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Gregoriana.

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QUADERNO 4130
pag. 119 - 132
Anno 2022
Volume III

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Homepage Quaderni Quaderno 4130 “Credettero nel Signore e in Mosè suo servo” (Esodo 14)
Si parla di:

Antico CHIESA E SPIRITUALITÀ


testamento

Bibbia

Esegesi biblica
“Credettero nel
Fede
Signore e in Mosè suo
servo” (Esodo 14)

Marc Chagall, “Crossing the Red Sea”.

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L’attraversamento del Mar Rosso è senza dubbio uno dei testi più rilevanti di tutta la
Bibbia. È e"ettivamente un testo fondativo, il testo che narra la nascita degli israeliti in
quanto popolo. È vero che la tradizione ha fatto risalire la loro origine ad Abramo, che è
stato chiamato «il padre dei credenti» e rimane quindi per noi il primo modello di coloro
che condividono la sua fede. Perché allora non cominciare da lui?

Uno dei motivi è che Abramo era solo, mentre noi non lo siamo: noi facciamo parte di
un popolo, il popolo dei credenti. Ed è all’interno di questo popolo che abbiamo
ricevuto la fede, la viviamo e la condividiamo. La viviamo e la condividiamo spesso
nella notte, soprattutto da quando si è assistito a un allontanamento dalla fede nella
maggior parte dei membri del nostro popolo, perfino all’interno delle nostre famiglie.

Marc Chagall, “Crossing the Red Sea”.

Rivivere la prova della fede dei nostri padri, chiamati dalle tenebre della schiavitù alla
luce della libertà, potrà aiutarci a ripercorrere con loro il cammino di morte che hanno
intrapreso per risorgere a una nuova vita. L’attraversamento del Mar Rosso in Es 14 si
presenta come un dramma in tre atti.

Primo atto (vv. 1-10): Israele è preso nella trappola

Il primo atto del dramma si estende dal versetto 1 al versetto 10 del capitolo 14
dell’Esodo. Esso racchiude tre scene.

Prima scena (vv. 1-4): il piano del Signore annunciato a Mosè. «Il Signore disse a Mosè:
“Comanda agli Israeliti che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achirot, tra
Migdol e il mare, davanti a Baal-Sefon; di fronte a quel luogo vi accamperete presso il
mare. Il faraone penserà degli Israeliti: ‘Vanno errando nella regione; il deserto li ha
bloccati!’. Io renderò ostinato il cuore del faraone, ed egli li inseguirà; io dimostrerò la
mia gloria contro il faraone e tutto il suo esercito, così gli Egiziani sapranno che io sono
il Signore!”. Ed essi fecero così».

Ascoltiamo il discorso circostanziato che il Signore rivolge a Mosè. Anzitutto, un ordine:


il popolo dovrà trasferirsi presso il mare. Poi, l’annuncio di quello che dirà il faraone,
così sicuro di poter tendere un tranello agli israeliti. Infine, una promessa: non che il
Signore salverà il suo popolo, ma che dimostrerà la sua gloria contro il faraone, e
l’Egitto dovrà riconoscere che egli è il Signore.

Mosè ha forse trasmesso integralmente al popolo le parole di Dio? Il narratore non lo


dice. Se Mosè lo ha fatto, il narratore non riferisce la reazione del popolo. L’unica cosa
che ci dice è che «fecero così», cioè che si trasferirono realmente nel luogo indicato,
presso il mare. In sostanza, essi hanno obbedito a Mosè, all’ordine del Signore. Hanno
sentito la promessa finale? Se l’hanno sentita, come l’hanno interpretata? Che cosa
hanno capito? Soltanto che saranno inseguiti dal faraone? Hanno creduto che il loro
Signore avrebbe dimostrato la sua gloria contro il faraone? Non ne sappiamo nulla:
suspence.

Seconda scena (vv. 5-7): gli egiziani si mobilitano. «Quando fu riferito al re d’Egitto che il
popolo era fuggito, il cuore del faraone e dei suoi ministri si rivolse contro il popolo.
Dissero: “Che cosa abbiamo fatto, lasciando che Israele si sottraesse al nostro
servizio?”. Attaccò allora il cocchio e prese con sé i suoi soldati. Prese seicento carri
scelti e tutti i carri d’Egitto con i combattenti sopra ciascuno di essi».

Cambiano il luogo e i personaggi; infatti, eccoci ora in Egitto, presso il faraone. In


realtà, se è veramente cambiato il luogo, i personaggi non sono del tutto diversi. Non
perché si era già parlato del faraone nella prima scena, alla fine del discorso di Dio a
Mosè, ma perché il Signore è sempre presente e attivo. E questo fin dalle prime battute:
«Fu riferito al re d’Egitto». «Fu riferito», da chi? Questo passivo è un passivo divino, che
sarà seguìto da un altro passivo subito dopo: «E si rivolse [alla lettera: fu mutato] il
cuore del faraone», che corrisponde a ciò che aveva annunciato il Signore: «Io renderò
ostinato il cuore del faraone» (v. 4).

Si capisce allora che il personaggio principale di questa scena non è il faraone, né i


suoi ministri, né tutto il suo popolo, né tutti i suoi carri, ma colui che guida questa storia.
Gli egiziani si pentono di aver lasciato partire i loro schiavi e sono intenzionati a
recuperarli. Hanno dimenticato completamente quello che è avvenuto e come erano
stati costretti a lasciarli partire, anzi che li avevano supplicati di partire. Ora essi
interpretano l’accaduto come se ne fossero i soli attori, non vi riconoscono
minimamente l’opera del Signore: bell’esempio di mancanza totale di fede!

Terza scena (vv. 8-10): il piano del Signore si realizza. «Il Signore rese ostinato il cuore del
faraone, re d’Egitto, il quale inseguì gli Israeliti mentre gli Israeliti uscivano a mano
alzata. Gli Egiziani li inseguirono e li raggiunsero, mentre essi stavano accampati
presso il mare; tutti i cavalli e i carri del faraone, i suoi cavalieri e il suo esercito erano
presso Pi-Achirot, davanti a Baal-Sefon. Quando il faraone fu vicino, gli Israeliti
alzarono gli occhi: ecco, gli Egiziani marciavano dietro di loro! Allora gli Israeliti
temettero molto e gridarono al Signore».

La nostra lettura della seconda scena, in cui abbiamo riconosciuto che il personaggio
principale era il Signore, è confermata dalle prime parole di quest’ultima scena. È vero
che i soggetti di tutte le altre frasi, fino all’inizio del versetto 10, saranno il faraone e gli
egiziani: «inseguì», cioè il faraone inseguì; poi «gli Egiziani inseguirono»; «tutti i cavalli e i
carri e i cavalieri li raggiunsero»; e infine «il faraone fu vicino». Ma il soggetto della frase
iniziale è un altro: «Il Signore rese ostinato il cuore del faraone». Quanto agli israeliti,
fino a quel punto «uscivano a mano alzata», cioè molto probabilmente «liberi»,
«liberati»: «[Il faraone] inseguì gli Israeliti mentre gli Israeliti uscivano a mano alzata».

Ora, alla vista dell’Egitto e di tutto il suo esercito, «i cavalli e i carri e i cavalieri», cosa
che li coglie di sorpresa, è la paura che li a"erra: «temettero molto». Perché? Perché
condividevano l’opinione che il faraone aveva espresso al centro della prima scena,
secondo la previsione del Signore: «Il deserto li ha bloccati» (v. 3). Eccoli caduti nel
tranello che il Signore stesso ha teso: si trovano stretti tra il mare, potenza di morte, e
l’esercito del faraone, potenza di schiavitù.

Gli egiziani sono ben lontani dal volerli uccidere: intendono ricondurli in Egitto, dove
torneranno al loro servizio. Come a"ermano gli egiziani al centro della seconda scena:
«Che cosa abbiamo fatto, lasciando che Israele si sottraesse al nostro servizio?» (v. 5).

Tuttavia, benché sia grande, il timore non paralizza del tutto gli israeliti. Essi avranno
certo le braccia e le gambe indebolite, e «la mano alzata» ricadrà; ma resta loro il
grido. Come se questo grido rispondesse in qualche modo alle parole che il Signore
aveva rivolto a Mosè, perché parlasse agli Israeliti.

Potremmo essere tentati di pensare che gli israeliti siano venuti meno nella loro fede nel
Signore, che non abbiano creduto a ciò che egli aveva promesso loro, cioè che
«avrebbe manifestato la sua gloria contro il faraone e tutto il suo esercito» e che gli
egiziani avrebbero saputo alla fine chi è il Signore (v. 4). È vero che, se avessero creduto
alle parole del Signore, sarebbero rimasti tranquilli, fiduciosi e in attesa che il Signore
avrebbe agito secondo la sua promessa.

Alcuni pensano, al contrario – ed è ben di$cile dare loro torto –, che gli israeliti non
abbiano udito le parole del Signore. Così si esprime un esegeta famoso: «Irretiti nel
laccio della morte, non sanno neppure quello che sta accadendo, perché soltanto
Mosè ha ascoltato le parole del Signore che gli indicava con piena sicurezza il
cammino da seguire» (vv. 1-4)[1]. Se così fosse, il lettore potrebbe chiedersi perché Mosè
non abbia trasmesso integralmente al popolo le parole di Dio.

Il sospetto allora ricadrebbe su Mosè, la cui fede sarebbe stata manchevole.


Naturalmente questo non è impossibile, perché nel seguito egli mostrerà che la sua
fede non è stata sempre senza incrinature. Basta pensare all’episodio delle acque di
Meriba in Nm 20, dove egli colpisce due volte la roccia, dopo aver detto al popolo
assieme ad Aronne: «Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa
roccia?». E ciò ha causato loro questo rimprovero da parte del Signore: «Poiché non
avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti,
voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do» (Nm 20,12). Spetta dunque
al lettore, a seconda della sua funzione nella Chiesa, riconoscersi nell’uno o nell’altro
personaggio: nel popolo degli israeliti, o in colui che è incaricato di guidarli, Mosè
appunto.

Torniamo ora agli israeliti e alla loro reazione alla fine di questo primo atto del dramma.
Dice il testo: «Ebbero grande paura»; alla lettera: «Temettero molto». Il narratore lascia il
verbo allo stato assoluto, senza complemento oggetto. Non si dice chi essi abbiano
temuto, o che cosa abbiano temuto. Teniamolo presente.

Ma non è tutto. Occorre andare alla conclusione di questa scena: «E gli Israeliti
gridarono al Signore». L’ultima parola del versetto 10 riprende il primo sostantivo di
questo primo atto: «Yhwh», il nome proprio del Dio d’Israele, quello che è stato rivelato
a Mosè al roveto. Anche questa volta il verbo «gridare» non ha complemento oggetto e
non si sa che cosa essi gridino. Si può intendere che sia un semplice grido, cioè senza
parola, come quando si è presi da un timor panico o da un dolore insopportabile.

Questo però non è nuovo. In realtà, secondo Es 2,23-24, «dopo molto tempo [cioè il
lungo periodo dell’assenza di Mosè, che era fuggito dopo aver ucciso l’egiziano] gli
Israeliti gemettero (dal fondo) della loro schiavitù e gridarono, e la loro invocazione-di-
aiuto salì verso Dio (dal fondo) della schiavitù. Dio ascoltò il loro lamento»[2]. Questa è
l’unica volta, prima dell’attraversamento del mare al capitolo 14, che il narratore
sottolinea il grido degli israeliti. Lo fa utilizzando quattro termini: due verbi: «gemere» e
«gridare»; e due sostantivi: «invocazione-di-aiuto» e «lamento» (o «sospiri»).
Quest’ultimo termine sarà ripreso da Dio quando dirà di aver udito il loro «lamento»
(6,5). In 3,7.9 l’autore aveva utilizzato una quinta parola: «clamore».

Tutti questi termini hanno in comune il fatto di designare emissioni di voce non
articolate in parole. Il popolo grida, non parla; grida in senso assoluto, senza rivolgere il
proprio grido a qualcuno. Non si tratta altro che di sospiri e gemiti. Come grida di
animali, poiché solo gli esseri umani sono capaci di parola. E questo fa capire che,
finché non saranno liberati, non lo sarà neppure la loro parola. Il segno che saranno
liberati sarà dunque il fatto che accederanno alla parola.

Qui, al contrario, il loro grido è rivolto al Signore. Pertanto, dire che essi hanno mancato
di fede è esagerato. Se non avessero creduto a"atto, avrebbero potuto gridare «verso il
Signore»? La loro fede sarà imperfetta, certamente – e lo si vedrà già nei versetti
seguenti, all’inizio del secondo atto –, ma non inconsistente. Se gridano verso il Signore,
è per lo meno perché credono che egli esiste, e si può ritenere, senza correre troppo il
rischio di sbagliare, che essi lo chiamino in aiuto, e quindi che credano che può salvarli.
Così pure, si potrà mettere in dubbio la fede di Mosè, se si interpreta che in questa
occasione si è comportato così come si comporterà a Meriba, ma, se non avesse
creduto a"atto alle parole del Signore, avrebbe potuto condurre il popolo nei pressi del
mare, come gli era stato ordinato?

Tutto questo per dire che è ben di$cile esprimere un giudizio sulla fede degli altri, e che
certamente bisogna pensarci due volte. Il nostro sguardo sugli altri, in realtà, non
tradisce forse il credito che facciamo loro, la fede che accordiamo loro? Al di là o
all’interno del nostro giudizio sugli altri, non è forse il nostro giudizio su Dio a essere in
gioco? La nostra fede negli uomini è legata alla nostra fede nel Signore. Come la fede
degli israeliti in Dio è legata al credito che essi accordano a Mosè, alla fede che essi
pongono nella sua fede in Dio.

Secondo atto (vv. 11-15): Mosè risponde al lamento del popolo

Il secondo atto è costituito da due scene strettamente collegate: il dialogo tra il popolo
e Mosè o, più precisamente, la serie di domande che gli israeliti rivolgono a Mosè, e la
risposta che egli dà loro.

Prima scena: le domande dei figli d’Israele (vv. 11-12). «E dissero a Mosè: “È forse perché
non c’erano sepolcri in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto? Che cosa ci hai
fatto, portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: ‘Lasciaci stare e serviremo
gli Egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto’?”».

Non sappiamo che cosa gli israeliti abbiano «gridato» verso il Signore alla fine del
primo atto (v. 10); in compenso, vengono riferite ampiamente le parole che essi
rivolgono a Mosè (vv. 11-12). Con le spalle rivolte al deserto, come la preda del serpente,
sono a"ascinati dall’Egitto, al punto che non vedono che quello. Il suo nome sulla loro
bocca ritorna non meno di cinque volte. Quanto al nome del Signore, non lo
pronunciano nemmeno una volta, come se per loro non esistesse. L’unica soluzione è
quindi quella di arrendersi, di capitolare senza esitazione, per sfuggire alla morte.

La schiavitù o la morte! Essi hanno fatto la scelta di vivere. Già prima di lasciare il loro
padrone, avevano detto che preferivano la sicurezza della schiavitù al rischio della
libertà; è per lo meno quello che ora pretendono. Il riposo è terminato, e si deve
riprendere a fabbricare mattoni. Gli israeliti hanno fatto la scelta di vivere, ma in realtà
non parlano che di morte o, più precisamente, non fanno che scegliere il luogo della
loro sepoltura. La prima parola che pronunciano, infatti, è «sepolcri». Dove è andata a
finire la loro fede nel Signore, verso il quale avevano appena gridato?

In e"etti, poiché essi non pronunciano neppure il suo nome, dobbiamo prendere atto
che è verso Mosè che rivolgono il loro grido. E le loro domande in realtà non attendono
risposta: sono soltanto rimproveri, e addirittura un rimettere in discussione ciò che
Mosè ha fatto. È vero che si erano fidati di lui e che l’avevano seguito per andare a
sacrificare nel deserto; ma in questo momento hanno perso ogni fede in lui. Si tocca
ancora con mano come la fede nell’uomo e la fede in Dio siano intrinsecamente legate
tra loro.

Seconda scena: la risposta di Mosè (vv. 13-14). «Mosè rispose: “Non temete! Siate forti e
vedrete la salvezza del Signore, il quale oggi agirà per voi; perché gli Egiziani che voi
oggi vedete, non li rivedrete mai più! Il Signore combatterà per voi, e voi starete
tranquilli”».

Mosè non si lascia sopra"are dall’accusa che il popolo gli rivolge. Non entra nel gioco
della controversia. Risponde, certamente, ma non all’attacco: non usa neppure una
volta il verbo in prima persona. Non è lui a essere in gioco: tutto il suo discorso si rivolge
a un «voi». E soprattutto, se menziona gli egiziani nel punto centrale delle sue parole, è
per sottolineare che saranno presi nella morsa che il Signore stringe attorno a loro, e
che gli israeliti non hanno quindi alcun motivo di «temere» (v. 13b) e possono «stare
tranquilli» (v. 14b).

La prima parola che Mosè pronuncia è: «Non temete!». È l’incipit di tutte le


annunciazioni. Risuonano ancora alle nostre orecchie le parole pronunciate da
Giovanni Paolo II il 22 ottobre 1978: «Non abbiate paura!». Non abbiate paura,
nonostante tutti i motivi che vi possono essere per temere per l’avvenire della Chiesa.

Questa volta non si potrà pensare che Mosè abbia mancato di fede. Se fa questo
discorso, è perché ci crede. Si potrebbe dire che egli esplicita concretamente per i suoi
interlocutori ciò che il Signore aveva promesso all’inizio del primo atto. Tenendo
presente tutto quello che abbiamo visto fin qui, è lecito pensare che anche lui abbia
«progredito nella fede». Si vede qui chiaramente che egli prende sul serio il rischio della
fede.

Terzo atto (vv. 15-31): Israele è liberato dalla trappola

L’ultimo atto è più sviluppato del precedente, e anche del primo. Si snoda in cinque
scene.

Prima scena (vv. 15-18): il Signore ordina a Mosè di dividere il mare. «Il Signore disse a
Mosè: “Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto
alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare
all’asciutto. Ecco, io rendo ostinato il cuore degli Egiziani, così che entrino dietro di loro
e io dimostri la mia gloria sul faraone e su tutto il suo esercito, sui suoi carri e sui suoi
cavalieri. Gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando dimostrerò la mia gloria
contro il faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri”».

La domanda con cui inizia il discorso del Signore può costituire un problema, perché
non si è sentito Mosè gridare verso il Signore. Gli israeliti, sì, hanno gridato, ma non
Mosè personalmente. Si possono dare due spiegazioni, senza dover ricorrere a fonti
diverse che sarebbero state fuse insieme in un racconto finale diventato incoerente.
Anzitutto, Mosè ha veramente gridato verso il Signore, senza che il narratore si sia
sentito obbligato a comunicarcelo; in altri termini, è la domanda di Dio che ci fa sapere
che Mosè l’ha supplicato. Seconda spiegazione possibile: è del grido emesso dagli
israeliti alla fine del primo atto che Dio vuole parlare, ma lo attribuisce a Mosè come
rappresentante di tutto il popolo.

In ogni caso, è chiaro che si tratta di grido alla fine del primo atto e all’inizio del terzo, e
questo collega tra loro questi due atti. E per quanto riguarda il senso di tale
collegamento, è importante sapere che Dio ha ascoltato il grido e che si accinge a
rispondervi. Come se rimproverasse a Mosè e, attraverso di lui, a tutto il popolo la loro
mancanza di fede.

Il seguito della scena attira meno la nostra attenzione. Il Signore dice anzitutto quello
che dovrà fare Mosè e quello che, dietro suo ordine, dovranno fare gli israeliti; dice poi
ciò che egli stesso farà. O, più precisamente, non lo dice. Proprio come all’inizio del
primo atto, il Signore a"erma soltanto che dimostrerà la sua gloria contro il faraone. Né
Mosè né il popolo sapranno come Egli lo farà. E dovranno avere fiducia, credere in Dio.
è sempre una questione di fede.

Seconda scena (vv. 19-25a): Israele attraversa il mare a piedi asciutti. «L’angelo di Dio,
che precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro. Anche la
colonna di nube si mosse e dal davanti passò dietro. Andò a porsi tra l’accampamento
degli Egiziani e quello d’Israele. La nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri
illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte.
Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare
con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti
entrarono nel mare all’asciutto, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a
sinistra. Gli Egiziani li inseguirono, e tutti i cavalli del faraone, i suoi carri e i suoi
cavalieri entrarono dietro di loro in mezzo al mare. Ma alla veglia del mattino il Signore,
dalla colonna di fuoco e di nube, gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani e lo mise
in rotta. Frenò le ruote dei loro carri, così che a stento riuscivano a spingerle».

Ora è notte. E noi seguiamo gli avvenimenti che si svolgono «durante tutta la notte». Il
racconto insiste due volte sulla durata di questa lunga notte, finché arriviamo alla
«veglia del mattino». Prima che Mosè e gli israeliti inizino ad agire secondo le istruzioni
ricevute, si assiste a uno spostamento dell’angelo di Dio – detto anche «colonna di
nube» –, che abbandona l’avanguardia d’Israele per posizionarsi in retroguardia, allo
scopo di separare i due accampamenti.

La nube ha un duplice aspetto: è a un tempo tenebra e luce. Molti interpretano questo


fatto nel senso che essa oscura gli egiziani e invece illumina gli israeliti. Possiamo
immaginare che i Padri, nella loro lettura allegorica, abbiano visto qui la luce della
verità opposta alle tenebre dell’errore, l’oscurità dell’incredulità opposta alla luce della
fede.

Comunque sia, quando si vede poi Mosè stendere la mano sul mare, si capisce che egli
ha creduto alla parola di Dio. E allora viene rivelato a lui, e a tutto il suo popolo che è
con lui, come il Signore apra il mare, apra quella trappola nella quale essi avevano
pensato di essere presi. A questo punto gli israeliti si inoltrano nel mare, confidando nel
Dio che ha il potere di trasformare la potenza di morte delle acque in un «muro».
Bisognava credere nel Signore per precipitarsi in questo modo nel mare, nel quale di
solito si viene inghiottiti. Protetti dal bastione che Dio ha eretto alla loro destra e alla
loro sinistra, protetti alle spalle dalla nube, essi possono attraversare il mare della loro
paura e della loro incredulità. Alla veglia del mattino, nella nube il Signore è ben
collocato per osservare l’accampamento degli egiziani e interviene per ostacolare i
loro carri.

Terza scena (v. 25b): il grido degli egiziani. «Allora gli Egiziani dissero: “Fuggiamo di
fronte a Israele, perché il Signore combatte per loro contro gli Egiziani!”».

È la scena centrale dell’ultimo atto. Forma un pendant con il centro del primo atto,
dove il faraone e i suoi ministri avevano detto: «Che cosa abbiamo fatto, lasciando che
Israele si sottraesse al nostro servizio!». La situazione ora è completamente cambiata.
Proprio quando Israele fuggiva davanti agli egiziani, questi hanno capito che erano
proprio loro a dover fuggire davanti a Israele.

Soprattutto, come il Signore aveva annunciato fin dall’inizio del primo atto e come lo
aveva ripetuto all’inizio del terzo, ora sono gli egiziani a sapere chi è il Signore. È
certamente un sapere che non è la fede, perché la fede è esattamente il contrario di un
sapere. La fede è appunto un non sapere, è la fiducia cieca di colui che si getta
nell’acqua sulla parola di un altro. È quello che ha fatto Pietro, ma poi stava per
a"ondare; per fortuna il Signore l’ha preso per mano (cfr Mt 14,28-31).

Quarta scena (v. 26): il Signore ordina a Mosè di richiudere il mare. «Il Signore disse a
Mosè: “Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani, sui loro carri e i loro
cavalieri”».

È una nuova prova di fede per Mosè. Egli aveva creduto in Dio una prima volta
stendendo la mano sul mare. Una volta sola però non sembra su$ciente: la fede non è
mai acquisita una volta per tutte. Il mare era stato aperto per Israele, grazie alla fede di
Mosè, ma bisogna che esso si richiuda ora sugli egiziani, ed è ancora alla fede di Mosè
che il Signore si appella. Questa volta il discorso rivolto da Dio a Mosè è molto più breve
del primo: non soltanto non si parla più di bastone, ma soprattutto il Signore è molto più
laconico su quello che sta per accadere.

Quinta scena (vv. 27-31): l’Egitto è inghiottito dal mare. «Mosè stese la mano sul mare e il
mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli Egiziani, fuggendo, gli
si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e
sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare
dietro a Israele: non ne scampò neppure uno. Invece gli Israeliti avevano camminato
sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a
sinistra. In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide gli
Egiziani morti sulla riva del mare; Israele vide la mano potente con la quale il Signore
aveva agito contro l’Egitto, e il popolo temette il Signore e credette in lui e in Mosè suo
servo».

Mosè stende la sua mano, confidando una seconda volta nel Signore. È l’uomo che
stende la mano, ma è il Signore che fa tornare il mare nel suo letto e che travolge gli
egiziani in mezzo al mare. È il Signore che «in quel giorno salvò Israele dalla mano degli
Egiziani». E il narratore commenta: «E Israele vide la mano potente con la quale il
Signore aveva agito contro l’Egitto».

Ecco dunque tre mani: quella dell’Egitto, minacciosa, persino mortale come quella di
una belva che dilania e divora; quella del Signore, che è «potente» e che salva dalla
gola del leone; e quella che Mosè è invitato a stendere sul mare. Quest’ultima è quella
che ha la priorità nel racconto. E ci si può chiedere che cosa sarebbe accaduto se
Mosè non avesse creduto alla parola del Signore e se, di conseguenza, non avesse
steso la mano sul mare; se in fondo il Signore non avesse rischiato di aver fiducia in
Mosè, se Dio non avesse creduto nell’uomo.

La fede non può mai essere a senso unico, perché, per definizione, è transitiva: è la fede
in Dio, la fede nell’uomo. La fede non è adesione ad alcune verità, ma a una persona,
con la quale si stringe un’alleanza. La fede senza la potenza divina non servirebbe a
nulla, ma l’onnipotenza divina senza la fede di Mosè sarebbe stata senza oggetto, non
avrebbe avuto modo di esprimersi.

Conclusione

Dopo la lettura del racconto passo dopo passo, facciamo alcune considerazioni
generali.

La fine di una storia ne rivela lo scopo. Il racconto termina menzionando la fede


d’Israele: «Israele vide […] e temette il Signore e credette in lui e in Mosè suo servo» (v.
31). Non è esagerato dire che il racconto non mette in risalto tanto la disfatta degli
egiziani quanto la vittoria degli israeliti sulla propria incredulità. È certamente «dalla
mano dell’Egitto» che il Signore «salvò Israele in quel giorno», ma il miracolo più grande
non è tanto la disfatta e la morte dei nemici esteriori quanto il riconoscimento, da parte
degli israeliti, della presenza salvifica di Dio, che riesce alla fine a superare tutte le loro
resistenze interiori.

Il primo e l’ultimo atto si concludono ambedue con il «timore». Ma c’è un abisso tra i
due. Un abisso nel senso proprio del termine, perché c’è voluta addirittura la traversata
del mare e della morte per passare da un timore all’altro. È alla vista dell’Egitto – uno
spettacolo che si presenta all’improvviso, di sorpresa – che i figli d’Israele sono assaliti
da «timore». Tale timore non è altro che la paura, e la paura di morire. È un paura cieca,
perché è capace soltanto di discernere gli uomini che attentano alla propria vita.

Tuttavia un barlume di speranza si rende percepibile nelle tenebre: gli israeliti «gridano
verso il Signore». Quindi il Signore non è scomparso completamente dal loro orizzonte.
Ma non si udrà la loro voce: come se il loro grido fosse quello dell’animale braccato, del
tutto inarticolato. Le parole che allora si udranno saranno domande, rivolte non a Dio
ma a Mosè, parole o"uscate dal nome del nemico, dove il Signore è assente. In
definitiva, parole in cui si manifesta la loro totale mancanza di fede.

La fine del racconto si contrappone nettamente alla fine del primo atto. Si tratta
sempre del «timore», ma ora non è più lo stesso, anzi è proprio il contrario. Non è più la
paura del nemico e della morte, ma è «il timore di Dio», quella che l’esegeta Paul
Beauchamp definiva come «la certezza trepidante dell’amore». Il testo fornisce l’altro
nome di questa «certezza trepidante»: la fede.

Altre due parole chiave pongono in evidenza tre punti strategici del testo: «servire»
ritorna due volte nelle recriminazioni degli israeliti, all’inizio del secondo atto; «servizio»
è usato al centro del primo atto (v. 5); «servo» è proprio l’ultima parola del testo (v. 31c). Il
servizio evocato dagli egiziani è quello della schiavitù, descritta fin dal primo capitolo
dell’Esodo: «Resero loro amara la vita mediante una dura schiavitù, costringendoli a
preparare l’argilla e a fabbricare mattoni, e ad ogni sorta di servizio nei campi; a tutti
quei servizi li obbligarono con durezza» (Es 1,14). Gli egiziani rimpiangono gli schiavi che
li servivano e sono intenzionati a riprenderli. Quanto ai vecchi schiavi, anch’essi
rimpiangono il tempo della loro servitù: «Lasciaci stare e serviremo gli Egiziani, perché è
meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto» (v. 12).

Israele è chiamato a servire, ma in un modo del tutto diverso. Come il suo timore, anche
il suo servizio deve cambiare di oggetto e pure di natura. Riconoscendo in Mosè il
«servo» del Signore, è al servizio a sua immagine che Israele è chiamato.
L’attraversamento del mare lo condurrà dalla servitù al servizio, dalla schiavitù forzata
dell’Egitto al servizio libero del suo Signore. Un servizio che non ha nulla in comune con
la schiavitù, perché il Signore è appunto colui che l’ha liberato dalla schiavitù che
l’Egitto gli imponeva e che Israele aveva interiorizzato al punto da preferirla alla libertà.

Colui che gli ha fatto trovare, con così grandi so"erenze, il cammino della libertà, come
potrebbe volerlo irretire nei legami di un’altra schiavitù? Un servizio del genere sarebbe
il peggiore di tutti, la negazione stessa della natura divina. Mosè viene definito «servo»
del Signore, ma il suo servizio è al tempo stesso quello di Dio e quello del suo popolo: è
la collaborazione che la sua fede ha o"erto all’opera di salvezza e di liberazione
realizzata da Dio.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2022


Riproduzione riservata

***

[1]
. A. Wénin, L’ homme biblique. Lectures dans le premier Testament, Paris, Cerf,
20042, 97.

[2]
. L’esegeta Émile Osty traduce questo termine con «sospiro».

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