrato l’at-
tacco più penetrante mai esistito contro la struttura sociale e politica
consolidata del popolo ebraico nei tempi moderni. Eppure, in qualche
modo, più si esamina da vicino il caso, meno chiaro appare il caratte-
re specificamente rivoluzionario del movimento» [05].

217
Quanto ai cattolici alle prese con la modernità e le forme statuali che le sono
propri, coloro che vi si opposero sono stati definiti «integralisti», a significare
l’intento di far perdurare la societas christiana del Medioevo in condizioni che
l’avevano ormai invece definitivamente compromessa.
In questo caso sarebbe forse possibile parlare di posizione controrivo-
luzionaria, riferita principalmente alla Francia del 1789, se non conservatrice
o reazionaria. Il Sillabo e la polemica anti-modernista ne sono stati le espres-
sioni più celebri, rimaste tuttavia dopo il Concilio vaticano II appannaggio di

e
una residua per quanto combattiva minoranza.

or
Più articolato è il caso del fondamentalismo, termine di origine ingle-

ut
se e non certo araba, maturato in parte dell’evangelismo statunitense specie

l’a
nella dichiarazione di Chicago del 1978 che proprio fra i punti «fondamenta-

r
pe
li» non negoziabili elencava «l’inerranza del Testo biblico» che si intendeva
difendere dagli attacchi di un approccio storico-critico demitizzante proprio

ia
della vecchia Europa. Anche in questo caso ci pare che al massimo si possa

op
parlare di conservatorismo antirivoluzionario.

C
L’esito isolazionista e persino, in alcuni casi limite, di suicidi di mas-

o.
in
sa la dice lunga sulla sostanziale incompatibilità di tali orientamenti con gli
ul
ranca
standard della vita associata ormai prevalenti, che solo una chiusura mentale
M

patologica può ritenere inaccettabili da un autentico cristiano per perdersi in


il

prospettive palingenetico/apocalittiche puntualmente smentite dalla realtà.


B

e
aolo
ic
itr

TEOLOGIE ELLA LIBERAZIONE?


P

ed
D
Forme di ribellione e movimenti «alternativi» sarebbero comunque rintrac-
à

ciabili nella lunga storia dei tre monoteismi in esame, ma il concetto stesso di
et

«rivoluzione» è figlio della modernità. In assenza di nuovi paradigmi di ana-


ci

lisi della natura e delle caratteristiche delle società e di una loro sistematica
So

contestazione in vista di un ordine «nuovo» non ci pare appropriato ricorre-


by

re a tale termine. Il rifiuto di un determinato sovrano, di una certa dinastia o


©

di altre tipologie di leadership sono stati epifenomeni che non hanno radical-
ht

mente rovesciato la concezione dell’autorità e della sua legittimità.


ig

Le premesse perché ciò potesse accadere sono state poste in Europa oc-
yr

cidentale a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento: il recupero del sapere


op

«classico» e le nuove scoperte scientifiche ebbero anche l’esito di sottrarsi gra-


C

dualmente dal controllo della Chiesa che peraltro con la Riforma protestante
visse anche al proprio interno una spaccatura debitrice almeno in parte rispet-
to a simili nuovi orientamenti. Le cose mutarono tuttavia progressivamente,
non senza fasi di arretramento, ma la crescita e l’affermazione di una vasta e
potente classe media, distinta dalla nobiltà e dal clero, insieme alla tendenza
verso la costituzione di Stati nazionali indipendenti al posto di perduranti for-
me di governo imperiale, fecero infine maturare la svolta decisiva.

218
Con la Rivoluzione americana la legittimità del sovrano britannico venne
messa in discussione dai suoi stessi coloni che se ne resero indipendenti, piutto-
sto che dalle popolazioni locali come ci si sarebbe potuto aspettare, mentre la Ri-
voluzione francese instaurò una Repubblica laica di chiara impronta borghese.
Figlia dell’Illuminismo, fu quest’ultima a ispirare moti simili un po’
ovunque con una specie di accelerazione della storia per quanto riguarda i si-
stemi istituzionali e aprendo la via a ulteriori critiche rispetto alla struttura
delle società che col tempo avrebbe condotto alle teorie marxiste.

e
La nascita di Stati nazionali moderni e indipendenti venne poi accom-

or
pagnata dalla rivoluzione industriale, trampolino di ulteriori mutamenti che

ut
sembravano confermare la capacità umana di dominare la natura e di ser-

l’a
virsi di nuove forme di energia che permisero la fabbricazione di macchine

r
pe
già previste in precedenza (si pensi all’elica di Leonardo che avrebbe potu-
to sollevarsi nell’aria se solo si fosse stati in grado di farla girare assai più ve-

ia
locemente). Nello stesso tempo, però, sia l’estrazione del carbone sia il lavo-

op
ro umano impiegato nelle fabbriche trasformarono innumerevoli contadini

C
in minatori e operai, la classe «proletaria» di cui appunto si occuparono nuo-

o.

R
eligioni
vi movimenti politici e inedite ideologie. in
ul
M

e
Chi aderì al progetto palingenetico della rivoluzione proletaria
il

rivoluzione
e

lo fece per motivazioni più debitrici a un umanesimo


ic
itr

universalista che ai principii delle religioni di appartenenza


ed

Appartenenti alle tre religioni abramitiche hanno aderito a gruppi comunisti


à
et

forse anche ispirati dalle esigenze di giustizia delle rispettive fedi, ma non si
ci

può dire che esse furono prevalenti nel determinare la loro scelta, così come
So

non ebbero alcun ruolo sul progetto rivoluzionario che abbracciarono né tan-
by

tomeno sulle forme di militanza che misero in atto.


©

Quanto agli ebrei dell’Europa orientale, probabilmente, videro nel


marxismo una possibile soluzione anche dello stato in cui versava la propria
ht
ig

comunità, ma come parte di un più ampio e variegato problema che interes-


yr

sava tutti coloro che venivano sfruttati e oppressi dal medesimo sistema. An-
op

che coloro che provenivano dal cristianesimo e dall’islam erano in generale


C

piuttosto tiepidi rispetto al loro credo e aderirono al progetto palingeneti-


co della rivoluzione proletaria per motivazioni più debitrici a un umanesimo
universalista che ai principii delle religioni di appartenenza.

QUALCHE ECCEZIONE IN AMBITO CRISTIANO


Le premesse per lo sviluppo di teorie e prassi di tipo rivoluzionario si sono
prodotte dopo le aperture verso la modernità da parte del Concilio vaticano

219
II, partendo dalla situazione di estrema povertà e ingiustizia che missionari
cattolici constatarono nei Paesi del cosiddetto «terzo mondo» e in particola-
re in America Latina.
Una «nuova teologia intanto si stava formando anche in Europa», spe-
cialmente in Francia e in Belgio, ed ebbe come conseguenze i noti fenome-
ni dei «preti operai» e delle «comunità di base», nel segno della condivisione
e della redenzione degli «ultimi» che aveva già contrassegnato alcuni movi-
menti e ordini religiosi nel passato, ma si era limitata a una scelta di vita so-

e
bria e al servizio dei bisognosi.

or
Fu la Conferenza episcopale latino-americana, specialmente nel con-

ut
gresso di Medellin nel 1968, a raccogliere tali istanze incoraggiando i laici e il

l’a
clero a farsi carico dei diritti dei poveri, compromessi da un sistema econo-

r
pe
mico e sociale contrario ai valori del Vangelo e alla volontà divina.
La definizione dei Paesi poveri come «in via di sviluppo» sembrava in-

ia
dicare la possibilità che il divario delle condizioni di vita dei loro abitanti ri-

op
spetto a quelle del mondo sviluppato sarebbe stato superato col tempo, ma

C
tale illusione non resse a lungo e divenne evidente che ciò non si sarebbe mai

o.
in
avverato se non grazie a un cambiamento radicale della politica e dei rapporti
ul
ranca
di forza fra le due parti del pianeta: la ristretta cerchia dei Paesi occidentali in
M

pieno boom economico e il resto delle nazioni escluse da tale progresso, nelle
il

quali anche il minimo dei diritti fondamentali a un’esistenza dignitosa veniva


B

e
aolo
ic

in pratica a mancare senza realistiche speranze che si sarebbe mai raggiunto.


itr

Tali considerazioni stanno alla base del celebre libro del teologo peru-
P

ed

viano Gustavo Gutierrez, Teologia della liberazione. Prospettive, uscito nel 1971
à

(trad. it. Queriniana, 1972) e al quale ne seguirono molti anche di altri autori
et

schierati sulla stessa linea; un nuovo modo di fare teologia, non più limitata a
ci

dimostrare alcune verità riguardanti Dio e la Sua essenza, ma impegnata nel-


So

la ricerca del Suo volere e nella anticipazione della salvezza «qui e ora», non
by

soltanto quella della vita futura ma la trasformazione della vita dei credenti
©

e del mondo che li circondava in base al loro rapporto con Dio e la Sua Paro-
ht

la, rivisitata tenendo conto delle urgenze di cambiamento nelle relazioni fra
ig

gli esseri umani che devono ispirarsi alla giustizia, alla libertà e alla fraterni-
yr

tà su un piano di rispetto reciproco e di eguaglianza fra tutti.


op

Almeno un accenno va fatto a religiosi che, a partire da tali premesse,


C

giunsero ad abbracciare le armi, comunque senza partecipare alla presa del


potere in nome di una rivoluzione: il caso forse più emblematico è quello di
padre Angelo Pansa che, negli anni Sessanta – durante la guerra civile in Con-
go – guidò un commando di mercenari che salvò dalla tortura e dalla mor-
te migliaia di preti, suore, uomini, donne e bambini. La sua storia ha ispirato
un libro di Valerio Massimo Manfredi [06], egli tuttavia, l’unica volta che ebbe
l’occasione di far fuoco su un nemico, si trovò l’arma «provvidenzialmente»

220
inceppata. Ciò non toglie che sia stato il comandante di altri che invece ucci-
sero davvero gli aguzzini di turno, ma come forma interposta di legittima di-
fesa di innocenti inermi da essi fatta propria, storia assai diversa per modali-
tà e finalità di quella ambigua del cosiddetto «frate mitra», al secolo Silvano
Girotto, ch’ebbe a che fare anche con le Brigate rosse, condividendone in par-
te l’operato per poi invece divenire un collaboratore di giustizia.
Negli anni Ottanta del secolo scorso la Congregazione per la dottrina
della fede contestò alla teologia della liberazione di essere troppo condiziona-

e
ta dal marxismo e di trascurare la soteriologia ultraterrena, parte fondamen-

or
tale dell’annuncio cristiano. Tuttavia, alcune istanze quali l’opzione prefe-

ut
renziale per i poveri e l’impegno per la loro promozione umana non poterono

l’a
essere respinti e risuonano in molti documenti pontifici fino a oggi. Anche la

r
pe
condizione femminile e il rispetto della spiritualità tipica delle popolazioni
indigene stanno affiorando come ulteriori ambiti per la teologia della libera-

ia
zione, che però corre il rischio, secondo alcuni, di interessarsi unicamente di

op
categorie svantaggiate e oppresse senza un adeguato riferimento al ruolo di

C
Dio e della fede in Lui e a favore di tutta l’umanità, che la condannerebbe a

o.

R
eligioni
un immanentismo irricevibile. in
ul
M

RAGIONEVOLI UBBI

e
il
D
Non soltanto le scienze cosiddette «esatte», soprattutto la fisica quantistica,

rivoluzione
e
ic

sono giunte recentemente a concludere (provvisoriamente) che non possia-


itr

mo avere certezze assolute, ma anche la giurisprudenza, cosa non da poco,


ed

ritiene accettabili solo sentenze che siano «al di là di ogni ragionevole dub-
à

bio», non potendo escludere che un incalcolabile numero di circostanze for-


et

tuite possano condurre a condanne errate che tuttavia le nostre limitate


ci

competenze non sarebbero mai in grado di evitare tenendo conto nella giu-
So

sta proporzione di tutte le possibili variabili in gioco.


by

Non si vede dunque il perché in filosofia o in teologia tale «ristrettez-


©

za» del nostro sapere non debba valere altrettanto. Si va per ipotesi e pro-
ht

gressive approssimazioni in un percorso asintotico che sarebbe opportuno


ig

accettare senza pretendere di più. Fatte salve queste premesse, ci sembra ra-
yr

gionevole concludere per il momento che la «teologia della liberazione» in


op

campo cristiano sia la forma di impegno religiosamente motivato che più si


C

è avvicinato al concetto di rivoluzione.


Anche il mondo islamico, in forza di una visione universalista non pre-
valente invece nell’ebraismo che infatti non fa proselitismo, ha conosciuto
negli ultimi tempi rivolgimenti di non poco conto che pure a livello politico
hanno avuto evidenti conseguenze, ma anche in questo caso conviene cerca-
re di analizzare teorie e prassi più da vicino prima di formulare una qualsia-
si, seppur provvisoria anche in questo caso, conclusione.

221
IL CASO EI REGIMI «ISLAMICI»

D
Il trasferimento della definizione di «fondamentalisti» ai moderni movimenti
islamisti, per ragioni di egemonia linguistica, è stato tanto inevitabile quan-
to inavvertitamente problematico: l’interpretazione del Testo «rivelato» non
è infatti il punto cruciale della questione.
L’intero mondo musulmano sembra interessato da una progressiva
crescita e affermazione di correnti e movimenti che puntano decisamente
all’islamizzazione integrale della società, proponendo questa opzione come
l’unica in grado di risolvere, insieme ai molti problemi che affliggono questa

e
or
parte del mondo, la sua stessa crisi di identità e di rispondere all’ansia di ri-

ut
scatto che la pervade. Così facendo essi pretendono di riproporre semplice-

l’a
mente il giusto rapporto tra religione e politica che l’islam implicherebbe ne-

r
cessariamente e che sarebbe stato alla base della straordinaria espansione e

pe
fioritura dei secoli d’oro della civiltà musulmana.

ia
Fino a che punto questa ideologia si riallaccia effettivamente alla tradi-

op
zione islamica e in che misura è invece una sua reinterpretazione funzionale

C
a situazioni recenti e contingenti? Parole d’ordine e strategie dei gruppi che se

o.
ne fanno promotori appartengono veramente a un presunto modello islamico
in
ul
originario o riproducono in chiave religiosa qualcosa di analogo a quanto fino
ranca
M

a poco tempo fa apparteneva ai movimenti di tipo nazionalista o rivoluziona-


il

rio? Perché queste due ultime impostazioni, sino a ieri prevalenti, sembrano
B

e
aolo
inesorabilmente entrate in crisi e quali sono i motivi della grande fortuna in-
ic
itr

contrata dal radicalismo musulmano che ne ha preso il posto? La nuova pola-


P

ed

rizzazione internazionale, che sembrava decisa ad assegnare all’islam il ruolo


di grande antagonista dell’Occidente prima dell’invasione dell’Ucraina da par-
à
et

te russa e della crescita esponenziale della Cina, impone una valutazione più
ci

attenta di quella realtà articolata e complessa che troppo spesso viene sbriga-
So

tivamente qualificata in blocco come «fondamentalista», «intollerante» e «fa-


by

natica», mentre rappresenta soltanto uno dei possibili volti attraverso i quali
una grande civiltà torna a farcisi incontro, in una stagione di rinnovati e inedi-
©

ti contatti, carica di oscure minacce non meno che di potenziali opportunità.


ht
ig
yr

Tra le varie presenze avvertite con disagio, quella islamica


op

viene presentata e percepita come la più invadente,


C

problematica e difficilmente assimilabile

È soprattutto oggi che, con il fenomeno crescente delle migrazioni in Occi-


dente, i musulmani sono percepiti con timore, come portatori di una visio-
ne del mondo antitetica e incompatibile rispetto a quella che siamo abitua-
ti a considerare tipica della modernità e universalmente valida. Tra le varie

222
presenze avvertite con disagio, quella islamica viene presentata e percepita
come la più invadente, problematica e difficilmente assimilabile:

«In concreto, oggi in Europa la xenofobia si concentra sugli immigra-


ti africani e islamici. È tutta e soltanto da spiegare come un rigetto di
tipo razziale? In termini etnici gli asiatici (cinesi, giapponesi, coreani
ecc.) non sono meno diversi dai bianchi di quanto lo siano gli africani.
E nemmeno gli indiani (che provengono dall’India) sono «come noi»:

e
non lo sono per niente. Eppure, né gli asiatici né gli indiani suscitano,

or
di solito, reazioni di rigetto, nemmeno dove sono oramai numerosi (gli

ut
asiatici negli Stati Uniti, gli indiani in Inghilterra). Vale anche notare

l’a
che gli asiatici non si lasciano assimilare più di quanto accada agli afri-

r
pe
cani. Dal che si deve ricavare che la xenofobia europea si concentra su-
gli africani e sugli arabi soprattutto se e quando sono islamici. Cioè a

ia
dire, si tratta soprattutto di una reazione di rigetto culturale-religio-

op
sa. La cultura asiatica è anch’essa lontanissima da quella occidentale,

C
ma è pur sempre «laica» nel senso che non è caratterizzata da nessun

o.

R
eligioni
in
fanatismo o comunque militanza religiosa. Invece la cultura islamica
ul
lo è. E anche quando non c’è fanatismo, resta che la visione del mon-
M

do islamica è teocratica e che non accoglie la separazione tra Stato e

e
il

Chiesa, tra politica e religione. Che è invece la separazione sulla quale

rivoluzione
e
ic

si fonda oggi – in modo davvero costitutivo – la città occidentale. Del


itr

pari, la legge coranica non conosce i diritti dell’uomo (della persona)


ed

come diritti individuali universali e inviolabili; un altro cardine, sog-


à

giungo, della civiltà liberale. E questi sono i veri nodi del problema.
et

L’occidentale non vede l’islamico come un «infedele». Ma per l’islami-


ci

co l’occidentale lo è, Excusez du peu, scusate se è poco» [07].


So
by

Di teocrazia si può parlare quando guide religiose assumono direttamente ca-


©

riche di governo, ma è il caso del solo Iran sciita (circa il 10% dei musulmani),
ht

essendo del tutto assente nel sunnismo qualcosa di paragonabile a un «clero»,


ig

per cui sarebbe semmai meno stravagante parlare di «cesaropapismo», aven-


yr

do gli Stati interessati qualcosa che, con alcune varianti, è in buona sostanza
op

un ministero degli Affari religiosi. Portare poi come esempio di mancata inte-
C

grazione quello dei musulmani, il caso del subcontinente indiano rasenta l’in-
verosimile: se c’è un luogo dove essi sono stati maggiormente influenzati da
usi e costumi locali è proprio l’India e le recenti tragedie di giovani donne pa-
kistane assassinate dai loro stessi parenti perché riluttanti a matrimoni «com-
binati» fin dalla loro nascita ne è la prova lampante. Nulla del genere è infatti
riscontrabile nelle fonti musulmane e si tratta piuttosto di consuetudini loca-
li ritenute islamiche senza alcun fondamento.

223
Oltretutto, la questione del giusto rapporto che deve sussistere fra re-
ligione e politica è uno dei temi più dibattuti all’interno dell’islam, fin dalle
sue origini. Non mancano certo né sono di scarso rilievo coloro che concepi-
scono tale rapporto in termini di stretta interdipendenza in senso integrali-
sta, ma pretendere che vi sia in proposito una visione unica e invariabile è
quanto meno azzardato.
Sono anzi proprio alcuni intellettuali di spicco iraniani, non a caso
quasi del tutto ignorati, a denunciare nettamente il paradosso che ci attana-

e
glia: «Se possiamo conciliare islam e rivoluzione, perché non anche islam e

or
diritti umani, democrazia e libertà?» [08]. Fino a esplicite accuse di una passi-

ut
vità potenzialmente devastante:

r l’a
pe
«Rivoluzione islamica (o indù, o buddhista…): quale dei due termini
è il più attivo, il più determinante? Rivoluzione o islam? È la religio-

ia
ne che cambia la rivoluzione, la santifica, la risacralizza? O è al contra-

op
rio la rivoluzione che storicizza la religione, che fa di essa una religione

C
impegnata, in breve, un’ideologia politica? […] Così facendo, la religio-

o.
ne cade nella trappola dell’astuzia della ragione: volendo ergersi contro
in
ul
ranca
l’Occidente, si occidentalizza; volendo spiritualizzare il mondo, si se-
M

colarizza; e volendo negare la storia, vi si inabissa completamente» [09].


il
B

e
aolo
Come in alcuni casi prodotti dalla «teologia della liberazione» cristiana, si è
ic
itr

infatti giunti al sorgere e al diffondersi di movimenti che hanno anche pre-


P

ed

teso di sovvertire le istituzioni vigenti per sostituirle con altre mediante la


lotta armata. Come spesso accade in simili circostanze, percependo e pre-
à
et

sentando la propria causa come uno scontro fra luce e tenebre, non privo di
ci

colorazioni apocalittiche, il ricorso alla violenza anche a danno di civili in-


So

nocenti non trova alcun limite fino a degenerazioni che pongono il gruppo
by

di fedeli a oltranza al posto di Dio stesso nel valutare chi abbia il diritto a
sopravvivere o meno e ad agire di conseguenza. Com’è noto la propaganda
©

dell’Is è portata avanti anche da testate in lingue occidentali, la più celebre


ht
ig

delle quali è «Dabiq», ma in francese è forse più importante «Dàr al-Islàm»


yr

da cui riprendiamo uno stralcio per dare un’idea del contenuto e dello stile:
op

«Un gruppo di noi, ai quali rendiamo omaggio in questo numero, ha


C

deciso di colpire il nemico sul suo proprio terreno, affinché sappia che
la guerra non si fa guardando la tv o votando in un parlamento. Che la
Francia pianga i suoi morti e veda il colore del loro sangue, come fac-
ciamo noi coi nostri. […] Il Califfo dei musulmani ha incitato i creden-
ti a colpire nei Paesi occidentali attraverso le parole di Abù Muham-
mad Al-’Adnànì: “O monoteista, non perder l’occasione di combattere
in qualsiasi modo: attacca i soldati e coloro che parteggiano per i tiran-

224
ni, le loro forze armate, la loro polizia, i loro servizi segreti e i loro col-
laboratori. Fai tremare la terra sotto i loro piedi, rendi loro la vita im-
possibile, e se puoi uccidere un miscredente americano o europeo. […]
Se non hai esplosivo o armi, isolati con un miscredente qualsiasi e fra-
cassagli la testa con una pietra, oppure sgozzalo con un coltello, arro-
talo con la tua auto, gettalo da un monte, strozzalo o avvelenalo. […]
Se non ne sei in grado, dai fuoco alle loro case, alle loro auto e negozi…
e se neppur questo ti è possibile sputa almeno loro in faccia. Se ti rifiu-
ti di farlo mentre i tuoi fratelli son bombardati, si fanno uccidere, per-

e
or
dono la vita e ogni loro avere ovunque, allora poniti seriamente delle

ut
domande circa la tua fede, in quanto sei in grave pericolo, la religione

l’a
infatti non esiste senza lealtà e dedizione”» [10].

r
pe
L’ALIBI ELLA SHARÌ’A

ia
D
Pur senza giungere a livelli di paranoia come quelli or ora citati, non sono

op
mancati né mancano movimenti che argomentano la necessità di un sovver-

C
timento delle istituzioni anche mediante il ricorso alla violenza pretendendo

o.

R
eligioni
di definire i propri avversari degli apostati, in quanto non applicherebbero la
in
ul
famosa sharì’a o legge islamica, l’unica completa, perfetta e non modificabi-
M

le poiché avrebbe Dio stesso come emanatore e quindi anche la sola a poter

e
il

vantare la caratteristica di rappresentare la soluzione di qualsiasi problema,

rivoluzione
e

in ogni luogo e fino alla fine dei tempi.


ic
itr

Il punto nodale che viene generalmente sottaciuto è però che tale


ed

presunto insieme di norme non è mai stato codificato e si configura come


una giurisprudenza piuttosto che un «diritto positivo». Le sue fonti sareb-
à
et

bero il Corano, la Sunna (cioè le raccolte di migliaia di detti e aneddoti fat-


ci

ti risalire al Profeta), il consenso (in teoria della comunità o «umma», ma


So

in pratica dei giurisperiti dei primi secoli e delle loro scuole) e il principio
by

di «analogia», l’unico che sottintende uno sforzo comparativo da parte del


legislatore e non a caso rifiutato dalla scuola giuridica più intransigente. No-
©

nostante questo e in barba al principio in base al quale tutte le tre religioni


ht
ig

abramitiche riconoscano che la Misericordia divina è prevalente rispetto alla


yr

Giustizia dell’Onnipotente, l’applicazione delle pene corporali (quasi mai ap-


op

plicabili in quanto è richiesto un numero inverosimile di testimoni oculari


C

e sono applicate moltissime circostanze attenuanti) soprattutto riguardo ad


adulterio, apostasia, consumo di alcolici o di carne suina, furto… ma anche
abbigliamento o comportamenti sconvenienti sono sbandierati come i tocca-
sana contro ogni perversione umana, specialmente quelle che rappresente-
rebbero un’imitazione dei costumi occidentali giudicati corrotti e immorali.
È stato inoltre documentato che i paladini di questa panacea sono prevalen-
temente di formazione tecnico-scientifica [11], mentre – anche se quasi del tut-

225
to sconosciuti in Occidente – non pochi musulmani invocano, mettendosi pe-
ricolosamente a rischio, che ci si attenga al solo testo coranico, debitamente
contestualizzato e interpretato [12]. Nel contesto arabofono classico, tra l’al-
tro, sono stati probabilmente più i letterati e in particolare i poeti a mettere
in cattiva luce sovrani dispotici e crudeli rispetto ad altre categorie di perso-
ne istruite [13].

CONCLUSIONI

e
La necessità di norme per il funzionamento di qualsiasi collettività è evi-

or
dente fin dal codice di Hammurabi, ma lo «Stato etico» d’ispirazione hege-

ut
liana ha dato vita ai totalitarismi di estrema destra e sinistra devastando

l’a
l’Europa della prima metà del secolo scorso. Da quella francese alla bolsce-

r
pe
vica, le rivoluzioni che hanno avuto successo hanno anche comportato un
costo incalcolabile di vite umane, non come effetto collaterale ma per far

ia
piazza pulita dalle categorie dominanti nel precedente «ordine» e questo è

op
probabilmente anche il fattore determinante di varie forme di terrorismo

C
che mira almeno a destabilizzare un sistema in vista di una presunta e im-

o.
minente rivoluzione destinata a stravolgere le istituzioni di un sistema per
in
ul
ranca
sostituirle con altre.
M

La statolatria di gruppi e movimenti «rivoluzionari» anche religiosa-


il

mente ispirati ci pare sia figlia più di questo «recente» e problematico mo-
B

e
aolo
dello che di genuine impellenze dettate dalla fede. Il pensiero religioso, del
ic
itr

resto, non è certamente avulso dai condizionamenti spazio-temporali in cui


P

ed

viene elaborato.
Gli esiti di tali «rivoluzioni» o comunque di regimi che si ispirano
à
et

principalmente o esclusivamente a un credo non sono quindi immuni dal-


ci

le temibili conseguenze di qualsiasi governo che pretenda di invadere il sa-


So

crario delle singole coscienze e imponga a tutti i cittadini/sudditi l’equiva-


by

lenza fra peccati e reati.


©

La relazione con l’Altro e con l’Oltre viene in tal modo completamen-


ht

te tradita, in un immanentismo idolatra che tutto ci fa perdere senza guada-


ig

gnarci nulla.
yr
op
C

PAOLO BRANCA è professore associato di Lingua


e letteratura araba all’Università Cattolica di
Milano. Fra le sue pubblicazioni: Voci dell’Islam
moderno (Marietti, 1991), Introduzione all’Islam
(San Paolo Edizioni, 2005), Yalla Italia! Le vere
sfide dell’integrazione di arabi e musulmani nel
nostro Paese (Edizioni Lavoro, 2007). Ha tradotto il
romanzo del premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz,
Vicolo del Mortaio (Feltrinelli, 1989).

226
01 E.W. Böckenförde, Lo Stato come Stato
etico, trad. it. Pisa, Ets, 2017, pp. 29 ss.
02 Cfr. A.J. Herschel, Dio alla ricerca dell’uo-
mo, trad. it. Roma, Borla, 1983; A. Neher, L’essenza
del profetismo, trad. it. Milano, Lampi di Stampa,
1999; A. Mello, Il Dio degli Ebrei: Riflessioni sull’E-
sodo, Milano, Terra Santa, 2016.
03 Cfr. G. Giavini, Ma io vi dico. Esegesi e
vita attorno al Discorso della montagna, Milano,
Ancora, 1993.
04 Cfr. P. Branca, Introduzione all’Islam,
Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni, 1995.
05 . Vital, Zionism as revolution? Zionism

e
D
or
as rebellion?, «Modern Judaism», vol. 18, n. 3/1998,
p. 205.

ut
06 V.M. Manfredi, Quinto comandamento,

l’a
Milano, B. Mondadori, 2018.
07 G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo

r
pe
ed estranei, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 48 ss.
08 Ed. a cura di M. Sadri e A. Sadri, Reason,

ia
Freedom, and Democracy in Islam. Essential
Writings of Abdolkarim Soroush, Oxford, Oxford

op
University Press, 2000, p. 22.

C
09 . Shayegan cit. in K. Fouad Allam,
D
L’Islam globale, Milano, Rizzoli, 2002, p. 79.

o.

R
10 Cit. in P. Branca, Islamismo, Milano,

eligioni
Editrice Bibliografica, 2017. in
ul
11 Cfr. . Gambetta e S. Hertog, Engineers
D
M

of Jihad. The Curious Connection between Violent


Extremisms and Education, Princeton, Princeton

e
il

University Press, 2016.

rivoluzione
e

12 Cfr. P. Branca, Corano e/o Sunna? Fun-


ic

zione narrativa e prescrittiva nelle «fonti» dell’Islam,


itr

«Stato e Chiese», n. 3/2022, pp. 1 ss.


ed

13 Cfr. S. Elgebily, The Word against the


Sword: Arabic Poetry in the Face of Despotism,
«Linguistics and Literature Studies», vol. 5, n.
à
et

1/2017, pp. 51 ss.


ci
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227
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COMITATO Francesca Lacqua
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Guido Formigoni I RE AZIONE


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COMITATO IREZIONE E RE AZIONE


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I RE AZIONE Strada Maggiore, 37
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