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Comportamenti problema

Capire, valutare e agire

Marco Pontis
Copyright © 2018 Marco Pontis

Tutti i diritti riservati.

A tutti i ragazzi che ho incontrato negli ultimi quindici anni ed alle loro famiglie. Loro mi hanno
pazientemente insegnato che, se si impara a guardare “oltre la diagnosi”, è possibile scorgere un
potenziale educativo enorme poiché qualsiasi persona, anche con bisogni educativi estremamente
particolari, è infinitamente di più di una qualsiasi diagnosi e dei suoi comportamenti problema.

INDICE
Ringraziamenti

Introduzione 1
1 Comportamenti problematici 7

2 L’importanza della valutazione 13

3 L’osservazione sistematica 17

4 Scoprire la funzione (o le funzioni) dei 32


comportamenti problema

5 La valutazione in ambito scolastico 54

6 Strategie di intervento educativo 58

7 I rinforzi 73

8 Possibili interventi in base alla funzione del 80


comportamento problema
9 Bibliografia, link e materiali utili 104

Appendice 122

Scheda di osservazione del comportamento


(ABC)

RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento speciale ad Andrea Canevaro, Dario Ianes, Sofia Cramerotti e Giorgia


Sanna per i loro preziosi insegnamenti e per il continuo e prezioso incoraggiamento al miglioramento
ed alla ricerca.
Un grazie di cuore a Michael Powers ed a Marco De Caris per avermi guidato e supportato,
soprattutto nei primi anni di lavoro come educatore e pedagogista, nel difficile lavoro per la riduzione
e per l’eliminazione di gravi comportamenti problema dei ragazzi che ho incontrato.
Infine, un ringraziamento sentito a Fabio Meloni per il suo supporto professionale ed umano
durante la scrittura di questo libro.

Introduzione

L’intento di questo libro è quello di fornire ai genitori, agli educatori ed


agli insegnanti, che quotidianamente si prendono cura di persone con
disabilità complesse, disturbi dello spettro autistico, bisogni educativi
speciali e comportamenti problematici, un chiaro percorso di partenza per
imparare a comprendere meglio le funzioni dei comportamenti problema
dei propri ragazzi e incominciare a scoprire quali strategie e tecniche
educative possono risultare utili - e in alcuni casi risolutive - per la
riduzione ed eliminazione di gravi comportamenti disfunzionali.
Per predisporre un programma di intervento calibrato sui bisogni
specifici della singola persona e quanto più possibile condiviso in rete
(scuola-famiglia-comunità-territorio) ed efficace, è necessario prima di tutto
comprendere quale funzione (o quali funzioni) il comportamento problema
ha per la persona che lo manifesta.
Ogni situazione va chiaramente analizzata attentamente nella sua
singolarità ma, attualmente, gli operatori possono avvalersi di forme di
intervento basate sulle evidenze scientifiche, modalità didattiche e strategie
educative di comprovata efficacia che, se attuate con competenza e buon
senso, possono condurre la persona con comportamenti problema e la
propria famiglia ad un sostanziale miglioramento della qualità di vita. Per
rispondere in modo adeguato a bisogni educativi così particolari è
necessaria una formazione specifica dei familiari e degli operatori. Per le
persone con autismo e altre disabilità complesse che comportano
significative difficoltà di comunicazione, ad esempio, buona parte di questi
comportamenti nasce dall’incapacità di comprendere le richieste
dell’ambiente (soprattutto quelle di natura sociale), dalla difficoltà nel
comunicare bisogni e desideri, nel gestire le emozioni o, in alcuni casi, da
alterazioni percettive estremamente soggettive.
Attualmente l’approccio ABA per l’analisi del comportamento e per
l’individuazione delle variabili che contribuiscono a innescare
(antecedenti), mantenere e rinforzare (conseguenze) i comportamenti
problema, all’interno di una dimensione inclusiva, offre ai genitori e ai
professionisti degli strumenti preziosi per gestire e affrontare i
comportamenti problema. Attraverso lo studio scientifico della frequenza e
dell’intensità, ad esempio, di questi comportamenti nei diversi contesti di
vita, degli antecedenti e delle conseguenze, è possibile comprendere la
funzione o le funzioni che questi comportamenti hanno per la persona che li
mette in atto e, rispettando innanzitutto le sue particolari caratteristiche e i
suoi bisogni speciali, è possibile proporre un intervento educativo
ecologico-funzionale efficace, talvolta persino risolutivo.
A scuola è possibile ed auspicabile coinvolgere tutto il gruppo classe
nel percorso educativo comune per aiutare il proprio compagno a liberarsi
dai comportamenti problema. I compagni di classe possono aiutare l’alunno
con comportamenti problema in tanti modi diversi, prima di tutto però,
proprio perché non esiste un bambino identico all'altro pur avendo la stessa
diagnosi, imparando a conoscere e a rispettare le caratteristiche peculiari del
proprio compagno in quanto persona, interagendo e comunicando con lui
quotidianamente.
Ho imparato, negli anni, che i compagni di classe di un bambino o di un
ragazzo con disturbi dello spettro autistico o altre disabilità complesse sono
la sua risorsa più grande. Se educati alla conoscenza, al rispetto ed alla
valorizzazione di tutte le diversità, siano esse legate a condizioni di
disabilità, ai diversi stili di apprendimento o alla semplice originalità di
ciascun alunno, i bambini e i ragazzi, che hanno molti meno pregiudizi di
noi adulti, diventano il vero motore dell'inclusione, oggi possibile anche
oltre la scuola.
In questi anni ho visto nascere profonde e genuine amicizie tra
compagni e compagne di classe, disabili e non, in grado di veicolare con
forza i valori della vera inclusione ben oltre la scuola: nelle società sportive,
nei gruppi di amici, nella comunità.
Spesso i compagni di classe conoscono meglio di molti educatori e
docenti, che si avvicendano lungo i percorsi formativi, i bisogni speciali del
proprio compagno. Se ascoltati, coinvolti e guidati adeguatamente dai
docenti, possono contribuire attivamente ad insegnare (o apprendere
insieme al compagno) nuove e diverse modalità di comunicazione e di
relazione tra pari, conoscere meglio le proprie caratteristiche, emozioni,
punti di forza e limiti, compiendo tutti insieme, come gruppo classe, un
percorso di crescita personale e sociale di inestimabile valore.
Spero che questo testo possa risultare utile ai genitori, agli educatori ed
agli insegnanti che si trovano a dover affrontare quotidianamente i gravi
disturbi del comportamento dei loro ragazzi.
1. COMPORTAMENTI PROBLEMATICI

Ogni giorno, tanti genitori, educatori ed insegnanti, si trovano a doversi


confrontare con l’arduo compito di gestire alcuni comportamenti
problematici dei propri figli o alunni che, talvolta, possono comportar loro
dei veri e propri danni, ostacolarne l’apprendimento e lo sviluppo globale o
essere causa di stigma sociale, discriminazione e bullismo.
In genere vengono definiti comportamenti problema tutti quelli che, per
svariate ragioni, creano danni, ostacoli all’apprendimento o difficoltà sociali
alla persona che li manifesta ed alla relazione con il suo ambiente.
La tipologia dei comportamenti problema è incredibilmente varia,
facciamo alcuni esempi:

Teodora è una bambina con deficit di attenzione e iperattività (ADHD)


di 8 anni che frequenta la seconda elementare. Gli insegnanti e i genitori
nutrono delle forti preoccupazioni perché la bimba non riesce a stare
seduta al proprio posto per più di dieci minuti, cerca in continuazione di
alzarsi, viene distratta da molteplici stimoli dell’ambiente e risulta quindi
veramente difficile coinvolgerla in qualsiasi tipo di attività didattica.

Francesco invece ha 4 anni ed ha appena ricevuto una diagnosi di


disturbo dello spettro autistico, trascorre la maggior parte del suo tempo a
casa, in compagnia della madre. La difficoltà di far fronte quotidianamente
ai suoi comportamenti autolesionistici costituisce un’enorme fonte di stress,
dolore e preoccupazione per i genitori e ciò li ha indotti a rimandare
ancora una volta l’iscrizione del bambino alla scuola dell’infanzia del
proprio paese. Ogni volta che si impedisce a Francesco di dondolarsi
violentemente su sé stesso, di togliersi gli indumenti di dosso o di toccare
oggetti pericolosi, lui grida e si morde le mani e le braccia provocandosi
talvolta delle brutte ferite.
Michele ha 11 anni, frequenta la prima media e presenta uno sviluppo
tipico, è stato individuato dal collegio dei docenti come alunno con bisogni
educativi speciali in base alle indicazioni della Direttiva Ministeriale
(2012) e della Circolare Ministeriale (2013) sui BES. L’aggressività fisica
nei confronti dei compagni è il comportamento che desta maggior
preoccupazione nel personale scolastico e nei genitori. Michele ha
manifestato più volte dei comportamenti aggressivi anche nei confronti di
Andrea, un compagno di classe con cui trascorre talvolta dei momenti di
svago al di fuori della scuola e, in seguito a questi spiacevoli episodi, la
loro frequentazione si è notevolmente ridotta. Negli ultimi due anni la
frequenza dei comportamenti di questo tipo è aumentata considerevolmente
in ambienti diversi, limitando in maniera significativa l’inclusione sociale
di Michele.

Questi sono soltanto alcuni esempi di comportamenti problema e, come


si può notare, anche le motivazioni che spingono a considerare tali alcune
manifestazioni del comportamento di un individuo sono estremamente
varie. Sia in ambito familiare che scolastico, vi è spesso un enorme
dispendio di tempo ed energie nell’impegnarsi a “gestire senza risolvere”
molti comportamenti che, talvolta, limitano notevolmente l’inclusione
sociale e il potenziale sviluppo della persona. Senza una formazione
adeguata, i familiari e gli operatori riescono soltanto in alcuni casi a trovare
delle modalità operative efficaci. Nella maggior parte dei casi, purtroppo, il
loro intervento si riduce a limitare il più possibile i danni che tali
comportamenti potrebbero arrecare alla persona stessa che li emette o alle
persone con le quali si relaziona.
Prima di intervenire su un qualsiasi comportamento è necessario
innanzitutto determinarne il grado di problematicità, stabilire quindi se esso
rappresenti un pericolo o un ostacolo oggettivo allo sviluppo e alla salute
della persona che lo mette in atto.
Spesso si incontrano comportamenti che non danneggiano, in senso
fisico, il soggetto o le persone con le quali si relaziona ma costituiscono
comunque degli ostacoli oggettivi al suo sviluppo intellettivo, sociale e
affettivo. È il caso, ad esempio, di alcune stereotipie che assorbono
completamente l’attenzione del bambino in giochi auto-stimolatori
piacevoli e gratificanti (dondolarsi ritmicamente, agitare le mani, girare su
se stessi) e gli impediscono di fruire degli stimoli dell’ambiente circostante;
dell’adesione incondizionata a rigidi rituali o di comportamenti come lo
spogliarsi in pubblico.
L’autolesionismo è un esempio emblematico della manifestazione di un
comportamento estremamente problematico e dannoso per l’individuo, di
fronte al quale è impensabile non intervenire. Procurarsi delle ferite
mordendosi le mani o altre parti del corpo, strapparsi i capelli, ingerire
sostanze o oggetti non commestibili (pica), procurarsi ripetutamente il
vomito, sono soltanto alcuni tra i casi in cui è doveroso un intervento
specifico urgente.
Il rispetto per l’identità della persona e per la sua libertà di espressione
impone però un’estrema cautela nel valutare la reale problematicità del
comportamento sul quale si ipotizza di intervenire. Ci sono infatti diversi
comportamenti “strani” o “bizzarri” come il riporre sempre le pantofole
all’interno dei bordi della stessa mattonella sul pavimento prima di andare a
letto, chiudere sempre tutte le porte di casa e infiniti altri, che risultano
espressioni del tutto particolari e soggettive della personalità dell’individuo
e come tali vanno rispettate.
Intervenire sui comportamenti scaturisce dall’autentica necessità di
liberare l’individuo dai vincoli che egli stesso, attraverso queste forme
problematiche di comportamento, può procurarsi, mantenendo sempre il
dovuto rispetto per l’individualità e le caratteristiche peculiari di ogni
persona.
Attraverso i notevoli progressi nelle tecniche di analisi del
comportamento e il continuo perfezionamento delle strategie di intervento
educativo, gli approcci cognitivo-comportamentali hanno acquisito un ruolo
di notevole rilievo nel promuovere il funzionamento sociale,
comportamentale e adattivo delle persone con disabilità complesse. Questo
tipo di interventi vengono adottati, ad esempio, per ridurre alcuni sintomi
comportamentali spesso associati all’autismo o ad altre disabilità
complesse, per potenziare le risposte adattive della persona e cercare di
eliminare quelle disadattive, promuoverne l’autonomia attraverso training
abilitativi e interventi educativi in grado di valorizzare i punti di forza della
persona.
Per predisporre un programma di intervento efficace, finalizzato alla
riduzione o eliminazione - ove possibile - dei gravi disturbi del
comportamento è necessario eseguire una buona analisi comportamentale,
non dimenticando mai che dietro comportamenti problema particolarmente
rilevanti c’è sempre un vissuto emotivo, una storia, una persona in difficoltà
che non può e non deve essere identificata con i suoi comportamenti
problema.
2. L’importanza della valutazione

La valutazione comportamentale è un processo continuo che


accompagna tutte le fasi dell’intervento educativo. Attraverso l’impiego di
metodi di raccolta e analisi dei dati, obbiettivi e affidabili dal punto di vista
empirico, fornisce numerose informazioni di tipo predittivo che risultano
fondamentali nella pianificazione dell’intervento individualizzato.
I dati raccolti durante l’applicazione dell’intervento inoltre risulteranno
estremamente utili per comprendere quali modifiche o miglioramenti
apportare all’intervento educativo e avranno dunque una valenza formativa.
Il processo di valutazione comportamentale fornisce infine un metodo per il
riepilogo formale dei dati sugli effetti complessivi dell’intervento, offrendo
un quadro riassuntivo preciso ed affidabile per il confronto degli indici
comportamentali prima e dopo l’intervento stesso.
Dietro comportamenti problematici di diversa natura c’è generalmente
un vissuto di disagio e forte preoccupazione da parte dei genitori e degli
educatori e la valutazione del ruolo interferente e ostacolante degli stessi
non è sempre ben chiara e condivisa da tutti gli operatori. Tutte le persone
che interagiscono con la persona che presenta dei comportamenti
problematici (genitori, educatori, insegnanti, terapisti) dovrebbero
collaborare in prima istanza alla produzione di una descrizione oggettiva
dei comportamenti problematici. È questo infatti un momento molto
importante nella ricerca di un primo punto di accordo da parte del gruppo di
persone che dovranno intervenire nel progetto educativo.
Definire l’oggetto comune di indagine, attraverso una descrizione non
interpretativa del fenomeno, è il necessario punto di partenza per chiarire
l’effettiva realtà comportamentale del soggetto. Si arriverà in questo modo
ad un elenco di comportamenti ritenuti problematici dalle varie figure,
descritti in maniera chiara, e non riducibili ad etichette poco utili (è
aggressivo), in modo da poter essere inequivocabili.
Al posto del termine generico ”aggressivo” avremo espressioni che
definiscono in modo chiaro le azioni specifiche che il bambino compie e
che vengono ritenute problematiche:
- colpisce i compagni con un oggetto o con la mano
- dà calci ai compagni e alle insegnanti
- rovescia il tavolo di lavoro
Non si tratta ancora di stabilire il perché di queste azioni ma di constatare in
maniera più oggettiva possibile la semplice forma delle stesse.
A questo punto il gruppo di persone che condivide la responsabilità
educativa del progetto di intervento dovrà passare alla fase immediatamente
successiva: decidere se questi comportamenti costituiscono un danno, un
ostacolo o producono stigma sociale e dunque rappresentano un problema
reale per l’individuo e se un eventuale intervento è necessario e
pedagogicamente giustificabile.
Se tutte le persone che partecipano al programma educativo,
perverranno ad una conclusione unanime sulla necessità di un intervento
specifico, si saranno gettate le basi per un lavoro coerente e omogeneo.

Un approccio funzionale ed ecologico alla valutazione dei disturbi del


comportamento comporta alcune fasi/elementi fondamentali:
- una precisa identificazione e descrizione oggettiva del/dei
comportamento/i problematico/i;
- la produzione di una chiara lista di comportamenti sui quali è necessario
concentrare l’attenzione e intervenire, approvata e condivisa da tutti gli
operatori che intervengono nel processo di presa in carico educativa del
bambino/ragazzo;
- l’indispensabile riflessione etica e pedagogica sulla reale problematicità
del comportamento in questione e la certezza che esso costituisca un
ostacolo oggettivo allo sviluppo cognitivo, comunicativo e relazionale della
persona;
- l'osservazione sistematica e la raccolta dei dati relativi alla frequenza dei
c.p. nei vari momenti della giornata e nei differenti contesti;
- l’analisi della funzione del c.p. e la determinazione delle variabili che lo
controllano (gli eventi del setting, i rinforzatori, gli stimoli antecedenti e
conseguenti);
- lo sviluppo di un programma di intervento basato sulle necessità
specifiche del bambino, capace di aiutarlo ad implementare le abilità
emergenti, utilizzare al meglio i propri punti di forza, ridurre e/o eliminare
comportamenti disadattivi e problematici, apprendere modalità
comunicative e comportamentali alternative socialmente più adeguate,
generalizzare in più contesti possibili le abilità acquisite;
- il monitoraggio continuo delle fasi di valutazione/intervento e la verifica
costante del raggiungimento degli obiettivi e dell’efficacia del programma
educativo globale.
3. L’OSSERVAZIONE SISTEMATICA

La valutazione comportamentale non può prescindere dall’osservazione


sistematica del comportamento o dei comportamenti problematici. Abbiamo
detto quanto sia importante una definizione chiara, obbiettiva e verificabile
del comportamento che si intende analizzare, in modo tale da permettere a
due osservatori indipendenti di concordare sul fatto che il comportamento
oggetto di disamina sia stato messo in atto o meno da parte della persona.
L’osservazione è quindi necessariamente la base di partenza per
l’intervento educativo. Esiste però una sostanziale differenza tra
l’osservazione informale e quella sistematica. La prima non prevede un
metodo di osservazione ma è sostanzialmente casuale e tuttavia inevitabile
e in molti casi preziosa, permette di farsi una prima idea della situazione da
analizzare e decidere cosa osservare con maggior precisione, ma non è
assolutamente oggettiva, affidabile e puntuale. Dall’osservazione informale
possono scaturire delle “etichette generiche” e imprecise che, se non
approfondite, possono causare delle notevoli distorsioni di giudizio. La
seconda invece prevede delle precise regole di osservazione definite a
priori. Due operatori potrebbero convenire sul fatto che “Adriana è
aggressiva”, ma non vi è garanzia alcuna sul fatto che i due osservatori si
siano realmente compresi. L’etichetta “aggressivo” non ci fornisce nessun
dato utile sulle circostanze che potrebbero risultare fondamentali per la
comprensione del problema: quando, come, dove, quanto, con chi è
aggressivo?
L’osservazione sistematica ha lo scopo di offrire delle precise risposte a
questi interrogativi. È necessario quindi definire esattamente “cosa”
intendiamo osservare e per fare ciò dobbiamo descrivere
operazionalmente/operativamente i comportamenti che osserveremo,
ovvero la loro topografia.

Esempi:
- Antonello dà uno schiaffo a Giorgio, il compagno di banco
(aggressività fisica verso un compagno)

- Giuseppe dà un calcio all’insegnante di sostegno (aggressività


fisica verso l’insegnante di sostegno)

- Adriana tira i capelli all’insegnante di classe (aggressività


fisica verso l’insegnante di classe)

Questo ci permette innanzitutto di classificare i comportamenti e le


categorie che intendiamo osservare, prima di procedere a identificarne gli
altri parametri di misurazione.
È ora indispensabile identificare la forma esatta che il comportamento
assume, rilevandone ad esempio: la frequenza, l’intensità e la durata.

Il parametro di misurazione più comunemente utilizzato è la frequenza


del comportamento. L’osservazione della frequenza serve a definire
esattamente quante volte una data categoria comportamentale si manifesta
entro un periodo di tempo definito: se volessimo osservare, per esempio, la
frequenza dei comportamenti aggressivi di Luca durante la mattinata
scolastica potremmo ottenere dei risultati simili:

Osservazione di Mercoledì 21 Ottobre 2005 ore 8,30-13,30

- Spinte - aggressività fisica verso un compagno: 7 episodi

- Calci - aggressività fisica verso l’insegnante di sostegno: 4


episodi

- Calci - aggressività fisica verso l’insegnante di classe: 3 episodi

Potremo anche renderci conto dei momenti specifici della giornata in cui
questi comportamenti si verificano, utilizzando una semplice griglia di
osservazione come questa:
Data: Potremo inoltre
21/10/2005 conoscere le
Comportamento fasce orarie e i
da osservare: conseguenti
momenti della
Calci
giornata
8.30 9.30 10.30 11.30 scolastica in cui il
- - - - 12.,30 comportamento
9.30 10.30 11.30 12.30 - 13.30 in oggetto si
verifica più
Compagni di frequentemente e,
classe 1 _ 2 3 1 nel corso di una o
due settimane
Insegnante di potrebbero
sostegno 1 1 1 _ 1 emergere alcuni
schemi che
Insegnante di segnalano i
classe _ _ 1 2 _ periodi di alta e
bassa probabilità
di manifestazione del comportamento, che potranno essere rapportati a
eventi specifici nel corso della giornata o dell’intera settimana, e
risulteranno estremamente utili per la successiva analisi funzionale. Ci si
può accorgere, ad esempio, che nel momento del pasto o della ricreazione si
verificano molti più c.p. che nel resto della giornata oppure che l’ultima ora
o i momenti di transizione tra un’attività e l’altra sono tra i più
problematici. Potremmo cercare dunque di capire meglio cosa succede
durante questi momenti e su quali variabili possiamo in qualche modo
intervenire (stimoli sonori, confusione, imprevedibilità, livello di
frustrazione/stanchezza)
Non sempre la frequenza è il parametro più significativo per descrivere
efficacemente un comportamento, talvolta è ancora più importante
stabilirne la durata. Se il comportamento problematico da osservare fosse
ad esempio: Michele si alza dal suo posto di lavoro e passeggia tra i
banchi, sarebbe indubbiamente rilevante sapere quante volte durante la
giornata il ragazzo si alza dal banco (frequenza), ma forse ancor più
importante sarebbe osservare quanto dura questo tipo di comportamento: 5,
20, 45 min?. Michele paradossalmente potrebbe alzarsi dal suo posto 1 sola
volta durante la giornata scolastica e rimanere in giro per l’aula sino al
termine della stessa. Potremo dunque stabilire, ad esempio, che Michele si
alza in media 5 volte durante la giornata scolastica e prima di riuscire a
convincerlo a tornare al suo posto di lavoro trascorrono circa 10 minuti ogni
volta.
Stabilire invece l’intensità del comportamento potrebbe rivelarsi
un’impresa molto soggettiva, a causa della differenza esistente tra le
percezioni e la tolleranza da parte degli osservatori. Osservare con
sufficiente precisione e obbiettività l’intensità, ovvero l’ampiezza di un
determinato comportamento, il grado di forza o di violenza con cui si
manifesta, non risulta sicuramente un’impresa semplice. Sarebbe opportuno
quindi attenersi il più possibile a degli indici verificabili come, ad esempio,
il numero di ferite causate da ciascun atto di autolesionismo.
Vi sono inoltre degli altri parametri utili per la valutazione, meno noti,
come l’intervallo di tempo tra le risposte, che equivale alla quantità di
tempo che intercorre tra un comportamento oggetto di disamina e un altro;
la latenza, che si riferisce invece alla quantità di tempo che intercorre tra lo
stimolo che provoca un comportamento e il realizzarsi dello stesso o l’unità
comportamentale che descrive invece la prevedibilità delle insorgenze e dei
processi di compensazione sequenziali pertinenti a uno specifico
comportamento problema, ma la loro osservazione diviene alquanto
difficile all’interno di un’aula scolastica o di un servizio educativo con le
attuali risorse disponibili.
Come sottolinea D. Ianes « tanto più sistematica è un’osservazione,
tanto minore è, di solito, il tempo che possiamo dedicarle. L’osservazione
informale, per definizione, la facciamo sempre. L’insegnante spiega,
corregge i compiti, fa un dettato e intanto osserva alcune cose che
avvengono in classe. L’osservazione sistematica, invece, è faticosa, richiede
uno specifico impegno e spesso non può essere effettuata
contemporaneamente ad altre attività » .[1] Se gli insegnanti dovessero
valutare contemporaneamente diverse categorie comportamentali,
rilevandone la frequenza e la durata, sarebbe praticamente impossibile per
loro svolgere, contemporaneamente, altri tipi di attività.
Per poter utilizzare al meglio le risorse scolastiche disponibili dunque,
sarebbe opportuno, almeno in questi casi, ricorrere ad un campionamento a
tempo. Quando non vi è la possibilità di osservare quotidianamente, in
maniera sistematica, i comportamenti problematici di Gabriele nell’ arco
dell’intera giornata scolastica, si potrebbero ottimizzare gli sforzi
osservandone un campione stabilito di tempo. L’osservazione sistematica
allora verrà condotta, ad esempio, tre volte al giorno, per mezz’ora
ciascuna. Bisogna chiaramente essere consapevoli dei limiti e delle cautele
tipiche di qualsiasi forma di campionamento, cercando di campionare nel
modo più “neutrale” possibile i momenti di osservazione.
Per cercare di ottenere dei campioni di tempo rappresentativi, dovremo
distribuire i nostri momenti di osservazione, durante l’intera mattinata
scolastica, dalle 8,30 alle 9,00 e dalle 11,00 alle 11,30 per esempio il
Lunedì, dalle 9,30 alle 10,00 e dalle 11,30 a mezzogiorno il Martedì e così
via. Un buon campionamento dei tempi di osservazione risulta
fondamentale per garantire la massima obbiettività dei risultati ottenuti.
È necessaria inoltre una misurazione di base, ovvero un’osservazione
sistematica preliminare a qualsiasi tipo di intervento che ci consenta di
avere degli indici comportamentali di riferimento, attraverso i quali
confrontare i dati della situazione iniziale con quelli raccolti durante
l’intervento stesso.

La linea di base (baseline) (vedi figura 1) ci consente dunque, attraverso un


sistema di osservazione più semplice ed economico possibile, di individuare
la situazione di partenza con la quale confrontarci in ogni momento
dell’intervento.
Molto importante risulta, a questo punto, la scelta del parametro (o dei
parametri) che possa descrivere, nella maniera più efficace possibile, la
realtà del comportamento bersaglio. « Stereotipie molto massicce e
protratte nel tempo (ad esempio, agitare continuamente dei pezzi di
plastica) saranno meglio descritte con osservazioni di durata, mentre il
picchiarsi la fronte con il pugno potrebbe essere descritto adeguatamente,
oltre che con la frequenza, anche- se possibile- con una valutazione
dell’intensità dei colpi autoinferti » [2]
L’osservazione, inoltre, dovrebbe essere mirata e orientata il più
possibile verso gli obbiettivi prioritari dell’intervento e i suoi risultati
dovrebbero essere riassunti in schede molto semplici, in modo da risultare
realmente utili ed efficaci in una situazione operativa come la classe
scolastica o il centro diurno.

Figura 1. Dati di frequenza di un comportamento problematico


(misurazione di base e intervento).

La linea di base sarà il nostro punto di partenza che permetterà un


immediato confronto tra i dati raccolti prima e durante l’intervento (Figura
1). L’osservazione sistematica deve proseguire per tutto l’arco
dell’intervento, e benché questa possa apparire una considerazione
superflua e banale, molto spesso, nella quotidianità degli interventi, anche
scolastici, questo principio viene frequentemente disatteso. Osservare e
valutare durante tutto il corso dell’intervento ci consente di delineare con
precisione l’efficacia del lavoro svolto e ci offre la possibilità di apportare
eventuali modifiche per renderlo più produttivo ed efficace.
In molti casi potrebbe risultare ancor più utile compiere delle
misurazioni di base nei diversi contesti di vita dell’individuo (Figura 2), o
valutare gli effetti di un trattamento specifico compiendo un ulteriore
misurazione di base al termine dello stesso (Figura 3).
Figura 2.
Esempio di misurazione di base e intervento in diversi ambienti

Figura 3. Misurazione di base e intervento secondo uno schema inverso.


La valutazione comportamentale deve simultaneamente inquadrare gli
aspetti specifici di un comportamento all’interno degli ambienti in cui si
verifica, a tal fine la collaborazione tra famiglia, insegnanti e operatori
diventa fondamentale. Una valutazione ecologica e funzionale si basa sulla
determinazione di tutte le variabili che possono influenzare il
comportamento oggetto dell’analisi e di conseguenza: l’ambiente fisico nel
quale si manifesta, gli eventi relativi allo stimolo antecedente e
conseguente, l’analisi temporale, gli eventi organismici, le contingenze di
rinforzo, la difficoltà o la semplicità del compito esposto e molte altre.
Queste informazioni possono essere reperite anche attraverso un’analisi
indiretta che presuppone l’utilizzo di questionari e interviste, da
somministrare ai genitori e alle altre figure che interagiscono con la persona
che presenta comportamenti problema.
4. Scoprire la funzione (o le funzioni) dei
comportamenti problema

Tutti gli elementi descritti in precedenza ci possono aiutare a capire il


perché un soggetto manifesta un determinato comportamento. Siamo
arrivati dunque al momento di svolgere l’analisi funzionale dei
comportamenti-problema, per riuscire a formulare delle ipotesi relative alle
cause che li determinano e alla funzione che queste manifestazioni
comportamentali possiedono per la persona. Estendiamo quindi la nostra
osservazione dalla forma dei comportamenti agli eventi che si verificano
nell’ambiente in cui questi particolari comportamenti vengono emessi.
Potremo osservare, ad esempio, se alcune condizioni dell’ambiente
fisico, quali rumore o affollamento, siano correlati alla manifestazione del
comportamento in oggetto. Come sostiene M. Powers «Ad esempio, gli
spazi fisici che producono eco (spogliatoi, palestre, trombe delle scale)
possono aumentare la probabilità di comportamenti quali il coprirsi le
orecchie, lo scappare, le stereotipie motorie e così via. Nei limiti della
possibile dimostrazione funzionale di questa ipotesi, è possibile includere
un intervento che alteri l’ambiente fisico, utilizzando altri spazi o
mascherando e attenuando lo stimolo uditivo (presumibilmente negativo)
con cuffie particolari » .[3]
Dovremo prestare attenzione, inoltre, agli ambienti di insegnamento e
di apprendimento in cui viene inserita la persona che presenta
comportamenti problematici, l’affaticamento o la noia, la variazione del
ritmo di presentazione del materiale e delle attività didattiche, più veloce o
rallentato, la novità o la difficoltà intrinseca del compito proposto, le
richieste eccessive di elaborazione simultanea di stimoli uditivi e visivi.
Nel caso in cui una o più dimensioni di questo tipo risultino coinvolte
l’intervento potrà indirizzarsi verso queste problematiche, in modo tale da
prevenire la funzione del comportamento problematico e sostituendolo con
un’alternativa di risposta più adatta.
Antecedenti

Dovremo considerare tutte le condizioni che si verificano


immediatamente prima della manifestazione del comportamento, ovvero gli
stimoli antecedenti, che presumibilmente l’hanno provocata. Potremo
notare, per esempio, che Gabriele si alza dal banco ogni qual volta gli si
presenta un’attività che non riesce a svolgere e inizia a girare per l’aula
agitando violentemente le mani, Adriana ha tirato i capelli a Teodora
immediatamente dopo il suo rifiuto di prestarle la penna, Antonio si rifugia
in un angolo della stanza per dondolarsi su sé stesso quando non è
impegnato in nessuna attività significativa.
Attraverso l’osservazione sistematica avremo stabilito per esempio che
Michele si alza in media 14 volte durante il corso della mattinata scolastica
e nel 90% dei casi lo fa quando deve affrontare un compito troppo difficile
o poco stimolante, e avremo raccolto dati empirici significativi anche per
gli altri due bambini.
Questo ci permette di formulare delle prime ipotesi circa la funzione
comunicativa e il perché del comportamento, poiché, come ribadisce Ianes
« nessun comportamento avviene in un vuoto ambientale e di relazioni » .[4]
Forse Michele sta provando a chiedere, anche non consapevolmente,
attraverso il suo comportamento, di presentargli un compito più adatto alle
sue capacità, per lui maggiormente stimolante o meno frustrante, Adriana
ha tirato i capelli a Teodora per esprimere la sua rabbia in seguito al rifiuto
di prestarle la penna o invece, all’opposto, per attirare la sua attenzione, e
Antonio probabilmente soffre l’assenza di stimolazioni adeguate, si sente
trascurato o si annoia.
M. Powers sostiene inoltre che gli stimoli antecedenti possano essere
classificati come stimoli atti a discriminare o come fattori stimolanti: gli
stimoli di discriminazione permettono di prevedere le aspettative di una
particolare risposta che conduce a una determinata conseguenza che deriva,
a sua volta, da qualcun altro. I fattori stimolanti, al contrario, evocano
risposte emotive e psicologiche automatiche come tachicardia, sudorazione,
dilatazione delle pupille.
« Questi tipi di risposta sono importanti nella valutazione dei soggetti
affetti da autismo poiché il comportamento oggetto di disamina, mantenuto
stabile attraverso rinforzi di tipo sensoriale o automatico (riduzione o
induzione dell’eccitamento), può collocarsi tra i più difficili da trattare.
L’identificazione delle “molle” automatiche stimolate dagli eventi
dell’ambiente circostante può indurre ad intervenire rimuovendo la
“molla” stessa o insegnando al soggetto a esercitare un certo controllo
sulle sue risposte più intenzionali (o meno automatiche) » .[5]

Conseguenze

Altrettanto fondamentale è l’analisi degli eventi relativi agli stimoli


conseguenti, ovvero a ciò che avviene immediatamente dopo il
comportamento in oggetto: anche questi possono essere di tipo ambientale
o organismico, ad esempio: l’attenzione sociale e/o il parlare in maniera
calma e rassicurante dopo un episodio di autolesionismo possono rinforzare
e mantenere l’autolesionismo, oppure sono le stesse conseguenze sensoriali
dell’azione autolesiva a rinforzare automaticamente il comportamento.
Sempre secondo Powers, le variabili organistiche sono state spesso
sottovalutate nella valutazione comportamentale delle persone con autismo
e questo a discapito di un’attenta valutazione del rapporto esistente tra
fattori ambientali, genetici, neurologici o biologici che potrebbero esercitare
un certo controllo sul comportamento in oggetto.
Dobbiamo in ogni caso domandarci: cosa accade al soggetto dopo aver
messo in atto un determinato comportamento? Quali effetti (conseguenze,
risultati, eventi) raggiunge sistematicamente, con regolarità, attraverso il
suo comportamento?
Per continuare l’esempio precedente dovremo provare ad immaginare
cosa succede a Gabriele quando si alza dal suo posto di lavoro e inizia ad
agitare violentemente le mani e a gironzolare tra i banchi. Gli viene
presentata ora un’attività gradita e Gabriele si risiede al suo posto, oppure
dopo che Gabriele si alza viene mandato in un’altra stanza insieme
all’insegnante di sostegno che, nella maggior parte dei casi, lo rassicurerà o
gli permetterà di dedicarsi alle sue attività preferite o gli darà l’oggetto che
a lui piace immensamente far roteare dinanzi agli occhi? È possibile che
entrambi questi risultati siano funzionali al raggiungimento dell’intento di
Gabriele di evitare il compito non gradito?
Ora possiamo aggiungere degli elementi rilevanti alla nostra analisi:
non solo sappiamo che Gabriele si alza in media 14 volte durante il corso
della mattinata scolastica e nel 90% dei casi lo fa quando deve affrontare un
compito troppo difficile o poco stimolante ma sappiamo anche che
nell’80% delle volte in cui questo avviene il bambino riuscirà ad evitare
sistematicamente di svolgere quel compito.

Continuiamo ora il nostro discorso sugli stimoli conseguenti, quelli cioè a


ciò che avviene immediatamente dopo il comportamento problema. Come
sottolinea Dario Ianes (1992; 2001), le tre categorie di effetti o conseguenze
dei comportamenti problema, che corrispondono ad altrettante funzioni
psicologiche, vengono ricondotte convenzionalmente a tre diversi tipi.

L’effetto “arricchimento” di stimoli sociali positivi (rinforzo positivo dei


c.p.)

Il bambino viene rinforzato positivamente in seguito al suo


comportamento problema dalle altre persone che si accostano a lui per
bloccarlo fisicamente, consolarlo, parlargli dolcemente magari anche
rimproverarlo, compresi i coetanei che potrebbero ridere, imitarlo. «Quando
si parla di questo argomento con insegnanti e genitori, spesso la prima
reazione è – ma io non rinforzo mai i comportamenti problema! –. Sembra
una posizione ragionevole, ma nasce in realtà da tre pregiudizi: credere che
l’atto del rinforzamento sia sempre consapevole, che i rinforzatori siano
solo quelli tangibili e che noi abbiamo un controllo totale su di essi» [6]
Il rinforzamento positivo dei comportamenti problema può avvenire
spesso in maniera inconsapevole. Immaginiamo una situazione molto
banale che vediamo spesso tutti quanti nella nostra realtà quotidiana: la
mamma va a fare delle compere al centro commerciale e il bambino le
comunica che vorrebbe le caramelle alla fragola. La madre risponde di no e
il bambino comincia a fare molti capricci, sino a buttarsi per terra, urlare e
piangere. La mamma cerca di tenere duro sino a quando vede il bambino
colpirsi ripetutamente il viso con la mano, a questo punto, preoccupata per
il degenerare repentino della situazione e comprensibilmente imbarazzata,
cede alla richiesta e compra il pacchetto di caramelle. Il bambino ha
ottenuto quello che voleva e inevitabilmente una serie di comportamenti
problematici è stata automaticamente rinforzata.
Molto spesso il rinforzo non consiste in un oggetto tangibile, il genitore
o l’insegnante possono rinforzare un comportamento senza rendersene
conto, pensiamo alle attenzioni che dedicano al bambino che si auto-
lesiona, prestandogli attenzione e cercando di calmarlo. Il rinforzamento
positivo è una delle più frequenti e pericolose cause che mantengono i
comportamenti problema.
Il rinforzamento positivo di un comportamento problema inoltre può
sfuggire al nostro controllo, pensiamo ad esempio a un bambino che in
classe compie delle azioni che suscitano le risate o le imitazioni dei
compagni. Questo potrebbe essere molto rinforzante per il bambino che
emette il comportamento problema e risulta veramente complicato per
l’insegnante controllare i rinforzi che dipendono dagli alunni della classe.
L’effetto “allontanamento” di situazioni avversive: (rinforzo negativo dei
c.p.)

Attraverso il suo comportamento problema il bambino potrebbe essere


rinforzato negativamente in quanto gli si consente di evitare una situazione
a lui sgradevole. I rinforzatori vengono definiti “negativi” perché
consentono di eliminare qualcosa di spiacevole per il soggetto. Pensiamo di
nuovo all’esempio di Gabriele che, ogni qual volta gli venga proposto un
compito poco gradevole, si alza dal banco e comincia ad agitare
violentemente le mani, attraverso il suo comportamento poi riesce ad
evitare sistematicamente la situazione sgradevole poiché viene portato in
un’altra aula. Gabriele chiaramente potrebbe usare questo sistema in
maniera più o meno consapevole. Il bambino potrebbe provare ansia, noia,
frustrazione, e attraverso l’emissione del comportamento problematico
questi stati si riducono o spariscono, poiché chi esercita una pressione su di
lui elimina o riduce le stimolazioni che producevano tali vissuti.
Ribadiamo ancora una volta che la famiglia e gli operatori dovrebbero
essere coinvolti il più possibile nelle osservazioni funzionali.
Questa seconda funzione dei comportamenti problematici risulta
maggiormente difficile da comprendere poiché il rapporto tra le richieste
rivolte al bambino, l’emissione del comportamento problema e la riduzione
o cessazione delle richieste, non è sempre evidente. Molti comportamenti
problematici vengono quotidianamente appresi e mantenuti a causa dei
rinforzatori negativi, una buona analisi funzionale potrebbe risultare
estremamente utile per rilevare queste dinamiche.

L’effetto “stimolazione sensoriale” (rinforzo automatico)

Il bambino emette dei comportamenti problematici che automaticamente


lo rinforzano con sensazioni di tipo visivo (far ruotare gli oggetti ed
osservarli a tempo indeterminato), cinestetico (dondolarsi su sé stesso),
uditivo (sentire il rumore dello strappo di pezzi di carta o lo scricchiolio
prodotto dalla pressione su un bicchiere di plastica.), tattile (strofinare le
dita su di una superficie liscia o particolarmente rugosa), gustativo (leccare
oggetti o masticare la carta).
Questa ipotesi contempla la possibilità che alla persona con
comportamenti problema non interessi particolarmente l’ambiente sociale
intorno al lui ma ciò che accade in seguito all’emissione del
comportamento, perché l’effetto rinforzante è parte integrante del
comportamento stesso. Per il bambino in questi casi non fa molta
differenza, nell’emissione del comportamento, se l’adulto è presente o
meno. Ciò che può avere una rilevanza notevole è invece il livello di
attivazione sensoriale e di stimoli che riceve prima di manifestare i
comportamenti problematici con funzione auto-stimolatoria.
Numerosi studi hanno dimostrato la funzione omeostatica, ovvero di
autoregolazione del flusso di stimoli in entrata nel sistema nervoso centrale,
di molti comportamenti di questo genere e nell’osservazione funzionale si
propende a questa ipotesi quando i comportamenti problema non sembrano
legati a particolari situazioni, avvenimenti, persone, dinamiche relazionali.
Emily Rubin, in un suo interessante seminario in Italia, sottolineò
come molti bambini con autismo presentino difficoltà nella regolazione
emotiva, nel concentrare l’attenzione su un determinato stimolo e come
questo provochi in loro ansia e stress, che tentano di controllare
concentrandosi, ad esempio, sul movimento della matita che hanno in mano
o su altri oggetti ai quali sono particolarmente affezionati, utilizzandoli
quindi in maniera funzionale per autoregolarsi.
L’autoregolazione consente non solo alle persone con difficoltà evidenti
nell’ambito della comunicazione e nelle relazioni sociali, come le persone
autistiche, ma anche a qualsiasi altra persona, di raggiungere un adeguato
livello di attenzione in un determinato contesto, riprendersi dalle
frustrazioni, gestire un alto livello di stress e i metodi utilizzati dalle diverse
persone a tal fine, sono i più disparati: succhiarsi il dito, maneggiare
giocattoli nei bambini, mangiare cioccolatini, fumare, tamburellare il piede
contro il pavimento, mordicchiare una matita, negli adulti, sono comuni
strategie di autoregolazione emotiva più o meno consapevoli.
Una valutazione onnicomprensiva, mirata a favorire un programma di
intervento specifico deve comprendere dunque una valutazione attenta delle
preferenze di rinforzo, che porteranno a stabilire, ad esempio, che Gabriele
preferisce avere accesso ad un particolare giocattolo, attività, o programma
su youtube. Avremo dei dati specifici anche sulle sue preferenze sensoriali
di stimolo, riuscendo ad ottenere un quadro utile dei rinforzi materiali,
sociali e sensoriali che possono risultare validi ed efficaci all’interno di un
programma di trattamento personalizzato. Se tutte queste variabili,
analizzate ripetutamente nel tempo, riescono ad evidenziare una certa
regolarità, uno schema tipico di interazione, si potrà comprendere meglio la
funzione che ricoprono.
Interpretare la funzione di un comportamento problematico non è
sicuramente un’operazione semplice o esente da rischi, in ogni
comportamento umano intervengono un numero infinito di variabili e il
rischio che deriva dalla distorsione provocata dall’interpretazione dei dati è
sempre in agguato. Per sviluppare le ipotesi sulla funzione o le funzioni
multiple di un comportamento problema, si confronteranno e si
esamineranno tutti i dati raccolti attraverso la valutazione delle variabili che
controllano il comportamento in oggetto. Torniamo un attimo all’esempio di
analisi funzionale del comportamento di Gabriele: la maggior parte delle
volte in cui l’insegnante propone un’attività troppo difficile o poco
stimolante, il bambino si alza dal suo posto di lavoro agitando le mani e
gironzolando per l’aula. È ragionevole pensare, come dicevamo in
precedenza, che attraverso il suo comportamento Gabriele voglia
comunicarci qualcosa o quantomeno ottenere un fine ben preciso, forse se
possedesse abilità comunicative e sociali appropriate ci direbbe: - questo
compito è troppo difficile o veramente noioso, possiamo fare qualcos’altro?
Non ce la faccio più, non ne ho più voglia, posso andare nell’altra aula a
giocare col mio giocattolo preferito?
Antonio invece, andando in un angolino a dondolarsi su se stesso
quando non è impegnato in nessuna attività stimolante o non è seguito
dall’insegnante specializzato per il sostegno, potrebbe voler dire alla
maestra che ha necessità delle sue attenzioni, si annoia, vorrebbe fare
qualcosa di interessante.
Le ipotesi funzionali derivano, in genere, non soltanto
dall’osservazione diretta in un determinato ambiente del comportamento in
sé, ma anche dalla conoscenza approfondita delle abitudini del
bambino/ragazzo e di ciò che avviene negli altri ambienti in cui il
comportamento problematico si verifica.
Un’analisi molare (comportamento e variabili che lo controllano:
topografia, frequenza, durata) e molecolare (contesti ecologici in cui il
comportamento si verifica: casa, scuola, palestra) del comportamento
permetterà una comprensione ad ampio raggio del comportamento in
oggetto, all’interno degli ambienti in cui si verifica.
L’analisi funzionale ecologica contribuirà in modo significativo alla
comprensione della funzione specifica, all’interno di un determinato
ambiente, di un particolare comportamento.
Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che lo stesso identico comportamento
potrebbe avere diverse funzioni a seconda del contesto in cui si manifesta.
Potranno dunque risultare estremamente utili le considerazioni e le
valutazioni dei familiari, eventuali valutazioni psicologiche o misure
nomotetiche come la Childhood Rating Scale (CARS) possono contribuire a
fornire delle informazioni utili nella pianificazione dell’intervento.
Un intervento ad ampio raggio inoltre, attraverso una collaborazione
interdisciplinare, aumenta significativamente la possibilità che i risultati del
trattamento acquisiscano una validità costante nel tempo e generalizzabile
ai diversi ambienti e contesti di vita dell’individuo.
Come afferma Powers «l’ultimo passo nel determinare le variabili di
controllo riscontrabili nell’effettuazione di un’analisi funzionale, consiste
in una manipolazione sistematica, obbiettiva ed empirica delle variabili
ritenute capaci di esercitare un’influenza sul comportamento oggetto di
disamina, all’interno di contesti controllati. Per esempio Iwata, Dorsey,
Slifer, Bauman, e Richman hanno analizzato quattro condizioni
probabilmente correlate a comportamenti autolesionistici e cioè: la
disapprovazione sociale, la richiesta del compito, il gioco non strutturato
con materiali, le conseguenze sensoriali. Ciascuna condizione constava di
15 min. ed era presentata due volte al giorno. Successivamente sono state
calcolate le frequenze relative all’autolesionismo in ciascuna delle quattro
condizioni e si è quindi determinato quale esercitasse un maggior controllo
di stimolo sul comportamento» [7].
In questa ricerca e in altre simili sono stati osservati i comportamenti
autolesionistici in condizione di linea di base, successivamente i bambini
sono stati inseriti, ad esempio, in quattro situazioni molto diverse tra loro:
una a carattere sociale, in cui ad ogni atto autolesionistico seguiva
l’attenzione dell’operatore che cercava di consolare, calmare e rilassare il
bambino; una situazione in cui venivano sottoposte al bambino richieste
impegnative e stressanti attraverso compiti molto difficili rispetto al suo
livello di competenza; una situazione dove il bambino restava solo, in una
stanza priva di materiali o attività in cui potesse impegnarsi e infine una
situazione di gioco, all’interno di una stanza ricca di materiali colorati e
stimoli di vario genere, assieme a un educatore che guidava il bambino in
attività rinforzanti, ignorando i comportamenti problematici e rinforzando
ogni suo comportamento positivo.
Riportiamo qui i risultati più significativi della ricerca: come possiamo
notare dalla Figura 4., il soggetto numero 1 ha mostrato, in linea di base,
una media di 36,1 comportamenti autolesionistici, valore che aumenta
notevolmente nella situazione in cui viene lasciato solo (84,3), in una
situazione di deprivazione. Possiamo notare invece come i suoi
comportamenti autolesionistici diminuiscono in maniera palese nelle
situazioni in cui c’è un coinvolgimento dell’adulto. Questi dati farebbero
propendere per un utilizzo auto-stimolatorio dei comportamenti
autolesionistici.
Figura 4. Soggetto 1

Figura 5. Soggetto 2

Vediamo invece che il soggetto 2 (Figura 5) mostra delle reazioni molto


diverse: mostra in linea di base una media di 16,7 comportamenti
autolesionistici e, nella situazione di rinforzo sociale sul comportamento
problema, vediamo chiaramente come questi aumentino significativamente,
raddoppiando, mentre si riducono notevolmente quando il soggetto viene
lascito da solo o viene coinvolto in attività diverse. Questi dati farebbero
supporre un utilizzo funzionale interpersonale del comportamento
autolesionistico, di tipo rinforzamento positivo.
Nel soggetto 3, appare invece dimostrata l’ipotesi del rinforzamento
negativo (Figura 6). Come si nota dai dati ottenuti, il soggetto ha mostrato,
in linea di base, una media di 5,6 comportamenti problema, e quando si
trovava nella situazione in cui il comportamento problematico gli
permetteva di evitare o sfuggire le richieste, la sua frequenza triplicava.
Figura 6. Soggetto 3

Questi dati mostrano l’utilità di condurre osservazioni di questo tipo per


confermare o meno le ipotesi funzionali sui comportamenti problema.
Mostrano contemporaneamente l’estrema variabilità nelle funzioni che
sottostanno al medesimo comportamento problema (in questo caso
l’autolesionismo).

In sintesi una buona analisi funzionale ci consente di reperire


numerose indicazioni sulle dinamiche che mantengono attivo un
determinato comportamento, offrendo anche delle prime risposte alle
domande qui di seguito:
- che funzione svolge il comportamento problema: comunicativa
verso altre persone o auto-stimolatoria?
- in quali occasioni, ambienti e/o in presenza di quali persone si
verifica più frequentemente?
- quali comportamenti alternativi positivi possono avere la stessa
funzione del comportamento problema per l’individuo e possono
essere sostituiti a questo?

I dati della valutazione comportamentale costituiscono quindi il


fondamento di analisi e programmazione dell’intervento. Un approccio di
tipo funzionale ed ecologico produce un cospicuo quantitativo di
informazioni utili per riuscire a definire “cosa è necessario e possibile fare”
attraverso il nostro intervento. Come vedremo più avanti, gli interventi
saranno rivolti alle variabili di controllo individuate e comprenderanno
l’insegnamento di risposte funzionali comunicative equivalenti e
alternative, l’alterazione degli stimoli antecedenti e conseguenti che si
riferiscono alle variabili ecologiche identificate, l’utilizzo di procedure di
rinforzo differenziali con lo scopo di “rafforzare quei comportamenti che
risultano funzionalmente, fisicamente, e topograficamente incompatibili.”
[8]
5. LA VALUTAZIONE IN AMBITO SCOLASTICO

Sappiamo che una buona valutazione comportamentale permette di


identificare efficacemente i fattori che mantengono il comportamento
problema.
Nell’ambito naturale della classe però, può essere molto difficile per
l’insegnante riuscire a identificare e isolare completamente le variabili e
questo riduce l’attendibilità delle informazioni ottenute, a causa
probabilmente di due fattori principali: la multifunzionalità del
comportamento e lo spostamento della funzione.
Quando si osserva un comportamento in classe, talvolta si può essere
indotti a concludere che per esso non sia individuabile un’unica funzione,
perché appare al contrario multifunzionale. Questo avviene quando una
singola topografia o forma del comportamento può essere associata a
diversi scopi: per esempio, essere colpire i compagni con pugni o calci,
potrebbe assolvere funzioni di fuga/evitamento, ricerca di attenzione,
espressione di sé. In questi casi occorre approfondire l’assessment per
analizzare gli effetti di modificazioni comportamentali e ambientali sulle
molteplici variabili che si suppone mantengano il comportamento problema.
Risulta essenziale la collaborazione multidisciplinare, che comporta
anche l’integrazione delle informazioni e delle valutazioni effettuate dagli
altri operatori che intervengono nella relazione educativa, in ambienti e
contesti differenti. Purtroppo questo tipo di approccio, nella realtà
quotidiana, non si verifica spesso e questa mancanza di informazioni
relative alle valutazioni comportamentali e al controllo sperimentale delle
variabili, che concorrono a mantenere il comportamento problema anche in
ambienti diversi dalla classe, non permette una valutazione
onnicomprensiva e multidimensionale del fenomeno.
Un altro possibile problema da considerare è il ripresentarsi di un
comportamento problematico sul quale si era attuato un intervento, sintomo
evidente dell’inefficacia stessa dell’intervento. Come sostengono Larson e
Maag (1999) « Questo accade soprattutto quando vengono modificati i
fattori contestuali, la cui efficacia dipende dalla coerenza con cui
l’insegnante di classe conserva le condizioni ambientali che hanno
dimostrato di mantenere il comportamento appropriato. Tuttavia una
ragione più seria del ripresentarsi di un comportamento problema può
essere lo spostamento di funzione o scopo. A volte succede che, dopo essere
riusciti a eliminare un comportamento problema identificandone lo scopo e
insegnando un comportamento alternativo, esso venga emesso nuovamente
per raggiungere un esito diverso. Supponiamo ad esempio che un alunno
faccia versi di animali per ottenere una pausa dopo un compito noioso. Gli
si insegna un modo adattivo per chiedere una pausa e inizialmente questo
porta a una riduzione del comportamento inadeguato. Più tardi, però,
l’alunno ricomincia a fare i versi, questa volta con lo scopo di ottenere
l’attenzione dei suoi compagni. In questi casi è necessario compiere un
nuovo assessment funzionale anziché ripetere interventi che hanno avuto
successo in passato, basati su analisi precedenti »[9]

Il processo di valutazione comportamentale deve essere continuo e gli


insegnanti non dovrebbero scoraggiarsi di fronte a questi fenomeni, ma
considerarli come una caratteristica propria del processo ciclico di
valutazione/intervento/verifica dei risultati, continuando a modificare le
variabili nel tentativo di identificare la funzione del comportamento in
oggetto, e tentando infine di proporre un comportamento positivo
alternativo ed efficace.
Le informazioni sulle difficoltà incontrate dovrebbero essere
considerate importanti, perché permettono di perfezionare gli interventi
stessi.
Le strategie e gli strumenti esposti in questo testo andranno sicuramente
perfezionati prima che il loro utilizzo diventi realmente diffuso e
significativo tra gli insegnanti e, come sostengono Larson e Maag,
bisognerà esplorare dei sistemi per:
- trovare un equilibrio tra la necessità di precisione e quella di agevolezza
delle procedure;
- identificare con maggior esattezza i fattori che mantengono i
comportamenti problema;
- specificare ulteriormente la connessione tra i risultati dell’assessment
funzionale e gli interventi;
- concentrarsi maggiormente sui risultati pratici e socialmente validi per gli
alunni.
La possibilità di applicazione diffusa di queste metodologie aumenterà
progressivamente se verranno perfezionati i protocolli e le procedure più
agevoli, ma è necessario incoraggiare sempre più negli insegnanti l’utilizzo
immediato dei presupposti fondamentali della valutazione, dell’analisi
funzionale, promuovendo lo sviluppo delle capacità di osservazione
sistematica dei comportamenti degli alunni e di attribuzione degli scopi
comportamentali relativi. Questi elementi possono contribuire
positivamente all’inclusione scolastica non solo degli alunni con disabilità
ma anche di quelli a sviluppo tipico che presentano lievi comportamenti
problema anche solo temporanei.

6. STRATEGIE DI INTERVENTO EDUCATIVO

Siamo arrivati ora a dover definire gli obbiettivi dell’intervento: il


primo sarà sicuramente tentare di ridurre o eliminare la presenza di un
comportamento problema. Si tratta quindi di portare la frequenza e/o
l’intensità del comportamento a livelli sempre più contenuti. Accanto a
questi obiettivi negativi dobbiamo però affiancare necessariamente quelli
positivi, che vertono invece sullo sviluppo da parte del soggetto di
comportamenti alternativi che sostituiscano funzionalmente il
comportamento problema. Il nostro secondo obbiettivo sarà dunque la
sostituzione di un comportamento problematico con un altro che possieda la
medesima funzione ma che sia più accettabile dal punto di vista sociale e
pratico.
Avremo in sostanza due categorie di comportamenti: una da ridurre e
l’altra da incrementare. Appare fondamentale sottolineare che ciò che viene
trattato non è la forma di comportamento ma la sua funzione. Un
comportamento positivo andrà progressivamente a sostituire quello
problematico solamente se avrà la stessa funzione e lo stesso potere
comunicativo. Se mirassimo solamente a eliminare i comportamenti
inadeguati, ci concentreremo sulla forma degli stessi e non sulla funzione.
Questi comportamenti hanno una funzione comunicativa e come qualsiasi
comportamento sono il risultato dell’interazione tra la persona e l’ambiente.
Non si può impedire a un individuo di comunicare, non sarebbe etico né
produttivo, si può invece insegnare un metodo alternativo di
comunicazione, più accettabile ed utile. Non è neppure concepibile poter
eliminare dei comportamenti problema senza sostituirli con alternative
efficaci che abbiano la stessa funzione e siano altrettanto, se non ancor di
più, utili al raggiungimento degli obiettivi finali, perché in mancanza di
questo requisito fondamentale molto presto i comportamenti problematici
tenderebbero a ripresentarsi semplicemente sotto un’altra forma.
L’intervento educativo ha pertanto lo scopo di favorire il
raggiungimento, da parte del soggetto, di due obbiettivi complementari: la
riduzione del comportamento problema e la sostituzione con una strategia
comportamentale accettabile, incompatibile dal punto di vista fisico e
avente l’analoga funzione. Supponiamo che il comportamento problematico
su cui si concentra la nostra attenzione sia il comportamento aggressivo di
Adriana (che non possiede il linguaggio verbale), nei confronti dei
compagni di classe, quando vuole ottenere un oggetto che è in uso da parte
di un altro alunno.
L’obbiettivo di riduzione, in questo caso, sarà il decremento della
frequenza, durata di tali comportamenti aggressivi (tirare i capelli della
persona che lo detiene, strappare di mano l’oggetto, dare spinte, pugni o
calci per ottenerlo).
L’obbiettivo di incremento sarà invece lo sviluppo di un
comportamento di richiesta dell’oggetto che l’altro alunno sta usando,
attraverso la suddivisione del compito in diverse fasi (es. avvicinarsi
all’altro alunno, ottenere la sua attenzione attraverso una pacca sulla spalla,
indicare l’oggetto con la mano e poi indicare sé stessi. Ottenuto l’oggetto
toccare l’altra persona sulla spalla per ringraziare).
Purtroppo, ancora oggi, nell’ambiente scolastico, uno dei metodi più
frequenti di rapportarsi ai comportamenti problematici degli alunni è la
punizione. Come ribadisce Ianes, « Non serve a nulla nasconderci dietro un
dito (anche se molti tenteranno di farlo): la prima procedura che spesso ci
viene in mente di fronte ai comportamenti negativi, forse una di quelle che
più di frequente finiamo purtroppo per usare, è la punizione » [10]. Le
programmazioni, nella quasi totalità dei casi, non contempleranno il termine
punizione accanto a tutti i buoni propositi come favorire, sviluppare,
gratificare e trovare espressioni del tipo « ci proponiamo di ottenere questo
risultato attraverso l’uso di rimproveri violenti e sistematici, note negative
sul registro » sarà pressoché impossibile. Molto spesso un’insegnante che
perde la pazienza e urla contro un alunno, mette in atto una procedura
punitiva che non ha programmato e della quale probabilmente non è del
tutto consapevole.
Troppo spesso si usano le punizioni perché sono la prima cosa che
viene in mente di fronte a situazioni problematiche e permette di scaricare
rabbia e frustrazioni. Se un insegnante sta lavorando a tavolino, per
esempio, con un alunno problematico, e dopo aver predisposto il materiale
didattico sul banco, con le migliori intenzioni di sviluppare un programma
importante ed efficace, il bambino prende il materiale e lo butta per terra,
probabilmente la reazione dell’insegnante sarà di collera: es. Basta! Non
vuoi impegnarti su nulla! Questa reazione non sarà scaturita da un preciso
progetto educativo ma sarà l’effetto di un’emozione incontrollata.
Probabilmente, immediatamente dopo il comportamento punitivo, il
ragazzo interromperà almeno momentaneamente il comportamento
problema e questo finirà col rafforzare il comportamento punitivo
dell’insegnante.
Il rischio maggiore della punizione è appunto quello di essere
rinforzante per chi la utilizza. Risulta molto importante quindi riflettere
sugli usi ed abusi della punizione, soprattutto quando essa non fa parte di un
preciso programma di intervento ma costituisce invece un riflesso
automatico estemporaneo e non programmato.

Cos’è la punizione?

Viene definito in questo modo qualsiasi evento negativo che viene fatto
seguire ad un comportamento indesiderato, con l’obbiettivo di farlo
diminuire o di eliminarlo. Esistono due tipologie fondamentali di punizione:
di primo tipo e di secondo tipo.
La punizione di primo tipo consiste nel creare una situazione spiacevole
dopo il comportamento indesiderato (sgridare il bambino quando si
comporta inadeguatamente).
La punizione di secondo tipo, invece, consiste nel sospendere una
situazione positiva dopo il comportamento problema (la sospensione di
un’attività piacevole preventivamente programmata – “ non andiamo più al
mare” – o l’allontanamento da un gruppo di coetanei in cui il bambino si sta
divertendo).
Bisogna fare ora alcune considerazioni sul modello di trattamento
educativo meno restrittivo (Foxx, 1986). Questo modello è stato ideato per
garantire la libertà e proteggere la dignità delle persone tutte, soprattutto in
gravi condizioni di disabilità, e parte dal principio che di fronte a
comportamenti problematici, i metodi restrittivi dovrebbero essere utilizzati
solamente come estremo rimedio, quando nient’altro ha funzionato e
quando, comunque, il rimedio non è peggiore del male.
Il modello in questione ha lo scopo principale di evitare interventi
punitivi inutili eventualmente dannosi ed evitare soprattutto che la
punizione venga utilizzata in modo estemporaneo ed emotivo, senza la
giusta collocazione all’interno di un programma strategico e costruttivo di
intervento. Negli USA, la legge 99-457 del 1986 impone che l’educatore
utilizzi prima di tutto tecniche positive e rispetti questo modello. Gli
insegnanti e gli operatori devono avere ben chiaro che esistono metodi per
l’intervento educativo che sono più intrusivi, limitativi della libertà e della
dignità di un individuo, rispetto ad altri. Facciamo un elenco di questi
metodi, partendo dal meno restrittivo e arrivando a quelli maggiormente
punitivi: tra i “metodi punitivi” di cui si parla, che sono gli unici accettabili
in una relazione educativa, secondo Foxx la graduatoria potrebbe risultare
la seguente:

Timeout

consiste in una sospensione programmata di un’attività piacevole per il


ragazzo, per esempio quando Antonio, durante le attività di gioco (a lui
particolarmente gradite), mette in atto comportamenti aggressivi nei
confronti dei compagni, gli si può insegnare che ad ogni sua aggressione
corrisponderà una sorta di penalità: verrà sospeso dal gioco per un minuto.
Un intervento di time-out deve comunque essere preannunciato con
precisione e concordato, deve essere breve, deve basarsi sempre e
comunque su interventi positivi e di conseguenza, come anche tutte le altre
procedure che seguiranno, deve essere sempre accompagnato dal
rinforzamento differenziale dei comportamenti positivi.

Ipercorrezione

è una forma punitiva di intervento che consiste nel guidare il bambino ad


eseguire una correzione (più o meno marcata) del suo comportamento
inadeguato subito dopo averlo emesso. Proviamo a pensare ad una
situazione in cui Antonio, nei momenti di scarso controllo, rovesci per terra
tutto il materiale didattico posizionato sopra il banco: colori, pennarelli,
matite, quaderno. Un intervento di ipercorrezione consisterà nel fare in
modo che ogni qual volta Antonio rovescia il materiale per terra dovrà non
solo raccoglierlo ma anche riordinarlo in maniera adeguata.

Costo della risposta

è un intervento molto simile al precedente ma leggermente più “leggero”.


Si tratta infatti di far seguire al comportamento problematico del bambino,
un comportamento che potrebbe essere definito riparatore. Nel caso di
Antonio si potrebbe semplicemente far raccogliere al il materiale rovesciato
a terra.

Blocco fisico

si tratta di una procedura utilizzata raramente, nei casi in cui siano presenti
dei comportamenti autolesionistici o aggressivi particolarmente pericolosi e
resistenti alle procedure solite di trattamento. Nel caso in cui Antonio si
morda le mani, l’insegnante potrebbe bloccarla e impedirglielo, facendo
però estrema attenzione sul fatto che il contatto fisico e le rassicurazioni
fornite non diventino invece un rinforzo. Per avere una valenza educativa il
blocco fisico deve essere contingente, deve avvenire subito dopo che il
comportamento problema si verifica e non divenire una pura misura di
contenzione.

Inoltre è bene prestare attenzione sui seguenti punti:


- non utilizzare una determinata procedura punitiva se prima non
si è accertato l’esito di una procedura meno restrittiva all’interno
della graduatoria indicata;
- non scegliere una procedura maggiormente punitiva se la
gravità del comportamento problema non la legittima;
- nel caso si decidesse di utilizzare una strategia più punitiva, il
programma deve essere messo per iscritto e concordato, in modo
che risulti chiaro il comportamento sul quale si cerca di
intervenire, quali sono stati gli interventi precedenti che non
hanno dato risultati, quali interventi punitivi si intendono adottare
e perché.
Questo programma dovrà essere condiviso e approvato da tutte le
persone che hanno una responsabilità educativa nei confronti dell’alunno.
A prescindere dalle necessarie considerazioni etiche sulla punizione,
chiediamoci ora se pragmaticamente i metodi punitivi funzionano e sono
utili al raggiungimento degli scopi del programma di intervento.
Perché le strategie punitive funzionino dovrebbero avere delle
caratteristiche ben precise, che nella quotidianità fortunatamente non si
realizzano:
- la punizione dovrebbe essere immediata, così come il rinforzo
dovrebbe venire immediatamente dopo un comportamento
positivo per essere realmente utile, e seguire immediatamente il
comportamento problematico. Punire il comportamento di oggi,
di un bimbo x, impedendogli di partecipare ad una
manifestazione scolastica che si terrà fra un mese non avrebbe
nessun senso, oltre che la minima validità pedagogica;
- la punizione dovrebbe essere forte per funzionare: questo
parametro risulta estremamente soggettivo. Ci sono bambini che
reagiscono immediatamente ad una semplice occhiata
dell’insegnante e interrompono il comportamento problematico,
ma soprattutto quelli che hanno bisogno di uno stretto controllo
sui loro comportamenti problema, solitamente vivono come
veramente punitive soltanto le punizioni particolarmente forti;
- la punizione dovrebbe essere continua. Al contrario dei rinforzi
che possono avere efficacia anche attraverso l’uso intermittente,
la punizione se utilizzata a intermittenza, finisce per consolidare
il comportamento.

Essendo, per fortuna, praticamente impossibile programmare punizioni


immediate, forti e continue, comprendiamo subito che la punizione risulta
molto meno efficace di quanto generalmente si possa credere. La scarsa
efficacia della punizione potrebbe rappresentare inoltre il male minore,
perché la stessa potrebbe essere addirittura dannosa e avere dei costi
altissimi. La punizione infatti può influire in maniera negativa sulla
motivazione di qualsiasi processo di apprendimento, può produrre ansia e
insicurezza nell’alunno e può addirittura insegnare modelli negativi di
comportamento, poiché un’insegnante, ad esempio, che urla per attenere
attenzione o sbatte i pugni sul tavolo, raggiunge in realtà due scopi: uno di
ottenere il silenzio (magari per poco tempo), l’altro di proporre un modello
di comportamento negativo ai propri alunni, che impareranno che quando si
vuole ottenere il silenzio è necessario urlare e battere i pugni sul banco.
Questo processo di apprendimento/insegnamento avviene quotidianamente
anche in quelle famiglie in cui i genitori alzano spesso la voce, per essere
ascoltati dai propri figli, o che addirittura li picchiano.
Questi problemi, strettamente connessi alla punizione, possono
danneggiare significativamente la relazione insegnante-alunno, il piacere
reciproco nel lavorare insieme, il rapporto di stima, comprensione e fiducia.
La punizione, inoltre, può divenire paradossalmente un potente rinforzo
dei comportamenti problematici. Pensiamo al caso in cui un alunno, che
presenta comportamenti problematici come ridere o disturbare la lezione
della classe, venga mandato fuori dall’aula scolastica. Il bambino potrebbe
non essere assolutamente sensibile a questo tipo di punizione e imparare
invece che, ogni qual volta vuole evitare una lezione noiosa, può mettersi a
gridare, a ridere o a disturbare e otterrà il risultato desiderato. L’uso dei
sistemi punitivi, talvolta attuati in maniera non del tutto consapevole,
risultano deleteri soprattutto con gli alunni che presentano particolari
disabilità e che avrebbero bisogno di essere maggiormente compresi e
accettati.
Abbiamo constatato quindi che la punizione scientificamente non
funziona, l’obbiettivo fondamentale risulta quindi la ricerca di strategie
alternative, che rappresenta la vera sfida dell’intervento educativo. Prima di
tutto, abbiamo visto quanto sia importante capire la funzione del
comportamento problema, per riuscire a determinarne il tipo di utilizzo che
ne viene fatto dalla persona. La seconda cosa importante è lavorare il più
possibile su tutte quelle variabili che possono condizionare il
comportamento inadeguato.
A questo punto possiamo finalmente concentrarci sugli aspetti positivi
del nostro alunno, in modo da concentrare su di essi buona parte dei nostri
sforzi. Non bisogna infatti concentrarsi esclusivamente sul comportamento
problema, che purtroppo attira l’attenzione molto più dei comportamenti
positivi, altrimenti il nostro lavoro risulterebbe alquanto sterile e
improduttivo.

Il controllo degli stimoli e la facilitazione dei comportamenti positivi

Abbiamo visto, in precedenza, che determinati stimoli favoriscono il


manifestarsi del comportamento problema (la difficoltà eccessiva di un
compito, le caratteristiche dell’ambiente fisico). Possiamo ora provare a
modificare lo stimolo, ovvero strutturare nel miglio modo possibile, la
situazione didattica e relazionale in modo da ridurre o eliminare gli stimoli
che concorrono alla produzione del comportamento inadeguato bersaglio e
introdurre invece gli stimoli che tendono a produrre comportamenti positivi
come motivazione per la consegna. Se un ragazzo presenta comportamenti
problematici sempre durante l’ora di diritto, questo non vuol dire che per
eliminare lo stimolo antecedente dovremo consentire al ragazzo di evitare le
lezioni di diritto, ma possiamo invece rendere questa attività più adatta alle
caratteristiche dell’alunno, mantenendo stabili gli obbiettivi educativi.
Una delle azioni più opportune di fronte ai comportamenti problematici
di un alunno, dovuti all’eccessiva difficoltà del compito, potrebbe essere
quella di ridurne la difficoltà, magari attraverso metodi di apprendimento
senza errori o altre strategie personalizzate. Se un altro alunno, ad esempio,
disturba i compagni, ride o si alza in piedi durante una lezione per lui poco
interessante, la prima cosa che si dovrebbe fare non è mandarlo fuori
dall’aula ma cercare di rendergli interessante la lezione stessa, attraverso un
lavoro di individualizzazione del programma educativo. Tutti questi non
sono affatto dei concetti innovativi ma fanno parte di qualsiasi piano
educativo individualizzato efficace.

Il rinforzamento dei comportamenti positivi

Questo è l’obbiettivo strategico più importante. Il nostro intervento


educativo sarà basato sulla strategia di fornire all’alunno dei potenti rinforzi
positivi, quando non emette il comportamento problema o ne emette uno
positivo alternativo.
Attraverso un rinforzamento differenziale, che consiste, appunto, nel
rinforzare positivamente tutti quei comportamenti che non sono
problematici, possiamo ottenere dei risultati visibili e concreti. Dobbiamo,
in sostanza, cercare di individuare gli aspetti positivi dell’alunno,
cominciando a lavorare su quelli. Il principio base di questo sistema è che si
possono rinforzare tutti i comportamenti che non sono il comportamento
inadeguato (rinforzamento differenziale di tutti i comportamenti alternativi).
Se pensiamo che Adriana non manifesti mai dei comportamenti positivi,
dovremmo innanzitutto rinunciare ai nostri pregiudizi sulla bambina. Non è
possibile, infatti, che non resti ferma per tutto il corso della mattinata
scolastica, se non altro perché stanca, e non rimanga seduta al suo posto
almeno qualche volta, senza mettersi ad urlare o alzarsi. Questi momenti
positivi alternativi andrebbero rinforzati sistematicamente.
Possiamo inoltre rinforzare tutti i comportamenti alternativi realmente
adeguati, se Adriana riesce a stare seduta da sola a disegnare, o a lavorare
con l’insegnante, per esempio, sarà bene rinforzare maggiormente questo
comportamento rispetto a quello in cui la bambina resta seduta senza far
niente.
Possiamo, infine, rinforzare tutti i comportamenti incompatibili con il
comportamento problema, ovvero quelli che rendono impossibile il
comportamento problema stesso. Se una bambina, ad esempio, presenta il
comportamento autolesionistico di mordersi le mani e le braccia, possiamo
rinforzarla ogni qual volta tiene le mani occupate in attività di vario genere
oppure le tiene in tasca. Se tiene le mani in tasca non potrà
contemporaneamente morderle. Rinforzare sistematicamente questi
comportamenti viene definito rinforzamento differenziale dei
comportamenti incompatibili.
7. I RINFORZI

Un rinforzatore o rinforzo aumenta la possibilità che un


comportamento problematico si verifichi, anche se utilizzato in maniera più
o meno consapevole dall’individuo che lo mette in atto. Quando la
conseguenza di una risposta (comportamento) ha come effetto quello di
“rinforzare” la risposta stessa, ovvero aumentare la possibilità che si
ripresenti in futuro, tale conseguenza viene definita rinforzatore. Un
rinforzo non consiste soltanto in un oggetto tangibile, un biscotto, una lode
ma rappresenta qualsiasi conseguenza che rende più probabile la risposta
nel futuro. I rinforzi sono infiniti e non sempre vengono utilizzati in
maniera consapevole.
Rinforzare consapevolmente significa quindi predisporre la situazione
ambientale e didattica cercando di fare in modo che alcune risposte
(comportamenti positivi) diventino sempre più frequenti, più probabili
perché producono conseguenze positive, gratificanti e valorizzanti per chi le
emette.
Purtroppo un utilizzo inconsapevole dei rinforzi potrebbe rinforzare
proprio i comportamenti che si desidera eliminare: pensiamo a un bambino
di 5 anni, Marco, che in classe manifesta comportamenti di aggressività e al
suo insegnante che, totalmente in buona fede, ogni volta in cui emette un
simile comportamento, gli si avvicina, gli chiede cosa c’è che non va, cerca
di calmarlo e tranquillizzarlo. Per il ragazzo questo comportamento
potrebbe costituire un rinforzo sociale molto potente. Pensiamo ancora,
invece, all’esempio di Gabriele che verrà rinforzato nel suo comportamento
problematico dell’ alzarsi dal banco durante un’attività noiosa, dal fatto che
gli venga permesso di allontanarsi dall’aula e dedicarsi ad attività più
piacevoli.

Possiamo ricondurre i rinforzi a due insiemi principali: rinforzatori


positivi e negativi.
I rinforzatori positivi, vengono definiti in questo modo perché
forniscono qualcosa alla persona (oggetti, cibo, attività piacevoli, attenzione
sociale) come nell’esempio precedente di Marco.
Dall’esempio di Gabriele invece, ci si può rendere conto come sia
possibile rinforzare una risposta, cioè aumentare la probabilità che tenda a
ripresentarsi in futuro, attraverso un rinforzatore negativo, definito in
questo modo poiché consistere nel togliere qualcosa (di spiacevole) alla
persona. Entrambi i rinforzatori, positivi e negativi, offrono una
gratificazione al soggetto, anche i rinforzai negativi, che non devono essere
confusi con la punizione.
Rinforzatori tangibili

Appartengono a questa categoria tutti i rinforzi che possono essere


toccati concretamente (un giocattolo, un pacco di figurine, un pennarello,
un foglio bianco) e quelli che possono essere mangiati, detti anche rinforzi
consumatori (patatine, caramelle, succo di frutta). L’uso di tali rinforzi
deve essere evitato, quando possibile, perché creano una situazione
didattica artificiosa, se non usati con leggerezza abituano l’alunno a
procedure meccaniche del tipo “faccio qualcosa soltanto in cambio di
qualcos’altro”, provocano rapidamente sazietà e perdono quindi la loro
efficacia nel tempo.

Rinforzatori sociali

Tutte le situazioni che hanno un potere rinforzante nell’interazione con


gli altri sono considerati rinforzatori sociali: un sorriso, un cenno di
approvazione, la stessa vicinanza fisica sono alcuni degli infiniti esempi che
si potrebbero fare. I rinforzatori sociali sono importantissimi, sono quelli
che presentano meno controindicazioni e spesso sono i più potenti di cui
abbiamo disponibilità.
Per riuscire a programmare un’attività didattica senza usare mai alcun
rinforzatore, si dovrebbe avere la freddezza di una macchina e la capacità di
non reagire in nessun modo alle risposte degli alunni. Il problema che si
pone non è quindi scegliere o meno se usare un rinforzatore, poiché non
utilizzarne alcun tipo sarebbe praticamente impossibile, ma programmare
l’azione educativa in modo da utilizzare i rinforzatori più adatti a seconda
dell’alunno, usarli nel modo migliore e più utile.

Rinforzatori dinamici

I rinforzatori dinamici consistono nella possibilità di fare qualcosa di


gradito, piacevole, interessante. Quando diciamo ad un bambino che prima
faremo i compiti e poi andremo a giocare, stiamo utilizzando un rinforzo
dinamico. Nella pratica educativa quotidiana possiamo scorgere molteplici
esempi di rinforzatori di questo genere, quando un genitore dice al proprio
bambino di riordinare la camera così in seguito verrà portato al parco
giochi, quando un insegnante, che sa che i suoi alunni sono ormai stanchi di
scrivere, dice loro di resistere ancora un poco prima di uscire in giardino.
L’uso, sia consapevole che inconsapevole, di questo genere di rinforzi è
frequentissimo, viene comunemente definito “legge della nonna” o “prima
il dovere e poi il piacere” [11], per sottolineare la necessità di semplice
pizzico di buon senso per servirsene.

Rinforzatori simbolici

Supponiamo che un insegnante, nel lavoro con un bambino con disturbi


dello spettro autistico, stabilisca che per ogni comportamento adeguato del
bambino (stare seduto, ordinare il materiale didattico, svolgere un compito)
corrisponda un gettone giallo che viene posizionato sopra un supporto
apposito, che permette di posizionare in sequenza una serie di più gettoni.
Al termine della sequenza il bambino si sarà meritato, ad esempio, l’uscita
in giardino e/o l’utilizzo dell’altalena. Il gettone, in questo caso sarà un
rinforzatore simbolico che permette al bambino di “scambiarlo” con il
conseguente rinforzatore dinamico. Un esempio molto semplice di
rinforzatore simbolico, nella vita sociale quotidiana di ognuno di noi, è il
denaro, attraverso il quale accediamo ad un’infinita serie di rinforzatori
tangibili, dinamici e così via.

Rinforzatori informativi

continuiamo l’esempio del lavoro con i gettoni gialli, utilizzati come


rinforzo simbolico nell’attività didattica con un bambino autistico. Se ad
ogni comportamento positivo del bambino, stare seduto al banco di lavoro
ad esempio, l’insegnante fornisce un feedback preciso ed immediato sulla
validità dei comportamenti messi in atto (non esclusivamente attraverso il
linguaggio verbale), facendo comprendere al bambino che è stato bravo a
rimanere seduto, a posizionare correttamente il materiale di lavoro, ecc..
starà automaticamente fornendo dei rinforzatori informativi che precisano
passo per passo i risultati prodotti dalle singole azioni.
I rinforzatori informativi hanno il compito di segnalare al bambino non
solo che ha fatto la cosa giusta ma perché ha fatto la cosa giusta e possono
contribuire infine a motivarlo a diventare sempre più autonomo nello
svolgimento del compito.
8. POSSIBILI INTERVENTI IN BASE ALLA
FUNZIONE DEL COMPORTAMENTO
PROBLEMA

Di seguito alcuni suggerimenti e spunti per l'intervento in base alla


funzione del comportamento problema tratti dai materiali relativi agli stage
svolti negli ultimi anni con gli esperti dell'Università di Yale (USA). Si
tratta di una sintesi dei preziosi insegnamenti del Dr. Michael Powers, Psy
D., Center for Children whith Special Needs, Yale Child Study Center, Yale
University School of Medicine, New Haven, CT (USA), spero possano
esservi utili per il lavoro sul campo!
N.B. FCT significa Training di Comunicazione Funzionale (programma
di insegnamento esplicito di abilità di comunicazione, verbale e non
verbale, basato sulla valutazione delle caratteristiche del singolo studente e
mirato ad implementare i suoi punti di forza). Lo scopo dell’insegnamento
della comunicazione funzionale è quello di insegnare alla persona
comportamenti comunicativi in sostituzione di comportamenti disadattivi.
In genere l’insegnamento di comportamenti comunicativi equivalenti
(stessa funzione) ai c.p. si traduce in un incremento dei primi e nel relativo
decremento dei secondi.
Se il Comportamento è mantenuto da: Rinforzo Positivo (Attenzione
Sociale)
FCT: insegnare alla persona metodi per sollecitare o attirare l’attenzione da
parte delle altre persone
Modificare le Condizioni Antecedenti (Predisponenti, scatenanti):
- Arricchire l’Ambiente dello Studente incrementando in maniera
sostanziale le opportunità di ottenere l’attenzione sociale
Alterare le Condizioni Conseguenti attraverso:
- Rinforzo Differenziale di un Comportamento Alternativo Equivalente
dal p.d.v. Funzionale
- Insegnamento di nuove competenze/comportamenti seguito
immediatamente da rinforzo con attenzione sociale
- Ignorare (programmato)
- Rinforzo differenziale di strumenti alternativi di comunicazione (FCT-
Training Funzionale di Comunicazione)
- Attesa Contingente/Accesso Contingente
- “Time-out” (allontanamento dallo stimolo rinforzante)
Se il Comportamento è mantenuto da: Rinforzo Positivo (Rinforzi
tangibili, materiali)
In questo caso il comportamento è mantenuto da materiale di rinforzo che
segue la manifestazione del comportamento.
Materiali o attività che erano disponibili precedentemente non vengono
somministrati quando il bambino li richiede oppure si richiede al bambino
di smettere di compiere un’attività rinforzante in cui è impegnato.
FCT: insegnare alla persona i metodi per accedere ai materiali preferiti.
Modificare le condizioni scatenanti (antecedenti) – arricchire l’ambiente
incrementando in modo sostanziale le opportunità di impegnarsi con i
materiali preferiti – incrementare la presenza di questi materiali
nell’ambiente.
Modificare le condizioni conseguenti:
- Rinforzi differenziali
- Insegnamento di nuove competenze o comportamenti immediatamente
seguito da rinforzi con oggetti/materiali preferiti
- Insegnare risposte di attesa
- Ignorare pianificato
- Perdita accesso ai materiali preferiti in seguito al mettere in atto c.p.
Se il Comportamento è mantenuto da: Fuggire/evitare il compito
FCT: insegnare metodi per metter fine all’attività o alla richiesta.
Modificare le condizioni scatenanti (antecedenti) per modificare o eliminare
la “avversità” della situazione. Come? Arricchendo l’ambiente educativo,
semplificando il compito, rendendolo più comprensibile e chiaro,
modificando/diminuendo le richieste educative, modificando le strategie di
insegnamento del compito, abbinando la richiesta ad un rinforzo.
Modificare le condizioni conseguenti:
- Fornire un modo alternativo di presentare il compito
- Fornire rinforzi più potenti per mantenere il compito o conformarsi alla
richiesta
- Ridurre l’impegno del compito (renderlo più facile)
- Persistere sino alla fine del compito (estinzione)
- Arricchire l’ambiente del compito con i rinforzi
- Combinare l’impegno con il rinforzo
Lavorare sul comportamento problematico, cioè non permettere alcuna fuga
se lo studente intensifica il c.p. o non fa ricorso ad una alternativa
appropriata proposta.
Se il Comportamento è mantenuto da:
Conseguenze Sensoriali (Rinforzo Sensoriale)
Modificare le condizioni scatenanti (antecedenti). Come? Procurando una
stimolazione sensoriale aggiuntiva identificata fra gli interessi sensoriali
specifici della persona; Arricchendo l’ambiente e il programma educativo
con materiali e attività identificate fra gli interessi specifici dello studente
Modificare le condizioni conseguenti attraverso:
- Rinforzo differenziale per mezzo del quale i rinforzi sensoriali specifici
per la persona vengono forniti in modo contingente a comportamenti
accettabili
- Insegnamento di competenze/comportamenti alternativi che diano
accesso allo stesso feed-back sensoriale
- Sostituzione con materiali o attività alternative che procurano un feed-
back con la stessa modalità sensoriale, ma più appropriati
- Attenuare le conseguenze sensoriali
- Sostituire un rinforzo sensoriale più appropriato e funzionalmente
compatibile
- Permettere che il bambino guadagni il rinforzo sensoriale
Conseguenze Sensoriali (Riduzione della Stimolazione)
FCT: insegnare allo studente metodi per esprimere il disagio o il
sovraccarico sensoriale e per chiedere aiuto per ridurre il sovraccarico.
Intenzione comunicativa “sono in ansia, stanno accadendo troppe cose, non
riesco a gestire la situazione…”
Modificare le condizioni scatenanti (antecedenti) riducendo la stimolazione
sensoriale negli ambienti rilevanti, riducendo le richieste di tipo sensoriale
nei compiti educativi
Modificare le condizioni conseguenti con rinforzi differenziali. Fornire
insegnamenti e rinforzi sistematici di attività e comportamenti mitiganti gli
effetti dell’iperstimolazione (esercizi di rilassamento, esercizio fisico).
Condizionamento della risposta (classico)
Il comportamento problematico origina da una associazione con un evento
traumatico (es. rumore forte) che poi innesca quel comportamento in
situazioni nuove. Una volta appreso in questo modo, il comportamento è in
seguito mantenuto da rinforzi contingenti positivi o negativi.
FCT: insegnare metodi per esprimere il disagio e sollecitare assistenza.
Modificare le condizioni scatenanti (antecedenti) prevenendo le circostanze
che innescano lo stimolo, attenuando lo stimolo scatenante
Alterare le condizioni conseguenti:
- Insegnare risposte alternative agli stimoli scatenanti usando
simultaneamente Rinforzi Differenziali di bassa incidenza
- Desensibilizzazione sistematica (rinforzo della tolleranza graduale agli
stimoli scatenanti)
Fattori Organici
FCT: insegnare metodi per identificare ed esprimere il disagio fisico
Modificare le condizioni antecedenti (applicando ove possibile rimedi
palliativi per condizioni fisiche es. crema per la pelle per un eczema…)
Se esiste una condizione organica modificare le richieste del compito,
incrementare la frequenza del rinforzo ed arricchire ulteriormente
l’ambiente educativo mentre l’intervento medico/fisico è in atto.
Alcuni spunti per la valutazione dell'intervento/trattamento:
 Osservazione aneddotica
 Confronto dati pre-post trattamento
 Osservazione e valutazione diretta nelle situazioni naturali o
analoghe, usando modelli sperimentali individuali

Componenti di un Piano di Trattamento che ne potenziano l’efficacia


 Validità empirica: il beneficio dell’intervento sul risultato finale
della persona nella misura in cui supporta un cambiamento
longitudinale e il Criterio di “Funzionamento
Finale” (competenze necessarie a funzionare al massimo grado di
autonomia possibile)
 Validità sociale: il livello di percezione da parte degli attori e
dei fruitori delle strategie di intervento, dei comportamenti
bersaglio selezionati e dei risultati conseguiti come appropriati
 Affidabilità procedurale: il livello al quale il piano di
intervento è stato correttamente effettuato
Punti da considerare quando gli interventi non funzionano come
previsto
 L’intervento è stato somministrato in modo coerente?
 I rinforzi sono salienti?
 La programmazione dei rinforzi è troppo intensa o troppo
scarna?
 I rinforzi sono stati somministrati immediatamente?
 Le conseguenze positive o negative vengono somministrate in
modo non contingente nell’arco della giornata?
 Controllare le procedure di misurazione: possono essere stati
fatti errori di calcolo o di registrazione?
 Accertarsi che la misurazione riletta la definizione
 Gli utenti possiedono i prerequisiti comportamentali per
acquisire le competenze su cui stanno lavorando?
 Il piano di trattamento prevede una progressione in tappe troppo
distanziate?
 Le direttive vengono date quando gli utenti prestano attenzione?
 I suggerimenti (prompt) possono essere inadatti o inefficaci?
 I suggerimenti sono stati progressivamente attenuati? In caso
contrario gli utenti possono diventare troppo dipendenti dai
prompt.
Quattro punti essenziali per un intervento efficace
 L’allievo ha sempre ragione
 La coreografia del comportamento è l’essenza dell’intervento
comportamentale efficace
 Le percezioni possono essere svianti: basatevi sulla vostra
conoscenza della persona e sul potere dell’obbiettività
 L’unico intervento appropriato è un intervento clinico, sociale
ed educativo
Crisi di comportamento: limitare i danni ai primi segni
Immediatamente prima che si presenti una crisi di comportamento (con un
po’ di esperienza) è in genere possibile:
1) osservare i cosiddetti “prodromi”: in genere agitazione motoria e vocale;
2) ri-organizzare rapidamente l’ambiente in modo da eliminare la/le fonti di
disturbo;
3) chiedere alla persona – se possibile – conferma circa le fonti di disturbo
o l’ipotetica necessità che può presentare;
4) osservare se diminuiscono l’agitazione motoria e vocale, se non
diminuiscono, far uscire la persona dalla situazione;
5) indirizzare in maniera chiara e concreta la persona verso un’altra attività;
6) se richiesto un intervento d’urgenza, al termine della crisi di
comportamento, indirizzare comunque la persona verso un’attività, e
analizzare quanto successo.
LIMITARE I DANNI NON È UN INTERVENTO EDUCATIVO.
Se si presentano anche solo i prodromi di una crisi di comportamento, è
bene analizzare la situazione ed eventualmente rivedere la programmazione.
Intelligenza emotiva e abilità per la sopravvivenza

Sidney Wolf indica dieci dimensioni o caratteristiche di personalità che


facilitano l’efficacia nei rapporti interpersonali su cui possiamo riflettere:
1. empatia: la capacità di percepire ciò che sente l’altro e di comunicare
questa percezione; cioè capacità di essere realmente interessati a quello che
l’altro può sentire o provare, “come se” fossimo l’altro, senza però perdere
contatto con noi stessi, con quello che siamo, con la nostra storia personale,
con la nostra individualità.
2. rispetto: la capacità di apprezzare la dignità ed il valore dell’altro ed il
suo diritto di fare le sue scelte nei suoi tempi, con sensibilità a percepire
“sfumature” di comportamenti, gli atteggiamenti, piuttosto che gli aspetti
macroscopici ed immediatamente evidenti.
3. genuinità: la capacità di essere liberamente e profondamente se stesso; È
importante riconoscere i propri stati d’animo e le emozioni che
intervengono nella relazione d’aiuto, per poter chiedere aiuto quando se ne
sente il bisogno.
4. concretezza: la capacità di esprimersi in coerenza coi bisogni dell’utente
e dei suoi familiari, ascoltando le priorità di tutte le persone implicate;
5. confronto: la capacità di provocare l’utente circa le sue contraddizioni,
con ironia e semplicità;
6. apertura: la capacità di rivelare sentimenti ed opinioni a beneficio
dell’utente; vedere in positivo quello che può essere fatto nel programma
7. immediatezza: la capacità di entrare in contatto "qui ed ora";
8. calore: la capacità di esprimere, verbalmente e non, interesse-affetto,
prestando attenzione ai propri segnali di crisi nella relazione, per non agirli
con comportamenti inconsapevoli verso l’altro.
9. forza: la capacità di offrire sicurezza, stabilità emotiva, presenza;
10. autorealizzazione: la capacità di vivere con pienezza. ponendosi
domande dirette sulla propria situazione professionale, sulle proprie scelte
di vita, avere capacità di auto-osservazione, introspezione, critica
costruttiva e capacità di armonizzare la propria vita con le scelte lavorative.
Diversi autori hanno poi affrontato il tema delle motivazioni e delle
caratteristiche dei "buoni operatori". In particolare Foxx e Peters hanno
delineato le caratteristiche di coloro che si prendono cura di persone con
autismo o con gravi difficoltà di comunicazione. In un fondamentale
articolo del 1985, dal titolo “Trattamento di problemi gravi di
comportamento: oltre l’intervento tecnico, considerazioni cliniche, etiche e
organizzative”, tradotto e pubblicato in italiano nel 1987, Richard Foxx,
uno dei maggiori studiosi comportamentali degli Stati Uniti, delinea
le caratteristiche del “buon educatore”.
Chiaramente il “buon operatore in assoluto” è una figura leggendaria.
La prima caratteristica “è di avere un bizzarro senso dell’humour”. Gli
educatori che non hanno senso dell’humour, dice Foxx, sono ostruzionisti e
la loro infelicità è “contagiosa”.
Una seconda caratteristica è quella di “amare le persone”. Questa seconda
caratteristica non ha niente a che vedere con il “buonismo”: la gente,
secondo Foxx, “ti deve piacere”. È il comportamento che vogliamo
cambiare, non la persona!
Una terza caratteristica è quello che Foxx chiama “una sensibilità
percettiva”. Un operatore è una specie di detective dei comportamenti: i
micro-comportamenti sono indizi potenti di cambiamento o di stasi.
Una quarta caratteristica è quella di “non amare di essere sconfitti”: nel
lavoro c’è un senso di sfida e una sorta di orgoglio verso la possibilità di
riuscire, che rende il buon operatore un tenace ricercatore dei cambiamenti
positivi.
La quinta caratteristica, Foxx la definisce “andare per la vita in cerca di un
pony” e potremmo riassumerla come la capacità di vedere “il bicchiere
mezzo pieno” invece di quello mezzo vuoto.
Una sesta caratteristica viene definita come “la caratteristica del mercante”,
ovvero “la caratteristica dell’individuo che riesce a considerare ciò che il
paziente gli fa come qualcosa che riguarda solo il lavoro e mai come un
fatto personale”.
L’ultima caratteristica è l’“essere autonomi” a livello psicologico. Con questo Foxx intende qualcuno
che “ha raggiunto un senso di identità personale che non soggiace al controllo degli altri”.
Scheda di sintesi
Un approccio funzionale ed ecologico alla valutazione dei disturbi del comportamento
comporta:
- una precisa identificazione e descrizione oggettiva del/dei comportamento/i problematico/i;
- la produzione di una chiara lista di comportamenti sui quali è necessario concentrare l’attenzione
e intervenire, approvata e condivisa da tutti gli operatori che intervengono nel processo di presa in
carico educativa del bambino/ragazzo;
- l’indispensabile riflessione etica e pedagogica sulla reale problematicità del comportamento in
questione e la certezza che esso costituisca un ostacolo oggettivo allo sviluppo cognitivo,
comunicativo e relazionale della persona;
- l'osservazione sistematica e la raccolta dei dati relativi alla frequenza dei c.p. nei vari momenti
della giornata e nei differenti contesti;
- l’Analisi della Funzione del c.p. e la determinazione delle variabili che lo controllano (gli eventi
del setting, i rinforzatori, gli stimoli antecedenti e conseguenti);
- lo sviluppo di un programma di intervento basato sulle necessità specifiche del bambino, capace
di aiutarlo ad implementare le abilità emergenti, utilizzare al meglio i propri punti di forza, ridurre
e/o eliminare comportamenti disadattivi e problematici, apprendere modalità comunicative e
comportamentali alternative socialmente più adeguate, generalizzare in più contesti possibili le
abilità acquisite;
- la verifica continua dell’efficacia del programma educativo;

Note

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9. BIBLIOGRAFIA

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ABA e TEACCH (free download)


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Manuale ABA (free download)


http://memberfiles.freewebs.com/91/19/45921991/documents/Mariposa%20School%20-
%20Training%20Manual%20Italiano%20iocresco_V2.3_doc.pdf

Immagini per categoria, lettere e numeri, sequenze temporali e molto altro (free download)
http://www.materialeaba.com/

Lavoro di rete, Linea Guida 21, Storie Sociali e attività motorie integrate (free download)
http://www.diversamenteonlus.org/autismo/

Pittogrammi a colori, in bianco e nero, foto, video LSE (free download)


http://www.arasaac.org/index.php

Risorse Bisogni Educativi Speciali – MIUR (free download)

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Bisogni educativi speciali (free download)

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Didattica facile (free download)

https://sostegnobes.com/didattica-facile/

Autismo e bisogni educativi speciali

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Portale-autismo.it è un progetto di Needius in collaborazione con il Laboratorio di


Osservazione Diagnosi Formazione (ODFLab) dell’Università degli Studi di Trento ed offre
risorse per l’autismo e la comunicazione aumentativa alternativa (CAA). http://www.portale-
autismo.it/

Fattori di stress e bisogni dei genitori, Storie Sociali, Affettività e Sessualità, Inclusione

http://www.diversamenteonlus.org/autismo/
Video utili per l’educazione dei bambini e dei ragazzi alla
conoscenza, al rispetto ed alla valorizzazione delle diversità

Possono accadere cose meravigliose

https://www.youtube.com/watch?v=6-nNy6a5saU&t=61s

Guarda la dislessia con occhi diversi!

https://www.youtube.com/watch?v=EoVvR_KgHRU&t=3s

The power of Teamwork

https://www.youtube.com/watch?v=vtXKQOtNWPg

Monologo sul bullismo

https://www.youtube.com/watch?v=Ia2uT8n6_lI

Monologo «La notte…»

https://www.youtube.com/watch?v=Hcm4BixLjeQ

Raccolte di film utili per l’educazione dei bambini e dei ragazzi alla conoscenza, al rispetto ed
alla valorizzazione delle diversità

https://www.wired.it/play/cinema/2016/12/26/cartoni-animati-disney/

http://www.vita.it/it/article/2016/08/09/roma-una-rassegna-di-12-film-per-raccontare-la-
diversita/140402/

http://www.cinemaepsicologia.it/film-sulla-diversita/

https://didatticapersuasiva.com/didattica/spiegare-la-disabilita

http://blog.disabilitasenzabarriere.it/Film_Consigliati

http://invisibili.corriere.it/2018/02/21/la-mediateca-di-ledha-150-film-che-fanno-il-ritratto-alla-
disabilita/
3 video per gli insegnanti/educatori…

Francesco Zambotti - 7 punti chiave per una didattica inclusiva

https://www.youtube.com/watch?v=57HBf7Lkkdo

Dario Ianes - Verso la didattica inclusiva

https://www.youtube.com/watch?v=wO3egq-RGXk&t=109s

Andrea Canervaro - So fare se

https://www.youtube.com/watch?v=PvvFyaA2bHg&t=32s

Accesso web verificato al 01/03/2020


Marco Pontis

Pedagogista, docente a contratto di Pedagogia e Didattica speciale delle disabilità intellettuali e


dei disturbi generalizzati dello sviluppo, Libera Università di Bolzano.
Da oltre quindici anni lavora con e per le persone con disturbi dello spettro autistico e altre
disabilità complesse o bisogni educativi speciali, collaborando costantemente con le associazioni di
familiari per la formazione dei genitori e degli operatori e per la supervisione degli interventi
educativi evidence-based.
È attualmente responsabile scientifico del progetto CTR Nuove abilità per l’autonomia e
l’inclusione - CTR onlus Cagliari che offre servizi educativi-riabilitativi integrati ed interventi
educativi evidence-based personalizzati e co-progettati insieme ai familiari e ad alle istituzioni.
Collabora col Centro Studi Erickson di Trento in qualità di autore e formatore e col CRS4 -
Centro di Ricerca, Sviluppo e studi superiori in Sardegna nell’ambito della ricerca sulle nuove
tecnologie per la didattica inclusiva.
È autore di numerosi articoli scientifici, materiali formativi, saggi e testi, tra i quali Autismo e
bisogni educativi speciali, Milano, Edizioni Franco Angeli (2013) e Costruire alleanze scuola-
famiglie-territorio. In D. Ianes e S. Cramerotti (a cura di) (2016), Dirigere Scuole Inclusive, Trento,
Erickson.
[1] D. Ianes (2001), Didattica Speciale per l’Integrazione. Un insegnamento sensibile alle differenze,
Trento, Erickson, pp.296-297

[2] D. Ianes (a cura di) (1992), Autolesionismo, stereotipe, aggressività: intervento educativo
nell’autismo e nel ritardo mentale grave, Trento, Erickson, pp.10

[3] M. Powers (2004), Valutazione Comportamentale degli individui affetti da autismo. In Autismo e
disturbi generalizzati dello sviluppo Vol. 1 , Brescia, Vannini, pp. 296

[4] Ibidem, pp.300

[5] Ibidem, pp.296


[6] Ibidem, pp.171
[7] M. Powers, op. cit., pp.298

[8] Ibidem, pp. 299


[9] Pamela J. Larson, John w. Maag, Rivista Difficoltà di apprendimento, Erickson, Trento, Vol.4, n.
4 Aprile 1999, pp 547-548
[10] D. Ianes, Didattica Speciale per l’integrazione, pp. 310
[11] Ibidem, pp. 175

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