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02/2023
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RIVISTA IL MULINO
BOLOGNA, ANNO LXXII
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Editoriale
Siamo a qualche anno dalla fine delle guerre napoleoni-
che. Dopo la sconfitta a Waterloo, nel 1815, Bonaparte era
stato esiliato a Sant’Elena, dove sarebbe rimasto fino alla
morte, nel 1821. L’anno successivo Hegel tiene per la pri-
e
ma volta le sue lezioni sulla filosofia della storia all’Uni-
or
versità di Berlino. Nella versione del corso che verrà pub-
ut
blicata postuma, nel 1837, a cura di Eduard Gans, verso
l’a
la fine c’è una notazione che colpisce per il tono persona-
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le, diverso dallo stile prevalente in un testo che era sta-
to redatto per le aule universitarie: «Dopo quarant’anni
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di guerre e di confusione smisurata un vecchio cuore po-
op
trebbe infine rallegrarsi di vederne arrivato il termine e
C
sopravvenire una pacificazione». La rivoluzione francese
o.
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è ormai lontana e, con la scomparsa di Napoleone, l’Eu-
ul
ropa sembra aver ritrovato un equilibrio garantito dal-
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ro, «il concetto del diritto si fece valere tutto in una volta
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Serve
più Stato?
«Non soddisfatto che siano in vigore diritti razio-
nali, libertà della persona e della proprietà, che vi
sia un’organizzazione dello Stato e al suo interno
sfere della vita civile, tenute ad amministrare da
sé certi affari, non soddisfatto che gli uomini in-
telligenti abbiano influenza sul popolo, e che in
esso regni la fiducia, il liberalismo oppone a tutto
ciò il principio degli atomi, delle singole volontà
e
individuali: tutto deve avvenire attraverso il loro
or
esplicito potere e la loro approvazione esplicita.
ut
Con questo formalismo della libertà, con quest’a-
l’a
strazione, le volontà individuali non fanno sorge-
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re nulla di stabile nell’organizzazione. Alle dispo-
sizioni particolari del governo si oppone subito la
ia
libertà, poiché quelle disposizioni sono volontà
op
particolare, dunque arbitrio. La volontà dei mol-
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ti abbatte il ministero e quella che era stata fin qui
o.
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l’opposizione ne prende il posto; ma quest’ultima,
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diventata governo, ha di nuovo i molti contro di
itoriale
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re in tempi a venire».
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ti con la delusione che avrebbe provato per gli eventi del
XIX secolo. Poco dopo la sua scomparsa, nel 1831, arriva
a Berlino un giovane brillante e turbolento, nato a Trevi-
ri, in quella Renania dove le idee della rivoluzione ave-
vano messo solide radici. Nella capitale Karl Marx segue
le lezioni di Gans, ma non si lascia conquistare dalla vi-
sione hegeliana dello Stato come mediazione tra ordine
e libertà. D’altro canto, è difficile dargli torto. Nella Pub-
e
blica amministrazione i seguaci di Hegel vengono mano
or
a mano messi ai margini da funzionari che sono più in li-
ut
nea con l’impronta reazionaria del re di Prussia. Come si
l’a
può dar credito al ruolo provvidenziale dello Stato quan-
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do questo si schiera dalla parte dei proprietari dei boschi
contro dei poveracci che raccolgono la legna caduta per
ia
riscaldare le proprie misere abitazioni?
op
Messa in discussione da Marx, da Stirner, da Ba-
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kunin e sulle barricate del «secolo delle rivoluzioni», la
o.
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visione provvidenziale dello Stato di Hegel si rifugia nelle
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aule universitarie, dove alimenta una straordinaria fiori-
Ed
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itoriale
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scelgono di fare propri. Nel Secondo dopoguerra auto-
ri come Hayek, Buchanan, Nozick e Rothbard articolano
quella che Raymond Plant ha chiamato «teoria neo-libe-
rale» dello Stato, che si oppone alla visione provviden-
ziale della politica che era stata delineata da Hegel, e che
aveva trovato, secondo questi autori, i propri epigoni
sia nei fascismi sia nei socialismi del Novecento. Anche
quando viene perseguita da un regime democratico, so-
e
stengono i neo-liberali, una visione teleocratica non può
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che avere l’effetto di comprimere la libertà negativa. Col
ut
passare del tempo la teoria neo-liberale diventa egemo-
l’a
ne non solo tra i conservatori, ma anche tra i progressi-
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sti. Intorno alla metà degli Ottanta, persino nella Francia
di Mitterrand, questo nuovo modo di pensare si impo-
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ne, attraverso la felice formulazione ideata da Laurent
op
Cohen-Tanugi de «Le droit sans l’État». Quando cade il
C
Muro di Berlino la storia appare a molti dare il proprio
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assenso al modello nomocratico del ruolo dello Stato, che
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diviene la nuova ortodossia a destra come a sinistra.
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«La cosa importante per il governo non è
fare ciò che gli individui fanno già, e farlo
un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò
che presentemente non si fa del tutto».
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LA CITAZIONE
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RIVISTA IL MULINO
3–6 10 – 27
E ITORIALE Mario Ricciardi
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UTOPIE RAGIONEVOLI
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SERVE PIÙ STATO?
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28 – 37 38 – 47
Paolo Gerbaudo Floriana Cerniglia
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PIÙ STATO, QUALE STATO? FRA STATO E MERCATO
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48 – 56 57 – 64
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Alberto Gherardini Laura Pennacchi
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e Francesco Ramella UN NUOVO INTERVENTISMO
SOMMARIO
65 – 74 75 – 83
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84 – 92 93 – 101
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122 – 133
Intervista
MARIANA MAZZUCATO
a cura di
Alessandro Bonetti
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BOLOGNA, ANNO LXXII
NUMERO 522 – 02/2023
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Andrea Capussela AL O CAPITINI
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ASCESA E CA UTA di Piergiorgio Giacchè
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I UE OR INI POLITICI
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Globalizzazione Pnrr
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Fabrizio Traù Valeria Termini
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LA GLOBALIZZAZIONE UN’AGEN A ENERGETICA
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E LA STORIA in PER L’ITALIA
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SOMMARIO
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212 – 227
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Idee
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Paolo Branca
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RELIGIONI E RIVOLUZIONE
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MARIO
UTOPIE
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RICCIAR I
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RAGIONEVOLI
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Nel 1790 u ufficiale dell’esercito ardo di famiglia aristocratica viene
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condannato a trascorrere 42 giorni agli arresti domiciliari in seguito a un
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duello con un rivale in amore. Chiuso nella propria stanza all’interno della
l’a
cittadella militare di Torino, Xavier de Maistre (fratello del più noto Joseph)
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decide di raccogliere le riflessioni e le fantasticherie cui si era abbandonato
nel corso di questo lungo periodo di reclusione ricorrendo a un curioso espe-
ia
diente letterario. Un prigioniero non può andarsene in giro, ma può adattare
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lo spazio che ha a disposizione grazie all’immaginazione. Da questa intuizio-
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ne nacque un testo singolare: Voyage autour de ma chambre, nel quale il viag-
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gio ha luogo interamente all’interno della sua stanza. La reclusione forza-
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ta diviene l’occasione per liberare la mente, sottraendola alle pressioni cui
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dalle aspettative che delimitano il perimetro di ciò che possiamo fare. Nella
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sua stanza, de Maistre scopre di essere libero di seguire un percorso col qua-
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PASSEGGIARE E FANTASTICARE
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ne il 1794, e come luogo di stampa Torino (ma in realtà vede la luce a Losan-
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peculiare del recluso motivi presenti già nella cultura antica: il viaggio come
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esperienza che consente di mettere in prospettiva gli usi e i costumi del Pae-
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se di origine, e come percorso che conduce alla conoscenza. Nel primo caso,
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nel guardare un oggetto come fattore che può condurre una persona a met-
op
questo fenomeno attraverso una pluralità di esempi, dagli inganni dei sensi
alla diversità dei costumi. Attraverso la sistemazione che questi esempi ri-
cevono nella dottrina dei modi dello scetticismo di Sesto Empirico tale mo-
tivo viene tramandato ai moderni [01]. Da Montaigne a Voltaire, passando per
Fénelon, Swift, Montesquieu e Diderot, l’effetto di spiazzamento – la sospen-
sione del giudizio – provocato dal cambiamento di prospettiva nel guardare
qualcosa diventa un potente fattore di disturbo della tradizione. Viaggiare è,
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in questo senso, un’esperienza che allarga le vedute, esponendo al dubbio ciò
che sembrava fuori discussione prima di mettersi in movimento. Nel secondo
caso, invece, quella del viaggio è un’immagine che evoca un percorso intellet-
tuale. La filosofia stessa, nella «seconda navigazione» di Platone, è una sor-
ta di viaggio interiore che conduce alla conoscenza. Stavolta, l’enfasi cade sul
fatto che allontanarsi dal proprio punto di partenza per raggiungere la meta
comporta uno sforzo, una ricerca, e la mediazione di una guida. Un interlo-
cutore, come Socrate, o una capacità naturale che richiede un qualche tipo
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di esercizio: il senso morale o la ragione. Per raggiungere la destinazione bi-
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sogna avere un’idea dell’obiettivo e della direzione verso la quale procedere.
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Una scoperta casuale non è, in questo senso, soddisfacente, perché lo scopo
l’a
del viaggio viene raggiunto solo se il percorso è quello corretto. Non si tira a
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indovinare, ogni passo deve avere un suo «perché» che lo giustifica.
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Chi ha la forza di mettersi in cammino e di seguire
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fino in fondo il percorso va incontro a un cambiamento
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del proprio atteggiamento nei confronti della realtà
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icciar
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la realtà. Che precedenti del genere siano presenti a de Maistre quando con-
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passioni e ragione in Platone. La filosofia libera anche chi si trova in uno stato
di costrizione individuale, e lo aiuta a superare, non solo i limiti della propria
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va dallo stato di disperazione in cui era precipitato grazie al dialogo con una
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figura che impersona la filosofia (anche in questo caso c’è un’allusione espli-
cita a Platone).
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di una guida verso la conoscenza, ma quella del viaggio in uno spazio ristret-
to, nel corso del quale egli si scambia qualche parola col suo servitore, che
ogni tanto si fa vivo per attendere ai suoi bisogni, ma soprattutto riflette sul-
le proprie esperienze, sui propri ricordi e sulle letture che lo hanno colpito,
o da cui ha tratto qualche insegnamento. Ragiona ad alta voce, rivolgendosi
alla cagnetta che gli tiene compagnia, o a interlocutori immaginari attraver-
so i quali mette a fuoco il proprio conflitto interiore tra razionalità e passioni.
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LA VITA RIESAMINATA
La relativa solitudine non costringe de Maistre all’inazione. Al contrario, pas-
sando dal letto alla poltrona, prendendo un libro da leggere o osservando un
quadro, egli mette in scena un dialogo interiore di straordinaria vivacità. Al
punto che, quando sta per essere rimesso in libertà, quasi si rammarica che
il ritorno alla normalità comporterà la perdita di un’altra – preziosa – liber-
tà, quella interiore. Pur essendo di gradevole lettura, il de Maistre del Voya-
ge non regge il confronto con il Rousseau de Les rêveries du promeneur solitaire
(pubblicate nel 1782, a quattro anni dalla morte dell’autore).
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Per Rousseau il pensiero è una vocazione, e la libertà
l’a
interiore il risultato di una sorta di ascesi intellettuale
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Anche per il filosofo ginevrino è l’esclusione forzata dalla società a dare im-
ia
op
pulso a un’opera letteraria in cui le passeggiate solitarie vengono presentate
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come l’occasione per riflettere sulla propria vita. Pensare, per Rousseau, non
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è un mero conforto nelle avversità, come per de Maistre. Per lui il pensiero
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è una vocazione, e la libertà interiore il risultato di una sorta di ascesi intel-
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lettuale, il cui scopo è raggiungere uno stato di serenità che favorisca la chia-
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ragionevoli
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nella raffinatezza del loro odio, quale tormento risultasse più crude-
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le alla mia anima sensibile, e hanno spezzato con violenza ogni lega-
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me che ci univa. Avrei amato gli uomini anche contro la loro volontà.
Solo cessando di esserlo hanno potuto sottrarsi al mio affetto. Eccoli,
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dunque, sconosciuti ed estranei, nulli ormai per me, perché così essi
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hanno voluto. Ma io, separato da loro e da tutto, che cosa sono io? Ecco
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ciò che mi resta da cercare. Purtroppo però, questa ricerca dovrà esse-
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cui debbo per forza passare, perché da loro possa pervenire a me stes-
op
so» [02].
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ni. Nella quarta passeggiata, infatti, l’attenzione si sposta sulla menzogna, sul
valore della verità, e sulla giustizia [04].
Sarebbe quindi un errore affermare, come ha fatto James Miller, che
le Rêveries segnerebbero una svolta nell’atteggiamento di Rousseau, in quan-
to alla prospettiva dell’azione – esemplificata, in modo diverso, in molti dei
suoi scritti precedenti – si sostituirebbe quella dell’inazione, del ritiro «in se-
reno isolamento e tranquilla passività» [05]. Certo, le riflessioni del passeggia-
tore rousseauiano, il suo «fantasticare», sono situate in una dimensione sog-
e
gettiva che, a prima vista, appare lontana dalle preoccupazioni «sociali» di
or
opere come i due discorsi scritti negli anni Cinquanta, o il Contrat social del
ut
1764. D’altro canto, Rousseau non era restio all’autoesame – più o meno sin-
l’a
cero, come egli stesso riconosce nelle Rêveries – e all’indagine della soggettivi-
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tà, come mostrano le sue riflessioni sull’educazione (un tema che sta al confi-
ne tra privato e pubblico, in più di un senso). Se le Rêveries hanno per noi un
ia
tono diverso da questi scritti precedenti è perché sappiamo che esse sono un
op
lavoro degli ultimi anni di vita del filosofo, rimasto peraltro incompiuto. La
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passeggiata solitaria, tuttavia, non è una fuga dalla società, nonostante quel
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che Rousseau stesso afferma a più riprese, ma una presa di distanza necessa-
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ria per recuperare quella libertà di giudizio che l’uomo perde diventando so-
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cievole.
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Anche nelle Rêveries c’è sullo sfondo l’idea di perfettibilità degli esseri uma-
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ni che aveva un ruolo centrale nel secondo discorso, quello sulla disegua-
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glianza. Tale nozione, come ha osservato Robert Wokler, introduce l’idea che
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seri umani sia con quella del loro progredire [06]. La vita esaminata nelle Rêv-
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tesi che voglia anche in qualche modo fare un bilancio della propria vita, per-
ché avverte l’avvicinarsi della fine, non è priva di fondamento. Tuttavia, essa
non è sufficiente per spiegare perché Rousseau ritorni sul tema della giusti-
zia – vista attraverso la questione della liceità della menzogna – di cui si era
ampiamente occupato in passato. Cosa c’è ancora da aggiungere? Perché tor-
nare a esaminare questi temi partendo dall’introspezione?
Nel secondo discorso i problemi che derivano dalla convivenza tra in-
dividui portatori di interessi confliggenti, ma costretti a coordinarsi e a coo-
e
perare per affrontare le sfide poste da un ambiente avverso, venivano affron-
or
tati con un metodo genealogico [08]. La somiglianza di questo approccio con la
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storia o l’autobiografia è solo superficiale. La situazione originale del genere
l’a
umano descritta da Rousseau non ha una collocazione temporale, e non pre-
r
pe
tende di ricostruire fatti realmente accaduti. Essa è una congettura a partire
dalle condizioni dell’umanità del XVIII secolo. Per Rousseau il suo è un tem-
ia
po in cui gli esseri umani vivono in società nelle quali la diseguaglianza delle
op
condizioni personali è sancita da istituzioni sociali e politiche che sono l’esito
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di un lungo processo di evoluzione. Nel corso di tale processo le capacità na-
o.
in
turali della specie umana hanno reagito alle pressioni ambientali, che ne mi-
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nacciavano la sopravvivenza, attraverso schemi di coordinamento e di coo-
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perazione che si sono col tempo stabilizzati come convenzioni, ovvero come
ragionevoli
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de il circolo e tocca il punto in cui siamo partiti: è qui che tutti gli in-
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dividui ridiventano uguali perché non sono nulla, e, siccome non han-
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no altra legge che la volontà del padrone e questi non ha altra regola
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che le sue passioni, la nozione del bene e i principi della giustizia sva-
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niscono di nuovo. Qui tutto si riconduce alla sola legge del più forte, e
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cui abbiamo prese le mosse perché quello era lo stato di natura nel-
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zione» [09].
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Rousseau è quella di recuperare l’idea del contratto sociale, ma interpretan-
dola in modo diverso da come avevano fatto i suoi predecessori. La speranza
è che, attraverso il contratto, sia possibile conciliare la prospettiva soggetti-
va e quella oggettiva. Trovare un punto di equilibrio tra le pretese persona-
li (scoperte attraverso l’introspezione) e quelle impersonali, che si rivelano
quando gli esseri umani diventano cittadini.
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del contratto sociale, ma interpretandola in modo diverso
ut
l’a
La mia ipotesi è che Rousseau avvertisse che la via del contratto sociale non
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è percorribile se prima non si è risolto il problema di come realizzare l’equi-
pe
librio senza che il punto di vista impersonale incorpori, fino ad annullar-
ia
lo, quello personale. È la questione irrisolta della parte costruttiva delle sue
op
riflessioni politiche, messa in risalto, nel corso del Novecento, dai liberali,
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come Isaiah Berlin, che hanno visto in Rousseau un nemico della libertà [10].
o.
Posto in una condizione di isolamento, escluso dai rapporti con il mon-
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do, Rousseau torna dunque a esaminare la propria vita per farne un bilancio,
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per capire chi è, ma allo stesso tempo non può farne a meno di tornare a con-
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siderare la «virtù sovrana» della giustizia, perché essa è ciò che dovrebbe te-
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re chi sono se non sono consapevole dei limiti della mia sfera di libertà, e di
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quali sono i doveri e le obbligazioni che ho nei confronti di altri esseri umani
che considero, come me, persone.
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Alla fine della sua vita, Rousseau è deluso dagli esseri umani, almeno da quel-
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li con cui ha avuto a che fare, ma non ha perso dunque il proprio interesse per
l’umanità. Proprio questa curiosità intellettuale, in cui c’è forse anche un re-
©
siduo dell’amore cui allude all’inizio delle Rêveries, alimenta il desiderio di ri-
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seau si chiede quando abbiamo il dovere di dire la verità, perché ritiene che
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variano all’infinito, come le circostanze in cui si formula il giudizio – a confe-
rire un grado di malizia o di bontà all’azione [11].
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so da Kant in Die Grundlegung zur Metaphysik der Sitten. Anche per il filosofo
or
tedesco, che è un ammiratore di Rousseau, è l’intenzione, non sono le conse-
ut
guenze, a rendere buona l’azione. Tuttavia, per raggiungere questa conclusio-
l’a
ne non è sufficiente affidarsi all’istinto morale. L’intuizione non è una guida
r
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affidabile per individuare quel tipo di ragioni che distinguono l’agire morale
dalla mera prudenza. Bisogna affidarsi invece alla ragione, a un metodo che
ia
op
consenta di riconoscere le massime che richiedono un’obbedienza puntua-
le, basata sulla pura idea del dovere. Anche Kant amava molto passeggiare, e
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possiamo immaginare che pure per lui queste camminate fossero l’occasione
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per trovare il raccoglimento necessario per andare a fondo nelle cose, senza
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farsi distogliere dalle distrazioni del mondo. Quando deve esporre le proprie
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conclusioni sui fondamenti della morale, però, egli non sceglie la forma lette-
ragionevoli
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fida alla sobria prosa della dissertazione accademica. Una questione di tem-
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annuncia una nuova epoca del pensiero. Kant non è più soltanto un intellet-
à
rigore nell’argomentazione.
So
sori affidavano all’immagine del viaggio, del percorso mondano che conferi-
ht
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una costrizione, ma è invece il risultato di un processo mentale, attraverso il
quale un essere umano riesce ad affrancarsi dai limiti derivanti dalla propria
situazione contingente e intraprende un viaggio di esplorazione di possibili-
tà che altrimenti non avrebbe preso in considerazione. In casi del genere, l’e-
sperienza si fa «visione di idee» attraverso la liberazione «dalle barriere che
ce ne precludono l’accesso» [14].
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di vista personale e quello impersonale, per vedere le cose
ut
da entrambe le prospettive trovando un equilibrio
r l’a
pe
L’isolamento è un elemento di disturbo per la «vita non riflessiva», che ci
conduce a chiederci nuovamente in che cosa crediamo e che cosa desideria-
ia
mo, quale posizione occupiamo nella rete di relazioni con gli altri, e in che
op
misura le nostre aspirazioni sono compatibili con quelle altrui [15]. La strada
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scelta da Kant nasce dalla consapevolezza della inadeguatezza dell’introspe-
o.
zione, e dell’intuizione, nel trovare una risposta a questi problemi che sia ac-
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biamo bisogno di trovare un modo per mettere insieme il punto di vista per-
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sonale e quello impersonale, per vedere le cose da entrambe le prospettive
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suggerire Rousseau, il risultato non è accettabile sul piano politico. Per que-
ci
sto il conflitto deve essere interpretato come un nuovo punto di vista, in cui
So
dovrebbe essere invece la risposta a una nuova domanda: «Su cosa potrem-
mo essere tutti d’accordo, una volta che abbiamo accettato che le nostre mo-
ht
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scorta delle critiche liberali a Rousseau, stavolta il contratto non deve esse-
C
18
La concezione della giustizia che emerge dalle riflessioni di Kant sul
contratto sociale ha tuttavia un limite. Essa deriva infatti dall’applicazione al
dominio pubblico del principio universale di giustizia, che è a sua volta una
versione dell’imperativo categorico [17]. Lo scopo principale di tale principio,
nel pensiero di Kant, è di individuare le interferenze giustificate con la libertà
individuale, escludendo le forme di subordinazione che violerebbero l’egua-
glianza tra i cittadini. Si tratta di una concezione minimalista, che esprime
un’interpretazione austera del liberalismo. La sua applicazione, nelle condi-
e
zioni storiche in cui Kant la concepisce, non esclude, almeno in modo espli-
or
cito, forme di subordinazione sociale (per esempio quelle basate sulla ric-
ut
chezza, sul reddito o sul genere) che sono oggi salienti, e che diventeranno
l’a
centrali nelle critiche del liberalismo a partire da Marx.
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L’imperativo categorico kantiano individua una sfera
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di libertà ma non offre una risposta convincente al problema
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dell’ineguaglianza delle condizioni sociali
o.
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Nelle sue ricadute costituzionali, l’imperativo categorico kantiano individua
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una sfera di libertà che il diritto di una società giusta dovrebbe proteggere,
ragionevoli
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spettiva filosofica liberale, che rimanga fedele allo spirito, se non alla lette-
ra, dell’impostazione kantiana, si trova nel pensiero di John Rawls. Pubblica-
ht
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to nel 1971, A Theory of Justice può essere considerato il punto di arrivo della
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fine del XVIII secolo. Sul piano sostanziale, i due principi di giustizia difesi
C
19
metodo, questa ispirazione kantiana anima la «posizione originaria» in cui le
parti di un ipotetico contratto sociale dovrebbero scegliere i principi di giu-
stizia che offrono la migliore interpretazione delle intuizioni relative alla giu-
stizia diffuse, e in qualche misura condivise, in una democrazia [18].
Secondo Timothy Hinton, in A Theory of Justice, Rawls concepiva il
processo di deliberazione nella «posizione originaria» in senso «socratico»:
e
cerca di principi che una persona dovrebbe accettare che assume fon-
or
damentalmente una prospettiva in prima persona. Questo obiettivo
ut
è socratico principalmente perché Rawls riteneva che la ricerca dei
l’a
principi di giustizia comportasse una riflessione critica di una perso-
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na sulle proprie credenze – il tipo di riflessione nella quale né i propri
giudizi iniziali né i principi in seguito trovati per via di inferenza sia-
ia
no trattati come sacrosanti. Una persona deve essere pronta a rivede-
op
re gli uni e gli altri sotto la pressione di ragioni cogenti. Quindi, nella
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cornice della domanda socratica, il punto della posizione originaria è
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di metterci in grado di articolare ciò che ciascuno di noi preso indivi-
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zione sia delle convinzioni e degli attaccamenti individuali sia delle ragioni
So
sulla giustizia
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Dopo il 1971 Rawls ha modificato diversi aspetti della propria teoria della
giustizia, e tra questi anche il modo di intendere la «posizione originaria» [20].
Queste modifiche furono ispirate, in larga misura, dal tentativo di rendere la
sua concezione della giustizia più sensibile alle esigenze legate al requisito di
stabilità che un ideale normativo dovrebbe soddisfare in una società demo-
cratica, caratterizzata dal «fatto del pluralismo ragionevole» [21]. Ciò non vuol
dire che la versione iniziale dell’argomento sia priva di interesse per noi. Al
20
contrario, fare riferimento alla posizione originaria rimane uno strumento
indispensabile per ragionare sulla giustizia quando siamo alla ricerca dell’e-
quilibrio tra punto di vista personale e punto di vista impersonale. A diffe-
renza della posizione originaria del secondo discorso, nella quale il procedi-
mento genealogico ha un carattere essenzialmente critico, quella di Rawls
guarda al futuro come il Contrat social dello stesso Rousseau e la Grundlegung
di Kant. Tuttavia, per dispiegare appieno le sue potenzialità normative essa
deve essere intesa in senso dinamico, come uno schema che interagisce non
e
solo con le intuizioni che emergono dalla ricostruzione introspettiva delle
or
proprie convinzioni su ciò che è giusto, ma anche con diversi modi di inten-
ut
dere il «punto di vista archimedeo» da cui giudicare concezioni alternative
l’a
della giustizia.
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LA PAN EMIA E IL SENSO I GIUSTIZIA
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Durante le prime fasi della pandemia di Covid-19 ci siamo trovati tutti in una
op
condizione simile a quella di de Maistre nel corso della sua reclusione tori-
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nese. Per via del «distanziamento sociale» imposto dai provvedimenti per
o.
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rallentare la diffusione del virus, siamo stati costretti a rimanere per buona
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parte del tempo nelle nostre case, liberi di viaggiare soltanto con la fantasia.
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ragionevoli
il
la della dislocazione. Per una parte della popolazione attiva, la fase del di-
ed
stanziamento sociale non è stata oziosa. Impegnati come prima, e per certi
à
versi più di prima, nelle attività quotidiane di lavoro e di cura, abbiamo tut-
et
angolo inconsueto. Sotto questo profilo, quella del lockdown è stata per i più
by
con l’immaginazione, non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Riflettendo
ht
su ciò che è stato e su come potrebbe essere il nostro futuro. La solitudine re-
ig
21
benefici della cooperazione sociale. Le nostre società continuano a essere do-
minate dal consenso neoliberale che si è affermato dopo il 1989. Nonostante
i sintomi della crisi di legittimazione di questo modello politico siano ormai
evidenti, e testimoniati da una letteratura sempre più ampia, esso non è sta-
to sostituito da una visione alternativa basata su un profondo ripensamen-
to del nostro modo di vivere ispirato da principi di equità e di sostenibilità
ambientale [22]. Al contrario, stiamo assistendo all’accelerazione del processo
di erosione di molte delle conquiste sociali e politiche che hanno trasforma-
e
to le democrazie liberali negli anni che seguirono la Seconda guerra mondia-
or
le. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 ha poi alimenta-
ut
to un clima di incertezza sul piano delle politiche energetiche e ha condotto
l’a
diversi Paesi a rimettere in discussione gli ambiziosi programmi di conver-
r
pe
sione ecologica dell’economia concepiti prima della guerra. La prospettiva di
un cambiamento in direzione di maggiore equità e sostenibilità appare oggi
ia
molto più fragile, in un mondo in cui le spese per armamenti aumentano in
op
modo significativo.
C
o.
La pandemia ha forse cambiato i meccanismi
in
i
ul
d
icciar
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ed
senso morale – nel cambiamento, per quel che riguarda le tendenze di evolu-
zione del capitalismo, la sconfitta di Donald Trump da parte di Joe Biden non
à
et
e il consumo che molti auspicavano. La promessa di una società più equa ri-
So
mane ancora disattesa, e persino i difensori più convinti della democrazia li-
by
«Davvero il lungo arco della storia si piega verso la giustizia, come po-
ht
ig
civili degli anni Sessanta furono ottenute da persone che erano pronte
a rischiare le proprie vite. Tuttavia, comincio ad avere dubbi seri per
quel che riguarda il lungo arco della storia. La storia non è un’auto con
un sistema di guida automatico per condurre l’umanità a una destina-
zione prestabilita. Chiunque si trovi al volante deve assicurarsi che gli
altri rimangano a bordo. Dire ad alcuni dei passeggeri che non devo-
no impicciarsi di quel che accade al posto di guida perché non hanno
22
idea di quale sia la destinazione prima o poi porta a schiantarsi. “Ri-
prendere il controllo” era il canto sia dei sostenitori della Brexit sia de-
gli elettori di Trump. Rimane il grido di guerra della reazione populi-
sta in tutto il mondo occidentale» [23].
La ritirata del liberalismo di cui parla Edward Luce in questo brano, tratto
da un libro recente, sembra aver creato un vuoto nel quale prosperano movi-
menti nazionalisti, che alimentano la diffidenza nei confronti del diverso (lo
e
straniero, chi appartiene a minoranze etniche o religiose, chi sceglie modi di
or
vita che non si conformano a una visione tradizionale della società, nella qua-
ut
le i ruoli di genere e gli orientamenti sessuali sono rigidamente stabiliti da
l’a
una visione conservatrice della famiglia e del matrimonio). A essere messo in
r
pe
discussione non è soltanto un modo di concepire le istituzioni pubbliche, ma
anche la cultura pluralista che lo ha sostenuto e alimentato per decenni. In
ia
questa situazione, molti liberali hanno la tentazione di riproporre una conce-
op
zione militante dei propri valori che si ispira al «Cold War Liberalism» del Se-
C
condo dopoguerra. Un liberalismo che, lungi dall’essere inclusivo, aprendosi
o.
in
alle istanze di chi critica le iniquità del capitalismo, spera di trovare nel cli-
U
topie
ul
ma di un nuovo «conflitto di civiltà» le risorse per reagire alla sfida populista.
M
ragionevoli
il
e
la Guerra fredda il consenso liberale non si basava soltanto sulla difesa della
So
Rawls nel suo libro del 1971, che oggi ci appare, con il beneficio della distan-
za, come la più eloquente e articolata difesa di un liberalismo sociale che of-
ht
ig
dignitosa:
op
C
23
Questo ci riconduce al tema di come conciliare il punto di vista personale e
quello impersonale in modo da generare una concezione della giustizia socia-
le. Sotto questo profilo, tornare all’esperienza che abbiamo fatto nel corso del
lockdown può aiutarci a mettere meglio a fuoco le nostre intuizioni, utiliz-
zando la situazione in cui ci siamo trovati in quei giorni come un’integrazione
della posizione originaria descritta da Rawls. La dislocazione prodotta dall’i-
solamento, infatti, può aiutarci a immaginare ciò che in circostanze norma-
li avremmo considerato inimmaginabile [25]. L’importanza di avere un rifugio
e
sicuro – un luogo che possiamo considerare casa – e di poter contare su for-
or
me di solidarietà che non dipendano soltanto dalla benevolenza privata, ma
ut
siano il risultato di misure pubbliche adeguatamente finanziate, e organizza-
l’a
te in modo da intervenire in modo tempestivo in una situazione di emergen-
r
pe
za, è stata per molti di noi un sostegno essenziale per far fronte alla sensazio-
ne di angoscia alimentata dalla percezione di essere tutti egualmente esposti
ia
al pericolo rappresentato da un virus ancora poco conosciuto. Così come, per
op
quelli di noi che si trovano in posizioni relativamente alte nella piramide so-
C
ciale, è stato istruttivo renderci conto di quanto la nostra vita quotidiana in
o.
in
condizioni di normalità dipenda da una molteplicità di servizi offerti da lavo-
i
ul
d
ratori, spesso mal pagati, che fino a quel momento erano dal nostro punto di
icciar
M
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ed
giusto e ci interroga sull’urgenza dei bisogni legati alla protezione della salute
©
e alla difesa della vita, e sulla necessità di modi di cooperazione che non pas-
sino attraverso le forme dello scambio, ma siano motivati dalla solidarietà.
ht
ig
La versione più astratta della posizione originaria viene integrata, alla luce di
yr
24
e politico, così come dalla prudenza e dal giudizio morale degli indi-
vidui. Grandi mali sono quegli stati di cose che devono essere evitati
per ragioni che sono indipendenti da qualunque pensiero riflessivo e
da ogni specifica concezione del male. La sofferenza fisica, la fame, la
perdita della libertà personale, la distruzione della propria famiglia o
della propria abitazione, sono avvertite come grandi mali da ciascuno
in virtù dell’essere una creatura vivente con tutti i bisogni che sono co-
muni alle creature viventi» [26].
e
or
Queste osservazioni di Stuart Hampshire mostrano che trovarci al cospetto
ut
di una catastrofe ci mette in una diversa prospettiva, opera una sorta di di-
l’a
slocazione del nostro sguardo sul mondo, per cui riusciamo a vedere la no-
r
pe
stra condizione di esseri umani, nella sua fragilità e vulnerabilità, in modo
più chiaro di quanto avviene nella vita quotidiana, quando una miriade di
ia
progetti, aspirazioni, desideri, bisogni, molti dei quali culturalmente indot-
op
ti, si sovrappone alle esigenze vitali primarie: protezione, un tetto sulla te-
C
sta, cibo, libertà di movimento. Chiusi nell’isolamento imposto dal timore del
o.
in
contagio riscopriamo l’elusiva libertà filosofica esercitata da Rousseau, Kant
U
topie
ul
e Rawls, che ci mette in condizione di riconoscere la contingenza di modelli
M
ragionevoli
il
non potevamo sottrarci alle richieste delle pratiche sociali – il lavoro, la pro-
e
ic
sione da prendere sul serio perché coglie una tendenza che si sta facendo
yr
strada di recente nel pensiero (Rutger Bregman e Philippe van Parijs) e nel-
op
25
ma anche da certi progressisti liberali ed egualitari che ritengono che le uto-
pie politiche del passato imponessero sforzi eccessivi alla motivazione indi-
viduale. Lo spettro del giacobinismo o del gulag deve essere esorcizzato da
utopie ragionevoli che estendano la nozione di ciò che è politicamente prati-
cabile, accettando la sfida di mostrare che alcuni tra i modelli politici di so-
cietà giusta siano anche accessibili. Lo spazio concettuale dell’utopia ragio-
nevole si apre, come ha sostenuto Salvatore Veca, se comprendiamo che ciò
che è possibile può essere, almeno in parte, alterato, modificato e modellato
e
da argomenti su ciò che è giusto [29].
or
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26
01 J. Annas e J. Barnes, The Modes of Come un virus ha cambiato il mondo, Roma, Luiss
Scepticism, Cambridge, Cambridge University University Press, 2020.
Press, 1985. 23 E. Luce, The Retreat of Western Liberal-
02 J.-J. Rousseau, Les rêveries du prome- ism, London, Abacus, 2018, p. 190.
neur solitaire, in Id., Œuvres complètes, vol. I, Pa- 24 Nagel, Equality and Partiality, cit., p. 19.
ris, Seuil, 1967, p. 501. Cito dalla traduzione italiana 25 I. Krastev, Is It Tomorrow Yet? Paradoxes
di Beppe Sebaste, Le passeggiate del sognatore of the Pandemic, London, Allen Lane, 2020, p. 14.
solitario, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 29. 26 S. Hampshire, Innocence and Expe-
03 Ibidem, p. 504. rience, Cambridge (Mass.), Harvard University
04 Ibidem, pp. 514-520. Press, 1989, p. 106.
05 J. Miller, The Philosophical Life, London, 27 Ibidem, pp. 185 s.
Oneworld, 2012, p. 249. 28 R. Mordacci, Ritorno a Utopia,
06 R. Wokler, Rousseau. A Very Short Intro- Roma - Bari, Laterza, 2020.
e
or
duction, Oxford, Oxford University Press, 2001, p. 29 S. Veca, La bellezza e gli oppressi. Dieci
62. lezioni sull’idea di giustizia, Milano, Feltrinelli, 2002,
ut
07 Rousseau, Les rêveries du promeneur p. 119.
l’a
solitaire, cit., p. 515.
08 Vedi M. Ricciardi, Questioni di etica e po-
r
pe
litica, in M. Mori e S. Veca (a cura di), Illuminismo.
Storia di un’idea plurale, Roma, Carocci, 2019, pp.
ia
92 s.
09 J.-J. Rousseau, Discours sur l’inégalité,
op
in Id., Œuvres complètes, vol. II, Paris, Seuil, 1971,
C
p. 243. Cito dalla traduzione italiana di Giulio Preti,
Origine della disuguaglianza, Milano, Feltrinelli,
o.
1972, p. 104.
in
U
10 I. Berlin, Freedom and Its Betrayal. Six
topie
ul
Enemies of Human Liberty, London, Pimlico, 2003,
M
pp. 27-49.
11 Rousseau, Les rêveries du promeneur
ragionevoli
il
170-185.
op
257.
19 T. Hinton, Introduction, in Id. (a cura
di), The Original Position, Cambridge, Cambridge
University Press, 2015, p. 9.
20 Ibidem, pp. 9-12.
21 Vedi, sul punto, le considerazioni critiche,
a mio avviso condivisibili, di B. Barry in John Rawls
and the Search for Stability, «Ethics», vol. 105,
1995, pp. 874-915.
22 Vedi S. Maffettone, Il quarto shock.
27
Serve più Stato? / 1
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STATO?
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PAOLO
GERBAU O
D
28
l titolo di questa sezio e mo ografica, «Serve più Stato?», sarebbe
e
or
I
n
n
stato impensabile fino a pochi anni fa, quando il consenso nel dibattito pub-
ut
blico sia nel centrodestra sia nel centrosinistra era che fosse necessario ridur-
l’a
re il potere dello Stato e liberare il potere del mercato; e che – indipendente-
r
pe
mente dalla propria volontà politica – tale progressiva riduzione del potere
dello Stato era la tendenza ineluttabile della Storia nell’era della globalizza-
ia
zione. Oggi ci troviamo al capolinea di tale visione del mondo e del perio-
op
do storico a cui ha dato forma. Siamo in una fase di passaggio epocale, come
C
espresso in Germania – in riferimento agli effetti della guerra in Ucraina –
o.
con la nozione di Zeitenwende. E questo passaggio tra vecchio e nuovo mondo
in
ul
comporta un passaggio delle consegne tra mercato e Stato come tema centra-
M
Nel vecchio mondo che ci lasciamo alle spalle – quello che lo storico di Oxford
ic
itr
incentrato sulla famosa idea di un «libero mercato», concepito come uno spa-
à
vidui che doveva essere fatto crescere a spese di uno Stato ritenuto troppo in-
ci
Si trattava di una visione liberista che però non apparteneva solo alla destra,
by
tant’è che alcuni la rivendicavano esplicitamente come parte del bagaglio cul-
©
turale progressista. Nel nuovo mondo in cui stiamo entrando, in buona parte
ht
cato» che ha dominato gli anni d’oro della globalizzazione – quelli che il teo-
yr
29
come avvenuto in Francia con Edf, e ad aiuti di Stato come quelli dell’Infla-
tion Reduction Act di Biden, in cui i governi non hanno remore a dare «se-
gnali» al mercato. La realtà del capitalismo contemporaneo è segnata dalla
presenza di uno Stato interventista che punta apertamente a plasmare e cor-
reggere il mercato e da un nuovo protezionismo commerciale che mette fine
al momento di massima apertura della globalizzazione.
e
di uno Stato interventista che punta apertamente
or
a plasmare e correggere il mercato
ut
l’a
Questo passaggio di fase è ormai riconosciuto dai principali fautori del libe-
r
pe
rismo economico. Nel novembre 2021, l’«Economist» annunciava «il ritor-
ia
no del Big Government». La rivista – che nei tre decenni precedenti aveva
op
celebrato il processo di progressiva globalizzazione economica – ammette-
C
va che il consenso sullo Stato minimo che aveva dominato dagli anni Ottanta
o.
in avanti stava cedendo il passo a politiche protezioniste e dirigismo. Inoltre,
in
una serie di fattori strutturali di lungo periodo, come l’invecchiamento della
o
ul
d
ic
aolo
riferirsi a «questa crescente fiducia nella capacità dei governi di rimodellare
itr
negli ultimi anni si sono cimentati con questi temi in ambito italiano e in-
ig
30
Ovviamente lo Stato, la sua natura e il suo ruolo sono questioni universa-
li della politica in ogni era. Lo Stato, ossia l’insieme di istituzioni pubbliche
che governano una determinata società, è esistito nelle forme più diverse sin
dagli albori della storia antica e non è «sparito» con il neoliberismo. Parlare
di «ritorno dello Stato» è un’iperbole che serve a portare l’attenzione su un
profondo cambiamento di enfasi nel rapporto tra Stato e mercato, una diver-
sa configurazione del loro rapporto. Questo non è significato «meno Stato» o
«più mercato» (per quanto così fosse posto nella retorica degli stessi neolibe-
e
risti) in senso puramente quantitativo.
or
Di fatto se si guarda ad alcuni indicatori come la spesa pubblica, non è
ut
affatto chiaro che il neoliberismo, quantomeno prima della crisi del 2008, ab-
l’a
bia comportato una riduzione del peso dello Stato. Piuttosto il neoliberismo
r
pe
ha sempre assegnato allo Stato un ruolo subordinato o «ancillare», in cui ad
esso non viene accordata alcuna autonomia funzionale, ma il cui ruolo è fina-
ia
lizzato a garantire condizioni ottimali di mercato. Tuttavia, questo tentativo
op
di «risolvere la questione dello Stato» nascondendo lo stesso sotto il tappeto è
C
alla radice di una serie di contraddizioni che hanno portato il neoliberismo al
o.
tra retorica e prassi rispetto alla questione dello Stato. Da un lato gli ideologi
ci
zione di demolire lo Stato, visto come una specie di «nemico interno». Que-
by
sto tipo di retorica è quella espressa da Margaret Thatcher nella celebre fra-
©
se «spingere indietro le frontiere dello Stato» («roll back the frontiers of the
State»), da Ronald Reagan quando sosteneva che «il governo non è la solu-
ht
ig
Terza Via come Bill Clinton quando parlava della «fine del big government».
op
Tuttavia, spesso, nella pratica i politici pro mercato hanno portato avanti po-
C
31
radicale, quanto nei circoli liberali associano all’autorità pubblica) non è cer-
tamente diminuito durante l’era neoliberista. Al contrario, politiche neoliberi-
ste sono spesso state applicate con l’ausilio di fucili (come avvenuto in Cile) o
manganelli (come avvenuto con la Thatcher e le proteste dei minatori). Inol-
tre, in Paesi come gli Stati Uniti la demolizione dello Stato sociale è stata ac-
compagnata da un aumento del tasso di incarcerazione (particolarmente du-
rante l’era Clinton), portando a quello che Loic Wacquant ha descritto come lo
«Stato carceriere»; uno Stato indolente quando si tratta di aiutare chi vive in
e
povertà, ma solerte nel punire chi viola la legge e la proprietà.
or
È per questa ragione che alcuni teorici marxisti hanno parlato del-
ut
lo «Stato neoliberista» come di uno «Stato forte» (celebre il libro di Andrew
l’a
Gamble, The Free Economy and the Strong State, Palgrave Macmillan, 1988).
r
pe
Tuttavia, è meglio parlare di una ricomposizione interna di quelli che con
Althusser e Poulantzas possiamo descrivere come gli «apparati dello Stato»
ia
(ideologici, repressivi, economici e sociali). Gli apparati economici e sociali
op
dello Stato (imprese pubbliche, organi di pianificazione e progettazione, ser-
C
vizi pubblici e prestazioni sociali) sono stati sacrificati, mentre l’apparato re-
o.
pressivo dello Stato è stato rafforzato. in
o
ul
d
forma negativa, nella modalità «roll back» associata alla Thatcher, ossia con
il
ic
out». Al contrario, come già presagito da Michel Foucault nella sua analisi
aolo
itr
struttiva», per creare nuovi mercati e per aprire al mercato nuovi canali di
à
quello che Friedman definiva come «lo Stato arbitro». Anche in questa mo-
by
mercato, come suo «junior partner». Allo Stato è precluso qualsiasi interven-
ig
re, su cosa investire ecc. – spetta non allo Stato ma al mercato. Quello neoli-
C
berista, insomma, è uno Stato che è una specie di anti-Stato concepito pura-
mente come strumento di interessi economici.
Questa concezione dello Stato era coerente alla sociologia della cono-
scenza neoliberista, che immaginava l’economia come un’attività decentra-
lizzata, e con i presupposti dell’economia neoclassica e la sua idea di competi-
zione perfetta – adesso integrata a livello planetario – e accompagnata da una
tendenza all’equilibrio e da informazione perfetta. In un contesto del gene-
32
re, l’intervento pubblico poteva essere solo concepito come interferenza; per-
ché imprese e consumatori erano «meglio informati» dei burocrati, per cita-
re una formula divenuta quasi proverbiale. Questa narrazione neoliberista è
andata progressivamente a cozzare con alcuni dati di realtà. Le crisi finan-
ziarie del XXI secolo hanno messo in luce quanto, lungi dall’essere autono-
mo e autoregolato, il mercato fosse dipendente dal potere dello Stato, costret-
to a salvare gli attori privati con grandi disborsi di denaro pubblico. Inoltre,
è apparso sempre più evidente, specie con l’emergere delle guerre commer-
e
ciali, come anche le famose «multinazionali» non siano veramente attori glo-
or
bali e indipendenti dallo Stato, ma siano sotto l’ala benevola dei governi di ri-
ut
ferimento, di cui talvolta si prestano a fare gli interessi interni o geopolitici.
l’a
Siamo dunque di fronte a una trasformazione dello scenario politico
r
pe
che ruota su due assi. Da un lato, si tratta di un cambiamento epistemico: una
serie di eventi traumatici (come i famosi «bailout») hanno svelato quanto il
ia
«libero mercato» sia tutt’altro che libero e spontaneo, ma dipenda dall’assi-
op
stenza continua dello Stato. In senso generale, potremmo dire – come lascia
C
trasparire Gramsci in una celebre pagina de I Quaderni – che non esiste uno
o.
sano essere più indirette, invisibili o mediate dal mercato. Tuttavia, quello che
il
è avvenuto negli ultimi anni è anche un cambiamento pratico, ossia a una tra-
e
ic
lo Stato diventa più massiccio, più diretto e meno mediato; è proprio questo
à
to», seppure attentamente controllata e bilanciata dallo Stato. Per quanto sia
ig
mente diverse che comprendono, tra le altre: lo Stato mercantilista di Sei e Set-
C
33
sviluppo di «industrie nascenti», il New Deal di Roosevelt su grandi piani di
investimento pubblico, lo Stato socialdemocratico su trasferimenti e servizi
pubblici per garantire giustizia sociale. Oggi possiamo distinguere due fron-
ti principali del nuovo interventismo: da un lato c’è un nuovo interventismo
welfarista che si concentra sul fronte distributivo; dall’altro lato c’è un inter-
ventismo sul fronte produttivo e degli scambi che si concentra su politica in-
dustriale e commerciale.
e
or
a un lato c’è un interventismo welfarista che si concentra
ut
D
sul fronte distributivo; dall’altro un interventismo sul fronte
l’a
produttivo che si concentra sulla politica industriale
r
pe
È noto come l’era neoliberista sia stata segnata da una progressiva erosio-
ia
ne dei sistemi di sicurezza sociale, visti come un peso insostenibile per il si-
op
stema economico. Inoltre, è stata caratterizzata da un costante attacco ai
C
diritti dei lavoratori e delle loro organizzazioni che ha portato a un forte
o.
aumento della precarietà e, come conseguenza prevedibile, a una lunga sta-
in
o
ul
gnazione dei loro salari. Tuttavia, alcuni segnali sembrano indicare un’in-
d
erbau
M
Stirati sul ritorno dello Stato keynesiano e di Paolo Borioni sul revival del-
ed
P
verni di diverso colore politico si sono visti costretti, spesso loro malgrado,
by
sulla creazione di quello che viene descritto come un «nuovo contratto so-
yr
ciale». Esemplare di tale sforzo è l’impegno della ministra del Lavoro Yolan-
op
34
Su questo fronte la nuova destra nazionalista ha cercato di smarcar-
si parzialmente dal neoliberismo, come visto con Salvini e Le Pen che hanno
cercato di presentarsi come difensori dello Stato sociale. Tuttavia, si oppone
strenuamente a un riequilibrio della tassazione, che è la necessaria contro-
parte di un’espansione della protezione sociale; in alcuni casi, come nelle po-
litiche della «flat tax» del centrodestra italiano, se possibile le forze di destra
spingono in maniera ancora più estrema verso il darwinismo sociale e l’indi-
vidualismo possessivo.
e
Il secondo asse su cui si manifesta il ritorno dello Stato è quello del-
or
la politica industriale e commerciale: un insieme di politiche che riguarda-
ut
no non tanto la distribuzione della ricchezza, ma la sfera della produzione e
l’a
degli scambi. Durante l’era neoliberista la politica industriale era considera-
r
pe
ta come una perversione della supposta spontaneità del mercato. Secondo il
premio Nobel per l’economia Gary Becker, la politica industriale era desti-
ia
nata inevitabilmente a diventare portatrice di interessi particolari e produt-
op
trice di sprechi: la migliore politica industriale era l’assenza di politica indu-
C
striale (si veda G. Becker, L’approccio economico al comportamento umano, trad.
o.
esi portabandiera del «libero mercato», come Stati Uniti e Regno Unito, fos-
e
ic
sero giunti a una posizione di dominio economico dopo una lunga fase pro-
itr
tezionista.
ed
private senza alcun intervento dello Stato. Il caso più evidente è quello del-
So
la proprietà diretta dello Stato sulle imprese. Come spiegato nel contributo
by
to), tra cui si annoverava la nostra Iri, stanno tornando a essere attori deci-
ht
zionalizzato Edf.
C
Tuttavia, anche in Paesi come gli Stati Uniti, in cui le imprese parte-
cipate sono sempre state poche (tra queste Amtrak e Us Mail), stiamo as-
sistendo al ritorno di forme di intervento economico dello Stato che non si
vedevano dagli anni Sessanta. Negli Stati Uniti esiste ormai un consenso bi-
partisan rispetto al fatto che la de-industrializzazione come conseguenza di
politiche neoliberiste ha indebolito il Paese. I grandi investimenti pubblici
dell’Infrastructure Act di Biden cercano di porre rimedio a decenni di disinve-
35
stimenti in strade, ponti, ferrovie, energia e trasporto urbano. Provvedimen-
ti come l’Inflation Reduction Act (che sussidia le imprese del settore energe-
tico e dell’auto elettrica) e il Chips and Science Act (che sostiene il settore dei
semiconduttori) segnano un chiaro abbandono del liberismo economico e un
ritorno allo spirito di Alexander Hamilton, il padre fondatore degli Stati Uni-
ti che per primo evidenziò la necessità della creazione di una base industriale
per garantire l’indipendenza e la sicurezza del Paese. Inoltre, come asserisce
Lorenzo Casini nel suo articolo, è sempre più accettata la necessità di un in-
e
tervento di regolazione dello Stato sul fronte delle nuove tecnologie e dei dati.
or
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l’a
Finita l’illusione di un «mercato globale», l’economia
r
planetaria si concepisce nuovamente come uno spazio
pe
di competizione tra Paesi
ia
op
La tecnologia è anche il campo in cui si manifestano le tensioni geopolitiche
C
tra Cina e Stati Uniti, come spiegato da Alessandro Aresu nel suo contribu-
o.
to. Gli Stati Uniti hanno deciso di garantirsi una produzione nazionale di mi-
in
o
ul
crochip, privando al contempo la Cina di accesso a macchinari necessari per
d
erbau
M
i due Paesi che hanno reso possibile la globalizzazione dimostra che è finita
e
G
vamente come uno spazio di competizione tra grandi potenze e Paesi allea-
ed
P
ti, con il tema della sicurezza che prende sempre più sopravvento sulla mera
«convenienza».
à
et
ci
il ritorno della pianificazione, un fenomeno che più di altri aveva attirato gli
strali dei teorici neoliberisti che temevano che dietro ogni piano collettivo ci
ht
ig
fosse la volontà di privare gli individui di scelta. Ne sono esempio i tanti pia-
yr
ni che stanno emergendo negli ultimi anni, come i Piani nazionali integrali di
op
vari Piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr), prodotti nel contesto del pro-
gramma Next Generation Eu. Queste iniziative incarnano una rinnovata am-
bizione di cambiare la realtà e affrontare di petto problemi giganteschi, come
quelli connessi al cambiamento climatico, con un approccio che fino a poco
tempo fa sarebbe stato squalificato in partenza come «ingegneria sociale».
Tuttavia, molti di questi piani continuano a scontare alcuni pregiudi-
zi dell’era neoliberista e, come nel caso del Pnrr italiano, sono caratterizzati
36
da interventi a pioggia piuttosto che da una visione strategica capace di con-
centrare le risorse su pochi sforzi essenziali. Inoltre, lo Stato è impreparato
al compito che gli viene assegnato; a causa dei tagli e del blocco del turnover,
dovuti alle politiche di austerità degli anni Dieci del Duemila, all’amministra-
zione manca il personale e le competenze per uno sforzo così grande. A trar-
ne vantaggio sono le grandi società di consulenza di cui parla Mariana Maz-
zucato nell’intervista ospitata in questo numero.
e
or
Larghi settori delle nostre classi dirigenti pensano lo Stato
ut
come un’istituzione da accusare continuamente di sprechi,
l’a
salvo invocarne l’aiuto a ogni buona occasione
r
pe
Come visto nelle recenti polemiche sui ritardi nell’attuazione del Pnrr, dovu-
ia
ti in parte anche a questa carenza di personale e «capacity» dello Stato ita-
op
liano, c’è chi propone, come il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, di
C
trasformare il Pnrr in sussidi per le imprese, sulla falsariga dell’Inflation Re-
o.
delle nostre classi dirigenti continuino a guardare allo Stato: come a un’isti-
e
Quello di cui c’è bisogno per uscire dalla trappola del sottosviluppo in
cui è caduto il nostro Paese è tuttavia qualcosa di ben diverso da uno Stato
à
et
Pantalone o uno Stato bancomat, di cui si dice peste e corna salvo poi chie-
ci
e progettuale dello Stato; lo Stato non solo come rappresentante del manda-
by
37
Serve più Stato? / 2
FRA STATO
e
or
ut
E MERCATO
rl’a
pe
ia
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C
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M
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op
C
FLORIANA
CERNIGLIA
38
l dibattito sul ruolo del mercato e dello tato ha impregnato a lungo
e
or
I
S
il pensiero e la riflessione di studiosi appartenenti a diverse discipline (eco-
ut
nomiche, giuridiche, politologiche, filosofiche, sociali). Non è questione che
l’a
possa essere facilmente risolta scegliendo l’uno o l’altro: i sistemi di puro
r
pe
mercato non esistono da nessuna parte né tantomeno quelli di pura pianifica-
zione centralizzata. La realtà storica è stata dominata da un’economia mista
ia
in cui entrambi erano presenti. Quello che è dunque necessario è esplorare il
op
rapporto (piuttosto che l’opposizione) tra Stato e mercato, quale debba esse-
C
re la logica dell’intervento pubblico in un’economia di mercato e infine qua-
o.
le sia il bilanciamento, o trade-off, tra l’efficienza economica (normalmente
in
ul
attribuita al mercato) e l’equità distributiva (che al contrario viene associata
M
Musgrave nel suo classico studio The Theory of Public Finance del 1959 – in-
ic
itr
che l’allocazione scelta dal mercato non sia del tutto distante da un interes-
op
39
to assicura un controllo adeguato del sistema economico e la sua crescita;
dall’altro l’idea che lo Stato debba intervenire attivamente in quanto il libero
gioco delle forze di mercato non offre alcuna garanzia per uno sviluppo eco-
nomico adeguato (cfr. P. De Grauwe, I limiti del mercato, Da che parte oscilla il
pendolo dell’economia?, trad. it. Il Mulino, 2014). Se durante i decenni succes-
sivi alla caduta del muro di Berlino, il consenso della politica economica era
molto allineata sul primo polo, negli ultimi anni invece la comprensione del
ruolo rispettivo di Stato e mercato è influenzata dalle grandi trasformazioni
che stanno contrassegnato il mondo la globalizzazione, la trasformazione di-
e
or
gitale, la questione ambientale, i mutamenti geopolitici, gli squilibri demo-
ut
grafici. In poco più di dieci anni, si sono anche vissute due grandi crisi epoca-
l’a
li, quella finanziaria globale del 2007-2009 e quella del 2019-2020 innescata
r
pe
dalla pandemia a cui si è saldata quella provocata dall’incremento dei prezzi
delle materie prime e della guerra in Ucraina.
ia
op
C
Lo Stato interviene in presenza di fallimenti del mercato.
o.
Quando ci sono questi fallimenti il mercato raggiunge
in
erniglia
il suo limite
ul
M
razione dei rapporti tra Stato e mercato? Ci stiamo avviando verso un proces-
e
loriana
ic
che ad ambiti e politiche nuove, per far fronte ai rischi crescenti e sempre più
ed
F
Più volte nel passato è accaduto che i rapporti tra lo Stato e il mercato siano
ci
So
cresciuto l’influenza del mercato a spese dello Stato e altri dove ha predo-
©
minato lo Stato. Il XIX secolo aveva segnato il trionfo del sistema di merca-
ht
40
Negli anni Trenta, il sopraggiungere della grande depressione, segna
una battuta d’arresto per questo paradigma e per la marcia trionfale del si-
stema di mercato. Keynes scrive la Teoria generale, che apre la strada al ruolo
essenziale dell’intervento pubblico e della politica di bilancio, per uscire dal-
le secche di spirali recessive in cui può incappare un Paese e che il mercato,
da solo, non è in grado di gestire.
Dopo la Seconda guerra mondiale, per tre decenni, sulla scia delle ri-
cette keynesiane, si assiste a un periodo di crescita sostenuta, guidata da una
e
complessa combinazione di fattori: progresso tecnico, sviluppo del commer-
or
cio internazionale e soprattutto ingenti investimenti statali non solo per beni
ut
pubblici e infrastrutture (che riscostruiscono lo stock di capitale distrutto
l’a
durante il conflitto bellico) ma anche per la costruzione di sistemi di prote-
r
pe
zione sociale che diedero all’Europa occidentale un posto centrale nel nuovo
modello economico. In tutti i Paesi Ocse, dal 1950 al 1985, raddoppia la spe-
ia
sa pubblica sul Pil (dal 25% al 50%). In molti di questi Paesi aumentano in
op
modo significativo anche le aliquote fiscali per i redditi più elevati. In quegli
C
anni il combinato di Welfare State e alta pressione fiscale pone un freno alle
o.
F
in
disuguaglianze economiche e sociali che diminuirono.
ra
ul
S
tato
M
e
e
mercato
ic
itr
ed
Agli inizi degli anni Ottanta, la storia riprende la direzione del mercato. Le
ragioni sono molteplici: crisi petrolifere, stagflazione, ristagno tecnologico.
à
et
Questa sconfitta delle idee keynesiane porta alla ribalta in ambito ac-
cademico la cosiddetta controrivoluzione neoclassica che si articola intorno
©
litica economica per tutti gli anni Novanta e oltre (cfr. F. Saraceno, La scien-
za inutile, Luiss University Press, 2018). La convinzione è che le economie di
mercato possono svilupparsi facendo a meno del ruolo attivo dello Stato che
ha il solo compito di rimuovere le rigidità dei prezzi, combattere i monopoli
e fare riforme strutturali (liberalizzazioni, privatizzazioni, riforme nel mer-
cato del lavoro, riduzione della pressione fiscale soprattutto per i redditi più
alti) per consentire ai mercati di agire e portare crescita. Si invoca una dimi-
41
nuzione della spesa pubblica con il conseguente mantra della riduzione del
deficit e debito pubblico in rapporto al Pil.
e
or
ne Sovietica abbandonano i loro principi di gestione centralizzata. Il mercato
ut
trionfava ovunque. Le gambe politiche di questo cambio di paradigma sono
l’a
Reagan negli Stati Uniti e la Thatcher nel Regno Unito. A dire il vero, in Euro-
r
pe
pa per tutti gli anni Novanta si afferma sul piano politico una sorta di «neo-
liberismo progressista» da parte dei leader europei che adottano politiche di
ia
liberalizzazioni e riforme nel mercato del lavoro talvolta con più radicalismo
op
dei politici di stampo conservatore, come spesso si conviene alla solerzia dei
C
convertiti (si veda P. Gerbaudo, Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato,
o.
nottetempo, 2022). in
erniglia
ul
L’ortodossia del «nuovo consenso» ha influenzato la politica e l’acca-
M
demia fino alla crisi del 2008, e oltre. È in questo quadro che vanno situa-
il
C
te molte scelte sul ruolo dello Stato nel mercato dei Paesi avanzati, come
e
loriana
ad esempio nel quadro dell’architettura istituzionale dell’Unione europea. Il
ic
itr
(in caso di crisi economica) l’intervento dello Stato ai soli stabilizzatori au-
F
tomatici; l’Atto Unico del 1986 disegnava una politica della concorrenza che
et
deve combattere ogni forma di posizione dominante per eliminare tutte le ri-
ci
Non è quindi un caso che negli scorsi decenni ci sia stata un’enfasi costante
op
per una crescita «guidata dal libero mercato» e dunque basata sulle riforme,
C
42
crescita economica equilibrata e duratura. In aggiunta, negli anni preceden-
ti la crisi, in quasi tutti i Paesi – in primis negli Stati Uniti – la sola mano del
mercato ha condotto la disuguaglianza a picchi mai visti da prima della Gran-
de depressione. A sua volta, questa disuguaglianza molto elevata ha portato a
un arretramento della crescita (dato che si è ridotto il consumo e la doman-
da della classe media) diventando essa stessa foriera di instabilità sociale e
ulteriori fasi recessive e di crisi (cfr. J. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza,
trad. it. Einaudi, 2013).
e
Anche il mercato ha subito delle profonde trasformazioni: sempre più
or
globale, ma al contempo meno «libero», con un potere crescente in mano a
ut
imprese globali, che capitalizzano più del Pil di uno Stato e riescono a stabi-
l’a
lire le regole del gioco del mercato (cfr. R. Reich, Come salvare il capitalismo,
r
pe
trad. it. Fazi, 2015; S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’uma-
nità nell’era dei nuovi poteri, trad. it. Luiss University Press, 2019).
ia
op
Siamo adesso di fronte a un processo di progressiva trasformazione del rap-
C
porto tra Stato e mercato, in cui, dopo l’eccessiva enfasi sul potere del se-
o.
F
in
condo si torna ad accettare il bisogno di intervento pubblico. La crisi del
ra
ul
2007-2009 ha indebolito le certezze di cui si nutriva il «nuovo consenso» in
S
tato
M
merito al ruolo dello Stato. L’ampiezza di quella crisi (e le sue cause) che
il
e
e
mercato
ic
quando colpito da uno shock. Soprattutto negli Stati Uniti, la politica di bi-
ed
memoria del fatto che gli sforzi per uscire dal pantano di una crisi devono
ci
fine portato anche l’Unione europea a una svolta nel suo paradigma di ri-
by
ferimento.
©
ht
di operare liberamente
C
43
litica di bilancio e il rilancio degli investimenti pubblici, «Rivista di Politica Eco-
nomica», n. 2/2022).
Siamo dunque in una fase di ripensamento che pare riportare il pen-
dolo del rapporto verso lo Stato. Persino ai cosiddetti «fondamentalisti di
mercato» la politica di bilancio sembra ormai imprescindibile sia per la sta-
bilizzazione macroeconomica di breve periodo, sia per la politica industriale
e soprattutto per rilanciare l’importanza dei beni pubblici, degli investimen-
ti pubblici che si erano ridotti in maniera significativa e costante dai massimi
e
degli anni Settanta. Detto altrimenti, è evidente in maniera ancora più netta
or
che in presenza di shock di una certa portata, l’intervento della mano pub-
ut
blica per evitare il peggio si rivela quanto mai necessario e i mercati, da soli,
l’a
non sono in grado di riassorbire i traumi. I grandi cambiamenti in atto ri-
r
pe
chiedono l’intervento pubblico per (ri)orientare gli investimenti dei mercati.
ia
op
In presenza di shock di una certa portata, l’intervento
C
della mano pubblica per evitare il peggio si rivela quanto
o.
mai necessario e i mercati, da soli, non sono in grado
in
erniglia
ul
di riassorbire i traumi
M
il
C
Tuttavia, il dibattito se il mercato sia meglio dello Stato non deve distoglie-
e
loriana
ic
re l’attenzione sulle regole del gioco del mercato e del suo funzionamento.
itr
Anche chi vuole meno Stato può volere in realtà uno Stato diverso che
So
trasformazione, trad. it. Einaudi, 2010). Stato e mercato non sono due istitu-
©
no incorporare nelle loro decisioni le regole che lo Stato detta per il merca-
C
44
mettendo in atto regole e politiche pubbliche. Recentemente, l’approccio del
«nudging» o della spinta gentile cerca di connettere questi due aspetti. Per
questa via si praticano politiche pubbliche facendo formalmente salva la li-
bertà degli individui, dato che si lascia ai cittadini la scelta individuale (cfr.
R. Thaler e C. Sunstein, La spinta gentile, trad. it. Feltrinelli, 2014).
e
or
il problema è come costruire il consenso
ut
l’a
Rimane anche da capire se in effetti, nei prossimi anni, una maggiore presen-
r
pe
za della mano pubblica è solo la sovrastruttura di un mercato che usa lo Sta-
to e la sua legittimazione derivante dal possesso legale della forza. Potrem-
ia
mo persino vivere una situazione paradossale. Da una parte le sfide globali e
op
i mutati contesti geopolitici richiedono ingenti investimenti pubblici e nuove
C
politiche pubbliche nella produzione, ad esempio, di maggiore conoscenza e
o.
F
innovazione tecnologica. È lo Stato che assume i rischi, finanzia e guida con
in
ra
ul
successo le innovazioni radicali. Non più uno Stato che deve limitarsi a quello
S
tato
M
del regolatore, del fornitore di servizi essenziali, garante dei diritti e dei beni
il
e
e
mercato
novazione, oppure uno Stato «investitore o salvatore» rispetto al fallimento
ic
itr
ti di lungo termine sia materiali e che immateriali. Sono ambiti in cui spesso
©
mine.
C
Se, da una parte, un maggiore intervento statale è auspicabile, non vanno tut-
tavia sottovalutati i rischi. Questi ci sono quando i benefici dell’azione pubbli-
45
ca sono «privatizzati» se si creano opportunità per il rafforzamento soltanto
di alcune imprese, già in situazioni di oligopolio, che si appropriano degli in-
centivi pubblici e anche di conoscenze incrementali che spesso un interven-
to pubblico produce (ad esempio con importanti finanziamenti pubblici nel
campo della ricerca e sviluppo) con l’effetto di aumentare le disuguaglian-
ze (cfr. M. Florio, La privatizzazione della conoscenza, Tempi nuovi, 2021). Po-
trebbe verificarsi che la mano pubblica finisca per spingere ulteriormente il
mercato a scontrarsi con il suo limite, cioè quando l’interesse individuale (la
e
mano invisibile di Smith) non coincide più con quello collettivo. Sarà ancora
or
essenziale dunque ragionare sulle forme e gli strumenti dell’intervento pub-
ut
blico nell’economia e nelle dinamiche sociali in questa nuova fase (o paradig-
l’a
ma di riferimento) che si sta aprendo nel pendolo tra Stato e mercato.
r
pe
Infine, siamo in un mondo «sempre più globalizzato» e viviamo all’in-
terno di un’architettura istituzionale a più livelli di governo (si pensi alla Ue
ia
dove non è ancora sciolto il nodo su chi decide e per conto di chi decide).
op
Se lo Stato è legittimato a esercitare la sua autorità solo all’interno dei suoi
C
confini diventa molto difficile intervenire con beni pubblici che vadano ol-
o.
in
tre l’ambito nazionale e/o regolare i comportamenti di agenti economici che
erniglia
ul
si muovono in mercati e contesti trans-nazionali. Certamente, con l’approva-
M
vieto degli aiuti di Stato si è aperta una nuova fase della regolazione europea
itr
di una maggiore autonomia strategica rispetto agli altri grandi «mega Stati»
et
stabile nei prossimi anni e non si esaurisca con Ngeu o con il ritorno alle vec-
C
46
di Stati, come nel caso in cui la sola Ue dovesse agire a livello mondiale verso
una transizione green. E dunque interrogarsi sul ruolo del potere pubblico, la
cui constituency è nazionale, in mercati globali e all’interno di trasformazioni
epocali (come alcune di quelle che stiamo vivendo) è un tema aperto, soprat-
tutto per i risvolti in termini di effettiva capacità di coordinamento degli in-
teressi tra Stati verso obiettivi comuni.
La riflessione teorica sullo Stato e il suo rapporto con il sistema econo-
mico non può che essere in continua evoluzione. Si è certamente aperta una
e
nuova fase dell’intervento pubblico nell’economia, ma le sue concrete confi-
or
gurazioni e gli effetti non sono ancora percepibili con nettezza.
ut
rl’a
pe
ia
op
C
o.
F
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M
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mercato
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C
47
Serve più Stato? / 3
IL NUOVO STATO
e
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SVILUPPISTA
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ALBERTO
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op
GHERAR INI
C
D
E FRANCESCO
RAMELLA
48
l dibattito sul ruolo dello tato nell’economia è puntuale come l’alter-
e
or
I
S
narsi delle stagioni. Tuttavia, a differenza del recente passato, quando si svol-
ut
geva nella cornice di una consolidata egemonia neoliberale, oggi le certezze
l’a
sulla residualità dello Stato rispetto al mercato sembrano essersi indebolite.
r
pe
Tale mutamento è dovuto a molti fattori. In primo luogo, alle critiche teori-
che espresse dal pensiero neo-keynesiano e post-keynesiano, che hanno evi-
ia
denziato l’endemica instabilità del capitalismo di matrice finanziaria, l’inca-
op
pacità del monetarismo di affrontarla e, di conseguenza, la necessità di una
C
maggiore regolamentazione del mercato.
o.
In secondo luogo, agli insuccessi nel promuovere lo sviluppo proprio
in
ul
laddove, come in America Latina, le ricette neoliberiste del Washington Con-
M
sensus sono state maggiormente applicate, a partire dalla seconda metà degli
il
anni Ottanta. Nei tre decenni precedenti, invece, nel continente sud-ameri-
e
cano si era registrato un ciclo di sviluppo senza precedenti, in virtù di una po-
ic
itr
trascurabili e anche negativi che hanno ampliato il gap con i Paesi avanzati.
by
Nell’affrontare il dibattito sul ruolo dello Stato con un approccio vicino alla
political-economy comparata, che guarda alla costruzione dell’economia uti-
lizzando le lenti dell’interazione tra Stato, mercato e società, occorre innan-
zitutto sottolineare che il dibattito su più o meno Stato è poco utile se non cir-
costanziato rispetto al come intervenire. Del resto, la storia italiana ci ha ben
insegnato che la spesa pubblica è una condizione necessaria ma non suffi-
49
ciente per la promozione dello sviluppo. Con essa, infatti, interagiscono molti
altri fattori: lo stile di policy making, l’efficacia nell’attuazione delle decisioni
prese, il grado e le modalità di interazione con gli attori economici e socia-
li, nonché la capacità complessiva delle élite di guardare al medio e al lun-
go periodo, ampliando gli orizzonti di scelta degli investitori. È facile intuire
che configurazioni diverse dei fattori appena accennati generano significative
differenze sia nell’efficacia dell’azione pubblica, sia nei risultati che ne conse-
guono, non solo in termini di crescita ma anche di coesione sociale.
e
or
Il dibattito su più o meno Stato è poco utile
ut
se non circostanziato rispetto al come intervenire
r l’a
pe
Alla base del dibattito sullo sviluppo nei Paesi dell’Asia orientale si leggono in
amella
controluce gli insegnamenti di Friedrich List e Alexander Gerschenkron, che
ia
op
hanno attirato l’attenzione sulla rilevanza dello Stato anche nella prima fase
C
dell’industrializzazione europea, soprattutto per i Paesi ritardatari. Il primo
R
o.
rancesco
ha chiarito come questi ultimi abbiano dovuto proteggere le loro industrie
in
nascenti, mentre il secondo ha sottolineato i vantaggi dello sviluppo tardivo.
ul
I Paesi a «tarda industrializzazione», infatti, hanno potuto beneficiare delle
M
tecnologie più avanzate e delle istituzioni già collaudate in altri Paesi, evitan-
F
il
e
do i costi di prova ed errore per la loro messa a punto.
e
ini
ic
d
itr
herar
Ma quali sono i tratti essenziali dello Stato sviluppista? Il primo elemento ri-
ed
periodo che, pur riconoscendo il ruolo del settore privato, tende a guidarlo e
ci
So
50
In sintesi, gli Stati sviluppisti asiatici sono stati capaci non solo di so-
stenere la crescita economica, ma anche di dirigere l’industrializzazione poi-
ché le loro élite politico-burocratiche risultavano sufficientemente solide,
isolate e competenti da promuovere politiche orientate al lungo periodo.
Come è stato osservato, questi primi studi offrono però una visione in
parte edulcorata e semplificata delle relazioni tra il settore pubblico e quello
privato, con una forte predominanza del primo sul secondo, che è stata criti-
cata su due versanti. Da un lato, per la sopravvalutazione del carattere uni-
e
tario dell’apparato pubblico e dei successi ottenuti nei vari settori produttivi.
or
Dall’altro, per la sottovalutazione dei legami con alcune constituency econo-
ut
miche e sociali.
l’a
È anche a partire da queste critiche che si è fatto perciò strada un
r
pe
nuovo approccio (il New Developmental State) che pone una maggiore enfa-
si sul radicamento dello Stato nella società. Il primo contributo di rilievo è
ia
quello di Peter Evans (Embedded Autonomy: States and Industrial Transforma-
op
tion, Princeton University Press, 1995) sulla nascita del settore delle tecnolo-
I
gie dell’informazione in alcuni Paesi di nuova industrializzazione (Corea del
l
o.
nuovo
in
Sud, Brasile e India). Evans elabora due tipi-ideali di Stato. Da un lato ci sono
ul
gli Stati predatori (ad esempio il regime patrimoniale di Mobutu nello Zaire),
M
S
con élite pubbliche corrotte e particolaristiche che estraggono risorse dalla
tato
il
sviluppista
ic
sti (come la Corea del Sud), dove le élite hanno un orientamento più univer-
itr
Questo secondo tipo di Stato può giocare un ruolo attivo nello svi-
à
luppo grazie alla sua struttura interna e alle relazioni che intrattiene con la
et
tutt’altro che isolate, al contrario, sono radicate nella società mediante reti-
©
ne delle politiche.
ig
yr
op
51
embeddedness, cioè la capacità di costruire alleanze con alcuni gruppi sociali
(in particolare con gli industriali) con cui condivide una strategia di moder-
nizzazione del Paese. È solo quando entrambi questi aspetti si trovano uni-
ti, come nel caso della Corea del Sud, che si realizza una embedded autonomy
dello Stato, che offre la base strutturale per una efficace trasformazione eco-
nomica.
Seguendo questa stessa impostazione, sono stati studiati anche altri
Paesi emergenti che hanno raggiunto una posizione di avanguardia nei setto-
e
ri high-tech. Queste «storie di successo» vanno comprese sullo sfondo della
or
nascita delle catene globali del valore, cioè di un processo produttivo sempre
ut
più frammentato e disperso geograficamente, che consente ai Paesi emer-
l’a
genti di specializzarsi in una specifica fase produttiva e di competere su sca-
r
pe
la internazionale. Le strategie di industrializzazione seguite dai Paesi dell’A-
sia orientale mal si adattano a questi nuovi scenari, in particolare a settori di
amella
ia
mercato soggetti a un rapido cambiamento tecnologico che richiedono mag-
op
giore flessibilità.
C
R
o.
rancesco
in
software in Irlanda, contrappone al vecchio modello di Stato burocratico (ti-
ul
pico, ad esempio, del Giappone) quello del Developmental Network State (The
M
il
itr
herar
bali in modo da promuovere lo sviluppo. Ó Riain evidenzia che questa nuova
ed
forma di Stato assume una struttura organizzativa a rete, più flessibile e de-
G
centrata, basata sul molteplice radicamento delle agenzie statali nei circuiti
lberto
et
queste nuove strategie non siano connesse a un’unica forma di Stato. A par-
©
tire dagli anni Sessanta, tutti e tre questi Paesi hanno intrapreso iniziative
ht
per creare una propria industria high-tech, seguendo alcune politiche comu-
ig
di Stati che non hanno le stesse strutture burocratiche e hanno seguito poli-
C
52
tori, come ad esempio Sebastian Heilmann (Policy Experimentation in Chi-
na’s Economic Rise, «Studies in Comparative International Development», n.
1/2008), hanno mostrato che la Cina ha saputo introdurre politiche efficaci
in una molteplicità di arene, tra cui quelle per l’innovazione. Ai fini della no-
stra argomentazione è sufficiente riassumere il complesso meccanismo cine-
se elencando schematicamente tre caratteristiche.
In primo luogo, un governo nazionale che promuove la sperimentazio-
ne delle politiche da parte dei governi locali. In secondo luogo, la selezione a
e
livello centrale dei progetti migliori, la loro revisione e diffusione nelle altre
or
regioni del Paese. Infine, la costruzione di un sistema capillare di valutazio-
ut
ne delle performance delle politiche e l’ancoraggio delle carriere degli ammi-
l’a
nistratori locali ai risultati conseguiti. In questo caso, la chiave dell’efficacia
r
pe
sta nella capacità del partito-Stato di stimolare e recepire il cambiamento che
avviene a livello decentrato, coordinando dal centro la diffusione degli inter-
ia
venti più promettenti.
op
Questo tipo di resoconto, che mette in luce un mutamento istituziona-
I
le diretto dallo Stato, tuttavia non è di per sé sufficiente a spiegare la cresci-
l
o.
nuovo
in
ta impetuosa del mercato e del settore privato, che è andata ben al di là delle
ul
aspettative iniziali delle élite politiche. A tal fine non vanno trascurati i pro-
M
S
cessi endogeni di cambiamento, basati sull’azione imprenditoriale e sulle reti
tato
il
sviluppista
ic
nale del capitalismo cinese (V. Nee e S. Opper, Capitalism from Below: Markets
ed
– mostra chiaramente non solo la rilevanza dello Stato, ma anche come i dif-
yr
53
ment’s Role in Technology Development, Paradigm Publishers, 2011). A causa
della difficoltà di dirigere dall’alto l’innovazione tecnologica, il governo fede-
rale ha promosso un «decentramento coordinato» delle politiche per l’inno-
vazione, basato su partnership pubblico-private. In questo sistema, le agen-
zie pubbliche non appaiono capaci di definire ex ante una precisa strategia di
cambiamento tecnologico. Oltre al sostegno finanziario, svolgono perciò una
funzione essenziale di brokeraggio socio-istituzionale, promuovendo le con-
dizioni per la collaborazione di tutti coloro che possono offrire un contributo
e
rilevante alla definizione delle priorità strategiche. Creano cioè degli «spazi
or
pubblici collaborativi», dove gli stakeholders si trovano a discutere e a scam-
ut
biarsi informazioni utili per lo sviluppo e l’innovazione. In altri termini, gli
l’a
interventi pubblici generano «risonanza sociale», cioè svolgono un ruolo ca-
r
pe
talitico e innescano conseguenze critiche solo interagendo con altri muta-
menti sociali, economici e politici, potenziandone l’effetto complessivo.
amella
ia
Un esempio recente di questi spazi pubblici collaborativi è riscontra-
op
bile anche nelle politiche tedesche per l’innovazione. L’High-tech-Strategie te-
C
R
o.
rancesco
in
conomia nazionale verso l’innovazione radicale che è stato avviato da Angela
ul
Merkel nel 2006 e rinnovato dalla stessa cancelliera nel 2018. Al di là dei con-
M
tenuti specifici del piano, che in pochi anni ha triplicato la spesa pubblica in
F
il
itr
herar
un ampio spettro di portatori di interesse. Nella fase iniziale, il piano è stato
ed
dustriale, scientifico e professionale, che sono stati coinvolti anche nella fase
lberto
et
ta istituzionalizzazione del dialogo con gli stakeholders ha così creato una in-
So
A
54
economico-sociali promosse dai Paesi a crescita inclusiva egualitaria, come
quelli del Nord Europa (si veda C. Trigilia, Capitalismi e democrazie. Si posso-
no conciliare crescita e uguaglianza?, Il Mulino, 2020). A partire dagli anni No-
vanta i Paesi scandinavi hanno saputo ri-regolare il capitalismo, cercando un
equilibrio tra crescita e coesione sociale che ha consentito di limitare le di-
suguaglianze. Le numerose riforme introdotte hanno, da un lato, ampliato le
protezioni contro i nuovi rischi sociali, dall’altro, promosso la formazione e le
reti per l’innovazione. Questo approccio allo sviluppo, molto diverso da quel-
e
lo adottato in altre economie avanzate nello stesso periodo, può essere com-
or
preso solo guardando alla sfera politica. Da una parte, la tradizione negoziale
ut
dei loro regimi democratici ha favorito il compromesso tra le diverse istanze
l’a
sociali e, parallelamente, tra mondo del lavoro e imprese. Dall’altra, la pre-
r
pe
senza di un sistema di relazioni industriali con sindacati e associazioni im-
prenditoriali forti ha spinto verso una strategia competitiva che non sacrifi-
ia
ca la coesione sociale.
op
C
I
l
o.
nuovo
I Paesi scandinavi hanno saputo ri-regolare il capitalismo,
in
cercando un equilibrio tra crescita e coesione sociale
ul
M
S
tato
il
e
sviluppista
Prima di concludere è bene precisare che, di recente, il dibattito sul Develop-
ic
itr
mental State sta affrontando una revisione di alcuni dei suoi assunti origina-
ed
fosse del tutto assente, la lente era però centrata sulla crescita del Pil, mentre
yr
maggiore sensibilità verso le questioni dei diritti civili e politici e della soste-
nibilità sociale e ambientale dello sviluppo.
Così come testimonia la svolta inclusiva avvenuta negli ultimi decenni
in America Latina (D. Kapiszewski, S. Levitsky e D.J. Yashar, The Inclusionary
Turn in Latin American Democracies, Cambridge University Press, 2021): tra il
2000 e il 2014, nel continente sud-americano, la povertà si è ridotta dal 27 al
12% e la disuguaglianza è diminuita di quasi l’11%. Ciò non solamente in vir-
55
tù del boom delle materie prime, causato dalla crescente domanda interna-
zionale, ma anche di misure senza precedenti volte a riconoscere le popola-
zioni indigene, ad accrescere il decentramento e i canali di partecipazione e
a implementare politiche sociali redistributive. Questa svolta è legata solo in
parte alle vittorie elettorali della sinistra, avvenute a partire dal 1998 e pro-
seguite fino alla metà degli anni 2000. Decisivi, invece, sono stati la terza on-
data delle democratizzazioni e gli effetti cumulativi della persistenza demo-
cratica in un contesto di profonde disuguaglianze sociali.
e
La lezione che si può trarre dal dibattito sul New Developmental State
or
è che il ruolo di quest’ultimo non va ipostatizzato, ma deve essere compre-
ut
so in relazione a quello giocato da altri attori, siano essi i diversi livelli di go-
l’a
verno (sovra o sotto-ordinati), la burocrazia, le imprese e i portatori di in-
r
pe
teresse o, più in generale, i cittadini. In altre parole, che per tenere insieme
sviluppo, sostenibilità e coesione sociale è sì necessario un efficace e compe-
amella
ia
tente intervento pubblico, ma senza cadere nelle tentazioni demiurgiche dei
op
modelli top-down del passato. Al contrario, va irrobustito il radicamento del-
C
R
o.
rancesco
cy making aperto e riflessivo. in
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lberto
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Sociologia economica all’Università di Torino. Tra Sociologia economica e del lavoro all’Università
i suoi lavori: Break up to Get Back Together: The di Torino, dove dirige il ipartimento di Culture,
D
Impact of Unionisation Through Innovative Service politiche e società. Tra le sue pubblicazioni con
Provision on Union Membership and Industrial il Mulino, L’economia della collaborazione (con
Relations. Comparative Report (con A. Bellini, C. Manzo, 2019), Sociologia dell’innovazione
M. Betti, F. Lauria e V. Marasco, Edizioni Lavoro, economica (2013), Imprese e territori dell’alta
2022). tecnologia in Italia (con C. Trigilia, 2010). Socio
dell’Associazione di cultura e politica «il Mulino», fa
parte del Comitato di direzione di questa rivista e di
«Stato e Mercato» (che ha diretto dal 2011 al 2015).
56
Serve più Stato? / 4
UN NUOVO
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INTERVENTISMO
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ELLO STATO
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LAURA
PENNACCHI
57
’egemo ia eoliberista ha avuto come uno dei suoi cardini l’ostilità allo
e
L
n
n
Stato, alimentata anche da anni di nefasta teorizzazione di matrice blairiana
or
della superiorità delle pratiche di governance su quelle di government, espli-
ut
l’a
citamente indicate, e auspicate, come metodi di «amministrativizzazione» a
mezzo di «depoliticizzazione» (si pensi in Italia ai numerosi scritti di Sabino
r
pe
Cassese in tal senso).
ia
Per fronteggiare le conseguenze sanitarie, economiche e sociali del-
op
la pandemia da Covid-19 (non ancora completamente debellata), in tutto il
C
mondo gli Stati sono stati costretti – dopo un trentennio di restrizioni della
o.
spesa pubblica, di privatizzazioni, di tagli delle tasse per far «arretrare il pe-
in
rimetro pubblico» – a un’assunzione forte di responsabilità nei confronti dei
ennacchi
ul
propri cittadini, tale da far parlare di un «ritorno dello Stato». Ben presto,
M
però, sono cominciati i distinguo, tra cui richieste di vere e proprie regressio-
il
ni e liberazioni dal peso dello Stato, inviti alla prudenza più sottilmente argo-
e
P
ic
aura
mentati (si pensi al libro di Giuliano Amato, Bentornato Stato, ma, Il Mulino,
itr
tiene la tesi teorizzata da Cass Sunstein (che fu consigliere di Obama), per cui
ig
il ruolo dello Stato dovrebbe essere quello di fornire «spinte gentili» (nudges),
yr
Uno dei difetti maggiori di tali teorie è che, da una parte, immaginano
interventi pubblici «circoscritti» e «occasionali» (come circoscritti e occasio-
nali sarebbero i fallimenti del mercato), mentre essi nella realtà sono «per-
vasivi» e «strutturali»; dall’altra parte, ignorano un elemento fondamentale
della storia delle innovazioni: in molti casi decisivi il governo non ha soltan-
to dato «spintarelle» o fornito «regolazione», ma ha funzionato come «moto-
re primo» delle innovazioni più radicali e della creazione di lavoro. Nell’av-
58
vicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici – oggi con le tecnologie verdi e
farmacologiche – l’intervento dello Stato si è rivelato e si rivela decisivo, non
solo come «facilitatore» e alimentatore di condizioni permissive, ma come
creatore diretto, motore e traino dello sviluppo.
e
or
Questo è, del resto, l’impianto che sorregge il piano di investimenti dell’U-
ut
l’a
nione europea Next Generation Eu, che non a caso ha il suo baricentro ne-
gli investimenti pubblici. Al contrario, gli approcci tradizionali si fondano
r
pe
sull’idea che, quando si tratti di mercati perfettamente concorrenziali, que-
ia
sti bastino a sé stessi. Al contrario, ci sono molte situazioni in cui semplice-
op
U
mente i mercati non ci possono soccorrere. E ciò è ancora più vero quando
n
nuovo
C
la strutturalità della crisi fa avanzare l’esigenza di un’analoga strutturalità
o.
nel ridisegno della composizione della produzione e del modello di svilup-
in
po, quando cioè le economie vanno rimodellate dalle fondamenta: il mercato
intervent
ul
non può chiedere prodotti che nessuno sa se siano possibili e, d’altro canto,
M
ISM
ic
itr
o
Mai come oggi tale strutturalità è chiamata in causa: l’invasione russa dell’U-
d
ed
ello
craina ha rimescolato le carte un’altra volta, proponendoci uno scenario da
à
S
tato
Stati già molto provati per sostenere l’economia e la società durante l’epide-
ci
So
mia ora dirottano gran parte delle loro risorse verso gli armamenti e gli sforzi
bellici. Al contempo, la precarietà e le difficoltà occupazionali si accrescono,
by
ancora una volta, dei ceti sociali più fragili e disagiati, si rischia di ritardare
C
59
lo dell’Unione Sovietica. Gli Usa cercano di contrastare un declino che troppi
commentatori hanno dato per ineluttabile. La Cina, mentre si ritrova inde-
bolita dalle pratiche molto severe adottate per contenere l’epidemia da Co-
vid e colpita dalla guerra in Ucraina nel grande progetto della Via della seta e
delle linee di comunicazione conseguenti, mira a rafforzare ulteriormente la
sua presenza nelle tecnologie emergenti, dalla difesa ai programmi spaziali,
fino al nucleare e alla produzione di semiconduttori. Il groviglio più intrica-
to riguarda l’Europa, la cui costruzione risulta sempre più difficile, con i Pae-
si mediterranei persistentemente periferici e gli equilibri che si spostano ver-
e
or
so Nord e verso Est.
ut
l’a
Questa situazione altamente incerta e instabile, in cui proliferano populismi,
r
xenofobia, risentimenti anti-establishment, pone gli Stati di fronte al bisogno
pe
di superare il senso comune neoliberista e la visione secondo cui la globaliz-
ia
zazione avrebbe posto fine a qualsiasi possibilità di intervento pubblico. Oggi
op
si sta delineando quella che potrebbe essere descritta come una «globalizza-
C
zione selettiva», che va a sostituirsi alla passata iperglobalizzazione.
o.
in
ennacchi
ul
Oggi si sta delineando quella che potrebbe essere descritta
M
ic
aura
itr
tita alle imprese del mondo occidentale. Questo avveniva tramite molti stru-
et
menti, tra cui le delocalizzazioni nei Paesi emergenti a bassissimi salari. Oggi
ci
So
la compressione dei costi e l’alimentazione dei profitti che siano diverse dai
ht
60
te di conseguenza amministratori delegati e manager nell’età della sharehol-
der value (il valore per gli azionisti), delle stock options e dei bonus finanziari.
In questa situazione, come è stato anche evidenziato dalle recenti cri-
si bancarie di Silicon Valley Bank e Credit Suisse, la finanziarizzazione che ha
accompagnato l’iperglobalizzazione è giunta oramai a una impasse. La liqui-
dità creata dalle politiche monetarie «non convenzionali» (Quantitative Ea-
sing e molto altro) adottate progressivamente dalla crisi del 2007-2008 dal-
le banche centrali di tutto il mondo ha temporaneamente salvato il pianeta
e
dall’abisso. Tuttavia, ora che queste politiche vengono ritirate svelano i loro
or
aspetti controproducenti: la spinta a un’ulteriore finanziarizzazione è con-
ut
nessa all’iperglobalizzazione neoliberista, così come il suo annaspare, come
l’a
visto nelle ultime settimane, è connesso con la «globalizzazione selettiva»
r
pe
che le sta subentrando. La «eutanasia del rentier», che Keynes aveva auspica-
to per imbrigliare l’intrinseca predisposizione del capitalismo alle crisi perio-
ia
diche e dare vita a duraturi programmi di pace e di giustizia sociale, è stata
op
U
n
rovesciata nel suo contrario: il potere illimitato della rendita.
nuovo
C
Di conseguenza si moltiplicano le fonti di instabilità, dalla crescita
o.
in
esponenziale di debiti soprattutto privati, agli alti e bassi delle valute, alle
intervent
ul
convulsioni nelle bilance dei pagamenti, al saliscendi di apprezzamenti e de-
M
ISM
ic
o
resse in vertiginosa ascesa, si scontra con nuove difficoltà, come testimonia-
d
ed
ello
no non solo lo sconquasso valutario e monetario maldestramente provocato
à
nel Regno Unito dal governo di Liz Truss, ma anche le crescenti turbolen-
et
S
tato
ze dei mercati azionari, il crollo dei rendimenti delle piattaforme digitali e
ci
contempo, avanza una richiesta sempre più forte – talora da parte degli stessi
C
61
Diventa lampante che non possiamo più restare alla superficie dei
sommovimenti in atto, ma dobbiamo risalire alle strutture profonde che ar-
ticolano i nostri sistemi di produzione e i nostri ruoli produttivi, vale a dire i
nostri doveri, i nostri poteri, il nostro prestigio sociale. In questo modo bal-
za in primo piano anche la questione della «democrazia economica», di come
cioè democratizzare profondamente le stesse imprese, estendendo la parte-
cipazione e associando i lavoratori alle decisioni relative.
e
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Avanza una richiesta sempre più forte di interrogare
ut
il capitalismo anche sotto il profilo morale e della sua
l’a
responsabilità etica
r
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A fronte di tutto ciò occorre identificare un nuovo intervento pubblico, nuo-
ia
vo negli strumenti quantitativi e, soprattutto, nei suoi contenuti qualitati-
op
vi. La iperglobalizzazione, gli andamenti dell’inflazione, la finanziarizzazione
C
sono stati per il capitalismo neoliberista un modo fondamentale per con-
o.
trastare la stagnazione e cercare fonti alternative di profitto mediante la re-
in
ennacchi
ul
pressione della forza lavoro, che era stata la promotrice delle straordinarie
M
conquiste dei «trent’anni gloriosi» del secondo dopoguerra ispirati dalla ri-
il
flessione keynesiana.
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P
lasciato a se stesso, cerca strade similari in: 1) una minore protezione e una
ed
L
maggiore concorrenza nei servizi per fare spazio a una loro ulteriore «mer-
catizzazione» a vantaggio degli operatori privati; 2) una più forte canalizza-
à
et
zione degli investimenti negli armamenti per risvegliare gli «spiriti animali»
ci
assopiti in un ciclo innovativo che molti esperti vedono volgere ormai verso
So
che già per gli anni Trenta del Novecento ammoniva che «permettere al mec-
©
canismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli es-
seri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impie-
ht
ig
62
renza nei servizi, la quale comporterebbe tagli alla spesa sociale e nuove pri-
vatizzazioni su scala globale in campi strategici come la sanità e affini.
Così come sarebbe esiziale arrendersi all’idea che l’innovazione sia
possibile solo se veicolata da spese in armi e in guerra a cui andrebbe, pertan-
to, finalizzato in via prioritaria il sostegno dell’intervento pubblico, mentre è
negli investimenti per la pace che vanno urgentemente identificate le sorgen-
ti dell’innovazione del futuro. Al contrario, proprio questo tempo drammati-
co è il tempo di perseguire uno spirito «rivoluzionario» analogo a quello che
e
infiammò il New Deal di Roosevelt – ben più eretico e immaginifico dei pro-
or
grammi di spesa propugnati dai keynesiani della «sintesi neoclassica».
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È necessario costruire un nuovo modello di sviluppo
pe
con il quale porre mano profondamente a «cosa,
ia
per chi, come» produrre
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È necessario costruire un «nuovo modello di sviluppo» con il quale porre
o.
mano profondamente a «cosa, per chi, come» produrre e per il quale mobili-
in
intervent
ul
tare forme radicali di quello Stato come employer of last resort (datore di lavo-
M
ISM
do in realtà il ritorno dello Stato è contradditorio e spesso piegato al servizio
ic
itr
o
«predatorio» del capitale e dei poteri privati – è errato anche esprimere tota-
d
ed
ello
le scetticismo sulla possibilità che lo Stato sia in grado di identificare «mis-
sioni» innovative alternative a quelle scaturenti dai mercati e dalle impre-
à
et
S
se, come fa Alessandro Aresu, compiendo atti di fede solo negli animal spirits
tato
ci
«potenza normativa».
©
Non si tratta solo di evitare che delle tecnologie sia fatto un uso di-
storto e antisociale, si tratta piuttosto di riuscire a dare vita alle condizio-
ht
ig
63
ad opera di un pensiero e di una progettualità vivificati da una spinta creati-
va e immaginativa alternativa.
Daron Acemoğlu, per esempio, ritiene erronea la presunzione che
l’indirizzo già assunto dall’avanzare della intelligenza artificiale – tutto a ri-
sparmio di lavoro e con impieghi esclusivamente destinati a riconoscimento
facciale, trattamento linguistico, ideazione di algoritmi sostitutivi della co-
gnizione umana, invece che a soddisfare bisogni sociali insoddisfatti quali l’i-
struzione, l’educazione, la cura – sia l’unico possibile, come se fosse naturali-
e
sticamente determinato.
or
ut
L’innovazione e le nuove tecnologie vanno concepite non
l’a
come un processo imperscrutabile, ma come un processo
r
pe
intenzionalmente e strategicamente articolato e modellato
ia
op
Seguendo simili linee di pensiero e di azione, gli Stati (in un’accezione mol-
C
to larga, comprensiva della sfera dello «sperimentalismo istituzionale») pra-
o.
ticherebbero in favore della pace e dei beni comuni quella «direzione dell’in-
in
ennacchi
novazione» che Anthony Atkinson auspicava caldamente. Una direzione che
ul
non può che essere esercitata da un operatore pubblico a scala sovranaziona-
M
ricorda che il programma Apollo, quando gli Stati Uniti operarono come in-
P
ic
aura
vestor of last resort e non come lender of last resort, aveva perfino una clauso-
itr
la no excess profit.
ed
L
Si può fare leva sullo spirito rivoluzionario che ha animato il Next Ge-
à
europea e del «Patto di stabilità e di crescita», dotare l’Europa di una fiscal ca-
So
pacity destinata a finanziare beni pubblici europei, creare nuovi soggetti pub-
blici a scala europea «progettati come combinazioni di infrastrutture di ricer-
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blica, come già è avvenuto con il progetto Galileo, che non sarebbe mai stato
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64
Serve più Stato? / 5
QUAN O LO STATO
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SIMONE
GASPERIN
65
umero speciale del 2012 l’«Economist» sfoggiò una copertina rossa
e
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In
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n
con l’immagine di Vladimir Lenin con in mano un sigaro marchiato dall’effige
ut
del dollaro. Il titolo recitava The Rise of State Capitalism, l’ascesa del capitali-
l’a
smo di Stato. Un riferimento specifico a quando Lenin, nel 1918, argomentava
r
pe
come «dal punto di vista economico, il capitalismo di Stato [sia] immensa-
mente superiore al nostro attuale sistema economico». Il celebre giornale fi-
ia
nanziario londinese non intendeva certo perorare la causa leninista, bensì
op
semplicemente analizzare la crescente importanza delle imprese statali nel
C
contesto delle economie emergenti (fra tutte la Cina), ma anche in molti Pa-
o.
esi avanzati occidentali, il cui modello di capitalismo liberale stava subendo i
in
asperin
ul
contraccolpi della crisi economica del 2008.
M
e
imone
decina d’anni. La crisi pandemica e quella legata alle conseguenze della guer-
ic
itr
stenuto con capitali pubblici alcuni settori colpiti dagli effetti dei lockdown
à
(si pensi a quello del trasporto aereo con le ricapitalizzazioni di Air France e
et
di politica economica
op
C
66
stagione delle privatizzazioni ce lo ricorda: un’impresa può essere definita
pubblica non solo se è controllata o gestita da soggetti pubblici, ma soprattut-
to se nel suo operare incorpora elementi di politica economica.
e
con cui finanziarono la formazione di eserciti nazionali e la costruzione del-
or
la Grande muraglia. In epoche successive, seguendo l’esempio della Francia
ut
di Colbert di fine XVII secolo, i principali Paesi europei introdussero mono-
l’a
poli fiscali su una serie di beni essenziali, fra tutti il tabacco. Ancora nel 1950,
r
pe
l’azienda statale di tabacco Seita (che produceva le celebri Gauloises) contri-
buiva per il 6% delle entrate tributarie francesi.
ia
La seconda forma di impresa pubblica fu quella della public corpora-
op
tion, dal nome che le attribuì il ministro dei Trasporti britannico Herbert
o.
in
nese appena creata. La public corporation – ente pubblico economico in Italia o
D
ul
établissement public à caractère industriel et commercial in Francia – operava in
M
dibilità del bene (o del servizio) tendevano a configurarli come monopoli na-
e
ic
tura di input produttivi a basso costo. In Italia, l’esempio più celebre fu l’Ente
ci
Infine, maggiore rilevanza assunse, nella seconda metà del secolo scor-
by
soggetti privati sul piano domestico e internazionale. Gli scopi di questa for-
ig
67
zazioni, inaugurata nel 1992. Al tempo stesso però, il nostro Paese aveva spe-
rimentato un modello del tutto originale di «Stato imprenditore», termine
con cui in Italia – ma anche all’estero, dove il fenomeno è stato ampiamente
studiato e in una certa misura imitato – si faceva riferimento alle due grandi
holding pubbliche che caratterizzarono la nostra economia nel Secondo do-
poguerra: l’Ente nazionale idrocarburi (Eni), ma soprattutto l’Istituto per la
ricostruzione industriale (Iri).
e
or
L’Italia, prima del 1992, presentava diverse forme
ut
di impresa pubblica, oltre alle due grandi holding Eni e Iri
r l’a
pe
Fondato nel 1933 con l’intento temporaneo di salvare le tre principali banche
del Paese e l’apparato industriale a esse collegato, nel dopoguerra l’Iri ricoprì
ia
op
un ruolo permanente nella gestione di settori chiave: siderurgia, meccanica,
cantieristica, telecomunicazioni, energia elettrica e trasporto marittimo. Da
C
o.
semplice finanziaria di partecipazioni, si trasformò in un gruppo industria-
in
le integrato, per quanto diversificato al suo interno. Le società operative ven-
asperin
ul
nero raggruppate in «finanziarie di settore», a loro volta controllate dall’ente
M
mare e altre. L’Iri incarnò un modello di Stato imprenditore ben oltre le fasi
itr
1963).
à
zionale, capace di fornire input produttivi di buona qualità e a basso costo per
l’espansione dell’industria meccanica produttrice di automobili, macchine
by
68
All’Iri si deve anche la sopravvivenza di importanti attività manifattu-
riere, con operazioni e investimenti di lungo periodo che portarono alla crea-
zione di campioni nazionali competitivi a livello mondiale, come l’Italtel (te-
lecomunicazioni), l’Elsag (automazione industriale), l’Ansaldo (ingegneria
industriale, dell’energia e dei trasporti), per non parlare della ristrutturazio-
ne della Fincantieri, che garantisce tuttora all’Italia una leadership mondiale
nel settore. Inoltre, l’Iri trasformò delle modeste concessionarie telefoniche
regionali nel gruppo Telecom Italia, che nel 1997, poco prima della sua pri-
vatizzazione, era diventata la quinta società di telecomunicazioni al mondo,
e
or
con 126 mila dipendenti in oltre 40 Paesi.
ut
Oltre a questi risultati, l’Iri si fece veicolo di vere e proprie «missio-
l’a
ni» pubbliche. Prima fra tutte, quella di formare una classe di tecnici, qua-
r
dri e dirigenti aziendali, tra cui anche personale proveniente da Paesi in via
pe
di sviluppo, con cui si mantenevano rapporti commerciali di lungo perio-
ia
do. Diede anche un contributo all’inversione della divergenza economica tra
op
Nord e Mezzogiorno. A partire dall’opera di infrastrutturazione: in una pri-
o.
1957 con i collegamenti telefonici (la densità di installazioni telefoniche del
in
D
Sud rispetto al Centro Nord passò dal 26,8% nel 1957 al 77,1% nel 1992), infi-
ul
M
a quelli del Nord. Dalla fine degli anni Cinquanta, l’Iri diede un impulso de-
ic
itr
del Paese
ig
yr
ca e sviluppo dell’Iri rispetto al totale delle imprese crebbe dal 7% del 1963
al 26% del 1992. L’Iri contribuì a ridurre la dipendenza tecnologica dall’este-
ro e facilitò l’accesso di soggetti nazionali alla conoscenza generata, grazie
a un’indulgente politica brevettuale e al coinvolgimento di imprese esterne
nelle attività dei grandi centri di ricerca e sviluppo delle aziende Iri. Il siste-
ma di ricerca Iri era aperto e mirava a potenziare il trasferimento tecnologi-
co fra imprese Iri (e non) e università.
69
L’Iri fu «mandato in pensione» quando non aveva ancora sessant’anni,
per poi essere liquidato nel 2002. Il suo periodo di attività coincise con quel-
lo più prospero dell’economia italiana: nei primi anni Novanta, infatti, le sta-
tistiche sui livelli di reddito attribuivano all’Italia il rango di quinta potenza
industriale al mondo. Nonostante sia spesso accusato di essere stato un’enor-
me fonte di sprechi, tutto quello che l’Iri ha fatto nel Secondo dopoguerra è
costato allo Stato circa 54 miliardi di euro (a prezzi del 2018) in ricapitaliz-
zazione dell’ente (una media annua dello 0,17% del Pil). Le significative per-
e
dite accumulate dall’Iri a partire dal 1974 furono rappresentate per circa tre
or
quarti dal settore siderurgico, che dal 1975 entrò nella sua più profonda cri-
ut
si globale e fu destinatario di massicci sussidi statali in tutti i Paesi europei.
l’a
A fronte di trasferimenti pubblici relativamente modesti rispetto alle dimen-
r
pe
sioni dell’Iri (che produceva circa il 3% del valore aggiunto nazionale) e co-
ia
munque determinati da fattori esterni, l’azione dell’Iri fu decisiva per lo svi-
op
luppo economico-sociale del Paese e il suo lascito all’apparato industriale e
C
infrastrutturale italiano è stato considerevole (si pensi solo a Leonardo, Stmi-
o.
croelectronics, Fincantieri o alla ex Telecom Italia).
in
asperin
ul
La stagione globale delle privatizzazioni decollò simbolicamente con la quo-
M
tazione di British Telecom nel novembre del 1984 (al tempo la più grande
il
G
offerta pubblica iniziale della storia), toccando il picco tra la fine degli anni
imone
ic
pubblica, senza però sradicarla dall’orizzonte economico. Sono quasi del tut-
à
et
of State-Owned Enterprises del 2015, molti Stati hanno elaborato una ownership
©
70
dello sviluppo economico, si è trasformato in un più passivo Stato azionista
guidato da logiche prevalentemente finanziarie.
e
or
imprese controllate dal ministero dell’Economia (Mef) o indirettamente tra-
ut
mite Cassa depositi e prestiti (Cdp), a sua volta controllata all’82,8% dal Mef.
l’a
Sei di queste campeggiano fra le prime dieci società italiane per fatturato.
r
pe
Enel ed Eni sono rispettivamente prima e seconda, anche per capitalizzazio-
ne di borsa. Poste italiane e Ferrovie dello Stato sono i due principali gruppi
ia
per numero di addetti. Ferrovie dello Stato è la più importante impresa per
op
investimenti fissi, Terna si colloca al quarto posto. Leonardo è la società che
o.
li a controllo pubblico nel 2018 – da questa lista sono escluse le quattro gran-
in
D
ul
di società multiservizi controllate da enti pubblici locali (A2A, Hera, Iren,
M
talia), e quelle aggiuntesi negli ultimi anni (Ita Airways e Autostrade per l’I-
e
ti netti cumulati) e oltre mezzo milione di addetti (di cui 354 mila in Italia).
ed
sa in ricerca.
ci
nali esteri nel caso delle società quotate – a scapito del reinvestimento di ri-
yr
Se la Cina è diventata una potenza economica globale, lo deve anche alla for-
za propulsiva del suo insieme di società statali. Il Fondo monetario interna-
71
zionale ha stimato che le imprese pubbliche cinesi pesano per oltre il 13% de-
gli asset totali delle 2.000 più grandi imprese mondiali. Fra le 100 più grandi
società al mondo per fatturato presenti nella rivista «Fortune Global 500», 28
sono gruppi cinesi a controllo pubblico. Le 97 più importanti central SOEs ci-
nesi sono supervisionate e coordinate da un’entità pubblica di diretta emana-
zione del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare, la State-owned Assets
Supervision and Administration Commission (Sasac). Se fosse considerata
come un’unica State-holding company, la Sasac risulterebbe il più grande com-
e
plesso industriale al mondo, con un fatturato complessivo di 39,4 trilioni di
or
yuan (circa 5,7 trilioni di dollari Usa), che corrisponderebbe a oltre il 32% del
ut
l’a
Pil cinese.
Fra le principali imprese controllate da Sasac si trovano: ChemChina
r
pe
(la proprietaria di Pirelli e Syngenta), Sinopec (il più grande gruppo al mon-
ia
do per la raffinazione di petrolio e gas), Crrc (il più grande costruttore mon-
op
diale di treni), Baowu (il più grande produttore mondiale di acciaio), la so-
C
cietà farmaceutica Sinopharm, il costruttore aereospaziale Comac, il secondo
o.
e terzo produttore automobilistico in Cina (Faw e Dongfeng), le tre principa-
in
li compagnie aree (China Southern Airline, China Eastern Airlines, Air Chi-
asperin
ul
na), la rete elettrica nazionale di State Grid Corporation of China, la compa-
M
72
In modo simile alla Sasac cinese, l’Ape incarna una «dottrina azionaria» che
vede le partecipazioni statali non soltanto come asset finanziari da cui spre-
mere flussi di dividendi, ma anche come strumenti per soddisfare missioni di
interesse pubblico generale legate alla sovranità energetica, tecnologica e mi-
litare. L’Ape si struttura in divisioni settoriali (industria, energia, trasporti,
servizi e finanza), con responsabili incaricati di seguire le attività delle con-
trollate di area, non solo dal punto di vista amministrativo e finanziario, ma
anche per quanto riguarda gli aspetti industriali. Nomina poi i membri dei
e
consigli di amministrazione delle società controllate, inclusi quelli in rappre-
or
sentanza dello Stato francese, talvolta gli stessi funzionari dell’agenzia. Infi-
ut
l’a
ne, il commissario dell’Ape partecipa di diritto al Conseil de l’Industrie, l’or-
gano statale che definisce le principali strategie di politica industriale del
r
pe
Paese.
ia
op
Le imprese a controllo pubblico sono tornate centrali come
D
ul
M
pubblico sono tornate ad acquisire una centralità nella vita economica degli
e
ic
Stati, l’Italia dovrebbe recuperare gli elementi più virtuosi della sua tradizio-
itr
unico Ente nazionale per le partecipazioni dello Stato (Enps), ideato sul mo-
ht
73
Sulle novità istituzionali e sui dettagli tecnici di una riforma del si-
stema si potrebbe discutere a lungo. Ma il messaggio complessivo dovrebbe
essere evidente: se vuole trovarsi preparata rispetto alle nuove sfide econo-
miche, l’Italia non può più rinunciare all’impresa pubblica come strumento
attivo di politica economica.
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Serve più Stato? / 6
LO STATO
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TAUMATURGO
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LORENZO
CASINI
75
o tato è, a cora oggi, sotto i riflettori. È la comunità politica per ec-
e
or
L
S
n
cellenza. È la meta più ambita da un popolo che voglia esercitare la propria
ut
sovranità su di un determinato territorio. Anche la pandemia ha confermato
l’a
la posizione principe dello Stato quale soggetto chiamato a gestire gli effetti
r
pe
del contagio da Covid-19 nel proprio territorio.
Oramai gli Stati sono censiti e valutati secondo i più diversi indica-
ia
tori e criteri. La classifica più nota è quella basata sul Prodotto interno lor-
op
do (Pil), che ha dato vita a organismi intergovernativi come il G7 e il G20.
C
Gli studi statistici che misurano gli Stati sono numerosi e prendono in esa-
o.
me pressoché ogni aspetto, come la competitività economica, il merito cre-
in
asini
ul
ditizio (il cosiddetto credit rating), il tasso di democrazia o lo stesso livello di
M
«statalità».
C
il
orenzo
Di declino e «crisi» dello Stato si è parlato in realtà molte volte nel pas-
e
sato: si pensi alle note posizioni critiche già formulate nel XIX e nel XX seco-
ic
itr
lo, come le teorie marxiste con la ineluttabile caduta dello Stato prospetta-
L
ed
è lo Stato democratico
op
C
Ma come sta davvero, oggi, lo Stato? I segnali di buona salute come comuni-
tà politica non mancano; ciò che oggi appare in crisi, invece, sembra essere
lo Stato democratico.
Un primo segnale delle buone condizioni di salute dello Stato è il sem-
pre più frequente uso di questo termine e del relativo concetto, in modo di-
chiaratamente anacronistico, per ricostruire dinamiche organizzative o isti-
tuzionali dell’antichità.
76
Il fenomeno non è nuovo ed è ben noto, anche perché è stato trattato
da molti studiosi, in differenti Paesi e in epoche diverse. Francis Fukuyama,
per esempio, ha iniziato la propria ricostruzione storica dei sistemi politici
dalla Cina, dove si sarebbe sviluppato uno Stato moderno nel senso weberia-
no più di duemila anni fa, in assenza però di rule of law o democrazia. E la no-
zione di Stato è oramai usata anche negli studi sull’antico Egitto, con riguar-
do alla «Unione dei due regni» (la cosiddetta sma tawy).
Ernst-Wolfgang Böckenförde, tra i massimi studiosi dello Stato, ha tut-
e
tavia rilevato, già negli anni Sessanta del XX secolo, che non sarebbe più pos-
or
sibile oggi parlare di Stato degli Elleni, degli Incas, del Medioevo e dello Stato
ut
di Platone, Aristotele e Tommaso d’Aquino. Per Böckenförde, tra i fondatori
l’a
della nota rivista «Der Staat», sarebbe infatti una acquisizione della scienza
r
pe
storica che quello di Stato non è un concetto universale, ma serve a indicare e
descrivere una forma di ordinamento politico sviluppatasi in Europa, dal se-
L
ia
o
colo XIII alla fine del XVIII, come processo di «secolarizzazione».
op
S tato
Quando si tratta il concetto di Stato, si è comunque di fronte a una no-
C
zione non solo storicamente determinata, ma anche culturalmente situata.
o.
taumaturgo
in
Tuttavia, la parola Stato continua a identificare la principale forma di regi-
ul
me politico e, sotto questo profilo, non sembra ancora mostrare seri segni di
M
cedimento.
il
Un secondo segnale della buona salute in cui si trova lo Stato viene dal
e
numero dei cosiddetti «Paesi che non esistono» (Middleton), ossia i circa cin-
itr
quanta territori che chiedono di diventare o essere riconosciuti come Stati se-
ed
D
à
D
So
by
gli Stati non si è ridotto, anzi: quelli riconosciuti dall’Onu, come visto, sono
op
oggi 193; nel 1970, erano 123. Dal Secondo dopoguerra sono aumentati sia
C
gli Stati formalmente riconosciuti come tali, sia quelli de facto: ancora oggi è
lo Stato la figura che domina lo spazio giuridico globale e che rappresenta il
punto di arrivo «ontologico» dei popoli. Né vanno dimenticate le spinte se-
paratiste divenute sempre più pressanti anche in Europa, con la Catalogna in
Spagna e la Scozia nel Regno Unito.
Già agli inizi degli anni Novanta del XX secolo, del resto, la studiosa
Susan Strange, nel ricostruire il «retrocedere» (retreat) dello Stato, oltre a la-
77
mentare una sottovalutazione del fattore «tecnologia», rilevava il parados-
so che mentre i governi degli Stati consolidati, soprattutto in Nord Ameri-
ca e nell’Europa occidentale, vedevano una progressiva perdita della propria
autorità, cresceva la fila delle società che vogliono avere un proprio Stato; a
riprova di ciò, in Asia, lo Stato sembra tutt’altro che in crisi, perché esso ha
rappresentato e ancora rappresenta il principale strumento per raggiungere
crescita economica, infrastrutture moderne e migliori standard di vita.
Oggi non è il concetto di Stato a essere in crisi, perciò, quanto semmai l’idea
e
or
di Stato «democratico», costruito sulla separazione dei poteri, che si è affer-
ut
mata a partire dalla fine del XVIII secolo. Un’idea di Stato in cui la nozione di
l’a
sovranità è strettamente legata al mantenimento della democrazia. Ecco per-
r
ché diverse istituzioni globali si impegnano per sostenere gli Stati, fino a mi-
pe
surarne il tasso di statalità: è il caso, per esempio, del Fragile State Index, ri-
ia
sultato di una serie di indicatori adottati dal Fund for Peace per valutare, per
op
ogni Stato, aspetti quali l’effettivo controllo del territorio o l’effettivo mono-
C
polio del legittimo uso della forza, la eventuale perdita di autorità, la capaci-
o.
tà o meno di fornire pubblici servizi o anche la capacità o meno di interagire
con altri Stati a livello internazionale.
in
asini
ul
M
tengono lo Stato – e gli Stati – quale «centro di gravità» del mondo, al punto di
itr
L
ed
monitorarne anche lo stato di salute. Per altro verso, però, alcune misurazio-
ni – si pensi al rating creditizio – possono avere l’effetto di indebolire pesan-
à
et
Un terzo segnale delle buone condizioni dello Stato è rappresentato dalle vi-
cende legate alla pandemia del 2020, con particolare riferimento al ruolo che
tutti gli Stati nel mondo hanno avuto, sia nel proprio territorio, sia in coope-
razione tra loro, nel contrastare la emergenza sanitaria da Covid-19 e nel ten-
tare di dare sostegno anche economico alle popolazioni colpite.
La pandemia, come anticipato, ha ancora una volta confermato la po-
sizione dominante dello Stato quale entità di regolamentazione e di eserci-
78
zio sovrano del pubblico potere su una determinata popolazione all’interno
di un dato territorio. In tutto il mondo, gli Stati hanno approvato misure che
hanno interessato diversi aspetti della vita politica, sociale ed economica dei
rispettivi popoli. E l’esperienza della pandemia è stata anche una nuova oc-
casione per approfondire la portata e i limiti dei poteri di emergenza e dello
Stato di eccezione.
Un primo gruppo di azioni intraprese dagli Stati ha riguardato inter-
venti di carattere sanitario in senso stretto, come, per esempio, l’introduzio-
e
ne dell’obbligo del distanziamento tra le persone o dell’uso di mascherine. Ri-
or
entrano in quest’ambito anche le campagne di vaccinazione di massa. Sotto
ut
questo aspetto, si tratta di poteri che lo Stato ha esercitato più volte in passa-
l’a
to, di fronte a epidemie o emergenze sanitarie di qualsiasi tipo. Mai, tuttavia,
r
pe
si era registrata prima di questa occasione una dimensione tanto estesa, il che
è ovviamente dovuto anche alla crescita demografica degli ultimi decenni.
L
ia
o
Un secondo gruppo di provvedimenti ha invece avuto a oggetto la li-
op
S tato
mitazione di libertà fondamentali, quali per esempio la libera circolazione e
C
la libertà di riunione. A questi si sono aggiunte tutte le misure dirette a im-
o.
taumaturgo
in
pedire o limitare lo svolgimento di attività sociali ed economiche, nonché l’e-
ul
rogazione di servizi pubblici. La chiusura di scuole, teatri, cinema, la sospen-
M
sione dei campionati sportivi, l’obbligo del lavoro a distanza sono solo alcuni
il
degli interventi attuati dagli Stati negli anni 2020 e 2021 per contrastare la
e
pandemia nella sua fase più acuta e in attesa che fossero disponibili i vaccini.
itr
D
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le, è stato compito degli Stati e dei rispettivi governi (e, in misura minore, a
et
D
ti di applicazione.
So
In alcuni casi, come la tutela della privacy dei dati nell’ambito dell’U-
by
Immuni utilizzata per il tracciamento dei contagi. Allo stesso tempo, sempre
ig
nell’Unione europea, gli Stati si sono coordinati anche per assicurare un più
yr
Commissione Ue, nel giugno 2020, con la comunicazione Com (245) «Strate-
C
79
di piani straordinari di ripresa e resilienza per il periodo 2021-2026, Pnrr, cui
anche l’Italia ha aderito per accedere a importanti finanziamenti.
Le vicende della pandemia del 2020 e il ruolo guida riconosciuto agli Stati ri-
evocano, nell’esercizio del pubblico potere e nel modo in cui esso è percepi-
to dalle popolazioni, la figura dei re taumaturghi ben descritta da Marc Blo-
ch. Nel raccontare una delle più clamorose fake news della storia, ossia il rito
della guarigione dalle scrofole tramite il tocco delle mani dei re cristiani di
e
Francia e Inghilterra nel Medioevo, Bloch osserva, con riferimento a Enrico
or
II Plantageneto re d’Inghilterra (1133-1189), che «il suo potere guaritore non
ut
gli era personale; lo possedeva per la sua funzione: era taumaturgo in quanto
l’a
re». Così, durante la pandemia, gli Stati sono divenuti «taumaturghi» nel sen-
r
pe
so più ampio possibile. Essi non solo sono stati «guaritori» mediante le cam-
pagne vaccinali – su cui si sono purtroppo scatenate vere e proprie battaglie
ia
di disinformazione – e addirittura, come nei casi di Cina, Russia o Cuba, pro-
op
muovendo direttamente la produzione di propri vaccini; ma gli Stati sono di-
C
ventati anche veri e propri assicuratori di ultima istanza rispetto alle condi-
o.
zioni economico-finanziarie di cittadini e imprese. in
asini
ul
M
C
da Marc Bloch
L
ed
tecnici anche costituiti ad hoc. Tuttavia, non sempre i pubblici poteri sono
So
80
Le riflessioni sulla fine o sul declino dello Stato a causa dell’emergere
di poteri globali spesso raccontano solamente una parte della storia, perché
gli Stati, all’interno dei processi di globalizzazione, si indeboliscono e si raf-
forzano al tempo stesso. Ciò appare in modo chiaro, per esempio, nel control-
lo di flussi migratori: solamente un intervento sovranazionale o comunque
coordinato tra più Paesi può misurarsi con efficacia con questo fenomeno; di
qui la miopia di scelte «sovraniste» di alcuni Stati, che ipotizzano di chiude-
re porti e confini rivendicando una forma di sovranità oramai superata dalla
e
storia e in contrasto con regole internazionali. Anche la gestione dei conflitti
or
bellici mostra la tendenza degli Stati a coalizzarsi e tessere sempre alleanze:
ut
lo confermano le reazioni di alcuni Paesi (come la Finlandia e la Svezia) che
l’a
hanno chiesto di entrare nella Nato all’indomani dello scoppio del conflitto
r
pe
tra Russia e Ucraina nel febbraio 2022.
L
ia
o
op
S tato
Non è la globalizzazione, sviluppatasi più velocemente
C
proprio grazie alla rivoluzione tecnologica, a mettere
o.
taumaturgo
davvero in crisi l’idea dello Stato
in
ul
M
D
di quanto l’idea e il concetto di Stato siano ancora centrali nella scena politi-
à
et
ca internazionale.
ci
D
E sono proprio gli indicatori globali che possono aiutare a comprende-
So
si considerano indici come quelli legati allo sviluppo della democrazia (come
©
quello della United Nations Democracy Fund o di altre iniziative simili della
Ue e del Consiglio di Europa o anche quelli di Freedom House molto usati dai
ht
ig
zia. Una difficoltà che, come più dati evidenziano, è stata certo acuita dagli ef-
C
fetti prodotti dalla crisi economico-finanziaria del 2008. E, come visto, tra le
ragioni che portano più studiosi, sulla base di diversi indicatori, a identifica-
re un periodo di crisi o di recessione, se non addirittura di fine, delle demo-
crazie contemporanee, vi è sicuramente la rivoluzione tecnologica. L’illusione
di sviluppare forme di democrazia diretta sostitutive – e non soltanto integra-
tive – della democrazia rappresentativa, per esempio, può purtroppo favori-
re modelli di consultazione plebiscitari, più vicini a regimi di tipo autoritario.
81
Ma quali sono i rapporti tra la rivoluzione tecnologica e lo Stato? In
che modo le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione in-
fluenzano la sovranità che protegge la democrazia?
e
or
Sempre più frequente, per esempio, è il ricorso a blockchain e Intelligenza ar-
ut
tificiale (Ia) da parte della sfera pubblica, come evidenzia anche l’Osserva-
l’a
torio sullo Stato digitale dell’Istituto di ricerche sulla pubblica amministra-
r
pe
zione (Irpa): in Cina, per contrastare il Covid-19, si è fatto uso di telecamere
di sorveglianza a scansione termica e guidate da Ia; nel Regno Unito, l’HM
ia
Land Registry, ossia il catasto, ha messo a punto una forma di smart contract
op
che utilizza auto-certificazioni tramite blockchain; in Estonia questa tecnolo-
C
gia è usata sin dal 2012 per il registro delle successioni, mentre in Olanda vie-
o.
ne adottata nei sistemi di previdenza e assistenza pubblica; in Argentina dal
in
asini
ul
2018 è attivo un sistema di Ia per l’adozione di decisioni automatizzate intel-
M
il
orenzo
e
Tra i diversi ambiti in cui emerge l’influenza delle nuove tecnologie sui pub-
ic
itr
ed
che, individuate anche in base agli effetti che i condizionamenti digitali pro-
ducono sugli elementi costitutivi dello Stato, ossia il popolo, il territorio e la
à
et
sovranità.
ci
menti in atto che hanno conseguenze sul popolo e sul territorio. E qui sono
yr
la protezione dei dati personali; la crisi delle frontiere; il rapporto tra tecno-
C
82
Ma il principale effetto sulle democrazie prodotto dalle nuove tecnolo-
gie sembra essere quello relativo all’informazione e, in particolare, alle mo-
dalità di formazione dell’opinione pubblica. Può questo davvero cambiare lo
Stato (moderno) e portare a rivedere i suoi elementi costitutivi?
e
or
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L
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taumaturgo
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83
Serve più Stato? / 7
LO STATO NELLA
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COMPETIZIONE
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TECNOLOGICA
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ALESSAN RO
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ARESU
84
o dei ba chi di prova più i teressa ti per il rapporto tra Stato e mer-
e
Un
n
n
n
cato, in un’epoca di «neo-interventismo» (M. Wolf, The new interventionism
or
could pose a threat to global trade, «Financial Times», 14.2.2023), riguarda le
ut
l’a
filiere delle batterie e dei semiconduttori. Esse mostrano il ruolo dei poteri
pubblici nei conflitti commerciali e tecnologici, sulla base della sicurezza na-
r
pe
zionale, secondo il paradigma che ho sviluppato attraverso i concetti di «ca-
pitalismo politico» e «sanzionismo» (cfr. i miei Le potenze del capitalismo poli-
ia
op
tico, La nave di Teseo, 2020 e Il dominio del XXI secolo, Feltrinelli, 2022).
C
L’espressione «capitalismo politico» o «politicamente orientato» risa-
o.
le a Max Weber. Oggi l’intreccio tra economia e politica riguarda una varietà
in
di strumenti, non limitati alla partecipazione statale nelle imprese: l’uso po-
ul
litico del commercio, della finanza e della tecnologia; i rapporti tra appara-
M
to ai controlli sulle esportazioni (N. Mulder, The Economic Weapon. The Rise of
à
Backfire, How Sanctions Reshape the World Against U.S. Interests, Columbia Uni-
ci
So
sistemica con la Cina, nel cui sistema autocratico l’Esercito popolare di libe-
yr
85
Buona parte della nostra vita su questo pianeta non può esistere senza
i semiconduttori, «mattoncini» della vita digitale presenti in pc, smartphone,
server, fabbriche, automobili, elettrodomestici, armamenti di varia natura.
L’industria dei semiconduttori, inventata negli Stati Uniti tra gli anni Qua-
ranta e Cinquanta, ha avuto le prime applicazioni in ambito militare per poi
trovare un grande mercato nell’elettronica di consumo. Dagli anni Settan-
ta fino agli anni Novanta è stata al centro della competizione tra Washington
e Tokyo: la perdita di competitività e l’importanza militare di questa tecno-
e
logia hanno portato gli Stati Uniti a dazi sulla base della sicurezza naziona-
or
le, oltre a investimenti pubblici con il consorzio Sematech. L’importanza di
ut
quest’ultimo è spesso esagerata: per esempio, le innovazioni di Intel negli
l’a
anni Novanta, leva del rilancio statunitense, non derivano in modo diretto da
r
pe
Sematech; lo stesso Robert Noyce, anima e guida di Sematech, aveva indica-
to come cartina di tornasole dell’iniziativa il destino della fotolitografia sta-
ia
tunitense, che fallisce.
op
C
o.
Il crescente intervento sui mercati per ragioni di sicurezza
in
resu
deriva dall’importanza di alcune tecnologie e dall’ambizione
ul
M
e
lessan
Nel mezzo della «prima guerra dei semiconduttori» tra Washington e Tokyo,
ic
itr
cui si aggiungono i centri di ricerca, vi sono diversi leader, in una filiera dove
by
ti Uniti, Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Cina, Paesi Bassi, e poi Germania,
Francia, Italia, Austria, Irlanda, Belgio, Israele). La diversificazione riguar-
ht
ig
86
ne (aziende statunitensi come Nvidia e Amd), nei macchinari (aziende statu-
nitensi come Applied Materials, Kla, Lam Research, giapponesi come Tokyo
Electron e il gigante dei Paesi Bassi Asml).
e
or
Come si svolge quindi l’attuale guerra dei semiconduttori? Al ciclo spietato
ut
che caratterizza l’industria, da sempre legata a momenti di vorticosa ascesa
l’a
e caduta dove i leader tendono a stritolare i concorrenti, e all’incertezza su-
r
pe
gli sviluppi tecnologici di alcune applicazioni, si affiancano ragioni politiche,
che legano l’operato delle aziende agli interessi degli Stati, in una corsa alla
op
tazione della globalizzazione. I Paesi hanno interessi diversi. La Cina vuo-
C
le raggiungere un ruolo che attualmente non ha, facendo leva sulla propria
o.
scala. Gli Stati Uniti sono complessivamente i leader ma vogliono rispondere
in
ul
al declino manifatturiero aumentando il loro ruolo nella produzione, che si
M
svolge soprattutto a Taiwan e in Corea del Sud. L’Europa punta sia sulla pro-
il
capacità rilevanti. Taiwan e Corea del Sud, in diversi modi, vogliono conser-
ic
itr
vare il proprio ruolo, mentre il Giappone vuole tornare per quanto possibi-
ed
le ai fasti degli anni Ottanta, sulla base di un ecosistema ancora forte. Nuovi
attori cercano spazio, a partire dall’India. La competizione si gioca su capa-
à
et
tra la proprietà pubblica delle aziende e la loro performance, come può esse-
So
re mostrato dal confronto tra gli attori europei, mentre nelle aziende statuni-
by
tensi citate il ruolo dei programmi pubblici è stato rilevante solo nei processi
©
dei controlli sulle esportazioni, innescato a partire dal 2018 dal caso Huawei.
C
87
po cinese con argomenti di sicurezza nazionale, ed è difficile per Pechino so-
stituire i colli di bottiglia che abbiamo evidenziato.
La stampa dà spesso risalto ai casi di furti di proprietà intellettua-
le da parte cinese verso varie aziende, tra cui il monopolista dei macchinari
più avanzati, Asml, ma è impossibile replicare le macchine di Asml (e i suoi
circa 200 fornitori critici, tra cui le aziende tedesche Trumpf e Zeiss). Né la
Cina potrà mai prendere il controllo effettivo di Tsmc in caso di invasione di
Taiwan. Questa filiera di enorme complessità è quindi caratterizzata da un
e
doppio fenomeno: la ricerca politica di sicurezza – che è anche tema econo-
or
mico, di limitazione dei rischi – e l’esigenza economica, oltre che politica, di
ut
collocarsi in alto sulla scala tecnologica nelle sue varie nicchie.
r l’a
pe
Se la filiera dei semiconduttori rappresenta un insuccesso cinese, è utile fare
riferimento al gioiello della crescita recente di Pechino: la filiera delle batte-
ia
rie, attualmente essenziale per la mobilità elettrica.
op
In un orizzonte più largo, la supply chain fotovoltaica è dominata dal-
C
la Cina e «la provincia cinese dello Xinjiang rappresenta il 40% della produ-
o.
in
zione mondiale di polisilicio» (International Energy Agency, Special Report
resu
ul
on Solar Pv Global Supply Chains, luglio 2022, p. 9). Gli europei hanno letteral-
M
A
mente pagato con i loro sussidi lo sviluppo industriale cinese, con piani pri-
ro
il
e
lessan
ic
Catl, mentre Byd è un’azienda cinese che produce sia batterie sia auto elet-
et
triche, e nelle vendite di veicoli elettrici compete già per il vertice mondia-
ci
le con Tesla.
So
by
Il successo cinese in questa filiera è nato dal riconoscimento del ritardo ri-
C
88
Pechino. Le aziende cinesi hanno investito nell’attività estrattiva, attraverso
accordi di lungo termine su materiali come litio e cobalto, in Australia, Cile,
Repubblica Democratica del Congo e nel trattamento e nella raffinazione dei
materiali. Il governo centrale e quelli locali hanno portato avanti politiche
aggressive sull’accesso al mercato da parte dei produttori stranieri in cam-
bio di un trasferimento tecnologico forzato, insieme alle sperimentazioni ur-
bane. In tutti i passaggi, la scala del mercato cinese è stato un elemento deci-
sivo (H. Sanderson, Volt Rush. The Winners and Losers in the Race to Go Green,
e
Oneworld Publications, 2022). Il dominio cinese della produzione di catodi,
or
anodi e batterie non deriva dalle capacità estrattive interne, ma dai processi
ut
di raffinazione e dalla scala del mercato.
l’a
Qual è la risposta degli altri attori? Imprese giapponesi e coreane,
r
pe
come Panasonic e Lg Chem, sono state superate dalla Cina ma restano com-
petitive. Gli europei hanno presentato un’iniziativa autolesionistica, cosid-
op
alla strategia industriale, per poi correre ai ripari nel 2023, davanti alle mos-
C
se statunitensi. Nel mentre è avvenuta l’ascesa del «marchio» Tesla. I produt-
o.
in
tori automobilistici tradizionali hanno investito poco sui cambiamenti (che,
ul
oltre alla tecnologia della mobilità, riguardano l’elettronica, e quindi si lega-
M
a dispetto del nome interviene soprattutto sulla competizione tra Stati Uni-
itr
alleati europei, che hanno un costo dell’energia molto più elevato, non solo
by
per la crisi energetica ma perché gli Stati Uniti hanno investito da tempo, con
©
portata e nella loro tempistica. È probabile che alcune misure lato sensu pro-
op
tomobili elettriche cinesi su mercati, come quelli europei, in cui l’auto è par-
te di quel che resta del contratto sociale.
89
pre più frequenti per ragioni di sicurezza nazionale nelle filiere commerciali
e tecnologiche, di cui i sussidi pubblici sono solo uno degli strumenti. L’inci-
denza della sicurezza nazionale è evidenziata dal rovesciamento delle supply
chain globali, col controllo sulle esportazioni. Se la posta in gioco è la sicurez-
za nazionale, non basta allora sostenere l’importanza delle risorse pubbliche.
Senza obiettivi in grado di incidere sulla competizione politica nella tecnolo-
gia, il rischio è perseguire l’approccio generico e autolesionista europeo del
2019/2020, quando la guida pubblica ha posto un tema (la transizione ecolo-
e
gica) ma ha sottovalutato il punto centrale (la riorganizzazione e la proprietà
or
dei nodi tecnologici) e ha sopravvalutato l’enunciazione di target, senza co-
ut
struire un sistema semplice ed efficace per passare dalla teoria alla pratica.
r l’a
pe
Occorre investire per creare e proteggere la capacità
ia
tecnologica interna: quando gli italiani hanno rifatto
op
le facciate dei palazzi o comprato pannelli solari cinesi,
C
hanno fatto l’esatto contrario
o.
in
resu
ul
Nella prospettiva dell’attore pubblico, per influire sulla base della sicurez-
M
A
la, e non è scontato che gli Stati – indeboliti nella loro capacità e nei loro pro-
d
e
lessan
ic
tali scelte. In terzo luogo, occorre investire per creare e proteggere la capaci-
et
hanno speso decine di miliardi per rifare le facciate dei palazzi o comprare
So
90
che rende materialmente possibile la risposta di ChatGpt alle nostre do-
mande oggi (M. Hablen, Update: ChatGpt runs 10K Nvidia training Gpus with
potential for thousands more, «Fierce Electronics», 11.2.2023).
In Europa, il fatto che la Commissione e il governo olandese abbiano
dato qualche sussidio ad Asml non è stato decisivo per il suo successo, perché
i passaggi importanti sono stati compiuti prima, con la gestione del prodot-
to, dei clienti e fornitori, col ruolo di Asm International e l’imprenditorialità
portata da Arthur Del Prado, con l’aggancio di Zeiss, e poi con le autorizza-
e
zioni statunitensi alle acquisizioni in ottica anti-giapponese. Diverso è il caso
or
del miglior centro di ricerca applicata al mondo sui semiconduttori, Imec a
ut
Leuven: lì il finanziamento pubblico iniziale e stabile del governo fiammingo
l’a
è stato decisivo per avviare un percorso reso poi possibile e stabile dalla natu-
r
pe
ra di ricercatori-manager dei fondatori. Insomma, il rapporto tra Stati e mer-
cati cambia a seconda della casistica di riferimento ma in ogni caso l’intrec-
op
sicurezza nazionale e dall’analisi delle supply chain, nel cammino che alcune
C
aree geografiche compiono per rafforzare e salvaguardare la capacità tecno-
o.
in
logica interna e non ritrovarsi meri clienti delle aziende altrui.
ul
M
pubblica europea
à
et
in tal senso le scelte politiche. Per non trovarci in una trappola, in cui gli stes-
by
si piani – come il Green Deal europeo – con cui diciamo di rendere più soste-
©
no abitare vicino a un centro di raffinazione del litio. In ogni caso, stiamo già
vivendo – e vivremo sempre di più – la fine delle illusioni di una transizione
energetica senza costi e senza consapevolezza industriale. Su questo è urgen-
te avviare un dialogo responsabile nell’opinione pubblica europea.
La competizione sulle batterie e sui semiconduttori, come sulle altre
tecnologie critiche, non va limitata ai materiali e al loro trattamento, in uno
smodato allargamento della sicurezza nazionale. Essa riguarda in primo luo-
91
go le persone e le loro competenze: la capacità di formare ingegneri elettro-
nici, ingegneri chimici, fisici, tecnici di laboratorio, esperti di test, e altri pro-
fili. Il successo di Taiwan e della Corea del Sud non è spiegabile solo col costo
del lavoro e coi sussidi pubblici alle aziende. La costruzione e lo sviluppo di
ecosistemi avanzati sul rapporto tra imprese, università e centri di ricerca
ne è una parte ineliminabile, assieme alle tecniche gestionali e organizzative
delle fabbriche. E tutto ciò indica l’importanza di un rapporto più solido tra
pubblico e privato. Questi elementi relativi alle competenze, oltre alla capaci-
e
tà dei governi di sviluppare sistemi autonomi di lettura di filiere molto com-
or
plesse, richiedono grande attenzione, se vogliamo elaborare un rapporto tra
ut
Stati e mercati all’altezza del nostro tempo.
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Serve più Stato? / 8
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PAOLO
BORIONI
93
buo pu to di osservazio e rispetto alla crisi del neoliberismo e il ri-
e
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Un
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n
torno dell’interventismo da parte dello Stato è la Scandinavia. I Paesi nordi-
ut
ci vivono da anni un dilemma: come trasformare un modello socio-economi-
l’a
co basato sulla competitività e l’internazionalizzazione economica? In questi
r
pe
Paesi il periodo di egemonia socialdemocratica aveva generato una pervasi-
va parità capitale-lavoro attraverso l’interazione fra alti salari, elevata occu-
ia
pazione, forte sindacato e forte Welfare che ha sbarrato progressivamente la
op
strada ai bassi salari. Ciò ha costretto il capitalismo scandinavo a prendere
C
una «via alta» alla competizione internazionale: con elevate dosi d’innova-
o.
zione e basse dosi di sfruttamento, alte spese in ricerca e sviluppo, politiche
in
ul
orioni
attive del lavoro e Welfare.
M
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aolo
zione delle classi meno abbienti, piuttosto che «tecnocratica dall’alto») alla
ic
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ed
terno delle regole Ue, i Paesi nordici si sono visti costretti a ridurre l’impat-
à
to dei fattori di domanda interna di questo modello (salari, Welfare ecc.) ri-
et
e il ragionevole). Ciò ha potuto essere realizzato con meno traumi che altro-
So
ve in Europa, ma negli ultimi anni sono calate le capacità inclusive del siste-
by
94
tre Habeck in Germania e Le Maire in Francia hanno aperto a misure analo-
gamente protettive delle produzioni «verdi» europee, Vestager si è opposta a
esse in coerenza con la sua fede neoliberista e sulla base del fatto che altri Pa-
esi hanno «tasche più profonde» per le politiche di «protezione» industriale.
e
or
Il partito liberal-radicale di Vestager (Radikale Venstre) è la cultura politi-
ut
ca nordica «progressista» più coincidente con l’europeismo neoliberale. Esso
l’a
nacque organizzando classi semiproletarie delle campagne, ma fu diretto dal-
r
la componente democratico-radicale cosmopolita di Copenaghen. Divenne
pe
l’alleato classico dei ben più grandi socialdemocratici, nel nome della limi-
ia
tazione dei poteri regi, di una maggiore redistribuzione dei profitti generati
op
dall’export agricolo nonché (fino alla Nato) dello stretto neutralismo e della
C
minimizzazione delle spese militari in favore di quelle sociali. Quei ceti co-
D
ed
con un monocolore del suo partito con sostegno esterno dei post-comunisti e
ci
ha invertito le politiche neoliberiste di taglio allo Stato sociale, agli uffici del-
la Pubblica amministrazione e alle scuole nelle aree periferiche e contrastato
le politiche di «new public management» in cui le consulenze esterne conta-
vano più delle competenze presenti nella Pa.
Siamo insomma di fronte a iniziative che sembrano venire incontro ad
ansie popolari diffuse, anche se meno di quanto sarebbe stato possibile viste
le floride condizioni (basso debito, surplus di bilancio, super-surplus com-
95
merciale). La socialdemocrazia fa qualcosa per sovranità e protezione eco-
nomica ma rimane in un quadro ancora troppo export-led per potere vera-
mente cambiare la situazione. Comunque sia, questa inversione rispetto al
periodo neoliberista sta cominciando a ottenere risultati. Nelle elezioni di
autunno la socialdemocrazia ha visto una crescita al 27,5% dopo decenni di
stasi o regressi, ottenuta surclassando tutti. È stato riconquistato il voto po-
polare alla destra nazional-populista, e sospinto nella frammentazione il cen-
tro-destra borghese in generale. I classici rivali del partito liberale (radica-
e
to nelle tradizioni agrarie del super-libero scambio) sono secondi con meno
or
della metà dei voti. Il partito di Vestager, che alla fine della legislatura ave-
ut
va deciso di reagire alla marginalità in cui Frederiksen lo aveva costretto to-
l’a
gliendo la fiducia al governo monocolore socialdemocratico, è sotto il 4%: ha
r
pe
perso oltre il 50% dei voti.
ia
Il problema generale sullo sfondo rimane un’Europa le cui regole economi-
op
co-finanziarie sono sempre più inadeguate. Se queste prevedessero livelli di
C
surplus commerciale di massimo lo 0,5%, ciò consentirebbe all’Italia di cre-
o.
in
scere meglio (senza più propria emigrazione e assorbendo più immigrazione
ul
orioni
senza traumi) e ai nordici di rimanere più coerentemente «Welfare univer-
M
salistici scandinavi». Nel contesto attuale invece i Paesi nordici sono indotti
il
e
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ic
ed
lo»: sia arretramento di molti ceti operai e delle periferie (con cospicui incre-
et
96
notevoli restrizioni; questo mentre il governo socialdemocratico svedese ri-
maneva invece fedele alla mera mitigazione.
Per giustificare questa decisione, la prima ministra Frederiksen, vice-
versa, sottolineava la responsabilità dell’esecutivo:
e
or
rus su prove scientifiche finiremmo per arrivare troppo tardi».
ut
l’a
Ne sortivano misure di emergenza che il Parlamento adottava quasi a scato-
r
la chiusa. Con diverse lamentele anche nei partiti di supporto parlamentare
pe
come i post-comunisti di Enhedslisten (per non essere stati inclusi nella de-
ia
cisione di dettaglio), le misure avocavano al ministro della Sanità, per un pe-
op
riodo di circa un anno, facoltà decisionali (ad esempio riguardo al diritto di
C
riunione e all’obbligo di isolamento sanitario) che appannavano il tradizio-
D
posto a Frederiksen, ha pubblicato un pezzo significativamente intitolato
ed
«La crisi del Covid è stata usata per rafforzare il consenso alla narra-
So
«Ogni volta che il governo ha stretto la presa sulla libertà dei danesi
ciò non ha suscitato opposizione ma l’inverso e questo è stato il gran-
de problema dell’opposizione: ogni volta che accusavano il governo di
pratica del potere fine a se stessa e di superflue restrizioni della libertà
hanno incrementato nella popolazione la sensazione che la presidente
del consiglio si occupava di loro».
97
Mentre i socialdemocratici danesi hanno reagito bene alla crescita di senti-
menti nazionalisti e populisti presso i ceti popolari, seppure in modo talvol-
ta spregiudicato, i socialdemocratici svedesi sono ancora lontani da questo.
Negli ultimi anni la discussione politica si è incentrata sempre più sul nesso
tra protezione e disuguaglianza. L’ex premier socialdemocratica Andersson
nel dicembre 2020 ha dichiarato che «il Covid pone fine all’era neoliberale».
Tuttavia, questo cambiamento del discorso politico avviene con il Paese alle
prese con un’esplosione di criminalità organizzata violentissima. Non a caso
e
la campagna elettorale dell’autunno 2022 ha dibattuto molto di introdurre
or
«pene danesi» (molto più dure anche in età adolescenziale) per «reati svede-
ut
si». L’esempio danese è stato anche richiamato dall’ex ministro socialdemo-
l’a
cratico Anders Ygeman riguardo a nuove politiche abitative per imporre una
r
pe
maggiore differenziazione etnica nelle cosiddette «zone ghetto»: quelle in cui
i residenti pregiudicati, disoccupati e «cittadini con retroterra non nordico»
ia
eccedono certi limiti percentuali.
op
Questa svolta è venuta dopo l’aumento del sostegno elettorale regi-
C
strato dal movimento post-fascista Sverigedemokraterna arrivato lo scorso
o.
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autunno a essere il secondo partito con oltre il 20% (+3%) dopo il partito so-
ul
orioni
cialdemocratico (30,33%, secondo peggior risultato di sempre). Commentan-
M
mocratico Stefan Stern ha sostenuto che «se gli elettori non credono più che
B
e
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Come ha affermato l’ex leader Håkan Juholt, che ha cercato di spostare i so-
P
ed
al fatto che non siamo più visti come abbastanza forti per mantenere lo Sta-
et
cialdemocratico» a offrirla.
©
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Come affermato dai sociologi Anders Nilsson e Örjan Nyström quando si per-
de ogni speranza di mobilità sociale ci si preoccupa di non essere superati,
da cui una società più ansiogena e meno accogliente. Si tratta di un proble-
ma di grande attualità nel contesto svedese in cui, come affermato dal centro
di ricerca di area sindacale Katalys, si è registrato un aumento dal 20 al 35%
della concentrazione di ricchezza per la frazione più ricca. Katalys afferma
sul quotidiano «Dagens Nyheter»: «La crescente disuguaglianza e l’indeboli-
98
mento del Welfare contribuiscono alla segregazione e all’esclusione sociale.
Si vive in mondi sempre più separati […] il che crea polarizzazione fra grup-
pi e ambienti diversi». Ma nei centri studi di area socialdemocratico-sinda-
cale emergono anche richiami a politiche industriali o interventiste: Katalys
sostiene un «keynesismo del clima» se «la conversione verde deve accelerare.
Gli Usa lo hanno capito, ma il governo svedese sta passivamente a guardare»,
peraltro permettendo un certo regresso infrastrutturale ingiustificabile visti i
surplus. Anche il centro studi Arena nel rapporto Nazionalismo progressista in
e
età globale cerca una strada fra «nazionalismo regressivo» e «globalisti» a là
or
Blair: per la trasformazione verde sono importanti le regolamentazioni inter-
ut
l’a
nazionali ma «è al livello nazionale che si prendono le decisioni fondamen-
tali, ed è dunque necessario uno Stato forte dallo sguardo rivolto in avanti».
r
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Secondo Katalys e molti altri uno dei fattori decisivi per la crescente disegua-
op
glianza è il processo di «riforma» dello Stato, mediante «razionalizzazioni»
C
e/o privatizzazioni (clamorose nella scuola, ingenti nella sanità), nonché me-
ziani per Covid sono dipesi proprio dalla precarizzazione «in subappalto» di
il
e
parte della manodopera nei centri per anziani. Per Anna Skarsjö, sindacali-
ic
D
respiratorie o da raffreddamento, l’assenza per malattia. Un segnale di rea-
ed
gli ultimi decenni, con sullo sfondo anche le «porte girevoli», come quello
che coinvolge Filippa Reinfeldt, moglie dell’ex premier conservatore Fredrik
©
Reinfeldt, divenuta capo-lobbista del gigante della sanità privata Aleris dopo
ht
aver guidato la sanità pubblica nella regione di Stoccolma. Nella regione del-
ig
yr
elettorale del 6,77%, con un risultato di diversi punti superiore alla media na-
C
zionale.
Ma il senso di «perdita di controllo/sovranità» riguarda anche il pro-
cesso di adesione alla Nato, pur largamente condiviso. La presenza di molti
curdi «sgraditi» a Erdogan, spesso cittadini svedesi, si è sommata alle esibi-
zioni anti-islamiche di Rasmus Paludan, il politico dano-svedese che coi suoi
roghi del Corano provoca disordini e indignazioni fra i musulmani in Svezia e
Turchia. Recentemente le forze dell’ordine svedesi hanno adottato un atteg-
99
giamento più restrittivo riguardo ai roghi, cercando con provvedimenti d’or-
dine pubblico di rimediare all’inesistenza di leggi anti-blasfemia. Essendo il
fine quello di dissuadere Erdogan dal porre il veto all’ingresso svedese nel-
la Nato, affiora inquietudine rispetto alla china intrapresa: quanto ci si do-
vrà adattare a valori estranei ogni volta che qualche tensione lo richiederà?
Solo ai tempi in cui il Paese era circondato dagli eserciti nazisti il cedimento
alle richieste altrui era stato superiore. In seguito, il tipo di neutralità attiva
perseguito da Erlander e Palme aveva «lavato» le inconfessabili concessioni
e
a Hitler (commercio di metalli e passaggio di truppe). Lungamente i principi
or
della neutralità attiva erano stati integralmente ispirati a un modello di so-
ut
cietà «terzo» rispetto a Usa e Urss, anche contando scaltramente sull’identi-
l’a
tà della Svezia come democrazia occidentale, che la Nato avrebbe protetto da
r
pe
insidie sovietiche. Per alcuni decenni questo interesse nazionale fatto di prin-
cipi, autonomia e calcolo (insomma una politica avanzata, ovviamente non
ia
angelicata) aveva garantito una sovranità davvero ampia, per realizzazioni
op
politiche e proiezione internazionale.
C
o.
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Quanto l’adesione alla Nato incrementerà davvero l’effetto
ul
orioni
M
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Oggi, con tutte le enormi differenze rispetto ai tempi di Palme, viene da chie-
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ed
ansie. Riguardo alla sfida Usa della ripresa di controllo su produzioni stra-
C
100
Tuttavia, abbiamo visto che anche fra i nordici in ultima analisi la
doppia internazionalizzazione neoliberale (Ue e globalizzazione) produce
maggiori richieste di protezione e sicurezza, nonché richiami all’interventi-
smo di Stato storicamente non frequenti, e dunque tanto più significativi. Ciò
avviene poiché fare propria l’ossessione dei surplus implica contenere oltre
il necessario Welfare e salari, generando una gerarchizzazione di classi e ceti
normale per la competitività ordo- e neoliberale, ma che le socialdemocrazie
nordiche avevano quasi espulso dalla storia. Oggi la gerarchizzazione riappa-
e
re, con inquietudini che abbiamo descritto solo in parte, sommandosi all’at-
or
trattività comparata delle società nordiche per i migranti. Questa, nei timori
ut
di molti, rischia di aggiungersi alle «società parallele» di larghe zone dei due
l’a
Paesi, specie in Svezia scenario di gravissimi problemi di criminalità.
r
pe
Insomma, l’intrico tra profondissima internazionalizzazione e neces-
saria «sovranità protettiva» è oggi altamente problematico anche dove più
ia
progressivamente era stato governato. Le socialdemocrazie sono in difficoltà
op
ma (almeno in Danimarca) meno dei «borghesi». Anche perché la loro fun-
C
zione storico-ideologica (una certa persistenza dell’identità di «movimento
scompaiono (è il caso del Ps francese, del Pasok, e del Pvda) oppure (è caso
e
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del Pd) divengono mera infrastruttura sul lato «progressista» della crescen-
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te gerarchizzazione.
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Serve più Stato? / 9
L’EUROPA
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FRANCESCO
SARACENO
102
Negli a i uemila l’eco omia mo diale si è trovata sulle montagne russe,
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D
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e
passando nello spazio di tre lustri per tutte le fasi che aveva sperimentato nel
or
secolo precedente. La crisi finanziaria globale, una crisi keynesiana in senso
ut
classico, con il collasso del settore finanziario che ha trascinato con sé il set-
l’a
tore reale con una contrazione del credito, è stata affrontata rispolverando le
r
pe
politiche monetarie e di bilancio, che dopo il loro periodo di gloria nel Secon-
do dopoguerra erano state riposte in un cassetto e a lungo considerate ineffi-
ia
op
caci, quando non dannose. Alla crisi del 2008 è seguita una ripresa disugua-
le, con l’Eurozona che è ripiombata in una seconda crisi, questa volta legata
C
al debito sovrano e caratterizzata da politiche di consolidamento fiscale e da
o.
divergenze tra i Paesi membri. in
ul
Dalla recessione si è usciti principalmente grazie allo sforzo titanico
M
della Bce che, dal whatever it takes ai programmi di acquisti di titoli (Quanti-
il
tendo alla moneta unica di sopravvivere. In quegli anni l’economia dei Paesi
itr
Con il Covid siamo entrati in una nuova fase. Le chiusure hanno in-
ci
cui ancora oggi non si riesce a capire se e quanto sia permanente (si pensi al
©
settore del trasporto aereo, di cui molti avevano pianto il decesso e che oggi
ht
senza precedenti (in tempi moderni) si è risposto con politiche senza prece-
yr
denti, cercando di tenere viva l’economia che era stata artificialmente mes-
op
sa in coma, con misure di sostegno dei mercati del lavoro che si sono rivelate
C
103
lato sistemi produttivi non ancora riorganizzati per adattarsi alla nuova com-
posizione della domanda, dall’altro la persistenza della pandemia in alcune
regioni hanno ostacolato la risincronizzazione settoriale di domanda e offer-
ta, e creato tensioni inflazioniste a livello microeconomico. Con la guerra in
Ucraina l’inflazione si è generalizzata e le banche centrali (soprattutto la Fed,
con la Bce in qualche modo obbligata a seguire) hanno iniziato un processo
di restrizione ancora in corso mentre scrivo (aprile 2023). A far da sfondo a
questo succedersi incessante di crisi, vi è poi la necessità di impegnarsi nelle
e
transizioni ecologica e digitale e di far fronte al cambiamento climatico. Men-
or
tre cercano di arginare gli incendi delle crisi che si susseguono, i policy makers
ut
sono costretti a progettare (e trovare le risorse per facilitare) la transizione
l’a
verso il mondo di domani.
r
pe
ia
Gli ultimi quindici anni hanno spazzato via l’illusione
op
che la mano pubblica potesse rimanere in secondo piano
C
nel governo dell’economia
o.
araceno
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Questa impressionante sequenza di crisi congiunturali o strutturali è tanto
M
più significativa in quanto segue un trentennio, durato dalla metà degli anni
S
il
poco pronunciate e di inflazione moderata e stabile. Erano quelli gli anni del-
ic
itr
mio Nobel Robert Lucas dichiarò risolto una volta per tutte. Alla «Grande
So
senso. Dopo oltre trent’anni di enfasi sulla supremazia dei mercati nel garan-
tire crescita e innovazione, si è avviato un dibattito a tutto campo sulla neces-
sità di rivalutare il ruolo della mano pubblica nel regolare il ciclo economico,
nel regolamentare i mercati e nel correggerne le inefficienze. Il dibattito non
risparmia nessuno dei dogmi precedenti alla crisi, dalla politica industriale
alla distribuzione del reddito, dalla tassazione al ruolo e alla natura delle ri-
forme «strutturali», arrivando addirittura fino al discutere pregi e difetti di
104
protezionismo e controlli sui flussi di capitale. In particolare, la discussione
in corso rivaluta il ruolo della politica di bilancio, per tre decenni relegata a
un ruolo marginale.
Il ritorno della politica di bilancio nella cassetta degli attrezzi si è ar-
ticolato in tre fasi distinte. La prima, durante la crisi finanziaria globale, ha
visto un intervento keynesiano in senso classico, volto a compensare il crol-
lo della domanda privata con politiche espansive di sostegno della domanda.
Dopo la svolta dell’austerità, nel 2010, l’attenzione si è spostata sul ruolo de-
e
gli investimenti pubblici, a lungo sacrificati dai programmi di consolidamen-
or
to di bilancio (si veda la serie annuale di European Public Investment Outlook,
ut
che curo con Floriana Cerniglia dal 2020). Infine, la pandemia ha evidenzia-
l’a
to le carenze di capitale sociale e di beni pubblici (la sanità, ovviamente, ma
r
pe
anche l’istruzione, la protezione sociale ecc.) e riportato al centro della scena
la politica industriale, per governare la ricomposizione settoriale dell’econo-
L’E
ia
mia e le necessarie transizioni digitale ed ecologica.
uropa
op
Insomma, gli ultimi quindici anni hanno spazzato via l’illusione che
C
la mano pubblica potesse rimanere in secondo piano nel governo dell’econo-
o.
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in
mia: per garantire il benessere sociale e una crescita equilibrata i processi di
ul
ruolo
mercato vanno sostenuti, governati e regolati, orientati e a volte contrasta-
M
ti. Per fare tutto questo non è in alcun modo sufficiente la politica moneta-
il
ria. Occorre che le politiche di bilancio e fiscale facciano parte degli strumen-
per
e
ic
ti a disposizione del policy maker. Certo, non c’è consenso su quanto e come
la
itr
mano
ed
sore, non sul fatto che esso debba essere spostato per prevedere un maggior
pubblica
et
il 2008 dal Fmi, uno dei bastioni del vecchio consenso), ma con la pandemia
ht
comune degli shock (anzi, la Germania è stata, con la Francia, il motore del
op
piano). Poi, con la ripresa successiva al Covid, si è posto con forza il tema del
C
105
Dal dibattito recente (si veda ad esempio K. Aiginger e D. Rodrik,
Rebirth of Industrial Policy and an Agenda for the Twenty-First Century, «Jour-
nal of Industry, Competition and Trade», n. 20, 2020) emerge che una rin-
novata politica industriale non dovrebbe limitarsi a un generico protezio-
nismo e alla proposizione di campioni europei. Al contrario, si tratterebbe
di una strategia multidimensionale che coinvolgerebbe il settore privato e
richiederebbe investimenti significativi in infrastrutture materiali e imma-
teriali, ma anche regolamentazione, incentivi e sussidi, politiche attive del
e
lavoro, finanziamento della ricerca e addirittura politica monetaria e rego-
or
lamentazione finanziaria. Tutto quell’arsenale di strumenti, insomma, che
ut
consentirebbe di facilitare la ricomposizione settoriale di un sistema pro-
l’a
duttivo che nei prossimi anni sarà necessariamente molto diverso da quel-
r
pe
lo che abbiamo oggi.
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op
La complementarità degli obiettivi di crescita e di
C
sostenibilità è ancora più evidente dopo lo scoppio della
o.
araceno
crisi del Covid-19 in
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M
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bientale) è ancora più evidente dopo lo scoppio della crisi del Covid-19, e
rancesco
e
pone con forza il tema non solo della quantità ma anche della qualità della
ic
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strutture pubbliche mirate a sostenere la spesa privata. Gli ultimi anni hanno
yr
visto una rinnovata attenzione al ruolo del finanziamento pubblico della ri-
op
106
Un’altra area lontana dalla nozione contabile di investimento, ma la
cui importanza è stata ribadita dalla pandemia, è quella delle infrastruttu-
re sociali. Investimenti a lungo termine nell’istruzione, nella sanità e nella
coesione sociale sono essenziali ai fini della crescita economica (i Paesi più
competitivi sono quelli che investono di più nelle politiche sociali), della ri-
duzione della disuguaglianza e della coesione territoriale. Nel 2018, un rap-
porto sulle infrastrutture sociali in Europa, coordinato dall’ex presidente del-
la Commissione europea Romano Prodi, stimava in 100-150 miliardi all’anno
e
la carenza di infrastrutture sociali.
or
Si pone allora il problema di come dotare l’Unione europea e i suoi
ut
l’a
Stati membri degli strumenti per attuare politiche sociali e industriali. Per-
ché le due crisi che abbiamo vissuto ci hanno lasciato in eredità due insegna-
r
pe
menti. Il primo è che le istituzioni e le pratiche europee sono completamente
L’E
ia
disallineate. Sulla carta abbiamo ancora il sistema ereditato dagli anni No-
uropa
op
vanta, incentrato sul primato degli aggiustamenti di mercato: un Patto di sta-
C
bilità che limita fortemente le politiche di bilancio; un mandato restrittivo
o.
e
per la banca centrale che si deve solo occupare di stabilità dei prezzi; e, infi-
un
in
ne, l’assenza di politica industriale, sostituita dalla politica della concorrenza
ul
ruolo
nella convinzione dell’epoca che fosse sufficiente «livellare il campo da gio-
M
per
e
nessere. In pratica, negli ultimi anni i Paesi europei hanno usato massiccia-
ic
la
mente la politica di bilancio, la Bce ha usato politiche convenzionali e non
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mano
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pubblica
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La seconda lezione della crisi è che le economie europee sono ormai così
ig
yr
strettamente legate tra loro e allo stesso tempo così eterogenee (tra l’altro a
op
causa delle politiche sciagurate attuate negli anni della crisi del debito sovra-
C
no: ne ho scritto in La politica economica europea. Nulla come prima?, «il Muli-
no», n. 1/2021) che le categorie di shock simmetrici o asimmetrici care agli
economisti non hanno più senso. Nessuno shock colpisce solo un’economia,
ma nessuno colpisce tutti allo stesso modo. Quindi, lo ha mostrato il Covid,
una qualche forma di condivisione del rischio, di risposta comune agli shock
e di sia pur limitata solidarietà, è non solo necessaria per evitare divergenze
eccessive, ma anche benefica per tutti, i più deboli come i più forti.
107
Per dotare i Paesi europei di una capacità fiscale di reazione agli
shock e di coordinamento delle politiche economiche si possono prende-
re strade diverse. Si può deciderne la creazione a livello centrale, dotando
gli organi comunitari di una capacità di spesa (e di tassazione) da mette-
re al servizio di investimenti e spese anticicliche; a quel punto, le rego-
le per i singoli Stati possono rimanere restrittive come sono oggi, o esse-
re emendate al margine. È il modello degli Stati Uniti, dove i singoli Stati
hanno rigidi vincoli di bilancio in pareggio, ma il governo federale usa le
e
politiche macroeconomiche con decisione e senza vincoli per la stabiliz-
or
zazione macroeconomica e per le politiche industriali. Oppure, se si de-
ut
cide di non sviluppare la capacità di spesa a livello centrale, si deve dare
l’a
spazio alle politiche di bilancio a livello locale, con regole molto più per-
r
pe
missive del Patto di stabilità e con una migliore coordinazione tra gli Stati
ia
membri e tra questi e la Commissione. Insomma, sarebbe auspicabile che
op
si ragionasse sulla riorganizzazione complessiva della governance macro-
C
economica (in un mondo ideale, peraltro, il mandato della Bce dovrebbe
o.
far parte della discussione).
araceno
in
Sfortunatamente, le élite europee non sembrano oggi in grado di por-
ul
tare avanti un ragionamento d’insieme sulla governance, ma procedono per
M
il
rancesco
e
cio procede invece spedita. Ricordiamo che il Patto di stabilità, insieme al Fi-
à
et
scal Compact adottato in tutta fretta nel 2012 nell’erronea convinzione che
ci
fosse necessario imporre l’austerità per uscire dalla crisi del debito sovrano,
So
rato dal ciclo) per far sì che il debito pubblico scenda in modo costante ver-
so il livello del 60% (arbitrario, sia detto per inciso) stabilito dal Trattato di
©
Maastricht.
ht
Anche prima della crisi del 2008 alcuni, tra cui chi scrive, hanno cri-
ig
yr
a adottare politiche pro-cicliche: in caso di crisi e di calo del Pil, per resta-
C
108
La prova che il Patto di stabilità è inutilmente restrittivo e controproducen-
te («stupido», ebbe a definirlo Romano Prodi anni fa) viene indirettamente
dal fatto che nel marzo del 2020, per evitare gli errori degli anni precedenti,
la Commissione europea si è affrettata ad attivare la clausola di sospensione
per consentire ai Paesi europei di far fronte alla pandemia. Il Patto è sospeso
fino al dicembre 2023 e l’obiettivo è che la nuova regola sia approvata prima
che questo torni in vigore.
Ad aprile la Commissione europea ha messo sul tavolo la propria pro-
e
posta di riforma, che nelle sue linee fondamentali riprende una comunicazio-
or
ne di qualche mese prima. La proposta, sia pur molto imperfetta, rappresen-
ut
ta un miglioramento rispetto all’esistente. Gli obiettivi numerici annuali sono
l’a
sostituiti da programmi pluriannuali di riduzione del debito che sono formu-
r
pe
lati dai Paesi membri di concerto con la Commissione, sulla base di scenari di
evoluzione delle finanze pubbliche. I Paesi ad alto debito devono ovviamen-
L’E
ia
te fare sforzi più importanti, soprattutto se gli scenari più probabili prevedo-
uropa
op
no tassi di interesse elevati e crescita modesta, e quindi più rischi per la so-
C
stenibilità futura.
o.
e
un
in
Rispetto all’esistente la proposta introduce due miglioramenti molto
ul
ruolo
significativi: in primo luogo, il riconoscimento della specificità di ogni Paese
M
e dell’importanza che il piano sia predisposto dai Paesi e non dall’alto. In se-
il
per
e
ic
la
itr
mano
ed
protetto, limitandosi la regola a dare un po’ più di tempo per il rientro a Pae-
pubblica
et
viare la transizione dettata dal programma Ngeu, una governance fiscale che
by
109
scrive, ha sempre sostenuto che la politica di bilancio di Paesi fortemente in-
tegrati non debba essere tecnocratica ma determinata da un processo politi-
co, l’arbitrarietà e lo spazio lasciato al negoziato tra Paesi e istituzioni euro-
pee un pregio. Quanto e come utilizzare la politica di bilancio deve emergere
dall’imporsi di una visione del funzionamento dell’economia (in altri tempi
si parlava di egemonia culturale), non spingendo per regole meccaniche che
leghino le mani in senso più o meno restrittivo a seconda della propria pro-
pensione per la disciplina di bilancio.
e
La centralità della Commissione è tuttavia fortemente criticata. Gli
or
oppositori dell’austerità temono che la discrezionalità consenta di imporre
ut
politiche draconiane, finendo quindi per farci rivivere gli anni Dieci del Due-
l’a
mila. I Paesi detti frugali, che soprattutto negli ultimi anni hanno criticato la
r
pe
Commissione perché troppo permissiva con i Paesi del Sud, hanno paura in-
vece che essa lasci passare piani di rientro troppo timidi. Per cercare di am-
ia
morbidire questi ultimi, la Commissione ha annacquato la propria propo-
op
sta originale, introducendo delle clausole di salvaguardia che scatterebbero
C
in caso deviazioni dai piani di rientro, reintroducendo obiettivi annuali. Se
o.
araceno
in
è vero che l’impianto della proposta originale non cambia, l’ulteriore enfasi
ul
sull’obiettivo di riduzione del debito segna comunque un punto a favore dei
M
il
tà. Tuttavia, è difficile immaginare che il quadro per la governance che si dise-
et
gnerebbe con la nuova regola sia sufficiente a creare lo spazio fiscale necessa-
ci
rio; detto altrimenti, è probabile che la nuova regola non consentirà agli Stati
So
le dovrà essere creato altrove. Marco Buti e Marcello Messori (A Central Fiscal
ht
Capacity in the Eu Policy Mix, «Cepr Discussion Paper», n. 17577, 2022) argo-
ig
110
a sovranisti ed euroscettici di estrazione varia). Sarebbe probabilmente sta-
to più semplice ricreare un ruolo per la politica di bilancio a livello naziona-
le. Purtroppo, sulla riforma del Patto l’Europa non sembra avere l’ambizione
necessaria, e questo rende ineludibile l’apertura di una seria discussione sul-
la creazione di un qualche tipo di ministro delle Finanze europeo.
e
or
ut
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pe
L’E
ia
uropa
op
C
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un
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ul
ruolo
M
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pubblica
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So
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C
111
Serve più Stato? / 10
LO STATO
e
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NEO-KEYNESIANO
rl’a
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C
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M
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op
C
ANTONELLA
STIRATI
112
l co tributo di Key es è principalmente associato alla teoria che indica
e
I
n
n
or
nella domanda aggregata ciò che in ultima analisi determina il reddito e l’oc-
ut
cupazione. Una teoria in base alla quale nel sistema economico può verificar-
l’a
si una disoccupazione persistente, anche di ampie dimensioni, che dipende
r
esclusivamente da una carenza di domanda. Il messaggio centrale, da cui di-
pe
scendono molte conseguenze, è che un’economia di mercato lasciata libera di
ia
operare non è in grado di assicurare condizioni di piena occupazione del la-
op
voro o pieno utilizzo degli impianti. Se la piena occupazione è un obiettivo
C
che si intende perseguire, per ragioni sociali e di efficienza economica, allora
o.
è necessario un intervento pubblico a ciò finalizzato, e la politica fiscale è uno
in
strumento necessario, non essendo secondo Keynes la politica monetaria in
ul
M
disponiamo che sia al tempo stesso analiticamente ben fondata e con soli-
So
di riscontri empirici. Questo ovviamente non significa che non ci siano altre
by
per la comprensione dei processi economici, nutro dei dubbi circa un suo «ri-
ig
cuperare il sentiero di crescita precedente alla crisi finanziaria, e gli esiti di-
C
113
cio e di sostegno alle imprese, e ha anche varato il Next generation Eu, che è
stato visto come un momento importante di innovazione. Le difficoltà di ap-
provvigionamento causate dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina hanno
inoltre riportato l’attenzione sulla necessità di investimenti pubblici e poli-
tiche industriali, in particolare nei settori di importanza strategica e in quel-
li rilevanti per combattere il cambiamento climatico e favorire la transizio-
ne energetica.
Tuttavia, non è chiaro se questi cambiamenti siano qui per restare e
che cosa accadrà alla politica economica nei prossimi anni. Nell’Eurozona
e
or
le pressioni per un rapido ritorno alle regole di bilancio non sono mai venu-
ut
te meno. Anche se oggi si affacciano proposte di riforma migliorative di tali
l’a
regole (European Commission, Communication on Orientations for a Reform of
r
pe
the Eu Economic Governance Framework, 9.11.2022), esse non sembrano evi-
tare alcuni difetti delle precedenti, tra cui la tendenza a scoraggiare investi-
ia
menti pubblici delle dimensioni che sarebbero invece necessarie (F. Sarace-
op
no, Here to Stay? The Return of Fiscal Policy and Challenges for Eu Governance,
C
«Review of Economics and Institutions», vol. 13, n. 1/2022). Inoltre, l’atten-
o.
zione si sta rapidamente spostando dal sostegno alla crescita e all’occupazio-
in
tirati
ul
ne verso politiche di contenimento dell’inflazione, anche a costo di rallentare
M
questa fragilità del ritorno di Keynes, si possono leggere non solo aspetti cul-
ic
itr
trarre vantaggio sia dalla debolezza contrattuale dei lavoratori, favorita dalla
à
et
disoccupazione, sia dal progressivo ritirarsi dello Stato da ambiti, quali la sa-
ci
mente redditizia (cfr. M. Kalecki, Aspetti politici del pieno impiego, in Id., Sul
by
vista del Manifesto», n. 48, marzo 2004; P. Krugman, The Austerity Delusion?,
ht
114
versi temi di attualità, e delle diverse considerazioni a cui porterebbe invece
un ritorno a una visione keynesiana, più corretta, del funzionamento dell’e-
conomia. Una maggiore consapevolezza nei mezzi di informazione di queste
diverse linee di pensiero potrebbe in effetti dare un contributo al ritorno del
keynesismo nel dibattito politico.
e
Questa teoria indica in ultima analisi in alcune componenti della domanda
or
(investimenti privati, spesa pubblica, esportazioni) e nella spesa addiziona-
ut
le delle famiglie in beni e servizi prodotti nel Paese per ogni euro aggiunti-
l’a
vo di reddito disponibile, ciò che determina i livelli di produzione e occupa-
r
pe
zione. Keynes nega, in contrasto con la teoria allora dominante e che in larga
misura lo è ancora oggi, che esistano meccanismi economici spontanei che,
ia
in presenza di salari e prezzi flessibili, sono in grado di ricondurre sistema-
op
ticamente il sistema economico alla piena occupazione del lavoro e/o al pie-
C
no utilizzo degli impianti. Keynes riteneva di aver dimostrato che l’economia
LO STATO NEO-KEYNESIANO
o.
in
può persistentemente assestarsi a livelli di domanda e produzione inferiori a
ul
quelli potenzialmente possibili, con una disoccupazione che non può essere
M
ridotta dalla diminuzione dei salari. Anzi quest’ultima può avere effetti nega-
il
Keynes, anche per alcuni suoi limiti, viene fortemente depotenziato e ridotto
ed
nelle analisi dominanti a essere una teoria del ciclo economico o delle depres-
à
sioni (cioè di eventi transitori o eccezionali). Una teoria talvolta utile per le
et
sione la tendenza dell’economia alla piena occupazione sia del lavoro che del
So
della politica monetaria (cfr. A. Stirati, Lavoro e salari. Un punto di vista alter-
©
ziamento della teoria keynesiana dell’occupazione era stato reso possibile an-
C
che da alcune debolezze della Teoria generale, in cui mal convivono elementi
innovativi e concezioni tradizionali. Tuttavia, queste ultime sono state mes-
se in discussione da importanti contributi successivi. La critica si è rivolta
alla relazione inversa tra salario e occupazione e tra tasso di interesse e in-
vestimenti, i due pilastri su cui si fonda la tesi della tendenza al pieno impie-
go, sulla base di contributi teorici e dell’accumularsi di evidenza empirica in
contrasto con quelle relazioni.
115
Il pieno recupero del principio della domanda effettiva consente an-
che la sua estensione alla spiegazione della crescita economica. Se l’economia
può restare a lungo, a causa di una carenza di domanda, in una situazione di
sottoutilizzo degli impianti, questo avrà un effetto negativo sugli investimen-
ti delle imprese e quindi sulla crescita; viceversa, una situazione di domanda
aggregata elevata e sovra-utilizzo degli impianti stimola le imprese a investi-
re per allargare la propria capacità produttiva.
e
or
Quando l’economia è in espansione, aumentano i tassi
ut
di partecipazione e le ore di lavoro, si riducono le attività
l’a
a basso reddito in favore di occupazioni più produttive
r
e redditizie
pe
ia
In modo simile, la persistenza di livelli di disoccupazione elevati può ridurre
op
la forza lavoro: alcuni lavoratori o lavoratrici usciranno dal mercato per sco-
C
raggiamento o marginalizzazione, altri troveranno rifugio in attività infor-
o.
mali o autonome a basso reddito e a bassa produttività. Quando invece l’eco-
in
tirati
ul
nomia è in espansione, la disponibilità di forza lavoro si adegua, aumentano
M
duttività tende a crescere in risposta ad aumenti della domanda (cfr. nel mio
itr
dovuta al fatto che l’incontro tra lavoratori e posti di lavoro non è immedia-
©
to. Inoltre, negli anni Ottanta, per spiegare l’elevata disoccupazione in Eu-
ht
ridotta solo eliminando le rigidità, e quindi con le famose «riforme» del mer-
C
116
alti, ad esempio maggiori del 10% in Italia dopo il 2013, quando la crisi finan-
ziaria e le politiche di austerità avevano fatto schizzare la disoccupazione ef-
fettiva. Questo ha condizionato la politica di bilancio pubblico che – per dirla
in modo semplice – nell’Eurozona è vincolata al pareggio di bilancio quando
il tasso di disoccupazione è, secondo le stime, quello di equilibrio e dunque il
Pil ha raggiunto il suo potenziale (mentre può essere moderatamente espan-
siva quando il tasso di disoccupazione è maggiore di quello «di equilibrio»).
Un cambiamento ragionevole della definizione di quest’ultimo, persino con
e
le attuali regole fiscali europee, creerebbe per l’Italia e per altri Paesi spazio
or
per politiche di spesa pubblica che potrebbero consentire (da un punto di vi-
ut
sta keynesiano) una riduzione dei disoccupati, oltre che un miglioramento di
l’a
servizi e infrastrutture (cfr. D. Cassese, Crescita e Pil potenziale: le stime contro-
r
pe
verse di Bruxelles, «Economia e Politica», 29.4.2019; C. Fontanari, A. Palum-
bo e C. Salvatori, Potential output in theory and practice: A revision and update of
ia
Okun’s original method, «Structural Change and Economic Dynamics», vol. 54,
op
n. 2/2020; Stirati, Lavoro e salari, cit., pp. 173-182).
LO STATO NEO-KEYNESIANO
o.
in
Un’altra idea che da anni viene continuamente ripetuta, e cioè che l’elevato
ul
debito pubblico italiano rappresenta un onere per le generazioni future, può
M
duttiva e un reddito più elevati. Solo in questo senso il debito pubblico può
et
lavoro, produzione e reddito aggiuntivi (cioè un reddito che non sarebbe al-
by
117
sono del tutto equivalenti. Le generazioni future erediteranno il debito e gli
interessi da pagare attraverso la tassazione, ma anche il credito, cioè i titoli
pubblici che danno loro il diritto a riscuotere tali pagamenti.
Questo vale anche quando una parte dei titoli del debito pubblico è de-
tenuta da cittadini o istituzioni estere, se l’indebitamento netto con l’estero è
prossimo a zero, come è attualmente il caso dell’Italia. Infatti, a fronte di un
certo ammontare dei titoli del debito pubblico in mano a soggetti residenti
all’estero, cittadini e istituzioni italiane possiedono titoli e attività finanzia-
e
rie emesse all’estero per un pari ammontare, e non vi è quindi per il Paese nel
or
suo insieme alcun onere debitorio (cfr. R. Ciccone, Sulla natura e sugli effetti
ut
del debito pubblico, in S. Cesaratto e M. Pivetti, Oltre l’austerità. Un ebook contro
l’a
la crisi, Micromega, 2012). Naturalmente vi possono essere problemi connes-
r
pe
si alla distribuzione dei debiti e dei crediti, ad esempio se i soggetti che pa-
gano le tasse e quindi gli interessi sul debito pubblico (per lo più i lavoratori
ia
dipendenti, in Italia) sono diversi da coloro che detengono i titoli del debito
op
e riscuotono gli interessi (ad esempio proprietari di grandi patrimoni finan-
C
ziari, soggetti a tassazione molto modesta) – ma si tratta allora appunto di un
o.
in
problema distributivo, e non di onere del debito in quanto tale.
tirati
ul
In ogni caso, le politiche di austerità varate dopo la crisi del 2008, con
M
forte caduta del Pil e un forte aumento del rapporto debito-Pil. In Italia que-
e
ic
sto rapporto era del 100% nel 2007, con la crisi è passato al 120% e poi al
itr
mica internazionale (si veda, tra gli altri, A. Fatàs e L. Summers, The perma-
et
112, May 2018), e persino alcuni fautori italiani dell’austerità hanno dovuto
So
quello delle cause della scarsa crescita dell’economia italiana. Secondo la vi-
op
118
18% è part-time, e tra questi, il 60% vorrebbe poter lavorare a tempo pieno. I
tassi di inattività femminile sono elevatissimi: circa 44% la media nazionale
(il 59% nel mezzogiorno) nella fascia d’età 15-64, pari a 8 milioni di persone
(Istat, Forze di lavoro). È del tutto plausibile che un aumento delle opportuni-
tà di lavoro potrebbe far aumentare l’occupazione di milioni di persone, gra-
zie a una maggiore partecipazione femminile e alla riduzione della disoccu-
pazione, del tutto indipendentemente dagli andamenti demografici.
La bassa crescita viene inoltre attribuita a scarsa capacità di innovare
e
delle imprese e alla inefficienza del settore pubblico. Quando anche vi fossero
or
alcuni elementi di realtà in questo, un grave limite di tale visione è l’assenza
ut
di ogni riferimento alla stagnazione della domanda aggregata e al ruolo delle
l’a
politiche di bilancio pubblico, che in Italia hanno avuto un segno restrittivo
r
pe
dal 1992 a oggi, con saldo primario (la differenza tra entrate e spese al netto
degli interessi sui titoli pubblici) costantemente in avanzo, o ai bassi salari e
ia
il loro effetto sui consumi.
op
Eppure, secondo molti economisti, l’andamento delle economie può
C
essere spiegato proprio dall’andamento della domanda. Nei primi decenni
LO STATO NEO-KEYNESIANO
o.
in
del dopoguerra, caratterizzati da crescita sostenuta, le economie industria-
ul
lizzate sono state trainate da una generale crescita della spesa pubblica all’in-
M
In seguito, venuto meno questo quadro complessivo, è iniziata la fase del neo-
by
e suoi «satelliti»). Dopo la crisi del 2008, in molti Paesi la spesa pubblica ha
yr
cia con un incremento della spesa pubblica totale in termini reali del 20%
C
circa tra 2008 e 2018, in Germania del 10%, mentre in Italia essa è diminui-
ta (cfr. Stirati, Lavoro e salari, cit., pp. 189-202). Di conseguenza, la stagnazio-
ne dell’economia italiana può essere vista come dovuta all’assenza di un trai-
no della domanda a partire dagli anni Novanta e ancor più dopo la crisi del
2008. Una conferma dell’importanza della domanda aggregata può essere vi-
sta nella rapida ripresa dell’economia italiana dopo la pandemia, a differen-
za di quanto accaduto dopo il 2008, grazie alle misure di sostegno ai redditi
119
e di stimolo fiscale. La buona crescita del Pil ha inoltre consentito una ridu-
zione del rapporto debito-Pil, nonostante i saldi negativi dei conti pubblici.
Un altro tema ricorrente nel discorso pubblico è stato quello della ne-
cessità di ridurre il costo del lavoro e di aumentarne la flessibilità per ridurre
la disoccupazione. Ciò ha portato a una sequenza di riforme del mercato del
lavoro, fino al Jobs Act del 2015, che liberalizzava i licenziamenti individua-
li e finanziava generosamente le assunzioni con contratti permanenti, con
un costo complessivo per lo Stato tra i 15 e i 20 miliardi in tre anni. In quat-
e
tro anni, nel dicembre 2018, gli occupati permanenti erano aumentati di cir-
or
ca 400 mila, non molto se si tiene conto che si era in fase di moderata ripresa
ut
economica e dunque l’occupazione sarebbe aumentata a prescindere – e in-
l’a
fatti aumenta di quasi 700 mila unità, nello stesso periodo, l’occupazione con
r
pe
contratti a tempo determinato, non incentivati dalla misura (Istat, Forze di
lavoro, serie storiche). Oggi le conseguenze di impoverimento e precarizzazio-
ia
ne del mondo del lavoro sono talmente evidenti che si ha ritegno a proporre
op
ulteriore flessibilità; tuttavia, sentiamo ancora molto parlare di taglio del cu-
C
neo fiscale per ridurre il costo del lavoro e «aiutare le imprese» ad aumenta-
o.
in
re l’occupazione. In realtà, come ormai documentato da numerosi studi, que-
tirati
ul
ste riforme non hanno dato frutti in termini di crescita dell’occupazione né in
M
sensus around the Imf-Oecd consensus, «Review of Political Economy», vol. 32,
itr
n. 1/2020)
ed
A
vento delle politiche di bilancio deve essere minimo e solo, in via di principio,
by
cio sono state nei fatti tali da operare in senso più restrittivo proprio durante
ht
ig
120
di cambio; la tassazione in senso redistributivo, limitata dalla concorrenza fi-
scale tra Paesi e dalla libera mobilità internazionale dei capitali; le politiche
industriali ostacolate dalle regole contro gli «aiuti di Stato». Strumenti neces-
sari di intervento non sono più disponibili a livello nazionale, senza poter es-
sere sostituiti a livello sovranazionale, per l’assenza di un quadro istituziona-
le e politico adeguato (cfr. Saraceno, Here to stay?, cit.).
Uno dei risultati di questo assetto è che la zona euro è l’area economi-
ca del mondo con la minore crescita media annua nel ventennio preceden-
e
te la pandemia. Come notato da Stiglitz: «Nel 2000, l’anno dopo che era stato
or
introdotto l’euro, l’economia Usa era solo del 13% più grande dell’Eurozo-
ut
na; nel 2016 la differenza era diventata del 26%» (J. Stiglitz, È possibile salva-
l’a
re l’euro?, «Micromega», 16.6.2018). Sono cresciute inoltre le divergenze ter-
r
pe
ritoriali all’interno di tutta l’Eurozona, creando ampie regioni periferiche di
stagnazione economica e scontento sociale (Eurostat Regional Yearbook, 2018,
ia
mappe 6.1 e 6.2).
op
Il ritorno a un ruolo economico più ampio del settore pubblico, a poli-
C
tiche keynesiane non solo di stimolo all’economia, ma anche con uno sguar-
LO STATO NEO-KEYNESIANO
o.
in
do a lungo termine sulle esigenze di intervento pubblico in settori strategici
ul
e nell’innovazione, è necessario, ma per nulla scontato, soprattutto in Euro-
M
pa. Una inadeguatezza tanto degli Stati nazionali quanto delle istituzioni eu-
il
121
Fotografia: Simon Fraser University.
C
op
yr
ig
ht
©
by
So
ci
et
à
ed
122
itr
ic
e
Intervista
il
M
ul
MARIANA
in
o.
a cura di Alessandro Bonetti
C
MAZZUCATO
op
ia
pe
r l’a
ut
or
e
In una certa narrazione, Stato e mercato sono visti
e
or
come due poli opposti dello sviluppo economico, due
ut
l’a
poli quasi inconciliabili. Negli ultimi anni, il lavoro di
r
Mariana Mazzucato ha messo in luce le contraddizioni
pe
empiriche di questa narrazione ideologica: nei Paesi ca-
ia
op
pitalisti avanzati, infatti, il successo del mercato è dipe-
C
so in modo decisivo da forti forme di intervento pubbli-
o.
in
co nel sistema nazionale di innovazione.
ul
Nata a Roma nel 1968, Mariana Mazzucato è pro-
M
il
123
Le sue ricerche sono state pubblicate su numero-
se riviste scientifiche, ma hanno raggiunto anche il gran-
de pubblico attraverso vari libri di successo. Fra gli altri,
ricordiamo Lo Stato innovatore. Sfatare il mito del pubblico
contro il privato (trad. it. Laterza, 2014), che ne ha con-
sacrato la fama internazionale, Il valore di tutto (Laterza,
2018), dedicato a una riscoperta della teoria del valore, e
e
or
Missione economia (trad. it. Laterza, 2021), in cui appro-
ut
l’a
fondisce il concetto di «approccio alle missioni», centrale
r
pe
nelle sue analisi.
I suoi studi le sono valsi riconoscimenti internazio-
ia
op
nali, come il premio Leontief (2018), il Madame de Staël
C
(2019) e l’onorificenza di Grande ufficiale dell’Ordine al
o.
in
merito della Repubblica italiana (2021). Collabora con le
ul
Nazioni Unite (nel Comitato consultivo di alto livello del-
ntervista
M
il
Il suo ultimo libro The Big Con. How the Consulting Indu-
©
124
AB Sono ormai molti anni che lavori sul rapporto tra Stato e mercato.
Nell’ultimo decennio il consenso sul ruolo dello Stato sembra essere
mutato e alcune delle tue idee sono entrate nel discorso della politica.
A tuo parere, che cos’è cambiato di più da quando hai scritto Lo Stato
innovatore, nel 2013?
MM Non sono sicura che sia cambiato molto, ma qualcosa certamente è
diverso. Quando ho scritto Lo Stato innovatore, l’Europa stava attuan-
do una massiccia austerità. Dalla crisi finanziaria stavamo appren-
dendo la lezione sbagliata. Mentre gli Stati Uniti si imbarcavano in
e
or
un programma di stimolo pubblico da 800 miliardi, i fondi europei
ut
per la ripresa erano condizionati a tagli del deficit, con il fantomati-
l’a
co limite del 3% (anche se poi in realtà alcuni Paesi portarono il de-
r
pe
ficit a zero o registrarono addirittura dei surplus!). E non funzionò.
Anzi, il rapporto debito/Pil aumentò, perché tagliando la spesa in
ia
deficit riducemmo anche la spesa pubblica in aree come la ricerca e
op
sviluppo, colpendo il motore della crescita di lungo periodo. La Spa-
C
gna, per esempio, tagliò la sua spesa pubblica in ricerca e sviluppo
o.
del 40%.
M
in
ariana
ul
Ecco, su questo punto le cose sono cambiate. Con la pandemia, l’Eu-
M
M
ti, non all’austerità. Il governo americano spende fra 4 mila e 5 mila
azzucato
e
Ma c’è una cosa che non è cambiata: non è ancora accettata l’idea che
lo Stato debba avere una propria capacità d’azione e che debba inve-
à
et
stire molto di più nella formazione dei suoi funzionari. Una riforma
ci
troppo fiacchi. Il semplice fatto che molti soldi pubblici siano iniet-
op
Il mio messaggio, infatti, non è mai stato «Stato largo» vs «Stato mi-
nimo». Non ho mai pensato che la soluzione sia spendere soldi a
pioggia. Piuttosto, il mio messaggio è che dobbiamo trasformare lo
Stato stesso in una forza imprenditoriale. Ne abbiamo davvero biso-
gno e oggi ci sono più opportunità che mai. Con la crisi climatica, ci
serve uno Stato che intervenga in modo intelligente, oltre che con
molti fondi.
125
AB Il titolo di questa sezione della rivista è «Serve più Stato?». La doman-
da però si potrebbe porre in un altro modo. Forse non serve più Stato,
ma uno Stato diverso?
MM Sì, sono d’accordo. Come ho scritto con Rosie Collington nel nostro ul-
timo libro (The Big Con) e come ho cercato di divulgare in un altro li-
bro (Missione economia), abbiamo bisogno di uno Stato diverso. Uno
Stato orientato ai fini (purpose-oriented), che metta le grandi questioni
al centro di ciò che fa. Il suo scopo non può essere soltanto correggere
e
i fallimenti di mercato. Deve essere co-modellare e co-creare l’econo-
or
mia.
ut
Nell’economia tradizionale, anche studiosi progressisti come Joe Sti-
l’a
glitz sostengono che dovremmo usare le politiche pubbliche per cor-
r
pe
reggere i fallimenti di mercato. Il mio punto, invece, è che se lo Stato
si limita a correggere fa troppo poco e troppo tardi. Opera in una mo-
ia
dalità reattiva, non proattiva. Uno Stato così mette le pezze e basta.
op
E, alla fine, nel sistema emergeranno cospicue rendite. Per esempio,
C
se lo Stato non ha chiaro che deve concentrarsi sugli obiettivi di svi-
o.
in
luppo sostenibile e spingere i vari settori dell’economia a lavorare in-
ul
sieme per raggiungerli, sarà catturato molto più facilmente dagli inte-
ntervista
M
ressi privati.
il
considerarlo responsabile (accountable) per ciò che fa. Uno Stato così
ci
non può iniettare soldi in un settore solo perché quel settore è consi-
So
sussidi e garanzie pubbliche non sono stati dati a pioggia come in Italia,
yr
punto è che c’erano una visione di alto livello e una strategia consape-
vole. I soldi pubblici sono stati condizionati a una trasformazione del
settore: così oggi la Germania ha l’acciaio «più verde» d’Europa.
AB Nel tuo ultimo libro hai descritto, con Rosie Collington, come la dipen-
denza dei governi dalle società di consulenza svuoti di competenze il
settore pubblico. Come possiamo ricostruire delle burocrazie compe-
tenti e dinamiche?
126
MM Allo University College di Londra ho realizzato un intero istituto [l’In-
stitute for Innovation and Public Purpose, N.d.R.] che si occupa di que-
sti temi. Ci sono molti dottorandi, come Rosie, che studiano la que-
stione. Il problema dell’esternalizzazione è un circolo vizioso. Più lo
Stato è svuotato di competenze, più ha bisogno di consulenti. E d’altro
canto i consulenti hanno un conflitto di interessi: non hanno motivo
di rendere gli Stati più capaci, perché altrimenti rischierebbero di non
vedersi affidati nuovi contratti in futuro.
e
Questo circolo vizioso colpisce anche la democrazia. In Italia, con Dra-
or
ghi, McKinsey fu coinvolta dal ministero dell’Economia e delle Finan-
ut
ze nel Pnrr, ma anche quando Conte era presidente del Consiglio ci
l’a
sono state varie persone di McKinsey, per esempio nella Commissione
r
pe
Colao. Cose del genere accadono ovunque nel mondo.
C’è però anche un altro conflitto di interessi: le società di consulenza
ia
spesso fanno una specie di «doppio gioco». Per esempio, in Sudafrica
op
consigliavano da un lato l’azienda pubblica Eskom e dall’altro il Teso-
C
ro, che avrebbe dovuto regolamentarla. Oppure, consigliano il gover-
o.
M
in
no australiano sul cambiamento climatico, mentre aiutano le impre-
ariana
ul
se di combustibili fossili a fare affari nel Paese. Mancano trasparenza
M
M
Come rompere questo circolo vizioso? Innanzitutto, bisogna ricono-
azzucato
e
ic
l’ideologia che continua ad alimentare una visione dello Stato che non
et
127
AB Come si intrecciano le idee di Stato innovatore e imprenditore con
la vecchia visione keynesiana e socialdemocratica? Sono in qualche
modo complementari?
MM Penso che Keynes sia stato frainteso dai progressisti. Spesso anche lui
è stato ricondotto alle teorie dei fallimenti di mercato. Ossia, il pa-
radigma keynesiano è stato inteso meramente come una soluzione a
un problema di coordinamento. Quando c’è un boom c’è troppo inve-
stimento, quando c’è una recessione ce n’è troppo poco, e quindi ser-
e
ve una politica anticiclica. Sicuramente questa interpretazione è stata
or
molto utile per governare i cicli economici, ma Keynes in realtà dice-
ut
va molto di più.
l’a
Secondo Keynes, lo scopo del governo non è fare ciò che i privati già
r
pe
fanno (e farlo un po’ meglio o un po’ peggio), ma fare quello che non
fanno per nulla. Questo punto di partenza ci obbliga a immaginare
ia
davvero dove vogliamo andare come società. Cos’è che non viene fatto
op
oggi dal privato sulla sanità, sui divari digitali, sul clima?
C
Non si tratta di microgestire l’economia, perché altrimenti si uccide-
o.
in
rebbe l’innovazione. Si tratta di chiedersi come è possibile fornire una
ul
direzione pubblica all’economia e allo stesso tempo alimentare una
ntervista
M
sperimentazione dal basso. A tale scopo, fra le altre cose, bisogna coin-
il
osevelt credevano entrambi nel ruolo della cultura e delle arti nello
itr
I
degli Stati Uniti, portò gli artisti nella Works Progress Administration
et
[una grande agenzia del New Deal, N.d.R.]. Coinvolgere il settore cul-
ci
128
In Italia ci sono molti settori economici abituati a ricevere sussidi con
poche condizionalità, proprio perché non c’è una direzione chiara per
lo sviluppo economico. Le missioni servono a fornire questa direzione,
e quindi ci aiutano a inserire delle condizionalità. Sono un modo per
disegnare strumenti keynesiani che non siano finanziamenti a pioggia.
Con un approccio orientato alle missioni si combina Keynes con Schu-
mpeter, ma anche con Ostrom, dato che si dà attenzione ai beni comuni.
AB Dalla crisi pandemica sono stati avviati grandi piani di investimento
e
negli Stati Uniti e in Europa. Si può già parlare del ritorno dello Stato
or
a un ruolo autonomo nell’economia o è ancora troppo presto?
ut
MM Sicuramente è una boccata d’aria fresca, almeno in Europa, dove dopo
l’a
la grande crisi del 2008 non si attuarono grandi piani di investimento.
r
pe
Gli Stati Uniti, invece, non hanno mai smesso di investire.
AB Qual è il tuo giudizio sulle politiche economiche del presidente statu-
ia
nitense Joe Biden, la cosiddetta Bidenomics?
op
MM Ciò che è più interessante e innovativo della Bidenomics è l’attenzione
C
alle condizionalità. Facciamo l’esempio del Chips Act (che vuole affer-
o.
M
in
mare la sovranità degli Usa nella produzione di chip). Nelle intenzio-
ariana
ul
ni dell’amministrazione non deve essere un semplice sussidio alle im-
M
M
adeguatamente e che i profitti generati dagli investimenti pubblici sia-
azzucato
e
ic
C’è da dire anche che, per far passare più facilmente le nuove misu-
à
le. Il diavolo, però, è nei dettagli. È facile iniettare soldi nel sistema.
op
129
no nella propria capacità amministrativa, a livello nazionale e locale.
Nel mio lavoro in Sudafrica ho notato che non mancano le buone idee
per le politiche, ma c’è una capacità di implementazione molto scarsa.
Lo stesso vale per le amministrazioni pubbliche in Italia, che non han-
no investito nelle proprie risorse interne e proprio per questo dipen-
dono da McKinsey, Deloitte, PwC e altri consulenti.
AB Nei programmi statunitensi vedi un rischio di protezionismo e di guer-
re commerciali? Dov’è il discrimine tra protezionismo e politica indu-
e
striale?
or
MM È una buona domanda. Sicuramente, il nazionalismo non è una solu-
ut
zione positiva. Al contrario, dobbiamo puntare a produrre un sistema
l’a
di innovazione dinamico e aperto, che attragga nel Paese i migliori ta-
r
pe
lenti del mondo in un certo settore.
Un esempio è quello della Danimarca, oggi fornitrice numero uno di
ia
servizi di alta tecnologia digitale e verde alla Cina. Com’è possibile?
op
Copenaghen ha deciso di diventare la città più verde al mondo ed è ri-
C
uscita a orientare tutto il suo ambiente di start-up digitali verso que-
o.
in
sto obiettivo, interagendo con il sistema nazionale di appalti, che a sua
ul
volta ha fornito un mercato a queste società. Queste sono le storie di
ntervista
M
va per realtà estere. La stessa cosa potrebbe valere per il turismo ver-
et
de o per il settore culturale, dato che l’Italia ha gran parte del patri-
ci
È con strategie del genere che si stimolano gli investimenti, non con
ig
130
AB Tornando all’Europa, che cosa ci manca per raggiungere il livello de-
gli Stati Uniti nei piani di investimento? Alcuni sostengono che gli Sta-
ti europei non siano alla scala giusta per fare politica industriale, oltre
al fatto che l’Unione europea è ancora divisa sugli aiuti di Stato. Come
superare questa impasse?
MM Ciò che manca in Europa non è il venture capital, ma il lato pubblico
degli investimenti. Il venture capital riesce sempre a trovare in giro per
il mondo imprese in cui valga la pena investire. Il problema è che in
e
Europa non abbiamo abbastanza di queste imprese.
or
La ragione è che non abbiamo uno Stato dinamico e imprenditoria-
ut
le come negli Stati Uniti. Lì hanno agenzie dinamiche come la Darpa
l’a
[agenzia tecnologica del Dipartimento della Difesa, N.d.R.]; program-
r
pe
mi di acquisti pubblici in cui ogni dipartimento deve spendere fra il
3% e il 5% del suo budget nell’acquisto di soluzioni innovative da pic-
ia
cole aziende; una società di venture capital pubblico come In-Q-Tel, ge-
op
stita dalla Cia; politiche efficaci dal lato della domanda. Il tutto coor-
C
dinato da un governo centrale.
o.
M
in
In Europa, invece, non abbiamo ancora organizzazioni pubbliche con-
ariana
ul
tinentali orientate alle missioni. Non abbiamo abbastanza procedure
M
M
ro utili nella creazione di nuovi mercati. Le abbiamo introdotte solo
azzucato
e
ic
indebolito il tessuto sociale, oltre a spingere gli europei gli uni contro
à
AB Passiamo all’Italia. Che cosa pensi del recupero del ruolo dello Stato
ci
nella retorica della destra? Qual è il tuo giudizio sull’approccio del go-
So
MM Non è una sorpresa che un governo molto a destra come quello di Me-
©
loni riscopra lo Stato. E questo conferma il mio punto iniziale: non ba-
ht
sta che lo Stato faccia investimenti. Uno Stato rinvigorito non è di per
ig
Ma chi decide che cosa è buono e cosa no? Per rispondere a questa do-
manda, servono più spazi democratici dove discutere che cosa voglia-
mo come Paese, in un dibattito politico acceso. Le istituzioni pubbli-
che dovrebbero interagire con questa rete decentralizzata di attori per
spingere l’economia nella direzione democraticamente scelta.
Parlare di investimenti e società pubbliche, perciò, non è di per sé una
cosa buona o cattiva. Dipende in quale direzione vogliamo andare. An-
131
che Trump voleva spendere molti soldi pubblici, nel suo caso per co-
struire un muro tra il Messico e gli Stati Uniti. Ma non diventa una mi-
sura progressista solo perché c’è lo Stato di mezzo.
AB Credi che l’ascesa di Elly Schlein alla guida del Partito democratico
cambierà l’approccio del Pd al ruolo dello Stato?
MM Spero che Elly Schlein porti un po’ di aria fresca. Il Partito democrati-
co non è stato né dinamico né visionario nel ripensare l’economia. Ho
avuto modo di parlare a lungo con Schlein e mi sono convinta che sia
e
aperta verso una nuova discussione sul ruolo dello Stato; credo pos-
or
sa scuotere un po’ la sinistra italiana. Una sinistra che, ricordiamolo,
ut
è stata parte del problema e ha classi dirigenti troppo bloccate. Fa ben
l’a
sperare il fatto che Schlein sia giovane, che sia una donna, che creda
r
pe
nella democrazia partecipativa e anche nella necessità di una diversa
strategia industriale per l’Italia, orientata alle missioni.
ia
L’impegno dei cittadini è fondamentale per il futuro delle nostre eco-
op
nomie. Nel mio lavoro con la Camden Renewal Commission, in Inghil-
C
terra, abbiamo portato al tavolo le assemblee dei cittadini e le associa-
o.
in
zioni dei residenti per discutere insieme il significato di crescita verde,
ul
invece di imporla dall’alto. Il Comune ha trasformato i banchi alimen-
ntervista
M
sentanza alle persone, che così hanno il controllo del processo decisio-
e
ic
MM È un problema che dura da tempo. Anche prima del Pnrr, con i fon-
by
132
Starmer. Che cosa pensi dell’impatto che hanno avuto sul dibattito?
MM Concetti come «Stato imprenditore» e «orientamento alle missioni»
hanno preso slancio in giro per il mondo, tanto che oggi lavoro in vari
Paesi per spingere i governi a lavorare sulle loro capacità. Allo stes-
so tempo, però, dobbiamo stare attenti, perché la questione non si li-
mita alle parole che usiamo. Come ho scritto sul «New Statesman»,
è bello che Starmer abbia una strategia orientata alle missioni, ma il
suo approccio è ancora troppo vago. Non bastano enunciazioni generi-
e
che come: «Vogliamo la crescita economica». L’approccio delle missio-
or
ni va più a fondo. Quale politica industriale vogliamo? Come vogliamo
ut
cambiare i partenariati pubblico-privato in un modo più simbiotico e
l’a
meno parassitico? Come vogliamo cambiare l’approccio complessivo
r
pe
del governo alla sanità, al clima e ad altre questioni cruciali? È neces-
sario sporcarsi le mani con la progettazione concreta delle politiche.
ia
E soprattutto bisogna abbandonare la vecchia ideologia «Stato con-
op
tro imprese» e orientarsi verso una nuova direzione dell’economia, un
C
nuovo contratto sociale tra tutti gli attori in gioco.
o.
M
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AN REA
D
CAPUSSELA
135
Bradford eLong
D
SLOUCHING TOWAR S UTOPIA:
D
AN ECONOMIC HISTORY OF THE TWENTIETH CENTURY
New York, Basic Books, 2022
Gary Gerstle
THE RISE AN FALL OF THE NEOLIBERAL OR ER:
D
D
AMERICA AN THE WORL IN THE FREE MARKET ERA
D
D
Oxford, Oxford University Press, 2022
e
or
ut
l’a
r
pe
ia
op
erché il compromesso socialdemocratico cedette il passo alla visio-
C
P
ne neoliberale? Quale fu la forza di questa visione, perché la sua egemo-
o.
nia durò tanto? Perché ora si è incrinata, forse dissolta? A queste domande
in
apussela
ul
rispondono, con interessanti divergenze, due libri usciti l’anno scorso, tra
M
aprile e settembre.
il
dford DeLong, che insegna a Berkeley e tra il 1993 e il 1995 – periodo crucia-
rea
ic
itr
nel settantennio che corre dal 1917 alla dissoluzione dell’Unione Sovietica,
DeLong guarda invece al motore profondo della crescita economica, ossia
©
il tasso di crescita stimato di ciò che definisce il «deposito delle idee utili».
ht
ig
Egli osserva una marcata accelerazione attorno al 1870, dovuta alla con-
yr
136
sola per il futuro, mi pare felice. Userò invece questo libro per giustapporre
le sue risposte alle tre domande che ho formulato a quelle offerte dal sag-
gio che Gary Gerstle ha dedicato all’ascesa e alla caduta dell’«ordine politi-
co» neoliberale. Storico americanista a Cambridge, il suo libro prosegue e
in parte aggiorna l’analisi avanzata oltre vent’anni fa in un volume, da lui
curato, sull’ascesa e la caduta del precedente «ordine politico», quello del
New Deal. L’analisi è concentrata sugli Stati Uniti, e in alcuni suoi passaggi
la questione del colore della pelle riveste grande importanza, ma sia la na-
e
tura degli argomenti impiegati sia l’influenza globale di quella nazione con-
or
feriscono a questo libro un respiro più ampio.
ut
l’a
Conviene partire dalla nozione di «ordine politico», centrale nell’interpre-
r
pe
tazione di Gerstle. In sintesi, quella espressione denota «una costellazione
di ideologie, indirizzi politici ed elettorati che plasma la politica statuni-
ia
A
tense in modi che durano oltre i [suoi] cicli elettorali biennali, quadrien-
op
scesa
nali e sessennali» (p. 2; la traduzione, di questo e dei successivi passi cita-
C
ti, è mia).
o.
e
in
In quasi cent’anni solo due ordini politici sono emersi: quello del
ca
ul
d
New Deal, che durò dagli anni Trenta agli anni Settanta, e quello neolibera-
uta
M
le, che nacque mentre il primo si disfaceva e si è rotto nel secondo decennio
d d
il
di questo secolo. Per stabilire un ordine politico, spiega Gerstle, non basta
i
e
ue
ic
or
investimenti di lungo termine su candidati promettenti»; think tank capa-
ed
d
ci di «trasformare le idee politiche in programmi realizzabili»; un parti-
ini
à
politici
et
[…] sia nella stampa a larga diffusione e nei media immateriali»; e «una vi-
So
tico neoliberale» (p. 3). È in questi due passaggi che secondo Gerstle i due
C
137
modo, la perdita di questa capacità di esercitare l’egemonia ideolo-
gica segna il declino di un ordine politico. In questi momenti di de-
clino, idee e programmi politici che in precedenza erano considerati
radicali, eterodossi, inattuabili [o stravaganti] possono muovere dai
margini del dibattito pubblico al mainstream. Ciò avvenne negli anni
Settanta, quando la disgregazione dell’ordine del New Deal permise
a idee neoliberali sino allora disdegnate di radicarsi» (p. 3).
e
Questa osservazione ci porta alla prima domanda. Figli dello spaventoso
or
trentennio compreso tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, e padri del
ut
felice trentennio che seguì, il New Deal e il compromesso socialdemocrati-
l’a
co europeo si incrinarono perché nel corso degli anni Settanta non seppero
r
pe
rispondere efficacemente alla singolare coesistenza di inflazione e ristagno
della crescita. Su questo sfondo, Gerstle e DeLong sottolineano altre due
ia
cause dell’affermazione della dottrina neoliberale: cause diverse ma non al-
op
ternative, cause convergenti sebbene operanti a distanza di circa un decen-
C
nio l’una dall’altra.
o.
in
apussela
ul
Un tratto distintivo e fortemente sottolineato nell’analisi di Gerstle è l’enfa-
M
si sulla fine della Guerra fredda: «le conseguenze della [dissoluzione dell’U-
il
e
rea
ic
e nel mondo» (p. 10) – trionfo che egli colloca appunto negli anni Novanta.
A d
n
ed
capitale e lavoro che era stato fondamentale per l’ordine politico del New
So
ri americani gli alti salari che l’ordine politico del New Deal richiedeva»: le
ig
loro proteste contro la riduzione dei salari potevano essere «ignorate o af-
yr
138
se «la socialdemocrazia avrebbe potuto sopravvivere, riorganizzarsi»: a suo
parere questo è uno dei passaggi della storia nei quali gli eventi avrebbero
forse potuto prendere un corso diverso «se un numero relativamente picco-
lo di influenti circoli di persone avesse pensato pensieri diversi» (p. 439).
Nella sua ricostruzione la causa principale del declino del compro-
messo socialdemocratico fu «lo straordinario ritmo di crescita della pro-
sperità durante il Trentennio glorioso, che elevò l’asticella che un ordine
politico-economico deve superare per raccogliere largo consenso» (p. 429).
e
Ma è un’altra la causa che vorrei segnalare. Perché se la sinistra mancava
or
di idee per contrastare la stagflazione, sostiene DeLong, essa aveva anche
ut
un problema più profondo, interno alla logica del compromesso socialde-
l’a
mocratico.
r
pe
La spiegazione – pp. 415-416 – parte da lontano. «Gli umani, o quan-
tomeno noi umani, vedono la società come una rete di reciproche relazioni
ia
A
di dono-scambio»: siamo disposti sia a dare sia a ricevere; non vogliamo né
op
scesa
solo dare, che ci fa sentire sfruttati, né solo ricevere, che ci fa sentire ina-
C
deguati; e disapproviamo chi si limita a ricevere. Su questo sfondo inter-
o.
e
in
viene la «logica della socialdemocrazia», secondo la quale «come cittadini
ca
ul
d
siamo tutti eguali, e gli eguali non debbono essere trattati in modo disugua-
uta
M
d d
il
«più uguale degli altri»? E che fare se qualcuno «riceve non perché è sfor-
i
e
ue
ic
or
non sono gravi quando la crescita è sostenuta. Quando essa rallenta, tutta-
ed
d
via, e la disoccupazione cresce, il timore che gli «scrocconi» si avvantaggi-
ini
à
politici
et
139
protezione sociale per punire chi se ne avvantaggiava immeritatamente. E
se entrambe le letture sono fondate, esse designano anche due permanen-
ti ostacoli alla formazione di un assetto politico-economico simile a quel-
lo del trentennio postbellico: perché all’orizzonte non appaiono sfide al ca-
pitalismo liberale comparabili al comunismo, e quella tensione tra la logica
della socialdemocrazia e l’umana inclinazione per la reciprocità è struttu-
rale, se esiste nei termini nei quali DeLong la descrive, e può essere ricom-
posta solo da uno stabile ritorno a un ritmo di crescita più alto.
e
Una digressione: anche in quei termini, quella tensione potrebbe
or
forse essere composta se si imponesse una visione politica capace di dare
ut
una diversa, cogente giustificazione ideale alla redistribuzione. Penso alla
l’a
teoria politica repubblicana, in particolare, della quale di recente ho ten-
r
pe
tato uno schizzo (Liberalismo e libertà, «il Mulino», n. 3/2022): in quella vi-
sione la protezione sociale è condizione della libertà individuale, e non è
ia
inconcepibile che la forza di questo valore – la libertà, alla quale tra l’altro
op
i repubblicani danno un significato più esigente di quello corrente, e forse
C
più appagante – possa sopire alla radice quella tensione, anche indipenden-
o.
temente dalla dinamica della crescita. in
apussela
ul
M
Long (p. 461), che pure dichiara il proprio passato «profondo» coinvolgi-
C
e
rea
ic
quella svolta (p. 428). Il neoliberalismo non generò investimenti più so-
A d
n
ed
li non ricevano nulla che non meritano», e perché i «potenti» usarono ef-
by
(p. 461).
ht
La critica a questa lettura, sempre più diffusa, è uno dei tratti più in-
ig
140
tà» (p. 98) – sono tratti fondanti del neoliberalismo, che spiegano sia il so-
stegno che raccolse anche a sinistra, sia la sua compatibilità con le istanze
di liberazione fondate sull’identità di genere, l’orientamento sessuale o il
colore della pelle. Senza tenerne conto, conclude Gerstle, è difficile spiegar-
si la duratura egemonia del neoliberalismo.
Anche DeLong descrive la coesistenza tra un neoliberalismo di de-
stra, uno centrista, e uno di sinistra, al quale pare legittimo ascriverlo; ma
nella sua analisi questa non pare una componente rilevante della sua forza.
e
Tornando a Gerstle, visto il rilievo che la politica delle identità ha re-
or
centemente avuto in Italia, è utile vedere come egli descriva la traiettoria
ut
presa da parte delle sinistre dell’Occidente al «trionfo» del neoliberalismo
l’a
(pp. 148-149). Se è vero che la dissoluzione dell’Unione Sovietica ridusse lo
r
pe
spazio politico delle sinistre, in larga parte del globo il socialismo aveva già
«perduto la sua capacità di muovere le masse». Già prima degli anni Novan-
ia
A
ta molti tentarono di dare al proprio radicalismo «un fondamento diverso
op
scesa
da quello marxista»: negli Stati Uniti «si rivolgevano in modo crescente alla
C
identity politics, nella quale potenti nuovi sogni di liberazione – per le don-
o.
e
in
ne, le persone di colore, i gay – erano in incubazione». E sebbene queste lot-
ca
ul
d
te generassero conflitti, esse «non minacciavano i regimi dell’accumulazio-
uta
M
d d
il
i
e
ue
ic
or
ro che continuavano a definirsi di sinistra dovettero ridefinire il proprio ra-
ed
d
dicalismo in forme alternative, che si rivelarono essere forme che i sistemi
ini
à
politici
et
litico».
So
Non leggerei questa come una condanna della politica delle identità,
by
naturalmente, e non solo perché anche qui Gerstle mantiene la sua neutra-
©
lità assiologica: conviene giudicare quelle politiche per ciò che esse valgo-
ht
caso, tuttavia, la distanza tra esse e il conflitto sulla distribuzione del red-
yr
DeLong si concentra sulla fine del «lungo ventesimo secolo», non sul decli-
no dell’ordine neoliberale. Ne ricorda alcuni prodromi. Uno, la guerra in
Iraq, che chiuse l’epoca nella quale gli Stati Uniti erano il «trusted leader»
dell’Occidente (p. 486), è similmente invocato da Gerstle. Qui voglio segna-
larne altri due: uno è la «insuperabile barriera tecnologica» incontrata nel
2007, che impedì di continuare a dimezzare le dimensioni dei micropro-
cessori e raddoppiarne la velocità senza generare troppo calore; l’altro è la
141
transizione, nel modello imprenditoriale dei settori nati con la rivoluzione
digitale, «dal fornire informazioni al captare l’attenzione [dei consumato-
ri] – e captare l’attenzione in modi che facevano leva sulle debolezze psico-
logiche della natura umana» (p. 487).
DeLong si dilunga acutamente sulle cause della crisi finanziaria glo-
bale e della recessione che la seguì. La ascrive ai difetti del neoliberalismo
realizzato, per così dire, e conviene con Piketty che gli esiti – disuguaglian-
za, influenza economica dei «plutocrati», rallentamento della crescita – non
e
debbono sorprenderci. In particolare, «una crescita rapida come quella os-
or
servata tra il 1945 e il 1973 richiede la distruzione creatrice: e poiché [nel
ut
processo di distruzione creatrice] è la ricchezza dei plutocrati che viene di-
l’a
strutta, è difficile che essi lo incoraggino» (p. 453). Senza tentarne una in-
r
pe
terpretazione sistematica, infine, DeLong rileva un fenomeno che tuttora
inquieta molti. La crisi e la recessione «non produssero tra gli elettorati del
ia
global north solide, durevoli maggioranze a sostegno di politici collocati alla
op
sinistra del neoliberalismo di sinistra»: in misura crescente, invece, gli elet-
C
tori iniziarono a cercare «qualcuno da incolpare» per la crisi, e a cercare
o.
in
«leader disposti a punire chiunque si trovasse a essere designato come ca-
apussela
ul
pro espiatorio» (p. 517).
M
2016, il suo giudizio è reciso. Se ebbe una visione del mondo, questa non fu
C
e
rea
ic
che «sospetto» per asseriti nemici interni ed esterni; se ebbe una politica,
itr
fu innanzitutto e soprattutto «tax cuts for the rich» (p. 531). Riprenden-
A d
n
ed
muovere gli individui, le idee e gli eventi tanto quanto l’ottimismo, la spe-
So
lizzazione.
Gerstle si spinge sino al 2021. Gli elementi «culturali» del neolibe-
ralismo sopravvivono, in parte, «[m]a l’ordine politico neoliberale è rotto»
(pp. 292-293). L’attuale amministrazione statunitense sa di trovarsi a «un
punto di svolta», sa che l’indirizzo politico «ereditato da Clinton e Obama
non basta più», coopera con la sinistra del partito (p. 281). La proliferazio-
ne di nuove idee, reti, movimenti e media «suggerisce che un nuovo ordi-
142
ne politico progressista stia prendendo forma», sebbene esso appaia ancora
vulnerabile (p. 285). Segue dunque un avviso, che di nuovo riecheggia An-
tonio Gramsci. L’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 dimostra «quan-
to la rottura di un ordine politico possa essere pericolosa»: il nuovo ordi-
ne politico, se uno sorgerà, potrebbe invece «venire dalla destra ed essere
genuinamente autoritario [e] profondamente illiberale» (p. 289). Voilà une
joyeuse perspective!
e
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Profilo
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di Piergiorgio Giacchè
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No solo ldo apiti i è u a delle prese ze più alte della cultura e della
e
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A
C
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n
n
politica del Novecento italiano, ma è anche la più «altra» e, proprio per que-
or
sto, ancora non nota a sufficienza. La sua personalità e la sua attività risulta-
ut
l’a
no di immediata comprensione ma di difficile collocazione, anche per chi ha
avuto con lui un’assidua frequentazione.
r
pe
La figura. Aldo Capitini si è impegnato in politica e in religione, in filosofia e
ia
op
in pedagogia, in critica letteraria, in poesia; ma questo apparente eclettismo
è al contrario la prova di una sola e solida scelta, giacché l’attraversamento
C
dei vari ambiti e lo studio di diverse discipline sono motivati da una coeren-
o.
in
te «esperienza religiosa» che segna la sua vita e dà senso a tutte le sue opere.
ul
Aldo Capitini è stato un coraggioso e originale «libero religioso», a cui va in-
M
fini di ogni chiesa che si vuole – e si suole – imporre come un suo sinonimo.
itr
compagni (Passigli, 1984), spiega che Capitini, più che al mondo della cultura,
à
appartiene alla «storia della spiritualità italiana», nella quale «occupa un po-
et
dello studio filosofico. Ancora Bobbio spiega che – malgrado tutti lo annove-
©
rino fra i filosofi – «Capitini non è e non vuole essere un filosofo […]. Egli si
ht
serve della filosofia ma non tende alla filosofia […]. Legge e discute i filosofi;
ig
i suoi interessi letterari e perfino per il suo impegno politico, giacché – conti-
op
145
per primo – vuole che si scriva come una sola parola, perché la si deve inten-
dere come una proposta attiva che si completa con i corollari della non-men-
zogna e della non-collaborazione.
Capitini è da molti ricordato come «il Gandhi italiano», e in effetti gli
somiglia. Non solo perché la nonviolenza è il fondamento del suo pensiero e
della sua azione, ma per la tensione religiosa che lo anima. La sua «religione
aperta» non è una nuova confessione, ma si configura come una serie di espe-
rienze, ovvero di successive «aperture» verso l’Alto e verso l’Altro, anzi ver-
so Tutti gli altri Tu che formano la «compresenza dei morti e dei viventi», il
e
or
vertice della concezione spirituale di Capitini. «L’io non è solo – spiega Capi-
ut
tini – ma è con altri, tutti, anche i morti, e ciò che viene fatto, è fatto con l’a-
l’a
iuto di tutti… apritevi e muterete la vostra vita, accorgendovi che la compre-
r
senza c’è. Ogni nascita l’arricchisce, ogni morte la fa cercare» (Compresenza
pe
dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, 1966; Libreria Editrice Fiorentina, 2022).
ia
La compresenza non è una realtà che si impone o una totalità a cui si
op
appartiene, ma una unità a cui si sceglie di partecipare:
C
o.
«La compresenza comprende tutti gli esseri che siano mai nati, anche
in
minuscoli ed effimeri, anche lontanissimi e mai percepiti e impercepi-
ul
bili. Questo “tutti” non può essere abbracciato col pensiero, ma non è
M
PROFILO
ti preme sulla realtà così com’è, la realtà della natura, della vitalità e
ic
La fede. Non ci si può diffondere di più in questa sede sulla sua riflessione
et
le di Capitini:
©
ht
vo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, per-
ché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più
piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalga-
no: una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provviso-
ria, insufficiente, ed io mi apro a una sua trasformazione profonda, a
una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della
morte. Questa è l’apertura religiosa fondamentale».
146
E si può aggiungere che questa è per molti (se non per tutti) la prima pre-
sa, anzi la sorpresa della Coscienza: accade prima o poi a tutti di essere tentati
o persuasi dalla sua Voce che si oppone alla realtà «così com’è», a prescinde-
re se poi questa esperienza la si voglia dimenticare o proseguire. Ma in ogni
caso non si tratta di un drastico rifiuto né di un impossibile esilio dal mondo
reale – non è questa la posizione di Capitini – ma di un semplice «non accet-
to», che muove nell’intimo dell’individuo una tensione verso una realtà libe-
rata dai suoi limiti, appunto inaccettabili.
e
Non ci si deve dunque mai chiudere al mondo, né vale sottrarsi agli
or
impedimenti che esistono e resistono: al contrario i limiti si superano con l’a-
ut
pertura e l’aggiunta, che sono – in Capitini e per Capitini – le due parole-chia-
l’a
ve (in ogni senso) che dettano il metodo giusto per ampliare ed elevare e infi-
r
pe
ne liberare la realtà esistente. L’opposizione politica e la liberazione spirituale si
fondono allora in un solo atto e un unico pensiero, critico e profetico insieme.
ia
Ebbene, la figura profetica e la funzione critica di Aldo Capitini è in-
op
negabile, ancorché misconosciuta: infine profezia e critica significano – molto
C
modestamente e «alla lettera» – di precedere e non di prevedere la storia, e
o.
in
intanto di non arrendersi mai alla dittatura della realtà, atteggiamenti e/o va-
ul
lori che Capitini testimonia durante tutta la sua vita di «provinciale aperto».
A d
l
M
o
il
C
La vita. Aldo Capitini nasce a Perugia il 23 dicembre del 1899 da una famiglia
apitini
e
ic
di umili origini. Ciò nonostante vive nel palazzo più imponente e importan-
itr
te della città, quello storico Palazzo dei Priori dove ancora oggi ha sede il Co-
ed
appartamento proprio sotto la torre civica. Nella piccola stanza più elevata di
ci
quella torre, Capitini avrà per anni lo studio, dove riceverà allievi e compagni
So
durante tutto il periodo che lo vede come uno dei più importanti intellettua-
by
go tutto l’arco della vita, compie gli studi in un istituto tecnico per ragionieri,
ig
147
gretario economo della Normale nel 1929. Svolgerà questo incarico conti-
nuando i suoi studi e scambi e discussioni soprattutto con Claudio Baglietto
e altri giovani normalisti, insieme ai quali comincia ad approfondire il tema
della nonviolenza e le sue posizioni critiche sia verso la Chiesa sia verso la
cultura fascista. Il suo rifiuto di prendere la tessera del partito gli costa il li-
cenziamento e l’espulsione dalla Normale.
Tornato a Perugia nel 1933, Capitini passerà anni di stenti ma anche di
intensi contatti con una rete sempre più fitta di antifascisti di tutta Italia, di-
e
ventando uno dei punti di riferimento più importanti per molti giovani che
or
– soprattutto a partire dal 1937 e poi dalle leggi razziali del 1938 – comince-
ut
ranno a orientarsi contro il regime. Nel frattempo viaggia e scrive e, per il
l’a
tramite di Benedetto Croce, nel 1937 pubblica presso la casa editrice Laterza
r
pe
il suo primo libro: quegli Elementi di un’esperienza religiosa che, grazie all’ar-
gomento ritenuto «non pericoloso», sfugge alla censura fascista, pur essen-
ia
do animato da una visione etica e politica che poi sarà fondamento delle tesi
op
– elaborate con Guido Calogero – del «suo» liberalsocialismo, diverso ma non
C
diviso da quello elaborato dai fratelli Rosselli. Il movimento antifascista lo
o.
in
vede fra i principali interpreti e i più infaticabili attivisti, con in più l’origina-
ul
lità e il rigore di una posizione religiosa e di una proposta nonviolenta che lo
M
PROFILO
escluderà dalla partecipazione alla Resistenza armata. Questo non gli impe-
il
resto e al carcere: prima a Firenze, nel 1942; poi, l’anno seguente, a Perugia.
ed
Uscito di prigione il 25 luglio, Capitini, nel periodo più caotico che precede la
à
re, a scrivere e a prepararsi nella prospettiva di una futura Realtà di tutti (Arti
ci
Grafiche Tornar, 1948; Armando, 2010), ossia di una omnicrazia più vasta e
So
148
che, negli anni della ricostruzione, si vive come un crocevia cosmopolita a di-
spetto della sua dimensione e collocazione provinciale. Eppure saranno pro-
prio il provincialismo in cultura e il realismo in politica a osteggiare le propo-
ste e perfino a ostacolare la carriera di Capitini, che non otterrà la nomina di
rettore dell’Università per Stranieri e sarà «esiliato» a Cagliari come docen-
te universitario. La non-menzogna e la non-collaborazione, certamente più del-
la stessa nonviolenza (ritenuta innocua, quando non ingenua), erano coman-
damenti impossibili e opzioni disfunzionali in un periodo di confusione e di
e
incertezza segnato dalla ripresa dell’attività dei partiti politici, impegnati a
or
spartirsi il potere, e dal rilancio dell’egemonia della Chiesa cattolica.
ut
Ciò nonostante, tutto questo non impedì ad Aldo Capitini di continua-
l’a
re la sua opera di propagazione di idee e di attivazione di coscienze, in un’I-
r
pe
talia in cui le minoranze marginali ed eretiche sono state per decenni più im-
portanti ed efficaci dei tanti conformisti «al seguito» o intellettuali à la page.
ia
Arriviamo così alla famosa «Marcia della Pace per la fratellanza dei
op
popoli Perugia-Assisi» del 1961. Essa non è che il coronamento di una inde-
C
fessa attività politica e culturale, nonché il frutto di una continua tessitura
o.
in
di rapporti nazionali e internazionali. Ma per Capitini non si tratta che di un
ul
primo atto e di una prima marcia, cui farà seguito l’anno dopo una «Marcia
A d
l
M
o
il
C
gesto che voleva essere fecondo: non un rituale da ripetere ma un seme da
apitini
e
ic
pace del 18 marzo 1962 può essere rintracciato in Rete e ascoltato dalla sua
ed
so discorsi, lettere e giornali in forma di foglio unico volante, come il suo «Il
ci
Aldo Capitini si spegne nella sua Perugia (dove soltanto nel 1964 era
©
sofia, a causa dell’ostracismo dei docenti cattolici) il 19 ottobre del 1968. Pro-
ig
149
no in epoche di generale indigenza e poi di festeggiato benessere, un movi-
mentista irriducibile nel periodo della rinascita dei partiti, un uomo politico
che ha rifiutato la candidatura elettorale. E un religioso «aperto» che ha chie-
sto di essere sbattezzato dalla Chiesa ma invitava i laici a un’«aggiunta reli-
giosa», senza la quale non si può fare una efficace opposizione. E ancor meno
una vera rivoluzione, anch’essa «aperta» e dunque pensata e vissuta come
una intensa e intima «festa» di liberazione.
e
La parola. La «festa» è una parola e un evento a cui Capitini fa continuo rife-
or
rimento: è il giorno più «aperto», quello dedicato al riposo, al silenzio, all’in-
ut
contro, alla pace, in cui in qualche modo si anticipa o almeno si annuncia la
l’a
«realtà liberata». Alla festa è dedicata l’opera poetica più importante dove
r
pe
Aldo Capitini ricapitola il suo pensiero e la sua azione, la sua vita spirituale e
la sua scelta politica: un breve poema intitolato al Colloquio corale da lui sem-
ia
pre agognato e promosso.
op
C
«La mia nascita è quando dico un tu. / Mentre aspetto l’animo già ten-
o.
in
de. / Andando verso un tu, ho pensato gli universi. / Non intuisco din-
ul
torno similitudini pari a quando penso alle persone».
M
PROFILO
il
Sono questi i versi che aprono e spiegano il suo animo aperto e il suo impe-
e
ic
gno di persuaso.
itr
proprio perché resta aperto agli altri e attivo nel mondo: così come la corali-
So
tà – meglio di una collettività – è attenta alla diversità delle voci e insieme in-
by
perché infine siano anch’esse aperte come un verso e finiscano per sollecita-
op
ha dette e scritte tante, ma ne anche «fatte» alcune che sono la sua più pre-
ziosa e duratura eredità. Non sono invenzioni ma scoperte di nuovo senso e
nuovo uso da riconoscere e applicare nel terreno delle pratiche e delle poli-
tiche prima ancora che nel cielo delle teorie: in politica, ad esempio, il centro
(dei Cos o dei Cor) è attraente solo quando è irradiante, e la marcia era un’e-
vidente e voluto controsenso per poi cercare gente e trovare pace «in cammi-
no» (In cammino per la pace, Einaudi, 1962; Silvana, 2022).
150
Sempre nel colloquio si trova un «verso» che è forse il suo migliore au-
toritratto, e intanto ci mostra Aldo davvero vicino e simile a tutti noi, o me-
glio a tutti quelli che abbiano mai provato – oltre la «sorpresa» della coscien-
za» – anche la miracolosa sensazione di un infinito amoroso senso (anche se
poi lo avrà rinnegato ben più delle fatidiche tre volte…): «La mente, visti i li-
miti della vita, si stupisce della mia costanza da innamorato».
Un attento e autentico ritratto d’autore, che ci racconta Aldo per come è sta-
to a dispetto di come è stato giudicato o peggio ignorato, ce lo regala ancora
e
or
Norberto Bobbio nella prefazione postuma al libro più «politico» di Capitini
ut
(Il potere di tutti, La Nuova Italia, 1969; Guerra, 1999; questo testo di Bobbio è
l’a
stato in parte ripreso più di recente in Il pensiero di Aldo Capitini. Filosofia, re-
r
ligione, politica, edizioni dell’asino, 2011):
pe
ia
«Ciò che colpiva maggiormente in lui era la sua serafica fermezza: se
op
non fosse stato così serafico e così fermo, la sua posizione di eretico
C
della religione e della politica sarebbe diventata, presto o tardi, inso-
o.
stenibile. Perché egli non fu al di sopra della mischia, ma dentro, sino
in
al collo. Fu costretto sempre a destreggiarsi tra coloro che volevano
ul
A d
blandirlo e coloro che volevano spegnerlo. Ma non si lasciò né blandi-
l
M
o
re né spegnere. Agli uni oppose la sua ragione critica, agli altri la sua
il
C
fede incrollabile.
apitini
e
ic
vole, e invece aveva i piedi stabilmente per terra, nella terra in cui era
à
la propria vocazione».
©
ht
151
Globalizzazione
LA GLOBALIZZAZIONE
e
or
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E LA STORIA
rl’a
pe
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M
il
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ed
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yr
op
C
FABRIZIO
TRAÙ
152
«La sicurezza delle epoche di “pienezza” […] è un’illusione ottica che
e
or
induce a non preoccuparsi dell’avvenire, incaricando della sua dire-
ut
zione la meccanica dell’universo. Tanto il liberalismo progressista
l’a
quanto il socialismo di Marx suppongono che la società da loro auspi-
r
pe
cata come il migliore avvenire si realizzerà inesorabilmente, con una
necessità identica a quella astronomica. […] Così la vita sfuggì loro
ia
dalle mani, si rese interamente indipendente, e oggi procede sciolta,
op
senza una direzione conosciuta» [J. Ortega y Gasset, La ribellione del-
C
le masse, 1930].
o.
in
ul
a Globalization e è ormai dietro alle ostre spalle. Non si tratta
M
L
Ag
n
dell’eclisse di un sistema di scambi articolato su scala globale (l’integrazione
il
ma del fatto che un vero e proprio ordine mondiale – incardinato sul multi-
ic
itr
su questo passaggio molti fattori endogeni che hanno reso nuovamente rile-
à
per molto tempo asserito) e da ultimo due shock esogeni (prima la pandemia
ci
e poi la guerra) che hanno accresciuto fortemente l’option value del ricorso a
So
risorse nazionali, e aperto una fase di forte incertezza nelle relazioni tra i di-
by
siva – anche del suo successivo volgere al tramonto. Detto in termini esplici-
C
ti: se all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso le condizioni geopolitiche
non fossero state quelle che erano, la globalizzazione si sarebbe manifestata
nei termini che abbiamo conosciuto?
La risposta a questa domanda parte dalla constatazione che, in quegli
anni, all’interno delle economie occidentali – e degli Stati Uniti in particola-
re – è emersa e si è rapidamente consolidata l’idea che il mondo fosse diven-
tato una realtà ormai ineludibilmente unipolare. Questa idea è il portato del-
153
la convinzione che dopo la caduta del Muro, avviatasi a Berlino nel novembre
1989, la storia umana fosse finita, e che per i Paesi occidentali non esistes-
se più alcuna possibilità di essere sfidati da una Unione Sovietica che anda-
va allora collassando, né tantomeno da altre potenze economiche ancora di
là da venire. Ma da dove scaturisce questa convinzione? Si tratta della sem-
plice constatazione che la costruzione di un sistema economico alternativo a
quello di mercato fino a quel momento è fallita, o di una visione incardinata
su presupposti anche teorici?
e
or
Se negli anni Novanta le condizioni geopolitiche
ut
l’a
non fossero state quelle che erano, la globalizzazione
r
si sarebbe manifestata come la abbiamo conosciuta?
pe
ia
Su questo punto specifico vale la pena richiamare alcuni passi del citatissi-
op
mo saggio di Francis Fukuyama sulla «fine della storia» (The End of History?)
C
uscito su «The National Interest» nell’estate del 1989, ossia pochi mesi prima
o.
che il crollo del Muro sancisse l’uscita di scena formale del socialismo realiz-
in
zato nei Paesi dell’Europa orientale. Nelle parole di Fukuyama:
ul
raù
M
T
Questa asserzione, dal tono così definitivo, trae origine da una riflessione che
si muove su un terreno dichiaratamente filosofico, e che trova alimento nelle
by
nel testo. È su questi presupposti che Fukuyama può affermare che «la sto-
ht
le e razionale di società e dello Stato vince sulle altre» (p. 4, corsivo mio). E
yr
che, in particolare,
op
C
«lo Stato che emerge [che vince] alla fine della storia è liberale nella
misura in cui riconosce e protegge attraverso un sistema legale il dirit-
to universale degli uomini alla libertà, ed è democratico nella misura
in cui esiste soltanto con il consenso dei governati» (p. 5).
154
Stato. E che dunque questa analisi non si disloca su un terreno semplicemen-
te intellettuale, ma si colloca all’interno del centro di elaborazione delle stra-
tegie di politica estera degli Stati Uniti. È su questi presupposti – e nel qua-
dro di uno Zeitgeist che vira prepotentemente verso l’idea che ormai tutto
è mercato – che a cavallo del 1990 si afferma, ai vertici dell’Amministrazio-
ne americana, una visione esplicitamente storicista, che affonda le sue radici
nell’idealismo tedesco, e che vede dialetticamente gli avvenimenti del tempo
come l’affermarsi definitivo di un modello di società che riassume in sé l’in-
e
tero senso della vicenda umana sulla terra.
or
En passant, la fine del comunismo nel mondo sovietico, cui i cambia-
ut
menti in corso preludono, fa implicitamente uscire di scena anche il rove-
l’a
sciamento della dialettica hegeliana da parte di Marx, che fa finire la storia,
r
pe
anziché con lo Stato assoluto, con la società senza classi. Nella prospettiva
adottata da Fukuyama, quel rovesciamento sul piano filosofico rappresenta
ia
necessariamente una dottrina fallace, dal momento che la stessa storia si è
op
incaricata di smentirla.
L
a
globalizzazione
o.
in
La fine del comunismo nel mondo sovietico
ul
M
e
Ora, la principale deduzione che sul piano politico deriva da queste premes-
la
ed
storia
– di un unico modello economico e politico, rappresentato al massimo grado
à
et
vento di un unipolarismo per così dire strutturale. Ossia nel fatto che a livel-
So
lo mondiale non solo non esistono ormai rischi politici connessi allo sviluppo
by
155
nomia, ritorneranno a politiche estere vecchie di cento anni nel resto
d’Europa» (p. 17, corsivo mio).
e
Cina, ancora pressoché fuori dal campo visivo, la schizofrenia è chiaramente
or
esclusa. Testualmente:
ut
l’a
«Questo è certamente quanto non è accaduto in Cina dopo che ha av-
r
pe
viato il suo processo di riforma. La competitività e l’espansionismo
sulla scena mondiale della Cina sono virtualmente scomparsi» (p. 17).
ia
op
È a partire da questa serie di assunzioni – e dalla persistente forza del dolla-
C
ro come valuta internazionale – che il mondo entra in un percorso che cul-
o.
in
minerà nel 1995 nell’istituzione della Wto, cinquant’anni dopo che gli stessi
ul
raù
Stati Uniti avevano boicottato l’istituzione della Ito a Bretton Woods (l’In-
M
ternational Trade Organization avrebbe dovuto essere già nel 1944 la «terza
T
il
abrizio
gamba» delle istituzioni preposte al governo dell’ordine economico mondia-
e
ic
le, a fianco della World Bank e dell’Imf. Cfr E. Sassoon, Objectives and Re-
itr
sults of the Uruguay Round, in Multilateralism and Regionalism After the Uruguay
F
ed
1997).
et
terno dei suoi confini fin dagli anni Settanta (outsourcing) in offshoring, ridi-
©
slocando ora parte delle sue catene del valore in Paesi caratterizzati da una
ht
cosiddette emergenti. Sviluppo che – sulla base delle premesse di cui sopra –
C
non presenta alcuna controindicazione: a partire dagli anni Novanta del No-
vecento, rileva Fukuyama, «il trionfo dell’Occidente (dell’idea occidentale) è
evidente prima di tutto nel totale esaurirsi di alternative sistematiche prati-
cabili al liberalismo occidentale» (p. 3).
156
Tutto il mondo è ormai destinato a uniformarsi
alla medesima logica economica, cosa che esclude
il rischio di conflitti sul terreno politico
e
I fatti (la storia) si incaricano, nel giro di pochi anni, di fare di questo scena-
or
rio carta straccia. Questo accade quando i) gli effetti dell’arrivo sulla scena
ut
dell’Asia emergente (che è magna pars del mondo emergente) cominciano a
l’a
farsi pesanti, in termini sia diretti (spiazzamento delle produzioni occiden-
r
pe
tali) sia indiretti (sotto forma di dumping salariale, ossia di impoverimento
di chi lavora in Occidente); e quando ii) l’emergere della Cina come sogget-
ia
to economico – e quindi politico – forte, e il ritorno sulla scena della Russia
op
come interlocutore obbligato della politica mondiale (se non altro per il ruo-
L
a
lo che svolge in tutte le aree di crisi) cominciano a mettere in discussione il
globalizzazione
o.
ruolo di unica potenza planetaria degli Stati Uniti.
in
ul
Nel primo caso gli effetti di impoverimento delle regioni manifatturie-
M
cessivo arrivo di Trump trasforma nel «Make America Great Again», avviando
ic
itr
e
politiche dichiaratamente protezioniste (seguirà nel 2022, con la presidenza
la
ed
Biden, il lancio del Chips and Science Act e poi dell’Inflation Reduction Act).
storia
Nel secondo caso il problema che guadagna rapidamente il centro
à
et
genti o ri-emergenti: una volta realizzato che la storia è viva e vegeta e che
So
non sono destinati a governare il mondo da soli, gli Stati Uniti si trovano a do-
by
ver improvvisare una politica per evitare che il mondo sia governato da altri.
Ne derivano l’allargamento della Nato (prima a Est e poi addirittura nel Pa-
©
gio esplicito a Taiwan – ancora nel Pacifico – in tempi più recenti. Ne deriva,
op
cioè, una serie di interventi sparsi e per così dire locali, orientati a ostacola-
C
157
te), e che si avvia come detto su presupposti endogeni, si inscrive comunque
nel mutamento di rotta che caratterizza la sfera politica a livello mondiale.
Ciò che accade a livello economico è sempre più sottratto al puro e semplice
affermarsi della logica di mercato, e sempre più condizionato da una logica
squisitamente politica, che tende per sua natura ad assumere una dimensio-
ne conflittuale e che peraltro – da parte americana – appare anche del tut-
to priva di una chiara strategia di lungo periodo. Detto in altri termini, in un
mondo in cui la politica torna a svolgere il suo ruolo, la globalizzazione per-
de il suo carattere di irreversibilità (cfr. I. Clark, Globalization and Fragmenta-
e
or
tion. International Relations in the Twentieth Century, Oxford University Press,
ut
1997).
r l’a
pe
E l’Europa? Qui il problema è che l’idea di una graduale integrazione econo-
mica della Russia con l’Europa occidentale – che parte dalla Ostpolitik tede-
ia
sca degli anni Settanta e arriva fino a Nord Stream – entra in rotta di collisio-
op
ne col nuovo corso della politica estera statunitense, ora orientata verso una
C
logica dei blocchi. E quella dipendenza, ad esempio sul piano energetico, che
o.
costituiva semplicemente un pezzo di una strategia di lungo periodo diven-
in
ul
ta immediatamente un vincolo di cui liberarsi al più presto. Così, quello che
raù
M
il
abrizio
poiché per il resto nell’ambito europeo domina in economia una visione non
e
meno che fideistica nel ruolo della concorrenza come unico possibile target
ic
itr
ed
Dunque, si può dire che il mondo sia investito frontalmente negli anni che
ht
ig
balizzazione come bene assoluto conclamato per una intera fase della storia
op
158
tegrazione internazionale dei sistemi produttivi ha smesso di aumentare, ma
anche nel senso che verosimilmente esso è destinato a ridursi. Fenomeni ap-
parsi eclatanti già nel corso della pandemia come la scarsità di beni strategi-
ci in ambito sia sanitario sia produttivo appaiono, di fronte a un conflitto po-
litico che corre sul filo di un possibile slittamento su quello militare, di fatto
insostenibili (è davvero difficile immaginare che tra dieci anni un Paese a ri-
schio politico come Taiwan potrà coprire ancora il 70% o quanto sia della do-
manda mondiale di semiconduttori).
e
E soprattutto, se il nuovo (vero) nemico politico dell’Occidente ormai
or
saldamente guidato dagli Stati Uniti è la Cina, tutta la politica di offshoring
ut
e gli investimenti diretti profusi dagli occidentali nel Paese – che sono sta-
l’a
ti la spina dorsale della globalizzazione – sono messi in discussione alla radi-
r
pe
ce (tanto più che la pandemia e i suoi lockdown proprio in Cina seguitano a
dominare la scena). E dunque il mondo – ormai orfano dell’ordine mondiale
ia
costruito nel corso della Globalization Age – è chiamato a riorganizzarsi in un
op
contesto in cui la ricostruzione di meccanismi di governance globali è diffi-
L
a
cilmente immaginabile come l’esito di un processo cooperativo. A questo ri-
globalizzazione
o.
in
guardo vale la pena riportare un esempio di quanto i toni siano mutati – ri-
ul
spetto all’entusiastico punto di vista espresso da Fukuyama nel 1989 – nel
M
e
«date la dimensione dell’economia cinese e l’estensione delle sue po-
la
ed
storia
à
States and the World, White House Office of Trade and Manufacturing
by
La Belle Époque, l’era della prima globalizzazione a cavallo del 1900, è fini-
ig
159
da nuove grandi questioni epocali (il global warming, la disoccupazione strut-
turale, l’esplosione di flussi migratori apparentemente non governabili, l’au-
mento vertiginoso delle disuguaglianze tra sistemi economici e al loro inter-
no).
e
or
ut
Questi problemi richiedono tutti insieme risposte urgenti che la mainstream
l’a
economics consolidatasi negli anni della globalizzazione – di per sé refrattaria
r
a politiche attive – non può assicurare in ragione dei suoi stessi presupposti
pe
teorici: così, l’idea che fosse possibile gestire l’ordine mondiale, e garantire
ia
addirittura lo sviluppo delle economie in ritardo, attraverso un solo strumen-
op
to economico come la liberalizzazione del trade, perché la politica (e massi-
C
mamente la politica economica) era ormai fuori corso, si è infranta proprio
o.
contro il muro della storia. Ne consegue che le determinanti economiche del
in
cambiamento appaiono ora sempre più deboli e sovrastate da quelle politiche
ul
raù
– nel frattempo sempre più orientate all’edificazione di muri assai più che al
M
T
loro smantellamento.
il
abrizio
e
Da questo punto di vista vale osservare che tutti i lavori empirici che
ic
negli anni recenti hanno seguitato a constatare una intensità ancora modesta
itr
F
ed
la pandemia, già loro certamente tutt’altro che flebili, cui ora si sommeranno
ci
bile che i risultati di questi lavori possano finire del tutto scompaginati dal
cambio di rotta che si sta consumando, e che ha visto la politica sostituirsi
by
che repentini.
C
160
C
op
yr
ig
ht
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M
161
Pnrr
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VALERIA
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UN’AGEN A
PER L’ITALIA
ENERGETICA
pe
r l’a
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e priorità di u ’age da e ergetica dell’ talia si innestano necessaria-
e
or
L
n
n
n
I
mente in quella europea. L’Unione europea ha disegnato bene l’indirizzo per
ut
affrontare la transizione energetica con il Green Deal, straordinaria svolta
l’a
economica e politica, la più impegnativa dopo Maastricht, che nel dicembre
r
pe
2019 ha preceduto il Covid.
«Crescita sostenibile» è diventato poi uno slogan; ma con questo in-
ia
dirizzo l’Unione europea aveva creato le basi per una nuova visione di poli-
op
tica economica, di nuove modalità di crescita, di relazione tra i Paesi mem-
C
bri. Ha abbandonato l’atteggiamento punitivo prevalso durante le crisi dei
o.
debiti pubblici nei confronti dei cosiddetti «Pigs» (Portogallo, Italia, Grecia,
in
ermini
ul
Spagna), per aprire la via a valori di solidarietà economica e condivisione.
M
ed
bri limitrofi, il Fit for 55; fino al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)
So
che nel maggio 2022 ha stanziato 723,8 miliardi per finanziare la ripresa del-
by
sioni zero al 2050; un importo suddiviso tra prestiti (385,8 miliardi di euro)
ht
Certo, manca ancora molto per definire una politica economica comu-
yr
ne, a partire dalla costituzione di un solido bilancio europeo, alle linee di una
op
162
menti intensivi solo il 2% in Italia!); infine si è trovato isolato nel rifiuto del
Regolamento per vietare la vendita di veicoli alimentati da benzina o diesel
dal 2035 e si è astenuto. Tanto da provocare una reazione pubblica del vice-
presidente Timmermans che in italiano ha dichiarato che il popolo italiano è
più incline alla decarbonizzazione del suo governo. Ciò si aggiunge al rifiuto
sul Mes, altrettanto inspiegabile in termini economici.
e
or
L’Italia non può interrompere il percorso ora
ut
l’a
Con benevolenza, questi voti contrari di minoranza si spiegano con l’assen-
r
za di una visione sostanziale e sistemica per utilizzare il Pnrr nella transizio-
pe
ne ecologica (una visione che caratterizzò invece l’utilizzo dei fondi del Piano
ia
Marshall nel dopoguerra). Vi si legge soprattutto la mancanza di un’agenda
op
U ’
di priorità per il Paese, una bussola da seguire per l’attuazione della transi-
n
agen
zione energetica. L’urgenza è oggi, nelle scelte per il Pnrr.
o.
Ben venga dunque l’esigenza di analizzare perimetro e contenuti di
in
d
ul
a
una possibile agenda. È questo il contributo che possono dare gli studiosi, gli
energeticaper
M
economisti, i giuristi, riuniti ad esempio nella Rosa Rossa, con gli operatori
il
uno schema semplificato degli assi portanti intorno ai quali registrare inter-
ic
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l
’I
Se partiamo dai punti di forza del Paese per decarbonizzare la crescita, ne
à
talia
et
identifico due da valorizzare nella transizione. Il primo è quello che gli eco-
ci
gli scambi nel Mediterraneo, divenuto ancor più centrale dopo che la guer-
ht
ig
ra ha bloccato le vie di terra del Nord. Ricordo tra gli esempi che la Cina ha
yr
163
dopo l’azzeramento del gas russo. Il gasdotto (GasMed) si potrà connettere a
quelli esistenti e/o si affiancherà ai rigassificatori che si inseriscono nella lo-
gistica dei rigassificatori europei (in Italia sono diventati 5, di cui due navi di-
sponibili in tempi relativamente brevi, la Golar Tundra a Piombino con 5 mi-
liardi di metri cubi di capacità e la Bv Singapore a Ravenna). La struttura di
trasporto del gas risulta così adeguata, rafforzando le dorsali di Snam che at-
traversano il Paese da Sud a Nord. Una potenzialità a parte è quella relativa
all’adattamento dei gasdotti per l’eventuale trasporto futuro di idrogeno ver-
e
de, oggi allo studio. Le fonti rinnovabili richiedono invece un rafforzamento
or
delle infrastrutture elettriche esistenti, con forti sinergie nell’indotto sul ter-
ut
ritorio delle regioni meridionali.
r l’a
pe
Come nel dopoguerra, gli investimenti vanno registrati intorno
ia
ai punti di forza del Paese nella sinergia tra pubblico e privati
op
C
Sempre dalla centralità nel Mediterraneo deriva la forza dello snodo dei
o.
commerci verso l’Europa; implica il passaggio dalla gomma al mare in linea
in
ermini
ul
con l’esigenza di ridurre le emissioni dei trasporti, comporta il rafforzamen-
M
na-Trieste) e la connessione via terra del trasporto delle merci tramite la rete
aleria
e
ed
ca del Paese. Fra tutte ricordo tre esempi di maggiore dimensione: uno, a Ca-
op
164
I pannelli solari risultano così composti da due tecnologie combinate
(con silicio cristallino e silicio amorfo a film sottile); i moduli sono composti
da tre strati di materiale fotovoltaico, dei quali il primo, esterno, è di silicio
amorfo e cattura la luce solare, il secondo, in silicio monocristallino, trasfor-
ma la luce solare in elettricità, il terzo, a film sottile, è in grado di catturare
i fotoni rimanenti. Ciò consente di raccogliere più energia e aumentare l’effi-
cienza energetica di almeno il 25%. La potenza elettrica dei moduli Hjt, sale
di fatto tra i 370 W a 400 W per pannello, con un notevole miglioramento ri-
e
spetto alla potenza di 140 W del modello a film sottile. Può contribuire inol-
or
tre alla costruzione di una catena del valore integrata in Europa, dal polisi-
ut
licio al modulo. I nuovi moduli prodotti nella fabbrica di Catania sono meno
l’a
costosi, hanno una durata di vita attiva di circa 25 anni e tutto ciò rende i
r
pe
pannelli solari competitivi con la produzione cinese.
Il secondo esempio di innovazione di frontiera è in Veneto. È la spe-
ia
rimentazione nel trasporto di merci via terra non inquinante della Hyperlo-
op
U ’
opTT: minimizzando l’attrito dell’aria questa tecnologia consente il trasporto
n
agen
dei container a una velocità molto elevata, riducendo drasticamente l’inqui-
o.
in
namento perché alimentata da fonti rinnovabili. All’interno di un tubo, le
d
ul
a
capsule pressurizzate viaggiano fino a 1.223 chilometri orari per il trasporto
energeticaper
M
l
Unificare il Paese nella complementarietà
’I
à
talia
et
gnetico. La fisica spiega che nel processo di fusione due atomi leggeri, come
gli isotopi dell’idrogeno (deuterio e trizio) possono superare le loro forze re-
pulsive e fondersi, dando origine a un elemento più leggero della somma dei
due atomi iniziali, l’elio; la reazione libera energia, eliminando i rischi della
fissione. Ma la sfida più difficile oggi, ancora da superare, è quella di genera-
re una quantità di energia sufficientemente superiore a quella utilizzata nel-
la fusione.
165
Le due chiavi di volta per orientare la transizione sono unificare il Pa-
ese nella complementarietà tra Nord e Sud dei progetti di infrastrutturazione
e attivare la partecipazione locale. Il rischio è la frammentazione degli inter-
venti. Lo scempio è l’utilizzo dei fondi del Pnrr, il loro sperpero, in una nuvo-
la di azioni «casuali»; poiché i singoli interventi richiedono una regia, una vi-
sione strategica che delinei dove si immagina il Paese tra un decennio e dove
lo si vuole portare. È il compito specifico della politica, con il supporto dei
tecnici che la politica riesce ad attivare nel Paese.
e
Il pericolo è che in assenza di una strategia del governo e del Parla-
or
mento, pressati dalla richiesta della Commissione europea per rimanere en-
ut
tro tempi ragionevoli e programmati nell’uso del Pnrr, parte dei fondi sia re-
l’a
spinta al mittente; oppure che i fondi siano affidati a «chi sa spendere», come
r
pe
invocato da alcune regioni rette da burocrazie più manageriali, che certo han-
ia
no la competenza per utilizzare i finanziamenti nel loro territorio, in assen-
op
za di una strategia nazionale. Ma questa scelta implica che si rinunci a priori
C
all’effetto moltiplicatore straordinario – sociale ed economico – che una stra-
o.
tegia nazionale promette oggi dalla transizione ecologica, in così larga parte
in
finanziata dall’esterno, un «dono» prezioso e tempestivo da non disperdere.
ermini
ul
M
nella storia, come avvenne già una volta nel decennio di trasformazione so-
ci
ruotare gli interventi del Pnrr previsti per la transizione ecologica. Il primo è
ht
2026 delle società di rete, Snam e Terna in particolare per le reti elettriche e
il trasporto del gas; devono essere funzionali alla diffusione locale delle fonti
rinnovabili distribuite e alla connessione dei numerosi esempi di innovazio-
ne tecnologica sperimentati e attivi in ogni angolo del Paese; sono incorpo-
rati in aziende che si muovono sulla frontiera tecnologica del settore energe-
tico-digitale; le infrastrutture devono consentire loro di essere connesse per
fare sistema, accentuarne il valore aggiunto e creare un ecosistema favore-
166
vole alla crescita sinergica dei territori e del lavoro, dei servizi: un elenco fit-
to e disponibile.
Insieme ai punti di forza evidenziati sopra, questa visione dello svilup-
po del Paese si contrappone totalmente a quella delle «autonomie differen-
ziate» avanzata oggi dal governo; al contrario, valorizza le sinergie che si at-
tivano tra le diverse regioni a beneficio del Paese con un piano strategico che
connetta i punti di forza delle regioni meridionali a quelle centro-settentrio-
nali nella transizione ecologica di industria e servizi sostenuta dall’Unione
e
europea. Sicilia e Sardegna acquisiscono un ruolo chiave nelle dinamiche at-
or
tive per il Mediterraneo.
ut
r l’a
Il secondo obiettivo politico-sociale è attivare
pe
la partecipazione della popolazione alla transizione
ia
ecologica nei territori
op
U ’
C
n
agen
La partecipazione della popolazione alla transizione ecologica nei territori
o.
locali con le Cer (Comunità energetiche rinnovabili) è il secondo obiettivo
in
d
ul
a
politico-sociale da perseguire con i fondi del Pnrr. Su tutto il territorio na-
energeticaper
M
l
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talia
et
tale. I contatori intelligenti sono già disponibili per consentire in tempo rea-
So
Pnrr sono stanziati 2,2 miliardi per contributi a fondo perduto ai comuni sot-
to i cinquemila abitanti e contributi per tariffe incentivanti per tutti. È essen-
ziale attivare questo percorso che da tempo coinvolge le aspettative dei cit-
tadini, e dei comuni, anche per consentire loro di promuovere un risparmio
sul costo energetico.
167
La visione strategica che sottende questi due assi portanti, incentrata sul ruo-
lo delle grandi imprese di settore a partecipazione pubblica e su una moltitu-
dine di medie attività imprenditoriali straordinariamente innovative, si avvi-
cina a quella che portò l’Italia al boom economico del dopoguerra, attraverso
un uso sinergico da parte dell’impresa pubblica e privata dei fondi del Piano
Marshall negli anni Cinquanta.
Si tratta di una visione intorno alla quale coagulare le forze del sinda-
cato e dell’opposizione. Può guidare l’opposizione in un modello economico
e
che unisce il Paese, in contrasto con la frammentazione proposta dal gover-
or
no, facendo leva sui punti di forza dell’Italia.
ut
Perdere questa possibilità nelle piccole contrapposizioni di governo
l’a
è un crimine perpetrato, a tutti noi, ai nostri figli e alle generazioni future.
r
pe
Tutte le parti politiche ne sono coinvolte. Sarebbe lo spreco di una occasio-
ne straordinaria che trova la popolazione e le imprese pronte ad agire dopo
ia
il sonno forzato imposto dalla pandemia. O, peggio, il pericolo è l’intercetta-
op
zione dei circuiti finanziari da parte di bande malavitose che si insinuano nei
C
percorsi della corruzione diffusa approfittando dell’assenza di una regia e di
o.
in
controlli sistematici della spesa che ne valutino l’adesione anche capillare a
ermini
ul
un piano nazionale.
M
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168
Che succede a destra / 1
L’ASCESA
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ELLE ONNE
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NELLA ESTRA
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MANUELA CAIANI
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E FE ERICO
D
STEFANUTTO ROSA
169
adri della azio e, femo azio aliste, amazzoni, donne di ferro, capita-
e
or
M
n
n
n
n
ne e perfino mamme grizzly. Sono stati coniati gli epiteti più svariati per cer-
ut
care di catturare la loro identità politica cangiante, propria di quel camale-
l’a
ontismo che il politologo Paul Taggart definisce come carattere fondante del
r
pe
populismo contemporaneo (cfr. Populism, Open University Press, 2000). Par-
ROSA
liamo delle donne della destra radicale, soggetto misterioso ancora poco stu-
ia
diato (salvo i singoli casi più noti), ma sempre più protagoniste all’interno
op
tefanutto
delle loro organizzazioni e delle arene politiche occidentali. In Italia ci siamo
C
resi conto plasticamente della loro rilevanza con l’ascesa di Giorgia Meloni,
o.
prima premier donna nella storia della Repubblica italiana, la cui leadership
in
ul
carismatica è paradossalmente sbocciata in una famiglia politica che si è for-
S
M
erico
giata nel culto dell’uomo forte e dell’ostentazione della virilità.
il
Meloni, ma non solo. Sono infatti molte altre le donne arrivate al ver-
e
F d
tice dei partiti di destra radicale in Occidente e che, in alcuni casi, hanno rag-
ic
e
itr
giunto ruoli di primo piano nelle istituzioni, spostando sempre più a destra il
e
aiani
ed
et
anuela
radicale sono stati tradizionalmente definiti dagli studiosi come Männerpart-
ci
uomini (C. Mudde, Populist Radical Right Parties in Europe, Cambridge Uni-
M
by
versity Press, 2007). Al contempo, si ritiene che i successi elettorali della de-
©
mel (cfr. Angry White Men: American Masculinity at the End of an Era, Nation
op
170
sm and Gender, Transcript Verlag, 2020). Tuttavia, descrivere questi partiti
come club per soli uomini non corrisponde più alla realtà. Il graduale sdoga-
namento delle organizzazioni di destra radicale ha infatti aperto al loro in-
terno nuove opportunità politiche per le donne, la cui presenza è diventata
fondamentale per allontanarsi da un’immagine tossica di «attivismo delle te-
ste rasate» tutto al maschile, tipicamente riconducibile alle componenti più
estremiste.
e
Il graduale sdoganamento delle organizzazioni di destra
or
radicale ha aperto al loro interno nuove opportunità politiche
ut
l’a
per le donne
r
pe
Nel percorso di legittimazione delle destre radicali, le donne hanno così as-
L’
ascesa
ia
sunto un protagonismo sempre maggiore, arrivando, in diversi casi, fino al
op
vertice dell’organizzazione (cfr. Tabella). Si tratta di figure rilevanti che me-
C
ritano di essere analizzate per comprendere più in profondità il nuovo volto
d
o.
elle
di questi partiti.
in
ul
d
Mappatura delle donne leader dei partiti di destra radicale che in Europa occidentale a partire
onne
M
dal 2000 hanno ottenuto rappresentanza politica in almeno un’elezione generale (Camera bassa)
oppure in un’elezione europea
il
nella
e
Austria Susanne Riess (2000 - 2002) Partito della Libertà Austriaco (Fpö)
d
ed
estra
Ursula Haubner (2004 - 2005) Partito della Libertà Austriaco (Fpö)
Johanna Trodt Limpl (2015 - 2017) Alleanza per il Futuro dell’Austria (Bzö)
à
et
ra
D
(1995 - 2012) Partito del Popolo anese ( f)
ci
d
D
D
icale
Pernille Vermund (2015 - oggi) Nuovi Borghesi (Nye)
So
D
yr
171
dello di celebrity leadership che caratterizza le figure politiche in grado di cre-
are consenso attraverso il linguaggio e i canoni comunicativi dello star system
(D. Campus, Celebrity Leadership: quando i leader politici fanno le star, «Comu-
nicazione Politica», n. 2/2020). Ne è un esempio lampante la copertina che,
nell’estate 2020, il settimanale «Novella 2000» ha dedicato a Giorgia Melo-
ni: la leader di Fratelli d’Italia si fa immortalare mentre prende il sole con in-
dosso un costume a tema bandiera italiana, declinando in chiave nazionalpo-
polare il suo orientamento nazionalista. La sirena tricolore, recita il titolo del
e
magazine («Novella 2000», n. 34, 12.8.2020), aggiungendo così un ulterio-
or
re tassello alla strategia di popolarizzazione della sua leadership dopo il suc-
ut
cesso di qualche mese prima della hit musicale Io sono Giorgia. Inizialmente
l’a
concepita come remix satirico della retorica anti-Lgbt di Meloni, la canzo-
r
pe
ne si è in poco tempo rivelata un involontario assist musicale alla leader di
ROSA
Fratelli d’Italia che, con abilità, ne ha fatto un inno da intonare in ogni dove,
ia
dai salotti televisivi alle adunate di piazza. Così, le parole identitarie di Me-
op
tefanutto
loni si sono tramutate in un ritornello accattivante cantato da tutti e ovun-
C
que: odiatori e ammiratori, grandi e piccini, alle feste di compleanno e nel-
o.
le discoteche. in
ul
S
M
erico
Le leader della destra radicale sanno coltivare
il
e
ic
e
itr
e
aiani
ed
et
anuela
National è riuscita a rendere più accettabile la percezione della destra radi-
ci
lizzazione esasperata della sua figura. Alle elezioni presidenziali del 2012, si
M
by
colore blu scuro della divisa della marina militare con il suo nome di battesi-
ht
ig
«chi non si riconosce nel lepenisme può essere invece sedotto dal marinisme»
C
(L. Sini, Il Front National di Marine Le Pen. Analisi del discorso neofrontista, Ets,
2017, p. 83).
In un dépliant elettorale stampato in cinque milioni di copie per rac-
contarsi senza filtri ai francesi, in occasione delle presidenziali del 2017, Le
Pen si mostra in molteplici vesti: in abbigliamento sportivo mentre passeg-
gia sulla spiaggia, in sella a un cavallo, in posa sui gradini dell’Eliseo, al ti-
mone di una barca e ospite di un popolare salotto televisivo (Dépliant Marine
172
Présidente, Elezioni presidenziali 2017). E, sempre in questo turno elettora-
le, confeziona uno spot tutto incentrato su se stessa che in brevissimo tempo
ha superato il milione di visualizzazioni e in cui si descrive come «una don-
na, una madre, un avvocato, ma se dovessi definirmi nel profondo direi sem-
plicemente che sono intensamente, fedelmente, fieramente ed evidentemen-
te francese» (Clip de campagne officiel Marine 2017, 5.2.2017). Una formula che
rafforza il processo di costruzione di un’identità stratificata tipica di molte le-
ader della destra radicale e che anticipa proprio il celebre tormentone melo-
e
niano: «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana» (G.
or
Meloni, Discorso alla manifestazione del centrodestra, 19.10.2019).
ut
In questo modo, attraverso una narrazione pop che fa leva sulla loro
l’a
identità di genere, le donne della destra radicale riescono in parte a norma-
r
pe
lizzare l’immagine dei loro partiti, rendendola meno respingente e più attrat-
L’
tiva agli occhi dell’elettorato.
ascesa
ia
op
C
In animarca la destra radicale è cresciuta nel segno di una
d
o.
elle
D
donna, Pia Kjærsgaard, che ha esercitato la sua leadership
in
mischiando carità e intransigenza
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M
il
Oltre ai casi più conosciuti di Meloni e Le Pen, altre leader hanno persegui-
nella
e
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estra
esi. In Norvegia, Siv Jensen, leader della destra radical-populista del Partito
del Progresso, è riuscita a spezzare il cordone sanitario che isolava la sua
à
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ra
organizzazione, accreditandola come partner di governo nella coalizione di
ci
d
centrodestra. Jensen ha così ricoperto la carica di ministra delle Finanze dal
icale
So
2013 al 2020, un ruolo che, in un Paese con il Pil pro capite tra più elevati di
by
2021, dopo quindici anni ininterrotti, ha lasciato la guida del partito a Sylvi
Listhaug, altra influente donna della destra radicale norvegese che da mini-
ht
ig
stra dell’Immigrazione si è distinta per la sua linea dura sulle politiche d’ac-
yr
coglienza.
op
di una donna: Pia Kjærsgaard, leader del Partito del Progresso Danese dal
1985 al 1995 e successivamente fondatrice del Partito del Popolo Danese, che
ha guidato dal 1995 al 2012. Con un passato da assistente domiciliare per an-
ziani, Kjærsgaard ha costruito una efficace analogia tra la dedizione che ca-
ratterizza il suo mestiere e il suo impegno politico. È nato così il fortunato
slogan «un’assistenza domestica per la Danimarca», che segna la sua ascesa
nella seconda metà degli anni Novanta. Mamma Pia, come è soprannominata
173
all’interno del suo partito, ha coltivato la sua leadership attraverso una biz-
zarra miscela di carità e intransigenza. Da una parte, c’è la premurosità ma-
terna verso i danesi più in difficoltà, per i quali si fa promotrice di politiche
welfariste, dall’altra invece c’è il pugno di ferro verso i migranti, ai quali è ri-
servato un trattamento di seconda classe.
Questo orientamento politico, ribattezzato dagli studiosi sciovinismo
del benessere (cfr. J.G. Andersen e T. Bjorklund, Structural Changes and New
Cleavages: the Progress Parties in Denmark and Norway, «Acta Sociologica», Vol.
e
33, n. 3/1990), ha rappresentato la chiave del suo successo. Attraverso l’ap-
or
poggio esterno a diversi governi di minoranza del centrodestra, Kjærsgaard
ut
è riuscita a condizionare l’agenda delle riforme spostando decisamente a de-
l’a
stra il Paese sui temi dell’accoglienza e dell’integrazione. Nel 2015, a corona-
r
pe
mento della sua carriera politica, ha conquistato l’ambito scranno di presi-
ROSA
ia
un’altra leadership femminile nella destra radicale populista; quella di Per-
op
tefanutto
nille Vermund, fondatrice e leader dei Nuovi Borghesi, partito contraddistin-
C
to da una piattaforma che tiene insieme nativismo e populismo antifiscale
o.
in
(cfr. P. Borioni, La Nuova Destra Nordica: una questione europea, «Italianieuro-
ul
pei», n. 4/2016). Nella sua comunicazione, Vermund segue logiche più simi-
S
M
erico
li a quelle di una influencer che di un rappresentante pubblico. Sul suo profi-
il
lo Instagram i contenuti a tema politico sono quasi del tutto assenti, mentre
e
F d
ic
Allo stesso modo in Finlandia, alle elezioni presidenziali del 2018, il parti-
C
et
anuela
to di destra radicale dei Veri Finlandesi ha scelto di puntare sul volto nuo-
ci
che si è classifica terza nella corsa per la massima carica del Paese. Nel 2021
M
by
la leadership del partito è stata affidata alla ricercatrice Riikka Purra che in
©
Una volta assunta la leadership del partito, Purra ha costruito con estrema
op
cura e abilità la sua immagine, dedicando grande attenzione alla sua narra-
C
zione sui social media. In particolare, le sue invettive contro la sinistra fin-
landese, condivise soprattutto su TikTok, le hanno permesso di affermarsi
come una leader combattiva e credibile nel campo conservatore. Mentre su
Instagram ha scelto di lasciare fuori la politica, privilegiando il racconto pri-
vato della sua vita e dispensando scatti, suggerimenti e ricette della sua ali-
mentazione salutista e vegetariana alla stregua di una food blogger. Così, tra
174
dimensione pubblica e quotidianità familiare, Purra ha creato una leadership
«a due facce» che ha consentito ai Veri Finlandesi di ottenere il risultato più
alto della loro storia: il 20% dei consensi alle elezioni parlamentari del 2023.
e
tica del Paese. A spiazzare l’opinione pubblica tedesca è stato il contrasto tra
or
la sua immagine rassicurante da business woman e la radicalità della sua piat-
ut
taforma politica. I quotidiani socialisti e liberali hanno accusato Petry di ri-
l’a
portare il terrore nella politica tedesca, mascherando con la sua immagine
r
pe
i pericoli derivanti dall’ascesa dell’AfD (cfr. Frau Dr. Seltsams Lachen, «Der
L’
Freitag», 5.8.2016). Dopo che Petry ha abbandonato il partito in polemica
ascesa
ia
con una svolta eccessivamente estremista, è stato il turno di Alice Weidel che
op
ha prima ricoperto la prestigiosa carica di portavoce del gruppo parlamenta-
d
re della AfD nel Parlamento federale tedesco e, dal 2022, è diventata co-lea-
o.
elle
in
der del partito. Weidel riassume tutto quello che la destra populista dovreb-
ul
d
be, in teoria, vedere come fumo negli occhi: una carriera sfavillante nei più
onne
M
nella
e
ic
origini srilankesi insieme alla quale ha adottato due bambini. È però riusci-
itr
d
ed
estra
nel partito come la prova che l’AfD, a differenza di quanto emerge dal raccon-
à
ra
ci
d
icale
So
liera e nuovo capo del partito l’europarlamentare Susanne Riess, con l’inten-
to di favorire, attraverso la novità di una donna al comando, la legittimazio-
ne istituzionale della destra radicale austriaca.
Se poi si vuole allargare lo sguardo oltre l’Europa, non si può non cita-
re la figura di Sarah Palin, ex governatrice dell’Alaska e candidata vicepresi-
dente per il Partito repubblicano alle elezioni del 2008. Palin, con la sua re-
torica anti-élite, ha portato sulla scena politica americana un preludio del
175
trumpismo. Autodefinitasi «mamma grizzly» (come l’orso simbolo del suo
Stato), è riuscita attraverso questo soprannome a costruire una rappresen-
tazione che tiene insieme mascolinità e femminilità, aggressività e protezio-
ne. Mentre in Israele è emersa la leadership femminile di Ayelet Shaked, tra
le esponenti più in vista del partito ultranazionalista della Casa Ebraica e in
seguito leader dell’alleanza delle destre di Yamina, che è stata ministra della
Giustizia dal 2015 al 2019 e dell’Interno dal 2021 al 2022.
e
Al netto delle differenze di percorso e delle peculiarità nazionali, è senza
or
dubbio possibile individuare delle caratteristiche comuni a queste leader che
ut
aiutano a spiegare i motivi del loro successo e il loro ruolo nei partiti della de-
l’a
stra radicale. Innanzitutto, si autorappresentano come donne controcorrente
r
pe
(À contre flots è, non a caso, il titolo dell’autobiografia di Marine Le Pen, uscita
ROSA
in Francia per Granchet nel 2006). Coltivano così un’immagine di leader par-
ia
tite da sfavorite che, contro ogni pronostico, sono riuscite a emergere in un
op
tefanutto
ambiente a loro ostile. Nel racconto della loro ascesa, enfatizzano gli ostacoli
C
e le difficoltà che hanno dovuto sconfiggere, in quanto donne che hanno sca-
o.
in
lato organizzazioni tutte al maschile e in quanto esponenti della destra radi-
ul
cale all’interno di un sistema istituzionale e culturale che le ha isolate. Nella
S
M
erico
loro retorica è presente una vera e propria mitizzazione della traversata che
il
ic
zazione con la loro storia da underdog, per utilizzare l’espressione con cui si
à
è definita Giorgia Meloni nel suo primo discorso da premier. Questo paradig-
C
et
anuela
ma è una costante della loro comunicazione. È presente nell’autobiografia di
ci
Meloni in cui viene esaltato il suo percorso da militante di destra che si è fat-
So
by
Marine Le Pen, che si racconta come una outsider che, sia fuori sia all’inter-
ig
zio per affermare la sua leadership. Allo stesso tempo, anche le leader nei Pa-
op
donne della destra radicale in sistemi politici fiori all’occhiello del socialismo
e del femminismo.
176
ne con le politiche iperconservatrici dei propri partiti. Eppure, questa diver-
genza non scalfisce la loro credibilità ma, anzi, in molti casi si trasforma in
un elemento di forza perché permette alla destra radicale di mantenersi sul
labile crinale dell’ambiguità in materia di diritti civili e politiche della fami-
glia. Grazie all’immagine delle proprie leader, questi partiti creano uno scu-
do reputazionale utile a difendersi dalle accuse di voler riportare indietro le
lancette della storia. La presenza al vertice di donne battagliere e indipen-
denti permette infatti di respingere le accuse di maschilismo, nonostante le
e
loro politiche rimangano in realtà incentrate sulla difesa del ruolo tradizio-
or
nale della donna nella sfera familiare. «Ho sentito dire che io vorrei le donne
ut
un passo dietro agli uomini, mi guardi, le sembra che io stia un passo dietro
l’a
agli uomini?», ha sostenuto Meloni, presentando la sua figura di leader come
r
pe
prova suprema del sostegno di Fratelli d’Italia alla parità di genere (G. Melo-
L’
ni, Discorso alla Camera dei deputati, 25.10.22).
ascesa
ia
op
I partiti della destra radicale traggono infine beneficio dall’immagine delle
d
proprie leader elevandole a simbolo delle campagne anti-Islam. Questa stra-
o.
elle
in
tegia politica che la sociologa Sara Farris definisce femonazionalismo (S.R.
ul
d
Farris, Femonazionalismo, Alegre, 2019) consiste nella strumentalizzazio-
onne
M
nella
e
ic
le leader della destra radicale che nella propria comunicazione giocano sul
itr
contrasto tra la loro figura di donne libere e quella delle donne musulmane
d
ed
estra
rappresentate come soggiogate dai propri padri o mariti.
à
et
ra
ci
d
Le leader di estrema destra strumentalizzano
icale
So
di un orientamento islamofobo
©
la sua adesione all’AfD in quanto, secondo il suo punto di vista, sarebbe l’u-
C
177
abdicato al loro ruolo di protettrici dei diritti delle donne in nome del multi-
culturalismo:
e
Controcorrente, I libri del Borghese, 2011).
or
ut
Soffiando sulla paura dell’immigrazione, i partiti della destra radicale sono
l’a
quindi riusciti ad attrarre in maniera crescente i voti dell’elettorato femmini-
r
pe
le che oggi costituisce una porzione sempre più rilevante della propria base di
ROSA
ia
elettorale maschiocentrico che ha storicamente caratterizzato questa fami-
op
tefanutto
glia politica (cfr. N. Mayer, The Closing of the Radical Right Gender Gap in Fran-
C
ce?, Centre d’ tudes europ ennes de Sciences Po, 2015).
o.
é
é
in
Stiamo così assistendo a un’importante trasformazione della destra
ul
radicale che vede le donne sempre più protagoniste in ruoli a forte esposizio-
S
M
erico
ne mediatica ma anche sempre più inclini a votare per questi partiti. La sta-
il
gione dei Männerparteien è oramai finita e oggi per la destra radicale è sem-
e
F d
ic
et
anuela
ci
So
M
by
©
ht
ig
yr
op
C
178
Che succede a destra / 2
FRATELLI D’ITALIA
e
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NEI CONSIGLI
rl’a
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REGIONALI
ia
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C
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itr
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op
GIANLUCA
C
PICCOLINO E
SOFIA MARINI
179
La vittoria di Frate i d’ ta ia (Fd ) e di Giorgia Meloni alle ultime elezio-
e
or
ll
I
l
I
ni politiche può essere considerata a buon diritto come l’affermazione di un
ut
preciso milieu. Il partito è infatti legato a doppio filo con la storia del Movi-
l’a
mento sociale italiano e della sua evoluzione in Alleanza nazionale, forma-
r
pe
zioni nelle quali si è formata la maggioranza della classe dirigente di FdI, seb-
bene diversi tópoi della destra radicale populista europea, non appartenenti
ia
a questa tradizione politica, siano stati aggiunti nel corso del tempo al baga-
op
arini
glio ideologico di Fratelli d’Italia (si veda L. Puleo e G. Piccolino, Back to the
C
Post-Fascist Past or Landing in the Populist Radical Right? The Brothers of Italy
o.
M
ofia
Between Continuity and Change, «South European Society and Politics», vol.
in
ul
25, n. 1/2022).
S
M
e
Nato alla fine del 2012 come una scissione dal Popolo delle Libertà
iccolino
il
to di Meloni è cresciuto lentamente nei primi anni della sua storia per poi be-
ic
itr
neficiare di una brusca crescita di consensi nel biennio precedente alle ultime
P
ed
ianluca
elezioni politiche. Le cause di questa affermazione storica saranno un tema
à
ponente fondamentale per ogni partito italiano: il ceto politico nelle regioni.
So
In particolare, ci siamo chiesti in che misura FdI abbia cresciuto al suo inter-
by
ta elettorale.
ig
yr
180
Nonostante la letteratura sulle caratteristiche e i percorsi di carriera
delle élite politiche si concentri prevalentemente sul livello nazionale (o, più
raramente, sovranazionale), non mancano analisi sub-nazionali. Questi stu-
di analizzano principalmente gli scambi fra livelli di governo, non solo dal
punto di vista formale ma anche attraverso ricostruzioni dinamiche dei mo-
vimenti che avvengono fra essi. Un possibile approccio è dunque adottare il
concetto di multilevelness come rapporto fra le spinte centrifughe e centripe-
te presenti all’interno del sistema: misurando cioè quanto la sfera politica na-
e
zionale sia più appetibile rispetto a quella sub-nazionale (o viceversa) per lo
or
sviluppo di una carriera politica (cfr. K. Stolz, Moving up, moving down: Poli-
ut
tical careers across territorial levels, «European Journal of Political Research»,
l’a
vol. 42, n. 2/2003). Così facendo, è possibile ricostruire una tipologia dei mo-
r
pe
delli di carriera nei sistemi politici multilivello (J. Borchert, Individual Ambi-
tion and Institutional Opportunity: A Conceptual Approach to Political Careers in
ia
F
Multi-level Systems, «Regional & Federal Studies», vol. 21, n. 2/2011). Talvol-
op
ratelli
ta il cursus honorum procede linearmente dal livello locale a quello regionale
C
per raggiungere la sfera politica nazionale (pattern unidirezionale – possibile
o.
d
in
anche dal livello nazionale verso quello locale); in altri casi i livelli sono au-
’I
talia
ul
tonomi e non comunicanti, per quanto ugualmente ambiti (pattern alterna-
M
nei
il
cui manca una chiara gerarchia fra livelli, facendo sì che le carriere politiche
C
e
onsigli
ic
regionali
L’acquisizione di competenza è funzionale non solo
à
et
zazione delle identità regionali, che andrebbe a creare arene politiche regio-
nali più salienti, e il grado di istituzionalizzazione delle legislature regionali,
che ne aumenterebbe l’attrattiva rispetto a quelle nazionali (si veda il capito-
lo «Sub-national political élites» di Filippo Tronconi, all’interno del Palgrave
Handbook of Political Elites, Routledge, 2018).
Queste prospettive, tuttavia, adottano un punto di vista individuale
nel cercare di spiegare lo sviluppo di una singola carriera politica. Borchert
181
suggerisce che tali scelte si basino prevalentemente sulla disponibilità, acces-
sibilità e attrattiva della carica in questione. Ciò è senz’altro essenziale per
spiegare chi viene reclutato nelle élite del partito e come i partiti stessi se-
lezionino le proprie candidature. Ma non ci concentreremo sul piano indivi-
duale, bensì guarderemo al livello aggregato attraverso lo studio della carrie-
ra politica dei rappresentanti regionali.
Dal punto di vista di un partito politico, il livello regionale rappresen-
ta una sfida per quanto riguarda la sua inclusione nelle strutture organizza-
tive e la sua relazione con il livello centrale, ma fornisce anche l’opportunità
e
or
di formare e reclutare personale politico competente e leale. Poiché infatti gli
ut
interessi e le ambizioni individuali sono influenzate dalle proprie esperien-
l’a
ze pregresse e condizioni sociali, poter reclutare una classe politica valida e
r
pe
fedele è vitale per le prospettive di un partito. L’arena regionale contribuisce
infatti alla socializzazione e professionalizzazione di figure politiche emer-
ia
genti, che potrebbero proseguire la loro carriera nelle istituzioni o negli or-
op
arini
gani direttivi partitici.
C
o.
M
ofia
in
Studiare le dinamiche di carriera delle élite politiche è cruciale
ul
per comprendere il grado di istituzionalizzazione di un partito
S
M
e
iccolino
il
ed
ianluca
– per quanto riguarda le risorse finanziarie, la centralizzazione e la prevalen-
à
co. Si può osservare un’evoluzione di tali caratteristiche nel corso del tempo?
ci
G
So
delle province autonome in carica al 15 aprile 2023, a partire dai dati ricavati
op
dai siti internet delle istituzioni attraverso una pluralità di fonti – pagine uf-
C
ficiali dei gruppi, resoconti delle assemblee, rendiconti dei gruppi consiliari,
Anagrafe degli amministratori locali e regionali e Archivio elettorale del mi-
nistero dell’Interno. In questa prima analisi, ci siamo concentrati sull’origine
elettorale dei 130 consiglieri presenti nei gruppi di FdI dividendoli in due ca-
tegorie: chi è stato eletto all’interno delle liste di Fratelli d’Italia e chi invece,
pur essendo stato eletto in altre liste elettorali, è trasmigrato in FdI nel cor-
so della consiliatura.
182
Questi dati ci dicono che i consiglieri eletti in altre liste sono 14 su 130,
ossia il 10,7% del totale. Se tale cifra può apparire relativamente contenuta,
occorre tuttavia considerare che i quattro consigli regionali che portano in
dote il maggior numero di consiglieri a Fratelli d’Italia – Lazio, Lombardia,
Sicilia e Friuli-Venezia Giulia – sono stati rinnovati nell’ultimo anno. In altri
termini, si tratta di consigli di recente insediamento dove i «riposizionamen-
ti» tra gruppi consiliari non sono ancora avvenuti. Non casualmente, i gruppi
di FdI in queste regioni non hanno al loro interno alcun consigliere eletto in
e
altre liste. Tuttavia, analizzando i consigli di queste regioni alla scadenza del-
or
la precedente consiliatura, possiamo notare come i gruppi di FdI non siano
ut
stati affatto immuni dal trasformismo, in specie negli ultimi anni delle consi-
l’a
liature. Sia nel Lazio sia in Lombardia i gruppi di FdI avevano al loro interno
r
pe
quattro consiglieri provenienti da altre liste e solo due «autoctoni», mentre
in Friuli-Venezia Giulia si assisteva a un pareggio tra due consiglieri eletti con
ia
F
FdI e due aggiunte esterne. Nessun «trasmigrato», invece, nel gruppo all’As-
op
ratelli
semblea regionale siciliana.
C
Nei gruppi di Fratelli d’Italia presso Camera e Senato alla fine del-
o.
d
in
la passata legislatura, i transfughi da altre liste erano 13, ossia il 21,3% del
’I
talia
ul
totale dei parlamentari di FdI. Di questi, circa la metà – 7 su 13 – prove-
M
niva dalle liste del Movimento 5 Stelle, mentre i restanti erano stati elet-
nei
il
ti nel centrodestra. Nei consigli regionali, sette transfughi sono stati elet-
C
e
onsigli
ic
ti nella Lega, tre in Forza Italia, tre in liste locali di centrodestra e solo uno
itr
i gruppi parlamentari sia quelli regionali, tra i primi è stato rilevante l’ap-
regionali
à
no al centrodestra.
So
Basilicata sono stati eletti in altre liste. L’unico consigliere eletto dal par-
ht
Lega, per poi fondare un altro gruppo ancora. Una situazione simile si ritro-
yr
va dall’altra parte del Paese. Nella provincia autonoma di Trento, FdI ave-
op
va raccolto alle elezioni del 2018 un misero 1,45%, non sufficiente a ottene-
C
re alcun seggio. Oggi può invece contare su tre esponenti, due provenienti
dalla Lega e uno da una lista locale.
Infine, una nota sull’eguaglianza di genere. Attualmente FdI può
contare su 32 consigliere regionali, pari al 24,6% del totale. Si tratta di un
dato in linea con quello fornito dal ministero dell’Interno nella sua Anagra-
fe degli amministratori locali, che valuta in poco meno di un quarto la pro-
porzione femminile all’interno dei consigli regionali.
183
Abbiamo poi esplorato più in profondità i dati degli eletti nelle liste di
FdI a seconda dei loro incarichi elettorali, nazionali o locali, occupati nei cin-
que anni precedenti le elezioni per il consiglio regionale. Più in particolare,
abbiamo preso in considerazione l’affiliazione partitica al momento dell’ele-
zione nell’ultimo incarico ricoperto prima dell’elezione nel consiglio regio-
nale. Ci siamo in buona sostanza chiesti quanti consiglieri regionali erano
già stati «sperimentati» dal partito attraverso un mandato elettorale prima
dell’elezione al consiglio regionale e quanti, invece, non avevano esperien-
e
ze pregresse o sono trasmigrati in FdI dopo aver avuto un’esperienza ammi-
or
nistrativa sotto altre insegne, spesso in competizione proprio con le liste di
ut
Fratelli d’Italia. Abbiamo incluso nel computo dei mandati anche i casi di as-
l’a
sessori che non erano, contestualmente, anche eletti nel consiglio dell’ente.
r
pe
Anche se in questo caso non si può propriamente parlare di elezione, quanto
piuttosto di nomina, trattandosi comunque di casi piuttosto limitati ci riferi-
ia
remo sempre a «eletti» nel resto dell’articolo.
op
arini
C
o.
M
M
e
iccolino
il
Abbiamo ottenuto una classificazione con quattro categorie (si veda la tabel-
e
la alla pagina seguente). La prima include coloro che non avevano avuto al-
ic
itr
cun mandato nei cinque anni precedenti l’elezione del consiglio regionale.
P
ed
ianluca
La seconda categoria raggruppa chi era stato precedentemente eletto in li-
ste di Fratelli d’Italia. La terza categoria, invece, comprende gli eletti in par-
à
et
lezione. Una questione si è posta per le liste civiche locali, in special modo
So
nei comuni minori. In questo caso, abbiamo accertato attraverso altre fon-
by
liazione a FdI gli eletti sono stati inseriti nella terza categoria. L’ultima ca-
op
tegoria riguarda coloro per cui non è stato possibile ricostruire l’affiliazione
C
partitica.
Questi dati ci dicono che il personale eletto da FdI nelle regioni è, in
larga parte, ben sperimentato. Solo il 14,7% degli attuali consiglieri regiona-
li non aveva avuto alcun mandato elettorale nei cinque anni precedenti l’ele-
zione in consiglio: si tratta in parte di neofiti assoluti delle assemblee eletti-
ve, in parte di politici locali che hanno saltato qualche giro prima di rientrare
in gioco nel consiglio regionale.
184
Eletti in liste FdI in base all’ultimo mandato nazionale/locale ricoperto nei cinque anni precedenti
l’elezione del consiglio regionale
Situazione al momento dell’elezione nell’ultimo mandato n. %
Nessun mandato nei cinque anni precedenti 17 14,7
Appartenente a Fratelli d’Italia 49 42,2
Appartenente a partito diverso o indipendente in lista civica 47 40,5
Appartenenza partitica al momento dell’elezione sconosciuta 3 2,6
Totale 116 100,0
Fonte: Elaborazione degli autori basata su informazioni di consigli regionali, ministero dell’Interno e stampa
e
locale.
or
ut
I dati sulle affiliazioni partitiche gettano invece ulteriore luce sulla
l’a
mobilità politico-elettorale del ceto politico di Fratelli d’Italia nelle regioni.
r
Solo il 42,2% era stato eletto in un qualche incarico con FdI prima delle ele-
pe
zioni regionali. Non mancano, anche in questa categoria, casi di trasformi-
ia
smo piuttosto eclatanti. Ad esempio, l’attuale capogruppo di FdI in Calabria
F
op
ratelli
è al secondo mandato con il partito, ma era già stato eletto in consiglio regio-
C
nale nel 2014 nella coalizione di centrosinistra. Un consigliere dell’Assemblea
o.
d
regionale siciliana era stato eletto pochi mesi prima consigliere comunale a
in
’I
talia
ul
Palermo nelle liste di FdI, ma sedeva a Palazzo delle Aquile già dal 2017 dopo
M
nei
il
C
e
onsigli
ic
verso la regione
regionali
à
et
Molto vicino a questa categoria è il dato di chi era stato eletto in un manda-
ci
So
muni eletti in liste civiche, senza affiliazione partitica, che hanno successi-
ig
vamente aderito a Fratelli d’Italia per fare il grande salto verso la regione.
yr
Inoltre, su questo dato influisce l’adesione a FdI, nel corso del tempo, di due
op
185
gli altri partner di coalizione dopo aver spesso attraversato una girandola di
sigle di centrodestra negli anni precedenti.
Il partito di Meloni è stato dunque molto generoso nell’aprire le por-
te a personale politico che non si è formato al proprio interno. In buona so-
stanza, se teniamo in considerazione i consiglieri regionali eletti in altre liste
e quelli eletti nelle liste di FdI con una pregressa storia amministrativa ester-
na al partito, poco meno della metà – 61 su 130 – degli attuali consiglieri re-
gionali di Fratelli d’Italia è stato eletto nel recente passato in concorrenza con
e
le liste del partito o, comunque, al di fuori dello stesso. Se a questi aggiungia-
or
mo i consiglieri che non avevano avuto mandati nei cinque anni precedenti
ut
l’elezione in consiglio, possiamo rilevare come la maggioranza assoluta degli
l’a
attuali consiglieri regionali di Fratelli d’Italia non è stata «sperimentata» dal
r
pe
partito con un altro mandato sotto le sue insegne prima dell’elezione in con-
siglio regionale.
ia
Il trasformismo nei consigli regionali non è certo una prerogativa
op
arini
esclusiva di Fratelli d’Italia, né un fenomeno sconosciuto alla letteratura.
C
Tuttavia, questi dati segnalano la debolezza del principale partito di gover-
o.
M
ofia
in
no nell’accompagnare la crescita elettorale dell’ultimo biennio con la costru-
ul
zione di una classe dirigente regionale e la necessità di ricorrere a vari inne-
S
M
e
sti esogeni per fronteggiare queste mancanze.
iccolino
il
zione politica e nel presentarsi come un partito realmente ancorato nel terri-
itr
torio e nella società, questi dati lasciano aperti molti interrogativi sulla fedel-
P
ed
ianluca
tà del ceto politico regionale del partito e sulla capacità di FdI di esprimere
à
una propria classe dirigente, quanto meno a livello locale. L’effetto bandwag-
et
on, se può portare a dei vantaggi nel breve periodo, rischia tuttavia di com-
ci
G
promettere la solidità del partito nel lungo termine. Molte delle nuove adesio-
So
attori politici.
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op
C
186
C
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M
187
Israele
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ISRAELE
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E LA EMOCRAZIA
or
e
artiamo da due a eddoti, u o serissimo e l’altro faceto. Verso la fine
e
or
P
n
n
degli anni Sessanta, quando Israele aveva da poco iniziato l’occupazione mili-
ut
tare dei Territori palestinesi, il ministro delle Finanze, Pinhas Sapir, si scon-
l’a
trò col ministro della Difesa, Moshe Dayan. Sapir provò, invano, a convincere
r
pe
Dayan che i Territori andavano restituiti al più presto: «Se continuiamo a te-
nere i Territori, prima o poi i Territori terranno in pugno noi» (cit. in P. Bei-
ia
nart, The Crisis of Zionism, Times Books, 2012). Mezzo secolo dopo, mentre
op
Israele è in un momento di crisi profonda della sua democrazia – o, meglio,
C
di quel sistema ricco di contraddizioni che può essere descritto come una de-
o.
mocrazia parziale, applicata solo in una parte del territorio che Israele con-
in
omigliano
ul
trolla, e pure lì con le sue peculiarità: un po’ di pazienza, ci arriviamo –, l’av-
M
Ma c’è un altro episodio, più recente, che dice molto su uno dei para-
e
M
dossi della situazione politica. Nel marzo del 2021, a ridosso delle penultime
ic
nna
itr
co Eretz Nehederet mandò in onda una (finta) intervista a tale Shauli, per-
à
dice, l’unica soluzione alle divisioni che squassano il Paese è una guerra civi-
ci
le. «Facciamo ashkenaziti contro sefarditi. Quelli di destra contro quelli di si-
So
nistra. Ricchi contro poveri, religiosi contro laici. Tutti contro tutti. Tranne
by
gli arabi, eh: loro stanno a guardare e poi magari combattono contro il vinci-
©
tore». Lo sketch coglie una miopia tipica della società israeliana, dove la que-
ht
188
di fallimento. La questione è così complessa che si rischia sempre di lasciar-
ne fuori un pezzo, facendo torto a qualcuno; ma vale la pena tentare, perché
stanno succedendo due cose, di portata epocale, e collegate fra loro in modo
non immediato: da un lato il collasso della Linea Verde che separa Israele dai
Territori palestinesi, dall’altro il collasso della democrazia di Israele, dentro
la Linea Verde, nei suoi confini internazionalmente riconosciuti.
Cinque cose da mettere in chiaro. Per inquadrare questo doppio collasso avrem-
e
mo bisogno di compiere alcune operazioni che potrebbero mettere a disagio.
or
Le riassumerò brevemente, per poi analizzarle più in là. Primo: riconoscere
ut
che, da quando Israele occupa i Territori, di fatto esistono due Israele: da un
l’a
lato un’Israele democratica, all’interno della Linea Verde, dove tutti gli abi-
r
pe
tanti godono di cittadinanza e di uno Stato di diritto, sebbene una minoran-
za sia palesemente discriminata; e dall’altro un’Israele non democratica, vale
ia
a dire i Territori palestinesi che Israele controlla, dove si applicano due leggi
op
diverse a due popolazioni: gli israeliani, per i quali vige la legge israeliana, e i
C
palestinesi, sotto la legge marziale.
o.
I
sraele
in
Secondo: prendere atto che la Linea Verde sta evaporando. Un tempo
ul
c’era la percezione che l’Occupazione fosse un fatto temporaneo, che l’Auto-
M
e
rità nazionale palestinese rappresentasse l’embrione di uno Stato futuro; ma
la
il
d
e
emocrazia
ic
i poteri dell’Anp sono ridotti all’osso, mentre, per i cittadini israeliani, il con-
itr
«due Stati per due popoli» a un unico Stato di fatto, un’annessione non for-
à
malizzata.
et
Terzo: ammettere che, visto che c’è questa One-State Reality, come va
ci
di moda chiamarla ora, e che in questo unico-Stato-di-fatto c’è una parte del-
So
la popolazione che non gode dello Stato di diritto, allora la questione pale-
by
stinese può essere guardata da un’ottica diversa: non più una questione ter-
©
189
Infine, quinto: provare a capire se questa crisi dell’Israele democrati-
ca abbia a che fare con il consolidamento dell’Occupazione: può forse essere
che, come predetto da Sapir, il regime non-democratico dei Territori abbia fi-
nito per contagiare quello democratico, dentro i confini legali?
Due leggi per due popoli. A questo punto tocca fare una digressione sull’Occu-
pazione, fatti che molti conoscono già, ma che è importante ribadire. Con la
Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, Israele ha sottratto ai Paesi arabi vicini (Egit-
e
to, Siria e Giordania) svariati territori: all’Egitto Sinai e Striscia di Gaza, alla
or
Siria le alture del Golan, alla Giordania Gerusalemme Est e la Cisgiordania (o
ut
West Bank). Il Sinai fu restituito all’Egitto, quindi archiviamolo. Per i restan-
l’a
ti territori conquistati, Israele scelse due strade: alcuni li annesse, offrendo
r
pe
la cittadinanza ai loro abitanti, altri si limitò a occuparli militarmente. Go-
lan e Gerusalemme Est furono annessi. Da notare che la comunità interna-
ia
zionale non riconosce questa annessione, che è appunto considerata illega-
op
le; inoltre la maggioranza degli abitanti arabi rifiutò l’offerta di cittadinanza
C
(sebbene nel Golan recentemente sia aumentato il numero di persone che
o.
in
l’hanno chiesta). Il punto è che il Golan, in particolare, può essere inquadra-
omigliano
ul
to come una questione, per così dire, territoriale: una nazione invade un’al-
M
tra, si prende alcuni territori e li ingloba, in quelle aree annesse vige una sola
il
legge, uguale (almeno in teoria) per tutti e le popolazioni locali sono ritenute
e
M
ic
ri palestinesi non furono annessi, un po’ perché si pensava che sarebbe stata
ci
palestinese Israele non aveva alcuna voglia (sì, parliamo di Territori palesti-
by
che l’Onu avrebbe voluto, fin dal 1948, uno Stato palestinese. Poi che la po-
ht
za» che estendevano l’applicazione delle leggi israeliane agli israeliani che vi-
vono nei Territori palestinesi: un cittadino israeliano che commette un crimi-
ne in Cisgiordania sarà processato secondo il diritto israeliano, proprio come
se si trovasse in Israele; un cittadino israeliano residente nella West Bank
paga le tasse, fa il servizio militare e vota proprio come se risiedesse in Isra-
ele. Questi «regolamenti di emergenza» devono essere rinnovati dal Parla-
mento ogni cinque anni: l’ultimo rinnovo, del 2022, ha causato la caduta del
190
governo Bennett-Lapid. E svelano una contraddizione: Israele non ricono-
sce la Cisgiordania come suo territorio (come a dire: «mica l’abbiamo annes-
sa!») ma tratta i suoi cittadini che ci vivono come se vivessero in Israele. Un
esempio: un israeliano può votare nelle colonie, anche se Israele, a differen-
za dell’Italia, non riconosce il voto all’estero, cosa che rende l’idea di come i
Territori non siano proprio visti come «estero».
e
nei primi dieci anni dell’Occupazione meno di cinquemila.
or
Oggi nella sola Cisgiordania superano il mezzo milione
ut
l’a
In principio i coloni erano numericamente trascurabili: l’ong israeliana
r
pe
Peace Now stima che nei primi dieci anni dell’Occupazione erano meno di
ia
cinquemila. Oggi nella sola Cisgiordania superano il mezzo milione (i coloni
op
di Gaza sono stati evacuati: la situazione nella Striscia meriterebbe un discor-
C
so a parte che qui non possiamo fare). Il risultato è che, oggi, nella West Bank
o.
I
vivono circa tre milioni di palestinesi e circa un milione di israeliani: due po-
sraele
in
polazioni che vivono nello stesso territorio, di fatto controllato dallo stesso
ul
governo, a cui vengono applicate due leggi diverse. Ora, applicare due leggi
M
e
diverse a due popolazioni che convivono nello stesso territorio e sotto lo stes-
la
il
d
e
emocrazia
ic
itr
l’Autorità nazionale palestinese? Il fatto è che l’Anp è stata creata negli anni
et
turo Stato palestinese; che non ha mai avuto il controllo totale del territorio;
e che negli ultimi anni la sua già scarsa autonomia si è ridotta notevolmen-
by
te. Nelle zone della Cisgiordania dove l’Anp gode di maggiori poteri, la cosid-
©
detta «area A», che include Ramallah, Betlemme e Jenin, l’esercito israeliano
ht
svolge regolarmente raid. Nel resto della West Bank Israele ha il controllo to-
ig
191
A lungo, nelle cancellerie occidentali, si è dato per scontato, o si è fin-
to di dare per scontato, che l’Occupazione fosse transitoria. L’esistenza stes-
sa dell’Anp deriva dal presupposto che gli israeliani se ne andranno; lo stesso
vale per la formula «due Stati per due popoli»; ogni volta che sentite parla-
re di «processo di pace» è sempre a quel presupposto che si fa riferimento. Il
problema è che quel presupposto si è rivelato una pia illusione. Israele con-
trolla la Cisgiordania da più di cinquant’anni e ha dimostrato di non avere al-
cuna intenzione di andarsene. Muoversi attraverso la Linea Verde è diven-
e
tato sempre più facile per gli israeliani, mentre i coloni, oltre ad aumentare
or
a dismisura, godono di un crescente peso e prestigio nella società israeliana.
ut
Un recente articolo di «Foreign Affairs» (M. Barnett, N. Brown, M. Lynch e S.
l’a
Telhami, Israel’s One-State Reality, «Foreign Affairs», maggio-giugno 2023) fa
r
pe
bene il punto della situazione: «La Palestina non è uno Stato in fieri e Israele
non è uno Stato democratico che, incidentalmente, occupa del territorio pa-
ia
lestinese», scrivono gli autori. «Lo status temporaneo dell’Occupazione dei
op
Territori palestinesi è oggi una condizione permanente in cui uno Stato, go-
C
vernato da un popolo, governa su un altro popolo».
o.
in
omigliano
ul
Il framing dell’apartheid. Il fattore temporale è cruciale. Se il controllo israelia-
M
ic
il 2022 è stato l’anno più letale dai tempi della Seconda Intifada – e di confini
nna
itr
nazionali: Israele deve restituire dei territori che non sono suoi. Se invece si
ed
A
guarda l’Occupazione come una realtà permanente, giusta o sbagliata che sia,
à
allora la cosa si può leggere anche in un’ottica di diritti politici e civili: per-
et
Ecco perché si sta facendo strada sempre più, anche in ambienti non anti-i-
op
ming dell’apartheid. Ora, va detto che la stessa parola può essere utilizzata in
modi diversi. Le accuse di apartheid sono a lungo state utilizzate per criticare
l’esistenza stessa di Israele, sulla falsa riga della risoluzione Onu del 1975 che
dichiarava il sionismo «una forma di razzismo»: per chi usa la parola «apar-
theid» in questo senso, il problema è l’esistenza stessa di uno Stato ebraico,
che abbia un rapporto privilegiato con il popolo ebraico. Volendo, si potreb-
be aprire una discussione seria sugli Stati nazionali e sulla loro compatibili-
192
tà con la democrazia come molti l’intendono oggi, ma non credo sia quello
l’intento di chi utilizza il termine apartheid in questa accezione, fortemente
anti-israeliana. In ogni caso, non è di questa accezione che stiamo parlando.
Negli ultimi anni si è diffusa l’analogia dell’apartheid per descrivere
l’applicazione di due leggi diverse a israeliani e palestinesi sullo stesso ter-
ritorio e, ancora più, la One-State Reality, insomma il fatto che la Cisgior-
dania è stata annessa di fatto a Israele senza che i suoi abitanti palestinesi
godano dei diritti politici e civili. È utilizzata, in questi termini, dall’ong isra-
e
eliana B’tselem e dal quotidiano «Haaretz», dove peraltro molte delle firme
or
si dichiarano sionisti di sinistra (si può essere sionisti e pensare che imporre
ut
un regime anti-democratico a un altro popolo sia sbagliato). Questa lettura
l’a
è stata criticata da molti commentatori pro israeliani, ma anche da qualche
r
pe
analista filo palestinese. Per esempio, Francesca Albanese, Special Rappor-
teur Onu per i Territori Palestinesi, sostiene che «un focus esclusivo sul re-
ia
gime di apartheid israeliano omette l’illegalità intrinseca dell’Occupazione»
op
(Rapporto all’Onu datato 21 settembre 2022). Come a dire: se vedo il proble-
C
ma in termini di diritti, proprio come nel Sudafrica dell’apartheid, dimentico
o.
I
sraele
le aspirazioni palestinesi all’indipendenza.in
ul
M
e
La crisi dell’Israele democratica. Inquadrato quanto sta accadendo nei Territo-
la
il
ri, in quella che abbiamo definito l’Israele non democratica, resta da capire
d
e
emocrazia
ic
cosa sta succedendo nell’Israele stricto sensu, quella all’interno dei confini in-
itr
Una democrazia debole, con molte, moltissime pecche (per citarne una, la
à
legge del 2003 che vieta la riunificazione familiare per i palestinesi dei Ter-
et
Orbán, un’erosione della democrazia, prima graduale e poi tutta d’un colpo.
by
Qualche esempio. Nel 2018 c’è stata l’approvazione della Legge Base, cioè con
©
zionale del popolo ebraico, che tra le altre cose promuove, all’articolo 7, «lo
ig
meer, che si occupa del trattamento dei prigionieri nelle carceri israeliane. A
C
193
set, il Parlamento unicamerale, di annullare qualsiasi decisione della Corte
suprema, anche con una maggioranza di appena 61 deputati su 120. Un’altra
vieterebbe alla Corte suprema di bocciare qualsiasi legge dichiarata una Leg-
ge Base (più in là spieghiamo cosa sono). Una terza legge del pacchetto cam-
bierebbe il modo in cui sono nominati i giudici della Corte suprema: oggi la
nomina spetta a una commissione composta da rappresentanti politici, giu-
dici e avvocati, ma Netanyahu vorrebbe dare al governo, cioè a se stesso, una
maggioranza.
e
or
ut
Intanto nell’Israele democratica, quella all’interno dei confini
l’a
riconosciuti, la democrazia è sotto attacco
r
pe
Per capirne la rilevanza, bisogna avere un’infarinatura sul sistema politico
ia
israeliano, una democrazia parlamentare che non ha molti checks and balan-
op
ces. Parlamento e governo tendono a essere spesso, per quanto non sempre,
C
allineati, inoltre non c’è una Costituzione, ma solo delle Leggi Base che hanno
o.
un valore, più o meno, costituzionale: per esempio, la Legge Base del 1992, Di-
in
omigliano
ul
gnità umana e libertà, stabilisce che «Israele è uno Stato ebraico e democrati-
M
co» e che ogni essere umano ha diritto alla sicurezza, alla libertà e al rispetto
il
della sua proprietà. In questo contesto la Corte suprema, che si rifà alle Leggi
e
M
anti-costituzionali quel genere di cose che certi governi israeliani amano fare,
ed
A
salemme Est. Va detto che, se in molti casi la Corte ha fatto valere i principi
ci
democratici, secondo la Legge Base del 1992 citata poco sopra, in altrettan-
So
Democrazia per tutti o solo per qualcuno? Gli israeliani hanno risposto con una
op
194
A dire il vero, molti degli israeliani anti-Occupazione (o, se preferite,
«il campo della democrazia per tutti») hanno partecipato alle proteste, ma
sono restati una minoranza nell’enorme blocco trasversale unito sotto la ban-
diera anti-riforma. Sulla testata israeliana ultra-progressista «972», Natalie
Davidson e Limor Yehuda hanno spiegato così la loro decisione di partecipa-
re: «Crediamo che Israele abbia già stabilito una forma di apartheid, eppure
vediamo la riforma giudiziaria come un fatto estremamente grave […]. Dob-
biamo capire che la democrazia e l’autocrazia esistono su uno spettro». Il ra-
e
gionamento è che, tornando alla nostra divisione in due Israele, vale la pena
or
di difendere l’Israele democratica anche se questo non cambia molto per l’I-
ut
sraele non democratica, salvo togliere un debole argine alla brutalità dell’Oc-
l’a
cupazione: oggi niente più Corte suprema che blocca alcuni espropri, forse
r
pe
domani niente più stampa indipendente.
Resta la contraddizione di una difesa energica, coraggiosa e genuina
ia
della democrazia, che resta, per lo più, organica a un sistema in cui la demo-
op
crazia vale solo per alcuni. Gli ottimisti hanno ipotizzato che la vicenda ha
C
avuto il pregio di sollevare questa contraddizione: «Forse queste migliaia di
o.
I
sraele
in
persone che sono scese in piazza hanno imparato un linguaggio nuovo e non
ul
vorranno tornare allo status quo» scrive Meron Rapoport sempre su «972».
M
e
Che gli israeliani lo abbiano capito o meno, non saprei dirlo. Quello che è cer-
la
il
to è che non è sostenibile lo status quo, inteso come le due Israele, una nazio-
d
e
emocrazia
ic
Israele: mentre i confini tra Cisgiordania e Israele sono sempre più labili, la
à
eliana.
ci
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195
L’anno scorso a Marienbad
L’ULISSE
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ROBERTA
E MONTICELLI
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196
i il’i mi resterà il ricordo di una minuscola oasi di umanità e speran-
D
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n
za: il luogo di una storia, una fra mille, che ci vorrebbe un piccolo Omero
e
or
a cantarla, anzi uno di quegli omeridi della dinastia mediterranea dei can-
ut
tastorie che ancora mezzo secolo fa magnificavano le gesta d’armi e d’amo-
l’a
re dei cavalieri antichi. Forse proprio un puparo siciliano ci vorrebbe, ma
r
pe
all’altezza dei nostri tempi e del loro mainstream di indecifrabile indifferen-
za al male, un male per lo più legalizzato. Un puparo capace di accendere
ia
qualche lampo d’intelligenza e d’ironia sulla scena tragica di questa terra di
op
Palestina, anzi di più: di proiettare un pirandelliano bagliore di umorismo,
C
il sentimento del contrario e dell’incongruo, sul fondale nero dell’ingiustizia
o.
e della violenza impunita. in
ul
M
Bil’in, nel mezzo della Cisgiordania o West Bank, a meno di una dozzina di
e
Green Line (la partizione Onu del 1947, il confine virtuale anteriore al 1967):
ed
per una lezione rapida sul modo in cui funziona l’Architettura dell’occupazio-
ne [01] è un posto perfetto da visitare. Nonostante con la sentenza consultiva del
à
et
(invano) dagli accordi di Oslo del 1993-1995, era destinato a spaccare in due
l’area del villaggio, privandolo del 60% dei suoi terreni agricoli.
ht
ig
Eppure Bil’in ci era apparsa – quel 3 gennaio 2023, forse la giornata più lun-
yr
ga, forse la più intensa del nostro viaggio di conoscenza in Palestina – quasi
op
come una piccola oasi anche del paesaggio, con la sua strada sterrata e la sua
C
collinetta così ben tenuta, gli alberi, i muretti, i sentieri, i minuscoli orti per
la coltivazione «organica». Insomma, quel mezzo chilometro di spazio respi-
rabile, anche dalla parte della marea avanzante di cemento e di protervia. Ma
questa è una parte della storia da raccontare e prima occorre farsi un’idea del
mondo in cui si svolge.
Un’oasi, sì, ma tanto minuscola quanto incombente. Nella cerchia più pros-
sima dell’orizzonte, ci era subito apparso l’enorme insediamento edilizio dei
197
coloni israeliani: Matityahu East, sobborgo orientale di Modi’in Illit, che «Ha-
aretz» aveva descritto già nel 2007 come «il più grande progetto di insedia-
mento edilizio illegale di sempre», e che in questi venticinque anni è cre-
sciuto ancora a dismisura, se ospita qualcosa come 100 mila coloni. Bisogna
guardarla, la carta geografica dell’area, per farsi un’idea della sproporzione
fra la città e i minuscoli villaggi cui questa smisurata proliferazione urbana
ha sottratto quasi tutta la terra – magra terra di ulivi e di orti – di cui gli abi-
tanti vivevano: Bil’in il più a ridosso, ma poi Deir Qaddis, Kharbatha Bani Ha-
e
rith, Ni’lin. Bisogna guardarli, minuscoli sulla carta, circondati dalle tortuose
or
volute del muro che li separa dalla gran parte delle loro terre e al contem-
ut
po condanna queste a diventare «terra morta» – e vedremo cosa questo esat-
l’a
tamente significa [02] – ma non certo «terra vuota», come nel sogno di Chaim
r
pe
Weizmann, presidente del Congresso sionista mondiale e primo presidente
dello Stato d’Israele: l’uomo che nel 1914 aveva reso popolare l’idea onirica
ia
di «un Paese senza popolo per un popolo senza terra» [03].
op
C
IL PARA OSSO ELLA CITTÀ EL LIBRO
o.
onticelli
D
D
D
in
E qui già ti colpisce, come ovunque in Palestina, un profondo paradosso le-
ul
gato alla topografia israeliana, con il suo sapore di centrifugato di geografia
M
il
tabili, quelli di Neturei Karta che Ben Gvir vuole deportare in Siria, perché
ed
ni dal nuovo ministro. Già: loro detestano la contaminazione del sacro e del
et
profano, della salvezza di Israele che solo il Messia porterà e dello Judenstaat
ci
di Theodor Herzl [04], lo Stato degli ebrei (e non di tutti i suoi cittadini, come
So
Netanyahu ha tenuto a ribadire recentemente [05]). E come non dar più ragio-
by
ne a loro, su questo punto, che agli altri e ben più numerosi ebrei ultra-or-
©
Kiryat Sefer: la Città del Libro! Niente somiglia di meno all’idea che questo
yr
luminoso nome convoglia – al punto che qui, proprio nella pesantezza ma-
op
198
tre religioni è proprio la trascendenza del divino che in essi si annuncia: cosa
che in termini semplici significa la sua immaterialità, nel senso di inafferra-
bilità per mezzo dei sensi, delle mani, dei concetti umani. «Non nominare il
nome di Dio invano» – un precetto forse ancora più forte nell’ebraismo (e per
quanto riguarda il divieto di farne immagini nell’Islam) – non proibisce cer-
to la vanità nel senso di «vacuità» dei discorsi e delle immagini: non sono la
vanitas o i suoi equivalenti nelle lingue dei testi sacri a essere presi di mira da
questo comandamento, già a partire da quell’«invano» che traduce una radi-
e
ce ebraica tutta diversa da quella che nel Qohelet significa «vanità delle va-
or
nità» (habel habaim), soffio, nulla. Quest’altra parola (shav) significa inve-
ut
ce «inganno», «falsità», «malizia»: insomma, la proibizione colpisce la truffa
l’a
demoniaca di usare il nome di Dio per affari troppo umani [06]. E qui, dove il
r
pe
nome di Dio pare serva al marketing delle imprese edilizie, il senso di blasfe-
mia aggriccerebbe le viscere di chiunque, atei compresi.
ia
op
C
Qui, dove il nome di io pare serva al marketing
o.
D
delle imprese edilizie, il senso di blasfemia aggriccerebbe
in
le viscere di chiunque
L’U
ul
M
lisse
il
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i
scopi politici, di farne strumento di regno o di potere: di metterlo sulle ban-
ic
il
itr
diere, dove – come usava dire Simone Weil – i nomi di dio diventano «paro-
in
ed
gere che le religioni del Libro sono quelle che riconoscono Abramo come il
So
la Lettera di Paolo agli Ebrei: come se la mistica del ritorno all’origine qui fosse
sostituita da una mistica della partenza [07], del futuro, forse del venire di chi
ht
ig
verrà, e non sappiamo quando. Insomma, forse davvero non avevano torto
yr
199
venti, ma anche importanti per capire meglio lo spirito di quegli anni di re-
sistenza, che come vedremo cominciano nel 2004 e hanno un loro simbolico
punto d’arrivo nel 2011. Eccole:
e
stenza nonviolenta al muro: e ci mettemmo a studiare Gandhi, Luther
or
King e Mandela».
ut
l’a
Nelson Mandela: leggendo queste righe, mi tornavano alla mente le paro-
r
pe
le che il grande leader sudafricano pronunciò nel 1997, in occasione della
Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese: «Sappia-
ia
mo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei pale-
op
stinesi» [09]. Le avevo lette, queste parole, proprio lo stesso giorno della visi-
C
ta a Bil’in – quel memorabile 3 gennaio – solo poche ore prima, nel corso della
o.
onticelli
in
visita che, a Ramallah, avevamo fatto all’ufficio che era di Marwan Barghou-
ul
ti, il grande leader di orientamento non violento, in carcere da ventidue anni.
M
L’uomo che, in un suo famoso intervento, Gideon Lévy identificò con il Man-
M
il
dela dei palestinesi, mentre fortemente auspicava che diventasse il loro presi-
De
e
ic
dente [10]. Erano affisse, quelle parole, a una parete di quell’ufficio: da dove at-
oberta
itr
Mohammed Khatib è stato uno dei leader degli anni straordinari della resi-
et
Nel dicembre del 2004, come già in altri luoghi, i soldati israeliani comincia-
no a sradicare gli ulivi sulle terre del villaggio. Ecco: sentire il racconto, aven-
do sotto gli occhi quella specie di immobile tsunami di cemento che preme
dall’altra parte del muro, la rapina perpetrata e anche il po’ di campagna sal-
200
vata è diverso da leggere ciò che ne resta su questa pagina, riemergendo da
pochi appunti: è come se il racconto di Mohammed ne uscisse spogliato del-
la sua epica – oltre che del suo tragico humour. E allora, se volete restituire
carne e sangue a quel racconto dello sconcerto iniziale, della risposta dispera-
ta ma compatta di tutto il villaggio alla violenza dei bulldozer, guardatevi le
prime scene, del resto assai simili, di due docufilm che furono girati in que-
gli anni a Bil’in proprio da alcuni protagonisti della fase più creativa di questo
movimento spontaneo di resistenza, che per tre mesi non riuscì a fermare la
e
violenza dei bulldozer spalleggiati dai fucili. I bulldozer che sradicano gli ulivi.
or
ut
EPICA E FILMOGRAFIA I BIL’IN
l’a
D
Penso a Cinque telecamere rotte, girato da un coltivatore palestinese, Emad
r
pe
Burnat, a pezzi – i pezzi che in cinque anni riuscì a filmare dell’intera vicen-
da, ogni anno con una telecamera nuova, dopo che la precedente era stata
ia
sfasciata nelle cariche dei soldati durante le dimostrazioni del Venerdì, pa-
op
cifiche da una parte sola, o durante le aggressioni subite di notte a casa sua:
C
pezzi poi selezionati e rimessi insieme con l’aiuto di un giovane film-maker
o.
in
israeliano, Guy Davidi (il film è uscito nel 2011, e da allora ha vinto molti pre-
L’U
ul
mi). Ma penso anche a Bil’in habibti (Bil’in my love), girato da un altro giova-
M
lisse
ne film-maker israeliano, Shai Carmeli Pollak, che come Guy era anche fra gli
il
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ic
il
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in
ed
qualche filo grigio fra i capelli, avrà l’emozione di rivederlo in azione, gio-
et
fantasia e di coraggio. E non solo lui; di vedere molti degli altri protagonisti
So
di quella stagione, tutti elencati nella lista dei personaggi e interpreti alla fine
by
del film: Abdullah Abu Rahma, insegnante e coordinatore dei Comitati popo-
©
lari di resistenza nonviolenta della Cisgiordania, che chi deve a Luisa Mor-
ht
anni, accanto a Luisa che traduce le sue parole [11]. E poi Rani Bornat, il ragaz-
op
sue pecore in una marcia pacifista, facendo intonare dai loro belati l’ironia
dei giusti, e le ragazze americane di International Solidarity, e naturalmen-
te Mohammed Khadib stesso, a cui ripasso la parola. Ci raccontava che dopo
quei tre mesi di resistenza impotente cominciarono a sviluppare una resi-
stenza non violenta ma fatta di vere e proprie azioni cariche di senso: e nel
film di Pollak se ne vedono molte. La gente che si incatena agli ulivi, il lan-
cio dei palloncini riempiti con gli scoli di fogna, concertini improvvisati den-
201
tro una gabbia piantata fra i piedi dei soldati, che per avanzare con le loro ru-
spe devono sollevarla estraendone a forza i resistenti, uno per uno. Ognuna di
queste fragili barriere di fantasia e coraggio viene spianata, nessuna violenza
viene risparmiata nel corso di questi anni che solo a Bil’in hanno visto morti,
persone menomate a vita, centinaia di arresti e detenzioni.
Neppure i simpatizzanti internazionali vengono risparmiati. In Rete trovate
ancora una pagina di «Bbc News» datata giugno 2008 [12] dove si registrano fra
i «feriti» in una dimostrazione, con il premio Nobel irlandese Mairead Corri-
e
gan e il giudice italiano Giulio Toscano, la vicepresidente del Parlamento eu-
or
ropeo Luisa Morgantini, che la settimana precedente aveva aperto il Congres-
ut
so per la resistenza nonviolenta tenutosi a Bil’in, in seguito alla disposizione
l’a
della Corte suprema che imponeva la dislocazione del muro.
r
pe
Ma intanto i resistenti guadagnano tempo e rallentano la costruzione della
barriera, e in questo modo riescono a capire che prima del muro occorre fer-
ia
mare la crescita dell’enorme colonia, perché il muro, presentato dalle autori-
op
tà israeliane come una misura di sicurezza per la popolazione israeliana, è in-
C
vece uno strumento di rapina di sempre nuove terre. Infatti il suo tracciato si
o.
onticelli
in
sposta in funzione della crescita dell’agglomerato urbano, in modo da lascia-
ul
re sempre maggiori quote di terra «morta» – vale a dire, letteralmente, deva-
M
stata e pronta a portare nuovo cemento per l’espansione ulteriore, fino al rag-
M
il
mentario impressionante, The Law in These Parts [13]. Come il titolo suggerisce,
ci
quindi come si modifica lo Stato di diritto del Paese occupante. C’è una cosa
by
che tutti abbiamo imparato a scuola, e certo non fanno eccezione i colti giuri-
©
202
mocrazia (e non ogni Stato di diritto lo è), ma che, in questi esatti termini,
costituisce un caso unico al mondo?
e
or
cz, e alcuni dei massimi esponenti del «corpo giuridico-legislativo dell’eserci-
ut
to israeliano». Ed è un unicum anche un simile «corpo»: sono, in sostanza, al-
l’a
cuni dei veri e propri architetti del sistema di leggi che Israele ha sviluppato
r
pe
relativamente ai Territori occupati, e sono anche generali dell’esercito – come
il giudice Meir Shamgar, generale di brigata, avvocato generale dell’esercito
ia
(1963-1968), giudice della Corte suprema di Israele (1975-1995) e presiden-
op
te della stessa (1983-1995) – o professionisti legali che all’esercito fanno capo,
C
come Alexander Ramati, l’avvocato che ci spiegherà cosa bisogna intendere
o.
per «terra morta». Il regista non compare nel film se non come la voce inter-
in
L’U
ul
rogante – la voce di un qualunque cittadino israeliano, o la nostra – o forse la
M
lisse
voce stessa della coscienza, una coscienza «socratica», che fa solo domande.
il
Man mano che sprofondavo negli avvincenti faccia a faccia di questo docu-
e
d B ’
i
mentario veramente magistrale, mi pareva sempre più chiaro che le doman-
ic
il
itr
de erano quelle giuste, quelle che si aggiravano nella mia mente senza parole,
in
ed
surdo, quel «sentimento del contrario» che fin dall’inizio mi era apparso la
ci
chiave musicale, quasi la tonalità di fondo del piccolo poema epico della gen-
So
te di Bil’in e delle sue gesta. Ma qui lo stesso sentimento, lo stesso lieve bri-
by
vido della scissura logica, della contraddizione pura emanava dalle risposte e
©
– come in un film di Bergman – soprattutto dai volti, alcuni ieratici, altri an-
gosciati, qualcuno beffardo, di questi «professionisti della legge», che pure,
ht
ig
passione alcuni dei più complessi e cruciali dilemmi morali e giuridici che la
op
storia del pensiero umano ricordi. Concederete che sia un’avventura cogniti-
C
203
non parlare dei circa 2 milioni di arabi israeliani [14]. Ne dipende naturalmente
il futuro dei proliferanti coloni nei territori nominalmente soggetti all’Auto-
rità palestinese, che oggi hanno raggiunto il numero di 760 mila fra Cisgior-
dania e Gerusalemme Est.
C’è un punto cruciale, in ognuna di queste conversazioni, in cui la contraddi-
zione logica leva fieramente il busto, paludata nelle vesti della Giustizia, con
la benda sugli occhi e la bilancia in mano: e in quel punto la tensione tragica
vira al comico e al noir, mentre lo sconforto dello spettatore trova un po’ di
e
sollievo nella luce ferma della logica, che fissa in qualche fotogramma eterno
or
i volti dei «legislatori», a favore di telecamera. Oh, ne ha di risorse di umori-
ut
smo la nuda, disarmata ragionevolezza umana!
l’a
Ma se volete invece una formula algida e granitica, che uno di questi condottie-
r
pe
ri-giudici-re di Israele appone come un timbro moderno alle nuove Tavole del-
la Legge, eccola: «Ordine e giustizia non vanno sempre a braccetto». Lo dice il
ia
generale di brigata e consigliere legale dell’esercito Dov Shefi, al comando mi-
op
litare in Cisgiordania negli anni 1967-1968, in una delle prime scene: e questa
C
sentenza non esprime affatto uno stato di cose unico e peculiare a Israele, al
o.
onticelli
in
contrario, enuncia una verità di fatto piuttosto generale in questo mondo.
ul
Tuttavia, permettetemi ancora una sottigliezza filosofica. La coscienza inter-
M
rogante di questo film incalza i suoi interlocutori non sul piano di come stanno
M
il
le cose di fatto, ma di come dovrebbero stare: sul nesso fra etica e diritto, o for-
De
e
ic
gativo, in tutto il mondo, giuristi, sociologi, filosofi del diritto, politici e giudi-
ed
ci hanno le loro risposte, che vanno da una posizione estrema – nessun nesso
R
– all’estrema opposta: devono coincidere. Nelle società moderne, per mille ra-
et
gioni, sono mainstream le posizioni più vicine al primo polo, negativo, che al
ci
e diritti) e legalità, di etica (in quel senso minimale, appunto) e diritto. In que-
ht
sto senso la terra tragica di Palestina è anche un nodo del pensiero moderno.
ig
yr
D
Ma veniamo alla terra morta. Come vada intesa l’espressione ce lo dice un
C
204
quercia, presso la quale Abramo riceve dal suo Dio l’ordine di erigere un al-
tare per ringraziare di esser giunto nella Terra promessa (Genesi, 12,5-8). Cir-
ca tre millenni dopo, un avamposto di coloni occupa in una notte la sommità
della collina con dei prefabbricati – ed è lì, di fronte alla ribellione dei nativi
all’inganno e alla rapina, che Sharon si lascia immortalare (ripreso anche nel
documentario di Alexandrowicz) mentre fieramente proclama: «La lotta per
l’esistenza di Israele è appena cominciata».
Ora, l’articolo 49 della Convenzione di Ginevra proibisce a una potenza oc-
e
cupante di trasferire cittadini in un’area occupata: e nel film si assiste a una
or
scena che sembra tratta da un famoso racconto di Kleist, Michael Kohlhaas,
ut
dove il personaggio che ha subito un’ingiustizia, prima di diventare a sua vol-
l’a
ta un brigante, afferma la sua assoluta fiducia nei giudici. «Andremo davanti
r
pe
alla Corte dell’Aja», sentiamo dire ai capi dei contadini espulsi dalle loro ter-
re. Una fiducia, una disperata speranza nel diritto internazionale che anco-
ia
ra, cinquant’anni dopo quell’evento, ho percepito, incredula, sulle labbra di
op
molte delle persone che abbiamo incontrato. La gente di Bil’in per anni e anni
C
ha gridato questa speranza, l’ha scritta sui suoi cartelli nelle dimostrazio-
o.
in
ni. Quella volta la petizione di uno di loro trovò grazia presso la Corte supre-
L’U
ul
ma di Israele: per una volta la Corte suprema di Israele emise un’ingiunzione
M
lisse
di sgombero, perché la terra fosse restituita ai proprietari. È qui che Sharon
il
convoca tutti gli esperti legali dell’esercito, ed è allora che l’avvocato Ramati
e
d B ’
i
ic
il
itr
in
ed
durante le dimostrazioni
So
by
un’antica legge ottomana una terra che a) disti dal villaggio più vicino più di
C
quanto occorra per udire ancora il canto del gallo b) non sia stata coltivata
dai proprietari o affidatari per tre anni. Una terra così ritorna nel possesso di-
retto dell’Impero. Legalmente parlando, spiega Ramati a Sharon, dell’Impe-
ro fa le veci il comando di occupazione. Sharon lo convoca presto la mattina
dopo, gli fornisce degli elicotteri e gli ordina di farli mettere immediatamente
alla ricerca di terre che soddisfino le due condizioni. «Girammo fino a trovare
un posto adatto», conclude Ramati. E dov’era? «Dove è adesso Elon Moreh».
205
MA CI SARÀ UN GIU ICE A BERLINO?
D
Questo caso è memorabile anche per il modo in cui aggira una delle poche de-
cisioni della Corte suprema contro le disposizioni legali emesse dal corpo le-
gislativo dell’esercito per legalizzare la rapina delle terre. Eppure, fu impor-
tante che questa decisione ci fosse stata. Dev’essere brillata come un lumino
nelle notti di Bil’in, quando, a seguito della visibilità che le dimostrazioni non
violente andavano assumendo, un avvocato israeliano incaricato dai Comita-
ti popolari (Michael Sfard) scoprì che gli insediamenti di Mod’in Illit non era-
no illegali soltanto in base al diritto internazionale, ma anche in base a quello
e
or
interno: e, secondo documenti reperibili in Rete, proprio perché l’intera co-
ut
lonia era stata costruita senza il permesso dello Stato proprietario delle ter-
l’a
re secondo la famosa legge ottomana [15]! Del resto un’altra denuncia, questa
r
volta relativa al muro, fu accolta nel 2007 dalla Corte suprema, che impose al
pe
ministero della Difesa di spostare il tracciato del muro in modo da restituire
ia
al villaggio parte delle sue terre, riconoscendo che il precedente tracciato non
op
corrispondeva affatto a ragioni di sicurezza, ma alla deliberata strategia di
C
rendere morte le terre tagliate fuori [16]. Dovettero passare ancora quattro anni
o.
onticelli
perché si arrivasse ad applicare la disposizione e Bil’in ottenesse a partire dal
in
ul
2011 quel po’ di respiro che il visitatore avverte come fosse ancora nell’aria.
M
il
molizione di case, la rapina delle terre palestinesi, anche dopo gli accordi di
ci
Oslo. Eppure io ricorderei anche questi pochi lumini di speranza, i rari esem-
So
pi di decisioni «giuste»: se non altro per ribadire che le decisioni finali non
by
vanno sempre a braccetto» non è colpa della Storia, come con un divertito
ht
ig
LE RA ICI IVELTE
D
D
Se ora riguardate le sequenze iniziali dei film su Bil’in, questa lunga digres-
sione sul significato di «terra morta» potrà sembrarvi superflua, tanto forte
è l’impatto emotivo della ruspa che sradica gli ulivi, anche quelli più antichi
e maestosi. La terra morta appare in tutto il suo dramma di terra uccisa, e le
radici divelte gridano l’indicibile paradosso che prolunga la storia di Israele
nei millenni. Quanta pseudofilosofia, quanta spazzatura letteraria fu prodot-
206
ta sull’Ebreo errante, che, sradicato, sradica, e diventa un paradigma della
modernità sradicatrice, della fluidificazione di tutti i valori nel fluido circo-
lare del denaro o del capitale finanziario. Quanta rivoltante idiozia nell’an-
tisemitismo metafisico che gronda, ad esempio, dai Quaderni neri del filosofo
più letto e venerato del secolo scorso, Martin Heidegger, questo mediocre so-
fista che divenne talmente popolare in Europa da inquinare l’intero canone
dell’insegnamento della filosofia [18].
e
or
La terra dove l’ulivo è un simbolo sacro di vita e di pace,
ut
come lo era alla dea Atena, o sul monte Ararat,
l’a
o in ogni terra mediterranea
r
pe
E quanta cattiva metafisica delle «radici» cristiane dell’Europa, come se l’Eu-
ia
ropa non fosse la patria dei diritti umani universali, come se il cristianesimo
op
non fosse soprattutto la religione del vento che soffia dove vuole e quando è
C
veramente divino non è che una brezza, ruah, spirito. E poi, semmai, la reli-
o.
gione di un uomo nudo, spogliato di ogni potere, ucciso in Palestina. La terra
in
L’U
ul
dove l’ulivo è un simbolo sacro di vita e di pace, come lo era alla dea Atena, o
M
lisse
sul monte Ararat, o in ogni terra mediterranea.
il
Non deve dunque stupire che una delle scene più forti, nel film Bil’in Habi-
e
d B ’
i
bti, sia quella della lettera che Mohammed Khadib porta ai soldati israelia-
ic
il
itr
in
ed
«Se foste venuti come ospiti, vi avremmo mostrato gli alberi che i no-
So
stri antenati piantarono qui, le piante, gli orti che noi facciamo cresce-
by
re. Ma voi siete venuti a sradicarli tutti, gli ulivi. […] Non ci sarà sicu-
©
rezza per nessuno di noi finché Israele non rispetterà i nostri diritti su
questa terra» [19].
ht
ig
yr
D
Ci avviamo alla fine di questa nostra storia che divaga e sogna, perché non
C
trova fine e soluzione e pacificazione. L’ultimo pezzo della storia che ci rac-
contò Mohammed comincia dove finisce il film (Bil’in Habibti). La scoperta
dell’illegalità anche secondo le leggi israeliane degli insediamenti di Modi’in
Illit, e soprattutto della sua inarrestabile crescita, aveva suscitato un’idea di
confronto assai simile a quella tecnica di discussione che i filosofi adotta-
no spesso nelle loro dispute: la reductio ad absurdum, che consiste nel portare
abilmente l’avversario, una volta che si sia lasciato sfuggire l’ammissione che
207
la neve è bianca, a dover dedurre dalle proprie premesse, più o meno nasco-
ste, che la neve è nera. Insomma, inchiodarlo a una contraddizione.
L’idea era semplice. Prima mossa: illegale per illegale, perché non facciamo
anche noi il nostro avamposto dall’altra parte del muro? La tecnica è nota: si
porta un contenitore, una roulotte, un caravan, e lo si installa lì, e poi man
mano ci si fanno crescere attorno altre strutture, altri caravan.
Detto fatto. Il muro, ancora in costruzione, e già soggetto a ordine di dislo-
cazione, permette a un camion di insinuarsi al punto di passaggio, che non è
e
ancora un attrezzato checkpoint, ma un varco sorvegliato da pattuglie mobi-
or
li: di notte si trova il momento giusto, e si passa di là. Il giorno dopo, una sor-
ut
ta di caravan o baracca mobile è già lì, su una delle alture assediate. I soldati
l’a
lo rimuovono immediatamente, ma intanto si conversa: perché non rimuove-
r
pe
te anche loro? Perché solo noi? Anche la tecnica dilatoria è nota: la differenza
è il fatto compiuto, il fatto inamovibile. La casa vera e propria, fissa, abitata.
ia
Ma c’è tempo per una lezione di abusivismo edilizio. Che cosa si intende dun-
op
que per immobile abitabile? Si finge lo sconcerto, si prende nota delle minu-
C
ziose istruzioni. Dimensioni minime, altezza, superficie, almeno una finestra.
o.
onticelli
in
Mohammed e i suoi compagni si preparano: due camion vengono armati di
ul
tutto il necessario. Ed ecco, la sera di Natale, il primo, con Mohammed alla
M
il
Con lui c’è anche una ragazza israeliana, oltre alla gente capace di tirar su pa-
De
e
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reti e tetto in una notte. Ma l’altro camion non fa in tempo a passare, e a que-
oberta
itr
sto punto i militari bloccano tutto. Niente da fare, anche Mohammed, inter-
ed
cettato dai militari, deve tornare indietro. Ma c’è molto fango, e il suo camion
R
liana conversa con la sentinella a capo del presidio: non c’è modo di ricevere
ci
aiuto dai soldati per disincagliare il camion rimasto oltre il muro, e permet-
So
tergli di tornare indietro come gli hanno ingiunto? Impossibile. Le Forze del-
by
med, aprendo un varco ilare nel buio dell’ottusità saldata alla protervia, come
yr
i due battenti della Porta della Legge che gli stanno chiudendo in faccia. «Dun-
op
que non resta che andare a cercare aiuto dall’altra parte!» – la ragazza israelia-
C
208
lina da cui era stato rimosso il caravan, gli elicotteri in ricognizione segnala-
no qualcosa di nuovo. Le guardie accorse sono esterrefatte. Un’abitazione con
muri e tetto, finestra regolamentare, tutto a regola d’arte abusiva, perfetta.
Come è venuta su in una notte sola? Beh, ma è Natale. Sarà un regalo di Gesù
Bambino. Certo, i ragazzi dell’associazione Followers of Jesus the Palestinian
l’hanno già saputo, stanno venendo a ringraziare il cielo. E così tutti gli altri:
quelli di International Solidarity, quelli di Gush Shalom, gli Anarchici contro
il Muro, i fotografi, i cameramen… Troia è caduta. Fosse pure per un giorno
e
solo. La gioia esplode, incontenibile.
or
ut
l’a
Riuscirà un «fatto compiuto» palestinese a sopravvivere,
r
come le centinaia di migliaia di «fatti compiuti» israeliani?
pe
ia
Riuscirà un «fatto compiuto» palestinese a sopravvivere, come le centinaia di
op
migliaia di «fatti compiuti» israeliani? Io non lo so, e non ho osato chiederlo a
C
Mohammed. Il nostro racconto si chiude in dissolvenza sulla casa di là dal muro,
o.
«our tiny home», disse Mohammed. Proprio così, una casa piccolissima, e la di-
in
L’U
ul
mora di tutto il villaggio, forse di tutta la Palestina. Certe storie vere assomigliano
M
lisse
alle parabole del Vangelo, con le loro fiabesche sproporzioni; l’enorme cammel-
il
lo che passa per la cruna sottilissima dell’ago, il grano di senape che si fa immen-
e
d B ’
sa fronda carica di uccelli, di tutti gli uccelli del cielo. Sono le smisurate misure
i
ic
il
itr
della grazia, che ci vuole, dove non c’è giustizia. O, se volete, sono i colpi di grazia
in
ed
dello spirito, che è un altro nome dello humour – del sentimento del contrario.
à
et
POST-FACTUM E POST-SCRIPTUM
ci
Certo che le proteste dovettero continuare a lungo, prima che nel 2011 le au-
So
che restituivano al villaggio metà della terra rubata. Ma ora che il racconto
di Mohammed era finito, ci fu offerto uno sguardo sul presente della fattoria
©
dove ci trovavamo. Dalla parte degli orti, una leggera struttura di legno, circo-
ht
ig
lare, ancora a cielo aperto, a metà strada fra un palcoscenico mobile da teatro
yr
duti in circolo ad ascoltare Abu Ala che raccontava la sua storia. Abu Ala era
C
209
to gran profitti da quell’impresa. Confermarono che non era quello il loro fine.
Allora Abu Ala disse loro: questa terra voglio darvela per cinque anni, non per
tre, e non in affitto, ma gratis. Poi ci mostrò come, tutt’intorno, la fattoria si sta-
va attrezzando per ospitare volontari da ogni Paese oltre che da ogni luogo del-
la Palestina, che volessero offrire il loro lavoro e apprendere l’arte della cura,
anche per periodi di una stagione o due. E ciascuno non avrebbe solo imparato
un’arte utile, ma coltivato intanto anche il suo proprio talento, qualunque fos-
se. Poi Abu Ala ci indicò l’orizzonte, dove il profilo della colonia, fantasmatico
e
nel suo biancore, era come smaterializzato dai raggi del sole al tramonto. Un
or
tramonto davvero magnifico, in quella giornata di vento. E raccontò che quella
ut
terra gliel’aveva lasciata in eredità sua madre, che per comprarla aveva impie-
l’a
gato i risparmi di una vita. E che quando lui guardava il sole tramontare all’o-
r
pe
rizzonte, era certo di vedere, in quella luce, anche il sorriso di sua madre, che
gli diceva: hai fatto un buon affare, Abu Ala. Veramente un buon affare.
ia
C’è un video che mostra questa fattoria, e si può vedere come sia divenuta
op
anche una scuola stagionale di agricoltura sostenibile, e seguire una lezione
C
e chiedersi se si vorrà andare là, come volontari stagionali, a imparare molte
o.
onticelli
in
cose. Abu Ala, là, dice che un giorno venne in visita in fattoria e ci trovò die-
ul
ci persone, e ciascuno veniva da un diverso Paese del mondo [20].
M
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il
De
e
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oberta
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organizzano da molti anni, perché chi vi prende parte veda ogni cosa «con i propri
à
et
occhi». Il racconto riguarda uno solo dei molti luoghi che in una settimana destina-
ci
ta a restare per tutti memorabile si riescono non dirò a visitare, ma a vivere. Le sco-
So
ralmente anche di ricerca posteriore: e non sarebbero state possibili senza le fonti, le
immagini, le informazioni, le segnalazioni accumulate sul sito di Assopace, ma an-
©
che nel fiume impetuoso della chat che ancora tiene legati i partecipanti. Per la par-
ht
ig
ticolare pagina di questo viaggio che il mio racconto rimemora, debbo i documenti
yr
senza i quali – come senza Luisa Morgantini – questo dolente eppure vivificante ca-
C
pitolo di una coscienza, e della coscienza di un filosofo per giunta, o almeno di una
(vecchia) professoressa di filosofia – non avrebbe potuto venire alla luce.
210
01 E. Weizman, Architettura dell’occupazio- posizione di Mandela sulla resistenza palestinese
ne. Spazio politico e controllo territoriale in Palesti- si veda il canale YouTube di Middle East Eye: basta
na e Israele, trad. it. Milano, B. Mondadori, 2007. digitare «Nelson Mandela: What the South African
02 A Modi’in Illit fu conferito lo status di icon said about Palestine».
municipalità nel 2008 da Aluf Gadi Shamni, un 10 Cfr. U. e Giovannangeli, L’ultima spe-
D
militare di carriera che divenne attaché militare ranza della Palestina si chiama Marwan Barghouti,
dell’ambasciata israeliana negli Stati Uniti nel 2009. www.globalist.it, 2.5.2021; M. Martinelli, Marwan
Ci si può chiedere come possa un militare decidere Barghouti, un rivoltoso illuminato e pacifista, pubbli-
di questioni e norme amministrative: ma come cato nella versione online di «Odissea» il 5.6.2017
vedremo questo è uno dei nodi della legislazione (www.libertariam.blogspot.com/).
palestinese, e ha molto a che vedere con il concetto 11 Si trova digitando «L’attività dei Comitati
di «terre morte». Ci tornerò sopra in seguito. Popolari per la resistenza nonviolenta Palestinese»,
03 Fu lui a riprendere la famosa formulazio- nell’ambito di ¡NO MÁS! per la Palestina.
e
or
ne onirica che per primo avanzò Israel Zangwill alla 12 Nel sito di «Bbc News»: Eu Vips hurt at
fine del XIX secolo. Cfr. E. Said, La questione pale- West Bank protest.
ut
stinese, trad. it. Milano, il Saggiatore, 1992, p. 61; C. 13 The Law in These Parts, www.thelawfilm.
l’a
Weizmann, 28 marzo 1914, in B. Litvinoff (a cura di), com.
The Letters and Papers of Chaim Weizmann, Vol. I, 14 Tutti i dati sono disponibili sul sito dell’O-
r
pe
Serie B, Jerusalem, Israel University Press, 1983, cha (UN Office for the Coordination of Humanita-
pp. 115 ss. rian Affairs), www.ochaopt.org.
ia
04 Come è noto, Theodor Herzl, autore di 15 La storia è parzialmente ricostruita da
Der Judenstaat e fondatore del Movimento sionista Wikipedia, alla voce «Modi’in Illit».
op
(1897), sostenne il diritto degli ebrei di fondare uno 16 Anche questa vicenda si trova riassunta
C
Stato ebraico, ove possibile in Palestina (ma non digitando semplicemente «Bil’in» nel sito inglese di
necessariamente, tanto che una prima ipotesi fu Wikipedia.
o.
l’Uganda). 17 G. Levy, La difesa ipocrita della democra-
05 Nel 2019 Netanyahu affermò pubblica- in
zia israeliana, «Internazionale», 20.1.2023.
L’U
ul
mente che «lo Stato di Israele non è lo Stato di tutti 18 E. Faye, Heidegger, l’introduzione del
M
lisse
i suoi cittadini ma del popolo ebraico esclusiva- nazismo nella filosofia, trad. it. Roma, L’Asino d’oro,
mente». Lo fece riferendosi all’avvenuta approva- 2012.
il
zione, l’anno precedente, del Nation State Bill che 19 M. Kahtib, Bil’in will continue to struggle
e
d B ’
definisce lo Stato di Israele «Stato-nazione del against the wall and settlements, www.zmag.org,
i
ic
il
itr
seguito alla sua approvazione (con 62 voti a favore, 20 Il video si trova sul sito di Assopace
in
ed
55 contrari, 2 astensioni) avvenuta il 19 luglio 2018 Palestina: Bil’in: la fattoria, vittoria contro il muro .
(legge in seguito dichiarata non anticostituzio-
nale dalla Corte Suprema di Israele). Questa era
à
et
D
noti che «l’appello al cielo», espressione con la
quale John Locke e la tradizione liberale legittima-
C
211
C
op
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So
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212
Idee
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PAOLO
BRANCA
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RELIGIONI
o.
C
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E RIVOLUZIONE
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pe
r l’a
ut
or
e
e ma ifestazio i di protesta che interessano la Repubblica islamica
e
or
L
n
n
dell’Iran, non certo le prime ma forse tra le più intense e continuative, do-
ut
vrebbero sollevare un interrogativo di fondo che però è di sovente trascura-
l’a
to. Il fatto che principii e valori religiosi comportino un sovvertimento della
r
pe
mentalità comune per condurre i credenti a un modo di essere «diverso» da
quello meramente mondano, spesso legato alla legge del più forte e comun-
ia
que lontano da ideali e «alternative» impostazioni dell’esistenza sia indivi-
op
duale sia collettiva, è senz’altro pacifico. Non altrettanto scontato è, invece,
C
che il ricorso a tali premesse possa o debba mettere in atto azioni rivoluzio-
o.
narie a livello istituzionale e politico. in
ul
Ci pare opportuno spendere qualche parola sul tema, che non inte-
M
213
L’IRRUZIONE EL TOTALMENTE «ALTRO» E LA PROSPETTIVA I UN «OLTRE»
D
D
Sia per competenze sia per ragioni di spazio ci soffermeremo qui sui tre mo-
noteismi abramitici, consapevoli che anche in altri contesti, mutatis mutandis,
potremmo riscontrare situazioni analoghe.
Oltretutto nelle religioni «rivelate», ossia che dipendono da una Pa-
rola di origine divina che si rivolge in vari modi agli esseri umani, i Testi cui
si fa riferimento – Bibbia e Corano – contengono anche disposizioni che non
riguardano unicamente precetti del culto, ma anche altre «norme» che spa-
ziano su vari ambiti della vita dei singoli e dei gruppi, ben oltre il limite che
e
or
siamo ormai soliti (di recente e nemmeno in tutto l’Occidente) considerare
ut
«profani» o, per dirla con un termine più a noi vicino, «laici» (basti pensare
l’a
all’interdizione vigente in alcuni Stati degli Stati Uniti a trattare delle teorie
r
evoluzioniste nelle scuole).
pe
L’aspetto etico-giuridico, tuttavia, è soltanto una conseguenza di mes-
ia
saggi più propriamente pedagogico-narrativi che tentano di rimediare a un
op
male «originario». Anche senza che si condivida il dogma del peccato origi-
C
nale, dalle tre religioni suddette è riconosciuta una distanza, uno iato fra la
o.
condizione creaturale primigenia e ciò che ne è seguito.
ul
in
ranca
M
La finalità del discorso celeste non può pertanto esser ridotta alle sue pur pre-
P
ed
più danni che vantaggi, in quanto non si è a lungo (e da parte di alcuni, tutto-
ci
So
ra) tenuto conto che – per essere inteso e messo in atto – il messaggio non ha
potuto fare a meno anzitutto di «tradursi» in linguaggio a noi accessibile (con
by
e temporali in cui è risuonato per la prima volta, per poi riproporsi ed essere
ht
a patto che non ne venga compromesso l’intento, che per sua natura «oltre-
op
passa» i limiti sia della nostra comprensione sia di qualsiasi sua attualizzazio-
C
ne storicamente determinata.
214
mondo antico, appaiono di una banalità sconcertante. In teologia non valgo-
no criteri aritmetici: le pur molteplici divinità arcaiche pretendevano infatti
anche sacrifici umani e non sempre erano così aperte a «nuovi intrusi». Pro-
prio il monoteismo, anzi, che riserva la trascendenza e la santità a un solo
Dio, se rettamente inteso, apre la strada a una sana concezione del «profano»,
vale a dire di tutto ciò che Dio non è.
Tale inedita prospettiva non ha comunque compromesso la distinzio-
ne del Popolo di Dio in dodici tribù, e persino il passaggio alla monarchia fu
e
unicamente uno «strumento», come ogni forma di Stato o di governo, per or-
or
ganizzare meglio il «servizio» di guida della comunità, la quale vide inevita-
ut
bilmente sovrani che si mostrarono encomiabili accanto ad altri che lo furo-
l’a
no assai meno. Il ruolo svolto da Mosè come apportatore anche di una «legge»
r
pe
così come la sua funzione di leader «politico», similmente a ciò che sarà come
vedremo per Maometto, si spiega – rimanendo sul piano storico – per le ca-
ia
ratteristiche di frammentazione e di nomadismo dei destinatari del suo mes-
op
saggio, i quali erano privi tanto dell’una quanto dell’altro.
C
In chiave metastorica, invece, la fedeltà alla Torah gelosamente custo-
o.
R
eligioni
dita e puntualmente seguita si configura come tentativo di mantenere auten-
in
ul
tica l’adesione all’alleanza con il divino ben espressa dalla formula: «Quindi
M
prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quan-
e
il
to il Signore ha ordinato, noi faremo e ascolteremo!”» (Esodo, 24, 7), ove l’ap-
rivoluzione
e
ic
parente illogica consequenzialità temporale dei due ultimi verbi rivela inve-
itr
Non si può tuttavia dire che neppure i suoi primi e diretti discepoli ne com-
op
presero sempre o appieno il senso, e la storia delle chiese non è certo stata
C
215
figurarono come due distinti «poteri», mentre in Oriente prevalse il modello
«cesaropapista». Ridotto infine, per poi scomparire del tutto il «potere tem-
porale» della Chiesa cattolica, permane invece in quelle ortodosse un radi-
camento «locale», non a caso autocefalo, tuttora segnato dalla relazione non
semplice con i governi dei territori in cui esistono e con i quali mantengono
profondi legami etnico-linguistici e quindi anche nazionalistici le cui conse-
guenze si fanno pesantemente sentire [03].
e
PROSPETTIVA ISLAMICA: E PLURIBUS UNUM?
or
In un ambiente di nomadi divisi in tribù litigiose risuona ancora l’appello di-
ut
vino verso un’unificazione sulla base della medesima fede abbracciata:
r l’a
pe
«Afferratevi insieme tutti alla corda di Dio e non disperdetevi, e ricor-
date le grazie che Dio v’ha largito: eravate nemici e v’ha posto armo-
ia
nia in cuore e per la Sua grazia siete divenuti fratelli; eravate sull’orlo
op
di una fossa di fuoco e v’ha salvato; così Iddio vi dichiara i Suoi Segni
C
a che possiate trovare la giusta Via» (Corano, 3, 103).
o.
in
ul
ranca
Monoteismo, giustizia ed escatologia furono i temi principali della prima pre-
M
dovevano la propria fortuna sia alla presenza del santuario politeista che la
B
e
aolo
città ospitava, meta di pellegrinaggi da parte di tutte le tribù che vi ritrovava-
ic
itr
no i simulacri delle loro divinità, sia centro carovaniero per mercanti spesso
P
ed
alle altre e la funzione del Corano e dello stesso Profeta si videro arricchite di
ig
un ruolo normativo per quanto riguarda il Testo e di capo politico per quan-
yr
to riguarda Maometto, come è evidente nelle sure o capitoli che a tale perio-
op
do corrispondono [04].
C
216
Vi sono movimenti che, ispirandosi alla fede dei padri,
hanno agito e continuano a operare nell’agone politico
con modalità trasformative di forte impatto
Com’è noto, il sionismo è nato come ipotesi di una soluzione alla «questione
ebraica», vale a dire alla situazione non solamente di diaspora, ma soprattut-
to di discriminazione e persino di persecuzione, che i figli d’Israele sperimen-
tavano da secoli nelle varie parti del mondo in cui si erano dovuti disperdere.
e
Al suo inizio tale movimento aveva poco a che fare con l’identità religiosa de-
or
gli ebrei, molti dei quali non erano credenti o praticanti, e neppure necessa-
ut
riamente con la Palestina. Vennero ipotizzate anche altre soluzioni che oggi
l’a
ci sorprenderebbero in base al principio: «una terra senza popolo per un po-
r
pe
polo senza terra». Inoltre, fra i primi insediamenti ebraici in Terra Santa pre-
valsero forme di comuni agricole (i cosiddetti kibbutz) animati da coloni di
ia
op
tendenza socialista se non comunista, spesso provenienti dall’Europa orien-
C
tale del Primo dopoguerra. Soltanto successivamente il ritorno (o «salita»)
o.
alla terra dei Padri assunse tinte più religiose, specialmente da parte di alcu-
R
eligioni
in
ni raggruppamenti che tuttavia neanche oggi possono dirsi predominanti né
ul
tantomeno esclusivi nello Stato d’Israele.
M
Non è un caso che esso sia di sovente definito «l’unica democrazia del
e
il
rivoluzione
Medioriente» (nonostante le molte limitazioni patite dai non ebrei, non solo
e
ic
Paesi europei ha influito sulla sua istituzione e sulla forma di Stato che vi go-
et
allo status degli ebrei in Israele, riteniamo comunque che il termine «rivolu-
zione» non sia adeguato a definire la fattispecie del sionismo:
by
©
«C’è stata una rivoluzione sionista? Se sì, qual è stata la sua natura?
ht
[…] Che si sia trattato, riguardo all’impatto del sionismo sulla storia
ig
217
Quanto ai cattolici alle prese con la modernità e le forme statuali che le sono
propri, coloro che vi si opposero sono stati definiti «integralisti», a significare
l’intento di far perdurare la societas christiana del Medioevo in condizioni che
l’avevano ormai invece definitivamente compromessa.
In questo caso sarebbe forse possibile parlare di posizione controrivo-
luzionaria, riferita principalmente alla Francia del 1789, se non conservatrice
o reazionaria. Il Sillabo e la polemica anti-modernista ne sono stati le espres-
sioni più celebri, rimaste tuttavia dopo il Concilio vaticano II appannaggio di
e
una residua per quanto combattiva minoranza.
or
Più articolato è il caso del fondamentalismo, termine di origine ingle-
ut
se e non certo araba, maturato in parte dell’evangelismo statunitense specie
l’a
nella dichiarazione di Chicago del 1978 che proprio fra i punti «fondamenta-
r
pe
li» non negoziabili elencava «l’inerranza del Testo biblico» che si intendeva
difendere dagli attacchi di un approccio storico-critico demitizzante proprio
ia
della vecchia Europa. Anche in questo caso ci pare che al massimo si possa
op
parlare di conservatorismo antirivoluzionario.
C
L’esito isolazionista e persino, in alcuni casi limite, di suicidi di mas-
o.
in
sa la dice lunga sulla sostanziale incompatibilità di tali orientamenti con gli
ul
ranca
standard della vita associata ormai prevalenti, che solo una chiusura mentale
M
e
aolo
ic
itr
ed
D
Forme di ribellione e movimenti «alternativi» sarebbero comunque rintrac-
à
ciabili nella lunga storia dei tre monoteismi in esame, ma il concetto stesso di
et
lisi della natura e delle caratteristiche delle società e di una loro sistematica
So
di altre tipologie di leadership sono stati epifenomeni che non hanno radical-
ht
Le premesse perché ciò potesse accadere sono state poste in Europa oc-
yr
dualmente dal controllo della Chiesa che peraltro con la Riforma protestante
visse anche al proprio interno una spaccatura debitrice almeno in parte rispet-
to a simili nuovi orientamenti. Le cose mutarono tuttavia progressivamente,
non senza fasi di arretramento, ma la crescita e l’affermazione di una vasta e
potente classe media, distinta dalla nobiltà e dal clero, insieme alla tendenza
verso la costituzione di Stati nazionali indipendenti al posto di perduranti for-
me di governo imperiale, fecero infine maturare la svolta decisiva.
218
Con la Rivoluzione americana la legittimità del sovrano britannico venne
messa in discussione dai suoi stessi coloni che se ne resero indipendenti, piutto-
sto che dalle popolazioni locali come ci si sarebbe potuto aspettare, mentre la Ri-
voluzione francese instaurò una Repubblica laica di chiara impronta borghese.
Figlia dell’Illuminismo, fu quest’ultima a ispirare moti simili un po’
ovunque con una specie di accelerazione della storia per quanto riguarda i si-
stemi istituzionali e aprendo la via a ulteriori critiche rispetto alla struttura
delle società che col tempo avrebbe condotto alle teorie marxiste.
e
La nascita di Stati nazionali moderni e indipendenti venne poi accom-
or
pagnata dalla rivoluzione industriale, trampolino di ulteriori mutamenti che
ut
sembravano confermare la capacità umana di dominare la natura e di ser-
l’a
virsi di nuove forme di energia che permisero la fabbricazione di macchine
r
pe
già previste in precedenza (si pensi all’elica di Leonardo che avrebbe potu-
to sollevarsi nell’aria se solo si fosse stati in grado di farla girare assai più ve-
ia
locemente). Nello stesso tempo, però, sia l’estrazione del carbone sia il lavo-
op
ro umano impiegato nelle fabbriche trasformarono innumerevoli contadini
C
in minatori e operai, la classe «proletaria» di cui appunto si occuparono nuo-
o.
R
eligioni
vi movimenti politici e inedite ideologie. in
ul
M
e
Chi aderì al progetto palingenetico della rivoluzione proletaria
il
rivoluzione
e
forse anche ispirati dalle esigenze di giustizia delle rispettive fedi, ma non si
ci
può dire che esse furono prevalenti nel determinare la loro scelta, così come
So
non ebbero alcun ruolo sul progetto rivoluzionario che abbracciarono né tan-
by
sava tutti coloro che venivano sfruttati e oppressi dal medesimo sistema. An-
op
219
II, partendo dalla situazione di estrema povertà e ingiustizia che missionari
cattolici constatarono nei Paesi del cosiddetto «terzo mondo» e in particola-
re in America Latina.
Una «nuova teologia intanto si stava formando anche in Europa», spe-
cialmente in Francia e in Belgio, ed ebbe come conseguenze i noti fenome-
ni dei «preti operai» e delle «comunità di base», nel segno della condivisione
e della redenzione degli «ultimi» che aveva già contrassegnato alcuni movi-
menti e ordini religiosi nel passato, ma si era limitata a una scelta di vita so-
e
bria e al servizio dei bisognosi.
or
Fu la Conferenza episcopale latino-americana, specialmente nel con-
ut
gresso di Medellin nel 1968, a raccogliere tali istanze incoraggiando i laici e il
l’a
clero a farsi carico dei diritti dei poveri, compromessi da un sistema econo-
r
pe
mico e sociale contrario ai valori del Vangelo e alla volontà divina.
La definizione dei Paesi poveri come «in via di sviluppo» sembrava in-
ia
dicare la possibilità che il divario delle condizioni di vita dei loro abitanti ri-
op
spetto a quelle del mondo sviluppato sarebbe stato superato col tempo, ma
C
tale illusione non resse a lungo e divenne evidente che ciò non si sarebbe mai
o.
in
avverato se non grazie a un cambiamento radicale della politica e dei rapporti
ul
ranca
di forza fra le due parti del pianeta: la ristretta cerchia dei Paesi occidentali in
M
pieno boom economico e il resto delle nazioni escluse da tale progresso, nelle
il
e
aolo
ic
Tali considerazioni stanno alla base del celebre libro del teologo peru-
P
ed
viano Gustavo Gutierrez, Teologia della liberazione. Prospettive, uscito nel 1971
à
(trad. it. Queriniana, 1972) e al quale ne seguirono molti anche di altri autori
et
schierati sulla stessa linea; un nuovo modo di fare teologia, non più limitata a
ci
la ricerca del Suo volere e nella anticipazione della salvezza «qui e ora», non
by
soltanto quella della vita futura ma la trasformazione della vita dei credenti
©
e del mondo che li circondava in base al loro rapporto con Dio e la Sua Paro-
ht
la, rivisitata tenendo conto delle urgenze di cambiamento nelle relazioni fra
ig
gli esseri umani che devono ispirarsi alla giustizia, alla libertà e alla fraterni-
yr
220
inceppata. Ciò non toglie che sia stato il comandante di altri che invece ucci-
sero davvero gli aguzzini di turno, ma come forma interposta di legittima di-
fesa di innocenti inermi da essi fatta propria, storia assai diversa per modali-
tà e finalità di quella ambigua del cosiddetto «frate mitra», al secolo Silvano
Girotto, ch’ebbe a che fare anche con le Brigate rosse, condividendone in par-
te l’operato per poi invece divenire un collaboratore di giustizia.
Negli anni Ottanta del secolo scorso la Congregazione per la dottrina
della fede contestò alla teologia della liberazione di essere troppo condiziona-
e
ta dal marxismo e di trascurare la soteriologia ultraterrena, parte fondamen-
or
tale dell’annuncio cristiano. Tuttavia, alcune istanze quali l’opzione prefe-
ut
renziale per i poveri e l’impegno per la loro promozione umana non poterono
l’a
essere respinti e risuonano in molti documenti pontifici fino a oggi. Anche la
r
pe
condizione femminile e il rispetto della spiritualità tipica delle popolazioni
indigene stanno affiorando come ulteriori ambiti per la teologia della libera-
ia
zione, che però corre il rischio, secondo alcuni, di interessarsi unicamente di
op
categorie svantaggiate e oppresse senza un adeguato riferimento al ruolo di
C
Dio e della fede in Lui e a favore di tutta l’umanità, che la condannerebbe a
o.
R
eligioni
un immanentismo irricevibile. in
ul
M
RAGIONEVOLI UBBI
e
il
D
Non soltanto le scienze cosiddette «esatte», soprattutto la fisica quantistica,
rivoluzione
e
ic
ritiene accettabili solo sentenze che siano «al di là di ogni ragionevole dub-
à
competenze non sarebbero mai in grado di evitare tenendo conto nella giu-
So
za» del nostro sapere non debba valere altrettanto. Si va per ipotesi e pro-
ht
accettare senza pretendere di più. Fatte salve queste premesse, ci sembra ra-
yr
221
IL CASO EI REGIMI «ISLAMICI»
D
Il trasferimento della definizione di «fondamentalisti» ai moderni movimenti
islamisti, per ragioni di egemonia linguistica, è stato tanto inevitabile quan-
to inavvertitamente problematico: l’interpretazione del Testo «rivelato» non
è infatti il punto cruciale della questione.
L’intero mondo musulmano sembra interessato da una progressiva
crescita e affermazione di correnti e movimenti che puntano decisamente
all’islamizzazione integrale della società, proponendo questa opzione come
l’unica in grado di risolvere, insieme ai molti problemi che affliggono questa
e
or
parte del mondo, la sua stessa crisi di identità e di rispondere all’ansia di ri-
ut
scatto che la pervade. Così facendo essi pretendono di riproporre semplice-
l’a
mente il giusto rapporto tra religione e politica che l’islam implicherebbe ne-
r
cessariamente e che sarebbe stato alla base della straordinaria espansione e
pe
fioritura dei secoli d’oro della civiltà musulmana.
ia
Fino a che punto questa ideologia si riallaccia effettivamente alla tradi-
op
zione islamica e in che misura è invece una sua reinterpretazione funzionale
C
a situazioni recenti e contingenti? Parole d’ordine e strategie dei gruppi che se
o.
ne fanno promotori appartengono veramente a un presunto modello islamico
in
ul
originario o riproducono in chiave religiosa qualcosa di analogo a quanto fino
ranca
M
rio? Perché queste due ultime impostazioni, sino a ieri prevalenti, sembrano
B
e
aolo
inesorabilmente entrate in crisi e quali sono i motivi della grande fortuna in-
ic
itr
ed
te russa e della crescita esponenziale della Cina, impone una valutazione più
ci
attenta di quella realtà articolata e complessa che troppo spesso viene sbriga-
So
natica», mentre rappresenta soltanto uno dei possibili volti attraverso i quali
una grande civiltà torna a farcisi incontro, in una stagione di rinnovati e inedi-
©
222
presenze avvertite con disagio, quella islamica viene presentata e percepita
come la più invadente, problematica e difficilmente assimilabile:
e
non lo sono per niente. Eppure, né gli asiatici né gli indiani suscitano,
or
di solito, reazioni di rigetto, nemmeno dove sono oramai numerosi (gli
ut
asiatici negli Stati Uniti, gli indiani in Inghilterra). Vale anche notare
l’a
che gli asiatici non si lasciano assimilare più di quanto accada agli afri-
r
pe
cani. Dal che si deve ricavare che la xenofobia europea si concentra su-
gli africani e sugli arabi soprattutto se e quando sono islamici. Cioè a
ia
dire, si tratta soprattutto di una reazione di rigetto culturale-religio-
op
sa. La cultura asiatica è anch’essa lontanissima da quella occidentale,
C
ma è pur sempre «laica» nel senso che non è caratterizzata da nessun
o.
R
eligioni
in
fanatismo o comunque militanza religiosa. Invece la cultura islamica
ul
lo è. E anche quando non c’è fanatismo, resta che la visione del mon-
M
e
il
rivoluzione
e
ic
giungo, della civiltà liberale. E questi sono i veri nodi del problema.
et
riche di governo, ma è il caso del solo Iran sciita (circa il 10% dei musulmani),
ht
do gli Stati interessati qualcosa che, con alcune varianti, è in buona sostanza
op
un ministero degli Affari religiosi. Portare poi come esempio di mancata inte-
C
grazione quello dei musulmani, il caso del subcontinente indiano rasenta l’in-
verosimile: se c’è un luogo dove essi sono stati maggiormente influenzati da
usi e costumi locali è proprio l’India e le recenti tragedie di giovani donne pa-
kistane assassinate dai loro stessi parenti perché riluttanti a matrimoni «com-
binati» fin dalla loro nascita ne è la prova lampante. Nulla del genere è infatti
riscontrabile nelle fonti musulmane e si tratta piuttosto di consuetudini loca-
li ritenute islamiche senza alcun fondamento.
223
Oltretutto, la questione del giusto rapporto che deve sussistere fra re-
ligione e politica è uno dei temi più dibattuti all’interno dell’islam, fin dalle
sue origini. Non mancano certo né sono di scarso rilievo coloro che concepi-
scono tale rapporto in termini di stretta interdipendenza in senso integrali-
sta, ma pretendere che vi sia in proposito una visione unica e invariabile è
quanto meno azzardato.
Sono anzi proprio alcuni intellettuali di spicco iraniani, non a caso
quasi del tutto ignorati, a denunciare nettamente il paradosso che ci attana-
e
glia: «Se possiamo conciliare islam e rivoluzione, perché non anche islam e
or
diritti umani, democrazia e libertà?» [08]. Fino a esplicite accuse di una passi-
ut
vità potenzialmente devastante:
r l’a
pe
«Rivoluzione islamica (o indù, o buddhista…): quale dei due termini
è il più attivo, il più determinante? Rivoluzione o islam? È la religio-
ia
ne che cambia la rivoluzione, la santifica, la risacralizza? O è al contra-
op
rio la rivoluzione che storicizza la religione, che fa di essa una religione
C
impegnata, in breve, un’ideologia politica? […] Così facendo, la religio-
o.
ne cade nella trappola dell’astuzia della ragione: volendo ergersi contro
in
ul
ranca
l’Occidente, si occidentalizza; volendo spiritualizzare il mondo, si se-
M
e
aolo
Come in alcuni casi prodotti dalla «teologia della liberazione» cristiana, si è
ic
itr
ed
sentando la propria causa come uno scontro fra luce e tenebre, non privo di
ci
nocenti non trova alcun limite fino a degenerazioni che pongono il gruppo
by
di fedeli a oltranza al posto di Dio stesso nel valutare chi abbia il diritto a
sopravvivere o meno e ad agire di conseguenza. Com’è noto la propaganda
©
da cui riprendiamo uno stralcio per dare un’idea del contenuto e dello stile:
op
deciso di colpire il nemico sul suo proprio terreno, affinché sappia che
la guerra non si fa guardando la tv o votando in un parlamento. Che la
Francia pianga i suoi morti e veda il colore del loro sangue, come fac-
ciamo noi coi nostri. […] Il Califfo dei musulmani ha incitato i creden-
ti a colpire nei Paesi occidentali attraverso le parole di Abù Muham-
mad Al-’Adnànì: “O monoteista, non perder l’occasione di combattere
in qualsiasi modo: attacca i soldati e coloro che parteggiano per i tiran-
224
ni, le loro forze armate, la loro polizia, i loro servizi segreti e i loro col-
laboratori. Fai tremare la terra sotto i loro piedi, rendi loro la vita im-
possibile, e se puoi uccidere un miscredente americano o europeo. […]
Se non hai esplosivo o armi, isolati con un miscredente qualsiasi e fra-
cassagli la testa con una pietra, oppure sgozzalo con un coltello, arro-
talo con la tua auto, gettalo da un monte, strozzalo o avvelenalo. […]
Se non ne sei in grado, dai fuoco alle loro case, alle loro auto e negozi…
e se neppur questo ti è possibile sputa almeno loro in faccia. Se ti rifiu-
ti di farlo mentre i tuoi fratelli son bombardati, si fanno uccidere, per-
e
or
dono la vita e ogni loro avere ovunque, allora poniti seriamente delle
ut
domande circa la tua fede, in quanto sei in grave pericolo, la religione
l’a
infatti non esiste senza lealtà e dedizione”» [10].
r
pe
L’ALIBI ELLA SHARÌ’A
ia
D
Pur senza giungere a livelli di paranoia come quelli or ora citati, non sono
op
mancati né mancano movimenti che argomentano la necessità di un sovver-
C
timento delle istituzioni anche mediante il ricorso alla violenza pretendendo
o.
R
eligioni
di definire i propri avversari degli apostati, in quanto non applicherebbero la
in
ul
famosa sharì’a o legge islamica, l’unica completa, perfetta e non modificabi-
M
le poiché avrebbe Dio stesso come emanatore e quindi anche la sola a poter
e
il
rivoluzione
e
in pratica dei giurisperiti dei primi secoli e delle loro scuole) e il principio
by
225
to sconosciuti in Occidente – non pochi musulmani invocano, mettendosi pe-
ricolosamente a rischio, che ci si attenga al solo testo coranico, debitamente
contestualizzato e interpretato [12]. Nel contesto arabofono classico, tra l’al-
tro, sono stati probabilmente più i letterati e in particolare i poeti a mettere
in cattiva luce sovrani dispotici e crudeli rispetto ad altre categorie di perso-
ne istruite [13].
CONCLUSIONI
e
La necessità di norme per il funzionamento di qualsiasi collettività è evi-
or
dente fin dal codice di Hammurabi, ma lo «Stato etico» d’ispirazione hege-
ut
liana ha dato vita ai totalitarismi di estrema destra e sinistra devastando
l’a
l’Europa della prima metà del secolo scorso. Da quella francese alla bolsce-
r
pe
vica, le rivoluzioni che hanno avuto successo hanno anche comportato un
costo incalcolabile di vite umane, non come effetto collaterale ma per far
ia
piazza pulita dalle categorie dominanti nel precedente «ordine» e questo è
op
probabilmente anche il fattore determinante di varie forme di terrorismo
C
che mira almeno a destabilizzare un sistema in vista di una presunta e im-
o.
minente rivoluzione destinata a stravolgere le istituzioni di un sistema per
in
ul
ranca
sostituirle con altre.
M
mente ispirati ci pare sia figlia più di questo «recente» e problematico mo-
B
e
aolo
dello che di genuine impellenze dettate dalla fede. Il pensiero religioso, del
ic
itr
ed
viene elaborato.
Gli esiti di tali «rivoluzioni» o comunque di regimi che si ispirano
à
et
gnarci nulla.
yr
op
C
226
01 E.W. Böckenförde, Lo Stato come Stato
etico, trad. it. Pisa, Ets, 2017, pp. 29 ss.
02 Cfr. A.J. Herschel, Dio alla ricerca dell’uo-
mo, trad. it. Roma, Borla, 1983; A. Neher, L’essenza
del profetismo, trad. it. Milano, Lampi di Stampa,
1999; A. Mello, Il Dio degli Ebrei: Riflessioni sull’E-
sodo, Milano, Terra Santa, 2016.
03 Cfr. G. Giavini, Ma io vi dico. Esegesi e
vita attorno al Discorso della montagna, Milano,
Ancora, 1993.
04 Cfr. P. Branca, Introduzione all’Islam,
Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni, 1995.
05 . Vital, Zionism as revolution? Zionism
e
D
or
as rebellion?, «Modern Judaism», vol. 18, n. 3/1998,
p. 205.
ut
06 V.M. Manfredi, Quinto comandamento,
l’a
Milano, B. Mondadori, 2018.
07 G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo
r
pe
ed estranei, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 48 ss.
08 Ed. a cura di M. Sadri e A. Sadri, Reason,
ia
Freedom, and Democracy in Islam. Essential
Writings of Abdolkarim Soroush, Oxford, Oxford
op
University Press, 2000, p. 22.
C
09 . Shayegan cit. in K. Fouad Allam,
D
L’Islam globale, Milano, Rizzoli, 2002, p. 79.
o.
R
10 Cit. in P. Branca, Islamismo, Milano,
eligioni
Editrice Bibliografica, 2017. in
ul
11 Cfr. . Gambetta e S. Hertog, Engineers
D
M
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rivoluzione
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227
C
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